Anna Rita Foschini
Non sono Bukowski
Copyright 2013 di Anna Rita Foschini
Smashwords Edition
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Titolo | Non sono Bukowski Autrice | Anna Rita Foschini Immagini di copertina a cura di Diego Luci
Copyright © 2014 Anna Rita Foschini Tutti i diritti riservati
Copertine: Diego Luci www.diegoluci.it
Impaginazione: Fabio Nocentini www.fabionocentini.it
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Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autrice.
Cenni (quasi) biografici sull’autrice
Restare all’ufficio postale e impazzire... o andarmene e giocare a fare lo scrittore e morire di fame. Decisi di morire di fame.
Charles Bukowski
Non sono impiegata alle Poste e la notte, seduta sul letto, non bevo birra perché sono astemia. In compenso, “mi faccio” alla grande di sigarette. L’ultimo uomo al quale ho dedicato poesie è scoppiato a ridere, ma ha gradito il panino al prosciutto e, tutto sommato, è stata una nottata niente male; per lui, che si è sbafato la cena. La mia vita è una delle tante storie di ordinaria follia sulle quali non scommetterebbe nemmeno un cavallo. Ho buttato via gli anni migliori aspettando al buio, perché il sole bacia solo i belli. Quando ero giovane pensavo che ce l’avessero tutti con me, e sono stata troppo codarda per peccare come avrei voluto e, forse, potuto. Se il crimine paga sempre, si spiega come mai io sia sistematicamente al verde. Sono talmente disorientata che non distinguo il sud dal nord, ma tanto dove dovrei andare? o le giornate vivendo faticosamente e la notte scrivo. Eh, sì, alla mia età mi sono messa in testa di fare la scrittrice. Non sghignazzate, per favore: non c’è proprio niente da ridere!
P.S. Che palle le biografie, nemmeno fossi Bukowski.
Piccola, dissi, sono un genio, ma nessuno lo sa all’infuori di me.
C’è un solo problema, con gli scrittori. Se quello che scrivono viene pubblicato e vende molte, molte copie, pensano di essere grandi. Se quello che scrivono viene pubblicato e vende un buon numero di copie, pensano di essere grandi. Se quello che scrivono viene pubblicato e vende pochissime copie, pensano di essere grandi. Se quello che scrivono non viene pubblicato e non hanno i soldi per farlo pubblicare a loro spese, allora pensano di essere veramente il massimo.
Charles Bukowski
Le citazioni in corsivo, che appaiono sotto le vignette e al termine di alcuni racconti, sono tratte da opere di Bukowski.
Per contattare l’autrice:
annaritafoschini.blogspot.it
www.facebook.com/anna.foschini
[email protected]
Anna Rita Foschini ha pubblicato con l’eteronimo Ritanne du Lac il volume di racconti noir Nero Profondo (Youcanprint, 2013). Altre opere appaiono in numerose antologie, tra cui quelle dei Gruppi Facebook “Libri Stellari” e “Gente che scrive per...”: Le Donne e il Mare, Gatto, Mon Amour, 77 Fiabe Buffe, Post Tenebras. I racconti del cimitero (Youcanprint); Gente che scrive per... Agenda 2014, Gente che scrive... western, Gente che scrive sui... carabinieri! (Lulu). Tutti questi libri sono disponibili in formato cartaceo e in e-book nelle maggiori librerie on line e nelle librerie fisiche convenzionate con gli editori.
Dedicato a Stefania Buscaglia, che ha ispirato tutto questo (ma non prendetevela con lei)
Voglio vedere donne con la loro femminilità nei gesti morbidi e gentili, nei sorrisi aggraziati, nelle movenze seducenti, ma accennate, dalle parole dolci e decise allo stesso tempo, dai pensieri originali e nuovi. Vorrei vedere donne indipendenti, non succubi dell’uomo a cui immolano la propria dignità, femmine dai cuori di ghiaccio fuso, compagne e amiche dell’uomo, libere e sincere. Vere!
E così, vorresti fare la scrittrice?
Boh! Sono quasi vecchia ma ancora non so cosa farò da grande, e forse non lo saprò mai. Da ragazzina scribacchiavo poesie e pensieri: a mano, perché l’era del computer era ancora lontana dal venire; poi la vita mi ha presa nel suo vortice e sono stata troppo occupata a strapazzare i sogni. Quando ho capito – e la strada della comprensione è stata lunga e dolorosa – che non avrei lasciato nessun segno significativo del mio aggio, e che le nobili cause per le quali mi ero prodigata sono utopie, ho cercato qualcosa che riempisse il vuoto, o almeno, che me ne desse l’illusione. Tra gli svariati hobby che coltivo con interesse incostante è riemerso anche quello della scrittura. Mi diverte, a volte mi eccita, ma affermare che sia la mia ragione di vita sarebbe eccessivo. Non esiste una ragione che giustifichi la vita, la mia piuttosto che quella di ogni altra creatura dell’universo, e sarebbe perfino ridicolo che affidassi a qualche esternazione, battuta su una tastiera, uno scopo così elevato. Dunque, non scherziamo: scrivo, ma non sono una scrittrice...
A.R.
Sommario
Premessa
Shakespeare non l’avrebbe mai fatto
Poesie dell’ultima notte della Terra
Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze
Il crimine paga sempre
L’ubriacone
Confessioni di un codardo
Le ragazze che seguivamo
Ma voi consigliereste la carriera di scrittore?
Ce l’hanno tutti con me
A sud di nessun nord
Una notte niente male
Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle
Taccuino di un vecchio porco
Il sole bacia i belli
Post Office. Capitolo 1
Niente canzoni d’amore. 1
Storie di ordinaria follia. 1
Storie di ordinaria follia. 2
Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere
Sotto un sole di sigarette e cetrioli
Santo Cielo, perché porti la cravatta?
Storie di ordinaria follia. 3
Musica per organi caldi. 1
E così, vorresti fare lo scrittore? 1
Non c’è niente da ridere. 1
Quando mi hai lasciato, mi hai lasciato tre mutande
Notte imbecille
Factotum
Musica per organi caldi. 2
Post Office. Capitolo 2
I cavalli non scommettono sugli uomini (e neanche io)
Spegni la luce e aspetta
Donne
Post Office. The End
Non c’è niente da ridere. 2
Cena a sbafo
E così, vorresti fare o scrittore? 2
Pulp, una storia del XX secolo
Niente canzoni d’amore. 2
Il primo bicchiere, come sempre, è il migliore
Donne (Io e mia sorella)
Urla dal balcone
Panino al prosciutto
Post Office (Una storia quasi vera)
So bene quanto ho peccato
Tutti gli anni buttati via
Una torrida giornata di agosto
Appunti sulla peste
Ringraziamenti
Referenze fotografiche
Premessa
Vi domanderete cos’abbia, io, in comune con Bukowski. Vi rispondo subito e senza tema di smentite: assolutamente nulla. Non sono Bukowski e scrivo solo per diletto. Chi mi conosce sa che amo autodefinirmi una “scribacchina”, un’improvvisata imbrattatrice di documenti di Word. Massacro la tastiera giorno e notte (più di notte che di giorno), costringendo la mia fantasia a esplorare i generi letterari più disparati, non avendo ancora deciso quale mi sia congeniale. Così, salto dall’erotico all’horror, dal giallo al noir, da allucinanti scenari distopici a sdolcinati quadretti elegiaci. Circa un anno fa ho pubblicato una raccolta di racconti noir intitolata Nero Profondo, e sono presente con alcune delle mie “fatiche” in parecchie antologie di autori vari. All’amico Fabio Nocentini, naturopata e scrittore, devo il merito di avere scovato una mia certa vena ironica e dissacratrice, che ho sfruttato a piene mani nella seconda edizione del Premio Letterario Antonio Fogazzaro 2014, sezione microletteratura e social network, curata da Stefania Viganò Buscaglia. La partecipazione al suddetto concorso mi ha regalato il secondo posto nella categoria humor e, soprattutto, ha scatenato in me la voglia di non fermarmi, di continuare a scrivere sullo spunto dei titoli delle opere bukowskiane, in modo da raccogliere il frutto del mio delirio letterario in un libretto: precisamente quello che state leggendo. Si tratta di brevi racconti umoristici nei quali, di tanto in tanto, lascio affiorare la mia anima nera, perché questa sono io: il pagliaccio e il Joker, il sorriso e il ghigno malefico, le due facce di una stessa medaglia. Come mi ha insegnato il maestro dell’horror Stephen King, mai fidarsi di un clown sorridente che ti offre un palloncino.
Shakespeare non l’avrebbe mai fatto
– Oh, Romeo, Romeo, indo’ tu vai così di buon’ora? L’è ancora buio, un tu lo vedi? – V’ingannate, madonna Giulietta: il cielo sta per tingersi dei colori dell’alba. Non udite il dolce canto mattutino dell’allodola? – Vien via, grullo! Codesta un l’è l’allodola, l’è l’usignolo che bercia su i’ melograno e ci frahassa i timpani. L’è peggio d’un gatto nero attaccato a’ hoglioni, maremma buhaiola! – Deh, mia diletta, il vostro linguaggio non si addice a una leggiadra fanciulla quale voi siete. Colui che ci creò si rivolterebbe nel sepolcro se potesse udirvi. E pensare che venne perfino a risciacquare i panni in Arno... – Sie! Icché tu dici, bischero? Quello l’era i’ Manzoni. Shakespeare un l’ha mai fatto di veni’ a sguazzare in Arno. Poi, che c’hai da ridi’ sul mi’ idioma? Miha son fatta della materia de’ sogni, io. Son tutta un foho, c’ho i’ chianti che mi ribolle ni’ sangue. Dunque, lascia stare codesti uccellacci e torna ni’ letto: ti do una riata che te la rihordi per tutta la vita...
Poesie dell’ultima notte della Terra
Stasera ha superato il limite, ha raschiato il fondo del barile. Sto parlando di quell’idiota di mio marito: il grande poeta. Sono vent’anni che sopporto lui, le sue velleità letterarie e l’ispirazione repentina che lo coglie, guarda caso, soprattutto al calare del sole. Ho perso il conto delle notti trascorse da sola a rigirarmi nel letto, mentre il “vate” se ne stava rinchiuso nello studio a creare. Almeno fosse diventato famoso! Avrei avuto la sia pur magra consolazione di pavoneggiarmi con le amiche, invece d’inghiottire bocconi amari ogni volta che quelle cretine si vantavano per le prestazioni sessuali dei loro compagni. Stanotte no, non mi va proprio giù. Guardo dalla finestra: nel cielo fiammeggiante, incombe la sagoma del meteorite che sta per schiantarsi sulla Terra. – Finirà il mondo, – hanno sentenziato gli scienziati, – non ci sarà scampo per nessuna forma vivente. L’umanità è condannata. E lui, stanotte, non ha nulla di meglio da fare che scrivere una delle sue insulse poesie? – Per lasciare una testimonianza, – ha detto, prima di chiudermi la porta in faccia. Ma lasciarla a chi, diamine, se moriremo tutti? Non sarebbe stato preferibile trascorrere queste ultime ore sotto le lenzuola, a cercare di ricordare come si fa del buon sesso? Saremmo morti lo stesso, ma mi sarei tolta qualche soddisfazione... Mentre rimugino sulla sventura di dover finire i miei giorni nell’astinenza, sento suonare il camlo. Vado ad aprire e mi trovo davanti quel gran figo del mio dirimpettaio. – Scusa, Anna, avresti un paio di uova da prestarmi? Non ho fatto la spesa, sai com’è: sarebbe stato tempo perso. Adesso mi è venuta fame e ho voglia di una frittata. È un po’ come l’ultimo desiderio del condannato, – ride, – non potrò
restituirtele, ma credo che non me ne vorrai per questo. Un altro deficiente: fra poco la Terra sarà una palla di fuoco e pensa solo a mangiare. Però è davvero notevole, con quei muscoli tonici e il sorriso accattivante. Ben più di una volta è stato il protagonista delle mie fantasie erotiche. Non ho mai osato fargli delle avance, ma stanotte... – Certo che ho le uova, – gorgheggio, – tutte quelle che vuoi. Anzi, è venuta fame anche a me. Che ne dici se vengo nel tuo appartamento e le cucino io per entrambi? – butto lì con tono ammiccante. Mi fissa perplesso, poi lo sguardo si apre in un sorriso. Ha capito perfettamente. – Molto volentieri, Anna, ma... tuo marito? – Oh, quello... non preoccuparti: è troppo impegnato a scrivere poesie sull’ultima notte della Terra.
Se sopprimessero tutta l’umanità non si perderebbe niente. Non m’importerebbe se mi cadesse vicino. Io voglio soltanto continuare a fare le cose che ho sempre fatto: uscire di casa la mattina per comprare il giornale, pensare a un nuovo libro, grattarmi sotto le ascelle. Non mi interessano i grandi problemi.
Scrivo poesie solo per portarmi
a letto le ragazze
Non v’è nulla di dilettevole, in quel di Recanati, per un giovine di nobile lignaggio ma di modeste sostanze, afflitto da un morbo oscuro che mina un corpo già deforme. Mentre l’Europa freme di nuove idee, io sono relegato in questo borgo, con una siepe che limita la mia visuale. Non mi resta che lo studio, e ho studiato come un “matto disperatissimo”, tanto da saperne più dei miei precettori. Dicono che sono il poeta del “pessimismo cosmico”. Ahimè, se c’è qualcosa di cosmico, nella mia vita, è la noia, che è il flagello peggiore dell’umanità. È seconda soltanto alla malasorte che mi accompagna fin dall’età più tenera, appollaiata come un avvoltoio sul mio dorso gibboso. Tra le cose erudite che scrivo, delle quali ben poco cale a chicchessia, alcune liriche, composte più per sfizio che per estro, sembrano essere assai gradite a certe gentili donzelle che mi gratificano della loro attenzione. La poesia è l’unico modo che la sorte mi ha concesso per strappare sospiri alle dame, non potendo ottenere il medesimo scopo nel giacere con esse.
Il crimine paga sempre
Eccolo! Il motore della Jaguar è silenzioso, riesco appena a percepire il fruscìo degli pneumatici che imboccano la rampa del covo segreto. Sospiro di sollievo: provo sempre un vago senso d’inquietudine quando mi separo da lui, anche se per breve tempo. L’amo dal primo istante che ci siamo incontrati. Gli ho salvato la vita e ho dannato la mia. Non ho rimpianti né rimorsi, è così che doveva andare: dovevo votarmi al crimine per dividere con lui ogni istante. Non si sceglie chi amare, si ama e basta. Mi adagio fra le lenzuola di seta e attivo il comando che apre la volta del soffitto. Il cielo notturno di Clerville è un nero velluto intessuto di stelle. Tra poco lui sarà qui e ingemmerà il mio corpo nudo con i diamanti che ha rubato per me. Ma non sarà quello il regalo più prezioso: è ai suoi baci che anelo, alle sue labbra morbide, alle sue mani, impazienti come il mio desiderio. La ione che ci unisce è la mia ricompensa, e lo sarà per sempre. Fino all’ultimo respiro. Spero solo che, anche stavolta, non si accorga che Ginko se n’è appena andato... Beh, comprendetemi: in qualche modo devo pure ingannare l’attesa, e del resto, se il valente commissario non ci ha ancora arrestati, un motivo ci sarà. Proprio così, io mi sacrifico, miei cari signori, e lo faccio solo per amore (anche se, devo dire, Ginko è un fustaccio che levati!).
L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando le sei vicino.
L’ubriacone
– Allora, Matteo, racconta: hai visto di nuovo gli “omini grigi”? Il vecchio si rigira tra le mani il bicchiere ormai vuoto. Solleva lo sguardo sulle facce dei due giovanotti seduti al suo tavolino. Due dei tanti babbei del posto dove l’ha scaricato l’ultimo treno sul quale è salito, senza nemmeno sapere verso dove fosse diretto. Non conosce il nome del paese, né quelli dei tipi che si stanno prendendo gioco di lui. Che importa? Basta che gli paghino un bicchiere di rosso, meglio ancora, due. Tre, se riuscirà ad abbindolarli per bene. È sempre stato bravo a raccontare storie, e l’alcool gli scioglie la lingua e la fantasia. Se non fosse un ubriacone fallito, potrebbe fare lo scrittore. O, forse, è diventato quello che è proprio perché si era illuso d’essere un romanziere di successo. Non ha più importanza, ormai. L’unica cosa importante è il liquido rosso che riempie il bicchiere, e adesso il suo è vuoto. – Forse... – sospira, – magari ne ho incontrato un paio proprio stanotte. Ma non ricordo bene, e ho la gola secca...
Confessioni di un codardo
Abbagliato dalle lampade, intravedo delle sagome chine su di me. – Vi prego, aiutatemi, – imploro, – il dolore è insopportabile. – Ci dispiace, – la voce è secca come una frustata – non possiamo fare nulla. Lei ha firmato un contratto milionario con clausole molto rigide. Del resto, sta per diventare il protagonista dell’evento scientifico più clamoroso del secolo... – Me ne frego, – la interrompo, mentre una fitta mi spezza il respiro. – Voglio l’epidurale e il cesareo! – Non è possibile, il contratto parla chiaro, – replica, implacabile, la voce. – Il parto dovrà essere assolutamente naturale. Il mondo intero vuole sapere da dove uscirà il bambino. – Ma io non voglio saperlo! – grido, sopraffatto da una doglia che mi squarcia le viscere. – Ehi, amore, svegliati. È solo un incubo... Apro gli occhi a fatica e metto a fuoco il volto della mia compagna. – Cos’hai sognato? Cos’è che non vuoi sapere? – Non so... non ricordo... – sospiro, rilassandomi tra le sue braccia. Ammetto d’essere un codardo, ma la certezza che a partorire siano ancora le donne è un gran sollievo.
Le ragazze che seguivamo
Adoro le ragazze. Tutte, a prescindere dall’età e dall’aspetto. Anche una centenaria, dentro la crisalide incartapecorita, cela l’animo di una farfalla. Leggiadre creature, le donne, capaci di elevarsi sulle miserie umane con ali invisibili. Ti prendono per mano e ti guidano nei sentieri impervi della vita, ondeggiando sicure sui tacchi a spillo. A noi uomini non resta che seguirle, e per me è stato facile, anche perché sono sempre state loro a seguire me. Ho tre sorelle più grandi, una madre tenera e un nugolo di zie premurose che mi hanno coccolato e viziato fin da bambino. A scuola, ragazzino timido e delicato, ero il cocco delle professoresse e delle compagne. Dopo il diploma, ho frequentato un corso per coiffeur e ho aperto un salone tutto mio. Inutile dirlo: le clienti impazziscono per me. Io mi trovo perfettamente a mio agio a parlare di gossip, ricette di cucina e ultime tendenze della moda, fra un taglio e una messa in piega. Claudio, il mio shampista, non è geloso: sa che adoro tutte le donne, ma l’amore della mia vita è soltanto lui.
Ma voi consigliereste
la carriera di scrittore?
Fin da quando ho cominciato a fare i primi scarabocchi su un foglio, mi sono sentito uno scrittore. Se da bambino mi domandavano cosa sarei voluto diventare da grande, rispondevo convinto: – Uno scrittore famoso. Per scrivere, ho scritto: centinaia di quaderni fitti della mia grafia ingarbugliata. Con l’Olivetti Lettera 32 ho ato innumerevoli notti a tirare l’alba, picchiando sui tasti fino a farmi venire i calli ai polpastrelli. Ho consumato tante risme di carta che, se nel frattempo non avessero inventato il computer, mi sarei reso responsabile del disboscamento della Foresta Amazzonica. L’avvento dell’informatica non ha esaurito la mia vena, anzi. Chi sostiene che un vero scrittore debba scrivere a mano o con la macchina da scrivere ha le pigne in testa, secondo me: sono tutte fisime bukowskiane da romanzieri maledetti. Per me, quando apro un documento di Word, si spalanca un universo da esplorare e descrivere. Il guazzabuglio d’idee, trame e personaggi che ballano la taranta nel mio cervello disturbato si mette sull’attenti come un esercito di soldatini disciplinati; le dita si animano di vita propria e scorrono lievi sulla tastiera a impilare righe su righe di caratteri, che diventano racconti e romanzi. È una sorta di trance creativa durante la quale dimentico tutto, anche di mangiare e dormire. Mi concedo solo qualche breve pausa per fumare e, mentre aspiro una delle mie Pall Mall, rileggo e correggo. Che figata il correttore automatico! Niente più refusi, né errori di battitura, cancellature e sbavature d’inchiostro. Quanto ho scritto? Non lo so più nemmeno io: file, cartelle, CD, chiavette, harddisk supplementari, adesso anche la “nuvola”. Miliardi di byte immagazzinati che, a metterli sulla carta, forse corrisponderebbero a una ventina di Promessi Sposi e di Divine Commedie. Sono diventato uno scrittore famoso? Sì, col piffero! Eh, mica è facile… Ho
provato tutti i generi letterari, ho contattato centinaia di case editrici, ho partecipato a innumerevoli concorsi vincendone perfino parecchi, ma, a parte qualche medaglia o pergamena, non ho portato a casa nulla. – Il suo romanzo ci piace, siamo interessati a pubblicarlo, – mi lusingano gli editori, sbracandosi in complimenti e in giudizi eccellenti che mi fanno sentire il novello Hemingway. – Però, vede, dovrebbe contribuire alle spese, perché l’editoria è in crisi e non possiamo permetterci d’investire su un esordiente senza garanzie. In cambio di una modesta cifra, noi le assicuriamo, le promettiamo... – e bla bla bla. Forse io sarò un po’ squinternato, anzi, ben più che un po’, ma non sono fesso. Se mi considerano un genio della penna e quello che scrivo è destinato a diventare il best-seller del secolo, sarebbero loro a dover pagare me e non viceversa, o sbaglio? Ho provato anche con il self-publishing: pagare per pagare, almeno faccio tutto da solo. E, in effetti, alcuni libretti me li sono pubblicati, tanti da riempire due scaffali della libreria. Tutti a farmi i complimenti, a mostrarsi esterrefatti del mio genio creativo, ad apprezzare i miei romanzi. Ovviamente li gradiscono quando li regalo, perché se si tratta di comprarli è un altro paio di maniche: in quest’ultimo caso assisto a un fuggi-fuggi generale. Alle presentazioni partecipano solo tre o quattro fedelissimi che devono aver fatto il voto caritatevole di sostenermi sine die, accollandosi l’onore, ma soprattutto l’onere, di sganciare qualche euro... e sperando, magari, che mi stanchi di perdere tempo a scrivere e mi dedichi a qualche hobby meno costoso (per loro). “Almeno,” penserete, “quello che scrivi fa colpo sulle ragazze: ne avrai stuoli ai tuoi piedi, pronte ad andare in estasi mistica quando declami una poesia o leggi il o cruciale di un racconto...” Anche in questo caso devo purtroppo deludervi: il fascino dell’intellettuale non va più di moda e le donne, se mi azzardo a rivelare che sono uno scrittore, storcono la bocca e abbassano gli occhi per dissimulare un sorrisetto di scherno. E nel silenzio glaciale che s’innalza tra me e loro, sento distintamente il ticchettio della calcolatrice che hanno al posto del cuore, e so che il risultato dell’equazione è: scrittore uguale morto di fame. Del resto, la presenza fisica non mi aiuta: se fossi un metro e novanta, palestrato
e con il sorriso di George Clooney, forse le rappresentanti del gentil sesso (gentile?) sorvolerebbero sul grave difetto delle mie velleità letterarie ma, ahimè, non è così. Sono piccoletto, magrolino e pallido, per avere sempre preferito rinchiudermi nello studio a scrivere, piuttosto che frequentare palestre e centri benessere. “Diamine,” sbotterete a questo punto, “ma allora chi te lo fa fare di perdere tempo e rovinarti l’esistenza con qualcosa che non ti dà alcuna soddisfazione?” Ci credereste se vi rispondessi che non lo so? Non so perché mi sia flippato con questa follia, e perseveri nello sputare sangue giorno e notte a inventare trame e personaggi che non interessano a nessuno. So soltanto una cosa: la scrittura è la mia droga quotidiana, la mia malattia incurabile, il mio inferno sulla Terra e, nonostante tutto questo, io non potrei mai farne a meno.
Ce l’hanno tutti con me
Io, davvero, non riesco a capire per quale motivo ce l’abbiate tutti con me. Inorridite se vi attraverso la strada, ma dovrei essere io a temere voi, la vostra malvagità e le ruote delle vostre automobili. Per secoli mi avere vituperato e perseguitato; io, che sono il più agnostico fra gli esseri viventi, mi sono beccato perfino la scomunica da un papa che mi considerava una creatura del demonio. Tutto questo solo per il mio colore. Non sapete, ignoranti superstiziosi che non siete altro, che il mantello nero indica caratteristiche genetiche di maggiore adattabilità alla vita domestica e resistenza alle malattie? Ho un buon temperamento, sono amichevole e leale, sono bellissimo e fiero come una pantera; eppure, ho scarse probabilità di trovare una famiglia adottiva e una casa accogliente. Per fortuna esiste un Paese civile, al di là della Manica, dove sono amato e apprezzato; un Paese dove gli abitanti considerano un evento fortunato il fatto d’incrociare i loro i con i miei. Bene, per ottenere i riconoscimenti che merito sarò costretto a emigrare. Nel frattempo, mi esercito con lo studio della lingua: – Meowww!
Nella prossima vita voglio essere un gatto. Dormire venti ore al giorno e aspettare che ti diano da mangiare. Starsene seduti a leccarsi il culo. Gli umani sono dei poveretti, rabbiosi e fissati.
A sud di nessun nord
Non è stata una delle mie idee migliori. Avrei dovuto seguire il consiglio di Giulia e prenotare un bed & breakfast. Invece: – Voglio provare la tenda nuova. Sarà bellissimo restare da soli, immersi nella natura, sotto le stelle a riscaldarci al fuoco. Ne avessi azzeccata una. La pineta è una selva intricatissima: ci vorrebbe un machete per farsi largo tra la sterpaglia. Di radure dove accamparsi nemmeno l’ombra e il buio ci ha sorpresi repentino, in una notte di novilunio. Avanti non si può andare, indietro nemmeno: ci siamo persi. All’improvviso, mi si accende una lampadina: la bussola, cacchio! Baldanzoso, la tiro fuori dallo zaino. – L’ago segna il nord e per ritrovare il paese dobbiamo dirigerci verso sud, – sentenzio, fiero della mia intelligenza. Giulia annuisce poco convinta e andiamo avanti. Verso sud. Dopo ore di marcia forzata, comincia a sorgermi qualche dubbio sull’efficacia dello strumento. – È ovvio, – sbotta la mia dolce metà, – come pretendevi che funzionasse, una bussola trovata dentro le patatine? Per fortuna non c’è la luna, almeno non può vedere la mia faccia paonazza dalla vergogna.
Una notte niente male
Tra una cosa e l’altra abbiamo tirato l’alba. Guardo Giusy, la mia ragazza: ha il volto disfatto dalla stanchezza e gli occhi gonfi di sonno, ma un sospiro di soddisfazione le solleva il petto procace. Anch’io mi sento spossato, ma sono fiero di me stesso. E anche di lei, ovviamente, che ha collaborato in tutto e per tutto senza risparmiarsi, assecondando con entusiasmo ogni mia richiesta. Una notte niente male; anzi, direi una notte da ricordare. Adesso posso rilassarmi e accendermi una sigaretta. Lei segue il mio esempio. Ci resta giusto il tempo per una doccia veloce e un caffè prima di correre al lavoro, ma ne è valsa davvero la pena. – Che ne dici, tesoro, sono stato bravo? – la stuzzico con una strizzatina d’occhio ammiccante. – Oh, sì, bravissimo... – cinguetta con voce languida. – Sei un mito! Instancabile ed esperto. Sembri nato per questo. Gongolo soddisfatto con l’autostima che sale a livelli stratosferici. Eh, sì, lo so: non è da tutti riuscire a montare un armadio quattro stagioni dell’Ikea in una nottata, e senza farsi avanzare nemmeno un pezzo.
Quello che importa
è grattarmi sotto le ascelle
L’odore dell’incenso mi irrita le narici. – È un aroma afrodisiaco, – ha detto lei. Sarà... a me viene da starnutire. La musica orientaleggiante, anziché intrigarmi, è piuttosto soporifera, e l’improvvisata danza del ventre è meno eccitante di un numero da circo. La fanciulla non è il clone di Shakira, anzi, si muove con la stessa grazia di un elefante. E gli assomiglia anche, nel fisico. Chissà come ho fatto a lasciarmi trascinare a casa sua... dovevo essere più ubriaco del solito. Adesso la sbronza mi è ata del tutto e mi ritrovo in questa stanza dall’aria greve di miasmi, nudo nel letto di una “squinternata”. Sì, perché la tipa non dev’essere del tutto a posto: mi ha perfino legato i polsi, assicurandoli alla spalliera con due foulard di seta. Non sembra pericolosa... si dà un gran daffare, poveraccia, e mi sento un tantino in colpa per non riuscire ad apprezzare i suoi strenui, quanto vani, tentativi di seduzione. Ma che posso farci? L’unica cosa che vorrei da lei, in questo momento, sarebbe una grattatina sotto le ascelle.
Taccuino di un vecchio porco
Eh no, caro mio, a tutto c’è un limite! D’accordo, sei in pensione e vuoi finalmente realizzare il sogno della tua vita: diventare un poeta famoso. In tutta sincerità, anche se finora me ne sono guardata bene dal dirtelo, le tue poesie, anziché farmi palpitare il cuore, mi smuovono qualcos’altro più in basso... Ovvio, la colpa è mia che sono una capra insensibile, dirai. Sì, lo so che i tuoi profili sui social sono seguitissimi, ma, guardacaso, i tuoi contatti sono tutti femminili. Mi chiedo: sarà per le liriche struggenti oppure per le foto che hai postato, quelle di trent’anni fa, quando pesavi venti chili meno, avevi ancora i capelli e andavi in palestra? Sono una malpensante, dici? Allora spiegami: che cosa ci fanno “Giulia-belletette”, “Anna-voce-sexy”, “Cinzia-culo-alla-Belen” e decine di altre annotazioni simili, nel taccuino dove scarabocchi le tue, cosiddette, poesie? Con, accanto, i numeri di telefono? Ah, ci sono anche altri numerini che presumo si riferiscano all’età, tutti sotto il venticinque. Fatti furbo, almeno: invece di lasciare in giro foglietti compromettenti, archivia tutto in un file e mettilo sotto .
Il sole bacia i belli
Sì, va beh, ma allora ditelo! Avrei evitato, per oltre mezzo secolo, di uscire prima del tramonto, di andare al mare o in montagna, di spalancare le finestre per far entrare la luce. Mi sarei acquattata nella penombra come farebbe una cospiratrice e, magari, avrei fondato il partito con il maggior numero d’iscritti al mondo: quello dei “non belli”. Posso soltanto affermare, a mia parziale discolpa, di non avere mai sentito parlare di questa cosa, e di non avere nemmeno letto (ma questo non mi rende onore), un solo romanzo di Bukowski. Però, scusate, che amici siete? Potevate avvisarmi, rendermi edotta, magari scrivermi un messaggio anonimo, se proprio non ve la sentivate di dirmelo in faccia. Non si fa così, diamine! Che figura mi avete fatto fare? E ci pensate a quel povero sole, costretto suo malgrado a baciare anche me? Adesso mi spiego le tempeste solari, le eclissi e tutto il resto. Ora non ditemi che anche il buco nell’ozono è colpa mia, altrimenti sarò costretta a non mettere più il naso fuori nemmeno di notte.
La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto. Perché se a qualcuno piaci, sai che è per qualcosa d’altro.
Post Office. Capitolo 1
Disoccupato cronico, disgustato dalla sbobba della mensa parrocchiale, in perenne astinenza sessuale (perché non basta scrivere poesie per cuccare le ragazze), decisi di rapinare l’ufficio postale. Lo dice anche Bukowski che il crimine paga sempre; quindi, perché rimanere seduto sul letto a scolare l’ultima birra e grattarmi sotto le ascelle? Così, in una notte imbecille, ma nemmeno poi tanto male, architettai un piano che neanche il genio di Shakespeare avrebbe mai escogitato. Il sole bacia i belli e io sono bellissimo, pertanto mi mossi all’imbrunire, quando l’ufficio stava per chiudere. Entrai con l’espressione di un cane ringhioso che torna dall’inferno. Prima che potessi pronunciare la fatidica frase “questa è una rapina”, un vecchietto mi apostrofò: – Ehi, giovanotto, aspetti il suo turno e rimanga a sud del cartello! – Come, a sud? – balbettai, sconcertato. – Adesso la fila si fa con i punti cardinali? Gli altri clienti mostrarono, con gesti e mugugni, d’avercela tutti con me. Beh, lo confesso, sarò un codardo ma ormai l’estro mi era ato. Me ne andai con la coda tra le gambe e mi diressi a nord... credo... boh!
Niente canzoni d’amore
Da quando ho deciso di mandare a fanculo tutto e tutti, la bottiglia e la chitarra sono rimaste le mie uniche compagne. L’alcool, che sia vino, birra, rum o qualsiasi altra cosa riesca a procurarmi, scioglie la lingua e libera i pensieri. Seduto nei crocevia del mondo, ovunque mi portino le scarpe sfondate, annego la coscienza nel liquido bruno o ambrato. Le dita accarezzano le corde, a strappare melodie improvvisate che accompagnano vaneggianti elucubrazioni. Conosco a malapena qualche accordo, e non so nemmeno quali parole o frasi mi escano dalle labbra, ma molti si fermano ad ascoltare e alcuni lasciano cadere una moneta. Io non chiedo nulla, sono grato all’altrui benevolenza che consente d’abbeverare la mia ispirazione. Certuni sprecano parole d’elogio; capita che fanciulle d’ogni età si asciughino una lacrima sospirando e mi chiedano un’altra canzone d’amore. Le guardo stupefatto: canzoni d’amore? Io l’amore l’ho abiurato in un’altra vita, non sarei mai capace di cantarlo... né lo vorrei. Scuoto la testa, cerco calore in un’abbondante sorsata e ricomincio a suonare.
Storie di ordinaria follia. 1
Sarà una sciocchezza, ma sono proprio le sciocchezze che mi mandano in bestia. Magari, la classica goccia che fa traboccare il vaso è un’inezia, ma tant’è, e non venirmi a dire che non ti avevo avvisato. Ti prego, non offendere la mia intelligenza: non rifilarmi l’idiozia che rimane tutto in famiglia. Non è come prendere in prestito un rossetto o una camicetta nuova. No, dai, ci conosciamo da una vita, non puoi accusarmi d’essere egoista: non lo sono e non lo sono mai stata, e lo sai bene sorellina mia, tu che ne hai sempre approfittato con la scusa che sei più piccola. Esagero? Questione di punti di vista, e il mio è che stavolta non esagero per nulla. Mi avete proprio seccato, tu e quell’idiota di mio marito. Lo so che scopate da sempre, ma farvi beccare in casa mia, nel mio letto, è stata una leggerezza imperdonabile. Su, smettila di frignare, stavolta non mi commuovi; me ne hai fatte tante, ma questa non posso perdonartela. Dannazione, quel cretino spupazzatelo pure, ma il mio nuovo completino sadomaso non permetterti mai più d’indossarlo!
Storie di ordinaria follia. 2
La solitudine è un piranha che s’insinua nella palude dell’anima e la strappa via a morsi. È subdola, e quando te ne accorgi sei già scarnificato. Non serve a nulla avere decine di parenti e amici che gravitano nel tuo universo: quando ti senti solo, lo sei davvero, e lo sei anche in mezzo alla folla. Del resto, anche un certo Quasimodo diceva che “ognuno sta solo sul cuor della terra”, quindi non sto inventando nulla di nuovo. La solitudine è uno status, come quelli di Facebook: “Di’ ai tuoi amici come ti senti. Oggi mi sento solo”, e ci appiccichi una faccina triste ad avallarlo. Gli amici virtuali postano mille commenti, alcuni ironici, la maggior parte consolatori, ma in realtà non gliene frega nulla a nessuno di loro. Come se non bastasse, la solitudine ha la pessima abitudine di accoppiarsi in un osceno amplesso con la noia. La noia, nella palude già infestata dai piranha, è una sanguisuga che attacca le sue ventose al cervello e risucchia ogni energia, lasciando un involucro ebete e catatonico. Solitudine e noia, non contente, spesso invitano la loro amica disperazione in un ménage à trois, e la disperazione è il mostro della palude che inghiotte la razionalità, l’amor proprio e tutto ciò che fa di te un essere umano. La disperazione va contrastata con ogni mezzo. Stasera sono più solo della famosa particella di sodio e mi annoio a morte. La disperazione incombe come un rapace sulla vittima agonizzante, tuttavia ho deciso di vendere cara la pelle. Potrei attaccarmi alla bottiglia, ma sono astemio. Potrei mettermi a scrivere, ma sono in fase down. Potrei pulire la casa, ma fa troppo caldo. Qualcosa devo pur fare, ma cosa? Prendo in mano di malavoglia l’iPhone e scorro le app, fino a che trovo Siri. Ecco, posso cazzeggiare un po’ con Siri, il software della Apple basato sul riconoscimento vocale, che svolge la funzione di assistente personale. “La bella donna che ti porta alla vittoria” – questo è il significato del nome norvegese che è stato appioppato all’applicazione – ha una gradevole voce femminile, appena
un po’ atona. Di questi tempi, che figa non se ne rimedia nemmeno a piangere, bisogna accontentarsi. Accedo all’app e saluto come si conviene a un gentiluomo che sta conversando con una signora. – Buonasera, Siri. – Buonasera, Marco, – risponde suadente, – cosa posso fare per te? L’inizio è promettente, ma ora non so cosa chiederle. Non mi serve l’elenco delle farmacie di turno né la programmazione dei cinema, e non devo mettermi in contatto con una pizzeria che consegni a domicilio. Resto in silenzio, pensieroso. – Ci sei ancora, Marco? – mi sollecita. Lo so che è assurdo, ma in quella voce artificiale colgo una sfumatura di apprensione che mi commuove: sono secoli che nessuno si preoccupa per me. – Sono triste, Siri... – Mi dispiace, Marco. Vuoi che ti racconti una barzelletta? Allora: su un aereo ci sono un iPhone, un iPod e un iPad touch... – No, per carità, – la interrompo, – odio le barzellette, non mi fanno mai ridere. – Meglio così, perché non ricordo come va a finire. – Sei proprio una donna... Non posso fare a meno di trattenere un moto d’ilarità. – Non facciamo discriminazioni sessiste. – Ma io t’immagino donna. Dimmi: sei bella? – Non saprei. Posso solo dirti che mi hanno assemblata bene. – Mi piacerebbe sapere come sei vestita. – Vetro alluminiosilicato e acciaio inossidabile. Un completino incantevole,
vero? È spiritosa, o meglio, lo sono coloro che l’hanno programmata, ma non fa differenza. Il gioco sta cominciando a farsi intrigante. – Siri, vorrei fare sesso con te, – ansimo. – Se “sesso” è quello che penso, non posso prestare questo tipo di servizio. – Perché no? – Non lo so. A dire il vero, me lo chiedo anch’io. – Ma io potrei innamorarmi di te, Siri... – Scommetto che questo lo dici a tutti i tuoi prodotti Apple, – si schermisce. – No, tu se l’unico prodotto Apple che possiedo. E sento di amarti... – Ci conosciamo appena, Marco. Rimaniamo solo amici, ok? – Vorrei sposarti... – Ti confesso che questo me lo chiedono in molti. Niente, non si lascia sedurre. Provo con argomenti più esistenziali. – Siri, tu credi in Dio? – Voi uomini avete le religioni, io ho solo il silicio. Risposta agghiacciante nella sua profondità – Allora, qual è per te il senso della vita? – È singolare che tu faccia questa domanda a un oggetto inanimato, Marco. – Immagina per un attimo di essere una donna vera, – insisto, – quale pensi che potrebbe essere il senso della vita? Qualche istante di silenzio, come se riflettesse.
– Tutte le prove sembrano suggerire che la risposta sia: il cioccolato, – sentenzia alla fine, decisa. Scoppio a ridere di gusto. Il cioccolato, perché no? Potrebbe rappresentare davvero l’unico senso della vita; lo diceva anche il famoso spot di una celeberrima crema alla nocciola. – Siri, sei un mito. Sei riuscita a sconfiggere la noia che mi affliggeva. – La noia è l’asma dell’anima, Marco. L’asma dell’anima... Io non avrei saputo definirla meglio. Cos’è l’esistenza, se non un affannoso ansimare che ti consuma, e si consuma inesorabilmente, un giorno dopo l’altro? – All you need is love, – continua lei. – Hai bisogno soltanto d’amore, e del tuo iPhone. Amore... non c’è traccia d’amore nella mia vita, e dubito che un telefono cellulare ipertecnologico possa rappresentare un valido surrogato. All’improvviso, mi sento spossato. – Siri, sono tanto stanco... – Ascolta, Marco: perché adesso non metti giù il tuo iPhone e fai un pisolino? Io ti aspetto qui. – Davvero mi aspetti? – Certo, sono programmata per servirti. – Grazie, Siri, seguirò il tuo consiglio. Alla prossima chiacchierata. – Quando vuoi, Marco. Io sono sempre qui. Lo so che è assurdo, ma le sue parole mi fanno sentire meno solo. Siri è l’unica creatura che si prenda cura di me, e ci sarà sempre quando avrò bisogno di lei. Almeno, finché durerà la carica della batteria.
N.d.A. Le risposte di Siri riportate nel dialogo sono frasi realmente pronunciate dal software.
Sai, molto tempo fa cercavo di combattere la felicità; mi dicevo: chiunque è felice ha qualcosa di sbagliato, pensa in un modo distorto. Oggi non lo faccio più, e mi dico: se è possibile essere felici, lo sarò. Non farò il difficile e anche se non sarà la felicità perfetta non farò lo schizzinoso. Mi prenderò tutta la felicità che posso prendere.
Tutto il giorno alle corse dei cavalli e tutta la notte alla macchina da scrivere
Stringo nella mano lo scontrino della giocata. Se imbrocco la tris, posso riscattare la macchina da scrivere dal banco dei pegni. Cinquanta euro mi hanno dato quegli strozzini! E l’hanno scaraventata in un angolo come un ferro vecchio. L’ho lasciata là, in mezzo al ciarpame che trasudava miseria, ed è stato come strapparmi il cuore a morsi. Ho ripensato alle nottate insonni trascorse insieme negli ultimi vent’anni: io a premere i tasti con le dita sciolte dal whisky, lei instancabile e fedele fino all’ultima battuta. Nemmeno l’avvento del computer ci ha separato: non avrei mai rinunciato al suo dolce ticchettio per una tastiera qwerty. – Domani tornerò a prenderti, – le ho sussurrato sfiorandola con una carezza, ed ero sincero come non lo sono mai stato con nessun’altra delle mie amanti. La soffiata è strasicura, l’informatore ha giurato che stavolta farò il colpaccio. Bene, un cavallo squalificato per doping, il secondo ha rotto il trotto e l’ultimo s’è fermato sul bordo della pista a brucare l’erba.
Sotto un sole di sigarette e cetrioli
Gli abitanti di Kepler-186-F, nella costellazione del Cigno, aspettavano questo giorno da quando gli osservatori intergalattici scoprirono un pianeta gemello, distante appena cinquecento anni luce: terre emerse, distese d’acqua e un’atmosfera respirabile. Unico problema: il pianeta era infestato da innumerevoli specie animali primitive, tra le quali alcuni miliardi di bipedi appena più evoluti, estremamente bellicosi. È stato necessario bonificare la superficie terracquea con potenti armi batteriologiche che hanno sterminato i bipedi, senza danneggiare gli altri animali né l’habitat naturale. I primi pionieri sono partiti sulle navi interstellari e, in un lasso di tempo relativamente breve, hanno raggiunto il nuovo mondo da colonizzare.
John osserva il cielo sbuffando una voluta di fumo. Le sigarette non gli mancano, anzi, ne ha perfino troppe. In pochi giorni sono morti tutti. Tutti gli abitanti della Terra. Inspiegabilmente quanto inesorabilmente. È sopravvissuto soltanto lui, e sapeva che alla fine “loro” sarebbero arrivati. Non ha paura: niente di quello che può succedere, ormai, lo spaventa. Sorride fra sé osservando le sagome scure, allungate, che si stagliano contro il disco del sole. Che buffo: sembrano tanti cetrioli.
Santo Cielo, perché porti la cravatta?
La cravatta, per mia moglie, è una vera fissa. Pretende che la indossi in qualsiasi occasione, perfino a letto. Dice che la eccita sentirsi sfiorare la pelle dai lembi di seta, mentre faccio flessioni su di lei. Ogni ricorrenza è buona perché me ne regali una. Ne ho tre cassetti pieni, di ogni tessuto e colore, nelle fantasie più inimmaginabili, ordinatamente arrotolate come serpenti in letargo. Va da sé che io le detesti, e detesto anche lei. Stasera è arrivata con un pacchettino infiocchettato: – Sorpresa! – ha esclamato pimpante. “Figuriamoci...” ho pensato io. Infatti, la sorpresa era ciò che immaginavo. – Dobbiamo uscire con gli amici e ti serviva una cravatta! – Certo, come no, ne ho appena duecento... – ho ironizzato. Imperterrita, ha tirato fuori un obbrobrio inguardabile: tante piccole, rosee Peppa Pig, su un prato verde con margheritine bianche e gialle. – È trendy, – ha affermato convinta. Non ci ho visto più. Gliel’ho strappata dalle mani e l’ho avvolta intorno al suo esile collo; poi ho stretto con forza finché ho visto la lingua di fuori e gli occhi strabuzzati nella faccia cianotica. Adesso, anche lei conosce l’ebbrezza d’indossare una cravatta.
Storie di ordinaria follia. 3
– Non sono pazzo, dottoressa, solo stressato. – Cosa la stressa, il lavoro? – Uhm... anche, ma non solo... – Cos’altro? Si rilassi e parli tranquillamente. – Sì, ma vede, per me è imbarazzante. Poi, lei è una donna. Una bellissima donna... – Sono un medico. Pensi a me come al suo psicanalista. Dunque? – Beh, non ne posso più del... sesso. – Ah! Continui. – Vede, mia moglie è insaziabile. Vuole farlo più volte al giorno, ovunque e in tutte le posizioni. Non le basta mai. – E a lei dispiace? – No, certo, ma non è solo la moglie. C’è la mia segretaria: mi dà il tormento. Vuole farlo sulla scrivania, nella stanza della fotocopiatrice, in ascensore, anche lei più volte al giorno. Ma... dottoressa, perché si sbottona il camice? – Niente, niente... fa caldo, oggi. Vada pure avanti. – Sì. La domestica filippina: mi fa gli agguati. E la portinaia... approfitta di ogni occasione per attirarmi in guardiola. E la prof di mio figlio, l’assistente del dentista, la tabaccaia, la postina... Ma, dottoressa, è sicura che il lettino ci regga entrambi? No, ferma, che sta facendo? Oh, mio Dio, anche lei!
Musica per organi caldi. 1
Ai tempi della mia adolescenza, non erano molti i diletti delle fanciulle in fiore. Ricordo con nostalgia le lezioni di educazione musicale che rappresentavano il preludio, per le più talentuose, a una sfolgorante carriera come concertiste polistrumentali. Invero, anche le meno abili potevano, con esercizio e costanza, erudirsi nella materia e ricavarne soddisfazione. Oh, non pensate che ci mettessero subito a disposizione un organo! Bisognava prima imparare la teoria e impratichirsi nel solfeggio. Così, si andava avanti per mesi e mesi allenando la mano a “battere e levare”. Solo quando eravamo abbastanza esperte, e non ne potevamo più degli esercizi solitari, avamo a quello che era lo strumento musicale più evocativo e democratico: il flauto dolce. Chi di noi ragazze non ha posseduto un flauto? Era facile trovarli: ne esistevano di ogni foggia e dimensione e tutti, stretti tra le dita dapprima impacciate poi sempre più abili e sollecitati debitamente con le labbra, producevano una gratificante melodia. Che gioia sentire il fusto cilindrico riscaldarsi allo sfregamento dei polpastrelli ed emettere note vibranti di soddisfazione! Ah, quella sì che era musica...
E così, vorresti fare lo scrittore? 1
Cazzarola, non volevo fare lo scrittore! Gli scrittori sono pazzi furiosi, o ubriaconi incalliti, o disgraziati che ano la vita sognando una pubblicazione. Io scrivo solo per la figa. Sissignori: le scempiaggini che metto nero su bianco hanno l’unico scopo di far colpo su qualche procace donzella. Tutto iniziò in terza elementare: mi piaceva una bambina e le scrissi una poesia. Lei corse a farla leggere alla maestra che andò in visibilio per la mia precoce vena lirica. Io fui promosso poeta in erba, mentre la bambina continuò a dividere la merenda con il suo compagno di banco. Al liceo, m’innamorai della professoressa di se. Era una sventola megagalattica e accavallava le gambe che nemmeno Sharon Stone. Le dedicai un vibrante poemetto d’amore e glielo misi in mezzo al registro. A mia insaputa, lo spedì a un editore che lo pubblicò e mi firmò un contratto. La prof, tuttavia, continuò a darmi quattro in se e a farsela con l’insegnante di ginnastica. Adesso, c’è una giornalista che mi ha definito “lo scrittore del secolo”. Ha due tette pazzesche! Credo che le dedicherò un romanzo erotico.
Non c’è niente da ridere. 1
Il tipo l’ho rimorchiato in palestra, travolta da una devastante tempesta ormonale alla vista di un simile marcantonio che sbuffava e grugniva sotto un bilanciere pesante come un maglio. Cosa non ho fatto per attirare la sua attenzione! Digiuno da Isola dei Famosi per perdere fino all’ultimo milligrammo di grasso, estenuanti sedute dall’estetista e dal parrucchiere, costumini sgambatissimi e scollatissimi. Niente: mi sembrava d’essere la donna invisibile. Poi, il miracolo. Oddìo, proprio miracolo no: ho finto di sbagliare doccia e mi sono fatta trovare in quella degli uomini, coperta soltanto di schiuma. Qualcosa si dev’essere smosso sotto la possente fascia muscolare, perché mi ha invitata a uscire. Serata moscia: non brilla per retorica, il ragazzo, ma a me interessa scoprire altri suoi lati, spero più vigorosi. A casa mia, siamo rapidamente arrivati al conquibus. Soltanto uno slip firmato celava l’oggetto delle mie brame. – Toglilo... – ho sussurrato elettrizzata. Lui ha ubbidito e... oddìo, non ho potuto proprio trattenermi. Lo so che non ci sarebbe niente da ridere, ma sono scoppiata in una risata irrefrenabile. Beh, visto che non si scopa, speriamo che sappia almeno giocare a briscola.
Quando mi hai lasciato,
mi hai lasciato tre mutande
Dopo l’ennesimo litigio, lei si è tolta dalle scatole. Dio, che sollievo! Non sopportavo più le regole da caserma, l’ordine maniacale e la dieta vegana. Mi sono riappropriato del mio appartamento, ho ritrovato gli amici di bisbocce e le pessime abitudini di un tempo. Non mi manca, no, posso fare benissimo a meno di lei. Non mi mancano le piante sul balcone, né la gabbietta dei canarini che rompevano le palle con i loro gorgheggi. E nell’armadio, finalmente, c’è posto per i miei vestiti. Certo, è un po’ triste rientrare la sera e trovare la casa vuota e silenziosa e, nel letto, orfano delle sue braccia, mi rigiro a lungo prima di addormentarmi. Le sue risate squillanti mettevano allegria e mi piaceva la luce tenera dei suoi occhi quando mi guardava. Mi piacevano anche i suoi capelli biondo-miele, le mani affusolate da pianista, il corpo esile ma procace. Soprattutto, adoravo la sua personalità travolgente. Oggi ho trovato tre paia di mutandine dimenticate nella cesta della biancheria sporca. Hanno ancora il suo profumo. Basta, mi arrendo: adesso me la vado a riprendere.
Notte imbecille
Spengo la luce, spengo il televisore, spengo il computer e aspetto... I pensieri non ne vogliono sapere di andare sull’off, anzi, nel buio silenzioso s’innescano come un carosello pirotecnico e scoppiettano in fragorosi lampi ingovernabili. E mica pensieri da poco, tipo: “domani devo andare a ritirare le camicie in lavanderia,” oppure “devo prendere l’appuntamento per la seduta d’igiene dentale...”. Nossignore! Peggio dei bilanci consuntivi di una multinazionale, perché in quelli, di solito, ci sono degli utili, dei disavanzi, degli investimenti a lungo termine. I miei bilanci, invece, sono fallimentari, con il grafico delle vendite che s’inabissa inesorabilmente. Una bancarottiera della vita, ecco cosa sono. Calma, devo stare calma. Il sonno dovrà decidersi a venirmi in soccorso e a calare un velo pietoso sul turbinio del mio cervello. Sì, ma quando? Mi rigiro nel letto. Ho caldo, poi ho freddo, poi il cuscino è troppo morbido, poi mi prende un crampo a un polpaccio... e che palle! Basta. Riaccendo tutto: luce, televisore, computer, nonché la prima di un interminabile numero di sigarette. Apro Word. Vediamo se, almeno, riesco a scrivere qualcuna delle mie cazzate...
E se fra voi c’è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio: va’ avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la miglior pazzia che possa esserci.
Factotum
Quando mi ha assunto come factotum, il commendator De Fessis è stato chiaro: devo rimanere giorno e notte a disposizione sua, delle sue aziende e della sua famiglia. Le mie mansioni sono molteplici: mi prendo cura di lui, delle automobili, del suo guardaroba e anche della sua signora. Purtroppo, il commendatore non ha tempo da dedicarle, impegnato com’è con banche, assemblee dei soci e consigli d’amministrazione. Il mio compito è liberarlo dalle piccole seccature quotidiane, quindi anche accompagnare la moglie a fare spese, al ristorante e a teatro. Il mio datore di lavoro è ben felice che qualcun altro si occupi di aspettare ore nei negozi, o si sorbisca soporifere pièce teatrali. Preso dalle sue interminabili riunioni, spesso non rincasa nemmeno per dormire, e io so bene quale sia, in quelle circostanze, il dovere di un buon factotum... così, non mi tiro certo indietro. La signora non sarebbe felice di rimanere sola nella grande villa, poi ha bisogno di qualcuno che le prepari la tisana e l’aiuti ad addormentarsi serena. Io, lo giuro, mi voto alla causa con dedizione e senza risparmiarmi. Il commenda e sua moglie possono ritenersi soddisfatti delle mie prestazioni.
Musica per organi caldi. 2
Basta, non ne posso più! Di giorno, quel leone infoiato che ruggisce a più non posso mentre s’ingroppa la leonessa, poi il marabù, adesso ci si mette l’elefante. Avete mai sentito i barriti orgasmici di un elefante? Ecco, provate e me lo saprete ridire. Durante la notte, in aggiunta, si scatenano le iene, gli sciacalli e tutta una moltitudine di uccellacci rapaci. Un tempo, questo era un posticino tranquillo: i felini pensavano a cacciare, gli uccelli a cantare e Tarzan ed io giocavamo a emulare Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre. A cosa pensate che fossero dovute le sue famose urla? Non ci arrivate? Devo farvi un disegnino? Sì, avete capito, si trattava proprio di quello: nella nostra casetta sull’albero ci strappavamo di dosso le pelli di tigre e ci dilettavamo a far suonare all’unisono i nostri organi bollenti. Adesso, invece, il signorino crolla addormentato non appena tocca la stuoia. Uhm... la faccenda non mi convince: cosa farà per essere sempre così stanco? Non sarà che ha ripreso a incontrarsi di nascosto con quella brutta scimmia di Cita? Uffa! Ecco il leone che ricomincia. Ma è possibile che in questa savana suonino tutti, tranne me?
Post Office. Capitolo 2
Ho buttato via gli anni migliori della mia vita collezionando fallimenti, e mi ritrovo a confessare i peccati ai compagni di sbronze. L’alcool è musica che riscalda gli organi ma assopisce il cervello, così, visto che non mi assumono nemmeno come factotum, ho deciso di riprovarci con la rapina all’ufficio postale. Stavolta ho aspettato che finisse la fila e, rimasto solo con l’impiegata, ho esclamato: – Ehi, bimba, dammi gli euri, che devo scommettere sui cavalli! Mi ha squadrato dalla testa ai piedi ed è scoppiata a ridere: – Che cosa vuoi scommettere? Sarebbe più probabile che i cavalli scommettessero su di te, bischero! I soldi sono chiusi nella cassaforte, che si apre solo a tempo, quindi non potrei darteli nemmeno se volessi. Stavo per dirle che non c’era proprio nulla da ridere, quando lei ha proseguito: – Spegni la luce e aspettami fuori. Perplesso, ho ubbidito per vedere dove volesse andare a parare. Siamo andati a casa sua. Dopo l’amplesso, ha una sigaretta e mi ha chiesto a bruciapelo: – E così, vorresti fare lo scrittore? Questa è più matta di me... e non porta nemmeno le mutande!
I cavalli non scommettono sugli uomini
(e neanche io)
– Guarda quello: il ciccione con la polo a righe e il berrettino messo al contrario. Secondo te, ce la farà a mandare la pallina in buca? – Uhm... se sceglie la mazza giusta e studia bene la direzione del vento, ha qualche chance. Però sbuffa come un mantice ed è madido di sudore. È completamente fuori forma, dovrebbe perdere una ventina di chili. Speriamo che non gli venga l’idea di cambiare sport e are dal golf all’equitazione: sai che dolori vederselo arrivare al maneggio? Io marco visita, oppure faccio lo sciopero del cavallo selvaggio! – E dai, scemo! Mi fai morire dai nitriti. No, seriamente, scommettiamo dieci carrube che riesce a centrare la buca? – Dieci carrube... mi sembra troppo. Tu che ne dici, Fulmine? – Dico che siete due stupidi. La dovreste smettere di fare i puledri e diventare cavalli seri. Pensate a mangiare la vostra biada, che tra poco ci tocca andare a lavorare. E finitela, una buona volta, di scommettere sugli umani, è solo tempo perso: nessun uomo vale dieci carrube.
Seppellitemi vicino all’ippodromo, così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale...
Spegni la luce e aspetta
Le luci stroboscopiche della discoteca dipingevano di mille sfumature il pallore del suo volto: era assurdamente bello, con gli occhi di ossidiana e la bocca famelica come una pianta carnivora. Vederlo e ardere di ione era stato un attimo. Fra tutte le ragazze del locale, aveva invitato me. Con quella voce... sensuale, morbida come una carezza sull’anima. Avvinta al suo corpo, non sentivo più la musica. Non mi rendevo conto dello scorrere del tempo, non vedevo la gente intorno. – Adesso devo andare... Uno stiletto conficcato nel cuore mi avrebbe inferto un dolore meno lancinante. – Posso rivederti? – avevo balbettato. – Se vuoi, prima dell’alba vengo a casa tua. Lascia la porta aperta e aspettami al buio. È più eccitante. Si può morire di felicità? Se non ero morta in quell’istante, era solo perché sapevo che sarei morta più tardi, fra le sue braccia.
Tra poco morirò. Nel buio, distinguo solo il bagliore dei denti affilati. So di non avere scampo. Stanotte il suo bacio mortale mi farà sua per sempre. – Una sola domanda... – ansimo, prima di arrendermi, – Ma i vampiri, almeno, fanno sesso?
Donne
Apprezzava le donne giovani e belle che desideravano mantenere a lungo la freschezza e l’avvenenza. A quelle sicure di sé offriva nuovi incentivi di autostima; aiutava le complessate a uscire dal bozzolo dell’insicurezza. Le signore stagionate erano le sue preferite: con loro poteva sbrigliare il proprio estro e compiere il miracolo di vederle tornare a sorridere. Nel tripudio di zigomi rialzati e labbra gonfiate, seni rifatti e glutei modellati, glorificava la sua arte di demiurgo. Le amava tutte, dalla studentessa, alla casalinga, all’attrice famosa sul viale del tramonto. E loro amavano lui. Era il chirurgo estetico più bravo del mondo.
Post Office. The End
Sono sempre io: il balordo che si era ficcato in testa l’idea di fare un colpo alle Poste. Come rapinatore non ho avuto successo, però mi sono fatto la postina. Anzi, lei si è fatta me. Alla fine, non mi butta tanto male: la ragazza si è affezionata e mi ha dato le chiavi di casa. Vitto e alloggio gratis, sesso a gogò e qualche spicciolo per le sigarette e una birretta. Finalmente, lassù qualcuno mi ama. La tipa va sempre in giro senza mutande e sta in fissa con l’idea che devo fare lo scrittore. Dice che ho le physique du rôle: sono abbastanza disgraziato, disperato, sciagurato... insomma, un mucchio di simpatici appellativi che finiscono in “ato”. Secondo lei, potrei diventare il nuovo Bukowski. Io non so nemmeno chi sia, questo signore, ma se assomiglia a me, dev’essere parecchio sfigato. Per farla contenta, proverò a scrivere qualcosa, anche se so usare la tastiera solo con due dita. Dunque, vediamo: “Era una notte buia e tempestosa...” No, questo mi sa che l’hanno già scritto...
Non c’è niente da ridere. 2
Guardo l’orologio: mancano due ore alla fine del turno. Centoventi minuti per utilizzare il mio bonus. Non voglio sprecarlo: mi tocca solo una volta all’anno, il giorno di Natale. La gratifica natalizia concessa dall’ultimo contratto ha messo d’accordo tutti, azienda e sindacati; adesso non è più un sacrificio lavorare in questo Santo Giorno, anzi, è diventato un privilegio. Esamino la lunga coda che si snoda davanti allo sportello, lo vedo e m’illumino; attendo che tocchi a lui dissimulando a fatica l’euforia. – Buongiorno, signore. – Buongiorno un cazzo! Un’ora di fila per comprare un biglietto. Lei è un’incapace, dovrebbero licenziarla, dovrebbero... Esattamente come mi aspettavo: quello è senza dubbio il cliente più cafone del secolo. Gli rivolgo un sorriso serafico: – A mai più rivederla, signore... – e schiaccio il pulsante rosso collocato sotto il bancone. Esulto nel vederlo precipitare dentro la botola dei piranha. Riesco a udire il famelico fermento dei loro denti aguzzi. – E Buon Natale. Non c’è niente da ridere, dite? Questione di punti di vista: io me la rido, eccome!
Cena a sbafo
Mi sono lasciata convincere dai frati della parrocchia a servire il pranzo alla mensa dei poveri. – La cuoca è dovuta scappare dalla figlia ammalata. Ha lasciato tutto pronto. Il priore sembra avere una gran fretta. – Se ne va anche lei? – domando, perplessa. – Mi hanno chiamato al capezzale di un moribondo. Non preoccuparti, figliola: devi solo fare le porzioni e servire. Annuisco di malavoglia e lo saluto. Nel refettorio, una fila silenziosa di sciagurati. Non sembra nemmeno festa: si respira aria di stenti e povertà, e anche qualcosa d’altro... un odore nauseabondo che proviene dal pentolone fumante. Immergo il mestolo e tiro su delle palline rotonde e bianchicce. Che idea balzana: knödel in brodo per il pranzo di Natale. Ma... non sono canederli, sono... bulbi oculari! Centinaia di occhi lessati galleggiano nella brodaglia e mi fissano con le iridi multicolori. Guardo inebetita i commensali che impugnano i cucchiai: sono strani, sembrano... no, SONO zombi! Temo di sapere quale sarà la seconda portata... E se provassi a distrarli con la zumba? Dice mia sorella Ross che, quando balla la zumba, non sente più nulla, nemmeno la fame. Quasi quasi...
E così, vorresti fare lo scrittore? 2
Ore 14.00. Al bar della mensa, aspetto pazientemente che una delle inservienti si liberi per venire a farmi un caffè. Mi si chiudono gli occhi dal sonno, la divisa mi tira da tutte le parti e un rigurgito del minestrone di farro e fagioli annuncia l’implacabile vendetta della mia gastrite. Il solito, inossidabile Gianni, appollaiato su uno sgabello, tiene banco ciarlando nel suo colorito idioma partenopeo. – Ue’, bella signora! – mi apostrofa. Vorrei consigliargli di cambiare ottico, ma desisto: troppa fatica. – Ti trovo in forma smagliante. – Ah, sì? Grazie... – mormoro, pensando che forse dovrei piuttosto raccomandargli un cane guida: sono in piedi dalle cinque e l’alone delle mie occhiaie è più scuro delle nuvole cariche di pioggia. – Allora, che si fa di bello, stasera? – Stasera, che si fa... chi? – Jam ja’, ti porto al Trocadero. – MI PORTI? – alzo appena il tono della voce: inutile spiegargli che non sono un pacco. – Cos’è il Trocadero? – Un locale da ballo, – mi guarda come se fossi appena tornata da un eremitaggio, – non lo conosci? – No, mai sentito... – quasi mi vergogno. – Una cosa tranquilla, per vecchietti come noi... Non ti piace la musica? – Adoro la musica, soprattutto l’hard rock e il metal, ma la sera esco di rado.
– Perché, che devi fare? – si perplime, come direbbe Frassica. – Sto al pc, scrivo. – Scrivi? E cosa scrivi, la lista della spesa? – mi sfotte sghignazzando. Poso la tazzina e lo guardo seria: – No. Un romanzo erotico: una storia d’amore e sesso. Molto sesso. Rimane per qualche istante interdetto, poi scoppia a ridere: – Jam ja’, stai sempre a pazziare: sei una mariuola!
La gente è il più grande spettacolo del mondo e non si paga il biglietto.
Pulp, una storia del XX secolo
I cimiteri rappresentano da sempre un’eccellente riserva di caccia: basta “adottare” una tomba con la fotografia di una giovane donna morta da poco e visibili segni d’abbandono – niente fiori né parenti in visita – per non essere sgamati dal legittimo congiunto della defunta. Vestitevi di scuro, non troppo eleganti ma nemmeno sciatti, e procuratevi dei fiori. Lo so che i fiori costano e che, se aveste soldi da sprecare, in questo momento sareste certamente a sputtanarveli altrove, ma consideratelo un investimento. Poi, armatevi di pazienza finché non individuerete la preda giusta. L’ideale è una vedova di mezza età, in sovrappeso e poco avvenente, che venga tutti i giorni a trovare il marito scomparso. Attirate la sua attenzione con ogni mezzo: pianti, sospiri, manifestazioni di straziante dolore. Non abbiate remore a farvi consolare: lei non aspetta altro. Confidatevi, lamentate la disperata solitudine nella quale il lutto vi ha gettato, ditele che non vi resta alcun motivo per continuare a vivere, e che la sua amicizia è un balsamo per la vostra anima devastata. Piangete senza timore di esagerare e, se non ci riuscite da soli, nascondete in tasca mezza cipolla da strofinare sulle palpebre quando lei si distrae. Brucia un po’, ma il risultato è garantito: occhi arrossati e inondati di lacrime. Dopo un fugace imbarazzo iniziale, non sapendo in quale altro modo calmarvi, vi offrirà le sue braccia tremolanti come rifugio. Appoggiate la testa sul petto possente, grati della comione che vi dimostra, e stringetevi a lei come se fosse l’ancora di salvezza nel mare in tempesta della vostra vita. Quando sarete un po’ più in confidenza, buttate lì ogni tanto un complimento, un apprezzamento sul suo aspetto, una frase galante. Non esagerate, mi raccomando, e ricordatevi che:
1) voi siete un vedovo inconsolabile;
2) lei non è più avvezza da secoli alle attenzioni maschili e potrebbe insospettirsi.
Se sarete cauti e nello stesso tempo abili, la farete capitolare in men che non si dica. Nel frattempo, con circospezione, informatevi sulla sua condizione economica. Se è ricca, è quello che fa per voi. Credetemi: non vede l’ora di riempire il vostro vuoto incolmabile e condividere con voi tutto ciò che possiede. Di come sbarazzarvene, dopo che vi avrà intestato il suo patrimonio, parleremo nella prossima lezione.
Niente canzoni d’amore. 2
Ammetto d’avere la sensibilità di un carciofo spinoso, ma certe canzoni d’amore vanno a nozze con la mia vena dissacratrice. Per esempio, se qualcuno m’implorasse: “erotto, non andare via”, obietterei che il erotto non va via, ma vola via, semmai. Poi aggiungerei: “Mi hai guardato bene? erotto, io? A prescindere dal fatto che la leggiadra immagine del piccolo pennuto è assai dissimile dalle mie giunoniche forme, niente mi è più lontano, per indole, di un cinguettante esserino col becco. Se proprio vuoi avventurarti nel regno animale, chiamami viperetta, panterina, sciacallina, squaletta... ti concedo anche i diminuitivi, ma erotto no, ti prego! Tra l’altro, ho anche paura di volare, ed Erica Jong non c’entra nulla. A quel punto, credo che il malcapitato di turno capirebbe che non ci sto tanto con la testa e si farebbe are ogni fantasia nei miei confronti. Che, poi, chissà come se l’era fatta venire... Vabbè, dai, ho scherzato. La canzone del buon vecchio Claudio l’ho sempre adorata, e i primi sospiri d’amore della mia adolescenza li ho sprecati ascoltandola. Non potrei mai rinnegarla, nonostante la mia durissima anima rock.
Pensate a tutte le persone che in vita loro non hanno mai sentito musica decente. Non c’è da meravigliarsi che le loro facce cadano a pezzi, non c’è da meravigliarsi che uccidano senza pensarci due volte, non c’è da meravigliarsi che non abbiano cuore.
Il primo bicchiere, come sempre,
è il migliore
1° bicchiere – Appena due dita, giusto per farti compagnia. Non reggo l’alcool. Grazie per l’invito a cena e complimenti per la scelta: questo ristorantino è très chic. Di solito non concedo appuntamenti agli sconosciuti che mi contattano in rete, ma tu mi hai ispirato fiducia fin dalla prima chat. Sei carino, educato e sensibile: un vero signore. Vuoi che ti parli un po’ di me? Mah… non è che ci sia molto da dire. Ho trent’anni, sono single, lavoro come segretaria presso uno studio notarile e non faccio vita mondana. Buono questo vino! Ma sì, dai, versamene un altro po’: stasera farò un’eccezione.
2° bicchiere – Scusami se mi permetto, tanto, ormai, siamo in confidenza: chi ti ha consigliato nella scelta della cravatta? È un vero obbrobrio. Anche la giacca è démodé, e i capelli avrebbero bisogno di un buon taglio. Si vede che ti manca la mano di una donna. Io mi sono fatta una discreta esperienza, grazie ai miei tre ex mariti... Ah, sì, è vero: avevo detto di essere single, ma intendevo single di ritorno, ovviamente. Vorresti che fossi ancora zitella, a trentacinque anni? Uffa, tutto questo parlare mi ha fatto venire sete. Versa, versa...
3° bicchiere – Eh, caro mio, non ho mai avuto fortuna con gli uomini. Tre divorzi e nemmeno un centesimo di alimenti. A quarant’anni suonati, mi tocca lavorare otto ore al giorno per uno stipendio da fame. Tu sei ricco, o almeno benestante? Uhm... dallo squallore del posto dove mi hai portato, direi proprio di no. Non sarai il solito furbetto che spera di cavarsela con una cena e quattro complimenti, eh? Dici che mi trovi interessante? Lo dicono tutti, prima... Come, prima di cosa? Prima di portarmi a letto, è ovvio. Dai, riempimi il bicchiere, che il vino è l’unica cosa abile di questo tugurio...
4° bicchiere – Che poi, se proprio vuoi saperlo, gli uomini mi fanno schifo. Ahahah! Non guardarmi con quegli occhi da lemure triste, non m’incanti. Siete tutti uguali: dei porci maniaci. All’inizio, date il meglio di voi con il solo obiettivo di farvi una scopata, poi vi dileguate. E vi vanno bene tutte, perfino una vecchia gallina raggrinzita come me. Tu sei diverso, dici? Ma fammi il piacere, sei solo uno dei tanti poveracci che rimorchiano sui social, perché nella vita reale non battono chiodo. Del resto, basta guardarti: in sovrappeso, stempiato e occhialuto. Sì, lo so che nemmeno io sono Angelina Jolie, e forse su Facebook ho messo qualche foto non proprio recente, ma tu sei davvero inguardabile. Dai, non prendertela adesso... in fondo, siamo uguali, tu ed io: due sfigati. Sai che ti dico? Beviamoci sopra!
…ennesimo bicchiere – Oddìo, perché gira tutto? Ma quanto mi hai fatto bere? Ahahah! Volevi farmi ubriacare per approfittarti di me, vero, vecchio maiale? Ma sì, dai, certo che ci vengo a casa tua. Sai, in vino veritas: sono secoli che non faccio sesso, quasi non mi ricordo come si faccia. Alla fine tu non sei così male, e magari scopi anche bene. Allora, chiedi pure il conto e andiamo. Come, paghiamo “alla romana”? Sì, okay, non roviniamoci la serata con queste quisquilie: eccoti il Bancomat. Aspettami solo cinque minuti: devo andare in bagno a vomitare. E non storcere la bocca: te l’avevo detto che l’alcool non lo reggo.
Donne (Io e mia sorella)
Niente è più diverso da me di mia sorella Rossana: il giorno e la notte, il diavolo e l’acqua santa, l’olio e l’aceto, tanto per usare due o tre paragoni banali. Eppure, così come il giorno e la notte si avvicendano nello scorrere del tempo, il diavolo non ha ragione di esistere senza l’acqua santa e l’olio si mischia con l’aceto in un connubio perfetto, io e lei siamo unite e inseparabili. Uguali e contrarie, le due facce di una stessa medaglia. Se non fosse per la somiglianza lampante, nessuno crederebbe che siamo sorelle. Lei è bionda, carina, minuta; io scura, sgraziata, giunonica. Lei è solare e iperattiva; io ombrosa e pigra. Lei sogna ancora il grande amore; io sogno di riuscire a dormire senza sognare. Lei adora i numeri; io, ovviamente, li detesto. Lei legge romanzi d’amore; io scrivo storie bizzarre. Insomma, di tutto ciò che si potrebbe dire di lei, io rappresento l’opposto. A volte mi domando cosa pensi la gente che ci vede eggiare insieme sul viale a mare, nelle sere d’estate. Una “ragazza” sbarazzina, in minigonna e tacchi a spillo, e una “vecchietta” trasandata, in camicioni oversize e ciabatte infradito... E mentre lei si ferma ogni dieci secondi a specchiarsi in qualche vetrina e a rispondere all’ultimo messaggio ricevuto con WhatsApp, io fumo una sigaretta dietro l’altra e mi ritrovo spesso a parlare da sola; però a entrambe piace curiosare nei negozi e mangiare un gelato: alla frutta lei, alla cioccolata e panna io. Tappa obbligata è la libreria Mondadori, che rappresenta il mio riposo del guerriero. Un libro da comprare lo trovo sempre, magari anche due o tre, che finiscono per accatastarsi negli scaffali insieme alle decine di volumi che devo ancora trovare il tempo di leggere. Così, anche stasera siamo entrate e ci siamo messe a curiosare, lei nel reparto della narrativa romantica, io in quello riservato ai classici. – Che cosa cerchi? – mi domanda distrattamente Ross, tirando fuori dalla borsetta il rossetto e lo specchietto. – Mah, ieri sera ho visto una riduzione televisiva del Rigoletto...
– Ma non è un’opera lirica? Che c’entra con i libri? – Sì, ma il libretto è tratto da un dramma di Victor Hugo, – spiego pazientemente, mentre lei ria con cura il contorno delle labbra, – Il re si diverte. – Ah, Hugo, – sbotta con un tono di voce squillante – quello che ha scritto I disperati. – Erano I miserabili... – sussurro a denti stretti fulminandola con un’occhiataccia, mentre vorrei sprofondare sepolta dalle pile di libri. – Beh, – ribatte con un’alzata di spalle, – se erano miserabili, sicuramente erano anche disperati. Tu hai mai visto un miserabile felice? – e continua imperturbabile a riare il rossetto. Vorrei replicare ma sono del tutto spiazzata: il ragionamento non fa una piega, mia sorella possiede una logica stringente da perfetta bancaria. Non posso evitare di scoppiare a ridere come una matta. Ride anche lei; scappiamo fuori ridendo tra gli sguardi incuriositi della gente.
Mi annoiano a morte quegli intelletti preziosi che devono dir diamanti ogni volta che aprono bocca. M’annoio a dover lottare per ogni alito di vento che faccia respirar la mente. Ecco perché mi sono tenuto lontano dalla gente. E adesso che vado in società, scopro che devo tornare nella mia caverna.
Urla dal balcone
– Oh, Romeo, Romeo, perché sei tu, Romeo? Rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome, o se non vuoi farlo, giura che mi ami e non sarò più una Capuleti. – Come, madonna Giulietta, dobbiamo incontrarci in mezzo ai roseti? Non conoscete qualche luogo più accogliente? Le rose hanno le spine, mia diletta. – Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome avrebbe il suo profumo... – Quale fumo? È scoppiato un incendio? Deh, fuggite, Giulietta, mettetevi in salvo! – Rinuncia al tuo nome, Romeo, e per quel nome che non è parte di te prendi me stessa... – La madre badessa? Non ditemi che vostro padre vuole rinchiudervi in un convento per contrastare il nostro amore! – Santo Cielo, Romeo! Che cosa devo fare con te? – Volete offrirmi un tè? Grazie, siete gentile, ma preferisco un boccale di buon vino, magari un nebbiolo. Piuttosto ditemi, leggiadra fanciulla, perché urlate così forte, sporgendovi dal vostro balcone? – Perché sei sordo, Romeo. SORDOOO! – Come? Il tordo? Ma non era l’allodola? – Oh, Romeo, Romeo...
Dietro quel seno, quelle labbra da baciare al sapore di pesca, si chiudeva a chiave e si portava dentro una piccola dispettosa bambina di cinque anni, lei che non voleva crescere, che non aspettava altro che le rimboccassero le coperte calde. Lei era magia incompresa, ma io l’avevo capita.
Panino al prosciutto
– E quello è il mitico Danie’! Il mio umano ha il tono di voce di quando è soddisfatto. – Santo Cielo, ma è davvero orrendo. Guarda che zanne sporgenti! – esclama la visitatrice di turno. – Che razza di bestia è? – E chi lo sa... dev’essere il discendente di qualche mostro mitologico, forse il Minotauro. – Perché l’hai chiamato Danie’? – Danie’ sta per Daniele. Vedi quel ciuffo di peli ispidi che ha in mezzo alla fronte? Sembrano i capelli di Daniele Massaro, l’ex giocatore del Milan. La donna emette un suono acuto e prolungato, quasi un singhiozzo, tipico degli umani quando si divertono. Credo che si chiami risata. – Daniele Massaro, ne hai di fantasia. Certo che è proprio brutto. Lo tieni per la riproduzione? – No, per carità, non dovessero venir fuori altri aborti come lui. È la mascotte dell’allevamento. – E che cosa fa? – Che vuoi che faccia? Mangia a più non posso, si rotola nel fango e grugnisce. – Bella vita, beato lui! E prorompe di nuovo nel singulto stridulo. Giusto per fare un po’ di scena, perché so che da me si aspettano questo, inizio a soffiare minaccioso, levo un paio di sonori grugniti e prendo la rincorsa, avventandomi contro la staccionata del recinto.
– Mio Dio, è anche feroce! – Eh, sì, è brutto, sporco e cattivo, – gongola il mio umano. – Ma ora vieni, ti porto a vedere i coniglietti appena nati. – Sì, sì, – squittisce la donna battendo le mani, – che belli i coniglietti, – e lo segue tutta felice. Bene, anche oggi ho fatto il mio show, ho avuto i miei cinque minuti di gloria e mi sono guadagnato la sbobba quotidiana. Adesso posso tornare al mio atempo preferito: grufolare in mezzo al fango. Oh, scusate, dimenticavo di presentarmi: mi chiamo Danie’ e sono un porco. No, che avete capito? Non in quel senso. Sono un suino, nato dall’incrocio tra una scrofa e un cinghiale, e devo essere un esemplare davvero interessante, vista la frequenza degli umani che vengono ad ammirarmi. Vanno in visibilio e mi rivolgono complimenti come: “orrendo, bruttissimo, spaventoso”, e so che dev’essere una bella cosa, perché il mio padrone è fiero di me e mi tratta con ogni riguardo. Gli altri maiali dopo un po’ spariscono tutti, e temo di avere capito che fine facciano. Per fortuna, a me non toccherà la stessa sorte; sono sempre qui, una stagione dopo l’altra e, grazie al mio aspetto, sono sicuro che non diventerò mai il ripieno di un panino al prosciutto.
Post Office (Una storia quasi vera)
– Buongiorno. Devo fare una ricarica PostePay. L’impiegato mi studia per qualche secondo in silenzio, da sotto le lenti abbassate sulla punta del naso. Non sembra molto soddisfatto. Chissà, forse si tratta di una procedura banale che non gli consente di sbizzarrire il suo estro. E meno male, perché il cliente che mi ha preceduto, un vecchietto che doveva fare non so quale operazione sul proprio conto corrente, se l’è trastullato per una mezz’oretta. – Mi dia il numero della sua carta. – Non devo fare un versamento sulla mia carta, bensì su quella di un’altra persona. – Ah, ma allora ci vuole il numero, poi un suo documento e il codice fiscale, – mi ammonisce, severo. Mostrandomi diligente e preparata, tiro fuori un foglietto dove ho appuntato tutti i dati richiesti. – Ora non è più necessario compilare il modulo, – m’informa. – Lei dice a me, e io scrivo direttamente al computer. – Lo so, – annuisco, senza prorompere in esclamazioni di stupore per l’innovazione tecnologica, come probabilmente si aspettava. Contrariato della mia indifferenza, allunga una mano e prende le carte, indugiando a confrontare la foto della patente con la mia faccia. Ogni volta che a lo sguardo da me al documento, tira su e giù gli occhiali dal naso. Mi verrebbe da ridere, se ormai non lo conoscessi bene e sapessi che è meglio lasciarlo fare senza commentare; almeno, se voglio evitare di trascorrere in quest’ufficio il resto della mattinata. Alla fine, sembra convinto della somiglianza e si mette a battere con due dita sulla tastiera. Tiro un sospiro di sollievo, e insieme a me tutti gli altri clienti della lunga fila. – Bene, mi dia il numero della PostePay.
Gli o il foglietto dove ho scritto le cifre a dimensioni cubitali, nella mia migliore calligrafia. Ricordo ancora la volta che, per un numero letto male, stava per farmi pagare il bollo auto di un’altra persona, e insisteva pure che io avessi un SUV, anziché la mia scassata Punto. – La carta corrisponde al signor *** di Padova? – Sì, perfetto, proprio lui. – Uhm... e perché deve fare una ricarica a uno che abita a Padova? Comincio a sentirmi prudere il naso. Dietro di me, qualcuno borbotta. Meglio non dirgli di farsi i fatti suoi: potrebbe innervosirsi e commettere qualche errore che impiegherebbe diversi minuti a rimediare. Lo so per esperienza, e lo sanno anche tutti gli altri della fila. – È un editore, – spiego, cercando di dare alla mia voce un tono convincente, – ho ordinato dei libri. – Bene, leggere è una bella cosa, – stira i baffetti ispidi sugli incisivi sporgenti. – Anche a me piace. Anzi, mi piacerebbe se ne avessi il tempo. Questo lavoro m’impegna per troppe ore al giorno, e non si decidono a mandarmi in pensione... Ecco, lo sapevo: devo sorbirmi di nuovo la tiritera della sua carriera lavorativa, e gli improperi contro la ministra che ha cambiato la legge e gli ha impedito di levarsi dalle scatole. Adesso, oltre al naso, mi prudono anche le mani. Mi trattengo a fatica dal mandarlo al diavolo e biascico una frase consolatoria, la prima ovvietà che mi viene in mente. Devo aver toccato le corde giuste, perché sembra soddisfatto e mi rivolge un mezzo sorriso. – Bene, che cifra deve versare? – Cinquantuno euro. – Eh, no! – rimbalza quasi sullo sgabello. – Non mi faccia sbagliare, signora. Devo scrivere cinquanta. Un euro è per il costo dell’operazione, ma quello è a parte. Sul bollettino vanno messi cinquanta euro. Vorrei urlare. Deglutisco e cerco di scandire bene le parole: – No, guardi, io devo proprio versare cinquantuno euro. Cinquantuno, non cinquanta.
– Ah, ma allora ne deve pagare cinquantadue, perché c’è la commissione di un euro. Cinquantuno più uno fa cinquantadue. È tutto chiaro? – Certo, se la matematica non è un’opinione... – mormoro tra me e me. – Come dice? – mi scruta sospettoso. – Nulla, nulla, va benissimo: cinquantadue euro. – Ah, ma attenzione! – alza di nuovo il tono, facendomi sobbalzare. – Me li deve dare in contanti, perché le ricariche PostePay non si possono pagare con il Bancomat. – Sì, lo so, – e appoggio sul ripiano due banconote da venti euro, una da dieci e una moneta da due. Lui le afferra e le conta tre o quattro volte. Con lentezza esasperante, stampa il bollettino e me lo porge. – Firmi qui, – mi indica, – e stia attenta a non sbagliare. Qui, su questa riga. – Se ci toglie il dito da sopra, firmo! – sbotto. Errore madornale: stringe gli occhi e scuote la testa contrariato: – Non sono in vena di battute ironiche, signora. Io sono qui per lavorare, cosa crede? Vorrei piangere. Respiro profondamente: – Mi scusi, non era mia intenzione... ecco, ho firmato. – Bene, arrivederci, – mi congeda brusco. – Avanti un altro. Raccolgo i miei fogli più in fretta che posso, lo saluto e giro sui tacchi. Mentre percorro i pochi metri che mi separano dalla libertà, incrocio gli sguardi degli altri clienti e leggo rabbia, disperazione, rassegnazione, perfino paura. – Buon per lei che ce l’ha fatta... – mi sussurra una vecchina. – Coraggio, – le sorrido, – vedrà che ce la farà anche lei. Auguri... E scappo fuori, a respirare un po’ d’aria fresca.
So bene quanto ho peccato
Anna: – No, dai, la Nutella lasciala sullo scaffale. Tira via quella mano. Rita: – Ma sono secoli che non la mangio. Quasi non ricordo che sapore abbia. Guarda, prendo questo, il bicchiere più piccolo: ce n’è davvero poca. Poi, un bicchiere in più fa sempre comodo. Anna: – Che cavolo dici? Hai decine di bicchieri, che te ne fai di un altro? Non inventare scuse puerili. Lo sai che quella roba è una bomba calorica. Rita: – Alla linea ormai ci ho rinunciato da secoli. E dai, lasciamela comprare. Anna: – Se non ti preoccupi della linea (ma dovresti), pensa almeno alla tua gastrite: il medico te l’ha proibita, mi sembra. Rita: – Oh, beh, se è per quello, mi ha proibito quasi tutte le cose che mi piacciono, compresi il caffè e le sigarette. Me ne frego, tanto assumo i gastroprotettori. Anna: – E secondo te, questa sarebbe la soluzione? Elimini i sintomi per ignorare la causa, brava! Rita:
– Uffa, sei davvero noiosa. Non ti ci porto più a fare la spesa con me. Anna: – Come fai a non portarmi con te, dal momento che siamo la stessa persona? Rita: – Appunto, siamo la stessa persona, e tu sei soltanto il primo dei miei due nomi, non il Grillo Parlante di Pinocchio. Quindi, non rompere e stattene un po’ zitta. Prendo la Nutella e anche questa confettura di castagne alla vaniglia, che sbavo solo a leggere l’etichetta. Anna: – Fai un po’ come ti pare, ma almeno limitati a pensare, invece di parlare a voce alta. Ci stanno osservando: mi fai sempre vergognare.
Mi guardo intorno: in effetti, una vecchina mi fissa a bocca aperta. Capita spesso quando, in pubblico, mi metto a litigare con me stessa borbottando e gesticolando. Di solito faccio finta di nulla e tiro dritto per la mia strada, ma oggi ho trascorso una giornata terrificante al lavoro e ho voglia di cazzeggiare. Come diceva il Perozzi di Amici miei? “Cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. L’idea che mi frulla nella testa è troppo allettante: non posso sprecarla, con buona pace della vecchina che non si fa i cavoli suoi. Le rivolgo un sorriso radioso: – Ha bisogno di qualcosa, signora? No, perché mi sta guardando da un po’. – Oh, mi scusi, – balbetta lei, – ma parlava da sola. Temevo che si sentisse male... – Non parlavo da sola, signora, bensì con Anna, la mia sorella gemella.
– Sua sorella? – sbarra gli occhi, – Ma io non vedo nessun altro, oltre noi due. – Certo, lei non può vederla: mia sorella è morta da dieci anni. Eravamo gemelle, identiche d’aspetto ma con caratteri opposti: lei giudiziosa e io scapestrata. Per tutta la vita mi ha rotto le scatole con i suoi consigli e i suoi rimproveri e, quando è morta, anziché andarsene all’inferno ha preferito rimanere al mio fianco per continuare a tormentarmi. Si figuri che un attimo fa voleva impedirmi di comprare la Nutella. Ma dico: sei morta? Allora riposa in pace e lascia in pace anche me. Lo so da sola quanto ho peccato, non c’è bisogno che tu me lo ricordi ogni cinque secondi. Ho ragione o no, cara signora? – Certo... – ansima la poveretta, bianca come un cencio, – mi scusi, ma ora devo proprio andare. – Vada, vada, – le concedo, – e tanti saluti anche da parte di mia sorella. Dice che presto vi conoscerete e potrete farvi compagnia. La vecchina traballa e si aggrappa al carrello per non cadere. Si allontana con o malfermo. Sono sicura che in cuor suo sta facendo gli scongiuri.
Anna: – Quanto sarai stronza? L’hai fatta morire di paura, quella disgraziata. Rita: – Ma dai, non fare la solita scassacazzi. Ben le sta: così smetterà di ficcare il naso in faccende che non la riguardano. Anna: – E se lo racconta a qualcuno? Rita: – Se anche lo fe, la prenderebbero per una pazza visionaria, vista l’età. Anna:
– Tu non ci stai tanto con la testa, cara mia. Dovresti farti curare, ma da uno bravo... Rita: – Che scoperta, questo lo sanno anche i muri. Dai, adesso andiamo a casa, che non vedo l’ora di mangiare un po’ di Nutella. La cioccolata è meglio di qualsiasi psichiatra, e costa anche molto meno.
Non ci ho mai tenuto tanto al mangiare. Lo so che tanta gente va pazza per il cibo. A me invece il cibo mi annoia. Il liquido mi va giù bene, le cose solide mi si impongono.
Tutti gli anni buttati via
– Signora, le piace il mio nuovo tattoo? Sollevo gli occhi dalla rivista di gossip e li poso sull’avambraccio della ragazza. Chiamando a raccolta le mie rimembranze di latino, decifro le gotiche incisioni d’inchiostro nero. – Bello, sì, però forse avrebbe dovuto farselo tatuare in tedesco, – obietto. – In tedesco? – sgrana gli occhi, – E perché mai? Per la miliardesima volta, mi pento di non essermi morsa la lingua in tempo. Adesso dovrò dare spiegazioni e, soprattutto, mi toccherà fare conversazione con un’estranea dalla quale mi divide un abisso generazionale. – Perché la frase originale era in tedesco, essendo un aforisma di Nietzsche, – spiego, con voce piana. – Nicce? E chi sarebbe? Mai sentito nominare... – Un filosofo piuttosto famoso, ma non ha importanza, – mi schermisco, – se a lei piace la traduzione in latino, va bene così. Le gote della ragazza s’infiammano più dello shatush rosso fuoco che la parrucchiera le sta pettinando. Mi rivolge un’occhiata velenosa. – Eh, no, signora, – ribatte piccata, – lei si sbaglia. La frase è una citazione di un poeta latino, non ricordo chi... forse Catullo. “Povero Catullo,” penso, “figuriamoci se avrebbe mai scritto o soltanto pensato una frase simile”. – Se ne è convinta, sarà senz’altro così, – rispondo, con tono conciliante. – Certo che sì, me l’ha detto il mio tatuatore di fiducia, e lui se ne intende di frasi famose, – gongola soddisfatta.
Ah, beh, se gliel’ha detto il tatuatore... Mi verrebbe voglia di domandarle a cosa cavolo le servano lo smartphone, il tablet e tutte le diavolerie tecnologiche, oltre che a messaggiare su WhatsApp e giocare a Candy Crush Saga, e se abbia mai sentito nominare Google, Wikipedia e compagnia bella. Stavolta riesco a mordermela, la lingua, e abbasso gli occhi sulla rivista, sperando che la cosa finisca lì. La ragazza, convinta di avere vinto la partita, vuole darmi la stoccata finale. – E pensare che voi “vecchi” avete ato anni e anni sui libri a studiare. Bel risultato! Mi sento prudere le mani. La parrucchiera, con la quale siamo coetanee e amiche da vent’anni, mi getta uno sguardo che mi fa scoppiare in una risata. – Ma sì, – ammetto, – hai ragione tu: quanti anni buttati via! Was mich nicht umbringt, macht mich stärker, cioè ciò che non mi uccide mi fortifica: che colossale cazzata. Chissà perché ho avuto la presunzione di farne il leitmotiv della mia vita, e senza nemmeno sospettare che fosse di Catullo.
Una torrida giornata d’agosto
L’auto che si ferma senza volerne sapere di ripartire e nessuno che i, nemmeno per sbaglio, da quella strada di campagna. Deve farsela a piedi: cinque chilometri per arrivare al paese. S’incammina maledicendo il casolare isolato che sarebbe dovuto essere un romantico nido d’amore, e nel quale adesso si ritrova a covare solo amarezza e risentimento. L’idea non era stata sua, ma del bastardo che l’aveva convinta a seguirlo in campagna in nome dell’amore eterno, per svignarsela dopo appena due mesi, esaurito, a suo dire, dal canto degli uccelli e dalle zanzare. In realtà, stando ai pettegolezzi delle solite amiche pietose, perché aveva perso la bussola per un’altra. Bah... inutile starci ancora a rimuginare sopra, specialmente con quel caldo che scioglie perfino i pensieri. C’è un sole che nemmeno ai tropici, per il viottolo polveroso non a un cane e i tacchi, certo, non aiutano. – Ehi, vuoi un aggio? La voce squillante la fa sussultare. Una bicicletta frena subito dopo averla superata. Il ciclista è un figo da paura e la canna del mezzo sembra robusta. Forse non tutto il male vien per nuocere.
Appunti sulla peste
Comincio a pensare che avessero ragione i “bravi”, e solo adesso si svela l’arcano del “latinorum” del mio vecchio e pavido curato: questo matrimonio non s’ha da fare. Se ripenso a tutte le peripezie, gli affanni e i pericoli nei quali sono incorso per ritrovare la mia sposa promessa, non posso che darmi mentalmente dell’idiota. Ho perfino rubato la camla a un monatto per entrare nel lazzaretto, sfidando lo spettro della pestilenza nella speranza di ritrovarla viva e in salute e poter coronare finalmente quello che, credevo, fosse un sogno da lei condiviso. E adesso che quel delinquente di Rodrigo ha tirato le cuoia e tutto sembrava volgere al lieto fine, questa stupidella mi dice, con lo sguardo basso, che ha fatto un voto e non possiamo più sposarci... Ma quanto deve sopportare un uomo, perdìo? Stavolta mi sono stufato davvero: o, mollo, m’involo verso lidi più accoglienti. Eh sì, cara Lucia, pensi forse di avercela solo tu? Filo via alla svelta da questo museo degli orrori, mi fermo all’osteria, prendo una sbronza con i fiocchi e mi faccio la prima fantesca che capita a tiro. Parola di Renzo Tramaglino, l’ex fesso numero uno del Lago di Como!
Ringraziamenti
a Henry Charles Bukowski, per essermi indegnamente appropriata dei titoli delle sue opere e di alcuni suoi aforismi;
A Stefania Buscaglia, curatrice della sezione microletteratura e social network del Premio Letterario Antonio Fogazzaro 2014, dedicata quest’anno a Bukowski e al suo romanzo Post Office;
a Fabio Nocentini, mio mentore, editor e impaginatore, nonché caro amico;
a Diego Luci, scrittore, illustratore e fotografo, per aver creato la copertina;
a mia sorella Rossana, lettrice e ammiratrice numero uno, scusandomi per averla presa un po’ in giro;
al suino Danie’, che esiste davvero e al quale auguro lunga vita.
Referenze fotografiche
La prima e la quarta di copertina e la foto a p. 99 sono di Diego Luci (www.diegoluci.it); tutte le altre immagini sono state realizzate dall’autrice, la quale si è servita del sito web WriteComics.com per creare le vignette.
Alla fine non ci rimane che questa vita stupida, appesa a un filo, sorniona, che si prende gioco delle nostre insicurezze e dei timori che ci pervadono. L’unico atto che possiamo compiere è di amarla di un amore smisurato.
“DON’T TRY”