Non So Nulla Dell'amore 622e1d

Alessandro Ippolito

Non so nulla dell'amore

Battitore libero

Titolo originale: "Non so nulla dell'amore" © 2014 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea ottobre 2014 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-556-8 I edizione e-book novembre 2014 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-591-9 www.giovaneholden.it [email protected]

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UUID: 9788863965919

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Indice

I II III Ringraziamenti

L'Autore

Il destino sa quali strade far incontrare, come e quando; io ci credo o dolce musa e il tuo affanno non fu mai vano come le tue parole soffiate alla mia anima. Lo scopo infine si svela ed è grande perché grande fu l’ispirazione in ogni parola detta: una per ogni momento di gioia, per ogni momento di dolore, per ogni pensiero, per ogni bacio, per ogni carezza, per ogni sogno, per ogni stella e per ogni nuovo giorno. Dove guarderà l’orizzonte dei tuoi occhi? Canta sempre per me, non smettere mai.

I

No… La mia mente lo pensa con un boato così cupo e pesante da assordarmi; rimbomba dalla base del pavimento in moquette fino alle orecchie, la testa risuona di questa nota ottusa, il cuore è fermo, le ginocchia hanno ceduto. Seduto a terra, appoggiato alla parete di fronte al piccolo schermo, rimbecillito da un uppercut devastante: un miliardo di pensieri, così tanti da impedirmi di capire, perché. L’unico suono che sento nell’aria, forse pronunciato dalla mia bocca; è tutto beffardamente grottesco, distante. Continuo a guardare e continua l’eco di quel suono, ancora e ancora e ancora. Mi stendo sul letto e le immagini continuano, Dio non ce la faccio a guardare. Telefono. Sì, Amedeo saprà cosa dirmi, ha poche idee chiare e nette lui, una quercia, una montagna: ci vuole uno così a ricomporre un mondo appena polverizzato. Riesco appena a sporgermi a destra per afferrare il portatile, una sensazione di stordimento mi ha tolto la sensibilità al corpo: non sta succedendo a me. “Pronto, Amedeo sono io.” Il mio amico è uno così, con una solidità morale ben radicata da un imprinting famigliare medio-borghese, ha fatto le scelte giuste nella vita e continua sulla stessa strada; si potrebbe pensare a un tipo noioso ma non lo è, sa stare in mezzo alle persone e i suoi vivaci occhi celesti suggeriscono una certa esperienza del mondo celata da una elegante riservatezza, perfettamente en pendant con la precoce canizie argentea. Gli amici di cui si circonda devono aderire alle caratteristiche di uno status professionale alto e una morale di precisione nei rapporti interpersonali, allegri ma mai fuori dalle righe, insomma dei gentlemen come si dice qui, e soprattutto in terra straniera ritiene questi requisiti fondamentali: è una cerchia ristretta la nostra.

Eppure fu lui a farmi entrare in questo circolo esclusivo, io che ho poco a che spartire con questi manager d’assalto. Loro sono stati trasferiti all’estero da multinazionali italiane, per affidabilità e conoscenze. Con stipendi favolosi e benefit inclusivi di appartamenti ai piani alti dei grattacieli in centro, auto, assicurazioni mediche inattaccabili e viaggi premio; dotati di un pedigree di lauree illustri e famiglie influenti hanno un futuro tranquillo già in tasca. Ci conoscemmo dove lavoro, una boutique di lusso in centro nella quale avevo raggiunto la posizione di direttore con stipendio fisso dopo un paio d’anni di peripezie e un po’ di fame, spinto in questo porto di mare dalla sete di avventura e la voglia di imparare l’inglese per davvero; Amedeo entrò in cerca di un regalo per una signora che successivamente mi rivelò essere la sorella. Mi posi col consueto distacco professionale e pur avendo capito benissimo dall’accento che fosse un compaesano non mi presi la confidenza di pretenderne conferma: chiunque si sposti all’estero per lunghi periodi sa che cedendo al sentimento del paisà poi ci si ritrova invischiati in amicizie invadenti e imbarazzanti perché chi usa questi stratagemmi sono invariabilmente degli spostati che vivono di parassitismo; le metropoli ne sono zeppe. Apprezzando il mio riserbo fece lui la prima mossa presentandosi nella nostra lingua madre e raccontando un poco di sé e di cosa lo avesse portato in città. Io giunsi qui solo con la promessa di un lavoro e un contatto prezioso: un avvocato specializzato in immigrazione il quale mi fece ottenere un visto di tre anni rinnovabile. Prima che le cose si complicassero con l’attentato dell’undici settembre non era difficile ottenerne uno dimostrando volontà di fare carriera e pagando regolarmente le tasse. Questa grande città all’epoca contava pochissimi italiani in trasferta, solo professionisti: il posto non era appetibile agli avventurieri che popolano le canoniche New York, San Francisco o Los Angeles a causa del clima inclemente e della chiusura di una metropoli vecchio stampo a predominanza bianca anglosassone e protestante (W.A.S.P.), solo ora col boom economico di internet cominciava ad aprirsi a culture d’oltreoceano benché il melting pot avesse assimilato ogni tipo di etnia da lungo tempo. Così, il buon Amedeo seppe riconoscere in me un tipo adatto alle sue frequentazioni, sigillammo l’amicizia la sera stessa con l’invito da parte sua a una festa a casa del rappresentante dei professionisti italiani in città, un amico

suo che a soli trentotto anni dirigeva la filiale di una banca tra le più importanti del nostro paese. Lì conobbi tutto il gotha delle compagnie assicurative, finanziarie e commerciali nonché la moglie del nostro anfitrione, Ursula: svedese, mora, sfiorava l’uno e ottanta e nonostante due anni in più del marito, mozzafiato, affascinante nella sua altera superbia. Benché solare e cordiale, vivacissima e scherzosa le bastava uno sguardo per farti capire che non eri roba per lei, era troppo: keep out. Ne ero rimasto impressionato come qualsiasi uomo che la incontrasse e le voci la descrivevano fedelissima nell’ultradecennale relazione col marito; per cui conscio dei miei limiti e del modo in cui potessi essere visto da una donna tanto retta e intelligente non ci pensai più richiudendola nel segretè dei sogni proibiti. Eravamo comunque considerati merce rara nel panorama cittadino: col nostro bagaglio di buon gusto e le varie leggende sulle attitudini amatorie tricolori destavamo una curiosità quasi reverenziale che a me aprì la metropoli come le valve di un ostrica offrendo le sue perle più splendenti. Party a invito e bar, discoteche, concerti, sfilate ed eventi esclusivi; tutti volevano gli italiani, noi: la città era nostra, era mia! Fu proprio a un party che incontrai la causa dei miei dolori, anzi lei incontrò me.

L’invito mi fu recapitato al lavoro: la nuova boutique di un famoso stilista italiano avrebbe aperto il venerdì di quella settimana. Me lo porse Phyllys, commessa ventenne italo-americana di seconda generazione, studentessa che con lo stipendio pagava la retta astronomica dell’università; molto carina, pelle di marmo e occhi di mare incorniciati da una cascata di riccioli corvini. “Mi ci porti?” Parlava italiano con un leggero accento calabrese, ereditato dai genitori, mischiato a quello inglese; era tremendamente sexy, voleva impratichirsi con la lingua madre e io la aiutavo. “Vediamo, se l’invito è per due con molto piacere!” Le scostai i capelli dagli occhi, lei li abbassò.

“Non distogliere lo sguardo,” la rimproverai. “Per tutto il piacere che mi dai tesoro…” Non parlò oltre… Il negozio era aperto e dall’esterno nessuno l’avrebbe vista, il banco cassa era piuttosto alto. Linda, una cinquantenne bionda in forma splendida, gelosissima della sua collega più giovane, era in magazzino a smistare i nuovi arrivi; guai se ci avesse scoperti: non c’è furia più devastante di una amante tradita, soprattutto se sposata! Mi davo parecchio da fare sul lavoro e dintorni. Paula, la direttrice di Chanel all’altro angolo della strada mezza messicana e mezza polacca, la presi una sera in un cinema mentre guardavamo Lost Highway di David Lynch. La scena della Arquette in un porno mi accese la libido. Maria, romana dispersa lì dopo essere stata lasciata: un ritorno piacevole a casa di quando in quando; mi intrigava soprattutto ascoltarla questa donna tormentata e fustigata da scelte sbagliate: un ato interessante quanto il suo corpo. Jenna, commessa da Bloomingdale’s: la tipica dumb Blonde, cioè bionda e scema conosciuta a un party in una casa la quale dopo avere scolato vodka liscia come fosse acqua, diventava una invasata del sesso non mancando mai di coinvolgere l’amichetta di turno. Tutte queste belle rose coltivate nel mio giardino non mancavano certo di pungermi con qualche spina come accadde per esempio un anno prima.

Mi svegliai con un gonfiore sulla guancia destra delle dimensioni di un’albicocca e un dolore che ottundeva i sensi. Chiamai immediatamente il dentista il quale dopo avermi visitato decise di operarmi il giorno successivo per asportare un granuloma di dimensioni inusitate. Il risultato fu un bel buco tra due molari nel quale venne fissato un perno su cui pose una corona nuova pochi giorni fa; mi ballava pericolosamente in bocca, il cemento era provvisorio in modo da assicurarsi che il dente nuovo non fosse troppo alto prima di fissarlo definitivamente. Il giochino tra me e Linda funzionava così: io andavo nel magazzino situato dall’altra parte dello stabile; per raggiungerlo era necessario attraversare a piedi

l’atrio dell’hotel dove era ubicato il negozio che però si affacciava sulla Main Street, la aspettavo e lei arrivava con un pretesto di lavoro. Ci dilettavamo in amplessi focosi, non più lunghi di quindici, venti minuti altrimenti avremmo destato sospetti, ma sempre molto fantasiosi su scaffali, scalette, pavimento e bagno; andava pazza per questi dieci minuti d’amore, come le piaceva chiamarli: una scarica di adrenalina notevole e grande divertimento. Quel giorno però mi sentivo a disagio nel baciarla avendo questa sensazione di movimento nella bocca; naturalmente come ogni donna, avendo notato la mia ritrosia nel baciarla profondamente come sempre, insisteva anche di più nel violentare letteralmente il mio cavo orale con la sua lingua quando la vedo staccarsi con gli occhi spalancati. “Ho ingoiato qualcosa! Cosa diavolo era?” Sento il vuoto tra due denti e inorridisco. “Il dente! No! Hai ingoiato il mio dente!” Ero furibondo, mi era costato un patrimonio e figuriamoci se un dentista americano me ne avrebbe rifatto uno nuovo senza pagare; dovevo recuperarlo a ogni costo. “Vomita!” incalzai Linda, “ficcati due dita in gola e cerca di rimettere il dente, non posso permettermene uno nuovo!” La poverina si affrettò al lavabo del piccolo bagno del magazzino, molte volte improvvisato candido talamo, e producendo suoni inenarrabili fece del suo meglio per restituire la preziosa protesi. Si tirò su ansimando con gli occhi azzurri fuori dalle orbite, arrossati da miriadi di piccole venuzze: “Non ci riesco! Non ce la faccio! E adesso?” “Adesso,” continuai io, grave ma deciso, “adesso non resta che cercarlo tra le feci…” E lo dissi come se fosse la cosa più normale del mondo. “Tu devi essere impazzito!” inveì la signora. “Non ci penso nemmeno a rovistare nei miei escrementi come un babbuino per il tuo dente! E poi a casa mia non chiudiamo mai a chiave la porta del bagno: se mio marito entra e mi trova cosa gli dico, che sono regredita alla fase anale e giocavo alla casalinga impastando la mia popò?!”

La fissavo per concentrarmi nella ricerca di una via d’uscita. “Ci sono! Non andavi tu a fare le pulizie del colon da quella specie di Guru acchiappacitrulli che ti irrorava con quaranta galloni di liquido? Ecco, torni da lui, te ne fai fare una, e visto che quest’acqua benedetta da qualche parte dovrà uscire sicuramente troveremo la mia corona…” “Tu sei proprio scemo!” rispose sibilante di rabbia. “Lo stesso tubo che entra poi riporta fuori il liquido, va in una tanica apposita e viene smaltita come rifiuti organici: cosa gli racconto secondo te per fare la pesca miracolosa?!” Ero disarmato. Linda si risistemò alla meglio e uscì sbattendo la pesante porta del magazzino senza nemmeno guardarmi, rimasi lì ancora concentrato in cerca di possibili soluzioni e con il pensiero del migliaio di dollari che volavano via. Il giorno dopo la bella sposa evitava in ogni modo il mio sguardo implorante, cercai di accarezzarla fugacemente quando ci incrociavamo durante le vendite ma niente: mi scansava come un’anguilla. Tornai in magazzino ma stavolta per sistemare veramente della merce appena consegnata, ero tutto indaffarato a carponi cercando di riordinare le centinaia di maglie quando si aprì la porta improvvisamente e la mia amante mi gettò in faccia un sacchetto di nylon trasparente per alimenti del quale è facile immaginare il contenuto. “Visto che adori seminarci lì, ora godine anche i frutti… più di così non posso fare, buona pesca!” Mi ci vollero quattro giorni con altrettanti sacchetti. L’odore mi rimase talmente incollato nel naso che non riuscivo più nemmeno a mangiare, casomai tentassi di farlo rimettevo ogni cosa; perfino avvicinarmi a Linda mi fu difficile per un lungo periodo, per eccesso di profondità nei rapporti. Ero sfinito ma riavevo tutti i miei denti, di certo per un po’ mi fece un certo effetto poco piacevole ricordarne la provenienza. Allora, pensavo che l’amore fosse intimità e condivisione.

E poi, e poi altri nomi altre storie più o meno rocambolesche; il sesso fa questo effetto a un maschio di trent’anni: più ne fai e più ne faresti, non contento nelle pause ero diventato un assiduo conoscitore di video pornografici dai vari canali a pagamento, insomma un libidinoso ossessionato dal corpo femminile! Eppure, credeteci o no, diversamente da quasi tutti i maschi nella pornografia cercavo il lato estetico, una sorta di romanticismo visivo: l’eccitazione aveva bisogno di un contesto, ambientazione e credibilità; non quelle cose dove interminabili primi piani andro-ginecologici mi facevano poi sbadigliare immancabilmente, ma piuttosto vedere poco e bello. Le donne all’epoca erano rigorosamente bionde e vestite bene e non doveva mancare assolutamente un minimo di introduzione all’amplesso, un racconto degli aventi che vi avevano condotto: ero molto esigente in proposito! Mi ricordo di quando prestavo servizio nella Marina Militare, la mia nave faceva lunghi periodi in mare toccando porti esteri, avevo vent’anni e avo la navigazione di guardia da solo in uno stanzino, quattro ore sveglio e quattro a dormire per due giorni di fila, poi un giorno di riposo e di nuovo il turno fino a termine traversata. In un porto straniero comprai una rivista americana per adulti che recensiva le ultime novità hard in VHS con critiche autorevoli e reportage che raramente mostravano penetrazioni, ma in compenso bellissime attrici e una splendida fotografia. La mia guardia consisteva nello stare in questa saletta denominata A.S.C. (accettazione, smistamento, controllo) dove ricevevo messaggi che mi venivano consegnati dagli operatori della sala radio, dovevo registrarli e portarli all’ufficiale di guardia in plancia di comando il quale li leggeva, vidimava e riconsegnava perché io li archiviassi. La A.S.C., come tutti i locali della zona operativa, era tenuta costantemente a tredici gradi dai condizionatori per mantenere efficienti i macchinari, di conseguenza pure in agosto indossavamo tutti i giacconi imbottiti della Marina. La noia era angosciante soprattutto perché ero solo, così una sera tirai fuori il mio nuovo giornaletto e dopo un paio di pagine cominciai a masturbarmi, ovviamente. Andavo che era una meraviglia: me le stavo facendo tutte in tutte le posizioni e

non vi dico quanto piaceva anche a loro, quando il sottufficiale d’ispezione, quella notte il fotografo di bordo, aprì la porta improvvisamente e in un istante nel quale tempo e spazio sembrarono espandersi e contrarsi di nuovo tra la proiezione mentale di gesti rapidissimi nel ricompormi e la realizzazione di una effettiva paralisi da imbarazzo… mi sorprese con l’arnese in mano. Come descrivere l’incrocio di sguardi e la vergogna? Fu probabilmente tanta quella che il capo lesse sul mio viso, insieme alla scaletta di colori lampeggiante come uno stroboscopio che garbatamente, come era modo suo, mi sfilò con lentezza la rivista dalle dita e cominciò a sfogliarla con interesse come se nulla fosse accaduto. Poi mi guardò inespressivo e commentò atono: “Però!, devo riconoscerle un certo gusto, pubblicazione di classe…s equestrata”. Si girò verso la porta riaprendola quindi si voltò: “Buona guardia”. Quando fu sulla soglia si voltò di nuovo: “E…” guardando i pantaloni, “riposo, marinaio!” Uscì.

Amedeo, al quale naturalmente avevo raccontato la storia, era divertito da questo mio lato quasi infantile: come un lucignolo nel paese dei balocchi non perdevo occasione per cimentarmi nel prossimo gioco, cercavo l’amore come si cerca un oggetto nelle tasche: riconoscendolo al tatto, a volte indispettito perché mi capitava in mano quello di cui non avevo bisogno, ma conoscevo il contenuto delle mie saccocce. Ero perennemente alticcio ma mai sbronzo o imbarazzante avevo un ingenuità di fondo nei miei intenti che lui approvava e invidiava a volte, ma la sua ricerca era differente. Come tutte le cose della sua vita anche l’amore doveva essere morigerato e nobile; per carità, del buon sesso selvaggio con una bella donna piaceva anche a lui senza mancare di condividerne le fantasie con lo spirito goliardico del buon commilitone, ma la sua ricerca mirava all’edificazione di una famiglia con una moglie americana. Quella della moglie inglese, americana o svedese era una fantasia diffusa dei ragazzi prodotti negli anni Sessanta, Settanta: era simbolo di spirito cosmopolita, appannaggio di rari ricchi eletti, in un paese di piccole arretrate provincie geografiche e mentali e una generazione che aveva percepito un mondo che

iniziava ad aprirsi, mostrato dal cinema nonché dai vari idoli delle cronache mondane dei tempi. Era una pecca in lui, questa: metteva a nudo una debolezza dalla quale cercavo di difendermi a tutti i costi col mio agire trasgressivo, cioè che questa rettitudine fosse figlia di una chiusura mentale rassicurante e inattaccabile piuttosto che non una rischiosa e vivace curiosità spinta da una intelligenza attiva. A confermare questo mio dubbio fu una chiacchierata tra amici: per primo lo stupore che lui avesse bisogno di confidarsi con me e di trovarlo così a nudo. Frequentava assiduamente una ragazza di origini irlandesi, cioè cattolica come noi, carina dall’aspetto pulito di un candore che oramai ritenevo scomparso specialmente qui, a Babilonia. Formavano una coppia serena, bella a vedersi. A so sulle rive del lago in una bella giornata mi confessò: “Sai sto molto bene con Nancy, penso che le chiederò di sposarmi”. Risposi sinceramente contento: “Bene Amedeo, sono felice è una bella notizia, a me lei piace molto, sai?, la trovo una ragazza deliziosa che di meglio non avresti potuto trovare!” Il mio entusiasmo era sincero, ma lui era serio. Continuò: “Vedi, il fatto è che, sì hai ragione è bella, seria, dolcissima e vorrei che fosse la madre dei miei figli…” Fece una pausa e riprese con un leggero imbarazzo, la voce gli era scesa di un tono. “A letto…” Altra pausa e un sospiro che finì in: “a letto è come se fosse una bambina, vive il sesso con un innocenza quasi irritante e ci provo con lei, ma non so come fare…” Puntò i suoi occhi d’acciaio nei miei, supplichevole e leggermente arrossato sulle gote. Io, inorgoglito dalla lusinghiera richiesta di avviso da uno che consideravo superiore a me per dirittura morale, anche da un po’ di soggezione dalla sua provenienza sociale e carica professionale mi schiarii la gola e dissi quello che pensavo: “Sai Amedeo… hai mai provato a dirglielo?, cioè hai mai pensato di parlarne? L’intesa sessuale in un matrimonio credo sia il cinquanta percento e sarebbe un vero peccato… tu hai certamente il modo e la delicatezza giusta per farlo”. Mi riguardò stupito. “Certo, grazie! Sai… non ci avevo pensato. Ma sì è la cosa più giusta da fare!, di tutte le doti che ti attribuisco quella dello psicologo è una sorpresa in molti sensi… grazie ancora!”

Da quel giorno fui quasi un fratello per lui, ma torniamo al party.

Ci demmo appuntamento a un ristorante e lounge franco-vietnamita celebre per gli stuzzicanti hors d’oeuvre con fantasiosi Martini; le cameriere, tutte more e lisce di capelli erano vestite con giacche lunghe rosse alla coreana con una fila di bottoni laccati, le Kenzie posizionate ovunque e gli arredi in bambù davano una suggestiva atmosfera orientale. Toni, l’architetto, altro naufrago del gruppo acquisito ultimamente, si presentava allungando il braccio con le dita aperte come a invitarti in un amichevole largo abbraccio, col suo metro e novantasei poteva mettere una certa soggezione, subito però due occhi castani buoni e sorridenti ti mettevano a tuo agio. Ci eravamo intesi a prima vista e instaurato una complice amicizia, parlava poco con una cadenza romanesca lenta e scandita ma ci bastava scambiarci uno sguardo per capirci. Era approdato su queste rive seguendo una donna del posto conosciuta in patria e instaurandoci una relazione della quale non gli rimase nulla se non l’attrazione per la città; lo conobbi tramite Maria la tormentata: questa vinse la lotteria per la residenza e sposò Toni perché la acquisisse di diritto, naturalmente il matrimonio era fasullo, forse i due lo avevano anche consumato ma a oggi erano solo ottimi amici. Leggermente alticci ci incamminammo verso la festa che si svolgeva solo un blocco più a sud: il negozio, su due piani a vista aveva il bar di sopra raggiungibile con una larga scala di cristallo, gli arredi minimalisti e curatissimi davano al vasto ambiente una sensazione di ancora più grande spazio. Appena dentro incontrammo un giovane bellimbusto collega di Amedeo, romano pure lui, assieme a un milanese con la cittadinanza che aveva studiato a West Point. Ragazzo garbato, colto e dai modi affascinanti mostrava in ogni gesto la sua educazione militare e la provenienza da uno strato sociale alto, viveva in un loft da favola appena fuori dal centro e lavorava come consulente legale per un grosso gruppo finanziario, non aveva molta fortuna con le donne a causa di un aspetto piuttosto banale, non brutto ma scialbo. Toni e io prendemmo prontamente posizione sugli sgabelli e ordinammo vodka and a splash of roses, attacco duro. Una biondina formosa e giovanissima cercava di attirare la nostra attenzione da un tavolino di fronte al nostro, non mi

ci voleva molto ad attaccare bottone: appena mi presentavo con l’accento straniero avevo già saltato due fasi dell’approccio, sembrava che fosse il flauto magico qui, un richiamo, lo si notava dalla curiosità guizzante nei loro occhi, e la curiosità si sa è femmina… La invitai a sedersi al banco bar in mezzo a noi e lei non si fece pregare, con me alla destra e Toni alla sinistra cinguettava simpaticamente chiedendoci di noi e raccontando del suo lavoro nella biglietteria di un famoso teatro, degli attori e attrici famosi conosciuti e bla bla bla. Mentre la ascoltavo facevo scivolare la mano sinistra giù per la schiena, a ogni mezza dozzina di centimetri guadagnati lei non opponeva resistenza, anzi pareva che la cosa non stesse accadendo! Raggiunsi velocemente il varco offerto dal cinturino dei jeans scostato dalla schiena e accarezzai il solco di pesca; nessuna reazione. Continuai lieve e in breve avevo il dito medio nel suo pertugio, naturalmente la conversazione non accennava a interrompersi: ragazza di classe, pensai. Così, mentre lei incurante dell’indice che aveva raggiunto il suo compagno, continuava a gorgheggiare amabilmente ebbi un pensiero… mi sporsi in avanti per guardare Toni che per tutta risposta sornione disse sorridendo: “Andove ce l’hai ’r dito?” Nonostante il dialetto italiano la tipetta capì e ci sorrise, decisi che l’assedio iniziato su due fronti, considerata l’esigua resistenza, dovesse concludersi in una presa della fortezza: ci seguì nei bagni degli uomini dove mi colpirono le bilie di vetro colorate dentro gli orinatoi, le porte di vetro satinate che cambiavano di tono una volta chiuse e pensai ai teatrini delle ombre cinesi. I nostri amici attendevano al tavolino con le amiche rimaste sedute, un fuoco incrociato di maschili sguardi d’intesa e risa soffocate fece decollare la serata iniziata coi migliori auspici. Mi sentii afferrare un polso. La mano apparteneva a una biondona accomodata al tavolo accanto, si rivolse a me chiamandomi Andrea. “Mi spiace, ma non sono io,” risposi. Si alzò… e continuava ad alzarsi, ancora, svolgendosi verso l’alto come se non

dovesse finire mai, le lunghe gambe magre interrotte da una minigonna sovrastate da un top che rivelava seni abbondanti, i capelli lisci, lunghissimi e quegli occhi fissi nei miei. Decisi, sicuri. Rimasi un millesimo di secondo interdetto quindi mi alzai anch’io e lei mi strinse la mano delicatamente. “Il mio nome è Amy, piacere di conoscerti…” Le dissi il mio: “Il piacere è mio Amy, direi che è una grande fortuna assomigliare ad Andrea”. Mi guardò come a soppesarmi con un’ombra di malizia che diceva ti faccio vedere io, furbetto. “Sì hai ragione, mi dispiace non è così che approccio le persone di solito ma tu veramente gli assomigli… sei solo più carino.” Sorrise. “E tu sei veramente bellissima, complimenti…” Proseguii la conversazione con i consueti scambi di informazioni infiorati da battute leggere nell’intento di approfondire la conoscenza. Disse di essere originaria del Tennessee, precisamente di Memphis, trasferita qui da un paio di anni per lavoro. Mentre ascoltavo guardando ipnotizzato quelle iridi luminose, sentii una stretta all’esofago: quella sensazione di una intesa immediata, fulminea, la smania di baciarla lì dove mi trovavo. Avevo abbastanza esperienza per leggere le stesse sensazioni in lei, la volevo prepotentemente! Le sue amiche la richiamarono all’ordine e ai miei ciondolavano le mascelle, prese velocemente nella borsetta un biglietto da visita e una penna, vi scrisse il numero di telefono e disse: “Chiamami”. “Lo farò, grazie a domani.” Si girò flessuosa rivelando un fisico da modella ma non ne aveva le movenze tipiche, avrebbe potuto esserla benissimo per la prestanza fisica; guardai il biglietto e non diceva niente della professione ma solo nome e cognome: Amy Lynn.

Quante volte poi ho rivissuto questo incontro… anche adesso, con l’anima in cocci come un bicchiere rotto: rumore di vetri nella testa e schegge taglienti negli occhi; eppure non ho niente di cui rimproverarmi, chi e come avrebbe potuto sapere? Con lo spirito del trionfatore fumai una sigaretta ad ampie boccate, gustandola come assaporavo il trionfo che mi gonfiava il petto; sentivo l’aria calda della città di notte col suo brusìo allegro, le voci femminili dall’interno del locale. Appoggiato negligentemente all’angolo opposto della strada guardavo l’andirivieni degli invitati, trovavo interessante osservare i volti delle donne che uscivano: quante storie sui loro volti, nei loro occhi; sì, vivono un mondo diverso, colorato. C’erano tutte: la delusa che non aveva incontrato chi cercava o la stravolta dal litigio col ragazzo, quella felice di un incontro e gli occhi luccicanti di promesse; la rampante soddisfatta nella sua vanità che attizzava sulla graticola i pretendenti; la addolorata, tronfia nello schermire con battute sagaci chi si avvicinava; quella meno carina, vigile, speranzosa di incontrare uno sguardo per lei, solo per lei; la bella senz’anima; la compagnona apparentemente disinteressata con le sue risate sonore. Gli uomini non sono così: nella loro lineare concretezza sfiorano la banalità spesso impauriti o schiacciati dai ruoli che gli vengono cuciti addosso; in fondo hanno sempre lo stesso scopo e salvo qualche caso raro, aspettativa. Sarà una di queste farfalle a farli volare scoprendo il profumo dei fiori e i colori degli arcobaleni trasformandoli in condottieri, poeti o asceti. ò accanto a me una silhouette snella sulla quale un vestitino di seta verde in fantasia floreale si appoggiava delicatamente seguendo le correnti d’aria agitate dal brulicare umano; era seguita da un visino simpatico e carino con l’espressione vispa, tutta vestita di bianco. Ci guardammo tra compari, mi fecero capire che era giunto il loro momento: sarebbe stata un’azione coordinata, con me in testa. Ebbro della sicurezza del vincitore mi spinsi verso il vestitino verde e una giovane bellissima ragazza lo indossava, carnato olivastro e profondi occhi neri. Avrebbe potuto essere spagnola o una italiana del sud, le perle nella sua bocca biancheggiarono nel buio in un sorriso cordiale quando mi vide arrivare lanciato. “Mia dolce principessa questa notte si fa magica dei fiori neri del suo abito e di

una eleganza raffinata, rapito dal suo profumo in questa tiepida oscurità non riuscirei a dormire se mi trattenessi dal dirglielo… perché lei deve sapere che ha reso il mondo più bello entrando qui!” E le afferrai la mano leggera mimando un bacio senza toccare la pelle, guardandola dritta negli occhi… mi presentai e prontamente giunsero gli alfieri: fate il vostro gioco messieurs, pensai divertito. Il bellimbusto romano si buttò su quella in bianco, fisico minuto, morbido, ben fasciato da pantaloni e top aderenti, ma la vera delizia fu notare dei deliziosi piedini ben curati in un sandalino a fascia rosa tenue: come faranno mai le femmine a pensare che non siamo romantici? Dopotutto queste sottili armi ci irretiscono facendoci innamorare per un momento, starà poi a loro perdurare l’incanto. Eravamo allegri e piacevoli, mai sgarbati o volgari, le due signorine apprezzavano la nostra conversazione. s, così si chiamava la mia nuova amica, aveva dei problemi con il lavoro dovuti a lunghi spostamenti come pendolare e non riusciva a ottenere una promozione o almeno qualche incentivo per sostenere le spese, fui prodigo di buoni consigli. Il mio scudiero riuscì a farsi dare il numero di telefono dalla piccolina, era un bel ragazzo per questo non ha mai avuto trovate barricate invalicabili; Io avevo deciso di dare alla preda una tregua di qualche secondo sorseggiando il drink quando mi accorsi che un tizio aveva catturato l’attenzione di s: non riuscivo a capire di cosa parlasse ma sembrava avere ottenuto prepotentemente la sua attenzione. Non mi piaceva il personaggio, aveva un modo troppo studiato di muoversi e atteggiarsi mentre parlava Dio solo sa di cosa; a un certo punto uscì fuori dal locale e gli lessi sulle labbra un allora vieni o no? molto chiaramente. Lei uscì di fretta farfugliando un torno subito lasciando un po’ sorpresi sia noi che la sua amica, girai la testa verso Amedeo e gli dissi in tono ironico: “Ci crederesti?, me l’hanno soffiata sotto il naso!” “Because you’re sleeping,” mi rispose, ma non mi infastidì l’osservazione: le medaglie sul petto dell’inizio serata brillavano fulgide sul mio petto e gli occhi di Amy ancora di fronte a me. Chiesi chiarimenti all’amica la quale scrollò le spalle indovinando l’ipotesi di una probabile proposta di lavoro, ma non sembrava troppo convinta…

Ritornò improvvisamente col o veloce s, tutta allegra e vivace! …Un poco troppo. Non chiedemmo nulla, le lasciammo parlottare tra loro; con la coda dell’occhio vidi il tizio allontanarsi. Decisi di terminare la serata, cominciavo a sentirmi stanco e brillo, per cui tirai a concludere: “Vi saluto ragazze, è stato un vero piacere ma non sarei un gentiluomo autentico se non ti chiedessi il numero di telefono, s”. “Fatti dare quello della mia amica,” disse in tono scherzoso. “Beh, vedi…” risposi suadente, “lo ha già dato a Stefano e non mi sembra corretto nei confronti di entrambi pretenderlo anch’io, per cui se vorrà me lo darà lei come farai tu se vorrai e ti assicuro che comunque non sarà un problema se non vorrai.” La ragazza rimase visibilmente colpita dal mio discorsetto. “Sarebbe un piacere ogni sera conoscere persone squisite e gentili come te,” continuò, “non hai idea in quali razze di persone schifose ci imbattiamo continuamente!” “Questo mi spiace,” risposi più fermo nel tono, “so quanto quel genere di persone affollino questi locali. Ma non mi sento di essere troppo severo nel giudizio: in fondo c’è chi farebbe di tutto per un tiro di coca.” Sganciai l’ultima parte della frase in modo così calmo e naturale che le ragazze rimasero impietrite, incapaci di frasare alcunché. Feci il baciamano, con un gesto di intesa chiamai a raccolta i miei soldati e ce ne andammo. …Un universo caleidoscopico quello animato da queste adorabili, fragili e spietate creature: più variopinto, poetico e crudele; favolose illusioni contrapposte a schiaccianti realtà sulle quali galleggiano leggere o sprofondandovi inesorabilmente, sempre adornate di quella squisita teatralità ad hoc; sante e puttane, virago e madri, streghe e angeli, tutto fuso insieme; e ne sono stato sempre inebriato, incoscientemente. Il giorno dopo chiamai Amy.

Di solito per esperienza queste tipe decise, spinte quasi sempre dall’ebbrezza fanno trapelare una sottile nota di pentimento nella voce quando le richiami ma lei no: allegra e gentile mi suggerì di incontrarci con una sua amica (buona regola precauzionale in una grande città al primo appuntamento) a un bar che non conoscevo; mi imbarcai su un taxi e mi diressi all’indirizzo. Era fantasmagorico! Le dimensioni erano quelle di un hangar pur essendo in centro, dal soffitto pendevano sagome stilizzate in legno di aerei, a destra un banco bar di una lunghezza inusitata con uno stuolo di ragazzi indaffarati coi bicchieri e pistole per la soda: nel centro la sala scendeva di due gradoni per tutto il perimetro quadrato e i tavoli erano disposti a distanza di cortesia; tutto intorno a livello dell’ingresso tavoli con sedute a divano e cameriere bellissime, con abiti leggeri su pattini in linea per coprire le distanze in breve tempo. Bello! La vidi subito, non ava inosservata, la sua amica piccola ma molto carina coi capelli castano chiaro e un caschetto ben curato, un vezzoso nasino e occhi verdi. Erano assediate da un paio di energumeni palestrati pettinati in modo curiosamente elaborato, mi scorsero anche loro un po’ imbarazzate di essersi fatte trovare durante un arrembaggio in piena regola, ma il saluto entusiasta di Amy e dell’amica scoraggiarono la carica dei due. La serata scorse piacevolmente in una frizzante conversazione. Quando ero leggermente brillo davo il meglio: amabile e di battuta riuscivo a intrattenere platee intere senza far accorgere a nessuno dell’influsso del liquore, in effetti reggevo numerosi bicchieri senza vacillare, mi colpì anche la quantità bevuta dalla mia preda o mia cacciatrice… Non abitava lontano da me, la strada era la stessa in taxi per cui lo dividemmo divorandoci di baci, quando il guidatore cominciò a rallentare mi guardò e disse: “A casa mia, non ti conosco ancora bene…” Mi piaceva molto questo aspetto di una liberazione femminile che in effetti era applicata, diversamente dal mio paese dove era soltanto allo stato embrionale avviluppata nei nodi della complessa cultura mediterranea, così affascinante ma atavicamente radicata, ne ebbi conferma quando mi informò di avere lei i profilattici in borsetta dato che io ero uscito scaramanticamente senza. L’appartamento al terzo piano di un vecchio edificio storico aveva un

confortevole salotto all’ingresso con alcuni pezzi d’antiquariato di un certo gusto, la cucina immediatamente dietro nascosta da una parete era stretta e lunga; sulla sinistra bagno, una comoda camera matrimoniale con un queen-size bed ben decorato da sontuosi cuscini. Il divano proprio di fronte all’entrata mi offrì una comoda seduta alla quale lei mi invitò mentre preparava un drink di benvenuto, i convenevoli furono brevissimi, in men che non si dica gli abiti di entrambi erano arrotolati ai piedi del letto senza possibilità di poter distinguere i suoi dai miei. Sembrava una dea nordica, con quel lungo corpo snello allungato su fresche lenzuola pulite, si offriva a me famelica di baci apionati ma non potei porgerle il meritato scettro incoronandola mia Regina! L’eccessiva foga, o chissà troppo alcool, fecero inabissare il mio desiderio come il Titanic nelle gelide acque dell’ansia da prestazione in un tragico, storico naufragio che lei commentò seccatissima e implacabile: “What am I gonna do with you honey?”. Qualcosa era rimasto nella mia mente, come un sottile pensiero che vagava e vagava inafferrabile: molto spesso non capiamo i segnali trasmessi da un impulso di preservazione inconscio e vigile; sì, quella voce insinuante a cui non diamo troppo ascolto se non più avanti negli anni, quando diventiamo più navigati e meno vulnerabili.

Una volta lessi su una rivista una teoria sessuale un po’ ardita: nell’eventualità non troppo improbabile, visto l’assortimento delle umane perversioni, fossimo presi dallo sfizio di congiungerci carnalmente con una tigre dovremmo la salvezza della vita alla primordiale consapevolezza del venire sbranati nel tentativo di coprire la fiera (e nel caso fossimo fortunati nell’intento fungeremmo comunque da spuntino post-amplesso); quella consapevolezza ci inibirebbe piuttosto che la repulsione data dalla differenza tra specie. Trovai la teoria esilarante allora e trovai altrettanto buffo ricordarla mentre me ne stavo al lavoro scarabocchiando sinuose forme di donna dai lunghi capelli biondi su fogli da stampante sospirando come un adolescente trepidante sotto gli occhi curiosi e sbigottiti delle mie commesse. La situazione era talmente nuova che non osarono fare domande, ma il mio ascetico raccoglimento, rafforzato dalla voglia di maschio riscatto mi fecero intraprendere una linea risolutiva: ero uomo d’azione e mal sopportavo le situazioni di stallo per cui presi il telefono e la invitai a cena deciso a riscattare la mia stropicciata quanto offesa virilità.

Mi guardava incuriosita mentre la divoravo cogli occhi avido come con il mio pasto: era bellissima, mi voleva, e io ero un sano, giovane maschio adulto e l’avrei presa! Questo mi ripetevo scrutandola, leggendole negli occhi che aveva capito. Fu così che il transatlantico miracolosamente risalì dagli abissi facendo fumare uno per volta tutti i suoi comignoli ed entrò trionfalmente in porto finendo la sua traversata a cavallo di potenti onde di marea, persino la signora d’acciaio ferma lì da due secoli accese la fiamma per il glorioso capitano arrossendo un po’, ma feci molto più di questo… calai le pesanti ancore nel suo cuore di donna, lo sentii dentro dal cambiamento della sua voce, dei suoi gesti, del colore dei suoi occhi fattosi più profondo e verde. Allora credevo che l’amore fosse intesa sessuale e ione travolgente. Copulavamo incessantemente come criceti fermandoci per una mia sigaretta e per bere, ordinavamo tutti i più svariati tipi di cucina a domicilio da consumare sul nostro talamo e poi ancora ancora e ancora… Tra un amplesso e l’altro iniziammo a rivelare qualcosa di più di noi stessi e aggiungemmo la televisione alle cose da fare durante le pause in modo da poterci raffrontare su vari argomenti conoscendoci meglio per opinioni e punti di vista. Mi informò di seguire un corso universitario di psicologia in una rinomata università locale con l’obiettivo di diventare un giorno consulente di coppia e minorile post-divorzio, le feci notare di essere al corrente di quanto potessero essere costose le rette universitarie quindi le chiesi quale occupazione le permettesse di sostenerle, mi disse allora del suo lavoro come manager in una palestra del centro e di un gruzzolo accumulato lavorando in un altro stato come amministratrice di un Country Club molto prestigioso. Una sera scorrendo le trasmissioni televisive mi soffermai su un documentario sugli abusi sessuali e mi accorsi del repentino cambio di umore in Amy, era molto turbata non l’avevo mai vista così seria pertanto cercai di sondare il suo stato d’animo delicatamente ma con insistenza; un conflitto interiore le trasfigurava il bel viso, giocava nervosamente con le dita guardandosi le punte dei piedi in silenzio poi pose le mani sulle gambe, tirando un lungo sofferto sospiro, alzò la testa e parlò. “Mi diceva, se dici qualcosa a tua madre… vedi quel bosco laggiù? Bene, ti

porterò là e poi ti ucciderò…” Lo scandì lentamente, grave e con gli occhi vacui, fissi allo schermo senza vederne le immagini, era altrove. Rimasi allibito dalla pesantezza della rivelazione quasi incerto di aver compreso bene. “Quando lo dissi a mia madre non mi credette, anzi, mi accusò di voler attirare l’attenzione e mi ripudiò. Ci riparliamo da pochi anni e solo da quando lui è morto di cancro.” Qual è la cosa giusta da dire davanti a certe confessioni? Mi sentivo investito da qualcosa di inimmaginabile quale figlio di una normale, sana famiglia della provincia italiana. Era come quelle cronache orribili che senti ai notiziari affiorassero da un mondo tetro, nascosto: un brodo melmoso e putrescente condito delle lordure più abbiette del genere umano nel quale un maligno cuoco alchimista rimescolava col suo bastone tirandolo fuori ogni tanto per farcelo assaggiare, ricordandoci di essere sostanza di quella fetida minestra. Da un inferno sulla terra del quale non si vuole parlare e non piace pensarne l’esistenza, i miasmi erano giunti alle mie narici provocandomi nausea e paura. “Era l’unica cosa che ero buona a fare, continuava a ripetermi in tutti quegli anni mentre io urlavo dentro sperando che qualcuno in famiglia mi sentisse, ma lui era un Marine rispettato e temuto.” Le chiesi se avesse sorelle o fratelli. “Una sorella, quindici anni più giovane di me alla quale non ha mai fatto niente e tutt’ora non sa niente. Mia madre ancora non sa come fare a perdonarsi il fallimento come moglie e genitore; insomma sono un vero disastro non trovi anche tu?” Finalmente mi guardò con occhi tristissimi e acquosi; la cosa migliore che seppi fare fu abbracciarla forte, a lungo. La storia mi sconvolse ma continuai a chiederne dettagli, certo non quelli intimi, l’idea mi faceva inorridire, avevo sempre creduto che l’amore più grande fosse

quello verso i figli e viceversa quello per i genitori ma volli capire; la mia natura in fondo ingenua e gentile rimaneva basita di fronte a manifestazioni di violenza, soprattutto se così profonda e non riuscivo a comprendere ciò che io non avrei mai fatto a un altro. “Ogni volta che mia madre usciva, per lavoro o qualsiasi altro motivo, lui ne approfittava e io ero confusa, dai ruoli dalle implicazioni da tutto! Mi ero convinta che avesse ragione lui: non valevo nulla e quella era la cosa migliore che riuscissi a fare…” Lasciò la frase in sospeso studiandomi con intensità, come se aspettasse una risposta precisa da me avendo dato un chiaro suggerimento, ma non capii e non risposi ancora esterrefatto dall’enormità della cosa. Le mie premure nei suoi confronti si fecero involontariamente più sollecite, il mio atteggiamento la infastidiva un poco in quanto mancava di naturalezza e probabilmente davo l’impressione di essere più vittima io della sua confidenza che non lei dell’ingiuria subita; stabilii di non affrontare ulteriormente l’argomento a meno che non fosse lei stessa a farlo.

La mia vita procedeva come sempre, avevo diminuito le uscite per party e bar così da poter frequentare Amy più assiduamente con la benedizione dei miei amici ai quali brillavano gli occhi ogni qualvolta la vedevano, era il prototipo della bellezza americana come immaginata nell’iconografia ufficiale. Ero inorgoglito dalla pubblica ammirazione, anche maggiormente coinvolto emotivamente ora che mi aveva mostrato un angolo segreto della sua anima e non lo nascondo, mi baloccavo con idee romantiche di una vita futura da cittadino americano: mi piaceva lei, tanto! Una sera uscendo per prendere da mangiare ci fermammo in una videoteca con l’idea di vedere un film in casa, la stagione estiva cominciava a concludersi e l’estate indiana alle porte aveva convinto molti turisti a rientrare lasciando strade e locali deserti. Dopo aver girovagato tra file di titoli ne afferrai uno porno proponendo una serata piccante ma la sua reazione fu tutt’altro che complice: una smorfia con l’angolo della bocca e lo sguardo fulminante furono eloquenti. Accidenti una puritana? pensai, eppure a letto era ben altro che quello, e allora nel tentativo di compiacerla comunque dissi che sì, anch’io trovavo la pornografia come degradante per la donna e lo scalino più basso della

depravazione scusandomi per il poco tatto avendo dimenticato per un momento le sue dolorose esperienze. Avevo evidentemente detto qualcosa di sbagliato perché si zittì diventando molto seria, concludemmo la serata scambiandoci solo poche parole.

Incontrai Toni il giorno dopo. Si presentò sfoggiando una decolorazione dei capelli oramai diradati che però gli donava un’aria cosmopolita per niente pretenziosa o ridicola. Ci eravamo sentiti la sera prima al telefono per una festa organizzata da una sua cliente e amica alla quale aveva progettato e arredato la casa come architetto. Ne approfittammo per rivederci e discutere i dettagli davanti a un cosmo ben ghiacciato. Pensai fosse una buona occasione per diradare la cortina nebbiosa calata da Amy. La casa naturalmente era stupenda, in legno e vetro con dettagli in acciaio come voleva la moda del momento. Un piccolo giardinetto funzionava da disimpegno collegandosi all’ampio soggiorno, diviso da una vetrata scorrevole che una volta aperta faceva sembrare l’ambiente un unico grande salotto-giardino. Il parterre di personaggi assortito tra nazionalità più disparate prometteva una serata interessante: Un sostenuto architetto kenyota dallo spiccato accento inglese, accompagnato da una piccola giapponese già alticcia, intratteneva un gruppetto di agenti di cambio irlandesi; una squisita coppia di medici iraniani, un pasticcere afroamericano di Detroit che parlava toscano imparato a Montecatini dove aveva fatto apprendistato anni prima, oltre alla bellissima Ursula, la svedese presente con l’immancabile marito. Amy era radiosa nella sua luce dorata, accesa dai capelli lunghi e sciolti; i pantaloni neri attillati mettevano in risalto le gambe lunghissime e una canotta di seta chiara che si adagiava negligentemente sui seni prosperosi scendeva ariosa appoggiandosi sui fianchi stretti. Toni mi fece fare un giro di presentazioni e le malcelate occhiate infuocate dei maschi incoronavano la mia dama come la più sexy del reame, quando però mi trovai di fronte alla altera scandinava fui io a trattenere il fiato: l’elegante e sobrio abito nero sorretto da semplici spallini cadeva diritto sino alle caviglie accarezzando qua e là un corpo tonico e muscoloso, i capelli scuri rialzati in uno chignon fermato da una stecca di osso scuro mostravano il collo lungo e sinuoso in asse perfetto con le spalle diritte. Le presi delicatamente le dita unite per inchinarmi in un ossequioso baciamano, ma

probabilmente deve essere sembrato che volessi tuffarmi in lei perché con una abile manovra rigirò il polso trasformandolo in una stretta cordiale, siglata da una occhiata sicura e appena beffarda. Il suo sguardo mutò alla vista della mia compagna, per mano immediatamente dietro di me; allora sembrò riconsiderare la sua valutazione in quanto notai l’abile e discreto rio della mia persona e una luce più maliziosa nelle scure e vivaci iridi. Ero certo che quegli occhi mi avessero accompagnato inconsapevolmente ancora qualche metro, distanza che coprii una spanna più alto da terra trionfante per il punto segnato. Era come aver carotato un campione dei ghiacci fossili del Polo: quella donna così allegra e di compagnia sapeva amabilmente tenere a bada ogni uomo in sua presenza, pur mantenendo l’attenzione assolutamente accentrata su di lei senza sembrare una primadonna, infatti era adorata anche dalle altre donne che la ritenevano assolutamente devota al compagno sempre tranquillo, e guardingo… Ma ecco scendere dalle scale la padrona di casa. Semplice nei suoi jeans scoloriti e ballerine, la snella figura di una rossa con pochissimo trucco fece il suo ingresso salutata da festose esclamazioni dei maschi quasi fosse uno di loro. La camicia bianca metteva in risalto la fila di denti bianchi in una bocca ben delineata pure senza rossetto con un sorriso cordiale, per me: perché la conoscevo. Fu grande anche la sorpresa di Toni il quale non riusciva a riordinare pensieri e ricordi in modo da associarvi la nostra conoscenza, quindi fui io a farlo: lei era l’avvocato che si prese cura delle pratiche per il mio visto di soggiorno.

Conobbi Nora in un locale di Palma di Majorca dove mi trovavo in vacanza qualche anno prima, i miei amici e io abbordammo il suo gruppetto di americane allacciando un’amicizia che durò per tutto il tempo della permanenza, ci scambiammo gli indirizzi come si fa sempre finendo poi per non sentirsi mai più, ma in questo caso la contattai quando ebbi bisogno dei suoi servigi professionali ai quali lei con grande sollecitudine si adoperò per farmi ottenere il visto. Non ero informato del suo trasferimento in città, le notizie più fresche in mio possesso la davano residente nello stato del Michigan, ovviamente ero felicissimo di rivederla, adesso la festa era ancora più bella e intrigante.

Si presentò ad Amy e Ursula, fecero presto comunella, Nora era una compagnona, e come accade spesso nelle feste si formarono i primi gruppetti separati di uomini e donne, i primi più rumorosi dei secondi soprattutto per le maggiori quantità di alcool consumate, io non facevo eccezione. I presupposti erano perfetti per rendere questa serata indimenticabile: ebbro di tutte queste inaspettate emozioni, incontri e situazioni, tirai fuori il mio lato migliore diventando il direttore del circo: iniziai con la più tradizionale delle usanze italiane proponendo una spaghettata improvvisata con gli avanzi dello scarno frigorifero; così mescolando ketchup, pelati, bacon e una generosa spruzzata di tabasco tirai fuori sorprendentemente dal cilindro una gustosa salsa che tutti gli invitati già un po’ alticci onorarono con voracità e fui il prestigiatore. Amy mi guardava con occhi ammirati e divertiti, ero riuscito a scioglierla, anche le altre femmine presenti però; brillo di vino e gigioneria guardavo tutti i presenti ormai smodatamente allegri, ero il domatore di Leoni. Tirai fuori anche i bicchierini e cominciai a sbatterli sul tavolo con uno straccio servendo tequila bum-bum, trovata che mandò tutti in visibilio compresa Ursula che mi chiese di insegnarle la procedura per cui le presi la mano e tenendo il bicchiere fermo con una premevo la sua sopra il tovagliolo con l’altra. Mi sussurrò: “Sentito che pelle?” Ebbi un fremito di piacere all’esofago, tirai su un respiro del suo sofisticato e fresco profumo quindi sbattei giù con forza due volte lasciandole tracannare lo spumeggiante liquido con una sconvolgente torsione del collo; sentii immediata la tensione in basso aumentare mentre seguivo la goccia sfuggita alle labbra che delineava il profilo del mento; Amy non si accorse di niente: ero il giocoliere. La festa non ci mise molto a concludersi con tutti quei bum-bum, ci salutammo ringraziandoci a vicenda e appena sul taxi la mia bionda incominciò a divorarmi vorace, salimmo in casa alla svelta togliendoci i vestiti in ascensore con le mani infilate dappertutto e sbattuto l’uscio la lasciai in piedi fronte a me con solo le mutandine addosso nel centro del salotto, mi spogliai lentamente per mostrarle orgoglioso il mio turgore al quale lei lanciò un’occhiata maliziosamente compiaciuta muovendosi verso di me. La fermai e grazie alla differenza di altezza la presi lì, eretto, veemente, facendola saltellare sulle punte dei piedi a ogni colpo dei miei lombi

guardandola dritto negli occhi, prima con cadenza lenta e precisa poi sempre più veloce ma non meno violento, arretrava e mi guardava col piacere che le ottundeva ogni volontà, gli occhi semichiusi in uno sguardo di incitamento e sottomissione, preda e fiera… femmina! E io maschio la alzai da terra sollevandola per le cosce, trovando una forza inusitata continuai a possederla lì in mezzo alla casa, a luce accesa; si teneva con le braccia al mio collo e rispondeva cogli agili fianchi, sentivo le gambe cedere, arretrai con la mia cavallerizza verso la camera mettendomi spalle al letto lei intendendo al volo puntò i piedi sul bordo trovando l’appoggio per spingere più forte, insieme. Lei terra io il vomere di un aratro solcavo la sua carne calda; lei amazzone io purosangue, lei mi montava in un frenetico galoppo insieme urlammo accasciandoci sulle lenzuola madidi di piacere. La sveglia fu delle più romantiche, lei bella come non mai si svelava a me risorto da un sonno lungo senza sogni con una tazza di caffè fumante e un lungo bacio sdraiandosi accanto. “Bellissima serata non è vero?” “Sì,” rispose lei sospirando. “Simpatici i tuoi amici, che mi di dici della padrona di casa?” “Nora?” ribattei un po’ sorpreso della domanda, ma capii subito chiarendo immediatamente. “È un’amica, ammo una vacanza insieme e poi decisi di preferire di tenerla come amica piuttosto che amante, sono sicuro sia lo stesso per lei.” Il mio tono era sicuro e deciso, intendevo ciò che avevo appena detto e lei ne fu convinta ma continuò: “Sai, ho come la sensazione che lei abbia subito lo stesso problema mio…” Rimasi interdetto, possibile che questa storia ancora non trovasse una fine? “E da cosa lo hai dedotto…” Guardando le lenzuola come a raccogliere le idee disse: “Beh sai, eravamo lì che si parlava del più e del meno… discorsi da donne e quando si è trattato di un tizio invitato, sai quello irlandese agente di cambio?” “Sì ho capito, quel… aspetta non mi ricordo il nome… Kyle! ecco sì, Kyle.” “Ecco proprio quello con quel leggero strabismo, insomma si parlava di lui e dei suoi occhi storti e siccome non riuscivo a farle capire lei mi ha detto Sai io non

ci vedo molto bene e senza occhiali finché non sei a questa distanza, e fece il gesto con le mani indicando un trentina di centimetri, non so se sei tu o mio padre!” “E allora?” chiesi io perplesso. “E allora, perché proprio suo padre?, non poteva essere chiunque altro? Sono sicura che è stata abusata anche lei!” Ero sbigottito. Cominciavo a rendermi conto di quanto profondamente una tale esperienza potesse segnare un individuo, di come l’essere stati trascinati in un pozzo così melmoso macchiasse indelebilmente l’anima. Ma ero lontano dall’immaginare la capillarità, l’insidiosità di quel veleno e meno che mai i suoi effetti collaterali: una vera e propria maledizione dalle caratteristiche del vampirismo; adesso guardo indietro e mi sento un piccolo incosciente fortunato, ramengo e spensierato in un bosco apparentemente lieto, sicuro che però nascondeva nel cavo di ogni albero, poggiato su prati superficialmente verdissimi ma brulicanti di viscide creature sotto, infidi ingressi a un nero inferno. Chi vive avendo subito la violenza più intima come può credere a qualcosa di diverso negli altri quando nemmeno nell’amore più puro, nei valori sacrosanti per chiunque si è mai potuto affidare? Aveva provato a modo suo a farmi capire, senza troppa convinzione come ho appena spiegato. Ero confuso, con una punta di dispetto per essermi fatto trascinare in così vorticoso gorgo ma troppo superbo e confidente nella mia esperienza di vita per concedermi la debolezza di rivelare a qualcuno il mio disagio. Lei mi piaceva molto anzi moltissimo, ogni uomo avrebbe dato chissà cosa per avere una donna del genere accanto; pure che onestamente ritenessi Ursula la vera dea irraggiungibile, il coronamento di ogni maschia ambizione, ma essendo sposata e fedele a un uomo più in vista e ricco di me questo bastava ad ammansire il mio ego bramoso e ad innalzare Amy sulla vetta del mio Olimpo; in preda a tutti questi pensieri mi risvegliai dalle mie riflessioni rendendomi conto di stare suonando alla sua porta: avevamo appuntamento.

Mi aprì la porta splendida come sempre con un sorriso leggermente tirato e

un’ombra di disagio sul viso, la mano destra con un bicchiere appannato e il sedano emerso dal vermiglio contenuto che sapevo condito da senape al rafano e tabasco spazzò via ogni mio rimuginio al suono di: “Ecco il tuo Bloody Mary tesoro”. Lo scolai d’un fiato, era deliziosamente sapido, piccante, inebriante come lei; la possedetti di impeto sul divano abbassandole solo pantaloni e biancheria. Mentre si risistemava il trucco per uscire mi sedetti in posizione yoga sul tappeto di fronte alla TV bevendo il ghiaccio sciolto nel bicchiere… buio. Riaprii gli occhi ed ero accanto a lei, svestito, a letto. Guardai la sveglia sul comò, segnava le cinque del mattino: avevo dormito profondamente e senza sognare, decisi di continuare a farlo. Al mattino le chiesi lumi su come fossi finito lì dato che la mia memoria si esauriva al ricordo dello schermo della TV, mi ricordavo pure che stavo guardando un documentario su Stevie Ray Vaughn; calma calma mi disse che uscita dal bagno mi aveva trovato a bocca in su sulla moquette e che aveva dovuto trascinarmi per i piedi fino alla camera per poi spogliarmi e mettermi a nanna. Trovai il tutto alquanto strano, non era nelle mie abitudini cadere in trance di fronte alla televisione. Imputai il cambiamento a uno stato di grazia amorosa e un conseguente rilassamento mai provato prima, comunque mi comunicò che l’uscita era stata posticipata a stasera: avremmo incontrato dei suoi amici e non avendo mai avuto occasione di conoscerne prima oltre alla sua valletta del nostro primo appuntamento scomparsa nel nulla, ardevo di curiosità. Che dire di quella strana riunione? Fummo invitati nell’attico di una casa vintage poco lontana dalla sua, nemmeno un isolato ma sul lato opposto della strada, di proprietà di una a dir poco piacente signora sulla tarda quarantina. Gli ospiti, oltre a noi, erano un tipo molto stempiato e rossiccio, troppo esuberante e un tizio grassoccio sui trentacinque con una folta barba scura molto curata assieme a una ragazza giovanissima dall’aria assente. Parlavano con un denso accento del sud, quasi incomprensibile: il mio inglese mostrava i limiti cercando di afferrare una pronuncia e un dialetto infarcito di espressioni mai udite prima; loro sembravano non badare troppo a me, ogni tanto la signora scoccava qualche sfuggente occhiata indagatoria: mi ricordava la rodata matrona di un bordello in

Bourbon Street. Il rossiccio continuava ad agitarsi frenetico nel suo oscuro discorso mentre il pingue barbuto sembrava sempre ridacchiare sotto i baffi, aveva gli occhi liquidi e inespressivi ma non quanto quelli della stordita ragazzina silenziosa. Ero tremendamente a disagio; ogni mia fibra nervosa vibrava come le corde di un violino stridente, mi sentivo studiato, osservato forse deriso ma feci del mio meglio per essere il più naturale possibile e le uniche parti della conversazione a cui riuscii a partecipare furono quelle delle domande che mi vennero rivolte, ben scandite così che io capissi bene, sulla mia provenienza, sul mio paese ed eventualità del mio arrivo negli U.S.A., poco altro.

Fui molto sollevato al momento di lasciare quell’inquietante convivio. Amy si scusò per la condotta del rossiccio e guardandomi ben dritto negli occhi mi chiese: “Lo sai, vero, chi è quella signora?!” Me lo chiese quasi a verificare qualcosa di scontato come se si trattasse di una qualche celebrità. “No,” risposi. “Non l’ho mai vista prima… perché avrei dovuto riconoscerla?” Non mi rispose e rincasammo. Non mi ero mai dilettato in rompicapi di alcun tipo nemmeno da ragazzo, Cose come puzzle, scacchi o modellistica non facevano per me che gioivo dell’aria aperta, delle corse, di ogni escoriazione ed ematoma medaglie gloriose di epiche imprese da conquistatore, l’unico atempo che mi prese con gli anni fu il cruciverba senza schema ecco a cosa somigliava la situazione. Conosci le soluzioni alle domande, lunghezza e collocazione ma il segreto per concluderlo è l’inizio: dove collocare la prima parola con le sue caselle nere; io non riuscivo a partire in questo enigma di sensazioni disturbanti e stonate. Avevo imparato a non farmi coinvolgere eccessivamente nei problemi o la chiave di ingresso al labirinto mi sarebbe sfuggita alla vista quando l’avessi scorta; dall’altra parte l’immaturità ancora una volta aveva gioco in me facendo leva sull’impulsività perciò decisi di distrarmi rivolgendo l’attenzione alla preda più ambita nel mio carniere.

Telefonai ad Amedeo, era un po’ che non lo vedevo quindi proposi un caffè, proprio mentre eravamo seduti fuori dal bar-negozio di dischi e scarpe alla moda mi mise al corrente del suo progetto di matrimonio: “Ho deciso di sposare Nancy, sai grazie al tuo buon consiglio ho risolto nel miglior modo possibile l’unico problema che c’era tra di noi e adesso sono molto felice con lei al punto di voler mettere su casa. I miei fratelli e sorelle saranno qui con mia madre la prossima settimana per conoscere la sua famiglia ma è cosa fatta!” “Ma beneee!” esordii entusiasta, mi alzai in piedi e lo tirai su dalla sedia abbracciandolo energicamente, lui era sempre restìo alle manifestazioni pletoriche ma mi ricambiò con affetto: era veramente felice. Avrei trovato sicuramente conforto e un buon consiglio nelle sue parole se mi fossi aperto con lui ma decisi di non farlo e quando mi chiese di Amy risposi: “Tutto okay amico mio, ma sai come sono fatto io dopotutto, non mi concedo mai completamente, a proposito immagino che festeggeremo tutti insieme…” “Ma certo! Organizzeremo una wedding shower come usa qui sabato prossimo così avrete tempo di consultare la lista nozze e brinderemo alla mia nuova vita.” “Perfetto così avrò modo di fare tutto, dovrò andare a New York per lavoro domani e fermarmi due o tre giorni… e ci sarà anche l’inarrivabile Mrs. Ursula…” aggiunsi malizioso. “Ehi… vedi un po’ di non insidiare donne sposate, chissà dove vai a parare poi…”. “Che devo dirti amico mio, è risaputo il matrimonio sia la tomba dell’amore dopo un po’, allora meglio con uno stimato amico che con l’idraulico irsuto, magari pure nero e superdotato!” Ridemmo di gusto entrambi poi ripresi, inquisitorio: “Ma davvero la bella signora è una fortezza tanto inattaccabile come dicono?” “A dire il vero si rumoreggia che qualche anno fa lei ebbe un cedimento, una infatuazione per un comune amico al punto che il marito minacciò il divorzio…

ma poi tutto è andato a posto.” “Quot erad demonstrandum…” sentenziai sibillino pensando più ad alta voce che in risposta all’informazione fornitami. “E la matematica?” “Nessuno è immune alla sacrosanta voglia di cambiare, trovo qualcosa di perverso nel meccanismo delle unioni lunghe finchémortenoncisepari… una volta magari, la vita era dura, in due era meno dura. Oggigiorno invece sarà l’unione di due egoismi dove si alterneranno i ruoli di vittima e carnefice; si sono evoluti i costumi, le aspettative, il culto della persona soprattutto nella donna, pilastro di quel tipo di equilibrio, per cui è da reazionari voler insistere a mantenere una istituzione oramai obsoleta…” “Stai a sentire, Senofonte, stai portando sfortuna a questo amico obsoleto!” disse Amedeo con un ghigno. “Accidenti scusa, era per dire. Dai, in fondo sai che i gaffeur sono mossi sempre da una sincerità non mascherata, sono quelli volutamente sinceri i veri provocatori! Perdonato?”

L’indomani ero a Manhattan all’ultimo piano di un edificio del centro con vista su Central Park alla riunione di tutti i direttori per gli ordini delle prossime collezioni. La maggior parte dei miei colleghi erano italiani perlopiù gay o donne; intervennero anche gli ispettori inviati dalla casa madre e fu una piacevole riunione, finito il lavoro ognun per sé. Ero alloggiato in un confortevole hotel a un isolato di distanza. Il giorno seguente non dovendo lavorare fino al pomeriggio, dopo una robusta colazione americana con uova strapazzate e la mia ione, le Hash Browns, infilai nei denim scuri gli scarponcini Beatles neri, una maglia in seta blu dallo scollo a vu non troppo profondo, un giubbottino di pelle leggerissimo nero stile biker e mi incamminai in direzione dell’ufficio godendomi il formicolare convulso ma ordinato di questa straordinaria città. Partendo dalla Lexington verso la Madison dovevo raggiungere la Fifth , era come essere in qualche rivista di gossip, si incrociavano personaggi famosi del cinema e della musica mescolati tra anti troppo incalzati dal ritmo della City: spiccava anche qui nel centro del mondo

col suo o sicuro, l’andatura elegante col peso solidamente portato su ogni piede comunque per nulla maschile, piuttosto molto sensuale; un ballo spontaneo cadenzato dall’ondeggiare ritmico dei fianchi enfatizzato dal controcanto della massa fluida e lucida di capelli neri sciolti. Musica per i miei occhi, lei; imprevista suite metropolitana con sax, archi e percussioni: canta per me o sirena, pensai rapito. Avanzava senza avermi visto, mi fermai nel mezzo del marciapiede spostando il peso sul fianco destro le mani ficcate nelle tasche del giubbotto aspettando che mi riconoscesse: ero dritto sulla sua traiettoria. Girò la testa in direzione del suo incedere, notai l’attimo di incertezza quindi la realizzazione. Sorrise e accelerò il o sospinta dalla curiosità, ci salutammo con un abbraccio e buffetto di circostanza. “Più si sta al mondo più ci si convince che sua sacra maestà il caso fa i tre quarti del lavoro in questo misero universo!” esclamai teatrale in un sorriso larghissimo. “Sono qui per un altro giorno a una riunione di lavoro e tu?, vacanza?” ando una mano sotto i capelli per riavviarli, mosse il collo in una sinuosa curva. “Lavoro anch’io, sono una personal shopper, vengo spesso a Manhattan per assistere a trunk show e campionari.” Il suo corpo, negli inconsapevoli cenni che spesso sfuggono involontari, stava esprimendo il gradimento per la fortuita coincidenza, la voce invece si contrapponeva con un tono distaccato. “Avrei molto appetito e poco tempo, ho appuntamento in showroom tra due ore… visto che è ora di pranzo che ne diresti di farmi compagnia? Dato che conosci meglio di me la città puoi suggerirmi un bar carino…” Lasciai la proposta fluttuante a mezz’aria, lei mi squadrò un istante, feci gli occhi tondi alzai le braccia palmi in alto incassando la testa nelle spalle; lei si fece una risatina a denti stretti e annuì, misi le mani in tasca e al suo fianco mi incamminai in direzione opposta da quella in cui ero venuto.

Contento come un marinaio in licenza trotterellavo con aria allegra notando le occhiate che la bella mora raccoglieva al suo aggio sia dagli uomini che

dalle donne, deliziati i primi invidiosi le seconde. Interessante quanto possa esprimere un movimento degli occhi a seconda dell’angolazione con cui esplora l’oggetto del suo interesse, dell’inclinazione di un sopracciglio che marca un sentimento positivo o negativo in concomitanza con la chiusura o apertura delle palpebre; ma il mistero resta l’interpretazione della luce che lo arricchisce di espressività, impossibile da reprimere difficile da descrivere con le parole: è quella la chiave di lettura del pensieri, stavo leggendo nei suoi un vago disagio stemperato dalla leggera eccitazione di una situazione imprevista, la curiosità nei miei confronti. Ero cosciente di dare l’idea di uno superficiale e un po’ vanitoso, me ne servivo per tenere lontano gli indesiderati, soprattutto i superbi e gli sciocchi. Sapevo anche però che una persona attenta avrebbe visto oltre in poco più di cinque minuti svelando il travestimento. Lei aveva scorso qualcosa, lo sapevo. Naturalmente cominciai la conversazione con il tema che mi interessava di più: “Siete una coppia ammirata e invidiata tu e tuo marito, non capita di vederne molte oggigiorno sai? Avete questo modo libero di muovervi e discretamente rispettoso l’uno dell’altro, da quanto siete sposati?” Temevo di essere stato un po’ invadente. “Ventun’ anni.” “Ancora più ragguardevole oltre che raro, quello che tutti vorrebbero trovare quando intraprendono un matrimonio… a proposito, Amedeo e Nancy si sposano ho saputo…” “Abbiamo ricevuto anche noi l’invito e parteciperemo, sono una bella coppia: carini, innamorati. Tu sembri essere molto amico con lui, anche se devo confessarti di vedere molto poco in comune tra voi…” “Capisco cosa intendi: lui così quadrato e ligio, io dissoluto e inaffidabile…” “Lo sei?” “Lo dicono,” continuai, “lascio che lo pensino, chi mi vorrà conoscere scavalcherà l’apparenza. “Ermetico… nonostante la tua apparente giovialità e quest’aura da animaletto di cui ami coprirti sei uno chiuso, non ti concedi facilmente.”

“Acuta!” “Lo sono sempre stata, mi piace circondarmi di persone intelligenti come mio marito…” “Che dire, l’esperienza mi ha insegnato che è facile sentenziare dall’alto dell’Olimpo ben protetto e dorato; altra cosa è mantenere la calma quaggiù dove tutti impazziscono quotidianamente sgomitando per un posto al sole o scappare dalla pioggia.” “Capisco che tu possa pensare a me come a una donna viziata, che non ha mai visto nulla, ma ti sbagli: è una questione di scelte, di maturità… ti assicuro che il tuo stile di vita non mi affascina.” “Tu dici, eh?!” allusi diabolico, vidi l’irritazione in lei, avevo punto nel morbido. Mi resi conto camminando che conoscevo la zona dove ci stavamo addentrando ed ebbi un idea. “Propongo una improvvisazione, sai amo il jazz di conseguenza vorrei applicare ciò che mi piace.” Senza preavviso mi staccai da lei voltandomi un attimo e corsi in un viottolo della strada principale verso una bottega voltandomi solo per dirle: “Aspettami lì torno subito!” Fece un’espressione seccata per essere stata piantata in mezzo al marciapiede ma fui di ritorno in un baleno con una lunghissima baguette appena sfornata, fragrante del profumo di pane caldo. “Conosco questa zona perciò mi permetto di proporti una esperienza sensoriale con un tocco personale: sono assolutamente certo che ignori l’esistenza di un ristorante così particolare, ma sono più che sicuro che ti piacerà!” La vidi! Vidi quella luce che avevo cercato, la scintilla della vivace curiosità: il fuoco. Le raccontai entusiasta, mentre la guidavo a destinazione, di questo cuoco giapponese il quale aveva lavorato in Italia diversi anni al servizio di uno stilista famosissimo senza imparare un’acca della nostra lingua. Sposò una nipponica

cresciuta a Milano per poi emigrare nella grande mela ma, cosa più importante per noi, aveva miscelato un parte della due cucine creando una salsa misteriosa per carne cruda o pesce battezzata da lui Ystyle. Ascoltava interessata con velo di scetticismo, io sempre più eccitato mordevo a grandi i la strada, lei mi seguiva senza difficoltà. Fatta una svolta e imboccate un paio di traverse ci trovammo all’ingresso di un piccolo ristorante completamente bianco, asettico nella sua essenzialità da sol levante: Yoko, diceva l’insegna. Ci accolse una cameriera dai modi squisitamente orientali alla quale espressi il desiderio di servirmi al banco sushi dove venimmo accompagnati e dietro al quale il nostro uomo si adoperava con rituale maestria sfilettando pesce coi suoi affilatissimi coltelli. Senza indugio chiesi carne e pesce in salsa Ystyle, sorpreso dalla richiesta accettò abbassando la testa di scatto con il tipico riverente gesto del suo paese comandò qualcosa in lingua madre ai cuochi nella adiacente cucina quindi si mise al lavoro. Pochi minuti e ci porse con religioso ossequio le due stecche di vetro sulle quali erano adagiate le porzioni rispettivamente di carne e pesce ricoperte da un liquido trasparente con alcune macchie di quello che poteva sembrare olio, mai usato nella cucina giapponese, e delle verdure sminuzzate. Feci portare una teiera di the verde, ne versai una tazza alla mia commensale con gravi e misurati gesti orientali, consapevolmente buffo, poi brandite abilmente le bacchette la invitai a iniziare. Appena sparì tra le rosee labbra il primo boccone vidi l’espressione del suo volto cambiare: non poteva resistere a questo nuovo e indescrivibile gusto; la vidi indugiare prima di deglutire per assaporare meglio la miscela di gusti che sapevo riempirle la testa in quel momento. La convivialità, la condivisione del cibo è un rito da espletare in due; ha molte similitudini col rapporto sessuale, la medesima ricerca e scoperta del gusto, l’introduzione nell’intimo cavo orale di un elemento necessario al continuamento della vita con il piacere che riceviamo da questo atto semplice e sacro, una comunione dell’esistenza e del suo godimento. Era come amarla senza toccarla, sublime anticipazione; mangiavamo silenziosamente sotto gli occhi soddisfatti dello chef.

Finita la porzione conoscevo la frustrazione procurata dalla salsa avanzata e dall’inefficacia del riso nel raccoglierla, fu qui che sfoderai la baguette. Il disappunto del giapponese fu evidente! Spezzandola con le mani gliela porsi cerimoniosamente, lei la prese con il modo complice di una bambina golosa, ero inebriato dalla consapevolezza di aver abbattuto le sue difese e guadagnato molta strada senza troppe parole, discorsi a effetto e altre ovvietà da repertorio del banale seduttore; me lo dissero i suoi occhi. Avrei potuto avvicinarmi, sfiorarle le labbra, adesso schiuse: molte volte fu importante cogliere l’attimo in ate occasioni, non ho mai creduto troppo alle parole, ma agli odori piuttosto. Sono fermamente convinto dell’esistenza di un linguaggio istintivo, pur se impercettibile e non paragonabile allo spettro comunemente percepito dall’olfatto, agisce con forza inusitata condizionando le nostre scelte; l’unico motivo per il quale non ne teniamo conto il potere è perché effettivamente non lo sentiamo nel naso quindi non ci crediamo, ma è il segnale per scatenare le offese o abbassare le difese. Inzuppava il pane croccante con impegno nella gustosa salsina masticando il boccone lentamente, imitandola fantasticavo di banchettare alla sua sontuosa tavola, privilegiato commensale di una sontuosa libagione dai variegati sapori: piccanti e intensi, dolci, asprigni o vellutatamente delicati offerti con voluttà a questo fortunato invitato e fantasioso cuoco quale sarei allo stesso tempo, ma preferii indugiare, non solo per gioco. Da giovane uomo qual ero avevo ancora la tendenza ad auto-penalizzarmi vicino al traguardo, uno strascico di immatura insicurezza, mandando il pensiero ad Amy a casa. Contemporaneamente realizzai che Ursula invece viveva nell’immediatezza, consapevolmente, senza divagare e questo mi faceva rendere conto di non approfittare di qualcosa di più di un favorevole spiraglio. Sono sempre stato un giocoso per carattere, per me il tarlo faceva più breccia dell’ariete, non travalicai. Ursula aveva cambiato tono di voce, odore, o, luce; uscendo soddisfatti dal piccolo ristorante, chiudemmo il pranzo con un gelato alla patata viola seguito da un caldo sakè poi ci incamminammo senza meta nella via principale dove ci eravamo incontrati poco prima: chissà se qualche sconosciuto fermo ad aspettare

un autobus per tutto quel tempo avrebbe notato la differenza tra le persone entrate nel viottolo e le stesse quando ne erano uscite. Volendo caricaturizzare la scena, adesso lei saltellava giuliva e io conducevo tutto soddisfatto; mi chiese qualcosa più di me, del perché non mi fossi mai sposato per esempio, decisi di provocarla dicendo la verità. “Non mi fido molto delle donne… esperienza…” Attesi una reazione che non venne, quindi continuai: “So che non è il modo migliore per affrontare una conversazione con una signora ma non tutte sono serie, intelligenti e avvedute, anzi… la maggior parte tutt’altro e mi permetto di asserire a costo di diventarti antipatico che queste mancanze sono più spiccate nelle femmine.” “Dì un po’, sei stato abusato da piccolo?!” Il tono sarcastico mi fece scoppiare in una genuina risata che piacque anche a lei. “No, no… non in quel senso almeno.” Lasciai un momento scemare la scia dell’ilarità quindi: “Però voglio raccontarti una storiella. Ti piacerà”. “Racconta. Sono curiosa di sentire il tuo teorema,” mi esortò. “Avevo nemmeno vent’anni per cui si parla di tempi diversi, rare occasioni amorose e costumi meno disinvolti, la brama di femmine a causa della profusione testosteronica nell’organismo, a dir poco febbrile, si sfogava con eruzioni cutanee diffuse sul viso: come dire la voglia stampata in faccia. Sono cresciuto sulla Riviera e come tutti i ragazzi della mia età finita la scuola mi industriavo in lavori estivi ammucchiando piccole sommette da poter spendere nel lungo inverno, per comprare una Vespa piuttosto che uno stereo o un viaggio. Scelsi di fare il bagnino piuttosto che il cameriere o il commesso preferendo l’aria aperta, ma ero attirato soprattutto dalla lauta paga. Il lavoro era duro in quanto, diversamente da oggi, oltre a sorvegliare e tutelare la sicurezza dei bagnanti era nostro compito anche pulire lo stabilimento balneare. A fine di una lunga giornata sotto il sole, una volta rincasati tutti i clienti e chiusi gli ombrelloni, trascinando un pesante rastrello in ferro dovevo colare la sabbia per raccogliere i rifiuti, sigarette eccetera, lasciandola pulita e pettinata il più velocemente possibile per non finire a buio e poter uscire con gli amici, magari fino a tarda notte. Solo un giovane nel pieno delle forze poteva reggere tre mesi a un ritmo tanto pesante, ma c’era un lato molto positivo a motivare tanta fatica: le numerose possibilità di conoscenza. Non avevo il brevetto di bagnino, quindi non ero solo ma subordinato a un vecchio lavorante lì da tempo immemorabile. Raffè era il nome con cui lo conoscevano tutti, anche mio nonno il quale mi

aveva raccomandato per il posto. Si diceva, e lui lo ricordava spesso orgogliosamente, che in gioventù fosse stato un bellissimo uomo. Un tombeur de femme aitante e spregiudicato che ava il tempo a rendere piacevoli le lunghe ore di belle spose lasciate a casa troppo a lungo da mariti che, apionati di caccia, briscola e tresette, trascorrevano fuori anche le poche giornate di riposo; le serate, invece, cimentandosi in clamorose risse dalle quali, ovviamente, usciva sempre vincitore. Ravvivandone il racconto al sottoscritto descriveva la potenza dei pugni e le micidiali ferite inferte al malcapitato avversario, non mancando mai di declamare con forza tra onomatopeici pum e pam Sprizzava il sangue a destra e a manca, parevo un can feroce! Vestiva con una sorta di uniforme che consisteva in una canottiera a costine bianca, pantaloncini dello stesso blu di una tuta da operaio corti sopra il ginocchio e un berretto da marinaio con la visiera inclinato sulle ventitré. Gli occhi piccoli, nascosti dalle palpebre calanti, erano curiosamente blu accesi, la pelle di un marronerossiccio bruciato. Era piuttosto alto e robusto, tra la schiena e il collo, solcato da profondissime rughe romboidali, non vi era interruzione, sotto la canottiera usurata era latteo. Burbero come lo erano i vecchi di una volta, i bicchieretti di bianco attinti dal frigorifero del bar potevano renderlo ancora più scorbutico verso sera ma era un brav’uomo sui settanta e più, che preferiva lavorare piuttosto che ammazzare il tempo in qualche trattoria, questo contrastava con l’immagine del Marlon Brando di provincia che ci teneva a dare per cui col tempo finii per convincermi del fatto che la maggior parte delle sue storie fossero fole raccontate allo scopo di intrattenermi, ci riuscì bene: mi divertì molto e lo ricordo con affetto. Sotto l’ombrellone ero quasi sempre in compagnia dei miei amici che avano a trovarmi e una mattina uno di loro mi raggiunse con l’aria evidentemente sofferente Cosa ti succede che trascini le gambe? chiesi. Ragazzi, non potete capire… ho conosciuto una, trent’anni, sposata… disse e con ciò guadagnò immediatamente la nostra attenzione! Continuò La signora è sola a casa perché il marito lavora tutta la settimana, mi a a prendere con la sua Mercedes andiamo a casa sua, mi tiene su a whiskey e vuole far l’amore a ore!, tre quattro, cinque volte, tutte le sere! Non ce la faccio più… Lo infamammo, naturalmente: venire da noi, carichi come mine pronte a esplodere a raccontare dei suoi eccessi erotici era una beffa bella e buona! Mentre lo insultavamo cominciò a sfilarsi i pantaloncini ed ecco spuntare una guaina protettiva che gli avvolgeva la vita, a guardare bene delle occhiaie nere gli incorniciavano gli occhi ma eravamo troppo offesi nell’amor proprio per compatirlo. Fece una bagno e se ne andò con l’accordo di trovarci la sera stessa alla piazzetta locale dove avremmo potuto assistere all’incontro e conseguente prelevamento da parte della insaziabile sposa fedifraga, così da dimostrarci la fondatezza delle sue lagnanze. Erano circa

le ventidue, come ogni sera sedevamo sulla panchina attendendo qualche ragazza carina di aggio da poter infastidire; il nostro schiavo d’amore guardò l’orologio da polso fece un cenno di saluto si diresse sulla strada ed ecco accostarsi la bella auto metallizzata. Dondolando le teste come macachi riuscimmo solo a scorgere una sagoma scura e poi l’auto andare via, la targa era di una città poco distante. Buon per lui pensammo tutti, quindi tornammo alle nostre occupazioni per vedere di rimetterci in pari. Trascorse qualche giorno senza notizie del nostro amico, decidemmo in due di andare a chiedere notizie al bar della madre e quando giungemmo all’ingresso, messa la vespa sul cavalletto, notammo una certa agitazione. Mi feci avanti alla signora per chiedere notizie ma al nome del suo adorato figlio scoppiò in un pianto disperato come solo una madre italiana può fare. Il mio bambino!, disse, Il mio bambino! Si è sentito male… è svenuto al banco mentre faceva colazione! è appena partita l’ambulanza! E giù lacrime. Ci guardammo… il moto incontrollabile di una risata salì dalle nostre pance ma lo trattenemmo a stento per rispetto del sacrosanto dolore materno. Svelti svelti inforcammo il mezzo verso l’ospedale sghignazzando malefici per tutto il tragitto e quando ce lo trovammo di fronte su una sedia a rotelle sospinto da una enorme infermiera non potemmo più trattenerci! Contagiato dal nostro smodato attacco di risa l’invalido del sesso finì per cadere dalla sedia col donnone che cercava di ritiralo su imprecando la nostra incerta paternità. L’amico era stato praticamente risucchiato dall’ingorda mantide molto poco religiosa. I medici non ebbero modo di individuare patologie riconoscibili avendo come sintomi solo il dichiarato mal di reni e al basso ventre per cui il poveretto troppo imbarazzato per rivelare la verità, angustiato dal timore del giudizio materno, non si oppose a una diagnosi di appendicite. Fu operato il giorno dopo e non sto a descrivere la sorpresa del chirurgo che si trovò di fronte un intestino sanissimo, oramai aperto l’intervento decise di asportare comunque il lembo per il futuro rendendo il nostro amico il protagonista di ogni barzelletta per il resto dell’estate, un’estate che aveva in serbo qualcosa di indimenticabile anche per me.” Feci una pausa a effetto e guardai dritto negli occhi la mia ascoltatrice. Sì, avevo tutta la sua attenzione. “Erano ate circa un paio di settimane quando, mentre stavo andando a casa per la pausa pranzo, mi accinsi a slegare la bicicletta dal lucchetto ed essendo chinato verso terra notai due piedi di donna di fronte a me. Alzai la testa e fui sorpreso nel trovare a capo di quelle stremità la signora della terza fila. Una donna molto riservata con un figlio pestifero di sette anni solito inseguirmi

mentre colavo la sabbia chiamandomi testa di maiale, chissà poi perché. Non dava confidenza a nessuno sempre trincerata dietro grandi occhiali scuri. Il marito, una persona molto gentile, si faceva vivo solo il fine settimana. Dimmi come ti chiami e dammi il tuo numero di telefono, disse senza tanti complimenti. Fui talmente sorpreso nel sentire quelle parole proprio da lei che la cosa migliore che seppi dire fu Perché? Me lo spiegò, eccome! Non starò a dilungarmi sui dettagli erotici, merita piuttosto una certa attenzione il fenomeno a catena che iniziò di lì a breve. Come se si fossero ate la voce iniziò una vera e propria questua: mogli e ragazzine si fecero avanti! Alcune le respinsi perché non mi piacevano, altre per eccesso di impegni, ma vennero tutte. Pure le più ligie un’occhiata compiacente e maliziosa la regalavano sempre al mio aggio; l’apoteosi fu raggiunta quando due cognate vennero a sedersi accanto a me debuttando così Ogni estate facciamo a turno per il bagnino un anno lei e quello dopo io, ma questa volta mi sono incaponita perché toccava a lei… quindi dovremo dividerti. Raffè borbottava seccato, anche un poco invidioso a mio avviso, a proposito delle mie sempre più scarse prestazioni sul lavoro e sul bassissimo livello di attenzione durante la sorveglianza balneare: col suo ondeggiare ipnotico il mare riverberante induceva una sonnolenza irresistibile… Pensi troppo alla era! tuonò il vecchio dal megafono di soccorso appiccicato nel mio orecchio destro facendomi correre a rotta di collo verso l’acqua per paura che qualcuno avesse gridato aiuto! La spiaggia intera rideva… siccome sapevano… Ne avevo ben donde di essere un sonnambulo diurno: la notte andavo di appartamento in appartamento ando per campeggi e alberghi sempre in bicicletta per non far rumore alle ore più tarde, come un gatto ladro. Trovavo deliziose cenette pronte, regali costosi, baci carezze e amore a volontà ma quando poi, iniziando ad accusare la stanchezza, gli ormoni ebbero meno dominio sulla mia mente cominciai a riflettere e pensai Ma un giorno mi sposerò e succederà questo anche a me? Non se ne salva nessuna? E l’amore? Allora credevo che l’amore una volta sbocciato fosse per sempre, come per i miei genitori… e se anche loro fossero andati in vacanza?” Ursula rideva di gusto della mia storiella. “Ti hanno fatto tanto male secondo me, usato come un bambolotto! Ribadisco che sei un animaletto…”concluse sarcastica. “Può anche darsi che sia come dici tu, infatti ho dei seri problemi a legarmi seriamente dopo le mie esperienze giovanili, ma dimmi… tu cosa penseresti nei miei panni?”

“Io credo che le persone possano per loro scelta decidere di non voler annegare in queste sabbie mobili di approssimativi sentimentalismi inseguendo la brama della carne, questa mai darà completa soddisfazione perché la lussuria si nutre di se stessa, e abbiano la possibilità di elevarci provando a fare meglio, senza illuderci o raccontarci favole: è un impegno serio l’amore e non ha bisogno di null’altro al di fuori di sé! E con l’esempio si possono migliorare anche quelli che ci circondano.” Era perentoria, pervasa da una stoica sacralità. Incuteva stima e rispetto infervorata com’era nella sua convinzione, ma io avevo la vita dalla mia: diffidavo per principio dei predicatori arroccati in templi irraggiungibili dai mali del mondo e fu citando proprio il caro fu Raffè che controbattei, con uno dei suoi più arguti motti: “Val più un’esperienza di una sapienza”. La lasciai interdetta, vedendo la sua reazione continuai più sicuro: “Io non so molto di te, anzi quasi niente a parte il fatto che sei sposata da sempre e proprio per questo trovo che le tue asserzioni poggino su fondamenta poco solide: cioè mi dici di quali prove tangibili sei in possesso per sostenere con tanta certezza quello che dichiari? Come insegna il metodo scientifico quando si vuole convalidare una teoria la si sperimenta nella pratica poi si fa una controprova per assicurarsi che non sia fallibile! E a quanto mi risulta questo mondo sul quale eggiamo oggi proprio su quelle leggi fa affidamento per continuare a esistere, giusto?” “Parli come un uomo, di quelli confinati nei loro recinti convinti che non ci sia niente oltre a quello che vedono entro i confini e che questo possa valere anche fuori.” Ero risentito: “Signora, sempre ricordandole di questo mondo dove siamo adesso vorrei farle notare che è arrivato fino a oggigiorno, pur con qualche grosso errore, garantendoci stili e aspettative di vita più che accettabili proprio grazie a queste menti, che lei definisce limitate, e alla loro visione delle cose; gente che costruendo e andando lontano molto di più di quanto saremo in grado di fare noi hanno vissuto a lungo su un pianeta più ostile scomodo e selvaggio di quello che sta guardando comodamente rialzata sulle sue Jimmy Choo da mille e a dollari!” “Le menti del ato erano pure, e non avevano tutte queste distrazioni!” “Ahhh!”imprecai esausto, raccolsi le idee, mi raffreddai e inspirai

profondamente col naso. “Ascolta, abbandoniamo l’argomento finché non ho più elementi coi quali discutere, perché tu sai molto di me ma io poco di te, per cui… dimmi!” “Cosa vuoi sapere?” chiese lei. “Di te, la tua storia, da dove vieni, come mai sei in questo paese, insomma le cose che si dicono normalmente: abbiamo saltato qualche fase del rituale qui… mi interessa!” “Sono nata a Malmö nella contea di Scania, non lontano anche dalla Danimarca e i miei nonni paterni erano italiani, siiciliani: ecco i miei colori scuri!” Sorrise di nuovo, finalmente. “Mi mandarono a fare un Master negli U.S.A. e proprio lì incontrai quello che adesso è mio marito, che fu anche il mio primo uomo. Sai, era più grande, affascinante, mi fece una corte assidua e spietata mentre io tenevo duro. Volevo godermi la mia adolescenza e fare qualche esperienza prima, ma sono felice che sia andata così: è un uomo stupendo e innamorato. Come il primo giorno: mi disse che mi amava, che mi avrebbe amato sempre e così è… lo so da come mi guarda.” Ero troppo navigato per non percepire nel suo modo di descrivere il rapporto una sorta di estraniazione, una soggettiva in terza persona; avrebbe potuto essere anche un modo per renderlo ancora più credibile e oggettivo volendolo esprimere con chiarezza a un estraneo, ma una nota si era abbassata distaccandosi dal genuino calore col quale parlò della famiglia e della terra natia, non una stonatura, una dissonanza avrei detto. Le mie riflessioni erano istintive. “E lui? Non ha intenzione di tornare in Italia? Oppure nell’evenienza che il lavoro lo porti a rientrare, tu che farai?” “Lo seguirò, non ha rapporti stretti con la famiglia: vecchi disaccordi e fratellastri da altri matrimoni dei genitori, insomma la sua famiglia sono io.” “Figli?” “Per ora no, credo di avere delle difficoltà… vedremo…” Arguendo lo sconfinamento in un territorio sdrucciolevole optai per abbandonare l’interrogatorio, avevo raccolto impressioni sufficienti, riportai la conversazione su toni più leggeri e le raccontai la mia turbolenta carriera scolastica con le

bocciature e le numerosissime punizioni, delle mie avventure nella Marina Militare (non quella della rivista, certo), del periodo in cui mi trasferii a Londra, dei tanti impieghi cambiati e dei variopinti, peculiari, se non famosi personaggi incontrati in così tanta strada per uno della mia età. Era colpita e ammirata, avevo vissuto tre o quattro volte la sua vita e questo non poteva non farla riflettere: Quella loro grande dedizione poteva essere una piccola piacevole prigionia? Si intendeva dal suo sguardo la curiosità, lo scorno per le occasioni perdute: io sapevo bene che certe esperienze avevano da essere compiute ed elaborate in un loro tempo designato perché quando mai così non fosse queste torneranno a chiedere il conto quando meno attese con conseguenze imprevedibili. Tornai su argomenti meno personali come il pranzo e il lavoro e al proposito dovetti conciliare coi tempi di già largamente rubati. Mi accomiatai con l’intesa che ci saremmo visti al party prematrimoniale del nostro comune amico e mentre stava di fronte a me salutandomi mi allungai a sorpresa, con le mani giunte dietro la schiena come un bambino, stampandole una piccolo bacio sulla guancia che la prese alla sprovvista, ma la spontanea innocenza dello slancio non lo rese importuno, anzi. La guardavo allontanarsi con quella sua danzante deambulazione senza pensare nulla, mi sentivo bene, Anche lei ne ero certo.

Ci stavamo pigiati come a un concerto rock nel grande appartamento di Amedeo al centesimo piano di un grattacielo del centro; Nancy risplendeva di un’aura speciale quella sera mostrando alle amiche il grosso diamante sull’anello della promessa; deliziosamente dolce come sempre raccontava, prendendo lunghi respiri per poi spingere fuori le parole col medesimo fervore di una bambina, la scena della proposta di matrimonio avvenuta a sorpresa in un lussuoso ristorante: l’aspirante marito con un cenno al cameriere fece abbassare le luci tra l’entrée e il main course, tolto il tovagliolo dalle gambe lo fece sventolare con enfasi per usarlo come inginocchiatoio e genuflesso al di lei grembo estrasse dalla tasca un fazzoletto di seta ricamato con le iniziali; mentre lo dischiudeva delicatamente rivelandone l’iridescente contenuto, declamava con voce sicura il suo voto per la vita a venire con lei confusa, spiazzata e un urlo di gioia strozzato in gola dalla mancanza di fiato.

La rappresentazione fu acclamata con un boato di appalusi ed esclamazioni da tutti i presenti al ristorante i quali fischiarono lanciando felicitazioni e auguri soprattutto per la coraggiosa e cavalleresca interpretazione del mio amico che se ne stava adesso lì di fronte agli occhi trasognati delle designate damigelle d’onore estasiate dal racconto della performance. Cangiando visibilmente per tutte le sfumature dal vermiglione al cardinale ando per l’amaranto se non anche punte di borgogna e noi compari che sghignazzavamo perfidi dietro in un angolo tirandogli palline di mollica sulla testa. Ursula ò dietro lasciandomi andare un sonoro scappellotto sulla testa: “Lasciatelo stare scemotti!” disse divertita. “Così si fa: intraprendere una vita fatta di cose reali, costruttiva, senza girare a vuoto su di una giostra che rimarrà sempre lì dov’è…” Aveva il tono di un materno rimprovero a degli impenitenti mocciosi la sua battuta, altrimenti a cose normali l’avrei freddata con una delle mie celebri rasoiate verbali, ma l’atmosfera era intrisa dei migliori sentimenti tanto era sinceramente amorevole l’aura sprigionata dei due fidanzati e i miei artigli rimasero rinfoderati senza sforzo. Si fece avanti una ragazza carina mostrando orgogliosa a tutte le signore presenti la sua nuova manicure prodotto della più avanzata tecnologia cosmetica: questo smalto per unghie, spiegò, cambiava colore a seconda della temperatura e nel mezzo delle espressioni di stupore commentai: “Così sapremo sempre dove hai messo le mani…” Un secondo e la povera signorina incrociò d’istinto le braccia nascondendo le mani sotto le ascelle. Le donne esplosero in una risata fragorosa ma quella argentina, inconfondibile della svedese le coprì tutte e tale fu il suo so da abbracciarmi di slancio alle spalle. Non so descrivere esattamente cosa provai in un baleno: guizzai cogli occhi a trecentosessanta gradi per vedere la reazione del marito e degli altri, poi stupore, imbarazzo; ma l’impressione predominante fu di un indefinibile piacere interiore che salì dalle ginocchia alla testa, una leggerezza dell’anima, pace, gioia Per un brevissimo istante ripeto e sentii lei staccarsi di fretta. Le era scappato quel gesto genuinamente involontario. Feci finta di nulla e continuai a ridere con gli invitati rimbalzando le pupille su ogni volto e sguardo cercando di cogliere le reazioni altrui ma non ero lucido, continuai allora a cavalcare l’onda di ilarità con altre celie e lazzi per distrarli, Amy mi cinse la vita dandomi un morbido buffetto sulla nuca: era tutto okay. Mi abbandonai col corpo nelle sue braccia strofinando la testa all’indietro come un micio, era cambiato qualcosa. Una energia diversa fluiva in me nebulosa, ma il suo richiamo gentile e seducente era come quello a cambiare respiro che il

corpo dà con un lungo sospiro prima della calma, un cambio di velocità: la planata del giovane falco che imparato a non sbattere più le ali sfrutta le correnti, l’ascensione. Allora credevo che l’amore fosse un cielo terso placido e vasto dove librarsi sereni guardando giù, ogni tanto, per aleggiare più in alto.

Facemmo la fila per consegnare i regali e congratularci. Toni caldeggiato da Maria e l’immancabile seguito formato da Nora, il pasticcere di Detroit e la coppia di iraniani proposero un bicchiere della staffa in un locale latino a dieci minuti di strada. Salutai tutti e naturalmente la bella Ursula indugiando appena sulle braccia baciandola sulle guance con un pizzico in più di libertà che non mi rifiutò, ma la stretta di mano del marito fu eloquente, a quello non sfuggiva mai nulla: doveva essere morbosamente geloso della moglie ma non mi lasciai impensierire quindi carico di questo accumulo di emozioni mi avviai col gruppo verso la strada ondeggiando il braccio per attirare un taxi. Una cosa di questa città che solo coloro che la vivevano di notte per diversi anni conoscevano, era il bizzarro quanto piacevole fenomeno del profumo che la contraddistingue. Pur trattandosi di una metropoli smisurata con tutti i difetti a cominciare da un traffico colloso, non puzza di smog grazie al vento incessante proveniente dal lago il quale spinge l’inquinamento sulle grandi pianure circostanti; ma di notte il fenomeno della termica (cioè il calore accumulato dall’acqua durante il giorno, di notte evaporando attira l’aria più fredda dalla terraferma) fa sì che il flusso delle correnti d’aria inverta direzione effondendo i fumi della fabbrica di cioccolata edificata al confine con la periferia; tanto per rendere questo luogo ancora più incantato.

Il bar Nacional Iberico 21 era su una strada appena al limite del centro sotto a un incrocio della ferrovia sopraelevata della metropolitana, non c’erano molte anime vaganti a quell’ora e l’odore di cacao giungeva a folate piacevolissime, a mio parere doveva avere anche qualche effetto sull’umore delle persone o sul tasso di delinquenza: non poteva non mettere di buon umore eggiare a braccetto con Willy Wonka. Al locale mancava solo il fumo stantio e denso di alcuni film in bianco e nero, le luci basse e l’arredamento in legno rosso scuro

gli davano un atmosfera neo-noir, una musica soffusa per pochi intimi trapelava dal corridoio di assi traballanti decorato sulle pareti con file di lucine rosse un po’ natalizie a dire il vero. Il salone si aprì davanti a noi ampio con una decina di tavolini occupati per metà disposti a semicerchio intorno a quella che doveva servire da pista da ballo all’occasione e in fondo su un palchetto un signore sulla sessantina dai capelli lunghi bianchi e pettinati all’indietro stava appollaiato su uno sgabello davanti al microfono abbracciando la sua chitarra come se le stesse parlando o rivelando chissà quale intimo segreto in una chiacchierata tra vecchi amici. Aveva una voce graffiante e morbida allo stesso tempo, occhiali tondi scuri, sul viola avrei detto con l’unico faretto del locale che lo metteva in luce al centro del palchetto appena rialzato. Sollevò appena la testa vedendoci entrare ed ebbi come l’impressione che mi avesse rivolto un cenno di saluto o forse era un movimento dovuto al cambio di presa sullo strumento. Silenzio, venne un cameriere latino a prendere le ordinazioni, su consiglio di Nora optammo per un perfect manhattan, specialità del locale quando battendo un piede sul pavimento il cantante fece capire che stava per iniziare un altro pezzo. Una melodia dolce e calma, con una vena ballerina sotto e carpii alcune delle parole. A esto povre corazon que anda por’lla buscando a esto torpe corazon que se anda enamorando que le importa si despues me paso el tiempo llorando me paso el tiempo llorando a esto pobre corazon que anda buscando cariño a esto torpe corazon inocente como un niño romantico sonador caballero aventurero en la selva del amor me hace sufrir me hace llorar no vale la pena no vale la pena enamorarse no vale la pena no vale la pena enamorarse

que l’amor te da la vida y tambien te la quita cadaveces que te enamore si luego termina. [1] Era graffiante e sofferta, si insinuava nelle vene, il tizio era veramente bravo oltre a essere un personaggio affascinante con quell’aria da moderno trovatore, noi eravamo ipnotizzati sorseggiando il nostro cocktail forte, dolciastro e caloroso come la sua musica. Rientrammo camminando insieme a braccetto tutti quanti, sproloquiando idiozie come fanno gli ubriachi, guardavo la mia bionda dea che sembrava discesa da Asgard solo per me su una brezza di cacao e la tenevo stretta; avevo voglia di amarla, sentirla mia e lo feci quella notte, a lungo.

Un mese era ato e non avevo più pensato alle sensazioni di quella sera, o forse sì; mi domandavo dove fosse sparita Ursula, se mi evitasse deliberatamente o se fosse stata ingoiata dalla città come capita certe volte ma ci incontrammo di nuovo al matrimonio di Amedeo. Il giorno designato cadde in uno scampolo di estate indiana a cavallo dell’autunno, regalando un tepore inusuale per il periodo. Cascate di foglie ingiallite si stendevano in un benaugurante viatico all’ingresso dei fidanzati su un lungo, tiepido, tranquillo percorso dai colori caldi e romantici verso una rassicurante magione di campagna. Una cerimonia sobria ed elegante come nel suo consueto stile, alla quale fummo tutti compitamente festosi di calorose raccomandazioni per i futuri coniugi. Toni e Nora non furono invitati adducendo come motivazione la necessità di mantenere un certo numero di invitati data la costosa presenza dei parenti stretti italiani dello sposo. Per qualche imperscrutabile disegno del fato, o chissà, giocoso ghiribizzo del mio amico trovai la coppia perfetta seduta proprio dirimpetto. Lei era rallegrata della curiosa eventualità, lui poco e punto. Gli occhi del marito si muovevano velocissimi a ogni mia battuta o sua risata: animati da un moto istintivo, controllavano ogni sfumatura nei nostri sguardi o nei movimenti delle mani. Ammetto che riuscì a mettermi a disagio, eppure non

avevo il minimo intento di corteggiare la sua donna quel giorno; ero sereno e stavo bene accanto alla mia compagna, pensavo che la vampata di ione accesasi a New York non essendo stata alimentata a breve, avesse esalato la sua fiammata come un fuoco fatuo non estinto comunque, ed era proprio il consorte davanti a me a darmene certezza; se avevo compreso con chi avevo a che fare lei aveva raccontato del nostro incontro e a quei sensi tanto vigili le più volatili sfumature nelle inflessioni della voce non erano sfuggite. Fui a ogni modo gioviale al punto di vederlo abbassare la guardia e la cerimonia si concluse in una atmosfera cordiale e rilassata coi vari lanci di bouquet, brindisi e pacche sulle spalle; un bel matrimonio. Nessuna fiamma, specialmente se flebile, poteva resistere accesa esposta al vento incessante e a un freddo inclemente come quello che attanagliava questa città durante il suo lunghissimo inverno. Il gelido Blizzard incanalato nelle strettoie forzate dai grattacieli soffiava impetuoso acquistando velocità paurose. I solidi e grandiosi torrioni ne venivano impercettibilmente mossi in un elastico dondolio meccanico, ma i miseri anti costretti a confrontarsi con questa furia elementale avevano da misurare bene i i e le occasioni. Quando questo forsennato respiro delle grandi pianure finalmente si calmava, coltri pesanti di neve calavano senza sosta trasformando i marciapiedi in paludi di ghiaccio e sale: insomma incontrarsi era veramente difficile pure se dopo qualche anno uno imparava a muoversi come avevano fatto e continuavano a fare gli abitanti da secoli senza che la brulicante operosità della metropoli venisse minimamente rallentata. Esistono dei percorsi da seguire per evitare che il vento entrando turbinante in un corridoio di palazzi sbatta letteralmente a terra un inesperto pedone senza che questo abbia possibilità di rialzarsi o delle scorciatoie tagliando attraverso gli edifici utilizzando le porte rotanti. Nel confortevole appartamento di Amy ci spendevo metà della settimana guardando fuori il putiferio climatico in corso al sicuro nel tepore del suoi seni; non mancavano comunque le occasioni per trovarci a cene e feste in casa coi vecchi amici. Avevo azzerato il numero di frequentazioni parallele non senza pungenti battute sarcastiche da parte delle vittime del mio disinteresse, questa donna mi faceva sentire bene e quei piccoli bagliori di dubbio baluginanti nella testa erano definitivamente relegati nel cassetto più basso del comò della paranoia da gelosia.

Le festività più importanti come il giorno del ringraziamento erano ate, le avevamo trascorse insieme io e lei o coi comuni amici; pianificavo di rientrare in Italia dalla mia famiglia all’arrivo dell’estate, Amy invece decise di partire ai primi di aprile, cioè a breve. La accompagnai all’aeroporto un poco abbacchiato, mi sarebbe mancata ma d’altro canto una benvenuta boccata d’aria avrebbe giovato a entrambi con un influsso terapeutico per la salute della coppia. Si sa d’altronde che quando i rapporti si densificano ano attraverso fasi di leggera stanca della quale non si accenna all’altro per timore di ferire o venire fraintesi e benché si sia coscienti entrambi di questo si continua a ignorare; ma l’amore è fatto così a volte, si tira avanti nella quotidianità dove tutto si appiana. Non dico che non iniziavo a misurare col metro di questi almanaccamenti le lunghezze di una convivenza più assidua, sì, la parola fatidica che fino ad adesso non avevo mai osato nemmeno pensare: matrimonio!

Non che ne avessimo mai parlato o che, anzi di solito è la donna a entrare in argomento o a fare accenni allusivi; non era il caso della mia compagna ma essendo lei una statunitense emancipata non diedi certo io il la. La salutai con sincero affetto bisbigliandole dolci e tenere parole che lei ricambiò sigillandole con un bacio profondo da donna innamorata; dopo averla vista scomparire nel corridoio dietro al check-in mi fermai davanti al tabellone delle partenze guardando l’orario di decollo del volo. Un taxi verde chiaro mi riaccompagnò a casa in una mattina di primavera; appena dentro mi buttai sul letto stirandomi vergognosamente e allo stesso tempo respirando profondamente l’ossigeno fresco e corroborante della vita da scapolo, espirando con uno sbadiglio da crampo alla mandibola l’aria calda e viziata dell’uomo accoppiato; presi il telefono e chiamai Toni. Felice di sapermi libero e pimpante mi mise subito in una comunicazione a tre con Nora la quale stava parlando con una amica e decidemmo di ritrovarci al locale spagnolo la sera stessa ma prima una robusta Jambalaya, una zuppa Cajun fangosa e piccantissima della Louisiana perfetta per riaccendere i sensi sopiti. Ero certo che la mia partner stava festeggiando allo stesso modo a casa per cui mi diedi al buon tempo senza sentirmi troppo colpevole; consumata la gustosa

cena innaffiata da diverse birre ammo all’inaugurazione di un bar del centro con bevute gratis, sempre con l’idea di dirigerci poi alla meta prefissata. Fu una serata tranquilla tra buoni amici. Decisi di chiamare Amy ma al numero che avevo rispondeva una gentile voce femminile avvisando di lasciare un messaggio, cosa che feci, poi mi riaddormentai. Al lavoro tutto filava liscio, Phyllis la commessa si era trovata un fidanzato di ventotto anni che tenne a presentarmi per un parere e al quale diedi la mia benedizione: Linda scodinzolava leggiadra per il negozio, molto probabilmente aveva un nuovo amante, e io cominciavo a contare i giorni per il meritato rientro alla terra natale, tutto perfetto, okay.

Una mattina mi svegliai alla solita ora e come d’abitudine accesi il televisore per ascoltare le notizie, le previsioni meteo e altri avvenimenti quando feci caso a una scritta che ava nel bordo inferiore dello schermo: la compagnia fornitrice del servizio televisivo via cavo informava gli utenti che in occasione del tax day (ricorrenza annuale del pagamento erariale nazionale) omaggiava i clienti di ventiquattro ore di programmazione gratuita del canale porno a pagamento. Vista la mia condizione temporaneamente ritrovata di uomo libero, pensai, posso approfittarne registrando una videocassetta da diciotto ore, forse al suo ritorno Amy farà meno resistenza trovandosi di fronte al fatto compiuto senza l’imbarazzo di dovere entrare in un negozio; attribuivo a quello la sua chiusura sull’argomento al mio primo tentativo. Preparai tutto quindi uscii per recarmi al lavoro. Rientrai come di norma intorno alle venti dopo avere comprato qualche cosa al supermercato, sistemai la spesa e mi diressi al videoregistratore: riavvolsi il nastro e lo feci partire più per controllare se avesse funzionato la mia idea che non per guardare per cui continuavo nelle mie faccende casalinghe. Il nastro si vedeva nitidamente, dopo le varie inserzioni pubblicitarie partì la sigletta mentre mi dirigevo in bagno a posare dei saponi appena acquistati; al ritorno volsi lo sguardo distrattamente allo schermo e mi bloccai d’istinto, non ero certo di avere visto bene!

Stavo in piedi schiena all’armadio a muro, concentrai lo sguardo ma non credevo, riguardavo non poteva essere! La scena allarga un primo piano e senza fiato mi trovo a terra.

[1] “No vale la pena” di Johnny Rivera.

II

No… La mia mente lo pensa con un boato così cupo e pesante da assordarmi. Amy! Mi concentro, provo a concentrarmi, è in piedi al centro di una sala, truccata pesantemente sorride invitante a un’altra donna che la bacia lasciva, lei si toglie i vestiti… Mio Dio! Mio Dio! Conosco ogni millimetro di quel corpo, vorrei sbagliare, dire che non è lei ma più la guardo più il mio cuore si stringe salendo alla gola. No… Questa volta esce strozzato un guaito piagnucolante, le mani piantate sulla moquette fredde, rigide; lei adesso sorride a un uomo, gli si abbassa davanti e se lo mette in bocca avidamente: il primo impietoso piano non risparmia niente dei suoi occhi e mi chiedo cosa stia pensando, mi chiedo dove, chiedo quando soprattutto perché, perché! Perché amore mio… e un pianto asciutto mi scuote facendo sussultare il corpo, eppure continuo a guardare catatonico. Cerco il telecomando alla cieca intorno alle gambe, ripeto a me stesso di spegnere, forse voglio punire sino in fondo la mia stupidità: sì, mi sento tradito ingannato, sciocco un povero ingenuo; non lo trovo e mi batto i pugni chiusi contro la testa con violenza, mi picchio, facendomi male ma non riesco a distogliere la vista e cambia la scena. Lui la prende adesso piegando il suo bellissimo longilineo corpo su di un tavolo, oltraggiandolo coi possenti colpi dei lombi mentre lei si contorce in smorfie di falso piacere. Io lo so Bastardo! Io lo so come è lei! Bastardo! Bastardo! Bastardo! L’altra attrice va a sedersi di fronte a Amy e spalanca le cosce, gli scossoni dell’uomo fanno rimbalzare la bocca che tanto ho baciato in quel viscido ricettacolo di lussuria! Mi mordo l’indice destro serrato a pugno, affondo i denti senza avvertire alcun dolore: niente placa la mia anima stracciata, urlante, spossata.

Quando le mie membra cominciano a rilassarsi esauste dalle frustate del martirio fa il suo ingresso un secondo uomo, senza troppi indugi la prende per i capelli torcendole il collo all’indietro, mio Dio!, l’espressione sul suo viso… lussuriosa, provocatoria alla bestia furiosa che si fa spazio in lei sodomizzandola, adesso sono in due a trascinare via quello che resta della mia mente sconvolta tra le incitazioni di quella donna, simulacro oltraggiato di tutto ciò che credevo. “Come fai? Come fai?!” L’urlo esce dalla bocca a pieni polmoni dolendo nel petto senza averlo pensato o comandato mentre le mie gambe scalciano alla stregua di quelle d’un burattino impazzito, i due animali svergognano definitivamente il volto di lei, ormai odiato e grottesco col loro sudicio piacere; mi alzo di colpo e sferro un calcio fortissimo al televisore che si rovescia trascinandosi dietro i fili, silenzio finalmente. Il mio singhiozzare asciutto senza più lacrime da piangere è l’unico suono udibile nella stanza con un impietoso eco, sino quando non ho finito il fiato e le forze, esalando un pietoso muto gemito dalla bocca aperta che sgocciola densa saliva. In piedi davanti ai resti del tragico teatrino non so dove sono né che giorno sia, i pensieri frullano così forsennatamente da confondersi. Mi lascio andare a peso morto sul letto, ho il fiato grosso, sudo e non voglio tornare indietro coi pensieri, accasciato desidero l’oblio ma il furore ha il sopravvento ora, la pietà di me stesso ne prende il posto subito dopo e rivolto la faccia nel cuscino urlando ancora: “Dovevi dirmelo, provare a parlare! Schifosa! Schifosa! Schifosa!” Nello stesso istante nel quale finisco di imprecare risalgono i ricordi di parole, situazioni; sì, forse aveva provato a modo suo a farmi capire, ma io, io come potevo intendere povero guappo di provincia!, era la giusta punizione di un mondo strutturato per i prudenti, gli indolenti i malfidati che non fanno un o più lungo della gamba, quelli che non osano mai, sicuri, vittoriosi della vita: a questi mai potrebbe succedere di trovarsi in una melma così disgustosa, di vedere bruciare la stima di se stessi all’inferno dei temerari dei morituri designati, avventati e stolti eroi, perdenti! Mi viene in mente cosa fare: alzo il telefono, mi schiarisco la gola. Provo a riacquistare lucidità, riassumere il controllo e chiamo Amedeo. “Ciao sono io…” Per quanto io cerchi di sostenere la voce deve risuonare come un eco dal limbo, cosa gli dico, da dove inizio mi chiedo con la cornetta stretta nella mano livida. “Ciao, che sorpresa!, ma che voce hai… è successo qualcosa?»

Intuisce immediatamente il mio saggio amico. Pochi lunghi istanti sospesi nel tempo durante i quali tento di riordinare i gli eventi, da dove inizio.. ”Ho visto un film porno…” Amedeo non dice niente, aspetta. Ricomincio. “Ho visto un film porno e… Amy era lì, lo stava facendo lei…” Tace. Mi racconterà poi che fu più per la gravità del mio annuncio che non per il fatto stesso, al tempo continuò: “Sei certo che fosse lei? Voglio dire, sai bionda alta bella… ce ne sono molte che le potrebbero assomigliare…” Intuisco dalla sua inflessione il tentativo di arginare la mia delusione pur conoscendo la risposta. “Sì, sono certo, conosco il suo viso e il suo corpo e anche se credi che io non possa essere lucido te lo mostrerò e mi darai ragione.” “Guarda, non importa, non voglio vedere mi fido di quello che dici… mi dispiace…” “Amedeo, non so cosa fare, non so più cosa pensare…” Ed ecco arrivare il sollievo di un pianto leggero che anche il mio amico percepisce dall’altra parte del microfono. “Ascolta, adesso tranquillizzati e non fare assolutamente nulla poi io proverei a chiamarla per dirle quello che hai visto, senti come reagisce… cosa ha da dirti.” “Cosa vuoi che mi dica quella bagascia!, che stava cercando di rifarsi una vita a mie spese, con l’inganno?! Quando pensava di mettermene al corrente… queste non sono cose che una può nascondere a lungo, di certo l’unica cosa che so è che non era per sesso il motivo per cui stava con me: di quello ne ha a sufficienza!” Sto gradatamente ritornando in possesso della ragione e Amedeo mi lascia

sfogare. “Il perché! Io non riesco a capire il perché!, è quello che mi manda fuori di testa capisci?!» La sua voce è monocorde, rassicurante: “Capisco che adesso ti senti offeso, preso in giro, umiliato, ma la cosa migliore che tu possa fare è non cercare rivincita o vendetta. Vedila così, sei fortunato ad averlo scoperto adesso, non siete sposati e non avete figli, hai capito con chi hai a che fare per cui poche parole basteranno e tu cercherai di procedere oltre”. Per questo l’ho chiamato, per la nitidezza con cui riesce a vedere il nocciolo della questione anche se un poco mi dispiace dover ammettere una sconfitta di principio e dimostrare attraverso tanta sonora lezione quanto io mi sbagli con le mie teorie, ma in questo momento le mie considerazioni a questo riguardo hanno poca importanza un fuoco consuma tutto il mio essere corrodendomi da dentro. “Grazie amico mio, scusa se ti ho disturbato con le mie sciocchezze, il tuo avviso è sempre prezioso per me perché ti so sincero. Ti terrò al corrente.” “Ti prego fallo, e non dire stupidaggini… sarebbe un duro colpo per chiunque, coraggio, aspetto notizie, ciao.”

Chiudo la conversazione e mi stendo a braccia larghe sul letto, sto meglio grazie ad Amedeo e seguo subito il consiglio, compongo il numero di Amy. Nessuna risposta, si attiva la segreteria e quando arriva il suono per lasciare il messaggio prendo fiato… attendo un secondo poi, sorpreso dalla chiara, calma durezza della mia voce: “Ciao Amy sono io, ho visto una cosa in televisione che mi pare si intitoli Fidanzamento a quattro o qualcosa del genere, credo ci sia poco da dire…” Lascio così, in sospeso le ultime parole destinate a lei, poso il telefono con lentezza, delicatamente ripensando alle parole del mio confessore e mi dico, no! No, non posso permettere che rimanga impunito questo sordido modo di vivere, che lei esca impunita e senza conseguenze da tanto male inflitto a chi la amava per rifarlo di nuovo! Deve imparare quanto sia meschino approfittarsi della sincerità di un cuore pulito: pagherà! L’odio come antidoto al veleno del dolore: scriteriato pur se efficacissimo

palliativo inoculato da un primordiale ego quando veniamo colpiti, quale più grande e immediata soddisfazione del rispondere a un schiaffo con un pugno? Non pensiamo alle conseguenze nel momento, la rabbia non fu mai molto fantasiosa. Quella notte ricorsi a champagne e Xanax certo che altrimenti non sarei stato capace di dormire, e fu così che un sonno profondo e senza sogni mi inghiottì misericordioso. Non mi presentai al lavoro il giorno dopo, ero sfinito e in preda a una angoscia profonda: mi sentivo un bimbo smarrito in quel bosco tetro che vedendo ombre affacciarsi da dietro ogni foglia non sa più come muoversi. Acquattato nel centro del letto vigilavo su orrendi fantasmi pronti a ghermirmi, fragile e senza difese, estenuato dalle fitte delle immagini balenanti di lei, la mia boia torturatrice in guêpière e reggicalze, tacchi alti, dagli orifizi lordi di seme raffreddato, che mi fustigava beffarda e spietata! Non mangiai niente per un paio di giorni, fumavo in continuazione accatastando cicche spente nella bottiglia vuota di champagne, né risposi ai messaggi lasciati dagli amici e colleghi alquanto preoccupati; ma nessuna replica dalla crudele Messalina, niente! Colpevole! urlavo nella mia testa, sentiti colpevole di questo scempio! Bocconi sul materasso, con la barba lunga e la pelle appiccicosa non mi lavai per tutto il tempo ma non me ne preoccupavo volevo non esistere più per non prolungare oltre questa iniqua sofferenza oramai insopportabile e sapevo che non si sentiva affatto colpevole o avrebbe chiamato, sussurrato un semplice mi dispiace al telefono, ma ancora niente… se non lo schiavacciare della porta! Sentii aprire con decisione e la voce in inglese del portinaio disgustato dall’odore di stantio e di fumo. “Questo è un condominio per non fumatori, Cristo!” imprecò ad alta voce. Ero semi-addormentato, rincitrullito dallo Xanax e dalla fame, riuscii comunque a distinguere dei i più leggeri e una voce di donna assieme a una altra maschile più profonda, indistinguibile. Sentii una mano delicata spostare i capelli unti e attaccaticci dalla fronte.

“Oh ragazzo… ma cosa ti succede… chi ti ha ridotto così…” C’era una grande pena in quella voce amica, spostai gli occhi a fatica e riconobbi Nora, dietro di lei Toni e l’esterrefatto portinaio. Ricaddi addormentato. Allarmati dalla mancanza di notizie i miei amici interpellarono Amedeo il quale informandosi sul mio posto di lavoro quando venne a sapere delle assenze provò a chiamarmi, ma non ricevendo risposta, temendo il peggio, insieme agli altri amici contattarono l’amministrazione condominiale per far aprire la porta con una chiave di riserva. Furono meravigliosamente solleciti nelle cure, specialmente Nora, le donne si sa hanno questo lato protettivo e materno che le rende insostituibili, affidabili quanto un porto sicuro per queste navi quali sono allegoricamente gli uomini. Spinti sempre oltre i limiti per vocazione o educazione, a voler dimostrare chissà poi cosa, incontrano nei profondi mari delle loro esplorazioni queste creature multiformi: sirene ingannevoli, irresistibili per gli sprovveduti o inesperti, salvifici approdi quali ripari dalle tempeste più furibonde e distese vaste, placide sulle quali veleggiare poetando alla pace e alla bellezza del creato, scogli infidi sui quali si fracasseranno naufragando perdendo la rotta per sempre, tumultuose correnti che li spingeranno al di là dei confini esplorati o inimmaginabili gorghi che li risucchieranno ineluttabilmente verso le più profonde oscurità senza poter mai più risalire annegando nel buio degli abissi, soli. In uno di questi ultimi ero finito io ma fui salvato da balene e delfini. Nora mi portò nel suo chalet nel Michigan in un ridente paesino affacciato su un piccolo lago a forma di zampa d’orso in cui erano ospiti dei suoi giovani cugini; mi accompagnò anche Toni il quale si fermò per un lungo week-end dato che la mia caritatevole infermiera sarebbe dovuta rientrare al lavoro.

Il clima era ottimo e il posto un resort tranquillo per famiglie, la casa su due piani in legno bianco circondata da una palizzata stile anni Sessanta era proprio come quelle viste nei vecchi film americani con un ampio giardino e una lunga scalinata di assi discendente su di un piccolo molo al quale era ormeggiato un motoscafo di piccole dimensioni, usato per le brevi traversate da una riva all’altra. Il centro del paese, poco distante, non offriva grandi distrazioni a parte un ristorante a conduzione familiare dove servivano hamburger e patatine

preparati alla casalinga, nonché la torta di mele calda più buona dell’universo guarnita con una palla di gelato alla crema. Mi dissero che Perry Como ava le sue vacanze qui, meno viveur di Frank Sinatra e senz’altro meno famoso, credo di non avere mai sentito alcun pettegolezzo su di lui. E bravo Perry! pensai, l’ameno piccolo paradiso produsse solo con la sua vista i primi benefici sul mio umore. Non facevo niente tutto il giorno se non mangiare agli orari più strani e dormire sul lettino di pelle a poppa dell’imbarcazione agli ormeggi. Dormivo continuamente, tutta la notte, dopo un abbondante brunch dormivo a metà mattinata, dopo pranzo dormivo per quasi tutto il pomeriggio e pensavo… pensavo… pensavo…

C’era quell’uno che cavandosi un pruno, dal gusto che ne aveva se lo cavava e se lo rimetteva. Tale e quale era la condizione mentale che mi portò a investigare su internet cercando risposte, qualcuna la trovai. Andando a ritroso, partendo dal titolo del film risalii agli attori svelando il nome d’arte di Amy come Lipsy Galore! Ossignoreiddio!, pensai scoprendolo assieme a una lunga carriera costellata di sprazzi di gloria e una filmografia impressionante: una starlette del porno con tanto di sito personale e posta del… Ma la sorpresa più inaspettata la feci addentrandomi più a fondo nel bestiario dei protagonisti nonché dei produttori più autorevoli dove vidi apparire nientepopodimeno che la voluttuosa biondona attempata tenutaria del party al quale fummo invitati io e la mia baiadera! Una potenza del sottogenere cinematografico in questione, più celebre delle attrici stesse essendolo stata pure lei anni addietro. Ecco spiegato il disappunto di Amy quando le dissi di non conoscerla: vedendomi scegliere la cassetta porno quella sera in videoteca lei intuì la mia ione per il filone paventando di venire scoperta, forse era addirittura in quel film, quindi provò a rivelare qualcosa per indizi, prendendola molto alla larga certo, un poco troppo: questo tentativo non la faceva apparire migliore ai miei occhi. Continuavo a immergermi nel torbido con le mie investigazioni, scavando altro fango e menzogne aumentando la mia depressione fino al giungere del sonno

catartico. Effettivamente non fui di grande compagnia per i miei gentili coinquilini, comunque non disturbavo, li sentivo parlottare tra loro incuriositi sempre molto discreti e riservati come sono solo gli americani del Midwest. Recuperai le forze in una settimana, quindi vidi arrivare Nora con Toni che mi osservavano sorridenti e interrogativi con una leggera trepidazione, andai verso di loro guardandomi i piedi mentre camminavo. Quando li ebbi di fronte li abbracciai stringendoli con forza e gli occhi ricolmi di lacrime con cui bagnai i loro visi. “Grazie amici miei vi voglio bene… grazie!” glielo dissi con grande affetto nella voce tirando su col naso; sentii che anche loro erano commossi. Salutai il villaggio da cartolina con gratitudine, non ci sarei mai più tornato. Rimane sempre nel mio cuore come un amico caritatevole incontrato per caso il quale ti ha salvato la vita per mera gentilezza, senza aspettarsi ringraziamenti o dirti il proprio nome. A un fatto in particolare ho legato il ricordo di quel posto, un episodio forse insignificante ma che comunque mi rimase impresso. Una mattina alzatomi prima del solito mentre stavo in cucina con la televisione accesa sul notiziario preparando un caffè con la tipica caffettiera a caduta, mi trovavo di fronte alle ampie vetrate che davano sul lago e al viottolo d’ingresso terminante col cancelletto in legno a destra; attirato dal fragore come di un oggetto di latta che cade per terra guardai fuori incuriosito e notai due piccole mascherine occhieggiare dalle frasche circostanti i bidoni della spazzatura scoperchiati. Mi fermai e trattenni il respiro, vidi due procioni bellissimi uscire dal boschetto per terminare la razzia. Grazie alle estremità simili a mani umane in miniatura maneggiavano con sorprendente abilità i rifiuti tirandoli disordinatamente fuori dai contenitori, i due piccoli teppisti si davano un gran da fare nella loro vandalica scorribanda agitando le folte code come per comunicare tra loro e stavano combinando un vero disastro per la strada disseminandola di cartacce, aprendo ogni genere di contenitore con quelle buffe zampette e il musetto da banditi dipintogli da madre natura. Stavano esagerando per cui decisi di farmi vedere, i due si girarono fissandomi paralizzati per un attimo poi via, infilarono da dove erano venuti dileguandosi come spettri. Divertito dall’episodio, dimentico dei torbidi pensieri che mi affollavano la testa mi concentrai sull’oroscopo alla televisione pensando vediamo se mi darà qualche dritta per le mie prossime mosse, un celeste avviso, un segno! Ascoltai gli auspici indirizzati a tutto lo zodiaco ma quando arrivò al mio la TV si spense!, così, senza preavviso. La macchina del caffè dalla spia rossa segnalava l›afflusso

di corrente, accesi la luce, funzionava; premetti ripetutamente il tasto di accensione e spegnimento del televisore niente! Mi girai spazientito sbattendo la tazza sul piano della cucina e click il televisore riprese a funzionare con il proseguimento dell’oroscopo mi voltai d istinto verso la porta aperta e i procioni erano lì. Accoppiati sul viottolo mi guardarono, per lunghi secondi… Il caffe crocchiolò, mi distrassi un istante ma i due animaletti erano spariti di nuovo.

Ritemprato dal benefico isolamento dovrò affrontare il ritorno al lavoro e alla vita sociale sapendo che taluni chiederanno spiegazioni talaltri avranno elaborato machiavelliche congetture: come accade spesso in queste circostanze nei circoli chiusi, qualcosa riesce sempre a trapelare e pur se ancora in guarigione il mio spirito ha conservato la asprigna auto-ironia che lo distingue e per la quale piaccio a tanti, quindi mi sforzo di immaginare con divertita curiosità quali saranno le cause attribuite alla mia improvvisa assenza; mi basterà leggerlo sui visi e dai corpi dei miei interlocutori. Le espressioni delle mie colleghe sono di sincero affetto e sollievo da una lunga preoccupazione, i loro abbracci, le loro parole mi fanno intuire che sanno niente o quel poco che hanno sentito non le ha soddisfatte né convinte; la giustificazione ufficiale anche e soprattutto per i datori di lavoro attribuisce a una violenta febbre virale la mia degenza in uno stato di semi-incoscienza, data l’esemplare condotta di servizio non hanno mosso alcuna obiezione augurandomi un caloroso bentornato. Tutto liscio; chissà, mi chiedo in un momento, se Ursula ha saputo e cosa ha saputo, se e come mi giudicherà ma non sono solo queste le domande che aleggiano nella mia testa. Non mi sono fatto definitivamente una ragione dell’accaduto, ancora psicologicamente convalescente le ferite tornano a farsi sentire acuendosi nella constatazione di non aver ricevuto a oggi alcuna telefonata da Amy, pure silenziosa che fosse stata o una lettera, un’ambasciata da qualche comune conoscenza: il più colpevole dei silenzi e basta! Inoltre il giorno prima il bellimbusto amico di Amedeo, il ragazzo conosciuto alla fatidica festa alla quale incontrai la causa dei miei sgomenti, incontrato casualmente all’uscita di un supermercato mi aveva informato di averla vista in città. Era accompagnata da un tizio alto dai capelli lunghi con una andatura particolare, dinoccolata, che saltava all’occhio; si aggirava qualche isolato a nord in un circondario dove sorgeva una vecchia costruzione ancora in mattoni rosso

scuro che occupava un paio di blocchi. Quanto era imbecille il bellimbusto che ebbe persino la faccia tosta di chiedermi il suo numero di telefono: “Tanto non ci stai più, giusto?!” Non so cosa mi trattenne dal devastargli il bel faccino da cicisbeo patentato. “No,” risposi secco andandomene via lasciandolo lì con l’espressione ebete di uno che non ha ben capito cosa abbia detto di sbagliato. Ho intuito subito dove si è trasferita e queste notizie non fanno che soffiare sulla brace ancora ardente dell’orgoglio: sotto le ceneri di un povero cuore illuso questa brucia, brucia… Brucia alimentata dal soffio del ricordo del dolore. Accade così che una fiamma di ione spenta nel pianto si riaccenda rianimata dalla trasformazione della sua potente energia nell’ odio? Più che odio forse desiderio di rivalsa, giustizia e pulizia; solo quando veniamo offesi vediamo i peccati del mondo e desideriamo cambiarlo infervorati nel ruolo dei giusti, e così cominciai a ordire ripescando preziosi diamanti del nostro tempo più bello per ritorcerli a mo’ di pesanti pietre scagliate contro l’immonda peccatrice. Adesso ho bisogno di un complice, qualcuno che abbia sentito la spada della delusione conficcarsi nell’anima facendo indimenticabile conoscenza con il suo lancinante fendente: Toni, lui sa. Si presentò con quella nota bassa, addolorata nella voce il giorno che gli strinsi la mano. Riacquisto lentamente la nitidezza della vista tornando a distinguere le nivee sagome dei manichini nudi contro la parete bianca della vetrina; mentre le fissavo assorto nei pensieri erano scomparse in un mare lattiginoso dal quale mi ritrae la mano di Toni aperta davanti alla sua imponente sagoma e i suoi espressivi occhi scuri. Gli avevo telefonato la mattina stessa spiegandogli un po’ più sinteticamente l’accaduto di quanto non avevo fatto con Amedeo, lui con quel suo modo tranquillo stette a sentire senza replicare per dirmi solo quando finii che ci saremmo visti più tardi al negozio per parlarne a quattr’occhi durante la pausa pranzo. Ci sediamo ai tavolini esterni di un bar e ordiniamo due panini con un paio di soda poi gli porgo una videocassetta.

“Qui c’è registrato solo quel film, dagli un’occhiata se ti va così mi dici anche tu se ho avuto le traveggole.” Ero certissimo che fosse lei e non mi vergognavo nemmeno un po’ di esibire la mia onta tanto era il disprezzo che nutrivo adesso per quella donna, volevo renderlo partecipe il più possibile: sapevo che aveva un conto in sospeso con la perfidia femminile ed ero ansioso di regolarlo, anche solo in parte. “Le ho telefonato ma non ho ricevuto risposta ancora e credo che non ne riceverò mai dato il personaggio…” dico seccamente. “Comunque sarebbe piacevole il contrario, no?!” Mi sorprende con questa asserzione scandita in tono paterno. “Fammi capire bene, ”ripresi io dopo un attimo di sbigottimento. “Mi stai chiedendo cosa farei se adesso lei chiamasse cercando di spiegare, insomma di farsi perdonare…” “Sì.” è la decisa risposta scrutandomi coi suoi occhi di velluto. “Sì sarebbe bello, ma non succederà perché questo non è Pretty Woman e le puttane non si baloccano con le bambole la sera pregando perdono come vittime di scelte sbagliate! Ci saranno probabilmente anche quelle, ma i soldi sono un miglior conforto e garanzia di emendamento… fidati di me!” Toni mi studia sconcertato da cotanto cinismo, di sicuro non me lo attribuiva me ne accorgo e continuo imperterrito. “Ci ha provato Toni! Ha provato a vedere se fosse riuscita a farsi una vita nuova con uno straniero arrivato da Mostaccioliland che ancora non aveva sondato proprio tutte le fogne della città, ignaro di quali razze di bestiacce le popolano!” Sono lucidamente furibondo mentre declamo la mia sacrosanta indignazione. “Ma sarò felice di sbagliarmi se non sarà come dico…” Mi calmo lentamente mentre esaurisco il mio sfogo sotto lo sguardo attonito del cameriere il quale andandosene, pur non comprendendo la lingua, intuisce un più che trasporto nel mio rabbioso gesticolare sputacchiando dalla bocca. Toni non interviene, afferra il suo sandwich e lo morde con decisione, io lascio andare giù le braccia dalla sedia. Rimando alcuni impazienti sguardi al mio interlocutore apparentemente ben deciso a finire la sua delizia che il caso vuole

si chiami proprio Tony’s Special: al vantaggioso prezzo di cinque dollari una libbra di arrosto di manzo all’italiana viene issata su una pagnotta precedentemente ben inzuppata nel sugo di cottura della carne, sopra colato del formaggio americano fuso e una cascata di peperoncino Jalapeno in salamoia affettato, il tutto accompagnato da una generosa porzione di patatine fritte al formaggio fuso; il panino, ribattezzato da noi pagnotta anti-uomo, non sembra impegnare troppo il mio amico, mentre io fisso il cheeseburger nel piatto cercando di attribuirgli uno scopo. Trangugio la soda e vedo Toni sollevare la bocca dal fiero pasto per dirmi: “È già molto che tu stia reagendo così, se ti avesse preso la depressione sarebbe stato peggio…” “Ma io sono depresso Toni!” piagnucolo. “Sono depresso e incazzato!, io lo so che conosci bene quello di cui ti parlo…” “Eh sì, amico mio che lo so, sono tutte stronze e sanno bene con chi esserlo: con gli ingenui come me e te! Avevo capito subito che tu eri come noi, intendo Nora e Maria, non avevi niente a che fare co’ ’sti tipi figli di papà… brave persone per carità, ma quelli vivono come le scimmiette ammaestrate, non saprebbero mai sgomitare come dobbiamo fare noi per farci posto sotto al sole e alla pioggia, e quello che mi fa pure più rabbia è che si permettono anche di guardarci dall’alto in basso!” “Quello lo fanno per mascherare la loro insicurezza, perché gli hanno insegnato così, è il loro mondo. Nonostante quello che dici, verissimo tra l’altro, non gliene facciamo una colpa e continuiamo a essere noi… a proposito di Maria visto che l’hai menzionata, come sta, che fa?” Maria fu una mia amante occasionale, anche per volere di lei, fino all’arrivo di Amy; un corpo asciutto e nervoso reso più interessante da una mente profonda, purtroppo addentrata, forse perduta nei cunicoli della depressione a causa di una relazione sfortunata. Ne parlava spesso con me che la ascoltavo volentieri, perché nel suo arido sfogo non polemizzava retoricamente sulle ovvie differenze tra i sessi ma cercava le radici della propria debolezza. “Quella po’raccia sta sempre a batte’ i pezzi, quando ha i suoi periodi giù si nasconde in casa e non vuole vedere nessuno, manco me per cui di te non sa niente… va da sé che non aveva in gran simpatia la bionda.”

“Ebbè…” rispondo io alzando i palmi in su incassando la testa nelle spalle. “La chiamerò per sentire come sta, magari se la coinvolgo nel mio piano questo le consentirà di distrarsi un poco visto che fa parte come noi del club dei delusi…” lo dico con un ghigno ironico che fa sorridere il mio amico. “E che piano sarebbe?!” chiede con un lampo di curiosità in un occhio e di malizia nell’altro. “Amy è in citta! È tornata con un tizio, l’ho saputo da fonte certa e ho capito dove abita, anche se non con molta precisione, ma è qui che ci aiuterà Maria…” Toni mi ascolta con attenzione. “Quindi,” continuo, “se andassimo uno di noi due a chiedere informazioni alla portineria per accertarci con esattezza in quale blocco risiede desteremmo sospetti essendo uomini ma se lo fe Maria potrebbe are per una normale ragazza intenta a rintracciare una vecchia amica!” Continua a studiarmi sempre concentrato leggermente in apprensione, procedo spedito: “Conoscendola sono certo che ce lo ha in casa il nuovo fidanzato, lei la mattina esce presto per andare al lavoro o all’università o a recitazione, noi gli spediremo il nastro, le poste lo recapiteranno entro le dodici come da tabella di marcia, lui sarà ancora lì a ritirarlo… et voilà messieurs et dames: vendetta è fatta! Gliela tiro giù io la casa delle bambole a quella disgraziata!” Toni è ammutolito. Ha bisogno di qualche secondo per ponderare l’intera faccenda, ma io ho svolto bene i miei compiti a casa. “Se po’ fa’!” conclude esalando la sentenza con sospiro indecifrabile. “Bene, con Maria come facciamo?” “Chiamala tu poi ci parlo io.”

Non capii mai bene quali fossero i reali motivi per i quali decisero entrambi di aiutarmi, io per forma caratteriale o pigrizia che fosse non mi sarei mai fatto coinvolgere in un simile intrigo apprezzando comunque moltissimo la loro

palese dimostrazione d’affetto: l’amore nelle sue mutevoli forme non aveva ancora finito di manifestarsi redarguendomi sulla mia ignoranza.

Maria esprime qualche giusta rimostranza sulla sua partecipazione visto che il ruolo assegnatole è quello più scoperto, la convinco con grandi occhi sgranati e ampissime rassicurazioni sulla comprovata deficienza mnemonica dei portinai così dopo un paio di giorni eccola di ritorno con le informazioni richieste. Le o a Toni e lui mi dà appuntamento il giorno dopo al solito Bar ai piedi del grattacielo nel quale è sito un piccolo ufficio postale, una volta seduti al tavolino estrae dalla tasca di un voluminoso pastrano antracite il pacchetto dove stampati con anonima grafia da computer leggo nome, indirizzo e numero dell’appartamento; il mittente una società pubblicitaria: Big Time Productions Inc. Magnifico lavoro, pulito come lo encomierebbero dei gangster professionisti; mi rendo conto di quanta freddezza mi manchi per codesto ruolo quando, attirato dal ticchettio di plastica proveniente dal pacco, realizzo che questo è provocato dal tremolio trasmesso alle bobine della cassetta proprio dalle mie mani. Mi chiedo se è giusto quello che sto facendo, se non sarebbe meglio per tutti se io perdonassi lasciando a quella donna il peso delle sue azioni: verranno a chiederle il conto un giorno, la vita bilancia così tra bene e male! Sono il dubbio dell’esistenza di sconosciute righe piccole in un eventuale kharma cosmico, di ingarbugliati vizi di forma celesti quali comodi lasciaare per il perdono a spronarmi verso il bancone dove il pingue e inespressivo Beauford (leggo il nome sulla targhetta al petto) afferra il plico per appoggiarlo sulla bilancia chiedendo atono: “Posta registrata?” Sono certo che l’imponente afroamericano guardando la mia faccia stravolta dalla tensione deve avere pensato per un attimo che sia un pacco-bomba per cui mi incalza: “Contiene materiali pericolosi?” “No… una videocassetta pubblicitaria…” “Firmi qui grazie.” Naturalmente nomi e indirizzi di provenienza sono falsi come la sigla che scarabocchio nervosamente.

“Il suo nome in chiaro a sinistra nella casella grazie.” Mi guarda spazientito Beauford e io gli mollerei una sberla su quel faccione da rompiscatole urlandoci sopra un mi lasci in pace pancione?! Esito qualche istante richiamando un nome di fantasia: Pantaleo Forlimpopoli vergo in chiaro stampatello, lo conobbi durante il servizio militare, ovvio come mai non lo dimenticai, quindi feci scivolare il foglietto sotto gli occhi dell’odiato impiegato il quale senza alzarli separò le copie per tornare a piantarli nei miei. “Sei e novanta.” Esco di gran carriera, abbondantemente sudato e seriamente provato dall’esperienza. “Dio quanto è faticosa la vendetta, non hanno veramente nulla da fare i mafiosi per impiegare il loro tempo? è meno impegnativo lavorare te lo assicuro!” farfuglio al torreggiante Toni il quale mi aspetta paziente in piedi fuori dall’edificio. “Ora non resta che aspettare, ce ne andiamo a mangiare una cosa al francovietnamita?” “Ottima idea amico mio! Ho bisogno di fare una doccia prima se non ti spiace, che ne dici di trovarci là in un paio d’ore?” “Sta bene!” concorda. “Chiamo Maria, Nora e gli altri così brindiamo.”

Dopo una bella rinfrescata mi avvio verso il ristorante, si è fatto buio, allungo il o già lesto per il ritardo quando noto Maria con le braccia conserte in attesa sotto l’ingresso della scala che conduce al bar, eggia avanti e indietro fermandosi solo quando mi vede andarle incontro. Attraverso di corsa la strada un po’ allarmato dalla sua espressione preoccupata, lei scioglie le braccia facendo gesto di fermarmi una volta di fronte a lei. “Ascolta… c’è lei di sopra! Era già seduta con un tizio all’entrata della sala, come siamo arrivati e ci ha visti ha cominciato a buttarglisi addosso… forse è meglio se non sali… ti vuole provocare!” Non dico niente, rifletto sul da farsi poi guardo la mia amica prendendola per il

braccio con garbo. “Prima o poi sarebbe dovuto succedere, lo sai… sono un ragazzo forte, ormai non può più nulla su di me, ha fatto tutto ciò che poteva farmi, stai tranquilla.” Si fa da parte e salgo due gradini alla volta, mi sento corazzato, entro e la vedo reclinata su di un divanetto avvinghiata con le lunghe braccia a un uomo sulla quarantina, altissimo dai capelli lunghi e mossi, potrebbe benissimo sembrare italiano o spagnolo; Amy mi guarda imibile. Mi accorgo dallo sguardo di lui di essere stato precedentemente introdotto da lei come l’ennesimo uomo sbagliato con chissà quali colpe, o forse mi sbaglio, ma decido di completare la conoscenza. Mi paro proprio di fronte a loro, il mio gruppo è alle spalle, noto Toni alzarsi in piedi. Allungo la mano verso Amy: “Ciao come stai…” “Tutto okay grazie, sono rientrata da poco e lui è il mio amico Sam, è italiano!” Sam è uno dei nomi di più equivocabile provenienza nell’intricato tessuto delle etnie naturalizzate americane: se Ebreo proverrà da una contrazione di Samuel, se italo-americano da Salvatore, quando non viene abbreviato nel riconoscibile Sal spesso si trasforma in Sam oppure per i medio-orientali da Sahmir. “Ciao Sam come va?” Lui non si sforza nemmeno di alzarsi e se ne sta stravaccato a gambe larghe con la testa reclinata all’indietro. “Tutto bene…” “Mi dice Amy che sei italiano o in parte.” “Sì mia madre lo era.” So che mente. Non è altro che uno di quelli che si fanno are per uno di noi sperando di rimorchiare di più. “Allora che stiamo a fare qui parlando in inglese… parliamo la nostra lingua!” lo dico in lingua madre, infido; vedo dai suoi occhi che non ha capito una sillaba delle mie parole “Allora…” insisto mentre Amy mi fissa un poco tesa, ”perché non vuoi parlare con me…” Questa volta in inglese. “è meglio se non lo faccio!” la sua risposta ha il tono della sfida, quando sto

aspirando l’aria per rifrasare Toni mi afferra per la spalla tirando indietro. “Andiamo sono arrivati gli antipasti e il Melon Martini diventerà caldo.” Vedo gli amici seduti guardarmi con apprensione, l’atmosfera è tesa realizzo di essere in piedi a gambe larghe con le braccia leggermente flesse sui fianchi: una postura aggressiva, meglio non dare spettacolo, Amy è già abbastanza divertita. Faccio lo spaccone. “Beh… mi piacerebbe continuare a convincere il signore ad accettare ripetizioni di lingua ma so che è in buone mani per cui mi unirò ai miei amici che aspettano già da un po’.” La mia insolenza fa arrossire Amy di stizza, lo spilungone non fa una piega. “è stato un vero piacere Sam… buona continuazione di serata.” Stringo la mano a entrambi e prendo il mio posto sul divanetto accanto a Nora e Maria. “Non saresti dovuto salire… se quello non fosse completamente stordito avremmo di certo visto una rissa, per quella lì poi, ma dai!” Nora mi rimprovera con forza. “E smetti di guardarla!” “Ma non la stavo guardando…”La mia difesa è puerile. “Sì che lo stavi facendo… è che non te ne accorgi! Proprio vero che per farsi ricordare dagli uomini scemi come te bisogna fargli tanto male!” Colpito nel vivo mi chiudo nelle spalle ascoltando con distacco i velenosi commenti di sottofondo: “Ma che faccia tosta!”, etc. Di lì a poco Amy se ne va senza salutare dileguandosi dietro la porta per scendere le scale e io mi ritrovo lì col cuore in gola senza sapere esattamente cosa pensare, circondato dagli sguardi di commiserazione dei miei amici a finire la serata ubriacandomi. Nel salotto di casa i vestiti sparsi ovunque attendono la collocazione nelle valigie, ritardata dalle continue telefonate di saluti da parte dei vari conoscenti. Dopo un sandwich in piedi tra mutande e calzini mi viene voglia di un caffè sorbito tranquillamente guardando la gente camminare, afferro una giacca e me ne vado di buonumore per raggiungere il Cafè in un soleggiato pomeriggio. I pensieri reiterano sugli avvenimenti della sera prima, mi chiedo se Sam manterrà l’imperturbabile aplomb anche dopo la visita del postino, forse sì, chissà, penso sarcastico.

Arrivato al Cafè ordino un lungo americano da sorseggiare oziosamente sedendo giusto di fronte al ristorante franco-vietnamita; quella è la eggiata appena fuori dal centro per cui niente di anormale nel trovarsi sempre nei soliti luoghi. Dietro gli occhiali da sole mi godo l’andirivieni di belle ragazze con indumenti leggeri o vistose signore cariche di orpelli appariscenti, sfacciati come il loro trucco. Osservando la scala che conduce al bar cado in una sorta di suggestione mentale innescata dal ripetitivo rumore di tacchi sul marciapiede che mixato coi clacson dei taxi entra in sincronia con le voci dei anti, il tutto accentuato dalle folate di vento tiepido nelle orecchie che ne abbassa o accresce i toni: suite “Lazy urban Cafè”, così la chiamo se trovo l’arpeggio necessario a completarla… “Cosa fai, conti le gambe?” riconosco immediatamente la voce. “Ursula! Ciao che piacere vederti, mi domandavo quanto tempo ci sarebbe voluto ancora prima di incontrarci di nuovo!” “Ho avuto da fare, tu piuttosto… mi sono giunte voci su una tua malattia, una cosa seria dicevano. Nancy mi ha tenuto al corrente ma anche se non ha saputo spiegarmi bene di cosa si trattasse si vede dalla faccia che non hanno esagerato… sei consumato!” “Buffo, non trovi, come una citta con quasi otto milioni di persona possa diventare un paesello…” “Finiscila di fare il cinico, ti vogliono molto bene ed erano sinceramente in pena per te!” “E tu lo eri?” “Diciamo che avendo sentito che quasi ti friggeva il cervello, sì mi sarebbe dispiaciuto… stai già abbastanza compromesso di tuo per cui bastava poco!” “Mmmh… deliziosa che sei, cosa ti hanno detto esattamente.” “A dirti il vero le notizie erano confuse, parlavano di una interminabile influenza virale che ti aveva ridotto a uno straccio…” Lascia in sospeso la frase, poi: “Parliamo di aprile, maggio giusto?, il periodo peggiore per le allergie…” Non riesco a fare lo gnorri con lei, rifletto qualche istante e mi decido: “Sai di

Amy, vero? Non stiamo più insieme…” “No, non ne so niente.” Prendo fiato e le racconto tutto, quasi vomitandolo, è la prima volta che riesco a rendermi veramente conto di cosa è successo ascoltando me stesso raccontarlo, come fossi in terza persona sentendomi, se possibile, ancora più idiota. “Tu la devi perdonare, ”mi dice Ursula dopo avere ascoltato pazientemente. “Vedi, tu hai subito il dolore, il danno, ma hai la fortuna di esserne uscito, sei sempre tu in fondo, questa faccenda non ti ha cambiato perché sei un uomo che merita, capace di sopportare, di andare oltre! Pensa a lei che ne vive quotidianamente di quella sporcizia, pensa a quanta violenza fisica, psicologica sia stata sottoposta per propinarla a sua volta a uno che in fondo le voleva bene. e quanto lungo sarà ancora il suo percorso prima di arrivare a comprendere, a redimersi, perdonare e poi perdonarsi… pensa a quanto dolore avrà sofferto, a quanto ancora ne dovrà sopportare: perdonala… perdonala!” Tutto a un tratto mi sento uno sciocco: un maschio e ottuso orgoglio aveva ottenebrato la parte migliore di me, quella alla quale volevo più bene, prendendo il sopravvento. Adesso capisco lo sguardo di Toni, le titubanze di Maria, la malcelata disapprovazione di Nora: avevano capito quale sordo mostro fosse stato aizzato dalle scudisciate del mio vizioso padrone, il sesso. Rivelando del suo occulto dominio, ha mostrato il suo volto deformando anche il mio con la sua rabbia schiumante, inarrestabile; solo dopo averlo placato avrei realizzato la potenza della sua supremazia: quale fiducia hanno nel mio discernimento quei cari amici! Quanta ne ha questa donna di fronte a me: così speciale da lenire le mie cicatrici con parole di comionevole saggezza facendomi scorgere una luce salvifica proveniente da un luogo pulito, non popolato di spaventose creature. Non le sono indifferente più di quanto lei stessa ancora non sappia. Mi allungo su di lei; mi guarda circospetta ma mi lascia procedere oltre, senza toccarla con le mani o cingerla con le braccia guadagno ogni millimetro verso il suo viso con esasperante lentezza, controllando i suoi occhi; richiudendo le palpebre con una cadenza più lunga del naturale lei guarda oltre la mia spalla con uno sguardo sospeso, vacuo. La bacio appoggiando le labbra con rispettosa delicatezza, affettuosamente, sulla guancia. Mi ritiro dalla sua pelle dolcemente profumata guardandola negli occhi con sincerità e le dico: “Grazie”.

Ursula resta lì, attonita, con lo sguardo perso e un valzer di pensieri nella testa che persino io riesco a udire, impreparata a un gesto così incolpevole, eppure così amorevole ma immune da malizia è spiazzata; riprende controllo in un battito di cuore. “Prego…” Soffia dalla bocca. “Domani partirò per casa, in Italia, starò via un mese… vorrei chiederti il permesso di scriverti.” Mi è uscito naturalmente, con spontanea innocenza questa insolita richiesta ed è probabilmente per questo che Ursula prende la penna dalla borsa con gesti misurati e verga il suo indirizzo elettronico su di un piccolo foglietto bianco. “Fammi sapere come va, e abbi cura di te.” Mi sorride delicatamente e si alza per camminare nella direzione opposta da dove era arrivata, la seguo con lo sguardo fino a che non scompare dietro l’angolo col suo profumo ovunque in me, ma soprattutto lo sento nei polmoni poi nella testa, preponderante, dolce, speziato… buono, prendo istintivamente una sigaretta dal pacchetto sul tavolo e l’accendino ma mi blocco prima di accenderla: voglio tenermelo dentro questo profumo, non viziarlo perché duri il più a lungo possibile.

Il viaggio verso casa non lascia nessuna di queste sensazioni al deposito dell’aeroporto, me le porto tutte dietro come un prezioso bagaglio rovistandoci dentro durante le lunghe e noiose ore di volo, nemmeno la secca aria condizionata dell’aeroplano asciuga il ricordo di quel profumo né la magia evocata. Riassorbito nella berciante allegria della famiglia italiana mi distraggo dagli eventi ati e a mia madre racconto solo di una brutta febbre causata dai frequenti sbalzi climatici del posto, è bello rivedere i vecchi compagni ritrovando le radici anche se ogni tanto parlando mi sfuggono espressioni inglesi; allora mi ricordo di avere lasciato laggiù dei veri amici quindi prendo il telefono e chiamo il mio numero di casa per controllare i messaggi in segreteria. Dopo aver ascoltato i saluti, le richieste di notizie dai membri del gruppo e comunicazioni di lavoro, un messaggio senza contenuto, se non il rumore meccanico di una cornetta abbassata, il seguente difficilmente lo dimenticherò.

“Ciao… sono Amy. Non capirò mai perché tu lo abbia fatto, dopo averti aperto le porte della mia casa, dato da mangiare e accolto nel mio letto… non capisco perché tu sia andato a raccontare a Sam cose orribili su di me. Ho depositato alla Polizia una diffida per stalking per cui né tu né i tuoi amici italiani potrete avvicinarvi più di cento metri a me e a dove abito, la denuncia potrebbe crearti problemi al tuo rientro negli Stati Uniti a meno che tu non smentisca a Sam personalmente le cose che gli hai detto… perché tu lo sappia, quella notte che cadesti addormentato a casa mia ti avevo drogato il Bloody Mary perché uscivo già con lui!” Una pausa breve poi: “Tu perderai il lavoro a causa delle tue azioni, incontrerai solo donne che ti odieranno dopo averti conosciuto perché sei meschino, debole… ti renderanno l’esistenza miserabile e rimpiangerai per tutta la vita quello che hai fatto… tu sia maledetto!” Sono impietrito con il telefono attaccato all’orecchio, cerco di riordinare le idee dopo ciò che ho udito, articolato senza la minima inflessione emotiva, scandito pesantemente come i rintocchi di una campana a morto. Sam, presa la videocassetta dal postino, deve averla guardata da solo lasciando poi Amy senza tante spiegazioni. Maria, durante l’avanscoperta, ha trascurato di camuffare meglio l’accento italiano ed ecco com’è arrivata a me… concludo dopo una breve riflessione. Non potevo farmi una sana scopata con questa donna bella e desiderata per poi tirare innanzi come avrebbe fatto chiunque con un pizzico di sale in zucca? Devo sempre invischiarmi in collose pastoie perduto nella ricerca di grandi ioni impossibili? Se vado ad analizzare, gli uomini miei antagonisti in entrambe le situazioni si assomigliano, quindi questo sognare un ideale romantico è mera illusione quando infine ciò che le donne desiderano veramente sono sicurezza, concreta stabilità quotidiana in una confortevole routine; eppure non riuscirei mai a essere così perché io fui il predatore, io so che tutti cedono prima o poi! Per questo appena uscito malconcio da un match violentissimo dove la mia infantile testardaggine fu uno scudo di cartone già indulgo in fantasie su di una donna sposata. Sarà l’ennesimo disastro con feriti gravi? E l’esperienza… è una callosità cresciuta nel tempo a difendere la sensibile pelle viva e non una comprensione rafforzata nell’intimo? Valeva la pena di generare anche solo due infelici in più? Sam, l’ennesimo volontario a ingrossare le fila del cospicuo esercito di uomini convinti di una laida uguaglianza di tutte le donne; Amy, più incattivita che mai, ha appena dichiarato di non avere imparato niente da questa lezione, dopotutto come posso insegnare qualcosa a chicchessia io… Io non so nulla dell’amore.

III

Il cortile all’esterno della scuola elementare aveva un parco verde a un lato del quale i giardinieri, intrecciando i rami di non so bene quale specie di albero, ricavarono una sorta di capanno con un solo ingresso dove giocavamo agli indiani inscenando ululanti rituali a Manitù e venendo puntualmente interrotti dall’assalto dei cowboy di turno, finivamo in un grande incontro di lotta libera tutti contro tutti; la scelta delle fazioni avveniva tramite un sorteggio per esclusione al numero più alto tirato con la mano, ma a me poco importava da quale parte dovessi stare perché comunque andasse finivo col catturare le femmine per rinchiuderle tra strilli e proteste nell’oscuro antro verde sbarrando l’uscita col mio corpo, vuoi perché da sceriffo dovevo catturare le squaw o come Geronimo dovessi rapire le mogli dei coloni il risultato non variava di conseguenza. Non rimanevo granché simpatico alle mie compagne di scuola ma figuratevi quanto me ne calasse, io mal sopportavo i loro fiorellini disegnati sui quaderni, le svenevolezze, le tortine di terra adornate di sassi, strega comanda colore, trucchi belletti e bambole! e non mi sarei mai sposato… puah! Il mio mondo erano ipertrofici supereroi invincibili, inarrestabili soldati sanguinolenti e pistoleri spietati senza tempo da perdere dietro alle gonnelle anche perché ogni qualvolta ne subentrava qualcuna in scena il nostro eroe inspiegabilmente rammolliva infilandosi in un ginepraio di guai, non vi dico i fischi dentro al cinema dell’oratorio a ogni scena con un bacio, una vera perdita di tempo sottratta a cannonate e pugni! Duri rissosissimi dal cuore granitico e irriducibili guerrafondai, se fossimo stati liberi da ogni convenzione e dai pantaloni corti avremmo dato fuoco al mondo senza il minimo indugio. Non ero un violento, nemmeno troppo attaccabrighe a parte le consuete scaramucce per le figurine e non sopportavo il calcio, già allergico allora al fanatismo capace di proliferare anche tra i giovanissimi per cui di conseguenza nemmeno troppo competitivo: prediligevo la lettura di Verne, Dumas, London, Salgari, niente De Amicis che mi procurava un inspiegabile sgomento, sì anche a P.H. Dick, Asimov e altri scrittori di avventura. L’obbligo del catechismo con annesso servizio a messa non mi dava troppa pena, il parroco era un uomo di poche parole di indole estremamente tollerante; pur dovendo misurarsi con certe bestioline di non facile gestione come Marras, che si divertiva a infilargli le

pagine di fotoromanzi pornografici nel Messale o l’inseparabile Lugnan il quale smontando le porte dell’oratorio dai cardini insieme al complice si divertiva un mondo allo spettacolo dell’anziano uomo di chiesa trasecolante ogni qualvolta appoggiava la mano su una maniglia; tuttavia non lo vidi mai sgridare o anche solo spazientirsi con un bambino. La lunga mano della femminea rivalsa venne a porgere il conto per la mia inadeguata deferenza verso il gentil sesso durante la messa delle cinque di pomeriggio, alla quale attendevo in veste di candido chierichetto, con lo sguardo provocatoriamente canzonatorio di una mia compagna di classe seduta in prima fila. Bea mi sbirciava coi suoi impertinenti occhi celesti celati da biondissimi ciuffi ribelli trattenendo a stento una risatina singhiozzante dalla quale fui subito contagiato, a sprazzi prima irrefrenabilmente poi, insieme fino alla conclusione della funzione. Il prete non disse nulla mentre si spogliava dei paramenti talari ma potevo intuirne il disappunto, sentimento che vidi riapparire sul suo volto anche alla seconda occasione, pure alla terza finché non venni più interpellato per la mansione. La destituzione non mi angustiò punto, mi intrigava alquanto invece quella sciocca e silenziosa intesa pur se a mio esclusivo danno, fu allora che mi sorpresi a guardarla anche nelle ore di lezione a scuola. Era stata come invisibile fino a quella messa, di fatto non colpiva per la dolcezza tipica delle bambine di quell’età piuttosto aveva un’aria da maschiaccio, taciturna e dai modi un po’ bruschi occupava un banco in fondo all’aula con la sua compagna e non attirava le attenzioni degli altri maschi della classe i quali preferivano la solita primeggiante bambolina sotuttoio dalle angeliche parvenze seduta di fronte alla maestra. Bea non portava mollettine con farfalline o margheritine nemmeno la cartellina frufru in voga per la maggiore ma uno zainetto essenziale; non poteva dirsi bruttina o sgradevole per niente grazie ai lineamenti regolari, i limpidi occhi blu mare e il nasino all’insù incastonato in un ovale perfetto dall’incarnato chiarissimo, incorniciato da capelli color del burro dal taglio litigioso… era il suo nascondersi a renderla poco attraente, ma io l’avevo scovata!

Sapeva che la guardavo di sottecchi, la vedevo sorvegliarmi con la coda dell’occhio e non sembrava infastidita, peraltro lo aveva notato anche il resto della classe, le conseguenti irritanti nenie prendingiro non tardarono a flagellarmi giungendo sino alle orecchie di mia madre la quale si dimostrò molto

sorpresa dei miei gusti in fatto di donne in erba commentando con un: “Ti piace quel teppistello lì?!”, naturalmente smentii le voci con quanta persuasione sia capace di esercitare un fringuello di nove anni… All’epoca non erano usanza come oggi i grandi compleanni a cui partecipano tutti i compagni con famiglie annesse ma Massimo, un bimbo pacifico e taciturno con un cespo enorme di capelli (secondo me aveva l’aria di uno costantemente inebetito), aveva invitato la mia futura moglie alla sua festa poiché i genitori erano amici e senza dirmi niente infatti lo seppi dalla mamma di Claudio quando andai a chiamarlo per andare ai giardini pubblici; la gentile signora fornì premurosamente indicazioni sul tragitto per raggiungerlo cosicché saltai su un filobus senza esitazioni dirigendomi dal rintronato traditore per vedere la mia bella. L’espressione della madre quando aprì la porta fu eloquente, tra il divertito e il sorpreso mi condusse cinguettante al tavolo dei rinfreschi ma io, poco interessato a pizzette e bignè, porsi educatamente i miei auguri al testone quindi dirottai verso il giardino in cerca della biondina ma di mia conoscenza trovai solamente Claudio il quale non seppe illuminarmi granché per cui rientrai insieme a lui, non prima di allungare una pacca al capoccione del catatonico festeggiato per sfogare la frustrazione. Il giorno dopo durante la ricreazione, in un angolo, Massimo raccontava della mia sfacciata intrusione e quanto chiacchierava il settario zittone!, me l’avrebbe di certo pagata prima o poi, al momento però le mie preoccupazioni erano rivolte al da farsi con la agognata e reticente Bea sul qual visetto non potei fare a meno di scorgere un’ombra di perfidia…

Mentre la maestra narrava le gesta di Carlo Magno d’impulso scarabocchiai il fatidico fogliettino: “Ci vediamo ai giardini pubblici alle tre?”, adornato con rossi cuoricini e firma arabescata. Avevo deciso di ispirazione, stufo del prolungato e improduttivo corteggiamento, la presa di petto della situazione così chiesi ai miei vicini di banco un amano sino a lei, guardai il biglietto cambiare di manine fino a che l’ultima bambina della catena tirando il grembiule candido dell’agognata ebbe la sua attenzione porgendole la missiva.

Con la tipica espressione scorbutica e i modi sbrigativi aprì senza esitare sotto il mio trepido sguardo, con il cuoricino palpitante nelle orecchie la vidi leggere rapidamente quindi senza voltarsi alzare la mano destra e: “Signora maestra mi manda i bigliettini”. Incredulo rimasi a bocca aperta, svergognato sotto gli sguardi stupiti dei miei compagni, tutti!.. meno il suo, inespressivo, fisso al muro davanti a sé. La maestra prese il pezzetto di carta e dopo una rapida scorsa sollevò verso di me uno sguardo indecifrabile al di sopra gli occhiali appoggiati sulla punta del naso, io ero annichilito: troppo orgoglioso per piangere troppo offeso per arrossire troppo avvilito per reagire troppo giovane per sapere qualcosa sull’amore, calai una maschera fatta col cemento armato dalla delusione. Imparai.

“E quale sarebbe la morale di questa triste storia di un piccolo cuore trafitto?” chiese Ursula mentre seduta con le gambe accavallate su una panchina cercava di sistemare i lunghi capelli neri scompigliati dal vento in un glorioso pomeriggio di fine estate al parco; i bambini correvano dappertutto urlanti e le famiglie riunite per il pic-nic scherzavano con cani festosi su prati a perdita d’occhio. “Non saprei, forse di quanta subdola malizia sia già equipaggiata una femmina ancora prima della pubertà e del perché poi continui a lagnarsi a vita di non esser mai abbastanza riamata?, o di quanta dabbenaggine siamo capaci noi maschietti nello stesso stadio della crescita pur essendo tacciati una volta adulti di mancanza di romanticismo?, o ancora… che le scelte sbagliate iniziamo a farle da piccoli e a poco serve l’esperienza se quello è il percorso designato di un individuo? Ah, quale affascinante tema quest’oggi si pone…” Lasciai in sospeso la frase stirando indecentemente braccia e gambe rovesciando la testa all’indietro in un leonino sbadiglio, poi: “E nello scorrere dei nostri giorni viviamo per riparare errori ati servendo anche da catalizzatori nell’aiutare il nostro prossimo a migliorarsi oltre a noi stessi o magari è tutto semplicemente affidato al caso? Io e te ci incontrammo per una serie di coincidenze a New York o esiste un motivo?” La bella bruna parve calibrare la risposta con cautela…

Non ebbi problemi a rientrare negli Stati Uniti, come prevedibile le minacce di Amy non avevano trovato sostegno basandosi solo su indizi per cui nessuno mi fermò allo sbarco, nessuno mi attese all’uscita dell’aeroporto, non un poliziotto ma nemmeno un abbraccio quindi salii su un taxi e andai incontro alla città che mi aspettava in fondo alla diritta autostrada stagliata su uno sfondo infinito di cielo notturno, man mano si allargava sfavillante di luci da far invidia alle stelle sovrastandomi sempre più coi suoi colorati pinnacoli sino a ingoiarmi, ancora, nel suo chiassoso ventre pulsante il mio cuore trovò subito il tempo, ero tornato. La prima cosa che feci rientrato nel mio spoglio appartamento fu controllare la segreteria telefonica dove trovai diversi messaggi in cui gli amici mi esortavano a una rimpatriata, tra questi mi sorprese piacevolmente un saluto di Ursula. Spiegava come aveva avuto il mio numero da Toni incontrato in diverse occasioni mondane, infatti il messaggio seguente era di lui che con voce sorniona si limitò a un: “Easy man…” (vacci piano amico…) e una sommessa risatina, il successivo invece era il meno cordiale e inquietante bentornato di una cornetta riattaccata dopo un breve sinistro silenzio. Non permisi alla muta minaccia di compromettere il buonumore regalatomi dalla chiamata di Ursula, ed era molto dato che oltre a un appuntamento per il giorno dopo mi aveva concesso anche il suo telefono per rispondere; ero solito al rientro da un viaggio lasciare una giornata libera per il riassetto della casa e approvvigionamenti vari prima di riprendere il lavoro, inutile dire che questa volta lo avrei dedicato con molto più piacere all’inaspettato incontro per cui non esitai a richiamarla lasciando una breve conferma alla sua segreteria. L’avevo incontrata poche volte: volendo prendere in considerazione l’assiduità come ingrediente catalizzante delle ioni insieme all’attrazione fisica o la conoscenza, anche le affinità da scegliersi nel novero delle infinite combinazioni di gusti scelte e difetti che possano attirare quella volatile insinuante ossessione su di una persona capace di incanalare un desiderio persistente; non ne trovavo corrispondenze in questa nuova eccitante situazione, una combinazione di chimica se si volesse definirla tale o anzi un antico incontro rimasto incompiuto a cui le forze regolatrici di equilibri inconoscibili vogliano infine coronarne il compimento… quante domande suscitava quel bellissimo viso che già mi incantava in innumerevoli progetti di tenerezze, sentite più che disposte, quando solo lo stormire dei frondosi alberi del parco scandiva gli istanti nei quali si protraeva il suo lungo scrutarmi, severamente, mettendomi un poco a disagio prima di rispondere.

“Vorrei che fosse chiaro, casomai tu avessi travisato: il mio interesse nei tuoi confronti è dovuto alla particolarità della situazione, al tuo bisogno di qualcuno che comprendendoti sappia indirizzarti verso valori meno stagnanti della palude dove sei impantanato attualmente… se mi perito tanto è perché ti reputo migliore di quanto dai a vedere, hai una spiccata sensibilità, fantasia, gentilezza, Lo si intuisce da come ti abbia segnato questa esperienza… se tu fossi il cinico pirata da cui ti mascheri avresti tirato innanzi nella tua dissolutezza, invece ti eri dato una possibilità di cambiamento, delusa purtroppo ma questo non deve rovinarti…” Appoggiai timidamente la mia mano sul dorso della sua, senza stringere; avevo bisogno di un contatto per trasmetterle la gratitudine che sentivo, l’affetto. La parte di me rimasta sconvolta dalla sciabolata di dolore ricevuta cercava di riemergere dal sicuro nascondiglio dietro al cuore aggrappandosi con forza a questa anima splendente così, istintivamente, senza volerlo le strinsi le dita un paio di volte, lei con la punta delle dita della mano libera si liberò dalla presa riportando la mia mano sul mio grembo.

Tale fu la delicatezza di questa ferma precisazione da non provocarmi il minimo imbarazzo, anzi il desiderio di lei montò più prepotentemente, sapevo poco di tutto ormai confuso com’ero, ma era lì mi aveva cercato, atteso, era incuriosita, affascinata e un motivo doveva esserci: nella nera lavagna dove una spugna aveva obliterato i miei teoremi un’equazione rimaneva ancora netta e infallibile: la presi per le braccia tirandola a me fino a un millimetro dalla bocca, frugai nei suoi occhi mentre lei tratteneva il respiro sorpresa, le guardai le labbra respiravo il suo profumo… mi respinse con forza inusitata e una sonora risata alzandosi dalla panchina! Rimasi scompostamente semi sdraiato con lei in piedi di fronte a me che scemando l’improvvisa ilarità mi guardò seria, poi in un guizzo spiccò un balzo finendo in mezzo alle mie gambe mimando le spinte di un uomo durante un amplesso bisbigliandomi nell’orecchio: “Volevi farmi questo eh? Ah, ah, ah!” Quindi si rialzò di scatto in preda alle risa. Ero esterrefatto, riusciva a prendermi puntualmente in contropiede, per quante fossero numerose e collaudate le mie armi mi resi conto che sarebbero state inutili con questa bizzarra ammaliante creatura. “Sei completamente pazza!” la apostrofai divertito più di lei.

“Ci sai fare animaletto, ci sai davvero fare credi a me. Conosci le falle nelle difese delle donne e hai capito bene con quanto poco ci facciamo comprare ma dovresti avere imparato a stare più attento… le prede catturate possono trasformarsi in cacciatrici… basta aspettare, è un vecchio gioco, caro il mio animaletto!” Nei suoi occhi era accesa la scintilla della provocatrice, della bambina sottratta troppo presto ai giochi erotico-seduttivi dell’adolescenza, capii immediatamente che dovevo mantenere viva quella fiammella: grande sarebbe stata l’estasi lambito da quelle lingue di fuoco una volta riuscito ad appiccarle: da troppo era stato soffocato il più grande incendio mai visto, reclamava ora l’ossigeno per avvampare di calor bianco ma costei non avrebbe permesso a me di condurre, lei aveva scelto, suoi sarebbero stati tempi e modi, mia l’esperienza, la ione il combustibile, la responsabilità il vento… Prendemmo la strada del ritorno seguendo il grande vialone che tagliava il parco scortati da enormi alberi frondosi mentre rincorrendoci giocosi a brevi corsette tentavo di tastarle i sodi glutei e lei di colpirmi i testicoli, a un tratto mi fermai e dissi: “Ti insegno un gioco che facevamo alle medie!” La vidi illuminarsi come una bambina. “E che gioco sarebbe… si può fare qui davanti a tutti?” “Certo, senza nessun problema…” ribattei serio serio. “Tu stai ferma lì senza muoverti…” Obbedì esaltata nello scoprire una novità al che scesi la mia mano destra con disinvoltura verso il cavallo dei miei pantaloni e afferratone saldamente il contenuto con la punta del dito sinistro toccai lievemente la punta del suo labbro: “Contatto!” esclamai. Ebbe un attimo di sconcerto poi esplose in una irrefrenabile risata. “Ma è la cosa più stupida che abbia mai visto!” Non riusciva a smettere di ridere. “Non riesco a credere che tu fossi un tal cretino già alle scuole medie!” Per tutta risposta questa volta feci contatto con il suo seno destro. Spinse via la mia mano divertita quindi provò lei col suo fondoschiena e le mie labbra continuando così fino all’uscita.

Ci congedammo coi respiri affannosi dalle risa, le diedi un buffetto sulle labbra dal quale lei sgattaiolò via velocemente, datemi le spalle le afferrai le natiche con forza ricevendo in cambio un calcio a vuoto e se ne andò verso casa girandosi un paio di volte per salutarmi poi prese quel suo o sicuro senza voltarsi più. Rimasi a guardarla camminare con molti pensieri in testa ma col cuore leggero, in planata. Le emozioni scorrevano dolcemente nelle vene camminando sulla strada di casa, procedendo con o allegro verso il centro lasciavo dietro di me le piccole lussuose case dai curatissimi giardini e facce cordiali che rincasando salutavano l’uomo ben vestito col fascino dello straniero, il sole nascosto dietro ai grattacieli profilati più avanti iniziava a scendere a picco nel lago, il vento sembrava annunciare lo spettacolo di un trionfante tramonto d’autunno soffiando foglie gialle come festoni e coriandoli portando quel suo persistente profumo soave privo di note voluttuose. Non pensavo a lei in quel modo ma nello stesso tempo non avrei saputo spiegare in quale, il fatto che fosse già sposata non intralciava minimamente il mio fantasticare, anzi nemmeno si affacciò, volevo solo are del tempo con lei tutto il tempo possibile, non per questo però avrei trascurato gli amici ansiosi di festeggiare il mio ritorno. Ci eravamo accordati telefonicamente per il week-end, a causa della differenza di fuso orario con le conseguenti insonnie due marcate borse nere sotto gli occhi rivelavano l’effetto deleterio del cosiddetto jetlag sul mio fisico, comunque troppo impaziente di rivederli feci il pieno di caffè prima di presentarmi al Lilium, un bar ristorante, con l’aspetto consunto di un insonne cronico.

Nel locale ci conoscevano bene. Un posto ben frequentato da una clientela dai trenta in su arredato con stile da me ribattezzato NouveauMetrobarocco, consistente nella miscellanea di arredi opulenti in foglia oro, profusione ecclesiastica di ceri, candelabri, tendaggi in broccato e pesanti velluti dai richiami Belle Epoque il tutto, a dispetto dell’impressione data dalla descrizione, disposto con strategia conferendo al luogo una atmosfera raccolta da boudoir. Andava molto di moda essendo in netto contrasto con i modernissimi austeri FrigoBar attualmente in voga e camerieri in abito tre pezzi scuro dai capelli imbrillantinati vi servivano sontuosi Cosmopolitan: un morbido confessionale esclusivo per peccatori inveterati e impenitenti, come noi.

Anche Amedeo abbandonò per una sera la novella sposa unendosi al gruppo composto da Toni, Nora, Maria, il pasticcere di Detroit, la coppia di iraniani: non mancò nessuno per festeggiarmi. Dopo un’ottima cena consumata tra racconti, facezie, abbondante vino, dessert e sigari costosi ci spostammo verso il bancone dietro il quale i corvini valletti attendevano di mescere le loro fantasiose inebrianti pozioni. Gli avventori erano più o meno sempre gli stessi, dallo sgabello accanto un comune conoscente di nome Max, un tipo dall’aria svelta di un bounty killer belloccio e mai troppo loquace solitamente, ci informò a proposito di un party clandestino nelle vicinanze. Era uso degli studenti universitari squattrinati darsi appuntamento nei cantieri di edifici in costruzione dove, una volta divelte le grate di protezione, allestivano festicciole con liquore comprato nei supermercati e tanto di D.J. dotato di impianto spaccatimpani. Inutile dire quanto l’idea rivivificasse le nostre membra intorpidite dal già eccessivo alcool, per cui concludemmo senza indugio di farci accompagnare al convegno studentesco. Amedeo con la coppia di iraniani abbandonarono lì la serata prevedendone il seguito. Il nostro scout ci guidò così sino al luogo convenuto. All’ingresso due ragazzoni ipernutriti selezionavano gli invitati, più per assicurarsi che fossero conosciuti e non poliziotti in borghese, entrammo senza problemi spiccando per differenza di età come per abbigliamento ma non trovammo comunque alcun ostracismo nel fare amicizia, il banco vendeva a due dollari a bevuta. Dieci minuti dopo un branco di bellissime adolescenti ubriache mi usavano a turno come palo per un ballo molto carino a mio avviso ma la vera sorpresa della notte fu lo sballo più economico del mondo! Alla modica cifra di un dollaro un tipo con un bombolone di Elio, gonfiava un bel palloncino del quale potevamo a inalienabile diritto sceglierne il colore quindi me lo porse sorridente consigliandomi di inalarlo d’un fiato. Sgonfiata in gola la gialla sfera vidi l’arrivo dei dischi volanti come in Incontri ravvicinati del terzo tipo e atterrai senza applausi con un tonfo. Mi svegliai di soprassalto nel mio letto con Nora accanto. “Tranquillo non ho approfittato di te, ci hai fatto preoccupare…” Mi guardò con aria materna. ”Dì un po’ ma sei proprio fuori allenamento, pensavamo fossi morto, non ti muovevi più e respiravi appena.”

“Ho il sonno pesante, lo hanno sempre detto che sembro un cadavere quando dormo…” La testa rimbombava sorde pulsazioni di dolore. “Come mai sei qui? Non che mi dispiaccia, certo…” Mi interruppe: “Non me la sono sentita di lasciarti solo in casa, casomai tu fossi peggiorato… e abbiamo deciso di risparmiarti lo shock di trovare Toni nel letto al risveglio così ti ho accompagnato io”. Ridemmo entrambi della scena quindi una volta tranquillizzata Nora si fece una caffè e mi salutò. Rimasi a letto guardando il soffitto finché non scomparve aprendo il sipario su riflessioni roteanti con procioni volanti portati via da folate di profumo in un giorno di sole biondo dai capelli lunghi e occhi caldi come il sorriso di amici sinceri, pensieri inconcludenti come una piacevole titillazione ideale, giusto per il piacere di sé fino a quando inevitabilmente non raggiunse il climax nel viso di lei, la ridente musa di questo romantico poetare che riecheggiava in balenanti sensazioni culminanti nel sorrisino di pancia spinto su da un brivido adrenalinico: proprio come quando da ragazzo in sella al mio motorino in vista di una discesa stradale troppo ripida nei pressi di casa acceleravo anziché rallentare, per sentire lo stomaco salire nel petto ridendo allo stesso modo di ora, interrotto dal trillo del telefono. Due squilli e si attacca la segreteria con la voce di Ursula. “Ciao sei in casa?” Mi scaravento giù dal letto con le lenzuola impigliate ai piedi e saltellando afferro la cornetta. “Ciao, buongiorno… che sorpresa!” “E tu che voce! Fatto stravizi la scorsa notte?” “Qualche drink di troppo con gli amici ma sto bene… ascolta è una bella domenica di sole ci incontriamo per un brunch?” “Okay, ti avevo appunto chiamato perché sono sola oggi e pensavo di venire in centro. Dove ci troviamo?”

Ero al settimo cielo! Le diedi precise coordinate quindi mi buttai sotto la doccia fredda prima di iniziare un’accurata opera di restauro perché non si vedessero troppo il gonfiore da dopo sbronza e il resto quindi scelsi una mise sportiva completata da un giubbotto di pelle infilato davanti all’ascensore. Pranzammo al ristorante del museo d’arte moderna in un ambiente molto spazioso di fronte a una vetrata immensa affacciata sul parco antistante, dal quale partiva una lunga rampa di scale arcuata diretta all’ingresso situato al piano sopra le nostre teste; i visitatori entrando potevano vederci dall’alto dei camminamenti prima di dirigersi verso le esposizioni. “Scelta interessante…” fu il commento di Ursula mentre si guardava intorno. “Non sono mai venuta qui in tanti anni di permanenza in città e mai avrei pensato che potesse essere un posto tanto interessante e tantomeno che tu lo frequentassi, caro il mio animaletto…” finì la frase carezzandomi con uno sguardo ammirato. “E le sorprese non sono finite, comunque mi congratulo con lei per la scelta mia bella signora.” “Di quale scelta parli?” Gustando la porzione di squisito crabcake appena imboccata presi tempo per rispondere, anzi con calcolata flemma mi attardai pure con un sorso di Merlot, poscia, puliti gli angoli della bocca col tovagliolo lo risistemai sulle gambe. Lei era esasperata: “Mmmh…” mugolò. “Come dici tu sono una donna viziata e impaziente, per cui mi vuoi rispondere?” Sogghignando con l’angolo destro della bocca mi sporsi in avanti per risponderle. “Oh… te lo dirò… te lo dirò…” Il lancio del suo tovagliolo sul mio petto fu la snervata ma spiritosa replica di lei. “Ti ho portato qui oltre che per mostrarti un luogo che a me piace particolarmente anche perché espongono una mostra itinerante di Robert Mapplethorpe, a te piace?” “Non lo conosco bene ma sarà interessante di certo, quello delle calle giusto?”

“E non solo…” rilanciai criptico. Non saprei ben descrivere le sue reazioni alla vista delle foto dell’artista poiché per la maggior parte nel loro erotismo sfacciatamente provocatorio erano volutamente disturbanti ma fu quando ci trovammo di fronte a Mr. 12 inches che vacillai d’imbarazzo: lo scatto immortalava con una nitida messa a fuoco in bianco e nero la generosa dotazione di un signore nero penzolante da un severo abito maschile con grande attenzione ai dettagli anatomici. “Complimenti!” fu il commento di Ursula. “Credevo di avere visto abbastanza dopo sposata!” “Non credevo avessero esposto proprio tutti i lavori dell’artista, comunque felice di averla deliziata signora… anche se da quanto asserisce nulla le manca nel suo pascolo!” “Ho sempre chiesto il meglio alla vita e mi è stato dato, comunque con tutti quei nudi femminili in giro era ora che qualcuno pensasse anche a noi donne!” Mi accostai a lei da dietro per sussurrarle all’orecchio: “Siamo soli nella saletta e farò io da palo casomai dovesse arrivare qualcuno così se vuoi approfittarne per fare contatto….” Esplose in una risata girandosi verso di me, la cinsi per i fianchi e le stampai un profondo bacio in bocca violando con la lingua una poco convincente difesa iniziale, ricambiò, con le mani percorsi tutto il solido corpo mentre con la coda dell’occhio vigilavo i dintorni, al rumore di i distanti mi staccai con riluttanza: “Bellissimo, ma se non ti spiace vorrei cambiare posizione perché lo sfondo non mi aggrada più di tanto in questa situazione”. Quindi con un abile e veloce movimento la girai fronte al quadro, lei rise ancora respingendomi. “Bel bacio, ce ne metti di ione tu…” La baciai ancora poi l’arrivo di altri visitatori ci costrinse ad assumere un contegno più formale. ”Ce ne andiamo? Facciamo una eggiata, magari un caffè prima che cali il sole.”

Acconsentì quindi la accompagnai a una bar proprio sotto casa mia, naturalmente lei non lo sapeva ma la misi al corrente appena fummo serviti. “Io abito proprio lì di fronte… ti andrebbe di salire da me?” Studiò a lungo il mio viso prima di rispondere: “Abile stratega, vero?” “No… non avevo programmato nulla, te lo giuro.” Era così, gli ingredienti del caso si erano mescolati con precisione strabiliante lei era nervosissima si torceva le dita guardando il tavolo poi in direzione del mio palazzo. “Vai avanti tu poi io ti seguo, sei sicuro che nessuno di nostra conoscenza possa vederci per sbaglio?” “Stai tranquilla nessuno dei miei amici abita nei dintorni e non hanno motivi per transitare da queste parti… comunque io entrerò per primo dal portone a vetri e una volta dentro ti darò un segnale con un cenno della mano per darti il via libera.” La lotta interiore aveva modificato i suoi lineamenti, friggeva sulla sedia. “Io non sono abituata a queste cose, non le ho mai fatte ma non mi importa di me… non vorrei ferire lui, non potrei mai perdonarmelo, non lo merita…” Avrei dovuto avere pietà di lei, lasciar perdere? Eppure anche lei lo voleva, aveva scelto me e io dovevo continuare nel mio ruolo con sicurezza investito di questa missione per esperienza e forse fortuna ma avrei dovuto guidarla con mano ferma, questo sarebbe stato l’atto più sincero e giusto in questo momento, dovunque conducesse la porta appena aperta sarebbe stato a me essere l’amante e il cavaliere di questa donna speciale; frugai in tasca con modi decisi per pagare i caffè, la guardai dall’alto quindi mi mossi con gesti tranquilli verso la porta voltandomi quando strinsi la maniglia: “Ti aspetto… “ le dissi sorridendo, uscii e attraversando la strada a lunghi i quando mi voltai non la vidi attraverso le vetrate del bar perciò aspettai qualche minuto magari era andata in bagno a rifarsi il trucco ma un altro minuto ò, iniziai a preoccuparmi. Ripresi l’uscita dal condominio per tornare dove l’avevo salutata senza però trovarla, chiesi al ragazzo dietro al bancone il quale disse di averla vista uscire in

direzione opposta, rincasai guardandomi le scarpe a ogni piede sospinto. Girate le chiavi del mio appartamento feci in tempo a udire il fischio di fine messaggio della segreteria, senza nemmeno chiudermi la porta dietro balzai per afferrare la cornetta che già dava il segnale di libero quindi ascoltai. “Ciao…” Era lei. “Scusami… dovrai avere molta pazienza con me, sono una donna sposata io, felicemente sposata… una stupida!” Una lunga pausa. “A domani, ciao… grazie della splendida giornata sei molto carino e gentile, grazie…” Fine del messaggio. Non sapevo che pensare, forse avevo calcato troppo l’acceleratore, forse no ma non si era negata, non era fuggita, aveva chiesto più tempo e io avrei atteso tutto il tempo del mondo. Aprii le tende svelando le luci dei grattacieli all’imbrunire, mi versai un generoso fiotto di rhum facendo crepitare il ghiaccio nel bicchiere, accesi lo stereo e seduto su una sedia davanti alla finestra proiettai con la mente istantanee di una giornata speciale confondendole col panorama mentre Dexter Gordon soffiava vibranti note struggenti nel suo fedele sassofono. Il giorno seguente disbrigavo le consuete mansioni del venditore inseguendo la folle Mary Jo in fuga per i quattro angoli della boutique: a torso nudo, mostrando le impietose cicatrici di una radicale mastectomia al seno destro, la anziana signora cercava di sfuggire come una gatta impazzita alle mie mani premurose nelle quali brandivo la sua lingerie nel tentativo di coprirla agli occhi esterrefatti dei anti e quelli alzati per aria delle mie colleghe use da tempo alle sue bizze. Era un’ottima cliente essendo straricca, lei e suo marito del quale era vedova da tempo possedevano negli anni Settanta una delle catene più grandi di ipermercati del Midwest, pure essendo chiuse da un decennio la fortuna accumulata le consentiva di vivere più che agiatamente ma le delusioni procuratele dai figli per le spartizioni dei capitali nonché una progressiva demenza senile aggravata dalla solitudine e dall’abuso di alcolici la rendevano difficile da gestire. Spendeva somme esorbitanti in lussuosi capi dei quali raramente faceva uso essendo sempre vestita con i soliti abiti logori, in particolare un cappello in paglia di colore indefinibile, la descrizione più efficace sarebbe stata definirlo color unto, col quale copriva immancabilmente pochi bruciacchiati capelli rossicci mai troppo puliti o pettinanti; i suoi acquisti erano compulsivi ovviamente motivati perlopiù dal bisogno di un contatto umano che fosse ivo e tollerante: i commessi servono anche a questo, sono come muri del pianto dove signore sole nell’anima vanno a sfogare le loro frustrazioni,

lacrime e lamenti mascherati da atteggiamenti snob persino crudeli nelle pretenziose angherie pungolanti che sadicamente infliggono al personale obbligato alla sopportazione dal codice comportamentale della professione o vocazione che sia, comunque niente di nuovo sotto le luci artificiali e calde dei negozi, il consueto teatrino della decadenza urbana della noia di vite sprecate nel rimpianto di irreversibili scelte sbagliate, ma chi ne è esente tuttavia per poter giudicare? Si guarda; da questo privilegiato osservatorio si possono cogliere molti insegnamenti volendo imparare, altre invece invidiano queste vite completate solamente nello scialo e ne seguiranno le impronte mettendosi in vetrina con la speranza di attirare qualche ricco avventore il quale rimarrà stregato dalla loro bellezza e classe facendone novelle cenerentole… ma di quanta cenere si copriranno dopo, pur dorata che sia sempre un appiccicoso pulviscolo soffocante rivestirà le lussuose mise, e smesse ogni sera al cospetto dello specchio costui mormorerà cinico il nome dell’altra più bella per i giorni a venire. Una volta rivestita e servita guidai la maleolente principessa dissennata all’uscita non senza gli immancabili improperi coi quali amava fuor di maniera accompagnare il mio nome assieme alla mia provenienza geografica, li consideravo squisiti complimenti alla mia competenza quindi collezionati alcuni rari camei di volgarità elargiti a mo’ di mancia la guardai attraversare la strada molestando ogni ante sfortunatamente direzionato sulla sua stessa rotta, comunicai alle mie colleghe il bisogno estremo di un corroborante isolamento in magazzino per compilare l’inventario richiesto dall’amministrazione qualche giorno prima. Armato di penna e taccuino contavo le scorte appuntando le taglie mancanti agli assortimenti, mi ricordai che iniziai così questo mestiere non avendo pratica col pubblico, il mio istruttore all’epoca sosteneva la teoria secondo la quale fosse necessario conoscere i prodotti memorizzandone le quantità ma in primis l’osservanza stretta del decalogo del perfetto commesso. “Il commesso,” ripeteva Greg (così si faceva chiamare il mio mentore), “si presenta al mattino con vestiti stirati e puliti, mai gli stessi per più di due giorni, in assoluto la camicia si cambia ogni mattina. Capelli lavati, pettinati e rasato con manicure in ordine, avrai inoltre cura di arti la pietra pomice sulle dita ogni tanto per non tirar su i fili delle cravatte con le pellicine alzate; alito fresco, odori corporei inesistenti e solo due gocce di colonia buona, non roba cheap o

troppo forte, le scarpe lucide risuolate e i tacchi fatti; il commesso non si siede, mai!, non si appoggia non incrocia le braccia ma mantiene una postura composta e sicura: sempre sorridente e cordiale, se hai le palle girate esci vai a berti un caffè ti fumi una sigaretta e te le fermi poi ti lavi i denti quindi rientri in negozio di buon umore. Il commesso appena entra al lavoro spazza e struscia il pavimento, spolvera mobili e scaffali, lava i vetri con acqua e ammoniaca poi apre la porta, successivamente piega le maglie sugli scaffali, taglie grandi in fondo alla pila taglie piccole sopra avendo cura di spolverare gli spazi lasciati vuoti poi a a mettere in fila i capi appesi separandoli a opportuna distanza e quando il venditore, cioè io, serve il cliente il commesso ascolterà per capire quali capi porgere o suggerendo quelli maggiormente assortiti se me ne dovessi dimenticare rimanendo in disparte con discrezione e mai, ripeto mai, intromettendosi in una vendita! Il commesso farà un cenno o si farà capire dal venditore il quale osserverà la medesima regola quando starai servendo tu, perché non puoi sapere dove voglio andare a parare quindi potresti fare più danno che aiuto; terminata la vendita il commesso sistemerà i capi poi rimpinguerà l’assortimento.” Iniziai la professione appena terminato il servizio di leva; una sera d’estate bighellonando per le strade di una piccola esclusiva cittadina turistica sul mare dove le botteghe rimanevano aperte fino a mezzanotte, fui attirato dalle vetrine di un negozio dalle dimensioni modeste, con gli infissi di verde scuro molto british, quindi posai gli occhi su un paio di boxer in seta fantasia con disegni paisley verde acqua e celesti intervallati da un motivo rigato sugli stessi toni. Erano piegati sul ripiano dell’esposizione, il negozio era vuoto entrai chiedendo di poterli vedere, un uomo di circa trent’anni mi salutò all’ingresso con voce calda e misurata, seguendo la mia richiesta li estrasse con stile da un cassetto per spiegarli sul banco chiedendomi se volessi provarli, naturalmente vista la mia giovanissima età si rivolse dandomi del tu mantenendo comunque una professionale distanza: l’intero rituale svolto con collaudata eleganza mi affascinò, il commesso si accorse di aver fatto breccia nelle mie difese quindi rialzando il tono della voce con modi divenuti maggiormente sciolti si mosse coi i lunghi ma misurati di chi conosce a menadito gli spazi in cui si sposta per propormi una camicia. Potrà sembrare cosa da poco ma il tipo aveva capito in due secondi le mie momentanee disponibilità economiche, i miei gusti e le proporzioni della mia vanità, aveva charme da regalare quest’uomo, anch’io avrei voluto essere così da grande! Non ci mise molto a convincermi, avrei comprato qualsiasi cosa proposta da lui sorprendentemente però contravvenendo

a una delle regole che poi avrei imparato, una volta chiusa la busta nella quale pose i miei acquisti (camicia inclusa) sapientemente incartati e consegnato il resto mi chiese come mi chiamavo, gli risposi, anche lui si presentò: “Piacere io sono Gregorio, ma gli amici mi chiamano Greg”. Dovevo essergli rimasto simpatico perché continuò la conversazione: “Di cosa ti occupi al momento?” Mi sorrideva con una fila perfetta di denti immacolati, non era bello ma molto distinto, i capelli chiari un poco radi portati con la scriminatura a sinistra ma non troppo leccati, gli occhi castano scuro decisamente penetranti per un momento mi chiesi se avesse mire parallele comunque gli risposi dicendogli che avendo appena concluso la leva non stavo facendo niente, mi studiò ancora un paio di istanti poi mi salutò: “Grazie e buona serata, torna a trovarmi”. Ricambiai avviandomi verso la notte, i boxer riscossero molto successo. Tornai diverse volte a comprare in quel negozio fino a che una sera insieme a Greg notai un tipo alto dietro alla cassa, più giovane e di bell’aspetto; indossava una giacca di lana leggera con un disegno pieddepoule vinaccia e verde scuro su fondo avorio, un dolcevita di Merinos panna infilato nei pantaloni fresco lana verde scurissimo dal risvolto in fondo sorretti da una preziosa cintura in coccodrillo, la scarpa marrone allacciata, portata senza calza, era di una foggia quale non ne avevo mai viste, senza troppi dettagli o cuciture non poteva dirsi che fatta a mano con una originalità tutta artigianale tipicamente nord-europea per peso e struttura. Il bel ragazzo notò con evidente compiacimento la mia ispezione quindi con un o leggero avanzò verso di me porgendo la mano: “Ciao sono Cesare proprietario del negozio”. La voce era flebile, bassa senza essere effeminata. “Greg mi ha parlato di te descrivendoti un ragazzo di buon gusto che, se mi permetti, comprerebbe molto disponendo di maggiori possibilità… mi ha detto anche della tua attuale situazione e visto che stiamo cercando una persona da inserire nella nostra squadra avremmo pensato a te come collaboratore.” Gentile e altero allo stesso tempo attese con un sorriso la mia replica che arrivò sollecita: “Mmmh, grazie, non me lo aspettavo a essere sincero e per dire il vero mai avrei preso in considerazione questo lavoro ma ammetto di essere incuriosito… va bene, accetto!” Greg uscì svelto da dietro al banco e mostrando in un ampio sorriso tutta la sua abbagliante dentatura con un amichevole slancio calò una sonora pacca sulla schiena che quasi mi piegò!

“Bene!, vedrai che faremo di te un venditore di prim’ordine. Quando uscirai di qui potrai fare il direttore da Harrods’!” E si lanciò in una stentorea risata, aveva abbandonato l’aplomb del professionista rivelandosi per quello che era, un compagnone alla mano generoso e immediato quanto i suoi modi; fui quasi sopraffatto da tanto inaspettato calore, allora Cesare intervenne di nuovo: “Il nostro Greg qui con la sua lunga esperienza ha forgiato già un paio dei tuoi colleghi che presto conoscerai, insegnandogli un mestiere e sono certo che farà un ottimo lavoro anche con te, benvenuto!” Mi strinse la mano senza troppa forza ma sembrava uno a posto, a guardarlo bene doveva avere poco più di me anche se l’abbigliamento e l’altezza con quel portamento sicuro lo facevano apparire più maturo, ero capitato in un ambiente stimolante, mordevo il freno per cominciare. Decisero l’inizio del mio addestramento per il mese dopo quando sarebbero rientrati dalle ferie. Mi presentai come da accordi un venerdì mattina con addosso un paio di jeans, una camicia nera a pois bianchi e un paio di sine nere appena comprate, il mio istruttore si dimostrò immediatamente un inflessibile sergente elencandomi i precetti del buon commesso con seguente tabella di marcia quindi svolte le mansioni principali di filato in magazzino a prezzare la merce arrivata dopo aver ricevuto istruzioni di dove e come espletare il compito procurandomi anticipatamente le etichette adesive nella retrostante segreteria. Proprio accanto al confine dell’ingresso correva un viottolino angusto dove poteva camminare giusto una persona di corporatura media in fondo al quale una piccola corte si apriva mostrando le porte degli uffici contabili giusto a fronte, mentre dirimpetto notai uno spogliatoio con bagni e doccia appena costruito, entrai bussando prima e trovai seduta alla scrivania una maggiorata dal seno compresso in un decolleté esplosivo, doveva avere al massimo venticinque anni non bellissima ma di rotondità provocanti e sode come solo a quell’età si hanno. “Tu sei il ragazzo nuovo! Piacere mi chiamo Lucrezia.” “Piacere mio…” mormorai senza riuscire a scollare le pupille da quei mondi in collisione fantasticando sulle tensioni e pressioni capaci di esercitare codeste forze della natura; la segreteria si infastidì delle mie insistenti lussuriose attenzioni per cui mi liquidò brevemente porgendomi la filza delle etichette senza salutare quando uscii. Al rientro in bottega trovai Greg sorridente che poggiava l’interfono usato per comunicare con l’ufficio seduto con una gamba sula banco cassa: “Sei una

bestia!” disse ridendo di gusto. “Mi ha appena telefonato Lucrezia per dirmi che l’hai mezza violentata cogli occhi, ti sei fatto conoscere subito!” Arrossii guardandomi le scarpe: “Rilassati, gliela darei pure io una bella riata ma ti avverto che se la fa già con Cesare… quella cosa lì piace a tutti da queste parti…” Attese un istante. “Casomai ti fossi fatto delle idee diverse…” Si alzò in piedi lasciando andare l’ennesima pacca micidiale. ”Sei un po’ da sgrezzare ma la stoffa è buona, sei simpatico e diligente, se non molli prima ci divertiremo insieme e faremo un bel team, andiamo a bere un caffè!” Appese a un gancetto sulla porta il cartello Torno subito e chiuse la porta indicandomi la strada verso il bar; camminava anche come un soldato, senza piegare le gambe con le punte delle scarpe inglesi che parevano voler prendere a calci il cielo, lo seguivo a fatica mentre mi metteva al corrente di un altro negozio più grande aperto sei mesi prima un centinaio di metri più verso il centro, oltre a quello per donna proprio accanto al nostro a cui non avevo assolutamente prestato attenzione, lì stava la moglie di Cesare. Eh già, il mio principale era liberamente sposato come rivelò esserlo anche Greg, entrambi senza figli per il momento alleggerivano il peso della vita matrimoniale da poco intrapresa con escursioni estemporanee allietate dalle numerose giovani commesse o clienti disponibili nei dintorni; mi piaceva sempre di più questo lavoro! Naturalmente le mie credenze sull’amore di già paurosamente incrinate dopo le esperienze da bagnino cominciavano a scricchiolare come muri vecchi sotto incessanti intemperie. Perso nei miei ricordi da non sapevo più quanto, venni riportato nella attuale sfera spazio-temporale dal suono di una mano battente sulla porta del magazzino, mi alzai dalla seggiola lasciando penna e taccuino per aprire. Mi sbalordii vedere nientepopodimeno che Ursula sulla porta. “Sono ata dal negozio e le tue colleghe mi hanno detto che eri qui, mi hanno spiegato come trovarti… come stai?” Ero intontito dallo shock. “Ehm… bene grazie, sì bene, tu?, tutto okay? Ero sicuro che non ti avrei rivista per un po’… ma entra non stare lì, le auto ano a filo del muro potrebbe essere pericoloso.” La feci entrare chiudendo la porta alle sue spalle. “Bene, questo è il mio sancta sanctorum, così conosci i dettagli più intimi della mia vita,” dissi scherzoso.

“Stavi qui a riflettere su quanto imprevedibili e sciocche siano le donne?” chiese remissiva. “No dai, non c’è bisogno… davvero capisco benissimo la situazione, le tue titubanze e paure ti fanno onore anche se mi dispiace non poco, certo tu mi piaci molto molto più di quanto tu possa immaginare…” Si avvicinò con le braccia dritte lungo i fianchi e il capo leggermente reclinato in avanti, i capelli scesero morbidi sul viso senza un rumore, non ne sentivo era tutto sparito, il suo profumo mi aveva già attanagliato il petto, d’impulso l’afferrai per i polsi stringendogli contro il torso e la baciai profondamente, a lungo prendendole poi la testa con entrambe le mani per continuare ancora; il suo respiro era aumentato la spinsi col peso del corpo contro le scaffalature premendo il mio pube contro il suo, gemeva… anni di esperienza amatoria e professionale mi consentirono di liberare la cintura dei suoi jeans aprendo i bottoni con una sola mano mentre l’altra esplorava il petto trovando turgidi carnosi pinnacoli; la girai di scatto entrando con la destra nelle mutandine cercai il suo clitoride lo carezzai, era eretto in una sola mossa lo scoprii delicatamente, con la sinistra strinsi un capezzolo contemporaneamente affondai i denti morbidamente nell’attaccatura del collo! Il suono che le uscì dalla gola era l’esalazione del piacere, sentii le sue gambe cedere ma impietoso non mi fermai: i miei morsi ben coordinati al ritmo delle mani stavano sciogliendo il magma di un vulcano, l’odore di femmina inebriava facendomi perdere il controllo la girai e lei rispose alle mie carezze trovandomi pronto e infuocato con le vene pulsanti, bollente. La stesi sul pavimento liberandola facilmente da un gambale dei pantaloni mi fermai. Stetti a guardarla dall’alto, seminuda; era un trionfo di bellezza il pube scuro e ricciuto spuntava dalle trasparenze della biancheria come lo avevo immaginato: una donna tanto bella non poteva non aver curato un lussureggiante giardino all’ingresso di tanta sontuosa villa, questa femmina calda, pronta per me era la personificazione dei miei sogni adesso lo sapevo, presi i seni sodi tra le dita penetrandola cogli occhi, rispondendo alla sua sfida e al suo invito liberai il membro gonfio di ione dalle costrizioni per baciarla intimamente e appena bussai alla soglia della sua anima lei sussurrò con un sospiro: “Non entrare… resta lì, ti prego…” L’elmo del furente gladiatore giocava con la porta dell’arena come se attendendo la chiamata della sua Imperatrice, smanioso di battaglia ma con le mani già occupate dalle spade, non gli restasse che la testa per spalancare le porte e buttarsi nella mischia! Gemeva languida e irresistibile lei in preda a un

sofferente diniego, ai sensi di colpa purché i suoi fianchi spingessero per trovare completamento nell’unione delle nostre brucianti carni; mi guardava implorante mercede e allo stesso tempo nessun rispetto, i miei esperti lombi roteavano tormentando piacevolmente le madide labbra e superando appena il primo scalino avvertii la muscolatura salda del suo sesso imprigionare l’ariete per la gola che pulsante rispondeva al suo abbraccio: “Continua lì dove sei… mio Dio dove hai imparato…” La sua voce trasudava lussuria, sapevo che il protrarsi dell’attesa era il godimento più grande: “Come fai a resistere… come fai…” Era una sfida: la ionale amante conosceva le vie del piacere e aveva trovato un degno duellante: “Entra ti prego!” Mi aveva preso per le spalle, con la schiena inarcata spingeva il bacino contro il mio ma arretravo sadicamente, guardandola negli occhi sicuro le risposi: “No…” Sospirandolo in un orecchio: “Non ancora mia Regina…” Tirai su le gambe piegandole sotto il sedere e appoggiai le sue natiche sulle mie cosce tenendola flessa come un arco in tensione, senza avanzare di un millimetro in lei… sudava mugolando per la crescente voglia spingendosi in avanti con maggior forza: “Dai… dai…” Mi incitava a prenderla totalmente, allora con la mano sinistra la afferrai per la vita con la destra impugnai la sua piccola virilità tra indice e pollice andando su e giù; spalancò gli occhi come se avesse ricevuto una staffilata di piacere quindi li roteò all’indietro, un breve urlo le uscì raschiando gola sul finale: ora! Entrai profondamente in lei con tutta la veemenza del maschio assestandole decisi colpi di reni in preda alla foga dell’orgasmo, sentii i suoi muscoli sciogliersi, uscii urlando, aspergendo quell’altare d’amore con tutto il calore del mio latte d’uomo! Mi abbandonai sulla sua bocca respirando affannosamente il suo stesso fiato, era stato sublime! “Accidenti, sei una forza della natura tu!” Si complimentò Ursula rivestendosi. “Diciamo che siamo Nitro e Glicerina insieme piuttosto… Tu mi fai impazzire Ursula, ne voglio ancora!” Non disse niente, tirò un lungo sospiro involontario, provavo a immaginare la confusione che le si stava avviluppando nella mente condita col rimorso ma si voltò sorridendo e si allungò baciandomi sulle labbra. “Dopo domani,” mormorò. “Sarò sola fino a sabato, lui sarà via per lavoro

sentiamoci nel pomeriggio.” Non potei che essere entusiasticamente d’accordo, la salutai carezzandole tutto il corpo, i capelli; non riuscivo a staccarmi da lei e avrei ricominciato a fare l’amore: ero posseduto! Rientrai in negozio sotto le occhiate indagatrici e maliziose delle mie colleghe molto probabilmente avevo l’aria sconvolta, non che mi fossi attardato più di tanto ma le vecchie volpi la sapevano pure troppo lunga, comunque non mi feci disturbare dalla cosa dopotutto non la conoscevano. Tra un giorno e l’altro vissi in un limbo popolato da carezzevoli suggestioni: cercavo il suo odore tra le dita, me lo sentivo appiccicato addosso; tentai di snidare qualche molecola intrappolata nei miei vestiti fiutandoli con cura seduto sul letto di casa e forse a opera di una romantica allucinazione olfattiva a momenti individuavo le tracce, l’odore di un sogno, una testimonianza inoppugnabile di un grande desiderio fattosi carne. Non mi importava delle conseguenze eppure la lezione l’avevo avuta sonora e allora perché intraprendere un’altra difficile impresa come un mènage a trois? Sapevo bene che l’unico modo per uscirne illesi è non iniziare come stavo facendo io, che avremmo sofferto in tre ma siamo tutti bravi a raccontarci giustificazioni… ah sì, di queste il genere umano ne potrebbe scrivere da riempire tomi per migliaia di biblioteche d’Alessandria senza che io fi eccezione e in questo specifico trattato avrei elencato i seguenti capitoli: Sono troppo esperto per non rimanere distaccato e controllare le mie emozioni includente i paragrafi “Grande sesso e autocontrollo” e “La gelosia verso i mariti è roba da principianti e mezze tacche” quindi Dogmi ed equazioni coi sotto capitoli “Donna adultera sta a donna insoddisfatta come amante sta a divertimento puro senza guai” e “Non ci penso me la vivo e me ne frego”. Ovviamente il titolo del libello a questo punto non potrà che essere Continuo a non saperne nulla dell’amore. Ma ancora non potevo conoscere a fondo le motivazioni di Ursula, cosa la spingesse a infrangere la trasparente bolla di cristallo dove secondo le sue ferree convinzioni era racchiuso un matrimonio solido di reciproca comprensione meritevole di essere onorato dal più grande rispetto; o forse si autoconvinceva di ciò vivendo nell’ideale dell’amore come tante altre donne o forse ancora mentiva in favore del marito solo per senso di colpa, per non infamarlo ulteriormente a

causa di certe sue mancanze oltre al tradimento. Insomma, troppo poco materiale su cui ponderare per cautelarsi dopotutto avevo solo la sua versione dei fatti sapendo bene di non essere il solo ad annoverare enciclopedie sulle giustificazioni per cui decisi di navigare a vista per il momento e il momento sarebbe stato all’indomani, al giungere del quale sgranavo i secondi… questa trepida anticipazione in effetti mi destava qualche preoccupazione di fondo. Mi accordai con le colleghe per cambiare un turno di riposo e avere il pomeriggio libero, la casa linda e sistemata sembrava un accogliente nido d’amore; al telefono avevo proposto a Ursula un pranzo tardivo del quale sarei stato lo chef personale esibendo le mie doti culinarie preparando un delizioso menù. Antipasto di hummus preparato frullando aglio, ceci lessati e spellati con limone, olio d’oliva, tahina (una pasta di semi di sesamo tipica del Medio Oriente) paprika dolce e prezzemolo servito con pane tostato su un cestino di formaggio grana padano gratinato accompagnato da olive taggiasche favorito con un Gewurztraminer della cantina Saint Michel Eppan del Trentino Alto Adige. Come primo spaghetti numero cinque lessati in acqua salata dove al bollore vengono immersi un paio di pistilli di zafferano conditi poi in una salsa tiepida di olio nel quale foglie di alloro stropicciate hanno rilasciato l’aroma senza essere fritte (altrimenti diverrebbero amare), quindi una volta scartate e raffreddato l’intingolo questo viene sbattuto a frustino con un pizzico di sale, abbondante pepe e un mezzo bicchierino di buon brandy, cotta e scolata la pasta si amalgama con il tutto in padella aggiungendo una spolverata di formaggio parmigiano mantencando con un poco d’acqua di cottura. Il profumo, più che il gusto delicatissimo di questa preparazione hanno collaudati effetti afrodisiaci soprattutto se conciliato da un profumato Donna Fugata (perdonate il gioco di parole) bianco. Per secondo spiedini di pollo precedentemente unto e infarinato con una granella di sesamo, spezie in polvere e paprika piccante quindi cotti al forno serviti con salsa di arachidi thailandese e per contorno pinzimonio di verdure fresche da intingere in una vinaigrette di olio, pepe, limone, acciuga e worchester. Al posto del dolce un peccaminoso Roquefort da gustare con fettine di mele Granny Smith, datteri e mostarda di cipolle; lo Champagne ghiacciato di conforto lo avrei presentato con frutti di bosco a bagno nella Boule.

Ma la vera sorpresa sarebbe stata l’apparecchiatura… La bella invitata suonò al citofono con una ventina di minuti di cortese ritardo, si torceva le dita guardando spesso la facciata del condominio stagliata nei suoi vertiginosi cinquanta piani contro il cielo caliginoso, scattò subito il portone d’ingresso e il portinaio le diede il benvenuto con un sorriso accompagnandola all’ascensore dove la salutò nuovamente una volta che ebbe premuto il tasto del piano desiderato, giunta in breve seguendo le mie indicazioni svoltò a destra nel corridoio asettico interrotto da porte verdi tutte uguali alla numero cinque picchiò tre volte il batacchio attendendo. Forse sperò in una mia dimenticanza per tornare indietro alla sua vecchia vita, sapeva benissimo che una volta aperta la porta qualcosa sarebbe cambiato oppure forse no: sarebbe stata una tranquilla cena tra amici con qualche bacio, poi lui tanto abituato a are di donna in donna si sarebbe stancato presto e lei sarebbe tornata al suo placido mondo, comunque cosa ci fe lì era la domanda più pressante nella testa, ancora un secondo e si sarebbe girata verso l’ascensore ma la porta scattò e si mise le mani davanti alla bocca sporgendo gli occhi quando aprii. Partendo dalla scarpa inglese allacciata su un rigoroso calzettone lungo in canneté blu i suoi occhi salirono a due ginocchia leggermente pelose sovrastate da un grembiule rosso sotto al quale mi si poteva immaginare completamente nudo se non per il tipico cappello da cuoco reclinato sulle ventitré che sorridente aggiustai con la mano guantata, con l’altra impugnavo un grosso mestolo di legno… “Sei completamente pazzo!” disse scossa dalle risa. “Ti pare il modo di ricevere una signora questo?” “Oh, ancora non ha visto il meglio mia dolcissima commensale…” Avevo ragione, l’eccitazione fanciullesca negli occhi tradiva una lunga mancanza da giochi di coppia e raffinate attenzioni, cose delle quali le donne invece hanno continuo bisogno innamorate come sono dell’amore, invero una distrazione fatale nella quale cadono tutti gli uomini sposati, ma non la giudicavo pensando che magari dopo un lungo matrimonio ci sarei caduto anch’io al momento però la viva voglia che ne avevo mi serviva come divertimento e arma di seduzione. Alla vista della tavola si lasciò andare all’indietro appoggiandosi allo stipite del

guardaroba in preda alle risate. “Lo dico io che tu sei pazzo… non posso credere che tu abbia apparecchiato il letto!” In effetti era quello che avevo fatto: usando un carrellino da colazione come appoggio e i tavolinetti ai lati come portavivande avevo imbandito con cuscini, posate e piatti da portata il mio confortevole giaciglio circondandolo con candelabri e candele profumate in una complice penombra. “Orsù mia bella vada a prepararsi che la pasta sta cuocendo e il pranzo le sarà servito tra breve, il bagno è da quella parte troverà qualcosa di più adeguato all’occasione,” dissi con ostentata flemma da servitore di corte indicando con un dito la direzione in cui andare. Sentii chiudersi la porta del bagno quindi mi precipitai verso i fornelli a ultimare le cotture, a esperienza calcolai di avere all’incirca sette minuti prima che uscisse, sogghignavo soddisfatto tra me all’idea della sua espressione una volta trovato ciò che le avevo lasciato appeso al gancio degli asciugamani. Lo scatto della maniglia fu il segnale, ero pronto, entrai in camera con il vassoio carico di fumanti e odorose pietanze e, mio Dio, quale spettacolo trovai ad attendermi… “Devo rinnovarti i miei complimenti, animaletto! Ci capisci anche di lingerie…” Era in piedi di fronte al letto con le mani appoggiate sui fianchi, la sottoveste di seta rossa con profili di pizzo rosa cipria metteva in risalto il corpo tonico, snello ma con le forme pronunciate da una naturale muscolatura simile a quella di una felina fiera pronta a un inaspettato quanto guizzante scatto; i capelli dal luccicore della seta si adagiavano sulle spalle tonde dalle linee ben definite convergenti sulle braccia lunghe e lucide di crema o olio per la pelle, fui percorso da un brivido risultante dallo scontro di due impulsi: quello irrefrenabile del maschio che l’avrebbe presa lì lasciando cadere il vassoio a terra, e quello del gentiluomo deciso a prolungare tanto piacere così magnificentemente promesso. Vinse il secondo, a fatica, specie dopo aver percorso cogli occhi tutta la figura sin giù alle sottili caviglie terminanti in candidi piedi cinti da sandalini en pendant con uno sbuffo sbarazzino di marabù rosso violento, i miei potenti appetiti entrambi in tumulto chiedevano cibo! “Mettiti comoda tesoro, il primo è in caldo sarà un mio privilegio servirti l’antipasto…” Adagiai il tutto sul carrello guardandola distendersi sui cuscini a

mo’ di una dea degli antichi affreschi, le porsi morbidi tovaglioli di seta nera arrotolati intorno a bacchette giapponesi di legno laccato rosso, lei le prese studiandole con cura rimandandomi uno sguardo malizioso, gliele tolsi di mano porgendole con l’altra un boccone dell’antipasto accolto da lei schiudendo voluttuosamente le labbra, accompagnai la crema con le dita fin dentro la bocca per chiuderla con un bacio profondo. Le imboccai un sorso di vino fresco dal cestello del ghiaccio, una goccia scivolò lentamente guidata dai miei occhi fino alla fossetta al principio del lungo collo ove mi abbeverai pure io arso di sete della sua pelle calda, risalendo verso il viso mi staccai all’altezza del mento per porgerle un’altra porzione, ricambiò il servizio baciandomi il petto scoperto dalla scollatura della vestaglia, cinse i miei capezzoli tra le labbra mordendoli delicatamente, suggendo poi con insistenza come a chiedere nutrimento, ero in delirio, mai avrei sospettato di poter provare tanta beatitudine venendo solo baciato, la staccai quando la sensazione troppo preponderante rischiava di mandare i miei sensi in sovraccarico anzitempo: avevo pane per i miei denti e non intendevo la colazione a letto. Pasteggiammo senza smettere mai di guardarci udendo solo il fruscio delle stoffe e dei nostri respiri sempre più profondi, lei mi carezzava la guancia ben rasata e reclinando il capo su un lato adoravo trattenere la morbida mano tra viso e spalla strofinandomici come un gattino, la mia eccitazione fu visibile trattenuta dal morbido tessuto lei vi ò delicatamente le sue dita sopra regalandomi un fremito trasmesso immediatamente all’asta dello scettro, ma ancora non era il momento di impalmarla qual Regina. Abilmente pizzicai la giusta dose di pasta con le bacchette giapponesi facendole discendere dall’alto nel roseo palato, tenevo la ciotola sotto al suo mento perché il vapore aromatico salisse a coadiuvare gusto con olfatto, segreto della mia preparazione, le ai altri due ciuffi di spaghetti quindi posai il contenitore e con la mano libera entrai tra le sue cosce. Mi attendeva umida di rugiada, fu la mancata resistenza a farmi delicatamente sospingere due dita tra i lussureggianti petali della vellutata rosa, lei aggrottò le sopracciglia in una smorfia tra smania e piacere lasciando sfuggire un lento vagito, le pulii la bocca col tovagliolo e senza togliere le dita con l’altra mano le porsi gli spiedini facendole sfilare uno a uno coi denti i pezzetti di pollo piccanti, ne approfittò per afferrare la mia durezza con leggerezza e decisione stringendo per saggiarne la consistenza: “Bello…” disse languidamente. “Forza mangiamo, ho un grande appetito…” Per tutta risposta la spinsi sdraiata e affondai la bocca nel suo sesso facendole dolce violenza con la mia lingua, cercò di rialzarsi ma con il braccio la tenni giù,

sentivo il miele scorrere nelle mie labbra, me ne dissetavo avido fin quando non avvertii il cambiamento nel ritmo del suo bacino mi separai lentamente dal suo fiore lasciandola ansimante. “Non ancora…” le sussurrai in un orecchio, intinsi il glande nella vinaigrette invitandola ad assaggiarne, non si fece pregare sapeva stare al gioco. La sua bocca mi ingoiava con dolcezza, la sua sapiente lingua tesseva intricati ricami sul tappeto delle mie terminazioni nervose più sensibili e nascoste facendomi volare come il ladro d’amore delle mille e una notte, allora mi girai reverso per renderle il piacere, usai una piccola carota per giocare in lei non mancando di stuzzicare l’angusto pertugio adiacente con piccole irriverenti attenzioni che sembravano procurarle ancora maggior godimento, ma non era quello il momento per proferire la formula magica al fatato portale. Mi rigirai ancora mettendomi dietro alla sua schiena per servire i formaggi. Avevo allentato completamente la cintola della vestaglia mentre la sua sottoveste tirata su oltre i fianchi mostrava l’offerto splendore di una presa animalesca, mi appoggiai invece indugiando sul ciglio e ando le braccia oltre lei tagliavo fettine di mela acidula imboccandola voluttuosamente muovendo il bacino lentamente senza penetrarla, presi tra le dita delle briciole di Roquefort e andogliele in bocca infersi una vigorosa spinta entrando nella lussuosa magione della Dama… gemette rompendo la voce io continuavo a arle il cibo e la mia verga con calcolato tempismo mangiando con lei, era un orgia di piacere tattile, olfattiva, di gusto e vista; mordevo la mela croccante e il suo collo facendo più vigorosi i miei colpi non pensammo più a nutrirci e fornicammo impeccabilmente trascinati dalla ione, i colpi decisi dei miei lombi la facevano urlare. Le misi un cuscino sotto al ventre per rialzarla, entrai nuovamente da tergo, ai le mani davanti, con una divaricai le grandi labbra usando due dita e con l’altra afferrai il suo abbozzato membro strofinandolo leggermente in sincronia con le mie reni, ruppi il ritmo e la condussi oltre la porta aperta: sentii il tremore partirle dalle gambe, salire su fino al bacino a tempo col mio che la incalzava tumultuoso finché urlò in preda alle scosse convulse dell’orgasmo, tentava di sfuggire al mio peso ma io la seguivo spingendo più forte ancora: cercavo di trattenermi in tutti i modi per rimandare il momento dell’estasi; richiamai ogni distrazione dall’archivio della mente: procioni, i brutti momenti del lavoro, le brutte figure fatte con qualche donna, persino il film di Amy, quello calmò la mia ansia di piacere e mi distesi rilassato su lei.

“Perché non sei venuto?” mi chiese ansimante. “Perché abbiamo molto ancora da fare… il pranzo non è finito…” le risposi dolce accarezzandole il viso, punteggiandole la schiena di punti esclamativi d’amore. Ci baciammo a lungo guardandoci negli occhi poi si alzò per andare in bagno, io ne approfittai per rassettare la tavola e prepararmi al dolce: sarebbe stato dolce e piccante! Una volta rinfrescato anch’io versai lo Champagne ghiacciato nelle coppe dove i frutti di bosco frizzando allegramente rilasciarono il loro aroma asprigno e dolce, brindammo scambiando il vino dalle nostre bocche, andoci le piccole bacche da labbra in labbra ricominciando a baciarci e ad ansimare. Percorsi ogni piega del suo splendido corpo carezzandolo con la lingua fino ai più nascosti anfratti, alle dita dei morbidi piedi risalendo su attardandomi sui cavi poplitei talmente sensibili da poter vedere la pelle d’oca affiorare vistosamente; percorsi i fasci dei suoi muscoli su per l’interno delle cosce, nelle pieghe delle natiche descrivendo poi ampi circoli sui glutei aiutato dalle dita le quali sfiorando la pelle a intervalli leggeri disegnavano fantasiosi arabeschi concentrici dirigendomi verso la sua più segreta intimità. Le mie indiscrete attenzioni le provocarono un pochino di imbarazzo ma non vi si oppose, le porsi un’altra coppa di champagne e ricominciai a giocare col clitoride, la mia lingua solleticava invece la piccola porta sul retro procurandole un nuovo fremito mi ci accostai allora con sesso imperiosamente eretto, lei non disse nulla… Forzai l’ingresso con cautela e ogni volta che la sentivo ritrarsi mi fermavo attendendo il rilassamento dei piccoli muscoli quindi ricominciavo a entrare con lentezza esasperante. “Ti faccio male?, se ti faccio male dimmelo che smetto…” fu il mio invito, l’ultimo. “Sì… un pochino ma continua…” fu la sua replica. Avanzai, piano con attenzione fino a fermarmi quando avvertii la tensione farsi più forte, mi presi cura di lei dunque dove le piaceva di più fu così che la resistenza cedette e trionfante violai la breccia. Ero tutto dentro di lei

continuando a carezzarla davanti, mi incitava ora combinando le sue spinte con le mie, sentivo il piacere prenderla all’aumentare del respiro: “Dimmi quando, dimmelo!” mi implorò lei ansimante, spingeva indietro con vigore e rispondendo alla sfida la cavalcai furiosamente aumentando le mie carezze, la sentii corrermi incontro sempre più veloce finché tutto il suo corpo trasalì ancora: “Adesso!” urlai, lei strinse i muscoli e la angusta presa mi fece scuotere di piacere, urlando come un ossesso esplosi in lei così violentemente da poter avvertire il fuoco sputato dalla bocca del drago! Accasciato sulla schiena madida di lei contemplavo la massa di capelli neri spostati su un lato del collo. i ciuffi più corti arricciati dal sudore e dall’attrito sul cuscino sotto l’attaccatura della nuca, ai con la mano verso l’alto carezzandole il capo per trovare il viso e il naso, la bocca, le mie dita sulle labbra umide ansimanti un respiro affrettato che andava calmandosi come un caldo monsone eggero, breve e tumultuoso. “Bello…” sospirai sul suo crine di selvaggia puledra aspirandone l’essenza. “Bello…” rispose dolcemente voltandosi come poteva verso me accennando un bacio, eravamo ancora uniti e così avremmo voluto restare per cento anni. La pressione andava scemando nelle mie vene e nonostante lei cercasse di trattenermi in sé con mugolio per lo sforzo uscii sospinto dalla tensione negativa con un distacco inesorabilmente lento. “Ti volevo ancora dentro… mi piaceva…” “Anche a me… è stato un dolore al cuore separarmi da te…» La girai e la baciai, lei prese una sigaretta dal mio pacchetto sul tavolinetto a fianco del letto portandola riguardosamente alla bocca accendendola poi con riverenza, io osservavo affascinato il piccolo rituale culminante in una vaporosa voluta di fumo bianco espirato con sommo appagamento. “Non fumi tu, se non ricordo male.” Di fatto così aveva dichiarato e mai la vidi farlo prima d’ora, un sottile fremito si aggiunse comunque al novero delle soddisfazioni regalatemi dall’indimenticabile pomeriggio di ione. “Infatti…” mi ò la sigaretta sbuffando un’altra nube tagliata dalle luci delle candele. “E non ho intenzione di cominciare… ma ogni volta che faremo

l’amore te la accenderò io e sarà l’unica che fumerò.” Presa tra le dita le diedi una lunga tirata aprendo le labbra per aiutare con la lingua il fumo a scendere nei polmoni, ne gustai il sapore sul palato e in gola, trattenni il respiro per un secondo rilasciando poi una lunga cortina grigia in aria: “La più buona del mondo,” sancii con enfasi. “Ti ho fatto male?” chiesi subito dopo con garbo. “Mi sono lasciato trasportare… sai eri un po’… come dire… troppo stretta lì…” Lei mi guardò con un enigmatico sorriso senza dire niente, capii. “Grazie…” E la baciai ancora.

Ci incontrammo a ogni occasione consentita compatibilmente coi reciproci impegni di lavoro, la sera doveva farsi trovare a casa perché il marito telefonava a orari non fissi ma questo non ci inibì anzi, facemmo l’amore solo di giorno: ripetutamente nel magazzino oppure girovagando in città infilandoci in ogni portone lasciato aperto per prenderci in un sottoscala, in ascensore, nei bagni dei ristoranti e dei cinema, addirittura in pieno giorno nel parco pubblico dove la feci sedere su di me coperta da un’ampia gonna; non ci importava degli sguardi dei anti, divertiti o scandalizzati o curiosi, eravamo noi due e basta e non ne avevamo mai abbastanza l’uno dell’altro. La maratona erotica venne interrotta dal ritorno, come previsto, del legittimo consorte. Le possibilità di incontrarci diminuirono notevolmente, diventò inoltre necessaria una particolare cautela nello scambio di comunicazioni, io non potevo telefonarle onde evitare il rischio di cadere nei più infidi tranelli pronti per gli amanti clandestini quali le chiamate silenziose o pretesi numeri sbagliati quindi decidemmo che sarebbe stata lei a farsi viva; quando il marito era distratto alla televisione o in bagno lei chiamava di nascosto dalla sua camera da letto solo per dirmi che le mancavo, che soltanto sentire la mia voce registrata nel messaggio della segreteria le sarebbe bastato a superare un altro giorno senza me, quando fortuitamente riuscivo a prendere in tempo la comunicazione ci bisbigliavamo frettolosamente tutto ciò di cui sono capaci due amanti distanti. Una notte mi svegliò il trillo del telefono, guardando la sveglia con gli occhi ancora stropicciati dal sono notai l’ora: le due. “Amore sono io…” bisbigliò a voce appena percettibile. “Lui dorme, io non

riesco a prendere sonno… ho voglia di te amore mio, adesso…” “Che sorpresa tesoro, che bello! Sei sicura che non possa sentirti?” le chiesi sussurrando anch’io chissà poi perché. “Sì amore, lo sento russare lui non si sveglia mai di notte e io non prendevo sonno non riesco a pensare ad altro… amore, dimmi qualcosa…” Compresi immediatamente l’aspetto della questione. “Dove sei…” “Sono sul divano in sala, sto chiamando da lì.. .sono caldissima amore mio parlami ti prego…” “Ti stai già toccando ti sento, lo avverto dal tuo respiro… lo sai cosa ti farei adesso se come un ladro potessi entrare dalle finestre e trovarti così, vero?” La udii gemere. “Sai… sto guardando la finestra sulla città, vedo le luci accese e immagino, sì… di vederti arrampicato mentre forzi la finestra… dimmi cosa mi faresti.” Cominciai a scaldarmi pure io. “Sì, se fossi un ladro con il viso dipinto di nero vedresti solo i miei occhi fiammeggianti di desiderio balenare nell’oscurità… ti spaventeresti all’inizio ma presa in un momento intimo forse la vergogna o la voglia ti impediscono di chiamare aiuto chiudendoti la gola…” Lei ascoltava impaziente, respirando nella cornetta. “Il mio corpo segnato dalla calzamaglia aderente attira involontariamente i tuoi occhi e io mi avvicino bloccandoti le braccia con una presa ferrea. Se ti muovi ti uccido, ti dico e tu non fai in fiato, l’odore di femmina bollente mi eccita ed ecco spuntare qualcosa…” “Oh sì amore, cos’hai per me?” La sua voce era più stridula adesso. “Ti lego per i polsi e tu mezza nuda puoi avvertire la durezza del mio membro minacciarti come un’arma puntandoti sulla schiena…” “Oh sì mi piace questa cosa amore… e cosa mi fai adesso… vai avanti…” Ero eccitatissimo, nel buio della mia camera non accesi nemmeno una luce per calarmi meglio nel ruolo: “Adesso sono costretto a bendarti perché tu non veda il mio viso, ti faccio alzare dal divano e ti porto verso il bagno minacciandoti con

la mia turgida arma; tu non sai se hai più paura o voglia di maschio, quel caldo punteruolo sulla schiena è d’acciaio e ti fa desiderare di essere presa per lasciarti andare come la sciacquetta che sei, tanto non lo vedrai mai più e sai di essere un sontuoso bottino! L’idea è così intensa da sentirtela colare giù per le cosce…” Ansimava forte, come se fossi stato presente nella stanza la immaginavo torcersi inarcando la schiena sudata verso il cielo cercando di sublimare. “Cosa fai tu adesso…” Sospirò. “Amore, me lo sento bruciare tra le mani vorrei spegnerlo nella tua carne… ma adesso ascolta.” “Sì… racconta amore, mi hai legata bendata, sono tutta umida ho voglia lo senti? Sì, è come dici tu… avanti!” “Non puoi fare niente sei completamente immobilizzata, ti ho legato al porta asciugamani, il rumore della zip ti fa trasalire non si sa bene se di terrore o anticipazione ma appena la pelle bollente e tesa del minaccioso manganello accarezza le tue cosce nude un fremito ti attraversa il bacino… allora con forza inusitata ti liberi dai lacci, strappi il bavaglio e approfittando della sorpresa mi spingi a terra impalandoti per cavalcarmi furiosamente!” Udivo il suo crescendo, al ritmo del mio. “Sì amore prendila!… prendimi…” Arrivammo insieme in paradiso sfondandone le porte, potevo vedere anche uno stormo di angeli rossi in volto roteare su di noi benedetti di amorosa ione; restammo qualche secondo ansimando al telefono. “Meraviglioso amore… non lo avevo mai fatto prima sai?” sospirò lei lieve. “Al telefono intendi?, nemmeno io…” “No amore… questo, toccarsi!” “Davvero?” esclamai incredulo. “Mi stai dicendo che non ti eri mai masturbata?” Ero sinceramente sbigottito nel sentire una bellissima donna proveniente da un paese notoriamente emancipato affermare tanto candidamente una cosa così. “No amore, non lo avevo fatto mai, ma questa notte avevo una smania incontenibile aveva preso possesso di me e dovevo farci qualcosa, dico… saresti stato più contento se avessi svegliato lui?”

Ovviamente la mia manifesta perplessità l’aveva indispettita, la seconda domanda, dopo quella sulla sua oltremodo pura pubertà, fu sulla sua vita matrimoniale ma la sorpresa vera e propria me la riservò il feroce morso di gelosia avvertito alla sua replica. “No certo amore, cosa dici… mi hai fatto enormemente felice, in ogni modo!, sei una donna veramente unica in molti sensi… grazie, vorrei amarti per tre giorni e tre notti, sarà la preghiera prima dei miei sogni.” Anche se disorientato da queste inaspettate rivelazioni tutto il mio spirito era enormemente rilassato e non lasciai trapelare nessuna sfumatura dalla voce. “Adesso vado a dormire amore, lo sento rigirarsi nel letto probabilmente non mi sente vicino e non vorrei si alzasse… buonanotte è stato bellissimo, mi mancherai… sogni d’oro.” Riattaccò lasciandomi con un fluire di nuove emozioni assortite che non mi impedirono di scivolare in un dolce nulla con un sorriso e un pensiero su tutti: rivederla. Fortunatamente il suo lavoro le consentiva un certa libertà di movimento così dopo essermi arrovellato per qualche giorno in preda all’impellenza, pensai di proporle un appuntamento nelle stanze dell’albergo sovrastante il mio negozio. “No, non posso adesso… scusami. “ Avverto nella sua voce un’incrinatura. Una mia dote innata quella di poter leggere le sfumature più impercettibili negli animi attraverso un soffio di fiato, un po’ come dovevano saper fare i nativi americani coi segnali di fumo; ho già capito cosa sta succedendo. “Che succede Ursula…” Cerco di modulare il mio tono tenendolo basso, senza picchi, in modo da rassicurarla evitando di sembrare inquisitorio. “Sensi di colpa?” “Sì, tu riesci a capire sempre tutto… non lo merita è una persona splendida, buono e gentile… mi sento la peggior donna del mondo, quando penso a ciò che faccio mi sento strappare l’anima, precipitare in un pozzo urlando!” Lascio trascorrere qualche secondo, è in affanno, poi riprendo senza cambiare intonazione. “Troviamoci da me quando puoi, beviamo un caffè e facciamo due

chiacchiere.” Il quadro si presenta più complicato che non negli adulteri, diciamo tradizionali; penso a Il postino suona sempre due volte, uno scenario perfetto: il marito brutto ricco e cattivo, lei bellissima con voglia di riscatto dalla svendita dell’anima con cui si è data al dispotico cerbero e arriva il giovine aitante a mettersi in mezzo. Tralasciando le complicazioni successive comunque la protagonista femminile viene sollevata dal peso del tradimento grazie all’odioso comportamento del marito ma qui la faccenda è diversa, il marito di Ursula è un gran bell’uomo, fisicamente in forma, innamorato nel modo più devoto riempiendola di attenzioni e premure mentre la accarezza con lo sguardo adorante; è simpatico, di compagnia rispettato e apprezzato da tutti: insomma perché una donna dovrebbe tradire un uomo così?! La prima giustificazione che uno potrebbe dare potrebbe essere a proposito di qualche deficienza sessuale, che so, o una personalità completamente diversa che però il marito manifesta solo dietro porte chiuse; mi crea qualche difficoltà accettare ai tempi moderni le antiche teorie tanto declamate da misogini letterati afflitti dalle continue delusioni amorose su una presunta instabilità femminile, una infedeltà istintiva e incontrollabile per cui sarebbe solo della mera noia, la voglia di qualcosa di diverso anche dal meglio possibile. Che si tratti di quella irrazionale femminilità che tanto spaventa gli uomini alla quale la liberazione sessuale ha definitivamente sciolto le briglie seminando il panico nei vecchi spogliatoi stantii di sudore e vapore dove il maschio tradizionalista ha respirato fumenti di sciovinismo per secoli? E che anch’io me ne ritrovi contagiato per corredo genetico? È per questo che sto lisciando l’idea di una pura e semplice puttanaggine come l’avrebbero chiamata i miei avi? Non voglio indulgere in queste elucubrazioni, non è riuscita Amy a trascinarmi in quella palude e non lo farò adesso così decisi di affrontare la dubbiosa donna dei miei sogni ficcandomi bene nel fondo delle tasche quelle idee, ma, mi chiedo ancora… e se lui la lasciasse io la vorrei tutta per me? Ci incontriamo nella hall dell’albergo, ha l’aria tirata e le guance scavate, gli occhi gonfi di chi non ha dormito; le siedo accanto sfiorando la guancia con un bacio leggero, avverto una contrazione del viso mi sistemo fronte a lei. “Non hai dormito molto bene…” “Dimmi qualcosa di meno ovvio se ci riesci!” “Brrr…” Mi stringo il torace con le braccia facendo una faccia stupida per sdrammatizzare ma non serve.

“Vediamo se riesci a calmarmi perché per adesso hai detto e fatto solo ovvietà, d’altronde è quello il tuo personaggio, no?! Non hai uno spessore morale tu, non sai tirarti indietro capendo che ci sono persone e sentimenti migliori di quelli sai provare tu, qualità meritevoli di essere salvaguardate… sei un animaletto in fondo, sesso, sesso e sesso!, solo a quello sai pensare tu!” “E tu no?” risposi sarcastico, avevo la precisa intenzione di provocarla in modo che finisse di sfogarsi, non capivo cosa potesse essere accaduto ma non potevamo parlarne con lei in questo stato. “Vorrei ricordarti mia bella madonna quando fino a pochi giorni fa eri tu con me a fornicare di gusto e se non ricordo male ci hai tenuto a farmi sapere di essere tu a scegliere l’uomo, non viceversa…” Dovevo avere una irritante faccia da schiaffi. “Io posso avere una debolezza dopo vent’anni di matrimonio e bada bene non sei niente di che, sei un cumulo di terra al cospetto di un uomo dai valori morali di una montagna! E se io sono una donna stupida e irresponsabile ma come avrei potuto sperare mai di imbattermi in un uomo altrettanto speciale da sapermi trattenere in virtù di qualcosa di grande… solo lui è integro nel corpo e nell’anima! E io l’ho offeso nel modo più vile… oh dio!” “Balle!” replicai seccamente, avevo udito abbastanza; lei rimase interdetta, per un secondo. “Balle?!, che ne sai tu di valori, hai frequentato donne senza il minimo rispetto di sé, facendoti mettere nel mezzo fino a quasi distruggerti per il dolore! Sei un povero bimbo sprovveduto, ti ci vorranno dieci vite per progredire al livello di quell’uomo!” “Adesso stai esagerando!” Questa volta il mio sguardo era iniettato di sangue, stavo per esplodere. “Io non so quale genere di problemi abbiate voi due, se tuo marito è tutta questa roba che vai blaterando mi spieghi di cosa stiamo parlando qui e adesso?! Se avete problemi a letto o lui ha qualche defiance non mi riguarda…” “Cosa?!” mi interruppe lei. “Non starai mica pensando che se io vengo a letto con te è perché lui ha problemi?!” Si mise a ridere. “Guarda mio caro che se ti raccontassi com’è lui a letto potresti avere delle sorprese rimanendoci pure male e se faccio sesso con te non è certo perché mi manca a casa!” La mia mente andò subito all’intimo regalo, la sua seconda verginità, concessa

come dono d’amore: già mi parve bizzarro trovare intatta una giovane donna sposata da tempo con un uomo attivo e innamorato a meno che lei non gradisse la pratica, di fatto non a tutte piace, ma così non dimostrò affatto; ero sempre più disorientato ma non perseguii il ragionamento concentrato com’ero ad ascoltarla. “Non voglio sapere cosa fate a letto voi due…” L’immagine baluginante davanti ai miei occhi in effetti mi disturbò ma adesso era arrivato il momento di abbassare i giri e darle ciò per cui era venuta all’appuntamento: rassicurazione. “Ascolta, tu puoi raccontarti qualsiasi favola o decidere di seguire tutte le credenze del piccolo villaggio di Babbo Natale vicino al Polo Nord, ma che tu venga a dire proprio a me che esista un uomo così bello e possente e per giunta fedele…” La sua faccetta scettica non servì a impedirmi di continuare: “a la maggior parte del tempo fuori città per lavoro, frequenta decine di impiegate, segretarie e altri tipi di donne come hai potuto vedere anche tu a tutte le feste alle quali ci siamo trovati, è il calcolo delle probabilità e noi uomini da quel punto di vista siamo tutti uguali; sono talmente convinto di questo da sfidarlo a venire a raccontare a me, guardandomi negli occhi, che non ha mai combinato nulla! Li conosco meglio di te gli uomini è nella loro natura cogliere un’occasione perché se così non fanno hanno qualcosa che non va: siamo diversi da voi, siamo capaci di andare a letto con una donna perché ci piace, poi chiudere la porta della camera e dimenticarci del suo nome, non abbiamo bisogno di coinvolgimenti emotivi… basta l’attrazione sessuale, eppure questo nostro lato, animalesco se vuoi, non ci fa amare meno la donna del cuore… credimi!” La vedevo scuotere impercettibilmente il capo come sfogo di una lotta interiore talmente furibonda da trasparire in gesti involontari. “Non sto portando giustificazioni al tuo o al mio comportamento per convincerti o farti sentire meglio, i miei convincimenti sono suffragati dall’esperienza, da ciò di cui parlano gli uomini quando sono tra loro: non ne ho mai udito uno solo non vantarsi di qualche sollazzo collaterale e i peggiori di tutti sono proprio quelli sposati! ” Non credetti un istante che la mia accorata arringa in difesa del maschio comune la avesse convinta, io ne intendevo realmente ogni sillaba sia chiaro, ma sortì l’effetto tranquillizzante in cui speravo; a volte le donne solo di questo hanno bisogno, di parlare, comunicare, forse era solo quella la mancanza del

sant’uomo. La vidi rilassare i muscoli del viso. “Bel tentativo animaletto, ma lui è diverso, tu non puoi capire perché sei allo stadio bestiale e lui invece è prossimo al divino: lui vive per me, per ogni mio respiro, desiderio…” “Sai …” la interruppi alzando il tono della voce su una scala più allegra, “mi viene in mente una vecchia canzone di Nina Simone, un’artista talmente talentuosa ed emancipata da riuscire a scavalcare grossi pregiudizi come quello di essere nera in un periodo di intolleranze razziali, donna una quarantina d’anni fa e pure bruttina diventando una cantante e compositrice di jazz famosa in tutto il mondo…” “E cosa ci incastra adesso Nina Simone?!” Era di nuovo spazientita ma curiosa. “Uno dei suoi più grandi successi commerciali, ripreso poi negli anni Ottanta e del quale sicuramente ricorderai, faceva così Al mio amore non importa dei bei vestiti, al mio tesoro non importa delle scarpe delle belle auto e delle corse persino il sorriso di Lana Turner non lo turba; mi domando cosa ci sia che non vada nel mio tesoro perché al mio tesoro importa solo di me e se lo cantava una tosta così…” Lasciai la conclusione a effetto galleggiare nell’aria perché entrasse nella sua bocca aperta: le avevo insinuato un dubbio nella mente. “Sai Ursula, non è detto che se una cosa sia indiscutibilmente e universalmente perfetta lo debba essere per forza anche per te, ci si stanca anche di quella… l’essere umano è curioso per sua natura, ha bisogno di esplorare e conoscere, di stimoli e un immoto paradiso potrà essere di certo il trionfo dell’estasi divina come la chiami tu, ma è contemplativa, statica: è il nulla. Forse le spiegazioni che vai tanto arrovellandoti a cercare sono solo queste, è così semplice… e umano. Tranquillizzati mia cara sei a posto…” Il mio tono paterno rischiarò i suoi occhi tristi dalla patina nebbiosa stirandole un faticoso sorriso appena accennato sul volto esausto. “Sono solo una donna sciocca ma tu sei molto carino, mi piace quando mi parli, quello che dici, sono stata fortunata a incontrarti, ti ho scelto bene dimmi che non dovrò mai pentirmene…”

“Te lo prometto. Non vorrei mai sulla coscienza il tuo matrimonio, non sarebbe motivo di vanto o soddisfazione ma solo di biasimo e vergogna.” “Sei un nobile cavaliere d’oro lo sai?” “Sono solo pazzo di te, te l’ho detto oggi?” “Non me lo avevi mai detto.” Le nostre dita si intrecciarono furtive sotto il tavolino da caffè stropicciandosi a vicenda e alla fine del mio turno di lavoro ci trovammo nella camera d’albergo come d’accordo, non avevo disdetto la prenotazione. Tornando a casa dopo due ore di amore intenso come mai indulgevo nella rievocazione del piacere: momenti, odori immagini e suoni; non ne avevo mai abbastanza di lei, tale fu il mio impeto nell’amplesso da darle l’impressione di voler entrare nel suo corpo completamente, fondermi con la sua carne, probabilmente il rischio di perderla aveva scatenato l’inarrestabile foga che non le dispiacque punto. Continuavano e ronzarmi nei pensieri le piccole incongruenze in conflitto con i dettami dell’esperienza, le domande che non osavo rivolgere temendone le risposte e comunque venuto a patti con l’idea che questa donna non sarebbe mai stata mia tentando di non permettere a queste elucubrazioni di contaminare il mio tempo migliore; Ma com’è difficile uscire dalla porta posteriore del paradiso, come si vorrebbe ricominciare e dilatare all’infinito un sublime momento, l’estatico perdersi insieme e più ci viene negato tanto di più ci intestardiremo nel perseguirlo e più grande sarà lo struggimento e il rimpianto nell’impossibilità di renderlo eterno: se la felicità è il ripetersi di un piacere, l’infelicità sarà la proibizione di questo. Il desiderio è quel piccolo insistente demonio punzecchiante ogni essere umano verso imprese impossibili, titaniche talvolta persino eroiche! Non fu in nome di una insoddisfazione o frustrazione che iniziammo il progresso? Non è per un desiderio, forse nato per colmare un proprio vuoto interiore o di un amato prossimo, figli, amanti o per diminuire gli affanni guadagnando più tempo per oziosi piaceri, che un omuncolo inventò la ruota? Sì, fu da quello che scaturì la spinta al liberarsi dalla fatica e anelare al divino, perché ogni essere senziente rifugge il dolore, di quella stessa energia ero pervaso, pur conoscendo i limiti ai quali avrei dovuto imbrigliare i miei slanci spirituali, nulla mi avrebbe impedito nel perseguire i miei propositi. Coi mi pensieri a ruota libera, ebbro di fantastici

progetti volti alla procrastinazione della mia permanenza nell’eden scandii ogni o leggero come il dente di Leone innalzato dai moti convettivi dell’aere, mi ritrovai perciò molto presto a domicilio. Trovai diversi messaggi di Toni nella segreteria telefonica, mi rimproverava di essere sparito dalla circolazione, lo richiamai subito. “Ahbbello!” mi salutò, contento di sentirmi. “Te ne stai come un pisello nel baccello, no?!” La canzonatoria allusione mi colse di sorpresa lasciandomi incapace di ribattere, sapeva! “Scusami amico mio ma me ne sono stato tranquillo ultimamente, avevo bisogno di un po’ di riposo…” glissai. “Con quella, se mantiene metà di quanto promette, riposato lo sarai molto poco…” La lasciò cadere così, bella piatta come una bistecca cruda sul pavimento, con lo stesso rumore di un sonoro schiaffone e pure il medesimo effetto. “Comprendo e approvo il tuo tentativo di cavalleresca riservatezza…” continuò il buon Toni, “ma è inutile: ti hanno visto!” Ebbi un istante di panico, pensai subito al marito. “Posso sapere chi, quando dove e come?” chiesi con l’arrendevolezza del reo confesso. “Le solite Arpie…” sospirò il mio amico. “E devi sapere che la cosa è arrivata anche all’orecchio di Amedeo, che ti ricordo essere collega del marito! Non ti svergognerebbe mai, stai tranquillo, ti telefonerà…” Non sapevo cosa dire, già proiettavo kolossal catastrofici con liti, imbarazzo e avvocati. “Senti, l’importante è che non arrivino a lui queste chiacchiere,” dissi di nuovo padrone del mio conosciuto e apprezzato spirito critico. “Di solito in questi casi l’interessato è l’ultimo a venire a sapere: la gente preferisce di gran lunga alimentare la propria perversa malignità con salaci sarcasmi dietro alle spalle, quando la vittima scopre il gioco finisce il loro caustico divertissement quindi

direi di poter stare tranquillo per adesso…” Mi fermai in un secondo di riflessione. “Di certo a lei non farà piacere saperlo, è di già abbastanza dilaniata dai rimorsi e io mi sentirei oltremodo vile a nasconderglielo.” Toni ascoltava in silenzio le mie conclusioni ad alta voce tossicchiando ogni tanto fino a quando non si decise a farsi avanti: “Inutile dirti che sei meglio dei cercatori d’oro in quanto a casini, ti vai a scovare le pepite più grosse e splendenti ma dimmi una cosa dato che hai tutta la mia stima e massima invidia: ma ne vale la pena almeno?” E rimase in silenzio ad ascoltare anticipando il godimento di qualsiasi responso avessi dato ma da uomo di mondo qual era già immaginava la sentenza . “Offrirò impavido il petto alle fucilate del plotone d’esecuzione essendomi meritato ogni pallottola, morendo felice perché meritava vivere solo per averla conosciuta e di quel che resta dopo, poco meriterà il mio interesse! Ti ho risposto?” “Eh sì! Ho capito… Stavolta ti verremo a prendere in ospedale!” La battuta mi strappò una risata liberatoria, scemata la contagiosa ilarità lo misi al corrente della mia intenzione di vedere Amedeo una sera al Lilium per udire anche la sua campana quindi lo salutai con la promessa di una imminente serata tra ragazzi. Nel frattempo non sapevo davvero come affrontare Ursula né se fosse il caso di metterla al corrente visto quanta difficoltà avevo avuto nel ricucire lo strappo nella sua morale proprio quella mattina, e cercando il capo del filo da sbrogliare nella matassa della psicologia femminile ebbi l’illuminazione di contattare proprio una di loro per chiedere avviso sulla complessa materia. “Ehi Nora, ciao sono io… come va?” “Io bene come va a te piuttosto, prigioniero d’amore…” “No, dico davvero Nora, sono serio. Qui in America dovreste evitare di fare dell’ironia sui piccoli paesini italiani e sulla ristretta provincia indiscreta perché veramente gli date dei punti se calcoliamo tra quanti milioni di abitanti si dovrebbe disperdere un pettegolezzo!”

“Non dirmi che sei sorpreso, lo sai come vanno le cose: le montagne stanno ferme ma le persone si muovono, no?!” “Già! E fin dove sarebbero arrivati questi nomadi del chiacchiericcio?” “Non sino al marito per ora ma cercate di stare attenti, del resto tu hai una reputazione che ti precede, e non è delle migliori, e lei è una delle donne più desiderate della città fino a poco fa considerata inviolabile… invidia femminile e maschile hanno condito un piattino appetitoso per certe boccacce fameliche di intrighi.” “Avrei un problema più urgente al momento, cioè se avvertire anche lei…” “Non la conosco così bene ma fossi in te lascerei stare per adesso e sarei più cauto, almeno nei locali pubblici, se non lo è stata lei avendo di più da perdere mi viene da pensare che non sia una abituata a queste cose per cui è pericolosa nella sua ingenuità… o è pazza, chissà! Non ne hai avuto abbastanza tesoro?” Se dicessi che questi continui appunti non mi arrivassero come punture di vespa ogni volta avrei mentito, ma di me non mi importava niente: avevo promesso a lei che non se ne sarebbe pentita perciò avrei avuto da essere vigile per entrambi. “Non è pazza, diciamo solo inesperta in tradigione…” “Ti ascolto e mi chiedo se quello ingenuo non sia tu… riesci a capire che stai venendo usato? Tu non conosci il grado di apertura di questa coppia, non sai se sei stato messo di mezzo come coadiuvante per un rinnovamento in un momento di stanchezza tra i due e comunque sia chi è, dimmelo per favore, chi è l’unico perdente designato in tutta questa storia?! Lo sai?!” Mi infastidiva il suo tono materno ma sapevo quanto fossero vere le sue parole. “Io…” risposi in un soffio dal petto. “E allora togliti di lì perché adesso è tutto bello, scopiamo, scopiamo, ah quanto mi piaci ah quanto ti voglio ma lei non lascerà mai il marito… sarebbe una cretina se lo fe e ti assicuro che cretina non lo è!” Probabilmente rendendosi conto di aver inferto un colpo letale lasciò trascorrere qualche secondo ascoltando il mio mesto silenzio.

“Senti, mi spiace dirti queste cose ma mi fa specie che proprio tu sia invischiato in una situazione del genere… hai avuto e puoi avere tutte le donne che vuoi, libere per giunta! Puoi farti una famiglia ed essere felice; ma perché?!” Non impiegai molto a trovare la risposta dentro di me, solo un mezzo secondo nel quale riaffiorò tutto il dolore dal quale ero uscito da poco, tutte le domande assillanti la pubertà e l’adolescenza, tutto ciò al quale avevo assistito con occhi a volte anche divertiti; allora seppi, proprio in quel momento. “Perché tutte quelle belle cose di cui mi hai parlato non sono ciò che voglio… perché l’esperienza mi ha insegnato che l’amore non dura piuttosto è una momentanea illusione nella quale confondiamo l’abitudine, l’assuefazione, l’interdipendenza. Perché dove si rinuncia a una parte di sé e si ruba quella di un altro non vi è arricchimento ma solo paura, la paura della vecchiaia e della morte; perché tutte queste rinunce fatte in nome di una morale superata tornano un giorno a chiedere il conto e la loro somma sarà un’orda di infelici: mariti infelici, mogli infelici, figli infelici! Tutti ad annaspare in un oceano di solitudine interiore sferzato dal vento dell’incomprensione…” Vomitai il mio sfogo con tanta decisione e veemenza da lasciare la povera Nora attonita all’altro capo del telefono, mi sembrava addirittura di vederla, le ci vollero alcuni istanti per ribattere. “Il tuo cinismo mi fa rabbrividire… esistono persone felici sai? Esistono coppie che invecchiano insieme amandosi come il primo giorno arrivando all’ultimo felici per il mondo creato da loro, generato nell’amore e nel rispetto…” Non le diedi il tempo di continuare. “Tu parli di un mondo estinto, finito; una volta la vita era dura e in due sarebbe stata meno dura: l’unione di forze, economie, la voglia di costruire e ricostruire ma adesso no… adesso è l’unione di due egoismi, un arena nella quale si combatte per chi sarà vittima e chi carnefice, e quando avremo l’equilibrio? Quando ognuno avrà trovato modi e tempi per propinare piccole quotidiane soperchierie all’altro, quando verranno stabiliti i ruoli e gli atti della commedia della coppia moderna.” La lucida e devastante esposizione stava facendo vacillare la mia amica, continuai verso la mia conclusione.

“Il problema, il mio problema, il problema di tutti è che la voglia dell’amore, la magia delle sue sensazioni continuano a stregarci illudendoci di trovare nell’altro il catalizzatore necessario a innescare la grande alchimia… ma non è così. È solo in noi tutto l’amore di cui abbiamo bisogno, tutto dentro di noi e sapendolo riconoscere potremmo vivere in un mondo d’amore, per tutti, con tutti, come fratelli, proprio come disse un precursore degli hippy qualche tempo fa a un raduno di capelloni…” “Quella Amy ha fatto un ottimo lavoro fottendoti anche il cervello, complimenti… O ultimamente ti sei dato al crack senza dirci niente?!” Adoravo da sempre il suo humour asciutto e tagliente. “Filosoficamente parlando la tua teoria non fa una piega ma fino al giorno in cui non ci riprodurremo per partenogenesi dovrai misurarti con gli istinti femminili, i nostri sbalzi d’umore, il bisogno di sicurezza e noi con il tuo primordiale istinto di ficcarlo in ogni pertugio disponibile. Quindi, caro il mio novello Ovidio Nasone, ti auguro di trovare una donna abbastanza paziente da volerti bene per quello che sei e sopportare anche i tuoi deliri, magari pure apprezzandoli tanto da darti un bacio sincero ogni notte prima di dormire, felice di svegliarsi accanto a te ogni mattina e detto questo ti saluto; vedi di appianare la situazione e non rovinare il matrimonio di quella ragazza, ma soprattutto la tua vita. Abbi cura di te.” Il motivo per il quale non avevo mai pensato a Nora come a una donna da sposare era uno dei grandi quesiti ai quali non trovai mai responso soddisfacente, probabilmente la tacita intesa nel preferirci amici piuttosto che amanti era l’ingrediente di un’ottima intesa onesta e senza tensioni: un altro argomento da aggiungere alle mie originali congetture? Basta per ora, l’istinto mi suggeriva a gran voce l’azione come soluzione migliore al complesso viluppo: val più la pratica della grammatica come si suol dire. Risolsi di combinare subito un tête-à-tête con Amedeo per sondare umori e informarmi più dettagliatamente sulle dicerie circolanti nel suo ambiente, che era anche quello del marito: necessitavo di informazioni per confortare la mia bella e me stesso, lo chiamai appena riattaccato con Nora dandogli appuntamento per la sera stessa. La pesante porta di legno scuro mi fu aperta da un imponente nero in abito tre

pezzi con camicia e cravatta in tinta, dietro a lui la gentile hostess in tailleur fasciato sulla figura snella, pronta con la cartellina delle prenotazioni in mano, riconoscendomi indicò il tavolo al quale Amedeo attendeva seduto tamburellandone la superfice con le dita della mano sinistra; accarezzava con quelle della destra lo stelo di un calice da Margarita, senza sale sull’orlo come piaceva a lui, sul volto un’espressione da croupier. Doveva essere uscito dal lavoro senza are prima da casa a giudicare dall’abito sobriamente elegante: indossava un due bottoni grigio chiaro in grisaglia dal taglio riconoscibilmente italiano, cravatta Regimental su camicia celeste di filàfil coi polsini fermati da gemelli in oro bianco incisi con due A; grazie alle gambe accavallate si scorgeva la calza in seta blu liscia terminante con una derby allacciata nera lucidata con maestria da uno degli shoeshine della stazione; il soprabito blu notte era piegato sulla spalliera della sedia alla quale stava appoggiato. Andai a sedere accanto a lui andomi il cappotto di cashmere antracite sotto le gambe con le mani, avevo ancora un po’ di freddo addosso, la notte fuori era gelida e nonostante il locale fosse ben riscaldato non mi andava ancora di toglierlo; sotto avevo una maglia girocollo di lana dello stesso colore e un pantalone in gabardina elasticizzata nero, ai piedi uno stivaletto in vitello nero spazzolato, in volto un sincero sorriso dalla gioia nel rivederlo: aveva l’aria di un uomo sereno. Ho sempre studiato i volti delle persone come si scrutano le mappe, vi sono indicate tutte le rotte seguite nella vita: si può intuire, essendo in uno stato tranquillo come si impone all’osservatore attento, quanto lunga sia stata la navigazione; se ha avuto incidenti, trovando qualche piccola cicatrice; se delle correnti sottomarine insidiose turbano un mare apparentemente calmo quando svelate da un tremito delle labbra, l’impercettibile fremito di una palpebra dovuto a un temporaneo riflusso, un tic se il turbamento è profondo ma anche la calma di tutti i muscoli delle guance, i due oceani più grandi sovrastati dal polo della fronte. Questa corruga le onde o distende la superfice influendo tutte le correnti rivelando persino i moti nascosti del grande stretto dell’atlante sotto la nuca ma i fari rivelatori più eloquenti e salvifici sono gli specchi degli occhi, quelli piccoli rotondi e cerulei di Amedeo erano accesi di vitalità mentre stringeva la mia mano calorosamente. “Allora, come stai… è tanto che non ti vedo, ti trovo in splendida forma come

sempre!” esordì con entusiasmo il mio amico. “Ottimamente, mio caro grazie e tu? Nancy?” “Va tutto alla grande, ho la vita che ho sempre desiderato con questa ragazza alla quale voglio ogni giorno più bene al punto di aver deciso di mettere su famiglia: Nancy aspetta un bimbo!” La notizia mi rese veramente felice, abbracciai Amedeo congratulandomi, chiamai il cameriere e ordinai un altro Margarita ad Amedeo e un Rusty Nail senza ghiaccio per me. “Ah!” espirai con soddisfazione dopo il primo sorso del cocktail. “Ci voleva! Una sera mi vorrai come ospite così che io possa congratularmi di persona con quella splendida ragazza vero?” “Certamente, con piacere anche se abbiamo avuto altri ospiti in questo periodo e indovina un po’ a chi mi riferisco…” La sua espressione si fece severa. “Oh!” risposi con un ghigno diabolico. “Appunto di questo dovevamo parlare, no?” Stirai le gambe sotto il tavolo mettendomi vistosamente a mio agio, quindi Amedeo continuò. “Lungi da me il voler fare il moralista anzi, sai che ti invidio anche un poco per il tuo successo lei è una donna splendida ma conosco bene lui, è una gran brava persona di una gentilezza squisita e insieme mi avevano sempre dato la sensazione di una coppia innamorata, affiatata, complice.” Sorbì con la punta delle labbra qualche goccia del suo Margarita. “L’ultima volta che li ho visti, appunto poche sere fa, ho notato che lui era taciturno e trattava lei con un leggero distacco…” Pausa, poi: “Sarebbe veramente un delitto se un matrimonio così speciale naufragasse per una scappatella, almeno stai attento tu se non è in grado lei”. “Magari questo presunto matrimonio perfetto si reggeva sulla sua ingenuità sostenuta da una certa superbia, dato che a quanto sento da lei non esistono motivi di lagnanze sulla condotta del marito a meno che non ci siano altri motivi sotto, che so… magari lui ha dei problemi col lanciasiluri…” La buttai lì, pungente.

Amedeo si fece una risatina spontanea. “Lui?! L’ironia della sorte vuole che col tuo sarcasmo tu abbia quasi azzeccato il soprannome che gli hanno dato negli uffici. Apollo, ma non riferito al dio greco, piuttosto al più famoso missile interplanetario… If you know what I mean…” E intersecando la mano sinistra col braccio destro fece il più conosciuto gesto nella tradizione popolare italiana riguardo alle fortune in amore di pochi maschi eletti. Mi ci volle il resto del mio drink per ingollare il groppo di stizza e gelosia montato in gola su dal ventre, nel trasporto trangugiai anche un cubetto di ghiaccio intero. Qualche risposta mi venne subitanea, magra consolazione alla inconsolabile e irrimediabile onta, ma altre dieci domande ne presero il posto; cercai comunque di non far trapelare niente al mio interlocutore restituendogli la palla. “Come vedi infine conta poco anche quello, di che staremmo parlando altrimenti?” Il mio amico sghignazzava tra sé, potevo vederlo dai suoi occhi anche se la sua faccia era inamovibile e io continuavo a fissarlo come un pistolero in un duello. Tracimammo insieme in un riso convulso. Le luci del locale si abbassarono e si alzò il volume della musica per accogliere i clienti della notte inoltrata, molte persone lasciarono il locale finita la cena e noi ci spostammo al bancone sedendoci sugli sgabelli quando una folata di aria fredda annunciò l’ingresso di un cliente. Ci voltammo entrambi per guardare la bella biondina riccia diretta al posto vicino al nostro, portava un paio di jeans scoloriti con stivaletti marroni e un giubbotto in pelle in stile collegiale dalle maniche in contrasto doveva avere una trentina d’anni scarsi; si rivolse al barman per un Cosmopolitan. Dopo il breve intervallo tornammo alla nostra conversazione. “Caro Amedeo in fondo non posso ritenermi responsabile di una sua scelta: vedi, per come sono andate le cose posso assicurarti di non averle forzato la mano più di tanto…” “Scusate,” ci interruppe la biondina. “Posso chiedervi quale lingua state parlando?” “Italiano,” risposi un poco seccato per l’intrusione.

“Che bello! Adoro l’Italia, ci sono stata quando ero piccola con i miei genitori. A Roma!” “Lui è di Roma!” dissi alla ragazza indicando il mio amico. “Ah magnifico!” strillò in italiano con l’accento americano. “Sì! Pizza! Mandolino! Mamma! Amore!” esclamai calcando vistosamente la nostra celebre gestualità; continuai con un bel: “E salami!” Mimai ciò con cui Amedeo poco prima riuscì quasi a rovinarmi la serata provocando l’ilarità generale, persino l’azzimato cameriere si scompose. La biondina scese dallo sgabello per trascinarlo più vicino a noi, Amedeo mi lanciò un’occhiata di cameratesca intesa. Mi lanciai col repertorio delle facezie da propinare a una femmina alticcia continuando a ordinare brindisi a questo e a quello, il mio amico fu una spalla eccellente pur non facendosi coinvolgere troppo; controllava spesso l’orologio. “Sei proprio buffo…” esordì a un certo punto la mia vittima appoggiando la sua mano sulla mia coscia. “E anche un bel tipo… dimmi che non conosci nessuno che si chiama Max!” La domanda mi parve folle e molto alcolica. “La città è piena di gente con quel nome come potrei saperlo così su due piedi…” Si accostò ancora di più cingendomi il collo con le braccia e con la bocca attaccata al mio orecchio bisbigliò: “Dimmi che non conosci nessuno con quel nome, dimmelo”. “No. Non conosco nessuno,” risposi; ero sincero. “Adesso che abbiamo stabilito questo posso invitarti a un tour guidato nell’Italia più vera che tu abbia mai visitato? Chiamo un taxi e ce andiamo, okay?” “Okay,” mi disse lei siglando con un bacio la trovata intesa. La porta si aprì di colpo e un tizio non troppo alto castano chiaro dal fisico asciutto e nervoso avanzò a o deciso verso di noi. Non appena fu sotto la luce lo riconobbi. “Ciao Max!”

Era un cliente abituale del locale, ci eravamo parlati qualche volta, era anche piuttosto simpatico ma non mi ricordai davvero di lui quella sera. La biondina mi gettò uno sguardo indescrivibile tra l’incredulo lo sbigottito e il terrorizzato, infatti Max. senza rispondere al saluto e neanche guardarci afferrò la ragazza per un braccio spintonandola con forza verso i bagni. Io e Amedeo ci guardammo ancora attoniti poi giù un’altra risata alla quale si unì l’immancabile barman ormai amico fraterno. Uscimmo dal locale senza preoccuparci troppo di cosa sarebbe accaduto alla biondina, sicuramente sarebbero finiti a letto facendo la pace per l’ennesima volta; di tutta la faccenda non restò molto da dire, le conclusioni le avrebbe tirate il tempo e forse la luna col suo magico influsso sulle maree e sugli umori. Se ne stava lassù sopra le luci delle finestre che sembravano quadratini ritagliati con la forbice in una scenografia da teatrino di burattini. Diedi una pacca sulla spalla ad Amedeo mentre giungeva il taxi per riportarlo a casa dalla sua dolce Nancy, ci salutammo di ottimo umore. Bella serata tra amici. Mi diressi a piedi verso casa mia, era una notte gelida la più fredda del mondo e riguardando il palco dei miei sogni mi chiesi dove fosse lei in quel momento: stava facendo l’amore con lui?, mi stava pensando?, le mancavo? Non lo potevo sapere, nessuno potrebbe. Invero, nessuno sa o mai seppe nulla, veramente, sull’amore.

Ringraziamenti

A coloro che hanno incrociato la mia vita riempiendola di memorabili momenti: siete tutti qui, riconoscetevi con le vostre meravigliose, miracolose vite e la vostra lunga, preziosa amicizia; a te, a cui non posso parlare, spero che il destino porti, come solo lui sa fare, l’agognata felicità. A mio padre, mia madre e mio fratello: grazie per essere tanto speciali.

L'Autore

Alessandro Ippolito è nato e vive tutt’ora a Marina di Massa, cresciuto a Como sino al- l’adolescenza, una volta conclusi gli studi ha intrapreso una lunga e variegata carriera nel mondo della moda spostandosi a Londra e negli u.s.a. Attualmente lavora in Toscana coltivando svariati interessi in campo artistico inclusa la scrittura fino a oggi limitata a racconti brevi; qui al suo esordio come scrittore di romanzi.