Caterina Capalbo
L’enigma dei Frari
(con album fotografico in appendice)
Librinmente
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ISBN-13: 978 - 88 - 97911 – 35 - 7
Stampato in Italia - Prima edizione
http://www.librinmente.it
Questa è un’opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a fatti o persone della vita reale,
è puramente casuale.
Premessa
Ho immaginato l’Italia nel 2030 ma in realtà ho solo guardato il presente e molti erano gli spunti ... tanti i suggerimenti e se ci saremo svendendo il nostro bel paese ai migliori offerenti stranieri l’ho pensato con ironia e rassegnata consapevolezza. Nulla, oltre le grida di indignazione, si fa per salvare Pompei dal degrado, o per scongiurare la chiusura di musei, biblioteche e di archivi storici perché privi di fondi e di personale. Nulla ha impedito la dismissione di palazzi storici. Anche le fabbriche un tempo produttive sono ridotte a reperti archeologici e i centri direzionali sembrano basi spaziali abbandonate.
Non volevo scrivere un thriller ma mi rendo conto che, pur giocando con la fantasia e i sentimenti, ho creato in meno di duecento pagine una storia vorticosa, violenta, ricca di colpi di scena tanto che non ho mai avuto timore di raccontare in pubblico la trama perché c’era sempre dell’altro da dire. Questo romanzo è un atto d’amore fuori da ogni retorica nei confronti della ione per tutto ciò che è arte e che mi ha accompagnato nella vita.
Dal ventaglio infinito di opere artistiche che l’Italia vanta ne ho scelte solo alcune: l’Assunta di Tiziano ai Frari la basilica di Venezia dove parte la storia, poi l’Elemosina di San Antonino di Lorenzo Lotto che sta nella chiesa di San Zanipolo sempre a Venezia, un po’ perché tra i due pittori c’era rivalità, un po’ perché la prima è la sintesi della ricchezza contemplata e la seconda è il simbolo di una ricchezza condivisa con i meno fortunati. Poi accenno alle Logge di Raffaello e ai giardini vaticani come se fossero un universo di pace. E faccio riferimento alle Nozze di Cana del Veronese e alla collezione Von der Shulenburg. Codici e croci ageminate sono di fantasia.
Mi interessava lo scrigno prezioso delle chiese come luogo per cui le opere sono nate e si conservano senza che siano relegate in un museo. Il miracolo della
bellezza che vive nell’ombra delle nicchie illuminate solo dalla fiammella di un cero. Lo stupore davanti ai libri antichi osservati nel silenzio dei rifugi conventuali, nelle sale di lettura dei monasteri.
Se mi immagino opere inesistenti di Caravaggio e dei suoi seguaci e descrivo un’opera vera ma meno conosciuta che incute una certa soggezione come il sacrario di Canova ai Frari, un po’ architettura e un po’ scultura, lo faccio con un pizzico di divertimento: tutti cercano i Caravaggio perduti, pochi si soffermano a guardare quel misterioso sacrario. E se faccio parlare e indignare lo scultore e ambasciatore Antonio Canova è perché la sua voce e i suoi propositi sono quelli di un vero italiano. Se immagino la conversione e il pentimento in Napoleone è perché cedo alla speranza. Se vedo il pittore Tiziano inquieto fantasma è perché chiunque vive perennemente attraverso la sua arte.
La storia vera dell’Assunta dei Frari di Tiziano è straordinaria, così come quella delle nozze di Cana del Veronese ora al Louvre (ma da restituire all’Italia … chissà!). E tante sono le questioni aperte. Perché molti sono sulle tracce del tesoro dell’armata napoleonica e credono che esista sul serio? E le opere requisite dai napoleonici quante furono veramente? E i Caravaggio dispersi si troveranno prima o poi?Possiamo sperare nell’aiuto dei paesi dalle economie emergenti per salvare il patrimonio artistico italiano?
Per inseguire i miei personaggi, per trattenerli in un contesto e farli partecipare al racconto dovevo vedere luoghi e scenari per questo ho descritto cose apparentemente fuorvianti. Per questo ho aggiunto al vero il falso.
I fatti appaiono confusi come in un giallo che già dalle prime scene ti presenta la soluzione ma tu non la vedi perché in quel momento sei distratto da altro. All’inizio cerco di disorientare con lo stridore di un meccanismo arrugginito, non mi curo di piacere al lettore ma non potrei cambiare una virgola. Solo l’immaginaria statua della fanciulla triste o un reperto insolito come il manto di un imperatore ritrovato nel sacrario di Canova alla chiesa dei Frari, metteranno
in moto un processo di redenzione e di conquista di verità. Il sontuoso mantello regale di Napoleone nel dipinto dell’Incoronazione fatto da J. L. David e conservato al Louvre nella mia memoria ha creato stravaganti connessioni che hanno innescato un congegno di dialogo tra futuro ( il presente per il racconto) e il ato.
Ho inseguito i personaggi e le cose: questo è stato il mio unico merito. Avevano già una loro vita, un loro destino. La casualità che li lega è apparente. C’è una logica perché se uno dei protagonisti, don Carlo il parroco della chiesa dei Frari, non fosse stato minacciato dalla mafia non sarebbe entrato nel sacrario di Canova e non avrebbe trovato in quel recesso di buio e di morte un segno di speranza proveniente dal ato e invisibile a tutti.
Nulla di quello che narrerò è stato pianificato prima eppure proprio dando voce ai tanti personaggi, ai sogni e ai desideri, alle nefandezze e alle ioni, ai dolori e agli amori, per una strana coincidenza la vicenda nasce a Venezia fa un lungo giro attraverso luoghi veri o immaginari al nord e al sud e poi ritorna e si conclude a Venezia. La laguna confonde gli occhi e illumina la mente. Confuso è l’occhio di chi non guarda la bellezza del nostro paese ma quantifica, soppesa in funzione dell’economia e del pareggio di bilancio. Lo scenario politicoeconomico è una metafora esasperata del presente. La fragilità, la forza e la bellezza della città lagunare sono il simbolo di una resistenza alle avversità.
Il bene e il male portano alle modificazioni che una mente solo ordinata non saprebbe intuire. Lo strumento della casualità di cui faccio uso smodato accende la miccia ma il fine è la credibilità, una soluzione plausibile. A volte descrivo rallentando il o del racconto perché un fiore, un’erba, un cielo, un muro diroccato, un mare in lontananza sono altrettante opere d’arte naturali.
L’ironia nel tratteggiare certi personaggi come don Frigerio Malaspina, il ministro Xao, Fausto Maria Breviglieri o Santuzza la perpetua o Gasparone o Monnezza o Salvo u Niru finisce per colpire anche Napoleone, Canova o il Papa
e l’Arcivescovo Santoro. Cerco l’umanità del personaggio più che la casella dove appiccicargli l’etichetta di buono o cattivo. Anche l’eroina del romanzo Nina Malaspina è una creatura osservata col sorriso: così perfetta non esiste nessuna donna! La sua anima è il simbolo della migliore Italia quella che scalda e accende gli animi di speranza e di amore ma persino la spregiudicata Hiroike Jashui, astratta sirena della vita reale, con la sua innocenza infantile prestata alla cupidigia svia qualsiasi giudizio morale, qualunque condanna. La catena di eventi che racconto allacciati a doppio filo rasenta l’assurdo ma nella vita tutto è possibile. (Caterina Capalbo)
I PERSONAGGI
Don Carlo Donati: parroco della chiesa dei Frari
Signora Luana: una veneziana
Padre Saverio D’Avola: abate dell’abazia di San Martino al Fonte di Gerlasco
Padre Alberico, padre Ottavio: confratelli di padre Saverio
Vescovo Aleandro Santoro principe di Torre Addura di Montesanto: gov. del Sud
Santuzza: perpetua del Vescovo Santoro
Don Getano Palopoli: vice sindaco di Castel Rossano delle Calabrie
Donna Carmela Russo Lavia: nobile benefattrice del Sud
Cardinale Alfiero Oderisi: segretario particolare del Papa
Suor Anna Bellori: madre superiora del monastero di Santa Scolastica di Fragore
Suor Erminia, suor Malvezia, suor Calvaria, suor Lucia: consorelle di suor Anna
Donna Filomena Mangano: ex manager della Thelecra
Ingegner Demetrio Galan: referente dell’Impero Cinese
Hiroike Jashui: giovane assistente di Galan
Lo Smilzo: guappo napoletano
Dottoressa Nina Malaspina: ricercatrice dell’Università di Napoli e figlia di Don Frigerio
Matteo, Paolo, Gennaro, Alfio,Elisa: restauratori, archeologi, storici dell’arte precari
Gasparone O’ Monnezza: imprenditore mafioso
Don Telesio Minniti: prete veggente
Don Frigerio Malaspina: capo delle Mafie Riunite dell’Alleanza Sudista
Salvo u’ Niru: fratellastro di Maddalena e braccio destro di Malaspina
Architetto Sandro Petri: referente degli interessi del Nord, organizzatore di meeting segreti
Senatore Massimo Binaghi: capo del gruppo Anti-Crisi della Federazione Nord
Ingegnere Fausto Maria Breviglieri: capo dell’Unione Celtica del Nord e della Milizia
Ministro Xao- Chan su: Ministro della Cultura dell’impero Cinese
Anna Mocenigo Zorzi: moglie del Ministro Xao
Sua Santità il Papa: sovrano del Regno Pontificio al Sud
Frate Oderisio: centenario custode dell’Archivio di Stato ai Frari
Tin Shu: il cieco emissario di Breviglieri
Colonnello Jean Baptiste Laroche: ultimo fedelissimo di Napoleone Bonaparte
E con la partecipazione straordinaria
dello scultore Antonio Canova ambasciatore fantasma
Caro lettore,
ciò che sto per raccontarti, cominciò un’estate, a Venezia, nel quartiere di San Polo, in Campo dei Frari, il piazzale antistante una delle chiese più belle al mondo.
La storia ha origine secoli fa, fino a coinvolgere e toccare fatti, argomenti e pensieri che si agitano inquieti nelle atmosfere del nostro presente e si concretizzeranno in un prossimo futuro.
Sarai tu a decidere se si tratta di una storia vera, possibile, verosimile, o inventata, impossibile, impensabile, incredibile, assurda.
E perdonami per certe visioni, per le mie fantasiose conclusioni, nate da presupposti altrettanto fantasiosi.
Nel sogno si vedono cose altrimenti invisibili.
Cap. I
A Venezia
La basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari era in pericolo: questo era stato detto per telefono a don Carlo con una perentoria comunicazione che non aveva lasciato dubbi. “Alle diciotto e zero due”, era l’ordine impartito da una voce sconosciuta. Dalle parole usate e dal modo in cui erano state pronunciate non pareva uno scherzo o una stupida provocazione, ma una minaccia seria fatta da gente decisa.
“Questo è dunque il baratro dove stiamo precipitando? L’inferno spalanca le porte e libera i suoi vermi. Un fosco futuro di malvagità appare all’orizzonte: trema e impallidisce la laguna” pensava il parroco davanti al portale della sua chiesa nell’aria ferma e dolciastra del pomeriggio. Scuro nello sguardo e pallido come un cencio cercava di mantenere il controllo nonostante si sentisse precipitare nella paura da cui era fuggito tanto tempo fa. Era il giorno dopo di un torrido ferragosto nell’ora in cui di solito meditava sul commento ai salmi di sant’Agostino e, invece, era lì nell’attesa di un misterioso contatto.
Non riuscì a sfuggire al saluto dei mendicanti abituali con cui scambiava sempre due chiacchiere e, osservando i gruppi di turisti intorno al sagrato, si sarebbe mimetizzato volentieri tra loro. Voleva dileguarsi, sparire pavidamente alla vista di chiunque tanto si sentiva schiacciato da quella sfida. Si sentiva un morto appena resuscitato come Lazzaro, col corpo gelido incapace di rianimarsi mentre il cuore gli martellava in petto vivo e stracolmo di rabbia. Da siciliano sapeva, purtroppo, quando si faceva sul serio. Con chi doveva misurarsi? Era la mafia? Che cos’era la mafia adesso, dopo trent’anni? Diede un rapido sguardo al suo vecchio Rolex: le diciotto e dodici. Erano in ritardo, i maledetti. Il giorno prima, alla stessa ora, celebrava la messa sotto l’altare dell’Assunta e pensava a mamma Concetta che festeggiava i settant’anni a Cefalù, il suo paese. Avrebbe dovuto starle accanto.
“Maria Santissima, vigila su di lei!” pensò mentre nel cuore si dilatavano i ricordi di una Sicilia lontana, intensa e perduta: il matrimonio mancato, la vocazione.
Diciotto e ventuno: ancora nulla. Il messaggio al telefono parlava chiaro: “Qualcuno ti darà gli ordini: devi solo aspettare”. E chi fosse quel qualcuno era tutto da capire. Doveva cedere al ricatto, non aveva scelta. Era una pedina del malaffare dentro la casa di Dio. Per smaltire il nervoso e spegnere la sete entrò nel caffè all’angolo e intercettò lo sguardo apito della signora Luana che lo apostrofò da dietro il bancone:
“Agosto a Venezia è una tortura infernale. E non posso andare in ferie. Don Carlo, puoi pregare perché arrivi un po’ di fresco?” fece lei supplichevole.
“Come se nostro Signore avesse tempo di ascoltarmi, con tutto il da fare che ha. Comunque pregherò che cambi l’aria di scirocco e porti sollievo alle anime sante di questa calle. Lavori troppo, goditi di più i nipoti. Li ho visti domenica scorsa alla messa, col papà”.
“Hai ragione, riguardati anche tu. Ti vedo giù di tono, affaticato… Ti xe preocupà?”.
“Comincio a farmi vecchio” rispose dando qualche rapido sorso alla sua cocacola e lasciò il bicchiere vuoto sul bancone.
“Con tutto il rispetto, ti xe belo! Ti te somegi a l’atòr… quelo famoso,
american… oddìo, come se ciamelo? Don Carlo perdon… ma nialtre semo tute inamorae de ti. Nei to’ confronti i altri i somegia dei coioni” fu esplicita la donna.
“Luana, che Dio ti perdoni!” commentò uscendo il prete.
Tornò rapido verso il portale, come se volesse in qualche modo rassicurare chi di sicuro lo teneva d’occhio di essersi allontanato solo per un momento. Allungando il o prese a stropicciare lo scontrino del bar fra le dita fino a ridurlo a una pallina morbida imbevuta del suo sudore che ripose meccanicamente in una tasca. Era piccola come un grano di rosario. Poteva recitarci un altro “Gloria al Padre e salvaci dal fuoco dell’inferno”. Sollevò ancora il polso sinistro per guardare l’orologio: le diciotto e quaranta. Non c’erano dubbi, qualcuno si stava prendendo gioco di lui e del suo ato. Strinse nel palmo della mano il crocefisso del rosario fino a sentirne le estremità conficcate nella carne. Ripeté più forte la stretta come per acquistare coraggio e avvertì, questa volta, il tocco di un oggetto liscio, piatto e sottile. Al tatto, riconobbe la forma di una chiavetta usb. Diciotto, quaranta minuti e quindici secondi: il contatto era nella tasca del rosario. Chiedersi chi e come gli aveva fatto la consegna non serviva. Gente esperta, quella!
Un povero prete poteva solo avere fede in Dio. Si fermò, si guardò intorno e, sempre con l’oggetto serrato tra le dita, si fece il segno della croce e rientrò in chiesa con gli occhi a terra, volutamente distolti dalla superba bellezza di cui era indegno custode. Cercò di mettere ordine nelle idee mentre i suoi i echeggiavano nel silenzio, superò il coro, attraversò con circospezione la sagrestia, entrò nel suo studio e chiuse alle sue spalle la porta con due sonore mandate. Serrò le finestre e tirò le pesanti tende di velluto. Filtrava una sottile striscia di luce ambrata, tacita testimonianza di un tramonto imminente. Nella penombra si abbandonò sulla poltrona della scrivania, poggiò la testa all’indietro sullo schienale, lasciò cadere i gomiti sui braccioli e congiunse le mani per pregare. La stanza gli parve di colpo immensa e in quella vertigine appuntò gli occhi sull’unica distrazione visiva appesa alla parete. Fissò la tela del San
Gerolamo penitente: sapeva comunicargli un bagliore di vita, un richiamo alla fede. Si concentrò sull’esangue magrezza di quel corpo, il capo chino sulla Bibbia, le vene affioranti sulla fronte lucida e febbricitante, le braccia protese e le mani allungate sulle pagine sacre, le spalle nude circonfuse dalla superba eleganza del manto cardinalizio che come una nuvola assumeva mille forme fino a perdere la sua consistenza. Proprio nel teschio in primo piano, in quelle orbite scure dove si sarebbero annidati i tizzoni ardenti del fuoco dell’inferno, trovò l’unico interlocutore valido, l’unico santo a cui votarsi. Che fare? Perché non rivolgersi ai carabinieri? Sapeva che dalla chiavetta avrebbe ricevuto un messaggio, una maledetta imposizione. Era Cristo tentato nel deserto, ma lui dubitava come un uomo impaurito. Oscillava tra due possibilità: respingere subito il benché minimo contatto o sapere almeno che cosa gli veniva chiesto e perché. Prese nervosamente a spostare le carte sulla scrivania per allungare il tempo di quella indecisione, accese la lampada, si avvicinò il telefono, aprì la rubrica telefonica alla “T” per trovare il numero del maresciallo Torresin, ci trovò in mezzo un pezzo di carta da pacchi stropicciata. C’era scritto a grandi lettere e in un tremolante corsivo:
“A tìa m’arraccumannu lampiuni
quannu u di cca lustru m’ha’ fari!”.
Un distico d’amore proveniente dagli abissi del tempo. Il ricordo poetico di notti buie, quando l’innamorato supplicava il lampione di illuminare bene le sue fattezze sotto le finestre dell’amata. E, siccome le illuminazioni promesse non arrivarono mai nella Sicilia d’inizio Novecento, si infransero le speranze degli amanti e della gente comune e quel modo di dire si utilizzò per disprezzare: “Tu non mantieni, sei inaffidabile, sei un prevedibile buffone”. O per dire: “Capiamo e controlliamo ogni tuo pensiero, ogni tuo gesto, ogni tua mossa”.
Si sentì bruciare il petto “assatanassatu” e allungò la mano sul tasto di avvio del portatile. Si slacciò la giacca, sudava e respirava male. Nel giro di pochi secondi
sarebbe apparsa la foto salvaschermo, quella del giorno della sua ordinazione sacerdotale: la festa a casa di don Telesio Minniti, suo padre spirituale, assieme ai parenti e agli amici. Il povero papà che sarebbe scomparso di lì a poco per una stupida pleurite malcurata e mamma Concetta con la sua figura esile, l’abito a fiori che s’era cucita per l’occasione, la collana e gli orecchini di perle, i guanti e il cappellino con la veletta. I volti delle persone che amava, i ritratti delle virtù che lo avevano sorretto finora, incitandolo al bene e aiutandolo a dimenticare le debolezze terrene, l’arrendevolezza del suo cuore, la tremenda ferita mai cicatrizzata della sua giovinezza.
Maddalena non l’avrebbe scordata mai più. Gli occhi verdi, l’incedere da adolescente procace, lo sguardo seduttore, le labbra pronte ai baci, l’innocenza delle sue scollature e dei tacchi a spillo quando si fece donna. La gioia contagiosa quando usciva di scuola e attraversava la campagna in bicicletta conquistando con gli occhi i panorami che dal paese si stendevano verso il mare, le canzoni che cantava mentre pedalava con la gonna che si gonfiava al vento senza che a lei importasse alcunché lasciando alla vista le gambe tornite e la pelle chiara.
La stroncarono con un solo colpo di lupara alla testa. Fu a valle, un sabato di maggio. Una macchina le bloccò la strada, c’erano tre uomini, uno scese e sparò senza darle il tempo di capire, di vedere per l’ultima volta la sua casa in lontananza, di abbracciare per l’ultima volta la sua terra. La sfigurarono al punto che si dovette impedire a Carmelina, sua madre, di vederla all’obitorio. La ricomposero con pietà e il padre, don Vittorio Macaluso, la vide avvolta da un bianco velo da sposa con una coroncina di fiori sul capo come se dovesse accompagnarla all’altare. Don Vittorio sapeva il perché, capiva il movente, conosceva il mandante e non doveva chiedere a Dio, non doveva scomodare l’alto dei cieli. Lasciò sgorgare le lacrime senza cedere allo strazio, si inginocchiò davanti al cadavere e aprì il cuore al vento devastante della vendetta. Al giovane Carlo, a cui s’era impedito di amare quell’angelo innocente, non restò che prefigurare il suo futuro da prete. I due uomini cambiarono il loro percorso di vita come i fiumi che, in corsa verso il mare, deviano bruscamente per aggirare un ostacolo sul loro cammino. L’odio per l’uno, il perdono per l’altro cementarono i giorni e gli anni futuri.
Ormai sentiva la sua vocazione come il frutto di un disegno imperscrutabile. “Le strade del Signore sono infinite e immensa è la fiducia che Egli ripone in me, grande è la forza che Egli sa instillare nel mio corpo stanco” pensò. Soppesò la chiavetta e la inserì senza più esitazioni.
Apparvero alcune foto di Maddalena in primo piano, sorridente, allegra. Bella come non se la ricordava più. Seguivano certe vedute di Cefalù, la scena del funerale e la gente in lutto, poi un frammento di marmo, una porzione di statua, la parte di un qualcosa che sentiva vagamente familiare nella memoria. Se le foto avevano un senso, quest’ultima doveva essere la più importante. Le prime erano la minaccia, una prova di forza, un modo per dire “sappiamo”, “ricordati”. Un modo per trafiggergli il cuore. Ma questa era il messaggio, la richiesta, il punto d’arrivo. In un successivo documento trovò sibilline istruzioni:
“Non si chiede all’uomo di Dio di uccidere o di rubare, ma di sostituire”.
Poi lesse una sequenza di cifre. Un numero telefonico? Un codice? Che si prendessero gioco di lui, dei suoi affetti, del suo ato, della sua fede era sopportabile, ma che arrivassero a fare quanto avevano minacciato era folle. Come si poteva solo pensare di dare alle fiamme la grande pala dell’Assunzione di Maria dipinta da Tiziano? Cancellare di colpo quella luce dorata, devastare quelle figure imponenti e armoniose, quel tripudio di devozione. Si poteva distruggere quella bellezza solo per dare una prova di forza? Si poteva aggredire quella santa icona solo per intimorire un povero prete? Pretendevano ventiquattrore di tempo, di silenzio e di collaborazione. Sul retro dell’opera c’era un ordigno incendiario a tempo e sul piccolo display appariva un meno 23: era già trascorsa un’ora. La mafia era cambiata, adesso la sua vittima era Dio.
Nella bassa padana
Nell’abbazia di San Martino al Fonte, Padre Saverio si rincantucciava nella sua celletta, prendeva posizione in poltrona per vedere il Tg serale e si divertiva a sgranocchiare mandorle. Erano il suo peccato di gola, un peccato veniale, ma si assolveva con magnanimità. Quel tenuo sapore lo riportava alla sua infanzia, al suo paese: Avola. Alle distese di mandorli in fiore, ai confetti profumati delle spose che rubava a manciate ai matrimoni delle zie. Se gli zuccheri erano da evitare per via del diabete, la dentatura teneva bene e padre Saverio non si sentiva di rinunciare alla sua innocente ione.
Il convento s’era ridotto a poche anime. La solitudine ne era la conseguenza naturale. Pace agli uomini di buona volontà, non necessariamente santi. Vocazioni? Poche, rare, sempre più rare. Fra qualche anno chi avrebbe detto le messe, chi avrebbe letto il Vangelo alle poche anime dei fedeli? Sarebbero cresciute le erbacce nell’orto, nessuno avrebbe rasato il prato del chiostro, il pavimento della sagrestia sarebbe andato in malora. Qualcuno sarebbe venuto a staccare gli affreschi della sala capitolare per conservarli al museo, com’era già in previsione, mentre gli stalli del coro sarebbero stati abbandonati all’incessante operosità dei tarli. Del resto, già adesso chiunque sarebbe potuto entrare per fare razzìe, nessuno si sarebbe opposto, nessuno avrebbe difeso il convento. Dal telefono, uno squillo perentorio invase la cella sovrastando l’audio del telegiornale. Un inatteso funerale per domani, visto che matrimoni e battesimi erano già fissati? A meno che non fosse la risposta che aspettava da Roma per un suo nipote che dalla Sicilia si era iscritto alla facoltà di Teologia dell’università Gregoriana e cercava una sistemazione nella capitale. Meglio se presso un istituto religioso, così la madre sarebbe stata più tranquilla. Un altro dottore della Chiesa, ma un servo di Dio in meno. Riflessioni svagate, elaborate nel giro di pochi secondi, il tempo di cinque, sei squilli ripetuti.
“La bomba che ti mettiamo nel convento è ad alto potenziale, assieme al tuo
misero cervello salterà in aria la biblioteca e quant’altro tu sai” gli disse una voce forte e autoritaria.
“Ma chi è, chi parla?”.
“Chi è, chi parla: quante cose vuoi sapere? I presuntuosi vogliono sapere. Umile servo di Dio, sta’ zitto su quella poltrona e segui le mie istruzioni. Prova a fare cazzate e vedrai”.
“Non scherzate su questi argomenti, in nome di Dio!” provò a esortare padre Saverio.
Chiuse il telefono come per allontanare la voce del demonio. Si fece automaticamente il segno della croce e fissò lo sguardo sullo schermo del televisore dove scorrevano come su un nastro trasportatore immagini ormai senza senso. Non sarebbe stato più tranquillo quella notte, quando il silenzio avrebbe amplificato tutte le sue paure.
L’umido della bassa padana s’infilava tra le mura del convento anche durante le notti più calde dell’anno. Il fiume, le piogge, la nebbia si rincorrevano in un moto perpetuo e non si capiva perché la cristianità avesse voluto costruire su quella bigia pianura una delle abbazie più importanti d’Europa, a meno che, proprio sfidando le difficoltà, non avesse voluto mettere alla prova la fede dei suoi uomini. Così padre Saverio da anni soffriva di artrite reumatoide alle ginocchia e alle braccia. Un’espiazione che si era inflitta stando per quarant’anni al Nord e di cui non si lamentava mai. Anzi, la sera prima di addormentarsi ringraziava Dio per quei patimenti; chiedeva un po’ di pace solo per la notte, chiedeva al Signore il sonno dei giusti come quello di San Giuseppe in certi presepi in cui si vede appisolato col capo chino sul bastone, vigile in cuore ma sfinito dalla stanchezza.
Dormire adesso, dopo quella telefonata della bomba, era impossibile. In più, il dolore alle ossa si era riacutizzato. Scese in infermeria per trovare un antidolorifico, ma si dovette accontentare di un tubetto di aspirina effervescente. “Bisognerà dirlo a padre Alberico che la cassetta dei medicinali va controllata ogni tanto” pensò. Prese due compresse e andò nella cucina, riempì mezzo bicchiere d’acqua e le immerse come due monete nel pozzo dei desideri. Le vide sfaldarsi attaccate dalle bollicine come fossero divorate da un branco di piranha. Bevette tutto d’un fiato.
Trascorsero appena dieci minuti e si addormentò nel suo lettuccio in ferro battuto come un bambino stanco. Gliel’avevano donato gli artigiani del suo paese perché potesse dormire bene e fare buoni sogni come quelli dei santi. E per protezione dal male, in un piccolo tondo al centro della testiera, ci avevano dipinto l’arcangelo Michele con le ali aperte e la spada sguainata pronto a colpire la testa cornuta del diavolo che si divincolava sotto i suoi piedi. Fu un regalo importante, attraversò gli anni della sua vita di monastero in monastero, lo accompagnò silenziosamente dalla giovinezza alla vecchiaia. Ora, spesso, ci si immaginava steso da morto, rigido come un baccalà con le mani incrociate sul petto a stringere il rosario. Aveva sempre pensato che un letto comodo fosse un lusso troppo grande per chi aveva scelto una vita di preghiera. E, per l’esempio di San sco che dormiva sulla nuda pietra, si era sempre sentito un po’ peccatore.
A Castel Rossano delle Calabrie
L’appartamento del vescovo era inondato di sole. La giornata si annunciava afosa e valeva la pena godersi la piacevolezza del primo mattino. Santuzza, la domestica che regnava sulla casa col piglio di un mastino, già era in attività. Smilza, bassina, di età indefinita, non solo badava alla dispensa, alla cucina, alla biancheria, alla sagrestia, alla chiesa, ma faceva muro contro i paesani, filtrava gli appuntamenti e incanalava le suppliche, risolvendo di persona le piccole noie. Tutti nella zona sapevano che avere una Santuzza ben disposta era condizione indispensabile per accedere a Sua Eccellenza. La domenica mattina, in particolare, voleva sempre essere sicura che il suo vescovo si svegliasse più tardi, che avesse più tempo per fare una buona colazione, che potesse uscire in terrazza a rimirare i gerani e le buganvillee e respirare l’aria buona guardando il mare in lontananza. Poi, per le dieci in punto, poteva mettere piede in cattedrale, prendere accordi col sagrestano, ricevere qualcuno, procedere alla vestizione; per le undici avrebbe celebrato la messa in onore di Maria Santissima Assunta in cielo.
Quella domenica avrebbe incentrato la predica sul Concilio di Efeso e il mistero di fede che avvolge la Madonna. A mezzogiorno avrebbe portato in processione l’icona dell’Acheropita tra le strade tortuose della città vecchia, sotto i balconi bardati a festa. L’onda sinuosa del tripudio popolare avrebbe rinsaldato la fede, un tangibile fervore avrebbe rianimato gli spiriti e la religiosità si sarebbe confusa con la vita nonostante ci fossero ben altre attrattive in giro. Lui avrebbe elargito benedizioni alla folla dal podio delle autorità, col sindaco, gli assessori, i rappresentanti dell’Arma. La solennità avrebbe gradualmente ceduto il posto alla prosaica partecipazione al pranzo nella casa di donna Concetta Russo Lavia, protettrice e coordinatrice delle associazioni di volontariato.
Una presenza dovuta, un riguardoso omaggio a colei che alimentava la luce salvifica della generosità. E il fatto che appartenesse all’aristocrazia locale non
incrinava la sincerità della sua missione. La sua casa col vasto giardino accoglieva tavole imbandite con le migliori ricette di Calabria, formaggi, salumi, intensi vini rossi. Donna Concetta mescolava i poveri, gli emarginati, i tossicodipendenti, le ragazze madri, gli handicappati con lo stuolo di politici locali in modo che fosse chiaro che cosa costoro dovessero tentare di risolvere. L’allestimento di tutto ciò coinvolgeva la disponibilità di parecchie pie donne, oltre alle domestiche che avrebbero lavorato giorno e notte. Quella domenica apparve, inattesa, anche Santuzza. Vestita bene per l’occasione,varcò la cancellata con la fierezza delle nubili attempate, cupa in volto più di quanto non lo fosse di suo, ombrosa come un abete di montagna. Il vescovo aggrottò la fronte, poggiò il piatto e attese che gli venisse accanto.
“Una missiva. Pare urgente. Non potevo evitare: viene dalla Cancelleria Vaticana”.
“Bastava aspettarmi a casa. Tra un po’ sarei tornato. Hai dovuto fare tutta questa strada? Non era il caso”.
“Se non era il caso si vedrà. Io, il mio dovere faccio. O le nobildonne sono più capaci?”.
“Santuzza, l’umiltà vince la superbia, ricordalo”.
E le lanciò un’occhiataccia. Prese la busta, la girò nelle mani e se la mise in tasca pensando che Santuzza era stata sgarbata più del solito. Più tardi le avrebbe fatto pesare questo comportamento bizzarro. In quanto alla lettera, l’avrebbe aperta a casa. Ora tutta l’attenzione doveva andare a donna Concetta.
Finito il ricevimento, di ritorno a Castel Rossano, la vecchia Mercedes blu tirata a lucido per la cerimonia ospitava nei suoi interni in pelle chiara Sua Eccellenza il vescovo, Santuzza imbronciata, il sagrestano Attilio che fungeva anche da autista e don Gaetano Palopoli, vicesindaco e avvocato di grido. La strada da percorrere non era lunga ma era un susseguirsi di curve e tornanti e ci voleva l’occhio attento e una certa prudenza.
“Donna Concetta possiede una capacità diplomatica non indifferente” disse don Gaetano. “Mi ha costretto a concederle gli spazi del vecchio setificio per farne un centro di accoglienza per i giovani disoccupati. Lei pensa che impegnandoli nel sociale si allontanerebbero dalle brutte compagnie e dalle facili tentazioni. Qui intorno la criminalità è aumentata assai, i ragazzi lasciano la scuola e si mettono a rubare e a spacciare. E’ una piaga”.
“La Provvidenza segue vie tortuose come questa. E’ una salita che porta a Dio; non a caso la nostra chiesa è in cima al paese” osservò Sua Eccellenza.
“Non abbiamo più fondi e le banche ci negano le sovvenzioni. Tra poco eliminiamo la mensa scolastica per i bambini delle elementari e tagliamo l’assistenza domiciliare ai malati. E’un miracolo se riusciamo ancora a pulire le strade e raccogliere la spazzatura. Non diamo lavoro ma esportiamo delinquenza, forniamo inquilini per le strutture carcerarie che sono strapiene” incalzò il vicesindaco.
“Don Gaetano, abbiate più fiducia, vi vedo troppo incupito. Siete giovane e generoso. Venite a trovarmi, ragioneremo insieme. Vedremo insieme cosa fare”.
“Grazie per la comprensione: è un momento difficile”.
“Vi benedico”.
“A presto, Eccellenza. I miei omaggi, Santuzza”.
L’uomo scese in piazza fratelli Bandiera, salutò, sprecò un sorriso cercando una corrispondenza di simpatia sul viso severo della perpetua. Proseguì verso il fumoso bar Palopoli o dello Sport, di proprietà di un suo cugino, per avventurarsi in una partita a biliardo che lo avrebbe tenuto impegnato fino a sera, alla larga da casa per almeno altre due ore. Santuzza fece un sospirone, alzò il sopracciglio e, vedendo che né il sagrestano né il vescovo commentavano, sbottò:
“Predicano bene e razzolano male: eccoli, i politici. Da noi stanno tutti al bar. E la domenica, in chiesa per farsi notare”.
“Don Gaetano è un uomo come gli altri. Ora ha necessità di stare con gli amici e svagarsi il cervello”.
“Troppa bontà non fa giudicare gli uomini”.
“E’ qui il punto: tu vuoi giudicare. Tu vuoi assumerti il ruolo di Cristo nel giorno del Giudizio. Concentrati invece sul nome che ti ha dato Dio il giorno del battesimo, Santina, Santuzza: fai la santa, soffri in silenzio e perdona”.
“Eccellenza, la lettera”.
“Ah, già, dimenticavo. Brava, Santuzza!” e il vescovo ora la guardò con benevolenza.
Più tardi sarebbe cominciata la festa pagana con tutto l’apparato di giochi, giullari e fuochi d’artificio e, una volta giunto a casa, pareva giusto al vescovo fermarsi, godersi la fine di quel fausto giorno abbandonando le stanche membra sulla poltrona di vimini in terrazzo. Il lastricato lucido di piastrelle decorate dai morbidi giri di nastri ora verdi, ora gialli, intorno a fiori ora azzurri ora turchesi era il labirinto entro cui lasciava scorrere la nullità dei pensieri e lo sguardo stanco. Amava la luce del tramonto, l’ambra diffusa nell’aria, il profumo intenso dei fiori. Prese la lettera, ne aprì la busta e lesse.
“Mio caro amico,
gli anni del seminario appartengono ormai a un ato sepolto, a un altro secolo. Ma il ricordo delle nostre difficoltà nel capire il volere di Dio, il nostro agitarci per comprendere la ione di Cristo e il cammino da seguire per emularlo sono sempre davanti ai miei occhi. Potrei raccontare ogni particolare di quella nostra ansietà. I nostri giovanili inganni, la fede che cresceva in noi. I sacrifici, le prove, i dubbi. La vita da missionari. Vi ricordate, in Ciad, quando portavamo il pane e tornavamo coi lebbrosi? Quando salvaste una tribù dal massacro solo con parole di pace? Lo Spirito Santo vi ha ammantato di luce. Siete un prescelto. Vorrei avere solo uno dei raggi di quella luce che emanate. Vivo nella Roma dei Cesari per servire Dio, ma la mia forza vacilla perché non ne sono degno. La Chiesa ci ha accolti, ne siamo parte viva. Ma cosa sarà essa stessa domani? Sarà lasciato uno spazio anche per noi tra il popolo o ci dovremo rinchiudere dentro le mura dei palazzi vescovili? Se ci è consentito tremare, tentennare e dubitare, da uomini quali siamo, vedo il futuro che ci spinge sempre più entro i confini ristretti dell’ortodossia mentre il mondo vero si sposta verso spazi scuri. Attorno a noi, distruzione e incoscienza prendono il sopravvento. Vigilate, vigilate per me nei vostri territori dove so che cresce il male. E dove il diavolo si ammoglia e prolifica e fa scempio delle creature più sante. Vigilate. Seguite la luce salvifica che è in Voi.
Semper tuus,
Cardinale Alfiero Oderisi”.
Le cose viste dall’alto hanno un altro aspetto. Alfiero era importante, stava in alto. A Roma non vedeva, prevedeva. Era un mistico, un privilegiato. Vivendo in prima linea, invece, non si diventa santi ma si conosce il mondo.
“Santuzza, per piacere, portatemi una granita di limone per digerire!” disse il vescovo con un mezzo sorriso ironico sulle labbra.
In Campania
Nel convento di Santa Scolastica arroccato come un castello medioevale sul monte Fragore alle spalle di Amalfi, l’ora del rosario era da rispettare come un’abitudine salutare: puliva la coscienza e rinnovava la fratellanza. Di fronte all’altare di Nostra Signora le vesti chiare delle consorelle splendevano come corolle di margherite in un prato. Inginocchiate, i volti concentrati su un destino di preghiera, le mani strette al messale, recitavano un coro sommesso di Avemarie, tra pause e accelerazioni costanti. Pareva un brodo messo a bollire senza coperchio che propagava il suo effluvio nella chiesa, tra i recessi più bui delle cappelle laterali, verso le volte a crociera della navata fino a creare immaginarie nuvole di vapore destinate a raggiungere l’alto dei cieli. Non pregavano meccanicamente ma per il bene dell’umanità: erano troppo assorte e misticamente rapite, troppo concordi in quell’atto di fede. Una voce sulle altre recitava i misteri e scandiva i tempi, quella di suor Anna Bellori, la madre superiora. Poteva esserci luogo più santo e più pio? In quella terra di dolcezze paesaggistiche dove la preghiera è intrisa del succo romantico di vedute mozzafiato che avvicinano a Dio, i panorami di colline sfumate e gli azzurri scorci di mare predisponevano l’animo alla bontà. Dimora della remissività, dell’obbedienza, del perdono e della pietà, il convento di Santa Scolastica si stagliava netto e preciso come uno degli ultimi baluardi del cattolicesimo sul laicismo imperante.
L’esposizione del Santissimo nell’ostensorio di cristallo di rocca concludeva il rito mentre oscillava il turibolo dell’incenso e l’odore cullava l’estasi delle devote. Suor Anna si alzava per prima, riponeva il libro delle preghiere, si genufletteva, faceva un ultimo segno di croce e rientrava negli spazi conventuali. Sarebbe scesa nelle cucine per ordinare l’avvio della cena stabilendo qualche piccola variante al menù per suor Adele che aveva scoperto un’intolleranza al glutine e per suor Mariana che soffriva di gastrite. E ricordare il semolino e la mela cotta per suor Calvaria che non poteva più masticare. Quindi sarebbe salita in biblioteca per riprendere il lavoro di catalogazione che la stava impegnando
da mesi per conto della Soprintendenza di Salerno. Si trattava di un censimento capillare dei beni artistici e librari conservati nei conventi e nei monasteri della regione. A lei il compito di registrare quelli di sua competenza, di attestarne la presenza e la collocazione sottoscrivendo un catalogo redatto da un gruppo di ricerca della facoltà di Lettere antiche di Napoli e di specializzati in Storia dell’arte che, non trovando lavoro, avevano accettato di farlo come volontariato e ne avrebbero avuto almeno per altri due anni.
La superiora prese a leggere le caselle più recenti del catalogo inforcando gli occhialetti da presbite, si accese una luce diretta sui fogli e inspirò profondamente come se dovesse restare in apnea per parecchio. Catturò tutta l’energia possibile per affrontare quella che si rivelava giorno dopo giorno come una responsabilità di una gravità insospettata. Erano proprietà o prestiti che la storia lasciava in deposito a chi avrebbe saputo garantirne un futuro. Erano superbe vanità? O erano il riflesso della bellezza divina? Lo Stato, la Chiesa, il papato, l’impero, la religione, la politica: ecco, erano una ricchezza le opere citate nel catalogo, oppure un intralcio al progresso? Ogni pietra del convento era inamovibile senza l’avallo dell’ufficio tecnico. C’erano voluti anni di carte e di reclami, di timbri e di firme per riparare una parte del tetto e i gocciolatoi del lato nord più esposto all’umido e al vento. Le preghiere sono leggere, non pesano, non devi restaurarle o custodirle nelle teche, i pregevoli manufatti dell’arte pesano e costano, altroché. Se n’era accorta suor Anna da parecchio e non faceva nulla per reprimere questi pensieri che l’addoloravano assai.
Perfino quando portava la frugalissima cena a suor Calvaria utilizzava quei momenti per parlarne e rifletterci su, anche per distrarla e alleviarle le pene, ma poi si pentiva di quel perenne lagnarsi davanti al corpicino immobile e paziente della malata. Come se la vecchia quasi analfabeta potesse capire, ma a lei bastava vederla annuire leggermente col capo e fare un piccolo gesto con la mano come per dire “buona la pappetta”, per sentirsi compresa in quel suo arrovellarsi. Alla cena filosofica faceva seguire due Pater, Ave e Gloria e infine le aggiustava il letto per la notte. Prendeva il cuscino e gli dava una rimestata energica colpendolo in lungo e in largo fino a dargli la rotondità giusta su cui adagiare con attenzione quelle quattro ossa di santa. Ma quel giorno la sua misericordiosa gestualità si arrestò di colpo perché si sentì pungere da qualcosa
di imprecisato, una specie di spina. Che cos’era? Forse un spilla da balia utilizzata per allacciare una mantellina di lana sulle spalle dell’anziana s’era aperta e infilata nel cuscino? Cautamente cercò nella federa e con meraviglia estrasse una siringa da insulina. Una goccia di sangue colò sul lenzuolo senza che lei se ne accorgesse.
“Madre misericordiosa, quale sciatta consorella ha lasciato una siringa nel cuscino di questa povera malata col rischio di farle del male?” si disse incredula, quindi prese l’oggetto e lo adagiò sopra un tovagliolo di carta accanto al crocefisso del comodino. Raccolse quel po’ di stoviglieria sul vassoio, diede la buonanotte e si eclissò nel buio del corridoio intenzionata a fare luce sull’accaduto e a prendere seri provvedimenti disciplinari.
“Suor Erminia, venite immediatamente con me. Seguitemi, svelta!” disse la superiora rivolgendosi alla consorella che aveva funzioni di infermiera oltre che di economa e ragioniera.
Grazie a una tempra inossidabile e alla sua baldanza giovanile, suor Erminia era capace di spaziare tra tutte le necessità terrene del convento. Si occupava ora di rape, lattuga e cipolle, ora di medicinali, ovatta e disinfettanti, ora di conti, ricevute e bollette da pagare, con la disinvoltura di chi agisce per il bene della collettività sapendo di essere insostituibile in quel mondo ascetico di preghiera e di contemplazione. Di fronte a quella imperiosa richiesta si fece umile e ubbidì lesta. Entrambe con gli occhi bassi, senza parlarsi e guardarsi, attraversarono scuri e deserti corridoi fino alla camera di suor Calvaria. La superiora aprì la porta, indicò all’altra di entrare, accese la luce sul comodino.
“Guarda lì! Ti pare possibile? Stava dentro la federa del cuscino di suor Calvaria: poteva ferirla!” disse suor Anna.
“Ma cosa? Non capisco? Cosa dovrei vedere?”.
“Una siringa. Ti rendi conto? Una distrazione imperdonabile”.
“Ma dove? Non vedo nulla”.
“Era qui, accanto al crocefisso. Madre misericordiosa, Madre santissima…”.
“Cercate di stare calma, spiegatemi, raccontatemi”.
“Forse è caduta per terra, cerchiamo. Aiutami”.
“Ma non c’è traccia di nulla. La stanza è piccola, si vedrebbe. Su, usciamo e parlatemi” concluse stupita e disorientata suor Erminia.
Uscite in corridoio dopo avere cautamente richiuso la porta della stanza della malata, le due monache potevano parlare liberamente. Suor Anna raccontò quanto le era successo poco prima: la cena, il cuscino, la siringa. Suor Erminia ascoltava attenta e perplessa, pronta a fare domande come un poliziotto che compila il verbale di denuncia e vuole trovare una logica in un racconto affrettato e agitato. Se era stata chiamata in causa doveva utilizzare tutta la sua esperienza di osservatrice. Cercava di imitare i telefilm della “Signora in giallo, terza serie” che sbirciava dal televisore della cucina durante la preparazione del pranzo, con quel modo di fare domande educato, rispettoso, incalzante.
“L’ago della siringa era scoperto?”.
“Certo. Mi ha punto”.
“Ma vi è sembrata una siringa usata? Conteneva un liquido?”.
“Non so se era usata, so soltanto che mi sono sentita pungere. Ho cercato dentro il cuscino e l’ho trovata. L’ho lasciata su un tovagliolo di carta accanto al crocefisso sul comodino”.
“Capisco. Suor Anna, voi conoscete poco le cose del mondo. Oggi le siringhe possono essere pericolose, molto pericolose. Sicura che non avete sognato?”.
“No che non ho sognato, come potete dubitare di me? Piuttosto, siete voi che dovete chiarirmi come mai avete fatto un’iniezione a Suor Calvaria e avete dimenticato la siringa nel letto, anzi nel cuscino”.
“Suor Anna, non mi sarei mai permessa di fare una simile follìa. Se ho peccato di superbia perdonatemi…”.
“Sarà Dio a perdonare. Non vi occuperete più dell’infermeria”.
“Per favore, ascoltatemi, se ancora posso parlare. Fate le analisi del sangue. Non si sa: potrebbe essere stata una siringa infetta”.
“Presuntuosa: vi date anche arie da medico. Da oggi vi occuperete solo dell’economato, neanche più della parte amministrativa”.
Suor Erminia fece un inchino di sottomissione, baciò il crocefisso del rosario appeso alla cintola della superiora, ci riversò tutto il suo dolore e corse via negli spazi angusti delle cucine.
Suor Anna, che solitamente sapeva controllarsi e mantenere la calma, era profondamente alterata dopo la discussione con suor Erminia. Era indispettita dall’atteggiamento saccente di quella che invece avrebbe dovuto dare rispettose giustificazioni. Si ritirò nella sua cella e si sedette davanti allo scrittoio in attesa di sbollire l’animosità. Guardò oltre la finestra l’imbrunire della sera entro i confini del chiostro, seguì con gli occhi l’andatura claudicante di suor Malvezia, la decana del convento, e ne apprezzò la forza di volontà che la spingeva a fare ciò che aveva sempre fatto nonostante gli acciacchi e l’età. Sarebbe stata così anche lei? Le suore sono sole, invecchiano prima, non comprendono certe necessità umane, non hanno un buon carattere, non gioiscono, non ridono, non usano l’ironia, non sono tolleranti. Forse era stata affrettata nel giudicare la giovane tuttofare del convento. In fondo faceva del suo meglio e conosceva più di lei certi aspetti insondabili della vita. Che avesse detto una cosa sensata? Aveva parlato di siringa infetta e di analisi del sangue. L’ago era scoperto, lo aveva visto bene. Era perplessa.
Si alzò, andò a insaponarsi le mani, le sciacquò, le asciugò e le guardò. Si era punta sul palmo della mano destra ma non trovò una traccia visibile. Doveva scendere per la cena: prese il messale per la preghiera di rito e lasciò la cella.
In refettorio si accostò a suor Erminia e le pose una mano sulla spalla. La giovane suora fece un respiro di sollievo: capì di essere stata perdonata.
“Perché agli occhi tuoi, Signore, mille anni sono come il giorno di ieri, che è già ato”.
“Grazie madre, potrò ricevere il vostro perdono?”.
“Dimentichiamo il recinto del tempo, i fatti, l’accaduto, i dubbi. Volgiamo la mente ai beni dell’eternità”.
“Spero che voi mi amiate, ma vi assicuro che io vi amo altrettanto come una figlia. Mi avete raccolta dal fango in cui mi avevano abbandonata. Ho ancora addosso le cicatrici, i tagli che voi avete fatto ricucire. Io so quanto possa piacere infliggere sofferenze agli indifesi. So che vuol dire sembrare donna quando vorresti essere ancora bambina per continuare a ridere e a giocare. So quanto a qualcuno piace inaridire l’erba più tenera. So come se ne compiace il demonio. Se voi non aveste rischiato la vita per salvarmi, se non mi aveste sottratta alla violenza sarei morta senza conoscere il bene della fede. Dovete perdonarmi se agisco d’istinto. Il mio difetto è che non mi libero dal marcio della vita ata. Cerco di fare tante cose per dimenticare, ma non ne sono capace più di tanto”.
“Il tempo ferisce, il tempo guarisce. Guarirai col tempo”.
Anche suor Anna avrebbe voluto aprire il suo cassetto dei dolori.
Cominciare col dire che neanche lei aveva conosciuto l’infanzia. E ricordare come sua madre, che voleva per lei un futuro aristocratico, l’aveva rinchiusa per anni in collegi svizzeri dove non si rideva, non si piangeva, non si raccontava,
non si amava. Invece, si studiava, si apprendevano le buone maniere, si imparavano le lingue, si imparava a fingere. E, quando era collassato l’impero economico di suo padre, lei tutto sarebbe riuscita a fare tranne che abbracciare sua madre, stringerla forte a sé.
Avrebbe voluto, suor Anna, spiegare come era rimasta impietrita e incosciente per anni, terrorizzata dalla vita. Come suo padre era fuggito all’estero, sparito nel nulla. Come sua madre aveva sperperato quanto era rimasto, affidandosi a stuoli di avvocati, ed era morta lentamente abusando di certi medicinali che la facevano assopire. Finché alla giovane rimasta orfana Dio misericordioso aveva suggerito la strada da percorrere, che non era stata né lunga né difficile.
Ma suor Anna tenne tutto per sé. In testa le si affollavano i pensieri: il convento era in pericolo, l’indifesa semplicità della loro vita era messa a repentaglio. Perché? Da chi? Prima di ritirarsi entrò, come per cercare risposte, nella piccola cappella del Crocefisso sotto il porticato del chiostro. Stanca, si sedette su uno sgabello accanto al muro in penombra. La famiglia? Cos’è la famiglia se non Dio, il bene supremo? Dio avrebbe vigilato sulla sua famiglia, sul convento, su quelle povere suore.
Rimaneva poco dello splendore di un tempo tra quelle pareti, ma il cuore semplice di suor Erminia era fulgido come il più prezioso dei tesori. La forza non si ammanta di gioielli, la forza è nei semplici.
“Signore, quale gerarchia ecclesiastica si è sostituita a Te facendomi indegnamente dirigere questa tua famiglia? Io che non ho conosciuto gli affetti, come posso esserne guida? Mentre chi è davvero capace di amare è una piccola tuttofare, da me relegata nelle cucine, pronta a servire per qualunque incombenza. Perché è toccato a me il ruolo più alto mentre c’è chi lo farebbe con più saggezza e con più sincerità? Dormirò con la tua benedizione. Domani vedremo le cose con più calma”.
Cap. II
Intorno a Gerlasco
Poco più a nord dell’abbazia di padre Saverio, in un deserto vegetativo e nel silenzio dell’abbandono, svettavano come minareti le ciminiere di una fabbrica dismessa con la sommità perennemente avvolta dalla nebbia. Un tempo, da quelle torri usciva una striscia fiammeggiante che anneriva il cielo e inquinava l’aria. Dava lavoro a mille operai e a un centinaio di impiegati e, considerando che aveva sedi sparse in tutto il territorio nazionale, questi numeri andavano moltiplicati almeno per tre, con gli stessi effetti inquinanti distribuiti in altre acque, terreni, fiumi e mari. Fintanto che il lavoro era garantito e i profitti erano alti nessuno ne voleva parlare. Ma con la recessione, la chiusura di tutte le sedi, la fuga dell’amministratore delegato e il suicidio in circostanze misteriose dell’azionista di maggioranza, si cominciò a parlare di morti sospette, di diossina, di tumori, di malformazioni e via dicendo.
Se ne parlò spesso in televisione, con i licenziati, i cassintegrati, i sindacati e qualche rappresentante del governo nelle trasmissioni del martedì e del giovedì. Mai in quelle del sabato e della domenica, per non agitare troppo la gente che aveva bisogno di svagarsi. Comunque, si fece un gran clamore, ma i licenziati e i cassintegrati restarono tali per molto tempo, finché i primi, più giovani, si trovarono un’altra sistemazione o espatriarono; e i secondi, quando l’apparato assistenziale sparì definitivamente, si ridussero a una vita d’elemosina. Alcuni si ammalarono, un buon numero morì prematuramente, altri presero ad arrangiarsi anche nell’illecito.
Tutte quelle fabbriche inquinanti ma tecnologicamente ancora valide chio i battenti. Non si pensò neanche a salvare i macchinari. Lussuose sale riunioni con poltrone in pelle rossa e tavoli ovali in ciliegio patinato traslocarono verso destinazioni straniere. Il resto rimase nella nullità produttiva. Tribunali, ricorsi, appelli, arresti non servirono a migliorare le cose.
Poi, né cancelli né catene fermarono le scorrerie delle bande di ragazzi nullafacenti che, scambiando il luogo per un parco giochi, cominciarono a farci raduni rave, gare di velocità. Bevevano e si drogavano e, purtroppo, ogni tanto a rimetterci era qualche ignara minorenne attratta dal fascino del proibito, che veniva sottoposta a violenze di gruppo. Nella società dei divieti e degli impedimenti, i figli e i nipoti di quegli operai rientravano da padroni in quelle fabbriche: quasi a rivendicarne la proprietà.
La fabbrica di Gerlasco, confinante coi territori dell’abbazia di padre Saverio, era a due chilometri dalle rive del Po, nel punto in cui confluisce un torrentello chiamato Spuma che trascina acqua, fango e schiuma grigia e s’ingrossa parecchio in autunno con le piogge e la neve, mentre d’estate si riduce a un pantano fetido. Nessun investitore anche straniero avrebbe mai pensato di rimettere in sesto quella rovina ridotta al rango di archeologia industriale. Adesso, dopo anni di attesa, era finita sotto la tutela di un nuovo ministero dal nome lungo e intrigante: Cultura, Arte, Storia, Paesaggio, Industria (CASPI). Era solo un fumoso apparato burocratico senza l’ombra di un soldo, controllato dal ministero dell’Economia e del Libero Mercato (ELM), che concedeva finanziamenti col contagocce ormai solo ed esclusivamente per censimenti più o meno fittizi sui beni artistici. Come quello che vedeva impegnata nelle trascrizioni la figura ingenua di suor Anna.
Il vecchio Ministero del Lavoro e della Produttività era sparito da anni. I capitali dei potenti erano saggiamente conservati all’estero, nelle banche dei paradisi fiscali. Nel Paese, sempre più diviso tra chi aveva il lavoro, chi aveva paura di perderlo, chi non ce l’aveva, chi viveva di rendita e chi di stenti, chi era onesto e chi era disonesto, c’era un clima da medioevo. La Chiesa, superato un periodo di anticlericalismo, sopperiva al vuoto ideologico della politica e manteneva un costante controllo sociale dopo essersi ripresa il ruolo antico di faro della spiritualità.
Nella fabbrica, ora regno incontrastato di topi, pipistrelli, ragni e scorpioni, si
sentiva squittire, raschiare, strisciare a terra tra il pattume. Un uomo robusto, tarchiato, con l’occhio grifagno, un sigaro cubano tra i denti, la testa pelata, sottratta alla vista da un panama a falde larghe, avanzava con disinvolta arroganza tra quelle macerie. Era l’emissario di don Frigerio Malaspina, boss d’alto calibro dell’Alleanza Sudista. Incontrava finalmente il suo omologo dell’Unione Celtica controllata dalle avide mani della famiglia Breviglieri, in particolare quelle dell’onnipotente ingegnere Fausto Maria.
“Minchia… Fottutissimo uomo, come stai?”.
“Stanco, ho lavorato tutta la notte. Ho quello che volevi”.
“Tutto?”.
“La biblioteca adesso è vuota. Ho messo a nanna quel coglione di frate col sonnifero, ho messo fuori uso l’allarme, ma non è stato facile perché hanno installato un apparecchietto sofisticato, questi stronzi del ministero. Ho preso i codici miniati, quelli conservati nelle teche di cristallo e poi quelli chiusi negli armadi blindati. Un bel bottino. Gli ho lasciato i reliquiari, per ora, ma ti ho portato i candelabri d’argento e i calici d’oro di re Adilberto”.
“Minchia… Fottutissimo uomo, preciso sei! La riconoscenza dell’Alleanza che mi onoro di servire scenderà su di te: la granaglia te la trovi nella solita banca di Zurigo. Lascia are tre giorni”.
“Perché non subito?”.
“Aspettiamo di finire anche altri due lavoretti interessanti. Ci pensano i ragazzi della milizia. Sono svegli, faranno presto. Poi ci pigliamo tutto, dividiamo…”.
“Sudisti di merda… Non siete mai di parola. Tre giorni e mi tengo i calici d’oro” alzò la voce il nordista con l’occhio minaccioso.
“Dicci ai Breviglieri che i Malaspina sono debitori” disse il sudista sputando a terra i residui di tabacco.
Padre Saverio non solo si svegliò sul tardi come mai gli era successo da anni, ma sentì anche che il sonno gli aveva rigenerato il corpo e lo spirito. Era come rinvigorito e pensò che quelle ore in più a letto erano state provvidenziali. Il successo delle due aspirine effervescenti gli fece meditare l’ipotesi di ripetere il rituale anche per la notte successiva. Poi, però, pensando che poteva diventare una forma di dipendenza, ne scacciò l’idea. Stiracchiò le ossa, sbadigliò, si stropicciò gli occhi come un bambino al risveglio e si rese conto della stranezza. Sulla testiera, accanto al San Michele, era attaccato un foglio scritto a penna. Inforcò le lenti e lesse:
“Codex Divinorum, Atlante Pauperum, Codex Cartaceus, Liber Sancti Fidelfi, Liber Officinalis, Liber Patavinus, Bibbia di San Gerolamo, Breviario di San Celso, Evangelario di Re Edoardo, Liber Naturalis Historiae, ecc.”.
Era l’elenco dell’intelligenza preziosa dei Santi, il diamante indistruttibile della coscienza teologica dei Padri della Chiesa, lo scopo di quel recinto possente di mura entro cui era stata costruita l’abbazia, era la profonda ignoranza dell’uomo di fronte alla comprensione di Dio: l’elenco dei preziosi manoscritti della biblioteca. Era la summa del pensiero medioevale. Capolavori creati dall’abilità di centinaia di monaci chini sugli scriptoria, vite appese alla fioca luce delle candele che avevano impresso su fogli di pergamena i valori della fede e della
civiltà occidentale.
Non capiva, non poteva capire. Fu attraverso padre Alberico che seppe del furto. E non gli avrebbe mai creduto se non avesse visto con i propri occhi la grande sala della biblioteca ridotta a un contenitore vuoto. A quella vista cadde a terra come un ciocco e ci volle l’intervento di un medico di Gerlasco per rianimarlo.
Un gran brutto colpo per padre Saverio. Per via della pressione troppo alta, venne tenuto in osservazione all’ospedale di Mantova. I medici e gli infermieri furono assai premurosi.
“Come si sente? Respira bene? Ha fame? Vuole bere?”gli chiedevano.
“Sì, sto meglio, grazie. Adesso ho appetito, vorrei dell’acqua fresca. Grazie, grazie” rispondeva confuso.
Era tangibile il suo candore di fronte all’enormità dell’accaduto. Se ne sentiva in colpa, si accusava anche davanti all’équipe ospedaliera oltre che al cospetto del commissario di polizia incaricato delle indagini.
“E’ colpa mia, è colpa mia. Signore abbi pietà di me, raccogli i brandelli della mia carne, chiudi per sempre i miei occhi, ora che lo scempio è stato perpetrato”.
Subì interrogatori piuttosto blandi per non esserne affaticato e rispose per quello che poteva ricordare. Nei giorni a venire con tutta calma si fecero i rilievi. La scientifica prese le impronte, si analizzarono i nastri delle telecamere. Si
allertarono le polizie europee e le dogane di mezzo mondo. Il ministro del CASPI destituì i vertici della Soprintendenza Lombarda colpevoli di non avere vigilato e protetto abbastanza i preziosi incunaboli. Cadute le teste dei vecchi funzionari, si aprì la corsa alle sostituzioni in un carosello di nomi, raccomandazioni, telefonate.
Nella città, in quei giorni d’agosto inoltrato, il caldo era insopportabile. L’edificio dell’ospedale dove stava padre Saverio era di quelli moderni e confortevoli, ma lui non volle restarci un minuto di più. Era infastidito dalle troppe attenzioni che le infermiere avevano nei suoi confronti, dai loro sorrisetti benevoli, dalla loro gentilezza: “Come si sente? Oggi va meglio? Ma che bella cera ha oggi, padre! Dobbiamo fare una punturina, si può girare? Ecco la pasticca, ecco la minestrina, ecco il dottore per la visita”. Voleva tornare alle proprie abitudini, nella solitudine, tra le spesse mura del monastero. Dopo i saluti, i ringraziamenti, i commiati, la preghiera e la benedizione finale a tutto il gruppo dei medici e degli infermieri, andò via con l’auto di padre Ottavio. E che auto: una splendida 600 rossa del 1975, lucidata a specchio per l’occasione da sembrare uscita dalla fabbrica in quel momento. Anche se non era paragonabile per silenziosità e comfort alle utilitarie cinesi di ultima generazione, li portò sani e salvi fino all’abbazia.
Fu un ritorno trionfale, con padre Alberico che, pur zoppicante e malandato, era già in avvistamento da un’ora davanti al portale della chiesa sotto l’ombra del protiro, appoggiato a uno dei due grossi leoni di pietra, quello con la criniera consumata e la coda mozzata dai vandali. Appena vide spuntare l’auto si lanciò verso l’amico per riabbracciarlo come se fosse stato lontano due anni. Si strinsero, si parlarono.
“Stai bene, fratello mio? Voglio dare un’occhiata alla cartella clinica. Che hanno detto i medici? Devo andare in farmacia?” diceva infervorato padre Alberico mentre entravano in convento.
“Meglio, sto meglio, nostro Signore vigila e protegge. Ho già tutte le medicine, non preoccuparti. Ora voglio solo starmene tranquillo e dormire. Ma non prima di rivedere la biblioteca” rispose padre Saverio.
“Che dici? Vai a riposare. Andremo domani in biblioteca. Rilassati, non pensare a quello che è successo. Certamente i ladri non distruggeranno i codici. Sono troppo furbi, gente organizzata, veloce, protetta” sconsigliò l’altro pensando che lo sgomento di rivedere la grande biblioteca svuotata potesse produrgli un nuovo malore.
Difficile far cambiare idea a un siciliano. Anche padre Ottavio provò a distrarlo invitandolo a bere una bibita fresca e ad assaggiare la torta alle mandorle che aveva preparato per il suo ritorno. Niente, fu irremovibile.
Padre Saverio aprì cautamente la porta della biblioteca come se ci vivesse l’anticristo, entrò con mestizia, girò gli occhi dovunque, drizzò le orecchie, mise in funzione perfino l’odorato per captare la presenza anche olfattiva delle antiche carte. Ma niente, tutto era scomparso, eclissato. Pensò alle trasformazioni, alle catastrofi, ai pericoli che nel corso del tempo avevano minacciato quei codici. Pensò alla casualità del destino e a come ogni cosa in terra avesse una fine.
“Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo, ricordandoci di Sion.
Ai salici, in mezzo a lei, avevamo appeso le nostre cetre.
E là quelli che ci avevano tratto in prigionia ci chiesero le parole di un canto,
quelli che ci avevano portato via ci chiesero un inno:
cantateci le parole di un canto, cantateci un inno, cantateci i canti di Sion”.
Recitò il salmo a voce alta, forte come se volesse permeare l’ambiente di una benedizione accorata, l’ultima prima di chiudere quel Sancta Sanctorum e affidarlo all’ovvietà del prossimo futuro. I libri venduti come oggetti, separati gli uni dagli altri e confinati in luoghi sconosciuti. L’intreccio secolare tra loro e la spiritualità dell’abbazia era venuto meno, così come era svanito il senso della sua vita religiosa.
Si ritirò in cella all’imbrunire, si preparò al sonno sgranocchiando due mandorle che ancora stavano sul comodino, lesse distrattamente un brano della vita di San sco. Non riusciva a rassegnarsi all’idea di avere perso gli unici suoi tesori terreni da custodire e da consegnare al futuro. Se il mondo era questo, posseduto dall’ignoranza e dalla violenza, poche erano le speranze di una rinascita. Non si spogliò, prese tra le mani il rosario, disse le preghiere, si stese sul lettuccio in ferro battuto regalatogli dai suoi compaesani, con le mani giunte come s’era sempre immaginato di finire i suoi giorni. La sua vita stava per spegnersi come la fiammella di una candela consumata. Sentì un dolore al petto ma ebbe la grazia di addormentarsi subito e non se ne avvide. Morì nel sonno, serenamente, come dovrebbe morire un uomo buono che non conosce il peso del peccato.
Alberico e Ottavio si disperarono per la perdita del loro fratello. Piangevano come bambini di fronte al grande padre Saverio, ultimo abate del monastero di San Martino al Fonte di Gerlasco, ultimo custode dei tesori di una grande biblioteca, morto per il dolore di non averla saputa difendere. Ma come avrebbe potuto? Finiva un’epoca. Restavano adesso due monaci soli in quell’immensità di abbazia. Sarebbero stati trasferiti altrove e anche questa struttura sarebbe stata acquisita dallo Stato, per finire nelle mani dei privati e delle banche.
Una predica diversa
A Venezia, la messa vespertina scivolava sul tardi in quell’afa di agosto. Erano le otto di sera e don Carlo riceveva i paramenti sacri dal chierichetto. Entrava nel presbiterio. I fedeli, assiepati tra i primi dieci banchi, si alzarono al suo ingresso e attesero la sua voce, la concentrazione delle sue preghiere, lo sguardo dei suoi occhi trasparenti. A vedere la scena dall’ingresso della chiesa si era catturati dallo sfarzo monumentale della pala di Tiziano. Magnetizzava lo sguardo con una presenza più potente di cento altari d’oro. Don Carlo rifulgeva divino come uno degli apostoli all’interno del quadro, captava l’inquietudine sospesa nell’aria scura dei monumenti funebri lungo gli spazi laterali delle navate a eterna gloria degli uomini illustri della città. Ebbe un’intuizione, fece una predica diversa.
“Voltatevi fedeli, distogliete per un attimo lo sguardo dalla figura dell’Assunta alle mie spalle, guardate a ritroso la vostra vita, il vostro ato, entrate nell’ombra dell’esistenza. Non sarete soli, altri prima di voi l’hanno percorsa, hanno sofferto, ma nelle opere si sono redenti. Se potessimo conciliare in noi la vita attiva e la vita contemplativa, se convivessero in noi le due sorelle Marta e Maria, saremmo veramente la Chiesa di Pietro. Peccatori come tanti, ma redenti. Tiziano, Canova sono un monito, un esempio. Le loro vite i loro dolori, i loro capolavori sono parte di noi. Guardate per un attimo la loro gloria invece della luce dei santi. Osservate per un attimo le loro tombe, i freddi marmi che ne conservano il ricordo. Riflettiamo su questo mondo violento e perverso che ci circonda, sull’aria asfittica e senza speranza che respiriamo, sulla quotidianità egoista che frena ogni generosità. Non propaghiamo paure che contagiano i giovani. La nostra città sia un esempio di fratellanza, di amore, di pace. Ritroviamo la forza, il coraggio, gli ideali. Succede a volte, fuori dai conventi, dalle abbazie, dalle chiese, che il bene e il male scendano a compromessi per ottenere lo stesso risultato: la sopravvivenza. Succede a volte che questo accada anche nei luoghi sacri. Succede a volte che una chiesa lotti per la sopravvivenza. Il pericolo c’è anche tra queste antiche mura. Può capitare di vedere brava gente costretta a rubare, a mentire, a fuggire. Può capitare di vedere i buoni cercare i
cattivi. E chi potrà dire “io non l’avrei fatto”? Chi potrà dire “non mi sarei macchiato di un simile crimine”? Chi potrà sentirsi forte della sua innocenza davanti a un tribunale? Succede a volte di guardare e non vedere. E’ questo è il nostro più grande peccato. Se qualcuno soffre non giratevi dall’altra parte. Affondate gli occhi nel buio perché godiate della luce eterna”.
I fedeli captarono da quelle parole un clima di tensione inusuale una sorta di pericolo incombente e, al termine della funzione, qualcuno prima di uscire si fermò davanti ai sacelli dimenticati e provò a riflettere: “Don Carlo ha ragione”.
Venezia era diventata un souvenir, un grande soprammobile. La vita vera era fuggita altrove. Quasi tutti i palazzi storici erano stati ceduti a società estere, per lo più russe, cinesi e indiane. Chiusi per la maggior parte dell’anno, servivano da rifugio ai personaggi della nuova finanza per struggenti fine settimana da cartolina da consumare preferibilmente in primavera e in autunno perché le mutazioni del clima avevano portato d’estate un caldo insopportabile e d’inverno l’acqua alta perenne, il freddo e la nebbia. In queste stagioni la città era quasi invivibile e gli ultimi veneziani autentici che resistevano ci vivevano come attori sul palcoscenico di un teatro vuoto.
Quando la chiesa si svuotò e il sagrestano cominciò a spegnere le candele e serrare i portali, don Carlo si fermò davanti al sacrario di Antonio Canova. Osservò il triangolo frontale della piramide di marmo bianco alla cui base si stagliavano una porta e la statua della “fanciulla triste”: la personificazione dell’Italia sola, muta e piangente per la perdita di quel grande uomo. Un angelo, simile a Maddalena, con una leggera tunica aderente sulle esili forme di un corpo da adolescente e sul capo reclinato mestamente verso il basso. Forte come una colonna e malinconica come un salice piangente, stava in piedi davanti al sacro ingresso, custode della pace di colui che l’aveva immaginata quale unica compagna per l’eternità. Don Carlo non ebbe dubbi: il particolare visto nella chiavetta apparteneva alla statua. Era quello il messaggio. Ma che significava? Che cosa avrebbe dovuto fare? Tornò nel suo studio, rivide le foto e provò a comporre sul videotelefono i numeri in sequenza che gli avevano inviato.
Squilli interminabili, poi solo una voce metallica registrata:
“Finalmente, don Carlo. Ci fa piacere parlare con lei. Come sta? Siamo gli stessi di un tempo, più vecchi, ma sempre attenti ai suoi problemi. A casa stanno bene? Sua madre sta bene? Per ora sì! Vede come ci interessiamo? Ha saputo della fine di don Vittorio? Ammazzato come si ammazzano i vigliacchi. S’era macchiato di un delitto atroce che non si perdona. La sua Maddalena è meglio che sia morta prima di saperlo. Adesso, in nome dei ricordi, in nome di ciò che le è rimasto di più caro, cerchiamo di capirci. Noi chiediamo poco in cambio di tanto. La statua va sostituita con un’altra, una copia perfetta che i ragazzi portano stanotte. Nessuno se ne accorgerà, ma dovrete disattivare l’allarme e avere pazienza se si farà un po’ di rumore. Starete calmo e buono. Niente sbirri, e noi in Sicilia non faremo del male a nessuno. Poi, se tutto fila liscio, salviamo anche l’Assunta”.
“Pronto, pronto… Ma…”.
Erano gli assassini di Maddalena e di suo padre don Vittorio. Dunque, doveva assistere a un furto sacrilego, anzi facilitarlo anche se l’impulso era quello di strapparsi gli abiti da prete e reagire a sventagliate di mitra. Ma non aveva armi, tutt’al più candelabri e crocefissi.
Non poteva immaginarsi un piano per contrastarli, né aveva la calma e la freddezza per reagire. Troppe cose erano in pericolo: l’Assunta, mamma Concetta, lui stesso. E la fanciulla di marmo, per far presto, l’avrebbero scardinata senza cautela danneggiandola. Inoltre, la porta in legno di quercia sulla faccia triangolare della piramide presentava due maniglie di bronzo allacciate da una catena girata più volte e chiusa da un grande lucchetto d’oro e pietre preziose a forma di leone alato. Era la cintola di San Marco, l’onorificenza che la Serenissima aveva istituito per sigillare il sacrario di Canova. Bisognava sottrarre quell’oro alla vista dei predatori e nasconderlo al più presto. Occorreva
la chiave che era custodita nella cassaforte della parrocchia, in una teca d’oro e cristallo con lo stemma di Pio VII. Don Carlo ne ammirava la fattura ogni volta che sistemava documenti o maneggiava del denaro. Corse a prenderla e disattivò tutti gli allarmi e le telecamere nascoste come gli avevano ordinato. Tornò di fretta davanti al monumento e fece entrare la chiave dorata nella bocca spalancata del leone alato, la girò tre volte. Il lucchetto si aprì senza difficoltà. Recuperò tutta la catena e l’avvoltolò a terra. Accalorato e stanco, si abbandonò sul gradino accanto alla fanciulla di marmo. I battiti del cuore cominciavano a rallentare e a placarsi. L’ultimo bacio Maddalena gliel’aveva dato all’uscita di scuola dietro un muretto a secco di una casa abbandonata dove crescevano quelle erbette spontanee, appiccicose che si attaccano alla pelle e ai vestiti. La sua bocca sapeva di mele cotogne, era la porta della vita.
“Ricordi… ancora ricordi, maledizione: non sono guarito dai ricordi!” pensava don Carlo alzandosi come per scacciare quei pensieri quando si accorse che la porta del sacrario era aperta. Spalancata.
“Signore, chi è l’uomo perché tu ti sia fatto conoscere da lui?” ripeteva per farsi forza mentre avvertiva il silenzio della morte e l’agitarsi inutile della vita. Il momento non era propizio ai ragionamenti e l’istinto gli suggerì di varcare la soglia della tomba oltre il pesante sipario di buio.
Lì dentro mancava l’ossigeno e respirando a fatica invocò Dio:
“… Tutti quelli che vogliono vivere devotamente in Cristo patiscono la persecuzione. Invece i malvagi e gli ingannatori progrediscono in peggio, sbagliando essi stessi e facendo sbagliare anche gli altri. Perdonate ciò che sto per fare”.
Ebbe l’impressione di trovarsi nell’oscurità degli spazi siderali circondato da
fiochi bagliori di stelle. Tornò all’esterno per recuperare un candelabro e fece luce. A prima vista, appariva un vano quadrangolare, ricavato nei contrafforti di sostegno della chiesa. I muri in laterizio privi di intonaco erano coperti dalle ragnatele che negli angoli si aprivano come merletti e dall’alto pendevano come stalattiti.
Fece un o, poi un altro, inciampò in qualcosa d’impreciso: un largo drappo di velluto rosso, bordato d’ermellino che rivestiva il sarcofago e scendeva abbondantemente dagli scalini del podio fino a terra. Poteva essere il manto di un re perché sfavillava alla luce delle candele uno stemma ricamato a fili d’oro: una maestosa “N” su cui campeggiava una corona sostenuta da un gruppo di angeli festosi. Posò il palmo della mano sulla stoffa. Dai ricordi rimasti della sua vita di uomo recuperò quello dei capelli sciolti e fluenti di Maddalena che erano morbidi e corposi al tatto. Fece scivolare la mano come per accarezzarli e si sollevò un pulviscolo di polvere che salì verso l’alto e restò a galleggiare sulla sua testa come un’aureola. Pensò: “Rosso era il manto di nostro Signore, rosso è il manto dei Re”.
Diede una rapida occhiata d’insieme e scoprì che appese alle pareti intorno a tutto il perimetro luccicavano delle catene dorate allacciate a protomi leonine. Era un pletorico recinto, una paradossale allusione all’eternità, un ancoraggio come se si dovesse impedire la fuga a un detenuto illustre nelle carceri della Serenissima. Al di sotto di una corona campeggiava lo stemma con le iniziali “AC”. Poteva sorgere il dubbio che lì non fosse sepolto un artista ma un Re. Se i saccheggiatori fossero entrati non avrebbero perso tempo ad aprire il sarcofago per rubare il corredo funebre di un sovrano: bisognava far sparire quel manto troppo prezioso e appariscente.
Lo afferrò, ne ripiegò i lembi pesanti come piombo e a fatica lo portò all’esterno. Diede un ultimo sguardo al sacello rimasto nudo. Richiuse con forza le ante della porta dietro di sé. Fece in tempo a nascondere la catena e il prezioso lucchetto dentro un’acquasantiera, quando improvviso sentì lo stridore metallico dei cardini: aprivano la porta ovest. Doveva sparire di lì e il manto era talmente
pesante che riusciva a malapena a trascinarlo sul pavimento. Lo srotolò e se lo issò sulle spalle avanzando curvo e barcollante come un principe zoppo e malandato. Stremato, arrivò al transetto e lo nascose dietro un altare rivestito da una lunga tovaglia di broccato. Da lì si rifugiò ai piedi dell’Assunta. Si inginocchiò ansimante, piegò la testa verso il basso e cominciò a recitare una preghiera solo col pensiero perché non aveva più fiato in gola. Non poteva nascondersi. Non sarebbe mai scappato: doveva assistere, fare il possibile per evitare danni peggiori.
Li sentì parlottare sommessamente ma non ebbe il coraggio di voltarsi. La vastità della chiesa e il buio nascondevano la sua presenza come un fitto cespuglio nasconde il cervo alla muta dei cacciatori. Ma il fiuto di quei cani dannati era tale che l’odore della sua pelle sudata, l’ansimare delle sue carni, il flusso accelerato del suo sangue furono captati quasi subito. Parlò uno di loro:
“Ecco, il santo è laggiù, in ginocchio, prega. Ma voi pensate a fare il lavoro, non voglio distrazioni”.
La notte fonda aiutava, nessun veneziano ormai abitava lì intorno; scarna l’illuminazione, impensabile un giro di controllo della polizia, con tutte quelle restrizioni di personale e la scarsità di mezzi. In agosto, peggio che mai. La poderosa gabbia entro cui era sistemata la copia della statua poteva entrare senza intoppi, così come poi sarebbe uscita tranquillamente con quella vera, verso ignota destinazione. Un’imbarcazione li avrebbe attesi al ponte dell’Accademia. Una scia di schiuma avrebbe smosso quell’acqua scura, poi si sarebbe confusa con la nebbia dell’orizzonte come per portar via un altro, triste abitante di Venezia in fuga verso la terraferma. E una nuova fanciulla, finta o falsa che fosse, sarebbe entrata in quel palcoscenico di souvenir. La sua pregevole fattura, frutto di tecnologie sofisticate, la rendeva identica all’altra. Nessuno si sarebbe accorto della differenza.
“Don Carlo, avete seguito le mie istruzioni? Non voglio sorprese, dipende tutto
da voi”.
“Ho staccato gli allarmi e disattivato le telecamere” rispose il prete.
“Bravo! Una telefonata al paese l’avete fatta? Ma se non l’avete fatta, e so che non l’avete fatta, vi dico subito che vostra madre sta bene. Vi manda un grosso bacio. Ora è ospite di un mio parente. Brava persona, uomo d’onore di vecchio stampo. La lasciamo lì fino alla fine del lavoro. Si riposerà, non dovete temere. Non dovete pensare a cose brutte”.
“Non riuscite a provare pietà per una donna anziana e sola?”.
“La vita ci dà le armi, la morte la pietà”.
“Vi chiedo solo di non colpire lei. Così come ve lo chiedo per l’Assunta: staccate quel congegno, adesso!”.
“Lu quinnici d’agustu,
la rosa spampanata,
Maria la ‘mmaculata,
’ncelu si n’acchianà” declamò il malavitoso rivolto alla Madonna di Tiziano.
“Prendetevi la statua ma staccate prima il congegno. Ve lo chiedo in ginocchio, qui, sotto l’altare. Pensate alle nostre feste in Sicilia, a quanto le madri sono devote a Maria”.
“Ancora la storia delle madri? Madre santissima di qua, madre santissima di là. Quante madri hai? Sei ancora troppo siciliano. Mi stai implorando per un quadro. Vuoi difendere la bellezza, la vanità della chiesa. Forse che Dio ha detto: venera un quadro e proteggilo nei secoli? Forse che in Paradiso ci sono i quadri o le statue?”.
“Tu stesso stai portando via una statua. E non la porti certo in Paradiso. Se non avesse avuto un valore, perché architettare tutto questo?”.
“Il vero, il falso che differenza fa? La tomba resta uguale e domani sarà un altro giorno”.
“Allora, fa che resti anche l’altare: elimina quell’ordigno maledetto”.
“No, per ora no. Questa rosa spampanata, questa Madonna apita dagli anni, ma ancora soda e appetitosa, pare mia madre. Me la voglio gustare, per ora”.
“Allora, fai un atto di pietà come se lo fi per tua madre!”.
“Prete, proveresti pietà per mia madre?”.
“Sì, provo immensa pietà…”.
“Ma di quale pietà parli, quella finta sotto i crocefissi di legno? Prete, provi pietà solo perché ha un figlio come me”.
“Non vi conosco, non so nulla di voi. La casa di Dio non è un’aula di giustizia. Vi chiedo solo di ragionare, di riflettere”.
“Mia madre fu sguattera in casa di don Vittorio. Sottratta all’orfanatrofio e sfamata. Tanti anni fa, prima che tu nascessi. Il padrone se la faceva in villa, se la moglie non c’era, altrimenti, nel cascinale di campagna. A suo piacimento. Lei era poco più di una ragazzina, ma doveva piegarsi a ogni richiesta. Come le si ingrossò la pancia, lui provò a farla abortire. La schiaffeggiò come schiaffeggiano gli uomini veri, meschina. La chiamò puttana di fronte a tutti. Non poteva tenersi in casa una tale disonorata. La cacciò via. Lei vagò per mesi, visse d’elemosina e sperò nella pietà. Morì dissanguata davanti al cancello delle terre di quel galantuomo. Come mi salvai, non è importante. Gli uomini come me si salvano sempre, anche dal fuoco dell’inferno. Ecco, hai di fronte il figlio indesiderato di don Vittorio, il fratello non voluto di Maddalena. Capisci che la pietà non c’entra affatto?”.
“Non potete dire simili menzogne! Non può essere vero!”.
“Quali certezze possiedi prete? Sei proprio sicuro che il bene e il male siano opposti? Che siano due cose diverse? Chi sei tu per giudicare? Chi sei tu per dire chi è buono e chi è cattivo? L’hai detto: questa non è un’aula di giustizia”.
“Non potete vantarvi di delitti così atroci! Uccidere un padre e una sorella: quale delitto più grande può esserci? Se fosse vero quello che dite, sapreste che vostra madre ha sofferto per voi, per darvi la vita. La vita è il bene. Non vendete l’anima al demonio. Non tracciate solchi su questo cammino di malvagità. Fermatevi”.
Si guardavano a distanza, il prete e l’assassino. Le loro voci riempivano la chiesa. Nel bel mezzo di un furto un uomo confessava a un prete i suoi delitti senza chiedere l’assoluzione, ma col sottile piacere di dare un movente all’odio e di scaraventarlo addosso al santo, che si sentiva come quel cervo nel cespuglio, braccato dai cani, tramortito e ridotto a poltiglia.
Il viso di don Carlo era quello del condannato davanti al patibolo. Gli occhi dell’uomo erano nascosti da una mascherina nera, si era a Venezia, no? Una di quelle adattabili a qualunque ruolo, Olindo, Arlecchino, Brighella, con la semplice aggiunta del costume opportuno. Gli altri? Nove ragazzi, tutti col viso nascosto allo stesso modo. Il capo aveva un piglio, una sicurezza tali che, anche per l’abito elegante poteva essere un frequentatore dell’hotel Danieli. Alto, muscolatura tonica, movimenti agili e, se non fosse stato per la capigliatura quasi bianca, si sarebbe potuto dire sui quaranta. Osservava attentamente i ragazzi durante l’operazione. Questi sapevano perfettamente cosa fare e come.
Nel giro di un’ora la fanciulla fu sostituita. Senza danni per il monumento. Tutte le paure di don Carlo fugate. Con quei sofisticati macchinari non si era fatto neanche un graffio sul pavimento. Tutto sembrava identico a prima. Era stato un gioco da ragazzi. A nessuno venne in mente di oltreare la porta della tomba. Nessuno pensò di agire sconsideratamente rubando altro.
“Ora potete bloccare il timer?” chiese don Carlo.
“Aspetterai…”.
“Che vuol dire?”.
“Che aspetterai. Restano ancora quindici ore di tempo. Lo staccheremo prima, ma aspetterai. Non mi fido di te”.
“Propterea Deus destruet te in finem” urlò il parroco.
“Ti avverto: non fare mosse false”.
“Non fate del male a mia madre. Non fatele del male, in nome di Dio”.
Sparirono e Don Carlo si sedette sul primo gradino del monumento funebre, accanto alla nuova fanciulla, i gomiti sulle ginocchia, la testa fra le mani. A terra s’infranse una lacrima, la vide spandersi lentamente. Fissandola, ripercorse l’angoscia di quella giornata e capì che all’uomo non è dato sapere, che la sua vita di nuovo si spezzava come un ramo secco al vento.
Cap. III
Nell’eremo di Fragore
L’indomani suor Anna era in attività già alle prime luci dell’alba. Dopo le preghiere del mattino, col pensiero fisso alla siringa nascosta nel cuscino e poi sparita nel nulla, avrebbe controllato l’elenco delle opere ancora da visionare con il gruppo dei ricercatori volontari dell’Università di Napoli, come le era stato imposto dal Ministero e dalla Soprintendenza di Salerno. Avrebbe predisposto una sorveglianza più efficace per suor Calvaria e avrebbe preso un appuntamento per fare le analisi del sangue come le aveva suggerito suor Erminia. La giornata si annunciava fresca e ventosa. Il mare in lontananza aveva un colore più intenso del solito mentre in giardino le fronde delle palme, davanti alle finestre della biblioteca, frullavano nell’aria inquieta. Pensò: “La vita può essere bella anche tra queste mura, la felicità può esistere anche per noi se riusciamo a guardare oltre il limite delle nostre celle, se possiamo affacciarci in preghiera davanti allo spettacolo della natura, perché il nostro cuore non inaridisca nella solitudine”.
Cominciò a leggere dai fogli dell’inventario certi nomi: Giovan Battista Caracciolo detto il Battistello, sco Solimena, Diego Velázquez, Francisco Zurbarán, Gerrit Van Honthorst detto Gherardo delle Notti, Mattia Preti, Jusepe de Ribera, Mattias Stomer, Francisco Ribalta, Domenico Zampieri detto il Domenichino, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio… Poi venne interrotta da una timida voce, quella di una giovane ricercatrice della Facoltà di Storia dell’Arte:
“Buongiorno, suor Anna. Posso entrare, disturbo?”.
“Buongiorno, Nina. E’ proprio il caso di dire qual buon vento? Entra, come mai ti vedo così presto? Di solito i giovani non sono così mattinieri”.
“Madre, devo chiedervi se oggi possiamo entrare nella cappella di San Giovanni Battista e soprattutto se possiamo spostare gli arredi dell’altare e procedere al distacco dei dipinti. Dall’ufficio tecnico ci hanno chiesto di accelerare il lavoro, probabilmente vogliono economizzare sulle nostre spese di soggiorno e avviare subito i restauri. E’consigliabile approfittare di questo insolito risveglio del Ministero, le opere non sono proprio in perfetto stato bisognerebbe intervenire presto”.
“Dunque, ci portate via prima del tempo la cappella del Battista? Quanto tempo ci vorrà per riaverla? Prevedo tempi lunghi. Conosciamo la solitudine, ci abitueremo al vuoto. Comunque da soli non posso autorizzarvi: ci sono arredi liturgici troppo delicati e importanti. Faccio intervenire suor Lucia che si occupa della chiesa. Piuttosto, scendiamo insieme e vediamo di organizzare per bene tutte le procedure. Il convento ha i suoi ritmi, non possiamo accelerare troppo ma possiamo predisporre, organizzare. C’è un respiro per ogni nostro agire. Il nostro tempo è scandito dai aggi di questo respiro, come le pause di una musica e il nostro agire non è assimilabile al vostro: dovete avere pazienza”.
“Certo, madre. Perdonateci, ma gli ordini vengono dall’alto e noi siamo meno del meno. Per questo lavoro viviamo alla giornata. Per noi si tratta comunque di un privilegio. Anche se non siamo retribuiti, ci consente di continuare a studiare. Ma non vogliamo recarvi disturbo e, se questo avviene, ce ne scusiamo”.
“No, nessun disturbo. La nostra clausura non è rigida come un tempo. Il contatto con l’esterno non ci è interdetto completamente. Queste mura dimenticate dal mondo sono state per secoli in solitaria quiete e ora vedere voi ragazzi al lavoro non può che restituirci un frammento di vita prima che vi domini completamente il silenzio”.
“Ragazzi? Insomma. L’età media è tra i quaranta e i cinquanta. Qualcuno è
sposato con figli. Lo sapete, siamo archeologi, restauratori, storici dell’arte che dovrebbero essere assunti da qualche parte in questo nostro Paese ammantato di bellezze artistiche, e invece vaghiamo senza posa come le anime dei lussuriosi. Noi inseguiamo un’utopia e ci accompagniamo a un sogno: amare il nostro lavoro e non raggiungerlo mai. Giovani sciocchi, perché ci siamo infilati in un settore morto da anni. Per noi non esiste un futuro, siamo condannati a un’esistenza fittizia. Noi amiamo talmente l’arte e il nostro lavoro che, pur sapendo di doverci inventare un altro mestiere magari assai diverso per sopravvivere, siamo qui, del tutto gratuitamente, pur di restare in contatto con ciò che amiamo. Finché ci sono queste catalogazioni che ci impegnano da anni, possiamo sentirci quasi realizzati. E’ impossibile essere assunti al Ministero o alla Soprintendenza. Ci speriamo da sempre ma è un miraggio. Insegnare, non se ne parla nemmeno, da quando non ci sono più concorsi. Le graduatorie per gli incarichi e le supplenze sono elenchi pietrificati come se il Vesuvio ci avesse versato sopra una coltre di lava. Guardi, ci piacerebbe anche fare i guardiani agli scavi di Pompei e di Ercolano, dove tutto è lasciato all’abbandono, ci basterebbe pulire le toilette del museo di Capodimonte. Siamo attaccati a ciò che resta della nostra terra e siamo talmente abituati ai sacrifici che non pretendiamo più nulla, non ci facciamo più domande”.
La giovane non pensava a se stessa ma ai suoi compagni, che dopo quell’esperienza si sarebbero decisi a espatriare: Matteo, Paolo, Gennaro, Alfio, Elisa. Sarebbero partiti prima di Natale con destinazione l’atollo di Saint Maurice per lavorare nella struttura alberghiera di Gasparone O’Monnezza che, avendo accumulato ricchezze da capogiro con le discariche ai tempi d’oro della spazzatura napoletana, aveva lasciato l’Italia a caccia di paradisi fiscali e terminato il suo giro in un’isola da sogno in mezzo all’oceano Pacifico. Una notte nella sua suite-pagoda Venere Anadiomene costava tremila bigliettoni e dovevi prenotarla sei mesi prima. Il business internazionale e una nuova vita erano possibili per i suoi amici, che sarebbero vissuti di frutta esotica per gli anni a venire. Alla faccia del precariato.
Lasciarono la biblioteca e suor Anna chiuse accortamente a chiave la porta dietro di sé assumendo un’aria di sospetto che in vita sua non aveva mai avuto. Pensò di essere spiata e si guardò intorno. Tutto era tranquillo come sempre. Si
avviarono verso la chiesa. Lungo il corridoio il sole lanciava obliqui raggi sul pavimento e sulle piante di aspidistra sistemate sotto ogni finestra. Col rammarico di avere detto forse qualche parola di troppo, Nina seguiva in silenzio la Superiora che faceva strada con o lieve ma deciso, rivelando nel suo incedere una femminilità non del tutto soffocata dall’abito e dagli anni. Nulla sfuggiva alla giovane che captava da quegli spazi ogni particolare e lo fissava negli occhi e nel cuore, consapevole che quello sarebbe stato probabilmente l’ultimo giorno al monastero di Santa Scolastica di Fragore. In quel succedersi di luci e ombre, di porte e di muri, di soffitti affrescati e scale consumate, di piastrelle sconnesse e mai sostituite dedusse che il monastero con tutti i suoi tesori si era comunque conservato intatto, o quasi. Era ato indenne dalla società del benessere alla grande crisi. Il tempo era una minaccia, ma la contemporaneità sembrava non averlo contaminato. Pareva che la spiritualità avesse salvato la materia dal disfacimento.
La cultura va lasciata agli eruditi e la salvezza va riposta nelle mani dei semplici. Era chiaro che quelle fragili monache, e tante altre prima di loro, avessero assolto con la loro devozione a un compito sociale rilevante: custodire opere d’arte di grande valore. Gli affreschi, i dipinti, i mobili, gli arredi, i merletti e i ricami sulle tovaglie degli altari, i libri sacri, le vetrate, i portali, le sculture, il pozzo del chiostro. Solo i dipinti potevano fare invidia ai più importanti musei d’Europa. Degni di arricchire le sale del Seicento del Prado o del Louvre. Che ora la Soprintendenza volesse trasportarli nel deposito del laboratorio di restauro per analizzarli, catalogarli e poi, magari dopo estenuanti lungaggini burocratiche, destinarli a un sito museale sembrava quasi un insulto dopo anni di oblìo. Nina si chiedeva perché, se per conservarli nel modo migliore sarebbe bastato lasciarli lì e pregarci davanti, come facevano le monache? Madonne, natività, crocefissioni, miracoli, flagellazioni, apoteosi di angeli e di santi davanti ai quali ci si inginocchiava facendosi il segno della croce. Perché trasferirli sulle pareti di una pinacoteca strappandoli alla varietà delle suppliche a Dio? Perché cercare un pubblico più vasto, quando sarebbe stato sufficiente lasciarli davanti agli occhi delle religiose e restaurare il tetto della chiesa per proteggere l’ambiente dalle infiltrazioni e dalle crepe? Separare il contenuto dal contenitore, spogliare un altare, svilire una cappella, alleggerire le pareti della sagrestia, togliere le tele dalle pesanti cornici, dire addio ai volti barbuti dei profeti, a quelli solenni dei cardinali, a quelli severi delle madri badesse, a quelli compiaciuti di nobili committenti equivaleva a decretare la fine di quel pacifico recinto di fede.
Sarebbe stato più lungimirante lavorare sulle vocazioni religiose e rimpinguare di anime il convento. E dentro di sé, Nina sorrise pensando che sarebbe rimasta volentieri in una di quelle celle, a dimenticare le ansie terrene, vestita come suor Anna, col viso pulito, senza trucco e l’anima leggera.
La ragazza non sapeva dare una risposta ai quesiti che l’angustiavano da giorni. Lei amava ogni aspetto dell’arte, non ci avrebbe speso la giovinezza se non ne fosse stata soggiogata totalmente. Ma ora, se il prezzo da pagare era la spoliazione, si sentiva colpevole. Anche lei era parte di un ingranaggio perverso in cui l’arte era trattata come un malato contagioso da isolare. Studiare quei dipinti l’aveva resa felice ma adesso non era più convinta della sua missione. La nazione dimostrava di potere rinunciare benissimo alla cultura, c’erano necessità molto più stringenti, la sopravvivenza, l’economia, l’occupazione. Allora, come diceva Antonio Canova, meglio lasciare le opere “a fare catena” nei luoghi dov’erano nate, cresciute e invecchiate. Ma chi dopo lo Stato e soprattutto dopo la Chiesa, con il disgregarsi degli ordini religiosi, le avrebbe conservate?
“Maestà, queste opere fanno catena… Maestà, queste opere andrebbero lasciate in Italia” si ripeteva in testa Nina pensando ai validi argomenti di tanti altri, non solo Canova, che avrebbero dovuto opporsi ai sequestri napoleonici dei tesori pontifici, ai carri inzeppati di opere d’arte che avevano valicato le Alpi alla volta di Parigi. Oggi c’era la bonaria rassegnazione di Suor Anna che, in breve tempo, avrebbe visto l’esodo dei dipinti più importanti del monastero: quelli della cappella del Battista, di San Ciriaco, della Natività, della Misericordia, del San Michele. Poi anche quelli della sagrestia e del parlatorio. Un saccheggio che la suora sembrava vivere senza battere ciglio, anzi con un certo sollievo.
Nina rifletteva contrariata sulla disarmante fiducia riposta dalle religiose nel vigile controllo statale e nella lungimirante proposta del Ministero. Che suonava sinteticamente così:
”L’Italia è pronta a salvare i suoi tesori, a proteggerli e restaurarli degnamente.
Su questo, il Ministro on. Prof. Luigi Pennacchi Brusadelli, ha fatto dichiarazioni precise e ha avviato importanti progetti. La creazione del museo sulla pittura napoletana del Seicento è imminente, avrà rilevanza mondiale per le opere e i nomi altisonanti degli autori. Sarà il luogo idoneo per trasmettere ai posteri la nostra cultura più fulgida, quando Napoli era meta agognata di tanti artisti e aveva una forte rilevanza europea. Le opere del monastero sono ritenute indispensabili per l’attuazione di questo museo necessario al rilancio culturale della città partenopea. Le due tele di Caravaggio, che per tanto tempo vennero ritenute disperse, e che Voi avete custodito per secoli, spargeranno tra la gente la devota riconoscenza verso il convento di Santa Scolastica. Ne resterà il ricordo immemore. La convenzione che abbiamo stipulato di recente con l’Ufficio Vescovile nella persona di Sua Eccellenza, l’Arcivescovo Aleandro Santoro, solleva la vostra congregazione da ogni impegno economico di sorveglianza e di trasporto delle opere suddette. Firmato: prof. Luigi Scafuro, Ufficio IV Dipartimento territoriale VII Soprintendenza Speciale per Napoli Viva”.
Lo Stato aveva ceduto i migliori musei ai privati che gestivano attraverso società miste con azionisti esteri di oscura provenienza. Il Ministero tentava di mantenere una parvenza di supervisione ma dopo decenni di tagli alle finanze non poteva più sostenere le spese di gestione e di restauro. Non riusciva a pagare nemmeno il personale di vigilanza. Fingeva di fare opera di controllo sul patrimonio, ma in realtà assisteva alla sua dispersione.
Percorsi gli oscuri meandri del convento, le due donne erano giunte nel chiostro dove l’erba era punteggiata di margherite mentre i rami di gelsomino seguivano la curva degli archetti istoriati che recintavano tutto il perimetro. Nina respirò intensamente il profumo di quei fiori e provò una strana pace nel cuore, una nuova, rasserenante percezione di sé. Le ansie andavano in frantumi inseguendo le mille traiettorie delle rondini che, dai nidi sotto il tetto o negli anfratti delle mura, rompevano il silenzio con gridi di gioia e si lanciavano nell’aria come per squarciare il cielo.
Le due donne dal chiostro entrarono nella chiesa attraverso un aggio che
s’incuneava per alcuni metri nella parte destra del transetto. Come la bocca di un formicaio, questo era l’angusto pertugio che consentiva alle religiose di accedere, senza essere viste, nello spazio sacro a loro riservato, dove seguivano la messa e cantavano accompagnate dalla musica dell’organo. Una fitta grata un tempo le separava dai chierici e dai fedeli. Attualmente potevano mescolarsi alla gente e parlare con sporadici turisti che, spinti dall’amenità del luogo, chiedevano persino se c’era la possibilità di soggiornare per qualche giorno.
Nina, tagliando con disinvoltura la navata centrale, vide la suora genuflettersi ripetutamente davanti all’altare del Sacramento, allora si pentì, si fermò un attimo, fece un rapido e furtivo segno di croce quindi proseguì rapida in direzione della cappella di San Giovanni Battista. Era agitata, ansiosa come chi deve vedere una persona cara dopo tanto tempo, e non si trattenne dal commentare ad alta voce:
“Un ottagono e l’invenzione degli angoli nascosti da colonne stuccate di bianco col capitello dorato come la cupola. La luce scivola lenta sul fonte di alabastro. Scalda e risveglia la materia. Lo spazio diventa circolare, gli elementi comunicano, si contagiano con forza. I quadri alle pareti raccontano storie usando quasi lo stesso linguaggio. Si parlano senza sosta, senza finzioni, fino a stordire per la verità che esprimono. Con i candelabri accesi l’ambiente assume un colore rossastro per via dei dipinti che ne assorbono i bagliori. La cancellata aumenta il mistero, crea una trama divisoria fra noi e i raggi di sole che scendono dalle vetrate della lanterna e colpiscono la superficie dell’acqua benedetta, la fanno brillare. L’ora ideale per battezzarsi sembrerebbe mezzogiorno: i raggi di sole scenderanno diretti come lo Spirito Santo. Che meraviglia, quel San Giovanni Battista! Affogato nel buio, col viso illuminato da una luce trasversale, divina: Caravaggio!”.
Suor Anna aggiunse: “E’ faticoso raggiungerci e molto raramente chiedono di potere battezzare qui. Ma quando succede è una bella cerimonia. Commovente”.
“Gli artisti spagnoli sono geniali nel trasmettere il dramma, la dannazione e il peccato. Un braccio che nasconde il viso di Salomè pentita di fronte alla testa mozzata del Battista, il sangue che straborda dal vassoio d’argento e goccia a terra ai piedi di Erode: Zurbarán. Maria che fa visita a Santa Elisabetta, la serena compostezza di due donne in attesa di un figlio, il conforto scambievole degli sguardi, le forme panneggiate i gesti eloquenti, i rossi densi e corposi come il vino andaluso: Velázquez”.
“Solitamente la cappella resta chiusa. Il giorno del Battesimo di Gesù l’apriamo e assistiamo a una messa solenne. Ci viene il Vescovo. Noi siamo poche e la chiesa è talmente grande che preferiamo pregare sotto l’altare maggiore per sentirci più vicine a Dio”.
“La mano scarna del Battista che versa l’acqua sulla testa reclinata di Cristo, i due corpi che affiorano dalla profondità avvolta nell’ombra. La fronte e le spalle di Gesù che palpitano come la cera calda di una candela accesa. Che irrompono oltre il limite visivo del quadro verso chi guarda: Caravaggio, ancora lui! La sua capacità di dialogare col presagio, di intuire la sua sorte imminente attraverso le pieghe di un viso scavato e sofferente. La sua rabbia indomita, la sua forza ribelle. L’impasto più denso dei colori e la pennellata rapida. Il cambio di stile”.
Suor Anna non dava peso ai nomi, non percepiva il valore estetico e storico dell’arte, non la sfiorava l’idea che un quadro andasse analizzato tanto sottilmente, non aggiungeva significati oltre a quelli prettamente religiosi, ma osservava insieme a Nina quell’apparato d’immagini, quel concerto di colori, quello scrigno di sapienza. Si trovavano in sintonia.
“Madre, la povertà e l’umiltà può essere colta meglio di quanto riesce a fare Gherardo delle Notti? Lei ha visto la gente dei vicoli di Napoli? La promiscuità, la rassegnazione, il disagio, l’intolleranza, l’aggressività, la violenza. Guardi i gesti semplici, le stoffe logore, gli strappi ricuciti, le carni avvizzite dal digiuno. La descrizione precisa dello stupore, l’incredulità dei sofferenti di fronte alla
liberazione dal dolore. Il risveglio emotivo di questi volti al cospetto del Battista che predica. Le mani in controluce tese verso Cristo. Si può capire il popolo meglio di così? Oggi non siamo tanto diversi ma nessuno ci comprende allo stesso modo. Può esistere un’analisi più sincera del nostro tempo?”.
Alzavano gli occhi verso la cupola, poi li abbassavano verso il semplice pavimento in cotto e di nuovo tornavano alle pareti. Assaporavano centimetro per centimetro quei capolavori. Ognuna in modo diverso, ognuna secondo il proprio modo di essere e di interpretare la vita. Poi si sentivano nuovamente catturate dalla luce che scendeva dall’alto. Finché si sedettero l’una accanto all’altra su uno dei pochi sedili rimasti lì attorno. E la suora tornò allo scopo iniziale:
“Aspettami qui: chiamo suor Lucia per togliere gli arredi sacri”.
“No, suor Anna, non così in fretta. Per favore, mi lasci ancora in contemplazione. Mi sento riempire il cuore da una grande gioia. Mi chiedo perché. Perché l’arte può dare felicità? Perché non mi sazio di osservare?”.
“La bontà d’animo traspare in ogni tuo pensiero. Resta pure quanto vuoi: tutto il tempo che ti serve. Non abbiamo fretta”.
Più tardi il gruppo di volontari smantellò con prudenza la cappella del Battista. Ogni quadro fu ingabbiato in una struttura protettiva da Alfio, Matteo, Paolo e Gennaro, mentre Elisa e Nina completavano la redazione delle schede tecniche. Il lavoro durò l’intera giornata e infine, verso il tramonto, tutti salutarono la madre superiora e rientrarono a Napoli proseguendo ognuno per la strada di casa. Erano stati bene al convento: l’aria buona, il cibo sano, la tranquillità. L’ascetismo del luogo li aveva rigenerati. Si sentivano allegri, pieni di fiducia.
Nina restò per la consegna e per compilare gli ultimi documenti. In cuor suo non era affatto allegra. Più scorrevano le ore e più provava una lacerazione interiore a vedere quelle opere accatastate per essere portate via. I due Caravaggio ritrovati, i caravaggeschi, gli spagnoli, gli olandesi: un grande tesoro. Lei lì, a rimirarli chiusi, imballati come una mercanzia. Ripensava all’eccitazione di quella mattina, alla luce riflessa sull’acqua benedetta del fonte di alabastro, a tutte le immagini che erano ate sotto i suoi occhi. Il peso del tempo concentrato su quei volti dipinti si sbriciolava nel vago presente e Nina aggiungeva ai dubbi sul futuro dei quadri i dubbi sul suo stesso futuro.
A suor Anna era stato comunicato che tre furgoni del Ministero sarebbero arrivati al convento prima di sera per il ritiro dei quadri e così fu. Lei e Nina assistettero alle operazioni di prelievo e di trasporto assicurandosi che ogni opera fosse sistemata senza urti e con attenzione estrema. Sei uomini nerboruti agivano rispettando le direttive ossessive della giovane. Uno alto e allampanato, detto lo Smilzo, manovrava il montacarichi con abilità e cercava di affrettare i tempi.
“Facimm’ ampress’ guagliò. Di questo o faremo mezzanotte. Devo vedermi la partita Neapolis-Mediolanum, o’ Sud e o’ Nord. Per colpa vostra farò tardi” disse alzando la voce.
“Lei cerchi di fare le cose per bene, ché non sta caricando sacchi di letame” disse Nina guardandolo male.
“Signurì, a o’ ministere nun tenimm’ tiemp’a pperdere cu ‘sti strunzate”.
“Allora, vuole che faccia un rapporto negativo all’ufficio tecnico? Quelli non vi faranno lavorare più” minacciò lei convinta d’essere stata efficace.
Nonostante il battibecco, l’operazione si concluse senza problemi. I quadri furono ancorati perfettamente perché la strada del ritorno era in discesa, stretta, dissestata e tutta tornanti. Nel piazzale antistante al convento i furgoni erano pronti a ripartire col carico. I portelloni venivano serrati. Un’espressione soddisfatta lampeggiò sulla faccia dello Smilzo. Si guardò intorno e fece un rapido conciliabolo con i suoi. Tutto era a posto. Era abituato a svuotare chiese e conventi: un gioco da ragazzi ormai. Era abituato a vedere il rantolo agonizzante di palazzi, di castelli, di abbazie. A volte avrebbe desiderato che l’impresa fosse più difficile e cruenta per uscire dalla monotonia. Magari con un diverbio, una scazzottata, uno scontro, un conflitto, una sparatoria si sarebbe finalmente divertito. Invece sempre tutto liscio come l’olio.
La luce del tramonto si spegneva lentamente come la fiammella di uno stoppino rimasto senza cera. Il vento era calato e più forte era l’odore dei cespugli di lavanda e di rosmarino intorno alle mura. Tutto era deserto e silenzioso. Le consorelle si erano ritirate per la notte nell’ala est del convento. Restavano per completare la consegna la superiora e la ragazza. Il o affrettato di suor Anna crepitava sulla ghiaia del piazzale: doveva far firmare le ultime carte allo Smilzo. Quello la guardò, prese bruscamente i fogli e appose una sigla. Un segnaccio più che altro. Poi con un ghigno di cattiveria le afferrò il polso, l’avvicinò a sé e le sussurrò nell’orecchio:
“Sì fottuta! L’Hiv-Th1 nel giro di poco tempo ti porterà in gloria. Morirai con una lenta agonia: perderai i capelli, gli occhi si spappoleranno, i denti si sbricioleranno, il tuo corpo si rinsecchirà fino a diventare pelle e ossa, l’unico sollievo sarà non capire nulla perché subito si atrofizzeranno le cellule cerebrali, sarai come un mollusco. Non c’è rimedio, non c’è cura. E’ bastata quella siringa infetta. Quanto ci si diverte con questi aghi, anche i codardi riescono a uccidere”.
“Cosa? Vi prego, potete ripetere? Non capisco…” disse con un filo di voce suor Anna.
“Chesta è fernuta guagliò!” e la strattonò tirandola per un braccio.
“Lasciatemi vigliacco! Mi fate male!” provò a dire la donna.
“Te vulesse spertusà! Mi fai sangue ma preferisco fottere la ragazza. Tene ‘e zizze mosce? Famme sentì” e le tastò forte il petto ridendo e spingendola con un calcio dietro il furgone “Tu sì scassata: sì muorta. Due o tre mesi di vita, se ti curano forse quattro. E’ meglio che te ne stai buona senza parlare, altrimenti l’infezione la iamo a suor Erminia e poi alle altre. Minchia, se non scopo con quella troietta esco pazzo. Portatemela, ragazzi” e si rivolse ai compagni come un capo.
Quelli ubbidirono immediatamente. Due di loro afferrarono Nina e con una mano sulla bocca le impedirono di urlare. Lei tentò di ribellarsi ma non appena le misero sul viso un fazzoletto imbevuto di qualcosa, crollò di peso tra le loro braccia.
“Non fatele del male, per carità, vi scongiuro” implorò suor Anna impietrita davanti allo Smilzo che guardava eccitato le gambe scoperte della ragazza e con una mano le strappava gli indumenti di dosso.
“Dipende tutto da te. Basta che dici una parola di troppo e l’ammazziamo come un agnellino. Stai zitta e non le faremo nulla. E mo iamm’ a parià. Dopo tutta questa fatica devo ricompensare i ragazzi. Goditi lo spettacolo. Non mi dire che questo scherzetto a te non l’hanno mai fatto? Che dite ragazzi? Vi piacerebbe continuare con quest’altra? Ne avrebbe bisogno, ma voi sapete qual è il problema? Ha pigliato una malattia incurabile, dobbiamo abbandonarla alle sue tristezze. Capito, suor Anna: vedi di morire presto e non scassare ‘o cazzo,
altrimenti sai che succede?” urlò con gli occhi iniettati di sangue, riverso sul corpo della ragazza priva di conoscenza guardando la suora che stava zitta senza fiatare. Poi abbandonò la preda a un suo luogotenente che già si era slacciato i pantaloni.
“Brava suor Anna ti voglio così, altrimenti continuano anche gli altri. Facimme na cosa ‘e juorno” disse ancora l’indiavolato.
“Non ucciderla…” gridò la donna ripensando alla purezza e alla forza ionale di Nina, al suo modo angelico di guardare il mondo, alle sue parole sincere d’amore verso quel convento dimenticato. Implorò ancora: “Non ucciderla…”.
Gli uomini caricarono la ragazza all’interno di un furgone come se fosse un fagotto, accesero i motori e si allontanarono rapidamente. Suor Anna ferma sul piazzale cadde a terra in ginocchio, atterrita ascoltò le ultime parole dello Smilzo:
“Ti controlliamo, tutto è controllato, Nun chiagnere, penza a durmì. Bona nuttata”.
Negli occhi velati di lacrime rivedeva le immagini di quella giornata e pensò che l’aveva vissuta senza sapere che sarebbe stata l’ultima traccia di felicità della sua vita. Da quel momento tacque perseguitata dal pensiero della povera Nina nelle mani di quei carnefici.
La morte terribile della superiora sopraggiunta di lì a poco avrebbe trovato solo un piccolo spazio nella storia di quelle mura. Suor Erminia, finché poté, restò a curarla amorevolmente, poi dovette consegnarla all’ospedale di Salerno. Quindi
con suor Adele, suor Mariana, suor Lucia e le poche anziane consorelle, compresa la malandata suor Calvaria, presero tutte la via dell’esilio verso l’ospizio monastico vescovile. Finita suor Anna, finiva anche il convento di Santa Scolastica di Fragore, svuotato dei suoi beni materiali e spirituali.
Nessuno portò avanti indagini. Ogni tanto la Soprintendenza inviava un gruppo di architetti o di volontari per monitorare lo stato dell’abbandono e stilare una relazione per gli uffici preposti. Quando la strada diventò sconnessa e pericolosa le ispezioni divennero sempre più rare, la natura si impossessò del luogo moltiplicando alberi e cespugli tanto da chiudere alla vista e alla memoria, la chiesa, il convento. Nessun turista vi si sarebbe avventurato in cerca di ospitalità.
A Napoli
Negli spazi angusti di una soffitta del rione Sanità costruita abusivamente sulla terrazza di palazzo Alfonsi Soderisi, esemplare architettura del tardo Seicento, si riuniva la cellula pensante della Federazione Sud. Nel silenzio attonito dei presenti parlava soppesando le parole l’ingegnere Demetrio Galan rientrato in Italia di recente dopo esser stato per vent’anni in Cina a capo di un’azienda dolciaria specializzata in panettoni, pandori e torroni. Esordì:
“Le decisioni dell’Alleanza Sudista si rispettano! Abbiamo dei termini stabiliti. I nostri ragazzi sono eroici. Manteniamo la calma…”.
“Ingegnere, la nostra calma è secolare” ribatté una voce tra i presenti.
“Capisco, ma dobbiamo pazientare. Aspettare”.
“La situazione è grave, le famiglie della Federazione Centro-Sud sono indebitate fino al collo e ridotte in povertà. Non possono nemmeno comprare un litro di latte cinese” disse un altro esprimendo il pensiero di tutti.
“Capisco, ma dobbiamo aspettare” sentenziò l’uomo.
“Che cosa, ingegnere? Aspettare che si muoia di fame? Di mancanza di cure e di medicine per i malati?” si sentì contestare.
“Aspettate e date il tempo ai nostri ragazzi di agire indisturbati. Stanno portando a termine due operazioni importanti che potrebbero essere risolutive ” riprese lui con calma.
“Siamo allo stremo” disse con rabbia donna Filomena Mangano, ex manager della Thelecra, azienda leader nel campo delle vendite via Internet, che aveva chiuso i battenti disperdendo capitali e gettando sul lastrico un migliaio di dipendenti.
L’incontro si chiudeva senz’altro risultato che l’attesa. Il gruppo si sciolse uscendo sulla terrazza incastonata tra uno spicchio di mare, il cielo e la collina del Vomero. Da lì ci si sentiva parte del cuore antico della città, con i panni stesi e i ciuffi d’erba sui cornicioni. Invece, vista dai robusti parapetti di Castel Sant’Elmo la città sarebbe apparsa come un ponte sul futuro che vince sia l’ostruzionismo ivo della natura che l’ingerenza imperante del Vesuvio. Una metropoli fatta di grattacieli trasparenti, architetture sghembe e trapezoidali, coni rovesciati, piramidi sospese. La terra dei contrasti perenni si vedeva ingabbiata in un corpo d’acciaio, cristallo e cemento. Lasciava ai posteri i suoi megalitici centri direzionali, costruiti da équipe internazionali di architetti ma debilitati dai cedimenti del terreno e destituiti di ogni funzionalità per via della chiusura di fabbriche e uffici. Ora servivano saltuariamente per le sedi di rappresentanza dell’Alleanza Sudista. E già si pensava di riconvertire la zona in un parco giochi all’avanguardia.
L’ingegnere Galan distribuì forti strette di mano e calorosi abbracci. Poi lasciò una valigetta con banconote di piccolo taglio: “Un piccolissimo anticipo: lo affido a voi, donna Filomena”.
Scese con disinvolta accortezza la scala elicoidale e nell’atrio del palazzo trovò i due fidi assistenti e la segretaria Hiroike, una quindicenne di Taipei, splendida
tuttofare, l’unica capace di fargli dimenticare il ato e le difficoltà del presente. Si incuneò in un furgoncino alto e stretto di fabbricazione indiana, ottimo per spostarsi in quei vicoli sempre più ingombri di vecchie auto adattate a ricoveri per diseredati. Si asciugò il sudore sulle tempie, allentò la cravatta , slacciò il collo della camicia. Si fece portare alla stazione dove avrebbe preso il primo Mondialstar per Monaco. Ma lui sarebbe sceso alla terza fermata, Verona. E poi avrebbe raggiunto Pieve Palladiana, distante alcuni chilometri, per incontrare quelli della Federazione Nord riuniti con i vertici politici dell’Unione Celtica e dell’Alleanza Sudista.
Preferì viaggiare in treno perché avrebbe avuto possibilità di rivedere dai finestrini il suo Paese dopo decenni di lontananza. Restò incantato da certi angoli della campagna romana rimasti intatti o dalla distesa delle colline toscane che apparivano ancora punteggiate di cipressi e coltivate a vigneti. Vedeva sfrecciare via paesi grandi e piccoli separati da terreni coltivati con cura, come in certi paesaggi cinesi. Stava tornando nel ato, o il futuro si era interrotto da un pezzo? Restavano due ore di tempo per rifletterci.
Anno Domini 2030: quel viaggio in treno era la rivelazione di un’altra Italia apparentemente al o coi tempi, ma in realtà spenta nella voglia e nell’ingegno. Insignificanti uomini politici si contendevano la popolarità con mezzucci meschini, mentre la corruzione aveva distrutto la capacità produttiva e aperto le porte all’ingerenza di interessi stranieri di ogni tipo.
Già in ato l’incapacità dei politici era servita a peggiorare le cose piuttosto che a risolvere i problemi. Si erano scardinate le libertà, era venuto meno il diritto, si era sostenuto che la crisi economica era mondiale e non si erano cercati rimedi.
L’imprenditoria era fuggita all’estero, si erano chiuse le fabbriche, anche molte di quelle in attivo, e sul territorio nazionale ormai quasi non si produceva più nulla. Lui stesso, ricordava, era dovuto scappare in Cina, a clonare prodotti
italiani. Quando il problema energetico si era fatto pressante, era apparsa inevitabile la scelta nucleare. Questa fu la goccia che aveva fatto traboccare il vaso causando la spaccatura tra Nord e Sud.
Anni difficili che avevano visto aumentare lo strapotere dei poteri occulti e delle mafie. La guerra civile era stata scongiurata solo dividendo l’Italia in due e riesumando confini che erano sembrati cancellati da secoli. La Sardegna, dopo una sanguinosa rivolta contro il progetto governativo di scaricare nelle gallerie delle vecchie miniere del Sulcis le scorie radioattive delle centrali nucleari del Paese, si era staccata rendendosi libera. Il Vaticano, che con la Città eterna era ritenuto una zavorra per lo sviluppo del Paese, venne ceduto con piacere al Sud nullafacente e improduttivo. Il governo era ato nelle mani di una Federazione Nord e di una Federazione Sud, con due territori separati e distinti per giurisdizioni e scelte economiche e politiche. E due capitali: Milano per il settentrione e Roma per il meridione. Il potere politico risiedeva in due grandi movimenti populisti, l’Unione Celtica e l’Alleanza Sudista, collegati alle banche la prima e alle mafie la seconda.
Tra poco l’ingegnere Demetrio Galan avrebbe dovuto incontrare i vertici di questo gran sabba politico e tirare le somme del suo progetto economico. Era dubbioso e malinconico, su quel treno in corsa. Rientrava nel suo Paese dopo decenni e ne avvertiva in pieno la decadenza e il disfacimento.
Cap. IV
A Verona
Il treno superveloce su cui viaggiava l’ingegnere Galan era arrivato a Verona. La fermata durò a malapena quattro minuti, il tempo di consentire l’uscita convulsa di qualche centinaio di persone tra cui l’ingegnere, la segretaria Hiroike, il taciturno assistente Bottin con la borsa dei documenti e il muscoloso autista Whuchi con i bagagli. Il giorno seguente avrebbero raggiunto Pieve Palladiana distante una cinquantina di chilometri. La stazione brulicava di gente di tutte le razze e di mille idiomi. Molti defluivano meccanicamente verso l’uscita, i più si indirizzavano verso altri treni con destinazioni europee. Tutto si svolgeva ordinatamente, senza intoppi. Alcune città del Nord, poche in verità, erano rimaste strategiche perché offrivano rapidità di spostamenti, aeroporti, collegamenti con treni tedeschi ad altissima velocità, ambiente elegante, buona cucina, ottimi alberghi, poco traffico: vita di gran livello. Verona era appunto tra queste e il ricordo dell’antico amore di Romeo e Giulietta restava impresso nell’atmosfera imperturbabile della città. Anzi, ne assicurava il futuro e la fortuna perché attraeva gli orientali annoiati dagli affari. Il desiderio di starsene da solo con la piccola Hiroike portò l’ingegnere Galan a rinunciare alla cena al ristorante Capuleti preferito dall’alta finanza cinese, per andare subito in albergo e ordinare una cena in camera.
“Lombata di vitello ai ferri poco cotta, radicchio alla griglia, patate al vapore, mousse all’albicocca, Champagne Fleur Chateau ghiacciatissimo, fragole e mirtilli”.
“Facciamo apparecchiare per due?”.
“Sì, in terrazza. Con una certa premura: siamo stanchissimi”.
La camera aveva arredi antichi, colori pastello, tende di voile, preziosi kilim a terra, cuscini morbidi sui divani. Sulla coperta del letto matrimoniale era ben visibile un pacchetto regalo incartato sapientemente. Un bigliettino specificava: “Per te, piccola mia, tuo Demetrio”. In bagno l’acqua della doccia fluiva e Hiroike pensò che l’ingegnere ne avesse ancora per un po’, così impaziente di curiosità scartò il pacchetto. Vi trovò una guepiére di pizzo stile Moulin Rouge. Divertente! La indossò dopo essersi spogliata dei suoi pochi vestiti. Si avvicinò allo specchio, si diede una rapida pennellata di trucco, rinforzò le sopracciglia e il contorno degli occhi, stese sulle labbra un rossetto madreperlato, aggiunse sulla pelle qualche goccia di profumo. Era pronta e perfetta ma il letto le pareva una irrinunciabile tentazione e s’infilò tra le lenzuola: era stanca, voleva solo dormire. L’uomo uscito dal bagno e avviluppato nell’accappatoio accennò un sorriso, sollevò bruscamente quanto la copriva per vederla da capo a piedi col suo corpo minuto di adolescente chiuso tra le spire del corpetto rosso fuoco. Cominciò ad accarezzarla delicatamente sulla pelle d’avorio. Saliva col palmo della mano verso i capelli e il viso, poi scendeva col dorso fino alla punta dei piedi. Ne toccava e baciava ogni dito, ava la bocca sull’arco plantare sollevando le gambe sottili, mordeva i polpacci, insinuava la lingua nell’incavo delle cosce poi sempre più eccitato gliele apriva, deciso a esplodere di piacere.
“Piccola mia, godi?”.
“Mm…” rispose lei senza parole ma arrendevolmente assonnata.
La docilità della ragazzina lo mandava in estasi, confondeva la sua coscienza di uomo, lo slacciava dai vincoli del perbenismo e dell’ovvietà. Se ne sentiva padrone, maestro, padre, addestratore, confessore, istigatore diabolico. Avere quella bambina puttana era un dono della vita. Averla sottratta alla povertà e a un’esistenza squallida bilanciava il suo peccato. Che era nulla in confronto alle nefandezze di cui si era macchiato.
Dormirono intrecciatiti come due liane e inaugurarono il nuovo giorno con la piacevolezza di una colazione all’aria aperta tra l’aroma del caffè e una morbida torta alla crema di pinoli.
“Preparati, dobbiamo incontrare parecchie persone. Sarà una giornata impegnativa”.
“Sì…”.
“Ti voglio bella. Devi piacere a un uomo importante”.
“Yes, I’ll do what you want” disse mentre gli lasciava ripetere qualche gioco erotico per restare ancora un po’ sdraiata a letto.
Il vertice di Pieve Palladiana
Il sole era già alto quando giunsero al borgo antico di Pieve Palladiana. Poche anime, lievi colline protese al sole segnate dai filari d’uva. Recinti marmorei di ville disabitate, cancellate sconnesse, tracce di antichi splendori di provincia. L’appuntamento con quelli della Confederazione Nord e con i capi dell’Unione Celtica e dell’Alleanza Sudista era nel giardino di villa Maser, accanto al laghetto delle ninfee e dei papiri. Una cornice d’effetto, congeniale per quella giornata afosa in cui i convenuti giungevano alla resa dei conti per arrivare a un accordo accettabile per tutti. Intanto, si incontravano per un aperitivo fresco al riparo ombroso dei tigli, certi di trovare ognuno il proprio vantaggio da quella faccenda.
L’uomo che svolgeva il ruolo di padrone di casa e coordinatore dell’incontro, l’architetto Sandro Petri, si rivolse con un affabile sorriso all’ingegnere Galan:
“Le presento l’Onorevole Massimo Binaghi, grande stratega della politica italiana, personaggio di punta del Gruppo Anticrisi nella Federazione del Nord, nostro grandissimo amico. Nulla si muove quassù senza il suo volere. L’economia del Settentrione dipende dal suo piano di sviluppo finanziato dalle banche cinesi”.
“Onoratissimo, la vostra fama vi precede. Ho sentito parlare molto bene di voi a Pechino dal ministro dell’Economia. Vi presento la mia assistente Hiroike Jashui che si occuperà dell’organizzazione del vostro prossimo viaggio in Cina. Fate totale affidamento su di lei. E’ la dolcezza fatta persona, conosce sette lingue, sa districarsi perfettamente tra le pastoie burocratiche orientali, le faciliterà anche i rapporti con la banca di Hong Kong”.
Era atteso con trepidazione un altro personaggio chiave, Flavio Maria Breviglieri, capo dell’Unione Celtica. Lo si vide spuntare dal viale delle rose affiancato dai suoi gorilla. Abbronzatissimo, elegante. Per ultimo arrivò don Frigerio Malaspina. Pallido, malvestito, stranamente solo, senza guardie del corpo ma con un poco rassicurante mastino napoletano al guinzaglio, come se portasse a so un barboncino. Camminava tranquillo, stile domenica al parco, l’aria assente, un pacco di giornali sotto il braccio, ogni tanto una tirata di sigaro.
Il meeting tra le eminenze grigie che manovravano la politica e l’economia italiana iniziava nel parco di Villa Maser con un Bellini ghiacciato. Un aperitivo campestre prima di trovare rifugio tra le pareti affrescate della sala da pranzo. L’architetto Sandro Petri, referente del mondo politico del Nord e apionato di Andrea Palladio, aveva scelto la località e la dimora, curando ogni minimo dettaglio, ricreando uno scenario idilliaco laddove fino al giorno prima pareva tutto nell’abbandono. L’incontro si svolgeva all’interno del ninfeo in cui l’afa di quell’agosto veniva mitigata dall’umidità di uno stagno contornato di salici, felci e canneti. Un getto di cascatelle alimentava lo specchio d’acqua e rilasciava frescura nell’aria, mentre una fitta cortina di verde impediva al sole di penetrare, tanto che nell’ombra era sopravvissuta una statua di Venere al bagno che, a dirla con le parole di Torquato Tasso, era lì nuda, ma “…parea chiedere, con un lieve sorriso sulle labbra, come dovesse aggiustarsi i capelli sulla fronte”.
In tale luogo sublime, don Frigerio Malaspina, capo dell’Alleanza del Sud, il concentrato di tutte le mafie, si avviò sul tappeto di muschio per avvicinarsi all’ingegnere Flavio Maria Breviglieri. Guardandolo negli occhi e alzando bicchiere disse:
“Un tempo eravamo avversari, ci facevamo la guerra. Siamo stati le parti inconciliabili di un Paese separato dallo spartiacque dell’odio che noi stessi abbiamo fomentato. Tu, grande manovratore dell’economia, sei stato l’autore occulto della divisione tra Nord e Sud; io ho provveduto agli attentati, a seminare il terrore per facilitare il tuo disegno. Adesso siamo qui per l’obbiettivo
opposto: tentare di ricostruire, per quel che sarà possibile, l’antica unità e offrire al Paese un capitolo nuovo. Brindiamo alla nostra amicizia”.
“La mafia si è convertita al bene? Lo spietato don Frigerio Malaspina fa il santo?” lo interrogò con tono di amichevole sfottò Flavio Maria Breviglieri, milanese doc, mente ispiratrice di tutti i raggiri economici e finanziari di mezzo secolo di storia patria.
Il boss sorseggiò con calma il suo Bellini. Prese tempo guardando la giovanissima assistente di Galan mentre offriva graziosamente da bere all’on. Massimo Binaghi, capogruppo al Senato della Federazione Nord. Meditò, riaccese il suo sigaro, diede due boccate controvoglia, sputò un residuo di tabacco e si lanciò in un serrato confronto con l’amico Breviglieri. Le sue parole potevano anche sembrare sincere, dettate da uno spirito di autentico ravvedimento: “Siamo invecchiati come questo nostro Paese di merda fiutando solo il profumo dei soldi. Siamo giunti a questo fatidico 2030 in una terra che viene venduta a pezzi al migliore offerente. Sono già in corso le trattative e tu lo sai meglio di me: chi può essere interessato all’acquisto di una meretrice qual è l’Italia? A chi saremo grati? Alla nuova Cina, alle Repubbliche Caucasiche, alla Russia, all’India? Finirà la mia e la tua epoca. Saremo sudditi dei nuovi conquistatori a cui abbiamo spianato la strada per anni. Finirà la terra dove siamo nati e cresciuti. Questa fetta di crosta terrestre ammuffita che ci è servita per vivere, nutrirci e nasconderci si sfalda e si disgrega ogni giorno di più. Scapperemo come topi prima di precipitare nell’inferno. Immagino che tu abbia scelto di rifugiarti in una delle tue isole del Pacifico, pronto a finire i tuoi giorni nel lusso di una colpevole fuga”.
Il glaciale milanese sembrò illanguidirsi: “Ero bambino quando mio padre aprì una piccola fabbrica di posateria da tavola, roba di lusso coi manici d’argento, d’avorio, di legno pregiato. Oggetti preziosi, indistruttibili. Era vicino Como; ci andavo volentieri perché aveva accanto un campetto dove giocavo con gli operai nelle ore di pausa. Il lago in primavera era un incanto: i fiori, l’aria profumata, il vento leggero, i visi felici della gente. Non dimenticherò mai quell’atmosfera di
appagante semplicità”.
A quel punto toccò all’altro sfottere: “L’astuto Flavio Maria Breviglieri fa il sentimentale e si confessa?” interruppe il siciliano facendo due i intorno all’amico, squadrandolo da capo a piedi per accertarsi che fosse veramente lui e non un vecchio di quelli che, in tarda età, ano il tempo a ricordare e a rimpiangere.
“Sì, voglio parlare. Mi esortavi alla sincerità, no?” rispose Breviglieri. “Villa Maser, le sue architetture sbiadite e questo giardino abbandonato sono il luogo ideale per dirsi la verità. Il silenzio che c’è qui sembra attendere proprio una risposta troppe volte evitata. Che sia pure una specie di confessione, ma non cerco assoluzioni. Non ci sarebbe tempo per redimersi. Ogni cosa intorno a noi è stanca di esistere, pronta a soccombere a un futuro di cui possiamo solo intuire gli sconvolgimenti. Nell’Italia del secolo scorso tutto era possibile. Il nostro modo di lavorare l’acciaio era perfetto, i nostri operai i migliori. Esportavamo in tutta Europa e in America. La nostra era roba di lusso. Espanderci non fu un problema, aumentare il fatturato, aprire nuovi mercati, nuovi settori di produzione fu semplice. Io sono cresciuto assieme alle aziende di mio padre, tagliavo i nastri tricolore nelle cerimonie di inaugurazione. Gli operai mi amavano perché sapevano che sarei stato il successore di mio padre, il nuovo padrone. Chi avrebbe pensato allora che sarei diventato, invece, il grande demolitore? Che avrei comprato e chiuso le migliori aziende, smantellato fabbriche e miniere? Che avrei sconfitto e distrutto i sindacati, licenziato in massa e abbandonato l’industria per investire tutto nella grande finanza? Che mi sarei legato a doppio filo con la politica e, purtroppo, con la mafia? Per rifugiarmi, poi, nei momenti di tensione, nella mia villa sul lago di Como a guardare a ritroso la mia vita e cercare un perché a tutto quello che stava accadendo. Tra camerieri e guardie del corpo, solo, senza affetti, figli, gioie, sorrisi. Rapporti con i dipendenti non ne avevo più, non ne conoscevo le facce, i nomi, i problemi. Non avrei mai stretto loro la mano come faceva mio padre, non mi sarei mai sognato di distribuire un pacco regalo per Natale. Non avrei più sposato un progetto in cui il mio profitto coincideva con quello del Paese. Ero però l’uomo che tutti avrebbero voluto avere come amico, quello che tutti avrebbero voluto avvicinare e conoscere per farsene servitori devoti. Il potere mi
divideva dalla gente. Non potevo percepirne i problemi o meglio non volevo vedere che cosa c’era oltre la mia onnipotenza. Divenni il simbolo del successo, di ciò che valeva la pena essere, di come si doveva vivere e pensare. Confusi le coscienze al punto che, dovunque io posassi lo sguardo nessuno si sarebbe opposto. Intanto un Paese bello come il nostro diveniva volgare e invivibile. Mio padre non amava il denaro ma la sua fabbrica, si innamorava come un bambino degli oggetti che creava. “Se gli operai mi vogliono bene” diceva “è perché sono uno di loro”. Adesso, sul finire della mia vita, vorrei ritrovare in qualcuno quello spirito che io ho contribuito così tanto a distruggere. Sì, sono stato il burattinaio occulto, come dici tu, il peggiore degli italiani, ma non voglio finire i miei giorni da codardo. Se c’è una speranza di salvare qualcosa, io voglio esserci” concluse Breviglieri.
“Che capolavoro di discorso! Non mi dire che vuoi essere ricordato come il salvatore della Patria? Suvvìa, Breviglieri, diciamo che vuoi la tua parte nella nuova ricostruzione del Paese. Vuoi riunire il Nord e il Sud sotto l’antica bandiera? Vuoi restituire all’Italia la sua Costituzione? Vuoi diventare il Presidente di una giovane e risorta Italia Unita?” disse don Frigerio. Intanto il milanese afferrò un altro bicchiere, fissò assorto le ninfee del laghetto e dopo qualche secondo riprese:
“Stiamo rimpiangendo un’epoca perché non abbiamo saputo proporne una migliore. La nostra fine è imminente, siamo agli sgoccioli. Macché presidente! Dobbiamo pensare alla nostra anima, caro don Frigerio. Ora noi dovremo tentare di rigenerare la società, aiutarla a ritrovare uno straccio di orgoglio nazionale prima che sia del tutto assorbita dall’egemonia orientale. Paradossalmente, il nostro ruolo, adesso, è accanto ai deboli, a quanti abbiamo messo sul lastrico”.
Toccò al boss siciliano chiarire brutalmente il quadro:
“Lo sai perfettamente: il sistema è collassato. Ricostruire l’Italia del malaffare, delle tangenti, degli appalti truccati è impossibile perché l’economia è andata a
puttane. Ormai non bastano più la droga, la prostituzione e la spazzatura, il riciclaggio, le scorie nucleari: dobbiamo attingere a una miniera del tutto diversa se vogliamo mettere insieme le risorse per provare a rinascere. Sto pensando a una materia prima che l’Italia ha sempre posseduto in abbondanza ma non ha mai saputo utilizzare. Sto parlando della bellezza. Posso rivelarti che in quest’Italia del bla-bla, noi stiamo cominciando a sporcarci le mani e a fare ciò che nessuno aveva mai pensato di fare: svaligiare i conventi, trafugare le migliori opere d’arte e venderle a chi può pagarle molto, moltissimo. E con quel denaro stiamo tentando di inventarci un nuovo sistema”.
L’ingegnere Demetrio Galan, il tramite degli interessi orientali in Italia, finora aveva taciuto, ma a quel punto si inserì nel discorso:
“Cose di questo tipo si sono sempre fatte” disse al siciliano. “Inutile nasconderlo, erano solo diversi i compratori. Ora abbiamo gli orientali. Mi pare di capire che solo un tipo come Xao Chan-su, il ministro della Cultura della Federazione Imperiale Cinese, ispirato da un amore viscerale per l’Italia, potrebbe offrire cifre così alte”.
Lo stupore di don Frigerio sembrava autentico: “Mai questo fu fatto con l’appoggio del governo! Pur di ricevere le tangenti ci lasceranno esportare di tutto. Persino i depositi degli Uffizi saranno svuotati per arricchire il grande museo del Rinascimento di Shanghai. Che cazzo è successo? Minchia, oggi un cinese può permettersi di tenere in casa un Botticelli come se fosse la cosa più naturale del mondo. E non si accontentano delle copie, ma cercano e pretendono gli originali. Nelle loro scuole si insegna l’italiano e si studia la Divina Commedia. I nostri insegnanti si sono trasferiti in Cina per fare i precettori alla prole dei potenti”.
E Galan, consapevole dei mutamenti culturali:
“Dimenticate l’idea degli orientali gelidi, opportunisti, incapaci di sentimenti. Il ministro Xao un tempo era sposato con una donna molto colta e straordinariamente bella, discendente di una nobile famiglia veneziana, i Mocenigo Zorzi. La sua morte prematura lo ha lasciato nella disperazione e, se non fosse stato per i due figli avuti da lei, sarebbe impazzito. Attualmente sta progettando la costruzione di una città lagunare sulla foce del fiume Wong completamente ispirata a Venezia. Intende arricchire gli interni dei suoi più importanti palazzi con ciò che gli venderete. Ve lo dico subito, tanto per farvi capire il personaggio: la statua della chiesa dei Frari la paga lui personalmente perché sarà collocata sulla tomba che ha fatto costruire per la moglie. Una storia strappalacrime che ci vale tutto l’affare. Senza la statua non ci avrebbe mai dato gli appoggi necessari e le somme che chiedete”.
“L’opera è in buone mani. Ma la consegna avverrà con molta, molta calma” precisò don Frigerio.
“La ione dei cinesi per l’arte italiana” riprese Galan “scoppiò più di vent’anni fa. Ricordate? Quando a Pompei cominciarono a venire giù per l’incuria i muri delle antiche case, si scoprì che da qualche anno i cinesi mandavano segretamente gruppetti di scienziati travestiti da turisti a studiare quei resti romani per carpire i segreti di quella civiltà. Poi scoppiò una diffusa ione per l’arte. Il numero di opere comprate da acquirenti cinesi è stratosferico. Il mercato d’arte a Hong Kong lascia senza fiato per la quantità e i valori trattati. Prima si accaparravano autori come Picasso e Warhol, poi seguirono con Gauguin, Van Gogh e gli Impressionisti. Adesso fanno follìe per l’arte antica. E vogliono la nostra arte. Ci comprerebbero tutto: i sarcofagi romani, le statue degli imperatori, gli avori dei re longobardi, i codici miniati, i polittici giotteschi, le opere di Beato Angelico, Mantegna, Piero della sca, Bellini, Tiziano, Lotto, Raffaello, Michelangelo, Leonardo, Canaletto. Tutti, nessuno escluso. Progettano il trasferimento a Pechino del Teatro San Carlo di Napoli da ricostruire pietra su pietra, perché tanto da noi ammuffisce da anni, mentre loro vanno pazzi per l’opera lirica. Sono convinti che questo serva al cervello dei giovani, che li aiuti a sviluppare l’intelligenza giusta per capire il presente e le necessità del futuro. Io sono qui per questo: trattare gli acquisti. Per loro, il nostro ato è glorioso e magnifico e il nostro Paese è l’espressione
autentica della creatività e dell’intelligenza di quello che è stato l’Occidente. Del nostro squallido presente sanno tutto, anche perché siamo stati tra i primi popoli distrutti dalla loro economia. Eppure ci ammirano, ci studiano, vogliono appropriarsi di ogni cosa che sappia di italianità”.
L’on. Massimo Binaghi come politico ambiva a sembrare nazionalista più degli altri, ma non condivideva tutti quei discorsi sulla psicologia orientale, sul dramma personale del ministro Xao Chan-su e le complicazioni del mercato dell’arte:
“Si cambia per mantenere il potere. Un capovolgimento è necessario se vogliamo sopravvivere alla crisi. Cambiamo le carte di questa partita. Se dobbiamo vendere, vendiamo. Poche chiacchiere, pochi scrupoli. Dobbiamo agire senza pensare troppo, vero, ingegnere Galan? ”.
A Milano, il Senato della Federazione Nord era il luogo dove si stilavano provvedimenti, si cucivano alleanze, si tramava ai danni degli avversari politici. Attraverso strutture come il Gruppo Anticrisi pareva che si individuassero i problemi e si cercassero le soluzioni. Lo si faceva in modo stentato, finto, senza un vero progetto organico. Sempre meglio, comunque, di quanto si fe al Sud. L’Anticrisi aveva in Binaghi il più noto portavoce, avvezzo a trasmettere un’idea di efficienza, oculatezza e serietà. Ma la gente, a cui ormai non interessavano affatto i discorsi dei politici, lo ascoltava come si ascolta una musica di sottofondo, senza farci caso. Era “fuffa”, tutti ne erano convinti, ma nessuno contestava perché conveniva a tutti mantenere una parvenza di struttura politico-amministrativa.
“E’ vero” confermò Galan, non avendo intenzione di contraddire il senatore, “il mondo si evolve e non sappiamo se in meglio o in peggio. L’Occidente tramonta e muore, l’Oriente vive il massimo splendore. Era già chiaro molti anni fa che la nostra economia sarebbe fallita. Avevamo mille segnali. Se sono scappato è perché ho capito in tempo. Non mi sono fatto scrupoli: produrre in Cina mi
conveniva e ho trasferito lì tutte le mie fabbriche. Lì potevo avere il doppio dei dipendenti al costo di un quinto, l’energia costava la metà, le tasse erano pochissime. I miei prodotti rientravano in Italia e li vendevo allo stesso prezzo di prima. Un cerchio perfetto. Con le leggi ad hoc sulla dichiarazione dello stato di crisi si potevano licenziare tutti i dipendenti e venivano offerti incentivi se l’azienda si trasferiva all’estero fuori dall’Europa. Assurdità prodotte dalla corruzione e dal menefreghismo: chi di noi pensava al futuro?”.
“Questi furono gli errori voluti dal governo centrale di Roma-ladrona” aggiunse deciso Binaghi, il senatore nordista.
Galan, che ormai seguiva la china del suo ragionamento, non ci fece caso e continuò: “La vita ci insegnava a pensare al profitto immediato. La globalizzazione fu la scusa per scappare. I politici, poi, che non avevano neanche la percezione di che cosa fosse il bene comune, non fecero nulla per trattenerci. L’Italia oggi se la a male economicamente ma per la Cina rappresenta il più alto livello raggiunto dalla cultura occidentale. Con le guerre economiche gli avversari si conquistano comprandone i tesori. Allora vendiamogli pure la nostra unica ricchezza: possiamo rinunciarvi ora che il Paese è povero e arretrato. Sono stato a Napoli e ho parlato con i rappresentanti delle famiglie dei disoccupati. La situazione è gravissima, dobbiamo trovare presto un rimedio. Gli orientali sono inarrestabili, ci soppiantano in tutto, hanno energia sufficiente, sfruttano anche i giacimenti di petrolio della Siberia. Ci domineranno a distanza. Il governo cinese, quando non deve fronteggiare le sommosse nelle sue zone di confine, investe generosamente in cultura, che è il motore dello sviluppo economico. Un tempo avevamo anche noi quest’utopia. Il nostro Paese era la culla dell’arte e della bellezza. Anche per questo eravamo in grado di fabbricare ottimi frigoriferi, automobili, elicotteri, macchine per scrivere, i primi computer, barche, tessuti, abiti, scarpe, gioielli, mobili; e poi dolci, pasta, vini, formaggi di grande qualità. Ve ne ricordate? Adesso fanno tutto loro”.
Intervenne don Frigerio Malaspina: “Nessuno avrebbe mai pensato di violare il sacrario di Canova per fare cassa, eppure dobbiamo farlo”. Sembrava contrito e
perplesso, il siciliano, mentre recitava la parte dell’uomo sensibile. “Siamo costretti a farlo perché noi che governiamo al posto di quei palloni gonfiati dei politici, dobbiamo risolvere mille emergenze. Ma poi, francamente, chi tra gli italiani conosce questo Antonio Canova? Chi se ne fotte di lui e della sua arte? Abbiamo solo sostituito una statua con una copia perfetta. L’arte si copia, si falsifica, si riproduce e nessuno se ne accorge. Se volete, di questa vi faccio fare mille repliche identiche. Vi basteranno? Se un originale sparisce, che ce ne fotte a noi che abbiamo avvelenato intere province, laghi, fiumi e mari? Se la terra è diventata sterile, chi minchia se ne fotte di una scultura? Volete dare a noi tutta la responsabilità del furto? Fate pure, perché qui ci vogliono uomini con le palle, non quaquaraquà”.
E di rimando il cinico Binaghi, sentendosi chiamato in causa per difendere la sua categoria: “Noi politici farfugliamo le solite cantilene, ci strattoniamo. Ma siamo lo specchio del popolo, siamo ciò che il popolo è. Quando volevate l’ingiustizia abbiamo fatto leggi ingiuste. Quando volevate gli appalti ve li abbiamo dati. Condoni, indulti, sanatorie: tutto abbiamo fatto perché così vi stava bene. Adesso ci chiedete l’assenso a un’operazione che politicamente non possiamo condividere, ma possiamo far finta di non vedere”.
“Arrivati a questo punto di non ritorno” disse Breviglieri “continuiamo a fare i vermi. I miei uomini hanno i tesori dell’Abbazia di San Martino, gli uomini di Malaspina hanno quelli del convento di Santa Scolastica e la statua della chiesa dei Frari. Calma, caro Binaghi. Renderò sensibile la Federazione Nord attraverso le solite regalìe bancarie e sarai soddisfatto. La Cina e la Russia sono giunte a un accordo sul petrolio della Siberia e del Caucaso. La guerra, per ora, è scongiurata, gli orientali hanno soldi da sperperare per placare la loro smania di possesso di opere d’arte. Pagano in contanti cifre inimmaginabili. Vendiamo, prima che nascano i soliti incidenti diplomatici tra Iran e Iraq e si apra un’altra guerra in Medioriente. E facciamo presto. Sarà come togliersi un dente: subito si fa e meglio è”.
Intervenne Galan: “Due banche svizzere hanno l’ordine di rifornire di grana il
circuito politico al Nord per le nuove campagne elettorali. Non cambiano mai, continueranno a sperperare denaro pubblico mentre questa volta si potrebbero aprire almeno due stabilimenti di recupero e riciclaggio di metalli, come ci chiede il governo di Taiwan, che se ne servirebbe per realizzare la bici-car da città. Robetta divertente, semplice, utile, ho visto il prototipo a Taipei”.
“Per fortuna, al Sud elezioni non se ne fanno da un pezzo. Non c’è denaro da sperperare. Questo è l’unico sollievo” commentò don Frigerio Malaspina. E concluse: “Vecchi discorsi. Comunque, tutto ha funzionato secondo i piani: l’operazione al convento di Fragore è andata più che bene. Stanno arrivando con tre furgoni di quadri. Anzi, direi che sono già qui. Ecco, li vedo spuntare dal cancello d’ingresso alla villa. Puntuali”.
Il boss lasciò momentaneamente l’amico, si indirizzò verso il viale dei tigli e sciolse il guinzaglio del suo mastino napoletano che annusò l’aria e si diresse di corsa verso i nuovi arrivati. Questi fermarono il mezzo e scesero rapidi. Tra loro una donna: era Nina. Il cane, che avrebbe sbranato il più forte degli uomini se solo il suo padrone glielo avesse ordinato, le andò incontro come un agnellino e lei lo accarezzò come se fosse un sonnacchioso gattone. Poi si diresse verso don Frigerio, l’abbracciò con impeto sciogliendosi in un pianto ma gli manifestò tutto il suo sdegno: “Papà, è stato terribile! Suor Anna è condannata: morirà! Mi avevi assicurato che sarebbe stato un semplice furto. Perché siete arrivati a tanto? Non bastavano i quadri?”.
“So che sei stata coraggiosa, pensa allo scopo di tutto questo e dimentica. Quello Smilzo è irrefrenabile, ama le sceneggiate. Ai picciotti ci piace fare gli attori. Meglio questo che sparare! Calmati! Era solo per terrorizzare la suora. Non si poteva rischiare che le venisse in mente di chiamare la polizia. Nessuno oserebbe farti del male” rispose il boss stringendola forte tra le braccia come avrebbe fatto il più amorevole dei genitori.
“Il male è stato fatto a suor Anna. I tuoi attori si sono comportati come bestie
con quella povera indifesa. Una violenza inutile. L’hanno infettata, picchiata, insultata. Ti circondi di sadici. Quello che hanno architettato è orrendo. No, non potrò dimenticare la fede e la devozione di quell’anima innocente, la pace del convento. Mi devi giurare che i quadri della cappella del Battista non saranno dispersi, o il dolore mi ucciderà, perché è colpa mia se sei arrivato a tanto” disse lei in preda allo sconforto aspettando un cenno che potesse offrirle una debole speranza.
“Mi sicca lu cori vederti così. Asciuga le lacrime. Avviciniamoci al gruppo. Riprenditi, bevi questo champagne ghiacciato. Voglio darti tutte le garanzie, perché tuo padre ti ama più d’ogni altra cosa e vuole vederti felice” e le porse il bicchiere presentandola al capo dell’Unione Celtica, Fausto Maria Breviglieri, all’ingegnere Demetrio Galan, all’architetto Sandro Petri e al senatore Massimo Binaghi.
“Ecco mia figlia Nina. Grazie a lei abbiamo i Caravaggio. E’ lei che li ha rintracciati dopo anni di studio. Propongo ancora un brindisi tutti insieme: a Nina e al suo splendido futuro” disse l’uomo guardando negli occhi ognuno dei presenti con l’orgoglio e la debolezza di padre.
Quelli ammutolirono di fronte alla bellezza della ragazza. Un fiore nato tra le erbacce e per questo tanto più prezioso. Una siciliana normanna, una tavolozza di contrasti cromatici, un impasto armonioso di femminilità e alterigia, di fragilità e autocontrollo. Una donna provata dalle emozioni ma una dea dal portamento e dallo sguardo impavido e sicuro. Lunghi capelli corvini le incorniciavano i lineamenti delicati del viso, davano risalto alla carnagione candida di porcellana e ai grandi occhi color del mare che sfavillavano come stelle in una limpida notte. Una bellezza non comune che faceva scordare persino la dolcezza sensuale e perversa di Hiroike. Lo stesso Galan ne restò soggiogato. L’ammirò insistentemente e provò a complimentarsi con Malaspina:
“Don Frigerio, non puoi che essere felice con una figlia così bella e, da quello
che intuisco, anche molto intelligente. Non bastano i complimenti per testimoniarti la mia ammirazione”.
“Vi ringrazio, ingegnere Galan” disse Nina, interpretando ora la parte della donna decisa “ma io vorrei delle garanzie per le tele. Tutte quelle della Cappella del Battista devono restare insieme, dovrete ricreare lo stesso ambiente. Che vadano pure a Pechino, ma unite. Voglio vedere tutti i documenti siglati col governo cinese. Mi fido poco di voi espatriati del Nord. E, se vi sembro offensiva mi dispiace, ma ho bisogno di certezze”.
“Siamo qui per questo: ci sono tutti i documenti che chiedete. Gli orientali sono precisi e di parola. Offrono una cifra enorme. Il loro unico interesse è avere le opere. Averle sottratte col tacito consenso dei nostri due governi rende tutto più facile. Si tratta di uno scambio di favori. Il Sud riceverà dalla Cina i fondi per la cassa integrazione dei dipendenti del gruppo Diat che si è definitivamente trasferito a Shanghai, inoltre pagherà i debiti contratti dalle famiglie degli operai nel corso di questi ultimi cinque anni. Il mondo corre in fretta e lascia indietro chi non ha saputo difendersi dalla globalizzazione. Nina, dovete imparare a fidarvi degli espatriati del Nord, gente come me che ama ancora il proprio Paese” rispose l’ingegnere convinto della chiarezza delle sue parole e sicuro di avere fatto leva su elementi concreti. Guardò gli occhi della giovane cercandovi una scintilla di cedimento come era abituato a fare con tutti quando parlava di denaro. Ma adesso la contropartita erano i buoni sentimenti. Per la prima volta si sentì messo in discussione da una donna. Per la prima volta una donna si era permessa di alzare i toni con lui. Dicendo oltretutto la verità: che era un venduto.
Nina, per nulla intimorita dallo sguardo insistente dell’uomo, replicò:
“E’ colpa di quelli come voi se abbiamo avuto il crollo dell’economia, se i capitali sono finiti all’estero, se la gente è stata licenziata, se le fabbriche hanno chiuso. Il vostro unico interesse è stato il profitto e l’evasione fiscale. Avete corrotto i politici per anni fintanto che non hanno legittimato i vostri imbrogli
con leggi a vostro vantaggio che giustificavano la fuga dei capitali. Avete mandato a casa migliaia di lavoratori dall’oggi al domani senza che nessuno potesse impedirvelo. Vi siete liberati della zavorra italiana per cercare paesi dove lo sfruttamento del lavoro era la regola. E’ vostra la colpa se l’Italia si è divisa in due blocchi, due governi, due parlamenti nell’ambito di una Confederazione che è solo una finzione dell’antica unità. Voi avete gettato il seme della discordia e dell’odio. Noi del Sud abbiamo subìto le peggiori conseguenze e, se non fosse stato per il controllo sociale fornito comunque dal sistema mafioso, saremmo arrivati al cannibalismo. Non riesco a credere nella vostra conversione”.
“Non posso darvi torto” continuò Galan. “La mia vita è costellata di errori. Ma ora potrò rimediare”.
“Che cosa?” reagì Nina. “Rimediare vendendo la nostra arte? Strappandoci gli unici tesori? Quando esportavate capitali e aziende riuscivate a pensare anche solo un attimo alle moltitudini di giovani disoccupati che vi lasciavate alle spalle? Non vi lascerò commettere altri errori. Scambiamo pure le opere con il denaro, ma con giudizio. Verranno cedute per cinquant’anni e poi ci saranno restituite. E io voglio esserci quando torneranno in Italia. Aspetterò: sarò vecchia ma vigile. Proverò la stessa emozione che ho provato al convento di Fragore”.
“Il governo cinese compra per sempre, i patti erano questi. E’ un acquisto a tutti gli effetti, possiamo ritenerci soddisfatti per il rispetto straordinario che avranno per le opere e per la cifra incredibile che ci daranno” disse sconvolto Galan guardando gli incartamenti che teneva stretti fra le mani a garanzia dell’affare.
Ma Nina con la rabbia di una leonessa ferita rispose: “Non avevo visto personalmente le opere e non pensavo che avreste ucciso un’innocente. I quadri della cappella del Battista rientreranno in Italia quando forse il nostro Paese sarà rinato. Gli altri possiamo cederli. E senza sconti: il prezzo resta lo stesso. Io sarò vecchia e voi sarete morto, ma i quadri resteranno eternamente giovani. Le cose ci sopravvivono, caro ingegnere”.
“Non sono abilitato a un nuovo accordo. La reggia della Città Proibita è il luogo adatto per accogliere i quadri che vi stanno a cuore. Un tempo l’arte era una visione riservata esclusivamente agli occhi dell’imperatore, oggi lo è per un’élite che saprà avere la massima cura delle opere. Non dovete minimamente preoccuparvi, Nina, sarà ricreato lo stesso ambiente, la stessa forma, gli stessi materiali, la stessa luce della cappella del Battista. Avete la mia parola”.
“Voi credete che una reggia sia pari a un convento? Voi credete che attraversare la navata di una chiesa sia come entrare nella sala del trono di un Re? Voi siete troppo convinti della vostra onnipotenza. In autunno, il vento forte lascia poche foglie sui rami: di noi non rimarrà nulla se ci portano via l’orgoglio. Anche la mafia prima ti toglie l’onore, poi la vita”.
L’atteggiamento assunto con forza da Nina era qualcosa d’imprevisto rispetto ai programmi. Lo stesso don Malaspina sembrava colpito dalle parole della figlia. L’idea di trasformare la vendita in una cessione temporanea almeno per i Caravaggio e i caravaggeschi era un’ipotesi da vagliare. Ma l’ingegnere Galan non era uomo da rimangiarsi la parola col governo cinese. Agli uomini avvezzi a trattare capita spesso un imprevisto; così questi si resero conto che la volontà di Nina avrebbe influenzato quella del padre e capirono che forse si poteva arrivare a un compromesso accettabile per tutti. Ma non prima di un’accesa discussione dove tutti vollero esprimere il proprio pensiero. L’architetto Sandro Petri da avveduto organizzatore aveva messo in fresco parecchio champagne e lasciò che la bella Hiroike versasse ancora da bere a tutti. Ognuno ascoltò le ragioni dell’altro. Parlavano per la prima volta di orgoglio, di rispetto, di futuro.
“Tra cinquant’anni sarò bello che morto” disse il siciliano “e mia figlia avrà più di ottant’anni. Signori miei, sembra che l’unico ad avere figli sia io. Galan non è mai stato sposato, Breviglieri non si è mai fidato di una donna, Binaghi ha vissuto e vive una vita quasi da eremita, politica a parte, e Petri è troppo intelligente per avere figli di questi tempi. Solo io, dunque, ho messo radici nel futuro. Forse Nina ha ragione, lasciamole una speranza”.
“E come? Pensate che sia facile convincere i cinesi a cambiare gli accordi? Già il luogo destinato ad accogliere le opere d’arte dovrebbe farvi capire quanto sia forte il loro interesse” replicò Galan.
“Eviterei un braccio di ferro con gli orientali, adesso che possiamo ricevere quella montagna di denaro. Cosa dirò ai federati del Nord? Non sono duttili sull’argomento denaro” aggiunse Binaghi.
“Se non possiamo compensare col denaro, l’unica è trovare altre opere che appaghino il loro interesse. Ma sarebbe imprudente fare parlare ancora di furti e allarmare la popolazione e le polizie. Calma: la soluzione si troverà” disse l’architetto Petri concentrando lo sguardo pensoso su Nina che aveva la colpa di essere troppo attraente, ostinata e sincera.
Quella congrega di uomini poteva dunque essere soggiogata dallo spirito indomito di una donna? La bellezza di Nina poteva giocare un ruolo in quel diluvio delle coscienze. Diceva Breviglieri che avrebbe voluto essere sconfitto da un’anima semplice e ingenua. Poteva Venere bendare gli occhi alla cupidigia? Poteva Nina salvare la speranza? Sì, se si fosse realmente intenerito il cuore di qualcuno dei presenti. Magari proprio quello dell’onnipotente Breviglieri.
L’uomo sapeva che i cinesi, nel giro di un decennio, forse anche prima, avrebbero finalmente utilizzato quelle energie alternative già scoperte da anni per frenare il surriscaldamento e i cambiamenti climatici che affliggevano il pianeta. Ma prima che ciò avvenisse sapeva che i cinesi avrebbero sfruttato volentieri i pozzi dell’Uzbekistan rimasti inutilizzati e che erano proprietà della sua società petrolifera. L’idea di Nina di una restituzione delle opere non era poi del tutto fuori luogo, considerando che l’Italia potenzialmente poteva diventare un partner interessante con i nuovi accordi energetici.
“La figlia di un boss di Cosa Nostra parla al mio cuore arido e rinsecchito. Come ha fatto a non restare contaminata dalle azioni del padre al quale è fortemente legata? Come riesce il suo cuore a palpitare per qualcosa che noi riteniamo inutile? Eppure non è una bambina. Esiste ancora chi è capace di attribuire valori oltre al denaro? Può la figlia di un boss vedere in quei quadri un’Italia grandiosa e solenne e chiederci solo di condividere questa sua visione in un futuro che non ci apparterrà, di aprire gli occhi sulle profondità sconosciute del bene che nessuno di noi ha mai conosciuto intorno a sé? Nell’Italia del secolo scorso il valore più grande per me era l’amicizia, mentre il denaro non mi stava ancora appiccicato addosso come un marchio. Mai mi sarebbe venuto in mente di andare a scuola con l’autista per ostentare la mia ricchezza, perché volevo essere amato dai compagni e sentirmi come uno di loro. La semplicità degli affetti è una conquista quando sei vecchio. Puoi provarla con gioia da bambino ma non fai neanche in tempo a renderti conto del suo valore che è già sparita e quando potresti capirla con la coscienza della maturità ti sfugge tra le dita. Come ha potuto Nina parlare al mio cuore come facevano un tempo i miei compagni di scuola? Forse perché lei crede ancora in qualcosa. Lei adesso mi offre la possibilità di sfidare il destino e di cambiare gli eventi. Voglio rinunciare a una parte della mia ricchezza ma darle la speranza di rivedere quei quadri fra cinquant’anni. Farò un investimento a lungo termine: compenserò io il debito con la Cina cedendo i miei pozzi petroliferi in Uzbekistan. E’ tempo che il mio denaro serva alla felicità di qualcuno. Lo hai detto, don Frigerio, non ho figli. E’ un motivo in più per pensare alla fine. Ha ragione Nina: sarà un prestito per cinquant’anni. Garantisco io. Sono sconfitto dal suo animo nobile e gliene sono grato. Nina, ora capisco il suo dolore: gente come noi non merita il perdono”.
“No, non potrei perdonare nessuno di voi. Soprattutto non perdono mio padre, per il dolore di avermi reso complice della morte di suor Anna. Nell’eremo dimenticato di Fragore stava la traccia indelebile di un’Italia innocente. Tra quelle mura dove la preghiera parlava al mare e alle colline intorno ho trovato l’abbraccio accogliente della nostra terra. La figlia di un boss impara da piccola a non credere in Dio, non ha influenza sull’Altissimo, non può chiedere il perdono per le vostre esistenze scellerate, così come non può da sola perdonare l’ultima vostra impresa: la dispersione del nostro patrimonio artistico. Sarà il popolo a perdonarvi se davvero riuscirete a salvare il Paese”.
Cap. V
Il manto regale
Il sorgere del sole apparve a don Carlo come una salvezza dopo quella notte di paura, con il furto della statua dal sacrario di Canova. Era rimasto sveglio in preda al rimorso. Si sentiva in colpa per avere ancora un affetto sulla terra, quello di mamma Concetta. Di averne un altro in cielo, Maddalena, l’amore di un tempo. E di avere fede in Dio e nella Chiesa. L’eco delle campane di San Marco segnava il rintocco delle sue ansie. Non sapeva darsi pace, non vedeva una spiegazione all’accaduto che, intuiva, doveva essere molto di più di un’azione sacrilega. Capire gli uomini sarebbe stato il suo compito, ma non era più possibile comprendere il mondo e il disegno divino. Provò ad alzarsi dalla nicchia in cui s’era riparato per sorvegliare da vicino la pala dell’Assunta minacciata da un ordigno capace di ridurla in cenere nel giro di pochi secondi. Scostò il manto d’ermellino che aveva trovato sul sarcofago dell’artista e che gli era servito da giaciglio in quelle ore di attesa e di paura. Era pesante, sembrava fatto di piombo, tanto che si meravigliava di essere riuscito a trascinarlo dal fondo della chiesa fino a lì, nei pressi dell’altare, per sottrarlo alla vista dei ladri. Pur di non alzare gli occhi e vedere sprigionati da un momento all’altro fumo e fiamme, guardava in basso come un penitente. Pensava, rifletteva e invocava la Provvidenza. Ogni minuto in più aumentava in lui la tentazione di dare l’allarme alle forze dell’ordine, poi ci ripensava e decideva di aspettare ancora come era nei patti. L’uomo, il siciliano, il fantomatico fratello di Maddalena, aveva promesso che lo avrebbe disattivato in tempo. Aveva detto pure che mamma Concetta stava bene e in buone mani. Ma i dubbi non potevano mancare in quel vortice di eventi: l’unicità di quel furto tra tante opere d’arte, la rapidità con cui avevano prelevato e sostituito la statua. C’erano poi la strategica connessione col suo ato, il ricatto affettivo con cui avevano ottenuto il suo silenzio, la rivelazione dell’uccisione di don Vittorio, il padre di Maddalena, la facilità con cui lo tenevano in pugno e, infine, l’assurdità di trovarsi solo e complice tra le mura della sua chiesa avvolto in un manto da re. Stringeva quel velluto tra le mani con forza come se fosse l’unico appiglio prima di precipitare da una roccia a picco sul mare in tempesta. Inerte e sconfitto, ava le dita sullo stemma d’oro e ne percorreva quella lettera N, incastonata al centro. “N” come Napoleone. Era, dunque, l’iniziale del nome di Napoleone Bonaparte? Antonio
Canova era morto dopo l’era napoleonica in piena Restaurazione. Chi avrà lasciato allo scultore il rosso mantello e perché? Qualcuno che lo aveva conservato gelosamente e aveva voluto attestare all’artista la benevolenza dell’imperatore anche dopo la sua morte? Il mantello di un sovrano che scalda il freddo marmo di una tomba. Come dono sembrava eccessivo anche in un momento di ritorno ai vecchi regimi. Allora, magari, era stato l’omaggio segreto di nostalgici napoleonici, vecchi generali delusi dalla pace. I pensieri di don Carlo vagavano dai campi di battaglia ai tavoli delle trattative, dalle pagine della storia al libro dell’Apocalisse. Cavalli, bandiere, stendardi, armature, sciabole, cannoni, nubi grigie di polvere, corpi riversi nel fango, scheletri che riprendevano vita e forma, angeli in cielo che suonavano le trombe del Giudizio. I giusti salivano al cospetto di Dio e i reprobi cadevano tra le fiamme infernali. La Madonna stringeva accanto a sé Maddalena e lo guardava, mentre diavoli assetati di sangue lo trascinavano nell’abisso eterno. Non aveva chiuso occhio tutta la notte ma aveva vissuto come in sogno storie, epoche, mondi ati. Non era prete, era re; poi, solo un ragazzo innamorato. Immaginava Antonio Canova che tuonava maledizioni contro i ladri, poi Tiziano Vecellio che, camminando a tentoni nel buio della cappella del Crocefisso dov’era sepolto, lo implorava piangendo di salvare la sua opera. Poi vedeva il suo padre spirituale, don Telesio Minniti, che diceva messa sotto l’altare dell’Assunta e gli porgeva il calice delle ostie pieno di monete d’oro mentre da uno degli stalli partiva la voce del suo confessore, padre Saverio d’Avola: “Ti vedo, Carlo, ti vedo. Tu, ora, puoi vedere oltre. Le cose nascoste non sono invisibili”. E ripeteva come un’eco: “Non sono invisibili”.
Gli tornava il ricordo di quel pio uomo che si faceva umile sorvegliante dei tesori della sua abbazia, accarezzava i vetri delle teche dove riposavano i più antichi codici ecclesiastici, parlava con loro per sconfiggere la solitudine. Pochi gli uomini di Chiesa e ancor meno gli uomini di fede. Se avesse avuto al fianco la figura illuminante di Aleandro Santoro, suo professore di Teologia all’università Lateranense, forse avrebbe trovato una soluzione. La sua compostezza da profeta, il semplice argomentare anche sulle cose più complesse, l’eloquente sorriso lo avrebbero tratto in salvo. Ma ora costui era vescovo nell’Italia del Sud. Pensò che sarebbe dovuto restare più legato a tutti coloro che in un modo o nell’altro erano stati suoi maestri. Venezia, il Nord, gli sconvolgimenti politici: tutto aveva contributo al suo isolamento spirituale. Forse era quel manto di re a provocargli le allucinazioni. Forse era così pesante perché
conteneva il peso della follìa. Don Carlo piangendo cominciò ad accanirsi contro il prezioso oggetto come per riversare su di esso la rabbia della sua impotenza. Gli ci volle un po’ per rendersi conto che c’era qualcosa tra il velluto e l’ermellino: c’erano stipate e nascoste delle tele. Per quanto uomo di chiesa, pensò di essere vittima di un sortilegio, ma non poté fare a meno di credere ai suoi occhi: il manto racchiudeva opere d’arte. Cominciò a scucire con cautela i due lembi e il tesoro venne alla luce. “Le cose nascoste che non sono invisibili” si ripeteva. E gli sembrava di rivedere padre Saverio avvolto da una nuvola che lo incitava: “Sei tu che puoi vedere oltre”. Aveva estratto alcune tele e le aveva appoggiate sul pavimento sotto i suoi occhi attoniti. C’era anche un plico. Era sigillato e si distinguevano i caratteri dell’intestazione: “All’Italica Nazione dello Stato Pontificio”. Lo soppesò con attenzione, ne scrutò ogni centimetro. La scritta era perfetta, preziosa ed elegante, lasciava immaginare un contenuto altrettanto importante. E così segreto da essere nascosto tanto gelosamente.
Prima che si fe giorno sarebbe stato meglio riportare nel sacrario di Canova il manto di Napoleone con il misterioso carico di dipinti e il plico. Rimise a posto le tele nella preziosa custodia. Per il plico ci pensò su un po’: avrebbe voluto tenerlo e aprirlo con calma magari nel suo studio, ma lo trattenne l’idea che potesse contenere documenti rilevanti, destinati a personaggi più importanti di un parroco. La curiosità andava frenata. Il suo rispetto per le gerarchie contenne la smania di scoprire subito il contenuto della missiva. La stessa singolarità del nascondiglio faceva intuire moventi sacri e inviolabili. Non poteva trattarsi di semplice refurtiva accantonata, sembrava proprio qualcosa legato a Canova o al suo ricordo. Perché stipare preziose tele dentro un manto regale? Il plico era sicuramente la spiegazione di tutto, ma doveva aspettare, doveva consultarsi con qualcuno. Era giorno, e la chiesa a breve avrebbe ripreso il suo ritmo con le messe e le visite dei turisti. Con la forza che non gli era mai mancata, rientrò nella stanza del sepolcro trascinando il pesante fagotto. Sistemò il mantello al suo posto sul catafalco e richiuse la porta esterna con la catena recuperata dall’acquasantiera senza utilizzarne il lucchetto d’oro ormai destinato alla cassaforte. Tornando verso l’altare maggiore, don Carlo era martellato dal pensiero di un lampo improvviso che potesse incendiare il quadro di Tiziano. Era più di un’ipotesi che il pittore lo avesse dipinto per guadagnarsi una sepoltura nella chiesa che amava tanto, pensando magari che l’opera risultasse così gradita a Dio da meritargli un posto in Paradiso. Allo stesso tempo si sentiva ancora sorvegliato: forse i malavitosi avevano visto ogni cosa e si sarebbero vendicati.
Decise di aspettare e si assestò su uno degli stalli di fronte all’altare, prese il rosario per pregare. Disse alcune Ave Marie e chiuse gli occhi spossato. Si addormentò con il capo leggermente piegato in avanti.
“This is a painting by Titian” declamava una voce.
“Dans cette église très importante…” recitava un’altra voce.
Don Carlo sobbalzò. Frotte di visitatori seguivano diligentemente le guide e si accalcavano intorno agli altari. Che ora era? Tornò a guardare il Rolex, regalo del giorno della sua ordinazione: mezzogiorno! Come aveva potuto dormire tutto quel tempo? Alzò gli occhi: l’Assunta era intatta e più viva che mai. Salva, e tutto intorno sembrava normale. Luigi, il sagrestano, e Sacek, il rumeno delle pulizie, non si erano neanche accorti che lui dormiva lì da più di quattr’ore. Che fosse stato solo un sogno? Si alzò e procedette verso il quadro facendosi largo fra una comitiva di americani. Sbirciò dietro l’imponente cornice: l’ordigno e il timer non c’erano più, spariti. Mentre lui dormiva qualcuno aveva rimosso ogni cosa. Eppure il tempo non era ancora scaduto! Santa Maria Gloriosa dei Frari non pareva avere vissuto minacce. Anche il monumento a Canova sembrava perfetto se non fosse stato per l’assenza del pregiato lucchetto che serrava le catene dell’ingresso. Al prete non restò che tornare verso la sagrestia, entrare nello studio e aprire il computer. Dal pencil-file, un messaggio:
“La signora Concetta, vostra madre, ci comunica che sta bene. Se ne torna al paese tra due giorni”. Magnanimi questi malfattori, pensò.
Intanto nel convento di Gerlasco erano arrivati i carabinieri. E c’era un via vai di burocrati zelanti che entravano e uscivano dalla biblioteca, scrutavano in ogni angolo, annotavano diligentemente le briciole d’arte sopravvissute alla razzìa. I furgoni del Ministero erano pronti a portare via il salvabile. Elencate
sommariamente, le poche opere rimaste prendevano destinazioni ignote. Persino il lettuccio in ferro battuto di padre Saverio venne imbarcato tra gli arredi sacri. Le cucine si videro spogliate di ogni stoviglieria: mestoli, pentole, piatti, bicchieri, posate, tegami e tegamini, padelle e padelline. Anche una confezione di mandorle fu requisita dal CASPI, forse come probabile corpo di reato.
Un vecchio telefono squillava...
Andò a rispondere un appuntato:
“Pronto…”.
E dall’altro capo:
“Pronto, vorrei parlare con padre Saverio, potete armelo per favore? ”.
“Ma padre Saverio non c’é”.
“E dov’è? Potete riferirgli che devo parlargli?”.
“Padre Saverio è morto. Non posso esservi d’aiuto”.
“Ma quando? Com’è successo? Ho parlato con lui una settimana fa e stava
bene”.
“C’è stato un terribile furto alla biblioteca, non lo sapete? Ne hanno parlato tutte le televisioni. Il suo cuore non ha retto al dispiacere. Oggi ci sono state le esequie. Con chi ho il piacere di parlare?”.
“Don Carlo Donati, parroco della chiesa dei Frari a Venezia. Padre Saverio era un caro amico”.
“Mi dispiace. Stiamo finendo gli ultimi sopralluoghi. Se può interessarvi il corpo è stato tumulato nella chiesa dell’abbazia. Posso esserle utile?”.
“No… nulla, niente d’importante. Ci sentivamo spesso. Volevo scambiare due parole con lui. E’ un dolore. E’ una grave perdita per la Chiesa. Era un sant’uomo come ce ne sono pochi, ormai”. E chiuse il contatto.
Don Carlo era impietrito: un furto clamoroso alla biblioteca aveva stroncato la vita di padre Saverio. E pensare che in quella notte terribile lo aveva visto come fosse in carne e ossa che ripeteva la frase sulle cose visibili e invisibili. Dunque, ciò che era successo nella sua chiesa era nulla in confronto a quanto doveva essere accaduto a Gerlasco, se il suo caro padre confessore ne era morto. “Mala tempora... Nell’Italia del disfacimento...” concludeva il povero parroco che non seguiva mai i notiziari federali un po’ per disgusto politico, un po’ per trincerarsi nella preghiera e chiudersi in se stesso. Giornali e telegiornali erano comunque inattendibili, meglio affidarsi alle sacre scritture. Quando voleva aggiornarsi si sintonizzava su una stazione televisiva italo-rumena che riportava obiettivamente la cronaca e la politica dell’Italia attenendosi ai fatti. Ma stavolta l’evento era sfuggito anche a loro.
A chi rivolgersi adesso? Terra bruciata intorno a sé. Aveva superato mille prove quella notte e il pericolo più imminente era scongiurato. Restava da risolvere l’enigma del sacrario, ma non c’era fretta, anche se il suo cervello continuava ad arrovellarsi senza sosta. Decise di uscire, prendere aria, staccarsi per un po’ dalla chiesa e vagare per la città. Aspettando un’idea.
La giornata era torrida e come mise piede fuori lo colpì la luce piena del giorno. Rapido, s’infilò in calle San Matteo per trovare riparo nell’ombra. Superò l’archetto dei Frari e comprò da un ambulante una coca-cola e un panino. Mangiò con avidità mentre i piccioni pretendevano petulanti la loro parte. Anche certi turisti accaldati sostarono per una bibita fresca e poi, con o stanco, si dispersero tra le stradine intorno lasciando una pace insperata. L’angoletto era grazioso, un ponticello in prospettiva, qualche balconcino fiorito. Da una gondola, nei pressi della porta semiaperta del magazzino di un albergo, si scaricavano pacchi di viveri e ripartivano sacchi di spazzatura. Dall’alto di una finestra pendeva un lenzuolo steso ad asciugare e l’aria ferma per un attimo odorò piacevolmente di detersivo. Le campane di San Rocco facevano la musica di sottofondo. Don Carlo osservava ogni mossa di quella piccola squadra di gondolieri: il fascino vero di Venezia era la faticosa realtà che sosteneva e alimentava quel sogno. Chi si accontentava del sogno e non percepiva la realtà non poteva capire Venezia.
Avvolto nelle sue riflessioni, si alzò alla ricerca di un caffè di cui sentiva di avere assoluto bisogno. Entrò nell’hotel Gritti Casanova nello scenario sontuoso della hall: divani damascati, specchi, lampadari, cristalli, tappeti, cuscini. Da uno dei salotti una signora dall’aristocratica bellezza, trincerata dietro un paio di occhiali scuri, affondò lo sguardo sulla sagoma muscolosa del religioso e capricciosamente accavallò le gambe, lasciando che il vestito leggero le scoprisse quasi del tutto le cosce.
Don Carlo, imbarazzato sfuggì allo sguardo tentatore che sapeva di provocare talvolta nelle donne e si diresse più deciso verso il bar. Chiese un caffè e, mentre aspettava, gettò lo sguardo sullo schermo di un computer-telefono su cui
scorrevano le immagini del notiziario federale:
“Le forze dell’ordine continuano a indagare per identificare i ladri dell’Abbazia di San Martino al Fonte di Gerlasco. Il Ministero ha in progetto di utilizzare l’ex zona conventuale per allestire il museo del design italiano che da anni non trova degna collocazione”. Poi: “Quotazioni molto positive per la borsa di Milano”. E ancora:
“Il ministro dell’Economia, parlando a Dresda, nell’annuale convegno sui mercati finanziari europei, dichiara ottimisticamente che il nostro Paese è in forte ripresa”.
Sulla tastiera digitò il numero della Segreteria di Stato Vaticana: doveva assolutamente contattare un personaggio assai importante, un santo che in ben altri frangenti gli era stato vicino.
Santuzza
Al Sud, i cambiamenti climatici lasciavano il segno. L’estate era infuocata come se un vento di scirocco soffiasse senza tregua su un deserto di sale. In quei giorni d’agosto si stava chiusi nel fresco delle case antiche e, dopo il tramonto, ci si affacciava alla vita. Qualcuna tra le donne se ne avvantaggiava per fare le provviste come si faceva un tempo. Santuzza, la perpetua del vescovo, preparava i pomodori da essiccare al sole. Bastava disporli su due mensole che aveva adibito allo scopo in terrazza. Si sarebbero asciugati ben bene, rinsecchiti al punto giusto per durare tutto l’inverno. Poi, al momento opportuno, con uno spago li avrebbe infilati come perle di una collana per appenderli al balconcino della cucina. Lì si sarebbero conservati per parecchio assieme ai peperoni fatti allo stesso modo e ai vasi di rosmarino, di basilico e di tutta la serie di erbe profumate. Quei gioielli di natura e verdura si intravedevano oltre i girali in ferro della ringhiera e si mostravano orgogliosamente agli occhi dei anti. Era nota l’apprensione di Santuzza per i mesi invernali che, nel suo calcolo, dovevano essere sempre di carestia. A dispetto della globalizzazione e delle biotecnologie, dei cibi già pronti, precotti, delle pillole di proteine, della frutta disidratata e delle lasagne liofilizzate, Santuzza si faceva sacerdotessa del cibo naturale. Attraverso il suo laboratorio alchemico alimentare era un po’ santa e un po’ maga Circe e trascorreva in beatitudine il suo tempo. Facendo opera grata anche al suo vescovo che, seppure austero e di gusti semplici, vedeva nella consolante squisitezza di quel cibo una parziale compensazione al declino ambientale e culturale della sua diocesi. Nella quiete domestica della casa del vescovo ci si poteva sentire ancora di appartenere ai tempi migliori del secolo ato. L’ordine delle stanze, i pochi arredi, l’assenza di oggetti di lusso, il profumo di pulito erano lo specchio di una spiritualità disciplinata. Santuzza con la sua perenne e instancabile operosità e il vescovo con i suoi studi e le sue preghiere vivevano in una specie di simbiosi, percorrevano il tempo della loro vita senza troppe parole, senza guardarsi, senza cercarsi, se non per necessità. Ormai era l’epoca che i giovani preti, soprattutto quelli africani e asiatici, se volevano, potevano anche mettere su famiglia, ma per il nostro vescovo del Sud l’idea era inconcepibile. Quel tipo di scelta gli appariva come uno squallido compromesso. Il rapporto con una donna lo avrebbe staccato dalla contemplazione di Dio, lo
avrebbe reso schiavo del proprio essere uomo quando invece il suo desiderio più forte era rifugiarsi nel silenzio, sfuggire le parole, la folla, il rumore. E se la sua perpetua poteva anche guardarlo di sottecchi con un affetto che somigliava a quello di una innamorata e faceva per lui e per la parrocchia quello che avrebbe fatto la più devota delle mogli, lui era sempre lontano col pensiero. Arrivato alla sua età dopo avere sofferto le nuove e infinite contraddizioni della Chiesa, si era ritirato in buon ordine tra la gente della sua terra come un figlio ritorna alla madre. Santuzza, che lo esonerava dalle contingenze con la gelosa premura di una compagna, paradossalmente diventava sempre più indispensabile all’esercizio della sua fede.
Lo squillo del telefono ruppe l’armonia di quei momenti e allontanò la donna dal suo lavoro. Accorse verso il trumeau della sala da pranzo, rispose senza cordialità: “Casa del vescovo Santoro. Chi è?”.
“Sono don Carlo Donati, posso parlare con Sua Eccellenza?”.
“Per quale motivo? Dite a me, riferirò”. Ella arginò la richiesta come se quella telefonata fosse foriera di possibili guai e, soprattutto, con quel “dite a me” dimostrava di volere vigilare con astuzia sul mondo esterno a protezione del suo vescovo. Spesso, ascoltando le persone al telefono, lei faceva strane congetture e giungeva a conclusioni sbagliate. Toccava al vescovo riportarla con clemente rassegnazione alla realtà perdonandole gli eccessi dovuti all’età e alla ristrettezza mentale. Don Carlo non si fece intimidire dal muro eretto dalla perpetua:
“Le sarei grato se potesse farmi parlare personalmente col vescovo, è una questione delicata di estrema importanza” insistette. Fece una pausa e poi si giocò il tutto per tutto, spinto dall’urgenza di raccontare e di essere capito dall’unica persona in grado di aiutarlo. Immaginò di rivolgersi a quella donna come alla folla dei suoi fedeli e ci mise tutta la seduzione oratoria che sapeva di avere quando parlava col cuore:
“Poiché imprevedibili sono le vicissitudini dell’esistenza,” esordì ”sappi mostrare la purezza della tua pietà in modo che tu possa cancellare tutte le tue colpe ate. Come ti troverò, è detto infatti, così ti giudicherò. Abbiate cura dunque di farvi trovare irreprensibili nei comandamenti di Cristo, così da sfuggire al fuoco eterno che mai si estingue. Poiché già da molto la voce divina ha gridato: il tempo s’è fatto breve”. E qui, don Carlo, alzò il tono della voce e scandì ogni parola ripetendo: “Il tempo s’è fatto breve”. Poi fece una sapiente sospensione lunga tanto da lasciare spazio all’ansia e proseguì: “E il mio tempo è breve così come il vostro. Sorella dal cuore grande, voi potete compiere attraverso me un atto di pietà”.
La perpetua, che era un’anima semplice e che solo qualche minuto prima manovrava pomodori e peperoni, ammutolì soggiogata dal fascino evocativo di quella voce che sembrava scandagliarle l’animo. Ebbe di colpo il senso della gravità dei suoi peccati, la percezione negativa del suo carattere, si sentì subito in difetto e capì quanto fosse stupidamente presuntuosa anche quando agiva in buona fede. Le si bloccò il respiro e pensò sul serio di essere al cospetto del Signore. O quantomeno di un mistico che la vedeva, anche se non era presente. Sentiva in quelle parole la stessa terribilità delle sentenze del suo vescovo quando la rimproverava. Ma nella voce c’era un che di soprannaturale che nella bonarietà del vescovo non aveva mai colto. Sembrava proprio una voce celeste e, a quel punto, sentendosi piccola di fronte all’immensità dei suoi peccati e rammentandosi di essere troppo sciocca da pensare solo alle banalità quotidiane, depose le armi e s’arrese alla parola di quell’uomo che poteva essere Dio in persona. E forse lo era.
“Sia fatta la volontà del Signore” disse con umiltà. “Disturberò le preghiere del santo vescovo. Disturberò la pace di quell’anima pia. Aspettate, vado ad avvisarlo. No, aspettate: ho dimenticato chi siete. Chi devo dire?”.
“Don Carlo Donati: il suo assistente all’università, a Roma”.
“Va bene… vado”. E si affrettò verso il corridoio fino alla sagoma scura della porta di Sua Eccellenza Aleandro Santoro. Ebbe un attimo di esitazione, poi bussò e aprì. Il vescovo era sull’inginocchiatoio davanti a un tabernacolo con la crocefissione e la ione di Cristo, pregava con la testa fra le mani. Neanche la sentì entrare.
“C’è Dio al telefono, vi vuole parlare” disse la donna farfugliando.
“Che vuoi, Santuzza?” chiese il vescovo che non aveva capito.
“Vi ripeto: c’è Dio al telefono e vi vuole parlare subito”.
“Dio ci parla attraverso la preghiera e non attraverso il telefono. Santuzza, avete perso la ragione? Il caldo sta maturando il vostro cervello come fosse un’anguria. Mettete a dura prova la mia pazienza. Adesso avete trovato in Dio un’altra scusa per perseguitarmi?” disse con la solita bonaria ironia il vescovo senza prevedere quale tipo di reazione avrebbe generato nella labile psicologia di Santuzza. Le diede l’impressione di averlo irritato quando in realtà esprimeva tutta la benevolenza verso colei che stava dimostrando tutta la sua fragilità. Santuzza era sempre in preda agli eccessi di zelo e sopportarla era una delle sette opere di misericordia. Da una parte il vescovo l’apprezzava, dall’altra avrebbe volentieri deciso di congedarla mandandola in pensione. Ma l’idea di doversi adattare a un altro personaggio femminile lo frenava, come può succedere in un matrimonio in cui un coniuge si adatta alle angherie caratteriali dell’altro ben sapendo che ormai non potrebbe trovare di meglio.
“Io stavo facendo le provviste, stavo tranquilla. Pacifica. Se ho sentito la voce di Dio e l’ho riconosciuta il mio compito è avvertirvi, no? L’ho capito che non era
la solita supplica. Io me ne intendo di queste cose, a sei anni m’è apparsa la Madonna e m’ha parlato. Poco c’è mancato che non mi fossi fatta suora al convento di Morano. Ah, se l’avessi fatto! Sarei stata venerata come una santa. Non mi troverei a fare opera costante di penitenza ogniqualvolta cerco di essere gentile con voi” disse tutto d’un fiato la donna.
Poi, con l’orgoglio di chi si affretta a dire il vero per non perdere il coraggio dei propri pensieri, continuò: “Illustrissimo, voi vedete in me sempre il male. Sarò destinata a bruciare all’inferno? Si perdona tutto a tutti e io sola sarò condannata? E’ sicuro che sia veramente io l’anima peggiore di questo paese? Ah, certo, voi vorreste al posto mio donna Carmela Russo Lavia che parla bene, è istruita, è vedova, è bella pure. Quella sì che conosce la buona creanza, l’etichetta… Saprebbe essere più diplomatica di me, però non vi pulirebbe i pavimenti della chiesa, non spolvererebbe gli altari, non cucinerebbe. Io lo so che vorreste lei al posto mio, ma pensateci bene prima di sostituirmi. A cosa potrebbe servirvi una donna della nobiltà? Devo scusarmi perché ragiono da serva? Ditelo che sono un ingombro, che vi annoio, che mi detestate. Ma certo, se una sente la voce di Dio e la riconosce, vi avverte perché vi è debitrice. Ma se mi volete mandare via sappiate che Santuzza una casa ce l’ha: in cima al paese. Che Santuzza, dopo tanti anni, sa ritirarsi. Che Santuzza non è nemmeno tanto stupida e ha pure qualche rendita e parenti a Catanzaro pronti ad accoglierla. Che tanto la casa è tutta in ordine e Santuzza può lasciare a donne più di presenza tutto l’armamentario. Che Santuzza è stata fedele ma se ne può andare dignitosamente. Ditelo Eccellenza, basta una parola e lascio il compito all’altra. Una cosa però è certa: se Dio ha parlato, ha scelto di parlare con me, con Santuzza”.
Il vescovo basito da quello scilinguagnolo, rimase muto come chi ha troppo da pensare e non riesce a dire. Guardò il crocefisso, aprì le braccia in segno di rassegnazione. Santuzza usava un linguaggio da donna gelosa ed era la prima volta. Faceva la scenata di una femmina che pensa di parlare a un fidanzato distratto.
“Santuzza, sapete meglio di me che il convento di Morano era ridotto a un cumulo di sassi abbandonati già prima che noi nascessimo e che la vostra destinazione sarebbe stata semmai il monastero di Santa Caterina ad Amantea o quello di Santa Scolastica di Fragore. Ma, se avete buona volontà, la penitenza la potete fare quietamente anche qui, senza scompigliare la pace dei monasteri. Mi contristate il cuore con questi pensieri. Non vi basta sapere che sono addolorato? Santuzza, lasciate da parte le fantasie e le congetture. Quale prova devo ancora superare con voi? La cura che ci dobbiamo l’un l’altro non ha nulla a che fare con l’amore matrimoniale. L’età e gli acciacchi ci restituiscono una saggezza per me mai conquistata, per voi mai cercata. Se non avessi a cuore la vostra anima non vi esorterei alla preghiera. Pregate, che siete lontana dalla ragionevolezza e avete l’argento vivo addosso e ve la prendete con un povero vecchio come me. L’orgoglio vi corrode per troppo amore e qui vi perdono, ma voi blaterate frasi sconnesse. Questo male va curato ora che è agli inizi”.
“Perché, che vuol dire?” disse lei a mezza bocca.
“C’era Dio al telefono” disse lui tagliando corto. “atemelo, per favore, e lasciateci soli!”.
Un fugace pensiero lambì la sua fronte già corrugata finché fece un sospirone di sollievo per non vedersela più davanti. Quanti matrimoni, pensava, finiscono per gelosia, si riducono allo strazio delle carni per un sospetto. Santuzza come moglie sarebbe stata tremenda, come perpetua nessuno avrebbe potuto rimproverarla di non essere stata solerte e attenta. Ma che carattere volubile, che presunzione, commentava il prelato. Lui, che per grazia divina non aveva mai provato il sentimento dell’amore terreno e mai, seppure giovane, aveva sentito agitarsi il cuore per qualcuna, adesso, nell’età della misericordia doveva subire proprio da lei un profluvio di ioni represse. Che testolina bacata! Che sapeva Santuzza della realtà? Vedeva solo se stessa. Non sapeva che l’unica fabbrica del circondario era stata appena delocalizzata in Tunisia, che cento famiglie erano rimaste senza futuro. Che donna Carmela aveva cercato di aiutarle creando una mensa sociale nella sua fattoria. Che ne sapeva Santuzza dell’inutilità delle
preghiere di un vescovo? Lei lo vedeva come l’uomo della Provvidenza, come un condottiero senza macchia e senza paura. Invece era solo Aleandro Santoro, principe di Torre Addura di Montesanto e poi uomo di chiesa, incapace di rimediare al male e di fare miracoli. Che ne sapeva Santuzza del dolore che lui stesso provava a vedersi invecchiare tra le mura di quella casa come un monarca senza esercito e senza poteri? Se, tra quei territori, il baluardo del cattolicesimo era come un albero dalle radici estese che non si stacca dalla zolla e mantiene coeso il terreno intorno, era pur vero che i vescovi non potevano rimediare agli errori dei politici e governare da soli sul nulla dell’Italia del Sud.
Intanto Don Carlo aveva chiesto un altro caffè. Nell’attesa di poter parlare col suo vecchio professore scorreva rapidamente le ultimissime dallo Stato Pontificio. Da Roma in giù, i preti erano come principi medioevali e il vescovo Santoro era il più importante; governava dalla piana di Sibari alla Sila fino all’Aspromonte, aveva poteri sui piccoli paesi e le grandi città, sulla gente, sull’economia e la giustizia. Ma in buona sostanza, tra la mano rapace dello Stato, che si concretizzava nella fittizia immagine della Federazione Sud, e quella assassina della ‘ndrangheta, era solo una santa icona che salvava la gente dalla disperazione totale. Uno scultore di quelli famosi gli aveva dedicato in piazza della Libertà, a Cosenza, una statua equestre in cui sembrava un Marco Aurelio con la spada.
Nonostante il prestigio di cui godevano i vescovi, altri pretendenti alla carica non ce n’erano. Per regola, l’investitura non veniva data ai preti stranieri. Gli haitiani, gli honduregni, i filippini, i congolesi dicevano messa ma erano tenuti fuori dal potere temporale. Questo era stato il patto con i Federati del Nord per consentire alla Chiesa di mantenere proprietà e influenza anche nel Settentrione. Forse il Papa avrebbe costretto lo stesso don Carlo a lasciare Venezia per andare a governare la Sicilia, chissà! Avrebbero fatto anche a lui una bella statua, magari a piazza Santa Croce, a Palermo. Il mondo non cambiava, si trasformava per restare lo stesso. E divagando distratto come chi proprio quando è più preoccupato si stacca dai brutti pensieri con la fantasia per dimenticare il presente, si immaginava al cospetto di Sua Santità, inginocchiato e avvolto nel manto rosso di Napoleone, per ricevere l’investitura di arcivescovo della Sicilia. Dall’Etna alle Eolie, dalle Madonie a Punta Raisi, da un mare all’altro della
Trinacria, il suo nome avrebbe risuonato come quello di un principe leggendario. Poi, di colpo tornò alla realtà e si immaginò la fantesca alla ricerca del sant’uomo.
Il tempo dell’attesa gli pareva eccessivo ma ne diede colpa al o lento della donna e alla vastità del palazzo vescovile. Don Carlo aveva una fertile immaginazione, a volte riusciva a captare il vero senza vedere. Da ragazzo, ad esempio, gli apparivano certi angoli di Venezia dove non era mai stato. Ora gli sembrò di vedere una porta chiudersi di scatto e un’ombra scappare. Poi udì tuonare la voce del vescovo:
“Dio che dall’alto vigili e, disgustato, allontani lo sguardo dai nostri errori. Se il tuo occhio ha trovato un solo giusto, salva attraverso di lui questo mondo in putrefazione, perché non trovo più parole per esprimere il mio dolore. Questa è l’epoca dell’odio, del fratello contro il fratello, dei forti contro i deboli, e noi uomini di chiesa dobbiamo fare i guardiani di quest’inferno. Basterebbe la potenza della tua voce, una tua sola parola, come facesti con Mosè, e troverei il coraggio di combattere il maligno!”.
Aleandro Santoro dopo l’irruzione di Santuzza invocava disperatamente l’intervento divino. Don Carlo dall’altro capo del telefono ascoltava in silenzio. Era talmente rapito dalle parole del vescovo da non accorgersi che la signora del salottino attiguo gli si era seduta accanto e si era slacciata l’unico bottone della camicetta mostrando il seno prosperoso mentre allungava la mano sulla stoffa dei suoi pantaloni.
“Santi Cosma e Damiano!”, pensò don Carlo, “mi sono cacciato in un postribolo? Ah, Venezia, se avessimo pensato prima a salvarti!”.
La guardò, era bella. Restò interdetto per un secondo, come soggiogato da quel
contatto, poi spostò via quella mano esperta. Con un “no” deciso le fece cenno di allontanarsi. Lei lo lasciò stare e lui tornò ad ascoltare.
“No, mio Signore. Dunque mi dici no! Non avrò mai la forza di combattere il male?” si udì dall’altro capo.
E a questo punto don Carlo intervenne:
“Sì, sì! Professore… Professore, sono Carlo Donati. Come sta? Quanto tempo è ato dal nostro ultimo incontro. Soprattutto mi perdoni se non mi sono mai fatto sentire. Eppure io penso sempre a lei e alle sue lezioni, alle sue parole, alle sue citazioni latine, al suo buon carattere. Devo assolutamente confidarle un fatto grave. Lei deve aiutarmi. Lei deve suggerirmi cosa fare”.
“Figliolo caro, quale magnifica sorpresa! Cantano gli angeli del Paradiso! Che cosa ha fatto un povero vecchio per essere così importante per te?” prese a dire il vescovo esprimendo felicità per quella telefonata. Poi, tornatagli in mente la follìa di Santuzza, aggiunse:
“Ma… quale scuola di retorica hai frequentato, figlio mio? A quali sommi testi ti sei ispirato per essere così convincente con quel mastino della mia perpetua? Ti ha creduto Dio in persona. Carlo, tu con le donne non me l’hai mai contata giusta. All’università ne eri sempre circondato. E ora per telefono mi fai impazzire una che già è pazza di suo. Signore, salvaci! Ma adesso dimmi tutto, figliolo caro…”.
“No, non posso parlare al telefono, è questione molto delicata”.
“Allora, come si fa? Solo lo Spirito Santo sa e agisce, figliolo bisogna che mi fai capire” disse il vescovo perplesso.
“Prendete il primo aereo per Venezia, o il primo treno…, vi scongiuro” implorò don Carlo.
“Sei consapevole delle mie responsabilità qui in giro? Hai idea di che cosa significhi per me un viaggio? Dovrei farmi scortare, ho ricevuto più di una minaccia. Se dovessi, mi farei pure crocefiggere ma il Signore vuole che viva ancora, perché qui non sa con chi sostituirmi. Lui aveva Pietro e io sono solo e voi sudisti trapiantati al Nord siete più barbari degli altri perché dimenticate e trascurate gli affetti. Ormai sono vecchio, non viaggio da tanto, odio viaggiare, odio percorrere questa penisola. Perché non scendi tu nello Stato Pontificio?” chiese il vescovo.
“Deve venire lei qui, perché deve vedere i fatti con i suoi occhi” supplicò con fermezza don Carlo.
Aleandro Santoro era un uomo ostinato ma intuì un proposito sincero nell’altro. Quando si faceva leva sul suo ato d’insegnante sentiva riemergere il ruolo paterno per troppo tempo soffocato. Che cosa poteva spingere un timido come Carlo a chiedergli un simile sacrificio? Due anime si capiscono quando sanno raggiungersi.
“Opus manuum nostrarum dirige... Sia fatta la volontà del Signore…” alzò gli occhi al cielo e concluse il vescovo. Chiamò la perpetua apostrofandola con severità, e quella si precipitò di corsa:
“Il destino pretende da te un sacrificio perché parto e starò lontano per qualche giorno. Dirai a monsignor Clemente Celestino di provvedere a qualunque evenienza in mia assenza. Tu ti recherai normalmente in cattedrale e non proferirai parola sul mio viaggio. Avrai una bugia plausibile, una delle solite. Non voglio l’autista né i ragazzi dei carabinieri. Ora, sbrigati e preparami una valigetta con poche cose. E non rimirare il crocefisso con quella faccia”.
“Io vengo con voi! Avete bisogno di un’inserviente…” disse lei con la tipica presunzione. E lui:
“Ti nomino soprintendente all’apparato delle festività di Santa Eufrasia! Un onore a cui non può rinunciare una vergine come te. Dovrai organizzare gli altari, il calendario delle celebrazioni e la processione. E’ un compito che non hai mai assolto, chissà come te la caverai! Ma ho fiducia nella tua dedizione alla santa. Aspetta…, mi voglio rovinare: ti nomino anche soprintendente al suono dei sacri bronzi, così non parlerai più, per quanto avrai le orecchie occupate”.
“Questo non me l’aspettavo da voi. Grazie, mai ci fu donna per quest’incarico. Praticamente le campane del Sud suoneranno a mio comando. Umile e devota, vi bacio l’anello che portate. Lo sapevo: è stato Dio a dirvi di nominarmi” disse lei con gli occhi lucidi. Lui si sottrasse dicendo:
“Ecco, a te piace comandare. Non ti basta rinsecchire i pomodori. Tu vuoi il potere. Cento Avemarie prima di stasera e di corsa a prepararmi l’occorrente per la partenza. Ricordati che parte il professore Aleandro Santoro e non l’arcivescovo governatore, per cui bastano due cosette. Non fare come le donne di queste parti: non mi servono anche i maglioni di lana”.
“Allora, Eccellenza, non andate lontano?” lei provò a indagare scatenando un fulmineo quanto preciso avvertimento:
“Taci, che ti revoco le nomine!” tuonò il vescovo. Santuzza s’eclissò nella penombra del corridoio impettita come un generale perché governava il suono dei sacri bronzi delle Calabrie: lei, che non aveva mai voluto studiare.
Poi ancora uno squillo di telefono per innervosire Santuzza in quell’immobile afa di mezzogiorno. Era la voce di una donna, per giunta anche giovane:
“Sono Nina Malaspina, posso parlare con Sua Eccellenza, per favore?”.
“Non si tratta di favori, Sua Eccellenza è in preghiera e non può essere disturbato. Dite a me!” rispose immediata e acida la voce ruvida della perpetua.
“Vorrei poterlo fare ma è questione assai complessa. Però la supplico, mi dica se posso cercarlo più tardi” chiese con insistenza la donna.
“Gli impegni del vescovo sono tanti in questi giorni, io gli dirò che lo avete cercato. Certo, se sapessi almeno l’argomento di cui volete trattare, potrei fare qualcosa in più…”.
Ma Nina non poteva fare alcuna sintesi banale delle vicende di Suor Anna e del convento di Fragore. Solo il vescovo Santoro, il sant’uomo, poteva darle conforto. Con lui avrebbe trovato il coraggio di raccontare anche di suo padre e del suo apparente ravvedimento. Restò a riflettere, poi si ricordò di don Telesio
Minniti. Lui, forse, poteva metterla in contatto col sant’uomo, se glielo avesse chiesto. Lo implorò:
“Mi deve aiutare” disse Nina al telefono. “Vorrei parlare con il vescovo Santoro. Ho provato al palazzo ma una fastidiosissima donna dice che Sua Eccellenza non c’è, che ha da fare e che dovrò ritentare fra qualche giorno. Ma io non posso aspettare, ho cose urgenti da dirgli”.
“Figlia mia, tu sai quanto sia difficile avere udienza con lui attraverso quella donna di cui parli” precisò don Telesio.
“Allora che cosa devo fare? Chi può aiutarmi?” fece lei, pensando di non riuscire a spuntarla su quella congrega di professionisti del crimine politico e finanziario: Breviglieri, Galan, Binaghi, Petri e suo padre. Le avevano assicurato che il patto coi cinesi sarebbe stato ritoccato in modo che tra cinquant’anni i quadri del convento di Fragore sarebbero rientrati in Italia. Ma lei conosceva bene i patti tra politici e mafia e non credeva nei loro buoni propositi.
“Dove sei ora?” chiese il prete.
“A pochi chilometri da Venezia, ma posso rientrare al Sud in giornata”.
“Se tu fossi la ragazza di sempre potresti avere una possibilità… Ma è un’ipotesi…”.
“Quale? Sempre sibillino il suo modo di parlare! E che intende per ragazza di
sempre?” chiese lei turbata da quella precisazione.
“Una ragazza generosa che dimentica il ato…” fece lui sinteticamente, perché troppe parole avrebbero portato lontano e invece voleva concludere.
“Che dovrei fare? Qui mi trovo a fronteggiare persone vili, decise e determinate, compreso mio padre, non riesco a pensare agli aspetti romantici della vita”.
“Ma il primo amore non si dimentica… e io credo che tu non abbia dimenticato”. E l’insistenza su quel “dimenticato” le fece cogliere al volo l’ipotesi.
“Dunque, attraverso il primo amore troverei il vescovo? Pensate che Carlo potrebbe aiutarmi a trovarlo? Certo che a volte occorre agire davvero obliquamente per trovare le soluzioni. Ma per me sarebbe un gran sacrificio. Non ho voglia di parlare con Carlo Donati e, soprattutto, non sono una ragazza e non sono generosa” fece lei mostrando un’evidente contrarietà.
Era stanca, addolorata, non voleva soffrire ancora. Il tempo aveva cicatrizzato la ferita. Sebbene lei attualmente non avesse un uomo e in realtà non avesse dimenticato, come aveva intuito Minniti, si era liberata almeno dell’afflizione per quell’amore impossibile.
Nina s’innamorò di Carlo quando era una studentessa universitaria. Lui era reduce dalla perdita di Maddalena e sul punto di prendere i voti e diventare prete. Fu proprio nella parrocchia di don Telesio che si videro la prima volta, e fu subito amore, almeno per lei. Era la ione ingenua per un uomo triste, intelligente e bellissimo. Non glielo manifestò mai, ma il rossore delle sue
guance che sentiva bruciare quando lui le rivolgeva la parola era la prova manifesta della sua ione. Forse per via di quel padre capomafia si era aggrappata all’idea di dovere amare un uomo buono. Dalla sconfitta sentimentale trasse la forza per seguire il suo destino. Se non avesse amato Carlo, probabilmente sarebbe rimasta nell’orbita paterna dove, magari, le avrebbero consegnato su un vassoio d’argento un uomo di potere per combinare un’alleanza matrimoniale. Certa che non avrebbe trovato l’uomo giusto, indurì il suo carattere e concentrò tutti i suoi interessi nello studio. Libera, indipendente e, per fortuna, affrancata dalla famiglia d’origine, si identificò superbamente col suo lavoro di ricercatrice e adesso l’idea di rivedere Carlo non poteva che riaccenderle il rossore in volto.
“Pensaci, è l’unico che potrebbe aiutarti e di cui potresti fidarti. E’ l’unico che potrebbe metterti in contatto col vescovo” concluse il religioso che vedeva oltre i ristretti confini del presente.
Cap. VI
Il ricordo di San Zanipolo
L’indomani e di buon’ora don Carlo andò alla stazione e vide spuntare il sant’uomo tra la massa indistinta e affannata dei pendolari del Sud che, vomitata a terra dai treni superveloci a levitazione magnetica, si distribuiva nelle zone limitrofe: a Porto Marghera o nelle campagne, al soldo di imprenditori asiatici del settore vinicolo, alimentare e tessile. Una buona parte di costoro era costretta a are la notte in treno, tra andata e ritorno, perché ancora non aveva ottenuto il permesso di soggiorno. Il diritto di cittadinanza era riservato a pochi e questo era stato uno dei punti di forza della politica della Federazione Nord che prevedeva una scrupolosa selezione dei residenti. Il declino economico e culturale aveva scatenato una forma di ritorsione e di diffidenza verso coloro che non erano autenticamente figli di quelle terre. Succedeva allora che quei treni da 500 Km l’ora, fortunatamente quasi gratuiti per la manovalanza del Sud, diventassero anche dormitori per indesiderati ai quali si dava con una mano il lavoro e con l’altra si sottraeva l’identità. L’infinita capacità di sopportazione dei meridionali garantiva la prosecuzione di questa giostra, e non era detto che le vittime menzionate non riuscissero a trarne vantaggio, perché possedere o solo gestire una casa di quei tempi era un salasso. Dal Superlev del binario 12 proveniente da Sibari Sua Eccellenza scese di buonumore, anche se turbato dallo spettacolo di quella transumanza giornaliera vissuta come condizione normale di vita.
Agli occhi di don Carlo il professore era tale e quale ai tempi dell’università. L’impressione che ne ricavava da lontano era che l’uomo non avesse perso minimamente la sua struttura forte, il suo portamento altero, il suo o dinamico. Osservandolo da vicino, il reticolo delle rughe, unico segno della distanza dal suo ricordo, si distribuiva sul volto come un tratteggio leggero capace di imprimere nuova forza allo sguardo invece di sottrarla. Non scorgeva in lui i mutamenti che, invece, percepiva su di sé.
Agli occhi del professore, don Carlo appariva sempre perfetto come una statua classica: i capelli imbiancati anzitempo lo separavano comunque dalla giovinezza ma ne esaltavano la presenza. La sofferenza, forse, lo aveva segnato ma gli aveva dato un’aria di carismatico uomo della Chiesa, e questa era la cosa fondamentale. A chi li avesse osservati in quel momento parevano padre e figlio tanto erano simili. I due si abbracciarono calorosamente.
“Professore” esordì don Carlo “a Venezia si vive portando sempre con sé l’immagine di chi si ama, perché il cuore, nel percepire la bellezza di questa città, deve per forza condividerla con qualcun altro. Non sa quanto ho vissuto qui col ricordo di lei, di Roma, dell’università. E’come se in ogni angolo, in ogni via, mi sembrasse di rivedere il ato e le persone più care”.
“Carlo, tu dovresti affidarti solo all’amore di Dio senza vivere di ricordi”.
“Ma, se sotto i miei occhi, da anni e ogni giorno sempre di più, viene abbandonata questa città, non mi resta che pensare a ciò che è stata. Fecero scelte sbagliate per ridurre l’acqua alta, e i canali cominciarono a imputridire. Imposero tasse eccessive e fastidiose burocrazie, per cui la gente cominciò a fuggire vendendo le case agli stranieri. Meglio sarebbe stato non fare nulla: allora il vero colpevole sarebbe stato il tempo e non l’incapacità. Adesso tutto è finzione, bugìa, un mostro ibrido. Eppure, la città ancora galleggia altezzosa sull’acqua, ancora affascina. Venezia è un frutto bacato ma esteriormente ancora meraviglioso”.
“Misericordia! Che vuoi dire?”.
“Vorrei che lei non fosse costretto a sapere”.
“Carlo, quello che c’è da sapere è che noi siamo dei sopravvissuti. In mancanza di vocazioni, restano le chiese, i conventi, le mura, i mattoni. Siamo le ultime pedine su una scacchiera vuota. Secondo il nuovo Concordato, le chiese del Nord che restano prive di sacerdoti diventano proprietà del demanio e potranno anche essere vendute. Lo Stato Pontificio può pretendere la cessione delle opere che custodiscono, ma le spese per una simile operazione e l’interesse a mantenere buoni rapporti con la Federazione del Nord per tenere in piedi le diocesi che sopravvivono fanno sì che tutto resti dov’è. In sostanza, si abbandona ogni cosa e i valori cristiani sono calpestati. Ma Dio c’è ancora, se ti ha costretto a vedermi dopo tanto tempo. Devo confessarti che se c’è stato un periodo bello della mia vita, è stato quello alla Lateranense. Ci avrei trascorso la vecchiaia se il Papa non mi avesse indegnamente prescelto per un compito troppo arduo, direi impossibile. I vecchi non possono combattere il male. Era forse un vecchio San Michele Arcangelo che trafiggeva il diavolo? Ecco, ci vorresti tu. Tu saresti perfetto”.
“Si sbaglia: sono l’uomo più debole e incapace sulla faccia della terra. Lei sì, che è forte e saprebbe scacciare il diavolo solo con lo sguardo. Il suo spirito non vacilla davanti ai colpi avversi, come succede a me. Lei sa trovare l’equilibrio tra la finitezza dell’umano e la grandezza di Dio. Lei trova sempre una spiegazione a tutto”.
Procedevano lungo Lista di Spagna senza affrettarsi, per il piacere di eggiare insieme. Erano tornati studente e professore. Immersi nel recupero delle ate identità, presero a ricordarsi come se fosse ieri, degli impegni dell’ultimo anno accademico, della ricerca sulla Rerum Novarum, del corso monografico su San Bernardino da Siena e quello sugli ordini pauperistici domenicani, del vecchio computer che s’impallava sempre e della fotocopiatrice che s’inceppava quando ne avevano più bisogno. E anche delle poche serate oziose trascorse a godere i tramonti di Roma per recuperare le forze e ritrovare l’energia necessaria a vivere.
“Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt” disse il professore.
“Seneca, De Brevitate Vitae: sono perfettamente d’accordo. Se tutti avessimo amato di più la contemplazione e l’otium, non ci saremmo ridotti a vivere in un formicaio infernale. Questa città è un corpo senz’anima dove case da gioco e postriboli prosperano entro le cornici dei palazzi più antichi. E’ una Las Vegas mimetizzata in uno scenario autentico e non di plastica, garantito da secoli di storia. A chi andranno chiese e conventi vuoti? Il Papa sta per firmare la dismissione di Santa Fosca e della cattedrale di Torcello. Occorre fare qualcosa perché non si lasci convincere da quei cialtroni della Federazione in combutta con i governi corrotti dell’Est”.
L’altro arricciò la fronte e fece un lungo sospiro ma per non angustiare l’amico preferì glissare sull’argomento:
“Vorrei farti vedere una cosa, se c’è ancora, visti i tempi...”.
Andarono in direzione Rio dei Mendicanti con don Carlo che appariva incuriosito. L’aria fresca del mattino dava ai pensieri una carezza insperata. Procedettero in un dedalo di viuzze e canali fino all’improvviso apparire della statua equestre di Bartolomeo Colleoni e il professore ironizzò:
“Me ne hanno dedicata una simile, ma non così bella. Però non mi posso lamentare, peccherei di superbia. Dobbiamo accettare anche l’idolatria, in questi tempi di buio”.
“Lei è un condottiero della parola di Dio, un eroe” disse don Carlo.
Se a Venezia, ma anche altrove, ogni chiesa ha un suo carattere come fosse un essere umano, quella dei santi Giovanni e Paolo appariva come una persona schiva ma affidabile. Subiva lo scotto di non essere visitata come San Marco e manteneva uno strano equilibrio tra fasto e semplicità. Per questo piaceva tanto al professore, che nella vita come nella fede cercava solo e dovunque l’emanazione della luce di Dio. Così, di fronte a quella chiesa, il vescovo prese a raccontare la situazione al Sud concludendo amaramente che nessun fiume avrebbe dato più acqua pura, nessun mare sarebbe stato più pulito, nessun sottosuolo sarebbe stato più salvato, nessuna fabbrica o antico opificio avrebbe messo in moto turbine e ingranaggi. Invece, in quella chiesa tutto funzionava ancora. Era logico che certi meccanismi di conservazione si fossero espressi attraverso la religione mentre al contrario la politica era riuscita a distruggere vaste porzioni di natura e di manufatti e che, una volta resasi conto del disastro, avesse affidato proprio al clero il risanamento di gran parte dei danni.
Poi il pensiero si estese all’Italia tutta, ai problemi e alle necessità della gente e in quelle diagnosi a volte esternate a volte solo accennate si capivano al volo come due medici davanti al capezzale del malato. Avanzavano a o lento fermandosi ogniqualvolta era necessario al professore ammirare la perfezione architettonica della chiesa per lui ancora fonte di imprevedibile sorpresa. Verso l’altare ascoltarono le preghiere pronunciate in un italiano stentato da un sacerdote ruandese:
“E’ l’unico religioso del convento, l’ultimo domenicano” spiegò don Carlo.
E il professore: “La solitudine fortifica. Forse che non era solo, Cristo? Seguimi ora verso il transetto. Guarda, è ciò che volevo mostrarti” e indicò l’Elemosina di Sant’Antonino: “E’ di Lorenzo Lotto, un artista frate domenicano. Lo dipinse per 125 ducati con cui si sarebbe pagate sepoltura e preghiere nella chiesa. E’ l’opera con cui si guadagnò un giaciglio eterno per il corpo e sperò nella salvezza dell’anima. Guarda se il santo vescovo non ha il mio viso, che ne dici? Sono stanco, pallido, ho lo sguardo perso nel vuoto e le orbite infossate, sembro affaticato dalle preghiere e non dall’agire concreto. Il denaro da distribuire per le
elemosine è poco e io ascolto le voci degli angeli e preferisco astrarmi. Agiscono per me i chierici che assolvono le richieste e le suppliche della gente concitata, stipata in basso. Scelgono loro a chi prestare orecchio e a chi dare. E le mani supplichevoli dei poveri sono aperte a ricevere, ma non tutte riceveranno. La mia ieratica figura è in alto tra le figure angeliche e quasi non sento, non vedo, non percepisco la gravità delle necessità terrene. Il pastorale e la mitra vescovile sono posati ai miei piedi più per essere visti che per segno di umiltà. Sembra che l’artista abbia prefigurato il mio ruolo. Che specchio! Io non sarei stato certo un sontuoso personaggio tizianesco, sono solo un don Abbondio triste”.
“Perché non sareste stato un buon soggetto per Tiziano?” provò a chiedere don Carlo tentato di cogliere proprio quello spunto per raccontare il suo fardello. Con l’affetto di un bambino verso il padre, seguiva le divagazioni del professore come se solo ora si fosse accorto che i quadri in una chiesa sono come fossili che più vengono dal ato più sanno interpretare il presente.
“Io l’ho immaginata sempre ai piedi dell’Assunta dei Frari, tra gli apostoli a rimirare il miracolo della Vergine che sale al cielo. Per me lei è perennemente sull’altare maggiore della mia chiesa. Lei è profeta e compagno della mia solitudine, anche se davanti a Dio un prete che dice messa non è mai solo, io la cerco mentre la mia forza viene meno” continuò don Carlo aggirandosi intorno al nocciolo della questione:
“Se vi ricattassero attraverso il bene più prezioso, che fareste?”.
E l’altro, senza mostrare stupore:
“L’elemosina e la carità esistono a causa della disparità. Il ricatto è l’opposto della carità ma potrebbe anche essere finalizzato a una ridistribuzione della ricchezza. Carlo, in una terra allo sbando chi può sottrarsi al ricatto? Ci sono
luoghi che vengono spogliati senza ricatto: da Napoli in giù le chiese si spogliano senza ricatto. Qui al Nord c’è ancora qualche remora, e tu ti meravigli?”.
“Professore, lei conosce la mia storia e sa perfettamente che un uomo del Sud è attaccato agli affetti, e mia madre è l’unico sentimento terreno a cui non saprei rinunciare…” poi si fermò credendo di aver parlato troppo apertamente senza il filtro del misticismo dell’uomo di chiesa ma l’altro lo esortò a continuare. Al cospetto del quadro di Lotto, proprio immaginando la sua testa confusa tra quelle dei questuanti, finalmente don Carlo ebbe il coraggio di parlare. E disse tutto, dal rapimento della madre all’applicazione dell’ordigno per distruggere la pala dell’Assunta, al furto e alla sostituzione della statua di Canova, all’incontro con i malavitosi, all’odio del figlio illegittimo del padre di Maddalena, fino alla conferma che sia la madre che il quadro potevano dirsi salvi.
“Et sit splendor Domini Dei nostri super nos…Tutto qui? Carlo è proprio tutto quello che dovevi dirmi?”. E fece il segno della croce. “Capisco, figliolo, come ti sei sentito. Queste profanazioni sono la quotidianità dalle mie parti. Laddove più regna la Chiesa, più opera la mafia. Come sia potuto avvenire sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgessimo, questo è il vero mistero. Che potenze straniere fossero interessate ai nostri tesori lo sapevamo da tempo, ma che fossimo proprio noi a fare le proposte di svendita sembrava impossibile. C’è stato un tempo in cui era facile rubare nelle chiese perché i portali erano spalancati e i preti erano pochi e soli. Il valore inestimabile di tante opere ridotto a poche dosi di cocaina, mentre le Soprintendenze non spendevano nulla per installare allarmi e videocamere. Così le pareti cominciarono a mostrare solo l’intonaco, mentre qualcuno metteva un sipario di velluto per nascondere il vuoto sopra gli altari dicendo con orgoglio che lì c’era stata una tela di Sebastiano dal Piombo o di Annibale Carracci. Ora, sono io stesso che autorizzo le spoliazioni per ottenere fondi necessari per i poveri. Non batto ciglio, firmo col pensiero di trasferire un bene da un posto all’altro. Spero che così sopravviva perché l’alternativa è la minaccia della sua distruzione. Che mistero il mondo che ci accoglie! Che mistero oggi è Venezia, oltre a essere ancora meravigliosa! Al tempo della tavola del Lotto, Sant’Antonino Pierozzi, domenicano, arcivescovo di Firenze santificato nel 1523, era poco raffigurato persino nella
sua città. A quel tempo, anche i frati domenicani di San Giovanni e Paolo erano visti come la peste dal terribile Papa Gian Pietro Carafa. Parlavano in volgare e non in latino, si mischiavano alla folla durante il carnevale, accoglievano i luterani e forse anche gli ebrei. Era questo un luogo di immoralità conclamata, ma la lungimirante committenza del priore fece fermare al convento il pittore, stranamente detestato da Tiziano, che fece un capolavoro senza averne l’intenzione. Ora, che sollievo sapere che l’Assunta è salva. Come pure vedere l’Elemosina di Sant’Antonino ancora al suo posto. Se Dio magnanimo mi ha imposto questo viaggio, mi ha concesso anche di rivedere la mia chiesa, di quando ero un giovane e stavo qui, dai domenicani irriverenti”.
“Lei è stato al convento di san Zanipolo e non me l’ha mai detto?” chiese don Carlo curioso mentre uscivano all’aperto per proseguire verso casa, ai Frari.
“Sì! Un bel po’ d’anni fa” rispose e si sentiva che era commosso. “Il tuo cammino è simile al mio, Venezia è nel nostro cammino, dal ato alle nebbie del presente. Se si abbandona ogni preoccupazione terrena, si può accedere alla spiritualità che è la percezione di se stessi. Guarda i turisti: non lo sanno ma seguono un percorso filosofico, entrano in luogo e in un altro solo per ammirare, poi tornano da dove sono partiti ma non saranno più gli stessi. Venezia tra cielo e mare: è l’effimero perfetto che guarisce lo spirito, che ti ammorbidisce il cuore. Il nostro Sud si spacca, non partorisce umanità vera ma larve obbligate a subire il destino. Il treno da Napoli ne raccoglieva tante. Un tempo partiva la povera gente, poi sono partiti i ricchi senza fare più ritorno. Oggi restano in pochi, sempre più delusi come gli ulivi secolari in mezzo a zolle aride, come mura di antichi paesi abbandonati. Sono poeti rimasti senza versi ma riconoscibili dall’accento, sono figli di una civiltà perduta. Lentamente e davanti agli occhi di tutti, le nostre terre si sono svuotate di contadini, operai, studenti, insegnanti, avvocati, magistrati, intellettuali, imprenditori”.
“Professore, mi chiedo spesso se è stata vera saggezza dividere in due l’Italia. Se fu veramente necessario. Si pensò di creare coesione separando. Ma se l’unione fa la forza, perché abbiamo voluto la debolezza? Se è l’inclusione l’unica arma
di sopravvivenza, perché ci escludiamo l’un l’altro? Il Papa doveva opporsi. Il popolo doveva capire in tempo. Anche qui al Nord le cose non vanno bene. Anche da qui la gente fugge via”.
E il sant’uomo: “Il popolo poteva essere permeabile alla virtù. Il popolo poteva vincere la subdola ipocrisia della modernità. Il popolo poteva abbracciare la giustizia e non l’illegalità. Potremo mai definirci popolo?”.
Tornarono in direzione dei Frari dove don Carlo aveva un appartamento attiguo alla chiesa e ricavato in un sottotetto di un’ala abbandonata del convento. Al massimo poteva ospitare un’altra persona, mamma Concetta o qualche cugino che dalla Sicilia veniva a visitare Venezia. Si trattava di una camera da letto con bagno, una cucina piccola ma attrezzata e un soggiorno su due livelli collegati da una scala in legno. Su tutto lo spazio, assai modesto ma più che sufficiente alle sue necessità, campeggiava un’antica bifora da cui si accedeva a un poggiolo esterno nascosto fra i tetti della basilica. Era il luogo ideale per i pensieri al chiaro di luna di un malinconico sognatore: ci teneva un cannocchiale e una poltroncina. Ma nelle fredde notti invernali poteva vedere le stelle anche standosene all’interno, tanto la volta celeste si apriva a ventaglio sulla sua casa attraverso l’ampiezza della vetrata. Questa possibilità di vivere a contatto col cielo gli rendeva l’ambiente irrinunciabile nonostante potesse usufruire di tanti spazi ormai in disuso e ben più comodi. Don Carlo fece entrare il professore, gli mostrò ogni angolo, ogni dettaglio che potesse essere utile e disse:
“Le sembra possibile adattarsi a questa casa? Immagini di stare in una cella del convento di san Zanipolo. E’ tutta sua, io dormirò nello studio accanto alla sagrestia. Ma se vuole andare in albergo non ha che da dirmelo e provvedo”.
“Mi sembra la casa più bella che un mistico possa desiderare. Diretto è il contatto col cielo. Starò appeso tra le altitudini astrali e le bassezze terrestri in un campo magnifico dove vagare col pensiero e imbattersi in se stessi, nelle miserie e negli splendori dell’umano. Nessun albergo di Venezia sarebbe più degno. Ho
bisogno proprio di questo magico isolamento. Grazie, Carlo. Ti lascio ai tuoi impegni per ora. Ci vedremo quando dirai messa nel pomeriggio. Riposa anche tu adesso, che non ti vedo ancora tranquillo” concluse il professore trasmettendo nelle ultime parole tutto l’affetto per il premuroso studente.
L’allievo nel congedarsi ritornava col pensiero alle mille paure del giorno prima. Mancava da dire la cosa più importante, quella per cui aveva obbligato il sant’uomo a raggiungerlo a Venezia, ma pensava in cuor suo che sarebbe stato giusto mettere un intervallo tra le emozioni e gli avvenimenti, perché così ne avrebbe parlato con maggiore raziocinio. Guardò con reverente omaggio l’uomo e s’inchinò a baciargli l’anello. Poi lo lasciò per ritirarsi nello studio.
Il vescovo Santoro, tra quelle pareti, trasse l’idea che non solo aveva rivisto luoghi della memoria ma che s’era ritrovato professore quando pensava di non esserlo più. Carlo era un prete colto, intelligente, ma sapeva ancora ascoltare come chi resta sempre studente. Se era attaccato come un bambino alla madre, chissà quale dolore gli procurava ancora il ricordo di Maddalena. Forse, era proprio quel suo guardare le stelle un modo di continuare a cercare lei riflessa nel blu della notte. Che cosa cambiava nel prete se viveva del pensiero di quella creatura e si sostentava di esso come un canneto si imbeve d’acqua? Amor che move il sole e l’altre stelle… Chissà quante volte non si sarà dato pace e quante altre ancora si sarà augurato di diventare presto vecchio e decrepito per raggiungerla. Ma attraverso quel dolore si era fortificato come quei santi che rinunciano ai beni per capire meglio le necessità del prossimo e fare miracoli. C’era dell’altro che Carlo non aveva detto, ma avrebbe aspettato: c’era tempo per ascoltare. Pregò in ginocchio con la forza spirituale di un vescovo e l’ignoranza di chi non ha conosciuto l’amore terreno, per questo sentiva che doveva metterci più impegno di quanto fe don Carlo per arrivare a Dio. Recitò le preghiere proprio a fianco della bifora celestiale. Sentiva l’effetto benefico di quell’incontro come se a un tratto l’immagine stanca di Sant’Antonino si fosse rinvigorita in quella di un intellettuale alle prese con una ricerca apionante. Come ai tempi dell’università. E tutto per merito di una sorta di figlio adottivo che gli chiedeva aiuto. Venezia ai suoi piedi, sebbene recintato fra quei tetti non ne vedesse neanche una guglia o una punta di campanile, s’era mostrata all’altezza del ricordo, sbiadita di quel tanto che era
necessario per misurare la distanza abissale tra la sua giovinezza e la sua vecchiaia. Gli venne in mente di sdraiarsi sul divano e dalla sonnolenza ò al sonno con la rapidità di un bambino stanco, o di un vecchio non più abituato a viaggiare.
Il plico
Al suono delle campane si destò col terrore che Santuzza stesse dirigendo lo scampanìo anche nella città dei dogi. E gli ci volle qualche secondo per scacciare quella sensazione. Si preparò per assistere alla messa celebrata da Carlo. Erano quasi le sette di sera. Tempus fugit. Scese verso la chiesa. Gli appariva straordinaria, forse una delle più belle al mondo. Era perfettamente appropriato che avesse quale guida e custode un prete così fuori dal comune. Carlo era istruito e sapiente, ma il suo cuore era forse troppo indifeso di fronte alle bassezze umane, uno strano connubio di capacità, di fragilità e di purezza. Un intelletto sveglio come il suo avrebbe potuto intraprendere strade diverse invece di dire messa davanti all’Assunta. Ma Carlo era lì, vestito da sacerdote e perfettamente concentrato. Mentre proprio a lui capitava adesso di trovarsi inaspettatamente alle prese con certi pensieri appartenenti a felicità remote. Era vero che al contrario del suo assistente non aveva mai amato? Era vero che non c’era stato nel suo ato alcun cedimento sentimentale? E, durante la predica, gli successe quello che succede alla stragrande maggioranza della gente: inseguì i sogni. Gli apparve quello vissuto con una ragazza conosciuta quando era studente alla Ca’ Foscari. Poteva rammentarsela come un giglio profumato, vagamente ne ricordava il viso, la figura snella, il modo di muoversi. Veneziana doc: Giulia Durand! Ecco, quello poteva dirsi un suo amore, indefinito, inconcluso ma sempre amore. Faceva brutti scherzi questa città anche a un eccellentissimo vescovo. Cose di ragazzi, pensò, senza alcun peso. Ma ricordarselo ora, mentre ascoltava la voce di Carlo, era assurdo. Era assurdo alla sua età anche il ricordo della giovinezza: troppo rapida, dissipata nello studio e poi sacrificata alla fede. Lei, chissà, oggi era nonna, piena di nipoti o solo dedita al lavoro e alla carriera, o entrambe le cose.
“Giulia, ci voleva la predica di Carlo per ritrovarti nella memoria! La vecchiaia sì che è il peggiore dei mali, come diceva Seneca” e concluse con un sospiro il suo sermone interiore. La messa era finita ma restò seduto a fissare il vuoto con l’aria assente finché Carlo, dopo aver lasciato in sagrestia i paramenti sacri, lo
raggiunse.
“Lei nella mia chiesa! E’ un giorno memorabile” disse e l’altro annuì:
“Sei convincente e pieno di fervore quando parli. Hai toccato anche le corde del mio cuore intorpidito. Bella riflessione!”. Poi, alzandosi, prese a declamare la magnificenza della basilica e mostrò il desiderio di ripercorrerla in lungo e in largo, vederne ogni altare com’era sua abitudine fare. A don Carlo non parve vero; forse era giunta l’occasione per parlargli del plico.
Nella chiesa la folla si era dileguata con lentezza. Si fece più buio all’interno, mentre i bagliori dei ceri venivano smorzati uno a uno dal sagrestano. Gli altari si nascondevano nel silenzio ma Don Carlo, con la foga di chi ha fretta, chiese senza mezzi termini:
“Se le proponessi di entrare in una tomba, lei accetterebbe?”.
“Cosa vuoi che ti dica, alla mia età…”.
“Professore, ha sempre voglia di scherzare”.
“Ma che scherzare. Questo deve essere il mio primo pensiero e sei proprio tu a propormelo, mica il Padreterno che non ha tempo da perdere con me” diceva il professore sorridendo.
“Volevo dirle che qui c’è una tomba... Dobbiamo entrarci insieme perché lei possa capire” riprese il discorso Carlo tentando di chiarire.
“Figliolo mio, tutto posso fare oggi tranne che entrare in una tomba. Non mi chiedere uno sforzo così grande. Dopo avermi fatto sentire giovane e vivo nei sentimenti, non mi avvicinare alla morte più di quanto non lo sia di mio” implorò il professore.
Carlo forse stava abusando della pazienza del sant’uomo e poi non era da escludere che lo stessero ancora spiando, che potessero perfino fare del male al professore. Si sentiva di nuovo diviso tra la necessità di dire tutto e quella di tacere e aspettare, quando scoppiò un tonfo improvviso: cadde in terra un portacandele e la coda di un gatto saettò da una statua all’altra del monumento a Canova. Un gatto in chiesa? Poteva capitare: ce n’erano tanti nei paraggi. I gatti dei Frari, per lo più rossicci. Più gatti che frati ormai. Si avvicinò alla bestiola e la tranquillizzò con una carezza.
“Era per acciuffare il gatto che dovevamo entrare nella tomba” mentì mentre quello scappava e s’infilava proprio sotto la porta del sacrario. Certi gatti perdono la consistenza e s’acquattano come topi, trovano vie di fuga invisibili, non amano la compagnia ma vedono più del dovuto. Fu allora che, inseguendo il guizzo del gatto, raccattò un barlume di coraggio e rivelò il resto della storia.
Parlò di Canova, di Napoleone, del plico sigillato indirizzato al papa trovato all’interno di un mantello regale. Colorì con le parole giuste come un pittore, dettagliò i fatti come un incisore, ma l’altro restò freddo, prendendo le distanze da una storia che gli appariva troppo fantasiosa. Da uomo di fede ma avvezzo alla razionalità, scansava illusioni, sogni e chimere. Queste di Carlo, per giunta, sembravano uscite da un antico romanzo d’appendice. La città, il viaggio, i ricordi, il convento, l’amorucolo universitario, la stanchezza: poteva credere alla mafia, al ricatto, alla minaccia al quadro di Tiziano, ma il tesoro di Napoleone era troppo! Si accomiatò con l’asciuttezza di un ufficiale che si allontana da un
sottoposto e si ritirò nell’appartamento fra i tetti. Troppe emozioni.
A Don Carlo non restò che recuperare il gatto perciò dovette entrare nuovamente in quella oscura trincea. Non poteva dare torto al professore: un tale uomo, un santo, uno degli uomini più importanti della Chiesa costretto a improvvisarsi archeologo, addirittura tombarolo. Inoltre, il professore non aveva un carattere facile, era burbero e irritabile quanto poteva essere bonario e ironico. Carlo se la prese col felino:
“Sei un vile egoista. Hai capito subito che l’ermellino imperiale ti accoglie meglio della strada da dove sei venuto. Ti ci sei messo sopra come un pascià”.
“Miao…” fece quello, insensibile agli insulti del parroco.
Seduto a terra, con la schiena appoggiata al catafalco e il gatto sulle ginocchia, mentre la lampada allungava un fascio di luce sul pavimento e il resto era immerso nell’ombra più fitta, Carlo apprezzava il fresco del sacrario. Ma ora che pericoli da scongiurare non c’erano percepì qualcosa di cui non si era accorto prima. Tra le connessure delle lastre di marmo intravide un incavo metallico ben mimetizzato. Una possibile maniglia? Era una mezzaluna perfetta dove insinuare la mano per sollevare la pietra. Guardò l’amico gatto:
“Vedi la stessa cosa che vedo io?”.
“Grr… grr... ” fece il compare.
“Adesso controlliamo” e Carlo mise la mano nell’anfratto. Quella probabile maniglia poteva aprire l’accesso a un sotterraneo, un nascondiglio, un ossario, una fossa comune? Tutto poteva essere fuorché un luogo luminoso e allegro. Forse per questo quel vile di un gatto si rincantucciò nel mantello.
“Ora che mi devi stare vicino ti nascondi?”.
Quello dissentiva con la coda, la librava nell’aria come una frusta e manifestava piena contrarietà. Presagiva l’intenzione dell’uomo che difatti si alzò, deciso a sollevare la pietra. Fece inutilmente vari tentativi: la lastra era pesante, non poteva farcela da solo senza una leva. Il gatto continuava a muovere la coda come un tergicristallo. “No, no, non lo fare!” pareva dicesse.
La storia si faceva sempre più complessa. Era il momento di parlare e di farsi ascoltare dal vescovo-professore. Subito gli avrebbe consegnato il plico. Di fronte a una prova così tangibile non avrebbe potuto rifiutarsi di credere. Questo era ciò che avrebbe dovuto fare dall’inizio.
Recuperò il misterioso documento e raggiunse l’amico presentandosi come la personificazione della giustizia, con un braccio che stringeva il gatto e con l’altro che mostrava il plico.
Il professore si arrese all’evidenza. Il destinatario della missiva doveva essere illustre: il papa, un ambasciatore pontificio, un cardinale… lo Stato della Chiesa. C’erano ben sei sigilli. Don Carlo non poteva conoscerli, ma il sant’uomo sì. Un tagliacarte servì per sfilare un laccio di seta bianco, rosso e blu e sollevare la ceralacca che lo tratteneva. Carlo e il gatto seguivano ogni sua mossa con la trepidazione di due condannati in attesa della sentenza. Il professore soppesando con scrupolosa attenzione la missiva parlò con voce solenne:
“Prendi una penna, annota il luogo, l’ora, il giorno e scrivi quanto segue: l’Arcivescovo delle Calabrie, Sua Eccellenza Aleandro Santoro, Ministro di Sua Santità, Governatore dei possedimenti territoriali dello Stato Pontificio di Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia riceve nelle Sue mani in sostituzione di quelle di Sua Santità il Pontefice, un documento di rilevante importanza siglato dal principe Giuseppe Bonaparte e indirizzato al Papa Pio VII. Sono altresì apposti i sigilli del cardinale Terenzio Mocenigo, dell’ambasciatore Antonio Canova, del legato pontificio monsignor Matteo Foscari Casson, del segretario imperiale se Ugo Le Pontignac, del generale Jean Baptiste Laroche. Sua Eccellenza procede all’apertura e alla lettura del documento…”.
Non credeva alle sue orecchie don Carlo, non si riprendeva dallo stupore per quell’accento superbo, quella studiata espressione, quello scandire perentorio di nomi e titoli ricavati dalla semplice osservazione dei sigilli. Cognomi, ruoli altisonanti, edotta presentazione di personaggi che avevano una reale consistenza come se stessero effettivamente lì con loro. Restò immobile, col gatto che sembrava imitarne l’espressione stupefatta.
“Ma non stai facendo quello che ti ho detto? Dobbiamo prendere atto. Sic et simpliciter: trascrivi!” ordinò il prelato e declamò il contenuto del documento non prima di averne letto a mente ogni riga, decifrando le parole vergate con una grafia d’altri secoli:
“Santità,
umiliato e genuflesso al Vostro cospetto, io, principe Giuseppe Bonaparte, alla sacra presenza di testimoni di altissimo riguardo (si ripetevano i nomi dei sigilli) consegno nelle Vostre Preziosissime mani quello che fu il tesoro dell’Armata Imperiale Napoleonica, perché sia restituito ai veri proprietari nei luoghi donde
fu rapito. In tal guisa sia fatta giustizia eterna e pace all’anima salva dell’Imperatore che volle questo in sua volontà dall’eremo finale di Sant’Elena ove morì con la Santa Assoluzione impartitagli dal cappellano delle prigioni. L’ambasciatore Antonio Canova si fa garante presso la Vostra Preziosissima persona della consegna avvenuta in Venezia addì, 8 febbraio 1822 e questo manto, che fu suggello d’investitura imperiale, sia prova della volontà di pentimento e della sottomissione a Cristo. Dio perdoni i Re che invocano il perdono. (Seguivano le firme dei testimoni e del principe Giuseppe Bonaparte)”.
Don Carlo inseguiva le parole: allora, tutte quelle visioni di campi di battaglia, generali, cavallerie, cannoni, che ebbe la notte dopo il furto erano un presagio. Ma di quale tesoro si stava parlando? Che significava tutto ciò? L’imperatore, il papa, la redenzione dell’anima, la restituzione di un tesoro: era veramente questa l’epoca adatta a capire un tale messaggio dal ato? Potevano le allucinate complessità del presente interessarsi alla napoleonica conversione? La storia, maestra di vita, cambiava spesso il suo corso tra monarchie, repubbliche, dittature, democrazie. La storia univa o separava, sovrastava l’uomo rendendolo schiavo del suo stesso fluire. La storia per l’Italia era cambiata tante volte come quelle donne capricciose che vogliono una cosa e ne cercano un’altra. E il popolo? Sarebbe ato non senza scosse dall’una all’altra parte, ovunque il vento avesse girato. Sarebbe parso giusto a molti seguire i si che parlavano di libertà e requisivano ai nobili e agli ecclesiastici. Napoleone amava l’Italia, non amava il Papa e la Chiesa, né amava il potere dei Dogi. Requisì e talvolta cancellò dalla faccia della terra conventi, monasteri, abbazie e chiese, per poi appellarsi a Dio in punto di morte? Imprigionò il Papa, conquistò Roma, smosse i sonnacchiosi romani e alla fine si innamorò di ciò che detestava? Erano questi i pensieri che circolavano nella testa di don Carlo. Il professore aggiunse:
“Continua a scrivere, c’è dell’altro”. E proseguì nella dettatura di un’altra missiva custodita insieme alla precedente:
“Eminentissimo Santo Padre,
quale indegno servo Vostro, vengo illuminato da un raggio divino che segna il mio senile cammino ora giunto al termine. Pregate per l’anima mia! Vissi il tormento dell’arte e soffersi molto con lo scopo di restituire all’Italica Nazione i beni che vennero ingiustamente sottratti con la forza e l’ingiuria secondo il progetto imperiale per allestire il grande Louvre. Mi adoperai fino ai limiti del consentito per convincere l’Imperatore del suo errore. Lo implorai di lasciare le beltà nel posto originario perché potessero fare catena tra loro, rinsaldare il loro significato e aumentare il valore. Mi dolse vedere la nostra arte prendere la via di Parigi. Assistere allo spettacolo di carri stracolmi di opere usciti dai conventi e dai palazzi che si dirigevano in Francia. Piansi le amare lacrime di chi vede fuggire una chimera, un sogno, di chi vede rubata la gloria italiana come fosse un bottino di guerra. La mano rapace cadde anche sui cavalli di San Marco, e la mia Venezia pianse. Mi alimentai di rabbia e soffrii come un orfano smarrito. Che vale l’Italia senza la sua arte? Che vale un popolo che se ne depriva? Ammutoliti, vagheremo come pecore al pascolo. Saremo un popolo di schiavi, di reietti. Le aquile imperiali voleranno rapaci sulle nostre teste e lugubri corvi si ciberanno dei nostri resti. Lo scempio non a tutti sarà chiaro, perché a pochi è dato capire. Le mie robuste mani di scultore sarebbero in grado con la forza estrema dell’orgoglio di portare a Voi, Santo Padre, le opere restituite se le mie deboli gambe fossero in grado di raggiungere Roma. In ogni modo, acciocché tutto si avveri e le nostre anime trovino un degno riposo, affinché la mia vita sia stata spesa per il bene, in quest’ultimo sussulto dispongo, e le eccellentissime personalità intervenute al mio cospetto me ne saranno testimoni, che il tesoro dell’Armata Napoleonica consegnatomi dal Generale Comandante Jean Baptiste Laroche su ordine dell’Imperatore Napoleone Bonaparte, attraverso l’intercessione del principe Giuseppe Bonaparte, suo regale fratello, sia custodito nella mia tomba nella chiesa De’ Frari e lì resti fino a che la storia ne reclami l’esistenza. Che sia nascosto al mondo fintanto che, allontanati i presenti pericoli, sia possibile restituirlo a chi ne fu ingiustamente deprivato. Chiedo di destinare interamente questa tomba al tesoro e di tumulare i miei resti nella natìa Possagno, in modo che nessuno possa pensare che abbia voluto dormire il sonno eterno circondato da tesori al pari di un faraone. Al cospetto di Dio, ogni presente giura di non fare menzione dei fatti a chicchessia e questo si celi quale inespugnabile segreto di Stato. Nel pieno delle sue facoltà:
Antonio Canova, scultore e ambasciatore dello Stato Pontificio.
Innanzi alle Vostre Signorie redatto e autenticato dal Segretario Imperiale Ugo De Pontignac et nominati esecutori testamentari il Cardinale Terenzio Mocenigo, monsignor Matteo Foscari Casson e il vescovo Giovanni Battista Sartori.
Addì, 18 Aprile 1822 in Venezia”.
E qui si arrestò la voce del professore mentre lo sguardo era ancora sul testo a scrutarne angoli, sigilli, firme, nomi. Teneva quei fogli come le tavole della legge, li rileggeva a mente, li girava, li confrontava, si ava un fazzoletto sulla fronte imperlata di sudore. Era un atto testamentario autentico che parlava di un tesoro e della sua restituzione voluta da un imperatore sul letto di morte. Tutto questo appariva proprio inverosimile, roba da vecchi film. In ogni caso il “ragazzo”, e ogni tanto lo squadrava, era stato guidato da una mano divina e aveva fatto un ritrovamento straordinario. Così prese a fargli una serie di domande tra il contrariato e il curioso:
“Ma come ne sei entrato in possesso? Dov’era? Altri ne sono a conoscenza oltre a te?”.
Don Carlo gli raccontò di nuovo tutto, anche nei particolari più insignificanti. Ma stavolta l’interlocutore si fece più attento, più prodigo di incitamenti a proseguire, a ripetere, a chiarire. E giù, allora, domande: se in ato era già entrato nel sacrario, se c’era stato qualcun altro, se c’era una qualche menzione negli archivi della chiesa, se erano stati fatti restauri e altro ancora.
Don Carlo in quell’immensa basilica viveva quasi da solo, eccezion fatta per l’unico frate sopravvissuto tra quelle mura, tale Oderisio, geloso e attento custode dell’Archivio che, attraverso la sua santa opera, era in ordine come se ci
lavorassero decine d’impiegati. Dall’alto dei suoi quasi cent’anni ne aveva vista di acqua sotto ai ponti e sapeva per memoria storica delle deportazioni dei frati in epoca napoleonica, della chiusura del convento, dei furti e delle distruzioni di certe chiese attigue e di come si salvò la basilica per intercessione di Canova che vedeva nel quadro dell’Assunta il più bel dipinto mai realizzato al mondo. Il convento era un’elegante architettura, giusta per custodire la storia mentre la vita s’era lentamente dileguata. Delle antiche trecento stanze ne erano abitate solo una decina da una piccola comunità di catechisti, per lo più universitari stranieri che in cambio tenevano in ordine il chiostro e le sale più importanti in ricordo degli antichi splendori, sebbene molti degli arredi fossero stati venduti o ceduti ai musei privati. Carlo, che doveva farsi coraggio quando vagava per quegli spazi abbandonati, ne traeva uno scoramento e un dolore tali da ammutolirlo per giorni. Anche per questo s’era rifugiato sopra i tetti, per non vedere in basso. Dunque, chi mai avrebbe desiderato fare visita al marchese d’Ischia in quel tenebroso sacrario? A chi poteva interessare visitare il sarcofago e lo spazio dedicato al nulla che lo circondava? Quella piramide probabilmente non era stata mai visitata all’interno. Gli stessi mafiosi l’avevano disdegnata, prelevando solo la statua all’esterno.
Come san Tommaso
Il vescovo-professore adesso voleva vedere con i suoi occhi e toccare con mano, come San Tommaso. Voleva verificare di persona tutto ciò che Carlo gli aveva detto. Subentrava in lui l’esigenza di trovare riscontri tangibili anche perché le due lettere, al di là del misterioso tesoro sul quale era piuttosto scettico, richiamavano fenomeni simili al presente: l’alienazione dei beni ecclesiastici e le ruberie. Nel suo cervello bollivano fatti, date, personaggi, papi che sembravano avere avuto un ruolo in quella storia. In quanto al tesoro, figuriamoci se di quei tempi sarebbe potuto sopravvivere. Il buon Carlo, un ragazzo timido, introverso e troppo solo, forse aveva visto più del reale.
“Non resta che scendere in chiesa ed entrare nel sacrario” disse superando l’idea fastidiosa di penetrare in una tomba.
“D’accordo, prendo la torcia e cerco una leva…” aggiunse Carlo, avendo in mente la strana lastra del pavimento. Nel magazzino o nella falegnameria sicuramente avrebbe trovato qualcosa di adatto per sollevarla.
“Non avrai intenzione di aprire il sarcofago? Non ti cimenterai in una profanazione?” chiese il professore, aggrottando le sopracciglia e sempre sul punto di rinunciare alla temeraria spedizione.
“No, stia tranquillo… non si preoccupi, ma acceleriamo i tempi” rispose Carlo dirigendosi verso le scale e facendo strada. La chiesa era vuota. Padre Oderisio era a nanna da un po’ e i ragazzi della comunità non potevano accedere alla chiesa dopo una certa ora. Soli e liberi di trovare il vero significato del plico
prima del nuovo giorno.
La piramide di marmo nella penombra emanava una solennità scostante, un che di sinistro. Salire i gradini della scalinata pareva già un’infrazione. Occorreva immaginarsi d’essere già cenere per superare il lugubre pertugio, sentire la fragilità dell’esistenza e la perentorietà della morte. “Cenere sei e cenere ritornerai”, forse questo era bastato a tenere lontano possibili intrusi. Con un segno di croce arono oltre la soglia.
Per qualche secondo un nero di pece bendò gli occhi del sant’uomo mentre sentiva una leggera carezza sulla testa e sulle spalle. Appena Carlo fece luce, il vescovo si rese conto che aveva un velo di ragnatele appiccicato sugli abiti ma non se ne curò. Si fermò attonito a scrutare l’ambiente. Fissò il sarcofago, ci girò intorno, ò la mano sulle lettere della scritta “ad Antonio Canova Venezia riconoscente pose” come a volere trovare un contatto anche tattile con l’Ottocento post napoleonico. Vide brillare le imponenti catene dorate, gli stemmi e le teste leonine e finalmente vide con i suoi occhi il manto. Carlo gli mostrò quanto fosse ampio e sontuoso, con l’ermellino su un lato e il velluto coi ricami d’oro sull’altro.
“La corona e la lettera “N”… Guardi professore, mi crede adesso? Ecco, stava tutto così quando sono entrato la prima volta”.
Sua Eccellenza ammutolì con lo stesso sguardo di San Tommaso incredulo che tocca la ferita sul costato di Cristo. E allora Carlo, intenzionato ad approfittare di quello stupore, estrasse una delle tele nascoste, la prima che la mano riuscì ad afferrare attraverso l’orlo scucito del manto. Gliela porse sussurrando:
“Ecco, questa è solo una delle opere che stanno all’interno. Non so quante ce ne siano in totale, ma certo sono parecchie”.
Il vescovo sotto la luce vide animarsi forme e colori tali da ridargli la parola:
“Diamine! Ma questa è una veduta della laguna… E se fosse un Canaletto? Incredibile! Estraine un’altra, se ci riesci”. Carlo, slabbrando ancora i bordi cuciti, riuscì a tirarne fuori una seconda e poi una terza e un’altra ancora mettendole sotto gli occhi del professore che pareva ipnotizzato. Una tela la guardava con espressione addolcita, un’altra con tristezza. Comunque era talmente preso che ebbe il coraggio di buttare lì qualche nome altisonante dando a Carlo la certezza che il professore adesso credeva.
“Non vorrei sbagliare, ma queste tele sembrano appartenere a grandi maestri come Leonardo, Bellini, Mantegna” disse d’un fiato per poi pentirsene e ripiegare su un più vago: “Certo, io non sono un esperto, sono un teologo. Ma quanta arte ho visto, figlio mio, sugli altari. E quanta non ne ho più rivista. Lo stile di alcuni artisti è inconfondibile, ma non sono in grado di dire se sono autentici. Forse sono opere di allievi, ma vanno analizzate meglio e con calma, magari nel tuo studio. Usciamo, che quest’aria ferma mi opprime”.
“Ma ce ne sono tante altre” obiettò l’altro che avrebbe anche voluto dare un’occhiata a quella strana lastra del pavimento per cui si era portato la leva giusta.
“Occorre pazienza! Se nessuno è mai stato qui dentro non entrerà per le prossime ventiquattrore. Aspetta, figlio mio… E poi, dove vorresti nascondere il manto? Lasciamo le cose come stanno per adesso. Comunque ti credo, stai tranquillo ti credo. Ma usciamo da qui… ”. Nella voce aveva messo un tono implorante a cui Carlo non seppe dire di no e si diressero verso lo studio.
Lì, finalmente il professore riprese a respirare con calma come chi, sventato un pericolo, si accascia sulla prima sedia che trova e ringrazia lo Spirito Santo:
“Mi sento rinato tra queste pareti, finalmente! Devi rassegnarti, il tuo professore non è un ragazzino. Per giunta ha pure diversi problemi di salute, anche se si sforza di sembrare ancora giovane”.
“Ma cosa dice? Lei è una roccia. E’ solo stanco, deve riposare un po’. Le tele andranno in cassaforte e domani ce ne occuperemo” disse Carlo premurosamente, ma poi, riflettendoci pensò che fosse assurdo mettere le tele sotto chiave quando erano state per più di due secoli alla portata di tutti e, ripensando a quanta emozione aveva provato il sant’uomo, lo accompagnò nel suo appartamento. Poi ridiscese nello studio. Entrò con l’idea di concedersi un lungo sonno ristoratore, ma la spia rossa del videotelefono avvisava che c’era un messaggio, lo aprì e comparve il viso di una donna:
“Ciao Carlo. Sono a Venezia, devo parlarti, mi serve il tuo aiuto. Sarò ai Frari domani in mattinata. Grazie. Nina Malaspina”.
Cap. VII
I feel so good
I personaggi del meeting a villa Maser, ad affari conclusi, potevano anche togliersi qualche sfizio e pernottare nelle camere preparate con arguzia dall’architetto Petri. Qualcuno di loro restò quella notte.
Hiroike attese che l’onorevole Massimo Binaghi la invitasse nella suite. Si concedeva con gli occhi mentre le labbra già si schiudevano pronte ai baci. Binaghi la prese tra le braccia come fosse un fuscello e cominciò a palparle delicatamente i piccoli seni, le mordicchiò i capezzoli attraverso la camicia leggera e l’adagiò sul letto, facendo attenzione a non accelerare troppo. La sentiva perfettamente abbandonata e pronta ma il suo aspetto da adolescente era tale da trattenerlo. Lei, priva di pudori, lo costrinse ad abbandonare ogni remora. Lui si tuffò nell’oceano di sensazioni che la piccola sapeva scatenare: ne percorse ogni parte del corpo, le sfiorò ogni frammento di pelle, la strinse a sé e si impossessò di lei con prepotenza.
Al mattino Hiroike aveva un colorito roseo come se, per la prima volta, il suo sangue si fosse messo in moto e le avesse donato un diverso incarnato. Si era accesa e aveva provato piacere. E molto. Strano, per lei. Chissà, forse quest’uomo sapeva entrare in sintonia coi suoi pensieri oltre che con la sua pelle? Non stette a pensare troppo: quello era un affare e basta. Lei si prostituiva per questo. Era la ciliegina sulla torta di un progetto troppo vasto per soffermarsi su questi accidenti di percorso.
Binaghi fece portare la colazione per due e si accomodarono al tavolo.
“Mangia, che sei deperita! Alla tua età non si fanno diete” disse mentre le proponeva un piatto guarnito d’ogni delizia e la guardava masticare, deglutire e ridere per un nonnulla.
“I feel so good...” sussurrò lei con malizia. Poi cambiò tono:
“Onorevole, il governo cinese le sarà molto riconoscente se disporrà la dismissione dei tesori delle abbazie di Nantola, di San Damiano e di San Celso che ormai sono in abbandono. Si potrà arrivare a una cifra molto alta, più di quella che offrirebbero i russi, e per lei è prevista una percentuale che la farà stare bene per tutta la vita”.
Hiroike non si chiedeva se avesse davanti un corrotto o semplicemente un uomo avido. Per lei l’umanità era un variegato spettacolo da circo, in cui ognuno aveva il suo ruolo, la sua specialità. Lei stessa non si giudicava. Stare con Demetrio Galan l’aveva riscattata dalla strada e dalla miseria e, adesso che lei aveva la sua specialità, poteva sdebitarsi.
L’onorevole Massimo Binaghi non doveva fare molto, solo predisporre l’ingresso di nuovi capitali sul suo conto in Lussemburgo, chiamare i suoi fidi collaboratori per stilare una bozza del prossimo decreto legge che avrebbe consentito la vendita dei beni della Chiesa della Federazione Nord rimasti incustoditi. Non c’erano più soldi da destinare al patrimonio ecclesiastico; i sacerdoti erano pochi e ristretti nelle grandi città, le Soprintendenze già avevano il peso dei musei, figuriamoci dover tutelare il resto. Poteva avverarsi il disegno napoleonico: fuori il clero! Dopo anni di attesa si cavava qualcosa di buono da quei tesori. Si toglievano di torno quelle immagini sacre che rammentavano l’antica unità culturale del Paese e veicolavano concetti obsoleti come il potere del Papa e dei preti. Basta! Che si ripulissero le regioni del Nord dall’idolatria. Era l’industria quella da finanziare, altroché. Altre erano le necessità che non le icone dei santi o i codici miniati di quel padre Saverio. Bisognava anche fare in fretta, per non lasciare spazio a ripensamenti. Gli italiani, si sa, sono romantici,
non si staccherebbero mai dal ato. Chitarra e mandolino!
Con le orecchie ancora sature della voce di Hiroike che diceva con quell’accento esotico: “Onorevole, il governo cinese le sarà grato…”, Massimo Binaghi concluse dentro di sé:
“Che fanciullina deliziosa! Sei giunta proprio a proposito: i miei conti bancari erano in discesa dopo gli indennizzi per la seconda moglie. Quel Demetrio Galan la sa lunga: sempre dalla parte dei più forti”.
Il potere lo aveva trasformato in un uomo dai mille volti, pronto a mimetizzarsi, ad attaccare o appoggiare a seconda dei vantaggi, ad alzare la voce o a bisbigliare per guidare o complottare, a criticare o a complimentarsi per cancellare alleanze e aprirne di nuove e a ripetere promesse sempre d’effetto su nuovi investimenti a vantaggio dei giovani. Molti gli andavano dietro per il solo fatto che sapeva destreggiarsi meglio di tutti nel teatro della politica. Della sua capacità di cambiare con disinvoltura da una posizione politica a quella opposta andava fiero. Lui restava sempre in piedi in ogni situazione, per questo era uno dei leader del più potente partito del Nord. E dalla vita voleva sempre il meglio. Virile e sentimentale tra le braccia della fanciullina e cinico promotore della legge sulle dismissione dei beni artistici: il tutto nella stessa giornata aggiungendo un generoso finanziamento alla Milizia Celtica incaricata del lavoro sporco.
In sostanza consentiva ai governi stranieri di acquistare ruderi claustrali e antiche chiese come un tempo si saccheggiarono i templi pagani e i loro tesori. I nuovi investitori venuti da Oriente acquistavano per il gusto di sentirsi padroni e lo facevano a mani basse, tanta era la necessità in Italia di denaro contante. Il progresso aveva girato decisamente verso Levante. A Occidente si accoglieva la conquista come una manna. Quella era una trasfusione di soldi. Al diavolo Matilde di Canossa, i papi, Enrico IV, san Benedetto, il Medioevo, il Rinascimento e la storia tutta! Al diavolo quell’officiare messe tra ceri e incensi,
quel venerare Madonne e Bambinelli, quel versare oboli per le grazie! Una nazione moderna pensava alla grande finanza, quella sì che poteva aggiustare le cose invece dei santi. Al Parlamento federale si discuteva di deficit, di disavanzo, di debito, di pareggio. Mai nessuna obiezione su quelle privatizzazioni a vantaggio di altri stati.
Hiroike tornò in albergo a Verona dove era ad aspettarla Galan che avrebbe desiderato una performance erotica per scaricare l’ansia. Lo conosceva bene, nei momenti cruciali solo lei sapeva calmarlo come una droga leggera ma efficace. Questa volta, però, avrebbe voluto sottrarsi: il famelico Binaghi l’aveva stremata. Invece, euforica come una bambina che scarta i regali di Natale, al cospetto di un paio di orecchini di topazio e diamanti capaci di ravvivare certe pagliuzze d’oro dentro i suoi occhi nocciola, si stese sulle lenzuola e lui le fu sopra in un attimo.
“Ho riferito a Binaghi quello che mi hai detto. E’ dalla nostra parte e farà i i opportuni. Mi è sembrato soddisfatto dell’offerta” disse la ragazza mentre si rialzavano per rinfrescarsi con una doccia.
“Immagino che abbia gradito tutti i miei regali. Come ti sei comportata?” chiese lui andole le dita sulle labbra. Sentendole screpolate, le fece un sorriso ammiccante.
“L’ho lasciato fare, sono stata quella di sempre, quella che piace a te” disse Hiroike con un’espressione infantile di vittoria perché il suo corpo ava da un uomo all’altro senza che restasse in lei una traccia affettiva. Era un fuoco senza fiamma, incendiava senza riscaldarsi e lei poteva crescere ancora senza innamorarsi. A che serviva innamorarsi?
Un tortuoso giro di denaro
A Venezia Salvo u’Niru si concedeva una pausa dopo il colpo ai Frari ed entrava elegante e altezzoso nel palcoscenico delle vanità che un casinò erotico sapeva creare. Di sera l’aria stagnante della laguna era irrespirabile e il Mirandolina risultava più affollato che mai: russi danarosi e cinesi imibili, ma anche tedeschi annoiati, americani illanguiditi, svizzeri apiti, lombardi depressi e qualche raro siciliano. Dal ristorante arredato in stile Settecento si accedeva, attraverso le ante vetrate di un mobile rococò, nella sala da gioco più impertinente della città, con quelle splendide Mirandoline pronte a farti compagnia e abbigliate solo con una cuffietta di merletto in testa arricciata con un nastro sottile che pendeva ora sul fondoschiena, ora sul petto generoso.
Salvo emanava un fascino torbido. La cattiveria dei suoi occhi bui eccitava le ragazze che se lo contendevano con strofinii di seni e di glutei, qualcuna ando la mano sull’apertura della giacca con la voglia di scendere più giù. Stanche dei ricchi afflitti, molte di quelle ragazze nutrivano una ione per i meridionali. Lui stavolta preferì servirsi di una pacatissima cameriera: la conquistò promettendole una mancia straordinaria. Era notte di gioco e voleva stare concentrato. Fece poco sesso, quel tanto che serviva per rilassarsi. Ebbe fortuna ma gli occhi bui non lasciarono varcare la minima soddisfazione per la somma di denaro conquistata. Chiudeva in bellezza la trasferta al Nord e l’indomani sarebbe partito per Istanbul. Era un onore lavorare per un boss, servirlo oltre i limiti del possibile, fino a macchiarsi delle peggiori atrocità. Era stato il clan di Malaspina a salvarlo quando era stato abbandonato sul ciglio della strada perché morisse appena nato. Ovvio che avesse un grande debito di riconoscenza verso don Frigerio, del quale non osava sentirsi figlio anche se faceva di tutto per sembrarlo. Non era il denaro il suo movente, ma la sfida col destino. Più lo sfidava, più vinceva e più sentiva di esistere. Aveva tutto dalla vita: cinismo, freddezza, crudeltà, fortuna, fascino, determinazione. Che desiderare di più? Fece spedire il denaro vinto al casinò in Sicilia alla parrocchia di don Minniti: quello ne aveva sempre bisogno per aiutare poveri, alcolizzati,
drogati. E lui vinceva sempre al gioco, forse per via di quegli occhi rapaci o, forse, perché era per una buona causa. E lì la Provvidenza gli guidava la mano.
Quella stessa notte raggiunse il capo a Villa Maser: doveva aggiornarlo sui fatti e ricevere istruzioni. Ora stavano seduti uno di fronte all’altro su uno dei divani della sala del Giudizio di Paride. Don Frigerio parlò amabilmente sorseggiando un vodka martini da un bicchiere colmo di ghiaccio. Il fantomatico fratello di Maddalena, il suo luogotenente Salvo, detto u’Niru per la scia di lutti che lasciava sul suo cammino, lo ascoltava. Le divinità schierate negli affreschi spiavano quel discorso sommesso fatto di poche parole, strizzatine d’occhio, lievi cenni del capo per assentire o dissentire. Stavano facendo il punto della situazione e il boss udì il racconto succinto su come era stato eseguito il colpo ai Frari, poi chiese:
“La statua è a posto?” .
“E’ al sicuro, su una nave greca che la porterà fino a Istanbul e poi, da lì, in aereo per Shanghai. Io la scorterò dalla Turchia fino a destinazione. Non mi fido di lasciare il compito ai picciotti. Questo è il mio dovere: fare le cose precise. Per rispetto a voi, don Frigerio. Per farvi stare tranquillo” disse u’Niru abbassando la testa come per un inchino.
L’altro alzò appena la mano dal bracciolo su cui era poggiata per dire “approvo, vai ora, fai quello che devi fare”. E continuò a bere mentre Salvo u’Niru si dileguava.
Entrò l’ingegnere Galan, l’uomo ombra del governo cinese, pronto a definire gli ultimi aggi dell’operazione che lo vedeva mediatore tra l’Unione Celtica e l’Alleanza Sudista per trasformare un antagonismo politico in un affare vantaggioso per entrambi. E, forse, anche per quei poveracci del napoletano,
come aveva promesso a Filomena Mangano. Si accomodò accanto a Malaspina e si servì da bere aspettando un cenno per parlare. Quando lo ebbe, parlò con franchezza, com’era abituato a fare:
“La statua ci procurerà l’appoggio del Ministro Xao Chan-su e potremo vendere tutto a un prezzo favoloso. I codici sono già lontani e i quadri stanno al sicuro. Dobbiamo ripagare i guappi napoletani, senza di loro il convento di Fragore era inespugnabile. Per Gerlasco è stato più facile, con soli due frati e con l’appoggio di quei dannati dell’Unione Celtica”.
“Mia figghia fece una proposta per noi stessi e per la nazione. Caro Galan, a questi cinesi bisogna che glielo fate capire” disse con la calma di un ordine dato a chi sa capire al volo quando è necessario dire sì.
E l’ingegnere disse di sì, assumendo l’incarico di fare felice Nina Malaspina. Del resto, che importava? Da lì all’anno 2080 chissà quante cose sarebbero cambiate. D’ora in poi il ministro Chan-su poteva ritenere l’Italia una fonte inesauribile di tesori. Dall’accordo con l’onorevole Binaghi avrebbe portato in Cina una quantità di opere d’arte da riempire una reggia. E qui il pensiero di Galan andò a Hiroike e alle sue prestazioni. Quella bambina era insostituibile. Doveva farle un regalo.
L’incontro
L’amore spesso gioca col destino: prima ti impone barriere insormontabili, poi ti obbliga a oltrearle. Nina era costretta a rivedere Carlo. Chissà quante volte lo aveva desiderato. Per lei era stata l’unica ione, gelosamente custodita al punto da trasformarsi in un rifugio di salvezza contro gli errori sentimentali futuri. Una donna della sua età, intelligente e attraente avrebbe meritato i migliori legami affettivi ma lei se ne teneva ostinatamente alla larga. Paradossalmente sapere che l’amore era iniziato e finito con Carlo le dava coraggio insieme alla certezza che le loro scelte di vita scorressero in parallelo. Oltre l’infinito, le loro strade si sarebbero incrociate e Dio questa volta non si sarebbe opposto più di tanto.
Il mattino dell’incontro, Nina era consapevole di affrontare una difficile prova. Una volta entrata nella chiesa dei Frari, pregò con gli occhi guardando ora un quadro ora un altro, adesso una statua, poi un altare. Non capiva perché si recitassero tante litanie senza porre fine alla catena di soprusi di cui erano vittime le chiese. Invece di sorvegliarle e reagire, si invocava il Padreterno. Al Sud, la gente si affidava alla religione come un tempo aderiva ai partiti, per avere appoggi, aiuti di ogni tipo, in una specie di accettata mafiosità ambientale. Mescolare Cristo con don Frigerio, suo padre, era la cruda realtà a cui doveva far fronte quel sant’uomo di Sua Eccellenza Aleandro Santoro, rimasto solo a tentare di estirpare la malerba che in quelle terre soffocava anche le piante migliori.
Era convinta che Carlo non l’avrebbe riconosciuta. Invece la captò presto tra la folla mentre diceva il Padrenostro e pronunciava: “...non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”. Era la stessa ragazza di un tempo, dallo sguardo dolce e fiero, in un contrasto che la rendeva unica. Per osservarla perse la concentrazione. I loro occhi si agganciarono, ma fu solo un attimo perché lei dovette abbassarli, sopraffatta dalla scena: Carlo, ai piedi dell’Assunta di
Tiziano, era un’apparizione miracolosa. L’aveva immaginato spesso, ma non al punto da attribuire alla figura del ragazzo che conosceva i capelli brizzolati, le rughe sulla fronte e intorno agli occhi un’aria di ponderata saggezza, un tono solenne nei gesti, un calore e una convinzione singolare nella voce. Tutta la vita aveva sognato e tutta la vita era fuggita dal sogno.
Carlo toccava gli animi. Lo vedeva dalla contrizione dei fedeli, dallo slancio con cui pregavano. Mai lo aveva visto in abito talare e adesso sull’altare della chiesa più bella di Venezia lo ammirava estasiata. Il tuffo al cuore che, da ragazza alla sua presenza, la impietriva e le mandava il sangue alle gote era sparito! Non doveva quindi nascondere il viso, girarsi dall’altra parte, scappare.
“E’ vero, dunque, che invecchiando si ama di meno, si soffre di meno o in modo diverso? Quale forza possiede l’amore” pensò “se ti aiuta a superare mille tempeste, se attraverso di esso entri nel vortice degli uragani senza accorgertene, se la tua pelle se ne imbeve al punto da non avvertire il are degli anni e le trasformazioni di un corpo che convive con sempre maggiore difficoltà con la freschezza perenne dell’anima? Quale pazienza possiede l’amore se con la lontananza i venti della ione si calmano e la polvere non si solleva più davanti al tuo cammino? Alla tolleranza l’amore aggiunge la resa, un abbandono che non è sconfitta ma il semplice apparire della verità; capisci che quel sentimento non portava a nulla, era solo il frutto della tua immaginazione, il fragile fiore di una speranza infantile”.
Era stanca di quell’inutile ossessione chiamata amore o era solo più saggia? La chiesa dei Frari aveva fatto il miracolo di liberarla da qualcosa di sbagliato o lei, senza avvedersene, si era sciolta da quel vincolo e solo adesso, rivedendo Carlo, l’aveva capito? Oppure erano stati la triste vicenda di suor Anna e l’incontro a Pieve Palladiana col padre che sembrava cercare un perdono, la rabbia per quei progetti d’affari sui quadri che amava di più, il disgusto per una politica sciatta, insensibile e corrotta che distruggeva l’unico vanto della nazione?
Sta di fatto che, goccia a goccia, uno sconosciuto antidoto all’amore si era instillato in lei e le aveva placato il cuore. “Don Carlo, sei capace di riconoscermi?” domandò Nina al termine della funzione guardandolo con la paura di apparire troppo felice di rivederlo.
“Vuoi scherzare? Lo vedo che sei diversa, ma per me sei sempre la stessa. Stai benissimo… Sei bellissima, posso dirlo? Che cosa ti ha spinto a cercare questo vecchio amico?” fece Carlo con un forte abbraccio e un bacio sulla guancia.
Era pura gioia, la sua. Tenerle stretta la mano e sentire quanto fosse insicura e tremante fu la conferma che lei non era cambiata. La accompagnò verso lo studio, si sedettero uno di fronte all’altra, lui la guardò ansioso e lei raccontò:
“Sai, ora lavoro per la Soprintendenza. Lo Stato Pontificio paga poco ma mi consente di continuare le mie ricerche. Non mi lamento, ci sono giovani che stanno peggio di me. Con la famiglia i rapporti sono migliorati ma io sto per conto mio e il più lontano possibile. Una famiglia mia non ce l’ho, per ora. Resterò innamorata dei miei artisti per sempre, almeno quelli non ti deludono: sono morti da un pezzo. Sono riuscita a rintracciare due opere di Caravaggio che si credevano perdute. Anni di studio negli archivi e poi me le son viste portare via dopo essermi macchiata di un crimine orrendo”.
“Tu non puoi esserti macchiata di nessun crimine, tu sei l’innocenza fatta persona” interruppe il prete.
“No, Carlo, io ho favorito un delitto. E’ stata un’atrocità. Mi sono fatta convincere a collaborare con l’Alleanza Sudista, mi sembrava una buona causa, e questi si sono serviti di me per depredare le opere di un antico monastero eliminando la madre superiora, l’unica che avrebbe potuto fermarli avvisando il vescovo Santoro. L’hanno infettata con uno di quei virus letali che usano per
farsi le guerre tra clan. Devo assolutamente avvisare il sant’uomo perché la faccia ricoverare in ospedale per curarla, se ancora è possibile. Non pensavo che arrivassero a tanto. E’ tutta colpa mia, Carlo. Ma tu non sai come sono ridotti al Sud. L’arte è ormai un bottino di guerra, tutto è incustodito. Che senso hanno i miei studi e quelli di tanti altri come me? Siamo dei poveri illusi che pensano di vivere ancora in un Paese civile. Non c’è più un’identità comune, c’è il taglio netto col ato come se si vivesse un’amnesia collettiva. E io provo un immenso dolore a vedere che il nostro ato interessa altri popoli ed emigra in paesi da cui non tornerà più”.
“Nina, tranquillizzati… Ti ha guidata lo Spirito Santo perché il vescovo Santoro è qui. Anche in questa chiesa sono successi fatti tremendi e ho dovuto chiamarlo. Ero suo assistente all’università, lo sai no? E’ arrivato ieri. Vieni, aspettami nel fresco del chiostro. Vado a chiamarlo. Ma non mi hai detto come mai sei a Venezia” insistette Carlo che voleva capire meglio com’era oggi la sua vita.
“Don Telesio: è stato lui a dirmi di rivolgermi a te” e raccontò del meeting politico-affaristico, del ravvedimento del padre, della sua speranza di aiutare il Sud.
Carlo raccoglieva da quel racconto l’impressione di una forte similitudine con quanto gli era accaduto in quei giorni. Avrebbe voluto dire del sequestro della madre, della minaccia all’Assunta, della sostituzione della statua, ma sarebbe stata un’esplicita accusa a don Frigerio. Preferì lasciare alla ragazza l’illusione che il padre stesse cambiando.
L’apparizione di Nina parve al vescovo Santoro un intervento della Provvidenza. La ragazza giungeva a proposito. Era la migliore esperta d’arte dello Stato Pontificio e non poteva essere lì per caso, vi era stata guidata. Si girò verso Carlo:
“Allora tu conosci la dottoressa Nina Malaspina”.
Carlo spiegò che si erano conosciuti attraverso il centro di assistenza di don Minniti dove entrambi facevano volontariato, anche se a quel tempo lei era solo una ragazzina e lui un giovane disperato sul bivio che lo avrebbe portato a servire il Signore.
“Ma ti avrà detto di che cosa si occupa ora. Carlo, cerca di essere concreto una volta tanto! E’ la persona giusta a cui sottoporre i quadri” disse seccato il professore. E l’altro:
“Sì mi ha detto qualcosa ma so poco di lei. Mi ha detto che sta bene e che vive lontana dal padre. La salvammo per miracolo dall’anoressia e ora rivederla donna mi conforta e mi sorprende allo stesso tempo”.
“E’ una ragazza semplice, solo studio e lavoro, umile e schiva” aggiunse il professore e Carlo annuì ricordando la timidezza di Nina bambina. La vita sa prendersi gioco del tempo e come un elastico allunga e accorcia le distanze tanto da far recuperare in un giorno il ato di quasi trent’anni. Le loro anime avevano vissuto distanti l’una dall’altra, eppure erano rimaste in straordinaria sintonia.
Come vide il vescovo, la ragazza si precipitò al suo cospetto, tanta era l’ansia di parlargli. Baciò l’anello con un inchino e raccontò le tristi vicende:
“Eccellenza, mandate qualcuno ad aiutare le monache. Per i quadri non ha più importanza, ormai saranno già all’estero e il convento prima o poi sarà smantellato dagli uomini del CASPI”.
Il professore incupì e aggrottò le rughe del viso in una smorfia di dolore. Non c’era più nulla da fare per quelle povere donne. Portarle via sarebbe stata una crudeltà: che destino sarebbe esistito per loro oltre quei cancelli? Adesso, lasciato a se stesso il convento avrebbe vissuto una penosa agonia. Come quella di suor Anna.
“Sì, manderò dei medici fidati che se ne prenderanno cura. Queste infezioni virali sono terribili, devastano il corpo peggio della lebbra. Mi è bastato vederne gli effetti su un picciotto di una cosca messinese”. Nello studio di Carlo il vescovo prese subito i contatti necessari.
Nina sembrava meno tesa; aveva assolto a un compito ingrato e si sentiva in parte emendata dalla colpa per la sua involontaria complicità. Solo adesso ebbe modo di guardare con calma ciò che prima aveva trascurato: i particolari della stanza dove Carlo ava le ore della sua vita. I soprammobili, le carte, i libri, i ricordi. Il seicentesco San Gerolamo appeso alla parete chissà quante cose le avrebbe saputo raccontare. Stava per affondarci lo sguardo quando Carlo la distolse mostrandole delle vecchie fotografie con don Telesio nel contesto di una Sicilia più felice: “Ci sei anche tu, guarda… sembri una bambina”.
“Sì, è vero. Come sono cambiata! Avevo due grissini al posto delle gambe, magra con la faccia indisponente, gli occhi persi a inseguire i sogni e i capelli lunghi raccolti a treccia che guai a tagliarli. Quanto tempo è ato. C’è anche il porticciolo dei pescatori in lontananza… Che bel gruppo eravamo. E’ stato un bel periodo”.
“Minniti è un santo che fa miracoli, riesce sempre a salvare qualcuno, a consigliare a illuminare. E’ un faro, vede oltre le apparenze, oltre il tempo e le tenebre” intervenne il vescovo che, riportando l’interesse al presente, chiese alla giovane: “Sai perché mi trovo qui?”.
“No, non so nulla”.
“Carlo non ti ha raccontato di Canova?”.
“No, ma che c’entra Canova adesso?”.
“Carlo, non dici mai tutto quello che dovresti dire. Vedi, figliola cara, la storia è complicata, ma non dissimile da ciò che hai vissuto tu; all’inizio anch’io ero scettico ma ora ho le prove” disse il vescovo mentre Nina, che capiva sempre meno, implorò Carlo:
“Cosa succede? Parlavi di fatti tremendi che erano accaduti anche qui. Dimmi, se posso sapere”.
“Devi sapere. Tu sei la persona giusta al momento giusto, perché dovrai vedere dei quadri piuttosto interessanti” e Carlo le raccontò ogni dettaglio della sua avventura, dalle minacce alla sostituzione della statua, dal sacrario al manto, dalle tele al plico. Tralasciò solo la strana lastra del pavimento perché ancora non gli sembrava opportuno parlarne, avrebbe aspettato il momento giusto. Nina ascoltava l’abile resoconto dei fatti e nei punti cruciali girava lo sguardo verso il sant’uomo per trovare conferma, poi tornava su Carlo approfittandone per fissare senza remore il suo viso. Quindi il vescovo, aprendo le braccia come a dire che non sarebbe stata impresa facile, concluse:
“Le due lettere al Papa sono autentiche e, se anche le tele ti sembreranno tali, dovrò parlarne con il segretario particolare di Sua Santità. E’ un uomo
eccezionale, di grande fiducia ma ieratico e distante come tutta la pletora di cardinali a Roma. Vive nella bambagia, non si mescola con la gente, non ha l’esatta percezione di ciò che avviene fuori della Curia. Non crederà mai alla storia di Napoleone convertito e penitente. Piuttosto, mi parlerà di Satana e delle sue incarnazioni, degli abissi infernali, delle trombe del Giudizio. Mi chiederà di vigilare sul popolo di Dio, mi investirà di nuovi e altisonanti incarichi per testimoniare e difendere la fede cristiana pur di glissare sulla scomoda realtà di un fatto storico eclatante. Non sarà facile convincerlo e io, ormai, sono un vescovo tutt’altro che umile e remissivo, anche se vecchio. Cari miei, il mondo resta a voi. Certo, non c’è un roseo futuro, non avrete un giardino dell’Eden, ma qualcosa ancora parla di vita e di amore: rintracciatela e tenetela stretta. Siamo così fragili e transitori di fronte alla natura e alla storia”.
Rivolto a Nina che gli era accanto indicò i documenti:
“Ecco il plico, puoi vedere i sigilli… Questi sono i nomi… la data. Queste sono solo quattro delle tele… Le altre stanno ancora nel sacrario” e le dispose con delicatezza sulla scrivania di Carlo.
Fermò la voce per non interrompere la curiosità dell’esperta la cui attenzione ava dagli scritti ai dipinti e da questi tornava a quelli. Aveva l’espressione estatica di chi vola su un tappeto di nuvole e non era chiaro se dentro di sé ragionasse o fantasticasse, perché ognuna di quelle tele pareva raccontarle una storia o confidarle un segreto. Ci fu un silenzio sempre più avido di attese finché Nina apparve convinta che quelli erano dei capolavori originali. Altri sarebbero stati più cauti, ma lei non ebbe l’ombra di un dubbio:
“Potrebbero appartenere al primo nucleo della collezione del feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg, uno dei pochi generali intelligenti vissuti a Venezia. Grazie a lui Corfù venne difesa dall’attacco dei turchi. Alcuni particolari di questa veduta di campo Rialto mi suggeriscono quest’ipotesi. Se dovessimo pensare proprio a Canaletto, sappiamo che il feldmaresciallo gli
commissionò diverse di queste vedute all’inizio della sua carriera. Le altre tele sembrano il frutto della sua grande ione per il Rinascimento. Mi sono imbattuta in questo straordinario personaggio scartabellando nell’archivio storico di una chiesa nei dintorni di Verona, dove lui finì i suoi giorni. Stavo cercando dei documenti su certe opere di Caravaggio di sua proprietà e mi sono resa conto che possedeva decine di dipinti di grandi artisti: Correggio, Parmigianino, Reni, Guercino, Veronese, Vasari. Il feldmaresciallo non ebbe eredi diretti. Contrariamente alla sua volontà, come succede spesso, un nipote si disfece di tutto e vendette in blocco alla Prussia. Ma non è detto che tutto sia ato in Germania. Comunque, queste, se appartengono a un unico blocco, e io credo di sì, sono opere che riflettono la cultura e l’intuizione di un collezionista sui generis. Troppo… troppo bisognerebbe indagare. Bisognerebbe analizzare i pigmenti cromatci, la preparazione della tela, ci vorrebbe uno scanner JP5000 per tridimensionare e controllare le sovrapposizioni e i aggi nella stesura del colore. Penso che dovrei vedere anche il resto delle tele, quelle che avete lasciato all’interno del manto” spiegò Nina invaghita di quei capolavori che il destino le aveva messo sotto gli occhi.
Il sogno
“Ingegnoso e semplice questo nascondiglio! Provvidenziale” disse Nina a Carlo mentre nel sacrario di Canova scucivano i due strati del manto per recuperare tutte le opere ancora nascoste.
Non appena una di queste appariva intera e intatta, lei la tratteneva a sé e la guardava per il tempo necessario a percepirne i tratti essenziali: sembrava un’infermiera alle prese con un’incubatrice da cui estraeva ogni tanto un neonato pronto per uscire alla vita. Era un consistente pezzo di Rinascimento quello che scorreva davanti a suoi occhi increduli. Vero e tangibile come l’antico amore che, per ironia della sorte, adesso le stava vicino. Inevitabilmente, pensò:
“Carlo, hai vissuto lontano da me insieme a questi tesori. Queste opere superano le barriere del tempo mentre noi ne siamo imprigionati. Chi avrebbe mai immaginato di rivederti in una tomba per scucire un mantello da re: sembriamo Schliemann e sua moglie Sofia davanti al tesoro di Priamo. Tanto mi commuovono questi quadri quanto mi corrode l’animo sapere come tra i giovani non esista più l’amore per l’arte. Ma, meglio così, visto che bisogna vendere pezzo per pezzo il nostro patrimonio. Chi se ne accorgerà, chi ne pretenderà la restituzione come fece Canova? Abbracciami Carlo, dimmi che capisci le mie amarezze, fammi annegare nella protezione delle tue braccia. Vorrei urlarti quanto ti ho amato. Sarebbe emozionante dirtelo ora in questa spelonca di morte che non è proprio uno di quei posti romantici dove ho immaginato di stare con te: una spiaggia bianca al tramonto, un mare al chiaro di luna con un pino abbarbicato sulle rocce che ci nasconde agli sguardi. Qui è sepolto il cuore di un uomo, qui aleggia il suo spirito. Caro … eccellentissimo Antonio Canova, perdonatemi se l’amore mi perseguita e vi manco di rispetto, se al momento tragico aggiungo le mie smanie sentimentali. L’arte ci sopravvive e l’amore a. E’ ato in silenzio… mentre queste opere sono così presenti, così vive. Anche voi, per me, siete ancora vivo. Vi penso spesso, sapete? Quando scopro
che un’opera importante è stata rubata o venduta mi chiedo: dove è finita la mite fermezza di uomini come Antonio Canova? Chi fermerà quest’emorragia di soprusi o pretenderà le restituzioni?”.
Il tesoro adesso era cospicuo, mentre il manto s’era sdoppiato, da una parte denso velluto e dall’altra soffice ermellino. Carlo avvertiva la gravità di quel momento e immaginava che fosse la gioia di ritrovare quelle opere ad ammutolire Nina mentre invece lei in testa non aveva che amare conclusioni:
“Trovi un tesoro ma devi nuovamente nasconderlo. Se la Soprintendenza ne fosse al corrente si aprirebbe un contenzioso tra il Nord e il Sud. Il CASPI troverebbe il modo di ignorare le volontà di Canova e queste opere prenderebbero il largo, vendute al migliore offerente straniero. Forse lo scultore vorrebbe che lasciassimo le cose così come sono rimaste per due secoli. Meglio un lugubre nascondiglio che la dispersione e la vendita…”.
Si faceva strada in lei l’idea che quanto avevano fatto fosse inutile e pericoloso per le opere stesse. Adesso era perplessa e confusa, sopraffatta dalla razionalità e da quell’atmosfera opprimente. Il pulviscolo di polvere sospesa nell’aria le aggiungeva inquietudine. Di fronte a lei un baluginare fosforescente prendeva sempre più le sembianze di una persona viva. Le sembrò di vedere spuntare dalla parete un uomo alto, elegante, aristocratico che le parlava con un tono di sottile provocazione:
“Dottoressa Malaspina, ella potrebbe mai pensare che il cuore di un morto possa provare emozioni, trepidare ancora per i fatti della vita? Che possa sentirsi in ansia per questi eventi che sono accaduti improvvisi da quando questo vostro amabile compagno di sventure, questo Carlo, che vi fa soffrire, è piombato qui dentro nottetempo, per sottrarre inconsapevolmente dal marmo del mio giaciglio il manto regale che Giuseppe Bonaparte mi aveva donato? Lei può immaginare che significhi per un uomo il cui cadavere è stato smembrato, mettendo qui ai Frari il cuore, nella natìa Possagno il corpo, in Accademia la mano, subire anche
l’affronto di vedersi sottrarre la ricompensa ai suoi dolori, l’ultimo dono di un imperatore pentito? I morti sono irritabili, non gradiscono cambiamenti e, se avvengono, vogliono le dovute spiegazioni”.
E Nina rispose muta come in un sogno:
“Eccellentissimo Maestro, come posso spiegarvi quanta follìa cresce in questo Paese? Se per via di tremende minacce don Carlo ha pensato di sottrarre alla vista dei profanatori di tombe il vostro manto, ha agito in buona fede. Non è colpevole più di quanto non lo sia io che ho estratto le tele. Io non sono che una pedina insignificante di questa storia, ma voi dovete dirmi che cosa fare di questo prezioso contenuto”.
“Dottoressa Malaspina, ho sofferto per recuperare queste tele. Rivederle adesso con voi è come tornare in vita. Questa nostra Patria è ridotta proprio male. Mi chiedete cosa fare? Siete la persona giusta per capire che occorre mettere in salvo queste opere, trasferirle al più presto a Roma. Avrei dovuto portarcele io, ma non ne ho avuto il tempo: stavo per morire. Non sono riuscito a salvare tutto, a farmi restituire tutto dai si. Ero malato da tempo. Troppe volte parlai invano con l’imperatore, lo scongiurai di fermare le razzìe in Italia. Ma lui con protervia volle andare fino in fondo. Ecco perché questo manto mi è caro: è il segno tangibile del suo pentimento per quello che aveva fatto all’Italia, oltre che per quello che aveva fatto patire a me accorciandomi la vita”.
“Sapete anche della vostra statua trafugata?”.
“All’interno di una chiesa filtrano infinite voci, arrivano mille messaggi. So di voi e anche della statua. La “fanciulla triste” che mi avevano dedicato gli allievi, rubata e sostituita con un’altra identica. Era l’unica con cui potessi parlare... Mi faceva compagnia ma saprò adattarmi alla sua copia. Facemmo copie anche per
ingannare Napoleone e il direttore del Louvre, il pessimo Vivant Denon. Cosucce fatte in breve tempo ma perfette come quelle che si fanno con il laser. Purtroppo nessuno oggi ha l’energia di opporsi al saccheggio. Che Paese è diventato questo, sa dirmelo?”.
“L’Italia non è che un brandello di terra su questo pianeta, anche se brillava per ingegno, cultura e amore della bellezza. Adesso vive nelle tenebre di un futuro disastroso. Temo che non ci sarà un nuovo Rinascimento”.
“L’orrendo Denon mi insultava spesso perché ero italiano, mi chiamava “l’imballatore del Papa”. Mi derideva, e dovetti resistere più d’una volta all’impeto di reagire. Non sopportava la mia competenza, il mio prestigio. Era geloso della stima che l’imperatore nutriva nei miei confronti, identico a certe figure di zelanti odierni, specializzati nel lavoro sporco, che si precipitano a compiacere il padrone di turno fino ad agire talvolta oltre le sue stesse intenzioni. Se fosse rimasto vivo, Napoleone ormai pentito mi avrebbe consentito di riportare in patria tutto il maltolto. Chi si oppose fu proprio quel Vivant Denon, un vero demonio. Mi obbligò a lasciare in Francia molte opere importanti, come le tavole dei primitivi che i soldati si avevano staccato dagli altari delle centinaia di chiese soppresse o distrutte. Voleva a tutti i costi la Trasfigurazione di Raffaello, ma io riuscii a sottrargliela. Non riuscii, però, a riprendermi Le Nozze di Cana di Veronese: era appesa alla parete del suo studio quando mi ricevette. Provai un senso di repulsione: un’opera così importante tra le scartoffie di un burocrate! A difendermi e aiutarmi furono gli amici tedeschi e inglesi non tanto per odio verso i si quanto per amore per l’Italia. Mi sdebitai regalando loro alcune delle mie opere”.
“Maestro, se questi dipinti vengono ritrovati a Venezia, secondo il nuovo Concordato la Federazione Nord ne potrà reclamare la proprietà. Dal canto suo, il Vaticano ci penserà bene prima di commettere quello che potrebbe sembrare un sopruso, accettandoli”.
“Ma si tratta di rispettare la volontà dell’imperatore di risarcire il Papa!”.
“Vi assicuro che su queste cose i nordisti sono attenti. Hanno mille informatori e tecnologie sofisticate. I treni sono sorvegliati, gli aerei lo stesso. I quadri di Fragore sono stati scortati dalla mafia e dalla camorra lungo l’autostrada”.
“Nina, dovete riuscire: io non avevo treni o aerei, solo carri e muli. Avrete un santo protettore, no? Affidatevi a lui. Sapete pregare?”.
“No, Maestro, io non so pregare, non amo pregare: questo potrebbe farlo il nostro vescovo”.
“Io ho visto come una donna sa pregare… Paolina Bonaparte aveva una tale grazia nel viso e nei gesti che un uomo se ne sentiva schiavo al primo sguardo. E lei non era per nulla docile o sottomessa, ma una tigre. Che donna! Pensate che qualcuno se ne innamorò solo ammirando di notte al bagliore delle fiaccole e della luna la statua che le feci. Voi non siete da meno…”.
“State insinuando che devo sedurre Carlo? Ma è un prete…”.
“Carlo non è l’uomo che vi aiuterebbe a trasferire senza pericoli il tesoro. Suvvìa, fate uno sforzo … Ci sarà pure un personaggio influente che potreste convincere, facendogli sperare nella vostra calda riconoscenza…”.
“Io sono lontana da questi espedienti”.
“Nina, siete giovane, piena di vita! Vi esorto a mettete in campo il vostro fascino che è nel pieno del suo fulgore come quello di una Venere vincitrice. Lasciate che Paride vi doni la mela d’oro e vi incoroni regina. Siete la donna più bella che io abbia mai visto. E dire che ho avuto pure delle dee tra le mie modelle...”.
“La bellezza non è tutto. Non è servita a conquistare Carlo”.
“Eravate troppo giovane e sofferente. E lui altrettanto”.
“Può darsi… ma adesso non sarei più capace di essere donna come pensate voi”.
“Non dovete essere donna come penso io, ma come siete voi. Siate voi stessa, e sarete splendida”.
“Continuate a vedermi come non sono e pensate che io possa risolvere il problema con il fascino, ma occorre altro. E’ un’impresa più grande di me, sarebbe meglio lasciare tutto qui nel vostro sacrario”.
“Nina, se siete cittadina della Federazione del Sud e quindi dello Stato Pontificio che ne fa parte, dovete portare queste opere a Roma. E’ un fatto di patriottismo e di rivalsa sul Nord. La loro politica umilia il Papa più di quanto fece Napoleone. Il nuovo Concordato serve a depredare i beni ecclesiastici, lo sapete. E’ peggio di quanto prevedeva quello napoleonico, estorto sotto minaccia dopo la presa di Roma. L’antico conflitto medievale tra potere spirituale e temporale è riemerso tra l’indifferenza di tutti. Oggi non avete neanche gli illuministi, i sostenitori di Voltaire che c’erano allora, ma solo i corrotti. Tuttavia il Nord non vuole Roma. Non c’è pericolo che imprigionino il Papa e conquistino la città. Sua Santità Pio VII Chiaramonti che promulgò le prime leggi di tutela, mi definì indegnamente
“emulo dei Fidia e dei Prassitele”e mi incaricò di vigilare sull’integrità del patrimonio artistico. Ma la dispersione delle collezioni d’arte aveva innumerevoli complici tra i nobili proprietari che dovevano saldare dei debiti o volevano compiacere l’imperatore. Molti approfittarono dei saccheggi per far sparire ed esportare all’estero ciò che doveva restare sotto la tutela del Papa. Esattamente come avviene di questi tempi, senza ritegno. Gli emissari di Napoleone parlavano delle razzìe come di un “buon raccolto” e, se da un lato lo consideravano un legittimo risarcimento di guerra, dall’altro volevano mettere le avide mani su tutto ciò che esisteva di bello, sottraendolo a noi e ai nostri discendenti. La collezione del manto è un bottino di guerra carpito illegalmente dopo l’accordo di Tolentino e destinato a Napoleone in persona. Inutilmente io mi affannavo a supplicare: “Maestà, questi monumenti antichi formano catena e collezione con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma, né da Napoli”. Ma le colonne di carri colmi di rare bellezze proseguirono per Parigi dove furono fatti sfilare in trionfo. Anche le accorate parole del mio amico Quatremère de Quincy servirono a poco. Come se, rischiò la vita per difendere due idee che aveva scolpite nella mente: l’arte quale strumento di istruzione per l’umanità intera e Roma quale museo della cultura europea”.
“Vedo tante similitudini con il presente. Questo potrebbe essere un movente per agire?”.
“Dovete giurarmi, Nina, che completerete la mia missione. Erano queste anche le intenzioni dell’imperatore, più di due secoli fa. Giuratemi che farete il possibile per dare requie al mio sonno!”.
“Maestro, ci proverò… Sì, ci proverò, state certo. E’ tale l’ammirazione che nutro per voi che proverò a essere degna della vostra stima. Ma dovete darmi altre spiegazioni, devo chiedervi alcune cose, non andate via, non abbandonatemi, non lasciatemi sola… non lasciatemi sola… non lasciatemi”.
Al colmo della sua muta implorazione, le si chio gli occhi. Immaginò il rude
Denon e il grande telero del Veronese sottratto ai frati di San Giorgio Maggiore. Era un’icona di Venezia e chissà che pena per gli inermi fraticelli cacciati e insultati. Come a Fragore, con la differenza che qui agirono con l’inganno e la vigliaccheria. Fu assorbita da un vortice di ricordi mentre le frullavano in testa frasi sconnesse. Cominciò a vacillare e si accasciò a terra.
Carlo in apprensione le accarezzava le guance, la scuoteva per farle riprendere i sensi:
“Nina, Nina, rispondimi… Rispondimi, ti prego! Ti manca l’aria? Vieni, ti porto fuori da qui. Santo cielo: è tutta la notte che stai chiusa tra queste pareti. Troppe emozioni! Vieni, bambina cara, appoggiati a me. Sei pallidissima, vieni, usciamo dalle tenebre”.
“Non lasciatemi… Non lasciatemi sola…” ripeteva lei con un filo di voce mentre Carlo l’aiutava ad alzarsi cercando di tranquillizzarla:
“Perché dovrei lasciarti sola? Mi vedi? Sono qui accanto a te, accanto a te, Nina…”.
Cap. VIII
Una rosa
Possibile che Fausto Maria Breviglieri, l’uomo più potente del Nord, il capo dell’Unione Celtica, dopo il fatidico incontro a Pieve Palladiana nutrisse pensieri su Nina?
Le era entrata in testa come un tarlo e ora, nell’ozio della sua villa sul lago di Como, si abbandonava al ricordo di lei, perseguitato dal colore dei suoi occhi e dalla purezza del suo cuore. Il fatto che fosse la figlia di Malaspina aumentava la fatalità di quell’incontro. Indomita, unica, possedeva ideali che nessuno aveva più e un coraggio e una sincerità che appartenevano al tempo di un’Italia migliore. Soprattutto, era viva e lo faceva sentire vivo. Se adesso provava una leggera vertigine a guardare il panorama del lago e di colpo percepiva l’aria che scendeva ad accarezzare l’acqua, gli alberi, la riva e le montagne lontane, era merito suo. Nina: un breve nome per una donna tanto grande, pensava Breviglieri, rendendosi conto che le coordinate della sua esistenza stavano cambiando.
Aveva tessuto le trame della nuova politica, posto le fondamenta della frattura tra il Nord e il Sud, indebolito la coscienza unitaria nazionale, favorito la cieca esaltazione del profitto, avvalorato la contrapposizione tra una Padania produttiva e un Meridione pigro e parassitario. Era riuscito a contaminare i governi fino a ridurli a pedine dei suoi voleri. Aveva creato una milizia di legionari al suo servizio per intimidire e rendere chiaro, a chi ancora fosse indeciso, da quale parte stare. Eppure non appariva, non si mostrava sulla scena pubblica. Solo, chiuso nel recinto di sospetto e di paura che gli aleggiava intorno, tra uno stuolo di fedeli esecutori spesso zelanti anticipatori di ogni sua volontà, viveva privo di affetti e immerso nel terrore dell’unica cosa che non avrebbe mai controllato: la morte. Rari incontri ufficiali, solo affari, poche parole e tanta fermezza nel dirigere l’Unione Celtica. La sua brillante intelligenza non trovò pace finché il partito che aveva creato e cresciuto non divenne forte e
invincibile. Al Nord Breviglieri era il capo indiscusso. Uomini come Binaghi erano solo esecutori senza vero potere, manovalanza parlamentare ormai al soldo dello straniero. Lui no: se solo avesse voluto, avrebbe potuto essere l’Uomo della Provvidenza.
Da giovane, con studi all’estero, fidanzate d’alto rango, ricchezze senza limiti, amici, auto sportive, barche di lusso, non era stato felice. Doveva superare il padre in una gara per una rivalsa ossessiva che gli avvelenava l’anima. Così dimenticò la sua educazione, rinnegò la famiglia, prese a odiare perfino la madre, la persona più mite della terra. Terribilmente intuitivo, aveva fiutato la fine di quel mondo ancor prima che entrasse in agonia per colpa di una mal concepita globalizzazione. Non potendo salvarlo, decise di decretarne la fine insieme alla fine della sua stessa famiglia. Per quello che poté, contribuì con la sua Unione Celtica ad affossare l’unità nazionale che aveva resistito, sia pure malamente, per circa 160 anni.
All’epoca di questi fatti, Fausto Maria Breviglieri era a Milano una specie di contraltare del Papa. Avendo vissuto sempre nell’ombra e lontano da ogni affetto, scopriva col bagliore di un lampo improvviso ciò che aveva sempre scacciato dalla sua vita: un sentimento. O un’infatuazione che, per un uomo del suo calibro e della sua età, era anche peggio. Nina era apparsa e sparita in mezza giornata, lasciando presumere che non si sarebbero più rivisti. Ma da allora aveva in testa lo stesso pensiero: “Se dovessi innamorarmi, è di lei che mi innamorerei”. La fermava nella memoria rivedendo i suoi occhi infiammati dal risentimento e riascoltando le sue parole: “…i quadri della cappella del Battista torneranno in Italia quando il nostro Paese sarà rinato”.
Poteva essergli figlia, e questo gli suscitava un senso di protezione paterna. Con quel suo: “..non vi lascerò distruggere ancora” Nina aveva accusato esplicitamente anche don Frigerio, suo padre. Come era cresciuta così diversa da lui? Ma se lei era davvero un angelo, gli si sarebbe mai accostata? La differenza d’età lo preoccupava, sentiva il rammarico di vedersi coinvolto in quest’alba radiosa mentre era immerso in un ineluttabile tramonto. Poteva bastargli
rivederla anche furiosa come quel giorno, pronto ad ascoltare le sue accuse. Sapeva che col denaro non l’avrebbe mai comprata e allora dava sfogo a una fantasia dietro l’altra galoppando con l’immaginazione, cosa davvero per lui niente affatto congeniale. Allora si immaginava come un benefattore, addirittura un santo pur di farla felice. Anche nel bene l’uomo più potente voleva essere il migliore. Nina lo avrebbe apprezzato e amato come meritava.
Quel mattino Breviglieri doveva recarsi a Milano, al Palazzo della Federazione. L’autista gli aveva fatto trovare davanti al porticato della villa l’ultimo regalo degli Imperi Orientali, una spider Suzuki Panther 6000 rosso amaranto. S’era sistemato al posto di guida e aveva appena azionato il pulsante per aprire la capote quando vide la sagoma inconfondibile di una donna sullo schermo retrovisore. Aveva appena varcato la cancellata d’ingresso e veniva verso di lui scortata da due uomini della sicurezza:
“Ma è proprio Nina? Che scherzo è questo?” pensò, in preda all’eccitazione. “Guardala lì, è un fuoco che sfavilla! Ha le gambe svelte di una gazzella e la camminata di una pantera. La gonna si solleva a ogni o… Ah, se allungasse la falcata potrei vedere più su… Voglio ingrandire l’immagine sul video… Ecco, è troppo bella. Mi confonde i pensieri e mi affatica il respiro. Come ondeggia su quei tacchi, come galleggia morbido il suo seno… Quale richiamo telepatico può averla spinta nell’antro di Polifemo?”.
I romantici pensieri del giorno prima erano stati dunque il preludio a quell’incontro dove l’eccitazione ingovernabile già lo portava a concludere:
“Non ho mai amato prima d’ora forse perché non ho mai visto prima d’ora la vera bellezza”.
Nella mente in tumulto, un unico pensiero: “Che fare?”.
Niente, non poteva fare niente se non darsi un contegno, prendere coraggio e godersi questa scarica di adrenalina pura. L’autista si precipitò ad aprirgli lo sportello e lui scese andandole incontro. Fece un immediato sorriso a cui Nina rispose con altrettanto garbo. Poi Breviglieri avvicinò alle sue labbra il dorso della mano della donna e ne carpì il profumo, la seta dell’epidermide, osservò le dita affusolate che si abbandonavano tra le sue con una arrendevolezza insperata. I come e i perché vennero saltati, eclissati dagli sguardi eloquenti, da quella gioia improvvisa che lei elargiva come un regalo insperato per scompaginare l’ordinata esistenza di un despota.
L’accompagnò verso la terrazza del belvedere che era appena dietro i cespugli di rose e con un gesto repentino, impulsivo come quello di un innamorato al primo appuntamento, sfilò dalle corolle più schiuse tanti petali da riempirsi le mani che accostò al viso di Nina perché lei potesse posare le narici in quel nettare:
“E’ una rosa limone... Sente come profuma?”.
E le lasciò cadere sulle spalle e sul decolté una piccola pioggia di petali. Un omaggio che voleva trasformarsi in carezza. Il profumo era persistente tale da affievolire le resistenze femminili e ammorbidire ogni scetticismo. Breviglieri sembrava un uomo sincero, d’altri tempi, pensò Nina proponendosi di lasciarsi coinvolgere il meno possibile. Forse lui l’avrebbe capita perché le sembrava di scorgere della sensibilità oltre la presuntuosa padronanza dei gesti. Poi lo vide turbato, lesse in lui il dubbio di sentirsi fuori posto in quella scena troppo romantica per entrambi:
“Venga, Nina, c’è qualcosa che vorrebbe competere con i suoi occhi ma si ritroverebbe sconfitto nonostante la sua prepotente bellezza. Ecco: il lago è ai suoi piedi. Bello, vero? Ci può essere un posto più adatto per accogliere Venere?”.
“No, ingegnere, qui è tutto magnifico senza bisogno di scomodare Venere. L’Italia è magnifica e questi angoli remoti, conservati così intatti mi restituiscono l’orgoglio di essere figlia di questa terra. Lei mi fa un complimento troppo grande. Sono una semplice donna che è qui per parlarle, per chiederle qualcosa che non dovrà, non potrà rifiutarmi”.
“Parlare? Perché, invece, non guardare? Guardatemi, Nina, ho forse l’età per confondere una donna con una dea? Io non saprei esprimervi meglio il piacere di rivedervi: ho il corpo e la mente congelati per l’emozione. Guardate, anche il sole sembra offuscato dalla vostra luce”.
“Lei è un poeta… E io potrei essere Giulietta affacciata al balcone, pronta a ripetere: rinnega il tuo nome. Potrei chiedere a un personaggio come lei di essere un altro, di cambiare le sue idee, di agire contro tutto ciò per cui ha vissuto? Potrei chiedere a un uomo colto e intelligente come pochi di vedere nei miei occhi non solo la luce della dea ma il dolore di una donna che soffre per ciò che di più caro vede sparire dall’Italia: l’arte? E, senza confondermi con Venere, posso abusare della sua pazienza e chiederle una cosa che solo lei può fare?”.
“Che cosa l’angustia tanto? L’ascolto Nina, parli tranquillamente”. E per farle sentire tutta la piacevolezza del luogo, le indicò delle scalette che scendevano verso una panchina fatta apposta per parlare sotto l’ombra di un salice sulla riva del lago. Lì lei cominciò a raccontare:
“Conoscete mio padre, don Frigerio Malaspina: io lo rinnego. Sono diversa da lui, non perché mi ritenga perfetta ma perché io provo dei sentimenti, io amo. Amo questo Paese anche adesso che vive la sua divisione. Siamo riusciti a spaccarci in due per gli interessi di pochi privando le nostre menti di emozioni e ideali sostituendoli con un meccanismo arrogante e perverso che abbiamo chiamato “politica”. La stessa, che con la scusa di un federalismo, doveva
ripartire equamente le ricchezze e, invece, ci ha reso entrambi più poveri. Gli affari erano per pochi e al popolo sono rimasti i brandelli di una società in crisi. So di farle un discorso vecchio e noioso, e so che mi ascolterà per mostrarsi cortese. Ma non crede anche lei che saccheggiare, derubare, svendere ci annulli di fronte al resto del mondo e ci tolga l’anima? Ecco, io vorrei recuperare la mia anima. Lei no?”.
“Da tempo la mia anima tace, non saprei davvero trovare rimedio a quello che lei mi dice, Nina. Ormai non c’è soluzione al problema Italia. Le colpe stanno un po’ dovunque, nessuno può considerarsi esente. Non dire, non fare, non dare: questi sono stati i comandamenti di tutti, abbienti, meno abbienti, borghesi, poveri, laici e clericali. Si può dire che io sia il più colpevole di tutti. Ma nessuno ha parlato, nessuno ha protestato: né i politici, né i preti, né la gente. C’è per me una condanna? La pronunci lei, Nina. E che sia dolorosa quanto il rifiuto di un bacio… o di una carezza”.
“Ma non vorreste salvare qualcosa?”.
“Nella mia vita non mi ha mai sfiorato il tarlo del dubbio. Ho agito come può agire l’Adda, qui davanti a noi, che è fiume, poi lago, poi fiume, poi mare; acqua che torna al cielo da cui è scesa, prima dolce e poi salata e poi di nuovo dolce. No, ragionare ci rende incapaci. Se l’Adda avesse pensato, avrebbe deviato il suo corso, avrebbe cambiato e sconvolto queste rive e questi paesi. Guardi il panorama. Da questa immutabilità viene anche la sua bellezza”.
“E’ qui il punto: la bellezza. In Italia, la bellezza è alla mercé di chiunque. E’ indifesa, sola, abusata. E’ la bellezza di un paesaggio, di un castello, un’abbazia, una cattedrale, un eremo. La bellezza di un palazzo storico, di un affresco o di un quadro. Pezzi di uno specchio infranto dove potevamo rifletterci e guardare. Ma oggi chi sa guardare? L’allodola ha scambiato il suo canto con la voce ripugnante del rospo; il giorno non è più annunciato con dolci melodie”.
“Acqua che scorre, Nina. Siamo acqua che scorre. Non dobbiamo chiederci troppe cose, non dobbiamo chiederci perché e come mai. La nostra civiltà tramonta? Tutto svanisce per ricrearsi anche senza di noi. Le cose di cui lei parla sopravvivranno e confluiranno come affluenti di un fiume più grande in altre civiltà. Noi non distruggiamo, semmai dislochiamo qua e là qualcosa”.
“Ecco: qualcosa! Lei considera qualcosa il San Giovanni Battista di Caravaggio rubato dal convento di Fragore? Già, per lei è un oggetto d’arredo. Siamo ridotti a questo. E se questo qualcosa, sia pure dislocato altrove, volesse tornare a noi magari dopo secoli, che fareste? Lo vorreste far tornare a casa come un figlio alla madre?”.
“La pace di questi luoghi è spesso agitata dai venti e l’acqua incupisce e s’increspa come sotto l’effetto di tristi pensieri. Poi tutto torna come prima. La storia può agitare il contesto in cui si muove, ma nella sostanza il mondo resta uguale. Io e lei qui siamo il presente. Ecco, sul presente possiamo agire, insieme. Mi guardi per un attimo negli occhi… Lei è così giovane, fresca, profumata come quelle rose… Potrei non vedere, questo sì potrei farlo. E sa a che cosa mi riferisco”.
“Basterà che non vi opponiate… Anzi, vorrei che facilitaste il ritorno nella città di pietra: a Roma”.
“So tutto Nina… L’ho fatta seguire dai miei uomini e vengo a sapere che lei è a Venezia dopo avere parlato con un certo don Telesio Minniti, una specie di santo veggente, uno di quelli a cui voi del Sud date retta. So che ha cercato il vescovo Santoro e so anche che costui è a Venezia e che nella chiesa dei Frari c’è qualcosa di assai interessante per lei. Quante casualità, e tutte concorrono a creare la storia, non le pare?”.
“A che cosa si riferisce?” chiese Nina, allarmata all’idea che Breviglieri avesse scandagliato anche nella sua vita affettiva.
“Mi riferisco ai Frari e a quel qualcosa che vi sta a cuore, nient’altro. La verità è che non ho voluto sapere di più, anche se avrei potuto. Ciò che so mi basta. Oggi, il suo arrivo qui mi ha sorpreso perché ho smesso di farla controllare da quando il pensiero di lei mi è entrato in testa come un tarlo. Io non posso permettermi simili illusioni, non posso cedere ai sentimenti. Il potere ha un prezzo. Sapevo che il vescovo Santoro era partito senza la scorta e lei sa meglio di me che in parecchi lo vogliono morto. Invece, un uomo come lui è indispensabile alla stabilità del Sud, alla pace tra i clan che non aspettano altro per farsi la guerra. Così, proteggendo il vescovo, scopro che la dottoressa Nina Malaspina è con lui. E se sono al corrente di un antico amore, che lei ha custodito gelosamente, è solo perché i miei segugi sanno captare emozioni e sensazioni anche da poche parole e da lunghi silenzi. Ma, come le confesso di saperlo, così le dico che questa sua antica cicatrice aumenta in me l’ansia di renderla felice”.
Lei si girò verso il lago per celare una tristezza, ammorbidì lo sguardo arrendendosi di fronte alla verità e lui, pronto ad approfittare del momento, a capire quel lieve mutamento nei suoi occhi, prese a sfiorarla dal collo al seno con un petalo che era rimasto nella sua mano. Le spiegazioni erano superflue: lui sapeva! E Nina poteva accettare quella banale carezza come un sacrificio necessario. Fausto Maria Breviglieri come capo dell’Unione Celtica era indispensabile alla conclusione della storia. Quest’uomo che aveva il potere su tutto e su tutti adesso la stava guardando con cupidigia. Lei sapeva di non avere fatto nulla per attrarlo; il suo fascino si riduceva al fatto di essere bella senza neanche volerlo. E ciò era quanto di più eccitante la psiche femminile potesse concepire. Nina era ritrosa ma determinata, provocante ma attenta, arrendevole ma prudente. Solo una donna così complicata poteva distogliere dai suoi precedenti equilibri un uomo come Breviglieri, che continuò il suo discorso con una promessa:
“Perché costruire un argine davanti al fiume della storia? Che sia libero di scorrere. Che sia la prova di un amore pronto a nascere. Che torni pure a Roma ciò che era destinato a Roma. Lei avrà campo libero, nessuno oserà ostacolarla. Dovrò organizzare una scorta e, presumo, un aereo. Avrà i mezzi necessari all’operazione e un uomo giusto di cui si potrà fidare. Lo riconoscerà facilmente: è un cinese. E’ cieco, ma ci vede benissimo perché, incastonati nelle pupille, ha due microtrasmettitori che sembrano due piccole farfalle. Attraverso quelle, è in contatto anche con me. Praticamente, io posso vedere attraverso i suoi occhi. Potrò vederla e lei potrà parlarmi se vorrà o se sarà necessario. Ma, mi ascolti: non dica di noi, del nostro incontro, a nessuno. Neppure a suo padre: non diamo alla mafia l’opportunità di interferire. Comunque, io non voglio sapere che cosa verrà spostato da Venezia. Posso immaginarlo. Lei dovrà rispondere di ciò che farà solo al Papa. Io rinnego me stesso, cambio il mio nome perché possa essere degno di essere pronunciato, cancello la mia storia. Le basta? Ora… posso posare le mie labbra sulle sue?”.
“Ingegnere, lei è sincero? Veramente mi aiuterà, non mi sta illudendo?”.
“Ci sono valori nuovi pronti a sostituire quelli antichi che hanno perso significato. Lei, Nina, è troppo ancorata al ato. Goda il presente e ciò che le offre oggi. Invece illuda me, che cerco finalmente l’amore”.
“Dunque lei, mi lascerebbe portare a Roma ciò che è nascosto ai Frari? Il Nord non rivendicherà la proprietà?”.
“Il Nord è all’oscuro di tutto, non sa nulla. L’ha detto lei: la bellezza non interessa a nessuno. Ma se occorre nutrire una speranza per il futuro, che sia pure Roma a carpirla”.
Anna
Un robusto e benefico temporale cadeva sulle rive del lago di Como e, dall’altra parte del mondo, sulla sommità di un grattacielo di Shanghai, residenza del ministro della Cultura cinese Xao Chan-su, era una pioggia leggera simile a rugiada a penetrare tra i granelli di sabbia di un giardino zen. L’elisuv di Salvo u’Niru si alzava in volo per tornare in Italia. Aveva consegnato la statua di Canova con tutti gli onori. Il ministro l’aveva fatta sistemare sotto una pagoda, accanto alla tomba della moglie Anna.
Le lacrime rigavano il viso dell’uomo mentre la pioggia tamburellava sulla superficie di uno specchio d’acqua creando infiniti cerchi in movimento verso le canne di bambù o le pietre dei bordi. Nulla in quel giardino era spontaneo, eppure tutto era armonico come un susseguirsi di sentimenti. Ogni cosa in quello scenario era frutto di una sapiente regia e la statua della fanciulla era stata pensata come il fulcro di quel miraggio della memoria. Per averla, il ministro Xao aveva pagato un prezzo strabiliante. Per lui non si era trattato di acquistare un’opera d’arte bensì di entrare in possesso della vera Anna, quella che forse l’autore nell’immaginazione aveva intravisto are furtiva in un rio di Venezia, magari rio de’ Frari. La bizzarria di quella somiglianza, che la stessa Anna gli aveva fatto notare ai tempi del loro incontro a Venezia, aveva aperto, e adesso chiudeva, il capitolo della loro storia.
La proverbiale imibilità dei cinesi era sicuramente parte del carattere del ministro Xao. A nessuno era dato intuire che cosa pensasse; tutti ubbidivano alle sue stringate richieste pronunciate con poche parole senza battere ciglio. Sotto la veste di ministro della Cultura si celava il piglio di un autentico generale, forte, pragmatico, geniale. Su quest’uomo ricadeva il progetto di trasformarne una fetta del suo popolo in un’agguerrita forza imprenditoriale da esportare all’estero per sfruttare tutte le potenzialità dei mercati occidentali.
L’impresa con l’ingegner Galan era parte del piano. Decenni di tumultuoso sviluppo economico avevano trasformato la società cinese portandola a dominare i mercati mondiali dei beni prodotti e venduti. Ma presto Pechino aveva capito che l’economia non era tutto. Da qualche tempo la penetrazione cinese puntava al predominio intellettuale e artistico, con investimenti massicci nella ricerca, l’università e la cultura. L’acquisizione di beni artistici dell’Occidente faceva parte di questo disegno ed era stata affidata alla capacità e agli sconfinati fondi del ministro Xao. Il suo progetto era degno della grandeur napoleonica: concentrare in Cina la storia dell’Occidente e custodirne i tesori con la massima venerazione accanto alle testimonianze della millenaria civiltà cinese. Occidente e Oriente finalmente uniti sotto lo stesso tetto.
La collaborazione della moglie Anna, purtroppo prematuramente scomparsa, era stata preziosa al grandioso progetto del ministro Xao. Come il vento incessante può modellare la dura roccia, due elementi apparentemente incompatibili a contatto tra loro possono creare stupefacenti perfezioni. Così Anna aveva modellato il cuore del suo uomo e lui aveva fatto brillare di luce le qualità della sua donna. Se Venezia imputridiva tra i canali, Shanghai innalzava una foresta di grattacieli a conquistare le nuvole e sfidare il mondo. Al cospetto di quella vitalità architettonica, lo spegnersi della città di Marco Polo nella generale decadenza che imperava in Italia era stata una ferita insanabile per la consorte del ministro cinese finché aveva capito che i progetti del marito, per quanto ambiziosi, erano l’unica soluzione che potesse salvare il salvabile. La nostra Nina non immaginava neppure quanto sarebbero stati in buone mani i quadri di Fragore.
Il primo ricordo di Xao, davanti alla statua rapita, fu quello di Anna avvolta come una nuvola in un abito rosa Si trattava della festa dei suoi vent’anni a palazzo Mocenigo Zorzi, d’estate, in una notte di luna piena sullo specchio del bacino di San Marco. Lui era uno dei tanti illustri invitati. Improvvisamente, davanti agli occhi gli apparve la ragazza che aveva incontrato al mattino sul ponte di Rialto. Quella che correva, tentando allo stesso tempo di schivare i turisti. Che inciampò e finì proprio tra le sue braccia. In quel contatto
improvviso, esaurito in una manciata di secondi, aveva provato una tenerezza sconosciuta, una fiammata di sensualità, un trasporto inconfessabile per quella creatura piombatagli addosso come un dono del cielo.
“Sbaglio o ci conosciamo già?” fece lui sorridendo quando l’ambasciatore Venier gli presentò la fanciulla.
“Sì, ha ragione: sono quella di stamattina. Travolgo sempre qualcuno quando corro per Venezia. Il problema è che sono sempre in ritardo. Mi scà, ministro?”.
“Lei è sempre così bella, quando corre, da farsi ricordare così a lungo? Voglio dire: c’è una lista di gente travolta dalla sua bellezza?”.
“E’ troppo gentile! Mi dispiace, ministro, non mi sono scusata abbastanza: saprà perdonarmi?”.
“Bene, le darò modo di sdebitarsi. Potrà guidarmi per la città come un angelo in corsa: ho ancora tre giorni di libertà prima di rientrare in Cina. Non può rifiutare”.
Tre giorni che valsero una vita. Adesso Xao Chan-su avrebbe avuto tutto il tempo di inseguire quel ricordo nella mente. E di viverne altri. Un insolente raggio di luce, di quelli che hanno la forza di oltreare anche la nebbia più fitta, lo avvertì che il nuovo giorno era arrivato. Doveva partire per Città del Capo: tutto l’entourage stava aspettando anche se nessuno aveva osato sollecitarlo. Lasciò la pagoda nel momento in cui la fitta cortina di pioggia cominciava a diradarsi per fare spazio ai colori di un vago arcobaleno, insolito
per quella stagione. Abbozzò uno strano cenno di saluto verso la statua, come per dirle che sarebbe tornato presto. Anna di pietra restava lì ad aspettarlo.
Quei siciliani erano stati di parola: straordinari e precisi!
Lu pisci di lu mari
In Italia, qualcuno era sulle spine e chiamò u’Niru all’altro capo del mondo. Bruscamente chiese se aveva recapitato la merce. Quello rispose con la solita freddezza che la missione era compiuta e che la riconoscenza di Xao non si sarebbe fatta aspettare a lungo.
“Don Frigerio, sono sulla via del ritorno” concluse Salvo che troncò la comunicazione e incupì gli occhi, già scuri come il nero di seppia.
“Strano uomo, questo Niru; è di difficile comprensione anche per me che l’ho visto crescere”, pensava il boss. “Un giorno forse diventerà un capo, non c’è nulla che non sappia risolvere. Senza di lui mi sento perso. Mi è fedele più di ogni altro. Sarebbe un buon marito per Nina, un vero uomo come non se ne trovano più neanche al Sud. Con tutto questo buonismo, questo solidarismo sociale, anche in Sicilia gli uomini veri si sono fatti rari. Lui avrebbe potuto tradirmi tante volte ma non l’ha fatto. Forse aspetta il momento buono o forse vuole vedermi morire di vecchiaia per diventare mio erede legittimo. Prima o poi preparerò le procedure per l’adozione se non sarà possibile convincere Nina a sposarlo. Fimmina ostinata, irragionevole. Fare quella sceneggiata davanti a Breviglieri e Galan, con Sandro Petri che non sapeva cosa fare. Fottutissima ragazza, mi ha costretto a cambiare il progetto coi cinesi! Ho rischiato di perdere il rispetto dell’Alleanza Sudista e ancor più quella di quei porci del Nord. Meno male che Salvo ha accontentato il ministro. Meno male che posso ancora contare su qualcuno. La vita mi sta infliggendo tante sconfitte, a cominciare da quest’unica figlia ribelle. Ribelle fin da piccola. Apparentemente timida, in realtà cocciutissima e silenziosa da sembrare muta. Mai un desiderio, un capriccio, un attacco di superbia. Pareva un santa martire. Mi ha negato l’amore… Chi può scegliersi i genitori? Ho scelto io i miei? Eppure li ho amati. Perché sente vergogna per il nome che porta? Sono stato debole con lei, troppo permissivo. Ho una moglie docile come un agnello e una figlia aggressiva come una tigre.
Chiamarmi papà davanti a tutti: che attrice! Quanta adulazione in quelle parole che non sentivo da anni! Avrei dovuto forgiare il suo carattere, spedirla in America, chiuderla in un’università e affidarla a uno studio legale di New York, imporle di mostrare rispetto a suo padre. Eccola, invece, libera dal mio guinzaglio, fuori dalla mia orbita d’ingerenza e felice di esserlo. E’ figlia di un re e vive come una qualsiasi, una che spreca la sua giovinezza a inseguire un lavoro precario. Solo perché è donna e, solo perché tremo d’affetto per lei la lascio libera di condurre la sua vita. Dunque, sarà u’Niro a continuare la storia della Sicilia. Se riuscisse anche a cambiare il carattere di Nina sarebbe perfetto per quietare le ansie di un padre. Possiedono entrambi la volontà di persone non comuni, la forza d’animo di chi saprebbe affrontare l’epoca che ci aspetta. Presto saremo fuori dall’ingerenza dei preti di Roma. Le banche cinesi sono pronte a elargire il denaro per finanziare la rivolta contro il Papa e la definitiva liberazione del Sud. “Lu pisci di lu mari è distinatu a ‘ccu si l’havi a mangiari”. Ogni cosa ha il suo destino e la Sicilia reclama il suo. Nel Mediterraneo troverà la sua identità, il suo ruolo; sarà libera, governata unicamente dai siciliani. Si tornerà a un sano materialismo, all’antica refrattarietà alle superstizioni della fede. Tutti questi orpelli di altari, croci, calici, questo pregare, questo aleggiare di stupido misticismo rallentano l’economia peggio delle indagini delle procure ai tempi dell’unità. Fottutissima Italia, che ti opponi alla modernità in questa partita per la sopravvivenza globale. Sei una briciola eppure fai gola! Ora ci giocheremo la carta del controllo del Mediterraneo, saremo la piattaforma di lancio per la penetrazione dell’Oriente in Europa. E, siccome noi siamo stati sempre sudditi, sarà meglio avere padroni potenti. Quelli sembrano spietati e indecifrabili, in realtà sono i più civili, appaiono lontani eppure eccoli qua, con un carattere più vicino all’onore dei nostri avi che alle stramberie dei nostri ultimi governanti. Una volta liberi dal predominio politico del cattolicesimo, le altre religioni potranno penetrare e diffondersi. A mescolarsi non sarà solo il colore della pelle. Sarà l’avvento di una nuova civiltà. Avevamo tanta paura di Maometto, mentre era il pacifico Budda il vero antagonista. Voglio proprio vedere che farà il Nord, che ci guarda dall’alto in basso, una volta che la Cina avrà messo radici nel Mediterraneo. Noi, e solo noi, faremo la guardia agli oleodotti. Solo le nostre flotte pattuglieranno Gibilterra, Suez, il Bosforo. Solo noi potremo agire sugli assetti militari e politici del nord Africa. Una terra come la Sicilia, che nessun padrone, tranne la mafia, ha saputo traghettare oltre il secondo millennio stringe patti segreti e chiede a me di restituirle il rispetto. Altro che la muffa delle sagrestie, altro che ceri accesi! Arriverà denaro fresco per muovere i meccanismi inceppati. Allora, Nina: se tuo padre sarà l’uomo incaricato di scrivere la storia dell’isola, perché fuggi lontana e non mi dai
coraggio in quest’impresa? Perché preferisci l’arte a tuo padre? Posso provvedere a un popolo e farmi abbandonare da te? Appena due giorni fa mi sei venuta incontro come una vera figlia, sento ancora la carezza del tuo sguardo… Ma era per salvare una stupida suora… Maledettissimo cuore, che vorresti clemenza e perdono: rallenta il battito, palpita meno, ché sento vicina la resa dei conti, il peso degli anni, il vuoto nella mia vita…”.
Le logge di Raffaello
Il cardinale Alfiero Oderisi, segretario particolare del Papa, aveva riposato poco quella notte per via di certe spinose questioni che assillavano Sua Santità. La telefonata del vescovo Aleandro Santoro, suo amico fraterno fin dai tempi della giovinezza, apriva inusitati scenari, aggiungeva pensieri ai pensieri riportandolo due secoli indietro, alla restaurazione della sovranità del clero, la stessa a cui oggi si era tornati, sia pure in circostanze ben diverse. Aveva ascoltato bene, c’erano di mezzo: un plico, due lettere al Papa, una storia incompiuta che coinvolgeva Napoleone Bonaparte, Pio VII e Antonio Canova. Fantasie o verità? Il cardinale Oderisi non aveva idea di come si potesse agire sotto il profilo diplomatico e politico per fare rientrare a Roma quelle opere d’arte che l’amico Santoro definiva capolavori. Avrebbe dovuto inventarsi uno snodo legale per giustificare una deroga al nuovo Concordato, ma per ora aveva solo dubbi.
Riconquistare una ricchezza sì, ma che fare adesso? Parlarne subito al Papa? Convocare gli esperti di diritto della Segreteria di Stato? Tacere e buttarsi subito alla ricerca di qualsiasi documento attinente negli archivi? Aspettare. Occorreva prendere tempo ed essere cauti. Bisognava valutare ogni conseguenza dell’intervento della Santa Sede. Intanto, era meglio evitare di allarmare subito il Papa, così serenamente ascetico, così sensibile da avvertire il minimo problema come una minaccia alla Chiesa, così stanco di un potere troppo grande per le sue forze in declino. Sicuramente ne avrebbe gioito, ma non avrebbe mai preso iniziative in contrasto con i nuovi assetti politici dell’Italia. Non avrebbe aperto una frattura col Nord. E poi, il discorso di Aleandro era stato affrettato, ermetico, non aveva spiegato tutto. Insomma, prima di agire, occorreva capire meglio. Gli balenavano in testa diverse considerazioni che cominciò a esprimere a voce alta all’amico che non vedeva da tanto tempo, come se lui fosse lì:
“Aleandro, tu parti su un superveloce per Venezia come un comune mortale, ricevi dalle mani della storia un messaggio e un tesoro per un antico Stato
Pontificio che ora, a distanza di secoli, si sta ricomponendo dopo un lungo sonno e comincia a esistere più forte di prima. Tu, Aleandro, vuoi riportare a Roma ciò che le fu tolto, perché la tua fede e la tua coscienza ti inducono a farlo. Per te non esiste l’età, la vecchiaia, la paura, trovi la forza come un eroe biblico di servire Dio, sempre. Sfidare l’Unione Celtica? Solo tu potevi pensarlo, caro Aleandro, unico fratello in questo deserto di solitudine… Sono stati belli gli anni vissuti insieme! Ti sono riconoscente per come mi sei stato vicino durante gli anni di una giovinezza vuota e irresponsabile. Per un giovane è legittimo sbagliare. Adesso il rumore del nulla che circonda questa città pietrificata è così assordante per le mie orecchie che la discesa verso la fine della vita mi pare quasi un sollievo. Se le nostre vecchiaie si muovono all’unisono davanti allo specchio del tempo e la tua canizie assomiglia alla mia, le tue rughe paiono le mie, è pur vero che la tua andatura è più sicura della mia, la tua spina dorsale è più dritta e non somiglia alla mia, afflitta dall’artrosi. Sulle tue mani, seppure avvizzite, non compare un tremore come succede a me. Perché mai? Io lo so perché. Tu nel cuore sei diverso. Nel cuore sei giovane, spavaldo e ardimentoso. Tu sai vincere in nome di Cristo la paura dell’età che incalza. A te la morte non fa spavento”.
Con quei pensieri s’infilò lungo le logge di Raffaello. Prese a camminare, spinto dalla consuetudine, solo per sgranchirsi le gambe, immaginando di essere fuori dal palazzo, immerso nel miraggio di una natura rigogliosa tra alberi dalle cime intrecciate e contorte fino a togliere dalla vista il cielo.
Se il suo piede avesse incontrato gli stessi ciottoli di quella stradicciola sul lago di Como come don Abbondio, forse anche lui li avrebbe scalciati verso il muro. Purtroppo l’opulenza di quel tappeto di marmi non suggeriva sassi da calciare né tabernacoli di campagna con ingenue figure dipinte di anime del purgatorio tra le fiamme.
Volentieri il cardinale avrebbe voluto stringere un breviario da modesto curato da aprire e chiudere tra una preghiera e l’altra mentre il suo sguardo avrebbe spaziato tra le catene ininterrotte di monti. Invece attorno a sé aveva la galleria di
affreschi di Raffaello, con le forme curiose e strane di quell’enciclopedia dell’immaginario che coniugava la bellezza pagana con la teologia, il sacro col profano. Pareti dipinte in cui non c’era un angolo da trascurare, un particolare meno importante di un altro. Tutto era piacevolmente libero e soffuso d’ironia. Ecco, ci voleva la fantasia per vivere e l’autoironia per sopravvivere tra le mura vaticane, specie in quell’estate troppo calda per le sue ormai scarse capacità di adattamento.
“La luce è troppo forte per i miei occhi arrossati; durante il giorno l’aria di questa città, dopo l’umido piacevole della notte, si arroventa fino a diventare incandescente. L’odore rancido e apito di polvere di marmo, di pietre sbriciolate al sole, di pertugi ricoperti di immondizie e nascosti da cespugli cresciuti spontanei mi affanna, mi opprime. Non sopporto la torrida estate di Roma! Meglio vivere la prigionia del palazzo. La sua vastità mi difende dal peso della realtà. La biblioteca, l’archivio sono paradisi salutari per un vecchio come me. Questi i luoghi attraverso i quali posso osservare ciò che resta del mondo. Gran peso essere cardinale quando non se ne ha più la forza. Mi basterebbe avere dieci anni di meno non per essere giovane ma per sentirmi ancora attratto e coinvolto dalle vicende umane” pensava con afflizione, ma anche con tutta l’ammirazione verso l’amico lontano e concludeva:
“Il caro Aleandro, invece, sempre alle prese con l’eroismo, con la santità… E’ rimasto un prete missionario. Non ha mai accettato il linguaggio della sopravvivenza, l’ambiguità della parola, non ha mai preso le distanze dal mondo. Sempre coinvolto in prima persona, non ha mai usato la retorica ma la fede. Fino in fondo condottiero di Dio, difensore della Chiesa come san Paolo. La sua spada è affilata, i nemici lo rispettano e la folla lo acclama per la sua onestà intellettuale, per la semplicità delle sue parole. E’ l’unico che abbia capito la gente come se avesse vissuto mille vite, captato l’anelito di mille cuori, intuito l’impellente necessità di verità reclamata dagli italiani, uno dei pochi ad avere percepito il grido di dolore di chi patisce gli effetti di questa decadenza. E’ stratega di un consenso popolare che lo vede amato perfino dai biechi assassini dell’Alleanza Sudista”.
Sua Santità il Papa
Al tramonto, nei giardini vaticani, il pitosforo rilasciava un profumo intenso attorno alla panchina in pietra che accoglieva Sua Santità nel consueto addio al giorno, durante la bella stagione. Pareva di vedere san Pietro assiso sul seggio primitivo in un paradiso ordinato d’alberi, erbe e fiori in cui volteggiavano uccellini e rondini e ronzavano insetti. La visuale si apriva davanti a una fontana circolare che separava spaziature simmetriche di siepi rigorosamente disegnate a meandri. Negli intervalli fra l’uno e l’altro di quegli spazi verdi erano tracciati vialetti di ghiaia bianchissima e a distanza regolare erano collocati grandi vasi di limoni e qualche statua di ninfa o di satiro che aggiungevano movimento alla precisione ritmica degli elementi vegetali accuratamente sagomati dai giardinieri.
Oderisi, con la consueta amorevole cura aggiustava un cuscino dietro la schiena del Papa. Gli era accanto come un figlio da anni e quella devozione era lo scopo della sua vita. Lo guardava come si guarda un profeta che parla poco ma dice più d’ogni altro. Un uomo di sapienza come lui era una fonte inesauribile di conoscenza, e il cardinale desiderava ascoltarne la voce, entrare nel labirinto dei suoi pensieri. Intanto, nell’attesa di un’auspicabile conversazione, si accomodava accanto a lui, apriva il libro che gli leggeva da giorni e cominciava dal punto dove s’erano fermati:
“…Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta. Questa poi non è una bella cosa, disse Renzo tra sé; se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi?”.
“Sì, è vero! Questa non è una bella cosa… torneremo a vivere nella barbarie…. Ci viviamo già” così Sua Santità congedò la lettura con Oderisi, che si fermò dopo quelle poche righe.
“Santità, ancora oggi è il pane che manca al popolo. Un cattivo governo porta il popolo alla fame e al soqquadro, Manzoni segue lo svolgersi della storia attraverso gli occhi di un uomo come Renzo che non sa né leggere né scrivere. Quali straordinarie verità carpisce dalla saggezza dei semplici!”.
“Oderisi, non sono volubile e ingrato nei vostri confronti. Sappiate che apprezzo molto la vostra voglia di ravvivare in me uno spirito vitale, di alleggerirmi il peso degli anni persino leggendo come a uno scolaro i grandi della letteratura che tanto mi hanno apionato nella giovinezza. Voi leggete, e io nella mente ho già scolpite tutte le parole che ascolterò dalla vostra voce. Ma mi piace sentirle uscire dalla vostra bocca, tento di riconvertire il mio cammino, sono allievo vostro”.
“Allora, Santità, se lo siete, e io umilmente ne prendo atto, vorrei raccontarvi una storia. Ascoltatela dalla mia voce sebbene la conosciate abbastanza”.
“Dite, maestro, vi ascolto…”.
“E’ il 10 giugno 1809. Il generale Miollis issa la bandiera se su Castel Sant’Angelo e Papa Pio VII fa apporre la scomunica a Napoleone Bonaparte sul portone di tutte le basiliche di Roma. Per quanto il Belli e Pasquino gli abbiano cucito addosso rime sferzanti, quel papa fu prigioniero per anni e da tale si comportò, lavandosi personalmente la zimarra e rinunciando a un lauto appannaggio. Il tutto per essersi rifiutato di incoronare Napoleone, reo di avere ghigliottinato un re cattolico. Tutto quello che fece fu limitarsi a benedire lui e Giuseppina”.
“Già, la bella Giuseppina...” interruppe Sua Santità. “Quella che poi un pittore assai famoso ritrasse come Maria Luisa nel quadro dell’incoronazione. Proprio un gran bel quadro. Celebrò per due volte le nozze di questo generale, la seconda volta con la sorella del ghigliottinato. La storia, che cerca vendette, gliela mise al fianco”.
“Pio VII” continuava Oderisi “sembrò vincere il despota con la bontà, come avrebbe dovuto fare un pontefice, lo perdonò in un momento di debolezza e credette nel suo ravvedimento firmando un nuovo Concordato per ottenere la liberazione di tredici cardinali. Poi con una lettera di suo pugno rinnegò quel patto quando si vide nuovamente tradito. Rischiò ancora la pelle durante i Cento Giorni e poi rientrò definitivamente a Roma il 7 giugno del 1815. Esattamente sei anni dopo, Vienna gli restituiva integralmente i domini territoriali italiani”.
“Mio caro Oderisi, per proclamare il cattolicesimo religione di Stato nella nascente Repubblica italiana, il Papa lasciò che il governo se avocasse a sé l’amministrazione dei beni della Chiesa e gestisse tutta la disciplina ecclesiastica. Gran bella similitudine… dopo secoli”.
“Ma che cosa avrebbe potuto fare, Santità?”.
“Pio VII non agitò la spada come Giulio II, ma usò la pazienza. Attese che i tempi maturassero. L’errore di Bonaparte fu di togliere il potere temporale al Pontefice, colpevole di avere appoggiato gli inglesi lasciando che attraccassero le loro navi nel porto di Civitavecchia, e di avere anticipato con questo i tempi moderni. Con tutte le guerre che apriva su un fronte e l’altro d’Europa, Napoleone ebbe la presunzione di annettere Roma e fare del Papa un suo ospite”.
“Però, dopo tanti anni tormentati dalla prigionia, tornato di nuovo a Roma, il Papa ripristinò un regime assolutista”.
“Aveva paura di perdere di nuovo il trono. Non possiamo che giustificarlo, in quel panorama di cospirazioni” disse il Pontefice. E l’altro:
“Una cosa fece saggia: nominò Antonio Canova soprintendente alle antichità e pretese dal governo se la restituzione del patrimonio trafugato”.
“Certo, ma anche lì, si usò la bontà. Troppo si è lasciato in Francia. Col senno di poi, è stato meglio così, visto come stanno andando le cose qui” commentò senza reticenze il Papa.
“In ogni caso, con la sua strategia, alla lunga tenne testa al generale. Qual è la vostra opinione in proposito, Santità?”.
“Cardinale Oderisi, chi sopravvive vince, almeno in politica e in terra. In cielo si è santi, e a noi interessa di più la santità. Ma per quella il cammino è spinoso. Dunque, vi dilettate su Pio VII e Bonaparte? Gran bel aggio di storia per la nostra Europa! Ma le rivoluzioni, le idee, sono poca cosa rispetto all’universo. Avrà avuto il tempo di fermarsi e meditare anche Napoleone, a Sant’Elena, come nostro Signore nell’orto degli ulivi”.
“Santità, a volte penso al destino di Roma nell’impero napoleonico se Bonaparte avesse avuto il tempo di staccarsi dalle sue armate e dai campi di battaglia e vi avesse vissuto in un lungo periodo di pace”.
“Avrebbe fatto un bel piano regolatore, avrebbe iniziato scavi archeologici e avrebbe distrutto a cannonate ogni chiesa. Come cardinale di Santa Romana Chiesa, voi sapreste immaginarvi una città di Pietro senza croci, cupole e campanili? Alfiero Oderisi, siamo destinati a durare nonostante ogni triste previsione. E ora aiutatemi ad alzarmi, vorrei rientrare. La chiacchierata è stata più lunga del solito, stasera. Siete un grande affabulatore, vi approfittate di un povero vecchio. Devo muovere le gambe, come consiglia il dottore. Mi appoggio a voi, sorreggetemi. Certo, non siete poi tanto più giovane di me. Ma fate finta di esserlo per darmi coraggio, lo so. Bravo Alfiero, bravo. Voi leggete per me, parlate per me, pregate per me, tenete sveglia la mia memoria, aspettate da me i giudizi sulla storia, siete un giovanotto devoto”.
“Santità, voi rasserenate il mio spirito. Il mio mare è sempre in tempesta, io vivo in balìa dei flutti; voi camminate sul mio mare e calmate le onde. Mirabilis in excelsis Dominus”.
“Perché, egli ha detto, abbiate pace in me, mentre nel mondo avete afflizione”.
Cap. IX
Venezia de frate Oderisio
Intanto il vescovo decise di visitare l’archivio per verificare l’esistenza dei personaggi menzionati nel plico. L’Archivio di Stato dei Frari sopravviveva grazie a frate Oderisio che, aiutato dalla dilagante avversione per il materiale cartaceo, e pertanto sempre più snobbato dai possibili ricercatori, teneva in piedi un pilastro della storia italiana per il solo fatto che era stato il suo dovere e continuava a esserlo finché il Signore lo avesse tenuto in vita. In questa missione terrena era efficiente senza l’ausilio della catalogazione elettronica, avvalendosi esclusivamente della sua memoria.
Nonostante l’andatura malferma e la vista indebolita dell’ottuagenario, Aleandro Santoro fu ricevuto con gli onori dovuti. Fu fatto accomodare e venne servito in breve tempo di tutti i documenti, gli atti, i testi che aveva richiesto.
“Eccellenza, vi sarete accorto che Venezia non la xe più quela de ‘na volta? La Venezia de nialtri veci, de la nostra vita ada?” chiese frate Oderisio mostrandosi contento di essere al cospetto dell’illustre visitatore e, di potere finalmente dialogare con qualcuno capace di capire le modificazioni epocali.
Dall’alto della sua veneranda età, non capiva certe trasformazioni in atto in laguna da decenni, che a lui parevano del tutto pleonastiche tanto da non poterle definire nemmeno dannose, ma che stravolgevano l’anima nobile di una delle città più belle del mondo, se non la più bella. Più che ai postriboli e alle case da gioco, che erano sempre esistiti, si riferiva all’aspetto quasi del tutto finto e virtuale del centro storico. Non c’era in questo l’intenzione di bacchettare ma di capire. Oderisio camminava poco, non andava a caccia di novità oltre il convento, se ne guardava bene, ma riceveva tutte le informazioni necessarie dai racconti dei ragazzi del pensionato universitario e, attraverso questi, vedeva
meglio di chiunque; così voleva, con sagacia, verificare, attraverso la percezione del vescovo, se anche lui se ne era accorto e se disapprovava il nuovo volto della Serenissima.
“Ci ho vissuto da giovane, per me Venezia è sempre magnifica. Qui non sento il peso delle differenze geografiche tra il Nord e il Sud” rispose il vescovo.
“Ma che dite di tutti quegli schermi giganti addossati ai palazzi lungo i canali? Lo sa, lo sa che tutto quello che ci si vede sopra non è realtà ma frutto del pensiero? La gente pensa delle cose, immagina, sogna e tutto prende forma sugli schermi. Si paga poi per pensare, e abbastanza! Sarà per questo che non si crede più in Dio Padre onnipotente?”.
“Non mi pare di averli notati… Immagino, spero che la gente sogni di risolvere in questo modo i problemi della disoccupazione, della salute, della miseria”.
“Non avete visto gli schermi, peccato! Forse non erano in funzione, li attivano solo in certe ore. Ci sono state proteste. C’è di tutto: odio, amore, invidia, gelosia, lussuria: tutto il calendario. Lì arrivano molti finanziamenti perché è roba che tira, dicono che è per fare sopravvivere la città. Se qualchedun volesse dir a ‘na toseta “te amo” l’andaria sul ponte de Rialto e là el podarìa imaginarse un film par dir la cosa più banale. E paga. Qua, invece, schei gnente. No ghe importa a nissun de l’Archivio de Stato. Le nostre vite de frati le xe stae sempre par sta città illustre anca in sto amaro momento che ne spaca el cuor. Se more frate Oderisio tuta ‘sta roba la va in malora. Ditelo a Roma, o a Milano, eccellenza, che io lo non so più dov’è lo Stato”.
“Loro lo sanno Oderisio, lo sanno già; campate, campate il più possibile” fece il vescovo e, stringendo la mano del frate per trasmettergli tutto il suo apprezzamento, aggiunse:
“Lunga vita, Oderisio!”.
Poi ò a leggere quanto era stato deposto sul tavolo e si concentrò al punto da perdere il senso del tempo. Scrutava riga per riga, sfogliava pagine e documenti. Tracciò degli appunti, e al termine si congedò dal mitico archivista. Non lo aveva aggiornato sul fatto che da Napoli in giù molti di quegli schermi erano già attivi per nascondere le facciate dei palazzi storici venduti. Un’invenzione produttiva. I poveracci di tutte le età facevano a gara per entrare nei sogni di cui diceva Oderisio, ma altro non erano che iperboliche pubblicità del nulla. Il nulla per nascondere il patto delle amministrazioni con i nuovi proprietari: “Noi ti vendiamo il palazzo, tu ci regali il sogno pubblicitario e la città prenderà vita, si animerà di desideri”.
La verifica aveva portato i suoi frutti: un primo testamento di Canova era agli atti con una data antecedente senza alcun riferimento a qualunque tesoro. Questi si erano riusciti a farsi perdonare dallo scultore poco prima che morisse, facendolo tornare a Venezia per la consegna delle opere della collezione Shulenburg e fu necessario stilare un nuovo testamento alla presenza di nuovi testimoni.
Aleandro Santoro poteva dirsi un condottiero della Chiesa come san Paolo, ma lo studio e la ricerca erano incardinati in lui e gli procuravano l’unica vera pace che il suo cuore affannato provava. La storia insegnava che le corone dei re rotolavano a terra a volte facendo un gran fracasso a volte senza il minimo rumore. L’Italia aveva mille storie. Venezia imputridiva e ritoccava il suo aspetto; Roma era immiserita nella gloria del suo ato; le terre del Sud lo reclamavano come un principe.
Nun suda lu santu
Dopo l’incontro di Como Nina tornò a Venezia ed entrò nello studio di don Carlo. Lo trovò inginocchiato a dire il rosario davanti al suo San Gerolamo. Pensò di scusarsi, richiudere la porta e tornare più tardi, ma lui la fece entrare e, senza alzarsi dal pregiato inginocchiatoio frutto della fantasia rococò di qualche eccentrico ebanista di terra veneta, le disse:
“Vorrei parlarti”.
Dall’intonazione della voce trapelava l’idea di una resa, quasi di una confessione. Che ci fosse un lampo di sentimento? Forse lui l’aveva desiderata in gioventù quando entrambi erano scappati dalle rispettive famiglie per trovare conforto nella pratica della misericordia per gli afflitti accanto a don Telesio. O, forse, sentiva la necessità di togliersi un peso dalla coscienza per dire, proprio a lei che avrebbe capito, quanto ancora amasse Maddalena e quanto la sua professione di prete fosse dettata unicamente dal fatto di non trovare un senso alla sua vita e aver perso la possibilità di essere felice. Ma Nina pensava ai sentimenti quando invece si trattava di altro. Dopo i baci di Fausto Maria Breviglieri superò a stento l’emozione di rivedere i suoi occhi, di sentire la sua voce e chiese spiegazioni.
“C’é dell’altro sul sacrario di Canova” affermò Carlo.
“In che senso? Cos’altro c’è da sapere?” domandò, una volta rassicurata dal fatto che non si trattava di riverberi amorosi.
“Ecco… non lo so nemmeno io. Ma c’è dell’altro, sono sicuro”.
“Non lasciarmi sulle spine, Carlo. La situazione è già difficile così. Non possiamo approfittare della pazienza del vescovo, deve rientrare a Cosenza” sentenziò la giovane aspettando l’arrivo del colpo di scena.
“Avevo appoggiato una lampada sul pavimento e ho notato che una delle grandi lastre di marmo ha su un lato una specie di incavo abbastanza profondo che consentirebbe di sollevarla. Che copra un vuoto, una botola, uno di quegli ossari frequenti nelle chiese a Venezia come altrove? Non lo so, tutto è possibile, so solo che la lastra non reca nessuna iscrizione. Quando me ne sono accorto ho provato a sollevarla, ma mi serviva una leva. Stavo per andare a prenderla ma il sant’uomo non ha voluto, non voleva profanare il luogo”.
“Se effettivamente esiste qualcos’altro lì dentro, vale la pena approfondire. Adesso o mai più. Potrebbe essere una lastra di recupero che in origine rivestiva una parete esterna e per questo possiede un incastro laterale. Perché hai taciuto?”.
“Avrei voluto dirtelo la notte scorsa ma eri molto stanca. Sei svenuta tra le mie braccia… Poi erano importanti soprattutto le tele, in quel momento. Non darmi colpe, a volte manca il coraggio di parlare e si tentenna. Nessuno è perfetto, solo nostro Signore lo è. Vorrei anche evitarti di tornare lì dentro. Andrò io stanotte, non allarmiamo il vescovo, non coinvolgiamolo in questo”.
“Carlo, non ti permetto di escludermi: ci sarò anch’io”.
“Meglio da solo: potrebbe contenere un triste spettacolo, forse nidi di topi e di scorpioni” disse sperando di scoraggiarla.
“Sono abituata a certi scenari nelle chiese in abbandono, non sarai solo”.
“Sempre ostinata, eh?”.
“Per te sono sempre una ragazzina incapace…” ribadì Nina che stizzita per l’incomprensione induriva l’espressione del viso, freddava il calore dello sguardo verso l’amico per interrogarsi sui fatti, ritenendo che quello fosse il momento adatto per fermarsi e riflettere. Un caos repentino di eventi l’aveva trasferita da un punto all’altro della penisola mettendola di fronte alla corruzione del vecchio genitore, all’erotismo senile del principe dei manovratori politici italiani, all’insensibilità di Carlo e al monito di Canova. Come poteva non sentirsi incapace? Se esisteva una spiegazione razionale a tutto ciò, non era, in quel frangente, in grado di trovarla. Una frase che la faceva sempre sorridere: “Ammatula ti spicci e fa’ cannola ca lu santu è di marmaru e nun suda” (inutile che ti pettini e ti arricci i capelli perchè il santo è di marmo e non suda) adesso era calzante! Proprio l’effigie di san Girolamo era di fronte ai loro occhi come un testimone muto incapace di agire e fintamente pronto ad ascoltare:
“Perché Canova fa scrivere sul testamento che tutto deve restare ai Frari? Perché parla di un tesoro e non di una collezione di quadri? Da Parigi lui vuole portarla a Roma, ma si ferma a Venezia, la sua malattia si aggrava fino a portarlo alla morte. E’ il destino che gli fa cambiare proposito o subentra qualcos’altro? Forse al vescovo Sartori, suo fratello, sarebbero mancate le forze e i mezzi per completare l’impresa. Non sarebbe stato più giusto disporre rapidamente che la collezione fosse restituita al più presto a Pio VII o, al massimo, al suo successore Leone XII? Perché temporeggiare così tanto? Possibile che, anche tra i testimoni riuniti attorno allo scultore morente, tutti nomi altisonanti, non ci fosse uno a cui affidare l’incarico di condurre a termine al più presto l’impresa? Perché rinviare? Forse, aspettavano il momento giusto? C’è qualcosa che non convince. Anche
Giuseppe Bonaparte non si precipita a testimoniare personalmente al Pontefice della richiesta di perdono del fratello. Perché lo scultore e tutti i personaggi implicati lasciano il contenuto del mantello e il messaggio sepolti nelle tenebre destinandoli al futuro? Vuoi dirmi che un generale, un principe, un legato pontificio, o un politico possa credere che qualcuno in futuro capisca e compia meglio di loro la missione di riconsegna del bottino allo Stato Pontificio, rischiando che nel frattempo chiunque porti via il mantello col suo contenuto? Tu stesso hai temuto che i ladri della statua trovando un oggetto così sontuoso lo avrebbero rubato. Non ti sembra strano, che gente reduce da eventi tanto tempestosi si sia comportata in modo tanto ingenuo?”.
“Non hai tutti i torti…” ammise Carlo.
“Allora, posso esprimerti un pensiero che mi ha folgorato per la sua ovvietà? E se ciò che era nascosto nel manto fosse solo una piccola parte del tutto, un modo per accontentare eventuali ladri profanatori e sviarli da ben altro? E che poi, presi dagli eventi storici e personali, nessuno abbia proceduto né tantomeno parlato?”.
“Ferma, restiamo ai fatti. Nessuno è entrato nel sacrario dopo il 1832, anno della traslazione del corpo di Antonio Canova. Quindi, adesso tocca a noi, cara Nina. Procediamo da qui. Benedetta ragazza, non ti fermi mai con l’immaginazione!”.
“E’ vero, ma essere meridionali induce alla fantasia, e tu non ne hai? Se trovassimo qualche altro indizio ci aiuterebbe a capire meglio che cosa accadde. A meno che questo silenzio fosse per tutti, si e italiani coinvolti, l’unica via d’uscita da una strada pericolosa. Immaginati di avere raccolto immense fortune nelle campagne militari, in città remote, in paesi più o meno lontani, d’avere sottratto ori, argenti, monete, gioielli, opere d’arte, perfino reliquie. E di doverle catalogare e restituire ai legittimi proprietari dopo il pentimento dell’imperatore. Si tratterebbe di un’impresa titanica. Senza contare che l’umiliazione per i bonapartisti sarebbe stata bruciante. Allora Giuseppe
Bonaparte si disfa di tutto questo, chiede perdono e lascia la patata bollente all’ormai moribondo Antonio Canova. Al vescovo Sartori spetterà poi il compito di traslare le spoglie del fratellastro in un grande mausoleo a Possagno, luogo nativo dell’artista, dove al corpo sarà ricongiunta la mano che era conservata nell’Accademia veneziana di Belle Arti. Il cuore, invece, si deciderà di lasciarlo qui, ai Frari. Sartori è l’esecutore testamentario non senza critiche e maldicenze, accusato di avere fatto carriera alle spalle del celebre fratello, di avere accumulato denaro durante le requisizioni si. Accusato perfino di avere modificato il testamento, raccogliendo le ultime volontà dell’artista dette a voce sul letto di morte. Insomma, un personaggio pieno di ombre. Invece, alla luce dei fatti, non si appropria della collezione, lascia tutto così”.
Carlo non poteva darle torto e aggiunse:
“Dopo la morte di Pio VII c’è un vuoto, non esiste una figura di spicco. Austria e Francia si contendono l’influenza su Roma. Resta l’avversione per i bonapartisti. Il pentimento di Napoleone, se fosse stato reso noto, avrebbe spento le pretese della fazione se cambiando di molto gli eventi. Ancora ai tempi di Gregorio XVI c’è un tentativo di colpo di mano del futuro Napoleone III per conquistare Roma e farne la capitale di un non meglio precisato regno d’Italia. I papi vengono eletti dopo mesi di contrasti e litigi e un’enciclica del 1832, la “Mirari vos”, condanna le libertà di coscienza, di pensiero e di stampa ritenute frutto di malvagità. Il controspionaggio scova rivoltosi dovunque. Si proclama per legge l’obbedienza incondizionata del cristiano all’autorità di governo. Insomma, niente di buono e di illuminato tra il clero.
In questa ricostruzione di tempi agitati il presente non si mostrava come il baluardo del progresso, anzi, pareva affondare le sue spine nel ato più fosco. Una spina tra quelle era la promessa allo scultore che l’aveva indotta a cercare Breviglieri:
“Credi che non mi renda conto della difficoltà di riportare tutto oltre la linea di
confine? Se ti scoprono, ti rispediscono in Sicilia e chiudono la chiesa. Se prendono me, mi rinchiudono per una decina d’anni nell’ex convento delle carmelitane di Santa Reparata a Rovigo. Mio padre riuscirebbe a liberarmi, ma tu come potresti vivere col rimorso di avere provocato la fine di questa chiesa? Tu sei stato chiamato a sostituire l’ultimo frate della basilica, quale sacerdote potrà sostituire te? Di conseguenza il complesso dei Frari erà al demanio della Federazione Nord. E io vivrò col rimpianto di avere messo in circolo i capolavori della collezione Schulenburg nelle solite aste truccate per i magnati cinesi”.
“Saremmo dichiarati cospiratori e rivoluzionari, nemici della cultura e del progresso, i veri nemici dello Stato” proseguì Carlo.
“A volte in comunità aiutavo certe ragazzine a nascondere i barattoli di nutella che rubavano al supermercato. Li mettevamo nel tabernacolo dell’Addolorata, dietro il vestito nero della Madonna, sicure che lì nessuno avrebbe curiosato. Avevamo creato una piccola dispensa e, siccome quelle poverette avevano poco da mangiare, non me la sono mai sentita di rimproverarle. Il mio sangue è “malamente” dalla nascita, ma tu Carlo sei stato sempre un santo. Perché non lasci a me l’impresa? Perlomeno lascia che fuori di qui agisca io: tu corri un rischio troppo grande”.
“Tu mi vedi sempre con gli occhi di una ragazzina e trasferisci la tua ingenuità su di me. Tu mi consideri un santo perché non conosci il valore dei santi. Non preoccuparti per le conseguenze sulla mia vita. Entriamo nella piramide e verifichiamo se sotto la lastra del pavimento c’è qualcosa e non pensiamo al dopo”.
“Sì, tu dici bene, ma non puoi sottovalutare quanto ti ho detto e ti assicuro che il pericolo esiste, e serio, anche per il vescovo. Sarà meglio che torni a breve in Calabria o a Roma: non può prendere parte attiva in questo trasferimento della collezione da Venezia al Vaticano. Tu non sai che modi spicci hanno i segugi del
Comparto patrimonio, qui al Nord”.
“Andiamo, allora” disse deciso Carlo. “Approfittiamo del fatto che il sant’uomo è nell’archivio alla ricerca di documenti in compagnia di frate Oderisio. Stavolta attrezziamoci per provare a sollevare la lastra. Ma che sia chiaro: una volta lì dentro, se non respiri e stai male devi dirmelo subito. Siamo intesi?”.
“Credo di farcela e voglio essere con te. Non preoccuparti!”.
Attraversarono la chiesa nel silenzio, senza scambiarsi una parola, sentendosi un po’ ladri e un po’ bambini, un po’ più uniti di quanto lo fossero stati in ato o nei giorni precedenti. Seguivano uno stesso pensiero e un unico obiettivo, mentre la mano di Nina poteva anche stare in quella di Carlo a scacciare la paura per l’atmosfera cupa che aleggiava intorno. Lui sapeva che lei adorava ogni angolo della chiesa e, se osservava il legno pregiato degli stalli del coro e ava la mano sugli intarsi, ne traeva un calore sufficiente a bilanciare il gelido monito dei monumenti funebri.
Lei capiva che Carlo amava la sua chiesa, ma la percepiva solo come un contenitore della fede e, noncurante della morte fisica, mai avrebbe guardato oltre la porta del sacrario se non fossero successi tutti quei fatti. Sebbene avesse sofferto per la minaccia contro l’Assunta, per lui la sostanza che permeava quelle mura era la preghiera. Ma per entrambi, adesso, il desiderio di arrivare a capire si sostituiva alle sottigliezze di qualunque ragionamento.
La pala Pesaro di Tiziano era ata come un lampo che squarcia il buio, e davanti agli occhi di Nina apparve, piena e superba come una colata di lava bianca, la piramide di marmo. In basso, il Genio delle belle arti, con lo scalpello, la gradina e il trapano, gli strumenti della scultura. A sinistra, il leone alato simbolo di Venezia. A destra, le figure rappresentanti la scultura, la pittura e
l’architettura. Accanto alla porta, la copia della fanciulla triste e, alzando lo sguardo, il medaglione col ritratto dell’artista entro un cerchio formato da un serpente che si mangia la coda: l’eternità.
“Fu un vero uomo. Non nascerà più nessuno come lui” disse Nina.
“Resta qui; io comincio a entrare, lascio gli arnesi dello scassinatore e sistemo le lampade. Intanto tu puoi guardare, contemplare come piace a te”.
“E’ vero! Accarezzerei persino questo leone che pare un gatto triste…”.
“A proposito, chissà dov’è il gatto rosso che è venuto a farmi visita qualche giorno fa, prima che tu arrivassi”.
“E’ libero, scappa dove vuole, si ferma quando ne ha voglia e sceglie di fare ciò che gli piace di più”.
“L’hai visto?”.
“Spesso. Amo i gatti che prendono il sole accanto alle colonne dei portali delle chiese diroccate, che salgono sui tetti sfondati, che figliano tra i rovi abbarbicati nelle fessure dei muri di luoghi remoti e svuotati che non servono più. Gatti preveggenti, placidi, tranquilli, assetati di pace e di silenzio. Guardiani delle rovine”.
“Lo vedi che sei una bambina? Trovi il modo di pensare ai gatti, adesso…” fece Carlo sorridendole.
“Ma sei tu che hai parlato di un gatto. Sei tu che mi fai divagare”.
“Sei capace di scrivere un romanzo sul gatto rosso e dai a me la colpa della divagazione: sei irrazionale, egocentrica e presuntuosa! Quella che ho sempre sospettato che fossi”.
“Davvero mi vedi così?” lei lo interrogò ironica. “Non ti sembro invece una vittoria alata che sospinge in cielo l’immagine di Canova? Non posso essere io la fanciulla triste? Così elegante, eterea. La pittura che piange o l’architettura afflitta per la perdita di tale uomo? Lo sai che Canova, a furia di appoggiarsi col fianco sul trapano da scultore per bucare il marmo, aveva le costole incrinate e l’addome livido? Lo sai che il suo martirio non si discosta da quello dei tuoi santi?”.
“Sì, ti ho visto piangere quando scoprivi i capolavori del manto. Potresti essere una magnifica statua piangente per l’Italia che dimentica se stessa. Potresti essere tutto, Nina, il meglio della nostra vita, della nostra giovinezza, dei nostri ricordi, quelli da cancellare e quelli da conservare preziosi come le antiche reliquie di questa basilica. Potresti essere la virtù, la verità, la fede, ciò che diventa indispensabile all’anima. Indossi una corazza più solida dell’acciaio. I tuoi occhi giungono al cuore delle cose e delle persone. Potresti essere tutto… Grazie per essere qui a Venezia”.
“Che belle parole, Carlo. Non ti avevo mai sentito parlare così. Di solito mi tratti da ragazzina, ma adesso ti sento diverso. Sarà la porta scura che dobbiamo varcare, ma è come se tu volessi conferirmi un’aura di perfezione e confessarmi le tue imperfezioni”.
“E’ l’arte che modifica anche i miei pensieri”.
“Certo, se non ci fossero state queste sculture degli allievi di Canova non ci avresti mai pensato”.
“Già, è vero… “ e dopo una pausa di qualche secondo:
“Allora, dottoressa Malaspina, entriamo?”.
“Sì, senza esitare un attimo” rispose Nina seguendolo.
Mirabolanti teorie
Carlo riuscì a inserire una leva nell’incavo laterale della lastra. Questa era molto pesante e solo dopo diversi tentativi si sollevò appena. Il difficile era spostarla per vedere finalmente che cosa nascondesse.
Ci provò scollando il perimetro della pietra dal resto del pavimento e in questo anche Nina lo aiutava. Poi, con altre due leve, la sollevarono di quel tanto che serviva per poggiarla su una trave di legno, arle intorno due corde robuste, staccarla definitivamente e trascinarla più in là. Il distacco liberò nell’aria delle scorie di graniglia sottile e farinosa che si depositò tutto intorno. Se la ritrovarono addosso appiccicata sui vestiti, sui capelli, dentro le narici, in bocca con un sapore amaro. Era stata come un’improvvisa nevicata.
Anche il tempo si congelò in un silenzio di attesa. Forse era stato un errore. Forse avevano causato un disastro, avevano stappato il coperchio della follìa, avevano interrotto il sonno dei giusti. Avevano aperto il vaso di Pandora? Carlo lasciò le corde che imbrigliavano la lastra. Ripresero fiato e si interrogarono con gli occhi, poi lui commentò:
“Chi corre troppo finisce con l’inciampare. Ti sei spaventata, Nina? Abbiamo smosso gli elementi di un ato che voleva restare tale. Ho peccato di superbia. Signore, abbi pietà!”.
“E’ come se si fosse mossa tutta Venezia” disse Nina togliendosi la polvere dalle labbra.
“Ma, a quanto pare, lo sforzo è stato inutile: non c’è il vuoto qui sotto. Mi sono ingannato” disse indirizzando il fascio di luce della lampada sullo spazio liberato dalla lastra dove appariva ancora una superficie.
“Dunque qui sotto non c’è una botola ma un altro pavimento, un’altra lastra…” disse Nina e, mentre con la sua sciarpa di seta toglieva più accuratamente i residui di polvere, continuava “Guarda, Carlo! Guardala alla luce. Ha delle meravigliose venature come tante sottili onde increspate. Ho l’impressione che non sia stato inutile… Non è stato affatto inutile”.
E lo fissava con quegli occhi di giada, scintillanti di luce che pareva la verità vittoriosa sulla menzogna. Come un angelo del paradiso, lei atea, chiese a Carlo di inginocchiarsi e pregare.
“Prega Carlo, come non hai mai fatto!”.
“Vedranno…” aggiunse Nina “toccheranno quella che fu la Pietra dell’Unzione: quella che accolse il corpo ancora caldo di Gesù staccato dalla Croce e che s’intrise del suo sangue mescolato alle lacrime di Maria”.
“Ma cosa dici? E’ una storia antica… Favoleggiata per secoli”.
“Favoleggiata al punto da trovarsi miracolosamente intatta dopo anni di ricerche proprio a Venezia, dove illustri studiosi ritenevano fosse stata portata da Bisanzio. Favoleggiata al punto da trovarsi proprio nella chiesa in cui stiamo cercando un tesoro. Così abilmente nascosta all’ingordigia degli invasori, così
cautamente protetta dai possibili furti sacrileghi".
“Non è possibile…” fece Carlo scettico.
“Perché è la tua fede a vacillare? Perché non credi alle mie parole? Esiste un quadro assai importante di Giovanni Bellini, una Madonna col Bambino, che presenta in primo piano questa lastra come se fosse un piano d’appoggio su cui fare giocare il figlio. Esistono varie ipotesi sulle date del trasporto di questa reliquia a Venezia, ma di certo era in una chiesa pienamente visibile se Bellini la ritrasse nel 1476. Non poteva essere una chiesa dei paraggi? Una del complesso dei Frari demolita dai napoleonici all’inizio dell’Ottocento? O magari proprio questa? Non potrebbe essere stato proprio Canova a riconoscerla e salvarla dallo scempio e a volerla qui nel suo sacrario?”.
“E’ bellissimo seguire le tue supposizioni. Oltre a essere credibile, sei trascinante nelle tue spiegazioni, ma noi stiamo cercando un tesoro dell’armata napoleonica. Nina qui è celato un tesoro…” rispose Carlo.
“Non ti basta vero? Non basta neanche a te, uomo di Dio? Per me, che non sono credente, è la più importante scoperta che potessi fare. Come siamo arrivati fin qui, se non per un atto di fede, se non per la fiducia riposta in quelle carte, per quelle tele che hanno parlato più degli scritti? Ma tu ora vuoi la certezza che questa sia la Pietra dell’Unzione… E l’avrai”.
Prese alcuni arnesi e, senza cercare aiuto in Carlo, provò da sola a sollevarla dalla nicchia in cui era sistemata, prima si adoperò con cautela, poi provò ad alzarne un lato. Ci riuscì solo per alcuni centimetri e capì che era un’impresa impossibile per la sua forza. Non ebbe il tempo di rifletterci quando un improvviso sconvolgimento agitò l’ambiente. Un fracasso, un clangore di ferraglia arrestò i battiti del loro cuore e bloccò il loro respiro.
Carlo a mezza voce parlò: “Se ti giri, vedrai una parte della parete con lo stemma napoleonico aperta di sessanta gradi”.
“Mio Dio!” gridò lei, poi tacque.
Il muro
Come descrivere gli occhi di Nina e di Carlo nel aggio dallo stupore all’incredulità, compreso il terrore di avere provocato un cedimento della struttura di sostegno della tomba? Come raccontare quegli attimi lunghi un’eternità in cui cuore e cervello restarono paralizzati? Dove persino Nina, che aveva aperto un dialogo sincero con il marchese Antonio Canova, senza capire se era stato sogno o realtà, sentiva che avere trovato la Pietra dell’Unzione era più che sufficiente a soddisfare il suo orgoglio di ricercatrice. E lo stesso don Carlo poteva ringraziare Dio perché la pala dell’Assunta era stata risparmiata. In sintesi: cos’altro potevano volere di più un prete e una ricercatrice che avevano visto, vissuto e trovato fin troppe cose?
Avanzarono a i lenti verso la nuova apertura creata dal nulla sul fondo della parete e la oltrearono.
Che cosa mai poteva esserci oltre quel muro che un meccanismo, azionato dalla pietra ritenuta dispersa, aveva aperto e disincagliato dalle croste del tempo? Varcata quella soglia, che cosa avrebbero trovato? Quadri e sculture accatastate, oggetti rari, candelabri, gioielli, un inventario delle meraviglie inutili ma preziose, oppure un trabocchetto da tomba egizia pronto a risucchiarli nel vuoto? Niente di tutto ciò, nulla di prevedibile: solo l’incredibile.
L’intercapedine scavata nei contrafforti laterali della chiesa brillava come se fosse giorno, rifulgeva come il più limpido mattino di primavera. Migliaia di lingotti d’oro erano incastrati come mattoni nella parete e il loro bagliore poteva sostituire quello del sole. Era una muraglia luminosa che si estendeva lungo lo stretto ambiente ricavato tra il dorsale esterno della chiesa e il vano del sacrario e si innalzava per una decina di metri fino alle strutture superiori dell’edificio.
La scoperta di tutto quell’oro li lasciò stupefatti, immobili. Un muro costruito con il massimo simbolo della cupidigia umana si ergeva dimenticato all’interno della basilica, tra quelle pareti che don Carlo aveva sempre ritenuto intrise solo di preghiera.
Se non fosse stato per le infinite casualità del destino, per una statua rapita come una principessa medievale e per la storia intrecciata di due anime pure, per il naufragio di un’Italia allo sbando, tutto ciò sarebbe rimasto celato chissà ancora per quanto tempo.
Quelle tonnellate d’oro erano emerse intatte dal ato. Dunque, era questo il tesoro di cui si parlava nel plico: il tesoro dell’armata di Napoleone. Epico come quello di Re Salomone, cercato senza fortuna da accaniti inseguitori di leggende popolari e da esperti lettori di mappe intorno ai luoghi toccati durante la ritirata dell’esercito se, lungo la Staraja Smolenskaja, dopo che i russi, invece di combattere, incendiarono Mosca e fecero terra bruciata attorno ai cannoni si.
Dall’estate del 1812 fino all’autunno inoltrato, ogni centro abitato, che fosse città, paese o villaggio, venne conquistato e depredato dagli ottocentomila uomini di Bonaparte, che si abbandonarono a uno dei più minuziosi saccheggi della storia. Ma con l’arrivo dell’inverno l’oro non servì a combattere il gelo e la fame, anzi risultò d’intralcio. Quando divenne addirittura pericoloso, tanto da scatenare ammutinamenti tra i soldati, Napoleone incaricò il fedelissimo generale Jean Baptiste Laroche di portare segretamente e in luogo sicuro il bottino ancor prima di giungere a Mosca. Forse anche l’intuizione di un possibile disastro lo aveva indotto a garantirsi un futuro oltre la sconfitta.
“Non torneremo da perdenti se controlleremo l’oro d’Europa… Ne avremo bisogno quando dovremo comprare l’appoggio del nemico” disse al generale
Laroche nel congedarlo promettendogli un ruolo di spicco tra le future cariche imperiali.
Costui era l’unico che potesse portare a termine l’impresa, anche a costo della vita. Un giovane più di altri invaghito del sogno napoleonico, totalmente preso dall’utopia di un’Europa se, imperiale, figlia della Rivoluzione. Con pochi uomini giusti, tanta astuzia e parecchia fortuna, Laroche aveva attraversato terre sconosciute fino a raggiungere il Bosforo, dove era riuscito a imbarcare l’imponente refurtiva su un grande veliero nascondendola sotto un carico di grano e legname per approdare nella laguna veneta.
A Venezia, proprio dentro quella chiesa occupata dalle milizie si, requisita ai frati e sapientemente attrezzata, era stato possibile nascondere il tesoro dell’armata, come nel più sofisticato dei caveau svizzeri. Proprio la gloriosa Venezia, che fu per un po’ se, poi austriaca, poi di nuovo se, ando di mano in mano come una puttana, tradita e venduta. L’eroe che aveva promesso all’Europa la libertà, e che invece troppo aveva elargito in termini di tasse e gabelle, aveva fatto di Venezia il luogo giusto per custodire un tesoro capace di finanziare un altro decennio di guerre.
Sin dal 1809 il complesso monumentale dei Frari era stato requisito e liberato dalla presenza dei religiosi. Da allora fino a tutto il 1813 si erano susseguite parecchie demolizioni, alcune delle quali avevano arrecato danni alle mura perimetrali della chiesa maggiore dell’Assunta. Nella cronaca dei fatti del 1827, anno in cui si conclo i lavori del sacrario di Canova, viene citato tra i pochi si benemeriti dell’epoca un certo generale Jean Baptiste Laroche per avere generosamente finanziato i lavori di consolidamento della chiesa e la trasformazione in archivio di una parte del convento abbandonato. Una specie di eroe misterioso e schivo, la cui figura valeva la pena di approfondire. Di certo, memoria di questi aggi storici si poteva rintracciare tra i documenti dell’archivio col santo aiuto di frate Oderisio. Un monsieur Laroche magnanimo oltre la sconfitta, oltre la cessione del Veneto, oltre l’esilio e la morte di Napoleone. Sappiamo che si recò a Sant’Elena più volte, tante quanto gli fu
consentito dagli inglesi. Raccolse le ultime volontà dell’imperatore e, a Parigi, organizzò il modo per rispettarle; presumibilmente la stesura finale del testamento di Canova fu opera sua.
Napoleone si pentiva delle umiliazioni arrecate al Papa. Si pentiva delle guerre, delle morti inflitte a migliaia di giovani per una causa inutile: l’Impero. Quante dominazioni imperiali avevano visto nascere e finire quei cavalli di San Marco che lui stesso aveva voluto a Parigi per celebrare il dominio sull’Europa? Ma che cosa era l’oro, senza più l’ardore dei suoi uomini e dopo la sconfitta del sogno politico?
Persino Giuseppe Bonaparte doveva avere creduto che il tesoro consistesse nell’ennesimo bottino di opere d’arte trafugate, come una certa pala bizantina d’oro e argento prelevata dall’altare della cattedrale dell’Assunta a Torcello, smontata dei suoi 42 scomparti e divisa tra gli ufficiali. Pertanto, un gesto di umiltà sarebbe parso opportuno, anche per assicurare a se stesso un ritorno non proprio da malfattore, quale fratello del despota. Fece quindi gestire tutta l’operazione di riconsegna a quel giovane generale taciturno e schivo disposto a finanziare i lavori per un grande sacrario da erigere ad Antonio Canova in Venezia, ai Frari. Tutto venne organizzato in silenzio, senza clamore, essendo i si ormai invisi alla Serenissima.
Eseguiti i lavori, fu chiamato a intervenire il Sartori che, ignaro di quanto si trovava al di là del muro appena eretto, acconsentì alla costruzione del sacrario proprio in quel punto e in quella chiesa e infine ricoprì il sarcofago col manto contenente il plico e la collezione di dipinti, in pieno accordo col Laroche. Forse i veneziani non avrebbero gradito che il maestro dormisse tra le insegne e i blasoni napoleonici, ma il fratellastro, l’esecutore testamentario, credette nel pentimento di Napoleone e non sollevò obiezioni dopo tanta inaspettata magnanimità. Probabilmente si lasciò ammorbidire dalle cospicue elargizioni dello stesso generale Laroche per edificare anche il mausoleo di Possagno.
Perfino Canova prima di morire poteva essere all’oscuro dell’entità del tesoro dell’armata. Probabilmente era anch’egli convinto che il tesoro consistesse in quella serie di dipinti di eccezionale pregio che poi furono nascosti nel mantello. Credette anche lui nella generosità dei si che, in un gesto di magnanimità, volevano restituire quelle opere non solo al Papa ma anche a alla città dei Dogi che lungamente aveva foraggiato il mantenimento dell’esercito napoleonico dietro la promessa di una costituzione democratica che non arrivò mai.
A quel punto, l’ambasciatore Canova avrebbe preferito lasciare tutto alla città lagunare, per cui il Sartori non portò la collezione a Roma, ma preferì aspettare che anche in terra veneta si affacciasse un futuro migliore, nonostante che i si avessero affidato a lui la trattativa per la restituzione del tesoro alla Santa Sede. Cosa che non avvenne mai.
“Non ho vissuto invano.… V’ebbero di quelli, i quali furono detti morti perché si trovavano come io mi trovo; eppure non erano morti… Io parlo ancora… male… ma parlo!”.
Chiudeva così la sua vita Antonio Canova convinto di servire l’Italia.
L’oro sottratto all’Europa, ai russi, i nemici di sempre, avrebbe continuato a restare occultato nell’intercapedine delle mura dei Frari. Tecnicamente, almeno, servì per impedire che l’umidità penetrasse più del dovuto nel sacrario a danno delle tele. Se si fosse diffusa la notizia della sua esistenza, se solo se ne fosse ipotizzata la presenza, la città già debole e affranta sarebbe stata messa a ferro e a fuoco. Persino gli ufficiali, che concretamente misero un lingotto sopra l’altro e costruirono quella diga di metallo, sparirono in circostanze misteriose su una nave assaltata dai cannoni inglesi.
Era destino che alla ricchezza si voltassero le spalle e che tutto restasse
nell’oblìo. Queste furono le volontà di un imperatore esiliato, di un soldato eroico, di un artista morente.
Una sagoma scura si stagliò sul limitare del sacrario accanto alla statua della nuova fanciulla triste: i suoi occhi dardeggiavano come un grappolo di lucciole nella notte:
“Portiamo via… alla città di pietra? Non c’è molto tempo… Tin Shu aspetta ordini” disse l’ombra.
Nina non si meravigliò per la tempestività con cui era apparso il cinese mandato da Fausto Maria Breviglieri e, fissando gli occhi fosforescenti dell’uomo, rispose:
“Sì. Portiamo via! La Lastra dell’Unzione è un regalo speciale per Sua Santità. E le tele, mi raccomando, che siano imballate con cura. Vorrei che tornassero in Vaticano sui fatidici carri dell’ambasciatore Canova. Il plico e la lettera di Canova siano recapitati al Papa, ma ritornino poi nel sacrario a dormire un sonno di pace, stesi qui, col manto, sul cuore dello scultore”.
Nina non disse nulla dell’oro. Che fare? Napoleone lo aveva fatto portare in Italia. Ma secondo una certa logica apparteneva alla Russia. Eppure: non era, oggi, la penisola italica depredata dei suoi tesori dalle potenze straniere? Non erano proprio gli oligarchi russi tra i maggiori accaparratori di abbazie e conventi, di chiese sconsacrate e di palazzi storici? Ecco quindi che una compensazione poteva rimediare almeno in parte al danno subìto. Se in un’ottica legalista come quella del buon vescovo Santoro tutto avrebbe dovuto essere restituito a Mosca, per Nina e Carlo questa sarebbe stata una nuova sciagura. Con quell’oro, i miliardari russi avrebbero comprato altri siti fra quelli rimasti, altre opere si sarebbero portate all’estero.
Una decisione doveva essere presa all’istante. Lasciare lì quell’oro a fare ancora da sostegno alle mura perimetrali della chiesa, chiudere la porta della tomba di Canova in attesa di un nuovo mondo? Oppure?
“Oppure...” disse Nina a don Carlo guardandolo negli occhi con un’aria di sfida che il prete sulle prime non riuscì a decifrare. “Oppure utilizzarlo come meglio non si potrebbe”.
Fissò gli occhi del cinese, penetrò con lo sguardo quelle pupille a farfalla e si mise in comunicazione con Breviglieri affermando: “L’oro sarà affidato al vescovo Santoro che lo distribuirà secondo il suo giudizio al Sud più povero e umiliato. Alle fabbriche dismesse ma ancora recuperabili con gli opportuni investimenti, ai senza casa, ai senza lavoro e senza futuro che popolano quelle terre. A tanti miei amici e colleghi ricercatori che non hanno scelto le mafie e credono in quello che fanno”. E rivolta a don Carlo: “Potrà l’oro sottratto con la rapina trasformarci? Potranno definirci ladri? Potrà la giustizia divina colpirci con la sua spada? Avrà questo coraggio?”.
Quando nel sacrario tacque la voce di Nina, la solitudine di quei muri tornò all’ordine naturale delle cose. Chi mai avrebbe sospettato che da quel pertugio di morte stava per uscire la speranza? Chi, oltre all’uomo più potente della Federazione, avrebbe mai saputo? E se Breviglieri avesse tradito la promessa fatta a una dea come Nina, quale recesso dell’inferno avrebbe mai potuto accoglierlo?
La piramide perse così il suo tesoro. Le restò solo il cuore dello scultore che per Venezia aveva tanto sofferto.
In quella notte tutto sparì dal sacrario. Il carico straordinario fu prelevato e trasferito via mare fino a Torcello e da lì seguì il piano di trasporto al Sud stabilito da Breviglieri. Tutto si svolse nel silenzio della notte. La città virtuale dipinta sui muri elettronici inseguiva i desideri nelle case da gioco e nei postriboli mentre il denaro scorreva come l’acqua dei canali dalle tasche dell’uno alle tasche dell’altro fino al primo chiarore dell’aurora, quando le nebbie si staccarono definitivamente dallo specchio scuro della laguna.
APPENDICE FOTOGRAFICA
1) La chiesa dei Frari a Venezia e il quartiere ( sestiere) di San Polo in una stampa del 1486.
2) La chiesa scana di Santa Maria Gloriosa dei Frari (fondata nel 1250) e la chiesa di San Rocco prima delle demolizioni napoleoniche in una stampa del ‘700.
3) La chiesa dei Frari oggi, col Rio de Frari e il ponticello.
4) L’interno della chiesa con l’abside, l’altare e la pala dell’Assunta di Tiziano.
5) L’ Assunzione di Maria, di Tiziano Vecellio, olio su tela riportata su 21 tavole di legno disposte orizzontalmente (3,90x6,90) , 1516-1518.
6) Autoritratto di Tiziano Vecellio da vecchio (1562).
7) La replica dell’Assunzione di Maria di Giuseppe Porta detto il Salviati che sostituì per un secolo sull’altare l’opera di Tiziano, sfuggita alle razzie napoleoniche grazie a Canova ma trasferita alla Pinacoteca dell’Accademia nel 1817 per volere degli austriaci.
8) L’elemosina di Sant’Antonino di Lorenzo Lotto (1480-1556/57), chiesa di San Zanipolo, Venezia.
9) Le Nozze di Cana di Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588), olio su tela, 1562.
10) Le Nozze di Cana di Paolo Veronese al Louvre (per il trasporto la tela fu tagliata in strisce orizzontali e danneggiata irreparabilmente).
11) Copia digitale (ottenuta con uno scanner speciale) eseguita dall’artista inglese Adam Lowe delle Nozze di Cana e ricollocata nel Refettorio Palladiano della chiesa di San Giorgio Maggiore dove era in origine prima delle spoliazioni napoleoniche.
12) I lavori nel 2007 per la collocazione della copia nel Refettorio privo degli arredi originali.
13) Venezia e l'isola di San Giorgio maggiore.
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by Luca Calcinai