Sefora Ziggiotti
Lungo la strada di casa
Titolo | Lungo la strada di casa Autore | Sefora Ziggiotti ISBN | 9788891139290 In copertina: "Country path at sunset" di Richard Buckner Gruelle Prima edizione digitale: 2014
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LUNGO LA STRADA DI CASA
CAPITOLO 1 – OLD TOWN
Era una fresca e soleggiata domenica di primavera del 1880. Erano le tre del pomeriggio e la strada che portava a Old Town, una cittadina nello stato del Kansas, non lontano dal confine con il Colorado, era percorsa a varie distanze da alcune carrozze e calessi che alzavano fastidiose nuvole di polvere. Dalla cima delle colline vicine si poteva osservare l’intera vallata, ora verdeggiante dopo l’inverno freddo, con gli alberi di nuovo pieni di germogli e di uccellini intenti a costruire i nidi per ospitare i nuovi piccoli. La strada serpeggiava nella pianura ando tra le dolci colline. Quel pomeriggio d’aprile era stata organizzata una festa per inaugurare ufficialmente la stagione agricola e dell’allevamento. Per le attività estive della cittadina c’erano molte cose da preparare e come diceva il sindaco White «non è mai troppo presto per iniziare a organizzarsi» In estate, infatti, avano diverse mandrie, dirette alla ferrovia per essere portate ai mercati di bestiame dell’est, con relativi mandriani e molti pionieri, diretti invece a ovest, che si fermavano per ristorarsi e questo faceva fiorire il commercio del paese e riempiva di fermento le vie della piccola Old Town. Su uno di quei calessi diretti alla festa c’erano i componenti di una delle famiglie più interessanti della città. La signora Catherine McArthur teneva abilmente le redini e il cavallo trottava allegramente verso destinazione. Il piccolo Billy, suo figlio, fremeva nell’impazienza di arrivare per incontrare tutti i suoi compagni di gioco ed era un po’ indispettito perché, a detta sua, lui e la sua famiglia erano in ritardo. «Ma che colpa ne ho io se non trovavo il cappello?» esordì dopo un lungo silenzio la ragazza che era con loro, che fino ad allora aveva tenuto il broncio. La madre rispose: «Se fosse stato un impegno improvviso, nessuna. Ma da quanto sapevi che oggi dovevamo andare in città?! Potevi organizzarti». «La verità è che Mary sperava che piovesse così la festa sarebbe stata annullata!» disse Billy. «Zitto!» rispose spazientita la sorella.
«Perché mai volevi questo?!» chiese Catherine. «Mmmmmh» mugugnò Mary. «Lo so io: le da fastidio vedere Margaret Boston che fa la civetta con Tyler Brigs!» disse vendicativo il bambino. «La vuoi smettere Billy?!» gli intimò Mary, dandogli un leggero pizzicotto sul braccio. «Questa di Margaret mi giunge nuova: ecco perché l’altro giorno dal droghiere la signora Boston mi ha guardato come se avessi commesso chissà quale colpa!» affermò la signora McArthur. «Oh per carità, mamma! La signora Boston guarda chiunque non sia reputato alla sua altezza come se avesse commesso un reato!». «Suvvia cara, non darti pena per queste cose, vedrai che quando sarà il momento giusto...». «Sì, sì... arriverà l’uomo giusto!». «Esatto. E poi io e tuo padre ti vogliamo ancora un po’ con noi a farci compagnia. Nonostante quello che pensi, ti vogliamo molto bene» rise la signora McArthur. «Sì, anch’io Mary»aggiunse Billy. La ragazza si arrese e sorrise al fratellino accarezzandogli la testa. La città di Old Town era costituita, come molte altre, da una lunga e ampia strada, ai cui lati si ergevano gli edifici dove la gente svolgeva le proprie attività. Entrando in città dalla strada che quel pomeriggio stavano percorrendo i McArthur, a sinistra si incontrava prima l’ufficio del telegrafo, seguito dall’ufficio dello sceriffo, dal barbiere e dall’albergo e, ultimo ma non certo meno importante per tanta gente del paese, il saloon. Dall’altra parte della strada c’erano la clinica del dottore e l’emporio, dove si poteva trovare di tutto e di più. La strada poi prendeva due direzioni, formando una “T”. Qui erano stati costruiti il municipio, la banca e alcune abitazioni. La maggior parte delle case erano sorte attorno a questi edifici e nella campagna vicina, dove molti contadini
gestivano un appezzamento di terra. Tutte le carrozze erano sistemate all’ombra degli alberi che delimitavano il boschetto vicino al grande prato della scuola, dove erano stati allestiti tutti i tendoni con le panchine e i tavoli per le vivande e le bevande. Mary per l’occasione aveva rispolverato (è proprio il caso di dirlo, dato che stava in un baule nel fienile) il vestito usato l’anno ato. Le andava benissimo: ormai a vent’anni si finisce di crescere e di buttare via le cose da un anno all’altro, anche se i McArthur cercavano di dare i vestiti che non usavano più a chi stava peggio di loro. Era appena scesa dalla carrozza quando vide il professor Wilson andare frettolosamente verso di lei. “Pare un cane in festa” pensò Mary, ma questo paragone non la fece per niente saltare di gioia. Comunque non poteva scappare. «Mary! Come state oggi?». «Bene, grazie professor Wilson». «Oh, chiamatemi William. In fin dei conti sono ancora giovane, sono appena uscito dall’università! E quella che sto facendo a Old Town è un’esperienza magnifica. Specialmente vostro fratello Billy ha un’intelligenza e un acume... credo sia una caratteristica di famiglia» disse il professore sorridendo quanto i muscoli facciali glielo permettevano. «Voi dite? Non so davvero. A me la scuola non è mai piaciuta» se ne uscì Mary, che sembrava desolata ma dentro di sé rideva tanto. «Ca... capisco...». «Scusatemi. Mia madre mi sta chiamando per darle una mano con i dolci che abbiamo portato». La ragazza si sentì chiamare. Si guardò attorno, quando vide un braccio alzato e una mano che andava di qua e di là per farsi vedere. Era Edward Buster, una faccia amica fortunatamente. E guarda caso stava parlando proprio con Tyler Brigs. «Ciao Edward. Ciao» disse, rivolgendosi per ultima a Tyler. «Tyler e io stavamo parlando di tuo padre».
«Davvero?!». «Si sa niente?». «Nell’ultimo telegramma di due giorni fa diceva che lo zio non stava molto bene. Temeva per lui». «Tu te lo ricordi?». «No, ero molto piccola l’ultima volta che l’ho visto». «Scusami Eddie» disse Tyler. «Certo». Tyler aveva visto la famosa Margaret Boston e si era congedato. Edward vide lo sguardo di fuoco, e allo stesso tempo disperato, di Mary. «Posso dirti quello che penso?». «Avanti!». «Tu sostieni che sia Margaret a fare la civetta con Tyler, ma a me sembra il contrario». «Già, hai ragione». «E, se posso dire un’altra cosa, se corteggia lei non si merita te e la tua famiglia». «E chi se la merita? Il professor Wilson?!». «Uh per carità. Ho visto l’impietosa scena e decisamente no!». I maliziosi potevano pensare, vedendo Edward e Mary, che ci fosse qualcosa tra loro, ma i maliziosi si fermano sempre alle apparenze anzi neanche a quelle perché non c’era tra quelle due persone un solo segno di amore. Erano amici ed erano molto diversi. Solo si rispettavano. Edward era molto ricco, di famiglia. Ma non ne aveva approfittato. Aveva imparato molto bene invece a gestire un ranch anche economicamente e a organizzarlo perché funzionasse in maniera
efficiente. Aveva ventinove anni, ma non era ancora sposato: cercava la donna raffinata e di classe, ma non con aria di superiorità, che volesse lavorare accanto a lui nella direzione del ranch. Era sempre vestito bene, non all’ultima moda forse, ma molto di classe. Aveva trovato in Mary una compagnia intelligente e semplice, forse, pensava lui, fin troppo semplice per stare nel suo mondo in maniera permanente. Dal canto suo Mary trovava modo di dirgli, seppur in minima parte, quello che le dava fastidio di Old Town e quello che la rendeva triste, ma non riusciva ad aprirsi completamente neanche con lui. Inoltre non pensava proprio a sposare un ricco, per quanto gentile fosse. In quanto ad altre amicizie non si potevano dire così profonde ed esaltanti. Certo, ci si trattava con tatto, cortesia e gentilezza. Ma se si cercava una compagnia intima, si rimaneva un po’ delusi. Almeno questo succedeva a Mary. Era la classica persona inquieta, ma non per qualcosa fuori di lei. O almeno, non solo. Era un’inquietudine interiore, che rodeva ogni volta che non stava facendo qualcosa che la impegnasse fisicamente o mentalmente e che la faceva sospirare. Aveva cercato, nel suo “amore” per Tyler Brigs che durava dall’adolescenza, di soffocare quest’inquietudine ma, al contrario, l’aveva resa ancora più grande perché l’inclinazione non era corrisposta. Aveva un carattere difficile: se le chiedevi cosa non andava, diceva “niente”. Ma si capiva che non era vero. Era alla costante ed estenuante ricerca di qualcosa di più, non materialmente o economicamente, ma mentalmente, emotivamente. L’unica cosa che la faceva star meglio era correre a lungo e pericolosamente a cavallo. Tutti in paese le avevano detto che correva troppo veloce, ma lei non era mai caduta e per questo non avvertiva il pericolo. Era molto brava, come suo padre, che le aveva insegnato a cavalcare e che quand’era più giovane non si lasciava scappare i trofei delle corse di Old Town e delle città vicine. Proprio per queste sue caratteristiche la gente faceva fatica a capire e ad avvicinare Mary. Era più facile parlare e avere a che fare con persone che si “accontentavano”, sempre in merito ai criteri summenzionati. Sembravano tutti nel loro luogo naturale tranne lei, come se fosse stata una pianta o un animale diverso e sconosciuto in mezzo a piante o animali tutti uguali. Se parliamo delle regole di comportamento poi... basti pensare alla risposta data al professor Wilson. Non riusciva a non dire quello che pensava o a non trasmetterlo col suo comportamento o modo di fare, anche quando obiettivamente era meglio “fingere”. I suoi genitori le volevano molto bene e non le facevano una colpa per com’era, però a volte erano preoccupati ed esausti per questo suo stato d’animo.
Comunque la festa proseguì fino a sera con canti e balli a cui ovviamente Mary non partecipò. Era lì, appoggiata contro uno dei pali che sostenevano le lanterne, e guardava tutte quelle persone girare e girare sulla pista di legno che era allestita per l’occasione. Seguiva con lo sguardo Tyler Brigs, che ballava ora con l’una, ora con l’altra ragazza, e le venne in mente di aver visto una scena simile la mattina, nel pollaio di casa, con il gallo che si atteggiava di fronte a tutte le galline. In quei momenti si chiedeva perché quel ragazzo le pie tanto: era, lo vedeva, sempre gentile, disponibile, scherzoso e si riusciva anche a ricavarne qualche discorso serio. Insomma, in paese era uno dei pochi che riuscivano a farsi piacere da tutti. “Se è così, allora cosa c’è che non va?” si chiedeva Mary. In effetti anche con lei era gentile e simpatico, ma avvertiva una certa sufficienza, un trattamento di cortesia che adottava non tanto per il fatto di avere a che fare con Mary in particolare, ma piuttosto perché era stato abituato a trattare tutte le persone così. Piuttosto da quando aveva visto che a lei, dopo tanto tempo, lui piaceva ancora, l’aveva ignorata quanto l’educazione glielo permetteva, anzi forse un po’ di più. Mary si odiava per questo. Sì, odiava se stessa perché non era all’altezza di quella persona e di quella situazione, ma allo stesso tempo sapeva di non poter cambiare la sua essenza, soprattutto perché non c’era niente di male a essere se stessi, semplici, senza complicazioni sociali, perché le piaceva essere libera da obblighi comuni a tutte le persone che amano stare in società. Se si fosse chiesta in giro un’opinione sui McArthur, comunque, tutti avrebbero detto che erano una degnissima famiglia anche se avrebbero aggiunto diversi “però”, ma loro, i McArthur, pareva non ne fossero sconvolti. Erano nati lì sia Sam (il capofamiglia ora in visita al fratello malato che abitava a Washington) che Catherine, si erano sposati venticinque anni prima e, dopo cinque anni ati a sistemare una degna dimora con il duro lavoro, nacquero prima Mary e dopo altri nove anni Billy. Ora riuscivano a mantenersi bene con l’agricoltura e qualche lavoro stagionale. Non erano ricchi ovviamente, ma neanche poveri. Vivevano bene. Mary sarebbe voluta andare via da Old Town, se non per sempre, almeno per un po’ in modo da vedere posti nuovi e conoscere gente nuova, ma non ne aveva mai l’opportunità. La ragazza ne soffriva, però riusciva a compensare la mancanza di viaggi personali leggendo a più non posso i libri che trovava nell’emporio in paese o facendosi prestare quelli di Edward, che aveva una biblioteca ben fornita. Il suo posto preferito per leggere era in fienile, sopra la
stalla, tra il fieno e i topolini che immancabilmente facevano i loro nidi lì, ma non le davano fastidio; anzi, portava loro qualcosa da mangiare quando poteva, a patto che non entrassero in casa a svuotare personalmente la dispensa. Da lì riusciva anche a sentire i nitriti e gli sbuffi di Wild, il suo cavallo, con cui faceva le tanto famigerate cavalcate. Così ò l’ennesima sera, l’ennesima festa, da spettatrice e tornata a casa si buttò mestamente sul letto, addormentandosi mentre piangeva. Il giorno dopo, lunedì, Mary tornò in città per accompagnare Billy a scuola e fare delle commissioni per il padre assente. Stava camminando lungo il porticato sotto l’albergo cittadino quando arrivò il signor Steel, il telegrafista. «Ciao Mary. Cercavo proprio qualcuno della vostra famiglia. È appena arrivato questo da Sam... Condoglianze» disse mestamente Steel porgendo il telegramma a Mary, che dopo averlo letto sospirò tristemente. «Grazie, credo che andrò subito a casa a informarne mia madre». La ragazza salì sul carro e corse a casa. Arrivata, entrò di tutta fretta, ma vedendo che sua madre non c’era, andò nel retro dove abitualmente lavavano la biancheria e la trovò lì a strofinare panni. «Mamma, è arrivato un telegramma di papà! Te lo leggo...». «Sì, tesoro» disse la donna, in attesa, approfittando di quella pausa inaspettata per asciugarsi le gocce di sudore che aveva sulla fronte a causa dell’intenso lavoro e mettersi a sedere su una panca. Il telegramma informava brevemente la famiglia che il fratello di Sam era morto e che lasciava sola una figlia di venti anni. Sam sarebbe ritornato a casa proprio con lei. Ovviamente ogni spiegazione era rinviata a quel momento previsto una settimana dopo. Catherine era scioccata e dispiaciuta, pensava al dolore del marito e della nipote, ma era anche incuriosita dal fatto che sarebbe arrivata anche lei, Susan, la bambina, ormai cresciuta, che non vedeva più dall’età di cinque anni.
«Arriverà con mia cugina Susan...» affermò nuovamente Mary, altrettanto triste e incredula. Catherine racchiuse in un sospiro tutti i pensieri che le vennero in mente riguardo a suo cognato, ma che non voleva esprimere a parole, poi disse: «Te la ricordi Susan?». «No, quasi per niente. Come non ricordavo lo zio del resto». «Immagino. Avevate la stessa età quando vi siete viste per l’ultima volta. Sai, tuo zio è sempre stato un tipo ambizioso, non si accontentava mai di quello che aveva, così giovanissimo si mise in affari con certa gente... Sia tuo padre che i tuoi nonni lo sconsigliarono, ma i soldi erano un richiamo troppo forte. Fatto sta che le cose, non so bene come, gli andarono per il verso giusto e riuscì a ottenere una certa agiatezza. Si sposò con la figlia di uno dei suoi collaboratori, possiamo chiamarli così, e subito dopo nacque Susan...». «Quindi tu eri già sposata con papà?». «Sì, sì... e incinta di te». «Non ne avete mai parlato molto in famiglia. Insomma Billy e io sapevamo solo che esistevano. Come mai me ne parli adesso?». «Sei grande ormai e poi tuo padre non vorrebbe mai parlarne. Non so in che stato d’animo verrà a casa, e Susan poi...». «Zia Emily è morta qualche anno fa, vero?». «Sì, di malattia; ma noi lo sapemmo solo molto dopo». «Che tristezza. Non dovrebbero mai crearsi queste situazioni tra parenti... tra fratelli!.». «Già, ma purtroppo accade. Comunque dobbiamo subito darci da fare. Susan avrà bisogno di un posto dove dormire». «Può tranquillamente prendere la mia stanza. Io dormirò con Billy, anche se ormai eravamo contenti di avere ognuno la propria camera».
«Immagino. Ma non sarà necessario, anzi credo che le farà bene non restare da sola in una casa che non conosce e con quello che sta ando. Metteremo un letto in più nella tua stanza. L’armadio è abbastanza grande per due. Non ci saranno problemi». «Almeno speriamo...».
CAPITOLO 2 – NUOVI ARRIVI
Come previsto sette giorni dopo sulla diligenza viaggiavano sia Sam che sua nipote, così tutti i McArthur erano ad attenderli in paese, fremendo per l’emozione e per l’incertezza su come comportarsi con una parente sconosciuta. Speravano che durante il viaggio Sam avesse rincuorato Susan sul fatto che avrebbero fatto tutto il necessario perché si ambientasse nella nuova casa e si abituasse a vivere in campagna lontano dagli agi della città. La più agitata era Mary, che pensava a come poteva essere quella ragazza della sua età cresciuta a Washington. Era spaventata dai paragoni che la gente poteva fare con la nuova arrivata, sapeva che dopo un po’ avrebbero cominciato a dire: «Mary non è come sua cugina, purtroppo!». Insomma nella sua mente stavano covando pensieri carichi di attacchi alla sua autostima, come nuvole di un temporale cariche di grandine, quando da lontano vide avvicinarsi la nuvola della diligenza. Mancava poco ormai al tanto atteso incontro. Avevano fatto in modo di non spargere troppo la voce dell’arrivo di Susan per non essere circondati da una folla di curiosi che evocassero la memoria del padre e la subissassero di domande appena scesa dalla carrozza. Si erano seduti tranquilli sulla panca, fuori dell’ufficio del telegrafo, dove la diligenza si fermava sempre, e attendevano. La carrozza arrivò e si fermò, il conducente e il suo compagno di viaggio scesero tutti impolverati, si sbatterono i vestiti e aprirono la porta per far scendere i eggeri. Un attimo di esitazione, poi i McArthur videro apparire il cappello di Sam che scese e li salutò velocemente con un cenno del capo, dopodiché si girò e aiutò Susan a scendere. Era una figura tremante, vestita di nero, abbastanza alta, pallida, stanca dal viaggio in carrozza, e prima ancora in treno, e sicuramente dallo stress per il lutto, però con dei bei capelli scuri raccolti in una pettinatura ricercata sotto il cappello. Sospirò lievemente, poi si fece accompagnare verso i parenti. La prima a fare gli onori fu la signora McArthur che le strinse la mano e l’abbracciò teneramente. Poi le presentò Billy, che si tolse il cappello e sfoderò un bel sorriso di benvenuto. Infine toccò a Mary, che abbracciò e baciò la cugina tenendole stretta la mano. Lei sembrava compiaciuta delle attenzioni dei parenti, ma alquanto frastornata per il viaggio. I suoi occhi guardavano tutto intorno senza una precisa meta ed erano arrossati, forse dalla polvere della strada, ma
molto più probabilmente dalle lacrime che fino a poco prima erano scese sul suo viso. «Se vuoi, Susan cara, possiamo fermarci all’albergo così potrai rinfrescarti un po’ prima di andare a casa» disse Catherine. «No, non preoccuparti. Forse però berrò un po’ d’acqua». Intanto Sam aveva preso i bagagli, tre grandi valigie, e le aveva caricati sul carro. Per quanto Catherine e i suoi figli fossero stati discreti, quando arrivò la diligenza diverse persone erano presenti,come sempre curiose di vedere chi ci viaggiava. Così i McArthur montarono sul carro il prima possibile e si diressero verso casa, dopo che Sam aveva dato una veloce spiegazione a tutti i presenti. Lungo la strada incrociarono Edward Buster sul suo cavallo tirato a lucido. «Salve gente. Sono ato a casa vostra, ma non c’eravate. Così mi sono ricordato che oggi tornava Sam». «Salve Edward» disse Sam, che essendo il capofamiglia aveva assunto il ruolo della controparte nel dialogo. «Sì, sono tornato e questa che viaggia con noi è mia nipote Susan». «Molto lieto» disse Edward facendo un cenno con la mano sul cappello. «Mary mi aveva parlato di voi. Spero vi troverete bene qui». «Grazie»rispose lei, alquanto sorpresa di quella figura distinta in mezzo alla campagna. «Hai detto che ci cercavi»ricordò il signor McArthur. «Sì, volevo sapere se avevate bisogno di qualcosa». «Eddie è stato molto gentile» intervenne Mary, che si sentiva tagliata già fuori «ci ha dato una mano per mettere a nuovo la mia stanza per l’arrivo di Susan...». «Sì, le donne McArthur sanno essere molto convincenti. Non potevo rifiutare loro il mio aiuto, dopo aver ricevuto la promessa di una torta al miele della
signora Catherine». «Sì, credo che me la farò fare anch’io adesso che sono a casa» disse Sam. «Comunque ti ringrazio, ma per il momento non abbiamo bisogno di niente». «Va bene. Allora ne approfitto per andare in città. Arrivederci». Si salutarono e ognuno andò per la sua strada. Dopo un po’ il carro si fermò finalmente nel cortile davanti casa McArthur. Tutti scesero, la signora McArthur prese Susan per mano e la condusse dentro, mostrandole brevemente la casa (non era molto grande del resto). Si entrava direttamente nella cucina che fungeva anche da salotto. A sinistra c’era la parete di pietra con il caminetto e due poltrone sistemate di fronte e, ai lati del focolare, una libreria. A destra c’era la stufa con il forno, le credenze e un lavandino con il rubinetto a leva. Nella parte posteriore della casa c’erano le camere: partendo da sinistra c’era quella di Mary, poi quella di Billy e infine quella di Sam e Catherine. La latrina era esterna e per farsi il bagno portavano in casa una vasca in metallo che tenevano nella stalla. Catherine fece accomodare Susan nella camera di Mary. A destra c’era l’armadio che occupava quasi tutta la parete, in fondo alla stanza trovava posto una piccola scrivania e sul muro degli scaffali per i libri; a sinistra c’erano le due finestre che illuminavano la camera e, vicino a ognuna, un letto. «Ecco, qui dorme Mary, che dividerà volentieri la stanza con te. Scegli pure tu dove vuoi il letto, se preferisci quello vicino alla porta o quello più in là. Abbiamo liberato metà armadio e qui c’è il catino con l’acqua. Se vuoi fare un bagno, devi solo chiederlo e prepareremo la vasca...». «Grazie...Vi ringrazio tutti. Ora vorrei riposare e rinfrescarmi un po’» disse frettolosamente Susan, facendo capire che voleva restare sola e chiudendo poi la porta dietro di sé. Si guardò attorno e subito pensò a quelle che fino a pochi giorni prima erano state la sua camera da letto, la sua casa e la sua città e non poté che avere un nodo in gola; ma, in cuor suo, decise che non si sarebbe mostrata debole. Gli altri la lasciarono sola e iniziarono a preparare il pranzo. Mary e i suoi si guardavano con fare confuso e preoccupato. Per uscire da quello stato d’animo suo padre iniziò un discorso diverso dicendo: «È stato davvero gentile Edward Buster. È proprio un buon amico, vero Mary?».
«Sì» disse lei senza dare troppa importanza alla cosa. «E senza dubbio si comporta meglio di Tyler Brigs!». «Papà... non faccio metri di paragone! Edward è un amico!». «E Tyler Brigs uno che quando cammini per la strada e lo incroci neanche quasi ti vede!». «Ma si può sapere perché hai tirato fuori l’argomento? Chiedi a mamma e ti dirà che in questi giorni non ho menzionato una sola volta Tyler nei miei discorsi!». «Nei tuoi discorsi no...» intervenne Catherine «ma nei tuoi pensieri? Ti vedo: sei triste, spesso hai gli occhi lucidi. Mi fa male vederti così!». «Ma non è per Tyler Brigs!». O almeno lo era solo in parte. Era questo che tutti non riuscivano a capire: c’era di più in lei che una ventenne con una cotta, c’era di più sulla terra di una cittadina di nome Old Town e dei suoi abitanti. «Tanto è inutile parlarne. Vado fuori a prendere della verdura nell’orto. Billy mi darà una mano». Così fratello e sorella raccoglievano verdura e intanto Mary borbottava nervosamente sul discorso appena avvenuto. «Lo sai che il professor Wilson mi chiede sempre di te?» disse Billy. «Ah, davvero?! E tu cosa gli dici?» domandò Mary che non aveva la forza di sostenere anche quella bordata. «Cerco, come mi hai detto di fare tu, di... diffamarti ai suoi occhi. Gli dico che sei una sfaccendata e che non fai altro che leggere tutto il giorno, ma lui allora loda la tua profondità filosofica e culturale. Io gli dico che non c’è niente di filosofico nei libri che leggi, sono romanzi d’avventura e libri sul mondo, ma allora lui rammenta tutte le tue conoscenze geografiche sopra la media cittadina... è un caso senza speranza!». Poi si voltò, ma Mary era già sparita. Era andata nel fienile a trovare i suoi topi; loro al massimo squittivano, ma non blateravano di Brigs, Buster o Wilson. Catherine uscì di casa e chiamò Mary a gran voce: «Se non hai voglia di cucinare e raccogliere verdura, perché non mostri a Susan, che è uscita dalla
stanza, i dintorni?». «Vengo» disse rassegnata lei, sorridendo all’idea della reazione di Susan al possibile incontro con i topolini. Povere bestie, non si meritavano i prevedibili acuti di una ragazza ben educata di Washington. Era inoltre infastidita dall’accusa di non voler lavorare, erano i suoi genitori a farla scappare. Comunque Mary prese a braccetto Susan e la condusse a esplorare brevemente i dintorni. Di fronte alla casa c’era la stalla dove Mary portò la cugina a conoscere Wild e si fece strappare la promessa di farlo cavalcare un giorno alla nuova arrivata. «Sai andare a cavallo almeno?». «Certo!» disse Susan quasi offesa «sono andata a scuola per imparare. Ero una delle migliori», «Allora dev’essere una caratteristica di famiglia. A me ha insegnato mio padre». «È un brav’uomo. Mio padre ne parlava molto spesso...». Mary a quel punto avrebbe voluto chiederle di più sullo zio Alfred, ma Susan proseguì subito la conversazione per non lasciare momenti di imbarazzante silenzio: «Hai molti amici qui?». «Non molti, a dire la verità. Uno l’hai conosciuto prima. Edward Buster. Ha un ranch poco lontano da qui. Se vuoi un giorno possiamo andare a trovarlo». «Certo. Mi è parso un uomo molto distinto. Sua moglie sarà certamente una delle donne più belle del paese». «Moglie?! Oh no. Edward Buster non è sposato! La sola idea lo fa ridere. Non perché non voglia, ma perché non gli piace nessuna ragazza di qui!». «Ma quanti anni ha?». «Ventinove». «Davvero?! Gliene davo di più!».
«Sì, forse perché è brizzolato e ha un aspetto elegante, tipico di gente un po’ più grande». «Nell’anno che rimarrò qui avrò modo di conoscere molte persone». «Nell’anno?! perché? Rimani solo un anno?». «Dimenticavo. Tuo padre voleva parlarne quando fossimo stati tutti insieme». Mary non chiese altro, pensava che Susan fosse fidanzata e che si dovesse sposare, ma neanche questa ipotesi la convinceva. A pranzo il signor McArthur disse: «Bene. D’accordo con Susan credo sia giunto il momento di dirvi cosa è avvenuto a Washington. Mio fratello Alfred in presenza del notaio, di sua figlia e mia ha dichiarato che Susan, prima di ricevere l’eredità, dovrà trascorrere un anno qui con noi. L’ha posta come condizione tassativa. Non ha voluto fornirci le ragioni di questa decisione. Ma vorremmo sicuramente rispettare le ultime volontà di mio fratello. Sono sicuro che tra un anno, quando Susan riceverà quello che le spetta, saranno fornite ulteriori spiegazioni». Tutti i presenti erano silenziosi, non sapevano cosa dire. Certo che sentirsi tra Susan e la sua eredità, che stando a quanto diceva Catherine doveva essere consistente, era un po’ imbarazzante. Cosa voleva Alfred con questa sua ultima richiesta? Forse riunire la famiglia? Questa era la spiegazione che Mary riusciva a darsi, ma l’idea che per riunire delle persone si dovesse ricorrere a una clausola del genere la faceva star male. Guardava Susan e non capiva che tipo di persona fosse. Soprattutto non dava grande mostra di provare emozioni di nessun genere, anzi sembrava indifferente a ogni cosa, come se nulla fosse successo, come se lei non fosse lì. Nei due mesi che trascorsero molte famiglie di Old Town fecero visita ai McArthur per conoscere la nuova arrivata e farle le condoglianze, oltre a rammentare vari episodi di gioventù del padre. Lei era amichevole e il resto della famiglia era stato un po’ messo in disparte. Quella che ne soffriva di più era senza dubbio Mary. Vedeva la gente così soddisfatta di avere a che fare con sua cugina, perfino Edward non le dava più tanto conto, mentre preferiva ascoltare il racconto della vita di Susan e parlargli di come lui stesso aveva affrontato dei dolorosi lutti in famiglia. Un giorno si presentò alla fattoria Tyler Brigs,
accompagnato dalla madre. Eccolo lì, a fare sfoggio della sua arte di conversazione e della sua capacità di avvicinare subito le persone nella maniera giusta. Avevano persino portato un dolce e dei fiori. Mary pensava all’anno prima, quando era stesa a letto con la febbre alta e delirante e nessuno era venuto a farle visita o si era interessato di sapere come stava, a detta sua. Invece molti erano stati in ansia per lei, solo che per “nessuno” Mary intendeva Tyler come se fosse l’unico essere umano sulla terra. Salutarono tutti, senza far caso al fatto che Mary non ci fosse (o meglio era in stalla a mungere la vacca). Si accomodarono in casa, anche se Billy aveva cercato di dirigersi verso la stalla per chiamare la sorella, ma era stato fermato prontamente da suo padre che gli mise la forte mano sulla spalla e lo accompagnò in casa. Mary ribolliva dentro, non tanto per Tyler, ma per la sua famiglia! Sembravano essersi dimenticati di lei! O lo facevano di proposito! Insomma era talmente accecata dal dolore e dallo sconforto caricato in quei giorni che non ragionava più. Il colpo di grazia fu assistere dalla stalla a quando Susan accompagnò fuori i visitatori con tutta la sua grazia e gentilezza, strappando alla signora Brigs diversi complimenti e soprattutto: «Speriamo che tu ti possa trovare bene qui e decida di rimanere. Ne saremmo davvero contenti, vero Tyler?». Dopo che i due se ne furono andati, Mary entrò in casa sbattendo la porta e trovò sua madre. «Bene!» disse «che scenetta illuminante! Potevate avere la decenza di chiamarmi e di rendermi partecipe di questa visita!». «Tesoro, calmati...». «Calmarmi! Sono più di due mesi che quando andiamo in città non facciamo che dover aspettare Susan che viene fermata da qualcuno che le deve parlare o che non fa che venire gente qui in casa. E mi guardano come se io dovessi interrompere quello che sto facendo, cioè lavorando per contribuire al mantenimento di questa famiglia, e andare dietro a loro e alle loro chiacchiere». Urlava sempre di più. «E perché vengono qua?! Per fare le condoglianze a una che neanche conosciamo, che si è insediata comodamente in casa nostra nell’attesa di ricevere la sua ricca eredità e di salutarci tutti quanti, mentre non fa niente tutto il giorno se non offrire tè e biscotti a quanti vengono ad ammirare la sua compitezza e grazia da gran signora! Non ha pianto una sola volta da quando è qui! E tutti vengono a consolarla!».
Ci fu un attimo di silenzio. Catherine non sapeva che cosa dire alla figlia: avrebbe voluto prenderla a schiaffi, ma comprendeva che non era lei a parlare bensì la rabbia e l’orgoglio ferito. Poco dopo sentirono dei movimenti nella stalla e Wild che nitriva furiosamente. Uscirono e videro Susan in sella al cavallo, lanciato a più non posso al galoppo. Billy era lì fuori e disse semplicemente: «Ha sentito tutto». Mary si sarebbe voluta uccidere, ma non era il momento. Corse nella stalla, prese l’altro cavallo che avevano, lo sellò in fretta e partì all’inseguimento della cugina. Anche se Wild era più veloce, Mary confidava nel fatto che l’amato cavallo era restio a farsi cavalcare da qualcun altro. Infatti poco dopo gli stava dietro. Avrebbe voluto gridare qualcosa a Susan per farla fermare, ma pensava fosse inutile. Comunque riuscì ad affiancare Wild, solo che la cugina era del tutto decisa a non farsi prendere. Schiaffeggiava Mary sul braccio quando tentava di prenderle le redini e gridava: «Ti odio! Ti odio!». «Susan! Ti prego calmati! Perdonami!» gridava Mary. La ragazza non voleva sentire ragioni e non fermava il cavallo. Era lì che si dimenava furiosamente. Mary, a un certo punto, non ci vide più e le rifilò un pugno per intontirla e avere il tempo di fermare Wild. Ci riuscì, ma Susan scese tutta scossa dalle parole e dalle azioni della cugina. Era diventata isterica. Poi all’improvviso scoppiò a piangere e si lasciò cadere sull’erba. Mary si avvicinò, si sedette e l’abbracciò per calmarla; Susan la stringeva così forte che la cugina si sentiva soffocare, sarebbe voluta tornare indietro nel tempo e non aver detto quelle parole. Si mise a piangere anche lei, poi disse: «Mi dispiace Susan. Ero fuori di me dalla rabbia, lo so che non è una giustificazione e non ho pensato a quello che dicevo. Perdonami, ti prego!». Tra i singhiozzi Susan rispose: «Io mi sento così male qui! Non è il mio mondo! Tutte quelle persone che vengono e parlano di papà non lo conoscevano! Lui quando parlava di questo posto era triste! Però... però di voi ha sempre parlato con rispetto! Mi hanno ucciso le parole che hai detto!». «Lo so! Mi sono fermata alle apparenze e non ho provato a mettermi nei tuoi panni! Odio questo comportamento negli altri e non l’ho visto su di me! Sono stata sciocca e impulsiva! Mi sono fatta portare dai sentimenti feriti... e mi
dispiace». «Non voglio essere di peso, ma... mi sento completamente distante da tutti voi! Non so perché mio padre abbia voluto mandarmi qui!». «Senti Susan... ti prometto che d’ora in avanti non sentirai più dalla mia bocca una sola parola di biasimo. Ti aiuterò in tutto quello di cui hai bisogno finché sarai qui. Non ti sentirai più sola o smarrita!». «Oh grazie Mary!» disse scoppiando di nuovo a piangere. Poi le due ragazze riuscirono a rimontare in sella e andarono verso casa. «Perché te la sei presa tanto per come i tuoi hanno accolto quel ragazzo e sua madre?» chiese Susan. Mary sospirò: «Ti devo una risposta. È giusto... il fatto è che Tyler mi piace molto, da tanto tempo ormai. Ma lui non mi considera e i miei mi lasciano in disparte per non farmi fare una brutta figura. Prima non c’ho visto più dalla rabbia. Sono proprio una sciocca!». «No... è normale sentirsi feriti». Mary fu sorpresa di quella risposta e per la prima volta riuscì a vedere la cugina sotto una luce diversa. Sentiva che il suo mondo stava cambiando, solo non sapeva quanto ancora sarebbe cambiato, solo poco tempo dopo. Erano ati un po’ di giorni, tutto sembrava andare per il meglio. Susan cominciava ad aprirsi con la famiglia e a esternare il suo dolore. Li aiutava nelle faccende di casa. Voleva imparare tante cose. Mary, un giorno, disse a Edward, che era andato a trovarli: «Susan si sta dando molto da fare. E il bello è che in tutto ci mette grazia e signorilità!». «Non credevi fosse possibile?» domandò Edward. «No. Certo con me non funzionerebbe!» esclamò Mary, ma senza invidia.
Fatto sta che le cose procedevano talmente bene che, come in ogni storia che si rispetti, doveva arrivare un nuovo momento nero. Sempre per Mary. Un pomeriggio giunse alla fattoria con il suo calesse il professor Wilson. Susan era stata informata da Mary dell’aria che tirava tra i due, così andò subito ad avvertire la cugina dell’arrivo del guastafeste, perché lei potesse prepararsi ad affrontarlo come si meritava. Ogni cosa di quell’uomo la irritava profondamente. Era il classico tipo che non voleva far torto a nessuno, che non aveva un’opinione definita su niente, la mutava secondo il bisogno. «Sta parlando con tuo padre» disse Susan, spiando da dietro la tenda della finestra che dava sul cortile. «Chissà che se la sbrighi lui!» disse Mary. Poi Sam entrò, lasciando Billy a fare la guardia al professore. «Ascolta Mary: quell’uomo mi ha chiesto il permesso di chiederti di frequentarlo. Se io glielo negassi potrebbe pensare che noi non vogliamo vederlo, ma potrebbero restargli dei dubbi sui tuoi sentimenti per lui. Quindi, secondo me, faresti bene a dirgli tu di no. Così te lo leverai di torno, speriamo!». «Se vuoi una cosa fatta bene...» disse Mary, afferrando la maniglia della porta per andare fuori. «Salve professor Wilson!». Lui stava per aprir bocca, ma Mary proseguì senza fermarsi, per avere la forza di andare fino in fondo in ciò che doveva dirgli. «Vediamo di sistemare la questione una volta per tutte, per piacere. Mio padre mi ha informato delle vostre intenzioni. Io sono sicura che sono senz’altro buone, ma vedete... non sono proprio il tipo per voi e soprattutto voi non siete il tipo per me! Vi prego di capirlo e di andare per la vostra strada!». Il povero Wilson cominciò a frignare e a mugugnare qualcosa sull’impossibilità di giudicare una cosa senza averla prima provata. Mary aveva chiuso le orecchie a ogni discorso e pregava il professore di andarsene. Quello stava sempre peggio.
Dentro Susan chiedeva allo zio se non fosse il caso di intervenire. «Ancora no» fu la risposta. A un certo punto videro Mary che portava il professore verso il calesse. «Sentite: io non giudico voi. Giudico me stessa, perché mi conosco e vi dico che non se ne fa niente!». Wilson montò sul calesse tutto invasato. «Vedrete che ve ne pentirete, Mary!». Poi se ne andò via a tutta velocità, spaventando le galline che mangiavano nel cortile. Mary era esausta. Le mancava il respiro, guardava verso dentro, in casa cercando di cogliere lo sguardo di qualcuno. «Poveretta, che farà adesso?» domandò Susan. «Se la conosco bene, prenderà Wild e si farà una lunga cavalcata. È quello che ci vuole per lei» disse Sam. «Non sarebbe meglio parlarle invece?». «Prova, se vuoi». Ma quando Susan era uscita, Mary era già sul cavallo. «Mary, aspetta!» gridò la cugina invano. La ragazza era lanciata al galoppo. Non riusciva a capire: faceva di tutto per essere sincera verso se stessa e gli altri, cercava di migliorare, sapeva di non essere perfetta. Eppure l’unico che riusciva a vedere qualcosa in lei, qualcosa che oltretutto non c’era, una fabbricazione fantasiosa, era il professor Wilson, che lei non sopportava. Wild correva senza guida, Mary c’era semplicemente buttata sopra e piangeva, piangeva. Era talmente sconvolta che non si rendeva neanche conto del pericolo che correva, andando così a cavallo. Davanti a Wild si presentò un grosso tronco di un albero abbattuto dal vento. Lui era abituato a saltare gli ostacoli, non c’erano mai stati problemi, così saltò
anche quello, ma Mary era troppo sbilanciata e cadde rovinosamente a terra gridando prima di perdere conoscenza. Mary aprì gli occhi. Non sapeva quanto era stata svenuta. Avvertiva di essere appoggiata con la schiena su un albero. Sulla testa dolorante sentiva il sollievo di un panno bagnato con dell’acqua fresca. Provò ad aprire gli occhi, la luce era fastidiosissima. Tutto le faceva male. Intravide, poco più in là, una sagoma piegata in avanti. Sentiva lo scorrere dell’acqua di un ruscello. Realizzò che si trattava di quello non distante dal luogo dov’era caduta, un posto che conosceva bene. Voleva provare a dire qualcosa, ma le uscivano dalla bocca solo dei lamenti confusi. La sagoma si girò, sentendola, e venne verso di lei. Aveva una borraccia in mano. Le mise una mano dietro la testa per sostenerla e le diede da bere. A poco a poco Mary cominciò a vederci meglio. «Avanti» disse una voce maschile. «Non hai niente di rotto. Solo una bella ferita sulla fronte e immagino molti ematomi domani». Il primo pensiero di Mary fu per Wild: «Dov’è il mio cavallo?». «È qui vicino, non preoccuparti». «Sono caduta da cavallo. È la prima volta». «Allora devi essere molto brava, specie se usi sfiancare così quella bestia». Mary non riusciva a credere alle sue orecchie, qualunque altra persona l’avrebbe rimproverata e le avrebbe detto che era matta; provò a ridere, ma anche quell’azione le faceva male. Era intenta a osservare questo strano soccorritore. Era abbastanza alto, magro. La faccia era giovane, ma per lei era tutto confuso. «Dovresti cercare di dirmi dove abiti. Così andrò a cercare aiuto». «Da quanto sono qui?». «Da che ti ho trovata, sei rimasta svenuta per un ora circa». «Un’ora? Dovrebbero venire a cercarmi».
«Finora non sono venuti. Ma non mi fido a lasciarti qui da sola mentre vado in cerca di casa tua. Dovrò fare una barella da attaccare al cavallo e portarti con me...». Mary, nella confusione della sua mente, non riusciva a realizzare perché uno sconosciuto le desse del “tu”. All’improvviso si sentì gridare in lontananza: «Mary! Mary! Dove sei?». A queste voci Wild si agitò e nitrì. «Mary? Così ti chiami?». «Sì, devono essere i miei. Visto?». «Allora credo che tu non abbia più bisogno di me. Slego il tuo cavallo. Loro lo vedranno e verranno qua. Spero che tu stia meglio presto». «Aspettate!» disse la ragazza provando ad alzare la voce, ma l’uomo se n’era già andato nel bosco. Poco dopo arrivò il carro su cui c’erano Sam e Susan, che videro Mary e subito la soccorsero. Lei non disse niente di quello che era successo. Temeva che quell’uomo, da come si era comportato, avesse qualcosa da nascondere e non voleva creargli problemi. Portarono Mary in paese dal dottore, perché non era presa affatto bene. Il medico decretò un trauma cranico e disse che voleva tenerla un po’ di giorni lì in clinica. La madre arrivò la sera con la camicia da notte e dei vestiti puliti. Susan si era spaventata non poco per la cugina. «Non preoccuparti.» disse Mary. «Non ho niente di rotto, solo... una bella ferita in testa e molti ematomi... domani!» disse ridendo. La clinica era piccola, ma il dottor Munfred Hill l’aveva resa funzionale. La “sala d’aspetto” era una semplice panchina fuori della porta, mentre appena
entrati ci si trovava già nell’ambulatorio: c’era la scrivania piena di libri e strumenti medici e dietro il lettino delle visite. Un’enorme libreria faceva da sfondo e la stanza era illuminata da due grandi finestre sul lato destro, che guardavano la strada. A sinistra, appena entrati, c’era la porta che dava sulla stanza dei ricoveri, dove si ospitavano i pazienti che avevano bisogno di stare sotto il controllo del medico. C’erano tre letti e la moglie del dottore, la signora Barbara Hill, l’aveva resa una stanza accogliente e calorosa, mettendo fiori freschi ogni qualvolta ce ne fosse bisogno e arredandola con gusto. Erano ati tre giorni dalla caduta. Mary era, come previsto, piena di ematomi e la testa fasciata le faceva ancora male. Era mattina e la ragazza era seduta sul letto. Si era appena svegliata. Sorseggiava un tè e leggeva il giornale. In prima pagina si parlava di una rapina avvenuta tre giorni prima, verso le cinque del pomeriggio, nella vicina città di St Steven, in cui i rapinatori avevano portato via molti soldi dalla banca e in cui erano disgraziatamente morti, nella sparatoria con lo sceriffo, una donna e suo figlio. La cosa più brutta era proprio che erano stati coinvolti degli innocenti. Era terribile. Mary rabbrividì. Poi sentì che dalla strada adiacente alla clinica veniva un gran vocio: urla, agitazione, spari. Si precipitò, per quanto le condizioni fisiche glielo permettessero, alla finestra. Vide una folla che veniva avanti per la strada e che circondava lo sceriffo Ryan, che era a cavallo e conduceva il cavallo di un altro uomo, legato con le mani dietro la schiena. Mary osservò meglio quell’uomo. Incredibile! Era proprio lui: quello che l’aveva aiutata! La ragazza uscì fuori della porta, ancora in camicia da notte e coi capelli sciolti, ai piedi aveva indossato frettolosamente le sue scarpe. Trovò la madre che voleva rimproverarla, ma subito la ragazza le chiese: «Che succede?!». «Vai dentro, ti prego!». «Che succede?!» insisté con più forza. «Hanno catturato un uomo che credono sia coinvolto nella rapina a St Steven. La gente è furiosa, lo sceriffo riesce a malapena a controllarli! È orribile!». Mary era decisa a fermare quel tentativo di linciaggio e andò più veloce che poteva verso la folla. «Sceriffo!» gridava con quanto fiato aveva. Intanto l’uomo di legge era sceso e cercava di portare il prigioniero dentro al suo ufficio, ma era impedito da tutti gli
uomini del paese. «Sceriffo!» sentì chiamare quello. Immediatamente, lui sparò un colpo in aria e ci fu un attimo di silenzio che permise a Mary di farsi sentire da tutti. «Fermatevi tutti quanti!» gridò la ragazza. «Sceriffo...» continuò avvicinandosi «quest’uomo non può essere arrestato per la rapina a St Steven!». Tutti i presenti iniziarono a gridare contro Mary, tutti ripetevano inorriditi quello che era successo durante la rapina e cominciarono a riagitarsi. «Silenzio!» disse Ryan. «Cosa vuoi Mary?! Ci manchi solo tu adesso!». «Al momento della rapina quest’uomo era con me!». Quell’affermazione fu più efficace di mille spari e tutti si zittirono di colpo. Erano senza parole. Il più esterrefatto di tutti era proprio il prigioniero. Guardava fisso Mary e non riusciva a fare altro. Non capiva quel suo gesto, o meglio sapeva che diceva la verità, ma non riusciva a credere che quella ragazza rischiasse tanto per lui. In quel momento Mary si ricordò di come era vestita e sarebbe voluta sprofondare, ma ormai era fatta. Ryan li portò dentro l’ufficio entrambi e chiuse velocemente la porta a chiave. «Allora Mary...». «Sceriffo, quest’uomo mi ha soccorsa quando sono caduta da cavallo. Erano proprio le ore della rapina». «Perché non hai detto prima che qualcuno ti aveva aiutato? Non lo sapevo». «Ero mezza morta. Avevo altro a cui pensare». La testa cominciava a girarle sempre di più e si sentiva svenire, ma non voleva abbandonare il campo di battaglia. «Come si spiegano tutti i soldi che aveva con sé questo tizio?» disse lo sceriffo buttando un bel po’ di denaro sul suo tavolo. «Potrebbe essere parte del malloppo». «Sceriffo, se tutti gli uomini che hanno soldi fossero coinvolti in rapine...».
«Sì, sì ho capito. Allora straniero come lo spieghi?». Lui disse freddamente: «Non credo proprio di dovervi nessuna spiegazione, sceriffo. Anzi siete voi che dovreste darne a me, per aver preso un uomo senza giustificazione e averlo trascinato in prigione, facendolo quasi linciare da una folla inferocita. Ora vi chiedo di slegarmi le mani, darmi i miei soldi e farmi uscire da quella porta!». «Come vuoi straniero! Ma dopo quello che era successo è stato mio dovere fermarti. Quanto alla gente là fuori sono sconvolti per la rapina e hanno paura». «Bella giustificazione per tentare di uccidere un innocente» replicò Mary. Lo sceriffo sapeva di aver torto, così lasciò andare il prigioniero, non senza averlo avvertito di non fare i falsi se si fosse fermato in città. Anzi, gli consigliò di andarsene subito. Lui uscì insieme a Mary e anche a Ryan, che spiegò l’accaduto. Tutti se ne andarono per la loro strada, quasi delusi di non aver potuto sfogare tanta rabbia, mentre Catherine guardava la figlia preoccupata. Infatti un istante dopo Mary svenne. Il ragazzo aiutò la signora McArthur a portarla in clinica. Il dottore disse che quella della sua paziente era stata una bella impresa, che però le era costata molta fatica. Doveva riposarsi. Dopo un po’ lo straniero andò a farle visita. «Salve. Come stai?» disse lui, entrando e lasciando la porta aperta. «Meglio» rispose Mary con una nota di incertezza e con tono vago. «Volevo ringraziarti per quello che hai fatto con lo sceriffo. Non me lo sarei mai aspettato da qualcuno». «Era mio dovere. Avrebbero potuto uccidervi e rendersi non migliori di quei rapinatori». «Immagino che tu sia stupita di tutto quel denaro! Non ho l’aspetto di un ricco viaggiatore!» disse ridendo. «Non mi dovete alcuna spiegazione. Ditemi solo il vostro nome. Voi sapete il
mio». «Certo. Mi chiamo Danny McNelly. Ma puoi darmi del tu. Non sono così vecchio». «Lo vedo... cioè volevo dire... Non far caso a quello che dico!» disse tutta imbarazzata Mary. «Allora, immagino che seguirai il consiglio dello sceriffo e te ne andrai subito da questo posto». «Veramente... cerco lavoro». «Davvero?». Mary se ne sorprese visto tutti i soldi che aveva prima Danny. «Sì. Non hai idea di dove posso chiedere?». «Fammi pensare. So di un posto dove ti troveresti bene e posso anche mettere una buona parola per te. Bisogna vedere se servono nuovi cowboy, ma con tutto il lavoro che c’è lì, penso proprio che si possa fare». «Ti ringrazio molto». In quel mentre entrarono Catherine e Susan. «Mamma, ti presento...». «Sì, lo so. Danny McNelly. Ci siamo conosciuti prima» disse lei freddamente. «Il signor McNelly cerca lavoro. Pensavo che si potrebbe chiedere a Edward». «Sì» intervenne Susan. «Di certo dai Buster c’è sempre bisogno di gente che lavora» ne convenne Catherine. «Quello che ho detto anch’io. Benissimo! Allora scriverò subito un biglietto a Edward e Susan potrà accompagnare Danny da lui». Catherine guardava Danny con occhi infuocati. Non le piaceva per niente. Le pareva troppo spregiudicato.
Susan era contentissima all’idea di andare dai Buster. C’era andata già qualche volta con Mary, da quando era arrivata a Old Town, ed era rimasta colpita da tutto l’ambiente del ranch e dalla casa, soprattutto come era arredata internamente. Mary lo sapeva, per questo le aveva dato quell’incarico. «Il dottore ha detto quando potrò tornare a casa?». «Tra un paio di giorni». «Che noia» sospirò la malcapitata. «Se vuoi, posso portarti il libro che stavi leggendo a casa» suggerì Susan. Mary la guardò senza dire niente, quasi si fosse bloccata, poi riuscì a dire solamente: «Non è necessario, tutto sommato. Meglio che mi riposi». «Hai ragione, tesoro» disse sua madre. I tre lasciarono Mary da sola con i suoi pensieri e si avviarono verso il ranch Buster, perché Catherine non aveva intenzione di lasciare andare Susan con uno sconosciuto di cui non si fidava affatto. Per tutto il viaggio Danny, seguendo a cavallo il carro delle McArthur, se ne stette zitto: non disse una parola, sembrava immerso in altri pensieri, a tratti era cupo. Le due donne di tanto in tanto lo guardavano, ma non avevano l’ardire di chiedergli niente, tanto sembrava assente. Arrivati al ranch, Susan chiese del signor Edward, che era in casa a controllare la contabilità. «Buongiorno Susan. Buongiorno anche a voi, Catherine» salutò Edward, che fu sorpreso di vederle con uno sconosciuto. «Salve Edward. Vi presento il signor Danny McNelly, è un conoscente di Mary e questa ve la scrive lei» disse Susan, porgendogli la lettera.
«Credo di aver sentito parlare di voi, se siete quello dell’arresto di oggi. Mary come sta?» chiese Edward, leggendo la lettera. «Meglio. Tornerà a casa tra un paio di giorni» rispose Susan. «Cosa sapete fare Danny?». «Ho lavorato molto spesso coi cavalli, signore. So costruire staccionate e simili. Sono disposto a fare qualsiasi lavoro utile». «Bene, è una buona cosa. Per il momento con i cavalli non c’è bisogno. Comunque ci sono tanti altri lavori da fare. Ti presenterò al capoccia e sentiremo lui». «Vi ringrazio molto, signor Buster». «Non ringraziare me, ringrazia Mary». Poi Danny si mise in attesa, seduto sugli scalini d’ingresso e Catherine ammirava le rose che circondavano la casa, inebrianti di profumo e di colori. Edward aveva offerto loro un tè, ma solo Susan accettò, così si sedettero in salotto. La casa era di certo la più bella della zona. Un enorme portico correva tutt’attorno, sul lato anteriore c’erano un tavolino, un divanetto e una sedia a dondolo dove al pomeriggio ci si poteva godere un po’ di riposo. Erano state posizionate anche diverse piante ornamentali, di cui la madre di Edward, quando era in vita, andava molto fiera. Il figlio aveva continuato a tenerle e a farle curare in memoria della donna. Entrati in casa, si poteva ammirare l’ampia scala tappezzata di rosso che saliva al piano superiore. A destra c’era il salotto, arredato con i migliori mobili disponibili e con i ritratti di famiglia appesi al muro. L’enorme e bellissimo caminetto faceva da arredamento come una scultura. Le finestre, ampie e accompagnate da tende di stoffa pregiata, davano grande luminosità alla stanza. Sulla parete esterna, a destra, c’era un porta che dava sul portico. Dal salotto si raggiungeva anche la sala da pranzo, dove le vetrerie erano tirate a lucido e mettevano in mostra bicchieri, piatti e posate di rara ricercatezza. Mary aveva sempre pensato, vedendo quelle cose, che era quasi un peccato mangiarci dentro e che, se l’avesse fatto, il cibo le sarebbe rimasto sullo stomaco. La sala da pranzo comunicava inevitabilmente con la cucina dove il cuoco si dava costantemente da fare per mettere in pratica ricette prelibate e raffinate, da presentare nel miglior modo possibile. Era assai particolare come persona, al quanto eccentrica e isterica, si riteneva il migliore e
tutti glielo lasciavano credere, dato che non sapevano come avrebbe reagito se gli avessero fatto intendere che la pensavano diversamente. Lo studio di Edward era a sinistra, rispetto all’entrata, e qui lui si chiudeva molto spesso per sistemare documenti, discutere affari o anche semplicemente per riposare, dato il divano confortevole che c’era. Qui i quadri ritraevano le attività del ranch: la doma dei cavalli, la marchiatura dei vitelli e i migliori capi di bestiame che erano ati di lì ed erano stati venduti all’asta per guadagni consistenti. Al piano superiore c’erano diverse camere da letto, per quelli della famiglia e per gli ospiti, ma di questo verrà dato resoconto in seguito. «Allora vi piace stare qui?» chiese Edward. «Ogni giorno di più. All’inizio pensavo che quest’anno sarebbe stato un incubo interminabile. Ora mi sembra che il tempo i troppo in fretta» rispose Susan, sorseggiando il tè con delicatezza. Sì, era questa la parola che veniva in mente quando si vedeva quella ragazza fare un gesto, anche il più semplice. «Capisco. Ma è meglio così che una sofferenza che sembra interminabile». «Sì, però mi chiedo che farò quando riceverò l’eredità. Dopo tutto non ho legami così forti a Washington; stare con i miei zii è bello, però a volte soffro un po’». «È ovvio. È pur sempre un ambiente a cui non siete stata abituata». «Ma mi sento un’ingrata». «Non credo che loro vogliano questo. Sanno gli sforzi che fate. Soprattutto Mary è orgogliosissima di voi». «Lo so, è diventata un’amica e proprio per questo vorrei riuscire a fare qualcosa di più per lei, a volte mi pare lasciata a se stessa». «Credetemi, il più grande ostacolo per Mary verso la serenità è lei stessa e questo lo dice uno che le vuole bene e l’apprezza». «Che impressione avete avuto di McNelly?». «Mi sembra un po’ per conto suo, ma credo sia uno che non si tira indietro se c’è da lavorare».
CAPITOLO 3 – UNA CONVERSAZIONE INSOLITA
In adempimento di quelle parole di Edward, Danny nei giorni che seguirono non ebbe un attimo di tregua. Essendo l’ultimo arrivato, tutti gli dicevano cosa fare e gli affidavano lavori che erano stati dati prima a loro. Lui non poteva far altro che ubbidire, perché aveva bisogno di lavorare e pensava sempre che sarebbe potuta andargli peggio. In fin dei conti nessuno l’aveva trattato troppo male, anzi qualche volta era riuscito a strappare una lode al capoccia. Non era un tipo permaloso, aveva imparato a non esserlo. Aveva ricevuto delle provocazioni dagli altri cowboys, ma lui sembrava non sentirle, così quelli lasciavano perdere, non provando gusto nel punzecchiarlo, anche perché Danny era uno di quei tipi a cui non serviva la comunicazione verbale, bastava un gesto o uno sguardo. Portava la pistola, non perché gli pie usarla, anzi, ma per necessità e per lavoro, soprattutto quando si aveva a che fare con la mandria. Preferiva di gran lunga il grande coltello affilato che portava in una custodia fissata alla cintura. Armato così faceva un po’ paura: pistola da una parte e coltello dall’altra. Quando Mary si rimise dalla caduta andava qualche volta con Susan dai Buster, non troppo spesso, perché non volevano apparire invadenti, ma Danny non c’era mai nei dintorni e non voleva chiedere a Edward di lui. In città Mary lo cercava con lo sguardo per vedere se era lì, ma evidentemente e comprensibilmente non ne aveva voglia, dopo il brutto approccio iniziale. Quelle rare volte in cui vi era andato aveva ricevuto solo sguardi minacciosi o dubbiosi, freddezza e apatia. Era trascorso poco più di un mese da tutti questi avvenimenti e lei e Susan avevano proposto a Sam e Catherine di invitare Edward a casa loro per una cena. La signora McArthur era restia a questo tipo di cose, loro non avevano certo i lussi di casa Buster, ma Mary l’aveva più volte rassicurata sul fatto che Edward non dava peso a queste cose. Il giorno previsto per fare l’invito Susan non si sentiva troppo bene e preferì andare a riposare, così Mary attaccò Wild al calesse e andò da sola. Era un gran brutto periodo: il caldo era quasi insopportabile e non pioveva da tanto, era stato un luglio particolarmente arido, ma delle nuvole scurissime si stavano avvicinando a gran velocità. La ragazza era per strada quando fu sorpresa dal
temporale. Non aveva ancora iniziato a piovere, ma il vento era sempre più forte e i lampi sempre più luminosi, per non parlare dei tuoni che rimbombavano nell’aria e che spaventavano il cavallo, rendendolo nervoso e quasi ingovernabile. Mary si ricordò che poco distante c’era uno dei fienili-magazzino dei Buster, così decise di andare a vedere se poteva ripararsi lì. Stava arrivando e vide che un uomo portava dentro un cavallo. «Ehi!» gridò. L’altro venne fuori dall’edificio e la salutò con la mano, facendole cenno di sbrigarsi perché cominciava a piovere. Quando fu più vicina, si accorse che il cowboy altri non era che Danny. Lei portò dentro il suo cavallo dopo averlo staccato dal calesse e aiutò Danny a chiudere il portone perché il vento diventava sempre più violento e cominciavano a cadere anche dei grossi chicchi di grandine che battevano fastidiosamente sull’edificio. «Ciao Mary. È un po’ che non ci vediamo. Hai visto che tempo?» disse Danny tutto sudato per il gran caldo che fino a un momento prima aveva accompagnato il suo lavoro. «Sì, del resto era tanto che non pioveva e ne avevamo bisogno!». «Speriamo non faccia troppi danni». Ci fu un tuono violentissimo che fece tremare tutto quanto. I due si guardarono un po’ perplessi e rabbrividirono per l’aria fredda che entrava dalle fessure tra le tavole del magazzino. «Non hai paura dei temporali?» disse Danny. «No, o meglio: “no” finché sono qui. Se fossi fuori tremerei dal terrore. Eri anche tu di aggio qui vicino?». «No, c’ero venuto di proposito. Mi hanno mandato a vedere se era tutto in ordine e a prendere degli attrezzi, infatti avevo portato anche il carro che è fuori. Ma
aspetteranno!». «Sei venuto da solo. Non hai paura della solitudine?» chiese Mary che subito si corresse. «Scusa, io ragiono come una donna.» «Ovvio. Comunque non pensare che gli uomini non soffrano la solitudine, però io ho più paura di essere in mezzo alla gente e sentirmi solo che non essere effettivamente da solo. Non so se riesco a spiegarmi». «Sì, se sei tu e basta ti spieghi perché soffri di solitudine. Se invece sei tra la gente e soffri comunque, ti pare strano e fa più male». «Vedo che abbiamo vissuto situazioni simili». «Non lo so. Io non mi sono mai mossa da qui praticamente. Tu invece devi aver viaggiato molto». «Sì e ho fatto tante cose. Ho fatto anche il marinaio». «Quindi hai visto l’oceano! E com’è?». «È pieno di contrasti. Sulla costa un momento c’è la nuda roccia su cui si infrangono onde altissime, poi ti trovi a camminare sulla sabbia calda e morbida e ad ascoltare il mare che sembra cullarti. Poi, per chi vive in mare come dei pescatori che ho conosciuto, la cosa è ancora più contrastante. Se da un lato il mare dà loro la vita, con il cibo, dall’altro può prenderseli quando vuole». Mary era rapita da quelle parole. Le sembrava di leggere uno dei libri che aveva nel suo paradiso in fienile. Fuori l’oscurità diventava sempre più grande, così Danny si alzò dalla panca dove era seduto e accese una lampada a olio, poi andò a sedersi. Lei stava seduta poco più in là per terra su un po’ di fieno. «E le montagne?» chiese la ragazza. Danny sospirò nostalgico e rispose: «Sono stato anche lì, in Canada. Accompagnavo dei cacciatori. Però d’inverno è dura. La primavera invece è un’esplosione di vita e di colori! Credo che un giorno ci ritornerò».
«Come ti trovi qui dai Buster?». «Bene. È lavoro». «E gli altri uomini? Come ti trattano?». «Come l’ultimo arrivato. Ma potrebbe andarmi peggio». «Sei positivo. Non ti piacerebbe poter lavorare coi cavalli?». «Il signor Buster ha detto che non ce n’è bisogno, ma – a dire la verità – mi piacerebbe». «Sai domarli?». «Me la cavo». «Perché so che Edward ha appena acquistato una mandria di cavalli da domare, arriverà tra pochi giorni. Perché non ti offri volontario? Potresti fare il salto di qualità e prendere un po’ più soldi». «Penserai che sia uno che ne vuole molti se non ti spiego perché, con tutti i soldi che avevo quel giorno dallo sceriffo, ho cercato subito lavoro». Mary non voleva sembrare invadente, ma in effetti era curiosa. «Allora ti racconterò qualcosa di me. I miei nonni si sono trasferiti dall’Irlanda. Erano poveri, ovviamente, comunque arrivarono qui e riuscirono a sopravvivere. Mio padre lavorava in miniera, sposò una ragazza del posto. Dopo poco nacqui io. Quando avevo quindici anni, il mio “vecchio” morì in un crollo della miniera insieme a tanti altri operai. Fu un duro colpo. Comunque mia madre era ancora giovane, così accettò di sposare un uomo che aveva una piccola attività commerciale. Avevamo bisogno di soldi e di un tetto decente, e lui andava in cerca di una donna forte che lo aiutasse nel suo lavoro. Ebbero altri due figli: una bambina, che adesso ha tredici anni, e un bambino che ne ha dieci. Mia madre è morta di polmonite cinque anni fa. Io allora lavoravo in un ranch da un’altra parte, quando ho saputo la notizia ritornai subito a casa. Il mio patrigno aveva abbandonato i suoi figli e se n’era scappato con quei quattro soldi che aveva per non pagare i debiti del suo lavoro. Così mi ritrovai con due bambini e dei creditori infuriati. Misi i miei fratelli in orfanotrofio e feci un patto con i
creditori per restituirgli i soldi. Così quello che guadagno va un po’ a loro e un po’ al posto dove stanno Lisa e Chris...». Danny aveva finito il suo racconto, non senza commuoversi anche se faceva di tutto per non darlo a vedere. Mary era sconvolta, non sapeva cosa dire e non lo sopportava: avrebbe voluto fare qualcosa. «Non preoccuparti se non hai niente da dire» disse Danny, capendo il disagio della sua ascoltatrice «non c’è niente da dire. È la vita. E non ci si può far niente. Ora però ho io una domanda da farti» continuò, frugando tra le cose della sua bisaccia. «Dimmi» disse lei in attesa. Danny tirò fuori una bottiglietta di liquore e disse: «Ne vuoi un goccetto?» poi sorrise allegramente. «Ufficialmente dovrei infuriarmi, darti uno schiaffo e dire a tutti quanti quello che mi hai appena detto... però a me piace il liquore! Il vizio, se così si può dire, l’ho preso in famiglia, quindi è tutta colpa loro. Nelle sere invernali mio padre non disdegna un bicchierino di whisky, prima di andare a letto, e neanche mia madre... non lo dire in giro però» concluse un po’ imbarazzata e ridendo. Danny rise a sua volta e si fece in là per far sedere Mary sulla panca. Lei si sedette vicino a lui e prese un sorso di liquore: «Ma che cos’è? È fortissimo!». «Ma che dici?! È come l’acqua!». Furono interrotti da un rumore assordante che proveniva da fuori. «Il vento diventa sempre più forte. Chissà cosa è stato questo rumore. Aiutami ad aprire la porta e a tenerla ferma. Voglio vedere che succede. Ho un brutto presentimento». «Va bene. Comincio ad avere paura in effetti!». I due aprirono la porta e lo spettacolo era assai poco rassicurante: dei giovani alberi erano stati abbattuti dal vento e la pioggia batteva violenta sui loro visi.
Richio in fretta la porta, anche perché i cavalli erano assai spaventati. «Credo che dovrò rinunciare ad andare al ranch e ritornarmene a casa...» disse tra sé e sé Mary sconsolata. «Come?» chiese Danny credendo che si fosse rivolta la lui. «Niente, è solo che dovevo invitare Edward a casa nostra... Ma dimmi: sei riuscito a fare amicizia con qualcuno al ranch o in paese?». «Nessuno in particolare. Del resto io e questo posto non abbiamo iniziato nel migliore dei modi». «Perché non hai cercato lavoro da un’altra parte?». «Credi che le cose da un’altra parte siano diverse? Quando sei uno straniero, lo sei ovunque. Dopo un po’ ci fai il callo. Per me è normale». A Mary sembrava strano sentire parlare così. Lei che non vedeva l’ora di andarsene, ora sentiva raccontare che le cose erano uguali in qualsiasi parte uno andasse. «Secondo me, non è così. A volte c’è proprio bisogno di cambiare aria, di conoscere posti e persone diversi». «Sì, certo. Ma bisogna che sia assolutamente indispensabile e che uno sia convinto delle proprie ragioni». «Posso chiederti perché quando mi hai soccorsa quella volta, non mi hai rimproverata per come ero caduta, cioè correndo a cavallo come una pazza? Chiunque altro l’avrebbe fatto. Come l’hanno anche fatto, del resto, sempre tutti in paese». «Dimmi una cosa: ti piacerebbe tanto correre così a scavezzacollo se nessuno ti rimproverasse? O forse, sotto sotto, ti piace fare qualcosa che agli altri non va? Per attirare l’attenzione». «Io...non so» si schernì lei, scoperta nei suoi sentimenti. «Immagino che in parte sia così. Ma mi piace comunque correre a cavallo» disse poi con un nodo in gola.
«E allora perché sei venuta col calesse oggi?». «Ecco... è... è mia cugina che insiste perché io mi comporti più da signorina e meno da cowboy» rispose ridendo. «Senti, la pioggia sembra diminuita e anche il vento. Apriamo un po’ la porta». Era vero. Ora la pioggia cadeva lentamente e il vento aveva liberato parte del cielo. Il sole splendeva di nuovo e si era formato un bell’arcobaleno dai colori sgargianti. «Com’è bello!» osservò Mary. «Già, sono quelle cose che bisogna sempre prendersi il tempo di guardare, interrompendo qualsiasi cosa si stia facendo». Mary rivolse lo sguardo a Danny, ma vide che il ragazzo non stava guardando l’arco nel cielo, bensì lei. «Credo di poter andare da Edward adesso, tutto sommato...» disse Mary per togliersi dall’imbarazzo. Danny l’aiutò ad attaccare il calesse al cavallo e lei partì. Arrivata dai Buster, trovò Edward intento a parlare con il capoccia dei danni del maltempo. Si avvicinò con discrezione e aspettò che avesse finito di dare istruzioni a destra e a manca, poi lo informò dell’invito. Lui, invece di rispondere, si informò del perché Susan non fosse lì. Appreso quello che voleva sapere, disse: «Sono molto felice dell’invito. Verrò sicuramente». Così fece. Due giorni dopo trovò tutta la famiglia ad aspettarlo con la tavola imbandita al meglio delle loro possibilità economiche e del buon cibo che aspettava solo di essere consumato. «Mary, McNelly mi ha detto che ti ha incontrata l’altro ieri quando c’è stato il temporale» disse Edward per togliere la ragazza dal silenzio in cui era piombata per tutta la serata, poi se ne pentì perché temeva di averla messa in imbarazzo.
I suoi genitori la guardarono aspettandosi una risposta. «Sì, è vero. A uno dei tuoi magazzini. Mi sono riparata lì perché era impossibile proseguire. Poi sono venuta da te» disse lei in tutta calma. «E cosa ci faceva lì?» chiese Catherine. «Ci lavorava» disse Edward «ce l’avevo mandato io per prendere delle cose. Si dà molto da fare al ranch. Stavo pensando di farlo lavorare con i cavalli, visto che mi diceva che se la cava piuttosto bene» proseguì, cercando di rimediare al torto appena fatto verso l’amica. «Potresti fargliene domare alcuni tra quelli che devono arrivare» propose Mary. Susan si inserì: «Non ho mai visto domare dei cavalli. Dev’essere emozionante!». «Potete venire allora il giorno della doma. Vi farò sapere quando» propose Edward guardando Susan. Alla fine della serata, l’uomo montò sul suo calesse e se ne ritornò a casa, lasciando la famiglia McArthur alle sue considerazioni. Susan e Billy andarono nelle loro stanze e Mary invitò suo padre ad andare a riposarsi, dicendo che avrebbe aiutato lei la madre a sistemare le ultime cose. La ragazza ne approfittò per raccontare la storia della vita di Danny a Catherine, che ascoltò in silenzio e, prima di salutare la figlia e andare a dormire, disse: «Dobbiamo tutti imparare a giudicare meno in fretta le persone. Questo vale sia in bene che in male. Ricorda questo, Mary, nella vita».
CAPITOLO 4 – LA CORSA
Era una bella mattina di sole. Danny si era alzato presto, come sempre del resto in un ranch; gli avevano dato delle commissioni da fare in paese. Stava camminando allegramente sotto i portici dei negozi quando sulla lavagna degli annunci e degli eventi cittadini, appesa fuori dall’albergo, vide alcuni fogli che parlavano dello stesso evento. Si trattava di una corsa di cavalli, organizzata proprio da Buster. “Uomo impegnato!” pensò. Quella corsa avveniva tutti gli anni e il premio al vincitore erano cento dollari. Danny aveva uno strano sorriso in faccia, quando girò lo sguardo e vide dall’altra parte della strada Mary, che era appena uscita dalla clinica del dottore. La raggiunse, ma dovette richiamare l’attenzione della ragazza, che sembrava assorta nei suoi pensieri. «Allora come va?» chiese il cowboy. «Bene. Perché me lo chiedi?» disse sfuggevole Mary, continuando a camminare. «Così... e comunque sei appena stata dal dottore. Ti ricordi che l’altro giorno mi dicevi di propormi per domare i cavalli che dovevano arrivare?». «Sì». «Sono andato dal signor Buster e gliel’ho detto, al che...» il ragazzo stava per continuare il suo racconto in tono assai entusiasta, ma dovevano attraversare la strada; Mary però non si fermò, si sentì un uomo urlare e Danny dovette prendere per un braccio la ragazza e tirarla indietro. «Ma non hai visto quella carrozza che arrivava?!» la rimproverò preoccupato. Mary si agitò e si alterò: «Si può sapere cosa vuoi?!» e fece dietro front verso l’emporio, entrandovi, lasciando il ragazzo senza parole. Due vecchie signore, che stavano scegliendo della frutta, lo guardarono e si misero a borbottare tra di loro. Danny sospirò e scosse la testa in segno di disapprovazione, poi si diresse verso la clinica del dottore.
Entrò e trovò il medico intento a esaminare alcuni libri in piedi vicino alla finestra. «Salve dottore». «Salve McNelly. Accomodati, accomodati. Cosa posso fare per te?». Il dottor Hill era una persona assai scrupolosa nel suo lavoro, e anche fuori dall’ambito medico si lasciava apprezzare per la sua cordialità e disponibilità. Era un uomo di mezza età, amava la compagnia, il buon cibo e la campagna. Infatti si era trasferito da Boston proprio per godere di ambienti più verdi. «Lo so che non potreste dirmi quello che voglio sapere, ma ho bisogno che me lo diciate per aiutare qualcuno in difficoltà...». Il dottore lo guardò sorpreso, poi si sedette e ascoltò la richiesta. Quel pomeriggio Catherine McArthur era sul retro della casa, all’ombra di un grande albero, che lavava i vestiti, le gocce di sudore cadevano nella grande vasca di metallo. Era una donna che non aveva paura della fatica, sempre prodiga di attività e faccende, forse anche troppo. Girava le spalle al boschetto dietro la casa, quando sentì il rumore dei i di un cavallo vicino, che avanzava lentamente. Si girò e vide Danny. «Buongiorno signora McArthur. Come state?». «Ah sei tu... bene grazie. Come mai qui? Mary è occupata e poi è venuta a casa visibilmente agitata dal paese. Non sarà colpa tua?» «Signora, permettetemi di dire che arrivate a conclusioni troppo affrettate. Mi avete inquadrato male sin dall’inizio e questo lo posso capire. Siete una persona che tiene alla propria famiglia e non è un torto voler proteggere i propri figli. Ma dovreste prima sapere quali sono i pericoli reali». «Di sicuro non ti manca la franchezza. Bene. Neanche a me. Mary è una persona sensibile, non ha bisogno di gente che la illuda più di quanto non sia già successo». «Volete dire che l’amicizia è un’illusione?».
«No, l’illusione può essere credere che ci sia un’amicizia, quando in realtà le persone non sono che semplici estranei». «Già e un estraneo non potrà mai diventare un amico, perché in questi paesi siete tutti già amici dalla nascita e senza neanche sapere il perché». Catherine era interdetta. Non aveva mai sentito uno parlarle così. Ma in fondo non le dispiaceva sentire una nuova campana, solo che non lo dava a vedere. «A dispetto di quello che pensate, io sono qui per parlare proprio con voi» disse Danny scendendo da cavallo e avvicinandosi. «Preferisco che Mary non ci sia, ve la vedrete poi voi con lei. Avete notato che non va più a cavallo come prima?». Catherine pensò prima di rispondere: «In effetti, è vero. Lo speravo tanto che, da quando non ci va più, non ho neanche la paura che mi prendeva ogni volta che correva via con Wild. È stata una cosa naturale che smettesse. Forse l’arrivo di Susan l’ha resa un po’ più tranquilla...». «Mary non è tipo da smettere di punto in bianco di fare una cosa che prima le piaceva. È stato dopo la caduta che non ha più corso a cavallo». Danny raccontò alla donna quello che era accaduto la mattina in paese e quello che il dottore gli aveva confidato. «Capite ora?». «Certo...» disse lei, quasi piangendo. Danny montò a cavallo e stava per andarsene, ma Catherine lo chiamò: «Grazie». Fu l’unica cosa che le riuscì di dire prima che le venisse un nodo in gola. Catherine lasciò subito quello che stava facendo e si diresse verso il fienile. Salì la scaletta che portava al “rifugio” della figlia e la vide sul suo letto di paglia, con la pancia in giù, che piangeva con la faccia sopra un libro. «Cara» disse la madre sedendosi sul letto «è stato qui Danny. Sai, lui era molto preoccupato e ha capito quello che ti è successo. Non devi aver paura». La ragazza si alzò e abbracciò la madre continuando a piangere.
Le lacrime cadevano giù e, per quanto Mary ci provasse, era impossibile fermarle. Sua madre le accarezzava i capelli e le diceva: «Piangi pure tesoro, piangi pure». Ma che cos’era successo? Con la caduta Mary si era fatta molto male: nei primi giorni trascorsi in clinica si era accorta che il suo occhio sinistro non ci vedeva più tanto bene, appariva tutto sfuocato, ma lei aveva paura e sperava fosse una cosa temporanea. Invece il problema andò peggiorando in poco tempo e alla fine era sceso il buio. Mary non aveva avuto il coraggio di andare dal dottore fino a quel giorno, ma aveva capito che era troppo dura farcela da sola. Ecco svelato tanto sconforto. Tutta la famiglia seppe del problema, e decisero di aiutarla a non sentirsi un’invalida. Erano i primi di agosto e il caldo era ancora duro da sopportare, ma ciò non contava per chi doveva lavorare . Era venuto il giorno tanto atteso della doma dei cavalli. Ovviamente questa era cosa che interessava, dei McArthur, solo le ragazze e Billy, così i tre prepararono il carro, in cui misero anche qualcosa da mangiare per chiunque ne volesse, e partirono. Billy era tutto eccitato all’idea di stare una giornata tra i cowboy; Susan, dal canto suo, era assai curiosa dato che non aveva mai avuto occasione di vedere questo momento della vita di un cavallo e di un uomo; Mary invece si rassegnava alla solita giornata ata tra nuvole di polvere tanto più che con un occhio solo le pareva tutto più strano e difficile, anche guidare il carro. Susan aveva tirato fuori per l’occasione uno dei suoi vestiti da “pic-nic” eleganti ma non troppo complicati, l’ombrellino per ripararsi dal sole e una collana che le aveva regalato suo papà. Aveva raccolto i capelli con qualche ciocca che le scendeva giù libera e, pensava Mary, sarebbe stata presa di mira da tutti i cowboy lì presenti. Lei invece si era fatta una treccia, si era messa una camicia a quadretti rossi e un paio di jeans che, dopo tante insistenze, era riuscita a farsi procurare dalla madre. Non sfigurava nessuna delle due, anche se completamente diverse. «Anche Danny domerà cavalli, vero?» chiese Susan. «Sì, credo... non lo so». «Da quand’è che non vi vedete?».
«Dal bel giorno che è andato a ficcare il naso in quello che non lo riguardava!». «Sei un bel tipo! Ti lamenti che nessuno ti dà retta, ma quando succede ti arrabbi!». «Beh se questo viene fatto solo per... solo per...». «Solo per...». «Tanto per impicciarsi!». «È così che la vedi?». «Altrimenti perché non si sarebbe più fatto vedere?». «Secondo te?». «Perché sa di aver fatto una cosa sbagliata!». «Non potrebbe essere perché voleva lasciarti la tranquillità necessaria?!». Mary se ne stette zitta per tutto il resto del tempo, ma le si leggeva in faccia la sconfitta di fronte al ragionamento di Susan. Il fatto era che la terrorizzava il pensiero che qualcuno avesse il potere e la capacità di carpire i suoi segreti e condizionare la sua vita. Al ranch, nell’aria si respirava la tensione e l’eccitazione per il lavoro che aspettava i ragazzi per quella giornata. I cavalli erano in un recinto, uno più bello dell’altro, e sentivano anche loro che quel giorno doveva succedere qualcosa. Già si scommetteva su chi sarebbe resistito di più, su chi avrebbe domato più cavalli, tanto che nell’atmosfera si sentiva persino l’odore dei soldi. Appena visto il carro, Edward Buster arrivò, fece scendere Billy prendendolo in braccio e facendolo roteare a tutta velocità perché sapeva quanto al bambino pie. Poi aiutò Mary e infine Susan, solo che si sentiva stranamente impacciato. «Bene. Allora se volete venire sotto il portico, intanto...». «Volentieri» disse Susan «prima prendiamo le torte che abbiamo fatto». «Che tesori!».
Susan si voltò per chiedere una mano a Mary, ma lei era sparita: la vide poi nascosta dietro a un albero. «Che fai lì?!». Mary le fece segno di fare silenzio, poi Susan vide che Danny stava venendo nella sua direzione. «Signorina Susan, buongiorno». «Salve Danny». «Con voi non è venuta Mary?». «Beh ecco lei, credo che lei...». Susan non aveva voglia di raccontare bugie, così senza farsi vedere dalla cugina fece cenno con la mano a Danny per indicare dov’era nascosta. «Capisco, grazie lo stesso» disse Danny. Mary lo vide sparire e tirò un sospiro di sollievo, poi sentì una mano toccarle la spalla e subito ritrarsi quasi avesse paura. Lei dovette girarsi perché era proprio la spalla sinistra e non poteva vedere chi era con la coda dell’occhio. «Ciao Mary. Come stai?» chiese Danny. Lei sorrise d’impulso poi disse: «Bene. Voglio dire meglio di come mi hai vista l’ultima volta. A tal proposito io volevo... volevo scusarmi per come mi sono comportata. Vorresti perdonarmi?». «Certo... se però...». «Se però?!». «Fai una cosa per me». «Cosa?!». «Te lo dirò dopo che avrò domato un po’ di cavalli» rispose, lasciando così la ragazza interdetta. Comunque non c’era dubbio che Danny fosse bravo: quelli che avevano scommesso su di lui alla fine erano talmente contenti che gli
offrirono tutti da bere fino a ubriacarsi. Ma lui non voleva: gli ricordava troppo il suo patrigno. Domare un cavallo era proprio una lotta di resistenza e caparbietà tra l’uomo e l’animale: sottomettere una creatura nata libera e selvaggia non era facile e per certi versi era anche ingiusto. Comunque, fin da tempi immemorabili, uomini e cavalli avevano diviso la loro vita inevitabilmente. Mary, appoggiata con la faccia sulla staccionata e il tramonto sul viso, era lì che si scervellava su cosa mai volesse Danny. Poi lui arrivò. «Allora come ti pare sia andata?». «Bene! Dovrebbero farti fare solo questo!». Danny tirò fuori dalla tasca un foglietto piegato, lo aprì e poi lo diede a Mary. Lei lo lesse e lo rilesse con una smorfia di dolore e stupore insieme. «E allora?» disse poi. «La corsa che organizzano qui tutti gli anni! Tu e Wild potreste partecipare e vincere!». «Io non cavalcherò più, figuriamoci se parteciperò a una corsa.» disse lei sommessamente e profondamente avvilita perché Danny aveva anche solo pensato che lei potesse riuscire a fare una cosa del genere. «Ma perché? Per il tuo occhio?». «E per cos’altro?». «Senti: quello che ti è successo non ha annullato la tua bravura». «Ma mi ha fatto perdere tutta l’incoscienza che avevo e non è stato male!». «Se pensi che fosse incoscienza, allora non ne parliamo neanche». «E cosa doveva essere?». «La stessa cosa che ho visto quel giorno in paese quando la gente stava per
linciarmi. La stessa cosa che ti permette di portare camicie a quadri e jeans quando tutte le altre non lo fanno e sai cos’è? Il coraggio di vivere come si è! Senza maschere, senza convenzioni del sistema, senza pensare che quello che fai sia sbagliato solo perché gli altri non lo fanno. Ora quella cosa si è nascosta dentro di te e ha paura a venir fuori e la corsa è l’unico modo che hai per guarire!». Mary era senza fiato, si sentiva squarciata in due come se tutto il suo mondo fosse stato scoperto, come se in una stanza buia fosse all’improvviso entrato il sole e ne fosse rimasta accecata. «Io non so cosa dirti, mi dispiace». «Non mi devi dire niente. La corsa è tra una settimana. E io non te ne parlerò più. Quello che dovevo dirti, te l’ho detto. Sei abbastanza intelligente da non aver bisogno che io insista». Mary annuì e disse: «Credo che adesso andrò a casa. Ci vediamo». Poi andò da Susan, che stava conversando sotto il portico con Edward. «Susan credo sia meglio che andiamo». «Già, lo penso anch’io. Non so come ringraziarvi per questa bellissima giornata, Edward. È stata proprio interessante». «Sono contento di quello che mi dite. Spero proprio che ce ne possano essere altre qui per voi». «Billy dov’è?» chiese Mary guardandosi intorno. «Lo avevo appena visto con McNelly. Eccolo che sta venendo da questa parte» rispose Edward. Billy si era abbarbicato sulle spalle di Danny, a cui era scesa un po’ di malinconia pensando che quello avrebbe potuto essere suo fratello o sua sorella. «McNelly, hai fatto un ottimo lavoro oggi!» esclamò Buster.
«Grazie signore». «Ti meriti di andare in paese a festeggiare. So che gli altri uomini si stanno già preparando». «Sì, ma credo che resterò qui. I saloon non fanno per me, signore» disse, guardando Mary. «Credo piuttosto che scriverò alla mia famiglia questa sera». «Bene, fa come vuoi. Tutto sommato avere un uomo in meno sbronzo, domani mattina, non mi dispiace». «Non dovreste permettere a quei ragazzi di ubriacarsi così!» osservò Susan. «Lo so, ma che ci posso fare? Lavorano tutto il giorno duramente» disse Edward sentendosi quasi colpevole. «Anche mio zio e mia zia, ma non per questo si danno all’alcool!». «Avete ragione, Susan. Parlate con giudizio. Chissà che in futuro le cose possano migliorare» rispose Buster, capendo che la povera ragazza non poteva comprendere pienamente il mondo dei cowboy. Mary era sbalordita. Non aveva mai visto la cugina parlare con tanta autorità e soprattutto Edward essere così accondiscendente. A quel punto le ragazze e Billy salirono sul carro e presero la via di casa, facendo un resoconto della giornata. La notte ava tranquilla, ma Mary non riusciva a dormire e continuava a rigirarsi nel letto. «Mary?» disse Susan avvicinandosi «tutto bene?». «No» disse lei sospirando. «Che c’è? È per qualcosa successa oggi?». «Sì» disse lei e le raccontò della corsa a cui Danny voleva che lei partecie.
«Secondo me, dovresti farlo» suggerì Susan. «Perché?». «Proprio per quello che ha detto Danny e perché vinceresti cento dollari». Mary rise. «Ma come farò con mamma e papà?». «Devi dirglielo spiegandone i motivi, magari tralascia che è stata un’idea di Danny, sono ancora un po’ prevenuti nei suoi confronti.» «Già, perché non lo immaginerebbero?! Comunque c’è un altro problema: Edward Buster. È lui che organizza la corsa: va bene che è un amico, ma non so quanto approverebbe. Non so neanche se una donna può partecipare». «Non preoccuparti di Edward. Ci penserò io. E se vuole che gli rivolga ancora la parola, dovrà lasciarti fare quella corsa!». «Credi davvero di avere un tale ascendente su di lui?!». «Non lo so, ma mi piacerebbe molto scoprirlo e questo è un modo per farlo». Così la mattina seguente a colazione Mary parlò della corsa ai genitori. «No!» fu il lapidario, e all’apparenza irremovibile primo commento, soprattutto da parte di Catherine. «Ma vi ho spiegato perché ho bisogno di farlo. Devo credere di nuovo in me stessa o non avrò più il coraggio di fare niente». «Ma potresti farti male di nuovo e più seriamente!» rispose la madre con apprensione. «Mary» disse Sam «devi capire la nostra preoccupazione, non è cattiveria. Comunque... anche noi dobbiamo capire una cosa, e cioè che non sarebbe più la stessa cosa qui senza la nostra Mary, coraggiosa come prima... quindi per me puoi fare questa corsa, se sei pronta e disposta ad affrontarne le conseguenze, qualunque esse siano».
Catherine stette in silenzio e se ne uscì fuori. Mary e Susan uscirono e andarono nella stalla a preparare i cavalli per andare dai Buster. Catherine era appoggiata al pozzo. Le osservava, era arrabbiata, ma soprattutto preoccupata per quello che poteva succedere a sua figlia. Mary portò fuori Wild. Lo aveva fatto eggiare spesso, ma non ci era più salita sopra da dopo la caduta. Lo accarezzava per trovare conforto e Wild pareva comprendere lo stato d’animo combattuto della padrona. Girava la testa verso di lei, prendendole la manica del vestito e tirandola a sé. Mary si mise a ridere, poi tirò un sospiro prese le briglie e un ciuffo della criniera con una mano. L’altra l’appoggiò sulla sella, mise un piede nella staffa e si fermò. «Coraggio» disse Susan. «Sono qua io e non c’è alcuna fretta». «Grazie». Mary si diede una spinta e salì a cavallo, come se lo fe per la prima volta. La testa le girava, le veniva in mente la caduta e l’immenso dolore che aveva provato. «Andiamo» disse dopo aver inspirato l’aria quanto i polmoni glielo permettevano e mosse il cavallo con fare abbastanza sicuro. Le ragazze andarono al ranch, correndo al o e galoppando leggermente. Susan, di tanto in tanto, lodava Mary e si accertava che stesse bene. Poi finalmente videro il cancello del ranch con l’enorme “B” in ferro battuto che lo sovrastava e furono entrambe felici di aver raggiunto la meta senza incidenti. Edward era in casa, che eggiava su e giù per il salotto leggendo il giornale e fumando un sigaro, quando rivolse lo sguardo fuori della finestra e vide le due ragazze arrivate. Subito posò quello che aveva in mano e uscì fuori. «Che piacere vedervi! Che bello! Soprattutto rivederti in sella a Wild, Mary» esclamò in segno di saluto.
«Sì, era ora». «Mary era troppo brava per restare a piedi più a lungo» aggiunse Susan. «A questo proposito Edward vorrei esprimervi un desiderio di Mary, che è anche il mio». continuò la ragazza, mettendo in risalto quest’ultimo punto. «Ma certo! Venite in casa. Vi faccio preparare qualcosa». «Allora di che si tratta?» disse Edward dopo aver fatto accomodare le sue ospiti in salotto. «Ecco Edward...» disse Mary «io vorrei partecipare...». «Partecipare...» la invitò a continuare Edward. Mary deglutì: «Partecipare alla corsa di cavalli che si terrà tra una settimana» disse tutta d’un fiato, temendo che le parole le si fermassero in gola. Edward fermò la mano a mezz’aria con il suo sigaro che stava portando alla bocca e fissò le due ragazze. Poi rise incredulo. «Insomma... capisci Mary... tu, tu mi chiedi di farti partecipare a una corsa che ha visto sempre e solo uomini partecipare. Non penso proprio sia possibile. Chissà cosa direbbe la gente». Susan non ci vedeva già più dalla rabbia dopo quelle poche parole e si alzò in piedi. «Vedo dunque che neanche il padrone di questo ranch è diverso dagli abitanti di questa zona! Neanche qui si può essere liberi di esprimere i propri desideri ricevendo in cambio rispetto e attenzione!». «Un momento, ascoltate» disse Edward imbarazzato. «No, ascoltate voi! Perché siamo donne allora siamo incapaci?! E ditemi: c’è forse qualcosa nel regolamento di questa corsa, ammesso che ce ne sia uno, vista l’inciviltà degli uomini che vi hanno sempre e solo partecipato, che vieta a una donna di prendervi parte espressamente?!». «Espressamente?».
«Sì!». «No, ma...». «Allora non vedo dove sta il problema». «Insomma, signorina Susan, voi non avete alcun diritto di venirmi a dire queste cose! Vi ho sempre trattato con rispetto!». «Basta!» gridò Mary. «Voi state litigando per me e io questo davvero non lo merito e poi ne state facendo una questione di genere, cosa che non è. Io voglio partecipare a questa corsa perché so che posso vincerla e perché ho bisogno di credere che sia possibile e ci parteciperò anche se tu, Edward, o chiunque altro, mi direte di no». «Scusa Mary. Dimenticavo quanto hai ato e dovevo immaginare quanto questa corsa possa rappresentare. E va bene: iscriviti alla corsa. Se ci saranno problemi, provvederò io. In quanto a voi, Susan» aggiunse Edward rassegnato «mi scuso per non aver ascoltato col dovuto rispetto e vi ringrazio per aver espresso liberamente la vostra opinione. Avevo dimenticato di essere sempre stato un sostenitore della libertà d’opinione, almeno all’interno di questa casa». Susan era senza parole, ma riuscì a dire qualcosa: «Mi dispiace se vi ho aggredito, non era mia intenzione». E i due si diedero la mano in segno di pace fatta. Le due ragazze uscirono e la più sorpresa era Mary, che disse: «Stava per scoppiare un vero e proprio temporale a giudicare dai lampi e dai tuoni che si erano scatenati lì dentro!». «Ma quando ha detto “Chissà cosa penserà la gente”, io non c’ho proprio più visto!» disse Susan. «Sì, beh sappi che non hai più libertà di parola per tutte le volte che mi hai detto di non arrabbiarmi con troppa facilità!». «Non mi importa! Quando ci vuole, ci vuole!» e si misero a ridere allegramente,
dandosi a vicenda un pizzicotto sulle guance. Le due ragazze uscirono dal ranch e andarono a cavalcare per la prateria, tanto per allenarsi un po’. Mary stava riacquistando fiducia in se stessa e nel cavallo, ma temeva il percorso della gara, fatto di buche, salti e curve brusche. «Qui ci vuole qualcuno che ti insegni bene cosa fare nel percorso» disse Susan. «Già». «Magari Danny o Edward». «Già». «Perché dici solo “già”?!». «Oh scusami Susan, è che proprio sono assorta nel pensare al percorso! Mi fa alquanto paura, anche se ho fatto di peggio senza essere in gara». «Immagino, ma una gara è tutt’altra cosa, anche solo per lo spirito competitivo. Vedrai che ne verremo fuori. Intanto direi di andare a casa» propose la cugina. Il giorno dopo le ragazze con Catherine andarono in città per delle compere. ando davanti all’albergo, videro l’elenco di quelli finora iscritti alla corsa. «Ehi ci sei anche tu, Mary! Edward ha mantenuto quello che ci ha detto ieri!» esclamò entusiasta Susan, mentre Catherine sospirava irritata. Mary si limitò a sorridere e si guardava intorno: sentiva gli occhi della gente puntati su di sé e sapeva anche il motivo. Le tre donne proseguirono attraversando la strada e andando all’emporio. Dentro c’era tanta gente, del resto erano appena arrivati i rifornimenti con la diligenza. C’era anche Danny che, lista alla mano, seguiva un commesso per il negozio in cerca di tutto quello che al ranch gli avevano detto di prendere. Catherine era al bancone, mentre Mary e Susan stavano guardando i vestiti vicino all’entrata del negozio quando sopraggiunsero Margaret Boston e sua madre. «Guarda, mamma» disse la ragazza ad alta voce. «Susan sta guardando il vestito
blu, le starebbe molto bene in effetti. Ma chissà come mai Mary è lì. Di sicuro, non le andrebbe bene niente che sia adatto a una vera signorina» concluse sogghignando. Mary e Susan si voltarono una più inorridita dell’altra per la cattiveria detta. «Suvvia, Margaret» disse sua madre con ostentata aria di superiorità e facendo udire a tutti le sue parole come aveva fatto la figlia «non è colpa di Mary, se è così. Io ho sempre detto a Catherine che doveva insegnare a sua figlia come trovarsi al più presto un marito per stare a casa a non danneggiare la reputazione della sua famiglia, ma lei non mi ha mai dato retta. E se non sta attenta, rovinerà anche il futuro di sua nipote». Catherine dal bancone vicino aveva sentito tutto, come del resto volevano le due Boston, aspettandosi che la signora McArthur incassasse semplicemente il colpo e non dicesse niente, ma lei si era proprio stancata di quella donna che non aveva mai potuto soffrire e disse con fermezza e tranquillità: «Cara signora Boston, se date al matrimonio il compito di far stare una donna a casa a non rovinare la reputazione della famiglia, mi dispiace informarvi che voi avete miseramente fallito l’obiettivo: perché, anche se siete sposata, invece di essere a casa a fare marmellata d’albicocca con la quale dovreste rimpinzare vostra figlia di modo che non possa aprire la bocca in sciocchezze e maldicenze, siete qui a maltrattare me e la mia famiglia, ma ancor di più a infangare la vostra con tale comportamento!». Le due pettegole non poterono far altro che restare di stucco e fare dietrofront, dato che tutti nel negozio le stavano guardando ed erano ben contenti di quello che era stato detto loro, perché quel giorno era stato il turno delle McArthur, ma le altre volte avevano sputato sentenze su altre famiglie di Old Town la cui unica colpa era quella di non essere snob. Mary guardava sua madre e aveva le lacrime agli occhi: non sapeva, non immaginava che potesse difenderla in quel modo. Catherine le si avvicinò e l’abbracciò, poi si girò verso il commesso che l’aveva seguita e disse con autorità: «Il conto prego!». «Su...subito» disse quasi intimorito da quella donna.
Per la via di casa il cielo era di un blu intensissimo e il sole riscaldava ogni cosa con la sua luce, la leggera brezza rinfrescava i visi e muoveva i capelli e le tre se la ridevano allegramente. «Zia, sei stata formidabile! Una forza della natura!» urlava Susan. «Ci bandiranno dalla città!» disse ridendo a più non posso Catherine. «Poco male!» aggiunse Mary. Sembravano ubriache di libertà. In quel mentre incrociarono Edward, che stava scendendo dalla collina adiacente alla strada con alcuni mandriani e alcuni capi di bestiame che si erano allontanati dalla mandria. «Salve gente!» disse tutto contento pure lui. «Siete contento Edward. Come mai?» chiese Susan. «Perché finalmente abbiamo recuperato queste bestie che si erano allontanate. Non è stato facile. E voi, signore? Mi sembrate non solo contente, ma alquanto allegre!». «È una lunga storia...» disse Susan ricominciando a ridere. Edward era sorpreso di vedere la ragazza così e sorrise a sua volta, con il solito modo di fare che aveva lui, allargando la bocca tutta da un lato. «Sentite, per la corsa io direi di trovarci noi tre e andare a vedere il percorso. Anzi farò venire anche McNelly». «Buona idea. E quando?» chiese Susan. «Domani. Alla mattina. Poi potremmo fare un pic-nic. Che ne dite?». «Direi che va bene, vero mamma?» domandò Mary. Catherine annuì. La sera a cena le tre donne raccontarono tutto l’accaduto, non tralasciando
neanche un particolare, a Sam e Billy. Il piccolo McArthur rideva a più non posso, mentre il grande cercò di darsi un contegno. Ma dopo cena, in camera con sua moglie, si divertì pure lui per quanto aveva appreso e abbracciò la donna dicendo: «Avrei voluto esserci per vederti. Mi sembri tornata quella di quando ci siamo innamorati, esattamente come Mary adesso». «Già, mi ero dimenticata di quanto lei assomiglia a me, quando avevo la sua stessa età, di come ti incitavo nelle corse a cui partecipavi e soprattutto del fatto che avrei voluto parteciparvi anch’io». «Non me l’avevi mai confidato!» disse sorpreso Sam. «A che scopo? Non avrei potuto correre comunque... ma ora Mary potrà! Spero che vada tutto bene». L’indomani di buon ora, quando la foschia era ancora presente nella prateria, le due ragazze si diressero al ranch Buster, dove trovarono Edward sotto il portico di casa sua ad attenderle mentre sorseggiava un caffè molto forte e leggeva un libro. Come ogni mattina, i cowboy erano già tutti a lavoro da un pezzo e Danny prima di raggiungere i tre aveva avuto modo di fare già diversi lavori, tra cui spaccare legna, dare una mano al fabbro con i cavalli a cui dovevano essere aggiustati i ferri, e pulire le capanne di tutti i braccianti, dato che era il suo turno. Insomma arrivò sotto il portico e si sedette esausto sugli scalini. «McNelly vuoi un po’ di caffè anche tu?» disse Edward, che l’aveva già offerto alle due ragazze. «No grazie, signore. Ne ho bevuto un po’ dal fabbro» rispose lui, che si sentiva imbarazzato dal fatto che Edward offrisse del caffè praticamente in casa all’ultimo arrivato. «Allora sei pronto a seguirci in questo allenamento?» chiese di nuovo Buster. «Sì, ma ci pensavo... il cavallo non ha mai partecipato a una corsa e il via è dato da uno sparo. Potrebbe spaventarsi, imbizzarrirsi e la corsa sua e di Mary sarebbe finita prima di cominciare» disse Danny tutto convinto della sua competenza.
«Sì, hai ragione» fece l’altro «bisognerà fare delle prove anche di quello, allora vado a prendere pistola e proiettili in casa, voi intanto montate a cavallo». Le ragazze erano state zitte, intente a osservare il comportamento di questi due ragazzi praticamente coetanei, così diversi tra loro per carattere, condizione sociale ed esperienze di vita, che però si trovavano a collaborare in sintonia. Danny disse a Mary: «Vuoi che prima provo io la partenza con Wild? Potresti cadere se si spaventa troppo.». «Beh, non saprei. Forse le prime potresti farle tu, sì, credo sia meglio e poi proverò io» rispose lei con un’insolita accondiscendenza che non le era mai venuta spontanea in vita sua. Così andarono alla partenza, che si trovava al cancello del ranch, da cui si arrivava per una lunga e ampia strada che nel tratto finale correva sotto a un bel viale alberato, dove si sarebbe svolto il primo tratto di gara. Edward si mise con la pistola al lato della strada dove doveva esserci la linea di partenza e Danny montò a cavallo. «Sono pronto» disse. Buster sparò un colpo in aria e Wild si spaventò come previsto, imbizzarrendosi e, anche se Danny era preparato a questa eventualità ed era esperto nello stare a cavallo, cadde giù rovinosamente. «Danny!» gridò subito Mary precipitandosi vicino al malcapitato. «Tutto bene?» chiese Edward. «Sì, sì» fece lui rialzandosi e spolverando i vestiti. «Sono ferito solo nell’orgoglio, ma non mi lascio impressionare». Rimontò a cavallo e fece di nuovo cenno a Edward di procedere. Anche al suono del secondo sparo Wild si imbizzarrì, ma Danny riuscì a controllarlo e fargli fare qualche decina di metri in corsa abbastanza regolare.
«Per fortuna questo cavallo impara presto!» disse. Ancora quattro, cinque prove e Wild non era più così spaventato: riusciva a correre bene. Così fu la volta di Mary, che aveva dalla sua la confidenza con l’animale. Dopo aver provato la partenza con lo sparo anche lei, un po’ di volte, si sentì abbastanza sicura da procedere alla fase successiva. I quattro salirono tutti a cavallo e Edward mostrò il percorso: dopo il primo tratto di corsa sotto il viale della strada, si abbandonava quest’ultima verso destra per immergersi nella prateria, su per una lunga e dolce collina, piena però di saliscendi, buche e rialzi; arrivati alla cima della collina, la discesa era più ripida e difficile e alla fine c’era un fossato da saltare. Proseguendo verso sinistra c’era una serie di tronchi abbattuti da saltare anche questi, poi ci si riportava sulla strada. Si faceva un tratto dritto e poi si seguiva una brusca curva a sinistra. Si abbandonava di nuovo la strada per la prateria, tornando verso il ranch dei Buster. Dopo un lungo tratto in rettilineo, parallelo al viale, ci si doveva infilare proprio attraverso il quartultimo e terzultimo albero e quindi proseguire verso il traguardo. «Beh, non è una eggiata. Ma non è neanche impossibile» disse Mary alla fine del giro. «Mi fa piacere la tua positività, ma ricordati che non sarai sola, anzi ti troverai circondata da cowboy esperti e alquanto agguerriti» avvertì Buster. «Un’altra cosa, Mary...» precisò Danny. «Dovrai fare attenzione al tuo fianco sinistro. Non vedendoci da quella parte, potresti non accorgerti di quello che succede, se ci sono altri cavalli, ostacoli imprevisti. Ti consiglio di tenerti il più possibile sulla sinistra del percorso, in modo da non trovare sorprese. E non serve che parti subito velocissima o rischi di bruciare le energie di Wild per il finale: corri con regolarità». «Già. Adesso vorrei fare una prova generale, con la partenza e tutto il resto. Vuoi farmi da punto di riferimento?» chiese Mary. «Volentieri» rispose il ragazzo. «Bene Susan, voi venite con me alla partenza» disse Edward. Mary e Danny erano appaiati, uno sparo e partirono a una media andatura. Il
punto più critico per la ragazza erano gli ostacoli, dato che si era fatta male proprio così e prima di saltare tratteneva il respiro e le veniva da chiudere gli occhi ma sapeva di non poterlo fare. Sui tratti in rettilineo guadagnava comunque terreno su Danny, che le era davanti e tagliò il traguardo poco prima di lei. «Come vi sembra che sia andata?» chiese la ragazza ai presenti. «Considerando che è la prima vera prova, direi proprio non male» fu il commento generale. «Ho capito: è stato un disastro» fece lei sconsolata. Gli altri tre cercarono di smentirla sebbene consapevoli che, se avesse corso così la gara, non avrebbe vinto. Comunque la fame si faceva sentire, così le ragazze presero i cesti da pic-nic che avevano depositato in casa Buster e andarono tutti e quattro nella prateria, sotto a un gruppo di alberi che, come dei vecchi capi indiani, parevano essersi trovati per tenere un consiglio attorno a un fuoco. Furono stese delle coperte per terra, si tirarono fuori tutte le prelibatezze preparate e si diede libero sfogo all’appetito, che non scarseggiava in nessuno dei presenti. Durante il pranzo, si raccontò a Edward ciò che era successo il giorno prima in città con le signore Boston. Lui ingoiò il boccone per non sputarlo fuori dal ridere. «Mary, ho sempre avuto un timore reverenziale di tua madre. E ora capisco il perché!» commentò Buster divertito. Anche Danny rideva, poi si fece serio e si alzò, tanto più che aveva finito di mangiare. Si avvicinò al cavallo e tirò fuori qualcosa dalla bisaccia; poi andò a sedersi sotto un albero poco più distante e si mise a suonare con un’armonica una melodia triste e malinconica. «Che gli sarà preso?» chiese Edward.
«Mah, vado a chiederglielo» disse Mary alzandosi e andando verso di lui. «Voi suonate qualche strumento?» chiese Buster a Susan. «Certo. Mio padre mi ha fatto prendere lezioni di pianoforte fin da quando avevo cinque anni. All’inizio lo odiavo, poi però ho cominciato veramente ad amarlo». «Potevate dirmelo prima! Io a casa ho un pianoforte che non ho mai il tempo di suonare, anche se piace molto pure a me. Potete venirlo a suonare ogni qualvolta vogliate». «Davvero?! Oh grazie! Avrei tanto voluto chiedervelo prima, sapete? Ma temevo di sembrare inopportuna e sfacciata» rispose lei con la gratitudine e la sorpresa che le facevano brillare gli occhi. «Non dovete dire così. Da che siete qui non vi ho mai trovata inopportuna!» disse lui, ma poi si pentì e arrossì terribilmente, tanto da non accorgersi di quanto rossa era diventata Susan, fino alle orecchie, come se avesse bevuto. «Nemmeno quella volta che mi sono arrabbiata perché non volevate far partecipare Mary alla corsa?» chiese lei guardando da un’altra parte e pentendosi per aver risvegliato quel ricordo a suo avviso spiacevole. «Se ci penso... avete fatto bene a dirmene quattro!» fece Edward ridendo. I due non se ne accorsero, ma l’armonica nel frattempo aveva smesso di suonare. Mary aveva raggiunto Danny. «Posso sedermi o disturbo?» chiese la ragazza. «No, no. Fa pure». «Ti è preso un momento di tristezza?». «No... è che, anche se Buster dice che non importa, io mi sento in imbarazzo a stare lì come se non fossi un suo dipendente». «Ma lo sai che sei ben strano?! Dai del “tu” a una ragazza sconosciuta senza preoccupazione e poi ti imbarazzi se mangi qualcosa con un ragazzo che ha la tua stessa età e che non ti ha mai trattato con superiorità».
«Che ci vuoi fare! Sono fatto così!» disse lui alzando le spalle. «Perché mi hai sempre dato del “tu”?» insistette lei. «Forse perché avevo la sensazione che non ti importasse» rispose lui bruscamente. «Va bene. Scusa» disse lei alzandosi per andarsene, rattristata da quel comportamento. «Aspetta!» disse Danny. «Scusami. Siediti pure se vuoi». Dopo che la ragazza si era riseduta per terra, lui proseguì: «Tu credi in Dio, Mary?». Alla ragazza la domanda parve strana, comunque rispose: «Beh, certo. Come tutti qui, ritengo». «Già, ma non credi che non si dovrebbe dare per scontato?». «Cosa intendi dire? Tu non ci credi forse?» chiese lei preoccupata. «No, no ci credo eccome. Quello che voglio dire è che si dovrebbe vivere sapendo che si renderà conto a qualcuno che non può sbagliare giudizio, né nel bene né nel male». «E non è confortante questo?». «Sì, ma gli uomini non sono così. Gli uomini sbagliano, anche nei giudizi. Non mi affiderei a un uomo per essere giudicato giustamente». «Ti senti giudicato ingiustamente?» chiese la ragazza ancora più preoccupata perché non capiva dove andava a parare quel discorso. «Non sono perfetto, Mary. Anch’io commetto degli sbagli. Non me ne vanto e cerco di non ripeterli e quando provo rimorso ricordo a me stesso che Dio sa tutto: sa perché ho fatto tutto quel che ho fatto e so che terrà conto di tutti i miei sforzi nel Suo giudizio. Ma non mi aspetto questo dagli uomini: i tribunali servono solo a giudicare le malefatte e non importa quanto bene uno abbia
cercato di comportarsi. Non fanno differenza tra un poveretto che ruba per fame e uno che lo fa solo per arricchirsi!». Mary stava in silenzio e ascoltava. «Ricordo che, quando ero piccolo, al mio paese, c’era un ragazzino. Eravamo molto amici, lui e io. Anche la sua famiglia era povera. Sua madre era morta, il padre lavorava in miniera dalla mattina alla sera, a malapena per portare a casa un po’ di pane per i suoi sei figli. Ma un giorno si ruppe una gamba e non poté più lavorare. Il mio amico andò a chiedere un po’ di soldi al padrone della miniera: quello gli rise in faccia e gli disse che, se avevano bisogno di soldi, poteva dire a sua sorella di andare a lavorare al saloon. Lui andò lì di notte. Sapeva che quel farabutto teneva un po’ di soldi nella scrivania... non mangiavano da giorni e uno dei suoi fratelli più piccoli aveva l’influenza». Danny si fermò, gli venne un nodo in gola, comunque proseguì il suo racconto. «Fatto sta che fu sorpreso a rubare e fu ucciso senza pietà, senza sentire ragioni, da quel criminale... e a lui non fu fatto niente. Se la rideva quando mi vedeva per la strada e mi diceva di stare attento a non fare la stessa fine» concluse stringendo i pugni con forza. «Mi dispiace immensamente, Danny. Immagino che dev’essere stato terribile». «Io lo so che il mio amico sbagliò andando a rubare, ma non gli fu mostrata un po’ di misericordia!». «Io dico solo questo, Danny» disse Mary piangendo. «Se per qualche motivo, che non ti chiederò se tu non me lo vuoi raccontare, hai timore di dover essere giudicato dagli uomini, spero che terranno conto di tutto quello che di bene hai fatto nella vita. E se non volessero fare questo, io... io gli direi tutto quello che di buono hai fatto da quando sei venuto qui. Di come hai aiutato una ragazza sperduta ad avere meno vergogna di stare a questo mondo: forse agli altri non importerà, ma io mi ricorderò sempre di questi giorni». Danny la fissava con gli occhi lucidi, ma non aveva nessuna intenzione di abbandonarsi alle lacrime come aveva fatto lei. Disse solamente: «Beh... ti ringrazio». Poi si sentirono chiamare da Edward, che era in piedi e pareva avere fretta di andarsene. In effetti doveva sbrigare varie faccende di natura burocratica al
ranch e quindi non poteva trattenersi oltre. Danny ritornò al ranch con lui, mentre le due cugine McArthur se ne ritornarono a casa perché avevano lasciato in sospeso non pochi lavori: c’era da pulire la stalla, da raccogliere le uova nel pollaio, nonché raccogliere le verdure nell’orto e pulire dentro casa. Così ne ebbero fino a sera inoltrata e, dopo aver mangiato e sistemato la cucina, si buttarono sui letti e presero sonno all’istante, con gli arti indolenziti e il fondoschiena dolorante per le ore a cavallo. I giorni prima della gara trascorsero tranquilli. Mary provò ancora il percorso e si sentiva abbastanza sicura, ma non sapeva se seguire il consiglio di Danny di tenersi sulla sinistra o se fare come le suggeriva l’istinto, cioè buttarsi al centro dove si correva veramente fin dall’inizio. Era un sabato soleggiato, ma il giorno prima aveva piovuto, anzi aveva diluviato perché c’era stato un gran brutto temporale. La terra si era inzuppata e ora c’era molto fango. Una difficoltà in più in una corsa già difficile. C’erano tutti i giovani del paese, tra cui Tyler Brigs, nonché cowboy arrivati dai paesi vicini, attirati dal premio di cento dollari. In tutto erano una trentina di persone. I cavalli erano stati preparati al meglio e l’umidità che si levava dal terreno bagnato si confondeva con i loro sbuffi eccitati, dato che gli animali avvertivano in pieno la tensione dell’avvenimento e pareva, dalla loro agitazione, che anche per loro ci sarebbe stato un premio altrettanto consistente, paragonabile ai cento dollari per i loro cavalieri. Gli spettatori erano fermi ai bordi del percorso: gli uomini non curanti del fango che sporcava stivali e pantaloni, le donne invece in piedi sui carri. Edward Buster aveva preso dall’armeria una pistola d’epoca, che usava tutti gli anni per sparare il colpo del via, in argento e con il calcio d’avorio. Mary era arrivata accompagnata dal resto della famiglia, anche se fino all’ultimo Catherine era stata incerta se andare perché era emozionata e non sapeva come avrebbe reagito agli eventi. Difatti si poteva ben dire che era più agitata della figlia. Quest’ultima si era preparata a dovere. Si era messa il cappello, aveva raccolto i lunghi capelli dietro la testa, all’altezza del collo, con un fermaglio, si era messa una camicia e una giacca di pelle scamosciata, i jeans e degli stivali da cavallerizza che le aveva dato Susan, dai tempi che prendeva lezione a
Washington. Nessuno dei suoi aveva il coraggio di dirle niente, avevano paura di spezzare la concentrazione e la calma apparente che pareva essere riuscita a raggiungere. Erano tutti al ranch e Mary era in disparte vicino al carro di famiglia con Wild, mentre gli sistemava per l’ultima volta la sella. Le si avvicinò a cavallo Tyler. «Ciao Mary. Come va?». «Bene grazie. Spero anche tu» disse lei. «Sì, grazie. Volevo dirti che, al di là di tutto, spero tu faccia bene». A Mary quelle parole sembravano sincere, così rispose: «Grazie, sono sicura che tu andrai benissimo. Ti sei sempre piazzato bene gli anni scorsi». Tyler fece un cenno di assenso col capo e proseguì verso la partenza. Se fino a poco tempo prima ciò che le era appena successo l’avrebbe riempita di gioia, ora Mary non provava niente, se non sentirsi sollevata. Danny era appoggiato al muro della baracca dove dormiva, con un lungo filo di paglia in bocca e le braccia incrociate. Scrutava la gente che gli stava intorno senza soffermarsi su nessuno in particolare, ma quando si accorse che Mary lo stava guardando non si trattenne dal sorriderle, come lei stessa stava facendo con lui. Mary montò a cavallo e lo diresse verso la partenza, si piazzò a sinistra e aspettò. Il cuore di tutti sembrava essersi fermato in gola, lo sparo pareva non arrivare mai. Sembrava che anche gli uccelli numerosi sugli alberi del viale avessero smesso di cantare. La tensione si poteva tagliare con un coltello. Edward inspirò, trattenne l’aria e premette il grilletto per poi riprendere a respirare normalmente. Al tuono della pistola si scatenò un ammasso di cavalli e uomini che correvano tutti nella stessa direzione. Mary si manteneva sempre sulla sinistra anche se questo l’aveva lasciata un po’ indietro, ma quando fu il momento di buttarsi a destra nella
prateria, si portò nel centro del gruppo. Non aveva bisogno di spronare ulteriormente il cavallo, Wild non era abituato a vedere code di altri cavalli davanti a sé, voleva vedere solo erba verde e l’orizzonte. Mary si teneva saldamente e assecondava i movimenti dell’animale. In cima alla collina era circa la decima. Discese con attenzione l’altro versante perché il fango giocava brutti scherzi. Diversi cowboy erano caduti perché i cavalli erano scivolati e ora erano tagliati fuori. Mary si tenne ancora più stretta quando ci furono da saltare il fossato e i tronchi, ma Wild pareva intenzionato a non farla più cadere. La corsa proseguì poco dopo sulla strada e la ragazza era appena riuscita a superare Tyler, portandosi da quarta a terza. Ora c’era da affrontare la curva secca a sinistra per poi uscire dalla strada e fare il rettilineo. Mary guidò Wild verso sinistra, ma, non vedendoci da quel lato, non si accorse che Tyler l’aveva affiancata e stava girando anche lui. Fu un attimo: Mary andò a sbattere con Wild addosso a Tyler e al suo cavallo e mentre quest’ultimi riuscirono a proseguire quasi indenni, lei stava per essere sbalzata a terra. Ma non aveva nessuna intenzione di finire così la sua corsa. Si teneva con tutte le forze al collo del suo cavallo e con uno scatto deciso si riportò in sella, mentre Wild nel frattempo aveva continuato a correre. Mary lo aveva capito solo ora quanto voleva vincere e divenne ancora di più un tutt’uno con il cavallo. Dal ranch erano tutti urlanti. Edward aveva raggiunto i McAthur sul carro, senza paura di dimostrare chi sperava che vincesse: «Guardate quel cavallo! Sembra che voli!» esclamò Buster indicando Wild. Erano tutti aggrappati alle staccionate o in piedi sui carri: le donne con le mani incrociate quasi a pregare che nessuno si fe male; gli uomini pronti a lanciare in aria i cappelli all’arrivo del vincitore. Mancavano ancora qualche centinaio di metri. La gara tra il primo e il secondo, un cowboy del ranch Buster e uno venuto da fuori, si correva sul filo dei centimetri. Entrambi impegnati a ostacolarsi a vicenda, non si accorsero che da dietro stava arrivando Wild. Sembrava una freccia dorata, dato il suo manto chiaro e la criniera e la coda bionde. La leggerezza di Mary gli permetteva di andare veloce ed essendo bassa, lei riusciva a cavalcare senza appesantire la
corsa di Wild. Al traguardo, Danny si era tolto il filo di paglia dalla bocca e ora lo contorceva nervosamente tra le mani. Dentro di sé continuava a ripetere: «Forza, forza! Andiamo! Corri!». La ragazza ormai si era affiancata ai due in testa e mentre il cowboy dei Buster era ormai distanziato, il forestiero le correva appaiato. Quest’ultimo con un frustino tentava di spronare ulteriormente il cavallo, che però pareva non gradire tale comportamento. Oltretutto stava consumando tutte le forze dell’animale. Mary invece spronò Wild a parole. «Andiamo Wild!» urlò con quanta voce aveva in gola. «Corri, manca poco! Dai!». Mancavano pochi metri. Wild superò l’avversario proprio mentre avano tra i due alberi del viale e riuscì ad allungare il o quel tanto da permettergli di tagliare il traguardo poche decine di centimetri davanti all’altro cavallo. Mary non poteva crederci, lasciò le redini e si buttò sul cavallo, bagnandogli la criniera con le lacrime. Wild si fermò, capendo dai gesti della padrona e dalla gente intorno a lui che non c’era più bisogno di correre. Da quando avevano tagliato il traguardo, a Mary ogni suono sembrava ovattato: le urla, gli applausi arrivavano indistinti ai suoi orecchi e la gente ava veloce davanti all’unico occhio che le permetteva di vederla. Sua madre, che per tutta la corsa era stata seduta con le braccia incrociate sulla pancia e agitando le gambe per la tensione, appena vide la figlia vincere, si alzò in piedi sul carro e urlò per la liberazione: «Ah! Ha vinto! Mia figlia ha vinto!» e, dicendolo, abbracciava tutti coloro che aveva intorno. Sam aveva preso Billy e lo aveva fatto girare vorticosamente intorno per poi abbracciarlo stretto. Danny cercò di avvicinarsi a Mary, ma tutti le si stringevano attorno, così dovette aspettare che la “bufera” si calmasse. Quando riuscì finalmente a raggiungerla, lei stava in piedi vicino a Wild e lo accarezzava, lo abbracciava.
«Wild se lo merita questo trattamento!» disse lui. Mary sentendo la voce dell’amico, scostò la testa dalla criniera dell’animale e sorrise. Allungò il braccio per stringere la mano di colui che aveva reso possibile tutto questo e lui le restituì il gesto calorosamente. Edward Buster arrivò con un piccolo trofeo d’oro e abbracciò l’amica. «Te lo sei guadagnato, Mary. E sono fiero di dartelo» disse. Le spiegò anche, accostandosi a uno orecchio, che i cento dollari glieli avrebbe dati in casa per non maneggiare una busta di soldi con troppa gente in giro. Mary sapeva già cosa avrebbe fatto con parte di quei soldi. E per questo non vedeva l’ora di riceverli. Al pomeriggio ci sarebbe stata una bella festicciola, sempre al ranch. Nel frattempo molti tornarono alle loro case, dato che mancavano ancora delle ore. Anche i McArthur tornarono alla fattoria, dato che Mary aveva decisamente bisogno di darsi una sistemata e Wild si meritava di essere messo a riposo. Poi Sam e Catherine avevano tante cose da fare, quindi non sarebbero andati alla festa. Invece Susan, Mary e Billy non vedevano l’ora di far ritorno al ranch Buster. «Allora ti ha dato i soldi?» chiese Susan alla cugina, quando furono nella loro stanza. «Certo» disse lei, ancora incredula. «Come sono contenta per te! Ora chissà cosa ti comprerai! Magari uno di quei vestiti che abbiamo visto nel catalogo che mi ha prestato Margaret Boston tempo fa». Mary abbassò la testa e rise, poi disse: «No, no. Non voglio spendere così questi soldi». «Beh è giusto che tu li usi come meglio pensi».
CAPITOLO 5 – INCOMPRENSIONI
Dopo aver pranzato e finito di prepararsi, i tre giovani salirono sul carro e ripartirono alla volta del ranch Buster. Le due ragazze si erano messe i loro vestiti migliori e Susan si era fatta aiutare da Mary per sperimentare una nuova acconciatura che aveva trovato sul giornale di moda che ogni mese si faceva spedire da Washington. I capelli di Mary invece erano sciolti, folti, fortemente ondulati e le scendevano sulla schiena, anche se si era raccolta quelli che le cadevano davanti per tenere libera la fronte alta. Così, la prima in rosa e la seconda in verde, si sistemarono sul carro. Billy durante il tragitto raccontò la corsa, quasi che le due non fossero state presenti, così vividamente che pareva un generale intento a dare coraggio ai suoi uomini prima di una battaglia. «Chissà se potrò suonare il piano di Edward oggi?» sospirò Susan. «Qualcosa mi dice di sì!» rispose maliziosa Mary. «Senti un po’: secondo te piaccio a Edward? Tu lo conosci da una vita e sai perché non si è ancora sposato». Mary fece l’espressione inconsapevole. «Non posso leggere nella sua mente. Lui è un tipo cordiale per natura. Ma credo che tu sia riuscita a suscitare in lui una simpatia che potrebbe anche trasformarsi in un sentimento più forte». «Ma cos’è che a lui proprio non va in una ragazza?». «Credo non sopporti quelle ragazze che si vantano, che si danno delle arie, che si accontentino di essere oggetti, come dei bei soprammobili da esposizione. A lui piacciono le persone, uomini e donne, che prendono in mano le redini della propria vita, che usano il cervello e che sono sensibili, che hanno buoni sentimenti».
«E a te Mary? A te non piace nessuno?». «Non so. Non ho voglia di illudermi». «Faccio una fatica a levarti le parole di bocca! Non esprimi mai apertamente i tuoi sentimenti più profondi». «Se non lo faccio è perché credo che non serva, anzi è controproducente. Le cose cambiano. La vita a e si scopre di essersi tanto affannati per niente». «E se non fosse “per niente”?!». Mary fece scena muta per tutto il resto del tragitto. Al ranch il pomeriggio ò tranquillo. Si mangiava, si beveva, e la piccola orchestra messa su dai cittadini di Old Town faceva le prove per il ballo che si sarebbe tenuto la sera. Tutti diedero una mano a posizionare le lanterne. Era festa per tutti, ma vari uomini di Buster dovevano finire di lavorare, dato che la mattina erano stati impegnati con la corsa. Anche Danny era in giro per la proprietà con altri ragazzi a sistemare delle staccionate e a controllare la mandria. La sera però ce l’avevano libera, e anche se alcuni non avrebbero rinunciato al saloon, la maggior parte aveva deciso di restare al ranch perché le ragazze delle famiglie per bene di Old Town erano tutte lì e, prima o poi, anche degli scapoli come loro volevano sposarsi. Così, dopo aver sbrigato tutti i lavori, i cowboy del ranch si chio nelle loro baracche a sistemarsi. Ed eccoli, sbarbati e pettinati, con i loro vestiti migliori o più puliti, che giravano per il cortile a salutare allegramente la gente. Cercavano di comportarsi da gentiluomini. Susan e Mary osservavano la scena e ridevano tra loro. Edward era stato impegnato fino ad allora in conversazioni noiose con il sindaco White, il banchiere, il dottor Hill, il professor Wilson, in pratica con tutti gli uomini più influenti che erano alla festa. A volte si stancava, alla sua età, di avere già tutte quelle responsabilità. Del resto il padre, Henry Buster, era morto nove anni prima e lui, essendo il maggiore, aveva preso in mano gli affari. Aveva due fratelli più piccoli, gemelli, che avevano l’età di Susan e Mary, ma stavano svolgendo gli studi a Washington e non pensavano minimamente di tornare a casa, in campagna, quando potevano godere di tutti i divertimenti e i lussi cittadini. L’ultima volta che erano stati a Old Town risaliva a più di un anno prima, per i funerali della signora Buster. Così Edward si ritrovava in
quell’enorme casa tutto solo. Le stanze per gli ospiti erano intonse e quelle dei suoi fratelli erano state lasciate inalterate, anche se loro non ci dormivano ormai da un pezzo. Edward, in cuor suo, soffriva moltissimo per questa situazione. Sperava che i suoi fratelli gli avrebbero un giorno dimostrato l’affetto che non avevano mai esternato nei suoi confronti. Lui era il più grande e doveva sempre prendersi tutte le colpe, anche da ragazzino, per quello che combinavano i gemelli e loro ne approfittavano, crescendo così viziati e opportunisti. La loro madre, Esther, era morta proprio con questa pena e aveva confidato a Edward tutto il suo dispiacere per non essere stata, insieme al marito, più equa nel trattare i suoi tre figli. Il giovane padrone del ranch aveva saputo dalle McArthur la storia di Danny, di come cercava di prendersi cura dei suoi fratelli, anche se erano figli di un uomo che non era suo padre e che era tutt’altro che amorevole. Lo ammirava profondamente per questo e si dispiaceva che quel suo coetaneo si tenesse così distaccato per una questione di importanza sociale o per un rapporto datorelavoratore. Però in quell’ultimo periodo si sentiva stranamente felice del fatto che i suoi fratelli fossero distanti. Si immaginava geloso di loro e della loro vicinanza, d’età e d’ambiente, con Susan e pensava che, se fossero stati lì, lei lo avrebbe considerato troppo noioso o vecchio. Si sentiva quasi in colpa a pensare questo. Comunque appena riuscì a liberarsi di quella pesante compagnia, andò a raggiungere le sue due amiche, che stavano stranamente conversando con Margaret Boston. Quest’ultima, dopo la prova di scortesia fornita all’emporio, era stata un po’ messa in disparte dai ragazzi e dalle ragazze del paese, ma la cosa che l’aveva ferita di più era vedere la freddezza di Tyler Brigs nei suoi confronti. Oltrettutto Mary aveva vinto la corsa e questo le aveva procurato una sorta di ammirazione nascosta tra quelli della sua età, soprattutto le ragazze, che certo non avevano il coraggio di dirlo in famiglia. Margaret si era avvicinata con il suo solito fare di superiorità e con l’eleganza che certo, obiettivamente, non le mancava. Esordì dicendo: «Mary, sono contenta che tu abbia vinto. Vorrei anche scusarmi per il mio
comportamento dell’altro giorno. Davvero sono stata insopportabile. Vorresti dirlo anche a tua madre?». «Certo Margaret. Io accetto le tue scuse e ti ringrazio delle congratulazioni per la corsa di oggi». Il tutto si svolse, come sperava la giovane Boston, a una distanza tale da poter essere udite da Tyler Brigs, che conversava proprio lì vicino. Era stata sincera, ma aveva scelto con cura il momento per chiedere scusa. Quando Edward arrivò, lei si congedò, dato che non aveva mai trovato un grande affinità con lui. Il ragazzo chiese: «Voi ballerete stasera ragazze?». «A me piacerebbe! E a te, Mary?». «Non saprei... avete visto Danny?». Entrambi risposero di “no”, ma Edward aggiunse che probabilmente si trovava nella sua baracca a finire di prepararsi perché era stato l’ultimo a terminare di lavorare. Difatti poco dopo uscì. Si può dire che Danny ben figurava. Alto e magro, abbronzato dal sole, si era sistemato con cura quella che di solito era un’indefinita zazzera biondo intenso e si era rasato quel filo di barba incolta che sempre percorreva il suo viso. Di vestiti non ne aveva molti, così si era messo il paio di jeans meno logori che aveva, una camicia pulita e una giacca chiara di pelle, frangiata. Gli occhi azzurri, vividi, osservavano i presenti, prima da una parte del cortile e poi dall’altra. Se ne stette con gli altri cowboy per gran parte del tempo, con grande preoccupazione di Mary, che provava un senso di paura nel pensare di avvicinarlo. Tutte le peggiori idee cominciavano ad affiorare nella sua testa. Si chiedeva perché fosse diventato così indifferente. Ma che cosa pretendeva? Che cosa si aspettava? Dentro di sé iniziava a credere di aver coltivato delle speranze a dir poco ingenue. Non aveva intenzione di dare a vedere il suo malessere, si limitava solamente a sorseggiare il suo ponce e a guardare la sua immagine riflessa nel liquido rosso vivo che le ricordava tanto il sangue. Quella giornata e tutte le sue emozioni stavano finendo nel più misero dei modi, come sempre
sola, perché Susan era ormai lanciata da due, tre balli nel vortice delle danze. Mary aveva osservato la cugina, che si era preoccupata di ballare solo con signori anzianotti e dalle movenze comiche. Comunque Edward l’aveva osservata di soppiatto tutto il tempo per vedere con chi ballava. L’ultimo ballerino che le era capitato, suo malgrado, era il professor Wilson, che aveva iniziato non si sa bene che discorso con la malcapitata. «Lo sapete, Susan? Da quando siete arrivata qui, credo che la nostra comunità abbia ricevuto non poco. Finalmente una mente studiata con cui confrontarsi. Che scuola avete frequentato a Washington?» e via così, tutte lodi che tempo prima aveva elargito a Mary. Girando intorno alla pista, la coppia ò proprio vicino a Edward che sembrava conversasse disinteressato a quello che accadeva ai ballerini. Susan gli lanciò uno sguardo disperato di richiesta d’aiuto, così lui capì finalmente quello che la ragazza aveva cercato di fare dall’inizio delle danze: ballare con lui, senza doverglielo chiedere esplicitamente. Mary si chiedeva perché ci avesse messo tanto a capirlo. In effetti, a volte, Buster era un po’ lento a capire i ragionamenti e le strategie femminili, ma era di certo incolpevole, dato che le donne fanno di tutto per complicarsi la vita. Così il salvatore arrivò a togliere la povera Susan dalle mani e dalle braccia e soprattutto dai discorsi di Wilson. «Posso William?» chiese Edward nel mezzo della danza, con tono che pareva più voler dire: “Togliti dai piedi” versione aristocratica. Susan cambiò subito espressione. Ora era raggiante, esultante per aver raggiunto il suo scopo, senza compromettersi! Mary iniziò a ridere osservando la scena, ma subito la sua contentezza fu sostituita dalla tristezza nell’accorgersi che niente per lei era cambiato. I balli le sembravano proprio una metafora della sua vita, per alcuni aspetti almeno. Parlando di sentimenti e rapporti sociali, poteva ben dire che, come nel ballo tutti gli altri partecipavano alle danze e lei se ne stava ai bordi a guardare, così nella vita tutti gli altri avevano a che fare tra di loro, esponevano i loro sentimenti, anche col rischio di essere feriti, mentre lei non riusciva a are all’azione, stava a guardare. Con questo pensiero in mente non riusciva a fare il primo o per avvicinarsi a Danny quella sera e lui pareva proprio non avere l’intenzione di precederla. Restava poco alla fine della serata, già diversi se n’erano andati via. Billy, Susan
e Mary si stavano preparando a tornare a casa, così che quest’ultima si fece forza per fare qualcosa a cui pensava da tempo ormai, se avesse vinto la corsa. Tirò fuori dal suo borsellino una busta e con discrezione si avvicinò a Danny. «Danny, io volevo darti questa prima di andar via» disse. «Che cos’è?» chiese lui, sorpreso e preoccupato. «Lo vedrai quando l’aprirai. Io ora devo andare a casa. Buona notte e grazie ancora di tutto». «Va bene» disse lui quasi pietrificato. Mary montò sul carro e aspettò che Susan salutasse Edward. «Vi ringrazio tanto per la bella serata» disse lei. «Non ho avuto occasione di farvi suonare il piano. Ma potrete venire con Mary quando non ci sarà tutta questa confusione». «Senz’altro verremo! Buona notte!». «Buona notte! E anche a te Mary». Ma la ragazza era assorta nei suoi pensieri e non vedeva l’ora di andarsene per non assistere alla reazione di Danny al contenuto di quella busta. Non sapeva come un uomo avrebbe reagito. Lui si era appoggiato alla staccionata sotto una lanterna, nel movimento generale degli uomini del ranch che non facevano nessun caso a lui. Aprì la busta con mani tremanti. Dentro c’erano due cose: una lettera e cinquanta dollari. Danny prese il foglio scritto e lo aprì.
Ciao Danny, so bene che questi cinquanta dollari non risolveranno i tuoi problemi, ma spero ti possano comunque essere d’aiuto. Sei una persona buona, gentile e generosa e meriti dalla vita molto di più di quello che finora hai avuto. Spero che un giorno
le cose possano cambiare, non importa cosa è stato il ato. Ti ringrazio per quello che hai fatto per me, oggi mi hai aiutato a vincere più che una semplice corsa. Ti prego di accettare questo mio piccolo dono. Mary
Danny non poteva credere a quello che aveva appena letto, nessuno gli aveva mai mostrato questa gentilezza. I suoi occhi si riempirono inconsapevolmente e irrefrenabilmente di lacrime, che scesero sul suo viso copiose. Per non farsi vedere, scivolò nell’oscurità del retro di una capanna e lì si sedette per piangere a lungo. Le giornate successive furono piene di impegni e lavoro per tutti, l’estate ormai dava le sue ultime giornate calde e soleggiate, presto sarebbe arrivato l’autunno piovoso e lavorare sarebbe stato più difficile, così tutti cercavano di avvantaggiarsi. Lavorare è la cura giusta per tener lontano pensieri ed emozioni che non si sanno sciogliere, che restano aggrovigliati nel cervello come una matassa di cui non si trova il bandolo e che quindi non si può districare. La stanchezza fisica è più immediata di quella mentale e porta, alla fine di una giornata di duro lavoro, ad addormentarsi appena si appoggia la testa sul cuscino, invece di stare svegli a guardare il soffitto, per i pensieri che non lasciano dormire. Ma si sa che, prima o poi, il lavoro finisce o se non altro rallenta. Così Danny si ritrovò un giorno a non avere gran che da fare. Si trovava nella sua capanna, seduto sul letto: tirò fuori una piccola scatola di ferro che teneva nascosta sotto il materasso. Ripescò, tra le altre cose, anche quella lettera della festa. Ecco che il pensiero di cosa fare tornava a tormentarlo, riflettendo sui mesi ati si era reso conto che il suo comportamento con Mary non era stato affatto leale: era stato troppo gentile, era stato troppo premuroso e ora doveva affrontarne le conseguenze. “Come farò?” pensò, andosi nervosamente una mano tra i capelli che gli infastidivano gli occhi. Si alzò di scatto, prese il suo cappello e uscì fuori. Andò nelle stalle, prese il suo cavallo mentre quest’ultimo stava tranquillamente mangiucchiando e lo sellò.
Corse via, senza lasciare il tempo a nessuno di domandargli dove stesse andando. A qualche chilometro di distanza c’era la fattoria dei McArthur. Anche qui c’era stato tanto da fare e nessuno aveva tempo di concentrarsi in altro che nel lavoro fisico. Anche Mary era stata molto indaffarata e, anche se stanca, era contenta che il lavoro l’avesse distolta dai suoi pensieri. Quando le capitava di fermarsi un attimo e le veniva in mente quella lettera, provava un senso di nausea e dei brividi freddi le correvano lungo la schiena. Era stato molto difficile dare a Danny quella busta, ma ancora più dura era vivere nell’attesa delle conseguenze che Mary, nel suo pessimismo, considerava negative, anche se delle alternative speranzose si facevano spazio nella sua mente. Così, quando in lontananza, mentre tirava su un secchio colmo d’acqua dal pozzo, vide Danny che arrivava, il suo cuore le saltò in gola e quasi le sue mani mollarono la presa dalla corda, rischiando di far cadere il secchio in un tonfo rumoroso dentro l’acqua; fortunatamente l’autocontrollo che stava imparando ad avere le impedì di fare scemenze. Le galline che andavano a caccia di vermetti nel terreno furono spaventate dalle zampe del cavallo, che arrivò davanti casa e svolazzarono goffamente via. Danny fece un sospiro profondo e disse un “Ciao” prima di scendere da cavallo. La ragazza rispose con voce tremante al saluto. Danny si avvicinò e disse: «Sono venuto a ringraziarti per la lettera e il resto. Scusa, non ho potuto farlo prima perché al ranch c’è stato un sacco da fare!» «Immaginavo. Sono contenta che hai accettato il mio dono e non ti sei arrabbiato, temevo ne fi una questione d’orgoglio». «Non preoccuparti. Volevo dirti...» e si fermò per cercare la forza di pronunciare quello che non avrebbe mai voluto dire. «Sì?» disse Mary con gli occhi che le brillavano, invitandolo a continuare. Danny sbuffò ridendo nervosamente.
«Volevo dirti che tu per me sarai sempre una cara amica e... ecco tutto qua» avrebbe voluto dirle anche che per qualsiasi cosa di cui Mary avesse avuto bisogno poteva rivolgersi a lui, ma avrebbe vanificato ciò che stava tentando di fare e cioè disilluderla. Si considerava un disgraziato in quel momento. A Mary quelle parole rintronarono nelle orecchie e la lasciarono stordita, il sorriso che aveva prima nel volto la lasciò. “Sarai sempre un’amica” erano state le parole fatali, che lasciavano intendere che non si sarebbe potuta aspettare nient’altro in futuro. Ma non voleva dare a vedere quanto la cosa la sconvolgesse. Così il suo sorriso riprese forza e disse: «Grazie Danny. Spero di essere una buona amica». «Bene» disse lui, muovendo convulsamente con le mani le redini del cavallo. Poi montò in sella e salutò di nuovo Mary prima di andarsene. In quel momento una folata di vento attraversò il cortile, alzando un’immensa nuvola di polvere che dava fastidio agli occhi e che riempiva i capelli rendendoli secchi. Quel vento caldo presto si trasformò in un vento freddo che spogliava gli alberi delle loro foglie come se piangessero dell’estate finita, spostava nuvole nel cielo cariche di pioggia, muoveva l’erba alta della prateria come onde gialle. A Mary piaceva quel vento freddo e quando poteva, raggiungeva la cima di una collina in sella a Wild e stava lì, faccia all’aria, a farsi svolazzare all’indietro i capelli. In quel vento c’erano i sapori e le storie che venivano da lontano, che le correnti d’aria avevano trovato lungo il loro cammino costante e che portavano con sé, in un libro da riscrivere ogni anno. I mesi avano e quello che era successo sembrava ora confuso e distante. Danny non si era quasi più fatto vedere. Solo quando Mary e Susan andavano a trovare Buster al ranch lo si poteva intravedere che lavorava, ma la maggior parte del tempo era in giro per la proprietà con le mandrie: o di vacche, o di cavalli. Comunque anche quelle visite a Edward era diventate più rare dato che il maltempo scoraggiava a mettere su una strada fangosa e piena di buche il carro o il calesse le cui ruote erano preziose per le attività di una fattoria. Danny avrebbe voluto andarsene da lì, ma aveva disperato bisogno di lavoro e dai Buster era assicurato, anche perché lo consideravano un uomo di fiducia. Muoversi con l’inverno alle porte inoltre non era conveniente.
La prima neve era sempre quella più eccitante, poi man mano che scendeva nei giorni diventava monotona. Comunque rendeva di sicuro tutti più bambini, l’aria frizzante che portava con sé dava al cervello un senso di libertà e ubriachezza e creava un paesaggio magico e sospeso nel tempo. Pareva che tutto si fermasse, che tutto fosse immobile in una morsa bianca, e di notte con la luna c’era una luce riflessa che creava uno spettacolo unico. I ragazzi McArthur si ritrovarono spesso a farsi la guerra con le palle di neve: tutti contro tutti, il povero Billy era il più bersagliato perché c’era tra le ragazze un’inconscia alleanza. I laghetti erano ghiacciati e si poteva approfittarne per pattinarci con gli scarponi. Il freddo aveva congelato anche i tristi pensieri di Mary, che non pareva aver risentito di quanto successo: non ci pensava, non ci voleva pensare. Faceva finta di niente e Susan, che aveva capito quanto era successo, non osava chiederle niente per paura di risvegliare in lei il dolore. Anche Sam e Catherine si erano resi conto della cosa ed erano sorpresi di come Mary agiva: fino a qualche tempo prima avrebbe urlato, scalpitato, fatto scenate di disperazione. Ora no, non faceva pesare su nessuno i suoi sentimenti più cupi, la maggior parte del tempo anzi sembrava allegra. Fatto sta che la frase “Sarai sempre un’amica” aveva in realtà interrotto ogni contatto, l’amicizia era pure congelata. Era stato troppo doloroso capire di non piacere, capire che niente sarebbe cambiato. Se però Mary avesse visto Danny la sera, quando se ne stava seduto davanti alla stufa della capanna sorseggiando del whisky, così pensieroso e malinconico, forse anche nella sua mente congelata si sarebbe sciolto il pensiero del dubbio. Il ragazzo stava diventando sempre più un lupo solitario. I suoi occhi assorti parevano vedere non ciò che lo circondava, ma avvenimenti ati della sua vita a cui il suo sguardo reagiva con timore e rimorso. Poi si risvegliava dai suoi ricordi e riprendeva a bere. Gli altri della capanna nelle sere invernali si ritrovavano attorno al tavolo a giocare a carte, perdendo i soldi che guadagnavano con dure giornate di lavoro a pro di qualche imbroglione e finendo le loro partite a scazzottate. Fuori però, sulla neve, in modo che i bollenti spiriti dopo un po’ si calmavano. Danny pensava di aver agito nei migliori interessi di Mary. Lui non era tipo che poteva dare qualcosa di buono e duraturo. Era un vagabondo pieno di debiti, con
due fratelli chiusi in un orfanotrofio, che non vedeva da anni. Poi la ragazza diceva che il ato non contava, ma Danny sapeva che non era così. Si accarezzava il volto sempre più barbuto, quasi che lasciando crescere la barba avesse voluto cambiare identità.
CAPITOLO 6 – JOHN E CHARLES
Con questa cupezza ò anche quell’inverno. La morsa del freddo stava lasciando lentamente la presa, il timido sole che diventava sempre più caldo stava sciogliendo il ghiaccio e ora il suono dominante era il gocciolio della neve sciolta che cadeva dagli alberi e rendeva tutto il paesaggio fangoso. Un fango che la mattina si trovava ancora ghiacciato e duro, cosa che permetteva tutto sommato di muoversi senza troppi disagi. C’è da dire che in quei mesi invernali, comunque, l’amicizia tra Susan ed Edward si era fortificata: non si potevano vedere tanto spesso, ma quando era possibile la ragazza andava dai Buster. Eddie la faceva sedere al piano e lui, comodamente sistemato su una poltrona, ascoltava e commentava le esecuzioni. Come Mary, anche Susan approfittava della ricca biblioteca dell’uomo e vi trovava gli stessi libri che aveva anche a Washington. Che bellezza per lei! Osservando un ritratto della famiglia Buster, si era fatta raccontare da Mary la storia dei gemelli e il loro rapporto con Edward. «Tu cosa pensi dei suoi fratelli, allora?» chiese Susan. «John e Charles sono due damerini che pensano solo a come apparire il più belli possibile, ma non hanno neanche la metà delle capacità di Eddie. E non perché siano stupidi, ma perché hanno sempre approfittato della loro ricchezza e della loro effettiva bellezza per ottenere ciò che il loro fratello ha ottenuto con gli sforzi e il lavoro». «Il tuo giudizio è piuttosto duro!». «Tu mi hai fatto una domanda e io ti ho sinceramente detto quello che penso». «Vedremo se le cose stanno proprio così!». «E come?». «L’altro giorno in paese ho sentito Tyler che diceva a Margaret che in primavera i gemelli Buster torneranno qui per un periodo».
«Per carità!» esclamò Mary «speriamo che siano cambiati dall’ultima volta. Ma ne dubito!». Con queste premesse una bella giornata di marzo arrivarono sulla diligenza, la stessa che aveva portato Susan a Old Town, John e Charles. Che due figurini! Identici come due gocce d’acqua, si erano vestiti con dei completi di colori e taglio diversi che però erano assolutamente in sintonia, come ogni loro discorso e movimento. Due corpi e una sola mente, praticamente, in quanto avevano lo stesso modo di pensare e di agire: erano intelligenti, ma usavano questa dote per pungere la gente in sincronia. Tutti quelli che li osservavano erano incantati dalla modernità e ricercatezza espresse dai due. John aveva i capelli corti e due fini baffetti che gli orlavano il labbro superiore della bocca, mentre Charles aveva i capelli lunghi e impomatati con il viso completamente rasato. Capelli neri come la pece e occhi scuri e profondi, figura snella e alta. Arrivarono al loro ranch su di due cavalli mandati da Edward con un cowboy ad attenderli in città. Il cowboy era venuto con un carro per portare i loro bagagli e raggiunse casa Buster poco dopo di loro. Entrarono e trovarono Edward in salotto che leggeva il giornale. Debuttarono con questa frase: «Ecco il nostro caro fratello maggiore che se ne sta seduto comodamente a leggere quello che fanno gli altri! Come ti va la vita? Sarà stata una noia mortale qui senza di noi!». «Non preoccupatevi» disse Eddie abbracciandoli con quanto più affetto poteva «non sono morto di noia in vostra assenza, anzi...». «Ci sorprende questo tuo sarcasmo. Chi ti ha insegnato a rispondere con tale velocità alle battute?» chiese John. «Sarà stata la compagnia di Mary McArthur! È l’unica che ha il coraggio di risponderci per le rime. Di’ non avrai per caso l’intenzione di farla venire a stare qui stabilmente, vero?». «Cosa avete fatto di bello a Washington, oltre che fare gli sfaticati?». «Oh, avremo tempo di raccontarti!».
Così erano arrivati i due gemelli, pungenti e perfidi più che mai. Abele aveva a che fare non con uno, ma bensì con due Caino e la cosa gli faceva venire un mal di testa terribile. Sperava tanto di non venire smentito sull’opinione che aveva costruito di Susan in quei mesi. Aveva paura che la ragazza trovasse delle maggiori affinità con quei due damerini di città, tutti colti, alla moda e sempre pronti a cavalcare l’onda della conversazione. Comunque non poteva esimersi dal far conoscere la ragazza ai suoi fratelli, anche perché sarebbero stati lì un mese, il che rendeva impossibile non incontrare Susan. Infatti la sera successiva aveva invitato alcune persone a casa sua: Susan e Mary, Tyler e Margaret, che ormai erano quasi fidanzati, il dottor Hill con la moglie. «Meglio togliersi subito il dente che fa male» pensò Edward. Così la sera dopo arrivarono gli ospiti. Tyler e Margaret con il calessino della famiglia Brigs erano ati a prendere Mary e Susan, dato che comunque dovevano transitare vicino a casa loro per andare al ranch e nessuno dei quattro voleva fare la strada al buio senza essere in compagnia. «Non oso immaginare che serata sarà!» disse preoccupato Tyler. «Che intendi dire?» chiese Margaret. «Lo sai. E anche Mary lo sa. Dovremo subire per tutta la sera le battute pungenti di quei due, che non faranno altro che raccontare delle loro conquiste e dei ricevimenti e della bella vita che fanno a Washington, facendo sentire noi campagnoli dei poveri ignoranti!». «Non è detto che dobbiamo subire!» disse Mary. «Tu sei l’unica che ha la prontezza di rispondergli» disse Margaret «ma forse stiamo esagerando e spaventiamo Susan!». C’è da dire che i gemelli non stavano simpatici neanche alla giovane Boston: era un po’ altezzosa, è vero, ma i discorsi di John e Charles non risparmiavano neanche lei.
«Certo non mi spaventate più di quanto abbia già fatto mia cugina in privato!» ma, nonostante questo, Susan provava molta curiosità, che tutte quelle chiacchiere non avevano fatto altro che accendere. Tyler finì il discorso dicendo: «Io vado solo per fare un favore a Eddie. Lui è mio amico, il migliore che abbia probabilmente, e mi fa penare sapere che per un mese dovrà are le sue giornate con le critiche di quei due alla sua gestione del ranch». «Ma se non si ricordano neanche come si munge una mucca!» esclamò Mary. Questo fece ridere tutti quanti e fu una carica per la serata che li attendeva. Margaret cambiò discorso e disse: «Ho saputo che il professor Wilson se ne va da Old Town. Dice che qui il suo lavoro non lo apiona più». «Cioè non è riuscito a trovare nessuna che lo sopporti tanto da sposarlo» concluse Susan ridendo. Il dottor Hill e signora erano già arrivati, Tyler fermò il suo calesse vicino al loro e fece scendere le tre donzelle che accompagnava. «Sono fortunato questa sera!» esclamò. Ma subito dopo ritirò l’affermazione fulminato da uno sguardo della fidanzata. Il maggiordomo aprì la porta e li salutò con un inchino, si caricò di cappelli e soprabiti e si dileguò. Il tepore della casa era piacevole in una serata fresca come quella. Edward fece gli onori di casa, che consistevano più che altro nel presentare Susan, dato che gli altri erano tutti conosciuti. «Questa è la nipote di Sam McArthur, Susan, che quasi da un anno abita a Old Town». «Sono molto onorato di fare la vostra conoscenza, signorina Susan» disse Charles con disinvoltura ed eleganza, seguito più o meno allo stesso modo da
John. A Mary veniva già la nausea per quella facciata di bontà. La cena fu servita subito, nella speranza che le bocche di tutti, soprattutto dei gemelli, si riempissero di cibo e non potessero parlare. Ma erano talmente abituati a mangiare e conversare allo stesso tempo che non ci fu scampo. La loro attenzione era ovviamente rivolta alla nuova conoscenza. Dove era cresciuta, che studi aveva fatto, che famiglie conosceva, forse avevano delle amicizie in comune. Ma certo! Anche loro erano stati agli enormi ricevimenti di questa o quella famiglia e magari anche nella medesima occasione. Peccato non essersi incontrati in mezzo a tanta gente. I corsi d’equitazione? La loro ione. Si erano fatti confezionare due selle personalizzate per poter cavalcare al meglio e ovviamente le avevano portate con loro. «Intendiamo combattere la noia con lunghe e piacevoli cavalcate!». «Anche a me piace molto cavalcare!». «Dite un po’: dev’essere stata dura adattarsi alla vita campagnola?». «Sì, ma...». «Non c’è dubbio che la vita in città è molto più interessante, avete ragione». Veramente Susan avrebbe voluto dire che solo all’inizio fu dura, ma che poi si era adattata e ora era felice di vivere con gli zii e che non avrebbe voluto essere da nessun’altra parte, ma i due ragazzi erano un fiume in piena e dirigevano la conversazione come volevano loro. Tyler intervenne, percependo il profondo disagio di Edward. «Sapete chi ha vinto la corsa di cavalli l’estate scorsa?». «Beh, non di sicuro tu! Al massimo arrivi secondo!». «Sono stata io a vincere!» disse Mary, assumendosi la responsabilità di fare da scudo alle loro frecce velenose. I due furono effettivamente interdetti per qualche istante. Non sapevano cosa
dire. «Beh, da te Mary ci si può aspettare questo e altro!». «Visto che lo sapete, vi consiglio di stare attenti a quello che fate!» aggiunse ridendo e fulminandoli con lo sguardo. «Oh Mary! Tu faresti scintille a Washington, saresti una cosa incredibile! Te lo posso assicurare» disse Charles. Dopo questa cena così entusiasmante e allegra la compagnia si spostò in salotto. I due gemelli gironzolavano attorno al pianoforte, tenendo in mano il loro bicchierino di cherry. «Posso suonare il piano per gli ospiti?» chiese Charles a Edward. «Fai pure» rispose lui. E iniziò a suonare una melodia che faceva da sottofondo alle conversazioni. Suonava veramente bene. Era una dote dei Buster, anche Eddie suonava ma non aveva avuto il tempo di applicarsi come avavano fatto i due fratelli. Era una nuova melodia. «Che bella musica!» disse Susan «non l’ho mai sentita». «Avete ragione» proseguì Charles «è una novità, sarà stata stampata sei mesi fa, è di un compositore che vive proprio a Washington». «Come si chiama? Forse lo conosco». «Aspettate... si chiama...». «Credo che ce l’abbiate davanti a voi!» intervenne John. «Come?! Voi scrivete musica Charles?!» chiese Susan stupita. «Sì, questo è il mio primo lavoro! Sono contento che incontri i vostri gusti». Mary si trovava seduta vicino alla finestra, rivolse lo sguardo fuori nell’oscurità, osservando le baracche dei cowboy illuminate all’interno; da lì provenivano risate. Di certo in quel mese quegli uomini avrebbero ricordato quanto erano
fortunati ad avere Edward come padrone e non i suoi fratelli. «Chissà che si sposi presto!» dicevano, sottolineando il fatto che sarebbe stato meglio se avesse avuto dei figli che da grandi prendessero in mano il ranch piuttosto che lasciarlo a quei due sfaticati. La musica del pianoforte ora veniva accompagnata in lontananza da un’armonica, il suonatore aveva fatto presto a intendere la melodia e a capire come suonarla. Mary sapeva chi era costui e un lieve sorriso di malinconia le comparve sul viso, prima di ritornare con la mente ai presenti dentro casa. Le sue orecchie avevano inteso una conversazione dei due gemelli con sua cugina riguardo a una eggiata a cavallo. «Mary» la richiamò John «potresti venire anche tu con Susan e noi a fare questa cavalcata? Forse potremmo fare una piccola gara tra noi». «Susan, hai per caso accettato di andare a cavalcare con questi due signori?» chiese Mary guardando la cugina con evidente aria di rimprovero. «Beh... sì!». «Verrò anch’io, certo» affermò Mary. «Perché non vieni anche tu, Edward, domani a cavalcare?» chiese Charles. «Sai che domani non posso. Viene un compratore di cavalli a vedere alcuni esemplari della mandria». «Che bello, Eddie!» disse Mary «finalmente i tuoi cavalli saranno apprezzati! Sono bestie magnifiche!». «Grazie Mary!» rispose lui contento. Appena fu possibile, gli ospiti se ne andarono da quel clima arroventato. I gemelli salutarono tutti con infinita eleganza e li ringraziarono della loro compagnia piacevole.
Nel viaggio di ritorno i quattro ragazzi sul calesse erano muti. Tyler rimuginava tra sé su quel che avevano detto sulla corsa e sul fatto che non era mai arrivato primo. Proprio non riusciva a mandarlo giù; Margaret gli diceva di non pensarci, che quelli erano solo degli sciocchini. Dietro Mary era sprofondata nel disdegno, mentre osservava Susan che evidentemente stava ripensando alla serata con sguardo compiaciuto. Mary sapeva già cosa dire alla cugina una volta a casa, a costo di svegliare i suoi genitori nel bel mezzo della notte per farli assistere a un litigio in piena regola. Ed è proprio quello che avvenne. Le due entrarono in casa tranquille, silenziose, per non svegliare nessuno. Andarono nella loro stanza e Mary chiuse la porta, mentre Susan si buttò sul letto sospirando sognante. «Cara Susan, vedo che i gemelli ti hanno colpita» disse Mary in tono tranquillo. «Beh... per una sera ho respirato un’aria che non sentivo più da un anno a questa parte e mi ha fatto un effetto così strano! Mi sento come ubriaca! Sono così galanti e affascinanti e pieni di cose da dire!». «Non metto in dubbio che quei due ragazzi abbiano delle capacità!» osservò Mary «ma hai visto come hanno trattato Tyler e lo stesso Edward, poveretto!». «Senti Mary... posso dirti una cosa: secondo me voi gente di campagna siete un po’ troppo ingenui, ve la prendete troppo per queste cose!». «Voi gente di campagna?! Lo dici come se fossimo degli stupidi qui!». «Non ho detto questo, come sempre esageri!». I toni della conversazione e delle voci si stavano facendo decisamente più alti. «Il fatto è che nelle grandi città e nell’alta società che ci vive tutti sono abituati a lanciarsi a vicenda frecciatine, punzecchiature, nessuno rimane sconvolto da questo, è come un atempo!». «Prendere in giro la gente è un atempo?! E prendiamola anche così! Ma che
mi dici di Edward? Non hai visto come è abbattuto? Hai sentito anche tu del fatto che i suoi fratelli criticano sempre il suo lavoro? Gli hanno chiesto di proposito se domani veniva a cavalcare, perché sapevano bene che non poteva e che gli dispiace!». «Ma va là, considera più importanti dei cavalli che me!». «Non sono dei cavalli, sono il lavoro suo e di altre decine di persone!». «Senti: da quant’è che vado su e giù a trovarlo o che lui viene qui?! È sempre gentile e va bene, ma non si decide mai! Io sono stanca! Non voglio finire come...» e poi si fermò di colpo. «Come chi?! Avanti dillo pure: come me, vero?». «Beh avevi riposto tante speranze in Danny, ammettilo. Anche agli estranei che vi osservavano pareva che ci fosse chissà cosa e invece niente! Credo che Edward abbia lo stesso modo di fare! Anche la sua è una presa in giro e molto più grave di quelle di John e Charles». «Ma Edward è solo un po’ timido. Ha ricevuto tante delusioni, vuole capire bene con chi ha a che fare! E non gli dò tutti i torti, dato il modo in cui ti stai comportando ora! Ma che ti succede?!». Susan scoppiò a piangere nervosamente. Ormai avevano svegliato anche Sam e Catherine, che però si limitavano ad ascoltare da fuori la stanza. Questa era una questione che riguardava le due ragazze. «Beh, ora io mi prendo delle coperte e vado a dormire da un’altra parte! Non ci sto in una stanza con una che, uso le tue parole, si è ubriacata per l’arrivo di due damerini!». Così disse Mary e se ne andò sotto lo sguardo stralunato e assonnato dei suoi. La ragazza prese una lanterna, uscì e se ne andò nel suo rifugio in fienile. Da quanto tempo non faceva così: era strano quello che provava, era come se tutti i progressi fatti in quei mesi si fossero annullati. Anzi la situazione sembrava peggiore di prima. Quello che faceva stare peggio la ragazza era la questione di Danny menzionata da Susan. Era davvero così evidente quello che era successo? Eppure aveva cercato di mostrare maturità. Che vergogna che provava! Il giorno dopo, oltretutto, avrebbe dovuto accompagnare sua cugina in
quella maledetta cavalcata! Non avrebbe voluto, ma conoscendo i due gemelli non poteva restare a casa. Così, dopo una notte insonne, si alzò, si sistemò, scese la scaletta e salutò Wild dandogli un bacio sul muso. Entrò in casa e vide sua cugina col resto della famiglia che avevano appena iniziato a fare colazione. «Buongiorno a tutti» disse come se nulla fosse successo. Gli altri risposero in maniera simile. Susan stava sorseggiando il suo caffè, si era vestita con il completo da cavallerizza e teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Sapeva che tutti la osservavano, si sentiva come quando era appena arrivata, ma sapeva che la situazione era anche peggiore. Ora si era pentita di aver reagito così la notte prima. Si chiedeva quanto male avessero potuto fare le sue parole a Sam e Catherine, che l’avevano trattata come un’altra figlia, e soprattutto a Mary, che era per lei come una sorella. Così nel silenzio generale finalmente aprì bocca e disse sommessamente: «Mi dispiace per l’altra notte. Vi chiedo scusa, anche a te Mary». Quest’ultima si limitò a fare un cenno di assenso con la testa, ma non disse nulla. Catherine prese la parola: «Nelle famiglie le discussioni di tanto in tanto ci sono, Susan. Noi ti vogliamo bene e sappiamo tutti gli sforzi che hai fatto per adattarti alla vita di qui. È comprensibile che, vedendo John e Charles, ti sia ricordata della vita che facevi prima con un po’ di nostalgia». «Lo so... ma questo non mi fa stare meglio». Dopo aver finito la colazione le due ragazze uscirono e prepararono i cavalli. Tra loro c’era un silenzio di tomba. Mary era stata troppo ferita e aveva bisogno di silenzio per non reagire in maniera impulsiva o esagerata. Susan aveva capito questo e cercò di adeguarsi all’umore della cugina. Le due ragazze partirono per il ranch. Arrivate, trovarono i gemelli sotto il
portico ad attenderle con i cavalli, tutti preparati con le tanto famose selle personalizzate. «Benvenute! Che ne dite: partiamo subito?». «Certamente» rispose Susan. «Edward è già via?». «Sì, si è alzato molto presto questa mattina per accogliere il compratore» rispose Charles. Così i quattro si avviarono. John insistette per farsi mostrare il percorso della gara vinta da Mary, poi esclamò: «Non mi sorprende che non ti sia ancora sposata! Tutti gli uomini di qui, e anche stranieri, non sono riusciti a vincere contro di te! Avranno preso paura!». «Se un uomo si spaventa per così poco, non vale la pena averci a che fare» disse Mary. John si mise a ridere poi andò a parlottare con suo fratello, lasciando le ragazze dietro da sole. «Non mi pare stia andando così male?» si lasciò sfuggire Susan. «Io aspetterei a dirlo». Poco dopo i due affiancarono le ragazze. «Che ne dite di fare noi quattro una piccola gara?» chiese Charles. «Sì, da qui fino al laghetto che c’è tra quegli alberi là in fondo» aggiunse John. «Sarebbe emozionante! Io non ho mai provato a fare una gara!» disse Susan. «Tu Mary?». «Vi seguirò a distanza». «Hai paura che ti battiamo?».
«No, diciamo che non mi interessa battervi». Mary faceva di tutto per non incoraggiare le azioni di quei due sconsiderati, ma non poteva impedire a Susan di fare altrettanto. Sapeva bene come si comportavano nelle corse i gemelli, dato che vi avevano partecipato quando abitavano ancora a Old Town. Erano divorati dalla competizione, decisi a tutto pur di vincere, anche a costo di fare male ad altri. Alla ragazza era venuta la tentazione di mettere in guardia Susan, ma decise che era stanca di farle da scudo contro i guai. Adesso avrebbe visto se la gente di campagna era ingenua oppure no. Così i tre partirono e dopo poco iniziò a correre anche Mary. La corsa si faceva sempre più veloce. Susan era subito dietro i due ragazzi. Mary osservò che giustamente sua cugina preferiva tenere le distanze per il momento. Il laghetto si stava avvicinando, quello era il momento di accelerare il o del cavallo. Così fece Susan. Si trovò a sinistra di Charles e John, poco distante c’era il laghetto: dovevano arrivare alla sponda opposta a quella dove si trovavano in quel momento. Ecco una curva. Mary osservò la scena, nell’impeto della corsa Charles non badò a niente e strinse la traiettoria del suo cavallo, bloccando quello di Susan che stava correndo pericolosamente sulla riva per guadagnare terreno. Fu un attimo. Il cavallo si imbizzarrì e scivolò sul fango, facendo cadere Susan in acqua. Mary ora stava correndo più velocemente possibile e poco dopo raggiunse la cugina. «Susan!» gridò disperata smontando e correndo in acqua. La ragazza era bagnata dalla testa ai piedi da quell’acqua gelida e fangosa. I due damerini avevano frenato la loro corsa, ridendo, e poi erano tornati indietro. Mary stava aiutando Susan a uscire, la fece sedere per terra e l’avvolse in una coperta che aveva portato per sedersi sul prato. La ragazza tremava in maniera convulsa e piangeva stringendo a sé la cugina. Quest’ultima prese il frustino di Susan che era finito per terra, si diresse verso i due che erano smontati e lo sbatté violentemente sul braccio che Charles aveva
alzato per proteggersi. «Sei un disgraziato!». Il poveretto era sconvolto, voleva aiutare Mary con Susan, ma lei lo allontanò mostrandogli un’altra volta la sua arma. Fece salire la ragazza su Wild, poi salì anche lei e corse via. Casa sua era troppo distante, meglio era ritornare al ranch Buster e il più presto possibile anche, perché l’aria era fredda e faceva tremare ancora di più la povera Susan. Appena arrivata al ranch, Mary allarmò subito il maggiordomo e le cameriere, che portarono dentro la ragazza per prendersene cura. Poco distante c’era Danny, che stava controllando dei ferri ai cavalli. Accorse subito. «Che succede Mary?» disse in tono apprensivo. La sua voce! Quant’era che Mary non la sentiva! Ma non c’era tempo per pensarci. «Ti prego, Danny: vai da Edward e vedi se può venire qui. Digli che Susan è caduta in acqua e che è sconvolta. Ti prego, corri!» disse stringendogli un braccio nervosamente. «Corro immediatamente!» fu la risposta istantanea. Danny chiese a un altro cowboy di andare a chiamare il dottor Hill. Mary era talmente sconvolta che non aveva neanche pensato di andare a chiamare il dottore, ma Danny aveva ragione. La ragazza corse dentro anche se aveva la gonna e le scarpe infangate e salì le scale. Trovò una delle cameriere a cui chiese dov’era Susan. Poi si diresse verso la stanza che le era stata indicata. C’era con lei una cameriera che le stava togliendo i vestiti bagnati; ne entrò una seconda, quella che Mary aveva incontrato prima, con un cesto di legna e carta di giornale per accendere il fuoco nel caminetto. Susan tremava e non diceva
niente. «Vado a prendere della mia biancheria, signorina Mary» esclamò la prima cameriera. «Certo» assentì lei, avvicinandosi a Susan. «Susie... come stai?». Ma quest’ultima piangeva e basta, così Mary si limitò ad abbracciarla e fu sollevata sentendo che la cugina le restituiva il gesto. Danny intanto aveva quasi raggiunto Edward, che aveva appena concluso le trattative con il compratore. Era visibilmente contento e stava dando disposizione ai ragazzi per sistemare i cavalli scelti. Vide che Danny arrivava a tutta velocità. «Signor Buster!» gridò quello ancora distante. «Che c’è Danny?!». Quando finalmente arrivò, frenò di colpo il cavallo e prese un attimo fiato. «Al ranch ci sono Mary e Susan, Susan si dev’essere fatta male...». «Che cosa?!» urlò sconvolto Edward. «Sì, non so bene come sia successo, ho già mandato a chiamare il dottore e Mary mi ha detto di venire a chiamare voi!». «Vieni, torniamo subito a casa!». Buster montò in sella e partì al galoppo. Danny evitò di correre ancora all’impazzata, il suo cavallo era stanco, così ritornò al ranch a o tranquillo. Edward arrivò a casa e neanche il tempo di fermare il cavallo era già smontato e si era precipitato dentro: salì le scale, facendo due scalini alla volta, e si ritrovò d’improvviso davanti a Mary che si spaventò prima di rendersi conto di chi aveva davanti. «Oh, sei tu!».
«Come sta Susan? Dov’è?» domandò lui con il fiatone. «È in quella stanza, si è appena calmata, ma non si è fatta troppo male». «Ma come è successo?». «Ecco... John e Charles... hanno voluto fare una specie di gara a cavallo e nella foga della corsa uno dei due non si è accorto...». Mary voleva continuare, ma non ce la faceva. Edward aveva un’espressione che la diceva lunga su quanto quel comportamento dei suoi fratelli l’avesse scosso. «Va bene Mary, ho capito» disse sommessamente. Poi si diresse verso la stanza dov’era Susan, ma un istante prima di bussare, ritirò la mano e si diresse invece nella propria stanza. L’altra, rimasta sola nel corridoio, scese le scale con le gambe che le tremavano. Non era tanto quello che era successo a darle pena, ma qualcos’altro. Uscì fuori a respirare un po’ d’aria fresca per riprendersi. Si sedette sugli scalini davanti all’entrata e si mise la testa tra le mani. In quel momento qualcuno si sedette poco distante, lei girò lo sguardo e vide che era Danny. «Come sta Susan?» chiese il ragazzo. «Beh, meglio di quanto pensavo fortunatamente». «Non preoccuparti, tra poco dovrebbe arrivare il dottore». «Certo, certo» disse lei tenendo sempre la testa bassa e lo sguardo perso nel vuoto. «E tu?» domandò con prudenza Danny, quasi temendo la risposta della ragazza. Mary sospirò, poi alzò la testa. «È colpa mia quello che è successo!». «Che dici?!».
«Sì, sì, conoscevo come si comportano i gemelli Buster in queste occasioni, ma non ho voluto dirlo a Susan, non l’ho fermata!». «Non t’avrebbe ascoltata». «Non fa differenza, era mio dovere tentare». «E allora perché non l’hai fatto e adesso sei qui a tormentarti?». «Perché lei mi ha ferita profondamente dicendomi delle cose... e io volevo vendicarmi dentro di me! E guarda cosa è successo!». Danny non sapeva cosa dire, non sapeva che questione ci fosse stata tra le due e non si sentiva di dare dei consigli dopo il suo stesso comportamento. Comunque fu tolto da quest’imbarazzo dato che in quel momento arrivarono a cavallo John e Charles Buster. I loro visi erano assai pallidi e non dissero una parola ai due presenti; si limitarono a entrare in casa. «Se sapessi cosa ho fatto a Charles!» proseguì Mary quasi ridendo. «Dalla faccia che ha me lo posso immaginare!» rispose Danny in tono scherzoso. Un sorriso riapparve sulla faccia della ragazza e l’altro ne fu contento. Poco dopo sentirono una discussione che proveniva dal salotto. Sentendo entrare qualcuno, Edward era sceso e, visti i suoi fratelli, disse che doveva parlare loro con urgenza. «So quello che è successo». «È stato un incidente! Non crederai che l’abbiamo fatto di proposito!». «Non ho detto questo! Ma voi pensate sempre di poter far tutto e non subirne mai le conseguenze! Beh, da oggi in poi non sarà più così! Vi prego di preparare la vostra roba e di ripartire per Washington al più presto! Qui vogliamo tutti una vita tranquilla, che non venga scossa dalle vostre maldicenze e azioni poco responsabili!».
«Non puoi farci questo! È anche casa nostra!». «Come?! Non devo ricordarvi che i nostri genitori hanno lasciato in eredità a me il ranch e a voi un generoso lascito che riceverete solo tra quattro anni. Nel frattempo vi consiglio di iniziare a comportarvi meglio e ad avere più rispetto! Perché sono io che vi mantengo! E ora fate quello che vi ho detto e lasciatemi solo!» concluse Edward in tono autoritario. Quell’azione gli era costata non poco. Era per natura indulgente e conciliante, aveva sempre cercato di perdonare ai suoi fratelli il loro comportamento poco gentile, sperando in questo modo di riavvicinarli a sé. Non vedendo risultati, ma anzi che le cose peggioravano non aveva potuto far altro che pronunciare quelle parole. Mary e Danny fuori, dopo aver ascoltato tutto, si guardarono tristemente per quanto udito, poi lui si congedò dicendo: «Devo andare avanti con il mio lavoro». «Io vado da Susan. Danny... grazie!». «Figurati». Il dottor Hill, appena fu arrivato, si lamentò che quella mattina non aveva avuto un attimo di pace. «Cosa è successo adesso?!» domandò in tono polemico. Poi, accorgendosi dell’espressione afflitta di Mary, la prese sotto braccio e disse: «Suvvia! Perdona gli sfoghi di un uomo non più giovanissimo!». «Venite dentro dottore» disse lei scuotendo la testa e ridendo. A casa Buster, appena salite le scale, c’era un ampio corridoio che percorreva il piano da destra a sinistra. Verso quest’ultima direzione, nella parte anteriore della casa, si trovava prima la camera di Edward, poi quella che una volta era di Charles. A destra, invece, si trovava quella che era stata la camera di Henry ed Esther e poi un accogliente salottino a esclusiva degli abitanti di quella casa. Nella parte posteriore c’erano, a sinistra, di fronte a quella del suo gemello, la camera di John e poi tre stanze per gli ospiti. In una di queste si trovava appunto Susan. Le stanze erano grandi e arredate con gusto fine e ricercato, in armonia
con tutto il resto dell’edificio. Dopo aver visitato la paziente, Hill uscì dalla stanza e trovò Eddie seduto in corridoio su una piccola poltroncina. Alla vista del dottore scattò in piedi e chiese: «Allora come sta?». «Oh niente di grave. Soprattutto spavento e qualche botta! Sì... magari tenetela al caldo e al riparo per un po’ di giorni per evitare che il raffreddore peggiori... ma prevedo una pronta guarigione!». «Bene dottore, la ringrazio. Posso offrirle un bicchierino di cherry?». «Non dovrei... ma lo accetto volentieri!». Dopo che Hill se ne fu andato, Edward parlò con Mary di quello che aveva detto il dottore. «Sarà meglio che Susan resti qui un po’ di giorni, almeno finché non si riprende». «Sì, hai ragione. Ora io devo tornare a casa ad avvisare i miei di quello che è successo. Saranno preoccupati, poveretti! Tornerò poi con l’occorrente per mia cugina. Grazie Edward». «Tutto bene Mary? Ti vedo alquanto giù». «È stata una lunga mattinata!». «È vero. Beh, ti lascio. Ci vediamo». Mary tornò a casa e raccontò, per filo e per segno, quanto accaduto, anche i suoi sensi di colpa. Sam e Catherine la rassicurarono e l’abbracciarono. La ragazza preparò alcune cose di Susan da portarle per quei pochi giorni che sarebbe stata via da casa. Prima di uscire dalla stanza, rivolse per caso lo sguardo al calendario e si accorse di quanto poco mancasse al raggiungimento dell’anno che sua cugina doveva are con loro prima di avere l’eredità. Cosa sarebbe successo dopo? Questo era un punto interrogativo che picchiava come un martello nella mente di Mary e sperava che gli ultimi avvenimenti tra lei e la cugina non
avrebbero condizionato la risposta. Nel frattempo al ranch la situazione era tornata alla normalità. I gemelli, sconsolati e impotenti, stavano facendo i preparativi per la partenza e sarebbero poi andati in città per sapere orari di diligenza e treni. Susan era stesa sul letto, si era appena svegliata e ora fissava il soffitto su cui era applicata della carta da parati a fiorellini. Si sentiva i battiti del cuore pulsare nella testa e ogni suo ragionamento era annullato dal seguire quel ritmo continuo. Poi bussarono alla porta. «Avanti» disse con voce triste. Era Edward, che entrò con un largo sorriso e un vassoio con un bicchiere di latte caldo e una fetta di crostata. «Ho pensato che potessi aver fame!». «Grazie! Che bel pensiero!» disse lei, mettendosi a sedere sul letto con qualche smorfia di dolore per le contusioni su tutto il corpo. «Cadere da cavallo è nel destino delle ragazze McArthur!» commentò imbarazzata. Buster si mise a ridere, poi rimase perplesso vedendo la triste espressione della ragazza. «Oh, mi dispiace!» disse lei scoppiando in lacrime. «Di cosa?!» chiese lui tutto preoccupato e impacciato non sapendo cosa fare. «Sono stata così stupida. Ero arrabbiata e non pensavo a quello che facevo: né stamattina, né ieri sera! Sono stata un’oca!» disse singhiozzando. «Ma no! Non devi dire così, Susan! Non è vero, io non lo penso! Tutti possiamo sbagliare» balbettò lui cercando di usare un tono consolante, ma era curioso: «Perché eri arrabbiata? Con Mary, forse?». La ragazza scosse la testa in segno di negazione, con una smorfia di vergogna
per non riuscire a fermare il suo pianto. Poi cercò di calmarsi e di tirare fuori tutte le sue forze per un discorso che doveva essere fatto. «Ecco...» iniziò «tu sei sempre stato gentile con me, tanto gentile e buono e amichevole. E però mi sei sempre sembrato come se... come se alla fine non ti importasse granché! E allora io, per dispetto, volevo fare la civetta con i tuoi fratelli, che scema!». E scoppiò nuovamente a piangere. Edward sudava dalla testa ai piedi, ma era contento di ciò che le sue orecchie avevano appena udito. «Vuoi dire che...?» disse lui. «Sì, lo so, è una cosa spregevole!». «No, è una cosa magnifica!». «Come?!» disse Susan tutta scossa d’un tratto, non essendo più sicura della piega che aveva preso la conversazione. Edward si alzò in piedi da dove si era seduto accanto al letto della ragazza. «Vuol dire che tu volevi che io... allora! Vuol dire che provi anche tu quello che provo io!». «E cosa proveresti tu?» disse lei attenta, cercando finalmente di cavare le fondamentali parole dalla bocca che tanto le piaceva. «Tu mi piaci, mi piaci tanto: io ti amo!». A quelle parole la ragazza scoppiò a piangere di nuovo di felicità. «Ma perché piangi?». «Credevo che non me l’avresti mai detto. Credevo che tu non mi amassi!». «E io lo pensavo di te! Che stupido!». I due si abbracciarono e scoppiarono a ridere. Poi lui proseguì nell’emozione del momento:
«Ci sposeremo presto, avrai il matrimonio più bello che sia mai stato celebrato in questa zona! Faremo il viaggio più lungo e piacevole! Andremo nelle città più alla moda, potrai comprarti tutto quello che vorrai...». «Edward!» lo richiamò la ragazza. «Che c’è?». «Se c’è una cosa che ho capito, stando qui un anno, è che non m’importa niente di tutto ciò! Io voglio stare con te e sposarti perché ti amo! E sarà così anche se ci sarà una piccola cerimonia e se il nostro viaggio sarà breve e se non spenderemo tutto ciò che abbiamo. Di una cosa sono felice: di non venire a te a mani vuote. Tra poco riceverò la mia eredità e la potremo usare per il ranch per costruire qualcosa che sia veramente nostro! Tu stesso mi dici spesso quanto vorresti specializzarti nell’allevamento dei cavalli ed è quello che faremo!». Edward non poteva credere alle sue orecchie, stava impazzendo di gioia. Tutto il dolore e la frustrazione di quegli ultimi giorni erano scomparsi come le nuvole spazzate via per lasciare posto al sole. Se così era nel suo cuore, altrettanto non avveniva in natura. Un minaccioso temporale primaverile si avvicinava e così lui dovette lasciare la sua fidanzata per controllare con i suoi uomini che tutto fosse in ordine. A casa McArthur non sapevano ancora la lieta notizia, né per quel giorno l’avrebbero appresa, dato che l’avvicinarsi del maltempo aveva scoraggiato Mary dal ritornare al ranch. Ci sarebbe andata il giorno dopo insieme a sua madre. Le due donne quando appresero la notizia da Susan esultarono di gioia. «Questa sì che è una cosa magnifica!» disse Catherine. Mary, dal canto suo, era più preoccupata di scusarsi con Susan per quanto accaduto il giorno prima. «Non preoccuparti! Se non fosse caduta, Edward non si sarebbe mai deciso!». Madre e figlia si congratularono poi con il futuro parente. Non potevano dire che non se l’aspettavano e che non ci sperassero.
«I tuoi fratelli?» chiese Catherine. «Oh, loro se ne sono andati stamattina presto con la mia benedizione!» disse ridendo lui. «Li inviterò al matrimonio in segno di pace». «A quando? Ci avete già pensato?» chiese curiosa Mary. «A fine giugno pensiamo. Lo so che non manca molto dato che siamo quasi in aprile, ma non vogliamo fare una cosa troppo in grande, ma qualcosa di semplice e bello». Catherine annuì in segno di approvazione. «Gli uomini del ranch lo sanno?» chiese ancora la ragazza. «Di sicuro!». Mary scorse Danny fuori al recinto dei cavalli: con una scusa uscì, non sapeva nemmeno lei cosa volesse fare andandogli a parlare, ma sentiva il bisogno di farlo. «Ehi!» disse lui vedendola arrivare, mentre spazzolava il cavallo di Edward. «C’è aria di festa in casa! Sei contenta?». «Per loro? Molto! E voi dipendenti?». «Sì! Purché la cosa non ci dia più lavoro da fare! Hai risolto poi con tua cugina?» chiese Danny, pentendosi della domanda subito dopo. «Sì, le ho chiesto scusa. Non vuoi sapere perché ce l’avevo con lei?». «Beh forse, ma non te lo chiederò quindi... devi dirmelo tu» rispose, continuando a spazzolare. «Riguardava... te» disse lei abbassando la testa. Lui fermò il braccio, che correva ritmicamente lungo la schiena del cavallo, e guardò la ragazza. «Capisco» fu quello che riuscì a dire.
«Davvero?! Beh, io no!» ribatté Mary con la voce rotta. «In questi mesi ho cercato di capire, ripercorrendo con la mente ogni mia azione, ogni mia parola, cercando di trovare qualcosa che non andasse, qualcosa che ti avesse spinto ad allontanarti! E non capisco perché!». « Non è...» lui non sapeva come dirglielo «non è per qualcosa che hai fatto o detto! Non sei tu il problema! Sono io!». «Va bene, allora spiegami! Forse non è così grave come pensi! Forse sono in grado di fare qualcosa!». «No!» disse lui di scatto. E poi, facendo una smorfia perché non gli piaceva usare quei toni, riprese con più calma. «Senti io sono un vagabondo, va bene? Vado di qua e di là di anno in anno! Non ho una dimora fissa. Non mi piace averla! Scusami, io, per solitudine, ho preso a ricercare la tua compagnia e ho sbagliato. Dovevo agire come ho sempre agito: non interessandomi della gente e delle cose lungo il mio cammino!». «Vuoi dire che mi hai preso in giro?!». «Mettila così!». «Io non ci credo!». «Senti, vuoi levarti dai piedi e lasciarmi lavorare?! Io qui ho da fare, non posso seguire i tuoi piagnistei! Se ti fa piacere, sappi che tra poco me ne andrò!». Quelle parole furono peggio di una fucilata al cuore. Se una pallottola che arrivava lì ti faceva smettere di vivere per sempre e all’istante, quelle affermazioni non uccidevano di colpo, ma lentamente, con un’agonia indescrivibile, consumando l’anima più tenera, indifesa e interiore. La ragazza non poté far altro che girare le spalle a colui che l’aveva così mortalmente ferita e ritornare verso la casa piena di gioia e amore da cui era uscita poco prima. Le sue lacrime cadevano silenziose e calde sul suo viso: non un singhiozzo, non un grido, non un rantolo disperato uscirono da quella bocca aperta a metà ad accogliere l’acqua che colava dagli occhi. Mary non entrò in casa, salì sul carro e aspettò la madre che uscì poco dopo, ridendo per qualcosa che aveva detto il futuro nipote. Solo una volta salita anche lei sul carro, si
accorse dello stato della figlia, ma giustamente non chiese cosa fosse successo finché non furono sole per la strada verso casa.
CAPITOLO 7 – FERITE E GUARIGIONI
Era incredibile quanto i singoli elementi di una mandria potessero essere cocciuti e difficoltosi. Le vacche in genere pascolavano tranquille e tutte radunate sotto i vigili occhi dei cowboy. Ma appena uno di questi – per fame, sonno o noncuranza – si distraeva, qualche animale era subito pronto a scorrazzare verso prati più verdeggianti, almeno secondo il suo parere. Questo il più delle volte non comportava problemi, perché la bestia veniva prontamente ricondotta al suo posto. Comunque i cowboy notarono che mancavano alcune decine di capi, seguirono le loro tracce fin sulle colline che precedevano delle montagne un po’ più alte e selvagge, ma poi furono richiamati a rapporto al ranch da Edward. Ora che Susan era ritornata a casa degli zii, finalmente era di nuovo concentrato sulle attività della proprietà. «Quanti animali si saranno allontanati?». «Circa una ventina, forse trenta. Devono essere andati su queste alture. Lì, tra i boschi, ci sono dei pascoli e acqua» disse Robert, il capoccia, indicando il punto su una mappa. «Capito» sospirò Edward «qui al ranch c’è un sacco di lavoro. Mi disturba molto dover mandare degli uomini a recuperare quelle bestie, ma bisogna pur farlo!». Danny, che era nel gruppo di quelli che avevano seguito le tracce delle bestie, intervenne: «Signore, non è necessario mandare tanti uomini. Potrei andare io! Le bestie sono poche e non ci vorrà grande lavoro e poi il posto è qui vicino». «Dici? Va bene allora, organizzati. Puoi parlare con Robert. Lui se ne intende, ti dirà cosa fare». Edward congedò tutti, ma Danny restò lì dicendogli che doveva parlargli. «Che c’è?» chiese Buster.
«Signore, dopo questo lavoro avrei deciso di andarmene». Edward lo guardò deluso: «Davvero? Proprio all’inizio della stagione impegnativa? Il tuo lavoro è utile qui! Sei bravo». «Lo so signore, grazie. Apprezzo quello che avete fatto per me, ma... io non me la sento di restare ancora». «Va bene, come vuoi. Porta a casa quel bestiame e poi ti verrà dato quello che ti spetta». Edward sapeva la ragione che spingeva il ragazzo ad agire così, gliel’aveva raccontata Susan. Non aveva voluto rimproverarlo, non era una questione che lo riguardava. Il suo giudizio su Danny doveva riguardare solo ciò che sapeva fare nel suo lavoro e l’aveva sempre fatto bene. Comunque, se voleva andarsene, decise di non frenarlo. Così Danny nel giro di qualche ora si preparò con quanto gli serviva: provviste, acqua, una coperta, della corda, munizioni, e via dicendo... Cavalcare di nuovo solitario verso le montagne gli dava sensazioni che non provava più da tanto tempo, ma in fondo al suo cuore c’era una profonda amarezza che prima non aveva mai sentito. Erano ati un po’ di giorni, erano i primi di aprile. Il clima era gradevole e il cielo limpido, di notte, offriva uno spettacolo di stelle unico. Dal fienile si poteva apprezzarlo stando al calduccio tra la paglia e il suo odore riposante. Così Susan aveva proposto a Mary di organizzarsi per are una notte lì. «Non bisogna neanche fare molta strada» aggiunse con una risata per tirare su la cugina ormai sempre più cupa. Sapendo che non era giusto escludere gli altri dalla sua vita, Mary accettò l’idea così quella sera erano in fienile. Susan, tutta entusiasta, raccontava di quello che aveva in mente per il matrimonio e tutte le idee da proporre a Edward per il ranch. Poi si preoccupò e disse:
«Scusa, forse ti faccio stare male con tutti questi discorsi allegri sulla mia futura vita matrimoniale». Mary alzò le spalle e sorrise: «No, non devi sentirti in colpa. Io sono molto felice per te e d’ora in poi cercherò di essere più presente e disponibile per aiutarti». Susan si commosse e andò ad abbracciare la sua migliore amica. Dopo aver ammirato per un po’ il cielo stellato e aver pettegolato sugli abitanti di Old Town, le due ragazze si addormentarono sulla paglia tra le coperte. Era ormai notte fonda. Mary fu svegliata da Susan: «Senti? C’è il portone che sbatte!». «Può darsi sia il vento, sento che è diventato più intenso». «Meglio controllare!». «Accendi la lanterna.» disse Mary, che si alzò e prese un forcone. Le ragazze scesero prudentemente la scaletta e puntarono la luce verso il portone: non era entrato nessuno, ma era aperto. Sentirono un cavallo fuori e dei lamenti. Mary, forte della sua arma, si fece coraggio e disse: «Avanti!». Quando aprirono di colpo il portone si trovarono davanti a un orrido spettacolo. Le urla allarmanti delle due ragazze svegliarono anche i tre che erano in casa e che subito accorsero fuori. Il cavallo che era arrivato lì portava sulla sua schiena un uomo accasciato e sanguinante. Era Danny. Al buio non si poteva vedere bene cosa avesse: lo portarono in casa, in camera di Billy, e accesero tutte le lampade possibili. Sam e Catherine, che lo avevano trasportato dentro, erano tutti sporchi di sangue. Ora si poteva vedere bene cosa era successo. Era pieno di graffi profondi e laceranti sulle braccia, sulle gambe, sul torace; in più aveva un ginocchio rotto.
Mary era in stato di shock, uscì fuori e vomitò. Sam disse a Susan: «Vammi subito a sellare Wild, vado a chiamare il dottor Hill!». «Sì zio!». Catherine tolse tutto quello che poteva al ferito e cercò qualcosa per fermare il sanguinamento. «Mary!» urlò «mi serve una mano!». Lei rientrò pallida e sconvolta, ma determinata a fare quello di cui c’era bisogno. «Tieni premuto qui per fermare il sangue! Anche tu Billy! Da quest’altra parte! Io faccio bollire dell’acqua e preparo delle garze per quando arriva il dottore. Farò del caffè perché Hill ne avrà bisogno e anche noi!». «Cosa gli è successo mamma?» chiese Billy con gli occhi sbarrati di terrore e con la pezza che teneva premuta che si stava colorando di rosso. «Credo sia stato un leone di montagna» fu la risposta rassegnata. Mary aveva di nuovo gli sforzi di vomito, ma aveva mangiato poco e ciò che cadde inevitabilmente sul pavimento fu solo bava. Dopo una mezz’ora interminabile arrivò il dottore. Le donne e il bambino erano riuscite a fermare abbastanza l’emorragia. Hill si occupò del ginocchio, che era quello messo peggio: sistemò al meglio la frattura, ricucì e immobilizzò la gamba con delle solide stecche di legno. Sudava molto e Catherine, di tanto in tanto, doveva asciugargli la fronte e la faccia. «Ecco!» disse finendo di cucire le altre ferite più profonde. «Si è fatto tutto il possibile. Ha perso molto sangue, avrà la febbre, delirerà! E in quanto al ginocchio, non so quanto potrà ritornare come prima. Non so nemmeno se sopravviverà!». A quelle ultime parole Mary corse in camera sua e si buttò piangendo sul letto. Susan la raggiunse subito per darle forza.
«Dottore, noi che possiamo fare?» chiese Catherine. «Dobbiamo aspettare. Starò qui anch’io. Ora faccio una lista di quello che qualcuno di voi dovrà andarmi a prendere a casa. Mia moglie saprà cosa farmi avere. Servono delle medicine per la febbre, tante bende...». «Quelle ce le abbiamo anche noi». «Bene!Ah, e aceto per disinfettare tutte quelle ferite! Dio solo sa tutti quei graffi di un animale selvatico cosa possono comportare!» «È terribile!» commentò Catherine coprendosi gli occhi con le mani. Non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva cominciato a voler bene a quel ragazzo così particolare e davvero non era riuscita a capire le sue ultime azioni nei confronti di sua figlia. Tutto avrebbe detto di lui, ma non che fosse come appariva in quegli ultimi mesi. Sam prese la lista e ripartì diretto alla casa del dottore. Ormai era l’alba. Dell’altro caffè era pronto per essere bevuto. Il dottore prese qualcosa da mangiare e poi andò a controllare come stavano le ragazze. Diede a Mary un calmante che aveva nella sua borsa e questo le permise di addormentarsi. «Meglio così» disse Catherine. «L’attesa in questi casi è snervante e logorante» commentò Hill. «Credete che vivrà?». «Davvero non so dire! Mi è capitato raramente di avere a che fare con questi casi, ma non erano mai stati così gravi». L’orologio a pendolo scandiva il tempo in maniera assillante per chi aveva il cervello vuoto e veniva riempito da quel rumore rimbombante. Sam, che era tornato, si alzò da tavola, dove era appoggiato coi gomiti mentre teneva la testa tra le mani, staccò quell’arnese dal muro e lo portò fuori. Anche lui era scosso, non aveva mai visto nessuno ridotto così. Danny era immobile nel letto. La febbre era più alta che mai, tremava come se
fosse stato disteso nudo sulla neve e allo stesso tempo sudava come se fosse stato sotto il sole cocente. Il dottore gli somministrò un medicinale. Catherine metteva regolarmente delle bende d’acqua fredda sulla sua fronte. Erano ate alcune ore. Mary si alzò, le girava la testa, lo stomaco le brontolava terribilmente, doveva mangiare qualcosa. In cucina non c’era nessuno: Hill era andato a casa, Billy era a scuola, Susan probabilmente era andata ad avvertire Eddie e Sam e Catherine erano fuori nell’orto. C’era del caffè freddo e delle fette di pane col miele. Mary le divorò, tremava. Un urlo proveniente dalla stanza del fratello la fece alzare di colpo e correre a vedere cos’era successo. Danny stava sognando e delirando, probabilmente ricordava ciò che era successo col puma. Il solo pensiero provocava una fitta allo stomaco di Mary, ma riuscì a non vomitare ancora. arono così due giorni, tra sonno e veglie, tra bende e iniezioni. Mary stava zappando la terra nell’orto quando sua madre la chiamò con voce tremante. Lei corse dentro, temendo il peggio. «Che c’è?» chiese col cuore in gola. «La febbre è scesa! Danny si è svegliato! Non riesce ancora a rendersi conto di dove si trova, ma il peggio sembra ato!». Mary abbracciò sua madre e ritornò a fare il suo lavoro: non voleva andare da Danny, non ancora. Edward era venuto il giorno prima ed era molto preoccupato, aveva detto che sarebbe tornato quella sera. Di pomeriggio Danny era ben sveglio. Aveva tanti dolori, soprattutto al ginocchio. Catherine aveva preparato un brodo leggero di verdure e lo versò col mestolo su un piatto. Mise questo e dell’acqua su un vassoio di metallo, vecchio e ammaccato, e stava per portarglielo quando Mary si alzò da tavola e disse:
«Da’ qua. Glielo porto io». «Sicura?». «Sì». La ragazza entrò, appoggiò il vassoio sul comò, prese una sedia, l’avvicinò al letto e si sedette. Danny la fissava. I suoi occhi erano sbarrati. Cominciava a realizzare adesso cos’era accaduto. Mary lo guardava e riuscì a chiedergli: «Come ti senti?». «Meglio» fu la risposta quasi impercettibile. «Ti va di mangiare qualcosa? È un buon brodo caldo». Danny annuì. Mary lo aiutò a mettersi un po’ più seduto sul letto, gli mise un cuscino in più dietro la testa, gli sistemò un tovagliolo sotto il collo e prese il piatto col brodo. Si sedette e, cucchiaio dopo cucchiaio, imboccò il povero ragazzo. Lui sembrava apprezzare quel pasto. A un certo punto, rifocillato, iniziò a parlare. Mary doveva prestare molta attenzione per capire le sue parole. «Ero riuscito a radunare le bestie disperse. Stavo tornando indietro, giù per un sentiero. Le vacche erano un po’ agitate, ma non riuscivo a capirne il motivo. Da dietro le incitavo a proseguire. Costeggiavo una parete della montagna con molte rocce e spelonche. È stato un attimo: da sopra una roccia mi è piombato addosso un puma. Io sono caduto da cavallo e in quel momento ho sbattuto il ginocchio su un sasso. Lui mi graffiava da tutte le parti. Sono riuscito a proteggermi, con il braccio, collo e faccia. Mentre mi dimenavo cercavo il mio coltello alla cintola. Quando l’ho afferrato, non so neanche come, gliel’ho infilzato su un fianco,
ancora e ancora. Si è allontanato e accasciato poco distante. Fortunatamente il mio cavallo era rimasto lì vicino. Ho raccolto tutte le mie forze e sono risalito in sella. Poi non so cos’è successo. Il cavallo deve avermi portato qui...». Questo fu il suo racconto, tra molte interruzioni per prendere fiato. «Non preoccuparti, Danny. Adesso è ato e presto ti riprenderai». La ragazza gli fece bere dell’acqua e poi prima di uscire disse: «Lascio la porta aperta così, se chiami, sento». Lui annuì e chiuse gli occhi per dormire. La sera arrivò Buster. Dopo aver parlato con i McArthur per sapere delle condizioni di Danny, andò dal ragazzo. «Ehi, Danny! Come va?». «Signor Buster... non vi ho riportate le vacche, mi dispiace». «Non preoccuparti! Gli altri sono già andati a prenderle. Torneranno presto». «Grazie, signore». Edward gli mise una mano sulla spalla e lo lasciò riposare. Aveva gli occhi lucidi ritornando in cucina. «Ci vorrà molto tempo prima che si riprenda. Siete sicuri di occuparvene voi?» chiese Buster. Mary intervenne, precedendo qualsiasi altra risposta: «Sì, possiamo farlo. L’ha detto il dottor Hill». Il resto della serata ò tranquillo a definire alcune cose per il matrimonio. Si sarebbe tenuto all’aperto, al ranch. Edward aveva chiesto a Tyler Brigs di fargli da testimone e Susan ovviamente aveva scelto Mary. Le ragazze del paese avrebbero fatto da damigelle e i ragazzi da accompagnatori. La cerimonia sarebbe iniziata alle undici, poi ci sarebbe stato il pranzo, sempre all’aperto, infine i due sposi sarebbero partiti, come avevano deciso, per
Washington. «Susan vorrebbe rivedere la sua città e farmela conoscere meglio di quando ci sono andato io» disse Edward tutto emozionato. «Chi si occuperà del ranch in tua assenza?» chiese Mary. «Ho alcuni uomini di fiducia che incaricherò di gestire cose di ordinaria amministrazione. Non credo ci saranno problemi e comunque c’è il telegrafo». «Quanto starete via?» proseguì Catherine. «Circa un mese» rispose Susan. «È tanto!» esclamò la zia. «Se pensi ai giorni di viaggio per andare e tornare e a tutto il resto... non è tanto, cara» intervenne Sam. Il fatto era che Catherine era portata a parlare così mossa dai suoi sentimenti: sapeva benissimo anche lei che un mese era necessario, ma sapeva anche che avrebbe avuto nostalgia di Susan ed Edward e aveva voluto in qualche modo esprimere il suo stato d’animo. Edward se ne ritornò a casa, lasciando i McArthur a commentare ulteriormente le scelte del matrimonio. Mary si stava dirigendo verso camera sua per andare a dormire, quando sua madre la fermò e la trasse in disparte, dicendole: «Sei sicura, Mary, che possiamo prenderci cura di Danny?». «Che cosa intendi dire?». «Lo dico per te! Non ti crea ulteriore sofferenza?». «No, io mi sento in debito con lui e voglio aiutarlo». «Certo, ma sei sicura in cuor tuo di non sperare che, per gratitudine, lui si senta in obbligo nei tuoi confronti?».
Mary non rispose a quella domanda, fece un’espressione che voleva dire “Ma cosa vai a pensare!”, ma in realtà sapeva che, in fondo in fondo, molto probabilmente sperava che succedesse quello che le aveva appena detto sua madre. Così ò tutta la notte a pensare quanto fosse ingiusto tutto ciò, ma decise che voleva comunque aiutare il ragazzo a guarire e si impose di non sfarfallare o fantasticare sul futuro. Voleva rimanere coi piedi per terra.
Era ata un’altra settimana di quell’aprile così movimentato. Il dottor Hill aveva portato a Danny delle stampelle che aveva fatto fare dal falegname su misura per lui. Gli raccomandò di non fare troppi sforzi, di riposarsi, di respirare l’aria primaverile a pieni polmoni e soprattutto mangiare per rimettersi in forze. Così, come un bimbo che fa i suoi primi i, quella mattina Danny gironzolava goffamente tra la sua stanza, che Billy era tornato a occupare perché avevano aggiunto un altro letto che aveva portato Edward, e la cucina. Si sentiva stupido ad andare in giro così, quasi si vergognava lui che prima era stato sempre attivo e indipendente. Ora era seduto in cucina, con la gamba rotta su di una sedia con un cuscino. Stava suonando la sua armonica. Mary entrò con il latte appena munto, lui smise di suonare. «Perché smetti? Continua pure!» gli disse la ragazza. «Non ti disturbo?». «No, davvero! Ora ti preparo la colazione!». «Dovrei alzarmi alla vostra stessa ora, così non vi farei fare le stesse cose due volte!». «Non preoccuparti, non è un problema. E poi ti devi riposare». «Già, solo che non sono abituato a farmi servire. Ho sempre fatto tutto da solo». «E lo faresti ancora se non avessi una gamba rotta. Quindi non pensarci: quando starai bene smetterai di essere servito!».
«Beh, a voler essere sinceri, non è male la vita dell’ammalato!». E si mise a ridere come Mary. Poi continuò per non restare in un silenzio imbarazzante: «Dove sono gli altri?». «Papà è in città, Billy è a scuola e mamma con Susan sono nell’orto». «Capisco...» disse andosi una mano sulla barba. «Dovrei darmi una sistemata, forse». «Se vuoi ti preparo l’occorrente per farti la barba». «Avevo pennello e rasoio al ranch». «Ma Edward quand’è venuto l’ultima volta, ha portato quello che avevi lasciato lì, pensando ti servisse». «Sono contento che lui sposi tua cugina. Sono due brave persone». «Sì, sono d’accordo... È tornato papà!» disse la ragazza, guardando fuori della finestra. Poi uscì per aiutarlo con le provviste che aveva preso in paese. «Dove sono tua madre e Susan?» chiese Sam. «Nell’orto non ci sono più, devono essere in stalla». «Bene, falle venire dentro, che è arrivato un telegramma importante da Washington. Mi arrangio io con i pacchi». Quando la famiglia fu tutta riunita, Sam prese il telegramma dalla tasca della giacca per leggerlo. «Forse io dovrei andare fuori, magari è una questione personale che riguarda la vostra famiglia» disse Danny. Sam rispose compiaciuto della discrezione del suo ospite: «Non preoccuparti, puoi restare. Dunque, il telegramma, Susan, viene dal notaio di tuo padre, che segue tutta la procedura per l’eredità. Dice che verrà qui tra breve, entro due giorni, tre al massimo. Ciò significa che quando ha scritto questo telegramma era già in viaggio... dice di prenotargli una camera in
albergo». «Dovrò avvertire Edward» disse Susan «il signor Marlow potrà alloggiare lì, invece che all’albergo». «Marlow era amico di tuo padre, sicuramente sarà felice di sapere che ti sposi e di vedere anche con chi». Mentre pronunciava queste parole, Sam abbracciò la nipote.
arono tre giorni, giustamente il notaio, il signor Marlow, aveva previsto un possibile ritardo. Comunque eccolo arrivare con la diligenza. Dalla carrozza venne fuori un signore molto distinto, di mezza età, con una barba ben curata, un completo alla moda e l’orologio da tasca, con la catenina d’oro in bella vista. Oltre al bagaglio che era stato caricato sul tetto della diligenza, aveva con sé una borsa di pelle pregiata, dalla quale non si separava mai. Era un uomo che teneva al suo lavoro e non voleva rischiare di perdere importanti documenti. Quando il conducente della vettura gli porse la sua valigia, Marlow iniziò a guardarsi intorno per trovare Susan o qualcuno della famiglia McArthur. Ad attenderli, seduti fuori dell’ufficio del telegrafo, erano andati Edward e Susan. «Ecco!» disse la ragazza al fidanzato. «Quello è il signor Marlow». Così i due si avviarono verso di lui. «Oh, cara Susan.» disse l’uomo appena la vide. «Come stai? Fatti un po’ vedere!». «Signor Marlow, sono contenta che siate qui. Il viaggio come è stato?». «Oh, traumatico! A dir poco traumatico! Chi ho il piacere di conoscere, Susan?» chiese infine rivolgendo lo sguardo a Edward. «Questo è il signor Edward Buster, il mio fidanzato!» rispose la ragazza con evidente soddisfazione. «Davvero?! Bene, bene. Molto piacere allora! Sono contento che Susan abbia
trovato qualcuno che le voglia bene anche qui!» esclamò il notaio, studiando il ragazzo dalla testa ai piedi e pensando tra sé e sé che doveva essere ricco. «Il piacere e l’onore sono miei, signor Marlow». «Il resto della tua famiglia, Susan?» chiese il nuovo arrivato. «Mio zio Sam è a casa di Edward che ci aspetta. Alloggerete là, così abbiamo pensato». Marlow era stupito, pensava che si sarebbe trovato meglio in albergo, ma non aveva ancora visto il ranch Buster. Così, arrivato a destinazione, restò stupito dalla casa e una volta entrato non poté fare a meno di complimentarsi con Edward, dicendo: «Mia cara Susan, hai trovato il posto giusto per te!». Sam, che era comodamente seduto su una poltrona a leggere il giornale, si alzò è andò a salutare il notaio. «Bene» disse quest’ultimo «trovo che prima di tutto sia giusto e doveroso adempiere alle volontà del povero Alfred... Dove possiamo accomodarci?». «Nel mio studio» disse Edward. «Ma siete sicuro che prima non volete riposare un po’ e rinfrescarvi?». «No, no! Davvero, voglio prima svolgere il compito per cui sono venuto» rispose con un fare che però era piuttosto mesto, non allegro come avrebbe dovuto essere. Susan fremeva d’impazienza: quanto valeva la sua vecchia casa a Washington? Sapeva già a chi poteva venderla! Insieme a tutto ciò che c’era dentro e che era di gran valore economico. Non aspettava che di saperlo. Era così ansiosa di contribuire al progetto del ranch! I quattro si sedettero. Edward aveva lasciato il suo posto dietro alla scrivania al notaio. Quest’ultimo aprì la sua preziosa borsa e ne tirò fuori una busta sigillata. «Susan, questa che ho qui è una lettera che tuo padre voleva farti avere non
prima di questa data. Io ne conosco il contenuto, dato che tuo padre ha chiesto la mia consulenza per scriverla... Dunque vuoi leggerla tu?». «Meglio se la leggete voi. Io sono troppo emozionata! Mi tremano le mani e la voce» rispose lei stringendo con forza una mano a Edward per cercare di scaricare la tensione. Il notaio deglutì e aprì la busta, non meno nervoso degli altri presenti, sapendone il contenuto prevedeva già le reazioni e questo lo inquietava non poco. «Comincio a leggerla allora: Cara Susan, quando leggerai questa lettera, vuol dire che sarò già morto da un anno e tu da un anno sarai andata a vivere con mio fratello Samuel e la sua famiglia. Credo, come nel profondo del mio cuore spero, che tu ti sia trovata bene con loro. Sono care persone. Mi sono rammaricato ogni giorno di non aver ascoltato i consigli dei miei genitori e di mio fratello e di non aver accettato l’affetto che c’era dietro quelle parole...». Marlow si fermò con un nodo in gola, alzò e abbassò velocemente gli occhi per vedere i presenti. Susan stava piangendo e Sam aveva gli occhi lucidi anche se cercava di trattenersi. «In questi anni mi sono concentrato nell’accumulare più denaro possibile. Chissà cosa cercavo di ottenere! Sono morto e anche mia moglie lo è, la nostra ricchezza non ci ha salvati! Ciò che mi dà più pena è pensare che, per avidità, non sono stato accorto. Non ho pensato al tuo futuro più lontano. Mi sono fidato...». La lettura venne fermata di nuovo. Ora nelle facce di tutti i presenti si leggeva l’attesa nel scoprire cosa significavano quelle ultime parole. «Mi sono fidato di persone che credevo essermi amiche, non ho ascoltato i consigli neanche del mio fedele amico Marlow... che mi diceva di stare attento agli affari che mettevo in atto e alle mie frequentazioni. Io facevo finta di niente, ero sicuro di me, delle ricchezze accumulate. Ho ricevuto la giusta punizione. Ma mi dispiace che ne devi risentire anche tu, mia amata figlia. Ora non voglio tenerti nell’ansietà che queste parole ti caanno. Come ti potrà dire e
testimoniare Marlow, purtroppo i miei affari non hanno dato i risultati sperati. Mi sono indebitato enormemente. Non te ne ho mai parlato perché speravo che la situazione migliorasse, ma poi mi sono ammalato e le cose sono andate anche peggio...». Il notaio si fermò, con tono amorevole disse: «Susan, fin qui ti è chiaro tutto?». La ragazza era sconvolta e non capiva quello che stava succedendo. «Purtroppo tuo padre si era messo in affari con gente senza scrupoli, l’avevo avvertito che quelli erano esperti e l’avrebbero raggirato senza sporcarsi le mani di fronte alla legge. Ma lui era sicuro di aver capito il modo in cui operavano...». Edward, il più lucido dei presenti, intervenne: «Questo infine cosa comporta?». «Continuo a leggere, così lo saprete... Purtroppo Susan sono stato un pessimo genitore. Non sono stato in grado di provvedere al tuo futuro in maniera adeguata. Mi pento, mi pento e mi rammarico immensamente di tutto ciò. Perdonami ti prego. Ho dato ordini a Marlow di curare i miei affari, per non gravarti di questo peso enorme. I debiti vanno estinti e non potevo morire senza aver risolto per te questo immenso problema. Ho dato istruzioni affinché la casa e tutto ciò che c’è dentro siano venduti, così come la nostra proprietà in campagna. Mi sono messo d’accordo con i miei creditori affinché aspettassero un anno prima di essere completamente ripagati, con onerosi interessi oltretutto. Sei tu la mia erede e quindi devi controfirmare i documenti che Marlow ti darà. Non resterà granché dopo che tutto sarà stato venduto. Ti prego, rispetta i patti che ho preso. So quanto tutto ciò sia doloroso per te. Una sola cosa ho fatto di buono: mandarti a vivere con mio fratello e sua moglie. So che loro ti hanno accolto con amore e volevo che tu assi un anno con loro, che capissi che una casa per rappresentare calore e sicurezza e amore non ha bisogno di essere sfarzosa o di essere piena di oggetti preziosi, ma di sentimenti di affetto e bontà. Quegli stessi sentimenti che io non consideravo così importanti. Ama queste persone, vivi con loro, apprezza il loro duro lavoro per vivere, hai solo da imparare. Puoi dar tanto, lo so che sei generosa e piena di nobili sentimenti. Non gettarli via per il
danaro. Io ti lascio, ricordati sempre di me e che ti ho voluto bene. Alfred McArthur».
Susan stava piangendo senza riuscire a fermarsi. Era sconvolta da quella lettera, non le importava del denaro per lei, ma voleva contribuire a un sogno, piangeva pensando al perché suo padre l’aveva mandata a vivere con gli zii. In realtà, fino ad allora, non era riuscita a capirlo fino in fondo. Ringraziava suo padre per questo, ma era terribilmente triste e abbattuta da tutto il resto. Sam non era più riuscito a trattenere le lacrime, piangeva silenziosamente. Il notaio mise la lettera nella busta e la ripose nella sua valigia, dove aveva anche tutti i documenti che Susan doveva firmare. Edward non disse niente, ovviamente non gli importava dei soldi, ma era dispiaciuto per la sua fidanzata. Alla fine Marlow disse: «Credo che i documenti possiamo esaminarli in un altro momento, mi tratterò qui per una settimana». Buster, che era l’unico in grado di dire qualcosa, rispose: «Va bene, vi ringrazio». Susan e suo zio giunsero a casa abbattuti. Catherine si accorse subito del loro stato d’animo. I due raccontarono al resto della famiglia quanto era successo. La ragazza poi prese la parola e disse: «Non posso certo dire che quello che è successo oggi non mi abbia scossa e rattristata, però ringrazierò sempre mio padre di avermi affidata a voi. Non potevo conoscere persone migliori. Io vi voglio bene, moltissimo». Pronunciò queste parole con voce rotta. I suoi zii e sua cugina l’abbracciarono. Danny era in camera sua e aveva silenziosamente ascoltato tutto. Rifletteva su quanto quella famiglia era unita e speciale, realizzava che farne parte doveva essere una cosa meravigliosa e in cuor suo avrebbe voluto tornare indietro nel
tempo e cambiare ciò che aveva detto a Mary. Il tempo ava in fretta e il matrimonio si avvicinava sempre di più. A metà maggio le giornate erano piacevolmente calde, il lavoro da fare era moltissimo e si arrivava a sera esausti, ma soddisfatti. Danny stava decisamente meglio. Avrebbe voluto abbandonare le stampelle e usare un bastone. Si chiedeva quando sarebbe tornato a camminare normalmente. Il dottor Hill venne a visitarlo, il ragazzo era in casa da solo. Il medico, con l’espressione corrucciata, dopo aver esaminato la gamba, si sedette sulla sedia. «Allora dottore?» chiese Danny. «Beh... ragazzo io non so che dire...». «In che senso?». «Il tuo ginocchio era preso molto male, ho fatto il possibile per sistemarlo, affinché tornasse normale...». «Sì, infatti sto molto meglio!». «Già, però credo che la tua gamba non potrà più essere come prima...sarà sempre rigida» affermò il dottore abbassando lo sguardo, dispiaciuto per il suo incolpevole fallimento. «Volete dire che resterò zoppo?!» urlò Danny. «Temo proprio di sì, potrai migliorare, ma...». «No, non è vero! Io non credo a quello che mi dite!». «Mi dispiace». Ma ormai Danny non sentiva più le parole di Hill. Nella sua mente c’era solo la disperazione data da quella diagnosi. Il suo corpo, la sua energia, la sua salute erano ciò che fino ad allora gli avevano permesso di lavorare e guadagnarsi i
soldi necessari per risolvere i suoi problemi. Premendosi la testa tra le mani, con il volto rosso e il corpo febbricitante ansimava: «Come farò adesso? Come farò?». Il dottore volle confortarlo: «Danny... non sei l’unico che ha problemi di questo tipo: guarda Neel della bottega in città. Perse un braccio in guerra, ma riesce a gestire un’attività molto bene. Oppure Osborn Jenkins: è senza una gamba, ma riesce a coltivare la sua terra, la sua famiglia sta bene, tutti gli danno una mano volentieri...». Danny tentava di apprezzare gli sforzi del dottore per rassicurarlo, così disse: «Certo... io lo so dottore... ora vi prego di lasciarmi solo». «Come vuoi. Dove sono i padroni di casa?». «Sono in paese. Dovevano vedere alcune cose per il matrimonio...». Così Hill ripartì con il suo calesse, diretto al ranch Buster per curare un cowboy che si era ferito domando un cavallo, e lasciò il poveretto con la tortura di quella sentenza. Lui andò in camera camminando con le stampelle, si fermò, le strinse con forza e le lanciò violentemente in fondo alla stanza. Poi se ne pentì e istintivamente fece un o per andarle a riprendere, ma appena cerco di piegare il suo ginocchio un dolore lancinante lo prese alla gamba e cadde a terra. Si teneva l’arto che non si sarebbe mai più piegato, sarebbe rimasto così per il resto dei suoi giorni e avrebbe dovuto trascinarlo con sé. Si mise a piangere nervosamente, tanto da bagnare il pavimento con lacrime e saliva. I McArthur erano andati, per l’appunto, in paese. Avevano preso il carro, ma Mary aveva deciso di andare con Wild. «Così» aveva detto «quando avremo finito potrò essere a casa più velocemente». Mentre Danny era disperato a terra e non aveva la forza di alzarsi, sentì aprire la porta e udì una voce. «Ehi Danny! Dove sei? È già stato qui il dottore?». Non voleva che la ragazza lo vedesse in quelle condizioni, ma come avrebbe
fatto a rialzarsi? Lei si diresse verso la stanza e aprì la porta, appena lo vide sul pavimento si allarmò: «Cosa ti è successo? Aspetta, ti aiuto a rialzarti». Alla poveretta veniva da piangere a vedere un ragazzo così pieno di vita in quelle condizioni. Comunque si fece forza e lo tirò su, poi lo mise a sedere sul letto. Gli rifece la domanda: «Che cosa è successo?». «Non è evidente?! Sono caduto!». «Perché le tue stampelle sono in fondo alla stanza?» continuò Mary andandole a raccogliere. Danny stette in silenzio, poi disse: «Hai incontrato il dottor Hill venendo qui?». «No, che cosa ti ha detto della gamba?». «Che resterà così per sempre!». Quelle parole apparvero a Mary squarcianti come un terribile lampo nel cielo durante un violento temporale. Cercò di trovare le parole giuste da dire, cosa in cui non si riteneva molto brava. Si avvicinò a Danny, si piegò ai suoi piedi e gli mise una mano sopra quell’arto martoriato e, guardando verso l’alto il volto sconvolto del ragazzo, disse: «Io non vedo più con il mio occhio sinistro, credevo di non riuscire più a essere come prima. Tutto intorno a me sembrava diverso, ostile, ogni cosa semplice era una sfida, come andare a cavallo. Poi un giorno qualcuno mi convinse a non lasciarmi abbattere dalle avversità, a trovare la forza. Mi aiutò a capire che, quando non si riesce in qualcosa da soli, bisogna farsi aiutare. E io ora dico a te
lo stesso: tante cose adesso ti sembreranno difficili, persino impossibili, ma io ti aiuterò. Tutti noi in questa casa ti aiuteremo e tra un po’ non ti sentirai più così impotente e inerme. Io so che tu hai la forza per farlo». Cercò di esprimersi con un tono sicuro, anche se dentro di sé si sentiva morire. Danny la guardò, ma ogni parola che avrebbe voluto dire gli si fermò prepotentemente in gola. Non riusciva a esprimere quello che provava per lei. Mary si alzò e concluse: «Ora prendi queste stampelle e vieni fuori con me! Ho bisogno di aiuto per spaccare della legna e accendere la stufa, altrimenti oggi non si mangia!». Lui obbedì e nei giorni seguenti si sentì subito meglio quando vide che spaccare legna, raccogliere uova e pulire la stalla erano cose che poteva fare benissimo. Catherine confessò a sua figlia: «Avevi ragione quando hai detto che dovevamo aiutarlo noi. Sono fiera di te».
Un giorno si presentò Edward. Le sue visite, come era ovvio, non erano mai state così assidue a casa McArthur come in quel periodo. Si sentiva proprio felice, per la prima volta dopo tanto tempo. Anche se non lo dava a vedere, aveva ato un periodo di tristezza profonda da che era morta la madre. Ma ora quegli stati d’animo erano lontani. Danny stava pulendo la stalla e dando da mangiare ai cavalli e alla mucca. Buster entrò e lo salutò: «Salve Danny, come va?». «Buongiorno signore. Sto meglio, grazie!». «Vedo che riesci a renderti utile anche qui. Vorrei chiederti una cosa: perché non torni a lavorare al ranch? Lì il tuo posto è assicurato e saresti molto utile, specialmente nel mese in cui starò via. Ti considero una persona di fiducia, ho sempre potuto contare su di te».
«Vi ringrazio, ma non so...». «Mi pare ti trovassi bene a casa mia, gli altri ragazzi sarebbero felici se tu tornassi. Ti prego. Ad agosto potrai decidere se restare o se andare». Danny sapeva che a quella proposta, nelle sue condizioni, c’era un’unica risposta possibile: «Credo che verrò allora, signore». Edward sorrise soddisfatto: «Bene, allora quando vorrai tornare...». «Mi basta radunare le mie cose». Quella sera, a cena, Danny spiegò la sua decisione ai membri della famiglia McArthur, che da un lato erano molto contenti per lui, dall’altro si dispiacevano di non avere più la sua compagnia giornaliera. In quelle settimane trascorse con loro, il giovane si era fatto apprezzare. Aiutava Billy con i compiti, lo portava a pescare. Dava una mano a Sam per tenere in ordine gli attrezzi e la stalla, aiutava Catherine e Mary nei lavori più pesanti. Era anche di compagnia: suonava la sua armonica e riusciva a rendere meno monotone le giornate. Soprattutto, quando Mary faceva qualche lavoro in casa, come cucire o fare da mangiare, lui le leggeva i libri che le piacevano tanto e che, a causa del suo occhio, lei non sempre riusciva a leggere, perché doveva far riposare la vista. Ora se ne sarebbe andato e tutti si chiedevano come sarebbe stato senza di lui. Mary, in quel periodo, aveva capito che un’amicizia sincera valeva più di un amore non ricambiato e intendeva onorare e rispettare quell’amico. Al ritorno al ranch, Danny si sistemò come quando era arrivato la prima volta, solo che ora tutti erano più gentili e i ragazzi erano contenti di rivederlo. Lui provò una sensazione strana, come se fosse tornato a casa. Da tanto non si sentiva così.
CAPITOLO 8 – UNA NUOVA VITA
Quando si aspetta con tutto il cuore e con tutte le forze un avvenimento, il tempo sembra non are mai. In realtà corre velocemente, specialmente se nell’attesa le cose da preparare sono tante, come in un matrimonio. Era allucinante la quantità di faccende da sbrigare in vista di un sol giorno. Susan era felicissima, ma a volte avrebbe voluto scappare via. Tutti in paese, appena arrivava, l’assalivano con domande, richieste o doni. Il giorno prima dell’evento la sarta aveva dato gli ultimi ritocchi al vestito. Al ranch gli uomini avevano ultimato la sistemazione delle panche, dei tavoli e delle sedie per il pranzo. Il tappeto rosso sull’erba verde splendente creava un vivido contrasto. I cavalli per la carrozza, che doveva andare a prendere la sposa, erano stati tirati a lucido. Fiocchi bianchi pendevano da tutte le parti. La casa era piena di fiori. Quella notte la ragazza non riuscì a chiudere occhio, le sembrava che mancasse sempre qualcosa e perciò ripercorreva con la mente tutto quello che era stato fatto e tutto ciò che il giorno dopo sarebbe dovuto avvenire. Sudava freddo e rabbrividiva. Si alzò più volte per rinfrescarsi con l’acqua del catino. Nemmeno Mary, tra l’agitazione della cugina e la propria, riuscì a dormire molto bene. In casa Buster le cose non procedevano in maniera tanto diversa. Edward si sedeva sul letto e si alzava, si sedeva e si alzava. Camminava su e giù per la stanza e guardava fuori della finestra. Il cielo era stellato e limpido e preannunciava una giornata soleggiata e calda. Sudava pure lui, e di tanto in tanto beveva dell’acqua. Era terrorizzato che qualcosa non andasse nel verso giusto, i pensieri più grotteschi e imprevedibili gli venivano in mente, uno su tutti era: “E se Susan ci ripensasse?”. Cose davvero improbabili, ma a lui sembravano paurosamente possibili. Fortunatamente la luce rassicurante e rilassante dell’alba di quel 25 giugno del 1881 portò via tutti i cupi pensieri della notte. L’apparire del sole liberava tutti dall’obbligo di dormire. Mary e Margaret con Catherine furono le aiutanti principali della sposa, troppo emozionata per pensare a tutte le cose da fare. Si rinfrescò per bene. Si mise la sottoveste, il busto, il vestito. La cugina e la
giovane Boston la pettinarono e le fecero l’acconciatura. Catherine aveva raccolto e sistemato i fiori del bouquet. Quelli più beati erano Sam e Billy, già vestiti e pettinati da un pezzo. Non riuscivano a capire come alle donne ci volesse così tanto, ma dovevano stare attenti a esternare questa loro perplessità, pena essere fulminati da sguardi di rimprovero per non riuscire a capire l’importanza di tutta quella preparazione. Arrivò anche Tyler per accompagnare la sua fidanzata al ranch. Era assorto, pensando al suo stesso matrimonio e a come si sarebbe sentito quel giorno. La carrozza per Susan era arrivata da poco. A guidarla c’era Danny, vestito e preparato di tutto punto. Per l’occasione lo sposo era stato ben lieto di prestargli uno dei suoi vestiti. Susan venne fuori con o incerto da quella che era stata la sua stanza per più di un anno e che ora si accingeva ad abbandonare per sempre. Accolse, arrossendo, i primi commenti. «Sei proprio stupenda!» esclamò Sam. Billy si fregiò di essere il primo a darle un bacio sulla guancia. Uscì fuori e vide la carrozza tutta addobbata con i cavalli, tutti e due bianchi. Il cuore le batteva in gola in ogni istante, non sapeva se avrebbe resistito a lungo con quel ritmo. Danny non disse niente, preso da un attimo di timidezza e solennità. Poi per lui la sposa, la persona cioè più importante quel giorno, quella a cui tutti gli sguardi erano rivolti, non era Susan, ma quella ragazza vestita d’azzurro che si affacciò alla porta subito dietro di lei. «Allora» disse il ragazzo «la sposa monta sul sedile posteriore insieme allo zio, che l’accompagnerà. La testimone e sua madre sull’altro sedile di fronte e Billy assisterà me qui davanti!».
La sposa, per paura di vomitare, non aveva toccato cibo, ma ora il suo stomaco richiedeva furiosamente qualcosa da mangiare e i sobbalzi del carro lungo la strada non facevano che accentuare questo suo bisogno. Erano le dieci e trequarti e il ranch era ormai in vista.
«Siamo in orario!» esclamò soddisfatto Danny. La sposa arrivò tra gli applausi degli invitati, tra cui c’erano anche il notaio Marlow e i gemelli Buster, ma Edward non si vedeva. Susan fu condotta in casa e sistemata in salotto in attesa dell’inizio della cerimonia. Mary spiò fuori della finestra ed esclamò: «C’è Edward che viene fuori da una delle baracche, forse non voleva vederti prima del tempo! Mamma mia è bianco come un lenzuolo!». «Mary ti prego non me ne parlare!» sospirò disperata Susan. «Se non mangio qualcosa, sverrò lungo il cammino e allora sai che figura!». «Vado a vedere in cucina se riesco a rubare qualcosa». La ragazza tornò con dei pasticcini che non erano ancora stati serviti al buffet. Susan ne mangiò due lentamente e si sentì subito meglio. «Grazie Mary, non so cosa farei senza di te! Vorrei dirti una cosa prima di andare...». «Avanti!» disse contenta l’altra. «Non so se ti sei resa conto che hai anche tu la possibilità di sposarti, lo dico perché prima Danny non mi ha neanche guardato. Vedeva solo te, Mary!» esclamò la sposa, abbracciando la sua testimone. «Tu dici davvero?». «Sì, del resto l’amicizia può trasformarsi in qualcosa di più!». Con quel pensiero nella testa Mary non era sicura di riuscire a svolgere il suo compito con tutta la lucidità necessaria, ma la tensione e la concentrazione che impose a se stessa l’aiutarono. Andò a sistemarsi davanti al sindaco White che doveva celebrare il matrimonio; di fronte a lei c’era Tyler Brigs. Entrambi erano concentrati, lui aveva gli anelli in tasca ed aveva ato le ultime ore ad accertarsi di non perderli o dimenticarli.
Edward si era appena sistemato a fianco del suo testimone e deglutì. Guardò Mary che gli sorrise e questo lo tranquillizzò per circa un secondo, prima che la tensione lo riprendesse. Susan apparve dietro ai presenti che si erano alzati in piedi dal proprio posto e si erano girati a guardarla. Era lì davanti al tappeto rosso e non doveva far altro che percorrerlo fino alla fine. Suo zio l’accompagnava a braccetto, anche se era più giusto dire che la sorreggeva abilmente, senza dare a vedere che la ragazza senza il suo sostegno probabilmente sarebbe crollata, tanto le tremavano le gambe. Affrontarono insieme il primo o, poi il secondo. La ragazza non vedeva niente, non esistevano le persone attorno a lei, non esisteva il cielo azzurro e gli uccellini che avano. Esisteva solo quella linea rossa e, in fondo, il bianco. Quando fu più vicina, finalmente vide Edward e si sentì più sicura. Lui invece, vedendola, tremava ancora di più, le sembrava una visione. I capelli raccolti dietro la testa che scendevano con dei boccoli fermati da alcune roselline; il viso di porcellana e gli occhi scuri che risaltavano; il vestito che le lasciava leggermente scoperte le spalle a metà e che scendeva fino alla vita in un lavorio di pizzo bianco e la gonna ampia e vaporosa come una nuvola. Lui era vestito con un completo blu scuro, il cravattino fermato da uno spillo dorato. I capelli ricci e brizzolati erano pettinati all’indietro e lasciavano il suo viso luminoso. Gli occhi blu, scuri, fissavano Susan e seguivano il suo avanzare. Ecco! Era arrivata, ora erano vicini e il sindaco, dopo un sorriso rilassato, iniziò il suo compito. Lo scambio degli anelli fu decisamente il momento più emozionante. Tutti batterono le mani alla fine della cerimonia e andarono verso gli sposi per congratularsi. Mary rivolse lo sguardo attorno a sé e s’imbatté in quello di Danny, che pareva imibile. Il fotografo chiamato per l’occasione posizionò prima gli sposi da soli e poi i due con tutti i presenti per il ritratto. Non era cosa da tutti i giorni farsi fotografare e la gente cercava di darsi un contegno e un’espressione tutti particolari, con un risultato eccellente. Il pranzo fu squisito e contornato da piacevoli conversazioni, risate e applausi. Anche i balli furono memorabili. I ragazzi ovviamente volevano ballare con Susan e le ragazze con Eddie.
Mary aveva portato una sedia sotto un albero un po’ distante e si era seduta, godendo della leggera brezza che muoveva le foglie e produceva un rumore rilassante e piacevole che ava attraverso i suoi capelli castani e splendenti, facendoli muovere in un volo simile a quello di una farfalla. Aveva chiuso gli occhi e non sapeva se voleva riaprirli. Sentì dei i e istintivamente li aprì. C’era Danny davanti a lei. «Ti andrebbe un ballerino zoppo come accompagnatore?» chiese lui ridendo. Lei si alzò e annuì. Non volevano disturbare coloro che ballavano abilmente e liberamente sulla pista di legno, così rimasero sotto l’albero; si erano presi per le mani e si muovevano su e giù, seguendo la musica come potevano. A un certo punto Mary non riuscì a trattenere le lacrime e posò il proprio viso sulla spalla di Danny per evitare di fargli vedere che piangeva. Chissà cosa le prospettava il futuro. I suoi sentimenti erano così certi! Ma il modo in cui sarebbero stati accolti era totalmente ignoto. Avrebbero mai trovato quella casa, quel cuore, che lei desiderava, in cui dimorare ed essere custoditi? Danny sorrise tristemente e posò una mano sulla nuca della ragazza, sentendone i capelli morbidi. Che cosa avrebbe dovuto fare? Lasciare tutto com’era, per il bene, pensava lui, di Mary? Oppure rischiare di stravolgere la loro vita? La musica a un certo punto finì e i due si lasciarono con questi rispettivi interrogativi che al momento sembrarono non trovare risposta. Quella giornata ò senza i disastri che Edward temeva, anzi tutti furono contenti. Ritornati a casa i McArthur si sedettero stanchi, ma felici. Sam disse: «Ti ricordi, Catherine, di quando ci siamo sposati noi?». «Certo che sì! C’ho pensato spesso oggi, vedendo Susan ed Edward». «Spero saranno felici come noi!». «Lo spero anch’io e lo credo anche». «Certo ci saranno anche per loro dei momenti difficili, ma...».
«Ma noi li aiuteremo se vorranno!» concluse Catherine abbracciando il marito e ridendo. «Abbiamo ancora due figli da sposare!» rifletté lui. La moglie lo guardò di traverso: «Beh per Billy c’è tempo! E per Mary... dov’è?». «È in camera sua. E comunque, secondo me, non manca tanto neanche a lei» sentenziò allegramente Sam, strizzando l’occhio a sua moglie.
Era ata una settimana dal felice evento. Gli sposi novelli erano partiti due giorni dopo le nozze, di lunedì, tra gli abbracci e i baci di tutti. Per Mary era strano alzarsi ogni mattina e non vedere più Susan. La convivenza con la cugina le aveva insegnato tanto. Era migliorata come persona da quando la ragazza era arrivata. Invece ora la vita scorreva monotona. C’era un solo modo che Mary conosceva per renderla più varia: correre con Wild. Il cavallo le era stato regalato, quando era ancora un puledro, da Edward. C’era tra lei e quell’animale un’amicizia profonda e Mary piangeva alla sola idea che un giorno, prima o poi, l’avrebbe perso. Ma era un evento ancora molto lontano. Correva nella prateria, da prima senza una destinazione precisa, poi decise di andare a vedere come procedevano le cose al ranch. Anche lì la vita era monotona e ordinaria. Tutto continuava come sempre, l’organizzazione che Edward aveva dato negli anni dava i suoi frutti quando lui non c’era. È vero: gli uomini si divertivano un po’ di più la sera, ma non erano indisciplinati o sfaticati. Mary trovò Danny con la mandria. Lui la vide e chiese a Robert se poteva assentarsi per un po’. Il suo capo acconsentì. «Vieni, andiamo a fare una eggiata!» le propose. «Sì, ma non so per quanto: guarda quelle nuvole che si stanno avvicinando». «Non preoccuparti!».
Così si misero a camminare, a piedi, con i cavalli dietro di loro, portati per le briglie. Danny non riusciva a camminare velocemente come Mary, così lei dovette prendere il suo ritmo, scusandosi per non averci pensato prima. «Hai ricevuto notizie da tua cugina?» chiese Danny dopo un minuto di silenzio in cui cercò di raccogliere le parole da dire, ma non riuscendoci disse la prima cosa che gli venne in mente. «Non ancora, ormai ha traslocato in un altro nido!». Il temporale visto prima dalla ragazza si avvicinava con i suoi lampi e i tuoni ancora in lontananza, ma le nuvole riempivano sempre di più il cielo sopra i due ragazzi. Mary voleva andare a ripararsi, ma Danny sembrava non badarci. Le prime gocce di pioggia, grosse e fredde, iniziavano a cadere sempre più numerose. «Danny, non credi che...» prese a dire Mary, ma fu interrotta dal ragazzo. «Ascolta Mary: io devo dirti una cosa. Non so ancora se faccio bene o no, probabilmente me ne pentirò sia se ti parlo, sia se sto zitto» disse tutto d’un fiato Danny. «Sì... ti ascolto» disse lei deglutendo, quasi impaurita. «Ricorderai quando ti ho detto che saresti stata sempre un’amica per me e che ti avevo presa in giro...». «Certo» affermò lei mestamente. «Non era vero» continuò Danny. Mary lo guardò sorpresa e pietrificata, mentre l’acqua scendeva ormai decisa sui loro visi e su tutto ciò che c’era intorno. Lui ripeté: «Non era vero! Ho mentito». «Perché?» fu quello che riuscì a dire lei. «Perché tutte le persone a cui voglio bene finiscono per soffrire, io non voglio
che ti capiti lo stesso, ma non riesco più a starmene zitto. Io ti ho sempre voluto bene, Mary... Vorrei tentare, vorrei che le cose fossero diverse questa volta, vuoi aiutarmi?» disse ad alta voce a causa dei tuoni sempre più forti. Lei lo abbracciò senza dire niente, poi si scostò e rispose: «Io ti aiuterò!». Finalmente soddisfatto della risposta, Danny si rese conto del diluvio che stava scendendo e montati a cavallo i due si diressero a casa McArthur. Catherine fu sorpresa di vederli arrivare insieme, ma decise di non fare subito domande. Mary salutò tutti in fretta e corse in camera a cambiarsi i vestiti inzuppati. Danny stava fermo fuori della porta, grondante d’acqua e con gli stivali infangati, aspettando di essere invitato a entrare e non volendo ridurre il pavimento della cucina di quella casa a una pozzanghera. Sam sorpreso gli disse: «Entra, avanti! Non preoccuparti!». «Vado a prenderti dei vestiti puliti» disse Catherine, scomparendo in camera sua per prendere una camicia e dei pantaloni del marito e ricordandosi improvvisamente del periodo in cui Danny era ferito e l’avevano accolto in casa. Sentiva una strana malinconia pensando a quei giorni ormai ati, ma sperava ritornassero in qualche modo. Dopo aver dato i vestiti al ragazzo, la signora McArthur se ne andò in camera di Mary. Appena chiuse la porta non poté fare a meno di soddisfare la sua curiosità: «Allora che succede?». «Non lo so ancora di preciso!» e così dicendo si mise a origliare sulla porta, seguita dalla madre. Le due donne erano silenziose e intente ad ascoltare quello che Danny avrebbe detto a Sam. Il ragazzo era tremante non di freddo, ma al pensiero di dover chiedere a McArthur il permesso di sposare sua figlia. Iniziò il discorso da lontano, sperando nel frattempo di trovare le parole più giuste da dire. Così approfittò della domanda di Sam:
«Come va al ranch in questi giorni senza Edward?». «Bene, Sam. Ma io non vedo l’ora che il signor Buster torni a casa». «E perché tanta impazienza?». «Beh l’altro giorno il mio capo, Robert, mi ha detto che Buster ha intenzione di affittare degli appezzamenti di terreni. Sarà possibile coltivarli e costruirci delle case...». «È una bella cosa. E tu vorresti prendere un pezzo di questa terra?». «Sì, potrei pagare l’affitto in parte con il mio lavoro al ranch, in parte con il raccolto. Ecco io vorrei.... sì io vorrei...» era così difficile dire i propri sentimenti a chi doveva deciderne il destino! «Cosa vorresti fare?». «Ecco io, se è possibile... io vorrei... Io amo Mary e voglio sposarla!» gli uscì infine, con un tono sgradevolmente imperativo. «Con il vostro permesso.» concluse poi il ragazzo cercando di rimediare. Sam sorrise e disse in tono rassicurante: «Hai la stessa faccia di quando io chiesi al padre di Catherine il permesso di sposarla!». Quelle parole lo tranquillizzarono un po’, ma non erano una risposta precisa, così chiese: «E lui che vi disse?». «Di no» rispose seriamente Sam. Danny divenne bianco in viso e una freccia gli traò lo stomaco arrivando al cuore. L’arciere si accorse dell’effetto delle sue parole e fece un largo sorriso prima di dire: «Ma sto scherzando, Danny! Sono molto felice che tu voglia sposare mia
figlia!». Il malcapitato non capiva più niente, poi il silenzio irreale fu interrotto da Mary e Catherine che subito uscirono dall’altra stanza. La prima abbracciò il suo eroe, la seconda si sedette in braccio al marito benefattore. Quella sera Danny restò a cena con loro e, tornando a casa, ammirava la luna che illuminava la prateria di una luce magica, respirando l’aria a pieni polmoni e fischiettando un allegro motivetto. Pensava che, finalmente, per la prima volta dopo tanto tempo, le cose sembravano andargli per il verso giusto.
CAPITOLO 9 – DAL ATO
La notizia che Danny e Mary volevano sposarsi si sparse presto in paese. Alcuni erano ancora un po’ dubbiosi su Danny per il solo fatto che non era originario del posto. Invece, per altri, era più che sufficiente che avesse l’approvazione di Edward. La coppia Buster ricevette la notizia via telegramma e rispose prontamente congratulandosi. Edward e Susan erano felicemente alloggiati in uno degli alberghi più belli della capitale e avano le giornate a visitare gli edifici fulcro della città, come quelli del governo, nonché i musei e le biblioteche. Avevano trovato l’interessante compagnia di una coppia anziana, il giudice Clifford Hamilton e sua moglie Helen. Vedere quest’uomo e questa donna così avanti negli anni ancora innamorati era rincuorante e poi i due veterani sapevano dare utili consigli. Anche i ricevimenti delle vecchie conoscenze di Susan erano pieni di vita. L’unico episodio rattristante fu are davanti alla casa che un tempo apparteneva ai McArthur. Era strano guardarla come se fosse una struttura estranea senza alcuna importanza. Certo, in una piccola cittadina come Old Town gli eventi memorabili erano molto più rari e la vita era più legata ai ritmi tranquilli e rassicuranti dell’agricoltura. Quel posto sembrava rimanere sempre uguale, nonostante il are degli anni. Un giorno come tanti, Mary era in paese per sbrigare le sue faccende. Era così felice in quel periodo, tutto il mondo le sembrava più colorato, la gente più simpatica, la vita più facile. Si sentiva persino bellissima, sebbene non avesse mai avuto una grande opinione di sé sotto questo aspetto. Non si aspettava di trovarsi davanti Danny eggiando sotto i portici, ma anche lui aveva delle commissioni da svolgere. Si misero a camminare insieme, parlando del più e del meno, visibilmente emozionati e con gli occhi di entrambi che esprimevano una profonda gioia. Il ragazzo guardò un attimo la gente intorno a sé, sentendosi proprio in mezzo a una grande famiglia: non si sentiva più così estraneo, sentiva che avrebbe potuto chiamare quel posto “casa”. Osservò che in lontananza stavano arrivando due forestieri, ma dato che avevano il viso oscurato dalle ombre dei cappelli non riusciva a distinguere bene chi
fossero. Stavano avanzando lentamente, quando il ragazzo fu preso da una strana sensazione. Li osservò meglio e un’orribile scoperta gli spaccò il cuore. Il sangue gli si raggelò e la sua espressione di gioia cambiò radicalmente. Mary lo osservò molto preoccupata: «Che cos’hai? Non stai bene?» chiese ansiosa. «Mary, dirigiamoci senza dare nell’occhio dallo sceriffo Ryan, presto!» le sussurrò. I due entrarono nell’ufficio e Danny chiuse velocemente la porta, poi disse: «Sceriffo, avvicinatevi, presto!». L’altro venne verso la porta e Danny aprì lo spioncino, che era un quadrato largo venticinque centimetri con due sbarre che lo attraversavano formando una croce. Danny indicò i due uomini che stavano arrivando e disse: «Quei due sono dei rapinatori!». «Come fai a saperlo?!» chiese l’altro. «Che importa! Si dirigeranno o in banca o al saloon». I due stranieri fermarono i loro cavalli davanti a quest’ultimo edificio ed entrarono. «Presto» disse lo sceriffo col fucile in mano e uscendo. Danny lo seguì più veloce che poteva, non prima di avere raccomandato a Mary di starsene dentro al riparo. La povera ragazza era tutta in subbuglio, non le era mai capitata una cosa del genere e si chiedeva come Danny conoscesse quei due. Danny teneva in mano la pistola, nella sua vita non aveva mai ucciso nessuno e non voleva iniziare quel giorno. Finora quell’arma gli era servita solo per il suo lavoro di mandriano o per cacciare. Le mani gli sudavano e tremavano. Aveva paura anche perché sapeva con chi avrebbe avuto a che fare. Ryan fece cenno a
quelli fuori di rientrare nelle abitazioni. I due erano ormai davanti all’albergo, il saloon era vicino. All’improvviso si sentì uno sparo e due uomini precipitarsi fuori. Lo sceriffo puntò il fucile e gridò: «Fermi!». In quegli attimi tutto fu così rapido che non ci si rendeva conto di quello che stava succedendo, però poi si rivedevano tutti i fatti al rallentatore nella propria mente. Danny in quel momento puntava la sua pistola su uno dei rapinatori. Questo con l’arma in mano lo guardò gelidamente e poi sogghignò sotto il fazzoletto che gli copriva per metà il viso. Stava per premere il grilletto, ma Danny riuscì a essere più veloce e gli sparò alla mano facendogli saltare via la pistola. L’altro non fu altrettanto fortunato. Dopo aver esploso un colpo che ferì lo sceriffo, quest’ultimo riuscì a rispondere al fuoco facendolo stramazzare al suolo senza vita. L’altro dolorante inveiva contro di loro, poi si mise a ridere di un riso pazzo e malefico. Danny era bianco come un lenzuolo, poi andò verso di lui e lo tirò su da terra di peso. «Non hai fegato, ragazzo. È sempre stato il tuo difetto!» gli disse il fuorilegge. «Cammina!» rispose lui seccato e con l’espressione del viso convulsa. Lo sceriffo chiamò il medico per sé e per il prigioniero. Mary corse fuori e andò subito da Danny. «Sono morta di paura! Per fortuna stai bene!». «Oh, il ragazzo si è trovato una fidanzata! Chissà se lei sa...» disse il rapinatore. Mary deglutì e piena di stupore guardò Danny, sempre più scuro in volto. Seduto in cella mentre il dottore gli ricuciva la mano, il disgraziato continuò a parlare, o meglio: a urlare. «Ehi sceriffo! Chiedete al vostro amico chi sono. Lui ve lo dirà, mi conosce!». Ryan era seccato da quelle urla. «Sta zitto!» urlò al prigioniero, poi si rivolse a Danny. «Allora... grazie. Ma è vero, non posso fare a meno di chiederti come conoscevi quei due tipastri».
«Che importa...» disse lui sedendosi sconfitto. «Tanto lo verrete a sapere comunque. Quando me ne andai di casa in cerca di lavoro... i primi tempi erano difficili. Incontrai tanti imbroglioni, gente per cui lavoravo e che non mi pagava. Un giorno in un saloon... cavolo ero mezzo ubriaco! Incontrai due tipi, Miles Stewart, che ora è dal becchino, e questo qua, Lester Crew. Mi presero in simpatia. O perlomeno me lo fecero credere. Mi sono lasciato abbindolare dalle loro storie. Mi proposero un colpo facile a Goodland, dovevamo rapinare una banca in questo piccolo paesino. Mi servivano soldi. Così andai con loro. Io ho rapinato una banca... poi, uscendo, Lester puntò la pistola verso un ragazzo, poco più che un bambino che voleva fare l’eroe. Io lo afferrai per il braccio e il colpo andò a vuoto. Riuscimmo a fuggire sulle montagne vicine. Crew era furioso con me, perché gli avevo impedito di sparare, ma io gli dissi che con un omicidio ci avrebbero cercato ancora di più e sarebbe stato difficile scappare. Stewart mi diede ragione e disse che comunque ci saremo diretti verso ovest. Aveva sentito di soldi delle ferrovie che dovevano arrivare alla banca di St Stephen. Io ero disgustato da quello che era successo, così, avendo la mia parte di soldi, quella notte fuggii. Quando seppi della rapina a St Steven, sapevo che erano stati loro...». «E i soldi che avevi con te quando ti portai in città erano quelli della rapina a Goodland?» chiese Ryan visibilmente rattristato e deluso. «Sì, avevate ragione sceriffo! Ma io avevo troppo bisogno di soldi». Danny raccontò tutta quella storia tenendo lo sguardo fisso per terra, non osava guardare lo sceriffo in faccia e tanto meno Mary, che era in lacrime. «Non ti hanno inseguito quando sei fuggito?». «Evidentemente no! Sapevano che non avrei parlato con nessuno di quanto successo, perché altrimenti sarei stato coinvolto pure io». «Credo allora che molte rapine siano riconducibili a loro» sospirò Ryan. «Danny mi dispiace, io devo fare il mio dovere. Se dipendesse da me... ma sarà un giudice a decidere: ti devo arrestare». A quelle parole Mary uscì fuori in preda al panico. Senza guardare in faccia nessuna delle numerose persone che erano in attesa all’esterno dell’ufficio per congratularsi con i due uomini, corse sulla carrozza e si diresse verso casa, stremando il cavallo fino alla meta e arrivando altrettanto stremata. Sam andò
fuori e la vide immobile, ricurva, con la testa tra le mani: la chiamò, ma lei non rispose. Lui si avvicinò e salì sul carro, mettendole una mano sulla spalla. In quell’istante lei scoppiò in lacrime e si fece sorreggere dal padre che la portò in casa. Insieme a Catherine la misero sul letto e si fecero raccontare tutto. Mary, tra i singhiozzi e i gesti convulsi delle mani, spiegò quello che era successo. I suoi genitori non potevano credere a ciò che avevano appena sentito. Lasciarono la ragazza nella stanza a calmarsi. Sam decise di andare subito dallo sceriffo a vedere il da farsi. In paese la notizia si diffuse subito. Era tutto un vociferare e un borbottare: agli angoli delle strade, nelle botteghe, nei salotti buoni... Chi diceva quasi vantandosi che Danny non gliel’aveva data a bere con quell’aria da lavoratore, chi diceva che meritava la forca, altri che ribattevano che aveva salvato il paese dai rapinatori rischiando la vita. Il fulcro di tante discussioni si trovava in cella, disteso sulla branda, con una mano sugli occhi e l’altra a penzoloni quasi fosse ubriaco. Non lo era ovviamente, ma di sicuro la sua mente era nello stesso stato provocato da una sbornia. Era vuota e piena allo stesso tempo. A un certo punto sentì aprirsi la porta della sua gabbia. Lo sceriffo fece entrare Sam, che prese una sedia malridotta da un angolo e la portò vicino al letto. Poi si sedette togliendosi il cappello. Danny era sorpreso: «Sam, voi qui?!». «Sì, Danny...». Prima che riuscisse a dire qualcosa, il prigioniero lo interruppe preoccupato: «E Mary?». «Mary è a casa, non preoccuparti: è una ragazza forte. Tu, piuttosto, vuoi raccontarmi come sono andate le cose?». Danny, vergognandosi terribilmente, raccontò la sua triste storia a Sam, che si limitò ad ascoltare senza emettere nessuna sentenza: né di colpa, né di assoluzione. Alla fine si alzò, mise una mano sulla spalla del ragazzo e disse: «Ti troveremo un buon avvocato e vedremo che succede».
«Ma io non merito il vostro aiuto!» rispose Danny, impotente nel trattenere le lacrime. «Questo non devi essere tu a dirlo! Ti pare?». Detto questo, McArthur uscì e si diresse immediatamente all’ufficio del telegrafo.
A Washington l’atmosfera era allegra. Edward e Susan si erano fatti servire il pranzo nel giardino dell’albergo, all’ombra di alberi maestosi e secolari e, come sottofondo, il dolce sciacquio dell’acqua della fontana che si trovava al centro del prato. Un cameriere vestito di tutto punto portava tra le mani coperte da candidi guanti un vassoietto d’argento con una busta sopra. Si chinò verso Edward e disse con voce nasale: «Un telegramma per voi, signor Buster». Edward lo prese, ringraziando l’uomo e porgendo una mancia. Susan rideva ancora per i discorsi che poco prima erano stati interrotti dall’arrivo di quella comunicazione, ma la sua espressione si mutò in interrogazione quando vide il viso di suo marito attraversato da una smorfia di tristezza e stupore. «Che succede, caro? Qualche cosa che non va a casa?» chiese preoccupata. «Sì» disse lui mestamente, porgendole il telegramma che comunicava l’arresto di Danny e la preghiera di ritornare subito a casa. Susan ebbe un sussulto nel leggere quelle poche lapidarie parole dello zio e, guardando Edward, fecero entrambi lo stesso pensiero. Buster chiamò subito un cameriere, dandogli istruzioni per l’immediata partenza. Il pomeriggio di quello stesso giorno erano già in stazione ad aspettare il treno e a chiedersi che futuro si prospettava per Danny e per la loro cara Mary. I giorni successivi arono pesanti e terribilmente torridi. Nelle ore più calde l’aria era irrespirabile e il sudore colava giù grondante dai corpi quasi fossero
afflitti da una febbre delirante. Mary si rifiutava di pensare a quello che era successo: chiusa nel suo mutismo, si limitava a svolgere le faccende quotidiane con una forza rabbiosa e a chiunque della famiglia cercasse di parlarle di Danny, lei rivolgeva uno sguardo che impediva ogni ulteriore sforzo. In paese il giornale locale e quelli delle città vicine riportavano ogni giorno le novità più assurde e favolistiche, del tipo che si era scoperto che Danny era un bandito incallito, che era a capo di una banda di ladri spietati e così via. Le rapine di Stewart e Crew erano state troppo importanti nello stato per non travolgere anche Old Town. Quando Sam o Catherine si trovavano in paese per sbrigare le loro faccende o andare a trovare Danny, la gente li guardava con sospetto. Finalmente con la diligenza, dopo una settimana dalla loro partenza, stavano arrivando Edward e Susan. La carrozza si fermò e fu circondata da curiosi. A scendere per primo fu Eddie, che provò un certo disgusto per tutta quella confusione dopo un viaggio così lungo e con un peso così grande sullo stomaco. Aiutò sua moglie a scendere e poi seguirono Sam in prigione, lasciando perdere i vari commenti inevitabili. Del resto la famiglia Buster era la più in vista della zona e assumere una precisa posizione nella faccenda era una cosa che provocava opinioni a dir poco contrastanti e infuocate in paese. Danny era sorpreso di vedere i due. Non poteva credere che fossero tornati da Washington e che si esponessero così per lui. Edward lo rassicurò: «Vedrai Danny, ti troverò il miglior avvocato in circolazione, ti tireremo fuori di prigione!». «Signor Buster non dovete fare tanto per me...». «Sciocchezze, l’unica cosa buona a cui servono i soldi è aiutare gli amici in difficoltà e nessuno, né tu perché pensi di non meritarlo, né quelli là fuori che si credono migliori, potrete impedirmelo». Danny si limitò a ringraziare per l’aiuto e poi si rivolse a Susan: «Vi prego, pensate voi a Mary, statele vicino». «Non temere Danny, lo farò. Vedrai che tutto si sistemerà» rispose la ragazza quasi in lacrime.
Appena fuori di prigione, Buster disse a Sam: «Portate a casa vostra Susan, io vi raggiungerò dopo». «Tu che farai?» chiese sua moglie. «Manderò un telegramma all’avvocato Briston e poi vedrò cos’altro posso fare di utile perché abbia già qualcosa in mano per fare il suo lavoro quando sarà qui». Chiamato appunto l’avvocato, Edward andò a casa della giovane coppia Brigs. Margaret preparò un caffè da servire a Tyler e al suo amico, seduti in salotto. «Tyler, ho bisogno del tuo aiuto». «Che dovrei fare?» chiese l’altro sorpreso. «Io non posso muovermi di qui, sto aspettando l’avvocato e poi voglio controllare come si comporta la gente. Ma c’è bisogno che qualcuno vada a Goodland a cercare testimoni...». «Che tipo di testimoni?». «Danny ha impedito che uno dei rapinatori uccidesse un uomo nell’unica rapina a cui ha partecipato, forse questa persona potrebbe testimoniare a suo favore». «Hai ragione! Io al suo posto vorrei aiutare qualcuno che mi ha salvato la vita! Vuoi che ti dica, in confidenza, cosa penso di questa storia?». «Certo!». «Beh, per me è ingiusto che Danny stia in prigione! Ha salvato la città, quando poteva starsene zitto ben sapendo che quei criminali avrebbero detto che era stato loro complice!». «Già... saresti disposto a dirlo davanti a tutti al processo?!». Tyler risultò titubante a quella domanda, significava esprimere un’opinione contraria al pensiero di molti in paese. Poi rispose:
«Sì!». «Sapevo di poter contare su di te!». «Allora partirò subito». Era ora di andare a casa McArthur. Quando Susan era arrivata, Mary non aveva potuto trattenersi, per quanto avesse cercato di farlo, dall’andare ad abbracciarla. «Vedrai Mary, si sistemerà tutto. Edward si sta già muovendo e...». «Ti prego Susan, non dirmi niente. Ho bisogno di silenzio». «Come vuoi...» rispose la cugina rassegnata. arono tre giorni in cui non successe nulla di particolare. Poi arrivò una notizia importante: il giudice dei processi a Crew e a Danny sarebbe stato Clifford Hamilton. A vederne il nome sul giornale, mentre faceva colazione in cucina, al ranch, Edward ebbe un sussulto di gioia. «Ehi Susan! Il giudice sarà Hamilton!». «Davvero?! Che gioia! Danny non poteva avere giudice più integro e capace!». «Già... ma anche il giudice più integro e capace si deve attenere alla legge...» rispose Eddie, perdendo l’entusiasmo che lo aveva animato. «Che vuoi dire?» chiese Susan. «Voglio dire che per le rapine si va in prigione e per tanto tempo anche!». «Ma è stato un’unica volta!». «Già! Ma certi errori si pagano cari! Comunque mi è venuta un’altra idea: devo andare da Danny». Detto, fatto. Buster corse in città e andò dallo sceriffo. Quel molestatore di Crew non perdeva occasione per ridacchiare e parlare del cappio al collo con il suo vicino di cella. Era stato imbavagliato per bene e Ryan aveva tutta l’aria di essersi dimenticato che il prigioniero doveva mangiare e bere.
Edward parlò a lungo con Danny del paese in cui era nato e dei creditori del suo patrigno. «Perché volete sapere tutte queste cose, signor Buster?». «Forse ci sono persone che potrebbero testimoniare che non hai mai rubato niente lì, bensì che ti sei dato da fare per pagare debiti di cui non eri responsabile». «Sì, datomi da fare?! Rapinando una banca! Che idiota sono stato! Mary non vuole più vedermi, vero?! Non vuole più sapere niente di me!». «Io non credo questo. Però ha bisogno di tempo». «Sono stato stupido a illudere così lei e me! Dovevo capire che uno come me non poteva offrirle niente di buono!». «Ora smettila! Non voglio più sentire una sola parola di questo genere o ti farò imbavagliare come quel disgraziato nell’altra cella!». Quel giorno Edward ricevette un telegramma da Tyler che lo informava del successo del viaggio. Aveva trovato quell’uomo, che era anche pronto a testimoniare. Buster telegrafò ai creditori di Danny. Se avesse ricevuto una risposta positiva, sarebbe partito per usarli come testimoni a favore. Il giorno seguente arrivò l’avvocato Briston, sui sessant’anni, dall’aria distinta e professionale. I capelli erano di un bianco candido e così anche i baffetti curati. Ad attenderlo c’era Edward che si affrettò a portarlo da Denny, il quale fu costretto per l’ennesima volta a raccontare tutti i fatti: dal suo incontro con i banditi fino al suo arresto, questa volta però il più dettagliatamente possibile. Alla fine della narrazione, Briston si alzò dalla sedia dello sceriffo, che Ryan gli aveva ceduto, e sospirando disse: «Ti dirò che cosa ti conviene fare. Dichiararti colpevole e preoccuparti della sentenza». «Ma come “colpevole”?!» esclamò Edward.
«Sì, signor Buster. Lo so che sembra brutto dirlo, ma la verità è che lo stesso Danny ha già confessato il suo reato e non mi pare voglia sfuggirne le conseguenze. Tutte le cose che voi mi avete detto, i debiti del tuo patrigno, il fatto che nella rapina hai salvato la vita a un uomo, l’aver avvertito lo sceriffo Ryan... non cambiano il fatto che hai rapinato una banca e che ti sei tenuto i soldi. Uno si dichiara innocente quando ritiene di essere ingiustamente accusato di un reato. È il tuo caso, Danny?». «No, signor Briston. Avete ragione» «Ricordati che questa non è una sconfitta. Anzi, il giudice Hamilton apprezzerà la cosa e la sentenza dipenderà più da lui che da una giuria emotivamente instabile e influenzabile!». «Finirò comunque in prigione però!». «È molto possibile, Danny. Secondo me, però, non sarà per tanto tempo». Nel frattempo il giudice Hamilton e signora erano in viaggio per Old Town; lo sceriffo aveva disposto tutto per il loro soggiorno, prenotandogli la camera migliore dell’albergo. Il giorno previsto per il suo arrivo a Old Town c’erano molti curiosi e vari cronisti dei paesi vicini, soprattutto dalle città rapinate. Hamilton, da bravo giudice che era, faceva il possibile per non farsi influenzare da stampa e opinione pubblica nei casi che doveva trattare e non sopportava le notizie sensazionalistiche. Sapeva che il paese dove stava andando era quello dei Buster; si chiedeva se e in che modo fossero coinvolti i due giovani sposi, data la loro partenza improvvisa da Washington. Sua moglie Helen era insospettabilmente un grande aiuto nei processi. Seguiva sempre un caso, se ne aveva la possibilità, e Clifford le chiedeva la sua opinione umana al riguardo. A volte la trovava utile per poter capire come, nella sentenza, la giustizia dovesse conciliarsi con gli altri aspetti della natura umana. Quello veramente in difficoltà era Crew: gli era stato assegnato un avvocato d’ufficio che era alla sua prima esperienza seria. Inoltre quel cliente era indisponente e irrispettoso. Erano già tutti contro di lui e avevano emesso il loro giudizio. Lui sembrava non preoccuparsene. Aveva uno sguardo pazzo e per tutto il tempo in prigione non faceva che parlare e ridacchiare, dicendo a Danny che la loro fine sarebbe stata la stessa.
Quando la diligenza si fermò con i cavalli sbuffanti e sudati, lo sportello si aprì. Uscirono due eggeri di cui nessuno si interessò e poi ecco finalmente sbucare fuori questo tanto atteso giudice. A Old Town i processi erano rari, quindi anche le visite di tanta importanza. Scese un uomo alto e magro, zoppicante per una vecchia ferita di guerra, vestito molto elegantemente: aveva un sigaro in bocca e non si preoccupò di tutte le domande che gli vennero fatte, ma si limitò semplicemente a borbottare: «Quando i processi inizieranno, parleremo già a sufficienza». Fece scendere Helen, una donna un po’ in carne a causa delle ate gravidanze, con dei bei capelli grigi raccolti sotto il cappello e un vestito nero. Ryan li accompagnò in albergo, facendo prendere i bagagli da un garzone. Buster quella mattina era restato a casa. Preferiva non incontrare troppo il giudice, riteneva che la cosa fosse reciproca per pace di entrambi. Il giudice decise che si sarebbe prima svolto il processo di Crew, per cui tanti necrofagi erano là, anche perché era pressoché un verdetto già scritto: furono ascoltati i testimoni delle rapine, tra cui lo stesso Danny, che era l’unico ad aver visto bene Crew a volto scoperto. La giuria, composta da quindici uomini di Old Town, si radunò per il verdetto riguardo alle rapine e agli omicidi di St Stephen, che in poco tempo fu raggiunto all’unanimità. “Colpevole”. E dopo quella parola ci fu un boato e Hamilton fece fare silenzio in aula per chiudere l’udienza. Un colpo del martelletto e tutto fu finito per Crew. Il giorno dopo sarebbe stata la volta di Danny. Sam e Catherine, tornati a casa da quel terribile processo con un nodo in gola, entrarono senza parole. La vita di un uomo era stata giudicata quel giorno: era un uomo che aveva commesso dei crimini tremendi, per i quali andava punito, ma non era piacevole il pensiero che sarebbe stato giustiziato, soprattutto ricordando che anche un ragazzo che avevano imparato a conoscere e ad amare doveva subire un processo simile. Sam si alzò dalla sedia dove si era accasciato e disse alla moglie: «Ora basta! A nostra figlia serve una strigliata! Quel ragazzo ha bisogno di lei!».
Detto questo uscì fuori, mentre Mary stava spaccando legna approfittando della frescura che verso il tramonto riusciva a ristorarla. Aveva una tal foga nel far cadere la mannaia addosso all’inerme pezzo di legno, che si aveva quasi paura ad avvicinarla. Ma suo padre non si lasciò intimorire. «Mary» iniziò con calma Sam «non puoi continuare così, Danny ha bisogno di te. Cosa ti è successo? Ti vergogni forse di essere la sua ragazza?». «Non è questo» rispose lei con gli occhi già lucidi e la voce rotta, smettendo di spaccar legna e lasciando cadere l’ascia, esausta. «Il fatto è che ho amato qualcuno che in realtà non conoscevo. Se non fosse stato per la rapina in paese, non avrei mai saputo niente!». «Capisco come ti senti. Ma, sai, Danny non ce lo ha detto perché voleva dimenticare quella brutta storia, voleva voltare pagina, cambiare. Non possiamo giudicare la vita di un uomo da un singolo episodio. Non sto giustificando Danny, però prova a pensare alla situazione in cui si era trovato quando si è fatto coinvolgere da quei due. Forse pensavi che quel ragazzo non commettesse errori?». «Forse dentro di me avevo la stupida illusione che fosse perfetto, ideale. Ma non esiste nessuno così, vero? Tanto meno io». «Tendiamo sempre a vedere in chi amiamo il meglio e a ignorare il peggio. Comunque il buono di una persona non sta nel non fare sbagli, sta nell’ammetterli e nel cambiare. Tu hai dato a Danny la forza di non tornare più indietro, di lavorare, di essere onesto. Non lo abbandonare ora che ha più bisogno di te». A quelle parole Mary pensò che Danny c’era sempre stato quando lei aveva avuto bisogno: si sentiva ingiusta e vigliacca ora. Ringraziò il padre di quei consigli e decise che il giorno dopo sarebbe stata presente al processo.
La mattina seguente tutto era ancora avvolto nella foschia, quasi che il tempo si fosse fermato in quei luoghi così agitati dagli eventi e ora regnava una calma irreale che solo il progressivo sorgere del sole avrebbe portato via, riportando gli uomini alla realtà. Mary si era alzata presto, prima di tutti. Non era riuscita a chiudere occhio, si era rigirata nel letto sudando e agitandosi.
Gli occhi segnati dalla mancanza di sonno erano fissi nel vuoto mentre sorseggiava il caffè e mangiava il pane tostato con sopra il burro. La casa cominciò a prendere vita quando anche gli altri si alzarono. La ragazza si limitò a dire che voleva vedere Danny prima del processo. Suo padre le rispose che allora sarebbero partiti presto. Appena finita la colazione, Sam andò ad attaccare il carro al cavallo e tutti insieme si diressero dai Buster. Non volevano che Billy restasse da solo a casa in quelle ore, e non volevano portarlo nel caos che c’era in paese. L’avrebbero lasciato con i domestici del ranch. Susan stava guardando fuori della finestra del salotto, quando vide il carro dei suoi zii. «Eddie! C’è anche Mary sul carro! Verrà anche lei in paese!». «Lo sapevo che sarebbe venuta!». Appena il carro fu arrivato, Susan uscì fuori e andò ad abbracciare la cugina che era scesa. Quel gesto d’amore la rincuorò e le fece capire quanto fosse importante non essere soli. Billy, prima che tutti gli altri partissero, si raccomandò di salutare Danny e di fare tutto il possibile per non farlo andare in prigione. Man mano che si avvicinava al paese, il cuore di Mary aumentava i suoi battiti: lo sentiva nella gola, nelle orecchie, sudava e le sue mani fastidiosamente bagnate erano appoggiate sulle gambe nel tentativo di farle smettere di tremare. Non era la tensione per ciò che avrebbe sentito o visto: era la paura per Danny, perché diventava sempre più consapevole di ciò che poteva accadere al ragazzo. Il carro si fermò davanti all’ufficio dello sceriffo, i presenti interruppero quello che stavano facendo e guardarono i McArthur. Mary si sentì ancora una volta tutti gli occhi puntati addosso e si ricordò dei giorni precedenti la corsa. Quella volta aveva avuto coraggio e le cose erano andate a finire bene. Forse c’era la speranza che fosse lo stesso anche quel giorno. Edward e Susan l’avevano rassicurata circa il giudice Hamilton e questo la faceva star meglio. Scese dal carro aiutata dal padre. Appena toccò terra, dai piedi, la tensione corse
per tutte le gambe che parvero cedere, ma il primo o deciso e poi il secondo ricacciarono quella sensazione sulle tavole del pavimento. Lo sceriffo aprì la porta, dato che aveva visto l’arrivo della famiglia e li fece entrare. Mary si voltò a guardare Sam, che le sorrise e disse: «Su, coraggio». «Immagino tu voglia vedere Danny» aggiunse Ryan in tono cordiale. «Sì, per favore». «Vieni allora» e dicendo questo lo sceriffo tirò fuori dal cassetto della scrivania le chiavi. Con queste aprì prima la massiccia porta che dava sulla stanza delle celle, poi entrò. Danny, seduto sulla branda, perso nei suoi cupi pensieri, alzò lo sguardo e quando vide spuntare da dietro la porta la figura di Mary si alzò in piedi con un movimento incondizionato. Man mano che lei si avvicinava alla cella, lui si avvicinava alle sbarre. Il ragazzo strinse due di quei tubi di ferro freddi e ostili tra le mani, quasi a volerli rompere. Mary gli sorrise e esordì dicendo con voce dolce e sommessa: «Ciao Danny». Lui rispose al sorriso e al saluto. Lo sceriffo stringeva le labbra quasi a commuoversi, poi sospirò e intervenne: «Beh, non è necessario che tu stia fuori e lui dentro, Mary. Aprirò la cella così potrai entrare». A quelle parole Mary si ritrasse indietro dalle sbarre quasi che quelle fossero una protezione: una protezione dal voler Danny vicino, una protezione dalla paura di non averlo più così vicino e quando quella porta cigolante si aprì, lei si rese conto di dovergli andare incontro; lui non poteva uscire, non poteva muoversi, era inerme. La ragazza non trovava fiato, respirava a bocca aperta. Si portò una
mano alle labbra tremanti, le lacrime affioravano sempre più insistenti e invano era ogni sforzo di ricacciarle nel profondo. Mary corse ad abbracciare Danny e gli disse nel pianto una parola che ne valeva mille: «Scusa». A sentirla, Danny rispose all’abbraccio e si lasciò andare alle lacrime, silenziose e calde come non lo erano mai state prima. Mary si scostò e sorrise, andosi una mano sugli occhi. Danny le fece cenno di sedersi sulla branda e lui le si mise accanto. «Mi dispiace di non essere venuta prima. Puoi perdonarmi?» disse lei. «Perdonarti?! Io non credevo di meritare di nuovo di vederti». «Che ne sarà di noi?». «Non lo so. Il mio destino non è più nelle mie mani». «Io so solo che ti amo e non ti abbandonerò». «Grazie, Mary! Anch’io ti amo e avrei voluto morire piuttosto che farti vivere tutto questo». «Vedrai che andrà tutto bene!» disse lei per fargli e soprattutto per fare a se stessa coraggio.
Il processo si sarebbe svolto, come per Crew, nel salone dell’albergo. Un tavolo con una sedia comoda sarebbe stato il posto del giudice. A fianco del tavolo c’era una semplice sedia dura per i testimoni e di fronte, dopo i tavolini e le sedie degli avvocati, file di posti per gli altri presenti. Lo sceriffo doveva mantenere l’ordine in caso ce ne fosse stato il bisogno e per questo chiese aiuto a Tyler Brigs e Robert del ranch Buster, temporaneamente nominati vice-sceriffi. L’aula provvisoria si riempì gradualmente di gente. In prima fila, dal lato di Danny e del suo avvocato, c’erano i McArthur e i Buster. Dall’altro lato c’era il pubblico ministero, Nicolas Harris, che era arrivato lo stesso giorno del giudice, ma viaggiando per conto suo dato che si trovava in una città vicina. Il giorno prima, con Crew, non aveva avuto un attimo di esitazione. Era stato aggressivo e
implacabile come un cane attaccato alla preda. Il naso fino, le basette che scendevano giù perfette e gli occhialini lucidi davano l’idea di un tipo preciso e meticoloso. Non si riusciva a leggere alcun pensiero nella sua espressione. L’ora tanto attesa con agonia stava arrivando. Una voce profonda e severa disse: «Tutti in piedi! Entra il giudice!». Da una porta di servizio uscì Hamilton, che con la sua presenza incuteva rispetto, ma trasmetteva anche sicurezza. Dopo qualche istante di silenzio, in cui il giudice si sedette, seguito da tutti gli altri, e sistemò le sue carte, fu letto il capo d’accusa di rapina a mano armata. «Come si dichiara l’imputato?». L’avvocato Briston si alzò e disse: «Colpevole vostro onore». Subito ci fu un brusio, seguito dal rumore del martelletto e dal giudice che intimava di fare silenzio. «Avete testimoni e prove da presentare per la sentenza, avvocato?». «Sì vostro onore». «Qualche obiezione, avvocato Harris?». «Nessuna vostro onore» rispose l’altro con voce piatta. Pareva, almeno per il momento, che avesse speso tutte le energie per la “battaglia” del giorno prima. «Bene, può procedere avvocato Briston» continuò Hamilton. «Grazie, vostro onore. Chiamo a deporre Trace Jones». Un uomo distinto si alzò da in mezzo alla gente e andò con o deciso al banco dei testimoni. «Signor Jones» esordì con calma Briston «ci dica da dove viene e come conosce il signor McNelly».
«Vengo da Silver Lake, in Colorado. Lì il patrigno del signor McNelly, Gary Olsen, aveva un’attività commerciale. Io gli fornivo del legname. Dato che conoscevo la signora Martha McNelly e stimavo il suo primo marito, Patrick McNelly, volli concedere a Olsen una dilazione di pagamento perché mi disse che non era in grado di pagare a causa di insolvenze temporanee dei suoi debitori. Quando la signora McNelly morì, Olsen se ne scappò con i soldi e io restai a bocca asciutta. Quando Danny ritornò al paese, gli spiegai la situazione. Ero alquanto alterato, signor giudice. Ma Danny mi rispose che mi avrebbe restituito tutti i soldi che il suo patrigno mi doveva. Da quel giorno ogni mese mi arriva una parte di denaro. E confido che alla fine il debito sarà estinto». «Vostro onore, ho qui le testimonianze scritte e firmate di altri cinque commercianti di Silver Lake che avevano crediti nei confronti del signor Olsen e che raccontano di come il signor McNelly si sia preso carico di tutto» dichiarò Briston porgendo al giudice i documenti. «Va bene, avvocato» rispose il giudice dando una scorsa ai fogli «avvocato Harris avete delle domande per il testimone?». «No, vostro onore». «Potete andare, signor Jones...». Fu poi la volta di Jack Stewart, il ragazzo della rapina a Goodland. «Signor Stewart, vuole dirci, per favore, cosa successe la mattina della rapina a Goodland?» chiese Briston. «Certo» rispose il ragazzo con voce tremante, al ricordo di quei momenti. «Era una mattina tranquilla, non c’era tanta gente in paese. Stavo lavorando nella bottega di mio padre, sistemavo i sacchi di farina. Ero dentro. Quando uscii, nello stesso istante, dalla banca vennero fuori tre uomini armati. Io presi la pistola che avevo con me. Sapete, mio padre me l’aveva appena regalata, si era deciso che finalmente potevo averne una. Puntai l’arma verso i rapinatori e gridai loro di fermarsi. Uno dei rapinatori si mise a ridere. Sentivo la sua risata orrida, sotto il fazzoletto che gli copriva il viso. Mi puntò la pistola che aveva in mano e avvertii che stava per premere il grilletto. In quel momento mi fermai, ero paralizzato, non potevo muovere neanche un muscolo. All’improvviso sentii uno sparo, per un momento la vista mi si era annebbiata, poi vidi un altro
rapinatore che gli premeva il braccio verso terra e gli urlò di non uccidermi. L’altro si arrabbiò, ma ormai dovevano scappare perché anche gli altri in paese si erano accorti di quanto era successo. Così se ne andarono e io rimasi lì immobile...». «Grazie del vostro racconto. E diteci: riconoscete quell’uomo in quest’aula?». «Certo, è lì» rispose Stewart, indicando Danny. «E cosa pensate di quest’uomo?». «Penso che è un ladro. Ma penso anche che non è un assassino. Mi ha salvato la vita. Credo che, anche se ha commesso un reato, non voleva veramente far male a qualcuno». «Grazie, non ho altre domande». Briston era parzialmente soddisfatto di quella testimonianza. Sebbene avesse istruito il testimone a dovere su come dire la verità, i risultati non erano quelli che avrebbe voluto. Harris si alzò perché questa volta aveva delle domande da fare. Era alto e aveva un portamento sicuro. «Signor Stewart, avete detto che i rapinatori erano a volto coperto?». «Sì, signore». «Come fate ad affermare con certezza che è stato il signor McNelly a salvarvi la vita, dopo aver derubato la vostra comunità dei soldi risparmiati, e non il terzo uomo?». Il ragazzo fu esitante per un momento, ma poi disse: «Per la stessa ragione per cui, al processo di ieri, ho riconosciuto l’uomo che voleva spararmi. Sono cose che non si dimenticano. Sono sicuro che a impedire a Crew di spararmi è stato McNelly. L’uomo che mi ha salvato era il più giovane e il più alto dei tre. Poi gli altri avevano i capelli scuri, sotto il cappello, mentre lui biondi, signor avvocato».
Harris incassò il colpo e disse: «Grazie». Del resto lui stava solo facendo il suo dovere: doveva sciogliere ogni dubbio possibile che gli veniva in mente, sui fatti e sull’attendibilità dei testimoni. Girandosi per andare a sedersi, incrociò lo sguardo severo di Mary. Briston pensò di essere stato stupido a non fare lui quelle domande precedendo il pubblico ministero. Comunque ora toccava a Edward Buster. «Signor Buster, voi date lavoro al signor McNelly, diteci com’è». Eddie sorrise a Danny e cominciò la sua testimonianza: «Fin dall’inizio ha lavorato subito sodo, non chiedendo mai niente. Non l’ho mai visto sperperare il suo denaro al saloon o in altre cose inutili. Ciò che prende lo dà ai creditori e all’orfanotrofio dove sono i suoi fratelli». «Immaginavate che Danny avesse rapinato una banca?» «Sinceramente no. Sono rimasto molto sorpreso quando l’ho saputo. Comunque ho cercato di mettermi nei suoi panni. Io non sono mai stato nell’indigenza. Non ho mai dovuto soldi a qualcuno senza poterglieli dare, la mia famiglia non mi ha abbandonato. Ho sempre frequentato la gente giusta. Non so cosa avrei fatto al suo posto. Badate che non lo sto giustificando: ha sbagliato, ma poi non l’ha più fatto». «Un’ultima domanda: voi lo vorreste ancora a lavorare nel vostro ranch?». «Certo, gli darei piena fiducia». «Intendete dire che tutti i poveri potrebbero arrivare a rubare? Ma che noi dovremmo capirli perché sono in una situazione difficile?» chiese poi Harris. «Come ho già detto, non sto giustificando chi ruba, visto che mi avete chiesto un’opinione generale sull’argomento. Ma, pur sbagliando entrambi, non metterei sullo stesso piano di giudizio chi ruba per fame o per bisogno e chi invece ruba per avidità e con crudeltà. Voi lo fareste?» concluse Buster.
Harris si sorprese dell’attaccamento di tante persone per Danny. Briston era più soddisfatto ora e chiamò a deporre lo stesso Danny, che raccontò la sua storia. Poi gli fu fatta una domanda: «Signor McNelly, se vi trovaste nelle medesime condizioni di allora, rubereste di nuovo?». «No signore. Farei qualsiasi altra cosa. Lavorerei tutto il giorno nel peggior posto del mondo, ma non ruberei più. Mi vergogno molto per quello che ho fatto a Goodland. Ricordo mio padre che la sera tardi veniva a casa: era stanchissimo e annerito dal carbone. Si sedeva sulla sedia e quasi non riusciva a tenere in mano il cucchiaio. Ma nei suoi occhi, nel profondo, vedevo la soddisfazione o l’orgoglio di avercela fatta anche quel giorno. Quando portava a casa i soldi che si era guadagnato, mia madre lo abbracciava e li guardava come se fossero il tesoro più grande del mondo. Io le chiedevo perché e lei mi rispondeva: “Perché sono sudati, perché tuo padre si è spaccato la schiena per ottenerli e io non potrei essere più fiera di lui se fosse ricco ma con la coscienza sporca”. Per un momento avevo dimenticato queste cose, mi ero fatto prendere dal panico e avevo lasciato che la vita mi portasse nella direzione sbagliata. Ma fortunatamente qualcuno mi ha ricordato che a questo mondo bisogna lottare, bisogna avere fiducia. Io non ruberei più, lo giuro». E così concludendo fissava Mary, che si sentiva il cuore caldo e colmo di soddisfazione. Tutti quanti la stavano osservando, compreso Harris che ora capì più cose. «Grazie, signor McNelly» disse Briston mettendo una mano sulla spalla del ragazzo. L’accusa non aveva nulla da dire così Briston si avviò a concludere con l’ultima persona, quella che più aveva sofferto e che più fremeva in quella stanza. «Chiamo a testimoniare la signorina Mary McArthur». La ragazza si alzò, lasciando la mano di Susan che aveva stretto per tutto il tempo. Si fece strada tra le gambe dei parenti e andò verso la sedia. Finalmente arrivata, Briston le sorrise e le chiese: «Descriveteci i vostri rapporti con il signor McNelly».
«Io e Danny... desideriamo sposarci». «Come avete reagito al racconto della rapina?». «Sono rimasta sconvolta! Da prima ero arrabbiata, sconcertata, mi sentivo persa! Non potevo credere che l’uomo che volevo sposare era un rapinatore. Poi riflettei su tante cose. Qualcuno mi ha detto che dobbiamo giudicare un uomo per quello che fa in tutta la sua vita e non per un singolo episodio; non è bravo chi non sbaglia, ma lo è chi, pur commettendo errori, cerca di cambiare. Poi mi sono ricordata di qualcos’altro. Signor giudice, una volta ho sentito da un’anima amareggiata che i tribunali giudicano solo le malefatte e non fanno differenza tra chi ruba per fame e chi lo fa per arricchirsi! Mi è stato detto che non ci si può fidare di un tribunale umano. Si può solo sperare nel giudizio divino. Allora io rammento a tutti, e anche a me stessa, che a Lui dovremo rendere conto. Dovrà rendere conto Danny che ha rubato, ma che ha deciso in cuor suo di spaccarsi la schiena piuttosto che rifarlo, di subire le conseguenze delle sue azioni perché oggi è qui e si è dichiarato colpevole. E si è ritrovato qui per aver salvato il paese da una rapina e, chissà... forse anche qualcuno dalla morte. Ma dovrete rendere conto anche voi, signor giudice!». A queste parole Hamilton fece un balzo sulla sedia. «Dovrete giudicare ed emettere la vostra sentenza tenendo conto di questo! E io confido che lo farete!». «Gra... Grazie signorina McArthur» disse Briston, sudando dalla testa ai piedi. Mary si accomodò tra il silenzio e gli sguardi di tutti. Il giudice sospirò e disse: «Bene... sono stati ascoltati tutti i testimoni?». «Sì, vostro onore» disse Briston tornato in sé. «D’accordo. Allora mi ritirerò per stabilire la sentenza. La seduta è tolta!» e così dicendo il giudice diede un colpo di martelletto e si alzò. Era ormai mezzogiorno quando la gente abbandonò l’albergo. Lo sceriffo condusse Danny in prigione e gli fu portato il pranzo.
Edward Buster si affrettò a raggiungere Trace Jones per parlargli. Susan l’osservò incuriosita, e non appena il marito le si avvicinò, lei gli chiese di cosa stesse parlando con quell’uomo. Lui fu vago e cambiò argomento. Mary si stava dirigendo verso il suo carro, quando si sentì chiamare: voltandosi, vide che c’era l’avvocato Harris che veniva verso di lei. «Signorina McArthur, volevo dirvi che io sto solo facendo il mio lavoro». «Lo so» rispose lei freddamente. «Spero che al vostro fidanzato le cose vadano bene». A quell’affermazione Mary si sentì più incline a usare un tono cordiale: «Vi ringrazio, signor Harris. Quando pensate che il giudice emetterà la sentenza?». «Credo nel pomeriggio. Comunque ora vado a pranzare. Ci vediamo». «Sì». Poi la ragazza raggiunse il carro e prese il cestino con il cibo. Lei e i suoi andarono nell’ufficio dello sceriffo per fare compagnia a Danny. La giovane cominciava a essere in apprensione per ciò che aveva detto nella sua testimonianza, si chiedeva se non avesse peggiorato le cose, ma Sam e Catherine cercavano di tranquillizzarla. I minuti scorrevano lenti sull’orologio, il tempo sembrava non are mai. Il silenzio delle prime ore del pomeriggio non lasciava spazio a distrazioni. I pensieri erano tutti concentrati sul giudice Hamilton e su ciò che avrebbe detto. Era difficile stare seduti su una sedia. L’unico sollievo sembrava essere camminare su e giù per la stanza, con il rumore dei tacchi sul legno del pavimento a scandire il tempo. Ogni muscolo, ogni nervo sentiva sempre di più lo sfibramento dell’attesa e solo la tensione impediva di lasciarsi andare a un sonno liberatore, abbandonando
tutti i pensieri. Lo sceriffo era uscito per un giretto di controllo, mancava ormai da una mezz’oretta, poi all’improvviso si sentì qualcuno correre ad aprire la porta dell’ufficio per entrare: era Tyler. «Ehi! Il giudice è pronto per la sentenza! Bisogna andare all’albergo! Devo scortarti, Danny». Quelle poche parole fecero scattare in piedi quelli seduti, come lo stesso Danny, e fermare di colpo chi camminava convulsamente su e giù per la stanza, come Mary. Dopo un attimo di smarrimento, i cinque uscirono e si diressero verso l’albergo. Anche la gente del paese stava entrando. Tutti, anche quelli che prima del processo gli erano contrari, sorridevano a Danny, lasciandolo are e lui si sentì meglio. Il tempo di sedersi e subito i presenti si dovettero alzare per l’ingresso di Hamilton. Quest’ultimo fece un cenno con il capo e ci un fragoroso rumore di panche che scricchiolavano sotto il peso di chi ci si risedeva. Il giudice aveva in mano un foglio, che rilesse con lo sguardo un paio di volte, mentre un leggero brusio si era sparso per la stanza. Finalmente Hamilton aprì bocca: «Daniel McNelly, alzatevi in piedi». Subito il ragazzo si alzò, insieme a Briston che gli stava accanto quasi più agitato. Il giudice continuò: «In merito all’accusa di rapina a mano armata vi siete dichiarato prontamente colpevole. Ciò che ho sentito qui mi ha convinto che nel periodo in cui avete commesso il reato la vostra situazione era particolarmente delicata. Dovevate far fronte a parecchi problemi. Avete cercato di porre rimedio ai torti del vostro patrigno e questo vi fa onore. Qui a Old Town avete sempre rispettato la legge e sono sicuro che anche al momento della rapina non eravate contento di ciò che stavate facendo...».
Quelle parole sembravano preannunciare un esito positivo, sembrava che il peso delle cose buone fatte da Danny avesse, oltre che uguagliato, anche superato quello delle cose cattive sulla bilancia della giustizia, ma il giudice non aveva ancora finito: «Tuttavia...» e qui fece di nuovo silenzio osservando i presenti, sui quali era caduto un velo di preoccupazione e ansia. «Tuttavia resta il fatto che voi avete rapinato una banca, avete commesso un reato che poi avete confessato solo trasportato dagli eventi. Dovete rendervi conto che, anche se avete salvato la vita di un uomo, avete messo in pericolo quella di altri cittadini e avete recato danno alla società. Perciò ritengo che, anche nel vostro interesse, voi dobbiate scontare una pena pari a due anni di detenzione presso il carcere dello stato. La seduta è tolta!». A quelle parole ci fu il caos, la gente si lasciò andare ai più svariati commenti e nella confusione generale solo chi aveva il cuore spezzato stava immobile senza dire niente. Danny stava in piedi cercando di prendere fiato, dietro di lui c’era Mary che non sapeva cosa fare, se non piangere. Catherine l’aveva presa tra le braccia e le sussurrava che sarebbe andato tutto bene. Poi Danny si girò e le sorrise, prima di dire: «È giusto così. Vedrai, Mary, due anni eranno in fretta» ma mentre pronunciava queste parole un nodo gli prese la gola e gli impedì di far uscire qualsiasi altro suono.
Pochi giorni dopo Danny sarebbe stato portato al carcere di Salina. Era un viaggio strano, senza bagagli, senza progetti, il buio era l’unica cosa che si presentava nel futuro. Il ragazzo aveva ato le ultime notti nella cella di Old Town pregando, cercando di trovare la pace e la forza di sopportare tutto e soprattutto implorando perdono. Pensava a Mary e sentiva che era una cosa orribile costringerla ad aspettarlo per due anni. Oltretutto chi avrebbe aspettato? Lo stesso uomo o un altro, cambiato?
Sarebbe ritornato da lei un avanzo di galera? Uno spettro di ciò che lei aveva conosciuto? Con questi pensieri in mente Danny si preparava a salutarla prima di esserle strappato via. Quella mattina erano andati a salutarlo i ragazzi del ranch, Tyler con sua moglie, il dottore e tutti quelli che avevano imparato a conoscerlo meglio. Susan Buster lo abbracciò e lasciò spazio al marito che doveva dirgli una cosa: «Sai, Danny, ho parlato con il signor Jones, che rappresenta anche gli altri commercianti con cui il tuo patrigno ha i debiti e mi sono messo d’accordo con lui per estinguere ciò che ti restava da pagare...». «Oh signor Buster, voi non dovete...». «Già fatto, Danny. E manderò un contributo anche all’orfanotrofio...». «Ma io non ho niente con cui ripagarvi! Ora mi sentirò in debito con voi!». «Se vuoi ripagarmi, torna Danny! Anche se quando uscirai di prigione ti sembrerà di non meritarlo! Anche se ti sentirai finito, torna! È l’unico modo in cui puoi ripagarmi! Sei come... come un fratello per me!» e detto questo abbassò la testa per non far vedere che i suoi occhi erano lucidi. «Grazie... Edward». I McArthur, uno a uno, l’avevano abbracciato e confortato, rinnovandogli il loro affetto. Billy non voleva più staccarsi dal suo collo e piangeva. Danny tenendoselo vicino gli sussurrò. «Ehi, quando ritornerò, sarai un uomo! Allora ti insegnerò tutto per essere un perfetto cowboy. Domerai i cavalli selvaggi meglio di me, vedrai!». Billy si mise a piangere ancora di più, Sam gli ò una mano sulla spalla e gli disse:
«Su, figliolo. Non vorrai che Danny vada via vedendoti piangere?! Fagli un bel sorriso e vedrai che gli servirà per questi due anni, lo farai stare meglio. Vuoi?». Il ragazzino annuì e sorrise all’amico che lo incoraggiò: «Bravo! E mi raccomando, sorridi ogni giorno! Me lo prometti?». «Sì, Danny!». Mary aveva deciso che quella mattina non avrebbe pianto, perché Danny l’aveva sempre vista con le lacrime agli occhi in quei giorni. La ragazza gli diede una lettera e gli disse: «Voglio che tu la legga quando sarai in prigione. Io ti scriverò». «Grazie, ma... sai Mary vorrei che tu non ti ossessionassi pensando a me, vorrei che vivessi serena questi due anni. Tu devi sentirti libera di vivere, Mary». «Che intendi dire?» disse lei alterata, ferita nei sentimenti. «Quello che ho detto! Non voglio che tu ti penta di avermi aspettato e...». «Non succederà! Mai!» rispose la ragazza rifiutando quelle parole. Dopo un abbraccio segnato da quelle ultime frasi, Danny salì sul carro, ammanettato e a capo chino si avviava verso l’ignoto.
CAPITOLO 10 – LA CURA DEL TEMPO
Erano ati sei mesi. Era febbraio e l’inverno quell’anno fu particolarmente freddo. La neve copriva tutto e il gelo chiudeva tutti in casa, perciò era strano ricevere una visita in quel periodo. Mary stava preparando una gallina da mettere nel forno e si compiaceva del calore che la stufa faceva in casa. Sentì un cavallo fermarsi nel cortile e guardò dalla finestra chi poteva essere arrivato. Con sua sorpresa vide che si trattava di Nicolas Harris, che scese da cavallo e dopo aver fatto i pochi scalini del portico sparì dietro la porta, bussando. La ragazza andò ad aprire. «Buongiorno signorina McArthur. Disturbo?» disse l’uomo, quasi temendo una risposta affermativa a quest’ultima domanda. «No. Accomodatevi» rispose Mary per educazione. Il giovane si guardò attorno, osservando quell’ambiente un po’ spartano per i suoi gusti raffinati. Si sfilò i guanti di pelle nera e li mise nella tasca del cappotto. Seguì l’invitò di Mary a sedersi. «Posso offrirvi qualcosa?» chiese la ragazza. «Accetto molto volentieri un caffè, grazie», «Bene. Dovete scusare il disordine signor Harris. Purtroppo i miei genitori sono a letto con l’influenza e mio fratello, che va a scuola, mi aiuta come può». «Sono sicuro che fate del vostro meglio. Anzi spero che i vostri genitori si rimettano presto». «Grazie» disse Mary sorridendo, mentre metteva sul fuoco il caffè. «Scusate... vi chiederete perché sono venuto qui. Il fatto è che stavo andando dai Buster e ho saputo che la vostra casa era per la strada così ho pensato di farvi
visita. Spero non vi abbia fatto dispiacere». «No, perché dovrebbe?» disse Mary, non volendo pensare a ciò che era successo sei mesi prima. «Vi sembrerà strano, ma mi sento in colpa per ciò che è successo». «Non dovete. Non eravate voi il giudice e comunque Hamilton ha solo applicato la legge». «Siete brava a parlare così, non tutti lo farebbero. Lo so per esperienza personale... posso farvi una domanda se non sono indiscreto?». «Sentiamo...». «Come avete ato questi mesi? Non dev’essere facile per voi vivere nell’attesa del ritorno del vostro... fidanzato». Mary era un po’ seccata da quella domanda, ma non voleva essere scortese. «Come dite voi non è facile, ma ho trovato nel tenermi occupata una buona medicina. Sapete, mi è stato offerto di fare temporaneamente la maestra a scuola. Quella che c’è adesso si sposerà tra pochi giorni e si trasferirà, è già la seconda nel giro di pochi mesi e gli studi dei bambini sono in ritardo...». «Sono felice per voi... avranno pensato che per due anni con voi vanno sul sicuro...». Harris si rese conto della sua battuta infelice, osservando la reazione sul volto di Mary e subito si scusò. Per cambiare discorso la ragazza chiese: «Come mai siete diretto al ranch Buster?». «Sto mettendo su una mandria e mi interesserebbe integrarla con altri capi, questa primavera. Vorrei già mettermi d’accordo con il signor Buster per acquistare delle bestie da lui». «Fate bene. Non ce ne sono di migliori nella zona e neanche più distante penso» e disse queste ultime parole per mortificare l’orgoglio di Harris per la sua mandria. Lui lo capì, ma pensò di meritarlo per la figura che aveva fatto prima.
Nel frattempo Mary gli aveva servito il caffè, che piacevolmente caldo aveva ristorato l’uomo dal freddo che aveva accumulato e lo preparava ad affrontarlo di nuovo. Dopo essersi congedato, uscì e salito a cavallo si diresse verso il ranch. Mary era rimasta molto stupita da quella visita e da quella conversazione. La ragazza sentiva il bisogno di scrivere a Danny. Pensò, però, che lui non aveva mai risposto alle sue lettere precedenti; questo la fece risentire e decise che, invece di mettersi a scrivere, avrebbe continuato a cucinare e nel pomeriggio sarebbe andata in città per accettare il posto di maestra. Qualche giorno dopo il signor Harris ritornò in una conversazione con Susan, che raccontò a Mary della sua visita al ranch. «Si è messo d’accordo con Eddie e ritornerà a primavera per prendere i capi».
Il lavoro di maestra era un’occupazione che, se fatta con ione, prendeva anima e tempo. Ogni bambino aveva i suoi pregi e difetti e ognuno di loro aveva bisogno di aiuto in qualcosa di diverso. Anche se Mary li aveva visti crescere, stare a contatto ogni giorno con loro glieli faceva conoscere in maniera più profonda. Dopo i primi giorni di incertezza e confusione, prese le redini della situazione in mano. Le fu molto utile sfogarsi con la madre e seguire i suoi consigli, perché anche Catherine aveva avuto l’opportunità di fare la maestra. I suoi studenti le davano soddisfazione e la facevano ridere ogni giorno. A volte rideva a crepapelle, e quando succedeva pensava che non le accadeva da tanto tempo e non era giusta questa cupezza nella sua vita. Nel contempo si sentiva impaurita di questo pensiero, quasi che la causa della sua tristezza fosse Danny. E non lo era? Fu in questo frangente che ai primi di aprile ritornò Harris, accompagnato da alcuni suoi mandriani che aiutarono quelli di Buster a radunare i capi acquistati. Gli uomini si sarebbero fermati a Old Town per una settimana. Mary aveva congedato i bambini ed era rimasta sola a scuola, seduta alla
cattedra, con il capo chino su un quaderno, a scrivere le attività della giornata e per organizzare la lezione del giorno dopo. Sentì dei i e alzò la testa. In fondo all’aula c’era Harris, vestito di tutto punto e con in mano un mazzo di fiori colti in campagna, freschi e profumati. «Permesso» fu ciò che disse. «Avanti!» rispose Mary. «Ho raccolto questi per voi» disse con sicurezza l’uomo, porgendole i fiori. «Grazie. Proprio stamattina ho dovuto buttare via quelli vecchi, che mi avevano portato i bambini». Così dicendo, prese i fiori e li mise nel vaso che era sulla cattedra. «Venite, andiamo fuori. Vi va di fare due i?» chiese la maestra. «Certo!». eggiando sul prato, che poche ore prima era stato percorso da bambini urlanti e allegri, Mary chiese: «Allora avete comprato i capi di bestiame?». «Sì, sono molto soddisfatto. E voi? Come procede la vostra esperienza di insegnante?» «Molto bene! Non immaginavo potesse essere così soddisfacente! Ma anche così impegnativo!». Harris rise: «Credo sia più facile fare l’avvocato! Andate a casa?». «Sì, ho qui Wild». «Wild?». «Sì, il mio cavallo».
«Mi permettete di accompagnarvi?». Quando Mary accettò non immaginava che Harris avesse il calesse, così dovette legare Wild dietro, con disappunto di quest’ultimo. Durante il viaggio ci furono lunghi periodi di silenzio, nei quali Mary osservò il suo accompagnatore. Era alto, di bell’aspetto. I capelli scuri e curati, le basette perfette. Gli occhi di un azzurro intenso, una cosa non aveva: gli occhiali che di solito portava. Erano infilati nel taschino del gilè. Aveva così un’aria meno severa e distante, più cordiale, più umana. Arrivata a casa, Mary stava per scendere da sola, ma fu prontamente aiutata dall’avvocato. «Grazie, signore Harris». «Chiamatemi Nicolas. Io posso chiamarvi Mary?» chiese Harris con voce dolce. «Certo» rispose lei, con una nota di fastidio, dato dall’imbarazzo di quella vicinanza. «Io vado. Salutate i vostri genitori». «D’accordo e grazie ancora». La ragazza entrò e tutta la sua famiglia seduta a tavola per il pranzo la stava osservando. Lei non disse niente, ma il suo sguardo fu molto severo e andò in camera sua. «Forse dovrei andare da lei» disse Catherine. «Per esporre la tua opinione o la tua preferenza? È bene che Mary prenda da sola la sua decisione. È ancora libera di farlo». «Decisione riguardo a cosa?» chiese Billy alterato. Ormai il piccolo McArthur non era più un bambino e certe cose le capiva, ma non le accettava.
«Danny ritornerà e Mary lo sposerà!» disse quasi urlando, per poi alzarsi e correre fuori. «Billy è un ragazzo leale...» continuò Catherine. «Perché Mary no?! Ti ricordo quello che ti ho detto anche l’altro giorno. Danny non le risponde, anche se sappiamo che ha la possibilità di farlo. È crudele e se non lo fa è proprio per paura di queste situazioni». Catherine sospirò, si alzò e disse mestamente: «Non ho più fame».
Da allora le visite di Nicolas divennero più assidue, ogni quindici giorni si presentava a scuola. Con i bambini più piccoli un giorno preparò una sorpresa per Mary. Cantarono una canzone e poi le regalarono un bellissimo scialle di pizzo. Mary era commossa e abbracciò tutti i bambini. Le conversazioni dei due ragazzi vertevano sul più e sul meno: gli animali, la natura, il lavoro. Poi la scuola finì e a causa di vari processi Nicolas non poteva venire regolarmente. Mary soffriva la solitudine, dopo essersi per lungo tempo adagiata a star sola, ora sentiva un vuoto. Spesso si ritrovava in fienile, nel suo rifugio di sempre, a piangere perché non sapeva cosa fare, i suoi sentimenti erano confusi ed era stanca di lottare. La libertà a cui l’aveva incoraggiata Danny era crudele e terrificante. Era agosto, era ato esattamente un anno dal processo e tutto sembrava confuso e distante, il caldo accentuava quella sensazione di oblio. In quei mesi Mary non parlava molto in famiglia, si sentiva giudicata e condannata, specialmente da Billy, con cui i rapporti erano incrinati. Lo si vedeva dalle continue discussioni per ogni piccola cosa. La ragazza si sentiva abbandonata. Una mattina giunse a casa Nicolas, che fu accolto con gioia da Mary. Lui le chiese se potevano eggiare un pò, perché doveva parlarle.
Così, dopo dieci minuti a conversare di ciò che avevano rispettivamente fatto in quel periodo, Harris iniziò il suo discorso: «Credo che, dopo tutti questi mesi, sia ora di parlare seriamente, cara Mary. Mi sento quasi sleale, perché vi ho conosciuto quando eravate legata a qualcun altro, ma mi chiedo e vi chiedo se è ancora così. Perché io provo affetto per voi e vi sto chiedendo se posso sperare in qualcosa di più della vostra amicizia». Mary sapeva che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata, ma non era abbastanza pronta a sentirla, l’unica cosa che riuscì a dire fu: «Vi ringrazio. Dovete darmi tempo, vi prego. Devo pensare». «Certo, lo comprendo» rispose serenamente Harris, avendo già previsto cosa sarebbe uscito dalla bocca di Mary. I due ritornarono verso casa e Nicolas lasciò Mary nei suoi pensieri. La ragazza entrò e stette in silenzio fino all’ora di pranzo. Poi, con tutti presenti, anche Billy che era ritornato dal ranch Buster doveva aveva iniziato a fare qualche lavoro, disse: «Nicolas Harris mi ha chiesto di sposarlo». L’annuncio fu pietrificante. Sam prese la parola, schiarendosi la voce e dandosi un tono controllato: «Capisco, cara. E tu cosa gli hai detto?». «La verità: che devo pensarci. Sapete, sono...» stava per dire che era molto confusa, ma subito fu interrotta dal fratello: «Non posso crederci! E così tradirai Danny!». «Billy non si tratta di questo!» si difese lei. «Sì invece!». «Ora smettila! Smettetela tutti! Non potete dirmi quello che devo fare con la mia
vita! Cosa devo pensare e chi devo amare!». Mary corse fuori, sellò Wild e fece quello che da tanto tempo non faceva. Cavalcò, e ancora e ancora. Wild andava da solo e alla fine giunse al ranch Buster. Mary stava piangendo, ma la vista di quella casa e il pensiero di chi ci abitava la confortò. Subito entrò in casa e si mise a chiamare nell’agitazione sua cugina Susan, che venne fuori dalla sala da pranzo con Eddie. Vedendola sconvolta, i due subito la accompagnarono a sedersi su una poltrona e si fecero raccontare l’accaduto. Eddie e Susan si guardarono e lui disse: «Sai, Mary. Hai ragione. Sei tu che devi decidere cosa fare. Ma ti comporterai in maniera giusta verso Danny, Harris e soprattutto verso te stessa se analizzerai attentamente i tuoi sentimenti e perché sei arrivata a questo punto. Ti manca Danny?». «Terribilmente! Ogni giorno di più!». «Allora lo ami ancora?» chiese Susan, con una voce piena di speranza. «Sì, certo. Ma forse vedo me stessa in maniera diversa. Credo che dentro di me pensassi di essere graziata per il fatto che qualcuno mi amasse. Credevo che nessun altro, oltre a Danny, potesse provare qualcosa per me!». «E tu ne sei lusingata?» chiese la cugina, accarezzandole i capelli. «Sì, ma nulla più. Sapete? Prima di venire qui, ho lasciato Wild correre dove voleva e sono capitata nei posti dove mi trovavo sempre con Danny. Allora mi sono resa conto di quanto mi mancassero le nostre conversazioni, il coraggio che sapevamo infonderci a vicenda... ma non capisco perché in tutti questi mesi ha rifiutato qualsiasi contatto!». «È giusto che io ti dica una cosa, Mary.» disse Edward, «Sono tornato ieri da un viaggio, tu lo sai. Sono stato a trovare Danny...». «Cosa?! E come sta? Sta bene?» chiese a raffica la ragazza, presa da una nuova ansia.
«Sì, sì sta bene. Mi ha detto che ha tutte le tue lettere e che le legge e le rilegge. È stata molto dura per lui scegliere di non risponderti, ma voleva lasciarti libera di fare la tua scelta. Ora hai affrontato questa prova e la supererai continuando ad amarlo. Io ti consiglio di scrivergli una lettera in cui gli racconti di Harris, di tutto ciò che è successo. Gli farai capire che nulla è cambiato e vedrai che allora lui ti risponderà e il prossimo anno tornerà da te!». Quelle parole parvero così curative per l’animo abbattuto della ragazza. Mary non finiva più di ringraziare i suoi amici. «Perché non resti un po’ di giorni qui al ranch? Per distrarti» chiese Susan. «Ti ringrazio, ma ritornerò subito a casa, perché devo chiarire alcune cose con la mia famiglia». Quella sera Mary spiegò tutto ai suoi genitori e a Billy. Quest’ultimo si scusò sinceramente per il suo comportamento e per non essersi messo nei panni della sorella. Due giorni dopo arrivò Nicolas, che Mary aveva chiamato con un telegramma. «Vieni, entra in casa» gli disse Mary. «Allora, hai pensato alla mia proposta?». «Sì, ne sono stata molto lusingata, davvero. Sei un brav’uomo. Ma... non posso accettare. Non posso dirti di sì, perché sono innamorata di un altro uomo». «Capisco» disse mestamente Harris. «Sai? Un po’ me lo immaginavo. Mi dispiace se in qualche modo ti ho recato problemi, non era mia intenzione». «Non preoccuparti. Forse non ti sarà tanto di consolazione, ma con la tua proposta ho analizzato meglio i miei sentimenti e ora non ho più i dubbi e i tormenti che avevo prima». «Ti auguro ogni bene e spero che Danny ritorni» concluse Nicolas con la voce velata e gli occhi lucidi. Appena Harris se ne fu andato, Mary corse in camera sua: prese carta, penna e calamaio con inchiostro e scrisse a Danny. Non tralasciò niente, gli descrisse
quei mesi con cruda sincerità, gli parlò dei suoi sentimenti ora più decisi che mai e lo supplicò di risponderle. Il giorno dopo affidò nella mani di Steel la busta tanto preziosa. Ora non le restava che attendere, ancora una volta.
Era una piacevole mattina di settembre, Catherine e Mary erano in paese per comprare le provviste. Il signor Steel, dal suo ufficio, correva per le varie botteghe in cerca della ragazza, perché poco prima l’aveva vista are per la strada. Finalmente la trovò, mentre stava esaminando le finiture di un vestito. Riprese fiato e le se avvicinò: «Mary, questa è per te» e le porse una busta. La ragazza sorrise, finalmente Danny le aveva scritto! Appena le due donne furono arrivate a casa, Mary corse nel fienile a leggere la lettera. Con le mani tremanti dalla fretta aprì la busta e ne trasse fuori il contenuto. Con occhi avidi lesse e rilesse più volte le frasi che tanto aveva aspettato:
«Mia amatissima Mary, è una gioia per me poterti scrivere. Ti chiedo perdono per non averlo fatto prima, non sai quanto in questi mesi avrei voluto risponderti, ma la tua ultima lettera mi ha confortato, perché ho capito che la mia decisione non è stata del tutto negativa. Leggo e rileggo tutte le lettere che mi hai scritto fin qui. Quanto mi confortano! Non lo puoi immaginare! Mi danno la forza di resistere. Qui non succede molto che valga la pena di raccontare, ti rattristerei troppo se ti parlassi nei particolari della vita in prigione. Qui gli uomini arrivano e muoiono. Ci portano ai lavori forzati.
Le guardie fortunatamente tengono conto della mia gamba e io cerco di ricambiare facendo del mio meglio. L’altra notte c’è stato un tentativo di evasione. Sono contento di non aver mai abbracciato quest’idea, tutti quelli che hanno provato a scappare sono stati uccisi. Io invece conto i giorni che mi separano dalla libertà e da te. Spero che a casa stiano tutti bene, abbraccia la tua famiglia e i Buster da parte mia. Mi raccomando, non piangere! Io tutto sommato sto bene. Resisterò, tu me ne dai la forza. Non smettere di scrivermi, anch’io ti risponderò quando me ne sarà data l’opportunità. Sai, qui il collegio è un po’ severo. Sono riuscito a scrivere a Lisa e Chris. Mi mancano, ormai non so neanche più che faccia hanno. Ma all’orfanotrofio sono al sicuro. Vorrei chiederti una cosa. Quando uscirò di qui, vorrei ricongiungermi con loro, vorrei portarli a casa con me. Secondo te, potrò dargli ciò di cui hanno bisogno? Sogno e prego di riabbracciarti presto. Ti amo. Danny» Mary non poteva smettere di piangere e di stringere a sé quei fogli. Era così felice, il suo cuore scoppiava di gioia, anche se era attraversato da aghi di malinconia. La risposta alla domanda di Danny arrivò con la lettera successiva: Mary e tutti gli altri avrebbero accolto i fratelli di Danny con gioia e dando loro tutto l’aiuto necessario. La ragazza contava i giorni che mancavano all’agosto del 1883, anche se non sapeva di preciso quando il suo amato sarebbe tornato.
CAPITOLO 11 – GIORNI DI SORPRESE
Intanto il vento di un altro inverno stava soffiando su Old Town, con la sua aria fredda, limpida e pura. A inizio febbraio la neve e il ghiaccio erano ancora dominanti, ma il sole offriva il suo calore tiepido e rilassante e la sua luce. Susan era sotto le coperte e non aveva alcuna intenzione di alzarsi. Edward si era già alzato da un po’, ma aveva lasciato le tende chiuse. Intanto si era fatto preparare una bella colazione da portare alla sua sposa. Quando fu in camera appoggiò il vassoio su un tavolino e aprì leggermente le tende per far entrare la luce. La donna mugugnò. Edward rise: «Avanti! Alzati! Ti ho anche portato la colazione, cosa vuoi di più?!». «Dormire!» rispose lei contrariata, ma non poteva opporsi così stiracchiandosi si mise a sedere sul letto e si fece portare la colazione. Edward si sedette sul bordo del letto, guardando la moglie che sorseggiava il tè. «Mi viene in mente il giorno che ti chiesi di sposarmi... sembra incredibile, ma è ato più di un anno. Da allora ogni mio giorno è stato pieno, tu hai reso completa la mia vita». Susan sorrise piena di orgoglio, mentre gustava una fetta di torta, ma subito dopo nel suo viso si disegnò una strana smorfia. «Che ti succede, cara?». «Avrei voluto dirtelo in altra occasione, ma... sono stata dal dottor Hill ieri». «Dal dottore?! Che c’è? Non stai bene, forse?» chiese lui con apprensione. «Sto benissimo! Solo che... aspetto un bambino!» disse tutto d’un fiato Susan. Edward la guardò stranito come se non avesse capito il significato di quelle
parole, come se non sapesse che cos’è un bambino. «Eddie? Hai capito cosa ho detto?» chiese Susan stupita. Lui era lì con la bocca aperta, i suoi occhi giravano da una parte all’altra. Poi si alzò dal letto e cominciò a vagare per la stanza. «Un bambino?!». «Sì!». «Un figlio?». «Sì!». «Mio figlio!» urlò Eddie, prima di correre ad abbracciare Susan, rischiando di rovesciare tutto il vassoio per terra. «Ora tu ti dovrai riposare, non ti farò mancare niente! Dirò al dottore che venga a visitarti ogni giorno e...». «Ogni giorno?! Eddie non è una malattia, non ho bisogno...». «E poi inizierò a preparare la sua stanza... potrei far sistemare la mia vecchia stanza...». E così l’uomo continuò a parlare da solo di progetti e premure e Susan scuotendo la testa lo lasciò fare, sperando che i giorni successivi alla notizia sarebbero stati meno confusionari. Il giorno dopo a cena erano invitati i McArthur e così anche a loro fu data la lieta notizia. Era una cosa meravigliosa! Un bambino che avrebbe impegnato e occupato intere giornate, che avrebbe richiesto sforzi e sacrifici, un bambino che sarebbe stato ricoperto di amore ancor prima di nascere. Mary e sua madre erano già disposte a dare tutto l’aiuto necessario. Edward era letteralmente impazzito. Quando si trovava in paese assillava di domande il dottore, che non ne poteva più. Così, quando vedeva il futuro padre
che veniva nella sua direzione, si nascondeva nel primo negozio o casa del paese che riusciva a raggiungere. Susan non aveva alcun problema, stava benissimo e riusciva, almeno per i primi mesi, a svolgere le attività di sempre, purché Eddie non se ne accorgesse. Altrimenti le avrebbe detto di riposarsi e non fare alcun sforzo. La ragazza non immaginava che l’aspettare un figlio le avrebbe permesso di scoprire altri aspetti del carattere di suo marito, soprattutto non pensava che avrebbe ispirato in lei tanta pazienza e sopportazione. Mary, sotto richiesta di Edward, era spesso al ranch, per dare una mano alla cugina, che si sfogava. «Se fosse per Eddie, dovrei stare sempre a letto!». «Che noia! È più apprensivo lui di te... sta assillando tutti! Il dottore, il falegname per la camera del bambino!». «Già, io gli ho detto che bisogna aspettare che nasca! Per sapere di che colore fare le pareti e i mobili! Ma lui...». La nascita di colui che stava creando tanto scompiglio ancor prima di venire al mondo era prevista per settembre. Man mano che i mesi avano, la pancia di Susan diventava sempre più grossa e lei aveva sempre più fame. Ora, anche senza le insistenze del marito, doveva stare gran parte del tempo a riposo, su una poltrona o a letto. A volte la povera ragazza si lasciava andare a un pianto liberatorio per tutte le tensioni e le paure che la gravidanza comportava. In cuor suo, sperava che le settimane che la separavano dal parto assero in fretta. Nel contempo si chiedeva se sarebbe stata una brava madre.
Era il 20 settembre del 1883. Il cielo era nuvoloso, carico di pioggia, ma nessuna goccia aveva ancora bagnato il suolo. Quell’anno l’estate era stata particolarmente arida, e anche a settembre non aveva ancora piovuto abbondantemente come tutti speravano. Quel giorno sembrava la volta buona. Ma al di là della preoccupazione per il tempo atmosferico, al ranch Buster, dal
più umile bracciante fino al padrone di tutte quelle terre, bestie e ricchezze, erano in attesa per la nascita del bambino di Susan. Il dottor Hill era nella stanza della ragazza fin dal primo mattino, svegliato da uno degli uomini di Buster, che era andato a casa sua per avvisarlo che la donna aveva le doglie. Mary e Catherine erano lì per assistere il dottore e per rassicurare Susan. «Zia» disse la ragazza in un bagno di sudore, con i capelli che, avvolti in una treccia, lasciavano cadere qualche ciocca sulla fronte e sul viso bagnati «è tanto doloroso partorire? Tu l’hai fatto due volte». «Non posso mentirti. Sì, è doloroso. Ma poi tutto a in un attimo quando vedi il tuo bambino. Vedrai che andrà tutto bene». Mary le asciugava il viso e chiese al dottore se era possibile aprire un po’ le finestre per far entrare aria fresca. Mentre le apriva, osservò che tutti gli uomini erano fuori delle baracche con il naso rivolto verso la stanza dov’erano loro. Mary fece loro un cenno che per il momento stava andando tutto bene. Il dottore era il più sereno di tutti. Sapeva che agitarsi non serviva a niente, anzi poteva solo essere dannoso in caso di complicazioni. Hill, previdente, aveva ordinato a Edward di prendere dei leggeri calmanti, così l’uomo che per tanti mesi l’aveva tormentato si trovava in un angolo della stanza, sulla poltrona, e se ne stava col capo chino sostenuto da una mano, il cui braccio si appoggiava sulla gamba. Non diceva niente, sembrava in un silenzio concentrato, di preghiera. Le doglie diventavano sempre più frequenti e i dolori sempre più forti. Susan cercava di non urlare, ma non poteva. La sua voce, senza controllo, usciva per liberarla dal dolore. Il dottore la invitava a respirare e controllava a che punto era il parto. «Ci siamo quasi! Ancora un piccolo sforzo, Susan!». «Eddie!» urlò lei a denti stretti. Il marito, chiamato in soccorso, arrivò subito dalla sua amata, per tenerle una
mano. L’uomo si ritrovò l’arto stritolato e intorpidito nella morsa di quella piccola mano, che non credeva avrebbe mai potuto avere tale forza. «Bene, Susan! Vedo la testa! Ancora una spinta!... Brava! Ancora un’altra!». Susan provò un sollievo indescrivibile. Le braccia del dottore uscirono da sotto il lenzuolo con un esserino rosa intenso, che piangeva e si dimenava. Con l’aiuto di Catherine lo avvolsero in un lenzuolino e lo misero sul lettino preparato lì vicino, per tagliarli il cordone ombelicale. «È una bambina!» disse Catherine. Susan sorrise, ma subito dopo il suo viso ricominciò a contorcersi nella morsa del dolore: le doglie ricominciavano! «Oh, per la miseria!» esclamò il dottore. «Un altro bambino!». E così ricominciò la tortura nell’incredulità generale, mentre Mary accudiva la bambina già nata e tutti gli altri erano concentrati sul nuovo parto. Fortunatamente per Susan le cose andarono bene. Non ebbe complicazioni e dopo un altro sforzo, che la lasciò sfinita sul letto, riuscì a mettere al mondo una seconda creaturina identica alla prima. In quegli istanti la pioggia aveva iniziato a scendere con goccioloni che colpivano il terreno arido e che venivano avidamente assorbiti. L’acqua veniva giù sempre più copiosamente e ora dalle finestre semiaperte, da dietro le tende, entrava una brezza leggera che colpiva i volti sudati, stanchi e felici dei presenti. Le due bambine erano ora in braccio ai genitori e dormivano tranquillamente; una la teneva Susan e l’altra Edward. «Che nomi gli darete?» chiese il dottor Hill, che non vedeva l’ora di sapere come chiamare qualcuno che aveva fatto venire al mondo. «Non lo sappiamo ancora» disse Susan sorridendo alla figlia. «Beh, ci penserete!» concluse allegramente Sam, che era entrato con Billy a fatica compiuta.
Tutti ridevano e ammiravano le nuove arrivate. Anche se uguali, ognuna di loro era bellissima in modo diverso. Mary si scostò un attimo dal gruppo che attorniava il letto, perché si stava commuovendo. Si avvicinò a una finestra e spostò la tenda da un lato. La pioggia continuava a scendere in maniera tale da rendere il paesaggio fosco come se ci fosse stata la nebbia. Gli uomini erano andati a ripararsi nelle baracche, ma Mary vide uno di loro correre verso casa per avere notizie. Sorrise al pensiero che quegli uomini, apparentemente duri, avevano in realtà un cuore di burro. Il suo sguardo percorreva tutto l’orizzonte, quando qualcosa catturò la sua attenzione nel viale alberato, vicino all’entrata del ranch. Non vedeva bene con un occhio solo e quella pioggia, così fissò più attentamente quel punto. Un carretto con due figure nascoste sotto un telo per ripararsi dall’acqua stava procedendo per il viale. Il cavallo era accompagnato a piedi da un uomo dall’andatura zoppicante. Osservando questo, Mary ebbe un lampo al cuore. Si portò una mano alla bocca, mentre il suo respiro si faceva agitato. Uscì di corsa dalla stanza senza dire nulla, lasciando tutti sorpresi. Fece le scale a rotta di collo, spalancò la porta e uscì fuori. Corse per attraversare il cortile inzuppato d’acqua, lei stessa dopo poco era già fradicia, ma non le importava. Troppa era stata l’attesa, troppo il tempo che aveva sofferto e sopportato quella lontananza. L’uomo che stava guidando il cavallo si fermò alla vista di quella figura che gli correva incontro. Lasciò le briglie dell’animale e cominciò a correre anche lui, come poteva, strascinando quella gamba, coprendo le sue scarpe logore con il fango. Il cappello gli volò via. Mancavano ancora pochi metri. Mary inciampò e cadde sporcandosi il vestito e il viso con schizzi di fango. Stava piangendo. L’altro le se avvicinò, la guardò e poi si chinò per terra come lei. «Danny!» fu l’unica cosa che riuscì a dire lei prima di abbracciarlo. Era così strano riaverlo tra le braccia. Mary poteva sentire la sua magrezza, colpa
del poco cibo squallido della prigione e del duro lavoro. Nuove cicatrici percorrevano le sue mani. Il suo viso, sotto la barba, nascondeva nuove rughe, ma i suoi occhi erano quelli di sempre: vividi, caldi, e, ancora una volta, pieni di lacrime. Danny si ricordò di non essere solo. Si alzò aiutando Mary a fare altrettanto e insieme andarono verso il carro. Sotto il telo un ragazzo e una ragazza avevano osservato tutta la scena, sorpresi e commossi. Erano Lisa e Chris. Danny e Mary portarono il carro davanti casa e prima di entrare si resero conto di come erano conciati tutti e quattro. Si misero a ridere e stavano sotto il portico, davanti alla porta. Questa venne aperta d’improvviso e ne uscì Eddie che abbracciò Danny e disse a tutti di entrare. Subito furono accolti da Sam, Catherine, Billy e dal dottor Hill. Finalmente ora erano tutti insieme. I quattro si cambiarono. Mary mise un vestito di Susan, Eddie ne diede uno dei suoi a Danny, mentre Lisa e Chris avevano i loro nella valigia che avevano portato dall’orfanotrofio e che per fortuna era stata ben riparata nel carretto con un altro telo. Sam e Catherine erano fuori di sé dall’emozione. Tutti quegli eventi in un giorno solo erano una cosa speciale. Nel pomeriggio la pioggia era ormai cessata ed era spuntato il sole. Dalle foglie degli alberi ormai ingiallite cadevano gocce d’acqua che sulle pozzanghere sottostanti formavano perfette increspature concentriche. Gli uccellini avevano ripreso a cinguettare e a lavarsi nelle pozze, allegri e giocosi. I McArthur stavano tornando a casa, insieme ai nuovi arrivati, che però non potevano alloggiare da loro per ovvie ragioni di spazio. Edward aveva detto a Danny che in casa sua c’era una camera per lui e i suoi fratelli. Danny non voleva privare Lisa e Chris di questa comodità dopo tanti anni chiusi in un orfanotrofio e, in cuor suo, fu ben lieto di accettare dopo due anni ati su una dura branda in un carcere. Viaggiando verso casa di Mary, il ragazzo raccontò alcuni particolari del suo viaggio: «Ovviamente prima di venire al ranch Buster mi ero diretto a casa vostra, Mary,
ma non trovando nessuno ho pensato che foste da Edward, dato che mi avevi scritto della gravidanza di Susan!». «Che gioia indescrivibile quelle due bambine!». Danny proseguì dicendo: «Uscendo dal carcere ho trovato ad aspettarmi Nicolas Harris...». «Harris?!» chiese Mary sorpresa. «Sì, proprio lui. Abbiamo parlato di quello che era successo qui, con te. Mi ha procurato il carro e il cavallo per poter andare a prendere Lisa e Chris...». «È stato un gesto gentile da parte sua» disse la ragazza voltando il viso verso l’orizzonte per celare il suo imbarazzo e la sua vergogna. «Ancora non so cosa ho fatto per meritarti, Mary!» disse calorosamente Danny, capendo i sentimenti della ragazza. Lei si voltò verso di lui e lo guardò dritto negli occhi, poi disse: «Hai creduto in me quando nessuno lo faceva, mi hai dato coraggio, mi hai fatto crescere, mi hai aiutata maturare». «E tu mi hai aiutato ad avere fiducia negli altri, quando non ne avevo più ormai. E quando stavo male mi hai curato senza volere nulla in cambio, mi hai dato la forza di ricominciare e di cambiare».
CAPITOLO 12 – COSA VUOL DIRE AMARE
Era una splendida mattina di primavera, per la precisione era il 20 aprile 1889 e a Old Town la gente era più allegra del solito. Il prato usato pochi giorni prima per la consueta festa annuale era stato sistemato con delle panche a cui erano stati legati dei bei fiocchi bianchi. L’erba emanava un profumo piacevole e rilassante. Dei bambini correvano a piedi scalzi per assaporarla meglio. Furono però presto richiamati all’ordine dalle rispettive madri, perché il momento del matrimonio si stava avvicinando. A casa McArthur, Catherine fremeva di impazienza. «Insomma cara! Dopo due matrimoni non ti sei ancora abituata!» sospirò Sam. «Perché tu forse sì?! E poi per ogni figlio l’emozione si rinnova!» ribatte la donna. Finalmente la porta di una stanza si aprì e ne uscì fuori Billy, vestito di tutto punto. «Oh, stai benissimo tesoro!» esclamò entusiasta la madre dello sposo. «Mamma... non occorre che ti agiti tanto... Lo sono già abbastanza io!». Sam si alzò dalla sedia su cui aveva tranquillamente atteso il figlio e andò ad abbracciarlo. «Ormai hai vent’anni, Billy, ma per noi sarai sempre il nostro cucciolo!» disse questo non senza commuoversi. «Ora rimarrete soli in questa casa...» aggiunse lo sposo. «Oh non saremo mai soli. Abbiamo due splendidi figli che ci vogliono bene!». «E siamo nonni e prozii!» aggiunse Catherine. «Sì, questa casa si riempe di gioia e vita quando ci sono David, Elisabeth e Rose» disse Sam. «Ma forse è meglio che andiamo adesso. Lisa è la sola a cui un
ritardo sarebbe perdonato». La sposa stava ultimando gli ultimi preparativi nella sua stanza. Viveva lì ormai da sei anni. Era andata a vivere, insieme a Chris, da Danny e Mary quando questi ultimi, nel 1883, si erano sposati un mese dopo il loro arrivo. La casa era costruita su un appezzamento di terreno che Edward aveva affittato a Danny. Era solida e con un po’ di lavoro da parte di Mary era stata resa una dimora più che accogliente. Aveva tre stanze e una cucina; in questo assomigliava a casa McArthur. Danny aveva continuato a lavorare per Buster. Con Edward stavano mettendo su l’allevamento di cavalli più pregiato dello stato, bestie bellissime che erano vendute a ricchi proprietari terrieri che si occupavano di corse di cavalli. I cavalli di Buster avevano vinto molte corse e questo non faceva che aumentarne il valore. Parte del ricavato andava anche a Danny, che aveva potuto apportare molte migliorie alla casa. L’aveva verniciata di bianco e aveva ampliato il portico, mettendoci un dondolo, su cui nelle sere d’estate lui e Mary avevano a lungo ammirato le stelle e la luna che illuminava dolcemente il paesaggio. Un anno dopo il loro matrimonio era nato David. Ora era un bambino vivace e allegro di cinque anni, con i capelli rossi e gli occhi azzurri. Correva per tutta la casa, si arrampicava su qualsiasi cosa richiedesse una dimostrazione di abilità in questa disciplina. Le sue cugine, Elisabeth e Rose Buster, erano vivaci quanto lui e più di qualche volta i tre si erano messi nei guai entrando nei recinti dei cavalli. Edward correva loro dietro mezzo arrabbiato e mezzo divertito perché non riusciva a prenderli e si ritrovava spesso buttato nel fieno con i tre bambini che lo sottoponevano alla temibile tortura del solletico. Lisa Olsen, la sorella di Danny, in quei sei anni era stata spesso in compagnia di Billy. ando gli anni dell’adolescenza insieme avevano sviluppato caratteri affini e complementari. Si erano accorti che a legarli era più che la semplice amicizia. Il giorno del matrimonio erano circondati dai loro affetti più cari. Billy, i capelli neri che brillavano al sole e gli occhi espressivi pieni di gioia ed emozione, guardava Lisa pronunciando la formula che li avrebbe uniti per il resto dei loro giorni. Lei era stordita e felice. I lunghi capelli biondi si muovevano dolcemente in risposta alla brezza leggera che soffiava. Dopo la cerimonia, mentre con parenti e amici più intimi mangiavano qualcosa al ranch Buster, i due sposi si alzarono in piedi e chiesero l’attenzione di tutti.
Billy si schiarì la voce per pronunciare un breve discorso: «Vorremmo dire grazie a tutti voi che siete qui. A mio padre e a mia madre, che hanno sempre sacrificato per me e Mary. Mi hanno sempre dato l’amore e il sostegno di cui avevo bisogno e so che quando avremo bisogno di un riparo dalle difficoltà della vita potremo sempre rivolgerci a voi. Vorremmo essere per voi quello che siete stati per noi: una casa, un rifugio, un fuoco nel gelo. E in questo so di esprimere i pensieri di Daniel e Mary, di Edward e Susan e dei bambini... vorrei ringraziare Eddie e mia cugina per il lavoro che mi hanno sempre dato e per la possibilità di imparare tante cose qui al ranch. Ma più di tutti vorremmo, Lisa e io, ringraziare due persone che ci hanno permesso di essere qui oggi. Sì, riflettendoci spesso con mia... mia moglie...» e qui Billy si fermò visibilmente emozionato «riflettendoci spesso, abbiamo capito che se Mary e Danny non avessero lottato per essere uniti, noi non ci saremmo mai potuti conoscere. Avete lottato contro i vostri stessi sentimenti negativi, i vostri difetti, contro la vita che vi ha girato le spalle più volte e spero solo di aver imparato da voi cosa vuol dire amare: significa soffrire, di una sofferenza a volte consumante e delirante; significa sacrificarsi, significa andare contro ad avversità che a volte spingono a pensare che sarebbe stato più facile essere da soli... Ma quando riesci a fare tutto questo, ti senti un calore nel cuore che niente, se non la certezza di essere amati, può dare e ti senti ripagato di tutto ciò che hai dovuto dare e non lo consideri un peso. Io credo che amare significhi questo e ne ho un esempio lampante in voi due. Grazie!». Mary strinse la mano di Danny per tutto il tempo in cui queste parole venivano pronunciate. Sì, amare per loro due era stato ed era tuttora questo e guardando David sorridergli sapevano che ogni sacrificio, ogni lacrima versata e che ancora in futuro sarebbe stata versata, valeva la pena di essere compiuto. Così si conclude questa storia, non certo perché non ci sia da raccontare altro della vita di queste persone, che non sono supereroi né hanno fatto cose straordinarie agli occhi del mondo, ma perché ho raggiunto in parte uno scopo: quello di trasportare, seppure nella fantasia, emozioni comuni a tante persone, come a me, e che a volte non si riescono a spiegare che attraverso un foglio di carta, dentro alla vita di personaggi creati e cresciuti nel pianeta “mente”.
Indice
LUNGO LA STRADA DI CASA
CAPITOLO 1 – OLD TOWN CAPITOLO 2 – NUOVI ARRIVI CAPITOLO 3 – UNA CONVERSAZIONE INSOLITA CAPITOLO 4 – LA CORSA CAPITOLO 5 – INCOMPRENSIONI CAPITOLO 6 – JOHN E CHARLES CAPITOLO 7 – FERITE E GUARIGIONI CAPITOLO 8 – UNA NUOVA VITA CAPITOLO 9 – DAL ATO CAPITOLO 10 – LA CURA DEL TEMPO CAPITOLO 11 – GIORNI DI SORPRESE CAPITOLO 12 – COSA VUOL DIRE AMARE