Oltre L'ostacolo 2d2h4y

Indice

Copertina Frontespizio Colophon Disclaimer Dedica Introduzione Parte uno Episodio 1 – No corner you could squeeze me Episodio 2 – What’s wrong and right Episodio 3 – Take my hand ’cause we’re walking out of here Episodio 4 – These twisted games we’re playing Episodio 5 – The wicked lies we tell Episodio 6 – Where I’ll be hiding, waiting for you Episodio 7 – But will I hold you again? Episodio 8 – But I got all the time for you, love Episodio 9 – Waste the hours with talking, talking Episodio 10 – Our wicked lies is where we hope to keep safe from pain Episodio 11 – The space between...

Parte due Episodio 12 – Oh, babe, I hate to go Episodio 13 – Dream about the days to come Episodio 14 – Hold me like you’ll never let me go Episodio 15 – So kiss me and smile for me Episodio 16 – Already I’m so lonesome I could die Episodio 17 – I hate to wake you up to say goodbye Episodio 18 – All my bags are packed, I’m ready to go Episodio 19 – I don’t know when I’ll be back again Episodio 20 – Tell me that you’ll wait for me L'autore Consigli di lettura Lettera dell'editore

Giulia Meli

Oltre l’ostacolo

i jackpot 5

seconda edizione: ottobre 2014

direttore editoriale: Andrea Malabaila

progetto grafico: Chiara Scavino

quarta e sinossi: Elena Di Mizio

ufficio stampa: Carlotta Borasio

ISBN eBook 978-88-95744-98-8 ISBN Cartaceo: 978-88-95744-04-9

www.lasvegasedizioni.com

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Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone realmente esistenti o esistite è da ritenersi puramente casuale.

A Luca persona, mai personaggio

intro

È stato il polso. E un braccialettino di corda. La pelle abbronzata contrasta con il cordoncino sbiadito. Lo muove sistematicamente, i ciondoli tintinnano, questo ha attirato la mia attenzione. Dal polso al braccio, la strada è breve, ma sinuosa. Poi ancora: dal braccio alle spalle, dalle spalle al seno ed oltre. Un’esplorazione silenziosa e costante.

Il tempo del non so, del non capisco, il tempo dell’equivoco è ato. Non è più una questione di sguardi o di sorrisi. Potevo fingere di non capire, allora. Ed era un modo per sentirmi felice. Ora è il tempo della consapevolezza. È iniziato il ballo del “vorrei, ma non posso”. Un valzer di doppi sensi, di timide ammissioni e di veloci ritirate. Il vorrei cresce ogni giorno. Mi chiedo quando da condizionale diventerà indicativo.

Parte uno

MAGGIO Episodio 1 – No corner you could squeeze me

I primi giorni di caldo reclamano i propri riti e i propri spazi. La tavolata imbandita, il fumo della griglia e le risate sono pozze di luce. I visi sono rossi, le braccia e le gambe abbronzate si offrono ai morsi delle zanzare inferocite. Tutto contribuisce all’atmosfera di festa. I bambini ed i cani corrono nell’aia, gli adulti parlano. La vedo, mentre sorride e si inginocchia. Coccola la mia cagnetta e le dà un pezzo di pane. Ricambia, lei, con un bacio. D’un tratto gli altri cani la circondano pretendendo anche loro un assaggio. Non si tira indietro e non si cura dei vestiti. Gioca con tutti e ride con Claudia.

Sento il suo sguardo attraverso le persone. Mi cerca, mi trova, mi avvince. Non ascolto cosa dice Claudia, la mia migliore amica, i volti e le parole si confondono in sensazioni pallide ed effimere. Da una parte il mio corpo che reagisce, che mangia e beve e parla. Dall’altra i miei occhi inseguono i suoi movimenti, i miei sensi si dilatano mentre tra la marea degli odori intuisco il suo. Forse lo immagino e mi sento già persa. Stringo il bicchiere e cerco un porto sicuro. La testa mi gira e non so se è il vino, il caldo o l’eccitazione strisciante dell’ignoto.

Non la vedo più, ma so dove ha cercato rifugio. La conosco in modo istintivo. È così facile che mi sento già vincente. Dico che vado in bagno, ma nessuno si cura davvero di dove io sia diretto. Scompaio in una pozza di buio e sento già lontana la festa. Conosco la strada come le mie tasche e procedo senza incertezze. Il portone è accostato e so di aver indovinato. La scuderia è fresca e profumata. Ogni minimo rumore mi è noto, il legno, il respiro dei cavalli. Avverto la sua presenza esattamente dove so di trovarla. Aspetto nel buio il momento giusto. Mi a accanto dirigendosi verso la porta e le afferro il polso.

Quel polso così sottile che mi ha tanto affascinato e, prima che possa urlare spaventata, dico: «Sono io.»

Ho sentito la porta aprirsi e chiudersi e poi niente. Ho fatto due i e me lo sono trovato vicino. Ho riconosciuto nel buio il suo profumo e poi nel sussurro la sua voce. Le dita sul mio braccio sono calde e tenaci. Faccio un o indietro, mi scosto. La porta si apre e si chiude di nuovo. Mi attira verso di sé e rimaniamo immobili.

Riconosco le voci. Lui respira leggermente ad un millimetro dal mio collo. Nel buio posso sentire sulla pelle i suoi occhi neri. Il vino esalta i cuori ed accende le ioni, penso, mentre i nuovi arrivati saltano i convenevoli. Sentiamo i loro respiri affrettati e i loro sussurri. Vorrei essere ovunque tranne che lì. Mi sposto piano verso il fondo della scuderia e mi segue. Ad ogni o temo che ci sentano. Ma forse sono troppo presi e riusciamo a guadagnare l’altra uscita, quella che dà sul parcheggio. Ridiamo e ridiamo nel buio. La tensione si frantuma e ridiamo fino alle lacrime.

Episodio 2 – What’s wrong and right

Claudia sa che c’è qualcosa nell’aria. Dice: «Ci siamo divertiti l’altra sera. Ma ad un certo punto...» Mi sento avvampare. Per quello che è successo e per quello che non è successo. Evasiva rispondo: «Sono andata a vedere Valliant.» Mi sorride e so che mi crede. Forse sospetta che ci sia altro, sotto, ma ci crede. In linea di massima. Ripenso a quella sera e mi vergogno. Non posso credere di essere arrivata quasi...

Mi ritrovo a pensare a quello che poteva succedere e che mi è sfuggito. In un ambiente piccolo come il nostro i segreti sono tali per pochi attimi. Mi fermo ad ammirare le sue gambe lunghe nei pantaloni da cavallo e la magliettina rivelatrice. Alza gli occhi e leggo il suo turbamento. Faccio per avvicinarmi, alleviare il peso che le si dipinge in volto quando mi guarda. Vengo intercettato dal Berbaum, il papà di una mia allieva. Una ragazzina di quattordici anni. Un po’ montata, sia lei che i genitori. Per questo le ragazze li hanno soprannominati “famiglia Berbaum”, dalla famosa campionessa. Non mi rimane che seguire con gli occhi i i di lei, strascicati, fino al box del cavallo, desiderando di poterla seguire.

Claudia insiste, so che vorrebbe che la mettessi a parte. Ma nella mia testa è ancora tutto così confuso. Così le racconto dell’incontro in scuderia di Natalie e Tommy. Il pettegolezzo è così interessante da distogliere la sua attenzione da me, dal mio strano comportamento. E non solo il mio. Mi muovo in un’atmosfera impalpabile. Sente il distacco, la mia amica, come se i miei pensieri fossero mille miglia dai suoi. Noi che abbiamo sempre condiviso tutto, anche senza dircelo.

La vita in maneggio è scandita da routine definite. Certezze quotidiane. Arriva puntuale alle sei e mezza. Si occupa del suo cavallo con dedizione, come sempre. Si china e gli pulisce un piede, il cavallo le afferra la maglietta, lei si gira e lo accarezza. Mi vede davanti al suo box e sussulta. Ma si riprende subito con studiata indifferenza, a all’altro piede e senza guardarmi chiede: «Devi dirmi qualcosa?» In questo gioco sono più bravo io: «Stasera saltiamo, cambia il filetto.» Mi allontano lungo il corridoio e sento i suoi occhi seguirmi. Ho segnato un punto.

Entro in campo per ultima e, mentre lui aiuta le altre allieve, io monto in sella da sola. Si volta, mi vede e osserva: «Fai da te?» Sorrido e mi allontano senza spiegazioni. Non è mai esagerato, ma quel momento prima che io salga in sella, quando lui controlla i finimenti e tiene il cavallo, è diventato, nel tempo, imbarazzante. Appoggia la mano alla curva della mia schiena, fa un’osservazione su cosa indosso, forte del fatto che nessuno è abbastanza vicino da vedere o sentire. Intesse la sua tela con impercettibili gesti e poi con veloci ritirate, come poco fa in scuderia. È un maestro in questo gioco, ma io posso non essere da meno. C’è una sincronia di movimento e di intenzione fra me e il mio cavallo. Se dovessi descrivere l’amore, l’amore perfetto, direi che è questa complicità. Al mio gesto risponde una sua azione, ad ogni sua azione il mio corpo adatta il movimento. Ci sono incomprensioni e momenti difficili, come in ogni coppia. Ogni altra preoccupazione, però, evapora appena infilo i piedi nelle staffe. Resta solo un flusso silenzioso di impulsi. È il punto debole nella mia resistenza al corteggiamento, perché in quei momenti l’istruttore a terra diventa il monarca e il mio corpo il suddito fedele che esegue. L’attrazione fra noi amplifica le mie percezioni, diventa un canale in più di informazioni. Leggo i dettagli nelle sfumature della sua voce. E se con i piedi per terra vorrei sfuggirgli, in sella non perdo una sua parola ed un suo gesto.

Sistemo le barriere a terra, conto i i e, senza alzare la testa, dico: «o, cambiate mano» e dopo un minuto: «Alt, o indietro e GALOPPO.»

È un’esplosione. I colori, le sensazioni, i frammenti di istantanee si innalzano e si scompongono. Mi ricadono addosso, pioggia cristallina e rombo di tuono.

Non c’è urlo che tenga. Mai come in questi pochi secondi capisco quanto sia immensa la frustrazione di non poter fare niente per evitare l’ineluttabile.

Scatto in piedi e con un’occhiata cerco di afferrare la situazione. C’è un cavallo che corre a rotta di collo per la stradina con le redini nei piedi. Lo guardo inorridita, finché non lo riconosco. Non è Valliant. Respiro. Mi guardo intorno. Claudia è scesa di sella e tiene le redini della sua e del mio. Il sollievo è un’onda anomala che mi investe, facendomi barcollare. Nessuno bada a me nel tentativo di recuperare il cavallo fuggiasco che si dirige verso la strada asfaltata. La ragazzina è per terra, il padre tenta di consolarla. Piange forte, strilla isterica nel silenzio attonito dei presenti. Mi avvicino a Claudia e solo in quel momento lei si accorge di me.

Sono diviso tra l’impulso di assicurarmi che stia bene e recuperare il cavallo della ragazzina. Scelgo la seconda, per senso del dovere. Ho un presentimento negativo e mi volto. È in piedi, sta risalendo in sella e parla con Claudia. Sta bene. Mi rigiro appena in tempo per vedere il cavallo, quello in fuga, inciampare nelle redini, scivolare sull’asfalto e cadere malamente.

Episodio 3 – Take my hand ’cause we’re walking out of here

15 maggio 2007 – 21:19 Non ti ho visto andare a casa. Sei intera?

15 maggio 2007 – 21:34 Intera. Acciaccata ma intera, grazie. Il cavallino?

15 maggio 2007 – 21:47 Sono ancora qui con Anna Rita. È sedato, ma forse non è da portare in clinica. Riposati, ci vediamo domani.

Siamo tutti nervosi dopo quello che è successo ieri. La ragazzina è stata portata in ospedale perché accusava dolori al collo. Ma sembra che non le abbiano messo neanche il collarino. Il cavallo è malmesso, dice Alex, ma la veterinaria è ottimista. Io me la sono cavata con lividi ed escoriazioni varie, ma davvero niente di serio. Quando si cade bisogna sempre rimontare in sella, così eccomi qui. Mi guarda ogni cinque secondi e mi chiede: «Ce la fai?» Come se fosse la prima volta che cado. Beh, è la prima volta che vengo investita da un altro cavallo, quello sì. Sono stata tremendamente fortunata.

Ho ancora dei flash del cavallo, il suo, che la scarica a furia di smontonate per essere stato “tamponato” da quello dietro. E dell’altro che le a al galoppo a pochi centimetri dalla testa. Ho pensato che la schiacciasse. Ho pensato: se la tocca lo macello io con le mie mani. Ho avuto paura, l’avrei avuta per chiunque. E ce l’ho anche ora, mentre mi sembra così esile in sella, così fragile.

Si spazientisce di fronte alla mia iperprotettività e non mi risponde neanche più quando le chiedo se se la sente di galoppare. Non mi chiedo se proverei le stesse cose per qualunque altra allieva. I lividi spariscono, i graffi si rimarginano. È allegra, spensierata in questi giorni di fine maggio. Prima di andare a casa, mi fermo a guardarla mentre spettegola con Claudia. Sono inseparabili, più che mai. Il sole è tramontato e la sera chiara e fresca. So, perché me lo dice mio fratello Alessandro, che restano a chiacchierare fino a tardi, mentre i cani giocano. Vorrei fermarmi con loro, ma in mia presenza le chiacchiere muoiono. Solleva una mano, la mano con il braccialetto e mi saluta, poi entrano in club house.

Questa è l’ora che preferisco. Se ne vanno tutti. Rimaniamo solo io, Claudia, Alex e i cani, naturalmente. Corrono, si tuffano nel fosso, giocano. Si riappropriano dello spazio, il maneggio sembra tutto loro. Vederli così felici e liberi è una gioia. Non racconto ancora a Claudia del breve episodio in scuderia con Edoardo. Un po’ perché è imbarazzante, dovrei confessare di esserne attratta. Un po’ perché l’episodio dell’investimento tiene ancora banco. Il cavallino si riprende a fatica, mi racconta Alex che ha preso particolarmente a cuore la cosa. È la ragazzina, invece, a dare forfait. Ci sprechiamo in pronostici. «Mio fratello» dice Alex «vuole che lo portino via.» «Edoardo si è spaventato molto» aggiunge Claudia. «Però mi ha saltato, poteva pestarmi» dico io. L’atmosfera di pace per stasera è rovinata.

Li vedo arrivare in macchina. I Berbaum. Non si fermano molto a guardare il cavallo. Non è un bello spettacolo, in effetti, tutto medicato e un po’ intontito dai farmaci. Mi salutano e già capisco che hanno in mente qualcosa.

Nel parcheggio vedo la macchina dei Berbaum. Finalmente si degnano di venire a vedere il loro povero cavallino incidentato. Scendo dalla macchina, seguita dalla mia fida cagnetta Nana dalla coda a pennacchio e con il consueto carico di leccornie per Valliant. Valliant il saggio, viene soprannominato da dopo il tamponamento. Si è fermato al centro del campo con gli altri cavalli, invece di

prendere la porta e scappare. Siamo stati fortunati entrambi ad uscirne incolumi, mi ripeto per la millesima volta.

Capisco che stanno parlando dell’altro giorno. Disegnano agitando le mani forme giganti nell’aria e l’atteggiamento è di chi si trova, suo malgrado, in una spiacevole situazione. E pensare che poteva essere ben peggio. Mi arrivano solo delle parole, frammenti di un puzzle che non mi interessa ricostruire. “Pericolo”, “calci”, “attenzione”, “spese mediche”. Non mi chiedo quale sia il senso del discorso, lo do per scontato. Solo voltandomi e vedendo l’espressione allibita di lei, capisco che davanti ai miei occhi si sta svolgendo una specie di campagna diffamatoria.

Mi afferra per un braccio e mi trascina via. Non posso crederci, parlano di come io abbia provocato l’incidente. So che non c’è niente di vero e so che non hanno un appiglio reale. Ma in un ambiente piccolo come il nostro... La calunnia è un venticello e poi... e poi dove mi sta portando Edo? Se parlano di me dovrò rispondere, no?

Stringo il polso fra le dita e sento la sua tensione are da lei a me come per osmosi. La costringo a seguirmi fino in officina, in fondo alla scuderia. Non voglio che dica cose di cui potrebbe pentirsi. È troppo impulsiva e senza peli sulla lingua. Mi sento il suo cavaliere, mi sento come se dovessi salvarla da tutto e da tutti. Oppone resistenza all’inizio, ma dopo poco mi segue docilmente. Solo quando siamo ben lontani, la lascio andare e per un secondo mi sembra che se la stia prendendo con me.

Perché mi ha portato qui? Devo dire la mia, devo difendermi, non posso lasciare che sparlino alle mie spalle. Mi lascia andare e provo l’impulso di strozzarlo. Perché, invece di difendermi, è stato zitto? Lo guardo in faccia e questo mi calma. Sono occhi così profondi, i suoi, che mi sembra di avere una specie di peso sul petto e questo mi fa sentire un po’ cretina. Dice: «Non potevo lasciare che gli urlassi contro chissà cosa.» «Sì ma io...» la mia voce trema in modo

ridicolo. Come se le gambe non avessero più la forza di sorreggermi, mi lascio cadere sui sacchi di mangime. Restiamo per un po’ in silenzio. Non è un silenzio imbarazzato o teso. È un silenzio carico di aspettative, mi stupisco a pensare. Aspettative di cosa?

Scatta in piedi, come se all’improvviso si fosse ricordata di qualcosa. Sono sorpreso di non essere riuscito a sfruttare questi brevi (e rari, oltretutto) istanti di intimità. Sfugge il mio sguardo, mentre dice: «Ok, sono più calma. Vado a strigliare Valliant.» La devo trattenere, penso. Siamo incredibilmente soli. E incredibilmente vicini. Ci separa un o e io, di solito, non ho problemi a farlo. Si allontana, ma dopo tre i si volta e dice: «Grazie.» La porta dell’officina si richiude alle sue spalle, sento i suoi i lungo il corridoio della scuderia, la sua voce dire le solite parole sciocche al cavallo. Ci sono andato così vicino, ma ora non mi sembra di poter essere più lontano.

Episodio 4 – These twisted games we’re playing

Quello che conta sono gli amici. So che è un’osservazione da bacio perugina, ma è il pensiero che mi tiene compagnia quando mi sento addosso gli sguardi accusatori dei Berbaum, oppure quando i discorsi in club house si interrompono appena mi affaccio con la punta del naso. La verità, a volte, conta meno delle chiacchiere di scuderia e non mi è mai parso vero come in questi giorni. Con Claudia e Alex non facciamo che scherzare sulla presunta pericolosità del mio cavallo e della mia sempre presunta incapacità di controllarlo. Perché è questo che dicono alle mie spalle. Mi sento emarginata, anche se non mi è mai davvero importato di avere un rapporto di amicizia con quelle stesse persone che ora mi malignano dietro.

La vedo arrivare, scendere dalla macchina, rivolgere un sorriso forzato a Nana, camminare con le spalle un po’ curve fino alla scuderia. Vorrei aiutarla, ma non posso. Le voci aleggiano, ma sempre troppo lontane da me per smentirle. Vorrei che non drammatizzasse così tanto, non le sono mai importate le voci, il pensiero della gente. o davanti al suo box, mentre toglie le fasce e le dico «Ciao, cara. Com’è?» Alza lo sguardo, sorpresa: «Non ti avevo visto, ciao. Io bene. Il mio cavallo pericoloso anche. Mi ha detto Claudia che oggi... allora magari io monto un pochino adesso.» Abbassa gli occhi e scrolla le spalle. Entro in box, mosso dall’istinto.

Vedo i suoi piedi ad un millimetro dai miei. Mi alzo lentamente dalla mia posizione accosciata con una fascia di Valliant in mano. Il cuore mi batte così forte, che immagino lo possa sentire anche lui. Tengo la testa china, perché se lo guardo in faccia... La prima grossa, calda, salata lacrima mi scivola sulla guancia destra e se possibile mi sento più cretina e sola e disperata che mai. Non riesco a spiccicare una parola e non riesco a fermare le lacrime che mi inondano la faccia. Non posso spiegare, né a lui né a nessuno, come mi senta ferita. Non posso entrare nella sua lezione stasera perché per la prima volta la Berbaum monta il suo cavallino incidentato. Mi sparlano già dietro abbastanza, no? Persone che non mi salutano, persone che ridono quando o, persone che

dicono intenzionalmente ad alta voce: «Se monta lei, non monto io.» Era casa mia, qui, ed ora è un incubo.

La chiamo piano e finalmente solleva la testa. Ha gli occhi pieni di lacrime e il viso inondato. Fa un sorriso stentato e dice: «Non è niente.» Valliant ci guarda incuriosito e poi si volta, come se non volesse interromperci. Vorrei dirle che non è vero che non è niente, che capisco cosa prova. Le allungo un fazzoletto e resto lì a guardarla, la testa china, i capelli ribelli che sfuggono alla treccia. Farfuglia qualcosa che assomiglia ad un grazie e mi guarda nuovamente negli occhi. Le sorrido, con le dita sfioro la sua guancia bagnata. Siamo vicinissimi, ma so che basta un o indietro perché non accada nulla. È un attimo sospeso nel tempo, un attimo in cui potrei ancora tirarmi indietro e tornare ad essere solo amico ed istruttore.

Sta per baciarmi. Sembra una scena da film romantico. Siamo immobili nel box, vicinissimi. Mi accarezza la faccia, è un tocco gentile e consolatorio. Ma è anche un preludio a qualcosa di più. Mi a per la testa che dovrei resistere. Ma la solitudine che prima mi opprimeva, ora è solo un ricordo. È solo un bacio, mi dico. Solo uno. Come una medicina, come una boccata d’aria per uno che sta annegando. Ne ho bisogno. E lo voglio. L’ho aspettato e me lo sono negato. Ma ora è proprio qui e sta accadendo.

Dei i e delle voci in scuderia. Facciamo un balzo indietro, entrambi. Che tempismo! Non posso crederci. Le cade la fascia di mano e ci chiniamo nello stesso tempo a raccoglierla. La mia mano tocca la sua, i nostri occhi si incrociano e mi sorride. Timida e un po’ insolente. Le lacrime sono sparite, ma gli occhi sono lucidissimi. Rimaniamo un secondo in silenzio, poi mi volto ed uscendo dal box dico ad alta voce, a beneficio di tutti i curiosi: «Visto che devi andare a casa prima, prepara subito Valliant ché ti faccio fare due salti!»

GIUGNO Episodio 5 – The wicked lies we tell

Lascio ciondolare i piedi nell’aria, disegno cerchi invisibili. Invisibile come vorrei essere io in questo momento. Si può sparire in un unico puff? Se mi concentro magari sì. La conversazione prosegue e io non presto alcuna attenzione. Poi Claudia mi tocca il braccio e vedo che tutti mi stanno guardando. «Eh? Cosa? Scusate non ho seguito.» Risate generali. Il gruppo si disperde e Claudia osserva: «Ti vedo un po’ meno brillante del solito, in questi giorni» e lascia la frase in sospeso, aspettandosi forse una confessione in piena regola. «Sono stanca» dico «e questa situazione con i Berbaum mi abbatte un po’.» Inarca un sopracciglio e non sembra crederci troppo. In questo momento preciso, però, non mi interessa. Cerco di ripetere a me stessa che lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo. Ma sapere di essere stupida non è una gran consolazione. Cerco di pensare che in ogni caso non è successo niente di irreparabile, che non ho fatto niente per cui sentirmi in colpa. Ma non è questo il punto. Accarezzo il muso dolce di Valliant e mi scopro a sorridere. Ha sempre un effetto calmante su di me. Il pelo liscio e profumato, il calore che emana sono le migliori medicine. È solo un equivoco, mi dico.

Sarà in box. Ultimamente è il suo nascondiglio preferito. Evita gli sguardi malevoli, le chiacchiere e anche me. Pensavo sapesse come va questo genere di cose. Invece non lo sa. Sono diviso tra l’andarla a cercare e il lasciarla a meditare un po’ in solitudine.

Metto la sella, stringo il sottopancia, entro in campo e monto. Valliant ha un bel o elastico, gli lascio le redini lunghe sul collo per alcuni minuti. Poi facciamo un po’ di trotto rilassato e un po’ di galoppino. È accaldato, ma non sudato. Mi allungo sul collo per dargli un paio di pacche leggere e eggiamo mentre riprende fiato. Esco dal campo e ci dirigiamo verso la stradina sterrata.

Giusto due i per rilassarci, per sfuggire ad un’atmosfera sempre più pesante. Le immagini di lui con la fidanzata sbiadiscono. Ci sono andata vicina, ma non è successo niente. Devo solo dimenticare ed andare avanti. Fingere che non mi interessi. Torno sui miei i con una nuova determinazione.

La rivedo in sella a Valliant. Ha già montato? Pensa che disertare le mie lezioni abbia un senso? Si avvicina, mi sorride e a oltre. Rimango immobile a chiedermi cosa stia esattamente succedendo. Un’ora fa aveva le spalle curve e l’aspetto di un cucciolo bastonato.

1 giugno 2007 – 20:10 Sei andata via presto. Va tutto bene?

Guardo il messaggio e sbuffo. Ci sono dei significati evidenti e dei significati nascosti. In realtà mi sta chiedendo se partecipo ancora a questo gioco. Non rispondo. Anzi lo cancello proprio. Clicco su elimina e mi sento un po’ più libera. Ora chiamo Alice, la mia ex-compagna di liceo, stasera ho voglia di uscire.

Ha gli occhi segnati e sbadiglia vistosamente. Incrocia il mio sguardo, fa un sorriso formale e dice: «Posso entrare nella tua lezione stasera?» la scuderia si fa immediatamente silenziosa. Prosegue: «So che il mio cavallo è pericolosissimo» scrolla le spalle «ma devo andare via presto e non posso aspettare che finisca la lezione.» Poi mi guarda negli occhi e leggo un lampo di ostinazione: «Allora per te va bene?» Dico solo: «Certamente.» Rimando a più tardi le spiegazioni.

È bello montare di nuovo in lezione con gli altri. È divertente. Claudia ed io facciamo battute e ci scambiamo occhiate significative, come una volta. Beh, era solo un paio di settimane fa, ma sembrano ati secoli. Devo dire che la Berbaum sta molto alla larga quindi presumo che abbia davvero paura di me e di Valliant. Ogni volta che mi a vicino le dico piano: «Occhio.» È terrea in faccia. Non sono fiera di me, ok, ma se l’è cercata, no?

eggia appaiata a Claudia, le redini lunghe. Escono dal campo, tornano in scuderia e le sento ridere fin da qui. Riappare dall’altra parte della scuderia, con un borsone su una spalla e si dirige verso lo spogliatoio. Ne riemerge dopo cinque minuti completamente trasformata. Niente stivali da cavallo infangati, niente magliettina aderente e un po’ scolorita. Persino i capelli sono disciplinati e legati sotto la nuca. È truccata. Fa un cenno di saluto e salta in macchina, mentre Claudia le grida dietro: «Divertitiii, fammi sapereeeeee.» La guardo interrogativo, lei mi sorride in risposta e dice solo: «Valliant, oggi si occupa di te la zia Claudia.»

Episodio 6 – Where I’ll be hiding, waiting for you

Sente i miei i in scuderia, Valliant, e nitrisce forte. Sono questi i momenti in cui diventa assillante il dubbio di averlo viziato eccessivamente. Dico: «Ciao Valliant» e lascio cadere la solita mela. Questo lo tranquillizza. Sono le sette e la scuderia è deserta. Vado in cerca di Claudia, ma sento dei i alle mie spalle. «Ah sei tu, ciao.» Mi guarda e dice piano: «Ciao.» «Qualcosa non va? Hai mal di testa?», gli capita spesso. Mi sora e dice solo: «Metti il filettino per saltare stasera, ok?» e si allontana. «Ehi Claudia, cos’ha il conte Mascetti oggi?» le chiedo appena la vedo. «Non saprei, è stato qui tutto il pomeriggio e mi sembrava il solito.» Non do voce al sospetto che ce l’abbia con me. Per cosa poi?

Pensa di essere tanto figa, lei e i suoi appuntamenti di cui fa telecronaca a Claudia ogni sera. La strozzerei quando la sento ridere fino a rimanere senza fiato, quando vedo i suoi occhi luccicare di... emozione, aspettativa, cosa? Ho provato ad indagare con Claudia, naturalmente. Con discrezione. Mi ha lanciato uno sguardo perplesso e mi ha detto solo: «Ha un nuovo giro di conoscenze. Sono simpatici.» Non sono riuscito a saperne di più. Fino a poco tempo fa, sembrava che fossimo sempre da soli, per una cosa o per l’altra. Adesso parlarle a tu per tu è diventato impossibile. Corre sempre qui e là e mi evita.

Valliant stasera è in forma. Per la verità, sui primi salti di riscaldamento ha dato segni di eccessiva allegria. Ok, a momenti mi spara sulla luna in un paio di occasioni. Ma dopo il galoppo riacquista un minimo di serietà. Quando è in serata, è divertentissimo. Ha motore e testa e ci divertiamo. Edo però non mi considera per niente. Potrei essere trasparente, non mi dà un consiglio. Cerco il suo sguardo prima e dopo ogni esercizio, ma evita accuratamente. Alza un po’ l’ostacolo, superando l’altezza a cui di solito Valliant ed io ci fermiamo. Non mi dice niente e non mi sembra il caso di chiedere. Vado sull’esercizio, ma, come sempre quando non mi sento sicura, pasticcio. La distanza è terribile, ma il cavallo, generoso come suo solito, stacca i piedi ugualmente. Mi coglie

impreparata e mi sento volare via. Ci sono sfide che bisognerebbe avere il buon senso di non accettare, penso un secondo prima dell’impatto con il terreno. Urla. Lui, sempre pacato e misurato, è paonazzo e ha le vene del collo ingrossate. Non mi soffermo a sentire cosa dice. Riprendo il cavallo, monto in sella e torno sull’esercizio. Preferisco farmi male piuttosto che dargliela vinta.

La scuderia è immersa in un silenzio teso. Gli unici rumori sono quelli inevitabili, ma nessuno ha il coraggio di dire una parola. Salgo in macchina, sbatto con intenzione la portiera e mi dirigo verso casa, senza una parola o un saluto.

Gli ha dato di volta il cervello. Non mi spiego altrimenti la scena. Rimango a guardare la sua Smart sparire dietro agli alberi dell’aia e poi la portiera sbattere, di nuovo, mentre scende e va a casa. La rabbia offusca la ragione, mi sento il viso bollente e le mani tremare. Quando ho rifatto il salto, perfetto, ha commentato solamente, sarcastico: «Ci voleva tanto?» E poi lo sbattere delle portiere. E le urla. Attraverso l’aia a grandi i, Claudia esce dalla scuderia e mi chiama, ma non le do retta.

La porta di camera mia si spalanca all’improvviso e rimbalza con un tonfo secco contro la parete. Sono sdraiato sul letto, davanti ad una televendita di pentole che non sto guardando. Ha i capelli sparati in tutte le direzioni, la faccia arrossata e si torce le mani. Rimane sulla porta un secondo, poi si volta per andarsene. Si rigira. Mi viene da sorridere, ma mi trattengo e dico: «Accomodati.»

È sdraiato sul letto. Senza scarpe. Chissà perché questo dettaglio mi imbarazza più del resto. Il tono con cui mi invita ad entrare è calmo e pacato, come se pochi minuti fa non mi avesse urlato le peggio cose. Rimango sulla soglia, in silenzio mentre tutte le invettive che mi hanno affollato la testa fino ad un attimo fa si dissolvono. Poi sento irriconoscibile e tremante la mia voce dire: «Ma sei impazzito?»

So di aver esagerato. So che la rabbia che ho covato in queste settimane in cui si è palesemente allontanata ad un certo punto mi è esplosa tra le mani. Non ho saputo controllarmi. Non ho una sola spiegazione ragionevole. Perché sono stato totalmente irragionevole.

Si avvicina. Ecco, sono una cretina. Sono finita nella tana del lupo. E più cretino ancora è lui se pensa davvero che io voglia di nuovo candidarmi per il suo harem. Non sono qui per questo. Adesso mi sfogo, gli urlo in faccia che non si può permettere di trattarmi così, è stato del tutto...

Le sue labbra sono sorprendentemente fresche e dolci. Beve sempre tè alla pesca e questo pensiero ramingo mi fa sorridere.

Mi stringe. È caldo ed invitante e il suo bacio mi riempie la testa di bollicine.

Sospira piano, arrendendosi. Le sue braccia mi circondano il collo e le sue mani mi accarezzano i capelli. La stringo un po’ di più. Vorrei non lasciarla andare, ora che finalmente è qui.

Apro gli occhi per un momento ed oltre la sua testa, vedo la gigantografia della sua fidanzata appesa al muro. È un pugno nello stomaco.

Si divincola, si gira e corre via. Solo un minuto fa eravamo avvinghiati come se non esiste nient’altro al di fuori di noi due ed ora sono solo a fissare il pianerottolo deserto.

Episodio 7 – But will I hold you again?

Ok, bacia benissimo ma non vuol dire niente. Ok, avevo le gambe di budino e le labbra di fuoco. Ok, ero prossima alla capitolazione definitiva, completa. Ok, ora basta. Non devo pensarci più. «Giuli, mi ascolti?» Claudia sta parlando da dieci minuti ed io non ho sentito una vocale. «Sì, certo ovvio!» «E quindi cosa vuoi fare?» Giusto, cosa voglio fare? Ma riguardo a cosa? «Ehm, direi, quello che dici tu, no?» «Ma non vuoi parlarne con Edoardo?» Edoardo? Oddio, l’ha detto a Claudia? Oddio, sono arrossita? «Giuli? Ehi pronto? Mi sembri strana» fa una pausa e poi aggiunge «Senti, il fax d’iscrizione lo mandiamo domani mattina. Pensa a cosa vuoi fare e poi dimmelo, ok?» Ah, la gara! Ecco di cosa stavamo parlando!

Mi aspetto di trovarla in agguato da qualche parte per parlare di quello che è successo. Beh no, veramente mi aspettavo un sms ieri sera, ma non l’ho ricevuto. E questo mi sembra strano. Ho visto la sua auto nel parcheggio, quindi è in giro. Ma dove? In box non c’è, in club house nemmeno. Potrei dare un occhio nello spogliatoio delle ragazze, ma a quest’ora ci sono troppe persone in giro per appartarsi anche solo un secondo.

«Eccoti! Dicevo a Giuli che deve decidere che categorie fare domenica!» Claudia è tutta allegra, è un punto esclamativo vivente. Resta qui, penso, resta qui, non allontanarti, non ci lasciare soli. Alza gli occhi su di me e mi sorride. Accuso il colpo. Non rispondo al sorriso. Non cedo, mi ripeto, non cedo. Mi arriva una gomitata di Claudia. In questi giorni non riesco ad ascoltare nessuno per più di due secondi. Poi figuriamoci se mi guarda con quel sorriso obliquo da cardiopalma. Lo detesto. «Quindi le fai tutte e due?» Rispondo di sì in automatico e seguo docilmente Claudia ovunque stia andando.

20 giugno 2007 – 19:16

Parliamo?

Ignoro il messaggio. Il mio dito esita sul tasto Elimina, poi lo schiaccio con decisione. Archiviare l’episodio ed andare avanti, questo è il mio must. Arriva la sua fidanzata, si salutano. Fitta di senso di colpa. E d’invidia. Mi concentro sulla preparazione di Valliant. Monto in lezione con gli altri. Mi sparlano dietro, i Berbaum, lo so bene. Ma nel marasma di cose che stanno succedendo, non posso lasciare che l’opinione altrui mi influenzi. Quando penso così mi sento adulta. Poi mi torna in mente ieri sera e mi ricordo che sono cretina. Lavo, ingrasso, lucido. Parole, parole, parole. Elenco mentalmente i sintomi prima della gara. Quella strisciante sensazione di nausea che mi accompagna da stamattina. Fitte allo stomaco per la tensione. Iperattività. Ipersensibilità. Irritabilità. Dovrei ricordarmene prima di iscrivermi, ma, in genere, l’euforia dopo la gara cancella i ricordi. Un circolo vizioso. Scorro la lista delle cose da preparare, accuratamente divise fra me e Valliant. Una volta Claudia ha dimenticato gli stivali: da allora spuntiamo le liste almeno tre volte. Prendiamo accordi per domani mattina, a che ora arriva il van per i cavalli, cosa dobbiamo fare prima di partire. Edoardo mi dice solo, laconico: «Ricordami i documenti.» Vorrei non sentirmi mancare le gambe ogni volta che mi parla.

È pallidissima, le labbra sono una linea sottile serrata. La prendono sempre troppo sul serio, questa cosa della gara. Mi diverte vederle pulire e lucidare senza sosta, come se dipendesse da quello l’esito finale. Il grooming è l’attività principale. Claudia, eletta parrucchiera del team, pareggia le criniere. Mentre guardo Giulia ingrassare la sella, non posso fare a meno di pensare alla ionalità che si nasconde dietro all’atteggiamento pacato e un po’ snob che la contraddistingue. E poi le lascio alle loro occupazioni: da una parte Claudia e Giulia che spuntano liste, dall’altra la Berbaum con i genitori e Martina, la mia fidanzata, che lucida gli stivali.

Episodio 8 – But I got all the time for you, love

Nessuna fatica ad alzarmi presto oggi. Alle sei avevo già gli occhi sbarrati. Mi sono vestita a strati. I pantaloni bianchi e la polo sotto, i jeans e la giacca sopra per non sporcarmi. Scendo dall’auto e cerco di fare un sorriso di saluto, ma i miei muscoli facciali sembrano non rispondere agli stimoli.

Arriva, jeans e giubbottino blu. È mattina e fa fresco. Per un momento penso di caricarmela su una spalla e portarla via. Da qualche parte. Ha legato i capelli in una lunga treccia nera, stranamente ordinata, e sembra più giovane ed indifesa. Prendo un caffè, mi sembra di averne bisogno per chiarirmi le idee.

Se mi fermassi a guardare le mie stesse mani, mi spaventerei per il loro incontrollato tremito. Ma ho inserito il pilota automatico, quindi preparo Valliant per il trasporto senza pensare a niente. Paracolpi, paracoda, una spazzolata. Carichiamo le selle e i finimenti sul van. Ricontrolliamo due volte di aver messo gli stivali, l’esperienza insegna. Edoardo sorride calmo, Claudia ridacchia isterica, Alex si agita come una pallina impazzita nel flipper. Ha uno scatto di rabbia e lancia via una capezza che ha visto giorni migliori. Edo la raccoglie, ne prende un’altra, la a a suo fratello e mi strizza l’occhio. Il mio stomaco fa una capriola e la nausea aumenta. Impossibile muoversi senza inciampare in un Berbaum. Urto il padre e non chiedo nemmeno scusa. Mi limito ad un’occhiata di dubbia interpretazione, che potrebbe essere però qualcosa tipo lèvati.

Finalmente sono tutti pronti: i cavalli sul van, selle, testiere e gli altri ammennicoli caricati. Rimango indietro per chiudere la scuderia, mentre gli altri si distribuiscono sulle auto. Sono le sette e trenta e la prima gara inizia fra un’ora. Non dico “muoviamoci che è tardi” per non innescare la miccia.

Tutto di corsa, sempre. Corro ad iscrivermi, torno al van e Valliant è già quasi sellato. Sorrido a Claudia, che però mi incita: «Cambiati, dovete fare la ricognizione del campo.» Veloce, veloce. Edo spiega con calma, conta le linee e mima un po’. «Scendete dal salto, riprendete» si tira indietro con le spalle «e poi rilassate la mano.» Ascolto e non ascolto, presa come sono nel tentativo di memorizzare i salti nel giusto ordine. Rimaniamo tutti fermi alcuni minuti a riare mentalmente il percorso. Uno, cambio mano, linea in sei tempi, cambio di mano, spezzata...

«Ok, se ci siete, andiamo.» Torniamo al van e montano in sella. eggiano davanti al campo prova in attesa del loro turno. La Berbaum parla nervosamente con i genitori, Giulia chiede per l’ennesima volta quanti cavalli mancano prima di lei. Poi finalmente è il suo turno. Entra in campo prova, trotta e galoppa. Le faccio fare due salti, ma mi sembra nervosa e poco concentrata. La sgrido sull’ultimo salto: «Allora, fai qualcosa o dormi?» Mi risponde solo con uno sguardo assente.

«Valliant alla porta, si preparino...» dice lo speaker. La buona notizia è che lo stomaco non lo sento più, quindi non posso vomitare. O sì? Edo prende le redini di Valliant e mi guida fino al campo gara. Io guardo la ragazza che fa il percorso prima di me per memorizzarlo. Ha finito. Tocca a me.

Pallidissima, guarda il campo in silenzio e mi chiedo se vede qualcosa. La ragazza esce dal campo, lo speaker dice: «È in campo Giulia Meli su Valliant.» Mi guarda. Terrore, preoccupazione, ansia. Non so cosa leggere nei suoi occhi neri.

Mi sorride, gentile e mi dice: «Con calma, ok? Per lui» dà una pacca sulla groppa di Valliant «è una eggiata.»

Mi lancia un ultimo sguardo e poi si dirige sotto la giuria, saluta e parte. Galoppo rovescio. Iniziamo bene. Lo ferma, riparte. Già dal primo salto mi sembra chiaro che il binomio ha raggiunto un compromesso. Valliant comanda e Giuli obbedisce. Mi sembra una buona idea. Andrà bene.

Ultimo salto. Valliant picchia i piedi e va in aria. Io con lui. Non ho bisogno di guardare. So che ha ato tutti gli ostacoli facilmente. Due tempi di galoppo e poi trotto e o. Mi dirigo verso l’uscita, cercando tra i volti il suo. Sapendo che è lì, dove l’ho lasciato. Non mi ha perso di vista, lo so. Lo cerco e trovo finalmente i suoi occhi. Sorride, mi dice brava, ma le parole non acquistano un senso nell’emozione e nella felicità del momento.

È trasfigurata dalla soddisfazione. Sdraiata sul collo del cavallo, mi guarda e mi ascolta. Dico: «Hai montato bene» e lei subito: «Valliant è stato bravissimo», quasi avesse paura di attribuirsi il merito ingiustamente. Mi sorride, la sua felicità è contagiosa. Vorrei trattenermi, ma devo andare, ho altre allieve da seguire. Tra cui l’immancabile Berbaum. Le appoggio una mano sulla gamba, fasciata dai pantaloni bianchi da concorso, e le dico, con intenzione: «Ci vediamo dopo.»

Mi brucia la gamba dove ha appoggiato la mano. Mi brucia la faccia e un po’ anche gli occhi. Non riesco a smettere di ripetere a Valliant quanto sia bello, bravo, buono. Dissello, lo lavo, lo lascio brucare e poi lo porto nel box che abbiamo affittato. Mi allontano e i suoi nitriti mi richiamano. Sembra dica: «Ehi, tutta questa fatica e poi tu mi abbandoni?» Torno con le carote, premio per la sua ottima performance e mi allontano piano. Quando mangia non pensa ad altro. Ho una sete lancinante, io. Torno dopo a controllare che si sia calmato.

Cerco il box che ha affittato. Valliant alza il muso dalla mangiatoia e mi guarda incuriosito. Gli allungo un’altra carota. Pensavo di trovarla qui, visto che non era al campo gara per vedere la figuraccia della Berbaum. Accarezzo il cavallo e gli

sussurro: «Bravo, proprio bravo.»

«Già, vero?» Mi avvicino e Valliant fa bru bru con dolcezza. Rimaniamo uno accanto all’altra a guardarlo. Non siamo stati più soli e vicini da... dal bacio. L’euforia per la gara si stempera lentamente. Il silenzio è denso, ma non imbarazzato. Tra le tante cose che potrei dire, non so scegliere. Rimango zitta. So che dovrei, forse, fare una battuta e alleggerire la situazione. O basterebbe allontanarmi con una scusa qualunque.

So che ora ci interromperanno. Non mi sforzo nemmeno di tentare un approccio o di intavolare un discorso. Mi limito a godere della sua vicinanza. C’è odore di fieno e di cavalli, un odore così familiare in una situazione che non lo è per niente. Non riconosco questo lato romantico di me, eppure il mio battito cardiaco è impazzito solo perché il mio braccio destro avverte il calore del suo, a pochi centimetri. Forse è il colesterolo o qualche altro acciacco dell’età. Non può essere altro.

i di corsa. «Hanno aperto il campo, Edo andiamo?» è Claudia. Credo si accorga che l’atmosfera è particolare ed aggiunge: «Va tutto bene?» Edo si gira, mi appoggia la mano sulla spalla e, stringendo solo un pochino, osserva: «Hai una striscia verdastra su tutta la schiena.» Claudia mi lancia uno sguardo ancora più sospettoso e lo segue dappresso. Guardo Valliant frugare nel box con il muso, nella speranza di trovare qualcosa di commestibile e mi sforzo di ignorare la delusione per essere stata lasciata indietro. Da sola. Scarichiamo i cavalli dal van. Claudia ogni quattro secondi dice: «Com’è brava la mia cavalla!» Se lo dice un’altra volta, le do una spinta verso un ricordino equino. La fidanzata di Edo è arrivata seconda nella sua categoria. Claudia quarta. Ha confessato di essere un po’ gelosa. Mi è toccato dirle che non ha montato così bene, l’altra. È una situazione orrenda. Mi sento sporca. E ad essere onesta, a parte la sbavata sulla schiena, sono davvero lurida. Ho cambiato i pantaloni bianchi da concorso con un paio di jeans, ma ho aiutato Claudia a lavare la sua cavalla, finendo con le caviglie nel fango. Lei, l’altra, invece, ha i capelli lisci perfettamente riavviati e i vestiti puliti. Se solo ci riuscissi la odierei.

Ma il senso di colpa ha la meglio. L’altra, per l’esattezza, sono io.

Si arrotola una ciocca di capelli su un dito, tiene la testa leggermente inclinata come se stesse ascoltando. Ma scommetto che non è così. Claudia parla e parla, ancora sotto l’effetto dell’euforia da gara. Mi avvicino e, come mi vede, il suo sguardo perde la precedente fissità e diventa attento, guardingo. «Andiamo a mangiare al Soul Cafè stasera? Mi ci vuole un burrito. Per festeggiare» propone Claudia. Cerco i suoi occhi, ma evita il mio sguardo. Dico solo: «Chiedo a Martina.» Le do un quarto d’ora e poi dirà che ha mal di testa o che è stanca o qualunque altra cosa e tornerà a casa. Sicuro. La fitta che sento è fame, non è delusione.

Episodio 9 – Waste the hours with talking, talking

27 giugno 2007 – 17:46 Stasera non ci sono e non c’è lezione. A domani

Cerco dei significati che evidentemente non ci sono, stavolta. Quattro parole in croce. Non sono delusa, per niente. Sollevata. Al pensiero di non dover stare attenta a non rimanere sola con lui, di non sentirmi incespicare sulle parole quando gli rispondo, di non sentirmi tremare le gambe se lui mi guarda, di non sentirmi arrossire quando lui ride ed incontra il mio sguardo. Sollevata. «Edo è andato a vedere dei cavalli da Tommi, non sapeva quando sarebbe tornato...» dice Claudia appena mi vede. «Lo so, mi ha avvertito. Tu monti?» Claudia ed io prepariamo insieme, chiacchierando. «Ehi, io metto le stinchiere» mi avverte lei. «Ok, avvertimi quando metti la sella.» È una specie di vacanza. Sono sicura che non combineremo niente stasera. «Claudia, mi scusi, ma c’è la lezione? Sono le otto e non vedo Edoardo» è il Berbaum. Cala un silenzio di tomba. Ha avvertito me e non loro? Si è confuso? Claudia si agita, diventa rossa e non sa cosa dire. Intervengo con una scusa: «Edo oggi è via, ha detto che non sapeva se sarebbe tornato in tempo.» Il Berbaum non mi degna di un’occhiata, né di una risposta. Continua a guardare la mia amica, aspettandosi una risposta. Claudia guarda alternativamente me e lui. La situazione ad un tratto mi sembra così ridicola che scoppio a ridere. Il Berbaum sbuffa, diventa rosso porpora. So che è infantile, ma questo mi fa ancora più ridere. Rido così tanto che mi manca il fiato e mi colano lacrime lungo le guance. E poi mi sfugge un «ma si può sapere perché vi date tutta questa importanza?»

Sono quasi le nove. Ho montato diversi cavalli, ho guidato andata e ritorno Milano-Torino. Imbocco la stradina sterrata, svolto nel parcheggio. Vedo la macchina di Giulia e non posso negare un impeto di emozione. Me la immagino con i pantaloni blu e la polo bianca, i capelli arruffati dopo aver montato e il sorriso rilassato e complice. Un sorriso che non vedo da un po’, ora che ci

rifletto. Poi vedo la macchina dei Berbaum e le fantasticherie romantiche si infrangono. Spengo l’auto, entro nella scuderia deserta. Dove sono tutti? Mi sembra strano che i Berbaum stiano amabilmente chiacchierando con Giuli in club house. Non strano. Stranissimo. Spinto dalla curiosità, varco la soglia. Se non mi accorgessi che proprio non ride nessuno la scena sarebbe comica. Il Berbaum, seduto su un divano della club house tra la moglie e la figlia (entrambe sembrano preoccupate di trattenerlo), mi vede per primo. Attacca: «Ecco, Edoardo, l’abbiamo attesa apposta per avere spiegazioni.» Giulia, Claudia e mio fratello Alex sono schierati di fronte su una panchetta. Claudia mi guarda preoccupata, mio fratello desolato e Giuli ride. L’amica le assesta una gomitata nel fianco e lei tenta di trattenersi. Ma i suoi occhi brillano, mentre fissandomi negli occhi rincara: «Delle spiegazioni!»

Quando il Berbaum dice “Edoardo” alzo la testa di scatto. In questo momento mi sembra più attraente che mai. Ha una polo blu, il blu gli dona tantissimo, dovrei dirglielo. I rayban, beh non che ci sia chissà che sole in questo momento, e i jeans. Senza vederlo, so che dietro gli cadono perfetti. Non che sia la situazione idonea per questo genere di apprezzamenti. I Berbaum sono decisamente infuriati. Con lui, con me, con Alex. Potrebbero prendere il cavallo ed andarsene. È un’ora che lo ripetono. Per la verità, sono sicura che se potesse il Berbaum mi caverebbe gli occhi e con questo gesto si sentirebbe appagato. Vendicato. Soddisfatto. Se non fosse un ometto così buffo. Con i suoi baffetti, i pantaloni gialli. Mi torna prepotente l’impulso di ridere. Claudia mi tira un’altra gomitata.

Giuli ridacchia a fasi alterne, mentre il Berbaum, chiaramente alterato, blatera di sms non ricevuti, di lezioni mancate e tutta una serie di scorrettezze di cui sarebbero stati vittime. Odio i clienti che si lamentano. Mio fratello prova ad intervenire, ma niente riesce ad arrestare il getto continuo di parole dell’uomo. Giulia si stringe nelle spalle ed osserva, a bassa voce: «Sono arrabbiati perché hai avvertito me e gli altri e loro no.» Il silenzio che segue quest’affermazione è denso e terribile. La mano della Berbaum si stringe sul braccio del marito, che sembra pronto a lanciarsi in pesanti insulti all’indirizzo di Giulia. Che effettivamente è odiosa, con quel sorrisetto ironico sulle labbra. Scelgo la

diplomazia ed invito la famiglia Berbaum a seguirmi fuori per chiarire le cose. Il Berbaum cerca di dire che Giulia è parte del problema, per il suo atteggiamento ed anche per qualcosa che ha detto. Taglio corto, dicendo che se hanno dei problemi ne devono parlare con me. Uscendo, le lancio un’occhiata, che ottiene solo un nuovo scoppio di risa. Forse non sono minaccioso come credo.

Misuro la club house a i. Ho cambiato gli stivali con le scarpe da tennis. Pantaloni da cavallo infilati nelle calze a vista. Un mio ex-fidanzato detestava che andassi in giro vestita così. Io vado tuttora al supermercato, in posta, in banca, ovunque, con questa tenuta. Ecco perché ex. In realtà, per quanto tremendo possa sembrare, tutti quelli che conosco l’adottano. Mica puoi tenere sempre addosso gli stivali. Sono immersa in riflessioni di questo genere quando Edoardo rientra. Si lascia cadere sul divano. Ha il viso stanco, me ne accorgo ora e mi pento di aver sollevato tutto questo polverone. Mi aspetto una ramanzina. Gentile, perché sono una cliente anch’io. Però li ho provocati, quindi me la merito. A sorpresa Alex interviene prima di tutti: «Sono insopportabili!» Mi sorride e sembra deciso a difendermi, qualunque cosa dirà suo fratello.

Mi sono preparato un discorsetto. Per quanto non corra buon sangue con i Berbaum, deve cercare di ignorarli e non provocarli. Per il quieto vivere. Non avrei calcato la mano, perché le responsabilità sono da ambo le parti. L’ho detto anche al Berbaum, fra le righe. La diplomazia, prima di tutto. Ma mio fratello interviene per primo. Lo osservo, mentre le sorride. Apro la bocca e la richiudo. Mio fratello si è preso una cotta per lei? Claudia lo sa? No, certo che non lo sa. Mi mancano le parole. Questa scoperta mi ha lasciato davvero sconcertato. Mi guardano tutti e tre in silenzio, aspettando il mio commento. «Sono davvero insopportabili» mi scappa detto e tutti ridono, mentre l’atmosfera si alleggerisce. Rido anch’io e mi sento meglio. Domani. Domani le parlo a tu per tu. Domani.

LUGLIO Episodio 10 – Our wicked lies is where we hope to keep safe from pain

Guardo sconsolata il mio cavallo. Non so come possa essere così sporco, visto che lo striglio disciplinatamente tutti i giorni. Peraltro la pulizia è un’operazione che detesta. Si gira per cercare di mordicchiarmi, agita la coda, tenta in tutti i modi di sottrarsi. Claudia chiude il mio bauletto delle spazzole e si accomoda. «Sono già arrivati i nostri amici?» le chiedo. «Sono di là con Edoardo.» «Lo invidio.» La mia amica cambia repentinamente argomento. Beh, non che i Berbaum meritino una conversazione lunga ed articolata. «Vuoi sapere il gossip del giorno?» Davanti alla mia espressione curiosa, Claudia fa un po’ la preziosa e poi spara: «Edo stanotte era con qualcuno» ci ripensa e precisa: «Qualcuna, ovvio!» Ho uno strano gusto amaro in bocca. Claudia mi dà nuovi dettagli: «Stamattina Alex è arrivato presto per scaricare il truciolo. Edoardo è ato in macchina verso le otto e non era solo» si stringe nelle spalle «ma non sa chi sia però, non l’ha riconosciuta.» Io do una serie di risposte giuste, simulo il giusto interesse ed anche il giusto apprezzamento per il gossip. Davvero. Solo, mi sento le braccia pesanti ed ho uno strano groppo in gola.

Se gli sguardi potessero uccidere, come si dice... ecco, io sarei lungo e disteso. Entra in campo, biascica “permesso”. Mi avvicino per aiutarla a montare, ma lei si allontana e dice piano: «Faccio da me.» E mi omaggia del primo sguardo assassino. Gli altri seguono il primo con regolare cadenza. Mi squilla il cellulare. Rispondo e dall’altra parte del campo intercetto un’occhiata maliziosa di Claudia verso di lei. Sta succedendo qualcosa. Giuli alza le spalle e solleva gli occhi al cielo. È Martina. Le dico che la richiamo e metto giù. Chiamo Giuli al centro. «Vieni un secondo ché voglio vedere una cosa.» Armeggio per qualche secondo con la redine gogue, lasciando tutto invariato. Dico piano a suo esclusivo beneficio: «Va tutto bene?» «Benissimo, tu? Dormito bene stanotte?» e si allontana senza darmi il tempo di replicare.

Stupida. Stupida. Stupida. Ad ogni tempo di trotto me lo ripeto. Ho fatto

un’osservazione cretina. Come se fossi gelosa. Ma gelosa di cosa, poi? Solo perché una volta, per sbaglio, ci siamo baciati? Stupida. Stupida. Stupida. «Giulia, ho detto di are sulle barriere in piedi!» Ecco, adesso mi urla anche dietro. In effetti però sono deconcentrata. Non ci pensare. Stupida. Ha la fidanzata. È il tuo istruttore. o. Cambio mano. Alex esce dalla scuderia e si siede su una delle sedie di plastica a bordo campo. Mi sorride. La genetica con i due fratelli ha toppato. Sembra proprio impossibile che abbiano qualcosa in comune.

Sorride a mio fratello. Uno di quei sorrisi che le illuminano il viso, le fanno splendere gli occhi. Oggi per qualche ignoto motivo ce l’ha con me. E mi chiede se ho dormito bene stanotte. Considero per un momento l’ipotesi che sia impazzita. Mio fratello le sorride ogni volta che gli a davanti. E sorride a Claudia. Credo che sia un po’ confuso, il ragazzo.

Donnaiolo. Cretino. Bugiardo. Cretino. Donnaiolo. Bugiardo. Falso. Falso. Spugno il mio cavallo per rinfrescarlo dopo la lezione e lo copro di insulti in silenzio. Edoardo. Non Valliant. D’altra parte se sembra così disposto a tradire la sua fidanzata con me, perché non con altre? Niente mi ha mai dato da pensare che io fossi, in qualche modo, unica per lui. Ma io l’ho pensato. Quindi lui è un emerito farabutto e io un’oca. Appoggio la fronte alla pancia di Valliant e lascio che i leggeri rumori della sua pancia mi confortino. Se fa rumore sta bene, se sta bene lui, sto bene anch’io. Mi deve are, me la devo far are.

Se ne va senza salutarmi. Senza guardarmi. Senza un cenno o una battuta. Niente. Si sofferma solo un secondo ad accarezzare il muso di Valliant e sento l’auto sulla stradina. Mio fratello mi guarda e mi chiede: «Tutto bene?» Rispondo evasivo: «Certo, perché?» Lui scrolla le spalle e si allontana. Non è esattamente un chiacchierone, il fratellino.

Episodio 11 – The space between...

Se non fossi convinto del contrario, penserei che questa specie di morsa allo stomaco sia gelosia. Invece suppongo che sia gastrite. Martina mi chiede cos’ho e rispondo evasivo. Poi le sorrido e le dico: «Ti prendo io la sella.» Mi dirigo in selleria, convincendomi che non mi sono offerto apposta solo con l’intenzione di are davanti al suo box. Dove lei in questo preciso istante sta riavvolgendo le fasce e ridendo con mio fratello. Al mio aggio ammutoliscono. Poi si guardano e ricominciano a ridere. Alex farfuglia qualcosa e Giuli: «Ti prego, basta, non ho più fiato!» Mi chiedo fino a che punto Claudia sappia di questa amicizia.

Quando rio, con la sella, di Alessandro non c’è traccia. Ho una serie di battute cattive da farle, ma o e rimango zitto. Lo sguardo che mi lancia infatti è triste e deluso ad un tempo. E mi sento in colpa. Per cosa, non so.

Alex va a vedere se Claudia ha bisogno di aiuto in campo, dove sta facendo lezione ai bambini sui ponetti. Mi lascia da sola in scuderia con i due. Sofferenza. Lui le porta la sella, la bacia. Mi allontano senza sellare. Non posso stare lì con i due piccioncini. Non posso per il senso di colpa, non posso per l’invidia, non posso nemmeno per il dolore che le attività extra di lui mi hanno procurato. Insomma una bella macedonia di confusione. Nei romanzi è tutto più semplice: lui ama lei, lei ama lui e vivono tutti felici e contenti. Le difficoltà sono malintesi e tutto si risolve sempre per il meglio. Ma soprattutto nei romanzi il bene trionfa sempre, mentre qui trionfa solo l’inganno e la menzogna. E nonostante inganno e menzogna & co. il mio stupido muscolo cardiaco quando sente la sua voce perde i battiti. Ho un cuore che non sa distinguere fra un Darcy e un qualunque, perfido Whickam. Entro in campo in ritardo, ma non mi fa osservazione. Non ne fa mai a nessuno, per la verità. Si limita ad inarcare un sopracciglio e a dire a voce bassa: «Ho stretto il sottopancia.» Non mi aiuta a salire, non mi rivolge altra parola per tutta la lezione. Solo alla fine, mi indirizza uno strano sorriso obliquo e, voltandomi le

spalle, dice: «Stanotte ho dormito benissimo e tu?» Non mi dà il tempo di rispondere, è già lontano. «Insomma tu e il Mascetti non vi parlate da... da quanti giorni esattamente?» Dodici giorni, penso. «Claudia, ti sta sgocciolando il gelato sulla maglietta.» Non si lascia distrarre per molto, però. Riprende: «Insomma quanti giorni? Beh, non che sia davvero importante. È già abbastanza strano così.» «Cosa è strano?» Mi guarda pensierosa e sospira: «Niente, niente... lascia stare. Mi provo il costume. Dimmi come mi sta.» Siamo reduci da una tornata di shopping prima delle vacanze. Fra pochi giorni vanno al mare. Loro. Io rimango a casa a lavorare. E a sentire la mancanza dei miei amici.

Claudia mi squadra per qualche minuto. Mi sento un po’ a disagio sotto il suo sguardo inquisitore, quindi chiedo: «Tutto bene?» Lei mi sorride, buon segno penso, ed osserva: «Quindi tu e Giuli avete litigato...» e lascia la frase in sospeso. «Te l’ha detto lei?» le sfugge un sorrisetto di trionfo e capisco di essere caduto nella sua trappola. «Non esattamente. È abbastanza chiaro però, non credi?» Se solo si immaginasse la realtà... o forse se la immagina. Forse si sono parlate. Forse lei le ha raccontato a grandi linee o con dettagli o... Prima che il panico mi travolga, lo sguardo fin troppo interessato della mia bionda interlocutrice mi svela la verità. Non sa proprio un bel niente e, non riuscendo a scucire nulla alla sua migliore amica, spera di riuscirci con me. Evito la trappola. Adotto la mia miglior tattica: rido e mi allontano. Lancio solo una frecciatina: «Non ti devi preoccupare. È solo un malinteso» e mentre lo dico spero tanto di aver ragione.

«Ho parlato con il Mascetti» «Di cosa?» Claudia fa un sorrisetto misterioso e fa per allontanarsi. Sono più svelta di lei, dovrebbe saperlo. Le agguanto un polso e ripeto: «Di cosa?» Sbuffa, come infastidita. «Del perché non vi parlate più!» Simulo indifferenza: «Ah, di quello» e mi volto. «Ha detto che è solo un malinteso. Vedete di fare pace, per favore. Non se ne può più di questa specie di guerra fredda.» Ha lo stesso tono di quando sgrida i bambini sui pony e senza volere mi scappa un risolino. «Non sto scherzando» mi intima. Sento i suoi i allontanarsi. Adesso che sono sola le risate mi muoiono in gola. Un malinteso. In che senso?

Parte due

Episodio 12 – Oh, babe, I hate to go

Guardo l’auto allontanarsi. Svoltano dietro il coperto. Mi giro e rientro in scuderia. Due settimane senza Claudia e Alex. Se la solitudine avesse un nome, sarebbe il mio. Anche Nana mi guarda spaesata: i suoi amici sono andati al mare. Si è seduta a guardarli mentre salivano in macchina, scodinzolando. Forse si aspettava un invito. Invece rimaniamo qui, io e lei. E Valliant. E il fedifrago muto. Senza fidanzata, perché anche lei è veleggiata verso altri, più freschi, lidi. Due settimane.

La scuderia è fresca, fuori l’afa è opprimente. Come il silenzio che regna in tutto il maneggio. Il box di Valliant è vuoto e di loro non c’è traccia. Mi guardo intorno, esco nell’aia, controllo nel maneggio coperto. Niente. Poi sento la sua voce: «Nana, non andare in acqua, vieni qui.» Trovata. Valliant è libero nel paddock, lei legge all’ombra con la cagnetta accoccolata contro. Ha i capelli raccolti sopra la testa, da cui sfuggono alcuni riccioli ribelli. Non alza la testa dal libro quando sente i miei i. Vorrei che lo fe. Lo vorrei tanto.

So che è lì, in piedi, a guardarmi. Lo so perché in tutto il maneggio ci siamo solo noi, quindi i i possono essere solo suoi. So anche che se alzo la testa, queste settimane di mutismo e risentimento si scioglieranno. Perché ci siamo solo noi, qui, e di certo non possiamo ignorarci per i prossimi quattordici giorni. Valliant spilucca l’erbetta all’ombra. Ogni quattro righe lette, controllo che sia tranquillo e sereno. Come se con questo caldo potesse aver voglia di correre o sgroppare. I i si allontanano e mi accorgo di aver trattenuto il respiro. Forse allora davvero ci ignoreremo per i prossimi quattordici giorni. Accarezzo Nana, controllo Valliant e riprendo a leggere.

Rientro in club house. Una lattina di tè alla pesca per lei, una al limone per me. È un’offerta di pace. A meno che non voglia tenermi il muso per i prossimi quattordici giorni. Mi avvicino piano e mi siedo accanto a lei nell’erba. Non alza

la testa, solo Nana mi scodinzola. Le allungo il tè. Non lo prende subito, mi guarda. Io glielo lascio scivolare sul libro, apro il mio e sorridendo dico: «Cin cin.» Apre il suo e risponde “cin”. Beve un sorso, poi appoggia la testa alla cavallerizza. Vorrei aggiungere qualcosa, ma il silenzio mi imbarazza.

Mi ha portato il tè. Alla pesca. L’unico che bevo. È fresco e veramente piacevole. Vorrei dire qualcosa, una cosa qualunque. Ma lui non parla ed io mi sento un po’ in imbarazzo. Mi volto a guardarlo. Lui sta guardando me. I nostri occhi si incontrano e sorridiamo spontaneamente.

Il suo sorriso mi coglie di sorpresa. Mi sarei aspettato una battuta pungente o forse delle recriminazioni. Al massimo un grazie in tono sostenuto. Invece il suo sorriso così dolce ed imprevisto mi disarma. E sorrido anch’io. Rimaniamo in silenzio, all’ombra. Forse perché non ci sono parole o forse perché ce ne sono troppe, ma in questo momento mi basta stare qui. Vicino a lei.

Erpica il campo con il trattore. Io ho ritirato Valliant, ho giocato un po’ con Nana. Quando a davanti a me, sorride. Non il suo sorriso obliquo da seduttore. Un sorriso intimo. Come un legame fra di noi che esclude gli altri. Intorno alle sei infatti sono arrivati i Berbaum al gran completo, subito dopo Natalie e poi alla spicciolata altri. Se non fosse per l’oretta ata in silenzio con Edoardo, mi sentirei terribilmente fuori posto. E per una volta, mi rendo conto sorpresa, non mi importa neanche delle occhiatacce che mi lancia il Berbaum.

Mi rifugio in club house davanti alla tivù. Troppa gente. Troppe chiacchiere inutili. Spero che se ne vadano tutti rapidamente, per chiudere la scuderia. Tutti, beh, non proprio. Spero che rimanga per ultima. È l’ultima, sempre. Nel mettere a posto il cavallo, le sue cose, nel mettere le fasce, nel dare le carote. Spero che lo sia anche stasera. Ma magari è già andata a casa.

Guarda un vecchio telefilm. Ad altissimo volume. Sono andati via tutti, uno dopo l’altro. Rimane solo il ragazzo di scuderia che sta innaffiando il corridoio di creolina. Per le zanzare. La puzza è insopportabile. Mi appoggio allo stipite della porta: «Io vado.» Scatta in piedi e dice: «Dove?» Rido: «Vado a casa, ci vediamo domani.»

«Aspetta, vengo di là con te.» Spengo la tivù, chiudo la club house, poi la segreteria. Mi volto e la vedo allineare le sedie di plastica sotto la grondaia. Attraversiamo la scuderia e lei dice piano: «Che puzza la creolina» e arriccia il naso. «Per questo tiene via le zanzare, no?» Che conversazione insulsa. È che siamo ancora un po’ impacciati, mi giustifico da solo. Si ferma davanti al suo box ed accarezza il muso del cavallo: «Fai il bravo, ci vediamo domani.» Voglio trattenerla. Non voglio che questo clima fra noi svanisca. Non voglio lasciarla andare. «Se mangiassimo un pizza qui al Laghetto?» mi scappa detto prima di averci riflettuto.

Episodio 13 – Dream about the days to come

Mi ha invitato a cena fuori. Una pizza. In effetti è ora di cena. Vorrei poter fraintendere questo gesto. Sarebbe più comodo. Mi volto, sorrido e dico: «Con la mia o con la tua?» e faccio tintinnare le chiavi dell’auto. È un gesto sconsiderato, urla una voce dentro di me. Assomiglia molto alla voce di Claudia per la verità. Ma decido di ignorarla.

Ero praticamente certo che sarebbe scappata a gambe levate. Magari avrebbe riso, o inventato una scusa. Oppure avrebbe assunto quell’aria seria che le viene a volte e avrebbe detto: «Non possiamo.» Un po’ stile Dinasty. Invece mi sorride, semplice, diretta. Mi sento emozionato e nervoso. Per questo guido in silenzio. L’abitacolo della Smart è spazioso, davvero, ma in questo momento mi sento soffocare. Per fortuna il tragitto è brevissimo.

Ci assegnano un tavolino proprio a ridosso della riva del laghetto. È una pozza artificiale, va bene, ma è circondato dagli alberi e spira una brezza leggerissima, davvero piacevole. Che tiene anche lontane le zanzare, per fortuna. Non abbiamo parlato nel tragitto in macchina. Ho avuto tempo per pentirmi di avere accettato almeno cinque volte in tre chilometri. Chissà se è da guinness. Ma adesso che siamo seduti di fronte, divisi dal tavolino e dalle ombre del tramonto, lui mi sorride. Mi sento euforica, come non mi succedeva da un po’.

Di cosa parliamo, se non di cavalli? Le racconto i miei trascorsi infantili, di come mio padre mi seguiva, ossessionante e totalizzante. Ma la faccio ridere con episodi divertenti. Le mie cadute, i personaggi strani che ho incontrato ai concorsi. Mi sento galvanizzato dall’interesse che le illumina gli occhi, dalle sue risate spontanee. È come se avessi sempre saputo che sarebbe stato così. Quando

guardo l’orologio, vedo che sono trascorse due ore. Sono volate, per la verità. «Prendiamo un limoncello?» propongo, solo per procrastinare il momento... di salutarci?

È stata una serata piacevolissima. Non l’avrei mai detto. La freddezza degli ultimi tempi sembra cancellata, proprio come se non fosse mai esistita. Beviamo un limoncello, poi un secondo. Il ristorante si sta svuotando rapidamente, fino a che non rimaniamo solo noi due. Il cameriere mi lancia un’occhiata inequivocabile. «Sarà meglio andare prima che ci caccino.» Però mi dispiace, penso. Vorrei stare qui tutta la notte. C’è uno spicchio di luna che si riverbera sull’acqua, il clima è fresco e se stiamo qui non può succedere altro, giusto?

Siamo quasi arrivati alla macchina. Ma è una serata così bella. Mi ribello al pensiero di separarci ora. Non so come finirà questa serata e mi impongo di non pensarci e di non crearmi aspettative. Propongo di fare due i in riva al lago e lei, nell’ombra, annuisce e mi precede. Siamo nuovamente in silenzio. Ma non c’è imbarazzo. L’atmosfera è distesa e intima. Allungo il o e la raggiungo. Camminiamo fianco a fianco, vicinissimi e lontanissimi nello stesso tempo. Tiene la testa un po’ chinata e una ciocca di capelli le accarezza la guancia. Vorrei scostargliela con dolcezza.

Claudia disapproverebbe, lo so. Veramente anche la me stessa di poche ore fa. Non so cosa sia cambiato in me. Eppure in questo momento non vorrei essere da un’altra parte, o con un’altra persona. Non mi interessa che sia sbagliato. O delle conseguenze. Del domani, del dopo. Questo istante mi basta, penso. Voglio viverlo, voglio ricordarmelo. Se è un errore, e probabilmente lo è (la voce di Claudia sale di tono nella mia testa), lo voglio commettere. Se soffrirò, togli pure il “se” commenta la voce, sarà il prezzo che pagherò per una serata indimenticabile, preziosa. Rara, anzi unica.

Incespica. Un rametto, una radice, non so. Con la mano si aggrappa al mio braccio. La sorreggo. Le distanze nel buio si accorciano. Non ci sono tattiche,

non ci sono riflessioni. È automatico. Come burattini tirati dai fili, me la ritrovo fra le braccia. I nostri volti sono ad un sospiro di distanza. Mi immagino di fare una battuta, “sta’ su” come dico ai miei allievi che vedo in difficoltà in sella. Ne rideremmo, si scosterebbe e questo attimo erebbe. Non tradirei Martina. Veramente non è mai stato un problema. Fino ad adesso. Ho collezionato avventure di una notte senza mai rifletterci. E fra tutti i momenti che avrei potuto scegliere per ascoltare la mia coscienza, questo mi sembra davvero il peggiore.

I secondi ano. Le sue braccia mi stringono, sento il suo respiro sulle mie labbra. Mi chiedo cosa succederà ora. Mi chiedo perché, ora che sono qui, lui esita. Mi sommerge un’ondata di delusione. Ero convinta. Convinta che tutta questa giornata fosse un preludio a qualcosa di più. Qualcosa che avrei accettato per quello che era. La follia di una notte d’estate. Ma lui esita. Non mi vuole. È stato, un’altra volta, solo un malinteso. Mi sento le braccia di piombo, mi scosto. Un o indietro e mi libero della sua stretta intorno alla mia vita. Vorrei correre via oppure scavarmi una fossa o annegare nel laghetto. Insomma, sparire. Velocemente. Senza lasciare traccia.

Ho perso l’attimo. Mi stramaledico. Abbassa la testa e mormora: «Andiamo a casa, è tardi.» Il tono grave, si allontana verso il parcheggio illuminato. Le afferro il polso, il polso con il braccialetto. La pelle all’interno è morbida e mi sento sommergere dal desiderio. Ci penserò domani, mi dico. Alle implicazioni, alle conseguenze, a qualunque cosa ci sia da pensare. Domani, mi ripeto. Lei si volta a guardarmi e tenta debolmente di liberare il braccio. Mi avvicino e poi la bacio.

I nostri corpi aderiscono l’uno all’altro, come se fossero disegnati per completarsi. Sento attraverso il tessuto leggero della maglietta il calore della sua pelle. Non c’è tenerezza nelle sue labbra. C’è una richiesta, una domanda che non si può lasciare senza risposta. Mi batte il cuore con violenza, nella testa, nelle gambe, in gola. Gli accarezzo i capelli, che scorrono sottili fra le mie dita. Mi lascio afferrare e trascinare lontano dalla ione.

È dolce, morbida, concreta. La stringo, la vorrei vicina, più vicina. Tempesto di baci il suo collo profumato di donna, i suoi capelli mi solleticano il viso. Riconquisto le sue labbra e il bacio diventa più profondo, mentre lei mi cinge il collo. Dopo un minuto, un’ora, due, non so, la lascio andare. L’aria fresca si intromette fra i nostri corpi ardenti. Lei barcolla come se il suo equilibrio fossi io. La prendo per mano, saliamo in macchina.

Mi sento frastornata, confusa. Non ci sono parole. Stiamo zitti nell’abitacolo. Abbasso il finestrino, il vento in faccia mi rinfresca, mi calma. Sbircio con la coda dell’occhio la sua espressione. Ha le labbra strette in una linea sottile e guarda fisso davanti a sé. Vorrei dirgli: «Ehi, sono tre chilometri! Fai questa strada tutti i giorni.» Ma la sua concentrazione mi intimidisce e poi so che non è affatto la strada a preoccuparlo. Per la verità, non so bene cosa sia.

Parcheggio, scendo. «Andiamo a vedere i cavalli.» L’ultimo giro per controllare che in scuderia vada tutto bene. Non accendo la luce, solo il cellulare per controllare dove mettiamo i piedi. La sua mano si infila nella mia e sorrido al buio. Spero che voglia rimanere qui stasera, ma non so come chiederglielo. Forse non voglio chiederglielo, voglio che lei lo desideri abbastanza da esporsi. La sua mano fresca nella mia è un cenno, però, penso. La stringo piano e lei ricambia la stretta. Non c’è bisogno di dire niente. Richiudo il portone alle nostre spalle e la bacio. Ogni due i fino alla cascina. Su ogni gradino. Poi travolto dal desiderio, me la carico sulle spalle e la deposito sul letto.

Episodio 14 – Hold me like you’ll never let me go

Un raggio di sole mi sveglia. Poi una lappatina, due. Apro gli occhi. Sono... sono... non sono a casa. Mi siedo di scatto sul letto: sono da Edoardo. Didi, la sua cagnetta, e Nana, la mia, mi fanno le feste del buongiorno. Ho addosso una tshirt. Chiaramente non mia. Mi sono addormentata. Ma che giorno è? Oddio devo andare al lavoro! Butto giù le gambe dal letto, poi mi ricordo che è sabato. La gigantografia di Martina mi guarda accusatoria. Ne ha ogni ragione. Spezzoni della nottata appena trascorsa mi fanno arrossire. E come richiamato dal mio pensiero, appare lui sulla porta con un «caffè?»

Sono le otto di sabato mattina. Ha le gambe lunghissime che spuntano dalla mia maglietta e i capelli arruffati le danno un’aria giovane ed indifesa. L’uomo di scuderia sta già pulendo i box dei cavalli. Mio papà arriverà tra un paio d’ore. Ha una lezione con i cavalli della scuola alle undici. Mi siedo accanto a lei e le o il caffè. Mi guarda dritto negli occhi e dice: «Non ne parliamo, per favore.» Mi fa un sorriso tremulo e poi alza gli occhi. La foto di Martina. Mi chino a baciarla teneramente sulle labbra. «Come vuoi» rispondo. Si alza e si veste in silenzio. «Cosa fai dopo?» cerco di imprimere nel mio tono una certa casualità, come se fosse una domanda qualunque.

Gli tendo la maglietta che mi ha prestato. Mi sono cambiata mentre lui rifaceva il letto. Ho recuperato i miei vestiti di ieri ovunque, per la verità. Imbarazzante. Lo è tutta questa situazione. Riordino le idee e rispondo alla sua domanda: «Non ho programmi, tranne una doccia e...» cancellare dalla mia faccia e dal mio corpo le tracce di stanotte? Mi sento di nuovo arrossire. Mi ha baciato, ma distaccato. Mi ha portato il caffè, ma, insomma, non capisco. La magia della notte è evaporata. Ecco cos’è. Ora torna tutto come prima. All’incirca. Io non mi sento come prima. «Allora io vado» e mi dirigo verso la porta con Nana che mi trotterella dietro. Mi trattiene per la mano, mi giro, mi bacia per un lunghissimo minuto: «Ci vediamo più tardi.» Il cuore mi precede rimbalzando giù dai gradini.

Ad ogni macchina che sento are sulla stradina mi affaccio. Spero sia lei. Invece prima arriva Natalie, con un lungo monologo su Tommi,sul perché non la chiama, sul perché non la invita fuori. Penso alla sera della grigliata e mi verrebbe da fare un commento cattivo. Poi rifletto che in realtà voglio solo liberarmi del suo chiacchiericcio, quindi mi dileguo con una scusa. Arrivano a ruota anche i Berbaum e altri proprietari. Quando mancano dieci minuti alla lezione ho perso la speranza di vederla. Il Berbaum mi mette all’angolo: quanto tempo ci vuole perché la figlia prenda il primo grado? Che ne so, dovrei rispondergli. Invece diplomaticamente imbastisco una risposta generica. Insiste e mi salva solo il rintocco della campana. «Mi scusi, devo fare lezione» ed esco dalla club house. È già in sella. Quando sia arrivata non lo so proprio. Ha i capelli raccolti sotto la nuca, trattenuti davanti da due mollettine.

Mi sorride. Mi sento arrossire. Non posso fare a meno di sorridergli a mia volta. Mi guardo intorno per vedere se ci sta guardando qualcuno, ma tutti i presenti sembrano indaffarati in altro. Mi fa cenno di avvicinarmi. Come gli sta bene la polo blu, penso. «Tutto bene?» «Io sì, tu?» «Non tornavi più. Tra Natalie e il Berbaum mi hanno tirato scemo.» Rido. eggio con le redini sul collo, mentre gli altri montano in sella. Ho ato la giornata a chiedermi come si sarebbe comportato con me. Pensavo con indifferenza, o con una gentilezza formale e distaccata. Monticchio. Fa troppo caldo per pretendere troppo. Dopo venti minuti, smonto e dissello. Poco dopo anche gli altri rientrano in scuderia. Mi guarda da lontano.

17 luglio 2007 – 19:10 Non guardarmi così, pls.

17 luglio 2007 – 19:11 Così come?

17 luglio 2007 – 19:12 Se mi guardi così mi sento nuda.

17 luglio 2007 – 19:13 Ti guardo così perché ti immagino nuda.

17 luglio 2007 – 19:20 Ma tutta sta gente non se ne va? Cacciali. Di’ che abbiamo da fare.

Mi sento euforica ed eccitata. Forse sorrido troppo. E parlo troppo. La mia vicina di box mi chiede: «Stai bene? Hai preso un colpo di sole?» Ok, devo darmi una calmata.

17 luglio 2007 – 19:24 Sono in club house. Vieni a chiamarmi quando se ne vanno, pls

Quando anche l’ultima auto lascia il parcheggio, smetto di fingere di avere qualcosa da fare. Esco dalla scuderia e sbam... ci scontriamo. Ridiamo. «Vuoi cenare?» mi chiede fra un bacio e l’altro. «Anche no» rispondo sfrontata. Il resto è da manuale.

Episodio 15 – So kiss me and smile for me

Montiamo insieme. Sono le otto e mezza di sabato mattina. Fa già caldo. eggio a redini lunghe e lo guardo galoppare. È perfetto. Ha le gambe ferme, le mani ferme, il busto fermo. Eppure il cavallo risponde con precisione ad ogni suo infinitesimale ed impercettibile comando.

Mentre galoppo, la mia mente si svuota. Ripenso al caffè che abbiamo bevuto insieme nel letto disfatto. Al suo sorriso mezzo addormentato. Sento il suo sguardo su di me ed alzo la testa.

Mi guarda e mi sorride. Gli rispondo con tutta l’ammirazione che provo. Mi sento privilegiata. Poterlo guardare montare e, per una volta, avere tutte le sue attenzioni per me. Galoppo anch’io. Il movimento di Valliant è rilassante. Quando gli o vicino, mi corregge. «Sii più morbida, non bloccare le mani in basso.» Mi sento un po’ speciale. Chiudo i pugni, stringo le gambe e fischio. Il galoppo si stempera in un trotto vivace. Annuisce e trotta anche lui.

«Andiamo fino al lago, Ju?» Mi segue, i piedi dei nostri cavalli sullo sterrato ci tengono compagnia. Non parliamo molto. Il piacere di stare insieme, per una volta senza temere di essere notati, regna sovrano. «Cosa fai oggi pomeriggio?» «Non so, non ci ho pensato» poi aggiunge: «Magari chiamo Alice, facciamo un po’ di shopping.» Non le chiedo se le ha parlato di questa cosa tra noi. So che non l’ha fatto. Non ne parla con me, figuriamoci con altri. «A che ora torni?» Abbiamo concordato che è meglio che non ci vedano proprio tutti i giorni insieme. «Non so, per che ora saranno via tutti secondo te?»

Torniamo verso casa. Disselliamo sotto il portico e poi laviamo insieme i cavalli, uno per volta. Giochiamo con l’acqua come se avessimo quindici anni. Arriva

suo papà mentre lui mi minaccia di una doccia completa, la canna da giardino puntata contro di me e la mano sul rubinetto. Rientriamo immediatamente nei ranghi. Stecco Valliant. L’acqua che un secondo fa era fresca, scende calda dal suo corpo sudato. Non mi sono mai sentita così felice.

Episodio 16 – Already I’m so lonesome I could die

Nessuno scrive la storia delle coppie felici. Non mi ricordo dove l’ho letto. Comunque un fondo di verità c’è. La felicità è appagante per chi la vive, forse. A dirla tutta, poi, noi non siamo nemmeno una coppia. Non nel vero senso del termine. Siamo clandestini, siamo naufraghi del tempo. Siamo una follia estiva. Che sta per finire. «Oggi scioperi?» mi chiede sorridendo. Istintivamente rispondo al suo sorriso, poi dico: «Ora mi alzo... Pensavo solo che è l’ultima mattina che ti vedo lottare con i calzini.» Si ferma a guardarmi con uno dei suddetti a mezz’aria. «Perché? Che giorno è?» «Domani tornano Alex e Claudia.» Si lascia cadere sul letto. «Di già?» Annuisco e rimango in silenzio.

Sono ate due settimane e non me ne sono accorto. Siamo stati insieme sempre: abbiamo mangiato, dormito, bevuto, riso e fatto l’amore. Soprattutto fatto l’amore. Con ione, con tenerezza. Tutta la notte o pochi minuti rubati per non essere scoperti. Giocando o con tremenda serietà, guardandoci dritto negli occhi. Insomma in quel modo particolare che ti lascia un segno dentro. Di certo però quello che non abbiamo fatto è stato parlare. Chiarirci sul ato e decidere come comportarci nel futuro. Da quando, quella primissima mattina, mi ha detto “non parliamone ti prego”, da allora non abbiamo mai avuto un momento chiarificatore. Mi sorge il sospetto che l’abbia fatto apposta.

Adesso mi fissa, serio. «Dovremmo parlare, no?» Ecco. Sta succedendo. Non voglio che succeda. Non ora, non dopo. Abbiamo vissuto una parentesi felice, abbiamo, con tutta la leggerezza del mondo, vissuto due settimane rubate alle nostre vite. Proprio perché non c’era ato e non c’era futuro. Proprio per questo la nostra felicità è stata completa, inarrivabile. Cosa c’è da dire? Perché guastare le nostre ultime ore insieme con delle parole, che non significano niente, che non cambieranno in nessun modo la realtà? Non è mio, lui, non lo sarà mai. E per dirla tutta, non so neanche se lo vorrei.

Insomma non voglio proprio pensarci. Se ci riflettessi, se tentassi di razionalizzare... No, non voglio perdere la testa.

Mi ruba di mano il calzino e ride. Poi mi bacia. Sulle labbra, poi sulla mascella, poi sul collo. Mi mordicchia l’orecchio. So cosa sta facendo.

Voglio distrarlo. Ma non solo. L’urgenza che sento ha a che fare con il mai più. Con la consapevolezza che domani mattina mi sveglierò nel mio letto. Da sola.

Me la trascino dietro e poi le rotolo sopra. Conosco il suo profumo e continua ad eccitarmi. So che dovrei impormi ed affrontare l’argomento. Ma la tentazione mi sorride e mi stuzzica e mi spoglia. E non so resisterle.

Il sabato è corso via. Quando le campane della chiesetta qui vicino hanno suonato le sei, mi è parso di non aver vissuto questa giornata. Almeno non come avrebbe meritato. È l’ultima settimana di luglio. Molti sono in vacanza e fra pochi minuti la scuderia sarà vuota. Andrò a cercare Edoardo in club house, ci saluteremo e tornerò a casa. Bleah, penso. Si addensano delle nuvole scure, un bel temporale estivo. Violento abbastanza, spero, da trascinare via tutto con sé. Un temporale purificatore.

Mi viene il sospetto che se ne vada senza salutarmi. È stata distratta e soprappensiero tutto il giorno. In scuderia ci sono solo i Berbaum. La trovo sotto il portico antistante il parcheggio. Guarda il cielo. Senza voltarsi dice: «Viene a piovere.» La raggiungo, la cingo da dietro e rimaniamo immobili a guardare il cielo diventare nero. I suoi capelli mi solleticano il naso. «Vado a vedere se i Berbaum hanno finito, così chiudiamo.» Annuisce in silenzio. Mi allontano, poi ci ripenso, torno indietro e la bacio. Voglio rassicurarla, in qualche modo.

Il suo bacio mi brucia ancora le labbra. In due settimane non siamo stati mai così imprudenti. Potevano vederci. Ma poi me ne dimentico, mentre la malinconia della serata influisce sul mio umore. O viceversa. Si fa strada in me la consapevolezza che farei meglio ad andarmene ora, per non salutarci. Per evitare la drammaticità di una sorta di addio. Solo che il desiderio di sentirlo ancora mio, per l’ultima volta, mi fa esitare. È infantile, lo so. Da domani volto pagina, mi riprometto. Da domani.

Guardo la televisione senza vederla. Faccio una lista delle possibilità. Potrei lasciare Martina e mettermi con lei. Non che me l’abbia chiesto o che abbia accennato a questa possibilità. Però potrei farlo. Per onestà verso Martina, no? E questo, ne sono certo, segnerebbe la fine della mia carriera di libertino. Il pensiero non mi spaventa come dovrebbe. O come mi aspettavo che mi avrebbe spaventato. Mi sento confuso. Quello che davvero mi lascia stupefatto è la sua totale rassegnazione. Ha già sentenziato, implicitamente, che fra noi è finita. Due settimane fa, le avrei anche dato ragione. Ma adesso... non sono più sicuro di niente.

Episodio 17 – I hate to wake you up to say goodbye

Mi sveglio di soprassalto. Il letto è vuoto. Mi ricordo, come un sogno, lei che si china, mi bacia piano e sussurra: «A domani.» Guardo l’ora sul display del cellulare. Sono le tre del mattino.

Quando ho sentito il suo respiro farsi pesante e regolare, mi sono alzata e rivestita. Ho aperto la porta, poi, come un ripensamento, sono tornata indietro e l’ho salutato. Dormiva profondamente. Mancava poco che iniziasse a russare. Il pensiero mi ha fatto sorridere, poi mi è montato il magone in gola.

31 luglio 2007 – 03:03 Scappata?

31 luglio 2007 – 03:05 Russi, lo sai? A domani

31 luglio 2007 – 03:06 Non mi sembra che ti abbia dato fastidio prima

31 luglio 2007 – 03:07 Sicuro? ’notte!

AGOSTO Episodio 18 – All my bags are packed, I’m ready to go

Ora che sono tornati non so proprio come abbia fatto a resistere senza. Claudia ed io siamo tornate inseparabili. Mi racconta del mare, le racconto del gossip di qui. Natalie mollata da Tommi, la presenza asfissiante dei Berbaum. Parliamo di cavalli, di cani. Beviamo litri di tè alla pesca. Alex dormicchia sul divano in club house. Nana gioca nel fosso con i suoi amici ritrovati. Di Edoardo neanche l’ombra. Come se mi avesse letto nel pensiero, e spero davvero che non sia così, Claudia osserva: «Il mio cognatino si è visto stamattina, ci ha salutato... Sembra in forma. Com’è andata? Avete fatto pace?» Mi allaccio una scarpa, o almeno fingo di farlo. Spero che il mio tono sia sufficientemente casuale, mentre dico: «Pace? Beh, tutto tranquillo, nella norma.» «Già. Mi immagino che traffico... Con Martina via tutto il mese, il Mascetti si sarà dato alla pazza gioia.» Non vorrei, e non dovrebbe essere così, ma questa osservazione mi ferisce. Cambio argomento, rapidamente.

Le guardo da lontano. Non potrebbero essere più diverse. L’una bionda, bassa, rotondetta, l’altra mora, snella, slanciata. Si riavvia una ciocca di capelli dal viso, il braccialetto al polso scintilla incontrando un raggio di sole. Sento una fitta di desiderio. Mi avvicino, accendendo una sigaretta. «Allora, si taglia e si cuce?» Alzano le teste di scatto, Claudia sorride, Ju arrossisce lievemente ed evita i miei occhi. Me l’aspettavo. La conversazione in mia presenza langue, quindi mi allontano verso la club house. Poi mi viene in mente una cosa: «Giulia quando parti?» «Dopodomani.» Tutti al mare. Dovrei andare da Martina qualche giorno, io. Ci sto ancora pensando.

Rifaccio le fasce a Valliant. Siamo rimasti solo noi. Alex e Claudia non so dove siano, Edoardo a casa a dare da mangiare a Didi. Ancora ieri sera sono stata io a darle da mangiare. A lei e a Nana. Magari meglio non pensarci. I Berbaum sono appena andati via. Molto di corsa, stasera, rispetto al solito. i. «Che brutto carattere oggi» mi dice. «In che senso?» «Non mi guardi, non mi parli.» Mi

toglie di mano la fascia e mi bacia, a lungo. Rimaniamo senza fiato a guardarci, in box. Mi viene in mente una sola parola: struggente. Mi sento così cretina. Così debole nei suoi confronti. Si appoggia alla parete, apre le braccia. Mi avvicino e mi lascio avvolgere dall’abbraccio più dolce e consolante del mondo. Perché non può essere sempre così facile?

L’estate dovrebbe durare per sempre. La stringo forte. Valliant si avvicina un po’ e Ju ride pianissimo, contro di me. Questo momento è unico: «Ascolta. Domani vado al mare. Da Martina.» Lotta un po’ per divincolarsi. «Adesso ascoltami per favore» insisto e rafforzo la stretta. Si arrende e nasconde la faccia nell’incavo del mio collo. «Tu poi parti. Quando torni, le cose in qualche modo si aggiusteranno, ok? Risolveremo tutto, insieme. In qualche modo. Ok?» Lei annuisce e mi dà un morsetto leggero sul lobo dell’orecchio.

Le voci di Claudia e Alex in avvicinamento. Edo si china e mi dà un ultimo bacio, esce dal box e dice ad alta voce: «Allora buone vacanze!» e mi fa l’occhiolino. Abbasso gli occhi, mi bruciano. Deve essermi entrato un moscerino o forse della polvere. Ma chi voglio prendere in giro?

Episodio 19 – I don’t know when I’ll be back again

Sono state due settimane di totale relax. Questo non significa che mi senta pronta ad affrontare qualunque cosa mi aspetti qui. Guido piano, una mano sul volante e una fuori dal finestrino. La sensazione nel ripercorrere questa strada credo sia simile all’emozione di chi torna a casa, dopo un lungo viaggio. Tipo Ulisse. In fondo, neanche io so bene cosa aspettarmi. Magari i Proci. Anzi no, i Berbaum. Ed Edo, ovvio. Dopo la promessa che tutto si sarebbe aggiustato, non ho più avuto sue notizie. Niente messaggi, niente telefonate. Veramente poco anche da Claudia. Solo brevi comunicazioni su come sta Valliant, su come stanno Alex e i cani, ovviamente. Pare che non sia successo niente di interessante. Veramente niente di niente. Forse perché non c’era nessuno. Mentre altre mille domande mi si affollano nel cervello, raggiungo la stradina sterrata, svolto e parcheggio. Stringo i pugni sul volante e prendo un bel respiro. Apro la portiera, scendo e Nana mi segue a ruota. Poi corre via come un razzo.

Oggi torna. Mi do un’altra occhiata nello specchio. Polo blu, jeans, capelli corti, abbronzato. Annuisco soddisfatto. Scendo le scale, esco nell’aia. Di chi sono quei due chilometri di gambe perfettamente abbronzate che sbucano da un paio di shorts chiari? Mi cade il cellulare con un tonfo secco. La gentile proprietaria delle gambe si gira. Rimaniamo a guardarci per alcuni secondi, o minuti o non so, finché uno strillo dalla scuderia ci richiama all’ordine. Claudia si catapulta fuori dalla scuderia a salutare la sua amica. Nella confusione che segue mi avvicino. I nostri occhi si incontrano e l’espressione guardinga che contraddistingue i suoi mi colpisce.

Devo difendermi. Ecco cosa penso. Non sono immune all’attrazione che c’è ancora tra noi, ma devo resistere. Con questa consapevolezza, non sfuggo il suo sguardo, ma lo sostengo. L’estate è finita, penso. Si ritorna alla routine quotidiana. Certo sarebbe più facile se non fosse così carino con la polo blu. Entro in scuderia, con una Claudia cicaleggiante al seguito e una scorta di mele e carote da far invidia ad un fruttivendolo. Valliant nitrisce, riconoscendo il mio o. Ecco, penso, sono tornata a casa.

I miei occhi sembrano dotati di vita propria. La cercano ogni minuto. Non rimane mai sola un attimo? Dobbiamo parlare. Le devo parlare. Mi avvicino al gruppo riunito sotto il portico.

Siamo separati da cinque i e dagli sguardi di dieci persone. Il Berbaum parla e gesticola, come suo solito. La moglie, al fianco, annuisce. Eccomi di nuovo qui. Si ricomincia.

Claudia è entusiasta. Nessuno potrebbe dubitare della sincerità della loro amicizia. Il Berbaum parla di spiagge e lei interviene, il sorriso nella voce, negli occhi: «Giuli, come sono le spiagge in Calabria?» Mi lancia uno sguardo, come a verificare che io sia lì. Poi arrossisce e mi sembra dolce e tenera.

Mi sento arrossire perché tutti mi guardano, perché lui mi guarda fisso. Così balbetto solo: «La Calabria è bellissima. Per chi ama il mare. E visto che il mare è la mia ione...»

Lo sguardo che le lancia il Berbaum è maligno, penso. Ma mi viene da ridere. Perché dovrebbe? Proprio in quell’istante, l’uomo esclama: «Allora è stata proprio un’estate di ione! Prima qui con l’istruttore e poi al mare.»

Se qualcuno mi avesse detto che sarebbe andata così... beh sarei rimasta al mare. Ho gli occhi di tutti puntati addosso. Sconvolti, stupiti, inorriditi... feriti. Lo sguardo di Claudia è lo sguardo di chi si sente tradito nel più profondo. Il disastro che si è appena abbattuto su di me mi lascia frastornata. Cerco i suoi occhi.

È impallidita sotto l’abbronzatura. Rimaniamo a fissarci per lunghissimi secondi, mentre il silenzio intorno diventa ogni secondo più freddo ed accusatorio. «Ho detto forse qualcosa che non dovevo?» il tono del Berbaum non potrebbe essere più sarcastico. Domino la rabbia. Perché so di non avere altra scelta.

Faccio un ettino indietro. Vorrei proprio scappare. Davanti a tutti. Ha detto davanti a tutti... È maligno. Lo abbiamo sempre saputo. La situazione diventa più imbarazzante ogni secondo che a. Nessuno osa dire niente, nessuno osa muoversi. Con mio grande disappunto, la rabbia si trasforma in lacrime nella mia gola.

«Non credo che la riguardi» sento la mia voce come se arrivasse da lontanissimo. Mi guardo intorno, guardo tutti, come a sfidarli a dire solo un’altra parola. Se ne vanno, uno dopo l’altro. Rimaniamo solo noi due e Claudia, che con tono di disprezzo, dice prima di allontanarsi: «Non ci posso credere.»

La delusione della mia amica mi colpisce come un pugno in faccia. Più di ogni altra cosa. Vorrei correrle dietro. Vorrei spiegarle. Ma non riesco a muovere un singolo o. Mi sento... sconfitta. Pensavo di arla liscia. Guardo Edoardo negli occhi. «Che pasticcio» commenta lui. Fa un o verso di me. E io due indietro. «Dobbiamo smentire, dobbiamo... non so...» «Non diremo niente, andremo avanti.»

Sbarra gli occhi e mi guarda come se fossi impazzito. Mi viene da ridere. Ok, non sarà piacevole. O facile. Ma prima o poi le cose si calmeranno, le persone si dimenticheranno dell’infelice uscita del Berbaum, accadrà qualcosa di nuovo che catalizzerà l’attenzione del maneggio.

«Cosa dirai a Martina? Che il Berbaum ha le visioni? Che l’espressione l’estate di ione che avete vissuto è un modo di dire?» sento la mia voce diventare stridula e me ne vergogno. Lui fa spallucce e dice: «Avrei preferito anch’io che le cose andassero in modo diverso, ma non è così.» Oddio, è pazzo. «Ju, non importa.» Sento le lacrime bussare ai miei occhi: «A me importa! Mi importa di cosa pensa Claudia o di cosa pensa Alex di me. Mi importa di quanto soffrirà Martina. Mi importa che non sarà più tutto come prima!» prendo fiato «E NON CHIAMARMI PIÙ COSÌ» termino, stridula e senza fiato. «Stiamo dando spettacolo, più di quanto non ne abbiamo già dato.» Non posso non dargli ragione. Gli volto le spalle e mi allontano. Mi segue: «Ascoltami. Non è così grave.» «No, figurati. Con che faccia vado in giro? Persino la mia migliore amica non vuole più vedermi.»

Sento il suo sconforto e vorrei abbracciarla. Capisco però che non è esattamente il caso. Non c’è nessuno in giro, ma certamente qualcuno ci sta osservando, ascoltando. «Claudia capirà» appoggio una mano sulla sua spalla, ma si scosta. «Cosa capirà?» «Capirà che ci siamo innamorati, che vogliamo stare insieme...» Si volta di scatto e mi guarda dritto negli occhi: «Ma tu sei fuori di testa! Io non voglio stare con te! Pensi che ti chiamiamo conte Mascetti per niente?»

La sua espressione allibita deve certamente fare il paio con la mia. Ci squadriamo in silenzio, come se ad un tratto all’altro fosse spuntata una seconda testa. «Cosa vuoi dire?» Il suo tono è gelido. «Edo, collezioni avventure. Forse Martina non sa, ma io saprei. Hai tradito lei con me. E non solo... c’è la ragazza del truciolo e... tradiresti me come tradisci lei. Io non...» mi muore la voce in gola. «Cos’è esattamente la ragazza del truciolo?» «Alex ti ha visto riaccompagnare una ragazza, una mattina...» Avevo cancellato quell’episodio, ma ora mi torna in mente. Mi sento stupida. Più che stupida. Penosa. Riprendo: «Comunque non importa, non è quello... Se non fosse per il Berbaum, la nostra storia a questo punto sarebbe...»

«Ho lasciato Martina» interrompo il suo fiume di parole. «L’ho lasciata quando l’ho raggiunta al mare. Perché voglio stare con te. Perché speravo che dopo un

periodo ragionevole, noi...» Vorrei fotografare la sua espressione incredula. «Evidentemente è stato un malinteso.» Mi volto. Me ne vado. Penso alla ragazza del truciolo. Penso ai malintesi, alle cattiverie, alle voci. A tutte queste cose che ci hanno diviso. Ai dubbi che ho avuto e che ho superato. Per cosa? Per niente.

Sola. Ho ferito tutti. Ho ferito la mia amica non confessandole di Edoardo. Ho ferito Edoardo, negandogli la possibilità di spiegarmi. Vorrei prendere a calci il Berbaum. Vorrei prendere a calci me stessa. La vendetta del Berbaum però ha avuto effetto. Ora sono davvero sola. Nana mi corre incontro e mi fa le feste.

Episodio 20 – Tell me that you’ll wait for me

Ci ho riflettuto. Per ore. Prima piangendo. Poi seriamente. Ho preso la mia decisione. Calcolo i tempi con precisione. Sono le sette e mezza. Sono tutti in capo per la lezione. Parcheggio la macchina dietro al coperto. Mi impongo di stare calma. Mi sono preparata a questo momento per ore. E non mi importa di cosa accadrà o di cosa penseranno di me.

Pensavo che venisse a montare. Invece no. È rimasta a casa, nascosta. Per lei conta più il pensiero della gente. E non le importa di me, è chiaro.

Claudia mi vede per prima, ma volta ostentatamente il viso dall’altra parte. Il Berbaum mi indica alla moglie e colgo un ghigno. Stupido omuncolo. Quando Edoardo mi vede, mi fissa per un secondo. Neanche un sorriso. Cosa mi aspettavo?

Alla fine è venuta. Rimane lì ferma, impalata. A guardarmi. Non potrei ignorarla neanche se lo volessi. Ma vederla mi fa stranamente male.

«Ho combinato un pasticcio» non sembra neanche la mia voce, ma continuo. «Pensavo di poter fare e disfare a mio piacere, senza tenere conto delle conseguenze. Mi dispiace.» Edo mi guarda, ma da lontano la sua espressione è indecifrabile. Claudia mi volta le spalle. Non posso fermarmi ora: «Ho sbagliato. Ho sbagliato quando non mi sono fidata abbastanza della mia migliore amica da raccontarle quello che stava succedendo. Se posso dire una cosa a mia discolpa, ero confusa, imbarazzata. Ho sbagliato facendo lo struzzo e non dando il giusto peso a quello che stava succedendo.» Claudia non mi guarda ancora. Insisto: «Davvero, Claudia. Mi dispiace. All’inizio non era niente, poi siete partiti per il mare. Io, noi... La situazione non era chiara neanche a me. Avrei dovuto dirtelo.

Tu sapevi che c’era qualcosa e avrei dovuto confidarmi, ma non volevo credere che ci fosse davvero...»

Si sta umiliando. Davanti a tutti. Faccio un o verso di lei, per fermarla. Non è necessario che vada avanti.

«No, ti prego. Lasciami finire. Io non ho avuto nemmeno fiducia in te. Ti ho usato. Non ho pensato ai tuoi sentimenti. Credevo che tu ti divertissi con me. Non ho voluto ammettere che mi stavo innamorando. Non volevo ammetterlo per non soffrire.» Prendo fiato. Il cuore mi rimbomba nelle orecchie. Il Berbaum ridacchia. Nessun’altra reazione. Mi impongo di finire. «So che le cose non torneranno come prima. E non so neanche se potrete perdonarmi. Però lo spero. Non stasera, magari. Fra un po’.» Mi volto per andarmene. «Giuli.» Si volta al suono della voce di Claudia. Per un minuto buono, si fissano. Poi mi ritrovo in un secondo le redini della cavalla in mano, mentre le due si abbracciano. È come se qualcuno avesse tirato una tenda e il sole finalmente fosse riapparso. Mi guardo intorno. Tutti sorridono. Tranne il Berbaum. Ma non mi importa. Esco dal campo, sempre con la cavalla al seguito. Vedo l’uomo di scuderia, anche lui richiamato dalla strana situazione. Gli lascio la cavalla. Ho una cosa da fare. Davanti a tutti.

L’autore

Giulia Meli è nata nel 1981 a Milano. Ha pubblicato “Oltre l’ostacolo” (Las Vegas edizioni, 2008) e “Lontano da qui” (Las Vegas edizioni, 2009).

Della stessa autrice abbiamo pubblicato

Lontano da qui

Collana: i jackpot Pagine: 134 Isbn: 978-88-95744-11-7 (Cartaceo) 978-88-95744-88-9 (Ebook)

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La vita di Ale si consuma in una pace fatta di raggi di sole che si insinuano presto la mattina all’interno dell’eremo in cui si è barricata. Una vita dedicata alle cure e all’amore quotidiano verso i suoi fidati cani e i suoi beneamati cavalli. Ma il ato irrompe nella quiete e ritorna sotto forma di Elena, l’amica lontana, riportandola ad affrontare tutti i suoi fantasmi. Che cosa l’ha portata realmente a lasciare un lavoro promettente a Milano e a rinchiudersi in un casolare abbandonato? A evitare ogni contatto umano e rifiutare amore e amicizia? Ale si trova suo malgrado costretta a ricomporre la sua vita pezzo dopo pezzo e a rivelare a se stessa ogni segreto che con il tempo era riuscita a sotterrare lontano da qui.

Lettera dell’editore

Caro lettore, intanto grazie per essere giunto fin qui. Spero davvero che tu abbia apprezzato questo libro e che ti abbia lasciato qualcosa, se l’hai già letto, o che lo apprezzerai. Sappi che il nostro lavoro è proprio questo: cercare belle storie, raccontate da persone dotate di una voce riconoscibile, che sappiano regalarti un momento di svago, generino qualche pensiero nuovo, suscitino un’emozione. Se poi riusciamo con le nostre storie a fare tutte e tre le cose insieme allora abbiamo vinto il jackpot. Però, sai, si sceglie una storia come si scelgono gli amici: dipende tutto dal carattere e dai gusti, quindi vorremmo raccontarti qualcosa di noi. Las Vegas edizioni è un nome strano per una casa editrice, vero? Andrea Malabaila, il fondatore, ha voluto chiamarla così perché Las Vegas evoca peccato, gioco d’azzardo e luci al neon, tutte cose che c’entrano poco con i libri. Ma è anche il posto in cui tutto è possibile e i sogni possono diventare realtà. Crediamo che uno dei compiti di un editore sia quello di avvicinare la gente ai libri, non di allontanarla facendole credere di non essere all’altezza. Tolleriamo tutto, ma non le torri d’avorio. Las Vegas edizioni nasce nel 2007 e nel 2008 escono i primi tre titoli: Viva Las Vegas un’antologia a cura di Andrea Malabaila, Saxophone Street Blues di Hector Luis Belial e Il diario dei sogni di Marco Candida. Nel nostro catalogo ci sono 30 titoli e tre collane: I Jackpot, dedicata alla narrativa non di genere. Las Cerezitas, dedicata ai ragazzi dai 13 ai 19 anni. I Jolly, dedicata a testi a metà tra narrativa e varia.

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