Sotto Il Segno Del Cancro 1x4w1p

Sotto il segno del Cancro

Valentina Ferrero

Valentina Ferrero

Sotto il segno del Cancro

Edizione digitale: novembre 2013

ISBN: 9788868557249

Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

Indice

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

A mio padre

1

Quando ti muore il padre sei diversa. Non è una questione di specialità: sei diversa dagli altri. Per quanto la gente possa dirti: “Ti capisco”, non saprà mai abbastanza per poterti comprendere. A meno chè non abbia affrontato lo stesso percorso e vissuto le stesse emozioni, affrontandole così, proprio come le hai affrontate tu. Piacere, mi chiamo Amanda Ferro e mio padre è morto un anno fa, ucciso dal cancro. Un male che soltanto chi ha vissuto sulla propria pelle può comprendere. Un male che ti dissangua lentamente, ti prosciuga le interiora e ti ributta nel mondo così, secca, priva di linfa vitale. E ti va bene se hai ancora la testa a posto e ragioni bene, come qualsiasi altro uomo sulla terra. Il cancro ti ferma, ti dice: “Hey, cosa pensi di fare? Non puoi mica vivere la vita come fanno tutti! Adesso ci sono io qui! Devi rendere conto a me!”. Il cancro è un dittatore: lui sceglie e tu devi obbedire. Il cancro ha preso mio padre e anche noi, me e mia madre, ci ha messo in gabbia, ci ha detto cosa dovevamo fare per sei lunghi ed agognati mesi e poi ci ha liberato così, come fa un cacciatore con la sua preda, quando ha già abbastanza di cui cibarsi. E tu sei lì, libera, ma con il costante terrore che possa tornare a riprenderti e con lui, il maledetto e lacerante senso di colpa. Da quando è arrivato il cancro ho capito di non essere sola, dentro di me; ho capito che c'era un'altra Amanda giù, nelle viscere della mia psiche. Un Amanda che controllava le mie azioni, mi puniva quando cercavo di vivere come gli altri e mi atterrava sommergendomi di sensi di colpa. Questa è la storia di come ho cercato di sconfiggerla, di schiarire la flagellante ombra del cancro, quella che segue tutti coloro che l'hanno visto, almeno per una volta.

........

L'odore del cimitero mi era rimasto addosso per tutto il pomeriggio, malgrado mi fossi cambiata i vestiti. Era una domenica ed il sole di un aprile che aveva faticato a sbocciare, mi riscaldava la pelle come mai prima di quel giorno. Vedevo mio padre tranquillo e beato fra le nuvole, intento a gustarsti il solito piatto della domenica, rideva di gusto e, sicuramente, stava meglio di quanto potessimo stare noi, qui, a fare i conti con le emozioni. I parenti più prossimi si erano riuniti in un pranzo che, sinceramente, consideravo di cattivo gusto; un pranzo che, per tradizione, voleva omaggiare il defunto, anche se, a dirla tutta, di questa tradizione non avevo mai sentito parlare. Forse doveva essere una trovata della zia acquisita, quella del Meridione, dove le usanze sono ancora ben radicate. Per quanto mi riguarda, ai tutto il pomeriggio sola, a guardare il cielo, distesa fra l'erba fresca, quella che tenera spunta a primavera quando tutto riemerge dal freddo, dalle tenebre. Mio padre era morto quando la vita rinasce. E questo doveva convincermi che il suo volere fosse esattamente questo: che rinascessimo, tutti, nuovi di zecca, con idee nuove e pensieri inediti. Che non fosse facile era ovvio, ma non volevo che il cancro atterrasse anche me: mi sentivo piena di vita, a dispetto della morte. La morte non è nient'altro che energia. L'avevo sentita quel giorno, in ospedale, quando mio padre mi aveva guardata per l'ultima volta. E non potevo affermare che fosse negativa: il volto di mio padre era disteso, privo di rughe, come quello di un bambino. La stanza era vuota, ma l'aria era talmente carica che mi pareva di essere sommersa da migliaia di palloncini: mi schiacciavano, mi comprimevano la pelle, erano bianchi, chiari come un'aurea. Credo che quella sia la morte: una forte carica energetica che arriva e ti ruba l'aria. Ma non è oscura, anzi, credo di non aver mai percepito un'emozione così pulita e pura.

Distesa fra l'erba del praticello, guardavo il soffitto dell'universo; in lontananza si sentivano le chiacchiere dei parenti, le risate soffocate per paura di mancarci di rispetto, le urla dei bambini che di morte ancora non sapevano nulla. Ed io, appoggiata al ciliegio che mio padre aveva sempre accudito come un figlio, mi sentivo felice. Avrei voluto che ridessimo tutti ricordando la sua perfezione, che non ci fossero lacrime, anche se le prime a cadere erano le mie. Quando ritornai in cortile, la maggiorparte dei parenti se n'era già andata e dovetti sorbirmi la ramanzina di mia madre, relativa alla mia scarsa disponibilità e pazienza nel sopportare anche le cose che non mi andavano a genio. La guardai annuendo e cercando la sua comprensione. Il suo viso era apparentemente tranquillo, come quello di tutti coloro che erano rimasti, del resto. Era come se fossimo sospesi in uno spazio parallelo, in un lasso di tempo dove non c'è realizzazione, dove la coscienza, forse, non è ancora in grado di comprendere. Come quando fai un incidente: l'intervallo di tempo che intercorre tra la tua guida tranquilla ed il momento in cui sei completamente fuori strada con le gambe penzoloni è troppo breve perchè tu possa rendertene conto. E così, fra un mucchio di vetri rotti ed il fumo di un motore che borbotta, ancora pensi che non è successo nulla, che la tua macchina la puoi ancora riportare sulla strada. Ma non è così, tu sei ferita, l'automobile è capovolta e, malgrado i tentativi, rimane ferma, inchiodata al suolo. Quando ti muore un padre è più o meno così: quello che vedi intorno a te è sempre il medesimo. La stessa casa dalle tende arancioni, lo stesso praticello curato, la stessa aula calda ed affollata di studenti, le stesse amicizie, gli stessi uomini. È la tua vita; è uguale a quella di prima, no? Solitamente la domenica sera uscivo con Alessandra, giusto per trascinare l'ebrezza del week end ancora per una notte. Andavamo in centro e ci bevevamo qualcosa in uno di quei tanti locali che popolavano Piazza Vittorio. eggiavamo sotto i portici, chiacchierando del più e del meno, cercando di ricostruire il sabato sera, i quali ricordi erano sempre un po' troppo annebbiati. Era rilassante. Se mi andava di lusso, riuscivo anche ad incontrare qualche uomo, scambiarci qualche frase più o meno intelligente ed uscirci qualche volta, nei giorni a seguire. Mai nulla di più. Avevo imparato a stare alla larga dagli impegni,

soprattutto dopo la mia ultima storia, finita con vasi rotti e lacrime a gogò. Quella domenica sera avevo così tanta voglia di scolarmi un drink. Volevo che mi scorresse nelle vene, che mi scaldasse la pelle che era così fredda, così secca, talmente secca che avrei potuto rovesciarci invano un intero barattolo di crema di aloe, quella che gelatinosa ti fa venire la pelle dei bambini. Guardai il display del telefono, vuoto, a causa della fervida discrezione di Alessandra. Guardai mia madre col suo volto dolce ed il corpo accogliente. Rimasi sospesa senza equilibrio per qualche secondo, cercando di valutare. Volevo il calore della gente, quello che ti circonda gratuitamente quando eggi per le vie del centro, quello che non ti chiede nulla in cambio, ti tocca e basta. Quel calore che si confonde con l'ebrezza dell'alcol e ti fà ridere, senza motivo. Avevo così tanta voglia di ridere. Riguardai mia madre, seduta sui gradini con gli zoccoli da lavoro, quelli che usava per andare nell'orto ad accudire i suoi pomodori, quelli di cui mio padre rideva sempre. Se fossi andata in centro mi sarei sentita uno spunto, come uno scracio uscito dalla bocca di un avido masticatore di tabacco: mi sarei sentita proprio così, viscida, spiaccicata sull'asfalto come una gomma da masticare, calpestata dai sensi di colpa. Era il giorno in cui mio padre era stato sepolto, barricato dentro una cassa di legno, a sua volta intrappolata in un cazzo di loculo. Era il giorno in cui dovevo aspettare e scegliere il calore di mia madre. Quando i parenti se ne furono andati, mia madre ed io, ci mettemmo a zappare un po' nell'orto, a togliere le erbacce e ad annaffiare gli ortaggi. Parlammo del più e del meno, di qualche piccolo particolare del funerale, dei cugini che non vedevamo da anni e della piazza gremita di gente. In ventitré anni di vita non l'avevo mai vista così affollata. Mio padre era un grande e non lo dico solo perchè dopo che la gente muore è sempre stata bella, gentile e rispettosa. No. Che mio padre fosse un grande lo sapevo da quando avevo cominciato a ragionare e muovermi con le mie gambe, anche se avevo faticato ad ammetterlo. Grazie alla sua tenacia aveva sfiorato le vette del tennis, quelle dove risiedono i

giocatori più bravi del mondo. Aveva lavorato sodo, dando vita ad un'impresa metalmeccanica dal nulla. Ma non era soltanto questo: la gente lo amava. Non lo so perchè, ma lo amava davvero. Mi chiesi con che forza mia madre stava zappando l'orto come tutte le sante sere, con che fermezza reggeva l'utensile, affondando nella terra colpi decisi, ma delicati, capaci di sradicare anche la gramigna più aggressiva. Guardando la terra brulla sotto i piedi, mi accorsi che stavo piangendo. Vedevo le mie lacrime cadere veloci, allungandosi per l'attrito con l'aria e spalmarsi sul suolo. Erano così silenziose ed inconsce che sembravano prodotte da altri occhi, da altri pensieri. Ed invece erano le mie, di me che guardavo mia madre china sui pomodori, indaffarata a fissare il loro fusto sulla canna portante e mi chiedevo come cazzo avremmo fatto a dare ancora un senso alla nostra vita., come avrebbe fatto lei, e come avrei fatto io a non deluderla. Le andai vicino e cercai di scostarla, dicendole che potevo fare io, che volevo che stesse tranquilla e si riposasse. - Ma smettila – disse sorridendo – Non ti sei mai preoccupata dei miei pomodori - E quindi? - dissi singhiozzando – Quale momento migliore per iniziare? Afferrai l'elastico e, sotto lo sguardo scrutatore di mia madre, cercai di fissare i verdognoli e puzzolenti fusticelli alla canna. Che razza di lavoro! Quei ramoscelli erano talmente viscidi che mi scappavano dalle dita come le acciughe, quando, ancora vive, si divincolano tra le mani alla ricerca dell'acqua e non le tieni più. In poco più di qualche secondo i pomodori ed io eravamo entrati in guerra, una lotta furibonda all'ultimo sangue. Ero assetata, volevo sodomizzarli, farli stare attaccati alla canna portante senza che avessero la benché minima possibilità di liberarsi. - Amanda! Così me li rovini! - disse mia madre – Amanda per favore, basta! -

- Ce l'ho quasi fatta - Amanda! Mia madre mi prese per le spalle, facendo roteare il mio corpo di fronte al suo. Eravamo inginocchiate sulla terra, con le ginocchia sporche ed il volto sudato. - Ma io... - dissi, facendo cadere le braccia al suolo. - Stai tranquilla Amanda. Sono solo pomodori. Andrà tutto bene. La guardai. I suoi occhi blu luccicavano come zaffiri, sommersi da una mare di lacrime che sarebbero sbordate da lì a pochi attimi. Lasciai cadere gli elastici dalle mani e l'abbracciai, consapevole di non poter restare a lungo ancorata alle sue braccia. Rimanemmo accoccolate per qualche minuto a sentire i singhiozzii l'una dell'altra, a sfiorarci la schiena e ad inzozzarci di terra. Sentire il suo corpo che tremava era, per me, la peggiore pena che poteva essermi inflitta: sarei riuscita a sopportare decine di frustate a fior di pelle, quelle che ti lacerano la carne e fanno uscire il sangue al primo tocco. Ma non questo. Non riuscivo a guardare i suoi occhi rossi ed il suo naso che colava, non ce la facevo. Avevo cercato di lottare contro il cancro per sei lunghissimi mesi ed ora le mie forze non mi reggevano, la mia testa era esausta, prosciugata. Con delicatezza spostai il corpo di mia madre di qualche centimetro, cercando l'ossigeno di cui avevo bisogno. - Dai mamma. Ce la facciamo – dissi. Riprendemmo a lavorare con i pomodori e nell'arco di una mezz'oretta riuscimmo a farli stare tutti ben dritti, fissati alla canna portante. ammo la serata a guardare la tv, a fare zapping tra i demenziali programmi della domenica sera, così, come se niente fosse, come se stessimo trascorrendo una serata qualunque. Non guardavamo la televisione insieme da circa due mesi. L'ultima volta che l'avevamo fatto, papà era seduto fra di noi. Già lo vedevo che cominciava a

perdere la forza e l'elasticità muscolare: i suoi muscoli, ormai ciucciati dal cancro non riuscivano a reggere il peso del torace che cadeva in avanti, come quello di una marionetta senza fili. E così, lo tenevo per le spalle, di modo che fosse eretto e potesse guardare lo schermo come stavamo facendo mia madre ed io. Ogni tanto, quando mollavo la presa, lui scivolava verso il basso, maldestramente retto anche dalle sue gambe. Lo vedevo che rideva, che si sentiva ridicolo, pur non sapendo il motivo per cui gli stava accadendo. E ridevo anche io, cercando di farlo stare su. Lui rideva. Rideva quando non riusciva a tenere il bicchiere in mano o quando faceva fatica ad inserire la forchetta nella bocca. Rideva quando magari le ginocchia gli partivano e scivolava a terra, lentamente, come una lumaca. Ogni volta che faceva o pensava qualcosa di strano, lui rideva sempre. È stato lui a darci la forza per combattere il cancro, con il suo ghigno stupido e sincero. Non noi, no. Noi eravamo solo pedine. Eravamo come pasta malleabile, di quella che appena la tocchi si muove, si deforma a tuo piacimento. Il cancro ci impastava, ci faceva a fettine e poi decideva se farci diventare tagliatelle o maccheroni. Mio padre, invece, rideva, continuamente.

2

Quando ti muore il padre la gente ti guarda, ti studia e puntualmente si allontana come se avessi la peste. Ma forse è il cancro che ti stampa un bollino sulla fronte e tu non lo sai, proprio come facevano i dittatori con i deportati. E così tu cammini tra la folla, ti immergi nel mare di studenti che popolano l'università, ti addentri nelle aule sempre troppo calde ed umide e lo vedi, lo senti che la gente ti fissa. Alla gente fai pena, gli sembra che debba trattarti con le pinze, che debba avere un occhio di riguardo e scegliere accuratamente le parole. Anche tu la guardi e ti chiedi come possa essere così demente e priva di coglioni. Che il cancro non li abbia mai toccati non è una giustificazione. Noi, sotto il segno del cancro, siamo come handicappati. Come si devono trattare gli handicappati? Gli handicappati si trattano, nel limite del possibile, come persone NORMALI. Quando entrai nell'aula di “Letteratura contemporanea”, la mattina dopo il funerale, mi sentii più o meno così, come un disabile; mi sentii ancora più compatita di quanto lo ero stata nei mesi precedenti. Feci qualche o e salii i gradini, alla ricerca di un posto in ultima fila: anche le ragazze che non conoscevo personalmente, malgrado fero di tutto per non farsi notare, mi conficcavano gli sguardi nella pelle. Me li sentivo addosso come colla vinilica, quella che asciugandosi si trasforma in patina bianca e quando la togli, ti sembra di strappare via pelle morta. Scrutando velocemente l'ultima fila, mi accorsi che Giulia e Martina mi avevano tenuto un posto accanto a loro e mi stavano chiamando già da qualche minuto. - Ciao ragazze – dissi quando mi sedetti – Scusate, ero impegnata a togliermi gli sguardi di dosso! -

- Lascia perdere – disse Giulia sorridendo – Tanto sono tutte uguali Guardai Martina e lei guardò me: i nostri occhi si persero in uno sguardo profondamente complice. La gente è tutta uguale? Ma brutta stronza, avrei voluto urlarle. Giulia era stata la prima a defilarsi quando avevo raccontato della lesione cerebrale di mio padre ed ora, che tutto era apparentemente terminato, si riprendeva con non-chalance il posto di prima; posto che io non ero più disposta a restituirle. Mi aveva trattata peggio di uno sputo, escludendomi dalle uscite, dalle pizzate del giovedì sera e comportandosi in modo tale da farmi sentire un'intrusa, tutte le volte che, al di fuori dell'aula, ci si trovava anche solo per un caffè. Diceva che non poteva, che non riusciva a trattarmi come una persona normale. Ed io ridevo, ridevo talmente tanto che mi si contorcevano le budella. E la compativo perchè mi rendevo conto di quanto il suo cervello fosse piccolo e di quanto la sua mancanza di palle fosse incommensurabile. Staccai gli occhi da quelli di Martina, mi sedetti sul seggiolino scricchiolante ed estrassi dalla borsa il volume di Letteratura. - Qualcuno di diverso per fortuna c'è – dissi – Comunque, dove siete arrivati? - Mah...se non ricordo male, siamo quasi alla fine, anche perchè fra un mese c'è l'esame – disse Marty – E tra le altre cose, io non ho neppure cominciato a riassumere - Devo aver qualcosa io a casa – dissi - Sul serio? - bofonchiò Giulia con la sua voce stridula – Hai avuto anche tempo per riassumere? Io la guardai, sorridendo da un lato e chiedendomi perché non le avevo ancora mollato un pugno sui denti. - Sì. - dissi – Quando mio padre dormiva, mi mettevo al pc e cercavo di andare avanti con la mia vita - Ah beh...certo, hai fatto bene -

Ecco, quando sei sotto il segno del cancro, alla gente sembra che ti debba occupare solo di questo, che debba are le tue ventiquattro ore ad adularlo e servirlo. Non c'è altro: il tempo impiegato ad occuparti di te stesso, a fare quello che ti piace è tempo tolto al cancro e, nel mio caso, tempo rubato a mio padre. Me le ricordavo quelle volte in cui le avevo raggiunte in centro, per fare un po' shopping. Mi avevano guardata rovistare tra i nuovi arrivi, provarmi il nuovo rossetto di Chanel, comprarmi quel favoloso paio di legging che avevo visto su “Glamour”: mi avevano osservata atterrite, chiedendosi con che coraggio e tranquillità avevo sprecato il tempo che avevo a disposizione per stare con mio padre per immergermi nel consumismo più spinto. E delle volte i loro silenzi erano talmente rumorosi che, per un istante, mi sentivo davvero uno schifo, un'ingrata, come se stessi commettendo un delitto. Giulia, un pomeriggio, era riuscita addirittura a farmi sentire ridicola mentre, scrupolosa, stavo provandomi un mascara appena uscito. Stavo osservando lo scorrere del pennello sulle mie ciglia quando, distogliendo lo sguardo avevo incrociato il suo, freddo e fisso, come quello delle maestre, quando all'asilo, ti sorprendono a fare qualcosa che non và. Mi ero pietrificata in un nanosecondo, avevo rimesso il mascara al suo posto ed ero uscita, senza dire una parola. Eppure io lo sapevo che non era così, che non stavo facendo niente di male e che il tempo trascorso a fare quello che tutte le ragazze della mia età facevano, non era tempo che stavo rubando a mio padre. Aprii il volume di Letteratura alla pagina indicatami e cercai di ricollegare le parole del testo con quelle del professore. Leggevo, sottolineavo, approfondivo. Mi piaceva la Letteratura, antica o moderna che fosse; la consideravo la fuoriuscita spinta ed incontrollabile dell'io più profondo, l'unico vero modo per investigare nell'animo umano, alla ricerca di quei sentimenti che non è in grado di riconoscere da solo ed accettare. Credo che, per quanto un uomo possa conoscere emotivamente la sua situazione, non sarà mai capace di rendersene conto veramente finché non la vedrà scritta su carta, con parole chiare, fluenti e veritiere. Ascoltavo le parole del professore perdersi nell'aria umida dell'aula, lo scricchiolare del gessetto sulla lavagna sporca di polvere e mi parevano musica, un fluire incontaminato di note armoniche cadenzate dal suono delle pagine che

si voltano. Sapevo che avrei dedicato tutta la mia esistenza alla Letteratura; lo sapevo da quando ero bambina e, incurante delle strigliate di mio padre, mi rintanavo nel suo ufficio e scrivevo tutto il pomeriggio. Mio padre mi sgridava, quando scrivevo: diceva che avrei dovuto focalizzare il mio tempo su qualcosa di più concreto, qualcosa di produttivo, che avrebbe potuto toccarsi con mano. Non so perchè, ma da quando si era ammalato, avevo avuto come l'impressione che tutte quelle parole fossero state dette solo al fine di proteggermi, solo perchè le ioni così grandi, come era stata la sua per il tennis, non possono che portarti alla morte. Tuttavia, ogni volta che mi mettevo al pc o ascoltavo le lezioni del Dott. Mirabella, venivo come avvolta da un vortice incantato, una magia bianca in grado di trasportarmi in migliaia di universi paralleli, ognuno col proprio colore e la propria melodia. Ero talmente esule da quel seggiolino con la vernice sbiadita e scrostata che quasi non mi accorsi che il professor Mirabella aveva cambiato discorso: strabuzzai gli occhi, sfregandoli col palmo della mano e cercai di riafferrarne le redini. - … Sì, ragazzi. Voglio che voi partecipiate. Il polo universitario è diffidente nei confronti dei laureandi in Letteratura. E anche la maggior parte delle persone che incontrate per strada. Posso scommettere con assoluta certezza che almeno uno dei vostri amici ha storto il naso quando avete comunicato loro il vostro percorso di studi. In effetti, se dovevo essere sincera, le prime persone diffidenti erano state addirittura i miei genitori. - Quindi – continuò – Voglio che partecipiate a questo concorso. Voglio che scriviate un racconto come si deve e voglio che qualcuno di voi vinca. L'aula era completamente in subbuglio, quasi come se il dottor Mirabella stesse incitando un'intera cavalleria a lanciarsi indistintamente contro il nemico. Interi gruppi di studenti si agitavano, si contorcevano sui seggiolini e battevano i pugni sui tavoli, travolti da un innato spirito patriottico, spuntato dal nulla, stuzzicato amabilmente da un uomo che le parole le sapeva usare come sa fare un cavaliere

con la sua spada. Mi voltai verso Martina, i cui occhi semi-chiusi, erano ancora incollati alla prima pagina, quella che aveva aperto all'inizio della lezione. - Io partecipo – dissi, senza desiderare una vera e propria approvazione da parte sua. Lei alzò lo sguardo, visibilmente addormentato, annuì e, sistemandosi a braccia conserte sul libro, si assopì del tutto. - Fai bene – bofonchiò ancora, tra un sospiro e l'altro. Sospirai; molto spesso mi ero chiesta quali fossero stati i motivi che avevano spinto Martina a frequentare l'università, ma non ero ancora riuscita a darmi una risposta esausitiva. Tra schiamazzi ed agitamenti vari, qualcuno riuscì a far prevalere la sua voce su quella degli altri e, con tutto il fiato che aveva in gola, chiese quale sarebbe stato il premio per il racconto vincente. Tutto d'un tratto, l'aula si zittì, tendendo i padiglioni auricolari come amplifon: - Mi stavo giusto chiedendo perchè ci steste mettendo così tanto – disse Mirabella – Il vincitore parteciperà gratuitamente ad un corso di giornalismo a Roma, per tutta la durata del periodo estivo Rimasi attonita, cristallizzata come un cubetto di ghiaccio appena tolto dal freezer, circondata da un subbuglio generale, da urla di felicità mixate a sospiri e frasi d'incitamento. - Io partecipo – disse Giulia – Ho sempre desiderato vivere a Roma! Sarà l'occasione giusta per fare un po' di conoscenze. Sì, già mi vedo eggiare sui ponti che attraversano il Tevere, immergermi tra i ruderi antichi....Amanda, potresti darmi una mano, che dici? Io la guardai, chiedendomi fino a che punto potesse arrivare la sua stupidità e quale malsana attività cerebrale si nascondesse nella sua cassa cranica. - Non hai sentito quello che ho detto, Giulia? Io partecipo – dissi irritata.

- Come partecipi? Sul serio? Non vorrai mica rischiare di lasciare tua madre da sola per quattro mesi? I suoi bulbi oculari erano completamente fuori dalle orbite, quasi parevano sbordare dalle palpebre, come se avessi pronunciato un'eresia. - Perché? - continuai – In fondo sono solo quattro mesi e questa è la mia vita Presi il volume e lo chiusi, con un tonfo. Forse lo dissi più per convincere me stessa, che lei. Quando tuo padre muore, ucciso dal cancro, non puoi pensare troppo ai sogni, al farneticare delle idee che ti sono brulicate nel cervello da sempre. Devi essere concreta, devi pensare che da oggi in poi, non sei più la stessa persona di prima, sei un'altra: il cancro ti ha marchiato a fuoco la pelle e tu non puoi scappare. Devi confrontarti con quello che puoi fare e quello che non puoi fare e, soprattutto devi accettare che la lista delle cose che non puoi fare è lunga chilometri, talmente lunga che non ne vedi la fine. Quando ti muore il padre, alla gente sembra che tu debba stare lì, ferma, impalata come uno spaventaeri, come se la morte avesse riscritto la tua vita e tu fossi obbligata a percorrerla esattamente in quel modo. E poi c'è il cancro. Lui riesce a seguirti ovunque decida di dirigerti. Non ci sono luoghi dove non puoi essere ghermita: ti scova anche nei sogni o quando provi a rifugiarti nel tuo io più profondo. E lo senti, lo senti che bussa alla porta con discrezione, s'infiltra senza permesso a ricordarti che adesso è lui che fa le leggi. Lui ed i sensi di colpa. Quando la lezione terminò, tutta la marmaglia che mi aveva scrutata per bene all'entrata, si defilò alla velocità della luce: rimasero solo una paio di studenti di sotto, in prima fila, quelli che leccano il culo al professore a qualsiasi sua affermazione al di fuori del testo. Scesi i gradini lentamente, seguita dalle mie due compari che non avevano smesso di chiacchierare per tutta la durata della lezione. Quando fui sotto, in prossimità della cattedra, vidi il Dott. Mirabella avvicinarsi.

No, pensai, le solite condoglianze del cazzo, le solite parole di circostanza, quelle pronunciate a caso perchè non si sa quale altro connubio di lettere possa andar meglio. La solita faccia semi-distesa e gli occhi semi-aperti in segno di totale comione: di volti così ne avevo visti talmente tanti negli ultimi mesi che ne avevo la nausea. Sentivo che stavo per vomitare. - Signorina Amanda – disse quando mi fu praticamente ad un palmo dal naso – Ho saputo, le porgo le mie condoglianze Annuii con la testa, cercando di sottrarmi il più possibile ad un susseguirsi di battute che non avevo la benché minima voglia di affrontare. Il professor Mirabella bofonchiò ancora qualcosa prima di liberarmi dalle sue grinfie: ero nauseata, avvilita e terribilmente incazzata. Avrei voluto urlare, dire a tutti che stavo bene e che non avevo bisogno della loro comione, del loro falso interessamento. Terminata la lezione, ammo l'intero pomeriggio nel bar di fronte l'università, cercando inverosimilmente di parlare di cose normali, alla portata di tutti. Mi piaceva quel bar, era forse l'unico bar in cui mi sentivo a mio agio, circondata da scaffali sommersi da una cronologia infinita di libri la cui pubblicazione andava dal primo dopoguerra ai giorni nostri. Mi piaceva come l'idea di un caffè riuscisse a combinarsi con i casuali versi di un romanzo, sfogliato velocemente, scelto fra pilate di volumi colorati e, delle volte, anche un po' scuciti. Mentre Martina e Giulia si dimenavano in una discussione inutile sulla quantità di caffè da rovesciare nel latte macchiato, io mi perdevo tra i pensieri più confusi che avessi mai avuto fino a quel momento. Chiusi gli occhi e vidi me stessa eggiare sul lungo Tevere, rovistare tra i mercatini dell'usato che popolavano le sponde del fiume la domenica pomeriggio. Vedevo il mio corpo nitido, perfetto, proprio così com'era. Tra i pensieri fervidi ed incessanti, riuscivo ad intravedere l'aula, un piccolo monolocale poco distante dal centro, una camicia stile boemien abbandonata sul letto. Era un'immagine sfocata, ma abbastanza nitida perchè potessi scorgerne i particolari. E poi vedevo mia madre, a casa, seduta sul divano a malapena appoggiata allo

schienale. La vedevo sola, davanti ad una tivù che trasmetteva programmi stupidi e di cui neppure ascoltava la presentazione. La immaginavo di notte a rigirarsi in un letto vuoto, troppo grande per una persona sola. Ed un senso di colpa che mi trafiggeva la pelle, mi scuoiava come un coniglio ancora vivo, pronto per essere ammazzato. I ragazzi intorno a me, chiacchieravano di cose stupide, inutili. Litigavano per un esame andato male e per i riassunti dell'amico, troppo incompleti per poterci fare affidamento. Li sentivo bofonchiare sulla gonna troppo corta della professoressa o sul culo del docente d'informatica. Vedevo i loro corpi colorati e caldi con la coda dell'occhio muoversi, alzarsi, abbracciarsi. Davanti a me, un liquido nero, catramoso, dentro una tazzina in ceramica dal manico troppo grossolano per afferrarlo senza tentennamenti: vedevo il mio viso riflettersi deformato nel caffè, ormai raffreddatosi del tutto. E mi sentivo gelida, ghiacciata come la neve che cade e si accumula ai bordi delle strade, quella che diventa marrone, insudiciata dal continuo aggio delle ruote. Eppure il cuore che batteva lo sentivo, forte, incessante, come se volesse esplodermi dal petto. Non è tanto il fatto della morte che ti segna, quanto piuttosto la voglia di vivere, l'esplosione del tuo sangue che vorrebbe uscire dalle vene, ma vi rimane chiuso, serrato da un senso di colpa che si è portato via tutte le chiavi. Non era la morte il vero problema, per me, ma la vita dopo la morte. Sentivo lo stomaco contorcersi, l'intestino raggomitolarsi: mi sentivo come una piccola particella chimica, pronta per essere innescata, una bomba ad orologeria con un timer fermo, che non prosegue il conto alla rovescia come dovrebbe. Quando tornai a casa, la sera, trovai mia madre china sul lavabo, intenta ad affettare un paio di cipolle, ormai distrutte dalle continue incisioni del coltello. Mi avvicinai, abbracciandola da dietro e chiedendole come era andata la giornata. Non sentendola rispondere la voltai, scoprendo i suoi occhi rossi, sommersi dalle lacrime. Cercai di stringerla più forte, ma il rigetto nei confronti della sua sofferenza era troppo forte perchè potessi rimanere il tempo necessario a farla calmare: ero così assorbita dalla mia sofferenza che non riuscivo ad occuparmi anche della sua. Presi le cipolle, le gettai nella pentola ed accesi la fiamma. Era così calda,

sentivo il calore del fuoco salire verso l'alto ed il profumo delle cipolle fritte inebriarmi le narici. Era bello quando tornavo a casa, dopo scuola, e vedevo mia madre indaffarata con la cena: si adoperava con noi come fa una formica per il benessere e la sopravvivenza del suo formicaio. Durante la malattia di mio padre, cucinare, per lei, era diventato l'unico modo per cercare di non pensare, di far finta che eravamo ancora la famiglia del pranzo della domenica e delle abbondanti cene del giovedì sera. Ed io lo vedevo mio padre, seduto sul divano, che con lo sguardo vacuo la osservava perso in chissà quale mondo. Mangiare quello che gli cucinava mia madre era forse ancora l'unica cosa che lo rendeva lui, l'uomo che per un buon piatto di pasta ed un bicchiere di vino sarebbe stato anche disposto ad uccidere. Per il resto, non c'era più nulla in lui per cui potessi dire: “sì, questo è mio padre” o, per lo meno, per come io l'avevo conosciuto. Non so fino a che punto il cancro ti cambi, ti modifichi o ti dia la possibilità di essere veramente te stesso, quello che non sei mai stato. Inevitabilmente, tuttavia, succede qualcosa per cui essere come prima diventa impossibile. Ed è forse l'unico pregio che si può riconoscere ad un tale dittatore. Quando sai che ti rimane poco tempo, capisci che gestirlo al meglio è l'unica cosa che ti rimane da fare, l'unica libertà che lui ti concede. Quella di guardare il sole e di assaporarne il suo calore fino a farti bruciare la pelle, fino a fartela diventare catrame perchè sai che quella pelle, fra poco, non ti servirà più. E non ci pensi più alla quantità della vita, no. È la qualità della vita che adesso conta. Contano i minuti ati a ridere, a dirsi che ci si vuole bene, a dimostrarsi tutto ciò che l'abitudine, la realtà e la stupida concretezza umana ti hanno rubato. Io me lo ricordo mio padre, una sera, mentre eggiavamo sulla strada sterrata dietro casa. Ricordo la sua giacca imbottita, ormai troppo grande, talmente grande che pareva lui il figlio con la giacca del padre. Ricordo i suoi i lenti, stanchi e le mie braccia che reggevano la sua schiena così magra che potevo sentirne le ossa. E me lo ricordo come guardava il sole, quell'immensa palla infuocata che piano cadeva all'orizzonte, dietro le montagne. E suoi occhi che non guardavano soltanto, no, assorbivano. Assorbivano quelle immagini come se da esse trapelasse la sola fonte di energia che lo faceva stare

in piedi, ancora sorridente, lontano da un cancro che, piano, si cibava della sua mente. - E' bellissimo – mi disse Lo guardai e vidi i suoi occhi pieni di lacrime, come non li avevo mai visti; ed erano gli occhi dei bambini, quelli immacolati, quelli che assaporano la vita senza limiti, privi di quegli ostacoli fortificati dal tempo, costruiti dall'omologazione e dalla routine. Era come incantato, come se la brezza di un gennaio troppo lungo gli fosse penetrata nelle iridi e l'avesse ammaliato. Era se stesso, trasognato dalla bellezza della vita, dalla semplicità di un tramonto e dall'immagine di un padre ed una figlia che non si sono mai toccati, mai sfiorati e lo stanno facendo ora e devono dire grazie al cancro di questo. Devono prostrarsi al suo cospetto e chiedergli ancora un po' di tempo. Ed il cancro non te lo da quel tempo; probabilmente ti ha già dato abbastanza perchè tu potessi capire, sfruttare, adoperarti ed impazzire per quei pochi minuti che ti sono stati concessi e che vedi sfuggirti dalle mani come polvere mossa dal vento. Fu quella sera che decisi di deporre le armi e smettere di lottare furiosa, furibonda ed assetata contro un cancro che, alla fine, mi stava regalando la possibilità di baciare mio padre come non avevo mai fatto in ventitrè anni di vita. Il cancro lo ami e lo odi insieme, come fai col tuo padrone, quello che ti bacia e ti fa godere, lo stesso che dopo pochi minuti ti sodomizza e ti fa sbattere il naso sul tavolo fino a farlo sanguinare. Ed è vero che il cancro lo devi ringraziare. Sì, perchè ti prende, ti apre gli occhi, ti fa sbattere contro la realtà, nuda, senza vestiti. E ti sbatte finchè la tua pelle non si consuma, smaciullata, completamente a brandelli. E tu non puoi scappare, non puoi non accorgerti della tua carne fracassata che continua a sanguinare e diventa puzzolente. Ed allora guardi tuo padre, scruti le rughe dei suoi occhi vacui, quegli occhi che il cancro sta spingendo fuori dalle orbite e pensi che la radioterapia non può fare

altro che rubargli quel piccolo barlume che ancora custodisce geloso fra le palpebre. E che senso ha se tanto, alla fine, l'unico traguardo resta la morte? Quella sera decisi che non avrei mai e poi mai sottoposto mio padre alla radioterapia, a quell'accanimento disumano che mi avrebbe sottratto anche quel poco che rimaneva della sua dignità. Guardai le cipolle, ormai bruciacchiate e completamente carbonizzate dall'olio bollente: gli schizzi incandescenti della frittura si erano depositati lungo tutte le piastrelle che circondavano il fornello, imbrattando la cappa come pittura fresca. Tolsi la padella e la gettai sotto l'acqua gelida, lasciando che il fumo annebbiasse l'intera cucina. - Che ne dici se andiamo a mangiarci una pizza? - chiesi speranzosa a mia madre. - Non lo so – bofonchiò, intenta a lustrare le piastrelle imbrattate con un panno inondato di Cif. - Dai mamma. Non usciamo da mesi. Non succederà nulla se per una sera che non abbiamo voglia di cucinare andiamo a mangiare fuori. Lei non rispose, continuando a strofinare una superficie ormai lustra e scintillante. Le presi il braccio e gettai la spugna nel lavabo. - Mamma, cazzo! Vatti a lavare, mettiti qualcosa di carino ed usciamo! Non voglio opposizioni, muoviti! Mi guardò con gli lucidi ed il labbro tremulo: un timido sorriso s'accendeva sulle sue labbra. Mi guardò come un bambino guarda la madre quando lo afferra per le ascelle e lo salva dallo spigolo del tavolo, come si guardano gli angeli custodi, quelli che ti appaiono in sogno e ti trasmettono il messaggio divino. Lavai la pentola, la riposi sul vano sopra il lavabo e stordita dallo scrosciare dell'acqua della doccia, uscii in balcone. Accesi una sigaretta e guardai il sole sprofondare dietro l'orizzonte, lo guardai spegnersi dietro le montagne e lasciare spazio alle tenebre. Il cancro ci aveva tenuto in vita, per sei lunghi mesi era diventato l'unica ragione

che ci faceva svegliare al mattino e stare in piedi durante il giorno. Era il solo comando a cui obbedire, l'unico Dio a cui fare sacrifici. Da quando se n'era andato, insieme a mio padre aveva portato via anche l'unica energia che ci faceva abbandonare le lenzuola, l'unico credo da seguire; ed ora vivevamo in una completa ed estenuante anarchia, dove non c'erano regole o limiti. C'era solo l'istinto puro ed inesauribile che ti lascia il Male, quello che ti conduce a briglie sciolte verso l'ignoto perchè “tu hai sofferto e allora puoi”. Mi intossicavo di nicotina tutto il giorno, senza contare le sigarette che lasciavo a metà, ancora timidamente accese sul posacenere. E non m'importava se sperperavo anche quei pochi soldi che mia madre mi dava al mese. Non avevo altre soddisfazioni che quella di scrivere e di fumare. E tenevo a bada quell'inesauribile voglia di vivere che mi bolliva nello stomaco e fuoriusciva avida quando ridevo, quando non mi vergognavo di mostrare i miei denti in una fragorosa risata, di quelle che ti devi piegare a novanta talmente gli addominali ti dolgono. Quando mia madre uscì dal bagno, mi sentii felice, come non mi accadeva da tempo. La vidi sorridere, con le labbra leggermente colorate di rosso e le gote rosate da un velo ci cipria. Vidi i suoi occhi azzurri così lucidi, così puri, come quelli di una vergine. La presi in braccio e la trascinai verso la macchina, ridendo, inciampandomi tra gli scalini, con talmente tanta foga che per poco non rovinammo sul marciapiede. I vicini ci guardavano dalle finestre, spostando le tende e scrutando la scena come detective. Ma cosa ce ne importava a noi dei loro sguardi disgustati, della nomina da svergognate che avevamo cucita sulla fronte dalle chiacchiere dei parenti. Eravamo per un attimo libere, slegate dalle funi che il cancro ci aveva annodato addosso, libere di poter respirare a pieni polmoni, con gli alveoli spalancati ed i finestrini della macchina completamente abbassati. Cenammo in una piccola pizzeria vicino al centro, una di quelle poco visibili, con l'insegna a malapena illuminata e le porte che cigolano; una di quelle a cui non daresti una lira, ma che poi, alla fine, ti soddisfa più delle tante multinazionali che sovraffollano le città. Il culto del cibo sofisticato e ricercato l'avevo ereditato da mio padre, il cui

amore per le cose genuine valicava di gran lunga quello per tutto il resto. A lui piacevano le cose rustiche, quelle cucinate dalle donne di paese, quelle col grembiule sporco d'olio e che mantenevano le tradizioni. Non gli piaceva la pizza con i pomodorini Pachino e la mozzarella di Bufala campana, no. A lui piaceva il bollito di bue, la bagna caöda, il salame di maiale fatto in casa, quello con i dadi di lardo ben evidenti. Gli piacevano gli agnolotti del plin ed i tajarin. Per non parlare del vino, rigorosamente piemontese e rigorosamente D.O.C. Ed era bello vedere come i suoi occhi diventavano via via più grandi ad ogni portata. Anche quando il cancro aveva cominciato a segargli le gambe, l'amore per il cibo non l'aveva abbandonato anzi, era diventato addirittura più ardente, almeno fino ad un certo punto. Presi una pizza al prosciutto crudo e mi feci aggiungere un po' di parmigiano a fine cottura. Mia madre si abbandonò alla goduria di una pizza ai quattro formaggi, talmente carica da sopperire alla mancanza di latticini degli ultimi mesi. La gente intorno a noi rideva, confabulava, discuteva, esule, forse, da un'esperienza negativa quanto la nostra. Assaggiava pietanze antiche, comparandole a quelle del ristorante della domenica precedente. Mia madre ed io parlavamo del più e del meno, della morbida pasta della pizza cotta a puntino, di qualche ricordo affiorato dalle tenebre per caso, come se mio padre non fosse mai esistito, come se fossimo state sempre lei ed io, una famiglia fatta di soli due pezzi. Eppure di cene così, lei ed io occhi negli occhi, non ne avevamo mai fatte. Per la prima volta, dopo mesi, riuscivo a vederla serena, come se la nostra vita fosse normale, come se il cancro non ci avesse mai ammanettato alle sbarre della sua prigione. Guardai le zampe di gallina che le contornavano gli occhi celesti ed allegri, i capelli arruffati intorno alla fronte ed il suo sorriso dolce come quello dei pupazzi della Trudi. Mi rendevo conto di essere l'unica fonte di energia dalla quale lei attingeva, disperata, la voglia per andare avanti, la sola soddisfazione che poteva ancora riscattare i giorni che aveva da vivere. Avevo paura che il nostro legame si trasformasse in qualcosa di morboso, di

ineludibile, ed allo stesso tempo non riuscivo a fare nulla senza pensare a lei. Il suo benessere era, per me, il Dovere, la piccola gabbia che il cancro mi aveva lasciato come regalo, come testimonianza del suo aggio. Ma io volevo vivere, volevo liberarmi delle mie responsabilità, dei miei sensi di colpa che piano piano stavano costruendo radici fitte e robuste alla vita che conducevo e che minimizzava le possibilità, le ambizioni che avevo sempre avuto. Le parole cattive di Giulia mi rimbombavano nella testa come il trillo delle telefonate a cui non vuoi rispondere, che ti sorprendono di notte e ti svegliano di soppiatto. “Non vorrai mica rischiare di lasciare tua madre sola per tutta l'estate?”. Il cuore mi batteva forte e mi veniva da piangere, eppure sapevo che se non avessi tranciato quelle radici entro poco tempo, mi avrebbero imprigionata a quella vita per sempre. Decisi di non dire nulla a mia madre del concorso, che non era ancora il momento, che avrei aspettato di avere il racconto fra le mani e la forza per disintegrare i miei sensi di colpa. Percorremmo la strada di ritorno inebriate dalla serenità di una serata che si sarebbe persa nei ricordi, accatastandosi fra gli altri, soppiantata dalla sofferenza reale e dalla voglia di riemergere come potevamo in un mondo che non lasciava spazio a queste cose. Un mondo che ci imponeva di andare avanti nonostante il disastro e la frustrazione per una vita che, apparentemente aveva poco da offrirci. Ma non per me, cazzo. Io volevo volare. Volevo librarmi nel cielo come un gabbiano, volevo sfiorare le vette dei grattacieli con le mie mani impastate di sogni. E quella voglia era così irrefrenabile che faticavo a domarla. Era come un cane che ringhia dietro la muola, un cane che vorrebbe mordere, solo per sopravvivere, ma non può farlo. Un cane che ogni volta che mostra i denti si riceve una bastonata sempre più forte. E non si calma, no. Si incazza ancora di più. Volevo diventare una giornalista, una di quelle che si fiondano verso i vip con il microfono in mano e sfidano i cameramen più incalliti alla ricerca di un'intervista. Volevo poter calpestare i pavimenti di una redazione vera, magari

quella de “La Stampa”, avere una scrivania personale e restare con gli occhi incollati al pc per giornate intere. Mi vedevo smascherare i segreti di un'omicidio, partecipare alle mostre culturali e curare personalmente la rubrica di letteratura. Ma per fare tutto questo, sapevo che avrei dovuto lottare fino allo stremo delle forze ed avrei dovuto farlo lontano da casa, in qualche scuola prestigiosa che avrebbe potuto garantirmi un nome, oltre alla possibilità d'imparare tutto ciò che c'era da sapere. E tutte le volte che la voglia di guerreggiare prendeva il sopravvento, non durava che pochi attimi, prima di essere sopraffatta dal senso di colpa che, avido, mi costringeva seduta ad un divano comdo, sì, ma privo di colore.

3

Era difficile abbracciare mio padre e, prima che lui s'ammalasse, non c'avevo mai pensato a quanto fosse importante il contatto della pelle calda che si strofina e si trasmette energia vitale. Lui era austero e di baci credo non me ne avesse dati neppure quando ero piccola, in fasce, e dell'imbarazzo ancora conoscevo poco. Io ringrazio il cancro, mi inginocchio al suo cospetto perchè se non fosse sopraggiunto, non sarei mai riuscita a percepire il calore delle mani di mio padre, non sarei mai riuscita a baciarlo, a stringerlo in un abbraccio incondizionato e lui non sarebbe mai riuscito a farlo con me. La paura e l'imbarazzo sono avidi nemici che vanno debellati subito, appena la mente è in grado di reperire informazioni e sentimenti. Dopo la morte di mio padre, mi promisi che avrei amato incondizionatamente, che avrei baciato, stretto la gente fino a farle scricchiolare le costole. Eppure il dolore mi portava ad una condizione tale per cui ero convinta di non aver bisogno di nulla, di essere talmente forte, sorretta dai rimasugli del cancro che, non volevo che nessuno si avvicinasse. Forse la mia era una corazza, ma era difficile rendersene conto, trincerata com'ero nella convinzione di essere la diversa, l'unica ad aver patito un male simile. Il cancro ti eleva, ti fa credere di essere di più, di stare un gradino sopra gli altri. Improvvisamente diventa difficile paragonarsi alla folla, fare le cose che fanno tutti. Persino il sesso diventa qualcosa di cui puoi tranquillamente privarti. Io andavo a fasi alterne, sballonzolata tra le mie voglie e i miei sensi di colpa, costantemente presenti.

Durante la malattia di mio padre avevo chiamato Matteo qualche volta, giusto per concedermi il lusso di un piacere che esulava dalla cruda realtà con la quale mi cimentavo. Matteo era il mio amico d'infanzia, era l'unica persona che conosceva il mio percorso e l'unico col quale riuscivo a venire senza troppi crucci. Alessandra era convinta che fossimo innamorati l'uno dell'altra ma che fossimo troppo presi dalle nostre ioni per ammetterlo ed imparare a comportarci come persone normali. Io, Matteo, non lo amavo. Per me era come un fratello, un compagno col quale sperimentavo i giochi sessuali più spinti e lo facevo perché conoscevo il suo corpo come la mappa di casa mia, non perché ne ero innamorata. Non era stato facile scopare durante la malattia di mio padre. Il cancro ti porta via ogni tipo di fantasia, prende la tua libido e la rintana nei luoghi più cupi della tua anima dove fai fatica a riprenderla. Ti devi gettare di testa in acque malsane e terreni acquitrinosi per recuperarla; e questa è solo la fase più semplice perché, dopo averla riacciuffata ti ci devi aggrappare con le unghie per non farla andare via. Matteo ed io l'avevamo fatto qualche giorno prima che mio padre morisse. Annientata dal coma di mio padre, avevo implorato Matteo di raggiungermi a casa, l'avevo scaraventato sul letto dei miei e l'avevo assalito senza esitazioni. Lui se n'era andato dicendomi che ero una pazza, che il cancro stava distruggendo anche me e che avrei dovuto pensare a stare al capezzale di mio padre anziché fracassare i suoi attributi. Mi aveva lasciata nuda, a malapena coperta dalle lenzuola, con il corpo ancora intorpidito dagli spasmi. Ed io avevo arrovellato la mia mente alla ricerca di una spiegazione, di un motivo, di un piccolo frammento fra i miei neuroni che mi convincesse che non avevo fatto niente di sbagliato. Mi sentivo un verme che si divincolava abietto fra un ammasso di terra sporca. Un corpo viscido che aveva appena disonorato il padre e mancato di rispetto al padrone, il cancro. Trascorsi i giorni che seguirono la cena con mia madre fra l'università, le lezioni

di letteratura ed il mio pc, adoperandomi come mai avevo fatto alla stesura del mio romanzo. Ero partita con qualche idea confusa, annebbiata dalla voglia di scrivere qualcosa che non mi riguardasse e l'incessante bisogno di confessare la mia vita. Dopo vani tentativi avevo dato largo spazio alle mie emozioni e mi ero ritrovata a raccontare la mia esistenza schietta, priva di qualsiasi inibizione. Ero inconsapevole di ciò che ne sarebbe uscito, ma non riuscivo ad esprimermi altrimenti. Trascorrevo le notti con l'unica compagnia del mio computer, rassicurata dal respiro profondo di mia madre che dormiva nella stanza a fianco. Non avevo tempo per pensare a ciò che ne sarebbe stato di noi: scrivere mi trasportava in un mondo parallelo dove non esistevano le abitudini, la morte o i vizi della vita. Ero completamente esule dal mondo, racchiusa in una palla di cristallo da dove potevo scorgere solo quello che mi andava di vedere. Senza che il tempo mi desse l'opportunità di accorgermene, arrivò presto il week end e, con esso, la voglia di uscire, calpestata con forza dai miei sensi di colpa. Quando Alessandra mi chiamò proponendomi una serata in centro, desistetti, cercando una scusa qualsiasi. - E' da una settimana che non ti vedo, Amanda – disse – Non credo che un drink in centro ti possa fare male o sentire una svergognata - Hai ragione, è solo che devo andare avanti col racconto, lo sai - Smettila! Andrai avanti domani pomeriggio. Vestiti, sarò lì fra un ora Ed aveva riattaccato così, senza darmi il tempo di giustificare le mie scelte con qualche scappatoia più plausibile. Che poi, lo sapevo, i pretesti li stavo cercando per me stessa, per placare quel bisogno inconfutabile che avevo di bere, di sentirmi di nuovo calda, al di fuori dei miei versi. Guardai mia madre, appisolata sul divano, rischiarata da un televisore che

nessuno stava guardando. Pensai che si sarebbe presto addormentata e che non c'era motivo di sentirsi uno sputo se trascorrevo un paio d'ore fuori casa. Sotto la doccia, lasciai che l'acqua mi percorresse la pelle come lava che scende lenta lungo le pendici dei vulcani. La lasciai circumnavigare i seni e detergere il sudore delle ascelle. Le permisi di scivolare dolce sull'inguine e cadere sui piedi. Respirai. Il mio corpo mi stava chiedendo aiuto, urlava affinchè l'ascoltassi. Sentivo le fibre nervose a fior di pelle come se mi stessero esplodendo dalla carne. Le sentivo che tremavano lungo gli arti e mi pizzicavano i polpastrelli. Ogni mia singola cellula aveva preso parte alla rivoluzione, alla totale ribellione contro la gabbia in cui la morte mi aveva rinchiusa. Era l'Amanda 2 che parlava, incitava, si contorceva tra le budella per uscire: aveva voglia di ridere, di essere bella, di sentire il contatto di altre donne e di altri uomini. Scalciava come un cavallo imbrigliato e farla restare ferma era un impresa impossibile. Alessandra ò a prendermi verso le dieci e trenta, ingioiellata come era solita fare quando la serata si preannunciava ricca di prede. - Stefano ci aspetta in centro – urlò, cercando di far prevalere la sua voce su quella della radio, già troppo forte per le mie orecchie. Presi il pomello fra le dita ed abbassai il volume, riportando i decibel a un livello accettabile. Stefano era l'ultimo di una lunga serie, l'ennesimo tentativo di Alessandra di trovare l'amore eterno, quello in cui ancora credeva fervidamente, malgrado le cocenti delusioni. A parer mio, di amore ne avevo piene le palle, di tutta quest'elevazione costruita dalla gente intorno all'importanza di un compagno, di un sostegno a cui fare riferimento per tutta la vita. L'amore, prima o poi, si riduce a mera sopportazione, ad un cumulo di compromessi per mantenere stabile un equilibrio che è soltanto fittizio. Preferivo vivere di ioni funeste, di quelle che ti graffiano la pelle come carta vetrata, che ti danno fuoco ai capelli e ti ricoprono il corpo di palpitazioni. Di tutto il resto, non avevo bisogno. Avevo affrontato il cancro con la sola forza dei miei muscoli e questo già bastava per farmi sentire imponente, un'ermafrodita qualificata.

Giunte in centro ci posizionammo di fronte al cocktail-bar dell'angolo, quello che eravamo solite frequentare la domenica sera, ancora avide di emozioni. Era un localino modesto, sempre affollato di giovani assetati, non solo di alcool, ma di brividi reali a fior di pelle. Che la massa fosse perennemente smaniosa di sussulti, di emozioni viscerali che si spingevano oltre i limiti, era ormai diventato un abituè, un modo fittizio di distinguersi dalla plebaglia, andando inconsapevolmente a creare un altro gruppo di individui che, a conti fatti, faceva le stesse cose. Anche essere “diversi”, al limite dell'impossibile era diventata una moda, l'ennesimo tentativo di attirare l'attenzione per chi, in realtà, non aveva nulla da dire. E così, spesso, ti capitava d'imbatterti in donne ricoperte da tatuaggi colorati e perforate da una concentrazione disarmante di piercing, destinati ad aumentare esponenzialmente. Oppure c'erano gli skater, quelli che si conficcavano i dilatatori nei lobi delle orecchie ed indossavano pantaloni talmente grandi da poter ricoprire la superficie del Vaticano. Cosa dire poi, delle ragazzine che si coloravano i capelli di verde o di rosa: a dir poco imbarazzanti. E che fossimo in una democrazia era chiaro; ma con un po' più di consapevolezza, almeno. Quando ti muore il padre, tutto appare superfluo, sembra che le cose a cui prima davi tanto peso, non siano più così greve, quasi che riusciresti addirittura a camminare nuda per strada, senza vergognarti di nulla. È la rabbia che ti colora i capelli di viola e ti fa riempire le braccia di figure; è la voglia di essere guardati, di esistere nel senso più eterno del termine. Io di rabbia non ne avevo più, l'avevo esaurita costituendomi al cancro; ed era in questo modo che esistevo, sorretta dal dolore, l'unica vera colonna portante che t'insegna a vivere. Non ti servono più gli apprezzamenti della gente, le rassicurazioni di un docente: la morte ed il cancro ti hanno dato l'unica cosa che davvero conta: la consapevolezza di essere completi perchè hai visto qualcosa che nessuno ha

visto. E non c'è un abito o una scarpa col tacco che paghi tutto questo. Quando Stefano e la sua combricola di amici sconosciuti ci raggiunsero, io ero già al secondo drink. Vedevo i miei occhi riflettersi ondulanti sulle vetrine dei negozi, sfigurati da un Negroni che cominciava lentamente a fare il suo dovere, infiammandomi il sangue come benzina. Ci sedemmo in un tavolino del deor, al riparo da una pioggia che aveva cominciato a cadere silenziosa. Fra gli amici di Stefano ce n'era uno che aveva destato la mia curosità, solleticata, forse, dai ripetuti sguardi con i quali i suoi occhi mi avevano attirata. Non era esattamente quello che potevo considerare il mio tipo, ma, così, a prima vista, sembrava saperci fare. Mi aveva offerto il terzo Negroni, sperando ingenuamente che fossi abbastanza ubriaca per cedere alle sue avance. Per fortuna reggevo l'alcool piuttosto bene, memore delle stravaganti serate della mia adolescenza. Aveva gli occhi neri, eccitati. Li vedevo scorrere bramosi fra le mie pupille e le mie labbra colorate da un rossetto che, probabilmente, il Negroni aveva smacchiato già da un pezzo. Vedevo le sue dita sudate contorcersi fra le sigarette che fumava una dopo l'altra, intossicandosi di quella nicotina che lo faceva attizzare ancora di più. L'alcool aumenta i particolari, te li fa cogliere come puntini neri su un foglio bianco, ti fa guardare con la lente d'ingrandimento una situazione in cui, altrimenti, non potresti scorgere altro che una banalità disintegrante. E se non avessi avuto il corpo pieno di Negroni, tutta quella insulsaggine mi avrebbe fatta vomitare. Invece, inebriata dal torpore di un calore così finto da sembrare vero, i suoi occhi neri, riuscivano addirittura a trasmettermi qualcosa di vagamente sessuale. È solo che il cancro ti fa indossare i tacchi, quando arriva. Te li fa indossare anche se non ti piacciono ed i piedi ti dolgono talmente tanto da farti venire le lacrime. Dall'alto di quei trampoli osservi la gente come fossero formiche, come se potessi schiacciarle con un solo colpo. E la verità è che lo puoi fare; il cancro diventa un'arma di cui ti puoi servire per difenderti, per far assimilare agli altri

che tu sei di più. Piano, riesci anche a privarti di quegli sguardi che ti scopano senza neppure spogliarti perchè li consideri insulsi e privi di senso. E non t'importa che l'Amanda due scalpiti bramosa, eccitata dalla voglia di possedere qualcun'altro, no. Tu sei forte e, malgrado il Negroni ti stia sciogliendo anche l'ultima cellula rimasta pietrificata, sai che basterà un secondo per ritornare ad essere un intero blocco di marmo. Era una guerra silenziosa che si svolgeva a colpi bassi nel mio essere: da una parte c'era la vita, c'era la voglia di ridere e d'immergermi nei vizi, nei piaceri che mi avevano da sempre contraddistinta. Dall'altra c'era il cancro e la morte, aiutati da una ciurma di sensi di colpa e di vergogna. La lotta era di quelle sanguinolente, dove la voglia di vivere attaccava a suon di fucili e baionette. Ed avanzava, avanzava fino a quando, stremata, era costretta ad indietreggiare, schiacciata da una valanga di bombe di sensi di colpa. C'erano momenti in cui mi bastava l'alcol per non sentirmi con un bollino stampato in fronte. Mi bastava lo strisciare degli occhi di uomo sul mio corpo vestito, per assicurarmi di essere ancora una donna. Ed era la forza che mi dava il cancro di desistere a questi vizi che mi faceva sentire ogni volta più austera. “Io non ne ho bisogno”, continuavo a ripetermi; ormai era diventata la frase da pronunciare a qualsiasi ricorrenza. A fine serata, annebbiate dalle particelle chimiche del Negroni, Alessandra ed io ci gettammo nella pioggia alla disperata ricerca della sua automobile. L'acqua era fredda, sentivo il marciume nei piedi aumentare ad ogni pozzanghera ed il calore dell'alcool farsi sempre più lieve. Davanti ai miei occhi, solo l'immagine di mia madre sveglia, a contorcersi fra le lenzuola con agitazione, in attesa di sentire i miei i sulle scale. Me la immaginavo al buio, con le orecchie tese ad ascoltare il rumore della pioggia e mi chiedevo perchè avessimo parcheggiato così lontano. Non avevo tempo; improvvisamente non c'era più spazio per il solito panino del porcaro e per fermarsi ai semafori gialli. Io dovevo tornare a casa. Scansai Alessandra e, fra le sue proteste, mi misi alla guida dell'auto. - Sei troppo ubriaca! - urlò lei – Fai guidare me! -

- Come se tu non avessi bevuto – dissi – Sali in macchina, ormai ho smaltito tutto Fregandomene dei sensi unici che brulicavano come mosche in una città ormai deserta, giunsi a casa in poco più di mezz'ora. Alessandra mi salutò col solito bacio, forse intimorita dall'arroganza con cui le avevo rubato la guida. A volte pensavo che neppure lei si rendesse conto che mio padre era morto e che io non potevo più fare la vita di prima. Avevo delle responsabilità, degli orari da rispettare, imposti più che altro da una coscienza che non credevo di possedere, che non avevo mai usato e che si accendeva come una lampadina infuocata proprio mentre ero ad un o dal cedere. Entrai in casa con o felpato, cambiando gli stivali all'ingresso e camminando a piedi nudi fino alla stanza da letto. Accesa la luce dell'abat-jour, vidi mia madre accoccolata tra le coperte, col viso disteso sul cuscino e la bocca semi aperta. Era così tenera che pareva un ciuffo di panna montata, di quelli che fuoriescono dalla sacca vaporosi e profumati. Avrei voluto riempirla di baci e mangiarmela tutta, come facevo con le torte che spesso mi preparava. Quelle torte friabili ed oleose, perforate da pezzi di frutta varia che, sapientemente, mia madre vi conficcava all'interno, fra una spolverata di cannella ed un vortice di uvetta a. Io mi sedevo sullo sgabello, accanto al tavolo e la guardavo, conquistata dalla rapidità con cui faceva roteare il cucchiaio di legno nell'impasto molliccio. L'odore che esalava me lo ricordo ancora adesso: sapeva di spezie, di caldo; era l'odore che associavo all'amore. Anche anni più tardi, quando della bambina in me si erano ormai perse le tracce, il connubio torta-amore era rimasto saldo ed imperturbabile. Erano come due variabili simbiontiche: l'una seguiva l'altra, incondizionatamente. Guardai l'orologio: erano le quattro di notte. Invasa da una tenerezza inaudita andai in cucina ed aprii il frigorifero, investigando su quanti ingredienti avevo a disposizione per cimentarmi nella riuscita di una torta decente.

Calcolate le dosi, montati i tuorli con lo zucchero ed aggiunto le uniche due mele butterate che abitavano il cestino da qualche giorno, infornai l'impasto con soddisfazione. Misi il timer e lasciai che il profumo della pasta cotta invadesse l'intera casa. Inebriata da un odore che tanto ricordava la mia infanzia, mi tolsi i vestiti e mi coricai, abbracciando mia madre, massaggiandole i seni come fanno i gattini piccoli con le mammelle della madre. Il suo profumo era così semplice: non c'erano tanti miscugli o artificiosità. Era una fragranza che sapeva di casa, di pulito, dell'ammorbidente usato per detergere i tessuti bianchi. Ed era l'odore che aveva sempre avuto, quello che ritrovavo nei ricordi più lontani e fra gli indumenti che mettevo in valigia quando andavo in vacanza. Malgrado la pesantezza di un sonno ormai vicino, non riuscivo a liberarmi dell'immagine di lei che si metteva il pigiama, accendeva l'abat-jour e si coricava nel letto completamente da sola. Ogni volta che cercavo di cancellarla con una gomma immaginaria, ricompariva sempre più fervida. La strinsi più forte, come se dovesse sfuggirmi da un momento all'altro. Il mattino credo fui svegliata dall'odore inebriante della torta che ormai aveva imbrattato tutta la casa. Mia madre mi lasciò dormire fino all'ora di pranzo: ogni tanto, tra un sogno e l'altro, la sentivo sbattere i tappeti del bagno e are l'aspirapolvere sul pavimento. Trascorremmo l'intera domenica pomeriggio ad ingozzarci di dolci, guardando curiosi documentari di viaggio ed immaginandoci in posti paradisiaci. Andammo in Polinesia, fra le candide spiagge bianche e l'acqua cristallina, camminammo affaticate sulle montagne del Perù, alla ricerca dei resti Inca, mangiammo gli insetti abbrustoliti e tanto proteici della Tahilandia, imbattendoci in serpenti pericolosi ed una quantità di riso veramente imbarazzante. Con papà parlavamo spesso di viaggi, anche se le radici che lo trattenevano alla sua terra natia non lo facevano allontanare mai troppo da casa. Ricordo i pranzi della domenica quando, dopo il caffè, ci mettevamo a discutere su ipotetici itinerari, calcolando chilometri e stimando i prezzi di una breve vacanza. Papà era un tipo istintivo, uno di quelli che quando pensano qualcosa la devono fare

subito, altrimenti poi svanisce l'entusiasmo e le idee si vanificano in un lampo, sotterrate dalla routine e dagli orari da rispettare. Era così che aveva progettato e costruito la cantina dietro casa. Armato di una buona dose d'inventiva, aveva creato un progetto semi-casalingo, scavato una grossa buca e tirato su una decina di assi di legno, recuperati dal falegname più vicino. Nel giro di pochi giorni, una piccola stamberga troneggiava sul retro del giardino, fra la soddisfazione di mio padre e le ingiurie di mia madre che la considerava l'ennesimo santuario da pulire. Io ridevo, affascinata dall'abilità di mio padre e dalla genialità che dimostrava di possedere in tutti gli ambiti, dal lavoro di meccanico allo sport, dall'invenzione di progetti alla viticoltura più incallita. In realtà, mi resi conto della sua bravura solo quando si ammalò, quando lo vidi inerme su un letto troppo piccolo, senza che il suo cervello gli desse più i consueti imput che un cumulo di cellule cerebrali da ad un corpo normale. Fu allora che compresi quanto in realtà conoscessi poco mio padre, la sua poliedricità, il suo essere così pazzamente geniale e la somiglianza così sottile che legava le nostre esistenze. Mia madre era felice; la guardavo con la coda dell'occhio sorridere delle immagini che scorrevano sul televisore ed impiastricciarsi la bocca di cioccolata calda: delle volte mi pareva una bambina, di quelle che fanno i capricci, rovesciano il latte e ti guardano dicendoti: “Beh.. cosa ti aspetti da me? Sono solo una bambina!”. Trascorsi la settimana tra una lezione e l'altra, alternando i pomeriggi in biblioteca allo studio di gruppo che consideravo decisamente improduttivo. Ogni tanto mi concedevo un caffè in centro, accompagnato dalle futili chiacchiere di Giulia e Martina sui loro frustranti “week-end di coppia”. – Penso che Marco ed io andremo al mare, questo fine settimana, le previsioni dovrebbero essere buone – disse Martina, indaffarata ad ingorgitare una delle tante tartine che il barista le offriva ogni mattina. – Anche noi – disse Giulia – Ci potremo incontrare là, che ne pensi? Vieni

anche tu, Amanda? Spesso mi trovavano trasognata, abbarbicata tra i miei pensieri, lontana mille miglia da una conversazione a cui cercavo di agganciarmi senza riuscirci. Mi chiedevo come stesse procedendo la stesura del racconto di Giulia, su quali pilastri potesse costruire una storia una come lei. E restavo attonita quando estraeva dalla borsa diverse cartelle dattiloscritte sulle quali c'erano appunti di ogni genere: sembrava quasi che volesse dimostrami di non avere il benchè minimo timore sulla riuscita del suo romanzo. La sentivo parlare di vacanze, di week-end al mare, in montagna e mi domandavo dove trovasse anche il tempo per mettersi davanti al pc e dare vita ad una trama. Eravamo intente a discutere di qualcosa quando mi squillò improvvisamente il cellulare: restai a parlare ancora qualche secondo prima di accorgermi che il trillo proveniva dalla mia borsa. Rovesciai la sacca sul tavolo ed afferrai il telefono: – Pronto? – – Ciao! – disse la voce dall'altro capo del telefono – Sono sco! Ricordi? – Cercai di fare mente locale senza riuscirci. Di uomini, nella mia vita, non ce n'erano e di certo nessuno che si chiamasse sco, per quel poco che potevo ricordare. Coprii il display col palmo della mano e chiesi alle mie compari se avessimo qualche compagno di corso con quel nome. Data la risposta negativa, setacciai fra i ricordi degli ultimi giorni, scusandomi per la mia smemoratezza. – Sono l'amico di Stefano! – – Ah! Ok! Il ragazzo dell'altra sera! – dissi, maledicendomi per aver risposto ad un numero sconosciuto. – Me l'ha dato Alessandra il tuo numero. Mi ha detto che non ti sarebbe dispiaciuto – Giulia e Martina mi guardavano eletrizzate, immaginandomi già con l'abito

nuziale varcare le navate di una vecchia chiesa, addobbata con calle bianche e rametti di pino. – Ha fatto bene – mentii – Come stai? – – Tutto bene. Ho pensato di chiamarti per chiederti di uscire. Sono uno di poche parole, avrai notato – Sospirai, chiedendomi come un mucchio di fandonie fossero riuscite a catturare l'attenzione di un ragazzo che sembrava anche vagamente intelligente. Cercai di non dare peso alla sua proposta, declinando l'invito con non-chalance e proibendomi di bere Negroni per i prossimi centocinquanta mesi. Per tutto il pomeriggio dovetti sorbirmi le ramanzine di Giulia e di Martina, infervorate dalla mia asetticità e dal mio scarso interessamento nei confronti di qualcosa che avrebbe potuto rasserenarmi la vita. Ma a che pro? C'erano già un sacco di cose a cui dovevo pensare. Lo studio, il manoscritto, mia madre. Dedicarmi ad un'altra persona significava togliere tempo e spazio a tutto il resto e, sinceramente, non potevo permettermelo, in quel momento. L'unica persona con cui riuscivo a vedermi era Matteo, forse perché non avevo problemi ad invitarlo a casa, dove potevo tenere d'occhio mia madre ed assicurarmi che fosse tutto a posto. Dopo l'ultima volta, avevamo smesso di scopare e la cosa mi stava bene. Trascorrevamo le serate sul divano abbracciati a mia madre come fossimo due bambini. Ogni tanto, a sua insaputa, le riempivamo il bicchiere di Martini, spacciandoglielo per acqua ed ammazzandoci di risate quando storceva le labbra e scopriva di essere stata ingannata. Rideva anche lei, pizzicandoci le orecchie e dandoci degli indisciplinati: il Martini, però, se lo scolava tutto dopo. Mi piaceva guardarle le guancette rosse e gli occhi diventare luminosi: per un po', la portavamo nel nostro mondo, le parlavamo di musica, di arte, di fotografia. Con Matteo era facile parlare di tutte queste cose, era come se non sapessimo fare altro, oltre al sesso che avevamo, per il momento, messo da parte.

Era stato lui a scegliere e, contrariamente a quanto mi aspettassi, avevo accettato senza troppe discussioni. Quando mia madre andava a coricarsi, intorpidita dall'alcol, Matteo ed io ci sedevamo sul balcone a guardare le stelle: ci rollavamo uno spinello e ci perdevamo nell'immaginazione di un mondo dove non c'erano delusioni, tristezze o cancri che ti rubano la vita. Ogni tanto mi sembrava di sentire mio padre, seduto accanto a me; ma forse era la marjuana che falsava le mie emozioni e le ingrandiva, facendomi percepire qualcosa che, in realtà, era raffigurato solo nella mia memoria. Eppure c'erano dei momenti dove la presenza di un terzo corpo fra i nostri era davvero tangibile, quasi riuscissi a sentirne il calore. Matteo aveva sofferto tanto per la morte di mio padre con il quale aveva un rapporto paradossalmente simbiotico, malgrado la divergenza di carattere. Nonostante la sofferenza e la sua difficoltà nell'affrontare la situazione, difficilmente si era lasciato andare ad afflizioni o piagnistei in mia presenza. Era stato lì, con me, porgendomi una spalla anche nei momenti in cui il primo ad averne bisogno era lui. Me li ricordo le sere d'estate, quando a piedi nudi si mettevano a correre nel prato appena rasato, inseguendo il Labbrador bianco che mio padre mi aveva regalato il giorno del mio decimo compleanno. Si rintanavano dietro i cespugli e lo braccavano come i leoni fanno con le gazzelle, nella savana. E quanto ridevano: talmente tanto da diventare paonazzi. Li guardavo aggrovigliare le loro braccia tra le zampe del cane e bloccargli il capo con i piedi. Ogni volta Matteo tornava a casa fradicio di sudore, con i piedi sporchi e la maglia sommersa di steli d'erba: una sera, sua madre era addirittura venuta a lamentarsi, facendo promettere a mio padre che non l'avrebbe più fatto giocare nella terra sporca. Mio padre l'aveva guardata, bofonchiando qualche frase di circostanza e si era messo a ridere, scusandosi per non essere riuscito a trattenersi. Neppure quando mio padre era assente, impegnato nei tornei di tennis, Matteo ed io riuscivamo a smettere di correre. Ci incontravamo alle cinque di pomeriggio, dopo scuola, legavamo Luky ad un guinzaglio di recupero e lo portavamo nei

prati dietro casa, dove poteva trottare copiosamente, frastornato dai nostri corpi che si muovevano all'unisono per confonderlo. Quando Luky era morto, qualche anno più tardi, Matteo ed io avevamo cominciato a correre sul serio, impegnandoci come maratoneti nel superare traguardi sempre più faticosi. È stato così che abbiamo scoperto il sesso. Era una sera calda, di quelle che fai fatica a respirare, talmente l'aria è ingombrata dell'umidità che risale lenta dalla terra. Malgrado la pesantezza, avevamo deciso ugualmente di fare la nostra mezz'ora di corsa quotidiana, giusto per mantenere l'allenamento. Ci eravamo messi a trotterellare lentamente, cercando di risparmiare le forze per il ritorno, parlottando di qualche stupidaggine che ci aveva fatto ridere per un buon quarto d'ora. Mi piaceva correre con Matteo: a differenza di mio padre sapeva sempre quando era il momento di smettere di parlare e lasciare spazio al fluire affannoso dei respiri. Facevamo sempre lo stesso percorso, isolato fra i campi di grano e le vecchie peschiere in cui i nostri nonni gettavano le canne la domenica pomeriggio, sperando di adescare qualche carpa puzzolente. Adoravo quel tragitto: la strada serpeggiava tortuosa tra un vorticare di spighe dorate, alternandosi all'erba medica e a qualche filare di pioppi. Era un percorso che ci aveva insegnato mio padre, una sera, di ritorno da una partita di tennis finita male. Quando mio padre perdeva, stargli accanto era un'impresa. Inizialmente perso fra i suoi pensieri e con la fronte corrugata, cominciava poi a discutere furiosamente col primo che capitava, dimenando le braccia più di quanto non avesse fatto durante la partita. Diceva di patire il pubblico, di essere costantemente in soggezione ed alle prese con un'ardua lotta interiore. Che soffrisse come un cane, non mi era mai ato per l'anticamera del cervello. Lui era mio padre e, per quanto ne sapevo, completamente immune da ogni tipo di dolore. Di sofferenza, invece, ne provava tanta ed io non ero mai riuscita a capirlo e stargli vicino come avrebbe dovuto fare una figlia.

Quella sera Matteo ed io eravamo effettivamente troppo stanchi. Ci trascinavamo sulla strada sterrata come moribondi, affannati ed assetati, in completa assenza di zuccheri. Specialmente io: ero talmente sfiancata che, senza accorgermene, inciampai maldestramente in una buca, rovinando a terra e slogandomi una caviglia. Dopo il primo momento di smarrimento, Matteo mi prese per le ascelle e mi trascinò sul ciglio della strada, facendomi stendere sull'erba fresca. Avevo le ginocchia sbucciate e la caviglia gonfia che doleva come non mai. Mi misi a frignare come una bambina, domandandogli chi ci avrebbe trovati, sperduti fra i campi, con mio padre a giocare e senza la benché minima possibilità di una comunicazione. Matteo si era seduto accanto a me, accarezzandomi la nuca e cercando far calmare i miei singhiozzi che non davano segni di ritirata. Le sue mani erano così calde: le sentivo scorrere sulla schiena nuda, dapprima delicate poi sempre più prepotenti, come volessero creare dei solchi fra le vertebre. Da che avevo il volto segnato dalle lacrime, mi ero ritrovata a guardare Matteo con inquietudine, come se, per la prima volta, mi fossi resa conto che lui era un maschio e che non c'erano dei veri e propri legami di sangue fra di noi. Non ci avevo mai pensato, prima di quel momento, a vederlo come un ragazzo, come uno di quei tanti marmocchi brufolosi che, a scuola, mi facevano la stecca sul sedere, tra le mie lamentele ed i rimproveri della maestra. Matteo, invece, di brufoli non ne aveva e, sino a quel momento, non credevo di essermi mai accorta di quanto, in realtà, fosse carino. O meglio, non lo so quanto un ragazzino con una gabbia tra i denti e due lenti d'ingrandimento sulle guance potesse essere definito un “ragazzino carino”, tuttavia, in quel preciso istante, si stava creando, fra di noi, qualcosa che non si sarebbe più sciolto. I nostri baci erano stati delicati, come quelli che vedi nei film, dove le labbra si sfiorano al rallentatore e ti sembra che siano una cosa sola, fra un cocktail di saliva ed un ricorrersi di morsi.

Era la prima volta, non solo per i baci, ma anche per tutto il resto. Quando mio padre era venuto a prenderci, avevamo fatto tutto il tragitto in silenzio, guardando fuori dai finestrini dell'auto e vergognandoci come adulteri. Per un po' di tempo avevamo smesso di vederci, giustificandoci con i nostri genitori con scappatoie ridicole che, malgrado gli sforzi, lasciavano intendere e, non poco, quello che era successo. Avevamo resistito un mese. Scopavamo a fasi intercalari, alternando le nostre voglie a periodi di magra che non duravano mai più di due mesi. Col ripetersi costante dell'accaduto, avevamo raggiunto una confidenza talmente intima che venire insieme era una eggiata. Ed eravamo andati avanti così fino a quando mio padre si era ammalato: otto anni di scopate interminabili e sempre soddisfacenti, dove nessuno dei due si era mai posto domande. Io sapevo di non amarlo. Mio padre, dopo averlo visto uscire un paio di volte paonazzo dalla mia camera, si metteva a ridere ogni volta che pronunciavo il suo nome o parlavo del futuro. Lui si che lo amava, lo amava come un figlio e mi rimproverava ogni volta che mi sentiva parlare di qualche altro ragazzo. Di ragazzi ne avevo avuti tanti, ma mai uno veramente. Abituata ad instaurare solo rapporti sessuali, finivo spesso per stufarmi, costatando quanto, in realtà, nessuno si avvicinasse minimamente alle prestazioni di Matteo. Dopo la morte di mio padre, di occasioni ce n'erano state veramente poche o, forse, eravamo noi che preferivamo prenderci cura di mia madre ed aspettare di vedere come andavano le cose.

4

Erano ate due settimane da quando mio padre era stato sotterrato, rinchiuso in una bara che mia madre aveva accuratamente scelto, come tutto il funerale, del resto, facendo caso ai particolari ed assicurandosi che i fiori fossero freschi. La sua mancanza era silenziosa; ti sorprendeva nei momenti più inaspettati, immobilizzandoti come una preda a cui è stato iniettato un veleno letale ed assiste agognante all'atrofizzarsi dei suoi muscoli. Era così che mi sentivo: improvvisamente, tra i miei pensieri, se ne insinuava uno preponderante, serpeggiava silenzioso fra gli altri, polverizzandoli in un battibaleno. Qualsiasi cosa stessi facendo, ero costretta a fermarmi ed aspettare che le immagini si dissolvessero. Di papà avevamo donato le cornee, l'unico organo che era possibile donare, visto e considerato che il resto del corpo poteva dirsi completamente imbrattato dal cancro e dai medicinali. La sera della sua morte avevo firmato i fogli del consenso in silenzio, rinchiusa in una stanza buia in cui l'infermiera mi aveva condotta per pensare alla mia scelta. Ed io avevo barrato la casella del sì, pensando che, un giorno, avrei potuto rintracciare quella persona per poter, in qualche modo, sentire di nuovo mio padre. Col are del tempo, però, anche quella luce si era spenta poco a poco. Una sera, scendendo alla fermata dell'autobus, trovai Matteo ad attendermi: stava seduto sulle panchine di legno che troneggiavano dietro la piazza, con indosso una tuta e le scarpe che mio padre gli aveva regalato qualche anno prima. Lo guardai, chiedendomi cosa avesse intenzione di fare, vestito così, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalle sue scarpe. – Ho bisogno di correre – mi disse, senza lasciarmi parlare – Devo assolutamente correre. – Non sono allenata, Mat – dissi – Sono stanca, non mi va' -

– Me ne fotto se sei stanca. Adesso ti accompagno a casa, ti metti una tuta e vieni a correre anche tu. Sei pallida, non me lo faresti alzare neppure se fossi a secco da un anno Sorrisi, consapevole che mi sarebbe bastato un po' d'impegno e di buona volontà per smentire le sue stupide insinuazioni. – Sai che non è vero. Non cado nella tua trappola. Ho le gambe stanche e la mente incenerita dalla lezione di Storia Antica. Per cortesia Ci incamminammo in direzione di casa mia, a o veloce, quasi come se stessimo rincorrendo un treno in partenza, immaginario ovviamente. Non avevo voglia di correre. Correvo tutto il giorno: verso la fermata dell'autobus al mattino presto, quando tutti sono rincoglioniti e si fermano sul salvagente imbettiti, inamovibili come foche monache; all'università, tra un aula e l'altra quando le lezioni terminavo in ritardo e dovevo volare le scale per raggiungere il piano di sotto; la sera, quando frustrata dalle chiacchiere di Giulia, mi bevevo un caffè al bar e non mi accorgevo mai dei minuti che avano. – Ma questo non è correre come fai tu, perchè sei di fretta, Am. - disse Mat – Devo scaricare – Fatti una scopata – dissi – Me ne sbatto delle scopate se non posso farle con te. Dai Am, voglio sentire tuo padre Io lo guardai, fermandomi, fissando i suoi occhi neri quasi da scioglierli, da farli diventare catrame. Non so perchè lo guardai così. Forse perchè non accettavo che potesse soffrire quanto soffrivo io che ero la figlia, che dovevo avere il primato del dolore. Non lui che c'era stato sì, ma non aveva legami di sangue. Come poteva avere lui il bisogno di sentire mio padre quando non ce l'avevo io? Come faceva a piangere quando a me non uscivano lacrime dagli occhi neanche a pagarle d'oro? Non accettavo che potesse patire più di quanto potessi farlo io, non era giusto, era come se ogni volta, il suo dolore, mi fe sentire un'ingrata, un pezzo di legno senza anima.

– Non c'è nessun bisogno di sentirlo – dissi arrabbiata – Vallo a sentire a casa tua! – Non capisco perchè fai così. Cosa ho detto che non va'? Ti ho chiesto di andare a correre, che ho bisogno di sfogarmi e di fare le strade che ci faceva fare tuo padre – Falle da solo – Amanda! - disse, afferrandomi per il braccio e facendomi fermare. Mi guardò, con gli occhi pieni di lacrime, i muscoli delle braccia gonfi a trattenere le mie mani salde, affinchè non potessero scappare, e non solo le mani, ma anche me, perchè restassi. – Non soffri solo tu, Am. Tuo padre mi manca tanto; delle volte non ce la faccio. Mi accascio sul letto come un moribondo e non sono più capace ad alzarmi per tutto il pomeriggio. Per favore, andiamo a correre Sentii la stretta delle sue mani sui polsi allentarsi e restare salda allo stesso tempo, come se il contatto fra le nostre pelli avesse una miccia ed ora il mio epitelio stesse ancora bruciando; le sue dita mi avevano stretta talmente forte che potevo vedervi le impronte, intagliate sulla carne. Quando soffri è facile incappare nell'autocommiserazione, nella radicata convinzione che solo a te spetti piangere, disperarsi e, allo stesso tempo, alleviare il dolore degli altri. Sei talmente certa di essere capace di fare tutto questo che non accetti che qualcun altro possa fare altrettanto. E così, non riesci a vedere le lacrime di tua madre e di colui che non è tuo fratello, ma a conti fatti era come un figlio per tuo padre. Non riesci a vedere i loro occhi persi nel vuoto ed il viso rigato dalle lacrime: non riesci a stargli accanto; la bramosità con cui cercano tuo padre nella loro vita ti da sui nervi perchè, spesso, tu non ci riesci. Sei invidiosa, semplicemente invidiosa. Quando sei tu a piangere, invece, il contatto col corpo degli altri ti ammutolisce, ti rende rigida come un pezzo di ghiaccio, come se, incosciamente, scattasse la convinzione di non averne bisogno. I pianti più furibondi e logoranti, li ho fatti da sola, quando nessuno mi sentiva, quando i singhiozzi erano talmente forti che dovevo tapparmi la bocca col

cuscino per tamponare le urla. Stringevo i denti e tremavo, arrancando un giubbotto, una camicia, qualsiasi cosa sulla quale ancora fosse depositato l'odore di mio padre. E sniffavo fino a che mi doleva il naso, come un cocainomane con la sua roba, alla ricerca di un sentore, di una percezione qualunque che mi ricordasse lui ed il suo sorriso. E malgrado mi concentrassi esponenzialmente, non riuscivo a sentire niente, come se avessi il naso tappato, pieno di muco. Guardai Mat, cercando di addolcire i miei lineamenti, di non farmi vedere così estremamente cruda, così fredda. – Va bene – dissi – Corriamo, ma quando sarò stanca mi fermerò, ok? Anzi, no. Tornerò indietro – Ok Quando fummo a casa, mi tolsi scarpe e vestiti, incurante degli sguardi di Mat, incollati sulla mia pelle, fissi ed accecanti come due laser. Li sentivo perforarmi la schiena, mentre mi slacciavo il reggiseno ed arrancavo la tuta. Mi traavano i polmoni e m'impedivano di respirare. Era ato un mese dall'ultima volta. – Non mi hai mai vista nuda, Mat? - chiesi, voltandomi– Sì, infatti, ti sto guardando. Ti da fastidio? M'infilai la tuta, guardandolo negli occhi ed interrompendo i suoi pensieri. – Andiamo Ci mettemmo a correre piano, cadenzando i respiri, sincronizzandoli al movimento dei muscoli. Le braccia dondolavano ritmiche lungo il costato, trafiggendo l'aria. Sentivo il fresco della sera immettersi in gola come i fumi dell'aerosol: lo sentivo scendere lungo la trachea e refrigerare il petto, depurandolo di tutta quella merda che avevo ingerito negli ultimi mesi. I prati scorrevano veloci all'angolo dei miei occhi: le spighe di grano stavano cominciando a dorarsi, come tostate dal sole; vorticavano mosse da un vento leggero, quasi impercettibile, danzavano, s'incontravano sfiorandosi l'un l'altre. Era bello. Era come essere immersi in una boccetta di Chanel n° 5 e sentirne tutti gli aromi, suddividendo le fragranze. Oppure come sprofondare in una vasca di acque termali, quelle gelide, quelle in cui t'immergi dopo aver fatto il bagno

turco e la temperatura corporea a da 40° gradi centigradi a 15° in un lampo. E ti fa sentire come se fossi rinata: amo i percorsi termali di questo tipo perchè hai la possibilità di rinascere per tutta la giornata, decine e decine di volte. Corremmo in silenzio per una mezz'oretta, ascoltando il rumore delle scarpe che sbattevano veloci dapprima sull'asfalto poi sulla ghiaia, in prossimità della peschiera: il suono era costante, cadenzato, perfettamente sincrono. Quando fummo nei paraggi della peschiera, cominciai a sentire un leggero bruciore alla trachea, di quelli che ti prendono quando il fiato rimasto è poco e sta diventando sempre più corto. Provai a deglutire, ma la bocca, rimasta arieggiata per mezz'ora, era completamente asciutta, senza una goccia di saliva. Nelle ginocchia cominciava a depositarsi acido lattico: le sentivo gonfie, come se stessero muovendo duecento chili. – Mat, devo fermarmi – boccheggiai – Sono stremata, non ce la faccio Mi accasciai sul ciglio della strada, nell'erba rasata da poco, lasciando che il mio peso si spalmasse completamente sul suolo. Mat si coricò accanto a me, sudato, ad una vicinanza tale che potevo sentirne l'odore. I nostri occhi, diretti al cielo, inseguivano le nuvole correre velocemente da un polo all'altro: alcune parevano ciuffi di panna montata da poco, altre si allungavano strette ed affusolate lungo la volta celeste. Quando guardavo il cielo, mi sembrava di guardare un altro mondo, come fosse stato un enorme specchio attraverso cui potevo affacciarmi e scorgere un universo parallelo. Mi rendevo conto dell'immensità che si celava sopra la mia testa, anche se non riuscivo a decifrarne la dimensione. Eppure, era guardando il cielo che riuscivo a percepire la certezza che di là, da qualche parte, mio padre c'era. Era un sentore lieve, di quelli che ti accarezzano le tempie con leggerezza e svaniscono velocemente, nello stesso modo in cui sono apparsi. Non era facile afferrarlo, ma più ero distratta più potevo sentirlo. – Ti ricordi quando tuo padre ci aveva portati qui la prima volta? - chiese Mat – Quanti anni avremo avuto? Dodici? – Non ricordo, eravamo piccoli, comunque – Sì. Tuo padre correva come una saetta, quel giorno. Me lo ricordo come se fosse ieri. E quanto rideva! Ogni volta che ci vedeva esausti si sganasciava come un pazzo -

Mat sorrideva, come se stesse rivivendo quel momento con la sua stessa pelle, come se l'immagine dei nostri corpuscoli moribondi e sfiancati risalisse davvero a poche ore prima. Il punto è che non ti sembra vero che tuo padre non ci sia più, che non potrai più guardare i suoi occhi gonfi e ridere di gusto quando dice una cazzata. È un pensiero che s'insinua nella mente per caso, quando meno te lo aspetti, mentre stai camminando per strada o stai mangiando il bollito che a lui piaceva tanto. Quando sei seduta a tavola e sorseggi un bel bicchiere di Barbera oppure quando, pedalando all'impazzata sulla pista ciclabile dietro casa, t'imbatti nel campo da tennis dove trascorreva tutti sabato pomeriggio. Sono quelli i momenti in cui ti fermi, tiri il freno a mano e realizzi. Realizzi che per quanto la tua vita scorra medesima, ci sono emozioni, pensieri, momenti che non potrai più avere. E non sai perchè: la mente dell'uomo non è capace di concepire l'assoluto, l'infinito, il “mai più”. È abituato alle cose che può vedere con le proprie pupille, tastare con le proprie dita. Di ciò che non vede non se ne cura. Quando guardo le foto di mio padre, delle volte, mi sembra che non sia mai esistito. Più a il tempo, più le immagini si affievoliscono, perdendosi nella nebbia dei ricordi di quella che pare essere un'altra vita. E questo mi spaventa. Se dapprima riuscivo ad udire perfettamente il risuonare della sua risata inconfondibile fra le altre, ora riesco soltanto a visualizzare i suoi denti gialli, scoperti dalle labbra arricciate. Tutti dicono che la mia risata è quella di mio padre. Ricordo il giorno del funerale, quando uscii dalle navate della chiesa intontita, dopo la messa. Ricordo che mi si avvicinò un uomo in giacca e cravatta, un volto che non conoscevo, probabilmente un vecchio compagno di tennis. – Non smettere mai di ridere, cara. Hai la risata di tuo padre Mi disse così, accarezzandomi la guance con le mani più ruvide che avessi mai sentito. Anche se non conoscevo quell'uomo, ebbi come l'impressione che fosse stato mio padre a mandarmelo, servendosi di lui come messaggero. Mi girai verso Mat e vidi i suoi occhi lucidi riempirsi di lacrime. Gli sfiorai la

nuca, accarezzandogli i capelli rasati, in silenzio. Quando le mie dita incontrarono le sue labbra, sentii la sua saliva appiccicarsi alle mie cellule: era calda, piena di sapore. Non so perchè ma i miei polpastrelli s'incollarono lì sopra come nastro adesivo ed il fatto che rimanessero saldi mi faceva vibrare i neuroni come i piatti di una batteria. Chiusi gli occhi e sentii la sua lingua blandirmi le articolazioni fino alle nocche, come volesse cibarsi dei miei sali. Ritrassi la mano, costernata dai nostri respiri che sentivo affannarsi ad ogni secondo che ava. Lui si mise a sedere, guardandomi negli occhi come avesse voluto entrarci, conficcandosi dritto come una scheggia nelle iridi. I nostri sguardi rimasero fissi, gli uni negli altri, senza il benchè minimo cenno di distrazione. Era così che partiva tutto, con quegli occhi che si scioglievano a creare lo stesso liquido: se ci guardavamo per più di dieci secondi, non era più plausibile fermarsi. Non c'erano impegni, situazioni scomode o luoghi visibili che tenessero: sembravamo drogati e l'effetto finiva solo con l'orgasmo, nient'altro. Sapevo che quel momento era uno di quelli, dove i suoi occhi che vedevo ormai colare, non riuscivano tuttavia a sciogliere i miei. Quando la morte ed il cancro ti baciano, accettare qualsiasi altro bacio diventa impossibile. Tutto ciò che ha a che fare col fluido, la leggerezza, i sensi, viene impacchettato e spedito lontano, quasi che diventa impossibile rintracciarne il recapito. Le tue voglie sono plasmate a tal punto che diventano inutili, uno stupido scherzo chimico del tuo sistema libico. Tutto, di fronte al cancro, diventa privo di movente: ogni atto è inutile poiché qualsiasi sia il fine che lo giustifica, sarà sempre insignificante rapportato al cancro. E così, un bombardamento di ormoni a pieno campo, non era tuttavia sufficiente perchè potessi dimenticarmi di lui, della sua presenza, silenziosa, ma costante. – Andiamo Mat. - dissi, stringendo i denti – E' tardi. Lui rimase esterrefatto, forse umiliato da un rifiuto aspro che arrivava dritto al cuore, come un pugnale. Lo vidi alzarsi piano, tendermi la mano e tirarmi su, arrancandomi per le natiche. Quando i nostri corpi furono adiacenti e potei sentire il suo respiro caldo soffiarmi sugli occhi, lo abbracciai, stringendolo con

un pupazzo di gomma piuma. Ogni libidine venne scacciata dalla pelle da un abbraccio profondissimo, dove l'unione dei nostri corpi era indissolvibile: credo fosse la forma d'affetto più vicina all'amore che conoscessi, dopo quella per i miei genitori. – Io ti voglio – disse – Anche io, ma non ci riesco -

5

Non è facile scrivere quando le uniche immagini che hai nella testa sono confuse e contraddittorie. La storia subisce continui rivoltamenti, come un coperta duoble-fast che la giri e rigiri nel letto e non sei mai convinta del verso che ti piace di più. Solo che la coperta la puoi cambiare quando vuoi, un capitolo, invece, una volta che l'hai scritto, modificarlo diventa impossibile, proprio come la vita. Delle volte la mano scorre istintiva sui tasti del pc, pigiandoli inconsapevolmente come se non potesse arrestarsi. Quando riesci a tirare il freno a mano e ti metti a rileggere i aggi è già tardi. Magari il pezzo che hai scritto fa cagare, è pieno di errori, è stagnante, ma non puoi tornare indietro. Può sembrare insensato, ma è così. Credo che sia l'inconscio, molte volte, a manovrare le dita a suo piacimento, impedendoti di scrivere quello che veramente vorresti e tirando fuori periodi che non avresti mai pensato di poter realizzare. E l'aspetto più stupefacente viene risaltato quando, malgrado ti renda conto che la piega presa dalla storia non è quella che avresti voluto, non riesci, tuttavia, a riportare gli episodi nella giusta traiettoria. È qualcosa che sfugge completamente al controllo razionale dell'intelletto e serpeggia guduriosa, burlandosi delle tue aspettative e degli obiettivi che ti eri prefissata. Non avrei voluto parlare di mio padre e della sua malattia. Ero partita con una storia semplice, di quelle che in cui può rispecchiarsi chiunque, costruite su un amore stabile, fottuto col trascorrere dei capitoli ed insabbiato nei problemi della vita quotidiana. Lei si chiamava Giada e lui Stefano. Erano una coppia comune, la classica coppia di città alle prese con il mutuo da pagare ed il frigo da riempire ogni sera. Una di quelle coppie che puoi incontrare al supermercato il sabato pomeriggio, con un vagone a posto del carrello, sovraccarico di alimenti surgelati e conservati, mai troppo freschi per poterli consumare nel lungo periodo. Lei avrebbe voluto vivere, andare a teatro il giovedì sera, frequentare le mostre di antiquariato, fare lunghe eggiate in montagna, viaggiare, andare a ballare il

sabato sera. Lui era un risparmiatore, un economista incallito, uno di quelli che “il sito della banca è la prima pagina che apro su internet”. Giada e Stefano erano una coppia in bilico, sull'orlo del precipizio e non sapevo ancora se si sarebbero salvati oppure sarebbero precipitati nel baratro dell'incomprensione e dei silenzi; in uno di quei baratri dove la scappatoia più semplice è sempre la relazione parallela. Forse mio padre l'avevo visualizzato nel loro salotto, una domenica pomeriggio, mentre si beveva un bel bicchiere di Nebbiolo, acquistato nella vecchia cantina all'angolo della strada. L'avevo visto spaparanzato sul divano, con le gambe accavallate ed il classico paio di jeans, quello dagli orli talmente corti che non rimanere accecati dai suoi imbarazzanti calzini bianchi era impossibile. Era lui, ed era bello vederlo lì, mentre rideva di gusto intorpidito dai 15 gradi del Nebbiolo. Da quel pomeriggio l'avevo visualizzato dovunque, come una costante presenza interiore, e quando le mie dita avevano cominciato a parlare del cancro, non ero riuscita ad interromperle. Andavano veloci sulla tastiera come una macchina da corsa, affrontavano gli ostacoli con determinazione e quando si arrestavano, stoppate dal punto, me le ritrovavo fredde e sudate allo stesso tempo, come se appartenessero ad un altro corpo. Il cancro è un bastardo. Lo detesti e vorresti che restasse al di fuori delle tue mura, ma lui è il fulcro, l'agorà, la piazza centrale del tuo mondo; ti esce dalla bocca risalendo dall'intestino come fumo tossico da espellere, s'insinua in tutti i discorsi, anche fossero i più dilettevoli, e tu sei costretta a sputarlo fuori, come il catarro quando hai la bronchite. Molto spesso le conversazioni sono semplici, come quelle che puoi fare con un'amica al bar dell'università, quei discorsi dove parli di ragazzi, di musica, dell'ultimo paio di jeans della Levis. Sono discorsi dove il cancro non centra niente, ma proprio un emerito cazzo. Ciononostante, basta un espressione troppo corrugata sul volto di Martina, un alito di vento troppo freddo, qualche frase particolarmente sospirata o il cucchiaino che posato maldestramente sul tavolo, cade sul pavimento. Ed eccolo lì, il cancro; lo senti dilagare nel cervello come una macchia d'olio: è sufficiente un particolare che abbia interrotto il fluire normale dei tuoi pensieri affinchè lui penetri indisturbato e ti pietrifichi all'istante. E così cominci a guardare Martina e non vedi altro che i suoi atteggiamenti superficiali e maldestramente di classe. Vedi i suoi capelli biondi con le

extension fluttuare voluminosi ogni volta che smuove il capo, alla ricerca delle attenzioni dei anti. Vedi le sue unghie ricorstruite, talmente spesse e dure da incidere un pezzo di ebano. Senti le sue parole a malapena, certa che, per quanto impegno possa metterci, saranno sempre le parole di una persona che il cancro non l'ha mai visto. E non è una colpa, ma nemmeno una fortuna. Improvvisamente ti senti un estranea, come se quel bar si fosse materializzato nel bel mezzo della Tanzania e tu fossi circondata da persone di colore: tu, unica donna con la carnagione bianca, sei indotta inconsapevolmente ad utilizzare l'unica arma che può farti sentire più forte: il cancro. Lo sputi fuori come una vipera fa col suo veleno, mostrando i denti aguzzi e tremando tutta. In quel momento, chiunque ti stia ad ascoltare, s'immobilizza, si tappa la bocca e, con molta probabilità, si sente stupido, indifeso come una preda. Tu, invece, ti senti forte. Il cancro ti fa sempre dire che lo conosci e che soffri come un cane, sempre. E così, quando Giada si era resa finalmente conto che avrebbe potuto lasciare Stefano e cominciare una nuova vita, fatta di libertà, di gioia, di spettacoli teatrali e sabati danzati, aveva nel frattempo scoperto che a suo padre avevano trovato una specie di nodulo nella testa, una macchia, qualcosa per cui era necessaria un'urgente biopsia. Giada era di nuovo accasciata a terra, per l'ennesima volta, scagliata da un destino che la voleva ferma alla partenza e le impediva di correre lungo la pista. Stefano, dal canto suo, cinico e pragmatico, riportava le medesime caratteristiche anche quando si trattava di consolarla, cercando, famelico, il lato razionale di qualcosa che di logico e razionale non aveva nulla. Le diceva che la medicina aveva fatto i da gigante, che al giorno d'oggi di cancro si poteva guarire e che noi, al Nord, avevamo i medici più competenti d'Italia. Di cancro non si guarisce mai. Me l'aveva detto la Dottoressa Scaglia, il primario di oncologia generale che capeggiava l'ultimo reparto in cui era stato mio padre, quello in cui era ato a miglior vita. Ero stanca quella mattina, avevo trascorso la notte in ospedale e non ero riuscita a chiudere occhio, spaventata dai continui rantoli di mio padre e dalle sue apnee, sempre più frequenti. Era da due giorni che non mangiava: quel poco che ero riuscita a ficcargli in bocca l'aveva sputato tra una tossita e l'altra, insieme al

catarro che oramai gli stava ostruendo tutte le vie respiratorie. Ero ansiosa: sapevo che se avesse continuato a non mangiare sarebbe morto in breve tempo. Solo che non riuscivo a svegliarlo; era in una sorta di coma, indotto da quella merda che gli mangiava il cervello, ma io non lo sapevo. Quella mattina, l'unico pensiero per me, sembrava essere il cibo: la sola cosa che dovevo fare era svegliarlo e fargli bere anche solo una lacrima di latte. Ero in preda al panico, mi muovevo nel corridoio come un ossessa ed ogni cinque minuti scrollavo mio padre forte, speranzosa che potesse aprire gli occhi. Quando arrivò la Dottoressa Scaglia mi scaraventai verso di lei, implorandola di somministragli qualche medicinale che lo fe svegliare e sciogliesse il catarro, di modo che lui potesse riprendere a mangiare come prima. Lei mi guardò con quegli occhi azzurri talmente grandi che credevo potessero contenere l'intero oceano Atlantico. – Il cancro sta bloccando le vie respiratorie cara. Potremo fare migliaia di areosol, imbottirlo di cortisone che non servirebbe. Non è raffreddato tesoro. Stiamo aspettando – Cosa aspettiamo? - chiesi, rendendomi conto di ciò che intendeva solo quando chiusi la bocca e rimasi in silenzio, con il cuore fermo, duro. Lei mi guardò, infilando la mani ruvide nelle tasche del camice. Stavamo aspettando la morte. La morte, cazzo. La stavamo aspettando come se avessimo dovuto aspettare un ospite per la cena. – Vai a casa, cara. È da due giorni che sei qui, ventiquattrore su ventiquattro. – No, io voglio stare qui – dissi, accanita contro qualcosa che non potevo combattere, spellata dai minuti che avano e non potevo fermare. La dottoressa mi prese le mani, stringendomele forte. – Anche dovesse essere che tu non ci sarai cara, sarà andata bene comunque. Devi preservare le energie per il dopo La sua schiettezza era stata come una luce accecante, un flash che colpisce di soppiatto e non ti da il tempo di assumere la posa che vorresti.

In quel momento, l'amai. L'amai perchè si era messa al mio stesso livello, dicendomi che potevo essere libera, che anche se non fossi stata lì quando mio padre avesse spirato, sarebbe andata bene ugualmente. E me l'aveva detto guardandomi negli occhi, come fosse un consiglio medico e spirituale allo stesso tempo. Quella fu l'unica volta, quando uscii dall'ospedale, a non sentirmi in colpa perchè stavo andando via; era come se mi avesse congedato, deresponsabilizzato. Non sapevo se Giada ce l'avrebbe fatta, se sarebbe riuscita ad affrontare tutto da sola, come stavo facendo io. Non ne avevo la più pallida idea. Ero ferma ad un punto morto da giorni e non riuscivo a visualizzare le scene successive. Vedevo il suo corpo camminare lungo le rive del Po', riscaldato dal sole della primavera. Vedevo i i lenti e flemmatici, le scarpe da ginnastica strascicarsi a terra come pesassero tonnellate. Ed ogni volta che mi mettevo al pc, la sera, non facevo altro che correggere le frasi precedenti, aggiungere periodi di riflessione e raddrizzare la logica del discorso. Di nuove scene non se ne parlava. Ero in blocco completo. L'unica cosa che vedevo era Giada completamente sola, senza un appiglio, intrappolata in un vortice avvelenato, dal quale non riusciva a venire fuori. Stefano se n'era andato, cacciato dai suoi silenzi e divorato dall'incapacità di frenare l'inabissarsi della relazione. L'avevo fatto andare via una sera, dopo la cena, quando vedendo le lacrime di Giada non aveva saputo fare altro che sfiorarle il viso e rimettersi al computer, senza dire neppure una parola. Avevo visto la rabbia di Giada esplodere da tutti i suoi capillari, l'avevo vista stringere i pugni sulla felpa infeltrita e spingerlo fuori dalla porta con una forza inaudita di cui neppure lei sapeva di possedere. Avevo visualizzato la chiave girarsi rumorosa nella toppa e rimanere lì, ferma ed immobile. La porta non era più stata aperta ed io non sapevo come procedere. Il tempo ava ed il giorno della consegna si avvicinava inesorabilmente. Spinta dall''ansia, avevo cominciato a farmi un drink tutte le sere, per sviscerare le idee. Aspettavo che mia madre andasse a coricarsi e, con estrema destrezza, facevo scivolare un po' di Rum dentro un bicchiere di plastica che poi riempivo di coca-cola. Il liquido brunastro si amalgamava alla perfezione, smosso da una cannuccia che inserivo per cadenzare le sorsate: se avessi avuto a disposizione l'intero bicchiere, sapevo che me lo sarei scolato in un colpo solo. Invece, volevo che l'alcol m'inebriasse poco a poco, solleticando i miei neuroni senza

neutralizzarli del tutto. Dopo qualche sorso, il mio corpo era completamente inebriato e flessibile come quello di un invertebrato: era in questa condizione di debolezza che mi sentivo trafitta da nuove percezioni, immagini che non ero riuscita a visualizzare quando ero sobria. Raccoglievo i colori, le parole offuscate dai suoni della mente e gettavo tutto su carta, con istinto puro, senza pensare alla logica ed al giusto posto occupato dalla punteggiatura. Il problema era che, dopo che avevo asciugato e sviscerato quelle percezioni, avevo bisogno di altro alcool per captarne di nuove. E così tracannavo ancora, fino a che, completamente bevuta, mi assopivo sul computer come una bambina. Malgrado l'apertura mentale dilagasse, continuavo a fermarmi ogni volta che Giada rigirava la chiave nella serratura: la vedevo scendere le scale e dirigersi da qualche parte, ma non sapevo dove. La mia mente funzionava a compartimenti stagni e non riuscivo comunque ad avere un quadro completo della situazione. Così, ricoprivo l'ultima scena di dettagli, aggiungendo pezzi nuovi, decisamente tumultuosi, ma che non mi portavano da nessuna parte. Ovviamente, ogni sera che ava la quantità di alcool aumentava, quasi che distinguere il gusto della coca era diventato praticamente impossibile. Quel sabato sera Alessandra era arrivata particolarmente presto: saranno state le otto e trenta al massimo. Dopo le sue insistenti telefonate, ero riuscita a rimediare un accordo pacifico, proponendogli una cena tranquilla, insieme a mia madre. Lei aveva accettato a malincuore, frenando i suoi istinti danzanti con una bottiglia di Martini recuperata al supermercato di fronte. Quando si era messa a sedere, l'aveva aperta con fervore rovesciandone metà del contenuto nei nostri bicchieri. L'avevo bevuto in un battibaleno, sotto gli sguardi scrutatori di mia madre che mi osservava dalla penisola della cucina. Tra un salatino e l'altro, la bottiglia era finita in poco più di mezz'ora. Quando mia madre ci servì il primo piatto di pasta ero già decisamente: vedevo gli spaghetti aggrovigliarsi come vermiciattoli tra la pancetta affumicata ed il formaggio fuso; le estremità, poco cotte, mi sembravano delle teste e, assottigliando gli occhi, mi pareva persino che si muovessero, snodandosi come ballerine di danza classica. Strabuzzai le palpebre e cercai di mantenere il controllo. Anche mia madre aveva bevuto e dovevo solo sperare che le si

annebbiasse il cervello prima che potesse accorgersi del mio stato. Mantenere la forchetta in equilibrio era un'impresa: l'impugnatura scivolava fra le dita sudate ed arrancare i cubetti di pancetta era come acchiappare i salmoni nell'acqua corrente. Guardai Alessandra: i suoi occhi erano vispi, contornati da una spessa riga di eye-liner che era solita dipingersi quando era di buon umore. Aveva lo stomaco pieno: lo potevo notare dal fatto che imoboccava la forchetta con resistenza, adagiandola di tanto in tanto sui bordi del piatto per riprendere fiato. Quando eravamo insieme, lei ed io, era decisamente scontato che finissimo alticce. Non so perchè: sembrava che i nostri incontri fossero scriteriati senza neppure un bicchiere di vino. Quella che poteva essere una banale conversazione, si trasformava in un vivace dibattito, disseminato di ardore ed entusiasmo. Un bicchiere di Martini, quando ci incontravamo per il pranzo, rendeva la pausa leggere e spensierata, e mi ributtava in un aula frastornata, ma ad un metro da terra. – Vado ad una festicciola universitaria dopo – disse, tra una risata e l'altra – Vuoi venire? – No, guarda, preferisco stare a casa, così vado avanti col manoscritto – Che palle, Am! Non esci da due settimane! Io la fulminai, guardandola negli occhi come un drago sputa fiamme, ed indicandole mia madre, china sul lavabo, intenta a non confondere i piatti già puliti con quelli ancora da lavare. Mia madre non reggeva l'alcool: credo che non avesse mai bevuto fino a quel momento; da quando mio padre era morto, scolarsi un bicchiere di vino sembrava essere una delle poche cose in grado di strapparle un sorriso. Io avevo sempre bevuto, sin dall'età di quindici anni, quando avevo scoperto che quella roba viscida che riempiva il bicchiere di mio padre ogni sera, non era “soltanto per i grandi”. In quel momento bevevo per scrivere, perchè, intorpidita dall'alcol, mi sembrava che le parole avessero più senso, che esalassero dalla mia mente con maggiore intensità, quasi non appartenessero veramente a me, ma a qualcosa di superiore. I periodi erano sempre molto brevi, anche perchè impiegavo mezz'ora a comporre una frase. Tuttavia, quando la rileggevo, ero

contenta del tempo perso e dell'alcool bevuto poiché i periodi erano sempre carichi, ricchi di aforismi tormentati e molto ionali. Non avevo fatto percorrere a Giada molta strada, ma l'immagine di lei, distesa sui ponti del Valentino era a dir poco strepitosa. Mi ero persa nei dettagli, descrivendo l'acqua torbida che le scorreva sotto i piedi penzoloni, il cielo vasto e di un blu cobalto così intenso da fare male agli occhi. L'avevo fatta viaggiare nei suoi pensieri più profondi e la voglia di continuare a scrivere era talmente intensa che non potevo permettermi di lasciarla esaurire insoddisfatta. Quando Alessandra se ne andò, mi scaraventai sul computer, aprii il documento Word e mi misi a rileggere gli ultimi capoversi, giusto per riprendere il discorso da dove l'avevo lasciato. La voglia di vedere la vita di Giada e seguire o o la sua evoluzione era talmente viscerale che, dopo aver composto la prima frase, non riuscivo a trovare le parole giuste per continuare ad andare avanti. Quando hai il cuore che ti batte forte e le idee che saltano impazzite come palle di gomma, trovare i vocaboli che esprimano tale tumulto diventa problematico. La mani ti tremano, inchiodate ai tasti ed il respiro aumenta: sei cosparsa di adrenalina che corre impazzita da un arto all'altro e non può sfogarsi. Ritornai in cucina e rovesciai l'ultimo dito di rum nel bicchiere: ormai ero talmente abituata a quel gusto che potevo berlo anche puro, senza aggiungere coca-cola. Dall'altro lato della stanza mio padre mi scrutava silenzioso, intrappolato nell'immagine di una vecchia foto appesa alla parete dopo la sua morte. Mi fissai ad esplorare il suo volto giovane, spoglio di rughe ed i suoi occhi piccoli, vispi come quelli di una volpe. Sorrisi, pensando che se avesse dovuto entrare in quel momento, avrebbe sogghignato a gran voce, aiutandomi a finire la bottiglia. Lo vedevo aprire il portoncino, dopo una lunga partita di tennis, sedersi moribondo accanto a me, sul divano, ed afferrare la bottiglia di Barbera che custodiva gelosamente nella credenza del salotto. Ubriachi, avremmo potuto parlare di come le grandi ioni si cibino fameliche delle energie di cui disponiamo, rosicchiando abilmente le altre emozioni e ributtandoci nel mondo completamente assenti. Avrei potuto cercare di comprenderlo, rassicurarlo anche se di tennis, io, non capivo nulla. Ed, invece, non l'avevo mai fatto. Quando lui cercava di sfogarsi, raccontandomi la sua sofferenza, io avevo sempre di meglio a cui pensare. Non facevo altro che accusarlo di essere ripetitivo e logorroico; pensavo che avesse la testa imbottita di stronzate, di pensieri che si mordevano la coda, costruiti solo ed

esclusivamente da se stesso. Pensavo ai nostri corpi assopiti, abbracciati l'un l'altro, solo perchè era arrivato il cancro; grazie a lui avevo cominciato a concepire l'idea di poterlo sfiorare e baciare come se fosse un uomo normale. Se il cancro non fosse sopraggiunto, non avrei mai creduto nella perfezione del nostro rapporto, a quanta energia positiva creava la nostra unione. La verità è che capisci quanto due persone siano perfette e precisamente in sintonia, solo quando, improvvisamente, quel rapporto si spezza o viene incrinato dal susseguirsi della vita. Fino a quel momento non ti è mai importato particolarmente ricercare e creare quest'intesa, ma adesso, che tutto è svanito nel buio, tutto ciò che non sei riuscita a vivere, ti manca inesorabilmente. Non ho mai cenato con mio padre da sola o, forse, quando l'ho fatto, non ho saputo dare a quel momento, l'importanza che meritava. Ora, il non poter condividere un momento così intimo mi manca. E la cosa insensata è che non sarebbe mai mancato all'Amanda pre-cancro. All'Amanda pre-cancro non importava nulla delle cene con suo padre: per lei, erano soltanto dei pasti, dei momenti in cui l'unico obiettivo era riempirsi lo stomaco e collassare sul divano subito dopo. Non gliene importava nulla delle critiche e dei consigli che suo padre le lanciava e che le rimbalzavano sul corpo come palline da ping-pong. Né tantomeno faceva caso agli occhi delusi di suo padre quando, insistente, si preoccupava della sua vita e lei, sgretolata dalla pressione di quell'assalto, se ne andava, su tutte le furie. Per non parlare delle burrascose discussioni sul tennis e sulla sua difficoltà nell'affrontare le aspettative del pubblico, quando si trattava di vincere la partita di campionato. In quel momento, davanti alla luce di un monitor che mi faceva bruciare gli occhi, con una bottiglia di rum nelle vene ed incapace di mettere giù neanche un capoverso sensato, mi sentivo come lui, quando, malgrado l'alcol ingerito, aveva perso la partita e non riusciva a capacitarsi. Mi sentivo che valevo quanto una figlia a cui importava poco del padre, che doveva essere schiaffeggiata dal cancro per rendersi conto che la vita non è fatta solo di fronzoli, ma che la gente la devi toccare e baciare fin tanto che ne hai la

possibilità. Mi accesi una sigaretta, sperando che la nicotina potesse svigorire l'eccitazione dell'alcol, distrarmi dai ricordi di mio padre e scacciare i sensi di colpa per non essere stata la figlia che avrei dovuto. Ma non funzionava: la testa era in blocco totale e marciava lungo una direttrice di cui non ero a conoscenza. Avevo perso il controllo della situazione e l'unica cosa che mi venne in mente di fare fu telefonare ad Alessandra. – Pronto? - sentii dall'altro capo del telefono, confuso dal ritmo di quella che doveva essere musica tecno. – Pronto? Mi senti, Ale? – Sì, aspetta che mi allontano! Aspetta ancora un attimo …. Ecco, dimmi, è successo qualcosa? – Dove sei? - chiesi – Devo uscire di qui – Sono ai Magazzini di Borgo Dora, alla festa universitaria – Aspettami lì, arrivo tra una quindicina di minuti – Am sei sicura? – Sì, perchè? Mi sono ripresa – mentii – Posso guidare – Ok, va bene. C'è anche Mat qui. – disse, affievolendo la voce come se avesse paura di ferirmi. – E quindi? – E' con una ragazza, Am Dovetti stare attaccata alla cornetta per un bel po' di tempo poichè ad un certo punto Ale mi chiese se ero scivolata sul pavimento o se era semplicemente svanito il segnale. Eppure, non mi pareva che le sue parole mi avessero immobilizzata. In fin dei conti Mat ed io non stavamo insieme e le sue scappatelle non erano cose che dovevano riguardare, né tantomeno intaccare, la mia sfera personale.

Abbassai la cornetta velocemente e m'infilai il primo paio di jeans che trovai nell'armadio. Ci buttai sopra una canotta scollata e riempii gli occhi di mascara. Stavo chiudendomi la porta alle spalle quando sentii mia madre bofonchiare il mio nome tra le lenzuola ed accendere l'abat-jour. – Am, dove stai andando? È l'una di notte Raggiunsi la camera da letto e guardai il suo viso segnato dalle pieghe del cuscino, spaventato ed assonnato allo stesso tempo. – Esco un attimo, mamma – Ma a quest'ora? – Sì a quest'ora – Ma dove vuoi andare a quest'ora, Am? Hai bevuto, dove vuoi andare? - ripetè – Mamma! Sto benissimo Sentivo la pazienza abbandonare il mio corpo con estrema rapidità e le dita delle mani che formicolavano, intrise di nervoso. – Mamma, per favore, devo uscire, ho bisogno di prendere aria. Raggiungo Alessandra in centro. Cerca di stare tranquilla e dormire. Ti prometto che non torno tardi Le diedi un bacio sulla fronte e scappai prima che le sue proteste potessero raggiungermi le orecchie. Mi sentivo come una madre, quando triste e libera, lascia il figlio nel letto da solo, conscia che non si è ancora addormentato e che presto si sveglierà in lacrime. L'idea di mia madre sola nel letto mi attanagliava le meningi, mi bombardava la testa come una pioggia di meteoriti. Ingranavo le marce velocemente, pensando che se mi fossi allontana da casa sarebbero spariti anche tutti i sensi di colpa. Quando arrivai a Borgo Dora, il torpore dell'alcol era ormai svanito, ma l'eccitazione era ancora alle stelle. Sentivo l'aria fresca della notte accarezzarmi le guance infuocate ed infilarsi fra le fessure degli indumenti. Era così rigenerante da farmi venire la pelle d'oca. Il buio dilagava sovrano tra le

abitazioni, sconfitto dalla debole luce di qualche lampione che troneggiava qua e là ai lati delle strade. La zona era arida, costellata da abitazioni fatiscenti ed officine inutilizzate da decenni: in una di queste si teneva la solita festa di fine anno accademico, quella che segnava il aggio dalle lezioni alle sessioni d'esame, un tuffo spropositato e senza gomma piuma nel periodo più stressante dell'anno. Fiumi di ragazzi si ammassavano ingordi di musica davanti alle quattro entrate principali: parevano zombie senza nome, mossi dal fluire ritmico della musica proveniente dall'interno. Quando finalmente riuscii ad entrare, fui pervasa da un boato inesauribile di note elettroniche, talmente forti da perforare i timpani. Sentivo la cadenza del ritmo risuonarmi nella gola, come se al posto delle tonsille fossero state posizionate un paio di casse e la musica provenisse proprio da lì. Mi guardai intorno, sudata, alla vana ricerca del volto di Ale, disperso fra tutti gli altri. Girai le officine in lungo ed in largo, in preda ad una confusione oceanica, trasportata dalla massa che ondeggiava sulle note di un dj di basso rango. Chiamai Alessandra ben ventiquattro volte, prima di trovarla spaparanzata su un divanetto recuperato di fortuna chissà in quale anfratto fatiscente di quel posto. Era distesa sulla spugna con le gambe divaricate e le braccia che le coprivano la pancia nuda, scoperta da una canotta che qualcuno doveva averle strappato, tra uno spintone e l'altro. Mi avvicinai e mi accorsi dal suo alito che doveva aver bevuto ancora un bel po', dopo che s'era andata di casa. Cercai di farla riprendere, schiaffeggiandole la faccia. – Un momento, Am, un momento, adesso mi riprendo – Hai preso qualcosa? - chiesi, sperando di sentirla negare. – No, Am, ho solo bevuto – Quando ti ho chiamata non sembravi fradicia! Lei aprì gli occhi, per quanto poteva, e mi sorrise stupidamente, quasi come se volesse burlarsi di me. – Quando hai chiamato ero così contenta che venivi che mi sono bevuta qualcosa, credo un po' di Gin con Lemon e l'ho preso anche per te -

Alzandosi di scatto arrancò qualcosa dietro il divanetto e mi porse un bicchiere di plastica, carico di un liquido annacquato che doveva essere Gin, corretto con la Lemon. La musica era assordante e mi sembrava che tutto oscillasse, scosso dai prepotenti salti della folla che si muoveva, incantata e drogata dal suono. Fu in quel momento che vidi Mat, appoggiato ad una piglia di ferro arrugginito, poco distante da dove si trovavano i nostri corpi. Lei era bionda, con i capelli tagliati a caschetto: a vederla così, da lontano, doveva essere anche piuttosto bella. Le stava appiccicata come un lichene, manco avesse dovuto servirsi del suo sale per sopravvivere. Si parlavano ad un palmo dal naso e potevo captare i loro sguardi fissi, gli uni dentro gli altri, che si scrutavano a vicenda. Rimasi appollaiata sulle ginocchia per qualche secondo, stordita, tesa come la tela di un tamburo. Trasalii lentamente, percossa dalle mani di Alessandra che aveva cominciato a riprendersi. Afferrai il Gin-Lemon e dopo essermelo scolato come acqua fresca mi diressi verso Mat. Nei momenti di tensione e di paura, il cancro era un buon amico a cui chiedere sostegno. Ogni volta che dovevo superare un ostacolo e l'attesa si caricava di apprensione, mi bastava pensare a lui per farmi una dose di autostima istantanea. Mi bastava pensare che avevo affrontato il cancro, che l'avevo visto materializzarsi nel corpo di mio padre, divorandolo in breve tempo, per sapere che avrei potuto superare brillantemente qualsiasi altra cosa. Di fronte all'esperienza vissuta, ogni altro individuo si trasformava momentaneamente in scarto umano: ogni situazione era così futile ed impalpabile che avrei potuto disintegrarla con la forza del pensiero. A mano a mano che mi avvicinavo a Mat, l'agitazione diminuiva esponenzialmente, dissolvendosi come un fulmine caduto a terra. Quando fui accanto a lui e lui si voltò, guardandomi con quegli occhi color catrame, mi sentii percorsa da un'energia vibrante e tumultuosa, come se la corrente dell'intero impianto mi avesse fulminata. Quel momento fu eterno, anche se non me ne accorsi, incantata com'ero dall'immagine del suo cielo, fisso nel mio. Non riuscivo ad abbandonare i suoi occhi, forse per sfida, per forza, per delusione. O forse era il Gin-Lemon, mischiato ai bicchieri di Pampero ed alla bottiglia di Martini. Quando la magia si interruppe, riportandoci alle officine ed al bruciore di stomaco, notai che il suo volto era turbato, quasi fosse stato colto con le mani

nel sacco a compiere qualcosa di sbagliato. Vedevo i suoi occhi spalancati, le braccia sulla difensiva ed il corpo teso come la corda di un violino. Mi presentò la ragazza, agitato, spacciandola come un'amica, un'amica che si sarebbe probabilmente scopato da lì a qualche ora. Senza esitare, porsi la mano destra per incontrare la sua, piccola e delicata come quella di una bambina. Potei sentire i suoi anelli d'argento, gelidi, sul palmo della mano e la presa lieve, quasi inesistente. Non era facile scegliere cosa fare in quel momento: se muovermi, in direzione di Alessandra o rimanere ferma, aspettando che Mat fe qualcosa. Non l'avevo mai visto con una ragazza e l'idea che potesse portarsela a letto quella sera stessa, mi lasciava perplessa, disturbata, tanto che cominciai a setacciare il cervello alla ricerca di qualche frase tagliente, da lanciare prima di alzare i tacchi. Le nostre bocche, serrate come cerniere, lasciavano agli occhi la possibilità di comunicare senza barriere emotive, cosicché ci ritrovammo in breve tempo, immersi in un imbarazzo colossale, talmente palpabile da poterlo tagliare a dadini. La ragazza, di cui non ricordo il nome, istigava gli sguardi di Mat muovendo il corpo al ritmo della musica, saltando ed ondeggiando le braccia. Lui guardava me ed io guardavo lui, con gli occhi supervisori, ammonenti come quelli di una maestra. Non so perchè mi sentii delusa, quasi tradita, da colui che consideravo come un fratello, una spalla su cui versare le lacrime della vita. E percepii il suo senso di colpa emergere dall'animo come un'esalazione, quando, incrociando i pugni, diresse il suo sguardo altrove, verso il basso. Ci sentivamo in colpa e traditi per qualcosa che, in realtà, non aveva senso d'esistere, schiacciato dalla consuetudine di un'amicizia che non avrebbe dovuto lasciare spazio al resto. Sospirai, sorridendo, appiattendo le labbra come fa una vittima, impotente verso ciò che l'ha resa tale, sorretta, tuttavia, dalla forza del cancro che ridimensionava il tutto, facendolo apparire come un episodio privo di sostanza. – Ci sentiamo – dissi a Mat, dandogli un bacio sulla guancia – Divertiti Lo sentii bofonchiare qualcosa, ma finsi di non sentire e mi diressi verso Ale, ancora accasciata sul divanetto.

– Pensi di potercela fare a tornare a casa? - le chiesi, scrollandola. – Non lo so, Am, in ogni caso c'è Stefano da qualche parte. Se devi andare, vai pure – Mi dispiace lasciarti qui, però me ne voglio andare – sorrisi – Questa musica mi trivella i timpani Ale sorrise, cercando di rimettersi in piedi: sembrava appena uscita da un manicomio. La canotta, strappata, era imbevuta di Gin-Lemon e solo Dio sa cos'altro, i capelli erano arruffati come la lana delle pecore prima di essere tosate ed il trucco, scivolato sotto le palpebre, la faceva sembrare una dannata. Però era lei, la mia Ale e non l'avrei cambiata per nulla al mondo. – Sei innamorata di lui. Vivresti molto meglio se lo accettassi – disse, asciugandosi la bocca. Io la guardai, inarcando le sopracciglia e chiedendole per quale assurdo motivo continuasse a portare avanti una tesi ormai smentita da tempo. – Perchè è evidente, Am. Solo che a te, le cose evidenti, non piacciono. Tu vuoi le cose nascoste, quelle che devono essere scovate. E neppure quando sono lì, alla luce del sole, riesci a vederle. Tu lo ami. Guarda come hai reagito stasera. – Sono ubriaca Ale, non c'è niente di serio in tutto questo – Come vuoi, Am – disse – Allora rimani qui, guardati intorno. Perchè devi scappare? Vuoi fare la tua bella uscita di scena? Falla. Tanto questa cosa ti seguirà comunque Rimasi a guardarla, senza trovare la forza per ribattere. Ero stanca, avvilita dall'alcol, ed i ricordi cominciavano ad assalirmi come una squadriglia impazzita. Per l'ennesima volta mi resi conto di quanto quelle ore, trascorse fuori casa, fossero state inutili e prive di risultati. Che cazzo ci facevo lì, sbigottita dalla musica, quando mia madre, a casa, era in preda all'ansia, sul ciglio della porta? Come cavolo pensavo di sentirmi, se non riuscivo più a riconoscere la vita che era stata mia fino a pochi mesi prima?

Alzai i tacchi, senza dare risposta e mi diressi alla macchina, correndo a più non posso. Quando mi misi a letto e percepii il calore di mia madre, mi sentii in pace, come se tutti i miei istinti si fossero sedati automaticamente. Sentii le coperte ruvide sfiorarmi i piedi freddi e mi sentii protetta, come se qualcosa mi stesse avvolgendo in un morbido abbraccio. Odorai il profumo della lenzuola pulite e dell'ammorbidente alla lavanda: lo ascoltai incontrare i miei sogni e confondersi con essi. Guardai il telefono: “Non ci sono andato, Am. Ti abbraccio, Mat.”

6

Quando il cancro incontra la tua strada, puoi scordare senza esitazioni il significato di dignità. Come un dittatore seppellisce il corpo di un suddito con soprusi e privazioni, così fa il cancro, facendoti dimenticare l'uomo che eri prima che lui arrivasse. Diventi una marionetta, mossa da una mano che non puoi vedere e sulla quale non puoi importi. Mio padre, la dignità, l'aveva persa quando aveva cominciato a farsi la pipì addosso e non riconosceva che quel liquido caldo che gli scivolava sulle braghe proveniva dal suo stesso corpo. Ancora intorpidito dal sonno, si alzava d'improvviso, spostava le tende della porta-finestra e la faceva lì, sul pavimento. Quando sentivo il ticchettio dell'urina battere sulle piastrelle, mi fiondavo fulminea, ma era sempre troppo tardi. Lui alzava lo sguardo, indifeso ed estraniato, come se fosse una cosa normale farsi la pipì addosso. Non capiva, era ritornato indietro di cinquant'anni e, come un bambino, sorrideva, inconsapevole di ciò che aveva appena fatto. Così, fra un dimenarsi di risate senza senso, lo spogliavo, solleticandogli la pelle secca e gli mettevo un altro paio di mutande. Lo facevo alzare, sorreggendolo fino al divano della cucina. Quando era sistemato e comodo, gli preparavo il tè alla pesca che tanto gli piaceva e gli portavo le fette biscottate, quelle coi bordi dorati e scuri. Delle volte le inzuppava talmente tanto che, quando le estraeva dal tè bollente, quelle si sgretolavano, cadendo nella tazza. Io sorridevo, ma vedevo la difficoltà con cui, dopo decine di tentativi, riusciva a ritirarle fuori col cucchiaino. Le sue dita, fragili, faticavano a rispondere ai comandi inviati dal cervello, rosicchiato dal cancro; sembravano cilindri di gelatina, completamente incapaci di mantenere la presa. Spesso la forchetta gli scivolava e gli cadeva nel piatto, facendo schizzare tutta la pietanza: in quel momento, in cui forse si rendeva conto di aver fatto qualcosa d'insensato, alzava la testa, mi guardava circospetto e si metteva a ridere, forse addirittura burlandosi di se stesso.

La verità è che non ero in grado di decifrare il suo nuovo modo di comunicare con noi, non sapevo mai se era cosciente di ciò che stava accadendo o se il torpore in cui l'oligoastrocitoma lo lasciava, lo rendeva incapace di afferrare le parole, i gesti, i movimenti della vita che lo circondava. Il cancro al cervello è un subdolo dittatore: è talmente asintomatico che, spesso, non riesci ad accorgerti della sua presenza fin quando diventa incurabile ed è quindi troppo tardi. La logica dei discorsi si perdeva nel nulla, soppiantata da concetti che decentravano completamente dal resto del ragionamento. Sovente, era impossibile comprendere se parlasse di tennis o di lavoro: le nozioni si stemperavano, si sommavano a proposizioni che si ripetevano continuamente. Era diventato monotono, come se la memoria si fosse necrotizzata. A volte, quando, seduti sul divano, lo guardavo e gli dicevo che ero sua figlia, lui spalancava gli occhi, atterrito e mi diceva: – No, sul serio? Non dirmi così Eppure, io ero convinta che lui sapesse chi ero, che ero il suo amore, solo che in quel momento, forse non lo ricordava. Quando chiedevo ai medici una spiegazione, loro, sbuffando, mi dicevano che era il cancro che stava invadendo il lobo temporale del cervello, provocando lentezza, difficoltà di linguaggio e problemi nell'articolazione e comprensione dei discorsi; che non potevamo fare nulla, se non sperare che la chemio fermasse l'avanzare delle cellule maligne. Il punto è che quando pensi, ti muovi, ricordi, parli e comprendi ciò che il tuo interlocutore ti sta dicendo, stai facendo qualcosa di normale, qualcosa che hai imparato quando eri piccolo. È talmente naturale ed assodato il fatto di saper mettere insieme suoni che, svegliarsi un giorno e non saperlo più fare, ti sembra impossibile. Mio padre era convinto che “foglia” si scrivesse tangiglia, che di per sè non ha nessun significato. Eppure, per lui, quell'insieme di lettere stava a significare proprio quello. Per allenare le cellule cerebrali, ogni mattina, prendevo un foglio di carta, ci disegnavo sopra degli oggetti e glielo porgevo, ordinandogli di scrivere, sotto ogni raffigurazione, il suo nome in italiano. Delle volte tirava fuori degli strafalcioni così spropositati che, trattenere le risate era infattibile. Ed io mi contorcevo perchè era bello vederlo sorridere, malgrado la sua condizione fosse sempre più disastrosa.

L'ultima volta che aveva scritto qualcosa di sensato ci trovavamo all'ospedale. Era una visita di controllo, di quelle che facevamo ogni due settimane, per accertarci che la chemio non alterasse i valori del sangue e delle cellule epatiche. Avevo sempre così tanta paura. Quando vedevo i camici bianchi e sentivo l'odore del linoleum che ricopriva i corridoi, il cuore mi si comprimeva come una spugna, quando la strizzi forte per farne uscire l'acqua rimasta. Ci eravamo seduti di fronte ai medici come tre alunni impauriti che devono sostenere un'esame di cui non hanno letto neppure una pagina. Ed il colpo più forte l'avevo avuto guardando mio padre, totalmente assente e perso nel suo mondo immaginario, così lontano ed indifeso, schiacciato dal potere di un responso che nessuno di noi poteva falsare. Quel giorno, dopo aver esaminato una pilata di cartelle cliniche ed esami del sangue, i medici gli avevano porto un foglio volante, chiedendogli di scrivere la prima cosa che gli fosse ata per la testa. Ricordo che mio padre li aveva guardati sorridendo, aveva arrancato la biro e, con fatica, aveva scarabocchiato tre parole: “VI VOGLIO BENE”. Posando la penna, aveva rivolto lo sguardo verso me e mia madre, con gli occhi più lucidi che avessi mai visto. In quel momento, l'intera stanza fu invasa da un'energia cosmica paragonabile a quella di un big-bang; la sentivo posarsi sulle spalle come lapilli che lanciati per aria, cadono verso il basso, sedimentandosi sul terreno. Quella fu l'ultima frase logica che scrisse e forse l'unica volta che sentii l'amore che provava per noi, nascosto per anni dietro le barriere dello stress e dell'abitudine. Curvai il viso verso il basso, cercando di trattenere le lacrime che, malgrado, scorrevano veloci, cadendo sul pavimento. Fu uno dei momenti più intensi della mia vita, di quelli che farciscono il tempo e lo spazio rimasto vuoto per anni. Di quelli che prendi, ritagli, e tieni nascosti nel cuore e che ti salvano quando il dolore è troppo ingente da sopportare. Ecco, io ho perso mio padre dopo ventidue anni d'incomprensioni e sei mesi di amore, ma sono convinta che quei sei mesi siano stati sufficienti per riempirmi una vita.

Ed a conti fatti, devo ringraziare il cancro per avermi dato la possibilità di amare mio padre, forse più di quanto possa fare una figlia normale, abituata alla sua presenza ogni giorno della sua vita. La verità è che le cose importanti ci sfuggono di mano come acqua corrente e siamo in grado di acciuffarle e darle il valore che meritano solo quando siamo in prossimità della loro perdita. Nella vita cerchiamo il tutto: desideriamo che ogni cosa sia completa, perfetta, ambiamo a questo perché credo sia lo scopo per il quale l'uomo esiste. È il nostro fine, il punto fermo delle nostre giornate, la meta che spesso consideriamo soltanto una chimera irraggiungibile. Ed invece è tutto lì, accanto alle nostre mani, davanti ai nostri occhi; con la sua semplicità ci sussurra la sua esistenza. E noi, solo uomini, non siamo in grado di capirlo. Ci scoraggiamo di fronte ad una piccola imperfezione, ci facciamo domande a cui non possiamo dare risposte: domande che, spesso, neppure ce l'hanno una risposta. Non abbiamo pazienza. Sappiamo che la vita è troppo corta per poterla sprecare a cercare qualcosa, ma non abbiamo tempo per aspettare. Ed invece è tutto lì, nel silenzio di una notte, nelle stelle che stanno a guardarci trasmettendoci la loro luce, in una macchina da aggiustare che perde i pezzi per strada. Ci sembra poco. Eppure è tutto. In una carezza, cercata e desiderata: in un tocco di mani che giunge quando meno te lo aspetti. Nell'odore della sua pelle che puoi annusare, in quello del balsamo dei suoi capelli o in quello dei suoi indumenti. Non c'è altro. Non ci sono compromessi o accordi da rispettare: c'è il volto di un uomo e quello della sua bambina che si guardano. C'è l'universo in quello sguardo. E basta, fidatevi che basta. Non ho mai permesso che la comione m'invadesse e mi atterrasse: mio padre aveva bisogno di tutta la mia energia, dato che lui non ne disponeva abbastanza. Non era facile però, soprattutto quando lo vedevo fermo davanti ad un foglio di carta, incapace di scrivere il proprio nome. Lo scrutavo coi pungi serrati e la biro fra le dita e gli dicevo “Papà, scrivi Lorenzo!” e lui mi guardava, non sapendo quello che doveva fare. È in questi momenti che il cancro ti fa perdere la dignità, quando t'impedisce di compiere le operazioni basilari di cui qualsiasi uomo è capace in quanto uomo,

essere umano. Quando, alzandoti al mattino, non riconosci che quell'aggeggio di plastica con le spatole in punta, appoggiato al lavandino, ti serve per lavarti i denti; quando non sai più farti la barba, ma non perchè le articolazioni sono deboli e le dita non tengono la presa, ma perchè non ti capaciti di un rasoio che si muove sulle tue guance. Lo scruti, indagandone i particolari e ti chiedi a che cazzo serve quella roba con una lama tagliente all'estremità. Ogni mattina, mi catapultavo nel letto matrimoniale dove mio padre dormiva, lo svegliavo a suon di baci schioppettanti e gli facevo la barba, coprendogli la pelle di crema idratante, di modo che non si seccasse. Gli massaggiavo le tempie e gli occhi vacui, lo profumavo e gli lavavo le ascelle. Lui rideva, soprattutto quando, con la spugna gelida, lo solleticavo lungo il torace. Non mi arrabbiavo mai con lui, per quanto difficoltoso fosse trasformarsi da figlia in madre, ogni giorno, per di più con un padre di cui conoscevo poco, in realtà. Il nostro rapporto aveva sempre rimbalzato tra scontri acuti, cosparsi di critiche e rivendicazioni, e pomeriggi d'amore intenso, dove la sintonia era talmente forte che slacciarsi diventava difficile. La maggior parte delle volte, le litigate terminavano con me che alzavo i tacchi e lui che mi rincorreva, dandomi della codarda. Io mi chiudevo in camera e piangevo, ferita dalle sue parole che erano sempre troppo taglienti, per la mia sensibilità. Tuttavia, se dopo cinque minuti, capitava che ci ritrovassimo nella stessa stanza, la reazione più spontanea si esauriva in una fragorosa risata, con la quale cancellavamo automaticamente tutte le ingiurie che c'eravamo lanciati. Eravamo l'uno la fotocopia dell'altra, ma io non lo sapevo, o forse, non volevo ammettere di essere così simile ad un padre che mi aveva accarezzata troppe poche volte. Eppure, la vicinanza dei nostri corpi, spesso, era talmente in accordo che sembravamo davvero un'unica entità. Per non parlare dei pomeriggi trascorsi con Mat: se mio padre stava bene e non era stressato dal lavoro o dal tennis, eravamo un trio formidabile. Dopo quel sabato lasciai are qualche giorno, prima di rispondere alle sue chiamate. Non che fossi delusa o amareggiata, ma l'idea che potesse interrogarmi sulla serata, mi faceva tentennare più del dovuto. Non c'erano particolari

spiegazioni che potessero giustificare il mio blocco o il pallore del mio viso: quando la quantità di alcol ingerito è abbastanza elevata, tutto diventa improvvisamente smisurato e prendere un abbaglio è fin troppo semplice. L'idea di possesso verso Mat c'era e non potevo negarlo, ma da qui a parlare di innamoramento, ne ava. Quando ò a trovarmi, qualche sera dopo, notai che il senso di colpa aveva scolpito il suo viso per notti intere. Ormai sapevo riconoscere bene quello sguardo, lo vedevo negli occhi di tutti: era un concentrato di comione e vittimismo elevato all'ennesima potenza, amalgamato per bene alla stupidità che ero in grado di far provare a chiunque incrociasse le mie pupille. Lo accolsi in camera come avevo sempre fatto, offrendogli qualcosa da bere: erano gesti consueti eppure sentivo che l'atmosfera era diversa. Era farcita di pesantezza e di quell'imbarazzo che si cela sottopelle, quello che se ne và a tratti per comparire nei momenti più delicati. Parlammo del nuovo singolo di Lady Gaga e di qualche produttore sconosciuto che avrebbe dovuto incontrare di lì a qualche giorno. Ogni volta che cominciava un nuovo argomento sentivo che non era mai quello che avrebbe voluto davvero affrontare; glielo leggevo dentro, come fossi stata una cartomante. Quando percepii che l'atmosfera si era fatta troppo densa, allentai la presa, immergendomi nella questione con tutto l'ardore di cui ero capace: – Senti, è da quando sei arrivato che stiamo parlando di cose a cui nessuno dei due gliene frega un cazzo. Veniamo al dunque. Io ti chiedo scusa per l'altra sera – dissi – Ero decisamente su di giri e credo di essermi comportata male con la tua amica. Non voglio complicanze nel nostro rapporto. Siamo sempre stati bene, ci siamo sempre fatti i cazzi nostri, anche quando si trattava di altre relazioni … – Am – m'interruppe lui – Io non ho una relazione con lei – Ok, va bene, ma anche se fosse, non mi devi spiegazioni. Te ed io siamo sempre stati così, no? È da una vita che siamo liberi di fare ciò che consideriamo più logico – E non pensi che dovremmo parlare un po', invece? – E di cosa Mat? -

– Non so, dimmelo tu Io lo guardai, sbuffando, pentita di essermi addentrata in un argomento che non aveva vie di fuga, un argomento indecifrabile e che, in ogni caso, non avrebbe portato da nessuna parte. Io non sapevo stare senza Mat: nella mia vita Mat era ovunque. Era nelle piccole cose, di quando ti svegli al mattino e pensi che lo devi chiamare per raccontargli un sogno, prima che ti scappi dalla mente. Era nelle pilate di cartelle dattiloscritte che redigevo ogni giorno e gli inviavo per avere il suo parere. Era nei nachos messicani, quelli che ti servono al cinema con la salsa piccante e sei costretto a scolarti due litri d'acqua ed uscire di corsa dalla sala trascinandolo nel bagno perchè ti tenga la porta. Era nei film del giorno di Santo Stefano, quelli visti e rivisti, ma che continui a guardare ogni anno perchè ti sembra di ritornar bambina. Era nelle melodie che mi faceva ascoltare e nella saliva che mi sentivo sul collo dopo che l'avevamo fatto. Ma tutto questo non aveva nulla a che vedere con l'amore, no? – Mat, non lo so. Io non vedo niente di difficile – dissi – Credo che il nostro rapporto sia sempre andato divinamente e non vedo perchè dobbiamo modificarlo Scrutandolo, lo vidi retrocedere deluso dalla via che aveva intrapreso, muovendosi come un gambero alla ricerca di luoghi più sicuri, forse dell'unico posto in cui potevamo incontrarci senza troppi crucci o domande. Mi toccò le ginocchia, appoggiando la sua mano calda sulla mia pelle, raggelata da un contatto che non ero più abituata ad affrontare. Aprii gli occhi e lo guardai: – Penso che potremo fare uno strappo alla regola – mi disse, guardandomi come solo lui sapeva fare, con quegli occhi che avrebbero avvelenato chiunque e che io conoscevo come le mie tasche. Mi morsi la lingua, sorridendo. Socchiudendo gli occhi sentii le sue labbra che, tentennando sfioravano le mie. Le sentivo umide adagiarsi sulla mia pelle, in una sintonia divina, ammaliate da un desiderio rimasto represso per un tempo troppo lungo.

Mi lasciai trasportare dai suoi sospiri che mi trascinavano in una dimensione che solo noi sapevamo esistere. Ci spogliammo piano, come se non conoscessimo i nostri corpi, come se lui avesse paura di farmi male. Sentivo la sua lingua scorrere lenta sui miei seni, scivolare bramosa sul ventre. Le sue mani erano calde: mi stringevano le costole come tenaglie. La sua faccia affondava delicata nella mia carne, fra le mie labbra infuocate, solleticate da un groviglio di terminazioni nervose che bruciavano come miccie. Sentivo il peso del suo inguine sulle mie ossa ed il suo respiro affannoso che scottava come lava. Quello che mi piaceva di Mat era che lo sentivo che mi voleva, che in quel momento, se la sarebbe divorata la mia pelle. Ero ad un o dall'orgasmo, quando, improvvisamente, nella testa apparve l'immagine di mio padre, disteso nella bara. Vedevo il volto grigio, fermo, raggelato dal fermarsi della vita: un tempio distrutto dal cancro e dall'odore sgradevole. L'avevo sentito quando mi ero avvicinata per baciarlo, quell'odore. Esalava dalle narici fredde e mi si era conficcato nella pelle come avesse voluto etichettarla, macchiando i ricordi di un olezzo che sapeva di marcio, di farmaci. Era l'odore della morte, quello che ti rimane impresso nella memoria e non se ne và neppure con una vagonata di detergenti sgrassanti. Un odore che profanava il corpo di mio padre ormai inerme, disteso in una scatola di legno con i vestiti del giorno del matrimonio. Era pulito; non c'era una ruga su quel viso che di segni espressivi ne aveva sempre avuti tanti. Le mani, incrociate sul petto, erano immobili e gelide come ghiaccio. Avevo fatto fatica a staccargli le dita, così dure da sembrare bastoncini di metallo. Conscia che quell'immagine mi avrebbe accompagnata per tutta la vita, mi ero armata di coraggio e l'avevo baciato sulla fronte, sapendo che, se non l'avessi fatto, me ne sarei pentita per il resto dei giorni che avevo da vivere. Erano tante le immagini che mi tornavano alla mente: spesso riuscivo a scacciarle via, ma altrettanto spesso mi lasciavo catturare senza opporre resistenza.

Improvvisamente diventai immobile, come un tronco d'albero senza linfa, talmente asciutta che Mat faceva fatica ad entrare. Avrei voluto che almeno lui finisse, ma il mio corpo era diventato come un manichino. – Vai in bagno, Mat – dissi – Non ce la faccio Lo spinsi via dal mio corpo come un gatto fa con le proprie pulci, grattandosi la pelle con delle falcate talmente forti da staccarne i peli. Lo vidi stendersi spasmotico sulle lenzuola stropicciate e finire mentre io mi tenevo la testa fra le mani, concentrata a distruggere le immagini che continuavano a bruciarmi il cervello. Senza dargli retta mi catapultai in bagno e vomitai tutto quello che avevo nello stomaco, dal toast al prosciutto del pomeriggio alle verdure lesse della cena, perfettamente amalgamate al poco alcol appena ingerito. Mentre espellevo l'impossibile dalle interiora, pensai a mia madre: per l'ennesima volta mi chiesi come cazzo avremmo fatto a superare tutta quella merda se non riuscivo nemmeno più a fare sesso, l'unica cosa che sapevo fare bene, oltre a scrivere. Pensai alla mia vita rasa al suolo ed al perpetuasi di serate prive di significato, le une uguali alle altre. Vidi mia madre sola, nel letto: la vidi sola in macchina, la domenica pomeriggio, il giorno di Natale e quello del suo compleanno. Sentii lo stomaco contorcersi come carta alluminio: mi faceva un male che non potevo descrivere e non era solo il bruciore dei succhi gastrici nell'esofago. Era di più, era un ulcera che si faceva varco fra i villi dell'intestino tenue e li disintegrava tutti, come una fiamma ossidrica. Quando sentii bussare alla porta, pensai fosse mia madre e cercai di trattenere gli spasmi, bofonchiando che andava tutto bene e di ritornare a letto. Dopo pochi attimi, Matteo entrò in bagno, pallido e spaventato, per niente disgustato dalla scena di me, nuda, china sul water e con la bocca sporca di vomito. Si accucciò accanto a me, prese un po' di carta igienica e me la ò sulle labbra, pulendomi. Quando finalmente riuscii a guardarlo senza vergogna, mi accorsi che era rimasto senza vestiti e che, malgrado l'accaduto, nei suoi occhi non c'era il minimo segno di comione. Mi osservava con le pupille fisse, aspettando che i conati cessassero e nel frattempo, mi stringeva la mano, incurante della puzza e

del viscidume delle mie dita. Piansi, come non facevo da tempo, contorcendomi sulla sua pelle calda ed aggrappandomici come se stessi per cadere da un precipizio e quello fosse l'unico appiglio di cui disponevo. I singhiozzi erano assordanti e le lacrime scivolavano sul petto di Mat come cascate torrenziali. Davanti alla mia mente s'intagliavano mille ricordi, talmente nitidi da poterli toccare. Pensavo al sorriso di mio padre, così colmo di vita, spento da un cancro che l'aveva ucciso troppo presto, derubandolo di ancora troppe gioie. Pensai al suo volto giallo, pochi istanti dopo la sua morte, disidratato e stanco. Pensai al carrello che l'avrebbe condotto nella cella frigorifera ed al suo aggio silenzioso lungo il corridoio del reparto a cui io mi ero rifiutata di assistere. Pensai che era morto nudo, proprio come eravamo nudi Mat ed io, in quel momento. I ricordi sono come lame, taglienti ed affilati: t'incidono la pelle con solchi profondi e di quelle cicatrici non ti liberi mai. E sanguinano continuamente perchè neppure il tempo è in grado di rimarginarle. Rimangono a fior di pelle, senza dare fastidio e cominciano a dolerti quando meno te l'aspetti. Quando Mat se ne andò, con gli occhi rossi ed il volto martirizzato, mi sentii vuota, come se il suo calore, per un attimo, mi avesse riempito lo stomaco. Mi sentii stupida, anche se avevo tutte le giustificazioni del mondo per aver fatto flop. Avrei voluto premere il tasto “rewind” e tornare indietro, cancellare i miei pensieri che tanto non avrebbero cambiato la situazione e lasciarmi andare ad un momento di pace, almeno per un po'. Pensai a Mat ed al suo dolore, quello represso, quello che non voleva mai farmi vedere, ma che io scorgevo in momenti come quelli, quando quasi si costringeva a starmi accanto, nonostante la sofferenza. Pensai al giorno in cui gli avevo telefonato per dirgli che papà se n'era andato e l'avevo sentito piangere ed urlare dall'altro capo del telefono come un ossesso, senza darsi pace. Me lo immaginavo guidare la sua Audi, nel silenzio della notte, sfrecciando a più non posso ed incurante dei semafori rossi. Osservavo i contorni del suo

profilo, la sua espressione pensierosa e le sue lacrime che, piano, scendevano lungo le labbra. Lo cercai tutta la notte, nel letto, stringendo mia madre e pensando che fosse il suo corpo caldo a starmi accanto.

7

Le lezioni del dott. Mirabella erano sempre le più seguite. Se perdevo il tram ed arrivavo in aula anche soltanto con dieci minuti di ritardo, mi era praticamente impossibile prendere posto. La prima volta che avevo assistito alle sue lezioni avevo pensato che l'iperaffollamento fosse dovuto al fatto che si trattava della prima lezione e che gli studenti fossero venuti esclusivamente per prendere nota dei volumi oggetto d'esame. Tuttavia, avevo dovuto ricredermi molto presto, data la quantità di gente presente ad ogni sua lezione. Alcuni dicevano che i suoi esami erano talmente difficili che la maggior parte dei presenti erano studenti del quarto e quinto anno che ancora non erano riusciti a superare i suoi appelli. Eppure non potevo credere che un uomo così autoironico e gentile potesse essere un'infame e porgere quesiti così irrisolvibili. Facendomi largo tra la folla, mi sedetti nel posto che Giulia e Martina mi avevano riservato, nella parte centrale della scalinata. Era lunedì mattina ed i loro discorsi erano avidamente focalizzati sul week-end appena trascorso, sulla pizzata del sabato sera e sull'aperitivo della domenica, rigorosamente finito nella totale sobrietà di ogni settimana. Ogni volta che le ascoltavo, improvvisamente mi ritornava alla mente tutta quella pilata di motivi per cui avevo felicemente deciso di rimanere single. Mi bastava addentrarmi per qualche attimo nei loro discorsi per convincermi di quanto la mia scelta fosse stata azzeccata. Ogni fine settimana era sempre la stessa storia: il venerdì semi-alcolico, la cena della trattoria il sabato sera e l'aperitivo sofisticato della domenica. Qualche volta il cinema ed i grandi centri commerciali, sempre super affollati, un po' come le lezioni di Mirabella. Le vedevo sfogliare pigre il volume di Letteratura, come se le sue pagine pesassero macigni e mi chiedevo, in effetti, come avessi fatto a stringere

amicizia con loro, soprattutto con una come Giulia. Prima che la lezione iniziasse, il dott. Mirabella ci aggiornò sui termini di scadenza per la consegna del manoscritto, posticipando di due giorni la data che ci aveva precedentemente annunciato. – L'ateneo ha deciso di scioperare proprio nei giorni in cui era fissata la premiazione del manoscritto vincitore – disse a gran voce – Così abbiamo pensato di concedervi qualche ora in più per rivedere le vostre creazioni Dal tono della sua voce ben si capiva che questa storia dello sciopero non gli andava così perfettamente a genio. A sentir dire, doveva essere un gran lavoratore e tutti questi tempi morti non dovevano far troppo parte del suo credo. In ogni caso, sembrava contento di concederci qualche possibilità in più. – E mi raccomando, ragazzi, non mi fate vergognare di questa nuova generazione Vergognare io? Assolutamente. Stavo dedicando tutta me stessa a quella storia, rinunciando ai sabati alcolici con Alessandra o allo shopping frenetico del venerdì pomeriggio. Che poi, a dire la verità, nemmeno m'importava più di quelle cose. Per stare accucciata nel letto a scrivere non avevo bisogno che di pigiami e qualche maglia un po' più spessa per la notte inoltrata. E per ciò che riguardava l'alcool, facevo abbondante scorta di Martini ad inizio settimana e non avevo bisogno del sabato sera per intorpidirmi. Era sufficiente un bicchiere di Vermut a stomaco vuoto, prima di cominciare a scrivere, per sentirmi già un po' su di giri. Avevo cominciato a far prendere a Giada un paio di psicofarmaci al giorno, non so perchè. Ormai mi ero convinta dell'idea che non ce l'avrebbe fatta a superare da sola l'accaduto. Così, l'avevo spedita da un medico e l'avevo fatta raccontare dei suoi continui attacchi di panico, quelli dove il cuore le partiva a mille e non sapeva come controllare, spaventandosi ancora di più. La sorprendevano di notte quando, sola, si apprestava a cucinare qualcosa da mettere sotto i denti. Iniziavano con una sorta di ansia, dapprima lieve poi sempre più ardente, tanto che il battito le aumentava a livello esponenziale nel giro di pochi attimi. L'attacco di panico era talmente forte che, Giada, era costretta ad uscire sul

balcone per cercare di riprendere a respirare correttamente. Dopo il perpetuarsi di serate come quelle, si era decisa a chiedere aiuto. Ero arrivata ad un punto in cui non sapevo se far degenerare le cose oppure salvarla, anche se, la maggior parte delle volte l'istinto di distruzione prendeva il sopravvento. Ma forse perchè, in fin dei conti, quella Giada era la parte più celata di me che, nonostante le apparenze, soffriva come una pazza e non sapeva come comunicarlo al mondo. Almeno, la protagonista del mio romanzo, aveva trovato il coraggio di ammettere che non stava bene. Io no. Io stavo benissimo. Stefano, ormai, era sparito nel nulla, troppo infantile per affrontare la situazione e prenderne le redini. Si erano visti una sera, poco tempo dopo l'ultima telefonata di Giada in preda ad uno dei suoi consueti attacchi di panico. Era stato Stefano a consigliarle di farsi curare e, dopo tante delusioni, forse quello era stato il primo gesto d'affetto che s'era preoccupato d'avere. Lui era ato a trovarla a casa, avevano chiacchierato e bevuto un paio di birre. La distanza di Stefano era così palpabile che anche soltanto una carezza sulla guancia sembrava inappropriata. Giada avrebbe voluto abbracciarlo, dirgli che forse non ce la faceva senza di lui, ma la distanza fra i loro corpi era troppo vasta e la spaventava a morte. Più di ogni altra cosa, Giada era terrorizzata da un suo eventuale rifiuto, da ipotetici gesti che l'avrebbero resa conscia che la loro storia non esisteva più. Se n'era andata insieme a suo padre, così, senza che potesse accorgersene e tentare di recuperare. Stefano, l'amante dalle mille e una notte, sembrava ormai un amico di vecchia data, anche se erano ate solo alcune settimane. Fu quando Stefano chiuse la porta dietro di sé che Giada si convinse a chiedere aiuto, paralizzata dal suo saluto apatico e privo di amore. Prese pc, lo accese e cercò sulla guida telefonica online l'elenco degli psicologi più vicini. Scandagliò le loro recensioni come un'ossessa, cercando di capire se uno di loro aveva qualche specializzazione particolare nelle conseguenze post-morte. Ne aveva

trovato uno poco lontano da casa ed il giorno dopo, senza neppure prendere appuntamento si era presentata allo studio così, neanche sapendo cosa dire. Si era seduta sulla poltrona ed impacciata aveva cominciato dalle piccole cose, dal rapporto contorto con il padre, difficoltoso, che si era poi riversato nel rapporto con Stefano, degli attacchi di panico, della morte. Quando sentiva che stava per piangere si fermava, ingoiava la saliva che le si era formata in bocca ed aspettava che l'emozione asse. Non voleva piangere, si vergognava. Dopo un paio di sedute si era sentita subito meglio, o forse erano le pasticche che ingurgitava di continuo a renderla un po' più serena. Quando ingoiava quelle capsule si sentiva leggera e tutto le sembrava roseo e profumato: era consapevole di assumere una sottospecie di droga, ma non le importava. Se per stare bene doveva essere additata come una drogata, tanto meglio. Le piaceva crogiolarsi in quel torpore, un po' come facevo io la sera, quando scolavo il solito bicchiere di Martini, anche se il mio poteva definirsi più un rituale che una cura. Durante la sera i miei pensieri spaziavano, si spalmavano sulla tastiera del pc come cera calda e, sempre più spesso, si trasformavano in frasi che andavano a costruire la mia storia. Accadeva spesso che mi spaventassi quando rileggevo i periodi perchè il dolore di Giada era forte, era palpabile. Lei era in bilico, sull'orlo del precipizio. E l'idea che fossi io quella lì, che vacillava davvero sul filo del rasoio, mi terrorizzava. Avevo paura di scoppiare come una bomba a mano, di cadere in depressione e di non sapermi più riprendere. Se osservavo la mia vita da fuori, potevo dire con estrema franchezza di essere depressa. Uscivo poco, se non per andare all'università o bermi un drink con Alessandra nel bar sotto casa. Non andavo a ballare da settimane e da mesi non mi sentivo più una donna desiderabile. Non ero nemmeno più in grado di scoparmi il mio migliore amico. Ma non m'importava particolarmente. Il cancro ti da la forza per affrontare cose come queste, anche perchè ti fa sentire potente, ti fa sentire dura come la roccia. Forse è anche questo che lentamete ti porta verso il baratro, la convinzione di essere una dura, di non aver bisogno di “certe cose”. In realtà se avessi ammesso a me stessa di averne bisogno come qualsiasi altra ragazza di ventidue anni, non avrei avuto bisogno del Martini tutte le sere.

Mi giustificavo con il manoscritto, con il grande sogno della mia vita a cui volevo dedicare tutto il tempo che avevo a disposizione. Rimandavo le uscite perchè dovevo scrivere e questo non mi faceva sentire una depressa perchè non stavo facendo altro che costruire il mio futuro. Eppure erano tanti i momenti in cui mi fermavo e le dita parevano paralizzate. Rimanevano sospese sulla tastiera per ore, congelate da una spaventosa mancanza di idee. Ed erano quelli i momenti in cui avrei dovuto spegnere il pc ed uscire, svagarmi. Delle volte mi chiudevo in camera a chiave, accendevo l'abat-jour e mettevo le cuffie. Nella penombra ballavo le musiche più disparate, saltavo, ammiccavo l'immagine di me riflessa nello specchio e m'immaginavo che tutti mi guardassero, stregati dalla mia presenza. Quando riaccendevo le luci e mi vedevo col volto sudato e paonazzo, mi sentivo stupida, spegnevo tutto ed andavo a coricarmi accanto a mia madre. E di serate così ce n'erano state tante, talmente tante che ormai era diventato un abituè. Sognavo ad occhi aperti il momento in cui avrei presentato il manoscritto, la rassegna ufficiale, la vincita, l'estate ata lontano da casa, in una città in cui non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me. Era la voglia di evadere che prendeva il sopravvento, la fuga straziante da qualcosa che, in fondo, non avevo accettato per niente. Ed ogni volta che pensavo a Roma, irrimediabilmente mi compariva davanti il volto di mia madre, la sua solitudine, la sua routine che si ripeteva incalzate, altalenata dal lavoro e dalle pulizie di casa. Una sera, straziata da tutto questo decisi di portarla fuori a cena, in una nuova pizzeria che avevano aperto nel paese vicino. Era un locale sobrio, ricavato da una piccola cantina ristrutturata a dovere. C'erano i mattoni a vista e le arcate in legno smaltato. I tavoli erano disposti in modo disordinato, ricoperti da tovaglie in tessuto color paglierino e posate nuove di zecca. Era un ambiente famigliare, caldo, di quelli che ti ricordano i pranzi coi parenti. Appena mi sedetti, mi resi conto subito che sarebbe stata una serata all'insegna della malinconia e dei ricordi: guardavo il viso di mia madre, apparentemente

tranquillo, mentre il mio stomaco si aggrovigliava duro, come un contorsionista del circo. Ero seduta sulla sedia come se avessi avuto centinaia di chiodi piantati contro le natiche, con le antenne dritte, attenta a smantellare in tronco qualsiasi situazione compromettente che avrebbe potuto portare al ricordo di papà. Ordinammo un paio di pizze coi pomodorini pachino e la mozzarella di bufala: la pasta era soffice, di quella con le bolle, che quando l'azzanni ti basta un morso piccolissimo per avere la bocca completamente piena. Era buona. La sentivo gustosa sotto i denti, impastata alla freschezza dei pomodorini crudi ed alla mozzarella di bufala. Mia madre era serena, parlava in continuazione di cose generiche, ma sembrava spensierata. Mi chiese del manoscritto, dell'università. Mi diede il tempo di ripulire il piatto prima di chiedermi cosa fosse successo qualche sera prima, con Mat. Rimasi di sasso perchè ero convinta che non c'avesse minimamente sentiti. – Niente mamma – risposi – Non mi sono sentita bene, credo che sia stato il pollo al curry che avevo mangiato a pranzo Mi mia madre mi guardò come tutte le mamme guardano i propri figli, come se fossero nella loro testa e sapessero perfettamente che stanno mentendo. Non la sopportavo quando faceva così, quando le sue espressioni si delineavano in modo tale da farmi sentire una stupida, come se sapesse le cose ancora prima che le sapessi io. Di Mat aveva sempre pensato che mi usasse, che fossi il suo tempio personale sul quale sfogare i propri desideri fisici. Non le era mai ato per la mente che magari fossi io ad usare lui. Forse, per una madre, pensare che la propria figlia sia legata al sesso più di quanto possa esserlo un uomo, non è il massimo dell'aspirazione. Invece, prima della morte di papà, il sesso per me era sempre stato qualcosa di necessario, qualcosa che prescindeva da tutti gli altri bisogni. Non ero in grado di vedere un appuntamento con un uomo senza il sesso, che fosse una cena romantica o al Mc Donald o semplicemente un uscita pomeridiana. Facevo sesso con tutto il corpo ed ogni volta che guardavo negli occhi un uomo. Mat era stato l'educatore, il compagno col quale sperimentare le idee che mi venivano in mente quotidianamente, perchè dedicavo al sesso almeno il 50% dei

miei pensieri. Con Mat ero addirittura riuscita a superare un sacco di barriere, fisiche, emotive ed un sacco di tabù. Ma queste cose mia madre non le sapeva, ovviamente. O meglio, sapeva che ogni tanto facevamo sesso, ma probabilmente credeva che fossi io la vittima, la ragazza ingenua che si faceva abbindolare dal suo migliore amico: – Non è successo granché, mamma – dissi bevendo l'ultimo sorso di birra – Da quando è morto papà non riesco più a fare certe cose Non avevo voglia di entrare nuovamente in merito, di scandagliare, ripercorrere sempre la stessa strada contorta che poi, irrimediabilmente mi portava alle lacrime o ci portava mia madre. Non ce la facevo a vedere i suoi occhi gonfiarsi e diventare così rossi che parevano voler esplodere da un momento all'altro. Era mia madre, ed ogni volta che la vedevo piangere mi si stringeva lo stomaco e venivo investita da valanga di pugni che mi lasciavano con la pelle tumefatta e me priva di forze. – E poi abbiamo discusso – ripresi – Tutto lì. Ma è tutto ok. In questo momento m'interessa relativamente, a dire la verità. Voglio finire il mio libro Avrei voluto raccontare a mia madre qualcosa di divertente, ma a pensarci bene, non c'era niente di divertente nella mia vita. Avrei voluto farla ridere raccontandole di quella volta che, inciampandomi alla fermata dell'autobus, avevo fatto sbellicare dalle risate tutti i anti ed i eggeri del veicolo. Oppure di quando mi ero rovesciata un'intera tazza di cioccolata calda nel bar più bello di Torino, scatenando le ingiurie dei camerieri. Avrei voluto raccontarle di qualche ragazzo stupido che faceva il cascamorto, come quel tipo che avevo conosciuto alla presentazione di un libro di filosofia e che mi aveva offerto un punch al mandarino ed un paio di biscotti al sesamo tirati fuori dalla tasca della giacca. Quando le avevo raccontato quell'aneddoto, una sera a cena, non aveva più smesso di ridere. Anche papà era rimasto attonito, chiedendosi cosa avessero nel cervello i ragazzi di oggi ed imprecando contro le nuove generazioni. Eppure, da quando papà era morto, di situazioni simili non ne erano più capitate. Niente più ruzzolamenti in pubblico, ragazzi ridicoli o figure imbarazzanti. Tutto

era ovattato da una coltre spessa chilometri, le mie azioni sfioravano la perfezione e tutto era diventato fermo, terribilmente noioso. Ed io continuavo a trincerarmi dietro la malata consapevolezza che di certe cose, non ne avevo più bisogno, come se significassero una mancanza di rispetto nei confronti di quella che era la situazione reale: io senza padre. – Perchè non vi chiarite tu e Mat? Sono anni che andate avanti così – disse mia madre ad un tratto – Dovreste parlare, spiegare i vostri sentimenti – Io non saprei che dire – dissi – Anche se tu hai sempre pensato il contrario, io non ne sono innamorata. Non m'interessa, mamma. Lasciammo il ristorante dopo un buon dolce al cioccolato ed un caffè. Ci incamminammo abbracciate verso la macchina. Sentivo mia madre serena, come se non fosse sorretta soltanto da me, ma ci fosse qualcun'altro a circondarle la schiena. Forse lei mio padre lo sentiva, molto più di quanto non lo sentissi io. O forse aveva semplicemente accettato con maggiore facilità quello che ci stava succedendo. Quando fummo a casa la lasciai addormentarsi e rimasi con gli occhi sgranati a guardare il telefono. Pensavo a Mat ed a tutte le volte che in quei giorni non gli avevo risposto, per vergogna, titubanza o semplice orgoglio. E le sue chiamate erano state tante, ai livelli di uno stolker. Ero immobile, come se i miei arti fossero di cemento armato, ma più avano i minuti più la voglia di chiamarlo prendeva il sopravvento. Andai in camera, alla ricerca di quel piccolo grammo d'erba che lo stesso Mat mi aveva lasciato qualche sera prima. Lo trovai pizzicato tra le pagine di un vecchio libro di matematica, da qualche parte nello scaffale e ne feci un piccolo spinello. Mi misi in balcone e dopo qualche nota, presi coraggio e composi il suo numero. Non so perchè fossi agitata. Sentivo lo stomaco aggrovigliarsi e contorcersi. Ero terrorizzata dal fatto che potesse non rispondermi oppure maltrattarmi e ne avrebbe avuto tutto il diritto. Il cellulare squillò a vuoto per qualche secondo e con tutta me stessa sperai che non fosse già andato a dormire. Quando rispose mi accorsi che non sapevo perchè lo stessi chiamando: arono alcuni attimi in cui la mia mente cercò irrimediabilmente di trovare una giustificazione che sembrava non esserci.

– Am? - disse lui – Am cosa c'è? Stai bene? Non sapevo cosa dire, ero ammutolita davanti ad una cornetta che scottava, mi ustionava le orecchie. Forse dovevo solo dirgli che avevo bisogno di lui e che era la verità. – Mat – dissi tremando – Puoi venire qui? – E' successo qualcosa? Dall'altro capo sentii quello che doveva essere il rumore di lenzuola che si sollevano e di piedi che si appoggiano a terra con forza, pronti a scattare. Mentre continuava a chiedermi se fosse accaduto qualcosa di grave, lo sentii prendere le scarpe ed allacciarsele, posizionando la cornetta tra l'orecchio e la spalla. Mi pareva di vederlo, magro, chino sul letto, nel cuore della notte. Mi sentii una merda quando attaccò dicendomi che tempo pochi minuti e sarebbe stato sotto casa. Mi sentii una merda perchè dopo una cinquantina di chiamate senza risposta, lui era corso all'istante, al primo squillo. Ed io, fatta sul balcone, cominciavo a chiedermi cosa significasse tutto questo. Perchè d'improvviso mi si era aperta una voragine nello stomaco ed avevo sentito l'irrefrenabile desiderio di riempirla di lui. Cominciai a togliermi la maglia del pigiama ed i calzini, restando praticamente in mutande. L'aria era calda e mi accarezzava la pelle come le mani di un uomo. I miei gesti erano lenti, le braccia molleggiavano come fossero caramelle di gelatina, tutto il mio corpo si muoveva come danzasse, intontito dallo spinello che ormai, era giunto alla fine. Non so cosa provò Mat quando, giunto sul balcone, si accorse che ero totalmente nuda, ma qualcosa lo fece desistere dal chiedermi nuovamente se stava andando tutto bene. – Sei fatta, vero? - mi chiese, addocchiando il posacenere. I suoi occhi cominciarono a brillare dentro i miei che erano fissi nei suoi, del tutto. Mi trascinai di fronte a lui e lo baciai. Prima piano, poi con forza. Fu il bacio più bello della mia vita, fino a quel momento. Forse era l'euforia dello spinello o forse il desiderio ardente di poter sentire di nuovo la carne calda

di qualcun altro sulla mia pelle. Non lo so. So che trascinai le sue mani dove ne sentivo il bisogno, in tutti gli angoli del mio corpo che erano rimasti inermi per mesi, ammuffiti, secchi come le foglie dell'autunno. Lo facemmo sul balcone, così, incuranti delle macchine che sfrecciavano lungo la strada e dei anti che si trascinavano sul marciapiede, chiacchierando e scimmiottando qualcosa sui nostri gemiti, spesso soffocati dalla nostra stessa pelle. La mia mente era annebbiata, completamente presa dal momento da essere quasi inconsistente, come se non fosse in grado di costruire il benchè minimo pensiero. Quando finimmo ero talmente stanca che Mat dovette rivestirmi e portarmi in camera, talmente poche erano le forze che mi erano rimaste, rosicchiate poi dall'erba dello spinello. Nel sonno, sentii Mat sussurrare qualcosa, prima di andarsene, ma non riuscii a capire esattamente le sue parole. La sua voce era calda, mi intiepidiva le orecchie e sapeva di quando ero piccola, quando sentivo le sue urla provenire dal giardino, mentre giocava con mio padre. Così, da che potevo scrivere, studiare leggere o semplicemente guardare il televisore, abbandonavo la scrivania per affacciarmi alla finestra. Li vedevo lanciarsi la palla gialla che avevamo comprato un pomeriggio, nel nuovo centro commerciale che avevano aperto nel paese vicino. Li guardavo ricorrersi e ridere ogni volta che la palla finiva per strada o colpiva la testa della mamma, magari intenta a raccogliere l'insalata dell'orto. Era così che vedevo la mia vita, incorniciata da quei tre pilastri solidi che sapevo non mi avrebbero mai abbandonata, nemmeno fosse cascato il mondo. Ci vedevo ai pranzi di famiglia con la chitarra fra le dita ad intonare una canzone. Ci vedevo il giorno della mia laurea, dritti come un bastone per la foto ricordo. Ci vedevo sdraiti sulla spiaggia di Andora, in Liguria, dove Mat aveva una casa. Ci vedevo in ogni momento importante della vita, come una famiglia vera, di quelle che hanno la casa piena di foto ed il frigo sempre sovraccarico di cibo. Quelle famiglie che vedi ritratte nei film, quelli dove il finale è sempre positivo. Intontita dall'erba rimanevo con gli occhi sbarrati mentre il fotomontaggio della mia vita andava in onda senza esitazioni, rallentamenti o fermo-immagine.

Era un tepore primordiale, di quelli che somigliano tanto a quando sei piccolo. arono diversi giorni in cui evitai di rispondere alle chiamate di Mat. Andava sempre così: ogni volta che ci facevo sesso poi, non riuscivo a vederlo per settimane intere. Il solo pensiero del suo corpo sul mio mi faceva ribrezzo. Mi lavavo spesso, ogni volta che mi veniva in mente, quasi a voler smacchiare la mie pelle del suo sudore che mi sentivo impressa, anche se, a forza di strofinare, avevo quasi portato via la peluria. ati i primi cinque giorni, Mat smetteva, come al solito, capendo che, per l'ennesima volta avevo avuto la stessa reazione, quella che, nonostante tutto lui continuava a mettere da parte ogni volta che lo cercavo. Presi a farmi d'erba tutte le sere, racimolando i pochi spiccioli che avevo da parte. Quando fumavo tutto diventava più semplice. Rimanevo a fissare le stelle, sdraita sul balcone, come se dovessero piombarmi addosso da un momento all'altro. Ridevo, ma quanto ridevo. Ridevo di cose che m'immaginavo, che neppure sapevo se le avevo vissute veramente oppure erano semplicemente frutto dei miei pensieri che correvano correvano. Disegnavano vortici colorati intorno alle stecche della balaustra, linee d'arcolbaleno che s'arrampicavano per tutto il cornicione. E poi me ne andavo a letto, strafatta, coi pensieri che improvvisamente cessavano per lasciare spazio ad un sonno rubusto e pesante. Tutto quello che dovevo fare era un peso. Ogni giorno non vedevo l'ora che arrivasse la sera, per potermi di nuovo sdraiare sul balcone al tepore del sole tramontato da poco, illuminata dai lampioni della via, per lasciarmi trasportare nell'unico mondo in cui non esistono paure o divieti. Astrazione dalla realtà. Così la chiamano gli strizzarcervelli, quella sensazione di pace creata dall'uso di sostanze stupefacenti. Eppure, il confine tra realtà ed immaginazione, per me, era molto lieve, quasi assente, devo dire. Delle volte mi sentivo addirittura più capace quando fumavo. Mi saltavano alla mente pensieri formidabili, parole sfarzose come gli adorni dell'epoca barocca o traduzioni in inglese che neppure pensavo di aver mai studiato. Quando scrivevo, i periodi erano talmente artefatti che non riuscivo a fare più di una pagina: dopo un'ora, infatti, le mie cellule cerebrali andavano in pappa e scrivere una frase di senso compiuto diventava un grande problema.

Per questo motivo arrivai a poche settimane dalla consegna del manoscritto che, ancora, non avevo ultimato la storia, fatto percorerre a Giada quelle strade che mi ero immaginata percorresse. Una sera, presa dal panico, restai sul pc per quasi tutta la notte, cercando invano, di proseguire la storia. La mia testa era priva di idee, continuavo a gironzolare attorno agli ultimi episodi da settimane ormai e non riuscivo a creare un ponte verso il o successivo. La cura psichiatrica stava procedendo bene, per Giada, ma non riuscivo a ricostruire quell'aneddoto che la portasse da uno stato di incosapevolezza ad uno di salda coscienza. Forse ero io che di cosciente, dentro di me, non avevo nulla. Vacillava tutto, a partire dalla mia persona. Stavo scrivendo un manoscritto, ma non sapevo neppure se avevo le palle per andarmene a Roma, nel caso avessi vinto. Ed i presupposti c'erano perchè, ogni volta che rileggevo i i, mi accorgevo di quanto le mie parole fossero vive. E magari l'italiano non era perfettissimo, magari certi periodi non erano poi così semplici da capire, ma si sentivano. Tutti, dal primo all'ultimo. La situazione precipitò bruscamente quando il professor Mirabella, per assicurarsi che tutti i suoi studenti stessero procedendo bene col lavoro, volle vedere quanto era stato prodotto. – Dato che mancano poco più di due settimane alla consegna, voglio vedere quanti di voi, mi faranno fare bella figura - aveva detto un giorno a lezione, pregandoci di mandargli il nostro lavoro per email. Improvvisamente, il mio colorito si spense e le mie guance diventaro bianche come il gesso della lavagna. Sentivo le mani che tremavano ed il panico imperversare agognate nella mia testa. Anche quando si trattava di piccole tesine o appunti, il professor Mirabella si era sempre assicurato che, le settimane antecedenti la consegna, servissero perlopiù per le correzioni. Il mio manoscritto, invece, non soltanto doveva ancora essere rivisto, ma addiruttura ultimato. Finita la lezione corsi alla fermata dell'autobus, incurante della successiva ora di storia. Arrivata a casa, mi preparai un bicchiere di Martini e mi misi davanti al pc.

Invasa dal panico restai per almeno due ore davanti allo schermo senza scrivere neppure una parola. La creatività è così, non te la puoi inventare: o c'è o non c'è. E quando non c'è, puoi restare ore a pensare, riformulare, fumare pacchetti interi di sigarette che non serve a nulla. Ad ogni periodo ultimato, la fatica è talmente tanta che riprendere un nuovo capoverso è come scalare una nuova parete quando sei già arrivato alla vetta. E non contano neppure i bicchieri di Martini che riesci a scolarti. Tutto è asettico, privo di vitalità, come se fosse incelofanato da pellicola trasparente. E questa era una sensazione che mi aveva sempre spaventato, quando pensavo al mio futuro di giornalista. Cosa sarebbe successo se, ad un certo punto, fosse sparita la creatività, l'intuizione, l'ispirazione? Dalla mancanza d'intraprendenza avrebbe potuto derivare la mia sconfitta, magari dopo anni di sacrifici. Uscii in balcone, alla ricerca di un'immagine, un suono, un profumo che potesse solleticare i miei sensi. Il sole stava tramontando e nell'imbrunire, scorgevo i lampioni della via accendersi poco a poco, rischiarando il percorso ai anti. In quel periodo dell'anno, la strada era sempre sovraccarica di uomini e donne che facevano jogging. Li potevi incontrare soprattutto verso sera, quando la temperatura calava e la corsa diventava meno faticosa. Quanto mi piaceva correre, sudare, sentire la fatica nelle gambe e lo stress incenerersi come carta bruciata. Ma avevo smesso di fare anche quello, troppo presa dai miei pensieri ed annientata da una sedentarietà che cominciava a turbarmi più di quanto avessi pensato. E con quello che fumavo, negli ultimi periodi, mangiandomi interi pacchetti di sigarette, di certo non potevo sperare di avere delle prestazioni brillanti. Anzi, molto spesso mi convincevo che, se fossi andata a corerre, sarei crepata nel tragitto, magari in seguito ad un attacco di cuore. La verità era che dentro di me, di vita ce n'era ben poca. Delle volte, non avevo neanche la forza di fare le scale per salire in casa. Ogni volta che mi mettevo davanti al pc, ero carica di buoni propositi, eccitata come una caffettiera scoppiettante, ma dopo le prime frasi sconnesse e la realizzazione di una fervida mancanza d'immaginazione, rimanevo a fissare il soffitto per ore. E la cosa preoccupante era che amavamo starmene lì, sola, flaccida come una

panna cotta con troppo latte. Come quando facevo la notte, in ospedale. Dopo che mio padre si addormentava aspettavo trepidante che le luci del corridoio si spegnessero e le infermiere si rintanassero nel loro sgabuzzino. Valicavo la soglia della porta e venivo inondata da un silenzio che in nessun altro posto potevo sentire così pieno. Era fatto di sospiri, dei i lievi dei medici di turno, degli allarmi che suonavano cadenzati a mezzanotte, alle tre ed alle 6. Sveglia, tra tutta quella gente che dormiva, mi sentivo bene. E quando guardavo mio padre, conscia di vegliare su di lui, mi sentivo la persona più importante del mondo. Mi sentivo forte, sentivo che la mia presenza stava servendo a qualcosa. In quel momento, invece, seduta di fronte ad un pc ormai in standbay a chi cazzo servivo? Una sera, presa dal panico, chiamai Mat. Non sapevo bene perchè, ma c'erano dei momenti nei quali il bisogno di lui era talmente incalzante che non starlo ad ascoltare era un'impresa. Mi tamburellava la testa con insistenza e senza darmi la possibilità di fare altrimenti. Spesso capitava che lo sognassi durante la notte, come era accaduto quella volta. Mi ero svegliata al mattino ancora col calore del suo fiato sulla pelle, rimasuglio di un abbraccio eterno che c'eravamo scambiati lungo le rive di un fiume che non avevo mai visto in vita mia. I nostri corpi, abbracciati, camminavano lenti su un pontile in legno, di quelli che scorgi lungo le sponde dei fiumi, che lambiti dallo scrosciare insistente dell'acqua finiscono per mettere la muffa. Sullo sfondo, il paesaggio si perdeva, rischiarato dal bagliore di una luce che si rifletteva sull'acqua. Non ero mai stata in quel posto. Gli steli d'erba, altissimi, fluttuavano nell'aria mossi da refoli di vento lievi e pieni di calore. Attorno a noi, un filare di case ad un piano, costruite in legno, dai colori candidi e fatati, si susseguivano le une alle altre prive di recinzioni. Le immagini erano talmente vivide e nitide che, quando mi ero svegliata, c'avevo messo un bel po' per realizzare che ero ancora nel letto, avvolta dal torpore delle lenzuola e che quel posto paradisiaco era semplicemente frutto della mia testa. Per l'intera giornata ero rimasta attonita, come avvolta da una spirale di luce immaginaria che mi soppesava sullo stomaco come un busto. E la sera, mentre il sole scendeva dietro l'orizzonte, le mie mani avevano composto il numero di Mat senza che me ne rendessi conto, manovrate da una coscienza che sembrava del tutto separata dal mio corpo. Mi aspettò sotto, appollaiato sulla sua macchina per circa mezz'ora, mentre io

con le pupille incollate allo specchio, mi agghindavo come mai avevo fatto prima d'incontrarlo. Avevo rovistato negli scatoloni della roba estiva, ancora immacolati nell'armadio, senza trovare i giusti abiti da mettere. Avevo provato pantaloncini di tutte le misure e magliette di tutti i colori e quando, paonazza, mi ero contemplata allo specchio, una piccola parte di me si era chiesta perchè lo stessi facendo. Mi ero fermata, immaginando il giubbettino di jeans indossato nel sogno e mi ero data la risposta più stupida che una donna può darsi: “per me stessa”, avevo pensato. Quando scesi di sotto e lo vidi con la sua barbetta ispida e le braccia conserte, avvolte da una maglietta tanto semplice quanto introvabile, sorrisi, riconoscendo, nel suo sguardo complice, la persona che mi stava accanto da ben 15 lunghi anni. – Vieni - disse - Ti porto in un bel posto Senza fare domande m'infilai in macchina e gli raccontai qualcosa della giornata trascorsa con un entusiasmo concretizzatosi in chissà quale modo, sviscerato da un animo assopito da tempo. Gesticolavo, lo toccavo e lo facevo ridere, come spesso mi capitava di fare quando eravamo più piccoli, quando ritrovandoci conniventi sugli stessi punti, annuivamo e ridevamo di gusto. Lasciai perdere il sogno, ovviamente, trascendendo da una romanticheria che, per me, era del tutto inconsueta. Uscimmo dal paese e ci dirigemmo verso la campagna, costellata di campi di grano ormai giunti alla fine del loro percorso di vita. Le spighe dorate fluttuavano nel'aria che parevano le onde di un mare mosso dal vento. In lontananza i grilli cantavano, intonando melodie di cui eramo ignari. Raggiungemmo un piccolo campo, in prossimità della peschiera, un campo di cui mi ero scordata l'esistenza talmente tanto era ato dall'ultima volta. Seduti ai piedi di una quercia ci rollammo uno spinello e cominciammo ad assaporarne l'esalazione come due clochard affamati. - Ti ricordi questo posto, Am? - chiese Mat, disteso leggiadro sulla terra brulla. Mi ricordavo quel posto, l'unico campo di erba medica sommerso tra filari alti di granoturco. Me lo ricordavo perchè c'ero stata più volte nell'infanzia, ma non riuscivo a collegarlo a nessun accadimento particolare.

– Sì - dissi - Ma non mi evoca praticamente nulla – Come no? - Mat sembrava atterito e deluso dal fatto che non ricordassi qualcosa che, per lui, invece, doveva avere un'importanza fondamentale. – Non ti viene in mente neppure se ti dico palloncino? – Palloncino? - risposi sempre più confusa. – Sì, palloncino - ripetè Mat. Cercai di rovistare tra i ricordi, acciuffando quelli più remoti, spolverandoli per riportarli alla mermoria più che potevo. Ma niente, le immagini del ato parevano come atrofizzate dal tempo. Mat mi ò lo spinello e mi fece distendere accanto a lui, con la testa poggiata sul suo torace. Potevo sentire il suo respiro cadenzato e costante, rilassato dall'esalazione della marjuana. – Ok, va bene, adesso rilassati - disse Mat, cominciando a massaggiarmi le tempie - Rillassati e libera la mente. Con i suoi polpastrelli che si dimenavano lenti tra la fronte e le orbite degli occhi, mi lasciai trasportare in uno strano posto dai contorni arrugginiti, come quelli delle vecchie foto dei nonni, dove i colori sbiaditi si confondono stemperandosi gli uni con gli altri. Sentii la musica di Mat penetrarmi nei timpani sprigionata dagli auricolari che mi aveva introdotto nelle orecchie. La prima cosa che comparve, sullo schermo della mia mente, fu una maglia infeltrita, di colore rosso, indossata da un uomo che aveva le sembianze di mio padre, da giovane. Accanto a quest'uomo, alto, snello e con la testa piena di capelli, c'erano due bambini, entrambi coi capelli corti e lisci, a caschetto. Gli arrivavano a malapena al vetre e gli scorrazzavano incontro come due trottole impazzite, saltellando tra l'erba giallastra, essiccata dal calore del sole. Ridevano, le grida soffocate dal vento si disperdevano nell'aria, avvicendate dai rimproveri di quell'uomo che, anch'egli, tratteneva a stento i sorrisi. I ragazzini correvano, rotolavano sull'erba tiepida e profumata, rubandosi l'un l'altro un palloncino giallo. Ogni volta che il palloncino si sgonfiava,

stramazzato dalle mani dei bambini che se lo contendevano come un giocattolo, l'uomo dal maglione rosso, armato di santa pazienza lo rigonfiava, per porgerlo loro più grande di prima. Quando furono tutti e tre alla fine del prato, dove l'erba medica lasciava spazio a lunghe file di granoturco, l'uomo tirò fuori una chiave arrugginita, premette il palloncino fino a farci uscire tutta l'aria e ve la ripose all'interno. – Questo è il simbolo della nostra unione - disse, estraendo dalle tasche dei jeans una bomboletta d'elio. Mentre i bambini si dimenvano, ignari di ciò che stava accadendo, l'uomo dal maglione rosso alzò le mani al cielo facendo volare il palloncino nell'indaco più indaco che fosse mai esistito. Quell'uomo era mio padre e quei due ragazzini eccitati e scondinzolanti come cani al suo capezzale, eravamo Mat ed io. – Io lo cerco sempre - disse Mat - Sono convinto che è ancora lassù, da qualche parte Aprii gli occhi per incontrare il suo sguardo che trovai, invece, perso nel vuoto, diretto verso la volta celeste, alla ricerca di un palloncino color del sole che gelosamente custodiva il simbolo della nostra unione, un'unione sancita in un giorno d'estate e fatta volare verso l'infinito. L'infinito. Un concetto atratto che da, sempre, tuttavia aveva condizionato le nostre vite, ripresentandosi nelle forme più disparate. Sentii il nostro legame aggrovigliarsi, contorcersi come una corda, le cui fibre sono talmente ingarbugliate che è impossibile distinguerne le singole entità. Mi tolsi le cuffie e le gettai vicino alle nostre gambe. Mi alzai e presi Mat per le ascelle. – Corriamo – dissi Non so per quanto tempo saltammo e corremmo, calpestando in lungo ed in largo l'erba medica di un prato che sembrava non avere confini. So che quando ci accasciammo a terra, sudati e sporchi di terra, piansi, ma piansi di gioia.

Sentti le mani di Mat intrecciarsi alle mie e le strinsi. – Ti voglio bene, Am – Anch'io Mat -

8

I ricordi di papà comparivano nei momenti più impensati, quelli in cui, solitamente, andava tutto bene. Quando, alla guida, ero stranamente felice per qualcosa, quando mangiavo le sfogliatelle ripiene di crema chantilly o quando, trasportata dalla parole di un libro, mi rilassavo, abbandonandomi alle percezioni che l'esterno era in grado di comunicarmi. Ed insieme alle sensazioni belle, quando la mia mente era davvero sgombra di tutto, ecco che comparivano ingrate anche le immagini di mio padre, schiavizzato dalla malattia. Mai che riuscissi a visualizzare qualcosa di positivo. In particolare, la rappresentazione che più mi attanagliava, era la sua testa rasata e cucita di tutto punto, il giorno della biopsia. Il giorno dell'operazione, mi ero recata all'ospedale nel tardo pomeriggio, dopo un'estenuante lezione di Storia Antica, dove non avevo fatto altro che scarabocchiare su un foglio di carta trovato sotto la sedia. Le parole del professore si disperdevano nell'aria affievolendosi, ed arrivando alle mie orecchie praticamente prive di significato. Quando avevo lasciato l'aula ed avevo chiamato mia madre per avere notizie sulla biopsia, lei, cauta, mi aveva rassicurata avvertendomi, tuttavia che a papà avevano tagliuzzato una parte del cranio, che era quasi completamente bendato e coi tubi di drenaggio nel naso. Avevo percorso il tragitto che mi separava dalle Molinette col fiato alla gola, inveendo contro l'autista dell'autobus in modo che andasse più veloce. Era l'ora di punta ed il traffico non dava segni di resa: l'intero corso era intasato come i tubi del lavandino quando si otturano e dentro ci trovi di tutto, persino i rimasugli del pranzo di Natale. Quando arrivai alla stanza di papà e lo vidi su quel letto bianco, col camice a pallini, mi sentii svenire. Era come se una grossa mano si fosse impossessuata del mio cuore e continuasse a stringerlo a più non posso, senza mai mollare la presa. La benda, sistemata in malo modo, lasciava intravedere la parte sinistra del cranio, completamente priva di capelli. Dalla basetta partiva un incisione

profonda che correva verso l'alto per poi scendere di nuovo dietro l'orecchia a formare una specie di arco. I lembi di pelle erano stati avvicinati e fatti combaciare con dei fili di metallo che parevano tanto i punti di una pinzatrice. Dalle narici del naso partivano due tubi di drenaggio che gli permettevano di espellere il liquido di spurgo e dalle lenzuola sbucava il tubicino in lattice di un catetere. Mi sentii come se trachea ed esofago si aggrovigliassero stringendosi forte ed impedendomi di respirare. Provai pena e tenerezza. Pensai al dolore, fisico e morale. Pensai che quando un uomo sta percorrendo la strada verso la fine non può fare altro che mettersi nelle mani di Dio e diventa nulla, praticamente nulla. Dovetti appoggiarmi alle mura della stanza per tenermi in piedi e per cercare d'impedire alla mie gambe di scivolare di sotto, sul pavimento freddo. Non so descrivere quel dolore. E' un dolore che solo chi ha provato lo stesso male può comprendere. E pure ora, mentre scrivo, faccio fatica a rammentare quei dettagli che compaiono nitidi sì, ma che il mio cervello caccia con austuzia per impedirmi di soffrire. Quando mio padre si svegliò, gli presi la mano, accarezzandola come quella di un bambino e gli dissi, ridendendo, che somigliava quasi quasi al mostro di Franchestein. La sua bocca, senza dentiera, si aprì a stento, ancora paralizzata dall'anestesia totale, ma seppi che stava ridendo dal suo sguardo, vispo e luminoso. Non l'ho mai visto abbattersi, neppure alla fine quando, piangendo disperatamente sul suo petto, per non farmi vedere, l'avevo sentito dire, bofonchiando: “Dai, speriamo”. Papà sperava continuamente, ed erano i suoi continui sorrisi, i suoi vani tentativi d'allontanarmi quando lo baciavo con insistenza a farmi dimenticare che stavamo andando incontro alla morte. Quando gli prendevo il viso magro fra le mani e glielo morsicchiavo tutto, dapprima lasciava che le mie labbra gli pizzicassero tutta la pelle, contento, poi, quando ne aveva abbastanza e ritornava nella sua caratteristica fermezza, mi scostava, debolmente: “Am, bon”, diceva, mentre le sue labbra s'allungavano in un dolce sorriso. La vita è una continua attesa, credo. Tutti i giorni scorrono più o meno sereni in vista di un momento, che per la sua importanza, segnerà la nostra esistenza e sarà il momento per il quale abbiamo vissuto fino a quel giorno.

Forse, io ho vissuto ventidue anni della mia vita aspettando il giorno in cui avrei potuto baciare mio padre e lui me l'avrebbe lasciato fare. Il resto, tutto il resto, non è stato altro che tempo impiegato inconsciamente a preparare il mio animo a quel momento, penso. Perchè sono arrivata pronta, non ho avuto paura. Per una volta, una benedettissima volta, nella mia vita, non ho avuto paura di fare la cosa giusta. Da qualche parte, sparsa tra i vecchi libri delle superiori, avevo ritrovato una frase che leggevo spesso in quel periodo e che diceva pressapoco così: “Non sai mai quanto puoi essere forte, finchè essere forte è l'unica scelta che hai”. Probabilmente era stata scritta da qualche “amichetta del cuore” di allora, pensando ingenuamente al fidanzatino che l'aveva lasciata per la compagna di banco. Ma era una frase vera, qualsiasi fosse il motivo che generava il dolore. Ed io la leggevo e rileggevo pensando a cosa è davvero in grado di fare il dolore. Il dolore plasma, modifica come fanno le mani di un uomo a contatto con la ceramica fuida, come nel film “Ghost” dove le mani di Demi Moore creano e disfano l'argilla a piacimento. Il cancro, inevitabilmente, ti modifica, ma sei tu a decidere se diventare un vaso di porcellana o un semplice cofanetto di seconda classe. Sei tu, attraverso la tua dedizione al malato, le cure che gli rivolgi e tutto l'amore che sei in grado di trasmettere. Generalmente la paura ti farà assumere le sembianze di un cofanetto di seconda classe. E' la responsabilità, l'accettazione e l'amore, invece, che ti fanno diventare un vaso di porcellana. La mia vita, dopo la morte di papà, si era susseguita a fasi intercalari: a momenti di gioia folle, quasi incontrollabile, si alternavano momenti di panico totale, nei quali non ero in grado di muovere neppure un dito. Me ne stavo seduta sul divano, fissando il vuoto, priva di forze. In quei momenti, l'unica cosa che riuscivo a fare era alzarmi maldestramente dal mio comodo divano ad “L” ed andare in balcone, per fumarmi una sigaretta. Mi mettevo a scrivere, ma, avvolta dalle tenebre, redigevo solo pezzi carichi di autocommiserazione. arono alcuni giorni, in cui il buio che abitava il mio corpo, si riversò come un fiume in piena nel mio manoscritto. Per una causa che riuscii a spiegare poco, Giada si era ritrovata nuovamente in depressione, calpestata dalla mancanza di Stefano ed annientata da un dolore che, ormai, aveva cancellato ogni forma di vita.

La sera prima della consegna del manoscritto, ai tutta la notte a fumare, cercando di escogitare un finale che potesse distruggere tutte le convinzioni che il lettore aveva avuto fino a quel momento. Sì, perchè la vera resa di un libro, per quanto ne sapevo, stava nel finale. Avevo letto centinaia di libri che si erano salvanti in corner solo con il finale. Un episodio improvviso, che nessuno si aspetta. Magari l'intero percorso poteva non essere così entusiasmante, ma se la chiusura sapeva sconvolgere il lettore, ecco che il raccondo diventava improvvisamente carico di valore. Strafatta d'erba, feci morire Giada. Forse perchè era più semplice o forse perchè dentro mi sentivo morta anche io. La feci morire in un giorno di pioggia, di quelli in cui non ti vergogni di piangere perchè le lacrime ben si confondono con le gocce dolciastre che cadono dal cielo. Mi sembrava lo scenario adatto perchè si realizzasse un suicidio. Per tutta la durata del manoscritto avevo fatto in modo che Gaida avesse dei chiari momenti di ripresa. E, in effetti, le sedute dallo psicologo l'avevano aiutata notevolmente. E poi, come spesso succede nella vita, senza che si verifichi un episodio particolarmente significativo, tutto era crollato, frantumandosi come un castello di sabbia schiaffeggiato dalle onde. L'avevo vista eggiare lungo i ponti che valicano il Po', in un pomeriggio qualunque. L'avevo immaginata andare avanti ed indietro come un'ossessa, ma allo stesso tempo, con una tranquillità spaventosa. E poi, l'avevo fatta guardare all'orizzonte, verso le montagne, dove le nubi si diradavano lascinado posto ad un cielo terso e rischiarato dalla pallida luce di un sole morente. Avevo descritto l'acqua che si avvicinava ed il senso estremo di liberazione che avevo provato anche io, quando la morte era giunta nella stanza di mio padre. Mio padre. Non avrebbe di certo voluto che finissi il mio primo romanzo con la morte di una giovane innocente. Ancora mi sembra di ricordarlo, stravraccato sulle sedie in vimini del giardino, sorseggiare un bicchiere di Barbera e ridere di gusto. No, lui non l'avrebbe esplicata tutta quella tensione e quel dolore; se lo sarebbe tenuto dentro, spacciandolo con frivolezza come qualcosa di troppo esagerato. La sua risata, incessante, fragorosa, contagiosa, era l'unica cosa che ricordavo. Anche se mi mettevo d'impegno e rovistavo tra i ricordi più intimi ammassati nell'inconscio, non riuscivo a scorgere altro. Tutti i momenti condivisi insieme

sembravano spariti nel nulla, cancellati dalle immagini della malattia e del lungo percorso che aveva poi segnato la sua fine. Io non lo so se il cancro è in grado di ammazzare i superstiti, quelli che rimangono. Di certo so, però, che una parte di essi smette di vivere per sempre, dopo averlo conosciuto. Qunado schiacciai il tasto “invio” della casella di posta elettronica e seppi che il Professor Mirabella, da quel momento in avanti avrebbe potuto leggere dentro la mia vita, mi sentii come se uno strato di pelle mi fosse stato scorticato via. Come se fossi un corpo ustionato e tutte le particelle, i microbi, potessero entrare senza barriere, senza che nessuno opponesse resistenza. Per qualche giorno restai a casa, col cellulare spento e la spina del telefono fisso staccata. In giardino era tempo di raccogliere le ciliegie e di farci la marmellata. Ogni anno scrollavamo il ciliegio alla ricerca di quelle più mature che cadevano al suolo con una dolcezza inaudita. Le raccoglievamo, assicurandoci che non fossero marce e le gettavamo in un grosso calderone d'acciaio. Ci aggiungevamo lo zucchero, un paio di chili, a seconda di quanta frutta avevamo raccolto. Quel ciliegio l'aveva piantato papà, quanche anno prima, guerreggiando furiosamente con le proteste di mia madre. Si erano battuti per mesi sull'utilità della pianta. Poi, un giorno, papà si era presentato con una talea carica di radici che perdeva terra da tutte le parti. Aveva scavato una grossa buca, all'angolo del prato, e ci aveva piantato il ciliegio. Quando mia madre era arrivata da lavoro le sue ire avevano fatto tremare i muri di tutta la casa, ma in primavera, inondata dal profumo e della bellezza di quei fiori bianchi, non aveva potuto fare a meno di ammettere le buone intenzioni di mio padre. E così, per i giorni che precedettero il fatidico annuncio, mi occupai di raccogliere le ciliegie, di tramutarle in dolce marmellata e di riempire pile e pile di vasetti di vetro. Il ritmo cadenzato e continuo del lavoro, m'impediva di pensare al concorso, alla giuria che in quel momento stava facendo scorrere le sue dita sulle mie parole, sulla mia vita. In qualche modo, sentivo la vergogna per essermi spinta troppo oltre, per aver narrato scrupolosamente la mia vita senza pormi alcun freno. Per essere stata chiara, troppo dettagliata, forse, nella descrizione di particolari intimi e delicati.

Guardavo mia madre che, con un grosso bastone in legno, girava il composto di ciliegie, impedendo che s'attaccasse sul fondo del calderone. Vedevo le sue braccia possenti, volenterose, piene di vita. Una vita stroncata dal cancro che non le avrebbe regalato più null'altro che me. Le mie gioie, le mie soddisfazioni. Era questo ciò che le rimaneva, privata delle bellezze che una vita coniugale, seppur stanca, poteva ancora regalarle. Quando succedono certe cose, nella vita, non puoi pensare di far finta di niente. Quando ti si presenta davanti la possibilità che tua madre sia destinata ad invecchiare da sola, devi mettere da parte le tue aspirazioni e pensare a ciò che puoi fare per regalarle ancora un po' di felicità. E' la persona che ti ha messo al mondo, ti ha fatto il dono della vita. La guardi, vedi le sue rughe sempre più scavate, il suo sorriso che tentenna a sbocciare. Vedi i suoi capelli che, giorno dopo giorno, diventano sempre più bianchi come se il tempo avesse improvvisamente deciso di ingranare la quinta anzichè la prima. Avrei voluto avere una vita normale, anche se la normalità è un concetto relativo. Una di quelle vite dove la famiglia si incontra a ritmi costanti, si racconta la propria esistenza. Una di quelle unioni dove i vecchi insegnano ai giovani. Forse, così, non avrei commesso tutti gli errori che, invece, stavo collezionando come figurine. Un pomeriggio, intenta allo sgombro della casella di posta elettronica dai messaggi pubblicitari, notai una mail che non avevo guardato: risaliva a qualche giorno prima ed era del Professor Mirabella. Col cuore a mille e presagendo un'epica strigliata, mi accinsi a leggerne il contenuto: “E' con immenso piacere che vi comunico che martedì 6 giugno, ale ore 18,00, si terrà presso il “Caffè Lettarario” una piccola conferenza per presentare il Vostro progetto e per leggere insieme alcuni pezzi dei Vostri manoscritti. Abbiamo già scelto il vincitore, ma non illudetevi, saprete il Suo nome solo il giorno della premiazione! Distinti saluti, Dott. Mirabella”. Atterrita, continuai a guardare lo schermo del computer come se i miei occhi vi si fossero incollati e non trovassero più modo di liberarsi dale grinfie di quelle parole, che mi risuonavano nella testa come urla. Con un briciolo di concetrazione, spostai lo sguardo verso il calendario, accorgendomi che avevo

meno di 2 ore per decidere se onorare il “Caffè Letterario” della mia presenza. L'email, dai toni imperativi, più che un invito sembrava un vero e proprio ordine. Anche avessi voluto sottrarmi a quell'evento, avrei dovuto comunicarlo in tempo. Portai le mani alle fronte e, strizzando gli occhi, decisi di chiamare Mat per chiedergli di accompagnarmi. Se per disgrazia avessero dovuto leggere qualche pezzo del mio manscritto, avrei avuto bisogno di tutto il suo sostegno morale, per non sentirmi mitragliata dalla comione dei presenti. Evitai di farmi venire a prendere e chiesi a Mat d'incontrarci direttamente in Piazza Castello. Avevo bisogno di tempo, tempo per me. Mi lavai, cercando di rilassarmi ed assaporando le gocce d'acqua calda che, cadendo sulle spalle, scivolavano lungo tutta la schiena. Cercai di respirare lentamente, invocando gli insegnamenti di una maestra di reiky che avevo conosciuto qualche mese prima, durante la malattia di papà. Mat ed io arrivammo al “Caffè Letterario” in classico ritardo accademico. Davanti all'entrata del locale, una folla di studenti si scambiava pacche sulla spalla e frasi di circostanza. Per fortuna, ancora nessun segno della giuria, ne tantomeno del Professor Mirabella. Aggredita dai falsi sorrisi dei miei compagni di corso, mi recai all'interno del bar per visualizzare il tavolo allestito per l'aperitivo, già circondato dai primi affamati. Sgomitando con irruenza, mi feci spazio ed arraffai il primo bicchiere di vino bianco che si era presentato alla mia portata. Lo sorseggiai lentamente, lasciando che il calore dell'alcool m'invadesse tutta. Erano ati alcuni giorni dall'ultimo bicchiere e, subito, sentii l'ebrezza dell'etanolo are caldo nelle vene. Il buffet era composto da una vagonata indecifrabile di tartine sulle quali erano spalmate sapientemente creme di salmone, spinaci, formaggio e una pappetta rossa che mi rifiutai di assaggiare. Ne presi qualcuna, giusto per tamponare anche il secondo bicchiere di vino bianco. Mat si era fermato a chiacchierare all'esterno, con un amico di vecchia data. Non sapeva nulla del mio libro del cui argomento non avevo mai osato parlare a nessuno. L'intera marmaglia di studenti era in schiamazzo completo: li vedevo pavoneggiarsi di fronte agli amici alla ricerca di consensi e frasi d'ammirazione che sarebbero rimaste così, volatili come un alito di vento. Quando dalla porta d'entrata sbucarono Giulia e Martina, cercai invano di confondermi tra la folla, ma tradita da un ragazzo che si scostò all'istante, non potei fare a meno che incrociare i loro sguardi e porgergli il classico saluto di circostanza. S'erano vestite di tutto punto, indossando un paio di trampoli che le

ergevano verso il soffitto: se avessimo dovuto improvvisamente spostarci, per qualche strano motivo, nel sotterraneo dell'edificio, vi sarebbero entrate a fatica pure piegandosi a novanta. Bersagliata dalle loro domande sul perchè avessi lasciato il telefono spento per quasi una settimana, dovetti inevitabilmente rispondere al richiamo dell'alcool ed arraffare l'ennesimo bicchiere. Quando finalmente arrivò il professor Mirabella, di bicchieri ne avevo già tracannati tre e l'effetto era prossimo a sbocciare. Meno male che, davanti ad un paio di zeppe, a casa, avevo felicemente optato per una coppia di sandali alla schiava, pensai, quando cominciai a sentire che i rifelssi delle gambe non erano più sotto il mio controllo. Cercai di dare al mio viso delle sembianze più consone all'occasione e mi fiondai sull'ennesima tartina per tamponare l'oceano d'alcol che, insediatosi nel mio stomaco, diventava via via più burrascoso. – Buonasera, ragazzi - esordì il professor Mirabella - Sono contento che siate accorsi così numerosi, anche se immagino che, buona parte di voi, sia qui per strapparci il nome del vincitore L'intera sala scoppiò in una fragorosa risata che, dal canto mio, consideravo decisamente inopportuna. Anche Mat alzò le sopracciglia, interrogandosi sulla stoltezza dei presenti. A questa battuta del tutto opinabile seguì un breve discorso sullo scopo del concorso e qualche dettaglio inedito sul corso di giornalismo a cui il vincitore avrebbe partecipato. Mentre le parole del professor Mirabella risuonavano pacate all'interno della sala, potei notare con acuta destrezza che non ero la sola ad aver esagerato con l'alcol: il buffet era stato razziato come un campo di battaglia e le cinque caraffe di vino erano praticamente finite. Ero talmente lontana da quel posto che neppure mi accorsi che la giuria aveva preso, uno ad uno, a leggere piccoli brani tratti dai nostri racconti. Le frasi erano leggere, quasi sussurrate dalle voci di coloro che di poesie ed opere letterarie dovevano saperne parecchio. La maggior parte dei periodi si rifaceva a storie d'amore andate a male, cocciuti legami con la propria famiglia. Qualched'uno aveva parlato anche di droga. Nessun riferimento alla morte o alla malattia. Appresi con sollievo, al termine della lettura che nessun pezzo era stato tratto dal mio manoscritto. Sospirai, contenta di non dovermi sentire tutti gli occhi dei

presenti sulla fronte. Anche perchè sarebbe stato chiaro e cristallino che si sarebbe trattato del mio manoscritto. A quanto ne sapevo, nessuno poteva dire di conoscere il cancro quanto me. Quando mi voltai verso il buffet potei notare con entusiasmo che l'intero tavolo era stato nuovamente sommerso di tartine e le caraffe riempite fino all'orlo. Mi accinsi con cautela, per non dare nell'occhio, ed arraffai l'ennesimo bicchiere di vino. In seguito al rilassamento muscolare dovuto alla non-lettura del mio manoscritto, per la prima volta, nella serata, mi resi conto di essere completamente su di giri. L'alcol serpeggiava nelle vene come la linfa nel tronco degli alberi e la mia bocca cominciava a pronunciare frasi sconnesse ad un livello di decibel decisamente sopra il normale. E' solo che quando sei sbronza non lo senti che quando parli, praticamente non stai solo parlando: no, stai urlando. Ed in casi come questi è molto più facile attirare l'attenzione su di sè. Dopo qualche battuta priva di senso, scambiata con qualche compagno di corso che, sicuramente, il giorno dopo non avrei più riconosciuto, raggiunsi l'uscita, decisa a metter fine a quella stupida recita che si stava prolungando più del dovuto. Ero sul ciglio della porta quando ad un tratto mi sentii un peso sulle spalle, lieve, ma allo stesso tempo pesante come un macigno. Voltandomi potei riconoscere il volto di Mirabella ed i suoi occhi fissi nei miei, così azzurri e profondi che quasi mi intimorirono. Sicuramente, molta di quella riverenza fu provocata dall'alto tasso alcolemico che serpeggiava fiero nel mio corpo ormai da diverse ore. Restammo a guardarci per qualche attimo prima che lui pronunciasse le fatiche parole che, in effetti, rovinarono del tutto quell'inutile serata: – Il suo manoscritto era da centodieci e lode se solo non l'avesse concluso in quel modo. Mi ha commosso, mi creda, ma la morte, davvero, non ci stava per niente. Se fossi in lei, ci penseri bene, la prossima volta, a concludere un racconto in quel modo così orribile - disse Mirabella, strafottente come non l'avevo mai visto. Il suo volto era superbo, come il suo sguardo, ammonente e inondato di critica gratuita. Ma che cazzo ne sapeva lui di tutta la merda che avevo mangiato e che stavo continuando a mangiare da mesi?

Sentii il sangue ribollire e le guance farsi sempre più rosse, avvampavo, il calore della rabbia mi stava invadendo come un veleno pericoloso. Cerca di stare calma, pensai. Forse per un millesimo di secondo, in effetti. Sì, perchè la mia impulsività venne fuori come un'uragano, uno di quei twister che si materializzano all'improvviso dopo un bella giornata di sole e non te l'aspetti che dietro un viso così assopito, si nasconda, invece, una donna incazzata nera, pronta a tirare fuori le unghie al primo segno d'attacco. Non volevo critiche, non sul mio dolore. Avrei potuto accettare rimproveri sulla logica del discorso, sulla grammatica, sulla fluidità o meno dei periodi, ma non sul contenuto. No, il contenuto della mia storia, della mia vita, era sacro. Guardai Mirabella, deluso, come se fosse alle prese con una bambina che ha appena combinato una marachella. – Il modo in cui ho concluso la storia, non la riguarda. In quel momento mi sentivo così e così ho terminato l'evoluzione del racconto - dissi, sentendo la mia voce tremare ad ogni sillaba. – Signorina Ferro, la prego di non scaldarsi... – Io mi scaldo eccome - urlai - Non le permetto di giudicare il mio racconto. E' la mia vita e ci ho messo tutta me stessa, anche quando ho scritto della morte! Gli occhi di Mirabella erano fuori dalle orbite, rossi come palle di fuoco, ma immagino che lo dovessero essere di più i miei, inferociti come belve, irrorati di sangue anche a causa del vino ingerito e delle lacrime che sentivo affiorare a poco a poco. Ed anche quella volta, come tutte le volte in cui litigavo con mio padre, me ne andai, sopraffatta dal nervosismo ed incapace di procedere verso una conversazione civile. Il più delle volte mi sentivo criticata ingiustamente, anche se qualche volta, papà colpiva dritto nel segno e la mia rabbia non faceva altro che confermarlo. Sgomitando tra i compagni attirati dagli alti decibel della mia voce, mi feci varco tra la plebaglia che si era radunata presso il caffè e cominciai a camminare a o spedito e con le lacrime agli occhi. Avevo i nervi a fior di pelle e quando Mat mi prese l'avambraccio, per farmi

fermare, quasi lo scaraventai a terra. – Am, fermati! Sei impazzita?! - disse Mat - Non ti lascio andare a casa in questo stato! – In quale stato, scusa? - chiesi ed in quel momento mi sentii gli occhi cattivi, così cattivi che quasi mi vergognai di tanta crudeltà. – In quale stato? Ma ti sei vista? Sembri una matta e sei completamente ubriaca! Mi fermai e guardai il mio volto riflesso nella vetrina di un negozio di giocattoli. I capelli si erano appiccicati alla fronte per il sudore, il trucco era colato sulle guance a causa delle lacrime ed il viso, paonazzo, era color porpora. No, non sembravo una pazza, stavo solo tanto, tanto male. Ma nessuno lo capiva che io stavo male, che avo i giorni davanti ad un computer, tra una sigaretta e l'altra, che la mia vita non esisteva più, che la parola “famiglia” era stata cancellata dal vocabolario, rasa al suolo. Nessuno capiva quanto fosse difficile affrontare l'esistenza dopo la morte. Mi sentivo così incompresa. Ogni volta che vedevo gli altri sorridere, pensavo “beati loro che non hanno visto un male così grande e sono liberi, liberi di ridere” e poi pensavo che avevano un padre e che neppure sapevano quanto erano fortunati. E neppure Mat capiva, non avrebbe potuto. – Non ti voglio vedere più - dissi, seria, riprendendo a camminare verso Piazza Castello, riacquisendo piano piano la calma e la fermezza. – Cosa? - chiese Mat sorridendo, quasi come se stessi scherzando per sdrammatizzare la situazione che, in effetti, poteva aver anche del ridicolo. – Non ti voglio vedere più. A me, che sono pazza, non lo dici – Am, dai, era così, per dire che sei su di giri – Non sono su di giri. Sto male -

– Am... - Mat cercò di sfiorarmi la spalla, ma mi divincolai, lanciandogli uno degli sguardi più inferociti che sapessi fare. Stavo male e l'unica cosa che m'importava era ritornare a casa, da mia madre, coricarmi supina accanto a lei e sentire ancora un po' quel profumo di famiglia che mi era stato rubato e che, ormai, non riuscivo più sentire. Insultai Mat finchè fu sufficiente per farlo andare via, non prima di avermi dato tutti gli appellativi possibili ed immaginabili. Mi sentivo calpestata, schiacciata come il mozzicone di una sigaretta. Avevo sempre voluto fare la giornalista o la scrittrice, anche se papà mi strigliava a dovere quando mi vedeva trascorrere pomeriggi interi davanti alla macchina da scrivere. Eppure io scrivevo e scrivevo e lo sapevo che quella era l'unica cosa che potevo fare. Quando immaginavo il futuro e lo visualazzavo, vedevo me, al buio, davanti ad un computer, il volto rischiarato dalla luce del monitor. Era l'unica cosa che ero in grado di raffigurare e l'unica cosa che per me valeva. Quanti manoscritti iniziati e mai finiti per paura di non farcela, per paura che potessero non essere abbastanza. E questa volta, invece, un romanzo l'avevo portato a termine ed avevo messo me, con le mie paure, la mia rabbia, i miei dubbi. Non c'era niente di più vero, niente di più puro e leale di quelle parole, scritte in momenti di gioia, di panico, di incodizionata delusione nei confronti della vita. Eppure erano lì, si evidenziavano su un centinaio di fogli bianchi e non avrebbero potuto essere modificate neppure se c'avessi messo tutto l'impegno possibile. Oramai erano state scritte e non potevano più essere cancellate. La vita non è niente se non hai qualcosa per cui lottare ogni giorno, fino alla fine dei tuoi giorni. E la mia vita non è che avesse molto senso, se non potevo scrivere. La pacatezza della quotidianeità vissuta ai margini di una società che cadeva a pezzi non era cosa per me. A dispetto della depressione, dentro di me, avevo un fuoco che ardeva feroce, alimentanto costantemente da aliti di rabbia ed incomprensione. Un lavoro qualsiasi, dietro una scrivania qualsiasi in qualche fatiscente bettola di periferia, non erano variabili che facevano parte della mia equazione di vita. Un uomo lo sa qual'è la strada che deve seguire, e lo sa sin da quanto compie i

primi i nella direzione della mamma o del papà. Io avevo le parole, non avevo null'altro che le mie parole. Ed erano l'unica cosa per cui vivevo e sopportavo il rincorrersi monotono delle giornate. E non sapevo quanta fatica avrei dovuto fare per arrivare in cima, ma c'avrei messo tutto l'amore e la ione di cui ero capace. E l'avrei fatto per dare onore al mio nome ed a quello di mio padre. La sera prima dell'annuncio, la trascorsi stretta alle braccia di mia madre in una sorta di vortice emozionale che, a tratti mi conduceva verso la confessione, a tratti verso il silenzio. Ancora non sapeva nulla del concorso, ne tanto meno di quello che sarebbe stato il premio, nel caso avessi vinto. Col are dei giorni, mi ero convinta che, dopo tutti quegli elogi alla morte, non avrei mai potuto calpestare il palcoscenico vibrante del podio. Il cancro, la maggior parte delle volte, ti spinge verso l'autocommiserazione e, alla gente, non piace farsi coinvolgere dal dolore degli altri. Mi addormentai sul suo seno, come facevo quando ero piccola, cullata dal suo respiro. Sognai un cielo azzurro, senza nuvole.

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Quando pensi di poter vincere, sei già ad un o dalla vittoria. E' una frase che avevo sentito diverse volte e che, quella mattina, mi rimbombava nella testa come un tamburo impazzito. Eppure, non ero poi così convinta di farcela. Arrivata alla fine, tutte le mie convinzioni si erano sgretolate come terra franabile. Come sempre, del resto. Sì, perchè la mia migliore caratteristica era fermarmi ad un chilometro dal traguardo. Avevo fatto così col corso di nuoto, pagato, iniziato e finito poco prima delle selezioni per il campionato regionale. Con la scuola, quando, durante tutto l'hanno mi impegnavo, collezionavo sfilze di 30 e poi, arrivata agli ultimi mesi, mi lasciavo coinvolgere dalla frenesia dell'estate ed i 30 si tramutavano in 20. Per non parlare delle pile di fogli in carta riciclata, antichi custodi dei miei scritti, stampati ma mai ultimati. Se non altro, questa volta, dovevo essere fiera di averlo portato a termine, un manoscritto. Mi misi davanti allo specchio con correttore alla mano, cercando il più possibile di cancellare i segni di una notte ata completamente in bianco. Rigonfiamenti cutanei abnormi contornavano un paio di occhi rossi e vacui, opachi come uno stagno inquinato. Mentre percorrevo la strada che mi separava dall'Università, pensai ad un sacco di cose. Avevo di fronte il viso di mio padre, quello sorridente che avevo visto un sabato pomeriggio alla finale dei Campionati Italiani di tennis. Sudato e senza forze, aveva alzato al cielo la sua medaglia d'oro, trofeo di una vita dedicata alla sua incommensurabile ione. Una vita vissuta per arrivare fino a lì, a quel traguardo che capeggiava i suoi sogni dalla prima volta che aveva calpestato la terra rossa del campetto di tennis dell'oratorio. Lo sentii materializzarsi accanto a me e prendermi la mano. Fu un momento bellissimo, nel quale mi sentii improvvisamente felice. Sentii il suo spirito penetrare nel mio corpo come un trapano appuntito e capii che si trattava di lui perchè mi rese improvvisamente viva, come se fossi riemersa da un incubo, come quando ti svegli al mattino, dopo un brutto sogno e ti rendi conto che sei ancora sommersa dalle coperte e non c'è nessun mostro che vuole ucciderti, ma solo l'anta di un mobile che cigola.

Ecco, mi sentii così, come percossa da una scarica elettrica da 1000 volt, rigenerata dalla testa ai piedi. Arrivata all'aula di Letteratura, presi posto nelle ultime file, accanto a Giulia e Martina, eccitate come due caffettiere impazzite. S'erano vestite di tutto punto, con camicia, tailleur ed un paio di trampoli da fare invidia anche al miglior equilibrista. Davvero tutto questo sfarzo non lo concepivo. Tonnellate di trucco e profumo sprecato per un evento che, sicuramente, non le avrebbe mai viste come protagoniste. Che io avrei vinto, me lo sentivo dentro, anche se non volevo crederci. E' una sensazione difficile da spiegare: sai che puoi farcela, che sei una grande scrittrice, che scrivere è l'unica cosa che sai fare davvero, ma, una volta giunta lì, di fronte ad una giuria in giacca e cravatta, tutte le tue certezze se ne vanno a “quel paese” e tu ti ritrovi con un pugno di idee e l'autostima da cercare con la lente d'ingrandimento. Scrutai i componenti della giuria uno ad uno cercando d'immaginare cosa avessero pensato le loro menti imbattendosi nelle mie parole e nelle mie idee. Mi sentivo nuda come un verme, anche se ero completamente vestita. Quando furono le 10, il professor Mirabella, puntualissimo si alzò dalla poltrona e cominciò ad allietare la platea con la storia dei suoi alunni e di com'era nata l'intera iniziativa. Tra la folla, accorsa numerosa, non c'erano soltanto studenti, ma anche giornalisti e uomini di cultura. Un mega evento, degno di apparire in prima pagina. Piano piano, mentre la giuria spiegava quali fossero state le ragioni che li avevano condotti ad eleggere il manoscritto vincitore, sentii il mio stomaco contorcesi sempre più, per dare il via ad una maratona di grugniti. Quanti giorni erano trascorsi dall'ultimo pasto completo? Non lo sapevo, forse una settimana. Ma quella non era la fame: il mio stomaco si stava spremendo come una spugna per l'ansia, giunta inaspettata proprio al cumine del discorso del professor Mirabella. Mano a mano che venivano annunciati i nomi dei primi eliminati, l'agitazione prese sempre più il sopravvento, tanto che pure l'udito mi venne a mancare, quasi che le mie orecchie fossero state anestetizzate. Ad un certo punto mi voltai verso Giulia, in lacrime e le chiesi se fosse stato

pronunciato il mio nome: – Ma ti sembra questo il momento? - disse furiosa Martina - Giulia è appena stata eliminata! Come se fosse una novità, pensai. – E comunque no, sei nei primi dieci Restai ammutolita quando riconobbi il mio manoscritto in carta riciclata riposto elegantemente sulla cattedra, insieme ad altri due. Lo vidi ergersi in un centinaio di fogli ingialliti, stropicciati dalle mani che li avevano sfiorati, scorrendo velocemente sulle mie parole. Rimasi a fissarlo come un bambino fissa un giocattolo colorato che non ha mai visto, bramoso di averlo tra le mani. – Ho scelto un modo anticonvezionale per annunciare il vincitore - disse il professor Mirabella - Che, ricordiamolo, partirà tra qualche settimana per Roma, per partecipare ad un prestigioso corso di giornalismo. Ho deciso che leggerò un pezzo, uno di quelli che mi ha colpito di più e che mi ha convinto ad assegnare il primo premio a questo autore che reputo, oltre che bravo, vero arono alcuni minuti in cui credo riuscii a materializzarmi inconsapevolmente in un altro posto, in uno spazio parallelo, dove voci ed odori non esistevano. Non so quali siano le ragioni per cui un uomo vive. Forse dipende dalla personalità, dal modo in cui i nostri genitori ci hanno insegnato a concepire la vita, l'indottrinamento che abbiamo ricevuto nei primi anni di scuola. Eppure ci deve essere qualcosa che spinge l'uomo sempre alla ricerca di una vibrazione in più, di un tremore nella voce o nelle mani. Qualcosa che renda ogni singolo giorno diverso, unico e meraviglioso. Per mio padre era il tennis, la sua immensa lotta privata contro una pallina fosforescente, ma soprattutto contro se stesso. Dopo un periodo di astinenza e di quiete imposto dalla mia nascita, la racchetta lo aveva richiamato a sè e da allora, non c'era stato più nulla ad impedirgli di arrivare fino alla vetta più alta.

Ed era quella terra rossastra, il sudore che gli colava dalle tempie durante la partita che gli permettevano di svegliarsi ogni giorno con la voglia di vivere, di lottare per una causa. La vita, senza questo, era per me, come per mio padre, priva di significato, di quell'ardore necessario a non considerare la propria esistenza vana. E sono sicura che mio padre, malgrado se ne sia andato via così presto, abbia deposto le armi in pace, fiero di aver fatto tutto ciò che il suo cammino aveva previsto per lui. Perchè non ha senso vivere se non c'è ione, se non c'è ardore in ogni singola giornata, in ogni singolo istante che iamo su questa terra che ruota ruota e non si ferma mai. Una terra che di volti come i nostri ne ha già visti miliardi e continuerà a farlo. Ed allora che impronta avremo lasciato qui, su questa palla rotante se non avremmo fatto qualcosa per essere immortali? Qualcosa che marchi a fuoco la terra brulla dove camminiamo e che vi rimanga impresso per tutto il tempo. Perchè la vita non è niente se non fai quello per cui sei nato, ciò che ti è stato assegnato dal disegno divino. E non m'importa quanto tu debba lottare, aspettare per realizzare i tuoi sogni. Un giorno, improvvisamente, tutti i pezzi del puzzle si congiungeranno e non sarà stato mai così facile. Perchè quello era il tuo cammino.

– Quando la tua voce interiore ti dice che ce la fai e perchè ce la fai. E' perchè così è stato scritto e così dev'essere. Non puoi opporti. La voce urla ed urla ancora. E tu non puoi non sentirla. E' la tua strada. E non contano bravura o perseveranza. Così è stato scritto e così sarà -

Piansi, riemergendo dai miei abissi, perchè quelle erano le mie parole, scritte velocemente l'ultima sera, sconvolta da una notte trascorsa tra lacrime e slanci di innata autostima. Piansi incurante delle mani che mi circondavano le spalle, che mi abbracciavano e che mi eleggevano, in quel momento, regina dei loro sogni mancati. E tra tutto quel rambusto, con gli occhi annebbiati dalle lacrime, scorsi un viso, tra la gente, un viso che avrei scovato anche tra la folla più fitta. Il viso di Matteo.

Mi guardava, con gli occhi fissi e le braccia protese nella mia direzione. Mi alzai, scavalcai le seggiole arruginite ed incurante di tutti gli sguardi che in quel momento erano posati su di me, gli corsi incontro e lo abbracciai. Fu un abbraccio eterno, accompagnato da un applauso fragoroso che riuscii a sentire a malapena, talmente erano forti le urla di pianto, soffocate dal collo caldo di Mat. Non so per quanto restammo uniti, appiccicati come calamite dai poli opposti. Talmente tanto che, quando mi staccai, ero senza forze talmente l'avevo stretto forte a me. Venni trascinata dal professor Mirabella sul palco, addobbata d'una ghirlanda d'alloro, manco fossimo stati alla mia laurea e cosparsa di applausi. – Allora - disse il presidente di giuria - A chi lo dedica questo romanzo? In quel momento non ebbi dubbi: alzai le braccia al cielo e chiusi gli occhi. Sentii l'aria, un'aria fortissima provenire dagli abbaini aperti del soffitto. La sentii smuovermi i capelli e penetrarmi nelle ossa. Ne assaporai l'odore che sapeva di fiori e di erba appena tagliata. Di quel profumo che c'era d'estate, quando papà si trasformava in un pollice verde gigante e si prendeva cura del giardino con tutto l'amore possibile. Così come faceva con noi, in ogni momento della sua vita. Anche alla fine, quando ormai le speranze si sgretolavano veloci sotto il peso del cancro, lui era rimasto ottimista, fiero, dignitoso. L'ultimo ricordo che ho di mio padre è il suo sorriso, allestito a forza da un paio di muscoli ormai inariditi dal cancro ed incapaci di rispondere ai comandi. Non so con che fatica fosse riuscito a regalarmelo un'ultima volta, prima di chiudere gli occhi ed andarsene per sempre. Non è vero che le persone, una volta morte, smettono di esistere. Esistono, sotto altre forme. Sottoforma di odori, di aria, di presenze impercettibili che abbiamo il dovere di riconoscere. Sono nei gesti che facciamo ogni giorno, nella perseveranza con la quale affrontiamo le nostre sfide, quelle che il destino ci mette di fronte e che dobbiamo avere il coraggio di superare. Perchè altrimenti non ha senso vivere. Sono accanto a noi, in ogni momento della nostra vita. Delle volte se ne stanno in silenzio e non è facile accorgersi di quanto siano presenti. Altre volte, invece,

ci stringono le spalle, ci prendono in braccio e ci fanno levitare verso l'infinito per sfiorare la loro condizione. Io credo che mio padre, ovunque sia, sia felice, perchè quando lo sento, la gioia che m'invade è talmente profonda che non posso credere il contrario. Quando lo vedo sorridere, prima di svegliarmi dal sonno. Quando una stanza vuota, all'improvviso diventa così piena che pure il mio corpo pare schiacciato come le acciughe in una scatola di metallo. Quando corro e guardo Matteo che, crescendo, ha preso tutte le sue espressioni: dal sopracciglio inarcato, al labbro arricciato quando c'è qualcosa che non va. Ed è tutto questo e molto più a convincermi giorno dopo giorno che mi padre è qui, seduto accanto a me, mentre scrivo l'ultima pagina di un libro che, per la prima volta nella mia vita, ho avuto il coraggio di ultimare. Perchè il cancro ti uccide, su questo non c'è dubbio. Ti deruba di tutto ciò che hai e ti ributta nel mondo nudo, come un povero barbone a cui è stato tolto l'ultimo pezzo di cartone e non sa più dove andare. E ricominciare a vivere è la sfida più difficile che possa esistere. Ma il cancro ti salva anche, sì, ti salva dalla banalità, dalla fredda mancanza di sensibilità che si concretizza quando si diventa troppo grandi per badare alle emozioni. Grazie al cancro, ho imparato che in ogni momento della nostra vita abbiamo il dovere di dimostrare agli altri quanto sia importante la loro presenza per noi. Ho imparato a non avere paura delle dimostrazioni di affetto. Ho imparato ad abbracciare, baciare senza vergogna, come quando morsicchiavo le labbra di mio padre prima di dargli la buona notte. Delle volte me lo dimentico, perchè la vita incobe incessante ogni giorno e ti mitraglia continuamente con proiettili di banalità, superficialità, falsità. Ma devo dire che il mio scudo, nei confronti di questi attacchi, è andato giorno dopo giorno fortificandosi sempre più. E da mio padre, ho imparato che i sogni vanno realizzati e gli istinti ascoltati, fino all'ultimo sussurro, fino all'ultimo sibilo. Dobbiamo cibarci dei nostri sogni, altrimenti saranno loro a cibarsi di noi. Mio padre mi ha insegnato che a lottare per sopravvivere sono bravi tutti. Che la lotta per la sopravvivenza non è altro che la giustificazione data dai falliti,

quando la paura ha impedito loro di farcela. Mio padre mi ha insegnato che la vita non è lotta per la sopravvivenza, ma per la vittoria.

Matteo è seduto accanto a me, con la testa poggiata sulla spalla di mia madre. Credo stia dormendo da un paio di ore. Alla fine abbiamo optato per un treno intercity, di quelli che si fermano ad ogni stazione. Credo che sosti addirittura un paio di ore a Firenze, cosicchè potrò avere l'onore di prendere un caffè in Piazza della Signoria che è sempre stata una delle mie preferite. L'arrivo a Roma è previsto per 18 di sera e, sinceramente, già mi gusto un delizioso piatto di spaghetti all'amatriciana a Campo De Fiori. Mamma s'è presa sei mesi di aspettativa e tutti i soldi che avevamo in banca. Ha detto che a risparmiare ci penserà quando saremo ritornate a Torino. Per il momento vuole affittare un appartamento carino, possibilmente al terzo o quarto piano e con una bella vista sulla città, magari con una terrazza che dia proprio sul Colosseo. E' chiedere troppo? In fondo, ce lo meritiamo. Per ciò che riguarda Matteo, non so cosa potrà fare in quel di Roma. Chissà che gli antichi resti di una città imperiale non lo ispirino a realizzare qualche progetto o lo facciano miracolosamente incontrare con qualche produttore. Non so che cosa ne sarà di noi, ma quando lo guardo so che, inevitabilmente, farà parte della mia vita, così come è sempre stato.

Quando la tua voce interiore ti dice che ce la fai e perchè ce la fai. E' perchè così è stato scritto e così dev'essere. Non puoi opporti. La voce urla ed urla ancora. E tu non puoi non sentirla. E' la tua strada. E non contano bravura o perseveranza. Così è stato scritto e così sarà