Non Ho Smesso Di Sognare 3l2j47

CHARLES GALLI

Non ho smesso di sognare

Romanzo

Se ti fermi alle apparenze, non conoscerai mai chi hai di fronte

Titolo | Non ho smesso di sognare Autore | Charles Galli ISBN | 9788891150721 Prima edizione digitale: 2014

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Questo romanzo è un’opera originale che appartiene a Carlo Galli, frutto della sua dedizione e inventiva.

I personaggi descritti e le situazioni raccontate sono frutto di fantasia. Alcuni luoghi, invece, sono reali.

Dedicato a tutte le persone, in particolare alle donne, alle quali la vita, spesso, ha voltato le spalle.

SILVIA

Non avevo nessuno al mondo, l’unica persona che potevo sentire vicina era Daniela; entrambe frequentavamo l’università di Economia e eravamo a un o dalla tanto desiderata tesi. Anche lei, purtroppo, dopo svariati, inutili tentativi di trovare un lavoro, per sopravvivere era costretta a prostituirsi. L’unica alternativa che rimaneva, era vendere me stessa. E questo non lo gradivo. Affatto. Avevo calcolato che per l’affitto, il cibo e pagare le rette universitarie, servivano millecinquecento euro al mese, vale a dire trenta prestazioni da cinquanta euro, tariffa standard di una povera disgraziata quale ero. Un incontro al giorno. Un’infinità. Ogni cliente entrava con la violenza di un temporale che, con le sue gocce pesanti, sgretolava l’orgoglio ormai ridotto all’osso. Sarebbe stato più semplice alleggerire le spese non frequentando più l’università ma, poi,che cosa avrei fatto? Come sarei evoluta? Studiare era troppo importante, rappresentava un trampolino di lancio per i sogni e, visto che la realtà era soffocante, ogni giorno li usavo per prendere una boccata di ossigeno. L’appartamento dove abitavo a Brescia, in via San Faustino, era piccolo, composto da due sole stanze e mal ridotto, situato al terzo piano di una palazzina fatiscente, dove aleggiava un perenne odore di umidità. Nella zona giorno, ci stavano incastrati come i pezzi di un puzzle, un divano letto, un angolo cottura e

un tavolo con tre sedie; nel piccolo bagno, c’era una vasca lunga un metro, nella quale ci stavo solo accovacciata, con una tendina di plastica a chiuderne il perimetro, un lavandino costantemente gocciolante e, non avendo la finestra, veniva areato da una ventola che produceva un suono simile allo squittio di uno scoiattolo, quando e se funzionava. Per cercare di rendere l’atmosfera più accogliente, avevo appeso delle tende color porpora alle pareti per coprire la vecchia e crepata tinteggiatura. Per quattrocentocinquanta euro al mese, d’altronde, non trovavo di meglio, era il massimo che potevo spendere per non dover ricevere ancora più clienti. Stavo già per crollare così. Quella sera, mentre preparavo il tè per Daniela che aspettavo a breve, ero persa nelle in quelle e molte altre riflessioni… pensavo a come la vita era stata dura e senza scrupoli, togliendo tutto, senza lasciare nemmeno le briciole per sfamare la solitudine… sentivo d’essere al limite dell’esaurimento, non reggevo più nulla e, cosa mai successa prima, desideravo morire. Questo spaventava ma, allora, avrei dovuto confidare a qualcuno il peso che portavo dentro per non sopperire? Avrei minato la mia stessa incolumità? Ragionai immersa nell’inquietudine mentre prendevo le tazze dalla mensola per posarle sul piano della cucina. Accesi il bollitore per poi tornare a strecciare la matassa di domande che avevo in testa. Dove trovavo il coraggio di aprire l’anima a qualcuno se, persino dalle persone che avrebbero dovuto volermi più bene al mondo, ero stata tradita e abbandonata? Avrei retto il peso di un ulteriore legame affettivo, se poi si fosse spezzato come tutti gli altri? Sarebbe stato al sicuro il segreto che avevo dentro, nelle mani di un'altra persona? Ero ormai sul fondo di un vicolo cieco, dovevo trovare la forza di togliere l’armatura che avevo creato perché, è vero, faceva sentire protetta dal mondo esterno, però, non lasciava che nulla di buono riuscisse ad entrare. Ero isolata da tutto. La indossavo da talmente tanto tempo che, se l’avessi tolta, avrei avuto

l’impressione di essere nuda. Indifesa. Ancor più vulnerabile. Era giunto il momento di provarci, cercare di spogliare le difese per sentire se, forse, con il lasciarsi andare a qualcuno, sarei riuscita a sentire il calore di un po’ d’affetto a scaldare il gelo che avevo dentro. Mentre il bollitore fischiava vapore e io sentivo d’esser sempre più smarrita nei labirinti che avevo nella testa, Daniela suonò il camlo. Schiacciai il pulsante per aprire il portoncino e tornai alla preparazione del tè. Appena entrò dalla porta, venni travolta da uno dei suoi soliti abbracci carichi di entusiasmo e fu inevitabile non rovesciare un po’ d’acqua bollente sul piano della cucina. «Hey, calmati, stai attenta o rischi di farmi ustionare» dissi in tono scherzoso. «Ma si, come sei pignola… io prendo la tazza verde, come al solito» rispose Daniela. «Non ho messo lo zucchero, è finito, dovrai berlo amaro visto che non ti piace il miele» «Vorrà dire che sarà meglio per la linea» sorrise mentre si sedeva sul divano. Accavallò le gambe con la grazia e l’eleganza che la natura le aveva donato, ogni semplice gesto che faceva, sembrava studiato e armonioso, in parte a lei sentivo d’esser impacciata e goffa; era molto sicura di sé e di questo ero gelosa,la vedevo come esempio da seguire, avrei tanto voluto avere un carattere come il suo. «Ho bisogno di confidarti delle cose importanti» dissi subito senza perder tempo, ancora in piedi, appoggiata alla cucina. «Che faccia seria! E’ successo qualcosa di preoccupante?» «No, voglio solo raccontarti di me, di alcuni avvenimenti della vita che,

malgrado sia molto tempo che ci conosciamo, non ho mai avuto la forza di dire» «Silvia, questa premessa è preoccupante... e dai, non tenere quell’espressione… non è che poi sarò custode di un segreto pericoloso, come nei film polizieschi?» disse per ironizzare, per cercare di far sì che distendessi il viso dalla smorfia contratta che avevo assunto. «Senti, ho sempre sentito il tuo bene, sei stata in ogni occasione di grande aiuto e vicina, sin dal primo giorno in cui sono arrivata qui a Brescia… adesso però ho bisogno più che mai del tuo ascolto» «E io son tutta orecchie, spero di poter essere di aiuto» «Sì… devo dire qualcosa che ho sempre tenuto nascosto, di modo da farti entrare in questa armatura che ho creato, per permettere a qualcuno di conoscermi davvero. Non voglio più esser sola con i miei fantasmi, perché iniziano a essere troppo spaventosi da sopportare». Dal cambio di espressione di Daniela capii che aveva inteso la serietà della situazione. Sedetti sul divano accanto a lei. «Va bene, ascolterò il segreto e lo custodirò con attenzione… ti voglio bene, lo sai» disse avvolgendomi in un abbraccio, dopo aver posato a terra, di fronte al divano, le nostre due tazze. «Allora, devi sapere…»

MARCO

Prima di uscire dallo studio, diedi un’occhiata allo specchio, per sistemare la cravatta. Detestavo esser sempre vestito con abiti classici e odiavo ancor di più che la credibilità di un avvocato, fosse basata anche sul modo in cui si presentava. Una cosa troppo frivola. Dopo aver salutato Romina, la segretaria, presi la solita ventiquattrore di pelle nera e imboccai la porta. Il cielo era limpido, la fresca brezza ottobrina faceva vorticare lungo Viale Venezia le foglie secche degli ippocastani che davano l’impressione di danzare tra loro. Montai in sella alla bicicletta e rimpiansi di non aver messo i guanti, il manubrio metallico era fastidiosamente freddo. Da lì, dove avevo lo studio e, due piani sopra, l’appartamento in cui vivevo con moglie e figlia, pedalai una decina abbondante di minuti per arrivare in via Gambara, al tribunale. Lungo il tragitto la testa iniziò ad affollarsi di considerazioni. Non stavo bene da troppo tempo ormai, la vita era un manto di noia soffocante che, ogni giorno, si faceva sempre più pesante. Il lavoro, tuttavia, era di grande soddisfazione; avevo seguito le orme di mio padre, studiato giurisprudenza per diventare avvocato e, dopo due soli anni di gavetta nel suo studio, avevo già una buona posizione e raggiunto un discreto prestigio. La vita privata, invece, tutt’altro. La detestavo. Ero sposato da sei anni con Stefania ma, il matrimonio, era stato frutto dell’influenza e delle pressioni dei genitori. «E’ una ragazza perfetta per te, Marco» diceva mamma. «E’ pulita, di buon partito e non ha strani grilli per la testa» aggiungeva deciso papà.

Alla fine avevo creduto fosse realmente così, meglio di Stefania non esisteva nessuna donna al mondo. Cazzate! Era, certo, un’ottima moglie, aveva tutte le carte in regola per esser la sposa modello ma, a livello di emozioni, era davvero ciò che cercavo? Me lo ero mai veramente chiesto? Dopo un solo anno di matrimonio, nacque nostra figlia Roberta e quella domanda si fece sempre più ingombrante, emerse pian piano dallo stagno emotivo in cui avevo cercato di annegarla. Non andavamo d’accordo su nulla, dalle cose più importanti alle più frivole. Non sentivo l’alchimia che vedevo e invidiavo in alcune coppie di amici. Bella, razionale e abitudinaria, lei. Sognatore, disordinato e bisognoso di stimoli, io. Un matrimonio basato sulle assurde regole del ‘per sempre’, del ‘gli opposti si attraggono’ e ‘con il dialogo si risolve tutto’. Tutte cazzate. Un matrimonio andrebbe basato su quante volte, in una giornata, batte forte il cuore nel vedere la propria moglie,non su ciò che è logico o sembra più giusto, perché razionalità e sentimento sono antagonisti per natura. Pedalai immerso in un mare di interrogativi fino a quando arrivai di fronte al tribunale, con l’impressione d’essere naufrago di me stesso. Parcheggiai la bicicletta nel solito posteggio, di fronte al mastodontico edificio di forma semicircolare. Ero in anticipo di un quarto d’ora abbondante, così, decisi di bere un caffè al bar Pozzi, dall’altro lato della strada. Era affollato come al solito. «Buongiorno Marco» disse Erica ad alta voce da dietro il bancone, per sovrastare il chiacchiericcio della gente, «solito cappuccino e cornetto alla

marmellata?» «Grazie» risposi con un gesto di approvazione, alzando il pollice. Erica era stata una mia compagna di classe sia alle elementari, sia alle medie, sapeva far nascere un sorriso alle persone con la sola forza del suo. Era sempre stata così. Per scelte di indirizzi differenti ci perdemmo di vista ma, poi, la rividi qui dietro il bancone del bar e sembrava che non fosse ato più di un giorno dall’ultima volta che ci eravamo salutati. Presi posto al tavolino contro la grande vetrata che dava sul tribunale, dove c’era appoggiato l’unico quotidiano locale disponibile e iniziai a sfogliarlo dal fondo, alla pagina dell’oroscopo. Non credevo a quel genere di cose ma, se era positivo, avevo l’autoconvinzione che la giornata avrebbe potuto essere meno pesante del solito, se invece non lo era, avo a leggere qualcosa d’altro e borbottavo sottovoce che, tanto, era solo una cazzata. Quella mattina, per il segno del toro c’erano buoni presupposti e tirai un piccolo sospiro di sollievo. Stavo per voltare la pagina che di solito saltavo, dove erano presenti gli annunci personali ma, qualcosa, rapì lo sguardo. Era un trafiletto scritto in grassetto: “Giovane studentessa ti aspetta per momenti indimenticabili…” Lo fissai per qualche secondo e decisi di prendere il numero di telefono. Non avevo mai immaginato di tradire Stefania e, tantomeno, non lo stavo fantasticando nemmeno in quel momento. Volevo fare la chiamata solo per sentire la voce che avrebbe risposto all’altro capo del telefono e, poi, avrei eliminato subito il numero dal cellulare. Ma che senso aveva? Da dove era uscita una così malsana curiosità? Riflettei perplesso. La risposta in realtà la conoscevo ma cercavo di ignorarla, l’inconscio stava cercando un’uscita di emergenza dalla situazione di stallo in cui ero, prima di precipitare. «Ma che fai, prendi il numero delle puttane?» bisbigliò Erica sottovoce con un sorrisetto inquisitore, mentre posava sul tavolino l’ordinazione.

«Sei impazzita? Certo che no, che ti salta in testa?» risposi mentre infilavo in tasca il cellulare con un rapido gesto, «ho dovuto segnare l’orario di un appuntamento importante, per non scordarlo.» «Ok… facciamo che ci credo» disse sempre con quel sorriso mentre si sedeva all’altro lato del tavolino, «sono stravolta oggi, ieri notte ho finito alle due di lavorare e stamattina son qui dalle sette.» «A dire il vero non ti ho mai vista con una faccia rilassata» risposi dopo aver dato un morso al cornetto. «Si guarda… lasciamo perdere… anche Giovanni di certo non è d’aiuto, anzi…» «Sei tu che hai voluto sceglierti uno “tutto muscoli e zero cervello”» dissi in tono scherzoso. Da dietro il bancone, si alzò la roca voce del padrone del locale, «Erica, non vedi quanta gente c’è?» disse per farle intendere che non era tempo di fare pubbliche relazioni. «Certo che Sergio non ti molla mai un secondo» dissi dispiaciuto. «Lasciamo perdere dai… c’è da dire però che son fortunata a lavorare per lui, è esigente ma onesto e lascia spesso buone mance extra» disse prima di tornare al lavoro. La osservai allontanarsi, i suoi fianchi ondeggiavano sinuosi e si facevano spazio tra un cliente e l’altro; era davvero una ragazza graziosa nell’aspetto e, soprattutto, nel carattere. Chissà perché tra noi non è mai scattato qualcosa in più, oltre a un’amicizia così intensa. Saldato il conto salutai Erica e uscii dal locale con stretto nella mano il cellulare che era infilato nella tasca, come per tenerlo lontano dagli occhi di tutti e, soprattutto, al riparo dai giudizi e dal moralismo che faceva della gente una mandria di cavalli con i paraocchi.

Finito l’appuntamento, uscii dal tribunale e misi la cartelletta con il dossier di un nuovo carcerato cui ero stato affidato come avvocato d’ufficio nella

ventiquattrore. Le campane della piccola chiesa che si trovava a tre isolati da lì, suonarono dodici rintocchi. Avevo molto appetito e fantasticavo su cosa avrei trovato in tavola una volta rincasato. Ripresi la bicicletta, adesso la brezza era svanita e l’aria era immobile, i raggi caldi del sole avevano intiepidito il sellino. Mentre pedalavo con un movimento lento e rilassato, ripensavo al numero che avevo preso nel bar. Il cellulare squillò distraendomi. «Amore, per che ora arrivi?» «Sono uscito ora dal tribunale, tra un attimo sono lì.» «Va bene allora metto in forno le lasagne… a dopo, amore.» «A dopo, tesoro» e chiusi la conversazione. Mi infilai in una piccolissima traversa di via Solferino che aveva ai lati opposti due grandi palazzi in stile liberty, tirai i freni che, cigolando, fermarono la bicicletta. Presi dalla tasca il telefonino, selezionai quel numero sconosciuto, e feci partire la chiamata. La linea era libera ma, al primo squillo, chiusi la telefonata. “Ma che cazzo mi salta in testa?” pensai guardando in alto verso il cielo azzurro, mentre giravo la bicicletta per tornare sulla via di casa. Quasi subito dopo aver ripreso a pedalare, l’assurda tentazione venne a bussare ancora all’autocontrollo, che sentivo essere sempre meno forte. “Va beh dai, tanto è solo per sentire che voce ha… solo per sentire come parlano quel genere di donne che non ho mai frequentato… poi metto giù e cancello il numero… di fondo è solo una curiosità” riflettevo mentre premevo l’avvio della chiamata. Il telefono era sempre libero… Primo squillo…

Secondo… Terzo… Al quarto stavo per mettere giù, ma… «Pronto?» rispose una dolcissima voce…

SILVIA

«Allora, devi sapere…» Appena iniziai a raccontare, le parole si bloccarono in gola come fossero fatte di cemento rapido che, a contatto con la saliva, si solidificava senza riuscire a risalire fino alla bocca. Non sapevo da dove iniziare un racconto così assurdo e doloroso. Daniela era muta, immobile nel suo sguardo amorevole e teneva una stretta di mano come incoraggiamento. Trovai un po’ di forza nella consapevolezza che era giusto aprire la valvola di quel segreto, altrimenti, la pressione avrebbe fatto esplodere una bomba emotiva. Iniziai a parlare… «Molte cose già le sai, che la città in cui sono nata è Roma, che ho vissuto per un periodo a Firenze dopo aver perso i genitori e che, poi, son arrivata a Brescia.» «Si, so anche che avevi una situazione molto complessa, anche se non sono a conoscenza dei particolari.» «Esatto, son proprio questi il nocciolo della situazione… sono i particolari agghiaccianti che hanno fatto si che diventassi così introversa, la causa di questa condizione» dissi mentre riprendevo la tazza di thè dal pavimento, per bagnare la gola già secca. «Dai Silvia, non esagerare, di certo sia tu che io non siamo le donne più fortunate del mondo ma, per ora perlomeno, sopravviviamo così.» Daniela cercava sempre di sdrammatizzare tutto, persino la nostra condizione di prostitute; tendeva a vedere sempre il futuro roseo e a non dare peso al presente. «Si, in parte hai ragione, soprattutto se paragono la vita di adesso a quella che ho ato prima » dissi mentre abbassai lo sguardo, immergendo la faccia nella tazza di thè, quasi come per trovare un riparo dai ricordi che stavo per riesumare. «In effetti, ora che rifletto, non hai mai detto come hai fatto e perché sei qui a Brescia…», disse perplessa, incuriosita dal goffo modo in cui stavo sorseggiando

la bevanda. «Adesso lo scoprirai… Dani, giuro… giuro che non ho mai parlato a nessuno di queste cose, non ci son mai riuscita, nemmeno quando fui interrogata dagli psicologi delle forze dell’ordine» dissi per farle intendere lo sforzo che comportava quella confessione. «Le forze dell’ordine!? Interrogata!?» domandò con gli occhi sgranati. «Papà e mamma avevano grosse difficoltà con la tossicodipendenza, erano entrambi schiavi dell’eroina e, lei, perse la battaglia con la droga stroncata da un’overdose, avevo solo due anni. Papà sapeva benissimo che era questione di poco tempo e, i servizi sociali, mi avrebbero portata via da lui, allora si trasferì in casa di un amico, in un quartiere popolare vicino alla periferia della città e cercò di far perdere le sue tracce. Vivevamo come latitanti, nascosti da tutto e da tutti, fino a che compii quattro anni.» «Cioè, fino ad allora, fu come se ti avesse rapita?» «Sì… come dicevo, a quattro anni di età, trovarono papà che, a quanto pare, per guadagnarsi da vivere spacciava, e fu arrestato. Ricordo che le forze dell’ordine dovettero mettere tutta la forza che avevano in corpo per sottrarmi dalle sue braccia… ovviamente non ho nessun ricordo ma, un’immagine, non la dimenticherò mai: lo sguardo disperato di papà mentre cercava di tenere stretta a sé la sua bambina, il frutto del suo amore. L’ho memorizzato limpido e chiaro, come se in testa fosse rimasta impressa un’istantanea; due grandi occhi marroni, uno dei quali, sul lato esterno dell’iride, aveva una striatura giallo intenso.» Daniela era senza parole, di sicuro non immaginava che avessi ato un travaglio simile e non aveva la minima idea di ciò che avevo ancora da dire. Versai in bocca l’ultima sorsata di thè. Lei fece lo stesso. «Fui affidata subito alle cure del signor Ricci, un politico abbastanza importante dell’epoca che, da sempre, raccontò che anche papà era deceduto in situazioni analoghe a mamma» dissi con lo sguardo colmo di amarezza. «Ma scusa, non hai fatto un periodo in qualche istituto con i servizi sociali?» domandò Daniela, sempre più incuriosita.

«Non credo, non ho alcun ricordo del genere… ciò che deduco, in realtà, è che l’amico di papà, disgraziato come lui, vendette a questa famiglia che non riusciva a avere bambini, l’informazione che ero “disponibile”» dissi seria. «Ma non ti sembra che la tua fantasia sia andata oltre la realtà?» chiese incredula. «No… lascia finire e capirai», dissi categorica. «Ok… Ti ascolto…» «Il signor Ricci, per la posizione che aveva, teneva moltissimo alle apparenze; ero sempre vestita come fossi una piccola principessa. Ricordo che alle scuole elementari le maestre sparavano complimenti a catena, come quando si recita un rosario… non so se erano riferiti più a me, oppure un atto reverenziale verso l’OnorevoleDottorAlbertoRicci, come lo etichettavano loro, che dicevano quella parola in modo rapido, tutta d’un fiato.» «Tesoro, certo che erano rivolti a te! Sei stupenda anche adesso e, di sicuro, lo eri anche da piccina» disse dopo aver donato una delicata carezza al volto, carica di tenerezza. Daniela aveva uno sguardo stupendo, gli occhi azzurri esprimevano al meglio la bontà d’animo e l’ingenuità delle quali era dotata. Aveva capelli lunghi e neri che finivano in un delicato boccolo e facevano da cornice a un viso con lineamenti sottili, dalla pelle del colore della luna. «Sandra, moglie di Alberto, era sempre molto gentile e amorevole, avevo l’impressione di essere davvero sua figlia naturale. Tutte le notti sedeva sul lettino, in cameretta, ed io abbandonavo la veglia cullata dalla dolcezza delle sue premure.» «Diciamo che era ora che ti arrivasse un po’ di tranquillità e dolcezza, tesoro.» «Sì, ma fu un periodo che non durò molto perché Alberto, che a guardarlo sembrava l’uomo che tutte le donne avrebbero sognato, che riempiva di regali e attenzioni la moglie ogni volta che tornava dalle sue trasferte di lavoro, era un pervertito. Un maniaco pervertito.

Anche se non lo dava a vedere, con perenne sorriso e modo di fare da persona serena, che sembrava aver sempre tutto sotto controllo, lanciava delle piccole frecciatine che dimostravano il grosso rancore che si portava dentro nei confronti di Sandra, per non avergli dato un figlio suo. Ecco che il poco di serenità svanì e sentii d’essere il ruotino di ricambio in una casa sgonfia di amore e tenuta su dalle apparenze» raccontai, mentre alcune lacrime ruppero gli argini delle palpebre, al ricordo del grande disagio che provai all’epoca. Dovevo sgranchire le gambe e aprire un istante la finestra per far entrare un po’ d’aria fresca, ero stordita dalla pesantezza del racconto. Fatto questo, ripresi a parlare. Daniela era sempre immobile. «Avevo solo otto anni e la notte, mentre Sandra era ormai abbandonata al sonno, Alberto sgattaiolava in cameretta e si sedeva sul lettino, all’altezza del cuscino, abbassando le mutande. Diceva che se volevo essere una brava bambina dovevo esser complice con lui in un gioco segreto, che, solo le persone che si volevano davvero bene, facevano» dissi avvertendo un capogiro. «E’ una cosa spaventosa e orribile!» esordì Daniela che iniziava ad aver gli occhi bagnati. «Si… i particolari non serve che li racconto, ho già la nausea» dissi e massaggiai l’addome, all’altezza dello stomaco. «Ci mancherebbe tesoro… ci mancherebbe.» Ci fu un momento di silenzio nel quale nacque spontaneo un affettuoso abbraccio. Mentre affondavo il viso contro la spalla di Daniela, per la prima volta, la sentivo vicina. Le lacrime macchiarono con piccoli segni il giubbino beige scamosciato che indossava. «Va beh, poi si asciugano… anzi, a dire il vero lo rendono unico» scherzò con un sorriso, nel vedere che osservavo gli aloni che avevo lasciato. «Chissà quante donne hanno subìto simili umiliazioni senza aver la forza di far nulla… non saprei spiegarti il meccanismo che scatta nella testa in determinati casi, è come se ci si rinchiudesse in un silenzio carico di dolore che toglie il coraggio di reagire» dissi sconsolata all’idea di quanta ingiustizia regna nella nostra incivile civiltà.

Daniela acconsentì con un lento cenno del capo. «Il dramma è che ciò che faceva Alberto la notte, in cameretta, a me sembrava normale perché per il resto, almeno in apparenza, sembrava una persona equilibrata e gradevole negli atteggiamenti… non avrei mai dubitato che fossero degli abusi... sai quanti regali ricevevo da parte sua? Un’infinità... la psiche di una bambina poi, purtroppo, può scambiare delle cose gravi per giochi o, addirittura, per manifestazioni di affetto, se viene ingannata a dovere» raccontai con le mani strette a pugno, un riflesso involontario di forza tale da infilzare le unghie nel palmo. «E soprattutto se ha vicino un uomo che è più vicino all’essere una bestia che una persona» aggiunse Daniela con la voce carica d’odio. Lo sforzo interiore che provavo per la conversazione, affannava il respiro. Dovetti andare ancora una volta la finestra per placare il senso di soffocamento e proseguii. «Una sera, mentre Sandra stava raccontando una fiaba della buonanotte, si interruppe per porre una domanda spiazzante: «Non parli molto di te, di cosa vorresti, di come stai… che ne dici se facciamo un gioco… il gioco dei segreti! Ci raccontiamo tutto quello che ci a per la testa e facciamo dei disegni per rappresentarlo, ti piace l’idea?» Con l’innocenza di una bambina risposi che in realtà lo conoscevo già il gioco dei segreti, che da tempo facevo con Alberto. Volle sapere come funzionava. Le spiegai tutto, con la sensazione e la consapevolezza di tradire il patto col patrigno. Ascoltò il racconto e, nel momento in cui credette che fui addormentata, scese al piano di sotto, dove suo marito guardava la televisione. In realtà non ero riuscita a prender sonno, l’idea di aver tradito la promessa era un peso sullo stomaco. Misi all’erta i sensi per sentire cosa dicevano e avvicinai l’orecchio alla porta socchiusa.» Un pianto scomposto, accompagnato da forti conati di vomito, interruppero il racconto. Dovetti correre in bagno, china sulla tazza a rimettere il thè che avevo bevuto poco prima. Daniela venne in soccorso, teneva sollevati i capelli dietro la nuca, per non farli sporcare. «Tesoro basta così dai, stai troppo male a parlare di questa cosa» disse scoppiando a piangere.

«No no, non preoccuparti, devo dirti tutto.» Volevo arrivare fino in fondo alla storia. Dopo aver risciacquato la bocca con un po’ di collutorio, tornammo a sedere sul divano e continuai il racconto. «Sentii che al piano di sotto era in corso un litigio abbastanza , poi, a un certo punto, più nulla. Stetti immobile, immersa nel buio della cameretta, con lo sguardo fisso sull’unico piccolo spiraglio di flebile luce che entrava dalla serratura, fino a che percepii dei i salire le scale. Corsi al riparo sotto le coperte perché capii che Alberto era quasi fuori dalla stanza. Iniziai a tremare. Sbirciai dalla barriera che avevo creato e vidi l’ombra dei suoi piedi entrare dalla fessura sotto alla porta, fermi immobili. Capii che era successo qualcosa di grave e avevo una paura immensa. Abbassò la maniglia e, non appena la vidi muoversi, tornai sotto le coperte che speravo riuscissero a riparare dal male che sentivo incombere, visto che funzionava anche con i brutti sogni. Accese la luce e strappò via il riparo che credevo indistruttibile, era imbrattato di sangue. «Ho sbagliato troppe cose nella vita» disse, «è ora che tolga il disturbo». Si girò vero la portafinestra, la raggiunse e, dopo averla aperta, si gettò nel vuoto, scavalcando la piccola ringhiera del balcone.» «La brutta carogna ha fatto la cosa più giusta che potesse fare» ringhiò Daniela. «Si, e non ebbi nessuna reazione. Dopo un attimo di smarrimento, scesi dal lettino e imboccai le scale, l’unico rumore che sentivo era il suono delle sirene che si facevano sempre più vicine. Sandra era riversa sul tavolo della cucina, inchiodata dalla lunga lama di un coltello all’altezza dello stomaco. Il sangue cosparso sul pavimento irrorò le calzette bianche che indossavo, ero stordita ed in balìa di un terribile incubo dal quale, di lì a poco, sarei uscita. Ma non era così. Mossi qualche indeciso o fino ad arrivare vicino al suo volto, non piangevo, non riuscivo ancora ad avere nessuna reazione, sentivo il suo respiro farsi sempre più debole e corto, i suoi occhi fissavano il vuoto. «Mamma» riuscii a mugolare, mentre le accarezzavo i capelli.

Era la prima volta che la chiamavo così, malgrado lei avesse incitato più volte di farlo. Si voltò, sgranò gli occhi e accennò un sorriso. Poi si spense per sempre. Ero di nuovo sola, senza alcun punto di riferimento.» Daniela era inorridita, non riusciva a esprimere quanto dolore aveva in corpo, si alzò e prese dal banco della cucina un tovagliolo di carta per asciugarsi le lacrime. Io, usavo le maniche del maglione. «Sai, amica, l’idea che se non avessi raccontato a Sandra gli episodi tra me e Alberto, magari sarebbe ancora viva, è un senso di colpa che non riesco a cancellare. Ho l’impressione di essere responsabile della sua tragedia.» «Non devi sentirti in colpa per la follia degli altri» rispose mentre, dopo aver riempito un padellino con dell’acqua, lo mise sul fornello. «Ho bisogno di bere un’altra camomilla, ne vuoi anche tu?» domandò. «Si grazie, ho bisogno di distendere i nervi» risposi. Per una buona mezz’ora, mentre sorseggiavamo la calda bevanda, restammo in silenzio. «Che ne dici se apro il divano-letto e ci sdraiamo? Ti fermi qui stasera?» chiesi dopo aver sentito il bisogno di non star da sola. «Va bene, certo tesoro.» Era la prima volta che permettevo a qualcuno di dormire in quell’appartamento, di violare l’intima fortezza. Diedi un pigiama a Daniela e, dopo esserci sdraiate, ripresi a raccontare. «Il giorno successivo alla tragedia, fui trasferita a Firenze, in un orfanotrofio dove condividevo una stanza con altre sei bambine. Per i primi quattro anni non parlai con nessuno, era come se avessi scordato d’avere una voce. A sedici anni ero ambientata e, tutto sommato, insieme alle compagne, avevo

ritrovato parte della spensieratezza che fino ad allora era stata violentata dagli eventi. Iniziai a tenere da parte tutti i soldi che guadagnavo per il o agli anziani del paese a far la spesa, o che ricevevo come mancia se servivo alla sera nel bar dell’oratorio.» «Ti davi da fare come potevi…» «Sì. A diciotto anni, appena finiti gli studi, firmai tutte le carte per uscire da lì e decisi di venire a Brescia e di iscrivermi alla facoltà di economia. Volevo rincorrere il sogno della laurea per dare senso e valore aggiunto a quella, che fino ad allora, fu un’esistenza colma di dolori.» «E perché proprio Brescia?» domandò Daniela. «Perché alla sera, dalla finestra della stanza dell’orfanotrofio, guardavo la ferrovia e vedevo are il Frecciarossa. Decisi che il nuovo e innovativo treno sarebbe stato il aporto per lasciare alle spalle un ato pesante, così, andai in stazione, presi il volantino dove era pubblicizzato e scelsi a caso, a occhi chiusi, una delle città nelle quali portava. Uscì Brescia.» «Sembra la storia di un film» esordì Daniela dopo un attimo di silenzio. «La realtà, a volte, può esser davvero peggio della fantasia del più sadico regista.» «Bisogna avere davvero una forza incredibile per sopportare una storia come la tua… ti voglio bene, Silvietta» sussurrò tirandomi di nuovo a sé, in un caldo abbraccio. «Vuoi sapere qual’è la cosa più importante, ciò che ha permesso di non lasciarmi andare del tutto?» domandai. «Certo, ti ascolto attentamente.» «Crederai che son pazza, ma, io, son sicura che papà è ancora vivo, che non ha mai smesso di cercare sua figlia e che prova ancora nei miei confronti un amore immenso, indistruttibile. Non ho mai creduto che fosse morto e, tantomeno, che abbia smesso di cercare il frutto del suo amore… quasi tutte le notti appare in sogno, riconoscerei il suo sguardo tra tutte le persone del mondo. Hanno fatto perdere le tracce della povera bambina per riparare Ricci e, io, come già detto,

son stata spedita a Firenze con la convinzione che non avrei più ripreso a parlare, quindi non potevo essere un ostacolo pericoloso… poi, comunque, chi darebbe ascolto ad una ragazzina disagiata?» «Non ti seguo Silvia… cosa intendi?» «Magari finiamo di parlarne bene un’altra volta, Dani… ho troppi ricordi e dolori a offuscare la memoria, facciamoci una bella riposata… e comunque, se dovesse essere vero che papà è vivo e che mi ama ancora, sarebbe l’unica cosa al mondo capace di cambiare l’idea che ho sull’amore, con palese prova che il bene incondizionato esiste davvero… ma magari è solo un inganno della psiche per trovare ogni mattina qualcosa in cui credere» dissi con un lungo sospiro. «Va bene, se te la sentirai parleremo ancora un’altra volta. Ora riposiamo che domani le lezioni iniziano alle nove.» «Buonanotte Dani, grazie per esser stata qui» «Notte tesoro, ti voglio bene», bisbigliò stringendo la sua presa intorno a me. Per la prima volta nella vita, sentivo davvero un abbraccio, sentivo che non dovevo temere nulla e che non ero giudicata. Prima di prendere sonno, ascoltai il silenzio che regnava la notte nell’appartamento che, per la prima volta, era riempito dal respiro di un’altra persona, anziché dalle solite rumorose riflessioni. Era soltanto silenzio. Un piacevole silenzio.

Ci svegliammo alle sette e mezza e andammo a far colazione al bar di piazza loggia; poi ci avviammo verso l’università. Una volta entrate in aula, sedetti come al solito sul fondo della stanza; non davo confidenza a nessuno se non a Daniela, il carattere introverso e schivo metteva i bastoni tra le ruote alle relazioni sociali. Dalla vita, avevo capito che sulla gente non bisognava mai fare affidamento e che, comunque, è quasi impossibile

ricevere affetto in modo incondizionato e senza secondi fini. Intorno a me, pensai che tutti i ragazzi seduti ad ascoltare il professore, inseguivano il sogno di una carriera che gli avrebbe permesso una vita agiata e senza grosse difficoltà, che anche io desideravo, senza dover più svendere la dignità tra due lenzuola sudate. Buona parte di loro, però, erano i cosiddetti figli di papà, studiavano foraggiati dai genitori imprenditori, manager o funzionari di banca senza nemmeno aver la voglia di impegnarsi sui libri. Immersa a cavallo tra i ragionamenti e le spiegazioni dei professori, le ore arono veloci. Era scoccato da poco mezzogiorno e, il cellulare che avevo appoggiato sul banco, iniziò a vibrare. Sul display c’era scritto NUMERO PRIVATO. Era senza dubbio un cliente. Sgattaiolai veloce fuori dall’aula e trovai un po’ di privacy in una piccola rientranza finestrata del corridoio. Già immaginavo quale altro orribile uomo voleva soddisfare le sue frustrazioni con perversioni su di me. Non ce la facevo più ma non avevo alternative. «Pronto?» risposi sottovoce. «Pronto?... pronto, chi è?... pronto!?» insistetti. Nessuna risposta. Infilai il cellulare in tasca e rientrai per finire la lezione che avevo interrotto.

MARCO

«Era davvero una voce molto sensuale, un sussurrare magnetico che non esce dalla testa» dissi alla mia immagine riflessa allo specchio, mentre salivo verso casa. Un invitante profumo di lasagne irruppe nell’ascensore non appena le porte si schio. Daniela era in cucina, seduta di fronte a una tavola imbandita; Roberta era ancora alla scuola materna, finiva ogni giorno alle quattro. «Dai amore, è tutto pronto» disse con un sorriso e alzandosi per prendere una bottiglia d’acqua, che si era dimenticata di mettere in tavola. «Si tesoro.» Ci chiamavamo amore e tesoro per abitudine. Era un modo per cercar di dare una mano di colore a una ormai grigia relazione, ricca di litigi e incomprensioni, a cui bastava una sottile pioggerella per scolorirsi. Il pasto si era consumato come tutti gli altri giorni, cioè all’insegna del silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri, concentrati a testa bassa sul cibo come se non fossimo in grado di fare due cose in contemporanea. «Possibile che non hai mai nulla da raccontare? Che so… com’è andata la tua giornata, cosa hai fatto… invece niente di niente» sbottò Stefania con un tono di voce che sembrava sputare veleno anziché parole. «Cosa vuoi che ti racconti? E’ andato tutto bene e, ad esser sincero, non vedo l’ora di ricominciare a lavorare, così almeno avrò la testa impegnata in qualcosa, non immersa nel tuo piattume!» risposi. Facevo riferimento alla semplicità che le bastava per essere felice, non aveva bisogno di altro se non della quotidianità, le bastava are la giornata senza ostacoli da superare e il gioco era fatto. Non era alla ricerca di qualcosa di più intenso, possedeva un cervello che chiamavo ‘standard’, che non aveva costante

bisogno di emozioni e adrenalina. Non che fosse sbagliata ma, appariva sempre più chiaro, che eravamo agli antipodi. «E così sarei io la piatta? Sarei io la causa della noia che provi ogni giorno? Hai mai considerato che, forse, non fai nulla per rendere tua moglie partecipe della tua vita? Ho l’impressione, ogni giorno, di pranzare con un estraneo!» «Quante volte devo ripetere che ho bisogno di stimoli? Quando è stata l’ultima volta che, nel rientrare a casa, ho trovato una moglie con un intimo un po’ sensuale e, non appena aperta la porta, abbia cercato di sedurre e di far sentire desiderato suo marito?» «Metti sempre il sesso alla base di tutto! L’interesse di una persona non è dimostrabile solo se seduce con il sesso il proprio partner, lo vuoi capire? Ma tanto tutto il resto non lo vedi perché hai sempre quella fissazione, ti rendi conto di come sei limitato? E poi… proprio per dirla tutta… cosa fai per accendere questi grandi stimoli?!?» disse con tono di voce ascensionale, con le vene del collo pulsanti. Di fondo sapevo che aveva ragione, se avessi fatto un esame di coscienza non potevo darle torto, è che il sesso era il metodo più semplice e facile per trovare emozioni, la cosa a cui aggrapparsi per sentirsi il maschio della situazione, usare l’istinto primordiale che rendeva i maschi rozzi. Avrei dovuto spiegarle questo ma, la rabbia, fece uscire delle parole vergognose dalla bocca, una frase senza senso e legata a stereotipi maschilistici d’altri tempi che, per giunta, detestavo. «Perché, dare alla propria donna un bellissimo appartamento, farle fare la signora con ogni lusso che desidera e sopportare il suo carattere noioso ed irritante, non è sufficiente?» Ci fu un momento di gelido silenzio, sentivo di essere un uomo di merda ad utilizzare argomenti bigotti e che, per giunta, non c’entravano con i nostri problemi. «Non hai capito proprio un cazzo! Non so se sei ignorante o fingi di esserlo. Ho genitori facoltosi e non ho bisogno di elemosina, questo lo sai, e se fossi stata povera e avessi voluto un sacco di cose belle, piuttosto che venire da te avrei fatto come le povere donnacce che stanno a battere in Viale Piave!»

«Magari, però, loro sanno esser donne con i loro clienti!» conclusi con perseveranza nell’ignoranza che, la rabbia, sapeva tirar fuori. Con quella risposta Stefania cedette in un pianto carico di dolore e corse in camera da letto. Ero triste da morire, non capivo come potessi arrivare ad aver certi atteggiamenti. Erano forse gli anni di finzione per la farsa di esser sempre felice e soddisfatto delle scelte della vita, a presentare il conto? Di certo non potevamo andare avanti così, entrambi stavamo per cedere. Eravamo ivi spettatori del nostro naufragio, immobili ad aspettare che la marea portasse a riva i detriti della relazione, per poi guardarli senza la capacità di ricomporli. Il manuale d’istruzioni, purtroppo, si era inabissato per sempre. Non riuscivo ad affrontare con razionalità la realtà, intrappolato nell’assurda convinzione che il futuro potesse essere solo con Stefania, o forse, cosa più semplice, per paura di restare solo, dover ricominciare tutto da capo e abbandonare l’unico porto sicuro che conoscevo. Ero un uomo senza coraggio, terribilmente fragile e confuso. Aprii la porta della camera, era distesa sul nostro letto con la faccia affossata nel cuscino. Stavolta avevo esagerato, preso troppo il largo e, se non rimediavo, non avrei più trovato la rotta per tornare indietro. Ciò dava un senso di smarrimento. La corda che tiravo in continuazione si stava per sfilacciare. Sdraiai accanto a lei e la abbracciai. «Scusa amore» dissi sottovoce al suo orecchio. «Non ce la faccio più Marco, sai quanto è difficile amarti? Cambi umore ogni secondo, sembra che nulla di ciò che faccio possa andarti bene… piuttosto lasciamoci» disse con voce arresa e ovattata dal guanciale. La girai e iniziai a baciarla, lei lasciò fare. Ci regalammo a vicenda un momento di intimità come disperato appiglio per non perderci. Raggiunse l’orgasmo gridando che era innamorata da morire. Io lo raggiunsi con la fantasia di che volto avesse la voce che aveva risposto al telefono.

Dopo aver fatto l’amore prese sonno. Fissavo il soffitto con la fastidiosa voce del senso di colpa per ciò che avevo immaginato mentre ci univamo. ata mezz’ora, prima di scendere in ufficio, caricai la sveglia per le quindici e trenta, ora in cui Stefania doveva svegliarsi per andar a prendere Roberta. Romina, la segretaria nonché cara amica di infanzia, con la quale avevo da sempre una grande confidenza, capì che dietro al sorriso che feci nel salutarla si nascondeva un velo di malinconia. «Tutto bene?» chiese mentre si alzava dalla sedia per venire a sistemare la cravatta male annodata. Stefania era sempre stata gelosa del rapporto che avevo con Romina, forse perché comunque era una bella donna, di corporatura media, abbastanza formosa, con due occhi marroni, profondi e scrutatori, in grado di leggere nelle persone che, a primo impatto, sembravano da gatta morta. «Si dai… abbastanza bene, grazie» risposi evasivo mentre prendevo la volta dell’ufficio personale. Lei seguì la traiettoria e si fermò sulla porta e chiese ancora se fossi sicuro che tutto andava bene. «Si… no… cioè, forse… non so più cosa devo fare con Stefania.» «Marco, ti ho già detto un’infinità di volte che è ora di crescere e fare i conti con la vita. Sai benissimo che non va bene per te, forse non è nemmeno mai stata la donna giusta… si vede solo a guardarti in faccia che questa situazione è logorante…» Sapevo che aveva ragione, di fondo era più un’amica che una segretaria, conosceva fino in fondo ogni vissuto e tormento che avevo ato e, i consigli che dava, erano davvero incondizionati ma, come sempre, facevo finta di non capire. «Può essere che hai ragione ma, adesso, ho tante cose a cui ponderare» dissi con un cenno verso scrivania alla quale ero seduto, colma di carte da leggere e sistemare, «magari ne parliamo un’altra volta, ok?»

«Si, va bene, sai che ci sono sempre se ti serve.» «Puoi chiudere la porta per cortesia?» «Certo.» A un quarto alle quattro sentii il motore della macchina di Stefania uscire dal garage, nel seminterrato, posto proprio sotto l’ufficio. Guardai attraverso le tendine e vidi che girava l’angolo nell’incrocio che dava su viale Venezia. Presi il cellulare e cercai il numero di quella voce misteriosa che, alla fine, non avevo più cancellato. Stavolta volevo parlarle sul serio e, al terzo squillo, rispose. «Ehm… ciao… ho visto il tuo annuncio e volevo sapere dove posso trovarti» dissi impacciato. «Io sono in via San Faustino, in centro città, conosci?» chiese con voce sensuale. «Si, capita spesso che debba venire in città per lavoro» dissi omettendo che in realtà ci abitavo, per proteggere l’identità, «se sei libera, potremmo incontrarci?» «Se vuoi sono disponibile verso le diciassette.» «No, per me è impossibile come orario… più tardi non puoi?» «mmmh… solamente dopo le undici… prima sono occupata.» «Allora va bene per le undici, ok?» «Certo, ti aspetto tesoro, non vedo l’ora.» Dopo aver ripetuto la via dove abitava, ed il numero civico, chiuse la chiamata. Ero già agitato per ciò che avrei fatto, in testa cercavo delle buone motivazioni che fero da alibi… rivedevo tutte le cose di Stefania che causavano un malessere costante che, ogni giorno, diventava sempre più pesante. Se in amore i difetti dell’altra persona iniziano a pesare, a non esser più visti come affascinanti e gravano sempre di più, significa che si è arrivati al capolinea e bisogna frenare, altrimenti, si finisce dritti contro un muro.

Alle sette, finito il lavoro, salii in casa e andai subito sotto una calda e rilassante doccia fino a che Stefania annunciò che era pronto il cibo. Mentre cenavo, guardavo Roberta, la ragione di senso più profondo che trovavo nella vita. Incontrare quella ragazza stasera, sarebbe stato come tradire anche lei, che vedeva in suo padre l’uomo che, fino all’ultimo respiro, sarebbe stato il suo condottiero, l’esempio da seguire. Ormai ero convinto della scelta che avevo fatto, quindi, cercai velocemente buone scusanti per sentire che era la cosa giusta. D'altronde dovevo prendere una boccata d’aria fresca visto che, sotto il tetto di casa, era troppo satura di umidi dispiaceri. «Stasera vado da Mario a discutere di una causa che dobbiamo trattare insieme, poi berremo qualcosa nel localino dietro casa sua» dissi a Stefania mentre inghiottivo l’ultimo pezzo di cotoletta. Mario Bertanza, era un collega e amico che aveva lo studio e l’appartamento in Corso Martiri della libertà, a poche pedalate di bicicletta. «Va bene amore, tornerai presto?» «Ma sì.. sarò a casa poco dopo la mezzanotte, ok?» «Ok, sai che ho paura a star a casa sola, di notte.» «Ma si, non preoccuparti… tempo che ti rilassi e fai un bel bagno caldo con i nuovi sali che ti ha regalato la suocera e arrivo amore» dissi senza guardarla negli occhi. Stefania annuì e sorrise con raggiante energia perché, di solito, la chiamavo tesoro e non amore. A questo, non era abituata e le faceva piacere, lo avevo notato in più di una occasione. Si avvicinò e posò un bacio sulle labbra serrate, che scoccò rumorosamente. Finito cena, andai in camera da letto e, mentre guardavo l’armadio, riflettevo su cosa avrei dovuto indossare per l’appuntamento. Di sicuro dovevo evitare di essere elegante o troppo curato, in fondo Stefania doveva credere che andavo da Mario e poi a bere una semplice birra, non potevo farle nascere dubbi. Decisi di infilare un paio di jeans e un maglioncino verde in cashmere, sopra, il piumino verde militare. In tasca infilai il tester di un profumo che avevo trovato all’interno di una rivista, lo avrei spruzzato una volta uscito, non dovevo lasciare

una scia profumata in casa. Da Bertanza sarei andato davvero, prima dell’appuntamento con la ragazza misteriosa. Volevo confidargli il segreto e, senza dubbio, avrei trovato in lui un alleato per nascondere le reali intenzioni. Era famoso per riuscire a mantenere rapporti con più donne in contemporanea, quindi andavo a colpo sicuro. Condividere con un amico ciò che volevo fare, trovando appoggio e magari anche entusiasmo, alleggeriva il carico di paura e senso di colpa, quasi come ci si dividessero in due le eventuali conseguenze. Appena uscii da casa sua, infatti, sentii una forte carica ed euforia, come quando da adolescenti si andava per ragazze nei locali, che, però, calò ad ogni pedalata all’avvicinarsi di via San Faustino.

SILVIA

Erano le dieci e venti. Dario, uno dei clienti che ritenevo tra i migliori perché spesso elargiva ben oltre la tariffa che chiedevo, si sedette sul divano. Sapevo che se fosse stato dell’umore giusto, era probabile che grazie alle generose mance che sapeva lasciare, avrei fatto a meno di fare marchette per qualche giorno. Certo dovevo sopportare il suo aspetto sgradevole e fingere, come al solito, con un sorriso. Era un uomo di cinquantaquattro anni, alto poco più di un metro e sessanta e in palese sovrappeso, a parte le gambe che erano esili. Lo immaginavo spesso come un maiale con le gambe di un fenicottero. Era anche molto volgare nel modo di porsi. Guardai ancora l’orologio, per le undici doveva essere fuori casa perché doveva arrivare il nuovo cliente che aveva chiamato nel pomeriggio. «Ti sta proprio bene quella vestaglietta nera, semitrasparente… non toglierla, segue bene la forma del culetto» esordì dopo esser stato in silenzio, senza nemmeno salutare nell’entrare. «Grazie, sei gentilissimo… cosa desideri oggi, tesoro?» «Stasera voglio stare qui seduto, fumare una sigaretta mentre guardo che ti prendi cura del mio uccello… a un posacenere!» disse mentre si sfilava il giubbino, e estraeva le sigarette da una tasca. «Lo sai che son premurosa e gentile con il tuo uccellone» dissi con falsa ammirazione mentre gli avo ciò che aveva chiesto. Si sfilò mutande e pantaloni, accese la sigaretta, allargò le gambe e, con la mano, fece un gesto con l’indice verso il pavimento. Fui innervosita per il modo di fare che si addiceva più a un cane che a una persona ma, come al solito, finsi complicità. Faceva parte del lavoro assecondare la frustrazione degli uomini che avevano paura di restare nudi davanti a una donna ‘normale’ e, invece, con una puttana si sentivano eroi del sesso, comprandosi quell’illusione.

Dopo aver raccolto i capelli in una coda, scivolai in ginocchio tra le gambe ricche di capillari esposti, che ricordavano le strade su una cartina geografica. Iniziai ad accarezzare il suo sesso, avvolta nella nuvoletta di fumo che non aveva premura di espirare di lato. Il piccolo e ricurvo pene iniziò a gonfiarsi di piacere. «Dai, fa vedere quanto può diventare forte il tuo amichetto» dissi dopo aver ammiccato in un’ammirazione forzata. In risposta spinse in alto il bacino per valorizzare la sua mascolinità ed emise un grugnito animalesco. «Dario… non deludi mai!» proseguii nella sceneggiata, con la precisa attenzione di far sembrare il sorriso più spontaneo possibile. Dopo un attimo fui china su di lui, aveva un sapore aspro e disgustoso. Cercavo di non farci caso, come facevo da bambina quando prendevo una medicina dal gusto cattivo. Con la testa dovevo sorreggere la grossa e pesante pancia che, altrimenti, avrebbe reso impossibile la fellatio. «Dai piccola, sei bravissima… prendilo fino in gola!» disse. Spinse la testa verso di lui con forza. Per parecchi secondi riuscii a tenere la posizione forzata fino a quando, per non rimettere, dovetti usare tutta la forza che avevo per scappare dalla presa. La sensazione era come quella delle dita in gola per voler rimettere. Non ebbi il tempo di riprendere fiato che subito strinse ancora la coda, per ripetere lo stesso gesto. Poi di nuovo… di nuovo… e di nuovo ancora. Capiva se raggiungevo il limite del conato e, solo allora, mollava la presa. Alcune lacrime scendevano dagli occhi fino al mento per lo sforzo che mettevo per non star male. Senza fare un sospiro, né dire una parola di preavviso, versò dritto nella

profondità della bocca il suo caldo e viscoso piacere che, in parte colò su di lui, in parte fui costretta a deglutire. «Brava come al solito, Silvia… sei nata per fare la puttana» disse. Dentro, nel profondo, la sua frase risuonò con prepotenza perché era vera. Fin da bambina venivo usata da Alberto come un oggetto. Da allora la sessualità aveva perso ogni forma di magia, ogni suo lato piacevole, infatti, anche con i fidanzati che avevo avuto in adolescenza, quando avevo rapporti lo facevo solo e soltanto per loro, non provavo alcun piacere. Era un modo per tenerli vicini, cercavo di essere accondiscendente per la paura di non venire presa in considerazione, di essere non voluta ed abbandonata, come forse, nell’inconscio, lo era il fatto di far la prostituta. Come disperato bisogno di affetto credevo che, con il sesso, loro non sarebbero scappati come tutti avevano fatto fino ad allora e che, magari, avrebbero provato un po’ più d’amore da donare. Il risultato fu che non provai mai nella vita l’ebrezza di un orgasmo, a parte nella masturbazione. Era come se non volevo concedermi a nessuno se non a me stessa. A diciotto anni, dopo tutto l’arrancare alla ricerca di qualcosa che non vidi mai, persi la speranza nel principe azzurro che poteva portare la principessa al sicuro. Come potevo credere nell’amore, se persino quello primordiale tra genitore e figlia era risultato una farsa? «Tieni i soldi» disse Dario che interruppe il fiume di amari ricordi, «ti eri incantata?» Li gettò sul tavolo con aria strafottente. «Sai che ho sempre la testa tra le nuvole» risposi. Notai che non avevo nemmeno fatto caso che si fosse già rivestito. «Guarda che sono stato molto largo di maniche visto che hai faticato senza lamentarti e, come sempre, hai fatto il tuo dovere» concluse prima di chiudere la porta alle spalle. Guardai sul tavolo e riscontrai che di fondo, sopportare i modi burberi e la sgradevolezza di Dario ne era valsa la pena, i cinquecento euro erano il aporto per sorvolare dieci giorni di marchette. Adesso dovevo tener duro per l’ultimo cliente al quale ormai avevo già fissato appuntamento e che sarebbe

arrivato tempo dieci minuti. Nel frattempo andai a sistemare l’aspetto in bagno. Era la quarta volta che risciacquavo la bocca con il collutorio, sembrava che il disgustoso e viscido sapore avesse voluto metterci radici. Alzai lo sguardo e vidi allo specchio che le lacrime scese mentre Dario quasi mi soffocava, avevano fatto colare il trucco che aveva lasciato segni neri da intorno agli occhi fino alla base del viso. Suonò il camlo. «Cazzo! E’ già arrivato e guarda come sono conciata!» dissi ad alta voce. Stavo per cercare in modo frettoloso lo struccante e, il camlo, suonò per la seconda volta, con insistenza. Conoscevo la psicologia dei clienti e, tutti, avevano fretta di sgattaiolare nel portone per non esser colti in fallo. Corsi in sala, schiacciai il bottone del citofono per aprire il portoncino e spiai dalla finestra la sagoma dell’uomo che stava per salire ma, non riuscii a vederlo. Sentivo il rumore dei i avvicinarsi lungo la stretta tromba delle scale e farsi sempre più vicini. Intanto che aspettavo che salisse fino al terzo piano, spiavo dalla fessura della porta socchiusa e preparavo una maschera da indossare ancor più spessa del solito, perché doveva coprire il disprezzo che Dario aveva fatto emergere dal fondo dell’anima con la sua frase. «Buonasera» disse non appena mise piede nell’appartamento. «Ciao» risposi dopo aver chiuso la porta alle nostre spalle. Era immobile, in centro alla stanza e si guardava intorno con aria smarrita, a disagio. Sentivo la scia del buonissimo profumo che aveva lasciato al suo aggio. A differenza dei soliti clienti che ero abituata a ricevere, aveva un bell’aspetto. Si tolse il giubbotto e lo appoggiò allo schienale della sedia; il maglione lasciava intravedere le forme di un fisico solido e asciutto, capelli castano scuri di media lunghezza, tirati all’indietro, dei quali ne scendeva un piccolo ciuffo sulla fronte, ai lati dei grandi occhi scuri ed espressivi. La barba incolta finiva per ornare la bellezza del viso dai lineamenti sottili e gli donava un aspetto da uomo vissuto che non si prende troppo sul serio, ma consapevole del suo fascino.

«Perché piangevi?» chiese e fece segno con l’indice sul suo viso, nello stesso punto dove avevo il trucco colato sulle guance. «No… cioè, sì… ho avuto solo un attimo di malinconia, ma adesso sto bene non preoccuparti» mentii sul reale motivo di quegli aloni. Fu un improvviso momento di tristezza fortissima, sentivo d’esser lontana anni luce dalla donna che volevo diventare. Si avvicinò e con il dito fermò una lacrima che stava scendendo lungo la guancia, una goccia sfuggita al controllo che racchiudeva vergogna e desolazione. «Forse non sono arrivato al momento giusto, è meglio che tolga il disturbo» disse mentre si rimetteva il giubbotto. «No, fermati per piacere… non preoccuparti… non farci caso, ora è già tutto ato.» Non volevo che andasse via, non era burbero e arrogante come i soliti clienti che se ne fregavano, a cui non interessava null’altro se non sfogare il proprio desiderio. Sembrava quasi a disagio per la situazione. «Dai, tornerò un’altra volta… a dire il vero non so perché son qui, credo di aver fatto una cazzata… sai… ho una moglie e una figlia a casa… non so davvero cosa ho in testa, è la prima volta che vado con una putt…» interruppe la frase per non dire la parola. «Una puttana. Non aver paura di dirlo, è la verità. Per vivere faccio proprio la puttana» lo incalzai. «Non intendevo esser offensivo» disse per volersi giustificare. «Guarda che non sono offesa, volevi solo dire la verità… Comunque vai pure a casa da tua moglie, prima di sporcare la candida coscienza per un breve momento di stupido sesso.» Provavo una cosa molto strana, come se il rifiuto di lui potesse farmi sentire ancora meno di ciò che credevo già di essere. Non andavo più bene nemmeno per far godere un uomo? Stavo per perdere anche l’ultima risorsa che avevo?

«Ascolta, non vado via… però non facciamo nulla, pago lo stesso la cifra che avrei dovuto darti, va bene?» Era la prima volta che succedeva una cosa del genere da quando facevo la prostituta. Il fatto che non voleva far sesso fece aumentare le insicurezze che avevo dentro, non capivo se era per senso di colpa verso la moglie, oppure perché ero mal concia o, peggio, non più desiderabile. Era un ragionamento frivolo e stupido che, però, crebbe dentro come un’eruzione vulcanica e scagliò i pochi residui di autostima rimasta lontano. «E’ perché non sono bella?» domandai. «No, nulla del genere, davvero… anzi, sei stupenda… è solo che capisco che hai qualcosa che non va e non credo tu sia predisposta per fare l’amore.» “Fare l’amore? Chi mai ha usato questo termine tra le mura di questa casa?” meditai. «Ok, ascolta, puoi aspettare qui un attimo mentre vado in bagno?» domandai. «Ok, posso accomodarmi sul divano?» «Certo, lì nel piccolo cesto in vimini c’è qualche rivista, se vuoi sfogliarle fai pure… comunque cinque minuti e son da te, come nuova.» «D’accordo» rispose. Anziché sedersi in modo rilassato, notai che si mise sul bordo del divano, come per esser pronto a scattare fuori in caso di terremoto. Una volta davanti allo specchio non riconobbi l’immagine riflessa, era una cosa che capitava spesso, come volessi rinnegare me stessa. Siccome non sapevo dove fosse finito lo struccante, bagnai l’angolo di una salvietta con un po’ d’acqua del rubinetto e iniziai a rimuovere gli aloni, nella speranza di non dover far troppa pressione e lasciare segni rossi di sfregamento. “Devo dire a Dario che ci sono dei limiti da non oltreare, sono un essere umano anche io! Tanto, tornerebbe lo stesso… la consolazione è che i suoi soldi, per lo meno, donano pace per qualche giorno” riflettei per sdrammatizzare la

cosa. Tolsi l’elastico dai capelli e feci una nuova coda perché spuntavano ciuffi ovunque. «Per fortuna non avevo il rossetto, sennò sarebbe sbavato e avrebbe reso la faccia come un clown» dissi sottovoce mentre lo avo sulle labbra. Tolsi la sottoveste nera e la posai al bordo della vasca, ne indossai una dello stesso modello ma bianca, che era appoggiata lì di fianco. Abbottonai solo un bottone stavolta, all’altezza del seno. “Adesso sono presentabile” annuii tra me allo specchio, prima di abbassare la maniglia e tornare in soggiorno.

MARCO

Stavo sfogliando una rivista, senza nemmeno leggere ciò che c’era scritto e sentii la porta del bagno aprirsi. Fu una visione. In sala la luce era fioca, invece, dal bagno, ne usciva una più forte che investiva la sua figura da dietro. Si intravedevano così le forme del corpo attraverso una vestaglietta bianca di tessuto leggero al punto d’esser quasi trasparente. Era magra e alta, le gambe molto lunghe, non proprio drittissime ma stupende così com’erano. Il seno piccolo e ben fatto mostrava al suo apice i capezzoli turgidi rivolti verso l’alto, come volessero godere anche loro della bellezza del volto… era un ovale perfetto nel quale, come due diamanti preziosi, si incastonavano gli occhi neri sorretti da un sottile naso alla sina, che poggiava la sua base su un largo sorriso fatto di labbra carnose. «Sei stupenda, sono senza parole» dissi senza riuscire a smettere di fissarla come fosse un’apparizione. “Sembrava la ragazza della porta accanto, chi avrebbe mai sospettato che si vendesse in uno squallido appartamento obsoleto? Chissà cosa l’ha spinta a fare questo lavoro…” rimuginavo tra me. «Grazie» rispose. Iniziò a camminare in modo sinuoso che racchiudeva un concentrato di femminilità nel movimento lento dei fianchi. Si chinò e poggiò la mano tra le cosce. Le mie cosce. «Fa vedere che regalo hai da offrire» disse. Non ebbi nessuna reazione, non ero eccitato seppur attratto. I pensieri ormai si focalizzavano solo sul fatto che, nell’entrare in quell’appartamento, la ragazza aveva da poco versato delle lacrime. Avevo l’impressione di aver davanti una

donna che stesse soffocando il proprio essere con una maschera che le stava troppo stretta. Sembrava di abusare della fragilità e del bisogno di lei. «Abbiamo detto che non facciamo sesso» risposi per poi scostare la sua mano, «davvero, preferisco fare una chiacchierata e magari bere un tè caldo se ne hai.» «Va bene… sei qui per bere un tè e pagarlo cinquanta euro, quindi?» domandò. «No, la bevanda me la offri… con i soldi compro un po’ dell’innocenza che hai perduto… è un regalo che faccio volentieri» risposi d’istinto. Non ebbe nessuna reazione, restò immobile con sguardo interrogativo. Di certo non era abituata a un uomo che le dedicasse un’ora di tempo senza chiedere in cambio la carne. Forse era da così tanto tempo che si prostituiva che, ormai, il suo agire era rimasto impostato sul darsi solo per soddisfare il desiderio di qualcun altro. «A me sembra che con i soldi, l’innocenza che compri, è la tua» disse mentre andava verso la cucina. «Può essere come dici tu, Silvia» risposi. Si voltò di scatto, incuriosita dal motivo per cui sapevo il suo nome. «Non sono un prestigiatore, faccio l’avvocato, sono abituato ad osservare i dettagli. Ho letto il nome sulla bolletta telefonica che c’è infilata tra le pagine delle riviste.» «Dovrei essere più ordinata, in caso venissero altri ficcanaso come te» scherzò strizzando l’occhio. Osservavo la forma della schiena e dei fianchi mentre era girata di spalle, intenta a preparare il tè. Avvertii un senso di pudore per lei, sfilai il maglione, restai con la sola canotta e, dopo averla raggiunta in silenzio, lo annodai intorno ai suoi fianchi, per coprire il sedere. «Ma che fai?» domandò dopo essersi voltata di scatto. «Preferisco tu stia coperta, non provi un po’ di imbarazzo?»

«In che mondo vivi… ehm… tu come ti chiami?» «Marco.» «In che mondo vivi Marco? Hai capito dove sei?» «Si ma credevo…» «E’ il mio mestiere, Marco» tagliò corto senza riuscire a nascondere una lieve commozione che provò per il dibattito. Ripresa la posizione sul rigido divano, lo sguardo non riusciva a distogliersi da lei. In testa iniziò a formarsi l’idea che avevo sul suo conto, una prima impressione forte e chiara: troppo bella e fragile nel tentare di coprire uno stato d’animo amaro e troppo attrice di un copione che non le apparteneva. Ma potevo sbagliare, magari non era così. Fino a poco prima di entrare nella stanza, credevo di fare un grandissimo errore, ma, adesso, dopo un po’ di ambientazione e aver stabilito di non tradire Stefania, il disagio era calato. Ero così rapito dalla nuova e bizzarra conoscenza, che il resto della vita sembrava chiuso fuori da quelle quattro mura e, io, in un altro universo che nessun asteroide avrebbe potuto colpire. «Sai, Silvia… son venuto qui in cerca di un’evasione dalla quotidianità del matrimonio, che è più pesante di un macigno… pensavo che attraverso la sessualità avrei trovato una valvola di sfogo per non esplodere e tornare a casa scarico di tensioni… invece non posso negare che sono molto incuriosito da te, credo che dietro la prostituta ci sia una donna fragile, bisognosa di qualcosa» dissi serio, senza giri di parole. «Sono solo una puttana che, in questo caso, si prende la briga di versarti un tè invece che succhiare l’uccello. Punto» rispose in modo nervoso. Avevo toccato un tasto delicato. «Secondo me no… penso che tu sia Silvia, che ti sei presa la briga di versare il tè e di questo ne sei felice, anziché fare ciò che hai detto… ti ho coperta per questo, per parlare da uomo a donna e lasciare da parte l’alter ego che usi.»

«Senti, vattene a casa, non pagare e non tornare più per piacere» disse mentre versava le due tazze di tè bollente nel lavandino. «No, pago per questo tempo e voglio ottenere ciò che desidero, un dialogo… è sempre un prostituirsi, non credi? Al posto del corpo vendi l’anima.» «Ah, l’anima… la venderei soltanto al diavolo, in cambio di qualcosa di ben più importante che la comione di un avvocato che vuol improvvisarsi psicologo.» «Ma guarda che non voglio assolutamente offriti comione! Desidero solo parlare, sono interessato a te. Chiamiamola semplice curiosità.» «Cosa vuoi da me? Io odio le persone curiose, anzi le detesto!» disse dopo avermi lanciato addosso il pullover. «Ascolta, stai calma, ti propongo una sorta di gioco… la gente va dagli analisti per parlare ore ed ore, io stesso ci son andato e ho pagato fior di soldi solo per auto ascoltare cosa dicevo, di fronte ad una donna imibile.» «Arriva al punto che son innervosita.» «Noi non ci conosciamo, siamo perfetti sconosciuti ed entrambi presumo abbiamo i nostri problemi, dai più piccoli ai più gravi. Deduco che anche tu sei in una fase della vita nella quale vorresti cambiare ma non hai la forza per capire che lo si può fare davvero.» «E il gioco cos’è, insomma?» «Stai calma, ora arrivo al dunque, non essere nervosa. Allora, sarebbe questo… io vengo da te, parliamo e ci confidiamo tutto ciò che abbiamo dentro, i nostri segreti, le paure, i disagi... andiamo nelle nostre intimità, persino nelle più profonde con la consapevolezza che, tanto, siamo perfetti estranei e nessuno dei due ha in mano delle armi per ferirci a vicenda. Che ne dici?» domandai speranzoso. «Dico che è un gioco di merda. E non capisco perché dovrei prenderlo in considerazione.» «Perché io non sono nessuno e non hai nulla da perdere. E’ una cosa assurda e

non so da dove è nata questa idea ma, magari può esserci di aiuto, per sfogarci.» «Adesso puoi andare per piacere o devo iniziare a strillare svegliando tutta la palazzina?» «Me ne vado solo se dici che va tutto bene e sei soddisfatta di te stessa.» «Sono molto soddisfatta di me stessa!» disse in uno scatto d’ira, mentre una lacrima tornava a rigarle il viso, «ora vai» aggiunse «Vattene!» Presi il giubbino dalla sedia e dopo averlo infilato afferrai la maniglia della porta. Silvia era in piedi, con lo sguardo verso la finestra e le spalle scosse dai sussulti. «Aspetta… va bene… indosso delle maschere da tanti anni, ho persino paura a toglierle perché non ricordo più chi sono, ho un senso di smarrimento. Vivo in una bolla che ho creato come riparo da tutto ma, spesso, esplode e devo costruirne un'altra, ogni volta con sempre più fatica della precedente. In questo riparo cerco di non far entrare le emozioni e i sentimenti, per non avere legami con nessuno e poi rimaner delusa, usata e abbandonata.» «Ma tu, con questo lavoro, vieni usata» obbiettai. «No, questo è ciò che vedi tu… sfrutto il corpo con consapevolezza per guadagnare, anche se non ne sono felice, però son io ad usarlo, nessun altro... ho io il controllo.» «Se facciamo questa cosa potresti, per il tempo che stiamo insieme, uscire dalla ‘bolla’, come la chiami tu, con la consapevolezza che non è esplosa ma soltanto messa da parte per un attimo.» «Hai mai giocato con le bolle di sapone da bambino?» chiese. «Certo» risposi. «Allora dovresti ben sapere che basta toccarle per farle esplodere!» Era palese la sua confusione interiore, avevo colpito il bersaglio nel suo pieno centro.

«Apprezzo tutta questa gentilezza ma, adesso, è davvero venuto il momento che tu te ne vada da qui!» urlò di nuovo. Ero spiazzato. Obbedii e scesi la tromba delle scale stordito, come se avessi visto un film nel quale ero rimasto talmente assorbito dalla storia, che ci voleva un po’ di tempo per focalizzare la realtà. Stavolta, però, non era una cosa immaginaria e racchiusa dietro a uno schermo. Mentre riprendevo a pedalare la domanda che frullava nella testa era: poteva per lei esser una serata meno squallida e più interessante rispetto a quelle cui immagino fosse abituata, perché son stato cacciato via così?

SILVIA

“Era una serata diversa e meno squallida del solito, perché son scaturiti attacchi di rabbia e panico?” ragionavo col sottofondo dei suoi i che scendevano le scale. Questa domanda rimbombava di continuo nella testa, mentre ancora stavo con la schiena contro la porta chiusa. “Perché ora, la prima volta che trovo una persona sensibile, differente dagli abituali clienti, che scorge e svela il dolore che nascondo abilmente dietro ad un sorriso, reagisco così?” riflettevo ancora, mentre infilavo il pigiama in pile. Per aprire il letto, dovevo afferrare la testata del divano e tirare con molta forza perché era molto vecchio e, quindi, il meccanismo diventava sempre più rigido da aprire. Tenevo sempre due paia di lenzuola e di federe, una sopra all’altra; le prime servivano per i clienti ed erano color porpora, le seconde erano quelle in cui dormivo, così restavano pulite dai peccati. Sistemato il letto, una volta sdraiata, avevo gli occhi sgranati e fissi al soffitto. Pensavo a Marco. Dentro avevo come due personalità in contrasto. Una si domandava perché non lo avevo seguito e assecondato i suoi discorsi e, l’altra, si congratulava per non aver abbassato le difese. Di certo, ero stata presa alla sprovvista con il suo modo spudorato di voler scavare sotto le montagne dell’anima ma, ciò che non poteva sapere, era che il terreno, nel mio caso, era franoso. Dopo innumerevoli cambi di posizione, cullata dall’utopia che Dio, qualora esistesse, avesse voluto inviare un angelo per farmi capire che non esistono solo persone egoiste e insensibili a questo mondo, cedetti al sonno.

Sono proprio io, da bambina … sperduta a cercare con gli occhi un punto di

riferimento in una stanza buia, rannicchiata in posizione fetale su un ruvido e freddo pavimento … in sottofondo la voce di Sandra chiede aiuto, di essere salvata … poi il silenzio … ancora il buio … un senso di solitudine che cresce ad ogni secondo, alimentato da un terribile presagio … Lontanissima si apre una porta, distante al punto da risultare minuscola, una lucciola in questo deserto di nero in cui son sperduta … Un rumore di i lenti e lontani si fanno sempre più vicini, vengono in questa direzione … non riesco a muovere un muscolo, son paralizzata … avverto che è a poca distanza e lo riconosco dal suo odore, Alberto. Afferra la mia testa, sento il rumore della cerniera abbassarsi … «Se sei una brava bambina devi fare il gioco dei segreti» dice con voce rallentata e roca … avvicina la testa al suo sesso … il suo odore è ancora più intenso. D’improvviso molla la presa … sento tante gocce calde e pesanti che si posano sul viso, tra le labbra un sapore di ferro. Alberto stramazza al suolo e, dietro di sé, appare una sagoma nera della quale vedo luccicare soltanto gli occhi e una lunga lama di coltello tra le mani… proprio quegli occhi con la strana sfumatura gialla. «Io non ti ho mai abbandonata, ti amo» dice allargando le braccia. «Papà!» urlo. Corro nella sua direzione … Sono ormai a un o da lui e spicco un salto per infilarmi in quell’abbraccio ma, d’improvviso, si dissolve e casco a terra in un tonfo cupo e doloroso.

Scattai a sedere sul letto con il cuore in gola, il fiato corto e il corpo infreddolito da una gelida sudorazione. Il solito maledetto incubo era venuto per l’ennesima volta a disturbare il sonno. «Cosa cerchi di dire, papà?» sussurrai con le lacrime agli occhi. Feci dei respiri profondi per ristabilire il ritmo cardiaco poi, come per voler soffocare quella brutta esperienza, ripresi la posizione supina con le coperte

tirate fin sopra la testa. Dovetti aspettare più di un’ora che il senso di inquietudine se ne andasse e si arrendesse alla stanchezza. Non funzionava sempre il trucco di deviare i pensieri su qualcos’altro, ma, quella sera, in modo inspiegabile, Marco fu un grande aiuto nell’impresa. La mattina dopo ero stanchissima, infilai in fretta i vestiti e uscii di casa. Per arrivare al bar ‘la piazzetta’ in piazza loggia, ritrovo abituale per la colazione con Daniela prima di andare a lezione, dovevo percorrere tutta via San Faustino. Era una lunga strada che, vista dalla finestra del terzo piano, immaginavo come un serpentone dormiente che riposava tra le case della città. «Buongiorno tesoro» esordì l’amica appena entrai nel bar. Poi fece subito segno alla cameriera di preparare la solita colazione. «Buongiorno Dani» risposi assonnata. Adoravo il “nostro” piccolo bar perché era rustico, le pareti ricoperte di un legno marrone intenso e il soffitto con le travi a vista, il tutto avvolto da una luce di un giallo intenso. Adesso che il freddo inverno era alle porte, dava l’impressione di essere un piccolo rifugio di montagna dove ripararsi al caldo, davanti a una bevanda fumante. «Hai la faccia di una che non ha riposato» disse Daniela. «In effetti è così… poi, ieri sera, è successa una cosa strana con un cliente…» «Ti ha fatto del male?» chiese con gli occhi sgranati di preoccupazione. «No no, nulla del genere, anzi…» «E allora che ti è successo?» «Stai calma, adesso ti dico…» iniziai a raccontarle. Finito di ascoltare, Daniela restò qualche istante in silenzio prima di pronunciarsi.

«Si, in effetti è una cosa abbastanza singolare e presumo anche piacevole per una che fa il nostro mestiere… Però devi stare attenta, potrebbe essere un venditore di illusioni.» «Cioè?» «Cioè la categoria con le persone peggiori che si possano trovare, coloro che giocano con il tuo disagio e vestono i panni del salvatore.» «No, allora son sicura che non lo è!» «Silvia… Non ti ho mai sentita difendere un uomo, suona strano.» «Non è che lo difendo, dico solo che alla fine non ha cercato di sfiorarmi nemmeno con un dito… ma vabbè dai, finiamo il cappuccio che dobbiamo andare in Uni!» Ero innervosita dalla risposta di Daniela, sapevo che era realista e l’aveva detto in buona fede ma, da lei, aspettavo di ricevere più entusiasmo e positività. «Ho detto qualcosa che non va?» chiese Daniela dopo aver notato che cambiai atteggiamento. «No, tutto a posto, davvero… sono solo molto stanca, tutto qui» risposi. Quando uscimmo dal bar, percorremmo in silenzio i pochi metri che dovevamo fare prima di arrivare a destinazione. Quella mattina non seguii le lezioni, il fatto che Marco avesse tolto le mie maschere nel giro di mezzo secondo, faceva calare un senso di vulnerabilità e di nudità dell’anima che, a tutti gli effetti, era peggio di quella del corpo, più disagiante. Restai nel solito posto all’angolo della stanza e cercai di trovare isolamento da tutti, ancor più del solito. Il più semplice sguardo pareva inquisitore e troppo pesante da sopportare. Presi un foglio bianco e iniziai a disegnare, per svagare il cervello. Nelle prime linee leggere ed incerte di matita, iniziò a trapelare la figura di un cagnolino. Poi di una casa. Poi di un bambino che giocava a palla e, poco distante, un altro a dondolare sull’altalena appesa a un grosso ramo di castagno.

Era la raffigurazione dei sogni che ogni giorno rincorrevo, nei quali trovavo rifugio per non vedere la realtà, come autodifesa per non perire sotto il peso del vestire una pelle che non mi apparteneva.

MARCO

Battevo a ritmo regolare la stilografica sulla scrivania, senza rendermene conto, con lo sguardo assorto a fissare il vuoto. Dal momento in cui ero uscito dall’appartamento di Silvia, non facevo altro che pensarla e desiderare di stare con lei; era stupenda, la vedevo come un piccolo fiore che si faceva strada a gomitate per crescere su un prato cosparso di letame. Romina bussò alla porta, la aprì un pezzettino e ci infilò la testa, «Vuoi un caffè?» chiese. «Si, volentieri, grazie Romi.» In effetti, un po’ di caffeina sarebbe stata utile per affrontare la lunga giornata di lavoro che si prospettava sull’agenda visto che, fino a notte inoltrata, non ero riuscito a prender sonno. Avevo pensato molto anche a Stefania, la osservavo cullata dal sonno senza provare alcun senso di colpa, sentivo di essere in grandissimo difetto per questo. Certo si era palesato che il ‘c’è qualcosa che non va’, si dirigeva verso il ‘c’è qualcosa di molto grave che non va’. Da adesso in poi sapevo che far finta di nulla ed andare avanti nella finzione sarebbe stato molto difficile. «Te l’ho fatto doppio, hai una faccia da zombie… senza offesa…» esordì Romina per poi appoggiare il bicchierino del caffè sulla scrivania. «Gentile come al solito» risposi con un sorriso ironico. «Sincera, come al solito» ribadì lei, «sembri un po’ assente e preoccupato Marco, è successo qualcosa?» Dovevo raccontare a qualcuno quello che avevo fatto, avevo bisogno di sfogare ciò che avevo nascosto dentro, altrimenti, come una pentola a pressione con la valvola guasta, sarei esploso. «Chiudi la porta e siediti un attimo, in effetti una cosa da confidarti la ho…»

Raccontai tutta la vicenda. «Marco, ma sei impazzito? Hai preso un colpo di fulmine proprio per una puttana? Non potevi trovare una cosa normale se proprio avevi deciso di fare un o del genere?» domandò incredula. «Ma che pregiudizi hai? Cosa significa se fa la prostituta?» «Beh dai Marco, non puoi neg…» «Non sono forse sposato con la donna modello? Eppure sai anche tu che sta andando a finire male, no?» dissi stizzito interrompendola. «Si, stavo solo per esprimere la mia opinione» «Di certo, ho l’umiltà di capire che non sono nessuno per giudicare. Comunque si, può essere moralmente discutibile una donna così ma, di fondo, segretaria, commessa, imprenditrice, operaia o puttana, una donna rimane sempre una donna. I motivi che spingono a fare una cosa piuttosto che un'altra sono sconosciuti, magari la colpa di determinate scelte è proprio di noi maschi che spesso non siamo in grado di esprimere amore.» «Su questo hai ragione, possono essere anche situazioni difficili a mettere di fronte ad un bivio, ma…» disse Romina riflessiva. «Comunque ho provato molta tenerezza e voglia di darle una mano» la interruppi di nuovo, «credo che dietro le vite più travagliate e complicate, spesso, si nascondono le anime più buone e fragili, più bisognose di aiuto.» Dopo un attimo di silenzio, prima di uscire dalla porta Romina disse «bada bene a cosa vuoi nella tua vita Marco, sai che fin da bambini siamo stati molto legati ed ho sempre cercato di ascoltarti e darti consigli sionati. Ricorda solo che are dalla padella alla brace è di una estrema facilità e, spesso, non ce ne si rende nemmeno conto se non dopo esser già bruciati.» Per la prima volta sentivo di essere nella situazione neutrale di chi è davvero intelligente. Non volevo lasciare che l’ipocrisia delle buone parole arrivasse ad invadere il volere, desideravo credere in ciò che avevo appena detto e portare avanti l’opinione. Di fondo molti dei libri che preferivo, di psicologia, poesia e filosofia, insegnavano proprio a liberarsi delle catene dei pregiudizi societari e

lasciarsi andare in ogni nuova esperienza. Dire la parola puttana con il dito puntato è facile ma, molto più difficile, è scomporla e ignorarla per vedere cosa nasconde dietro. Stavo pian piano per realizzare ciò che avevo fatto la sera prima, non era una solita fantasia che usavo per evadere dal matrimonio con Stefania, stavolta, un fatto reale e accaduto. Nel lavoro nulla distoglieva gli obbiettivi, se dovevo prendere delle decisioni avevo molta tenacia e sicurezza. Nelle emozioni, invece, la debolezza si mostrava per intero. Se si creava un bivio e potevo cambiare direzione, immancabilmente, come un sasso nel fiume, rimanevo immobile, per poi diventare spettatore ivo della vita che, scorrendo addosso, finiva per consumarmi sempre più. Stavolta, visto che avevo fatto un o oltre la semplice immaginazione, era venuto il momento di provare a vivere, mettere tutto in discussione e seguire le sensazioni. Di fondo rischiavo poco, nessuno avrebbe potuto scoprire il rapporto clandestino, perché lei non doveva far sapere che si prostituiva, ed io non far scovare questa evasione. I nostri segreti si facevano copertura a vicenda. Magri era tutta una prematura esagerazione. Forse Silvia non voleva nemmeno più che ci incontrassimo e, ancor più probabile, non si ricordava nemmeno che faccia avessi. Sono diviso in due… una parte che vuole volare e l’altra che ricorda che l’uomo non ha le ali, riflettei col lo sguardo alla finestra. Misi da parte i rovelli di pensieri per mettere la massima concentrazione sul lavoro. Per le undici dovevo essere al carcere Canton Mombello, per l’assegnazione come avvocato d’ufficio di un nuovo detenuto. Il tempo trascorreva ma non riuscivo a mettere attenzione nella stesura di un caso, quindi, decisi di uscire dall’ufficio anche se in anticipo all’appuntamento. Presi la bicicletta, l’aria fresca pizzicava le guance, il cielo era terso. Avrei impiegato soli cinque minuti ad arrivare a destinazione, bastava percorrere Viale Venezia fino in fondo e svoltare a sinistra, in via Spalti San Marco. Visto che mancava ancora un po’, non girai a sinistra ma proseguii dritto, volevo

prendere il giro largo e circumnavigare Piazzale Arnaldo, un rettangolo con al centro un’aiuola ricoperta di un’erba color verde intenso, sempre pettinata alla perfezione sia d’estate che d’inverno. Li c’era un negozio che adoravo. Ogni settimana la Boutique cambiava le vetrine ed erano sempre spettacolari, curate in ogni minimo dettaglio. Quel giorno c’era un completo sui vari toni del marrone sul manichino maschile e, al suo fianco, sul femminile, un vestito color cipria lungo fino alle caviglie, che finiva con un sottile pizzo dello stesso colore ma di una tonalità più chiara, quasi bianco. Immaginavo Silvia, di certo addosso a lei sarebbe stato divino, avrebbe saputo vestirlo meglio del manichino. Assorto nella fantasia, divenni davvero conscio del fatto che non riuscivo a staccare il pensiero da lei. Era un ossessivo chiodo fisso che prevaricava qualsiasi altra cosa. Ne ero travolto e rapito. Ripresi a pedalare incapace di soffocare la sua immagine e quindi, decisi che l’avrei lasciata correre libera e serena dentro me. L’ingresso del carcere era un grande cancello scorrevole in metallo colorato di verde, nel quale sul lato sinistro si apriva una porta sempre presidiata da due guardie che, quel giorno, conoscevo di vista per le varie altre occasioni in cui entrai nella struttura. «Prego, Avvocato» disse una di queste dopo aver aperto la porta. «Buongiorno» risposi con un sorriso mentre varcavo la soglia. Dietro al vetro dell’ufficio accoglienza, una giovane donna che non avevo mai visto prima era intenta a scrivere al computer. «Buongiorno, sono l’avvocato Zilioli. Devo incontrare un cliente, il signor Rossi Ernesto» annunciai. Sul suo viso si leggeva la noia di dover stare tutto il giorno rinchiusa lì dentro.

«Buongiorno a lei avvocato… allora, vediamo dove lo può trovare… ecco, la faccio accompagnare nell’infermeria dell’istituto, è li che si trova Rossi.» «Perché è in infermeria? Non ne ero a conoscenza.» «Preferiscono tenerlo sedato e sotto controllo, pare abbia atteggiamenti aggressivi sia verso se stesso che verso il personale…» disse con lo sguardo fisso al monitor, «ecco Veneziani, sarà lui ad accompagnarla» continuò poi, dopo aver sentito i tacchi di cuoio della guardia avvicinarsi. «Grazie infinite!» risposi a voce alta, per smuoverla dall’assopimento. «Prego avvocato» fece segno il secondino di seguirlo. L’infermeria era composta da più letti divisi tra loro da tendine plastificate color verde. Appena Veneziani indicò il letto di Rossi, gli dissi che volevo stare solo con lui. «Io sono alla porta, in caso avesse bisogno, avvocato» e prese la sua posizione. Avvicinai una sedia al letto e tirai le tendine per avere privacy, poi, sedetti. Rossi era supino, incollato alle lenzuola sudate e borbottava tra sé frasi sconnesse ed inconcepibili. «Buongiorno Signor Rossi, sono Marco Zilioli, il suo avvocato.» Aveva uno sguardo quasi invisibile, nascosto dagli occhi socchiusi in una sottilissima fessura, come se la luce flebile della stanza gli desse fastidio. «Io non ho fatto niente, deve farmi uscire» sussurrò a fatica. «Se la devo difendere Rossi, deve essere sincero nel raccontare cosa è successo e perché si trova qui, ok?» Non rispose. «Ascolti signor Rossi… lei ha riferito che voleva parlare solo con un avvocato, adesso lo ha.» Ancora nessuna risposta.

«Ieri notte, ha molestato delle ragazze in un bar di Corso Magenta?» chiesi. «Io non ho importunato nessuno, cercavo solo una ragazza» disse. «Ma dal materiale che ho ricevuto non risulta padre di nessuno.» «Questo lo dicono loro» bisbigliò. «Loro chi?» «Loro… loro… loro…» Era chiaro che avevo di fronte un povero disgraziato che delirava, imbottito di sedativi e che, la notte prima, aveva nel sangue una quantità di eroina in grado di stendere un cavallo. Nelle carte che avevo sul suo conto, c’era scritto che non risultava in nessuna residenza specifica, l’identità non era sicura, ava più tempo in carcere che in libertà e che, svariate volte, era evaso dagli istituti di sanità mentale. In pratica non era nessuno. Un fantasma. Una causa persa. «Come si guadagna da vivere, signor Rossi?» domandai. «Dio non si scorda di me e della fame» rispose ad occhi chiusi. Avevo sempre più chiaro il destino dell’uomo che avevo di fronte. Tempo di fare una perizia psichiatrica e via ancora in un istituto. Dovevo assecondarlo nel suo delirio per cavarci qualcosa di utile ma, senz’altro, non avrei impiegato molte forze per difendere un caso disperato. «Se non metti la testa a posto erai più tempo in galera che a casa tua» dissi perso nel disgusto di un rivolo di saliva che gli scendeva dal lato della bocca. «Dite sempre così, se non metti la testa a posto… se non fai così, se non fai cosà… siete solo capaci di dire cosa dovrei fare. E per la precisione, si tolga dalla testa che sono pazzo.»

«Io non credo che lei sia pazzo» mentii. Non volevo alimentare la rabbia di cui ero stato messo al corrente dalla signorina all’ingresso. «Le consiglio solo cosa dovrebbe fare per migliorare il suo stile di vita» continuai. «Vorrei vedere lei … ormai non ho più nulla da perdere, tranne le speranze che, però sono agli sgoccioli… son stato privato dell’unica ragione di vita tanti anni fa, son sempre stato trattato come un pazzo e, ai tempi, incastrato per un reato di omicidio che non ho mai commesso… io non ho mai fatto parte di nessuna sanguinaria banda Romana, sia chiaro una volta per tutte!» disse convinto. «Parliamoci con sincerità… non credo che tutto il mondo sia contro di lei, no? E poi di cosa è stato privato?» domandai. «Lei sa cosa significa capro espiatorio?» chiese. «Si, certo» risposi. «Gli ebrei chiedevano perdono dei propri peccati nel tempio di Gerusalemme, attraverso un capro che veniva caricato dal sommo sacerdote di tutti i peccati del popolo e poi cacciato a morire tra le dune del deserto. Io son sempre stato un tossicomane, questo è l’unico immenso errore che ho commesso, tutto il resto è una farsa, un’invenzione» disse tra un colpo di tosse e l’altro, sputando una gran quantità di catarro che gli finiva addosso, sempre fermo nella sua posizione supina. «E perché proprio lei avrebbero scelto?» domandai per assecondare il suo delirio. «Avvocato, diamoci del tu… perché io non ero nessuno, uno sputo della società, privo di voce in capitolo… un povero tossico che aveva perso la sua bellissima moglie… un uomo solo al mondo e al quale nessuno avrebbe mai creduto. Ma una cosa l’avevo, e proprio quella cosa han portato via, venduta come merce di scambio.» «Non capisco, puoi essere più preciso e parlare in modo più chiaro?» lo incalzai.

Ad un tratto sollevò la testa e la voltò nella mia direzione, gli occhi sempre socchiusi e, con ogni singolo muscolo della faccia contratto, immobile in una smorfia, disse una frase che colpì dritto contro la tranquillità che avevo dentro fino ad allora. «Se io portassi via tua figlia, tu avresti ancora qualcosa in cui credere?», soffiò dalla bocca con una voce cavernosa. Detta questa frase scattò seduto sul letto e iniziò a urlare «Me l’hanno portata via! Dove sei bambina mia! L’ira del signore si scaglierà contro voi esseri presuntuosi e malvagi!» urlò e indicò il soffitto con l’indice, prima di crollare di nuovo supino, scosso da convulsioni. La guardia si avvicinò per controllare se fosse tutto a posto, aveva sentito Rossi urlare come un pazzo. «Devo andare via da qui» dissi a Veneziani, ansioso di uscire da lì. Fui scortato immediatamente all’uscita e, una volta fuori, salii in sella alla bicicletta con il cuore in gola che sembrava volesse balzar fuori dalla bocca. Dovevo arrivare a casa il prima possibile, in testa rimbombava la domanda di Rossi “Se io portassi via tua figlia, tu avresti ancora qualcosa in cui credere?”. Non riuscivo a capire se fosse una frase campata per aria e senza senso o se sapesse dell’esistenza di Roberta. Avevo un brutto presentimento e usavo tutta la forza che avevo nelle gambe per spingere più forte la corsa, sentivo il bisogno di verificare che a casa fosse tutto a posto. Posai la bicicletta frettolosamente al muro di fianco al portone di ingresso, cadde per terra ma la ignorai. Corsi su per la rampa di scale e, una volta nell’appartamento, cercai nelle stanze Stefania. Era in cucina che tagliava le zucchine e i peperoni. «Cosa è successo?» chiese incuriosita dalla veemenza con la quale irruppi nell’appartamento. «Dov’è Roberta?» domandai subito, senza dar spiegazione alla sua domanda. «E’ a scuola, dove dovrebbe essere scusa?» «Ah si, hai ragione…»

«Perché sei così teso?» «No, niente… è che prima ho letto il giornale e c’era una notizia di una bambina scomparsa, proprio qui in città… avevo un grande voglia di abbracciarla, tutto qui» risposi. Piano piano stavo recuperando la razionalità. Stefania si avvicinò per stringermi. Durante l’abbraccio, vedevo ancora il viso contratto di Rossi. Metteva i brividi. Cercai di calmare del tutto il senso di inquietudine, tanto, quel Rossi, era soltanto uno squilibrato.

Nel pomeriggio scesi in ufficio e esaminai con accuratezza tutte le carte che avevo in mano sul caso Rossi. Era un groviglio di controsensi di dubbia chiarezza. La cosa certa erano i dieci anni ati in isolamento nel carcere di Regina Coeli, prima di essere portato in un istituto di sanità mentale. Da lì in poi una serie di fughe e rientri in altri vari istituti e, da tre anni a questa parte, dopo l’ennesima evasione, più nessuna traccia. Per riuscire ad estrarre un filo logico dalla vita di quell’uomo, sapevo di dover impiegare la stessa pazienza che vedevo nella povera nonna, mentre filava la lana. Ma forse non era nemmeno necessario, bastava che richiedessi una visita psichiatrica… anche se la curiosità di capire se fossero vere le sue affermazioni si faceva insistente. Decisi di fissare un secondo colloquio, speravo di trovarlo più lucido e poi stabilire come procedere. Non appena staccata l’attenzione da lui, ecco che Silvia tornava a riempire la mente, alzai la testa e inalai ad occhi chiusi il ricordo del suo profumo. Era buonissimo. Era stupenda. “Si arrabbierebbe molto se la chiamassi?” Inutile cercare di porre resistenza alla dolce tentazione, come Ulisse in balìa delle sirene, ero legato dalle corde del matrimonio, di una figlia e delle insicurezze. Sorrisi alla mitologica metafora e riflettei che, forse, c’era più vita

nel morire per le proprie ioni che nel vivere immersi alle illusioni. Controllai che la porta dell’ufficio fosse ben chiusa e digitai il suo numero al telefono della scrivania…

SILVIA

Finita la lezione, verso mezzogiorno, percorrevo la strada verso casa con l’idea di cucinare un bel piatto di pasta al basilico. In via San Faustino, si era allestita una colonna di bancarelle per il mercato. Siccome per quell’occasione la gente era accalcata, tenevo stretta tra le braccia la sacca con il portatile e il portafogli. Purtroppo era una zona dove capitava spesso che molte persone venivano scippate, in special modo quando c’era ressa. Adoravo, nei giorni del mercato, sbirciare con meticolosità tutta la mercanzia, come atempo. Quella da cui però ero più attratta, esponeva cappelli artigianali e con la proprietaria, tal Signorina Pratesi Raffaella (teneva a sottolineare che, nonostante i suoi settantadue anni, fosse ancora signorina), era nata una gradevole simpatia. avo, ogni volta che veniva, del tempo con lei a provare tutti i nuovi modelli che ogni mese portava, salendo direttamente nel suo furgone dietro al banchetto. Anche se non potevo comprarne per via dei soldi contati, si dimostrava disinteressata e accogliente. Diceva anche di saper leggere la mano. Una volta raggiunta e salutata, provai un cappello di seta nera, con una grande visiera che percorreva tutto il perimetro e lasciava cadere un velo color argento sul viso. Nella parte superiore tante piccole borchie, sempre argentate, lo rendevano molto luminoso. Un cappello in stile anni quaranta, rivisitato in chiave moderna. La Signorina Pratesi capì al volo che lo desideravo. Prese due guanti della stessa seta nera e disse «tieni cara, siccome si avvicina natale e non so se ci rivedremo prima di allora, ti faccio già il regalo. Guanti e cappello. Coordinati» sorrise con tenerezza senza aver vergogna di mostrare una bocca senza denti. «Grazie Signorina Raffaella… ma non deve disturbarsi…» «Se faccio una cosa è perché son felice di farla, quindi metti in questa borsa la roba e non stufare!» scherzò, «e poi siediti sullo sgabello che è un po’ che non leggiamo la tua mano» concluse.

Non credevo molto alle previsioni ma, devo ammettere che un paio di volte, aveva azzeccato alcune cose, come il voto della laurea breve triennale e alcuni dettagli dell’infanzia che non avevo svelato a nessuno. «Però se son cose brutte non le voglio sapere» replicai una volta salita sullo sgabello. Dopo qualche attimo di intensa concentrazione sul palmo, emise la sentenza. «Buone notizie cara, anzi, molto buone» esordì. «Dai, sputa il rospo!» chiesi con curiosa speranza. «La tua vita avrà a breve un enorme cambiamento, radicale. Ci sarà un incontro speciale desiderato da tanto tempo che ti permetterà di lasciare alle spalle tutto, per rinascere come nuova.» Nel sentire le sue parole chiusi gli occhi un istante, immaginai di volare libera nel cielo dopo esser risorta dalle ceneri, come l’araba fenice. «Non perdere mai la speranza» concluse. Avrei voluto chiederle qualcosa in più ma, fuori, davanti alla bancarella, due signore aspettavano d’esser servite. La salutai in modo frettoloso con l’impressione di lasciar qualcosa di importante in sospeso. Ripresi a eggiare con lo sguardo rivolto al cielo, pensavo a quale incontro potesse riferirsi la Signorina Pratesi. “Chi potrebbe stravolgere questa vita? L’unica persona è papà… solo lui… incontrarlo e sentire uscire dalla sua bocca che mi ama e che non ha mai smesso di cercare sua figlia, sarebbe l’unica cosa in grado di rivoluzionare questa esistenza” riflettei. Scossi la testa per poi tornare alla razionale realtà. Papà era solo un’utopia. Una bella utopia.

Proseguendo verso casa, ai davanti al banchetto del pescivendolo e presi un bel sacchetto con dentro qualche chela di granchio e una manciata di patatine. L’appetito era molto e la voglia di cucinare, ata. Superai il portone di casa e proseguii avanti per quaranta metri, dove finiva la via. Sulla destra partiva una salita che raggiungeva il castello, luogo davvero stupendo e suggestivo che offriva la visuale della città intera dall’alto. Decisi di andarci. Mentre salivo lungo la ripida strada, come sempre fui meravigliata di constatare quanto fosse incredibile che, con pochi i, si potesse are da un paesaggio prettamente cittadino, ad una situazione di verde e relax, senza rumori fastidiosi di sottofondo. Nella fantasia, immaginavo che quella zona corrispondesse all’unico polmone sano della città. Arrivata in cima, attraversai il ponte sul grande fossato che portava all’ingresso del castello. Il magnifico portale cinquecentesco raffigurava in altorilievo il leone di san marco, scolpito in un blocco gigantesco di marmo bianco. ata l’arcata, le strade si dividevano: una a destra e una a sinistra. Era tutto un alternarsi di torrette, edifici in pietra e strutture varie poste in cerchio che, in tempi ati, servirono per difendersi dagli attacchi nemici durante le battaglie; il tutto posato su un prato verde molto curato. Scelsi come d’abitudine di andare a sinistra, verso un piccolo balcone a strapiombo di forma semicircolare, ricoperto anch’esso di erba verde e pettinata, recintato da una bassa ringhiera di ferro battuto che dava sulla città. Ammirare da lì la vista, dava l’impressione di volare sopra le piccole casette. Quante volte avevo immaginato di poter cadere a braccia aperte lungo il precipizio e volare fin giù al Duomo, girargli intorno più volte per poi, una volta sulla cima della cupola, guardare intorno a trecentosessanta gradi per scegliere la direzione in cui andare, senza obblighi, senza le catene del ato, senza aver nessuna paranoia per la testa. Godere solo dell’osservare i panorami scorrere sotto un dolce librarsi nell’aria. Che bello sognare, sfuggire per un attimo da tutto e da tutti con la consapevolezza che il sogno, almeno quello, era soltanto mio e nessuno poteva intaccarlo.

Un'altra cosa che facevo spesso da lassù, era osservare le macchine e le persone muoversi lungo l’intreccio di tutte le vie. Sembrava che tutti avessero uno scopo preciso e che sapessero alla perfezione dove andare e cosa fare, persi a riempire le loro vite con innumerevoli cose e impegni, come se il restare fermi implicasse lo sforzo più grande che l’essere umano potesse fare. In effetti avevo sperimentato che era davvero così, se non si è più che forti e in pace con se stessi, l’unico modo per vivere in serenità era correre senza mai fermarsi. Arrivata sul piccolo balcone sedetti sulla panchina di marmo che era situata al suo centro, presi dalla borsa il portatile e, mentre si avviava, sgranocchiai il pesce e le patatine ancora caldi. Il sole coccolava la pelle del viso con tiepide carezze, non si muoveva un filo d’erba e sentii il bisogno di fare un riposino. Richiusi il pc, lo infilai in borsa e la presi in braccio per paura che qualcuno la rubasse. Appoggiai la schiena al grande schienale e chiusi gli occhi, cullata tra le braccia di Morfeo. ò un’ora prima di sobbalzare e fare cadere la borsa a terra. Il maledetto incubo tornò a bussare alle porte dell’inconscio non appena calai le difese, nel sonno. Presi la roba da terra e la appoggiai sulla panchina, poi, per sgranchire le gambe informicate dalla durezza e la freddezza del marmo, percorsi il perimetro della ringhiera. “Papà, ti piacerebbe tantissimo vedere questo panorama”, sospirai persa tra sogno e realtà, rivolta verso la città. Ripresi a sedere e accesi il computer. Iniziai poi a sistemare la tesi. ò un’altra ora poi, il cellulare distrasse la concentrazione con la sua vibrazione intermittente. Era un numero che non conoscevo. “Questo è un cliente… con i soldi di Dario non ne ho proprio bisogno… e soprattutto nemmeno voglia… rispondo e dico che sono fuori città per almeno una settimana” decisi in un lampo. «Pronto?» risposi.

«Ciao Silvia, come stai?» domandò la voce all’altro capo del telefono. Sembrava il timbro di voce di Marco ma non ne ero sicura al cento per cento o, forse, non volevo esserlo. «Con chi parlo scusa?» chiesi. «Ah già… scusa a te… sono Marco, il ragazzo che è..» «Ah, ciao Marco. Sì, sì, ricordo di te. Ricordo anche d’averti detto di non richiamare più, se non sbaglio» lo interruppi con forzata durezza. In realtà, non so per quale motivo, provai molto piacere nel sentirlo. «A dire il vero non ricordo questa tua affermazione» rispose. «Hai la memoria corta… beh comunque sto bene, grazie. Tu con la moglie, piuttosto, si son sistemate le cose?» chiesi prima di portare la mano alla bocca di scatto. “Ma che cavolo gli ho chiesto?” pensai. «Non è questione che si sistemino le cose, Silvia, è che son perso… comunque, a parte questo, ho chiamato per saper se avresti voglia di un nuovo incontro.» Dopo un attimo di riflessivo silenzio, stabilii che in effetti avevo molto piacere di rivederlo ma, per forza di cose, dovevo tutelare la fragilità che portavo nell’anima, senza che Marco ci scavasse dentro. «Se vuoi venire va bene, però come normale cliente, senza discorsi personali e giochetti vari, ok?» «Va bene, sono d’accordo.» «E allora a che ora ci vediamo?» «Ecco… sarei libero tra poco, verso le cinque non ho impegni.» Fui spiazzata, non credevo di certo di rivederlo così in fretta. Dovevo ancora stabilire l’effetto che aveva avuto su di me l’altra volta e, cosa ancor più importante, cosa spingeva a desiderare ancora di vederlo.

Guardai l’orologio, sarei riuscita ad andare a casa con calma per sistemare un po’ e riceverlo. «Va bene, può andare… Allora per le cinque?» «Sarò puntuale, a dopo» «Marco, aspetta! Prometti, zero giochetti e discorsi personali.» «Va bene, promesso» concluse. Misi tutto in borsa e corsi verso casa. Sulle labbra un sorriso. “Chi avrebbe mai detto che si sarebbe fatto sentire nonostante non c’è stato nessun rapporto? Perché voleva tornare? Stavolta voleva sfogarsi oppure era interessato a me come persona?” mi chiedevo. Una cosa era certa, non dovevo far trasparire nulla. Era un semplice cliente come tutti gli altri. Di fondo, un uomo è sempre un uomo, con una mano ti accarezza e con l’altra ti uccide. In casa c’era odore di chiuso perché alla mattina non avevo aperto la finestra per cambiar l’aria. La spalancai subito di modo da far uscire il sentore di umidità tipico dello stabile e poi andai ad aprire l’acqua per fare una doccia veloce. Appena uscii dal bagno richiusi la finestra, dopo aver prima socchiuso le imposte, per rendere fioca la luce. Alla mattina non avevo nemmeno rialzato il letto, quindi, ricoprii le lenzuola personali con quelle porpora dei clienti. Suonò il camlo. Una scossa percorse tutta la spina dorsale. Schiacciai il pulsante per aprire il portoncino e corsi in bagno per guardare un’ultima volta se ero in ordine. “Ma, da quando ho così premura d’esser perfetta con un uomo?” riflettei. Capii che Marco cerava una certa e non voluta suggestione. «Ciao Silvia» disse intanto che chiudeva la porta dietro di sé.

«Ciao, Marco» ricambiai sorridente mentre presi posizione sul letto. Indossavo solo mutandine e reggiseno sotto una vestaglietta trasparente. «Che bella giornata oggi… hai visto che sole?» chiese. «Ma adesso renderò ancora più piacevole la tua giornata» risposi mentre gattonavo sul letto verso di lui. Dovevo fare lo sforzo di trattarlo come un abituale cliente, niente di più. Afferrai la sua cintura per slacciarla. «Fermati, cosa desidereresti fare tu?» domandò. Restai a bocca aperta. Nessuno chiede a una puttana cosa vorrebbe fare. Tutti facevano ciò che volevano a loro piacimento. A dire il vero non sapevo nemmeno cosa avrei voluto. «Che c’è? Non hai nessuna idea?» chiese. «A dire il vero paghi per le tue di fantasie. Scegli tu.» «Allora svestiti, tieni solo le mutande… sempre che non hai troppo freddo… non c’è molto caldo qui.» «Si, in effetti… è che ho aperto le finestre un attimo… ma in un attimo si riscalda l’ambiente, è un buco di stanza, non ci mette molto» giustificai. «Fa nulla, non preoccuparti. L’importante è che non senti freddo tu.» «Io sto bene.» Prese una sedia e si sedette immobile a fissarmi. Cercai di dire qualcosa ma fece cenno di star in silenzio. «Voglio osservare e godere della tua bellezza» disse. Chiusi gli occhi per qualche istante con la convinzione che avrebbe iniziato a masturbarsi come sarebbe successo con qualsiasi altro cliente.

Li riaprii e, invece, era ancora fermo nella stessa posizione. Iniziai a sentire caldo in viso, a provare imbarazzo. “Ma che sta facendo? Avanti, prendi questo corpo e basta!” dicevo nella mente. Non ero abituata ad esser studiata e scrutata, sentivo d’esser giudicabile e giudicata. «Ma sai quanto sei bella? Hai un corpo stupendo e, il viso, lo è ancor di più» esordì dal silenzio. Non risposi anche se l’istinto suggeriva le parole “Anche tu sei splendido”. Poi si alzò, si svestì, prese il lubrificante che tenevo sul tavolo, salì in ginocchio sul letto e mi fece girare con un dolce movimento. Temetti di sentir dolore. Speravo che avrebbe almeno messo una buona quantità di gel e non si sarebbe divertito come alcuni altri clienti a spingere con forza, malgrado dimostrassi una palese sofferenza. Invece si sedette a cavalcioni sul sedere e iniziò ad accarezzare la schiena molto delicato, lungo tutto la spina dorsale. Avevo la pelle d’oca. Le sua mani massaggiavano la nuca, il dorso, i muscoli lombari fino al sedere e poi risalivano per ripetere la stessa operazione. «Stai rilassata, sentiti leggera, libera la mente e lasciati andare» sussurrò, «sento molta rigidità» aggiunse. Continuò la dolce manipolazione a lungo, ogni tanto lasciava cadere dei piccoli baci dietro alle orecchie e sulla parte laterale del collo. A ognuno di questi sentivo diramarsi dei piccoli brividi lungo tutto il corpo. «Sei davvero bella» continuava a ripetere sotto voce. Era incredibile, riuscivo davvero ad abbandonare i sensi a un profondo relax e, cosa strana, iniziavo a desiderarlo.

Ero bagnata ed eccitata. “Se fosse così con ogni cliente non avrei bisogno di tutto quel lubrificante e proverei meno dolore” constatai. Marco coccolava e massaggiava senza chiedere nulla in cambio, regalava uno spicchio del suo tempo per donare benessere e non solo per soddisfare un istinto maschile. Sentivo che gli occhi stavano iniziando a coprirsi di un piccolo velo d’acqua. Ero emozionata. Provavo la sensazione di essere una bambina che riceveva un incondizionato momento di affetto, cosa mai provata. Per la prima volta desideravo il sesso. Avevo davvero voglia d’esser posseduta da lui. Dopo un po’, quando ebbe finito, si alzò e prese dei tovaglioli di carta che tenevo vicino al fornello, si asciugò le mani e le cosce dal gel e prese dalla sedia i vestiti, per rivestirsi. «Fermo, non rimettere i vestiti per piacere… ora devo fare io una cosa per te » dissi in ginocchio sul letto. «Oggi ho deciso che è la tua giornata, quindi, se davvero ne hai voglia, continuerò io a dedicarti attenzioni» rispose serio. «Va bene, vieni qui subito però» dissi per poi tornare in posizione supina. Ero in preda ad una strana sensazione di solitudine che s’accendeva se solo Marco si scostava d’un o. In modo lento salì sopra e avvicinò la bocca al mio orecchio. «Ora devi solo abbandonare tutti i pensieri e spegnere il cervello. Il sesso si fa con i cinque sensi, bisogna staccare la testa da tutto ciò che ci circonda… i problemi… le ansie… le paure… concentrarsi solo nel connettere tutte le

sensazioni con l’altra persona… è un atto di piacere che regali a te stessa e a me, se lo vuoi» sussurrò. Annuii senza proferire parola. Volevo davvero dare retta a Marco e non permettere che i problemi personali venissero a bloccare il momento. Sembrava la persona giusta con la quale provarci, era gentile, educato e meno egoista rispetto al cliente medio, per il poco che lo conoscevo. «Per prima cosa devi imparare a guardare, usare la vista, godere della pelle dell’altro e osservare le reazioni del tuo corpo al piacere… vedi ad esempio i capezzoli come sono irrorati di sangue e molto turgidi? Concentrati su tutti i piccoli cambiamenti che fa il corpo, involontariamente.» Marco chiedeva di fare l’opposto di ciò a cui ero abituata, una prostituta impara presto a isolarli i cinque sensi, per non soffrire. Con sforzo scacciai la voce interiore per abbandonare ogni barriera. Concentrai lo sguardo sul seno per vedere se era davvero gonfio, poi, spostai lo sguardo su di lui e iniziai a trovare molte cose che erano piacevoli. La morbidezza della pelle, i peli un poco ispidi del petto, le spalle che ad ogni piccolo movimento mostravano i muscoli muoversi… tutte cose a cui di solito non prestavo attenzione e che scorrevano invisibili davanti agli occhi. Marco era sempre più un uomo anziché un cliente, era bello scoprire il piacere che provavo solo nel guardare i particolari del suo corpo. «Poi devi coinvolgere anche l’olfatto. Annusa l’odore della pelle, il profumo leggero che si diffonde dai sessi mentre aumenta l’eccitazione» continuò. Premette il bacino contro di me. Infilai la faccia tra il suo collo e la spalla e, a occhi chiusi, feci in respiro profondo. Aveva un profumo inebriante. «Il gusto è fondamentale. Mordi e bacia la pelle, sentine il sapore» continuò.

Obbedii. Iniziai a morderlo e leccarlo in modo molto leggero, in bocca il suo sapore si espandeva rapido e scendeva fino in mezzo alle gambe, come se tra la bocca e il sesso ci fosse un canale di congiunzione e, ad ogni morso che davo, partiva un brivido fino a lì, in un’esplosione di umori. Lui ripeteva su di me ciò che io gli facevo. «Se ascolti bene quello che ricevi, puoi capire fino in fondo ciò che sai far provare» disse. Stavo per perdere il controllo. La nuova esperienza creava emozioni fortissime. «L’udito è importante. Ascolta il tuo respiro farsi sempre più impaziente, senti anche come il mio si carica di desiderio… Trasforma il nostro ansimare in eccitazione» continuò. Emise un gemito che si espanse nella stanza come un terremoto di sensazioni travolgenti. Anche ai rumori non avevo mai prestato attenzione, la bolla nella quale abitavo li ovattava tutti, come se guardassi il film della vita senza audio e senza sottotitoli. «Infine coinvolgi il tatto. Presta attenzione a ciò che tocchi con le labbra, con le mani e con il resto del corpo… altrettanto bene presta attenzione a ciò che ti viene toccato» bisbigliò mentre strinse tra l’indice e il pollice un capezzolo. Reagii con una contorsione involontaria di tutta la muscolatura e emisi un lieve urlo dalle note acute. Ero intenta ad ascoltare tutti i cinque sensi, come aveva detto Marco. Allungai una mano e la infilai dentro i suoi boxer, sulla punta delle dita avvertii una calda goccia di lui e la immaginai come un concentrato della sua voglia. Sentivo di esser davvero desiderata. «E’ perché provo un immenso piacere, ti trovo stupenda» disse come se avesse la capacità di intuire le domande e le affermazioni che tenevo rinchiuse dentro.

Portò le dita velate dal suo liquido tra le labbra e, nel sentire il suo sapore invadere la bocca, irrigidii le gambe in un movimento incontrollato. «Hai un preservativo?» chiese. «Si, guarda nel primo cassetto sotto al lavandino» risposi. Si alzò, ne prese uno e se lo infilò. Tornò a sdraiarsi sopra di me tenendomi i polsi bloccati oltre la testa con una mano e iniziò a baciare ovunque, il viso, il collo, il seno… ero davvero bagnatissima e non resistevo più all’idea di averlo dentro, percepivo la sensazione di avere un vuoto che andava colmato. Ci baciammo. Un bacio vero. Non lo facevo dai tempi dell’adolescenza, era una regola fissa che avevo appreso fin dall’inizio da Daniela: nel nostro lavoro non bisogna mai e poi mai dare baci. Con Marco fu spontaneo, ero trasportata. Le nostre lingue si accarezzavano dolci, per poi ritirarsi un attimo e tornare all’attacco, sempre più in profondità, con movimenti lenti e decisi. Persa nell’estasi sentii il suo sesso contro le mutandine. Le scostò. Entrò. «Concentrati su ciò che provi mentre ti posseggo e abbandonati» ansimò. Riflettei sul termine possedere. Fin ad allora ero stata di molti uomini ma, in realtà, di nessuno. Chissà come sarebbe stato appartenere a un altro essere umano. «Ho detto di abbandonarti!» ammonì. Obbedii, volevo farlo.

Iniziò ad entrare sempre più a fondo, sempre con più decisione, veloce nell’entrare e lento nell’uscire. Non si staccava mai dal carnale bacio. Si voltò, io ero sopra. «Sei tu a scegliere il tuo ritmo, non posso saperlo io purtroppo, visto che non ci conosciamo ancora» disse a denti stretti per il piacere. Avevo addosso il suo sudore, tra le labbra un eccitante sentore salato. Iniziai a ondeggiare con più convinzione, una sensazione di caldo cresceva nel basso ventre. Allungò una mano e iniziò a toccare, seguendo il movimento dei corpi, regalando improvvise scosse di piacere che partivano da lì e si estendevano al resto del corpo. Dalla bocca uscivano gemiti incontrollati. Il piacere aumentava sempre di più. “E’ una cosa fantastica, perché non son mai riuscita a provarla prima? Sarà arrivato il momento di iniziare a vivere la sessualità in modo libero e piacevole e usare le emozioni come base per esser felice? Chissà se è soltanto un sogno… non credo di meritare questo…” E nel mare di ragionamenti che partì da quello, persi la concentrazione e il livello di libertà che ero riuscita a raggiungere. Il piacere si fermò allo stesso livello e non esplose per raggiungere il suo apice. Appena fu pronto uscì, sfilò il preservativo e versò il piacere caldo sul suo addome. Nel vederlo, provai un fremito che fece colare un po’ del mio. Anche questa era un’altra inspiegabile sensazione targata Marco; fino a quel momento, l’orgasmo di un uomo rappresentava soltanto la felice conclusione di uno sforzo che avevo sopportato con amarezza. Sdraiai accanto a lui e restammo un po’ in silenzio. Ero sconvolta, avevo appena fatto un’esperienza sconosciuta, sentito un piacere che credevo di non saper provare e dispiaciuta che i pensieri fossero intervenuti a bloccare la magia del momento.

Sarei stata curiosa di scoprire dove potevo arrivare. Marco guardò l’orologio e schizzò in piedi. «Scusa Silvia, devo scappare in ufficio, son già le sei e mezza e ho un appuntamento importante. Son davvero dispiaciuto ma devo andare», disse amareggiato. «Non preoccuparti Marco, è normale…», risposi. Ero abituata ad esser lasciata sola dopo esser stata usata ma, stavolta, sentivo o volevo credere che se lui non avesse avuto nessun appuntamento, avrebbe scelto di star ancora un po’. Si diede una rapida sciacquata in bagno e dopo essersi rivestito se ne andò, dopo aver lasciato sul tavolo cento euro che tentai senza successo di restituirgli. Prima di uscire aveva cercato un bacio che negai, vuoi per abitudine, vuoi per via dei muri che pian piano stavano per rialzarsi. C’era rimasto male ma, comunque, regalò un ultimo sorriso prima di scendere le scale. Un senso di amarezza tornò a crescere. La realtà era che, di fondo, anche lui era scappato via subito, come tutti gli altri clienti. Di nuovo triste. Di nuovo sola.

MARCO

La sveglia suonò, erano le otto e quaranta. Stefania era immersa nel sonno con un braccio e una gamba appoggiati a me. La osservai per un po’, era davvero una donna molto bella e pulita d’animo. Dentro, sentivo germogliare il senso di colpa, crescere al punto di schiacciare lo stomaco e spingere le lacrime al bordo degli occhi. Il giorno prima, con Silvia, ero stato davvero bene; non capivo se perché fosse una novità, oppure perché, in effetti, avevo trovato in lei qualcosa di speciale. Confusione. La cosa certa era che non desideravo nulla in maniera così forte da parecchio tempo ma, la sensazione, era a metà tra felicità e infelicità. “E’ incredibile quello che sento dentro… da una lato son disgustato e triste di ciò che ho fatto a Stefania e, soprattutto, a Roberta… dall’altro avverto che le amo più che mai. Sarà forse perché è vero che se rischi di perdere qualcuno, ti accorgi del valore che ha? O forse la mancanza di coraggio che, se c’è la possibilità di cambiare e stravolgere tutto, in automatico predispone a far credere che è più comodo e facile rimanere fermi, senza stravolgere le sicurezze?” pensai. Confusione. Ansia e confusione. Dovevo andare in bagno e sciacquare il viso con dell’acqua fredda, per spegnere il fuoco che sentivo in corpo. Le orecchie parevano tizzoni. Non appena sedetti sul bordo del letto, intento a infilare le ciabatte, sentii Stefania afferrare i boxer e tirare verso sé. Finii di nuovo sdraiato al suo fianco. Sapevo che voleva fare l’amore.

Nessun desiderio, non ce la facevo, non lo volevo. Un senso di smarrimento si era fatto troppo intenso, l’idea che potevo esser la causa del disfacimento di una famiglia gravava sempre più, aumentando in modo esponenziale all’amore che palesava Stefania. «Stefania stamattina non ne ho voglia, ho mille rovelli per il lavoro e non son dell’umore giusto. Bevo un caffè e preparo la sacca con la racchetta da tennis, così vado a svagare un po’ la testa» dissi mentre sgattaiolavo dal suo abbraccio. «Amore, uffa!» «Ma si, stai serena… capitano anche a te le giornate no, sbaglio?» risposi. «Dovresti venire a fare yoga anche tu, sai? E’ davvero rilassante.» «Preferisco di gran lunga il tennis, lo sai» risposi coinciso. «Peccato… stamattina avevo davvero un gran voglia di farlo» disse con il broncio «resterò ancora un po’ a letto a godere del calduccio» concluse. «Anche io ne ho… vedrai che dopo il tennis sarò in forma per cavarti ogni genere di voglia» mentii con la consapevolezza che più tardi si sarebbe svegliata la bimba e non avremmo più potuto far sesso. Per arrivare in cucina dovevo are nel corridoio dove c’era la porta della cameretta di Roberta, la sbirciai; era mezza scoperta e la testa le cadeva di lato, aveva la stessa espressione beata dei piccoli putti raffigurati nel quadro appeso sopra al lettino. Mentre la guardavo, la valanga delle paure prese velocità e volume. “Questo senso di colpa è un macigno davvero grosso, riuscirò a portarlo senza che la schiena si spezzi? Me la sento di perdere le sicurezze che ho in questo matrimonio, la stima di Roberta e di una moglie che, in effetti, è una brava donna? Ho bisogno di giocare a tennis con Bruno, di una distrazione e sfogo” sentenziai.

“Certo che dopo il pasticcio combinato, la decisione più corretta e saggia sarebbe di confessare a Stefania il misfatto e lasciarla. A prescindere da Silvia, se uno dei due partner tradisce, la coppia non sussiste più… no, no, no… «Negare sempre e comunque» aveva consigliato Mario e, di lui, su queste faccende, c’è da fidarsi” sentenziai ancora, con maggior convinzione. Uscii di casa, i campi da tennis si trovavano a San Polo, una frazione poco distante che raggiungevo in un attimo a cavallo della fedele Bianchi anni cinquanta, restaurata con ancora i freni a bacchetta originali. Quando arrivai, Bruno era già seduto su una delle panchine per gli spettatori. «Dovevi prenotare tu il campo a sto giro!» ammonì. Due giocatori erano già in campo e, altre due coppie, attendevano il loro turno sedute, avvolte nei cappotti. «Me ne son dimenticato… Hanno tanto da giocare loro?» chiesi riferito ai giocatori che si avano la palla con ottime battute. «Fino alle undici… poi ci sono quegli altri… io torno a casa e vado con Elena a fare un giro per negozi a Iseo» disse con un nervoso mal nascosto. Per noi il sabato mattina era sacro, lo dedicavamo a far sport e chiacchierare per svagarci dalla lunga settimana lavorativa. «Scusa Bruno, davvero… sabato prossimo cascasse il mondo si gioca!» «Va bene… magari ci sentiamo prima, in settimana, venite a cena da noi così assaggiamo il buon vino che ho comprato in Francia» «D’accordo… buona giornata» conclusi. «Anche a te» rispose mentre saliva nella sua auto. Iniziai a pedalare per tornare verso casa ma, l’idea di un altro itinerario, venne a deviare la strada. A trecento metri da lì, c’era la stazione della nuova metropolitana che collegava Sant’Eufemia alla Val Trompia ando per San Polo. Fermava poi anche in via

San Faustino, proprio vicino a casa di Silvia. Volevo andare a fare un giro e, magari, suonarle il camlo per un veloce saluto. Che controsensi dovevo affrontare; da un lato la paura di lasciare il porto sicuro, dall’altro il desiderio di provare a sganciare l’ancora e restare in balìa della corrente per vedere dove portava. Legai la bicicletta ad un palo della luce dietro una piccola siepe, poi scesi le scale mobili e feci il biglietto per accedere alla linea dei vagoni. La stazione era deserta, solo qualche ragazzino che andava verso il centro città. Viaggiando nei piccoli e bui corridoi che scorrevano sotto terra, capii che la vita era sempre stata simile a quella metropolitana, rimanevo nell’ombra dove ero abituato a stare, per paura di salire in superficie senza sapere da che parte andare. La voce robotica distrasse lo sguardo fisso al nero che c’era fuori dal finestrino: «Prossima fermata Via San Faustino.» Non appena sbucai dalle scale mobili buttai lo sguardo verso la finestra di Silvia, era chiusa. “Dormirà ancora” considerai. Non le suonai per paura di disturbare, di fondo io per lei non ero nessuno, un cliente come gli altri, forse e purtroppo. Decisi di fare un giretto in città e poi tornare a casa, sarebbe stata la decisione più saggia, senza soffiare ossigeno sulle braci già di per loro ustionanti. Percorsi tutta la via fino ad arrivare in Piazza della Loggia, la superai e imboccai via Dieci Giornate che, sotto i suoi lunghi portici, accoglieva molti negozi di tutti i generi. Quello che preferivo vendeva orologi e oggetti antichi e, dopo averlo guardato per bene, uscii di nuovo sotto i porticati e feci ritorno verso la Piazza. Ero solito riflettere davanti alla lapide commemorativa dove c’erano scritti i nomi dei caduti dell’attentato del 1974, cercavo di immaginare la gente che al mattino era uscita di casa senza immaginare di non aver la fortuna di ritornarci.

Meditavo sulla bellezza precaria della vita che, spesso, si sciupa con l’idea di avere chissà quanto tempo a disposizione, come se avessimo la concezione d’essere immortali. Sopra, in vetta all’edificio, svettava un grande orologio meccanico che, ad ogni ora, faceva battere la campana a due statue che tenevano tra le mani una mazza; venivano chiamati i ‘macc de le ure’. Guardavo le grandi lancette muoversi e percepivo che per quel meccanismo complesso era soltanto un movimento, invece, per me, significava una fetta di tempo che se ne andava senza più tornare. Avevo voglia di bere un caffè e leggere il giornale, quindi andai verso il bar ‘La Piazzetta’ dove conoscevo Davide, il titolare. Le nostre mogli frequentavano il corso di yoga insieme e avevano stretto amicizia. Entrai, ordinai un caffè e, mentre scambiavo quattro chiacchiere con lui, entrarono due ragazze che parlavano e ridevano. Riconobbi la voce di Silvia. Un senso di panico accompagnato da un’improvvisa tachicardia sconvolsero del tutto la quiete apparente della mattinata. In testa iniziarono a frullare un’infinità di domande. “Cosa devo fare adesso? Davide sapeva che Silvia faceva la prostituta? E se lo sapeva e vedeva che lei si avvicinava per salutare, avrebbe capito che tradivo Stefania? Lei aveva capito che ero io?” Certo col lavoro di avvocato in città conoscevo una marea di gente, e, cosa certa, anche Silvia col suo lavoro era molto conosciuta anche se tutti avrebbero affermato il contrario. Avevo la sensazione di essere un piccolo topo che percorreva una stretta strada a senso unico, nella quale in fondo c’era una grossa trappola impossibile da evitare. “Sono incastrato, cazzo!” Feci finta di ricevere una telefonata e uscii da lì di corsa, a testa bassa. Con la

coda dell’occhio avevo visto che Silvia osservò quella fugace uscita di scena e, per fortuna, fece finta di nulla. Dovevo ancora ritrovare il fiato che avevo perduto per l’improvviso spavento, quando arrivò un messaggio. Era Silvia. scrisse. Tirai un sospiro di sollievo. risposi. “Chissà se le è battuto il cuore in quell’incontro inaspettato, se aveva voglia di stare un po’ insieme” pensai. Scacciai le domande dalla testa, dovevo impormi di essere più razionale e meno emotivo, di fondo era una puttana, come potevo sostenere l’illusione di essere il suo principe azzurro, se vedeva decine di altri clienti? «Dai Marco, sei un cliente come tutti gli altri, falla finita con questa storia» dissi a voce bassa, mentre ritornavo verso la metropolitana. All’idea di lei che accoglieva in casa altre persone, venni colto da una rabbia improvvisa. “Come posso essere geloso? Non è possibile che son già innamorato di una sconosciuta!” Arrivò un nuovo messaggio. Fu un esplosione di emozioni, era proprio ciò che volevo, la risposta a tutte le domande e incertezze. Aveva voglia di stare insieme. Quasi senza accorgermene digitai la risposta, come se le dita avessero avuto la

prontezza di anticipare il cervello. risposi. Per le undici e mezza, massimo mezzogiorno, dovevo essere a casa per pranzo. “Chissà se Stefania ha il sospetto che in realtà sono da tutt’altra parte e tra poco incontrerò una donna.” Avevo sentito storie incredibili sul sesto senso femminile, che era in grado di scoprire tutto trasformandole in vere e proprie spie sensitive. Scacciai le paranoie perché di fondo, il sesto senso e tutte le altre dicerie sulle donne, erano una loro stupida invenzione per impaurire i fidanzati e i mariti. Aspettai l’arrivo di Silvia rintanato dietro l’angolo tra la sua palazzina e quella che aveva di fianco, con l’impressione di essere un ladro che, prima o dopo, sarebbe stato scoperto.

SILVIA

«Scusa Dani, devo scappare a casa. Ha chiamato un cliente e devo andare.» Posai i soldi per la colazione sul tavolino e infilai il cappotto. «Che mattiniero che è!» «Già, corro tesoro, ci sentiamo dopo, ok?» le chiesi dopo averle dato un bacio sulla guancia. «Ok, a dopo» rispose. Non stavo più nella pelle, avevo una voglia incredibile di vederlo. Dalla mattina subito dopo sveglia, non avevo fatto altro che riesumare il ricordo di come fosse riuscito a regalarmi un benessere così intenso, mai provato. Con lui, le catene del ato si erano fatte più leggere. Imboccai a o svelto la via verso casa, sentivo nello stomaco la classica sensazione che nei vari film che avevo guardato descrivevano come ‘farfalle allo stomaco.’ Felice e spaventata. Sognavo di poter stare con lui e smettere di fare quel lavoro, iniziare a voler bene davvero a qualcuno, nel modo più profondo e ricevere in cambio affetto e amore incondizionato. La razionalità, invece, suggeriva che era sposato e non avrebbe mai lasciato la moglie, come la maggior parte delle persone che avevo conosciuto che venivano a pagare le loro evasioni e, purtroppo, avrei continuato a fare la prostituta, finendo ancora più in basso dopo l’illusione. Arrivai davanti al portone della palazzina ma lui non c’era. “Non ha aspettato?” guardai attorno in cerca del suo viso. Aprii il portoncino colma di delusione e, mentre lo stavo per richiudere, lui da

fuori lo fermò con la mano e entrò furtivo. «Ogni volta diventi sempre più bella» esordì. «Credevo te ne fossi andato senza aspettare» risposi imbronciata. «Credevi male… credevi male.» Salimmo le scale fino al terzo piano ed entrammo nell’appartamento. Il mondo era chiuso fuori come la volta scorsa. Volevo provare ancora piacere, capire il motivo che spingeva le persone a venire da me, abbracciare l’uomo per il quale sentivo di essere una donna e non solo un oggetto, consapevole che io stessa, con gli scudi, avevo da sempre escluso questa possibilità a chiunque. «Oggi voglio coccolarti», disse Marco, «semplicemente coccolarti.» «In che senso?» domandai. «Nel senso stare insieme, avere premura di te… senza fare sesso.» Fui spiazzata. Avevo sempre più chiaro che non era il semplice desiderio sessuale a spingerlo ad incontrarci, voleva qualcosa di più profondo. Iniziarono a salire le barriere ed il disagio. «Dai, siedi e appoggia i piedi qui» fece segno sulle cosce, dopo aver portato una sedia di fronte al divano dove si era seduto. «Ok» obbedii. Sfilò le Sneakers e le appoggiò sul pavimento, poi, fece la stessa cosa con le calze. Arrotolò i jeans fino a mezzo polpaccio e iniziò a fare leggere pressioni sotto la pianta del piede. «Silvia, continuo ininterrottamente a pensarti, quasi fossi diventata un’ossessione»

Non sapevo cosa rispondere. «Vedi Marco, se devo essere sincera, provo la stessa cosa… ma…» Ci fu un momento di silenzio. Ora premeva più forte e con le dita disegnava piccoli movimenti circolari. Sentivo i muscoli della gambe sciogliersi, a partire dalla caviglia fino alla coscia. Relax. Marco era in grado di distendere tutte le tensioni in un momento. «Son geloso per via del lavoro che fai, dovresti smettere» disse. Ecco che d’improvviso svanì il momento rilassante ed entrò al suo posto la rabbia. Con quella frase puntava il dito, giudicava lo squallore che vivevo. «E come campo!? Ascolta, tagliamo questo discorso per cortesia, è già strano che ti lascio vivere questo piccolo spicchio di me stessa e sono andata oltre al normale comportamento che tengo con i clienti. Per favore, non parliamo di me, del lavoro, della vita e di tutto il cazzo che ci gira attorno!» sbottai innervosita. Non capii perché ebbi una simile reazione ma, in modo involontario, se Marco cercava di entrare nella ‘Zona Rossa’, cioè la parte personale, diventavo suscettibile. «Va bene, va bene, scusa. Però potresti ammettere che ti piaccio» continuò con una vena narcisistica. «Va avanti a massaggiare e sta zitto» risposi con un sorriso. «Lo prendo come un si» affermò. Pian piano riuscii a tornare nella dimensione relax. Dalla caviglia scendeva ancora pian piano a massaggiare tutto il collo del piede, con leggere pressioni alternate a alcune più robuste ed io, provavo un misto tra leggero dolore e piacere. Non smetteva mai di fissare le espressioni che facevo, riusciva così a capire come preferivo esser toccata senza provar solletico.

«Hai persino i piedi stupendi» disse. Ci posò dieci baci, uno per ogni dito. Non so se era suo preciso intento far crescere il desiderio ma, adesso, lo volevo; la barba ispida solleticava il tallone e faceva partire una vibrazione eccitante che raggiungeva tutto il corpo. Continuò ancora a posare piccoli e delicati baci ovunque, alternati a delicati morsi; sulla pianta del piede, sul collo, sulla caviglia e sulle dita. «Marco, ho voglia di averti» «Infatti sono qui» disse. Si alzò e venni stretta in un lungo abbraccio, addolcito da un intenso e lento bacio in grado di scaldare l’anima. Poi facemmo l’amore.

Marco se ne era andato e io ero sdraiata sul letto, a fissare il soffitto. Erano incredibili le sensazioni che avevo di nuovo sperimentato, cose che ormai credevo fossero destinate solo ad altre persone. Di fondo cosa c’era voluto? Attenzioni, affetto e interesse. Sul tavolo c’erano cento euro, si era ostinato di nuovo a lasciarli anche se io non volevo, di fondo incontrarlo era una cosa che desideravo anche io e, il fatto di vedere le banconote, faceva crollare il momento di magia. Sottolineavano che ero una puttana. Dopo alzata, presi la pentola con l’acqua per la pasta e la misi sul fornello, avevo parecchia fame, poi tornai a distendermi in attesa che bollisse. Pensavo a tante cose, prima tra tutte che, se invece di alzare tutti quei muri e indossare così tante maschere, avessi provato prima ad esternare me stessa, non sarei arrivata dove ero. Era un ragionamento complesso, non avevo scelto io di

staccare la spina dal mondo che avevo intorno. Senz’altro fu frutto degli shock subiti in infanzia e delle situazioni in cui, purtroppo, ero capitata. Adesso volevo che venisse il momento di essere normale, di fondo non ero più una bambina vittima degli eventi ma una donna. Peraltro, a breve, Dottoressa in Economia. Dovevo parlare con Daniela, raccontare ciò che stavo provando e ciò che succedeva dentro me, sentivo il bisogno di avere il suo punto di vista sulla situazione. Le mandai un messaggio con scritto se poteva venire a mangiare un piatto di pasta insieme. Rispose di si. Nel riporre il cellulare, dopo aver calcolato che Marco non era già arrivato a casa da sua moglie, gli mandai un messaggio. scrissi. Subito dopo arrivò la risposta. <E di cosa? Grazie a te, sono stato molto bene.> risposi. Dopo qualche istante, il telefonò vibrò ancora. <Sei una donna straordinaria.> Dentro le quattro parole c’era tutto quello che non avevo mai visto, l’opposto di ciò che credevo di essere. Buttai la pasta, presi due piatti dal mobiletto di fianco al lavandino e li sistemai sulla tavola, insieme alle posate e i bicchieri. Daniela arrivò poco dopo. Mentre mangiavamo le raccontai tutti i dettagli su Marco, lei stette in silenzio fino a che finii di parlare. «Silvia, credo che se una cosa ti fa stare bene devi farla e viverla» esordì.

«Ma non so come fare, ho paura di soffrire» risposi. «Dovresti goderti questo momento con questa persona ma, di certo, non investirci subito il cuore.» «Si, questo lo so… è che da sempre ho delle difficoltà nel dare fiducia e abbandonare le difese… poi come sai è un periodo davvero brutto, pieno di angosce, paure… al limite del crollo… solo dieci giorni fa avevo avuto la sensazione che non valeva la pena restare a questo mondo, ero quasi convinta di fare un salto dal dirupo del castello» confessai con vergogna. «Di questo particolare non ne ero a conoscenza… comunque non pensare a queste cazzate neanche per scherzo! Vedrai che quando meno te lo aspetti la vita cambia, tieni duro.» «Sì, hai ragione… però ho sempre vissuto isolata da tutto, rinchiusa in un mondo asettico di emozioni… adesso che son riuscita a parlare con te di alcune cose terribili, ho conosciuto Marco e ci o davvero del tempo felice, ho paura, non ne sono abituata, capisci?» «Si, credo di riuscire a comprendere ciò che intendi.» «E per altro adesso che tu conosci i segreti, provo vergogna e imbarazzo… sento di esser diversa» abbassai lo sguardo. «Non devi sentirti diversa, è il presente che conta e, in questo momento, siamo entrambe nella stessa situazione. Se non trovavi il coraggio di sfogare tutti quei turbamenti saresti esplosa, avresti combinato qualche cazzata.» Daniela era una ragazza davvero intelligente e forte, aveva una soluzione per ogni cosa, di qualsiasi cosa si trattasse. Io, rispetto a lei, mancavo di ottimismo. «Sì, è che son confusa… non capisco perché proprio adesso… nemmeno in orfanotrofio con l’aiuto di una dottoressa son mai riuscita a esternare queste cose», dissi. «Non c’è mai un perché in queste situazioni, è così e basta. Se cerchi sempre un perché ad ogni cosa non avrai mai pace.» «Forse hai ragione… ero al limite, non avevo altra scelta… la vita stava per

riuscire a soffocarmi con l’insensatezza e la tristezza e, per autoconservazione, ho aperto una valvola.» «Tra le due strade che potevi scegliere, hai deciso la migliore, senza ombra di dubbio.» «Già… in effetti adesso sto meglio e, incredibile ma vero, riesco a sentire il bene che provi e dimostri» dissi mentre la strinsi in un abbraccio. «Sai Silvia, la convinzione che l’uomo basti a se stesso è la più grande stronzata che esista… in realtà, credo che la vicinanza e la complicità delle altre persone sia fondamentale, la chiave per stare bene» sussurrò senza mollare l’abbraccio. «Soprattutto per chi non ha mai provato l’amore di una famiglia» aggiunsi al suo ragionamento. Sparecchiai la tavola e preparai la moka del caffè con la consapevolezza che, se ero ancora in piedi, studiavo e avevo la forza di andare avanti, dovevo ringraziare per buona parte i sogni; sia quelli veri e propri del sonno, dove vedevo papà, sia quelli di fantasia ad occhi aperti, dove immaginavo il futuro in una normalità mai avuta. «Dai, diamo uno sguardo alla tua tesi, vediamo a che punto sei» propose Daniela. «Ok» risposi. Presi il portatile e ci mettemmo a studiare insieme sulle lunghe pagine costate ore di lavoro mentre sorseggiavamo il caffè, attente a cercare le imperfezioni che c’erano e apporre migliorie dove servivano. Stavo bene, quel momento era avvolto dalla pace. Ero nel mio appartamento, con la mia amica, ad inseguire i miei sogni.

MARCO

Domenica uno novembre. Ero a celebrare la festività in un ristorante con la bimba, Stefania e la sua parentela. Al tavolo eravamo una decina di persone, tutti sorridevano a sproposito come se ci fosse un reale motivo d’esser allegri. Io non lo vedevo. Da sempre credevo che, durante le festività, tutti uscivano di casa armati di ipocrisia, con ben nascosti i malesseri dietro a risate sforzate. Silvia regnava sovrana nella fantasia, un chiodo fisso. Era stato gratificante e stupendo starle vicino e donarle affetto. Adoravo la grandissima fragilità che nascondeva sotto la sua scorza, tirava fuori l’uomo che avevo dentro, determinato e sicuro. Avere nei suoi confronti delle premure, esaltava il maschio che non sentivo più di essere da parecchio tempo. Era anche quello il motivo per cui con Stefania non andavano bene le cose, il suo essere forte non permetteva di lenire le debolezze e il continuo bisogno di attenzioni che portavo dentro, quindi non ero valorizzato. Non sentivo di essere il padrone di casa che veniva ascoltato con stima e rispetto ma l’uomo che lavorava per portare a casa i soldi e basta, perché, a tutto il resto, sapeva badare lei. Ero conscio di avere una visione distorta della realtà ma non riuscivo a vedere in altro modo. Da lì nascevano contrasti e continue discussioni che non portavano a nient’altro che a raffreddare il calore del rapporto. Sarebbe risultato utile, invece, venirsi incontro a vicenda e mantenere il dialogo, abbassare per un attimo ognuno le proprie ragioni e ascoltarsi, per interrompere la continua guerra reciproca che, dopo svariati combattimenti, continuava per inerzia senza nemmeno più ricordare il motivo del suo inizio.

«Allora Marco, facciamo un fratellino o una sorellina a Roberta?» disse Federica, la madre di Stefania. Quella domanda gelò il sangue nelle vene. Adoravo i bambini e ne avrei voluti altri ma, in una simile situazione, avrebbero perso il loro fascino, sarebbero diventati un ulteriore sbarra nella prigione del matrimonio. «Vedremo, magari con l’anno nuovo erà la cicogna sopra casa nostra» risposi. Posai un bacio sulla guancia di Stefania con un sorriso sforzato. Vestii i soliti panni che non erano miei, fingevo davanti agli altri che tutto andava bene e che fossi felice della relazione, era più forte di me. Tenevo curato il porto sicuro. «Allora facciamo un brindisi a questa cicogna» disse il suocero. Tutti alzarono i bicchieri per un ‘cin cin’, compreso io, che lo feci con lo sguardo rivolto al piatto. Stefania sorrideva, non sapevo se anche lei fosse nella stessa situazione e la mascherava anche con maestria. Tutte le volte che avevo cercato di parlarne, rispondeva che anche se avevamo spesso disaccordi provava un amore intenso e chiudeva così il discorso. “Come può essere soddisfatta di questa situazione?” Il pranzo finì alle quattro del pomeriggio e finalmente potevo smettere di essere il commediante che distribuiva sorrisi e consensi a tutti, con nascosti disappunti e vaffanculo tra le labbra. Nel tragitto del ritorno, Roberta si assopì in macchina come al solito. Arrivati a casa la presi in braccio e la posai nel suo lettino. Era una dormigliona per natura, avrebbe tirato fino alla mattina seguente. Io e Stefania cenammo con un piatto di minestra, ognuno con la testa immersa

nei propri mondi, davanti alla televisione accesa che faceva da cornice ai lunghi silenzi. Alle nove ci infilammo a letto, Stefania si avvinghiò e iniziò a baciarmi, voleva fare l’amore. Succedeva spesso così alla sera, il buio calava, si sentiva più fragile e stanca e cercava nel sesso un po’ di benzina per accendere la flebile fiammella del rapporto di coppia. Lo facemmo nella solita posizione che usavamo quasi sempre, con la quale sapevamo che entrambi avremmo raggiunto il piacere in modo facile e veloce. Dalla mia parte, d'altronde, mancava il coinvolgimento e il desiderio che spinge a giocare e sperimentare per ore, a godere del semplice piacere di stare uniti. Era piuttosto una routine egoistica e accondiscendente dove aspettavo il piacere finale, in quel caso, nella fantasia con Silvia. Ricordo che all’inizio, prima che ci sposassimo, davo molta attenzione al piacere di Stefania, usavo costante impegno per farle raggiungere il massimo, cercavo di capire come funzionava il suo corpo, la riempivo di attenzioni sia mentali che fisiche. Avevo capito che non era una donna dall’orgasmo facile, per poterglielo donare, oltre alla penetrazione, c’era bisogno di una giusta stimolazione manuale del suo punto più sensibile. Adesso invece l’interesse era scemato e aveva lasciato spazio all’abitudine e alla routine e, spesso, per velocizzare e semplificare la cosa, non ero più io a toccarla ma lo faceva da sola. Finito di fare l’amore avevo due pensieri, come al solito. Il primo che avrei desiderato lasciarla ma, purtroppo, non avevo il coraggio di farlo e, tantomeno, di prendere in spalla tutte le conseguenze… il secondo, incredibile e assurdo, era che provavo un senso di colpa nei confronti di Silvia, sentivo d’averla tradita. ammo la notte una di fianco all’altro, vicini con il corpo ma molto lontani con l’anima. Al mattino aprii gli occhi prima che la sveglia suonasse, erano le sei. Non riuscivo più a riprendere sonno e decisi di andare a correre, avevo bisogno di sfogare nell’esercizio fisico lo stress e, visto che avanzava del tempo prima di iniziare il lavoro, presi l’occasione per farlo.

Il sole non era ancora sorto, l’aria pungente veniva fermata dal tessuto tecnico dell’abbigliamento da corsa, Viale Venezia iniziava a popolarsi con le auto dei lavoratori e dell’odore di brioches fresche delle pasticcerie. Mentre correvo feci una lista degli impegni della giornata, alle nove veniva in ufficio il Sig. Palini per una causa tra eredi, alle undici dovevo essere in carcere ad incontrare Rossi e, infine, alle due iniziava un corso che finiva alle sei di sera. L’appuntamento al quale ero più interessato, era con Rossi. Avevo la frase su Roberta indigesta, bloccata nello stomaco. Dovevo scoprire se sapeva realmente dell’esistenza di mia figlia o se avesse buttato una frase campata per aria. Le undici giunsero in fretta. Entrai nel carcere e mostrai i documenti alle guardie che stavolta non conoscevo. «Ho un appuntamento con il signor Rossi» dissi. «Prego, avvocato.» Fui scortato come la volta scorsa in infermeria. Non appena sedetti sulla sedia di fianco al letto, provai un déjà vu; Rossi era nella stessa identica posizione della volta scorsa che borbottava incomprensivi monologhi e, stavolta, dalle lenzuola trapelava un pungente odore di urina. «Non ti sembra strano… non ho commesso alcun reato eppure son rinchiuso qui dentro» esordì. «Che non hai fatto niente è da vedere e, soprattutto, per quanto concerne al mio lavoro, da dimostrare… non metterei la mano sul fuoco a sostegno del fatto che ti sei ritrovato qui dentro per puro caso» obbiettai. «Succede sempre così, prendono un pretesto che non esiste per sbattermi rinchiuso tra quattro mura… e iniziano a somministrare farmaci su farmaci per causare una demenza» accusò dopo aver cercato di alzare un poco la testa dal cuscino per poi lasciarla ricadere. «Sempre per coprire il rapimento di tua figlia se non ho capito male, no?» «Esatto… ti ricordi chi era il Signor Ricci, o sei troppo giovane?» domandò.

«Intendi Ricci l’ex ministro degli esteri, che venne assassinato durante una rapina?» chiesi. «Proprio lui… è stato lui a rapire la bambina» confessò. A quel punto credetti che la droga avesse letteralmente bruciato buona parte dei suoi neuroni fino a spingerlo a delirare. «E sentiamo, perché avrebbe dovuto portartela via? Esistono le adozioni sai?» lo stuzzicai. «Perché è così per il genere di persone che godono nel sentirsi padroni delle vite degli altri… se un signore importante vuole qualcosa, la vuole subito e, ogni capriccio, chiamiamolo così, gli viene soddisfatto… è una sorta di gioco perverso per sentirsi onnipotenti, a discapito dei poveri disgraziati.» «E come faccio a credere a ciò che dici se tu stesso hai ammesso di prendere massicce dosi di psicofarmaci?» «Perché non sono impazzito! Sento di avere dei momenti di forte squilibrio e fatico a capire ciò che è falso da ciò che è reale ma, ti assicuro, che in questo frangente sono lucido… poi spesso rimetto subito dopo aver ingerito quella roba.» «Fatico a crederti… se fosse come dici, di certo controllerebbero che tu non rimetta» obbiettai ancora. «Infatti non sempre riesco, ovvio che non posso andare in bagno… ma, questa busta di plastica che ho rubato dal catetere del signore qui in parte, la uso per rimetterci e, poi, giunto il momento in cui ho il consenso per andare al bagno, la svuoto» confessò. Scostò le lenzuola per mostrare che diceva il vero. Alla vista della busta, accompagnata dall’odore che uscì da lì sotto, ebbi un conato. In effetti l’affare di plastica lo aveva davvero. Feci alcuni respiri profondi, mossi due i nel corridoio e poi tornai a sedere,

innervosito dal disgusto. «Credo che ti avrebbero già ammazzato se le cose stessero così, non credi?» proseguii. «No, siccome risulto pazzo, sono la prova vivente che ciò che dico è frutto di una testa malata» bisbigliò «e poi nessuno si immagina che so la verità!» «E come l’hai scoperta?» «Nel periodo di detenzione a Roma, un compagno di cella fu ucciso in sala mensa… circostanze misteriose… girava voce che gli fosse stata portata via la figlia per vendere i suoi organi, per salvare quella di qualche persona ‘intoccabile’… capii subito che poteva esser successo anche a me la stessa identica cosa, di fondo non avevo fatto niente e dovevo scontare anni di galera per persone che erano morte non per mano mia… Fin da subito, se raccontavo questa versione, venivo malmenato, così, iniziarono a somministrare le pastiglie» confidò a voce tanto bassa che dovetti avvicinarmi e leggere il labiale. «Queste sono tue teorie, quindi… non c’è nulla di certo» dissi. «Con le conoscenze giuste risalii al signor Ricci.» «E quali erano queste conoscenze giuste?» domandai. «Il vicino di cella era un pentito che ammise di eseguire quel genere di lavori con la speranza di vedersi scontata la pena e, tra i vari nomi che fece, c’era anche Ricci… ed era l’unico associato ad una bambina che gli venne consegnata viva, non per gli organi… poi venne ucciso.» «E poi?» «E poi fu riconosciuta l’infermità mentale, venni trasferito negli istituti… non costituivo più un pericolo per nessuno… riuscii ad evadere, anche perché, estremizzando le mie condizioni e non dando segni di lucidità, credevano sarei durato poco, quindi non se ne preoccuparono più di tanto» rispose. «E nei seguenti arresti perché non sei stato bloccato?» Iniziavo ad essere incuriosito dalla sua vicenda, immaginaria o reale che fosse.

«Perché non ho più citato la storia della bambina e, ogni volta che erano distratti, scappavo… non sanno che un padre che cerca una figlia sopravvive anche tra le fiamme!» alzò la testa. «Qualcosa non torna, adesso dici che non hai nominato la bambina ma, agli agenti, hai detto che non volevi molestare nessuno ma cercavi tua figlia.» «Sì, esatto… sono stufo di scappare e ho perso la speranza… tanto so che non avrò mai giustizia» tornò a posare il capo, rassegnato. «Senti, se così fosse sai che non esci più da qui, vero? Almeno non sulle tue gambe» affermai. «Si, soprattutto perché sono monitorato… ma per me, qui o fuori è uguale a questo punto, la vera prigione l’ho impressa nella testa e l’avrò sempre, sia chiuso sotto questo sporco soffitto, sia sotto un cielo trapuntato di stelle.» «E io cosa potrei fare?» domandai. «Devi raccontare questa storia a un giornale, solo così la gente scoprirà come funzionano le cose nel nostro paese… le notizie di questo tipo, al giorno d’oggi, smuovono più terra di un terremoto!» L’idea che tra le parole di Rossi non c’era sola pura invenzione iniziò a farsi largo, volevo capire dove arrivasse la verità e dove iniziasse la fantasia. «Non posso fare una cosa del genere, lo sai, sarei un pazzo… Però posso cominciare dal difenderti contro le accuse di molestie. Andrò a chiedere nel bar e rintraccerò le ragazze che ti hanno denunciato… sempre che non sia vero!» esclamai. «Lascia perdere, tanto non serve… immaginavo che non credessi a ciò che ho raccontato… il colloquio finisce qui» disse. Iniziò a strillare come un maiale vicino allo sgozzamento. «Aspetta, stai calmo, ho ancora una domanda da fare: come fai a sapere che ho una figlia?» urlai per sovrastare la sua voce. Non rispose, continuò a gridare, a battere i pugni sul materasso e, per la prima

volta, aprì gli occhi. Aveva uno sguardo disperato. Uscii dal carcere e, mentre tornavo verso casa, continuavo a riflettere sulla vicenda Rossi. Se fosse stata vera, avrebbe fatto riesplodere il vecchio e controverso caso di Ricci che aveva già fatto scalpore all’epoca con le sue svariate cose poco chiare, per poi diramare un’onda d’urto verso tutto il sistema che l’aveva coperto. Chissà quante altre vicende, poi, sarebbero riemerse. Scossi la testa e presi la convinzione che dovevo avere obbiettività e non lasciare che le dicerie di un pazzo destassero troppo la curiosità. La sera dopo, comunque, sarei andato al bar a chiedere la versione dei fatti ai dipendenti e capire cosa e se avessero visto qualcosa. Aprii la porta di casa che mezzogiorno era suonato da poco. Stefania aveva preparato le mezze penne con panna e zucchine, adoravo quel piatto a cui aggiungevo sempre un pizzico di pepe nero. Durante il pasto, i soliti lunghi silenzi vennero colmati da sublimi immagini immaginarie; vedevo una cosa che illuminava l’anima ed era bella e colorata, tutto il resto sfumava sempre di più come in una vecchia fotografia ingiallita. Silvia. Avevo un’immensa voglia di lei, immaginavo di scappare insieme in qualche posto lontano e sperduto dove nessuno ci conosceva, ricominciare da capo una fantastica relazione, senza commettere più gli errori fatti in ato. Mentre immaginavo che fosse soltanto e per sempre mia, un tarlo si fece spazio a gomitate, rovinando il bel momento: “Adesso, sarà forse con qualche cliente?” Quell’immagine chiuse lo stomaco tanto da non riuscire più a contenere altra pasta, un senso di gelosia oscurava la vista proiettandomi in un sofferente tunnel buio. «Ho messo troppa panna, non ti piace?» chiese Stefania dopo aver notato il piatto ancora mezzo pieno. La pasta con zucchine e panna non l’avevo mai avanzata, anzi, tante volte ne mangiavo più di una normale porzione. Adesso però c’era un vero e proprio

blocco sia della salivazione che dell’appetito. «No, è perfetta. E’ da stamattina che non sto molto bene, l’aria inizia ad esser davvero fredda e son ostinato ancora a non indossare il cappotto pesante» risposi intanto che massaggiavo l’addome, per rendere più credibile la scusa. «Infatti il cappotto nero di cashmere è appeso all’attaccapanni dell’ingresso, lo ho preparato settimana scorsa» puntualizzò in tono acido e saccente. «Si, infatti da domani lo ò… è proprio vero che non ho più il fisico dei vent’anni» dissi con un sorrisetto sforzato prima di andare in camera da letto, con il cellulare tra le mani. La verità, invece, seppur assurda, era ben diversa. Ero innamorato. Follemente. E per giunta di una prostituta.

SILVIA

Ero seduta sul divano con il portatile appoggiato alle gambe, quando il cellulare vibrò sul piano della cucina. Era un messaggio di Marco. scrisse. Solo a leggere il suo nome sentii una carezza che arrivava dritta al cuore. Dal nostro ultimo incontro lo avevo desiderato in continuazione, ogni ora che ava senza che si fe sentire aumentava il senso di abbandono. D’altra parte sapevo di non esser libera di scrivergli se ne avevo voglia, aveva una moglie e, anche se avessi voluto chiedergli come stava, dovevo resistere alla tentazione. Avevo l’impressione di essere solo una povera disagiata che entrava nella vita di una coppia per bene. E con una figlia. Non ero riuscita ancora a stabilire cosa provavo nei suoi confronti ma, dentro, sentivo che si era sbloccato qualcosa, che il continuo sognare poteva davvero tramutarsi in realtà. Però avevo sempre una grande paura, i sogni sono una cosa, la realtà un’altra, quella era capace davvero di fare del male e, purtroppo, lo avevo già sperimentato nel modo più assoluto. “Perché ha mandato un messaggio del genere?” interrogai in silenzio il nessuno che avevo di fronte. Marco non riusciva a capire che le frasi così non facevano altro che dare una profonda amarezza, sottolineavano che il modo in cui vivevo era sbagliato e sporco. “Che alternativa potrei avere?” riflettei desolata. <E poi mangio aria fritta?> risposi stizzita al suo messaggio che suonava come un rimprovero.

<Stai serena, non devi preoccuparti di nulla ma, tu, devi fare la promessa di essere solo mia> rispose. Rileggendo la breve conversazione ebbi l’impressione che, la risposta che avevo dato, potesse essere intesa come una richiesta di carità e provai disagio. Certo, se fosse vero ciò che diceva, sarebbe stata la cosa più bella che poteva capitare a una nella mia situazione, non avrei più dovuto sopportare il corpo di quegli individui disgustosi e, lui, sarebbe stato l’unica cosa che avrebbe contato che, per come stavano le cose, era l’unico che desideravo avere vicino. risposi. Per più di un’ora non arrivò nessun messaggio, temevo che avesse preso alla lettera ciò che gli avevo scritto e iniziai ad essere ansiosa. “Ma come può dire una cosa del genere? Vuole giocare su cose così delicate? E poi… devo esser soltanto sua mentre io, invece, devo dividerlo con la moglie e fare la ruota di scorta con la quale are qualche ora di svago?” pensai triste. Stavo provando una sensazione nuova, mai sentita prima e non capivo se era positiva o negativa. La gelosia. scrisse poi. A venerdì mancava qualche giorno ma sembrava un infinità, avrei voluto vederlo molto prima. Se accettavo la sua proposta sarebbe stata la prima volta da quando ero a Brescia che incontravo un uomo fuori dal contesto lavorativo. Sembrava una cosa troppo assurda. Fuori dall’appartamento avevo l’impressione di perdere il controllo e le sicurezze, sentivo un senso di vertigine. Non riuscivo ad immaginare che comportamento tenere, che vestiti indossare e persino di cosa parlare per tutto il tempo che avremmo avuto. Ero alle prese con

la prima vera uscita con un uomo che desiderava are dei momenti insieme, senza secondi fini, solo per condividere una parte del nostro tempo. scrissi con le dita tremanti per l’emozione. rispose. Confermai che andava bene. Avevo la tachicardia per l’emozione, dovevo parlarne subito a Daniela che sarebbe di sicuro stata in grado di elargire consigli utili. La chiamai. «Dani, devo parlarti, assolutamente, puoi fare un salto qui?» chiesi non appena rispose. «Ti è successo qualcosa?» disse sottovoce con aria preoccupata. «No, cioè… nulla di brutto, anzi… credo sia una cosa positiva, è solo che ho bisogno di chiederti alcune cose» esclamai con voce entusiasta. «Adesso gioia non posso, c’è in bagno un vecchio con al quale ci vorrebbe un miracolo solo per farglielo alzare! E tra due ore vedo Luigi» bisbigliò sottovoce. Luigi era un ragazzo che frequentava, al quale non dava nessun fastidio la strada che lei aveva intrapreso. Chissà se anche io, con Marco, sarei riuscita ad avere un rapporto senza pregiudizi, con stima e amore. «Semmai domani mattina vengo da te, o a prendere due cornetti alla pasticceria qui sotto casa così chiacchieriamo e studiamo un po’ insieme» propose poi. «Perfetto dai, allora ci vediamo domani. Ti aspetto con la colazione» risposi. Chiusa la telefonata, alzai le gambe sul divano e stetti distesa ad immaginare la

giornata di venerdì; la eggiata sul lungolago che non avevo mai visto, il viaggio in macchina con la radio in sottofondo e la gioia della complicità di noi due insieme. Cullata da queste visioni, presi sonno. Poco dopo, sobbalzai in un improvviso risveglio intriso di sudore. Il solito incubo era tornato, con sempre più prepotenza, come volesse sottolineare chi ero e che non potevo essere felice. Stringevo con energia il grosso cuscino color corda del divano, capitava spesso che al risveglio del brutto sogno tenevo tra le braccia qualcosa che sostituiva papà che, invece, tutte le volte, proprio quando le ero quasi abbracciata, si dissolveva nel nulla. Guardai l’orologio, erano le sei e mezza, iniziavo ad avere un certo appetito così decisi di andare a mangiare un boccone fuori, magari in Corso Zanardelli dove c’era un bar che preparava delle ottime focacce. Nell’uscire di casa, come sempre, controllai con uno sguardo la buca delle lettere dove speravo di non trovare mai bollette da pagare. C’era una busta infilata di cui vedevo spuntare solo un angolino bianco. “La prendo dopo, almeno non rovino l’appetito” decisi mentre gustavo già il pasto che avrei consumato. In città non c’era quasi nessuno, le strade erano deserte e questo dava la sensazione di essere libera, di gironzolare in uno spazio stupendo che era soltanto mio. Arrivai in fondo a Via San Faustino, superai Piazza della Loggia, imboccai via Dieci Giornate e percorsi tutti i portici fino alla fine, poi, svoltai a destra in Corso Zanardelli. Nel locale c’erano parecchi ragazzi che bevevano l’aperitivo e mangiavano stuzzichini vari. Sedetti ad un tavolino di fianco alla porta d’ingresso. Dal lato della stanza opposto a dove ero accomodata, un uomo e una donna continuavano a tenersi la mano mentre consumavano la loro ordinazione, continuavano a sorridere. Immaginai come dovevano sentirsi innamorati, come per loro la solitudine fosse sparita nel trovare rifugio e fiducia nella vita di

un’altra persona, cosa che non sapevo se fossi mai riuscita a trovare e fare fino in fondo. Avevo visto quanto l’uomo poteva diventare terribile, egoista e approfittatore senza scrupoli, io. Dall’arrivo di Marco, però, con i suoi modi diversi e le sottili attenzioni a cui ne ero sottoposta, iniziavo a sentire che, forse, come tutti gli altri esseri umani, potevo avere qualcuno vicino. Vivere in solitudine, adesso, da grande simbolo di forza, appariva come vivere a metà e, tutti i muri che avevo costruito, sarebbero finiti per esser motivo di grande claustrofobia. Le prove che era proprio così le avevo, stavo per finire l’ossigeno per non aver mai creato nemmeno una piccola finestra da cui ricambiare l’aria. Una cameriera dall’aria stanca si avvicinò per prendere l’ordinazione. In una manciata di minuti fui servita. Mangiai la focaccia con ingordigia, poi, ordinai un caffè con una bustina di zucchero aromatizzata alla nocciola, ne ero golosa. Da quando avevo scoperto che lì lo avevano lo chiedevo sempre e, cosa altrettanto bella, era la frase che c’era riportata sulla bustina. C’era scritto:

Se vuoi amore prima ama te stesso, se vuoi gioia guarda il presente, se vuoi tristezza osserva il ato. In ogni caso, decidi tu.

Una frase molto bella e che sentivo colpire nel segno. Misi in tasca il pezzetto di carta per poterlo rileggere nei momenti in cui gli eventi avrebbero sfuocato gli obbiettivi. Uscii dal bar e presi la via verso casa. Appena fatto l’angolo di Corso Zanardelli imboccai i portici, lì c’era un gruppetto di ragazzi che rideva e scherzava, tutti fumavano. Avevo voglia anche io di una sigaretta, era un piacere del quale, di tanto in tanto, sentivo il bisogno. Ne chiesi loro una. Un ragazzo dai capelli color rame, con svariate lentiggini a contrasto sulla pallida carnagione, allungò la mano nella quale stringeva un pacchetto. Ringraziai con un sorriso e chiesi se aveva anche da accendere, lui annuì. «Gentilissimo» aggiunsi. Avrebbe voluto scambiare quattro chiacchiera ma, io, non ne sentivo la necessità e la voglia. Proseguii il rientro. Mentre attraversavo piazza loggia, sentivo il piacevole contrasto che il fumo caldo creava nei polmoni, dal momento in cui prendeva il posto dell’aria fredda. Buttai il mozzicone in un cestino dopo aver spento la brace a terra. A pochi i dalla palazzina, nella cassetta delle lettere che era appesa di fianco al portoncino, rividi l’angolino bianco della busta che sbucava. “Speriamo non sia una batosta” sperai. Sfilai la lettera. A primo impatto non aveva l’aspetto di una bolletta, era tutta bianca senza nessuna scritta. Salii le scale e la tenni stretta nella mano mentre cercavo di immaginare cosa fosse. Una volta in casa la aprii e, di certo, ci trovai ciò che non avrei mai immaginato. Un biglietto viola, da cinquecento euro. Anzi, due. Sovrapposti. Era una cifra davvero importante, lottavo tutti i giorni per non soffocare la

dignità e ne ricevevo molti meno. A una seconda occhiata notai che oltre ai soldi c’era un piccolo biglietto, piegato in due. Si vedeva anche dal rovescio che c’erano delle scritte fatte a penna al suo interno. “Ok, non agitarti… conta fino a tre e apri il foglietto… magari non sono nemmeno per me questi soldi, forse hanno sbagliato indirizzo” meditai anche se avevo una vaga idea di chi fosse il mittente. Uno… Due… Tre!

Non sto scherzando, avrò cura di te… sei troppo bella e speciale per sciuparti ‘mangiando aria’ o violando ancora la tua intimità. Prendi coscienza della donna che c’è in te, impara ad esserne fiera comunque sia.

Marco

Ero pietrificata dallo stupore, non sapevo cosa fare. “E se gli mando un messaggio dove gli dico che non posso accettare un regalo del genere e lo ringrazio comunque?” Guardai a lungo il cellulare. Sapevo che non potevo farlo, magari era con sua moglie. Anzi, di sicuro. Era troppo rischioso, avrebbe potuto scoprire il messaggio. Dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua, andai a letto. Prima di prendere sonno cercai di interpretare ciò che aveva per la testa Marco; per la prima volta ero concentrata su qualcuno che non fossi io, persa poi ad immaginare in che posizione preferiva addormentarsi e che aspetto spettinato avesse al mattino appena sveglio. Il giorno successivo, mentre ero ancora in dormiveglia, arrivò Daniela che suonò ripetutamente il camlo, impaziente di ascoltare ciò che le dovevo raccontare. Appena fu nell’appartamento, senza perdite di tempo, le raccontai la vicenda. «Questo è innamorato pazzo, Silvia!» esclamò non appena ebbi finito di parlare. «Inizio a crederlo anche io… ti rendi conto? E’ la prima volta che un uomo dimostra un interesse così diverso dal solito e, soprattutto, senza saper nulla… non gli ho raccontato niente, non ha proprio la minima idea di chi sono davvero. Però è come se lo avessi fatto.» «In che senso?» «Non so, sento che capisce i disagi, interpreta i sorrisi sforzati e li smaschera… sembra quasi che sappia sempre le mie intenzioni.» «E tu invece? Cosa provi?» domandò. «Se riuscissi a capirlo risponderei volentieri… so’ che la mattina appena sveglia,

lo immagino… la sera, prima di dormire, lo immagino… lo immagino sempre qui, insomma» risposi. Dopo un attimo di silenzio Daniela rispose. «Tesoro, credo proprio che stai per prendere la tua prima sbandata ma, tieni sempre presente la realtà, è un uomo sposato e con una figlia, è molto probabile che non lascerà mai la moglie. Non vorrei che ti creassi delle illusioni o aspettative che poi non vengono esaudite. Ti conosco abbastanza per capire che se va male questa cosa, finirai per tornare in un isolamento incredibile.» «Lo so, hai ragione, ma è una cosa che non ho mai provato e alla quale non riesco ad opporre resistenza, non sono razionale.» «E’ normale, se l’amore arriva sconvolge tutto» disse con un sorriso. «Ma dai Dani, quale amore, lo conosco appena!» «Guarda che esiste una cosa chiamata colpo di fulmine, anzi, la maggior parte degli amori sbocciano proprio da un colpo di fulmine!» disse con il suo meraviglioso sorriso stampato. «Non so, guarda, non riesco a dare una risposta chiara e definita» dissi assorta. «Eppure è meglio che ci provi… rifletti un attimo e cerca di capire dove arriva questa cosa» bisbigliò rafforzando le parole con piccoli colpetti dell’indice sulla tempia. «Boh, la cosa belle è che anche se spaventata, ne sono abbastanza felice… e sento il desiderio di vivere per scoprire questa cosa nuova» conclusi. Forse Daniela aveva ragione. Stavo per cadere nella trappola dell’amore. E anche parecchio. Per giunta con un uomo sposato. E con una figlia.

MARCO

La notte avvolgeva la città oscurando i bordi dei palazzi lontani che prendevano una forma indefinita, i tombini esalavano un vapore bianco intenso e cremoso, le strade ricoperte da una sottile polvere luccicante per il freddo. Ero di fronte al bar di Corso Magenta, al suo interno poca gente, vedevo far capolino dalla piccola finestra una decina di teste. Avevo studiato molto Rossi e la sua storia, l’istinto, inspiegabile ma vero, suggeriva che non fosse pazzo del tutto. Cercavo di indossare i suoi panni e immaginavo che, se Roberta venisse rapita, sarei impazzito di rabbia. Dentro la luce era soffusa, la musica troppo alta, fastidiosa. Dietro al bancone due ragazze lavavano e asciugavano i bicchieri da cocktail: una circa vent’enne, l’altra sulla quarantina. Avvicinai quest’ultima e dovetti parlare a voce molto alta per sovrastare il frastuono. «Buonasera, sono Marco Zilioli, avvocato… avrei bisogno di una sua collaborazione, non c’è un posto più tranquillo per parlare?» domandai. Non appena capì che cercavo informazioni relative all’arresto dell’altra sera, si dimostrò entusiasta, dava l’idea di essere il genere di persona che si nutre dei pettegolezzi e gode nello sbirciare nelle vite degli altri. «Andiamo qui fuori che così non c’è frastuono e fumo una sigaretta… vuole qualcosa da bere?» «Un punch va bene, grazie» «Gusto?» «Mandarino» decisi. Preparò la bevanda e fece segno di seguirla fuori dalla porta. Ci mettemmo sotto una lampada riscaldante per fumatori, appesa di fianco all’ingresso.

Lei espirò la prima boccata di fumo dopo aver la sigaretta, io inspirai il vapore caldo, fruttato e alcolico del punch, una carezza calda lungo la gola. «Prego, la ascolto» disse. «Volevo avere un suo parere per quanto riguarda l’individuo che è stato arrestato l’altra sera. Secondo lei, ha tenuto atteggiamenti scorretti al punto da definirli molestie?» domandai. «Come posso risponderle a questa domanda? C’era parecchia gente ed ero immersa nel lavoro… l’ho visto per alcuni attimi perché dei ragazzi ridevano e lo prendevano in giro… era davvero sballato perso, vagava senza meta e fermava ogni ragazza e la fissava, diceva di cercare qualcuno… poi tra un drink e l’altro ho visto i lampeggianti della polizia, sono entrati e lo hanno portato via» raccontò. «E non saprebbe dire nient’altro? Nessun atto violento, nulla?» chiesi. «No, come le ho già detto ero molto indaffarata… non ho visto nient’altro» «E la sua collega?» «No, non era di turno, c’erano altri due ragazzi» rispose. Diedi una sorsata alla bevanda che si era intiepidita. «Chi ha chiamato e sporto denuncia non ha voluto fornire i dati, una volta che sono arrivate le forze dell’ordine nessuno si identificò per la chiamata… è stato forse uno dello staff?» chiesi. «No, la chiamata non è partita da noi» soffiò in una nuvola di fumo e gettò la sigaretta per terra «comunque nessuno dei presenti fece girare la voce di una molestia… però non so…» concluse. «Va bene, è stata gentilissima lo stesso… posso lasciare a lei il bicchiere? Quanto le devo?» dissi dopo aver bevuto l’ultima sorsata. «Certo, ci mancherebbe, lo offro io il punch… comunque io sono Viola, molto piacere» sorrise.

«Piacere… come le ho già detto io sono Marco… grazie allora, le sono debitore di un drink» risposi alla sua stretta di mano. «Se non avessi visto che porta la fede al dito, l’avrei invitata volentieri per sdebitarsi» buttò lì, poi. «Eh, invece…» conclusi con un sorriso per poi andarmene. Nel ritorno verso casa, pensavo a Rossi. Visto le dinamiche poteva essere che l’avessero riconosciuto e portato in caserma e da lì, con i controlli di routine, l’avessero identificato. Iniziavo ad essere meno incredulo sulla sua storia, se volevo arrivare a capo della faccenda avrei dovuto agire in sordina, senza far capire a nessuno che lo assecondavo. Varcai l’ingresso di casa che erano le ventidue e trenta. Credevo di trovar Stefania stesa, abbracciata con Roberta nel lettone, come accadeva di solito a quell’ora, invece, era in cucina seduta al tavolo, davanti ad una tazza fumante di camomilla. Ebbi un brivido lungo la schiena, aveva forse intuito che vedevo un'altra donna? «Che fai sveglia?» le chiesi intanto che versavo un bicchiere d’acqua dalla brocca, con le spalle girate per non far trasparire l’agitazione. «Ho messo la bimba nel suo lettino e ti ho aspettato sveglia… dobbiamo parlare» disse con voce ferma e severa. Sentivo il cuore esplodere nel petto. «E di cosa dobbiamo parlare?» le chiesi. Attinsi alle doti di avvocato per rimanere calmo, con un espressione distesa e naturale. «Oltre che logorare noi, questa situazione è dannosa anche per Roberta, non credi?» domandò. Si riferiva a noi, per fortuna. Sentii calare di colpo la tensione e sedetti di fronte

a lei. “Ma è normale che debba aver paura a vivere la vita come meglio credo?” ammonii a me stesso. In quel frangente capii che, forse, ritirare l’ancora, era l’unico modo per non affondare, affrontare le onde della tristezza che, a poco a poco, stavano per spezzare lo scafo con la loro violenza. «Anche se siamo bravi a non far trasparire davanti a lei i nostri disagi, li percepisce comunque, i bambini sono come una spugna e assorbono ciò che gli sta intorno» continuò prima di scoppiare in un pianto che era carico da tempo, come se i suoi occhi non riuscirono più ad avere la forza per arginare le lacrime che strabordavano. «E cosa intendi fare?» chiesi. «Marco, io non sono stupida, lo vedo che le cose non vanno bene, anzi, a rotoli… non ho pace, ti amo e vorrei aggiustare tutto… non so cosa dobbiamo fare ma così sto male da morire» disse. Non sopportavo vederla così affranta, anche perché sapevo che la colpa era quasi tutta mia. Il senso di colpa nei suoi confronti era enorme e continuava a crescere. Una volta avvicinato, la strinsi in un forte abbraccio e la baciai sulla fronte. Il bacio di Giuda. «Ma dove siamo finiti? Non era così i primi tempi, tutto andava bene, eravamo più tolleranti con i nostri difetti e parlavamo un sacco, ricordi?» disse asciugandosi il naso nella manica. «Si, ricordo» «Avevamo un dialogo bellissimo… dì la verità, ti sei stufato… non è così?» chiese. «E’ evidente che abbiamo delle difficoltà… però, ora, sono davvero esausto,

prometto che domani ne discutiamo con calma, ok? Ho avuto una giornata pesante, non riesco a ragionare in modo lucido» risposi per rimandare l’argomento, evasivo. Cercavo di prendere tempo per capire come dovevo agire, temporeggiavo nell’attesa di captare cosa avesse in mente e cosa provasse Silvia. Questo atteggiamento era da codardo, volevo tenere i piedi in due scarpe per poi scartare la più scomoda. Era più forte di me anche se io non volevo essere così. Decisi che a breve avrei preso una decisione, per il bene di Stefania, di Roberta e, con la speranza che tutto fosse andato bene, di Silvia. Lo scoglio più difficile da affrontare era senza ombra di dubbio la bambina, temevo di ferirla e deluderla. Probabilmente, se non avevo ancora rotto il matrimonio, era per lei, per paura di ferirla. Sapevo che una bambina non avrebbe capito in maniera razionale le dinamiche di un rapporto alla deriva. Ci avviammo verso la camera da letto e prendemmo sonno ognuno perso nei propri rovelli. “Chissà cosa fa Silvia…”

La mattina, dopo aver fatto colazione, scesi in ufficio. Romina aveva lo sguardo desideroso di conoscere gli sviluppi della vicenda ma la ignorai, non avevo voglia di parlare con nessuno. Dopo un attimo, le chiesi la cortesia di portare un caffè. Furono le uniche parole che scambiai con lei. Sorseggiai la bevanda immerso con la testa nelle carte sul caso Rossi, sembrava tutto regolare, i verbali, i processi… e tanto di testimoni annessi. Era palese che nessuno gli aveva mai creduto, ma, adesso, ero disposto ad arrivare fino in fondo. Ero anche io un padre e capivo il suo disagio, immaginario o reale che fosse. Per il poco che valeva, la barista aveva detto che non era girata nessuna voce tra i ragazzi che riguardasse delle molestie e ciò era incredibile. Se le avesse commesse sul serio, tra la folla si sarebbero create dicerie e ipotesi di ogni genere.

Dovevo parlare ancora con lui, così, fissai un appuntamento, sempre per le undici. Arrivai di fronte al carcere puntuale e venni scortato, come le altre volte, nell’infermeria. Non credetti a ciò che vidi, era in uno stato pietoso. Immerso nel sudore e nell’urina, aveva lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi appannati come i pesci morti sui banchi del mercato, dall’angolo della bocca scendeva un rivolo di saliva biancastro, respirava a fatica e borbottava frasi sconnesse e senza senso con incredibile sforzo, come se le parole inciamero tra i denti. «Sono Marco, il tuo avvocato… capisci ciò che dico?» domandai. Dovevo tener coperta la bocca e il naso con il fazzoletto che tenevo in tasca, emanava un odore terribile. Nessuna reazione. «Signor Rossi, sono il suo avvocato… riesce a sentire?» alzai la voce. Zero, nemmeno un cenno. «Voglio crederti, non mollare adesso, ho bisogno che collabori… dobbiamo far cadere le accuse per molestie e, credo proprio che ci riusciremo… hai capito?, gli bisbigliai a bassa voce nell’orecchio. L’odore acre arrivava a far bruciare persino gli occhi. Girò la testa verso me e, per un attimo, quello sguardo annebbiato sembrò riprendere vitalità. «L… la m… la mia… bambina…» farfugliò con grande fatica. «Prima dobbiamo vedere di uscire da qui, poi ti darò una mano a capire che fine ha fatto e a ricostruire la vicenda, ok? E’ una promessa» dissi. Di nuovo nessuna reazione, la testa gli ciondolava da un lato all’altro a peso

morto. Non era possibile continuare, non sarei riuscito a cavare un ragno dal buco con lui ridotto così. «E perché faresti tutto questo?» riuscì a domandare. «Perché è una questione di istinto e perché sono padre anche io, proprio come te» risposi. «S… s…» tentò di rispondere prima di cadere in un definitivo delirio. Feci cenno alla guardia di aver concluso. Mentre tornavamo verso l’uscita riflettevo a come sembrasse un’altra persona rispetto alle scorse volte che lo avevo visto. Era palese fosse sotto effetto di massicce dosi di farmaci, non c’era altra spiegazione. “E se qualcuno ha capito che lo voglio assecondare e vuole toglierlo dai giochi?” ipotizzai. Adesso avevo la piena percezione di essere capitato in un caso davvero contorto, difficile e pericoloso. Fuori dall’ingresso incontrai il direttore del carcere, tal Pietro Guidoni, che conoscevo di vista. «Buongiorno direttore» salutai. «Buongiorno a lei, avvocato, come va con il signor Rossi?» domandò. «Oggi non son riuscito a parlarci, non stava affatto bene» risposi stupito che sapesse che proprio io difendevo quel detenuto. «Ma non si impegni nemmeno a capire più di tanto… avrà notato che è solo un povero squilibrato… va internato in un istituto e stop» disse. Era davvero strano che il direttore si esprimesse su faccende legali legate ai detenuti, suonò come un voler cercare di lanciare l’indizio che era meglio evitare di alzare un polverone, che andava bene la sentenza che lui aveva appena deliberato.

«Si, infatti è già stata richiesta una perizia psichiatrica…» risposi per assecondarlo. Non potevo esporre ciò che intuivo davvero, che volevo vederci chiaro nella faccenda anche se, in sincerità, non avevo la più pallida idea di dove cominciare. «Bene, allora la saluto… buona giornata.» «Buona giornata a lei, direttore.» Appena lo salutai sentii di aver paura della situazione Rossi, forse era meglio mollare tutto e concludere senza indagare oltre ma, la curiosità e la voglia di giustizia per quell’uomo dicevano di proseguire, un sesto senso. Per prendere forza immaginai la sensazione che doveva provare verso la figlia, calarmi nel dolore che avrei patito se qualcuno avesse rapito Roberta. Inforcai la bicicletta e andai verso Piazzale Arnaldo, volevo fare un aperitivo e lì c’erano una miriade di bar attaccati l’uno all’altro. Scelsi di entrare al ‘Solito e insolito’, un locale piccolo ma molto curato nei particolari che, con la consumazione, offriva svariati tipi di stuzzichini davvero sfiziosi. Mentre bevevo uno Spritz e sgranocchiavo un grissino avvolto in una sottile fetta di prosciutto crudo, Silvia tornò a posarsi nei pensieri che, da grigi com’erano, fiorivano di colori ad ogni o che faceva. “Chissà come avrà reagito alla lettera…” Lo avrei scoperto a breve. Venerdì avremmo ato insieme una giornata intera, avremmo potuto parlare, eggiare e stare vicini come due ragazzi in una normale relazione. “Certo che la vita è davvero strana… a volte ci si arrende a una realtà che sembra non cambiare mai e, invece, con la forza di volontà e il coraggio di voltare pagina, si può scoprire davvero un mondo nuovo, che può esser nascosto ovunque nel quotidiano, più vicino e facile da raggiungere di quanto si possa credere; dietro all’angolo, nel sorriso di un ante, durante la fila al supermercato, oppure, in modo inaspettato, tra le righe di un piccolo trafiletto negli annunci personali che, con tutta probabilità, non avrei mai sfogliato se avessi scelto un altro bar dove far colazione…”

Un’oliva cadde nel bicchiere, fece schizzare qualche goccia dello Spritz sui pantaloni e interruppe quel fiume di ragionamenti.

SILVIA

Era la decima volta che guardavo lo specchio. Da più di un’ora riflettevo su cosa indossare; se usare i tacchi ed essere elegante, oppure optare per un look sportivo. “Chissà come preferirebbe” Decisi per il look sportivo e semplice: un paio di jeans a sigaretta, un maglioncino verde con un ampio scollo a barchetta e sotto un dolcevita marrone, della stessa tonalità del giubbotto di pelle e delle Sneakers. Senza borsetta. Tanto avevo bisogno solo del cellulare, le chiavi di casa e la busta con i suoi soldi che intendevo restituirgli. Scesi in strada, direzione metropolitana. Uscita dalla stazione di Santa Eufemia guardai nella direzione che aveva detto Marco, individuai subito la pizzeria d’asporto dove dovevamo incontrarci. Erano le quattordici e dieci. “Si arrabbierà per il ritardo? Ma no dai, per dieci minuti…” Di fronte al locale, dall’altro lato della strada, c’era una macchina parcheggiata; una berlina nera che, appena la guardai, accese le quattro frecce e capii che era Marco. A ogni o che facevo per raggiungerlo, il cuore batteva sempre più forte, ero emozionata. Non stavo più nella pelle. Appena salii in auto, provai disagio per l’abbigliamento sbarazzino che avevo scelto e rimpiansi di non aver messo il trucco; lui era vestito in modo elegante, un abito grigio chiaro con sotto una camicia grigio scuro e una cravatta della stessa tonalità del vestito, la pettinatura impeccabile come solo un parrucchiere saprebbe fare con il solito piccolo ciuffo di capelli che calava di lato alla fronte.

Solo a guardarlo impazzivo. Era stupendo. «Buongiorno Silvia, tutto bene? Sei sempre bella, lo sai?» domandò con un sorriso e mise in moto la macchina. Era una sensazione fantastica essere di fianco ad un uomo che esprimeva adorazione senza giudicare, che donava bene per il piacere di farlo e senza doppi fini, almeno speravo fosse così. «Senti, non posso accettare i soldi, sei molto generoso, ma, se ti vedo, è perché in effetti provo un interesse nel farlo… non voglio che sembri nemmeno per scherzo una questione economica o di bisogno, è un piacere» dissi e gli porsi la lettera con dentro i soldi. «Silvia, i soldi ormai sono tuoi… non tollero che incontri nessun cliente… voglio frequentarti e vedere che succede… provare a cambiare vita… voglio lasciare Stefania e ricominciare tutto da capo… per sentire che sono vivo» disse tenendo lo sguardo fisso sulla strada. Svoltammo a destra, dove i cartelli indicavano la strada per la tangenziale. «Marco, non voglio essere la causa della tua separazione… non ho mai provato nessun sentimento verso nessun uomo, è una cosa nuova… e se devo essere sincera il fatto che la provo con te come amante blocca un po’ la magia… non è di certo il sogno di ogni donna essere la terza in comodo», risposi. «Allora Silvia… ho deciso di lasciare Stefania in ogni caso, è la cosa giusta da fare… adesso che l’ho anche tradita poi, non ho proprio più intenzione di andare avanti… quindi non c’entri e non devi nemmeno lontanamente crederlo, la lascerò comunque» disse. Accostò con la macchina in una piccola piazzola a lato della strada, si slacciò la cintura di sicurezza e sbloccò anche quella del eggero, poi fece segno di are a sedere sulle sue gambe. Presi posizione e ci baciammo a lungo, muovevamo le nostre lingue in modo lento ma con forte pressione dell’una contro l’altra. Che belli erano i suoi baci, non avevo termini di paragone recenti ma ero

convinta che fossero i migliori che una donna potesse ricevere… scaldavano il corpo, facevano venire voglia di esser posseduta e di fare l’amore. Desideravo appartenergli. «Sto davvero bene con te» dissi dopo aver infilato il viso tra il suo collo e la spalla. «Anche io… molto… vuoi vedere un bellissimo sorriso?» chiese. «Certo, cosa devo fare?» domandai. «Devi accettare il denaro che ti ho regalato» rispose. «Sì ma… è una cosa che crea disag…» cercai di dire prima che venni interrotta. «Shhhhhhh…. Il disagio non deve esistere, tra noi.» Tornai sul sedile del eggero e, dopo aver posato un altro bacio, riallacciò entrambe le cinture di sicurezza. Riprese a guidare. «Che genere di musica ti piace?» domandò ad un certo punto. «E’ indifferente, lasciamo che sia la radio a scegliere la colonna sonora per questa giornata» risposi. Usciti da una lunga galleria che aveva al suo interno una diramazione, sembrò di esser arrivati in un altro mondo, il paesaggio era molto diverso. La tortuosa strada che scendeva verso il paese di Salò, offriva una stupenda panoramica del lago, mozzafiato. “E’ incredibile avere uno spettacolo del genere a poca strada da casa e non esserci mai venuta” riflettei tra me. «Ti piace?» chiese Marco. «Moltissimo, ne sono incantata.» «Io lo sono da te» rispose.

«Sei troppo gentile» sorrisi. «Sai che non so ancora nulla di te? Potresti raccontare un po’ la tua vita, dove sei cresciuta, chi ti ha fatto crescere così bella… le solite cose che si raccontano a una nuova conoscenza insomma» domandò. La poesia che si era creata crollò all’improvviso, nello specchietto del parasole notai subito che avevo assunto uno sguardo cupo. Incrociai le braccia come per voler chiudere all’esterno me stessa. «Io non ho nessuno al mondo… oggi è una bella giornata e sono felice di essere qui… non parliamo di queste cose, non ne ho davvero voglia… sarebbe nascondere il sole limpido che brilla in questo cielo con delle nuvole cariche di rabbia» risposi. «Va bene, va bene… però prometti che se continueremo a vederci parlerai anche di questo… capisco che deve esserci qualcosa di davvero terribile ma, se lo vorrai, son curioso di saperlo e, se posso, dare una mano» concluse. L’ultimo tratto di strada lo ammo in silenzio, non ero preparata a questo discorso, lo conoscevo da troppo poco tempo e, nonostante fosse incredibile ciò che provavo con lui, non sentivo che era ancora il momento di abbattere i muri. Come risultato avrei avuto la sensazione di esser sporca e giudicata. Parcheggiammo in un autosilo proprio sopra il centro del paese e ci avviammo verso il lungolago attraverso una piccola via in discesa delimitata dai muri delle case dove, a tratti, si ava sotto a dei vòlti che la rendevano di gusto medievale. Arrivati a un incrocio con un’altra via, ormai a pochi i dal lago, fui rapita dalla bellezza di un negozio che faceva angolo tra le due stradine; era molto curato, tutto l’arredo era in bianco e nero ed aveva tre vetrine che ospitavano ognuna un manichino, con le citazioni di alcuni grandi stilisti come sfondo. Non ero solita dare importanza a quel genere di cose, ma, forse per la sofisticata finezza del negozio o forse perché desideravo essere il più bella possibile per Marco, restai a guardare quegli abiti con la speranza, un giorno, di poterli indossare.

«Se vuoi possiamo entrare a dare un’occhiata, magari vedi qualcosa che ti piace» suggerì. «Sì, per curiosità vorrei entrare e guardare… e non sperare che ti permetta di fare nessun tipo di regalo!» risposi dopo aver anticipato le sue intenzioni. «Ok, d’accordo.» All’ingresso ci accolse una signora molto distinta arricchita da un dolce sorriso, aveva degli occhiali da sole con lenti poco oscurate ed emanava fascino ed eleganza ad ogni gesto. “Chissà che vita avrà fatto” fantasticai. Ci fece accomodare e presentò sua figlia che, con molta cortesia, fece da guida ai piani superiori. Scoprimmo così che in realtà, le due stanze a livello della strada, erano solo la piccola punta dell’iceberg, un assaggio della bellezza dell’atelier, che si distribuiva in un ambiente aristocratico, ricco di arredamento moderno alternato al classico in modo davvero stupefacente. «Qui sembra che ci siano tante belle cose, vorresti provarne qualcuna?» chiese Marco. Non Risposi. Dopo lo stupore, provai disagio verso un’ambiente così raffinato e risposi a Marco che andava bene così, che avevo soddisfatto la curiosità di entrare in una delle belle boutique che ero abituata a vedere solo sulle riviste. Salutammo e togliemmo il disturbo. Direzione lungolago. L’acqua era piatta e c’era parecchia gente che eggiava sulla riva. Mentre avanzavamo uno di fianco all’altra, Marco allungò il braccio e me lo attorcigliò intorno ai fianchi e, dopo aver stretto la presa come avesse paura di perdere la cosa più importante che aveva, iniziò a raccontare la storia di ogni cosa che vedevamo, perché Salò era ricco di fatti importanti accaduti in ato, soprattutto durante la seconda guerra mondiale. «Allora, beviamo una cioccolata calda e poi andiamo insieme a fare la commissione» disse.

«Ma devo accompagnarti?» «Certo, perché, non te la senti?» chiese. «No no, tutto ok.» Ci sedemmo al tavolino di una pasticceria e chiacchierammo a lungo, lui con il suo modo umoristico di dire le cose, di tanto in tanto, riusciva a strappare dei sorrisi. Stavolta veri e autentici. Usciti dalla pasticceria, proseguimmo sul lungolago dove, ad un certo punto, c’era una grande piattaforma ovale che partiva dalla riva e sovrastava il lago per una ventina di metri. Era una pista di pattinaggio. «Ecco, questo è l’appuntamento che avevo… l’hanno montata due giorni fa, ho visto la pubblicità sul giornale e ho deciso subito di portarti… sai pattinare?» domandò. Era incredibile, quindi non doveva fare nulla ne per lavoro ne per se stesso, aveva voluto dedicare una giornata solo a noi, per stare bene insieme. «In verità non ci ho mai provato» risposi. «Io solo qualche volta… spero non trovi stupida quest’idea» disse e abbassò lo sguardo. A pattinare, sulla luna o in mezzo al deserto, non faceva nessuna differenza; ero felice comunque, il fatto che lui concedesse del suo tempo era tutto ciò che davvero contava. Infilammo i pattini e entrammo in pista. Era stupendo pattinare fino alla recinzione esterna della pista, dava l’impressione di scivolare direttamente sull’acqua del lago e, anche se non sporgeva molto, da lì si vedeva un bel pezzo della costa, con le sue insenature e la vegetazione spettacolare. Finito di pattinare posammo i pattini e tornammo verso la macchina, avevo i

jeans bagnati per via delle varie cadute sul ghiaccio. «Ti bagnerò il sedile.» «E poi si asciugherà» rispose con un sorriso. Stavo davvero bene, durante tutto il pomeriggio non avevo pensato a niente e ato delle ore con la testa libera da ogni tristezza, il tempo era volato addosso leggero, veloce, posato una carezza anziché schiacciare con il suo peso, come faceva di solito. «Hai detto che non hai nessuno, giusto?» domandò Marco. «Si, giusto, ma non voglio parl…» «Allora credo che non sia un dramma se ti rapisco fino a domattina» disse. «Ma sei impazzito? E tua moglie cosa dice se vede che non rientri a casa» chiesi con concentrazione nel contenere la gioia. In realtà, dentro, sentivo un tumulto di energia e di emozione, come se al posto del cuore avessi avuto un trapezista che faceva magnifiche pirolette nell’aria. «Non devi preoccuparti di questo, avevo già previsto di stare insieme tutta la notte e ho organizzato bene le cose… allora, che ne dici?» «Va bene… ma dove eremo la notte?» risposi con aria composta. «Questo non è affar tuo, sono felice che hai accettato» rispose. Partimmo e, per tutto il tempo, nonostante io fi mille domande, non svelò cosa aveva progettato di fare. Dopo circa un quarto d’ora, arrivammo in un bell’albergo, in un paese che si chiamava San Felice del Benaco. La struttura era moderna e la camera davvero spaziosa, situata al sesto e ultimo piano. Su un lato, al posto della parete c’era un’ampia vetrata che dava su un’insenatura del lago che, con tutte le luci della sera, era davvero stupendo. «Il promontorio che vedi di fronte a noi è la Rocca di Manerba, da lassù c’è una

vista spettacolare di quasi tutto il lago… un giorno ti ci porterò» indicò mentre faceva scendere l’acqua nel grande idromassaggio posto al centro della stanza. Entrammo in vasca insieme, fusi in un abbraccio dal contorno profumato grazie agli oli essenziali che Marco aveva aggiunto all’acqua. Continuava a baciarmi e a accarezzare i lunghi capelli bagnati che scendevano appiccicati alla pelle fino al seno. Percepivo dal suo sguardo d’essere venerata. Dopo essere usciti dall’ammollo rilassante e esserci asciugati a vicenda con morbide salviette profumate, fece cenno di prendere posizione sul letto. Fui bendata con il dolcevita che avevo tolto prima. «Adesso vedi solo il buio, così potrai concentrarti sulle sensazioni che provi» disse. Si alzò e mise una musica rilassante con il suo cellulare, aveva come sottofondo il rumore delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga e la voce di qualche gabbiano in lontananza. «Voglio baciare ogni centimetro di te» affermò. Partì dai piedi dove di tanto in tanto morsicava delicato l’alluce e, al contatto dei suoi denti sulla pelle, avvertivo un misto tra solletico e piacere. Salì poi piano verso il resto del corpo, ò in quel suo tragitto dall’interno coscia e sfiorò proprio lì con la barba facendomi gemere, per proseguire sull’addome, sul seno ed infine sul viso e le labbra. Rifece la stessa cosa anche in senso inverso per poi ripeterla più volte. Ero tutta bagnata e, la sua barba, assorbiva sempre più l’odore del piacere che perdevo e accresceva il desiderio ogni volta che si riavvicinava al viso. Si soffermò poi in mezzo alle gambe, sentivo il punto più sensibile venir sfiorato dalle sue labbra, in maniera quasi impercettibile. Gemevo ad ogni tocco. «Hai un sapore unico, ora lo voglio sentire fino in fondo» disse. Affondò il viso tra le cosce.

Ero in estasi, stupita ancora una volta da ciò che potessi provare attraverso il corpo, avevo la sensazione di non riconoscerlo più, non riuscivo a governarlo. Ero del tutto abbandonata al volere di Marco e riusciva a dare piacere proprio come voleva, quasi come se in una vita precedente fosse stato donna, sapeva di preciso come e dove toccare. Oltre alla bocca iniziò ad usare anche le dita, massaggiava dietro per poi entrarci solo un poco e uscire di nuovo, ogni volta lubrificando con sempre più saliva. Ero nelle sue mani, lo lasciavo fare senza proferire parola e tenevo la concentrazione su ciò che provavo. Un caldo crescente iniziò a invadere tutta la zona del monte di venere, per poi espandersi al bacino e a tutto il resto del corpo. Sentivo le guance arrossate e le corde vocali emettere incontrollati e sottili lamenti di piacere. Dietro sentivo che le sue dita facevano delicati movimenti circolari, davanti premeva sempre di più con la lingua, anche lì con lo stesso movimento sincronizzato. Il caldo si fece più intenso e il respiro spezzato, senza accorgermene alzavo e abbassavo il bacino con movimenti sempre più ampi e incontrollati, fino a che, all’improvviso, esplosi in un grido di piacere. Sentivo il sesso pulsare e contrarsi con piccoli spasmi, le gambe sempre più tese e, a un certo punto, dovetti fermarlo perché avevo raggiunto una sensibilità troppo acuta. Avevo raggiunto il mio primo orgasmo. Ero estasiata. Senza parole. Salì verso il viso, continuò a baciare ogni centimetro di pelle e arrivò fino alla bocca. «Senti com’è buono il tuo sapore» disse. Slegò il bendaggio e la luce del lampadario infastidiva gli occhi, li avevo sempre avuti molto sensibili, soprattutto dopo averli tenuti al buio e dovetti abituarli un attimo prima di poterli aprire del tutto. Lo abbracciai con tutta la forza che avevo, immaginavo cosa avrei provato se a

un certo punto fosse sparito. Non avrei mai voluto che accadesse, sarei rimasta sola, disperata e sperduta. Avevo oltreato il sottile confine che divide la razionalità con il sentimento. «Adesso possiamo fare l’amore» disse. Ruotai a pancia in giù secondo le sue istruzioni. Lui si sdraiò sopra e, in maniera lenta e delicata iniziò a entrare mentre mi baciava il collo, dietro all’orecchio, e, quando con la spinta venivo premuta contro il letto, il lenzuolo stropicciato che avevo sotto sfiorava proprio lì. Più continuava e più metteva forza nel bacino, riempiendomi poco alla volta fino in fondo, più impazzivo di piacere. Dai baci ò ai morsi sulla parte posteriore delle spalle, che si facevano più intensi e assecondavano la forza via via maggiore delle spinte. Con una mano mi teneva i polsi immobilizzati, con l’altra sorreggeva il suo peso, mostrando le vene dell’avambraccio sempre più gonfie con l’aumentare dello sforzo e, alla loro vista, impazzivo. Il calore iniziò ancora a farsi sentire, omogeneo in tutto il corpo ma diverso da quello di prima, più costante nel crescere ad ogni movimento e sembrava non smettere mai, destinato ad alzare sempre più l’intensità. «Silvia, io sono innamorato di te» disse con la voce interrotta dai gemiti di piacere. A un certo punto emise un forte sospiro e, il calore del suo piacere, invase il mio corpo con una calda colata. Era una sensazione estasiante che, d’improvviso, portò a seguirlo in un secondo orgasmo ancor più intenso del primo. Di nuovo stravolta. Di nuovo senza parole. Cedemmo alla stanchezza avvinghiati. Erano le sei di mattina quando fui svegliata di soprassalto dal solito incubo. Sedetti sul bordo del letto.

«Ehi, che succede tesoro?» chiese Marco con gli occhi stropicciati dal sonno. «Nulla, non preoccuparti… sto bene, ho fatto solo un brutto sogno» risposi. «Ok piccola, vieni qui che a tutto» disse in modo molto dolce. Annuii e, prima di rientrare a letto, presi una bottiglia di acqua dal frigobar e ne bevetti una sorsata, avevo la bocca secca. Poi sdraiai contro di lui, avvolta in un abbraccio. Lì, imprigionata tra le sue possenti braccia, sentivo d’esser più libera che mai.

MARCO

Dopo un lungo bacio, Silvia scese dalla macchina. Prima di farlo tentò in modo maldestro di far scivolare nel vano della portiera la busta con i soldi che le avevo regalato, lo notai subito e gliela restituii. Restai immobile, ad osservarla allontanarsi attraverso lo specchietto retrovisore. Avevo ato un pomeriggio, una notte e la mattina in totale leggerezza, non ricordavo il tempo di stare così bene e in pace col mondo. Nemmeno agli inizi della storia con Stefania ero arrivato a sentire tante belle emozioni esplodere dentro. Mentre guidavo verso casa, sapevo cosa dovevo fare: entrare in casa, andare da Stefania e dirle che era finita, che non avevo più intenzione di continuare a trascinare la ormai stanca relazione, priva di emozioni e ristagnante nell’abitudine. Sentivo una forza e una decisione incredibile, non ero mai stato così determinato e sicuro di ciò che volevo dalla vita, a costo di doverla stravolgere e fare un salto nel buio. Parcheggiai nel seminterrato, presi l’ascensore e, mentre salivo verso casa, guardavo lo specchio e ripetevo il discorso che avrei dovuto fare. “Allora Stefania, che c’è qualcosa che non va lo sappiamo entrambi… ho studiato e ponderato bene su ciò che sto per dirti e ne sono davvero certo… ti lascio, è la cosa più giusta, di fondo anche tu avrai una certa sofferenza per questa situazione e, questa decisione, andrà a beneficio di entrambi.” Non appena si aprì la porta dell’ascensore, entrai nell’appartamento e appoggiai la giacca sul mobiletto dell’ingresso, poi andai verso la sala dove Stefania era sdraiata sul divano a guardare la televisione. «Ho bisogno di parlarti» dissi dopo aver preso posizione sul poggiapiedi, di fronte a lei. «Certo, ti ascolto» rispose lei con aria incuriosita.

Non era abituata che le chiedessi di dialogare. «Vorrei parlare di noi… ho riflettuto su molte cose e vorrei discuterne con te, senza alzare la voce, litigare o fare scenate, per cortesia… voglio solo esprimere ciò che intendo fare ed essere sincero e realista» dissi. «Avanti, parla pure, sai bene che se c’è bisogno di confrontarsi sono contenta di farlo… ho sempre sostenuto che con il dialogo si risolve tutto» rispose. «Sì, però stavolta ho preso una decis…» venni interrotto da Roberta che urlò «ciao papà!» e saltò al collo dopo esser sbucata dalla sua cameretta. Non avevo fatto caso che era sabato e che la bimba, quindi, non andava a scuola, ero troppo preso dalla decisione che avrei voluto comunicare subito a Stefania. Di certo non potevo lasciare la sua mamma con lei presente a vedere i pianti, i litigi e il nervosismo che avrebbe generato la situazione. «Papi, vuoi venire in cameretta a vedere una cosa?» chiese Roberta con la sua vocina delicata. La presi tra le braccia e andammo nella sua stanza, voleva far vedere un nuovo disegno che aveva fatto sulla lavagnetta elettronica che le avevo regalato: raffigurava una bella casetta in un prato verde con lei, il suo papà e la sua mamma e un cagnolino che scorrazzava. Fui preso da una morsa allo stomaco ma, alla fine, la decisione l’avevo presa… “quante coppie si separano al giorno d’oggi e riescono poi ad essere felici, anche con i figli… Roberta sarebbe di certo stata più serena nel vederci tranquilli rispetto che sofferenti in questa situazione, inizia a diventare grande perciò più il tempo a, più inizia a capire e percepire i disagi che ci portiamo dentro” ragionai. «Papi, avremo un cagnolino?» chiese. «Certo tesoro, magari quando sarai un più grande potremo averne uno… ma serve però una casa come la hai disegnata tu, con un bel giardino dove può giocare e correre» risposi. Abbassò lo sguardo con aria triste, ma poi sembrò capire e, tutto d’un tratto, cambiò argomento e si mise a saltare sul letto.

«Guarda papi, riesco ad arrivare al cielo!» urlò in una risata sguaiata. Che spettacolo l’innocenza dei bambini, la pura essenza del vivere il momento senza interferenze di nessun tipo. Appena tornai in sala, Stefania era ancora davanti alla televisione. «Cosa dicevi prima?» domandò senza nemmeno alzare lo sguardo che era fisso sul monitor. «No… nulla… magari ne parleremo un’altra volta» risposi evasivo. «Dai, ti ascolto, finisci il discorso» incalzò voltandosi. «No, davvero… ne parleremo senza che Roberta sia presente in casa, è meglio.» «Son preoccupata, ora che dici così…» «Stai tranquilla, ne parleremo presto» conclusi. Le avrei parlato in settimana, quando la bimba aveva scuola, di modo che anche se avessimo discusso in modo animato, non avrebbe ascoltato i nostri discorsi.

L’ennesima domenica noiosa stava per andarsene via, collosa, sentivo di essere un topolino caduto nel vischio. Per fortuna riuscivo a evadere con qualche messaggino che io e Silvia ci scambiavamo, visto che Stefania era in cucina con due sue amiche. Ogni volta che ne ricevevo uno era come una boccata d’ossigeno nella soffocante giornata, dove l’orologio sembrava fermarsi in continuazione senza ricordare più in che verso girare. scrissi a un certo punto a Silvia. Aspettavo la sua risposta, eccitato ma allo stesso tempo preoccupato. “E se non risponde? E se non vuole più che ci vediamo? E se… E se…” infinite variabili negative si facevano sempre più insistenti.

Roberta, intanto, componeva sul tappeto di fronte al divano dove ero seduto, un puzzle che raffigurava un piccolo gatto in una cesta di cotone e, mentre ero intento a guardarla, il cellulare vibrò nella tasca. rispose. In effetti aveva ragione, ero certo di voler troncare con Stefania ma non avrei mai voluto che scoprisse che l’avevo tradita; di fondo la lasciavo per altri motivi, a prescindere dalla nuova relazione. proposi. Non stavo più nella pelle all’idea di riabbracciarla; stavo troppo bene insieme a lei, la volevo prendere e non mollare più, scoprire il lato buio che intuivo avesse dentro e farle sentire che non era più sola, prendermene cura e assaggiare il sapore di una nuova vita insieme. Anche per quanto riguardava i soldi, non doveva preoccuparsi, non avrebbe più avuto difficoltà a sbarcare il lunario perché, per fortuna, disponevo di ottime disponibilità e, soprattutto, avrebbe posato le maschere che servivano per il lavoro che faceva e sarebbe tornata a riscoprire se stessa. scrisse. Nello studio mostrava una dedizione e perseveranza incredibili, perseguiva gli obbiettivi e correva con tutte le forze per raggiungerli. Era una donna stimabile solo che, nel suo correre, volevo che imparasse anche a guardare e godere del panorama che le sfrecciava di fianco. chiesi. <Si, è qui a due i da casa… ci vediamo lì?> <Sì, va bene, perfetto… ho tanta voglia di un tuo bacio> rispose. Non sapevo cosa rispondere, dovevo scrivere qualcosa che desse un forte impatto e fe capire quanto tenevo a lei, qualcosa che nel leggerlo sarebbe

stato capace di farle nascere un sorriso che l’avrebbe accompagnata per tutta la giornata. Dopo qualche attimo arrivò un suo messaggio che gonfiò il vecchio e stanco ego che avevo. Ero senza parole, abituato a vederla molto indecisa, altalenante e impaurita, non aspettavo una risposta tanto sicura e esplicita. <E io voglio appartenere a qualcuno e non essere più sola, condividere la vita con una persona che sappia far battere il cuore. Tu sei stato il primo a riuscirci, sia a letto che fuori.> Speravo che fosse una frase sincera e non una a effetto tirata fuori dalla manica, ciò che aveva scritto era davvero profondo. Se fosse stato vero, era come se l’avessi avuta vergine sia di emozioni che di sentimenti. Il maschio che era assopito dentro, si alimentava e cresceva a dismisura. Servivo a qualcosa. Valevo qualcosa. E’ proprio vero che se ci si ferma alle apparenze, non si conoscerà mai chi c’è di fronte e, io, con Silvia, ero felice di essere andato oltre. Il resto della domenica ò tra la televisione e le chiacchiere di Stefania con le sue amiche che, di tanto in tanto, arrivavano all’orecchio. Guardai intorno e capii di essere in una prigione dalla quale di lì a poco, sarei evaso. Il piano lo avevo già, bello e chiaro.

Faceva davvero freddo, il termometro della macchina segnava cinque gradi mentre parcheggiavo fuori dal bar di via Veneto. Silvia era già sotto il piccolo porticato del locale e, non appena vide che scesi dall’auto, corse a braccia aperte per stringersi in un abbraccio. Ci baciammo intensamente, come se il bacio fosse stato desiderato per secoli

anziché da poco più di un giorno. Ero libero da qualsiasi appuntamento fino alle undici, ora in cui dovevo incontrare Rossi che speravo di trovare in condizioni migliori dell’ultima volta per riuscire a scambiarci qualche parola. Nell’entrare dentro al bar le proposi una scommessa. «Allora, se vinco io la partita a biliardo usciamo di qui e andiamo a casa tua… se invece sarò sfortunato manterrai gli impegni con l’università, ok?» «Ma io non ho mai giocato a biliardo!» rispose con malizia. «Io solo qualche volta, tanti anni fa… se accetti sarebbe come trovare una valida scusante per stare un po’ io e te… sempre che tu non vinca» sorrisi. «Va bene dai, accetto… però cambiamo le regole… anche se vinco andiamo a casa insieme, ok?» propose. Avevo un’immensa voglia di lei e ero felice che palesasse a sua volta questo desiderio. «Allora diamoci una mossa a giocare che poi abbiamo faccende ben più interessanti da sbrigare» conclusi. Vinsi la partita, pagai i due caffè che avevamo bevuto e anche le due brioches, poi andammo verso casa sua. Siccome dovevo esser cauto e non potevo far notare quella relazione clandestina a nessuno (fino a che non avrei lasciato Stefania), salii nell’appartamento qualche istante dopo di lei, con la stessa silenziosità e attenzione di un gatto che entra nella notte in una camera da letto. Non appena varcai la soglia, la afferrai, la spinsi contro il muro e la riempii di baci; non riuscivo a fare con calma, la voglia di lei era troppa. Sbottonò subito i miei pantaloni e li calò fino alle caviglie, poi si lasciò cadere in ginocchio e iniziò a baciare, lì. Le sue labbra erano calde e sentivo l’umida lingua espandersi pian piano su tutto

il sesso. Poi ci unimmo. Poi di nuovo. Una volta sdraiati sul divano, disse «E’ la prima volta che ascolto il gusto di un uomo». «Spero ti sia piaciuto» risposi. All’idea che potesse aver tenuto lo stesso comportamento con i clienti, sentii salire un bollore in viso, rabbia pura. «Chissà a quanti hai detto la stessa cosa» dissi. «Guarda che nel lavoro è tutta un’altra cosa, posso giurare che non son mai stata così libera con nessuno, solo con te» rispose. Restammo in silenzio per un po’, poi, guardai l’orologio. Erano le dieci e cinquanta. «Silvia, devo scappare, ho un appuntamento alle undici, in carcere» dissi. Cercai di infilare i vestiti il più velocemente possibile ma senza fare in modo di sembrare troppo freddo in quella partenza frettolosa. «Va bene, grazie davvero di aver ritagliato un po’ di tempo» disse rattristata. «Sai, sabato, quando siamo tornati dal lago stavo per lasciare Stefania, ma c’era in casa la bimba… ho deciso che lo faccio in questi giorni, promesso» le posai una carezza. «Marco, non devi giustificarti… se davvero lo vuoi sono disposta a aspettare che prendi questa decisione con calma… non voglio che poi ti penti di ciò che hai scelto per il resto della vita» rispose. Captai dietro alle sue parole il desiderio di poter viverci a trecentosessanta gradi, senza più limitazioni e sotterfugi. «Sono innamorato Silvia, se vorrai potremo frequentarci… ti starò vicino e

cercherò di aver cura e premura di te.» «Io non so cos’è l’amore, ma ogni volta che vai via, desidero che tu torni presto… prima di dormire sei il pensiero che acquieta, appena sveglia apro gli occhi con l’immagine di te… e poi davvero, cerca di credere a queste parole, giuro che non son mai stata così libera con alcun uomo, tu sei il primo ad esser riuscito a sbloccare anche la sessualità, ho avuto con te il primo orgasmo… sento una paura immensa che tutto questo svanisca all’improvviso, come in un sogno». Si rannicchiò all’angolo del divano, arrossata in viso. «Anche se non lo hai mai provato, credi di essere innamorata?» chiesi. «Non saprei come rispondere.. credo di sì, anche se non lo ho ancora realizzato» rispose. Bisognava avvicinarsi piano a lei, come se si cerca di accarezzare un animale selvatico e, ogni volta che allunghi la mano si ritrae impaurito. Decisi di chiudere il discorso, ero già soddisfatto così. La salutai con un bacio e, appena scesi le scale, infilai nella buca delle lettere un'altra busta con dentro altri soldi. Volevo che riuscisse a esser serena e, di fondo, compravo la tranquillità di non dover sopportare che continuasse a prostituirsi, spingendola in una direzione diversa da quella in cui si trovava. Guidai verso il carcere e riflettei sulla perizia psichiatrica che avevo richiesto su Rossi, sembrava che nessuno l’avesse presa in considerazione o che qualcuno l’avesse perduta. L’idea che la sua storia fosse vera era ormai entrata dentro me, fomentata dalle incongruenze e piccole sfumature che non quadravano. Sentivo il bisogno di aiutarlo, forse più per sentire che potevo far la differenza nella vita di qualcuno e essere importante, che per altruismo. Per Silvia invece era solo e puro amore. Arrivai al carcere e entrai nella solita stanza, l’infermeria. Sembrava più lucido della volta scorsa. «Ascolta, voglio credere alla tua storia e arrivarci fino in fondo una volta che t’avrò tirato fuori di qui… l’ultima volta eri sedato da chissà quali medicinali,

l’ho capito subito» esordii. «Credo che hai preso la decisione più saggia… questo caso è solo un granello di sabbia nelle grandi ingiustizie che i potenti operano sul popolo» disse. Quella frase fece vacillare le convinzioni che avevo, sembravano le parole di un uomo che, dopo essersi bruciato con la droga, era rimasto intrappolato negli anni settanta, dove tutti erano arrabbiati con tutti e si dava colpa al sistema. Scacciai il pregiudizio e continuai ad ascoltarlo. «Far esplodere questa cosa significa portare alla luce in maniera potente tutti quegli altri casi di vario genere che furono archiviati e dimenticati» continuò. «Si, ma prima bisogna esserne sicuri… devi pazientare per questo, non sono così folle da spargere una notizia del genere» risposi a bassa voce. «Ascolta, devi pubblicare questa storia attraverso la stampa. Facile dare la colpa agli zingari e agli stranieri… sai la mafia e la politica quanto guadagnano con la compravendita di persone? Sai che lo stato copre queste faccende?» «Appena avrò appurato al cento per cento che è tutto vero, lo farò… adesso sai bene che non posso… credo tu lo capisca… bisogna riflettere bene sul da farsi.» «Va bene, io avrò pazienza… tu ne ricaverai enormi benefici e riconoscimenti e, il più importante, sarà morale, con te stesso.» D’improvviso sembrò staccarsi dal mondo, chiuse gli occhi e restò immobile. «Signor Rossi… signor Rossiiii». Disconnesso. Non era più in grado di parlare, inutile continuare a sforzarlo, si era spento. Uscii dal carcere angosciato, indeciso di nuovo se credere o no a tutta la faccenda. La prova della difficoltà psicologica era sempre più palese, prima, ad esempio, si era spento e aveva lasciato la realtà per volare chissà dove con la testa.

Eppure troppe cose non quadravano in effetti; la denuncia anonima, la detenzione senza senso, la perizia psichiatrica che non arrivava, il palese carico di farmaci che gli venivano somministrati al punto di trasformarlo dalla prima volta che lo avevo visto, il bar di corso magenta che non aveva sentito nulla sulle molestie, l’irreperibilità delle sue origini… Se avessi voltato le spalle a Rossi e non avrei scavato oltre, sarei riuscito a guardare lo specchio con stima per il resto della vita? Ero indirizzato verso la macchina con una grande confusione per la testa, troppo stress accumulato; il matrimonio che cadeva a pezzi, le certezze che non erano mai tali ma continuavano a vacillare e, per ultimo ma molto pesante, l’assurdo caso in cui sguazzavo. Nell’entrare dentro all’aria triste e pesante del carcere succedeva spesso così, i piccoli ostacoli sembravano insormontabili montagne e tutto prendeva il verso sbagliato, era un luogo in grado di incupire. Salii in macchina e guardai gli occhi nello specchietto retrovisore. Ciò che vedevo in quel momento era lo sguardo di un uomo che non aveva mai avuto il coraggio di lasciare alle spalle una storia ormai finita, tranne ora che aveva un altro appiglio. Un uomo che per il suo porto sicuro non aveva mai assaporato la bellezza del mare aperto. Un uomo che ha la sensazione di aver scoperto una terribile verità, che vacilla senza il coraggio per arrivare fino in fondo e si tirava indietro proprio quando aveva la grande occasione di trafiggere un colpo di spada all’ingiustizia. Partii e, nel momento di desolazione, con lo sguardo fisso sulla targa della macchina che avevo di fronte in colonna al semaforo dell’incrocio di viale Venezia, sentii un forte rumore. Uno schianto. Pochi metri più avanti una moto era riversa a terra, con la ruota che girava e il corpo del suo conducente riverso sull’asfalto, poco lontano. Capii che una macchina era uscita dallo stop e l’aveva travolto. Scesi e accorsi a prestare soccorso, per fortuna il giovane motociclista mosse prima le gambe e poi il resto del corpo, alzandosi frastornato. Solo qualche escoriazione. L’autista della macchina era una donna di mezza età, piangeva

dalla gioia nel vedere che non aveva causato la morte del ragazzo. Un concetto celato in una domanda ò per la testa rapido come un fulmine: “vale la pena vivere sempre con la testa nascosta sotto la sabbia, consapevole del fatto che il tempo che ho a disposizione avanza inesorabile?” Davanti agli occhi avevo la prova che bastava uno stop non rispettato per mettere fine a tutto; i colori dei fiori, l’odore di una donna, la felicità, la tristezza e tutto il sapore della vita. Sentivo forte di rappresentare solo l’ombra dell’uomo che avevo sempre immaginato di essere. La vita era troppo breve per are a osservarla da lontano, senza toccarla. Volevo far qualcosa, sentire davvero di poter essere una persona in grado di prendere decisioni di petto, senza il timore delle responsabilità a frenare. Avevo bisogno di cambiare e, l’universo, stava per offrire la possibilità di farlo, di dimostrare a me stesso cosa potevo valere.

SILVIA

«E da quando siamo tornati dal lago la settimana scorsa, trova ogni giorno il tempo di are per far due parole e stare un po’ insieme» finii di raccontare a Daniela, che aveva gli occhi sgranati e colmi di felicità. Stavamo per consumare la nostra solita colazione nel solito bar. «Sono davvero contenta e non voglio fare la guastafeste ma, credi davvero che lascerà la moglie? Come fai ad esserne sicura?» chiese. «Perché gli credo… o per lo meno voglio credergli. Cerco di sperare che tutto andrà come dice, per la prima volta gusto questo sentimento e voglio credere di poterlo mangiare fino all’ultimo boccone… non è più tempo di restare a bocca asciutta» affermai orgogliosa della risposta. «Quindi è confermato che sei innamorata?» «Anche se fatico per paura ad ammetterlo, sì.» Non stavo più nella pelle, più il tempo ava e più diventava gentile e premuroso. Stavo pian piano per lasciar cadere i piccoli mattoni dei muri che cintano la felicità e abbandonare il sogno di una vita normale, per are alla concreta speranza che potesse succedere davvero. «Tra l’altro» sussurrai, «ogni volta che viene lascia un sacco di soldi nella cassetta delle lettere.» «Cosa intendi per un sacco di soldi?» «In tutto già cinquemila…» «Ho capito bene? Cinquemila euro? Cinquemila!?» «Shhh» dissi per farle abbassare la voce. Fui pentita di aver raccontato il particolare economico, era di cattivo gusto e poteva far intendere che l’interesse che nutrivo era dovuto al denaro.

Non era così. «Non è da tutti i giorni vedere una cifra simile per ragazze come noi» disse stavolta sottovoce. «Sì, ma non immaginare che sia questo il motivo dell’interesse per Marco… è la sua persona, fantastica.» La cameriera ò a prendere le tazzine vuote e i tovagliolini usati durante la colazione, chiese se volevamo dell’altro. «Io prendo un’altra brioches al cioccolato.» «Io invece un caffè» aggiunsi. Appena restammo di nuovo sole, Daniela si avvicinò sporgendosi sul tavolino. «Gli hai già raccontato la storia della tua vita? mi riferisco a quella cosa…» disse sottovoce. «No, non ho ancora trovato il coraggio… a grandi linee ha capito che ho dei conti in sospeso col ato… ma nulla di più» risposi. «Immaginavo… non sono cose leggere e, con me, hai impiegato qualche anno prima di aprirti del tutto.» «Sì, e a dire il vero ne ho tratto un grande beneficio, ho scaricato un po’ di tensioni… come avessi aperto una valvola di sfogo.» «E io ne son stata contenta, significa che hai profonda fiducia» sorrise. Daniela riusciva davvero a capire ciò che provavo, non era invidiosa o gelosa di questa nuova avventura con Marco e, se si permetteva di obbiettare qualcosa, lo faceva perché conosceva la fragilità di cui ero composta, non avrebbe mai voluto che sprofondassi in una depressione ancor più grande. Uscimmo dal bar e ci salutammo con un abbraccio, lei andava a fare un giro sotto i portici, io andavo a casa, e c’era qualcuno ad aspettare che tornassi, stavolta.

Marco. Durante il tragitto, riflettevo su quanto la vita fosse strana; dopo anni che mostrava le spalle, adesso, stava per voltarsi e offrire un radioso sorriso. Le imposte dell’appartamento erano schiuse, capii che era già lì come desideravo e ne fui felice. Il giorno prima gli avevo regalato la copia delle chiavi. Che cosa incredibile anche questa, lasciare libero ingresso nella fortezza a un estraneo che, per poco che lo conoscevo, era comunque la persona che sentivo più vicina da sempre. Salii le scale e sentii girare la chiave nella serratura, capii che era stato ad aspettare con lo sguardo fisso dalla finestra, nella speranza di vedere spuntare la sua dolce donna al più presto. Sorrisi all’immagine. Fui presa in braccio e buttata sul letto non appena entrai in casa, venni ricoperta di instancabili baci. Ero in grado di percepire il suo desiderio e, io, tra le sue braccia tornavo a essere la vera me stessa. «Tesoro, non vedevo l’ora di riabbracciarti» disse con le labbra premute contro le mie. «Anch’io… credo che non posso più fare a meno di te» risposi. Era vero, dal momento in cui era entrato a piedi pari nella vita, non riuscivo più a fare a meno della sua presenza, con la quale restavo sospesa in una dimensione di pace e serenità con il mondo. «Guarda che non sono andato a giocare a tennis per stare con te» disse in tono scherzoso, per far intendere il grande privilegio che aveva riservato. Risposi con una smorfia e saltai a cavalcioni su di lui. Sentivo il suo desiderio crescere attraverso i jeans, gli sfilai il maglioncino e la canotta e iniziai a mordere i capezzoli. Il freddo del viso che era stato all’aria gelida di quel novembre, lo fece contorcere.

«Ho voglia di fare l’amore» disse. «L’amore» ribadì. Dopo esserci spogliati, fui sdraiata di schiena, con lui sopra che, con molta premura, sorreggeva il suo peso sui gomiti. In una tale semplice e naturale attenzione, ricordai con amarezza tutti i clienti che, al contrario, se ne fregavano e si lasciavano cadere a peso morto, schiacciandomi contro il materasso sotto il loro corpo sudato. In casa faceva abbastanza freddo, ma dopo poco, a suon di baci e carezze, la percezione svanì tra il calore dei nostri corpi. Avvertivo il suo sesso toccare tra le cosce, sempre più duro. Ero già bagnata, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo, come se ci fossero due magneti di carica opposta ad attrarci, dentro al nero delle pupille. Ad ogni bacio che ricevevo, nasceva un brivido che percorreva tutta la spina dorsale. Appena capì che ero pronta, fece pressione con il bacino e entrò con una sola piccola parte di lui, per poi ritirarla. Era una deliziosa tortura, più continuava a negarsi, più cresceva il desiderio di sentirlo dentro. Non resistetti più, portai le mani sul suo sedere e iniziai a cadenzare il ritmo con delle spinte sempre più forti, fino in fondo. Volevo esser io a gestire la situazione. Fissavo sempre i suoi occhi che, meglio delle parole, esprimevano ciò che provava, la gioia che traeva nel vedere che impazzivo per lui; un’espressione abbandonata e estatica, come avesse tra le braccia la cosa più bella e rara del mondo. Sentivo d’esser speciale e unica. Il caldo iniziò a irradiare tutto il corpo, adesso sapevo come sarebbe evoluto il godere, quindi, gustai ogni sfaccettatura e piccola vibrazione dell’estasi. Senza rendermene conto, affondai con forza le unghie nella sua schiena ed emisi un gemito, caricandolo così di sana aggressività sessuale. «Adesso ti appartengo» sussurrò all’orecchio. «Anche io» risposi con voce tremante, carica di emozione.

Le spinte si fecero vigorose e decise, il respiro spezzato, stavo per venire. Buttai la testa all’indietro e tenni i denti serrati in qualche secondo di apnea, poi, lasciai sfogare dalla gola un lamento lungo e acuto. «Ti amo» disse in quel momento. Continuò a spingere con forza, rese l’orgasmo un interminabile piacere e, le due parole miste al calore del suo sperma, fecero da detonatore per un’evoluzione ancora più esplosiva delle sensazioni che provavo. Poi ci fu una cosa improvvisa. Avvertii una stretta allo stomaco e gli occhi si riempirono di lacrime. Cedetti in un pianto sguaiato che giungeva dal punto più profondo dell’anima. Una moltitudine di immagini e ricordi corsero nella memoria: l’infanzia con gli abusi che avevo subìto, la solitudine, lo sguardo disperato di papà, il lavoro che avevo intrapreso a Brescia e la paura che tutti i fantasmi non si fossero mai dissolti. Era un pianto che racchiudeva in sé il contrasto della tristezza con l’immensa felicità di aver trovato qualcosa che non avevo mai avuto ma solo sognato. «Che ti succede, tesoro?» chiese. Dovevo raccontargli tutto, era venuto il momento di liberare le catene che imprigionavano i sentimenti, così, fusa in un abbraccio, iniziai a raccontare tutta la storia. Ascoltò con estrema attenzione fino a che, d’improvviso, scattò seduto con gli occhi sgranati e il viso pallido. «Marco, vuoi che smetta?» domandai. «No, continua pure, ascolto» rispose. Capii che era scosso, di certo era un racconto molto forte che si trovava ad ascoltare. Aveva l’aria turbata e irrequieta, continuava a fissare senza dire una parola. «Se vuoi racconto a grandi linee, senza entrare nei dettagli» proposi.

«No, quelli li voglio» rispose. Continuai a raccontare le dinamiche che causarono la chiusura dei sentimenti e crearono il carattere introverso che portavo dentro. «E non ho nessun ricordo di papà, a parte lo sguardo» finii il racconto. «E come era questo sguardo? Lo ricordi bene?» chiese e restò sull’attenti ad aspettare la risposta. «Certo, anche perché quasi tutte le notti lo rivedo… non ho mai smesso di sognarlo perché non voglio credere che sia morto e, soprattutto, che non avesse combattuto per riavere sua figlia… i suoi occhi non si possono scordare… in uno di questi, nel marrone scuro, aveva una sfumatura gialla e intensa.» Si alzò di scatto e si rivestì in fretta, come se stesse per perdere il treno della vita. «Marco… ma cosa ti succede? Non capisco…» Ero forse troppo disgraziata per lui che era abituato a una vita perfetta? Aveva realizzato di aver commesso un errore a innamorarsi di una così? Ero troppo piena di disgrazie? «Silvia, non ho proprio niente con te… devo correre a fare una cosa che adesso non posso spiegare… prometto che presto saremo felici… lunedì dirò a Stefania che la lascio… promesso» disse. Dopo esser andato in bagno, corse giù per la tromba delle scale. Andai alla finestra per guardarlo uscire dalla palazzina; si dirigeva a o svelto verso il parcheggio, alla base della salita che portava al castello. Fui attraversata da una corrente di aria gelida. Credevo a ciò che aveva appena affermato, che presto sarebbe cominciata la nostra nuova vita insieme e tutto il resto che avevamo sognato, ma quella fuga improvvisa, creò dei dubbi, come se una folle paura di non rivederlo mai più una volta girato l’angolo della via, non fosse solo un presentimento ma un’imminente realtà. Continuai a fissare l’incrocio nel quale era sparito, appoggiata con il volto al

vetro ghiacciato, nella speranza di rivederlo sbucare da un momento all’altro per venire a ripetere ancora una volta che andava tutto bene, che non dovevo esser preoccupata. Staccai la faccia dal vetro solo dopo qualche minuto, il respiro aveva lasciato un alone appannato sul vetro dove, con il dito, proprio nel punto dal quale vedevo dove Marco era sparito, scrissi:

TI AMO

MARCO

“Cosa cazzo devo fare adesso?” Guidavo nervosamente verso casa con quella domanda fissa nella testa. Incredibile ma vero, Rossi era il padre di Silvia. Troppe coincidenze e, soprattutto, il particolare che avevo notato dell’occhio avvalorava la tesi e la rendeva certa. Di sicuro non potevo mettere in pericolo Silvia e portarla a conoscenza che il padre era qui, in carcere. Raccontarle la verità su ciò che successe, sarebbe stato troppo pericoloso perché avrebbe sicuramente voluto vederlo. Tanto meno potevo andare da lui e dirgli che sapevo dove era sua figlia, l’avrebbero fatto sparire e, dietro, anche io con lui. Siccome c’erano di mezzo persone potenti che a distanza di anni continuavano a monitorare la situazione, dovevo fare tutto come fossi invisibile, senza dire nulla a nessuno; andare in ufficio e scrivere un articolo nel quale avrei raccontato la versione del caso Ricci. Le prove le avevo in mano e, a renderle credibili, mi avrebbe aiutato la piccola fetta non marcia della giustizia a cui quel vecchio caso era rimasto indigesto, tornando all’attacco non appena avrebbe saputo la notizia. Silvia, una volta che il caso fosse esploso e stato di dominio pubblico, sarebbe stata protetta e tutelata, avrebbe potuto sottoporsi al test del Dna per certificare i fatti. Il puzzle sarebbe finalmente stato ricomposto una volta per tutte. Le mani tremavano ed erano ricoperte da un freddo sudore, temevo i risvolti che avrei potuto subire perché, di sicuro, rispolverare una faccenda così delicata sarebbe stata fonte di vendetta. Arrivai a casa e non appena salii, Stefania era intenta a preparare il pranzo. «Come è andata la partita a tennis?» chiese non appena entrai in cucina.

«Si, divertente anche se non ho vinto… Bruno diventa sempre più bravo ogni volta che giochiamo» risposi per poi prendere la volta del bagno della camera da letto. Nel are dal corridoio, Roberta sbucò dalla sua cameretta. «Papi, vieni a giocare?» domandò con un sorriso. «Tesoro devo correre a fare un bisognino» bisbigliai per schivare l’invito. Una volta in bagno, chiusi a chiave la porta e poi usai dell’acqua fredda per sciacquare il viso. Restai poi immobile a guardare lo specchio. «Avanti, sii forte» dicevo sottovoce rivolto al riflesso. Sarebbe stato il regalo più bello che avessi potuto fare a Silvia. Dopo il suo racconto avevo capito subito l’importanza che avrebbe avuto per lei sapere che suo padre l’amava e la cercava tutt’ora, dopo così tanto tempo, le avrebbe alleviato parecchi traumi e insicurezze. Con quella scoperta avrebbe potuto tornare a dare luce alla parte più oscura della vita e, forse, riuscire a superarla, con la certezza che l’amore esiste davvero e che un uomo, in nome del sentimento così nobile, poteva anche sacrificare la sua intera esistenza. Anche Rossi sarebbe stato felice, dopo anni di accuse e maltrattamenti avrebbe potuto tirare un sospiro di sollievo e darsi pace per trascorrere il tempo che gli sarebbe rimasto in modo sereno. Uscii dal bagno, la bimba era seduta sul suo lettino che aspettava. Le sedetti in parte e l’abbracciai. «Anche se il papà lavora sempre ti vuole tanto bene, lo sai?» domandai. «Sì, lo dice sempre la mamma che tu vai al lavoro per poter comprare la pappa» rispose. «Sei la cosa più bella che ho… prometto che cercherò di esserti vicino il più possibile» dissi. Sciolsi l’abbraccio e la feci sedere sulle ginocchia.

«Lo sai che ho imparato a disegnare la tua macchina?» chiese per poi scendere dalle gambe e andare verso la sua scrivania. Prese un foglio e lo alzò per mostrarmelo «Guarda papi». C’era disegnata una macchina grossa e nera con una persona di fianco, sopra alla quale c’era scritto papà. «E’ proprio la nostra macchina!» dissi con un sorriso. Stefania ci chiamò dalla cucina, era pronto il pranzo. Nell’aria c’era un buon profumo di pesto e nei piatti fumanti gli spaghetti verdi avevano un aspetto invitante. Sedetti al tavolo, nonostante avessi nella testa delle cose così grosse, avevo appetito. «L’ho fatto io il pesto, sai?» chiese Stefania. «E’ buonissimo.» «Ho usato tutto il basilico che è cresciuto in veranda… ti vedo strano, qualcosa non va?» «Al dire il vero sono nervoso perché adesso devo andare di sotto a finire delle cose del lavoro» risposi. Con aria sconsolata restò in silenzio per tutto il pranzo, poi, sparecchiò la tavola e si mise a lavare i piatti. Era stufa e infelice per i modi distaccati e aveva ragione, ormai non ero più presente del tutto. L’ancora era stata ritirata. Scesi in ufficio e sedetti alla scrivania, dovevo chiamare Massimo, un ex compagno di università con il quale avevo sempre coltivato un buon rapporto; era orgoglioso di esser diventato una star del web, ogni giorno caricava un video di un suo notiziario su ciò che accadeva in Italia e nel mondo e, iscritto dopo iscritto, aveva raggiunto quota circa quattrocentomila seguaci. Il telefono era libero…

«Ciao Massimo, sono Marco» dissi non appena rispose. «Ciao carissimo! Come stai?» disse quasi con un grido. Era sempre stato un tipo esuberante, aveva un tono di voce molto alto, con un timbro che divenne sempre più rauco nel tempo a causa delle svariate sigarette che fumava, non avevo ricordi di lui senza una bionda alla bocca. «Tutto bene, e tu con il tuo notiziario?» «Va alla grande Marco, ho superato i quattrocentomila iscritti al canale! E dal mese prossimo inizio a lavorare anche in radio!» rispose entusiasta. «Senti… ho chiamato perché avrei bisogno di una tua collaborazione… un enorme piacere» dissi. «Va bene, ti ascolto, Marco» «Devo parlartene a quattrocchi, riusciresti a venire qui in ufficio entro sera?» «Cavolo, oggi sono davvero incasinato… è successo qualcosa?», chiese premuroso. «Preferisco davvero parlartene di persona, è una questione delicata e spero tu accetterai di esserne partecipe» risposi. «Guarda… se per te non è un problema posso venire domani mattina.» «Se proprio non riesci oggi va bene… facciamo per le nove o nove e mezza? Può andare?» domandai. «Perfetto Marco, allora domattina alle nove sono lì.» «Ah, Massimo… porta la telecamera.» «Ma non puoi accennare di cosa si tratta?» «Dai, tieni la curiosità fino a domani» risposi. Dopo aver concluso la telefonata, presi un foglio bianco dalla stampante che avevo sotto alla scrivania e iniziai a abbozzare ciò che Massimo avrebbe dovuto

raccontare nel suo notiziario. Durante la stesura molti dubbi e perplessità vennero a galla, e se fosse un numero di coincidenze assurde e in realtà Rossi fosse soltanto un pazzo? Stavo cercando, come ero abituato a fare di solito, una scusante per poter posticipare le intenzioni, ma stavolta, dovevo arrivare fino in fondo, portare a termine la questione nella speranza della collaborazione dell’amico. Scrivevo una pagina e subito la cestinavo, impiegai fino a tardo pomeriggio prima di esser soddisfatto di ciò che avevo messo nero su bianco. Dopo aver letto e riletto svariate volte l’ultimo scritto, ero convinto. Aprii il cassetto della scrivania e lo riposi al sicuro. Fuori era già buio e mi chiedevo cosa fe Silvia, ero andato via di fretta senza darle nessuna spiegazione, era di sicuro preoccupata, ma dovevo tenere duro; non volevo dirle alcunché, avrebbe dovuto scoprire tutto lunedì, non appena i giornali, speravo, avessero parlato del caso. Salii in casa e, davanti alla televisione, immaginavo già come la notizia sarebbe rimbalzata da una parte all’altra del paese, in televisione, sui quotidiani e, prima di tutto su internet, mezzo che aveva ormai surclassato tutto il resto. Essendo io l’artefice della notizia, Stefania sarebbe rimasta a bocca aperta, avrei preso lì l’occasione per dirle tutto, che la lasciavo, che non la amavo più e sarei andato via di casa perché innamorato di un’altra. Non avevo più interesse a uscire pulito dalla relazione, non era importante cosa avrebbero detto i suoi e nemmeno che reazione avrebbe avuto lei. Avrei preso tutte le conseguenze sulle spalle e le avrei affrontate. Ero deciso. Alle otto io, Stefania e Roberta, andammo alla pizzeria che c’era a pochi isolati dal nostro, un piccolo locale alla buona che ci piaceva frequentare perché, oltre a conoscere tutti, c’era un area bimbi dove far divertire la piccola. Tornammo a casa due ore dopo e portai Roberta in braccio dal garage al lettino, le erano bastati i cinquecento metri di strada per cadere nel sonno. La adagiai con dolcezza e, in parte a lei, anche io. La riempii di baci e sussurrai più volte «ti voglio bene».

ammo la notte insieme, abbracciati.

Il mattino seguente, alle nove, Massimo era già fuori dalla porta dello studio che fumava una sigaretta; lo feci accomodare alla scrivania e, dopo i saluti e le domande di routine, andai dritto all’argomento. «Leggi questo articolo che ho scritto» dissi e gli ai il foglio. Massimo leggeva con estrema attenzione ciò che avevo scritto, finito di farlo la prima volta, ricominciò una seconda e poi una terza, come per voler essere sicuro di ciò che aveva sotto al naso. «E quindi vorresti che io parlassi di questa cosa?» disse a bocca aperta. «Sì, posso anche pagare una bella somma» risposi. «Non è una questione di soldi… hai idea della bufera che ne uscirebbe? E se alla fine nessuno riuscirà a scoprire se è vero ciò che dici sai quante denunce arriverebbero?» disse allarmato. «Massimo, ti prego, collabora, per piacere… lavatene le mani, inizia il video col dire che tutto ciò che racconti viene da Marco Zilioli, nome e cognome» proposi. «Non saprei, è una cosa tanto assurda Marco… poi comunque anche se faccio il tuo nome non posso diffondere qualsiasi cosa.» «Senti… ti garantisco che so quello che dico, ho anche delle prove… potrebbe essere la notizia per un tuo ulteriore salto di qualità, un’anteprima nazionale!» cercai di convincerlo. Sapevo come prendere Massimo, adorava il suo lavoro e inseguiva il sogno della popolarità giornalistica in modo maniacale. Restò in silenzio per un attimo e poi rispose che avrebbe accettato, perché anche se fosse stata una bufala, faceva lo stesso perché avrebbe i riflettori su di lui. «E riesci a caricare il video stasera?» chiesi. «Si, ma non lo faccio io da solo il video… parli anche tu» disse.

«Va bene, allora registriamo.» «Sì, poi per sistemarlo e tagliarlo ci penso io» confermò frugando nella borsa per prendere l’attrezzatura. Posizionò la telecamera sulla terza mensola della libreria che c’era sulla parete a lato della scrivania e cercò l’angolazione perfetta per riprenderci entrambi. «Pronto?» chiese. «Vai.» La lucina rossa sulla telecamera si accese, lui si sedette dal lato della scrivania opposto a dove ero seduto io. «Ben ritrovati su Max Real news… oggi puntata davvero speciale e sorprendente, abbiamo qui Marco Zilioli che ci racconterà una verità che riguarda un grosso scandalo che aveva interessato personaggi noti e importanti del nostro paese, faremo luce insieme a lui sulle controversie della faccenda che sembra aver ben altro epilogo rispetto a quello che tutti conosciamo. Prego, Marco» disse in tono brillante. Il video durò all’incirca otto minuti, avevo spiegato ogni minima questione e sparato a zero su politici, forze dell’ordine e mafia annessa. «Marco, lo carico stasera alle sette, ok?» chiese agitato. «E’ perfetto» risposi. Una volta che l’amico fu uscito dallo studio, restai ancora qualche attimo alla scrivania. Ero preoccupato per Silvia, non volevo le succedesse assolutamente niente di male. La mattina dopo, appena sveglio, sarei andato in carcere, poi tornato a casa per lasciare Stefania che, a quell’ora, sarebbe stata di ritorno dalla scuola di Roberta e, infine, andato da lei. Stavolta, però, senza dover scappare subito via. Salii in casa e attesi con ansia il momento della pubblicazione del filmato che, come previsto, arrivò puntuale.

La bomba era esplosa. Non si poteva più tornare indietro. Subito alla sera ci furono un sacco di visualizzazioni del video che venne condiviso sui social network, con tanto di commenti da parte di molta gente indignata. Quando andai a letto, non riuscii a chiudere occhio per tutta la notte, restai a fissare lo schermo del telefonino connesso a internet per seguire i vari sviluppi. Stefania non immaginava nulla, era persa nell’irreale mondo dei sogni e, ogni tanto, lanciava un mugolio. La mattina scesi sotto casa e montai in sella alla bicicletta, pedalai verso il carcere senza fare caso all’aria che sembrava accoltellare il viso con la sua lama gelida. All’edicola che c’era all’incrocio tra Viale Venezia e via Spalti San Marco, presi un giornale che, in prima pagina, aveva l’articolo su Rossi. SCANDALO! C’era scritto in grande e rosso, con un’immagine in bianco e nero, presa da repertorio, del signor Ricci. Sentivo un senso di responsabilità che premeva sulla testa e schiacciava a terra irrigidendo le gambe, come se di colpo la forza di gravità si fosse fatta di gran lunga maggiore. Avevo paura. Arrivato al cancello del carcere le due guardie bloccarono l’ingresso. «Lasciate are, devo vedere un cliente, il signor Rossi, sono il suo avvocato» dissi nel vano tentativo di are tra loro. «Non può entrare nessuno adesso, fino all’arrivo dei soccorsi e degli agenti, è appena successo un casino» rispose l’uomo di destra. «E cosa è successo?» chiesi. «Proprio il suo cliente è stato trovato poco fa impiccato… ha legato un lenzuolo alle sbarre e si è tolto la vita» rispose stavolta la guardia di sinistra.

«Lasciate che i!» urlai. In quel momento entrarono i volontari del 118 e li seguii fino alla cella, ignorai le guardie. “Ma non era in infermeria?” rammendai in quel tragitto. Lo spettacolo fu agghiacciante. Rossi pendeva inerme contro al muro sotto alla finestrella, ai suoi piedi un quotidiano con la notizia. Ero sconvolto, l’avevano ucciso e ne sentivo tutta la colpa, cosa avrei detto a Silvia? Le avrei raccontato che suo padre era stato ammazzato dopo la geniale idea di diffondere la scottante notizia? Uscii da lì e pedalai verso casa, avevo l’impressione di essere ubriaco, l’immagine del corpo senza vita era fissa davanti agli occhi, insopportabile. Avevo bisogno di correre da Silvia, per essere sicuro che almeno lei fosse al sicuro ma, prima, dovevo chiudere con Stefania, mantenere così la promessa. Non appena arrivai fuori dal portoncino di ingresso del palazzo, appoggiai la bicicletta al muro e spiai nella grata del garage per vedere se c’era già la macchina. No, Stefania non era ancora rientrata. Estrassi le chiavi dalla tasca del cappotto e cercai di centrare la serratura ma non era semplice visto che tremavo molto, sia per il freddo, sia per lo sconvolgimento emotivo. Avevo appena fatto il primo giro di chiave e sentii una silenziosa moto fermarsi sullo stradone, proprio alle spalle. «Marco?» chiamò l’uomo in sella. Era vestito con una tuta da motociclista in pelle nera, la visiera del casco era a specchio e riflesse la mia immagine che si voltava nella sua direzione. «Si?» risposi.

Alzò il braccio destro, in mano stringeva una pistola. Cercai di fare il più veloce possibile nel tornare a riafferrare la chiave e poi aprire il portoncino ma... Sentii l’esplosione della pallottola… Un improvviso dolore alla schiena…. Un fischio nelle orecchie che copriva ogni rumore… La vista annebbiata e sdoppiata… Senza volerlo, d’improvviso, pensai a Silvia, al fatto che non sarei più riuscito a rivederla e a dirle ancora una volta che l’amavo. Trovai la forza di voltarmi ancora, alzare lo sguardo verso l’uomo in nero e, poi, le gambe cedettero. Caddi in ginocchio. La pistola era ancora lì, con il suo sguardo freddo, ignara d’essere una portatrice di morte, abbracciata dalla mano di un assassino. L’immagine di Roberta fu l’ultima rapida visione, la più forte e sconvolgente… Sporsi in avanti le braccia aperte nell’illusione di abbracciarla… Un’altra esplosione… Il silenzio… Il buio.

SILVIA

Erano ato tre mesi da quando, per l’ennesima volta, la vita aveva voluto mostrare il suo lato più crudele. Dopo un’ultima lunga doccia calda nell’appartamento di via San Faustino, sedetti sul divano per mettere lo smalto ai piedi. Il vapore arrivato in soggiorno, che era uscito dal bagno, appannò il vetro della finestra e fece risaltare il TI AMO che avevo dedicato a Marco. Per tutto il tempo trascorso non lo pulii di proposito perché, rivederlo, dava sempre una grande emozione. Infilai un paio di jeans, un dolcevita nero, un maglione smanicato verde bottiglia con il collo ampio e, sopra, un pellicciotto nero, senza maniche anch’esso. Ero pronta a lasciare per sempre la città in cui avevo trascorso gli ultimi duri anni della vita, accompagnata da una piccola valigia che conteneva qualche vestito, la laurea, la lettera di Marco e i suoi soldi. Suonò il camlo, era il padrone di casa che, come d’accordo, doveva venire a ritirare le chiavi dell’appartamento. Dopo averle consegnate, scesi per quella stretta tromba di scale per l’ultima volta, senza provare la minima nostalgia verso la palazzina. Anzi. Un intenso sole splendeva in un cielo sgombro da ogni nuvola mentre dirigevo i i verso la metropolitana, con destinazione stazione dei treni. Sulla metro c’erano poche persone, una signora anziana con un bambino, credo suo nipote, e altre tre ragazze. Guardai fuori dal finestrino nel buio tunnel e ricordai Marco, a ciò che aveva fatto per me, il regalo più bello in assoluto che potessi mai ricevere. Grazie a lui, ora sapevo che papà in realtà era ancora vivo e, ancor più importante, non aveva mai smesso di amarmi e cercarmi. Alla fine il controverso caso fu archiviato e sotterrato, riuscirono a mascherare tutto con un pietoso resoconto: Rossi confermato incapace di intendere e volere, Zilioli attentato per questioni sconosciute. Attentato e quasi ammazzato.

L’ultima volta che lo avevo visto era stata settimana scorsa, da dietro una spessa protezione, nell’ospedale civile di Brescia. Un giorno, mentre ero seduta su uno sgabello nella saletta adiacente alla vetrata, vidi entrare una donna con una bambina e capii subito che era la moglie. Avevo inforcato gli occhiali da sole e ero rimasta a testa bassa a sentire il loro dolore, un pianto che sembrava non avere mai fine. «Signora, il cervello ha avuto delle lesioni importanti e diversi ematomi devono riassorbirsi, è già un miracolo che sia vivo» le disse un medico. «Ma riuscirà prima o dopo a rimettersi?» chiese la moglie speranzosa. «Sono cose impossibili da stabilire… certo che, qualora si svegliasse dal coma, il cervello sarebbe compromesso… dalla parte lesionata deduco che, con grande probabilità, non avrà ricordi, qualche difficoltà motoria e nel linguaggio… però in questi casi le certezze non esistono» rispose. La donna scoppiò a piangere, la bambina idem. Quel giorno capii che dovevo andarmene, non potevo aggiungere dolore alla sua famiglia e svelare che ero l’amante. Con tutta probabilità Marco non si sarebbe svegliato e, anche se il miracolo fosse avvenuto, non si sarebbe ricordato della nostra fugace storia. Andarmene e lasciarlo avvolto dall’affetto dei suoi cari senza creare casini fu una grande, faticosa e immensa prova d’amore nei suoi confronti. La metro si fermò sotto il piazzale della stazione ferroviaria, una volta salita entrai nella grande hall fatta a vetrate. Era dall’arrivo a Brescia che non ci misi più piede. Andai dove c’era il grande tabellone con tutte le mete europee che si potevano raggiungere con i nuovi treni superveloci, sedetti a terra e estrassi dalla tasca un dado che avevo portato. Il caso avrebbe indicato la via come lo aveva fatto la scorsa volta da Firenze a qui, tappa fondamentale e che era servita a scoprire la realtà su un ato terribile e in sospeso. Tirai il dado, uscì il numero tre. Alzai lo sguardo verso il tabellone e guardai che città era segnata al terzo posto:

Parigi. Andai verso il binario due dopo aver fatto il biglietto, il treno partiva entro venti minuti ed era già in posizione. Salii, il vagone era spazioso, cercai il numero di posto e fui contenta nel vedere che era di fianco al finestrino. Avevo molto sonno perché, la sera prima, Daniela era stata a chiacchierare fino a tardi, le dispiaceva un sacco che avessi preso la decisione di partire. Appoggiai la testa tra lo schienale e il vetro, infilai le cuffie del lettore mp3 nelle orecchie e chiusi gli occhi. Nel dormiveglia, avano dietro le palpebre le immagini dei momenti trascorsi con Marco, sentivo il cuore battere forte, spinto dal grande sentimento che provavo verso lui grazie al quale, ero del tutto cambiata, consapevole di ciò che potevo provare e dare. Avevo imparato ad amare e, soprattutto, lasciare che fossi amata. Cedetti al sonno cullata dalla scena ricordo nella quale abbiamo fatto l’amore l’ultima volta, con le note della musica leggera come sottofondo.

La cameretta era ben illuminata, intorno nessuna traccia dell’uomo malvagio… da accovacciata misi a sedere sul lettino, pieno di bambole di pezza. La piccola porta sul fondo della stanza si aprì, riconobbi subito Marco… si avvicinò. «Da grande sarai una donna fantastica» sussurrò… Allungò le braccia e mi prese in braccio, ricambiai e chiusi gli occhi per abbandonare corpo e spirito alla dolcezza del momento. Appena li riaprii, il volto di papà prese il posto di quello di Marco, lo strinsi subito forte con la paura che si dissolvesse in un istante… non successe… restammo abbracciati a lungo, una stretta amorevole come solo un padre può offrire.

Venni svegliata dal sole che riuscì a arrivare agli occhi con la sua luce, nonostante fossero chiusi. Guardai dal finestrino e vidi il paesaggio che ava, come d’altro canto poteva are tutto nella vita per poi finire dietro alle spalle, sempre più lontano. Io andavo avanti per un nuovo inizio con il sorriso sulle labbra e la certezza che, fino ad ora, ero riuscita a superare tutti gli ostacoli della vita per un solo motivo: Non ho mai smesso di sognare.

EPILOGO SILVIA

Alla mattina, il sole splendeva e faceva luccicare il corso d’acqua che ava dietro casa, creando l’illusione di sentir caldo anche se, la temperatura, era rigida come si conviene in Dicembre. Erano circa sette mesi che vivevo a Mont-de-Marsan, una graziosa città se con un clima mite, situata al limite della foresta delle Landes, non molto distante dall’oceano e posizionata alla confluenza dei due fiumi Douze e Midou, che si ricongiungevano in pieno centro per formare il Midouze. Dopo tre mesi a Parigi, dove avevo lavorato in un ristorante italiano, era giunta la risposta positiva a un annuncio di lavoro su internet al quale avevo inviato il curriculum. Un commercialista italo-se, con sede in questa cittadina. L’unico contatto che avevo con la vecchia vita era Daniela, ci sentivamo via messaggi ogni mattina per darci il buongiorno e, ogni tanto, via internet, facevamo delle lunghe videochiamate. Stavo bene e sentivo di aver raggiunto un buon equilibrio, ero riuscita già a creare delle amicizie con le quali, spesso, la sera ci incontravamo nelle nostre case a chiacchierare e mangiare un boccone. Nonostante molti pretendenti si erano fatti avanti, non sentivo proprio la necessità di nessun tipo di contatto con un uomo. Il cuore era ancora colmo dell’amore per Marco e questo bastava per essere felice, non desideravo altro. Dividevo l’affitto dell’appartamento vicino al centro, dove abitavo, con una ragazza indiana che gestiva un negozio che vendeva prodotti tipici della loro terra. Tra noi si era creata un’ottima empatia, avevo scoperto molte cose nuove sulla sua cultura e, in particolare, appreso delle tecniche di rilassamento molto efficienti, capaci di liberare la mente. Per andare al lavoro, come al solito, percorrevo a piedi Rue Gambetta, una delle

vie principali, e facevo tappa per la colazione in un bar a metà di quella strada. Entrai nel piccolo locale e sedetti al solito tavolino, in fianco alla vetrata. La cameriera venne a chiedere cosa gradivo e le risposi «Je prends l'habitude, merci». Ero orgogliosa di come avevo imparato in così poco tempo una nuova lingua e, ogni volta che la parlavo, provavo una certa soddisfazione. Dopo un attimo la cameriera portò al tavolo un caffè lungo, una spremuta d’arancia e un ottimo croissant, accompagnato da una tazzina contenente un assaggio di crema dolce che, ogni giorno, aveva un sapore differente. Siccome Daniela sarebbe venuta per qualche giorno durante le vacanze natalizie, mentre mangiavo, scrissi su un tovagliolo di carta le mete che avrei voluto mostrarle. Non stavo più nella pelle all’idea di rivederla, ero emozionata. Fu proprio in quel momento che il telefono vibrò. Un messaggio. “Eccolo il buongiorno” credetti, estraendo il terminale dalla tasca. Invece restai immobilizzata… La penna scivolò dalle dita e cadde sul pavimento… La voce della gente presente nel bar si spense… Il cuore batteva all’impazzata… Ciò che credevo fosse destinato a rimanere soltanto uno splendido ricordo, era di nuovo realtà.