Preferisco Il Rumore Del Mare 44b3h

Copyright © 2014 Giovanna Astori e Andrea Masotti I edizione Ottobre 2014 ISBN ebook: 9786050326901 In copertina: Particolare del molo di San Benedetto del Tronto - fotografia di Giovanna Astori I fatti e i personaggi di cui si narra sono nati dalla fantasia degli autori, ma potrebbero casualmente e involontariamente risultare simili alla realtà.

Giovanna Astori – Andrea Masotti

Preferisco il rumore del mare

Prologo

- Biglietto. Te la sei fatta la notte a Riccione, eh? I capelli rossi, la gonna con lo spacco stropicciata e i sandali platinati. Lo so da dove vieni. Anche se hai sonno il biglietto te lo devo chiedere. Al 34 c'è il tuo ragazzo che puzza come un bufalo. Chissà cosa avete combinato, insieme! Se avessi la vostra età farei come voi. Buonanotte a tutti e due, Nuvola Rossa e Buffalo Bill. Meglio cominciare da lei. Non si sa mai come la prendono. Sono quarant’anni che vado su e giù per la costa adriatica e ne ho visti. Gente senza biglietto, chi fa la voce grossa e minaccia. Occhi che mi scrutano da dietro il vetro e corrono via o si chiudono nei bagni. Vecchi lamentosi che mi mostrano il portafoglio vuoto e donnette piagnucolanti. Baldracche che si spostano in cerca di clienti e vogliono pagare in nero e ubriachi sdraiati davanti all’uscita sperando che qualcuno li faccia rotolare in spiaggia. Certo che sono cauto. Non mi manca molto. Un tocchetto alla spalla della sventolona, verifico e finisco l’ultima carrozza. - Biglietto, prego, signorina. Lo so che ce l’ha, ma è il mio lavoro.

***

Verso casa. Portafogli rosso con soldi e carta di credito di papà, documento, biglietti del treno, confezione di complesso multivitaminico - come se la vita si potesse assumere in tavolette masticabili - piccolo diario con elastico i cui fogli fruscianti raccolgono gli ultimi mesi vissuti senza lui, pacchetto di sigarette iniziato con dentro un accendino bic rosa, lucidalabbra alla ciliegia, biglietto da visita di Scar, il tatuatore di Bologna che mi ha decorato la spalla, libro di non so quale autore che dovrebbe farmi compagnia in questa solitudine infinita,

telefono con batteria azzerata e displayer buio come la notte, I-pod che non ho voglia di accendere, gomme alla menta. Un bimbo di due o tre anni corre avanti e indietro nel corridoio. Cade. Si rialza come se niente fosse, con qualche briciola di crackers appiccicata alle mani. Riparte, prende la rincorsa e salta. La madre gli corre dietro, stridula. Lui la guarda da sotto in su e ride, con un dente spaccato volando giù da qualche muretto. Vorrei essere ancora lui, o già lei. Invece sono Bea: occhi come due biglie di vetro opaco, cuore che sanguina, pelle di pesca e anima macchiata. E torno verso casa lungo questi binari che, fosse per me, potrebbero finire inghiottiti nel nulla.

Beatrice

Nelle onde della memoria

Uno

Lo spazio si comprime in una morsa violenta. Una pressione sorda come una scossa ad alto voltaggio la prende e la lascia, le azzanna le tempie. Rosso. Nero. Rosso. Pulsa in un reticolo di vene bluastre. Da qualche parte arriva il suono distorto e acquatico di un urlo disumano. Poi tutto sembra finire e torna il silenzio, per una manciata di secondi. Il nulla, solo buio e il risciacquo amniotico di fluidi vitali. La sente ancora, anzi la immagina, quella cantilena proveniente da un'altra dimensione, che l'ha accompagnata per un tempo indefinito. La ricorda ora, per calmare quella paura inconsapevole che la sta assalendo. Bimba bella della mamma fai la ninna, fai la nanna. Il tintinnare di un carillon. Centoventi battiti per minuto. Fai la ninna, fai la nanna. Potrebbe rimanere lì dentro per sempre, immersa nella tranquillità, se non fosse che, senza preavviso, la bestia bruta in un istante è di nuovo lì, con le sue urla schiaccianti rosse e nere, che la spinge senza lasciarla più andare. Lei non può muoversi. Non sa muoversi. L'istinto le fa puntare i piedi per cercare la libertà, ma è come trovarsi davanti a un muro di gomma. La sala si anima, nuove voci, diverse, rapide e concitate. -Non ce la fa, rimbalza come una palla. È il cordone, avrà quattro giri di cordone. Chiamate il medico, operiamo d'urgenza! Lo stesso corpo che l'ha nutrita per mesi ora si ostina, non vuole metterla al mondo, giace sdraiato. Solo la schiena è appena sollevata e le braccia vagano in un via vai di mani da stringere, appigli su cui provare a far leva per tentare di liberarsi dalla belva che morde il ventre a intermittenza. Appigli forti e inutili.

L'anima di donna lotta in quel corpo che ora quasi vorrebbe non fosse suo. Combatte fra il desiderio di cacciare fuori quell'ospite sangue del suo sangue e vederla finalmente respirare, e l'istinto dell'oblio, che la terrebbe dentro per sempre. Me ne vado, abbiamo scherzato, non posso più sopportare questo supplizio. Bimba bella della mamma, fai la ninna, fai la nanna. Ricorda. Tieni duro. Quella stessa voce calda e ninnante ora è una nota dolorosa e disperata. -Fatela uscire, vi prego. È una giornata di nuvole scure, sul letto del mare. L'aria salmastra è portata in un giro di valzer continuo fra i quattro punti cardinali e scompiglia i capelli a quel giovane uomo che fuori dalla clinica Sant'Anna, o meglio sulla terrazza di fronte alla sala parto, aspetta una notizia. Una nave scivola sull'orizzonte, piccola abbastanza da poterci giocare fingendo di posarla sul palmo della mano, strizzando gli occhi, per ingannare il tempo. Un fischio cupo e profondo annuncia il suo aggio. Forse, sotto la linea dell'acqua, sirene dalla coda fredda l'accompagnano abbracciate ai delfini. Il fumo azzurrognolo della sigaretta, addormentata fra le dita dell'uomo, incrocia lo stacco fra cielo e mare, mentre il cuore va a un ritmo inafferrabile. Per ingannare l'attesa, immagina il momento in cui una delle suorine grigie gli chiederà "come la chiamiamo?" e lui risponderà "Beatrice", forse con la voce tremante. Oppure la domanda sarà più sbrigativa, senza tenerezza, qualcosa di burocratico tipo "nome della bambina?" e allora lui si sentirà investito di un'improvvisa autorevolezza paterna e risponderà comunque "Beatrice", ma con inflessione distaccata e orgogliosa. Un movimento, oltre i vetri della terrazza, lo riporta al presente. L'ostetrica e una suora lo vanno a cercare per informarlo che il parto ha avuto una complicazione. Si sente mancare il colore dal volto, il resto della sigaretta atterra sulle piastrelle consumate. - Ma stia tranquillo, sta andando tutto bene. È in sala operatoria, per un cesareo.

Ha perso tutte le parole, riempie i polmoni col profumo del mare e le guarda stralunato. Poi sente la propria voce rispondere. - Aspetto qui. Pochi metri più in là, una suora mormora il rosario seduta accanto a una porta. Dentro, in una stanza sbiancata dal neon, fra drappi verde scuro, alcune figure vestite dello stesso colore o di azzurro pervinca si scambiano ordini e gesti. La lama sottile incide netta due strati di tessuto. Bimba bella della mamma, fai la ninna, fai la nanna. Scivola fuori con un guizzo vischioso, in un istante più mani la afferrano liberandola da cappi e bandoliere, tagliano di netto quella corda gelatinosa che racchiude il suo destino. Sente improvvisamente freddo, un risucchio al centro del petto, che sembra quasi implodere finché nel suo punto più basso si tramuta in esplosione. Un pianto urlato di ossigeno e vita. Il giovane uomo affacciato sul mare si volta di scatto. Gli sembra di vedere una sirena che volteggia sulle onde cantando. Raggiunge la porta di fronte, che si apre come in un copione perfettamente interpretato per mostrargli il suo frutto, avvolto in un telino. - La signora è ancora sedata. Questa piccola meraviglia, stanca della lunga lotta, come la chiamiamo? - Beatrice. - Allora: benvenuta, Beatrice. La prenda. Non la immaginava così leggera. Guarda quella chioma arruffata, la pelle rossa e rugosa, le labbra minuscole. Beatrice apre gli occhi. La prima cosa che conosce del mondo è la macchia azzurra delle iridi di suo padre.

Due

- Sembra un sorriso! La donna porta d'istinto la mano a coprire la sottilissima linea bianca, fra l'ombelico e la stoffa del bikini nera, con inserti a contrasto. La bambina avrà quattro anni e al silenzio imprevisto di sua madre oppone uno sguardo che oscilla dal viso alla pancia e torna al viso. La sabbia fine e pulita sotto i lettini del lido Chantal è calda, e quando Bea siede a terra i riccioli biondi la sfiorano quasi. - Sembra un sorriso, mamma! Tenta di nuovo la fortuna, se non ha risposto la prima volta, dev'essere per forza perché non ha sentito. Non le aveva mai parlato di quella strana linea che né lei, né la zia, sdraiata sotto l'ombrellone accanto, hanno sul ventre. Bea non può sapere che racchiude un vuoto segreto, lo stesso che le ha unite e poi separate per sempre, e continua a scherzarci su. Porta il dito sul reggiseno a fascia della madre. - Questi sono occhiali da sole, - poi sull'ombelico - il naso, - e infine in basso questo è il sorriso, vedi mamma? La donna schiude appena le labbra, la fronte a solchi e uno schizzo di rughe intorno agli occhi umidi. - Da questo sorriso sei uscita tu. Potrebbe continuare, spiegando che, dopo di lei, da quella sottile linea è uscita tutta la sua vita. Che quando inizierà a domandarle perché non le dà un fratello, lei non riuscirà a risponderle, e proverà di nuovo quella fitta mista di impotenza e rancore, la stessa che le rende impossibile abbracciarla.

Non la stringe mai. Non l'ha perdonata, se mai avesse qualche colpa. Se mai i suoi piccoli pugni inconsapevoli potessero afferrare parole difficili come nècrosi e isterectomia. Beatrice la guarda. Non aspetta altre risposte, immagina una fatina minuscola legata a un palloncino, che esce come un soffio da quella pancia a sorriso e vola a spirali nell'aria turchina. Sfilando dalla borsa un pareo a macchie di leopardo, la donna si alza, le stringe i capelli dorati in un elastico decorato di ciliegie, e spolverandosi la sabbia di dosso le chiede se vuole il gelato. Lei salta in piedi e la segue sulla erella di legno, nella scia profumata di crema solare. La radio del bar canta una musica inglese che le sembra un carillon e ogni cosa scintilla così forte da far socchiudere gli occhi. - E papà, quando viene?

Tre

Domani è il primo giorno di scuola. Il primo in assoluto, quello del grembiulino stirato col fiocco, dello zainetto di Sailor Moon con dentro l'astuccio e il quaderno a quadrettoni. È il giorno in cui si diventa grandi, e nessun lenzuolo è abbastanza rosa, morbido e fiorato da conciliare il sonno. Attende. Si mescola e rimescola nelle coperte leggere di metà settembre, i capelli impigliati sotto la spalla. Tira lievi calci al nulla. Domani si diventa grandi. Non conta le pecore. Conta le parole.

A come Antonio, quello del bar vicino al mare. B come barca, B anche come il bar di Antonio. C come case che papà costruisce. D come dente che mi dondola. E come erba, anche E come zia Elisa. F come fiore, e come fallimento, che lo dice sempre papà a mamma piano piano in salotto. G come giorno, primo giorno di scuola. H...

Falli-men-to. Questa parola ha fatto diventare serio serio papà, da un po' di tempo. Io so che si dice quando qualcuno sbaglia, che ha fatto un fallimento. Forse papà ha sbagliato a costruire le case e quelle sono crollate. Da quando ha fatto questo sbaglio non ha più tanto tempo per portarmi con lui e poi non sorride tanto come prima che ci divertivamo insieme. E mamma lo aiuta a pensare come fare con questo falli-men-to, ma poi non riescono a risolvere nulla e sono ancora più tristi. Io voglio che siamo felici e ci divertiamo tutti insieme. Quindi domani, al primo giorno di scuola, chiederò alla maestra come fare, perché le maestre ci insegnano tante cose. Ora però devo dormire e mi dondola un dente.

I come... L come letto M come mare. Mare.

la stanza diventa lieve e senza tempo. Bea scivola in un mondo parallelo, dove l'auto di suo padre è un trenino che sale su una montagna, entra dentro fiocchi di nuvole girando intorno, sfiorato da gabbiani, fino a sentire il freddo nei polmoni – come fosse vero e non sognato – e a vedere il sole enorme, un bagliore accecante. Il trenino è risucchiato verso il basso in un vortice, scivola giù veloce come sulle montagne russe e si porta via tutte le case intorno. Fallimento. Il vuoto fra le costole, a precipizio verso il nulla. Fino a tuffarsi. E poi è tutto turchino, azzurro, blu oltremare. E di nuovo freddo, un freddo d'acqua che inguaina la pelle. Apre gli occhi che è giorno. Suo padre le accarezza i capelli. - Hey, sveglia. Un sorriso che aveva dimenticato, ma occhi più tristi. - Sei pronta, Bea? Lei si alza a sedere fra i fiori del letto. Mentre sta per dire sì, sente una minuscola caramella che gli rotola sulla lingua, e sapore di ferro. È caduto anche il dente.

Quattro

L'acqua tiepida le entra nelle orecchie come un ruscello calmante e in pochi secondi è silenzio. La schiena sfiora la superficie del mare immobile, che si perde nell'identico colore carico dell'aria pulita, gemelle siamesi unite da una sottile linea di

confine. Sono appena le nove del mattino e già il sole le scotta quel poco di pelle che emerge. Le sembra di udire il suono della sabbia, che scivola su se stessa mezzo metro più sotto. Se uscisse fuori con la testa, sa che sentirebbe l'acqua gorgogliare piano fino a liberarle l'udito, e che il timpano le restituirebbe in un attimo un'altra dimensione, quella della gente vociante, o il grido ridente di un gabbiano di aggio. C'è Pauline, la ragazza se, che la guarda dalla spiaggia facendosi visiera con una mano. Devi sempre ubbidire a Pauline, queste sono le indicazioni di mamma e papà, che l'hanno affidata a lei. La terza elementare è finita da qualche giorno. Il gabbiano continua a volare in tondo. Ora scende e mi afferra come fossi un pesce, pensa lei. Sente la carezza lieve dei capelli sciolti nell'acqua, che le ondeggiano fra le spalle. È sicura che sul fondo ci siano delle conchiglie, quelle che sembrano di pasta di mandorla, e senza dubbio dei paguri che zampettano. Devono essere lì, così come potrebbero are di sfuggita una o due stelle marine o un granchio nervoso, e branchi di pesci tutt'uno con l'acqua in cui nuotano. Si lascia riempire da tutto quell'azzurro, che deve aver già visto da qualche parte o sognato, un punto di colore uguale a nient'altro. In testa ha solo la sua voce muta.

Bea. Mi chiamo Bea, come la voce di una pecorella. Bea. È domenica mattina e galleggio nel blu. Una ragazza se mi controlla e io faccio come dice lei. Mamy e papy arriveranno presto. Bea, come un agnellino. E io sto qui assieme ai gabbiani. Sono leggera. Le stelle di mare eggiano, le sento chiacchierare. Chiamano il cavalluccio marino con la sua buffa coda arrotolata. Sono stanca di riposare. Nessuno mi cerca, adesso. Posso fare un po' di allenamento. Fare, per esempio: il cavalluccio!

Un colpo di reni e la tavola di cristallo si spezza in un saliscendi concentrico, i piedi, poi la testa, di nuovo le gambe. Si attorciglia su se stessa indietro, poi avanti e ancora indietro. Il mare si scompone per lasciarla fare. Fende l'acqua veloce in un caos di schizzi lucenti, neanche le fosse spuntata una pinna, una coda di pesce. Si ferma per ritrovare il fiato, un attimo e poi ancora giù, sotto la superficie salata. Fluttua per qualche metro, poi rotola e scivola di nuovo indietro, spedita. Si gira a pancia in su, il soffitto d'acqua come una lente infinita che la separa dal cielo. Gioca ancora in contrasto col mare, mentre Pauline dalla riva la chiama. Lei finge di non sentire. Quando arriva papà, voglio fargli vedere come ho imparato le capriole questa settimana che è stato via. Affonda il piede per prendere un nuovo slancio e il mondo s'arresta. Mille aculei infuocati le paralizzano la gamba, un grido si fa strada nei polmoni spezzati dal dolore acuto, si sente cadere indietro, l'acqua in un attimo le invade le narici, la bocca. Il suo mare se la sta riprendendo come un amante avido. L'ultima immagine che intravede è Pauline che scatta e corre dal lido verso la riva. Un suono argentino come di piatti in un'orchestra l'accompagna mentre scivola nel sonno apparente. Poi la musica, quel carillon che conosce bene, e un crescendo che la trascina in una eggiata onirica.

Sunday morning.

Tra poco arriverà.

Praise the dawning.

Mi prenderà fra le sue braccia tiepide.

It's just a restless feeling by my side.

Mi cullerà nella luce leggera.

Early dawning, Sunday morning.

Il vento mi accarezza i capelli umidi, ora.

It's just the wasted years so close behind.

Lo aspetto. Sta tornando da me.

Watch out, the world's behind you There's always someone around you who will call It's nothing at all.

La stella di mare mi cammina sul petto. Rossa, mi accarezza con le sue dita

morbide e ruvide. Il granchio mi pizzica scherzoso. Il delfino mi sorride. Lo aspettiamo, arriverà.

Il conato salato irrompe improvviso, braccia forti le premono il petto. La gamba forse è ancora lì, ma non la sente. La musica ha smesso, un legnetto le punge il centro della schiena, che le prude per le palline di alga. Muove la bocca, sotto i denti scricchiola un gusto terroso e selvatico. Voci di bambini e comari si impastano, bisbigliando per non disturbarla, ripetono come un mantra quella parola: tràcina. L'abbaglio del sole pian piano svanisce, lasciando spazio a un'invasione di azzurro: il cielo, e sopra il cielo i suoi occhi. Quelli che stava aspettando. - Bea...Dio mio...che spavento! - Eccoti. Sei tornato da me.

Cinque

Zio Duccio, che poi non è lo zio di nessuno, ma bisogna chiamarlo così perché ormai è di famiglia, arriva in casa a qualsiasi ora e bisogna essere pronti, offrirgli da bere, farlo accomodare. Lo Zio indossa sempre un completo marrone scuro, probabilmente ne avrà più d'uno, con la camicia di colore uguale alla giacca e la cravatta che sembra di bronzo. Sorride spesso, ma gli occhi no, sono marroni come il resto, stretti e senza paura. Beatrice lo guarda entrare nel salotto, sedersi sul divano dove di solito lei si accoccola la sera con suo padre a guardare la tv. Pensa che Zio Duccio dovrebbe accomodarsi da qualche altra parte, perché lascia sulla tappezzeria un profumo

dolciastro che lei odia. Lo ascolta parlare, lui alza la voce e poi l’abbassa all’improvviso, raccontando di persone e fatti che lei non conosce, non capisce. Lo deve ascoltare per forza, col pensiero che intanto le vola altrove. Sono tutte cose che non le interessano, di una noia obbligata e immortale. Bea non capisce perché Zio Duccio si porti appresso Paolo, un tipo vecchio e troppo pettinato, col volto biscottato, che porta i jeans attillati e gli stivali western col tacco di cinque centimetri. Da quando lo Zio e Paolo vanno da loro, il padre ha smesso di stare via per settimane, ha preso la casa in collina col giardino, dove lei ha una stanza grande piena di giochi e persino un domestico, che porta il vassoio con le bevande e i dolci in salotto, mentre la madre dà gli ordini. Non parte più per lavoro, ma qualcosa è cambiato. Bea non trova rifugio nei suoi occhi, li cerca e le sfuggono, le restano abbracci incerti e distanti e una domanda irrisolta: "Dove ti hanno portato?"

Sei

I colori possibili erano rosso, arancio, verde e turchese. Beatrice ha scelto l'ultimo. Il body è appeso nell'armadio, un volant diagonale alla vita e due più piccoli come maniche. Da settimane attende il gran giorno, carezzando la stoffa brillante, sognandosela addosso. Ieri è riuscita a fingere una febbre, la punta del termometro sulla lampada del comodino, e non è andata a scuola. Appena tutti sono usciti, si è infilata la seconda pelle turchina e ha immaginato la sala ampia, il parquet, gli spalti, il nastro nell'aria e gli sguardi su di lei. Quegli occhi, in particolare.

Oggi si sveglia col profumo dei croissant che riempie la casa. Fili di luce obliqui spezzano la continuità dell'aria, lambiscono il legno lucido dei mobili antichi, i muri rivestiti di tappezzeria scura. - Buongiorno principessa! La voce melliflua della madre la sorprende mentre si strofina gli occhi, ancora arruffata nella camicia da notte di sangallo. - Vieni qui, sei pronta? Ora ci sistemiamo per bene. - le scosta i capelli dal viso Sarai meravigliosa, una vera reginetta! Frasi che le si appiccicano addosso, più stucchevoli del miele che sta mescolando nel thè fumante. - Papà dov'è? - Tesoro, è fuori città. Ha promesso che arriverà in tempo per lo spettacolo. Oltre la finestra due, tre, poi decine di foglie riempiono in un istante l'aria, strattonate in ogni direzione. Bea si perde a guardarle, non si fermano più. Il vento satura ogni angolo, anche le strisce di sole sembrano svolazzare attraverso le stecche delle persiane. Il mondo s'è gonfiato di vento, come a volersi sollevare allargandosi in cerchi verso il cielo.

Eurus, Afer ventus... Boreas Zephryus... ... Africus

Le mani di sua madre la invadono, la pettinano, la vestono, le truccano di azzurro il confine delle ciglia, la spruzzano di essenze floreali. Lei si lascia modellare, come una bambola perfetta. Trabocca di emozione quando si ritrova, nemmeno sa come, coi muscoli tesi all'angolo del parquet. Una fascia dello stesso turchese del body le tiene indietro i boccoli lunghi, non più biondo grano, ma di una sfumatura fra l'oro e il rame. Tra le mani la bacchetta del nastro, che insieme alle prime note, quasi impercettibili, si anima stretta nelle dita, portando nell'aria quella coda sinuosa che sembra non avere fine.

So the world goes round and round with all you ever knew They say the sky high above Is Caribbean blue

Disegna onde leggere nell'aria, per lui. Per tutte le volte che si sono tuffati insieme. Mi stai guardando, vero? Sono io, la tua piccola sirena. Le note salgono e scendono con lei, in crescendo. Il nastro turchino come un pennello dipinge nel nulla anelli e volute.

If every man says all he can, If every man is true, Do I believe the sky above Is Caribbean blue

Il corpo sinuoso piroetta e si allunga morbido da un angolo all'altro della sala. Il pubblico è muto. Lei sa che lui è sugli spalti e il cuore le si dilata. Quando ero svenuta nel mare, mi sono risvegliata nel tuo abbraccio. La musica la avvolge come i vortici del nastro leggero.

If all you told was turned to gold, If all you dreamed were new, Imagine sky high above Is Caribbean blue

La pelle diafana è lucida di sudore e quasi trasparente. Si alza in volo seguita da metri di onde che corteggiano gli sguardi del pubblico rapito. Ad ogni volteggio gli spalti scompaiono, tornando poi come fermi-immagine in cui è sicura di vederlo, di riconoscerne per un istante i capelli, il sorriso, persino il blu delle iridi. Le note accarezzano ancora l'aria, finché si spengono in un istante di silenzio, che diventa un applauso dirompente. Si inchina più volte, in ciascun angolo, il respiro corto gli arrossa il viso radioso. È finita, ha dato tutto. Ho danzato solo per te. Scappa come una farfalla verso gli spogliatoi, per cercare il suo abbraccio. Ne trova altri, e baci stucchevoli, pareti bianche, bambine truccate e cariche di adrenalina che aspettano il loro turno, mani che la cercano, voci e luci al neon. Lui dov'è? Non mi fermate, fatemi andare. Arriva fino all'ingresso, si spinge fuori tutta lustrini e ombretto, con le scarpette

di stoffa ancora ai piedi. L'aria si è fatta più fredda. L'auto arriva in quello stesso istante, neanche si è fermata e lo sportello si apre, lasciando uscire un fascio di rose bianche, seguito dal suo viso contrito. Si blocca a guardarla come in cerca del perdono, la stringe al petto. - Come sei bella. Bea resta immobile, il profumo delle rose le dà il capogiro, o forse è qualcos'altro. - Dov'eri? - Scusami Bea, ho fatto troppo tardi. Paolo e Zio Duccio le sorridono da dentro l'auto, salutando. Tutto il resto è immobile.

Sette

Il piede fende lentamente l'acqua, che lo dilata e lo illumina come se non fosse il suo. Odore di cloro e olio di cocco. Avanti e indietro, l'unica parte del corpo a contatto con la superficie fresca, densa e trasparente. La madre è dentro casa con Kumar, dà le ultime direttive per la festa. Avanti e indietro, l'acqua si lascia traare senza scomporsi. Avanti e indietro. Null'altro si muove, intorno. Guarda l'orizzonte, oltre la collina. Lei arriva avvolta nel caftano di seta bianca, una scia di parole al domestico affaccendato, affinché tutto sia perfetto per i diciotto anni della sua bambina.

Una vespa cade accanto al piede di Bea, nel celeste sbiadito di quel falso mare. La raccoglie lasciandosi pungere e la posa sulle mattonelle calde. Non sente dolore. La madre si sfila la vestaglia, il bikini è accecante in contrasto con la pelle già scura. Il piccolo sorriso sul ventre s'è spostato poco più in là, s'è fatto storto e dilatato come quello di un clown. - Sei felice di festeggiare? La guarda per qualche secondo, cerca un senso, e alzandosi le risponde. - Un po'. Poi si tuffa, lavando via tutto insieme il calore dalla pelle. Sott'acqua apre gli occhi, che si riempiono dell'azzurro del mosaico e bruciano. Si sdraia a galla, in attesa. Il colore del cielo è quasi una beffa, troppo intenso per essere vero.

Capriccio e riso perfido del mare acqua increspata gorgoglio di sole riflesso. Ogni goccia di luce tagliente mi porta via un angolo del cuore Desiderio di berla e farla mia – è già mia. Riprendermi ogni frammento dell’anima disperso con urlo di sirena, o mostro marino.

Risacca

Uno

- Bea non partire senza colazione! La voce di mia madre dal salone, inflessione snob perfettamente assortita col completo fresco lana di papà, colletto se, cravatta di seta, gemelli e una nuvola di dopobarba inglese. - Kumaaar! Kumar, dove sei? Prepara un thè a Beatrice che è in partenza! Lei dettava le direttive come se non esistessi, e quel poveraccio del cameriere cingalese obbediva come uno schiavo. Papà alzò solo per un istante gli occhi dal quotidiano, il terzo della pila che sfogliava ogni mattina prima di uscire alla volta del centro uffici, pronto a prender posto sul suo trono in pelle nera da incarico dirigenziale, in attesa della cena con qualche assessore, mogli incluse. Alle dieci partiva il mio treno, direzione Bologna. Con la scusa dell'esame di relazioni industriali e della festa di laurea di Sara, sarei rimasta lì una settimana. Tutto questo naturalmente era una bugia, come lo era il rosso dei miei capelli impregnati di henné, la mia presunta verginità e il neo che mi disegnavo con la matita poco sopra il labbro, sulla sinistra, come una diva degli anni '50. A Bologna stavo andando davvero, ma solo per prendere la coincidenza per Rimini, dove mi aspettava Denis. Papà mi accompagnò alla stazione, la mano calda su una mia guancia e un bacio sull'altra, un lampo dei suoi occhi azzurri nei miei, rapido come il messaggio occulto di un vecchio amante. E poi le parole di rito: chiama quando arrivi. A destra sfilava la lastra salata del mare, fra il turchese e il grigio del cielo

invernale riflesso. A sinistra i campi gialli di terra, posseduti dai bracci adunchi e stregati degli ulivi secolari. E il treno andava, lombrico nel ventre della mia terra, portandomi verso la faccia nascosta della luna.

Due

Mi aspettava sulla banchina, proprio accanto allo squarcio. C'era una nota stonata, in quello squarcio, che lo rendeva normale, confuso nella banalità dei muri della stazione. Avrebbero dovuto chiudere quella ferita con un vetro rosso smerigliato, come il sangue. Vita e morte. Non bisogna mai dimenticare il sangue, nel bene e nel male. Per avere pieno senso, un monumento al sangue versato deve ferire. Deve farti piangere immediatamente, a prima vista. Sara era lì, stretta nel cappottino celeste, con la sciarpa di lana avvolta attorno al collo e il cappello a cloche, la sigaretta accesa. - Ciao, tesora! - un bacio sulle labbra nel nostro modo – fa così freddo anche giù? - Sì, ha fioccato neve mista a pioggia. Andiamo a prendere una cioccolata, va'! Il nostro bar preferito era vicino alla stazione, avevo giusto un'ora prima della coincidenza per Rimini. Ci sedemmo al tavolo vicino alla vetrina, con l'illusione di stare in mezzo al via vai della gente che ava fuori, come in un telefilm americano. Il vapore della miscela azteca al peperoncino mi pizzicava le narici. Di fronte a me, Sara si arrotolava un'altra sigaretta. C’eravamo conosciute all’inizio del primo anno, cercando l’annuncio di una stanza in affitto tra i foglietti appesi nella bacheca dell’università. Strappammo la stessa strisciolina col numero di cellulare, scambiandoci un’occhiata come a dire: testa o croce. Ma poi non fu necessario lanciare la moneta, le stanze erano due, e divennero il nostro regno. Portavamo lo stesso profumo, manco a farlo apposta. Le due metà di un’anima, che si cercano e all’improvviso sono lì, servite dal destino. Lei sembrava la parte più semplice, leggerezza apparente e

radici profonde, e divenne necessaria come un balsamo per la mia inquietudine. Una mattina s’era presentata a casa con un magnifico taglio a caschetto color turchese. - A Londra vanno così - disse. E quel giorno me la portai al mare, con la macchina prestata da un amico. Restammo sdraiate per ore sotto al sole, a fare chiacchiere e ascoltare musica, con quei ciuffi azzurri che mi facevano venir da ridere come un gatto che gioca. Sara, la sorella che mi era mancata. L’unica cui raccontai di mia madre che, dopo avermi messa al mondo, era rimasta mutilata della sua sorgente di vita e me ne aveva fatto quasi una colpa, di cui mi puniva con un affetto stucchevole e forzato. Non so come, anch’io riuscivo a darle forza quando ne aveva bisogno. Alla vigilia del suo primo esame aveva manifestato per la prima volta una paura profonda. Aveva smesso di mangiare da due giorni, non prendeva più sonno e pensai di dover trovare il modo per rimetterla in piedi. - Saliamo a San Luca - le dissi, porgendole un sacchetto di dolci al cioccolato – Ci farà bene camminare, almeno prendiamo aria. E poi lo sai, prima di un esame... Decise di seguirmi, bestiolina pallida. Si affidava a me, che in quel momento mi sentivo più viva che mai. Mentre salivamo le tornò il colore sul viso. La strada era lunga, ma l’aria frizzante e il cielo pulito la rendevano piacevole. A un tratto si fermò e mi lasciò la mano. - Sediamoci qui. Sfiancate, su un muretto a tirar via fili d'erba cresciuti fra i mattoni e le pietre, restammo in silenzio. L'avrei intrattenuta col mio solito fiume di chiacchiere, ma avvertivo la sua voglia di assenza, come se si stesse preparando a una confessione e avesse bisogno di scegliere le parole. Era vero. - Bea, – disse a un tratto, cercandomi con lo sguardo e le mani – sai perché mi monta questa paura? Chissà, avrai pensato che sono matta, in fondo è solo uno stupido esame.

Non pensavo per nulla che fosse matta, non mi aveva nemmeno sfiorato l'idea. - Insomma, è successo quando avevo sedici anni – guardava in basso, oltre il muretto, verso le case sul declivio. Poi si girò verso di me, continuando – Lui era il mio ragazzo. Dico ‘lui’. Non riesco nemmeno a pronunciare il suo nome. Si fermò per un istante, gli occhi umidi. - Insomma, era estate e si andava in giro tutto il giorno, sai, senza pensieri. La bici, le colline, cose così. Facevamo cazzate, chiacchiere, gli amici. Un giorno si presentò con una sorpresa: un motorino rosso fiammante. I miei mi vietavano di salirci, non volevano proprio che andassi su nessuna moto. Con lui però, di nascosto, ci andavamo eccome. Fino a quella domenica. Era primo pomeriggio, lo raggiunsi in bici e poi ce ne volammo via per i prati, io sulla sella dietro di lui, stretta forte, trasgressione e gioia. Ci fermammo su un colle, e dopo i baci mi disse: dai, guida tu. Il gioco mi piaceva, quel segreto fra noi che era anche la sua fiducia in me, e decisi di provare. Contro ogni immaginazione, scoprimmo che ero anche piuttosto brava a guidare. Lui volle salire con me in sella, e... La voce le si spense in gola. Le presi la mano nella mia, forte, e riprese il racconto. - Dopo la curva, un cane ci saltò davanti all'improvviso. Non so dire cosa sia successo, Bea. Non ho sentito più la strada sotto le ruote, solo un sacco di rumore, la gamba che mi bruciava da matti e poi m'è ata davanti quella scena, lui che sbatte su una roccia e rimane lì. - cominciò a tremare, rompendosi nel pianto – è rimasto lì per sempre, Bea. E io non posso pensare che se non avessi accettato quella sfida, se non avessi provato, e non fossi stata davvero brava a guidare, ora lui sarebbe ancora vivo. Rimasi come una pietra, immobile e gelata. Cercavo il modo per tirarla fuori da quel pozzo popolato di fantasmi, ma quali parole potevo trovare io, ragazzina viziata che nella vita aveva sofferto al massimo per un po’ di solitudine. In quel momento non desideravo altro che prendermi tutto il buio che la stava incatenando, prenderlo a pieni polmoni e soffiarlo via. L’unica strada fu l’abbraccio, parlai con la pelle, i muscoli, l’odore, il calore. D’altra parte, il nostro vero bisogno era di non sentirci più sole. La salita a San Luca dopo fu più leggera. Restammo a godere del panorama e a respirare l'aria azzurra, con i pensieri che volavano paralleli incrociandosi

all'orizzonte, sul filo delle colline accese dal sole. - Ce la farai, Sara. Ce la faremo. Quella giornata era stata il nostro patto di sangue, la chiave nella serratura. Da quel momento sapevamo di poterci dire tutto. E adesso, dopo anni, eravamo lì, io e lei. Davanti alle tazze fumanti, a un futuro di promesse da definire e alle nostre incertezze. - Quindi vai da Denis. - Sì, ma ti prometto di tornare per la laurea. Come va? Sei tesa? - Macché, ormai è tutto fatto. Se ripenso al primo esame! - Ti ricordi? La salita a San Luca... - Se non ci fossi stata tu, Bea, non so se ce l’avrei fatta, davvero. - Eh, tutto il bene che ci siamo volute in quei giorni, e dopo. E soprattutto il tuo trenta! - Già, chi se lo dimentica! I più bei ricordi di Bologna. Adesso però voglio tornare a casa, sono stufa di questo posto. Non ci sarai tu, questo è il pensiero più triste. - Sì, chissà che fine farò. Magari ti raggiungo io e ce ne andiamo a Milano o da qualche altra parte, che quella vita di merda da snob di provincia non posso reggerla. Mi guardò da sotto in su con gli occhi felini magnifici segnati dall'eye-liner e il sorriso asimmetrico. - Bea, sei sicura di quello che fai? Dico Denis e tutto il resto. - Che ne so? Certe volte mi sembra l'unico modo per sentirmi ancora viva. - Temo che ti farai del male, che ti perderò. - Lo sai che questo è impossibile. Andiamo, accompagnami, ché perdo il treno.

La stretta prima di salire, un bacio più forte voluto da lei. - Torno per la festa. Stai tranquilla per me, se mi vuoi bene. I suoi occhi liquidi, il sedile di similpelle sul corridoio lurido. Poi il pensiero rivolto a forza altrove, di nuovo in viaggio verso il mare, col freddo nelle ossa.

Tre

Stava in cucina, rimestando in una padella da cui si alzavano nuvole biancastre e profumate. Mi guardò, magro, con le sue spalle un po' curve e le basette biondicce. Le labbra scure si aprirono in un sorriso sornione, mentre si avvicinava per abbracciarmi. Denis aveva un fascino disarmante, l'avevo pensato subito la sera in cui ci eravamo conosciuti in un pub a Bologna. Avevamo scherzato e bevuto, parlato di libri e delle vacanze in campeggio di quando era adolescente e alla fine, per caso, le nostre dita si erano sfiorate in un modo che avevo riconosciuto subito. Da quel contatto accennato avevo iniziato a desiderare di intrecciare le mani alle sue, e così era avvenuto qualche giorno dopo, in una eggiata per le strade del centro. Denis era molto più grande di me, non aveva studiato ma riusciva a parlare di tutto, e questo mi stupiva perché era l'esatto contrario di quello che mi avevano insegnato. Per mia madre e mio padre, se volevi diritto di parola dovevi avere almeno il dottorato, salvo poi spendere la voce per contrattare con l'assessore o il sottosegretario di turno. Avevo sospettato più volte di essere stata scambiata in nursery, tanto non mi trovavo con la mentalità di casa. Cenammo velocemente in cucina. Ero stanca per il viaggio e il programma della serata prevedeva un impegno inatteso.

- Dobbiamo andare dal Professore, mi ha chiamato per un lavoro. Così è l'occasione buona per conoscerlo. - Il Professore, ah, finalmente lo vedrò in faccia. - Forse. Ha accettato che venissi anche tu. Ma cerchiamo di essere prudenti, Bea. - Certo. Che tipo di lavoro ti ha chiesto? - Una nicchia, una cosa particolare. Mi ha accennato, non so, a un altare. - Un altare, dici? Per fare? - Mah, sai che non ho idea. Forse quelle sue riunioni. Vediamo, oggi mi dirà meglio. - Dici le riunioni del gruppo? - No, beh, non con noi. Quelle altre cose che fa lui, per i contatti. La casa del professore era qualche chilometro verso nord, nell'entroterra. Una villetta abusiva, col tir parcheggiato nel cortile. Niente lusso, solo mattoni e cemento. Aprì un ragazzo dell'est, con i capelli arruffati e un alito insopportabile di aglio e birra. Fece strada verso una stanza sul fondo del corridoio, al piano terra. Il Prof stava dentro, in un angolo, di spalle. Vedevo solo il maglione in pile grigio e la testa semi-calva. Scambiò qualche parola con Denis, senza mai girarsi. Poi uscì da una porticina e noi restammo per prendere delle misure. - Scusa Bea, ma ha preferito non farsi vedere per il momento. Non è per te, però, capisci, no? - Tranquillo. Finisci 'sto lavoro e andiamo, che ho sonno. La faccenda del gruppo rivoluzionario andava avanti da mesi. Mi ero lasciata coinvolgere senza conoscere nessuno, perché avrei fatto qualsiasi cosa col mio uomo. Rischiavo, provavo a crederci anche a costo di buttare all'aria la mia vita.

Accettavo tutto quello che mi chiedeva di fare, restando sempre e comunque al margine. E pensavo che magari avremmo fatto fuori quei personaggi disgustosi di cui si circondava mio padre, che l'avevano portato via da me, rubandomi il cielo dei suoi occhi. Sulla strada del ritorno, i lampioni sul lungomare mi sbattevano in faccia, attraverso la nebbia salmastra e il finestrino, una luce intermittente e ipnotica come nei miei ricordi di bambina, quando tornavo tardi da una cena fuori, accasciata sul sedile dietro della Mercedes di papà. E come una bambina mi addormentai sul sedile, mentre l'autoradio bisbigliava qualcosa.

Quattro

Oltre il vetro, le chiome verdastre degli alberi lungo il viale erano strattonate da un vento opaco di sabbia. Il cielo piatto e lattiginoso si aggrumava grigio verso il mare. Avevo addosso il dolcevita nero e gli slip, immobile sotto il calore del piumone. - Buongiorno, bimba! Denis entrò nella stanza con una ciotola da cui salivano riccioli di fumo. - Hey, amore. - Eri proprio distrutta, ieri sera! Ti ho dovuta mettere a letto io. Vuoi un po' di latte, piccola? Mi allungò la tazza, sedendosi sul bordo del letto, mentre con l'altra mano scansava la marea dei miei capelli arruffati. Latte bianco con lo zucchero, come una luna piena dal sapore buono. Non lo bevevo così da una quindicina d'anni. Guardai, alzandola come un trofeo, la ceramica lucida di colore giallo chiaro, su cui era impresso un volo di rondini marroni.

- Questa tazza ce l'ho da secoli. L'ho conquistata coi punti del Mulino Bianco quando andavo alle elementari. - Davvero? Caspita, è vintage! - Ecco, sì, sottolinea che ho quasi quarant'anni e tu poco più di venti, simpaticona! Mi prese la tazza dalle mani e la poggiò sul comodino, chiudendomi le labbra velate di latte con la sua bocca. Amavo quelle parentesi in cui ci ritrovavamo nudi sotto le coperte, le sue dita lunghe e ruvide a esplorarmi in ogni angolo, curva e pianura. Mentre ondeggiavo sopra di lui che mi afferrava i fianchi, l'unico frammento di ragione vigile diceva che non l'avrei lasciato mai, che avrei sentito per sempre la sua pelle sottile parlare con la mia, le sue mani callose da operaio svelarmi i miei segreti, la sua lingua aspra e dolce di fumo assaporarmi come se ogni volta fosse la prima, fino alla scossa calda e vischiosa del piacere. Si sdraiò sul fianco tenendomi avvolta come un bozzolo, il viso nella mia chioma infinita finto rossa. - Bea... - Dimmi. - Non hai paura, tu? - A volte sì. Ma voglio credere che sia la strada giusta. Perché me lo chiedi, tu hai paura? - No, spero di reggere. Finché l'organizzazione funziona riesco a starci dentro e a fare la mia parte. Ma mi conosco, potrei crollare come un castello di carte. - Allora crolleremo in due, e che si fottano! Mi strinse. Immaginai il suo sguardo un po' perso vagarmi sulla nuca. Il mare d'inverno è solo un film in bianco e nero visto alla tv.

La spiaggia era una distesa umida a perdita d'occhio, con i lembi baciati dal mare plumbeo che si proiettava deciso in semicerchi di schiuma. Restammo seduti su uno scivolo di plastica abbandonato, guardando l'immagine sbiadita di un clown stampata sull'altalena lì accanto. Una donna e due ragazzini correvano avanti e indietro di fronte a noi, giocando con il vento e un labrador fradicio di sabbia salata. - Mettono tristezza, i clown. - Vero? Pensare che da bambino mi facevano tanto ridere. Il pagliaccio infarinato con le scarpe enormi che fa una capriola e cade a gambe larghe coi mutandoni a righe all'insù. Ora lo trovo deprimente. - Come il ciccione che cade su candid camera, una comicità un po' cinica. In fondo l'essere umano è bastardo, più che altruista, no?. Finché un bel giorno non comincia a riflettere. - Già. E si sa che i bambini non riflettono, vanno d'istinto. - Poi cresci, scopri che è tutto molto più agghiacciante di come te l’eri figurato e ti a la voglia di ridere. - Sai quante ne vedo io in cantiere. I caporali, gente che a cinquant'anni ancora ha bisogno di loro. - E io con mio padre, allora? Vedo l'altra faccia della medaglia, gli appalti truccati, ‘sta roba qui. Den, sapessi quanto era dolce, mio padre. Adesso a malapena sa se sono viva o morta. - Ci penso io a coccolarti, piccola. E poi insieme facciamo la nostra parte per cercare di cambiare il sistema. È il tuo modo di vendicarti contro chi ti ha strappato quel sentimento tenero. - A volte mi chiedo perché mi hanno messa al mondo. Forse è stata solo una delle tappe obbligate, come le feste comandate, la laurea, il matrimonio. - Comunque prima o poi è inevitabile che i padri ci abbandonino, mica ci puoi fare niente.

Guardavo l’orizzonte come una linea d’acciaio da saltare, per correre lontano senza voltarsi. - Denni, laggiù cosa c’è? Oltre il mare, dico. Cosa c’è esattamente? - Beh, direi…la Croazia! - Ci sei stato mai? - No, veramente no. - Non sarebbe bello scappare laggiù, io e te, ora? Mi sorrise con tutto il viso. - Eh, sarebbe bello, sì. Ma dici a nuoto? - Ma no, sai che freddo? Ci vorrebbe una porticina magica, che la apri e ti ritrovi dove vuoi. - Una specie di teletrasporto? - Sì, ma la porticina è meglio, no? Più sogno, meno Star Trek! Pensa, giri la maniglia e di là c’è una casetta su un’isola deserta, nell’azzurro senza fine. - E ci siamo io e te. E basta. - Esatto. - Senza problemi, madri, padri, lavoro di merda. Senza nemmeno professori, segreti, bande sovversive. - Mi piace la tua porta magica. - E poi sai che vorrei? Qualcosa per renderti felice all’istante. Diventare una strega che ti tocca e spariscono tutti i tormenti. E’ bello sognare un po’, no? - Cosa non è bello, con te? Mi avvolse le spalle, mentre il labrador saltava e correva appresso a un ramo.

- Andiamo, ho freddo, prendiamoci qualcosa. Mare mare, non ti posso guardare così perché questo vento agita anche me. Questo vento agita anche me.

Cinque

Venne al cancello, il vialetto buio si vedeva a malapena fra le siepi alte di foglie grandi e scure. La salita in macchina sul colle era sembrata eterna, le stradelle senza lampioni si inerpicavano dentro e fuori da boschetti neri come bocche di lupo. Guerino teneva in mano una lattina d'aranciata con la cannuccia, le braccine più corte del previsto sul busto corpulento. L’espressione ferma, un lieve sorriso distratto, stralunato. - Entrate. L'avevo già incontrato qualche mese prima ma non ero mai stata a casa sua. Ci fece attraversare il giardino, un rettangolo selvaggio, fino a una casupola di mattoni col tetto di ondulato. La porticina di ferro dava su una piccola stanza, il suo regno. Una decina di scaffali di legno grezzo con barattoli, giornali impilati, attrezzi da lavoro e una vecchia mini tv con l'antenna tonda, di quelle che avevo visto nelle foto degli anni settanta a casa dei nonni. In fondo alla stanza, un tavolaccio su cui troneggiava l'attrezzatura per comunicazioni radio, e una sedia di tela ingrigita. In un angolo accanto al tavolo, un apparecchio alto un paio di metri, con lo schermo e una scritta colorata Phoenix Arcade. - Quello cos'è? - Un videogame! L'ho preso da una sala giochi che ha chiuso e l'ho modificato.

Funziona senza monete. Vuoi provarlo? Alternava la direzione dello sguardo dentro e fuori gli occhiali spessi, in bilico fra accoglienza e riservatezza. - Sì, dai, vediamo! Spinse un pulsante su cui era impressa la scritta FUNZIONA CON UNA MONETA DA 100 LIRE. Sullo schermo comparve un'astronave violetta su fondo nero stellato, poi la scritta Phoenix e un volo di pixel in forma di aquilotti. Iniziai a sparare sulle file di volatili che scendevano sempre più veloci, il punteggio cresceva in un angolo del video. Non era così difficile. Mentre cercavo di battere il record del giocatore WarriorX, il baracchino iniziò a gracchiare emettendo suoni. Io e Denis ci spostammo al tavolo incuriositi, mentre Guerino armeggiava con la ricetrasmittente. - Warrior... - Sette tre Prof! - Sette tre a te! - Sei al trabacco? - Sì... sono sulla grande. - Prof, qua ho due orecchie pelose in carne e ossa stasera! Due bei ghiringhelli! - Ho capito... credo. Visti in verticale l'altra sera! Saluti anche a loro! Di' che lo chiamo presto per quel lavoro. - Roger, Prof. Come te la i? - Benone! Oggi invecchio! - Grande prof! Allora cinque uno da noi! Spire? - Eh, troppe... troppe... cosa vuoi sapere? Sono ancora un ghiringhello anch'io... un po' cresciuto!

- Acca i, acca i al cubo Prof! - QRT bello. Carica batteria! QSO più tardi, ok? - Roger, Prof. A dopo! Non avevo capito nulla di quella conversazione in gergo, ma si trattava di qualcosa di amichevole. Denis guardava il tipo con aria interrogativa. - Allora? Che dice? - Eh niente, era sul tir, poi s'è fermato per un boccone. Oggi è il suo compleanno. Gli ho mandato anche i vostri auguri! - Ah, grazie. Da fuori la casupola si sentì un rumore confuso di oggetti in legno e metallo che cadevano, poi dei versi striduli, come un litigio fra gatti. Sussultai. Il vento faceva parlare le foglie tutt'intorno, creando un brusio di sottofondo. Guerino e Denis si misero a parlottare di cose e persone che non conoscevo. Mi sentivo tagliata fuori dalla conversazione, come con Zio Duccio e il suo cow boy, quindi tornai a sfidare WarriorX al videogame. Poi mi chiamarono e Denis mi chiese se me la sentivo di consegnare due pacchi. In tutti quei mesi avevo fatto solo delle ricerche per il gruppo, alcune telefonate al massimo. Questo nuovo incarico era qualcosa di più impegnativo. - Come si fa la consegna? - Verrà una persona nel posto concordato. Guerino aggiunse che potevo portare uno dei pacchi a Bologna e l'altro giù a casa. Esitai un momento. Portare con me il pacco voleva dire irrompere col mio segreto nella vita regolare e impeccabile di casa. Denis aspettava una reazione, come una prova di fedeltà. - Beh sì, mi sembra un'operazione fattibile.

- Allora posso dirlo al Prof? - Ok, lo faccio. Li porto io. Sorrisi a Denis come se stessi promettendogli amore eterno, lui mi restituì un'occhiata fissa. Una risposta muta, da brivido. Restammo immobili a guardarci in tre per qualche secondo, come per scandagliarci a vicenda i pensieri. - Restate a cena? Guerino ruppe il silenzio infilandosi le mani nelle tasche dei pantaloni larghi. Aveva dei modi molto diversi rispetto a quando eravamo arrivati, più sicuri, come se si fosse tolto un peso dallo stomaco. - Che facciamo? Ti va? - Ma sì, perché no. E poi ho una fame! Ero incuriosita da questo personaggio, volevo vedere il resto della sua casa, come si sarebbe comportato a cena. - Venite, andiamo allora. Mamma sta già preparando. Ci fece strada fuori dalla baracca, attraversando il giardino fino alla porta della casa. Bussò, e dopo qualche istante venne ad aprire una donna tarchiata, i capelli e il viso lucidi, il sorriso fin troppo ospitale. - Buonasera! Guerino, sono i tuoi amici? Piacere, venite prego! Venite, accomodatevi! Ero imbarazzata, ma anche divertita. Lei ci tirava e spingeva letteralmente dentro casa, con le gote arrossate e l'espressione di maniera. Con Denis ci scambiammo le idee in uno sguardo. - Venite, ho preparato uno spezzatino al vino bianco tenerissimo. Lo gradite? - Certo signora, va bene qualunque cosa. Non si preoccupi.

Per tutta la cena non smise un attimo di parlare con noi, col suo Guerino. Ci chiese di tutto, raccontò ogni dettaglio della sua vita e della famiglia. Ci stremò di chiacchiere, e continuò anche quando il figlio uscì, attratto fuori all'improvviso da un rumore simile a quello sentito nel casotto in giardino. Rientrò dopo un tempo infinito. Con i capelli arruffati e il fiato spezzato, aprì la porta tendendo il braccio verso di noi. Teneva per le zampe un gatto con la pancia aperta per lungo, gocciolante un sangue scuro. Io e Denis restammo pietrificati. La madre sobbalzò con lo sguardo attonito, coprendosi la bocca spalancata. - Guerino! Cos'hai fatto? Di nuovo... Si lanciò verso di lui, afferrando le zampe della bestiola. - Dammi! Non farlo più, non devi farlo! Si affrettò verso la cucina lasciandosi dietro un sentiero di goccioline. Guerino ci guardò soddisfatto, ravviandosi i capelli grigiastri. - Questi gatti io non li sopporto più.

Scendendo la collina non scambiammo una parola. Forse i nostri pensieri coincidevano, in bilico fra la consapevolezza di essere in un affare più grande di noi, in cui credere fino alla morte, e l'ansia sottile di non comprendere del tutto con chi avessimo a che fare. Tenevo con me i due pacchetti da portare a destinazione, secondo le istruzioni di Guerino. Il giorno seguente sarei ripartita per Bologna. Denis tornava in cantiere e io da Sara, per la laurea e la festa. Scendemmo nel buio così, assorti ognuno in se stesso senza il coraggio di parlare della serata trascorsa e dell'episodio del gatto. Mi giravo verso di lui che continuava a guardare la strada articolata, cercando di leggergli il volto.

Sull'ultimo tratto rettilineo verso casa, Denis tolse la mano dal volante e cercò la mia. Ci stringemmo le dita, mentre iniziava a piovere.

Sei

Mi lasciò al treno. Gli avevo ridato le chiavi di casa, visto che da lì a poche settimane avrebbe traslocato. Rimasi con la tempia poggiata al finestrino per un tempo infinito, con la pianura pregna d'acqua che sfilava fuori. Dalla borsa a tracolla occhieggiavano i due pacchetti. Trovai Bologna uguale a sempre. Conoscevo ogni angolo delle sue strade ormai, e non aveva più molto da dirmi. Quella familiarità era un appiglio confortante per affrontare la duplice missione che mi aspettava: consegnare il primo pacco e salutare Sara e la vita che avevo fatto negli ultimi anni. Allo stesso tempo avrei preferito trovarmi in un luogo diverso, popolato da sconosciuti e senza riferimenti. La consegna avvenne subito. Fuori dalla stazione, presi un bus che mi portò fino a un quartiere residenziale in periferia, un posto dove non ero mai stata, e lì non feci altro che recapitare quel parallelepipedo leggero, che poteva essere un libro o un grosso quaderno, al bigliettaio del capolinea. Mi sembrava di non aver fatto nulla, non provavo alcuna emozione, né sentivo l'importanza dell'incarico, diversamente da come avevo immaginato. Tutto quel sentirmi eroina che cambia le sorti del mondo era svanito, inghiottito da un senso di solitudine e precarietà. Volevo tornare da Denis, non mi importava più nulla del resto. Forse ero solo stanca. Sara mi aspettava a casa, avvolta nell'accappatoio. Restammo tutta la sera sul divano a fumare e parlare di quello che ci aspettava nei mesi a venire. Io dovevo ancora finire gli esami, me ne mancavano un paio,

dopodiché non sapevo come avrei proseguito, cosa avevano in serbo i miei per la vita predeterminata della loro bambina perfetta di cui non sapevano praticamente nulla. Sarei andata almeno a trovare Sara a Perugia, ma prima dovevo finire tutto il resto. E poi Denis, chissà. La notte ci inghiottì con le nostre parole, lasciandoci addormentate abbracciate sul divano. La discussione della tesi andò come previsto, la famiglia di Sara commossa, poi il pranzo tutti insieme. I suoi erano il padre e la madre che avrei desiderato, sereni, capaci di un amore genuino e senza condizioni. Speravo che mi adottassero per ridarmi il calore perduto. Nel pomeriggio dello stesso giorno, il collettivo studentesco inaugurò l'occupazione della facoltà. Anche se avessi voluto, l'appello di “Relazioni industriali” era saltato, avevo un'ottima scusa per giustificarmi a casa. Il giorno dopo organizzammo la festa da Sara. Spostammo tutti i mobili lasciando intatti solo la camera da letto e il bagno. Non le avevo detto del pacco, preferivo lasciarla fuori dalle mie storie. Lo avevo nascosto in fondo alla valigia, sperando che nessuno ci mettesse le mani per fare qualche scherzo idiota. Ci preparammo aiutandoci a vicenda. Indossai un vestito mini rosso, il suo preferito, e stivali di camoscio sopra il ginocchio. Sara mi intrecciò i capelli, e raccolse le due trecce sulla testa a formare un cuore. Mi piaceva sentirla carezzarmi e pettinarmi, immaginavo il suo sguardo magnifico velato di malinconia. Si chinò e mi baciò sulla guancia, circondandomi con le braccia che spandevano un profumo di thè bianco. Alle dieci la casa era piena di gente, la musica scoppiava nell'aria densa di fumo. Si parlava dell'occupazione, i neolaureati si chiedevano dove sarebbero stati un anno dopo, se avrebbero mantenuto i contatti da un capo all'altro d'Italia o invece si sarebbero dispersi.

Words like violence break the silence, come crashing in into my little world. Painful to me pierce right through me, can't you understand, oh my little girl.

Nel movimento di ragazzi che parlavano e ballavano, vidi entrare Federico Verli, il figlio del sottosegretario, avviato a una carriera di dubbia onestà, con il solito gruppo di amichetti arroganti. Anche lui aveva finito gli studi. Mi aveva cercato spesso negli anni ati- Ero stata gentile e diplomatica con lui, finché non avevo conosciuto Denis e allora avevo preferito evitarlo e basta. Mi dava la nausea. Aveva l'aria di uno che prende tutto ciò che desidera, senza chiedere. Immaginai per un istante me e Denis, come due natural born killers, smitragliare quel gruppetto sull'uscio di casa. All'improvviso mi assalì la voglia di starmene per conto mio, non sopportavo più quella calca vociante, anelavo solo al silenzio.

...enjoy the silence...

Me ne andai in camera di Sara a controllare il mio pacco. Tirai fuori la valigia dall'armadio e lo presi fra le mani. Mi sentivo più vicina a Denis con quel gesto, il pensiero di condividere un segreto mi illudeva di averlo lì con me. Sentii la porta aprirsi alle mie spalle. D'istinto mi voltai mettendo il pacco dietro la schiena. Era Verli. Che idiota, avrei dovuto aspettarmelo! - Ciao, Bea. - Ciao. - Cosa fai qui, tutta sola? Avrei voluto rimanere fredda, ma in quel momento pensai che la cosa più importante fosse distrarlo dal pacco. - Niente, ero stanca.

Sorrisi, certa che attirarlo verso di me l'avrebbe distolto da qualsiasi altra curiosità. - Cos'hai lì, posso vedere? - Ma no, nulla, dei libri che ho preso per un'amica. Roba di studio. Quella risposta geniale mi fece immaginare lo sguardo compiaciuto di Denis. - Ah, pensavo qualcosa di interessante. Allora senti qua, te la faccio io una proposta. - tirò fuori dalle tasche due involucri, mostrandoli sulle palme delle mani aperte – Cocaina, olio di oppio. Che preferisci? Mi aveva preso alla sprovvista. - Io... - Andiamo, è gratis. Offre la casa. Mi guardava con una sfrontatezza da figlio di papà. Mi sarei uccisa piuttosto che accettare, ma la priorità era proteggere il pacco. - Oppio. Non avevo mai tirato coca. Quell'opzione mi sembrava se non altro più gestibile, pensavo a qualcosa di simile a uno spinello. Mi si avvicinò fin quasi a baciarmi. - Brava, bambina. Dispiace anche a te non vederci più, eh? Mio sorriso di circostanza, desiderio di uscire immediatamente da lì, pensiero al segreto da custodire. Continuai a recitare. Preparò un miscuglio da fumare. Approfittai per rimettere via il pacchetto. Sollievo. - Vieni qui. Ci sedemmo sul pavimento, sotto la finestra, fumando a turno senza parlare. Dopo due o tre tiri, la testa mi cascava e non riuscivo a smettere di ridere. Lui

continuava a parlarmi di cinema e non so cos'altro. Sentivo la musica dalla stanza accanto come una cantilena sconnessa. Non so spiegare come, mi ritrovai con i capelli sciolti, mi sentii sollevare e girare, con le immagini della stanza che prendevano altre forme, fino a ritrovarmi con il suo sapore fra le labbra, e non potei fare altro che assecondarlo. Non riuscivo a fermare nessuno dei suoi movimenti, anche quando mi ritrovai riversa sul letto, con lui che mi afferrava i fianchi da dietro, prendendomi con una forza eccessiva. Ero come un manichino senza volontà. Non so per quanto andò avanti, non avevo controllo su nulla. Poi svenni o mi addormentai, svegliandomi di colpo quando Sara aprì la porta, trovandoci abbandonati sul suo letto. Il suo sguardo stupito e deluso mi si stampò nella mente. Forse si era rotto qualcosa fra noi, o invece avrebbe capito le mie spiegazioni. Se mai fossi riuscita a dargliene. Mi girava la testa, Federico continuava a dormire. Mi alzai cercando di restare in piedi e ripresi i vestiti sparsi, mentre lo sguardo di Sara e quello di Denis mi vorticavano nel cervello. Volevo solo silenzio.

Vows are spoken to be broken, feelings are intense, words are trivial. Pleasures remain, so does the pain, words are meaningless and forgettable. All I ever wanted, all I ever needed is here in my arms. Words are very unnecessary they can only do harm.

Trascorsi il resto della festa in bagno a vomitare. Sara mi stava vicino, ero stordita e senza forze. Mi sentivo mortificata per averla delusa e per quella parentesi trash durante la sua serata speciale. Lei mi tenne la fronte, poi mi portò nel letto e rimase lì, la mia mano nella sua, meglio di una sorella o di una madre. Federico si era ripreso molto prima di me, evidentemente era abituato a certi rituali. Era tornato dai suoi amici come se niente fosse, finché Sara non li mise alla porta, che potessero sparire, loro e tutta la merda che si portavano appresso.

Il giorno dopo mi svegliai all'ora di pranzo, prima di Sara. Lo stordimento era ato. Raggiunsi la cucina scavalcando ogni tipo di immondizia, per preparare una colazione speciale, ma mi resi conto che lì dentro al massimo si poteva fare un caffè. Scesi dal fornaio e comprai dei dolci. C'era una nebbia leggera, ma guardando in alto si poteva scorgere qualche angolo di cielo azzurro. Stavo per ripartire verso la mia vita da provinciale, da figlia unica di una famiglia benestante dove mi sentivo ormai un'estranea. Volevo cambiare il mondo, l'avrei cambiato. Anzi, avevo già iniziato a farlo, o almeno così credevo. Rientrai in casa, Sara mi aspettava a piedi nudi, lo sguardo assonnato ma inconfondibile. Aveva già messo su il caffè. - Ma dov'eri? Ho avuto paura che fossi andata già via. - I dolci... Prese il pacco dalle mie mani, lo posò in terra. Mi abbracciò teneramente, la testa sulla spalla, soffiandomi un respiro leggero nell'incavo del collo.

Sette

Stava finendo il carnevale, e sulle strade di Bologna giacevano abbandonati i resti di nevicate di coriandoli. Gruppetti di bambini mascherati eggiavano sui viali e sotto i portici, sfilavano non lontani dai bivacchi dei punkabbestia con le loro mute di cani fedeli, correvano nelle piazze lanciando scie di stelle filanti. Andando alla stazione un trio di piccoli pagliacci si mise di traverso sulla nostra strada, spruzzandoci dei fili colorati e appiccicosi, lasciandoci spiazzate per un istante, con un senso di stupore e tenerezza. Mi tornò in mente la giornata sulla spiaggia con Denis.

- Mi manca. Ora che te ne andrai anche tu, non avrò nemmeno più una stanza in città, l'unica scusa per vederlo saranno gli ultimi esami. Sempre se finisce l'occupazione. - Quella finirà senz'altro, come ogni anno. E poi, dai, troverete il modo di vedervi. - Non è facile, lui col lavoro non si può muovere, e io non ho più scuse. Mica posso dire ai miei che amo un operaio quarantenne squattrinato e sovversivo! Scoppiammo a ridere. - No, non mi sembra una buona idea. Ma sei furbetta e puoi inventarti qualcos'altro. - Sì, hai ragione. Come mi conosci, tu! La presi sottobraccio, volevo trasmetterle con forza il sentimento che ci univa. Continuammo verso la stazione, scherzando, per truffare la malinconia. - Bea, tu però ti metti nei casini. C'eravamo salutate così, al treno. Non avevo resistito e le avevo accennato ai pacchi, senza darle troppe spiegazioni. Mi voleva troppo bene ed era abbastanza sveglia da capire. Ci lasciammo con la promessa di una mia visita a Perugia, al più presto. Intanto tornavo al sud, al mio mare turchese, unico punto di colore nella vita grigia che mi aspettava. Il rientro a casa fu identico a come l'avevo immaginato. I miei si erano bevuti la scusa che l'occupazione mi aveva costretta a rinviare l'appello. Mi strapparono la promessa di chiudere con gli esami a giugno, e io da brava bambina giurai di obbedire. Tenni il secondo pacchetto in casa per due giorni, proteggendolo da Kumar e dall'invadenza di mia madre.

Un giovedì pomeriggio piovoso come tanti, andai all'appuntamento in biblioteca. Cuore gonfio, atrio-ventricolo. Tum. Tum. Tum. Stavolta non ero per niente tranquilla, il fatto di trovarmi nella mia città con gli occhi puntati addosso e la missione da portare a buon fine mi dava ansia. Stava seduta al tavolo, la maglia lilla come previsto, una ragazza tale e quale a me. La salutai come se ci conoscessimo, le raccontai che stavo preparando l'esame, insomma fingemmo un'amicizia consolidata. Poi ci spostammo in un bar e continuando la recita le consegnai l'involucro. Mentre glielo avo, immaginavo cosa potesse contenere, chissà dov'era diretto. Ma erano domande inutili, non l'avrei mai saputo, faceva parte del gioco. Il mio dovere era compiuto, e sapevo che Denis ne sarebbe stato fiero.

Tempesta

Uno

Me lo sono trovato davanti con la giacca verde e quei due baffi da guardia di Pinocchio - io le immagino così, le guardie di Pinocchio - che mi fissava aspettando una risposta. Mi sono addormentata due minuti, su questo treno che mi porta a casa e sembra non arrivare mai. - Biglietto prego, signorina. Mi ha svegliato, smuovendomi la spalla con due dita. - Sì? Vecchio baffuto, mani a posto, stavo dormendo. Comunque eccoti il biglietto, cosa ti credi, che non ho pagato? E questo tipo seduto davanti a me s'è svegliato anche lui, con la sua camicia a quadri, e mi ha guardato come uno zombie, prima di richiudere gli occhi. Torno da Bologna, libretto con gli ultimi due esami fatti, un bel trofeo per i miei, che metteranno un'altra crocetta sul loro calendario esistenziale. Beatrice si laurea, presto, accorrete numerosi per l'evento dell'anno! Tutta l'alta società cittadina è invitata alla grande festa ma, attenzione: nessuno sa che la fanciulla potrebbe avere una pistola nella borsetta! Vorrei scendere alla prossima fermata, tagliare per i campi sterminati verso non so dove, e perdermi nella pianura. Invece sono seduta in questo luogo senza coordinate, abitato dalle storie non dette di noi inquilini provvisori. Sento freddo, anche se è giugno e fa caldo come quell’insolito aprile.

Ho preso un libro alla stazione. Sembrava una buona compagnia, ma l'ho già aperto quattro volte e non riesco a sentire se ha qualcosa da dirmi. Forse sono io che non ascolto. Scivolerei fuori dal finestrino ora, e come in un quadro di Chagall galleggerei nell'aria fino al Tevere, che non so nemmeno quanto sia lontano da qui. È lontano come aprile, quando il Tevere ci guardava riflessi, me e Denis, in una pigra notte romana. Una delle nostre ultime notti, coi lampioni che sembravano star lì per farci un favore, per concederci di godere un altro po' di quella puttana maestosa che è la capitale. C'eravamo incontrati lontano dalle nostre città, lui per una manifestazione nazionale, io con la scusa di un concerto, tanto i miei di musica non capiscono nulla. Tre giorni a camminare, sotto un cielo turchino che faceva splendere la bellezza imperfetta del mio uomo, la sua stretta forte, il suo sorriso che si rabbuiava solo in rari momenti. Il mondo ci apparteneva, niente ci avrebbe strappato l'uno dal cuore dell'altra. ...e abbandonarsi a respirare dirsi tutto senza dire una parola, lo sai, se potessi non ti lascerei mai più, mano nella mano. Ma certi spiriti mi portano dove non voglio e fanno a gara per riprendere anche te ma è tutto inutile se corri con il vento e non ti fermi neanche un attimo a respirare... E dentro il corteo, lui con la scritta S'i fosse foco arderei lo mondo sulla maglia e il peso del lavoro appena perso sulle spalle, io che mi alzavo i capelli per il caldo e seguivo gli slogan con la mia voce da mezzosoprano e il lucidalabbra alla ciliegia e il neo fasullo, ma poi pensavamo che anche quello era una farsa, e solo la nostra battaglia clandestina avrebbe cambiato davvero le cose, ripulito questo mondo dalla merda che lo stava sommergendo. In questo treno non funziona nemmeno l'aria, c’è puzza di tutto il peggio che l'umanità può esalare. Ho la fronte umida e c'è questo tizio qui davanti con la testa che gli ciondola dal sonno e ogni tanto apre gli occhi e mi guarda in un modo strano, tra il 'mi fai schifo' e il 'ti vorrei scopare'. Chissà chi è, magari se si sveglia ci parlo. Chiamerei Sara per farmi compagnia, ma la batteria del telefono è morta, e poi a conti fatti non riuscirei a parlarle con questi intorno. Meglio assopirmi nei

ricordi. La parentesi di aprile è una fotografia così nitida e perfetta che fa male, legata al dopo con una catena di ferro dietro una cortina di filo spinato. Eravamo arrivati fino al mare, in quei giorni romani, ando attraverso filari di pini come ombrelli, su una lingua d'asfalto che moriva all'orizzonte. E poi la sabbia scura, già tiepida, e i piedi immersi nell'acqua fin troppo cristallina. Aspettammo il tramonto nel mare, inusuale per noi nati e vissuti con le albe dell'Adriatico. Poi tornammo verso la strada, mordendoci le labbra nel vento, con i fantasmi delle cabine dei lidi che ci osservavano silenti. E il mattino dopo, l'ultimo saluto. La stretta alla stazione, le sue mani forti sulla mia stoffa turchese a piccoli fiori, a tenermi la chioma indietro e il viso chiaro da baciare, come la perla in un'ostrica. Stavo tutta dentro quelle mani. Sua, senza confini fra diverse qualità di pelle. Credevo davvero che non l'avrei lasciato mai più. Invece bastò una settimana, quasi che un dèmone avesse calcolato alla perfezione i tempi per arrestarmi il cuore. Altra stazione. La frenata fa svegliare di nuovo il tipo qui di fronte, deve avere un caldo boia così vestito. È sudato e chissà che stava sognando. Magari è uno che non sogna mai, e anche se sogna non se lo ricorda. Sta lì stravaccato, con le braccia conserte e l'aria di chi non vede l'ora di scendere. Tornerà a casa da un viaggio? Magari va a incontrarsi con una donna, o con un uomo. Forse è uno studente come me, che ormai sono quasi un'ex studentessa e mi sento morire al pensiero del dopo. Potrebbe avere anche lui un pacco nella borsa, dei documenti o una pistola o soldi o droga. Sta viaggiando per una missione. O sono io che viaggio con la fantasia, per prendere una boccata d'aria dai miei pensieri. Fatto sta che ha occhi tristi e fermi. Che vorrei piantare il mio sguardo nel suo per parlargli in silenzio e capire se da bambini eravamo uguali, io e lui. Se ci siamo ritrovati per caso in una delle tante emergenze della vita. Solo che ha lo sguardo fisso altrove, e non mi fa entrare. Il dèmone d'aprile ci si era messo di brutto per uccidermi. Nei giorni dopo Roma, ero piena di energie e prospettive. Avrei finito gli esami a giugno come promesso ai miei, poi la tesi, e in qualche modo avrei trovato la strada per trasferirmi altrove. Almeno una volta nella vita potevo essere io a

sfruttare le conoscenze di mio padre, trovare un lavoro da qualche parte vicino a Denis e non lasciarlo più. La sorpresa era nascosta dove meno me l'aspettavo: nella suoneria che mi faceva impazzire i battiti, quella legata solo al suo numero, che preannunciava l'arrivo della sua voce calda. Il dolore, se vuole ucciderti, si nasconde nella bellezza. La mia mela stregata era servita. - Amore! - Bea... Una voce agghiacciante. - Che succede? - Bea, hanno preso il Prof. - Cosa? - Preso. - Dio, e ora che succede? - Non so. Non so nulla. Non so che fare. - Parto? Vengo da te? - No. Non venire. Anzi, meglio se non ci sentiamo almeno finché le cose non sono più chiare. - Ma come, no! - Ti richiamo. Scusami, Bea. Aveva riagganciato. Ed era sparito nel nulla. Il mio Denis era evaporato come la rugiada. Non aveva retto. ai i giorni successivi in bilico fra i telegiornali, nella speranza di scovare notizie, e le telefonate a vuoto. Il telefono potrebbe essere spento o non raggiungibile. Cristo santo, Denis, ma dove sei. Anch'io ho paura, non mi

abbandonare. Invece mi aveva abbandonato. E non sarebbe tornato. Almeno, finora non è tornato. Sono andata a cercarlo, in questo mio ultimo viaggio a Bologna, come un uccellino striminzito sul regionale, con un vortice di vuoto nello stomaco e le tavolette di vitamina che mia madre mi ha infilato nella borsa. Per la prima volta da quando sto al mondo, lei mi ha guardato negli occhi e ha visto una morte che non ho voluto spiegare, che ora cerca di combattere coi ricostituenti. Potevi arrivare prima, mamma. Rimini a giugno è già quasi un tormentone estivo, strappata alla sua gente dai turisti. L'ho cercato ovunque: non c'era. Neppure la nostra spiaggia era più la stessa, soffocata dagli ombrelloni e arata dai piedi dei bimbi dei soggiorni estivi. Solo i clown impressi sui giochi di plastica sorridono ancora malinconici, ma ano inosservati nell'abbaglio del sole. Non sapevo nemmeno dove andare a trovarlo, la casa l'aveva lasciata da un pezzo, il lavoro perso, quindi ho camminato per tutte le strade, sperando di scorgere un sintomo della sua presenza, un segnale, un qualsiasi appiglio. Ho pensato persino di averlo solo sognato. Apro di nuovo questo libro che dovrebbe accompagnarmi fino a casa, ma trovo solo parole affiancate ad arte per dire nulla. Non mi servono chiacchiere carezzevoli, né false verità sbattute sul foglio come se potessero salvarti la vita, perle di saggezza da mercatino dell'usato. Ho bisogno di calore, di un'anima come me in cui cadere, spersa come gli occhi di questo tizio qui davanti che continua a svegliarsi a tratti e mi fissa qualche istante, sbattendo le ciglia assente. Quella canzone che cantava sempre mia nonna, com'era? ragazzo triste come me...

Potrei sederti accanto mentre dormi. Posarti la testa sulla spalla e dormire con te. Chissà dove vai. Non c'è nessuno che ti aspetta mai perché non sanno come sei. Se non mi avessi guardata come fossi una gatta rognosa, potrei restare a respirare il tuo respiro, e senza svegliarti coprirti di baci leggeri come i di farfalla. Nessuno può star solo, non deve stare solo quando si è giovani così. Ti svegli ancora mentre il treno rallenta, guardi l'orologio, poi fuori. Ma cosa fai, ti alzi? Prendi la borsa, mi urti poco per sbaglio e mi dici persino scusi. Ma dove vai? Non puoi mica andartene così. Mi fai un mezzo sorriso, forse pure quello involontario. Il treno si ferma, mi volti le spalle con la tua orribile camicia a quadri, non hai nemmeno notato il mio lucidalabbra alla ciliegia. Stai proprio scendendo, stronzo. Mi hai lasciata sola. Anche tu.

Due

Il sedile è rimasto vuoto, dopo che sei sceso. C'è rimasta la tua impronta, forse ha deciso di restare per tenermi compagnia. Tanto, anche quando c'eri e dormivi, eri poco più che un fantasma. Mi è toccato di sognarti per renderti reale e tu, per tutta risposta, sei andato via. Che poi, chissà chi eri. Io volevo solo qualcuno come me con cui dividere i pensieri. Ora sarai a casa, avrai trovato mammina che ti ha rifatto il letto fresco, ha lo scaldabagno, preparato il sughetto buono col pomodoro e il basilico, e tu l'hai baciata sulla guancia, di routine, mentre tuo padre ti salutava dal lettino di plastica coi cuscini a fiori che piazza in salotto tutte le estati, per guardare il tiggì in santa pace. La stessa santissima pace che ti fa continuare a vivere come se niente fosse, con qualche lavoretto senza contenuti, farai il cameriere al ristorante di tuo zio, mentre provi i concorsi al comune sperando nel calcio in culo.

E intanto la tua vita a, la domenica c'è la partita, la birretta al pub, e tu ti accontenti mentre il sistema ti schiaccia come una lumaca senza il guscio. Mica ti sfiora di provare a cambiare qualcosa, di rischiare la pelle. No, tu hai la tua vita da provinciale sfigato con la camicia a quadrotti. Io ci sto provando, bello, anche per te. Almeno ci provavo, prima che finisse tutto a puttane. I miei pacchetti li ho fatti viaggiare, l'ingranaggio ha girato. Ed eccola qui, la mia terra. Azzurro all'orizzonte, gli uliveti, le periferie da radere al suolo, i centri delle città con le vetrine griffate, nelle vie dello struscio del fine settimana. Mi sento soffocare al pensiero di rientrare in quella casa, in quella vita fasulla, l'estetista, l'armadio stracolmo, gli esami a pieni voti, aspettando il battesimo del prozac, amico del cuore di mia madre. Mi salverà solo il profumo del mare. In città le strade sono più intasate del solito, c'è un'afa insopportabile e il sudore mi cola lungo la schiena anche a quest'ora. Sto arrivando, mia madre avrà già ordinato a Kumar la cena – Kumar, prepara una bella pasta al forno per Beatrice che ha finito gli esami – e lui sì signora, e io entrerò e saluterò e mi butterò sotto la doccia, poi in camera con la musica a tutto volume e lei verrà a sedersi sul letto per sapere tutto, con l'attenzione ostentata e l'affetto formale della Perfetta Signora Mamma. Le racconterò i minimi noiosi dettagli, perché sono la sua brava ragazza e molte soddisfazioni avrà da me. Un cane randagio grosso e sporco mi sta seguendo mentre trascino il trolley sulla strada di casa. - Dove vai, bello, vieni con me? Vuoi restare con me? Mi fa un po' paura, poi piega la testa di lato con le orecchie a triangolo, io non rispondo, non ho capito la domanda, allora guarda altrove in segno di tregua. Continua a seguirmi trotterellando. - Sai, non credo ti lasceranno entrare. Rischi di brutto. Non mi molli più. Vuoi

dirmi qualcosa? Guarda che siamo arrivati! Te l'ho detto, non puoi entrare con me. Kumar ti manderà via, una secchiata d'acqua e ti sentirò guaire mentre scappi lontano. Mi dispiace, piccolo, devo chiudermi questo cancello alle spalle. Limite invalicabile. a solo chi ha occhi azzurri, conto in banca abbondante, abbigliamento adatto, santi in paradiso. E quelle come me che ci sono cascate in mezzo. Bye bye, cucciolone. Vai per la tua strada. La casa è immersa in un silenzio irreale. Forse presa dai miei pensieri ho dimenticato che avevano un impegno? O forse loro si sono dimenticati di avvertire me. - Mamma! Papà? Kumar? Nemmeno Kumar risponde. Sarà il suo giorno di libertà. Nessun benvenuto, solo il ronzio del frigo nella cucina deserta, e un biglietto: BENTORNATA! SIAMO FUORI A CENA. Mi sciacquo il viso per togliere almeno la patina di sudore e la puzza del viaggio in treno, che sembra ormai lontano anni luce ma, visto che non c'è nessuno ad aspettarmi, un'anima che mi butti le braccia al collo, nemmeno il domestico, tanto vale spogliarmi subito e lasciare all'acqua il compito di dispensarmi quella carezza. Fluido schiumoso all'aroma di iris blu, come gli occhi di mio padre che hanno tradito tutti i sogni, scende lento nel gorgo portandosi appresso i pensieri, poi lungo i fiumi carezzando la pelle dei pesci, le rocce, e infine le alghe, i granchi, la sabbia del mare. E lì impigliato in qualche granello di sale ritrova a specchio i pensieri di Denis, scivolati giù da un'altra doccia in qualche parte del mondo. Perché tu mi pensi ancora, vero? Non so fare altro che quello che mi chiede, lo faccio per amore e senza sapere perché. Sono stretta in uno spazio incolore, fra questa realtà che mi uccide lentamente e l'irreale convinzione che potrei ucciderla io, insieme a lui. Forse sono io l'errore. Vorrei lo schiaffo che mio padre e mia madre non mi hanno mai dato. Spaccare questo silenzio di sorrisi di convenienza, raccontare tutto. Che non sono la loro brava bambina, che porto in giro pacchi segreti per conto di uno che squarta gatti

e di un camionista in stato di arresto, che amo uno squattrinato sparito nel nulla, che non sono vergine, che mi hanno scopata dopo avermi drogata e non era la prima volta, che la mia migliore amica è innamorata di me e conosciamo a memoria l'una il corpo dell'altra, centimetro per centimetro, che vorrei dare fuoco a questa casa lussuosa e a tutto quello che c'è dentro - oggetti che mi succhiano la vita solo a guardarli - che sono una bugiarda e non sarò mai quello che vogliono loro, non sarò mai come loro. Una deflagrazione. Ma resto qui, nuda davanti allo specchio, immersa nel silenzio. Sì, sono io l'errore. Attacco il telefono alla corrente e lo accendo, come ogni volta ho una lieve scossa al cuore al pensiero che potrebbe chiamarmi lui. Chiamate perse di mia madre. Almeno si sono ricordati che esisto. - Pronto, mamma? Bella accoglienza! Almeno un po' di cena potevate lasciarmela. Urla, non capisco nulla di quello che dice. - Mamma, oddio, ma che succede? - Beatrice, corri! Una tragedia Bea, sono alla clinica Sant’Anna. Maledetti, hanno sparato a tuo padre! Ascolto impietrita. Il mio corpo nudo riflesso nello specchio mi appare improvvisamente anacronistico, inutile, il capriccio di una bambina viziata. Hanno sparato. Hanno sparato a mio padre.

Tre

Sono corsa fuori con addosso qualcosa preso a caso dalla valigia. Un colpo di reni mi ha scaraventata oltre la paralisi immediata: dovevo andare da lui.

Due giri di chiave e lo scooter si è . Il cane era ancora lì fuori, si è scostato un istante per il rombo del motore, poi mi è corso dietro per qualche centinaio di metri. In quel momento ho sentito le sirene e ho creduto che stessero suonando per mio padre, senza avere un’idea precisa del perché. In effetti, sembrava che venissero verso casa. Ora scivolo veloce nell’aria appiccicosa di questa sera definitiva. I capelli scossi ovunque si annodano, intrappolando i pensieri su di lui. Chi può essere stato? Chi ha sparato? Arrivo davanti alla Sant’Anna, l’afa si è condensata in cielo e inizia a ricadere in una pioggia sempre più fitta, che schivo appena in tempo, mentre entro nell’atrio ingombro di luce e di uomini in divisa carta da zucchero. Ho decine di occhi addosso, avverto la tensione senza riuscire a distinguere se ne sia imbevuta la sala o il mio cuore, quei due etti di muscolo che mi battono la colpa in petto. Mia madre è in un angolo, elegante e curva sotto l’abbraccio di un uomo di spalle, che non metto subito a fuoco. - Mamma! Prima che lei riesca a realizzare che sono lì davanti, mi vengono incontro due poliziotti. - Signorina, lei dunque è la figlia. - Bea! Oddio Bea come faremo! – mia madre si avvicina veloce seguita da quell’uomo, che ora riconosco. - Signora, ci lasci parlare con la ragazza. Se vuole, avvocato. I due poliziotti mi affiancano, seguiti dall’avvocato di mio padre. Non riesco a capire nulla di quello che sta succedendo. - Dov’è mio padre? È vivo? Ditemi qualcosa vi prego. - È sotto osservazione. Il proiettile ha compromesso un polmone e sfiorato il cuore. Ora c’è solo da aspettare.

Resto attonita. Una gelatina di pensieri senza direzione mi invade la mente. E cosa vogliano da me i poliziotti, di cosa mi debbano parlare, non riesco a immaginarlo. - Venga, mettiamoci nella saletta, bisogna che lei sappia subito alcune cose. Li seguo, del tutto persa nei punti di domanda. Mi rendo conto che Zio Duccio non è lì, ma forse in tutta quella confusione non l’ho visto. Ho il presentimento che possa essere stato coinvolto anche lui. - Ma cosa è successo, sapete chi è stato, se ci sono altre vittime? - Allora, un momento. Ci sono delle cose che dobbiamo spiegarle. Che siamo costretti, a spiegarle. - Non capisco. – l’avvocato mi mette un braccio intorno alle spalle e mi fa sedere. Uno dei due poliziotti è molto giovane, viso affilato, il naso leggermente storto, occhi scuri che per un istante brillano dentro i miei, regalandogli un’ombra rossastra sulle guance e un accenno di sorriso. Penso che in questo momento flirtare sia del tutto fuori luogo. Mi dico Bea, sei la solita stronza, stiamo parlando di morte. Però non riesco a non restituire il sorriso, e sto. - Signorina, in effetti ci sono dei sospetti. Lei probabilmente avrà saputo, voglio dire, intuito, insomma, non è una bambina, conosce l’ambiente qui. - Lo ascolto, ma è come se stesse girando intorno a qualcosa che non riesco a mettere a fuoco. – Ecco, lei sa che casa sua in questi anni è stata frequentata da certi personaggi, non so se mi capisce. Guardo l’avvocato, che annuisce. Conosco quest’uomo da decenni, è una persona di famiglia, tra l’altro ha sempre manifestato un affetto particolare per noi. E nonostante questo, non colgo il significato del suo sguardo, ora. - Scusi – dice, interrompendo il poliziotto, e poi a me – Bea, l’agente sta parlando di Zio Duccio. - Ah sì, certo agente, capisco. Non so bene cosa abbiano fatto ma insomma, non è che mi siano mai piaciuti troppo. Li ho sempre giudicati diversi da mio padre, eppure lui ha scelto loro.

Il ragazzo mi guarda, devo avere un’espressione di cane bastonato. Insieme a quelle tre parole mi sono tornate in gola la rabbia e la disperazione di qualche ora prima, patetica davanti allo specchio. - No, Bea. Non è proprio così. – l’avvocato mi stringe con gli occhi. Poi il poliziotto riprende a spiegare. - Infatti, signorina. È un po’ complesso da spiegare, e non è importante capire in questo momento. Quello che deve sapere ora, che segnerà la sua vita da qui in avanti, è che suo padre da diverso tempo sta servendo lo Stato. Non riesco ad agganciare le sue parole ai fatti, o forse cerco di fuggire da un’ipotesi che incombe. - Cioè, in che modo? - Ecco, le spiego quello che posso. Ha accettato di dare alcune informazioni – si ferma un istante e fruga nelle parole – insomma, riservate e utili per il bene di tutti. Mi si ghiaccia il sangue, mi sento scoperta di fronte a quei tre, ma non ne comprendo esattamente il motivo. - Mio padre sarebbe una spia? - Beh non è quello il termine che ei. Diciamo un informatore. Suo padre ha reso un grande servizio allo Stato, e per farlo ha sacrificato… - alza le spalle e non mi guarda più - Tutto. Finora lei è stata, come dire, tenuta al riparo da certe situazioni. - Cioè se capisco bene, ora quelli hanno saputo e gli hanno sparato! E quindi per me e mia madre è finita. - È difficile, lo so. - Difficile? È una cosa mostruosa! La mia vita, capite? Non ho più la mia vita! - Beatrice, nei casi come il vostro purtroppo non ci sono alternative. Per ora dovete restare sotto protezione. Dovrete andar via. Non è possibile lasciarvi rischiare. Non è previsto.

Ho solo voglia di piangere per questa enorme beffa che è la mia vita. Le lacrime distorcono quei tre visi che mi stanno di fronte. - Del resto, signorina, la scelta di suo padre è stata un bene per lei. - Un bene, perché? - Quelle persone che ha frequentato tempo fa, insomma, lì al nord. Denis – penso – il mio Denis. - Non fosse stato per il ruolo di suo padre, forse lei ora si troverebbe in guai seri. Non trovo la forza di rispondere. Tutto si ricompone in un’unica immagine. Non desidero più nulla, non so se tornerò mai a desiderare. Un taglio netto con tutto, come quel sorriso di traverso sulla pancia di mia madre. Fra queste mura sono nata, qui sto morendo stasera. Una morte provvisoria, come quella di mio padre nella stanza di sopra, legato ancora alla vita da un pronostico. Mi lasciano alzare, muta. Fuori dalla finestra c’è il mio mare, silenzioso, ormai blu fondo. Sulla linea dell’orizzonte, le luci di una nave che fila lenta.

Luca

Sul fondale

Capisco che stanno meglio al nord. Altroché, se stanno meglio. Girano i soldi. Si vede dalle macchine e non c’è niente da dire. Fai fatica a vedere un’Alfa. La maggioranza sono BMW e Mercedes. Tutte pulite, nere o grigie metallizzate, con i cerchi in lega. Qui invece ritrovo le Uno e le Tipo con la bozza sul fianco o il fanale che penzola trattenuto dai fili elettrici. I parcheggi polverosi. Ci sono solo gli oleandri a dare una nota di allegria. E il mare. Quando arrivo no, il bagno non posso farlo. Dovrei prendere un costume a casa. Ho bisogno di tempo. Quando arrivo, la mamma mi si appiccica addosso e riordina i vestiti. Accidenti, non so da dove cominciare! Chiamare Giulio? are da lui o da Fabrizio? Accendo. Chiamate senza riposta: nessuna. Messaggi: nessuno. Meglio aspettare ancora, prima di rilassarsi. Da quando andiamo alle scommesse tutti e due si ricordano solo se domani è sabato o domenica. A proposito, domani dovrebbe essere già lunedì. Chissà cos'è successo in questi due giorni. Non so nemmeno com'è andata la serie A. Potrei chiedere il giornale a questa davanti. Secondo me ha anche il quotidiano. Ma non so se è il caso di chiederlo. Sembra una che appena apre bocca non la smette più. Che va a rovistare nei fatti miei e non è il giorno giusto. Da quando si è seduta di fronte mi fa pesare quel libro che finge di leggere. Perché la sa lunga, lei. "Oceano mare". Che vuol dire? Sembra il titolo di un libro di scienze delle medie. Più uno ne sa e meno si fa capire. E meno si fa capire più si crede superiore. Finchè… ploff! Si sgonfia una gomma dell’auto o una chiave non entra nella serratura e allora deve chiedere aiuto al primo che a. Finita la questione, è tanto se ringrazia. Fa un caldo porco. E infatti sudo come un maiale. Per quello arriccia anche il naso, quando mi guarda. Ehi, intellettuale che te la tiri, se mi vedi in spiaggia cambi espressione! Chi ha il pane non tiene i denti, dice mia nonna. Questa ha i soldi che le escono dalle orecchie.

Mille euro buttati. Venezia per la prima volta e una serata di merda. Se qualcuno dice che ci si diverte lo stesso, anche se si perde, lo ammazzo. Dieci sul rosso. Nero. Venti sul nero. Rosso. Zero, zero, prima o poi esce. Sì, certo, quando ho smesso di puntare. E poi cento euro per affittare lo smoking, tanto per far ridere, io e lo smoking! Se li tenevo in tasca ora sarei ricco. “Come è triste Venezia”. La ascoltava mio padre. Gli piaceva quel se, Aznavour. Ma come fa a piacere un se? Musica melensa che sembra un pianto! Come diceva Bobo alla partita degli europei, con i si non si può andare d’accordo. Sono tutti come Zidane, se non gliela dai vinta ti prendono a testate. O come Platini, che è di origine italiana e ci dà sempre addosso. Mia madre organizzò per me la festa del compleanno.- Bobo non mi piace. Non riesci a invitare altri, qui in casa? - disse. La nostra amicizia si è cementata allora. Cinque anni di elementari insieme e non ci siamo più persi di vista. Del resto, a San Benedetto siamo noi quella generazione. Bobo era il più in vista. Si lanciava dal tetto del primo piano. Scaracciava sputi neri alla liquirizia. Teneva foto porno nello zaino. - Se vuoi, mamma, provo a chiedere a Giulio. - Anche quel biondino. Quello che ride sempre. Come si chiama? - Fabrizio Cecchi. Credo che sia lui. Ci conosciamo poco. - Cosa fanno i suoi genitori? - Non so. Forse uno è ingegnere. So che è sempre all’estero. - Per il tuo compleanno li puoi invitare qui. Chiedi se viene. Anche i genitori sono i benvenuti. - Va bene. - Se c’è, anche qualche amichetta. Sarebbe meglio che ci fosse qualche bambina. - Mamma, sai che stanno sempre tra loro. Quando ci sono le femmine non si può scherzare, credono di sapere tutto. Mamma, voglio dirti una cosa: il mio amico migliore è Bobo. Perché non posso invitarlo?

- Senti, i suoi genitori bisticciano sempre tra loro quando ci incontriamo alle riunioni. Protestano con la maestra e dicono che bisogna dare meno compiti. - Hanno ragione. - Invece lui non apre i libri e forse neanche per colpa sua. - Dopo dice che non è più mio amico. È il più simpatico di tutti. Ho voglia di giocare con lui. - Quando in casa non si va d’accordo tutto si riflette sugli altri. Prima sui ragazzi e poi anche sui compagni di scuola. Guarda tuo padre. Non ti ha mai fatto mancare nulla. I due genitori del tuo amico Bobo non mi piacciono. - Mamma, lui che c’entra? - Non ci può far niente, ma tu ancor meno di lui. La festa del compleanno iniziò in casa e finì in cortile a correre dietro una palla. Mio padre partecipava focoso al gioco e faceva la differenza, anche se cercava di non contrastare con le sue leve lunghe gli altri ragazzini della mia classe. Nella mia squadra giocava Angelica. Era la più alta della quinta e stava già con uno delle medie. Saltellava in mezzo al campo senza sapere cosa fare, e quando le arrivava a tiro la palla strillando la lanciava dalla parte opposta. I bambini protestavano e lei rideva. Mi era simpatica. Se le avo vicino, i suoi occhi guardavano diritto nei miei, poi giravano qua e là e non capivo cosa pensava. Le altre erano un po’ in soggezione con lei. Michela arrivò accompagnata dalla mamma, una bella signora con i tacchi alti, i capelli vaporosi e la collana di perle. Rimase indifferente agli inviti della mia, che invece cercava di allargare i rapporti sociali con tutti. La festa era soprattutto la sua. Aveva lavorato tutta la settimana. Era consapevole della nostra situazione economica e voleva trovare appoggi in società. Eravamo poveri ma onesti, diceva. Modesti ma uniti. Per questo non dovevamo temere confronti con altri. Aveva preparato tre torte, una tutta di cioccolata perché piaceva a me, una con la crema e la frutta fresca, una leccornia, e una di riso che non sa di niente ma

bisogna farla ugualmente. Bibite per ogni gusto, acqua per le fan della leggerezza, thè e caffè caldi per i padri e le mamme più affabili, gelati e pop corn per noi, due o tre bottiglie di vino per accompagnare il dolce. Palloncini appesi ai glicini e addobbi in sala completavano il quadretto bucolico. Nella nostra cucina, il televisore era già predisposto a ripetere le videocassette di sempre: "Il Re leone", "La gabbianella e il gatto", "La carica dei 101". Venne anche Bobo, riuscii a convincere la mamma a invitarlo. Nella partita fece gran sfoggio di tecnica e colpi di tacco acrobatici segnando tre o quattro goal. Angelica si invaghì subito di lui, anche se aveva il fidanzatino a bordo campo e alla fine gli diede un bel bacio sulla guancia. Michela invece non venne a guardare. Viveva sulla vetta della montagna. In alto, tra le nuvole, c’erano la danza classica e il nuoto. Preferì rimanere dall’altro lato del giardino a conversare come una signorinetta. La madre confidò di disprezzare quello sport per tutti, anche per gli ignoranti e Michela, scuotendo i capelli biondi, disapprovò allo stesso modo chi pensava con i piedi. L’effimera gloria di Bobo la infastidì come un tributo all’arroganza. Dovevo tenere i fili della festa e chiamai tutti in casa. Bobo era accaldato, saltava di eccitazione spintonandosi con gli altri per conquistare definitivamente il podio della notorietà. Era il più grande di noi coetanei. Tanto alto che da allora non è cresciuto di un centimetro. Michela si avvicinò e sussurrò che la festa era la mia. Perché Bobo si comportava da festeggiato? Seppi che aveva rivelato un segreto a Fabrizio, il mio compagno di banco, e morivo dalla curiosità. - Te lo posso dire stasera. Quando la festa finisce. Ho promesso a Michela. - Fabrizio, ma che cosa può essere? – Diventai rosso in volto per quel segreto di Pulcinella. - Ssst! Dopo. Tua mamma ci ha chiamato per la torta e c’è anche lei. Tagliai la torta mentre lampeggiavano i flash delle macchine digitali, immortalando piatti di plastica chiazzati di pomodoro e bicchieri di Coca Cola. Cercai mio padre, ma era impegnato a tenere pubbliche relazioni. Quello che mia madre desiderava. Era a colloquio addirittura con la mamma di Michela. Finalmente qualcuno riusciva a farla sorridere e fui orgoglioso di lui. Tra la mia

famiglia e i Cecchi sembrò si stendesse un ponte ornato di rose. Ma era solo un ponte levatoio che presto si risollevò isolandoli nel loro castello. Solo alla fine della festa, quando tutti erano partiti, Fabrizio mi chiamò in disparte e con tono misterioso mi rivelò che l’amore improvviso di Michela era destinato a me. Ero impreparato come lo è un bambino di undici anni. La causa di questo improvviso capriccio mi era del tutto ignota come lo sono le stelle cadenti e il canto dell’usignolo. E segreto per me rimase, non dissi nulla né ai miei genitori né ne feci cenno a lei. Ero troppo imbarazzato. Non fece altrettanto Fabrizio che, compiaciuto del suo ruolo carismatico, se lo lasciò sfuggire in classe. Subito Angelica ne parlò con tutti e mi guardava sempre per cogliere i miei atteggiamenti con una sorta di invidia. Frastornato dalla curiosità e dalle attenzioni presi a detestare Michela che inutilmente mi inviò due biglietti con un cuoricino. A sua volta Bobo che si era illuso di essere al centro delle simpatie disse che avevo tradito la sua fiducia. I più infastiditi furono i genitori di Michela che, pur sminuendo l’importanza di quell’infatuazione, non evitarono di dimostrare il loro disprezzo per la mia fattoria con il giardino di sassolini bianchi e per l’atteggiamento ardito di mio padre. Da allora mi sembra ata una vita. Bobo ha trasformato l’invidia in stima e la mia simpatia per lui è rimasta come une delle poche boe in mezzo alle onde. Quattordici e venti. Mando io un messaggio a Fabrizio. CIAO. SEI A CASA? VIENI IN SPIAGGIA? Al nord il mare è grigio. Piatto e grigio. Un lago di ferro. A rivedere le onde verdi che si arrotolano sotto il sole torna la voglia di immergermi e un senso di pace e di innocenza mi invade. Non avevo mai provato come ora nostalgia di casa. Se arriva Bobo ci stanno anche due tiri in spiaggia. Fabrizio non mi chiederà perché sono stato via due giorni. Forse dirà: “Da dove arrivi con lo zaino?” “Da Ancona.” Certo. Nessuno deve sapere del Casinò. Ecco, “Ho fatto il fine settimana in reparto.” Deve scivolare via tutto come l’olio. Se invece mi cambio a casa le cose si possono complicare. Cammino nel corridoio, accendo la lampada e avanzo rasente la carta da parati a fiori rossi. Entro in cucina per prendere un bicchier d’acqua e lei è già ad aspettarmi seduta sulla seggiola di legno scuro. Le piace stare su quella impagliata dove prima di

lei sedeva la nonna. Su mia madre si sono sovrapposte tutte le fatiche, gli affanni, anche quelli della generazione precedente che lei non ha mai contestato. " Dov’eri ieri notte?" "Cosa è successo?" "Perché non hai chiamato? Mi fai stare in pensiero".Mia madre si accorge subito se sono agitato. Quando tardo un altro giorno aumentano le domande. Devo anche stare attento che nessuno vada a rovistare nelle tasche. Le banconote che mi restano mi conviene infilarle nelle calze. Lì non ci guarda nessuno. Qual è la soluzione migliore? Se mi cambio a casa di Fabrizio, confondo un po’ tutto. Probabilmente la ragazza con la chioma di fuoco conosce anche la psicologia. Chi è così libero non ha complessi. Una istruita si sa muovere bene in tutte le situazioni, a parte i problemi pratici. Io ho avuto la mia occasione a undici anni. Ho fatto male a disprezzare Michela quando mi faceva il filo. Il cuoricino. Il bacino. Per me è successo troppo presto e di come vanno le cose non ci capivo niente. Nei fine settimana starei lì con lei all’albergo Chicago a tre stelle o al bar con un sorbetto. Da ragazzina le bastava il sole e la musica. Suo padre invece stava a guardarmi con il binocolo, come se temesse una rapina. “Quello non farlo venire all’Hotel”, l’ho sentito bene quando l’ha detto. Voleva il fidanzatino perbenino. Con Angelica me la sono sata. Aveva fretta di vivere. Voleva emozioni. Veniva di notte sullo sdraio, mentre Michela non la facevano nemmeno uscire, dopo le dieci. Però adesso Michela d’estate ha il posto alla Reception e il resto dell’anno studia a Firenze. Invece Angelica fa i tatuaggi e fatica a campare. "Oceano mare". Avrei dovuto fare lo scrittore anch’io. Cosa ci vuole a buttare giù delle parole a caso e vivere serviti e riveriti? Fabrizio dice che basta un computer con un buon programma. Infili mille parole e frulli tutto. Grasso e felice. Colpo di luna. Ruota d’amore. Quello fa sempre colpo, anche se non c’è. Uno staff di ragazzi di lettere, un corso di scrittura creativa, fai fare un capitolo per uno ed eccolo sul piatto. Due parole sono sufficienti per gli intellettuali d.o.c., la rossa di fronte che ha un

cervello che brucia zucchero come una Ferrari. Frasi lunghe per quelli naif: Il giorno che caddero le mele d’agosto. Gli ubriachi si dondolano sulle altalene. Il vecchio che mangiava fragole a colazione. Siamo tutti bravi a fantasticare. Invece i ricordi bruciano. Cominciò così, quasi per caso. Nel libro delle nostre ristrettezze si era aperto un capitolo nuovo. Mia madre aveva preso servizio presso una cooperativa di pulizie e mio padre, quando non era di turno in azienda, si occupava di riordinare la casa e preparare il pranzo. Eravamo così fieri. Dovevamo iniziare una nuova vita. E infatti iniziò. Era capitato proprio a me di scoprirlo. - Papà? Chi c’è in camera mia? Devo prendere una maglietta. Stamattina andiamo al campetto. - Mi sto riposando. - Sento anche un’altra voce! Perché hai chiuso? - Ci senti male. - Papà mi dai la maglia rossa e le scarpe da ginnastica? Una di quelle mattine in cui manca il professore di italiano, quelli sono sempre i più assenti, chissà perché. Forse sono troppo sensibili, come il Pascoli poverino, quello che al padre gli hanno sparato e il cavallo nitriva e batteva gli zoccoli. Io invece il mio l’avrei ammazzato volentieri: portarsi una puttana in camera mia! “Devi essere un uomo. Non temere mai di dire quello che pensi.” “Nemmeno se ferisco qualcuno?” “Non succederà. Basta che non te ne approfitti degli altri e non avrai niente da nascondere.” Ricordo bene quello che mi aveva insegnato. Ne parlava a tavola. Commentava i quotidiani. Gli editoriali. Le letture sacre. Talmente rigoroso che la mamma sbuffava. - Non credi di esagerare? Con tutte queste regole morali, da grande Luca si

troverà a disagio. Gli altri lo asfaltano. - Chi riga diritto fa la strada più breve per arrivare. Poi con lui non dovresti dirle queste parole. Asfaltano. Non ti offendi, Luca? Ti farai asfaltare? Facevo segno di no. Non mi sarei mai piegato. - Forse hai ragione ma… - mia madre mi guardava perplessa e le loro discussioni erano più frequenti ultimamente. - A volte penso che non mi apprezzi. Ti piacerebbe di più uno che ti fa le corna. - Muuu! Certo che tutta questa serietà! Nemmeno i politici le raccontano così. - Ti sembro un ipocrita? Spesso li avevo sentiti bisticciare. Mia madre era permissiva e lui un'irreprensibile statua di marmo. Che dentro la corazza si stava sgretolando. La sua autorità morale si è afflosciata in cinque minuti, e per fortuna che il cartone non aveva disegnato su il bersaglio con i cerchi. Portarsi una puttana, che poi era una ragazza che aveva la mia età adesso. O l’età della lettrice di Baricco che mi osserva come se fossi un deficiente pieno di amore irrisolto e non sa che lei assomiglia proprio a quella vista in camera e sono pieno di rancore definito. Sì, è lei che me la sta riportando in mente. Rivedo quella dannata mattina che ha aperto la diga. Un mese dopo, mese di liti furiose e bicchieri infranti, c’era una porta in più in casa, a dividere una zona per lui e una per mia madre. E con chi dovevo rimanere io? "Diventerai un uomo". Eccomi, papà. Ti perdono. Vero un cazzo. "Non temere di dire quello che pensi". Alla fine sono rimasto con lui che doveva superare la crisi di rigetto e fare da antibiotico o cosa diavolo serve in questi casi. Proprio in quella camera dove tutto era iniziato. La sera Aznavour o Brassens, i suoi miti ammuffiti, mi incantavano, lontani, al di là delle montagne e in metropoli che parlavano una lingua dolce e sconosciuta.

Hier ancore J’avais vingt ans, Je caressais le temps Et jouais de la vie Comme on joue de l’amour

Era un gigante buono improvvisamente impazzito, un elefante imbizzarrito e ubriaco di se stesso, dimentico di me, della mamma, di tutto. Alla ricerca di qualcosa che non poteva ai miei occhi mai più raggiungere. La porta nel corridoio è rimasta a tagliare definitivamente la casa e le nostre relazioni. Un po’ alla volta ho smesso di parlare con lui, a parte i dettagli pratici. E lui ha fatto altrettanto sempre più chiuso e definitivamente distaccato da noi. Al nostro calore si è sostituito pian piano il fuoco dell’alcool. E alla discrezione di quegli incontri segreti si sono sostituite visite dissennate.

Ieri sì da giovane il gusto della vita io lo bruciavo in me ieri sì quando ero giovane perché la fiamma trema un po' ma non si spegne mai.

La mia fiamma ha tremato e non si è spenta. Quella della mamma sì. Aveva ragione quel se con i capelli più bianchi di quelli del nonno. Un vecchio cantante insano che lo aveva spinto a struggersi sul suo ato. Un tarlo che lo rodeva i pomeriggi in camera mia, fino a che dopo un’ora o due metteva un po’ di stipendio in altre mani. Un giorno sono rientrato. Era inverno. Lei già lo aspettava davanti al portone d’ingresso. Mio padre doveva arrivare dal lavoro. Era alta e l’ho guardata in faccia. - Aspetti mio padre? - Penso di sì. - Ti ha chiamato lui? - Sì. Stavo per chiudermi la porta alle spalle. Fece un o in avanti. - Aspetto da mezz’ora. Mi fai entrare? - Qui da noi? - Mi ha chiamato lui. Senti, ha insistito! Pensavo di tremare, ma ero duro e freddo come un impiccato. La feci entrare. Lei mi sorrise con dolcezza e tutto cambiò luce. Poteva essere mia sorella, almeno lo pensai per un attimo. - Sai cantare? – le chiesi. - Quello che vuoi tu. - Cantami "Il portiere di notte". La conosci? Era una delle canzoni che mio padre preferiva. Aveva una voce bassa e sensuale e rimasi sconvolto. Per un istante compresi la

sua malattia. - Perché vieni da mio padre? - Per vivere – mi parve avesse un accento strano, ma diverso da quelle canzoni si. Poi divenne seria. – Scusami, devo proprio dirtelo: è il porco più bastardo che conosco. Farmi venire a casa quando ci siete voi. Non si diverte nemmeno, sta con me per lottare contro la morte. Mi dispiace per te, davvero. I soldi che dà a me li prende a voi. - Sì. – Volevo dirgli che non era la cosa peggiore, ma non ci riuscii. - Ti faccio schifo, eh? – mi guardò come se stesse per piangere. Pensai alla cavallina di Pascoli, l’avevo appena studiata. Mi fece pena. Meritava uno giovane, bella com’era. - Sono arrabbiato. Ma non con te. - E tua madre? Che dice? - Non ne parla più. Sta chiusa di là e lui di qua. - Non lo manda via? - Non si può. Non sa dove andare. Abbiamo solo questa casa. - Che guaio. - Mia mamma gli vuole bene. Lui vorrebbe lasciare la casa, andare a dormire in auto. Si vergogna di stare qui. La mamma non vuole e mi ha chiesto di insistere con lui. A lei dispiace se dorme in macchina. Così gli ho detto di non andare. L’ho fatto io, perché loro non si parlano più. A me fanno schifo. Sì mi fa schifo anche lei. Sono senza forza. Così mi vergogno io. Ancora più di loro – stavo quasi per piangere e la ragazza se ne accorse. - Ti prometto che non vengo più. Ti posso dare un bacino? – mi ero fermato a guardarla in silenzio e mi diede un bacio leggero sulle labbra. Dopo non l’ho più vista se non una o due volte. Invece ne sono arrivate altre, più grandi e nemmeno mi guardavano. La rabbia invece mi è rimasta.

Gli spruzzi delle onde

Guardo i messaggi: ancora nessuna chiamata. Buon segno. Gli oleandri si scuotono al aggio del treno e bevono il calore che scende dalle colline. In questa strada costiera uniforme, la spiaggia che il mare se la mangia, una fila di rocce scure e poi tutto verde, i fiori bianchi e rossi salutano il nostro aggio. Cosa potrei dire alla ragazza di fronte? Non potrei certo parlarle di casa mia. Della mia noia. Dei soldi che non bastano mai e di cosa studio senza entusiasmo. Di cosa voglio dalla mia vita. Quello proprio non lo so nemmeno io. Mi piacerebbe trovare un cartello stradale, i cartelli azzurri con le direzioni. Con scritto il posto dove arriva la strada. Invece sono finito in un piazzale sterrato e adesso so che in tutti i bivi ho scelto la strada sbagliata. Si aspetta qualcosa da me, lo vedo da come mi guarda. Forse vorrebbe far conoscenza per vincere la noia del viaggio. O forse si aspetta che la corteggi per sottrarsi, per dirmi di no. Per lei sarebbe una grande soddisfazione, come per quelle che eggiano in spiaggia, ti ano davanti al naso sculettando e ti guardano con la coda dell’occhio, ma se provi a chiamarle nemmeno rispondono. Vorrei sorprenderla. Non posso staccare lo sguardo dalle gambe che allunga con noncuranza. Dai suoi capelli aggressivi. Hanno i riflessi caldi di una vita che mi sfugge e lei affronta senza timori. Se mi ricordassi bene quella poesia mi piacerebbe ripeterle i versi. Ma se le parole non sono esatte è ancora peggio! Gli oleandri, la costa marchigiana, il sole.

Son bianche rosse e gialle

E su ci raggia occhiata ultima il sole Si allunga all’aria una canzon selvaggia Di amore e viole.

Però non sono sicuro: all’aria o all’aura? No, meglio se lascio perdere. Le poesie erano il mio forte. Ricordo come se fosse la vita di un altro. Ero bravo in italiano. A otto, nove anni. Tutto è finito quella mattina. I sentimenti, ah, i tormenti del cuore, i travagli, la dedizione. Poi tutti si tirano i piatti in faccia. Ho capito che le poesie, i romanzi, sono tutte cazzate. Almeno con la matematica puoi sembrare intelligente. Con l’italiano, se uno va bene è uno sfigato. A meno che non diventi uno scrittore di quelli che vanno nei talk show. Adesso mi cucco delle materie che mi piacciono poco anche quelle. Fisica: insomma. Anatomia: beh, sapere come funziona il cervello non è male. Le malattie sono il peggio e curare i vecchi ancora di più. Mi dispiace, ma che ci posso fare se mi annoio da morire. È una reazione inevitabile, quando esco da quelle stanze piene di gente che ansima con la maschera sulla bocca e la sacca gialla che penzola, mi sento rinascere. I primi due anni li ho ati a lezione e a studiare, da settembre invece sono in corsia nella geriatria di Ancona. Dalla mattina alla sera, le notti e le domeniche, a sorvegliare anziani. Anziani si chiamano, perché vecchi non si può. "Devi dire anziani. Oppure, se ti senti a tuo agio, chiamali nonni. Come stai, nonno? Vieni, nonno! " Il discorso sorridente della caposala non mi aveva convinto. Eppure ci ho provato. Mi sono fidato. - Buongiorno, nonno. Ti faccio salire sul letto. - Nonno lo dirà al suo. - I più, risposero piccati. Dicevano che per un infermiere c’è lavoro, almeno quello non manca. In treno non c’è niente da bere. Non vedo l’ora di uscire e ricominciare una vita normale. Come prima. Senza il becco di un quattrino, senza niente da pensare.

Con i miei amici. Senza questi ricordi che mi assalgono e mi fanno tremare, anche se ho il giaccone. Voglio il sole, la luce, sedermi ai giardini e bere l’aperitivo in spiaggia. Ritornare alla mia estate. Di notte a Venezia fa quasi freddo e la giacca mi ha fatto comodo. Invece quando alle otto di mattino sono uscito dall’ospedale di Ancona conciato così, erano un po’ perplessi. Qualcuno rideva. Ma ormai non potevo tornare indietro. Solo proseguire per una meta il più possibile lontana anche da me stesso. Sestino Laterza è nella stanza dell’obitorio. Hanno avvertito i nipoti perché il figlio non si faceva vedere e l’hanno accompagnato giù. Era anche simpatico, un antico signore. Giugno. Tre anni fa di questi giorni siamo andati a Pistolesa. Era per la fine dell’anno scolastico. Ha organizzato Bobo, che era stato bocciato ma aveva promesso di venire. Mi ricordo che ha mandato i suoi a quel paese e si è presentato all’appuntamento concordato da mesi. Era quello che ci teneva di più. Bella forza, se uno è magro come un chiodo la corda elastica tira meno. Siamo saliti in pullman. Una strada tortuosa in uno di quei giorni di avanzata primavera che sono freddi e piovosi più che l’inverno. A casa non avevo raccontato dove andavo e nessuno me l’ha chiesto. Ho solo insistito con mia madre per avere dei soldi in più. Ha dovuto cercarli ma non mi ha fatto pena come invece sento ora. Era scontato che me li dovesse dare. - Ti devi comprare i pantaloni nuovi? Ti sei finalmente deciso? - Sì. Devo guardare bene. Sono indeciso tra un negozio e il mercato. - Non prenderli ancora militari. Abituati a vestirti come i grandi. - Dovresti vedere gli altri. - Il lavoro, quando sarà il momento, devi trovarlo tu. Lo sai come sono i professori. - Dei rompi…

- Se non impari l’educazione non farai strada – era solita ripeterlo. - Fare strada. Come te e il babbo! - Zitto. Dovresti vergognarti. Con tutta la fatica che abbiamo fatto per farti studiare. Abbiamo. Sentiva ancora qualcosa in comune con lui, dopo anni trascorsi senza una parola. Ormai la mia permanenza in casa si era fatta indigesta. Era finita la mia tolleranza non solo con mio padre, l’ombra di se stesso, ma anche con lei che aveva subito ogni prevaricazione senza reagire. Non ne potevo più, e il costo di ogni frase aggiunta erano dieci o venti euro da spendere senza scrupoli. Arrivammo sul viadotto verso mezzogiorno e non c’era nessuno tranne i gestori. L’area intera era desolata e odorava di morte. Un ragazzo in giacca a vento sgualcita e un vecchio marpione di età indefinibile, faccia da avanzo di galera, ci chiamarono come se dovessimo salire al patibolo. Pioveva e la festa era già una mela bacata. Io avevo una fifa blu ma non volevo dimostrarlo. Prima di buttarmi immaginavo uno per uno gli esiti peggiori. I piedi che rimangono stretti nel nodo mentre il corpo si stacca. Il cavo che si spezza in due. Un rimbalzo infinito su e giù mentre gli altri sghignazzano e io urlo di terrore. Per non pensarci, mi sono lanciato subito. Poi, appena schizzato nel vuoto, ho maledetto me stesso e i miei amici. L’elastico dopo un attimo interminabile si è fermato e l’incubo è finito. Angelica è andata giù ridendo come quando si è messa in gioco come premio al poker. Rideva mentre volava giù dal viadotto. Le sue risa arrivavano in ritardo tanto prendeva velocità. Si era portata in braccio una bambola. Era quella che si metteva sempre nel letto da quando era bambina. La chiamava Monnie. Monnie, Monnie, vieni con me. Andiamo a esplorare il fiume. Quando è arrivata in fondo è successo qualcosa ma nessuno sa cosa e lo può spiegare. E’ tornata su stravolta e Monnie non c’era più. Ci siamo chiesti se l’ha

gettata lei nel dirupo per disfarsi dell’infanzia. O se invece ha perso il controllo per la caduta brusca nel vuoto. Comunque Monnie nessuno l’ha più recuperata. Angelica ha pianto un po’, poi le è ato. La trattavamo come una con poco cervello, forse invece ne aveva troppo e si perdeva in continenti inesplorati. La storia con Bobo andava avanti da un pezzo ma nelle pause frequenti volle provarci un po’ con tutti. Una indecisione che le è rimasta finché ha preferito rimanere sola. Bobo dopo il salto invece è tornato a casa ottimista. - Il prossimo anno studio. Tanto mi basta poco. Almeno prendo il diploma. Certo, rispetto al niente era un cento per cento in più. I giorni prima della maturità si è barricato in casa e ha deciso di provare a raddrizzare la situazione. Noi che prima lo avevamo incoraggiato, ci siamo resi conto dell’inutile fatica. Decidemmo comunque di accompagnarlo all’esame. Bobo si presentò agli orali una mattina di luglio. Era in canottiera blu e pantaloni corti. Sandali ai piedi. Io e Giulio andammo ad assistere e all’ultimo venne anche Angelica. Bobo aveva raccolto i capelli indietro con un cerchietto per mostrare la fronte larga che denotava ricchezza di idee e di vedute. Era stato uno dei tanti consigli, l’unico a essere raccolto. - Tanzi Roberto. Si accomodi. - Era la voce tetra del presidente di commissione alla scuola geometri. Malgrado il sorriso stampato non risuonava certo di gentilezza. Bobo si avviò a i rapidi e asimmetrici, scansando i banchi e le sedie. Manteneva una flemma inspiegabile. Io, Angelica e Giulio stavamo seduti al cinema. - Il suo tema di italiano. Quattro righe. Quattro. - Bobo non rispose. - Ecco il compito di estimo. Professor Giunti, me lo può allungare? – Sulla

scrivania arrivò un foglio bianco – c’è solo il nome e il cognome. - Roberto Tanzi, siamo qui per aiutarti. Cosa ci racconti? Che materia hai portato all’orale? - Italiano. - Bravissimo. Di cosa vuoi parlarci? Un autore del novecento a tua scelta, chi preferisci? C’è un libro che ti ha colpito? Dacci qualche notizia. Fatti vivo! Bobo era ancora in silenzio. Ma non intimidito. Si chiedeva il perché di quella mattina, di quegli anni ati a scuola. - Posso parlare di Pasolini.- Ci stupimmo di questo suo colpo di coda. - Bravo. Un grande autore del Novecento. Cosa hai letto? - "I ragazzi di vita". - Che poi è "Ragazzi di vita". Bravissimo. Raccontaci qualcosa. L’intreccio, lo stile, la vita dell’autore. – Il commissario lo incoraggiò. - Pasolini faceva la vita con loro. I ragazzi erano gli autori. I ragazzi hanno scritto il libro e lui ha fatto la vita. Coi ragazzi di vita. - Un concetto meraviglioso, Tanzi. Ma ci dica qualcosa di più. - Sì, Pasolini era uno dei ragazzi. Come loro. Questa era la vita. La vita dei ragazzi di vita. Il tempo scorreva implacabile mentre il sorriso dei membri della commissione si trasformava prima in incredulità e poi in una maschera di stizza. Bobo è stato l’unico, ma proprio l’unico bocciato, e ha abbandonato la scuola. La settimana dopo mi ha chiesto di andare con lui alla fattoria dello zio e rimetterla in sesto. L’idea sembrava ottima, una brillante scusa per fuggire di casa. La mia occasione d’oro. La campagna dello zio di Bobo è in una zona impervia. Ci si arriva dopo mezz’ora di strada sterrata, si attraversano boschi di querce e selci, un ponticello stretto come una ciclabile, zone di ghiaia bianca e sul fondo stradale buchi solenni da evitare. A un suo amico una volta si è staccata una ruota.

Bobo era entusiasta. - Qui non ci rompe le balle nessuno, - diceva. - Nessuno. Rileviamo la fattoria e fondiamo un’azienda agricola. Si chiedono le sovvenzioni pubbliche, me l’hanno detto, e cominciamo a guadagnare. Gli imprenditori cominciano così. - Io di agricoltura non ne so niente – gli risposi. - Nemmeno io. C’è mio zio. E le strutture sono tutte in ordine. Si comincia a vivere. Lontano dai genitori finalmente. – Era infiammato come mai prima e mi stupì. Mi pareva quasi irreale e mantenevo un po’ di cautela. - Come, va via e ti lascia tutto senza chiedere un pagamento? - Senti, non chiedere la luna! Vuole poco. Il minimo perché è stanco. Diecimila euro a testa per rilevare l’azienda, se ci stai. La fattoria e la proprietà rimangono sue. - E dove li trovo? - Chiedi un anticipo ai tuoi, no? Il resto viene dalla Comunità europea. – L’idea mi atterriva. Però volevo andare incontro a un amico. - Posso sentire mio padre. E quando abbiamo in mano l’azienda, cosa facciamo tutto il giorno? Qui siamo io e te, non a anima viva! - Io vengo su con Angelica e tu te ne trovi una. Vedrai che lo sai come are il tempo. Poi ci mettiamo sotto col trattore. Facciamo delle balle di fieno. Un orto. Mio zio ha detto che è terra buona. Lui ci ha campato quarant’anni. - Però vuole scappare. - Ma che dici, scappare? Ha fatto fortuna. Gode di una libertà assoluta, si alza quando vuole, va in vacanza quando gli pare. Chi è che può permetterselo? C’è tutto nei campi e nella fattoria. Anche gli alimentari. Quando ne ho parlato in casa, mio padre mi ha lanciato subito un’occhiata delle sue. Ha abbozzato un sorriso, ma non bonario. Come se gli avessi proposto di piantare degli alberi di banane in un vaso da fiori.

- Cosa hai imparato da me in questi anni? Avrei voluto rispondere “poco”. Qualcosa di pratico tipo allacciarsi le scarpe. Allargare nelle curve a tornante e stringere da metà in poi. Lasciare vuotare il bidone della spazzatura agli altri. Non preoccuparsi delle automobili altrui durante i parcheggi. - Papà… – voleva essere ancora chiamato così, anche se mi ripugnava – tante cose. - E sul danaro? Cosa ti ho insegnato? - A non cacciarlo via. Mi hai insegnato a non cacciarlo via. - Bravo. Appunto. E non ti viene in mente niente? - Temi che questo prestito vada in fumo! - No. Sono sicuro che andrà in fumo. Comunque questi diecimila non li ho. - Non potresti chiederli a una banca? – A queste parole si innervosì. - Sei andato a scuola che non sapevi niente. Eri niente. Ora non sei quasi niente. Dovrei indebitarmi per mandarti in una terra arida di cui il proprietario non vede l’ora di sbarazzarsi. Pagare per concederti di rovinarti e trascinarmi nella tua rovina? - Ho ho visto che anche tu spendi - da anni quelle parole mi premevano dentro e le lasciai uscire come lava di un vulcano. - Cosa intendi? - Quella ragazza che ho incontrato. Li spendi con una… una escort. – Cercai di addolcire la frase in extremis. Mi arrivò un formidabile ceffone sul volto. Traballai, ma lo guardavo in faccia come non avevo mai fatto. Lo attraversai da parte a parte come il burro. Si era messo a ridere ed era paonazzo più di me. Poi girò il volto e si avviò alla porta. Gli si smorzarono le risa in gola e mentre si allontanava mi parve di

sentire dei singhiozzi. Ma non ne ero sicuro, perché la porta si richiuse subito. Io rimasi un poco a riflettere, pieno di vuoto. Uscii in strada. Era una giornata di sole brutale come un colpo di vanga. Ero rinato e non avevo nessuno. Rifiutai la sua immagine. I suoi insegnamenti. La sua voce. Tutto era falso e lo sentivo estraneo come se non fossi nemmeno suo figlio. Le mie radici erano i i sull’asfalto grigio. La strada deserta la mia culla. Quel giorno ho annientato le mie origini e recuperato una libertà che mi colpiva come la tramontana sulla spiaggia. Inforcai il ciclomotore fermo da mesi. Mi ero ripromesso di non utilizzare la macchina dei miei e non volevo vedere più nessuno. Le moto mi raccontavano una storia dolorosa ma per arrivare in collina era indispensabile. Nel percorso ondeggiavo galvanizzato dalla novità. Arrivai alla fattoria dello zio pieno di speranza. Bobo mi attendeva nel cortile, seduto a gambe aperte come se fosse nato lì. Cosa potevo fare di meglio che trasferirmi in collina con Bobo? C’era un solo guaio: anzi diecimila guai. Quelli che mancavano a rilevare l’azienda. La desideravo come nient’altro. Era la mia ancora di salvezza. Una casa colonica anonima, una tettoia in lamiera sul capannone, davanti a me si alzavano colonne in mattone schiarito dalle intemperie, si apriva un piazzale di ghiaia con radi fili d’erba color paglia sotto allo sbiadito cielo d’autunno. Arnaldo, lo zio, era in piedi con le mani in tasca e il sorriso di circostanza. Mi porse la mano e la strinsi con la sensazione di toccare un animale selvatico, ché quello era l’odore. Ci invitò nella cucina per definire le modalità del aggio di consegne. - Volete un bicchiere? – versò un vinello bianco e fermo in tre bicchieri arrotondati. Chissà se viveva solo? Non riuscii a darmi una risposta: nell’ambiente si infiltrava un miasma che mi distraeva dai miei stessi pensieri. Ingollai il vino che non mi diede sollievo. - Grazie. – Riuscii a replicare.

- Sei il famoso Luca? - Sì. Piacere. - Io vi lascio l’azienda con tutte le attività avviate. Bobo ha già chiesto a mio fratello il finanziamento – sventagliò dei fogli davanti a me. – Ti faccio vedere tutto. Sai, qui si guadagna bene! Lo guardavo mentre le prime perplessità mi coglievano. Immaginavo di diventare pian piano come lui, un giallastro prodotto del lavori nei campi. Le basette incolte, il ciuffetto grigio arricciato sulle orecchie. Un bicchiere di vino fermentato in cantina per dimenticare la fatica e un altro per mascherare, dietro un pallido sorriso, la solitudine e i sassi. Ci incamminammo e uscendo riassaporai l’ossigeno. Non era l’ossigeno celeste che scende sulla vegetazione e trasmigra dalle colline, ma quello scontato e trasparente che mancava invece all’interno dell’abitazione. - Ci sono delle bellissime colline – lo adulai per non innervosirlo, se mai avessi cambiato repentinamente idea. - Come pensi di fare per pagare la tua quota? - Potrei chiedere un prestito alla banca. - Non hai un reddito e difficilmente la banca ti concede un finanziamento. Ti posso aiutare io: l’azienda agricola è in attivo. Puoi presentare i conti. – Premeva per ottenere subito il mio assenso. Un trabocchetto, pensai. - Sì, mi faccia vedere i conti. - Di bilanci non me ne intendevo. - Da quando ho iniziato la coltivazione di lombrichi, quella da sola frutta mille euro al mese. Camminavo con lui in un mesto silenzio. Si era lasciato sfuggire il particolare che spiegava il lezzo pungente che mi aveva accolto. Quell’odore stagnante che ammorbava la cucina e tutto l’interno. Cercai di pensare ad altro mentre il vino trangugiato risaliva in bocca spingendo per

uscire. Mantenni il sangue freddo mentre l’idea di trasferirmi in collina fuggiva al galoppo con la mia simpatia per lo zio di Bobo. - Allora, cos’hai deciso? – Bobo mi fermò tirandomi il braccio. - C’è tutto nei campi e nella fattoria, eh? – non dissi altro. Ero scuro e se ne accorse. Inforcai presto il ciclomotore e dimenticai i saluti. Dallo specchietto vidi Bobo che rassegnato seguiva la mia partenza. Evitai di rivedere lo zio e anche di riparlarne. Bobo è un vero amico e mi ha compreso. Anzi, mi è debitore perché ha rinunciato anche lui. La sera ritornai a casa come all’Eldorado. Spinsi la porta. Non c’era nessuno in corridoio, infilai nel garage lo zainetto e la valigia che avevo preparato di nascosto. Avrei rimesso tutto a posto nei cassetti più tardi. Almeno si potessero aprire i finestrini, qui. Non circola un filo d’aria. Via il giaccone! Potevo pensarci prima. Sono mezzo addormentato. Mentre sfilo le maniche dietro la schiena, l’intellettuale mi guarda come se fossi uno scimmione che sposta le foglie del baobab. Se non mi ricordasse un po’ quella ragazza che incontrai nella camera di mio padre, avrei cambiato posto subito. Potrei togliermi le scarpe e stendere le gambe di là. Invece per la curiosità sono rimasto incollato qui. La rassomiglianza mi turba. Chissà se le assomiglia anche nelle abitudini? E’ tanto bella che non volevo escludere anche quella piccola speranza di conoscerla che poteva sopravvivere viaggiando di fronte a lei. Quanto mi piacerebbe leggerle i pensieri. Secondo me pensa al suo ragazzo e fa i confronti. Dice: questo è più forte. Il mio però è più alto. E anche più ricco, basta vedere com’è vestito. Sono sicura che è noioso. Non legge. a il tempo a dormicchiare perché ha la testa vuota. Il mio ragazzo è più intelligente, anche se meno di me. Regge quasi il confronto. Bella mia, fai pure. Se avevo una piccola speranza pian piano è svanita. Oggi

poi per me non è giornata. Io me ne vado da Fabrizio e non ti vedrò più, anche se non saprò mai cosa pensi davvero e mi dispiace non poter fare l’ultima scommessa. Due tiri in spiaggia e stasera si va a dormire, perché ne ho bisogno, ma domani arrivo all’alba, che a casa mia è meravigliosa. Il guaio è che in corridoio mi svegliano alle sei di mattina, la prima è la mamma che va di nuovo a dar l’acqua alle rose in giardino. Recide i boccioli sfioriti e i rametti secchi. La pianta è sempre più rigogliosa e la sua giornata inizia sempre prima. Alle cinque e mezzo già rovista in cucina. Prende i tegami dagli scaffali e li appoggia sul tavolo per spolverare meglio. Fa tutto in modo clamoroso, sbattendo legno e metalli come se dovesse suonare le campane per la sveglia all’alba. Poco prima, alle cinque, fa la doccia e si lava i capelli. Alle quattro e mezza si sveglia, se già non era in piedi. Se andasse a dormire più tardi, invece che alle nove di sera, non succederebbe. Appena finita la cena si stende sul letto e si appisola. Nel contempo mio padre, in camera, russa. I vetri della finestra tremolano sotto l’onda dei suoi respiri. Si sarebbero separati ugualmente, perché nessuno riesce a dormire vicino a uno che squassa l’aria così. Adesso che è in pensione, la mattina rimane a poltrire fino dopo le nove, poi oltrea la soglia del corridoio già in tenuta sportiva, e se ne va a fare footing. Io lascio i miei abiti sulla sedia vicino al letto per non disturbarlo e alle sette, appena sveglio, li indosso. Mia madre per quell’ora ha già preparato il caffelatte e una fetta di torta. Mi attende seduta e mi riscalda la tazza nel forno a microonde. Nella cucina si sparge un aroma stuzzicante di vaniglia, e io torno in fasce. A volte la colazione è preparata per tutti e tre. Lo sente come un dovere anche se mio padre da allora, quando si sono divisi la casa, secondo me non l’ha più assaggiata. Lui ha il permesso di entrare in bagno naturalmente, ma gli accessori, il rasoio elettrico e l’accappatoio, li tiene in camera. Varca la soglia che divide il corridoio con un senso di estraneità, come se non avesse mai visto quella donna che,

seduta in cucina, ascolta i suoi i. Gli occhi fissi, quelli dell’uno e dell’altra. Una cortina di tetro silenzio impregna con il suo spessore quell’aria di cera liquida che impedisce le parole. Il giorno che tornai dalla gara di motocross, a sedici anni, avrei voluto vederli tutti e due ad aspettarmi. A riaccendere il cuore spento di colpo dentro di me. Quattro o cinque gradi Celsius di chiacchiere e di sorrisi oltre a quelli che regala alla mano e alla gola il caffelatte. Ma non fu così. Mi trovai ancora solo. Come quando, tagliato il traguardo, ero fuggito senza salutare, evitando gli sguardi e le domande. Era un pomeriggio di autunno anche allora. Le scarpe infangate. La motoretta appoggiata al muro senza cavalletto. Io e Fabrizio ci eravamo iscritti al moto club. Lui era più esperto e usava il Kawasaki 125 del fratello. Un prototipo verde, sottile e saettante che mi faceva invidia. Me lo aveva fatto provare nella strada che arriva a Colbuccaro di Corridonia, piena di curve, rampe e salti. Appena inforcata, partii a scheggia lasciando una striscia nera sull’asfalto. Fabrizio rimase colpito dalla mia veemenza. Pura rabbia. Tutto quello che avevo dentro. Ci iscrivemmo a qualche gara in provincia e, con una moto in prestito, arrivai nei primi dieci. Mi piazzai per la finale. Un’occasione per uscire dall’anonimato che mi perseguitava. Mi presentai al circuito con la Kawasaki di Fabrizio. Mi ero fatto due Red Bull e una piadina con il salame di primo mattino. Una folla entusiasta si assiepava intorno. Mi sentivo un illuminato. Sgassai e la folla si inebriò di idrocarburi. A metà gara ero sulle prime posizioni. I pneumatici frustavano il fango. Dovevo oltreare due o tre che facevano un dannata resistenza. Ci provai, ma riuscivo solo ad affiancarli. Il primo lo conoscevo: Loris, il cugino di Michela. Perché si ostinava a bloccare il mio volo verso il podio? In una rampa tra due curve reagii

alla sua chiusura con una gomitata che gli girò il manubrio a valle. Non vinsi. Arrivai solo sesto e il sogno era finito. Il sesto rimane nessuno. Ma ero molto peggio che il sesto. Non sapevo chi ero, il sesto di che cosa?, un avanzo di me stesso. Fabrizio chiedeva notizie ma dissi che avevo fretta. Che avrei voluto vincere ma che era andata male. Dissi a tutti così, mi mostrai imbronciato. Michela mi vide are spaventato e poco dopo ò la barella dell’ambulanza con il cugino Loris intubato. Il collo bloccato in un corsetto bianco. Qualcuno pensò alla moto nella scarpata. Sentivo parlare di curva in velocità, di collisione. Che è uno sport pericoloso, che dovrebbero vietarlo. Io sapevo. Quando cercò di evitare il mio soro lo strinsi e volò giù per il bosco. Non l’ho mai detto a nessuno. Meglio lasciare il dubbio. Chi può accusarmi? Lui non ha più parlato. Una fortuna, tra tanti guai. Sta assorto su quella sedia a rotelle che spinge in qua e là. Non parla. Ma a volte torna a farmi visita. Nel sogno ha detto che non mi odia. Parlava di nuovo e stava vicino al mio letto. Lo sentivo, la sua voce era dolce come quella di un Cristo sulla croce. Credo che sia venuto davvero a farmi visita. Forse è comparso anche a Michela, perché mi tratta con freddezza. Il treno già attraversa la periferia. Il “Rose tattoo” ha le insegne accese. Angelica è al lavoro. Una sera con Fabrizio voglio tornare a salutarla. Sarebbe meglio arrivare con Bobo, ma si sono lasciati da poco e non credo che lo riveda volentieri. Io sono entrato solo una volta, più di due anni fa, poco dopo l’inaugurazione. Mi aveva invitato qualche giorno prima. Andai di mattina, nell’orario in cui un centro estetico ha appena aperto e non c’è anima viva. Avevo un fine che non era solo quello di salutarla. Del resto, se una mi invita dicendo di andare da solo, non è normale pensarci?

- Lo sai che il mio fidanzato non c’è. Come te la i? – mi aveva spalancato la porta. - Bene. Da quando ho abbandonato l’idea di trasferirmi in campagna, ho scoperto che la nostra città offre molto. La nostra città, pensai. In fondo non era altro che un paesotto, ma volevo essere ottimista e la chiamavo così, per onorare il cartello di benvenuto all’ingresso del centro. - Mi trovi bene? Hai visto che ho messo su delle belle tette? – La voce era afona e la pressione mi salì alle stelle. Era già stata con me da ragazzina e non intendevo certo tirarmi indietro. Anche se il timore di lasciarmi trasportare nella sua voragine di stracci e amicizie losche non mi allettava di certo. Tutto volevo, fuorché una storia seria con lei. - Non ti sarai fatta il silicone? – Mi uscì, se ricordo bene, una battuta di cattivo gusto. - Entra. Sei uno dei primi che viene a trovarmi e tra poco arriva il mio ragazzo. Te lo faccio conoscere. – Rispose con eleganza. - Con chi ti sei messa? - Con Vanes – riflettei qualche secondo sul nome. Oltre a non averlo mai visto in paese, il nome stesso mi aveva fatto una particolare impressione di mediocrità.Non lo conosci – proseguì, mentre si sdraiava su un divano sapientemente nascosto da un telo arabescato. Rimasi perplesso a guardarla dall’alto e pareva a suo agio in quella posa inerte. Nell’ambiente penetrava dalle tende una luce ovattata e bastoncini di incenso emettevano spirali di fumo. Mi sentivo impregnato dalla spiritualità aromatica in cui Angelica navigava. Era il suo fascino ma anche un punto debole, perché la sua struttura portante era quel fumo che si innalzava verso il soffitto. - Cosa fa, lui? Vive qui? Mentre stavo finendo la frase girò la maniglia della porta e uno entrò. Era alto come me e straordinariamente debole e macerato. Il viso era attraversato da strisce di pelle gonfia. Si chinò su Angelica e la baciò sulla guancia.

- Ciao Simone! - Ciao bellezza. Una semplice presentazione e il tipo smunto si accalorò con me. Mi stava sempre vicino avvolgendomi le braccia su una spalla. Una sua sgradevole abitudine. Continuava a pormi domande e non sapevo se sentirmi importante o suo ostaggio. Una raffica di domande a cui non rispondevo. - Ti piacciono i tatuaggi, eh? - Però non si guadagna abbastanza, non credi? - Angelica merita di più, vero? - Tu lo capisci. Sì. E ogni volta mi abbrancava quasi per scuotermi. Gli occhi piccoli e freddi, neri, mi fissavano appena mi scivolava di fronte. Poi si girava di lato e si appoggiava ancora con le mani sulla mia spalla. Mantenni un atteggiamento amichevole senza dargli troppa corda. Speravo che scoprisse le carte. Forse non ne aveva. Mi chiesi se era fatto. Se portava delle dosi ad Angelica. Ma si atteggiava in modo troppo scoperto. Provai un misto di pena e fastidio. Angelica lentamente si rialzò. - Posso farti un regalo? – Tutto mi sarei aspettato ma non questo. - Angelica. Riesci sempre a sorprendermi. Ti ricordi che compio gli anni domani? - No, ma il regalo te lo faccio perché sei un amico. E mi sei venuto subito a trovare. Lo accetti? - Sì. Certo. Non mi dici nemmeno qual è? – Pensai a una canna di fumo.

- Eh, non si può dire di no. - Simone mi sorrise come se fosse un profeta che vuole aspergere il suo battesimo. L’ombra dell’ipocrisia non lo toccava. Era al di là del bene. Forse non ancora del male, anche se non potevo dimostrarlo. Si allacciò di nuovo a me come se fossi il suo bambino. - Vieni – Angelica mi sfiorò – ti regalerò un tattoo. Ho acconsentito. Mi stesi su un lettino e feci scivolare la canottiera, scoprendo la schiena. - Mi farai male? - Solo qualche punturina. Non sei pauroso. Ricordo che ti sei buttato con il bungee con me. Non risposi alla provocazione che annullò le mie ultime difese e iniziò a pungermi. - Che disegno vuoi fare? - Scegli tu. - Fammi… una farfalla è adatta a una ragazza, un cuore è banale, una data insignificante, il motto di una squadra di calcio… non li ricordo bene. Disegna un’aquila. - Certo, caro. Il lavoro di Angelica era durato due ore e mezzo. Simone faceva i fatti suoi e quando ava annuiva. Due ore e mezzo di bruciore che ho sopportato senza aprire bocca. Più per compiacere quello Smeagol che simpatizzava con me, che per Angelica. IO E TE PER SEMPRE, mi sono trovato scritto, a fianco di un cuore rosso trafitto da una freccia con i nostri due nomi. E non posso nemmeno cancellarlo. Quando sono uscito Angelica rideva come una bambina dispettosa e Simone mi guardava ammirato. Alla lunga mi sono abituato, ho scoperto i lati positivi. Oggi se riesco ad andare in spiaggia con Fabrizio metterò ben in vista il tatuaggio di Angelica.

In fondo che danno mi fa? Essere amati, seppure in modo indefinito, attira sempre attenzioni. E’ un segno distintivo. Angelica è brava. Il tatuaggio è perfetto. E’ arrivato un messaggio. Giulio. Meno male! CI SEI AL CISCO ALLE 10? Rispondo, STASERA NON POSSO, CI VEDIAMO DOMANI. CIAO. Anche una chiamata senza risposta. Ospedale. Geriatria. Mi cala un drappo nero sulle pupille e il cuore si ferma. Forse è l’ultima volta. Elimina. Dopo quel tatuaggio decisi di riprendere i contatti con Michela. Dovevo dare un calcio al ato. Era l’occasione propizia. Mi sentivo forte di esperienze pesanti. Una ragazza che mi ama o quantomeno l’ha dichiarato. Avevo evitato l’allucinazione della vita in campagna. Mi ero lanciato con il jumping. E il destino nefasto di Loris mi aveva coinvolto ancora ragazzino come colpevole col fascino del vissuto. Avevo conosciuto il colore della colpa, il piombo del rimorso nel cuore. Ma la mia forza non ne era intaccata e l’alone di oscurità mi rendeva superiore. Decisi di telefonarle, avrei evitato di are dall’Hotel dove il padre vigilava. - Ciao Michela. Sono Luca. - Ah. Ciao. – Ha risposto con distacco calcolato. Dovevo infrangere quella barriera. - Cosa fai di bello? Non ci sentiamo da un sacco di tempo. - Hai ragione. – Questo era un punto a favore. - Possiamo far due chiacchiere? - Sono impegnata. Da qualche mese vivo a Firenze. Se hai voglia di prendere un gelato, ci troviamo in piazza, questo weekend sono dai miei e riparto domenica. Finalmente ero riuscito ad agganciarla. Ero fiero di me stesso. Non la vedevo

ormai da anni, chissà se teneva ancora i capelli lunghi fino alle spalle. La immaginavo nuova. Chiccosa. Come sempre un o davanti a me, però io mi sentivo più grande. Dovevo solo evitare di parlare delle gare di moto. - Cosa fai a Firenze? - Vado all’Università. Mi sono iscritta a Giurisprudenza. Ho preso anche una stanza in centro e da settembre inizio le lezioni. - Sei da sola o con un’amica? - Sono in stanza con Lucia Botteri. Forse la conosci. E tu come stai? Ha snobbato tutto, anche il dramma del cugino. O forse sperava che io stesso entrassi incautamente nell’argomento per provare a discolparmi. Ora la sua partenza per Firenze, il padre che l’appoggiava, metteva tra noi una nuova barriera. Ricca e bella lo era già, presto sarebbe ascesa a una scala sociale superiore, quella dei laureati. Ho maledetto ancora i miei genitori che non mi avevano mai proposto una vita da fuori sede, tra bevute e feste in compagnia. Senza il freno cigolante degli adulti. - Abbastanza bene. Forse parto anch’io per Milano o Bologna – ho inventato un futuro mai programmato. - Ti sei deciso a proseguire allora? - Sì, quest’estate ho riflettuto. – L’ho detto chiaro e forte per essere credibile, come per dichiarare la mia identità, nome e cognome. - Dài. Non la smetti mai di sorprendermi! – La sua voce allegra mi inebriava e ho deciso di giocare il tutto per tutto. - Ci troviamo domani sera in piazza, così ti racconto? Mi dai anche un consiglio, sono indeciso tra due facoltà – ottimo sistema per coinvolgerla e avvicinarla. - Certo. A domani, allora. Ero galvanizzato e nuotavo in un mare agitato.

Quali erano le due facoltà da scegliere? Non ne sapevo niente. Lettere e Matematica? Roba da scuola superiore. Storia e scienze? Ma si chiamano davvero così? Ingegneria e medicina? Non mi avrebbe nemmeno creduto. Alcune hanno i test di ingresso, ma non sapevo quali. Ho compreso di essermi messo in buca. Dovevo parlarne a casa. Con mio padre, perché comunque il costo dell’iscrizione e di una stanza in affitto dovevano essere a suo carico. Era estate e mio padre stava steso al sole in giardino. Indossava una canottiera blu e dei bermuda a fiori. Entrando dal cancello sono apparse subito di fronte a me le piante dei piedi prominenti in fondo allo sdraio, una posa tanto disinibita quanto sciatta per la sua età. Pensai che avesse bevuto come spesso faceva di pomeriggio. Teneva un cappellino sul viso per evitare i riflessi. - Papà. - Mmmm. - Scusami. Ti posso parlare? - Lo stai facendo. - Vorrei iscrivermi all’Università. – A queste parole tolse il cappello e si alzò a sedere, fissandomi. Lo trovai insolitamente attento e lucido, come non lo vedevo da tempo. - Cosa c’è sotto? Improvvisamente chiedi quello che non hai mai voluto. Chi ti ha fatto cambiare idea? - Guai ad accennare a Michela. - Nessuno. E’ una mia decisione. - E quale studio vorresti fare? Non hai mai studiato volentieri. Non ti basta il diploma? - Lo sai che con il diploma è difficile trovare lavoro. - D’accordo. – Mi ha sorpreso – una facoltà tecnica. Tre anni e una buona

possibilità di trovare il lavoro. - Giurisprudenza. Cosa ne dici? - No no. Dura cinque anni e alla fine ci vogliono molti altri anni di apprendistato. E poi non mi sembri portato. Quando avevo la tua età, quelli che volevano sfondare avevano un’altra marcia. Stavano sempre sui libri. Guarda che non ti voglio demotivare. Lo faccio per il tuo bene. Se ti infili in un corso di laurea quinquennale trovi dei treni e fai fatica a starci dietro. Invece di sentirti bene, ti senti un essere inferiore. Non volare troppo alto. Davvero. Il mio consiglio è di non volare troppo alto. Finisce che ti sfracelli. – Questa immagine mi ricordò il bungee e la bambola di Angelica. - Allora fisica o chimica. Sono materie utili. - Sì, questa è una scelta ragionevole. Oppure fisioterapista o infermiere. Si studia un po’ meno e si trova un buon lavoro. Ti dico come ho fatto io. Mi sono cercato subito un posto. Ho iniziato in una fabbrica di scarpe. Dovevo tagliare il cuoio e incollare le suole sei o sette ore al giorno. Però a fine mese avevo già lo stipendio. Potevo andare a ballare e offrire il cinema a una ragazza. Ho preso la patente e la prima auto usata. Una Golf. Gran macchina, anche usata. Quando si sono accorti che ero sveglio e avevo voglia, mi hanno chiesto di fare il rappresentante e viaggiare con le calzature pronte. Non hai idea di come ero contento. Libero, capisci, mi sentivo libero. Vedevo tutto il mondo, che poi andava da Latina a Pisa e da Pesaro a Foggia. Se sono arrivato a stare bene, a tante soddisfazioni, è perché sono stato umile. Ti ricordi quella storia, quando sei invitato siediti sempre all’ultimo posto e ti chiamano avanti. Se ti siedi vicino al padrone ti mandano indietro. Dovresti fare così. Iniziare con le mani è sempre una buona scuola. Non volevi fare il meccanico delle moto? - Sì papà. Ma ci ho ripensato. Queste facoltà ci sono a Firenze? - Non ne ho idea. Perché proprio Firenze? Devi informarti. Devi anche preparare i test. Abbiamo il problema della stanza in affitto. Per noi è difficile coprire anche quella spesa. - Posso chiedere i soldi alla mamma. - E dove vuoi che li trovi? Prova pure.

Infatti ho provato, ma non li aveva. L’unica possibilità era quella di trasferirmi dallo zio Saverio a Chieti. Lontano da Firenze, ma sempre meglio di niente per non rimanere escluso.

Azzurro cupo

Non era ancora arrivata e mi avviai alla spiaggia. L’ultimo sole alla spalle ombreggiava di rosso e oro la sabbia, e davanti a me le onde si erano trasformate in una marea piatta e oleosa. Ora regnavano i suoni ovattati e la musica che proveniva da giostre lontane e altoparlanti. Ritornai verso il percorso in cemento con la sabbia nelle scarpe. Era un’innaturale ora solitaria. L’ora delle eggiate e delle docce. Intravidi lei da lontano, lo intuii dalla silhouette. Mi sembrò troppo bella e il cuore sanguinò. Da due anni non la vedevo, l’avevo immaginata sbarazzina, sorridente, con le scarpe da ginnastica. Chissà perché mi ero fabbricato una foto inesistente. Incontrai un essere sofisticato come la madre intravista al mio compleanno. Non potevo perdere quel match. Ero deciso a giocarmelo fino in fondo, a costo di sgomitare e far precipitare anche lei nel dirupo. - Michela, ciao! Quasi non ti riconoscevo. - Tu sei sempre uguale. È un regalo degli dèi. - Gli dèi sono ingiusti. A te hanno regalato la possibilità di migliorare – notai che la battuta la colpì. - Allora hai deciso di studiare. Ma se ricordo bene a scuola te la cavavi egregiamente. Infatti, non capivo perché volevi fare il meccanico – cercai di non mettere in evidenza le mani, c’era qualche residuo nerastro sulla pelle. - Il motorino lo uso comunque. Tu non hai mai provato? - Sì, ma preferisco l’automobile. - A proposito di dèi, qual è il tuo segno? - Scusa? - Le nostre qualità sono legate ai pianeti. Questi sono i regali degli dèi. Tu sarai

Bilancia, il segno della bellezza. L’influsso di Venere. – Ripetevo i discorsi di Bobo e Angelica. Quanto al suo compleanno non mi poteva sfuggire. - Però! Ci hai preso. Forse ti ricordi che compio gli anni in settembre. E tu allora, vediamo. Un segno di coraggio, sagittario o leone. - Fuoco fuochino. - Ariete! - Brava. Compio gli anni in marzo. - Così lo so. Non è che ai segni ci credo molto. Serve ad allacciare amicizie. - Te ricordi quando eravamo alle medie? – era il momento di spingere sull’acceleratore. - Ah, sì. Ci siamo divertiti. Però era una classe da poco. - Mi hai inviato anche due lettere. Ti ricordi? – mi avvicinai un po’. - Certo. Che sciocchina che ero! Erano partiti tutti gli ormoni. Però le avevo scritte a te, non a tutti. - Beh, se proprio ti torna questa crisi… - Con tutto quello che devo studiare, la mia crisi vera ora è un’altra. Hai detto che anche tu ti iscrivi, vero? - Assolutamente sì. Devo ancora decidere dove. - Dài. Risolleviamo la cultura di questo dannato paese! Riuscii a scambiare un bacio sulle guance e non capivo se era un successo o un colpo a vuoto. Ma ero intenzionato a insistere. Così mi preparai tutta l’estate e tentai i test a Scienze infermieristiche, munito di fogli assolutamente inutilizzabili nelle scarpe e nelle mutande. Devo riconoscere che malgrado mattine e notti dedicate alle prove dei test, la seconda parte dell’estate fu migliore. Orari chiari e poche inutili fantasie. Anche una discreta cultura scientifica che mi mancava.

Studiavo in cucina e avevo il conforto affettuoso e compiaciuto di mia madre. Credo che il mio studio avesse migliorato la sua salute come solo la fortuna e la speranza nell’avvenire dei figli possono fare. Aveva ripreso a parlare, a raccontare. Anche a pettinarsi. Si impegnava a fondo nel preparare la colazione e il pranzo, non vedeva l’ora di servirmi e si cimentò con biscotti cotti nel forno e qualche manicaretto che da anni non preparava. E soprattutto, con grande soddisfazione aveva abbandonato al loro destino le rose e cessato temporaneamente l’esibizione all’orchestra dei tegami. L’esame a fine agosto andò a meraviglia. Meraviglia mia e sua. Ero tra i selezionati. La metà e più rimase esclusa. - Come farai per le tasse? – Mia madre era in agitazione. - Ha detto che mi aiuta. - Lui? - Sì. Ha detto che mi aiuta. - Almeno per te esiste. - Mamma, come fate a rimanere… - A me non devi chiederlo. Hai provato con lui? Il dialogo si fermava presto. Non si poteva pronunciare il suo nome né la parola padre o marito. Nemmeno accennare alla sua esistenza. Non avrei dovuto parlarne. Eppure era sempre lei che finiva per arrivare a questo punto, stimolando risposte che lo coinvolgevano. Lui era il punto cruciale, lo snodo di ogni discussione. Sui due versanti del muro rimaneva un legame confuso e morboso. Evitai di tornare sull’argomento. Quello che volevo era farlo sapere in paese. Sprizzavo felicità. Telefonai a Michela, sicuro di far colpo. - Ti posso venire a trovare a Firenze. Sempre se ti fa piacere. - Se vieni telefonami, di giorno sono in facoltà.

- Sai che tra poco inizio anch’io? - A cosa ti sei iscritto, poi? - Scienze infermieristiche. - Andrai subito in reparto. E se ho bisogno di un prelievo, verrò da te. - Appena sarò pronto. - E’ un ruolo molto pratico. Fondamentale. Ci vuole una buona mano. - Già. - Il mio invece è uno studio astratto, teorico, devo imparare a dividere un capello in quattro. Imparerò ad aver ragione pur sapendo di aver torto. - Ci completiamo. Io mi prendo il torto pur sapendo di aver ragione. - Tu il corpo e io la mente! Ah ah ah! - Ti diverti eh? - Su, non prendertela. Gli infermieri vanno giù pesante. Appena una dorme, così si dice, le mettono le mani addosso. - Insomma, non ti fidi di me. Con te non sarebbe nemmeno possibile, c’è tuo padre che ti fa la guardia! - Quando mi ammalo, ti aspetto al mio capezzale. Ma se sbagli, farò il pubblico ministero. - Ho capito. Devo aspettare che ti ammali per vederti? - E allora dovrai attendere anche il permesso del dottore. - Devo stare in coda. Ho capito. Dottori, professori, magistrati. - Ma dài, scherzavo. Prendi tutto sul serio. Tutti i mestieri sono utili. - Almeno te ne rendi conto.

- Guarda, Luca, che ti sono amica davvero. Avrei dovuto sentirmi confortato da queste parole, eppure in qualche modo mi umiliava sempre. Il ceto sociale era la cima di un Everest che non potevo scalare e iniziai il corso demotivato. Mi sono sempre chiesto perché a qualcuno è dato l’elicottero, ma so che nessuna risposta sarebbe convincente. Tanta fatica e un lavoro ingrato per arrivare, infine, a una meta tutto sommato indesiderata. Non ho potuto nemmeno rinunciare, dopo aver fatto esporre mio padre economicamente. Mi sono messo in trappola da solo, fino alla scelta di ieri notte. Fino all’incontro con Sestino. Un uomo vero, che mi ha trattato con gentilezza. E ora la ragazza di fronte mi guarda con la stessa aria di superiorità di Michela, e mi manda in bestia. Potrei essere simpatico, brillante, coraggioso. Potrei essere il ragazzo che fa per lei. Eppure sarebbe sempre inarrivabile e al momento giusto me lo farebbe pesare. Vorrebbe confidarsi, ma senza chiedere consiglio perché non sono in grado di darne. Lei la mente e io il corpo ancora una volta. No invece! Anche il corpo è dalla sua. A me cosa rimane? Glielo leggo negli occhi che lo pensa, quando incrocio il suo sguardo. Ecco: li apro d’improvviso. La prendo di sprovvista. E leggo un poveretto, che vita di merda deve fare questo. Ormai siamo vicini. Meglio chiamare direttamente. - Ciao Fabrizio. Appena arrivo o da te. Pensa che ho ancora il giaccone addosso. - Sei stato al Polo? - Di notte ad Ancona fa ancora freddo. Posso cambiarmi da te? - Certo. Cosa ti serve? - Se hai un costume da prestarmi si potrebbe andare in spiaggia. Non hai impegni?

- No. Vengo volentieri. A volte mi sembra di sfruttarlo, Fabrizio. Non mi dice mai di no. Lo fa perché conosce la situazione di casa mia. Sua madre mi invita spesso a pranzo o a cena. “Uno in più non fa differenza”. “Sei di casa.” “Vieni quando vuoi”. E così faccio, se me lo chiede perché dovrei tirarmi indietro? Da me c’è un ambiente lugubre e se mi chiedono notizie è sempre con fare interrogatorio, mai per il piacere di conversare. “Ti servono altri soldi?” “Come li hai spesi?” “Vai a chiedere a tuo padre.” “Vai a chiedere a tua madre”. A Michela il mio successo nei test interessava quanto i risultati di una mia partita di calcetto e ripiombai in una girandola di ipotesi senza prospettive se non quella di arrivare a sera. La settimana a studiare e il sabato con gli amici. Sono rimasto a duellare con i libri di testo per un’avventura che non aveva una meta. Angelica mi ha riproposto i lanci con il jumping, ma uno mi è bastato. E poi queste ragazze che vogliono rischiare sono troppo mascoline, disposte a tutto. Non voglio trovarmi anch’io su una sedia a rotelle e nemmeno con una ragazza incinta senza sapere di chi. Meglio tenersi un po’ fuori dalla lotta, come dicevano: sono uno di mignotta. Ne ho già abbastanza di lotte intestine. Basso profilo, certo. Dopo l’incidente a Loris ho evitato di farmi vedere in moto e ho ottenuto in cambio la dimenticanza. Dentro con il calcetto, Giulio e Bobo cercavano un portiere e chi non ha i piedi buoni può riscattarsi. Il secondo anno siamo saliti di categoria anche per merito mio. Però dopo le prime sconfitte l’equilibrio si è rotto. Avevamo altre idee, di quelle che si infiltrano nel cerebello e ti sembra di entrare in un’altra vita. - Domani fanno la selezione per “Il Grande Fratello”. Vieni anche tu? Era Bobo, che dopo il flop dell’azienda in campagna sognava nuovi orizzonti. - Cosa bisogna fare? – Ero perplesso.

- Bisogna presentarsi al Marlon e rispondere a qualche domanda privata. Fanno una selezione. - Ci sono degli psicologi? - Non mi sono informato. Spero psicologhe. Ma quello che conta è il fisico, non serve né la cultura né l’intelligenza. - È il posto per te allora. – Scherzai. - Poi guardano se sei spigliato. – Veramente né io né Bobo lo siamo. A malapena Giulio ce la poteva fare. - Domani abbiamo l’incontro con i Rangers di Montesilvano, non possiamo mancare! - Giochiamo e poi andiamo al Marlon. Io lascio la camicia nel bagagliaio dell’auto. Finita la partita mi cambio. Fai così. Se vuoi metti tutto da me. - D’accordo. Ci sono anch’io. - Preparati un discorso, qualcosa da dire davanti alla telecamera. - Così, senza sapere cosa interessa? - Sì. L’importante è bucare il video. Io stasera mi invento una storia e faccio le prove. Gli racconto di quando ci siamo lanciati con il jump. La infioretto, dico che Angelica è morta. Poi faccio vedere il tatuaggio che mi ha fatto lei. La sento sempre con me. Una storia strappalacrime. Cosa ne dici? - Hai avuto una buona idea. La storia del bungee jumping con Angelica me l’hai rubata! E’ davvero buona. Devo trovarne una anch’io. - Digli di quando ti hanno bocciato. Fa simpatico. Trova una scusa. - Ti ricordi quella di inglese. La supplente? - Altroché. - Gli racconto che me la sono fatta prima degli esami e per vendetta mi hanno fottuto – a Bobo spuntò un ghigno luciferino. A suo tempo ci aveva pensato.

- Grande, ma come fai a provarlo? – Balla mostruosa. Lei era superlativa e uno come lui nemmeno l’avrebbe guardato in cartolina. - Quali prove, bisogna sparare più alto che si può! Stasera mi metto davanti allo specchio e mi preparo. Dopo il calcetto, Rangers Montesilvano – Troys San Benedetto 8 a 1, siamo scesi al Marlon gonfi di pessimo umore. Nel locale non ero mai entrato per il costo esoso e mi pareva una serata eccezionale solo per questo. Una botta di vita. L’ingresso era anonimo. Una porta a vetri poco trasparente, due buttafuori con la faccia da poliziotto televisivo appoggiati ai lati e una transenna messa di traverso a respingere un’orda di aspiranti presente solo nella fantasia. Mi convinsi immediatamente che da San Benedetto non sarebbe andato in TV nessuno. Avanti ormai, trenta euro i maschi e ingresso gratuito per le femmine. Ho sempre pensato che questa sordida ingiustizia è l’ultimo strascico della galanteria. Solo che in questo caso il cavaliere non ero io ma il proprietario del locale. Ti immagini: dentro sarà pieno di donne. Mi accolse un ambiente nero e opaco come la lava, qua e là rallegrato da bottiglie argentate, neon blu elettrico, faretti rossi, foglie pulsanti di luce gialla in tre piani che si intersecavano nella notte. Netta maggioranza maschile già al primo sguardo panoramico. I corpi lucidi si muovevano lenti e sinuosi, e accarezzai con lo sguardo i capelli fluenti di una ragazza che se li ammirava facendoli ricadere davanti ai propri occhi. Bobo si era infilato un foulard nelle mutande per non are inosservato nell’indifferenza generale. Il foulard si era però srotolato e aveva continuamente bisogno di essere rimesso in sede, per cui trafficava con le mani nei pantaloni. Io avevo puntato più sul look e sul racconto. In camicia bianca figuravo alla grande e se abbassavo il colletto in qualche cono di luce si intravedeva il cuore tatuato da Angelica. Andai al banco e ordinai un whiskey doppio. Dovevo dare il massimo. Bobo era già euforico. Non so cosa avesse ingurgitato, le pupille gli debordavano dagli occhi.

- Bobo, sei pronto? - Eh! Eh! – ripeteva dondolandosi. In mano teneva un libro di Hemingway e, nella corrente imprevedibile di volti e mani che si accavallavano, pareva il profeta di un paradiso perduto. Il libro destava ammirazione e sconcerto. - Che, ti sei portato da leggere? Hai la fissa dei libri? - E’ un consiglio sul blog Reality & Show. Guarda dritto, vesti casual, rispondi con calma. E cercare di farti notare – lo disse in un fiato. - Hemingway! Non era meglio Fabio Volo o… l’hai letto questo? - E’ il primo che ho trovato. Che ne sai tu? Meglio star zitto. Era su di giri e potevo buscarle anche se è la metà di me. Ci sedemmo fuori dalla sala delle interviste in attesa. Un’ora. Due. Vicini, ma ci vedevamo a stento. Cercai di attaccare bottone con una certa Pamela. Inutilmente. Bobo era in trance e fissava avanti a sé mentre mi arrivavano scarpate insofferenti da chi sedeva dietro. Riflettori accesi. Sudavo copiosamente. Per non stare troppo in mezzo e trovare un luogo più fresco mi spostai sul lato, perdendo però la mia posizione in coda per l’intervista. - Come ti chiami? – era una con venti anni più di me e una scollatura eccessiva che metteva in luce la sua età mentale. - Bene, grazie. Gocce di sudore le colavano sul naso e brillavano di riflessi cangianti come il Dash. - Posso appoggiarmi con la schiena? Senza le sedie non ne posso più. – La vedevo ingrandita sotto l’influsso del doppio whiskey e pareva mia madre nell’abito elegante. L’idea che mia madre si appoggiasse a me con la schiena sudata mi ripugnava. Non risposi fingendo di non capire. Mi guardò come si guarda un vegetale.

- Posso appoggiarmi? – ripetè, e si lasciò cadere su di me senza attendere risposta. - Sì, certo. – Maledissi l’educazione alla bontà delle Giovani Marmotte. Meditavo di uscire una volta per tutte da quelle prove funeste. Perché ero finito alla selezione del Grande Fratello? E se per sbaglio fossi ato al secondo turno, come mi sarei comportato? Altri inconvenienti, altri biglietti d’ingresso, altri viaggi, infinite attese. Già mi avevano sottratto trenta euro. E se tutto andava bene mi avrebbero seguito con la telecamera anche sul bidet. Avrebbero sezionato tutte le mie parole e i miei sguardi. Purtroppo di chi mi interessava sul serio, tipo Michela, neanche l’ombra. Una così nemmeno guarda la trasmissione. Era questo che volevo? - Posso stendermi un po’? – La situazione con il doppione di mia madre mi stava sfuggendo e cominciò una lotta interiore che presto annunciò la mia sconfitta. Dalla sala delle interviste precipitavano fasci di luce che stagliavano ombre cinesi tra i ragazzi seduti. Un rock tambureggiante mi stordiva. - Vuoi andare in televisione? Come ti chiami? Sei un bel ragazzo, magari ci vai. - Sono tutti qui per questo. Anche tu, immagino. - Ah, no. Io ci sono già stata. Mi chiamo Renata. Hai guardato "Sereno variabile" il 6 aprile? C’ero anch’io. Ero quella a destra con la camicetta bianca. Chissà se mi hai visto? – Dicendolo, aprì qualche bottone. - No. Non seguo la trasmissione. - Che peccato! - Sono qui un po’ per caso. - Non sono sicura. Diventerai uno famoso. Che bello essere qui con uno che diventa famoso! I suoi occhi spalancati mi guardavano con una volontaria eccitazione di follia e mi balenarono idee strane. Non sapevo più chi ero. E se avesse avuto ragione? Nella semioscurità i miei pensieri si allontanavano e si perdevano. Disperati si

staccavano da riva come barche nella notte in tempesta. I marosi li portavano su di lei, morbosa quarantenne che mostrava seni prepotentemente sodi, che sbucavano davanti ai miei occhi. Si rotolò su di me e ne sentivo l’odore acuto. La mente cadde in knock out. Mi alzai di scatto stringendole le braccia tanto da toglierle il fiato e portandola su di peso. La serata era persa. Per tutti e due. Ci avviammo spingendo verso l’esterno, dove il fiato si dilatò fino a ingoiare i nostri corpi. Due o tre giorni dopo Bobo mi ha telefonato. Aveva ato il turno. Merito dell’intervista, ma soprattutto del libro, che aveva colpito la curiosità dei selezionatori. - "Il vecchio e il mare". L’hai letto? - Sì – rispose Bobo – l’ho iniziato. - Raccontaci qualcosa. Sappiamo che è un capolavoro del novecento. Cosa sai di Hemingway? - Ha scritto questo libro. – Bobo stava sulle sue e aveva paura di sbagliare. - E poi? - Degli altri. Di sicuro. E’ uno scrittore. - "Per chi suona la…" ? - …la chitarra. Hemingway era anche un apionato di musica country. Ma non sapeva suonare. Era geloso di chi aveva talento. - E bravo il mio… - Bobo! - Finalmente un ragazzo con l’hobby della lettura. Quando trovi il tempo, di sera? Cosa dice la tua ragazza? – l’intervistatore era su di giri pregustando gli indici di ascolto che schizzavano in alto.

- Mi piace Volo. - Grandissimo, Fabio Volo! Sono certo che Fabio sta ascoltando. Ciao Fabio! - Poi quello del "Codice Da Vinci", Don Brown. L’ho letto due volte. - Avevamo bisogno di uno come te, Fabio. Sai che Dan Brown ha venduto ottanta milioni di copie? E hanno girato anche il film con il suo soggetto? - Sì. - Cosa fai nella vita, Bobo? - Adesso voglio diplomarmi. - Quanti anni hai, Bobo? - Venti. Ho avuto un ripensamento e avevo interrotto gli studi. - Forse leggi troppo. Bobo ha bucato il video. Serviva uno come lui. Così è andato alle semifinali, con tutte le sue pagliacciate e il libro in mano. Mentre io sto qui a rodermi a mani vuote. Le prime pensiline abbracciano il convoglio e ci corrono incontro. Sfrecciano i volti di operai e ferrovieri, per pochi secondi compagni della mia esistenza. Presto scompariranno. Tutto scompare e bisogna giocarsela in fretta. Ho conosciuto Sestino una settimana fa e lo ricorderò sempre. - In camera è arrivato un paziente a rischio. Un professore in pensione: Sestino Laterza. Nel primo letto a sinistra. Seguilo bene, pressione, diuresi, guarda se si alimenta e controlla che assuma tutti i farmaci. - D’accordo. - E’ sempre solo. - Gli farò un po’ di compagnia. E’ vigile, dottore?

- Per il momento sì. Se peggiora vieni subito in guardiola, intesi? - Certo. Stia tranquillo. Sestino era debole e segaligno, quasi immobile. Reclinava il volto grigiastro verso di me, come se io potessi davvero ridargli la speranza. O forse per rivedere un momento della sua giovinezza. Mi avvicinai per aiutarlo. Attesi qualche secondo senza sapere come e infine chiesi di cosa avesse bisogno. - Mi potrebbe allungare il giornale. Lei è gentilissimo, signor dottore. - Ciao Sestino, sono solo infermiere. - Lei dovrebbe fare il dottore. Si capisce che ha un cuore. - Troppo gentile, signor Sestino. Non vengono a farle un po’ di compagnia? - Mio figlio? Povero. È sempre impegnato, sa? Eh, fa anche troppo per me. Sestino aveva l’affabilità di un gentiluomo. Dietro i suoi occhiali provocatoriamente moderni splendevano occhi celesti che si lasciavano scrutare senza timore. Io mi sono perso in quel lago che già aveva compreso la mia inettitudine e le mie necessità. Perché pur essendo lacune, il loro impatto è forte e subito evidente. - Allora, Sestino. Raccontami, come mai sei qui? - Raccontami. Perché la dovrei tediare con i miei anni? E’ lei che mi può raccontare. Questa notte sarò sveglio. Mi succede da mesi, perché appena mi addormento mi manca il fiato. Mi tiri un po’ su, per piacere. - Certo. Aumento l’ossigeno? - Faccia come le hanno detto. Se è infermiere le avranno dato disposizioni. Per lei va bene, è una persona mite. Non le dispiace eseguire. Altrimenti non si può lavorare in ospedale. Non si può aiutare davvero chi sta male. - Non saprei Sestino. Mi puoi dare del tu. Forse hai ragione. Non ho le idee chiare. Spero che sia un momento eggero.

- E così non sai cosa vuoi. - Faccio quello che posso. Ecco, la situazione è questa. E posso molto poco. - Non abbatterti. Io ho potuto far molto e non voglio più niente. Ho riflettuto molto su questa frase. Mentre gli raccontavo di casa mia, di Michela irraggiungibile e di Angelica disponibile e persa. Di Bobo, di Fabrizio, di Giulio, dei miei studi e della corsa di motocross che ritorna nei miei pensieri come una foto indelebile. L’ho raccontato solo a lui. Era la prima volta che parlavo con un padre, anche se non era il mio, perché mi ha ascoltato come si fa con un figlio. Un padre comprensivo, generoso, lucido. Che aveva vissuto fino in fondo e ora voleva donare a me i suoi tesori di benevolenza. E non solo. Era stanco e voleva, lui stesso dimenticato dal figlio, un’ultima dimenticanza. Uno sguardo al cellulare. Niente messaggi. Niente più chiamate senza risposta. Sono stanco. Stazione di San Benedetto del Tronto. Ormai ci siamo. Mi è piovuta addosso tutta la noia di tre anni di studi e di corsia. L’altra notte non ho chiuso occhio. Prima ad aspettare. Attento a chi ava, chi devo vedere e chi no, chi mi deve vedere e chi no. Per un attimo ho percepito un vuoto, ho capito che qualsiasi accaduto della vita rimarrà per sempre. Poi ho convertito il vuoto in azione, come se fare fare fare cancellasse ogni altra cosa. Manciate di terra che coprivano l’edificio crollato. A o spedito verso la stazione con le mani in tasca. E sopra le tasche, altre camicie e il giaccone da mezza stagione. Speravo almeno di rifarmi, invece al Casinò di Venezia si comincia poco prima di mezzanotte e non ho dormito di nuovo. In tutto cinque caffè che mi rendono spossato e insofferente. Volevo dormire in treno, invece non ci sono riuscito. Troppo incazzato con me stesso. Mi ero sentito un drago: millecinquecento euro! Una sensazione che mi è durata poche ore. Poi aspettare che escano i numeri giusti è un’emozione come quando mi sono lanciato con il bungee jumping. Me la dovevo togliere, adesso

so cosa vuol dire. No, non è stato inutile. Bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno. In questi giorni ho scoperto in tempo che non sono tagliato per fare l’infermiere. Così mi do da fare un po’ e poi lascio. Ho ricambiato la tua simpatia, Sestino. Quando hai acquistato il Messaggero ho visto che c’era un plico bello spesso di banconote gialle e viola. Volevi farmelo vedere, sono sicuro. Volevi fare l’ultimo regalo. Speravi che io lo accettassi perché tuo figlio e tutti i tuoi erano troppo impegnati. E quando a mezzanotte ti hanno portato giù per la radiografia d’urgenza e ti ho aspettato, l’ho preso in consegna e mi hai sorriso. Non si sa mai che qualcuno lo rubi in corsia. Per non parlare in radiologia. L’ho messo solo al sicuro. Da tempo il treno per Venezia mi aspettava. Sei tornato peggiorato. Un po’ di esperienza in corsia me la sono fatta e l’avevo immaginato che finiva così. Sei tornato con il volto contratto che era coperto dalla maschera e i tuoi occhi celesti fissavano il soffitto bianco come a chiedere cosa c’è dentro al vuoto che ti aspettava. Che strano. Proprio ora al mio arrivo il mare si è quietato. Pare quasi che mi stia aspettando. Le onde della mareggiata si sono ritirate, lasciando disegni di schiuma bianca in superficie. Dal fondale affiorano alghe e detriti. Siamo stati da soli io e te, Sestino. Un’ora da soli. Il reparto era immerso nella notte e la porta socchiusa. Ho girato la rotella che chiudeva il flusso dell’ossigeno, due minuti, mentre il soffitto bianco ti assorbiva senza dolore. Poi l’ho riaperta. Due giri avevo stretto, prima. Due giri ho riaperto, dopo. E ho avvertito il dottore. Ecco il messaggio di Fabrizio. TI ASPETTO DA ME. HO TROVATO UN

COSTUME DA PRESTARTI. Perfetto! Si ricomincia da qui. Si torna alle origini, come da bambini. Il sole e due calci al pallone in compagnia. I problemi svaniscono, sono io a sopravvalutarli. E’ meglio avvicinarsi alla porta della carrozza. Lo zaino è proprio qui sopra. Così leggero. Ah, - Scusi…- Ha tenuto la gamba fuori. Tutto suo, qui. Potevamo solo urtarci, noi due. Purtroppo. Non ti vedrò più, ragazza che leggi "Oceano mare" e non vedi l’Adriatico a pochi metri. Che sogni troppo lontano per poterti seguire. - Permesso. Scendo qui. Suona il telefono. Sarà mia madre. GERIATRIA OSPEDALE. - Sì sono io. Ero fuori città. Sono appena arrivato a casa. Alle cinque? Sono a disposizione.

Suggestioni musicali

“Sunday morning” – Velvet Underground “Caribbean blue” - Enya “Il mare d’inverno” – L. Bertè “Radioamatore” – Virginiana Miller “Enjoy the silence” – Depeche Mode “Mano nella mano” – A. Verardi “Ragazzo triste” – Patty Pravo “30” – Virginiana Miller "Com’è triste Venezia" - C. Aznavour "Hier encore" - C. Aznavour "Il portiere di notte" - E. Ruggeri (Si ringraziano gli autori dei brani citati)

Gli autori

Giovanna Astori

Nata a Roma nel 1972, laureata in statistica, da sempre affascinata dalle parole e dal loro uso, divide il suo tempo fra i numeri, le lettere e mille curiosità. Ha pubblicato numerosi racconti e poesie in antologie tematiche e di premi letterari e il romanzo “Storie dentro storie” (2012, L’Erudita di Giulio Perrone Ed. e 2014, in edizione digitale).

Andrea Masotti

Medico, apionato di storia, scrive già dall’infanzia. Ha partecipato con successo a concorsi nazionali di poesia e narrativa. Poesie sono edite da CFR, Perrone e riviste letterarie. Alcuni dei racconti sono stati pubblicati da Perrone e Nottetempo. Il primo romanzo “Intrigo sulla Moskova” (2010, Ibiskos Ed.) ha ricevuto vari riconoscimenti.

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