Sguardi Di Ambra 41633

© Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it [email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867930937 1° edizione cartaceo – Marzo 2014 © 2014 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com

Chiara Vigna Lobbia

SGUARDI DI AMBRA

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

Ai miei genitori e a mio fratello

CAPITOLO 1

Nevicava copiosamente e il sottobosco taceva, avvolto in una coperta vellutata e bianca. Nessun rumore, nessuno scalpiccio soffocato di i; tutto dormiva, o così sembrava. Solo io, avvolta in una sciarpa che quasi mi copriva gli occhi e in un lungo piumino, ero intenta a seguire una pista e affondavo sempre più gli scarponi, riempiendo con il fruscio sordo dei miei movimenti il paesaggio circostante. Era trascorsa un’ora dall’inizio della mia scampagnata e ancora procedevo con gli occhi incollati al terreno. L’emozione manteneva viva la speranza: era così raro trovare le loro orme in quei boschi, soprattutto mentre nevicava. Erano fresche e sapevo che di lì a poco sarebbero state sepolte. Allungai il o, intenta a studiare il tragitto disegnato, ma dopo circa dieci metri la fila d’impronte s’interrompeva. Realizzai in quell’istante che ancora una volta la ricerca non aveva condotto ai risultati sperati. Delusa e stanca, sbuffai e mi accovacciai sull’unica roccia che sbucava dalla coltre nevosa. Avevo le gambe indolenzite per il freddo e per la fatica di aver appena risalito un’erta sconnessa. Estrassi la borraccia dallo zaino e ne sorseggiai il contenuto. Alzando lo sguardo, con la coda dell’occhio notai una sagoma a una quindicina di metri da me; mi levai di scatto, nella speranza di un colpo di scena. Dopo aver messo a fuoco, però, il mio entusiasmo momentaneo si dissolse come una bolla di sapone. “Mi hai illusa. Vieni qui, vagabonda! Non hai sentito che ti chiamavo?”. L’ammasso di peluria spettinata si diresse verso di me trotterellando. “Ma guardati… Sei tutta sporca… Che schifo”. Lei mi fissò, palesemente compiaciuta dello stato in cui si era ridotta, e anch’io sorrisi, prima di notare che le orme da lei lasciate sul terreno erano identiche a

quelle che avevo seguito sino a quel momento. Mi strofinai le tempie, imprecando tra me e me, mentre tentava di leccarmi. “Chissà cosa hai mangiato! Stammi lontana!”. Non feci altro che chiedermi se avevo davvero seguito le tracce di Mioara e, se così fosse stato, avrei sprecato una giornata, poiché il cielo stava imbrunendo e il bosco non poteva più essere perlustrato. Mioara era la mia instancabile e insaziabile femmina di cane lupo cecoslovacco, un concentrato di pura energia capace di trascorrere una giornata intera in salita sul versante di una montagna per poi arrivare a casa e avere ancora la forza di distruggere un paio di vasi e di mangiarne il contenuto; una bestia di trenta chili con un carattere tutto suo, ma di cui ero innamorata. Abitavamo da circa un anno in un appartamento a Lanzo Torinese, una cittadina in provincia di Torino, dove insegnavo matematica come supplente presso un liceo. Avevo ventisei anni, mi ero laureata circa due anni prima presso il Dipartimento di Matematica di Torino ed ero entrata nel mondo dell’insegnamento sperando, prima o poi, di entrare di ruolo. Nonostante tutto, non mi andava male, considerati i tempi difficili dell’economia e il gran numero di gente disoccupata: coltivavo la mia ione per l’insegnamento e speravo di non rimanere senza lavoro, prospettiva plausibile a causa dei nuovi tagli al servizio pubblico. In ogni caso, quella domenica di dicembre ero serena, all’inizio delle vacanze natalizie e con una gran voglia di scovare qualcosa a cui davo la caccia da ben sei anni. Come accadeva quasi sempre nelle mie escursioni, anche quella volta era stata un fiasco. Studiare da vicino un animale selvatico era un’impresa ardua, per non parlare del fatto che io lo facevo a livello del tutto amatoriale e non disponevo dell’attrezzatura idonea; in aggiunta a tutto ciò mi stavo occupando di uno degli esseri più schivi nei confronti dell’uomo. Iniziai la discesa ma, prima di dirigermi verso l’auto, mi recai alla vecchia baita di mio nonno: una costruzione decrepita, con il tetto in pietra pericolante e una

buona dose di muschio sulle pareti. Il legno delle finestre era marcio e zeppo d’acqua e l’unica cosa che pareva reggersi stabilmente in piedi era il portoncino d’ingresso. Infilai la pesante chiave d’ottone nella toppa e la girai con uno schiocco. Un cigolio sinistro accompagnò l’apertura. M’introdussi titubante, controllando che sopra di me nulla mi stesse per crollare in testa. La muffa creatasi a causa dell’umidità ricopriva ampia parte del soggiorno, che consisteva solo in un divano gualcito accostato a un comò in noce e in una stufa a legna dell’antiguerra. La zona notte era ridotta a poca paglia sparpagliata sul pavimento, anch’esso in pietra, mentre del cucinino non restava che una vasca in ceramica incrostata di sporcizia che fungeva da lavandino e il bagno non esisteva più. Insomma, di accogliente quella baita non aveva nulla. Mioara entrò alla riscossa, ma scivolò su una pozza d’acqua formatasi sul pavimento a causa di una falda nel soffitto e si scontrò contro la parete opposta. Spaventata scappò fuori e non rientrò più; io ignorai il tutto e mi concentrai su ciò che mi circondava, cercando di fare una stima dei danni riportati alla struttura. Il lavabo non aveva alcun collegamento esterno, infatti mio nonno mi raccontava che l’unico modo per avere una riserva d’acqua era attingerla al torrente che scorreva a lato della casa. Il resto probabilmente poteva essere sanato con un’accurata pulizia e una verniciata ai muri. Pensai allora che il giorno seguente avrei potuto dare il via alle opere di restauro, tanto il tempo non mi mancava e un po’ di lavoro mi avrebbe aiutata a scacciare il pensiero fisso della scuola. Uscii richiudendo a chiave e mi accorsi che era molto buio. Allacciai il guinzaglio a Mioara per evitare che gironzolasse nel bosco e accesi la torcia. Non ero preoccupata poiché conoscevo quel luogo come le mie tasche. Montai sul fuoristrada, accesi il motore e lo lasciai riscaldare qualche secondo prima di partire. La strada era in gran parte sterrata, nel tragitto incrociai alcuni caprioli, cerbiatti e un cinghiale. ai a prelevare i soldi per l’affitto e mi recai dalla mia padrona di casa per pagare. Era una donna anziana e molto gentile; possedeva quattro alloggi, tre dei quali in una palazzina. Siccome nei condomini erano piuttosto restii alla presenza di animali, soprattutto se di grossa taglia, ero riuscita a trovare in affitto a modico prezzo un alloggio al

piano terra di una casa a due piani, comprendente anche dieci metri quadri di giardinetto esterno. Sopra di me abitavano la padrona e il marito, molto discreti e pazienti. Ogni volta che avo da loro, ne uscivo con qualche manicaretto cucinato apposta per me, così anche quel giorno la signora mi congedò con una vaschetta di lasagne ancora calde perché, citando le sue parole, “ero sciupata”. Scesi nel mio appartamento e accesi la stufa. Scortai Mioara momentaneamente in giardino e preparai la cena, riscaldando anche un pezzo d’arrosto lasciatomi da mia madre la sera prima. Apparecchiai la tavola, accesi il televisore e riempii la ciotola, mentre la mia coinquilina grattava sulla porta per entrare. “Avanti, avanti, è ora di cena”, brontolai aprendole. Feci per sedermi, ma il telefono squillò. “Pronto?”. “Sofia, sono Simone”. “Ciao, che bella sorpresa! Dimmi tutto”. “Ascolta, stasera andremo da nonna e mi chiedevo se potevamo are a salutarti”. “Ma certo, non devi nemmeno chiedermelo. Vi aspetto, a dopo”. Tornai a tavola, ma della cena assaggiai solamente due forchettate, tanto che la riposi nel forno per riscaldarla nuovamente il giorno successivo. Poco dopo suonò il citofono e corsi ad aprire. “Ehilà, come state?”. Non riuscii a finire la frase che mia nipote mi era già saltata in braccio. “Bene, grazie. Tu? Ti vedo magra”, esordì mio fratello entrando con mia cognata, che teneva in braccio il più piccolo.

“Scommetto che te l’ha suggerito mamma di dirmelo”. “No, cara”. “Sì, invece”, sussurrò ammiccando Nadia dietro di lui. “Siete tremendi. Dai, venite in salotto che ho preparato il caffè”. Il piccolo era concentrato su altro, mentre Lucia, udito lo strisciare delle zampe sulle piastrelle, scese dalle mie braccia per avvinghiarsi al collo di Mioara. Li feci accomodare e versai il caffè nelle tazzine. “Allora, Sofi, come stai?”, ripeté Simone. “Bene, te l’ho detto”. “Oggi sei andata in montagna?”. “Sì e credo di aver sprecato la giornata a seguire le tracce di Mioara”. Risero. “Bene, stai facendo progressi”, scherzò mia cognata, poi continuò: “In quanto al lavoro, hai novità?”. “No, purtroppo. A febbraio scade il contratto attuale e poi si vedrà. Attendo nuovi incarichi, ma non so se devo essere fiduciosa. L’unica magra consolazione è che la preside del mio istituto si è detta molto soddisfatta del mio lavoro”. “Speriamo in bene”, aggiunse mio fratello. “Dormi di più la notte?”. “Stanotte sono riuscita a dormire due ore e mezza di fila e mi ritengo soddisfatta”. “Io non direi. Lo sai che se ogni tanto vuoi andare da mamma e papà sei la benvenuta”. “Non sono più una ragazzina, Simo”. “E con l’affitto come sei messa?”.

“Se avessi saputo che saresti venuto qui per interrogarmi mi sarei preparata meglio le risposte”, sorrisi. Fare il fratello maggiore era più forte di lui, ma come ben sapeva, io non amavo essere al centro dell’attenzione e quindi di lì a poco cambiò argomento. “Non vedevano l’ora di vederla, mi hanno fatto una testa così…”, brontolò rivolto ai suoi figli intenti a districare con le dita la folta pelliccia invernale di Mioara. “Mercoledì potremmo lasciarteli per la notte? Sai, andremo a spedire le letterine di Babbo Natale e torneremo piuttosto tardi. Mamma e papà saranno in Alsazia a visitare i mercatini di Natale”, sorrise e mi fece l’occhiolino. “È un problema per te?”. “Ma figurati, non potevi darmi notizia più bella. Bambini, cos’avete chiesto a Babbo Natale?”. Lucia non esitò: “La Barbie col cavallo, la casa delle Barbie, un peluche piccolo a forma di maialino che ho visto al negozio di giocattoli e uno grande grande a forma di scimmia e poi… Delle sorprese”. “Caspita, quante cose! Sei stata brava quest’anno? Altrimenti niente regali”. “Sono stata bravissima”, rispose imbronciata e tornò alle sue mansioni. “E tu, Matte? Cos’hai chiesto?... Matte?”. Il piccoletto non mi considerava neanche. “Matteo, rispondi alla zia”, s’intromise Nadia. “Ho chiesto il John Deere, la mietitrebbia e l’imballatrice”, cantilenò senza nemmeno guardarmi. “Mi ricorda qualcuno”, sorrisi rivolta a mio fratello. Mi fermai per un istante a osservare i bambini e mi tornò in mente il giorno in cui erano nati. Cinque anni prima, Lucia era venuta al mondo con due settimane di anticipo e nessuno se l’aspettava: era un sabato pomeriggio di luglio e io,

dopo una settimana snervante di esami, ero al bar con Alin, quando mia madre mi telefonò così agitata che, in un primo momento, feci fatica a capire cosa stesse dicendo. Solo tre parole erano nitide nel fiume in piena del discorso: Nadia, ospedale, Ciriè. Mimai al mio ragazzo di andare a pagare il conto e ci dirigemmo in fretta e furia all’ospedale. Trovai immediatamente i miei genitori: mia madre aveva gli occhi lucidi e non riusciva a stare ferma, mentre mio padre camminava su e giù per la sala d’aspetto. “Simone?”, domandai. “Sarà qui a momenti… Almeno spero…”, rispose mia madre con voce tremula. “Chi c’è con lei?”. “La mamma”. “Perfetto, non ci resta che attendere”, conclusi e mi accomodai su un seggiolino verde scuro. Il futuro papà, agitato e trasandato per la corsa sfrenata, non tardò ad arrivare e si precipitò in sala parto. Col senno di poi, avrebbe potuto fare con calma, dal momento che la piccola Lucia se la prese comoda e nacque ben nove ore dopo, ovvero all’una e dieci minuti della domenica successiva. La storia di Matteo, invece, completamente differente, si era svolta due anni e mezzo prima: puntuale come un orologio svizzero, il piccoletto nacque il giorno prestabilito, dopo appena tre ore di travaglio. “Dai, mandiamo Mioara in giardino, così voi mangiate la torta della zia”, conclusi rimanendo imibile al coro di “no” che si levò. Dopo circa un’ora i miei ospiti si congedarono e provai a sdraiarmi un po’ sul divano, ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a rilassarmi; allora imbragai la mia amica e uscimmo. Lanzo era in parte sviluppata in pendenza, molto affascinante da visitare a piedi. Le viuzze in pietra si snodavano tra le case più vecchie e attraverso archi creati nelle mura degli edifici.

Decisi di scendere fino al Tesso, il torrente che divideva la città e fiancheggiava l’istituto in cui lavoravo. Costeggiai l’argine nella zona pedonale e mi accomodai sulla panchina più lontana dalla luce dei lampioni e guardai al di là della riva opposta, nel vuoto. Mi lasciai cullare dall’aria pungente che saliva dal letto del fiume, con il ronzio del vento che ricordava una voce a me molto familiare. Sembrava parlarmi, raccontarmi la sua giornata. Tornò poi il silenzio, quello profondo che avvolge e dissolve ogni vana speranza, quello che, come nient’altro, ti fa apprezzare o temere la solitudine, a seconda dello stato d’animo. Quando rinvenni dal nulla in cui mi ero persa, mi accorsi che la città era andata a dormire: le automobili non correvano più, i locali abbassavano le saracinesche e i lumi alle finestre si affievolivano uno a uno. Il gelo mi aveva indolenzito le dita e le labbra bruciavano, screpolate dal vento. Tornai a casa. Chissà se qualcun altro, oltre me, si era mai chiesto per quale assurdo motivo le ore notturne fossero così lente e monotone. Il mio orologio a cucù scandiva le tre mentre io, seduta sul letto matrimoniale con Mioara dormiente al mio fianco, riordinavo il dossier con la documentazione riguardante la ricerca su cui stavo lavorando e contenente foto, reportage, i miei appunti e gli articoli degli esperti. Studiare i lupi sulle nostre montagne era oltremodo difficile e, fino a circa sei anni e mezzo prima, quasi impossibile. Fortunatamente, con l’arrivo di nuovi soggetti dalla Francia, la popolazione si era espansa, fino ad arrivare a un totale di trentadue esemplari suddivisi in tre branchi con l’aggiunta di qualche individuo solitario. Occupavano prevalentemente l’alta valle di Viù e il Colombardo, e in piccola parte la zona del Colle del Lys, luoghi in cui ogni nucleo famigliare aveva segnato il proprio territorio. Nei primi cinque anni di ricerca, mi ero occupata del gruppo di Bohr (nominato così dagli esperti) stanziato nell’area del Colombardo, ma nel momento in cui venni a conoscenza, circa un anno prima, dell’arrivo di un nuovo branco giovane e molto piccolo, mi dedicai completamente a esso. Nominai io i membri: maschio e femmina alfa erano Lucian e Camelia, di circa quattro anni, mentre i restanti tre del gruppo, figli di precedenti cucciolate dei due, erano Cornelia, Corina e il mio preferito, Gabriel, di circa due anni.

Lui era l’unico con cui ero riuscita a instaurare un minimo di contatto. Si trattava di un esemplare pazzerello che amava andarsene in giro a perlustrare i boschi in solitudine, noncurante del pericolo, e fu proprio durante il suo bighellonare che ci incontrammo la prima volta, o meglio, ci scontrammo. Ero intenta a seguire le sue tracce, talmente concentrata sul terreno e avida di risultati positivi che non mi accorsi che Mioara si era bloccata, rigida come una statua e intenta a fissare poco oltre. L’aveva avvistato e il lupo, probabilmente molto più interessato al suo simile che a me, non badò al fruscio dei miei i, così me lo ritrovai di fronte. M’immobilizzai, dapprima spaventata, ma con un briciolo di lucidità estrassi la macchina fotografica dalla sacca. Lui mi squadrò, evidentemente più preoccupato e timoroso di me, ma non si mosse. Non digrignò i denti, né appiattì le orecchie, non mostrò insomma segni di aggressività. Si limitò a osservare Mioara, immobile e annusando l’aria attentamente, infine i suoi occhi d’oro tornarono a trafiggermi. Scattai quante più fotografie potei. Mi accovacciai, abbassando la testa per fargli intendere che ero innocua. Tuttavia, quando la rialzai, era sparito e la guardiana al mio fianco aveva rilassato i muscoli. Furono vani gli sforzi successivi di rintracciarlo, ma quell’incontro, svoltosi dieci mesi prima, aveva significato molto per me: era il mio primo vero riscontro dopo anni di impegno. Non avevo mai visto gli altri membri del branco, ma mi ero recata più volte presso l’ente locale per la salvaguardia del lupo e avevo ottenuto, con non poca insistenza, le informazioni basilari riguardo il numero dei componenti del mio branco e il loro sesso. Potei così dar loro un nome e continuare il mio lavoro con un miglior orientamento e mentre i ricercatori lasciavano a margine Lucian e il suo gruppo, considerato instabile e probabilmente destinato a ritornare al di là del confine, io desideravo approfondirne la conoscenza. Quando terminai di riordinare, tra uno sbadiglio e l’altro, il cucù scandì le cinque e mi sforzai di chiudere gli occhi e riposare.

“Dai, svelto, siamo in ritardo!”, incitai il mio ragazzo, che mi seguiva

strisciando i piedi sulle pietre della via principale di Venaria Reale. “Tranquilla. Il negozio non scappa”. “Lo so, ma non sopporto essere in ritardo”. Suonai il camlo e attesi, tamburellandomi con le dita sulla gamba. “Dai, spegni la sigaretta che dobbiamo entrare”. “Okay, okay”, sbuffò lui, premendo la cicca sulla sabbia del posacenere accanto. La porta davanti a me si aprì e la commessa sorridente ci accolse: “Buonasera, accomodatevi”. “Buonasera, scusi il ritardo”. “Si figuri, venga pure da questa parte”, m’invitò, poi si rivolse al mio compagno: “Vuole vedere anche lei come le sta?”. “No, per carità, non vorrei mai portare sfortuna”, ammiccò lui. Seguii la ragazza sino al locale adibito a sartoria sul retro del negozio e lei, dopo aver scandagliato un lunghissimo appendiabiti e ripetuto sotto voce i nomi dei proprietari della merce, mi porse una sacca contenente l’abito. “Il camerino è dritto di fronte a lei, vada pure a provarlo e mi dica cosa ne pensa”, mi esortò. Obbedii. Lo maneggiai con cura, come se si potesse squarciare da un momento all’altro e, solo dopo aver chiuso fino in fondo la lampo laterale ed essermi osservata allo specchio, mi resi effettivamente conto di cosa stesse per accadere. Mi commossi appena, constatando che era proprio come me l’ero immaginato: il corpetto stretto e rifinito in pizzo, la gonna che proseguiva allargandosi fino ai piedi. Molto semplice e delicato. Il color perla risplendeva nel grigiore di quel retrobottega e mi si rifletteva nel volto, facendomi brillare gli occhi, e il contrasto creato dai lunghi capelli nocciola che cadevano sulle spalle era perfetto.

La ragazza mi raggiunse e mi rivolse uno sguardo interrogativo. “Allora, direi che le sta a pennello. Ora manca solo qualcosa per coprire le spalle. Le porto il modello a cui avevo pensato”. “Certo, aspetto qui”. Pensai divertita ad Alin che attendeva annoiato nella saletta a fianco, desideroso in realtà di non essere lì, ma quel giorno l’avevo letteralmente obbligato ad accompagnarmi. “Eccomi”, annunciò, porgendomi uno scialle in seta con un sottile ricamo floreale. Lo avvolsi intorno le spalle e alzai lo sguardo per giudicare l’ensemble. “Allora, cosa ne pensa?”. “È perfetto”.

Riaprii gli occhi, frastornata e accolta da una luce fioca proveniente dalla finestra, e mi voltai verso la sveglia, che segnava le sei e trenta. Mi alzai e mi diressi in cucina dove, con gesti automatici, accesi i fornelli, appoggiai sopra la caffettiera preparata prima di andare a letto ed estrassi una tazza dalla credenza. Spalancai la porta-finestra che dava in giardino e attesi in silenzio, appoggiata al bancone della cucina. Sopra di me si udiva il ciabattare mattiniero di Franca e la voce tonante del marito. Mioara uscì barcollando dalla camera da letto per dirigersi in giardino e, dopo aver versato il caffè nella tazza, la seguii. Il cielo era grigio-bianco e nevicava ancora, tanto che il rettangolo spalato il giorno prima era nuovamente coperto da uno strato di una ventina di centimetri. Mi avvolsi nella coperta che mi ero portata dietro e mi accomodai su una sedia asciutta, riparata dal balcone soprastante. L’ambiente era così chiaro da permettere a Mioara, che si stava rotolando per

terra, di mimetizzarsi. “Che fai, stupida… Ecco, ora sei fradicia e puoi scordarti di entrare”, sentenziai e, come fosse la scena di un film, mi ò davanti agli occhi un giorno dell’agosto ato in cui, proprio mentre stavo rientrando a piedi a casa, scoppiò un violento temporale estivo che non mi diede scampo. Iniziai a correre e quando giunsi davanti al portoncino di casa, oltre a non sentire più le gambe, ero fradicia. Avevo i capelli e gli abiti zuppi, appesantiti e incollati al corpo, le scarpe inondate da acqua e fango mentre Mioara, che oltretutto si era immersa per divertimento nelle pozzanghere, aveva assunto su tutto il corpo un perfetto color grigio scuro. Mi aprì Alin, ma non fece in tempo a parlare che Mioara mi scappò e, dopo essersi scrollata più volte, si gettò a volo d’angelo sul divano nuovo. Lui mi rivolse uno sguardo allibito che non ebbi il coraggio di ricambiare, ma poi, ridendo, mi intimò di aggiustarmi. Finito il caffè mi cambiai e uscii in gran fretta. Volevo tornare alla baita per cominciare la sistemazione, ma prima dovevo rifornirmi di materiale per la pulizia e domandare a mio padre come rattoppare i danni alle finestre. Dopo il supermercato, mi recai a casa dei miei e lo trovai in cortile. “Ehi, Sofi… Come stai? Che ci fai qui?”. “Ciao pa’, tutto bene. Ho bisogno di due dritte per un lavoro”. “Che genere di lavoro?”. “Voglio sistemare la baita del Lys, ma, mentre per l’interno posso cavarmela, ho bisogno di qualche suggerimento per le finestre”. “Come mai quest’idea?”. “Ieri sono ata di lì e mi sono resa conto che sta pian piano marcendo senza che nessuno se ne occupi”. “Permettimi di lavorare con te, allora”. “Posso cavarmela”. “No, non credo. Sappiamo entrambi che sei un disastro nelle riparazioni; in più da quando sono in pensione ho riordinato ogni centimetro quadro di questa casa ed è giunto il momento di dedicarmi ad altro. Quando iniziamo?”.

“Pensavo... Beh… Oggi, anzi, adesso”. “Adesso? Allora la cosa si complica. Con questo tempo è impossibile occuparsi dell’esterno. Mi dispiace, ma comunque sia vengo con te a giudicare le condizioni. Mentre mi preparo, vai a salutare la nonna, tanto mamma non è a casa”. Obbedii e la colsi nel mezzo di uno spuntino. “Oh, la mia cita. Vieni qui! Da quanto tempo…”. “Nonna, ci siamo viste l’altro ieri”. “Solo? Sembra un’eternità. Da quando tu e tuo fratello non siete più qui mi sento così sola…”, borbottò. Rimasi mezz’ora ad ascoltare i racconti di tutte le vicende accadute a casa nell’ultimo giorno e mezzo, finché non arrivò mia madre, così uscii. “Dov’eri?”. “Buongiorno anche a te. Che ci fai qui?”, esordì lei. “Ero venuta per avere due dritte e ora mi ritrovo con un collaboratore per lavorare alla baita”. “Cosa? Voi siete pazzi…”. “Può darsi. Vieni anche tu? Fai due i… Cerchi funghi…”. “Questa è bella! Funghi a dicembre. Hai proprio bisogno di manodopera per dire certe assurdità”. Rise, scuotendo il capo. “Hai fatto centro”. “Grazie del gentile invito, ma credo proprio che me ne resterò qui al calduccio”. “Come vuoi”, conclusi, alzando le spalle. “Ti va di cenare con noi?”.

“D’accordo, a stasera. Muoviti, papà!”, urlai. “Aspetta, che prendo gli attrezzi”. Alla partenza il fuoristrada era stracolmo di utensili di ogni sorta di cui ignoravo lo scopo. “È tutto necessario? Ora dove la infilo Mioara?”. “Ah, perché lei è necessaria? Ci dà una mano col restauro per caso?”. “Simpatico”. Dopo averla fatta montare a fatica in macchina, sbuffai: “Possiamo andare”. “Credi che questo trabiccolo riuscirà ad arrivare fin lassù col maltempo?”. “Ma che domande! Certo che sì, ci sono andata un sacco di volte e con condizioni climatiche ben più ostili”, esagerai. A metà percorso la nevicata s’interruppe, consentendomi una guida più agevole. Parcheggiai il Jimny in prossimità dell’ultimo tornante prima dell’interruzione della strada e proseguimmo a piedi. Avevo infilato tutto l’occorrente nello zaino, tanto da farlo diventare un macigno e a tal punto che mio padre era madido di sudore per la fatica nel trasportare gli attrezzi. “Sei sicuro di farcela?”. “Mi credi così vecchio?”. “No, per carità”, mi affrettai a scusarmi. Nel momento in cui scorsi i muri in pietra sospirai di sollievo e slacciai il guinzaglio, quindi aprii la porta e gettai lo zaino a terra. “Voilà le château”, scherzai. “Caspita, era da un po’ che non ci facevo un salto. Che catapecchia”, brontolò lui, andosi una mano sulla nuca. “Vuoi abbandonare la missione?”, sorrisi.

“Per chi mi hai preso? Forza e coraggio, si comincia!”, esclamò massaggiandosi le mani poi aggiunse: “Cerca di non starmi tra i piedi”. “Sissignore, buon lavoro”. Mi recai nella stalla, che altro non era che una stanzetta a lato della costruzione principale, a cui si accedeva solamente dall’esterno. Lì trovai una scala a pioli, alcune scope e due secchielli. Raccolsi il tutto e lo trasferii in casa. Estrassi dallo zaino stracci, detersivi e spugne e, non riuscendo a decidere da che parte iniziare, eliminai lo sporco dalle ante e dai ripiani interni dell’unico armadio presente. “Che ne facciamo della vasca in ceramica?”, domandai. “Ci penserò io più tardi”. Mi spostai in camera da letto, dove raccolsi con una paletta la paglia sparsa sul pavimento, e mi accorsi che vicino all’angolo sbucava una porticina. Dapprima ero titubante, ma quando mi decisi ad aprirla scoprii un armadio a muro che non conteneva nulla, contrariamente alle mie più tetre supposizioni. Ero perlopiù costretta a rimuovere muffa e polvere che si erano accumulate negli anni, ma poiché l’arredamento era povero, non impiegai molto tempo. Dopo aver lustrato anche l’ultimo angolo del divano, a cui avevo tolto la fodera sporca e sgualcita, mi accorsi che mio padre era ancora intento a riparare il buco del soffitto. “Vuoi una mano?”. “Me la cavo da solo, grazie. Piuttosto, smonta i tubi della stufa, portali fuori e puliscili bene con uno straccio; una volta rimontati, scrosta le pieghe che l’umidità ha creato sulle pareti”. Obbedii e, mentre la pulizia della stufa si dimostrò un gioco da ragazzi, dopo un quarto d’ora con la carta vetrata avevo così male al braccio da essere costretta a fermarmi qualche istante. “Dai, che ti fai i muscoli”, mi prese in giro lui. “Tu la fai facile, ma le mie braccia sono troppo esili per questo genere di cose”.

“Dici? Secondo me, invece, vanno benissimo”. Provai a riprendere, ma dopo dieci minuti ero di nuovo ferma. “Chiedo pietà”, supplicai. “Okay, okay. Vai al torrente a prendere due secchi d’acqua, per favore?”. Uscii. “Dai, accompagnami”, ordinai rivolta a Mioara, e m’incamminai con o svelto. Stupidamente, riempii i contenitori fino all’orlo, così fui costretta a percorrere la via del ritorno con la schiena storta e le spalle curve per il peso eccessivo. Dovevo scaldare l’acqua prelevata per poi diluirci dell’alcool e pulire e disinfettare i telai delle finestre; per accendere la stufa utilizzai il legno di vecchie cassette trovate nella stalla e un giornale portato da mio padre. Nonostante il materiale fosse umido, con un po’ di pazienza riuscii a creare un bel fuoco, così mi misi ad attendere l’ebollizione dell’acqua. “Per fortuna il legno di sostegno delle finestre non è marcio e posso cavarmela con qualche rattoppo”. “Strano, a me sembrava zuppo d’acqua”, replicai. “In realtà è rovinata solo la parte superficiale, ma utilizzerò dei prodotti per impermeabilizzarla”, concluse mio padre, e io tornai ai miei affari. Quel giorno avevamo sgobbato: erano trascorse quattro ore dal nostro arrivo e tutto era già trasformato. Non avendo più altre scuse, fui costretta a tornare a scartavetrare il muro, ma poco dopo arrivò a soccorrermi il mio socio. Furono necessarie altre due ore e numerosi crampi al braccio destro per terminare l’opera, ma ne rimasi soddisfatta. “Torneremo domani a imbiancare i muri, se il tempo sarà favorevole, e per quest’inverno dovrebbe bastare… Mentre per il tetto siamo costretti ad attendere la primavera”. “Grazie di tutto”.

“Di cosa? Tuo nonno adorava quest’abitazione e io ho atteso fin troppo per ristrutturarla, ma con l’aiuto di una discreta assistente sono riuscito a sbrigarmela più in fretta del previsto”. “Discreta?! Non ti sforzare, eh!”. “Guarda un po’, la principessina si è addormentata”, borbottò rivolto a Mioara, stravaccata di fianco alla stufa. “Ci credo, con tutte le corse che ha fatto”, conclusi. Erano quasi le quattro e di lì a poco sarebbe calata la sera. Lasciammo gli attrezzi sul posto e ci incamminammo. “Novità nelle ricerche?”, si informò mio padre. “Niente di che… Ancora non si decidono a figliare. Probabilmente non si sentono del tutto sicuri. Tra poco inizierà il periodo degli accoppiamenti e vedremo cosa accadrà”. “E il tuo preferito?”. “Ho scovato delle tracce di Gabriel la settimana scorsa e sono certa che sia diventato la sentinella del branco. Hanno sfruttato la sua voglia di girovagare per un fine più utile”. Giunti alla macchina, lui azzardò una proposta: “Andiamo a trovare l’Orso?”. “Certo”, risposi convinta. L’Orso era il soprannome dello zio di mio padre, che abitava in una cascina secolare poco più sotto e possedeva diversi animali, tra cui vacche, capre, galline e una mula. Abitava in quel rudere isolato da quando aveva raggiunto la maggiore età e nel corso degli anni era riuscito ad acquistare animali a sufficienza e a vivere dei prodotti che vendeva al mercato locale. Non era mai stato sposato, né probabilmente ci aveva pensato, anche perché era un po’ burbero, come ogni montanaro che si rispetti. Lo trovammo nella stalla, che bestemmiava contro la mungitrice elettrica e tirava calci a un cumulo di ferraglia arrugginita. Il can bergé diede l’allarme.

“Desi, stai brava!”, tuonò il vecchio, ma non appena ci notò assunse un’espressione sorpresa e continuò: “Oh, Pietro, da quanto tempo… E c’è anche Sofia… Sei cresciuta molto”. Strinse con forza la mano di mio padre tra le sue e poi ò a me. Abbassando lo sguardo, però, cambiò espressione. “E questo cos’è?”. “Questa… È la mia cagna”. “Invece a me sembra una di quelle bestie che girano qui intorno”. “Cioè?”, domandai. “Lupi, ovviamente”. “Beh, no, Orso, ti sbagli. Questa è Mioara e ti assicuro che è domestica”, s’introdusse mio padre sorridendo. “Somiglianza quasi perfetta”, gracchiò lui. “Li hai visti?”, azzardai. “Mi chiedi se li ho visti? Un giorno due di loro, approfittando della nebbia bassa, hanno tentato di assalire un capretto al pascolo, ma poi ho sparato dei colpi di fucile in aria e se la sono data a gambe”. “Come procede qui alla cascina?”, domandò mio padre. “Eh, caro Pietro, non bene. Lo spirito è sempre lo stesso, ma il fisico mi rema contro. Sto invecchiando e, ahimè, gli animali non si adeguano ai miei ritmi, in più la manodopera è costosa. Per carità, le vendite al mercato sono sempre cospicue, ma comincio a chiedermi se ne valga ancora la pena. E voi? Cosa ci fate qui?”, chiese, accendendosi un sigaro. “Sistemiamo la baita”, ammise mio padre, suscitando la risata del vecchio. “Che c’è da ridere?”.

“Cosa volete farci con quel posto? Lassù, altro che i lupi!”. “Non ci vogliamo mica trasferire”, concluse lui, ignorando i risolini di scherno dello zio. Ci congedammo presto e, giunta a casa dei miei, volai sul divano e percepii i muscoli distendersi. “Allora, com’è andata la giornata? Sei stanca?”, domandò mia madre. “Stravolta”. “Sapevi a cosa andavi incontro lavorando con papà”, affermò lei, sorridendo. Mangiai poco, del resto negli ultimi due mesi avevo perso l’appetito e con esso ben dieci chili, arrivando alla soglia dei quaranta per un metro e settanta di altezza. “Ora capisco perché sei così magra: non mangi!” “Sono nella norma, mamma”, brontolai solo per convincerla. A mezzanotte tornai a casa, mi persi davanti alla televisione e, come la notte precedente, dormicchiai per circa un’ora, dalle sei e mezza alle sette e mezza del primo mattino, per poi correre al supermercato una volta sveglia. Conducevo una vita anomala, ne ero consapevole. Acquistai della vernice e alcune graziose tendine in super offerta; alle nove citofonai al mio compagno di lavoro, che scese in un baleno reggendo un sacchetto di pennelli e quattro lampade a olio. “Quanta roba”, constatai sorpresa. Quel giorno le condizioni climatiche erano favorevoli: il cielo era terso e il sole intenso asciugava un po’ quell’umidità che impregnava l’aria. “Dov’è la belva?”. “L’ho lasciata a casa. Ieri l’Orso mi ha spaventata… Se mai la vedesse vicino ai suoi polli sono convinta che le sparerebbe”. “Sono d’accordo. Tua madre ci ha preparato i panini: è infuriata con me perché

ieri non ti ho permesso di pranzare”, sospirò. “Accidenti, sono grandicella ormai per certe cose”, risi. Giunti a destinazione, avvolgemmo lo scarno arredamento con teli di nylon e nel giro di qualche ora terminammo. Pranzammo seduti sulla secolare panchina a destra del portoncino d’ingresso. “Beh, finalmente è finita”, sorrisi. “Non del tutto, però siamo a buon punto. Il resto è rimandato a marzo-aprile”. Al mio ritorno, come avevo previsto ancor prima di andarmene, il mio giardino era ridotto a un campo di battaglia. “Cercavi il petrolio?”, ringhiai, osservando i profondi tunnel nella terra e schivando i tentativi di Mioara di leccarmi il volto. Il giorno seguente, come mi era stato chiesto, ospitai i miei nipoti, che mi tempestarono di domande sul perché non avessi un abete addobbato. Elusi l’interrogatorio facilmente e nei giorni successivi, tra pranzi e cene di Natale e santo Stefano e veglione di Capodanno, fui oltremodo scostante con chiunque volesse approfondire le ragioni della mia ostilità verso le festività. Trascurai persino le ricerche e la montagna, tanto ero stufa delle ricorrenze. Fu un sollievo lasciarmi alle spalle l’Epifania e ritornare a scuola. Dedicai la prima settimana al rio degli argomenti affrontati in precedenza, visto il trauma del rientro per i miei alunni. La scadenza del contratto si avvicinava e non riuscivo a nascondere la mia preoccupazione per l’assenza di nuove proposte lavorative; quando anche l’ultimo giorno di gennaio volò via, fui convocata come di consueto nell’ufficio della preside. Bussai titubante. “Avanti”, m’invitò una voce remota da oltre la porta chiusa. “Permesso… Buongiorno, preside”. “Buongiorno a lei, professoressa Sartin. Prego, si accomodi”. Mi indicò una poltroncina di tessuto posta di fronte a lei e continuò: “Allora, come lei ben sa, oggi scade il suo contratto lavorativo”, temporeggiò. “… Ci tengo a sottolineare che io e il resto del corpo docenti che l’ha affiancata siamo rimasti

piacevolmente sorpresi dalla sua preparazione e dal suo talento naturale nel rapportarsi con gli allievi”. “La ringrazio, signora preside. Mi lasci dire che per me è stato altrettanto”. “Bene, ne sono felice. Tra l’altro, scusi l’indiscrezione, l’hanno contattata da qualche altro istituto per degli incarichi?”. “No, per ora no, purtroppo…”. “Non si arrenda, professoressa. Sono certa che riceverà presto buone notizie”. “Lo spero”, riuscii a balbettare. Ero diventata di pietra e per la prima volta la consapevolezza della disoccupazione mi schiacciò lo stomaco come un macigno. “È dura anche per me, mi creda, veder andar via giovani così promettenti”. “Non si preoccupi per me”, mi finsi tranquilla. Mi alzai, le strinsi la mano e uscii. Ero intontita e mi diressi meccanicamente in sala insegnanti per recuperare il mio materiale didattico. Ogni angolo di quell’istituto era legato a un particolare ricordo e non potevo che osservare meditabonda l’aula vuota che mi aveva accolta. Non riuscivo a rendermi effettivamente conto di ciò che stava accadendo. Vagai nel piazzale senza aver idea di dove avessi parcheggiato, finché non mi imbattei per caso nella mia vettura. Dentro di me si agitavano emozioni contrastanti: dapprima sconforto, inadeguatezza, ma poi frenesia e ansia. Per essere certa di non precludermi nessuna opportunità, corsi a casa a stampare alcune copie del mio curriculum e trascorsi le restanti ore della giornata a consegnarle agli istituti paritari in provincia di Torino. Guidai senza tregua, travolta dalla disperazione per la prospettiva di un futuro sempre più buio e nebbioso in cui, per quanto mi sforzassi, non trovavo posto per me e per i miei progetti. Talvolta la vita sapeva essere amara e io purtroppo quel gusto lo conoscevo bene. Fermai l’auto sul bordo della strada, consapevole di non potermi più trattenere, e appoggiai il volto sul volante, che pian piano iniziò a gocciolare.

CAPITOLO 2

Era ormai trascorsa una settimana dal giorno in cui era scaduto il contratto, mi ritrovavo disoccupata e con pochi risparmi, ma soprattutto senza la minima idea di come condurre il giorno successivo; non avevo intenzione di tornare dai miei, ma ero cosciente del fatto che senza stipendio non avrei potuto pagare l’affitto. Dovevo trovare il modo per uscire da quel pasticcio. La montagna era l’unico luogo che favoriva la mia concentrazione, dunque saltai in macchina e raggiunsi la baita. Dopo aver aperto la porta, rimasi piacevolmente sorpresa: mio padre aveva riempito gli spazi con un armadio a cassettoni e una piccola credenza, le lampade a olio erano state fissate alle pareti e le tendine collocate alle finestre, mentre nella zona notte era comparsa una brandina. Tornai all’esterno, dove la neve aveva lasciato il posto in parte al ghiaccio e in parte al terriccio bagnato, rendendo difficili i movimenti. eggiai serena, mentre Mioara mi trainava come un cane da slitta, ma poiché era il periodo del suo calore non mi fidavo a sganciarla dal guinzaglio. Distratta, raggiunsi la cima senza nemmeno accorgermene e m’imbattei in una tetra nebbiolina, densa e intrecciata come una coperta sul mondo. “È ora di tornare, piccola”, sbuffai, rivolta alla mia compagna di viaggio e cercai di fare dietrofront, ma fui costretta a fermarmi perché non dava segni di volersi muovere. “Ehi, che c’è? Muoviti, dai”, la esortai, ma lei, statuaria, fissava un punto davanti a sé. Mi voltai anch’io, curiosa, ma la nebbia mi impediva di capire quale fosse l’oggetto del suo interesse. “Cavolo, Mioara. Cosa vedi?”, balbettai dapprima curiosa e, allo stesso tempo, leggermente spazientita; ma poi, agitata dal persistere di quell’atteggiamento, la notai: una grossa sagoma nera al di là della nebbia. “Cazzo, dobbiamo andarcene…”, sussurrai, strattonando il guinzaglio e, dopo qualche esitazione, ci muovemmo.

Nessuno, ne ero certa, neanche il più apionato degli studiosi si sarebbe voluto trovare nella mia situazione. Per quanto mi sforzassi non riuscivo a capire, a causa del lenzuolo bianco che mi circondava, se si trattasse della sentinella o dell’intero branco che, magari, mi aveva già circondata. Era impossibile conoscere la loro posizione, quanti fossero, né, quesito assai più preoccupante, cosa volessero da me. La fuga non era la soluzione indicata, data la nota propensione di un carnivoro per l’inseguimento della preda in ritirata, ma in quel momento non mi venne in mente alternativa migliore. Avevo la sola speranza di uscire dalla foschia, per poi fermarmi ad analizzare la situazione con tutta la lucidità che fossi riuscita ad avere. A causa del terreno sconnesso, scivolosissimo e oltretutto in discesa, caddi alcune volte. Ero la preda più facile da catturare che avessero mai incontrato, se quella era la loro intenzione. D’improvviso, come un faro nella tempesta, lo avvistai: il comignolo della baita. Estrassi le chiavi dalla tasca con la mano così tremante che non riuscii a infilarle nella toppa prima del terzo tentativo. Mi fiondai all’interno con il cuore martellante e le lacrime agli occhi. “Non hai idea di che paura ho avuto…”, ammisi in un soffio con l’ultima riserva di fiato che avevo in corpo e sganciando il guinzaglio dalla pettorina. Corsi ad appostarmi alla finestra e attesi in silenzio, riflettendo su ciò che avevo appena vissuto. Per la seconda volta in tutta la mia vita mi ero trovata davanti a un lupo, ma in questo caso non riuscivo a capire il motivo della sua presenza. Di certo i membri del branco si erano accorti di me molto prima che io li scorgessi, ma il perché si fossero esposti era un mistero. Erano animali così riservati, intelligenti e avevano imparato alla perfezione a tenersi alla larga dall’uomo. L’unica spiegazione che riuscivo a darmi era che mi volessero attaccare, ma, con tutta la selvaggina che abitava quelle montagne, mi resi conto dell’assurdità dell’ipotesi ancor prima di spenderci sopra del tempo; non avrebbero rischiato tanto inutilmente. Poco più tardi ecco sbucare l’essere più maestoso che avessi mai visto. La folta pelliccia invernale formava una criniera intorno al collo, che brillava per le gocce di condensa che la ricoprivano. Era di un magnifico color rossastro, tendente al grigio sugli arti e sulla punta della coda, che contrastava nettamente con il bianco circostante.

Era impressionante la crescita rispetto all’ultima volta, ero certa che non pesasse meno di una quarantina di chili. Annusava il terreno con gli occhi chiusi, concentratissimo. Solo dopo essersi accertato della direzione da cui proveniva la traccia che stava seguendo, alzò il capo e ancora una volta l’ambra preziosa delle sue iridi mi ipnotizzò. Aprii la finestra e lui non si mosse: quanta profondità in quegli occhi, quanta timidezza maestosa e quanta diffidenza. La sua era una bellezza selvaggia che spiazzava e stregava. Il giovane maschio annusava l’aria, mugolando, e Mioara iniziò a grattare sulla porta e a emettere gli stessi versi. Solo allora intuii cosa realmente avesse spinto l’animale a osare tanto e sorrisi. “Voleva te… Meno male che ne hai attirato uno solo”. Scattai qualche foto a Gabriel e, approfittando del suo interesse per la mia cagna, tentai un approccio. Estrassi il panino al salame dallo zaino e uscii cautamente, rimanendo tuttavia attaccata alla porta chiusa alle mie spalle. Mi fiutò da lontano titubante, probabilmente chiedendosi il perché mi interponessi tra lui e ciò che voleva. Mi accovacciai e gli lanciai un pezzo di salame, sentendomi la protagonista di uno dei miei film preferiti. Gabriel adagiò delicatamente il naso su ciò che si trovò davanti e mangiò, per poi tornare a fissarmi più incuriosito. Riprovai, con successo, ma non appena osai muovere un o, indietreggiò bruscamente abbassando le orecchie. Io, seppur turbata dalla sua reazione, mantenni il contatto visivo, ma mi accorsi del suo sospetto crescente; infatti pochi minuti più tardi sparì nella nebbia. Il cuore minacciava di squarciarmi il petto, un po’ per la paura e un po’ per l’emozione, mentre dall’interno provenivano gemiti disperati. Rientrai a consolare Mioara, che temeva l’avessi abbandonata, e tornammo a casa dopo aver appurato che nessuno ci stesse pedinando. Per la prima volta da molto, però, un briciolo di serenità mi riempì il cuore: finalmente sapevo quale sarebbe stato il o successivo del mio cammino. Non ero ancora entrata in casa quando squillò il telefono. “Pronto?”.

“Porca miseria, Sofia”. “Chi parla?”, domandai, ridacchiando. “Chi vuoi che parli? Sono tua madre”, rispose infastidita. “Mia madre chi?”, continuai. “Sono ore che ti cerco, cara la mia simpaticona”. “Perché? Che c’è?”. “Voglio sapere come stai, visto che non hai un lavoro e non sai cosa fare della tua vita. Devi tornare a casa”. “Molto delicata, comunque scordatelo”. “Come pensi di pagare l’affitto?”, incalzò lei. “Non lo pago”, scherzai. “Sì, certo, come no”. “Stai tranquilla, per favore. Me la caverò”, conclusi. “Se lo dici tu. Ci sentiamo presto”, sbuffò e buttò giù. Avevo lo stomaco vuoto da qualche giorno, avevo dato il mio panino a Gabriel e iniziavano a mancarmi le forze. Cucinai una frittata e dopo cena mi spostai in camera da letto. Svuotai l’armadio e nell’aprire i cassetti con i vestiti di Alin fui travolta dal suo profumo. Mi tornò alla mente il giorno in cui io e lui ci trasferimmo nella casa nuova, un anno dopo la mia laurea. Eravamo fidanzati da dieci anni e quell’appartamento era una grande occasione. Decidemmo dunque di affittarlo. L’alloggio era stato ristrutturato e ammobiliato, così riuscimmo a risparmiare sull’arredamento. Ero molto agitata e la notte precedente non avevo chiuso occhio; quando mi ò a prendere mi sentii la quindicenne che saliva dietro di lui sullo scooter. Ci disputammo l’appendiabiti dell’armadio e riuscii a vincere, costringendolo ad accontentarsi del cassettone.

Tornata alla realtà, sistemai i suoi abiti sul letto e inserii in due valigie tutto ciò che avevo accumulato; in seguito mi dedicai alla cucina, lieta di aver conservato le confezioni dei piatti e delle posate. La velocità con cui riuscii a fare fagotto mi rese consapevole della scarsità di cose che possedevo. Avendo captato un rumore di i al piano di sopra citofonai alla padrona, che mi aprì con un sorriso. “Ciao, cara. Cosa ti porta qui?”. “Sono venuta a pagare l’ultima rata”. “Grazie, ma avevi ancora tempo”. “Lo so, ma le do questi soldi perché domani me ne vado”. “Cosa significa che te ne vai? È successo qualcosa?”, domandò preoccupata. “Mi è scaduto il contratto lavorativo e non riuscirei più a saldare le spese mensili”. “Ma lo sai che con noi puoi stare tranquilla. Quando li hai ce li dai”. “No, la ringrazio di cuore, ma non posso privarvi dei vostri soldi”. “E dove andrai?”. “Torno dai miei genitori”, mentii per rassicurarla. Una volta al piano di sotto inviai un messaggio a mia madre, scrivendo di cercarmi sul cellulare in caso di necessità e mi assopii.

Uscita dal retrobottega soddisfatta, mi rivolsi al mio futuro marito: “Non immagini quanto sia bello”. “Tra una settimana lo vedrò”, sorrise. Gli porsi la sacca con l’abito da sposa e pagai. “Grazie di tutto, allora”. “Grazie a voi, e tanti auguri per il vostro futuro”, rispose la commessa

sorridente e ci accompagnò all’uscita. Guardai l’orologio. “Cosa facciamo?”. “Che ne diresti di cena e spettacolo?”, propose lui, fissando i cartelloni dei film nelle sale. “Lei mi vizia”. “Goditi il nubilato perché poi, cara mia, solo più lavatrice e aspirapolvere”. “Ah, perché nell’ultimo anno, invece, hai fatto tutto tu a casa”, lo presi in giro e gli diedi la mano. Percorremmo la via principale con o lento, chiacchierando e scambiandoci aneddoti divertenti alla ricerca di un posto carino e appartato dove cenare. Scovammo una pizzeria in una via traversa. Ci accorgemmo immediatamente che il posto era tranquillo poiché c’eravamo solo noi e alcune anziane signore, però di carino non aveva nulla. Si trattava di un locale trasandato e polveroso, ma era tardi per andarsene. “Non voglio immaginare cosa c’è in cucina”. “Magari al posto delle olive trovi degli scarafaggi”, bisbigliai. “Dai, che schifo. Così non mi aiuti”, sbuffò. Poi, con l’espressione più gentile che potesse assumere, accolse il cameriere per le ordinazioni.

Mi svegliai sudata, raggomitolata sul divano, con Mioara che si era fatta piccola per poter stare in fondo ai miei piedi. Erano appena le due e io, consapevole che non avrei più preso sonno, guardai un dvd e poi un altro, al termine del quale, finalmente, il cucù scandì le sei. Caricai tutto ciò che possedevo sul fuoristrada e mi spostai di stanza in stanza per assicurarmi di non aver dimenticato nulla, ma soprattutto per dire addio a

quel nido di splendidi ricordi. Percepii distintamente, tra la tristezza della mia anima, un pezzettino del mio cuore staccarsi e cadere, deciso a rimanere in quel luogo e a rifugiarsi in un ato che mai più sarebbe tornato. Non essendoci più spazio a disposizione nel retro, fui costretta a collocare Mioara sul sedile anteriore, con il risultato che trascorse l’intero viaggio leccandomi e mordicchiandomi l’orecchio. “Sono certa che la nuova casa ti piacerà”, cercai di rassicurare più me stessa che lei. Prima di giungere a destinazione, però, mi recai da chi probabilmente avrebbe permesso di realizzare il mio futuro. Parcheggiai sotto una tettoia perché piovigginava e scorsi immediatamente il cespuglio di capelli grigiastri nella stalla. Mi avvicinai cautamente. “È permesso?”, ruppi il silenzio, facendo sobbalzare l’uomo. “Chi diavolo è?”, balbettò lui prima di voltarsi, poi si corresse: “Sofia, come mai qui?”. “Devo parlarti”, cominciai con voce flebile. “Parlare? Con me?”, domandò perplesso, e il suo tono non mi meravigliò. “Sì, con te, con chi se no? Si tratta d’affari”. “Che genere di affari?”, s’interessò lui, ancor più stupito. “Voglio aiutarti qui alla cascina”. “Aiutarmi?”, biascicò incerto. “Sì, aiutarti. Basta con questo tono stupito, io sono molto seria”, lo ammonii. “Ma tu non sei una professoressa?”. “Lo ero”, dissi in un soffio. “E ora cosa vuoi fare? are dalla cattedra a tutto questo?”, domandò, indicando intorno a sé.

“Esattamente”, conclusi. “Non credo che tu possa farcela”, ammise. “Per favore, dammi una chance. Mettimi alla prova, avevi detto di aver bisogno d’aiuto”. “Ho anche accennato al fatto che non posso permettermelo”, puntualizzò ironico. “Non ho bisogno di soldi”. “E di cosa avresti bisogno, se è lecito chiedere?”. “Mi basterà mangiare”, azzardai. “Cioè, se ho ben capito, mi stai proponendo di lavorare per me in cambio dei pasti?”. “Proprio così”. “Sei impazzita, meglio che ci dormi ancora sopra qualche notte”, mi suggerì, spiazzato dalla mia richiesta. “Invece no”, m’innervosii. “Tu non hai idea della durezza e dei sacrifici che comporta questo mestiere”. “Sono pronta a faticare e imparare”. “Perché ti è venuta questa stupida idea?”, chiese, stremato dalla mia insistenza. “Mi è venuta e basta, sei d’accordo o no?”, lo misi davanti a una decisione obbligata. “Ho forse scelta? Mi serve aiuto e tu me lo offri su un piatto d’argento. Dovrò prepararti un posto per dormire”. “Non ti preoccupare, starò alla baita”. “Scordatelo, non è un luogo adatto a viverci”, mi avvertì.

“Saprò ambientarmi, non ti preoccupare”. “Certo che sei testarda, ragazza. Tuo padre sa che sei qui?”. “Non ancora, glielo dirò più tardi. Molto bene, allora porto su le mie cose e poi posso cominciare”, esclamai. “Non puoi far tutto da sola, mi sembra ovvio. Aspettami all’ultimo tornante, ti vengo ad aiutare”. “Okay”, conclusi, dirigendomi all’auto. “È andata bene, cara mia. Abbiamo una casa e un lavoro! Magnifico!”, informai la mia compagna. Parcheggiai dove mi era stato suggerito e qualche istante dopo apparve l’Orso con la sua mula, imbragata con lacci e sacche. “La emo per trasportare la tua roba”, mi informò. Giungemmo alla baita e, quando lo invitai a entrare, dovette ricredersi. “Accidenti, avete fatto un ottimo lavoro. Devo ammettere che non avrei mai creduto”. “A essere sincera non ci abbiamo messo molto, l’apparenza ingannava”. “Ti mancano elettricità e acqua corrente, ma trascorrerai buona parte della giornata alla cascina, quindi nessun problema. Tieni sempre sotto controllo il livello d’olio delle lampade; guai a te se rimani al buio. Terrai Lola nella stalla”. “Chi è Lola?”, domandai incuriosita. “La mia mula”. “Senza offesa, ma cosa me ne faccio?”. “Ti servirà per gli spostamenti. La tua auto rimarrà nel mio garage”, rispose infastidito dalla mia ignoranza. “Ma io non so cavalcare”, azzardai titubante.

“Per l’amor del cielo, devi sederti sopra, non gareggiare all’ippodromo”, mi prese in giro e tornammo alla cascina. Gli avevo confessato di non aver fatto colazione, perciò mi impose di seguirlo in casa. L’interno della struttura sembrava risalire direttamente alla Prima guerra mondiale: l’arredamento rustico e scarno ricordava quello presente nei documentari ambientati nei primi anni del Novecento. Sebbene fossimo entrati in casa, permaneva nell’aria un leggero odore di stalla. Il vecchio mi mise davanti del caffè, un bicchiere di latte, pane e cioccolato e m’informò che finché non avessi ingerito il tutto non avrei iniziato le mie mansioni. Si confessò inoltre scettico riguardo la possibilità che le mie “braccine esili”, come lui stesso le definì, potessero essere idonee al benché minimo lavoro manuale. Non abituata a tali abbuffate, ingerii tutto a fatica e scattai all’esterno. L’Orso era in cortile. “Vado a fare delle commissioni, tornerò prima dell’imbrunire. Pulisci la stalla e al mio ritorno mungeremo a mano, perché la mungitrice si è rotta”. “D’accordo”. “Il letame portalo sul retro, ce n’è già un mucchio”. Il pastore se ne andò, con espressione scettica. Ispezionai la struttura alla ricerca di una carretta e di un tridente e mi misi all’opera. Nella stalla contai dieci mucche, un toro, due vitelli e svariate capre, una delle quali agli ultimi stadi della gravidanza, tanto rotonda da tenersi in piedi a fatica. Riempii numerose carrette con la paglia sporca, le scaricai all’esterno, poi ripulii le mangiatoie e spalai il letame accumulatosi; ero leggermente intimorita dalla mole delle bestie, quindi saltavo qua e là evitando corna e zampe. D’improvviso, udendo uno starnazzare sospetto, corsi in cortile e mi trovai dinanzi a una scena macabra: Mioara stava correndo per l’aia con in bocca una sfortunata gallinella, che probabilmente aveva fatto l’errore di saltare oltre la recinzione del pollaio. “Fermati! Vuoi farmi licenziare il primo giorno di lavoro?”, sbraitai, ma l’istinto predatorio era più forte delle mie argomentazioni. La rincorsi per un po’, ma

rendendomi conto della scarsa efficacia delle mie minacce, afferrai una scopa e gliela puntai contro. “Ora basta, mettila giù”, ruggii con lo sguardo più severo che potei e lei, seppur riluttante, mi obbedì e fuggì nella stalla. Raccolsi da terra il volatile, scervellandomi su quale scusa potessi inventare in proposito, ma, con mia grande sorpresa, respirava ancora. Sollevata, la ricollocai al suo posto e circa un’ora dopo ricominciò a camminare, seppur palesemente frastornata. Mio prozio tornò proprio quando, dopo aver svuotato l’ultimo carico di letame, ero intenta a spargere paglia pulita sotto gli animali. Si avvicinò e osservò l’operato. “Bene, possiamo mungere, allora”, mi annunciò. “Okay, ma devi insegnarmi”, ammisi, per poi rendermi conto che non si trattava di un’impresa particolarmente ardua. Nonostante fosse buio, erano appena le sei e l’Orso mi disse di raccogliere le uova delle galline mentre lui si occupava del formaggio. “Dovresti tagliar loro la punta delle ali perché volano fuori”, gli suggerii. “Lo so, ma non è un problema: il cortile è tutto recintato e le volpi hanno paura dei cani”. “E fanno bene”, sorrisi ,“ma non è delle volpi che mi preoccupo”. “E di cos’altro?”. “La mia compare stava per mangiarsene una oggi”, confessai. “Bestiaccia”, ringhiò lui verso Mioara, accovacciata al mio fianco con le orecchie basse, poi continuò un po’ meno severo: “Non ti preoccupare, può succedere. Provvederò stasera stessa al pollaio”. “Okay, scusa ancora. Vado a preparare la cena?”. “Ci pensi tu? Perfetto, ho delle verdure, pensavo di fare il minestrone”.

“Bene”, conclusi e proprio mentre stavo chiudendo la porta d’ingresso, la voce dura brontolò: “Portatela dentro, se vuoi”. Sorrisi. Per la prima volta in tutta la giornata controllai il cellulare e, non essendoci chiamate senza risposta, telefonai. “Pronto?”. “Ciao, mamma. Devo dirti una cosa”. “Spara pure”, m’incitò. “Mi sono trasferita”. “Ma cosa dici? Trasferita dove?”, trillò, pensando scherzassi. “Alla baita. Lavoro dallo zio e in cambio mi offre i pasti”, risposi velocemente, timorosa per la imminente reazione. “Io… Non ho parole”, balbettò sforzandosi di rimanere tranquilla. “Morirai congelata. Hai perso la bussola, Sofia”. “Non essere sciocca, mamma. Quale bussola…”. “Boh, sei grande e vaccinata. A presto”, mi salutò infastidita e staccò la chiamata. Feci per correre alla baita ad accendere la stufa, conscia che se non l’avessi fatto sarei realmente ghiacciata, ma l’Orso mi fermò, assicurandomi di aver già provveduto a tutto lui prima del ritorno grazie a un doppione delle chiavi della porta d’ingresso. “Cerca di organizzarti meglio la prossima volta, prima di partire all’avventura”, mi canzonò. “E vai a farti una doccia al piano di sopra nel bagno degli ospiti. È inutilizzato da oltre cinquant’anni”. Cenammo alle sette e mezza, in silenzio, e a fine pasto rincasai. In sella a Lola, munita di torcia e con Mioara legata saldamente a me, il ritorno attraverso la boscaglia buia fu meno inquietante del previsto, nonostante ogni fruscio mi fe sobbalzare.

Raccolsi quanta più legna possibile ed entrai, accolta da un piacevole tepore. Accesi le lampade a olio guidata solo dal lume sprigionato dallo sportello della stufa e il locale risultò sufficientemente illuminato e avvolto in un’atmosfera soffusa e accogliente. Collocai al suo posto ciò che restava del mio vecchio appartamento, mentre gli oggetti da bagno li avrei portati alla cascina. Preparai la brandina per la notte, stendendoci sopra un lenzuolo, una coperta e una trapunta molto spessa nonostante non nutrissi grandi speranze di dormirci su. Mi sedetti all’esterno ad ammirare il cielo stellato, che sembrava vicinissimo, quasi un velo steso sulle cime degli abeti appuntiti e mi stupii della moltitudine di voci del bosco. Una civetta cantava circa ogni trenta secondi in risposta a un fischio che non riuscivo a riconoscere e tutt’intorno a me captavo distintamente il fruscio di piccoli animali che si muovevano nel sottobosco. Era strano trovarsi lì, sola, nel buio più fitto tagliato solo dal candore della luna crescente, come fuori dal mondo. Molti al posto mio sarebbero stati oppressi dal senso di solitudine che poteva suscitare quel luogo, io invece nuotavo nel silenzio, riempita da una pace che solo la montagna riusciva a donarmi. Mi stavo lasciando cullare dalla stanchezza per la giornata trascorsa e dal verso della civetta lontana, che intonava una ninna nanna rivolta al mondo, quando, come in risposta ai miei desideri più profondi, si levò un ululato soave che echeggiò tra gli alberi, avvolgendo tutto quanto. Rapita tesi le orecchie, estasiata dalla sinfonia perfetta, magica, ma il mio entusiasmo fu spezzato bruscamente da un altro ululato che si levò proprio di fianco a me. “Zitta, zitta”, sbottai, cercando di tappare la bocca a Mioara, che continuava imperterrita. Non riuscendo a fermarla, però, fui costretta a trascinarla di forza in casa. Scrutai all’esterno per assicurarmi che non ci fossero ospiti e, conscia della sveglia alle cinque, decisi di provare a dormire, con risultati migliori di quanto mi aspettassi. Infatti, dopo qualche ora trascorsa a occhi chiusi ma senza prender sonno, mi addormentai. Fui riscossa dalla musichetta della sveglia e balzai in piedi. Indossai la tuta e gli scarponi e partii a dorso di mula. Alla cascina mi attendevano l’Orso sull’uscio e un’abbondante colazione sul tavolo. Ingurgitai alla svelta il cibo e tornai all’esterno.

“Ho notato che hai svolto un lungo e accurato lavoro nella stalla, però non puoi impiegare tutta la giornata a pulirla. Cambierai la paglia alla mattina e alla sera per far sì che restino il più possibile all’asciutto. Ora vai a dar loro da mangiare, ti ho preparato i sacchi con il necessario per ognuno”. Me la sbrigai in fretta. “Te la senti di portare le capre al pascolo? Farle uscire in questo periodo dell’anno non ha senso, ma devo terminare di ristrutturare quella parte della stalla e con loro tra i piedi è impossibile. Prendila come un’opportunità per far pratica”, mi propose. “E cosa dovrei fare di preciso al pascolo?”, domandai, appena turbata. “Niente di che, pensa a tutto Desi. Stai solamente attenta a non perdere nessuno durante il tragitto”. “D’accordo”, risposi e mi accinsi ad andarmene. “Non così in fretta. Porta con te questi paioli che sono riuscito a recuperare. Battili con un martello per lisciare le imperfezioni delle pareti e lucidali. Torna a casa prima dell’una”, ordinò, facendomi cadere sulle braccia distese un paio di pentoloni, poi continuò: “Credi di farcela a trasportarli?”. Annuii e me ne andai. Ero più agitata per il possibile smarrimento di una capra che per il trasporto del carico affidatomi e fu un sollievo raggiungere la distesa erbosa con la stessa squadra con cui ero partita. La routine dei giorni seguenti fu sempre la stessa: sveglia all’alba, stalla, talvolta il pascolo se mio prozio doveva occuparsi dei restauri, e nel pomeriggio o imparavo a produrre latticini commestibili o ritagliavo qualche ora di libertà in cui mi dilettavo a girovagare per i boschi. Avevo pattugliato ogni angolo di quella montagna e avevo incontrato e fotografato numerosi animali. Tecnologicamente arretrata, utilizzavo una vecchia Reflex non digitale e ogni dieci giorni circa, approfittando delle sporadiche visite alla mia famiglia, portavo le fotografie a sviluppare. Mia madre, che si era dimostrata in collera con me sin dal giorno successivo al mio trasferimento, era però soddisfatta del mio miglioramento fisico: avevo preso quattro chili, ero tornata sulla soglia del peso ideale, ma ciò che più la sollevava era sapere che dormivo almeno tre ore a notte

senza interruzioni. Il lavoro alla cascina mi stancava tanto da farmi dormire e mangiare con regolarità e nella mia vita era tornato un po’ d’ordine. Prima che potessi rendermene conto giunse la primavera e il sottobosco si trasformò in un rigoglioso e accogliente paradiso volto a ospitare una moltitudine di esseri. Sfrattavo intrusi da casa quasi ogni giorno, dai ghiri alle bisce, e le notti silenziose non erano che un vago ricordo: versi di ogni sorta, richiami e fischi provenienti da tutte le direzioni animavano la zona, dai canti insistenti dei cervi in amore allo squittire di ghiri e scoiattoli. Non avevo notizie del branco da settimane e avevo il presentimento che si fossero spostati. Il periodo delle cucciolate si avvicinava ed ero certa che anche quell’anno il nucleo familiare non si sarebbe espanso. Iniziavo a temere che non fosse l’habitat adatto a loro. Era una domenica di fine marzo e io, avendo ottenuto una mezza giornata di riposo, mi crogiolavo nel letto con le guance scaldate dai raggi del sole che filtravano dalla finestra. Qualcuno bussò alla porta. Ne fui sorpresa, visto che non avevo ricevuto visite nell’ultimo mese e mezzo, e quando aprii rimasi pietrificata. “Ciao, Sofia”, mi salutò la donna. “Ciao, entra pure”, la esortai, dopo essermi ripresa dallo shock. “Non ho un tavolo né delle sedie, ma se vuoi puoi accomodarti sul divano”, la invitai con un cenno della mano. “Grazie, stai tranquilla. Sono molto felice di vederti”. “Anch’io, credimi. Non me l’aspettavo… Ma come mi hai trovato?”. “Mi ha scortato un signore anziano”. “È mio prozio”. “Ah, ho notato la somiglianza con tuo padre”, constatò. “Già… Come mai qui?”, azzardai a chiedere. “Ti ho cercato a casa, ma non rispondevi, così dopo numerosi e vani tentativi ho

parlato con tua madre e mi ha raccontato questa storia bizzarra. Mi domando perché tu sia qui”. “Il contratto alla scuola è scaduto”. “Lo so”. “E non mi sono stati proposti nuovi incarichi”. “So anche questo”. “E perché mi domandi la causa del mio trasferimento, allora?”, sbuffai, lievemente inacidita. “Perché i tuoi non mi sembrano motivi validi per isolarti dal mondo. Dopotutto è pieno di mestieri diversi dal tuo da poter svolgere finché non trovi qualcosa di meglio. I tuoi sono pronti ad accoglierti”. “Non volevo tornare a casa e non volevo un altro lavoro”, replicai. “Strano, la ragazza che conoscevo avrebbe combattuto un po’ di più prima di arrendersi”. “Non mi sono arresa, io amo stare qui”, ammisi. “Non è per fare questo che sei vissuta finora”, sbottò lei, con fare materno. “È per questo che vivrò d’ora in avanti. La vita è spesso imprevedibile, dovresti saperlo meglio di me”. “Io so solo che fare l’eremita ti costringe a pensare”, concluse lei, con un’espressione triste. “Credimi, Lucica, ho più distrazioni qui che laggiù”, ammisi, appoggiandole una mano sulla spalla. “Giurami che non stai scappando”, m’implorò lei. “Cerco solo di sopravvivere”, confessai. Se ne andò subito, evidentemente troppo preoccupata per me per poter

trascorrere ancora un secondo in quella baita. Lucica era la madre di Alin e una seconda madre per me, era quindi lecito che si prendesse a cuore la mia situazione. Quella visita, però, m’impedì di trascorrere serenamente il resto della giornata. In famiglia credevano che avessi mollato tutto per un semplice capriccio o per paura del futuro; al contrario, io consideravo quel cambiamento una boccata d’aria fresca. Non avevo mai faticato tanto in vita mia e nel contempo non mi ero mai sentita tanto fiera dei risultati ottenuti. Certamente, da quando ero arrivata io, la cascina aveva una parvenza molto più ordinata e pulita: infatti, non appena presi un po’ più di confidenza con mio prozio, fissai delle regole per evitare che anche l’interno della casa sembrasse una stalla. Lui stesso cambiò notevolmente, si sciolse e con mio grande stupore aumentarono anche le risate e gli argomenti di conversazione. Immaginavo quanto potesse essersi sentito solo, nonostante il suo amore per la vita eremitica, e ogni giorno ammiravo la sua lucidità e forza a dispetto degli ottantaquattro anni. Non mi aveva mai chiesto quali fossero le ragioni del mio arrivo a casa sua quel giorno di febbraio, né come mi sentissi, e proprio questo mi piaceva: a lui bastava che lo aiutassi e a me premeva solo essergli utile. Ero ormai certa che i miei lupi mi avessero abbandonata, ma un caldo giorno di aprile, dopo un periodo di assenza totale, qualcuno ò a trovarmi al pascolo. Precisamente erano le due del pomeriggio e io stavo sonnecchiando serenamente sotto il sole primaverile a fianco di Mioara, quando Desi diede l’allarme facendomi sobbalzare. Non l’avevo mai sentita abbaiare così, per questo immaginai la gravità della situazione e afferrando il bastone corsi nella direzione dei latrati. Notai immediatamente che alcuni esemplari si erano separati dal gregge e che a pochi metri da loro, nascosti all’ombra delle betulle, due predatori attendevano il momento giusto per attaccare. Piombai in un secondo davanti ai miei animali e strinsi il pugno intorno al bastone. Tremavo moltissimo, nonostante le due guardie al mio fianco ringhiassero e abbaiassero per proteggermi. I visitatori erano immobili e io ero emozionata oltre ogni dire, quindi gettai subito l’arma e scattai numerose fotografie: avevo il grande onore di trovarmi, non senza paura, davanti a Gabriel e a suo padre, il capobranco. Quest’ultimo

indietreggiò, terrorizzato dalla mia presenza, mentre il più giovane, contro gli standard di comportamento abituali, mi venne incontro. Non indietreggiai, convinta che così facendo avrei dimostrato la mia forza; ero immobile, lo sguardo fisso, in attesa della sua mossa successiva. Arrivò a due metri e Mioara, nonostante il mio divieto, gli andò incontro. Si annusarono, si studiarono e infine lei assunse la classica posizione giocosa e iniziarono a rincorrersi. Non avevo mai visto nulla di simile. Continuai dunque a scattare fotografie, esterrefatta. Intanto, con la coda dell’occhio, notai il bellissimo Lucian ammirare la scena bizzarra. Era un esemplare interessante: intento a studiare le mosse del figlio, aveva un’espressione austera che mi intimoriva. Gli bastò latrare una volta per richiamare l’attenzione di Gabriel, al che sparirono subito entrambi tra i faggi. Desiderosa di delucidazioni riguardo al comportamento curioso dell’animale e consapevole di dover evitare di domandarle a mio prozio per scongiurare un suo conseguente divieto di frequentare il pascolo in futuro, mi recai presso l’ente locale per la tutela della fauna autoctona. Stavo per attirare l’attenzione di un membro, ma mi bloccai, nel timore che la notizia della presenza di lupi nella zona avrebbe interessato eccessivamente i ricercatori, che si sarebbero dedicati a essi, scalzando me. Ero gelosa del mio branco, considerato che dopo più di un anno di ricerche avevo accumulato foto e appuntato tutte le impressioni e le esperienze sul campo. Raccolsi qualche volantino ambientalista, uscii fischiettando e trovai la risposta ai miei interrogativi proprio su uno di quei dépliant: i due lupi si erano esposti tanto a causa della momentanea apertura, straordinaria ed estremamente anticipata per motivi a me sconosciuti, della stagione di caccia ad alcune specie e della conseguente carenza di selvaggina. Mentre ero intenta a leggere, qualcuno mi sfiorò la spalla. “Ehi, ciao montanara. Qual buon vento”, mi salutò mio fratello. “Ciao, Simo. Come mai non sei a lavoro?”. “Devo andare a prendere Lucia all’asilo, mi hanno telefonato perché non si sente bene”.

“Oh, mi dispiace. Salutamela”. “Non rompere e accompagnami”, ordinò e fui costretta a seguirlo. La piccola quando mi vide si avvinghiò al mio collo e non ebbi modo di liberarmene, così li seguii fino a casa. “Allora, parlami un po’ della cascina”, iniziò Simone. “Cosa vuoi sapere?”, domandai curiosa. “Ieri ho incontrato l’Orso al mercato e mi ha informato che stai svolgendo un lavoro impeccabile”. “Ti ha detto questo? Sono contenta, ci tengo molto al suo parere”. “Lo so… Conosco anche l’impegno di cui necessita quel genere di mestiere: sveglia all’alba, tanta fatica fisica e mentale…”. “Sì, è vero”. “Ti ammiro moltissimo”, ammise, spiazzandomi. “Cosa?”. “Hai capito bene. Sei stata tenace, coraggiosa, hai preso in mano la tua vita al momento giusto. Hai rinunciato a tutto e nel contempo hai guadagnato tutto, hai dato una svolta radicale alla tua vita, hai abbandonato questo mondo viziato per prenderti cura di qualcosa di piccolo, ma necessario. Quindi sì, non stupirti quando dico che ti ammiro, perché è vero. Non tutti avrebbero il coraggio che hai avuto tu di spogliarti del superfluo e di vivere con poco”, continuò. Ero senza parole. “Ignora qualsiasi persona ti dica che stai compiendo la scelta sbagliata. Fregatene di essere una professoressa, almeno per ora, visto che il mondo se n’è fregato di te e sii realmente utile a qualcuno. Sono molto fiero”, confessò. “Grazie, Simo. Sono state le parole più belle che mi siano state rivolte e sono felice che tu mi sostenga”.

“Se fossi venuta a trovarmi prima te l’avrei già detto”, mi rimproverò sorridendo. “Prometto che se sarai sempre così carino con me, erò più spesso”. “Adesso non esagerare con le pretese”, scherzò. Poco dopo fu costretto a tornare al lavoro e mi domandò di badare a Lucia finché non fosse arrivata mia cognata. Fino alla sette non riuscii a liberarmi e prima di rincasare ai dal fotografo a ritirare l’ultimo materiale sviluppato. Temevo il ritorno, poiché l’Orso aveva certamente avuto bisogno di aiuto nell’arco della giornata e la mia assenza poteva averlo infastidito. D’altra parte ero felice di aver incontrato mio fratello e non solo perché mi aveva dato una sincera dimostrazione del suo sostegno, ma anche perché, per quanto fossi un esemplare solitario, soffrivo appena per la mancanza della mia famiglia. Come avevo previsto, l’Orso si comportò in modo distaccato e severo, senza tuttavia domandarmi dove fossi stata o cosa avessi fatto. Calate le tenebre, m’incamminai lungo il sentiero buio che conduceva alla baita. Da quando era venuta la madre di Alin, purtroppo, avevo ricominciato a soffrire d’insonnia, e i soli minuti di sonno leggero che riuscivo a racimolare erano al pascolo. Probabilmente avrei abolito anche quelli, date le visite inaspettate e non gradite dal mio gregge. Il mio viso, solcato da profonde occhiaie, era la dimostrazione della mancanza di riposo e con il durissimo lavoro il mio fisico era debilitato. Sistemai Lola nella stalla e, proprio mentre giravo la chiave nella toppa, sbucò dal verde il mio nuovo amico. “Di nuovo tu?”, scherzai, mentre Gabriel mi fissava tenendosi ad alcuni metri. “Avvicinati. Ti ho portato un regalo”, sorrisi. In città avevo comprato delle carcasse di pollo dal macellaio, avendo il forte presentimento che avrei ricevuto altri ospiti. Mioara si avvicinò al suo parente prossimo e io estrassi il cibo dalla sacca. Entrambi annusarono nella mia direzione, ma il lupo non si avvicinò. “Cioè, fammi capire… Vieni a casa mia quando ti pare e piace e poi non mi dai neanche un po’ di confidenza?”, brontolai, mentre lui mi fissava, incuriosito dal

suono della mia voce. Mi accovacciai e mi spostai verso di lui, attenta a non spaventarlo; a due metri di distanza, gli lanciai la carne, che apprezzò. “Sei bellissimo”, mi complimentai rapita, ma lui continuava a essere titubante. Lanciai un altro pezzo di carne, quella volta più vicino, e Gabriel avanzò nuovamente. Proseguii con il sentiero di cibo finché non giunse a meno di un metro e allungai il braccio, ma si ritrasse rapidamente. “Accidenti, se sei sospettoso, non ti faccio niente”, sbuffai, mentre Mioara trotterellò verso di lui, allegra. “Lei ti sta simpatica, eh”, brontolai sedendomi sulla panca e limitandomi a osservare da lontano l’interazione tra i due. Il suo comportamento era curioso, quasi inusuale: molto interessato a noi, ultime arrivate nel bosco, aveva in buona parte superato la paura per provare a conoscerci. Trascorse l’intera nottata alla baita. Li osservai, presi appunti e, solo quando il cielo si tinse di rosa, socchiusi gli occhi.

Stavo tagliando una fetta di pizza che, contrariamente a quanto avessimo supposto, si dimostrò eccellente e Alin, sorridendo, mi confessò la sua emozione. “Cavolo, non posso crederci che tra una settimana ci sposiamo”, sorrise. “Nemmeno io. Dopo tutto questo tempo non pensavo ti saresti deciso”, scherzai. “È tutta colpa tua che sei andata a scuola fino ai trent’anni!”. “Esagerato”, risi. “Comunque, anche se sono già undici anni che ti sopporto, non vedo l’ora di sposarti”, mi confidò. “Anch’io, e la sopportazione è reciproca”, conclusi, scherzosa.

Terminammo di cenare rapidamente, decisi a guardare un film nel cinema lì a fianco; si trattava dell’ultimo spettacolo e coloro che intendevano assistervi avevano già comprato i biglietti e attendevano silenziosi in un angolo. Armati di popcorn e coca-cola, entrammo nella sala e occupammo due sedili nella fila centrale. “Hai parlato col fioraio per quella correzione del colore dei fiori?”. “Sì, certo, gli ho telefonato stamattina dal lavoro”, mi rassicurò. Stavo per chiedergli conferma se avessimo portato fuori la spazzatura prima di uscire, ma lui mi anticipò. “Il bidoncino l’ho lasciato io davanti al cancello”. “Hai imparato a leggere nel pensiero?”, domandai sbigottita. “No, ma sono diventato abile a interpretare le tue espressioni preoccupate”. “Beh, devo dartene atto. Complimenti”, sussurrai. Il film iniziò e restammo in silenzio di fronte allo schermo.

Fu sufficiente mezz’ora di sonno a frastornarmi e, svegliandomi di soprassalto, caddi dalla panca su cui ero seduta. Ero ancora a terra, quando qualcosa di roseo e viscido mi bagnò il viso. Spinsi via Mioara e mi rialzai traballante, stupita di aver realmente dormito all’esterno. Al mio risveglio, Gabriel non era presente e gli spari che udii in lontananza mi suggerirono il perché. Restai a contemplare il vuoto, attendendo l’arrivo dell’Orso. Quel giorno dovevamo tagliare la legna in una parte di bosco di sua proprietà. Percepii dei i e mi rizzai, convinta fosse lui, ma dagli alberi sbucò un uomo in tenuta mimetica. Quest’ultimo, notandomi, rimase attonito. “Lei che ci fa qui?”, domandò.

“Ci vivo, non si vede? Piuttosto, mi dica per quale motivo lei è sulla mia proprietà?”. “Seguivo le orme di quel lupo”, mormorò fissando Mioara. “Ne dubito. Primo perché non è una lupa e secondo perché non si è mossa di qui”, borbottai. “Sono io a dubitare di entrambe le sue affermazioni”. “Come le pare. Stia attento a quello che fa, però, perché il lupo come lei ben sa è specie protetta, anzi super protetta”, lo avvisai. “Volevo solo vederne uno, non cacciarlo”. “Auguri, allora. È impossibile che si avvicini un lupo, con tutto questo scoppiettare”, conclusi, notando con piacere l’arrivo di mio prozio. I due chiacchierarono a proposito delle montagne e infine, inaspettatamente, il cacciatore si propose di provvedere agli allacciamenti idraulici alla baita, essendo lui del mestiere. Non potendo finanziarli, mi schierai contro l’iniziativa, ma fui scalzata dalla volontà dei miei genitori e dell’Orso, cosicché circa una settimana dopo iniziarono le opere di restauro. Per giorni fui costretta a vivere alla cascina, lontana dal mio nuovo amico e dai miei boschi. Il risultato fu sorprendente: installarono un water, una vasca e un lavandino nella zona bagno e un lavello in cucina. Approfittando del tran tran degli impiantisti, anche mio padre mi tenne compagnia per qualche giorno per rattoppare il tetto, così potei finalmente offrirgli un caffè. “Allora, tesoro, come procede la vita quassù?”. “Molto bene, grazie”. “E Mioara? Dove l’hai lasciata?”. “È alla cascina con lo zio, ormai sono inseparabili. Sta persino tentando di insegnarle a fare il can bergé”. “Impossibile”, rise.

“Diciamo improbabile. Diamole un po’ di fiducia! Devo tornare al lavoro, pa’, chiudi tutto quando te ne vai”. Lo salutai e corsi nel bosco. Data la crescente richiesta dei nostri prodotti, l’Orso mi obbligava a saltare da un mercato all’altro delle Valli di Lanzo. Il pascolo era un lontano ricordo e la sveglia alle cinque era finalizzata esclusivamente all’arrivo puntuale nelle piazze. Viaggiavo con l’apposito camioncino, che conteneva il banco frigo necessario alla conservazione dei prodotti. Un’abbondante mezz’ora della mattinata era dedicata agli acquisti delle mie nonne, che mai come allora avevano comprato al banco formaggi. La sera invece, dopo essersi assentato per un po’ a causa della ristrutturazione, Gabriel tornò a trovarci regolarmente dimostrandosi sempre più propenso a relazionarsi con me. La ragione delle sue visite era ancora un mistero, ma ormai assecondavo ogni suo gesto con estrema calma, inducendolo pian piano a fidarsi di me. Non potevo asserire di averlo addomesticato e certamente mai ci sarei riuscita, ma per essere felice mi bastava di stargli intorno senza suscitare paura o sospetto. Avevo documentato attentamente ogni sua espressione e ogni sua mossa, perciò mi proposi di raccogliere i miei appunti in una sorta di libro concernente le esperienze condivise. Non avevo progetti seri a riguardo, ma solo la speranza di riordinare il vortice di fogli e foglietti contenenti la storia del mio lupo. Notai con piacere, essendo priva di un computer, la presenza di una vecchia e rugginosa macchina da scrivere su una mensola a casa dell’Orso, al quale, dopo una prima titubanza, decisi di chiederla in prestito. Parve contento di liberarsene, ma si dimostrò scettico riguardo al suo funzionamento. Non avevo idea di come ritagliare il tempo per scrivere, né tanto meno sapevo da che parte dovessi cominciare, ma l’ispirazione giunse inaspettata all’imbrunire di un giorno di estate mentre dondolavo nella mia nuova amaca collocata tra due betulle a fianco del muro in pietra.

CAPITOLO 3

Ricevetti una visita che in un primo momento m’intimorì un poco, suscitando il mio istinto di fuga. Mi avvicinai alla porta d’ingresso poiché, nonostante l’abitudine, quel trio non mi trasmetteva serenità. Neanche Mioara era propensa ad accogliere gli ospiti. “Ah, ora non fai la spavalda”, la schernii e le permisi di entrare in casa, mentre mi concentravo sui nuovi arrivati. Gabriel era il più vicino, come volesse esortare i compagni ad avvicinarsi attraverso una particolare modulazione della voce. Volendo apparire il meno offensiva possibile, mi acquattai. Il secondo esemplare l’avevo conosciuto qualche tempo prima poiché si era avvicinato alle capre al pascolo. Da vicino era tutta un’altra cosa: Lucian non godeva della mole del figlio, ma la serietà del suo sguardo trafiggeva. Gli occhi marroni ambrati erano contornati di bianco e inseriti nella maschera grigio-nera che delineava il muso. La bocca, appena aperta per il caldo, lasciava intravedere la dentatura candida e affilata. Nonostante la pelliccia, i muscoli tesi e sviluppati erano ben in evidenza come prova della forza fisica che certamente possedeva. Il suo sguardo era tanto tagliente che non ebbi il coraggio di sostenerlo, quindi ai ad analizzare l’individuo che chiudeva il triangolo. La taglia minuta in confronto a quella degli altri mi suggerì il sesso, inoltre la struttura fisica era tipica di un esemplare giovane. Era una delle sorelle di Gabriel che, in base all’ipotetica classificazione da me fatta, decisi di identificare in quel momento in Cornelia. Caratterizzata come suo fratello dall’incoscienza tipica dell’età, non sembrava essere particolarmente a disagio in quella situazione, anzi mosse qualche o in avanti affiancando Gabriel. Dalla finestra del cucinino riuscii ad afferrare un sacchetto con gli avanzi del giorno precedente; non sapevo come spezzare la tensione del primo incontro se non con del cibo, fiduciosa che, avendo funzionato con Gabriel, potesse andare bene anche in quella circostanza con il resto della truppa.

Guadagnai l’attenzione della femmina, ma con il maschio alfa nulla da fare. Mi chiesi il perché si fosse lasciato convincere a venire alla baita, se poi doveva mostrarsi tanto contrariato. Gettai la spugna, conscia che insistere sarebbe stato controproducente. Lucian in seguito si tenne a distanza anche da Mioara. “È inutile”, sbuffai e tornai a dondolarmi sull’amaca fingendomi indifferente. “In sei anni non ho mai visto nulla e ora tu me li porti a casa”, sussurrai rivolta a Gabriel. Il capobranco fiutava dappertutto, come alla ricerca di qualcosa che parve trovare nella stalla, davanti alla quale s’immobilizzò. “Non vorrai mangiarti Lola, spero! È vecchia, non credo ti piacerebbe…”, scherzai, ma lui con la testa aprì la porta ed entrò. Balzai in piedi, terrorizzando Cornelia con il movimento brusco, ma mi accorsi che l’oggetto dell’interesse non era la mula, bensì la stalla in sé. Rimasi a osservare in disparte la bestia pelosa che pattugliava l’area, con il naso incollato a terra come un segugio. Giunto nell’angolo più buio, emise un verso e i figli lo raggiunsero annusando anch’essi. “Fate pure come foste a casa vostra”, borbottai ironica. Erano lupi bizzarri, che evidentemente non mi consideravano una minaccia per loro. Nessuno avrebbe mai creduto alla mia storia, se l’avessi raccontata. I giorni seguenti Gabriel e Cornelia tornarono a farmi visita portando, poco per volta, foglie e muschio e altri residui di bosco che collocarono nell’angolo della stalla che avevano scelto. Permettevo quell’andirivieni perché per me non c’era nulla di più bello ed emozionante. La mia speranza era quella di trovare al più presto una nuova sistemazione alla mula perché, nonostante non l’avessero ancora considerata, non ero certa che non se ne sarebbero interessati. Dopo aver ponderato su un possibile progetto, presi in prestito dall’Orso quattro pali, quattro bancali in lamiera e degli attrezzi, quindi mi diedi al bricolage. I primi sei o sette tentativi di creare un’impalcatura che ricordasse vagamente una tettoia furono vani, ma l’ultima costruzione dalla dubbia struttura restò in piedi e mi accontentai. Simulai tremori e scossoni e, dato che non cedette, piazzai al di sotto la mula.

“Scusami Lola”, borbottai, e la constatazione che per i tre quarti della giornata interagissi e soprattutto parlassi solo con animali mi fece sorridere. Tornai al lavoro in tempo per spalare un grosso carico di letame dalla stalla e assistere, non senza nausea, alla nascita di un vitello. In quell’occasione fortunatamente dovetti solo vigilare sul lavoro del mio prozio e ascoltare le diagnosi del veterinario che assisteva. Sistemai diverse forme di formaggio negli appositi scaffali della sala di stagionatura e giudicai pronta la ricotta formatasi nella bacinella coperta da un panno sottile. Tornai dal vitello, che si stava godendo le prime poppate e lì trovai l’Orso. “Ho deciso di portare al pascolo le vacche. È da un po’ che non escono”. “D’accordo. E io che faccio?”. “Scorterai le capre al di là della vetta, sull’altro versante”. “Non ci sono mai stata con loro”, confessai titubante. “C’è sempre una prima volta. Ora vai, ma fai attenzione. Desi è con me, cerca di impiegare la tua cagna come meglio riesci”, ordinò e se ne andò. “Come se fosse facile. Non è da escludere che se la mangi lei una capra”, brontolai al vento rimasta sola e, messa da parte l’esitazione, m’incamminai con la mandria lungo il sentiero. La camminata durò alcune ore, al termine delle quali mi ritrovai dinnanzi una distesa erbosa visibilmente trascurata con due solitarie betulle al centro. Decisi di accomodarmi alla loro ombra, mentre le capre si allargavano racimolando tutto lo spazio possibile. Posai a terra la canna da eggio, stesi la coperta, estrassi dalla sacca la macchina per scrivere e mi sedetti. Collocai la risma di fogli nella postazione e aprii la mente. Mi strofinai la nuca, poi le tempie e gli occhi; il sole era accecante, ma cercai di non farci caso. Buttai un occhio al pascolo e, constatato che l’ispirazione non voleva saperne di arrivare e innervosita dalla totale mancanza di creatività, iniziai a ricopiare a macchina gli scarabocchi appuntati a penna.

Ero appena a metà del primo foglio quando mi fece sobbalzare lo scoppio di una fucilata, seguito da latrati caotici e da un altro sparo. Mi alzai, valutai il perimetro del prato per assicurarmi che non ci fosse nulla di anomalo, ma il cuore perse un battito e la cassa toracica si schiacciò; poi i colpi nel mio petto divennero martellate, il fiato si fece corto. Emisi un gemito, con le mani tra i capelli e iniziai a correre, chiamando a squarciagola. M’inoltrai tra le betulle che contornavano il prato e i latrati dei cani da caccia erano sempre più vicini; c’era un chiasso insolito. Inciampai su un ramo, mi schiantai violentemente a terra e schiacciai il braccio tra il mio corpo e una pietra. Il dolore fu lancinante, ma non fui dissuasa dalla mia ricerca frenetica. A un certo punto vidi un bossolo tra le foglie sul suolo e imprecai, terrorizzata. Mi feci largo tra gli alberi e d’improvviso mi ritrovai davanti due uomini accovacciati in tenuta mimetica. Sobbalzarono al mio arrivo e al di là dei loro corpi notai una folta coda bianca e argentata dalla punta nera. Raccolsi le ultime forze per sporgermi in avanti e la riconobbi. “Levatevi subito”, urlai furibonda e i due uomini si scostarono appena. “Faccia attenzione, signorina”, mi avvisò uno. Era immersa in un lago di sangue. Le appoggiai una mano sul ventre ma, non captando nulla, tentai con l’orecchio e mi accorsi che respirava debolmente. Dopo aver riconosciuto il mio odore, aprì gli occhi e le accarezzai il muso dolcemente. “Andrà tutto bene, te lo prometto, tieni duro”, le sussurrai e con il petto bruciante di rabbia e dolore mi voltai. “Che cosa avete fatto?”. “Signorina, non la prenda a male. Siamo cacciatori, ci siamo trovati davanti un lupo e abbiamo sparato”. “Questa non è una lupa, cazzo”, sbraitai, ma la testa mi girava tanto da non permettermi di ragionare con lucidità. “Vi prego, aiutatemi. Dobbiamo curarla”.

“Signorina, ha due pallottole in corpo…”, provò a dire uno dei due. “Non me ne frega niente. Questa creatura è tutto ciò che ho, quindi ora muovetevi a caricarla sulla vostra jeep, perché la portiamo all’ambulatorio veterinario. Altrimenti vi denuncio seduta stante”, urlai. Nonostante la loro evidente incredulità e lo scetticismo, mi ascoltarono. Presi in braccio Mioara e il polso scricchiolò in modo sinistro, ma lo ignorai; il suo sangue mi scaldava il petto e la tenevo stretta, quasi come se stesse per spezzarsi. Avevo paura, una paura matta di perderla e il senso di colpa per non averla controllata mi attanagliava il cuore. “Tieni duro”, continuavo a sussurrarle, mentre lei emetteva dei gemiti soffocati e disperati. Imposi a uno dei due uomini di badare al bestiame fino al mio ritorno e montai sul fuoristrada. In circa tre quarti d’ora giungemmo alla sede più vicina della Guardia forestale, dove era presente un ambulatorio veterinario volto al soccorso della fauna selvatica e a fianco della quale si trovava un centro di primo soccorso provvisto di paramedici. Corsi all’interno e gli aiutanti del veterinario mi consentirono di adagiare Mioara sul tavolo operatorio. “Una pallottola si è fermata nella coscia, l’altra è molto più interna. Potrebbe aver danneggiato gli organi principali e per verificarlo è necessario operare. La avverto sin da subito che se è andata in questo modo le chances di salvarla sono nulle; d’altra parte ha perso tanto sangue da rendere la sopravvivenza un’ipotesi remota in ogni caso. Ora, signorina, la prego di uscire fintanto che opero. Farò il possibile, glielo prometto, ma è una situazione oltremodo critica; pretendo prossime informazioni riguardo ai responsabili di questo scempio. Intanto, vada a mostrare il braccio ai paramedici perché sono quasi certo sia rotto”, concluse il responsabile, chiudendomi fuori dalla sala operatoria. Uscendo, notai gli occhi di Mioara aprirsi per guardarmi andar via e le lacrime mi solcarono le guance. Mi sentivo svuotata, incapace di tutto, inutile. Non sapevo prendermi cura di niente e di nessuno, ero inaffidabile e quel giorno ne avevo avuto la conferma. I paramedici, che mi avevano circondata mentre io, come un fantasma, mi spostavo per i corridoi, mi sommergevano di quesiti e intuii, dalle frasi sconnesse che riuscii a percepire, che probabilmente avevo una frattura

scomposta al polso. Composi il numero sulla tastiera del cellulare e attesi. “Pronto?”. “Mamma, sono Sofia. Vieni al centro della Guardia forestale, quello dell’ambulatorio. Ho bisogno d’aiuto”. Riagganciai senza attendere risposta, il dolore in quel momento mi annebbiava la mente. Un ragazzo in camice mi scortò fino a una stanzetta quadrata e molto luminosa, poi mi fece sedere. Mi controllò il battito cardiaco e i riflessi, dopodiché con un pugno d’ovatta imbevuta di un liquido disinfettante mi tamponò i numerosi tagli e le abrasioni su ginocchia e gambe provocati dai rovi e dalle pietre; sempre in silenzio, con lo sguardo fisso e concentrato, si spostò sul polso, che era divenuto gonfio a tal punto che pareva esserci una pallina da tennis sotto la pelle. “Signorina, il polso è fratturato. Temo si tratti di una frattura scomposta, è necessario pertanto scortarla a Torino”. “No, non posso andarmene”. “Sono sicuro che la sua amica è in ottime mani. Le chiamo immediatamente un’ambulanza e presto sarà di ritorno, non si preoccupi”. “Stanno arrivando i miei genitori, saranno qui a minuti”, balbettai, ma non ebbi il tempo di terminare la frase che udii le loro voci in lontananza. Uscii di corsa. “Ciao, è successo un casino. Due cacciatori hanno sparato a Mioara! Il veterinario la sta operando, ma mi ha informata a proposito della gravità delle ferite. Io ho lasciato le capre al pascolo, affidate a uno dei due cacciatori… Sono stata una stupida, ma per favore vai a recuperare la mia mandria, papà, o perlomeno avvisa lo zio”, supplicai con gli occhi bagnati. “Certo, penso a tutto io. Cos’hai al braccio?”. “È fratturato. Devo andare a Torino”, sospirai e me ne andai accompagnata dai paramedici, non lasciandogli il tempo di rispondere. All’esterno incontrai mia madre, che salì in ambulanza con me.

“Ti sono grata della compagnia. Ho fatto un casino dietro l’altro”. “Non potrei mai lasciarti da sola. Si può sapere cosa è successo?”. “Ero al pascolo da nemmeno mezz’ora e ho sentito gli spari… E non ho più visto Mioara… Sono corsa nel bosco e l’ho trovata in un bagno di sangue, allora l’ho portata subito qui… Ma era tardi e ho persino lasciato gli animali nelle mani di uno sconosciuto… Sono stata un’idiota”. “Sono certa che non avessi altra scelta”, mi rincuorò. “Io so solo che la mia migliore amica probabilmente morirà e sarà colpa mia”. “Non dire stupidaggini, per favore”, s’innervosì. Stremata da ciò che mi era successo, mi sdraiai con la testa sulle sue ginocchia e, proprio come da bambina, socchiusi gli occhi mentre lei mi accarezzava i capelli. Lo scossone provocato dall’ambulanza in frenata mi riscosse dal nulla in cui mi ero tuffata e mi costrinse a tornare alla realtà. “Alzati, Sofi, siamo arrivate”, mi esortò dolcemente mia madre, e io obbedii. Ci trovavamo all’ospedale CTO di Torino, il che mi parve un’esagerazione ma poi, per non smentire la mia consueta sfortuna, mi annunciarono che si trattava di una frattura scomposta, da operare immediatamente e da coronare con cinquanta giorni di gesso. Non me ne importava più di tanto, poiché il mio cuore era su un altro tavolo operatorio di un’altra sala. Seguii dunque come una marionetta le direttive delle infermiere e mi lasciai cullare dal torpore dell’anestesia, avendo ormai abbandonato da tempo la piacevole sensazione del sonno.

Non prestavo molta attenzione all’intreccio del film. La mia mente era indaffarata e intenta a pianificare ogni particolare delle mie prossime nozze. Per il matrimonio avevamo scelto la chiesa di San Giovanni a Ciriè, mio paese natale, ornata di orchidee dalle tinte rosa pastello, che componevano anche il

mio bouquet. Io mi ero occupata di ciò che riguardava la cerimonia, mentre Alin degli inviti e del pranzo. I testimoni erano mio fratello e mia cognata, mentre la piccola Lucia avrebbe portato le fedi. Me la potevo immaginare nel suo vestitino, anch’esso rosa, leggermente impacciata ma bellissima nella sua innocenza. Dopo tanti anni di fidanzamento e di convivenza sembrava persino strano organizzare una cerimonia che era una conferma del nostro amore e impegno reciproco, tuttavia non avremmo mai potuto rinunciarci. Non mi accorsi nemmeno che avevano le luci per l’intervallo, tanto che fu il mio compagno a scuotermi. “Qual è il problema?”, sorrise. “Non eri abilissimo a interpretare le mie espressioni?”. “Simpatica. Scommetto che se t’interrogassi sulla prima parte del film faresti scena muta”. “Beh, magari arrampicandomi sugli specchi riuscirei a cavarmela! Abbi ancora un po’ di pazienza”, lo esortai baciandolo. “In realtà neanche io l’ho seguito bene”, ammise. “E a cosa pensavi?”. “Alla luna di miele”, confessò ammiccando e risi. “Non avevo dubbi”, bisbigliai, mentre il buio invadeva la sala.

Una voce femminile mi rimbombava nelle orecchie e mi formicolavano le gambe. Aprii leggermente gli occhi e la vista di mia madre che si informava dal medico riguardo le mie condizioni mi parve un déjà-vu. Non appena si accorsero che ero cosciente si avvicinarono al letto. “Signorina Sartin… Come si sente?”, domandò lui.

“Abbastanza bene”, annunciai con la bocca impastata. “Le abbiamo inserito una giuntura artificiale da o all’osso e abbiamo ingessato. Devo ritrattare le affermazioni precedenti e annunciarle, purtroppo, che sarà necessaria una convalescenza di sessanta giorni a cui seguirà un periodo di riabilitazione, in quanto è stato danneggiato anche il tendine e la mobilità della mano sinistra potrebbe essere stata compromessa”. “Di bene in meglio”, replicai ironica. “Mi dispiace… So che lei svolge un lavoro che necessita delle piene funzioni fisiche”. “Non si preoccupi. Me la caverò, come ho fatto in precedenza. Grazie di tutto l’aiuto che mi avete dato… Posso tornare a casa?”, domandai, impaziente. “Tra qualche ora l’ambulanza che l’ha portata qui sarà pronta a tornare tra i monti”, scherzò e mi strinse la mano, poi continuò: “Ci vediamo tra due mesi per togliere il gesso e iniziare la riabilitazione”. “Arrivederci”, salutammo io e mia madre. Solo dopo essere rimaste sole, lei parlò. “L’operazione di Mioara è finita. Ora è sotto anestesia, è debolissima e le possibilità che si svegli sono poche”, comunicò tutto d’un fiato e velocemente come quando si strappa un cerotto. Il mio cervello iniziò a bruciare come se si trovasse sul fuoco vivo e il cuore sembrò contorcersi come stritolato da una mano invisibile. “Okay”, riuscii a sputare tra i denti. “So che lei ha significato molto nella tua vita e che il vostro legame è qualcosa di indissolubile e insostituibile. So che ti ha riempito l’animo in momenti in cui nessun altro è stato capace di starti vicino, ma devi fartene una ragione e iniziare a entrare nell’ottica che domani potrebbe non esserci più”, cercò di incoraggiarmi. “Credo di farcela, non preoccuparti”. “Tu dici sempre così, ma poi perdi chili e non dormi più la notte. Ti conosco da

ventisei anni e forse meglio di chiunque altro”. Non risposi, perché se avessi pronunciato ancora una parola sarei scoppiata in lacrime, ne ero certa. Lei non era un cane, non lo era mai stata: prendermene cura mi aveva resa felice nonostante tutto, ma mi ero dimostrata un fallimento su tutti i fronti nel permettere che le accadesse quella disgrazia. A fatica sopportai il silenzio teso delle ore seguenti, ma non appena gli infermieri mi annunciarono che mi era permesso tornare a casa, balzai in piedi e mi vestii. L’ambulanza che ci attendeva davanti alla struttura aveva il motore , così montammo nel retro. Gli effetti dell’anestesia stavano svanendo, poiché sotto la pelle mi pareva che ci fosse qualcosa di incandescente. Chiusi gli occhi, più per avvertire di non essere intenzionata a comunicare con qualcuno che per reale stanchezza. Il viaggio di ritorno fu interminabile e le numerose curve mi nausearono a tal punto che fui costretta a domandare all’autista di fermarsi qualche minuto per farmi prendere una boccata d’aria fresca. Ero incerta se il problema di stomaco fosse dovuto al mal d’auto oppure alla paura di ciò che mi aspettava. Ci fermammo nel parcheggio interno dell’ambulatorio e mi recai dal veterinario. Notai il pelo grigio e bianco in una grossa gabbia, quindi mi avvicinai, raccogliendo tutto il coraggio che avevo. Vederla lì, ripulita del rosso che l’aveva macchiata, candida e serena con il respiro debole, mi fece tornare in mente una scena che sembrava essersi svolta in un lontano ato. Era occasione di colloqui a scuola e io mi preparavo psicologicamente a trascorrere una lunga e impegnativa giornata. Squillò il telefono: era Alin che, dall’altro capo, mi raccomandò di tornare a casa presto perché aveva una sorpresa per me. Emozionata dal mistero di cosa mi attendesse sperai di sbrigarmela in fretta; purtroppo, però, occupandomi di tre classi di cui i tre quarti degli alunni negati per la matematica, ricevetti l’ultimo genitore alle nove e un quarto. Convinta di aver concluso, feci per rincasare, ma proprio sulla soglia dell’istituto mi raggiunse la coordinatrice di classe, intenzionata a discutere con me di alcune situazioni a rischio di bocciatura. L’orologio segnava le dieci quando montai in macchina e tornai a casa. Citofonai, ma non ottenni risposta e aprii con la mia chiave. Era buio, ma dal salotto proveniva il vociare soffuso della televisione.

Alin era seduto sul divano con gli occhi chiusi e Mioara, con la testa appoggiata sulle sue gambe e il corpo raggomitolato come un ghiro, gli teneva compagnia nel dormire. Erano tanto assopiti da non avermi sentita entrare, per questo evitai di svegliarli. Mi recai in cucina e scoprii con meraviglia che nel forno tiepido era presente una pentola con dell’arrosto. Mi sedetti a tavola e sotto il piatto trovai un biglietto: “Cercherò di resistere, altrimenti rimandiamo a domani. Ti amo”, lessi, sorridendo. Ero affamata e solo nel momento in cui mi alzai per andare a letto il mio compagno mi raggiunse mezzo addormentato; quindi, dopo essersi scusato per non essere riuscito ad aspettarmi sveglio, con uno sguardo che non avevo mai visto, mi domandò di sposarlo. Riscossa da quel fiume di ricordi, accarezzai il capo della mia creatura così indifesa e debole. “Devi farcela, non puoi lasciarmi sola. Senza di te non ho più nulla”, implorai con gli occhi gonfi. Restai lì alcune ore e di tanto in tanto le toccavo la pancia per assicurarmi che respirasse ancora; ogni minuto che trascorreva senza cambiamenti spegneva la mia speranza, fino a renderla inesistente. Il dolore al braccio non cessava, così come la voglia di vomitare, mentre mi sforzavo di ignorare gli sguardi rassegnati di chi mi circondava. L’Orso mi raggiunse intorno alle dieci e trenta di sera, per rassicurarmi sulla situazione del bestiame e informarsi sulla mia lesione. “Quando torni a casa?”, domandò. “Non appena si sveglia”. “Ah…”, fece una pausa. “Tutti gli animali che ho visto in queste condizioni poi sono morti”. “Speriamo che questa sia un’eccezione, ma apprezzo la sincerità”, borbottai. “Puoi lavorare lo stesso con quel braccio?”, cambiò argomento. “Certo che sì! Ho rotto il sinistro, che è inutile anche quand’è sano”, cercai di sdrammatizzare.

“Già. I cacciatori stanno avendo delle grane con la Forestale”. “Beh, è giusto, anche se è stato tutto un gigantesco equivoco”, conclusi, nonostante la notizia non mi desse sollievo. Mio prozio restò con me, poiché ero sprovvista di un mezzo per tornare alla baita e rimanemmo per la maggior parte del tempo in silenzio. Ero intenta a fissare il vuoto, quando qualcosa di viscido mi sfiorò le dita che fuoriuscivano dall’ingessatura, facendomi sussultare. Incerta se si trattasse della mia immaginazione non mi voltai e preferii rivolgermi all’Orso. “È ciò che penso?”. “Perché non guardi tu stessa?”. Risi e appoggiai la guancia su quella di Mioara, che aveva spalancato i suoi splendidi occhi ambrati. “Accidenti a te!”, sorrisi tra le lacrime. “Non farmi mai più uno scherzo simile”. Il veterinario la visitò nuovamente, ma mi confermò che era fuori pericolo e che, a patto di lasciarla a riposo per almeno una settimana, potevo portarla a casa. Era difficile tenerla ferma, dato il suo temperamento, ma ero così euforica per il miracolo appena accaduto che piuttosto sarei rimasta una settimana immobile vicina a lei. L’Orso la sollevò e la caricammo in macchina, dove si addormentò nuovamente. Riuscimmo a condurla fino alla baita senza troppi scossoni e lì le preparai un giaciglio con una vecchia trapunta. Le fitte al braccio persistevano e, probabilmente a causa dello shock vissuto quel giorno, non mancò molto che corsi a vomitare. Sbattuta e stanca, mi gettai a terra di fianco a lei e finalmente mi rilassai. Fu una nottata tranquilla per entrambe: non dormii, ma rimasi in pace a contemplare l’oscurità. Non avevo vincoli di orario per il giorno successivo poiché l’Orso mi aveva concesso una settimana di pausa per badare alla convalescente, così mi alzai alle sette e mi accorsi che fuori diluviava. Mi avvolsi una busta di nylon intorno al braccio, quindi uscii per assicurarmi che Lola fosse all’asciutto e per procurarle del fieno nella vecchia stalla.

Ero già oltre la soglia, ma udii un ringhio sinistro e mi bloccai per mettere a fuoco l’ambiente circostante. Era scuro a causa della mancanza di finestre, distinguevo solo i mucchi di legna e di fieno. Estrassi l’accendino dalla tasca, sperando che mi permettesse di individuare la fonte di quell’unico, prolungato, inquietante ringhio. Notai una sagoma pelosa accucciata nell’angolo e indietreggiai, ma qualcun altro bloccava l’uscita. Mi voltai, preoccupata, ma fui sollevata nell’accorgermi che era Gabriel. Il lupo permise il aggio senza nemmeno allontanarsi e mi fissò incuriosito. Nonostante la presenza sospetta nella mia stalla, ero costretta a prendere legna e fieno e quindi, armatami di lampada, rientrai. Il ringhio si ripeté, ma fu immediatamente interrotto da un altro verso curioso, quasi un miagolio, tanto flebile che per un secondo credetti di essermelo immaginato. Puntai la luce verso la fonte e trovai uno spettacolo meraviglioso: una lupa che non avevo mai visto prima, dal pelo grigio scuro e le iridi che apparivano quasi bianche tanto chiaro era il giallo che le colorava. Sdraiata su foglie, paglia e muschio portati lì dai membri del suo branco, allattava una manciata di cuccioli neri lunghi non più di una spanna. “Porca miseria”, sussurrai strofinandomi la fronte. Lucian entrò alle mie spalle e si interpose tra me e la sua compagna. Con movimenti calmi, caricai un secchiello con legna e fieno con la mano buona e uscii, incredula e sconcertata. Infradiciata dall’acquazzone, mi rifugiai in casa. “Non hai idea di cosa stia accadendo là fuori”, mi rivolsi a Mioara, sdraiata dove l’avevo lasciata, mentre srotolavo il nylon dal braccio e accendevo la stufa, dato il calo di temperatura a causa dell’umidità. “Se prometti che stai buona e brava, vado dallo zio a prendere le scorte di cibo per questa settimana”, comunicai, cercando di convincere soprattutto me stessa. Non dava segni di volersi muovere e quindi, seppur riluttante, la chiusi in casa e mi diressi alla cascina, cercando di rimanere imibile di fronte al via vai peloso all’esterno. L’Orso era in cortile con un ombrello, come se avesse percepito a distanza il mio arrivo, e si stupì di vedermi indosso un impermeabile che mi copriva fino al ginocchio e degli stivali in gomma.

“Finalmente hai imparato a vestirti in maniera idonea”, mi punzecchiò. “Indosso sempre abiti adatti”. Risi e mi aggrappai alla sua spalla per smontare dalla groppa. “Come state lassù? Sei in ritardo”. “Scusami, me la sono presa comoda. Comunque tutto bene, anche se siamo ancora un po’ stordite”. “Ti ho preparato latte, formaggio, burro, caffè, zucchero, pane, pasta, olio, sale, conserva, carne e uova; anche acqua, una padella, una pentola, molti fiammiferi, e…”. “Grazie”. “Piatti e bicchieri di plastica, posate, carne in scatola e croccantini”. “Accidenti, zio. Quanto ti devo?”. “Niente”. “Non scherzare, dai”. “Non ricordi più che sfamarti è compito mio?”, domandò serio, facendomi ridere. “Quando ti aiuto sì, ma questa settimana sono a riposo”. “Ti farò recuperare appena tornerai. Ti impresto anche il mio frigo a batterie così potrai mantenere i cibi”, concluse e caricò tutto sulla schiena e i fianchi della mula. Lo salutai a malincuore, conscia del lavoro che gli lasciavo sulle spalle. Potendo utilizzare solo un braccio, impiegai molto tempo e fatica per scaricare tutto in casa. Raccolsi qualche boccone e tornai alla stalla, decisa a indagare. Nella piccola struttura, a quell’ora ben illuminata, il poco spazio libero era stato occupato da due sagome pelose, che dormivano affiancate. Appena mossi un o all’interno, Gabriel mi affiancò.

“Sei bravo a fare la spia, eh… Lascia che ti ricordi che questa è casa mia e che sono libera di andare dove mi pare e piace”, bisbigliai per non svegliare gli altri, ma fallii. Lucian si alzò e mi fissò minaccioso e, mentre la femmina alfa era sdraiata, contai i corpicini che emergevano dal pelo della madre: sei. Estrassi un pezzo di carne dalla tasca e lo lanciai vicino al capo branco, che lo raccolse e lo condivise con la compagna. “Siete proprio carini”, sorrisi e lanciai un altro boccone prima che, dietro di me, qualcuno entrasse con un tonfo. Le altre due femmine trascinarono i resti di un cervo fino a Camelia, lasciando una densa scia di sangue sulle travi del pavimento. Mi allontanai, trattenendo i conati, e osservai il banchetto dall’uscio, approfittando della loro distrazione per scattare qualche foto. Avevano portato la preda alla tana per nutrire la madre impegnata con i cuccioli appena nati e a giudicare dalla taglia e dall’aspetto i piccoli non avevano più di due giorni. Probabilmente i nuovi affittuari avevano approfittato della mia assenza del giorno precedente per piantare le tende. Notando l’inquietudine del capobranco, che frequentemente alzava il muso per scrutarmi sospettoso, decisi di lasciarli e di approfittare delle ferie per mettermi a scrivere qualcosa, nonostante la lentezza con cui premevo i tasti a causa della mano sinistra ingessata. L’interno della baita era avvolto da un tepore piacevole e avvolgente, così mi sedetti sul divano con la macchina da scrivere sulle gambe, Mioara sdraiata su di me. “Devi aspettare ancora un’ora prima di mangiare, perché il veterinario ha detto di lasciar trascorrere almeno diciotto ore dall’intervento. Tra poco usciamo”, la informai, accarezzandola dietro l’orecchio. L’ispirazione quel giorno giunse da sola, a seguito dei miracoli e delle meraviglie vissuti. Non potevo credere di avere avuto l’onore di ospitare la prima cucciolata del mio branco: nonostante la loro natura selvatica e schiva, si erano fidati di me giudicando casa mia un luogo sicuro in cui crescere i loro piccoli.

Ero quasi certa di essere l’unica al mondo ad avere un’occasione simile e non riuscivo a spiegarmi il motivo per cui mi avessero scelta. Probabilmente avere Mioara come tramite mi aveva aiutato, per non parlare della predilezione di Gabriel verso di noi. Era solo merito suo se il branco si era stabilito e con la caccia aperta nei boschi erano stati così scaltri da intuire che i cacciatori non si sarebbero avvicinati alla casa. Insomma, non era merito mio se erano arrivati, certo non avevo alcun potere speciale. Mi ero semplicemente dimostrata paziente e accogliente, rispettando il loro temperamento selvaggio e instaurando un legame speciale con un membro del branco. Scrissi alcune considerazioni, che ancora non avevano un vero e proprio filo conduttore, ma cominciavano ad apparire più amalgamate e scorrevoli. Non sapevo di preciso quale fosse il mio scopo, ma desideravo fissare nero su bianco pensieri che temevo potessero volare via all’improvviso. Come se avesse capito ciò che avevo detto poco prima, Mioara, scoccata l’ora, si alzò dal divano e si diresse verso la porta. Le allacciai il guinzaglio, consapevole che se non l’avessi fatto sarebbe corsa ovunque, e aprii. Gabriel si avvicinò immediatamente e le leccò il muso, come se cercasse di alleviare il suo trauma. Era tanto vicino a me da farmi credere di poterlo toccare, ma non tentai perché prevedevo un fallimento. Non permisi a Mioara di muoversi, volendo rispettare gli ordini del veterinario e la riportai presto in casa, più agitata di quando eravamo uscite. Sapevo che vedere gli altri animali muoversi liberamente all’esterno la mandava in crisi, ma ignorai i suoi lamenti. Per la prima volta da quando alloggiavamo alla baita mi resi conto di quanto essa fosse spoglia e della mancanza di atempi. Alla cascina le ore di luce volavano via e non potevo che concedermi qualche svago alla sera, mentre restando alla baita e per giunta obbligatoriamente rinchiusa, la settimana seguente risultò la più lunga e noiosa mai vissuta. Gli ultimi giorni furono tragici, poiché Mioara era stufa del riposo forzato e distruggeva tutto ciò che le capitava in bocca a tal punto che io, seppur sollevata dal suo miglioramento, iniziavo a perdere la pazienza. L’unico svago erano i lupi, due di loro sempre stabili nella stalla, uno impegnato nella ronda e le altre a caccia diverse ore al giorno. Di tanto in tanto portavo loro un boccone, più per interagire che per saziarli; si poteva intuire dalle enormi macchie di sangue secco sul pavimento di legno e dai resti di ossa che il nutrimento non mancava. Erano puliti e discreti, abilissimi nel are inosservati e ogni tanto ululavano,

perlopiù in risposta a stimoli esterni. In una settimana la taglia dei cuccioli raddoppiò. Il primo giorno di ritorno al lavoro mi svegliai alle quattro, tanto su di giri da non attendere l’alba, mi lavai in fretta con l’acqua gelida per non perdere tempo a scaldarla e dopo una mezz’ora seduta nella stalla a parlare di tutto e di niente con l’unico scopo di abituare i miei coinquilini alla mia presenza, montai in groppa e mi spostai. Avevo atteso con ansia il ritorno alla cascina, dove l’Orso mi stilò immediatamente un programma denso di attività con cui occupare la giornata: con il braccio ingessato non potevo pulire la stalla o spostare carichi, ma ero perfettamente idonea a sfamare gli animali e occuparmi dei prodotti per il mercato. Approfittando del ritorno in città per allestire il banco dei latticini, ai anche a trovare i miei, mio fratello e le mie nonne, felici di vedermi in forma nonostante gli ultimi avvenimenti. Ero intenta a preparare il pranzo per me e l’Orso, quando il silenzio della montagna fu interrotto dallo scoppio di uno sparo. D’istinto, buttai un occhio a Mioara, che però dormiva beata sotto il tavolo della cucina. “Hai letto il giornale?”, domandò mio prozio entrando. “No, non l’ho comprato”. “Sono sceso io all’edicola a Viù”, mi annunciò. “E quindi?”. Non capivo dove volesse andare a parare. “Quindi c’è la tua cagna in prima pagina”, m’informò porgendomi il settimanale. Lo afferrai in fretta. Rimasi allibita nel notare che era presente una foto di Mioara insanguinata. Lessi rapidamente i due paragrafetti che spiegavano l’incidente accaduto e le ripercussioni sui cacciatori, con tanto di intervista al mio veterinario. “Caspita! Quando hanno fatto questa foto e chi ha detto loro tutte queste cose?”. “Beh, la foto è quella che scatta di consueto il veterinario al paziente prima di iniziare un’operazione, credo abbiano parlato proprio con lui. Probabilmente

quel giorno il giornalista si trovava presso la Guardia forestale per effettuare un reportage. Il permesso di pubblicare l’articolo… Beh… Quello ammetto di averglielo dato io, poiché mi hanno telefonato e spiegato la situazione e credevo fosse giusto. Volevano intervistare anche te, ma ho detto di lasciar stare. Ho sbagliato?”. “Mioara è diventata una star e nessuno mi ha infastidita... Meglio di così…”, scherzai, sorridendo. “Quando termina la stagione di caccia?”, domandai. “Oggi”. “Non scherzare”. “Quest’anno è stata anticipata di molto l’apertura della caccia ad alcune specie e, a quanto pare, terminerà anche prima. È strano, ma così hanno deciso... È scritto sul giornale”, brontolò, indicando di nuovo il settimanale. “Domani mattina porterai le capre oltre la vetta. Non volevo metterti pressione, ma non dovrebbe essere un problema senza le fucilate”. “D’accordo. Cercherò di non farmi tornare in mente spiacevoli avvenimenti”, conclusi e mi dedicai a ciò che avevo nella pentola. Il giorno seguente, dopo aver trascorso gli istanti dell’albeggiare con i miei coinquilini, che reagivano con serenità alla mia presenza quotidiana, raccolsi non senza riluttanza le capre e le scortai al pascolo. Mioara mi stava incollata, reduce dalle sue brutte esperienze e, data l’impossibilità di scovare un fazzoletto di prato asciutto, gettai la coperta su una zona pietrosa, conscia della scomodità che ne sarebbe derivata. Mi sedetti a gambe incrociate e iniziai a scrivere, scaldata dal sole e dal pelo della mia cagna, che mi avvolgeva col suo corpo. Osservai le zone in cui era stata operata, depilate e deturpate da due lunghe file di punti, che avrebbero poi lasciato posto alle cicatrici. “Non riesco a crederci che sei viva”, sussurrai, accarezzando la pelliccia. Non avendo Desi, ma solo una simil-lupa più interessata ai grattini che a fare la guardia, non mi accorsi subito degli ospiti che si stavano aggirando attorno al mio gregge. Intuito il pericolo, impugnai il bastone e mi appostai di difesa.

“Gira al largo, furbacchione”, esclamai, ma Gabriel tentava di scavalcarmi. “Se prendi una capra, l’Orso mi uccide e poi io uccido te. Ti avverto, lupo”, borbottai scherzosa. L’animale non pareva intenzionato ad allontanarsi, fissava oltre alle mie spalle. Corina e Cornelia osservavano la scenetta rapite suscitando in me preoccupazione poiché, nonostante vivessero sotto il mio stesso tetto, non le conoscevo bene come loro fratello. La prima ad azzardare un movimento fu Corina che, con la grazia di una ballerina, si avvicinò a destra. “Non ci provare”, la ammonii, brandendo il bastone e sperando che avesse ancora un minimo di timore nei miei confronti. La sua attenzione era tutta per un capretto posto a cinque o sei metri oltre le mie spalle, quindi mosse un altro o, facendomi capire che era decisa ad averlo. Sapevo che stavano cercando del cibo, sia per loro sia per la neo mamma, ma non potevo permettere che si servissero liberamente come fosse un buffet, altrimenti non avrei più trascorso un giorno tranquillo. Cornelia mi coprì rapida il fianco sinistro e fui presa dal panico; guardai Gabriel, come a supplicarlo di dissuaderle, ma lui era distratto da Mioara, che gli trotterellava intorno. “Grazie dell’aiuto. Che razza di cane da guardia sei?”, sbuffai, attenta a non perdere di vista i predatori. Il mio impegno fu vano poiché, prima che potessi battere ciglio, le due belve scattarono in avanti, ignorando le mie urla intimidatorie e saltarono addosso agli unici due esemplari giovani, che non scapparono nemmeno. Inseguii Cornelia, decisa a fermarla, e corsi fino a provare dolore a ogni muscolo delle gambe, ma fu inutile e quando mi voltai nell’altra direzione notai a malincuore che Corina già banchettava, mentre Gabriel e Mioara la raggiungevano. “Fermati! Cosa diavolo credi di fare?”, gridai alla mia cagna, intenta a esaminare la preda, ma contro ogni mia speranza anche lei infilò il muso nella carne fresca e iniziò a mangiare. Ero esterrefatta e dispiaciuta, quindi mi accovacciai con la testa tra le mani per trovare una soluzione. Me lo immaginavo l’Orso, che mi vedeva tornare senza due capretti e con la mia compagna ricoperta di sangue, a tirare le più ovvie conclusioni; d’altra parte, anche non avesse creduto che Mioara fosse arrivata a

tanto, mi avrebbe domandato cos’era accaduto e successivamente impedito di badare ancora agli animali. Ero inoltre certa che i resti dell’altra preda li avrei trovati a casa e ciò non aiutava ad alleviare il mio senso di colpa. Rimasi al pascolo altre ore, spaventata dal ritorno alla cascina, ma prima di andarmene lavai con fatica Mioara al ruscello. Riuscii a pulirla in buona parte, ma sapevo che non sarebbe ata inosservata. L’Orso, come di consueto, contò il bestiame facendolo entrare nella stalla e al termine mi guardò, desideroso di spiegazioni. “Un incidente”. “Che tipo d’incidente?”, insistette. “Lupi”. “Non ci credo. Lupi al pascolo in pieno giorno? Impossibile”, constatò. “Beh, è così”, balbettai. “Il tuo cane da pastore non vale niente”. Gli scappò una risata che mi lasciò basita. “Che hai da ridere?”, domandai a metà tra l’indignato e lo stupito. “Tu ti difendi dai lupi con un cane lupo. È controproducente”, rise sguaiatamente. “Da quando hai imparato a ridere non sai più fare altro”, lo presi in giro. “Credi non abbia visto il sangue lavato sul pelo?”. Probabilmente in quel momento impallidii, ma provai a rispondere: “Non è stata lei a ucciderli”. “Di sicuro ha collaborato”, concluse, ma sembrava più divertito dalla situazione bizzarra che arrabbiato. “E quindi che vuoi fare?”.

“Vado in paese a comprare la rete elettrificata oggi stesso e domani mattina la montiamo al pascolo”. “Però la pago io… Mi dispiace per l’incidente, zio”, mi scusai. “Può capitare, ma una sola volta, quindi ti servirà una guardia migliore”. “Ma Desi serve a te”, constatai. “Non ti preoccupare”, mi esortò e se ne andò con il furgone. Mi voltai verso Mioara, che si stava leccando le zampe ancora leggermente insanguinate. “Assassina…”, la accusai ed entrai in casa per farmi un caffè. Da una parte, nonostante la sfortuna che aleggiava intorno alle mie ultime uscite, ero sollevata dal sapere che i miei lupi si erano sfamati e non vedevo l’ora di tornare a casa dai cuccioli. Captai una vibrazione lontana e in un primo momento non ci badai, ma quando realizzai, corsi a rispondere al cellulare. “Professoressa Sartin?”. “Sì, chi parla?”. Si presentò il preside di un istituto paritario della zona a cui tempo prima avevo lasciato il mio curriculum. Mi offrì una cattedra per il settembre successivo, ma io, spiazzata dalla proposta, domandai di poterci pensare su; m’informò quindi con gentilezza che mi avrebbe ricontattata alla fine di agosto per avere una risposta. Staccai la chiamata, come in trance. Non mi aspettavo una notizia del genere, quell’opportunità mi mandava in crisi. Avevo trovato un lavoro che mi piaceva e mi dava soddisfazioni, ma non potevo mandare al diavolo anni di studio e fatica. Avevo ancora un po’ di tempo per pensare e ripensare all’offerta. Cercai di riporla in un angolo della mia mente per poi farla riaffiorare al momento giusto, pertanto preferii non avvisare l’Orso per non creargli preoccupazioni inutili. Restò più di due ore fuori da casa e io ebbi il tempo di iniziare a preparare la cena e apparecchiare la tavola. Il suo arrivo fu scandito dal rombo del vecchio camioncino e io attesi davanti al caminetto. “Sofia?”, chiamò appena mise piede all’interno.

“Sono in cucina”. Udii il tonfo dei suoi scarponi sempre più vicino, infine si affacciò alla porta. Lo guardai in faccia, curiosa. “Hai trovato tutto?”. “Sì, anche di più”, rispose abbassando lo sguardo, e solo in quell’istante notai una testolina nera sbucare da dietro il suo braccio piegato sul ventre. “E questo chi è?”, sorrisi. “Questa… È la tua futura pastorella”. “La mia… Cosa? Tu sei pazzo!”, esclamai ridendo. “L’ho presa alla cascina di un uomo che conosco. Sapevo che aveva una cucciolata di meticci e oggi sono andato a vedere per curiosità. Aveva solo lei”. “È minuscola”, constatai felice, prendendola in braccio, poi continuai, ridendo ancora: “Puzza di letame, ma è una meraviglia”. “Era la più piccola della cucciolata, ma crescerà, non ti preoccupare. Il padrone mi ha detto che sono ottimi per la pastorizia”, m’informò. “Ma quindi dicevi sul serio? È mia?”. “Serissimo. Le insegneremo il mestiere e tra qualche mese ti potrà aiutare”. “Wow, grazie. È il regalo più bello che abbia mai ricevuto”, confessai, stringendo quel batuffolo di pelo nero, con la punta delle zampe e il sottocollo bianchi. “Quanto ha?”, domandai. “Quaranta giorni, mi ha detto il padrone. Come la chiami?”. “Beh, pensavo Irina”, ipotizzai. “Che razza di nome è?”.

“È rumeno, zio, come Mioara”. “Se piace a te… Mi raccomando, non farla fucilare, almeno questa!”, scherzò e io finsi di ridere per prenderlo in giro. Qualche ora dopo raccolsi gli avanzi della cena e tornai a casa. Mi sedetti con le mie due compagne nella stalla, illuminata da lampade a olio che mi ero procurata, e iniziai a raccontare agli undici lupi semi dormienti dall’altra parte della stanza tutto ciò che mi era accaduto durante la giornata, pur sapendo che ne erano già al corrente, come stavano a dimostrare i brandelli di ossa bianchi sul pavimento. Non resistendo alla tentazione, Mioara si andò a sdraiare in mezzo a loro, come se si sentisse parte del branco. Scattai qualche foto a tutti, mentre Irina dormiva acciambellata sulle mie gambe, poi chiusi appena gli occhi, stanca.

L’ultima parte del film la trascorsi a sonnecchiare sulla spalla di Alin, stravolta dalle attività di organizzazione, e lui mi riscosse qualche minuto prima dell’accensione delle luci per evitarmi figuracce. “Buongiorno! Se sapevo che il cinema ti faceva quest’effetto ti portavo più spesso. Almeno mi guadagnavo un’ora e mezzo di pace”, scherzò. “Spiritoso… Questo matrimonio mi distrugge”, borbottai, sbadigliando e facendolo ridere. “Manca poco. Andiamocene a dormire”, concluse, prendendomi per mano per condurmi fuori dalla sala. Sulla rampa delle scale che conduceva all’esterno incontrai una collega con cui mi fermai a chiacchierare, mentre il mio compagno fumava una sigaretta all’esterno. Mi congedai, ringraziando per le congratulazioni per le nozze imminenti e uscii. Presi il pacchetto di sigarette dalla tasca di Alin e ne accesi una. Pioveva a dirotto e una foschia densa avvolgeva l’ambiente, rendendo difficoltoso scorgere oltre i tre metri; al riparo sotto la tettoia, vedevamo apparire sporadicamente qualche ante coi pantaloni zuppi.

“Lo sai che non abbiamo un ombrello?”, domandai, divertita dalle circostanze. “Questa sì che è una bella notizia, considerando che la macchina è a cinque minuti buoni di cammino”, ironizzò. “Dimmi quando sei pronto e partiamo”, scherzai. “Sono pronto!”, esclamò, iniziando a correre sotto la pioggia, e io lo inseguii ridendo. “Avere ventisette anni e non sentirli!”, urlai, mentre l’acqua mi entrava in bocca e mi inzuppava pantaloni, giubbotto e capelli. Avevo il fiatone e mi facevano male le gambe; prima di arrivare alla macchina si voltò e mi lanciò le chiavi: “Guida tu”, comandò. Sbuffai aprendo la portiera e mi tuffai dentro gocciolante. “Accidenti, che disastro!”, brontolai, battendo i denti per il freddo autunnale. “Ho due tute nel baule, sarà meglio cambiarci”, mi suggerì e io saltai sul sedile posteriore goffamente. Tolsi gli abiti fradici con qualche interruzione a causa del aggio di persone e delle avances del mio futuro marito. Tra le risate mi ai un panno sulla pelle e sui capelli per assorbire l’acqua. La tuta calda e felpata mi diede immediatamente sollievo. Lasciai cambiare Alin e accesi la macchina per far scaldare il motore.

Mi svegliai accovacciata a terra con quel batuffolo nero davanti agli occhi, allora lo presi tra le mani e lo strinsi a me. Mioara dormiva beata fra i lupi, quindi non la disturbai e uscii in silenzio per fare una camminata. Indossai gli scarponi, appesi il mio zaino sul davanti e v’infilai dentro la cucciola addormentata. Nonostante fosse notte inoltrata, la luna piena emanava una luce pallida e avvolgente che, filtrando tra i rami degli alberi, disegnava i contorni della boscaglia permettendo di distinguerne le parti e creava un’atmosfera quasi magica. M’inoltrai nel selvaggio, desiderosa d’indipendenza e di solitudine:

l’ignoto mi avvolgeva, mi intrigava, mi spronava a proseguire, a diventare un tutt’uno con la terra, priva della vista, allo stato primordiale. Vagai, stregata. Ogniqualvolta avvistavo una sagoma nera la scrutavo, ne studiavo la forma e i contorni per conoscere l’essere notturno che rappresentava, l’altro abitante del bosco che, come me, non sfruttava la notte per dormire, ma per scoprire ciò che durante il giorno era celato, la quiete del mondo assopito. Raggiunsi uno spazio argenteo ed erboso, sul quale brillavano goccioline di rugiada formatasi per il fresco notturno. Mi fermai al centro di esso, nel punto in cui la luna sembrava riflettersi completamente e mi sdraiai, sebbene conscia dell’assurdità della situazione. Non temevo le tenebre né le loro melodie, non mi inquietava il canto del gufo o il grufolare vicino dei cinghiali; il mio viso era aperto verso il cielo, così ricco di stelle d’apparire bianco e così sterminato da farmi sentire insignificante, gli occhi umidi forse a causa del freddo e il cuore spento, rilassato, quasi immobile e avvolto dal calore soffice del corpicino sdraiato sul mio petto. Baciata dal candore lunare respiravo silenziosamente, cancellavo uno dopo l’altro gli ultimi pensieri e di lì a poco a fianco a me, come per partecipare alla mia contemplazione estatica, si aggiunsero due creature longilinee e aggraziate, belle più di ogni altro essere, guardiane protettive e attente. Sorrisi al loro arrivo, compiaciuta e onorata dalla loro presenza. L’alba non tardò a sopraggiungere costringendoci al ritorno alla baita. Preparai la colazione per tutti con latte caldo e cereali. Avevo qualche difficoltà a rifornire di cibo gli inquilini della stalla, poiché ogniqualvolta tentassi di avvicinarmi più del solito ricevevo ringhi intimidatori in risposta, dunque lasciavo le pietanze sull’uscio, affinché si servissero da soli. All’arrivo alla cascina, l’Orso m’annunciò che avevo la giornata libera, allora io feci l’errore di are a casa dei miei che, avendo saputo da fonti certe che mi era stata offerta una cattedra, mi tartassarono di domande e incitamenti. “Mamma, non so ancora se accetto”. “Beh, molto saggio da parte tua mandare all’aria anni di studio per fare l’eremita del monte”. Risi e non le risposi.

Non reputavo di buttare via nulla, anzi sperimentavo tutte le possibili scelte che avrei potuto compiere nella mia vita. Inoltre non ero mai stata così sicura di una cosa, o addirittura così sicura di me stessa, negli anni trascorsi. Non avevo mai avuto grande fiducia in me e nelle mie azioni, né il coraggio di espormi più di tanto. Accumulavo nervoso e disagio e odiavo farlo. Fintanto che Alin era stato con me preferivo sfogare con lui i dubbi e le frustrazioni, mentre solo negli ultimi tempi avevo imparato a tirar fuori gli artigli che per troppo tempo erano stati ritratti. Certamente il lavoro in montagna, la mancanza di contatti con la gente, eccezion fatta per occasioni sporadiche, e lo stile di vita semplice ma sereno mi avevano donato la tempra giusta per affrontare situazioni differenti. Mia madre sbagliava a dire che buttavo via una vita trascorsa a fare progetti più ampi, poiché a parer mio chiudevo un libro senza più trama né copertina. Non avevo perso il mio amore per l’insegnamento, né vi avevo rinunciato, ma in quel momento i miei progetti erano altri e per la prima volta potevo sentirmi artefice del mio futuro. Infatti, alla fine di agosto, il numero di telefono della scuola comparve puntuale sulla schermata del mio cellulare e con garbo, dopo aver ringraziato il preside per l’opportunità datami, rifiutai l’incarico, lasciandolo di stucco. Avevo qualcuno di cui occuparmi e non potevo certo andarmene senza pensare a chi contava su di me. L’Orso non avrebbe mai più potuto continuare da solo, data l’età e i molti problemi di affaticamento che manifestava, inoltre senza la baita i miei lupi non avrebbero più avuto un rifugio. I cuccioli crescevano a vista d’occhio e gironzolavano dappertutto. La madre mi permetteva di spupazzarli continuamente, ma nonostante fossero molto piccoli, erano pur sempre selvatici tanto che avevo braccia e gambe piene di graffi e cicatrici dovute ai morsi. Avevo riempito due album da trecento foto, alcune delle quali, duplicate, le avevo inserite tra le pagine del mio manoscritto. Ero riuscita a creare un’opera compatta e dettagliata a metà tra la mia esperienza personale e dati scientifici testati personalmente o appresi mediante esperti. Con la diminuzione del lavoro alla cascina a causa delle lunghe, nebbiose, fredde e grigie giornate che scandivano il sopraggiungere dell’inverno e che non permettevano di applicarsi al meglio, e in ragione della mia convalescenza e successiva riabilitazione dovuta alla frattura, mi dedicai interamente alla

redazione dell’opera, tanto che, prima ancora che me ne potessi rendere conto, misi un punto a quelle duecento pagine. Provai una soddisfazione impareggiabile nel momento stesso in cui realizzai di aver portato a termine una grande impresa iniziata quasi per gioco. Mi attendeva un lungo iter di correzione e rivisitazione del testo, che certamente sarebbe stato un dispendio di energie non trascurabile dati i mezzi a mia disposizione e l’inevitabile inefficienza della mia mano sinistra che, come previsto dal medico il giorno dell’incidente, nonostante le sedute dal fisioterapista non aveva ripreso la mobilità originaria, anzi sembrava essersi quasi mummificata tanto era faticosa da utilizzare. Ribattere pagine intere a macchina per un errore di ortografia non era la via più indicata e, nonostante il mio radicale distaccamento dalla tecnologia nato nel momento stesso in cui avevo messo piede alla baita del Lys, deposi le armi e mi rivolsi a mio fratello per un o computerizzato. Riuscii a scannerizzare il malloppo e fui lieta di ricevere in prestito il portatile per la correzione delle bozze. “So che a Torino c’è una libreria di opere di editori piemontesi, potresti rivolgerti a loro per avere i nomi delle case editrici da contattare per la pubblicazione”, m’informò. “Non saprei… Questo è più una sorta di diario per me…”, esitai. “Quindi, dopo questa faticaccia non ti prendi neppure la briga di tentare di pubblicarlo?”, incalzò lui. “Il fatto è che ho paura che ci siano cambiamenti”. “Non farmi ridere. Lo acquisteranno sì e no un centinaio di persone, parenti ovviamente inclusi, poi starà ad ammuffire”, rise. “Grazie, sei gentile”, sbuffai. “Cosa credi? Che diventerà un best seller? La realtà della piccola editoria è questa. Se nessuno conosce il tuo nome, nessuno verrà mai a cercare il tuo libro. Magari ci si imbatte per caso e gli piace, ma finisce lì”. “Okay, ma il mio problema non è di diventare famosa, non sono così ingenua…

La mia paura è un’altra…”, borbottai titubante. “Cioè?”. “Ho scritto cose molto dettagliate e curiose anche per gli esperti del settore”. “E come hai fatto?”. “Esperienza diretta, immagino”, ammisi. “Con chi?”. “Con i lupi”, conclusi, attendendo una reazione. “Lupi?”, rise. “Tu e i tuoi lupi… È da quando sei bambina che mi torturi”, mi prese in giro e continuò: “Questa volta li hai visti a duecento metri di distanza invece che a cinquecento con il cannocchiale?”. “Guarda che sei pazzesco!”, mi indignai. “È per lo scetticismo come il tuo che dovrei provare a pubblicarlo. Tanto nessuno sa dove abito e nessuno mi troverà”. “I fan rimarranno delusi. Non si trattano così le fonti dei tuoi guadagni… Perché non provi a crescere un po’, Sofia?”, continuò. Trattenni un insulto e me ne andai con il computer sotto un braccio e il malloppo di fogli sotto l’altro. Ero convinta che stare con i miei lupi fosse spesso molto più soddisfacente e gratificante che avere a che fare con le persone. Non perché non parlassero, anzi, si facevano capire benissimo, ma perché portavano dentro di loro un’innocenza e una sincerità che negli uomini non esistevano più. Ti guardavano negli occhi e ti erano fedeli, non ti lasciavano indietro, né ti abbandonavano, ti proteggevano e non ti giudicavano mai. Noi uomini non siamo così. La maggior parte delle volte agiamo per il nostro tornaconto piuttosto che per reale gentilezza. Nella mia vita avevo conosciuto ogni genere di individuo, avevo amato ed ero stata amata, ma avevo anche perso la fiducia nelle persone da qualche tempo. Non m’importava di essere considerata strana, mi piaceva la solitudine e da quando mi ero trasferita mi rendevo sempre più conto di quanto in fondo assomigliassi a mio prozio. La differenza più grossa, probabilmente l’unica, era che lui non aveva mai provato l’immenso piacere di condividere la propria vita con qualcuno, mentre io sì e

quell’esperienza rubata agli anni più belli di una ragazza aveva certamente influito inevitabilmente su ciò che restava del mio futuro a brandelli. L’aspetto interessante della nuova me di cui pian piano tentavo di ricucire le parti era che avevo finalmente imparato ad andare oltre alla parola, così come oltre al gesto che gli uomini sembravano sentire l’irrefrenabile bisogno di compiere, mentre il contatto con qualsiasi altro essere, vivente o no, che mi circondava rappresentava per me perlopiù un impulso interiore che mi forniva, almeno credevo, la forza di apprezzare un mondo che mi aveva tolto tutto. Trovai un disastro a casa perché da quando Irina era cresciuta, lei e Mioara combinavano solo guai, soprattutto se costrette a restare all’interno della baita. A malincuore, dopo aver spalancato l’uscio, notai la moltitudine di pezzetti bianchi sparsi un po’ dappertutto, che poi appurai essere i dodici rotoli di carta igienica appena acquistati. Avrei potuto lasciarle nella stalla, ma Irina, trascorsi alcuni mesi, iniziò a dimostrarsi scettica riguardo una possibile amicizia con il resto del branco e preferiva stare con me o comunque non troppo tempo in compagnia degli animali selvatici. Gli unici con cui andava d’accordo erano i sei cuccioli, quasi suoi coetanei. Da una parte ero sollevata da quell’aspetto del suo carattere che le avrebbe permesso di diventare il cane da pastore che Mioara non era mai stata. I suoi progressi erano notevoli, sembrava essere nata per quello: tentava di amministrare e guidare ogni essere vivente le girasse intorno, me compresa. Ero intenta a rimediare al disastro combinato, quando vibrò il cellulare e, dopo aver tastato qualche secondo le tasche per poterlo trovare, risposi. “Pronto?”. Non conoscevo il numero sullo schermo e mi accorsi che il segnale era molto disturbato. “Sofia, sono io”, gracchiò la voce dall’altro capo. “Zio… Scusa il ritardo, sto arrivando”. “Fai… In fretta…”, si sforzò di aggiungere e staccò. Preoccupata, iniziai a correre, scivolando e sbattendo contro ramoscelli e pietre. Raggiunta la cascina, l’assenza dell’Orso in cortile incrementò i miei sospetti. Mi fiondai in casa e lo trovai accasciato su una sedia con una mano sul petto. “Che succede?”, domandai agitata.

“Mi fa male il cuore”. “Ti porto all’ospedale”. “Non si può proprio evitare?”. “Muoviti e non fare storie”, lo sgridai afferrandolo per un braccio e aiutandolo ad alzarsi. Montammo sul Jimny e raggiungemmo il centro di primo soccorso, dove affidai mio prozio ai paramedici, che lo portarono all’ospedale di Ciriè. Mentre attendevo notizie in sala d’aspetto con i miei genitori, che nel frattempo mi avevano raggiunto, l’infermiera mi informò che si era verificato un infarto, ma che la situazione era stabile. Sarebbe stato tuttavia costretto alla convalescenza per tenere sotto controllo eventuali nuove ricadute. Entrai nella stanza e lo trovai vigile. “Ciao zio, come ti senti?”, domandai, sedendomi sul suo lettino. “Come un vecchio”, rispose sorridendo. “Ma tu sei vecchio, anzi stravecchio”, scherzai, sollevata dal vederlo sereno. Il suo viso, però, si corrucciò immediatamente. “Che c’è?”. “Mi hanno detto che non posso più sottopormi all’aria di montagna”. “Cosa?”. “Hai capito bene”, sbuffò stanco e con le lacrime agli occhi. “Ma… Ma come facciamo?”. “Come fai, vuoi dire”. “Io? Sei matto? Non se ne parla, quella è la tua vita”, protestai. “È anche la tua da quasi un anno, ormai”, replicò, sprofondando nel cuscino. “Ora dormi, ne riparleremo dopo che sarai uscito di qui”, conclusi e varcai

l’uscio, sconcertata. Abbracciai i miei genitori e tornai tra i miei monti in gran fretta, perché mi dovevo occupare della cascina. Mi sentivo così inadeguata nel mio nuovo compito che quasi mi ero dimenticata come si svolgevano le pratiche più elementari. Inspirai profondamente un paio di volte prima di decidermi ad andare a prendere Irina, Mioara e i beni di prima necessità alla baita: dovevo soggiornare alla cascina fintanto che l’Orso non mi avesse impartito nuove direttive. Mi affacciai nella stalla e fui travolta dai cuccioli. Mi accovacciai e presi in braccio Octavian, il più grande, che mi appoggiò il muso sotto il collo. “Ciao, piccoli miei. Devo andare, ma prometto che tornerò qui ogni volta che posso…”, sussurrai baciandogli in fretta il muso, poi mi voltai verso il resto del branco e mi accovacciai a pochi i da Camelia, che mi guardò incuriosita. Gabriel mi affiancò, sentivo la sua pelliccia spazzolarmi il collo e il suo odore tipico di animale selvatico mi ricordava quanto mi pie quel posto. “Non vi lascerò, amici miei”, promisi e uscii. Caricai la soma di Lola e scesi a piedi, guidando la mula con le briglie. La cascina si animò al mio arrivo, poiché gli animali dovevano ancora essere sfamati, puliti e soprattutto munti. Dalla stalla provenivano muggiti e belati nervosi, ma fortunatamente avevamo comprato la nuova mungitrice cosicché riuscii a rimediare a tutto e in breve tempo. Mi spostai nella sala di preparazione del formaggio e incartai le forme da distribuire il giorno successivo al mercato, infine serrai i locali esterni. Sistemai il contenuto della mia sacca nella cameretta che avevo occupato nei giorni del restauro alla baita e, dopo aver mangiato qualche fetta di salame con pane e toma, mi accasciai sul divano e mi addormentai.

Alin saltò in avanti, sbattendo la testa sulla capotte e, imprecando, si adagiò sul sedile. Ridacchiavo della scena alla quale avevo appena assistito e nel mentre attendevo che i vetri appannati tornassero alla normalità, così da permettermi di spostarmi.

Non appena la visuale migliorò, allacciai la cintura di sicurezza, ma prima di partire mi rivolsi al mio compagno con tono di rimprovero. “La cintura, testone”. “Uffa. Ora la allaccio, tu intanto vai”, sbuffò specchiandosi nel parasole. “Cavolo, i miei capelli fanno pietà. Potevi dirmelo”. “Sei più vanitoso di una donna”. “Peggio di te, con quella tuta di tre taglie in più e gli occhiali gocciolanti, non c’è nessuno”, mi prese in giro. Lo ignorai e uscii dal parcheggio. La nebbia era così fitta che preferii procedere a o d’uomo, lasciandomi guidare da Alin, che meglio di me conosceva le vie di Venaria Reale. Dopo innumerevoli imprecazioni mie e sue contro quel muro bianco che ci inebetiva, raggiungemmo la direttissima e tirai un sospiro di sollievo. Più di una volta mi ritrovai di fronte a un’auto o a qualche altro ostacolo che fino a pochi secondi prima risultava invisibile. Attivai i fendinebbia affinché gli altri automobilisti mi scorgessero e mi sistemai sul sedile. “Che tempo di merda”, sbuffò lui, intento a rosicchiarsi le unghie. “Infatti, mettiti la cintura di sicurezza”. “D’accordo”, si arrese e obbedì. “Certo che sei un testone”, risi. Lui sorrise e si sdraiò appena, con gli occhi chiusi. “Posso sonnecchiare, comandante? Crede di farcela fino a casa?”, mi prese in giro. “Riposi pure”, risposi sorridente e mi concentrai sul tragitto. Non capivo con esattezza dove mi trovassi, poiché il rettilineo che affiancava il parco regionale della Mandria era pressoché uguale in ogni punto. Tuttavia ero

certa della posizione del semaforo e rallentai fino quasi a fermarmi, al fine di capire il colore della luce. A due metri dall’impalcatura semaforica, notai la freccia direzionale verde che stava a indicarmi che potevo procedere, così mi addentrai nello spazioso incrocio. Non ero nemmeno giunta a metà quando captai, come sottofondo al rombo del mio motore, un perforante e prolungato stridio al termine del quale il mondo sembrò rotolare su se stesso, rombare, rimbalzare duramente come una biglia lasciata cadere, impedendomi di capire cosa stesse accadendo.

Alzandomi, spinsi giù il cuscino del divano e inciampai su di esso, cadendo a terra; cercai di non battere il volto sul pavimento, ma per farlo mi sostenni con le braccia e il sinistro, ancora in corso di riabilitazione, cedette di netto. Quindi, oltre a ritrovarmi il dolore e il gonfiore della vecchia frattura, mi provocai un grosso bozzo sulla nuca e un livido appena sotto l’orbita. “Finirà questa sfiga, cazzo!”, sbuffai infuriata e uscii sbattendo il portone. Fui grata alla notte per essere ancora presente e, superata da destra la tettoia che copriva gli attrezzi agricoli, salii l’erta erbosa ghiacciata dal gelo notturno e mi addentrai tra i primi pini, desiderosa di raggiungere la zona dei faggi. A terra, le foglie rossastre, spruzzate di brina, scintillavano appena. Non vedevo nulla, ma ascoltavo, e ignoravo il dolore fisico pungente, camminando in cerca di un’ancora di conforto che mi avrebbe trattenuto a sé. Il buio all’esterno e la luce nella mia testa, nel mio spirito, il desiderio di parlare con qualcuno con cui non parlavo da tanto, la foga di raccontare tutto ciò che non avevo raccontato; perché in fondo l’uomo era stato creato per quello, per condividere la propria vita, e certamente non solo l’uomo. Creavo troppo rumore calpestando le foglie, tanto da coprire lo scalpiccio di i di chi si avvicinava, ma ci pensò lui a farsi notare, toccandomi la mano con il muso. Non aveva mai compiuto un’azione del genere, tanto che dubitai persino che fosse lui, dato il buio pesto. Di certo, chiunque fosse, non mi voleva far del male. Mi accovacciai, stendendo le braccia, e gli toccai la pelliccia sul dorso, ancora stupita della sua immobilità, lo accarezzai dietro le orecchie appuntite e sotto il

mento e poi cedetti, appoggiando la testa sulla criniera che gli decorava il collo e stringendo le braccia sulle sue spalle. Respirava a lato del mio orecchio, evidentemente non infastidito dal mio gesto, e la sua purezza, il sostegno, l’affetto mostrato a un membro del branco e la sua tacita saggezza mi ripescarono dal turbine angosciante in cui ero inciampata. Piansi, immobile, tra quei faggi spogli, come non piangevo da tempo, probabilmente come non avevo mai fatto prima d’allora. “Gabriel, voglio raccontarti la mia storia…”.

CAPITOLO 4

Un suono acuto, simile a un allarme antincendio, mi riscosse tanto da farmi aprire lentamente un occhio. “E questa la chiama sveglia?”, protestai tra me, alzandomi dal lettino e spegnendo il trabiccolo assordante. Fuori era ancora buio, ma dalla stalla provenivano distintamente i rumori degli animali affamati. Indossai la tuta, gli scarponi anti-infortunio, legai i capelli e preparai il caffè prima di occuparmi delle mie mansioni. Consultai il calendario appeso accanto all’uscio e decifrai la calligrafia magra e storta che suggeriva: “Mercato”. “Perfetto, si preannuncia una giornata massacrante”, brontolai sbadigliando, reduce dall’ora scarsa di sonno. Era un martedì, giorno di mercato a Lanzo: era il mio preferito, e non solo perché mia nonna mi portava sempre cappuccino e brioche, ma anche per la vicinanza e la comodità del luogo. Il braccio era dolorante e non riuscivo a muoverlo, ma data la mia contrarietà ad affidarmi nuovamente ai medici, lo fasciai più stretto che potei senza rincorrere ad altri rimedi. Superata senza eccessiva difficoltà la mattinata in piazza, decisi di trascorrere la pausa pranzo da mio prozio in ospedale. Notando dal corridoio la presenza nella stanza ospedaliera di una figura a me sconosciuta, attesi paziente su un sedile esterno fintantoché l’uomo distinto dal completo nero e la ventiquattrore in pelle non lasciò il reparto augurandomi una buona giornata. Entrai reggendo il cestino del pranzo con la mano buona e mi piazzai sulla poltroncina accanto al letto. “Buongiorno, montanaro”. “Buongiorno a te. Potevi entrare prima, non era un segreto la mia conversazione”.

“Non ti preoccupare, preferivo non disturbare. Hai già pranzato?”. “Dipende da ciò che hai lì dentro”, sorrise, indicando la cesta sulle mie gambe. “Non credere di poterti avvicinare al mio pranzo”, scherzai. “E va beh, in ogni caso ho già mangiato un minestrone insipido e una coscia di pollo scarna con uno sputo di purea”, sbuffò. “Ora non fare il melodrammatico, il cibo qui non è male. Io invece mi sono preparata gli involtini di toma e prosciutto”. “Il mercato di oggi?”. “Liscio come l’olio. Metto i soldi in cassaforte non appena arrivata a casa”. “Usali per fare la spesa”, concluse, un po’ amareggiato. “Che c’è?”. “Voglio tornare…”, brontolò, e per una frazione di secondo mi parve un bambino imbronciato. “Sei qui da appena un giorno”, cercai di consolarlo. “Io non sopravvivo lontano dalle mie montagne, Sofia!”. “Non fare lo stupido, adesso!”, lo sgridai, spiaciuta dalla piega del discorso. “Lo stupido? Ho vissuto lassù un’ottantina d’anni, porca miseria! Quasi un secolo! Credi sia facile per un vecchio dimenticarsi di chi è stato?”, si scaldò. “Non ho detto questo, Orso! Puoi continuare a vivere qui, magari non bene come prima, ma puoi!”, risposi con lo stesso tono. “Perché dovrei? Non ho più niente”, ringhiò quasi. “Hai me”, sibilai, trattenendo un urlo non adatto all’ambiente circostante. Seguì un silenzio avvolgente e poi, racimolando probabilmente tutta la calma che aveva in sé, gracchiò sotto voce: “Okay, finiamola qui”.

D’accordo con la proposta e sempre in silenzio, mangiai ciò che mi ero portata da casa. “Il braccio?”. “E chi lo sa… È di nuovo dolorante”, tagliai corto con un’alzata di spalle. “È pieno di medici qui. Non so se lo sai, ma è il loro mestiere alleviare il dolore”, bofonchiò sarcastico, guadagnandosi una mia occhiataccia. “Sai chi era quell’uomo?”, continuò. “No”. “Vuoi saperlo?”. “Non particolarmente”, risposi sincera con la bocca piena. “Era il notaio”. “Bene”. “Ho fatto testamento”. “Vuoi tirare le cuoia a tutti i costi, eh?”, scherzai. “Ma no, testona. Avevo fissato un appuntamento prima dell’infarto, poi per cause di forza maggiore siamo stati costretti a cambiare il luogo dell’incontro. Vuoi sapere cosa abbiamo concordato?”. “Ho come l’impressione che la mia risposta sarà ininfluente”. “Sì, infatti”, rise, poi continuò: “Ho lasciato tutti i miei beni a te: cascina, animali e finanze”. “A chi?”, sbottai e un pezzo di involtino croccante mi andò di traverso provocandomi una tosse violenta. Rideva lui, che probabilmente aveva previsto la mia reazione. “A te, a te…”, confermò, come se prima non avessi ben inteso. “Perché?”, cercai di domandare tra un rantolo e un colpo di tosse.

“Per lo stesso motivo per il quale prima ti sei scaldata tanto: io ho te e nessun altro”. “Ma io non voglio appropriarmi delle tue cose”, mi lamentai, sbattuta dalla notizia. “Lo so che non vuoi, ma io sì… E bada bene, non ti sto obbligando a gestire la cascina per il resto della tua vita… Puoi farne ciò che vuoi: vendere gli animali, gli attrezzi, trasformarla in una reggia”, rise. “Per me andrà bene tutto, tanto io non ci sarò più”. “Innanzi tutto non mi va di pensare a quel momento e inoltre lo sai bene che non venderei mai gli animali, quindi sì, un po’ mi hai incastrata”, sorrisi, suscitando la sua ilarità. “Sai che ci sarà il putiferio?”, continuai. “Che cosa vuoi dire?”. “Che io sappia hai almeno una decina di parenti più prossimi di me che non credo digeriranno questa faccenda”. “Vale a dire?”. “Tutti i tuoi nipoti: fratelli e cugini di mio padre”. “Non li vedo da almeno vent’anni e, probabilmente, non sono neanche certi del fatto che io sia ancora vivo. L’unico che frequento è tuo padre, ma non credo muoverà obiezioni”. “Questo è ovvio. Usciranno anche delle cattiverie su di me”. “Da quand’è che ti interessano queste cose?”. “Beh, in effetti non me n’è mai fregato un granché”, constatai. “Visto che siamo in vena di confidenze…”. “Non so se te l’ho mai detto, ma amavo il tuo essere burbero e i tuoi silenzi eterni, quindi la prossima volta pranzo a casa”, lo interruppi ironica, ma lui m’ignorò.

“Qualche tempo fa è ato tuo padre alla cascina e mi ha informato riguardo alla tua rinuncia al lavoro alla scuola e mi ha raccontato com’era la tua vita prima che ti trasferissi”. Si era fatto serio. “E vuoi dirmi qualcosa in proposito?”, lo incalzai. “A essere sincero, non saprei cosa dire”, ammise. “Mi sta bene, credimi. Ora vado, perché ho un’impresa da mandare avanti. Tornerò il prima possibile”, promisi e lasciai la stanza quasi di corsa. Era stata palese la mia fuga precipitosa dai discorsi e dagli argomenti che non ero intenzionata ad affrontare. Al ritorno calcai il piede sull’acceleratore, ansiosa di tuffarmi nel silenzio della cascina, che trovai ordinata e tranquilla. Liberai le galline in un recinto che avevo allestito appositamente per tenerle alla larga da Mioara (che in un anno era riuscita a farne fuori una decina), poi sguinzagliai lei e Irina e, non potendo ignorare il piacevole sole caldo e al contempo sentendomi in colpa alla sola idea di lasciare la cascina per mio puro svago, scortai le capre al pascolo più vicino. Ero comunque consapevole che chi mi avesse vista pascolare a dicembre mi avrebbe presa per pazza. Non mi scrollai di dosso Mioara per tutto il pomeriggio, mentre Irina si occupava di ciò che, era palese, le piaceva di più al mondo. I miei lupi non si presentarono, né quel giorno né durante la settimana successiva. Al termine di essa, però, Gabriel Cornelia e Corina apparvero nell’aia. Portai loro cibo e acqua, lieta oltre ogni dire di rivederli e desiderosa di riabbracciare anche i piccoli alla baita. Contro ogni più buia previsione, avevo scoperto che dalla cascina era possibile accedere a internet così potei, dopo un’attenta e accurata revisione, spedire via mail il mio manoscritto, con tanto di fotografie allegate, a una serie di case editrici che avevo cernito dall’oceano dell’editoria italiana. Non nutrivo grandi speranze nella pubblicazione, consapevole della difficoltà dell’impresa, tuttavia nei giorni successivi controllai periodicamente la mail con un briciolo di agitazione che mi attanagliava lo stomaco. Intanto sul giornale locale, ogni settimana o due, erano presenti articoli riguardanti i lupi, perlopiù quelli del Colombardo e dell’alta valle di Viù che, secondo gli esperti, erano divenuti il branco più ampio nella storia della nostre valli.

Ricordavo i primi avvistamenti, circa sei anni prima, e il periodo in cui le loro stragi erano divenute insostenibili per gli allevatori locali. Riguardo il mio piccolo nucleo familiare, recentemente allargatosi, non era stata spesa una parola e di questo ero sollevata: se il mio libro fosse mai stato pubblicato, avrei dato un’idea della loro magnificenza, senza tuttavia inoltrarmi in dettagli scomodi che avrebbero potuto renderli soggetti a un eccessivo interessamento. Di fotografie come quelle che avevo scattato, ne ero convinta, non ne esistevano ancora, sia a opera di un fotografo amatoriale sia in alcuni casi di un professionista. Coglievano il lato più intimo della vita nel branco e la gerarchia ferrea, ma serena e spontanea, che lo caratterizzava. Terminai la lettura dell’articolo ripensando al tempo sprecato a rincorrere quegli animali e alla naturalezza con cui invece mi ero legata a Gabriel e a tutta la sua famiglia. Era trascorso circa un mese dal giorno dell’invio del manoscritto e non avevo dedicato molto tempo al computer nelle due settimane precedenti, quasi per illudermi che in realtà non bramassi una risposta. Accesi il portatile, con il cuore che galoppava, mi connettei a internet ed entrai nella mia casella mail. La vista di tre nuovi messaggi mi mandò in tilt, dunque respirai profondamente ed entrai nello spazio delle mail arrivate. I mittenti erano le case editrici che avevo contattato, tra le quali era presente quella con cui mi sarebbe piaciuto lavorare, che prediligeva la pubblicazione di scritti di etologia. Lessi prima gli altri due messaggi, come per creare la suspense adatta: il primo, con grande garbo e un augurio di buona fortuna, mi annunciava che il libro era stato scartato perché non conforme alla linea editoriale; al contrario, il secondo m’informava della volontà della casa di occuparsi della mia opera e aveva allegato il contratto di pubblicazione. Esitai ancora qualche istante prima di cliccare con il tasto sinistro sulla bustina chiusa del terzo messaggio, ma il suo contenuto mi lasciò piacevolmente sorpresa. Due case editrici su tre avevano gradito la mia proposta e non mi restava che valutare i termini dei rispettivi contratti al fine di affidarmi alla migliore. Dopo un’attenta riflessione, optai per la scelta iniziale e così partì un lungo iter comprendente questioni burocratiche, correzione bozze, stampa e rilegatura, tanto emozionante quanto impegnativo. Mi facevo largo a fatica tra cascina, libro, l’Orso (che era in affitto nel mio vecchio appartamento) e i miei lupi dell’età di sei mesi: Octavian, Vlad, Raluca, Adela, Constantin e Florica. Erano

la mia gioia più grande e si comportavano con me come con i loro fratelli maggiori, mentre Gabriel si era ormai definitivamente trasferito alla cascina. Poiché avevo guadagnato qualche secondo di libertà grazie a mio prozio, che nonostante fosse lontano faceva il possibile per aiutarmi, mi recai alla baita con due borse di carne fresca e all’ingresso fui letteralmente aggredita: un grosso sacco di pelo mi si schiantò addosso e iniziò a leccarmi e mordicchiarmi le orecchie. “Raluca, spostati!”, risi togliendomela di dosso. Notando l’abbondanza di cibo, i più piccoli si acquietarono in attesa di riceverlo, così potei controllare l’ambiente. La femmina alfa era a due metri da me, mentre il suo compagno mi girava intorno, con il pelo della schiena dritto. “Lucian, smettila, mi stai inquietando”, sbuffai, ma lui non mi diede retta. Era turbato, non aveva mai assunto prima d’allora quell’atteggiamento con me: annusava l’aria e di tanto in tanto sollevava il labbro mostrando appena i lunghi canini candidi. Osservando la perseveranza del suo comportamento, mi agitai e, per la prima volta da quando li avevo conosciuti, temetti per la mia incolumità. Quel bestione di oltre quaranta chili e un’ottantina di centimetri al garrese sembrava non tollerare la mia presenza quel giorno e sapevo che qualunque fosse stata la sua mossa non avrei potuto reagire in alcun modo. Rimasi immobile, a riflettere su cosa potesse infastidirlo tanto. Solitamente era uno dei più socievoli, tanto che a volte riuscivo persino a toccarlo. Il suo sguardo ambrato, insostenibile anche per il più coraggioso degli uomini, mi trafiggeva. “Ehi, Lucian, che hai? Si può sapere? Sono io: Sofia! Non voglio farti del male”. Parlai, al fine di fargli ascoltare il suono familiare della mia voce mentre gli altri parevano statue di cera, spiazzati quanto me da quel comportamento inusuale. Cercai di sostenere il suo sguardo poi volsi gli occhi ai lati del corpo, dove notai il pelo stranamente arruffato, ma la luce fioca di quel luogo m’impediva di capire meglio. Raccolsi tutto il coraggio che avevo e mossi un o verso di lui, poi un altro, giungendo abbastanza vicino da distinguere una grossa macchia di sangue sul suo fianco e la coscia scarnificata. Delle pozze vermiglie segnavano anche le travi del pavimento, così che, in preda

al panico, ricontai i cuccioli, poi Camelia, Cornelia… Il cuore mi balzò in gola, poiché sapevo che Gabriel era alla cascina, ma sua sorella mancava all’appello. Uscii di corsa, pattugliai la zona circostante, trovai dei ciuffi di pelo impigliati in un ramo. Urlai, chiamai, consapevole che in ogni caso non avrebbe mai risposto al mio richiamo. Poi notai una fila di impronte di stivale, le seguii e giunsi dinanzi al peggiore degli spettacoli: la sagoma pelosa giaceva a terra, inerme… Ebbi l’impressione del déjà-vu. Mi catapultai su di lei, le tastai il petto per captare un barlume di vita, ma trovai solo sangue e i segni di una fucilata che le aveva aperto in due l’addome. Provai a eseguire un massaggio cardiaco, a soffiarle nel naso e nella bocca, a tamponare le ferite con un lembo di stoffa che strappai dalla mia maglietta. Le lacrime e l’aria pungente mi screpolavano le guance, e proprio allora iniziò a nevicare sul bosco afflitto. “Chi ti ha fatto questo… Perché…”. Appoggiai la testa sul suo muso e le baciai il pelo raso e morbido. ai le braccia sotto il suo dorso e con uno sforzo enorme riuscii a sollevarla. Lucian era dietro di me e gemeva come non l’avevo mai sentito fare. “Ora capisco perché mi temevi, ma io non vi farò mai del male”, sussurrai tra le lacrime. Oltreai gli ultimi alberi e, giunta a lato della baita, adagiai delicatamente il corpo a terra. Afferrai una pala e iniziai a scavare il terreno duro come la roccia a causa del freddo. Mi domandai quante volte ancora avrei provocato la distruzione di qualcuno e quanti ancora, egoisticamente, avrei trattenuto a me causandone la scomparsa. Ricoperta completamente la fossa, mi fermai qualche istante con i muscoli doloranti e gli occhi gonfi. Qualcuno aveva ucciso Corina e non potevo immaginare il movente: i lupi non infastidivano nessuno, soprattutto da quando ero io a procurare loro il cibo nei periodi di carenza di fauna autoctona. Tornai alle impronte di stivale e verificai dove conducessero: proseguivano a lungo e si inoltravano nel cuore del bosco, infine deviavano e raggiungevano la strada. Lì, i segni delle sgommate sulla ghiaia annunciavano il termine della mia

ricerca. Seguendo la strada risalii alla cascina, montai in macchina e mi spostai. Avevo un presentimento riguardo al colpevole, così mi recai dritta alla meta: una cascina ancora più vecchia di quella del mio prozio, proprietà di un allevatore di pecore. Entrai nell’aia, parcheggiai, lasciai scendere Irina e Mioara e mossi qualche o prima che l’uomo mi raggiungesse. “Salve, cosa posso fare per lei?”, domandò togliendosi il cappello e andosi una mano sulla nuca pelata. “Mi chiamo Sofia e sono la nipote dell’Orso”, mi presentai allungando la mano, ma lui non la strinse. “Qui lui non è ben accetto e nemmeno i suoi parenti”, affermò serio. “Io vivo su, all’ultima baita”, aggiunsi imperterrita. “So benissimo chi è lei. Le suggerisco di tenermelo lontano; è uno dei suoi lupi?”, sbraitò rivolto a Mioara, che gli annusava lo stivale. “I miei lupi?”. “Sì, quelle bestie che ogni anno fanno razzia del mio gregge”, accusò, sputando a terra. “Non credo sia possibile. So benissimo di cosa si nutrono”. “Poco importa, ho dato loro ciò che meritano”, ridacchiò. “Chi è la bestia, adesso?”, sbottai, ma il fattore mi aveva voltato le spalle orgoglioso del suo gesto eroico e non dava più segni di volermi dar retta. “Dovrei denunciarla”, sibilai, furiosa e disperata. “Lo faccia, così io mi lamenterò di essere stato aggredito e li spediranno via in men che non si dica”. “L’avverto: se oserà mettere di nuovo piede nella mia proprietà l’aggredirò io e le assicuro che so essere molto più feroce di loro”, minacciai e me ne andai, con le mani che tremavano e il cuore palpitante, disperata per l’ennesima perdita e

ferita dall’impossibilità di fare giustizia. Non ero intenzionata a lasciare i miei lupi da soli, troppo preoccupata che quello squilibrato, ormai al corrente della posizione della loro tana, potesse nuovamente far loro del male. Tornare a vivere alla baita era impossibile, perché con i ritmi del mio lavoro non sarei durata mezza giornata e nello stesso tempo giudicavo un’impresa folle, seppur fosse la mia sola possibilità, trasferire la tana alla cascina. Portare un branco di lupi in mezzo al bestiame era una missione kamikaze, sia per l’ovvia possibilità di ritrovarsi gli animali sgozzati, sia per la certezza di veder fallito ogni tentativo di smuoverli. La mia mente lavorava veloce quella sera gelida nella cupa stalla, mentre lavavo con uno straccio le macchie di sangue evitando gli attacchi dei cuccioli allo spazzolone e provavo di tanto in tanto ad avvicinare senza successo il capo branco per disinfettare il foro del proiettile nella coscia. Temevo che la ferita potesse infettarsi, per questo dovevo estrarre la pallottola. Dopo vani tentativi accompagnati da ringhi sommessi ma intimidatori e capaci di far accapponare la pelle, decisi di rifornirmi di anestetico per bestiame alla cascina e di sfruttarlo a mio favore. Lì ritrovai Gabriel ancora addormentato su di un mucchietto di paglia e quando lo svegliai, accortosi di essere rimasto solo, tornò di corsa dai suoi compagni. Lessi attentamente le dosi di somministrazione dell’anestetico in rapporto al peso dell’animale, ma i lupi, notata la siringa nella mia mano, mi resero impossibile avvicinarmi. Dopo un inseguimento che pareva più una tarantella, tanto da farmi ipotizzare che si stessero prendendo gioco di me, con un balzo felino riuscii a piantare la siringa nella coscia del maschio alfa sperando con tutto il cuore, nel momento stesso in cui l’ago perforò la pelle, che il sedativo agisse in fretta. Come avevo previsto, la reazione non fu delle migliori: i molti chili di muscoli mi balzarono addosso scaraventandomi a terra con uno schianto. Sentivo il suo fiato sul naso e inizialmente mi mancò il coraggio di aprire gli occhi, ma quando lo feci mi ritrovai con una fila di sciabole bianche a mezzo centimetro dal mento e le iridi ambrate e taglienti fisse nelle mie. Non potei che rimanere immobile, per rendere evidente la mia resa, ma trascorse solo qualche istante prima che iniziasse a barcollare e mi scivolasse addosso.

Faticai molto per sgusciare fuori dalla montagna di pelo che mi ricopriva. Preoccupata che potesse svegliarsi, agii in fretta ma con precisione, seguendo alla lettera le direttive che mi aveva impartito il veterinario, a suo tempo, per Mioara. Disinfettai a lungo e a fondo la ferita, una volta estratto il proiettile, ma solo dopo che ebbi finito di tamponarla il lupo iniziò a muovere le orecchie. Mi allontanai, timorosa che volesse riprendere la strigliata precedente, ma in cuor mio sapevo quale sarebbe stata la sua vera reazione: starmi alla larga. Una cosa l’avevo imparata sul loro conto ed era che non dimenticavano nulla, soprattutto i colpi bassi, sebbene fatti a fin di bene. In ogni caso, non diede segni di volersi muovere e solo dopo qualche ora tentò di zampettare titubante. Lo ignorai anch’io nei giorni seguenti, più per rabbonirlo che per ripicca, speranzosa che accettasse in futuro la mia proposta di trasferimento. Avevo preparato un cantuccio grazioso, nel vecchio fienile che fungeva da deposito, con tanto di giacigli multipli in paglia dove potevano dormire e vecchie mangiatoie in pietra un tempo usate per le mucche. In quanto alla salvaguardia del bestiame, mi ero occupata personalmente di fortificare la rete che circondava il pollaio e di cementificare il perimetro della stalla al fine di evitare che scavassero per raggiungere l’interno. Il mio interessamento ai metodi della creazione del cemento aveva incuriosito a tal punto mio prozio che un giorno, senza il minimo preavviso, si presentò alla cascina con mio padre. Ero sul retro con Gabriel che si divertiva a scivolare lungo le lastre di ghiaccio, ma, dopo aver udito una voce maschile, l’animale si dileguò e io corsi ad accogliere i miei ospiti, già sommersi dalle attenzioni di Mioara e Irina. Desi viveva con l’Orso da tempo, poiché a causa della separazione aveva smesso di mangiare. Abbracciai forte mio padre, realmente felice di rivederlo, e lanciai un’occhiataccia a mio prozio, ricordandogli che l’altitudine minava seriamente la salute del suo cuore, ma ricevetti in risposta un’alzata di spalle e un invito, non proprio testuale, a farmi gli affari miei. Dopo pochi secondi l’Orso iniziò a scandagliare la struttura. Come un ispettore rigido e imbronciato ò tra ogni animale, quasi a cercare delle prove che la sua assenza mandasse a rotoli il lavoro di ottant’anni.

“Ho letto il tuo libro”, accennò mio padre, distraendomi. “Come ti è parso?”. “Beh, è grandioso, ovviamente. Ma quelle storie… Come hai fatto?”. “Un po’ di ricerche, un po’ di riflessioni”. “E le foto? Parlami di quelle… Foto di Mioara insieme ai lupi”, sorrise. “Mi spieghi come hai fatto?”. “Fortuna e impegno”. “Secondo me non è solo questo”. “Ti assicuro che non è nulla di straordinario”. “Ma dimmi almeno…”. “No”, lo interruppi pacata e sorridente. “Non chiedere, perché non parlerò. Sai che non lo farò”. Cercò di leggere i miei occhi per qualche secondo, ma poi si arrese scrollando le spalle e si accomodò. Riposi la caffettiera sui fornelli e non interruppi il silenzio piombato nella stanza, anche se di lì a poco l’Orso spalancò la porta d’ingresso provocando un cigolio acuto. Si accomodò, goffo, alla nostra tavola lisciandosi la barba, pensieroso. Era palesemente divorato dai dubbi riguardo alla cascina e alla mia gestione. Non pareva deluso, ma anzi sollevato dall’andamento dei lavori. “Ben fatto, Sofia, ma fai attenzione alle disposizioni della stalla: sembra essere un po’ disorganizzata”. “Certo, zio. Ci sto lavorando, grazie del suggerimento”. “Martedì, al mercato, ho incrociato quel vecchio pazzo che sta oltre il torrente. Perlopiù bofonchiava e rideva, credo ce l’avesse con te”, concluse. “Può darsi”, sputai tra i denti.

“Ti ha infastidita? Perché se è così vado a farci due chiacchiere io”, minacciò lui. “È meglio se stai tranquillo. Me la sbrigo da sola, ti ringrazio”, lo rassicurai e gli versai del the slavato nella tazza. “Il mio caffè?”, brontolò. “Niente caffè per te, lo sai benissimo”, lo ammonii, ma non riuscii a decifrare i suoi mormorii di risposta. Non si fermarono a lungo, così, non appena mi ritrovai di nuovo sola, mi affrettai a definire gli ultimi dettagli della nuova tana dei miei lupi. Gabriel nel frattempo si era gettato a capofitto sui giacigli da me creati, spandendo paglia ovunque. “Cerca di mettere una buona parola per questo posto”, suggerii, mentre la montagna pelosa si rotolava come un cucciolo, poi mi spostai per dedicarmi ad altro. Attendevo con ansia l’oscurità perché, non avendo altre occupazioni alla cascina, avrei potuto camminare fino alla baita avvolta dal candore lunare e da quello della neve che aveva iniziato a scendere dalla metà del pomeriggio e che aveva attecchito abbondantemente al suolo. Intorno a mezzanotte indossai i doposci e la giacca e uscii, attenta a non svegliare gli animali. Non era una notte buia, dunque non mi munii di torcia, ma iniziai l’arrampicata semi verticale e molto faticosa verso casa. Incrociai due cerbiatti intenti a saltellare qua e là sulla neve che tagliava loro a metà le zampe e mi affrettai, non vedendo l’ora di tuffarmi tra i miei fratelli. L’ultimo tratto lo percorsi quasi di corsa e frenai dinanzi alla porta della stalla, socchiusa; aprii lentamente, pronta a ricevere la calorosa accoglienza dei più piccoli, ma non appena ebbi una visione totale della stanza, mi resi conto che qualcosa era cambiato. Ero sola, in quella vecchia stalla, in piedi come un fantasma a osservare il buio, insieme incredula e assediata dai brutti pensieri. Non mi mossi, come in attesa che dagli angoli bui potessero sbucare quegli occhi gialli che amavo tanto. Infine mi decisi: uscii e osservai il bianco che mi circondava per cercare delle tracce, ma se ne erano andati da tempo sufficiente a far ricoprire ogni loro segno.

“No, no, no…”, ripetevo, in preda al panico. Corsi nella prima direzione che mi capitò e li chiamai a squarciagola, speranzosa che almeno uno di loro mi potesse raggiungere. Almeno lui, lui che non mi aveva mai lasciato. Continuai a cercarli, a chiamare, a pregare di scorgere una sagoma scura che lacerasse quel vortice candido che mi risucchiava, ma niente. Non esitai a pattugliare ogni metro dei boschi, con la fronte madida di sudore e le tempie ardenti nonostante il freddo. La notte volò via e quando i primi raggi del sole sbucarono da dietro le cime montuose, le mie gambe dolevano e il mio cervello, svuotato, era attanagliato esclusivamente dall’ossessione di aver perduto quella che ormai era diventata la mia famiglia. Sapevo perché se ne erano andati: non potevano rischiare, la baita era insicura. Ma mi avevano abbandonata così, di punto in bianco, senza preavviso, facendomi piombare nel vuoto che una volta sola nella mia vita mi aveva inglobata. Rassegnata, mossi i primi i verso la cascina, che poi divennero una corsa goffa e sconnessa. Il mio petto, schiacciato come in una morsa, faceva fatica a sollevarsi per permettermi di respirare; non che in quel momento la considerassi una cosa fondamentale. Tornai tutte le notti a cercarli per quasi due settimane, non riuscendo a rassegnarmi né a capacitarmi di quella perdita. Neppure il mio Gabriel si fece vivo; l’ultimo ricordo che avevo di lui era quando si rotolava sul pavimento di quello che doveva essere il loro nuovo rifugio. Certe volte riguardavo le loro foto come per assicurarmi che fossero stati effettivamente parte della mia vita. Purtroppo, l’aver perso qualcosa di cui solo io ero al corrente, mi portava a chiedermi se tutto ciò fosse esistito veramente. Eppure c’erano, ma per quanto mi fossi sforzata di prendermene cura, avevo fallito e non si fidavano più di me. Continuava a nevicare, nonostante si avvicinasse la primavera, e il maltempo limitava i lavori che mi avrebbero permesso di tenere la mente occupata. Era una notte di metà marzo, l’ultima in cui andai a cercarli, più per scappare lontano dalla realtà e perdermi in quei boschi estesi. Sapevo che il giorno seguente sarebbero venuti mio padre e l’Orso e che quindi in ogni caso, qualsiasi cosa mi fosse accaduta, il mio lascito sarebbe stato in buone mani.

Pensavo a Mioara e a Irina, mentre affondavo gli scarponi nella neve fresca, perché sarebbero state le prime ad avvertire la mia mancanza; poi ai miei genitori, a mio fratello, mio prozio e chissà chi altro, che certamente non si sarebbero capacitati di quel gesto. Raggiunsi la cima della montagna, la oltreai e continuai nel mio cammino, spingendomi oltre confini che non avevo mai battuto per giocare anche l’ultima carta in una ricerca che sapevo già non condurre a nulla. Solo quando il freddo m’indolenzì fino all’ultimo dito del piede, mi sedetti a terra tra le radici di un albero e la neve m’infradiciò. Faceva freddo: quella notte il mercurio del termometro scendeva ben sotto lo zero, ma non badavo a ciò. Preferivo fissare il buio che mi circondava e infine, stravolta, implorai che il sonno avesse il sopravvento. Non tardò molto che fui accontentata.

Intorno a me tutto era indefinito, sfocato, non sapevo dove mi trovassi. Cercai di ripercorrere gli ultimi attimi di lucidità: mi ricordavo che stavo guidando verso casa, la nebbia, poi un botto e il mondo si era capovolto. Realizzai. Tentai di allungare il braccio, ma ero in una posizione insolita, ribaltata; mi sforzai il più possibile, qualcosa di denso e caldo mi colava sul volto e in bocca. Toccai a fianco a me, non riuscendo ancora a parlare e palpai la mano di Alin. “Ali… Amore… Stai bene?”, provai a chiedere, ma mi stupii io stessa di quanto fosse flebile e pressoché inesistente il suono della mia voce. Non mi meravigliò che non mi stesse rispondendo, probabilmente nemmeno mi aveva sentito. Tentai di invocare aiuto, ma era come se avessi una sordina in gola. Udii dei fischi acuti in lontananza, forse sirene e, stringendo forte la mano del mio compagno e allo stremo delle forze, ricaddi in un sonno profondo. Tutto in seguito divenne confuso: sentivo vociare lontano, avevo incubi di ogni sorta e non riuscivo a capire se fossero frutto della mia immaginazione. Di tanto in tanto mi svegliavo, vedevo sagome agitate che correvano intorno a me, tentavo di informarmi riguardo le condizioni di Alin, ma non ero certa che stessi realmente parlando. Non percepivo né gambe né braccia e sporadicamente qualcosa bruciava come fuoco vivo sotto la mia pelle, ma nonostante desiderassi

interagire con il mondo, il mio corpo me lo impediva. Al mio risveglio trovai un ambiente molto più luminoso e accogliente, che mi rilassò permettendomi di mettere a fuoco una camera d’ospedale; mi voltai verso il sedile di fianco al lettino e fui immensamente sollevata nel vedere il mio futuro sposo che sonnecchiava. “Ehi”, lo chiamai destandolo dal sonno. “Oh, amore… Finalmente, non sai che paura ho avuto che non ti svegliassi”. “Cosa è successo?”, domandai, stordita di felicità nel vederlo sano e salvo. Lui si avvicinò, mi baciò calorosamente e mi venne da piangere, poi mi ò una mano sulla fronte e continuò: “Vado a chiamare il medico. Ci sarà tempo di spiegare; ricordati che ti amo e ti amerò sempre”. Si congedò con un sorriso, che mi ricordò quanto fossi fortunata, non lasciandomi il tempo di rispondere. Socchiusi gli occhi, serena, e quello mi bastò per ripiombare nel sonno. Al secondo risveglio, il medico entrò pressoché immediatamente e si avvicinò al mio lettino. “Buongiorno e ben svegliata. Come si sente?”. “Un po’ ammaccata”, sorrisi. “Il mio compagno è fuori? Mi ha detto che veniva a chiamarla”. “No, signorina, non è venuto a chiamarmi e lei ha aperto gli occhi solo ora, c’ero io a monitorarla”, mi informò. “Mi sono svegliata qualche minuto fa, ma non l’ho vista”, annunciai e accolsi con un sorriso mia madre che entrava. Lei, con gli occhi lucidi e l’espressione stravolta, corse ad abbracciarmi. “Tesoro, grazie a Dio ti sei svegliata. Temevamo di perderti”, singhiozzò. “Tranquilla... Mi spieghi cosa è successo?”.

“Un incidente terribile: un’auto vi ha travolti a tutta velocità. Ci hanno telefonato i carabinieri quando l’ambulanza ti stava portando al pronto soccorso”. “Ricordo solo il risveglio in auto, ma era tutto capovolto e indistinto. Per fortuna non è successo nulla di grave. Ali sta bene, l’ho visto pochi minuti fa, e io anche”. “L’hai visto?”, domandò, cercando di placare con un fazzolettino stropicciato e zuppo la cascata di lacrime, ma inutilmente. “Sì, prima. Mi ha detto che andava a chiamare il medico, poi non è più tornato. Sempre il solito”. “E cos’altro ti ha detto?”, chiese lei con il tono che si usa di solito annunciando a un malato la sua fine imminente. “Ovviamente era felice che mi sentissi bene”. Mia madre si accasciò sul letto, singhiozzando violentemente come mai l’avevo vista fare prima. “Mamma, perché fai così?”. Ero confusa. “Ti ha detto addio”, biascicò. “Ma cosa stai dicendo?”, sbottai, interdetta e innervosita da quelle mezze frasi. “Alin non è mai entrato in questa stanza, Sofi”, concluse lei, alzando appena il capo. “Che scemenze. Ci ho parlato poco fa… Perché siete tutti così strani?”. “Io credo si trattasse di un sogno o di qualcosa di simile”. “Un sogno? Ma è…”, stavo per dire assurdo, ma mi trattenni. Osservando la stanza mi resi conto che non aveva nulla in comune con l’ambiente visto in precedenza: la tinta dei muri era di un giallo intenso,

contrariamente a quel turchese che si accostava meravigliosamente al maglioncino panna che indossava lui e che incorniciava il suo volto luminoso e aperto. Non vi erano sedie a lato del mio letto, né lo spazio per disporvene e mi chiesi come avessi potuto non accorgermene prima. Come una saetta squarciante il cielo estivo in un afoso pomeriggio di agosto, d’improvviso mi aveva pervasa una consapevolezza amara e pesante e, desiderando con ogni molecola del mio corpo di sbagliarmi e racimolando tutta la calma possibile, posi una domanda la cui risposta mi perseguitò per il resto della mia esistenza: “Dov’è Alin, mamma?”. “Tesoro, lui non ce l’ha fatta. Era già morto quando sono giunti i soccorsi”.

La sensazione, nel dischiudere gli occhi, fu quella di uno squarcio. Le ciglia erano pesanti e indurite dal gelo, le lacrime si congelavano già a metà delle guance e i pochi lembi di pelle che sbucavano da sotto i vestiti si mimetizzavano con il candore circostante. Mi mancava il fiato e ogni boccata d’aria era una pugnalata. Ero priva di forze, ma per quanto desiderassi ricadere nel buio e restarci per sempre, qualcosa di piacevolmente caldo mi scivolava lungo il collo e sulle orecchie, tenendomi sveglia. Ero frastornata, come ubriaca, instabile nei miei pensieri, ma nel giro di quelli che dovevano essere pochi istanti, seppur per me interminabili, ritrovai la sensazione del circolo di sangue nelle gambe e provai a riflettere su dove mi trovassi. Ero sdraiata, i capelli fradici, le braccia insensibili e le dita delle mani infilate nella neve, ma qualcosa o qualcuno, disteso a fianco a me, forniva calore alla parte destra del mio corpo, permettendomi pian piano di riprendere conoscenza. Girai il capo lentamente con uno sforzo enorme, ogni vertebra alla base del collo parve spezzarsi, e puntai lo sguardo negli occhi ambrati e affettuosi che tanto mi erano mancati. Ero meravigliata, ammaliata, lacrime diverse da quelle precedenti si cristallizzarono sulle mie guance e il petto si scaldò tanto che credetti potesse sciogliere la neve circostante.

Sospirai. Piansi. Respirai a fondo. “Grazie di essere qui”.

Ringraziamenti

Il grazie più grande va a mia madre, per essere sempre il mio punto di riferimento. Un grazie di cuore va a mio padre, per le sue risposte alle mie continue domande. Un grazie speciale è per la professoressa Cesarina Bo, per la sua disponibilità e i suoi consigli preziosi. Un grazie particolare è per la mia amica Roxana, che mi ha suggerito i nomi in lingua rumena. E naturalmente un grazie è per Matteo, che da anni mi a e soprattutto… mi sopporta.

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