David Safier L’ORRIBILE KARMA DELLA FORMICA
Capitolo 1
IL giorno in cui morii non fu affatto divertente. E non solo a causa della mia morte. A voler essere precisi, in effetti, l'evento si conquistò appena il sesto posto nella classifica dei momenti più spiacevoli di quella giornata. Al quinto andò l'attimo in cui Lilly mi chiese con sguardo assonnato: «Perché oggi non rimani a casa, mamma? È il mio compleanno!» La prima risposta che mi ò per la testa fu: Se cinque anni fa avessi saputo che il tuo compleanno e l'assegnazione del premio della televisione sarebbero caduti lo stesso
giorno, avrei fatto in modo di farti nascere prima. Con taglio cesareo! Invece le sussurrai all'orecchio: «Mi dispiace, tesoro». Lilly prese a stropicciarsi con tristezza la manica del pigiama con il folletto, e siccome non ce la facevo a sopportare più a lungo quella vista, aggiunsi rapidamente la frase magica che ha il potere di far tornare a sorridere qualsiasi visetto imbronciato di bambino: «Vuoi vedere il tuo regalo di compleanno?» Io stessa non lo avevo ancora visto. Se ne era dovuto occupare Alex, perché con tutto il lavoro che avevo in redazione erano mesi che non andavo a fare spese. Non che la cosa mi mancasse. Poche situazioni mi innervosivano di più dello sprecare tempo prezioso facendo la fila al supermercato. Senza contare che
tutte le cose belle della vita, dall'abbigliamento alle scarpe fino ai cosmetici, non me le dovevo certo comprare. Mi venivano recapitate, messe a disposizione dalle aziende più raffinate. A me, Kim Lange, conduttrice del più prestigioso talkshow politico tedesco. La rivista Gala mi annoverava fra «le trentenni meglio vestite», mentre un altro giornale scandalistico mi definiva, in termini meno lusinghieri, «la brunetta in carne e ben piazzata». Ma con questi ero ai ferri corti per essermi opposta alla pubblicazione di foto della mia famiglia. «Qui c'è una meravigliosa signorina che vorrebbe il suo regalo», dissi a voce alta, in modo da farmi sentire in tutta la casa. Dall'esterno venne la risposta: «E
allora questa meravigliosa signorina deve uscire in giardino!» Presi per mano mia figlia, che era in preda all'eccitazione, e le dissi: «Però mettiti le pantofoline». «Non voglio», brontolò Lilly. «Ti prenderai un raffreddore!» l'ammonii. Ma lei si limitò a rispondere: «Ieri non mi sono presa un raffreddore. E non avevo le pantofole». E prima che potessi pensare a un'argomentazione ragionevole per controbattere a quella logica infantile, astrusa e tuttavia a suo modo coerente, Lilly stava già correndo scalza sul prato scintillante di rugiada mattutina. Sconfitta, la seguii con lo sguardo e feci un respiro profondo. Nell'aria si sentiva la primavera e, per la millesima volta, con un misto di stupore e di
orgoglio, mi rallegrai di poter offrire a mia figlia una così bella casa in una città come Potsdam, con un giardino enorme, quando io ero cresciuta in un palazzone di Berlino. Il nostro giardino di allora consisteva unicamente in tre cassette per i fiori, dove piantavamo gerani, viole del pensiero e mozziconi di sigarette. Alex aspettava Lilly vicino a una gabbia fatta in casa. Dentro c'era un porcellino d'India. A trentatré anni Alex era ancora maledettamente attraente, una versione più giovane di Brad Pitt, solo senza quello sguardo insulso e languido, fatto di per sé molto apprezzabile. Certo sarei stata al settimo cielo per il suo aspetto fisico se le cose tra noi fossero andate ancora bene. Ma purtroppo il nostro rapporto poteva dirsi stabile
quanto l'Unione Sovietica nel 1989. E, analogamente, non era molto il futuro che gli si prospettava. Alex non riusciva a farsi una ragione di aver sposato una donna di successo, e io di dover convivere con un casalingo frustrato, di giorno in giorno sempre più estenuato dalle madri che incontrava al parco giochi e che se ne uscivano con frasi del tipo: «È fantaaastico che un uomo si occupi dei figli invece di correre dietro al successo». Di conseguenza le nostre conversazioni iniziavano spesso con: «Il tuo lavoro per te è più importante di noi», e ancora più spesso finivano con: «Guai a te se adesso lanci quel piatto, Kim!» Una volta, almeno, ci riconciliavamo a letto, ma ora erano già tre mesi che non lo facevamo più. Ed era un peccato, perché
il sesso tra noi non solo funzionava, ma riusciva a essere addirittura magnifico, a seconda di quanto eravamo in forma quel giorno. E questo doveva pur significare qual cosa perché, con tutti gli uomini con cui ero stata prima d’Alex, non era mai stato niente di che. «Ecco il tuo regalo, bellissima bambina», disse Alex sorridendo e indicando il porcellino d'India che mangiava tranquillo nella sua gabbia. «Un porcellino d'India!» gridò Lilly entusiasta. E io, inorridita, completai mentalmente la frase: Un porcellino d'India stramaledettamente incinto! Mentre Lilly, al colmo della felicità, contemplava il suo nuovo animaletto domestico, afferrai Alex per una spalla e lo tirai in disparte.
«Quella bestia è in procinto di riprodursi», gli dissi. «No, Kim, è solo un po' grassottelle» minimizzò lui. «Dove lo hai preso?» «In un rifugio» fu la risposta impertinente. «Perché non lo hai comprato in un negozio di animali?» «Perché lì li fanno correre sulla ruota, esattamente come nella tua televisione.» Bang! L'intenzione era di colpirmi, e il tiro andò a segno, in effetti. Feci un respiro profondo, guardai l'orologio e dissi con voce forzata: «Neanche trenta secondi». «Che vuol dire neanche trenta secondi?» chiese Alex irritato. «Non sei riuscito a parlare con me neanche trenta secondi senza rimproverarmi il fatto che oggi vado alla
cerimonia di assegnazione del premio.» «Non ti sto rimproverando, Kim. Metto semplicemente in discussione le tue priorità». Le sue parole mi agitarono profondamente, perché in realtà avrei desiderato che lui mi accompagnasse. In fondo quello poteva essere il momento più importante della mia vita professionale. E quella era l'occasione in cui mio marito avrebbe dovuto essere al mio fianco, accidenti! Ma certo difficilmente potevo discutere le sue, di priorità, visto che consistevano nell'organizzare la festa di compleanno di Lilly. «E ti ripeto che quello stupido porcellino d'India avrà dei piccoli!» mi limitai quindi a dire, acida. «Se non mi credi fagli un test di
gravidanza», ribatté Alex secco, e si diresse verso la gabbia. Furiosa, lo seguii con lo sguardo mentre tirava fuori la bestiola per deporla tra le braccia di Lilly, che sprizzava gioia da tutti i pori. I due si misero a nutrirla con denti di leone. E io rimasi ferma lì vicino. In un certo qual modo in panchina: quello stava diventando ormai la mia collocazione nell'ambito della nostra famigliola. Non bello, come posto. E mentre me ne stavo lì, in panchina, tornai indietro col pensiero al mio test di gravidanza. Per sei giorni, con una capacità di rimozione quasi sovrumana, ero riuscita a ignorare il fatto che avevo saltato il ciclo. La mattina del settimo giorno mi ero precipitata subito in farmacia mormorando «Merda, merda,
merda», avevo acquistato un test di gravidanza, mi ero precipitata di nuovo a casa, dove in preda al nervosismo avevo fatto cadere lo stick nel gabinetto, ero tornata di corsa in farmacia, avevo acquistato un secondo test, ero tornata di nuovo di corsa a casa, avevo fatto pipì sul bastoncino e avevo aspettato il fatidico minuto. Il minuto più interminabile della mia vita. Un minuto dal dentista è già lungo, un minuto di musica folkloristica è ancora più lungo. Ma il minuto che serve a uno stupido test di gravidanza per decidere se a quel punto mostrerà una seconda linea oppure no è l'esperienza più dura del mondo. A parte vedere la seconda linea.
Considerai l'eventualità di abortire, ma il solo pensiero mi risultava intollerabile. Lo avevo visto fare a diciannove anni a Nina, la mia migliore amica, di ritorno dalla nostra vacanza in Italia, e avevo visto anche quanto ne avesse sofferto. Sapevo che, nonostante lavorando come conduttrice di un talkshow mi fossi temprata il carattere, avrei avuto molti più problemi di Nina ad affrontare i rimorsi di coscienza. Seguirono quindi nove mesi di assoluta insicurezza. Mentre io cercavo di allontanare il panico, Alex si occupava amorevolmente di me e aspettava con ansia la nascita del bambino. In un certo qual modo questo mi faceva infuriare, perché così, a maggior ragione, mi sentivo una donna incinta snaturata. D'altra parte
tutta la gravidanza fu per me un processo sgradevolmente astratto. Guardavo le ecografie e sentivo i calci del bambino nella pancia. Ma il fatto che dentro di me stesse crescendo una piccola creatura si manifestò in me solo in pochi, brevi attimi di gioia. La maggior parte del tempo la ai alle prese con il malessere e gli squilibri ormonali. E con corsi preparto in cui si doveva imparare a «percepire il proprio utero». Sei settimane prima della nascita smisi di lavorare, e sul nostro divano mi feci un'idea di che cosa debba provare una balena spiaggiata. Le giornate erano lunghe e pesanti, e quando mi si ruppero le acque avrei potuto finalmente provare sollievo, non fosse che ero in fila alla
cassa del supermercato. Come prescritto dal mio medico per una tale evenienza, mi distesi subito sul pavimento freddo. I clienti intorno a me commentavano con frasi tipo: «Ma quella non è Kim Lange, quella della televisione?» «Mah, non mi interessa, basta che aprano un'altra cassa!» e «Sono contenta di non dover essere io a pulire questo schifo». L'ambulanza arrivò quarantatré minuti dopo, durante i quali firmai qualche autografo e fui costretta a spiegare alla cassiera che si era fatta un'idea sbagliata degli annunciatori televisivi di sesso maschile. («No, non sono tutti gay.») Giunta in ospedale, ebbe inizio un travaglio che durò venticinque ore. Tra un orribile spasmo e l'altro, l'ostetrica non smetteva di spronarmi:
«Cerca di essere positiva. Accetta con gioia l'arrivo di ogni contrazione!» E nel delirio dei dolori l'unico mio pensiero era: Se ne esco viva ti uccido, brutta puttana! Credetti di morire. Senza Alex e il suo atteggiamento rassicurante certo difficilmente me la sarei cavata. Continuava a ripetermi con voce ferma: «Sono qui con te. Sempre!» E intanto io gli stritolavo la mano con tale forza che ancora a distanza di settimane faceva fatica a muoverla. (Le infermiere mi confidarono poi che avevano l'abitudine di dare un voto al comportamento più o meno amorevole dei mariti nei confronti delle mogli in travaglio. Alex ottenne un sensazionale 9,7. La media era attestata su un 2,73.)
Tuttavia quando, dopo tutti quei tormenti, i medici mi deposero sulla pancia la piccola Lilly, sciupata e raggrinzita per il parto, ogni dolore svanì di botto. Non la potevo vedere perché mi stavano ancora medicando, ma sentivo la sua pelle grinzosa e delicata. E quell'attimo fu il più felice della mia vita. Ora, cinque anni più tardi, Lilly era in giardino davanti a me, e io non potevo festeggiare con lei il suo compleanno perché dovevo andare a Colonia per il premio. Deglutii, e con un peso sul cuore mi avvicinai alla mia piccola, che in quel momento stava decidendo quale nome dare al porcellino d'India. («Si chiamerà Pippi, Puzzetta oppure Barbara.») Le diedi un bacino e le
promisi: «Domani erò tutta la giornata con te». «Se ti danno il premio, domani dovrai are tutta la giornata a rilasciare interviste», commentò Alex sprezzante. «Allora starò con Lilly lunedì», ribattei logorata. «Lunedì hai la riunione di redazione», colpì lui di rimessa «Vorrà dire che non ci andrò.» «Molto probabile», disse lui con un sogghigno sarcastico che scatenò in me il desiderio di ficcargli un candelotto di dinamite in bocca. Gran finale: «Tu per la piccola non hai mai tempo». Quando Lilly udì queste parole, i suoi occhi tristi mi dissero: Papà ha ragione. Il colpo mi raggiunse fin nel midollo. Al punto che cominciai a tremare. Scombussolata, le accarezzai i
capelli: «Ti giuro solennemente che presto eremo insieme una giornata meravigliosa». Lilly mi rivolse un sorriso appena accennato. Alex voleva aggiungere qualcosa, ma lo sguardo che gli indirizzai doveva essere così affilato che saggiamente pensò che era meglio tacere. Era probabile che nei miei occhi avesse letto la fantasia del candelotto di dinamite. Ancora una volta abbracciai stretta Lilly, attraversai il patio. Dalle memorie di Casanova: «Nella mia centotredicesima vita come formica mi recai con una compagna in superficie. Su incarico della regina dovevamo esplorare il territorio intorno al nostro regno. Stavamo marciando nella calura ardente su una pavimentazione di pietra
arroventata dai raggi del sole, quando, nell'arco di qualche secondo, quest'ultimo si oscurò in maniera quasi apocalittica. I miei occhi spiarono in direzione del cielo, e scorsi la suola di un sandalo da donna che scendeva inarrestabile su di noi. Fu come se il cielo ci crollasse addosso. E fra me e me pensai: Devo di nuovo morire per colpa di un essere umano che non fa attenzione a dove mette i piedi».) Per rientrare in casa, feci un respiro profondo e chiamai un taxi per l'aeroporto. In quel momento non potevo ancora immaginare quanto sarebbe stato difficile mantenere il giuramento fatto a mia figlia.
Capitolo 2
AL quarto posto dei momenti più spiacevoli della giornata si piazzò l'occhiata che diedi allo specchio nella toilette dell'aeroporto. Non per il dover constatare di nuovo che, per essere una trentaduenne, avevo un numero enorme di rughe intorno agli occhi. E neanche perché i miei capelli sottili rifiutavano con fermezza di assumere una piega ragionevolmente spiovente, questo problema lo avrei risolto con una seduta, due ore prima della cerimonia, dalla mia hair stylist Lorelei. Fu un brutto momento perché mi sorpresi a chiedermi se Daniel
Kohn mi avrebbe trovata attraente. Come me, Daniel era stato nominato nella categoria «Miglior conduttore di talkshow». Il suo tratto saliente consisteva nell'essere un morettone di bellezza addirittura oscena che, a differenza degli altri conduttori nazionali, possedeva un fascino assolutamente naturale. Daniel era consapevole dell'effetto che aveva sulle donne e lo sfruttava con estremo piacere. Ogni volta che mi incontrava a una qualche festa organizzata dai media mi guardava dritto negli occhi e diceva: «Rinuncerei a tutte queste donne, se tu ti arrendessi a me». Naturalmente la frase aveva la stessa veridicità dell'affermazione: «Al Polo Sud ci sono elefanti rosa». Ma una parte di me desiderava che
invece fosse vera. E un'altra parte di me sognava di vincere il premio per poi gironzolare, con aria di superiorità e un sorrisetto quasi trionfale, davanti al tavolo di Daniel, e più tardi, in hotel, avere una notte di sesso selvaggio con lui. Per ore. Finché la direzione non avesse battuto alla porta a causa delle lamentele di una rock band esasperata dal rumore. Ma il resto di me mi odiava per i pensieri di quelle due parti, peraltro in minoranza. Se fossi finita a letto con Daniel la stampa ne avrebbe certamente avuto sentore, Alex avrebbe chiesto il divorzio e io, madre snaturata, avrei definitivamente spezzato il cuore della mia piccola Lilly. Di conseguenza, il mio desiderio di fare l'amore con Daniel mi
procurò tali rimorsi da non volermi più vedere in faccia per i prossimi vent'anni. Mi lavai rapidamente le mani, lasciai la toilette dell'aeroporto e mi diressi al gate. Benedikt Carstens mi accolse con un entusiastico: «Questo sarà il nostro giorno, tesoro!» e mi pizzicò energicamente la guancia. Carstens, sempre vestito con i più raffinati abiti di sarto ria, era il mio caporedattore e il mio pigmalione. Una sorta di personale maestro Yoda, solo provvisto di una sintassi decisamente migliore. Mi aveva scoperta alla radio di Berlino, dove avevo lavorato appena laureata. A quei tempi ero una semplice redattrice, ma poi una domenica mattina il conduttore non si era presentato al lavoro.
La notte precedente, durante un discotour, aveva espresso una sua teoria sulla madre di un buttafuori turco. Per questo, quel giorno avevo dovuto andare in onda al posto del collega destinato a rimanere a lungo indisposto, e per la prima volta nella mia vita avevo detto: «Sono le sei, buongiorno!» E da quel momento non ero riuscita più a smettere. Amavo l'ebrezza adrenalinica che mi procurava la luce rossa. Avevo trovato la mia strada! Carstens aveva seguito il mio lavoro per qualche mese e alla fine era venuto a cercarmi. «Lei ha la voce migliore che io abbia mai sentito», mi aveva detto, poi mi aveva offerto un impiego nella più eccitante
trasmissione televisiva tedesca. Mi aveva insegnato come presentarmi al meglio di fronte a una telecamera e mi aveva mostrato la cosa più importante di questo lavoro: come sgominare le colleghe. In quest'ultima disciplina, grazie alla sua guida, avevo raggiunto un alto grado di maestria, meritandomi in redazione la fama di «quella che a sui cadaveri calpestandoli ben bene». Ma se questo era il prezzo da pagare per raggiungere il mio scopo, lo pagavo volentieri. «Sì, questo sarà il nostro giorno», dissi a Carstens con un sorriso forzato. Lui mi guardò. «C'è qualcosa che non va, tesoro?» Visto che difficilmente potevo rispondergli: «Sì, voglio andare a letto con Daniel Kohn, della concorrenza», mi limitai a ribattere: «No,
tutto a posto». «Non fingere, so esattamente cosa c'è», replicò lui. Fui presa dal panico: sapeva forse di me e di Daniel Kohn? Aveva forse visto come Daniel aveva flirtato con me durante un ricevimento ufficiale? E che io ero arrossita come una groupie issata sul palco da Robbie Williams durante un suo concerto? Carstens sorrise. «Anch'io al tuo posto sarei agitato. Non accade tutti i giorni di essere menzionati per il premio della televisione.» Per un attimo mi sentii sollevata: non si trattava di Kohn. Ma subito dopo dovetti deglutire. In effetti ero in preda a un nervosismo incontrollabile che avevo represso per tutta la mattina, presa dai sensi di colpa nei confronti di Lilly. Tuttavia ora l'agitazione mi si
presentava esplosiva: avrei vinto quel premio? Le telecamere avrebbero catturato il mio sorriso raggiante di vincitrice? Oppure sui giornali del giorno dopo sarei stata solo «la perdente in carne e ben piazzata»? Mi avvicinai nervosamente le dita alla bocca, e solo all'ultimo secondo riuscii a dissuadere i denti dall'impulso di mordere le unghie. Arrivati a Colonia ci registrammo allo Hyatt, il lussuoso hotel in cui erano alloggiati tutti i candidati al premio. Nella mia camera mi buttai sul letto soffice, feci uno zapping furioso a ritmo di decimi di secondo, finii sulla pay tv e mi chiesi chi diavolo avrebbe sborsato ventidue euro per un porno dal titolo Io ballo per lo sperma.
Presi la solenne decisione di non sacrificare troppe cellule grigie sull'altare di questa domanda e di recarmi nella lobby per bere uno di quei tè cinesi rilassanti che hanno un leggero sapore di zuppa di pesce. Là un pianista suonava il repertorio di Richard Clayderman. Era così atroce che mi dipinsi mentalmente una situazione da selvaggio West: il pianista che strimpellava nel saloon e io che organizzavo un linciaggio. Ero appunto nella fucina del maniscalco di Dodge City, a predisporre con i miei ragazzi catrame e piume, quando improvvisamente lo vidi... Daniel Kohn. Si stava registrando alla reception, e il mio ritmo cardiaco impazzì. Una parte
di me sperava che lui mi vedesse. Un'altra parte pregava che addirittura mi si sedesse accanto. Ma la parte preponderante si chiedeva come riuscire finalmente a zittire le altre due, così snervanti e intenzionate a mettere a soqquadro la mia vita. Effettivamente Daniel mi vide e mi sorrise. La parte di me che lo aveva desiderato cadde in uno stato di felice e disinibita ebrezza e lanciò un urlo alla Fred Flintstone. Lui venne nella mia direzione e si sedette al tavolino con un gentile «Ciao, Kim». La parte che aveva pregato che ciò accadesse agguantò anche la parte uno, e la coppia cantò in coro: «Oh happy day!» Quando la parte tre si mostrò intenzionata a formulare una protesta, le altre due
l'agguantarono, la imbavagliarono e la zittirono intimandole di chiudere il becco. «Già agitata per stasera?» chiese Daniel, e io mi sforzai di mascherare il nervosismo e di procurarmi una risposta fulminante. Dopo lunghi secondi ribattei: «No», e dovetti costatare che come risposta fulminante lasciava abbastanza a desiderare. Daniel continuò calmo: «E neanche devi esserlo, perché di sicuro sarai tu a vincere». Lo disse in modo così affascinante che avrei quasi potuto credere che fosse sincero. Ma ovviamente era convinto che a vincere sarebbe stato lui. «E quando avrai vinto, dovremo brindare all'evento.» «Lo faremo»,
replicai. In effetti anche questa non era esattamente una risposta brillante, ma se non altro avevo messo in fila due parole con un qualche significato. Era già un piccolo progresso. «Brinderemo anche se a vincere sarò io?» mi chiese Daniel subito dopo. «Certo», ribattei con un leggero tremore nella voce. «Allora sarà una bella serata in ogni caso.» Daniel si alzò visibilmente soddisfatto aveva ottenuto quello che voleva e aggiunse: «Sorry, devo andare. Vorrei darmi una rinfrescata». Lo seguii con lo sguardo, vidi un posteriore fantastico e cercai di immaginarmelo sotto la doccia. E sull'onda di questo pensiero ora sì che mi rosicchiai le unghie.
«Cos'hai combinato con le tue unghie, avevi fame?» mi chiese Lorelei, la mia hair stylist, quando mi sottoposi all'opera di restauro e riverniciatura nel salone dell'hotel. Accanto a me sedeva il plotone compatto della rappresentanza femminile del settore: attrici, conduttrici, amichette di personaggi insigni. Nessuna di loro era stata menzionata per l'assegnazione di un qualche premio, ma l'importante era vincere nel gioco del «vedere e dell'essere viste». Tutte mi augurarono buona fortuna, senza ovviamente pensarlo davvero, così come io replicavo: «Hai un aspetto magnifico», «Che linea perfetta», «Il tuo naso una pista d'atterraggio? Ma cosa dici!» Così ci scambiavamo chiacchiere ipocrite. Finché non fece il suo ingresso Sandra Kòlling.
Sandra sembrava la versione minore di una regina dei salotti televisivi ed era stata conduttrice del Late Talk prima di me. Avevo ottenuto il suo posto perché ero più brava di lei. E più zelante. E perché con discrezione avevo richiamato l'attenzione dei piani dirigenziali sul fatto che Sandra aveva un piccolo problema con la cocaina. Ognuno là dentro sapeva che Sandra e io nutrivamo da allora un'ostilità da soap opera americana. Di conseguenza tutte le donne presenti smisero di chiacchierare e iniziarono a fissarci. Si aspettavano l'accanito scontro verbale di due iene assetate di sangue. E già lo pregustavano. Sandra mi soffiò contro: «Sei disgustosa». Non risposi nulla. Invece la puntai. A
lungo. Dura. Gelida. La temperatura della stanza scese di almeno quindici gradi. Sandra cominciò a rabbrividire. Io la fissavo imperterrita. Finché lei non ce la fece più e infilò la porta. Le signore ricominciarono a chiacchierare. Lorelei proseguì il suo lavoro di messa in piega. E la mia immagine allo specchio mi guardò con un sorriso soddisfatto. Quando Lorelei ebbe terminato l'opera, i miei capelli erano perfetti, e solo un archeologo avrebbe potuto rinvenire sotto il trucco le rughe del contorno occhi. Anche le mie unghie rosicchiate furono nascoste da unghie finte. A quel punto mancava solo il vestito, che mi avrebbero consegnato dopo poco
in camera. Di Versace! Impazzii di gioia al pensiero di quello straccio di abito che costava più di un'utilitaria e che Versace mi aveva confezionato appositamente per la cerimonia. Com'è ovvio, gratuitamente. Lo avevo già provato in una boutique di Berlino e avevo la ferma convinzione che quella sera avrei indossato l'abito migliore del mondo: era di un rosso meraviglioso, si appoggiava morbido sulla pelle, faceva sembrare il mio seno più prosperoso e dissimulava i fianchi. Cosa può volere di più una donna da un vestito? Piena di felici aspettative me ne stavo seduta nella mia camera e pensavo con orgoglio che ne avevo fatta di strada: da un'infanzia nei quartieri popolari di Berlino, dove probabilmente si pensava
che Versace fosse un calciatore italiano, fino a diventare conduttrice di successo di un talkshow politico, al punto da vincere, forse nell'arco di due ore, il premio televisione, avvolta in un abito da sogno di Versace, che Daniel Kohn mi avrebbe strappato di dosso quella stessa sera per poi fare sesso selvaggio con me... In quel momento mi suonò il cellulare. Era Lilly. Mi travolse uno tsunami di sensi di colpa: Lilly aveva nostalgia di me. E io intanto pensavo a tradire mio marito, suo padre! La festa di compleanno era in pieno svolgimento, e Lilly era un fiume di parole felici: «Prima abbiamo fatto le corse con i sacchi, poi quella con l'uovo e poi una battaglia di torte senza torte». «Una battaglia di torte senza torte?»
chiesi sconcertata. «Ci siamo spruzzati addosso il ketchup... e la maionese... e ci siamo lanciati gli spaghetti», mi spiegò Lilly. Con un sorriso mi immaginai il moderato entusiasmo delle altre mamme quando fossero arrivate a prendere i loro figli. «Ha telefonato la nonna e mi ha anche fatto gli auguri», mi disse poi, e il sorriso scomparve dalla mia faccia. Da anni non lasciavo nulla di intentato pur di tenere fuori dalla mia vita famigliare la coppia ormai distrutta dei miei genitori. Quel buono a nulla di mio padre ci aveva lasciati per una delle sue varie conquiste quando avevo più o meno l'età di Lilly. Da quel momento mia madre
aveva contribuito a incrementare di circa un dodici per cento l'anno le vendite di alcol del negozietto del quartiere. Se faceva la parte della «nonnina», di regola era solo per ricavare ancora più denaro di quello che già le avo ogni mese. «Com'era la nonna al telefono?» chiesi con cautela, perché avevo paura che Lilly la sentisse alterata dall'alcol. «Balbettava», rispose lei con il tono rilassato della bambina che non ha mai vissuto diversamente il contatto con la nonna. Cercai le parole giuste per spiegarle la situazione, ma prima che ne avessi trovato anche solo una, Lilly cacciò un urlo: «Oh no!» Feci un salto. «Che cosa c'è?» chiesi agitata, mentre per la testa mi avano migliaia di scenari catastrofici.
«Quello stupido di Nils sta incendiando le formiche con la lente di ingrandimento!» (Dalle memorie di Casanova: «Le formiche hanno molti nemici naturali: ragni, scarafaggi, marmocchi con le lenti. Bruciai, come un tempo accadde ai cristiani nell'antica Roma, e morii per la seconda volta in quel giorno in cui la Fortuna non mi fu, semplicemente, favorevole. L'ultimo pensiero che potei formulare nella mia mente che si avviava a lasciare questo mondo fu: Se mai produrrò sufficiente karma positivo per potermi di nuovo aggirare sulla Terra come essere umano, darò personalmente un calcio nei preziosi attributi a ogni ragazzetto con una lente in mano che mi capiterà sotto tiro».)
Lilly riattaccò in fretta, e io tirai un sospiro di sollievo: non era successo niente di grave. Malinconica pensai alla piccola, e una cosa mi fu chiara: quella sera non doveva esistere alcun «ti strappo di dosso il vestito di Versace» da parte di Daniel Kohn. Riflettei sull'eventualità di chiamare Alex e ringraziarlo per aver organizzato un così bel compleanno per Lilly, ma più ci pensavo e più mi rendevo conto che certamente avremmo di nuovo litigato. Quasi impensabile che un tempo fossimo stati felici. Alex e io ci eravamo conosciuti in occasione della mia vacanza dopo la maturità. Lui viaggiava con lo zaino, e
anch'io viaggiavo con lo zaino. Lui amava girare il mondo, mentre io lo facevo solo per affetto nei confronti della mia amica Nina. Lui amava Venezia, io invece trovavo insopportabile l'afa estiva, l'odore putrido dei canali e la piaga, di dimensioni addirittura bibliche, delle zanzare. La nostra prima sera a Venezia, sul lido, Nina fece quello che sapeva fare meglio: far girare la testa agli italiani con i suoi biondi boccoli d'angelo. Nel frattempo io uccidevo zanzare a cottimo e mi chiedevo come si potesse essere tanto idioti da costruire una città per metà nell'acqua. E di tanto in tanto respingevo qualche locale con gli ormoni in ebollizione che Nina, come ovvio, rimorchiava appositamente per me. Uno di
loro si chiamava Salvatore. Teneva chiusi solo gli ultimi due bottoni della camicia bianca, profumava di dopobarba scadente e interpretava il mio «No, no!» come un'esortazione a mettermi le mani sotto la camicetta. Mi difesi con uno schiaffo e uno «stronzo!». In realtà non sapevo cosa significasse, lo avevo semplicemente colto al volo dalla bocca di un gondoliere impegnato a imprecare contro qualcuno, ma Salvatore si infuriò incredibilmente. Non dissi più nulla. Mi mise le mani sotto la camicetta e proprio nell'attimo in cui stava per arrivare al seno, Alex lo fermò. Era apparso come dal nulla. Come un cavaliere da una favola d'amore, a cui io, grazie a mio padre, in realtà non credevo più. Salvatore si piantò davanti a lui con
aria minacciosa. Blaterò qualcosa in italiano, e anche se non capivo una parola, il tenore del discorso mi risultò chiaro: se Alex non fosse sparito subito, lui gli avrebbe fatto seguire la sorte del protagonista di A Venezia... un dicembre rosso shocking, in una versione tutta sua. Alex, che da anni praticava il ju jitsu, lo spaventò a tal punto che l'altro decise di filarsela con la coda fra le gambe (nel vero senso del termine). Quella notte, mentre Nina perdeva la sua verginità, Alex e io sedemmo in riva alla laguna a parlare e a parlare. Ci piacevano gli stessi film (A qualcuno piace caldo, Una pallottola spuntata, Star Wars), amavamo gli stessi generi (Il signore degli anelli, l'operetta // piccolo
re, i fumetti di Calvin & Hobbes) e odiavamo le stesse cose (gli insegnanti). Quando su Venezia spuntò di nuovo l'alba, io gli dissi: «Credo che siamo due anime affini», e Alex rispose: «Io non solo lo credo, lo so». Accidenti quanto ci sbagliavamo! Rimisi il cellulare in tasca e improvvisamente mi sentii molto sola sul soffice letto di quell'hotel di lusso. Terribilmente sola. Quello doveva essere il mio grande giorno e Alex non lo condivideva con me. E io non volevo nemmeno chiamarlo. Una volta per tutte, la situazione mi apparve chiara: non ci amavamo più. Neanche un po'. E quell'istante si conquistò il terzo posto nella classifica dei momenti più
spiacevoli della giornata.
Capitolo 3
DOPO cinque minuti, in cui ero rimasta seduta intontita, bussarono alla porta: il fattorino portava l'abito di Versace. Era arrivato il grande momento. Lo tolsi con cautela dal suo involucro, fermamente intenzionata a fare salti di gioia. Ma le mie gambe rimasero inchiodate al pavimento. Ero troppo scioccata. Il vestito era azzurro! Accidenti e ancora accidenti, non doveva essere azzurro! E neanche senza spalline! Quel branco di idioti mi aveva mandato il vestito sbagliato! Chiamai immediatamente il servizio consegne. «Sì,
Kim Lange. Mi avete consegnato il vestito sbagliato.» «Come mai?» mi sentii rispondere. «Sono io che lo chiedo a lei!» ribattei con un tono di voce decisamente acuto. «Ehm...» fu la replica, e aspettai che a questo mugolio si aggiungesse qualche altra parola. Senza risultato. «Forse dovreste dare un'occhiata alle vostre scartoffie», suggerii. Con una voce talmente affilata che ci si sarebbe potuto tagliare il vetro. «Bene. Un attimo», fu la risposta annoiata. Il tipo aveva ben altre cose per la mente: contabilità, televisione, mettersi le dita nel naso. «Fra un'ora devo essere alla cerimonia di assegnazione del premio della tv tedesca», incalzai.
«Mai sentito», ribatté lui. «Senta, le sue lacune intellettuali non mi riguardano. O verifica subito dove può essere finito il mio abito, o farò in modo che la sua ditta non riceva più ordini da tutto l'ambiente della televisione.» «Non c'è motivo di agitarsi tanto. Telefono subito», disse quello, e riagganciò. «Subito» significò che arono venticinque minuti. «Mi dispiace immensamente, il suo vestito è a Monte Carlo.» «Monte Carlo!» strillai isterica. «Monte Carlo» replicò lui senza la minima partecipazione emotiva. L'uomo mi spiegò che l'abito che mi era stato consegnato era in realtà destinato all'accompagnatrice (definizione cortese di cali girl) di un imprenditore che
trattava software. Il mio vestito ora ce l'aveva lei. A Monte Carlo. Quindi non c'erano possibilità di riaverlo in tempo. Come risarcimento mi offriva un buono, che peraltro non mi era di grande aiuto. Buttai giù il telefono con rabbia e ricoprii di improperi lui e tutta la sua discendenza. In preda alla disperazione mi provai il vestito azzurro e, con mio rincrescimento, dovetti costatare che la giovane «accompagnatrice» aveva una figura decisamente più slanciata della mia. Mi guardai allo specchio e notai che il vestito era talmente stretto e attillato da mettere assai bene in risalto seno e sedere. E, a essere sincera, non era poi tanto male. Ero sexy come non lo ero mai stata, e l'abito mi nascondeva i fianchi addirittura meglio di quanto programmato
in origine. Visto che l'alternativa potevano essere solo jeans e un pullover a collo alto che, grazie al taglio di capelli di Lorelei, era ora pieno di ispidi pelucchi, decisi che per la cerimonia avrei indossato quel vestito. Con la stola nera poteva andare. Dovevo solo evitare i movimenti troppo bruschi. Abbigliata in questo modo presi l'ascensore e mi diressi nell'atrio dell'hotel, e l'effetto non fu per niente male: tutti gli uomini mi guardarono con una certa insistenza. E non ce ne fu uno che si soffermò anche solo un attimo sul mio viso. All'ingresso mi aspettava Carstens, che rimase notevolmente colpito. «Accidenti, tesoro, quest'abito è mozzafiato.» Mi sentivo la gabbia
toracica stretta e quasi soffocata, per questo risposi ansimando: «Hai proprio ragione». Una limousine nera si avvicinò. L'autista mi aprì la portiera e rimase lì per tutti i due minuti e mezzo che impiegai per sistemare nella parte posteriore della vettura me e il vestito, in modo che quest'ultimo non si strape per colpa di un movimento maldestro. Sotto una pioggia serale attraversammo l'area industriale di Ossendorf, che aveva tutto il fascino di uno scenario apocalittico postatomico e dove si trovava il Coloneum, il prestigioso complesso di studi televisivi dove avrebbe avuto luogo la cerimonia di assegnazione. Gettai uno sguardo agli edifici con le finestre rotte. E di nuovo mi
assalì il senso di solitudine. Per combatterlo, afferrai il cellulare e chiamai casa, ma non rispose nessuno. Molto probabilmente l'orda di bambini festanti si stava producendo negli ultimi giri vorticosi delle nostre stanze come un tornado. Alex, con il suo buonumore, avrebbe certamente rinfocolato l'atmosfera. E tutti si sarebbero divertiti. E io non ero lì. Mi sentii male. Male da cani. Solo quando la nostra limousine venne salutata con un cenno al aggio dei tre posti di blocco, per poi fermarsi in corrispondenza del tappeto rosso, l'adrenalina che mi stava montando dentro scacciò i pensieri tristi. Pronti ad accoglierci c'erano oltre duecento fotografi.
Il conducente mi aprì la portiera, e con il mio abito attillato io riuscii a portarmi il più rapidamente possibile (quindi in realtà impacciata e al rallentatore) fuori dalla macchina. E mi trovai ad affrontare il ciclone di flash più abbagliante della mia vita. I fotografi gridavano: «Avvicinati, Kim!» «Guarda qui!» «Così sì che sei sexy!» Da impazzire. Era eccitante. Un delirio! Fino a quando dietro di me non accostò la successiva limousine. I duecento obiettivi si spostarono automaticamente dalla mia persona a quella di Verona Pooth. Uscii di scena, e sentii: «Avvicinati, Verona!» «Guarda qui!» «Così sì che sei sexy!» Carstens e io ci sedemmo ai nostri posti. Iniziò la serata, e dovetti sorbirmi una serie infinita
di ipocriti discorsi di ringraziamento, finché il volto televisivo che faceva da maestro di cerimonie non annunciò la mia categoria. Finalmente! C'eravamo! Il cuore cominciò a battermi forte. Penso che sia più o meno così che si sentano i piloti di un jet. Quando superano la barriera del suono. E quando con un sedile eiettabile vengono catapultati fuori dall'aereo. E si accorgono di aver dimenticato il paracadute. Dopo una breve allocuzione, di cui per l'agitazione non capii una parola, lesse i nomi dei candidati: Daniel Kohn, Sandra Maischberger e Kim Lange. Sugli schermi in sala vennero proiettate le nostre tre immagini in formato gigante, ognuno di noi intento
nello sforzo di sorridere in modo rilassato. Ma l'unico che ci riuscì in maniera convincente fu Daniel. Il presentatore alzò il tono della voce: «E il vincitore è...» Aprì la busta e fece una pausa a effetto. Il battito del mio cuore aumentò ulteriormente. Fino a raggiungere un ritmo da record. Da arresto cardiaco. Impossibile resistere. Alla fine interruppe la pausa a effetto e disse: «Kim Lange!» Fu come se mi avesse colpito un martello gigante, solo che non provavo dolore. In preda all'euforia mi alzai in piedi e abbracciai Carstens, che di nuovo mi pizzicò la guancia. Mi abbandonai agli applausi. E non avrei dovuto farlo. In caso contrario forse avrei sentito il
«crrr». O mi sarei meravigliata del sorriso della mia intima nemica Sandra Kòlling. Che in quella circostanza avrebbe in realtà dovuto fumare di rabbia. Cominciai ad avere qualche sospetto quando, ormai diretta verso il palcoscenico, sentii il primo sogghigno. Poi il secondo. E il terzo. Sempre più persone ridacchiavano. E di secondo in secondo i risolini crebbero per poi liberarsi in una sonora risata. Sul primo gradino per il podio mi fermai e compresi che percepivo qualcosa di diverso. Come una sensazione... ariosa. E dietro non avevo più quella stretta soffocante. Con cautela mi toccai il sedere con la mano. Il vestito si era strappato! E non era tutto: per evitare che
«segnassero» non avevo indossato le mutandine. Quindi stavo mostrando il mio didietro nudo a millecinquecento personalità insigni! E a trentatré telecamere! E, di conseguenza, sei milioni di spettatori si stavano godendo lo spettacolo.
Capitolo 4
NEL secondo momento più spiacevole della giornata in realtà sarei dovuta salire sul palcoscenico nel modo più disinvolto possibile. E una volta lì fare una bella battuta sul mio sfortunato incidente, come per esempio: «Oggigiorno non c'è altro modo per finire in copertina», per poi godermi il mio premio. Purtroppo questo piano mi venne in mente soltanto quando mi ritrovai chiusa nella mia camera di hotel. Piangendo gettai nel gabinetto il cellulare che non la smetteva di suonare. Accompagnato dal trillo incessante del
telefono della camera. Non ero nelle condizioni di affrontare i giornalisti. O Alex. Neanche con Lilly volevo parlare, di sicuro si vergognava tremendamente di sua madre. E io mi vergognavo ancora di più per il fatto che lei dovesse vergognarsi. E i giorni successivi sarebbe stato ancora peggio. Già mi vedevo i titoli a caratteri cubitali: «Premio al sedere tedesco per Kim Lange!» «Le mutandine sono ormai out?» oppure «Anche le star hanno la cellulite!» In quel momento qualcuno bussò alla porta. Rimasi immobile. Se era un giornalista lo avrei buttato nel gabinetto come il mio cellulare. O mi ci sarei buttata io. «Sono io, Daniel.» Deglutii. «Kim, lo so che sei là dentro!» «No,
non ci sono», replicai. «Non sei molto convincente», rispose Daniel. «Ma è vero», dissi io. «Dai, apri.» Esitai. «Sei solo?» «Naturalmente.» Rimasi un attimo a riflettere, alla fine mi avviai alla porta e l'aprii. Daniel aveva in mano una bottiglia di champagne e due bicchieri. Mi sorrise come se la disfatta di Waterloo del mio sedere non ci fosse stata. E questo mi fece sentire bene. «Non avevamo detto che avremmo brindato?» disse guardandomi negli occhi arrossati dal pianto. Non riuscii a dire una parola, e lui mi asciugò una lacrima sulla guancia. Sorrisi. Entrò in camera. Non
facemmo nemmeno in tempo ad aprire lo champagne.
Capitolo 5
ERANO anni che non facevo sesso così. Fu meraviglioso, fantastico, supercalifragilistichespiralidoso! Poi rimasi abbracciata a Daniel. E mi sentii bene. E questo era terribile. Era meraviglioso. Ma era terribile. Come potevo sentirmi tanto bene? Avevo appena tradito mio ma rito. E con lui anche mia figlia. Non potevo rimanere lì oltre Mi alzai e mi vestii. Naturalmente non mi misi l'abito strappato, quello lo avrei buttato nel cesto delle immondizie il mattino dopo. Afferrai i jeans e l'ispido pullover a collo alto.
«Ma dove vuoi andare?» chiese Daniel. «Solo a prendere un po' d'aria fresca.» «Di sotto ti aspettano i reporter», obiettò Daniel preoccupato. «Vado sul tetto.» «Devo venire con te?» mi chiese premuroso. Lo guardai negli occhi e rimasi sorpresa: sembrava sincero. Provava veramente qualcosa per me? O aveva solo paura che mi buttassi giù? Risposi: «Torno subito». «Promesso?» «Promesso.» Mi guardò. Non riuscivo a capire che cosa stesse pensando. E dissi: «In realtà non vorrei chiedertelo, e quindi non te lo chiedo, ma... pensi di...» «Sì, rimarrò qui ad aspettarti», rispose. Ne fui felice. Non ero sicura di
potergli credere, ma ne fui felice. Mi infilai le scarpe e uscii dalla camera. Furono i miei ultimi i come Kim Lange.
Capitolo 6
DAL 1993 la stazione spaziale Foton M3 conduceva in orbita esperimenti medici, tecnologici e biologici per la ricerca scientifica russa. Il giorno del premio la base di lancio di Baikonur la pilotò nell'atmosfera terrestre, perché si distruggesse. Gli ingegneri della base di controllo dovettero però constatare che l'angolo d'incidenza non coincideva con i loro calcoli. Perciò, invece di disintegrarsi interamente nell'atmosfera, la stazione si polverizzò solo per il novantotto per cento. Il restante due per cento atterrò nel
Nord Europa, sparpagliandosi sotto forma di detriti. Perché vi racconto tutte queste stupidaggini? Perché lo stramaledetto lavabo di quella stramaledetta stazione spaziale mi cadde in testa! Ero in piedi sulla terrazza all'ultimo piano dell'hotel e, sola con i miei pensieri confusi, guardavo Colonia che scintillava nella notte. Daniel faceva sul serio? Dovevo divorziare da Alex? Come avrebbe reagito Lilly? Avrebbero mostrato il mio sedere nudo a Paperissima per i prossimi quarant'anni? In quel momento in cielo vidi brillare qualcosa. Un'immagine bellissima. Come forfora di stelle. Guardai. Chiusi gli occhi ed espressi il desiderio: Che tutto torni a posto.
Attraverso le palpebre chiuse vidi un chiarore sempre più intenso. Come di un faro. E anche il rumore aumentò. Assordante. Spalancai gli occhi e vidi una palla di fuoco incandescente abbattersi proprio su di me. Capii subito che non avevo possibilità di scansarla. Quindi pensai soltanto: Che modo assurdo di morire! Seguì l'immancabile «Mi ò davanti tutta la vita». Peccato che non sono solo i bei momenti a arti davanti. Davanti al mio occhio spirituale si presentarono le seguenti scene: Io bambina, mio padre mi dondola sulle ginocchia. Sono piena di fiducia ancestrale. Papà mi spinge sull'altalena al parco giochi. Sono ancora piena di fiducia
ancestrale. Papà profuma di pane fresco. Papà ci lascia per la panettiera. Fine della fiducia ancestrale. Preparo la colazione per la mamma (ho sette anni). A scuola mi emarginano. Conosco Nina. Lei è come me. Ora siamo in due a essere emarginate. Nina e io scommettiamo chi delle due perderà la verginità per prima. Abbiamo tredici anni. Un anno più tardi. Ho vinto la scommessa. Avrei preferito perderla. Mio padre si trasferisce. Non ho idea dove. Nina e io usciamo la sera. Tanto alcol. Un po' di ecstasy e molto mal di testa. Finalmente la maturità. Nina e io ci abbracciamo. Alex e io ci conosciamo a Venezia. Lo amo. Alex, Nina e io
iamo la vacanza insieme. Capisco che anche lei lo ama. Anche lui prova qualcosa per lei. Lui si decide per me. Fiuuu. Grido rivolta a Nina che non voglio più vederla. Alex e io ci sposiamo nella chiesa di San Giobbe a Venezia. Quasi scoppio dalla gioia. Nasce Lilly. Sento la sua pelle sul mio ventre. Il momento più bello della mia vita. Perché non può durare in eterno? Ho dimenticato il nostro anniversario di matrimonio. Alex e io litighiamo. Ha regalato a Lilly un porcellino d'India incinto. Giuro a Lilly che presto eremo una bella giornata insieme. Nella sala del Coloneum risuona: «Kim Lange!». Mostro a sei milioni di persone il mio posteriore nudo. Daniel e io facciamo l'amore. Esprimo il desiderio
che tutto torni a posto. Il lavabo incandescente di una stazione spaziale russa mi si scaglia addosso. Dopo questo rapido excursus della mia vita, improvvisamente vidi la luce. Così come lo si sente sempre raccontare nei reportage televisivi dalle persone che hanno avuto per qualche minuto un arresto cardiaco, per poi essere richiamate alla vita. Vidi la luce. Si fece sempre più luminosa. Era stupenda. Mi avvolse tutta. Dolce. Calda. Amorevole. L'abbracciai e lasciai che
m'invadesse. Dio mio, mi sentivo così bene. Così protetta. Così felice. Ero di nuovo piena di fiducia ancestrale. Ma poi fui di nuovo respinta dalla luce. Persi i sensi. *** Quando mi risvegliai, mi accorsi di avere una testa gigantesca. E un addome assurdo. E sei gambe. E due antenne lunghissime. E questo fu in assoluto il momento più
spiacevole della giornata!
Capitolo 7
SE ci si risveglia improvvisamente in un corpo di formica, esiste una sola reazione normale: non ci si crede. Invece io cercai di ricostruire quanto era accaduto: quel demente di lavabo russo mi era precipitato in testa, poi avevo visto la luce, ma ero stata rigettata indietro, il che doveva significare che ero ancora in vita. Certamente avevo un qualche tipo di danno cerebrale. Sì, doveva essere questo! Di sicuro ero in coma, e da quel momento in poi avrei sentito voci provenienti da chissà dove, come capita
sempre. «Funzioni vitali stabili!» «Ma le funzioni cerebrali sembrano sospese.» «Preparo una nuova trasfusione di sangue.» «E poi subito un'iniezione di adrenalina, intravenosa.» «Dio mio, com'è bella così distesa.» «Ma chi è lei?» «Daniel Kohn!» Oh, caspita, perfino in quella situazione pensavo a Daniel. Ma... se ero in coma, perché il mio cervello pensava che io fossi una formica? Dipendeva forse da un trauma infantile? E se così fosse stato, quanto assurdo doveva essere un trauma infantile perché a distanza di tempo, in coma, ci si potesse credere una formica? La mia zampa anteriore grattò con fare interrogativo l'antenna. Così facendo mi scombussolò tutte le percezioni sensoriali.
A quanto sembrava erano quegli affari a permettermi di gustare, toccare e odorare: la mia zampa aveva un sapore salato, era rigida e aveva un odore del tipo «devo urgentemente farmi una doccia». Era evidente che quell'aggressione di stimoli fosse troppo violenta per me. Presa dal panico mi misi a pensare come potevo entrare in contatto con i medici e le infermiere. Se mi sforzavo di urlare a piena voce, forse dalla paziente in coma avrebbero percepito un mormorio. Si sarebbero accorti che ero ancora cosciente e mi avrebbero liberata da questo incubo. Quindi cominciai a dimenarmi strillando selvaggiamente: «Aiuto!!! Aiutatemi!» La mia voce da formica era incredibilmente stridula. Un po' come quella della mia ex insegnante di
inglese poco prima di essere ricoverata per parecchi mesi in un ospedale psichiatrico. «Aiuto! Il mio cervello non è morto! Qualcuno riesce a sentirmi?» gridai ancora più stridula. «Certo che riesco a sentirti. Il tono è sufficientemente alto», rispose una voce affabile. Sussultai terrorizzata. E mi rallegrai. Qualcuno mi aveva sentito. I medici si erano messi in contatto con me! Alleluia! Ero lì lì per eseguire una danza di gioia con le mie sei zampe. «Potete farmi uscire dal coma?» chiesi piena di speranza. «Non sei in coma», rispose la voce affabile. Ero scioccata. Se non ero in coma, allora dov'ero? E chi mi stava
parlando? «Girati.» Lentamente mi girai e quella fu la mia prima rotazione di 180 gradi sulle sei zampe. Coordinarle fu ovviamente più difficile che parcheggiare, ubriachi, in retromarcia, un camion. Quando fui riuscita a snodare le zampe, cominciai a rendermi meglio conto del luogo in cui mi trovavo. Ero vicina alla superficie della terra, in un tunnel sotterraneo, chiaramente scavato raspando. E in quel tunnel c'era una formica. Una formica straordinariamente grassa che mi rivolse un sorriso placido. Come quello di Babbo Natale. Dopo aver mangiato dei biscotti allucinogeni. «Come va?» Era senza dubbio la formica a parlare. A quel punto era sicuro: il mio cervello aveva fatto «ciao
ciao». «Certamente sarai un po' confusa, Kim.» «Tu... tu conosci il mio nome?» chiesi. «Naturalmente», sorrise la grassa formica, «conosco tutti i nomi.» Una replica che conteneva più domande che risposte. «Di sicuro vorrai sapere chi sono», disse la formica. «Sì, e come uscire da questo incubo.» «Questo non è un incubo.» «E un'allucinazione?» «Neanche un'allucinazione.» «E allora che cos'è?» chiesi, e intuii già che la risposta non mi sarebbe piaciuta. «È la tua nuova vita.» A queste parole le mie zampette sottili iniziarono a tremare, e le mie antenne ondeggiarono
sconvolte di qua e di là.
Capitolo 8
«SIDDHARTHA Gautama» disse la grassa formica, affabile. «Come, prego, che cosa?» chiesi angosciata. «Questo è il mio nome.» L'affermazione mi distolse per un attimo dal mio corpo tremante. Siddhartha... non era il protagonista di quel film con Keanu Reeves? Mi ci aveva trascinata Alex. Aveva un debole per i film d'autore, quelli che, per la noia mortale, ti costringono a rinchiuderti in bagno dopo venti minuti a leggere piuttosto tutte le scritte sulla porta e sulle
pareti. In quel film, Siddhartha era... «Buddha», disse la grassa formica, «Buddha è il nome con cui certamente mi conosci meglio.» Le mie nozioni su Buddha non erano poi così approfondite, forse avrei dovuto prestare maggiore attenzione al film invece di riflettere sul fatto che Keanu Reeves a torso nudo era un bel bocconcino. Ma di una cosa ero praticamente certa... «Buddha non è una formica.» «Io appaio nella forma in cui rinasce l'anima dell'uomo. Tu sei rinata come formica. Quindi ti appaio con sembianze di formica.» «Rinata?» balbettai. «Rinata», confermò Buddha. (Dalle
memorie
di
Casanova:
«Quando secoli fa Buddha mi rivelò che da quel momento avrei dovuto are la mia vita sotto le sembianze di una misera formica, a opprimermi maggiormente fu un pensiero terribile: non avrei mai più vissuto ionali notti d'amore».) «Okay, okay, okay», dissi prima di impazzire, «ora ammettiamo che io creda a tutto questo, cosa che naturalmente non è, perché è talmente assurdo che risulta impossibile crederci, e di conseguenza io davvero non ci credo, anche se...» «Dove vuoi arrivare?» mi interruppe Buddha, mentre io cercavo di condurre il mio profluvio di parole entro binari preordinati. «Se... se tu sei Buddha e io sono rinata... perché nelle sembianze di una
formica?» «Perché non ti sei meritata niente di diverso.» «Che cosa significa? Forse che sono stata una cattiva persona?» dissi indignata. Non ho mai potuto sopportare di essere offesa. Buddha si limitò a guardarmi in silenzio, sorridendo. «I dittatori sono cattive persone», protestai, «i politici, e dal mio punto di vista anche gli addetti alla programmazione televisiva, ma non certo io!» «Anche i dittatori rinascono in una forma diversa», replicò Buddha. «E cioè?» «Come batteri intestinali.» Mentre mi figuravo Hitler e Stalin che scorrazzavano nell'intestino retto, vidi l'immagine di Buddha profondamente impressa nei miei tre occhi frontali. «Ma le persone che non sono state
buone con gli altri tornano al mondo sotto sembianze di insetti.» «Che non sono state buone?» «Sì, che non sono state buone», confermò Buddha. «Non sono stata buona con gli altri?» «Esattamente.» «Okay, okay, forse non sono sempre stata perfetta. Ma chi diavolo lo è?» chiesi acida. «Più persone di quanto tu non creda.» E poi aggiunse anche: «Trai il meglio dalla tua nuova vita». A quel punto si voltò e si avviò, fischiettando sereno, in direzione dell'uscita del tunnel. Non riuscivo a capire. Non ero stata buona? Secondo lui non ero stata buona con gli altri? «Aspetta», gli gridai, e lo seguii di corsa. «Non abbiamo ancora finito!» Lui
non si voltò e proseguì semplicemente per la sua strada. «Io sono stata buona con gli altri, addirittura molto buona, anzi buonissima...» gridai. «Ho un gigantesco mucchio di ricevute di donazioni...» Risalii sempre più veloce il tunnel, finché le zampe posteriori non si aggrovigliarono a tal punto con le mediane che inciampai. Andai a sbattere contro la parete. Un cumulo di terra mi si sgretolò addosso. E quando ebbi liberato le mie antenne da quell'ammasso terroso, Buddha si era già dissolto nell'aria.
Capitolo 9
RIMASI da sola nel tunnel con i miei pensieri, tre milioni dei quali calcolati così a spanne mi arono contemporaneamente per la testa, in lotta per ottenere la mia attenzione. All'inizio era sembrato che l'argomento «Nell'ultimo anno ho partecipato addirittura a sette gala di beneficenza» risultasse vincente. Poi, per qualche attimo, «Chi dà a questa grassa formica il diritto di esprimere giudizi sulla mia persona?!» si fece largo salendo in prima posizione. Ma alla fine, al fotofinish, vinse la constatazione: «Merda, sono davvero morta».
Tuttavia, prima che potessi comprendere ciò che questo significava, fui distratta da uno scalpiccio. L'effetto sonoro era quello di una compagnia di soldati in avvicinamento, il che presumibilmente dipendeva in primo luogo dal fatto che si stava veramente avvicinando una compagnia. Una compagnia di formiche. Giungeva dalla direzione in cui Buddha era scomparso. Faceva strada una formicacapo dall'aspetto imperioso, la cui presenza, grazie al marcato senso dell'udito dovuto alle mie antenne, ero in grado di percepire anche a distanza. Marciando, la comandante gridava frasi del tipo: «Più veloci, fannullone», «Vi faccio correre io» e «Se non rigate dritto, vi caccio le antenne in quel buco che avete
nell'addome!» Alla comandante avrebbe certamente giovato un corso per motivare i collaboratori. La seguivano una decina d'operaie, che si trascinavano dietro qualcosa che somigliava a un pezzo di uno di quegli orsetti gommosi che piacevano tanto a Nils, il compagno di giochi di Lilly. Nils apparteneva alla categoria dei bambini tritanervi. Mi ricordai della mia ultima conversazione con quel marmocchio, quando con voce suadente gli avevo spiegato: «Se mi chiami ancora una volta 'stronza', un mostro verrà a cercarti di notte per cucirti quella piccola bocca fetida». «Ehi tu, dai una mano!» gridò la comandante. La guardai.
«Sì, ho detto a te!» Non sapevo come reagire, in fondo non capita tutti i giorni di essere rimproverata a suon di urla da una formica. «A quale unità appartieni?» «Io... non lo so», risposi, tanto sincera quanto sconcertata. La comandante, di fronte alla mia visibile confusione, si fece un po' più mite: «Ah, capisco, eri nella grande nebbia». «Quale grande nebbia?» «La grande nebbia che di tanto in tanto compare lì fuori. La maggior parte di coloro che vengono colti dalla nebbia muoiono miseramente. Quelli che hanno fortuna, come te, rimangono confusi o ciechi. O entrambe le cose.» Quella storia della grande nebbia
mi fece pensare che si trattasse di insetticida, che io stessa avevo utilizzato più di una volta invano per cacciare via le formiche dal patio. «Sì, ehm... in effetti sono vittima della grande nebbia», risposi. «Io sono il comandante Krttx», mi spiegò con voce gracchiarne. Non mi stupii solo dell'assenza di vocali nel suo nome, ma anche delle molte cicatrici che le attraversavano il corpo. Se le era procurate in battaglia? «Come ti chiami?» chiese Krttx. «Kim.» «Ma che razza di nome è?» E percepii il sogghigno sommesso delle soldatesse. «Silenzio nei ranghi», gridò Krttx. Che la truppa si divertisse evidentemente non era per lei tollerabile. «Unisciti a noi e
dai una mano, Kim», continuò, e nella sua bocca «Kim» suonò come un insulto particolarmente sprezzante. «No grazie», risposi. Mi mancava solo questo: essere morta e dovermi anche trascinare dietro un orsetto gommoso! «Dai una mano!» «Con questo tono, poi, non se ne parla affatto.» Non mi stava per niente bene che mi si rivolgesse la parola in quel modo. Se in una conversazione c'era qualcuno che alzava la voce, quella di regola ero io. «Ah, quale tono gradiresti?» chiese Krttx con fare mellifluo. «Un tono adeguato», ribattei. «DAAAI UNA MAAAANOOO!» sbraitò Krttx così forte da farmi vibrare le antenne. E poi, con un tono di nuovo mellifluo: «Era sufficientemente
adeguato?» «In realtà no», replicai. A quel punto la comandante delle formiche si infuriò davvero e sibilò: «Adesso tu dai subito una mano». «Perché dovrei?» «Perché altrimenti ti rompo l'osso del collo.» Questo era un argomento abbastanza convincente. Intimidita mi misi in fila e fui costretta a caricarmi sulle spalle il pezzo di orsetto gommoso insieme alle altre operaie. Al tatto era appiccicoso, con un odore incredibile di fragola artificiale. Lo trascinammo attraverso quel tunnel senza fine, che conduceva sempre più in profondità nella terra umida. Una fatica pazzesca. Era da tempo che non sudavo così. In effetti non ero mai stata un tipo sportivo. Ogni volta che Alex mi chiedeva di fare jogging con lui, mi limitavo a
rispondere: «Se Dio avesse voluto che gli uomini fero jogging, avrebbe fatto in modo che, con quei vestiti, avessero un bell'aspetto». Così ansimavo sotto quel rottame di gelatina zuccherosa, proprio come le formiche intorno a me che evitavano qualsiasi contatto visivo. Era una truppa abbastanza intimidita. Dopo un po' mi rivolsi alla giovane, piccola operaia che marciava al mio fianco: «Anche tu sei rinata?» Ma prima che lei potesse rispondere qualcosa, Krttx gridò: «Ehi tu, nuova, sai che cosa ci faccio con quelle che chiacchierano durante il lavoro?» «Rompi loro l'osso del collo?» chiesi. «Dopo avergli strappato le antenne.» Più noi eravamo spossate più le minacce
di Krttx diventavano creative. Alla fine dichiarò di voler allestire cose in nominabili con le nostre ghiandole sessuali. Ma io ero troppo esausta per prestare ancora ascolto. Le zampe vacillavano sotto il peso del pezzo di orsetto gommoso, le antenne percepivano l'odore pungente del mio stesso sudore, e io desideravo ardentemente immergermi nella schiuma di un bagno ayurvedico. Anche se mi era chiaro che era piuttosto raro trovare delle formiche immerse in bagni ayurvedici. Semmai solo come cadaveri annegati, destinati a scomparire nello scarico della vasca. Finalmente arrivammo all'estremità del tunnel, e io sentii un ronzio pazzesco. Di o in o si faceva più forte. E poi mi si presentò davanti la vista più
mozzafiato a cui avessi mai potuto assistere: la metropoli delle formiche. Una gigantesca cavità nelle profondità della terra, rischiarata dalla luce del sole che si intrufolava attraverso gli innumerevoli tunnel e che a me grazie agli occhi sensibili alla luce appariva come illuminata a giorno. Centinaia, migliaia, decine di migliaia di esemplari ronzavano, brulicavano qua e là e sfrecciavano incrociandosi continuamente. Ognuna conosceva la propria strada in quel regno fatte di piste, discariche di cibo e luoghi di cova. Ero sconvolta. Ecco come ci si doveva sentire se, cresciuti in una baita di montagna, si veniva catapultati al Cairo nell'orario di punta. Rivolsi lo sguardo alle formiche
alate che avano sopra le nostre teste in formazione di volo. Osservai le operaie, che costruivano dei loculi nei terrapieni con disciplina estrema. Guardai stupita le soldatesse, che trascinavano cibo in discariche enormemente alte. Era il caos, ma secondo modalità che rasentavano la perfezione. O era la perfezione secondo modalità caotiche? In ogni caso il tutto appariva monumentale! Improvvisamente due formiche volanti sfrecciarono appena oltre le nostre teste a velocità incredibile, come aerei Cessna. E ando risero spavalde: «Caspita, quanto sono smidollate queste operaie!» «Dev'essere davvero uno schifo vivere senza ali.» «Sì, per fortuna che non siamo donne.» Krttx, furiosa, le seguì con lo
sguardo e imprecò: «Stupidi ometti! Siete del tutto inutili in questo mondo». E io pensai: Questa è una frase che si sente pronunciare spesso anche dalla femmina dell'uomo. «L'unica cosa che sono in grado di fare è accoppiarsi con la regina», continuò a imprecare Krttx. E io pensai: Questa è una frase che non si sente pronunciare molto spesso dalla femmina dell'uomo. Seguii con lo sguardo le formiche volanti. Ero talmente esposta all'aggressione degli stimoli da non sentire nemmeno più le imprecazioni di Krttx. E fu un peccato, perché altrimenti l'avrei sentita dire: «Muoviti, o ti mordo il didietro!» «Ahi», gridai forte, e mi misi di nuovo in movimento.
Alla fine giungemmo con il nostro carico di orsetto gommoso a una discarica di cibo che consisteva, notai, essenzialmente in rifiuti umani: qui un resto di wafer testa di moro, là un pezzettino di cioccolata, qua una mezza caramella. A questa vista mi chiesi involontariamente: Le formiche possono avere problemi di diabete? Deposto l'orsetto gommoso eravamo tutte esauste. Krttx ci condusse al nostro dormitorio, in un avvallamento vicino alla discarica. Tutta la truppa svenne sul posto e cominciò a ronfare. Esclusa la giovane formica a cui avevo rivolto la parola nel tunnel. «Io sono Fss», mi disse. «Ciao, Fss, io sono Kim», risposi. «È davvero un nome assurdo»,
sogghignò. «Lo dice una che si chiama Fss», ribattei acida. Queste formiche erano bravissime a darti sui nervi. «Prima mi hai fatto una domanda», riprese Fss. D'un tratto ero di nuovo sveglia. Ed eccitata. «Sì, volevo sapere se anche tu eri rinata». Forse questa formica condivideva il mio destino? Non è che tutte le formiche erano uomini rinati? Forse non ero sola? Lei mi guardò, abbassò leggermente la testa di lato e rifletté. A lungo. E poi chiese con la massima innocenza: «Cosa significa 'rinata'?» La mia speranza crollò
Capitolo 10
LENTAMENTE sulla città delle formiche calarono il silenzio e la pace. Il continuo ronzare, affrettarsi e sfrecciare avevano trovato quiete. Quindi quella non era la classica city that never sleeps. Solo io non prendevo sonno, per quanto il mio corpo lo desiderasse. Non era così che mi ero immaginata la morte. Per essere precisa, non me l'ero immaginata affatto. Ero stata troppo indaffarata con la mia vita frenetica. Con cose poco importanti (per esempio la dichiarazione dei redditi), cose importanti
(per esempio la carriera) e cose estremamente importanti (per esempio i massaggi benessere). L'ultimo massaggio me l'ero goduto mentre Alex e Lilly si trovavano alla festa in giardino della scuola materna, a costruire insulsi nidi per le uova di Pasqua... Lilly! Dio mio! Non avrei più rivisto la mia bambina! Dovetti deglutire: non avrei assistito al momento in cui Lilly avrebbe lasciato alla fatina il suo primo dentino. Non avrei assistito al suo primo giorno di scuola. Alla sua prima uscita al cinema. Alla sua prima lezione di pianoforte Alla sua pubertà... okay, magari a quella potevo anche rinunciare. Ma al resto no! Ora Lilly doveva vivere la sua vita
senza di me. E io la mia senza di lei. In quell'attimo mi resi conto che anche le formiche hanno un cuore. Era situato proprio dietro le zampe posteriori, nel grasso addome. E al pensiero di mia figlia faceva terribilmente male. All'improvviso un urlo attraversò la quiete notturna: «Fermatelo!» Le formiche accanto a me lentamente si svegliarono, irritate. In alto, nella cupola di terra scura, appena rischiarata dalla luce della luna che entrava dal tunnel, intravidi il motivo dell'agitazione: una formica maschio che volava a velocità folle per salvarsi la vita. Inseguita da una decina di altre formiche volanti.
(Dalle memorie di Casanova: «Dopo il poco edificante atto d'amore, alla domanda della regina: 'E stato bello anche per te?' non avrei dovuto informarla in maniera così sincera sulle sue capacità erotiche».) Era uno spettacolo incredibile. Il fuggiasco voleva raggiungere uno dei tunnel che dal soffitto a cupola conducevano in superficie. I suoi inseguitori tentavano con tutte le loro forze di tagliargli la strada, ma lui li scansava in continuazione, con giravolte e scarti improvvisi. Sebbene non lo conoscessi e non avessi la più pallida idea di quale fosse il problema, speravo che ce la fe. Intuivo che altrimenti non sarebbe
stato piacevole per lui. «Lo prendono», disse Krttx con il tono di chi ha già assistito a scene del genere. Intanto le cose si stavano mettendo bene per il fuggitivo: si avvicinava sempre più al tunnel della salvezza, presto vi sarebbe scomparso dentro. Ora lo invidiavo davvero, avessi avuto anch'io delle ali! Sarei potuta fuggire da quel lurido formicaio. Magari sarei riuscita ad andare addirittura dalla mia piccola Lilly. Era questione di secondi perché il fuggitivo scomparisse nel tunnel, quando da un loculo del terrapieno sfrecciarono fuori altre trenta formiche volanti. «Altri amanti della regina», commentò Krttx. Riflettei brevemente su cosa
combinasse la regina con tutti quei maschi, ma mi accorsi che in realtà non volevo affatto saperlo. I cacciatori inferociti si scagliarono in formazione di volo serrata sulla formica in fuga e le tagliarono la strada poco prima dell'imbocco del tunnel. «Ora lo uccidono», disse Krttx con lo stesso tono di prima, della serie «Questa scena l'ho già vista spesso». E in effetti, tutte le formiche si precipitarono sul fuggiasco, che fu inghiottito dalle truppe in volo. Si vide solo una nuvola ronzante che ruotava a velocità elevata intorno al proprio asse. Dopo qualche secondo i cacciatori si separarono disperdendosi, e dal centro del gruppo la preda piombò come un sasso verso terra. Aveva perso i sensi?
Era morto? «Allontanatevi», ci rimbrottò Krttx. Le formiche della mia truppa schizzarono via in tutte le direzioni. Io rimasi ferma, continuavo a fissare come paralizzata la formica in caduta, e solo a quel punto compresi perché erano corse via tutte: mi stava precipitando addosso! Una fitta elettrica mi attraversò la testa. Probabilmente si trattava di una sorta di segnale di allarme delle formiche che attivava l'istinto della fuga: era più violenta di qualsiasi emicrania umana. Addirittura più crudele di un mal di testa da dispiacere amoroso. Tutto il mio corpo era pronto alla fuga, ma la mia mente aveva altre intenzioni: Se la formica mi si sfracella addosso, sarò morta. E se morirò, mi
libererò di questo incubo. Forse. L'importante era tentare. Rimasi ferma. La fitta elettrica in testa si faceva sempre più intensa, decisa a trasmettermi l'ordine: «E muovi quelle zampette luride!» Ma io mi opposi al dolore e mi aggrappai stretta al terreno. Non mi era più capitato di dominare così il mio corpo da quando a dodici anni avevo dovuto baciare quel ciccione di Dennis durante il gioco della bottiglia. «Sei pazza?» mi gridò Krttx, e mi spinse via dalla zona dell'impatto. Un atto eroico, per cui aveva rischiato la vita. Krttx era sì una comandante con un vocabolario che consisteva per l'ottantasette per cento in imprecazioni, ma per la sua truppa si metteva in prima
linea. Di quali superiori umani si potrebbe sostenere la stessa cosa? Io comunque non avrei mai rischiato la vita per le mie assistenti di redazione! (Una volta mi ero rotta un'unghia aiutando quella grassona di Sonia evitavo accuratamente di assumere persone dall'aspetto fisico migliore del mio a liberarsi la manica dal tritadocumenti. In seguito avrei deciso di abbandonare le Sonie di questo mondo al loro destino trituratore.) Ma il coraggioso intervento di Krttx non sarebbe stato necessario: un attimo prima dell'impatto la formica in caduta si risvegliò alla vita. Agitò nervosamente le ali, anche se la sinistra sussultò a stento. Era strappata. Quel movimento energico frenò un po' la
caduta, ma non del tutto. L'insetto fece un violento atterraggio di fortuna, proprio accanto a me, e l'urto mi fece vibrare i piedi. Stordita, guardò nella mia direzione, tuttavia non sembrò percepire realmente la mia presenza. Tentò di allontanarsi, ma le zampe crollarono sotto il peso del suo corpo. Ripartì strisciando carponi ed emise un grido di dolore che mi strinse il cuore. Krttx urlò: «Catturatela!» Le formiche della mia truppa si lanciarono allora sulla povera creatura. Colpirono il fuggiasco con le zampe, lo morsero con le loro mascelle, esultando con grida di guerra. Un massacro. Non potevo sopportarlo e feci quello che farebbero i più in una situazione del
genere: guardai da un'altra parte. Mi nascosi addirittura gli occhi con le zampe, il che comportò una sfida logistica non da poco, tenendo conto dei cinque occhi e delle sei zampette. Ma non potevo lasciar sfumare così la mia coscienza: non dovevo forse intervenire, come aveva coraggiosamente fatto Alex quella volta a Venezia, contro Salvatore il palpatore? D'altro canto qui si trattava di formiche e non di umani. Ma d'altro canto ancora, in futuro mi sarei potuta guardare allo specchio se adesso non lo avessi soccorso? Tuttavia, d'altro canto ancora ancora, in quanto formica non avrei più avuto l'imbarazzo di dovermi guardare allo specchio.
E d'altro canto ancora ancora ancora, la situazione era così insopportabile che semplicemente non riuscivo più a tollerarla. Perciò gridai rivolta alle formiche: «Vermi schifosi!» Le formiche proseguirono senza la minima reazione. Molto probabilmente, in quel contesto, «Vermi schifosi» non era la scelta migliore tra gli insulti. Quindi gridai ancora più forte: «Smettetela. È disumano!» «Disumano?» balbettò il fuggitivo. Le formiche continuavano a percuoterlo, ma lui sembrava non sentire più niente. Era concentrato solo su di me. «Disumano... questa parola... le formiche non la conoscono... voi... voi siete... anche voi siete rinata?» Ero
elettrizzata: non ero l'unico essere umano in quelle condizioni. Non ero sola con il mio destino! E se in quella comunità di formiche c'erano anche altri esseri umani reincarnati, allora forse, insieme, potevamo salvarci. In qualche modo. Tentai di impedire alle altre formiche di continuare a infierire su quell'essere rinato. «Adesso smettetela! Così lo uccidete!» Con mia grande sorpresa, Krttx disse: «Ha ragione. Ora basta». Le formiche lasciarono la presa. La vittima giaceva là immobile, troppo debole per poter dire ancora qualcosa. Il fatto di mantenere un contatto visivo con me sembrava costarle tutte le energie rimaste. Krttx si piantò davanti al fuggitivo, protese in avanti la parte inferiore del suo corpo ingobbito, oscillò
leggermente di qua e di là e gli spruzzò sul volto un getto potente di un liquido nero. Acido formico. Feci appena in tempo a chiedergli frettolosamente: «Come ti chiami?» Quello mi rispose: «C... Ca... s...» e perse i sensi. (Dalle memorie di Casanova: «In tutte le mie tristi vite da formica incrociarono la mia strada solo altri tre esseri umani reincarnati. Il primo fu il famoso Gengis Khan che, come mi descrisse, aveva già alle spalle alcune altre dolorose vite, per esempio da pulce di maiale. Quando sentii questo racconto, lo trovai sovranamente divertente. Ma lui tremò adirato a causa delle mie risa. Un tempo ti avrei fatto gettare nell'olio
bollente. Ma ora sono diventato più pacifico. Così disse, per poi fare un nodo gordiano con le mie antenne. Da quel momento evitai accuratamente di incrociare la strada del «pacifico» Khan. Il secondo essere umano reincarnato che incontrai fu una formica che mi si presentò con il nome di Albert Einstein. Albert accettava in silenzio il proprio destino e si limitava a notare che evidentemente l'universo era ancora più relativo di quanto non avesse ritenuto. E il terzo essere umano reincarnato, con cui potei fare conoscenza come insetto, fu madame Kim, la creatura che avrebbe cambiato radicalmente la mia misera esistenza».) Le altre formiche portarono via il fuggitivo. Chiesi alla piccola Fss che cosa
ne sarebbe stato di lui, e la sua risposta fu: «La decisione la prenderà la regina». «E cosa deciderà?» chiesi senza mollare. «O decide di farlo giudicare da un tribunale pubblico...» «Oppure?» Deglutii. «Lo farà giudicare a porte chiuse.» Deglutii con maggior forza. Era così crudele: ora che avevo trovato un altro essere umano reincarnato, potevo solo assistere alla sua imminente sepoltura.
Capitolo 11
MENTRE le altre formiche dormicchiavano e rantolavano emettendo rumori nasali in cerca di aria, alcune di loro si muovevano inquiete di qua e di là. Sognavano. Forse sognavano cibo. O il fuggiasco. O in quali aperture del corpo Krttx potesse loro infilare le antenne. Che anche le formiche potessero sognare, gli scienziati non lo avevano mai notato. Ma quei signori sono degli incapaci, altrimenti avrebbero inventato già da tempo un caffè solubile decente. Invece lasciano che stazioni spaziali precipitino sulla testa di persone
innocenti. Be', grazie tante. Mi immaginai una situazione in cui spruzzavo acido formico sul viso degli scienziati russi responsabili della mia morte. Dio mio, era solo un giorno che ero morta e già i miei pensieri somigliavano un po' a quelli di una formica. A quel punto piombai nel baratro profondo dell'autocommiserazione. Pensai a tutte le cose che non avrei più potuto fare perché non ero più un essere umano: shopping a Manhattan, baci con Daniel Kohn, trattamenti di bellezza in un centro benessere, sesso con Daniel Kohn, le linguine agli scampi al nostro consueto ristorante italiano, la dichiarazione d'amore di Daniel Kohn... In quel momento mi accorsi che alla
mia mente Daniel Kohn si presentava con una frequenza decisamente superiore alla media, e mio marito con una frequenza decisamente inferiore. Ma era poi così sbagliato? Il mio matrimonio era giunto al termine. E in più ero anche morta. Quindi potevo tranquillamente pensare a un altro uomo! E con il pensiero alla serata di sesso supercalifragilistichespiralidoso con Daniel Kohn mi addormentai. Feci un sogno folle e agitato in cui ero di nuovo un essere umano. Una sensazione meravigliosa. Avevo di nuovo due occhi, due gambe, dieci dita con dieci unghie smaltate. Tutto era al suo posto. Anche della mia cellulite riuscivo a rallegrarmi. Ma poi improvvisamente mi trovavo di
fronte Krttx. Di dimensioni umane. Mi afferrava e mi conduceva davanti ad Alex, che mi appariva nelle sembianze di una formica regina e annunciava con voce tonante: «Per adulterio commesso con Daniel Kohn, ti condanno a morte». Quindi centinaia di gigantesche formiche marciavano verso di me affilando bramose le loro mascelle. *** Mi svegliai urlando. Ero terrorizzata all'idea di riaddormentarmi Ma era ancora peggio giacere lì sveglia, in preda ai rimorsi di coscienza nei confronti di Alex.
Dopo lungo rimuginare caddi finalmente in un sonno tranquillo. Solo per essere svegliata poco dopo da Krttx «Alzarsi!» gridò. Con quella voce non solo avrebbe svegliato i morti ma li avrebbe anche indotti a fare ginnastica mattutina. All'istante tutte le formiche scattarono sull'attenti. Soltanto io non fui subito in piedi; niente da fare, ero ancora spossata. «Hai dormito abbastanza!» mi rimproverò Krttx, gridando. Dormito abbastanza? Ma aveva tutte le rotelle a posto? Avevamo riposato forse un paio d'ore. «Dobbiamo andare a procurarci del cibo!» Avevo ancora male dappertutto per la faticaccia del giorno prima, e ora dovevo di nuovo trascinarmi qualcosa
sulle spalle? Quella sarebbe stata d'ora in poi la mia vita, trascinarmi sulle spalle ogni giorno un orsetto di gomma? «Buddha!» gridai. Volevo reclamare. Così non andava. Non si può condannare la gente a una vita da formica, così, su due piedi, senza un giusto processo! «Buddha!» gridai ancora una volta. «Qui non c'è nessun Buddha», tuonò Krttx, pericolosamente innervosita. Gridai di nuovo: «Buddha, se non mi togli subito da questo schifo, io... io...» Mi venne in mente che non avevo alcun mezzo coercitivo contro di lui. In compenso Krrtx ne aveva uno contro di me. «Alzati subito», disse, «oppure...» «Tu mi spezzi l'osso del collo, mi strappi le antenne eccetera
eccetera...» completai la frase, e sconfitta cercai di alzarmi. Ben sapendo che era molto probabile che il grasso Buddha non si sarebbe più fatto vivo. La nostra truppa si avviò faticosamente in salita lungo il tunnel, verso la superficie. L'ascesa era ripida, a volte superava i quarantacinque gradi. Perfino i ciclisti professionisti ci sarebbero riusciti solo dopandosi. All'uscita Krttx richiamò la nostra attenzione sui pericoli che ci aspettavano fuori. «Dobbiamo stare attente ai ragni.» Ragni? Mostri con otto zampe! Erano certamente dieci volte più grandi di me, con quel mio corpo da formica! Avevo già dei problemi quando quelle bestie erano cento volte più piccole e strisciavano nella doccia.
In quei casi avevo sempre chiamato Alex, che con un bicchiere spingeva il ragno verso l'esterno, mentre io invocavo a gran voce la pena di morte affinché il mostro non si rimettesse a strisciare in casa. E ora rischiavo di essere ingoiata da un ragno? Mi sentii male. Krttx ci mise in guardia anche dalla grande nebbia, e poi menzionò anche un'altra cosa: il raggio concentrato. «Il raggio concentrato?» mi informai. «Qualche giorno fa alcune formiche volanti sono rimaste incenerite. Le sopravvissute hanno raccontato che improvvisamente la luce del sole si era fatta incandescente e aveva bruciato le sue vittime con un raggio concentrato.» Una lente! mi ò per la testa. Era stata
proprio Lilly a raccontarmi che Nils, il bambino tritanervi, aveva giocherellato con il fuoco servendosi di una lente. Dentro di me cominciò a farsi strada la speranza di essere finita nel formicaio del nostro patio. Era improbabile, ma era un bel pensiero, perché se così fosse stato c'era la possibilità di vedere la mia piccola! La stanchezza abbandonò le mie gambe, ora avevo solo voglia di correre verso l'uscita, in superficie, per scoprire se mi trovavo nelle vicinanze della mia piccola, amata Lilly. «Avanti, marsch!» ordinò Krttx. Era la prima volta che mi andava a genio quello che diceva. Uscimmo alla luce del sole. Era accecante, ma i miei occhi si abituarono
rapidamente. Dopo un breve tratto di strada attraverso giganteschi fili d'erba, mi accorsi che stavamo strisciando su una superficie di pietra. Eravamo sul patio? Mi guardai intorno furtiva. Era tutto enorme: il prato faceva l'effetto di una foresta vergine, gli alberi si slanciavano così in alto che non riuscivo a individuarne le foglie, e una farfalla di aggio mi sembrò un jumbo jet. Mi resi subito conto che con i miei due occhi laterali ero in grado di mettere a fuoco lo sguardo come con un binocolo. In questo modo l'ambiente circostante non agiva più così violentemente su di me. Potevo vedere se un filo d'erba era spezzato oppure no, potevo riconoscere con chiarezza le foglie sui tronchi e registrare che la farfalla aveva
un'espressione felice sul volto. Si godeva il suo volo in pieno sole. O era per questo, o per via della canapa che il nostro vicino di casa coltivava segretamente in giardino. Per essere sicura di trovarmi sul nostro patio, decisi di distogliere lo sguardo dal prato. Mi girai. Adagio. Con il cuore che mi batteva all'impazzata. E vidi... la nostra casa! Dopo un secondo di gioia per averla riconosciuta, mi misi frettolosamente in movimento. Volevo vedere Lilly. Subito! Ma Krttx mi si parò davanti: «Dove pensi di andare?» «Là dentro!» «Vuoi andare dai grglldd?» «Grglldd?» chiesi. «Sono gli esseri che ci lasciano cadere addosso il cibo.» A quel punto dovetti sghignazzare. Le formiche si
appostavano nell'erba ad aspettare che gli uomini lasciassero cadere dei dolciumi: Charles Darwin si sarebbe stupito di questa evoluzione. «Là dietro», dissi indicando la casa, «c'è ancora più cibo.» «Può essere, tuttavia non è lì che stiamo andando.» «Perché no?» «Per questo motivo», disse Krttx indicando una ragnatela. Pendeva esattamente davanti alla portafinestra. Imprecai contro me stessa, visto che ero stata proprio io, prima di partire per la cerimonia del premio, a dire alla donna delle pulizie di saltare il turno. A ridosso di una festa di compleanno di bambini non ha alcun senso fare le pulizie. Fissai la ragnatela, in effetti aveva un aspetto minaccioso. Ma io volevo andare da Lilly, e non mi importava se c'era un
ragno. E se era dieci volte più grande di me, il che era del tutto probabile. Nulla poteva fermarmi! Il mio desiderio di vederla era semplicemente troppo forte. Aguzzai lo sguardo e constatai: «Là non c'è nessun ragno». A quel punto anche Krttx guardò in quella direzione. «E dietro quella porta ci sono montagne di cibo, che possiamo solo sognarcelo.» Krttx era incerta. «Io vado», dissi decisa, e mi avviai. «Andiamo anche noi», ordinò Krttx. Le altre formiche la seguirono tremanti, e dal loro comportamento fu chiaro che se ci fosse stato un minimo di democrazia avrebbero deciso diversamente. La nostra truppa si avvicinò alla
ragnatela. C'era odore di muffa, i fili si muovevano impercettibilmente al vento. Vedere da vicino un affare del genere, dalla prospettiva di una formica, destava una sorta di timore reverenziale, con una certa accentuazione sul «timore». Nella mia testa si riattivò il segnale di allarme, e guardando le altre formiche per capire se per loro era lo stesso, vidi che tutte volevano andarsene il più in fretta possibile. Grazie al cielo il ragno non era veramente in casa, e così raggiungemmo in sicurezza la soglia e ci arrampicammo all'interno. Non c'era nessuno, in compenso la tavola era apparecchiata con torta e biscotti. Che significato poteva avere? Il compleanno era ato.
Perché di nuovo la torta? «Le tue promesse non erano esagerate», disse Krttx sorridendomi. Fino a quel momento non sapevo che fosse capace di sorridere. Sentii aprirsi la porta, comparve Alex e disse: «Venite!» La sua voce risuonò come un tuono, le mie antenne vibrarono. Sperai che anche l'udito potesse essere regolato come la vista. E la mia speranza non fu disattesa. «C'è il caffè e il dolce», sentii dire ad Alex, ora a un volume normale. Si avvicinò al salotto. Lo seguirono rumori di diversi i. «Grglldd!» gridarono le formiche in preda al panico, e si allontanarono di corsa. Solo io rimasi lì ferma, e vidi Alex
che entrava in salotto. Indossava un abito scuro. A quel punto mi fu chiaro perché la tavola fosse apparecchiata: si trattava del mio rinfresco funebre.
Capitolo 12
QUANDO si viene a sapere che si è morti è dura. Ma solo quando lo sanno anche gli altri diventa una brutale certezza. È come scoprire un brutto neo sulla coscia. La sua esistenza già di per sé non è simpatica, ma solo quando un amante la vede facendo sesso diviene realmente spiacevole. Il problema è che la morte è un tantinello più ripugnante di un neo. Alex non indossava la cravatta. La odiava. Neanche in occasione del nostro matrimonio a Venezia la portava. In quella circostanza lo avevo addirittura
minacciato di annullare, senza possibilità di risarcimento, la notte di nozze, se non se la fosse messa. Volevo un classico matrimonio con tutti gli annessi e connessi, e tra gli annessi e connessi c'era anche la cravatta dello sposo. Ovviamente non attuai la mia minaccia: la notte di nozze ci fu, e fu meravigliosa. Alex baciò tutto il mio corpo. Anche il mio neo. Senza soffermarsi sorpreso. Tutti gli altri uomini, compreso Kohn, alla sua vista si erano bloccati per un attimo, Alex neanche un decimo di secondo. A quel tempo amava tutto di me. Era semplicemente fantastico. Alex fissava con sguardo vuoto la tavola apparecchiata. Era evidente che avesse pianto, aveva gli occhi arrossati.
Questo mi stupì, e poi mi stupii del fatto di essermi stupita. Forse non ci amavamo più, ma eravamo pur sempre stati felici per molti anni, insieme. Piangere era senza dubbio normale. «Ehi, matta», gridò Krttx, «vieni qui!» Mi guardai intorno e vidi che la truppa aveva trovato rifugio sotto la nostra vecchia poltrona della televisione, proprio dietro le frange. Ignorai Krttx, perché dietro Alex era entrato nella stanza Carstens, il mio capo. La sua conturbante eau de toilette aleggiò intorno alle mie antenne. «Avrebbe potuto tranquillamente invitare un paio di colleghi di Kim», disse rivolto ad Alex. Trovo anch'io, pensai. Anche troppo volentieri li avrei osservati piangere la
mia scomparsa. «In questo caso avrei dovuto are la giornata ad asciugare il pavimento dalle loro lacrime di coccodrillo.» Tipico di Alex. Lui era schietto, diretto, coscienzioso, affettuoso. In poche parole, una bella persona... che qualche volta, con la sua morale irreprensibile, era in grado di darti simpaticamente sui nervi. Eppure per molti anni era stato fantastico avere uno come lui al mio fianco. In un mondo pieno di menzogne, intrighi e ciglia finte lui era l'unica persona onesta con me. «Qui voglio solo persone che volevano bene a Kim», proseguì Alex. Guardai la tavola apparecchiata con la torta e contai cinque miseri coperti. Non un granché come risultato della somma
delle persone che mi volevano davvero bene. Questo mi scioccò e mi intristì. La successiva a entrare in salotto fu mia madre. Le mani le tremavano, il che era un buon segno, perché voleva dire che quel giorno non aveva ancora toccato alcol. «Siediti, Martha», disse Alex cordiale. Riusciva sempre a essere gentile con lei. Io non ce l'avevo mai fatta senza perdere subito la pazienza. Il mio record era di diciassette minuti e ventitré secondi. Li avevamo cronometrati insieme. Era accaduto un giorno in cui mi ero fermamente ripromessa di andare d'accordo con lei e non litigare il più a lungo possibile. «La mia pallina magica», sentii gridare Lilly dal corridoio.
L'attimo successivo una pallina di gomma arancione volò in salotto. Prima il proiettile urtò contro il tavolo, da lì rimbalzò andomi sopra la testa, al punto che lo spostamento d'aria quasi mi travolse, infine si conficcò nella poltrona, proprio davanti alle frange. Le formiche furono percorse da un tremito. Una pallina magica arancione andava decisamente oltre la loro capacità di immaginazione. Io rimasi imibile. In primo luogo mi risultava difficile provare paura per una pallina magica, grossa o no che fosse. E secondo avevo occhi solo per Lilly, che entrò correndo nella stanza. Indossava il suo vestito verde preferito (Alex non l'avrebbe mai convinta a vestirsi di nero), teneva stretto al petto il suo orsetto e
anche lei aveva gli occhi arrossati. Mi mossi subito nella sua direzione, più veloce che potevo. Volevo prenderla in braccio. Stringerla. Consolarla. «Non sono morta! Non devi piangere!» «Ma ora che cosa fai, matta?» gridò Krttx, con la voce ancora un po' malferma dopo l'esperienza della pallina. E la domanda era assolutamente giustificata: io ero una formica. Non avrei potuto prendere in braccio per consolarlo neanche un dito mignolo di Lilly. Completamente abbattuta rimasi ferma a metà strada, con il desiderio impellente di scoppiare in lacrime. Ma era evidente che le formiche non avessero liquido lacrimale. Così non potevo dare sollievo al dolore della mia anima neppure con il pianto. Mi sentivo lacerata dentro, e non
potevo farci niente. E più guardavo gli occhi arrossati di Lilly, più la situazione precipitava, di secondo in secondo. Non potevo sopportare oltre quella vista e distolsi lo sguardo, riportandolo sul tavolo. Mi accorsi che mancava una persona. Era forse Daniel Kohn? No, certamente Alex non lo aveva invitato. Era mio padre? Non mi sembrava probabile. Non sapevo neanche dove vivesse, l'ultima volta che avevo ricevuto una sua cartolina era stato quando Baywatch era ancora un telefilm di punta. «Accidenti quanto ci ho messo a trovare un parcheggio», disse una voce fin troppo nota. Nina! Cosa ci faceva al mio banchetto funebre?
Aveva un taglio di capelli sbarazzino, un corpo scolpito dalla ginnastica aerobica e indossava un abito nero di sartoria, talmente aderente che sembrava voler richiamare l'attenzione degli uomini dicendo: «Guardatemi pure, abbandonatevi tranquillamente alle vostre fantasie erotiche». Anche se continuava a vestirsi in maniera provocante come da ragazza, ora lo faceva con più stile. In ato eravamo sempre state a caccia insieme. Esibivamo scollature che mettevano a rischio di fuga le nostre tette, e ci spruzzavamo così tanta lacca che vicino ai nostri capelli era meglio non usare un accendino. Nina e io eravamo delle outsider in mezzo a tutti i borghesucci della scuola, e ci godevamo questo nostro status.
Provenivamo entrambe da famiglie distrutte. Entrambe non intendevamo lasciarci mettere i piedi in testa. Entrambe volevamo conquistare il mondo. Io ci riuscii nella televisione. E Nina, be'... lei in realtà non ci riuscì. Alla fine frequentò un corso di formazione in marketing turistico. Anche in amore le cose non le andarono un granché bene. Il bilancio fu di un aborto e di una serie di relazioni, ciascuna della durata massima di tre mesi. Quando eravamo ancora amiche per la pelle, una volta le avevo chiesto se questo non la rendesse infelice. Stringendosi nelle spalle lei aveva risposto che l'uomo giusto per lei non era ancora nato. «Mostrami un uomo intelligente, bello e perbene e io ti mostrerò l'ottava
meraviglia del mondo.» Allora non presumevo ancora che Alex incarnasse questo ideale. E poi arrivò la serata in cui ebbe fine la nostra amicizia. Avevamo più o meno venticinque anni, Lilly non era ancora nata, e io lavoravo come una pazza per il mio primo incarico alla radio. Di conseguenza era raro che mi trovassi nel vecchio appartamento di Berlino nel quale all'epoca convivevo con Alex. E poi un giorno, per colpa di un'influenza intestinale, tornai a casa dal lavoro prima del previsto, e dal salotto mi giunse l'eco di sonore risate. Alex e Nina se la savano. Nessun problema. Percorsi il corridoio: schiamazzavano a volume decisamente alto.
Anche in questo caso, nessun problema. Entrai in salotto e vidi che indossavano solo biancheria intima. E qui il problema c'era, eccome. Tentai di non fare scenate. Era mia intenzione mantenere la calma. Feci un respiro profondo, tentai la strada del dialogo e... vomitai sui piedi di Nina. Non avevo mantenuto particolarmente la calma. E mentre Nina fuggiva rapida a casa per farsi una doccia, Alex tentò di spiegarmi con voce rotta dalle lacrime che non era andato a letto con lei e che era assolutamente la prima volta che la baciava. Stava attraversando un brutto momento di crisi riguardo ai suoi studi di biochimica, aveva pasticciato con alcuni
esami e non aveva la minima idea di come avrebbe fatto a scrivere la tesi. In più aveva la sensazione che io non mi interessassi affatto a tutto questo, perché ero sempre a lavorare e sempre stanca, era quasi difficile rivolgermi la parola, e poi lui non voleva scaricar mi addosso anche i suoi problemi, ma Nina lo stava a sentire, lo ascoltava, gli dava consigli, lo confortava, lo aiutava a valorizzarsi. Così una cosa tira l'altra, e forse una cosa non avrebbe tirato l'altra se io fossi stata un po' più disponibile e meno assorbita dal mio lavoro, eccetera eccetera eccetera... Di tutto questo non mi importava niente. Mi sentivo ferita, profondamente ferita! E con la voce rotta dal pianto come la sua gli diedi dieci secondi esatti per decidere: o io o Nina.
I dieci secondi gli servirono tutti. Poi scelse me. E Nina non la vidi più. Sperai che non riuscisse più a togliersi quell'odore dalle dita dei piedi. L'ultima cosa che venni a sapere di lei fu che aveva accettato un lavoro ad Amburgo. Ma ora eccola di nuovo. E il mio segnale di allarme di formica si rimise a suonare. «Chi desidera un po' di caffè?» chiese Alex, e tutti risposero dì sì, perfino Martha, che ringraziando Dio in presenza di Lilly aveva sufficiente contegno per non pretendere una qualche bibita cento per cento alcolica. «Ti aiuto», disse Nina ad Alex. E gli rivolse un sorriso. Era uno di quei sorrisi
innocui. Di quelli in cui il desiderio malinconico che celano è quasi invisibile. Gli uomini non riescono assolutamente a coglierlo. Solo le donne ci riescono. Anche le donne reincarnate in una formica. Ero fuori di me dalla rabbia: ero morta da appena tre giorni. Il mio corpo era di certo ancora caldo. D'accordo, forse non più esattamente caldo. Ma di sicuro ancora a temperatura ambiente. E Nina già desiderava mio marito? Aveva addirittura la sfrontatezza di rivolgere la parola a mia figlia. «Hai voglia di una cioccolata calda?» Lilly annuì. «Allora vado a preparartela», disse, e poi fece una cosa che mi mandò su tutte le furie: accarezzò Lilly sui capelli.
«Lascia in pace mia figlia!» gridai. Ma come ovvio, le uniche a sentirmi furono le formiche, nelle quali a quel punto si consolidò definitivamente l'impressione che io fossi del tutto fuori di testa. Rimasi per due secondi immobile: era forse una reazione esagerata? Non è che Nina voleva solo consolare un po' la piccola? Ma conoscevo Nina, lei era come me. Se voleva qualcosa poteva are anche su un cadavere. In questo caso, il mio. E lei voleva Alex. Da sempre. E per arrivare al suo cuore doveva prima conquistare nostra figlia.
Capitolo 13
FUORI di me, corsi in avanti con l'intento di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Non potevo certo stare a guardare mentre mi portavano via la famiglia! Arrivata alla gamba del tavolo, mi ci attaccai con le ventose delle zampe e mi arrampicai, mentre Alex e Nina uscivano dalla cucina con le bevande calde. Lilly andò in camera sua a prendere un gioco e Martha approfittò dell'assenza della piccola per scolarsi un doppio sherry. Infiammata a dovere, cominciò a riempire di chiacchiere Carstens. «Anche lei della televisione?» Lui
annuì. «Prima o poi dovrebbe fare una trasmissione su questi siti internet di incontri per single. Per le donne come me non è affatto divertente.» «Ah sì?» chiese Carstens con malcelato disinteresse, portandosi un bicchiere d'acqua alla bocca. «Sì!» ribatté mia madre. «Lo sa che la maggior parte dei vecchi caproni che si fanno vivi vuole solo fare sesso?» A Carstens andò di traverso l'acqua. Martha continuò imperterrita: «Nessuno desidera semplicemente una bella chiacchierata. Sono tutti un branco di coglioni». Carstens disse quello che chiunque nella sua situazione avrebbe detto: «Devo andare un secondo in bagno». Si alzò avviandosi. Intanto Alex era
entrato con il caffè, assistito da Nina, che portava la cioccolata calda per Lilly. Aveva già l'aria della padrona di casa! Accelerai arrampicandomi sempre più rapida sulla gamba del tavolo. Reinhold Messner era un pivello al confronto. «Il discorso del pastore è stato molto bello», disse Nina. «Sì, ha parlato molto bene del dolore materno», si intromise mia madre. «Soprattutto ha colto nel segno nel descrivere Kim», commentò Alex. Queste parole mi indussero ad arrestare un attimo la risalita; che cosa aveva detto di bello il pastore riguardo alla mia persona? «Ha parlato a lungo della sua importanza per la società», disse Nina.
Mi sentii lusingata. «E del fatto che era una buona madre», aggiunse Alex. L'assenza di ironia nella voce di Alex mi irritò. Ogni tre giorni mi rimproverava del contrario. Invece ora credeva che fossi una buona madre? Sarebbe stato bello. Improbabile, ma bello. Nel frattempo Lilly era entrata nella stanza con in mano il suo Game Boy, e Nina le depose davanti la cioccolata. «Spero che non scotti troppo», disse. «No, è la temperatura giusta per Lilly», rispose Alex. Questo complimento rivolto a Nina mi fece dimenticare tutto. Infuriata scalai il tavolo con l'intenzione di strisciare sulla morbida superficie della tovaglia in direzione di Lilly, ma improvvisamente
mi ritrovai vicina... alla torta! Il mio istinto di formica urlò: «La voglio!» e diede alle zampe l'ordine di marciare. Mi diressi verso la torta come un'indemoniata, e di lì a poco, contro la mia volontà, saltai sull'appiccicosa glassa di cioccolata. Con il gusto di una formica, mangiare una torta era un'esplosione dei sensi senza pari. Meglio di qualsiasi orgasmo, a esclusione di quelli avuti nei primi anni con Alex e di quello che mi aveva regalato la notte d'amore con Daniel Kohn. Stordita dalla beatitudine me ne stavo sulla fetta di torta e mangiavo, e mangiavo. Da lontano come attraverso una spessa
cortina sentii Lilly che diceva: «Nina, c'è una formica sulla tua torta». Ma la reazione di Nina non fu abbastanza tempestiva e, insieme alla torta, io finii nella sua bocca!
Capitolo 14
ESSERE mangiata da Nina fu un modo di morire ancora più idiota dell'essere colpita dal lavabo di una base spaziale. Di nuovo ai mentalmente in rassegna la mia vita (di occhi interiori le formiche ne hanno uno). Però questa volta rividi soltanto la mia triste esistenza di formica: l'incontro con Buddha, le imprecazioni di Krrtx, la vista della splendida città delle formiche, il brutale pestaggio dell'essere umano rinato, la ragnatela, la pallina magica arancione, il tentativo di Nina di prendere il mio posto in famiglia... Quando è questa la vita che a
davanti agli occhi, non si è poi così tristi all'idea di morire. Rividi la luce. Si fece sempre più luminosa. Era stupenda. Mi avvolse tutta. Più dolcemente della prima volta. Ancora più calda. Più amorevole. L'abbracciai e lasciai che m'invadesse. Mi sentivo così bene. Così protetta. Così felice. L'incubo era finito. Per la durata di due secondi. Poi ero di nuovo una formica. Avevo un corpo diverso, più minuto e più svelto, ma ero di nuovo una stramaledetta
formica! Torna alla sorte di formica, non conquistare alcuna pace interiore, e sii invece frustrata come mai prima! «Buongiorno», sentii sussurrare all'affabile voce di Buddha. Mi voltai. Mi trovavo di nuovo nel tunnel sotterraneo in cui mi ero già risvegliata la volta precedente. E anche questa volta a sorridermi era un Buddhaformica incredibilmente grasso. Appariva molto soddisfatto di sé, del mondo, di tutto il cosmo. Tutto il contrario di me. «Noi... dobbiamo... parlare!» pretesi, rabbiosa come non mai. «Sei addolorata per non essere potuta uscire alla luce e all'aria», constatò Buddha.
Era vero. Ma davanti a lui non volevo ammetterlo. E la cosa non doveva neanche riguardarlo. Nel mio ordine del giorno avevo un altro argomento da discutere. «Non ho meritato di rinascere formica!» «Hai una visione sorprendente delle cose», disse Buddha divertito. «È vero che ho fatto qualche stupidaggine, ma il tuo giudizio è troppo duro!» brontolai. «Pretendo che tu mi liberi da questa esistenza da formica.» «Questo non posso farlo.» «Ma se qui sei il Gran Mogol!» «Puoi essere solo tu a liberarti.» «E come?» chiesi eccitata. Se c'era una via d'uscita a quella situazione, volevo avere la mappa. «La via si trova strada facendo», sussurrò Buddha. «L'hai letto in un cioccolatino?» chiesi innervosita.
«Può essere», sorrise dolcemente Buddha, «ma non per questo è meno vero.» Così parlò, per poi dissolversi pian piano nell'aria. Il tipo cominciava a darmi fortemente sui nervi! Per un attimo riflettei su cosa avesse voluto dire coi suoi proverbi da cioccolatino, ma non ne avevo la più pallida idea. E così ripensai al banchetto funebre. Nina voleva prendersi Alex. E lui le avrebbe ceduto. Non oggi. Non domani. Ma prima o poi di sicuro. Lo sapevo. Perché Nina voleva così. E Alex era già stato una volta lì lì per scegliere lei. All'epoca ero ancora in vita. E adesso ero addirittura morta.
Quindi non ero più d'intralcio, e prima o poi Alex si sarebbe messo con Nina. E allora lei sarebbe diventata la nuova mamma di Lilly. Al pensiero mi si strinse lo stomaco. A una certa distanza percepii il trotterellare di i di formiche e il profluvio di imprecazioni di Krttx. Di una cosa ero certa: non potevo di nuovo essere arruolata. La mia vita da formica dovevo prendermela in mano da sola, o meglio, nelle mie sei mani prensili, per impedire in qualche modo che Nina adottasse la mia famiglia. E c'era una sola persona che poteva aiutarmi: quell'essere umano reincarnato formica che la regina voleva far giustiziare. Forse lui conosceva una via per poter influire, co me uomo con
sembianze da formica, sull'esistenza degli uomini veri. Così corsi via prima che Krttx mi potesse anche solo scorgere, e iniziai la mia nuova vita. Una vita in cui Giacomo Casanova giocò un ruolo essenziale.
Capitolo 15
CORSI verso la città delle formiche pulsante di vita frenetica e formulai un piano: avrei scoperto dove si trovava il carcere sotterraneo della regina e poi... poi avrei deciso il da farsi. D'accordo, non era un piano particolarmente geniale, ma date le circostanze era già abbastanza buono. Le circostanze erano le seguenti: non volevo neanche immaginarmi come sarebbe stato se Nina avesse cresciuto la mia piccola Lilly. Ma come sempre accade quando non ci si vuole immaginare qualcosa, lo si fa lo stesso, e con i colori
al neon più variopinti. Il mio occhio interiore mi presentò l'immagine della mia dolce e graziosa figlioletta: una creaturina che la notte si accoccolava vicino a me perché aveva paura del perfido Gargamella, così inetto da non riuscire neanche ad abbindolare i Puffi. Nina non poteva avere tra le grinfie Lilly, per trasformarla in una donna spietata e dura come il marmo. In una donna come... come me? Mi scoprii a sorprendermi, allontanai rapidamente il pensiero e invece maledissi Nina con energia ancora maggiore. «Troia insolente», imprecai a bassa voce. «Che cosa hai detto?» mi chiese una comandante che mi veniva incontro sul sentiero con la sua truppa. Era una volta e
mezzo più grossa di me e l'effetto era decisamente minaccioso. «Io sono una troia insolente?» domandò, punta sul vivo. «No, non volevo dire questo», balbettai. «E che cosa volevi dire?» «Noia indolente», spiegai, incerta. «Noia indolente?» chiese confusa la comandante. «Noia indolente», ripetei. «E che cosa vorrebbe dire?» Anche a me sarebbe piaciuto saperlo. «Ehm... sì, ebbene... a me... a me non piace quando le formiche si impigriscono così e... qui è tutta un'indolenza. Noiosa.» «Ah», replicò la comandante, non molto soddisfatta. Volevo affrettarmi a proseguire, ma lei incalzò: «Che cosa fai
qui da sola?» «Lavoro.» «Nessuna formica lavora da sola», replicò, e fece un o preoccupante nella mia direzione. Sentii l'odore del suo alito e mi augurai che in tempi brevi qualcuno inventasse e commercializzasse un collutorio per formiche. «Che intenzioni hai?» mi incalzò. Il mio cervello mulinava, che cosa potevo risponderle a quel punto? Tentai con una mezza verità: «Io, ehm, devo andare alle carceri della regina». Notai come la comandante cominciasse improvvisamente a rabbrividire. «Tu... tu fai parte della guardia della regina?» «Ovvio che faccio parte della guardia della regina», dissi in tono il più possibile autoritario. In risposta la comandante cominciò a
tremare, neanche fossi Mefistofele in persona. La reazione mi piacque. Immensamente. Una paura del genere l'avevo vista solo sul volto delle mie assistenti. «Perdonami, sacerdotessa», disse la comandante con devozione, e rapida diede alla sua truppa l'ordine di proseguire. Le formiche, intimorite, si affrettarono a risalire il sentiero, con un ritmo che lasciava quasi presumere che si sarebbero fermate solo oltre confine. «Sacerdotessa» così mi aveva chiamato. Evidentemente le formiche avevano una sorta di religione. Mi chiesi quali caratteristiche avesse. Credevano in un dio? A diversi dei? Magari addirittura alla reincarnazione? Proseguii lungo l'intrico di sentieri in
cerca delle carceri, che pensavo si trovassero in una delle camere del terrapieno destro. Era in quella direzione che si erano mosse le formiche della truppa di Krttx quando avevano trascinato via il prigioniero. E ogni volta che una comandante mi guardava torva, mi limitavo a dire: «Faccio parte della guardia reale», e la reazione era sempre di paura. Finalmente qualcuno mostrava di nuovo rispetto nei miei confronti. «Faccio parte della guardia reale» divenne la mia frase preferita, e la dissi anche alle comandanti che non mi guardavano storto. Era divertentissimo. Stupidamente la pronunciai una volta di troppo. «Faccio parte della guardia reale.» «Anche noi» mi risposero tre
formiche. Le scrutai in faccia. Il loro sguardo era gelido, duro e inflessibile. Così ci si sarebbe dovuti immaginare quello degli inquisitori spagnoli, se avessero avuto cinque occhi. «Noi non ti conosciamo», disse la leader delle tre con voce tagliente. «Ebbene, io sono nuova», replicai quasi arrendevole. Le tre si fissarono l'un l'altra per un attimo. Era facile leggere nei loro pensieri: Qui qualcuno si sta spacciando per una di noi. È un sacrilegio. Dovremmo ucciderla sul posto. Ma deve essere la morte più lenta possibile, altrimenti non renderemmo giustizia al sacrilegio compiuto. Lo squillare del mio allarme di
formica mi provocò una vibrazione nella testa. L'istinto alla fuga era stato appena attivato, che già correvo via. Non ero mai stata tanto veloce in nessuna delle mie vite. Sentivo il sangue pulsarmi nel cranio. Allo stesso tempo il cervello lavorava sotto pressione. E ora come posso sfuggire alle loro grinfie? La cosa migliore è precipitarsi in mezzo alla mischia. Tra mille formiche posso pensare di lasciarmele dietro. Così non mi ritroveranno. Certo, fa... Non arrivai neanche a finire il pensiero. Le mie inseguitrici erano veloci come le forze speciali americane sotto anfetamina. Mi furono addosso nel giro di un secondo. E agirono con precisione chirurgica. Tutte contemporaneamente mi pestarono le articolazioni delle zampe, cosicché mi
ritrovai impossibilitata a muovermi. Il dolore era incredibile, ma non potevo gridare, perché una delle sacerdotesse, con un colpo ben assestato al collo, mi aveva messo fuori combattimento l'apparato vocale. Quale che fosse la religione di quelle formiche, l'amore per il prossimo non era evidentemente contemplato fra gli articoli di fede. «Dobbiamo ucciderla subito?» chiese una delle sacerdotesse, e la sua voce tradì una certa attesa gioiosa che mi fece rabbrividire. «No, la buttiamo in prigione insieme agli altri detenuti», decise la leader scagliandosi ancora una volta contro di me con quattro delle sue zampe. Ora almeno non devo più cercare le prigioni. Con questo pensiero da
«bicchiere mezzo pieno» svenni dal dolore.
Capitolo 16
QUANDO mi risvegliai, avevo la faccia sprofondata nella sabbia che mi scricchiolava tra le mascelle, anche se continuavo a sputarla. Stordita mi alzai e vidi che mi trovavo in una delle camere del terrapieno. Era abbastanza grande, e in alto sopra di me c'era un buco di uscita sorvegliato da due sacerdotesse della guardia reale. Valutai le possibilità che avevo di riuscire a are e giunsi al risultato di 0,0003 per cento. Arrotondando in eccesso. Mi guardai intorno e in un angolo scorsi una formica volante con l'ala
spezzata che sonnecchiava. Di colpo recuperai tutta la mia lucidità. Era l'essere umano rinato. Trotterellai verso di lui più rapidamente possibile, in realtà non tanto rapidamente, visto che le articolazioni mi dolevano ancora per le percosse ricevute. «Buongiorno», dissi con cautela. La formica alzò per un attimo lo sguardo per poi riprendere a sonnecchiare. Non le interessava un tubo di me. Andai diretta al punto: «Anch'io sono un essere umano rinato». Ora avevo la sua attenzione. «Mi chiamo Kim Lange.» I suoi occhi si illuminarono. Non disse nulla, certamente prima doveva mettere ordine tra le migliaia di pensieri che le affollavano la mente.
(Dalle memorie di Casanova: «Un unico gioioso pensiero incantò e affascinò la mia mente: dopo tutti quei secoli di privazioni finalmente incontravo una donna! Alleluia!») «Tu come ti chiami?» chiesi cercando di aiutarla a ordinare quei pensieri. «Casanova.» «Come?» «Giacomo Girolamo Casanova», disse declamando il suo nome. C'erano esattamente tre possibilità: 1) Era davvero Casanova rinato. 2) Voleva prendermi per il culo. 3) Si era completamente fritto il cervello. «Sempre al vostro servizio, madame Lange», disse con un accento italiano decisamente più autentico di quello del
nostro ristoratore di Potsdam. Il rinato fece un inchino, le zampe anteriori si piegarono in avanti in una riverenza e la zampa mediana destra turbinò elegantemente in aria, come se il suo proprietario indossasse un cappello in realtà inesistente. «Lei è davvero Casanova? Quel Casanova?» «Avete sentito parlare di me?» chiese lui con una modestia quasi perfettamente simulata. «Lei... lei dev'essere morto già da parecchio tempo, se è davvero Casanova.» «Dal 4 giugno 1798.» «Sono ati oltre duecento anni.» «Duecento... anni...?» balbettò lui. Per un breve istante la sua sicurezza parve come sgonfiarsi. Le antenne gli si abbassarono tristemente. Sembrava essere davvero Casanova.
«Ha vissuto tutto questo tempo con le sembianze di una formica?» gli chiesi comionevole. «Sì, a più riprese», rispose lui, drizzando valoroso le antenne, «sono alla mia centoquindicesima vita.» Il vuoto affettivo che risuonò in questa frase non riuscì a coprire il suo tono galante. Centoquindicesima vita. Che destino terribile. Il poveruomo era prigioniero di un circolo vizioso. E anch'io lo ero, mi ò per la mente. Mi sedetti, e questa volta fui io ad abbassare le antenne. Il che risvegliò l'istinto cavalleresco di Casanova. Con fare consolatorio mi appoggiò una zampa sulla testa e mi accarezzò con dolcezza. «Madame, non disperatevi per il vostro
destino.» Così facendo mi venne vicino. Troppo vicino. «Ehi, mi sta toccando la ghiandola sessuale?» chiesi inorridita. «Perdonate la risolutezza del mio desiderio», disse lui, e ritirò la zampa posteriore. «Non mi impongo mai con una donna», aggiunse. (Dalle memorie di Casanova: «Impormi non era nella mia natura. Incantavo le donne a tal punto che di solito erano loro a imporsi su di me».) Lo guardai negli occhi e mi accorsi di averlo ferito nell'orgoglio. Tirai un sospiro di sollievo e chiesi:
«Mi può aiutare?» «Sempre al vostro servizio.» «Ha un'idea di come, da formica, si possa influire sulla vita degli uomini?» dissi ponendo la domanda decisiva. Casanova tacque per un attimo. Poi disse in tono incoraggiante: «Qualunque sia il vostro stato di necessità, madame, troveremo una soluzione». La risposta non era altro che una versione più graziosa di: «Non ne ho la più pallida idea». Ero andata lì per niente. «Che cosa avreste intenzione di fare tra gli esseri umani?» chiese Casanova. Riflettei su come descrivergli il problema di Nina, ma non trovai le parole giuste. «Non siete obbligata a darmi alcuna
spiegazione», disse, «da qui possiamo evadere e andare nel mondo degli uomini in qualsiasi momento.» «E come potremmo are davanti alle guardie?» chiesi io. A quel punto Casanova mi spiegò che era evaso da una prigione ben più sorvegliata: gli oscuri Piombi di Venezia. Era il 1756. «Perché era stato arrestato?» chiesi. «Si trattava di un banalissimo errore giudiziario. Mi si rimproverava una morale troppo libera.» (Dalle memorie di Casanova: «E questo unicamente perché avevo sedotto quella suora del convento veneziano di Santa Maria degli Angeli».) Casanova
sogghignò
facendo
l'occhiolino, e devo ammettere che per essere una formica sapeva sorridere in maniera terribilmente affascinante. «Se è vero che in qualsiasi momento potremmo evadere da qui», chiesi io, «perché finora lei non l'ha fatto?» «Non avevo un incentivo.» «Non aveva un incentivo? La regina vuole farla giustiziare!» «E allora tornerò a rinascere come formica.» «Anche questo è vero», riconobbi, e riflettei sull'eventualità di attendere, come lui, la mia esecuzione capitale. In quel caso sarei rinata come formica, ma sarei stata fuori dalla prigione e sarei potuta andare da Lilly. Rimasi sorpresa che improvvisamente un'esecuzione capitale non mi terrorizzasse più di un appuntamento dal dentista.
«Quand'è che saremo giustiziati?» chiesi. «La regina aspetterà che sia terminato il suo ciclo di fertilità.» «E quando sarà?» «Fra un paio di settimane.» «Non posso permettermi tutto questo tempo», esclamai. «Allora dobbiamo darci da fare per uscire da questa prigione», disse Casanova, visibilmente animato dallo spirito dell'avventuriero. «E come?» «Come ho fatto già una volta, al mio primo tentativo, per sfuggire agli orribili Piombi di Venezia», mi spiegò. «Grazie a un tunnel.» Casanova e io cominciammo a scavare un tunnel, senza sapere dove avrebbe portato. Casanova commentava con parole assolutamente appropriate: «Ovunque è
meglio che in una prigione». Le sacerdotesse, posizionate in alto, all'entrata delle segrete, non ci vedevano. Scavavamo in quello che per loro era un angolo morto e procedevamo in assoluto silenzio. Sussurrando chiesi a Casanova quale religione seguissero le sacerdotesse. Sorrise. «Qui la dea è la regina. Nessun altro. Come per gli antichi faraoni.» Mentre ancora riflettevo sul fatto che in quella religione solo la divinità poteva trovare piena soddisfazione, Casanova esclamò: «Il terreno si fa più soffice, fra poco avremo una brec...» Cademmo entrambi nel buco. Giusto in testa alla regina, che si stava appunto sollazzando in un gioco amoroso con un maschio di formica volante.
The queen non fu particolarmente amused.
Capitolo 17
«Tu!» gridò la regina rivolgendo lo sguardo a Casanova. «Vedo che Vostra Altezza si ricorda di me», sorrise Casanova, ostentando uno sconcertante atteggiamento di superiorità, considerato che stavamo districando i nostri corpi da quello di una regina a cui avevamo appena provocato un coitus interruptus. «Tu... tu... tu presto essere morto», balbettò la regina, adirata. «E vedo che siete sempre in grado di esprimervi in maniera eccellente», continuò Casanova, sarcastico.
La regina si piantò davanti a noi. Era circa sei volte più grossa delle altre formiche, e faceva l'effetto di un mostro di un film di fantascienza degli anni Cinquanta, solo che disgraziatamente si presentava dal vivo e a colori. «Prendeteli!» gridò alle sue guardie, che si trovavano davanti alla porta della grande camera le cui pareti erano di sabbia ben levigata, risultato di un lavoro impegnativo e minuzioso. Certamente una maniera di ostentare agiatezza regale. «Ho un piano formidabile», mi bisbigliò Casanova. «E quale?» chiesi intimorita. «Scappiamo.» «In effetti è un piano formidabile», convenni. Casanova partì di corsa, e io lo seguii. Ma non in direzione della porta, perché da
lì arrivavano le guardie. Corremmo verso un buco nel terrapieno. Apparentemente la regina lo usava come finestra panoramica, per guardare dall'alto la città delle formiche. Di colpo compresi che Casanova voleva tentare un'altra volta di imboccare in volo il tunnel della cupola che ci avrebbe permesso di fuggire in superficie. Non male come idea. C'era solo un piccolissimo problema. «Io non posso volare», gridai rivolta al mio compagno, «a differenza di lei io non le ho, quelle stramaledette ali!» «Ne ho tenuto conto, madame», disse Casanova quando ci trovammo in prossimità della finestra panoramica. «Salitemi sul dorso, le mie ali ci porteranno fuori di qui.» «Ma ha un'ala spezzata.» «Questo rende la nostra
fuga semplicemente più formidabile.» Guardai la metropoli delle formiche e constatai che la discesa era assai ripida. Provai una sensazione di malessere, all'improvviso avevo paura di morire. Che fossi rinata o no, uno schianto mortale di tale portata avrebbe fatto un gran male. «Prendeteli!» gridò la regina, le guardie ci erano ormai addosso. Mi arrampicai alla velocità del vento sul dorso di Casanova. Lui spiegò le ali, urlò «Attenzione!» e saltò. Precipitammo come un sasso. O meglio, per essere più precisi, come due sassi. «AHHHHHH!» strillai in preda al panico. «AHHHHHH!» strillò Casanova in preda al panico.
E il fatto che anche lui fosse in preda al panico annullò anche i miei ultimi brandelli di fiducia che ne saremmo usciti vivi. «AHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!» urlai. «AHHHHHHHHHHHHHHHHHHH!» urlò Casanova. E intanto ci avvicinavamo sempre più a terra. «Voli!» urlai. «Non riesco», mi rispose urlando, aveva una sorta di blocco da panico. Gli diedi un morso. Con violenza! «Ahia!» strillò. «Allora, si decide a volare?» Poche frazioni di secondo e ci saremmo schiantati su una discarica di cibo. Vedevo già distintamente lo Smartie su cui ci saremmo sfracellati. «Volo, sì, volo! Ma non mordetemi!»
gridò Casanova, finalmente risvegliato dal suo blocco. E in effetti... prendemmo quota. Per colpa dell'ala spezzata ruotavamo intorno al nostro stesso asse, e io dovevo sforzarmi in tutti i modi di tenermi avvinghiata a lui, ma allo stesso tempo prendevamo quota. Arrivederci, Smartie! Lentamente il volo di Casanova cominciò a stabilizzarsi. Sul suo dorso mi sentivo ora più sicura e dall'alto vidi la città delle formiche. In effetti si dice che gli uomini contemplati da grandi altezze somiglino a formiche. Ebbene, dall'alto le formiche somigliavano agli uomini: esseri viventi come noi, vitali, irrequieti, solerti, costantemente in movimento. E pensare che Nils, lo stupido bambino tritanervi, aveva dato loro fuoco con una lente. E io
avevo spruzzato loro addosso l'insetticida... «Guardate, madame, la regina», disse Casanova quando ci trovammo di nuovo all'altezza della finestra panoramica. «Vi farò giustiziare!» ci gridò. Casanova volò un po' più vicino alla regina urlante e disse: «Cara signora, voi vi agitate troppo». Bisognava riconoscerglielo, aveva una bella faccia tosta. Soltanto che mancava di intelligenza. Perché se anche le sacerdotesse della guardia reale non avevano le ali, aveva dimenticato gli amanti della regina. Quelli sapevano tutti volare. «Portatemeli. Ma prima fateli a pezzi!» ordinò la monarca al suo battaglione cacciatori, con le mascelle che
schiumavano di rabbia. Una dozzina di formiche volanti uscì sibilando dalla camera della regina, dirette verso di noi. «E adesso?» gridai. «Ho un piano formidabile», disse Casanova. Se era formidabile come il precedente, allora avevamo un problema. «E quale?» chiesi esitante. «Lo vedrete, madame. Solo, tenetevi stretta!» Di nuovo ci precipitammo in volo verso terra, ma questa volta di proposito. Forse quel pazzo voleva che ci uccidessimo? Con le ventose di cui erano provviste le mie zampe artigliate mi attaccai al suo dorso corazzato, percepii la forte resistenza dell'aria, mi afferrai ancora più saldamente e mi raccomandai a Dio. A quel punto i miei pensieri rimasero
per un attimo sospesi: dovevo davvero pregare Dio? Tutta l'esperienza della reincarnazione che stavo vivendo era concepita da lui? Nonostante la folle velocità della nostra caduta, le tonanti formiche alate guadagnavano terreno. Con un'accelerazione incredibile. Dev'essere così quando si lanciano dei missili contro la Terra. Chiusi gli occhi, certa che il nostro schianto avrebbe creato un cratere gigantesco in cui si sarebbero potuti rinvenire solo i nostri miseri resti. A quel punto gli inseguitori stavano per affiancarci, e noi ci trovavamo a poche lunghezze di formica da terra. Questo fu esattamente l'attimo in cui Casanova arrestò il proprio volo in
picchiata con una frenata. «Arrggh», disse con un gemito, e poco prima di toccare terra gli riuscì di portarci in posizione sospesa. I nostri inseguitori non ebbero più il tempo di reagire e si schiantarono al suolo, dando vita a un impressionante paesaggio di crateri. «Madame, ho un'esperienza di volo di centoquindici vi te. Queste formiche ce l'hanno solo di una.» Così, con malcelato orgoglio, Casanova commentò la propria esibizione. Poi riprese lentamente quota, e sebbene i resti dei nostri inseguitori mi risultassero sempre meno riconoscibili, non riuscii a distogliere lo sguardo da quei corpi schiacciati dall'urto.
Capitolo 18
LUNGO un tunnel volammo nella volta celeste, verso la libertà. Ma non riuscivo a essere davvero felice. Sorprendentemente, la morte dei nostri inseguitori mi aveva abbattuta. Le formiche erano diventate per me un pochino come delle persone. «Madame, perché siete così avvilita?» mi chiese Casanova quando atterrammo sul patio illuminato dal sole della sera, caldo sotto i nostri corpi. Ma io quasi non me ne accorsi. Guardai verso casa e tentai di concentrarmi sulle questioni essenziali,
volte a evitare che Nina diventasse la nuova mamma di Lilly. «Lì vive la mia famiglia», dissi. Casanova tacque per un attimo. Poi mi chiese: «Ed è la loro vita che volete condizionare?» Annuii con tristezza, in effetti non avevo la minima idea di come muovermi. «Vi accompagnerò volentieri, quale che sia il difficile dilemma che dobbiate risolvere», si offrì. «Mai abbandonerei una bella donna al suo destino.» «Da dove le viene la certezza che io sia una bella donna? Al momento il mio aspetto fisico non rivela molto», gli chiesi. «La bellezza di una donna non è un fatto di esteriorità, bensì di carisma.» Dovetti sorridere, nonostante tutto. Quell'uomo sapeva come abbindolare il
gentil sesso. Mi ricordava un po' Daniel Kohn. «A chi state pensando?» chiese Casanova. «Come, scusi?» «Avete sorriso, particolarmente assorta nei vostri pensieri. Come si fa quando si pensa a qualcuno verso cui ci si sente sentimentalmente attratti.» Casanova non solo sapeva che cosa piaceva alle donne, evidentemente sapeva anche leggere nei loro pensieri. Ma questo non so se in realtà mi andava a genio. Invece di dargli una risposta sincera e di raccontargli di Daniel, gli dissi: «Adesso andiamo». Attraversammo il patio in direzione della casa. La ragnatela dall'odore di muffa era sempre lì, disabitata.
Probabilmente il ragno l'aveva abbandonata. La porta che conduceva in salotto era aperta, quindi ci arrampicammo all'interno. Nella stanza non c'era nessuno, la tavola era sparecchiata. «Questa è la vostra dimora?» chiese Casanova. Annuii. «Il gusto degli uomini è molto cambiato con il are del tempo», disse guardando la lampada a stelo in acciaio cromato, ed era evidente che non ritenesse quella evoluzione particolarmente positiva. All'improvviso sentimmo dei i. Chi poteva essere? Alex? Lilly? Era Nina. Con i capelli bagnati. In accappatoio.
Respirai a fatica. «Chi è questa graziosa creatura?» chiese Casanova. Non risposi, mi limitai a sbuffare. «E meravigliosa», commentò lui affascinato. Io lo guardai in preda alla rabbia. «Negli ultimi secoli mi è capitato di vedere solo poche donne umane, e ancora meno con un décolleté così conturbante.» In effetti, Nina aveva i lembi aperti quanto bastava per rendere la cosa interessante per un uomo, ma comunque in modo da obbligarlo a pensare che fosse totalmente casuale. Aveva già sedotto Alex, il giorno della mia sepoltura? Senza dubbio! Altrimenti perché si aggirava per le stanze in accappatoio? Come un'indemoniata mi diressi verso
Nina e le morsicai il mignolo, che profumava del mio docciaschiuma all'albicocca. L'azzannai stringendo le mascelle più che potevo. Tirai e strappai selvaggiamente. E intanto urlavo: «Guaaaahh, Guaaaaahhhhhh!!!!» E come ovvio l'effetto fu assolutamente nullo. Neanche si accorse di me. Semplice, ero troppo piccola. Frustrata, rinunciai. A quel punto entrò nella stanza Alex. Si era tolto l'abito scuro per mettersi jeans e T-shirt, e i suoi occhi erano ancora più rossi e più stanchi. «Come sta Lilly?» chiese Nina preoccupata. «Sta giocando con il suo Game Boy», rispose Alex, e si lasciò cadere sul divano. Tacque per un po', poi chiese con
tristezza: «Ce la farà la piccola a farsene una ragione?» «Certo», ribatté Nina. Era più un tentativo disperato di dispensare conforto che vera e propria convinzione. Alex tacque. «Grazie di permettermi di dormire qui», disse Nina sedendosi vicino a lui sul divano. «Difficile pensare di farti dormire in un albergo», rispose Alex con voce stanca e con lo sguardo fisso al pavimento. Era meravigliosamente disinteressato al décolleté di Nina, ed io mi vergognai di essermi figurata che avesse già combinato qualcosa con lei. «Se hai bisogno di aiuto... posso prendermi ancora qualche giorno di ferie», si offrì lei. «Non ha bisogno di aiuto!» gridai.
«Tornatene ad Amburgo e vai a dar da mangiare alle anguille al mercato del pesce! O qualsiasi altra cosa si faccia là!» Alex rifletté un attimo, poi disse: «Sarebbe davvero bello se riuscissi a rimanere un pochino. Voglio concentrarmi su Lilly, e se tu potessi sollevarmi da tutte le questioni burocratiche, ne sarei felice». «Sono brava nel sollevare», rispose Nina. «Anch'io ti solleverò subito. E poi stringerò la presa!» gridai io. Alex guardò Nina con un sorriso premuroso e la ringraziò. «E gentile da parte tua.» «Ma non dirlo nemmeno», replicò lei raggiante. «E fantastica», mormorò Casanova. «Che cos'è lei?» lo strigliai. «Fantastica. È una donna meravigliosa
che non lascia un uomo solo con il suo dolore», ripose Casanova, e guardò Nina incantato. Gli assestai un calcio violento con la zampa posteriore sinistra. «Ahi!» gridò lui. E io rimasi delusa di non avergli fatto tanto male da sentire «Ahiiiiiiiiii!». Alex si alzò dal divano. «Porto la piccola a letto.» «Okay», disse Nina, «intanto io preparo qualcosa da mangiare.» «Grazie», rispose lui stanco, e si avviò verso la camera della bambina. Io strisciai dietro di lui, mentre Casanova, affascinato, continuava a guardarsi Nina.
Capitolo 19
«VOGLIAMO prepararci per andare a dormire, adesso?» chiese Alex a Lilly, che giocava con il Game Boy seduta sul suo lettino. La piccola si strinse nelle spalle. Non era mai stata una gran chiacchierona, ma ora sembrava aver perso definitivamente la lingua. Alex tentò di dissimulare il proprio disagio e condusse Lilly in bagno. Decisi di aspettarli in camera e mi guardai intorno: vidi le stelle luminose che avevamo attaccato al soffitto. Vidi la montagna di giocattoli. Solo il cinque per
cento era usato regolarmente. E vidi una fotografia. Una mia fotografia. Lilly l'aveva fissata con una puntina alla parete sopra il suo letto. Le mancavo. In quel momento mi resi conto che, contrariamente a quanto pensavo, le formiche dispongono di parecchio liquido lacrimale. Ma che questo affiora dagli occhi solo quando il dolore diventa insopportabile, come il mio in quel frangente. Piansi, come mai prima aveva pianto una formica. Alex e Lilly rientrarono in camera. Feci uno sforzo per controllarmi. Lilly non doveva vedermi piangere. Naturalmente non mi avrebbe visto piangere in ogni caso, ero troppo piccola, ma era una questione di principio. Alex le rimboccò affettuoso le coperte
e le lesse un po' di Pippi Calzelunghe. Ma per quanto gli episodi con la zia Prysselius fossero divertenti, Lilly non rise neanche una volta. Dopo tre capitoli, Alex spense la luce e le rimase steso accanto finché non si fu addormentata. La sua preoccupazione per lei era tangibile. Quando sentì il morbido russare infantile, si alzò con estrema cautela. Si avviò a i felpati alla porta, si voltò ancora una volta a guardarla addormentata, sospirò, e lasciò con tristezza la stanza. Ora ero da sola con la mia piccola. Mi arrampicai fino al suo viso. Lilly non diede il minimo sussulto, sebbene le mie sei zampette le fero di sicuro un po' di solletico.
Dormiva profondamente. Le sussurrai «Ti voglio bene» e le diedi un minuscolo bacio di formica sul labbro inferiore. Poi mi distesi sulla sua guancia. Il respiro ritmico della piccola mi cullò, finché anch'io non mi appisolai. Quando il mattino successivo mi risvegliai, mi sentivo divinamente bene. Ero riposata, avevo smaltito gli strapazzi della fuga e finalmente avevo un piano: da quel momento in poi sarei vissuta con Lilly nella sua camera. Così facendo avrei potuto sempre parlarle tranquilla prima che si addormentasse. Anche se non poteva capire quello che le dicevo, forse in quel modo avrei fatto breccia nel suo inconscio. Quindi avrei potuto proteggerla, nel caso in cui Nina avesse veramente voluto diventare la sua nuova
mamma. E se mi fosse capitato di morire, sarei rinata sotto forma di formica e mi sarei arrampicata di nuovo fino in camera sua. Sì, un piano perfetto per le prossime vite. Un piano che non durò più di tre minuti e mezzo.
Capitolo 20
DOPO tre minuti e ventinove secondi mi stavo ancora deliziando all'idea di essere distesa vicino a Lilly, di poter contemplare il suo viso, di sentire il suo dolce profumo di bambina, quando al trentesimo secondo Alex entrò nella camera, si diresse verso di noi e vide... me! Non la sua ex moglie, no, ma la formica che gironzolava intorno a sua figlia. «Okay», disse a bassa voce, «adesso basta con questi animaletti.» Mi tolse dalla guancia di Lilly con un movimento
delle mani abbastanza garbato da non svegliarla ma, per quanto mi riguarda, sufficiente a indurmi a chiedermi, dopo un contatto assolutamente indelicato con la ruvida carta da parati, come una formica potesse gestire un colpo di frusta. Lilly mormorò qualcosa, ma si riaddormentò subito. Alex le diede un bacino e lasciò deciso la stanza. Molto probabilmente a questo punto avrebbe tentato di sterminare le formiche. Cosa in cui io non ero riuscita. Appena due giorni prima del mio incontro con la base spaziale, avevo detto ad Alex che sarei dovuta intervenire in maniera più radicale. Avevo avuto l'intenzione di prendere il tubo di gomma del giardino e di spazzare via il formicaio con l'acqua. E mi era chiaro che quella frase, «adesso
basta con questi animaletti», significava, tradotta: «Vado a prendere il tubo di gomma del giardino!» Deglutii. La città delle formiche sarebbe stata distrutta da una gigantesca onda di piena. Ma mi tranquillizzai rapidamente: perché la cosa doveva riguardarmi? Quella città non era un bel posto. E con un po' di fortuna anche le formiche, prima o poi, sarebbero entrate tutte nella luce. E se fosse stato altrimenti? E se quella fosse stata davvero la fine della loro esistenza? A quel punto la loro morte sarebbe stata semplicemente insulsa. E crudele. Mi sentivo molto a disagio. Mi precipitai nel corridoio, ando davanti ai pattini a rotelle di Lilly, e mi diressi in salotto da Casanova, che aveva
trovato qualche briciola del rinfresco e stava mangiando soddisfatto. «Lei ha presente la luce, vero, la luce che appare prima di rinascere?» gli chiesi. «Sì. È il boccone succulento che ti viene sventolato sotto il naso.» «Lei crede che anche le formiche vengano invase da quella luce?» «Non lo so», ribatté lui, «ma mi risulta difficile pensare che creature così comuni come le formiche producano karma positivo nella propria vita.» Ero senza parole. «Karma?»
Capitolo 21
NATURALMENTE avevo già sentito parlare di karma. Alex aveva letto un libro sul buddismo, quando si era trovato in piena crisi per i suoi studi di biochimica. Io invece, quando dovevo prendere di petto una crisi, preferivo leggere libri intitolati "Sii buono con te stesso, Sii ancora più buono con te stesso e Dimentica gli altri". «È molto semplice», disse Casanova. «Chi fa del bene produce karma positivo ed entra nella luce del Nirvana. Chi compie il male prolunga la propria esistenza come noi.» «Io non ho fatto niente di male!»
protestai. «Ne siete certa?» Annuii. Non così certa. «Mai commesso adulterio?» incalzò Casanova. Fui costretta a pensare a Daniel Kohn. «O danneggiato altri per il vostro vantaggio?» Fui costretta a pensare a Sandra Kòlling, a cui avevo tolto il lavoro raccontando ai responsabili della conduzione del programma del suo elevato consumo di cocaina. «O trascurato persone a voi vicine?» Fui costretta a pensare a Lilly. «O potrebbe essere che i vostri subalterni abbiano soffe...» «Okay, basta così!» dissi rivolgendomi furiosa a Casanova. «Oppure...» «Che cos'è che non ha
capito di preciso del mio 'basta così'? 'Basta' o 'così'?» «Perdonate, madame», disse Casanova. «Come mai lei non ha mai prodotto karma positivo?» gli chiesi. «Ebbene, in primo luogo non è cosa facile, in un formicaio», ribatté lui. «E in secondo luogo?» «Non è proprio nella mia natura.» E sogghignò in maniera tanto affascinante che fui costretta a sorridere anch'io. «Ma voi certamente potete riuscirvi», mi incoraggiò. Riflettei. «Ma io non voglio affatto entrare nella luce», replicai. «Mi interessa solo evitare che Nina si occupi della mia famiglia da qui in avanti.» «Ebbene», disse Casanova con aria saccente e con un sorriso, prendendola
alla larga. «Quando morii la penultima volta, mi apparve Buddha... presumo che voi abbiate già fatto la conoscenza con questo signore, o sbaglio?» «Non è esattamente uno dei miei beniamini», risposi io. «Un sentimento che mi sento di condividere appieno», disse Casanova. «Comunque, in occasione di questo incontro la grassa formica fece un profondo sospiro e mi disse che io continuavo a non capire i termini della questione, e che a quel punto lui avrebbe dovuto spiegarmeli.» «E quindi le ha raccontato del karma?» «Sì, e del fatto che con un karma positivo non si giunge subito nel Nirvana.» «Ah no?» Mi feci attenta. «Prima ci si reincarna in un animale
superiore.» «Animale superiore?» «Un cane, un gatto, una pecora... A seconda del karma prodotto.» Ero elettrizzata. «Capite che cosa significa questo?» Casanova sorrise. «Sì, se vengo al mondo in forma di cane...» «... potrete senza dubbio influire con maggiore facilità sul mondo degli uomini rispetto a una formica», completò la frase Casanova.
Capitolo 22
AVEVO di nuovo un piano, e questa volta era necessario che durasse più di tre minuti e mezzo: dovevo produrre karma positivo! E sapevo anche come. «Avviserò le formiche che stanno rischiando un'inondazione», dissi. In quel momento il terreno sotto di me si mise a tremare. Nell'ingresso Alex si era infilato le scarpe e ora si avviava con i energici in giardino. E anche se sarebbe trascorso qualche minuto prima che trovasse l'attacco del tubo di gomma nel nostro caotico ricovero per gli attrezzi, non rimaneva più molto tempo:
dovevo allertare le formiche. Lasciai Casanova e corsi via. «Madame!» mi gridò lui dietro, preoccupato. «Per rinascere dovete però anche morire.» Ma io non gli davo più ascolto, volevo il karma positivo. Subito. Il fatto di morire mi sembrava secondario. Sfrecciai davanti ad Alex sulla terrazza, e nel farlo mi voltai per vedere quanto distasse da me. Fu un errore! Finii dritta nella ragnatela. I singoli fili divennero per me come gomene impregnate di colla a presa rapida. Rimasi subito bloccata, penzoloni, e più mi sforzavo di liberarmi, più mi annodavo in una stretta mortale. Fino a rimanere quasi senz'aria. Cercai di tranquillizzarmi. Inspirai profondamente ed espirai. Inspirai ancora
più profondamente ed espirai con la stessa intensità. Cominciavo a ritrovare la calma. Ero sì ancora prigioniera, ma rilassandomi mi arrivava più aria. Il panico mi abbandonò. Riflettei su come uscire da quella situazione. Ma ecco che si attivò un segnale di allarme: un dolore alla testa mi attraversò il cranio. Le zampe volevano fuggire via, ma riuscivano solo a dimenarsi nella ragnatela. I fili mi annodavano di nuovo, stringendomi, eppure non ero in grado di smettere. Il mio istinto alla fuga era fuori controllo. Mi agitavo, sobbalzavo e mi annodavo sempre più saldamente. Girai la testa e individuai il motivo del mio allarme impazzito: appeso al margine superiore della ragnatela c'era un ragno!
Era enorme, aveva le zampe più pelose di un calciatore professionista argentino, e irradiava sentimenti di comione decisamente poco marcati. Si mosse verso di me! Con comodo. Come un teledipendente che nella pausa pubblicitaria si avvia al frigorifero. Ero il suo bocconcino estemporaneo. Il bocconcino delle nove e mezzo di quella mattina. Volevo fuggire, ma ero bloccata dalle corde appiccicose. E quindi gridai: «Aiuto! Aiuto!» «Caspita, non posso sopportare quando il cibo schiamazza in questo modo», brontolò il ragno con voce tanto stridente quanto innervosita. Vorrei averli io, i tuoi problemi, pensai. Il fatto che, in caso di morte, mi sarei
reincarnata in una formica in quel momento non era una consolazione. Innanzitutto non avrei potuto avvisare per tempo le mie compagne dell'inondazione imminente, bruciandomi così una prima chance di produrre karma. E inoltre ci tenevo ben poco a essere lentamente divorata da un ragno. «Certo che non sei un granché in carne», trovò da ridire. Ero troppo impaurita per dare ascolto alla lamentela. «Ma per un piccolo snack dovrebbe bastare», aggiunse. Snack? mi chiesi. Ma come faceva un ragno a conoscere quella parola? Intanto lui si avvicinava, scendendo con lentezza. Non aveva motivo di affrettarsi.
«Va be', fino al momento del brunch mi riempirai comunque lo stomaco.» Brunch, pensai, questo ragno conosce anche brunch? E il mio cervello cominciò a girare vorticosamente. Poteva essere? Perché no, poi? Era una possibilità. A quel punto il ragno mi era proprio sopra. «Bene, mia piccola formica, in circostanze normali dovrei spruzzarti addosso il veleno, ma a essere sinceri non sono un amante delle sostanze tossiche nei cibi. Quindi porta pazienza, preferisco mangiarti viva.» Sostanze tossiche? Ora la possibilità era una certezza! Il ragno aprì le sue gigantesche fauci, e io mi precipitai a dire: «Anche lei è un essere umano reincarnato, non è vero?» Il ragno richiuse le fauci, indietreggiò e, pensieroso, ondeggiò con la testa di qua e
di là. «Ho ragione?» incalzai. Dopo un attimo il ragno annuì con cautela. Il mio allarme sospese la sua attività e io, un po' meno tesa, aggiunsi: «Anch'io sono rinata. Mi chiamo Kim Lange». «La conduttrice televisiva?» «Sì, proprio lei», risposi, sollevata e in qualche modo lusingata che mi conoscesse. «E lei chi è?» chiesi. «È stato.» «Chi è stato?» «Thorsten Borchert», rispose il ragno. Scannerizzai la banca dati della mia memoria, ma non c'era alcun file Thorsten Borchert. «Non si sforzi. Non mi conosce», disse il ragno. «Io ero un signor Nessuno.» Un'affermazione che non era certo un modello di autostima.
«Nessuno è un signor Nessuno», dissi con quel tono gentile da conversazione informale che avevo imparato a usare per le interviste a ospiti difficili. «Io sì», fu la sua replica. «Lei era la conduttrice di un talkshow. Io solo un piccolo e grasso impiegato di un ufficio addetto alle acque reflue.» «Be', invece anche questa è una professione interessante», risposi in tono ancor più cordiale. «E che cosa ci sarebbe, esattamente, di interessante?» «Be', ehm... tutto. Le acque reflue sono molto interessanti» dissi io. In quel momento notai che anche i ragni erano capaci di uno sguardo del tipo «Non c'è bisogno di prendere per il culo. Lo so fare da solo». «Una come lei prima non mi avrebbe
rivolto uno sguardo neanche con il didietro», constatò Thorsten Borchert. «No no, invece», dissi zelante, «lo avrei fatto persino con la faccia.» «Anche adesso sta conversando con me solo perché ho intenzione di mangiarla.» Ho intenzione? Dice «ho intenzione»? Dovrebbe dire «Avevo intenzione». Non mi piaceva affatto l'uso del presente. L'allarme si fece di nuovo sentire. Con la massima calma dissi: «Voglio sapere tutto di lei. Mi aiuti a slegarmi. Così possiamo parlare». «Vuole parlare con uno che a trentatré anni viveva ancora con sua madre?» «Ehm... sì», gabellai. «Non penso proprio», ribatté lui. «Non ha motivo di non credermi», dissi io, e mi resi conto che la mia voce
suonava assolutamente falsa. «Ho sciupato tutta la mia vita», iniziò a piagnucolare Thorsten. «Non ho realizzato neanche uno dei miei sogni. Lo sa che non ho mai ballato nudo sotto la pioggia?» «No...» E difficilmente qualcosa avrebbe potuto interessarmi di meno. «Avrei tanto voluto ballare nudo sotto la pioggia», sospirò Thorsten. «Ha mai ballato nuda sotto la pioggia?» «No», risposi sincera. Di solito non facevo di tutto per beccarmi un raffreddore. «Mia madre sì.» Guardai in direzione del ricovero per gli attrezzi che si trovava in fondo al giardino e sentii Alex che, imprecando, cercava l'attacco del tubo. «Adesso mi liberi, per favore! Devo
salvare il formicaio dall'estinzione!» dissi con una certa insistenza. Thorsten, il ragno, fu infastidito dall'improvvisa svolta della conversazione, e in rapida sintesi io dovetti spiegargli quello che stava accadendo. «Degli insetti non me ne importa un bel niente!» «A me invece sì», esclamai io. «Vuole parlare un po' con me oppure no?» chiese lui. «No!» risposi con scarsa astuzia tattica. «Forza, liberami, idiota!» Era ato il momento delle forme di cortesia. «Mamma aveva ragione, tutte le donne sono delle bugiarde.» Non mi piacque affatto la piega che stava prendendo la
conversazione. Il ragno si mosse di nuovo verso di me. Anche quello non mi piacque per niente. E ancora meno il mio allarme, che mi faceva quasi esplodere il cranio. «E ora che cosa fai?» gli chiesi, sforzandomi di non far suonare la mia voce in falsetto. «Ti mangio», rispose lapidario. A quel punto anche lui aveva rinunciato al «lei». «COSA?!?» gridai. «Ho fame.» «Ma non puoi mangiare un essere umano!» «Tu non sei un essere umano. Sei una formica. Io sono un ragno. Questa è la nostra nuova vita. Dobbiamo adattarci a questa realtà. Tutto il resto sarebbe solo autoinganno.» Questo approccio al fenomeno della rinascita mi
risultava assolutamente troppo pragmatico. Thorsten si avvicinava sempre più. E ora, come potevo agire contro quel pazzo? Una rapida riflessione, e approdai a un'idea disperata: «Liberami, oppure ti scoreggerò in bocca». «Che cosa?» chiese Thorsten in maniera non proprio comprensibile. Aveva le fauci già spalancate. «Liberami, oppure ti scoreggerò in bocca.» Rimase un attimo pensieroso e poi disse: «Ma io posso lo stesso morderti». «Ma non sarei più così gustosa», colpii di rimessa. Thorsten esitò e ribatté: «Ma poi sarai morta». «Sarò reincarnata», obiettai.
Thorsten tacque, incerto sul da farsi. E io aggiunsi: «E prima di morire ti avrò scoreggiato in bocca. E di quel gusto non ti libererai per giorni». Thorsten cercò un argomento per controbattere, e purtroppo ne trovò uno valido: «Potrei ingoiarti più velocemente di quanto non ti serva per scoreggiare». A quel punto cercai io un argomento per controbattere il suo, e anch'io ne trovai uno valido: «Io scoreggio più rapida del vento». Thorsten esitò. A lungo. Cercava un argomento per controbattere il mio argomento che controbatteva il suo. Nel frattempo percepivo il suo fiato caldo aleggiare intorno al mio posteriore di formica. Fui assalita ulteriormente dal panico, più avano i secondi più
l'istinto di fuga avrebbe preso il sopravvento e avrei tentato di scappare. E allora Thorsten mi avrebbe azzannata. Lottai contro me stessa. Con forza. Alla fine non potei più oppormi al mio istinto. Le mie zampe si aprirono per mettersi in movimento, e questo avrebbe significato la mia rovina. All'ultimo secondo Thorsten sbottò: «Okay, okay, okay, hai vinto». E mi liberò dalla stretta dei fili dicendo: «Non mi piace il cibo che sta lì a discutere». Mi schiantai a terra. Fece male, ma ero infinitamente sollevata di non aver messo fine a quella vita facendo da snack per un ragno. Rivolsi lo sguardo ad Alex che stava uscendo dal ricovero per gli attrezzi. Aveva trovato l'attacco del tubo. Partii di
corsa, ma le zampe erano ancora appiccicose per via dei fili della ragnatela, e si attaccavano alle piastrelle della terrazza. «Posso esservi di aiuto, madame?» chiese Casanova, comparso tutto d'un colpo alle mie spalle. Prima che potessi rispondergli qualcosa, mi liberò rapidamente dai resti di quella sostanza appiccicosa, usando tutte le sue zampe. «Grazie», dissi intenzionata a ripartire di corsa. «Rimanete, vi prego», replicò Casanova. «Dobbiamo avvisare le formiche», risposi dirigendomi in fretta verso l'imbocco del tunnel. Casanova mi trotterellò dietro. «Affogherete, madame. E morire per
annegamento non è una bella fine», disse, e le sue parole suonarono come se avesse già fatto esperienza di una morte simile. (Dalle memorie di Casanova: «I progressi fatti dall'umanità negli ultimi secoli mi furono spesso fatali. Nella mia centoseiesima vita finii in un bacile di ceramica bianca. La superficie era talmente liscia che vi scivolai sopra e caddi nell'acqua profonda. Le ultime parole che sentii furono per me di natura criptica. Una bassa voce di uomo disse: 'Guarda, tesoro, ho montato una cassetta con due pulsanti per risparmiare l'acqua dello scarico'».) «Ho bisogno di karma positivo!» dissi con ardore.
«Siete più coraggiosa che ragionevole», sospirò Casanova stando al mio o. «Detto da uno noto per il suo charme, non è poi così carino», ribattei con un sorriso tormentato. «Oh no, tutto il contrario, di una donna ammiro la ragione, adoro la sensualità, ma quello che mi colpisce, che davvero mi colpisce di una donna, è il coraggio.» «Grazie», replicai, io stessa improvvisamente sorpresa del mio coraggio. L'azione più ardimentosa della mia vita era stata mettere al mondo Lilly. A pochi i dall'imbocco del tunnel Casanova mi sbarrò la strada. «Non ci provi a fermarmi!» proclamai brusca. «Non è quello che voglio fare», disse
Casanova. «Arrampicatevi sul mio dorso.» Lo guardai stupita. «Forse potrà servire anche a me un po' di karma positivo.» «Pensavo che produrre karma positivo non si confe alla sua natura...» «Non lo abbiamo ancora prodotto», rispose la formica con un sorriso affascinante.
Capitolo 23
SFRECCIAMMO a velocità folle dentro il tunnel e ci fermammo poco prima di atterrare sul fondo. Con tutta l'energia che avevo in corpo urlai: «Salvatevi! Fra poco qui sarà tutto inondato!» Per un attimo le formiche ci guardarono. Urlai ancora: «Via, correte a salvarvi la vita!» Non corsero. «Via! Forza!» Si ostinavano a non correre via. «'Forza' significa muovete le vostre maledette chiappe!» Mi fissarono di nuovo per un attimo con sguardo vacuo, poi si rimisero a svolgere le loro
mansioni quotidiane. Dato che non ero la loro comandante e tanto meno la loro regina, i miei avvertimenti non gli facevano un baffo. Era come in qualsiasi grande impresa: la sana ragione si sfracella di fronte alla gerarchia interna. «Non vi ascoltano, madame», disse Casanova. «Grazie, se non me l'avesse detto non me ne sarei accorta», ribattei mordace, e aggiunsi: «Voliamo dalla regina. La regina è l'unica che può farsi ascoltare dalle formiche. Solo lei può dare un ordine di evacuazione». «Ma noi non siamo esattamente le sue formiche preferite», mi fece ragionare Casanova. «Non m'importa. Voglio karma positivo!» replicai.
«Voi siete molto ostinata», sospirò Casanova volando in su, in direzione delle stanze reali. Raggiungemmo la finestra panoramica, vigilata da due sacerdotesse della guardia reale, e rimanemmo sospesi in volo alla loro altezza. «Che cosa volete?» chiese una delle due. Non ci riconobbe, evidentemente il giorno prima eravamo fuggite da altre sacerdotesse. «Vogliamo andare dalla regina. È urgente!» pretesi. «La regina non riceve visite senza preavviso.» «Ma si tratta della vita di tutte le formiche.» «La regina non riceve visite senza preavviso.» «Se non ci darà ascolto immediatamente, moriranno tutte.» «La regina non riceve visite senza
preavviso.» «Sai dire anche qualcos'altro oltre a 'La regina non riceve visite senza preavviso'?» chiesi innervosita. «La regina non rie...» «D'accordo! D'accordo!» la interruppi. «Ora voliamo fuori da qui?» mi sussurrò Casanova all'orecchio. «No», replicai indicando la stanza della regina. «Voliamo qui dentro!» «Se adesso entriamo, le sacerdotesse ci saranno addosso.» Mi limitai a fissarlo con occhi penetranti. «Leggo nel vostro sguardo che non posso farvi cambiare idea», sospirò Casanova. «Ha letto bene», gli risposi. Casanova compì un ampio giro, per prendere sufficiente rincorsa, quindi si lanciò sulle sacerdotesse che lo
osservavano stoiche. In realtà le loro espressioni si facevano meno stoiche tanto più ci avvicinavamo. A tutta velocità ammo in mezzo alle due guardie, che vennero catapultate di lato dallo spostamento d'aria. Se per loro fu doloroso, gli andò sicuramente meglio che a noi. «Non riesco...» gridò Casanova, lanciato. «Che cosa non riesce?» gli urlai a mia volta. «Non riesco a frenareeeeeeeeeeeee!» Ci schiantammo contro la parete della stanza e, storditi, crollammo sul talamo della regina. Il che già di per sé sarebbe stato un sacrilegio. Ma la coincidenza che la regina fosse ancora a letto a sonnecchiare rese la faccenda
ulteriormente spiacevole. Infatti, anche se cademmo con una certa morbidezza, the queen fu ancora meno amused rispetto al nostro primo rovinoso atterraggio sul suo corpo regale. Casanova fu il primo a ricomporsi. «Ho come l'impressione che la regina non sia incline a porgerci ascolto.» Prima che potessi rispondere «Neanch'io», la regina drizzò il suo mostruoso corpo e tuonò: «Questa volta non chiamerò le guardie». «No?» chiesi io con una debole speranza. «Vi strapperò io stessa la testa. Qui e ora!» gridò. Deglutii, e lei cominciò ad avanzare verso di noi con le sue zampe enormi. «Ascolti», la implorai mentre tentavo di schivarne i colpi, «siamo tutti in grave
pericolo di vita!» «Voi presto non lo sarete più. Siete morti!» disse continuando a menare colpi intorno a sé e trascinandomi a suoi piedi. Nell'angolo. Con il successivo fendente mi avrebbe presa in pieno. «Fra poco il formicaio sarà sommerso da un'onda di piena gigantesca», mi affrettai a dire. La regina fermò il colpo a metà strada. Le sue zampe anteriori si bloccarono a qualche nanometro dal mio cranio. «Un'onda di piena?» chiese. «Sì, un essere umano...» «Che cos'è un essere umano?» «Perdoni, un grglldd...» mi corressi. «Il singolare di grglldd è grgglu», mi gridò Casanova. Mi corressi di nuovo: «Perdoni, mia
regina, un grgllu vuole inondare di acqua la città delle formiche». La regina abbassò le zampe e constatò: «I grglldd sono capaci di una cosa del genere». «Lei deve dare ordine alle formiche di abbandonare la città», insistetti. La regina mi guardò, poi mi chiese: «Perché dovrei credere a una ridicola, piccola operaia?» «Pensa che altrimenti sarei venuta fin qui? La sua ultima intenzione era quella di farmi giustiziare.» La regina annuì, questo le risultava lampante. E poi diede l'ordine di evacuazione. Purtroppo la regina aveva un diverso concetto di evacuazione dal mio. «Prendete i migliori amanti dalle mie stanze. Voleremo via con loro», ordinò
alle sue due sacerdotesse, che corsero via. «E non rivelate alle altre sacerdotesse che ce ne andiamo per sempre!» gridò loro dietro. Fissai la regina con sguardo irritato. «Non vuole che le altre sacerdotesse lo sappiano?» «I miei amanti possono trasportare soltanto me e le due guardie», mi spiegò, come se fosse la cosa più normale del mondo. E in fretta e furia si diresse alla finestra panoramica. «Le altre sacerdotesse dovranno affogare?» chiesi inorridita. «Sì, e allora?» rispose lei. Le sacerdotesse giunsero trafelate, in compagnia di una decina di formiche volanti. «Non vuole tenere un discorso al popolo?» «In una situazione del genere
ogni secondo è prezioso. E io non posso sprecare tempo!» chiarì la regina. Poi si rivolse agli amanti: «Conduceteci in superficie». Le formiche volanti obbedirono. Due di loro si trascinarono dietro una sacerdotessa per uno, mentre le altre sei sollevarono ansimando la regina. «Ma lei non può lasciar affogare il suo popolo», esclamai. «Quello che conta è la continuità», ribatté la regina, come ogni buon dittatore in occasione di una conferenza stampa. «Devo salvare me stessa per salvare il popolo.» Così disse, e lasciò che gli amanti la sollevassero in aria. Rimasi lì, scioccata: era questione di attimi e Alex avrebbe inondato la città, e la regina abbandonava i suoi sudditi!
Sconcertata mi avvicinai alla finestra: ogni angolo brulicava di piccole truppe. Da qualche parte c'era sicuramente anche quella di Krttx e Fsss. Loro avrebbero meritato di continuare a vivere molto di più della regina. «Dobbiamo avvisare le formiche!» dissi a Casanova, senza avere la più pallida idea di come indurle ad ascoltarci, questa volta. Ma a quel punto udimmo già il tuonare dell'acqua che gorgogliava dentro il tunnel. «Troppo tardi», disse Casanova. «È così», annuii con tristezza. «Almeno abbiamo salvato qualche formica», proseguì Casanova, «magari è sufficiente per produrre karma positivo.» «Speriamo», risposi.
Poi fummo travolti dalla piena.
Capitolo 24
Di nuovo ripercorsi mentalmente la mia vita: la fuga dalle stanze della regina, Nina in accappatoio, Alex disperato, io che mi addormentavo sulla guancia della piccola Lilly... A quel punto tentai con tutte le forze di fermare la pellicola. Volevo godermi il ricordo di Lilly, il suo respiro, la sua vicinanza, il momento in cui le avevo dato un minuscolo bacio di formica... tutto questo volevo assaporarlo per sempre... Ma il flusso dei ricordi fluiva oltre: seguii con lo sguardo la regina in fuga e percepii l'onda della piena che si
avvicinava. Vidi la massa d'acqua riversarsi sulla città delle formiche! Sentii le grida! Vidi la terra della cupola perdere coesione e precipitare su di noi. Notai come l'acqua fangosa mi trascinava via... poi fu tutto nero... Per un secondo. Di nuovo vidi la luce. Sempre più luminosa. Era stupenda. E mi avvolse tutta. Presumevo che mi avrebbe di nuovo respinta. Tentai con tutte le forze di non abbracciarla. Di non lasciarmi invadere. Non volevo più essere delusa. Ma non avevo chance, era semplicemente troppo soave. Rinunciai a resistere. L'abbracciai. Mi sentii così bene. Così protetta. Così felice. Poi venni respinta dalla luce. Ancora
una volta. Mi svegliai, profondamente triste. Con Casanova avevo mentito: era vero che volevo cacciare via Nina, ma una parte di me anelava con tutta l'anima quella luce. Ed era una parte stramaledettamente ingombrante. Il gentiluomo veneziano aveva ragione: era davvero come un maledetto bocconcino succulento che ti viene sventolato sotto il naso. Sperai di non reincarnarmi più come formica. Ma non potevo realmente credere di essere sfuggita a quel destino. In fondo il mio tentativo di salvataggio del formicaio non era stato un gran successo. Mi era riuscito solo di lasciar vivere una regina che opprimeva il suo popolo. Ma se ero di nuovo una formica,
perché allora non vedevo nulla? Perché sentivo solo quattro gambe invece di sei? E perché diavolo qualcuno mi stava leccando? «Piccolina, stai tranquilla. Ti voglio solo pulire», disse una voce gentile. Volevo chiedere: «Dove sono? Chi sei tu? Non sono più una formica? Cosa sta succedendo? Dov'è quello svitato di Buddha?» Ma dalla mia bocca uscì solo un lungo «Fiiiiiiiiiiiiiiiiiiip!» Ero stata io? Feci un altro tentativo. Gridai: «Buddha!» ma si sentì solo: «Fiiip!» Okay, a quanto pareva questi «fip» li facevo io. Ero forse una foca giovane? «Calmati», mi sussurrò quella voce affettuosa con tono materno. Calmarmi, calmarmi. Sono cieca. Non
so parlare. Non ho idea del corpo in cui mi ritrovo, e una lingua non la smette di leccarmi: come diavolo faccio a calmarmi? «Fiiiiiiiip», dissi quindi in preda all'agitazione. «Piccolina, non devi avere paura della vita», mi sussurrò la voce gentile. Non avere paura della vita... Sarebbe stata una bella cosa, ma prima volevo sapere che tipo di vita era: forse quella dì una talpa cieca? Ma non eravamo sotto terra, potevo sentire il calore dei raggi del sole sul mio corpo. Quindi non ero una talpa. Che cosa, allora? Un agnellino cieco? Un cane cieco? Un gallo cieco? «Va bene, adesso però tocca agli altri», disse la voce, e grazie al cielo tutto quel leccare si interruppe.
«Gli altri?» volevo chiedere, ma anche quella volta mi uscì solo un «fiiiip». A quel punto sentii un altro «fiiiiip», e un altro, e un altro ancora, un altro ancora. Non ero sola. (Dalle memorie di Casanova: «Mi aggiravo sulla Terra come mammifero, e il mio cuore traboccò di gioia, perché da quel momento la mia vita erotica avrebbe certamente avuto il dovuto incremento».) «Buoni, buoni. La mamma è qui con voi», disse la voce affettuosa. E gli altri «fiiiiiiip» si fecero più lievi. La mamma è qui con voi... Che bella frase. Però mi ricordò che cosa c'era di realmente brutto. Al di là dell'essere in cui mi ero reincarnata, non ero con...
«Lilly! Guarda come la mamma pulisce i piccoli porcellini d'India», sentii dire ad Alex. Una frase che diede il via a una valanga di pensieri: Lilly è qui! Alex anche. Alex ha ucciso quasi tutte le formiche. Questo mi fa infuriare. Anche se non sapeva quello che stava facendo. Lui non è mai stato una formica. E neanche mai un porcellino d'India. Io ero un porcellino d'India?!? In ogni caso questo era quello che aveva detto Alex. In effetti aveva regalato a Lilly un porcellino d'India, per il compleanno. La voce era certamente di quel porcellino d'India. E anche la lingua bagnata. Quindi era vero che aspettava dei cuccioli. Quindi avevo ragione. E Alex aveva torto. Che idiota. Ma comunque non ero più una formica.
Evviva!!! Avevo prodotto karma positivo. Due volte evviva!!! Ero un porcellino d'India.Questo in realtà non era un buon motivo per un «evviva!!!». Era uno schifo. Come diavolo potevo cacciare via Nina, se ero un porcellino d'India? «Non è compito tuo cacciare via Nina», disse una voce che riconobbi subito, dal tono da Babbo Natale. Era Buddha. E poi in mezzo all'oscurità comparve un grassissimo porcellino d'India che mi sorrise amichevole. Era di un bianco sfavillante. E quando dico sfavillante, intendo dire proprio sfavillante: dovetti socchiudere gli occhi per non essere accecata dalla sua luminosità. Come Buddha aveva detto in occasione del nostro primo incontro, «Io appaio nella
forma in cui rinasce l'anima dell'uomo». Con un leggero movimento della zampa il porcellino d'IndiaBuddha dissolse l'oscurità, e al suo posto comparve un grande prato che scintillava in technicolor. Era infinitamente vasto, e dappertutto germogliavano i fiori più meravigliosi, come in un trip da LSD degli anni Sessanta. Era evidente: lo scenario non era reale. Buddha mi aveva sequestrato e condotto lì per potermi parlare indisturbato. Dev'essere divertente poter creare le proprie realtà in questo modo. Se avessi potuto farlo anch'io, la mia realtà sarebbe stata così: sarei stata di nuovo un essere umano, tradire il proprio marito con Daniel Kohn non sarebbe sta to socialmente riprovevole, e Nina sarebbe
vissuta sul lago Titicaca affetta da perdita di memoria. Guardai in basso e vidi che ero un cucciolo di porcellino d'India. Ero ricoperta da una peluria brunobianca ed ero ancora tutta appiccicosa per il parto. «Perché sono diventata soltanto un porcellino d'India?» chiesi, e prima che Buddha potesse ribattere qualcosa mi misi a pestare con le zampette. «Voglio essere un cane! Voglio! Voglio! Voglio!» (Anche solo una settimana prima non avrei ritenuto possibile una frase del genere.) «Per rinascere cane avresti dovuto produrre più karma positivo.» «Ho salvato le formiche sbagliate?» chiesi. «No.» «No?» «Le hai salvate per la ragione sbagliata.» «Per la ragione sbagliata?» «Hai agito spinta da motivi
egoistici. Perché vuoi allontanare Nina. Se avessi fatto lo stesso per pura comione, ora saresti..» «Un cane?» chiesi speranzosa. «O qualcosa di ancora superiore», ribatté lui, mentre intorno a noi il prato LSD lentamente impallidiva. Ormai vedevo solo il bianco sfavillante di Buddha. Circondato da una fitta oscurità. «Vivi una bella vita», disse il grasso porcellino d'India, e si dissolse nell'aria. «Ehi, non puoi tagliare la corda così!» gridai, ma tanto sapevo che quell'ebete poteva fare quello che voleva. E così ero di nuovo sola al buio, a riflettere sul significato di «qualcosa di ancora superiore»: una scimmia o, magari, addirittura, un essere umano? Ma a che cosa mi sarebbe servito
rinascere essere umano? Sarei stata molto più giovane di Lilly. Un lattante. Poi, all'improvviso, mi sentii di nuovo invadere dalla speranza. A due anni sarei già stata in grado di parlare. Avrei raccontato tutto ad Alex e lo avrei dissuaso dal mettersi con Nina. Forse lui mi avrebbe persino aspettata, finché non fossi stata adulta, e mi avrebbe di nuovo sposata. Nel qual caso lui avrebbe avuto cinquant'anni e io diciotto... Ops, stavo pensando di risposare Alex. Provavo forse ancora dei sentimenti per lui? C'era però un «ma», in tutte quelle fantasie: se gli uomini potevano ricordarsi della loro rinascita, così come io ricordavo di essere stata una formica e un porcellino d'India, per il mondo non
avrebbe forse dovuto aggirarsi un numero pazzesco di persone memori delle proprie vite precedenti? Persone che dicevano: «Ehi, io ero Humphrey Bogart e ora sono felice di essere un bel po' più alto». Oppure: «Sono stata ballerina al Moulin Rouge, ma tutte le mie conoscenze del cancan non mi servono un granché come membro del consiglio direttivo della Mercedes». Oppure: «Io ero John Lennon! Perché non sfondo in Popstarsì» Ma certo questo valeva unicamente per coloro che si ricordavano delle proprie vite precedenti, per Shirley MacLaine oppure per i pazzi... o tutte e due le cose insieme. Tuttavia, che fossi rinata cane o essere umano, certo me la sarei ata meglio che da porcellino d'India ruminante. Quindi dovevo produrre rapidamente
karma positivo! «Posso prendere in braccio uno dei cuccioli?» chiese Lilly. Mi trovavo di nuovo nella gabbia. I raggi del sole non mi riscaldavano più, probabilmente il cielo si era rannuvolato. Tremavo dal freddo. Ora la mamma mi leccava gli occhi ancora incollati. La prima cosa di questo mondo che vidi da porcellino d'India fu quindi una lingua rosa di animale. Ma la seconda fu Lilly! Sembrava che per un attimo avesse del tutto dimenticato il suo dolore. La presenza di noi cinque porcellini la rendeva felice. «Ti prego, ti prego, dammi quel cucciolo nell'angolo!» disse indicandomi. «Continua a fissarmi.» Il mio cuore si mise a battere all'impazzata. Volevo
essere presa in braccio e coccolata da Lilly. Alex aprì la porta della gabbia. I miei fratelli gridarono alla rinfusa, presi dal panico: «Fiiiiiiip...» «Tranquilli, piccoli miei», sussurrò la mamma porcellino d'India, «i wallalalala non mangiano i porcellini d'India.» (Evidentemente la mamma non era mai stata in Cile.) Nonostante le parole confortanti, i miei fratelli continuarono con il loro «fip fip», mentre io rimasi calma. «Quello nell'angolo è l'unico a non avere paura», costatò Lilly. «Allora prendo quello», disse Alex. A quel punto il battito del mio cuore aumentò notevolmente il ritmo, fra un attimo Alex mi avrebbe tirato fuori e deposto fra le braccia della piccola. Mi
sarei potuta raggomitolare vicino a lei, avrei potuto sentire il suo contatto... «Che cosa state facendo?» sentii la voce di Nina. «Lilly vorrebbe prendere in braccio uno dei porcellini d'India.» «Ma sono appena nati. Non gli farà certo bene», disse Nina. «Non gli farà bene?» esclamai. «Tu non hai idea di co me si senta un porcellino d'India. Tu non sei mai stata un porcellino d'India. Al massimo una coniglietta!» Naturalmente Nina sentì un acuto «fiiiiiiiiiiiip!» ma in seguito al mio fischio gli altri porcellini fischiarono ancora di più. «Vedete? Squittiscono tutti impauriti», disse Nina. Chiusi immediatamente la mia bocca
di porcellino, ma non servì più a niente. «Hai ragione», disse Alex, e si rivolse a Lilly: «Aspettiamo che siano un po' più grandi». Chiuse la gabbia. Lilly era di nuovo lontana da me.
Capitolo 25
I GIORNI seguenti fummo nutriti dalla mamma. E devo dire che era maledettamente brava. Ci viziava dalla mattina alla sera, ci parlava affettuosa e ci puliva con la sua lingua. E per quanto strano possa suonare, quella vita cominciava a piacermi. Dopo tutta l'agitazione dei giorni ati da formica, quella era quasi una vacanza. D'accordo, una settimana in un centro benessere con massaggiatori muscolosi mi sarebbe piaciuta di più (ed essere leccata da loro mi avrebbe certamente procurato più gioia).
Per un po' mi chiesi perché mi pie tanto. All'inizio attribuii la cosa al fatto che come porcellino d'India possedevo un istinto naturale che mi suggeriva «la mamma ti vuole tanto bene», ma poi mi fu chiaro: anche da bambina lo possedevo, quell'istinto, ma disgraziatamente mia madre per la maggior parte del tempo era troppo occupata con i suoi problemi. Nel corso degli anni avevo sviluppato una serie di strategie per richiamare la sua attenzione: da ragazzina avevo tentato di impressionarla con buoni voti a scuola, senza risultato. Da teenager con la ribellione. E quando avevo costatato che anche questo le importava poco, avevo cercato amore da qualche altra parte. In Alex non avevo trovato solo un amante,
ma anche un amico che mi sosteneva. Al contrario di me, lui proveniva da una famiglia molto protettiva. I suoi genitori erano felicemente sposati da oltre vent'anni, all'epoca, amavano i loro figli e guardavano sempre con occhio positivo al futuro. In breve, mi apparivano come esseri di un film di fantascienza. Seduta al tavolo da pranzo con loro mi sentivo a mio agio e a disagio allo stesso tempo. A mio agio per l'atmosfera di armonia che respiravo, a disagio perché pensavo continuamente alle parole di una vecchia canzoncina: «Uno degli oggetti non c'entra». E l'«oggetto» estraneo in mezzo a tutte quelle persone dotate di armonia ero io. Alex, però, mi aveva trasmesso la fiducia che anche noi potessimo creare un
ambiente del genere, e fra una cosa e l'altra io ci avevo anche creduto. Ma ora la mia famiglia umana, grazie al mio o falso, era distrutta, e io facevo parte di una stramaledetta nidiata di porcellini d'India. Finalmente, dopo dieci giorni, Alex disse a Lilly: «Ora puoi prendere in braccio uno dei porcellini». Mi feci subito strada per arrivare alla porta della gabbia, lottai per are davanti agli altri cuccioli con uno di loro, che pareva una palla di marmo, usai un po' più di vigore ignorando le parole della mamma che mi esortavano: «Non puoi are in mezzo alle zampe di tuo fratello». (Dalle memorie di Casanova: «Le ore successive, il mio fischiare si fece più
acuto di un'ottava».) Diedi un breve «fip» di risposta, il mio apparato vocale non era ancora del tutto formato per poter replicare come si deve. «Quale porcellino dovrei prendere?» chiese Lilly. Le rivolsi lo sguardo più innocente del mondo. Alex mi tirò fuori con cautela dalla gabbia. Le sue mani erano grandi come tutto il mio corpo, ed era la prima volta da tanto tempo che mi toccava. Notai quanto delicata fosse la sua presa: dolce ma forte. Meravigliosa. Mi chiesi se mi avrebbe toccata in quel modo, se fossi stata un essere umano.
Forse sarei davvero potuta rinascere donna, e lui mi avrebbe davvero aspettata. Avrebbe ancora avuto mani così delicate a cinquant'anni? E quando mi accorsi quanta nostalgia provavo a giocare mentalmente con questi pensieri irreali, capii: per lui provavo ancora dei sentimenti. Alex mi mise tra le braccia di Lilly e le rammentò: «Fa' attenzione». «Ti devo mostrare una cosa!» mi disse Lilly eccitata. «E tu non puoi vederla», aggiunse temeraria, rivolgendosi ad Alex. Lui rimase un po' sorpreso, ma lasciò fare. Lilly mi portò in un angolo nascosto del giardino. D'un tratto starnutì, poi si avvicinò il dito alla bocca, fece un «psst!» e scavò nella terra, finché non
apparve... un moretto. «Questo è il mio nascondiglio per i dolci», dichiarò Lilly orgogliosa. Ero stupefatta. Come mamma avevo sempre pensato che la faccenda dei segreti cominciasse poco prima della pubertà. «Vieni, dividiamocelo», mi propose. Non mi sembrava una buona idea, per due motivi: uno che come cucciolo di porcellino d'India non potevo digerire una palla di cioccolato ripieno, e secondo che a Lilly sarebbe certamente venuto il mal di pancia. Scossi con energia la testa, ma Lilly, tra altri due starnuti, disse solo: «Come vuoi. Allora lo mangio tutto io». Era la peggiore fra tutte le possibilità. E siccome non volevo che Lilly stesse
male, afferrai il moretto, che sapeva di muffa, e me lo pappai coraggiosamente. Una buona azione, se si tiene conto che così avevo risparmiato a Lilly una brutta esperienza. Terribile, se si considera che la sera vomitai dappertutto nella gabbia. Dopo che me l'ero mangiato a quattro palmenti, lei mi chiese: «Sai che cosa mi succede sempre all'asilo?» Scossi la testa. Lilly la prese come una reazione ovvia. I bambini non si stupiscono se gli animali rispondono alle loro sollecitazioni. (Invece da adulti ci si chiede spesso: Riesce a capirmi, l'animale? Ora lo so: gli esseri umani reincarnati in animali ci riescono. E da parte loro pensano come rispondere a frasi tipo: «Cucci, cucci, cucci, chi è il mio cucciolo preferito?») «Gli altri mi fanno arrabbiare.»
Queste parole di Lilly mi strapparono ai miei pensieri. Gli altri bambini la facevano arrabbiare? Fui presa dalla furia. Sapevo già perché non potevo soffrire la maggior parte dei bambini. «Lukas e Nils mi chiamano sempre Piscialilly e mi picchiano.» Furiosa, mi misi a battere le zampe sul terreno. «Lo fanno già da settimane», disse Lilly tra le lacrime. Da settimane? Pensai. Questo significava che quei sudici marmocchi avevano fatto arrabbiare Lilly quando ero ancora un essere umano. Perché non mi aveva mai raccontato niente? E, anche peggio, perché non avevo mai notato niente? Sentii un grande peso al cuore: evidentemente non sapevo abbastanza
della vita della mia piccola. «La mamma mi ha sempre detto che devo essere sicura di me e sapermi difendere», continuò Lilly grattandosi il braccio, «ma io non ci riesco.» Dio mio. Non me lo aveva raccontato perché io le avevo sempre detto che doveva essere sicura di sé, se aveva un problema all'asilo. Avevo confidato nel fatto che lei si imponesse da sola e così facendo avevo trattato quella creaturina come un'adulta. Ma aveva solo cinque anni. Avrei dovuto starle vicina e dare una lavata di capo a quegli ebeti di bambini. Magari nei gabinetti dell'asilo. E ora non potevo fare niente per aiutare la mia piccola a risolvere le sue difficoltà. Lilly mi guardò triste. Confusa,
poggiai la mia zampetta sulla sua mano e l'accarezzai. La piccola si grattò sul collo. Durante la notte continuai a lottare contro i sensi di colpa nei confronti di mia figlia e contro i crampi alla pancia. Mentre lo stomaco mi impediva di dormire, dalla nostra gabbia vedevo Nina e Alex che cucinavano insieme. Lo facevano ogni sera, e poi si sedevano davanti al camino, che nei giorni freddi di primavera Alex accendeva volentieri. In queste occasioni Nina gli accennava sempre un sorriso, ma con mia soddisfazione finora lui non le aveva dato corda. Finora. Quella sera Alex parlava e Nina aveva assunto la sua migliore aria di ascoltatrice. Molto probabilmente, in realtà, stava meditando su quando non sarebbe stato
più irrispettoso sedurre mio marito. E poi Nina fece un'osservazione. Quello che disse non potei sentirlo, ma Alex sorrise. Il che non mi piacque affatto. Nina proseguì a parlare e io cercai di leggerle le labbra. «Frblmpf», lessi. «Aaa, daaaffne, proli», lessi nella risposta sorridente di Alex. Dovevo concentrarmi meglio. Dalle labbra di Nina lessi: «Ginecologi ballano sorbetto». Alex ribatté: «E urologi tortelloni». Dovevo concentrarmi molto di più. Nina disse: «Amo il tuo macinino». Disse questo, oppure: «Amo il tuo pisellino». «Il mio pisellino è anche Dolby Digital.» «Argghhh!» Gettai un grido.
Quella stramaledetta situazione di dover stare lì a leggere le labbra mi faceva diventare pazza. «Sst», disse la mia mamma porcellino d'India, «gli altri dormono.» Nonostante i suoi modi affettuosi intuivo che per lei stavo lentamente diventando la figlia problematica. Non le diedi ascolto, volevo riprendere a leggere le labbra, ma non fu più necessario. Nina aveva detto qualcosa, e Alex rideva. Forte. Di gusto! Io ero morta! Non poteva ridere. Doveva piangere in continuazione! Tutta la notte! Tutto il giorno! Fino a essere costretto ad andare da un medico per farsi di nuovo riempire le ghiandole lacrimali! Ma Alex rideva ancora. Non ci
pensava affatto a farsi riempire le ghiandole lacrimali. Questo mi fece infuriare così tanto che ebbi bisogno di una valvola di sfogo: colpii Palla di marmo. Non mi importava che stesse dormendo. Ma lui borbottò e continuò a ronfare. La mamma porcellino d'India tentò di istruirmi: «Devi essere più gentile con gli altri. Siete tutti fratelli, prima o poi anche tu dovrai volergli bene». Come no! Il giorno in cui vorrò bene a queste cavie sarà il giorno in cui il Papa festeggia Hanukkà. Tornai a guardare Alex. Si stava asciugando le lacrime, da quanto aveva riso! Poi guardando Nina disse: «Grazie» (qui la lettura delle labbra fu inequivocabile), si accomiatò con un
«Vado a lavare il mio pisellino» (qui la lettura delle labbra non fu inequivocabile), e si diresse in camera, mentre Nina lo seguiva con gli occhi e con un'espressione del viso che diceva: «Ci saranno altre occasioni per noi» (di nuovo molto chiaro nella sua lettura). La fissai rabbiosa: in quel momento le mie fantasie si sarebbero potute adattare per lo schermo con il titolo L'attacco del porcellino d'India killer. «La wallalalala è un essere buono», disse la mamma porcellino strappandomi alle mie fantasie da film dell'orrore. «Al maschio è morta da poco la femmina. E ora lei si occupa di lui con affetto.» «Un essere buono, puh!» fischiai sarcastica, come solo un porcellino d'India sa fare, e in effetti il risultato non fu troppo
sarcastico. Poi rivolsi di nuovo lo sguardo a Nina e ragionai su come ci si poteva sbarazzare di lei. Ma al di là del piano poco sensato di raccogliere in me tutta la rabbia, per poi mordere Nina, non mi venne in mente nulla. Invece fu Nina a trovare un modo per togliere me dalla circolazione. *** «Credi davvero?» chiese Alex, quando il giorno seguente si trovò con Nina davanti alla nostra gabbia. «Ne sono sicura», confermò lei, e io mi resi conto che non si trattava più di pisellini Dolby Digital.
«Spezzeremo il cuore a Lilly, se daremo via i porcellini d'India», ribatté lui. Dare via? Volevano darci via? «È la cosa migliore per la piccola», disse lei, e Alex annuì. «La cosa migliore?» fischiai. «Come ti viene in mente che sia la cosa migliore? La cosa migliore è che ti piazzi sull'autostrada all'ora di punta.» «Ha già il viso gonfio», disse Nina, «di sicuro è allergica al pelo.» Oh no, non ci avevo pensato! Per tutto il tempo Lilly non aveva fatto altro che starnutire e grattarsi, e questo non dipendeva da un raffreddore o da un'eruzione cutanea, ma da me. E, quel che era peggio, Nina la metteva come se a spingerla fosse unicamente la preoccupazione per la piccola. E questo
significava che stava puntando ad Alex. Espressi la mia protesta con un fischio sonoro. «La mamma dobbiamo tenerla. È troppo grande. Ma gli altri porcellini me li posso portare al lavoro», disse Alex. Smisi di fischiare. Alex aveva un lavoro? A quel punto mi tornò in mente: poco prima della mia morte mi aveva raccontato che il suo amico Bodo gli aveva offerto un lavoro all'università. Come collaboratore scientifico. In un laboratorio in cui si facevano esperimenti sugli animali. Fischiai in preda a una furia omicida!
Capitolo 26
IL mattino successivo mi ritrovai con i miei fratelli in una piccola gabbia di fil di ferro collocata in una stanza spoglia e priva di finestre, sopra un tavolo di legno, giusto accanto a un computer che aveva visto i suoi tempi migliori alla fine degli anni Novanta. Respiravamo aria condizionata. Quello era il nuovo ufficio di Alex, situato alla periferia della città, in un complesso convertito a deposito e ora destinato alla ricerca. Un luogo triste, che avrebbe indotto al suicidio qualsiasi specialista del feng shui. E anch'io non mi sentivo tanto bene.
Perché Alex aveva accettato quel posto? Gli esperimenti sugli animali anche per uno scopo nobile ad Alex non andavano a genio. E io gli avevo lasciato abbastanza denaro e... Caspita, maledizione, no che non glielo avevo lasciato! Avevo investito tutti i miei soldi nella villa, avevo fatto male i conti con le spese di ristrutturazione. E un'assicurazione sulla vita non l'avevo stipulata. Per venire a capo delle ipoteche e del sostentamento quotidiano Alex doveva lavorare. Che razza di egocentrici siamo noi defunti! Avevo ato il mio tempo a ragionare su quanto misera fosse la vita dopo la morte, ma la vita prima della morte era, per coloro che rimanevano, quasi ugualmente difficile.
I rimorsi di coscienza furono tali che sentii il bisogno di sfogarmi, per questo colpii Palla di marmo. «E smettila una buona volta, cretino!» brontolò lui. Rimasi stupita. Non solo perché il porcellino d'India nero con la macchia bianca sull'occhio aveva sviluppato il suo apparato vocale, ma anche per la sua maniera di esprimersi. Provai a fare un test del mio, di apparato: «LI...» Le corde vocali erano ancora un po' arrugginite, tuttavia mi sforzai di far uscire le parole. «Lei è Casanova?» Gli occhi del raggomitolato brillarono. «Madame Kim?» «Sì» risposi, rallegrata dal suo sguardo luminoso in quella circostanza infausta. «È meraviglioso, non siamo più delle
formiche!» esultò Casanova, e si strinse così forte a me da farmi desiderare una tenda a ossigeno. «La storia del karma positivo è valsa la pena», proseguì con le sue chiacchiere. «Non so dirvi quanto sia estasiato all'idea di essere di nuovo un mammifero! E sapete, madame, che cosa mi rallegra di più per il futuro?» «No, veramente no.» «I piaceri della carne.» «I piaceri della carne?» chiesi con irritazione. «Da formica, l'atto d'amore con la regina era per me un orrore infernale», dichiarò Casanova, «ma ora sono un porcellino d'India maschio. E, perdonatemi l'espressione triviale, i porcellini d'India si accop...» «... non voglio sentire il resto», dissi brusca, neanche fossi una delle potenziali partner.
Inoltre c'erano problemi più urgenti della libido di Casanova. «Siamo in un laboratorio dove si eseguono esperimenti sugli animali!» gli spiegai. «Che cosa vuol dire?» chiese una voce flebile dietro di noi. Ci voltammo e guardammo i volti impauriti dei nostri tre fratelli. Ora anche le loro corde vocali erano formate. «Neanch'io lo saprei spiegare», rispose Casanova al porcellino bruno, quello dallo sguardo scettico, che aveva posto la domanda. «E che cos'è un ’atto d'amore'?» chiese un secondo porcellino, dolce e femminile, quasi completamente bianco. «Questo invece ve lo so spiegare con precisione, mademoiselle», attaccò
Casanova pieno di slancio. «Che cosa significa 'mademoiselle'?» intervenne il terzo porcellino, bruno rossastro e decisamente grasso. «Una donna non sposata la si definisce...» incominciò Casanova. «Che cosa significa 'sposata'?» lo interruppe il porcellino femmina. «Persone che...» disse Casanova. «Che cosa sono le per...» «Mon dieu, però potreste lasciarmi terminare il discorso!» disse irritato Casanova, e i porcellini chio intimiditi la bocca. A quel punto il gentiluomo veneziano tentò coraggiosamente di presentare in tutte le sue sfaccettature il tema «amore», ma invano. I suoi uditori erano in effetti solo dei bambini. «Aspettiamo che siate un po' più
grandi per parlare di questi argomenti», dissi io mettendo fine alla conversazione, e i piccoli annuirono concordi. Le delucidazioni un po' troppo dettagliate di Casanova riguardo all'atto sessuale li avevano confusi. «Ma comunque che cosa significa 'esperimenti sugli animali'?» insistette il porcellino scettico, che intuiva la presenza incombente del pericolo. Debuttai in questo modo: «I wallalalala fanno con noi delle cose spiacevoli e...» Ma questo fu sufficiente a diffondere il panico. «Mamma!» gridarono i piccoli. «Vogliamo andare dalla mamma!» Decisi di interrompere la spiegazione. «Che tipo di cose?» voleva sapere però Casanova. Prima che potessi
rispondere, Alex entrò nell'ufficio. Di sicuro ci veniva a prendere per i suoi esperimenti. Cominciai a urlare come impazzita: «Sono io, tua moglie! Tirami subito fuori di qua! Non voglio venire attaccata a un qualche elettrodo per ritrovarmi alla fine a non essere più in grado di balbettare niente se non 'bailabailalabamba'!» Gli altri porcellini escluso l'avveduto Casanova mi accompagnarono schiamazzando, presi dal panico, sebbene non sapessero né che cosa fossero gli elettrodi né che cosa fosse La Bamba. Ma Alex, con voce rassicurante, disse: «Non dovete agitarvi. Facciamo solo qualche esperimento di etologia». Etologia? Non agitarci? Questo mi suonava decisamente meglio. Anche se
non ancora bene. O, per essere più precisi, la situazione continuava a sembrarmi abbastanza schifosa. Ma decisamente meglio degli elettrodi. In quel momento entrò nella stanza Bodo, l'ex compagno di studi di Alex. Era un trentacinquenne ancora single. E questo non dipendeva solo dalla sua statura piccola e dal suo atteggiamento ambiguo. Dipendeva anche dal fatto che esistono frasi migliori per esordire con una donna rispetto a «Mi guadagno da vivere facendo esperimenti sugli animali». Lui e Alex probabilmente non si sarebbero mai conosciuti se, durante gli anni universitari, il loro professore non li avesse fatti lavorare insieme a un progetto di ricerca. E siccome Alex per principio
vedeva sempre gli aspetti positivi delle persone, da quel momento gli aveva serbato fedeltà. «Bodo non è poi così meschino come pensi tu», soleva dirmi. «Benvenuto al tuo nuovo lavoro», disse Bodo ridendo. Alex annuì senza una parola. Si sentiva visibilmente a disagio per aver dovuto accettare quel posto. E io mi senti vo ancora peggio. Da un lato perché ero corresponsabile di quella scelta e dall'altro perché ora divenivo l'oggetto della sua attività professionale. «Il professore vuole gli esiti dell'esperimento nel labirinto già per domani.» «Ma perché proprio questo? Si tratta di un test standard superato. A parte il professore, non lo fa più nessuno.» «L'etologia è ormai il suo pallino.»
«Devo davvero cominciarlo oggi?» chiese Alex. «È un problema?» «Devo andare all'asilo a prendere mia figlia.» «Non può occuparsene qualcun altro? Non credo che il professore sarebbe molto felice di vederti tagliare la corda in anticipo.» «Sì... qualcuno ci sarebbe», rispose Alex con un po' di esitazione, e io non potei crederci: voleva mandare Nina a prendere Lilly?!? «Questo è l'atteggiamento giusto. È così che potrai superare il periodo di prova», disse Bodo, e uscì dalla stanza. Alex sospirò, ci guardò e ordinò: «E allora via nel labirinto».
Capitolo 27
ALEX ci portò in un grande laboratorio illuminato da un neon, sul cui pavimento era montato un gigantesco labirinto a specchi. Poi assegnò a ognuno di noi porcellini un numero. Dall'uno al cinque. Io divenni Numero Quattro. In ato Alex aveva usato ben altri vezzeggiativi con me. Avevo i nervi a fior di pelle. Gli altri miei fratelli fischia vano impauriti, mentre Casanova mi chiese: «Che intenzioni ha il vostro consorte?» «Se abbiamo fortuna dobbiamo semplicemente muoverci all'interno di un labirinto.» E mentre parlavo mi
attorcigliavo nervosamente i peli della faccia con la zampetta. Alex disse con dolcezza: «Niente paura, piccolini. È solo un esperimento innocente». Come avrei voluto credergli. Ci depose tutti al centro del labirinto. C'era odore di disinfettante, evidentemente veniva pulito con regolarità. Appena messi in posizione, i miei fratellini corsero via irrequieti. Casanova disse: «In un attimo saremo fuori», e anche lui partì come un fulmine. Io invece mi sedetti e decisi di fare sciopero: che fossero gli altri a faticare. Io avrei aspettato finché Alex non si fosse reso conto dell'idiozia e non mi avesse tirata fuori dal labirinto. Che cosa avrebbe potuto fare?
In quel momento sentii sotto i piedi una scossa innocua, anche se energica. Questo poteva fare! «Ahi, merda, sei matto?!?» gridai rivolta ad Alex. «Mi dispiace, piccolo», gli sentii dire. La voce era incerta. Non gli piaceva quello che stava facendo. E a me decisamente molto meno! All'inizio, per lo stupore, rimasi ferma immobile. E subito sentii la seconda scossa. Un po' più vigorosa. «Le tue azioni sono per me un motivo eclatante per chiedere il divorzio», gli urlai, e corsi via. Dopo circa quindici secondi battei con la mia zucca di porcellino d'India contro la prima parete a specchio. Cercai di calmarmi. In qualche modo sarei pur
dovuta uscire da lì. Non ero una semplice cavia. Ero un essere umano reincarnato in una cavia! Quindi di molto superiore ai normali animali da laboratorio! Sarebbe stato da ridere se non mi fossi trovata fuori nel giro di un minuto! Due ore dopo ero ancora là dentro. E non ridevo. Avevo le zampe stanche, la testa mi doleva. Ero finita innumerevoli volte contro lo specchio. Ma ogni volta che volevo rinunciare e mi fermavo un po' troppo a lungo, Alex mi inviava una scossa. «Insopportabile, il vostro consorte», disse Casanova che mi stava di fronte, bloccato in un vicolo cieco. (O era solo un'immagine riflessa e io sentivo giungere
la sua voce da qualche altro punto del labirinto?) «Sono d'accordo!» risposi. Quello che Alex stava facendo con me conferiva al «problema matrimonio» una dimensione del tutto nuova. Il fatto che fosse colpa mia che lui si trovasse seduto davanti al regolatore elettrico mi era mediamente indifferente. Mi ero lasciata alle spalle i rimorsi di coscienza nei suoi confronti circa dodici scosse prima. E me ne arrivò di nuovo un'altra. «Okay, adesso basta. Io divorzio!» A quel punto Alex si chinò sopra il labirinto. Il suo volto scosso dai sensi di colpa, ingigantito dal mio angolo di visuale, pareva chiedersi meravigliato cos'avesse da strillare il piccolo porcellino a macchie bianche e brune al suo cospetto.
Che stesse facendo domanda di divorzio, di certo non lo immaginava. Per un'altra mezz'ora sfrecciai avanti e indietro infiacchita e con lo stomaco indolenzito. Era ormai parecchio tempo che non mangiavo niente, e sognavo di uscire dal labirinto e di nutrirmi di qualcosa. Ed ecco che svoltai un an golo e vidi due scodelle per il mangime. Una piena di erba, l'altra di mortadella. Come porcellino d'India l'erba aveva per me un profumo delizioso, mentre la mortadella mi rivoltava lo stomaco. In realtà prima, quando ero un essere umano, ero tutto fuorché vegetariana, come si poteva vedere dai miei fianchi, la cui crescita quanto a biomassa era impressionante. Ma ora era tutto diverso: il solo pensiero delle enormi quantità di
carne mangiate in ato mi faceva rabbrividire. Prima di tutto perché adesso mi chiedevo se per caso mi fossi divorata uomini reincarnati: il maiale in agrodolce era forse un cinese? Il currywurst era forse la mia defunta zia Kerstin? E se quella mortadella fosse stata Willy Brandt? Questa faccenda della reincarnazione sollevava questioni sempre più spiacevoli. Cercai di non pensare né alla zia Kerstin né a Brandt, né a cinesi marinati in salsa agrodolce. Invece osservai bene le due scodelle: che cosa aveva indotto Alex, responsabile del test, a pensare stupidamente che un porcellino d'India avrebbe scelto la mortadella? Mi avvicinai alla ciotola con l'erba e ricevetti di nuovo una scossa.
«Ahi!» urlai. Ora mi era chiaro che cosa lo avesse indotto: solo mangiando la mortadella la scossa non sarebbe arrivata. «Ti odio!» gli gridai contro. «Avrei dovuto tradirti con Daniel Kohn già molto prima!» Alex aspettava di vedere se sarei andata a mangiare la mortadella. Tutto ciò era un'assoluta... «Sadica idiozia!» completò il mio pensiero Alex. Ero sorpresa. «Mi dispiace, cuccioli. Adesso vi tiro fuori», disse, «tutta questa situazione è uno stupido errore. Mi licenzio!» «Già alla fine del primo giorno?» chiese Bodo, che evidentemente era entrato nella stanza in quel momento.? «È semplice, queste cose io non le posso fare», spiegò Alex. «Ma è solo ricerca etologica con delle
piccole scosse. Che cosa pensi che faccia io, con quelle bestie di là, per lo studio sul diabete?» «Lo so quello che fai», disse Alex. «Ed è per un buon fine», ribatté lui. «Può essere. Ma io non sono il tipo da fare esperimenti sugli animali.» «Pensavo che tua moglie non ti avesse lasciato grana», lo incalzò Bodo, con un tono che aveva qualcosa di ripugnante. «Preferisco trasferirmi in un casermone popolare piuttosto che continuare qui!» ribatté Alex acido. La sua voce aveva ritrovato fermezza. E lui aveva ritrovato il suo coraggio e il suo vigore. «Non cambio idea. Mi licenzio!» Il mio cuore sussultò dalla gioia. «E i porcellini d'India li porto via con me.» Il mio cuore non solo sussultò, ma
saltò sul trampolino. «Scordatelo. Ne ho urgente bisogno di là per gli esperimenti sul diabete. Per questo sono tornato qui», disse Bodo. Qualcuno mi tolse il trampolino da sotto il cuore. «Uno dei gruppi da testare oggi ha tirato le cuoia per uno stupido errore. Se tu non me li lasci perdiamo una giornata decisiva.» Alex rimase un attimo assorto. «Va bene, allora prendili!» rispose poi di cattivo umore. E il mio cuore si schiantò sul pavimento con un «ciac», vicino al trampolino che mi era stato tolto da sotto. Alex uscì dal laboratorio senza salutare Bodo che, andandosene a sua volta, ci disse: «Torno a prendervi». Il comportamento di Alex lo si poteva
comprendere: per lui eravamo solo porcellini d'India. E lo studio riguardava persone malate. Come già detto, lo si poteva comprendere. Ma non era detto che lo si dovesse comprendere. E io non lo feci. Ero semplicemente arrabbiata a morte con lui. Mi aveva tormentata e poi abbandonata tra le grinfie di un sadico. E permetteva anche che Nina andasse a prendere Lilly all'asilo. E pensare che poche ore prima avevo fantasticato sull'eventualità che Alex e io potessimo metterci di nuovo insieme... Ero così in collera con lui che perdetti le staffe e con tutto il peso del mio corpo di porcellino mi lanciai più volte contro la mia immagine riflessa. Finché lo specchio non si ruppe. E dietro c'era Casanova.
Che chiese interessato: «Che cosa significa 'ricerca sul diabete'?» «Che con noi eseguono degli esperimenti con l'intento di aiutare le persone malate», gli spiegai rassettandomi con maggiore frenesia i peli della faccia. «È meraviglioso», disse Casanova. Lo guardai esterrefatta. «Allora», esultò ancora, «qui sì che produciamo karma positivo!»
Capitolo 28
CASANOVA era di ottimo umore. Sfido io, lui al contrario di me non aveva mai condotto una trasmissione sugli esperimenti con gli animali. Io invece sapevo bene che rispetto a una serie di test per la ricerca sul diabete una permanenza a Guantanamo era una vacanza al Club Med. Così tremavo dalla paura mentre Casanova si prefigurava addirittura il Nirvana. Naturalmente la prospettiva di produrre karma positivo attirava anche me, ma farsi iniettare per giorni, o forse
per settimane, insulina o altri preparati... Avrei avuto la febbre, disturbi del ritmo cardiaco, per cadere infine in uno stato di delirio. Certo, avrei aiutato delle persone malate. Ma volevo veramente lasciarmi tormentare a morte per delle persone che nella loro vita si erano nutrite di troppi dolci? E qual era l'alternativa? Fuggire? Un porcellino d'India che fugge? Ci sono mille specie di animali che avrebbero maggiori chance di scampare a una situazione del genere. Non ero neanche riuscita a uscire da quello stupido labirinto! Mentre aspettavamo Bodo, soppesai i pro e i contro di una potenziale fuga, per quanto improbabile potesse essere.
Pro: non sarei stata tormentata a morte. Contro: non avrei prodotto karma positivo. Pro: non sarei stata tormentata a morte. Contro: forse avrei persino prodotto karma negativo. Pro: non sarei stata tormentata a morte. Contro: con karma negativo c'era la possibilità di rinascere formica. Pro: nessuno di questi idioti argomenti pro karma poteva compensare il «non sarei stata tormentata a morte». A quel punto la faccenda era chiara: avrei tentato la fuga. Che i diabetici si mettessero in prima persona a servizio della scienza!
Ma prima che potessi anche solo pensare a un piano, Bodo entrò nella stanza. «Bene, miei cari, la vostra sequenza di esperimenti è pronta», disse soddisfatto. E io dentro di me pensai che non era sempre positivo che gli uomini amassero il loro lavoro. Bodo tirò fuori dal labirinto un porcellino dopo l'altro e li mise tutti in una gabbia che aveva appoggiato vicino a sé sul pavimento. Io fui l'ultima a essere presa: le sue dita puzzavano talmente tanto di sigaretta che gli si sarebbe dovuto suggerire di dedicarsi alla ricerca sul cancro ai polmoni, piuttosto. Sembrava che Bodo avesse tutte le intenzioni di infilare anche me nella gabbia in cui si trovavano tre dei miei
fratelli con lo sguardo disorientato e Casanova con un sorriso colmo di aspettativa. Era evidente che non appena lui avesse chiuso dietro di me il paletto della gabbia non avrei più avuto possibilità di fuga. E quindi lo morsi, con tutta l'energia che avevo, su quelle dita puzzolenti di nicotina. Lui lanciò un grido e mi lasciò cadere sul pavimento. Io andai a sbattere sulle piastrelle fredde e, nonostante il dolore incredibile, sfrecciai via più rapidamente possibile, tanto quanto mi consentivano i miei minuscoli piedi. «Madame, che cosa state facendo?» mi gridò dietro Casanova. «Dobbiamo tagliare la corda!» «E il karma positivo, allora?» «Non me ne frega niente del karma positivo!» urlai, e
corsi via per salvarmi la vita.
Capitolo 29
BODO si stava ancora succhiando il pollice che io già volavo verso la porta del laboratorio rimasta aperta. Mi voltai per un attimo e vidi che, nella gabbia, i miei fratelli riflettevano sul da farsi. In particolare Casanova. Bodo si chinò per chiudere la gabbia: «Va bene lo stesso, anche se devo lasciar fuggire uno di voi». Ma a quel punto anche Casanova gli morse un dito. (Dalle memorie di Casanova: «Vidi negli occhi di madame Kim l'immenso
timore che provava nei confronti degli esperimenti e fra me e me pensai: Sono reduce da così tante vite senza karma positivo. Di sicuro ce la farò anche con un'altra».) «AHHH, ma che razza di bestie schifose siete!» imprecò Bodo ad alta voce, mentre Casanova incitava i fratelli gridando: «Via!» Poi saltellò fuori dalla gabbia, e gli altri lo imitarono. I porcellini d'India possiedono un istinto gregario, come noi uomini. Così cinque piccoli roditori sfrecciarono attraverso la porta del laboratorio. E io sentii la voce di Bodo che urlava: «Adesso vi prendo!» Corremmo via ando per un lungo corridoio vuoto e
bianco. Cercavo come impazzita una tromba delle scale. Bodo, dopo essersi messo in tasca un mazzo di chiavi, aveva preso a correrci dietro gridando: «Se non vi fermate eseguo gli esperimenti senza anestesia. Non m'interessa che cosa c'è scritto nelle prescrizioni!» Arrivammo in fondo al corridoio, dove solo una porta era aperta. Dato che Bodo già ansimava dietro di noi, non c'era alternativa. «Qui dentro!» strillai agli altri. Sfrecciammo oltre la soglia. Nel bel mezzo di un incubo. Nella stanza c'era una gabbia con quattro scimmie: avevano cerotti, fasciature e in parte erano rasate. Quella vista mi fece talmente infuriare che sperai
con tutto il cuore che Bodo e i suoi colleghi un giorno rinascessero non come batteri intestinali, bensì come animali destinati alla ricerca. «Eccovi qua!» esultò Bodo dalla soglia. Le scimmie lo videro e si rintanarono impaurite in un angolo della gabbia, escluso un orango dall'aria orgogliosa che sulla testa aveva una piastra di metallo. «Possiamo argli davanti», disse Casanova. «Non è in grado di afferrarci tutti.» «Ma qualcuno sì», replicai pensando che non avevo affatto voglia di essere io, guarda caso, quella acchiappata. Volsi lo sguardo intorno e vidi che la gabbia delle scimmie era chiusa. Ma mi ricordai anche del mazzo di
chiavi nella tasca di Bodo. Gridai alle scimmie: «Qualcuno di voi sa aprire la gabbia con la chiave?» L'orango rispose: «L'ho visto fare abbastanza spesso». La voce suonava decisa, apparentemente non erano ancora riusciti a danneggiare la sua volontà, e io mi chiesi se non fosse un essere umano reincarnato. E in quel caso: che cosa aveva combinato nella sua precedente vita? «Abbiamo bisogno della chiave», dissi a Casanova. «E come facciamo a prenderla?» «Quando si china verso di noi, lei lo morda dove fa particolarmente male.» «Madame, io non ho tutto questo interesse a tuffarmi in grembo a un uomo.» «E quanto grande è il suo interesse a essere torturato a morte?» «Touché!» annuì
Casanova. «Adesso la vostra vita è in pericolo!» minacciò Bodo, e si chinò su di noi. Casanova si infilò svelto sotto il risvolto dei calzoni. «Che cosa fai, bestia schifosa?» La stoffa si agitava. Evidentemente il gentiluomo veneziano si stava arrampicando sui peli della gamba, finché... «AHIIIIIIIIII», gridò Bodo, e cadde a terra. (Dalle memorie di Casanova: «Anche per me si trattò di un'esperienza di cui avrei fatto volentieri a meno».) Mi precipitai su di lui, con il muso estrassi dalla tasca dei pantaloni la chiave
e la trascinai con tutte le mie forze in direzione della gabbia. Avevo il pelo fradicio di sudore. «AHIIIII», gridò ancora Bodo. Casanova non mollava. «Fra poco ci sei», mi incoraggiava l'orango con la piastra di metallo. Anche le altre scimmie si avvicinarono alla porta della gabbia. Nei loro occhi vidi un misto di sete di libertà e furia omicida. Intanto Bodo, che imprecava senza sosta, cercava di afferrare Casanova. Spinsi la chiave attraverso le sbarre, e l'orango la prese rapido, con l'intento di aprire la gabbia. «Sbrigati!» lo incalzai. «Una richiesta che posso solo sottoscrivere», gridò Casanova.
«Non preoccupatevi», rispose l'altro. Bodo afferrò il veneziano e minacciò: «Adesso sei morto». Ma a quel punto si aprì la porta della gabbia. Le scimmie evasero. Bodo, in preda al panico, lasciò cadere a terra Casanova, il gentiluomo si schiantò sulle piastrelle e rantolò: «Non sono un amante dei salvataggi dell'ultimo minuto». Bodo voleva fuggire in direzione della porta, ma le scimmie furono più veloci e con strida altissime si precipitarono su di lui. Lo sentimmo gridare: «Lasciatemi, bestiacce!» Ma quelle menavano botte da orbi. Era una scena brutale. E appropriata. Sfrecciammo via uscendo dall'edificio e raggiungemmo un bosco lì vicino, per
quanto le nostre zampette ci consentissero. Dopotutto era la prima volta che ci aggiravamo per un territorio libero, e non eravamo abituati e compiere tragitti lunghi. Sfiniti, crollammo poi su un piccolo prato. Finalmente fuori pericolo. Quando riuscimmo a riprendere fiato, mangiammo l'erba che avevamo intorno. E devo dire che era decisamente più buona di MortadellaBrandt. Quando i nostri stomaci furono pieni, il porcellino scettico, che Alex aveva chiamato Numero Uno, volle sapere: «Bene, e ora che cosa facciamo?» «La cosa migliore è che vi portiamo dalla mamma», dissi io, visto che volevo andare da mia figlia. «Quindi per cominciare cerchiamo una strada che ci arrivi!» I tre erano felici di poter forse
rivedere la mamma, e corsero veloci nel bosco. Anch'io provavo una gioia incredibile all'idea di muovermi in libertà. E mentre correvamo potei constatare che i temperamenti dei miei fratelli certamente infiammati dalla libertà ritrovata avevano già subito una notevole evoluzione. Numero Uno, lo scettico, presagiva una minaccia dietro ogni albero. Numero Due, il ciccione, a ogni pie sospinto fermava tutti e poneva la sua domanda preferita: «Si può mangiare questo?» («No, Numero Due, questo è un sasso.») E Numero Tre, la dolce piccolina, assillava Casanova con domande sul tema «Le differenze tra maschio e femmina, e per quale motivo proprio queste differenze siano causa di ogni sorta di divertimento». Domande a
cui il gentiluomo rispondeva con descrizioni di una bellezza incomparabile, che anch'io ascoltavo assorta, desiderando di fare sesso, per quanto nella mia fantasia Alex e Daniel Kohn si alternassero. Mi sorpresi a iniziare a voler bene a quei piccoli, curiosi esseri. La mamma porcellino d'India quindi aveva ragione: realmente anche se non lo avrei mai ritenuto possibile nutrivo un grande affetto per i piccoli. E presi a immaginarmi il Papa che augurava felice Hanukkà in Vaticano. Dopo un po' raggiungemmo una piazzola di sosta dell'autostrada. Nelle vicinanze sentivamo il sibilare delle macchine che avano, e gli altri porcellini, incluso Casanova, ne furono
turbati. Ma ancora di più li terrorizzò il camion che stava entrando nella piazzola. «Una carrozza senza cavalli?» chiese Casanova, stupito. «E in più ha un aspetto straordinariamente orrendo.» Continuavo a dimenticare che il signore veneziano proveniva da un'altra epoca, e che doveva avere il tempo di ambientarsi in questo millennio. Dal camion scese un conducente ben piantato, sulla trentina, che portava un berretto da baseball e che, mentre pisciava nei cespugli, cantava, sbagliando tutte le parole, la canzone country I Show You How I Love You Loris V. Vidi che il camion era targato Potsdam e compresi subito quello che significava: con quell'autocarro potevamo arrivare a casa. Feci capire ai porcellini che
dovevano seguirmi, quindi saltammo sopra una tanica gettata via, che si trovava vicino al camion, e da lì ammo sul predellino, per poi entrare nella cabina di guida. Lì ci pigiammo sotto il sedile, per evitare che il conducente si accorgesse di noi. Dopo poco l'uomo salì sul camion, si tolse scarpe e calzini, e noi rimanemmo in silenzio senza fiatare. Il nostro sguardo cadeva proprio su quei piedi nudi che premevano acceleratore e frizione, e io imprecai contro l'olfatto particolarmente sviluppato dei porcellini d'India. Il camionista, che continuava a canticchiare canzoni country, non si sarebbe certo accorto di noi se non avesse lasciato cadere un pezzo del suo pane imburrato. Capii dallo sguardo di Numero
Due che aveva tutta l'intenzione di buttarsi su quelle briciole, e gli sbarrai la strada prima che potesse avanzare sotto il sedile. Ma purtroppo la conseguenza fu che Numero Due si mise a protestare ad alta voce. «Lasciami are!» Il conducente del camion sentì il fischio, guardò sotto il sedile, e per lo spavento ci mancò poco che provocasse il successivo annuncio radiofonico di blocco del traffico per incidente. Accostò a destra, guardandoci fece un risolino e chiese: «Avete fame?» In rappresentanza dei miei fratelli, che non capivano la lingua degli uomini, fui io ad annuire. L'uomo prese delle carote da un contenitore di plastica e ce le diede, e fu bello, tanto per cambiare, imbattersi in qualcuno che ci dava da mangiare senza prima averci tormentato con scosse
elettriche, come il mio maledetto marito. O dovevo dire come il mio maledetto ex marito? Ci arrampicammo sul sedile a fianco del conducente, mentre il camionista si presentava cordiale: «Io mi chiamo Willi. E voi?» In quel momento mi resi conto che i piccoli porcellini non avevano un nome, bensì solo i numeri che aveva affibbiato loro Alex. «Adesso vi darò dei nomi», dissi rivolgendomi ai miei fratelli. I porcellini dal numero uno al tre mi guardarono contrariati. «Voi non siete dei numeri, siete dei porcellini d'India», annunciai loro con un pathos alla Spartaco. Lo scettico con il numero uno lo chiamai Schopenhauer. La dolce
piccolina, che aveva messo gli occhi addosso a Casanova, la chiamai Marilyn. E al ciccione, che mangiava con tanta voracità e piacere, appioppai il nome di Depardieu. I tre ne furono molto soddisfatti, e quindi alla domanda del camionista risposi fischiando: «Ci chiamiamo Schopenhauer, Casanova, Marilyn, Depardieu e Kim». Lui sorrise, rimise in moto il veicolo e prima di partire sfiorò affettuosamente una foto incollata al cruscotto. «La mia famiglia sarà pazza di voi», disse. Il riquadro mi presentò il sorriso raggiante di una grassona che avrebbe avuto urgente bisogno di un corso Weight Watchers e di tre bambini sovrappeso che sarebbero stati adatti per un poster sul
tema «L'obesità e le sue disastrose conseguenze». Eppure, per quanto sovradimensionata, quella famiglia appariva molto più felice della mia. E il camionista ancora di più. Aveva una moglie e dei figli, un lavoro che gli piaceva e la sua musica country che canticchiava sereno durante i suoi viaggi. Quell'uomo non aveva alcun bisogno di Nirvana. Aveva la sua vita. Non avrei mai pensato che un giorno avrei invidiato un camionista.
Capitolo 30
IL camion entrò nel quartiere di Babelsberg: i viali erano illuminati dagli ultimi raggi del sole, tanto che una foto avrebbe sortito certamente il suo effetto kitsch. Ma siccome quella vista mi si presentava dal vivo, la trovai meravigliosa. Di sicuro anche perché sapevo di non essere molto lontana da Lilly. Dovevo solo trovare il momento giusto per saltare giù dal camion e correre a casa. Willi arrestò il veicolo a un semaforo rosso, e mentre dal cruscotto contemplavo estasiata gli alberi sfiorati dai raggi del
sole calante, in tutto il loro fulgido splendore, una Porsche cabrio rosso fuoco si fermò di traverso davanti a noi. Dal finestrino guardai al suo interno e al volante vidi... Daniel Kohn! Il mio cuore di porcellino d'India cominciò subito a fare «bum bum», tanto ero agitata all'idea di rivederlo. Ora, dopo le scosse elettriche di Alex, mi sembrava ancora più attraente. In ogni caso continuava a esercitare su di me un'enorme attrazione erotica. E dal canto mio speravo al culmine dell'irrazionale di continuare anch'io a esercitarla su di lui. Naturalmente non come porcellino d'India. Ma da essere umano qual ero una volta. Doveva pensare che ero stata la donna più sexy del mondo, anche con i miei fianchi un po' grossi.
Guardai in basso, anche i miei fianchi da porcellino erano larghi. E in più erano pure coperti di peli. Per una donna senza dubbio una combinazione devastante. Mi drizzai e appoggiai le zampette al finestrino per poter vedere meglio. Vidi che Daniel Kohn non era solo. Per niente solo. Al suo fianco sedeva una bionda. Aveva uno di quei corpi 906090 che è raro vedere se non nei reportage sulla vita notturna di Saint Tropez. Doveva avere venticinque anni, e anche il suo quoziente d'intelligenza non sembrava assestarsi molto al di sopra. Infatti ridacchiava ogni volta che Daniel diceva qualcosa. Con molta probabilità avrebbe ridacchiato come un'oca anche se Daniel avesse detto: «Nel triangolo rettangolo la somma dei quadrati costruiti sui cateti equivale al
quadrato costruito sull'ipotenusa». O se lui le avesse sussurrato: «Ho appena esumato tua nonna». Lo vidi sorridere fascinoso a quell'oca, esattamente come aveva sorriso a me, e il mio cuore smise di fare «bum bum» e collassò. Ero delusa e profondamente ferita. Avevo sperato che Daniel si aggirasse triste e ossessionato da un'unica idea: Kim era la donna più meravigliosa che avessi mai conosciuto. Non troverò più una come lei. Sarebbe meglio che mi fi subito monaco. Ebbene, evidentemente non erano questi i suoi pensieri. Al contrario si lasciava mordicchiare l'orecchio da quella Pamela Anderson dei poveri.
Lo trovai deprimente, e mi vergognai molto di aver sperato che proprio Daniel Kohn sentisse la mia mancanza. Ma... ma forse la sentiva eccome, la mia mancanza. Forse quella donna era solo un mezzo per riuscire a superare il dolore. Esatto, Daniel non era il tipo da rinchiudersi in monastero o mostrare anche solo qualche traccia di malinconia. Avrebbe sepolto il dolore per la mia morte nel profondo del suo cuore e si sarebbe gettato in una vita di piaceri per colmare in qualche modo il vuoto che sentiva dentro. Si, questo era il motivo per cui girava con una sciacquetta. Il mio cuore fece di nuovo «bum bum, bum bum...» A quel punto vidi Daniel che le metteva
inequivocabilmente una mano sul seno. Mi sarebbe piaciuta di più la variante del monaco in lutto. La mano scese a cercare l'orlo della gonna della bionda, che reagì mordicchiando ancora più eccitata il suo orecchio. In quell'attimo dovetti riconoscerlo: mi stavo illudendo. Non sentiva la mia mancanza. E a quel punto mi vergognai non solo di aver desiderato che avesse nostalgia di me, ma anche di essere stata così ingenua da desiderarlo, sebbene lo avessi visto con un'altra donna e tutti i fatti lo contraddicessero. Avevo sempre pensato di essere meno ingenua. Il semaforo divenne verde, e il camion partì. Le mie zampe anteriori scivolarono sul finestrino. Non fui in grado di
mantenere l'equilibrio e dal cruscotto mi schiantai sul pavimento, giusto vicino al pedale. Nel frattempo Willi si era talmente abituato alla nostra presenza che non ci faceva caso se dei porcellini d'India gli ruzzolavano intorno ai piedi nudi. Mi rialzai a fatica, mi leccai la zampa dolorante e pensai: Devo dimenticare Daniel Kohn una volta per tutte. Naturalmente mi era già chiaro che sarebbe stato impossibile. Willi si fermò a un distributore di benzina che si trovava nelle vicinanze di casa nostra. Cercai di distogliere la mente da Daniel Kohn e di concentrarmi sulla fuga. Quando il camionista aprì la portiera feci cenno ai miei fratelli di saltare giù. E
così saltammo. Sbalordito, esclamò: «Ehi, dove volete andare?» Mi dispiaceva non potergli spiegare la situazione. Era davvero una bella persona, anche se avrebbe avuto bisogno di una seduta di pedicure. Condussi i porcellini per le strade di Potsdam, spiegai loro come attraversare per non essere investiti, e alla fine raggiunsi il viale in cui si trovava la nostra casa. Felice, mi ci diressi di corsa, rimorchiandomi dietro Schopenhauer, Marilyn, Casanova e... dov'era Depardieu?!? Non ero ancora arrivata sull'altro lato della strada, quando mi voltai e lo vidi fermo in mezzo al selciato sconnesso del viale, dove era cresciuta un'unica, folle margheritina. Depardieu la masticava con
la stessa pacifica espressione del viso che aveva Buddha in mezzo al suo prato LSD. Con una differenza: verso Buddha non sfrecciava alcuna Renault Scénic. «Depardieu!» gridai. Niente, quando masticava dimenticava il mondo intorno a sé. «DEPARDIEU!» gridai di nuovo. Ora anche gli altri, che nel frattempo avevano raggiunto il marciapiede, videro quello che stava accadendo. Solo la stressata conducente della macchina non lo vide. Era troppo indaffarata a sgridare i bambini che sedevano dietro. A quel punto urlammo tutti insieme: «DEPARDIEU!» Ma il masticatore non sentì. E all'improvviso Casanova partì come un razzo per spingere Depardieu al bordo della strada.
(Dalle memorie di Casanova: «Era mio desiderio produrre karma positivo. E con l'occasione cercare di fare buona impressione sulla femmina di porcellino d'India Marilyn».) Dentro di me pensai: Ce la fa! Ce la fa! Ce la fa... Non ce la fece. Casanova riuscì in effetti a spingere via Depardieu, ma non a salvare se stesso. Venne preso in pieno dall'auto. Il gentiluomo roteò in aria e si schiantò sulla strada giusto accanto a me. (Dalle memorie dì Casanova: «Nell'attimo di dolore di quella morte pensai: Questo karma positivo non vale la
candela».) Casanova era morto. Io ero come paralizzata. E non tu un bene. Perché dall'altra direzione arrivava una Polo. Che sfrecciava proprio verso di me. Troppo veloce per poterla evitare. Nei pochi secondi che mi rimasero pregai che il conducente un tipo giovane, stile consulente assicurativo fe in tempo a vedermi. Le mie preghiere vennero ascoltate. Mi vide. Lo capii dal suo viso. Mi vide davvero! Ma non servì. Perché non frenò davanti a un essere umano reincarnato.
Capitolo 31
IL mio ultimo pensiero fu: A questo schifo di morti non mi abituerò mai. Seguì di nuovo il numero «Mi ò davanti tutta la vita»: Alex e Nina ridono insieme dei pisellini. Lilly si accoccola vicino a me. Alex mi procura delle scosse elettriche. Io grido: «Non me ne frega niente del karma positivo!» Do un nome ai porcellini d'India. Constato che Daniel Kohn non spende neanche un pensiero per me. E che un semplice camionista ha una vita più felice della mia. Poi giunse la luce. Mi sentii di nuovo così bene.
Così protetta. Così felice. Le consuete sensazioni, insomma. Le consuete sensazioni che non perdurano mai a lungo. Nel momento in cui la luce mi respingeva nuovamente, già mi chiedevo in quale creatura mi sarei reincarnata questa volta. Ci sono esperienze più belle del dover constatare che si possiedono le mammelle. Ci sono anche esperienze più belle del dover constatare che si è stati figliati in una stalla puzzolente. Ma quando in più il contadino impreca dicendo: «Fuck, this is a really shitty birth!» e si ha la conferma di non trovarsi sicuramente a Potsdam, si è davvero di cattivo umore.
«Buddha!!!» gridai di nuovo, il che per gli astanti suonò come un «Muuuu». E come se gliel'avessi ordinato, da un angolo della stalla, tentennando, si diresse verso di me una mucca enorme. «Buongiorno, Kim!» «Dove diavolo sono?» «In una fattoria di Yorkton.» «Yorkton?» «Provincia di Saskatchewan.» «Saskatchewan?» «Canada.» «Canada?!?» «Nord America.» «Lo so dove si trova lo stramaledetto Canada!!!» «Perché chiedi, allora?» sogghignò Buddha, il cui senso dell'umorismo lasciava, dal mio punto di vista, molto a desiderare. Ero così furiosa con lui da non riuscire più a controllare l'istinto di prenderlo per la gola ma, visto che ero un vitellino appena nato, instabile sulle zampe, dopo tre i mi ritrovai
con il naso nel fieno. «Perché hai permesso che m’investissero?» chiesi arrabbiata, dopo aver sputato il fieno secco. «Sei tu responsabile di quello che accade nella tua vita. Io mi occupo solo della reincarnazione.» Merda, quindi sarebbe anche colpa mia se sono stata investita? «E perché adesso sono una mucca?» «Perché hai prodotto karma positivo.» Ero sorpresa: avevo prodotto karma positivo? «Ma... ma, ho tagliato la corda e non ho voluto aiutare i malati di diabete.» «Tuttavia hai salvato i porcellini d'India.» «Volevo salvare me stessa.» «E ai porcellini hai dato un nome.» Ero senza parole.
«E così facendo una consapevolezza di sé.» Non sapevo cosa ribattere. «E non hai agito per motivi egoistici, lo hai fatto con il cuore.» Aveva ragione. «Non sei assolutamente una cattiva creatura», disse Buddha. «L'ho sempre sostenuto, maledizione e ancora maledizione!» Ruzzolai di nuovo a terra. «E allora continua così», replicò la mucca Buddha, ed eseguì ancora una volta il suo trucchetto «mi dissolvo nell'aria». Mi misi subito a ragionare su come potevo arrivare a casa dallo stramaledetto Canada. In quanto vitello difficilmente mi sarei potuta presentare a uno sportello turistico chiedendo un volo in classe economica dal Saskatchewan a Berlino. E più ci pensavo, più chiara mi diveniva la
situazione: me ne sarei andata via di lì solo producendo karma positivo e morendo di nuovo.
Capitolo 32
MUCCA lombrico dorifora della patata scoiattolo. Fu un periodo duro. Così lontana da casa sentivo la mancanza di Lilly. E mi chiedevo quando l'avrei rivista. (Dalle memorie di Casanova: «Due anni. arono due anni prima che potessi rivedere madame Kim. In seguito al mio salvataggio eroico di Depardieu produssi karma positivo e da quel momento mi trasformai in un gatto. In quanto tale vissi nelle vicinanze del
domicilio di monsieur Alex, nella costante speranza di catturare una visione di mademoiselle Nina. Questa creatura incantevole soggiornava ogni fine settimana a casa di monsieur Alex, che lei amava. E ogni volta che la vedevo, il mio cuore sedotto batteva più forte. Mi ritrovai quindi invischiato nel triangolo amoroso più insolito che mi sia mai capitato. E questo vorrà pur dire qualcosa, visto che mi ero già trovato coinvolto in un numero straordinariamente cospicuo di insoliti triangoli amorosi».) Ma la nostalgia di casa non era l'unico problema. Già nella mia prima settimana di vita come vitellino mi trovai in difficoltà con il rancher Cari. Sembrava uscito da una
pubblicità della Marlboro, era costantemente di cattivo umore e già da una certa distanza si annunciava per via della tosse cronica da fumatore. Quando decise che era ora di imprimere a fuoco il suo marchio su noi vitelli giovani, i miei compagni gemettero disperati. Mentre li tormentava con il ferro incandescente, io a malapena riuscivo a sopportare le urla di dolore. Quando Cari si diresse verso di me con quell'affare, decisi di assestargli un calcio a scopo preventivo, giusto sulla rotula. Cari imprecò ad alta voce e si avvicinò di nuovo con il ferro incandescente. Esortai gli altri vitelli ad aiutarmi, così come avevo fatto in laboratorio, con la scimmia con la piastra metallica. Fu una vera e propria rivolta.
Cari corse fuori dalla stalla in preda al panico. Il giorno seguente ci fece tutti sopprimere. In questo modo avevo prodotto karma positivo? Ebbene, assolutamente no. Era negativo. Ero stata responsabile della morte degli altri vitelli. E così precipitai di nuovo in basso nella scala della reincarnazione. Rinacqui in Irlanda con le sembianze di un lombrico. Là ai le mie giornate ad attorcigliarmi nella terra umida e sperimentai che cosa significhi essere un ermafrodito. (Per esempio non esistono conflitti tra i sessi, il che semplifica notevolmente la vita.) Inoltre sperimentai che cosa significhi tagliarsi in due, se si viene investiti da un
tosaerba. Ma specialmente sperimentai che cosa significhi sentirsi del tutto impotenti. Non potevo cacciare via Nina e speravo con tutte le mie forze che fosse Alex stesso ad allontanarla dalla sua vita. (Dalle memorie di Casanova: «Sotto le mie sembianze di gatto osservai come una sera, davanti al fuoco che fiammeggiava nel camino, mademoiselle Nina si sentisse così incoraggiata da una risata del signor Alex da tentare di dargli un bacio. Alex la respinse terrorizzato. La conseguenza fu che mademoiselle pianse da strappare il cuore, si precipitò fuori dalla villa e se ne andò nella notte con la sua carrozza priva di cavalli. Nei giorni successivi Alex parlò a più riprese in
tono agitato dentro una piccola scatola che si trovava nel salone. Era diventato pazzo? O forse quella scatola era un qualche apparecchio magico con cui si poteva comunicare a distanza? Qualsiasi cosa fosse quell'apparecchio, un pomeriggio piovoso mademoiselle Nina era di nuovo nel salone di casa sua. I due si guardarono per un breve attimo, poi si baciarono apionatamente e poi... distolsi lo sguardo. Non certo per vergogna, quando ero un essere umano avevo avuto parecchie occasioni di osservare altri miei simili intenti nei loro giochi amorosi (e volentieri mi ero prestato anche a favorirli). No, distolsi lo sguardo perché assalito dal dolore, consapevole che almeno per il momento mademoiselle Nina l'avevo persa».)
Ma non potevo fidarmi. Mi feci forza e decisi di produrre davvero karma positivo. La mia unica speranza era di rinascere prima o poi nelle vicinanze di Potsdam. Quindi produssi karma positivo insegnando ad altri lombrichi come attorcigliarsi togliendosi di mezzo al aggio di un tosaerba. Come dorifora della patata, in Corsica, mi nutrii, con altri compagni della stessa specie, di un intero campo di patate. In quell'occasione mi imbattei in un coleottero particolarmente piccolo che parlava se e che in una vita precedente doveva essere stato Napoleone. E produssi karma positivo impedendogli, a rischio della mia vita, di condurre le dorifore della patata a
combattere un'insulsa guerra di sterminio contro i parassiti degli abeti. Come scoiattolo, vicino al confine tedesco-olandese, mi resi conto di quanto meraviglioso fosse saltare di albero in albero. E produssi karma positivo rubando ogni giorno dai bungalow del parco lì vicino patatine e cioccolata. In questo modo salvai i miei compagni dal rischio di morire di fame nei mesi invernali (e i turisti da elevati valori di colesterolo). E dopo questa fase muccalombricodorifora della patatascoiattolo cominciò la mia ultima vita da animale.
Capitolo 33
Mi risvegliai di nuovo cieca, ma quando aprii la bocca per chiamare Buddha, questa volta non ne uscì alcun «fip». Ne venne fuori una specie di guaito: «Rauuuuuhhhhh». E intorno a me piagnucolarono anche altri «rauuuuuhhhh». Quindi non ero un porcellino d'India. Ma neanche una formica, un lombrico o uno scoiattolo. In quanto tale ero appena morta. Un turista mi aveva colpita in testa con un cellulare quando avevo manifestato l'intenzione di rubargli le patatine alla paprika. Questo dimostrava due cose: gli uomini trovano
gli scoiattoli carini fintanto che non danno loro sui nervi. E secondo, ci sono persone che in vacanza non riescono semplicemente a rilassarsi. «Come stai?» mi chiese la ben nota voce da Babbo Natale. «Buongiorno, Buddha. Avrei detto volentieri 'è tanto che non ci vediamo', ma al momento proprio non vedo.» «Questo lo si può risolvere», rispose lui, e improvvisamente i miei occhi erano perfettamente in grado di funzionare. Ero un cucciolo di beagle in mezzo ad altri cuccioli in una cesta. Che a sua volta si trovava in un canile. Presumibilmente ci avevano separati dalla mamma a poche ore dalla nascita. E sebbene io volessi diventare un cane, il mio entusiasmo rimaneva entro certi
limiti. Avevo sempre trovato questa moda dei beagle molto stupida. «Se farai tutto giusto, questa sarà l'ultima volta che rinasci animale», disse Buddha, che mi era apparso sotto le sembianze di un grassissimo beagle nero, marrone e bianco, dall'aspetto ancora più stupido del beagle standard. «L'ultima volta...?» chiesi incredula. «Hai prodotto molto karma positivo in tutte le tue vite: hai salvato delle formiche, riportato a casa dei porcellini d'India, evitato che degli scoiattoli morissero di fame. E anche se nel frattempo hai perso karma positivo, adesso ne hai accumulato tanto. Ti sei data molto di più di quanto tu non abbia mai fatto nella tua vita da essere umano. Puoi essere orgogliosa di te», disse
Buddha. Per un attimo pensai che potevo davvero essere orgogliosa di me stessa. Ma lo pensai solo. Non lo sentii veramente. Lilly mi mancava. Da quanto tempo non la vedevo? Sette mesi? Otto mesi? Con così tante vite si perdeva il senso del tempo. «Quasi due anni», disse Buddha. «Due anni?» Il mio cuore si arrestò. Questo... questo significava che ora Lilly aveva quasi sette anni e andava a scuola. Era già da due anni senza la mamma. Ero annientata. E furiosa come non mai. Contro Buddha. Lui mi aveva preso Lilly, aveva fatto in modo che io non le potessi stare vicina. «Solo tu sei responsabile delle tue vite», disse lui sorridendo.
Fosse stato per me, nella piena responsabilità delle mie azioni, gliene avrei mollata una. Ma ero un cucciolo di beagle, e lui non solo era un cane grosso e cresciuto, ma anche lo stramaledetto Buddha. Molto probabilmente avrebbe potuto trasformarmi in una stramaledetta botte per l'acqua piovana. «Non imprecare sempre così tanto.» E leggeva stramaledettamente bene nel pensiero. «C'è ancora una cosa che devi imparare», disse Buddha. «E hai anche intenzione di dirmi che cos'è?» chiesi con una punta di nervosismo. Ma Buddha si limitò a sorridere e tacque. «Mi aspettavo questa risposta», dissi
ancora più innervosita. «Avrai occasione di imparare la tua lezione», dichiarò Buddha, e rotolò con il suo corpo di beagle in direzione della porta del canile. In quel momento intorno a me si fece di nuovo buio. Mi aveva tolto la facoltà di vedere. E io mi chiesi quale lezione intendesse il grasso beagle.
Capitolo 34
NELLE settimane successive venni nutrita e accudita da allevatori di cani. Quando fui abbastanza grande fuggii dal canile, corsi sulla strada e saltai su un autobus. Volevo andare a casa, sebbene non potessi essere affatto sicura che questo avrebbe fermato Alex. Alla nostra fermata saltai giù dall'autobus sotto un tempo inclemente. In realtà era già marzo, ma la primavera non accennava a mostrarsi. Sulla mia pelliccia corta pioveva a dirotto, e cominciai a puzzare di cane bagnato. Ma il freddo non lo sentivo, e anche l'odore forte del mio
corpo era come se non ci fosse, perché attraverso la pioggia vedevo la nostra casa illuminata. Vidi la pioggia battere sui vetri delle finestre. Vidi il fuoco del caminetto scoppiettare in salotto. Vidi... ... Nina che guardava Alex dritto negli occhi. Che cosa diavolo ci faceva là? Che cosa gli stava dicendo? Perché stava tirando fuori un anello da un piccolo scrigno? Dio mio, gli stava facendo una proposta di matrimonio! Questo... questo... questo una donna non lo fa... Questo... questo... questo mi feriva...
Questo... questo... questo doveva essere impedito. Lei non poteva diventare la moglie di Alex e quindi la mamma di Lilly! Le labbra di Nina stavano giusto formulando le parole «Vuoi tu...?» che partii. Corsi verso di lei. Più veloce che potevo. A tutto gas contro la portafinestra del patio. Strafottuto vetro antiriflesso! Il boato fu pazzesco. Sia nella mia testa sia all'esterno. Alex fece un salto, corse verso la portafinestra e l'aprì. Nina era scioccata: «Ma che cane è?» «Non ne ho idea», rispose Alex, «ma credo che si sia fatto male.» «Non vorrai mica portarlo dentro?» chiese Nina.
«Non lo posso certo lasciare fuori così.» «Bah, vedrai che si riprenderà rapidamente», disse Nina, intenzionata a richiudere la porta della terrazza. Io mi affrettai a lasciarmi cadere a terra, tesi le quattro zampe in aria e rantolai: «Gaaaa!» Una rappresentazione da Oscar del beagle morente. «Sembra che stia davvero male», disse Alex. «Lo porto dentro.» «Lascia perdere. Se è malato rischi di farti contagiare!» lo pregò Nina. La sua voce esprimeva seria preoccupazione per lui. «Non lo posso lasciare fuori in questo stato», replicò Alex, e Nina si diede per vinta. Con le sue braccia robuste Alex mi trasportò oltre la soglia. Se fossi stata un
essere umano il tutto avrebbe avuto un che di fortemente romantico. «Chiamiamo un veterinario», disse Alex avviandosi al telefono. Nina annuì scettica. La situazione le appariva sospetta. Intanto il mio sguardo cadde sull'anello con cui aveva voluto fare la sua proposta. Riflettei. Soltanto un nanosecondo. Poi mi fu chiaro quello che dovevo fare. Saltai in piedi. «Il cane sta di nuovo bene», gridò Nina. E immediatamente dopo aggiunse: «E si sta mangiando l'anello!!!» Ci sono cose che hanno un gusto decisamente migliore di un anello d'oro, ma mai pasto mi ha dato soddisfazione maggiore. Alex guardava la scena sorpreso. Aveva sempre un'espressione del viso
molto dolce quando un evento lo confondeva. E grazie al mio olfatto supersensibile da beagle constatai che aveva un profumo buonissimo. E non mi riferisco alla sua eau de toilette, no, il suo profumo naturale era travolgente. Ci sono uomini che hanno un buon profumo. Ci sono uomini che hanno un profumo fantastico. E poi c'è Alex. E con il mio olfatto di cane profumava ancora di più di prima. Era così seducente da farmi dimenticare le scosse elettriche e il fatto che Nina abitasse con lui. Ero addirittura annebbiata dalla sua presenza. Meno male che non ero in calore. «E adesso come lo recuperiamo?» chiese Nina sconvolta. Con mia sorpresa, Alex ridacchiò. «Semplicemente aspettiamo. Prima o poi
dovrà pur uscire in maniera naturale.» «Non so se poi lo troverò ancora così romantico», disse Nina e, delusa che la sua proposta di matrimonio fosse saltata, si diresse verso la camera da letto. E io pensai soddisfatta: Ogni proposta deve soprassedere finché lo vuole il mio sfintere. «E ora che cosa ci facciamo con te?» mi chiese Alex. «Tienimi qui. Subito dopo aver cacciato via Nina così, su due piedi», abbaiai. «Non posso certo lasciarti fuori sotto la pioggia.» Alex sorrise accarezzandomi sulla testa. «Mettiti davanti al camino. Ma non fare rumore. La mia dolce figlioletta sta dormendo.» Fosse stato per me sarei voluta correre subito in camera di Lilly,
ma ero sfinita per il viaggio che mi aveva portato fin lì, e quindi mi distesi come mi era stato ordinato. Il calore del camino mi asciugò il pelo e mi fece lentamente addormentare. Era bello essere di nuovo a casa. Venni svegliata da un gemito. «Dammelo, Alex!» sentii dire a Nina. Difficile spiegare che cosa mi mettesse più a disagio in quel momento: che i due fero sesso, sesso rappacificatore, o che una donna dicesse effettivamente «dammelo» mentre lo faceva. Se non altro Alex era un nome con cui «dammelo» poteva essere più o meno combinato. Nina gemeva sempre più forte. Notai che anche un beagle poteva arrossire. E mi sentii depressa per il fatto che Alex
non si fosse votato alla castità dopo la mia morte. Esattamente come Daniel Kohn. Questa era dunque la persistenza del potere che esercitavo sugli uomini. Avrei preferito non sentire. Ma non era conciliabile con il mio stupido udito di cane! Sentii la rabbia montarmi dentro: come poteva Alex tradirmi in tempi così brevi? Ero morta solo da due anni. Okay, quando io lo avevo tradito con Daniel, Alex era addirittura ancora vivo. Potevo davvero permettermi di essere arrabbiata? Certo, decisi, perché questa era una situazione molto diversa, perché... perché... da parte sua era in qualche modo impietoso. Esatto, impietoso. Bella parola. Che mi rendeva subito moralmente molto più pregevole di lui.
Nel frattempo Nina era in pieno calore. O almeno così dava a intendere. In ato, quando la nostra amicizia era tranquilla, una volta Nina mi aveva confessato che spesso simulava un orgasmo. «È sicuramente meglio che dire a un uomo: 'Leggiti un buon libro sull'argomento'. Oppure: 'Preferisco continuare da sola'.» Dopo la mia conversazione con Nina, io stessa, in occasione della successiva frustrazione sessuale, avevo tentato di fingere un orgasmo. Era successo con Robert, studente di legge con il quale fare sesso era divertente quanto avere un mal di pancia. Per questo preferivo guardarmi la televisione. Uno sguardo all'orologio mi disse che nel giro di due minuti ci sarebbe
stata Ally McBeal, e un orgasmo simulato mi sembrò il mezzo migliore per fare in tempo ad accendere il televisore. Quindi mi misi al lavoro di buona lena. Ma evidentemente ero un'attrice peggiore di Nina, perché in seguito ai miei gemiti Robert si limitò a chiedermi: «Hai un crampo al polpaccio?» A quel punto Nina alzò il volume della voce. Ebbi il serio timore che non fosse affatto una simulazione. Non potevo più sopportarlo. Quindi presi la decisione di agire: spinsi la porta della camera con il muso fino ad aprirla e abbaiai: «Scendi subito da lui. Dovresti vergognarti almeno un po'. E anche tu, Alex. Quello che stai facendo è impietoso! Totalmente impietoso! Non c'è nulla di più impietoso!» Nina e Alex si
fermarono nel bel mezzo dell'azione e fissarono stralunati il cagnaccio abbaiante dentro la camera da letto. «Che cos'ha?» chiese Nina tirandosi impaurita la coperta sul seno, sfacciatamente sodo. Come faceva ad averlo così? Quando ero Kim Lange potevo fare tutti gli esercizi di rassodamento che volevo (in realtà non volevo mai, ma nei momenti di disperazione qualche volta si fa perfino sport), ma il mio seno non dava segno di reagire, per cui davanti allo specchio molto spesso dovevo mormorare la frase: «La forza di gravità è veramente demenziale». «Lo metto fuori», decise Alex dirigendosi convinto verso di me. Ero talmente furiosa con lui che seguii il mio
istinto. E il mio istinto mi suggeriva: «Mordi con energia nel didietro questo impietoso e adultero saputello che fa esperimenti sugli animali!» Ma prima che lo potessi mordere, Lilly, svegliata dal mio abbaiare, si presentò alla porta della camera. Era diventata incredibilmente grande. Una vera e propria scolaretta. Rimasi sconvolta nel vederla così. Mi guardò, raggiante di felicità: «Ma mi avete comprato un cane per il compleanno!» Era il suo compleanno?!? «Allora non sono troppo piccola per avere un cane!» esultò. Mi strinse con affetto, e dai miei occhi di cane sgorgarono le lacrime. Era così bello sentire l'abbraccio di Lilly, dopo tutto quel tempo.
Alex e Nina si guardarono incerti: se in quel momento avessero raccontato a Lilly che non ero il suo nuovo cane, le avrebbero spezzato il cuore. Dopo qualche attimo, Nina disse: «Ce l'abbiamo in prova». Evidentemente la sua intenzione era di blandire Lilly. E così facendo acquistare punti con Alex. Ma in questo caso poteva andarmi addirittura bene. «Vieni», mi disse Lilly, «potrai dormire vicino al mio letto.» Uscì e io partii decisa al suo seguito. Ma Alex mi sbarrò la strada. In lui percepii la profonda preoccupazione che io potessi fare del male alla bambina. Quindi lo guardai fisso negli occhi, cercando di dirgli: «Niente paura. Preferirei farmi falciare da un tagliaerba che danneggiare
in qualche modo la piccola». Alex parve leggere nei miei occhi di cane l'amore profondo che provavo, e quindi decise di darmi fiducia. «D'accordo.» Non me lo feci ripetere due volte e mi avviai dietro a lei. Quando ci trovammo nella sua camera la piccola mi disse: «Che tu dorma sul tappeto è quello che volevo far credere a papà. Naturalmente puoi metterti con me sotto le coperte». Approvai abbaiando e saltai nel letto. Finalmente ero di nuovo vicina a mia figlia e guardavo le stelle luminose sul soffitto. Ma rispetto all'ultima volta, quando ero una formica, riuscivo a malapena a provare gioia. Il dolore per il fatto di non averla potuta vedere per due anni era troppo grande. Due anni della sua
vita che mi ero persa. E che non sarebbero mai ritornati. Guardai con profonda tristezza la sveglia di Snoopy: era già mezzanotte e venti. Il suo settimo compleanno era ato. Anche quello avevo perso. E anche quello non sarebbe ritornato. A quel punto le palpebre di Lilly si chio, e lei si addormentò. Rimasi in ascolto del suo respiro lento e tranquillo e guardai il suo dolce viso di bambina. E giurai a me stessa che non avrei mai più mancato un suo compleanno.
Capitolo 35
IL mattino successivo, a colazione, lasciai che Lilly mi desse da mangiare delle carotine. Seppure sotto le sembianze di un cane, nel calderone della reincarnazione ero diventata una vegetariana convinta (Willy Brandt se lo sarebbe mangiato qualcun altro). Durante quel pasto comune venni a conoscenza di alcuni fatti: Nina aveva chiuso la sua agenzia di viaggio ad Amburgo per aprirne un'altra a Potsdam. Alex aveva realizzato il suo sogno di sempre e aperto un negozio di biciclette, e con i soldi che guadagnava era in grado in
effetti di provvedere alla famiglia. Le biciclette erano sempre state un suo sogno in alternativa allo studio. Ma dopo la nascita di Lilly, Alex lo aveva accantonato per occuparsi della piccola. Tuttavia la notizia più interessante della mattina fu che potevo tenere contratti gli sfinteri per un tempo incredibilmente lungo. «Oggi non vado al lavoro», disse Nina. «E perché no?» chiese Alex. «Aspetto che esca l'anello», rispose lei. «Ma quello prima o poi verrà fuori da solo», sorrise Alex. In qualche modo non sembrava voler affrettare il momento in cui la proposta di matrimonio si sarebbe ripetuta, e questo mi rallegrò.
Poi si preparò per portare Lilly a scuola (Dio mio, era veramente già una scolaretta!) e per andare al suo negozio di biciclette. Mostrava uno slancio che in ato avrei tanto desiderato da lui. E alla vista di questo Alex così cambiato e pieno di entusiasmo, mi ò per la testa un pensiero terribile: La presenza di Nina ha un influsso positivo su di lui! Tempo prima la stessa considerazione l'aveva fatta la mamma porcellina. E pensando a lei mi venne in mente Casanova. Che ne era stato di lui? (Dalle memorie di Casanova: «Mademoiselle Nina regalò i porcellini a una signora anziana che abitava lì vicino. Facevo spesso visita agli animaletti sotto le mie nuove sembianze di gatto, per
controllare che fosse tutto a posto. E per sedurre la gatta che abitava là. In realtà amavo mademoiselle Nina. Ma l'amore non è un motivo sufficiente per praticare l'astinenza».) Corsi sul patio e diedi un'occhiata in giardino, ma non c'era più alcuna gabbia. Né porcellini d'India né gentiluomini veneziani. Nina mi seguì fuori. Indossava guanti di gomma. Si prese una sedia da giardino, si sedette davanti a me e disse con voce melliflua: «Adesso falla, bravo bravo» Abbaiai in risposta: «Per favore rivolgiti a me in maniera ragionevole». Seguì un gioco di pazienza che durò tre ore. Il mio muso da beagle si gonfiava fino
a diventare paonazzo, e io rantolavo: «Riiiieeeesco a teneeeerla... Nessssssssun problemaaaaaa...» Ma il tempo diede ragione a Nina e alla fine l'anello dovette uscire. Non era neanche finito sulle piastrelle del patio che lei se ne impadronì. E sospirando disse: «Che cosa non faccio per amore». Mentre ancora, frustrata, guardavo Nina, dietro di me sentii sbraitare una voce: «Ehi, ma che cane è?» Mi voltai. Era mia madre, che stava entrando dal cancello del giardino. Mi rallegrai di vederla. Dopo qualche anno da animale si dimenticano le animosità. Le corsi incontro, saltai e abbaiai felice: «Baubaubau!» Martha mi respinse con energia. «Non saltarmi addosso,
stupido cagnaccio!» Tanto per ricambiare la gioia che provavo nel rivederla. «Il cane è venuto qui da noi, e ora è di Lilly», spiegò Nina. «E che anello è quello?» «Voglio fare una proposta di matrimonio ad Alex», dichiarò Nina. «E non vuoi aspettare che sia Alex a chiedertelo?» volle sapere mia madre. «No.» «Buona idea! Quello da solo non si darà mai una mossa!» Buona idea? Non potevo crederci. Mia madre la trovava una buona idea? Stava dalla parte di Nina? E in questo modo, in un certo senso, contro di me? Guardai Martha e constatai che certe persone hanno meno difficoltà a dimenticare le animosità se non sono fisicamente vicine. Nina condusse Martha in casa e chiuse
la portafinestra del patio. Da dietro il vetro vidi come si capivano bene quelle due. Ridevano e si divertivano, e io ero completamente disorientata. Ci si poteva divertire con mia madre? Con quella donna che rideva solo se aveva un certo tasso alcolico nel sangue? Forse Nina aveva influssi positivi anche su mia madre? Caspita, questa storia degli influssi positivi di Nina mi stava innervosendo! Quando Alex a mezzogiorno tornò a casa, mi chiese: «Ehi, che cosa ne dici di una eggiata?» «Porti con te il cane e me no?» chiese Nina. «Voglio andare da solo al cimitero», rispose Alex, e io deglutii: stava parlando della mia tomba. Nina capì e annuì senza una parola.
«Allora, vuoi venire?» mi ripeté Alex. Ero indecisa. Vedere la propria tomba non è esattamente il culmine del giro turistico della propria vita. Alex mi sorrise e, incoraggiata, gli rivolsi un guaito di approvazione e mi incamminai con lui.
Capitolo 36
LUNGO la strada capii perché Alex mi avesse voluto portare con sé. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare. Qualcuno che non lo interrompesse con mille chiacchiere. Qualcuno a cui poter confidare i segreti più nascosti. Un cane, appunto. Se avesse avuto anche il minimo sospetto di chi era il cane al suo fianco avrebbe taciuto. «Sai...» cominciò, e subito si interruppe. «... Ma come ti chiami?» Che cosa si poteva abbaiare in risposta? «Ti chiamerò Tinka», disse Alex. Un nome che poteva andarmi a genio.
«Sai, Tinka, mia moglie è morta esattamente due anni fa.» Con la mente rividi il momento in cui quella stupida base spaziale precipitava su di me. «E io l'amavo molto», disse Alex. Come? Mi amava ancora anche alla fine? «Poco prima che morisse il nostro matrimonio era agli sgoccioli. Lei non mi amava più. E questo mi distruggeva.» «Che cosa?» abbaiai rivolta a lui. «Perché non me lo hai mai detto?» Lui mi guardò sorpreso: «C'è qualcosa che non va?» Simulai frettolosamente di interessarmi a un albero e che fosse quello il motivo per cui avevo abbaiato. «Avrei dovuto lottare per lei...» disse Alex, e proseguì pensieroso. Nel frattempo avevamo raggiunto il cimitero;
mi girai e vidi le nostre orme sulla sottile coltre di neve. Era ancora parecchio freddo per la stagione, e ora il tempo si era di nuovo volto al brutto. Neve bagnata cadeva dal cielo e rendeva il cimitero un luogo decisamente inospitale. «Perché non hai lottato?» abbaiai. Ma naturalmente lui non capì la domanda. Invece rimase fermo, fece un respiro profondo e disse: «Mi manca. Mi manca così tanto». Non riuscivo a crederci. «Vuoi sapere perché non ho lottato per lei?» chiese Alex. «Sì, una buona volta!» abbaiai. «Avevo la sensazione di non essere alla sua altezza.» Santo cielo, com'era arrivato a pensare una cosa del genere? «Lei era una donna di successo. E io
non avevo combinato nulla di buono.» Deglutii. «E io l'ho sempre rimproverata di non occuparsi abbastanza di me e di Lilly. Ma nel subconscio c'era costantemente il pensiero che lei avesse più successo e io fossi una nullità. Strano, vero? Avevo dei complessi di inferiorità nei confronti di mia moglie.» Alex non me lo aveva mai detto. «Con Nina è diverso», dichiarò, e io rimasi come fulminata. «Lei mi sprona, sta dalla mia parte. Senza di lei non avrei mai aperto il negozio di biciclette.» Era questo il motivo per cui stava con lei? Perché con lei si sentiva più sicuro di sé? «E lei mi ha aspettato per tanto tempo.» «Tanto tempo?» «La prima volta che l'ho baciata è stato solo un anno e
mezzo dopo.» Agitai la testa di qua e là: per un osservatore esterno, che avesse saputo che il nostro matrimonio era agli sgoccioli, diciotto mesi sarebbero forse apparsi un lungo periodo. Ma secondo me lui avrebbe dovuto aspettare almeno diciotto anni. O, ancora meglio, diciotto vite! «Tuttavia è stato un bene che ieri tu sia arrivata. Altri menti mi sarei visto costretto a dire di no alla proposta di Nina. Ho la sensazione di tradire Kim, sposando Nina.» «È esattamente quello che fai, in effetti», guaii. «Di' un po', riesci a capirmi?» disse Alex sorpreso. Scossi rapidamente la testa. Una reazione poco intelligente. Perché fu proprio questa a tradirmi.
«Mi capisci sul serio?» Alex non riusciva a capacitarsene. A quel punto non seppi più come reagire. Optai per uno scodinzolio nervoso. «Mah, sto cominciando a immaginarmi le cose», disse Alex. Poi avanzò nel cimitero. Io gli andai dietro ponendomi un mucchio di domande: era colpa mia se il nostro matrimonio era finito? Si sarebbe potuto salvare se io fossi stata un po' più come Nina? Forse lei sarebbe addirittura stata una moglie migliore per lui? Ma la domanda più importante che mi ò per la mente fu: che cosa diavolo ci faceva Daniel Kohn al cimitero? Una domanda che si pose anche Alex. E che rivolse immediatamente a Daniel Kohn stesso: «Che cosa ci fa qui?» Daniel
lo guardò sorpreso, evidentemente Alex lo aveva strappato ai suoi tristi pensieri. La neve aveva già formato una coltre sottile sulle spalle di Daniel. Era chiaro che era un po' che si trovava davanti alla mia tomba. Non c'era una vera e propria pietra tombale, bensì una lastra su cui erano incisi un sole e le parole: «Con eterno amore, la tua famiglia». Quando la vidi cominciai a guaire. «Che cos'ha il cane?» chiese Daniel. «Non ne ho idea, un attimo penso che sia un animale molto particolare, e l'attimo dopo che sia semplicemente matto», rispose Alex. E io pensai fra me e me: Entrambe le supposizioni sono giuste. «Che cosa ci fa sulla tomba di mia moglie?» lo incalzò
Alex. «Lei è il marito di Kim?» domandò Daniel in risposta. Niente nell'espressione del suo viso tradiva il fatto che fosse stato a letto con me l'ultima notte della mia vita da essere umano. Daniel, infatti, rimase imperturbabile. «Condoglianze di cuore», disse, senza stringere la mano ad Alex. E senza rispondere alla domanda. Alex non replicò: se fino a quel momento non aveva intuito che tra Daniel e me c'era stato qualcosa, ora quel momento era arrivato. Tanto più che Daniel aveva una rosa rossa in mano. Incredibile. Una rosa rossa. Di solito gli uomini la trovano una cosa kitsch. Ma noi donne, specialmente noi donne defunte, lo consideriamo commovente. E
significava che Daniel Kohn provava dei sentimenti per me. Quindi, nel giro di pochi minuti, ero venuta a sapere che i due uomini della mia vita umana mi avevano amato fino alla fine. Era bello. Conturbante, ma bello. Peccato che come beagle non me ne veniva molto. Alex e Daniel si guardarono negli occhi. Ognuno di loro sapeva qual era la questione. Imibile, Daniel depose la rosa sulla tomba, fece ad Alex un cenno con il capo e andò via. Era decisamente un figo. Di sicuro più figo del beagle che ero io. «Credi che fra i due ci fosse qualcosa?» mi chiese Alex.
Scossi con energia il mio musetto da beagle. Ma evidentemente questo non bastò a dissipare i suoi dubbi. Durante tutto il tragitto di ritorno a casa Alex non mi rivolse più la parola. E io capii che gli scrupoli che aveva avuto nell'accettare o meno la proposta di Nina erano venuti a cadere.
Capitolo 37
I GIORNI seguenti vidi Nina e Alex in azione. Facevano praticamente tutto insieme: i lavori di casa, le uscite, lo shopping. In questo modo, nell'arco di una giornata, avano quasi più tempo insieme di quanto non ne avessimo ato Alex e io in un trimestre. Nina si occupava anche di Martha, che si trovava per casa a ogni pie sospinto. Tentò addirittura di istruirla come assistente per la sua agenzia di viaggi. In un primo momento non capii perché lo fe, ma con il trascorrere dei giorni mi fu chiaro: a quella vecchia signora Nina voleva
bene. Strano, ma vero. A quanto pareva era possibile voler bene a mia madre. Ma il peggio era che Nina ava molto tempo anche con Lilly. L'aiutava perfino per i compiti, con una pazienza impressionante (io stessa, ai tempi della scuola materna, non avevo trovato neanche un secondo per insegnarle con il dovuto modo ad allacciarsi le scarpe, con la conseguenza che avevo comprato soltanto scarpe con il velcro). Riusciva addirittura a farla ridere. Non so dire quanto nel frattempo avessi iniziato a odiare quest'idea degli «influssi positivi di Nina». ***
Nina stava costruendo una vera e propria piccola famiglia. Partendo da quella che una volta era la mia. Per essere carina con Lilly accettò perfino il beagle in casa. Quando in realtà non poteva soffrirmi. Logico, visto che facevo in modo che la sua vita sessuale sfiorasse di continuo la soglia della frustrazione: ogni volta che percepivo un suo gemito mi mettevo a guaire davanti alla porta della camera. Così forte che Nina non riusciva più a concentrarsi. Non c'era quindi da meravigliarsi che Nina, quando nessuno poteva sentirla, mi affibbiasse il nome di «preservativo». Ma poi giunse il giorno terribile in cui lei e Alex annunciarono quello che già
presagivo: «Ci sposiamo!» E mentre, ancora in preda al terrore, io trangugiavo il mio biscotto per cani e riflettevo rantolando su chi dovessi mordere per primo la sorridente Nina, il sorridente Alex o mia madre, con le lacrime agli occhi per la commozione Lilly uscì di corsa dalla casa. «Aspetta!» le gridò Alex, e fece per seguirla. Nina però lo trattenne. «Lasciala. Ha bisogno di un momento per assorbire il colpo.» Alex annuì. Ma io lasciai perdere il biscotto e corsi in giardino. Lilly era seduta sull'altalena e piangeva. Mi accucciai vicino a lei, volevo consolarla e le misi la zampa sul ginocchio. «Mi manca la mia mamma», disse lei, e mi strinse forte.
Sentii le sue lacrime sulla mia pelliccia e le sussurrai piano: «La mamma è qui con te». A quel punto Lilly mi guardò negli occhi e sembrò capire. In ogni caso si tranquillizzò e mi accarezzò senza dire niente. Io abbaiai: «Andrà tutto bene». «Ma solo se faremo una cosa», disse una voce proveniente dall'alto. Guardai in su, e accovacciato sopra un ramo vidi un gatto marrone con una macchia nera intorno all'occhio destro. Un gatto che sorrideva di gusto. Lilly recuperata un po' di calma si diresse di nuovo in casa. Mentre io fissavo turbata il gatto. «Casanova...?» chiesi con circospezione.
Il gatto ribatté: «Madame Kim?» Annuii. Il gatto allora saltò giù dall'albero. Ci precipitammo uno verso l'altra e ci abbracciammo affettuosamente, cosa che doveva apparire abbastanza singolare, perché un abbraccio stretto fra quadrupedi funziona solo se sono distesi a terra. Per chi ci avesse osservato, e ringraziando il cielo nessuno lo fece, fu come se un gatto e un beagle non sapessero di essere sessualmente incompatibili. Quando finimmo di rotolarci felici sul prato, cominciammo a parlare a raffica e a raccontarci tutto quello che era accaduto negli ultimi due anni. Io riferii delle mie vite da vitello, lombrico, dorifora e scoiattolo. E Casanova mi mise al corrente di
come, in quanto salvatore di Depardieu, avesse prodotto karma positivo sufficiente per ascendere a una vita da gatto, e come da quel momento avesse vissuto decisamente bene. «Il vagabondare mi si addice.» «Ma perché non ha continuato a produrre karma?» volli sapere. «Credo che mi sia mancata la vostra influenza positiva», replicò lui con un sogghigno. «E venuto fin qui a cercarmi?» «No», ribatté Casanova, e ne rimasi un po' delusa. «Mademoiselle Nina mi ha rubato il cuore.» «Accidenti, ma che cosa ci trovate, tutti, in quella stramaledetta oca?» «Mademoiselle Nina è meravigliosa, amabile, generosa...» «Ci sono domande che non richiedono necessariamente una risposta», brontolai.
«Allora non rispondo», replicò Casanova con gentilezza. «Dimentichi Nina. Non avrà chance con lei», continuai arrabbiata. «Come potete giungere a simili, assurde considerazioni?» «Ebbene, in primo luogo perché lei vuole Alex. Secondo, lei viene da un altro secolo. E terzo, lei è uno STRAMALEDETTO GATTO!» «Primo, l'amore supera tutti gli ostacoli. Secondo, se possibile non rimarrò per sempre un gatto. E terzo, mademoiselle Nina non vorrebbe monsieur Alex, se sapesse della mia esistenza», ribatté Casanova risentito. «Sciocchezze. Nina e Alex vogliono sposarsi subito!» gli scaraventai addosso in risposta. La notizia scioccò il gentiluomo. Il
pelo gli si arruffò e le sue parole solenni furono: «Mademoiselle Nina ci sta pensando solo perché non è ancora consapevole della mia esistenza». Guaii sarcastica. Casanova aggiunse: «E Alex non sposerebbe mademoiselle Nina se sapesse che voi siete ancora in vita». «Invece sì, lo farebbe», ribattei con tristezza. «Ora sa che l'ho tradito con un altro uomo.» «Questo non è un motivo sufficiente per non amare qualcuno», rise Casanova. «Come?» chiesi sorpresa. «Credetemi, madame, sono stato amato da parecchie donne che sapevano che le avevo ingannate. E allo stesso modo io ho amato molte donne che mi hanno tradito. La gelosia non è un
impedimento all'amore.» Rimasi senza parole. Casanova aveva una maniera invidiabile di vedere le questioni morali legate all'amore in una prospettiva a lui congeniale. «O vi sembra forse di amare un po' meno monsieur Alex solo perché compie un atto carnale con mademoiselle Nina?» Mi sentivo confusa: la domanda se amassi ancora mio marito mi sconcertò. Non me l'ero più posta sin dalle scosse elettriche in laboratorio... «Se impediamo il matrimonio avremo una chance di riavere i nostri amati.» «Ma io Alex non lo rivoglio affatto», dissi con la veemenza di chi è stato assalito dall'insicurezza. «Ne siete certa?» chiese lui. «Sì!» risposi io con veemenza ancora
maggiore. Ma il gatto Casanova sogghignò con l'aria di chi la sa lunga. Mi sentii scoperta e ribattei: «In ogni caso poco importa. Loro non si innamoreranno mai di noi. Noi siamo animali!» «Forse prima o poi rinasceremo uomini, se produrremo sufficiente karma positivo.» Qualcosa di vero poteva esserci, Buddha aveva detto che quella sarebbe potuta essere la mia ultima vita da animale. E mi tornò in mente la fantasia in cui io diciottenne baciavo Alex cinquantenne. L'idea mi solleticò lo stomaco. Se Casanova avesse avuto ragione? Volevo davvero riavere Alex? Comunque sia dovevo ammettere di essermi procurata il nome di «preservativo» perché ero gelosa di Nina.
Ma purtroppo la logica di Casanova presentava un piccolo difetto strutturale. «Se impediremo il matrimonio, produrremo solo karma nefasto!» obiettai. «In questo modo non diventeremo mai uomini.» Casanova si limitò a rivolgermi un impudente sorriso felino. «Com’è possibile produrre karma negativo, se si agisce per amore?»
Capitolo 38
PKR far fallire un matrimonio non c'è niente di meglio che distruggere il vestito da sposa. Nina aveva fatto in modo che la cerimonia in chiesa anticie quella in municipio, contrariamente alla prassi tedesca. «La prima volta che dico 'Sì' non voglio che sia in un ufficio di stato civile, ma in bianco, all'altare», aveva detto ad Alex. Il sole splendeva quando gli invitati uscirono da casa nostra. Perfino lo stramaledetto tempo era dalla parte di Nina! I fiori primaverili avevano un
profumo idilliaco. Ma Alex aveva un aspetto ancora più idilliaco mentre si avviava con un meraviglioso smoking nero verso la limousine bianca che aveva noleggiato appositamente per l'evento. Indossava un papillon così da rimanere fedele alla sua avversione per la cravatta e teneva a braccetto Lilly, che con il suo grazioso vestito rosa era la più dolce damigella che ci si potesse immaginare. «Sembri una principessa», le disse Alex, e le diede un bacino. Lilly sorrise raggiante. Apparentemente si era fatta una ragione del matrimonio. Al contrario di me! Poi uscì di casa mia madre. Era elegante, se non altro per le sue
condizioni: indossava un tailleur pantalone blu e una nuova acconciatura. E poi fu il turno di Nina. «Oh, Dio mio, che apparizione meravigliosa», disse Casanova. E io pensai: Merda, ha ragione! Nina aveva un aspetto fantastico, il vestito bianco era semplice e modellava la sua figura in maniera addirittura provocante. Per poter indossare un abito del genere la maggior parte delle donne avrebbe dovuto sottoscrivere un abbonamento a tempo indeterminato da un chirurgo estetico. Feci uno sforzo e mi concentrai sul mio compito: visto che saggiamente Nina non mi voleva portare in chiesa, era quello prima della partenza il grande «momento della distruzione».
Non ero sicura di voler davvero riavere Alex, ma sapevo con precisione che non avrei tollerato quel matrimonio. Mi diressi di corsa verso Nina. Lei mi guardò negli occhi, intuì che cosa sarebbe successo e gridò: «Oh, no! Toglietemi dai piedi il cane!» Mia madre non se lo fece dire due volte. Afferrò il bouquet e con quello cominciò a percuotermi. «Prendi questo! E questo! Maledetto cagnaccio!» Lasciai che mi respingesse, visto che il mio ruolo era solo quello di diversivo: in quel momento, infatti, Casanova si lanciò su Nina da un ramo e con le unghie le strappò il vestito. «Levatemi di dosso questa bestiaccia!» urlò Nina. Ma era troppo tardi: l'abito sembrava essere caduto tra le mani di Edward Mani
di forbice. Tutti guardarono immobili la sposa in brandelli, mentre Casanova e io ci rifugiavamo in garage e osservavamo il successivo svolgersi degli eventi da una distanza di sicurezza. Mi rallegrai per l'esito positivo del nostro piano. Ma Casanova era silenzioso. «Che cosa c'è? Non è soddisfatto?» gli chiesi. «Non mi rende felice fare del male a mademoiselle Nina», disse lui. «A me sì», sogghignai guardandola cercare di contenersi. Purtroppo lo fece con successo. Si svincolò dall'abbraccio di conforto di Alex e disse: «Non importa che aspetto ho. Solo una cosa importa, che ci sposiamo». Poi i due si sorrisero con tale intimità
che avrei voluto dare di stomaco. Infine salirono con Lilly e mia madre sulla limousine e sfrecciarono via.
Capitolo 39
«NON è stato un gran risultato», costatò Casanova. «Non propriamente», gli feci eco. Tacemmo. «E ora che cosa facciamo?» «Non rinunciamo», risposi. «Buona idea.» «Vero?» Tacemmo ancora. «E come si configura con esattezza l'impresa del 'non rinunciamo'?» chiese lui. «Ebbene, a questo proposito non ne ho idea.» Tacemmo di nuovo. «Dobbiamo andare in chiesa, e poi
vedremo», decretai, e corremmo via. Quando vi arrivammo, ansimanti, gli invitati erano già entrati, e noi non potevamo certo aprire la porta. Quindi decidemmo di separarci per cercare un'entrata. Lui andò a sinistra, girando intorno all'edificio, io a destra. Vidi un'anta socchiusa, la spinsi e mi trovai davanti a una scala. In mancanza di alternative, vi salii di corsa e arrivai giusto alla tribuna, dove un organista barbuto giocava annoiato a Tetris sul suo cellulare, mentre di sotto il pastore si avviava a porre la domanda decisiva: «Vuoi tu...» A quel punto desiderai essermi reincarnata in un gatto, perché in quel caso sarei agilmente saltata nella navata per poi afferrare gli anelli, senza i quali il matrimonio non poteva
essere celebrato. Ma non ero un gatto, ero una cagna. Di conseguenza non ero provvista di ossa elastiche che potessero ammortizzare la caduta. Senza contare che non riuscivo neanche a identificare esattamente la posizione dell'altare sotto di me. Neppure il mio eccezionale olfatto poteva essermi di aiuto, visto che non era in grado di fiutare le distanze e mi rivelava unicamente il fatto che l'organista dietro di me non credeva nell'uso dei deodoranti. Mi risultava quindi del tutto impossibile prevedere dove e come sarei atterrata se avessi saltato. Invece risuonò tonante alle mie orecchie la domanda del pastore: «Vuoi tu, Alex Weingart, prendere in moglie questa donna?» L'ultima volta che la stessa domanda era stata posta ad Alex,
la sposa al suo fianco ero io. Ci trovavamo a Venezia, nella chiesa di San Giobbe inondata di sole, e nel suo abito chiaro lui aveva un aspetto semplicemente fantastico. Io ero talmente nervosa che avevo perfino detto 'Sì' al momento sbagliato. Il sacerdote sorrise, in tedesco stentato mormorò: «Sarà subito il suo turno» e poi proseguì con la cerimonia. Quando finalmente, con un tremito nella voce, avevo risposto: «Sì, lo voglio» al momento giusto e Alex mi aveva infilato l'anello, mi ero sentita la persona più felice e fortunata del mondo. Non avevo mai amato nessuno come Alex allora. Lui era l'amore della mia vita, lo potevo dire a chiare lettere, visto che quella vita era ormai trascorsa da tempo.
Vedere ora Alex con Nina mi rendeva evidentissimo un fatto: Casanova aveva ragione, per lui provavo dei sentimenti, ancora e sempre. E improvvisamente il naso già umido fu inondato di lacrime. Il pastore rivolse lo sguardo ad Alex che stava per aprire la bocca e pronunciare la dichiarazione fatidica. Con la zampa anteriore mi asciugai le lacrime, superai la balaustra con il coraggio della disperazione estrema, portai al massimo della tensione i muscoli delle zampe posteriori che in un beagle non erano poi particolarmente accentuati e saltai. Per qualche secondo mi trovai in caduta libera e sperai con questo atto di non dover morire di nuovo.
Per grazia del cielo non mi ruppi l'osso del collo, bensì atterrai, viste le circostanze, morbidamente, sulla testa di mia madre, che esplose in una sequela di imprecazioni senza dubbio mai sentite in quella chiesa. Immaginavo che da un momento all'altro il crocifisso sarebbe caduto a terra per la vergogna. La mia prodezza fece scoppiare l'inferno: gli invitati parlavano tutti insieme in preda all'agitazione, il pastore si interruppe a metà della frase e Nina bisbigliò furiosa all'orecchio di Alex: «Ma il cane lo avevamo lasciato a casa!» E dal suo tono era evidente che stesse pensando: Avremmo dovuto piuttosto abbandonarlo in una piazzola di sosta. Meglio ancora se nello Yemen del Sud.
L'unica persona in tutta la chiesa che si rallegrò di cuore di vedermi fu Lilly. La piccola corse verso di me e disse: «Ehi, Tinka, ma che cosa stai facendo qui?» Voleva prendermi in braccio. Anch'io mi sarei accoccolata volentieri vicino a lei, ma la scansai e corsi sull'altare. Là afferrai le scatoline che contenevano gli anelli e sfrecciai via. Nina gridò: «Fermatelo!» Martha non se lo fece dire due volte e mi corse dietro. Per quanto più veloce di lei, a pochi i da me vidi la porta chiusa. Quella direzione mi conduceva necessariamente in un vicolo cieco. Mia madre mi era già alle calcagna. Dovetti frenare. Da un momento all'altro mi avrebbe presa... Poi però il portale si aprì. Casanova era accovacciato sulla maniglia e mi
guardava ghignando. Era davvero un maestro del salvataggio all'ultimo secondo. Corsi fuori dalla chiesa. Casanova mi seguì. E così fecero mia madre e qualche altro membro della comunità in festa. Tuttavia non ebbero la possibilità di prendermi né di mettere in salvo gli anelli, perché al contrario di loro non avevo il minimo problema ad attraversare a nuoto il fiume che scorreva lì vicino.
Capitolo 40
ALLA sera tornai a casa accompagnata da Casanova. Non prima di aver sotterrato gli anelli nelle vicinanze. Avvicinandomi al giardino, notai Alex ancora in smoking seduto sulla terrazza, che guardava davanti a sé con aria frustrata. Nina non si vedeva. Probabilmente si trovava da qualche parte in casa a piangere. Feci cenno a Casanova di aspettare dietro il capanno degli attrezzi e mi avviai cauta verso Alex. Lui mi guardò. Senza rabbia. Ma svogliato. «Ciao», disse stanco.
«Ciao», fu il mio guaito sommesso. «Non ho idea di che cosa ti sia preso», commentò. «Se non sapessi che è impossibile, direi che sei Kim.» Il mio cuore si fermò. «In qualche modo rinata», aggiunse Alex sorridendo appena. Non sapevo che cosa abbaiare. «Se sei Kim, puoi scodinzolare», disse Alex con un misto di amarezza e sarcasmo. Che cosa dovevo fare a quel punto? Scodinzolare? E poi? Prima che potessi prendere una decisione lui proseguì: «Se tu fossi veramente Kim, ti perdonerei per avermi tradito con quel Kohn». Guardai di lato, vergognosa. «E ti pregherei di darmi il permesso
di sposare Nina.» «Mai e poi mai!» fu il mio latrato. «Lei mi rende felice. Con lei posso pensare di vivere il futuro. Con te solo nei ricordi», replicò Alex. Mi sentii invadere dall'insicurezza. «In più vorrei aggiungere che Lilly ha bisogno di una madre. Nina fa di tutto per esserlo. Non le ho mai sentito dire qualcosa di negativo sulla piccola.» Neanch'io, se dovevo essere sincera. «E Lilly ce la sta mettendo tutta per accettarla, finalmente.» Pensai al sorriso raggiante di Lilly quando Alex le aveva fatto i complimenti per il suo vestito da damigella. Nina ci sapeva fare con Alex meglio di me, e con mia madre lo stesso. Anche con Lilly sarebbe stata una madre migliore di quanto non lo fossi stata io?
Non sarebbe stato poi così improbabile, pensai all'improvviso, con un velo di depressione. «Ma soprattutto», continuò Alex, «soprattutto ti pregherei con tutte le mie forze di lasciarmi vivere la mia vita.» E poi, dopo un sospiro profondo, aggiunse: «Ma tu non sei Kim». Io mi affrettai ad abbaiare: «Sì, invece, che lo sono! E forse potrei rinascere essere umano, e magari, al massimo nel giro di vent'anni, potremmo incontrarci, e allora tu avresti solo cinquantacinque anni e io venti, e ce ne faremmo un baffo della differenza d'età e potremmo davvero ricominciare da capo, ed evitare tutti gli errori che abbiamo commesso, e allora la nostra vita sarebbe bella come quando ci siamo sposati, e in
prospettiva ne varrebbe la pena di aspettarmi così a lungo e... e... e... e mentre abbaio queste cose mi accorgo di quanto il mio piano non sia una buona alternativa per te. Non puoi aspettarmi per vent'anni». Alex mi guardò contrariato. «E neanche un'alternativa realistica», fu il mio triste guaito di chiusura. Rivolsi lo sguardo al viso sconsolato di Alex. E capii che non avevo il diritto di rovinargli la vita. E ora sapevo anche qual era la lezione di cui aveva parlato Buddha, e che secondo lui dovevo ancora imparare. Suonava così: quando si è morti bisogna anche saper mollare. E così condussi Alex nel punto dove avevo sotterrato gli anelli.
Capitolo 41
QUESTA volta la cerimonia si svolse senza particolari intoppi. Casanova si era infuriato perché avevo restituito gli anelli ad Alex, e a quel punto si era detto intenzionato a impedire il matrimonio da solo. Ma non fece nulla, non da ultimo perché in mezzo ai croccantini gli avevo messo una delle pillole di Martha. (Dalle memorie di Casanova: «Dopo un pasto non mi era mai capitato di vedere una tale quantità di colori».)
Sfidando le proteste di Nina, Alex mi portò con sé al matrimonio. Naturalmente non credeva davvero che io fossi sua moglie Kim reincarnata, ma era dell'idea che ora io appartenessi alla famiglia. Così vidi come Alex e Nina andavano all'altare. Lei era una sposa bellissima, nel suo vestito risistemato. Sentii il pastore che poneva di nuovo a entrambi la domanda del «Vuoi tu...» Il primo a rispondere fu Alex. «Sì, lo voglio!» Poi Nina sussurrò: «Sì, lo voglio... con tutto il cuore». Sembrava perdutamente innamorata di lui. In quell'attimo capii: Nina avrebbe messo a frutto quella chance e vissuto una vita famigliare felice.
Una chance che da essere umano anch'io avevo avuto. Ma che non avevo messo a frutto. Avevo sprecato la mia vita umana. E nel momento in cui me ne resi conto sentii un «crrr». Va be', non fu veramente un «crrr»... ma come si può descrivere il rumore che fa un cuore quando si spezza? Forse è meglio dire: è il rumore più terribile che ci sia. E a ripensarci il dolore più sconvolgente. Un dolore mortale.
Capitolo 42
Ho sempre pensato che «morire di crepacuore» fosse un mito esattamente come «Punico vero amore». Ma di fatto stramazzai davanti all'altare. E siccome è molto raro che per un cane si richieda l'intervento urgente di un'ambulanza con defibrillatore, morii ancora in chiesa. In questo modo, per due minuti, conferii all'unione degli sposi una nota tragica. Secondo me, anche appropriata. Di nuovo mi ò davanti la mia vita, ma tentai di non guardare, perché assistere un'altra volta al momento in cui Alex e Nina si sposavano era più di quello che
potessi sopportare. In realtà è incredibilmente difficile chiudere un occhio interiore. Per essere precisi, è del tutto impossibile. E quindi ripercorsi dolorosamente quel momento terribile, inclusa la sofferenza dell'infarto cardiaco. E poi vidi la luce. Si fece più luminosa. Era stupenda. Questa volta sperai di essere definitivamente accolta fra le sue braccia... *** Naturalmente non fu così. Invece mi svegliai in un luogo di un bianco accecante. O era un paesaggio
bianco? Non ero in grado di distinguere né pareti né soffitto. E questo paesaggio, questo spazio, questo pianeta o qualsiasi cosa fosse era del tutto vuoto. Non si vedeva nulla, ma proprio nulla, a parte quel bianco luminoso che scaldava l'anima. Ero completamente sola. E poi constatai una cosa incredibile: ero lì, nuda... con il mio corpo umano. Dopo tutto quel tempo lo percepivo inusuale. Così... così... limitato. Le mie gambe non erano abili e pronte come quelle di un porcellino d'India, il mio udito non così sviluppato come quello di un cane, le mie braccia non vigorose come quelle di una formica. «Ehi?» gridai.
Nessuna risposta. «Ehi?!?» Di nuovo nessuna risposta. «Questo è il Nirvana?» E mentre lo dicevo pensavo: Se lo fosse sarebbe decisamente sotto tono. «No, questo non è il Nirvana», disse una voce affabile fin troppo nota. Guardai di lato: improvvisamente Buddha si era materializzato accanto a me. In sembianze umane. Un uomo straordinariamente grasso. E per il mio senso estetico non sarebbe stato male se avesse indossato qualcosa. In particolare in basso. «Se questo non è il Nirvana», chiesi evitando di far cadere lo sguardo sulla zona al di sotto dell'ombelico, «che cos'è allora?» «Ebbene», rispose Buddha, «è l'anticamera del Nirvana.» «Ah», risposi
io con uno di quegli «ah» che tradotti significano in realtà: «Non ci capisco proprio niente». Buddha aveva di nuovo il volto illuminato dal suo sorriso serafico, mentre io continuavo a rimanere convinta del fatto che lo divertisse infinitamente consegnare i cioccolatini con la frase fatidica. «Questo è il luogo in cui parlo con gli uomini prima che entrino nel Nirvana.» «Entrerò già adesso nel Nirvana?» Buddha annuì. «Ma io non sono ancora quel tipo di persona pacata che trova pace in se stessa. Non sono quella persona che vive in armonia con il mondo e ama tutti gli esseri umani sulla Terra, indipendentemente da chi e da come
siano.» «Produrre karma consiste solo e unicamente nell'aiutare altre creature. Ed è quello che hai fatto.» «Ma non sono stata esattamente una Madre Teresa...» «Questo non sono io a giudicarlo. Di Madre Teresa era responsabile qualcun altro», commentò Buddha. I miei pensieri presero forma nella mente, per concretizzarsi in un unico punto di domanda. «La vita dopo la morte è organizzata in maniera differenziata», cominciò a spiegare Buddha. «Le anime dei credenti cristiani vengono gestite da Gesù, quelle dei credenti musulmani da Maometto e così via.» «E così via...?» chiesi irritata. «Be', per esempio chi crede al dio nordico Odino va nel Walhalla.» «Ma chi
è che oggigiorno crede a Odino?» chiesi io. «Praticamente nessuno. E, credimi, per lui questa consapevolezza è grave motivo di depressione.» Con un certo fastidio mi immaginai come, a una cena con Gesù e Buddha, Odino si lamentasse delle sue pene e ragionasse sull'eventualità di assumere un consulente di pubbliche relazioni per riportare a livelli di popolarità la fede nella sua persona divina. «Ognuno riceve la vita eterna in cui ha creduto», aggiunse il grasso e nudo Buddha. E io trovai che la cosa avesse una sua logica. Ma il tutto mi fece sorgere spontanea una domanda: «Io non ho mai creduto nel
Nirvana. E allora perché sono qui?» «Il punto è che io non sono responsabile soltanto delle anime che hanno creduto nel buddismo, bensì anche di quelle che non credono proprio a niente», rispose Buddha. «E perché?» «Perché con me i non credenti non vengono puniti per il loro ateismo.» Era chiaro. Se Buddha si preoccupava di tutti gli individui privi di confessione religiosa, gli altri signori non si sarebbero trovati nella spiacevole situazione di dover dannare delle anime, per il solo fatto di non aver creduto. «Ora sei pronta per il Nirvana?» chiese Buddha. Doveva essere una domanda retorica. Di sicuro era convinto che a quel punto io gli gridassi «Eccomi!» invece ero incerta. Pensavo alle persone
per me importanti: Alex sarebbe stato senz'altro felice senza di me, ma... «Che ne sarà di Lilly? Sarà felice con Nina?» chiesi. «Questa non deve più essere una tua preoccupazione.» «Non deve più essere una mia preoccupazione?» «No, non più», sorrise quell'uomo grasso e nudo. «Stiamo parlando di mia figlia!» risposi ostinata. «Tuttavia non deve essere una tua preoccupazione, perché tra poco sarai nel Nirvana.» Deglutii. «Là proverai gioia eterna.» Lo desideravo. Lo desideravo tanto. E me l'ero anche meritato... In ogni caso Buddha la pensava così. Ed era un'autorità riconosciuta in quel campo. «Non ricorderai più niente delle tue
molte vite», disse Buddha, e aggiunse: «Dimenticherai tutto il tuo dolore». Dimenticare il dolore, gioia eterna... quale trattamento migliore? Per questo annuii e dissi: «Sono pronta!» E poi vidi la luce. Si fece più luminosa. Era stupenda. Questa volta lo sapevo con certezza: avrei potuto lasciare che m'invadesse, non mi avrebbe di nuovo respinta. Questa volta no. La luce mi avvolse tutta. Soave. Calda. Amorevole. L'abbracciai e lasciai che m'invadesse. Mi sentii così bene.
Così protetta. Così felice. Il mio io cominciò a dissolversi. Tutti i miei ricordi impallidirono: i dolori della mia infanzia, la sofferenza di fronte al matrimonio di Alex e Nina, l'amore per Lilly... Lilly! Perché Buddha era stato così sulla difensiva quando gli avevo chiesto se sarebbe stata felice con Nina? Qualcosa non quadrava! Non potevo entrare nel Nirvana senza avere la certezza da parte di Buddha che Lilly sarebbe stata felice! Ero sua madre e non potevo lasciarla sola, se fosse stata infelice. Per nessun motivo al mondo, neanche se si trattava della gioia eterna! E così lottai con tutte le mie forze contro il Nirvana.
Ma quel rompiscatole di Nirvana lottava a sua volta. E diventava sempre più soave. Sempre più amorevole. Semplicemente non voleva lasciarmi andare. Avevo soddisfatto i criteri di ammissione e a quel punto non potevo abbandonare il club. Non avevo mai vissuto niente che potesse lottare con maggiore convinzione, servendosi di armi come la dolcezza e l'amore. Tuttavia mi concentrai su Lilly: sui suoi occhi tristi, sulla sua delicata pelle di bambina, sulla sua vocina dolce... Il Nirvana non aveva la minima chance contro l'amore per mia figlia. Lo respinsi, come lui aveva fatto così spesso con me.
Ora sapeva che cosa si provava! Quando mi risvegliai mi trovai di nuovo nell'anticamera del Nirvana. E vicino a me c'era un Buddha disorientato. «Mai un essere umano ha respinto il Nirvana.» «Nirvana un fico. Non voglio lasciare sola mia figlia!» «Ma lei deve vivere la sua vita.» «Solo se prometti che sarà felice senza di me.» «Questo non lo posso promettere», disse Buddha. «Che ne sarà di lei?» chiesi allarmata. «Lilly sentirà la tua mancanza», ammise dopo una breve esitazione. «Ma Nina a più tempo con lei di quanto io non ne abbia mai ato.» «Questo è vero... ma non è la madre naturale!» Se c'era ancora un dubbio che lasciassi che il Nirvana rimanesse tale, a quel punto era definitivamente svanito.
«Allora devo andare da lei!» «È la sua vita.» «Fammi tornare sulla Terra con le sembianze di un cane», dissi infuriata. «Non è possibile, hai prodotto troppo karma.» «Se adesso ti mordo la mano, di sicuro ne perdo un po'», replicai, e tentai di addentare Buddha. Naturalmente non riuscii a prenderlo, perché in quell'anticamera del Nirvana sia lui sia io eravamo immateriali. «Mai nessuno aveva cercato di mordermi», disse Buddha sorpreso. «Mi meraviglia», brontolai. «Davvero non vuoi entrare nel Nirvana», costatò, e questo fatto lo disorientò enormemente. «E tu, intelligentone, dovresti riflettere se produrresti karma positivo spedendo nel Nirvana qualcuno contro la
sua volontà.» Questo argomento parve colpire nel segno. Buddha tirò un respiro profondo. E dopo averlo fatto disse: «D'accordo». «D'accordo?» «D'accordo.» «D'accordo suona bene», trovai, e dopo averci pensato un attimo aggiunsi: «E che cosa significa, esattamente? Tornerò nel mondo con le sembianze di un cane?» «No.» «Come porcellino d'India?» «No.» «Oh no, ti prego, non di nuovo come formica». «rinascerà essere umano.» «Io... io... tornerò a nascere me stessa?» Non potevo crederci. Era troppo meraviglioso per essere vero. E come accade per le cose troppo meravigliose per essere vere, sono troppo meravigliose per essere vere. «No, Kim Lange è morta», spiegò
Buddha, «e non può semplicemente risorgere.» «Perché no?» «Per prima cosa una simile rinascita scioccherebbe tutte le persone che ti conoscono.» «E poi?» «Secondo, il tuo corpo è in decomposizione già da tempo, è già mezzo putrefatto, i vermi stanno mangiando la carne intorno alle orbite...» «Basta così», dissi. «L'effetto plastico è decisamente troppo per me!» «La tua anima rinascerà nel corpo di una donna che sta morendo in questo momento», mi annunciò. «Una chance del genere te la concederò un'unica volta.» E queste furono le ultime parole che gli sentii dire prima di dissolvermi nuovamente nell'aria.
Capitolo 43
QUANDO mi risvegliai ero distesa su una morbida moquette e guardavo un soffitto tappezzato di rosa. Sentii sulle labbra un sapore di pizza hawaiana e cercai di tirarmi su. Ma non era esattamente facile, visto che avevo il peso evidente di un tricheco. Mi guardai le braccia, e non solo notai che erano braccia umane, ma anche che erano fatte di rotoli di ciccia che sarebbero stati l'orgoglio di qualsiasi lottatore di sumo. Mi sedetti e costatai che i rotoli di ciccia delle braccia avevano una gran quantità di parenti sulla pancia e
sulle gambe. E tutti questi cari parenti tremolavano di qua e di là, perché il corpo femminile in cui mi trovavo indossava solo biancheria intima. Biancheria intima rosa. Su cui era stampata Paperina. Guardai la moquette, che era dello stesso rosa del soffitto, e vidi la pizza hawaiana, con la mozzarella e tutto il resto, rovesciata a terra. A quanto pareva la donna in cui mi trovavo era crollata sul pavimento mentre stava mangiando. Cercai di mettermi in piedi, e così mi resi conto di quanto pesante fosse quel nuovo corpo: quasi due volte e mezzo il mio precedente, che già ritenevo essere troppo grasso, e che ora, guardandomi indietro, mi sembrava leggero come una piuma. (Se al tempo avessi saputo che
cosa significava essere veramente grassi, quattro chili in più non mi sarebbero costati un tale senso di frustrazione.) Sollevai la mia massa respirando a fatica. Mai in vita mia avevo provato un tale desiderio di una tenda a ossigeno. A una parete rosa vidi appeso uno specchio, mi trascinai in quella direzione e ci guardai dentro. Quella che mi fissò dall'altra parte era una donna enormemente grassa che, anche se con un bel doppio mento, aveva un viso simpatico e addirittura cordiale. Era fantastico da guardare e trasmetteva un meraviglioso buonumore. Nonostante il suo particolare gusto e il grasso aspetto esteriore, quella donna aveva un alone così affettuoso e gentile che in qualche modo non si poteva fare altro che
desiderarla come migliore amica. *** Mi guardai ancora intorno per scoprire altre cose della persona il cui corpo era ora abitato dalla mia anima. L'appartamento consisteva di una sola stanza con pochi mobili evidentemente Ikea e quindi dall'aria un po' instabile. Sul tavolo, accanto a una guida tv, c'era una bolletta del telefono indirizzata a Maria Schneider. Maria... un bel nome, in ato avevo fatto un pensierino sull'eventualità di chiamare così mia figlia. Lilly... Con quel nuovo corpo potevo
andare da lei e parlarle! Ero agitatissima, e sentivo quanto ciò fe male al mio cuore. Non solo in senso figurato: avevo delle vere e proprie fitte al petto. Cercai appoggio sul comò traballante, sperando che non si rompesse sotto il mio peso. In quel mentre scorsi appeso alla parete un poster con una cornice economica che rappresentava Robbie Williams a torso nudo. Per Maria contemplare quel poster era senza dubbio l'esperienza più erotica che avesse vissuto. E mentre lo fissavo, dovetti costatare che quella era l'esperienza più erotica che anch'io avessi vissuto negli ultimi due anni. Frugai ancora intorno e trovai delle pastiglie per il cuore. E di colpo mi fu
tutto chiaro: la povera Maria, presumibilmente, aveva appena avuto un infarto. La pizza appiccicata alla moquette rosa confermò i miei sospetti. Che cosa ne era stato della sua anima? Dopo aver visto che viso amabile avesse, sperai che fosse entrata nel Nirvana al posto mio. Buttai giù una delle pastiglie. Avevo il respiro pesante, così mi sedetti sul divano e mi chiesi che cosa avrei dovuto fare a quel punto. Quand'ecco che qualcuno dall'esterno infilò la chiave nella serratura. Impaurita, sentii che veniva lentamente girata, e prima che mi potessi immaginare quello che mi sarei trovata davanti, la porta si aprì. Un uomo sui quarantacinque anni, con
una testa che i capelli incorniciavano forse quindici anni prima, entrò nella stanza. Mi guardò. E io mi irrigidii. Rimanendo seduta sul vecchio divano verde. Con addosso solo biancheria intima rosa. Su cui era stampata Paperina. «Tutto a posto?» chiese lui. Aveva una voce gentile. «Tutto perfetto», risposi con un sorriso forzato. L'uomo mi guardò perplesso, rivolse lo sguardo alla pizza, e io mi affrettai a spiegare: «Sono caduta mentre la tenevo in mano». «Okay», disse lui, e si mise subito a raccoglierla. «Non devi farlo tu», mormorai.
«Non ti preoccupare», ribatté lui rimettendosi a trafficare. La sua disponibilità mi ricordò Alex, solo che quell'uomo somigliava a Brad Pitt quanto al momento io somigliavo a Michelle Hunziker. E sebbene mi sembrasse gentile, non vedevo l'ora di liberarmi di lui. Non volevo che si accorgesse che nell'anima e nello spirito io non ero Maria. «È carino da parte tua, ma ora vorrei che tu andassi», dissi. «Come?» chiese l'uomo, decisamente sorpreso. «Non mi sento bene e vorrei rimanere da sola. Vai a casa. Ti chiamo la settimana prossima, quando mi sentirò sicuramente meglio.» «Io abito qui», rispose lui, disorientato.
Rimasi stupita. «E noi siamo sposati.» Mi guardai intorno e dovetti costatare che sul letto c'erano effettivamente due piumoni. Un tempo, quando ero conduttrice televisiva, avevo fatto tante trasmissioni sulla legge per l'assistenza sociale per poi filosofeggiare, sorseggiando champagne con i politici, sull'assenza di un principio meritocratico nella nostra società e ora neanche riconoscevo una casa popolare quando mi ci trovavo dentro. «Ehm... sì... scusa», balbettai, e bevvi un sorso dal bicchiere di acqua che era sul tavolo, per prendere un po' di tempo. «E davvero tutto a posto, Maria?» «Sì, sì, sto bene sul serio.» Presi un altro sorso e forzai un sorriso che apparentemente lo incoraggiò.
«Ho comprato i preservativi. Se ancora vuoi, possiamo cominciare.» Assalita dal terrore, gli starnutì l'acqua in faccia. «Ehi», disse lui. Ahi, pensai io all'idea di fare sesso con un completo sconosciuto in un corpo completamente sconosciuto. In realtà avevo del tutto accantonato l'ipotesi che una donna così grassa potesse avere un uomo. Come si diceva una volta? «A ogni pentola il suo coperchio...» Mentre il coperchio di Maria si asciugava il viso con le maniche della camicia, chiese: «Non vuoi più? Eri così calda». «Ma ora sono fredda», mi affrettai a rispondere, «e... e... vorrei andare a fare una eggiata. All'aria fresca.» Mi
alzai, con il mio corpo ansimante mi trascinai fino al comò e presi qualcosa per vestirmi. Non è esattamente facile vestirsi con rapidità con un corpo in sovrappeso, ma la vista della confezione di preservativi accelerò i miei movimenti. Nella frenesia scelsi un abbinamento che consisteva in un pullover verde e pantaloni da jogging rosa. Il coperchio di Maria assistette a tutta la scena con aria persa, e se non fossi stata eccessivamente sotto pressione per la situazione in sé, avrei certo provato un po' di pena: la metamorfosi di una moglie calda in una donna in fuga di sicuro non era facile da comprendere, figuriamoci da digerire. Coperchio mi chiese titubante: «Vuoi che veng...» «No!» risposi secca, e prima
che potesse chiudere la bocca ero già fuori dall'appartamento. Dopo che ebbi disceso ansimante la scala del condominio e fui uscita dalla porta nella sera primaverile, per prima cosa dovetti riprendere fiato. Sudavo come in una sauna condivisa con tipi snervanti che a ogni pie sospinto insistono per aumentare la temperatura. Dopo aver recuperato un respiro regolare mi guardai intorno: case popolari a perdita d'occhio. In più mi accorsi che per strada non c'era un'anima e che i cartelloni pubblicitari annunciavano una partita dell'Amburgo. Amburgo? Non ero molto esperta di calcio, ma una cosa era chiara: se in quella città l'Amburgo aveva un posto di rilievo sui
cartelloni pubblicitari, potevo solo concludere che non mi trovavo a Potsdam. Cercai di tranquillizzarmi: dopotutto non si trattava di un formicaio né del Canada, né di un laboratorio per esperimenti sugli animali. Da lì non era certo un problema raggiungere Potsdam. Bastava un biglietto del treno e zac, sarei stata lì. Tuttavia ero stata tanto stupida da non controllare che nella tasca dei pantaloni da jogging ci fossero dei soldi. E infatti non c'erano. E neanche volevo tornare da quell'uomo con i preservativi. ***
Un quarto d'ora più tardi ero al casello autostradale più vicino, con il pollice alzato. Solo per constatare che nessun conducente si fermava a raccogliere una donna in sovrappeso in pantaloni da jogging. Mi chiesi se la legge antidiscriminazione prevedesse un comma anche per questi casi. Abbattuta, con le articolazioni doloranti e i vestiti impregnati di sudore, qualche ora più tardi mi costrinsi a tornare «a casa». Troppo sfinita per temere ancora le voglie sessuali di Coperchio. Il quale mi aprì la porta e mi guardò preoccupato con l'intenzione di chiedermi come mi sentissi. Lo anticipai: «Adesso mi metto a letto, e se dovesse anche solo arti per
le testa di toccarmi, ti salto addosso con tanta energia da farti diventare una sogliola». Poi mi stesi e caddi immediatamente in un sonno senza sogni. Pochi secondi più tardi o almeno così mi sembrò suonò la radiosveglia. Sentii gracchiare un conduttore radiofonico decisamente di buonumore: «Sono circa le cinque e trentacinque su 101 FM e vi stiamo trasmettendo le migliori hit degli anni Ottanta, Novanta e di oggi». Già parecchio tempo prima mi ero chiesta quali tipi di droghe eccitanti e con effetti devastanti sul cervello assumessero negli ultimi tempi i conduttori radiofonici, e avevo pensato che sarebbe stato fantastico se uno di loro avesse
dichiarato, conformemente alla verità: «Recitiamo la stessa demenziale scenetta che recitano tutti gli altri». Ma ero troppo stanca per spegnere la sveglia. O anche solo per aprire gli occhi. «Maria, devi alzarti», disse Coperchio con dolcezza, avvicinandosi al mio corpo. «Nonondevo», borbottai. «Sennò arrivi tardi al lavoro», ribatté lui con un tono che rivelava chiaramente che sulla questione non avrebbe mollato con tanta facilità. Perciò mi tirai su e mi ricordai che avevo bisogno di soldi per un biglietto del treno per Potsdam. «Sai dov'è il mio portafogli?» «Portafogli?» chiese Coperchio. «Da quando dici portafogli e non borsellino?» «Dov'è il mio
borsellino?» mi corressi. «Tanto non c'è niente dentro.» «Cinquanta euro li avremo, no?» replicai innervosita. «Certo», disse lui, «sono proprio lì, vicino alle pietre preziose.» Storsi il viso in una smorfia. «Siamo completamente a secco, Maria. Gli ultimi 1,99 se ne sono andati per la pizza.» E indicò la moquette che aveva pulito in mia assenza. Lo guardai negli occhi, erano così tristi che non ebbi dubbi: non avevamo davvero niente. «Ma oggi ti danno la paga settimanale», mi disse cercando di farmi coraggio. «È per questo motivo che dovresti farti vedere al lavoro. Puntuale. Altrimenti il tuo capo perde
di nuovo le staffe.» D'accordo, allora andrò a questo benedetto lavoro a prendermi i soldi per poi fiondarmi alla stazione. C'era solo un piccolo inconveniente: non avevo la minima idea di dove lavorassi. «Mi accompagni?» chiesi quindi a Coperchio. «Lo faccio sempre, no?» mi rispose lui con un sorriso gentile. Il quartiere aveva molte somiglianze con quello in cui ero cresciuta: attrezzi rovinati in parchi giochi deserti, facciate ricoperte da graffiti orribili e gente il cui aspetto esteriore contrastava al massimo con quello sexy e felice dei tipi raffigurati sui cartelloni pubblicitari che la circondavano. Molti avevano facce tristi che dicevano: «Bevo Jàgermeister per poter valutare realisticamente le mie
chance sul mercato del lavoro». Il volto cordiale e affabile che il giorno prima mi aveva guardato dallo specchio era molto diverso da quelli. Era più dolce. Per niente afflitto. Faceva presumere che, nonostante mancassero i soldi, la fiducia rimaneva. Volevo sapere qualcosa di più di lei. Ma come si possono avere informazioni su una persona che gli altri pensano di avere davanti? Con uno sguardo romantico. Con un sorriso mi rivolsi a Coperchio, di cui non conoscevo ancora il nome, e chiesi: «Dimmi cosa ti piace tanto di me!» Lui era decisamente disorientato, la sua Maria era di nuovo affabile. E così sollevato che subito cominciò a ciarlare: «Sei la persona più ottimista che io
conosca. Quando piove dici che presto tornerà il sole. Quando le persone ti trattano ingiustamente le perdoni e credi che l'universo prima o poi riporterà equilibrio in tutte le cose...» Che cosa non fa l'universo, o per meglio dire Buddha, pensai da donna esperta di reincarnazione qual ero. «Sei sempre onesta e... a letto sei una cannonata!» aggiunse con un sorriso. Questo nessun uomo me lo aveva mai detto. Perché no? Forse perché non lo ero? Volevo davvero conoscere la verità? In ogni caso dopo quella conversazione era chiaro che l'anima di Maria si trovasse nel Nirvana. E ne ero
sinceramente felice per lei. Guardai gli occhi luminosi di Coperchio e mi chiesi se non dovessi rivelargli la verità. Ma se gli avessi detto che ero Kim Lange, mi avrebbe fatto rinchiudere in un reparto psichiatrico, sempre ammesso che avesse il denaro per il ticket. E se anche avesse creduto al racconto che il suo grande amore era morto, sarebbe stato giusto spezzargli il cuore in quel modo? Quanto potesse essere mortale un cuore spezzato lo avevo già sperimentato quando ero stata un beagle. «Perché hai quello sguardo triste?» mi chiese preoccupato. «Va tutto bene», risposi sforzandomi di sorridere. Era evidente dalla sua faccia che sentiva che non ero sincera. Quindi
distolsi lo sguardo e mi affrettai a proseguire. «Ferma», disse lui. Io proseguii con lo stesso o rapido. «Santo cielo, Maria, hai ato il tuo baracchino!» Mi bloccai, mi girai e vidi un chiosco con la scritta WURSTHANS. Dentro c'era un uomo grassoccio di una certa età, con due occhi in confronto ai quali quelli di Kim Jongil sono caldi e cordiali. Indossava un grembiule bianco, dove «bianco» era comunque un concetto stramaledettamente relativo se si osservavano le varie macchie di ketchup e senape incrostate. A quanto pareva l'uomo era WurstHans in persona, e pensai che era un destino duro dover trascorrere la propria vita in compagnia del nome
WurstHans. Ma ancora più duro era quando per l'uomo che si chiamava WurstHans si doveva anche lavorare. «Maria!» gridò WurstHans in tono rude. Nelle serie televisive quelli come Hans sono sempre dei «burberi cuor d'oro», ma nella vita vera non ci sono «burberi cuor d'o ro», bensì solo «burberi». Che anche questo burbero non avesse cuore, mi fu chiaro quando dissi: «Sono malata e non posso lavorare. Dammi solo la paga per questa settimana». Mi guardò incredulo, come se avessi detto qualcosa di completamente folle, come per esempio: «Non sono affatto Maria, sono la defunta conduttrice televisiva Kim Lange».
Poi si limitò a ribattere: «Muovi il tuo grasso culo e mettiti al lavoro, prima che io diventi una iena furiosa». «Ma sono malata...» cercai di simulare ancora. Coperchio mi sussurrò all'orecchio: «Vai, altrimenti ti caccia via e si trattiene anche la tua paga». «Sarebbe contro la legge», gli sussurrai a mia volta. «Hai la grana per poterlo denunciare?» Sospirai e iniziai il mio nuovo lavoro di venditrice di patatine fritte.
Capitolo 44
QUANDO ci si affanna nella frenetica quotidianità della tele visione, di riunione in riunione, di trasmissione in trasmissione, di intrigo in intrigo, allora si pensa: Ah, quanto sarebbe bello avere un lavoro semplice. Di sicuro la vita non sarebbe così stressante. Ma poi, quando si ha un impiego semplice, come me in quel momento da WurstHans, riguardo ai desideri di un tempo si pensa una sola cosa, e cioè: Cazzate! Lavorare in quel chiosco era un inferno: le articolazioni mi facevano male già dopo dieci minuti, e mi chiesi come ce
l'avesse fatta Maria a resistere giorno dopo giorno. La margarina che usavamo per le patatine era vecchia di quarantotto ore e la griglia era così lurida che in quello sporco si era certo sviluppata qualche forma di vita intelligente. Preferivo non immaginarmi chi si sarebbe reincarnato lì come bacillo. E naturalmente non ero capace di grigliare come si deve un wurst, già il primo finì carbonizzato nella spazzatura. «Perché butti via il wurst?» chiese WurstHans raschiando la griglia. «Ehm... vediamo, forse perché è quasi nero?» risposi con una punta di ironia nella voce. «Rimettilo a posto!» «Chi lo mangia rischia il tumore!» «Sai quanto me ne importa.» «Proprio niente?» «Esatto. E
ora tiralo fuori dalla spazzatura e mettilo sulla griglia.» «Qual è la parolina magica?» «Zac, zac!» «Su questo fatto delle paroline magiche dobbiamo fare ancora esercizio», dissi ripescando quell'affare schifoso; poi lo gettai sulla griglia e mi domandai: Quali cose spiacevoli devo ancora vedere in questo posto? Poco più di un'ora dopo giunse la risposta. Un disoccupato di circa venticinque anni e con il cranio rasato, con addosso un bomber e un paio di stivali da fantino, si lamentò perché l'insalata di patate era immangiabile. (Non c'era da meravigliarsi, visto che WurstHans non si curava di stupidaggini come le date di scadenza.) Il tipo brontolò: «L'insalata di patate
fa schifo come la tua ciccia». «Meglio grassa che psicolabile», ribattei. Ero arrabbiata che trovasse da ridire sul corpo di Maria, che era stata una persona tanto gentile. (Il fatto che nel frattempo quello fosse diventato il mio corpo non lo avevo ancora del tutto digerito.) Il tipo strinse gli occhi, minaccioso. «Non so che cosa significa psicolabile, ma attenta che te ne mollo una dritta in faccia!» Siccome mi risultava inconcepibile che potesse picchiare una donna, dissi: «Dai, forza!» Non fu una buona idea. «Okay», disse lui. «Okay?» chiesi provando una spiacevole sensazione. «Sì», ribatté lui, e aprì la porta del
chiosco fermamente intenzionato a mollarmene una. Quella era una zona che quanto a cavalleria lasciava molto a desiderare. (Dalle memorie di Casanova: «Per essere precisi, era un millennio in cui quanto a cavalleria si lasciava molto a desiderare».) Guardai in direzione di WurstHans nella speranza che mi aiutasse, ma lui si voltò vigliaccamente dall'altra parte e borbottò qualcosa come: «Al tuo posto mi scei...» Anche Coperchio se n'era andato da un bel po', WurstHans non gradiva che «bighellonasse» intorno al chiosco, e a quel punto ero sola a
fronteggiare l'aggressività del tipo. Grazie al cielo ci sono molti oggetti utili in un baracchino: il tubo del ketchup, lo spazzolone e la pinza da griglia. Afferrai automaticamente il tubo e spruzzai negli occhi del tipo ketchup in abbondanza. Quello gridò: «Ti faccio secca, puttana!» Ero decisamente poco interessata all'idea di essere fatta secca, quindi presi lo spazzolone e glielo conficcai nella pancia con tutto il mio considerevole peso. Lo skinhead cadde a terra con un urlo soffocato. Afferrai la pinza per la griglia, gliela avvicinai alle parti basse e minacciai: «Se non tagli la corda non sarai in grado di dare una tua discendenza al Fùhrer». Lo skinhead annuì. «D'accordo, me ne
vado», e prese la fuga. A quel punto mi rivolsi a WurstHans, che era visibilmente impressionato. Con la pinza e il tubo in mano gli chiesi: «Vuoi essere il prossimo?» WurstHans scosse la testa. «Allora dammi i miei soldi.» E fu esattamente quello che fece, e io lasciai il chiosco con in tasca centoquarantatré euro e trentotto centesimi. Dietro di me sentii distintamente le parole «Domani la licenzio», ma le ignorai. Non avevo intenzione di fare mai più ritorno in quel chiosco.
Capitolo 45
Mi diressi alla prima fermata dell'autobus, e sulla tabella labirintica guardai il tragitto che conduceva alla stazione. Quando però mi accorsi che sempre più persone mantenevano una distanza di sicurezza da me per l'odore di grasso fritto che emanavo, ragionai sull'eventualità di fare una deviazione per concedermi una doccia. Ma se fossi andata «a casa», avrei potuto imbattermi in Coperchio, e questo non lo volevo in nessun modo. Non volevo guardarlo negli occhi mentre assisteva alla scena della sua amata Maria che usciva dalla sua vita.
Avrebbe pensato che lei non lo amasse più. Che cosa era peggio? Sapere che qualcuno non ti ama più o che questo qualcuno è morto, ma la sua anima aleggia felice nel Nirvana? Quando l'autobus arrivò, non vi salii. Ne presi un altro e andai da Coperchio. Lui aprì la porta e rimase sorpreso. «Come mai sei già qui?» «È una lunga storia», dissi io. «Una stramaledetta lunga storia.» «Bene, ti ascolto», rispose Coperchio. Esitai. «Maria...?» Ogni secondo che ava Coperchio si faceva sempre più insicuro. Non volevo lasciarlo più a lungo nell'incertezza, volevo spiegargli tutto. Ma quando aprii la bocca, ne uscì
solo una canzoncina: «Nel bosco c'è un ometto gentile e bel!» Coperchio mi guardò stupito. E io ero ancora più stupita, perché di sicuro non erano quelle le parole che avevo voluto dire, bensì: «Io sono Kim Lange. La mia anima si trova attualmente nel corpo di Maria...» Feci un altro tentativo, ma di nuovo cantai soltanto: «In testa ha un cappelletto color caffè!» Era una stregoneria! Coperchio era completamente disorientato. Disperata, a quel punto volevo gridare la verità, ma il risultato fu che cantai a squarciagola: «Chi sa dir chi sia l'ometto...» Niente da fare. Evidentemente Buddha aveva il controllo del mio centro della parola, in
modo che non potessi rivelare a nessuno chi ero. Ma non mi arresi, presi blocco e matita con l'intenzione di scrivere tutto, tutta la verità su di me, su Maria e sul Nirvana. Ma quando ebbi finito di scrivere, sulla carta si leggeva solo: «... che nel bosco sta soletto, col grazioso cappelletto!» Il tutto corredato da musica scritta. Non mi era mai piaciuta quella canzoncina idiota. E ancora meno mi piaceva Buddha. Non solo aveva preso il controllo del mio centro della parola, ma di tutte le mie possibilità di comunicazione. E trovavo semplicemente sleale che lasciasse Coperchio alle prese con una verità non
chiara, solo perché io non spifferassi tutto quello che sapevo sull'Aldilà. Mi sforzai di ragionare sul da farsi. Non volevo che Coperchio pensasse che era Maria a lasciarlo. E alla fine trovai un modo per farglielo capire senza raccontargli del Nirvana. «Come ti chiami?» gli chiesi. «Che cosa?» chiese Coperchio irritato. «Non ho idea di come ti chiami.» «Hai perso la memoria?» ridacchiò nervoso. «Non ho ancora sentito pronunciare il tuo nome», spiegai. Era sconcertato. «Guardami negli occhi», lo pregai. Si avvicinò. «Guardami nel profondo degli occhi.»
Lo fece. Vide che dicevo la verità. E che il corpo di Maria ospitava un'altra anima. Anche se razionalmente non riusciva a capire perché e per quale motivo fosse così, nel profondo del cuore in quel momento seppe di aver perso la sua amata. E quindi disse con immensa tristezza: «Mi chiamo Thomas».
Capitolo 46
PERFINO quando mi trovai seduta sull'intercity per Potsdam, fui costretta a pensare a Thomas. Sperai con tutte le mie forze che si fe una ragione di essere improvvisamente rimasto solo. Non se l'era meritato. Nessuno si merita la morte di chi ama. «Be', ce li ha due biglietti?» chiese una voce. Mi voltai e vidi un controllore con baffi e orecchino. Due peccati di stile in un colpo solo, ci mancava solo il capello anni Ottanta. «Che cosa vuole dire?» «Be', grassa
com'è, nessuno può sedersi vicino a lei», sogghignò. «Mi fa ridere come una devitalizzazione», replicai calma. Il controllore smise immediatamente di ghignare, forò il biglietto e io rimasi sola per il resto del tragitto: nessun viaggiatore voleva schiacciarsi vicino a me. E questo per me era inusuale. In ato, quando ero Kim Lange, era assolutamente normale che la gente si voltasse a guardarmi. Le donne mi invidiavano, gli uomini mi guardavano il seno (che in effetti non era poi sconvolgente, ma era abbinato pur sempre a un volto famoso). Il tutto era tanto spiacevole quanto lusinghiero. Ora gli appartenenti a entrambi i sessi mi
osservavano sprezzanti, e questo era semplicemente solo spiacevole. Per risparmiarmi gli sguardi di disgusto dei miei simili, mi misi a fissare il paesaggio dal finestrino. Mi chiesi se le mucche sui prati fossero persone reincarnate. O che cosa inducesse la gente a costruire la propria villetta su un terreno piatto a ridosso della ferrovia. E infine come potevo rincontrare la mia famiglia, e come avrebbe reagito quest'ultima se avessi canticchiato: «Chi sa dir chi sia l'ometto...» Quando arrivai a Potsdam, decisi di trovarmi un posto dove are la notte. Potevo permettermi solo uno di quegli hotel economici alla periferia della città, in cui ogni camera è dotata di gabinettodoccia autopulenti. Non riuscii a chiudere occhio. Primo perché avevo
fame nella zona industriale non c'era un negozio in cui di sera si potesse comprare qualcosa e secondo perché i ragazzi del piano di sotto stavano facendo una festa con alcol, stereo portatili e innocui lanci di letti dalle finestre. E poiché la reception di questi hotel non ha un portiere di notte, potevano fare quello che volevano. Così ai il tempo a guardare la zona industriale fuori dalla finestra, immersa nella notte e appena visibile per la presenza di qualche luce fredda. A un certo punto vidi un gatto sgusciare sulla strada. Mi rendevo conto che non poteva essere Casanova, ma involontariamente fui costretta a pensare a lui. Con tutta probabilità era ancora infuriato con me perché avevo fatto in modo che Nina
potesse sposare Alex. (Dalle memorie di Casanova: «Quando mi accorsi che il matrimonio aveva avuto luogo senza di me, imprecai con tutte le mie forze contro madame Kim. Finché non venni a sapere che era morta. Allora mi calmai e mi dissi: Ben le sta».) Riflettei su quale sarebbe stato il mio o successivo: andare da Alex e Lilly? Dovevo avvicinarli da perfetta estranea? E se sì, in che modo? Decisi innanzitutto di fare la cosa più ovvia, cioè cercarmi un lavoro, dopotutto non avevo quasi più un quattrino. E non ero certo intenzionata ad aggirarmi nelle vicinanze di casa nostra come una senzatetto depravata, e magari incontrare
Lilly in quelle condizioni. Il mattino successivo comprai un giornale, scorsi gli annunci dei posti di lavoro e mi imbattei in quello che alcune persone chiamano destino e altre fatalità. Ci sono doversi tipi di fatalità. Fatalità che ti arrivano addosso come una catastrofe, ma che poi si trasformano in eventi positivi, fatalità che ti arrivano come fatti positivi per poi trasformarsi in catastrofi, e fatalità che ti lasciano a bocca aperta per molto, molto tempo. Risposi a un annuncio in cui si cercava una donna delle pulizie capivo bene che con un simile corpo nell'immediato non avrei trovato impiego nel mio originario settore professionale, cioè come conduttrice televisiva e l'agenzia mi indirizzò a una casa che si
trovava a tre strade di distanza dalla nostra. Ma non fu questa la fatalità che mi lasciò a bocca aperta. Quando risalii il viale di accesso alla tenuta una villa di quattrocento metri quadrati del secolo scorso a venirmi incontro fu il mio ex capo Carstens. Naturalmente non mi riconobbe, mi fece solo un breve cenno con il capo, salì sulla sua Mercedes cabrio e sfrecciò via. Mi diressi alla porta. La villa non aveva targa né camlo, presumibilmente il proprietario vi si era appena trasferito. Bussai con il battente. All'interno si udì un suono sordo. Dopo qualche minuto di attesa la porta si aprì. Scricchiolava. E io vidi... Daniel Kohn. Questa fu la fatalità che mi lasciò a
bocca aperta! E non ero affatto sicura che non fosse anche una fatalità di quelle che sfociano in una catastrofe. Daniel Kohn disse: «Buongiorno, lei deve essere la donna delle pulizie». Non riuscivo a chiudere la bocca. «Questo sarebbe il momento in cui dovrebbe rispondere 'Sì'», disse lui sorridendo. Non risposi. «Lei è un tipo non particolarmente loquace, vero?» Mi resi conto che dovevo dire qualcosa, raccolsi tutte le mie forze e balbettai: «Frmml...» Ero troppo sorpresa per pronunciare una qualsiasi parola ragionevole. «Innanzitutto entri», mi propose Daniel.
Mi mostrò la villa che aveva appena comprato grazie a un nuovo lavoro: il mio. Carstens gli aveva offerto la conduzione del mio talkshow dopo aver messo alla prova per due anni candidate che non arrivavano neanche alle caviglie di Kim Lange. «Congratulazioni», dissi io. «Allora è in grado di parlare», ribatté Daniel. «Se mi sforzo.» Daniel sorrise e imboccò la scala a chiocciola che portava al piano di sopra. Mentre salivo i gradini dietro di lui, ebbi una panoramica completa del suo delizioso fondoschiena. Mi ricordai della nostra serata di sesso, di quanto era stato meraviglioso, e per un breve istante mi chiesi: Se magari...? No, era assurdo: famoso conduttore fa sesso
con grassa donna delle pulizie? Un titolo che capita di leggere piuttosto di rado sui tabloid. E poi avevo riscoperto il mio amore per Alex. Perché mi mettevo a fantasticare su Daniel Kohn? Santo cielo, per due anni si viene reincarnati, si produce karma positivo, lo si perde, se ne produce di nuovo, e tutto questo non cambia assolutamente il fatto che non si hanno in pugno i propri sentimenti. Non poteva essere vero! Quando arrivammo al secondo piano dovetti innanzitutto riprendere fiato. Daniel mi offrì qualcosa di rinfrescante dal frigobar che si trovava nella sua camera da letto, che dal canto suo aveva tutta l'aria discreta del nido d'amore: meraviglioso futon, impressionante
impianto stereo Bang & Olufsen e un vecchio specchio di notevole gusto in una posizione di interesse strategico. «È sicura di essere in grado di pulire questa casa?» chiese Daniel con un certo scetticismo, visto che ero ancora ansimante. E anch'io me lo chiesi: volevo pulire la camera da letto in cui Daniel Kohn si specchiava con qualche bionda? No! D'altro canto, volevo rimanere disoccupata e diventare una senzatetto? No, no, no e ancora no! E dato che un «No, no, no e ancora no!» suona inequivocabilmente come un «No!» accettai il lavoro e divenni la collaboratrice domestica di Daniel Kohn.
Capitolo 47
DANIEL pagava profumatamente, così mi presi un piccolo monolocale in periferia, dall'altra parte della città, e lo arredai con pochi mobili semplici (letto, cassettone, niente di Ikea). Ogni giorno mi recavo a casa sua, pulivo, gli stiravo la biancheria e mi meravigliavo di quante donne diverse andassero e venissero. E del fatto che rientrassero nella categoria: «parassiti». Per me fu un periodo faticoso. Fisicamente (dovevo continuare a prendere le pastiglie per il cuore di Maria) ma soprattutto psicologicamente:
non avevo ancora idea di come avrei potuto organizzare un incontro con la mia piccola Lilly e con Alex. Ogni giorno che ava e che rimandavo il faccia a faccia, la mia insicurezza aumentava. Sì, ogni tanto mi scoprivo addirittura a pensare se non avrei fatto meglio a entrare nel Nirvana. Una mattina ero assorta in questi tristi pensieri quando come sempre bussai alla porta di casa di Daniel Kohn. ò qualche minuto prima che lui aprisse, aveva un aspetto distrutto. Mi stava davanti in canottiera. Non rasato e visibilmente depresso. Lo guardai fisso e lui mi chiese: «Che cosa c'è?» «Be', ha un aspetto...» «... come se mi avessero inghiottito?» «E di nuovo risputato fuori», aggiunsi io.
Sorrise stancamente e mi fece cenno di entrare. Mentre attraversavamo l'atrio della villa mi disse: «Gli indici di ascolto della mia prima trasmissione non sono stati buoni». «Decisamente non buoni?» chiesi io. «No. Pessimi», ribatté lui, e aggiunse: «Gli spettatori sentono ancora la mancanza di Kim Lange e hanno un atteggiamento negativo nei confronti di qualsiasi nuovo conduttore che non sia lei». Non potei trattenere un sogghigno, questo mi lusingava. «Che cosa c'è da sogghignare?» chiese lui leggermente risentito. «Niente, niente», risposi. «Posso vedere la trasmissione?» «Perché?»
«Magari potrei avere qualche suggerimento per lei.» Daniel rifletté. Un po' che la proposta evidentemente lo divertiva, un po' che era curioso, messe le due cose insieme alla Hne diede il suo okay. Quindi ci guardammo insieme il talkshow che una volta era il mio. Sei politici discutevano sul tema «Pensioni: fatti o bugie?» e io mi sorpresi di quanto in ato una trasmissione del genere fosse stata di vitale importanza per me: erano sei idioti che con il loro limitato bagaglio di parole rubavano tempo prezioso ai telespettatori. Dopo appena cinque minuti sbadigliavo di cuore. «Questa è stata probabilmente anche la reazione degli spettatori», sospirò
Daniel. «Sempre che non abbiano lanciato oggetti contro lo schermo, maldisposti com'erano», sogghignai. «E allora, ha qualche suggerimento?» volle sapere Daniel. «Sì, ce l'ho. Faccia qualcos'altro.» «Qualcos'altro?» «Lei ha più talento. Faccia qualcosa di diverso da questo schifo. Qualcosa in cui possa mostrare le doti che possiede.» «Lo farei volentieri...» «Ma?» «Non ho idea di che cosa potrebbe essere.» «Che cosa ne direbbe di reportage di viaggio?» proposi. Dopotutto durante il mio itinerario di reincarnazione avevo girato mezzo mondo. Di colpo la stanchezza negli occhi di Daniel era scomparsa. L'idea lo
entusiasmava. Avevo toccato la corda giusta. In quel momento qualcuno bussò alla porta. Daniel uscì dal salotto per andare ad aprire. «Daniii», disse una voce acuta. Era una delle sue amichette bionde. «Ehi, in questo momento non posso», gli sentii dire. «Come?» lo punzecchiò la donna. «Io... ho una visita importante», mentì. Non riuscivo a crederci: Daniel Kohn spediva via una bionda per continuare a parlare con me? «Ma Dani...» «Non posso.» «Neanche se mi metto addosso solo due cosette e nient'altro?» chiese lei. «Quali cosette?» «Fragole e panna.» Percepii letteralmente l'esitazione di
Daniel: il suo cuore voleva parlare con me di una possibile e più appagante nuova carriera. La sua libido voleva le fragole con la panna. E quando notai che la libido era in procinto di vincere, intervenni e dissi: «Avrei anche un altro paio di idee per i reportage». La giovane donna, il cui top colmo di formosità avrebbe potuto causare un tamponamento, era decisamente sorpresa: «È a causa di quella che non mi vuoi vedere?» «Lei non è una tua concorrente», tentò di calmarla Daniel. E a me questa risposta non piacque affatto. «Ma tu mi mandi via a causa sua», brontolò lei. Daniel annuì. «Me ne vado», disse, «e mi prendo
anche le mie fragole!» Daniel la seguì per un attimo con lo sguardo, poi si voltò e disse imibile: «Allora, quali erano le sue idee?» Parlammo per tutto il giorno delle cose fantastiche che si sarebbero potute fare. Immaginammo reportage sui fachiri dell'India, i mondi di sogno degli aborigeni e i rituali della droga degli indiani d'Amazzonia. Ci figurammo come sarebbe potuto essere un viaggio nel continente di Atlantide sprofondato negli abissi, o come si sarebbe potuta ripetere la spedizione di Amundsen nell'Antartide. In breve, Daniel e io facemmo il giro del mondo, mentre in realtà ci muovemmo un'unica volta dal suo divano per aprire al ragazzo che portava le pizze. Fu una giornata meravigliosa, alla fine
della quale Daniel, vista la pioggia battente, mi riaccompagnò addirittura a casa. Nella sua Porsche, grazie alla mia abbondanza, eravamo seduti stretti uno all'altra, e ogni volta che lui cambiava marcia, necessariamente mi toccava. E mi procurava un brivido di piacere. Era la prima volta che mi sentivo donna nel mio nuovo corpo. Quando ci fermammo davanti al mio condominio, Daniel disse: «Non è esattamente accogliente». «Mah, c'è di peggio», risposi tornando indietro con il pensiero al formicaio. «Lei vede tutto dal lato buono», ridacchiò Daniel. Rimasi stupita: che vedessi le cose dal loro lato buono non me lo aveva mai
detto nessuno. Ero davvero cambiata in seguito a tutto quello che avevo vissuto? Sarei diventata un po' simile a Maria? «Erano anni che non chiacchieravo così piacevolmente con qualcuno», disse Daniel. «Anch'io», risposi, dopotutto negli ultimi due anni mi ero intrattenuta esclusivamente con animali. Mi guardò. Restituii lo sguardo. Il contatto di sguardi, gli spazi limitati della Porsche... in condizioni normali quella sarebbe stata la situazione ideale per un primo bacio. Ma naturalmente era assurdo: non saremmo mai arrivati a un bacio. Tuttavia Daniel continuava a guardarmi negli occhi.
Ero a disagio. E anche lui lo era. E di colpo era completamente confuso. «Che cosa c'è?» «Ci siamo... ci siamo già incontrati da qualche parte in ato?» Negli occhi di Maria, Daniel aveva visto la mia anima. Avrei tanto voluto dirgli che ero Kim Lange. Sapevo che Buddha aveva manipolato il mio centro della parola in modo che nessuno potesse venire a saperlo, ma... ma forse potevo riuscirci lo stesso. Se mi concentravo al massimo. Certo, poteva funzionare. Gli avrei detto che ero Kim Lange, la donna con cui aveva fatto l'amore la sera della sua morte. La donna sulla cui tomba aveva deposto una rosa.
Aprii la bocca, mi concentrai con tutte le mie forze e cantai piena di sentimento: «Sta ritto quell'ometto su un solo pie! Di porpora ha il farsetto e il mantel». Daniel mi guardò contrariato. «Ha una qualche attinenza?» Scossi il capo, mi affrettai a scendere dalla Porsche, corsi in camera mia e giurai di non uscire più da sotto le coperte negli anni a venire.
Capitolo 48
IL mattino seguente suonò il camlo. Rimasi sotto le coperte. Si stava così bene. «Sono io, Daniel Kohn!» Da sotto le coperte non potei trattenere la meraviglia. «Voglio mostrarle una cosa.» «Un attimo!» gli gridai. Mi vestii, ingoiai una pastiglia per il cuore e mi chiesi che cosa mai volesse mostrarmi Daniel Kohn. Aprii la porta e lui mi allungò un foglio di carta. «Ehm, che cos'è?» «È il mio prospetto per una nuova serie di reportage! Ci ho lavorato per metà notte.» Gli occhi gli
brillavano come quelli di un ragazzino. Non avrei mai pensato che il suo volto, di solito così ammorbidito dal fascino, potesse apparire talmente raggiante. «Vorrebbe darci una scorsa?» mi chiese. «Ho scelta?» Sorrisi. «Naturalmente no.» Presi il foglio e lo lessi. Conteneva molti dei progetti che avevamo concepito il giorno precedente. Inclusa Atlantide e l'Antartide. Sarebbe stata una serie televisiva che avrei fatto volentieri anch'io. «È bellissimo!» «E molto meglio della schifezza che faccio ora.» «In effetti!» «E se andrà in porto, lei sarà la mia assistente.» Sorrisi e naturalmente non credetti a una parola. Daniel mi convinse ad andare con lui a Berlino, alla sede della stazione
televisiva. Un'ora di macchina, e lo stare appiccicati l'uno all'altro, mi accesero alcune fantasie sessuali. Che di fatto erano già ampiamente accese, e nelle quali si alternavano di continuo il mio corpo di Kim Lange e quello di Maria. Daniel, visibilmente eccitato, mi pregò di aspettare fuori, corse all'interno dell'edificio, e dopo un po' ne uscì ridacchiando. «Quel risolino mi dice che ha avuto successo», feci io. «Mi sono liberato del talkshow e ho la mia serie di reportage.» «Congratulazioni!» «E lei ha un posto come mia assistente.» Ma allora diceva sul serio. «Andiamo a brindare al nostro nuovo lavoro», propose con tono giulivo. Sfrecciammo di ritorno alla villa,
andammo al piano di sopra dove c'era il suo minibar (l'avevo già detto che era nella sua camera da letto?) e Daniel ne tirò fuori uno champagne più vecchio di noi due messi insieme. «Lo conservavo per un evento particolare.» Lo aprì e lo versò nei bicchieri. E io sperai che l'alcol fosse compatibile con le mie pastiglie. «A lei», disse, sinceramente grato che gli avessi aperto uno spiraglio di vita nuova. «A lei», risposi io. Bevemmo, e il vecchio champagne era così schifoso che lo inghiottimmo a fatica. Dopo un breve attimo di orrore scoppiammo entrambi in una risata. Era la prima esplosione di riso che avevo da anni. Ed era meraviglioso.
Chiacchierammo animatamente fino a sbellicarci di nuovo dalle risa. La risata fu così convulsa da costringermi a sedermi sul suo futon. Con un tonfo anche lui cadde vicino a me. Ci guardammo negli occhi. Nel profondo. Daniel vide la mia anima. «Davvero ho la sensazione di averla già conosciuta», disse tanto confuso quanto affettuoso. Io canticchiai: «Chi sa dir chi sia...» E poi ci baciammo.
Capitolo 49
NEL giro di pochi secondi eravamo nudi e cadevamo nelle braccia l'uno dell'altra. In ato mi ero sempre un po' vergognata della mia cellulite, sentivo che il mio corpo non era perfetto e non abbastanza attraente. Ora mi trovavo in un corpo che senza dubbio nessuna rivista femminile avrebbe considerato perfetto, e la cosa mi era del tutto indifferente. Dopo due anni in cui avevo abitato ogni genere di animali, ero semplicemente felice di essere una donna. Una donna che faceva sesso. Con Daniel Kohn. E anche a lui sembrava non importare
che fossi sovrappeso. Faceva sesso con me in base al motto: entrare in fretta e provare piacere. Da un lato perché sentiva la mia anima, dall'altro come venni a scoprire più tardi perché con me si era accorto per la prima volta che trovava molto più sensuali le modelle di Rubens delle magre biondine con cui aveva fatto l'amore fino a quel momento. («Ci si fa sempre male contro le loro ossa sporgenti!») Sì, se le riviste femminili avessero scoperto che uomini come Kohn consideravano poco attraenti le ossa delle donne magre, la notizia avrebbe fatto pericolosamente vacillare le certezze alla base del loro lavoro redazionale. In ogni caso il nostro incontro di sesso fu, come la notte in cui morii per la prima
volta, meraviglioso. E lui fu fantastico. Ma non fu assolutamente supercalifragilistichespiralidoso! Il che non dipendeva dall'impegno di Daniel. Per essere precisi, lui era quasi già in zona olimpiadi. Dipendeva dal fatto che mentre facevo l'amore pensavo ancora ad Alex. E ai miei sentimenti per lui. Non provavo sensi di colpa nei confronti del mio ex marito. La serata era troppo bella per avere rimorsi. E comunque Alex aveva fatto sesso con Nina molto più spesso di quanto io non lo avessi fatto con Daniel. Tuttavia continuavo a pensare a lui. Anche solo perché Daniel non profumava come Alex. Dapprima pensai che dipendesse dal mio olfatto, non più sviluppato come quello di un cane, e che
quindi non riuscissi a odorare bene Daniel, ma poi mi fu chiaro che stavo mentendo a me stessa: Alex aveva semplicemente un odore più sensuale di quello di Daniel. Quando Daniel e io, durante una pausa per riprendere fiato, ci trovammo a bere champagne questa volta di un'annata più recente lui mi guardò e disse: «È stato meraviglioso». «Sì...» risposi io. «Per come lo dici suona più come un 'ma'.» Scossi la testa. Non volevo dirgli niente di Alex. «Non amo i 'ma'», disse Daniel intuendo che qualcosa non andava. Rimanemmo per un po' in silenzio. «Peccato, pensavo che tra noi potesse nascere qualcosa», disse lui rompendo il
silenzio. «Quando lo hai pensato?» chiesi curiosa. Che avesse pensato questo di me era... inconcepibile. Tanto inconcepibile quanto l'evidenza che avessimo appena fatto sesso. «Be', a un certo punto tra il bacio e il tuo terzo orgasmo», rispose lui charmant. «Vuoi davvero metterti con una donna delle pulizie?» «Adesso però saresti la mia assistente.» Daniel faceva sul serio. Questo mi lasciò decisamente perplessa. Ma perché poi non dovevo fare un tentativo con Daniel? Era meglio che stare da soli, e lui provava dei sentimenti per me, per quanto pazzesco potesse suonare. Ero abbastanza confusa. Daniel mi baciò di nuovo. E ancora. E
ancora. Mi coprì il collo di baci. E di nuovo facemmo l'amore. E facendolo pensai un po' meno al profumo di Alex.
Capitolo 50
IL detective privato Thomas Magnum in un momento del genere avrebbe detto: «So a che cosa sta pensando...» Certo che volevo riavere la mia famiglia. Ma quanto realistico era il mio desiderio? Non riuscivo neanche a recarmi in quella casa. Era semplicemente molto più comodo rimanere da Daniel. E dopo il trambusto degli ultimi due anni mi meritavo un po' di comodità, no? Sciocchezze, mi ero meritata un'overdose di comodità! Per tutta una vita! Mi lasciai viziare da Daniel, feci sesso con lui tutte le sere e un giorno,
grazie al mio stipendio di assistente, mi concessi un massaggio al centro benessere Rico's Excellence Spa. Rico stava al bancone di ricevimento di marmo e quando entrai mi guardò sorpreso: persone della mia stazza non si presentavano mai nel suo lussuoso tempio. «Daniel Kohn ha preso per me un appuntamento», dissi non senza un certo orgoglio, perché... ehi, uno degli uomini più sensuali della Germania era il mio compagno! «Lei è la sua... sorella maggiore?» chiese Rico un po' infastidito. Ero scioccai e arrabbiata. Senza riflettere risposi: «Gliela do io la sorella maggiore!» «Evidentemente non lo è.» «Se vuole proprio saperlo, io sono la sua compagna!» dissi acida.
Rapido, Rico si voltò. Da dietro vidi come si metteva il pugno chiuso tra i denti smaglianti, e sentii un flebile sbuffo. Stava lottando contro una risata incontrollabile. E io lottai contro il desiderio di dargli un calcio in quel sedere palestrato. Quando Rico si fu ricomposto, si girò, mi guardò, disse «Sorry», si girò di nuovo e sbuffò forte: «Compagna...» A quel punto glielo diedi, il calcio nel sedere palestrato. Tutto questo per un massaggio. Furiosa presi il tram per andare da Daniel. Ero imbestialita che tipi come Rico potessero guastare la vita a me, e di conseguenza a Maria. Per quanto mi riguardava, a quello avrei strappato il cuore, lo avrei tagliato a
pezzetti, poi lo avrei messo in un mortaio per pestarlo fino a ridurlo in poltiglia, infine avrei dato quella poltiglia in pasto a un cane, su cui successivamente sarei ata con un rullo compressore. In camera da letto raccontai a Daniel tutta la storia, sperando che si sarebbe indignato quanto me, e che con me avrebbe escogitato ulteriori torture per Rico. Ma invece di fare qualche proposta sensata sul tema «squartamento», «crocifissione», «supplizio della ruota» e «combinazione delle sopraccitate», chiese soltanto: «Ha davvero riso del fatto che sei la mia compagna?» «Sì!» «Hmmm», disse Daniel. «Hmmm», non era esattamente il sostegno che mi ero aspettata. «Non trovi che sia un comportamento inaccettabile da
parte sua?» chiesi. «Naturalmente, ma...» «Ma?» Non potevo crederci. In una risposta a quella domanda un «ma» non doveva esserci! «È solo che finora ho avuto compagne decisamente diverse...» «Elementi decorativi!» brontolai ferita. Daniel in effetti era famoso per avere sempre al suo fianco le donne più belle. Se ora improvvisamente fossero comparse foto di lui insieme a me, senza dubbio non sarebbero mancati titoloni come: «Daniel Kohn ha problemi di vista?» «Mi piace ferace» oppure «Perché a questo punto non una lottatrice di sumo?» Il più positivo sarebbe stato: «Fantastico! Daniel Kohn non arretra davanti a niente!» Eventuali foto di noi insieme sarebbero state un danno per la sua reputazione,
probabilmente se ne era reso conto in quel momento. E questo mi fece infuriare e mi rattristò allo stesso tempo. «Gli elementi decorativi non c'entrano affatto.» Daniel tentò di calmare le acque. «Quindi tu andresti dappertutto con me e mi presenteresti come la tua compagna?» chiesi pungente. Daniel esitò un decimo di secondo. E non avrebbe dovuto farlo. Perché esitare è per un uomo un'ammissione di colpa. «Io per te non sono abbastanza presentabile», affermai. «Non dire sciocchezze!» «Allora provami il contrario.» «E come dovrei farlo?» chiese lui irritato. «Portami con te in occasione del conferimento del premio televisivo di quest'anno. Come tua compagna. Davanti
al mondo intero!» A quel punto Daniel esitò molto di più di un decimo di secondo. E più a lungo esitava, più diminuiva la mia rabbia e cresceva il timore che dicesse: «No, è vero, non voglio che qualcuno mi veda con te». Che cosa avrei risposto, allora? «Hasta la vista, baby!» oppure «D'accordo, l'importante è che rimaniamo insieme. Non conta se stai o non stai dalla mia parte. La mia dignità non m'importa. Chi ha bisogno, poi, di una stupida dignità?» Alla fine Daniel si ricompose e disse: «Ti porterò con me. E ti presenterò anche ufficialmente come la mia compagna». La mia dignità e io ne fummo immensamente felici.
Capitolo 51
INVECE di prenotare aWHyatt, Daniel aveva trovato per noi un grazioso hotel fuori Colonia, dove ci stravaccammo sul letto aspettando il fattorino con il mio nuovo vestito di Versace. Daniel aveva comunicato le misure e lo aveva fatto fare apposta per me. Naturalmente non era paragonabile a quello che avevo indossato quando ero Kim Lange. Per essere precisi somigliava più a un impacchettamento di Christo. Ma sentire la morbidezza della stoffa sulla pelle, gioire nell'attesa del premio,
sapere che a breve avrei rivisto tutta la banda dei media... tutto questo mi dava una sorta di formicolio alla pancia! Una parte di me si immaginava il momento in cui sarei scesa con Daniel dalla limousine e centinaia di fotografi avrebbero scattato migliaia di foto della nuova meravigliosa coppia. Un'altra parte si immaginava come, in qualità di futura moglie di Daniel Kohn, avrei acquisito sufficiente prestigio da poter aspirare a una trasmissione tutta mia. E una parte di me, di dimensioni più ridotte, si meravigliava dell'ottimismo manifestato dalle altre due. In tutta la mia formosità feci un giro su me stessa per mostrare a Daniel il vestito. «Be', come sto?» «Bello», disse lui un po' distrattamente.
«Lo dici con l'entusiasmo di un dipendente da valium.» «No, è davvero bello.» Daniel si sforzò di sorridere, ma risultò poco convincente. C'era qualcosa che lo impensieriva. Ma una parte di me diceva: «Non importa». Un'altra parte si tappava le orecchie e cantava: «Lalalala... Daniel non ha niente. Di sicuro niente che abbia a che fare con le mie scarse qualità femminili da esibire in pubblico. Noi rimaniamo insieme!» E la terza parte, la più piccola, era testimone muta di questa dimostrazione di assenza di realismo. Daniel si ritirò in bagno, e io rimasi sola in camera. Feci zapping tra i vari programmi televisivi, finii sulla pay tv e mi chiesi: Chi diavolo sgancia ventidue euro per un porno dal titolo // sogno di Carmen Flamenco con otto uccelli}
Spensi la televisione e mi sedetti sul letto. E quando mi ritrovai lì seduta, ebbi un déjà-vu di terzo grado: due anni prima mi trovavo sola in una camera di hotel, con un vestito fresco di sartoria, poco prima del conferimento del premio, esattamente come in quel momento. E provavo tremendi sensi di colpa nei confronti di Lilly. Ora li provavo di nuovo. In realtà li avevo provati per tutto quel tempo, ma li ave vo repressi in ogni modo fra le braccia di Daniel. Anche nei confronti di Alex provavo sensi di colpa. E anche nei confronti di quel balordo di Buddha. Di certo non mi aveva rimandato indietro in quel corpo perché sognassi di una carriera televisiva e di una vita con
Daniel Kohn. Ma mentre pensavo queste cose, Daniel uscì dalla doccia. Era semplicemente fantastico. Di fronte a quella formidabile vista di nudo, dimenticai i sensi di colpa nei confronti di Buddha. Ma non quelli nei confronti di Lilly e di Alex. Durante il tragitto in limousine Daniel era a dir poco taciturno e armeggiava nervoso attorno al suo colletto. Era evidente che si sentiva intimorito al pensiero di comparire in pubblico al mio fianco... e dello scherno e del sarcasmo a cui si sarebbe esposto. Anch'io ero silenziosa, non riuscivo a non pensare a Lilly. Non potevo reprimere più a lungo i miei sentimenti: il mio cuore
sentiva profondamente la sua mancanza e desiderava vederla. La desiderava molto di più delle comodità. Molto di più di una carriera televisiva. E ancora molto di più di un ciclone di flash accanto a un uomo che si sentiva a disagio a starmi vicino. Quanto più ci avvicinavamo alla sala dove sarebbe stato conferito il premio, tanto più eloquente diveniva il silenzio nervoso di Daniel. In realtà avrei dovuto essere furiosa con lui, ed elaborare fantasie che lo vedevano dirigersi verso un castello sui cui merli c'ero io, ad aspettarlo con ansia, e con l'olio bollente. Invece ero solo profondamente triste. Per colpa mia. Per il fatto che volevo imboccare la strada più semplice e preferivo una vita con Kohn invece di raccogliere tutto il mio coraggio e andare
a cercare la mia famiglia. *** La limousine si fermò. Entro pochi secondi saremmo dovuti scendere e saremmo stati tempestati dai flash. Daniel mi guardò, tentò di sorridere. Tentò. Ma gli angoli della bocca rimasero a malapena orizzontali. Io non mi sforzai neanche più di sorridere. «Non volete scendere?» chiese l'autista. Daniel esitò. Io anche. Mi rendevo perfettamente conto di essere a un bivio: Se adesso
esco, rimango con Daniel. E dimentico Alex. E Lilly. «Non vuoi?» mi chiese. Una parte di me esclamò: Fatti di nuovo travolgere dai flash! La seconda parte esclamò: E per il resto della tua vita farai sesso con Daniel Kohn. Ma la terza parte mi sussurrò soltanto le parole che le altre due avevano messo a tacere: Ma noi tre non saremmo mai felici. «No», risposi a Daniel. «No?» «No.» «Continuo a sentire solo 'No'.» «Dipende principalmente dal fatto che è quello che ho detto.» Daniel tacque. «Le altre limousine stanno aspettando», incalzava l'autista. E in effetti dietro di noi si stava formando una fila di una decina di auto, in cui sedevano soprattutto ospiti famosi che non
aspettavano altro che essere messi in luce dalla stampa. In una limousine mi sembrò di riconoscere una nota signora della televisione, il cui dito medio tuttavia si allungava verso di noi con un gesto niente affatto signorile. «Noi non abbiamo futuro», dissi a Daniel, con un peso sul cuore E mi fece male che lui non mi contraddisse. «Scendi», lo pregai. «E poi... non ci vedremo più?» Non risposi. «Silenzio assenso», disse lui triste, e scese dalla limousine. Con il pieno controllo di sé si diresse da solo verso i flash. Io rimasi qualche secondo a guardare con quanta professionalità sorrideva alle telecamere. Poi dissi all'autista: «Parta, prego».
Capitolo 52
QUANDO in piena notte arrivai nella mia alcova di Potsdam, mi gettai sul letto in preda alla frustrazione. Non fu una buona idea. Perché il letto si schiantò. E mentre rimanevo distesa sul letto schiantato e fissavo la ruvida carta da parati del soffitto, incollata decisamente male dai precedenti inquilini, mi chiesi come potevo avvicinare la mia famiglia. Era difficile che si presentasse un'altra casualità come quella che mi aveva condotto da Daniel Kohn. E neanche morivo dalla voglia di pulire, che so, la doccia in cui Alex e Nina si erano
sollazzati. Ma non poteva esserci un altro lavoro? Si avvicinavano le vacanze estive, e Alex e Nina dovevano lavorare. Chi si sarebbe occupato di Lilly? *** «Nonna!» gridò Lilly. «Dai, vieni.» Lilly uscì di casa con una borsa sportiva. «Altrimenti arriviamo tardi alla partita!» «Una donna di una certa età come me non è un direttissimo», gridò mia madre, per cui nessuna metafora trita e ritrita era troppo idiota, mentre usciva lentamente dalla villa.
Mi ero nascosta dietro una Panda sul lato opposto della strada; vista la mia stazza, un'operazione impegnativa. Le due si diressero alla fermata dell'autobus. Le seguii con lo sguardo. Era Martha, quindi, che si occupava della piccola. Come poteva Alex solo pensare di affidarle Lilly? A quel punto avrebbe potuto darla in custodia a Rasputin. (Non è che mia madre era Rasputin reincarnato? Ebbene, questo avrebbe spiegato il consumo di alcol.) Arrivò l'autobus e io feci capolino da dietro la macchina. Non potevo certo lasciare mia figlia sola con quella donna! Non ero distante dalla fermata, forse duecentocinquanta metri. Partii di corsa. Respiravo a fatica, ansimavo, da tutti i
pori mi uscivano suoni striduli e fischi. Avevo ancora duecento metri davanti a me. In quel momento avrei desiderato avere di nuovo le mie zampette di porcellino d'India, o quelle del beagle o, ancora meglio, la maledetta macchina sportiva di Daniel Kohn. Sudavo, gocciolavo, sbavavo. Ancora centosessanta metri. Inciampai, remai con le braccia, caddi. Ancora centocinquantotto metri e tre quarti. (Dalle memorie di Casanova: «Da un albero osservai una donna grassa, che non presumevo si trattasse di madame Kim, crollare sulla strada. Ma a malapena registrai l'evento: a
causa di mademoiselle Nina soffrivo pene d'amore troppo grevi, ero l'unico gatto in questo mondo infame a soffrire come un cane».) Il conducente dell'autobus scese di corsa e mi venne incontro. «Ha bisogno di aiuto?» Volevo dirgli «Sì, grazie», ma dalla bocca mi uscì solo un rantolo: «Crrrrr...» che tuttavia comunicava essenzialmente la stessa cosa. Il conducente si trovava ora vicino a me. «Venga, l'aiuto ad alzarsi.» Anche se poco dopo aggiunse: «Merda, la mia ernia!» ò qualche minuto prima che l'uomo riuscisse ad aiutarmi. «Sta bene?» chiese Lilly, anche lei scesa dall'autobus. Dovetti sorridere. Alla sua vista
dimenticai il respiro affannoso, il cuore che mi faceva male e il fatto che dopo il mio sprint puzzavo come un branco di lontre. Restituii il sorriso a Lilly e canticchiai con piena convinzione: «Quell'ometto chi sarà, che soletto se ne sta...» «Come le viene in mente di cantare a mia nipote queste porcherie!» mi disse mia madre con tono imperioso. E questo sebbene in ato non mi avesse mai cantato canzoni per bambini, ma in compenso abbastanza spesso Do You Think Vm Sexy? di Rod Stewart. Le rivolsi solo uno sguardo spento, mentre si tirava dietro Lilly perché risalisse sull'autobus. Il conducente la seguì tenendosi la schiena e imprecando: «Queste sono le conseguenze quando si aiuta qualcuno».
Non sapeva di aver appena prodotto karma positivo, riducendo così le probabilità di risvegliarsi, un giorno, in un formicaio. Salii a mia volta sull'autobus. Mia madre spinse Lilly su un sedile, lontano da me. Ma io non la persi di vista. Non volevo rischiare di perdere la fermata dove sarebbero scese. E rimasi decisamente sorpresa: per are il tempo mia madre giocava con Lilly a morra cinese. Era davvero lei? Quella che in ato con me faceva al massimo giochi del tipo «In quale mano ho la sigaretta?» Le due scesero nelle vicinanze di un campo da calcio. Le seguii mantenendo la dovuta distanza. Una volta arrivate, Lilly venne quasi travolta dagli altri bambini che accorsero a salutarla,
perlopiù maschietti: a quell'età probabilmente si giocava in squadre miste. Mia madre salutò gli altri genitori con un «Oggi i nostri piccoli gli metteranno il fuoco al culo, agli altri!» Trasalii pensando quanto l'affermazione potesse risultare spiacevole, ma di fatto in risposta giunsero frasi dello stesso stile. «E poi gliene daremo di santa ragione!» Lì evidentemente non si andava per il sottile. E la mia piccola, tenera Lilly frequentava quell'ambiente? Ebbi una sensazione sgradevole. Ma a pochi secondi dal fischio d'inizio mi resi conto che la mia figlioletta non era più così tenera: entrava a gamba tesa, spintonava, si affannava. La bimbetta che la notte non riusciva ad addormentarsi senza il suo fazzoletto
morbido era ora un misto tra Pippi Calzelunghe e Beckenbauer (grazie a Dio molto più carina). Non è che con quella durezza tentava di compensare la perdita della mamma? In ogni caso Martha contribuiva a spronarla. Urlava: «Atterralo!» «Buttalo giù quello scarso!» e «Sono tutti un branco di femminucce!» Quindi c'era poco da meravigliarsi che mia madre non fosse particolarmente amata dai genitori dei giovani avversari. Ma poi lo stesso venne ribadito dall'altra parte a spese di Lilly, e brutalmente, alle spalle. Da un ragazzino che atterrandola ghignò anche di gusto. Quello stronzetto aveva dato un calcio a mia figlia, e fosse stato per me lo avrei sbatacchiato di qua e di là fino a fargli
cadere i denti da latte. Ma prima che potessi anche solo dire una parola, mia madre gridò: «Che modi sono, mezza sega?» «Il ragazzino ha solo sette anni.» L'arbitro tentava di placare gli animi. «E se non sta attento non arriverà ad averne otto», ribatté mia madre. Mentre l'altro cercava ancora una risposta, l'allenatore della squadra ospite si piantò davanti a mia madre. Era un toro coperto da un mare di tatuaggi che sembravano fatti da un cinese ubriaco a quattro euro e ottanta l'uno. «Chiudi il becco, nonna!» abbaiò rivolto a mia madre. «Chiuditela tu la tua boccaccia, idiota totale», ribatté lei. «Chi hai chiamato idiota totale?» chiese l'allenatore avvicinandosi
minaccioso. «Te, ho chiamato idiota totale, cervello lesso!» Ero impressionata. A mia madre si potevano rimproverare molte cose ed era quello che avevo fatto più che a sufficienza durante la mia vita ma bisognava ammettere che era una donna coraggiosa. Non si sarebbe lasciata dire una parola neanche da Krttx, da gente che faceva esperimenti sugli animali o da vaccari canadesi. E in quel momento mi venne un pensiero sorprendente: la mia impavidità l'avevo ereditata da lei. Quindi non tutto quello che mi aveva dato era di infimo livello. «Ritieniti fortunata che sono presenti dei bambini, altrimenti te ne avrei allungata una», disse il tatuato, e si defilò. Il resto della partita si svolse, al
confronto, in modo pacifico. I bambini avversari provavano una tale soggezione nei riguardi di Martha da limitare al minimo il numero dei falli a mia figlia. Tuttavia io non guardavo più in direzione di Lilly, bensì osservavo con maggiore attenzione quella signora furiosa: era sì malmessa come sempre, ma in qualche maniera il suo viso appariva più sano. Non beveva più? L'influsso di Nina era davvero così positivo? Prima o poi mi sarebbe venuta un'emicrania con questa storia degli influssi positivi di Nina. Quando la partita finì, i bambini scomparvero per andare a cambiarsi, e io mi diressi da Martha che aspettava fuori. «Lei non era prima sull'autobus?» mi chiese.
«Sì, lavoro alla sede del circolo», mentii. Poi chiesi ipocritamente: «Be', vogliamo brindare alla vittoria?» «No, no, io non bevo.» «Neanche un goccetto?» chiesi stupita. «No!» si affrettò a ribattere lei, quindi tacque. Mi guardò negli occhi e di colpo mi parve confusa. Apparentemente anche lei come Daniel Kohn vedeva la mia anima. Dopo qualche minuto mi chiese: «Dica un po', ci conosciamo?» Mi sarei sentita troppo idiota a canticchiare in risposta la solita canzoncina, quindi lasciai perdere e rimasi in silenzio. Ma Martha divenne più mite, lo sguardo nella mia anima sembrò avere l'effetto di tranquillizzarla. «Sono due anni che non bevo più.» L'influsso di Nina, pensai: forse dovevo davvero
tenermi fuori dalla vita della mia famiglia. «In ato il mio medico me lo diceva sempre», continuò Martha. «Se avessi continuato a bere come facevo, avrei presto tirato le cuoia. Ma della morte non mi ero mai preoccupata. La vita era un tale schifo che dovevo bere fino a diventare insensibile. Ma poi mia figlia è morta. E improvvisamente mi sono resa conto che si può morire sul serio. E io ho una fottuta paura di morire.» Almeno la mia morte aveva avuto qualche conseguenza positiva. E il cambiamento di Martha non aveva niente a che vedere con Nina. «Be', ecco, adesso comunque mi occupo della piccola di mia figlia.» Martha voleva rimediare a tutti gli errori fatti con me. E io volevo rimediare a tutti gli errori
fatti con Lilly. Evidentemente la morte è anche in grado di dare nuova vita alle persone.
Capitolo 53
LA sera ero di nuovo stesa sul mio letto rotto. Ero impressionata dalla volontà di mia madre. E mi rallegrava pensare che non tutti i cambiamenti positivi nella vita della mia famiglia dipendevano da Nina. D'altra parte non avevo fatto alcun o avanti: come potevo andare e venire dalla quotidianità della mia famiglia? Un lavoro di babysitter sarebbe stato semplicemente fantastico, ma per poterlo ottenere avrei dovuto togliere mia madre dalla circolazione. Il mattino successivo fantasticai su una
serie di possibilità che nel loro insieme non mi avrebbero fruttato karma positivo: avrei potuto fare lo sgambetto a Martha sul pianerottolo delle scale o indurre i genitori dell'altra squadra a mostrarle che cosa sia un vero placcaggio in scivolata. Ma le mie fantasie non trovavano terreno fertile, perché ormai non ero in grado di provare alcun sentimento negativo. Il suo comportamento mi commuoveva (okay, magari non quando chiamava i bambini «mezze seghe»), e per la prima volta in vita mia avevo addirittura la sensazione di doverle qualcosa. Quindi ero costretta a trovare una maniera gentile per allontanarla temporaneamente.
*** «Nonna, se stai in porta devi anche buttarti! Come Olii Kahn!» «Ma io non sono Olii Kahn. Non so parare così bene. Però in compenso sono più carina!» brontolò mia madre, che appariva distrutta. Evidentemente aveva dovuto già parare una gran quantità di tiri. Mi diressi verso il nostro giardino e dissi: «Buongiorno!» (Dalle memorie di Casanova: «Dal mio albero vidi di nuovo quella donna grassa. Ma mi rimase indifferente. Ero troppo occupato a comporre poesie sulle mie pene d'amore. I titoli erano: Tormento, Tormento infinito, Chiamami
Tantalo».) «Che cosa fa da queste parti?» chiese mia madre sorpresa. «Ieri ho visto che abitava qui. E volevo parlare ancora un po' con lei. Da sola.» Mia madre si rivolse a Lilly: «Per favore, vai un attimo dentro a prendere dell'acqua». «Ma io non ho sete!» «Neanche di Coca-Cola?» «Coca-Cola? Sììììì!» Lilly corse via. I bambini ormai sono come i politici: se si vuole qualcosa da loro, li si deve corrompere. «Che cosa vuole?» chiese Martha diffidente, quando Lilly si trovò a debita distanza. «Negli ultimi anni lei ha avuto delle esperienze molto dure», dissi io.
«Come se non me ne fossi accorta», ribatté mia madre laconica. «Mai pensato a una vacanza per riprendersi un po'?» «Spesso», sospirò lei. «Pensi che la nuova mamma della piccola ha addirittura un'agenzia di viaggi. Lo sa dove vorrei andare?» «Sono tutta orecchi.» «A Santo Domingo.» «E perché allora non va in vacanza?» «E chi si occuperebbe di Lilly? I genitori lavorano tutti e due.» «Oh, io sarei interessata», ridacchiai. «Ma lei mi ha detto che lavora alla sede del circolo.» «Ah, mi sono licenziata», dissi continuando a tessere la trama della bugia di necessità che avevo elaborato. «Non so», rispose Martha esitante. «La piccola non la lascio volentieri sola.»
«Ma è per un periodo limitato.» Martha non era ancora del tutto convinta. «A Santo Domingo devono esserci delle belle spiagge», commentai cercando di renderle l'idea appetibile. «E begli uomini», disse Martha lasciandosi finalmente sfuggire un sorriso. «E begli uomini», confermai con un sorriso. Sì, ci stavamo effettivamente sorridendo a vicenda. Per la prima volta da... non so quanto tempo.
Capitolo 54
NlNA e Alex rimasero sorpresi dei programmi vacanzieri di mia madre, ma Martha non si lasciò minimamente distogliere dai suoi propositi. In precedenza, durante una conversazione più lunga, l'avevo convinta che una vacanza del genere le avrebbe fatto bene e che io me ne sarei compiaciuta di tutto cuore per lei. Negli anni trascorsi ne aveva ate tante e ora si era più che meritata una gratificazione per aver realizzato un simile cambiamento nella sua esistenza. Naturalmente Nina e Alex erano
titubanti all'idea di ingaggiare come babysitter una donna priva di referenze, e dapprima si rifiutarono di assumermi. In compenso misero un annuncio sul giornale, a cui risposero tra l'altro: una donna di nazionalità indefinita che non parlava tedesco, uno studente di matematica al ventisettesimo semestre e una signorina che indicò come precedente professione quella di «ballerina per un varietà». Di punto in bianco la grassa Maria divenne un'alternativa soddisfacente. Per le successive quattro settimane sarei stata la nuova babysitter di Lilly. Quindi avevo a disposizione quattro settimane per distruggere il matrimonio di Alex e Nina! Poi, questi erano i miei calcoli, avrei
riconquistato la mia famiglia. Avevo già da tempo riscoperto i miei sentimenti per Alex, e frattanto non trovavo più così improbabile che lui potesse innamorarsi di me, se Nina prima o poi se ne fosse andata. Se aveva funzionato addirittura con un uomo come Daniel Kohn... Era ovvio che distruggere un matrimonio non era assolutamente un mezzo per produrre karma positivo. La situazione mi era chiara: se avessi avuto successo, dopo la mia morte con grande probabilità sarei di nuovo finita in una gabbia per porcellini d'India. Oppure allo zoo di Berlino come rinoceronte, in compagnia di sei maschi della stessa specie, tutti quanti castrati. Ma non mi importava niente. Le mie vite future in
quel momento non mi interessavano. Ora era in gioco la mia vita presente. E quella di Lilly! *** La distruzione di un matrimonio si attua in quattro fasi. Fase uno: osservazione del nemico In primo luogo mi inserii, come fa una babysitter, nella quotidianità della casa che un tempo era mia. E facendolo osservai qual era il livello qualitativo del rapporto tra Alex e Nina. Quanto intenso era l'amore fra i due? Vidi come Alex e Nina si baciavano prima di andare al lavoro. Vidi che
scherzavano. Vidi come lui la seguiva apionatamente con lo sguardo. E tutto ciò fu molto incoraggiante. Perché? Ebbene, quando noi eravamo appena sposati, i nostri baci al momento di salutarci al mattino non duravano meno di un quarto d'ora, e non di rado finivamo poi per fare l'amore. Quando scherzavamo insieme, continuavamo poi a ridacchiare per minuti interi, e anche in quel caso non di rado finivamo per fare l'amore. E quando volevo uscire di casa, lui non mi seguiva apionato con lo sguardo, ma mi afferrava per trattenermi e... esatto, faceva l'amore con me. Con Nina non faceva mai l'amore dopo un bacio di commiato. Se ridevano, il tutto durava un tempo adeguato, e allo stesso modo senza poi fare l'amore. E lo
sguardo apionato con cui la seguiva Alex terminava quando la porta di casa si chiudeva, e senza mai fare l'amore. Questo loro amore non era forte come il nostro di allora. Lo potevo distruggere. Ero persino riuscita a distruggere il nostro. E mentre osservavo il nemico giocavo con Lilly. «Sai calciare il pallone?» fu una delle prime domande che mi fece. «No, ma in porta me la cavo. Non è cosa facile fallire il colpo con una come me», dissi. Lilly ridacchiò. E poi ci mettemmo a giocare a calcio. Lilly tirava senza risparmiarsi, e io paravo senza risparmiarmi. Era incredibilmente divertente. Quando ero Kim Lange non mi ero mai divertita così
con la piccola, perché era un continuo correre da un appuntamento all'altro. Solo ora come Maria potevo giocare spensierata con mia figlia, senza rimuginare ininterrottamente anche sul lavoro. (Chi inserisco nella prossima trasmissione? Che argomento scelgo? A chi do la colpa se gli indici di ascolto non sono buoni?) Ero fradicia di sudore, ma non me ne importava niente. E neanche al mio apparato circolatorio importava. Giocare a calcio con Lilly riversava sul mio cuore una valanga di ormoni della felicità, che a quanto pareva avevano effetti più efficaci delle pastiglie. E anche Lilly si divertiva come una matta. «Tu sei molto più simpatica di quella
stupida di Nina», disse Lilly mentre organizzavamo una gara per vedere chi mangiava più crèpes alla Nutella. «Non ti piace Nina?» chiesi sorpresa. Evidentemente gli influssi di Nina sulla piccola non erano poi così positivi come pensavo. «Nina è una scema», brontolò Lilly. Eravamo della stessa idea, anche se magari io avrei usato altri aggettivi. «È una vera oca cacona!» Oh, che ragionamenti verbali calzanti sapeva fare mia figlia. Sghignazzai con tale soddisfazione da far impallidire un clown. «Non c'è niente da ridere», disse Lilly con tristezza. «Lei non mi vuole affatto bene.» Mi ricomposi, e vergognandomi dovetti ammettere: qui non si trattava del
fatto che Nina fosse un'«oca cacona» o meno, qui si trattava della mia figlioletta. Presi fra le braccia la piccola, la strinsi affettuosamente al mio corpo sudato da lottatrice di sumo e decisi di are alla fase due. Fase due: suscitare gelosia Per suscitare gelosia tra due amanti bisogna prima preparare il terreno a livello verbale. «Lilly mi ha raccontato che sua madre è morta», buttai lì a Nina mentre l'aiutavo a stendere la biancheria in giardino. «Sì.» «Dev'essere stata dura. Anche per suo marito.» «C'è voluto molto tempo prima che riuscisse ad aprirsi con me.» «Hmmm...» dissi in tono tanto allusivo da farle chiaramente capire che stavo pensando a qualcosa.
«Che vuol dire 'Hmmm'?» chiese Nina, che aveva abboccato all'amo. «Niente, niente», dissi io. «Mi dica pure.» Come tutti, anche Nina non poteva sopportare che qualcuno si tenesse per sé qualcosa che la riguardasse in prima persona. «Be'... non ha mai la sensazione di essere un palliativo?» le chiesi a quel punto, senza tanti giri di parole. «No, non ce l'ho!» rispose Nina irritata. «Mia sorella era sposata con un vedovo», le raccontai. «E dopo che lei lo ha aiutato a rimettersi psicologicamente in sesto, lui si è trovato un'altra e...» «Sua sorella non mi interessa», rispose Nina con un tono che diceva chiaramente: «Ancora una parola e la strangolo con il
filo per stendere!» Tacqui, e per i successivi dieci minuti ci occupammo in silenzio della biancheria. Poi si presentò il momento giusto per tirare fuori dalla giacca bagnata di Alex una confezione di preservativi che vi avevo infilato di nascosto prima del ciclo di lavaggio. «Oh, sono finiti in lavatrice insieme alla giacca», dissi con aria innocente. «Alex... non usa preservativi», balbettò Nina. «Questa non è la sua giacca?» chiesi ancora più innocente. Nina era confusa. «Ci sarà di sicuro una spiegazione», le dissi premurosa, consapevole che una confezione di preservativi non sarebbe bastata a farle pensare che Alex la tradiva. Erano necessari molti altri indizi.
E naturalmente non potevano essere tutti messi in relazione a me, altrimenti avrei suscitato dei sospetti. Avevo bisogno di un complice. Per esempio un gatto. «Ehi, Casanova», esclamai quando, dopo lunghe ricerche, lo scovai finalmente su un albero. Stava disteso su un ramo e aveva un aspetto decisamente depresso. (Dalle memorie di Casanova: «In quel periodo mi rammaricavo spesso del fatto che il suicidio per amore non avesse senso. Purtroppo si viene reincarnati».) «Sono io, Kim!» Casanova si svegliò dal suo letargo. (Dalle memorie di «Quando madame Kim
Casanova: si fece
riconoscere, pensai: Perfino a Rubens questa donna sarebbe parsa troppo rubensiana».) E miagolò felice. «Noi esseri umani non possiamo capire ciò che gli esseri umani reincarnati in animali ci dicono, o abbaiano o miagolano. Ma tu... tu invece sì», gli dissi. «Ho un piano. Quindi ascoltami con attenzione...» Motivare Casanova non fu difficile: era sempre innamorato di Nina. E il mio «piano di distruzione del matrimonio» gli diede apparentemente nuovo slancio vitale. Si arrampicò, come gli avevo ordinato, sulla recinzione che circondava il nostro giardino. Quando Alex tornò a casa dal lavoro, il gentiluomo gli saltò dritto sulle spalle.
Alex fece un salto, dalla paura. Ma Casanova non mollò la presa e lo afferrò al collo. Succhiò e succhiò. E quando alla fine lo lasciò, Alex aveva un meraviglioso succhiotto. (Dalle memorie di Casanova: «Non ero un amante omoerotico, e quindi l'ora successiva la ai a sciacquarmi bene il muso con l'acqua di una pozzanghera».) Quando in cucina Nina vide quel segno, rimase turbata. «Dove te lo sei fatto?» chiese, senza presumere che avrei origliato la loro conversazione dall'ingresso. «Me l'ha fatto quel gatto randagio che ti aveva già strappato il vestito.
Mi ha assalito saltandomi addosso.» «Ah.» «Non mi credi?» Nina gli avrebbe creduto volentieri, ma si sentiva un po' insicura. Senza dubbio a causa dei preservativi, a cui tuttavia non fece alcun accenno. Alex la guardò e sorrise. «Io ti amo. Amo solo te.» Quelle parole furono un colpo ben assestato. Ci sono frasi che semplicemente non possono piacere, se dette a qualcun altro. Dopo un po' Nina annuì condiscendente. Poi Alex le sorrise di nuovo, lasciò la cucina e senza un saluto mi ò davanti nell'ingresso e si diresse verso la doccia, per lavarsi via il lubrificante da bicicletta e l'odore del gatto. Io mi intrufolai in cucina e sorpresi
Nina in un momento di debolezza. «Ama un'altra», disse, lottando con le lacrime. Rimasi scioccata: Alex amava un'altra? Non dovevo inventarmi alcuna relazione extraconiugale? Che cosa succedeva? Avevo forse un'altra concorrente? Una cliente del suo negozio? Una qualche apionata di ciclismo, magari? Che se possibile si dopava anche per andare a letto? «E chi?» chiesi, tanto contrariata quanto sconvolta. Nina era evidentemente pentita che quelle parole le fossero sfuggite, e non sapeva come reagire. «Lo so che la cosa non mi riguarda, ma se lei ha bisogno di una spalla su cui piangere...» le offrii ipocrita.
Lei rifletté un attimo. Poi rispose: «Ama la moglie morta». «Sia ringraziato il cielo», sospirai. Nina mi guardò con una certa irritazione. «Ehm, intendo dire che... lo sa il cielo.» «L'ha sempre amata più di me, ed è ancora così», affermò Nina. Fu maledettamente difficile reprimere un sorriso. «E lei era una stupida oca egoista!» Fu maledettamente difficile reprimere uno schiaffo. «Non si rendeva conto di che vita fantastica avesse.» Fu maledettamente difficile reprimere un triste cenno di assenso con il capo. «E ora io devo vivere all'ombra del suo ricordo», singhiozzò Nina.
Fu maledettamente difficile reprimere un abbraccio di conforto. Fase tre: pausa Nella settimana successiva sospesi temporaneamente l'operazione «distruzione matrimonio». Sabotai solo il sesso, nel senso che manipolai lo strumento per calcolare i giorni fertili. Dovevo affrontare un sentimento che non avrei mai pensato di provare in vita mia: un sentimento di comione per Nina. Ora che per la prima volta da anni potevo essere vicinissima alla mia famiglia, mi rendevo conto quanto faticosa fosse la sua vita come moglie di un vedovo. Nina si sforzava di fare tutto nel migliore dei modi. E Alex si sforzava di non mostrarle mai che sentiva la mia
mancanza. Ma lei sapeva che era così. Esattamente come per Lilly. E quando i due non vedevano, potevo osservare il dolore che le affiorava allo sguardo. In quel periodo il gatto Casanova continuava a venire da me a miagolare, e non mi dava tregua. Era furioso per il fatto che non facevo più niente. L'unica che stava veramente bene era... mia madre. Questa è la cartolina che arrivò da Santo Domingo: Cara Maria, qui è meraviglioso. Ho conosciuto un uomo molto gentile, Julio! È una spanna più basso di me. A essere sinceri la prima cosa che ho pensato è stata: Ominopistolino. Ma è incredibile: ha un affare con cui si potrebbe far crollare Tokio. E sa come usarlo. Non sono mai stata così inebriata senza essere ubriaca.
Ci siamo innamorati l'uno dell'altra! Prolungo la vacanza ancora un po'. Ti ringrazio di cuore. La tua Martha Dopo che ebbi mostrato ad Alex il messaggio, lui mi prese da parte in cucina e disse: «A quanto pare avremo bisogno di lei ancora per un po'». Volevo rispondere, ma non mi uscì neanche una parola. Alex mi era così vicino da costringermi a notare quanto buono fosse il suo profumo. Anche con il mio naso umano era meraviglioso. «Qualche problema?» mi chiese. Sì, se potessi mi getterei su di te, anche se poi non potresti più respirare! «No, no», dissi io. E a quel punto, per la prima volta dopo tutte quelle settimane in cui
condividevo la sua quotidianità domestica, lui mi guardò dritto negli occhi. «Noi ci conosciamo», costatò meravigliato. Non chiese: «Ci siamo già conosciuti da qualche parte?» come aveva fatto Daniel Kohn quando aveva visto la mia anima. O come mia madre. No, Alex aveva costatato con estrema chiarezza: «Noi ci conosciamo». Era sicuro della sua affermazione. Sembrava percepire la mia anima con maggiore intensità rispetto a chiunque altro! Naturalmente non era in grado di comprendere che cosa percepiva con esattezza, ma tutti i sentimenti che provava per me divampavano di nuovo, questo riuscivo a distinguerlo.
Anche i miei sentimenti si ripresentavano in tutto il loro ardore, con la differenza che io sapevo con precisione perché. Alex cominciò a tremare. Io tremavo già da prima. Un fuoco invisibile crepitava fra noi. Era una situazione in cui poteva accadere qualsiasi cosa. Poi dal piano di sopra Nina gridò: «Merda, ma non finiscono più 'sti giorni fertili?» E l'incanto fu distrutto. Fase quattro: totale modifica del piano Succhiotti, occultamento di preservativi, manipolazione di strumenti anticoncezionali: tutti sciocchi giochetti. Me ne ero resa conto grazie alla reazione di Alex! Dovevo puntare al sodo. O meglio, fare in modo che fosse Alex a
puntare al sodo. Al mio sodo. Senza vie traverse. Senza trucchi continui. Quindi dovevo di nuovo creare una situazione in cui tutto potesse accadere. Ma come? Mentre giocavo a calcio con Lilly rimuginavo sulla questione. Ero così concentrata che non mi accorsi di un suo tiro in porta. E così mi presi una sonora pallonata in faccia. «Ahia!» gridai. «Hai il naso che ti sanguina, Maria», disse Lilly preoccupata. «Tutto ok, tutto ok», farfugliai, mentre il dolore si faceva insopportabile. Avevo una frattura del setto nasale? «Posso aiutarla a fermare l'emorragia?» chiese Alex che entrava in
quel momento dal cancello del giardino. «Fi, grapfie», mormorai, il naso mi faceva davvero un male cane. «Mi dispiace così tanto», disse Lilly con lo sguardo di chi si sente colpevole. «Tu non hai colpa», farfugliai. «Ftai tranquilla.» Mi sforzai di sorriderle. Il che mi causò ancora più dolore. Ma continuai a sorriderle. Non volevo che Lilly provasse rimorsi. L'accarezzai sui capelli. Mi sembrò più tranquilla, e io seguii Alex in casa, mentre lei continuava a calciare il pallone in giardino contro il capanno degli attrezzi. «È molto affettuosa con Lilly», disse Alex grato. «È una ragapfina molto particolare», risposi io.
In cucina Alex mi offrì una sedia, e io decisi di sfruttare la situazione nonostante il dolore. «Lei era fpofato con Kim Lange, no?» chiesi. «Sì», rispose lui con un cenno di assenso, prendendo del ghiaccio dallo scomparto del congelatore. «Deve effere pftato particolare effere fposato con una persona così famofa.» «Più che particolare, faticoso.» Alex mi mise il ghiaccio sul naso. Il dolore martellante diminuì leggermente. «Di ficuro avrà avuto poco tempo per la famiglia...» «Deve tenere alto il naso», disse Alex. A quanto pareva non voleva entrare in argomento. «Fono ficura che adeffo Kim Lange vivrebbe diverfamente.» Volevo che lo
sapesse. «Che cosa la rende così ficura» chiese Alex in tono mordace. «Nella vita dopo la morte ci fi rende conto di cofa fia importante nella vita prima della morte.» «Lei è una creatura molto spirituale», disse ironico. Non risposi nulla. Non ero una creatura spirituale. Avevo valori solidi e convincenti che mi derivavano dall'esperienza. «Nina ha come priorità la famiglia», disse Alex con rabbia repressa. «In lei ho trovato una buona compagna. Quindi non ho motivo di ragionare su che cosa potrebbe pensare mia moglie nella vita dopo la morte che, detto per inciso, secondo me non esiste.» Zac, centro. Non aveva intenzione di parlarne.
Ma io sì. «Fente la fua affempfa?» «Ferite la fua affempfa?» ripeté Alex. Non mi aveva capita. Stupido naso! «Fente la fua affempfa?» «Affempfa?» «Affempfa!» «Essenza?» «AFFEMPFA! CAPFO», dissi alzando il tono della voce. Alex trasalì. «Mi fcufi», dissi a bassa voce. «Se sento la sua assenza?» chiese confuso. Annuii. E dopo un attimo di esitazione fu lui ad annuire. «Ogni giorno vorrei che fosse ancora qui...» Per la prima volta vidi con chiarezza quanto fosse profondamente triste. E non potevo rovesciargli addosso un: «Sono qui! Sono viva!» Ma... ... potevo baciarlo.
Mi avvicinai. Con le mie grandi e turgide labbra. Alex era visibilmente confuso, disorientato. E mi guardò di nuovo negli occhi. Le mia labbra sfiorarono le sue. E le sue risposero al bacio. Evidentemente il suo cervello si era del tutto spento. Solo il suo cuore lo guidava. Fu il bacio più intenso di tutta la mia vita: la schiena mi formicolava, il cuore mi batteva fino al collo, tutto il mio corpo era elettrico... era meraviglioso! Peccato però che Nina entrò in cucina. Fase cinque (Sì, lo so, anch'io prima pensavo che ci fossero solo quattro fasi): bonaccia in arrivo! Nina non poteva credere a quello che vedeva: Alex la tradiva. Con una donna
che pesava tre volte lei. «Alex...» balbettò Nina esterrefatta. Alex si staccò dalle mie labbra carnose («carnose» era la versione gentile). «Che cosa stai facendo...?» Il cervello di Nina apparentemente non era in grado di elaborare l'accaduto. E neanche quello di Alex. «Io... non lo so.» «Il succhiotto te l'ha fatto lei?» «No, è stato il gatto... ma te l'avevo detto...» «E anche i preservativi te li ha dati il gatto, vero?» disse Nina profondamente ferita, tirando fuori da un cassetto la confezione di preservativi centrifugata. «Questa l'ho trovata nella tua giacca.» «Io... non l'ho mai vista», balbettò lui. Nina si limitò a guardarlo con disprezzo, per poi lasciare la stanza. Non
piangeva, ma era evidente che ci mancava poco. «Nina!» le gridò dietro Alex. «Lafala.» lo pregai. Volevo che rimanesse con me. Lo volevo tanto! Ma lui mi rivolse solo uno sguardo rabbioso, come se lo avessi stregato, e disse: «È stata lei a tramare tutto. Il gatto e i preservativi...» Mi era difficile smentire. «Ma che razza di gioco morboso sta facendo?» E neanche la verità potevo dirgli. Stronzo di un Buddha! «È licenziata!» mi abbaiò addosso Alex furioso, e poi corse dietro a Nina. Il piano non aveva funzionato come sperato. Durante la notte mi girai e mi rigirai nel letto senza riuscire a prendere sonno.
Con quel bacio avevo definitivamente capito che amavo solo Alex. Con Daniel Kohn era frizzante, era eccitante, era un'avventura. Ma con Alex... era vero amore. Finalmente avevo messo ordine nei miei sentimenti! Solo che, diavolo, Alex mi aveva cacciata via e licenziata. Non avevo lavoro, non avevo soldi e non potevo più vedere Lilly. Il mattino dopo tornai alla nostra casa. Era vero che non avevo un piano, ma in compenso avevo la speranza che Alex fosse di umore più mite. Ma lui non c'era proprio. E neanche Lilly. E tanto meno Nina. Le porte erano chiuse. Le finestre anche. Che cosa succedeva? «Casanova?» gridai, e dall'albero il
gatto fece un salto verso di me. «Dove sono andati tutti?» chiesi nervosa. Se non altro il mio naso si era un po' sgonfiato e potevo parlare di nuovo in maniera chiara. «Miao, miaooooo, miaaa», rispose il gentiluomo veneziano. Il che non mi fu particolarmente di aiuto. «Miao, miaaaa, miaooooo», continuò a strepitare, saltellando intorno come un pazzo. Questa comunicazione tra specie diverse poteva portare alla follia. Il gentiluomo rifletté, si mise a correre qua e là, e poi sembrò venirgli un'idea. Cominciò a scavare. «Vuoi dissotterrare qualcosa?» Si limitò a rivolgermi uno sguardo di
rimprovero e continuò a scavare. (Dalle memorie di Casanova: «Solo quando si è un animale ci si accorge davvero di quanto duri di comprendonio siano gli esseri umani».) L'ultima volta che lo avevo visto scavare era ancora una formica e voleva... «Vuoi fuggire?» chiesi irritata. Lui roteò innervosito i suoi occhi di gatto. «Okay, okay, era una domanda idiota. Ma in ato hai scavato anche per uscire dalla prigione del formicaio, e quando eri ancora un essere umano, per uscire dai Piombi...» «Miao!» Casanova tirò su la coda e mi guardò con decisione. «Piombi? Che cosa c'entrano i
Piombi?» Mi guardò spazientito. Poi finalmente ebbi l'illuminazione. Sapevo dove si trovava la mia famiglia!
Capitolo 55
«VENEZIA?" Daniel Kohn mi guardò incredulo: mi ero presentata alla porta della sua villa con Casanova che mi faceva le fusa accoccolato sulle spalle. «Mi dai il benservito e poi vuoi che io ti dia i soldi per un viaggio a Venezia?» «Direi che... ehm... in sintesi è proprio così», ribattei io con un sorriso il più gentile possibile. «E perché dovrei farlo?» «Perché è in gioco la mia vita.» «E suppongo che tu non abbia intenzione di dirmi qual è il motivo preciso per cui è in gioco la tua vita.» «Supposizione esatta.» Daniel non
ne era felice, ma in quel momento non volevo raccontargli che stavo rincorrendo un altro uomo, che evidentemente stava facendo con Nina un'estemporanea vacanza di riconciliazione a Venezia, con Lilly al seguito. All'inizio ero un po' disorientata all'idea che avessero scelto proprio quella città, finché non mi ero resa conto che non solo io, ma anche Nina si era innamorata di Alex in quel luogo. «Ti prego», dissi in tono quasi supplichevole. «I soldi non te li do», replicò Daniel. Deglutii. «D'accordo, perdonami...» e mi voltai per andarmene. «Ma a Venezia ti ci porto volentieri.» Mi girai di nuovo di scatto. Daniel ridacchiava. Voleva sapere che cosa stava succedendo, e portarmi a
Venezia era l'unica possibilità per scoprirlo. A quel punto dovetti fare i miei conti. Se avessi accettato l'offerta di Daniel, una situazione già di per sé non priva di complicazioni sarebbe diventata ancora più complicata. Se invece avessi lasciato che Alex e Nina fero la loro vacanza riconciliatrice, c'era la probabilità che sarebbero rimasti insieme e che avrebbero cacciato definitivamente dalla loro vita la grassa Maria. A scopo dimostrativo Casanova mi si aggrappò con gli artigli alle spalle. Per lui la questione era chiara. E per me anche: «Andiamo!» La Porsche di Daniel sfrecciava nella notte, con duecento bagagli, in direzione Italia. All'inizio Casanova fu intimorito dalla velocità, poi
impressionato, e infine si addormentò tra i miei piedi. Quando attraversammo le Alpi mi chiesi quando Daniel avrebbe colto l'occasione per chiedermi il motivo del viaggio. Ma non fece domande. Al contrario fece una serie di telefonate a giovani donne, tutte profondamente deluse dal fatto che i loro appuntamenti con lui dovessero essere cancellati, a causa di un'imprecisata «conferenza non programmata». Alla terza telefonata, un po' innervosita, costatai: «Certo che ti sei consolato presto». «Ti dà fastidio?» «No», dissi io, decisamente un po' infastidita. «E invece ti dà fastidio.» «Non mi dà fastidio», lo smentii irritata, perché aveva ragione. Feriva il mio orgoglio. «Chi nega ha qualcosa da
nascondere», sogghignò lui, flirtando impudente. «Io non ho niente da nascondere.» «Stai di nuovo negando.» «Non sto negando niente.» «E di nuovo neghi.» «Mi fai impazzire.» «Lo so.» Daniel ridacchiò ancora più di gusto e aumentò la velocità. Stavamo scendendo dalle montagne su un tratto pieno di curve. A duecentoventi all'ora. Mi si fermò il respiro. Il battito cardiaco si fece più intenso. Il mio cuore gridò: Ho bisogno di una pastiglia. Subito! Aprii la scatola, inghiottii vorace una delle capsule rosse e costatai con orrore che mi restava un'unica pastiglia. «Devo andare più piano?» chiese Daniel premuroso. «No», dissi dopo aver riflettuto un
attimo, «voglio essere a Venezia il più rapidamente possibile.» E Daniel premette sul pedale dell'acceleratore. Gli ultimi chilometri nella città delle gondole naturalmente non li facemmo in auto, ma con la barca taxi. Volare sull'acqua, in quella meravigliosa città, a fianco di un bell'uomo come Daniel Kohn, sentire gli spruzzi del mare sulla pelle e annusare l'aria di vacanza, era per me già incredibile, ma Casanova piangeva vere e proprie lacrime di commozione. (Dalle memorie di Casanova: «Dopo oltre duecento anni tornavo a casa. In quel momento non potevo immaginare che nelle ventiquattr'ore successive qualcuno della nostra illustre compagnia di viaggio sarebbe morto».)
Capitolo 56
DANIEL aveva prenotato per noi in un minuscolo e delizioso hotel di lusso in un piccolo palazzo antico, (Dalle memorie di Casanova: «In quel palazzo, un tempo, da giovane, andavo e venivo. In quel luogo avevo perso molte cose graziose: un anello di valore, una pipa intagliata a mano in avorio, la mia innocenza...») a soli dieci minuti da Piazza San Marco. Nell'elegante atrio erano appesi tre meravigliosi quadri antichi che rappresentavano nobili rinascimentali che eggiavano oziosi, inoltre c'erano un tavolino e due magnifiche sedie del
Settecento, su cui non mi fidavo a sedermi visto che non avevo un'assicurazione sulla responsabilità civile. Andammo alla reception e non potei credere a quello che sentii. «Che cosa significa che avremo una suite per due persone?» chiesi. «Non avevano più camere singole», disse Daniel sorridendo e non sforzandosi neanche di dissimulare la sua intenzione di andare a letto con me. «Allora andiamo in un altro hotel!» «Ma a me piace questo.» «Allora ci vado io, in un altro hotel!» «Con quali soldi?» Daniel si stava visibilmente divertendo. Volsi lo sguardo al cielo. «Tanto per chiarire, le mani le tieni a posto.» «Se ce la farai a tenere a posto le tue...» rispose impudente, con un ghigno. Era sicuro di
sé, e io mi ricordai che era un po' che non facevo sesso, e una notte con lui era pur sempre frizzante, eccitante, un'avventura... Casanova mi graffiò le grosse gambe, a quanto pareva mi aveva letto nello sguardo e voleva richiamare la mia attenzione sulle questioni essenziali. «Ma ora, per prima cosa, devo cercare qualcuno», dissi quindi a Daniel, e lo lasciai lì con i bagagli. Davanti all'hotel, con Casanova sulle spalle, rimasi un attimo ferma senza avere la più pallida idea di come avrei trovato Alex e Lilly in mezzo alla folla dei turisti. Scarpinai per ore sotto il sole cocente, tra calli e ponti, cercandoli con gli occhi. Il sudore mi colava sulla fronte, e camminando urtavo spesso i turisti... forse perché quei maledetti ponti erano stretti.
Le persone investite non lo trovavano granché divertente, e così mi sentivo dire «brutta cicciona» in tutte le lingue conosciute delle Nazioni Unite. Alla fine rinunciai. In quel modo non avevo possibilità di trovare la mia famiglia! Respirando affannosamente tornai all'hotel, per intraprendere qualcosa di più sensato. Invece Casanova decise di continuare a cercare Nina, il suo grande amore. Daniel, che mi aspettava in camera, chiese con gentilezza: «Allora, ce l'hai fatta?» Gli rivolsi solo uno sguardo vuoto. «Mi suona come un no.» Mi feci la doccia. Quando dopo due ore ebbi finalmente finito, mi infilai il mio gigantesco pigiama con un'unica intenzione: andare a letto.
Ma Daniel vi era già disteso sopra. «La camera la pago io, quindi non dormo sul pavimento», disse con un sorriso. «Tu vuoi fare sesso», affermai. «Come siamo presuntuosi...» Ero stanca, mi mancava la mia famiglia e non avevo voglia di giochetti. Mi gettai sulle coperte e dissi: «Voglio dormire». In risposta Daniel cominciò a massaggiarmi la nuca. «Smettila!» gli ordinai. «Non dici sul serio.» Okay, aveva ragione, un po' di massaggi... che male c'era? Massaggiava bene, molto bene. E da fuori sentivo i gondolieri nel canale che cantavano. In circostanze normali mi sarei innervosita, ma nel frattempo Daniel aveva cominciato a
baciarmi la nuca. Un po' di baci... che male c'era? Daniel cominciò a tirarmi su la parte superiore del pigiama per massaggiarmi le spalle. Lottai con me stessa, non bisognava essere Nostradamus per capire come sarebbe finita. Dovevo lasciarlo fare? Un po' di sesso... che male c'era? Ovviamente moltissimo, se si voleva riavere la propria famiglia... ma era così bello... E allora alla fine cedetti, e dissi: «Oh, al diavolo» e mi buttai avida su di lui. «Uhhhh» gemette Daniel. Lo ignorai, e cominciammo a sbaciucchiarci. Selvaggiamente. Io sospiravo felice. Anche perché Daniel era il Paganini del gioco erotico con la lingua.
Di sicuro nell'arco dei successivi trentadue secondi avremmo fatto l'amore se, se... sì, se Casanova non fosse entrato in camera attraverso il balcone per poi saltarmi sulla schiena con gli artigli fuori. «Ahhh, sei fuori di testa?» imprecai. Il gentiluomo si limitò a indicarmi la porta con la zampa. «Qualsiasi cosa sia, può aspettare», gli latrai contro. Casanova scosse la testa. «Il gatto riesce a capirti?» Daniel non riusciva a capacitarsene. Casanova corse alla porta e si mise a graffiarla. Intimandomi di aprirla. Alla fine capii: aveva una traccia. (Dalle memorie di Casanova: «A Venezia c'era un numero enorme di gatti, e
uno particolarmente orribile aveva adocchiato Lilly. Ma quella creatura mostruosa intendeva rivelare il luogo dove soggiornava la ragazzina solo in cambio di un favore d'amore. Ne ero consapevole: quello era il momento in cui un gatto doveva fare quello che deve fare un gatto».) Mi vestii alla velocità della luce, mentre Daniel solo in parte scherzando diceva: «Mi sento usato». Non gli badai, aprii la porta e seguii il gentiluomo. In realtà non da sola, perché anche Daniel si vestì. «Tu rimani qui!» gli intimai. «Non ci penso neanche», replicò lui correndomi dietro. Ci buttammo tutti e tre nella notte
veneziana. Non avevo idea di come avrei potuto spiegare ad Alex il fatto di avere Daniel a rimorchio. E allo stesso modo: come potevo spiegare a Daniel che ero sulle tracce proprio di Alex, il vedovo di Kim Lange, la donna che anche lui aveva amato? Dubitavo che un «Chi sa dir chi sia l'ometto...» sarebbe stato sufficiente. Casanova ci condusse in una calle angusta, ando davanti a un canale maleodorante, fino a un campiello dietro il quale si intravedeva il mare aperto. Non c'era anima viva, nessun turista si sarebbe mosso così tardi e così distante dal centro. E in mezzo al campiello, illuminata dalla luna piena, dalle stelle e dalla flebile luce di un lampione, c'era la piccola chiesa di San Giobbe. La chiesa in cui Alex e io ci eravamo
sposati. Alla chiesa era appeso un cartello con la scritta VIETATO L'ACCESSO! PERICOLO! Dato che l'unica cosa che sapevo dire in italiano era «Un espresso, per favore», non capii quello che significava, ma associando la scritta all'intrico di nastri segnaletici e al ricordo che l'edificio, già al tempo del nostro matrimonio, era pericolante, potei dedurre che entrare non sarebbe stata un'idea brillante. Il gatto Casanova naturalmente lo fece comunque. Si infilò agile sotto i nastri, ando sulle lastre di pietra crepata della pavimentazione, ed entrò nella chiesa attraverso il portale socchiuso. Sospirai, sollevai il nastro di chiusura e mi piegai per arci sotto.
«Vuoi entrare?» chiese Daniel scettico. «No, voglio usare il nastro per fare un po' di ginnastica ritmica», risposi in tono leggermente impertinente. «Il cartello dice qualcosa a proposito di pericolo», mi ammonì. «Avrei preferito non saperlo», dissi con una punta di nervosismo, e mi diressi in chiesa. Daniel sospirò: «Dimmelo prima, allora», e mi seguì. All'interno ci accolse la luce della luna che penetrava attraverso le antiche vetrate colorate e conferiva all'edificio una piacevole atmosfera da notte estiva. La chiesa era meravigliosamente spoglia, lì secoli prima non si erano aggirati dogi, bensì gente assolutamente
normale, questo era il motivo per cui al tempo Alex e io l'avevamo trovata così romantica. Ma poi era diventata tanto pericolante da avere bisogno, un po' dappertutto, di impalcature di sostegno che davano anche l'impressione di essere lì da parecchio tempo. A quanto pareva l'amministrazione della città aveva deciso che quella chiesa non valeva l'investimento di una ristrutturazione e che i soldi sarebbero stati meglio impiegati altrimenti... Guardai l'altare e fu come fare un viaggio indietro nel tempo: mi vidi, Kim, con Alex al mio fianco che mi infilava l'anello, vidi il bacio che mi diede... i ricordi erano così meravigliosi e si mescolavano con tale intensità al dolore per il fatto che Alex fosse insieme a Nina,
da impedirmi di trattenere un sommesso, triste singhiozzo. «Sst» disse Daniel. «Non ti permetto di vietarmi di piangere», lo zittii. «Non intendo questo... ascolta.» Tesi l'orecchio e, effettivamente, qualcosa c'era: un respiro debole, ritmico, come se qualcuno stesse dormendo. Lo avrei riconosciuto in capo al mondo, visto che lo avevo assaporato sia come cane sia come formica. «Lilly!» «Chi è Lilly?» chiese Daniel. Non risposi e corsi in direzione del rumore. «Piano piano mi sto abituando a non ricevere risposte», disse Daniel laconico, per poi seguirmi tra le panche della chiesa della prima fila. Là c'era la piccola,
accoccolata, che ronfava tranquilla. La luce della luna cadeva direttamente sul suo visino dolce. Mi sedetti vicino a lei e l'accarezzai sulla guancia delicata: «Ehi, svegliati». Lilly aprì gli occhi. «Mmmaria?» mormorò. «Sì, che cosa ci fai qui?» «La mia mamma e il mio papà si sono sposati qui.» Sorrisi, profondamente commossa, mentre lei si alzava dalla panca. «Chi sono la tua mamma e il tuo papà?» chiese Daniel. E prima che potessi mettere la mano sulla bocca di Lilly, lei rispose: «Alex e Kim Lange». La mandibola di Daniel si ritrovò all'incirca all'altezza del polpaccio. Mi guardò fisso. «Ah...» fu il primo
suono che fu in grado di formulare dopo qualche attimo, e il secondo non fu ugualmente significativo. «Eh...?» In quel momento Casanova miagolò felice. Lo intesi come un segnale di avvertimento, perché se faceva così, poteva significare un'unica cosa... «Lilly, ci hai fatto prendere un tale spavento. Fuggire via in quel modo, abbiamo già avvertito la polizia...» Era Nina. «Maria? Che cosa ci fa lei qui?» E c'era anche Alex. A quel punto Alex vide Daniel Kohn. «E lei che cosa ci fa qui?!?» «Ehhh...» balbettò Daniel per la seconda volta. La presenza di Alex sembrò portare definitivamente al punto di fusione i suoi processori cerebrali. Volse lo sguardo
nella mia direzione, e Alex fece altrettanto. Entrambi volevano evidentemente una spiegazione. Per la prima volta avrei voluto essere una formica. «Hai portato tu qui questa donna?» chiese Nina rivolta ad Alex, con un misto di gelosia e sete di sangue. E a quel punto avrei tanto voluto avere il mio acido formico. «Io... non l'ho portata», rispose Alex confuso. «L'ha portata lei?» chiese Nina a quel punto a Daniel, che fece un debole cenno di assenso. «Ma questo è incredibile», disse Nina rabbiosa. «Che cosa fa una celebrità come lei con la moglie dell'omino Michelin?» E
in quel momento avrei tanto voluto avere un lanciarazzi. «Io... io non ci capisco niente», balbettò Alex. «Io sì», disse Daniel. Lo fissammo tutti in silenzio. Alex. Lilly. Nina. Io. Il gatto Casanova. «Bene, allora sono ansiosa di ascoltarla!» disse Nina, ritrovando per prima la parola. E io lo ero ancora di più. «Dunque, vi potrà apparire folle», cominciò Daniel, «ma... questa donna ama il marito di Kim... E io amo lei... come ho amato Kim... E lei compare improvvisamente nella vita di tutti noi... in realtà come donna di servizio originaria di Amburgo...» «Arriviamo a una qualche idea illuminante?» chiese Nina, ormai con
i nervi a fior di pelle. «Sì», rispose Daniel, «per tutto questo può esserci un'unica spiegazione...» «E quale?» Era evidente che il balbettio di Daniel mandava Nina fuori dai gangheri. «Maria... Maria... è... Kim.» A quel punto furono parecchie le mandibole che si trovarono all'altezza del polpaccio. Quella di Nina. Quella di Alex. La mia. Solo Casanova si leccò voluttuosamente la zampa. E Lilly mi guardò piena di speranza. «In qualche modo si tratta di reincarnazione... o trasmigrazione delle anime... o una qualche altra cosa», balbettò Daniel. «Quale? Quale altra spiegazione ci sarebbe, altrimenti, per tutta questa follia?» «Vieni, Alex, non siamo obbligati ad ascoltare queste
scemenze.» Nina lo tirò per la manica con l'intenzione di uscire. Ma Alex rimase fermo. «Alex!» insistette Nina, ma lui guardava solo me. «Tu... tu non crederai a quello che ha detto?» chiese Nina. «Spiegherebbe tutto...» mormorò Alex. «Ma vi siete fatti?» Nina era stizzita, in ogni momento ci si poteva aspettare di vederla schiumare di rabbia. «Allora?» mi chiese Alex. «Ha ragione?» Che cosa dovevo dire? Guardai Lilly, che mi osservava con gli occhi che le brillavano. «Sei tu la mia mamma?» «Sta ritto quell'ometto su un solo pie», canterellai con un filo di voce. «Fa sempre così», confermò Daniel. «Perché non ha il cervello a posto
quanto questa chiesa non ha un tetto sano che la copra!» intervenne Nina. Guardai Alex disperata, gli indicai la mia bocca e gli feci capire che non potevo parlare. «Non puoi parlare di queste cose? Se non puoi parlare, allora limitati ad annuire», disse Alex. «Sei Kim?» Annuire. Idea grandiosa. Non ero obbligata a dire nulla. Non dovevo scrivere. Ma semplicemente annuire. Questo Buddha non lo poteva impedire, no? Quindi cercai di annuire, ma la mia testa cominciò a descrivere dei cerchi! E più mi opponevo disperata, più roteava. «Sta tentando di fare un record della pista?» chiese Nina asciutta, mentre i due uomini e Lilly erano delusi dalla mia
reazione almeno quanto me. (Se mi fosse capitato di incontrare ancora una volta Buddha, allora «gli avrei dato un bel calcio nel culo», per usare le parole di mia madre.) «Andiamo adesso», decise Nina. Ma Alex non le prestò ascolto e continuò a osservarmi speranzoso. «Andiamo adesso!» insistette Nina. A quel punto credetti di individuare i primi indizi di schiuma rabbiosa sulle sue labbra. Alex la guardò confuso. Ma prima che potesse balbettare qualcosa, Lilly gridò: «No!» «Adesso non cominciare anche tu a darmi sui nervi!» disse Nina irosa. «Abbiamo ato mezza giornata a cercarti scarpinando come pazzi e...» «Tu non puoi dirmi niente!» gridò arrabbiata
Lilly, correndo in direzione dell'altare e ando attraverso un'altra zona delimitata. «Lilly, vieni subito qui!» urlò Nina. «Io rimango dove sono!» rispose la piccola, e cominciò ad arrampicarsi su una delle impalcature traballanti. «Lilly!» gridammo Alex e io all'unisono. Ci scambiammo rapidamente uno sguardo, ci facemmo un breve cenno di assenso perché in quanto genitori ci sentivamo legati dalla comune preoccupazione, e corremmo dietro alla piccola. «Scendi», gridò Alex a Lilly. Ma lei continuò a salire arrampicandosi. Il fatto che l'impalcatura sotto di lei dondolasse in maniera preoccupante non le interessava.
«Verrò giù solo quando saprò se sei la mia mamma o no.» Come dovevo spiegarglielo? Non potevo. E in questo modo la deludevo. Molto. Iniziò a piangere. Nel frattempo aveva raggiunto la parte alta dell'impalcatura. «La porto giù io», disse Alex deciso. «L'impalcatura non sembra poter reggere il tuo peso», dissi preoccupata. «Il tuo certamente no», si inserì Nina, sfrontata. Mi voltai verso di lei. Un lanciafiamme a quel punto non mi sarebbe bastato. «Tu sei l'unica abbastanza leggera per salire», ribattei. Nina esitò, rivolse lo sguardo in su, a Lilly che piangeva.
«Maria ha ragione», disse Alex. «Ma io non sono affatto stanca di vivere!» «Si tratta di Lilly!» Alex non riusciva a capacitarsi che Nina esitasse. «Vieni giù!» gridò Nina a Lilly. «Non gridarle addosso!» le abbaiò contro Alex, prima che fossi io a farlo. «Tu non gridarmi addosso!» ribatté Nina ferita. «Rivoglio la mia mamma», piangeva Lilly. Il mio cuore gemeva. «Aiutala!» pregò Alex rivolto a Nina. Lei guardò in su. Era evidente che salire là sopra le appariva troppo rischioso. «Vado a chiamare la polizia, o i vigili del fuoco o qualcosa del genere!» rispose, e si diresse di corsa verso una delle porte laterali.
Casanova le si precipitò dietro, miagolando, tagliandole la strada. Come un pazzo. Voleva fermarla. A causa di Lilly? «Vattene, bestia schifosa!» imprecò Nina. Casanova non si diede per vinto. «Vattene!» Nina gli assestò un calcio violento, in cui mise tutta la rabbia che provava per Alex, per me e per quella situazione. (Dalle memorie di Casanova: «Il mio primo contatto fisico con mademoiselle Nina me lo ero immaginato decisamente più romantico nei miei sogni a occhi aperti».) Casanova volò per un paio di metri e
si schiantò su una panca della chiesa. Inferocita, guardai Nina. A quel punto vidi che sopra la porta laterale da cui voleva uscire c'era un'altra impalcatura, che dava l'impressione di essere ancora più instabile di quella su cui si trovava Lilly. In quel momento capii perché il gentiluomo le fosse corso dietro. Aveva visto quello di cui Nina nella sua rabbia non si era accorta: era estremamente pericoloso uscire da quella porta. L'anta avrebbe battuto contro uno dei sostegni traballanti, facendo crollare in questo modo su se stessa tutta l'impalcatura. Nina sarebbe rimasta schiacciata. Casanova voleva salvarle la vita! Quello era il momento in cui avrei dovuto avvertirla del pericolo! Ma invece mi arono rapidamente
per la testa mille pensieri. Una parte di me diceva: Se Nina muore, Alex sarà definitivamente libero per te. E un'altra parte insisteva: E allora potremo vivere la nostra vita come vogliamo. Ma la terza parte quella scettica esclamò: Ehi, morirà!!!!! Certo, ribatté la prima parte con estrema calma. Ma non è poi così grave. E la seconda aggiunse: Verrà reincarnata. E la terza parte disse decisamente sorpresa: Ehi, avete ragione! Neanche Nina sarebbe rimasta a lungo morta. Sarebbe stata reincarnata. Forse in un grazioso coniglio, o in un bel cavallo... lei amava i cavalli. E cose particolarmente brutte nella sua vita non ne aveva combinate per finire tanto in basso nella scala della
reincarnazione. O no? Il fatto che in ato avesse abortito non sarebbe certo bastato per farla finire nel formicaio. O no? Buddha non era mica come il Papa. O no...? Ono?!?!?!? Non auguravo a nessuno una tortura di reincarnazioni a partire dalla formica, ando per gli esperimenti sugli animali e via dicendo, come l'avevo vissuta io. Neppure a Nina. Non potevo essere del tutto sicura che in futuro non avrebbe trascinato orsetti di gomma in giro per la zona, se non l'avessi avvertita. «Nina!» gridai. «Chiudi il becco, cretina cicciona!» gridò lei. Era a un metro dalla porta. Misi il mio corpo in movimento e partii di corsa. Alex e Daniel mi
seguirono con lo sguardo, disorientati, mentre dietro di me io continuavo a sentire i singhiozzi di Lilly. «Non aprire la porta!» le gridai respirando a fatica. Nina mi ignorò e mise la mano sulla maniglia. E la spinse verso il basso. «No!» urlai. L'avevo quasi raggiunta. Ma proprio in quel momento lei aprì la porta e così facendo urtò contro il sostegno dell'impalcatura. Si sentì un rumore, pochi secondi e i detriti sarebbero crollati su di lei. Vidi lo sguardo terrorizzato di Nina. E mi fu chiaro: sarebbe rinata sotto le sembianze di un qualche animale, magari addirittura di una formica... se non la salvavo. E fu esattamente quello che feci, senza pensare alle conseguenze. Tirai a terra Nina e la protessi con tutto il mio
massiccio corpo. Le assi dell'impalcatura mi crollarono sulla testa, sulla schiena, sulle gambe. Quando la polvere si diradò, sentii che sotto il mio pesante corpo Nina respirava ancora. Le avevo salvato la vita. Grazie alla mia ciccia. Sorrisi soddisfatta. E quello fu il momento in cui il mio cuore smise di battere.
Capitolo 57
BUMbumbum. Nessun film in cui tutta la mia vita mi ava davanti agli occhi. Bum, bum, bum. Nessun Nirvana che volesse accogliermi. Bum, bum, bum. Nessuna luce che mi abbracciasse. Bum, bum, bum. Nessuna sensazione di amore e protezione. Bum, bum, bum. Solo il mio cuore, che pulsava. Per quanto tempo era rimasto fermo? Mi trovavo ancora in chiesa? Aprii gli occhi e vidi che ero di nuovo nel biancore brillante dell'anticamera del Nirvana. E su di me si chinava Buddha,
sempre nudo! «Ma caspita, non potresti ogni tanto metterti qualcosa addosso?» gli dissi. «Anche tu sei nuda», sorrise Buddha. Era vero. Per entrambi valeva l'impressione che il corso Weight Watchers avesse organizzato un'escursione per nudisti. «Quindi sono di nuovo morta», constatai mentre tentavo di alzarmi. «Non completamente», sorrise il ciccione. «Non completamente?» chiesi scettica. «Non completamente morta è come dire non completamente incinta.» «Lui sta lottando per la tua vita.» «Lui chi?» «Alex.» Ero sorpresa. E sperai. C'era forse la possibilità che Alex mi riportasse in vita?
«E... ce la fa?» chiesi. «Guarda tu stessa.» Buddha protese verso di me la sua pancia molliccia. E prima che potessi dire: «Accidenti, non è un gran bel vedere, e so che non potrei dirlo visto che sono anch'io abbastanza cicciona, ma ti prego, ti prego, ti prego, non protendere in questo modo il tuo corpo verso di me», la sua pancia si trasformò in una sorta di spioncino che si apriva sulla chiesa di San Giobbe. «Wow, hai una televisione incorporata», cercai di scherzare. E più l'immagine si faceva nitida, più mi agitavo: evidentemente Alex e Daniel avevano rimosso le assi che erano crollate su noi donne. E mentre Lilly osservava impaurita dalla sua postazione in alto, Nina cercava di alzarsi e insieme
a Daniel guardava Alex che disperatamente tentava di rianimarmi con un massaggio cardiaco. «La grassona... mi ha salvata...» disse Nina esterrefatta. «Sì», mormorò Daniel con un filo di voce. Era impressionato. «Questa... questa... è la prova» balbettò Nina. «Di che cosa?» chiese Daniel. «Che lei non è Kim. Kim non avrebbe mai fatto una cosa del genere...» Fremetti di disprezzo. «Ha ragione», disse Buddha con un sorriso, «la Kim che eri non lo avrebbe mai fatto. Sei molto cambiata.» Lo guardai stupita. La sua panciatelevisione cambiò programma: vidi come nella mia vita da Kim Lange avevo scacciato dal suo
lavoro, senza il minimo scrupolo, Sandra Kòlling, la conduttrice che mi aveva preceduta. L'immaginepancia cambiò, e a quel punto mi vidi quando, sempre Kim Lange, avevo giurato di non rischiare mai più neanche un'unghia per una delle mie assistenti. E poi la pancia cambiò nuovamente canale e all'improvviso potei osservarmi come porcellino d'India. Ero sulla strada, a Potsdam. Era il momento in cui la Renault Scénic sfrecciava in direzione di Depardieu. Allora, neanche per un secondo mi era ato per la testa di salvare Depardieu, come avevo appena salvato Nina. «A quanto pare ho subito una mutazione e sono diventata una vera e propria produttrice di karma positivo»,
dissi. «Esatto», confermò Buddha soddisfatto. «Tuttavia non l'ho fatto intenzionalmente.» «Lo so. Tanto meglio così.» «Come?» «Ora produci karma positivo senza ragionarci sopra. Metti in gioco la tua vita. E lo fai di tutto cuore!» Ne rimasi toccata. Profondamente. E, nonostante tutto, dovetti sorridere orgogliosa. «E, specialmente, sei disposta a sacrificare per un altro qualcosa di speciale!» Smisi di sorridere. Buddha aveva ragione: per salvare Nina avevo messo a rischio la mia vita. Una vita con la mia famiglia. «Ti ricordi quello che ti ho detto quando non sei voluta entrare nel
Nirvana?» chiese Buddha. La sua pancia cambiò di nuovo programma, si sintonizzò sul nostro ultimo incontro, poco prima che mi risvegliassi nel corpo di Maria: ero davanti a Buddha, nudo, con le sembianze di Kim Lange, nuda. (Cielo, com'ero magra, e le cosce erano decisamente esili.) Lui mi diceva: «Una chance del genere te la concedo un'unica volta». Buddha fermò l'immagine e annunciò: «Ora andrai nel Nirvana». «Ma io non ci voglio andare!» protestai. «Oh, sì invece che lo vuoi», sorrise Buddha. «Non voglio!» «Questa volta non riuscirai a farmi cambiare idea.» L'immagine della panciatelevisione si
sintonizzò di nuovo sulla chiesa: Alex mi massaggiava il cuore. «Forza! Forza!» Era sempre più disperato. Così disperato da dire: «Forza... Kim!» «Sì, voglio farcela!» gridai, e guardai Buddha implorante. Ma lui non reagì. Guardai la pancia e vidi Nina che chiedeva a Daniel a bassa voce: «Crede veramente che quella sia Kim?» Daniel annuì muto. Nina fissò Alex che mi massaggiava il cuore disperato e ripeteva in continuazione il mio nome, e sussurrò triste a Daniel: «Contro questo amore non ho possibilità». E Daniel annuì di nuovo, come se volesse dire: «Neanch'io». «Kim, ti prego!» gridò Alex con le lacrime agli occhi.
Sull'impalcatura Lilly piangeva nascondendosi nella manica. «Mamma, ti prego...» «Ti prego», implorai anch'io Buddha. Ma lui rispose solo: «Adesso andrai nel Nirvana». Guardai i suoi occhi sereni, e i suoi occhi sereni mi dissero chiaramente: «Non c'è più possibilità di trattare». Per me era la fine. Non potevo tornare da Alex e dalla mia Lilly...anche a me vennero le lacrime agli occhi. «È arrivato il momento», disse Buddha. Un'ultima volta rivolsi lo sguardo alla mia famiglia. Poi chiusi gli occhi e trattenni con tutte le mie forze le lacrime: se così doveva essere, allora volevo entrare nel Nirvana con dignità.
Capitolo 58
QUANDO riaprii gli occhi, mi trovai di fronte a un'assoluta assenza di luce e Nirvana. Ero di nuovo nella chiesa di San Giobbe e guardavo Alex. Che non stava in sé dalla gioia. E neanch'io. Ero completamente confusa: pensavo che sarei dovuta entrare in quello stramaledetto Nirvana. E ora, che cosa stava succedendo? «Tutto okay?» chiese Alex. Avevo lividi, contusioni e ferite profonde dappertutto. Il mio cuore doveva
ancora abituarsi a riprendere la sua attività regolare. Ma nonostante tutto dissi sorridendo: «Non potrebbe essere più okay». Daniel vide come Alex e io ci guardavamo raggianti, e con aria abbattuta sussurrò a Nina: «Credo che possiamo andare». Nina annuì, non aveva più la forza di reagire. Daniel le mise la mano sulla spalla e si voltò per andarsene con lei. «Ha dato un calcio al gatto», esclamò la piccola Lilly che completamente disorientata sedeva ancora in cima all'impalcatura. Guardai Casanova. Giaceva immobile vicino alla panca di legno contro cui lo aveva scaraventato il calcio di Nina.
Atterrita mi drizzai, ma crollai subito a terra: avevo dolori terribili dappertutto. «Ti aiuto.» Alex mi sorresse con le sue dolci braccia. «Grazie», risposi, e rapida, con il suo aiuto, zoppicai verso il gentiluomo veneziano. Già prima di raggiungerlo mi accorsi che non respirava più. L'osso del suo collo di gatto era rotto. Ero sconvolta. E infuriata con Nina. Ma lo fui solo per un secondo. La vidi così triste che non ebbi cuore di rinfacciarle anche quello. Inoltre pensai fra me e me che Casanova era morto nell'intento di salvare Nina. E che senza di lui neanch'io avrei capito qual era il pericolo; Nina sarebbe rimasta uccisa dal crollo dell'impalcatura
e io non avrei potuto salvarla. Di sicuro il gentiluomo veneziano aveva prodotto karma positivo, e forse era addirittura già nel Nirvana. Quindi non dovevamo addolorarci per lui! «Non devi provare rimorsi. Il corpo è solo un involucro per l'anima», dissi a Nina cercando di farle coraggio. Lei non rispose, rimase ferma con lo sguardo vuoto davanti a sé. Daniel Kohn, che si sforzava di reagire nella maniera più risoluta, le mise una mano sulla spalla cercando di confortarla. «Forse adesso dovremmo proprio andare.» Lei rivolse lo sguardo ad Alex, poi a me, e alla fine disse con profonda tristezza: «Non solo forse». Alex voleva risponderle qualcosa, ma si rese conto che non c'erano parole in
grado di consolarla. E quindi, con voce bassa ma ferma, disse solo: «Scusami». Nina annuì. Poi Daniel la condusse fuori dalla chiesa. Mi dispiacque immensamente che avesse perduto tutto quello che aveva sognato. Forse, sperai con tutto il cuore, lei e Daniel si sarebbero potuti mettere insieme. In quel mentre suonò il cellulare di Daniel. «Babsi?» rispose lui. «Sì, la mia conferenza è finita. Domani sarò a Potsdam... Budino al cioccolato? Sì, sarebbe un vestitino meraviglioso per te...» D'accordo, magari Nina e Daniel non si sarebbero messi insieme. (Dalle memorie di Casanova: «Come per madame Kim, Buddha lasciò anche a me la scelta se entrare nel Nirvana oppure
no. Che cosa decisi? Mettiamola in questo modo... mademoiselle Nina rimase estremamente stupita che un uomo così corpulento potesse essere un amante tanto fantastico. Realizzammo il più intimo da lei prima mai formulato desiderio di mademoiselle Nina: mettemmo al mondo un gran numero di bambini. Eravamo come tanti conigli, pardon, come porcellini d'India. E vivemmo con la nostra grande famiglia nella mia meravigliosa patria, Venezia. L'incantevole Nina, che nel frattempo ovviamente era diventata la mia madame, gestiva un'agenzia di viaggi, mentre io guadagnavo denaro componendo manuali erotici. Della nostra prole Nina si occupò egregiamente, producendo in questo modo, senza dubbio, karma positivo.
Mentre io lo produssi con i miei manuali, rendendo la vita amorosa di molte persone infinitamente più creativa».) A quel punto i due lasciarono la chiesa e quando la porta dietro di loro si fu chiusa, Alex, Lilly e io fummo, per la prima volta dal giorno della mia morte, di nuovo tutti e tre insieme. In quel momento il sole iniziò a sorgere, e i primi raggi filtrarono attraverso le meravigliose vetrate colorate. Le zone azzurre, verdi, rosse, violette e bianche rifrangevano la luce in modo tale da immergerci in un magico firmamento di colori. C'era solo il problema che Lilly, in mezzo a quel magico firmamento di colori, era ancora sull'impalcatura.
«Ti prego, vieni giù», le gridai preoccupata. «Solo se mi dici se sei la mia mamma.» Avrei tanto voluto urlare a squarciagola: «Sì, lo sono!» Sebbene sapessi che avrei canticchiato la solita canzoncina, aprii la bocca e dissi: «Sì, sono la tua mamma». Nessun ometto, nessun cappelletto, nessun farsetto, nessun mantello. Semplicemente: «Sono la tua mamma». Ero disorientata! Buddha mi aveva liberata dall'incantesimo? Lilly mi guardò raggiante. «Davvero?» «Sì!» gridai ridendo forte. Anche lei scoppiò a ridere felice, e cominciò a scendere dall'impalcatura. «Stai attenta!» esclamai. «Sii
prudente!» «Mamma, adesso sono grande!» rispose Lilly. Mentre mia figlia scendeva con agilità dall'impalcatura, Alex mi si rivolse con un sorriso. «Io... io non riesco ancora a crederci.» «Io... neanch'io...» gli risposi. Continuavo a non capire perché non mi trovassi in quello stupido Nirvana. Buddha aveva detto chiaro e tondo: «Adesso andrai nel Nirvana». Una paura mi fece trasalire: non è che Buddha adesso mi avrebbe presa e portata nel Nirvana? Lontana da Lilly e Alex? Li guardai tutti e due: li avrei persi di nuovo a breve? A questo non mi sarei mai rassegnata. Neanche nella gioia eterna del Nirvana! «Dove... dove sei stata negli ultimi anni?» chiese Alex.
«A volte molto vicino a voi», risposi dicendo la verità. «Avete chiacchierato abbastanza?» chiese Lilly. Era lì, accanto a noi. Poterle finalmente dire che ero sua madre per il mio cuore era meglio di sette by. «Se sei veramente la mamma, allora posso abbracciarti stretta stretta?» disse Lilly interrompendo i miei pensieri. «Certo.» Così dicendo la presi tra le mie grosse braccia e la strinsi a me con forza, nella luce di quel firmamento incantato di colori; ancora un po' e sarebbe soffocata. Ma Lilly non se ne preoccupava, era solo felice. Chiusi gli occhi per godermi appieno quel momento della mamma che ha
ritrovato la sua bambina. A quel punto Alex si schiarì la gola. Aprii gli occhi e lo guardai. «Posso unirmi anch'io?» chiese. Il suo sorriso era ancora velato dalla commozione e dallo sconcerto. «Certo!» risposi. E strinsi anche lui alla mia morbida pancia. Chiusi di nuovo gli occhi. Sentii mia figlia. E mio marito. La mia famiglia era di nuovo riunita. Ed eravamo più vicini che mai. Come Kim Lange, non ero mai stata così vicina alla mia famiglia. O forse non avevo voluto. Era meraviglioso. La mia famiglia mi avvolse tutta.
Soave. Calda. Amorevole. L'abbracciai e lasciai che m'invadesse. Dio mio, mi sentii così bene. Così protetta. Così felice. E in quel momento capii perché Buddha mi aveva rimandato nella vita. Per il Nirvana non serve alcun Nirvana!
FINE