Titolo | Nuvole di cristallo
Autore | Siragi
ISBN | 9788891193711
Prima edizione digitale: 2015
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Prologo
Il 10 luglio 1943, sedici bombardieri angloamericani si fecero largo per i cieli siciliani, distruggendo le più importanti vie di comunicazione: ponti, linee ferrate, creando il Caos, destabilizzando le forze degli invasori. La guerra, in quel tempo, cammina sull’incerto. Rimasto orfano, Giò con il fratellino ancora in fasce andarono ad abitare insieme agli anziani nonni, in una cadente proprietà di un piccolo paese dell’Agrigentino. Considerati i parenti poveri, la loro vita era scandita da un destino immutabile di miseria, finché un giorno, con l’aiuto di un lontano parente, il giovane trova il coraggio e si ribella alla propria condizione, cercando di evadere da quel misero paesello, ma………
- Marcinelle 1956 -
La coscienza riflette su ognuno di noi come le cose semplici che ci girano intorno e che, spesso, non riusciamo a cogliere; chiudere gli occhi, negando di vedere cosa fosse realmente successo non placa certo il dolore, ma ci rende protagonisti di avvenimenti che ci spingono a fare parte di uno strano e crudele gioco del destino.
Marcinelle, simbolo di vite perdute e di drammi che determinarono il futuro di tante famiglie, ora, occasione di memoria e di impegno, affinché il Governo si mobiliti a far espatriare meno gente alla ricerca di un lavoro.
Capitolo Primo
Nuvole di Cristallo
Sicilia – 10 luglio 1943.
Al color di un tramonto , gli orizzonti infiniti mutano e segnano limiti negli spazi immensi, tuttavia, una leggera brezza avvolge il circondario in un velo impenetrabile e le nubi, timidamente, lasciano spazio all’azzurro del cielo che lascia filtrare con dolcezza gli ultimi raggi dorati. Ora, finalmente, s’intravede il paesaggio che si veste con i colori del sole e piccole ombre sembrano smarrirsi nella luce accendendo l’aria di una dolce e piacevole musica. Uno strano fischio, che infonde calma, regola i suoni nello spazio indefinito, sprigionando, d’un tratto, un sottile boato. Gli aerei, non più come melodia, ma come stormi di uccelli infuriano e si lanciano negli spazi di terra, spingendosi nei viali lunghi e contorti, sino a raggiungere le case, facendo brillare le bombe.
Dodici anni dopo - 1955.
L’aurora rischiara il cielo attraverso gli anni, sino ai giorni ma gli occhi sbarrati del giovane ragazzo sono ancora fissi sul soffitto della piccola stanza e le mani tremanti, stringono con forza la coperta che sembra muoversi.
Giò, ora quindicenne, porta dentro la tragedia dei genitori: nel buio della notte, vennero avvolti dalla nebbia gelida e dalle pareti frantumate dalle scosse,
tuttavia, la sofferenza del giovane trova pace in un vento d’autunno che spira leggiadro e l’impressione che la luce riflessa sulla superficie della stanza aleggi come un dipinto dai colori scuri e disparati che pur abbracciando vie diverse, fuggono dinanzi alla tempesta della memoria. Ora, il martellio della pioggia che batte sui tetti, segna il giorno senza sole che malinconico racchiude il segreto del tempo e rievoca scenari aspri e desolati dove il richiamo alla ragione legittima ogni ragion di stato. Alla mente del giovane ragazzo, pensieri veloci affiorano lontani; vive l’incubo di terribili momenti di guerra. La piccola casetta diventa bersaglio e viene distrutta dalle bombe in un fascio di particelle che sprigionano e si disperdono nell’aria in uno strano movimento tellurico, scaraventando il piccolo Giò fuori dalla culla. Ora, notte dopo notte, egli si vede dentro la tragedia; dentro la vita terrena, arida, scomposta in minutissimi frammenti che solleva inquietudine e annebbia chi resta sconfitto. Occhi di chi guarda il moto dell’animo, improvviso e violento, che si infiamma nello smodato desiderio dell’ira più funesta; occhi che guardano alle proprie mani con il coraggio del cuore che non vacilla, ma conduce alla disperazione che si manifesta a chi sente il grido di chi muore. La voce singhiozza, rotta dal pianto delle lacrime che solcano il viso con la violenza di un fiume in piena e al grido di dolore, il piccolo muove carponi trascinandosi tra le macerie dei muri frantumati, nella disperata ricerca dei genitori. - Giò…Giò……. Fai in fretta -.
Se la coscienza umana solleva lo spirito in ogni azione, ogni lacrima sembra l’espiazione di ogni colpa; riconoscere la vita in un piccolo respiro, accende la speranza trafitta da una strana luce nera. Giò segue il sottile lamento e l’alternarsi di emozioni attraversa il corpicino di una tremenda sensazione che accompagna il cammino di una lacrima in ogni piccolo movimento. Piange e si dispera; dolorante il piccolo Giò striscia tra le macerie, attraverso mura frantumate giunge finalmente alla madre.
- Non piangere figlio mio …. Non avere paura, abbracciami . -.
Accecato dai sentimenti, il piccolo sembra smarrito nel delirio più funesto. Ora le prende la mano, non più leggiadra; ora, come dono d’amore la stringe forte e
l’avvicina alle labbra per sentirne il calore mentre le piccole dita carezzano il viso, e pensieri sussurrano e conservano segreti e ricordi nelle pagine sfoglie che s’intrecciano nel sospiro della madre; ultime parole, impresse per sempre.
Svegliarsi nell’ora più dolce;
brucia nell’abbandono l’assurdo male d’ineffabili intrecci; solerzia nell’aria,
accompagna parole di vita e l’animo lacerato sfugge; raggiro non trova l’inganno.
Come un fiore che schiude velato da un’ombra di tristezza, il bimbo gira lo sguardo. Egli si guarda intorno e scoppia nel pianto; vede il padre che giace immobile e la quiete del tempo e delle parole si fonde con il volto dimesso che fissa il nulla, mentre la morte sorride del regalo più bello. Albori del nuovo giorno, immutabile dalla volontà umana annuncia ora il buio della vita, e il corso degli eventi soffia come vento arrabbiato che non ha direzione ma stravolge l’animo di Giò, il quale non è ancora pronto ad accettare l’ineluttabile. Il piccolo si avvicina al padre e lo scuote disperatamente; cerca in lui una carezza, una parola ma, in quel momento è difficile dare un senso alle cose normali, dopo aver perso chi si ama. Squarci di case tratteggiano movimenti di un’oscura realtà e il cuore amareggiato illude il destino che ha in serbo la sorte di chi cerca di dare un senso alla vita, mentre i giorni della guerra scivolano lenti, nelle mattine annebbiate dai fumi dei focolai che accendono la commozione che si manifesta attraverso il dolore d’incredibili scenari e, il ricordo, si sposta attraverso moltitudine di genti che vaga nella quiete silenziosa segnando il limite della vita.
La guerra, in quel tempo, cammina sull’incerto, come il o stanco dei soldati; come lo sguardo triste delle madri e gli occhi calati da un velo di tristezza dei padri, nello scorrere di un tragitto effimero che finisce nel nulla. Giò ricorda il
suono cupo delle campane che scandisce sensazioni particolari e vibranti, nella resa del lento o che sembra dare equilibrio alla vita stessa. Ora si stringe ai nonni, cercando di lenire il dolore nell’accompagnare i feretri per l’ultimo viaggio.
- Gli Americani….Comu ficiru a sbagliari? -.
“Tutto viene ordito in maniera così perfetta, che la verità sfugge.
Nel luglio del 1943 Benito Mussolini fu destituito dal re e fatto arrestare. Subito dopo, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, invita il popolo italiano alla resa incondizionata.Le truppe alleate, angloamericane, erano sbarcate pochi giorni prima in Sicilia, e terminarono con la resa tedesca nel 1945
ma nel frattempo, l’Italia fu occupata dalle armate naziste. Liberato dai tedeschi, Mussolini fondò la Repubblica di Salò, e sebbene tentasse di rilanciare un’autonoma proposta politica, riprendendo i toni sociali e repubblicani tipici delle origini del fascismo, nei fatti, fu solamente uno strumento al servizio dell’occupazione tedesca. Il 10 luglio 1943, sedici bombardieri angloamericani si fecero largo per i cieli siciliani, distruggendo le più importanti vie di comunicazione: ponti, linee ferrate, creando il Caos, destabilizzando le forze degli invasori -. Tuttavia un avvenimento tragico sfugge ogni epilogo.
Notte allieta il fragore di bombe amiche; voci e sogni di gloria nell’alito di vento dissolve piccole case contadine con l’amaro del cuore. La resistenza armata al nazifascismo fu animata da questo tragico fatto e si organizzò dopo l’armistizio di Cassabile, in provincia di Siracusa, il 3 settembre 1943 e tuttavia, la guerra sarebbe durata ancora due anni. Il 25 aprile 1945 Sandro Pertini, capo del Partito Socialista clandestino, più volte arrestato e condannato per attività antifasciste, legge il C.N.L. (Proclama del Comitato di Liberazione Nazionale) invitando
cittadini e lavoratori italiani allo sciopero generale contro l’occupazione tedesca”.
Il mormorio delle genti per l’estremo onore argina per qualche fugace momento il dolore: ognuno racconta il proprio fardello della vita. Nella cerimonia di sepoltura, il fratellino Piero non sembra smarrito, sorride di tanto in tanto, per grazia divina, la sera del bombardamento non stava in sé dalla gioia; non sapeva trattenerla perché era in cascina, coccolato dai nonni, ora, questo fatto, assume diversi significati e il concetto contenuto in qualunque mezzo d’espressione accentua ogni legge eterna che regola la vita nell’universo.
Ora, sotto le coperte Giò si gira e rigira con violenza dentro il letto. Sembra una fortificazione campale rivolta verso i tedeschi, e più a il tempo e più diventa una difesa calda e rovente, tanto che pare una trincea. Pallido in volto, il giovane sembra non aver tempo per un sorriso, come se il nemico fosse giunto all’improvviso, e lui, lo stesse aspettando, per porre fine l’immane tragedia ma, ora, l’alba di un nuovo giorno splende magicamente e fa dimenticare terribili sogni; fa dimenticare gente piegate sotto le macerie; fa dimenticare bombe che trafiggono la terra e che la squarcia, lasciando uno scavo aperto non solo nel terreno, ma nel profondo dell’essere. L’albore si apre nella semplicità della casa che ospita l’essenziale per viverci in completa sintonia e, ancor prima che i raggi del sole accarezzano la superficie terrestre per dar luce e riscaldarla, nonna Antonietta si alza dal letto e prepara la sacca al marito; avvolge energicamente il pane nella tovaglia, prende l’acqua dalla giara e riempie la borraccia. Nonno Pietro, nella stanza accanto, muove e veste lentamente e con lo sguardo accompagna il lamento del nipote. Ora gli si china davanti e lo guarda stringere i pugni. Improvviso e violento, un pensiero scuote la mente. “ Dieci italiani per un tedesco! “ Nonno apparteneva al movimento di resistenza contro le forze nazifasciste. Ricorda azioni di guerriglia nel territorio invaso dal nemico; ricorda la lotta armata contro l’esercito d’occupazione tedesco, contro il regime di Benito Mussolini: l’eccidio delle fosse Ardeatine. In una cava, adiacente alla via Ardeatina, a Roma, il 24 marzo 1944 i nazisti fucilarono 335 ostaggi. Partigiani, ebrei, detenuti politici, semplici civili, prelevati per rappresaglia, dopo che il giorno precedente, un attentato di partigiani, in via Rasella aveva provocato la morte di 32 soldati delle SS. “.
- Giò..Giò svegliati..Svegliati.. -. Sussurra nonno.
- Fammi capire bene, ancori brutti sogni ! -.Continua.
- Sì … Ora a tutto -. Sussurra Giò, sfregandosi bruscamente gli occhi.
- Fai con comodo ragazzo, tanto nei campi ci vado io. Soltanto io posso godere del profumo dei fiori, del calore della terra che odora di pioggia; solo la mia zappa può ammorbidire le zolle intorno ai vitigni per risvegliare le radici alla crescita -.
- Sì. Sì, solo lui conosce ogni angolo ombroso per dormirci meglio! -. Ribatte nonna, indaffarata a sminuzzare il pane nelle ciotole di legno. Come l’arrivo di una nuova stagione, l’aria tiepida segna il cammino dei grossi scarponi del nonno; ora siede, intonando il rumore dell’accendino sulla tavola. Gli occhi assonnati dei ragazzi, appena alzati, schiudono sulla morbida tovaglia di lino poggiata sul tavolo e si riaprono di botto alle grida della nonna. Dopo aver fatto colazione, nonno Pietro stira la giacchetta sulle spalle e scende la scala che lo porta alla stalla; getta un pugno di grano alle galline e prepara con cura gli attrezzi di lavoro. Nella penombra, le linee marcate sul volto tracciano la solitudine e levano al cielo le palpebre stanche, mentre la robusta mano striglia la criniera della mula. Una manciata di fave secche allieta la malinconia della bestia, brevi momenti di gioia e i due si avviano. La rugiada dei campi in fiore regola la vita in una sconfinata giovinezza e rinfresca l’aria ravvivando la melodia dei suoni degli uccellini in volo. Il trotto della mula enfatizza e si accentua al battere dei talloni del nonno e solleva polvere rossa che alza un vortice lungo il sentiero, coprendo il rumore dei ferri che battono con violenza sullo sterrato. Ora, uno strano tonfo li accompagna lungo il tragitto: una piacevole musica. Nel cammino, nonno Pietro guarda la valle del Platani, sconfinata e fertile, con la sua vegetazione ricca d’ulivi secolari. Alberi di
mandorlo ancora verdi si confondono tra gli agrumeti odoranti di zagara e tappeti di erbe e fiori spaziano tra le forze titaniche dei residui glaciali che hanno lasciato effimere perle per la gioia dello sguardo. Piccoli laghetti al primo sole specchiano la terra come tante gocce di rugiada. E tra l’irruenza delle montagne e la forza della natura, il nonno, ora, immobile come una roccia sulla riva tranquilla di un ruscello, si gusta l’immagine riflessa della mula che approfitta della breve sosta per una sorsata d’acqua fresca. Nonno guarda la bestia e i pensieri sembrano fondersi l’uno nell’altra. Qualche minuto ancora e senza ragionamenti ne’ desiderio di un destino che spezza il cuore, una carezza alla lunga criniera e via sulle ali, sulle zolle ancora. Nonno e la mula, attraversano una terra meravigliosa, costellata da piccoli specchi d’acqua che riflettono la natura come universo incantato in tutta la sua naturale bellezza. Il verde dei boschi si distribuisce ai piedi di pareti rocciose e le maestose montagne fanno da corona. Spazi infiniti, ombrati d‘alberi di pino che segnano la quiete e zolle di terra appena arate profumano l’aria nei mutamenti della vita. Dopo una lunga giornata di lavoro, al calar del sole, in un alternarsi di suoni, di luccichii e di grandi spazi; quando l'ultimo raggio scompare sull'orizzonte e l’uomo e la natura sembrano trovare un punto perfetto di coesione, il nonno ripone gli attrezzi e si prepara al ritorno. L’eco dei i si frantuma come un fragile stelo che si affaccia alla vita. Una dura giornata di lavoro ora si fa sentire e il cammino stimola ancor più i dolori alle gambe che tremano dalla stanchezza.
Amareggiato, nonno Pietro tenta varie volte ma non riesce a salire in groppa alla mula. Esausto, chiede grazia a Sant’Antonio.
- Sant’Antò, fammi sta’ grazia! Dammi la forza! -.
Nonno cerca equilibrio attraverso gli occhi della mula e si fa il segno della croce.
Ora prende una piccola rincorsa e salta. I piedi si lanciano in un volo miracoloso; schiodano da terra come un missile a propulsione pronto a esplodere per il cielo.
D’improvviso, un volo di uccelli riempie il cielo di suoni e nonno vola con la traiettoria ellittica un metro sopra la sella della mula, tanto che sembra una cometa fluorescente pervasa da una lunga scia di luce. Incredulo, stramazza dall’altra parte dello sterrato. Acciaccato dal botto, si guarda intorno poi, prende le redini e si riavvia lento.
“ Troppa grazia Sant’Anto’!”.
A ogni fortuna, dal colore dei fiori, a ogni albero o sasso, nonno ringrazia la vita intonando melodie che vanno al cuore mentre una magica fragranza profuma l’aria e confonde sapori liberando la fragilità’ della vita nel trascorrere degli eventi di una speranza senza tempo.
Capitolo Secondo
Attraverso un amore che abbraccia l’umanità e slega il filo sottile che avvolge la resa della mente, allo stesso modo l’odore dei campi appena arati profuma lo spirito di nonno Pietro che non si accorge del trascorrere, né dell’orologio che segna le ore, né di colline animate da fili d’erba stanchi di adombrare granelli di terra. Tuttavia, la sera arriva senza una stella e il cielo annerito dai nuvoloni non lascia presagire nulla di buono. Sulla via principale del piccolo paese, Giò strugge camminando avanti e indietro; lo sguardo teso di chi aspetta con ansia il ritorno. Egli pensa che il tempo e la memoria siano compagni fragili e assaporare la vita in ogni momento, a volte sia come sbriciolare una manciata di terra tra le mani. Ora, il giovane china le ginocchia e guarda la luna intensamente; egli vuole annullare il dubbio che porta la ragione. Che la prerogativa della vita sia solamente temperie alla fatica dei campi? Quando ti levi al mattino e non alzi la schiena sino a sera? Lo scuro della notte abbraccia gli alberi che si ergono dalle colline e si richiudono in uno spazio di vivere infinito negli squarci antichi che danno rilievo alle strade polverose battute dagli zoccoli di cavalli e i viottoli senza quiete riempiono l’aria di una misteriosa sensazione di pace e serenità dando lustro alla scalinata del centro, albergata dai ragazzi. Ogni gradino della lunga scalinata, venne rivestito in maiolica e ciascuno con disegni diversi; si sale, e secolo dopo secolo, si succede lo stile Arabo, Normanno, Svevo, Ottocentesco. Il paese immerso dentro una bolla e il profumo di pioggia confonde il bianco fiore di arancio che a tarda sera riflette il cielo e allieta il dolce chiacchierio della nonna con le vicine di casa. Tuttavia,il carico di un cattivo presagio le sprigiona turbamento e dolore che ombreggia in una spiacevole sensazione e accentua con l’imbrunire. Giò guarda gli occhi del fratellino che sembrano esprimere terrore e il viso accompagna disperazione e angoscia.
Il nonno, intanto, procede nervosamente lungo il sentiero; capisce di aver fatto tardi e non ha modo di avvisare la famiglia se non quello di arrivare prima, e par di non ascoltar altra voce se non l’eco degli zoccoli in un’area tersa di pericoli.
Chino sulla mula, nonno Pietro si lascia oscillare dal movimento fluttuante, tanto che sembra seduto sull’onda di un mare burrascoso, anche se alla mente sogna spighe dorate in campi soleggiati mentre un venticello tiepido accompagna il primo scirocco. Ma la terra profuma ancora di pioggia e il ripido sentiero sfiora pericolosamente gli alberi che invadono il viottolo, confondendo a tratti il paesaggio che già si intravede sull’orizzonte. Il canto delle cicale d’un tratto si spegne e un lampo apre la strada nella notte profonda e buia che sembra specchiarsi nelle foglie ingiallite. Nessuna traccia di cieli azzurri o di orizzonti infiniti, se non squilli di campane che annullano la quiete. Ora, il sentiero stretto e buio apre la strada illuminata dai lampioni mentre la pioggia battente lascia intravedere a tratti il piccolo paese. Tra l’odore di menta e antiche decorazioni, nonna Antonietta sistema un vaso da fiori sulla mensola della finestra e la chiude con lo sguardo che si sposta sempre più verso il cortile di casa, sperando di intravedere il marito. La mano fredda carezza la fronte e lo sguardo scruta il lento scorrere del tempo. Improvvisamente, accecata da brutti pensieri si chiede se non è il caso di mandare il nipote a cercarlo. Il mondo e la vita, in quel momento, si incrociano in un unico aspetto umano. Uno spicchio di luna brilla nel cielo e la pioggia si attenua improvvisamente, ora, tra nuvole velate dalla nebbia, un profondo respiro riscalda l’aria da una tetra inquietudine. Giò guarda la nonna e sente l’angoscia che arriva fin sotto la pelle; accende il lume a petrolio allontanando l’oscurità della notte in modo che i colori dipingessero ancora il cielo. Indossa velocemente la mantella e allaccia gli scarponi accompagnando nei suoi i la speranza di incontrare nonno sano e salvo.
Al dondolio di forti emozioni, il giovane ferma il o all’ascoltar di un canto che si leva nella notte.
Cu lu scuru vaio;
e cu lu scuru vegnu;
e cu lu scuru fazzu la me jurnata.
Nonno come un vecchio alchimista sembra leggere dalla sfera di cristallo. Sente sprofondare il cuore; fuggevole con la mula, galoppa con l’intensità di un vento arrabbiato che recita una frase nell’antica lingua. Egli, fortemente diviso tra pensieri gioiosi e tristi, prova a rilassare la mente nel ricordo della memoria; ora, il sentimento di tornare a casa diventa incontrollabile. D’un tratto, l’eco delle parole stordisce ogni sentimento. Come trovare una collana di diamanti che scintillano dentro un corso d’acqua cristallina in un deserto assolato. Giò ora sente la voce e l’aria schiarisce sognate speranze. Il giovane corre a rassicurare la nonna: - Arriva!!! Scalda l’acqua che arriva!! -.
Fonte spirituale di un sentimento inciso nell’animo, la figura del nonno si leva come un tuffo nel ato alle origini dell’uomo. Il piccolo Piero, contento, sale sulla panca di legno e alza lo sguardo per dominare la visuale.
Quando la pena e troppo grande, il cuore morde. Ora ascolta il dolce canto che arriva all’anima e quando intravede la sagoma del nonno in groppa alla mula, strizza gli occhi dalla felicità, corre verso la stalla e spalanca la porta. Ora si guarda intorno e lancia piccoli sassi alle galline che starnazzano senza meta, tanto che sembrano le custodi incontrollate del cortile.
La luce della sera invoglia il piccolo a tirare sassolini alle galline obbligandole ad aprire velocemente la strada al o naturale della mula mentre nonno tiene le redini ben strette tra le mani, lanciandosi al galoppo sino a raggiungere l’ingresso della stalla. La mano sfiora la porta che si apre a due metà, poi, con un balzo, si lancia dalla groppa della mula abbracciando forte i nipoti; abbandonandosi finalmente alla gioia.
- Nonno, nonno, nonno, sei peggio del fragore di un tuono, ci hai fatto prendere
una bella paura… Perché sei tornato così tardi ha? - Borbotta Giò, sbattendo ripetutamente le palpebre indaffarato a togliere la sella dal dorso della mula.
- Ragazzo mio, vedo che lo spirito non ti manca, solamente, non mi ero accorto del sole che scompariva sull’orizzonte, né della bufera che stava arrivando -.
- Sì, sì, ora non so sei hai delle difese magiche, attento alla nonna -. Sussurra.
Nonno Pietro non fa in tempo a girarsi che si scontra con lo sguardo tagliente della moglie che saluta prontamente sciogliendosi come cristallo di ghiaccio.
Ma ora, stanco della lunga giornata cerca in ogni appiglio il dolce riposo; il viso frastornato spiega in un frammento il duro lavoro della terra, mentre il cielo lancia una luce tuonante che tremola e illumina il circondario. Ora i nipoti lo aiutano con le saccocce di cuoio piene di verdura e, riposti gli attrezzi di lavoro, chiudono la porta della stalla in un lungo sospiro di gratitudine per la buona sorte, sapendo bene che non avevano speranza contro la furia degli elementi.
Sorridenti, salgono i gradini della scala rumoreggiando, mentre gli occhi di Antonietta sfrecciano ancora bassi e un brivido pungente traa la pelle. Ma ora, l’arrivo del marito sembra una dolce carezza sul viso; come il segno d’amore che all’improvviso piega le linee nere dell’angoscia e che svanisce nello scroscio d’acqua in un gioco di ombre che lascia tutti senza fiato. Ora, il sorriso di Antonietta si anima di una rara dolcezza, come un tiepido venticello leggero che spira favorevole su di un veliero che procede nella stessa direzione poi: Certo…
Mi hai fatto prendere giusto, giusto, un bel spavento -.
- Ntònia, sai bene che la nostra unica risorsa è la terra; senza i suoi frutti, patiremmo la fame, ti prego non scherzare su queste cose, sono troppo stanco -.
Sussurra, mentre si allontana con la bacinella piena. Le mani carezzano l’acqua come soffice seta e la stanchezza, magicamente, sembra defluire all’istante.
Nonno Pietro chiude la porta dello stanzino e sfila il coltello dallo stivale, ma un gesto malandrino delle ginocchia sfiora la bacinella facendo schizzare l’acqua da tutte le parti. - Buttana miseria infame! -.
Lo sguardo fissa lo specchio e stranamente, il pensiero fluttua lontano, e il ricordo, attraverso una sorta di strana consapevolezza sfuma l’ansia alla visione di un fiore turchino che riflette al sole. Nonno stringe le palpebre e sembra guardare incantato, come se avesse speso una vita a far crescere quel fiore che ora sembra sfuggirgli tra le dita. Improvvisamente, la vista gli dona la calma e il pensiero ritorna al profumo particolare della vita. Ora strizza gli occhi quando il par di vedere dallo specchio uscir fuori centinaia di farfalle che muovono le ali in una nuova luce, dipingendo l’armonia della casa in mille colori e le labbra di un piccolo sorriso. D’un tratto, un tonfo libera uno strano rumore che lo sveglia dall’incanto: - Pietro! Mi raccomando! Non buttare acqua a terra! Non mi sporcare lo stanzino! Sbrigati che é quasi pronto! -. Grida la moglie.
- Ho capito… E ti pare che non abbia capito?…. Quasi pronto…. Quasi pronto! Dice sempre così! Poi ci vuole ancora una vita -. Borbotta, carezzando con un pettine i capelli.
Ora nonno allunga la mano per la tovaglia, ma sbatte ancora la bacinella rovesciando tutta l’acqua. Le labbra non si muovono, nemmeno l’aria si muove.
D’un tratto, il silenzio sembra manipolare il tempo e, in silenzio, nonno prende di nascosto uno straccio e pulisce tutto velocemente. - Si, avia cadiri …. C’avia cadiri….-. Stranito dagli eventi, ora esce dallo stanzino in punta di piedi, guardandosi intorno; sospira, perché capisce di averla fatta franca, che nessuno si è accorto di niente; nessuno ha visto niente; nessuno sorride di lui. Nell’attesa della cena, con grande disinvoltura si avvicina al tavolo e siede silenzioso. Le spalle piegano lentamente, il braccio scivola sul tavolo e la mano sinistra sfiora dolcemente la caraffa piena di vino che lo invita a berne un sorso.
Ora la mano destra penetra lentamente la tasca tirando fuori il trinciato forte.
L'indice batte sul pacchetto, lasciando intravedere il tabacco che scivola sulla cartina di cui ha inumidito il margine superiore, poi avvolge il tutto arrotolandolo, ora su, ora giù, sino a formare una bella sigaretta. La guarda perfettamente strutturata, come fosse la quinta essenza della vita, ora soddisfatto tira dall'altra tasca l'accendino che apre con un leggero scatto. E
come se volesse rendere omaggio alla buona sorte, poggia il pollice sulla rotellina imprimendo una leggera pressione per farla ruotare. L’attrito con la pietrina sprigiona una pioggia di stelline e la piccola scintilla fa accendere la fiammella.
Poche aspirate e la sigaretta brucia nel fumo che rilascia nell'aria un acre odore di tabacco. Giò, seduto vicino la tavola apparecchiata, vede una leggera nebbiolina che pian piano si fortifica aleggiando come cortina che colora gli occhi di rosso impedendo la vista. In quel preciso momento avrebbe fatto qualsiasi cosa per spegnere la sigaretta dall’odore insopportabile, ma tuttavia trattiene l’ardore e zittisce. A ogni aspirata, il fumo denso e maleodorante soffoca ma nessuno parla. Ora, il giovane, fortemente infastidito, corre verso la finestra e la apre ma una ventata di pioggia gelida gli sferza le guance. Ora la
richiude prontamente, prende una paletta e la fa ruotare come una trottola spingendo il fumo attraverso la luce del lume a petrolio intonando un canto che spezza il silenzio:
- Quannu la finisci è sempre tardiiii…
Quannu la finisci è troppu tardiiiii … -. E per la gioia delle orecchie, un piccolo singhiozzo ferma il concerto e un colpo alle spalle lo fa zittire del tutto.
- ato! Oppure ne vuoi ancora un altro! -. Ripete nonno.
- No, no, ato…. ato, ora però butta la sigaretta! -.
Giò cerca di soffocare il singhiozzo buttandosi in gola mezzo limone mentre gli occhi cadono sulla grande tovaglia di pizzo, troppe e troppe volte rattoppata e quei bordi ricamati a mano un tempo, si è persa ogni traccia.
In fondo al buio ingresso siede Piero; rannicchiato vicino al baule, spinge la schiena verso la parete; indossa ancora la piccola mantella che serve da riparo dal rigore della notte. Di tanto, in tanto, le piccole ginocchia urtano la parta, spingendo lo sguardo verso il corridoio illuminato da una fila di lampade a petrolio pendenti dal soffitto mentre la nonna, dietro i fornelli, attizza il carbone e aggiunge altra legna; regola il tiraggio e mette a bollire altra acqua dentro un pentolone di rame. Le guance si accendono e prendono il colore della salsa, mentre il fumo inonda ancora la stanza. I fratelli, stanchi di aspettare la cena, come gemme piene di energia si lanciano vicino la finestra e combattono come gladiatori in cerca di libertà. Piero, in viso dalla contentezza per aver steso a terra il fratello, grida vittoria e lo tira per la giacchetta. Antonietta guarda
incredula la scena e muove le dita dei piedi che gonfiano le scarpe comprate dieci anni fa,ma divertita dal gioco dei nipoti dimentica il dolore e stringe le labbra per non sorridere. Ora asciuga con la punta del grembiule gli occhi lucenti che si accendono ancor più dal taglio delle cipolle: - Cos’è, ti sei commossa? -.
Ridacchia il nonno, guardando gli occhi arrossati e lacrimanti della moglie.
- Sai….Dopo quarant’anni di matrimonio mi fai ancora emozionare; mi fai venire i brividi -.
- Mizzica…Dici davvero! -.
- Come no!!! Sono ati tre anni dall’ultima volta! Non ricordi?? -.
Non sembra una raffinata fattezza, né una magica creazione quando la testa del nonno si nasconde dietro la tovaglia e l’aria rimane sgombra dalle parole.
Uno spazio libero racchiude le risa che scoppiettano come petardi a carnevale.
Antonietta, ora soddisfatta, prima di servire la tavola chiama il piccolo e gli riempie il piatto di spaghetti con sopra una bella polpetta di pane. Come una clessidra che segna il tempo, la scia di fumo annebbia del tutto la stanza facendo piangere le pareti della piccola sala. Con lo sguardo calmo e riflessivo, le mani scivolano sul tavolo fermando l’attimo che segue la cerimonia. Pietro come uno scultore che modella la sua opera d’arte guarda la moglie che poggia la pastiera di terracotta ancora calda sul tavolo e riempie i piatti. Nonna scioglie l'ampio
grembiule e siede. La famiglia, finalmente, unita nella cena, cerca di eludere le tante difficoltà che turbano l’esistenza, ora, dal segno della croce alla benedizione del pane, gli sguardi compiaciuti si proiettano dentro misteriose sensazioni che riscaldano il cuore dallo spirito triste al dolce candore.
Capitolo Terzo
La bellezza del cielo attraverso gli occhi di chi guarda, rende incomparabile la casetta dei nonni che sorge nell’antica contrada di Sant’Antonio. Il panorama ricurvo, di quel luogo, sembra dare un tocco magico alla verde pianura e ai monti azzurri che attorniano come muraglia naturale il piccolo paese, regalando l’illusione di un’immensa bellezza.
“ Sant’Antonio di Cianciana sorge ufficialmente il 4 ottobre 1646.
Donna Sigismonda D’onofrio, comprò per il figlio Giuseppe Antonio Joppolo, principe dal 1677, la Licentia populandi e con la posa della prima pietra si diede inizio alle costruzioni. Le case, costruite con pezzi di tufo arenario, venivano infine coperte con coppe d’argilla e pietre millenarie che si trovavano alla periferia di quel luogo incantato “.
Uno strato di rocce opalescenti ricopre la via che conduce al centro del paese: piccole perle nere luccicanti intagliate a rombi e incastonate a terra e nei muri di cinta filtrano la luce nella magica visione di un prezioso bracciale. Intorno alla casetta, non c’è più poesia, oramai, non c’è segno di aristocratica ricchezza, né di nobiltà terriera, ma solamente un grande cancello di una villa diroccata con le mura cadenti e il respiro del silenzio scompare sospingendo l’ombra del buio.
In un angolo della casetta arde il fuoco di un fornello in cui soffia un piccolo mantice tirato dalla nonna svegliata dal suono delle campane e dai raggi dorati che sbocciano timidamente nel cielo sfumando i colori della primavera.
Antonietta guarda la mano ferita che le procura atroci dolori, sembra che cammini sulle spine mentre è in preda agli spasmi; indaffarata, l’lancia l’incantesimo per una protezione dalle sventure e sbriga subito le faccende di casa preparando la tavola per il primo pasto, mentre l’alba dissolve le nebbie nell’andatura naturale delle bestie, dando ritmo al cantico antico dei contadini.
Il cielo brilla e le spighe ondeggiano come vento di un mare che si increspa al aggio delle correnti ascensionali e il manto sterrato si solleva allo strepitio dei cavalli e la durezza della pietra lavica accentua ancor di più il martellio dei ferri. I contadini sembrano condottieri in groppa ai loro cavalli che scalano in fretta i ranghi dell’esercito; guardano la campagna e case sparse nelle attività agricole, distogliendo per pochi momenti il pensiero dalla dura giornata di lavoro che li aspetta e, con abilità di grandi cavalcatori seguono il sentiero nel bagliore del nuovo giorno con tale armonia che annusano il profumo dei fiori prima ancora di vederli e si sforzano di non bere il vinello dentro le borracce di alluminio, fino al raggiungimento dell’ampia distesa di terra aperta al cielo. Il nitrito rompe ancor più il silenzio e strappa un piccolo sorriso agli zolfatari appena rientrati dalla miniera mentre adunate sotto la custodia dei pastori, pecore e buoi si pasturano su di una distesa erbosa.
Mattino.
Spira dalla terra al mare,
aria fresca che annuncia il giorno;
nutre il silenzio e piega a strani versi il sogno; lucciola nascosta nel movimento brilla;
invisibile palpito muta e vibra nello sguardo più sereno; cantico esplode in una vampa di fuoco;
antica promessa che schiude,
che spinge l’anima al sole;
che spira dalla terra al mare;
polline sacrifica la vita e poi muore.
l brillio nero della pietra riflette il cielo mentre il sole allunga le ombre degli scolari; silenziosi entrano nelle classi come discepoli di un sacro maestro. Durante la lezione, il capo abbandonato al sonno e le mani strette sulle ginocchia traballanti che regolano strani ritmi. E quando il rintocco della camla scandisce la fine della lezione, gli scolari si dileguano fuori dalle classi come scie di api che seguono mete ignote. Giò non ha tale fortuna, in quel periodo, frequenta la scuola serale. La materia preferita è il latino; egli mostra particolare interesse e curiosità per la lingua, in quanto, con il nuovo anno scolastico è cambiata anche l'insegnante, della quale, essendo giovane e bella, si sono innamorati molti studenti. Giò non fa altro che pensare a lei, sempre presente nella mente come eterna compagna. E se ogni uomo sogna una donna a cui offrire il mondo, il giovane sogna un mondo da offrirle.
E per lei, di nascosto si infiltra nei campi fioriti, seppur di accesso vietato, le aiuole,
pur cercando di nascondere i propri fiori, nulla può l’ardore.
E tutte le sere la scrivania dell'insegnante in fiore, senza che lei capisse chi fosse questo amore.
Invidia, come spada che squarcia il petto, accende l’umore di molti compagni: Leggere e scrivere è un lusso che non ti puoi permettere e la scuola non ti servirà a niente! Il sorriso della Surfara ti accoglierà Caruso!
Oppure la terra ti abbraccerà e andrai zappare! -.
Giò sorride alle provocazioni; pensa che in quel mondo incerto la fortuna aiuti gli audaci e che emigrare come lo zio Alberto, in un altro paese, in un’altra nazione, avrebbe sicuramente cambiato la vita a tanti, e semmai cercasse rifugio nella fuga, il gesto avrebbe procurato dolore alla famiglia. Fiducioso della vita, anche se l’alba non trova abbracci, ora sa bene quello che deve fare: - Più di uno siamo tanti! -.
E tra montagne e mare, si avvia come uno spirito libero e inizia a sognare, tuttavia, il pensiero cade nelle tasche vuote; miseria e fatica spronano l’angoscia.
Il giovane ragazzo si vede sull’orlo di un precipizio;ora sente il calore dell’inferno che allontana il paradiso. Obblighi e doveri stravolgono la mente. In cuor suo, ora, la certezza che la scuola non è più la via.
Nasci fortuna o voglia di fare;
tendi la mano senza soffrire;
seppur raccontiate da antiche memorie,
l'angoscia protesa come picco sul mare;
Fascino discreto, pronto a morire
l'amaro che si snoda tra voci;
l’istante incerto, quel lieve tormento,
sia d’incanto nello sguardo attento al fatal pensiero.
- Continuare gli studi -.
Come in una piazza affollata che si svuota all’improvviso, il sorriso del giovane si ritrova malinconico; Giò non brinda più alla vita né alla magia del cuore; sulle labbra sue le parole si frantumano in mille pezzi come un vetro che si scontra; come il sapor di un’incognita che lega, tradisce e poi muore; come un pianto senza speranza che spaventa la vita e non sa dir parola. Ora, il giovane, chino
sulle spalle sistema i quaderni legandoli, gira lo sguardo e, d’un tratto, vede la ragazza dai fianchi snelli che gli ha rubato il cuore ed esplode in una vampa di fuoco. Dopo un rapido sguardo, Giò ammagliato vede la mano della sua amata, stringersi appagata, nella mano di un ragazzo mai veduto. La scena lo sconvolge: scintillio negli occhi e una coltellata al cuore. Giò riguarda il giovane sorridere all’amore mentre carezza il fiore nascosto dentro il taschino della giacca; lo stesso fiore che aveva raccolto nei campi per lei; il magico fiore dalle foglie d’oro che aveva strappato alla terra per lei, ora nell’occhiello della giacchetta di lui. E
con la furia dell’onda che rompe gli argini, allo stesso modo, la scena diventa parte di un dramma: dramma che squarcia il cuore e strappa in un attimo l’amore.
Non più canti di uccelli, né farfalle tra i fiori; ogni bellezza vive e muore;
sfiora sgomento dai sentimenti;
trasforma l’amore, nell’abbandono del cuore.
Giò, dalla vita non si aspetta di certo un clima allegro, ma nel corso di quel tempo, sperava di portare avanti un progetto e di condividere con la sua amata piaceri e dolori, tuttavia, il mutamento improvviso, la triste consapevolezza del decorso inesorabile………. “ Solo dolori “. Sui suoi occhi un velo pulsante di rabbia accende l’urlo di disperazione. Tristi pensieri accompagnano il cammino stanco mentre il o segna scenari angoscianti velati con la gioia del canto e il respiro affannoso rende la strada del ritorno interminabile. Giò procede a occhi bassi, dissimulando l’angoscia con le parole; ricordando ancora la scena che lo ha fatto soffrire; ricordando gli istanti di gioia prima, e di dolore poi; ora gli basta chiudere gli occhi per sentire l’aria riempirsi della sua rabbia, così da fargli
sparire l'ombra di quel piccolo sorriso che qualche volta aleggia sulle labbra. Un brivido pungente, una scossa percuote il corpo all’arrivo a casa. All’improvviso si sveglia dall’incubo e timoroso apre la porta.
Piero spegne il lume e in punta di piedi si nasconde nel chiaroscuro della grande porta socchiusa; aspetta in silenzio, vuole saltargli addosso e spaventarlo e ridere dello scherzo; poiché lo vede frastornato, si ferma. Giò entra in casa col mento sul petto; poggia i libri sopra una vecchia scrivania e siede vicino al tavolo. Batte i pugni, quasi a rimproverarsi del fatto, quasi a gridare il perdono con voce strozzata di rabbia e pianto. Piero si avvicina al fratello col viso stravolto e coi pugni stretti, egli vuole soffocare l’ira di dolore del fratello, non capisce il perché di tanta rabbia. I fratelli ora incrociano lo sguardo; gli occhi arrossati mutano nell’affetto di un grande sentimento e quando l'odore del basilico e del sugo profuma la stanza, capiscono che la vera certezza della vita è una famiglia su cui contare.
Capitolo Quarto
L’autunno oramai è inoltrato e il tenue bagliore della memoria sfoglia trascorse pagine di vita fra le rime dell'inverno che già bussa alle porte. Lente e sottili piogge perseverano all'infinito tra i colori che sbiadiscono dentro una luce che schiude gemme d’arcobaleno nel torpore del sole. Nonno Pietro, disperso nel proprio sorriso osserva le linee incise intorno alla base della lama del suo coltello, vuole filtrare la natura come i cercatori d’oro che filtrano con fiducia le acque aurifere, tuttavia, spazi vuoti e alberi spogli sfumano il sottile equilibrio della natura che lascia un vuoto incolmabile. Non è facile capire il percorso della vita che abbandona promesse e speranze nel tesoro più prezioso che la coscienza possa mai custodire, anche se spesso ci si imbatte nel proprio destino sulla strada presa in cui si cerca di evitarlo. Gli occhi del nonno leggono ogni sconforto e luccicano e sfiorano il cielo; egli è stanco di affidare la sorte della famiglia ai capricci del tempo. Ora il dilemma: - Cambiare mestiere -.
Nonno Pietro sa di essere troppo vecchio per diventare zolfataro; che per guadagnare un tozzo di pane sicuro, deve affidare i giovani nipoti a qualche picconiere senza scrupoli. Questa visione gli appare improponibile. Custodire ricordi nella memoria rende ancor più l’animo triste. Già la partenza del figlio Alberto, per il lontano Belgio scarna ogni emozione, brucia l’angoscia nella maledizione. Ricordi malinconici che non si possono dimenticare. Alberto, come missionario dei diritti umani, per legittima ragione, distrusse la bocca della miniera, bloccando i lavori per intere settimane.
“Nel 1830, quando si scoprirono le proprietà chimico-farmaceutico dello zolfo, l’estrazione del minerale in Sicilia divenne sistematica. Conosciuto già dai Romani, l’antico minerale, veniva raccolto nelle zone vulcaniche da uomini senza tempo, costretti dentro la cavità della terra a lavori massacranti.
Cesta straboccante del biondo minerale sulle spalle del Caruso (ragazzino) che avanza con sforzo estremo, che non teme fatica, che a o lento curva la schiena al peso della grossa cesta, trattenendosi di tanto in tanto con le mani alla parete della grotta, mentre la polvere, come nuvola di cristallo, solleva minutissimi frammenti che intrappolano e soffocano i polmoni. Caruso, pieno di sofferenza, che si ferma un attimo a guardare le volte delle gallerie con gli occhi stanchi mentre il sudore cinta la testa. Caruso, che giunge alla bocca della miniera stremato dalla fatica, tanto da non poter reggere l’equilibrio del corpo martoriato dallo sconforto ma voglioso di guardare la luce; di vedere un mondo incantato. Verso l’uscita, la stanchezza finalmente si dissolve, gli occhi ombrano dalla luce solare che sembra accecarli e il piccolo sorriso si lieta di tanta bellezza mentre depositano il biondo minerale in uno spazio aperto. Una breve pausa e nuovamente la discesa. La zolfara, il posto più vicino all’inferno, dove puoi arrivare mentre ancora respiri. Storia antica quanto lo stesso minerale. Storia triste, piena di miseria, di sfruttamento, di sofferenze e di negazione della dignità umana. Un giacimenti di minerale che raccontano storie di vita e ogni sgomento oscura le pareti corrose dai picconieri e dal tempo. Le gallerie, pietre instabili che crollano in ogni momento, hanno una dimensione tale che non si possono allungare le braccia né alzare la testa; annebbiano gli occhi umili e profondi dei minatori che scongiurano infortuni e danni fisici che tuttavia sono la quotidianità. Una paga dignitosa poi era l’ultimo pensiero dei padroni; quelle poche lire che davano ai lavoratori, a seguito di una lunga giornata di lavoro, secondo loro, era un giusto motivo di gratitudine “.
Alberto diventa vittima del suo tempo; egli, intollerante allo sfruttamento, lascia il volto ridente alla disperazione. Dentro le viscere della terra egli lavora senza risparmiarsi, scalzo, seminudo si ciba di quel pane duro che intinge nell’olio della lampada per migliorarne il sapore. Tutti i santi giorni abbassa la testa e lavora con estrema dignità; bagnato di sudore e annerito dalla polvere che gli penetra fin dentro la pelle; non si risparmia, ma giorno dopo giorno, l’odore acre del minerale che si mescola al corpo e intrappola il respiro diventa supplizio.
Nonno non dimentica l’amore incondizionato, né angoscia, né lacrime di dolore; non dimentica l’eco delle parole che libera sentimenti più intimi e che sfiorano la gioia armoniosa di un componimento che narra la realtà di un mondo difficile da
capire. Non dimentica lo sdegno e il senso di angoscia del figlio che teneva tra le braccia un compagno e lo vedeva esalare l’ultimo respiro mentre con lo sguardo gli chiedeva aiuto. Nonno Pietro non dimentica l’accanimento che sfocia in furia e rabbia. No! Questo fatto non lo dimentica. Ora, seduto sulla sedia a dondolo mezza sgangherata dalla vecchiaia si affligge allontanando il rincrescimento mentre cerca di rattoppare un paio di scarpe logore dal tempo, dal freddo e dal troppo lavoro. A ogni cucitura si sposta sempre più verso la finestra per vederci meglio, ma il cielo è così annerito che, pur essendo giorno, sembra già notte fonda. Nonna Antonietta nella piccola sala accende il forno a legna e si prodiga all’impasto. Il viso sbiancato dalla farina sembra una cerimonia da vivere con la famiglia. Giò, annoiato, si stira le palpebre mentre l’aria si satura di un denso fumo nerastro che brucia occhi e gola. Ora arriccia le labbra, tende il braccio su un vecchio libro di geografia accompagnando lo sguardo nelle pagine che sfoglia piano. Nelle carte, cerca qualcosa che gli addolcisca la serata, ma dalle immagini che non riesce a focalizzare, definisce strane sensazioni che non riesce a mettere a fuoco. Ora prevale un senso d’insoddisfazione. Ricordi da raccontare mentre il vento ulula e accompagna scrosci di pioggia e freddo gelido che spinge la notte nei vicoli deserti. L’angoscia insopportabile diventa viva preoccupazione e il sapore amaro dell’incertezza si richiude nell’essenza e nel gioco delineato dal destino. Giò col mento tra i pugni e il naso schiacciato sul vetro della finestra guarda il paesaggio che non è cambiato, allunga gli occhi sbirciando tra gli alberi. Ora affonda i denti in un pezzo di pane duro mentre il vento soffia in faccia alle genti, che sfiora e carezza le tegole della casa e raccoglie con le sue braccia a spirale le foglie cadenti per farle ondeggiare nell'aria. Con i gomiti poggiati ascolta il rumore dell'acqua piovana che batte rumorosa e con lo sguardo rincorre i i veloci dei anti che scompaiono come fantasmi dentro la nebbia. Giò sogna ad occhi aperti e nel sogno intravede una bella macchina dai sedili in pelle nera e una radio dal suono così potente da rompere i timpani. Un tuono rompe bruscamente il sogno. Rasserenato dalla fervida fantasia, sposta la sedia dal tavolo e siede accanto al nonno.
- Nonno, se avessi soldi ti comprerei un paio d’occhiali…Dai, ami gli scarponi; li rattoppo io, così, mentre io lavoro, tu mi racconti qualcosa della tua beata gioventù…. Insomma… di qualche nuovo dettaglio dei bei tempi andati -.
- Tu… Io ..Dei tempi andati?! -.
Un leggero sorriso affiora sulle labbra di Pietro: - Hai ragione, non ci vedo proprio, tieni rattoppale e stai attento alle dita -.
Ora nonno allunga la mano e prende un bicchiere; avvicina con garbo la caraffa piena di vino e con grazia agita il dolce nettare. La spuma si alza leggera in mille bollicine che filtrano la luce e scoppiettano come una rudimentale bombetta di carta che si fa esplodere durante le feste.
- Non guardarmi come se fossi diventato pazzo, decanto il vinello per renderlo gradevole al gusto; sai, il mio cuore ne trae benefici -. Dice sorridendo.
Ora, soddisfatto prepara la recita.
- Ragazzi miei, il mondo diventa palcoscenico della vita come teatro del pensiero filosofico e noi comuni mortali recitiamo solamente una piccola parte del pensiero ... Ora vi rivelo il segreto.
Disse mio padre: prima di affondare la mano, ricordati chi sei e da dove vieni -.
E, come abile narratore nonno Pietro continuo dicendo: - Tramanda ai posteri tradizioni e leggende, questo è obbligo dei popoli; altresì, l'oblio sarà la prefazione. Sì... sì... Lo so! Sono troppo intelligente, che dire, sono nato in epoca e paese sbagliato!! -.
- Sì. Si! Sei proprio nato sbagliato!! -. Esclama Antonietta.
L'immagine scura del nonno sembra schiarirsi nel guardare ripetutamente le lancette dell’orologio ferme una sull’altra, poi: - Sai, la mia conoscenza trascina e costringe il tempo stesso a fermarsi -.
- Sei proprio scemo!! -. Ribatte la moglie con voce ferma e sonora come se aspettasse applausi, poi aggiunge: - Essere donna è un compito molto difficile! Perché, il più delle volte, si ha sempre a che fare con gli uomini!! -.
- Le donne sono tutte matte, guai a contraddirle! Ritornando al racconto, devo dire che in quel tempo ero davvero un gran bel ragazzo…. Alto e robusto...
Particolarmente slanciato, praticamente un colosso!! -.
- Sì... Sì. Praticamente un Colosseo! Ma che borbotti! Al massimo eri un timido anfiteatro romano, e come capita spesso ai timidi, il destino ti demandava a far scoccare le frecce dell’amore eehh! Ma finiscila!! -.
Replica Antonietta col sorriso beffardo di chi si esprime con ironia.
- …Miii.. sembra una scupetta…Lasciami in pace e fatti i sirbizza!!! (Lavori domestici) -. Replica nonno, mentre stritola una sigaretta.
- ... Dov'ero rimasto! Dicevo! Ero un bel ragazzo! Affascinante! Bello!
Intraprendente! Facevo letteralmente impazzire tutte le ragazze! Oh!!
Quando avo per i vicoli e per le strade con il mio stallone purosangue sembrava una battaglia. Le signorine si affacciavano dalle finestre i cuori tremavano. MIII…Sembravano tutte impazzite. Ricordo che una picciuttèddra addirittura cadde per terra dalla troppa gioia e un’altra mi rincorreva per la via…
Addirittura vi posso giurare che c’era chi sveniva al sol pensiero che io la potessi sfiorarla con la mano o talìarla col mio sguardo ultra magnetico. La cosa straordinaria era che tutte mi dicevano... Pietro, quando sei bono! Pietro, quanto sei bello! -.
Nonna si lascia sfuggire una smorfia e sospira a denti stretti - Addirittura lo puoi giurare?! E nessuno ti diceva povero deficiente??! Ma perché non racconti che se non era per me restavi scapolo! E poi, quale stallone purosangue??! Se non ricordo male, avevi un asino talmente vecchio e malandato che eri tu a portarlo in groppa! -. Come una pietra levigata che riflette uno specchio d’acqua, Giò ride sin quando i crampi allo stomaco si attanagliano morbosamente. Rasserenati dal momento felice, nonno Pietro continua: - Va bene…Va bene…Ora vi racconto la leggenda del Monaco Piangente.
Cari picciotti, dovete sapere che un tempo non lontano, in Sicilia, chi accettava lavori fuori dal proprio paese, oltre la misera paga giornaliera, obbligatoriamente doveva ricevere vitto e alloggio. Padre Gilberto di Alessandria doveva restituire allo stato primitivo opere d’arte e antichi manufatti. Egli voleva risultati ben visibili, incluso il restauro dell’arco di andesite, una roccia antica che ricopriva parte del monastero. Il frate manda a chiamare Mastro Geppo, il quale, con la promessa di un lauto pranzo non ci mise troppo ad accettare il lavoro. Per Geppo fu una ghiotta occasione, anche perché il talento per l’archeologia sperimentale in quel tempo non portava nulla in tavola e la povertà l’aveva abituato a
mangiare solo pane e cipolle, così, accettando il lavoro, Geppo poteva fare gustare al figlio Arcoleo tutte quelle bontà che nella vita non gli aveva mai potuto offrire. L'alba del giorno dopo arrivò puntuale; e con la precisione richiesta, Geppo e figlio camminarono lungo il sentiero che attraversa il ponte del fiume platani presentandosi al monastero di buon ora. Pensieri semplici e profondi del giovane Arcoleo s’intrecciano con le parole di padre Gilberto e gli occhi scintillano. Il frate mostra il proprio linguaggio con sentimento improvviso di viva sorpresa, colorando di una sublime filosofia il benvenuto: - Buon giorno fratelli, spero che siate pronti e felici di iniziare il nuovo giorno, prego, entrate in convento, siate i benvenuti. Il mio saluto non è indifferente alla cortesia e al lungo viaggio che avrete certamente affrontato, tuttavia, ho visto mari calmi e tempestosi, tramonti accesi segnati da ombre e luci. Ho visto zolle di terra bagnate dalla speranza, ma non sento la solitudine del tempo, perché i suoni, i profumi, elementi sicuramente sempre presenti in natura sono gli ultimi fili della speranza ma che, in questo momento, si espandono intorno a noi in modo eccelso, rendendo l’animo umano nobile e tutt’uno con l’immenso stellato -.
Geppo e figlio guardano Gilberto; negli occhi il rifugio dei pensieri. Distolto lo sguardo, il giovane Arcoleo chiede al frate il significato di quelle strane parole.
Geppo gli caccia una mano sulla bocca, togliendogli il fiato. Ora, il ragazzo allunga il o verso il cortile, dando lo sguardo al circondario e rimane stupito dalla bellezza dei marmi e graniti che arredano la chiesa.
- E’ il momento -. Sussurra Geppo al figlio.
- Vai a prendere il materiale che iniziamo a lavorare -. Continua.
Pensieri dolci e tristi si mescolano con storie comuni ma la gioia di ritrovare non solo nell’animo, ma nello stomaco sempre vuoto, un pasto caldo e genuino e
come quando uno chiude gli occhi e comincia a volare. Ora tracciano strane linee sul terreno asciutto come se volessero proteggere l’antico tempio, prendono accordi con i monaci e si dedicano duramente al lavoro di restauro. Al tramonto, le colonne di marmo bianco riprendono l'antico splendore, sembrano brillare alla tiepida luce del sole. Geppo e figlio, stremati dalla fatica, ma soddisfatti del lavoro svolto, siedono a tavola e aspettano la generosa promessa dei monaci: il grasso pranzo. Giunta l'ora, alcuni frati imbandiscono la tavola come accordo e le specialità erano davvero tante: salami e prosciutti; mortadelle e formaggi; frutta e verdura; pane e cipolle. Arcoleo guarda ammagliato la tavola imbandita, egli non aveva mai visto tante bontà in una sola volta. Ora si tocca la pancia e allarga ancora di più i pantaloni, aspettando con ansia la benedizione dei frati per iniziare a mangiare.
- Dobbiamo volgere le cose a nostro vantaggio -. Sussurra fra Gilberto all'orecchio di fra Augusto.
- Non Possiamo permetterci che i restauratori mangiano tutto il nostro cibo, ora li stancherò con le mie fantastiche storie, poi, scuoterò i loro sentimenti con frammenti di sognata speranza, poiché, anche se la vita scorre come un fiume in piena, la purezza delle mie parole rimuoverà in loro il desiderio di mangiare -.
Continua.
- Dite che si sentiranno talmente in colpa che non mangeranno niente!-. Ribatte fra Augusto, sfregando le mani.
- Certamente le mie parole come gemme preziose purificheranno il loro spirito e come il canto delle cicale che sfuma il pensiero della sera, allo stesso modo abbandoneranno la via del piacere. Si! Dico proprio di si! -. Replica Gilberto.
Ora, l’invito alla preghiera per avvicinare l’anima alla solenne promessa di fede.
-….Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo….Amen -.
Allo scandire dell'ultima parola, il giovinetto sente un leggero bruciore allo stomaco, ma, contento e affamato, allunga la mano e afferra un salame. Una voce ardita, la voce del monaco Gilberto echeggia furiosamente: - Figli !! Figli miei!! Aspettate a mangiare... Ascoltate le mie parole. Oggi siamo favoriti da una forza sovrumana che si immagina presiedere agli avvenimenti umani e regolarne lo svolgimento; tuttavia, oggi la sorte non è contesa e quindi possiamo ritenerci fortunati. Non è un caso che il monolito che si trova nel centro del cortile rappresenta un sacerdote in pietra e forgia un rituale che diventa una caratteristica dell’anima. Una ione, un sentimento genuino che tocca l’equilibrio indipendentemente dalla volontà come condizione di vita futura. Ora, questa tavola imbandita descrive la costante mediatica e accoglie gli ospiti e rende partecipe il cambiamento senza tralasciare la tradizione e la generosità del nostro Dio. Tuttavia, e tuttavia aggiungo, che questo decoro suggerisce suoni che si scoprono, che si mescolano ai profumi e ai colori di questa tavola che sono sempre presenti in natura e che ne danno il segno evidente di una vasta offerta. Voi figli miei, potete dire e pensare quello che vi paia ma, il digiuno rafforza la fede!! Il digiuno rafforza la speranza!! Poi, se proprio volete mangiare qualcosa, fate come me! Prendete un poco di pane e una cipolla, accostate il cibo alla bocca e sentirete il brivido del corpo che purifica la mente e si estende come tempesta, spostando l’onda del male che si frantuma nel suo grigiore…. Poi, a essere proprio sincero: quanto mi piace la cipolla con il pane, ce ne vuole di provola, mortadella o salame!!! -.
Mastro Geppo rimane sbalordito dalle parole e il giovane Arcoleo, intimorito lascia cadere dalle mani il tanto agognato salame con vergogna; mortificato di aver fatto chissà quale dissacrale gesto, prende un pezzetto di pane e una cipolla come companatico. Un rumore scrosciante irrompe la sala. Il giovinetto sente arrivare sulla propria guancia un vibrante ceffone dal babbo: - Perché togli il
piacere a Gilberto di mangiare le cipolle! Per favore, non fargli questo torto, se gli piacciono così tanto, lascia che li mangi tutte!! Geppo, ora solleva lo sguardo timoroso del figlio: - Sai, ci sono momenti che ano in fretta, momenti così speciali che rendono straordinaria la vita, quindi, figlio mio, anche se i colori, i suoni, i profumi sono sempre presenti in natura, per oggi, non lasciamoli scappare! -.
Geppo e Arcoleo guardano con ione il cibo e iniziano a mangiare con estrema voracità mentre i frati con amara asprezza sorridono a Gilberto, il quale, non potendosi redimere dalla parola data, mastica in silenzio tutte le cipolle. “
Nasce così la leggenda del Monaco Piangente “.
- Chi la fa, L'aspetti!! -. Esclama Piero, sbattendo il pugno sul tavolo.
- E si… -. Conclude Giò, alzando per aria gli scarponi del nonno per guardare meglio la cucitura. - Penso di aver fatto un buon lavoro -. Continua.
Nonno sfila l’ago dalle mani del nipote e si prova gli scarponi: - Pizzicano un poco ma… Si…. Tutto sommato te lo devo proprio dire, hai fatto un buon lavoro, bravo! -.
Ora nonno sorride soddisfatto, accompagna i nipoti nella piccola stanza da letto: - Notte ragazzi -.
- Notte -.
Capitolo Quinto
Dolce chimera, dolce illusione;
dolce inganno spira fra le rime del cuore; nastro che lega e stringe afflizione;
lama sottile a buone nuove.
Nell’alternarsi di strane emozioni, pensieri semplici e profondi avvolgono i sentimenti della famiglia con l’armonia di chi si trova sempre davanti allo stesso giorno e si chiede il perché di quel mondo incerto. L’aurora distribuisce il luccichio della prima luce che riflette tratti di paesaggi resi agresti dalla terra, ma il profumo del Natale rende l’atmosfera magica. Le pagine della vita sfogliano come i rami degli alberi che si inchinano come danzatori e le foglie ingiallite, mosse dal vento, volteggiano nell’aria come decori per la festività, svelando il dolce segreto dell’inverno, tuttavia, gli orizzonti segnano il limite alle giornate che fanno rivivere alla famiglia l’incubo dei fuochi della seconda guerra ma che magicamente, attraverso una nuova visione, ” l’incanto del Natale”
trasforma tutto in gioia.Una tradizione originaria, fatta di luci, di colori, di canti che vanno all’anima; una percezione straordinaria che schiude la porta del ato lasciando vivere i giorni che precedono la solennità nella più fervida emozione.
“ La Sicilia, in quel periodo, attraversa una stagione difficile: tratto dominante l’emigrazione. Il pranzo corrente dei contadini che abitano il paese era un poco
di pane due volte il giorno, mentre la notte, il triste pensiero della sopravvivenza, li teneva svegli.
La ricerca continua di un lavoro alternativo alla campagna era l’evasione della mente; nemmeno la limpida luce della luna che imbianca le acque può far sorridere il cuore. Scarsi mezzi di sussistenza, e insufficienti risorse economiche aggravano la condizione di povertà, quindi la ricerca di un nuovo lavoro divide tante famiglie dai propri cari, svuotando il piccolo paese dai propri abitanti.
La fase della vita di chi resta sembra conclusa e le alternative ben poche, tuttavia, alcuni interrogativi di sviluppo agricolo fluttuano nell’aria come occhio indecifrabile. Molti agricoltori aspettano che il governo proponesse un progetto per porre fine all’espatrio quasi obbligatorio di migliaia di contadini i quali costretti all’emigrazione per migliorare la propria esistenza e per un pezzo di pane che la propria terra non può offrire “.
Ora, la lettera che il nonno ha ricevuto dal figlio Alberto lo rende felice a tal punto che il sorriso si apre e brilla al pallido sole invernale.
Ora, finalmente, dopo tanti anni, i nonni possono riabbracciare il figlio: Alberto ritorna finalmente a casa.
L’amore non muore,
pur quanto distante la via;
giorni di pioggia, più dei tramonti infuocati; allegro il silenzio di una lettura, che, l’urlo di Munch, appaia ora innocuo sbadiglio;
perché gioia, il ritorno del figlio.
A volte, il potere arrivare, è più importante di come viaggiare, e il treno che viene verso sud, sembra un solenne giuramento, la trama fantastica di mille domande, di una terra che forse cambia e tuttavia, rappresenta una società che non è disposta a morire. Ora, l’amore per la patria, ora, il lungo silenzio avvicina ogni elemento di forza che non si può tradire. I giorni scorrono velocemente e la semplice apparizione del panettone nella piccola pasticceria del centro allieta ogni tormento. Il dolce della festa decora l'appuntamento annuale con l'impasto. La nonna attiva l’arte del cucinare e si attrezza per la preparazione di una cassata utilizzando vari utensili; ora poggia il matterello e prende una tortiera da forno e l’infarina; lascia macerare l'uvetta sultanina con i canditi di zucca nell’acquavite, snocciola le mandorle e i pistacchi e li taglia a listarelli piuttosto sottili; scioglie un poco di burro e lavora le uova fresche con lo zucchero fino a ottenere un composto omogeneo. Ora, poco alla volta aggiunge la farina setacciata con il lievito, quindi versa il composto di pistacchio e crema di mandorle insieme a tutti gli ingredienti. Quando l'impasto è pronto, Antonietta, imperlata di sudore, con un tocco leggero stende il tutto dentro una tortiera e la copre con una tovaglia di cotone imbiancata dalla farina e lascia che il segreto della magica lievitazione segua il corso. Il mattino seguente, la nonna inforna il preparato che lascia cuocere lentamente e il dolce profumo della pasta lievitata si espande a vista d’occhio mentre il piccolo Piero si inebria alla fragranza, girando e rigirando la ricotta zuccherosa con le braccia che frullano impazzite. La cassata siciliana, irresistibile, tanto sublime da sconvolgere i sensi al piccolo, e il desiderio di mangiare tutto e subito lo manda in delirio. -
No,
no, aspetta con pazienza -. Sussurra nonna, agitando furiosamente la lama
smussata -.
Il periodo che precede la festività religiosa è un'attrazione continua. In ogni angolo della cittadina si nasconde un profumo, una sensazione particolare che rende felice tutti, anche chi non ha nulla. Le ombre minacciose sembrano dilatarsi nella piccola piazza del centro e un piccolo falò dalle fiamme basse e tremolanti arde la legna sotto il grande pino che decora il circondario e i bambini in festa legano all’albero tante piccole stelle di cartone alimentando la tradizione che si distende in una lunga fiaccolata dove il o di centinaia di persone stretti da un insolito e strano calore manifesta un’espressione di felicità che confonde il sogno dalla realtà: speranza di una vita migliore.
Rompo di draghi;
stormi d’uccelli,
Ombra scura non vibra
non brama;
gioia l’entusiasmo e il sole;
non c’è odio nel cuore;
né peccato che grava dolore.
L'ultimo giorno di scuola serale: vacanze di Natale. Giò torna a casa in preda alla disperazione; la borsa medioevale a tracolla sembra una bisaccia che rimbalza ad ogni o. Nei pensieri nessuna mira d’ambizione, egli si sente come una miccia spenta, pronta a esplodere se qualcuno gli getta un’occhiata. Eccolo ora davanti alla fontanella che sorride all’acqua e il benessere percepito stringe la nostalgia che sembra motivo di sospetto. Il giovane sembra avere una perfetta intesa con l’acqua gelida che scorre a cannella e lo sguardo teso verso il liquido trasparente e freddo, ghiaccia le mani che tremano a ogni sorso e la lingua ammagliata e infreddolita accarezza dolcemente i denti riscaldandoli. Ora il giovane bacia il polso per riscaldarsi le labbra; drizza la schiena che poi riabbassa per prendere la borsa e si lancia verso casa. Giò si avvia per i vicoli stretti e l’animo muta nel canto; egli sa bene che da lì a poco sarebbe arrivato zio Alberto dal lontano Belgio e le porte chiuse si sarebbero riaperte d’incanto.
Capitolo Sesto
Soffia il vento della sera e la neve fiocca sui rami degli alberi e nei giardini velando le strade che sono già coperte di neve e le finestre sigillano le pareti per non fare entrare il freddo. I nonni in dormiveglia sognano il fruscio delle spighe battute dal vento mentre si arruffano ai loro panni e sembrano avvolti da uno strano silenzio che lì stringe in una morsa di gelo, tanto, che, l'impercettibile volo di una mosca, pare il trambusto di un tornado. Lo sguardo di Giò si abbandona mentre le foglie cadono dagli alberi come gemme preziose, mitizzando la natura di uno strano fascino. Ora strani pensieri colorano gli occhi e lo lasciano in una sorta di torpore. Il lume sopra il tavolo, il braciere pieno di carbone ardente riscalda appena l’ambiente. Una sensazione particolare accende il sorriso avvolgendo in uno strano brivido il corpo mentre il magico bagliore degli astri illumina gli sguardi dei anti che sorridono alla vita. Come un lungo tunnel che prosegue all’infinito, la fitta nebbia opprime il circondario e si dirada lentamente, spinta dal leggero venticello che schiarisce il paesaggio di un bianco splendente. Giò apre gli occhi e vaga tra le sue visioni; sfrega le mani al cielo e sorride. Ora saluta la famiglia e chiude la porta dietro di se. Nell’uscir di casa sembra avvolto dentro una nuova dimensione, il respiro affannoso gli fa pulsare il sangue fin su alle orecchie. Nel cammino si imbatte con Sasà, il mugnaio. Due parole, una stretta di mano e si avviano per la strada innevata.
“ Benché il ragazzo studi, i bisogni della famiglia gli impongono scelte di lavoro di ogni tipo; scelte che il tempo e il momento gli a “.
Le mani schizzano nelle tasche come saette e la sciarpa di lana ben stretta si arrotola e il vento la fa svolazzare stringendola al collo come un nodo scorsoio. Il ragazzo allenta la sciarpa che lo soffoca e con lo sguardo saluta tutti, giovani e vecchi, col sorriso tirato che affiora lentamente mentre il nevischio scivola sul viso col profumo di un giglio appena sbocciato. L’atmosfera sembra quella di una gigantesca nave che sta per affondare e i traguardi da raggiungere sono
contro il tempo. Giò resta qualche ora nella piazza, salutando con un tono di voce così basso da farsi sentire solo dai piccioni. Ora, ogni fibra del suo corpo sembra in preda a ogni turbamento.Chissà mai qualcuno avesse bisogno di abili mani poiché, qualche soldo in più alla famiglia farebbe sicuramente comodo.
Il giovane rivolge lo sguardo alla via principale; la guarda malinconico, ai suoi occhi l’estrema difesa nell’arrestare l’avanzata nemica al diradarsi delle nebbie.
Ora il mondo, una tela bianca che trascina dentro fievoli tinte, ora un tremore involontario, un respiro ansimante si stringe al triste lamento del vento causando inquietudine e lo spavento di un brutto presagio grava il sentimento.
Il giovane rientra di corsa a casa inseguito da una nuvola nera e il par di non trovare la via, espira lentamente e si appoggia i gomiti sulle ginocchia. Ora una timida voce si alza nelle tenebre che echeggia sempre uguale, che si sente appena, che tiene i ragazzi quieti e lo sguardo si accende d’improvvisa luce come se il manto serale d’un tratto illuminasse gli occhi e la natura assopita disegnasse un affresco di mille colori. Come un vinello invecchiato nelle botti di quercia per arricchirne il sapore, lo sguardo del giovane si apre all’aria fresca; respiro dell’anima che rilassa il corpo di un candido calore. Ora sorride alla natura che profuma di pioggia mentre il viso più roseo, allenta la tensione lasciando sulla pelle nuove sensazioni. Giò, incuriosito dal fascino spumeggiante della nonna affacciata dal balcone di casa che sorride al bicchiere che le balla in mano. Lei, con un dito arrotolato alla bellezza dei suoi anni. Lei, con lo sguardo meravigliato e attento, la mano stretta par legata alle guance rosse velate dai capelli e al battito del cuore pieno d’amore.
- Fai piano Giò, ti dico piano; è arrivato zio Alberto dal lontano Belgio, ci sono voluti tre giorni e tre notti di viaggio, ora mi raccomando, lasciamolo riposare -.
Tra le righe delle parole e la magia dei suoni, lo sguardo del giovane rimane immobile. Giò spia nel silenzio e ascolta le frasi pronunciate che si accordano bene alle note basse di un pianoforte scordato. Il buio si accende di una nuova luce e i pensieri traano e traspirano in una travolgente armonia e le parole dette trascinano pensieri gioiosi e straordinari che vengono attratti come satelliti di una nuova costellazione. Il ragazzo entra in casa timidamente; brevi attimi scanditi da piccole pause. Davanti a lui nonno Pietro; negli occhi lucidi, la felicità di un bellissimo momento che vuole condividere con tutta la famiglia; pensa che non ci sia cosa più bella di un uomo che cade e riesce a mettersi in piedi, da solo.
Nonno ricorda le tante bugie, a quanti lo hanno criticato, ma come un buon caffè che si riconosce quando metti lo zucchero, allo stesso modo non si può disprezzare l’ortica; una pianta che tutti vedono e disprezzano e che calpestano, perché non sanno delle sue proprietà benefiche. Capacità ed esperienza dell’uomo allietano la vita, perché il respiro del tempo come pazzia della vita, prima o poi contraddice e confuta il cieco destino nelle temperie delle parole.
Nonno Pietro in quel tempo fu costretto a fare fuggire il figlio in un paese straniero per non essere arrestato. Tanti anni ati da quel tragico fatto, ora, eccolo lì, Alberto, fronte a lui, come se fosse ieri. Nonno ricorda quando sedeva sulle ginocchia; quando lo stringeva al petto senza potersi staccare da lui; quando il tutto di quella tragica notte è diventato il niente di oggi. Sfidare il destino stringe nel cuore la speranza, e la speranza di riabbracciare il figlio, nonno Pietro non l’aveva persa. Occhi brillanti guardano il nonno, ora il viso si abbassa lento e non vede, non sente la solitudine né l’angoscia scura e triste di una lama sottile che affonda il petto e lacera parole. Il ragazzo improvvisamente si sente impacciato, come se indossasse una giacca stretta che lo abbottona e che lo stringe fin sotto il mento; o forse no! Forse niente di tutto questo! Forse è la forza dell’amore che gli scuote l’anima. Un cielo nero si apre alla luce e una nuova stella brilla nel cielo.
- Belgio, chissà se un giorno ci andrà mai, i vecchi del paese ne parlano, dicono
che basta lavorare per realizzare il sogno -.
L'illusione segna l'umore del ragazzo; come un corsaro che si getta con la sciabola sul nemico, in cuor suo, la ricerca del piccolo paesino Belga, “ Marcinelle “ ora si fortifica; ora la meta. La scoperta di una nuova terra varca per la prima volta la soglia della memoria. L'occhio attento del giovane ricerca il particolare. Giò guarda in ogni angolo della casa cercando di aprire i ricordi e con il recupero della memoria il riordino della vita. La speranza di un futuro migliore sembra proprio lì, nel lungo viaggio a bordo del grande treno dei ricordi che sembra essere arrivato. Il giovane stretto nella custodita da luci e ombre che sembrano giocare tra loro, attraverso gli occhi dei nonni condivide tutta la gioia, sino allo spasimo. Il piccolo Piero si avvicina alla stanza e guarda attraverso lo spigolo della porta socchiusa, poi con una leggera pressione delle dita la spinge.
Un leggero scricchiolio smuove la porta che si apre dolcemente. Giò vede a tratti la figura di zio Alberto adagiato sul lettino: alto e imponente, assomiglia al nonno attraverso il tratto vivente.
- Via di lì, Alberto è stanco, lascialo riposare -. Sussurra nonna Antonietta, tirandolo per un braccio.
La piccola casetta non è dotata di grandi confort, né adeguatamente arredata, tuttavia, tranquillità e sistemazione arricchiscono fortemente lo spirito di adattamento e il silenzio sembra inaugurare al figlio un piacevole soggiorno. La notte, finalmente, apre le danze alle stelle in una festa di suoni e sapori che rompono il silenzio in musica. Una nuova energia guida la voce che grida di gioia e le mani battono frenetiche; improvvisamente, si declina il tormento. Decine di persone invadono la piccola casa, svegliando Alberto.
- Abbetto, chiffà dormivi? Chi si dici ah, quantu avia ca un ti si vidia! Comu
finiu a lu Bergiu, chi ti misiru all’ergastolo! -. Grida Peppino, un vecchio amico d’infanzia.
- E chi sava diri Pippinu, a mia all’ergastolo e a tia nì corna! -. Replica Alberto, sorridendo appena, appena.
- Hhaahaa …Tortu hai. Prima lassami maritari e pò parlammu di corna! -.
I nonni, presi dal clima festoso accendono alcune torce e solo grazie al loro bagliore arancione che coinvolgono tutti nel quartiere. Nel corso della notte il vino scorre a cannella e il pavimento diventa viscido e scivoloso tanto che Raffaele e Concettina scivolano per terra aggrappandosi ai lembi della tenda come due sacchi di patate. Ora nonno li aiuta ad alzarsi e corre a prendere uno straccio. Pietro abbassa la schiena e s’inginocchia per pulire quando il piccolo Piero gli sale sulle spalle tra le risa di tutti. Un fumo bianco esala dalle lampade accese che illumina la casetta in una notte magica mentre nonno lava lo sporco usando vari mezzi, muovendosi gattone con il nipote in groppa che lega i piedi al collo. Ora nonno si alza e porta le mani al fianco, strizzando i denti. Il pavimento, tuttavia rimane piuttosto viscido e se non si cammina in equilibrio o non si afferrano le cose con la giusta presa, si ricade in ogni direzione. La notte scorre piacevolmente, ma con l’arrivo di molti amici il sorriso dei nonni scivola dalle labbra come un raggio di sole che si spegne sull’orizzonte. Totuccio allegro e gentile, dal sorriso malizioso rigira i baffi aguzzi che crescono a dismisura lungo il labbro superiore. Egli tiene stretto tra le dita un fiore di campo che gli scivola al petto e i petali danzano come onde spumose che si formano improvvisi e urtano le guance. Totuccio aspetta da anni il primo amore e lo stelo sembra coglierne il significato. Ora gira e rigira velocemente il fiore e i petali volano via disegnando una traccia indelebile. Ora strappa un altro petalo: “ M’ama o non m’ama “. Incollerito dal finale “ Non m’ama “ il viso si scura ma poi si colora di una nuova speranza: fronte a lui Sariddra il suo alito caldo sa di vino aromatico, ora sfoggia la caviglia, abbassa gli occhi e sorride appena, appena. Seduta all’angolo, una nonna curva lavora con l’uncinetto. Lavora a testa bassa e orecchio attento. Nonna Pina sente tutto e quasi non si accorge della notte e del
via vai di persone che affollano la stanza e si arrabbia spingendoli perché rubano la fievole luce. Ora, per vederci meglio, strattone dopo strattone si avvicina al lume a petrolio che pende dal soffitto; si avvicina alla luce con un balzo tanto che non vede il piede e lo calpesta con vero ardore. Ninuzzu sgrana gli occhi e lancia un grido di dolore come se l’anima gli sfuggisse dal corpo. Nonna Pina chiede gentilmente scusa, stringendo i suoi centrini di cotone al petto. Dopo la morte del figlio in guerra e il marito poi, l’uncinetto come tragitto della stessa vita sembra allontanare tristi ricordi e, nella consapevolezza che ora il senso della vita è aspettare l’ultimo sole, si aggrappa all’unica cosa che le permette di vivere dignitosamente, lasciando spazio solamente al fascino creativo e al suo buon cuore.
- Bevi. Bevi! E non ti preoccupare! -. Sorride nonno Pietro, allungando il bicchiere di vino verso Gaetano.
- So che stai per sposarti e che devi promettere fedeltà per tutta la vita, sai, per tenere a freno tutte le emozioni ci vogliono tanti e tanti bicchierini di vino zibibbo, ora un brindisi!!…. Dai, alziamo i calici!! “ Salute, ci dissi lu bicchieri alla cannata! Tu sì la speranza di la me jurnata! -.
- Perché, bisogna essere ubriachi per dire si?-. Replica Gaetano.
- Assolutamente no!! Tuttavia, più bevi e meglio è!! Dai retta a me! -.
In quel preciso momento, nonna Antonietta: - Ho sentito tutto!! Cosa vuoi dire aahh! Vuoi dire che il giorno del nostro matrimonio, quel pianto tuo di gioia fu solamente un falso? -.
- Ma quale falso, ma cosa dici, sono stato cosciente e ti ho giurato fedeltà per tutta la vita... Mahhh …Mah cosa vai a pensare ah? -.
Alberto si gusta la scena con la serenità di chi guarda un tramonto in riva al mare. Ora, rincuora gli animi dei genitori: - Mamma, papà, domani sbiancherò la sala, secondo me serve una mano di pittura -. Replica, per raffreddare gli animi bollenti.
- Ma che stai dicendo? Qui si parla del matrimonio e tu pensi a pitturare la sala?
-. Grida nonna Antonietta, grattandosi i lunghi capelli brizzolati.
- Mamma, a volte serve una mano di pittura per stendere un velo pietoso sui piccoli difetti! -. Sussurra Alberto, trattenendo appena il fiato, pronto per una grossa risata.
- Difetti? Ma quali difetti! Finiscila! Piuttosto, guarda tuo padre! Vedi quanto è pietoso? Lui sì che è pieno di difetti! -.
Ora, il padre guarda il figlio.
Occhi brillano di commozione;
lacrime splendono e sfiorano il cuore che palpita; mani punte dai raggi velano sfide;
parole abbagliano silenziose;
colpiscono e arrivano senza lustro di comando, senza parlare.
E frutti e fiori si guarda lontano;
tra mille ricordi,
l’ignoto tende la mano;
e se ciò che accade ha un senso;
gocce di vita nel pianto ma,
la memoria grida al vento.
Chissà, forse i nonni in quel preciso momento pensano a un futuro migliore.
Chissà, gioia e dolore forse trovano pace nell’abbandono del cuore.
Il rintocco dell’orologio segna la mezzanotte e i discorsi si allentano nella musica che disegna e fiorisce in un continuo suono che rende gradevole i sapori. Gli ultimi amici sono andati via, nascondendo la malinconia sotto l’ombra di un sorriso, ma che tuttavia sono andati ben sazi, avendo prosciugato tutto.
Antonietta si ritrova accanto al figlio il quale rimette a posto bicchieri e tazze vuote di caffè, ripulendo alla meglio la cucina. Ora poggia la mano sulla spalla e lo guarda come se volesse dirgli: - Non ti lascerò mai -.
Col viso stanco e la veste macchiata, nonna ricorda quando lo teneva in braccio e il dito sulle labbra giocherellando. Ora, se pur vive nuove emozioni, il gelo che porta dentro si scioglie lentamente nello sguardo sorridente del figlio.
Nonna Antonietta piena di commozione non riesce a parlare, pur tuttavia ricorda a se stessa di non averlo mai perso, e di non aver mai smesso di amarlo sino alla disperazione, più della stessa vita. Ma, nell’aria sente la collera scellerata di un brutto presagio, come se l’ombra del male volesse abbattersi ancora e ancora. Collera dei ricordi e del silenzio che si spoglia quando si perde un figlio e non si crede più alla vita, né alle stelle. E lei credeva di averlo perso.
Ora Antonietta si guarda intorno e vede un mondo nuovo; stringe la speranza come la collanina d’oro che Alberto le ha regalato, che le apre il cuore e sembra averle portato il sole. Il nonno, seduto nel gradino più alto della scala, improvvisamente ringrazia le stelle del cielo mentre aspira l'ultimo pezzo di sigaro Belga. Avvolto nel suo segreto ora guarda il manto stellato come un universo semantico, applicando ai segni un significato.
- C’é della magia questa notte, non sembra neppure inverno, non so il perché, ma avverto sulla pelle strane sensazioni -.
Piero, se pur animato da buoni propositi già dorme come un ghiro, mentre Giò, con le scarpe in mano si massaggia i piedi che fumano dalla stanchezza peggio dei sigari del nonno - A dormire! Si è fatto tardi ! -. Grida la nonna. Nel buio della notte Giò insonne sporge il capo a destra a manca e al di sopra del cuscino.
Si gira e rigira nel letto come una trottola. L’odore di vino si riconosce dal suono di tamburo che rimbomba con fragore nella testa, e ancora come potente concentrato sulla maglia che pizzica il petto. Ma i continui spostamenti e il pensiero delle domande che dove porre allo zio lo sfiancano a tal punto che finalmente dorme in preda alla disperazione. Nel sonno avverte un suono simile al frusciare del vento e si vede avvolto dentro un soffice cuscino tra fumo e visi stravolti ritrovandosi in un grande spazio tra lo strepitio e ululati di lupi selvaggi. Ora, il grande spiazzo nella visione di un’antica formula per magia si trasforma in un viale alberato e Giò si ritrova dentro le vesti di un monaco scano. Con lo sguardo scopre il senso di meraviglia che lo lascia attonito.
Un’oscurità inattesa lo pone di fronte a un bivio che divide un immenso canale.
Giò trema, si massaggia le braccia cercando di scacciare il freddo che gli penetra fin dentro le ossa poi, sceglie la strada polverosa che conduce ai monti. Ogni o sembra sepolto dentro una cortina di fumo mentre lo sguardo domina la visuale e la mano sfiora la punta del bastone che batte la terra con tale violenza come se a ogni battito il ramo volesse scoprire una fonte di acqua cristallina. Il cammino prosegue incessante; più si addentra nel sentiero e più il pensiero fissa l’unica domanda alla quale non sa dare risposta: - Marcinelle -.
Mettere in discussione le convinzioni attraverso i fatti è sostenere il potere della forza spirituale attraverso la ragione e la ricerca della verità, una corrente gelida che dilaga i sensi. Ma il bastone batte ancora la terra e il respiro si fa sempre più forte quando il terreno diventa simile all’argilla e come una trappola di fango gli
sprofonda dentro. Giò scuote il capo si agita sul letto, gli occhi si allargano, la voce si ingrossa e la mano tesa colpisce con violenza il materasso. Ora si libera dal fango e alla stregua di un arrampicatore di montagne rocciose muove il corpo con la foga di arrivare velocemente alla vetta. Una volta lì giunto, stremato, il tormento finisce e dolcemente si abbandona al sonno. Il canto del gallo sveglia nonna Antonietta. Ella stanca e piena di dolori si alza a fatica dal letto; stringe i denti, ma sembra che non basti. Anche se i dolori lacerano il corpo, lei ora è felice come mai nella vita; muove le braccia come danzatrice indossando subito la veste nera che aggiusta prontamente. Anche se la terra è avara e la povertà spinge gruppi rivoluzionari a seguire nuove sfide, lei non chiede clemenza dalla vita; spinta da chissà quale mistica forza, volteggia tra piatti e tazzotte apparecchiando la tavola con quello che si ha e con tale velocità che sembra avere la metà dei suoi anni. Antonietta poggia le posate giornaliere sopra la tovaglia, taglia il pane a fette e versa nelle ciotole il latte appena scaldato.
- C'e' un poco di caffè? -. Borbotta Alberto, strusciando gli occhi ancora assonnati. Piero siede e con sua grande sorpresa guarda la tavola spoglia; egli non vede neanche l’ombra di un biscotto Belga.
Con ammirevole calma chiede alla nonna che fine avessero fatto.
- Finiti!! mangiati tutti! -. Ripete la nonna, alzando lo sguardo al cielo pieno di stupore.
- Fineru tutti? Non è possibile!! Non ci credo! Nemmeno un biscotto è rimasto?
Nemmeno una briciola? Niente? -.
L'amaro boccone si scontra come barriera invisibile portatrice di un vento debole che si stende sugli oceani.Piero, sconsolato, serra le labbra e sminuzza il pane dentro la ciotola piena di latte mentre il grembiule della nonna si stende e decine di biscotti cadono sul tavolo come fiocchi di neve che si sciolgono tra risate e parole. Uno spesso strato di nubi copre il cielo, ma lo zio è ansioso di visitare posti a lui tanto caro in gioventù e si vuole gettare a capo fitto nei trascorsi, seppur oramai privi di importanza, né di freschezza giovanile tuttavia, egli vuole rivivere momenti importanti della sua infanzia. Un ato pieno di avvenimenti e curiosità che invade da tempo la sua mente tanto che non sta più nella pelle dal desiderio di uscire dalla casa e fare una lunga eggiata per il centro del paese: la chiazza.
“ L'antico paese, situato in collina, riflette la superficie dei monti. Il Calvario (nome di monte) sovrasta alto.
Un territorio straordinario capace di arricchire chi lo scopre; atmosfera magica che avvolge il circondario in uno scenario di grande trasformazione di colori e l’arcobaleno che fa da collante al territorio, ricopre la vallata di una tale bellezza che profuma di aria fresca che carezza e soffia sulle foglie che danzano trasportando di tanto in tanto qualche ramoscello strappato bruscamente dalle intemperie, mentre gli alberi, ormai sfogli, ricoprono gran parte del territorio. Il bianco si spande sulle vette delle montagne rocciose che primeggiano per i cieli dove si scorgono con grande sensibilità nidi vuoti di uccelli predatori dai possenti artigli e dal robusto becco ricurvo “.
Fulgido il ato, Alberto lo rende manifesto; insieme ai nipoti percorre il ripido sentiero che attraversa la grande valle. Grande ione l’incognita del tempo. Alberto guarda lontano, quando vede la cinta delle mura antiche, gli occhi si illuminano come stelle del firmamento. Egli nota lo splendore di un’epoca senza tempo dove la furia della seconda guerra mitizza il disfacimento e lo scempio in devastazione e sgomento. Ora Alberto scorge l’antica costruzione che si mischia tra arte e pietra, carezzata dalla bellezza: la porta di Santo Rocco.
La mano dell'uomo che volle celebrare il lungo tragitto in un territorio nella zona di confine tra vecchio e nuovo; visibile in una fioritura di colonne incastonate nella roccia. I Greci, dalle coste tentarono di risalire le vallate, proiettandosi in un processo di colonizzazione, durato secoli. I metodi violenti della seconda guerra fanno affiorare le rovine nella vecchia contrada che identificano uno sviluppo che non si è mai ripreso. La guerra aveva falciato i risparmi e il piccolo paese era precipitato nel caos ma il cambiamento è nella capacità di associare contrasti e avvenimenti con il territorio che spinge la fantasia tra mille ricordi.
Le parole, come note musicali, ora gli escono a grappoli dalla bocca riformulando strane domande che i nipoti non riescono a capire. Dopotutto, chi è nato in quella terra e si ritrova emigrante, prima o poi ritorna certamente alla sua terra, anche se, il linguaggio di una nuova nazione, dopo tanto tempo porta a una strana espressiva.
Al calar del sole,
un suon armonico di voci risuona ancora; bussa il vento sulle sferzate guance;
pioggia cede il o al soffio favorevole di uno spirito contento.
Alberto e i nipoti percorrono la strada tortuosa che si snoda tra mille sentieri dove i segni della guerra ancora si notano. Ora, però, a nulla vale il morso del ricordo, ora è il tempo di assaporarne la pace. Come piccole stelle cadute dal cielo, Alberto, Giò e Piero, corrono per la discesa e non si va avanti che a spintoni, con lo slancio di chi vuole tagliare per prima il traguardo.
D’improvviso Alberto ferma il o; lo sguardo sull’infinito sembra rimettere insieme i pezzetti dell’anima. In quel preciso momento, studiare la vita stringe una visione diversa delle cose. Ora Alberto gira lo sguardo nel ricordo di una dolce poesia che allieta i sensi. Una ventata di aria fresca carezza il volto mentre lo sguardo gira. Occhi fissano la miniera di zolfo e il sorriso si spegne: - Non sono eroi, ma chi lavora a quelle condizioni, deve per forza esserlo. Poveri Carusi; piegati dalla fatica, tanto da non poter muovere un solo muscolo. Forse si sentono liberi, ma lavorano per un tozzo di pane e seppur non ci sono nemici da combattere, strisciano a denti stretti attraverso cunicoli tra le insidie dei suoi nefandi labirinti fatti di crolli, allagamenti e di crepe che ingoiano vite umane tra le più atroci sofferenze. Mi ricordo Fofò che non ha trovato riparo, l’avevo stretto tra le braccia e non mi parlava; poi, chiuse gli occhi come un bambino affamato di sonno. Ricordo lo sgomento dei compagni che puntellavano con rabbia la galleria, altrimenti il crollo delle pareti ci avrebbe ammazzato tutti. Povero Fofò, le macerie lo hanno seppellito, deposto nella tomba all’improvviso. Un crollo maledetto che non so spiegarvi -.
Giò e Piero si abbandonano al dolore, senza parlare.
- Se non sono eroi, cosa sono? -. Sussurra a bassa voce, sollevando lo sguardo, abbottonandosi la giacchetta per sviare gli sguardi pietrificati dei nipoti .
Per mantenere il controllo e vincere la paura Alberto infila la mano dentro la tasca, sfila il pacchetto di sigarette e ne accende una. Il calore brucia il tabacco; brucia il corpo in trappola tra le sabbie di un deserto arido che lascia in bocca null’altro che un sapore amaro, mentre il fumo si alza al cielo liberando il presente dal ato.
- Questo giorno è consacrato alla memoria dei miei amici morti sotto il crollo di una galleria e il mio pensiero va a quanti di loro sono ancora sepolti sotto le macerie. -. Sussurra Alberto, con le lacrime agli occhi.
- Anni difficili. Pensare a quanti padri a quante madri discese la miniera consumati dall’angoscia. Era meglio una coltellata al cuore che vedere i propri ragazzi morti sotto le macerie -.
Uomini che nel fiore, nei gesti,
ma nel respiro la forza;
uomini tranciati dall’invisibile come spighe; uomini che stringono il nodo nelle fosse; innanzi tempo;
raggiro di una falce al compimento.
Ci sono cose che non cambiano; ci sono momenti in cui si dicono cose che non si pensano; tuttavia, Alberto ricorda la sua vendetta.
Il terrore diventa strumento di vendetta; Alberto ricorda uno scoppio seguito da un incendio devastante; ricorda le guardie che avanzano verso di lui.
Impaurito, scappa scalzo coi capelli arruffati dal botto.
Alla mente sfuma la visione del crollo della bocca della miniera.
Miniera destinata a influenzare il cammino della vita; che la sacrifica;
miniera che dà la morte;
la colpa, inevitabile destino.
Esplosione di un tuono a ciel sereno.
Nonno Pietro quella notte corse a casa prese i documenti del figlio, slegò la mula dalla mangiatoia e neanche il tempo di pensare al fardello troppo pesante, andò a parlare a compare Tano. Alberto ricorda il padre che vendette in anticipo il futuro raccolto per racimolare subito qualche lira; ricorda che salì sul camion ancora con la faccia piena di polvere e senza capire il come, era già sul treno con una valigia di cartone in viaggio oltre il continente. Confuso e con la mente annebbiata dagli eventi Alberto guardava attraverso il finestrino, le nuvole nel cielo aspettando che la pioggia bagnasse il viso mentre il treno sfrecciava. Dentro i vagoni, una generazione di giovani contadini, prigionieri dei propri sogni.
- La libertà, la vera conoscenza: una cosa davvero preziosa, quando c’è l’hai, tienila stretta, altrimenti vola via -.
Ora, il pensiero è rivolto al padre. Lo vede davanti al braciere che intreccia una coffa (cesto) e nonostante tutto, nonostante l’età, nonostante la vista che non lo accompagna, riesce ancora con il suo lavoro a portare a casa un tozzo di pane.
Alberto non avrebbe mai pensato che la palma nana diventasse il sostentamento primario della famiglia.
“Palma nana: pianta della macchia mediterranea. Per decenni contribuisce non solo alla singola economia, ma a quella dell’intero paesino.
Nei freddi mesi invernali, quando l’agricoltura tace e il lavoro diminuisce, l’unica fonte di reddito è la produzione di ceste, cordame, contenitori di varia grandezza, utilizzati nelle attività agricole “.
Come un gelido graffito, Alberto ricorda i tristi eventi dell’adolescenza.
Egli, legato fortemente alla sua terra, la costrizione di scappare dal proprio paese lo sconvolge ancora, come la notte che non trova mai la luce.
“ Intorno agli anni 50 la ricerca di un lavoro conforta la speranza di trovare una vita e un futuro migliore. Ma un difettoso tema di sviluppo economico nazionale, privilegiando le industrie del Nord e mortificando l'agricoltura, ha fatto sì che il mezzogiorno non ha visto che le briciole del cosiddetto miracolo economico.
La Sicilia ha pagato amaramente e con un massiccio esodo di gente che si riversa nel settentrione d'Italia, nei paesi della Comunità Europea e in altri Continenti, creando così la fortuna degli altri. I meridionali, gente povera, maggior parte contadina, da tutto ciò non acquisì che privazione di ogni genere e feroci discriminazioni che si sono tramutate in valuta pregiata per la casse dello Stato, impiegata per irrobustire la ricchezza del Nord.”
Emigrante;
Azzurro indefinito;
dissolvi ogni sorriso;
risali il tempo nel buio del racconto;
guarda il cielo, non piove;
non una goccia che cade.
Incerto moto immaginario;
vivo ricordo senza identità;
grava la pace, sovrapponi sgomento;
in fondo, la radice è nel tempo.
Così, come l’acqua che si scava la strada attraverso la roccia per raggiungere il mare, il moto spento di Alberto riaccende la gioia che accompagna la memoria nel ricordo della felicità.
Capitolo Settimo
Fiocchi bianchi, melograni in fiore,
lanceolate foglie, sospiro d’amore;
cantico gioioso avvolto dagli astri di vario colore; soffio di vento si ascolta sul cuore;
Nuova memoria prende luce dal Re della vita; arriva dal cielo all’anima nella gloria dei silenzi; d’incanto, pace e magia,
sospinge leggera voce in melodia.
Musa ispira poesia,
danza cometa nel cielo, culla nel sospiro le braccia, tra Giove e Saturno,
ora, nessuna traccia.
Scuoti la terra, tu che sei santo.
Innalza lo spirito degli uomini, in un solo canto. Alleluia… Alleluia.
Ogni scarto del silenzio traccia il pensiero con la luce che brilla gli occhi e il becchettare dei eri sulle molliche di pane distese sul davanzale della chiesa carezza il canto di preghiera dei Cristiani. Voce sottile accompagna il gesto della mano nello sgranare il Rosario e, nel pensiero, infinita bontà e misericordia. Il Divino sembra comunicare agli uomini la speranza di chi vive la vita di Cristo e gli animi infiammano al canto naturale delle donne per la gioia della natalità. Nella solennità liturgica in cui si ricorda la natività di Gesù Cristo, l’impulso di dominare il male attraverso il valore del giusto, rinnova ogni anno l’attesa fiduciosa per la conquista del bene, nel desiderio di nutrire la coscienza degli uomini, in cui il divino ripone ancora speranza. Nel piccolo paesino, le campane si intrecciano gioiose e squillano sui campanili accompagnando il o della lunga processione di contadini, pastori e zolfatari, vestiti dalla luce di una verità soprannaturale. o dopo o, canti solenni ancora vivi nella memoria di anziani arzilli, vibrano nell’aria; anche se esagerano nel tono, il componimento religioso sveglia l’animo della gente in festa che gioisce alla piccola associazione clericale. La forza della mente allieta il cammino che si protrae sino alla porta della chiesa Madre, dedita alla SS. Trinità mentre centinaia di genti ora affollano il grande piazzale e una fievole luce filtra attraverso la finestra della navata centrale, abbagliando l’interno della chiesa e le colonne di marmo brillano rendendo magica la forza della natura. La gioia del figlio appena tornato rallegra la festa del Santo Natale e tuttavia accende il tumulto degli animi che si agitano in un violento conflitto e gli occhi si consumano al pianto nascosto dal dolore che stringe il cuore. Il futuro incerto e scostante preoccupa i pensieri di tutta la famiglia; visi taglienti smussano angoli.
Il giorno più bello è finalmente arrivato e l’ansia sminuisce nel suono delle campane che vibrano a festa. Il nonno a un tratto stringe i pugni; sembra illuminato da un brutto presagio. Il pomeriggio si allontana nella fitta nebbia che si leva dal mare, avvolgendo le stradine del piccolo paese in un manto gelido e il
grigiore del cielo talvolta si apre in un bianco abbagliante lasciando uno spiraglio alla luce che filtra attraverso le nuvole. Nonno Pietro ignora le fitte lancinanti ai polsi, scuote la testa e si affaccia dal piccolo balcone di casa aspirando una sigaretta mentre gira lo sguardo alla piazza. Egli guarda la folla eggiare felice nell’ora più bella e tuttavia gli pare di trovarsi solo; ora alza lo sguardo al cielo e stringe gli occhi, preoccupato da chissà quale inquietudine, da chissà quale omerica tragedia. Una nuvola nera scivola lenta ombrando il circondario. Ora il nonno abbassa lo sguardo e vede una donna che a sotto casa. Ella ha i capelli sciolti, le vesti lacere e stringe la mano in un ramo d’albero arrotondato, tanto che sembra un bastone animato. Pietro la guarda con un velo di tristezza e non si spiega perché, nel giorno più bello, quella donna, che non sembra una vecchia pazza, gira per la strada in quel modo strano. Non sono certamente i soldi che le mancano; il luccichio degli anelli d’oro che brillano a ogni movimento delle dita le danno grazia e personalità, della quale non si addice a una poverella, anzi, sembra una nobildonna abituata alla vita di società. Il tempo di sollevare lo sguardo, di rivivere un piccolo ricordo, che gli stringe un nodo in gola. Come un sistema nuvoloso che si muove improvvisamente in uno strano gioco magico, lo scenario apparentemente tranquillo travolge la vecchia signora dentro una luce e scompare in uno strappo temporale. La scena sconvolge nonno Pietro, lo turba profondamente. Gli occhi brillano di meraviglia. Il riguardo della donna oscilla alla mente tra reale e immaginario, imprimendo strani pensieri come trama fantastica di un film mai visto o semplicemente, come scherzo della memoria.
Una voce echeggia: - Assabebedica Pedru -. Saluta un signore.
- Salutammu, salutammu, -. Replica nonno, scuotendo la testa - Per caso avete visto una donna vestita malamente, tutta di nero, una poverella insomma, che sembrava chiedere l’elemosina? -. Continua.
- No, Pietro, davanti a mia nuddrù c’era! Chiffà ancora dormi !? -.
Il nonno ricambia il saluto e prova a chiudere gli occhi, cercando di dare un senso a quello che aveva visto, ma fu distratto da un nuovo bagliore. Ora un lampo squarcia il cielo oscurando lo spazio indefinito e una goccia cade sulla mano, colorandogli il sorriso. La meraviglia accende il mistero. Come se qualcosa o qualcuno, in quel preciso istante volesse dirgli: - E’ Natale, non soffrire più -.
I pensieri scivolano sui colori accesi dalla fantasia quando il cielo si tinge di rosa e si apre nell’azzurro di fuoco. Sembra l’inizio di un tramonto contrassegnato da avvenimenti particolari, l’inizio di una nuova e magnifica era. Lontano, uno squarcio antico e muri cadenti da rilievo alle strade innevate costeggiate da alberi di ulivo, tra le risate dei anti. Il nonno prende dalla tasca il trinciato e arrotola un’altra sigaretta. Gli occhi si asciugano mentre la nebbia si dirada. Tra le dita la sigaretta brucia lentamente e il fumo si alza nello spiraglio di luce del chiaroscuro della sera. Pietro, accarezza l’erba cipressina con i suoi fiori a ombrelle spingendo lo sguardo verso la luce che ora splende forte e intensamente. Gli pare che la luna d’improvviso sorridesse alla terra in un tempo irreale. Inconsciamente, fu spinto a chiedere una grazia: - Dio, proteggi la mia famiglia, fa che sudori e sacrifici di un’intera vita, non siano sparsi nel nulla -.
Bianco colore sparso dal vento;
pensiero semplice, sospeso dal tempo;
profondo nell’animo, umano sentire;
canto libero, pronto a morire.
Tutto è pronto per il luminare in onore del Gesù bambino. Dopo il brusco mutamento del territorio, a seguito di un devastante terremoto che colpì improvvisamente il paese, le persone che rimangono a casa la notte della vigilia Natale non sono poi tante. Le strade buie sembrano stringere segreti con i vicoli illuminati dai lampioni a petrolio mentre il cielo si riempie di stelle quando la famiglia si prepara per andare a messa e l'aria fosca svanisce quando escono dalla casa. Durante il tragitto, la famiglia veste di uno strano calore e i i veloci che accarezzano la neve sciamano attraverso vie apparentemente prive di ogni segno di vita. Sembra una delle famiglie più felici che abbia mai popolato il paese, che scuote la coscienza di un grande sentimento ardito e ridente che stringe nella gioia la consapevolezza che si regge davanti a un grande moto affettivo. Il suono antico di tamburi vibra il circondario e si fonde con gli elementi primari della terra, mentre il freddo gelido sbarra la strada avvolgendoli completamente; Increduli, vedono centinaia di persone ammucchiati davanti la chiesa: un muro invalicabile.
- Seguitemi -. Borbotta nonno Pietro.
- Conosco una scorciatoia -. Continua.
Entrano in chiesa dal retro. Nonno, con la scusa di salutare Don Tommaso, parroco del paese, cerca di eludere la folla.
- Pietro... Antonietta! Che gioia rivedervi... Alberto, quanti anni ... - Domanda il parroco, fermandosi sulla soglia del primo gradino a guardare l'azzurra nebbiolina che comincia a salire dal terreno.
- Mi raccomando Pietro, non fare come al solito che scappi a metà cerimonia, anche perché, se non ti vedo seduto fronte! A torto o a ragione ti faccio recitare cento Rosari! -.
- Tranquillo padre, fuori ci sono tante di quelle persone che cercano riparo dentro, che non potrei uscire neanche se lo volessi. -. Ribatte nonno, tirandosi il colletto del cappotto fino alle orecchie, calando la testa tra le spalle.
“La chiesa, dedita alla SS. Trinità, valorizza la piazza del paese.
Entrando si percepisce l’anno di costruzione. Sulla parete della navata centrale: Gloria Tibi Sancta Trinitas 1640. Un’aureola di misticismo avvolge i raggi dorati che prendono luce dalle ampie arcate colorando il crocifisso donato al convento dai scani e trasportato successivamente in chiesa dall’arciprete Agliate nel 1937. Attiguo alla chiesa il monastero. Abitato dai monaci, dopo la soppressione della corporazione religiosa andarono via tutti e il convento rimase deserto. La fede religiosa conserva in uno scrigno uso e costumi: tendenza spirituale tesa a intensificare l’esperienza diretta che lascia nell'animo un'immagine di commozione e stupore.”
Dopo una notte di partecipazione religiosa, un caloroso abbraccio riscalda i cuori e una stretta di mano rasserena ancor di più. Sulla via del ritorno, il freddo gela ogni cosa. Giò e Piero cercano di quietare il freddo pungente, soffiando forte alle proprie mani, cercando di riscaldarle alla meglio e, o dopo o, si stringono l’un l’altro, calando il viso dentro il cappotto, allungando sempre più il o verso casa. La famiglia sorride al cielo stellato della notte, spontanea e improvvisa, immersa nei suoni caratteristici della festa che racconta la vita. Commossi per lo sguardo ridente del figliol prodigo appena tornato, i nonni catturano l’essenza della vita e rientrano felici. Il mattino seguente Giò si sveglia di buon ora, la bocca aperta a intonare un canto che pian piano diventa sbadiglio, poi, piccole sequenze la forza del rito del nuovo giorno; ora il giovane batte forte le ciglia e socchiude gli occhi pensando che forse ci sia ancora tempo per alzarsi dal letto. I prati innevati si mostrano calmi e tranquilli in tutta la loro bellezza, nemmeno un alito di vento sfiora le cime degli alberi mentre l’acqua scorre dai campi e profuma l’aria svegliando l'aurora che rischiara il cielo di una limpida luce. La neve trattenuta dagli alberi avvolge nel suo manto il sereno del mattino
colorando il paesaggio di un bianco brillante che strappa la quiete dall’onda di un fragoroso entusiasmo. Il grande orologio incastonato nella torre della piazza principale, rintocca le campane svegliando il piccolo Piero. Pallido in viso si alza contento, sfregandosi gli occhi coi pugni e il pensiero va al grande pranzo che la nonna avrebbe sicuramente preparato. Giò seduto sul letto guarda fuori dalla finestra il magico scenario e l’angoscia stringe il desiderio di partire con lo zio. Egli vuole parlare con Alberto, comunicargli tutto quello che sente nel cuore; che è pronto per il grande o, ma, come un drago che osserva e preme contro la propria coscienza osservando ogni piccolo pensiero sente frusciare un vento forte e rabbioso che si leva da ogni angolo della terra e stralcia ogni cosa al aggio, allo stesso modo, una premonizione improvvisa gli strappa il sorriso. Forse ci sono tanti modi per dire le cose; forse le grandi menti hanno gli stessi pensieri, quindi, in fondo all’anima Giò spera che Alberto capisse il desiderio, e che fa finta di nulla per il semplice motivo che non vuole che abbandoni la famiglia. Il ragionamento si spegne all’arrivo della nonna.
- Il pranzo è quasi pronto, tutti a tavola ! -.
Il leggero languore diventa insistente, tuttavia, l’appetito di Giò sembra perso, smarrito come il proprio senno, i capelli si arricciano sulle tempie e la malinconia triste come un miraggio creato dal calore che affiora e carezza il viso si trasforma in vento tiepido che annuncia e sfiora poi, la tempesta. Giò vuole partire con lo zio, portare con sé la piccola valigia piena di sogni e desideri: vuole toccare con mano una nuova nazione per migliorarne la vita propria e quella della famiglia. Ora, però, è il momento di mangiare, anche perché l’agnello al sugo con le patate fuma e trascina un gradevole odore che ipnotizza tutti vicino alla pentola. Giò alza lo sguardo, sembra rasserenato, tuttavia guarda con occhi spenti la tavola imbandita e sfiora la bocca con la mano al gusto delle squisitezze che la nonna prepara di continuo ma, in cuor suo, accarezza una risoluzione importante. Una decisione che gli cambierà per sempre la vita. Fugace il tempo e i giorni di festa ano velocemente. Il trascorrere degli eventi evolve in una sessione di istanti che, il fluire delle cose accende indimenticabilmente un sogno perduto. Piero rivede nello zio il padre. Una visione complessa frantuma il moto tellurico nell’estensione illimitata del tempo ato; uno strappo temporale che non sfugge ma sostenta la speranza nella
paura di una nuova divisione. Nel profondo del cuore i ragazzi pregano che non arrivi mai il giorno della partenza dello zio e continuano a vivere le giornate che si caratterizzano sempre più nell’angoscia; come una feritoia che intravede un punto debole e la paura solleva l’inquietudine nell’intenso turbamento. Una preoccupazione che i ragazzi conoscono bene e che il crudele destino ora sembra voler risvegliare.
Chimera.
Lontano dai giorni;
lontano tra pieghe della memoria;
frammenti di polvere ricadono negli occhi di chi sconfitto muore; ma l’orgoglio resta,
annienta parole;
annienta profondo dolore;
profonda sofferenza che strazia il cuore.
Il tempo a in fretta e per la famiglia, il giorno dimenticato; il giorno della partenza arriva come un fulmine al ciel legato. All’alba Alberto avrebbe afferrato le sue grandi valigie e sarebbe ripartito, scomparendo nella nebbia
gelida della mattinata. Il rintocco segna il tempo con una leggera seduzione, mentre il bianco fioccar della neve spezza il cupo silenzio che assorda le orecchie e sembra schiudere la porta del ato. Alberto sistema le valigie e siede amareggiato. Egli guarda fuori dalla finestra e pare aver perso il fiato mentre prepara la partenza; pare aver perso il filo prezioso che lo lega alla famiglia. Ora abbassa il capo sulle ginocchia e si deprime, come se in quel momento si trovasse fronte a una minaccia, come se ogni gesto fosse pervaso da immane sforzo e ogni parola, tremenda fatica. Ora non sente il grido che lo supplica di non partire, immerso nel proprio conflitto con l’inquietudine che scuote l’affanno di un silenzioso lamento. E come il chicco di grano che muore e che da sempre i suoi frutti, ora il pensiero infuria e lo stravolge: lasciare ancora la famiglia lega il sentimento in ogni appiglio. Alberto si vede dentro un labirinto e gli incroci sono tanti e tali che sembrano impossibile trovare la via. Egli vorrebbe portare tutti! Ma il padre non lascerà mai la sua casa, né le sue tradizioni perché le radici affondano nella propria terra, e pur anche i rami si allungassero per il mondo, son così ben piantate che diventano tutt’uno con l’immenso. Giò compare in cucina e come una sentinella che custodisce un grande segreto e d’improvviso, scocca la freccia della speranza. Tra le mura di un tempo davvero lungo si sente come un fantasma che riappare sconvolto alla vita.
Esuberante all’inizio, poi, man mano che prende coscienza, il giovane si deprime ancor di più. Egli sa bene che non è tempo di festeggiare anzi, un pensiero che par dubbio gli assilla la mente:
- Partirò con lo zio! Si!! Partirò con Alberto!! Si!! Troverò lavoro e farò fortuna, ritornerò con tanti soldi, aiuterò la famiglia e realizzerò i sogni miei e del piccolo Piero -.
Lacrima scivola sul viso,
sui volti,
su ogni movimento,
sul velo triste del sorriso.
Il gorgoglio della caffettiera rompe il sogno, facendolo destare.
Sconforto, lacrima sul viso della nonna che asciuga prontamente e il cuor si frantuma per la partenza del figlio. Le prime luci dell’alba colorano come cristalli magici i vicoli del paese e la quiete fa da padrona. I silenzi scandiscono ogni timido movimento dei roditori con grandi occhi e lunga coda che saltellano da un albero all’altro scomparendo nell’ombra dei vegetali. Anche Antonietta vorrebbe scomparire nell’ombra di una parete; non vuole farsi notare dal figlio, tuttavia segue ogni breve spostamento e i piccoli movimenti si chiudono nella memoria, registrando tutto, sperando con l’immaginazione poi, di riviverli ancora.
- Giò! Prendi le valigie e accompagniamo lo zio alla fermata del bus, Ieri mi sono dimenticato di chiedere all’autista un piccolo favore, ora dobbiamo per forza andare a piedi fino alla chiazza -. Sussurra frastornato nonno Pietro, accendendo un piccolo lume a petroli per mantenere inalterata la vista notturna; ora sbircia il naso fuori dalla porta.
- Beh, fa lo stesso, una eggiatina non può farci male -. Risponde Alberto, con improvviso nodo allo stomaco mascherando il tono morbido e pacato, tanto che oscilla come l’onda di un mare calmo che si frantuma con grazia contro uno scoglio. Piero, appena svegliato, siede sul lettino e struscia i gomiti sulla coperta.
Il ragazzino chiama sottovoce la nonna ma il silenzio è l’unica risposta e i pensieri, d’un tratto, si manifestano irrequieti. Ancora con gli occhi socchiusi scende dal letto come una furia che si manifesta nello stato d’intensa agitazione.
Ora si guarda intorno provando una strana sensazione di disagio. D’un tratto, gli occhi allargano e brillano di una strana luce che accendono in ogni direzione.
Capitolo Ottavo
La mente dell’uomo, a volte, porta a vedere oltre i confini; se libera dai pensieri, come un sogno errante in attesa di una verità, abbandona promesse che soffiano su di un’incognita. L’alba di un sole dorato filtra la propria luce attraverso l’arrivo del mattino abbagliando ogni cosa e, come una lancia puntata al cuore, il soffio del vento scolpisce la disperazione che attraversa gli animi dei nonni per la partenza del figlio Alberto. Urlo che vibra, che si libera nell’aria e si abbatte su di un cuore spezzato per nascondersi nel sorriso dell’abbandono. Piero rimane impotente, gli sembra un mondo irreale;lo sguardo sommesso come se avesse le visioni, ora osserva il fratello mentre le lacrime bagnano il viso; pare una scena di una terribile battaglia, egli non comprende cosa realmente accade, ma come un esercito pronto a colpire, all’improvviso capisce tutto. Il viso impallidisce e poi divampa in una grossa fiamma, come se sprigionasse dal corpo un vortice di scintille, lasciando il sorriso a una strana espressiva. Il piccolo vuole trattenere il pianto, ma le lacrime coprono gli occhi come rugiada sulle viole di primo mattino. Una sfida difficile, all’apparenza indomabile, alcuni respiri profondi mentre cerca di calmarsi e stringe le mani per arrestarne il tremito.
- Cuore di mamma -. Sussurra Antonietta, chinando il capo verso terra.
Piero non sopporta il pianto, non sopporta che qualcuno della famiglia lo vedesse piangere, così ascolta il cuore, trattenendo appena il grido di dolore.
- Gli ometti di quella terra non devono piangere! -.
Ma i suoi occhi si riempirono lo stesso di lacrime. Colmo di tristezza, corre ad
abbracciare il nonno:
- Non piango…. Non piango…. Sono grande io…-
Il pianto trattenuto forzosamente rompe il cuore a tutti. Piero è solamente un ragazzino, bisognoso di tanto amore. La nonna serra gli occhi senza colpo ferire; l’unico sentimento che regola il suo cuore è l’angoscia e il viso arrossato accende labbra secche che paralizzano mille pensieri che le attraversano la mente. Ora si specchia negli occhi del figlio. Ora lo abbraccia e lo stringe al petto come un bianco fiore che avvolge i suoi petali nel dono dell’amore. Alberto si allontana senza fiato e lo sguardo gira e si manifesta al nipotino con strani gesti e parole.
Ora allunga la falcata e percorre una strada che non è la sua; egli porta la mano al cuore e cade nel vivo dolore e si preoccupa sapendo di aver perso qualcosa di molto prezioso; di aver perso ancora.
Abisso.
Oscuro peccato nel buio più profondo;
dolore vivo abbandona in silenzio;
accende il segreto dell’anima vento leggero; radica il vivo sentimento;
gioco violento, inquietudine nel vortice del tempo; più ne guarda la profondità,
più la vita stessa ti consumerà.
E’ una mattinata fredda, uno spesso strato di nubi copre il cielo, copre la luna, copre le stelle e una nebbia fitta oscura e trafigge il rosso del sole e l’aria sferzante colpisce il viso come un pugno allo stomaco, ma, il piacere di respirare soccombe alla prima luce e al silenzio gelido che accentua la neve che fiocca, imbiancando i tetti delle case. I i delle tre generazioni s’incamminano veloci per la strada infreddolita e buia del corso principale, sino a raggiungere la piazza: unica e sola fermata del bus. Arrivati, si stringono con altri viaggiatori e accompagnatori in tanti saluti:
- Assabenedica…. Salutammu.. -.
Gente che aspetta con ansia la corriera. Nei brevi momenti di attesa nessuno parla, forse mancano di coraggio o forse, per il freddo pungente, forse, per qualche oscuro motivo ognuno vuole farsi i fatti suoi. La prospettiva di un nuovo traguardo sembra mettere tutti in una certa agitazione, strani segnali ma, forse ognuno cerca di nascondere il sorriso dai propri sentimenti. Giò flette nervosamente le dita, sembra infastidito, come se da un momento all’altro dovesse morire dal freddo. Ora sospinge le spalle, gira il capo e guarda intorno, e non vede più l’atmosfera magica del Natale, non più decorazioni scarlatte e dorate che inneggia il paese in festa, solamente il triste evento che sta per compiersi. ano solo pochi momenti quando da lontano s’intravede una luce; due grossi fanali che si avvicinano e accecano la nebbia illuminando la via, rendendo visibili i volti sbiancati dal freddo; volti tristi di parenti pronti per l’ultimo saluto, per l’ultimo abbraccio. Ora la corriera costeggia il marciapiede e arresta la marcia e i viaggiatori iniziano a salire. - Due minuti… Ancora due minuti e si parte! -. Grida l’autista. Seduto sulla valigia di cartone, Giò spinge le spalle al muro in un atteggiamento desolato, egli non riesce ad aprir bocca; non riesce a spiccicar parola mentre nonno Pietro stringe il figlio in un forte
abbraccio. Come un brutale strumento di repressione, straziato dalla scena, il giovane si alza a fatica allungando il bagaglio allo zio, chiedendosi se lo avrebbe più rivisto. Ora l’incapacità di vedere il futuro fa scoppiare la testa mentre lo vede allontanare in mezzo alle genti che lo urtano con braccia e bagagli, e lui a indifferente tra rumori e chiasso dei anti. Una voce echeggia: - Si parte! -.
La portiera del bus si chiude nella tristezza, tanto che il ragazzo non ha più tempo per l’ultimo saluto.
- Alberto deve ripartire, il lavoro lo aspetta. Grazie a lui possiamo vivere dignitosamente -. Sussurra Pietro, anche se, non è certo di dichiarare tutta la verità. Giò capisce che il bisogno di un lavoro è importante quanto la stessa vita: - Ma perché tanta fretta -. Ripete frequentemente, con il sorriso confortato da un raggio di speranza. Egli sa bene che Alberto sarebbe mancato a tutta la famiglia e tuttavia, sarebbe rimasto per sempre nei loro cuori. Neanche il tempo di partire e la corriera si ferma. Ha seguito delle tante richieste e spintoni, l’autista riapre la porta. Alberto scende di corsa per l’ultimo saluto. Brevi momenti ancora, il tempo di un abbraccio e la corriera parte velocemente, mentre la neve continua a fioccare leggera e sembra confortare gli animi mentre copre i profili delle case che scorrono oltre i finestrini, oltre il fumo denso che fuoriesce dalle grandi marmitte. Il ritorno verso casa si mescola tra gioia e tristezza, le urla non si levano all’ultimo fiato e nonno non dimentica i dissapori della vita. La vita, in quel momento lascia un vuoto incolmabile.
Silenzi
Sguardo attento, il silenzio del ritorno; lacrime e pioggia dal viso scosta;
fa breccia l’ultima speranza;
scorgi malinconia nei i veloci;
i che nel gesto estremo si perdono nel fossato; drappello al vento, di un nuovo scontro, drappello al vento, rumore del ato.
Di ogni coscienza che loda la vita, il dispiacere del corpo si manifesta nello sguardo che lascia intendere tutto. Il segno del destino mette a dura prova l’orologio del tempo che sembra appena ripartito. Ora, sarà una nuova sfida e il coraggio del giovane apre la consapevolezza che un giorno o l’altro avrebbe riabbracciato lo zio. La mattinata di quel giorno nevoso si manifesta nel frammento di vita che in quel momento veste occhi pensierosi nello sguardo che si spinge fin dove arriva l’orizzonte e l’angoscia sfuma in uno dei tanti piccoli gradini della vita fatta di luci e ombre che si mischiano nell’unico ingrediente. La via del ritorno si percorre come un corridoio buio privo di ogni speranza. Alla mente del giovane, ricordi che si stringono al cuore come albero della vita che intreccia i rami nella bellezza dei suoi fiori. Nel cammino, il nonno carezza la fronte e i capelli. Le mani, di tanto, in tanto scivolano sul viso ombrando le lacrime. Ora allunga il cappotto fin sopra le orecchie e si aggiusta la coppula per sviare la malinconia e occhi indiscreti del nipote, poi:
- Sai, ci regalai la coppula nera… Devo dire che ci stava pure troppo bene. Che mattinata! Mi sono entrati pure due moscerini negli occhi -.
Moscerini… Giò non parla, guarda il nonno con affetto, sa bene quello che prova e non vede altro che solitudine; cerca d’immaginare ma, lo vede soffrire in silenzio; non sa cosa significhi separarsi ancora una volta dall’unico figlio. Una vita di stenti e sacrifici per tirarli su, poi, colpa del lavoro, la crudele separazione.
Uno strappo la vita, e gli anni ano velocemente. Il nonno si sente stanco e avvilito, egli avrebbe voluto are la vecchiaia insieme al figlio, ma questo sembra un sogno irrealizzabile. Nonno non ha mai fatto pesare il suo dolore anzi, tante e tante volte, egli da conforto alla moglie, ma per lui, mai nessun gesto, nessuna parola. Giò lo guarda silenzioso, un silenzio interrotto solamente dai fiocchi che scendono dal cielo sbiancando il corso principale.
- Ti ricordi Giò, ti ricordi quando Alberto schiacciava le noci con le dita e lasciava cadere i gusci per terra, e nonna sventolava il mestolo per aria dicendogli che se ci riprovava glielo rompeva in testa, ti ricordi Giò? -. Borbotta il nonno, sorridendo garbatamente.
- E ti ricordi quando parlava veloce, col suo accento vibrato che non ci si capiva niente, ti ricordi -. Continua.
Giò prova a figurarsi gli occhi del nonno dritti nei suoi; in quel momento vuole dirgli qualcosa, ma il pensiero costante lo soffoca come un male oscuro che lo divora dentro, come un chiodo fisso che penetra la mente, come un nodo che stringe il collo soffocandolo all’istante. Profumo che si dirada e si perde, pensiero che smarrisce e costringe parole indiscrete e libertine a infrangersi; nuove barriere che porta la curiosità di un piccolo universo nel cambiamento stesso; che porta la curiosità di mille cose a scoprire il proprio essere oltre l’ombra del piccolo paese. Giò racchiude tutto il bene e tutto il male nello smodato desiderio di partire. Ma, non trova il coraggio. Come può dirgli: -
Nonno, voglio partire anch’io! Le prime luci dell’alba sembrano rendergli le cose più facili. Forse, alla fine, uno pensa all’inizio, e forse i sogni son desideri, tuttavia il giovane capisce che piuttosto del consenso, nonno gli avrebbe dato una tale sberla che lo avrebbe zittito del tutto; lo avrebbe fatto girare in tondo come una trottola, più che rassegnarsi alla sventura. Il o ormai lento e la casa vicina, sapevano che al rientro la vita sarebbe ritornata a scorrere, come prima. Arrivati a casa, nonno apre l’armadio a muro e appende il cappotto; gira lo
sguardo verso la foto del figlio adolescente: - La vita, a volte, non è quel che scegli -.
Ora la mano dalla tasca sfila il pacchetto di sigarette e ne caccia una in bocca, assaporandone il sapore, mentre la fiammella accende il tabacco che brucia con viva inquietudine. Nonno siede e poi si alza di botto, stringe il pacchetto e va alla stalla; prende un poco di biada e un pugno di fave secche e li butta dentro la mangiatoia ricordando con grande amarezza la partenza del figlio. Nell’aprire la porta della camera, Giò nota allo specchio la propria faccia infreddolita e piena di commozione per la partenza dello zio. In quel preciso momento vuole essere una rondine e spiccare il volo attraverso la finestra, ma, d’improvviso, gira lo sguardo verso il letto e vede il fratello sdraiato dentro la coperta, nella mano stringe un biglietto. Il faccino triste di chi si porta ricordi che annebbiano l’anima. Pallido in viso, come se fosse sulla sommità di una ripida china, pronto per l’ultimo atto; come se aspettasse qualcuno che volesse tendergli una mano liberando il fardello da una grossa fiamma che brucia tutto.
Sentimento indelebile naufraga sui fondi sabbiosi, osserva ciò che perduto nell’oscurità più fitta; occhi sbarrati di chi guarda lontano;
apparente fragilità,
abbandona tra le riga dei suoi versi,
la memoria incerta che affigge spaventosa.
Ci sono gesti che raccontano la vita e l’atteggiamento irrequieto del piccolo che ora fissa il fratello serenamente, mentre il vento soffia attraverso le persiane
della finestra e s’infila con tanta forza che fischia tra le fessure allontanando il delirio. Giò guarda la finestra che comincia a tremare e le persiane battono violentemente come se dovessero cedere da un momento all’altro. Ora cerca di sigillarle alla meglio, mentre strani suoni accompagnano schegge di luce che irradiano il cielo e lampi e tuoni tamburano l’immenso fragore di una tempesta.
All’improvviso il giovinetto scuote la testa e lancia un grido cupo e prolungato come se fosse pervaso da un atroce dolore. Gli occhi imperturbabili, fissi sulla finestra per vedere la pioggia che traa la neve, mentre il cielo infuria dentro il suo grigiore. Quel giorno al piccolo sembra essergli successo qualcosa di molto grave, come se avesse perso ogni contatto con il reale; come se avesse smarrito il senso del tempo e di ogni cosa. Giò cerca di rincuorarlo e nonostante i vari tentativi per farlo destare, lo sguardo del piccolo sembra privo di determinazione di chi non vede principio né fine. Piero, circoscritto da quelle quattro mura rimane immobile, come se avesse subito l’incantesimo di un mago. D’un tratto, allegria e spensieratezza svanisce al tocco di una bacchetta magica, come se una strega cattiva con un terribile maleficio avesse spento i sorrisi: Piero, perché non parli! Di qualcosa … Ti prego -.
Dopo qualche momento di vero panico, Piero muove lo sguardo: - Dove sono mamma e papà? Quando ero piccolo dicevi sempre che mamma e papà erano partiti alla ricerca di un nuovo lavoro … Ti ricordi? … E che sarebbero ritornati … Ti ricordi? Perché non sono ancora tornati? Tu puoi farli tornare? Puoi farli ritornare a casa?! -.
Giò in quel momento non riesce a cogliere il senso del discorso; gesticola, si limita ad abbassare lo sguardo, a dire sempre si! Inclinando il capo.
Tuttavia, le parole del fratellino lo ghiacciano. Fanno più effetto dell’azoto liquido. Pensava, o perlomeno credeva, che il fratellino avesse già capito che i genitori fossero morti e forse lo sapeva bene. Forse, in cuor suo, Piero conserva ancora in silenzio il desiderio del loro ritorno; in quella strana e antica promessa
che gli aveva fatto. Giò non può credere che la partenza dello zio Alberto avesse risvegliato nel piccolo un dolore così grande da renderlo insopportabile. Ora cerca di rasserenarlo, di fargli capire che adesso c’è lui, e che per niente al mondo lo avrebbe mai lasciato. Quella mattinata i due fratelli capirono di volersi tanto bene, di essere legati da un filo d’amore invisibile e qualunque cosa il futuro avesse in riserva, il loro amore non si sarebbe mai spezzato.
Capitolo Nono
Seppur luce muova l’universo e accende il vento magico della speranza attraverso l’animazione della festa di fine anno; chi non si lascia dominare dal ato si rasserena del momento felice e tuttavia, sembra spegnersi, restituendo la vita alla normalità. Il respiro d’aria limpida riscalda la memoria di una storia incancellabile riportando nonno Pietro alle sue origini, tuttavia, ora è tempo di riorganizzarsi; ora, per lui e la sua mula dalla criniera rossa, inizia la fatica quotidiana nei campi aridi e cerca di sfruttarli alla meglio, così da poterne ricavare i frutti necessari per dar maggior sostentamento alla famiglia. Il sole delinea l’orizzonte di un mattino immutato e riscalda il cuore di nonna Antonietta. Madre, gelosa e custode di una fierezza antica. Tutte le mattine dietro i fornelli cerca di rimediare un pasto caldo, ella non sopporta che i nipoti devono accontentarsi del solo pane, sia a pranzo che a cena. Così, con forza superiore all’inevitabile virtù, per la sua bravura e intelligenza, trova sempre qualcosa, anche se, giorno dopo giorno, diventa sacrificio e fatica. Prossima ai sessant’anni, nonna Antonietta pare intrappolata dal segno del tempo, ma una barriera invisibile le accentua l’inclinazione istintiva verso persone e cose che le caratterizza una strana sofferenza sprigionando malinconia che paralizza ogni conforto. Veste di nero da troppo tempo, ma il colore riflette l’animo in modo violento tanto che blocca la memoria sin dalle radici del cuore e nella difficoltà di comunicare le cose più banali, sembra che i raggi luminosi del sole le assorbono l’antico dolore nella fragile apparenza di una vita piena d’amore. L’età accentua i caratteri meridionali dei suoi tratti, e le guance, fattesi più scavate, le rendono prominenti gli zigomi alti. Le rughe attorno agli occhi sottolineano stenti e dolori che Antonietta ha dovuto affrontare nel corso della vita e che affronta quotidianamente senza ribattere, senza parlare. Il viso, illuminato da due grandi occhi neri, fanno risplendere tutta la sua bontà interiore e il suo grande cuore.
Lunghi capelli brizzolati, legati stretti, intrecciandoli a tubolare, s’intonano meravigliosamente al suo aspetto. Generosa, da tutta se stessa per la famiglia e
non fa pesare mai la stanchezza, oppure la sua povertà. Tuttavia, la partenza del figlio Alberto, affanna il respiro del tempo e grava il desiderio, dipingendo una profezia oscura che da lì a poco, inesorabilmente, sembra abbattersi contro la famiglia, mentre i giorni ano pennellati da colori spenti e il maltempo non ascolta le preghiere dei contadini. La semplicità della casa ospita l’essenziale per viverci e come un incantesimo che formula ogni possibile desiderio, l’ultima chiamata della giornata e come fare un mezzo gesto che scherna gli occhi e spinge ad alzarsi poi, inevitabilmente, sconfigge i buoni propositi del nonno che sembrano affievolirsi. Antonietta prova a sollevarsi dedicandosi ai lavori domestici; lo sguardo gira mentre gli occhi vengono offuscati da un brutto pensiero che la tiene in costante agitazione, come lama gelida e sottile che punta il cuore. Nonno Pietro le rivolge lo sguardo pieno di attenzioni; ci sono cose che non devono essere spiegate. Antonietta, forte delle proprie convinzioni, alimenta uno spirito positivo che cancella ogni malessere. Nei ritagli di tempo, siede accanto al marito e lo aiuta a intrecciare ceste e canestri, contribuendo, anche se in minima parte, al piccolo guadagno della casa. Ora si allontana in cucina e prepara un buon caffè, sperando che i giorni incerti svaniscano al profumo aromatico che si libera nell’aria regalando brevi attimi di tranquillità. Nonno Pietro la sente canticchiare e scuote la testa, come se la musica, attraverso lei, provenisse da un’altra parte. A un tratto, un pugno si leva sul tavolo, rompendo il fragile silenzio. Il viso scuro e pensieroso del nonno, sembra esser preda della collera e gli occhi lucidi puntano il soffitto, riflettendo rabbia e rancore di chi impotente scandisce espressione d’inquietudine.
- Questo schifiato tempo non guarda in faccia nessuno!! Tempo disgraziato, sempre così! Mai una buona annata!! E c’è sempre una buona scusa!! Colpa del vento!! Ora la grandine!! Ora la neve! Brutta miseria infame!! …
C’è sempre una buona scusa per tutto!! -.
Il piccolo Piero, seduto in un angolo della casa, sgrana gli occhi e non parla.
Intrappolato dal brutto tempo e dalla pioggia che insistente inesorabile, e che sembra infrangere tutte le promesse. Ora, per alleviare la noia, cerca di realizzare un fischietto. Egli ha in mano un osso di albicocca e con uno scalpellino lo buca da parte a parte poi, prende un chiodo dalla punta storta e cerca di estrarne il seme dall’interno; lo pulisce bene, bene, tirando fuori ogni residuo del corpo riproduttivo. La luce riflessa spia ogni sogno attraverso la solitudine, ma il piccolo è contento e soddisfatto; stringe l’osso tra i denti e soffia forte. Soffia così forte diventando rosso dalla rabbia e, se non sta più che attento, al risucchio, ingoia non solo l’osso, ma anche il chiodo.
- Perché non fischia!! Eppure ho pulito tutto, sembra tutto a posto -. Ripete. Non del tutto libero dal sonno, Giò sembra un relitto alla deriva, fatica all’ombra di una macchina per la frantumazione del grano. I timpani ancora gli ronzano e poi esplodono arrossando le orecchie. Tra le mani due strisce di tessuto che lega sotto gli orli dei pantaloni. Con grande energia egli riempie sacchi di farina a grana grossa, uno dopo l’altro, legandoli con un filo di spago. Ora stringe il muso all’ultimo sacco e lo carica sulle spalle. Gradino dopo gradino, scende la scala guardando incuriosito attraverso la finestra, come se nella luce astrale vedesse attraverso i secoli. Arriva al magazzino con la schiena a pezzi, lascia scivolare dalle spalle il sacco di farina e lo poggia a terra. Giò lavora duro e si impegna con tutte le proprie energie fisiche e intellettuali; anche se lividi e piaghe si notano in tutto il corpo, egli sa bene che è l’unico modo di guadagnare qualche lira. Lo conforta la grande porta che apre il cortile, che da rilievo a una catena di montagne con le cime bianche che traano il cielo e il desiderio di oltreare le cime ravviva l’animo, tanto che chiude gli occhi accarezzando l’aria che arriva leggiadra, sfiorando la pelle.
- forse è proprio lì che si nascondono le comete -.
Il vecchio mulino, situato sullo sfondo azzurro di un paesaggio che riflette il circondario nella meraviglia della natura che afferma la grandezza dell’umanità attraverso i frutti del lavoro dei propri abitanti. Il lavoro del ragazzo consiste nel sistemare continuamente grossi sacchi di grano, messi in fila, uno accanto
all’altro, stesi come in una lunga trincea al riparo dal fuoco nemico. Il giovane, scioglie continuamente le legature dai sacchi e chinando la schiena, li adagia lentamente sulle spalle trasportandoli fin sopra il frantoio per la macchinazione grossolana. Ora la mano scivola sulla ringhiera di ferro e il sacco sembra più leggero sulle spalle e le gambe non vacillano al peso, anzi lo invitano con discrezione alla salita. Oramai il tempo e la vita lo abituano continuamente alla fatica. Giunto al primo gradino, lo sguardo si leva da terra e il giovane intravede una donna col suo bambino. Una faccia nuova che muove in ogni direzione; lo sguardo di chi ascolta ogni parola accompagnando ogni movimento delle labbra.
Ora la giovane siede sulla panca di legno e aspetta. Giò fa finta di niente, tuttavia egli guarda attentamente gli occhi obliqui e la carnagione giallastra della donna; non ricorda di aver mai visto una simile razza, ora si limita solamente a fissare le scarpine usurate e forse pensa che sia arrivato il momento di cambiarle. Un tenue bagliore dorato annuncia il ritorno del sole. Ora il giovane distoglie lo sguardo, prende un altro sacco pieno di grano, lo posiziona sulle spalle e riprende la salita. Arrivato sulla piccola piattaforma in cima alla scala, inizia il dejavù; svuota il sacco di grano sulle grosse ruote di pietra che girano lentamente e rumorosamente, frantumando i chicchi in polvere bianca. A tarda sera, un velo di nebbia avvolge il cielo, Giò torna a casa, imbiancato di farina; tra le mani il compenso: “ Poche lire e un kilo di farina“. I giorni ano con regolare frequenza, le colline oramai non sono in fiore e il mare non appare azzurro e piatto tuttavia, un senso di gioia regna nella famiglia, come se la natura, prima o poi, con un semplice cenno ridisegnasse tutto. Tuttavia, uno strano presentimento assale il corpo di nonna Antonietta, come se d’un tratto, la Dea bendata non sorridesse più alla gioia, nè alla vita, svelando alla famiglia il terribile segreto del destino. Non è ancora l’alba quando nonno Pietro riordina la stalla, lega strette le ginocchiere con lo spago duro imbevuto di grasso e sorride alla faccia buffa della mula che mastica fave. Nessuno disturba la quiete, solo un piccolo nitrito. Ora nonno allarga la bocca alla mula, togliendole un piccolo ramoscello incagliato tra i denti. Pietro afferra il fucile, allungando lo sguardo fuori dalla stalla. Egli ha una strana percezione del pericolo, d’altra parte, il pericolo fa parte della vita. Ora prende una lampada a petrolio e una sacca, legando il tutto alla sella della mula, infine, prepara il necessario per affrontare la nuova giornata. Intanto, Antonietta, a suon di spintoni, cerca di svegliare Giò, mentre l’odore di caffè sfuma nell’aria, emanando un delizioso profumo. E dove la forza bruta non aveva potuto, l’aroma sveglia d’incanto il piccolo
addormentato. Assonnato, il giovane si alza frettolosamente e comincia a cercare i calzini. Ne trova uno sotto il letto. Nella foga di indossarli, urta il ginocchio sul comodino e la caraffa piena d’acqua cade a terra rompendosi in mille pezzi. Giò non avrebbe potuto immaginare un simile pandemonio, ora si alza di scatto con un piede tra le mani e uno dentro lo specchio d’acqua che scivola sotto il letto; disperato per l’accaduto, mette mano ai capelli.
- Disgraziato uomo sei…. Ti devo dire che non è successo niente? …. Sbrigati! -.
Grida Antonietta, raccogliendo i pezzetti di ceramica, asciugando l’acqua con la calma di un vento debole che si stende sugli oceani.
- Scusami, non l’ho fatto apposta, ora bevo un poco di caffè e vado -.
- Il caffè lo bevi dopo! Ora vai ad aiutare nonno -. Ripete Antonietta, mentre guarda sott’occhio il nipote scomparire tra i gradini della piccola scala, incollerita, asciuga con vivo accanimento il pavimento, poi si aggiusta la maglia scucita sulla spalla, prende un bicchierino e lo riempie di rosolio e lo beve tutto in un fiato: - Benedetta tosse, ora a -. Borbotta.
Rasserenata, ora, come un sottile getto d’acqua che sgorga con impeto dalla fonte e ricade in basso chiara e cristallina, allo stesso modo si presenta alla tavola con silenziosa flemma. Ella, frizzante e gioiosa come raggio di luce che filtra attraverso il cielo, siede vicino al tavolo e sminuzza il pane duro nelle ciotole di legno, aggiunge un cucchiaio di zucchero, poi il latte bollente.
L’intenso profumo avvolge la piccola casetta di un’essenza sottile e delicata; a quella odorosa e gradevole profumo Piero non resiste.Di volata si presenta col
sorriso vivo e naturale:
- La mia ciotola! … Dov’è il mio latte! Anch’io voglio una bella tazza di latte!! -.
- Bene, bene, pensavo che preferissi dormire ancora -. Sussurra nonna Antonietta mentre stira con le mani l’ampio grembiule che le protegge l’unico vestito.
- Giusto!! Hai perfettamente ragione, appena avrò finito di mangiare, ritornerò di corsa a letto! Ma… Giò e nonno dove sono? -.
- Non ti preoccupare, appena sentono il profumo del latte caldo saliranno di corsa, infatti, manco a dirlo, eccoli !! -.
- Piero, che ci fai alzato, vieni con noi? Dentro la bisaccia c’è posto! -. Dice nonno Pietro sorridendo, carezzandogli il viso, mentre gli occhi brillano di un sincero affetto.
- No grazie, dentro la sacca ci metti Giò! Io mi devo rituffare nel letto! E come dici sempre tu: “ Il letto è una rosa, chi non dorme riposa”.
Dopo la breve colazione, nonno e Giò salutano la famiglia, sellano la mula e partono per i campi in cerca di verdure e di qualche facile preda. Solitari per i feudi, scambiano un’occhiata alzando le sopracciglia, d’un tratto, un flusso ventoso lascia scivolare i capelli negli occhi del giovane, increspando il sorriso.
Il ragazzo alza la mano e si aggiusta il berretto; nello stesso tempo guarda la fondina del nonno legata al dorso della mula e si rallegra del fatto che gli sarebbe piaciuto sparare un paio di colpi con il fucile, magari un coniglio per cena sarebbe stato di buon auspicio. Nel cuore dell’inverno, i tre Magi ( Nonno, Giò e Gelsomina ) sono già in alta campagna, quella natura è l’unico modo di vivere la vita e per quanto la loro visione delle cose sembrasse limitata, vedono intorno, tristezza e desolazione. Nonno Pietro guarda gli alberi secolari che sono i più antichi, i più imponenti esseri viventi sulla terra. Le foglie, ancora bagnate dalla pioggia, usano la luce solare nella fotosintesi per produrre zuccheri che servono a nutrire ogni cellula. Ora, la speranza di poter fare lo stesso con la propria famiglia. Lungo il cammino Giò allunga lo sguardo verso il cielo che lentamente si copre di nero e lo guarda con occhi di chi si abbandona alla speranza; di chi ama guardare l’immenso e sente che la terra lo appartiene. Circondati da un’aura di ottimismo, nonno e nipote percorrono il sentiero che trafigge la natura andola da parte a parte nella profonda sofferenza. Ora, un lungo respiro di gratitudine alle piante che rimuovono l’anidride carbonica dall’atmosfera, regalando al mondo l’aria pura. I due condottieri s’addentrano nei sentieri stretti e ricurvi come se varcassero la soglia dell’eternità alla conquista di un nuovo mondo, ma, allo stesso tempo, paura e desiderio trafiggono ancora il vivo sentimento come il complesso delle cose e degli esseri dell’universo che mantiene immutabili i segreti della natura, e che, inesorabilmente sembra abbattersi. Il nonno in groppa alla mula stringe le labbra e non trova pace; guarda il declino della sua terra che sembra non dare più frutti. Ora, i pensieri si tramutano in parole:
- Ci vuole acqua e sole per far crescere le piante, ma questo è davvero troppo!! E
tu non scoraggiarti nipote mio, come la terra che riposa silenziosa nelle notti buie di questa stagione, l’uomo, nel profondo di se stesso vorrebbe tramutarsi nel battito d’ali di una farfalla notturna che attiva la vita nel silenzio -.
Il giovane china la testa senza dire niente, senza dare risposta; le parole del nonno sono dettate dal cuore? Dirette a lui? Alla terra? Il ragazzo sa bene che la
vita del nonno non è sempre stata piena di momenti felici. La normalità della vita stessa è piena di imperfezioni. A volte, i buoni propositi sono lo spirito ottimistico della vita stessa, e scoraggiarsi del maltempo dei giorni ati, può essere cosa semplice n’è tantomeno naturale, tuttavia, anche se gli alberi che costeggiano le alture sono stati sradicati a centinaia e i vialetti sono quasi introvabili per le piogge torrenziali che hanno devastato tutto, l’attitudine a cogliere gli aspetti positivi e con favore il corso degli eventi, enfatizza questa semplice motivazione che induce a credere che il male, relativo e apparente, contrasti il bene, che non sempre domina assoluto e incontrastato. Quindi, lo spirito ottimistico si fonda sull’accettazione e nei buoni propositi che tuttavia, man mano che nonno e nipote proseguono lungo il sentiero, sembrano non vedere più la luce. Da tanto, da troppo, non si vede in giro una tale sciagura, una sorte avversa che cancella tutto. Nonno Pietro guarda ancora sfiduciato la sua terra e il suo raccolto unico e sola fonte di vita.
- Ancora qualche minuto, un paio di i… Vedi …Vedi l’albero? Vedi l’albero laggiù? Inizia proprio lì, la nostra proprietà -.
- Come se non lo sapessi! … Fammi scendere, ho il sedere scorticato e mi pizzica e mi brucia come una torcia infuocata… -. Sbuffa il giovane, stringendo i denti in una smorfia di dolore.
- Attenzione a dove metti i piedi, basta niente per scivolare -. Replica nonno Pietro, mentre allunga le redini alla mula per accendersi una sigaretta. Giò alza gli occhi al cielo e il momento che ne segue, avviene così in fretta che nessuno si rende conto del come. SsttrahckkBumslshhh il ragazzo si ritrova dolorante per terra; steso sul fango come un pesce impigliato nella rete. Ora scuote la testa, il viso rabbuiato e gli occhi scintillanti che brillano come lucciole nella notte.
Ancora incredulo si chiede come sia potuto succedere: - Mi sembrava di averti detto….-. Nonno.
- Ti prego!! Non dire niente!… Non dire, te lo avevo detto! -. Borbotta, ora per terra, sporco di fango.
- Va bene, non dico niente! E smettila di guardarti come un maiale dentro un porcile! Un poco d’acqua e ritornerai lucido come prima -. Gli dice nonno, con un sorriso imbarazzante che arriva all’incomprensione. Ora Giò si guarda i pantaloni: - Hai ragione, come dici tu! Però, tutto sommato ho retto l’urto! -.
Replica, mentre cerca di staccarsi un po’ di sporcizia.
- Che ci vuoi fare, cose che capitano sono, piuttosto, vai al ruscello e datti nà ripulita -. Sussurra nonno, mentre distende la corda. Pietro lega la mula al mandorlo e allunga lo sguardo verso i fiori di campo mormorando qualcosa: Sfortuna nera!! sta arrivando una tempesta, e se non troviamo un riparo sicuro, travolgerà anche noi -. Grida al nipote, allontanandosi con il fucile a tracolla, stringendo la sigaretta sotto i baffi. Una leggera pioggerella scende a catenelle disperdendo ogni vita animale sotto un cielo nero che all’improvviso sembra aprire le porte dell’inferno. Giò vede sfumare tutti i colori della natura mentre cerca di ripararsi alla meglio e tuttavia non capisce bene le parole del nonno, tanto che non lo sente neppure parlare e come un punto di ricamo che non trova il suo disegno, in quel preciso momento, il ragazzo sembra immerso in una finissima opera artistica, ritrovandosi nuovamente nel fango dalla testa ai piedi come un dipinto di creta. Dopo una bella ripulita torna ridente.
Nonno Pietro, in cima alla montagna, prepara le trappole per i conigli e taglia fili di disa (Ampelodesma) realizzando una liana con la quale lega un fascio di legna che la nonna utilizzerà in cucina. Giò si tira la giacca fin sopra i capelli e con l’andatura veloce dribla le pozzanghere piene d’acqua come fosse un grande calciatore; il suo obbiettivo non è la rete, ma la ricerca di verdure di stagione.
Certamente, non sarà un poco di fango a lasciarlo vincere dall’ira. Egli scosso da piccoli brividi, guarda il cielo reso unico dai bagliori dei lampi che frantumano ogni certezza. Il secchio vibra e tremula, e le mani trafiggono la terra allo spuntar di lumache; a flotta scivolano dalla terra e sembrano sorridere alla vita.
D’un tratto, un suono echeggia dal cielo e uno stato di turbamento accende il delirio nel canto. Giò alza lo sguardo e osserva due falchi pellegrini che volteggiano appaiati; sotto i loro possenti artigli, piccole prede che si agitano affannosamente. Ora i volatili si allontanano attraversando velocemente la valle, mentre la pioggia diventa più insistente. Soffoca il rumore del tuono e i lampi esplodono in tante saette di luce, pare l’alba di una nuova epoca e il cielo continua ad annerirsi sempre e pioggia e vento colpiscono con tale forza e intensità che il richiamo irrefrenabile sconvolge e trascina rapidi spostamenti d’aria che si tramutano in giganteschi vortici. Giò, attraversato da forti brividi e inzuppato dalla testa ai piedi, adocchia un’insenatura tra la roccia; una piccola caverna nella cavità della montagna che in quel momento per il ragazzo sembra l’unico rifugio, l’unico riparo. Il volto nascosto sotto la giacchetta e gli occhi pieni di paura tumultuano strani pensieri, come se stesse arrivando la fine del mondo mentre il fragore della tempesta aumenta irrefrenabilmente, producendo un complesso degli effetti calorici e luminosi così potenti che l’aria vibra e scuote a tal punto che sembra invasa da polvere pirica. Un suono secco, potente, colora di un rosso l’atmosfera, nello strepitio che accompagna e segue la scarica elettrica dei lampi che accrescono, illuminando il volto del giovane ragazzo, annichilito e stretto tra la roccia, sembra condividere la sofferenza della natura.
D’un tratto, un lampo fa brillare la terra, frantumando il silenzio. La saetta colpisce l’albero di mandorlo distruggendolo in mille schegge di fuoco. I lamenti e i gemiti di sofferenza della mula echeggiano nel grido sommesso trasportato dal vento e arriva alle orecchie del nonno. Egli si precipita giù dalla montagna con la stessa furia che spazza via in un sol colpo colorati sogni, mentre la valle delimitata da due versanti, dovuta all’erosione del fiume Platini, si tramuta in valle di lacrime per nonno Pietro, che guarda silenzioso il nipote, chino sulla
mula, con le spalle strette dal rimorso e negli occhi, il pianto. Le cose che accadono, a volte aiutano a crescere ma, il male, quel giorno, sembra raggiungere strane forme. Nonno fissa il nipote che gli sta davanti col fiato sospeso; ora pietrificato dal terribile evento resta immobile, come se stesse sulla soglia dell’eternità e non ne fosse consapevole. La difesa della vita, attraversa la rapida lettura di uno stato d’animo particolare che sembra smarrito, come se il fato, desideroso di un miracolo, avesse deciso di mutare il destino con un colpo di forbice, e ancora, l’impossibilità di essere razionale accende la ragione nell’eterno ritorno. Ingenua rabbia trafigge la sorpresa che indossa occhiali di lettura e strani versi ondeggiano imperturbabili. Ora, una forza dirompente provoca delirio. Nonno, con il fucile stretto tra le mani gira lo sguardo e fissa nipote, chiedendosi perché la vita si debba vestire ancora di nero; se il dolore e la sventura non fossero ancora giustamente appagati. In quel preciso momento, egli non sa più cosa è giusto, e come trama segreta che grava, tesse e colpisce i sensi, Pietro attraverso gli occhi del nipote cerca il consenso. Forse, grazie a lui, trova un po’ di umanità per fare un grande gesto. Gli occhi della mula s’incrociano con quelli del nonno, quasi a implorarlo di fare presto e il silenzio accentua i gemiti di dolore che accomuna l’atroce sofferenza che violenta l’animo mentre il fumo e il fuoco si spandono sulla pelle della povera mula; segno che lascia sconfitti tutti. Un rapido gesto traa il cuore e la coscienza al colpo delle polveri. Il piombo chiude per sempre gli occhi di Gelsomina, in un’esplosione di tristezza e pianto. Sono i giorni della “ Merla “ i più freddi dell’anno 1956. Giorni terribili, pieni di freddo e angoscia; giorni dei quali, nessuno della famiglia nel corso della vita avrebbe mai dimenticato. Nonno e Giò, con le bisacce sulle spalle, percorrono a piedi l’inestricabile labirinto d’ombre che tracciano sentieri tra nude rocce, trasformando la valle del Platani, antica terra dei Sicani, in un mondo oscuro e misterioso.
- Sai, da quelle parti del mare Africano viveva una civiltà fuorilegge -. Giò senza fiatare, guarda gli scarponi sgangherati e prosegue il cammino. Spogliati dalla terra, traati dalla fatica, dalla solitudine e dagli affetti, ora, prima che la tempesta infuria, devono raggiungere casa. Devono giungere al paese dei contadini, dei pastori, degli zolfatari; devono giungere alle casette basse, umili, costruite con pezzi di tufo arenario e coperto con coppi di argilla, arroccate insieme alle altre di moderna concezione che formano il piccolo abitato.
Camminano e camminano lungo il sentiero ripido che da una parte trafigge il litorale e sfiora la spuma del mare, dall’altra, si lascia percorrere adagio, sull’alto di due colli, sino a raggiungere stradine e scalette che si aprono su vecchie case in pietra. Il colore bianco del paesaggio sfuma l’immerso tra ulivi e mandorli, e sembra carezzato da una luce morbida, perché la quiete, ora, sovrappone la tempesta e sembra lenire il dolore. Ma, come il nemico che invade, il sapore pungente della malasorte espugna l’animo e nulla sembra avere più importanza.
Nulla incanta il vuoto che ora nonno e Giò si portano dentro. Nessuna promessa di amicizia, nessun grido al chiarore del cielo che sfuma la tempesta, né alla natura, che per qualche fugace momento arricchisce l’esperienza che completa il sapere umano. Nessuno ringrazia la vita, né il momento difficile che serpeggia solitario verso una corona graziosa di colline innevate. A ogni svolta del cammino, scorci inquietanti di ricordi si racchiudono come segni indelebili sulla pelle e, a tal dilemma, il pensiero sfugge e traccia il corpo che rosseggia di un fuoco vivo che non si spegne. Ora, con la saggezza dei suoi anni, nonno cerca di alleviare gli animi:
- Quello che stato e stato, ora sarà difficile dare la notizia -. Lo scuro del giorno libera il bacio dell’inganno e la mancanza del domani scandirà l’inquietudine, anche se nonno Pietro conserva gelosamente nello spirito, il ricordo della mula.
Evento tragico che non lascia spazio a nuovi colori, tuttavia, per rincuorare il giovane nipote, nonno Pietro si mette a canticchiare; forse per scherno alla vita; forse per dire: - Sono ancora qui! Non è finita -.
Me nannu faciva lu carritteri;
lu faciva tuttu l’annu;
pi dari màstu a lu bisognu;
e travagliava la notti e lu jornu;
all’acqua e lu ventu;
e di li lampa e li trona un’avia scantu; di li traditura sulu,
avia spaventu!
(Mio nonno faceva il carrettiere;
lo faceva tutto l’anno;
per far fronte il bisogno;
e lavorava la notte e il giorno;
all’acqua e al vento;
dei lampi e dei tuoni non aveva paura;
solo dei traditori,
aveva spavento!)
Tornano a casa con un respiro profondo le lacrime trattenute dai ricordi e non dimenticano la mala sorte che sembra accompagnarli.
Capitolo Decimo
Abbandonati per pochi istanti nel margine di una vita malinconica e triste che la risonanza di echi lontani si lasciano cogliere nell’immensità tuttavia, il soffio della speranza scandita dal battito del tempo, si spegne in delusioni che sfiorano il fascino di un tramonto incerto. Il maestrale porta via la nuvolosità, lasciando il cielo sgombro di nuvole, ma non privo di un vento freddo e secco, sfumando i raggi del sole che non si lasciano trascinare dalla ione umana né dalla resa della mente che traccia il vuoto dal vivo sentimento. Nonno, dopo la partenza del figlio e la perdita della mula, si sente come un albero a cui sono stati spezzati i rami, ma che tuttavia non si abbatte, poiché prende forza dalle radici, e le radici del nonno, sono la forza impareggiabile della moglie Antonietta: il vero premio della vita. La famiglia in cerchio attorno al braciere sembra impedita dal movimento, nessun rumore, nessuno parla; immersi nell’arte figurativa tanto che le loro posizioni, sembrano figure malinconiche alla ricerca della prospettiva nel gioco dei chiaroscuri. Come tutte le sere, dopo la breve cena a base di pane e verdure lessate, siedono in cerchio sventolando antiche ricette, strofinando le mani vicino alla carbonella ardente, cercando in qualche modo, di riscaldarsi alla meglio dal freddo pungente che pare non finire mai. Ora, presi dallo stato di quiete, accarezzano una lieve musica, un pensiero gioioso e delicato nell’andamento lento di una parte di sinfonia così profonda che sembrano tante statue di marmo, poi:
- Ho comprato un poco di provviste, pagherò a Giugno, dopo la raccolta del grano -. Borbotta nonno. Nessuno risponde, sanno bene che la stagione del buon raccolto non arriverà mai, e nessuno potrà aiutarlo a pagare i debiti. Nonno Pietro chiude gli occhi e si vede a fianco di sagome ricurve in mezzo a un campo di grano pronto per la mietitura. La falce tra le mani e il fazzoletto legato alla fronte ombra il sole e assorbe ogni goccia di sudore. La mano sinistra carezza delicatamente le spighe e le proietta in avanti verso la falce che taglia le pagliette in un solo colpo. Ora stinge tra le ginocchia un piccolo fascio che lega con le stesse spighe di grano, sotto il calore della luce che irradia una distesa immobile
di covoni.
“La Sicilia e il contadino guardano il grano come processo di trasformazione e non solo come proprietà nutrizionale, ma come respirazione che caratterizza la materia vivente e la mette al centro delle sue vicende “.
Ora nonno sogna il grande piazzale del casolare dove il grano viene pulito dalla polvere, paglia e pietruzze. Lavato poi con acqua di fonte e messo ad asciugare al sole mentre le donne accendono il chiacchierio, sedute attorno a un tavolo per la separazione dei chicchi buoni da quelli spezzati e da altri semi che non sono grano. La corretta macinazione è una delle principali condizioni per una buona manipolazione e per ottenere un’ottima pasta per panificare. Uso sapiente delle mani e l’incalzante ritmo dei setacci a maglia, scandisce l’alternarsi dei vari utensili che separano la semola grossa da quella sottile.
Nonno sorride a tanta bellezza, a tanta ricchezza; sorride al mese caldo ancora lontano; sorride a quella particolare atmosfera che si identifica attraverso il tempo. Ora il sogno diventa incubo, l’ultimo sguardo all’ampia distesa coltivata e sembra che i fiori hanno perso i colori e la mancanza completa di suoni accentua il silenzio e rafforza ogni grigiore, mettendo a dura prova ogni contadino. Nonno sente seccare la bocca e a malapena tiene salde le ginocchia, stringe le spalle allontanando la fugace nota di panico. Giò, in dormiveglia, ascolta il vento che soffia; egli si gira e rigira e si agita continuamente; non sogna grandi amori o gemme preziose, solamente la mangiata di ceci nella piazza principale del piccolo paese.
“Festa tipica che i contadini organizzano ogni anno; una festa di ringraziamento per l’abbondanza del raccolto e i cuori accendono come il fuoco sul quale viene situato un pentolone pieno d’acqua, dentro il quale si lascia bollire fave, ceci e frumento. Una vota cotti e conditi con olio, vengono distribuiti a chiunque ne voglia mangiare. Il tutto, tra musiche, canti, balli e vino che scorre a fiumi “.
Giò annuisce i sapori e il viso si colora di una bella sensazione mentre scintille accendono e scoppiettano dentro il braciere e si identificano con l’esistenza reale del piccolo paese, ora immerso nel freddo. Il lento scorrere della vita accentua lo spiffero di vento che scivola sotto la porta ghiacciando il piccolo ambiente fortificato dai bastoncini di fuoco che scoppiettano e volano nell’aria.
La famiglia per qualche istante sussulta, poi ricade nel sonno profondo mentre la piccola brace arde tra mille scintille in uno strano gioco pirotecnico. Il piccolo Piero sonnecchia dolcemente con il coraggio di un guerriero. Ora abbassa il capo che si abbandona sulla spalla come morbido cuscino. All’improvviso solleva gli angoli della bocca che sembrano seguire un proprio ritmo; unisce il mento al torace in segnali briosi di chi risolve i problemi con la forza del ricordo. Nel sogno, egli si ritrova in una domenica d’estate seduto a tavola con lo stomaco che gorgoglia dalla fame e un forte odore di menta e spruzzi d’acqua lo conforta dalla luminosità dell’aurora che traccia l’alba nella prima luce del giorno. La gioia più grande e del fratello che lo porterà nei campi a raccogliere mandorle ed è così felice che attanaglia i denti. Un tozzo di pane in bocca accende l’armonia mentre scende la scala che lo porta direttamente alla stalla; siede al primo gradino e calza i grandi scarponi del nonno, prende un grosso sacco di tela e una canna, apre la porta e si ritrova in un’area libera, come se il cortile, d’improvviso, illuminasse tutti gli ambienti esterni. Il capo si allunga al cielo con una bella espressione, lasciandosi ventilare dal vento fresco, immaginando petali di rosa che carezzano il viso come la schiuma delle onde che s’infrange sulla superficie sabbiosa della costa mediterranea mentre l’oscillazione dell’acqua produce l’onda violenta che infuria imperiosa, rompendosi tra gli scogli. Un suono irregolare, un rumore strano e intenso struscia il pavimento. Giò lucida gli scarponi scuotendoli tra loro, poi prende la bisaccia attaccata al chiodo e c’infila dentro il pane e la borraccia. Un cenno al fratellino e si avviano per il lungo sentiero che conduce a terre lontane. Camminano felici sullo sterrato come anime solitarie che sfuggono alla realtà, illuminati da una luce che esalta la gioia e lo sguardo attonito e lontano limita ogni mutamento dell’orizzonte che sembra una meta irraggiungibile. Colli ricchi di alberi di mandorlo, terre di nessuno, mormora Giò, forse perché nei giorni di festa, nessuno c’è in giro: - Scutòla!! Scutòla cu la canna ddrocu!!! Scutòla ca sunnu carricati! -. Sussurra Giò, con voce sommessa (Batti!! Batti con la canna dove sono più carichi!). Il sole
cocente batte sui visi dei ragazzi; batte forte quanto la canna sui rami che oscilla continuamente, lasciando cadere il frutto. Di tanto in tanto, Il piccolo abbassa lo sguardo, strizza gli occhi chiudendo continuamente le palpebre per ripararsi dai moscerini che schizzano nei bulbi oculari e si attaccano e si infilano a migliaia tra i capelli e non può far altro che velare gli occhi e sbattere continuamente le mani, cercando nel frastuono, il modo di allontanarli ma, nonostante ciò, i moscerini s’intrufolano sotto la camicia sin dentro la bocca.
Piero non si lascia vincere dallo sconforto; instancabile, egli sputa in continuazione, alza le braccia, stringe più forte la canna e continua a battere sempre più forte, sino a quando una pioggia di mandorle cade come rullo battente che suona a festa. Contento di tanta abbondanza, il piccolo sembra vivere pienamente la vita, come se, d’un tratto, avesse raggiunto l’indipendenza economica. Piero sorride e batte forte, e ancor più forte, e moltitudine di mandorle si staccano dai rami a tempesta. Ora, in ginocchia, i fratelli raccolgono il frutto. Le mani sembrano trottole che girano velocemente tanto che riempiono il sacco di tela in pochi minuti. Uno scoppiettio frantuma il sogno di Piero in mille pezzettini. Ora di mandorle nemmeno l’ombra; mandorle che dovevano vendere al signor Masta, per ricavarci qualche soldo e spendere gioiosamente.
Gli vien quasi da piangere, ora Piero non può comprare il trinciato forte al nonno; non può comprare zucchero alla nonna, per guarnire le morbide e gustose frittelle. A tal pensiero, Piero vuole conficcarsi una forchetta nella gamba per capire la differenza tra sogno e realtà, ma poi, chiude gli occhi, scuote il capo e si addormenta. Le labbra muovono lentamente la lingua che si arrotola nella fragranza della pasta morbida e zuccherosa che assapora divinamente.
Intanto, Antonietta, appisolata, porta la fronte vicino al gomito trovando così una posizione comoda. Ora si rannicchia sotto uno scialle sottile e sbrindellato, cercando rifugio nel sonno mentre carezza il fazzoletto di seta nero stretto fra le orecchie limita il freddo pungente che penetra fin dentro le ossa. Il capo chino sul braciere e le mani sulle ginocchia sembrano che le riscaldi un poco il corpo, ma li freddo pungente arrossa il naso e affanna il respiro; riesce a lenire il
fastidio solamente con impacchi caldi e foglie di menta piperita. Intanto, nonno mezzo addormentato, stropiccia le sovraciglia mentre gli occhi velano lo sguardo, e d’improvviso egli rivede la vita mordace e beffarda, piena di stenti e sacrifici. La morte di Gelsomina poi, l’ultimo fardello. Ora gira il capo e con un pizzico di malinconia sbircia il tramonto. La cupezza della sera stringe ancor più il dolore in un difficile sorriso che si richiude nella percezione di una nuova speranza. Giò sorride; guarda la brace sotto la quale brilla una piccola fiammella e quando l’ennesima scintilla scoppietta, egli non si lascia più addormentare.
Ora muove nervosamente le mani, ma fermo nei propositi e senza costrizione, sveglia i nonni. Dopo continue riflessioni cerca un piccolo appiglio, anche se gli scoppia il cuore, egli non ha il linguaggio della resa, né abbandona ogni difesa.
- Nonni…. Vi prego svegliatevi… Devo dirvi qualcosa di molto importante… So che avete fatto tanto per me … Adesso penso che sia giunto il momento che io debba andare! Ho deciso! Vado a lavorare in Belgio e vedrete che le cose cambieranno -. Luccican le onde e il sol le guarda. I nonni ascoltano come se non fossero presenti nel luogo in cui sono; le parole suonano cupe: - I carboni ardenti mi fanno sentire strane cose e mi gira pure la testa! -.
Borbotta nonno, toccandosi la tempia. La capacità del ragazzo di superare i propri limiti, di trovarsi uno spazio tutto suo, diventa ora, una necessità primaria. Nonna fissa la tenda che ondeggia nell’aria, poi il fuoco, poi il nipote, e con sua grande meraviglia si accorge che il raffreddore le è appena ato. Ora affonda l’ultimo sguardo e socchiude gli occhi senza parlare. Il respiro del giovane rimane sospeso come quando si butta una rete in mare, e tuttavia, egli si vuole lanciare nelle profonde acque per liberarsi dalle radici e rompere le basi con le tradizioni. Giò sgrana gli occhi e fugge ogni emozione, tuttavia si sente pronto per un cambiamento, anche se, ogni cambiamento, in ogni sua ampiezza, sembra regolata dal destino, e cercare cose lontane, a volte, conduce nella consapevolezza attenta di un disagio che colpisce e affligge l’animo, come un giorno cupo, intrappolato nel fragore di una tempesta che vuole aprirsi in un cielo azzurro.
Primavera.
Allontana nuvole grigie in fulgida luce; accende pensieri in parole e versi;
immortale grido,
nei vascelli smarriti che sfidano il vento.
Calice tumultuoso;
fiore giallo sulle labbra di un amore contento; sfiora il candore nei battiti del cuore; brusio conforta chi cerca ancora;
di chi cerca nel mare calmo delle parole che non vengono mai; Illusione, ora, sola tempesta.
E’ la sintesi naturale di un evento percepito, ma, come spesso accade, si tende a trascurare il segno di un significato che fluttua nell’aria, e che, inevitabilmente accade. Il suono magico di chi è chiamato a giudicare e di fare rispettare una scelta difficile sembra non essere ancora arrivato.
Mani robuste e cuore impavido lo sguardo di ghiaccio del nonno che sembra colpito da una sbarra di ferro, ora, solo un nodo alla gola serra le sue parole: -
Che strano, non ricordo niente, eppure mi sembra di aver sentito qualcosa -.
Sussurra, prima di rannicchiarsi sotto uno scialle sfiorando con la mano un vecchio cesto di frutta. La mente sfugge al bagliore accecante di un’antica luce che rischiara il cielo più chiaramente di quanto non avesse mai ricordato. Occhi brillano il calore di chi è attento alle cose e gli piace pensare che la sorte giri a suo favore. Occhi che non cercano sfide, velano una luce irraggiungibile che oscura il tramonto come un fiore che si trasforma. Come un un frutto che si nasconde nelle proprie foglie per liberarsi da uno stato di custodia e cadere dall’albero senza alcuna costrizione. Per una strana e infinita possibilità, non stupisce che quel frutto danzi nello stupore di chi guarda e cade sulla mano di chi lo stringe con il sospiro del sollievo. Gli occhi attenti della nonna sembrano nascosti sotto il velo del fazzoletto legato fra capelli e mento. Uno strano legame di pensiero condivide la famiglia. Giò, stordito dall’insonnia, è sicuro di trovare la forza di esprimere le proprie scelte, di comunicare quello che ha dentro, anche se, i sensi, sembrano dominati da una strana forza che in quel momento lo annebbiano. In realtà, il ragazzo è turbato da sensazioni particolari; labbra aride, il sogno di un grande viaggio che inizia in uno smarrimento e che poi procede a piccoli i. E per farlo sentire ancor più a disagio, i nonni dicono che Marcinelle è l’inferno, e trovare un buon lavoro e come fermare l’acqua con le mani: impossibile. Il giovane, con tutto l’orgoglio che porta dentro non vuole commettere l’errore più grande della vita, tuttavia, egli pensa che gli errori aiutino a crescere, ed egli vuole crescere. Seduto sulla sedia, il ragazzo vede il futuro sotto una buona stella e si da un pizzicotto per sentirsi vivo; ovunque sia la destinazione, egli andrà, perché non si è mai promesso di crescere in quel paesello, anche se, strani pensieri lo tengono in continua agitazione, una tensione innaturale gli dona improvvisamente il regalo più bello della vita.
Ricchezza improvvisa che in un sol colpo accresce il bilancio della famiglia, facendogli dimenticare per un momento la tragica realtà. Una strana forza spinge per cambiare il destino. Come una bibita zuccherosa sogna a occhi aperti e d’improvviso, si trova immerso in un mondo irreale e vede fuoriuscire dal braciere dobloni d’oro e un reperto tempestato di smeraldi e rubini; un tesoro straordinario, tanto prezioso che pare un antico bottino dei pirati. Le pallide guance del ragazzo diventano rosee; la ricerca della felicità, finalmente è finita.
Libero da ogni resa, il risveglio, come tormento dell’inevitabile, diventa il difficile viaggio del ritorno al presente. Ora, l’affanno disperato fissa la linea del tempo che si allontana nella forza del fato ridente abbandonando la serenità del pensiero. Dentro casa il freddo pungente gela l’aria, e dire che basta un piatto di spaghetti e un bicchiere di vino per riscaldarsi e fare festa. All’improvviso, lo sguardo del giovane si perde sulla bellezza della brace che arde lenta, con i suoi bagliori scintillanti che ammagliano la mente e rimane con tanto d’occhi nel vedere la luna scivolare nel cielo con lo splendore di una stella cometa.
Ora il richiamo alla mente sfugge al ricordo come serena rassegnazione e la ricerca filosofica dei sensi accresce la conoscenza. Egli avrebbe dato qualunque cosa per un piccolo sguardo al futuro, ora si affida al fato, socchiude gli occhi e si addormenta. La saggezza si acquisisce con la sofferenza e il nonno, in quel preciso momento, si identifica con il trotto veloce della sua mula lungo il sentiero. Occhi lucenti accendono la notte d’improvvisi bagliori e la mano sulla criniera accentua la magia delle stelle. Nel cuore ancora l’angoscia trepidante del tragico evento, doloroso e cruento, che muta nel silenzio l’anima e i sogni in rimpianti, struggendo il cammino che attraversa i sentieri della vita. Gelsomina, ora non c’è più, e l’ira irrefrenabile esplode con l’impulso di rabbia che stringe il dolore e traa le carni. Una sola domanda alla quale non sa dare risposta: perché il destino si debba accanire continuamente sulla famiglia come luogo dell’eterno dolore, tanto da rendere insopportabile la vita terrena. Con l‘istinto che fa riconoscere e amare i propri cari e con la voce del silenzio, il nonno nasconde la malinconia sotto l’ombra del sorriso. Ora schiarisce la gola attraverso un tiro di sigaretta e tanto per segnalare la sua presenza, butta un poco di fumo addosso al nipote che allunga lo sguardo specchiandosi nei suoi occhi scavati. Giò sorride pensando che nella vita non sempre servono eventi drammatici per un cambiamento. Per Alberto, tuttavia, è stato così! Una costrizione! Perché a malincuore lasciò la sua terra, la sua Sicilia.
“Nei primi anni 50, il Paese subì grandi cambiamenti. Due fattori furono decisivi ai fini di un solo risultato: l’emigrazione. Le sconfitte subite dai minatori e dai braccianti agricoli nelle grandi lotte per la terra e per il lavoro, nel corso di quel
tempo, ferirono nel cuore e alla mente tantissima gente. Alberto nutre un forte sentimento di stima verso il padre, e con riguardo per la dignità altrui, cerca nella lotta il rispetto della dignità lavorativa, ma conquistare i diritti con una ribellione non sembra accendere la miccia del cambiamento. Tuttavia, dopo l’ennesima protesta, per l’aumento dei salari e per un lavoro più dignitoso, l’estrema lotta disegna la capacità di sapere analizzare un nuovo mondo e, in quel preciso momento, svariate conclusioni non sciolgono il nodo del dubbio.
Alberto vede i padroni arricchirsi sempre più sulla pelle degli operai, resi ancor più poveri dai continui scioperi. Con espressione decisa, dettata dalla propria opposizione, oltre alla protesta incessante, egli indossa il pesante fardello della lotta armata. Lo stratagemma è di bloccare i lavori, quindi rendere la miniera improduttiva. Come un generale al comando delle truppe in battaglia, Alberto, per dare maggior enfasi alle parole, con un gruppo di amici, sistema la dinamite alla bocca della miniera facendo brillare le cariche esplosive. Unico modo per rivendicare i diritti; Unico modo per far arretrare la marcia a senso unico dei padroni. Nulla di tutto ciò! I minatori, se vogliono continuare a mangiare un tozzo di pane, devono soccombere alle richieste dei padroni.”
Nonno Pietro si vede abbagliato dal fuoco, legge la malinconia che spezza il cuore, tuttavia crede ancora nella giustizia che bilancia la vita; per lui è l’opera più importante dell’uomo. Ma la ricerca della verità è un complesso di cose che l’entità del tempo tende a diminuire, anche se nei suoi occhi si legge ancora, inevitabilmente, che i forti calpestano i più deboli. Quella notte le stelle si allontanano dal cielo, e il figlio chiude il sorriso dietro un velo che si colora di nero. La porta si chiude e non si riapre; al nonno non gli rimane altro che farlo fuggire all’estero. Testimone di un pubblico sentimento, Alberto lascia a malincuore la famiglia e il suo paesello. Per non finire in galera, egli scappa come un brigante dalla propria terra. Nonno ricorda la tragedia e trattiene la rabbia; l’esser preda di antiche paure, caratterizza un senso d’angoscia che gli rovina l’esistenza, anche se, egli sembra vivere quotidianamente la stessa scena.
Lo sguardo ammaglia impedendo ogni movimento; ora non può dare il consenso
al nipote di partire, dopotutto, questa è la sua casa e non c’è necessità di emigrare per un pezzo di pane.
- Belgio, l’unico lavoro per un siciliano è la miniera di carbone, altro che lavori dignitosi; tanto vale restarsene alla propria terra -. Ripete.
“ Il 23 Giugno, 1946, Il governo avvolge in un manto di legalità i soprusi della nuova Democrazia.
I rappresentanti del governo belga e italiano strinsero un patto per un cambio merci.
L’accordo, permise all’Italia, di acquistare carbone a un prezzo di favore, nell’impegno di far emigrare 50.000. lavoratori.
A fronte di questo impegno, l’Italia, per ogni minatore, poteva importare dal Belgio tre quintali di carbone.
Il ripensamento del povero disgraziato che incagliava nella rete delle illusioni non era assolutamente concesso; recidere il contratto, per il lavoratore, significava finire in galera”.
- Quando si parte?Andiamo tutti in Belgio a lavorare sotto la grandine? -. Mormora il piccolo Piero.
- Tu che ne sai del Belgio, in quel paese non c’è mai un tempo splendido, il sole non brilla mai, sempre che piove, grandina…Questa è la normale conseguenza di quando non si capiscono le cose. Ora si è fatto tardi! Forza, a dormire -. Grida nonna Antonietta, stirandosi le braccia.
- Poi, in quel paese non c’è aria buona, ci fa sempre freddo, sempre che nevica, bbbrrrrhh…. Mi vengono i brividi solo a pensarci -. Continua. E quando la porta della stanza si chiude:
- Antonietta, hai sentito tuo nipote? Vuole andare a lavorare in Belgio -.
- Follie di giovani sono, vedrai che domani gli a, e se non gli a, lo vedi questo bastone? Glielo compatto in testa! -. Replica. I colori dell’inverno dipingono di una strana luce il cielo che non lascia fuggire la visione della natura, tuttavia, se pur l’orecchio attento, il lieve sospiro trafigge parole che non lo scalfiscono minimamente. Il giovane comprende che la via che porta al cuore non è il gesto semplice di una negazione. La durezza della vita lo forgia nel desiderio di una nuova meta, e in cuor suo capisce bene che insistendo i nonni avrebbero acconsentito alla partenza. Ora, egli ha il carattere e la certezza che prima o poi dovrà affrontare quel lungo viaggio.
Capitolo Undicesimo
Aurora.
Azzurra luce che ammanta i colli
bianco colore libera;
armonizza segreti nel fluire delle stelle; sequenze nei pensieri gentili.
Brilla il contrasto nei colori delle nebbie sospese; regala immagini e profumi nei sogni tranquilli; avvicina l’impulso di ogni presente;
spontaneo sentimento che odora di vita.
Come in una piccola città incantata, il profumo di una nuova stagione arriva lieta e la stella più vicina alla terra regala al piccolo paese una bella giornata di sole.
Seduto sul letto, Piero strofina gli occhi, poi cerca d’infilarsi le calze. Man mano che le tira su, uno strappo le riporta giù.
- Schifose calze! Ora vi aggiusto io!! Vi disintegro una volta per tutte! -. Il piccolo, accovacciato e con gli alluci che gli sbucano fuori dalle calze, sente il pesante fardello della decadenza, ma non può arrendersi alla disperazione, così, infila di botto le scarpe, sperando che tenessero più delle calze.
- Sveglia che il sole brilla!! -. Grida nonna Antonietta, la quale lisciando i capelli d’argento, spegne il triste umore e accende l’armonia che arriva fin al cuore. Giò scatta in piedi fermandosi davanti allo specchio poi, con aria altera siede vicino al tavolo; ancora avvilito per il suo piccolo desiderio irrealizzato, si alza dalla sedia, va alla finestra e la spalanca. Ora, come roccia immobile sulla riva di un ruscello che affonda le radici nel tempo, distende i nervi mentre guarda i sentieri che si allontanano come l’aria che respira, poi gira il capo e riguarda i nonni e non sa dar loro torto. Come un cavaliere che allontana la spada dal corpo con estrema cautela maneggiandola con stupore e grazia, e non tocca mai il filo se non con la ione di una gemma preziosa, allo stesso modo, tener dentro l’ansia tinge la vita e sovrappone la ragione come semplice verità. E per quanto fosse chiaro il pensiero, far uscire le parole senza ferire, stringe forte il cuore, e il sacrificio, diventa quasi rancore.
- Qualche problema! -. Dice nonna, cercando un punto di rottura.
- Niente, niente -. Giò.
- Sei sicuro…? -. Nonna.
- Certamente…. Sono sicurissimo -. Giò, desideroso di cambiare argomento iù in fretta possibile. Il giovane sente gli occhi aguzzi della famiglia puntati contro di lui e l’aria si elettrizza a tal punto che il carico dell’incertezza lo avvolge in un campo magnetico invisibile nel quale le radiazioni elettromagnetiche invadono inesorabilmente il corpo, facendo impazzire tutte le cellule, poi, inarca un
sopracciglio:
- Ho deciso! Andrò in Belgio nella speranza di trovare un buon lavoro!
Lo so, sarà dura; farò sacrifici, ma chi non lì fa? Conosco bene la durezza della vita, e se il destino mi ha disegnato la via, non posso far altro che seguirla! -.
Austera solitudine, la calma apparente;
chiudere gli occhi e rivedere il cielo in uno spazio ristretto; solamente il preludio alla tempesta.
D’un tratto, le parole del ragazzo riempiono la stanza di una verità maledetta; gli sguardi impietriti dei nonni, puntati su di lui, annebbiano il dolce sapore dei sogni. Allontanarlo dal cammino e come leggere tra le righe del cuore.
Dipingere il bianco colore che si scontra con fermenti di vita di chi sa dove guardare. Non più delizioso profumo che aleggia l’aria, né canti dei eri in volo che imprimono nel vuoto il candido suono. I nonni strizzano gli occhi nel buio dell’angoscia. Vivere una normalità fronte alla quale l’imprevedibile ruota della fortuna gira con tanta rapidità che i cucchiai tremolano e cadono di botto e i pensieri divagano vuoti. Piano, piano, la famiglia si riprende dalla forte emozione e nessuno apre bocca, nessun dice parola. I visi si abbandonano nuovamente sulle tazze come declino alla vita: - Ragazzo mio, a volte la fortuna sta proprio sotto i piedi e neanche ce ne accorgiamo -. sussurra nonno.
- Ora ti racconto una storiella, un fatto straordinario. In un paese qui vicino, tutte le notti, un guardiano di buoi, vigile e attento a misurare coi suoi i tutto il percorso di una vacca che al chiaror del tramonto si allontana in lungo e in largo nel podere. Il cammino dell’animale si ferma sotto un albero di una vicina collina. L’animale, ogni notte, punta gli zoccoli, abbassa il capo e s’inginocchia nello stesso punto. Il guardiano, muto e silenzioso, origlia e sbircia il terreno in ogni verso. Incuriosito, ne parla in giro. Come un quadro in fase di restauro, il chiacchierio si spande per il paese e dopo qualche giorno, arrivano tante persone armate di pala e piccone. Come una goccia scava la pietra e forma una cavità nel terreno, in modo flemmatico, gli abitanti scavano tutta la notte senza mai soffermarsi, mentre lucciole guardano con giovanile vaghezza, mostrando le loro fiammelle. Talvolta, sotto i piedi della fossa, l’inquietudine nello stormire delle frasche al correre veloce di un coniglio che striscia e prosegue per i viottoli. Dopo tanto lavoro, finalmente, il grido di gioia.
Incredibilmente, nello stesso punto dove la vacca puntava gli zoccoli, riportano alla luce una grande croce che ancora oggi esiste nella chiesetta di Santa Croce.
“Si tratta della croce paleocristiana più antica al mondo. Un prezioso cimelio del cristianesimo di legno di quercia di inestimabile valore trovata molti secoli fa in una collina vicino a Casteltermini - AG - La croce, del primo secolo dell’era cristiana, non è probabilmente l’opera di un artigiano raffinato, ma piuttosto, di qualcuno abile nel lavorare il legno senza grandi velleità artistiche. Proprio per la sua sobria semplicità, colpisce l’occhio di chi entra nella piccola chiesa “.
Rallegrati nipote mio, ognuno porta la propria croce. A volte quello che cerchiamo sta sotto i nostri piedi e non ce ne accorgiamo; ringraziamo la vita per quello che da e benediciamo il pane perchè la festa di San Giuseppe è vicina -
“Antica quanto il paese, il rituale della festa di San Giuseppe rimarca lo spirito di amicizia e accoglienza. Gli abitanti del piccolo centro, vedono nella figura del Patriarca, il padre della provvidenza e il protettore della famiglia e, al là da ogni
significato religioso, la lieta ricorrenza, esalta l’amore della società umana. L’elemento che caratterizza la festa rimane immutato nel tempo. Il rituale è rappresentato dalle tavole ornate e vestite di ogni sapore.
Tavole allestite con particolare maestria in casa dei contadini e minatori, legati al Santo nella piena coscienza di una promessa solenne. Il pane evoca l’elemento basilare della festa, rappresenta il ciclo di vita sulla quale si rigenera il simbolo della luce solare; mito agrario contadino, valore simbolico su cui si fonda ogni pasto”.
Mossi dalla brezza, i primi giorni di Marzo sfogliano e la primavera comincia a risvegliarsi segnando l’inizio di una nuova stagione. Sono giorni nei quali si sceglie la propria strada senza che sia dato sapere se sia una scala per il paradiso o un sentiero che porta all’inferno. Giò oramai è fermo nei propositi, anche se, nel profondo, nasconde la paura di un futuro incerto e ogni negazione della famiglia per farlo rinsavire, rafforza l’orgoglio. Così, come l’alchimista, perennemente alla ricerca della pietra filosofale, il Belgio, come miraggio, ora, sembra benedetto nel suo cuore.
Capitolo Dodicesimo
Soffio alitante del vento, messaggero di una verità semplice, basata sull’istinto, allieta il giorno calmo della partenza che tuttavia, è tristemente arrivato. Il viso di Giò sbianca e poi divampa come una carbonella dentro un fuoco e seppur nessuno, né parola può mai offuscarlo, ora, l’impulso di oltreare il tempo scandisce inesorabile il battito delle emozioni. Il giovane si sente stingere dentro la tempesta e il nuovo viaggio offusca l’animo triste che racconta ogni tormento e si fonde nell’unica emozione che si alterna dal freddo, in un caldo abbraccio.
Foglie che non cadono mai;
ora, l’ultimo saluto solo sgomento;
fioca voce, l’inquietudine del tempo,
accarezza l’ultimo timore brezza mattutina; ora, davanti l’uscio, la testa china;
non per paura, né per miraggio,
non per l’aria gelida,
né per il primo raggio.
Oramai, la valigia dei sogni è pronta e il giovane col cuore tremante si chiede cosa l’aspetta; se il domani vorrà dire sorridere al nuovo giorno, oppure, compiere atti che mostrino grande afflizione nell’asciugarsi le lacrime dagli occhi col rovescio della mano, nello stupore dello sguardo che si abbandona sull’orizzonte immutato. Come la neve che si scioglie al primo sole, la verità insiste nella speranza di un’evoluzione che spinge sicuramente a nuovi traguardi. Giò gira e rigira il capo ma gli rimane solamente il tempo per gli ultimi preparativi, in fondo, il denaro per il biglietto non manca, oltre a qualche lira per gli imprevisti: - Lì troverò zio Alberto, se avrò bisogno mi aiuterà, poi, cercherò lavoro e guadagnerò un sacco di franchi, così li chiamano -.
Futuro.
Sfoglia la vita nel buio dell’anima;
sfoglia l’istante limpida semplicità;
né frontiera né barriera;
null’altro che traccia;
null’altro che luce, tra le rime abbraccia.
Sempre vivo, nel torpore del sogno;
sempre vivo, di coloro che sanno;
sfiorisce il presente, sveglia la mente; compagno che si lega alla vita;
semplicemente.
Scorre nella speranza delle stagioni profumate, sfiora l’acqua e il cielo,
aggroviglia sogni al vero;
emerge dallo specchio, veritiera voce lontana; splendida gemma di luce;
ora chiama.
Il sorriso triste della nonna lascia fuggire i colori dell’inverno; le lacrime trattenute sono ombrate dallo spuntar dell’alba. Antonietta guarda la valigia e nei suoi occhi arrossati, pensieri confusi di chi vuole dare tutto e non trova niente. E come l’onda che accarezza la riva, la lacrima sul viso, non è di gioia, né l’epilogo scontato di un evento che racchiude tanta tristezza da mozzare il fiato. Il piccolo Piero, seduto in un angolo della stanza, guarda con grande amarezza il nonno, il quale si limita solamente a strofinarsi gli occhi mentre il dolore per la partenza del nipote sembra la costernazione della perdita di ogni speranza; soffre profondamente, ora, le parole non servono, ora si avvicina alla finestra e guarda
con occhi attenti il circondario, consumando a poco a poco la rabbia che ha nel corpo, dominata dalla paura di non poterlo più rivedere. Paura che lacera e strappa l’amore e sente mancare la stessa vita; sfuggire al respiro che affanna l’anima e addolora il cuore. Brusio di voci, confusi e sommessi movimenta la piccola residenza. Ora nonno borbotta tagliando parole che mordono il cuore.
Ora s’inginocchia per sistemare le ultime bottiglie di vino poi: - Il pane c’è!!
Un pezzo di formaggio pecorino c’è!! Un barattolo di olive…Olio… Penso che ci sia tutto, non ho scordato niente -. Ripete continuamente. Tutto è pronto. I bagagli sono allineati sulla soglia della piccola sala e la visione rende ancora più triste l’umore della famiglia. I battiti carezzano l’aurora di una triste alba; inventare nuove parole che squarciano il silenzio è difficile, ma, ancor più, non dire niente.
- Ho detto all’autista di fermarsi davanti casa -. Mormora nonno, con voce tremolante; il pensiero della partenza del nipote, lo rende nervoso.
- Bene….-. Risponde Giò, fissando con le ciglia degli occhi le valigie, uniche compagne. Ora la mano del fratellino gli stringe il polso. L’umanità del piccolo Piero sembra imprigionata dall’ansia che cammina fra spazi di luce che rischiara nuove paure con l’ironia del sorriso. Tuttavia, il tempo muta inevitabilmente e, come chiave temporale in frazione numerica posta all’inizio del pentagramma, il sibilo del vento come soave musica scandisce l’imminente addio. Giò, tuttavia non vuole sciogliersi come un pupazzo di neve al sole, né si trova in un mondo poetico in cerca di una strada per nascondere le proprie angosce. La difficoltà espressiva che affonda lo sconforto è di non poter dire quanto bene, quanto amore scorre nel suo cuore e la rabbia cieca di non potersi disperare per la separazione.
Tuttavia, in quel preciso momento, non deve cedere! Non deve batter ciglia!
Oramai deve far capire alla famiglia che egli è pronto per le avversità della vita.
Gocce d’acqua filtrano il terreno condensando il flusso di magia che sembra aver stregato tutti. D’improvviso, il suono scrosciante di marmitte bucate scuote la casetta. Quel giorno, la corriera avrebbe fatto una fermata di favore; infatti, già staziona vicino la viuzza che si interseca nel corso principale a pochi metri dall’abitato.
- Allora, c’è poco da aspettare -. Dice il giovane, per non sentirsi mancare.
Come un ometto saluta i nonni poi abbraccia il fratellino: - Non me ne andrò per sempre -. Gli sussurra, sollevandolo da terra, stringendolo forte a sé: - Vedrai che tornerò presto e mi raccomando, ora sei tu l’ometto di casa! Sei tu che devi badare alla famiglia -. Continua. Gli occhi dubbiosi del nonno brillano di una strana luce, come se esprimessero qualcosa, come se volessero dirgli di non andare, di non lasciarlo e tuttavia, quale che sia la distanza che lo separa, resterà sempre nel suo cuore. Giò ora gli si avvicina abbracciandolo: - Sei stato più padre tu, che il padre che mi ha dato la vita -. Il giovane, angosciato, prende le valigie e socchiude la porta dietro di lui; egli non vuole ricordare la scena che tuttavia vede riflessa davanti agli occhi. Sale di corsa l’ampia scalinata delimitata ai due lati da una ringhiera e si intrufola velocemente dentro il bus. A un tratto Piero esplode di rabbia; apre di scatto la porta e corre verso il fratello. Giò avverte il grido dell’inquietudine; sente la voce disperata che lo implora di non partire, di non lasciarlo ma assordato dal rombo della corriera la voce straziante si spegne attraverso il fumo denso che si leva dalle marmitte coprendogli la visuale. Il piccolo sale di corsa la scalinata raggiungendo lo stralcio di suolo stradale che si apre sul corso principale. Ma, ormai è troppo tardi, la corriera inizia la corsa mentre i visi dei nonni sbiancano nello sguardo attento di Piero che diventa gelido come una folata di vento che spira con violenza alle prime luci del giorno. Ora lo sguardo di Giò rimane teso sul
percorso del bus senza voltarsi, altrimenti i suoi occhi lo avrebbero tradito, e forse, non avrebbe più trovato la forza di partire. Ora si trova davanti al palazzo Marino, edificio realizzato in pietra arenaria, dalla locale cava e il corpo trema come una foglia d’autunno pronto a cadere dall’albero nella smania di attraversare volteggiando le vie deserte e poco illuminate del paese. Occhi socchiusi guardano la terra allontanarsi e brillano alla luce come cristalli di sale che ricoprono le volte delle gallerie delle miniere.
E ancor li sgrana, come se d’un tratto vedesse affiorare dalle remote profondità strati di zolfo puro che si slegano dalla marna azzurrina tra le parole consumate di tanti minatori, mentre l’alba incomincia a comparire e la natura a risvegliarsi.
Ricordo.
Percorso indelebile dei giorni più belli; scambio di luce, forgia e brucia;
sfugge dalle sfide comuni;
tracce indelebili,
ora, gioia e lacrime a fiumi.
Lo sguardo si apre al cielo come i rami dei mandorli e melograni in fiore che si intrecciano in un magico bagliore. C’è un momento, nella vita, dove ognuno di noi sceglie una direzione, e Giò, come l’acqua che scava la pietra e quando imprigionata rompe l’argine e trova la via, allo stesso modo il giovane trova la
sua. Ora scuote la testa e muove le spalle che sembrano inchiodati sulla seggiola; volta gli occhi verso gli spazi infiniti della natura che splende nelle prime luci dell’alba e la visuale sembra intrappolata nel velo della nebbia che infrange la dolce promessa fatta al fratellino: che non avrebbe mai lasciato la famiglia. Lo sguardo balza verso la porta del bus lambita dal ghiaccio; gli occhi, coperti dalle mani ombrano la luce del primo sole; occhi puntati su spazi infiniti della natura immersa nelle prime luci; occhi che cadono sulle ginocchia per non sentire la solitudine del tempo e i pensieri tesi aleggiano dal profondo del cuore di gente illusa da uno strano gioco che sembra vincere ogni emozione. Volti stanchi e bianche lacrime si scontrano nel malinconico sorriso che si apre al nuovo giorno. Giò supera il primo minuto con difficoltà, lo stomaco non è abituato a tutte quelle curve; dopotutto, egli non percorre quella strada da parecchi anni e il ricordo sfuma come una lampada ad acetilene che si spegne nella roccia di un’antica miniera. Anche se il futuro riserva un’incognita, il giovane trova la forza di chiudere gli occhi. Già fantastica; egli si vede come un ricco signore, attratto dagli affreschi del suo palazzo e capitelli dorati di pregevole fattura che decorano pareti e scandiscono lo spazio lussureggiante, e finestre gigantesche che prendono luce dalle ampie arcate, colorando in modo pittoresco la propria vita. Il giovane sorride; ora può ritornare alla sua terra soddisfatto di aver fatto molta fortuna. Il sogno viene infranto dal bigliettaio.
- Biglietto!! Sveglia!! -. Giò consegna i soldi e si rimette a dormire. Il tempo di chiudere gli occhi (In verità sono ate tre ore) e l’autista annuncia l’arrivo alla stazione ferroviaria della capitale: Palermo.
- Scendere! Siamo arrivati! -. Grida il bigliettaio, mentre toglie gli occhiali e lì mette in salvo nel taschino della giacca. Giò, dolorante, stira le braccia e si prepara a scendere. Il fiato sospeso di chi per incanto si trova in mare aperto e si appoggia tra le onde che s’infrangono qua e là nei sedili per scontrarsi poi con decine di anti che avanzano verso la nuova guerra. Il viaggio gli fa vedere crepe profonde incise per terra e lungo tutta la strada, tanto da fargli girare la testa; gli ronza a tal punto che non trova più le valigie. Giò, stretto da tante persone che gli impediscono la visuale, si gira su se stesso alla ricerca dei bagagli; trovati, si avvia per l’immenso atrio della stazione ferroviaria, più confuso che persuaso. Il o malinconico e lento prosegue verso la sala
principale; il rumore dei suoi i echeggia nell’enorme atrio. l soffitto a volta con disegni di meravigliosa complessità, tuttavia, segnato da una ragnatela di crepe che ricordano ancora la guerra. Arrivato in biglietteria, fissa la grande vetrata e abbassa le valigie, con la convinzione di arrivare subito in quel paese nordico e fiabesco. Ora a la mano tra i capelli alla richiesta di tanti soldi per un biglietto di sola andata per il Belgio. Tanto l’imbarazzo che sulla soglia dell’ufficio, verso l’uscita, inciampa in un oggetto metallico che raccoglie prontamente. Il capo stazione vede la scena e sorride e nel riprendersi la paletta segnaletica per la partenza dei treni, da una pacca sulla spalla nell’augurandogli un buon viaggio. Giò si sposta ordinatamente lungo il marciapiede, trova una panca libera e siede fronte al binario di partenza.
Quando la pena morde il cuore,
l’addio non sopporta il fluire delle ore, Intorno ai lieti, l’umano cede,
nell’opaco tempo dei desideri.
La gioia del ragazzo nasconde il timore della partenza; il lavoro lo sta portando lontano dai suoi cari e spera di superare questo momento, tuttavia, preoccupazione risveglia l’angoscia e il biglietto stretto tra le mani non lo riguarda come fosse il suo prezioso tesoro. Ora sospira, e tuttavia abbassa lo sguardo all’inesauribile fonte di grazia pensando ai nonni: dopotutto, la famiglia è per sempre. Giò inizia a camminare verso un delizioso profumo che sembra annientarlo; sfila il fazzoletto annodato e con due dita preleva i soldi per un panino: - le o miusa, chi mittemmu ahh? -. Domanda u picciottu, mentre taglia il panino a metà. - le, pane e le, e una gazzosa, grazie -.
Giò paga, afferra il panino e in silenzio ritorna al binario di partenza. Il o si perde nei frastuoni di tanta gente che lo urta in continuazione facendolo quasi
strozzare; egli si avvicina al treno sconvolto, col desiderio di guardarci dentro e prima di salire, alza gli occhi verso il tiepido sole e lo saluta come un vecchio amico. Pochi momenti di attesa e tutte le carrozze si riempiono di viaggiatori.
Carrozze gremite, tanto che le persone soffocano dentro una vertigine e si accartocciano come sardine chiuse in una piccola scatoletta. Una nube si alza dalla locomotiva e spinge al cielo grossi anelli di fumo mentre un tonfo accentua il battito del cuore. E il cuore di Giò batte come un tamburo; batte forte il respiro di una nuova vita; batte forte il dolore della sua anima. Dentro lo scompartimento, il giovane si fa largo tra la folla e quando trova un sol posto libero, si lancia con tale violenza che un proiettile avrebbe messo più tempo a raggiungere il sedile. Scomodamente seduto, Giò guarda il riflesso sulla superficie del vagone che proietta immagini di decine di persone in fila per i corridoi, pallide e atterrite, che cercano affannati, posti a sedere.
Non spira il vento;
non spira, intrappolato dal mormorio di un lamento; muti e gentili
mormorii, stretti da invisibile bavaglio; sofferenza nella riscossa di un tragitto in piedi; profezia di una vita,
profezia di una vita smascherata.
I vagoni, sono oramai strapieni di ogni cosa e stranamente, l’alba affonda il peso nei volti dei viaggiatori che si ritrovano con l’amaro in bocca; sofferenza di una terra che non solleva, né ascolta. Ora Giò avvicina il piede e sfiora con le punta delle dita la valigia; le ciglia si abbassano e poi si alzano quando sente il tempo
di percorrenza: - Scusi?? Ho sentito bene! Per raggiungere Milano? Una trentina d’ore, poi altri trenta per arrivare in Belgio! -.
L’affermazione lo sconvolge a tal punto che prima di sistemare i bagagli prende il fiasco e tracanna un poco di vino, ma il suono di un fischietto che annuncia la partenza lo ha quasi strozzato. Giò si alza tossendo e si affaccia dal finestrino tra lo stupore e il senso di meraviglia dei anti che si allontanano nel saluto, mentre il tremolio delle ruote ferrate scuote i finestrini come un frullatore impazzito. Il giovane appare triste e scontento e si rannicchia pieno di sconforto; nel cuore l’eco della lontananza stringe la speranza nel guardare le case che sfrecciare veloci. Nel corso della vita ci sarà sempre qualcosa che limiterà spazi, ma l’attesa fiduciosa sfreccia come Il treno nella penombra delle gallerie, come porta aperta al buio. Egli rivede scene radicate nella memoria riemergere come le ultime gocce di pioggia che aprono il cielo al sereno nella profondità dei colori che trasformano il cupo, in una giornata splendente. Improvvisamente, si vede sospeso in una specie di limbo, alle soglie del mondo che libera le tante linee della vita che intrecciano la mente in uno scenario intenso di momenti, mentre guarda arroccare sui curvi lidi un gabbiano. Ora ne segue un altro, e un altro ancora, e lontano volteggia un falco solitario sulle dune palermitane costeggiate dal mare, mentre l’azione erosiva delle onde sulla costa, rende la sabbia luminosa e cristallina e riflette il sole come tanti piccoli brillanti. Intanto, le ruote ferrate battono insistentemente sulle rotaie e il treno inizia ormai la lunga corsa per raggiungere mete lontane. Il rumore assordante insiste freneticamente dentro gli scompartimenti, altro che dolce musica nell’atrio del cuore; scricchiolio che assorda le orecchie, tanto che le vorresti staccare. Alcune vecchiette, sedute in un angolo del vagone, sembrano un gruppo di artiste.
Vestite in modo stravagante, cantano alla vita meravigliose note che arrivano al cuore. Ora sorseggiano tranquillamente un bicchiere di vino zibibbo e con un filo di voce sussurrano, mentre un potente getto di aria calda annulla il dolce cammino del tempo che trasforma piano, piano, i colori del cielo. Ora il giovane socchiude gli occhi lasciando al silenzio la mente. L’imbrunire rende l’atmosfera magica tuttavia, le vetture già da tempo strapiene, annullano ogni spazio per il aggio e i continui scossoni fanno traballare i eggeri a tempo di un frenetico Cha Cha Cha. Giò in dormiveglia ascolta il fruscio del vento e nel
fragore dei pensieri, affiora tristemente il ricordo di occhi imploranti. Ora, una voce batte frenetica.
- Guardate quante luci!! -.
- Che bello, stiamo arrivando a Messina, ora traghettiamo! – Stretto da tutte le parti, Giò resta con le gambe accavallate sulla seggiola; non si alza nemmeno; non sente l’entusiasmo di vedere il treno che s’imbuca dentro il traghetto, anzi, il par d’essere un topo in trappola. Come sottile confine tra coincidenza e fato, il giovane sbircia il naso fuori dal finestrino e sbatte nelle lamiere della nave mentre ruote ferrate scintillano sui binari incastonati dentro il traghetto come un coltello su di un rotino che affila la propria lama. Vagone dopo vagone, il treno viene tagliato dai manovratori che poggiano vicino alle portiere una piccola scaletta. Improvvisamente un rombo urta la notte al suono di una sirena e il traghetto scivola sulla fredda brezza delle acque cristalline iniziando la traversata, mentre gli scompartimenti si svuotano, pur restando strapieni di valigie e damigiane e, come un plotone di bersaglieri pronti per la guerra, la gente inizia a scendere per arrampicarsi come grandi alpinisti sulle scale che portano al ponte del traghetto. Le palpebre stanche del giovane si scuciono a fatica, e gli occhi sbocciano arrossati e incuriositi, mentre gli ultimi viaggiatori lasciano lo scompartimento. Il ragazzo ora si alza e segue la scia come ape al polline e dopo una breve salita, anche lui si ritrova con il vento in poppa e lo sguardo rapito dalla meraviglia. Ora sembra rigenerato; estasiato da una soffice freschezza, allunga lo sguardo tra i monti che corona lo stretto.
D’improvviso nota un sentiero ripido che brilla come diadema e trafigge il litorale sfiorando la spuma del mare, e il par di averlo già visto; ironia della via, par lo stesso sentiero tortuoso dei monti che ha appena lasciato.
Risveglio.
Mani che si slegano,
timori che si avverano,
letizia nella notte del cuore,
grani di luce liberano ioni,
vento scolpisce gioie e dolori.
Fermo e attento, il giovane guarda il sentiero tortuoso che raggiunge le vette più alte di un mondo che ruota e muove il respiro dell’aria fresca come acqua lustrale dalla fonte. Nel silenzio della sera, un continuo precipitarsi di emozioni sveglia il sogno di arrivare per magia nella nuova terra come Colombo. Sprizza l’acqua da tutte le parti, quando la nave attracca a Villa San Giovanni e tutti i viaggiatori ridiscendono veloci le scale e risalgono sui vagoni del treno ricongiunti e rilegati come un libro. La prova freno, il tocco di un martello sulle ganasce e il treno parte nel cigolio delle ruote che incominciano a limare binari brillando nuovamente di una strana luce, mentre lo sguardo duro della notte arriva fin dove il fumo e le polveri vibrano e accendono emozioni del tempo che inizia a scorrere. Giò, stranamente, si vede dentro un gioco; stanco e assonnato scuote un poco le spalle fin sopra le orecchie, poi si aggrappa ai bordi dei sedili cercando di sgranchirsi le gambe. Sporge il naso fuori dal corridoio e rientra di scatto nel vedere una nuvola di fumo che lo attraversa come un canto funebre sin dentro le ossa. Ora prende la borsa, la poggia davanti alle proprie ginocchia e la tiene ben ferma; apre la lunga cerniera e si ciba di un boccone di pane. Gli occhi dei viaggianti sono puntati su di lui come un fucile caricato a lupara, pronto a sparare. La voce allegra non precipita, non si agita nemmeno, anche se gli occhi si spingono verso terra come se cercassero pepite d’oro. Il treno prosegue la corsa tra fiumi e monti, accompagnato dalle stelle che brillano alte come mete
irraggiungibili. Giò infastidito da strani rumori che provengono da tutte la parti si alza d’improvviso e batte i piedi, mentre il russare incontrollato di persone disattente, inonda lo scompartimento di un nervosismo inquietante. Dopo una lunga e inquietante notte, il risveglio. Una lenta pioggia corona la brutta giornata resa spettrale dalla fitta nebbia e dopo qualche sbadiglio e una strofinata agli occhi, Giò si alza dolorante e da uno sguardo dal finestrino. Con meraviglia nota una costruzione medievale, munita di torri e mura difensive; un castello antico con l’impalcatura in legno e ponte levatoio immerso nel silenzio che fa innamorare chiunque lo guarda.Giò immagina un grande piazzale e feritoie dove bocche di cannoni mettono in fuga i nemici, e quando il segnale di tromba impone un’azione risolutiva del combattimento, le rampe della scala in legno si aprono e girano a chiocciola in un gioco d’architettura intorno alle torri e alle mura, a scopo difensivo. Il castello, cinto da alberi secolari, siepi e da sottili sbarre di metallo dorato a forma di frecce appuntite illumina il circondario, un vero incanto, tanto che sembrano pronte per essere scoccate.
Il giovane guarda la costruzione che attraversa un’epoca in tutta la sua meravigliosa bellezza e non crede ai suoi occhi, formula frasi che non riesce a pronunciare; egli pensa che quella meraviglia potesse esistere solamente nelle favole. - Quanto è grande, sembra la mia casa -. Mormora sorridendo.
L’immagine distoglie per un breve momento la solitudine che riappare improvvisamente, poi, come un fuoco giallo che divampa inarrestabile, il giovane chiede a uno dei eggeri:
- Quanto manca ancora! Quanto manca per arrivare a Milano -.
- Ancora un poco e arriviamo -.
Il lungo viaggio sta per concludersi e il cielo, cupo e nel suo grigiore, ora
trasmette l’ansia di una nuova attesa. ano le ore e finalmente il treno arresta la marcia, e di tutte le cose insolite, il viaggio lo rende ancor più responsabile.
Ora il silenzio è rotto dal fragore di persone che si disperdono e scie di valigie e borsoni si sottraggono alla vista come l’animo lacerato che sfugge alla natura in festa. Gli occhi del ragazzo rosseggiano di stanchezza e il suo orecchio attento sente chiamare facchini, signori ben vestiti, con giacca e pantaloni blu e questi accorre felici e con tanta gentilezza. - Incredibile -.
Giò scruta ogni angolo della stazione alla ricerca di una linea di confine, di qualcosa che lo aiuti a riprendere il viaggio e, mentre vaga confuso per l’immenso atrio, vede genti uniti in un clima festoso che sfiorano celestiali abbracci. Mezzogiorno inoltrato e il sol ancora non si vede; la nuova attesa per Brussel sembra particolarmente riposante. L’aria fresca del giorno carezza il viso regalando una dolce allegria, dopotutto, Giò l’aveva ata quasi in bianco la nottata e quelle poche ore di attesa servono per un bel riposino. Il russar stordente di tante persone lo aveva accompagnato per tutta la nottata lasciandolo in dormiveglia. Ora girovaga felice guardando la bellezza dell’atrio principale e le colonne di marmo che si alzano al cielo come un superbo fiore che splende della sua fulgida luce e sotto l’influenza di un calore temperato, eggia alla ricerca un posticino tranquillo, quando, una persona gli si para davanti agli occhi. - Ragazzo, avvicinati, ho qualcosa di molto prezioso da farti vedere, vieni, vieni vicino alle scale -.
- Grazie, ho tutto quello che mi serve -. Gli risponde Giò, avvertendo una strana sensazione, impressionato da quel tono troppo imperioso.
Un uomo che a prima vista pare simpatico, ma l’aspetto del suo volto non lo convince più di tanto. I baffi alla saracena e una cicatrice appena sotto il mento lo rendE tetro allo sguardo. Egli muove velocemente un ombrello facendolo ruotare poi apre il borsello di pelle nera mostrando l’interno: bracciali e catenelle d’oro luccicano e orologi dorati si confondono fra le preziose gemme.
Giò non sembra tranquillo, tuttavia resta immobile; gli occhi preoccupati rimangono fissi sul borsello e per un attimo esita, chiedendosi se non fosse il caso di alzare i tacchi e andarsene. - Ragazzo, sei molto simpatico e voglio farti un bel regalo, dammi trentamila lire e ti regalo un orologio d’oro che ne vale almeno trecento - Giò allunga il collo come un gallo pronto a beccare un chicco di grano: - Davvero bello, a volerlo comprare non arriverei nemmeno alla metà del prezzo che avete appena detto -.
Amareggiato per l’affare sfumato, il giovane si china per prendere i bagagli quando: - Aspetta! Aspetta ragazzo mio …. Quanto mi puoi dare? Quanto hai nel portafoglio !-.
Giò infila la mano nella tasca, disfa il nodo al fazzoletto e conta i soldi.
- A volermi spremere come un limone, ecco, sono dodicimilatrecento lire -.
- Ragazzo, te l’ho detto che mi sei molto simpatico? Dammi quello che hai e facciamo l’affare! -.
Il giovane riguarda per un attimo l’orologio e pensa che sarebbe stato delirante perdere l’occasione della vita, dopotutto, un orologio d’oro, al suo paese, non lo possiede nessuno, forse, nemmeno lu Baruni.
- Bene, facciamo l’affare! -. Replica, mentre il cuore batte violentemente.
Ora solleva il capo, allunga la mano, dà i soldi, prende l’orologio e si allontana senza voltarsi, senza parlare.
Bisbigli sulle labbra e pioggia di fiori; accentua l’udito,trafitto dalle onde sonore; fidarsi della luce del giorno allieta il frullare delle ore; ansia trepidante confonde l’ardore;
ombra ingannevole, trafitto l’amore.
Immerso nella serenità dei sensi e bagagli stretti tra le mani, il giovane si muove attento, ora la vita gli sorride liberando emozioni che imprimono vivo sentimento; egli trova una panca libera e finalmente siede.
All’imbrunire il sole lascia cadere la debole luce sui marmi delle grandi scalinate, Giò si rende conto che non ha più una lira, ma sembra felice della scelta; carezza l’orologio che indossa al polso come preziosa gemma e chiude gli occhi lasciandosi andare ancora per qualche minuto. Gente che a non si sofferma, non lo guarda neanche; il viso estraneo di chi sembra scontento di vedere una semplice scena che s’intreccia con la normalità della stessa vita. Il giovane appunta le orecchie;sente una voce metallica che annuncia la partenza per Brussel mentre il treno già staziona al settimo binario. La grigia luce della sera accende nuove sensazioni. Giò struscia gli occhi, allaccia bene le scarpe, prende i bagagli e scappa al binario indicato e d’improvviso, un tonfo assordante di ferraglie si schianta contro un vagone. - Niente paura -. Grida un ferroviere, niente paura, non è una bomba, solamente un carrellino finito sotto le ruote del treno -.
Batti memoria,
batti crepitio di ricordi confusi,
batti e sveglia il dolore,
risveglia il sapore angusto,
s’infrange sulle rive del cuore.
Il sole tramonta dietro l’orizzonte e il cielo sfuma dal grigio al nero in un batter di ciglia, Giò guarda il luccicar della sua preda e gioisce e si commuove. Egli pensa di aver fatto un grande affare e a tutto il mondo lo vuole dire. Ora si abbottona la giacca sale sul treno e guarda attraverso il via vai di persone che si piega alla pioggia e che bagna ogni centimetro della stazione, mentre luci misteriose lungo i marciapiedi brillano di un nuovo bagliore. Giò stira il drappo di tessuto trasparente appeso davanti la piccola vetrata, sistema con cura le valigie, desiderando un bel cuscino morbido dove poggiare la testa, siede soddisfatto sulla morbida poltrona gira lo sguardo e con grande stupore nota che gli scompartimenti sono vuoti e la memoria confonde i pensieri.
Incredulo e pieno di stupore, inizia a respirare l’aria di sognate speranze mentre l’intera carrozza sembra avvolta da uno strano e tenebroso silenzio. Giò sente gelare il sangue nelle vene, anche perché in giro non vede anima viva e gli occhi sgranano e girano da tutte le parti e i piedi allungano in una grande corsa; impaurito, cerca nel semplice fermento, qualcosa o qualcuno che lo possa rassicurare. Una lunga pausa, poi il respiro accompagna silenzioso la luna piena; rientra nello scompartimento e siede intimorito, mentre il treno, solitario, s’immerge ancora una volta nella natura, fitta e straordinaria ano le ore e Giò, sempre in dormiveglia, rimane solo dentro lo scompartimento; intimidito, sfila la tenda e apre un poco il finestrino annuendo l’odore di terre umide al profumo di pini e abeti che brillano al nevischio come tante meraviglie.
Improvvisamente la porta dello scompartimento si apre: - Siamo soli tu ed io? -.
Chiede l’anziano signore, fronte a lui. - Si! A dichiarare il vero, credevo d’essere solo io, addirittura pensavo di avere sbagliato treno -. Ride Giò, stirandosi i pantaloni lungo le gambe.
-
La vigilanza ci fa forti eh! -. Replica l’uomo.
-
Scusi, non ho capito -. Giò.
- Dico, bisogna essere attenti e vigili, altrimenti si rischia di sbagliare treno, convieni ? -.
- Sì, sì, certamente -.
Giò socchiude gli occhi sorridenti e si rilassa distendendo i nervi come se si trovasse sdraiato sulla sabbia dorata della sua amata Sicilia mentre l’eco della memoria lo rimanda davanti a uno specchio di belle sensazioni. Ora, non si riesce a spiegare le tante emozioni che invadono il corpo. Col sorriso stampato in
volto, il giovane intravede l’ombra dell’anziano signore, come un corpo opaco che brilla luminoso nell’ombra della notte. Gridare nell’anonimato parole al vento senza capirne il significato, spinge nel vuoto il giuramento che nessuno ascolta. Ora come consuntivo della vita stessa che in quel momento e in quel tragitto sembra gioire dell’azzurro della vita. La tensione allenta e gli apre lo stomaco in un grande appetito, l’improvvisa serenità imprime uno strano calore a lungo respirato e che arde il cuore. Ora al giovane dispiace profondamente di non poter interloquire, poiché, gli occhi stanchi si chiudono nell’estrema difesa di un dolce sorriso.
Capitolo Tredicesimo
Il treno prosegue il lungo viaggio nella solitudine della notte che attraversa la natura fredda e incontaminata e sembra cambiare il volto della terra. Nel cielo, migliaia di stelle scarlatte colorano l’immenso di una strana luce e il chiarore lunare annuncia una giornata luminosa e piena di sole. Giò in dormiveglia guarda il lungo percorso attraverso il finestrino; guarda ammagliato una sconfinata estensione di terreno coperto d’alberi d’alto fusto e di arbusti selvatici che s’intrecciano e si spandono su di una vegetazione oscura e incerta che si mescola alla nebbia, velando il colore bianco del circondario. A volte, l’abilità mentale del ragazzo lo spinge in un mondo ideale e tuttavia egli guarda oltre l’immaginario, oltre le parole per poi capirne il reale significato. L’amore per la complessità delle cose, in quel momento, per il giovane vuol dire scoprire la qualità della vita che improvvisamente sembra avvolta da un manto argenteo che domina i sentimenti nel chiarore della prima luce che si fonde in dolce melodia con il senso di torpore che lo induce a dormire. Giò si agita con avversione e lo sguardo sognante si alterna tra mille smanie; egli sogna la piccola comunità radicata sulle regole della famiglia; il forno per la cottura del pane e le donne che lo creano, lo lavorano e lo distribuiscono.
“Un’epica fatica custodita nei secoli. Una qualità di pane tradizionale legato all’esodo dell’infinita transumanza e alla sopravvivenza stessa dell’uomo.
Donne in piena armonia dei propri meriti, che sorridono alla vita orgogliose; che stendono la farina lungo il tavolo, sciolgono il lievito in acqua tiepida che poi amalgamano sino a formare un delizioso impasto.
La specialità di questo pane nasce dalla farina di grano duro che riceve il lievito naturale a pasta cruda; un pezzo di pasta di pane tenuta a fermentare e avanzata
da un precedente impasto. La vita quotidiana sorprende le donne che lavorano e spianano con allegria grosse stese che profuma di buono, poi benedetta con il segno del sacro l’impasto si trasforma in pagnotte calde e fragranti e riempiono il paese di quel profumo che fa venire fame anche alle pietre, tratteggiando il filo tenace che lega uomini e donne alla natura e all’antica dimensione del mondo contadino.“
Uno scossone del treno lungo la linea ferrata risveglia il giovane in gesti enigmatici; nel sorriso smagliante di chi si è appena gustato del pane caldo e fragrante. Ora si alza con grande fatica per sgranchirsi un poco le gambe.
L’immagine splendente della neve che fiocca ancora, fiocca leggera e bacia dolcemente la terra incuriosisce il sospetto che non finirà.
- Dove siamo? Ho dormito troppo! Eppure, ieri notte mi sembrava di aver visto la luna…. Le stelle… -. Sbuffa, strofinandosi gli occhi sognanti.
- Davvero? E dimmi, di dove sei, da dove vieni? -. Chiede il signore.
- Da un piccolo paese arroccato tra la catena dei monti Sicani, affacciato sul mar d’africa, con una costa ricurva bellissima, attraversato da un fiume che raggiunge la pianura in tutta la sua lunghezza. Se uno si sofferma un attimo ad ascoltare, sente l’erba che si slega dalla terra e solletica le gambe e quando si leva il vento dalle vicine colline e le nuvole spariscono nel fragore della pioggia, la rosa dei venti inizia a spirare tanto leggera che assale il corpo di quel desiderio che spinge l’uomo a volare lontano, sino a raggiungere la sabbia dorata dei sogni. Giò guarda verso l’uomo con occhi brillanti e crescente curiosità, e gli pare di trovarsi solo in un grande treno vuoto, sperduto e abbandonato nei ghiacci del polo nord. Gli sembra che ogni stazione dovesse essere l’ultima, mentre la brezza mattutina gli morde il viso e il freddo incomincia a chiamarlo
mamma mia.
- Bbhhbbrrrhhh…. Mamma mia che freddo!! E’ la prima volta che affronto un viaggio così lungo e faticoso, a volte, la sensazione di sbagliare fermata mi sconvolge!! Mi mette dentro un’ansia??…. Brrhhbbrrhhh mamma mia. Mamma mia … Che freddo!!. -.
L’uomo alza lo sguardo in un sorriso. Un signore distinto e di mutevoli espressioni, tanto che il movimento delle labbra gioca abilmente con le parole.
Il profumo dell’aria fresca ravviva lo spirito di conoscenza che si piega al sorriso della libertà e la smorfia del viso, in quel preciso momento rende più dolce l’essenza della vita. Giò guarda le mani dell’anziano signore mascherate dai guanti che si liberano improvvisamente; mani curate, belle da vedersi, che si accostano al volto con tale armonia e sensibilità che sembrano danzare nel sentiero della poesia. Mani pulite e senza calli, non come quelli di nonno Pietro, e non si può dire: “Chi è causa del suo male, pianga se stesso”
L’interrogativo causa l’incertezza, il duro lavoro del nonno rimane l’unica costante per far sopravvivere la famiglia.
- Guardi, guardi signor…. -.
- Mi chiamo Fischer -. Replica l’uomo, dal sorriso scandito da una grande ione, come se nelle stagioni della sua vita, l’espressione dei sentimenti attraverso la fisicità, non fosse altro che la capacità di confrontarsi continuamente.
- Guardi, guardi signor Fischer, guardi quanto è bello, secondo lei, quanto può valere un tale tesoro? -. Chiede il giovane, contento come una Pasqua di mostrargli l’orologio.
- Davvero bello, poi le gemme incastonate nella cassa sono di rara fattura, un bell’orologio… Uuummmhhh… Se fosse veramente d’oro e le gemme veramente gemme, varrebbe una fortuna! -. Replica Fischer, stringendo le labbra, pacatamente.
- Se fosse veramente oro?…. L’orologio che stringe tra le mani è d’oro!!! -.
Grida con rabbia il giovane, strappandogli dalle mani la preziosa gemma.
- Mi spiace, potrei sbagliarmi, non sono un orafo né uno scienziato quindi, non posso ridurre le cose complicate alle loro particelle elementari ma, la verità: “Non è oro, tutto quello che luccica”.
La fattura dell’orologio, a occhio nudo, sembra oro, mmmmhh simile all’oro, tuttavia, é volgarissimo rame ricoperto di tinta dorata. Guarda, guarda il tuo polso, è il segno tangibile, l’inequivocabile prova!! -.
Giò dapprima sembra non capire, ma quando i suoi occhi cadono sul polso colorato di verde salmastro, il viso implode di un rosso fuoco. In un batter di ciglia capisce tutto; capisce di aver preso una bella fregatura.
Per un poco di rame verniciato aveva speso tutti i risparmi del nonno e del piccolo Piero: questo, non riesce a perdonarselo. Il treno allenta la marcia e un fastidioso suono lacera le orecchie e i denti, mentre bisbigli e sottili voci ricoprono di malizia un pallido sole che riflette dentro i vagoni strane immagini.
Ombre di genti che vagano come spettri silenziosi, attraversando la vita alla ricerca di nuovi approdi.
- Sono arrivato -. Borbotta Fischer, mentre si aggiusta il cappello sulla testa, felice come un raggio di sole appena spuntato, teso a favorire la piacevolezza dell’essere.
- Dove siamo? -. Chiede il ragazzo.
- Liegi, ancora un poco e arriverai anche tu -. Risponde Fischer, e mentre sistema le sue cose guarda il cielo che appare grigiastro e quelle poche nubi si dileguano lasciando intravedere per un attimo il sole.
- Sai, il mondo ci circonda, ci inebria con le sue bellezze e ci soggioga a volte con le sue meravigliose sfaccettature, tuttavia la vera forza si matura nel ricambio generazionale. Trovati una bella ragazza, sposala, vedrai che l’amore darà serenità…. La speranza si radica nelle piccole cose -.
Ora, Fischer saluta il giovane con l’affetto di chi ha vissuto rettamente la propria vita: - Ricordati Giò, esistono infinite possibilità, basta sceglierne una giusta -.
Fai in modo che la spiacevole esperienza dell’orologio non condizioni le tue scelte future, che questo spiacevole episodio ti aiuti e ti renda più forte nel percorso della tua giovane vita -. Replica.
Ora, l’ombra di Fischer si allunga, si alza al cielo e sfugge avvolta da un soffio di vento scomparendo nella nebbia. Ora, dentro le tasche vuote del giovane, il rifugio delle mani fredde che cercano il calore del corpo. Alla mente viaggiano strani pensieri e gli occhi allargano la visuale che sembra trafiggere nelle lacrime i ricordi. Malinconico, si sente come un pesce rosso che appartiene a un mondo diverso; non è così facile essere giovane, forse gli manca già il calore della sua terra e, senza un filo di voce, scruta i i dei viaggiatori che si allineano nei corridoi della grande sala che intravede mentre un rumore assordante fa traballare le carrozze sulle rotaie e il treno inizia nuovamente la corsa attraversando le brume della vita come simboli sconosciuti. Il cielo splende di riflessi magici, improvvisamente sembra un mondo fatato e spegnere le luci dell’incertezza facendo tesoro di tutte le esperienze e come guardare con disattenzione attraverso la finestra, una foglia che volteggia negli spazi vuoti e cade ai piedi di una roccia, consumandosi lentamente nella terra. Promesse e speranze, come tante sensazioni mutano e percorrono il corpo d’impulsi sinceri dettati dall’istinto, unico modo, a volte, per non sentirsi solo.
La mano poggiata al mento, solleva lo sguardo attraverso il finestrino. Giò sente ancor di più la solitudine di un altro continente; una natura bianca e incontaminata che trafigge il verde degli alberi. Ora una nuova atmosfera accende la forza naturale dominata dal freddo e dai ghiacci, in una bufera di vento che travolge tutto.
- Chissà com’è la sua casa; non credo che sarà di legno; non può essere di legno.
Qui fa troppo freddo per essere di legno!…. Sicuramente, quando lo zio mi raccontava delle case di legno, costruite vicino alla miniera mi prendeva in giro…
Mmahhhh... Con tutta questa neve, le case, come possono essere mai di legno…
Mmaaahh, una stufa per riscaldarsi almeno ci sarà!? -.
Il pallido sole del mattino esalta il colore rosso dei mattoni scolpiti nei palazzi, mentre il treno, finalmente, rallenta la sua marcia entrando lentamente alla stazione di Carleroi. Come una massa fluida in movimento sui marciapiedi, una marea di persone che sfiora appena i binari si muove ondeggiando freneticamente; forse aspettano parenti e amici, o forse, solamente l’ora della partenza. Giò si sente spossato, svigorito, sembra spegnersi come una candela al vento; sporge malinconico la testa dal finestrino e cerca nella folla la sagoma dello zio. Gli occhi ancora assonnati gelano al freddo pungente; inevitabilmente, egli pensa che il tempo sia una sfera che oscilla; che a volte frantuma, altre realizza sogni e tuttavia, una persona seppur si rigeneri ogni giorno, non può arrivare in una nuova nazione e sentirsi subito a casa. D’un tratto, il giovane sorride alle splendide immagini dei fogli stampati e affissi in tutte le pareti della stazione. Il mondo, che fino a un istante prima era stato avvolto si cancella in un istante. L’apparire di giovani modelle rivela una gradita esternazione di follia che pare aprire le danze in un’esplosione di vera contentezza. Una piazza gremita di gente in mezzo alla quale appare la presenza dello zio stretto tra mille cappotti.
Ora rientra cercando di riordinare alla meglio le sue cose sparse un poco dappertutto e si affanna e si aiuta coi bagagli, spingendoli fuori dallo scompartimento. Con la coda dell’occhio vede Alberto avvicinarsi e il buio dell’anima muta in verde speranza mentre scruta ancora il tormentoso divagare delle genti.
- Zio Alberto…. Zio Alberto… Sono qua!! Sono qua!! -.
Giò lascia cadere le valigie e si sporge dal finestrino sbattendo violentemente la testa nella vetrata. Mezzo intontito, grida ancora con voce rauca: - Zio. Sono qua... Sono qua… -. Il treno sembra essere colpito da un fulmine, ferma la marcia in uno strappo violento. La brusca frenata scaraventa Giò a terra come un sacco di patate. Il ragazzo si rialza dolorante, ma come un vento favorevole che piega gli alberi, il desiderio irrefrenabile di abbracciare lo zio gli dona il senso di libertà che sembrava aver perso. Ora il mistero annulla ogni sconforto e le paure sconfitte da nuovi traguardi. Giò scende dal treno traballando come un frullatore impazzito; sulle spalle, borse e valigie dondolano come un verso di poesia alla ricerca di una bella strofa.
- Dove sei… Un momento fa eri qua… Ma che lingua parlano… Non capisco una parola, sarà se? tedesco? Boh? -
Una mano sfiora la spalla.
Abbraccio.
Sgrava tormentoso divagare;
traccia dell’essere nell’animo gioire;
limite d’istinto avvolto dal bagliore schiude; giunge allo sguardo senza soffrire;
dolce sospiro, l’abbraccio del cuore.
- Dio! Come sono felice, lascia che socchiudo gli occhi! Si! Sei proprio tu! -.
Il brusio di persone arriva alle orecchie come rombo di tamburi in uno spazio libero e sereno e l’animo trepidante del ragazzo vive ridente una magica primavera che abbraccia il primo sole. L’attenzione linguistica riformula con difficoltà definizioni che stranamente riesce a circoscrivere. Considerazioni attente sulla sinonimia, un concetto in senso stretto che esalta l’esistenza di termini che esprimono una stessa idea principale, che certamente, ciascuna con propri significati, accompagna sfumature diverse di uno stesso colore.
- Zio, che bello rivederti, che strano linguaggio, ora toglimi una curiosità, anche se non capisco una parola, il suono sembra così familiare…. -.
- se, siamo in Belgio e parlano se, però, qualche parola col siciliano ci azzecca. Sai che ti dico! Andiamo a mangiare qualcosa, tanto la corriera per Marcinelle parte a tarda sera -.
- Bellissimo… Ho una fame che mi si annebbia la vista … Dove andiamo a mangiare? Cosa facciamo! Le valige le portiamo dietro? -.
- Rilassati, rilassati -. Ripete lo zio.
Depositano i bagagli alla stazione ferroviaria e si avviano per la città.
Come macchine fuori controllo camminano per i viali e giardini curiosando, fermandosi ogni tanto a guardare le vetrine dei negozi che sembrano offrire tutto
quello che si desidera:
- C’è di tutto, guarda, guarda, che strani pantaloncini, mah, non sono troppo sottili per un clima così freddo! Mah -. Dice continuamente il giovane, soffiandosi il naso sul fazzoletto, da qualche tempo vuoto e snodato.
- Ma quali pantaloncini, Quelli boxer sono -.
- Box…. Che? -.
- Boxer…Boxer….Mutanni!! -.
- Aaahh…Mutanni, mutanni?! Accussi li fanno li mutanni cà? -.
- Si!! Accussì li fanno! Ora andiamo a mangiare, arriminati!! -.
Giò sembra cedevole come un filo d’erba che cresce sotto un sole caldo; pensa che nella vita non si sappia mai quello che ti aspetta, in fondo, non sei tu a scegliere le cose in cui credere, sono loro a cercarti.Girato l’angolo, i due si trovano davanti a una grande insegna: Jan Chef Ristor.
Entrando, un fascio di luce accende una parete della sala come un grande schermo che illumina il cielo e un giovane cameriere dallo sguardo attento e dal sorriso smarrito che s’intona con la striscia di seta dai lembi stretti che svirgola sotto al colletto, li fa accomodare. Il cameriere saluta garbatamente e si allontana
con movimenti sinuosi, tanto che il tessuto attorno al collo, più che una cravatta strozzata sembra lo stesso laccio da scarpe con il quale nonno Pietro appende gli scarponi al muro. Giò guarda intorno e siede lentamente, carezzando delicatamente la tovaglia ricamata, poi gira lo sguardo e con un dito sfiora le coppe di vetro e le tante candele accese che si consumano lentamente.
Le luci delle piccole fiammelle splendono, brillano, tremolano, oscillano e ondeggiano come furia della natura sugli innumerevoli volti che guardano con stupore e disprezzo i due appena entrati, ma come un vento caldo che carezza le nuvole sopra il cielo, la bellezza di quel luogo agli occhi del giovane sembra incantato, ed egli dimentica per un istante la cattiveria dei clienti allontanando il pensiero con la stessa agitazione di quando si sente un brivido alla schiena. Il ragazzo, tuttavia, avverte ancora un senso di pericolo, nell’aria grava lo sguardo contrariato di tutti. Giò fa finta di niente e gira il capo in un sospiro di apparente gioia che risolleva all’istante l’incubo che stringe il cuore. Ora posa gli occhi sulla tovaglietta di seta bianca stretta sul braccio sinistro del cameriere e al tocco magico di un sussulto, il giovane scuote il corpo. D’un tratto rimane ammutolito; volge lo sguardo incantato al dolce profumo che si distribuisce per tutta la sala.
Brevi momenti poi spunta il cameriere con una matita rossa che rigira tra le dita e l’animo di Giò nuovamente in festa. La pronuncia tipicamente se dell’uomo, per via della “R“ moscia, stupisce il giovane ragazzo che assapora con piacevole lentezza sensazioni particolari e pare il preludio all’esaltante squisitezza del cibo che sta per arrivare. - Pvego, pvego, ovdinate puve -.
Giò guarda lo zio allibito; percepire il suono leggero delle parole e come trovarsi dentro spazi aperti condividendo sensazioni bellissime, mai provate.
- Zio, che era italiano questo? E poi sei sicuro che ce lo possiamo permettere?
Questo posto da ricchi sembra? -. Sussurra Giò, un poco confuso.
- Da ricchi?? Boh ?…E noi, oggi, ricchi siamo! -.
Alberto guarda con attenzione il cameriere, poi: - Minchia, non ho avuto tempo di schioccare le dita, però, forse hai ragione, forse questo posto troppo caro è!
Ma se un cameriere parla Italo se, vuol dire che anche noi possiamo permetterci di mangiare una bistecca e poi, quanto pensi che possa costare un pezzo di carne di vacca! -. Ribatte a bassa voce Alberto, ridendo garbatamente.
- Zio, allora, ordiniamo? E poi sono sicuro che qui ci vieni spesso! -.
- Come, no!! Negli ultimi anni, ho mangiato in questo locale almeno due volte a settimana! -.
- Che bello, dici veramente? -.
- Nzzh!! Scherzavo! -.
- Allova signovi, pev iniziave consiglievei un buon avvosto di manzo con patate accompagnato da un vobusto vino vosso… Va bene? -.
- Chiedo scusa, potrebbe ritornare tra un momento -. Gli sussurra Alberto, mentre sfoglia il menù, con relativo prezziario -.
- Miinchia!!! centoventicinque franchi una cotoletta, eh chi èhhh!!! Una lancia al cuore? -. Continua.
Pochi momenti e il cameriere si accosta al tavolo con una bottiglia, aspettando un cenno di assenso e quando capisce di averlo ricevuto, con maestria la stappa, lasciando defluire il prezioso nettare nei grossi calici liberando nell’aria un profumo particolare. Sulle labbra del cameriere appare un leggero sorriso che non reprime; poggia ancora delicatamente il collo della bottiglia sui calici di cristallo versandone ancora un po’, invitandoli all’assaggio. Ora saluta con un cenno del capo e va a servire un tavolo al centro sala, mentre l’occhio attento di Giò guarda il vassoio con l’arrosto scomparire dentro il carrello, assaporandone il profumo, col languore di chi per giorni non mangia niente. Riscoprire la propria identità dentro una bistecca ora sembra una cosa davvero piacevole, tuttavia, Giò sa di non avere un soldo in tasca e ride per non piangere e spera che lo zio, almeno lui avesse i franchi per pagare. Ma ora non è il tempo di sentirsi immobile come una vecchia tenda davanti a una finestra, il giovane è talmente fiducioso che tocca il cielo con un dito ma stringere una bistecca di vitello tra i denti, in quel momento gli pare l’unica cosa davvero importante.
- Zio, ordiniamo!! Ordiniamo una bella bistecca con patate e se non ti sbrighi, mi mangio pure le posate!! -.
La gamba sinistra di Alberto non smette più di battere, sente appena le parole del nipote, i pensieri traano distanze e misurano linee che tracciano e proiettano strane ombre in quell’ora del giorno. Occhi fissi sulla carta che si appannano sul prezziario dei vini e diventano rossi come il barbera che ha appena sorseggiato, quando vede il prezzo indicato alla bottiglia. Il silenzio muove l’inquietudine in una calma apparente, dipingendo l’ansia di un fremito che avvicina il brusio al soffice sibilo: - Minchiaahh!!! 360 franchi una bottiglia di vino!! Io l’ammazzo
sto cameriere, sette notti di spalare carbone!
Minchiaaahh!! -.
Alberto stringe le mani in un pugno e la voce rimane convulsa mentre gli occhi svasati accendono il volto. Egli, improvvisamente, si vede alla fine di un tunnel e la paura di quel che avrebbe trovato, non gli sarebbe piaciuto.
- Ma quale bistecca? Solo il vino costa tutti i soldi che ho in tasca!…. 360 franchi per una bottiglia di vino italiano! Se lo sapesse nonno ci ammazzerebbe, e dire che neanche mi piace!! Mannaggia la miseria infame!!…Sai che ti dico!
Scoliamoci la bottiglia e scappiamo da questo ristorante di mer…… -.
Giò non capisce più niente, fissa il piatto vuoto e si sente stringere un nodo allo stomaco. Uno strano rumore, sordo e vibrante penetra sin dentro le orecchie, mentre lo zio lo costringe a una strana fissità dello sguardo.
- U capisti ca a curriri !!-.
Il tempo di svuotare l’ultimo bicchiere e i due si alzano frastornati, sforzandosi di non pensare al pasticcio di carne e purè di patate che si volatilizza sotto il naso come in uno strano gioco di prestigio. Allo stesso modo, con lo sguardo dall’ultima favilla i due si volatizzano tra gli ospiti del locale strizzando gli occhi alle belle donne e alle squisitezze pronte per essere servite. Corrono come fulmini eludendo le difese magiche. Gli sembrano di lasciare la vita da un istante
all’altro e tuttavia non più amareggiati, escono dal locale come matti col desiderio di spaccare tutto mentre il cielo, d’un tratto, diventa piccolo e fragile come un cristallo pronto a frantumarsi. Ora, sbollita l’adrenalina, la voglia di ridere dipinge nuovamente le labbra e riaccende la magia sui volti confusi che appaiano rossi e la testa gira senza più fermarsi, tanto che, nel cammino, le pareti delle case sembrano muoversi, sembrano vive: - Cornuti!!Un ci pozzu pinzari!! 360 franchi nà buttiglia d’acitu forti! Cornuti!! -.
Altro che fiori,
altro che sorrisi da strappare;
verso l’eternità scivola il silenzio delle parole; anime fragili competono e si spingono verso il raggio; verso il primo calore.
I fumi di Bacco annebbia la vista e con moti disuguali i due percorrono la strada in ogni parte; trottolano vivaci, attenti alle cose ma, trovare il punto fermo non e’ facile, l’equilibrio sfugge e scivolano sbattendo il sedere a terra. Stanchi e delusi, in dolce segreto si appoggiano a una struttura che chiude la parete di un edificio gigantesco. Giò si ritrova tra le mani un ombrello e ha ragione di credere che quell’ombrello non sia il suo.
- Bello, dove l’hai preso -. Gli dice Alberto.
- Non lo so! Mi ha trovato lui! -.
Giò si allaccia un poco di più i pantaloni e danza sulla neve. Ora un sorriso intenso accende la gioia del corpo e i due riprendono in dolce cadenza il cammino per il lungo e contorto viale. L’attesa non sembra gremita dalla noia né dall’imbarazzo, anzi, zio e nipote stendono le braccia sulle spalle e si avviano per la stazione. Nonostante la temperatura gelida che appanna le vetrate dei negozi, rendendo impenetrabile l’interno agli occhi dei anti, i due li sgranano, alludendo uno strano processo percettivo, un intenso profumo di vaniglia avvolge il circondario in una dolce visione che conforta lo spirito di una realtà allucinante che travolge ogni fantasia, ma sono talmente accaldati che si lanciano sul nevischio al grido di battaglia.
- Che odore delicato? Sembra zucchero, cos’è -. Chiede Giò, avvicinandosi a una delle tante vetrate che arredano la strada.
- Non lo vedi! E’ un negozio di dolciumi -.
- Bello!! -. Ripete continuamente il ragazzo, mentre soffia sulla vetrata del negozio, per spannarlo un poco e vederci meglio.
- Belli e buoni, anzi buonissimi! Guarda che belli! Hanno proprio l’odore dello zucchero mmmhh, poiiiii, ricoperti di cioccolatoooo, mmmhhmm, sicuramente avranno un gusto delicato, mmmhhhmm che buoni!! Guarda! Guarda c’è la torta ripiena di crema alla fragola e panna…mmhhmm. -.
Le pupille del giovane si dilatano come due cioccolati giganti che si sciolgono al caldo mentre il profumo trasporta la faccia che si appiccica alla vetrata come un potente adesivo e al sol pensiero di assaporare un bignè, le labbra non si riescono più a staccare. Alberto lo afferra per un braccio e lo trascina via.
- Eh chi èhhh!! Sembri un francobollo appiccicato!! Manco fosse oro colato!! Sai che ti dico, andiamo a prendere le valigie ca si fici tardi! -.
Si allontanano come fuggitivi, con i veloci che si distendono sul gelo stradale, allontanando il profumo dei favolosi dolcetti col languore di chi sarebbe morto per assaggiarne uno. Ora, il tempo di un sospiro che grossi fari accendono il buio come due stelle lucenti mentre una pioggia di luci copre magicamente la città e la croce marmorea della chiesa che caratterizza la piazza della stazione suggestiona il giovane ragazzo e il o si arresta e il fiato gela ogni fievole parola. In fondo alla grande piazza, la corriera per Marcinelle è pronta per la partenza. Zio e nipote prendono un gran respiro e si affrettano a ritirare i bagagli mentre lo sguardo di Giò rimarca l’insegna della stazione ferroviaria che tremula dell’ultima luce mentre il rombo delle marmitte gli riempie improvvisamente di gioia il cuore. Ora, come un piccolo petalo disperso, il raggio di libertà di cui gode il sentimento sembra intrecciarsi nell’invisibile ragnatela che il destino inizia a tessere senza regole, segnando l’inizio di un cammino che accresce inevitabilmente l’eco di una nuova speranza.
Fine Parte I
Parte II in Lavorazione
AUTORE
SIRACUSA GIOVANNI
VIA ROSSINI 28
92012 CIANCIANA AG.
CELL. 3498105724
Considerazioni:
A volte, i i casuali della vita, scatenano improvvisamente la straordinaria capacità di guidare processi logici e mentali che condizionano in modo violento il destino. Tuttavia, sfugge la consapevolezza che qualsiasi opera sfuma nell’essenza che non può essere pensata nella sua parte fondamentale.
Nel 1956, nell’incendio di uno dei pozzi carboniferi di Marcinelle, in Belgio, morirono 261 minatori, di cui 138 italiani.La narrativa, ispirata al dramma che ebbe origine da quella spaventosa vicenda, è dedicata a tutte quelle persone che, per il pane, hanno perso o rischiato la vita nelle miniere di carbone.
SiraGi.
Indice
Prologo Capitolo Primo Capitolo Secondo Capitolo Terzo Capitolo Quarto Capitolo Quinto Capitolo Sesto Capitolo Settimo Capitolo Ottavo Capitolo Nono Capitolo Decimo Capitolo Undicesimo Capitolo Dodicesimo Capitolo Tredicesimo