PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.
OSTIUM DEI Autore: Paolo CAIANIELLO
Editor: Serenella FERRARI Progetto Grafico di copertina: Cecilia FORLANI
Dedica dell’Autore
A te, a me, ai nostri spiders…
Paolo CAIANIELLO
OSTIUM DEI
I
La partenza
«Piangi?» «Sì…» «Perché?» «Poco fa, rovistando in soffitta, ho trovato una scatola con dentro un vecchio libro dal titolo insolito, sfogliandolo ne è scivolata una lettera senza alcun indirizzo, con una data a margine, “15 agosto 1960”. Non volevo aprirla e invece...» «Di cosa parla?» Elena, seduta scalza sul pianerottolo con i capelli arruffati che le coprivano il viso, avvolgeva in grembo un cofanetto arrugginito di biscotti “Doria” con vecchie foto in bianco e nero sparpagliate intorno. Stropicciandosi gli occhi sulla vestaglia di lino si asciugava le lacrime, che dispettose riscendevano copiose. Toccata nell’anima, con esile forza, emise quel malinconico suono lontano di voce naufragata. «E’ una lettera d’odio e d’addio. Credo appartenga a mio padre e non immaginavo questo lato oscuro della sua vita. Una sofferenza incontenibile. Sai
una cosa Paolo? Se un giorno dovessi aspettarne una, non vorrei mai che fosse come questa. » «Posso leggerla? » «Sì… è che averlo fatto adesso che stai per partire mi rende più triste.» «Elena starò via pochi giorni e poi che c’entra l’addio?» Mi accovacciai sorreggendo la schiena alla balaustra, lei mi porse la lettera e scappò via, ancora piangendo. Di quel foglio ingiallito mi colpì la bella calligrafia stesa in china rossa, la sua linearità, l’assenza di sbavature e tentennamenti, come se ricopiata in bella. L'amore che vive nel dolore. Non esiste peggior modo per descriverlo in questo tempo di distanze. Ho tolto dal fuoco la teiera e versato l’infuso per una sola tazza, un solo cucchiaio e una sola zolletta, perché è da solo che vivo adesso. Mi sono sdraiato sotto al portico di casa, prostrato come girasole al fievole chiarore del tramonto, alle selvagge nuvole che arriveranno buie per ammantare questa luna incollata, al vento che alzerà polvere nelle narici, a questa terra severa che saprei anche mangiare. Scrivo parole d’addio a domande accartocciate di rabbia sapendo che mai vedranno un francobollo, e staranno qui, in silenzio, tracciate da un tempo che non perdona, unite, per sempre. Odio, credo sia questo che provo per te. Guarda bene, osserva questo viso fiaccato da lividi e colate di sudore che invano ha provato a difendere le ragioni dell’amore, a reagire, schivare, attaccare… ma i tuoi colpi, uno dopo l'altro, arrivavano a segno, ora allo stomaco, ora alla testa… ora al cuore. Ho perso e non so a quale ripresa, eppure ogni volta, l'amore folle imbruttiva il viso per combatterti, ma tu… tu eri così spietata, piena di vigore, sempre più forte che saltellavi sulle punte come ballerina della Scala. Lo so, hai vinto tu Paura, ma c’è una cosa che non sai; tra poco, appena spengo tutto, starai lontana dai miei sogni ed io con lei a baciarla ancora, vigliaccamente.
Avrei voluto abbracciarlo, conoscere cosa l’aveva costretto a perdere ciò a cui più teneva al mondo. In quelle poche righe parlava tutta l’orfanità del cuore per una paura che non aveva saputo vincere. Elena aprendola aveva cancellato le sue parole e adesso le piangeva, sapendo che dovevano restare lì, unite, nel dolore, per sempre.
II
Domenica 2 agosto 2011
Aveva reagito proprio così alla notizia della mia partenza, piangendo, cercando un appiglio per dissuadermi, dandomi persino del folle. «Trovo assurdo partire senza preavviso, in barba a tutti gli impegni che in questo periodo hai a Gorizia.» «Elena, ti ho già spiegato che ho fatto un sogno che m’invitava a rivedere i miei cari estinti, e intendo seguirlo.» Dolente, si era chiusa a riccio, oramai si era abituata alle mie assenze periodiche pur non avendo mai accettato silenzi e bugie, ma quella lettera adesso aveva spaccato ogni cosa, aperto il suo cuore, vinto l’insistenza. «Elena solo sette giorni.» «Sette giorni?» «Solo sette...» «Promesso?» «Promesso!» Un fascio di luce attraversò i suoi lucidi occhi azzurri, illuminandoli d’infinito. «Anch’io ho fatto un sogno, ma lo saprai quando ci rivedremo.» Raccontarle quella verità celata da anni, ecco cosa avrei dovuto fare, invece avevo scelto di tacere sin dal primo giorno che c’eravamo conosciuti. Come fa una donna a capire e star zitta per anni? A intuire che esistono stagnanti bugie che sfiorano verità nascoste? Sarebbe giunto il giorno in cui ci saremmo
seduti su una panchina del mondo e avremmo parlato. Alex nel vivo della discussione si era offerto d’accompagnarmi, vincendo senza sforzo la debole resistenza della madre. Con euforia aveva preparato tutto l’occorrente, stilando una lunga lista delle cose che ci sarebbero servite e, man mano, sistemandole nelle valigie, le spuntava dal taccuino. Non possedeva nulla che assomigliasse al mio innato disordine. «Papà, mi raccomando, non fare come sempre, cerca di ricordare bene tutto quello che serve.» «Certo e poi con te accanto cosa vuoi che sfugga!» «Hai per caso scordato quando abbiamo dovuto spedirti i documenti? Stavolta vedrai che non ci mancherà nulla.» Dopo ottocento chilometri di autostrada uscimmo dal casello di Capua imboccando la provinciale che la collega a Grazzanise, in meno di quindici minuti l’agognato viaggio sarebbe giunto a termine. La strada era proprio come la ricordavo, sconquassata e maledetta, con buche profonde simili a bocche spalancate di draghi sputa fuoco, pronte a ingoiare e rigurgitare quel catrame che indarno tratteneva sassolini erosi dal tempo. Uno spettacolo che nessuna giostra sapeva offrire, un mare in movimento sul quale raccare. Il Suv sballottava richiedendo continue correzioni di polso, tanto da farci sembrare catapultati in uno di quei Camel Trophy che un tempo si disputavano nelle lussureggianti foreste del Borneo e l'unica accortezza possibile era ridurre al minimo la velocità. In quest’angolo di mondo tutto si lasciava scorrere da una sorta di rassegnazione collettiva e gli anni parevano aver accentuato ancor di più il divario con il nord. L'A.N.A.S., la società che gestisce questi tratti di strade provinciali, ha come unica accortezza quella di tenere i cigli puliti almeno una volta l'anno. Non tagliano i rovi, li bruciano. In quel tardo pomeriggio ancora si alzavano dai fossi inceneriti scie maleodoranti, restituendo ai anti il triste spettacolo degli incivili. Bottiglie di plastica, buste sfilacciate, oggetti di ogni sorta lanciati anzitempo dai finestrini; persino un cesso rotto affiorava tra quel grigio-nero, qualcuno aveva deciso che una vita di merda non bastava. Nel lento percorso incrociavamo vecchi trattori Fiat color ruggine con rimorchi sobbalzanti privi di qualsiasi indicatore di sicurezza che da ignari padroni della strada, costringevano
le piccole utilitarie variopinte, con pezzi presi al mercato dello scasso, ad accostarsi ai cigli. Avevo sentito da mio zio che in queste zone le auto non le compravano nuove perché c'era il rischio di vedersele sottratte, subendone il cosiddetto "cavallo di ritorno". Il nuovo suv era una delle preoccupazioni di Elena che, come vano ultimo tentativo di salvarlo, aveva chiesto che andassimo in treno. «Non hai nemmeno l’assicurazione furto e incendio… e se te la rubano?» «Nessuno ruberà nulla!» Avevo risposto. «Mamma nessuno ci ruberà nulla!» Aveva bissato Alex. Nella terra dei fuochi è la domenica dei contadini che lasciano riposare i campi, il dì della messa delle undici che spezza il ritmo della faticosa settimana. Svegli di buon mattino accudiscono solo del necessario gli animali poi vanno a lavarsi, sbarbarsi e lisciarsi i capelli con la brillantina Linetti, indossando abiti impacciati in pendant con scarpe sformate in finta vernice. Visi bruciati di sole, solcati da rughe profonde di fatiche, si perdono in colletti di camicie azzurrine, stringendo sottobraccio massaie dalle lunghe trecce avvolte sul capo, salgono i gradini del credo, fieri di ascoltare il Verbo. Nella giornata dedicata al Signore, anche le prostitute osservano il riposo del corpo, una vera sofferenza per i clienti avvezzi e gli impietosi lenoni costretti a fingersi umani. Nel lento percorso oltreai un platano fasciato da un filo arrugginito che a stento reggeva una croce di legno e uno sbiadito mazzo di fiori di plastica. La mente impiegò millesimi di secondo per estrapolare dal grande accumulo di ricordi quello di Andrea, figlio di Zio Tommaso, barbiere preferito da mio papà, che col suo centoventisette verde oliva a cinquanta orari, ci perse la vita. Posai gli occhi sul contachilometri, segnava sessanta e proprio non riuscivo a capacitarmi di come ci fosse morto a cinquanta. Negli anni settanta quelle scatole avevano come unica protezione la Madonna dell’Arco attaccata al parabrezza, la quale, non sempre miracolava. Andrea… buono come il pane, spesso lo vedevo percorrere il tratto di via Annunciata sottobraccio alla madre Nicole, una donna straordinaria che i paesani chiamavano: “La se” senza aver mai capito se tale appellativo fosse per il modo di baciare, per l’erre moscia o se veramente fosse se. Nicole aveva quel modo strano di assaporare la
vita, così libertina, estroversa e spensierata, fresca come rugiada di primo mattino, noncurante degli occhi della gente bigotta che spesso interpretava quei gesti come appartenenti a una “malafemmina ”. Impossibile dimenticare lo strazio atroce di quel giorno di settembre, quando davanti all’uscio della bottega trovò ad aspettarla il buon Armando. Scese gli scalini della macelleria adiacente avvolta in un vestitino azzurrino fasciato “a tubo” sino alle ginocchia. Dal lungo collo le scendeva una cascata di collane d’ambra che le sbatacchiava sul piatto ventre a ritmo del mio cuore, calzando scarpe beige con tacco dodici che emettevano colpi secchi da sembrar spaccare quei gradini di marmo. Sfilava dal cartoccio piccoli pezzi di carne cruda che assaggiava come mortadella e che, in un istante, come ostia consacrata, le rimase attaccata al palato. La vidi svenire davanti ai miei piedi, all’istante, e fu come guardare un angelo cadere dal cielo. Dopo la morte del figlio scomparve per sempre nel dolore ed io, da quel giorno, non so perché, cambiai anche barbiere. Radio 105 cancellò quel lontano ricordo con l'ultima canzone di Adele, così bella e gradevole che invogliava a seguirne la melodia. L'inglese scolastico l’avevo dimenticato da un pezzo e le poche parole note le canticchiavo strozzandole in gola come lamenti di gatto in calore. Ogni tanto guardavo Alex dal retrovisore, come aspettandomi un secchio d'acqua gelata addosso. Quel tratto di strada nemmeno tanto lungo cominciò a scavarmi l'anima come talpa cieca, metro dopo metro, e più mi avvicinavo al luogo atteso da anni, più l'adrenalina fluiva veloce nel sangue per far battere il cuore all'impazzata. In una frazione immisurabile il cervello elaborò sequenze d’immagini nitide evocate dalle più recondite aree, mettendole a fuoco davanti agli occhi come un piccione sul davanzale di una finestra. Il battito del tempo accelerò incatenandosi a un sogno, e d'incanto, come quando si apre il sipario in un teatro, apparve quel bambino dagli occhi marroni e pantaloncini corti che percorreva, con le gambe tozze, quei desolati campi zollosi, arsi da quella ignita estate del ‘76. Apparve con l’inseparabile borsetta blu dell’Alitalia a tracolla e con una canna verde di bambù sradicata alla madre terra con faticanti torsioni a cui teneva legato uno spago per salami e un tappo in sughero. L’Agnena era la meta, l’alveo dal breve corso che si gettava nel Volturno, il posto felice dove vivere una giornata di pesca. Quel posto rappresentava il rifugio, l'isolamento dalla quotidianità, il desiderio di catturare pesci giganti da mostrare ai genitori, nella fanciullesca ignoranza del fatto che in quell'affluente vivevano solo rospi, rane e
girini. Trascorrevo lì i giorni estivi, sotto un piccolo albero d’acero, tra la quiete estiva di quelle sponde terrose, affacciandomi ai bordi di una vita ancora da esplorare, alzando lo sguardo al cielo per fantasticare, ignaro del destino che mi attendeva. Quell’improvviso tuffo nel ato, quell’essermi rivisto bambino, divenne un tutt’uno col presente, ricordandomi l’assonanza di quel viaggio intrapreso. Fu cenere a divenire fuoco e istintivamente, all’incrocio di Brezza, anziché dirigermi verso Grazzanise, svoltai verso la campagna dell’infanzia, distante solo pochi chilometri. Alex accortosi del cambio di direzione, allungò il collo con l’eleganza di un cigno, inarcando le sopracciglia quasi a farle arrivare all’attaccatura dei capelli, quando s’avvide che sul navigatore quel piccolo triangolo nero s’era allontanato dalla bandierina a scacchi. Rimase dapprima in silenzio, aspettandosi una spiegazione, poi stanco dell’attesa, disse: «Papà, dovevi girare a sinistra! Ti sei dimenticato la strada?» «Lo so Alex, ho solo voglia di vedere un posto… staremo poco.» Quando giunsi sul luogo, stentai a riconoscere il piccolo viale che portava alla casetta di campagna, aprendo al corpo l’ennesima crepa viscerale di ricordi. Sarei dovuto rivenire a giorni in quel posto, ma non avevo saputo resistere al richiamo di vedere ciò che non era più. Fermai la macchina osservando la campagna appiattita, annullata, disgregata. Com’erano lontani quei giorni, pieni di uomini e animali, fatica e risate, fatti di poco e tutto, dove ogni cosa aveva sapore. Testimoni del aggio di quegli anni erano poche file di mattoni caduchi e neri ridotti a forma di gruviera, occupati da immobili lucertole che regolavano la temperatura corporea. Tutto ciò che rimaneva di una masseria dell'epoca fascista marchiata O.N.C. era sotto i miei occhi. Mosche ronzanti si calavano su sterchi secchi e tutt'intorno allo stradone abbondavano fazzoletti di carta sgualciti e preservativi. Del cortile non vi era più traccia, niente più cani, anatre e galline a gironzolare. Tutto era vinto da bardane, ortiche superbe e roveti che avvinghiavano fili spinati arrugginiti. Dov’era mia madre che ramazzava il cortile, dove mio padre che spezzava la schiena nei campi? L’abbandono aveva vinto la sua battaglia tanto che neanche l’odore di quell’erba secca paglierina era rimasto uguale.
Fuori dall’abitacolo la temperatura era eccessiva e attanagliava il corpo in una morsa, rendendo affannoso il respiro. Feci quattro i fissando l'appezzamento di terra incolto che arrivava sino alle degradate canalette d’irrigazione che un tempo collegavano l'Agnena. Questo era il posto dove aspettavo qualcuno da un interminabile tempo e che avrebbe messo fine al lungo viaggio iniziato da bambino. «Papà è quella la campagna di cui sempre mi parlavi?» «Quella? No amore non ci somiglia proprio, non più.» Spensi la radio e le immagini, almanaccando invano una banale bugia, riaccesi il motore e ripartii. Superato il Volturno, con braccia aperte simili a uno spaventaeri, c’era il paese natio. Immutato, vecchio e mai antico, disgregato. Dalla torre dell’orologio morto da sempre, un lungo filare di case tagliava il paese. Aggiustate alla peggio davano la percezione immediata di un luogo che non aveva mai avuto la forza e la voglia di alzarsi. Colori sbiaditi, muri fradici rattoppati a macchie di calce bianca incorniciavano marciapiedi sgangherati traboccanti di erbe selvagge. In tempi ignoti questo paese portava il nome di “Campo Stellato” ma le cronache raccontano che cambiò denominazione in Grazzanise perché fu affidato a una famiglia ricca romana i “Graziani”. Francamente trovavo bello l’antico nome. Un paese non dissimile da tanti altri che lo circondavano, dove ognuno era stato costretto a improvvisarsi di volta in volta muratore, carpentiere, falegname o pittore. Non c’erano parchi per anziani né luoghi dove i bambini potevano giocare in sicurezza. In quest’area di settemila anime abbondavano solo i bar. Da sempre, come un rito scandito, gli uomini della domenica li affollano di chiacchiere e caffè in attesa della fatidica frase "La messa è finita andate in pace" e del coro unanime "Rendiamo grazie a Dio". Uomini beceri, astanti, dagli sguardi fatui che nascondono in corpo tutta la ferina bramosia del possesso carnale. Quel momento domenicale, ancora oggi, rappresenta uno dei pochi piaceri che la vita paesana si concede. Le donne sotto i rintocchi delle campane, come saltellando su braci ardenti, sfilano verso casa col o deciso, attraversando erelle di sguardi famelici e malelingue che sprecano e imprecano ignobili aggettivi che mai oserebbero
proferire con le consorti, corroborando il loro ancestrale istinto animale. Ricordo però con piacere Tonino, uno dei pochi scialbi romantici innamorati. Abbacinato da Marzia, sceglieva in anticipo i posti migliori per sferrare i suoi attacchi da latin lover. Sfilava fasulli Rayban dal taschino della camicia inforcandoli con lenta maestria, facendosi penzolare dalle strette labbra un mozzicone di sigaretta che sbuffava come un treno a vapore, emulando alla perfezione la tipica posa di Clint Eastwood nel film "Per un pugno di dollari". Anziché il cavallo montava una vespa bianca di cilindrata 50 truccata a 125. ava, riava, accelerava, suonava e sgommava per poi sostare dopo decine di metri e ripetere la scena. Un copione sempre identico che purtroppo portava pochi frutti. Tonino prediligeva film d’amore, dai quali aveva assorbito frasi imparate a memoria che poi lanciava alla rinfusa come coriandoli, regalandosi sorrisi menzogneri da parte di Marzia e risate incontenibili delle amiche zambracche. Una frase che spesso ripeteva era “Ehi stella, ti va di brillare con me?”. Tonino ci credeva all’amore e di notte lo scriveva su muri e saracinesche di negozi e tutto ciò che faceva poteva divenire possibile, anche conquistare il cuore di Marzia. A penare realmente in questo piccolo teatrino domenicale erano le sgraziate ragazze carampane che recitano buona parte della sceneggiatura. Accompagnatrici e intermediarie di rare piacenti fanciulle dagli sguardi impenetrabili, donano ammiccanti sorrisi circolari nella speranza di raccogliere qualche briciola caduta, smuovendo invano corpi insaccati dentro scialbi vestiti acquistati fra le pezze americane al mercato del mercoledì; infine le zitelle, attente a carpire le novità sugli strani accoppiamenti, da sfornare calde insieme al pollo con le patate. «La legge di Darwin è spietata.» soleva dire la maestra di biologia di seconda, ed io aggiungevo: «Quella di Dio lo è di più.» Eppure questo paese martoriato dal malaffare che soffoca quel poco di onesta economia, è anche quello di chi sacrifica sudore e parole. E’ il mio paese, dove sono nato. L’accoglienza dei nonni fu calorosa e dopo l’abbuffata di mozzarelle di bufala, salsiccia nostrana, vino e chiacchiere, andai a dormire gonfio e stanco. La notte si stava rivelando infame, il sonno ristoratore tardava ad arrivare; non solo per l’adattamento al nuovo letto ma anche dal calore del giorno assorbito dalle mura
che si espandeva nella stanza. Rigiravo in continuazione il cuscino madido per trovare un angolo poco attaccaticcio mentre sullo stomaco pesante, indisturbate, brucavano intere mandrie di bisonti. Ecco cosa avevo dimenticato…il Malox! Una bocca impastata a calce mi costrinse a scendere in cucina per bere acqua minerale. La pigrizia m’impedì di accendere la luce credendo che sarebbe bastata quella del lampione sfrigolante in strada ma dovetti usare l’accendino per seguire il tortuoso percorso delle scale. Bere la minerale è una necessità poiché quella del rubinetto, fortemente calcare, era utilizzata solo per le pulizie domestiche. Elena quando soggiornava al Sud e lavava i capelli marcava sempre questa differenza e, nonostante svuotasse un barattolo di balsamo, apparivano secchi come stoppa. Provai a rimettermi a letto ma durò poco, l'orologio segnava l’una e vinto dalla calura decisi di sdraiarmi sulla sedia a dondolo in terrazza; accesi una sigaretta, alzai lo sguardo… il cielo era lì, ombrello di stelle meravigliose colme di misteri, dal silenzio avvolgente, come a proteggermi. Erano anni che non lo vedevo così zeppo e limpido. Peppino, amico mio, dov’eri finito? Dove le nostre lunghe eggiate notturne circondate da parole? Giravamo il paese come cani randagi facendo soste segnate su mappe invisibili, dissetandoci all'antica fontana posta accanto al cinema "Aragona" mentre sul vecchio ponte di ferro, costruito dai tedeschi in tempo di guerra, urinavamo nel lento scroscio dell’acqua buia e muta, tenendo la testa nella Via Lattea. Una di quelle notti di maggio, con le lucciole che ci danzavano intorno, dicesti: «Ma tu, come lo guardi l'universo?» Rimasi a riflettere con il pisello fra le inferriate del ponte. Sembrava banale dirti "con l’anima" ma prima che azzardassi una risposta, continuasti: «Cos’è per te l'universo?» Allora uscii dal mio silenzio: «E’ uno specchio che riflette luce e buio. Siamo tu ed io, e poi ogni cosa. E’ una giostra di cavalli; una tela da impiastricciare. L’universo ti guarda solo se lo sai guardare, è un gioco da giocare.»
In quella notte felpata, disteso a fumare con l’immenso davanti, abbandonai il molo delle ottuse paure tirando l’amante. La bianca vela baciò la brezza e nell’abbrivo iniziò il viaggio: di quel firmamento, attraversai l’anima sfuggente del mondo. La silenziosa prua tagliò il mare dei ricordi mostrandomi strappi di vita vissuta, alcuni apparentemente insignificanti, come quello di vedermi fra i banchi di scuola con lo sguardo assorto nella schiena di Laura mentre il professore spiegava i Promessi Sposi. Ipnotizzato dai suoi piccoli nei, li riproducevo sul quaderno, inventando pianeti, costellazioni e galassie. L’anima del mondo era lì, nelle piccole cose; nella vita stessa che avevo scelto, nelle direzioni prese. Era l’albero sotto cui, stanco, mi ero sdraiato per riposare, le emozioni condivise con gli amici in una macchina sgangherata comprata a rate, il vestito del matrimonio, le rose regalate, le canzoni ricordate. L’anima del mondo stava negli occhi smarriti, cercati ovunque, mai dimenticati che spiavano dietro una fessura di una porta. Avevo scelto tanto in questa vita, tanto tranne l’amore, quello nessuno lo sceglie. L’amore brilla come scintilla impazzita e sa già dove guardare… e se una stella collassa, se nasce un fiore, se cade una foglia o un pesce guizza nell'acqua, l’amore lo sa. L’amore non muore, si sposta, viene a cercarti o ti abbandona. In quella notte di viaggio senza fine aprii le braccia al vento perché mi stringesse forte, urlai al silenzio e sentii che stavi per arrivare. L’ultima immagine che mi cadde addosso, furono gli occhi color smeraldo di Laura, poi solo cenere. Feci l'ultimo tiro infuocato, sbadigliai… era ora di dormire.
III
L’incontro - luglio 1976
Accade. Tutto accade. Contro ogni nostra volontà. Il destino non s’insegue, ci cammina accanto. Al mare non c'ero mai stato, nonostante fosse a circa dieci chilometri. I genitori, divisi fra la campagna e la bottega del paese, non conoscevano ferie e, sistematicamente, insieme ai fratelli, avo le estati in quelle distese di campi tra bufale e zanzare. Della grandezza del mare e dei suoi colori ne presi coscienza guardando lo sceneggiato che in quel momento spopolava: “Sandokan”. Di sera con i fratelli s’instaurava una gara a chi doveva accaparrarsi la visuale migliore, dandoci spintoni sino a quando non raggiungevamo una posizione congeniale che mettesse d’accordo tutti. Anche mia sorella sembrava interessata all'attore dagli occhi di ambra e la cosa, allora, pareva strana, ma Giuseppe, che aveva due anni in più di malizia, le diceva spesso: “Guarda che ama Marianna”. Affascinati da quei velieri, aspettavamo il momento degli abbordaggi dei pirati, degli scontri corpo a corpo, dando libero sfogo all’immaginazione. Quando finiva lo sceneggiato iniziavano le nostre battaglie, brandendo spade di legno costruite sfasciando cassette di frutta, combattendo fantomatici cattivi per ore, al grido della tigre di Mompracem. Sognando il mare, vivevo la campagna, che pur offriva tanti svaghi, tanto d’averla assorbita come parte del mio essere libero. Accadde in uno di quei pomeriggi di pesca in quell’estate del ‘76, uno dei tanti e anche l’ultimo poiché da allora mi fu vietato andarci. Accadde qualcosa e se per un bambino della mia età un’esperienza del genere appariva normale, per i grandi fu inspiegabile! Sull’inseparabile borsetta blu c'era stampato un aereo bianco in scia; spesso quando cominciavo a stufarmi della pesca, tiravo fuori dei fogli sottratti dall’album "GIOTTO" di mio fratello Luigi, sui quali scrivevo piccoli desideri. Piegandoli in sequenza, ottenevo barchette colorate che adagiavo con delicatezza
sull’acqua. Alcune si piegavano su un fianco o rimanevano bloccate da ristagni d’insenature algose, e lesto utilizzavo la punta della canna per liberarle, fregandomene dei pesci che da sempre pensavo m’ignorassero. Con precisione millimetrica le spingevo lontano dai pantani, facendole risucchiare dalla lieve corrente, sino a quando non sparivano dal mio orizzonte. Sapevo che quel fiumiciattolo portava al Volturno che, a sua volta, si tuffava nel mare e speravo in cuor mio che viaggiassero tra sole e tempeste per arrivare nelle mani di altri bambini del mondo. Volevo che leggessero i miei desideri. Alzai lo sguardo verso il cielo e il sole mi sorprese, dovevano essere ate da poco le cinque perché lo stomaco iniziò a borbottare avvisandomi che era giunta l’ora della merenda. Le raccomandazioni dei genitori erano rigide, prima dell'imbrunire sarei dovuto tornare alla masseria. Stappai la gassosa “Arnone”, srotolando la carta oleosa con il panino farcito con frittata. Tenendolo ben saldo fra le mani, lo addentai, e fu in quel momento che, senza nemmeno assaporarlo, vidi qualcosa d’insolito che dissonava. Uno strano uomo veniva verso me. Conoscevo i contadini che giravano per la campagna e gli abiti da lavoro che vestivano, ma costui era diverso. Masticavo lentamente, l’attenzione era assorta da quella figura che si avvicinava sempre più. Pochi capelli, barba incolta, tunica bianca splendente sino ai piedi e un mantello avvolto sul capo; sembrava emettesse luce propria. Con la mano sulla fronte, distinsi i dettagli del volto e, per un attimo, pensai a Gesù, ma presto scartai l’ipotesi, ricordandomi dell’affresco che da anni sul soffitto della chiesa dell’Annunciata mi fissava. Non era lo stesso Gesù che riceveva il battesimo da San Giovanni nel fiume Giordano. Quest’uomo era diverso. Distolsi lo sguardo facendo finta d’interessarmi alla pesca nella speranza che vedendosi ignorato cambiasse percorso. Mille congetture su chi fosse, se avesse domande da pormi, indicazioni da chiedere. Forse era un viaggiatore disperato che si era perso, oppure uno a cui era stato rubato tutto: in fondo non aveva nulla con sé, neanche uno zaino. Pensavo anche ai discorsi dei genitori che spesso per incutere timore parlavano di zingari che rapivano i bambini per farci sapone, arrivò alla mente persino Mangiafuoco, ma ormai era tardi, avvertivo i sandali strusciare nell'erba e l'ombra avvicinarsi… era venuto da me. Le emozioni e i pensieri di un bambino sono distanti anni luce dai grandi. Un bambino sa solo che esistono i buoni e i cattivi, che basta guardare chi si
muove dal banco, tirare col gesso una linea verticale sulla lavagna e scegliere se destra o sinistra. Quest’uomo si sedette accanto a me trasmettendomi un senso di disagio; con la coda dell’occhio percepii che teneva lo sguardo nel rigagnolo mentre io, col fiato sospeso, fingevo di guardare il sughero immobile nell’acqua lenta, nella falsa attesa di una pizzicata che lo fe affondare. Il vento si alzò prendendomi alla schiena, inchinò erba e ramoscelli come servitori al aggio del padrone; le rane in sincronia perfetta smisero di gracchiare e la luce mutò improvvisa. Alzai lo sguardo per accorgermi che striature d’alti cirri si erano tinte di un intenso arancione, riflettendo d’ardore scintillante il paesaggio e fu come chiudere gli occhi ed entrare in un sogno. Nei bravi o nei cattivi? Non so neanche il nome, pensavo tra me. «Salve Paolo, è tanto che vieni qua vero?» Sapeva il mio di nome! «Sì ma non pesco mai niente… sei un pescatore anche tu?» «No, ma tanti anni fa ho provato anch'io.» «Beh non si preoccupi… neanche io sono bravo a farlo, non pesco mai nulla però mi piace, se vuole, le cedo la canna!» Fece un sorriso strano, indecifrabile e bastarono poche parole per inserirlo nella lista dei buoni. «E lei come si chiama?» Dissi. Con mano bianca d’oca prese un rametto e con lento movimento lo scrisse a terra. «Saulo? Non ho mai sentito un nome così, deve venire da molto lontano… ha fame? Ho ancora un panino ma non so cosa c'è dentro, quello con la frittata finisco di mangiarlo io.» Mangiammo e dividemmo la gassosa poi parlò e stetti ad ascoltarlo. Prima di salutarci mi fece chiudere gli occhi e aprire le mani, facendoci scivolare piccole barchette colorate, simili a quelle che avevo lasciate nell’Agnena.
«Conservale Paolo, ti serviranno, poiché dovrai servire.» Il cielo si era dipinto di rosso, il vento placato e le rane aprirono nuovamente il concerto in cra maggiore. L’imbrunire avanzava e avvertii sudore freddo sulla schiena. Arrotolai lo spago, infilai le barchette nello zaino, lanciandogli un ultimo sguardo in lontananza. Era tardi, dovevo rincasare. Quando giunsi nei pressi della masseria, i cani cominciarono ad abbaiare, venendomi incontro affettuosi. Uscì mio fratello Luigi e subito dopo Giuseppe, poi rientrarono veloci dentro urlando, infine uscirono tutti sul piazzale, increduli, piangenti di gioia, correndomi incontro per abbracciare. Ero frastornato, cosa stava succedendo? Continuavano a stringermi amorevolmente, chiedendomi dov’ero stato e cosa mi fosse accaduto. Emozioni miste a scene concitate di cui non capivo il motivo. Piangevano felici, piansi anch’io. Tempo mezz'ora e giunsero i carabinieri con il pulmino a sirena spiegata, poi il prete e vari conoscenti curiosi. La voce in paese si era sparsa: "Paolo è stato ritrovato!". Arrivò in seguito anche un’ambulanza e persone che scattavano fotografie. Vissi i peggiori giorni dell’infanzia. Mille ripetute domande chiedevano sempre la stessa cosa: «Dove sei stato tutto quel tempo?» Ed io che davo sempre la stessa risposta: «Sono andato a pescare!» Tre giorni… per tre lunghissimi giorni mi avevano cercato ovunque, fra campi e canalette d’irrigazione, pozzi e masserie sparse. Il gruppo cinofilo dell'Esercito aveva sguinzagliato i cani facendogli odorare i miei abiti, un elicottero aveva sorvolato le campagne e sommozzatori si erano calati nell’Agnena spingendosi sino al Volturno. Da tre giorni ero sparito e la stampa parlava di me. L’autorità mi sottrasse da quell’inferno portandomi in un altro ancora più ardente. Insieme ai genitori fui scortato in caserma per far luce sull’accaduto. «Dunque…» Disse il Maresciallo girando dietro la scrivania mentre l’appuntato dalle grosse dita schiacciava vigorosamente gli indici sulla tastiera Olivetti “48” e mia madre mi accarezzava per rassicurarmi. «Adesso farò delle domande specifiche e dovrai rispondere con sincerità e senza timore. Noi siamo qui per aiutarti e capire cosa realmente è accaduto, perché se qualcuno ha operato nel male, dobbiamo assicurarlo alla giustizia.» Aveva uno sguardo ferreo, coriaceo. Con dita ingiallite si lisciava i baffi argentei continuamente, serrando le labbra per non perdersi nemmeno una sillaba
che usciva dalla mia bocca. Fu estenuante, un continuo ripetersi di «ma perché?» e di «non è possibile!» Un tempo che a me parve interminabile, sino a quando caddi al suolo sfinito, privo di sensi, e dovettero portarmi all’ospedale per accertamenti. Il dottore parlò con mia madre raccomandando assoluto riposo e i fratelli nei giorni a seguire dissero che i giornalisti avevano scritto dello strano caso di un bambino che, scomparso per tre giorni, era ritornato non si sa da dove, senza aver né mangiato né dormito da alcuna parte. Aveva avuto un incontro con un tale Saulo e altro non ricordava. Un bambino che non presentava segni di violenza o stanchezza, come se il tempo per lui non fosse ato. Addirittura una rivista di quart’ordine aveva avanzata l'ipotesi di un rapimento alieno. Tempo una settimana e la vita tornò quella di sempre, i genitori, su consiglio del medico, per la prima volta in vita loro, affittarono un appartamento sul mare a Mondragone. Certo, non aveva il mare azzurro turchese e palme di cocco di Mompracem, ma la vacanza fu indimenticabile.
IV
La Rivelazione - Dicembre 1979
Quella strana vicenda, fra onde e sorrisi di quell’estate, la dimenticai, così come la gente, che nulla domandò più. Tutto finché quel nome, dopo oltre tre anni, riemerse dal fondo come bolla di zolfo dalle viscere della terra. Mancava un mese a Natale e Don Salvatore, parroco dell'Annunciata, aveva chiamato tutti i chierichetti a raccolta per l'allestimento del presepe. In quei giorni i lavori proseguivano nel pieno fervore con entusiasmo, tutti intenti a discutere su come sistemare o migliorare la disposizione dei pastorelli per rendere l’effetto visivo più naturale, ma nella delicata fase di trasporto San Giuseppe scivolò dalle mie mani. Mille pezzi si sparsero a terra, lasciandomi la sola testa barbuta attaccata tra il pollice e l’indice. Ecco tutto quello che rimaneva del Santo di gesso. «Saule…Saule quid me persequeris?» Esclamò Don Salvatore. I ragazzi risero a lungo mentre cercavo di scusarmi, ma quel nome mi lasciò basito. Saulo era tornato! Ci guardammo a lungo, poi capì l'imbarazzo e chiamandomi in disparte, disse: «So cosa rappresenta per te quel nome, l'avevo dimenticato, ma sappi che è il tuo stesso nome. Saulo o Paolo è uguale! Vieni ti faccio vedere una cosa.» Entrammo in sacrestia e da uno scaffale a vetrinetta estrasse un libro illustrato di grandi dimensioni. «San Paolo Apostolo, lo hai sicuramente sentito nominare tante volte durante la messa, famoso per le sue lettere. Oggi ti racconto della sua conversione. Saulo di Tarso, detto San Paolo, era un uomo colto, che si definiva l’Apostolo dei Gentili, un ebreo ellenizzato che godeva della cittadinanza romana. In quel periodo perseguitava i primi cristiani poi un giorno, mentre percorreva la strada
che lo portava da Gerusalemme a Damasco per reprimerli, ebbe una visione. Dio gli parlò proferendo proprio quella frase che ti ho detto prima e da quel momento Saulo vagò per tre giorni, quasi accecato. L’episodio è descritto proprio come “La conversione di San Paolo”. Saulo è stato uno dei primi a divulgare la parola di Gesù e, anche se è vissuto nella sua epoca, non l’ha mai conosciuto...» «L' ho conosciuto io.» Risposi. Sorrise. «Hai conosciuto Gesù?» «No Saulo!» «Si Paolo ma questo è un altro Saulo.» «No è lui. Dissi indicandolo sul libro. «Ma che dici? Questo è vissuto duemila anni fa.» «Era lui.» Replicai. «Stai dicendo che il Saulo che hai incontrato in quei tre giorni era il Saulo di cui ti sto parlando?» «No… non erano tre giorni, siamo stati insieme poco, ma era proprio lui.» Don Salvatore tolse gli occhiali poggiandoli sulla scrivania, si sedette sulla sedia abbandonando tutto il suo peso e la stanchezza per rimanere un attimo in silenzio, poi soggiunse: «Osservo spesso in chiesa il tuo modo di parlare, l’impegno e la dedizione nel servire il Signore, ti conosco e ti confesso, so che non racconti mai bugie… e credo che questa storia meriti più attenzione del dovuto. Sappiamo che pochi anni fa questa vicenda sconvolse te, i tuoi genitori e il paese, poi come spesso accade, non se ne è più sentito parlare, ed è stato un bene. Non ho bisogno di confessarti, ma se vuoi puoi raccontarmi cosa è accaduto in quei tre giorni oppure “poco” come dici e soprattutto spiegarmi come fai a essere così certo che
si tratti del Saulo di duemila anni fa.» Don Salvatore già all'epoca dei fatti aveva sostenuto la mia famiglia e parlato con le autorità affinché riprendessi la vita che mi aspettava. Con la dovuta accortezza era stato l'artefice del rapido dissolvimento di una storia che poteva influire negativamente sulla mia crescita. Non era un comune prete ma un grande comunicatore, un consigliere psicologo e all’occorrenza padre. Era il parroco dei bambini, amava e sapeva farsi amare e quando parlava incuteva rispetto. «Non ho raccontato nulla allora perché nulla ricordavo, ma adesso che questo nome è tornato ho la sua immagine seduta accanto a me. So per certo che è lui perché mi ha raccontato della conversione e quando ho sentito la frase di rimprovero è come se avessi rivissuto quel momento.» Divenne pallido e l’aria sembrava mancargli, si alzò slacciandosi i primi tre bottoni della lunga vestaglia, aprì una seconda vetrinetta tirando fuori un’ampolla di vino che usava per celebrare la messa, se ne versò due dita buttandole in gola come fosse una medicina amara, poi risedendosi nuovamente, riprese il suo lungo silenzio. «Don Salvatore sta male? Vado a chiamare i ragazzi che avvisino qualcuno?» Di colpo uscì da quel torpore e con il viso ancora più pallido, facendosi più volte il segno della croce, cominciò a dire: «Benedetto Iddio e la Madonna, benedetto Gesù, gli Angeli e tutti i Santi… datemi la forza, datemi la forza. No, non chiamare nessuno, per carità, anzi siediti qui e raccontami tutto!» «Don Salvatore io ricordo solo che eravamo seduti sul ciglio dell’Agnena a parlare. Mi disse chi era e che doveva darmi dei messaggi...» «Messaggi! Che messaggi?» «Non me li ricordo… ah sì, mi ha dato delle barchette.» «Barchette! Che barchette?»
«Barchette di carta, come quelle mie che facevo per scriverci i pensierini. Ha detto che dovevo conservarle perché mi sarebbero servite.» «E dove sono queste barchette?» «Non lo so, non mi ricordo...» «Come! San Paolo ti dà delle barchette dicendoti di conservarle e non sai dove sono? Ricordati Paolo è importante!» «Le avevo messe nella borsetta blu ma adesso non so più dov’è finita. «Oh Signore ma che storia è mai questa!» Disse con evidente stato di agitazione. «Vai a casa e cerca questa benedetta borsetta, non è possibile che si sia persa. Sicuramente l’avrai messa da qualche parte e dimenticata. Vai e fammi sapere!» Tornai a casa a gambe levate in cerca della borsetta con la scritta “Alitalia” e l’aereo bianco in scia, ando dalla bottega senza nemmeno degnare di uno sguardo i presenti. Il terzo piano della casa era adibito a soffitta, un unico grande ambiente ove erano stipate caterve di materiali divisi per settore. Un angolo era destinato al corredo di mia sorella con casse colme di biancheria piena di coperte per ogni stagione, servizi completi per la cucina e stoviglie varie. Tradizionalmente prima di dare in sposa una figlia bisognava che avesse tutto l’occorrente per la casa. Un’altra ala era adibita a conserve rigorosamente fatte in casa con bottiglie di sugo, marmellata, succhi di frutta e poi ancora olio e sugna, tutti stipati ordinatamente su ripiani. L’angolo che m’interessava era il più grande e il più incasinato, trovare la mia borsa dell’Alitalia in mezzo a quella congerie era un’impresa e dovevo solo augurarmi che qualcuno non avesse deciso di buttarla ma era un’ipotesi remota visto che a casa mia non si buttava mai nulla. Dopo aver rovistato per più di un’ora, la trovai nascosta dentro altre borse, quasi in una sorta di matrioska. L’unico posto dove poterla aprire lontano da sguardi indiscreti era il bagno, così scesi al piano di sotto, chiusi la porta a doppia mandata e mi sedetti sulla tazza come se dovessi fare i bisogni. In quello strano silenzio avvertivo solo il rumore del cuore battere forte e del boiler che attaccava la pompa.
L’agitazione aveva preso il sopravvento persino nelle mani che faticavano ad aprire la cerniera ma sorrisi quando vidi che le barchette erano lì, come le avevo lasciate, insieme alla carta oleosa che avvolgeva i panini, la bottiglia vuota di gassosa e i fogli Giotto colorati. Possibile che in quei giorni di trambusto nessuno si fosse preso la briga di controllare la borsa? Nessuno aveva fatto caso a quelle barchette, neanche i carabinieri? Forse l’avevano aperta e rovistata senza dare alcuna importanza di rilievo al contenuto. Ne contai sette, ognuna di un colore diverso, le guardai, girai e rigirai ancora. Quelle non erano le mie barchette ma di Saulo e ne ero sicuro. Avevo dimenticato le sue parole, com’era stato possibile? Adesso invece ritornavano come tuoni di cannoni. «Conservale Paolo, ti serviranno poiché dovrai servire.» «Che faccio le apro? E se poi sbaglio? Se Don Salvatore le vuole integre! Una, ne apro una e poi la ripiego di nuovo.» Scelsi la rossa, l’aprii delicatamente in modo da poterla ripiegare com’era e lessi: “L’ORDINE E’ NELLE TUE MANI - IL BENE E’ COME IL MALE”. «Che frase è mai questa?» Esclamai. Incomprensibile, lontana da ciò che normalmente ero abituato a leggere. Enigmatica. Cosa voleva significare? Don Salvatore doveva avere una risposta, saperle dare un senso logico… dovevo portargliele. La fabbrica dei pensieri cercò l’attimo prima del dono e subito esclamai: «Ora ricordo… ora sì!» Con la borsetta a tracolla e il cuore in gola, mi diressi in chiesa di corsa. Alla messa delle diciannove c’erano poche persone e Don Salvatore stava già distribuendo le particole. Mi misi in fila ancora col fiatone e quando giunse il mio turno, poggiandola sulla lingua, fissò la borsetta dicendo: «Il Corpo di Cristooo» cui fece seguire con voce più fioca «aspettami in sacrestia.» Congedò tutti frettolosamente e quando fummo da soli riversai soddisfatto le barchette sul tavolo, dicendogli che le avevo trovate e anche che ne avevo aperto una e subito richiusa. Don Salvatore rimase a fissarle, era emozionato e come avevo fatto io le girava e rigirava con cura fino a quando non mi chiese quale avessi aperto. «La rossa, ho aperto la rossa!» C’era una stranezza in quelle barchette, pareva una coincidenza, ma la loro
disposizione sul tavolo con la sequenza dei colori ricordava qualcosa che mi piaceva, e allora dissi: «L’arcobaleno! » «E’ vero!» Replicò Don Salvatore. «Questa è l’esatta disposizione dei colori dell’arcobaleno.» «Ho ricordato una cosa che mi disse allora… una volta aperta la prima, avrei dovuto aspettare cinque anni e cosi per le altre.» «Una ogni cinque anni? Non è possibile, devi esserti sbagliato, come si fa ad aprirne una ogni cinque anni… saranno giorni o mesi!» «No, lo ricordo bene! Una ogni cinque anni.» Risposi. Così prese anch’egli la rossa, l’aprì con cura e la lesse, lasciandomi nuovamente nel suo abituale lungo silenzio. «Ha letto? Non ci ho capito nulla. Deve darmi una risposta.» «Signore Iddio aiutami. Paolo è evidente che sono per te. Io ho quasi settant’anni e non credo di arrivare a cento. Tu sei il destinatario, il prescelto, quello che dovrà seguire il grande disegno, custodirle con cura e al momento giusto, sapere cosa fare.» «Per cortesia mi dica qualcosa su questo scritto. Che significato ha?» «E’ il primo aperto e che hai scelto, non a caso il primo colore dell’arcobaleno e credo il primo che bisognava aprire. Quello del male sul bene è sempre stato chiaro, il male vuole sconfiggere il bene da sempre, ci prova in tutti i modi, tutti i giorni, ma qui il male è come il bene e sembrano unirsi mirando a qualcosa di spaventoso. Fa paura pensarlo, esiste da sempre questa distinzione, non può essere un tutt’uno. Quello che mi fa riflettere è anche la prima frase: “ L’ORDINE E’ NELLE TUE MANI”. L’ordine inteso come la scelta delle barchette, oppure indica che sei colui che dovrà ristabilire l’ordine. E’ certo un enigma che forse sarà svelato fra cinque anni, per quanto mi riguarda ritengo che il Signore Iddio vuole che ti sia da guida in questo inizio, quindi non rimane che aspettare altri cinque anni e sperare che possa leggere il secondo anche io.»
«E l'arcobaleno? Che cosa c’entra?» Dissi. «E’ scritto nella Bibbia: “Questo è il segno dell’alleanza che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Io pongo il mio arco nelle nubi, ed esso sarà un segno di alleanza fra me e la terra. E quando adunerò le nubi sulla terra, allora apparirà l’arco nella nube, e io ricorderò l’alleanza che è stabilita tra me e voi e ogni anima che vive in qualsiasi carne, le acque non diverranno mai più un diluvio per distruggere ogni carne. L’arco apparirà nelle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni anima che vive, in ogni carne che è sulla terra.” «Un patto stabilito da Dio con le anime della terra al termine del diluvio con i colori dell'arcobaleno, per ricordarci dell’alleanza. Un patto tra te e lui. Un’alleanza di luce per sconfiggere il male. L’assurdo è che in questo messaggio non trovo nulla che possa essere associato agli scritti di San Paolo e al suo modo di predicare la fede. Sembrano messaggi subliminali di Dio e mi chiedo perché lui e non un angelo come accadde per la Madonna.» «Ma Saulo non ha lasciato nessun compito… devo solo aspettare!» «Credo stia per iniziarti, un modo per metterti in guardia dagli eventi futuri, ma adesso è inutile scervellarsi Paolo, è il momento che ti dica delle cose che dovrai tenere ben a mente per il futuro.»
V
L’invito - Lunedì 3 agosto 2011
Dalle feritoie della tapparella filtrava la luce del mondo, stagliandosi nitida sulla parete scarna. Piccoli cerchi equidistanti davano forma a un quadrato perfetto che ricordava una delle opere dell’optical art di Vasarely. Era mattina inoltrata e questo attardarmi aveva giovato al recupero della notte insonne. Udivo il cinguettio degli uccelli che godevano della libertà del volo mentre Laika, la cagnolina meticcia, muovendo la coda come un tergicristallo, se ne stava silenziosa sul tappeto titillandomi la mano penzolante. La giornata era programmata per le visite e occorreva far presto, in primis la visita al cimitero poi dai fratelli. Il Tempo non si ferma, è l’energia che avvolge ma se si ha voglia di percepirne il vero senso, bisogna varcare la soglia di un cimitero. Oltreato quel cancello, ci si accorge della sua balorda astrusità, il ato non è più ato, ma fermo, presente. La definisco “la casa sospesa”. Con i ceri in mano attraversai il lungo viale guardando date e volti, contando a che età si fosse fermato il loro tempo terreno, accorgendomi presto di conoscerne più lì che in paese. Una tomba nuova la riconosci dal marmo lucente e immacolato, ha scritte nitide e addobbi di fiori freschi, croci luminose e dediche dei cari su bianchi fogli. Angelo era lì, proprio di fronte, sospeso da alcuni mesi e non ne avevo saputo nulla. Compagno di scuola… perso e non più ritrovato, ti ricordi quel giorno lontano che andammo a razzolare pesche sugli alberi e il contadino accortosi della malefatta ci corse dietro bestemmiando? Eravamo veloci come giaguari. I frutti si schiacciarono tutti nei pantaloni tanto che sembrava ci fossimo pisciati sotto. Angelo che ci fai qui? Torniamo a rubar pesche, torniamo a correre. Era estate, e sullo strano viso scivolava aria gelida d’Alaska quando giunsi davanti ai miei genitori, agli stessi volti delle foto che tenevo chiuse in un
cassetto da anni e che da sempre rifiutavo di tenere in bella vista, nonostante Elena più volte ne avesse fatto cenno. Non avevo mai accettato la loro dipartita e porle in una vetrinetta non avrebbe fatto altro che aumentare l’angoscia della loro mancanza, ma ora quegli occhi indefiniti da tessera di riconoscimento erano lì che mi guardavano, che li guardavo. Ho avuto un rapporto strano con loro… pareva distribuissero poco affetto, ma in verità mi amavano molto e queste sono cose che si capiscono tardi. Mio padre era un finto burbero che voleva mostrarsi a tutti i costi un duro di cuore. Un leone mai stato leone, sommerso di paure, di debolezze e di ansie che l’età aveva accentuato e adesso sapevo veramente di assomigliargli. Lo vidi piangere una sola volta, sulle scale di casa, e non gli ho mai chiesto perché. Iniziò la sua battaglia contro una malattia che ogni giorno gli rubava il ato e quando tornavo dalla licenza lo vedevo sempre più assente. Piansi il giorno che non mi riconobbe. Dall’abisso dei ricordi, affiorava quello delle sveglie notturne. Lo sentivo battermi delicatamente sulle spalle prima che il mondo mi svegliasse, pregandomi d’accompagnarlo al mercato ortofrutticolo. Durante il tragitto cantava canzoni classiche napoletane e spesso tornavo giusto in tempo per andare a riposarmi all’ultimo banco di scuola. La sua falsa rigidità non mi aveva permesso di instaurare un vero rapporto e ancora adesso, provavo rabbia e silenzi per certi suoi atteggiamenti autoritari. Mia madre invece era paziente, accondiscende, una che subiva il suo carattere, ma anche quella che realmente gestiva la famiglia e il negozio. Si faceva in quattro per tirarci su, senza farci mancare mai nulla. Delle tante reminiscenze ho nitida quella di una sera in cui venne in camera; si sedette accanto a me accarezzandomi la fronte: «Come mai non dormi?» «Ammazzo il tempo mamma!» Le risposi. Rise non so per quanto tempo per quella risposta singolare, che altro non era che una frase copiata dai grandi! Voglio dirti mamma che ancora oggi lo faccio, ancora ammazzo il tempo, prima che mi ammazzi. Uscii dalla casa sospesa ricordando una frase di mia cognata sentita durante una conversazione a un funerale che mi lasciò col sorriso sulle labbra. Si era comprata la nicchia assicurandosi che fosse esposta al sole e
ai piani intermedi perché a terra c’era umidità. Nel cortile di casa Alex giocava con Laika e appena mi vide, corse al cancello dicendo: «Papà è venuto un signore a cercarti.» «Che signore? Non ti ha detto chi era?» «No, ha detto che sarebbe ritornato.» Sarà qualche amico di vecchia data pensai… Squillò il cellulare. «Buongiorno Signor Ciccone sono Padre Antonio, non ci conosciamo ma avevo urgenza di parlare con lei, suo figlio mi ha fornito il numero giacché non l’ho trovata di persona. Sono subito al dunque, il Vescovo dell’Arcidiocesi di Capua vorrebbe conferire con lei con una certa urgenza e le chiedo una disponibilità immediata. » «Il Vescovo di Capua vuole conferire con me? E’ sicuro di questo? Deve esserci un errore Padre Antonio, io non abito qui, sono di aggio e non ho alcun tipo di rapporto né con il Vescovo né con la Curia.» «Mi creda Signor Ciccone, è con lei che desidera parlare, la prego… è urgente.» «Urgente? Posso conoscerne il motivo? » «Non mi è stato riferito, ma so che è importante». «Va bene facciamo domani mattina alle nove, mi lasci l’indirizzo.» Un brivido mi percorse la schiena, avevo accettato un appuntamento senza nessuna garanzia, d’istinto, nonostante non fosse il mio modo di agire. Ero attonito, questa non era una coincidenza, costoro erano a conoscenza del mio viaggio e del perché. Possibile? Dopo trentacinque anni? Il mistero s’infittiva, poteva trattarsi di altre questioni, qualche terreno agricolo dato in concessione ai miei genitori in ato, ma i miei fratelli me ne avrebbero parlato. No! Non era possibile. Il pomeriggio fu un continuo gironzolare per il cosiddetto “visita parenti”, alcuni
non li avevo trovati ed ero dovuto ritornarci. A tutti avevo detto d’esser venuto per ritirare del materiale in giacenza dai suoceri e che tempo pochi giorni sarei dovuto ripartire, ma nessuno di loro fece accenno a preti e Curia. Adesso avevo la certezza che costoro sapevano e non restava che organizzare la mente per cercare le probabili soluzioni da adottare. Trentacinque anni e non ero l’unico ad aver atteso tanto.
VI
Martedì 4 agosto 2011
Esternamente il palazzo della Curia aveva un aspetto decadente, come del resto tutta l’antica città di Capua. Suonai il camlo in perfetto orario e presto venne ad aprire un addetto del personale di sorveglianza. Dalla consolle telefonica avvertì della mia presenza e pochi attimi dopo si presentò un prete. «Salve, sono Padre Antonio, ci siamo sentiti per telefono ieri. La stavamo attendendo… prego, le faccio strada.» Padre Antonio nonostante il sorriso, aveva un aspetto sinistro, algido. Alto e snello, dalla schiena lievemente arcuata, faceva ipotizzare anni ati sui libri a studiare teologia. Gli occhi erano piccoli e ravvicinati, divisi da un naso aquilino che accostavo a quello del sommo Poeta raffigurato sulla copertina della Divina Commedia. Credo fosse sui cinquanta, ma l’immagine era distante dalla persona immaginata al telefono. Girammo corridoi vuoti, asfittici, dove ogni tanto compariva alle pareti la foto del Santo Padre che abbracciava e benediceva folle, sino a giungere davanti ad una grande porta dai vetri scorrevoli con impressa la scritta "Mattias Enzo", con tanto d’inconfondibile stemma papale. Una volta entrato mi accorsi che quella era l’anticamera. Il Vescovo mi venne incontro con mano tesa e viso sorridente. Alto e robusto dal viso ovale e labbra carnose, trasmetteva un senso di serenità e distensione. Mi strinse calorosamente con la sua mano delicata e dalle sue labbra uscì un suono nasale e suadente che ricordava quella dei cantanti di soul. «Signor Ciccone le dò il benvenuto ringraziandola per la disponibilità offerta… prego si accomodi. Innanzitutto ci scusiamo per l'approccio poco formale ma del resto le condizioni non ci permettevano di fare diversamente. Padre Antonio, la prego, si sieda anche lei.»
Sprofondai in una di quelle comode poltrone che avvolgono il corpo e rilassano la muscolatura. Per nascondere il disagio volsi lo sguardo su un dipinto posto alle sue spalle raffigurante una chiesa in stile gotico sotto un cielo plumbeo che, per l’aspetto, colore e rappresentazione, di certo non aiutava. «Monsignor Mattias, sono ansioso di conoscere il motivo di questo incontro.» Dissi. Dovevo apparire diplomatico, rilassato, usare la sua stessa sicurezza per cancellare quel nervosismo che sentivo nascere dallo stomaco, ma era chiaro che stavo sotto una lente d'ingrandimento e contava venirne fuori al meglio e tenersi quanto più possibile sul vago. Ma perché avevo accettato? L’errore era a monte! «Signor Ciccone, la Chiesa del Signore èla casa dei cristiani che da duemila anni l’abitano. Sono i pilastri eretti da Pietro ai giorni nostri, il contatto che ci avvicina all'Onnipotente attraverso i sacramenti e la preghiera. Noi cristiani, e quindi anche lei, siamo gli eredi, i discendenti che si preparano al grande viaggio che li unirà al celeste. Siamo i pastori di anime… e i pastori, come ben sa, devono proteggere le pecore dai lupi. Lei sa certamente il motivo per cui è qui, sa cosa vogliamo e cosa aspettiamo.» «Sapere cosa?» Risposi. Potevo cancellare ogni dubbio, sapevano. Quello che ignoravo era il come. «Signor Ciccone, senza giri di parole e formalità, vengo al dunque. All'epoca dei fatti, circa trentacinque anni fa, il suo prete dell'Annunciata Don Salvatore… che adesso ci guarda da lassù, riferì alla Curia di un incontro avuto da lei tre anni prima con Saulo. Come ben sa quest’anima di paese ebbe modo di conoscere solo due dei sette messaggi, poi il Signore lo chiamò alla sua casa. Ebbene, a noi manca l’ultimo di questi messaggi e, ci creda, abbiamo urgenza di conoscerlo. E’ in gioco il destino della Chiesa, della cristianità e del mondo intero.» Ero sconvolto, la bocca si era allappata costringendomi a deglutire a fatica aria che gonfiava lo stomaco. Non solo sapevano della vicenda, ma anche degli altri messaggi, quelli che avevo custodito con cura negandone il contenuto a mia moglie e a chiunque altro… loro li conoscevano. Com’era accaduto? In che circostanza li avevano letti? Stavano forse bleffando? Possibile che Don Salvatore mi avesse tenuto all'oscuro e avesse rivelato i messaggi, pur sapendo d’essere tenuto al riserbo assoluto? La fronte si era corrugata e sulla schiena
avvertivo piccole gocce fredde di sudore scivolare verso il basso sino alla stretta cintura di cuoio. Traccheggiavo coniando pensieri, cercando parole adatte a ribattere. «Eccellentissimo Vescovo Mattias, sono esterrefatto e credo che mi dobbiate delle spiegazioni, poiché non bastano le vostre rassicurazioni reticenti. Voi, i vostri predecessori e la Chiesa, avete di proposito messo le mani dentro la mia vita. Sostenete di essere a conoscenza dei messaggi e questo vuol dire che da trentacinque anni sono costantemente controllato. Esigo dei chiarimenti concreti.» Padre Antonio, accortosi dall’evidente stato di agitazione, cercò di rasserenarmi dicendo che il Vescovo avrebbe sicuramente chiarito ogni aspetto. Il cielo del quadro adesso sembrava più tetro che mai, con cumuli di nembi carichi di piogge torrenziali, pronti ad abbattersi su quella chiesa già fosca. Gradualmente quella stanza aveva preso l’aspetto di una prigione, l’aria mi mancava e il sole, quasi a vergognarsi, si era nascosto dietro agli angoli dei palazzi. «Signor Ciccone, capiamo perfettamente lo stato d'animo in cui versa, ma adesso entreremo nei dettagli. Quando il prete venne a raccontare della sua storia ai miei predecessori, gli fu dato poco credito. Chiunque allora avrebbe potuto spacciarsi per Saulo e prendersi gioco di un bambino. Oggi si sente spesso parlare di miracoli e di apparizioni che poi si rivelano falsi e come ben sa la chiesa, prima di pronunciarsi, esige certezze inconfutabili. Con l'evolversi di alcuni fatti si decise di approfondire la questione raccogliendo quante più testimonianze possibili e da esse emersero tanti aspetti insoliti. Il primo era l’assenza di tre giorni; si pensò che lei, smarrito tra le campagne, avesse trovato rifugio in qualche masseria inscenando tutto per paura di una ritorsione della famiglia, ma avrebbe retto? Fu interrogato per ore dai carabinieri e a quell’età, mi creda, si cede, ma ciò che portò a interessarci veramente del caso fu l'avvento del secondo messaggio, la morte atroce di Massimo de Concilis. Capimmo da quell’evento che la questione meritava sin dall’inizio la giusta attenzione. La curia sapeva che finché ci fosse stato Don Salvatore la Chiesa avrebbe saputo anche degli altri messaggi. Già allora della questione ne fu informata la Santa Sede che concordò con l’attendere gli eventi futuri. C’è da dire che se
avessimo voluto, avremmo potuto leggerli tutti e chiudere subito la vicenda, ma se Saulo, e quindi San Paolo, aveva stabilito ciò, dovevamo solo aspettare e gli eventi succedutisi ci hanno dato ragione. Qui c’è in gioco il futuro della Chiesa, abbiamo il diritto di conoscere il destino che ci attende e fare tutto il possibile perché sia scongiurato il male. Detto questo Signor Ciccone, le chiedo umilmente di fornirci l’ultima barchetta.» La poltrona scottava, sentivo fiamme avvolgere il corpo, già trafitto da mille aghi; la vista sfocava sul viso torvo di un vescovo, ingigantito per imporre la sua volontà. Padre Antonio, che fino a quel momento aveva tenuto le sue lunghe braccia incrociate, le stese come rami di ciliegio dicendo: «Sig. Ciccone, faccia la cosa giusta, ci dia l’ultima barchetta. E’ venuto il momento di conoscere ciò che ci attende!» In quello stato confusionale riuscii a pronunciare con voce fioca parole di rabbia rivolte a entrambi che mi permisero di prendere tempo e schiarire le idee: «Vescovo Mattias, non mi avete ancora raccontato di come avete saputo degli altri messaggi. Voglio sapere in quale circostanza avete avuto la possibilità di leggerli e come avete fatto.» Iniziai a fare lunghi respiri cercando di nascondere l’ansia e il disagio che mi pervadevano. Pretendevo una spiegazione valida visto che già anni addietro, dopo la lettura del secondo messaggio avvenuta poco prima che Don Salvatore morisse, avevo deciso di separarli e porli in posti diversi. Entrambi si guardarono, poi il Vescovo disse: «Signor Ciccone, sappiamo perfettamente di aver usato metodi poco legali e non da perfetti cristiani. L’importanza di questi avvenimenti richiedeva e ci permetteva di usare qualsiasi strumento e ancora oggi siamo ferrei su questa condotta. Il Signore è il nostro pastore e siamo tenuti a osservare le sue volontà, ma egli ci ha dato lo strumento per intervenire. Ha permesso che Don Salvatore sapesse e di conseguenza noi. Lei capisce che se l'Altissimo avesse voluto tenere il totale riserbo sulla questione avrebbe fatto in modo che lei, e solo lei, ne fosse stato a conoscenza. E’ evidente che ci ha dato la possibilità di debellare il male. Adesso le pongo una riflessione… lei ha possibilità di sconfiggere il male con gli strumenti e la
forza di cui dispone? Pensa di riuscirci da solo? Rifletta su questo e si convinca che è solo il tramite che ci permette di operare. Signor Ciccone lei è un cristiano, cosi come lo siamo noi, ha l’obbligo morale e spirituale di aiutarci. Non dimentichi che lei stesso, con la sua croce, è giunto al soglio di Pietro e conferito con sua Santità.» «Chiedo di conoscere come avete saputo dei messaggi.» Insistetti. «Ebbene, dopo che furono letti i primi due messaggi, furono confrontati con gli eventi, prendendo coscienza che la storia era veritiera. Già allora, con le dovute indagini, si riuscì a percepire un disegno del futuro che ci attendeva. Quei due messaggi ci dettero la sicurezza che Saulo fosse realmente San Paolo e che ciò che ci aspettava negli anni a venire sarebbe stata una lotta senza esclusione di colpi col male. Ricorderà che nel 1992 a casa sua avvenne un furto. Lei tornò a casa e trovò l’appartamento rivoltato in ogni suo angolo, le furono sottratti beni affinché lo si ritenesse ordito da una banda di ladri. In verità, con profonda vergogna e amarezza, confessiamo che architettammo tutto noi. Eravamo alla ricerca del terzo messaggio e di quelli restanti. Ovviamente non trovammo nulla, lei si era ben guardato dal porli in un posto sicuro, e fu solo grazie alla nostra rete investigativa che riuscimmo a sapere che questi erano stati divisi e custoditi in cassette di sicurezza in diverse banche della città. Tutti tranne l’ultimo che lei ha tenuto nascosto personalmente. Le nostre influenze ci permisero di avere l’accesso e conoscere i tre messaggi con cadenza obbligata imposta dalla Santa Sede. La linea fu di tenerla all’oscuro della vicenda affinché il volere di Dio fe il suo corso. Anche per la visione del sesto messaggio abbiamo tentato di seguirla per capire quanto più possibile e anche se non siamo approdati a un granché, abbiamo capito che quello che era successo nei cimiteri di tutto il mondo era collegato a lei. Per l’ultimo messaggio però non possiamo più attendere, lei ne è in possesso e sappiamo che è in procinto di aprirlo. Quello che le chiediamo adesso è di farlo con noi come fece quella volta con Don Salvatore. Le ripeto, sicuramente non accetterà il modo in cui abbiamo agito, ma capirà che ne abbiamo il diritto e l’urgenza. Saremo perdonati, ma adesso, in nome della cristianità e del bene che deve trionfare sul male, nel nome di Dio, le chiediamo di farlo.» La Chiesa ha il potere e la capacità di stravolgere gli eventi. In duemila anni aveva affrontato innumerevoli questioni spinose, combattendo in prima linea
contro chiunque aveva osato ostacolarli, a uccidere per non essere uccisi. La Chiesa aveva le parole e la spada, in nome del Signore. Questo era il messaggio che percepivo adesso. Ci sono momenti nella vita che avverti tuoi, in cui sai che devi prendere una decisione, se deve esistere un sì o un no, bianco o nero. Quel momento, anche se vicino, non era ancora arrivato. La mente aveva recepito l’importanza e il significato della posta in gioco, il cuore no, ancora non aveva dato il suo assenso, non era ancora pronto. «Vescovo Mattias, non ho il messaggio con me. Voglio solo che lei sappia che San Paolo mi ha donato i messaggi perché li aprissi io, altrimenti li avrebbe dati direttamente a voi che siete uomini di chiesa e, credetemi, ancora mi domando perché non l’ha fatto.» «Signor Ciccone è vero, ma tenga conto che il suo secondo messaggio glielo ha letto Don Salvatore in persona perché lei glielo aveva lasciato nel cassetto della scrivania. Abbiamo urgenza, per favore capisca.» Ero vinto, mi sentivo vinto, sapevano troppi dettagli. «Va bene, lo leggeremo insieme, domani stesso.» I lineamenti del vescovo tornarono sereni, con le stesse sembianze dell’uomo a cui avevo stretto la mano all’inizio e anche Padre Antonio, facendo un accenno di assenso con quel sorriso che non amavo, ripiegò quelle lunghe braccia in segno di riconoscimento. Ci alzammo e prima di congedarci, sull’uscio, sottovoce, Padre Antonio disse: «Signor Ciccone grazie per aver compreso, sappia che saremmo stati pronti a utilizzare qualsiasi mezzo pur di ottenerlo, ma siamo contenti che lei abbia capito.» Uscii dalla Curia che quasi sbandavo. Fumai tre sigarette, una dietro l’altra, e la nicotina a malapena attenuava lo stato di agitazione, con il sole accecante che stordiva ulteriormente i sensi. Avevo dato la mia parola, leggere l’ultimo messaggio con loro. Cercavo di far capire al cuore che era l’unica alternativa, la Chiesa era la Chiesa, parte in causa, e ne aveva diritto. Era questo che Dio voleva? Mi fermai in una rosticceria, più che fame era la sete che si faceva sentire e abbinai alla pizzetta una coca cola ghiacciata. Dovevo riordinare le
idee, riare l’incontro, analizzarlo. Una cosa era certa, sapevano dei messaggi ma non tutto, per esempio non avevano menzionato Suor Maria e ciò che ne era scaturito e inoltre sembravano all’oscuro dell’incontro che mi attendeva con Saulo, il vero motivo della mia venuta al sud. Dov’eri… antico prete, ricordo perfettamente quella sera, disteso sul divano di casa. La notizia della tua morte fu una scure che trafisse il cuore, gelandolo all’istante. Racchiuso nei pensieri e nella preghiera, tra sconforto, dolore e lacrime, ricordai tutti i momenti vissuti insieme. Le eggiate serali con i ragazzi nelle fresche serate di maggio con il Vesuvio illuminato in lontananza, le gare a chi catturava più lucciole, i gelati e le patatine che ci pagavi con i soldi della questua, la partecipazione alle sante cerimonie, i preparativi alle feste, più belli delle stesse feste, ma in mezzo a quei ricordi, si stamparono nitide alcune parole: “Dio ti ha scelto, devi seguirlo Paolo, sino alla fine!” Schiarii quella frase, cercandolo vicino a me. Avrei voluto essere con lui da Saulo, mi mancava. Mio figlio si era arrabbiato. Quella mattina sarebbe voluto venire con me, aveva pianto e per giunta dovetti sorbirmi la suocera che insisteva nel chiedere dove fossi finito. ai il pomeriggio a giocare con lui, rassicurandolo che l’indomani l’avrei portato dai cuginetti. Era difficile staccare la mente da quell’incontro, avevo bisogno di qualcuno che mi distraesse, che trasmettesse serenità, e chi meglio di Alex che mi abbracciava con la sua giornata. Dimenticai tutto… Tutto sino a quando disse: «M’insegni a fare le barchette di carta?» Ad Alex non solo avevo insegnato a fare le barchette, ma anche aerei e rane. Sul letto si rideva a crepapelle, raccontandoci barzellette che modificavamo con personaggi di nostra conoscenza. Avevamo lasciato la finestra aperta durante il giorno e le zanzare ci ringraziavano. Le ultime energie le spendemmo saltando sul letto con le ciabatte in mano per schiacciarle. Le stelle erano arrivate a una a una ad abbracciarci e non ce ne eravamo nemmeno accorti. Si addormentò felice e stanco, tenendomi la mano e il cuore, che costruiva e frantumava emozioni. Dalla strada udivo ancora un via vai di macchine e la sigla del tg5 della vicina sorda. Erano giorni che non sapevo nulla di cosa stesse accadendo nel mondo ma
tanto erano sempre brutte notizie. Venerdì mi aspettava l’incontro, dopo trentacinque anni avrei finalmente rivisto Saulo. Il sonno prese il sopravvento, senza che me ne accorgessi.
VII
Esterina - Marzo 1986
Il tempo non aspetta, è tuo, sei suo. Erano ati i primi cinque anni e mi arruolai. In pochi anni erano cambiate molte cose, soprattutto il desiderio di spiccare voli, d’essere indipendente. La ione per l’Esercito incarnava questo mio sogno, ma la vita riserva sorprese e quando imbocchi una strada sicura, avverti che ce n’è un’altra immaginaria, che ti trasporta verso un nuovo percorso esistenziale. Presto mi accorsi che esisteva qualcosa di più forte dell’indipendenza e del girovagare, qualcosa che sconfinava e superava tutto e tutti, una forza che sino ad allora avevo ignorato totalmente. Esisteva Esterina, l’amore. Riccia di capelli e sguardo angelico, alla messa di Pasqua gremita di volti, lei era lì, immobile come Madonna d’avorio, nel banco di terza fila. Incrociammo gli sguardi, per poi riguardarci curiosi, sino ad accenderci come cero pasquale e far sì che gli occhi infuocati calassero a terra a cercare un senso. Fu così che arrivò l’amore. La scintilla impazzita ci aveva trovato. Da quell’istante la vita ebbe un disegno… accadeva allora che un giorno ero il cieco e quello dopo cane pastore; che quella luna pallida tempestata di crateri rubava occhi e respiri, anime. Nelle poche occasioni in cui avamo momenti insieme, si accendevano emozioni così forti e intense che il cielo sembrava squarciarsi. Gli abbracci di un crescendo che schiacciava i polmoni, soffocando corpi che emanavano un intenso profumo naturale, mai conosciuto prima. Erano ore di silenzi, d’occhi iridescenti, che solo il tempo riusciva a staccare. Nei giorni lontani stendevamo le emozioni in righe calme, ondose, perpetue, oltre le linee dell’anima. Conservo gelosamente una delle sue lettere e quando ho bisogno di riempirmi di ricordi, l’apro. “Non immaginavo che questo soffitto bianco potesse divenire telo di storie, né che il tempo s’imprigionasse come fiato di fisarmonica in cerca di note. Stanotte slegherò i rumori di strada per farci esistenza; sarai luna da guardare; sarò terra e tu con me. Sei partito col treno delle ventuno e vorrei che già potessi leggermi,
invece le parole eranno segrete tra tante mani prima di giungere nelle tue. Imparerò l’attesa e tutti i santi del calendario; a vincere le distanze, che mai distanze sono. Apri le braccia quando mi leggerai perché ti appartengo“ Lo speaker del treno annunciò la fermata di “Villa Literno”. Assaporavo la gioia e la felicità degli attimi intensi che mi aspettavano dopo tre mesi di vita militare. Avevo chiesto ai genitori che venissero a prendermi in stazione, ero felice, con in tasca una licenza di tre giorni. Esterina e la famiglia mi attendevano, così come l’incontro e l’apertura del secondo messaggio. Le porte sfiatarono e appena sceso vidi stagliarsi in lontananza la figura di Don Salvatore che si sbracciava per farsi individuare. Com’era possibile non notarlo tutto in nero? Rimasi sorpreso della sua presenza, sapevo di avere un appuntamento con lui, ma non di certo vederlo così presto. Mi abbracciò forte, con occhi lucidi, dicendomi che i genitori non avevano potuto e che si era offerto di venire lui. Lungo la strada avvertivo uno strano silenzio, spezzato solo dallo stridio dei tergicristalli che a fatica strusciavano sul parabrezza per cancellare quelle gocce miste a sabbia che cadevano dal cielo. Osservavo il suo volto concentrato nella guida, muto di emozioni, come macigno in procinto di rotolare dalla più alta montagna per raccattare tutto, sino a valle. Pensavo ai messaggi, ignaro che quello strano silenzio apparteneva all’imperscrutabile Dio che sa spartire il dolore. Arrestò la macchina davanti alla chiesa, chiedendomi di entrare. «Don Salvatore so che dobbiamo parlare del messaggio ma adesso vorrei andare a casa e salutare i miei.» «Non è del messaggio che devo parlarti. Anche per quello, aldilà di quello che sto per dirti, saremo tenuti a leggere.» Le gocce schizzavano sui vetri dell’auto come diamanti impuri, scegliendo percorsi disordinati, isolandoci dal resto del mondo. «Ho da comunicarti una triste notizia.» Dal quel viso rugoso gli uscirono lacrime cipollose quando fece uscire un suono stridulo di un nome che divenne fuoco, pene e bestemmia d’inferno.
«Esterina...» Vi si è mai fermato il cuore? Siete mai saltati dal ciglio di un burrone col nulla sotto o avete mai percepito che la vita finisce all’istante e non esiste nulla che possa farla ritornare? A me sì! Riaprii gli occhi in una stanza di ospedale con tubicini che gocciolavano e aghi in vena. Percepivo voci di altri ammalati che sparlavano del governo e di Andreotti. Tutto era opaco, sbiadito, con un odore pungente di alcool che bruciava le narici. Piansi in silenzio per ore. Piansi. Esterina era morta da tre giorni. I genitori l’avevano trovata nel letto priva di vita. Un aneurisma dissero i medici. arono giorni privi di vita; rifiutavo di mangiare e furono costretti a nutrirmi artificialmente. Spesso ero sedato e monitorato costantemente dalla famiglia che cercava in ogni modo di aiutarmi con tutto un ripetersi di “ce la farai, devi solo dimenticare, superare questo momento”, mentre le uniche cose che ripetevo erano: “Voglio morire, come si fa a morire?” Lo chiedevo ai medici, agli infermieri e a tutti quelli disposti a sentire il mio dolore; a tutti chiedevo di aiutarmi a morire. Se sono ancora vivo lo devo al mio prete. Si sedette prendendomi la mano, pronunciando parole diverse, che mi permisero di continuare a vivere. «Faccio il prete da quarant’anni senza aver mai dimenticato il giorno in cui ricevetti il dono di Dio. In tutti questi anni ho svolto il ministero affrontando gioie e dolori di una moltitudine di anime. Ho battezzato tanti bambini, compreso te; ho sposato i tuoi genitori, e poi mille ancora. Ho visto visi felici e la vita che li aspettava, ma anche vite spezzarsi. Tanti nell’ultima ora mi tenevano la mano perché la presentassi a Dio nel miglior modo possibile. Sono entrate bare in chiesa di vecchi, giovani e bambini e ho visto entrare anche quella bianca di Esterina. Dio poteva prendere te o me, ma ha preso lei, il perché lo ignoriamo ma quando toccherà a noi lo sapremo, invece quello che sappiamo è che un giorno rivedremo tutte le persone care, dividendoci l’eternità. Esterina ti aspetta, sa che adesso non puoi andare come sa anche che la tua vita cambierà, che amerai nuovamente. Lei ti aspetta perché sa che l’amore non appartiene alla carne. Questa è la lettera che Esterina non è riuscita spedirti, tienila.» Piansi ancora. Ancora tanto. “L’amore vince sempre, anche quando perde”.
Questo era il messaggio di Don Salvatore; questo era il messaggio di Esterina. «Non amerò mia più nessuna, mai nessuna più di lei.» Dissi stringendogli forte la mano. Spesso mi chiedo quanto dista da Dio, se lo vede tutti i giorni e gli parla di noi. Sarà bello rivederci un giorno, sarà bello rileggerla insieme. Fui dimesso con molti chili in meno ma ripresi a mangiare. Il paese mi opprimeva, quei luoghi erano troppo vivi e pieni di noi e non avevo fatto altro che ricordare tutti i momenti vissuti insieme, l’amore e le promesse. Adesso volevo andare via, scappare lontano, fare il militare. Portai la seconda barchetta a Don Salvatore mentre stava dicendo messa, gliela poggiai nel cassetto della scrivania allegandoci un biglietto. “Grazie per tutto quello che ha fatto per me, gliene sarò riconoscente per sempre, sto partendo e non ho alcuna intenzione di leggere il messaggio, non m’interessa più, glielo lascio qui”. Partii.
VIII
L’uccisione - 4 luglio 1986
La vita militare m’illudeva d’essere distante dalle responsabilità rifiutate, finché giunse quello che non volevo arrivasse. Ero di guardia su un’altana di una polveriera di Nera Montoro in provincia di Narni per svolgere un servizio di sentinella. Due ore di guardia e quattro di smontante, ogni tre giorni uno di riposo da vivere tra la stanza e sala tv. Da lassù potevo ammirare le colline circostanti, filari di castagni e la superstrada che le tagliava. Per ammazzare il tempo cronometravo quante macchine sfrecciavano nei vari sensi di marcia, per determinare statisticamente quanti vacanzieri andavano al sud; oppure estraevo il foglietto plastificato per rileggermi le consegne. Le regole erano rigide, se avessi sbagliato la procedura dell’altolà chi va là, avrei preso una punizione e dimenticato la licenza. Ogni tanto guardavo in giro per vedere se con quel caldo qualche malintenzionato avesse voglia di attaccare una polveriera ma di sicuro erano tutti ad abbronzarsi sotto un ombrellone. La vita militare, oltre all’addestramento operativo, era basata sullo studio e sui servizi che impegnavano gran parte dei miei giorni. Arrivò il Capo Muta con il cambio, guardai l’orologio e non capivo perché fossero in largo anticipo, mancava ancora un’ora, forse l’orologio aveva problemi. «Altolà chi va là! «Capo Muta con cambio.» «Capo Muta avanti per il riconoscimento, cambio alt!» «Capo Muta riconosciuto, cambio avanti.» «Scendi giù che ti vogliono.» «Chi?»
«C’è un signore al telefono, dice che è urgente.» Per avermi rintracciato in questo posto maledetto significava che mi avevano già cercato alla scuola, alla fine si è sempre rintracciabili, ma addirittura così urgente da farne un cambio. Chi poteva essere? Pensai alla famiglia, agli amici… Feci il cambio col cuore in gola, accelerando i i per arrivare quanto prima al telefono. «Pronto chi è?» «Non mi riconosci?» «…Don Salvatore! Ha chiamato per darmi qualche altra brutta notizia?» «Paolo volevo dirti che è un periodo che non sto tanto bene, ho sempre timore che possa accadermi qualcosa e allora ti ho chiamato. Ascolta… c’è qualcuno vicino a te?» «No, nessuno! Cosa ha?» «Non importa. Quello che importa è che adesso devi ascoltami bene, perché se la mia situazione sanitaria dovesse peggiorare, non me lo perdonerei.» «Non dica sciocchezze, mi dica invece cosa ha?» «Ascoltami ti prego.» «L’ascolto.» «Ti leggo il messaggio, devi conoscerlo e cerca di ricordartene.» «Guardi che gliel’ho lasciato proprio perché non m’importava più nulla.» «Paolo mi dispiace dirtelo, ma non puoi. Tu sei il prescelto, tocca a te. Fa attenzione a ciò che ti dico: “LA TUA MANO E’ LA MIA – SETTE VOLTE LO COLPIRAI FINO A CHE ESANGUE NON LO VEDRAI, MASSIMO DEVE MORIRE”. C’è un simbolo che poi ho identificato come appartenente ai Rosacroce. Adesso ripetilo. Ci sei? »
«Ci sono, ma cosa vuol dire, chi è Massimo!» «Ripetilo.» Disse. «LA TUA MANO E’ LA MIA, SETTE VOLTE LO COLPIRAI FINO A CHE ESANGUE NON LO VEDRAI. MASSIMO DEVE MORIRE.» «Scrivitelo in testa e bene.» «Cosa significa! Com’è fatto questo simbolo e chi è Massimo?» «Credo sia la guida dei Rosacroce e deve morire.» Che messaggio era mai questo? Se avevo interpretato bene, significava che questo Massimo doveva essere ucciso e dovevo farlo io. «Io un assassino? Don Salvatore ma si rende conto di quello che mi sta dicendo? Io non ammazzo proprio nessuno, non sono un assassino. Questo è fuori discussione.» «Paolo ripetimi il messaggio.» «Di nuovo? Guardi che l’ho inteso bene.» «Ripetilo nuovamente.» « LA TUA MANO E’ LA MIA – SETTE VOLTE LO COLPIRAI FINO A CHE ESANGUE NON LO VEDRAI, MASSIMO DEVE MORIRE.» «Ecco, tu sei la mano di Dio, e tu dovrai farlo!» Il telefono rimase in silenzio, poi seguirono solo bip. Cosa stava succedendo! Chi erano questi Rosacroce, chi era Massimo? Perché doveva morire? Il cervello sembrava esplodere, Dio che commissionava un omicidio come un qualsiasi boss della mala, a me poi! Non gli era bastata la sofferenza di Esterina. Cinque miliardi di persone ed era venuto a chiederlo a me. Venne spontaneo dire: “E’ Dio, che bisogno ha di chiederlo a me?” Gli basta un nulla per farlo morire in qualsiasi modo. Che spiegazione potevo darmi se non quella di essere totalmente all'oscuro da qualsiasi verità. Sicuramente un progetto che la mia mente non era in grado di elaborare, ma quale?
Finii la polveriera con la paura dentro che mi consumava, la lettura del secondo messaggio era diventata una vera ossessione e m’impediva di svolgere con serenità le attività. Giunto a Viterbo la prima cosa che feci fu di uscire nella città deserta, vagando come anima persa, all’ombra dei muri per ripararmi dal sole che infuocava il basco nero. Mi sedetti su una panchina di una villa, accesi una sigaretta e iniziai un’altra delle mie lunghe considerazioni. Sono un soldato, arruolato per difendere la Patria; ho giurato davanti al tricolore dichiarandomi pronto al sacrificio della vita. Un soldato è un uomo d'onore e quando si trova contro il nemico lotta per non essere ucciso, esegue gli ordini, in battaglia uccide, convinto di essere nel giusto, di salvare con il suo sacrificio altre vite. Se un soldato arriva a questo, posso mai sottrarmi al volere di Dio che è sopra ogni bandiera e Patria, sopra a tutti gli ordini degli uomini? Adesso non avevo dubbi, Massimo doveva morire! Documentarmi era la prima cosa da fare, guardai l’orologio e mancava poco alle quattro, i negozi avrebbero aperto a minuti e la libreria centrale era la meta. Entrai fingendo indifferenza, leggendo titoli di ogni sorta sugli scaffali senza trovare nulla che mi interessasse e alla fine decisi di andare dalla commessa, che già da alcuni minuti mi scrutava sott’occhio. «Salve, sto cercando qualcosa sui Rosacroce.» La ragazza, annoiata da quel pomeriggio afoso e monotono, nella più totale indifferenza, si diresse verso uno scaffale tirando fuori tre libri. «Veda lei quale preferisce, ci sono tre autori diversi che ne parlano.» Disse senza alzare nemmeno lo sguardo. «Quale mi consiglia?» «Beh, questo di Heidel è il più completo.» «Li prendo tutti.» Risposi. ai le libere uscite sulle panchine di un parco desolato tra cicale che non la smettevano di cantare. Immerso nella lettura, alzavo lo sguardo solo quando il sole arrivava all’orizzonte. Assorbii tutto il sapere dei Rosacroce, comprese le fantasticherie degli scrittori, le loro antiche origini, il fondatore Christian Rosankreuz. Dodici uomini colti e di elevata spiritualità che guidati da un tredicesimo diedero vita all'Ordine. Allargando la conoscenza di questi mi venne
spontaneo pormi delle domande: quest’ordine era nato nel quattordicesimo secolo ed era sopravvissuto sino a oggi, nel silenzio operavano per il bene seguendo la parola di Cristo e riconoscendolo come "Salvatore del Mondo". Credevano nell'aldilà e nel trao dell'anima e avevano scelto come simbolo una croce con una rosa al centro. Insomma cosa c’era che non andava? Cosa avevano mai fatto questi Rosacrociani che Dio voleva punire? Forse non voleva punire l’ordine bensì il capo, Massimo. Ciò che mi sbigottì era il costante richiamo a San Paolo che quest’ordine citava, come le sue lettere ai Corinzi… ma un nesso proprio non lo intravedevo. Scoprire l’identità del loro capo spirituale non sarebbe stato facile, ucciderlo altrettanto, di sicuro doveva essere un personaggio di spessore che rivestiva una grande carica pubblica, un insospettabile… ma chi? Dovevo cercare fra persone influenti nel mondo che portassero questo nome, selezionarli e trovare un collegamento con i Rosacroce, solo a quel punto avrei trovato il mio Massimo. Sarebbe bastato questo? E se mi fossi sbagliato uccidendo un innocente? Quanti dubbi sorgevano. Presto stilai una lista di potenziali uomini con uno spiccato profilo di notorietà mondiale, aventi per nome “Massimo”. Scavai nelle loro vite, raccogliendo date, foto, ambienti lavorativi e famigliari, collegandoli poi con altri uomini influenti, per cercare una qualsiasi traccia residua che portasse uno di essi all'ordine. “L'ORDINE” questa parola ritornava maledettamente. L’ordine silenzioso, che non faceva alcun tipo di dichiarazione ufficiale né partecipava ad alcuna trasmissione, nessun articolo di giornale ne parlava. A nessuno avrei potuto chiedere informazioni, poiché nessuno sapeva di loro, nessuno se non chi apparteneva allo stesso ordine. Certo che se in questa barchetta dal colore arancione fosse stato menzionato anche il cognome sarebbe stato tutto più facile. L'unico modo possibile era quello di far uscire il nemico allo scoperto. Avevo imparato tante strategie nella vita militare e ora mi toccava mettere in pratica una di quelle, creare interesse nel mondo dei Rosacrociani facendo attenzione a proteggere la mia identità. Esisteva un solo modo per entrare in quell’ambiente segreto, riservato a pochi eletti; farmi cercare, svegliarli dal sonno. Come in una partita a scacchi feci la prima mossa, pubblicando un annuncio su un giornale nazionale utilizzando come indirizzo un fermo posta: “A seguito
di ritrovamento casuale,cedo con prezzo da concordare, antico manoscritto ROSACROCIANO risalente al 1465”. Le risposte non si fecero attendere e nel giro di una settimana giunsero alcune richieste all’annuncio. La prima apparteneva a un gallerista di Firenze che si dichiarava fortemente interessato all’oggetto e disposto a visionarlo; la seconda, alquanto singolare, portava solo un numero telefonico con la scritta “sono un apionato, mi contatti ”; mentre la terza e ultima perveniva da un indirizzo di Hannover (Germania) a firma di un tale Franz Koiser, disponibile ad un incontro immediato per l’acquisizione del manoscritto. Avevo agitato le acque, ne ero stato capace, ora toccava fare la seconda mossa. Dopo aver letto le risposte mi pervase un senso di angoscia e sconforto che mi rattristò. Mi sentivo come Don Chisciotte che lottava contro i mulini a vento e bisognoso di parlare con una persona fidata, che potesse ascoltarmi e percepire il mio dolore; un Sancho Panza che spingesse l’anima a confidarsi. All’angolo di un parco, un signore rachitico e catarroso deambulava fumando nervoso, scuotendo salici per intrecciarli di parole nel vuoto. «Un pazzo, ecco chi può ascoltarmi!» Dissi sicuro. Parlammo fino a quando non finimmo le sigarette, gli raccontai tutto quello che mi era successo in questi anni e lui mi ascoltava guardando sempre quei rami pendenti. Sorrideva quando gli davo la sigaretta e si spaventava quando avvertiva il mio tono di voce alzarsi. Gli chiedevo consigli pur sapendo di non ottenere risposte, sino ad abbracciarci e piangere insieme. «Amico mio grazie. Grazie d’avermi ascoltato.» Alla fine rise felice ed io tornai in caserma, mi stesi sul letto che il sonno già mi cercava da un’ora, e pensai… «Sì era proprio pazzo, ma io di più!» D’istinto, dei tre contatti, scelsi il secondo. Mi procurai un pacco di gettoni e chiamai da una cabina isolata. «Salve, chiamo per il manoscritto, so che è interessato. Può dirmi con chi ho il piacere di parlare e da dove?» Dall’altro capo mi giunse la voce di una donna, squillante e chiara.
«Buongiorno, sono la segretaria del Dott. Alfieri, in questo momento non è presente, se vuole lasciarmi un recapito la faccio richiamare…ma di che manoscritto parla? Il Dottore non mi ha accennato...» «Non si disturbi signora, mi dica solo quando posso trovarlo.» «Va bene, come preferisce, credo che lo troverà verso le sei di stasera, intanto mi segno l’appunto, lei è il Signor?» «De Belli.» Risposi. Attesi le sei e finalmente parlai con Alfieri. «Buonasera, parlo con il Dottor Massimo Alfieri?» «No, Attilio Alfieri.» «Ah scusi, devo aver compreso male il nome dalla sua segretaria.» «Dottor Alfieri, come ho scritto nell’annuncio sono in possesso di questo manoscritto che vorrei vendere, ho già alcune persone interessate, ma volevo renderla partecipe per un’eventuale proposta di prezzo. Tenga presente che è stato già sottoposto a verifica di autenticità e sinceramente, pongo come condizione che tale documento giunga nelle mani dei discendenti. Lei è per caso uno dell’ordine?» Dissi. «Signor De Belli, intanto la ringrazio per il pensiero che ha avuto nei miei riguardi. Non metto certo in dubbio l’autenticità del documento ma resta inteso che prima di parlare di prezzo, dovrei visionarlo. Per il suo desiderio di lasciarlo in custodia ai discendenti dell’ordine, beh possiamo discuterne.» «Allora discutiamone.» «Signor De Belli, non sarebbe opportuno parlarne davanti ad una tazza di caffè?» «Dott. Alfieri sarò franco, se lei non dà assicurazione di porlo in mani sicure, questa telefonata finisce qui e non ci sarà più contatto.» «Per noi è molto importante entrare in possesso di quel documento. Da anni lo
cercavamo… adesso capisce?» «Mi dia un indirizzo dove poterla trovare.» Dissi. «Le lascio quello di casa, le va bene sabato verso sera?» «Si certo.» «E’ un casolare nelle campagne dell’oltre Po pavese. Contrada “Ca dei Ponti”, via Dante n° 33.» Il ponte esisteva per davvero, immerso nella campagna brumosa che avvolgeva terre piane a me sconosciute, conduceva a un lungo viale alberato che apriva agli occhi, in tutto il suo splendore, un casolare ottocentesco. Tirai una corda legata a una piccola camla aspettando qualcuno che venisse ad aprirmi. «Dott. Alfieri?» «Certo, entri, l’aspettavo.» La casa era curata nei minimi dettagli, ogni cosa sembrava avere la giusta collocazione, l’arredamento era sul classico e di lusso. Scintillavano le argenterie nelle vetrinette e alle pareti colpivano numerosi dipinti con rappresentazioni di battaglie. L’occhio si soffermò su un candelabro a sette braccia con lo stemma rosacrociano… ero nel posto giusto. Entrammo in un grande salone e rimasi di sasso nel vedere ai lati della grande scrivania due Dobermann accovacciati. Sicuramente super addestrati e pronti a muoversi nel caso ce ne fosse stato bisogno. Ravvivò la stanza di luce con due enormi lampadari in vetro di Murano che scendevano con eleganza da un alto soffitto. Alfieri aveva un bell’aspetto, curato e garbato. Inforcava occhiali rotondi simili a quelli di John Lennon che si faceva scendere su un naso alla se. Capelli corti e tendenti al grigio si abbinavano bene al viso squadrato. Lento nei movimenti, azzimato, quasi regale, celava un fisico palestrato. «Non tema i cani Signor De Belli, sono cuccioli.»
«Beh Dottor Alfieri, francamente un po' di soggezione la mettono.» Ero in cerca di qualcosa che potessi collegare all’ordine, cercando di apparire naturale, disinteressato, scansionando tutto senza mai perdere contatto con Alfieri. Le uniche armi a disposizione erano gli occhi e dovevo sfruttarli. Ci accomodammo e sentii d’esser pronto a recitare la parte dell’affarista. «Signor De Belli, non so come lei abbia fatto a entrare in possesso di quel documento antico, francamente non mi pongo questo problema. Sono interessato all’acquisto e questa è l’unica cosa che conta, ovviamente cercheremo di trovare un accordo, lei l’ha con sé?» «Dottore, sono qui per concludere un affare: a me interessano i soldi, a lei il manoscritto. Come detto telefonicamente, ho altre persone che sono interessate all’acquisto, a giorni devo vederle, quindi le dico sin d’ora che non è detto che scelga lei; non è solo il prezzo che fa la differenza in questo caso. Comunque, mi dispiace deluderla, ma solo uno sprovveduto avrebbe portato il documento con sé. E’ chiaro che devo rendermi conto chi ho di fronte e potermi fidare.» «Certo, capisco, anche se ne sono amareggiato… ma mi tolga una curiosità: lei è qui per venderlo come affarista, ma non capisco che motivo abbia lasciarlo in mano a dei Rosacrociani, potrebbe venderlo a chiunque. Ci sono collezionisti miliardari che farebbero pazzie, invece ha deciso di restituirlo all’Ordine.» «Aspettavo questa sua curiosità. Quando sono venuto in possesso del documento non ne conoscevo la natura, è scritto in lingua latina con annotazioni a margine in tedesco. Il documento porta un simbolo che poi ho individuato in quello Rosacrociano. Mi sono apionato a quest’ordine, tanto dal desiderare di farne parte, purtroppo dalle poche informazioni che ho potuto reperire, so che è una cerchia ristretta con l’accesso riservato a pochi eletti. Non ho i requisiti per farne parte ma nutro una grande stima e rispetto per l’Ordine. Porre nelle mani di un semplice collezionista questo documento non mi appagherebbe, nonostante i soldi.» Alfieri aveva accennato a un lieve sorriso in segno di soddisfazione per l’apprezzamento rivolto all’Ordine. «Posso sapere che lavoro fa e dove?» Disse. «Senz’altro! Sono un restauratore, ho ereditato il mestiere da mio padre e lo
faccio con ione e soddisfazione. Viviamo nella periferia di Milano, anche se le origini, come avrà notato, sono del Sud. Lei invece?» «Sono a capo di una multinazionale, abbiamo filiali in vari paesi del mondo e spesso sono in giro per affari.» «Bene Signor Alfieri, adesso parliamo del nostro di affare; quanto sarebbe disposto a offrirmi per il documento?» «E’ chiaro che il manoscritto in questione è raro e importante per noi. Prima di parlare di prezzo, con la speranza che si arrivi a un accordo, vorrei che lei mi assicurasse il massimo riserbo sulla trattativa e me lo mostrasse.» «Ho tutto l’interesse che nessuno sappia. Per la visone a breve glielo sottoporrò.» «Bene. Signor De Belli, se saranno confermati l’originalità del documento e lo stato di conservazione, posso offrirle cento milioni.» Dovetti dare l’impressione di essere appagato dall’offerta e nonostante la delusione di non esser approdato a nulla, costui si guardava bene dal fornirmi indicazioni precise e sapeva perfettamente districarsi con il suo linguaggio facondo. Gli strinsi la mano assicurandogli che presto avrebbe avuto notizie e che, nel momento in cui l’avessi scelto come acquirente, avrei fornito le modalità dello scambio. Ci alzammo, mi fece strada, mentre i cani imperterriti permanevano nell’immobilità, e fu un lampo improvviso quando gli occhi fecero il loro dovere, un colpo di fortuna quando si posarono su una foto di gruppo posta su un mobile. Quattro persone in posa con la scritta “Mit Liebe, Franz”. Franz… era quello che aveva risposto all’annuncio? La cosa più stupefacente fu l’aver riconosciuto uno dei dodici “Massimo” che avevo selezionato. Se quel piccolo gruppo era l’élite, se quello era ciò che cercavo, potevo saperlo in un solo modo: verificare che il Franz letto in dedica sulla foto fosse lo stesso Franz Koiser che mi aveva contattato. Massimo Alberto De Concilis, vice presidente della Norflez & Company di Boston, società conosciuta in tutto il mondo, impegnata nel campo di ricerca e sviluppo tecnologico di sistemi di difesa aerospaziali. Il mio uomo adesso aveva un volto, sapevo chi colpire. Anche il viaggio a Hannover aveva dato i suoi frutti, avevo conosciuto Franz Koiser e dopo aver mercanteggiato e posto le stesse condizioni di Alfieri, mi ero assicurato della sua appartenenza all’Ordine e
osai rischiare. «Egregio Koiser le porto i saluti del Dott. Alfieri.» Ebbi poco tempo per rendermi conto della sua reazione, osservando il suo sguardo imibile di tedesco. «Signor De Belli vedo che è molto addentrato, grazie per i saluti, ma intuisco che anche Alfieri è interessato al manoscritto. Posso offrirle il doppio di qualsiasi somma da lui offerta.» «Anche il doppio di quello che mi offre il vostro presidente?» Chiesi. «Quale presidente?» «Massimo Alberto De Concilis.» Risposi. Adesso l’imbarazzo di Koiser era palese. Si accese un sigaro e rimase a fissare la pioggia scrosciante che si abbatteva sulle sue rose. «No, non posso offrirle il doppio Signor De Belli, lei mi sorprende e devo ammettere di trovarmi davanti ad una persona strana, questa conversazione finisce qui. Conosce la mia offerta e nel caso sia io il prescelto, mi contatti.» «Certamente Signor Koiser.» «Sig. De belli, anche se non dovessi essere l’acquirente, ha possibilità di farmi visionare il manoscritto?» «Troverò il modo di accontentarla Signor Koiser.» Chi era Massimo Alberto De Concilis? Che cosa nascondeva all’ordine e al mondo intero? Qualunque uomo fosse, avevo un compito ben preciso e dovevo portarlo a termine. Ufficialmente un italiano emigrato all’estero, uno dei tanti che aveva cercato e trovato fortuna in una nazione che aveva costruito il suo potere con l’avvento della seconda guerra mondiale, e accolto a braccia aperte i migliori cervelli in cambio di fama e soldi; ma quando il bene viene rapito dal male, quando l’angelo di Dio diventa ribelle, inizia la lotta. Massimo veniva in Italia almeno
un paio di volte all’anno per rivedere la famiglia d’origine, ed io lo attesi poco. Tv, radio e giornali per giorni raccontarono di quest’omicidio efferato, era stato trovato in una pozza di sangue con sette coltellate nel petto, molte ipotesi tra cui anche quella marginale dell’appartenenza all’ordine. Steso sul lettino della mia stanzetta, racchiuso nel buio profondo, nella notte che ruba i colori, piangevo. Ero stato io? L’avevo ucciso con le mie mani? Un assassino! Altro non ero che un assassino, uno dei tanti. Non ricordavo nulla, non ricordavo il momento in cui avevo sferrato i colpi, neppure d’essere stato a casa sua, un vuoto, una voragine. Avevo adempiuto ciò che mi era stato comandato, avevo alzato le mani su un fratello che neanche conoscevo. Signore Iddio perché? Dovevi dirmi perché! Anima nera e mani rosso fuoco.
IX
L’inganno - mercoledì 5 Agosto 2011
Mia suocera comprava i biscotti Colussi, una vera delizia inzupparli nel caffelatte. Era partita la sigla del tg5 con l’urlatore che apriva un ampio servizio mostrando alcuni camorristi arrestati per estorsione di pizzo. Erano proprio brutti ceffi. Alex scese di corsa con il cellulare in mano: «E’ la mamma, ti vuole.» «Ciao amore, che è successo di buon mattino?» «Ciao, niente di preoccupante, ti cercavano dall’ufficio e il cellulare era occupato.» «Ma non è occupato, qui il segnale non prende bene perché le mura sono spesse e per ricevere bene devo stare in giardino, comunque adesso chiamo io. Per il resto tutto bene?» «Si bene, a te come va? Hai fatto il tour forzato dai fratelli? Cosa ti hanno raccontato di bello?» «Mah, sempre le solite cose, qui non cambia mai nulla.» «Ma tu hai la capa tosta, vabbè ci sentiamo con calma sto uscendo per andare al lavoro.» «Aspetta…hai tempo per quel sogno?» «Al ritorno ti ho detto…ora non ho tempo, devo continuare a leggere…» «Leggere cosa?»
«Un bacio, a presto!» Attaccò senza come e perché, come se avesse fretta e quella frase lasciata sospesa “devo continuare a leggere” sembrava saltata fuori da chissà dove. Chiamai in ufficio ed ebbi la brutta notizia, un collega era in fin di vita, aveva subito un incidente. Filippo cavolo, non farmi scherzi, riprenditi subito! Questa notizia proprio non ci voleva e con essa mi era ata la voglia di fare colazione. Stavo per alzarmi quando gli occhi si posarono su una bottiglia di vino incartocciata in un foglio di giornale. La scritta “MATTIAS” era cubitale e sotto s’intravedeva parte di una foto. Srotolai il foglio e nel trafiletto si parlava di una visita pastorale del Vescovo alla Madonna di Montevergine. Seppur in bianconero e sfumata, la figura del Mattias conosciuto il giorno precedente era un’altra. Che scherzo era questo? Dovevano sicuramente aver sbagliato foto, a volte i giornalisti fanno errori grossolani. Senza staccare gli occhi dall’immagine dissi: «Alex portami il tablet, devo googlare una cosa.» Digitai “Vescovo Mattias Diocesi di Capua” e… non aprii bocca. Non so per quanto tempo trattenni l’aria nei polmoni. No, non si erano sbagliati. Irretito, soggiogato da individui che avevano teso un tranello brillantemente architettato, ecco cosa avevo subito. Chi erano costoro e come avevano fatto a sapere tutto di me, a seguirmi per anni, chi gli aveva ato le informazioni? Ero in pericolo, in forte pericolo, finito in un’ime da rendermi inerte e toccava lambiccarmi per trovare una via d’uscita. Ora avevo una sola certezza, chiunque fossero, rappresentavano “IL MALE”. Neanche il luogo dove ero stato il giorno precedente corrispondeva alla vera curia di Capua, infatti la mappa dava dall’altra parte della città. A essere in pericolo c’era tutta la mia famiglia, queste persone potevano arrivare ovunque e lo avevano fatto intendere bene. Se ero stato seguito per tutto questo tempo significava che lo ero anche adesso, che conoscevano tutti i miei spostamenti. Dovevo agire in fretta. Trovare un posto sicuro. «Ciao Peppino, sono Paolo.» «Noooo… non ci credo… che sorpresa! Mi si riempie il cuore. Dove sei?» «A Grazzanise e tu?»
«Sei qui! Da quanto?» «Peppino ci vediamo? Devo parlarti.» «E me lo chiedi? Certo, a da me. Ti aspetto!» «No, ci vediamo al posto di sempre.» «Al posto di sempre? Ok ti aspetto!» Abbracciare l’amico, quante volte avevo immaginato questo momento. Avrei potuto farlo in tante occasioni ma avevo sempre rimandato, intanto le nostre vite erano scorse come il fiume Volturno, tortuoso verso il mare. Nonostante fossero ati molti anni era l’unico di cui potessi fidarmi e ora era giunto il momento di parlargli del ato. Com’eravamo cambiati… erano spariti i capelli e i jeans a zampa di elefante, in cambio c’erano cresciuti peli e pizzetti, mentre rughe e pance arrotondate erano il nuovo look, ma i sorrisi… quelli erano rimasti uguali, immutati. Ci abbracciammo forte e dopo esserci raccontati dei figli, della vita e del lavoro, ammo ai “Ti ricordi?”: sembrava che non ci fossimo mai lasciati, anzi visti il giorno prima. Poi mi disse: «Sei sempre tu; sempre con quella malinconia appiccicata addosso, quella dolcezza indefinita che spesso mi portava a prenderti in giro, accostandola alla “Monna Lisa”. Sempre lo stesso, sempre il mio amico. Ti ho pensato tanto in questi anni e conservo ricordi indelebili.» «Peppino hai tempo per ascoltarmi? Mi vergogno di averti cercato solo adesso e per giunta in un momento di forte bisogno. Ho pensato a te e non chiedermi perché.» «Dopo tutti questi anni ati senza esserci sentiti mi chiedi se ho tempo? Certo che sì. Anch’io non ti ho cercato, ma adesso siamo qui, e questo conta! Per noi il bene è rimasto intrappolato nel profondo dell’anima. Ti ricordi quando ne parlavamo da ragazzi? Cosa ti succede? Raccontami!» «Quello che sto per raccontarti è inimmaginabile, va oltre ogni logica reale e umana. Fuori posso sembrare lo stesso, ma ti assicuro che la mia anima è mutata. Sto giungendo al termine di una storia durata trentacinque anni e adesso che la fine è vicina, sento per la prima volta il pericolo che bussa alla porta. Ciò che dirò, che tu voglia credermi o no, è l’unica verità. Quando avrò finito questo
racconto sarai libero di alzarti e salutarmi e sarai sempre il mio Peppino, il mio amico.» «Paolo forse non hai capito o forse fai finta. Io sono da sempre il tuo amico, e tu il mio. Non dobbiamo aggiungere nulla.» «HO UCCISO!» Scese il silenzio, inghiottì tutto e tutti. Alberi, case, macchine e persone. Di colpo penzolavamo come veli di lino usurati, stesi su una corda ad asciugare. L’aria divenne avvolgente e pesante, offuscata da impedirci di scorgere la vita intorno, come se non distinguessimo più alcun oggetto e nessun suono arrivasse alle orecchie. Sguardi smarriti nel cielo latente, aspettando che a momenti scendesse l’apocalisse. Mi guardai le mani, sembravano tinte di rosso fuoco, con vene gonfie e violacee a pulsare forte, quasi volessero esplodere. Il mondo sembrava di vetro, così fine, fragile da frantumarsi all’istante e noi gli elefanti che ci camminavano sopra. «Parla Paolo, ti ascolto.» La mia voce divenne roca, come un lontano rumore, tonfa, come uscita dalle viscere della madre terra per scatenare la propria energia. Feci un lungo respiro cercando di regolare il fiato che mi avrebbe permesso di far vibrare le corde vocali, iniziando quel lungo racconto. Trentacinque anni erano tanti e quando finii, mi accorsi che avevo impiegato più di due ore. Non mi aveva interrotto, né aveva battuto ciglio, come se avessi parlato a un albero, ma conoscevo bene le sue profonde radici, ora immerse anch’esse in lava incandescente. Niente che assomigliasse al pazzo del parco. «Paolo mi sono sempre chiesto dove fosse Dio. L’ho cercato e inseguito per tutta una vita senza mai toccarlo e vederlo, senza nemmeno sfiorare la sua presenza. Ti sembrerà normale, lo è per tutti quelli che lo cercano, ma non per me che l’ho fatto sino allo sfinimento, svuotandomi l’anima. Ho parlato con lui per anni volgendo lo sguardo al cielo senza ricevere mai una risposta degna che mi fe capire dove fosse, una certezza che mi aiutasse a proseguire questo percorso terreno. Ogni volta che giungevano notizie di stragi, guerre e cataclismi lo imprecavo, gli bestemmiavo contro. Sono stato il San Tommaso che voleva a tutti i costi mettere mano nel suo
costato, averlo di fronte e poterlo guardare negli occhi. Ogni volta che sentivo parlare di lui la mia risposta era sempre la stessa: dov’è? Fatemelo vedere; fatemi parlare con lui. Ho chiesto a tutti i sacerdoti, dotti e falsi profeti che incontravo sul cammino e nessuno andava oltre a ciò che già conoscevo, ho letto infiniti libri ma non era neanche lì. L’ho cercato nelle dune dei deserti, su monti inesplicabili, in mezzo agli oceani, ovunque. In nessun luogo era, tutti lo conoscevano ma nessuno sapeva indicarmelo. Il mio cuore si è sempre rifiutato di accettare i miracoli. Questo Dio imperturbabile, serio e cocciuto, questo Dio spietato che ne salvava uno a caso per poi farne morire a migliaia nei modi più atroci e disperati. Mentre ogni giorno chiudono gli occhi bambini innocenti di fame, dilaniati da bombe, violenze e malattie, mentre poveri lacerati, segnati dalle fatiche e dagli strazi della vita, si arrendono abbandonando il proprio corpo sotto ponti avvolti in letti di cartone; mentre malati terminali acerbi negli anni, spendono gli ultimi respiri in stanze di ospedali e che vorrebbero nuovamente vedere il mare anziché posare lo sguardo su aghi nelle vene, lui si nasconde. Dio che ci permette di mangiare il bue, il maiale e i pesci e quant’altro mentre risparmia altre specie dalle nostre bocche affamate di carne. Dio è stato il silenzio eterno che ho rifiutato, colui che ascolta le preghiere arrogandosi il diritto di non rispondere. Già quando guardavamo il cielo chiedevo di lui fra stella e stella, nel buio eterno. Perché Paolo, perché ci ha fatto cosi imperfetti? Ora tu sei qui, a parlarmi di lui, raccontandomi di come si è avvicinato a te sin da bambino tramite Saulo, della rivelazione di un piano che ancora tu stesso non comprendi, che ti ha scelto per proseguire il suo progetto e che tu lo stai fedelmente eseguendo, almeno sino a oggi. Tu hai ucciso per lui, ti ha dato la mano per farlo, tu e non io. Ha scelto te e non me. Perché? Perché non io che ho sempre desiderato avvicinarmi a lui? Non ne sarei stato forse capace? Ho riso in faccia a tantissime persone, un riso amaro ogni volta che davano risposte aleatorie, prive di certezze, e in collera mi giravo infastidito, deluso, vinto, con la consapevolezza che nessun Dio esisteva e che nessuno avrebbe mai colmato questa sete fino alla fine dei miei giorni. Ora sei arrivato tu, il mio amico di sempre, dopo trentacinque anni mi mostri la fonte limpida e trasparente perché m’immerga, m’inviti a bere per dissetarmi da quest’esistenza vuota. Tu, l’amico che fa uscire dalle sue labbra quello che non aspettavo più, che
infila le parole nelle mie orecchie sturandole dal cerume della società, espandendole in tutto il mio corpo e l’anima. Attraverso te posso possedere tutto quello che ho sempre cercato. Paolo liberami...» «Peppino a volte ci sembra di conoscerlo bene, di avere il suo disegno attaccato alle pareti, poco dopo siamo smarrirti, persi nella fragilità del mondo, abbandonati in qualsiasi angolo di strada. Io stesso, se non avessi vissuto questo dono, avrei sofferto della tua stessa sordità, io stesso l’avrei bestemmiato. Un giorno mi trovavo a Roma, andai a visitare una mostra di Van Gogh, giravo per le sale con le mani incrociate dietro la schiena in mezzo a tanta gente, scorrevo i suoi quadri e poi… quando giunsi davanti a “Il seminatore” mi fermai. Era come se fossi giunto a destinazione, rimasi lì, a guardarlo sino alla chiusura della mostra. Dio era lì, lo percepivo in quei colori, Dio era in quei blu e viola, nei bruni e negli azzurri. Era nelle pennellate di quel sole giallo. Dio era in quel campo, nel contadino che spargeva semi nel terreno… e l’unica cosa che mi venne da dire fu: “Che ci fai qui, anche qui?” Peppino, amico mio, Dio non è solo nei posti impensabili, dove mai immagini e dove lo hai cercato. Dio c’è sempre stato, ovunque, anche senza averlo mai trovato Lui ti ha avuto da sempre, prima che potessi porre il primo pensiero e fare domande. Dio ha trovato la tua inquietudine prima che nascessi e in tutti i i che hai percorso, prima ancora che lo bestemmiassi. Ha scelto me e ora te, che sei insieme a me. Non so perché ma è così. Peppino Dio è proprio strano!» «Sarò quello che vorrai. Sarò al tuo fianco nello stesso modo in cui lo eravamo da ragazzi, sarò ad aiutarti perché tu mi aiuti.» Disse. «So cosa desideri, so cosa posso darti. Ora ascoltami bene perché non abbiamo molto tempo a disposizione. Ci abbracciammo pieni di lacrime.»
X
Il Gran Sigillo – Estate 1991
“Et cum venissemus Syracusam, mansimus ibi triduo. Il mio cammino sarà il tuo”. Il cammino di San Paolo, chi pensava che esistesse? Conoscevo quello di Roma e di Santiago ma questo proprio lo ignoravo. Ormai Saulo era diventato come una seconda pelle, tutto era collegato a lui, impossibile dimenticarlo, tra l’altro avevamo anche lo stesso nome. Se dovevo fare io questo cammino e non altri un motivo doveva esserci. Don Salvatore non ti ho più con me, non ho più il mio prete, l’amico, lo psicologo e il dottore. Te ne andasti senza dirmi nulla e stetti lì a vedere entrare la tua bara, non riuscii neanche a piangere. Mi manca un pezzo della vita ata con te. Il porto di Siracusa era tutto un movimento di uomini e mezzi. Carico e scarico merci, odori, suoni; chiacchiere di turisti avvicinati da affittacamere, tassisti che ti chiamavano; un pulsare di vita, un misto di lingue e di dialetti. M’incamminai nell’antica città tra minuscole stradine con la sensazione d’essere un uomo fuori dal tempo, perso in conversazioni con gente vissuta millenni addietro, aggirandomi fra mercatini colmi di spezie e di sete pregiate. Una città magica che scopriva la sua magnificenza a ogni angolo, testimone del aggio di tante civiltà che se l’erano contesa. Questo riportava il terzo messaggio, e da qui ripartiva il mio strano percorso. Avevo appreso su alcuni libri che questi cammini, aldilà delle fatiche, rappresentavano principalmente percorsi spirituali finalizzati al distacco dalla vita materiale, all’abbandono, al silenzio e la ricerca dell’IO. Se San Paolo lo aveva fatto per far conoscere al mondo la nascita del nuovo credo, io in esso dovevo ritrovarmi. Ero abituato alle lunghe camminate, alle marce forzate e sebbene non sapessi quanti giorni sarebbe durato questo viaggio, avevo preso licenza a sufficienza. Poggiai il pesante zaino a terra sedendomi al tavolo di un decadente bar e ordinai una limonata. Un ragazzo si avvicinò a un vecchio jukebox Wurlitzer del
‘56 e v’inserì una moneta pigiando dei tasti. Il vecchio motore girò lento una leva meccanica, estraendo un vinile che conoscevo bene: “Se stiamo insieme” di Cocciante, la canzone preferita di Elena. In quell’aprile del ‘91 arrivò l’impensabile nuovo amore. Giunse con lo zinzilulare delle rondini e dei mandorli in fiore, facendomi rialzare gli occhi al cielo per accorgermi che quella luna ignorata era sempre stata lì, anche di giorno, ad aspettarmi. Arrivò con fogli in mano dicendo: “Salve, stiamo raccogliendo fondi per la costruzione di un ospedale pediatrico in Sudan, le va di contribuire con un’offerta? Basta una piccola somma”. Elena, con quell’incedere soave, iniziò a sciogliere i suoi colori, coprendo con movenze regali gesti e parole. Portava capelli ramati su esile schiena e un viso chiaro punzecchiato da impercettibili efelidi; occhi brillanti, turchesi, su un visino dal cui collo pendeva una leggera sciarpetta rossa, rivelandosi eterea a una primavera inaspettatamente pungente. Fu quello l’attimo in cui le lancette della mia vita vinsero la resistenza degli ingranaggi rugginosi, allineandosi ai battiti del suo cuore… e il buio smise d’essere buio e tutto ricominciò. E’ così che arriva ciò che tutto regola, all’improvviso. Ricordai Cesare, il rossiccio del paese che a tutti i costi cercava un amore all’altezza dei suoi sogni. Lo cercò ovunque, giorno e notte, invano. Un giorno ando per caso dalle sue parti, fui attratto dalla sua musica malinconica. Se ne stava seduto davanti al portone di casa con l’inseparabile chitarra, strimpellando accordi struggenti di Pino Daniele, simili alla sua angoscia. Alle sue parole di dolore cercai le mie, nella speranza di spezzare quell’incantesimo e toglierlo da quello stato di abbandono, e allora gli dissi: «L’amore ci distende sui prati per farci guardare le nuvole o ci chiude nello stanzino buio del dolore. E’ polvere d’oro sospinta dal vento per mesciarsi, correre lontano, in mani aperte. L’amore è l’attesa di un figlio lontano che aspetti da anni nel giardino di casa mentre ti accorgi che l’uva della pergola è già matura. Sono voci lontane di bimbi che ti chiamano per giocare a moscacieca. L’amore è il bacio rifiutato; la lettera che non hai mai spedito. E’ la convivenza con la paura, il cuore che spinge il tuo sangue mentre parli di lei. L’amore è distruggere e ricostruire, piangere e ridere di gelosia. L’amore è giocare a nascondino sperando d’esser trovato. L’amore è agape.» Poi aggiunsi:
«Stai qui, rimani su questi gradini, stacci domani e il giorno dopo ancora… e aspetta. Sii mendicante, apri le mani e il cuore nello stesso modo in cui suoni.» «Che significa? E’ così che troverò l’amore?» Rispose. «Significa che se non l’hai trovato è perché mentre lo cercavi in giro, ti stava aspettando qui. Significa che è lui che deve trovarti. Tieniti pronto ad accoglierlo e presto arriverà.» Cesare fu trovato, così, proprio come me. Qui amore, seduto su questa sedia sbiadita di questo squallido bar, assaporo l’amara distanza che mi priva di te, l’inutile vuoto di una caduta libera che non toccherà il suolo. Ho al dito l’anello che mi hai regalato, e scopro, sotto il suo splendente oro, l’origine, il segno bianco che nessuno potrà mai invecchiare. Sfiorarti i capelli è l’unica cosa che adesso vorrei e credimi, mi tremano i pensieri. Il braccio meccanico staccò il disco riponendolo nel cestello, pagai la limonata, indossai lo zaino e ripresi il cammino. Non avevo un programma né un luogo preciso, ma solo un percorso da seguire e gli eventi che lo avrebbero determinato. Sapevo per certo che a Siracusa Saulo vi era rimasto tre giorni e tanto sarei rimasto. Tanto per ritrovare il centro della mia esistenza. Mi lasciavo il porto alle spalle e dopo una breve sosta al bar ero nuovamente a godermi la città che sul mezzogiorno pareva quietarsi dal vorticoso caos mattutino. Il sole era alto e cercavo di defilarmi nell’ombra sfruttando le strade alberate. Ammiravo i balconi traboccanti di fiori, annusavo il loro profumo che si espandeva nelle narici donandomi un senso di benessere e di freschezza. Mi fermai davanti ad una saracinesca chiusa ornata da vari disegni di street art e lessi affisso un foglietto sgualcito con la scritta “Affittacamere” con una freccia che indicava il camlo vicino; suonai attendendo a lungo e mentre stavo per riprendere il cammino si affacciò un bambino che disse: «Zia vieni che ti cercano.» Una signora dall’aria stanca ma dal viso aggraziato spalancò del tutto la finestra socchiusa. Indossava una classica lunga veste nera che poco figurava con la chioma rossiccia. Doveva essere sulla quarantina e nonostante l’aspetto trasandato nascondeva ancora il fascino di una che in tempi non troppo lontani, aveva vissuto giorni migliori. «Non ci serve niente, grazie.» Disse richiudendo la finestra.
«Signora veramente non vendo niente, chiedevo solo se affittavate.» «Aspetti.» Rispose riaprendola. Sentii rumore di catenacci dietro un grande portone affiancato alla saracinesca e una porticina ricavata si aprì. «Mi scusi, pensavo fosse il solito venditore di folletti o il piazzista d’assicurazioni, prego entri, le faccio strada.» «Grazie.» Risposi con un sorriso rassicurante. Varcato il portone, mi trovai in un grande cortile pavimentato da grandi lastroni irregolari di pietra lavica, lisciati dal tempo che ricordavano tanto quelli degli scavi di Pompei. Lungo il perimetro erano posti vasi di varie forme colmi di piante e fiori che aggraziavano l’ambiente. Poco più in là fui attratto da un’anfora gigante, antica, dalla cui cima traboccavano sino a terra magnifici gerani rossi. Vicino al muro era stata ricavata una graziosa e piccola nicchia addobbata di rose rosse dove all’interno, illuminata da un piccolo faretto, con mani giunte e sguardo verso il cielo, c’era la Madonna. «La Madonna delle Lacrime.» Rispose, accorgendosi del mio interesse. «Lacrimò a pochi isolati da qui, a casa di una giovane coppia. Tenevano la sua immagine al loro capezzale e da allora ha fatto tanti miracoli. In città già da anni è in atto la costruzione di un grande santuario. I siracusani sono molto devoti e la sua fama ha raggiunto tutti gli angoli della terra, portando turisti come lei.» «Lei è un turista vero?» Disse facendosi il segno della croce. Seguendola nel gesto del Padre, Figlio e Spirito Santo risposi: «Certo, devo fermarmi solo tre giorni. Signora sinceramente non conoscevo la storia di questa Madonna.» «Ecco, questa è la stanza, ha un bagno attiguo dotato di vasca con tendina per la doccia. Il costo è di 15 mila lire al giorno ma se vuole posso offrirle anche pensione completa a 40 mila lire. Il menù è lo stesso che faccio per me e mio nipote e gli orari sono precisi… alle otto colazione, alla mezza pranzo e cena alle sette.»
La stanza era provvista solo dello stretto necessario, non possedeva tv, frigo e telefono ma in compenso era pulita e ordinata. «Signora non credo che riuscirò a rispettare sempre gli orari, ma se ha l’accortezza di tenermi da parte la cena, accetto la pensione completa.» «Ma mangerà scotto e freddo!» «Beh, se dovesse accadere mi arrangerò, poi con questo caldo non credo che mi farà male… ah dimenticavo… mi chiamo Paolo e dopo le fornisco i documenti.» «Piacere Carmela, se ha bisogno di qualcosa, basta bussare a quella porta di fronte.» Ci demmo una stretta di mano e sorridemmo compiaciuti per la conclusione dell’accordo. Il letto era confortevole e invitante, mi distesi e presto m’immersi in un sonno profondo, proprio come ci s’immerge in un mare calmo, riaprendo gli occhi a un’ora prima della cena. Dovevo far presto, Carmela aveva imposto orari fissi e non volevo sicuramente essere in ritardo al primo pasto. Che strano sogno avevo fatto, breve, nitido, enigmatico e inquietante. Mi buttai in vasca, non ero più abituato ai bagni rilassanti, nell’Esercito si correva sempre ed esistevano solo docce, per non parlare delle turche. Nel caldo tepore dal profumo di lavanda, lasciato all’abbandono del corpo, l’immagine del sogno che mi aveva turbato ritornò: stavo in catene…ero un prigioniero! «Signora Carmela cosa ha preparato di buono?» L’ambiente famigliare ricordava molto quello di casa, così come la buona cucina. Le chiacchiere scorrevano fluide raccontando la vita e i problemi di tutti i giorni. Da circa due anni aveva perso il marito in un incidente e ora la sua esistenza sembrava segnata. Per sopravvivere aveva deciso di affittare ai turisti un’ala della casa ormai troppo grande, inoltre questa soluzione le permetteva di stare in contatto con le persone, portandole una ventata di vita, distogliendola dalla solitudine opaca che spesso l’avvolgeva.
«Tre giorni a Siracusa bastano per visitarla, solitamente i turisti hanno un loro percorso prestabilito, girano in gruppi o in coppia mentre lei…» «Un solitario.» Dissi. «Esatto, la parola non mi veniva… grazie.» «Signora amo viaggiare da solo, mi permette di stabilire tappe con calma e di non dipendere da nessuno. Comprerò una guida e la seguirò.» «Beh sicuramente ci sono tante cose belle da vedere, c’è la costa meravigliosa, il duomo, la chiesa di San Giovanni delle catacombe, la chiesa di Santa Lucia al Sepolcro e quella della Badia dove all’interno può ammirare un quadro di Caravaggio, poi il teatro greco…» «Ci sono catacombe qui?» Dissi interrompendola. «Certo che sì, i primi cristiani della penisola nacquero qui. Nella chiesa accanto ci sono le spoglie di San Marziano il protovescovo di Siracusa, è lì che si fermò San Paolo a predicare e a convertire i pagani, anzi se vuole mio fratello Ignazio fa il custode al sito e potrebbe guidarla lui, lontano dai turisti giacché ama girare la città da solo.» Sapevo che San Paolo era stato a Siracusa per predicare, ma poiché ignoravo l’esistenza di questa chiesa e delle catacombe, accettai volentieri la guida di suo fratello e l’indomani avevo già l’appuntamento fissato per le otto. Ignazio ò a prendermi quasi un’ora prima, aveva la mano sinistra priva del pollice e quando si accorse che avevo posato lo sguardo su di essa, sorridendo disse: «Un regalo dei botti di capodanno del ‘71.» Di età avanzata rispetto alla sorella, affabile e loquace, denotava un’apprezzabile espansività garbata che lo rendeva simpatico agli occhi. «Signor Paolo è un piacere farle da guida, ci vorranno venti minuti per arrivare, quando avrà finito la visita e vorrà tornare da mia sorella dovrà prendere il 24 che a ogni mezz’ora, alla sesta fermata dovrà scendere.»
«Signor Ignazio è gentile, ma siccome ho intenzione di visitare altri luoghi, sicuramente mi perderò per la città.» «La disturba se ci diamo del tu? » Disse Ignazio. «No, assolutamente, anzi ne sono onorato.» «Questo sito è visitato da tanti turisti ma non tutte le aree sono aperte al pubblico, farò un’eccezione per te. Carmela mi ha detto che sei un’anima solitaria quindi ti lascerò girare da solo fra la cripta e le catacombe. All’interno non puoi smarrirti e puoi stare il tempo necessario fino all’orario di apertura, poi dovrai condividere il luogo con i turisti.» «Ignazio non credo che rimarrò tanto tempo, un’ora all’apertura sarà più che sufficiente. Grazie di cuore.» Esternamente era ciò che mi aspettavo, dell’antica chiesa rimaneva ben poco, Ignazio raccontò che era stata modificata e riadattata nel corso dei secoli a seconda delle esigenze, inoltre aveva anche subito il terremoto del 1693 che l’aveva distrutta. Mi aggiravo tra quei resti di colonne e facciate immaginando tutte le persone che l’avevano calpestata nei vari secoli, a quanti s’erano fermati a pregare e chiedere grazie, poi scesi nella parte sottostante dov’era allocata la cripta del Santo. Immerso in quell’ambiente fresco che regalava emozioni e suggestioni, sentivo l’anima vagare. Le catacombe erano formate da lunghe gallerie con stretti corridoi fiancheggiati da nicchie e loculi dai quali s’intravedevano ancora iscrizioni e date; in alcune c’erano anche vaghi disegni usurati e distorti dal tempo. Già, il tempo… quanto ne era ato. Seppure stavo in un cimitero la mente non riusciva ad associarlo alla “Casa sospesa” eppure lo era. Genuflesso in preghiera, venni scosso da scricchiolii di piedi simili a foglie e stecchi d’autunno, staccandomi da quel raccoglimento e vidi un’ombra indefinita are sul muro. Ignazio era venuto giù? A fare cosa? Forse voleva vedere cosa stessi facendo.
C’era qualcuno, avvertivo una presenza, ne ero sicuro.
«Ignazio sei tu?» Mi alzai premuroso trovando riparo dietro una colonna, chiunque fosse non aveva risposto e questo mi preoccupava. «Ignazio non far scherzi, vieni fuori, so che sei lì.» L’ombra sul muro si stagliò nitida, ingigantendosi sempre più, evocando in me lugubri ricordi di sospiri e paura, come quando appariva nei telefilm la figura di Belfagor e mio fratello cercava di trattenermi davanti la tv dicendo: “Ma è solo una finta!” L’ombra vera, allo stesso modo, rivelò una figura spaventosa ed enorme. «L’ha fatta entrare Ignazio? È un turista?» Dissi con il cuore a mille. Era impressionante, un egipano dallo sguardo assente, che una volta visto era difficile dimenticare. Scuro di pelle, occhi infossati e piccoli, colti da evidente strabismo, labbra sottili e grandi orecchie stavano sopra un corpo muscoloso e peloso che trasudava da una canotta bianca. Guardai una via di fuga e mi resi conto di essere in trappola, se quell’energumeno fosse venuto per uccidermi, avrei avuto poche chance di cavarmela. Mi avrebbe seppellito direttamente in una di quelle nicchie e poi cementato. Dovevo chiamare Ignazio, urlare, fare qualcosa. La tensione aumentava impedendomi di pensare, ma lui l’annullò parlando: «Il Supremo vuole parlarti.» Feci un lungo respiro, forse ero salvo. «Il Supremo? Ma chi è lei e cosa vuole da me, credo che si stia sbagliando… sono un turista e Ignazio il custode mi ha permesso di visitare questo luogo. Non conosco nessun Supremo e tanto meno ci tengo.» «Il Supremo vuole parlarti.» Pronunciò ansimante. Capii che l’unico modo per uscire da quella situazione era di accondiscendere alla richiesta . «Non so cosa voglia da me, ma mi dica chi è questo Supremo e dove posso cercarlo.» Risposi stizzoso cercando di convincere la stessa paura a non farsi condizionare.
«Il Supremo verrà al teatro greco stasera, al calar del sole.» Com’era venuto così sparì, nell’ombra. Non ebbi nemmeno il tempo di pensare che sentii vociferare un gruppo di persone. Ignazio aveva aperto al pubblico. Lo avvicinai fra i turisti facendogli la descrizione di quell’uomo e gli chiesi se lo conosceva. Ignazio rimase perplesso e incredulo dicendomi di non aver dato a nessuno il permesso di entrare e che i primi erano con lui. «Ma allora da dove è saltato fuori quest’uomo? Esiste un aggio segreto?» «No assolutamente!» Rispose stranito. Pareva impossibile ma quella era l’unica entrata. Ringraziai per la visita e uscii sconvolto. Il sole già faceva sentire sulla pelle il suo calore; presi al volo il primo bus senza sapere nemmeno dove andare, avevo bisogno di riflettere e farlo in mezzo alla gente m’infondeva sicurezza. Se avesse voluto uccidermi, l’avrebbe fatto e certamente non sarebbe stata una bella fine. La mente tornò a cinque anni prima, quando ero stato io a uccidere e sebbene avessi rimosso l’avvenimento, ricordavo perfettamente tutto quello che avevo fatto per uccidere, una macchia stampata nell’anima che mi accompagnava, un marchio indelebile e Dio non aveva fatto nulla per cancellarlo, proprio nulla! Questo cammino di Saulo aveva cambiato lo spirito iniziale, consapevole che oramai quell’IO sperato non l’avrei più trovato. Amore dove sei, dove gli abbracci e le carezze? Non posso dirti cosa sto ando e cosa mi aspetta, dovrei liberarmi di questo peso ma ho paura, paura di perderti. Paura di perdere l’amore, ancora una volta. Scesero tutti dal bus, l’autista spense il mezzo, si voltò e disse: «Signore questa era l’ultima fermata, adesso vado in pausa.» «Certo… senta può dirmi quale bus dovrei prendere per giungere al teatro greco?» «Il sette, sono cinque fermate da qui. Non è lontano, se segue le indicazioni può andarci anche a piedi.» «Grazie, farò così.»
Siracusa ai miei occhi non appariva più col suo mirifico aspetto percepito il giorno prima ma avvolta in un’ombra di mistero pronta a nascondersi a ogni angolo che svoltavo. Quel senso di pace, quell’energia, quell’apparente cammino alla ricerca della pace interiore erano svaniti. Non avevo voglia di tornare in stanza; non sarei riuscito a riposare e l’unico modo per scaricare la tensione era camminare, stancarmi. Perché mai aveva scelto di farsi chiamare in questo modo e cosa voleva? Magari era una persona che voleva aiutarmi e se non mi fossi presentato all’appuntamento? Se fossi scappato? Mi avrebbe sicuramente rintracciato l’energumeno. E se fosse Saulo il Supremo? No, non poteva essere lui, non avevo altra scelta, dovevo parlare con questa strana persona. Vagai per ore sincronizzando piedi e pensieri, fino ad arrivare su una spiaggia cristallina. Stetti a guardare l’andamento del mare calmo; tolsi le scarpe; arrotolai il pantalone sino alle ginocchia ed entrai con sollievo in acqua. Poco distante c’era una sedia lasciata accanto ad un ombrellone richiuso, mi ci sdraiai sopra ammirando il luccichio del sole ancora distante dall’orizzonte. Questo è il grande segreto della vita, la diversità, tutto si ripete, nulla è uguale. Contemplando il mare, immaginavo i pesci silenziosi che sfuggono al loro male nascondendosi negli anfratti delle rocce per are la loro notte al sicuro. Forse anche noi un tempo eravamo pesci. Mi addormentai. Giunsi all’antico teatro con il sole a cinque dita dall’orizzonte, ancora si aggirava uno sparuto gruppo di turisti che scattavano foto e bambini che consumavano le residue energie saltellando fra le gradinate. All’entrata era affissa una locandina che pubblicizzava una rappresentazione che si sarebbe tenuta l’indomani: “Edipo Re di Sofocle” e venne spontaneo chiedermi quante volte fosse stata rappresentata in quel posto in millenni di storia, quanti artisti si fossero cimentati a interpretarla. L’arte, una delle più forti espressioni d’amore che l’umanità spesso bistratta. Mi sedetti nella parte centrale del teatro, ormai mancava poco all’imbrunire e presto avrei parlato con questo sconosciuto. Comparve la prima stella e con essa i pipistrelli a caccia di cibo, due grandi fari lentamente illuminarono il teatro dallo sfondo alberato rendendo l’ambiente da cartolina. Ero rimasto solo, assiso fra le gradinate, fissando il vuoto. L’ora era giusta e mi detti un limite di venti minuti, Supremo o non Supremo che fosse. Ho sempre odiato aspettare qualcosa o qualcuno, è un momento infinito, dove costruisci un castello di pensieri che poco dopo spazzi via di colpo per
ricominciare a innalzarne uno con basi più solide, e quando è eretto, ti accorgi che non ci abiterà mai nessuno. Una ragazzina m’insegnò un metodo e da allora, quando mi trovavo in situazioni di attesa, lo attuavo. L’inganno era efficace, bastava contare. Tutto ciò che gli occhi vedevano in serie veniva contato; se per esempio mi trovavo in una stanza stimavo la grandezza di una mattonella che sommavo ad altre e infine calcolavo i metri quadri del pavimento sino a trovare l’altezza dei muri e l’approssimativa cubatura. Quella sera cominciai a contare i gradini del teatro, la lunghezza e la sua capienza ma in quel momento, proprio quando dovevo restituire una somma, apparve una figura al centro del teatro, fissa, imperiosa, istrionica. Avevo guardato attimi prima ed ero sicuro che non ci fosse, forse era uscita dalle finte pareti che avevano allestito per la rappresentazione dell’indomani. La temperatura era calata, un leggero venticello sollevava in piccoli vortici granelli di polvere che infastidivano gli occhi. Il teatro aveva cambiato aspetto, gli alberi sempreverdi che prima si stagliavano sullo sfondo adesso mostravano un aspetto sibillino, un’onda nera e uniforme pronta a ingoiarmi. C’era da aver paura come in una di quelle scene da film horror. L’individuo indossava un lungo abito nero e aveva il viso coperto dal cappuccio come a nascondersi. Non aveva alcun cordone sui fianchi ed esclusi che si trattasse di un monaco. Rimasi seduto, quasi pietrificato; avrei potuto alzarmi di scatto e correre a gambe levate ma mi trattenne sempre lo stesso pensiero che riavo in continuazione. «Chiunque tu sia, qualunque cosa stai cercando, io sono qui per volere di Dio e nulla temo, neanche la morte.» Arrivò a pochi metri senza darmi nemmeno il tempo di domandargli chi fosse, dicendo con voce grave: «Mi chiamano Supremo, hai da poco assistito al crepuscolo della luce ed è una fortuna che potrai vederlo ancora poiché a nessuno è concesso dopo la mia visita. Non mostrerò il mio volto perché i miei volti sono infiniti.» Ero terrorizzato dall’inquietante presenza e la voce sembrava penetrare in tutti gli anfratti e fessure del teatro. Qualunque cosa volessi dire mi era impedita, dalla mia bocca usciva solo fiato, nessun suono, nessuna parola, tutto moriva in gola e non rimaneva che udire:
«Ascolta: è in atto la battaglia delle forze. Più volte gli uomini, figli e figlie dello stesso seme l’hanno invocata. L’umanità non è pronta al grande cambiamento, ma presto lo sarà per mio volere. Tu sei l’erede del gran sigillo e dovrai custodirlo. Quando giungerai alla fine del viaggio saprai a chi darlo, ma sino ad allora dovrai proteggerlo dal bene e dal male.» Uscivano lacrime dal mio viso e stavolta non per il vento. In quell’istante sentii repulsione di tutto quello che avevo fatto o che mi era stato imposto sin da ragazzo. Una vita segnata da avvenimenti che portavano a pensare che solo la morte vi avrebbe potuto porre fine. Avevo perso ogni riferimento e non distinguevo più dove fosse il bene e dove il male. Non ero sicuro di nulla, nemmeno che Saulo mi avesse davvero parlato e correvo in un’unica direzione: ”Credere ancora all’esistenza di Dio?” Stavano forse prendendosi gioco della mia vita? Tante erano le domande a chi ora imponeva il suo volere, mentre cercavo e servivano convinzioni. «Adesso ascolta tu Supremo.» Dissi con voce rabbiosa. «Chi è il male e chi il bene? Posso essere io e puoi esserlo tu, o chi anni addietro mi parlò… può esserlo chiunque. Dimmi chi sei e perché non ti mostri, parlami di questo “gran sigillo”, dimmi da chi dovrei proteggerlo, di chi fidarmi e di chi no. Sappi che sono pronto a morire, anche adesso, a non seguire nessuno. La mia vita in questo istante è unita alla morte, tocca a te dirmi cosa deve rimanere.» Il Supremo non si scompose della mia reazione, ascoltò senza interrompermi e quando ebbi finito, attese alcuni secondi e disse: «Il mio viaggio non ha mai termine, ciò che darò a te mi fu dato. Sono il custode del “gran sigillo” e ora lo diventerai tu. Esso rappresenta ciò che di più prezioso possa esistere su questa terra, sono le chiavi di accesso alla dimensione nascosta, le porte che conducono alla conoscenza. Non appartiene a questo mondo, ma fu donato nel giorno della grande nascita e quando sarai pronto saprai ciò che desideri conoscere, ma sin d’ora guardati dal bene nello stesso modo in cui ti guardi dal male, perché entrambi, da sempre, sono alla sua ricerca. Guardati dal rivelarti. Non posso mostrarmi ma un giorno saprai chi sono.» Ero protagonista di un’esperienza nuova, dissimile da quelle avute. Questa aveva peso e forma, era tangibile, mia.
«Adesso avvicinati, fallo lentamente.» Disse. Non avevo ottenuto le risposte a tutti i miei perché ma la sua voce e le sue parole erano penetrate con aspetto diverso di come immaginate, e nonostante tutto decisi di fidarmi. Stranamente non avvertivo tensioni, il corpo sembrava essersi svuotato, liberato dalle angosce e dai problemi del mondo, pronto a ricevere il dono. Il teatro assunse le sembianze di una stanza intima e istintivamente mi scalzai dalla madre terra, avvicinandomi con lentissimi i. Nessun odore trasudava dal suo corpo quando giunsi al suo cospetto. Fu in quell’istante che accadde qualcosa che mai mi sarei aspettato di vivere. Le sue braccia si alzarono al cielo seguendo una sorta di danza del vento per richiamare a sé una forza a me sconosciuta, nuova, in un volto che non distinguevo. Le sue mani scesero lentamente sino ad appoggiarsi sulle mie spalle. Intorno al suo corpo si formò un’aurea di luce che assunse la forma e i colori dell’arcobaleno. Avvertii un’energia intensa che rendeva il corpo colmo di luce. Sentivo di possedere una forza immane. Da quell’istante ciò che avevo udito dalle persone, studiato, guardato, letto, pensato e sognato non apparteneva più a nessuna verità conosciuta. Il gran sigillo era in me, faceva parte di me. Possedevo il aggio, la porta. Con un movimento delicato staccò le mani dalle spalle e indietreggiò dicendo “lasciami adesso”. Ora assaporavo quelle parole dette; “Guardati dal rivelarti”. Chiusi gli occhi e con un solo gesto cancellai i buoni dai cattivi, il mondo non era ancora pronto. Carmen mi aveva dato per disperso, aveva chiesto notizie a Ignazio non avendomi visto rincasare. Bussai che era mezzanotte e venne ad aprirmi con i capelli arruffati e gli occhi socchiusi. Mi scusai del disagio per averla svegliata ma lei rispose che la colpa era di entrambi poiché si era dimenticata di lasciarmi le chiavi. Trovai in stanza degli affettati e formaggio fresco e prima di coricarmi feci il magro spuntino. Il terzo giorno era giunto e con esso la consapevolezza che la presenza in questa città non apparteneva al percorso di San Paolo, avevo ricevuto molto di più di quanto speravo, possedevo ciò che ogni essere umano avrebbe voluto e cercato con qualsiasi mezzo possibile, anche a costo della vita. Ero la porta, ciò che stava in mezzo, la soglia per varcare l’oltre, ma paradossalmente anche quello che non poteva andarci per prendere coscienza del grande disegno del Creatore. Nonostante l’insistenza Carmen volle a tutti i costi non farmi pagare l’extra, ci abbracciammo come due vecchi amici e prima di lasciarci estrasse dalla tasca del
vestito una corona con l’effige della Madonna delle lacrime, la fece are attorno al mio capo e, guardandomi iniziò a lacrimare; non disse nulla ma i suoi occhi parlavano. Siracusa meritava più attenzione di quella che le avevo dato, molti erano i luoghi che non avevo visitato, ma il tempo in quella città era terminato e i giorni restanti li avrei trascorsi con la persona di cui sentivo la mancanza: Elena.
XI
Il male - Luglio 1996
«Hai fatto i compiti?» «Sì mamma.» «Bene, adesso puoi andare a giocare.» «Mamma, fino a quando posso rimanere a giocare?» «Fino a quando non avrai altri compiti Paolo.» Qui davanti a voi, da materia a materia, nel luogo dei sospesi, sfoglio il libro dei ricordi, già così grosso e pesante, impolverato. Che collera quando ve ne andaste silenziosi, a distanza di pochi giorni, sembrava che vi foste messi d’accordo, non un biglietto o un abbraccio, né un bacio o una parola; ed è da allora che ho smesso di giocare. Vi ricordate quando con i fratelli mettevamo le letterine di Natale sotto il piatto? Tu papà leggevi le nostre mille promesse e gli occhi ti si gonfiavano di lacrime. E tu mamma, ricordi quei giorni in cui ci leggesti Dottor Jakyll e Mister Hyde spaventandoci tanto? Adesso voglio dirti adesso che la doppia vita è toccata a me e sono divenuto un mostro che ha fra le mani una barchetta verde che leggerà a voi per farsi coraggio, contro un Dio che s’è affidato alla mia mediocre intelligenza, alle ansie e alle debolezze che mi sovrastano. “S’ALZI LA RAGIONE SOTTO IL PESO DELLA CROCE, S’ALZI VERSO LA CASA DELLA FEDE”. Ero riuscito a trovare la forza di aprirlo: «Nella chiesa del signore, segnato di spirito e di croce, ricevetti l’aspersione, e con esse giungerò alla casa di Pietro.»
Attesi la sirena del tramonto che annunciava agli sparuti viventi attardatisi a pregare, l’imminente chiusura del cimitero. Poggiai frettolosamente i lumini verberanti salutandoli e, anziché uscire dal cancello spalancato, mi diressi verso la cappella centrale. Deserta e dignitosa, era trafitta da lame di luce surreale proveniente da piccoli rosoni impolverati, appositamente ricavati per indurre i devoti al raccoglimento mistico. Una coppia di turiboli posti ai lati delle pareti inaspriva l’aria d’incenso e dalla piccola navata centrale due filari di banchi camolati dividevano sedie impagliate poste alla rinfusa. Sul fondo, uno sgualcito lenzuolo di plastica merlettato penzolava da un altare scarno di freddo marmo bianco, e dietro ad esso, nella più simbolica rappresentazione, la figura del Cristo in croce. Avvolto da desiderio di benedizione, d’istinto, immersi il viso nell’acquasantiera sino a toccarne il fondo freddo con le labbra e, volgendo lo sguardo verso una parete in calce bianca dov’erano attaccate a mo’ di teca tre croci, dissi: «Non la tua, né quella di chi supplicò di essere con te, ma quella di chi ti derise. Questa sarà la croce che curverà la schiena verso la tua casa terrena.» Facendo leva contro il muro, riuscii a spezzarla nella parte inferiore. Col suo peso sbilanciato persi l’equilibrio cadendo rovinosamente a terra, stordito e sofferente. Postamela in spalla attraversai il lungo viale di cipressi, accompagnato dai mille sguardi opachi dietro fioche lampade votive. All’ingresso del cancello già sprangato vuotai un sacco liso di tela juta colmo di lumini consumati, praticandoci dei fori per indossarlo. Seppur la croce fosse in legno leggero, faticai non poco per farla scivolare oltre il cancello, lanciando un ultimo saluto alle mille e mille luci accese al vespertino. Lungo i cigli inghiottiti dal buio, presi la strada che meglio conoscevo, per collegarmi all’atavica via Appia, costruita millenni addietro dai Romani. Accompagnato dallo strusciante rumore provocato dall’attrito della croce alla madre terra, su cui lasciavo le vestigia, iniziai il cammino verso Roma. Nella notte ammutinata di luna e di stelle, tra lampi che s’incuneavano annunciando tempesta, col corpo stanco dal peso a cui non riuscivo ad avvezzarlo, gli occhi scorsero, nell’istante di una folgore, un vecchio casolare abbandonato poco distante dalla strada. Faticai non poco per vincere la forza di una porta inchiavardata, riuscendo infine a penetrarvi. Non distinguevo alcun dettaglio e dopo aver fatto un paio di metri alla cieca, vinto dalla fatica, mi distesi a terra
per addormentarmi, abbracciato alla croce. L’acqua scendeva rabbiosa penetrando da una finestra senza vetro, mentre il cielo s’illuminava a giorno con saette che spaccavano le nubi… ed io pregavo. Alle prime luci dell’alba mi accorsi con dispiacere che, poco distante, in un angolo della stanza, c’era un giaciglio di fieno. Chissà quanti giorni sarebbe durato questo viaggio e se avessi avuto la forza per sorreggere il peso di quella croce. Lungo la strada, le auto sfrecciavano vicine a gran velocità creando spostamenti d’aria uniti a suoni assordanti di clacson. Urla, ingiurie e risate uscivano dai finestrini, mentre altri si prestavano a scattare foto per riempire le loro giornate altrimenti vuote. All’altezza della Sinuessa di Mondragone una macchina di vigili s’accostò poco avanti sbarrandomi la strada. Scesero in due piazzandosi davanti. «Buongiorno signore, potrebbe spiegarci cosa sta facendo e dove sta andando?» Con gli occhi rivolti a terra posai la croce inzaccherata sul ciglio e dissi: . «Buongiorno fratelli, sono in viaggio verso Roma » «E’ un pellegrino o un asceta? Uno strano modo di viaggiare. Vede signore, nulla contro l’abbigliamento poco consono e ciò che sta facendo, ma la sicurezza, l’incolumità delle persone e dei mezzi sì, e sinceramente non piace doverci occupare di uno squilibrato, un depresso o un pazzo dilavato, discinto ed emaciato che con una croce in spalla a mo’ di Cristo si aggira lungo strade ad alta densità di traffico. L’insolito gesto potrebbe indurre a distrarre dall’attenzione alla guida gli automobilisti causando degli incidenti e rischiando anche di essere investito. Abbiamo già abbastanza problemi da risolvere… non le pare? Abbiamo bisogno di identificarla.» Le radio dei vigili di tanto in tanto gracchiava, aggiornando la posizione dei colleghi impiegati in altre operazioni di routine. «Fratelli lasciate che prosegua il cammino, presto mi collegherò a strade solitarie.» «Giovanni che facciamo?»
«Ci fornisca i documenti, dobbiamo identificarla, e se è il caso trattenerla.» «Fratelli vi stanno chiamando, hanno bisogno di voi.» Dissi. «Chi ci sta chiamando? Sta per caso cercando di prendersi gioco di noi?» La radio iniziò a parlare: «Pattuglia 21 qui centrale, “codice rosso” - Pattuglia 21 qui centrale, “codice rosso”. Segnalo aggressione con arma bianca e lite violenta all’incrocio di via Toscani, intervenire.» I due vigili arretrarono per lo stupore e l’arcano vaticinio, poi uno dei due disse: «Ricevuto centrale, arriviamo sul posto.» Mi guardarono e si guardarono dirigendosi velocemente in macchina. Il più grosso dal proprio finestrino, con la macchina avviata e sirena accesa, con occhi rivolti verso un uomo inope, poggiò sull’asfalto il suo sacchetto viveri. Tu sei il segno che traccia il mio cammino e conta i i; che ha parlato attraverso me poiché di questo non sarei stato capace, tu l’immane presenza, quella che tanti definirebbero coincidenza o calcolo probabilistico, tu sei il tempo racchiuso nello stesso tempo. I pensieri, quelli che vivevo in questo cammino, affondavano le radici nel progetto lasciato in un angolo di questa terra da Iddio, ai tanti a cui Iddio l’aveva affidato, e come me interpretato. Sono testimone della sua presenza pur senza aver posto dita nel suo costato, concedendomi il tempo della ragione, perché è così che mi ha fatto - “a sua immagine e somiglianza”. Interpreto con soliloquio di fioca ragione il mio essere, affinché compia l’introspezione dell’IO per intravedere cosa cela a questi uomini che nella loro empietà dettano di proprio pugno inique regole, storpiandone il vero credo, spartendo con terreno odio confini immaginari con laide bandiere, così diversi uno dall’altro, nell’anima e nelle parole, versando sangue per spargere altro sangue. Noi poveri, immersi e sommersi da protervie piccinerie. Abbandonai l’asfalto cocente tagliando un campo di girasoli. Con fatica
sovrumana raggiunsi un gigante albero sul crinale assolato di una collina che stagliava l’orizzonte. Sfiancato dal peso, come un fratello ritrovato… l’abbracciai, consumando alla sua ombra il pasto offertomi. Nella quiete di quel dì, oltre il grande albero, distesa come grandi lenzuoli a tagli irregolari, la campagna amena dai colori infiniti si perdeva lontana, donando l’appartenenza, l’essere unisono, materia. Avrei voluto correre, perdermi fra quell’erba rasa e le ondeggianti spighe di grano di speranza, rivoltare la terra a nuova terra… essere io il “Sator”. Chissà se Dio si riposava, se sognava. Il mio fisico sì, spossato e sfiancato lo reclamava all’ombra di quell’acero rosso in quella campagna bucolica. Percepire di non essere solo ancor prima di svegliarsi, aprire gli occhi sul mondo e sapere che qualcuno ti sta osservando da un po', mette l’animo in soggezione. Lo sguardo che incrocia altri sguardi, ti lascia immobile, anchilosato. A pochi metri da me stava un ragazzo incimurrito con una capra nera affianco. Entrambi scarni, esili, piegati come denti di leone del prato, pronti a spezzarsi alla prima folata di vento. La capra era quella che peggio se la ava, aveva macchie prive di peli lungo il corpo con ferite sanguinanti e lo sguardo assente per ricordarsi d’essere ancora viva, malazzata, ma pur sempre pronta ad annullare il dolore e mostrarsi ferina e fedele al suo padrone, sino all’ultimo respiro. Il ragazzo aveva grandi occhi che sembrava averli rubati al cielo, vivi, folgoranti da elucubrare l’aria intorno e rendere tutto insignificante. Capelli irti, di un nero come la pece, e una magrezza che fuoriusciva da una canotta sgualcita. Teneva in mano un bastone rosso intagliato con strani e incomprensibili simboli. «Vuoi imitare il mio silenzio? Chi sei e cosa vuoi?» Gli dissi. Il ragazzo permase nel suo stato immobile portandomi a pensare che fosse muto, poi senza abbandonare i miei occhi, disse porgendomi il bastone: «Dammi la tua croce e avrai il mio bastone.» “Avrai il mio bastone”. Ecco cosa mi spaventava, la sua iattanza, l’aver proferito la parola “Avrai”. Un baratto… e perché mai? La ragione prevalse e in quel momento, dal suo atteggiamento, tuonarono le parole del messaggio “S’ALZI LA RAGIONE”. Prima ancora d’aprire gli occhi avevo avvertito la sua strana
presenza, la sua forte entità e chi avevo di fronte non sembrava un ragazzo normale. «La croce è troppo pesante per te, mentre il bastone ti è utile nel cammino, ma ti prego mostramelo.» La capra, al gesto del mio braccio che si allungava per raccoglierlo, emise un suono grattante che non le apparteneva. Ritirai lesto la mano e il ragazzo, avvicinandosi con sguardo dritto e sicuro, lo pose nelle mie mani. Non avevo mai visto nulla di simile, era solido, liscio, duro e pesante come l’acciaio, con piccole nervature che lo percorrevano con simboli indecifrabili, ignoti alla mia indigente conoscenza. Chi glielo aveva dato? Forse l’aveva trovato nelle campagne circostanti, o sottratto a qualcuno, ma che valore aveva per scambiarlo con la mia croce e perché mai proprio la mia croce, sudicia e acuminata dall’asfalto? Cosa ne avrebbe ricavato da essa? «La croce è la mia croce, un peso che porto addosso per pagare il mio male, non posso dartela, mi dispiace ragazzo.» Riposi il bastone nelle sue mani e per un attimo ebbi la sensazione di intravedere un improvviso barbaglio rosso fuoco su quei simboli, così come nei suoi occhi e in quelli della capra. L’inquietudine cresceva, facendo ribollire il sangue. Negli attimi in cui il respiro divenne bolso, il cuore tachicardico e le mani ansimanti, abbrancai in una sorta di protezione la croce poggiata all’albero. Se quel bagliore di fuoco intravisto era ciò che immaginavo, significava solo una cosa, essere al cospetto del male che tentava di soggiogarmi col suo inganno per separarmene, ma sentivo di tenerla ben salda fra le mani, puntata come un fucile contro il nemico, pronto alla battaglia. In quell’istante sorse anche Il dubbio dell’errore, che fossi caduto nella suggestione del momento che vivevo e magari fosse solo un ragazzo bisognevole di conforto, un modo per mostrare la sua amicizia o che aveva intravisto in quella croce un oggetto dal valore pari al suo bastone. Poteva essere anche il bene, mandato per alleviare le sofferenze e il sacrificio. I pensieri si espansero come una macchia d’olio su di una bianca camicia. Benché ammaliato da quella figura e dalla sua capra che mostravano l’affronto e la fierezza di chi pone in essere la sfida, dovevo capire se andare avanti, spingermi oltre per scacciare il dubbio.
Volsi lo sguardo sulla distesa collina, infinita e muta. Gli uomini che solcavano il terreno con l’aratro, che tagliavano il fieno o irrigavano i campi s’erano fermati; smarriti nella lucente campagna immobile, fissi nel loro sudore che nessun vento asciugava, e pareva attendessero solo di conoscere il loro destino. Ora ne ero certo, sentivo nitidamente chi si celava sotto le spoglie di un fragile ragazzo con la sua capra e quando m’apprestavo a rendergli il verbo, parlò: «Chi lo definisce “il male” è chi lo ha generato. Io rappresento l’unica verità, la condizione per liberarvi dalla colpa che da sempre affligge le vostre anime. Non voglio la tua croce, già tanti l’hanno deposta ai miei piedi, ma ciò che sei, l’energia che vive in te.» La ragione, la vera ragione, quella che attraversa la coscienza, stava per uscire, apprestandosi a combattere il male che voleva indurmi all’apostasia. Per la prima volta sentivo d’essere forte, invincibile. Lo spirito aveva preso potere sul corpo, tanto da farlo sembrare un involucro inutile, superfluo. Attingevo la mia energia dalla campagna, dalla madre terra, dagli alberi, dagli animali e da tutti i contadini che volgevano lo sguardo immoto, tutti riuniti in un’omofona forza che infondeva atarassia, pronta a liberarsi a combattere. Ora leggevo il suo volere, intuivo persino il punto dove avrebbe potuto spingersi e l’arma che avrebbe usata, ma la ragione era anche il domandare, capire cosa muovesse questa forza che si opponeva da sempre al suo opposto e da dove tutto aveva avuto inizio. Anni addietro, durante un viaggio in treno da Milano a Roma, mi sedetti di fronte ad una donna bellissima dell’est Europa. Fortemente attratto da quel fascino misterioso che emanava, non riuscii ad esimermi dall’osservarla, quasi in una sorta di attrazione spirituale. Il suo sguardo assente e malinconico, quegli occhi che sarebbero stati capaci di denudare chiunque, erano attraversati dal riflesso veloce dei paesaggi come vita dimenticata e sembrava che nulla l’emozionasse, tanto che non socchiudeva neanche le palpebre quando il treno entrava in galleria. Nulla trapelava da quei lineamenti che accrescevano in me il desiderio di rompere quel silenzio, di toglierla da quell’assenza che la discostava dal mondo. Riflettevo su come destare l’attenzione per intraprendere una conversazione, col desiderio di sapere di lei, delle sue origini, del suo mondo; da dove veniva; dove andava e se c’era qualcuno ad aspettarla. Tentai, ma alla fine ebbi a sapere solo il suo nome, Angelika. Capii il gran rifiuto e soffocato dalla delusione e dalle mille domande, mi
astrassi dal suo rapimento platonico. Dopo circa mezz’ora di silenzioso viaggio, improvvisamente parlò, zittendomi con un discorso che mi lasciò attonito: «Tutti chiedono, fanno una prima domanda e saputa la risposta ne fanno altre due, e dopo averle sapute ne fanno ancora quattro e così via, ogni domanda porta con sé altre domande. Grazie per non aver insistito, grazie d’aver capito che a volte è meglio non porre domande.» Non risposi, capii. Ora riavo quella lezione chiedendomi cosa sarebbe scaturito dalle domande poste al ragazzo, quante ne sarebbero uscite dalla prima per saziare la ragione. Esisteva un’alternativa o dovevo soccombere all’acquiescenza? «So chi sei e non ti temo. Seppur in possesso del dono, ne ignoro la potenza, ma voglio conoscerne lo scopo. Parlami del bene e del male e di dove tutto ha avuto origine.» La ragione stava dettando le sue regole. Dio che mi avevi unto della tua fiducia concedendomi un dono così prezioso, ora mi udivi chiedere al male di sapere l’origine, sapere di te e del dono ricevuto. Era così che ti servivo? Era questa la fede che soccombeva alla ragione? Erano foglie rosse del grande albero che volteggiando a spirale nell’aria cadevano intorno, prive di vita si staccavano posandosi a terra avvizzite, sotto un sole divenuto viola, privo di calore, tingendo di bruno la campagna. Uomini e animali ora volgevano mesti a terra lo sguardo e tutto pareva immobile, come una vecchia foto sbiadita e ingiallita, prigioniera del suo stesso tempo. Dalla bocca del ragazzo un sorriso di scherno mostrava l’acida dentatura che preludeva al sapore di vittoria. Dov’era la fede in Dio? Dove l’avevo smarrita o abbandonata, in quale angolo ero stato traviato? La ragione, quel “S’alzi la ragione” consisteva invece proprio nel non smarrirla, e allora capii. «Fermati ragazzo, taci! Nulla esca dai tuoi pensieri fallaci e dalla tua baldanza perché mai deporrò questa croce ai tuoi piedi. So guardarmi dal bene e allo stesso modo dal male e l’arma che mi guida non è il diafano dono ricevuto ma la fede. Arretra oh male, tu e la tua bestia!»
Il ragazzo strinse forte la rabbia e il bastone. Il suo viso che non ammetteva sconfitta, appariva come fuoco di lava ribollente, pronto a zampillare violentemente in cielo per dare l’ultimo assalto al suo vile gioco. «Guarda uomo, guarda la potenza su questo mondo. Guarda chi ha potere sulla morte. Guarda la vittoria che verrà a dominare tutte le cose della terra. Inchinati al mio cospetto e sarai per sempre padrone di anime.» Alzò il bastone in alto e quegli strani simboli rosso fuoco si propagarono nell’aria roteando in circolo, dapprima piano in senso orario per poi invertirsi, aumentando vertiginosamente la velocità. Nel mezzo si creò un buco dal quale ebbi visione dell’immonda schiera di angeli dalle ali nere. Stavo assistendo a un qualcosa che nessuno mai avrebbe visto su questa terra: l’inferno! Dunque esisteva, quelli che padri dei padri si erano tramandati nei millenni di anagogia mistica sulle sacre scritture, esisteva. L’inferno, il nero, il male, esisteva per davvero! Simile a un’eclisse, quel bruno sole stava volgendo al nero che non apparteneva alla notte, ottenebrando la madre terra. Avevo paura del mondo, di tutte le cose che mi circondavano, della vita che intorno pareva estinguersi. La mia corazza cadeva a pezzi e la spada si ammezzava, lasciando inerme un piccolo uomo inutile, che aveva di fronte un esercito sterminato di guerrieri. Cercavo le stelle nel cielo, le costellazioni imparate che mi avevano guidato nei miei cammini e la luna compagna. Nulla, ora esisteva solo il nulla e dietro ad esso ancora nulla. Fu l’istante, la disperazione, l’orribile vista a scuotermi da quella catalessi, sobbalzandomi l’anima, lavandomi le vene. Era giunto il momento di reagire e di respingere il male. Ero la porta e sarei rimasto chiuso, sprangato, murato. La forza, l’unica potenza per scacciare il cacodemone, sarebbe stata la fede mutata in verbo, uscendo dall’anima con la preghiera, pronto a scacciarlo. Con la croce davanti e tutto il mondo dietro, proferii tonante l’esorcismo. «Croce di forza, esaltazione dei difensori, o degli asceti. Croce pura, forza dalle quattro estremità sii per me potenza, dominio, salvezza da quelli che mi assalgono, sii per me scudo, protezione, vittoria. Croce, immagine incircoscritta delle potenze, consacrazione delle acque, purificazione dell’aria, sii santificazione e illuminazione per tutti, segno di prestanza e scettro immutabile di Cristo che scaccia questi esseri immondi.»
L’aria circostante, come scossa da corrente elettrica, vibrò, e un bagliore improvviso accecò i miei occhi facendomi perdere i sensi. Riaprii gli occhi col suono di camli di pecore guidate da cani bastardi e il sole già sul mezzogiorno, brillante e infuocato, che ridonava al paesaggio i suoi riverberi colori, la disciplina della vita, con gli uomini agresti che smettevano le proprie fatiche per il pasto guadagnato, affidando alla terra i loro attrezzi, tutto come se nulla fosse accaduto. Un sogno? Nella stanchezza del giorno mi ero forse addormentato vagheggiando l’immane affronto del diavolo e della sua bestia? Ero forse entrato in uno stato ipnotico che aveva scatenato suggestivi incubi repressivi? Del ragazzo col suo bastone e la capra non vi era più traccia, fugati, spulezzati o mai esistiti, ma vicino a me, nello spazio circostante, distese di foglie rosse giacevano ai piedi dello svestito albero, rinsecchito e privo di vita. «Croce, mia immane croce salvatrice che con la tua potenza hai dissolto il male come cera al fuoco; compagna di viaggio e di ione, ora possiamo riprendere il nostro cammino.» Il giorno trascorse in grazia e anche il tempo si rivelò clemente. Nei giorni seguenti avevo sempre trovato un giaciglio dove are le notti e anime pie pronte a donarmi parole di conforto e ristoro. Sentivo la luce addosso che metteva il buon umore, il cuore era sereno, felice, cantava, il male era lontano. Mi ero lasciato alle spalle Terracina, il mare, il suo vento e i profumi che mi trasportavano al mondo di Elena. Era dolce riare le nostre lunghe eggiate tra i viali di piccole colline al calar del sole, tra gli ultimi colori infuocati delle nubi che annunciavano la fine del giorno per far posto alla luna che ondeggiava ammaliata nel mare di sale invitandoci a denudare i corpi all’abbandono. Scrutavamo il cielo a cercare la prima stella. Un giorno ne indicai una luminosissima e ridendo Elena disse: «No amore, quella non è una stella, quella è Venere.» La sua ione per l’astronomia diveniva gioco e così m’insegnava la posizione degli astri e di come si orientavano gli antichi uomini. Tracciava col dito traiettorie che affrescavano il cielo, ed io pronto a seguirla con gli occhi. «Guarda amore queste sono le più facili, il grande carro chiamato anche Orsa Maggiore e il piccolo carro chiamato Orsa Minore; qui le chiamiamo così, ma in
altri luoghi danno nomi diversi…» Conoscevo alcune di quelle costellazioni, ma era dolce fingere e rendere magico quell’attimo. «Amore quelle? A me sembrano più carrelli della spesa!» Quante storie inventavamo, quanti sogni e quanta poesia usava nel descrivermi le antiche civiltà dei Sumeri e Babilonesi, un continuo studio febbrile di storie che le uscivano dalle labbra come stormi di rondini a primavera. Parlava per ore gesticolando, cambiando espressione continuamente come se in quell’attimo stessi vivendo anch’io la vita antica. Amavo il suo tanto sapere che mai annoiava, quel saper cogliere ogni sfumatura, che fosse grigia o rosa riusciva sempre a mischiarmi i colori. L’amavo! Fu la strada ciottolosa e disconnessa che m’indusse ad alzare lo sguardo, aguzzando in lontananza fiammelle accese ai bordi della strada. Simulatrici d’amore aspettavano i clienti, sognando qualcuno che le portasse via da quell’orrore. Avrei voluto prendere un’altra strada, un bivio che aggirasse quel percorso, ma ogni metro per me era importante e presto le risa giunsero copiose. «Gesù sei venuto a salvarci? Dai che te lo facciamo vedere noi il Paradiso.» Povere donne, consumate e avvilite da finte allegrie; ossa consumate, nomi dimenticati, anime violentate, stracciate, mai innamorate, disperse in quella terra cloaca di tutti e di nessuno, una strada antica che desideravo divenisse ponte da attraversare verso la libertà. Posai la croce affianco a uno steccato trovandomi attorniato dai loro volti che avevano smesso di ridere, noncuranti dei clienti che si tenevano a debita distanza e dissi: «Datemi le vostre croci pesanti. Lasciate che aggiunga peso al peso, dolore al dolore, che levi il fardello che opprime la vita. Lasciate che sia speranza, che sia amore.» «Belle parole fratello che te ne vai in giro conciato così a predicare. Esistono altre vite ma non appartengono a noi, che ne sai dell’amore tu? Ma dove vivi! Chi sei per raccontarci queste favole? I soldi, quelli ci servono! E se non hai quelli, non hai niente.»
«Chi sei, dicci chi cazzo sei!» Disse una di loro. «Chi sono? Sono le carezze perse degli amici che avevate; i sogni che vi accompagnavano nelle notti e la vita cruda che stava per arrivare. Sono la terra dove siete nate; l’altalena legata all’albero distorto che vi faceva volare, il sole che rifulgeva gaio negli occhi. Sono la bici nel cortile d’estate lasciata dopo ore innocenti; i cuori che tracciavate sui fogli, la freccia che li attraversava. Sono la vita che volevate e che mai avete avuto, ecco chi sono.» «Parli bene!» Disse una di loro. «Parli senza aver vissuto la nostra vita, le battaglie e le immani sconfitte. Parli ma non hai pianto con noi nelle notti di soprusi, né sei mai stato violentato e privato di tutti gli affetti. Parli ma noi siamo qui, tutte le sere a dannarci, a morire su corpi di persone ogni volta diversi. Allora Salvatore dicci cosa cambiano le tue parole, cosa ne facciamo e soprattutto in quale altro modo potremmo vivere se non questo. Siamo schiave lo sai? Tra poco verranno i nostri padroni e se non vuoi avere problemi, ti consigliamo di andartene!» «Lasciate morire queste fiammelle sparse e ravvivate quelle del cuore. Lasciate questi luoghi e i vostri padroni e seguitemi lungo questo cammino. Non temete la paura e l’oblio, siate con me, dietro questa croce, nella fede che vi condurrà a nuova vita.» «Cristo! Sei il Cristo? Beh qui noi siamo tutte atee, quindi smamma!» Riposi la croce in spalla proseguendo il viaggio, ma presto, dietro di me, oltre la paura, nel silenzio immondo di chi aveva spento la sua fiammella, staccandosi dal gruppo, qualcuno disse: «Io ti seguo, non ho paura.» Presto arrivarono i lupi bavosi a pretendere il loro pasto rubato, aridi, accecati d’ira e affamati, accerchiarono la loro preda. «Questa donna non vi appartiene. Lasciatela alla vita che l’aspetta. Lasciatela e sarete lasciati.» «Quest’affronto lo paghi a caro prezzo pezzente!» Disse uno di loro.
Uomini abituati a parlare con le armi, che conoscono e fanno valere una sola legge, pronti a uccidere e sbarazzarsi dell’ostacolo, dell’inutile; ma io ero il prescelto e piantai la croce come segnale di confine fra lei e il male, alzando le mani per sospenderli. Rimasero immobili, nel tempo fisso che non si conta, con le pistole in mano. Lupi di cera in mente vigile guardavano la donna incredula, che presto si raccolse in un canto di preghiera lontana, da tempo dimenticata. «Silvano, padre di Michele, lo sai che in questo momento sta aspettando le tue mani? E sono le stesse che vorresti usare contro di me. Sei tornato a casa già altre volte, lasciandoti dietro la morte, ed è ciò che dovrei lasciarti adesso. E tu Egidio che da ragazzo sognavi di andare tra le stelle, guarda ora quanto sei distante da esse, guarda le tue gambe, non le raggiungerai mai così.» Sollevai in alto la croce rompendo lo stato in cui versavano e quando s’accorsero che potevano muoversi nuovamente iniziarono a farfugliare e balbettare. Tesi come corde di violino, anime in sussulto e sguardi imploranti si sentirono pronti a cambiare. Allora aggiunsi: «Copritevi il cuore, scaldatelo. Avete abbattuto il portone del male nel quale eravate rinchiusi. Non siate più lupi ma anime preclare, munifiche.» Specchi argentei di luna riflettevano tra i ciottoli, la donna silenziosa ora saggiava la libertà con lacrime di gioia. Piccola stilla dell’universo, pronta a rifiorire come pesco all’aria di primavera. Il viaggio proseguì e presto avrei varcato la casa di tutte le case.
XII La missiva - Martedì 4 agosto 2011 ore 20.00
Il Cardinale Borrini, Segretario di Stato della Santa Sede per ordine di Sua Santità, aveva convocato d’urgenza tutti i Cardinali a Roma. L’ultimo ad arrivare era stato Jhon Ting Hon dalla lontana Cina. La Cappella Sistina era al gran completo e nessuno di loro aveva saputo il motivo di quella chiamata improvvisa. L’attesa si stava prolungando più del dovuto tanto che nel gran salone si udiva un vociferare di domande alternate a preghiere, quando finalmente venne annunciato il Papa. Con lente movenze prese posto su una sedia dall’aspetto innovativo e futuristico, donata tempo addietro da un’associazione di industriali del Manzanese in Friuli. Un lento giro di occhi e un leggero sorriso fu il ringraziamento per la loro presenza. «Cari fratelli, benvenuti; uniamoci in preghiera con Gesù Cristo recitando il Padrenostro.» Quando la preghiera finì il Papa iniziò il suo discorso. «Non è la prima volta che si è chiamati alla casa madre per discutere decisioni che richiedono urgenza. Ho ritenuto opportuno e doveroso riunirvi per portarvi a conoscenza di un evento annoso ed eccezionale che in questo tempo potrebbe cambiare per sempre la concezione di credo e spiritualità verso l’Altissimo. Questo avvenimento non coinvolge solo gli uomini di fede ma il mondo intero e toccherà a noi guidare l’umanità verso la giusta direzione. Mi preme ricordare che per il giuramento fatto all’Altissimo, tutti noi siamo tenuti a osservare il riserbo assoluto sui segreti della Madre Chiesa e a circoscriverli all’interno di queste mura.» Nel gran salone imperava il silenzio assoluto, ognuno di essi scandagliava nei propri pensieri segreti e conoscenze note, scremandoli per arrivare all’unico plausibile. Non si trattava certo di problemi che affliggevano la Chiesa negli ultimi anni, quali lo scandalo della pedofilia e il riciclaggio di denaro proveniente da organizzazioni criminali. Il Santo Padre aveva pronunciato la frase: “Evento eccezionale” e quest’ultimi non lo erano affatto. Alcuni di essi si
sentirono quasi sollevati, avevano viaggiato sino a Roma con la mente offuscata di domande su possibili questioni di cui sarebbero stati tenuti a renderne conto. Qualsiasi cosa fosse, qualsiasi dramma, segreto o evento aveva da dire il Santo Padre, coinvolgeva tutti e questo, sotto un certo aspetto, restituiva serenità. Il Papa alzò uno sguardo ammirato sull’affresco del 1511 di Michelangelo, “la creazione di Adamo”, poi proseguì dicendo: «Fratelli, sapete bene che ogni Vicario di Cristo lascia gli scritti sul “Virgineum Librum” affinché possano essere tramandati al suo successore, così come siete consapevoli che una volta letti dal nuovo pontefice, prima di renderli in cenere, può trascriverli nel suo, oppure come in questo caso, divulgarli, ma è chiaro che, quasi sempre, sono gli eventi che determinano la scelta. Ciò che dirò sarà oggetto di studio per le vostre sapienti menti e al calar del sole consegnerete il vostro intendimento. Che lo Spirito Santo discenda su di noi a illuminarci ancora e ci guidi verso il giusto sentiero.» Seguì un lungo silenzio, i cardinali cominciarono a percepire la tensione che si espandeva nella grande sala degli affreschi, sguardi che s’incrociavano e mascelle rigide quando le menti cominciarono a prendere coscienza che l’evento udito a breve avrebbe travalicato il naturale; poi il Santo Padre ruppe l’incanto e inizio: «Il tempo è il motore veloce di questo mondo che spesso pare rallentare, frenare o persino fermarsi. Quel tempo lo chiamo pazienza… l’aspettare che tutto si compia, punto dopo punto. Io l’ho capito guardando “La grande Jatte” di Georges-Pierre Seurat… e ancora mi accompagna. Trentacinque anni fa un bambino fece uno strano incontro con un uomo. Gli eventi hanno appurato che chi gli parlò fu Saulo di Tarso. Al bambino Saulo donò barchette colorate che contenevano dei messaggi, dicendogli che avrebbe dovuto aprirne una ogni cinque anni. Allora la storia fu seguita dal parroco del paese che ne mise al corrente l’allora Vescovo dell’Arcidiocesi con una missiva e che, in seguito, finché visse, tenne aggiornato. Conosciamo tutti i messaggi e parte degli eventi che si sono susseguiti e il Cardinale Borrini a breve vi informerà dettagliatamente. Li conosciamo tutti tranne l’ultimo, ovviamente, che a giorni verrà rivelato da quel bambino ormai grande che un giorno venne qua con la sua croce parlando con Papa Giovanni Paolo II. Come ben potete immaginare, per volontà di San Paolo, io e i miei predecessori abbiamo dovuto attendere con pazienza questi messaggi e lasciare che tutto si adempisse, ma posso assicurarvi che non siamo gli unici ad aver atteso; ci sono potenti sparsi nei vari angoli della
terra che stanno adoperandosi per conoscere e possedere ciò che secondo il loro credo gli spetta. Noi siamo la Chiesa, rappresentiamo Dio su questo mondo e non lasceremo nelle loro mani ciò che professiamo da millenni. Siamo giunti al gran finale e bisogna decidere se intervenire. Bene fratelli, prima di lasciarvi al Cardinale Borrini vi do la mi benedizione. Che Dio ci protegga sempree ci illumini. Preghiamo fratelli.» Al termine della preghiera il Papa lasciò la cappella mentre il Segretario di Stato si apprestò a informare i restanti di tutto il sapere di quei trentacinque anni, ricordando in primis l’impegno gravoso che li attendeva. I cardinali avevano cercato di non perdere l’aplomb con il Santo Padre per la scioccante rivelazione, ma rimasti soli, dopo aver ascoltato nel silenzio assoluto i sei messaggi e i fatti conosciuti, liberarono l’energia repressa e lo stupore attonito, tanto che sembrava che i dipinti posti sul soffitto della cappella si fossero improvvisamente animati. Dopo alcuni minuti di confusione e di disorientamento il Cardinale Borrini invitò tutti alla calma e con voce tonante disse: «Eccellentissimi non conosco le ragioni del Santo Padre che lo hanno spinto a illuminarci solo adesso dell’evento quando poteva farlo anni addietro. Sicuramente avremmo avuto tempo per riflettere con quella serenità che adesso manca, ma è chiaro che il tempo a disposizione è santo e dobbiamo raccoglierci in toto per potergli fornire la migliore soluzione. La giornata sarà lunga, iniziamo fratelli.»
XIII Appartamento Papale
«Sono le 20.00, il Santo Padre ha terminato la cena e la sta aspettando.» Disse il Camerlengo. Il Cardinale Borrini bussò delicatamente la porta e dall’interno sentì l’invito ad entrare. «Santità eccomi, sono venuto per consegnarle i nostri pensieri come sua espressa volontà, affinché possano esserle d’aiuto e giungano come bisbigli alle orecchie del Signore.» «Grazie Borrini, ti prego di estendere i ringraziamenti anche a tutti i fratelli che hanno posto in questa missiva il loro pensiero, ma ti chiedo di sederti e leggerla con me, stasera ho addosso polvere di stanchezza.» Il Cardinale annuì, si sedette, aprì la lettera ed iniziò a leggerla. «Santo Padre, guida eccelsa degli uomini, faro della gloria di Dio, albero di vita che fiorisce in altre vite, affidiamo nelle Vostre mani queste traballanti parole. Permeati dal Suo volere, abbiamo discusso, anche animatamente, prospettando e vagliando soluzioni sino a sceglierne una sola. Non nascondiamo l’arduo compito affidatoci, ma siamo consapevoli che a Lei Santità spetta quello più difficile. Mai ci saremmo aspettati di vivere questa tangibile presenza divina. Quel ragazzino divenuto grande, guidato dalla mano di Dio, ha toccato il cuore di questa terra, rinnovando e affermando l’esistenza di un disegno. Un segreto custodito gelosamente, ato da anima ad anima per volontà del Creatore che fa presagire l’imminente rivelazione. Quando arrivò a Roma, ad attenderlo fu Papa Wojtyla che ricevette prove inconfutabili. Ciò che abbiamo appreso è che, da qui a pochi giorni, potrà accadere tutto o nulla e che quel tutto o nulla apparterrà al volere di Dio e noi, umili servitori, non possiamo che inchinarci al suo volere. Il nostro pensiero Santità è che costui non ha bisogno della nostra opera in quanto il suo sapere discende direttamente dall’Altissimo e gode di poteri a noi inimmaginabili che separano la conoscenza
dalla fede. Dalla nascita del Credo abbiamo adunato anime in ogni parte del mondo, spesso con oscura crudeltà e accanimento misoneistico, ci siamo battuti per non esser battuti, sostenendo conflitti di religioni e di stato e la storia è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo convertito parte del mondo e con cosa? Con la nostra fede Santo Padre. Ci siamo chiesti allora perché Iddio non l’ha affidato a noi… e l’unica risposta che siamo riusciti a darci è stata: “Perché ci conosce” perché sa che consegnandolo a noi saremmo stati capaci di accentuare a dismisura la fede sino a smarrirla per farne scienza esatta. Iddio lo sapeva! Questo nostro dialogare ammette un solo finale. Se l’Altissimo ha deciso di rivelarlo significa che lo farà al mondo intero. Santo Padre, siamo spettatori e attraverso quest’uomo attenderemo il suo volere. Saremo fiammella di cero, arderemo sino a consumarci, scintilla dopo scintilla, per Sua gloria. Pregare è sempre stata la nostra unica forza e con essa sosterremo quest’uomo affinché si compia la Sua volontà.» Il Santo Padre, che per tutto il tempo aveva tenuto lo sguardo alla buia finestra, rivolse i suoi spenti occhi al Cardinale. «Borrini, la scorsa notte ho sognato. Era un qualcosa che mai ho cercato con vera ione nella vita, poiché la stessa mi ha condotto su altri sentieri, sin dall’infanzia vissuta a Marktl, ma in questo sogno l’ho amato così tanto, quanto non mai. Avevo il sole sul corpo e lo sguardo al lontano orizzonte ondoso. Ho provato gioia, e un sorriso diverso, nuovo. » «Cos’era Santità? » «Il mare Borrini. Ho sognato il mare. » Il Cardinale si alzò in piedi e con la lettera in mano si avvicinò anch’egli alla finestra buia, nell’immanenza della notte dei sogni, per perdersi anch’egli nell’azzurro del mare. «La prego Borrini mi parli del mare, mi racconti delle onde e dei pesci che vi abitano, del sole che lo scalda di primo mattino, della sua quiete o di quando diventa grosso e si avvinghia tempestoso, di quando si infrange violento sulle rocce e schiuma o di quando dolcemente copre col suo manto il giorno e la notte. Mi parli di quando non si vede terra intorno per giorni interi e si prega perché
appaia, mi parli di storie di mare.» «Santità mio nonno era pescatore, con lui vivevo tante avventure, ma mi creda, non è mai come esserci. » Commossi si abbracciarono nel cuore, lacrimando come due bambini. «Nel ‘68 scrissi un libro intitolato “Introduzione al Cristianesimo” nel quale sostenni che un Papa, prima di prendere una decisione, ha il dovere di sentire diverse voci all’interno della Chiesa. Borrini, l’ho fatto in tante occasioni e così anche ieri, avendolo ritenuto un fatto non comune. La volontà di intervenire su questo evento aveva un motivo preciso: “i potenti della terra” che con la loro discrezione che li contraddistingue, vogliono agire con atroce visione. Sono fermamente convinti che quest’uomo possieda leggi fisiche sconosciute, in definitiva sostengono che sia extraterrestre. “Mala tempora currunt”. Adesso puoi immaginare quale accanimento spasmodico li guida. Il male Borrini, chi è il male, sappiamo riconoscerlo davvero? Noi stessi a volte siamo il male, noi stessi dimentichiamo chi veramente siamo… e credimi, rimarremo tutti stupiti. Prendo coscienza delle vostre parole e delle anime che hanno concepito questi scritti che sono l’essenza della purificazione della fede. Giustifico le motivazioni, l’anima, lo spirito e la ragione che trova ordine e dimensione. Saremo spettatori del cielo, poiché nulla potremo su questa terra. Forse si porrà fine ai pensieri escatologici dell’umanità o nulla cambierà, ma assisteremo agli eventi nella preghiera e nella fede. Avvenga ciò che deve avvenire, sia fatta la Sua volontà, noi siamo pronti e dovranno esserlo tutti, uomini di fede e miscredenti.»
XIV
Washington - Martedì 4 agosto 2011
Il Segretario di Stato uscì dal Dipartimento col viso accigliato. Aveva ereditato dai predecessori una situazione anomala, trascurata, a cui ora doveva far fronte con determinazione. Nei suoi lunghi i sicuri si chiedeva com’era stato possibile ignorarla in questo modo. Il Presidente lo attendeva nello studio ovale e si era tenuto in agenda il dossier “The door” come primo intervento sulla scrivania. «Buongiorno Presidente. Signori...» Salutò tutti con un cordiale accenno tirato sul viso. Se c’era una cosa che tutti gli riconoscevano era il coraggio, la determinazione con cui affrontava le crisi. Mente eccelsa e stratega internazionale, aveva scrollato di dosso al Presidente e alla Nazione parecchie rogne e godeva di rispetto e fiducia incondizionati. Ora sedeva lì, in mezzo allo staff, con la lista di compiti da portare a termine. «Presidente l’ho vista in perfetta forma ieri. Sono rimasto sbalordito quando ha piazzato la pallina a una yard dalla buca. Ho dovuto sudare quattro colpi per piazzarla solo nel green. » «Oh, Generale Terry pura fortuna, non voglio certo essere una preoccupazione per Tiger Wood.» Aveva risposto il Presidente strappando risate. «Il segreto del Presidente è un buon riposo fisico e mentale per un gioco che richiede concentrazione e tatto.» Aveva aggiunto il Senatore Edgar. Il Segretario di Stato aspettava che fossero ate quelle battute rompighiaccio, abituato a sentire da anni, per poter entrare nel vivo della questione. Lui, a differenza del Presidente, non aveva dormito tanto bene. Emily la sera prima l’aveva spiazzato con una domanda innocua arrivata ai margini dei pensieri che normalmente evadeva in quattro parole.
Una domanda banale da catechesi che non sentiva da anni, superata, perché nessuno al mondo ha una risposta certa e allora si trova sempre quella di circostanza, la più accomodante, poi invece capita che arriva nel momento meno adatto, cadendo all’improvviso come un meteorite dal cielo, frantumando in un attimo tutto, annichilendo l’anima. Aveva già preso la pillola per la pressione, dato il suo bacio della buonanotte e spento la luce per dormire e ricaricarsi di energie sufficienti per discutere di spinose questioni l’indomani col Presidente. Emily era rimasta immobile, con i suoi piedi freddi che avrebbe voluto scaldare coi suoi come spesso accadeva e invece disse: «Harry… ma tu ci credi in Dio?» Avrebbe voluto far finta d’essersi già addormentato ma erano ati appena un paio di minuti dal bacio ed Emily sapeva che era ancora sveglio. Miliardi di domande ed era arrivata quella che non voleva, non in quella notte. «Ti ricordi Emily cosa disse Amstrong quando poggiò i piedi sulla Luna dopo la fatidica frase? Guardò quel pianeta azzurro così lontano, definendolo calmo e silenzioso. Amstrong sentiva cosa c’era dentro quella sfera sospesa, cosa vi scorreva. Sentiva le lotte e le sofferenze continue, e quanti destini s’incrociavano ogni istante, quanta vita e quanta morte. Sapeva che lì dentro c’erano esseri uguali a lui, che amavano la vita… i sogni. Credo che Amstrong, nell’ammirare la Terra, non fosse solo con Aldrin, ma anche con Dio.» Emily allungò i piedi strofinandoli sui suoi, felice di avere un uomo come Harry. «Bene Harry apriamo questa seduta con il caso “The doors”. Ho letto l’ultimo rapporto e mi pare che esistano posizioni contrastanti ma è bene sentire il parere di un esperto come lei.» Disse il Presidente. «Signor Presidente, Signori… Questo dossier raccoglie una minima parte d’informazioni, ho cercato di sapere quanto possibile ma è chiaro che c’è stata sin dall’inizio poca attenzione, un caso viziato, trattato come tante storie che avvengono nel mondo e alle quali abbiamo dato sempre l’attenzione finalizzata alla sicurezza degli uomini e della Nazione, spegnendo all’origine focolai e false credenze.
Pare che esista un uomo a cui Dio ha conferito determinati poteri. Sostanzialmente rappresenta la porta di accesso con l’Aldilà e, come avete potuto leggere dal dossier, se ne intuisce la natura ma non lo scopo. Sono accadute delle cose che travalicano le nostre conoscenze, pur essendoci affidati alla scienza, facciamo fatica a comprendere, rimaniamo nel dubbio che sia tutta una montatura architettata e, credetemi, se così fosse, direi ben fatta. La Chiesa e altre religioni non ci sono stati di grande aiuto ma è chiaro che qualcosa sta per accadere e quel qualcosa potrebbe essere tutto o niente. Stiamo monitorando da giorni questa persona ma non abbiamo attualmente alcuna giurisdizione per intervenire se non illegalmente. Ovviamente non siamo gli unici che stanno sulle sue tracce, pochi Paesi sanno e tutti stanno agendo con circospezione e sotto copertura, direi anche che si è innescato una sorta di timore collettivo di paura d’essersi imbattuti in qualcosa di più grande. In ogni caso ci si è mossi con notevole ritardo e per ritardo intendo anni. E’ inaccettabile quindi bisogna riporre rimedio.» «Lei che idea si è fatto Senatore Collins?» Chiese il Presidente. «Beh… Signor Presidente, sicuramente sappiamo poco di quest’uomo, ma in compenso conosciamo molte delle sette religiose con fini sovversivi dei destabilizzatori di masse che seguono guru carismatici, basti pensare ai suicidi di massa perpetrati nei secoli. Sappiamo fin dove si possono spingere e i danni che possono fare una volta innescate queste credenze fiabesche.» «Bene… lei Generale Terry?» «Certamente Signor Presidente. In giro per il mondo c’è di tutto e di più, di messia ne abbiamo avuto uno e tutto il resto sono giochetti di persone che non sanno come inventarsi le giornate. Mistici capaci di far vedere altri mondi e di convincere le persone che ci si possa fare un picnic sopra. Ho visto in ato chi spacciava miracoli come pane ma ho trovato sempre l’inganno, la truffa o come diavolo la chiamano, la magia. Io sono per l’intervento immediato e abbiamo i mezzi per eliminarlo.» «Chi sa oltre a noi?» Chiese il Senatore Stevens. «Russi, italiani e israeliani ma molto probabilmente anche cinesi.» Rispose Collins.
«Signori, vi sarei grato se mi lasciaste qualche minuto con il Senatore Collins.» Uscirono tutti senza dar a vedere la delusione per l’esclusione. «Collins sa dirmi qualcosa in più su Massimo De Concilis?» «Come ben sa Presidente il nostro Ordine è collegato a tanti Ordini, tra cui anche i Rosacroce; detto questo si è fortemente convinti che la sua morte fu messa a segno da Paolo nel ’86 ma nessuno ha mai formulato un’accusa o aperto un indagine. Ho chiesto recentemente notizie all’Ordine ma si son ben guardarti dal darci informazioni dettagliate, limitandosi a fornire solo elementi di contorno. Fonti dicono che questo Concilis non fosse solo il loro capo, ma qualcosa di più.» «Che intende dire con “qualcosa di più Collins?” Si spieghi meglio!» «Presidente… non so come dirglielo, ma pare che avesse conoscenze speciali, insomma, si dice che fosse il diavolo in persona.» «Collins si rende conto di cosa mi sta dicendo? Siamo per caso tornati indietro nella storia?» «Presidente lei è cattolico quanto me e se crede in Dio dovrebbe credere anche che esiste il diavolo.» «Collins dove stiamo andando con questa storia? Faccio una considerazione e poi lei tragga le conseguenze. Se è come sostiene… diciamo che se l’ipotesi fosse giusta, se esistesse qualcosa che va oltre le conoscenze terrene… ben poco potremmo fare; se invece è tutta una montatura queste persone vanno eliminate ma, per Dio, mancano le certezze. C’è un’altra cosa Collins che devo dirle… sono stato contattato da sua Santità.» «Su questo caso Presidente?» «Già... vuole che l’uomo sia lasciato libero, solo controllato con circospezione in attesa che tutto si compia e pare l’abbia detto anche ad altri. So che a breve ci sarà l’apertura dell’ultimo messaggio quindi attendiamo gli esiti senza mai perdere l’obiettivo. Se saremo ancora qui io e lei, una volta appurata la farsa, sarà l’Ordine stesso a prendersene cura… il nostro Ordine.»
Il Presidente premette un pulsante e tutti rientrarono ai loro posti. «Signori ho dato disposizioni sul caso a Collins che vi riferirà. Adesso iamo alla questione Iraq.» Alle due del pomeriggio Collins aveva concluso gli appuntamenti in agenda, saltò il pranzo in cambio di uno snack eggiando nel parco della Casa Bianca. Si sentiva sollevato e le scelte erano state quelle giuste. Gli agenti erano sul posto e non rimaneva che attendere. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe riferito all’Ordine e chiuso definitivamente l’operazione “The doors”.
XV
Servizi Segreti - 5 agosto 2011
“Scientia Rerum Reipublicae Salus” questo è il motto che campeggia nella grande sala del Dipartimento per le informazioni della Sicurezza. Il Direttore Giovanni Piccirilli due giorni addietro aveva ricevuto l’incarico di allestire in tempi record una Task Force denominata “Arcobaleno”. Il dossier ricevuto era scottante, ottanta pagine per capire che nel corso della sua lunga carriera non gli era mai capitato di occuparsi di un caso del genere. In un luogo preciso dell’Italia si erano concentrate organizzazioni segrete di alcuni Paesi. Adirato, aveva chiesto spiegazioni alla Presidenza del Consiglio del perché di tanto ritardo, di contro quest’ultima, con una breve nota, aveva fatto sapere che gli eventi maturati negli ultimi due giorni non erano prevedibili. Piccirilli aveva intuito che l’ordine di soprassedere era giunto da una via parallela. Di tutta fretta ma con oculata scelta aveva affidato l’operazione al Generale Vaccaro e al suo vice, con una decina d’uomini d’intelligence d’alto profilo per gestire un anomalo intrigo divenuto internazionale. «Egregi Signori sono il Generale Vaccaro, su incarico del Direttore sono stato posto alla guida di quest’operazione denominata “Arcobaleno”. Conosco gran parte di voi, così come il vostro livello di preparazione e sono sicuro di avere alle dipendenze l’élite. Tutti conoscete il Vice di questa Task Force, il Colonnello Astori cui farete capo e che a breve illustrerà nei dettagli lo scopo di questa missione.» Il Colonnello Astori, brillante Ufficiale, destinato a ricoprire incarichi di prestigio, noto a tutti per aver condotto in modo impeccabile numerose operazioni in teatri esteri, si apprestò a prendere la parola. «Grazie Signor Generale. Signori buongiorno, adesso vi spiegherò i motivi di questa operazione e il piano da attuare. Abbiamo avuto appena il tempo di
leggere il dossier e già da ora possiamo considerarci operativi. Vi racconto una storia che per quanto possa sembrarvi assurda, sembra aver scomodato molte persone, anticipandovi sin d’ora che l’area operativa ove verrà svolta questa missione è nella provincia di Caserta, in un paese chiamato Grazzanise. Per nostra fortuna proprio in questo luogo c’è un aeroporto dell’Aeronautica Militare, dove è stata approntata in tempi record la nostra sala operativa. Ovviamente siamo sotto copertura e quindi ufficialmente, per il personale non addetto, saremo un team che effettua sperimentazione con annesse esercitazioni. Avremo a disposizione tutte le attrezzature disponibili, compreso il o degli elicotteri che utilizzeremo personalmente. Ebbene Signori… tornando al nocciolo del problema, in due giorni in quest’area si sono catapultati agenti segreti di varie nazioni, solo per citarne alcuni… americani, russi, israeliani, ma se ne stimano altri. Perché tanto interesse? Per un uomo! Un mistico, un trascendente che si chiama Paolo. Si dice che abbia ricevuto da bambino dei messaggi direttamente da San Paolo, sì Signori proprio lui, il santo. Fin qui potrebbe non sembrare tanto assurdo, il mondo è pieno di santoni o sette che professano o inventano religioni, ma la connotazione di quest’uomo è diversa ed è questo che lo rende particolare. Pare abbia un dono sconosciuto al genere umano e c’è chi si è azzardato a ipotizzare che sia extraterrestre. Le fonti convergono sull’ipotesi che il dono l’abbia realmente acquisito da un’identità esterna, che sia essa extraterrestre o divina. Ora potete immaginare l’interesse delle varie nazioni nell’arrivare per prima ad acquisire tale conoscenza e gli effetti che ne deriverebbero. Siamo su territorio italiano e quest’uomo anagraficamente è italiano, nato e vissuto in Italia e ancora più strabiliante, è che sia è un soldato dell’esercito. Il vantaggio di cui disponiamo è notevole e non possiamo permetterci di lasciarlo nelle mani degli altri. In sostanza Signori, acquisendo la sua conoscenza e ampliandola potremmo diventare finalmente la nazione che sempre abbiamo sognato d’essere. Per quanto ci riguarda il nostro compito è proprio questo: evitare a tutti i costi che altri arrivino prima di noi e, credetemi, abbiamo tutte le carte in regola per poterli contrastare. C’è solo una condizione posta. Quest’uomo, almeno per adesso, non può essere toccato, quindi agiremo con circospezione sino a nuovo ordine. La nostra missione, per il momento, si limiterà solo a tenere lontano i lupi.
Adesso vi distribuisco parte del dossier che illustrerà il percorso di quest’uomo, lo leggerete durante il viaggio, dove potrete pormi ulteriori domande sui dettagli del piano. In meno di due ore tutti saremo nell’area. Signori non possiamo e non dobbiamo fallire. Buona fortuna.»
XVI
L’albero - Giugno 2001
Ho assistito al miracolo della vita col dolore straziante di Elena. E’ nato Alex e le infermiere dopo averlo lavato e avvolto in un panno me l’hanno posto fra le braccia. Che strano taglio di occhi ha e com’è infinitamente piccolo. Si sa contenere la gioia per l’arrivo di un figlio? Ognuno ha il suo modo per manifestarla ed io trovai il mio correndo. Corsi tra macchine e angoli di palazzi, tra campi gialli bruciati dal sole di quel giorno infuocato, col cellulare che continuava a squillare; corsi salutando tutte le persone che incontravo e i cani che portavano a so; corsi stringendo in mano un filo legato a nuvole dorate sino a cadere a terra sfinito, felice, evaporato. La vita è movimento, sfida, impegno e alla gioia della sua nascita si contrappose la missione affidatami. Abbandonai gli affetti per affrontare la terzultima volontà, nella consapevolezza che la più grande prova era il tempo stesso, il cerchio perfetto, l’inseguire luna, stelle, pianeti e universo intero, senza averne compreso la logica e le connessioni dei messaggi. «Signor Ciccone buongiorno, sono Cossu della Banca Unicredit, la chiamo solo per ricordarle che ha un deposito in scadenza nella cassetta di sicurezza e mi chiedevo se intende rinnovare.» «Signor Cossu grazie, so dell’imminente scadenza ma non intendo rinnovare; provvederò domani stesso al ritiro.» Affidarli alle banche…non so dove altro avrei potuto nasconderli allora, e la banca sembrava l’unico posto capace di darmi una certa sicurezza. Ritirai il plico sigillato con tanto di timbri e sigle pensando cosa mi sarei aspettato alla sua lettura, quali parole mi avrebbero inchiodato. Avevo programmato l’assenza dalla famiglia, ancora una volta, nonostante l’arrivo di Alex.
Il plico sembrava bruciarmi le mani non sapendo se fosse per l’ansia o per il caldo di luglio. Camminai per ore e pareva che nessun posto desse quella sensazione di luogo sicuro da permettere di rasserenare il cuore. Dalla Gorizia di confine, lo sguardo si soffermò a poche centinaia di metri, su un convento in collina nel territorio Sloveno, meravigliandomi di non averlo mai degnato di uno sguardo attento. Salito in cima, mi accorsi di quanto fosse grande la struttura abbarbicata nel verde dell’alta collina che sovrastava l’incantevole città divisa. Esisteva una seconda strada più comoda e raggiungibile in macchina sull’altro versante della collina ma, ignaro, avevo preso quella tortuosa e impervia. Ai lati di un grande piazzale panoramico, su una panchina in declivio, se ne stava seduta solinga all’ombra di un ulivo una signora anziana. Dalla sua veste di lino ricamata a fiori, uscivano esili braccia percorse da scure vene. Teneva lo sguardo immerso nella limpida vallata osservando l’ammasso di alti e stretti palazzi dei quartieri. Accortasi che mi ero seduto accanto a lei, senza discostare gli occhi, provò a condividere quella magica quiete. «Bella vero? Che quadro meraviglioso.» «Oh signora questo posto è pace e silenzio, quello di cui ho bisogno adesso.» «Ci vengo spesso quando il tempo lo permette e se sono stanca mi faccio accompagnare da mio nipote. In questo luogo silenzioso rio tutto il mio antico selvaggio essere. Qui distendo l’anima e spesso piango ricordi che non hanno chiavi e serrature. Assisto al tramonto della vita con la consapevolezza di non averle mai dato un senso preciso, d’aver vagato per anni vuoti e allora, lontano dal mondo, in silenzio, piango ciò che ho perso.» «Cosa ha perso?» Chiesi. «Ho perso ciò che mai avrò più. Ho perso l’amore!» E lei parlò dell’amore, con voce roca e lacrime di rimmel a posarsi su malinconiche rughe. Con estrema lentezza alzò l’indice tremante su un punto preciso della città addormentata e disse: «In quella piazzetta, lì… guardi bene, accanto a quegli archi, c’è la statua di un poeta. Quel viso di bronzo una notte d’estate, fra lucciole ubriache, incoraggiò i nostri cuori a saziarci di baci ardenti. Era l’amore ebbro sognato e aspettato. Quella notte, in quegli abbracci edenici che ancora avverto sulle spalle, sentii l’unico uomo capace di scardinarmi il
cuore. Oh paura maledetta cosa facesti, quale inganno e quali false verità venisti a sbattermi in faccia con le tue mille e mille domande, quale ignobile artifizio escogitasti per bloccarmi così tanto amore! Colpo su colpo, di dritto e rovescio, con violenza e precisione inaudita, lo respingesti per anni fino a quando, sfinito e lacerato, gettò il cuore a terra e s’arrese. Oh paura maledetta, perché vincesti tu e non i nostri cuori! Fu la ragione, compagna sfortunata e maligna, che m’indusse a restare nell’alcova della famiglia e da allora l’unica cosa che sento nel cuore è il aggio d’aria antica. Ragazzo mio, in questa vita già troppo lunga, specchio delle notti infinite che frenano il nuovo giorno, recito le sue lunghe lettere d’amore a memoria, come preghiere. Un giorno scherzando gli dissi: “Tu saresti capace di aspettarmi fino a settant’anni!” - “Sì, anche oltre la morte” rispose sicuro. Ora son qui, gelsomino sfiorito in un vaso che aspetta quell’uomo di pioggia.» Nel perpetuo canto delle cicale le strinsi le lunghe mani calde e sudate e proprio come allora le dissi «Sono qui amore.» Poggiò delicatamente la sua grigia chioma sulla mia camicia e, insieme, sospesi nell’aria, uniti, versammo lacrime per sentire l’amore che non finiva mai. «Sei tu... proprio tu?» «Si io, proprio io.» Le campane del convento annunciarono mezzogiorno e il nipote, puntuale più dei rintocchi, venne a prenderla. Bussai alla porta del convento e attesi a lungo senza ottenere risposta, forse erano già a pranzo o raccolti in preghiera. Attesi e ribussai sino a quando un frate venne ad aprirmi dicendomi: «Doberdan.» «Buongiorno a lei, avrei bisogno di poter parlare con il vostro Superiore.» Era un giovane frate, con barba folta e nera che nascondeva la sua acerba età; non chiese alcun perché ma con un cenno m’invitò ad entrare facendomi accomodare in una sala attigua, avvisandomi che vista l’ora avrei dovuto attendere; annuii pensando che alla fine, di quella stanza scarna avrei saputo area e perimetro…ma non fu così.
Fra’ Christofer arrivò di gran lena, minuto e sciolto, con un viso che metteva in risalto occhi bislacchi. Energico e sorridente mi strinse forte la mano in segno di benvenuto come se avesse rivisto un vecchio amico. «L’ho vista sa? L’ho osservato dalla mia finestra.» «Mi ha visto?» «Sì, l’ho vista arrivare e versare amore a quella donna, riempiendo il mio cuore di gioia. Desideravo tanto che qualcuno prendesse fra le mani la sua anima e lei, mi consenta di esagerare, ci è entrato!» «Fra’ Christofer è lei…» Le sue parole, gli occhi e lo sguardo trasparente vennero prima delle nostre presentazioni e fui felice di avere di fronte un uomo così. Giunti nel suo ufficio, senza nemmeno accomodarmi, fui subito diretto. «Fra’ Christofer ho bisogno di rimanere qui da voi, giusto il tempo che non scorre.» Uscirono sorrisi di gioia e liberazione dal viso di Fra’ Christofer che con voce tremante disse: «Può sembrarle strano o forse no, ma da tre notti faccio un sogno, sempre uguale. Un uomo importante viene a bussare alla nostra porta per chiedere tempo e la frase che in questi tre giorni sempre girava nella mia testa, era propria questa: “Il tempo che non scorre”. Poco fa quando l’ho vista salire in cima e rimanere con quella donna ho sperato tanto che fosse lei, che venisse a bussare alla nostra porta e dicesse queste parole. Ora so che quel sogno era un avvertimento. Si fermi nel suo tempo e quando sarà pronto ad andare io benedirò il suo cammino.» Nel mio grazie e nel suo abbraccio ci incamminammo per il convento. «Siamo scani e viviamo qui da centottanta anni, prima di noi c’erano i Carmelitani. Gli eventi politici e le appartenenze geografiche sono mutati nel corso dei secoli, ma serviamo il Signore sempre nello stesso modo. Questo
convento prende il nome della collina Kostanjevica, ed è stato ricostruito nel dopoguerra con l’aggiunta di nuove aree. Adesso le faccio preparare la stanza e se vorrà unirsi a noi nel rosario delle cinque sarò ben lieto di presentarle i miei fratelli.» Sono qui, a pochi chilometri da casa, tra le pareti bianche di un’umile stanzetta che getta lo sguardo lontano. Fra’ Giacomo, portandomi l’occorrente per la notte, mi ha detto che in certi giorni limpidi è possibile vedere il mare ma ora, tra questi pensieri, lo sento distante e lontano. Qui, ove lodano l’Altissimo, ove elevano lo spirito nelle preghiere, trovo la pace e il riposo che prepara la mente al trasporto come fiume che scivola nel suo letto. Arrivò un temporale estivo a scuotere il dormiveglia. Improvviso infuriò dietro la finestra, iniziando a spezzare con rabbia fiori e piante. Divenne infine impetuoso. Vorticava in giostra tirando a sé tutto ciò che incontrava; persino grossi rami soccombevano sotto la sua sferza. Piccoli eri audaci lo sfidavano in volo, mentre quadrupedi impauriti e zittiti dai suoi lampi fragorosi riparavano in tane di fortuna. Osservavo la potenza gravitare sulla città impreparata che apriva le braccia agli ultimi fuggiaschi. Con dispiacere mi accorsi d’aver mancato l’appuntamento di preghiera coi fratelli, accesi una candela di fortuna dopo essermi reso conto che quella elettrica era saltata ed iniziai ad aggirarmi tra i corridoi che non conoscevo. «Oh Signore lei è l’ospite appena arrivato.» Disse un frate incrociandomi con il volto anch’esso illuminato dalla stessa luce. «Salve Fra’…» «Fra’ Rosario!» «Fra’ Rosario, ho preso sonno e se non fosse stato per il temporale chissà quanto avrei dormito ancora, mi dispiace per il rosario…può dirmi dove sono tutti?» «Credo in mensa, siamo in ritardo stasera e questo temporale proprio non ci voleva, povere bourbon, ma venga, venga con me che l’accompagno a mensa.» «Che cosa sono le bourbon?» «Sono rose!»
«Rose?» «Si signore, sono le nostre rose che coltiviamo da sempre con ione, una rarità e simbolo della città di Nova Gorica.» «Non si preoccupi allora, vedrà che le troverà più belle di prima.» «Ma ha visto fuori? C’è l’ira di Dio e le avrà spazzate chissà dove... » «Non tema Fra’ Rosario, vedrà ancora le sue rose.» Arrivammo a mensa e presto si adunarono tutti, occupando posto a sedere. Fra’ Christofer mi venne incontro e prima ancora che tutti potessero porsi domande annunciò. «Fratelli carissimi, chiedo la vostra attenzione. Come avrete notato, non è solo la tempesta che è venuta a farci visita oggi. Avete sicuramente visto in giro quest’uomo che vaga per il convento, ebbene ve lo presento: questo è Paolo che accogliamo con gioia e starà con noi per il tempo di cui dispone. Siamo in ritardo con la cena, ma come di consueto ringraziamolo insieme con il “Laudato sii o mio Signore”.» Cenai a lume di candela, accompagnato da buona conversazione e da una serenità interiore per l’agio e la fratellanza armoniosa. Nessuno mi chiese il motivo di quella visita e molto probabilmente Fra’ Christofer li aveva ragguagliati. La tempesta era ata e l’aria s’era rinfrescata, dopo i saluti e i ringraziamenti mi ritirai nella stanza pensando che avrei riposato bene senza soffrire l’umidità delle altre notti. Steso sul letto ebbi da dire solo una cosa. «Signore perché? Perché hai voluto che la rivedessi? Perché così lontana nel tempo? Perché.» Mi addormentai con la busta stretta tra le mani sapendo che presto, molto presto, l’avrei aperta. Il nuovo giorno arrivò col canto del gallo, alle sei di mattina sentivo frati correre nei corridoi andosi voci che percepivo a tratti. Mi vestii incontrandone uno euforico che fermando la sua corsa disse: «Signor Paolo venga a vedere, è un miracolo non può essere diversamente.»
«Che cosa è accaduto?» «Le rose, le nostre rose…belle come non mai, intatte come se la tempesta non le avesse nemmeno accarezzate. Un miracolo…venga a vedere!» Erano tutti in giardino, increduli per l’accaduto, ammirandole come se fossero figlie. La gioia e l’immenso stupore disegnavano i loro volti e l’unica parola che ripetevano in continuazione era: “Miracolo”. Gli occhi mi cercarono e mi trovarono. Fra’ Rosario aveva già raccontato a Fra’ Christofer e agli altri le parole dette il giorno addietro e quando la voce cominciò a spargersi si sentì in dovere di intervenire. «Suvvia fratelli, cosa c’entra il caro amico Paolo con questo miracolo? Venite tutti con me, andiamo a ringraziare di questo dono il Signore che ha benedetto il nostro convento.» Tutti felici, ed io con essi, ci recammo nella cappella a pregare Iddio. Tra queste mura immacolate, nel tempo fermo che mi hai lasciato, giungo a te nuovamente, strappando timbri e firme per ritrovare un tuo colore. Leggerò ciò che ti appartiene, nulla temo, sia fatta la tua volontà. “Porta le tue verità, l’albero di Tule nel primo dì di festa vi ascolterà.” Ogni volta resto smarrito dai Tuoi messaggi sintetici e se non avessi certezza della Tua presenza, penserei a un gioco o a una burla, invece in queste poche parole c’è l’essenza della Tua volontà. Era così che gli parlavo, con voce alta, e se c’era una cosa che avevo imparato bene era che Dio, attraverso me, spesso si mostrava con fatti e parole e il viaggio verso Roma di cinque anni addietro lo testimoniava. Il grande albero…e dove sarà mai? Sarà fisico? “L’albero di Tule vi ascolterà” ripetevo… Il “Vi” significava che non sarei stato da solo e per me questo rappresentava la novità e poi il dì di festa quand’era? Andavo tastoni nel buio di poche parole e dovevo capire. Nel grande giardino vi erano numerosi frati intenti a coltivare e riassettare. Chiesi a uno di loro se avesse visto Fra’ Christofer e il frate rispose che a quell’ora potevo ancora trovarlo nel suo ufficio a sbrigare la corrispondenza, ma
che a breve avrebbe detto messa; poi soggiunsi: «Ah senta… c’è un esperto botanico in convento?» «Certo che sì.» Rispose il frate. «C’è Fra’ Anselmo, eccolo sopra quell’ulivo che sta sistemando, sa per la tempesta di ieri...» «Grazie tanto, lo raggiungo.» «Fra’ Anselmo scusi se interrompo il suo bel da fare, posso chiederle un’informazione? Mi hanno detto che lei è un esperto botanico.» Fra’ Anselmo, incastrato tra l’albero e il treppiede, rimase sorpreso nel vedermi tanto che quasi perse l’equilibrio. La sua grossa corporatura non l’aiutava certo e ci mise un poco per scendere. «Signor Paolo è un piacere se riesco a servirla. Mi dica di cosa ha bisogno.» «Non c’era bisogno che scendesse dall’albero, ho una curiosità da soddisfare e mi chiedevo se poteva aiutarmi…lei conosce grandi alberi?» «Intende vecchi alberi, cioè antichi?» «Grandi Fra’ Anselmo, giganti.» Risposi. «Eh…dunque mi faccia pensare…non è proprio il mio forte, ma ne conosco alcuni che sono molto nominati per la loro maestosità. So che la maggior parte si trova in California, l’Hyperion pare sia il più alto del mondo, oppure il “Generale Sherman” il cui tronco possiede un’ampia circonferenza… poi aspetti che ricordo ancora… ah sì, il primato per il diametro più largo spetta ad un albero situato in Messico, precisamente nella Oaxaca. E’ un cipresso, e si dice piantato duemila anni fa da un sacerdote Azteco. Lo chiamano Albero di Tule perché deve il suo nome alla Chiesa di Santa Maria del Tule. Poi ancora ricordo uno in Madagascar…ma di preciso la zona non so...» «Oh grazie Fra’ Anselmo, lei è più che un esperto, credo che abbia soddisfatto appieno la mia curiosità.» «Sono contento di esserle stato di aiuto Signor Paolo, ma se vuole possiamo
approfondire in biblioteca stasera.» «Grazie ma sono in partenza, anzi colgo l’occasione per salutarla vivamente.» Esisteva, l’albero esisteva veramente e si trovava in Messico. Ecco dove mi portava, dove dovevo portare le mie parole e ascoltarne altre. Entrai dall’adiacente sacrestia e vidi Fra Christofer intento a prepararsi per la funzione delle undici. «Signor Paolo è venuto per i saluti?» «Sì Fra’ Christofer, sono venuto proprio per questo. Condividerò con queste anime la Santa Messa e poi lascerò il convento. Voglio ringraziarla per la gradita ospitalità concessami pregandola di estendere il mio abbraccio ai fratelli che mi hanno donato la loro affettuosa compagnia. Sono felice di avervi conosciuto, ma il mio viaggio prosegue.» «Signor Paolo, comprendo la fine del tempo che non scorre e credo sia giunto il momento della concessione delle benedizioni. » Mi inginocchiai ai suoi piedi e posandomi una mano sul capo disse: «Benedico te Paolo, benedico i tuoi i e le prove che ti attendono.» Iniziò una lunga preghiera, affidandomi alla gloria di Dio e quando ebbe terminato tolse la stola dal suo capo poggiandola con stupore sul mio e inginocchiandosi. «Benedici me e i miei fratelli. Benedici questa casa.» «Ma Fra’ Christofer io non posso, non sono prete, né frate.» «Tu puoi… fallo. » Ero a disagio, non mi sarei mai aspettato di trovarmi in una condizione del genere. «Fra’ Christofer insisto! » «Insisto io.» Rispose supplicandomi.
«Discenda su di te e sui tuoi fratelli la benedizione dell’Altissimo, e vi preservi da ogni male per mezzo dell’amore del Suo cuore divino. Le vostre preghiere e le opere sono canti all’Altissimo e conforti per tutti gli uomini e le creature di questo mondo. Siate benedetti.» Fra’ Christofer aveva percepito il suo sogno e sin dall’inizio aveva capito. Erano sguardi diversi dal primo incontro e abbracciandomi dolcemente mi chiese di tornare a fargli visita un giorno. Era calata una fitta nebbia all’Aeroporto di Trieste spezzando di colpo i giorni assolati di luglio. Dalla grande vetrata panoramica del piano superiore potevo godermi ben poco giacché l’unica cosa che a malapena distinguevo erano le ali dell’aereo con le fioche luci lampeggianti. Lo speaker annunciò l’imbarco, dieci ore di viaggio e tre scali per raggiungere l’altro continente. Individuai il mio posto a sedere, quello assegnato dal destino: Aj24. Rivolsi un sorriso alla signora con la bambina posando il piccolo bagaglio nel vano e prima che prendessi posto la graziosa vocina mi disse: «Signore posso stare io vicino al finestrino? Voglio vedere il sole.» «Matilde non è il caso di importunare.» Rispose pacata la signora affianco. Matilde era gracile con capelli corti e diradati, un viso pallido, ingigliato, che poco apparteneva al colore naturale. Indossava un vestitino con piccole stelle blu ricamate, come a ricordare a quel corpo provato d’essere ancora qui, viva, presente. La madre, tra i mille pensieri si era dimenticata di prenotarle il posto lato finestrino e in cuor suo sperava tanto che acconsentissi alla richiesta. «Signora cedo volentieri il posto… non vorrà mica che questa graziosa piccola bambina resti così tanto tempo senza poter guardare il sole.» La signora sorrise agevolando lo scambio e la piccola Matilde, allargando il suo, ringraziò per la generosità.» «Andate o tornate a casa?» Chiesi presentandomi. «Mi chiamo Consuelo, purtroppo torniamo. Non è stato un viaggio di piacere…
ma di vana speranza.» Disse a voce bassa rivolgendo con occhi lucidi lo sguardo a Matilde già assorta nel finestrino dell’aereo rombante che si apprestava ad alzarsi oltre la coltre di nuvole, fra l’azzurro cielo. «Signora non c’è bisogno di aggiungere nulla sullo stato di Matilde: è visibile quanto la sua perduta luce.» «E lei invece va in vacanza?» Chiese Consuelo, allontanandosi da quell’affermazione che la lacerava. «No, sono in viaggio per un incontro, starò solo qualche giorno.» Il silenzio. Consuelo, lineamenti di dolore, mille occhi in due, smarriti, lontani, che socchiuse dolcemente per cercare di bloccare le lacrime quando Matilde, stanca, si addormentò; poi reclinando indietro la testa gettò fuori dall’anima la sua disperazione, colma di misura incontenibile. «Un mese Signor Paolo, tanto le rimane, forse anche meno, è questo che hanno detto i medici del suo male che avanza silenzioso nel ventre. La guardi… un fiore dalla corolla stemperata. Tanto le rimane e tanto rimarrà a me.» «Che cosa intende dire?» Risposi. «Intendo che non vorrò vivere nel dolore né finire i miei giorni a ricordare quest’amore che voleva affacciarsi alla finestra della vita. Ho lottato consumando le unghie sui camici dei dottori quando scuotevano il capo, girando la corda al cuore come a una vecchia pendola sgangherata, sconquassando con forza ore, minuti e secondi ogni volta che voleva arrendersi, per farlo oscillare nuovamente, convincendolo a battere ancora, a non arrendersi, a crederci. Gli parlavo dell’amore, della fiducia, della speranza… e così si fidava della mia ragione, iniziando il nuovo giorno con slancio, permettendomi di setacciare nuovi medici per una cura che arrivasse a sconfiggere quel microscopico mostro che ho visto nuotare impazzito sotto un vetrino. Poi Signor Paolo, l’altro ieri, alla mia pazzia, alle continue offese di rabbia, alle urla di dolore inveite ai luminari di scienza, il professor Minelli in un lungo abbraccio mi ha detto:
“Venga signora… venga con me”. Siamo scesi con l’ascensore in un corridoio angusto dell’ospedale fino a giungere una sala con tante celle frigorifere. Il cuore chiedeva spiegazioni, ed io gli dicevo… “aspetta! Aspetta ancora un poco.” Il professore ha aperto la cella 21 e una nuvola fredda, come a liberarsi di quello spazio buio e angusto, s’è dileguata nell’aria.» «Signora Consuelo la morte fa sempre un certo effetto e mai riusciremo ad accettarla, glielo dice uno che la vede spesso tra queste mura, ma quando è il tuo stesso sangue a morire, quando lo guardi e ti rendi conto che la metastasi ha avvolto anche l’ultima fibra che tentava di ribellarsi, allora sì che ci si sente vinti. Ho lottato quanto lei, fino all’ultima sua esalazione, deformando e dissipando il mio essere d’uomo, le mie cangianti ragioni di fede e di scienza…e alla fine sono caduto come una mela dall’albero, nascosta tra fili d’erba a marcire, dove nessuno può più vederla. Ermo vago come tram di notte, sempre sulle stesse grinzose rotaie, fermandomi dove nessuno deve salire e scendere e quando torno a casa vado dritto a dormire poiché anche lo specchio m’è morto. Giro con tasche vuote perché i sassi che avevo li ho già tutti scagliati a Dio. Ho perso signora, lo capisce? Ho perso…e ora è qui da quindici giorni e non ho il coraggio di seppellirlo. Che Dio si ricordi di questo dolore, che lo abbia in gloria e mi perdoni.» Tirando giù il lenzuolo, fra crescenti lacrime amare, le mie stesse lacrime, aggiunse: «Le presento Lorenzo, mio figlio!» Era calata la notte del lungo viaggio, pronta a raschiare i pensieri sul ruvido muro della mente. L’hostess ò con il carrello per la cena ma a stento prendemmo i sorrisi che distribuiva nello stretto corridoio. Cuore, piccolo motore silente agli estranei, cosa fai adesso! Ancora batti? Ancora riesci a tracciare grafici su fogli millimetrici? Fammi sentire l’ultimo rintocco del nostro addio, fermarti! Cuore staremo insieme, fra l’odore della terra… a terra divenire, e quando un seme spargerà le sue radici saremo un candido bucaneve che si farà strada tra gelide pietre innevate oppure erba infestante che si arrampicherà su muri cocenti di sole, magari grano saraceno a spigare, ma stanne certo che tu ed io rinasceremo.
Consuelo raccontò il vero dolore, quello che tutti allontanano come la peste perché non bussi mai alle loro porte. Lei che per gran parte della gioventù aveva girato nelle aree più disparate del Congo raccogliendo la sofferenza degli ammalati, guarendoli da morte certa con semplici e innocue aspirine. Lei che aveva ricucito ferite di carni lacerate… ora guardava inerme chi non poteva salvare. Le arrivò alla mente il volto di Alef dilaniato da una bomba mentre giocava a nascondino con gli amici. Sangue ovunque e lei che gridava: «Non addormentarti… stai sveglio, stai sveglio che ci penso io. «Consuelo sto morendo!» Diceva Alef. «Non morirai ti salverà! Dio ti salverà, stai sveglio, stai sveglio!» Una corsa contro il tempo per fermare l’emorragia, chiudere, tamponare, disinfettare… Ora si era addormentata stanca, a pochi pensieri da me. Stanca di guardare il mondo, stringendo l’unica cosa che sentiva ancora sua, la piccola Matilde. «Misericordia, luce sul mondo, sono qui per caso? E’ questo che volevi vedessi? Allora questo ti chiedo: “Misericordia”. Discendi e inonda queste tue creature, sciogli il dolore e il male che le avvolge.» Sprofondai nel sonno, prendendo la mano di Consuelo, come il gesto più naturale del mondo. Alla voce del comandante che annunciava la discesa su Madrid, Consuelo si destò, rendendosi conto che teneva le mani nelle mie, poi si voltò dicendomi: «Paolo…ho sognato un angelo, così vero, presente… che mi diceva: “Non temere Consuelo i vostri cuori batteranno ancora, la misericordia è scesa in voi”.» Le sorrisi dicendole d’averlo sognato anch’io poi guardammo Matilde ancora addormentata e ci accorgemmo che quel pallore addosso, era cangiato in
carnagione rosea, e quei lividi sotto gli occhi erano scomparsi mentre i capelli avevano forma lucente. «Che sta succedendo, cosa hai fatto! Dimmi che è vero, dimmi che sono sveglia, dimmi che è un miracolo.» Diceva Consuelo in lacrime di gioia mentre infilava la sua mano come un artiglio nel mio braccio. «Guardala Paolo, vedi anche tu? La vedi?» «Certo che sì Consuelo, ha cambiato totalmente aspetto!» «Sembra guarita. Paolo toccami, dammi uno schiaffo, ti prego fammi urlare di gioia!» Consuelo non stava nella pelle, continuava a piangere a dirotto strozzando preghiere. «L’angelo Paolo, abbiamo sognato l’angelo… ma hai ascoltato la stessa cosa che ha detto a me?» «Sì le stesse parole.» Risposi. Matilde si svegliò trovando la madre in lacrime che l’accarezzava e baciava. «Mamma ho fame! Tanta fame.» Disse sorridendole. Quel giorno non vidi le foglie ombrose degli alberi e nemmeno bambini felici giocare nei prati. Non vidi acqua gelata scorrere veloce tra rocce scoscese né vento alzare aquiloni per seguirne il percorso. Quel giorno… soprattutto quel giorno, vidi il dono posarsi come bianca colomba e il cuore espandersi in musica di gioia. Ma tu Dio, dimmi chi veramente sei, a che gioco mi hai invitato…. Nascondino forse? O guardia e ladri? Dimmi perché per l’intero viaggio ho avuto in mente Lorenzo col dolore di suo padre. Dimmi perché quando mostri una misericordia ce ne sono dieci, cento, mille e ancora che non verranno ascoltate. Perché Dio?… perché mi appunti spilli nell’anima come un sarto che prepara il vestito? Perché mi scuci e mi ricuci? Tre scali, bagagli e attese nelle hall, aporti, visti e ispezioni…
«Dove è diretto signore?» «A Tule nell’Oaxaca.» «Ha parenti o per lavoro?» «Viaggio di conoscenze.» Risposi. L’addetta al controllo mi guardò sott’occhio e poi aggiunse: «E cosa ci sarebbe da conoscere a Tule?» «L’albero di Tule.» «E lei dall’Italia fa un viaggio fino in Messico per vedere un albero?» E cosa avrebbe di tanto speciale?… non ci sono alberi in Italia?» Disse mentre rovistava i bagagli. «Non è un albero normale, è antico di duemila anni e credo uno dei più grandi al mondo.» «Interessante…allora lei è un botanico.» «No, ma se avrò tempo a sufficienza girerò anche altri luoghi.» «E direi! In Messico c’è così tanto da vedere. Va bene per me può andare, le auguro una bella permanenza e… mi saluti l’albero!» «Stia tranquilla, lo farò.» Dissi sorridendo. Città del Messico è il caos di tante città messe insieme, movimento di vita che va ovunque. Nella tiepida foschia, immerso in strade sconosciute, seguendo migliaia di gambe e borse, masticavo bocconi d’inquietudine che sbriciolavo con morbosa nausea. Perso in quel trambusto caotico sentivo accrescere il desiderio di pace, la stessa dell’albatros che fende l’aria nella quiete marina scendendo raso sull’acqua in cerca di cibo, invece ero assalito da quel senso di oppressione e d’istinto, senza guardare in faccia la città, m’infilai in un taxi pronunciando «Estación de autobuses por favor.» Infilato nell’abitacolo posteriore, come un gatto fiaccato che rinuncia
all’ennesimo affronto, stanco d’esser graffiato dalla vita, scivolai quatto sotto un muro grigio e cieco, lontano da sguardi vuoti, ignorandone l’astratta ragione. Giù e ancora più giù, nascosto tra le invisibili particelle di un mondo divelto che rifiutava spiegazioni. Né più strade né palazzi, né gente intorno, cercavo connessioni simili a quelle che facevo da bambino con quel trenino che mi teneva impegnato per ore e che sapeva deragliare sin troppo bene quando affrontava le curve col suo troppo impeto, adagiandosi su un fianco quasi a dirmi: “Collega i binari, rialzami, fammi correre ancora, giochiamo”. Quelle sì che erano facili connessioni. Strani pensieri scorrevano mentre il taxi mi conduceva verso una nuova partenza, con la paura di possedere poca ragione sul grande disegno, così poca da ingannare persino me stesso. Dovevano accadere nuove cose ma il quadro era ben oltre l’abbozzo e i colori già marcavano i contorni. Era giunto il momento di smettere un po’ d’esser artista, lasciando affogare nella trementina i pennelli intrisi, di dissolvere i colori per divenire critico alchimista. Struscio la fronte su vetri appannati, gettando lo sguardo oltre la finestra dell’anima per scorgere il Tuo disegno. Sbaglierò oppure ci andrò vicino, ma sono anni che T’interrogo e credo sia necessario chiedermi dove mi stai portando. “L’ordine è nelle tue mani, il bene è come il male”. Come suonavano strane queste parole nel mio primo attonito pensiero di bambino, chiuso nel piccolo bagno del silenzio. Sembrava un invito al gioco, una caccia al tesoro, dove a mia insaputa mi avevi iscritto e gli occhi vedevano un premio, una medaglia o una coppa da alzare. Don Salvatore disse che ero il predestinato e da quell’istante già i sogni erano in ritardo. L’ordine è stata la tua iniziale imposizione, la partenza del mio cuore nella nuova esperienza affinché l’ottuso alunno imparasse che nulla accade due volte… che l’erbaccia sul selciato un giorno farà posto al ciclamino. L’ordine è una sequenza di due baci; il primo temuto volo dell’aquilotto per capire che il vento sarà sempre suo amico. Potevo capire come si mischiava il bene col male? La ferita sempre aperta. Per far ciò bisognava immaginare il mare grosso e fragoroso che penetra con forza nei fiumi per restituire l’acqua avuta, mesciando e spargendo segretamente il
sale; oppure le nuvole bianche mutate in cupe che dopo rabbia e pianto ridiventano angeliche solitarie. Oggi saremo i buoni e domani i cattivi, pronti a scambiarci i ruoli nuovamente capendo che mai e poi mai saremo la stessa duna perché il vento cambia sempre direzione. Scegliamo chi essere, ignorandoTi o supplicandoTi, spesso rinnegandoTi per un’intera vita; amare e tradire tutto sappiamo fare, soprattutto chiederTi perdono. Ho ucciso Massimo e sino all’ultimo ho sperato che lo risparmiassi come un tempo facesti col figlio del riso. Ecco il Tuo ordine, la Tua sequenza. Hai atteso la mia fede e il tempo necessario affinché divenissi porta d’accesso senza aver ancora compreso il vero senso di questo dono, e poi il mio viaggio alla casa madre, un percorso obbligato, per preparare i cristiani agli eventi futuri. Roma mi sorprese, avvolta in una nebbia mattutina che non lasciava cicatrici, con occhi ancora chiusi di calore, pronta a rigirarsi nel letto per dire….è ancora presto, lasciami dormire ancora un poco. Tu no Karol, tu eri lì ad aspettarmi e quando giunsi, baciasti la croce peregrina, fradicia e consumata. Tu Karol, mi chiamasti “Il mendicante di luce”. Da te ebbi la conferma dell’improvviso cambiamento in arrivo e che quel segreto tenuto nascosto per millenni stesse per arrivare alla radice. Ora affronto un nuovo evento, qui…in Messico. Avverto qualcosa di speciale che mi accomuna ad altre entità. «Señor està llegado a la estación.» Feci in tempo a prendere il bus per Oaxaca. Salii e subito mi accorsi di quanto fosse scomodo, i seggiolini erano rigidi e lo spazio ristretto, in seguito seppi dal vicino di viaggio che era un bus di terza classe e che per andare su quelli lussuosi bisognava pagare più del doppio del biglietto. Impiegai oltre cinque ore di viaggio attraversando panorami meravigliosi fatti di foreste di ebano e cedri, con sosta a Puebla, una città coloniale spagnola e poi Tehuacan. Giunsi a Oaxaca che era già buio e a dispetto del mio disordine organizzativo ero riuscito a trovare un albergo. «E’ stato fortunato signore a trovare l’ultima camera disponibile, dopo di lei ho dovuto declinare tante richieste.»
«Come mai signora quest’affollamento?» «Per la festa che inizierà domani…. Non è venuto per quella? Gli alberghi sono tutti pieni.» Disse sorpresa. «Ah sì certo… mi scusi, ero sovrappensiero.» Il primo dì di festa, questo c’era scritto nel messaggio… sforzandomi d’immaginare chi avrei incontrato e il “vi ascolterà” tornava presente. Il grande albero che ascoltava chi? E quanti? A che ora? A differenza degli altri messaggi, dove avevo sentito tracciare il cammino, l’anima appariva nuda e nulla mi era permesso percepire, dovevo solo aspettare. Mi svegliai di primo mattino con le sparute stelle che si sforzavano di brillare, mentre il Gran Fratello era pronto ad alzarsi sul mondo. Al capezzale c’era un quadro di Mondrian con le sue linee intersecate a formare aree chiuse, spazi limitati. Un raggio di sole l’attraversò di netto, aprendo un varco tra quelle linee, spezzandole. Com’è strana la mente, spesso tralascia particolari per poi riguardarli con una nuova veste, immersa d’emozioni e sentimenti, scoprendone forma e bellezza. Mondrian non dava fuga ai colori, li imprigionava nel tempo, nessuna sbavatura, né spazi da poter superare, ed era così che sentivo d’essere quella mattina, rinchiuso, illanguidito, ma il cambiamento fu istantaneo, come accendere la luce nel buio. Bastò uscire da quello sterile albergo per sentire nelle folate d’aria fresca delle stradine, l’action painting di Pollock. Lo sguardo si aprì sulla città preparata da giorni a festa; in giro c’era già un pullulare di persone calate nel chiacchiericcio e ragazzini che ruzzavano felici posando brillanti occhi sulle bancarelle colme di dolci e di giocattoli sognati. Avevano preferito muoversi in anticipo per accaparrarsi i posti migliori e godere al meglio della manifestazione ed io… beh io andavo da tutt’altra parte. Tule era poco distante e quando chiesi al tassista di portarmi nei pressi dell’albero rimase perplesso, come per dire: Ma guardi che la festa è in centro non a Tule! Non avevo visto nessuna foto, non sapevo che aspetto avesse e nessuno me l’aveva descritto ma apparve così immenso da innervarmi il corpo con un unico
pensiero quando lo vidi. “Ecco, sono arrivato”. Era cinto da una ringhiera e rimasi sorpreso nel vedere due persone che se ne stavano sedute con lo sguardo rivolto verso l’imponente albero, quasi incantate. Ecco chi mi aspettava, questi dunque erano gli uomini chiamati a raccolta. Scavalcai il cancello assumendo la loro stessa posizione e, guardandoci in silenzio, sentivamo di aspettare, ancora aspettare. Ero il prescelto e dunque questi chi erano? Che ruolo svolgevano? Arrivò la quarta entità poi la quinta e così via…fino alla sesta e fu in quel momento che avvertii che nessuno più c’era da aspettare. Eravamo diversi nei lineamenti, nei costumi, nel colore della pelle, nel sesso, lontani per culture, tradizioni e religioni, eppure eravamo lì tutti e sette, sotto il grande albero. Questo numero ritornava ancora, sette i colori dell’arcobaleno, sette messaggi e sette entità raccolte, lontano dai rumori del mondo ma unite e pronte a parlare un’unica lingua comprensibile. «Maestoso albero che ci abbracci coi tuoi lunghi rami, il mio nome è Akim e sono giunto dall’India. Iniziato da una discendenza millenaria, ora seguo il Suo dono. Danzano i miei occhi sulle parole di luce del grande faro e attendo con te e i fratelli, finora a me ignoti, il suo verbo.» Akim sembrava aver attraversato lo stesso percorso, la stessa rivelazione, poche parole, tanti respiri. Dunque questi fratelli erano come me e non era l’unico a esser stato iniziato. Era così? Alla fine delle nostre presentazioni l’albero ci avrebbe illuminati? Desideravo parlare, snodare tutti i miei pensieri annodati, liberarli d’energia in cascate di conoscenza, che quell’albero fosse Dio o meno. Akim s’era rivelato senza aver posto nessuna domanda e mi chiedevo perché. Timore? No, non credo fosse per quello! Quel primo mattino si capovolse come clessidra, rovesciando di colpo le leggi conosciute, era come se il sangue avesse invertito il percorso nelle vene trasportandoci in un nuovo tempo dalle dimensioni sconosciute. Staccai gli occhi dal grande tronco per accorgermi che l’orizzonte non c’era più. Stavamo avvolti in una luce abbagliante con luccichii argentei, in un posto surreale a cui non sapevo dare entità o riferimento. Che fosse il paradiso o altro luogo non era dato a sapere ma infondeva una
beatitudine mai provata che penetrava nel cuore, rendendoci nuovi, diversi. Il corpo non sentiva né caldo né freddo, nessun vento e nessuna pioggia, nessun sole o stelle da poter coglierne le distanze siderali, nulla che conoscessi, nulla tranne l’albero e noi, sbozzolati dal tempo. «Fratelli, sono nata nella terra del nuovo mondo, figlia di tutte le strade che i miei piedi conoscono. Ho vagato nel mio tempo con la Sua parola spezzando respiri soffocanti, aleggiati nel vespro polveroso delle ombre che ad altri infonde e confonde. Come vento che tutto abbraccia ho accarezzato il bene e il male trascinandomi i loro putridi odori d’alghe sargassi. Il mio nome è July e divido con voi il grande dono.» La guardavo ed era come se la conoscessi da un tempo immemorabile, un viso famigliare, innocente, incontrato chissà quante volte tra le strade di tutti e mai fermata. Occhi del cielo che non s’erano mai legati ad altri occhi, fiore selvatico di tutte le stagioni. Era bello sentire le loro voci, capire di non esser solo, di avere dei fratelli, e mi chiedevo se il dono che avevo ricevuto fosse uguale, se anch’essi fossero porte e che percorsi avessero fatto. «Mi chiamano Neema e il mio villaggio è nel cuore dell’Africa. Vivo lì, nella terra rossa dalle ardenti aurore dove i primitivi ruggiti graffiano la vita, e bocche aperte da fame e dolore s’aggirano coi piedi nudi tra cespugli di silenzi mai uguali, lasciando impronte a destini segnati. Lì, tra i fuochi selvaggi della sera che scuociono le fatiche del giorno, è venuto a cercarmi, sollevando nell’aria nuove parole nei ritmi dei tamburi. Terra, mare, cielo e aria non si separano dal volere del Suo dono che in tutti riverso.» Avvolta in un Khanga sgargiante Neema ci penetrò con i suoi enormi occhi, tanto da faticare a capire come potessero appartenere a quel viso così minuto e comionevole che ricordava quello di Madre Teresa di Calcutta. Piedi impolverati, ricoperti da piaghe che evidenziavano sforzi di viaggi estremi. Cresceva l’attesa al grande albero. Strade diverse del mondo ci avevano condotto sotto questi grandi rami con la speranza e il desiderio di sapere chi veramente fossimo e cosa ci aspettasse, ma presto, molto presto, avremmo compreso. «Fratelli, credo, come voi del resto, che mai e poi mai avrei immaginato di
trovarmi tanto vicino a ciò che i padri dei padri hanno tramandato nei secoli, ma diversamente da voi, nel mio ato il cuore e l’anima erano più gelidi delle steppe russe e sentivo di non appartenere a niente e a nessuno. Come tanti ero il rifiuto che rifiutava, colui che ava parte della propria vita a spiegare le elucubrazioni della ragione del nulla. Uomo di scienza, assetato del sapere terreno che d’improvviso, come lampo verticale che squarcia il cielo, si è sentito bloccare il respiro del tempo. Fratelli il mio nome è Iosif e come voi sono stato chiamato, disconoscendo il come e perché.» Iosif era un gigante con muscoli che giocavano a rincorrersi sul corpo, una montagna da scalare, con un viso squadrato che ricordava gli antichi vichinghi. Aveva occupato posto proprio vicino a Neema rendendola ancora più piccola di quello che fosse. Un uomo dal ato burrascoso con idee che s’erano spinte ben oltre la prestanza fisica. A guardarlo sembrava un uomo fuori dal contesto e chissà perché mi venne in mente la frase di Einstein “Dio non gioca a dadi”. Se c’era una cosa che avevo ben compreso era che Dio nulla aveva lasciato al caso e se Iosif stava sotto il grande albero era perché era stato chiamato. Pensavo alla sua vita, come fosse stata senza aver ricevuto il dono, alle sue convinzioni logiche e teorie del nulla. In quante menti sarebbe entrato e a quanti avrebbe ancora dato risposte del tipo “ La fede non giustifica nessuna verità, noi siamo la scienza, la ragione che azzera le credenze”. Chi più di un miscredente poteva diventare servitore di Dio, chi più di Iosif ? Sentivo la terra sotto il corpo, quel contatto famigliare e la visione dell’insieme che dava serenità. Anche i fratelli, consapevoli del cambiamento comprendevano d’essere accumunati da una forza interiore che aveva un’unica direzione, un unico pensiero e una sola lingua. «Spalancai gli occhi al mondo nel piccolo villaggio di Gayaozhen. Nel cuore della verde terra la vita era fatta di sudore e di frutti da raccogliere. Mia madre era il libro e la maestra, la mano che si chiudeva sulla mia quando scrivevo l’alfabeto dei popoli. Ogni mese tirava fuori i vestiti della festa e andavamo al tempio per pregare. Nel fumo che stordiva i sensi, accendevo piccoli lumi senza sapere a chi e perché. Certe notti poi, quando accadeva d’esser preso da strani sogni, veniva da me per ascoltarli, si sedeva sul davanzale della finestra guardando le stelle e fumava. Quando le chiesi cosa ci fosse dietro a quella miriade di luci, sorridendomi rispose “altre luci”. Fu lì che un giorno di gennaio, chiudendo gli occhi, se ne
andò, dietro tutte quelle luci. arono alcuni anni e un dì di settembre fra le risaie mature, coi piedi ancora immersi nelle acque e la schiena curva, la rividi seduta sul nostro antico davanzale, vera e bella coi suoi giovani occhi del ato, per nulla consumata dal tempo che nessuno aspetta. Aprì le bianche mani mostrandomi la strada che conduce alla luce, lasciandomi il dono. Mi chiamo Qingwei e chiamo madre ogni stella che arriva la sera.» Qingwei aveva affidato il riso ad altre mani allontanandosi per sempre dal mondo che conosceva. Nei sogni di bambino aveva il destino che lo aspettava e nelle sue parole sentii riecheggiare le mie che ondeggiavano come catene dell’altalena. Quante rincorse, piedi puntati a terra per schiacciare il peso della mancanza e slanci per volare nel vento per dire: “Madre vorrei lasciare queste mani per arrivare sino a te, ma più salgo, più il sole arriva agli occhi e mi acceca”. Toccò al mio cuore parlare, lo sentii pronto come gemma schiudersi a primavera; come il primo battito d’ali di un aquilotto. L’aria si spinse in gola trasformandosi in nuovi suoni, mai sfiorati dalle labbra. «Fui cercato da bambino, intento a pescare su un piccolo fiume che a fatica dissetava l’arse sponde. Giunse un sorriso a bendare il tempo e la paura, si sedette al mio fianco e d’incanto tutto parve che mi fosse stato lasciato, persino il silenzio. Navigo la vita con barche di carta che portano i colori dell’antico patto dell’obbedienza, seguendo rotte sconosciute che nessuna mappa riporta. Fratelli il mio nome è Paolo, il mendicante di luce.» Mi ero solo descritto, eppure inizialmente le intenzioni erano di chiedere. Mio padre diceva sempre “Chi nun dumanne è chiamate capa e cucozze”, non è che fosse un bel proverbio ma detto in napoletano dava l’effetto. Non avevo posto neanche uno straccio di domanda… e ne avevo a milioni. “Capa e cucozze” avrebbe detto mio padre scuotendo la testa. L’ultimo fratello sedeva alla mia sinistra. Fui colpito dal suo abbigliamento bizzarro e viso paffuto che infondeva allegria. Portava sul capo un largo cappello paglierino legato sul mento da due fili di cuoio, una lunga camicia colorata a fiori con la scritta cubitale “Hawaii” e zoccoli bianchi forati a piccoli rombi ai piedi e al collo un sax. Se fosse stato un mio conoscente gli avrei detto subito: “Come è andata la vacanza… divertito?”.
«Ho sempre amato leggere poesie e dipingere, ogni giorno scendevo in strada mischiando colori e parole con i sorrisi della gente. L’arte è il mio vivere, l’universo che mi scorre nelle vene. Nelle sere avvolgenti, con il sassofono ero la musica di tutti, con note che svoltavano gli angoli di ogni strada, riempiendo i vuoti della vita. Ricordo la pioggia battente di una sera e il paese vuoto di anime, me ne stavo seduto sui gradini a suonare il mio pezzo preferito “I love supreme” di John Coltrane e come soffio di vento arrivò il testimone del Grande Artista per darmi nelle mani un nuovo strumento. Fratelli il mio nome è Ruis e condivido con voi il dono.» Dov’era l’orizzonte, dov’era tutta la vita del mondo che ogni giorno attraversavo, il verde delle montagne che salivo a fatica e il mare che tanto amavo, dov’era Elena e i miei figli, dove il Messico e soprattutto dov’eravamo noi? Le foglie del grande albero iniziarono a trasudare minuscole goccioline sui nostri turgidi pensieri, riempiendoli di parole attese. «Vivo sopra e sotto, tra cielo e terra, buio e luce, nel vento ballerino. Chi sono? Sono l’albero e sono anche il fratello, il figlio, il padre e la radice, sono la foglia, il fiore e il seme, sono ogni cosa a cui sapete dare un nome. Sono la parola e i pensieri, tutto ciò che riuscite a immaginare, l’ordine e il caos, il grande e il piccolo, il visibile e l’invisibile, l’evoluzione da cui tutto discende. Sono chi alimenta i sogni e permette che alziate lo sguardo al cielo a domandare. Sono tutto e da me tutto proviene, bene e male. Sono la vita e la morte. Sono l’amore per il male.»
XVII
La Casa - Luglio 2006
Di cinque anni in cinque, un lungo balzo, uno spazio ampio del tempo che dorme e si sveglia con te. Sai di poterlo cogliere appieno solo nel suo stesso istante e t’induce a scegliere, selezionare, catalogare, archiviare, abbandonare o dimenticare, sai che ti appartiene e gli appartieni. Il tempo certe volte mi fa proprio ridere. Don Salvatore rimase sconvolto quando gli dissi che bisognava aprire un messaggio ogni cinque anni e col tempo ho trovato quell’attesa più assurda di lui e se avessi potuto trasformarli in minuti non avrei esitato un istante, poi finalmente arriva e ti dice “Adesso devi agire, muoviti perché non posso aspettarti!”. Toccava a me svelare dove avrebbe condotto questo messaggio e non volevo più aspettare, dovevo sapere. Finalmente era arrivato il nuovo giorno, durante la notte mi ero svegliato restando ad ascoltare il costante battito delle gocce che si lanciavano nel vuoto dalle grondaie bucate dalla ruggine. Elena diceva che quando si aprono gli occhi nel cuore della notte è perché ci sono troppi pensieri accumulati e ogni volta che ritornavano le sue definizioni, sembrava sfogliare un antico libro di saggezza. Mi affacciai dal terrazzo osservando l’alba che regalava un cielo spezzato; terso celestino a ovest e code di nubi sfilacciate che fuggivano verso il mare. La strada bagnata specchiava la luce arancione dai lampioni, mentre gatti s’inseguivano furtivi. Il giorno però non era cominciato nel migliore dei modi, Elena si era alzata nervosa, confabulava animatamente in cucina con Antonio e mi chiedevo se avesse anche lei percepito la mia stessa tensione. «Finirò all’inferno per tutte le parolacce che mi fai uscire dalla bocca, possibile che non riesci a ordinare la tua vita? Hai visto a che ora sei rientrato?» Spesso gli stava addosso coi richiami ma Antonio sembrava vivere nel suo mondo, libero, che tanto invidiavo. «Alex e tu perché non fai colazione?»
«Perché non facendola…divento anch’io cattivo e potrò stare all’inferno con te mamma, non ti lascio sola.» Elena si era commossa, l’aveva abbracciato. «No Alex non preoccuparti, non andremo in quel brutto posto.» Era inutile negarlo, per quanto mi sforzassi di vivere una vita normale, la trovavo profondamente cambiata. Gli eventi che si erano succeduti avevano lasciato un solco profondo nell’anima modificandone la visione e l’approccio con il mondo circostante, in particolar modo con la famiglia. Ero cresciuto con le rivelazioni e con esse mi ero misurato, consapevole che le conoscenze avute avrebbero segnato il resto della vita. L’ultimo incontro con il grande albero era stato di natura trascendentale e da esso avevo assorbito certezze inimmaginabili, destinate a mutare radicalmente il mio essere. Solo come nessuno, nell’incertezza di poche righe lette in avida dissoluzione, cercavo le mie difese e ancora una volta approdavo in te e ripartivo da te. “SETTE PORTE DI SETTE COLORI GLI ARCANGELI ATTRAVERSERANNO E I SOSPESI DI DIO SI PORTERANNO”. Un messaggio chiaro, stupefacente, enfatico, decifrabile da chiunque, che lasciava intravedere parte del grande disegno. Dio chiamava a raccolta le anime, aveva bisogno di loro? La prima parola conficcatasi nella mente era stata “sospesi”, identica alla definizione che avevo sempre data dei morti e trovavo questa eguaglianza sbalorditiva. Tutto era rimasto qui, anime e polvere, tutto in attesa del grande richiamo celeste. I miei genitori, gli avi, Don Salvatore, gli amici, erano rimasti tutti qui. Anche tu Esterina, anche tu qui. Sette porte, sette colori e sette fratelli, un numero magico, e adesso i sette Arcangeli che avrebbero attraversato le porte per svegliare i sospesi e condurli nella nuova casa. Il diavolo, lo ricordo bene, voleva darmi il suo bastone in cambio del dono. Che cosa sarebbe successo se avessi ceduto? Immaginavo la grande battaglia, lo scontro finale tra il bene e il male, le forze che tutto regolano e mi chiedevo se questo trasporto di anime fosse collegato. Le scritture del mondo dicevano che Dio era il bene, e allora chi lo avrebbe mai immaginato se non fosse esistito il
male? La ragione dell’esistenza del male prendeva corpo dal grande disegno, ma l’ultima frase di quel grande albero la ricordavo perfettamente: “Sono l’amore per il male” e non riuscivo più a cancellarla dalla mente e tantomeno a darne un senso. Erano troppe le domande e la donna misteriosa incontrata anni addietro sul treno aveva salda convinzione delle sue ragioni: “Tutti chiedono, fanno una prima domanda e saputa la risposta ne fanno altre due e sapute ancora ne fanno quattro e così via, ogni domanda porta con se altre domande”. Dov’erano adesso i miei fratelli scelti… e cosa avrebbero pensato di questa volontà divina? Mi sarebbe piaciuto sentire il loro stato d’animo, e sarebbe stato bello rimanere uniti. Rimasi solo, e decisi di uscire in strada, col bisogno di sentirmi vivo tra i vivi, osservare la gente intenta al proprio tempo. L’estate calda e colorata sollevava l’anima e una eggiata al parco avrebbe giovato. Babysitter annoiate a fumare; anziani composti sulle panchine che affondavano gli occhi e la mente sul ato; extracomunitari sdraiati nel verde di una speranza che non arrivava mai; uomini in giacca e cravatta dai i lunghi, seri d’impegni, che si agitavano al telefono e ragazzi che quel giorno avevano preferito scambiarsi effusioni piuttosto che star seduti tra banchi di scuola: ecco l’istantanea di vite in un parco di città; la vita di tante vite del mondo. Mi sedetti accanto ad un anziano e alla sua badante straniera che a tutto sembrava interessata fuorché all’assistenza fisica e morale dell’infermo. Suoneria e vibrazioni del telefono mi fecero sussultare, proprio mentre schiarivo le idee. «Buongiorno Signor Ciccone, sono Roberto della Cassa di Risparmio di Gorizia, ieri è venuto a ritirare un plico e siccome non c’ero, il mio collega si è dimenticato di dirle una cosa.» «Mi dica Signor Roberto.» «Due giorni fa è venuto un signore con una sua delega per visionare il plico ma, come da accordi stipulati anzitempo, gli abbiamo negato l’accesso. Stavamo chiamando la sicurezza quando si è dileguato in fretta. Abbiamo cercato di contattarla per metterla al corrente ma non era raggiungibile.»
«Signor Roberto mi rincuora sapere che vi siate attenuto ai patti concordati, per la verità il telefono ieri lo tenevo spento, mi dispiace, ma in ogni caso le sono grato.» «Si figuri Signor Ciccone è nostro dovere, buongiorno.» Respira…respira…respira. Questo diceva il mio istruttore quando stavo sotto pressione. Nel parco si poteva respirare tutto il tempo che si voleva, allargare i pensieri, organizzare e ricominciare. Qualcuno sapeva di me e significava che avevo lasciato tracce in giro… ma dove? Tornai all’uccisione di Massimo. L’Ordine probabilmente era risalito a me senza intervenire, limitandosi ad aspettare gli eventi, ed era chiaro che gliene avevo date di ragioni, e chissà poi a quali conclusioni erano arrivati. La Chiesa, certo che sì, ma alla fine tante organizzazioni avevano un motivo valido, potevo farne una lunga lista, e dire che spesso, durante questi anni, avevo avuto la percezione d’avere gli occhi addosso. Oramai era troppo tardi per trovare un nesso, dovevo occuparmi di cose più importanti e poi… sarebbero riusciti nell’intento? Ero un prescelto e chi più di Dio sapeva far piani? «Ti piace? E’ vero che porta fortuna?» Un delizioso bambino era venuto a parlarmi, sembrava uno di quelli che apparivano in pubblicità alla tv. «Una bella coccinella, certo che sì.» «E tu ce l’hai la fortuna?» Chiese. «Non sempre perché è difficile trovare le coccinelle.» «Mamma mamma, ho trovato la fortuna!» Scappò in un lampo tutto felice, aveva trovato la sua fortuna. «Eh la fortuna... bisogna averla quando serve.» Disse l’anziano seduto affianco. «Già, non sempre arriva puntuale.» Risposi. «A me ne arrivò una precisa, maledetta, e ancora la sento addosso.»
«Cosa le accadde?» «Non serve scavare negli anni dei ricordi, sono rimasti tutti vivi, intatti. Dicembre del ‘42, eravamo in guerra sul fronte russo, accerchiati dalle controffensive ai margini del fiume Don. Facevo parte della seconda divisione, o almeno di ciò che ne era rimasto, non ho più visto il mondo così bianco e mai così tanto nero nel cuore per l’orrore. Mancava poco a Natale e gli Ufficiali ci davano del cordiale per ubriacare la paura, ma quel primo calore allo stomaco poco dopo non faceva altro che aumentare il freddo dell’incoscienza. Oltre alla disperazione avevamo perso anche le dotazioni organiche ma ciò che più uccideva era l’aver perso l’identità. Il mio amico Andrea mi ava le sue raccomandazioni, lettere e foto dei genitori nel caso fosse morto e io gli davo le mie. Chi moriva, chi continuava a camminare nel bianco, chi bestemmiava contro i tedeschi, chi contro i russi, chi contro gli italiani, chi uccideva. Sotto ogni attacco la vita mi scorreva davanti. Ero follemente innamorato e avo lunghe ore a guardare la foto di Emma che pareva cambiasse ogni volta espressione, a volte sembrava triste e pensierosa, in altre ore che sorridesse, la mente modificava il suo sguardo in base all’umore che avevo; ma certe volte anche gli sguardi finivano, stanchi d’inseguire i sogni tutti i giorni. La mente voleva nuove emozioni, ricordi da elaborare… ad avercene! Se le forze cedevano, se ti abbandonavi, se ti arrendevi, allora il tuo corpo sarebbe rimasto in mezzo alla neve, perché nessuno ti avrebbe portato via. Emma, avevo solo Emma e per lei tiravo tutta l’energia e fu grazie all’amore per lei che riuscii ad arrivare al centro di raccolta e alla fine a portare la pelle a casa da quella sporca e inutile guerra. Fui trasferito in un ospedale per un edema polmonare e vi restai a lungo, senza veder più nessuno. La guerra era persa, l’ottava armata disfatta, ma il dolore più grande doveva ancora venire. Emma si era sposata con Andrea e allora quel giorno compresi che dovevo restare lì, coperto dai fiocchi di neve, con palle di fuoco traate sul petto. Essere ucciso o lasciarmi morire tra quel bianco… sarebbe stata la mia fortuna, avrei trovato la mia coccinella ed Emma sarebbe stata per sempre mia. Ho superato tutto, dolore, malattia, ma l’amore… ah l’amore no, quello per Emma non son riuscito mai a superarlo.» «E poi cosa fece?»
«Andai a lavorare in Iraq sui pozzi di petrolio per conto di una multinazionale italiana, lontano dal mondo che conoscevo, lontano dal ricordo che mi opprimeva, ma anche lì, fra quelle pompe che estraevano l’oro nero, certe notti, lei mi raggiungeva.» Com’è stata la mia vita? Un foglio sfogliato male, bruciato, disgregato in cenere e portato via dal tempo, una vita ata a far del bene, ad amare chi non amavo, perché se torni da una guerra che non volevi, se riesci a tornare da una guerra come quella, non sei più lo stesso, ma se rinascessi… ah se Dio lo permettesse… saprei da quale parte stare.» «Signore, se lei rinascesse, starebbe nuovamente dalla parte del bene, glielo dico io.» «Non esserne tanto sicuro ragazzo!» Smise di parlare, stette a guardare il bambino felice che giocava con la coccinella, poi abbassò a terra lo sguardo e in silenzio pianse la fortuna che non avrebbe mai voluto. «Signor Enrico prego andare, pranzo adesso.» Disse la badante. Enrico si avviò sorretto dalla badante con piccoli i spenti, poi si voltò a guardarmi per un’ultima volta, per scomparire lentamente dietro un angolo di strada, sotto un cielo di mille colori. Chissà com’erano adesso le rive del Don senza l’odore della polvere e la neve color sangue…. Il parco si era svuotato sul mezzogiorno, il bambino aveva smarrito il pallone e deluso dalla coccinella portafortuna, l’aveva abbandonata al suo mondo; gli immigrati si erano avviati verso la Caritas per un pasto caldo e l’erba piegata dal loro lungo riposo rivedeva la luce del sole, sicura che presto si sarebbe rialzata. Ero rimasto solo in mezzo ai grandi alberi che respiravano il mio respiro, ai colombi che si abbeveravano alla fontanella… ma soli non si è mai, soli ci si può solo sentire. Forse stavolta non avevo viaggi fisici da fare, nessuna meta da raggiungere o persone da incontrare. A differenza degli altri messaggi questo poteva rappresentare un vero cambiamento e la paura d’essere la porta mi assaliva. Chi dei sette Arcangeli mi avrebbe attraversato per venire a prendersi i sospesi di
Dio, portandosi un flusso continuo di anime attraverso il mio corpo? Chissà da quanto attendevano questo momento. Se c’era qualcosa di cui avevo sentito poco parlare o quasi nulla, erano proprio “Gli Arcangeli”. Certo avevo visto statue e dipinti che li rappresentavano con grandi ali e vesti bianche e chissà se erano davvero così. Alle elementari avevo raccontato al mio amico di banco di immaginare d’essere uno di loro, di scorrazzare in volo con le ali e farmi ammirare, ma lui secco aveva distrutto subito il sogno dicendo: «Sì, così il cacciatore ti spara e cadi a terra come una pera secca.» Una cosa pareva certa, le gerarchie esistevano ovunque. Conoscevo solo i nomi di tre Arcangeli, ma dovevano esser almeno sette e chissà quanti erano gli Angeli, forse miliardi di miliardi. L’assenza totale di vento rendeva l’aria afosa e attaccaticcia sulla pelle, in strada non girava più nessuno con quel sole cocente che schiacciava anche i pensieri; tutti rintanati in casa con i condizionatori accesi. L’aria era limpida, pulita, pareva che qualcuno avesse lavato il cielo col mare e poi lo avesse steso ad asciugare. Non avevo idea di come, dove e quando sarebbe avvenuto l’evento, ma speravo che fosse presto. Stavo per andarmene verso casa quando mi parve così strano veder svolazzare nell’aria un foglio colorato nell’immobile parco. Si poggiò sulla mia panchina e mi chiesi quale forza l’avesse spinto visto che non c’era un alito di vento. Lo raccolsi incuriosito leggendone il contenuto e presto compresi “NEL CUORE DEL GRANDE MARE DI SABBIA, BRILLERAI COME FARO DI TUTTI I VIAGGIATORI”. D’improvviso quel foglio prese fuoco lasciando a terra solo un mucchio di cenere, giusto il tempo di imprimere le parole nella mente. Ricordai le parole di Enrico, di come s’era sentito allora, bruciato dalla fortuna e pareva succedermi lo stesso. Il viaggio fisico era arrivato e per giunta era arduo e faticoso. Ad attendermi c’era il deserto più grande del mondo, il Sahara. Nel suo cuore di sabbia, tra silenzio e solitudine tutto sarebbe ato attraverso me… ma Dio, un posto migliore non c’era? Sentivo d’essere vivo più che mai e preparai a dovere il viaggio informandomi sul volo, le guide, i tragitti da compiere, gli abiti adatti da indossare, le vaccinazioni necessarie. Presi sufficienti scorte, avevo tutto ciò che mi occorreva.
Presi il volo diretto per Algeri e da lì sarei arrivato in un posto chiamato Tassili di Hoggar ando per Tamanrasset. L’avevo visto su alcune foto e il cuore lo aveva scelto. A me sembrava essere al centro del Sahara ma di certo non ero stato a tirar linee con righello e como sulla cartina dell’Africa. Il vecchio continente è un mondo che lascia senza fiato. Algeri, la città antica,fatta di viuzze e scalinate a non finire;case addossate con tetti merlettati, dove ovunque sbucavano sguardi sorridenti di bambini e di donne avvolte in scialli che si portavano in giro il mondo. Mille occhi non sarebbero bastati per scrutare tutti gli angoli di questa città ma il tempo era esiguo e la guida Ahmed già mi attendeva col suo piccolo Piper. Mi aveva aiutato a caricare tutti i bagagli nel biplano e in poche ore sarei arrivato a Tamanrasset, dove ad attendermi c’era una piccola comunità religiosa denominata “Piccole Sorelle di Charles Faucauld”. L’agenzia me l’aveva consigliata, dicendo che quest’associazione prendeva il nome dal famoso esploratore del deserto e dai suoi insegnamenti, un posto sicuro e tranquillo dove riposare. Da quanto avevo intuito anche Tamanrasset doveva esser movimentata, si aggiravano molti truffatori pronti a spogliare i turisti di ogni bene. Stare con le suore non mi sarebbe dispiaciuto per nulla. Ahmed era un bel chiacchierone, amabile e divertente e questo assicurava il viaggio meno noioso. Parlava arabo e se e anche se quest’ultima lingua l’avevo abbandonata da qualche tempo, poco dopo ci capivamo alla perfezione. Guardavo dall’alto il mare di sabbia, le distese infinite di dune iridate, con quelle loro gradazioni di colore che ricordavano ora il miele, ora il caramello. Anni fa avevo letto su una rivista che circa trentamila anni addietro il Sahara era una regione verde e fertile, popolata da animali di ogni specie, mentre ancora prima c’era il mare, poi lo spostamento dell’asse terrestre e il movimento delle placche tettoniche l’avevano reso arido. L’entusiasmo iniziale fu smorzato dalla noia. Anche con il biplano il viaggio pareva interminabile, mi ero stancato di guardare cielo e sabbia e di sentire Ahmed. Aguzzavo la vista solo quando notavo carovane migratorie o Tuareg in fila che scavalcavano dune. Mi abbandonai in dormiveglia, sino a quando Ahmed dandomi un colpetto m’invitò a guardare dal finestrino dicendo: «Voiçi monsieur, nous sommes arrivés.»
«Ahemd enfin, je suis heureux!» Risposi sollevato. Tamanrasset… chi avrebbe immaginato che un giorno sarei stato in un posto simile. Dall’alto, in mezzo a tutte quelle sfumature di marrone, l’unico terreno verde che si stagliava era il campo da calcio. Ahmed aveva fatto atterrare il suo biplano su una pista secondaria dell’aeroporto e tempo un’ora si era già davanti alla casa dell’associazione. Non ero abituato a queste città, ai nuovi colori, alle loro culture, al caldo. Tutto riportava a un’unica parola: “adattamento”. Ahmed sarebbe ritornato dopo una settimana per riprendermi, lo salutai calorosamente stringendogli la mano e in quell’attimo, serio, disse: «Monsieur Paul, attention.» Suor Maria era sull’uscio della struttura per darmi il benvenuto. Parlava in perfetto Italiano e pareva così strano trovarla in quel posto. «Sono Italiana, proprio come lei.» Disse sorridendo. Una lingua che mi faceva sentire a casa, tanto che le parole di benvenuto erano superflue; presto conobbi tutte le suore e vidi tutto ciò che facevano per vivere e far vivere; conobbi quelli che ospitavano e ascoltai con piacere alcune loro storie. Mi parlarono a lungo di Charles Foucauld, dei suoi scritti, degli aiuti che davano e ricevevano, dei viaggi di opere nel mondo, della visita al Papa a Roma e più stavo lì più mi accorgevo della grande forza spirituale che possedevano. Erano incrollabili. Nell’atrio della mensa alzai lo sguardo sopra un’arcata a calce bianca, dove capeggiava una scritta a caratteri cubitali: “Quando il chicco di grano che cade a terra non muore, rimane solo; se muore, porta molti frutti”. «E’ di Foaucauld?» Sorrise Suor Maria, sorrisero tutti. «E’ una frase di Gesù, è associata a Foaucauld perché il suo sacrificio, come
quello di Gesù, ha lasciato molti frutti.» Disse Suor Maria allargando le braccia verso tutta la comunità. Gesù… dov’ero stato in tutti questi anni? Un lungo viaggio durato più di trent’anni, partito da Saulo, ando tra il diavolo, i miracoli e le religioni del mondo incrociate sotto il grande albero, per giungere infine a Tamanrasset. Ero stato davvero tutto questo tempo senza Gesù? Trent’anni… e solo adesso mi accorgevo che finora c’eravamo sfiorati e sentiti, parlati senza parole, ascoltati. Ma dov’eravate tutti, com’era fatto questo mondo dei cieli che tanto si parlava, in quale posto dell’universo si nascondeva? Dov’era possibile alzare lo sguardo e dire: “Ecco dove siete?”. Perché l’umanità doveva attendere la resurrezione dalla morte per sapere, e il male… dov’era? Anch’esso nascosto, proprio come il bene, forse tutto era governato dalla stessa forza, dallo stesso disegno. Io che non conoscevo Gesù, che non sapevo nemmeno tutte le sue parole scritte nel Vangelo, pretendevo di conoscere tutto questo. Pensai ai miei fratelli sparsi nel mondo, affacciati alla vita in altri credi; portati per mano a pregare su altari vuoti o davanti a immagini a me sconosciute, a credere nella reincarnazione della vita, in paradisi diversi, in inferni uguali. Dove sono andati a finire tutti quelli che credevano negli Dei, nel Dio Sole, che pregavano alla luna e alle stelle…dove tutti quelli che non credevano? Cos’era questo miscuglio di speranze sparse nel mondo, dov’erano giusto e dove sbagliato? In quel momento volevo dire ad Angelika, quella donna sconosciuta incontrata per caso sul treno, che invece si sbagliava. Noi esseri umani avevamo la ragione e se c’eravamo evoluti era proprio grazie alla volontà di migliorarci, alle domande da porre. Interrogarci era ciò che ci aveva permesso mi mettere piede sulla Luna, di inviare telescopi per scrutare l’invisibile agli occhi, di cercare altre vite tra il buio dell’universo. Le domande avevano reso possibile scoperta del DNA, trovare nuovi farmaci per curare le malattie, porre fine a false credenze e crearne nuove. Volevo sapere, proprio come lo volevano tutti gli uomini del mondo e questo
dono ricevuto rappresentava l’opportunità sognata da tutti. Avrei saputo più di ciò che conoscevo e se non tutto, comunque tanto. Se ci fossero state nuove domande da fare o da porre, se da due fossero diventate quattro e poi otto e poi ancora…, io le avrei poste tutte, anche non ricevendo risposte. Angelika ora potevo dirtelo: “Ti sbagliavi!” ai parte di quel giorno allietato da persone fantastiche. Parlavo con tutte e mi raccontavano di come si erano avvicinate alla comunità, della chiamata che avevano sentito e dell’amore per il prossimo che le univa. Altra vita non avrebbero voluto se non quella, sebbene attraversata quotidianamente da mille difficoltà… tutte tranne Suor Maria. Arrivò la notte e scelsi il cortile per ammirare le stelle. Mi sdraiai su un giaciglio deciso ad addormentarmi sotto di esse, ad averle come lenzuolo. Ogni tanto ava un satellite che girava insieme al mondo e subito ripensavo alle domande che mi ero posto quel giorno. Dov’eravamo arrivati? L’umanità, con la sua velocità, ci stava permettendo di affacciarci a finestre sconosciute dell’universo. Con lo sguardo perso nel cielo, mi sentivo come sollevare da quel giaciglio e girar in mezzo a esse tanto apparivano vicine e limpide… è così che volevo riposare quella notte, tra loro. «Signor Paolo dorme qui?» Suor Maria era ancora in giro a quell’ora, come se per lei la stanchezza non avesse il sopravvento sulla miriade di cose che faceva ogni giorno. «Suor Maria chissà quante volte si sarà addormentata guardandole. Sono così belle e così tante.» «Ah, c’ho perso la vista dietro, a Dio non si poteva chiedere uno spettacolo più bello.» «Quale Dio?» Rimase sorpresa da quella domanda, accigliata, si avvicinò sedendosi vicino. «Il mio Dio, che è anche il suo e quello di tutti.» Rispose. «E dove sta? Lì, oppure lì… o da quella parte?» Chiesi muovendo il dito nel cielo.
Mi prese il polso ancora alzato e stringendolo nella sua mano iniziò a dirigerlo ovunque. «E’ lì in quella stella, ed anche lì in quell’altra, e poi là nel buio che avvolge gli astri che non riesci a vedere, è tra l’impetuoso spazio dell’universo. E’ in mezzo a queste case e oltre a quelle dune. E’ dentro ogni parte di ciò che sei e di ciò che sono, nel silenzio che abbiamo distrutto con le parole, nello sciame di pensieri che non trovano logica. Dio è l’energia che ci attraversa.» «Suor Maria ha mai visto la potenza di Dio?» «Tutti i giorni Signor Paolo… tutti i giorni.» «E quella del diavolo?» «Tutti i giorni Signor Paolo… tutti i giorni.» «Domani andrò ai Tassili di Hoggar e lei verrà con me.» «Che cosa dice? Come fa a dire queste cose? Sono esterrefatta! Insomma Signor Paolo, lei è una buona persona, venuta in questo posto per qualche suo motivo personale, sarà un viaggiatore solitario, uno studioso oppure uno che ha bisogno di ricominciare il proprio percorso per ritrovarsi, ma avrà notato che noi qui abbiamo uno scopo preciso, assistere i bisognosi e ha pur visto la mole di lavoro che ogni giorno affrontiamo. Come può pensare che venga con lei in mezzo al deserto… e poi a far cosa? Lo sa che c’è lì? Solo sabbia, qualche sasso e null’altro! Inoltre è un viaggio pericoloso, potrebbe fare strani incontri sul percorso, gente disposta a uccidere per un nulla, per non parlar della fatica per arrivarci… ci vogliono minimo due giorni. In ogni caso le sconsiglio vivamente di andarci, ma se proprio deve, che almeno abbia delle guide sicure e animali adatti. Signor Paolo, proprio non riesco a comprendere cosa va a fare in un posto dove non c’è anima viva.» «C’è Dio e mi aspetta.» Dissi «Dio l’aspetta lì? D’accordo… aspetta lei ma non me, io lo trovo tutti i giorni qui, in mezzo ai bisognosi. Lei vada pure, si sieda in mezzo alle dune e mediti, preghi… poi quando sarà pieno d’amore e pace nel cuore… tornerà. Mi dia retta… Dio è ovunque, perché andare in quel posto quando è anche qui?»
«Suor Maria, Dio era anche in Italia e lei adesso è qui. Partirò domani mattina alle cinque ed ho già guide e animali. Per il mio cuore… posso dirle che possiede l’inconsistenza di una foglia ed è pieno di pace, a differenza del suo.» «Come fa ad asserire cose del genere se non conosce nulla di me? Lo sa che lei è proprio un tipo strano e mi sta incuriosendo così tanto col suo modo di parlare da non sapere se prenderla sul serio. Adesso mi dica perché il mio cuore non dovrebbe essere in pace.» «Leonardo.» Smise di guardare le stelle e il mondo. Brividi e stupore lasciarono posto alle lacrime, si alzò di scatto scappando via, perdendosi nel buio di quella sera senza luna. Perché si era fermata invece di starsene nella sua stanzetta come sempre? Non avermi mai incontrato, ecco cosa avrebbe voluto e soprattutto non sentir mai pronunciare quel nome… mai! Si era abbandonata sul letto come un sacco di patate senza nemmeno provare a sgualcirlo, chiudendo il mondo fuori. Non era più l’umidità del cortile a penetrarla nelle ossa ma fitte di dolore che si espandevano come rami, quasi a paralizzarla. L’antico dolore era tornato. La suoneria del cellulare si attivò. Era la voce registrata di Alex, per un attimo mi aveva lasciato l’illusione d’essere nel letto di casa quando ripeteva “Sveglia papà…sveglia papà…”, ma ero lì, in mezzo a quel cortile lontano, infreddolito. Sarebbe stato meglio dormire in una stanza comune anziché all’addiaccio, ma le stelle mi avevano rapito. L’ora era arrivata, dall’esterno sentivo i cammelli bramire e di corsa raccattai il materiale da portare con me. «Signor Paolo…vengo con lei!» Suor Maria, con occhi ancora stralunati da una notte insonne era sull’uscio principale che si affacciava sul cortile, con un piccolo zaino tra le mani, pronta a seguirmi. Aveva fatto la sua scelta. «Venga Suor Maria e… per favore mi chiami Paolo, senza “Signore”.» «Va bene Paolo.»
Sorrisi, le presi la mano e ci avviammo. Suor Maria parlò con le guide, si fece il segno della croce e poco dopo si addormentò sul cammello. Il viaggio era lento ed estenuante, col sole che iniziava a bussare sulle spalle col suo calore. Man mano andavo svestendomi, rimanendo solo con maglietta, pantaloncino corto, e cappellino in testa. Avevo buone scorte di viveri fatte ad Algeri e sicuramente non avremmo sofferto fame e sete. Le guide erano silenziose, nei loro abiti tradizionali tenevano scoperti solo gli occhi e mi chiedevo come fero a sopportare il caldo ma Suor Maria che s’era risvegliata, pareva avermi letto nel pensiero. «Paolo, dovresti coprirti, specialmente con questo caldo atroce. Gli indumenti leggeri servono per proteggere la pelle e permettono meno evaporazione dei liquidi del corpo, inoltre eviteresti le scottature.» «Già…ecco spiegato perché i Tuareg vestono in quel modo. Sa che non ci avevo pensato? Si vede che non sono un esperto del deserto...» «Sarà esperto in altre cose.» Replicò. «Suor Maria grazie per esser venuta, avevo bisogno di lei.» «Non sono venuta per lei, ma per me.» «Giacché abbiamo tolto il “signore”, possiamo anche darci del tu.» Dissi. «Certo, l’importante e che mi chiami sempre Suor Maria.» Se nel mondo avessero fatto un concorso per Miss Suora, lei l’avrebbe vinto. Era bella, tremendamente bella, una dea con la corazza. Nonostante l’assenza di trucco e i capelli celati, era incantevole, inoltre possedeva una grande forza di carattere che la rendeva affascinante. Il viaggio sarebbe stato lungo e avrebbe avuto tutto il tempo per parlarmi… era venuta per questo. Dopo ore di silenzio e di sole, arrivammo in una piccola radura di massi consumati dal vento. Le guide scesero dai cammelli facendo segno che ci saremmo accampati lì. Pranzammo e discorremmo in quel posto surreale, così distante dalla civiltà.
I Tuareg avevano nomi impronunciabili, quasi goffi e anche l’aspetto era lontano da come li si vedeva su alcune foto di riviste, così decisi di chiamarli con nomi di fantasia fumettistica: “Gianni e Pinotto”. Ridevo da solo per quest’associazione e alla fine Suor Maria disse che mi ero preso un’insolazione. Provai a guardare in lontananza qualche gelataio sulle dune, oppure un’oasi con una sorgente paradisiaca, ma nessun miraggio in vista. «Devi esser lucido Paolo, dobbiamo parlare io e te.» «Parleremo presto Maria, presto.» «Suor Maria!» Ripeté pronta con l’aria imbronciata. ammo le ore più calde riparati dietro alcune rocce aspettando l’ordine di ripartenza dei Tuareg e sembravo esser l’unico fiaccato, nonostante fossimo partiti da poche ore. Il sonno mi colse senza che nemmeno me ne accorgessi e quanto riaprii gli occhi quasi mi spaventai sentendo il cammello strofinare il muso sulle mie gambe come a voler che mi svegliassi. Già erano tutti pronti per la ripartenza e Suor Maria si era prodigata per raccattare anche le mie cose sistemandole sull’animale, permettendo così che dormissi di più. «Paolo stasera saremo stanchissimi e pieni di sonno, ora abbiamo tempo per parlare, i Tuareg non sanno l’italiano e non potranno ascoltarci. Sai il motivo per cui sono venuta e tocca a te spiegarmi delle cose.» Disse Suor Maria affiancandosi con l’animale al mio. «Hai ragione, ma era l’unico modo che avevo per farmi seguire.» «Bene, visto che hai preteso la mia presenza, cominciamo: dove hai conosciuto Leonardo?» «Non ho mai conosciuto Leonardo.» «Allora chi ti ha parlato di lui e come l’hai collegato a me.» «E’ difficile spiegarti, puoi anche non credere, ma ho visioni e conoscenze che arrivano improvvise.» «Da dove arrivano?»
«Da Dio credo!» Suor Maria fermò il cammello, scese velocemente e avvicinandomi, mi afferrò per un braccio scaraventandomi giù. I Tuareg poco avanti si accorsero della scena e Suor Maria disse loro di attendere qualche istante, poi rivolgendosi a me tutta rabbiosa e a gran voce disse: «Allora Paolo, cerchiamo di essere seri altrimenti adesso faccio dietrofront e me ne torno dalle mie sorelle immediatamente! Avrò anche sete in questo deserto ma se ti aspetti che beva queste tue parole…» «Luce, stai calando alla notte. Stringi le mani, stringi l’addio.» Dissi sulla sua voce. Nessuno conosceva queste parole, nessuno tranne lei. Erano state le ultime di Leonardo mentre chiudeva gli occhi per sempre. Suor Maria da allora le aveva sigillate nel cuore. Si sdraiò sulla sabbia rovente stringendo il crocefisso tra le mani e piano, tra le lacrime, iniziò a parlare: «Leonardo era il marito di mia sorella maggiore. In quel periodo frequentavo l’università, ero giovane e bella, gli uomini facevano a gara per conquistarmi, ma a nessuno davo gli occhi perché a nessuno sentivo di saziare il cuore. L’amore idiota, quello incosciente che non sa distinguere un sasso da un pezzo di pane, quello che gioca con la mente, così ingenuo, imbranato e inaspettato, arrivò di soppiatto a inebriare gli occhi. Lo nascosi con gli scritti in greco antico su un diario di stelle lontane perché non mi apparteneva, perché nessuno sapesse. Tra quei fiumi di frasi, tra righe e righe, vivevo sognando con lui la vita in parchi, piazze, ristoranti, mari e colline invisibili, dove nessuno poteva trovarci. Eravamo in canzoni ascoltate in radio o attori di scena, eravamo ciò che volevo fossi nell’ebbro inchiostro che fuoriusciva a placare desideri inconfessabili. Sbadata e sbandata d’amore smarrii il diario e il fato volle che fosse proprio Leonardo a trovarselo tra le mani. Intuì e imparò il greco antico e con esso il sapore delle mie labbra che non seppero fermarsi. L’amore clandestino, quello vigliacco e traditore che non si accorse d’essere tale, esplose sulla bocca di tutti e presto ci accorgemmo d’esser nudi e indifesi, alberi spogli che non sapevano dove nascondere i rami. Presi da vergogna e disperazione, cacciati anche dalla luna, sprofondammo negli abissi più bui, tanto che Leonardo, in un momento di pura follia, decise di togliersi la vita. Quelle
sono state le parole che riuscì a dirmi “Luce sta calando la notte, stringi le mie mani, stringi l’addio”. Abbandonai subito tutte le strade per giungere solo a quella di Dio e seppur non mi fossi mai perdonata, decisi di dedicare la vita al mondo che soffriva.» «E tua sorella?» «Disse d’avermi perdonata, ma in realtà non l’ha mai fatto!» Le diedi una mano a risalire sull’animale, s’acconciò il velo e ripartimmo. «Bene Paolo, ho raccontato sommariamente la mia storia, adesso voglio ascoltare la tua. Chi sei e come fai a sentire queste voci, inoltre voglio sapere cosa realmente andiamo a fare in questo posto e in che modo dovrei aiutarti.» «Sembro essere un prescelto di Dio, porta d’accesso alla nuova dimensione. Da oltre trent’anni inseguo un disegno senza conoscerlo, affidandomi solo alla Sua volontà.» «E’ da quando sei venuto che ti osservo, l’aria diversa… enigmatica, intrigante, il modo di vedere ciò che ti circonda e di chiedere le cose, insomma mi hai lasciato subito quella curiosità addosso, sapere di te.» Raccontai a Suor Maria tutto. Per la prima volta nella mia vita tutto il mio segreto, nascosto alla famiglia e persino al Papa nel viaggio a Roma, ora fuoriusciva come un fiume che aveva rotto gli argini di una diga. Cosa mi stava succedendo, perché a lei che ascoltava in silenzio quelle assurde parole, impossibili da assorbire? Avevo le fauci secche dal caldo e dalle tante parole. Il fiume impetuoso che aveva travolto tutto ciò che trovava davanti adesso si era quietato, scorrendo docile, senza più forze. «Suor Maria lei è l’unica donna al mondo a cui ho raccontato gli eventi, senza nemmeno conoscerla o chiederle di tenere riserbo e mi creda, non so nemmeno perché l’ho fatto.» «Lo so io Paolo.» Rispose. «Tu! Tu lo sai?»
«Sì lo so! Una settimana fa ho avuto la febbre, durante la notte mi sono svegliata sudata e sono andata a prendermi dell’acqua sul comodino per la tanta sete. Appena ho messo i piedi a terra e fatto pochi i mi sono accorta che sbandavo e tutto mi girava intorno, poi improvvisamente è comparsa una luce sulla parete ed ho sentito una voce che diceva “Seguilo”. Al mattino ero sfebbrata e non ricordavo nulla ma Suor Leith che durante la notte era venuta a vedere come stavo, mi ha riferito che ripetevo sempre questa parola “Seguilo”, così ho ricordato, ma in tutta onestà l’avevo legato al delirio, poi quando ieri sera mi hai chiesto di seguirti volevo esser certa di te ed ho fatto di tutto per convincerti del contrario. Leonardo, quando l’hai nominato… ho capito che non era la febbre la causa, ma tu. Paolo cosa ci aspetta…? Ho paura.» «Cosa mi aspetta lo so, è cosa aspetta te che ignoro.» «Dimmi cosa erà attraverso le porte allora.» «erà ogni forma di vita estinta o che si estinguerà, sino alla sua chiusura.» «Lasciami vedere Leonardo, lascia che riveda chi non ho mai smesso di pensare e di amare. Ti supplico Paolo!» «L’amore Maria. L’amore è l’unica arma capace di vincere ogni cosa. Non ci sono spade o coltelli, né bombe né malattie che possano uccidere l’amore. L’amore avanza su ogni cosa e va anche oltre la morte. L’amore appartiene al bene e al male: questa è la più grande scoperta.» «L’amore al male? Paolo il male non possiede amore, lo distrugge ogni giorno.» «Invece sì Suor Maria. Hanno l’amore per il male!» «Ma come puoi associare la parola “amore” al male.» «So che ti è difficile accettarlo, ma credo che chi si schieri dalla parte del male lo faccia perché possiede o trova l’amore per il male.» «Che il diavolo tenti di portarci verso il male è risaputo.» «Il diavolo tenta nello stesso modo in cui tenta Dio. A noi appartiene l’arbitrio, a loro il giudizio.»
«E chi muore senza aver potuto scegliere?» «Già, questa è proprio una bella domanda, nient’altro che frecce che non trovano bersagli da colpire.» «Questo concetto del bene e del male te l’ha rivelato Dio?» «No questo no. Sono mie riflessioni, appartengono alla mia ragione.» «La tua di ragione, non certo la mia.» Replicò pronta. «Certo… la mia ragione.» «Devo farti una domanda specifica e ti prego di essere sincero Paolo.» «Dì pure.» «Hai ricevuto un dono straordinario, unico, un evento che può cambiare la storia del mondo tanto che ancora faccio fatica a capacitarmi; chiunque, credente e non, avrebbe voluto esser al tuo posto, compresa io, ma faccio questa considerazione: tu ancora adesso, dopo tutti gli eventi succeduti, vivi nel dubbio. Per te queste due forze, il bene e il male, questo grande gioco che abbraccia l’universo intero, permangono al centro delle tue domande. Ho notato tutto questo quando mi parlavi del diavolo e per giunta sei riuscito a dire che anche i suoi seguaci posseggono l’amore. Insomma Paolo tu non sembri un uomo di fede, ma uno scienziato che segue regole precise, imposte basandosi su eventi concreti. Perché? Perché stai mettendo in gioco le ragioni del diavolo? Dio non ti ha dato abbastanza certezze? Avrei accettato questo filosofare da chiunque ma non da te, un prescelto. C’è ancora qualcosa che devo sapere? Questo mi chiedo, e ti chiedo.» «Maria…» «Suor Maria…» «Uff… Suor Maria, la verità è che non mi sono mai confrontato con nessun vivente, ho sempre seguito alla lettera la volontà di Dio che ha per me un valore assoluto, per lui ho persino ucciso. Ho detto tutto a te e mentre raccontavo mi
chiedevo perché. Il desiderio di conoscere mi pervade da sempre. In me la fede e la ragione si equivalgono come il bene e il male e questo Dio lo sa e credo anche il diavolo.» «Mi fai un po' paura Paolo, ma sei anche così sincero.» Ci accampammo per la notte, col pensiero di discorrere all’infinito, ma crollati di stanchezza dormimmo come ghiri. Condividemmo la stessa tenda, l’unica che avevo, per una sola persona, ma c’eravamo stretti. Dormire con una suora in mezzo al deserto del Sahara… che cosa strana. Che imbarazzo svegliarsi e trovarsela addosso. Com’era possibile che durante la notte ci fossimo abbracciati? Ancora dormiva e pian piano cercai di staccarmi dal suo corpo ma lei sembrava un orsetto di peluche. Pensavo alla sua reazione quando si sarebbe svegliata, ma poco dopo fece un movimento unito al risveglio e finalmente potei star tranquillo. «Paolo russavi forte!» «Io russavo? Ma che dici io non russo mai.» «Invece russavi come un trombone tanto da esser tentata di andarmene a dormire all’aperto.» «Mi dispiace, credo sia stato per stanchezza.» «Già, lo credo anche io… poi diciamo che è una vita che dormo sola e sinceramente ero un poco in soggezione.» «Beh, soggezione non credo visto che hai dormito abbracciata a me.» Si alzò di scatto battendo la testa sul borsone attaccato al vertice della piccola tenda. «Io abbracciata a te?» «Sì, e quando stamane cercavo di staccare le tue braccia ancor di più ti stringevi, tanto che c’ho rinunciato.» Era diventata di tutti i colori… con rosso predominante, senza smetterla di
scusarsi. «Maria non hai da scusarti, credo d’essermi abbracciato a te anche io.» I Tuareg erano pronti mentre noi ancora dovevamo far colazione. Ci aspettava un giorno infuocato e non osavo immaginare il dopo. Di tanto in tanto alzavo la testa al cielo e con sorpresa scorsi delle nubi in lontananza. Com’era possibile in pieno luglio, nel mezzo del deserto? Questa era davvero una stranezza e chiesi a Suor Maria di domandare alle guide se ogni tanto capitava. «Mi hanno risposto che a volte succede, è raro ma succede, che comunque è una benedizione per il viaggio; lo sa che pare strano anche a me, insomma è davvero raro vederle sulla testa, credi centri qualcosa con il viaggio che stiamo facendo?» «Nulla mi meraviglia, tutto può essere, forse è un’indicazione di avvicinamento alla meta.» «Qualsiasi cosa accada non dobbiamo averne paura, Dio è con noi.» Disse Suor Maria. «Certo, Dio è con noi.» Aggiunsi. Nel pomeriggio le nubi s’intensificarono divenendo cupe, vento e sabbia si alzarono agli occhi e in lontananza scrutavamo lampi scendere a terra. Il deserto aveva perso i suoi colori brillanti. Le guide fecero inginocchiare i cammelli stendendoci sopra un telo legato con cinghie per ripararsi e anche noi seguimmo l’esempio utilizzando la piccola tenda impermeabile. La pioggia vorticava con la sabbia in mulinelli sulle dune e i cammelli s’erano stretti come fratelli. Eravamo nel bel mezzo di una tempesta e dovevamo attendere che asse, ma in quell’attimo sentii la chiamata, era dunque giunto il momento di andare e mi pareva così assurdo. «Cosa fai? Dove vai con questo tempaccio. Stai giù!» «Devo andare Suor Maria, mi chiama!»
Mi guardò smarrita, incredula, neanche lei si aspettava che arrivasse in quel momento. «Vengo con te!» «Ma non puoi venire con me!» «Ah no? E perché mai?» «Perché sono io il prescelto, la porta.» «E secondo te per quale motivo mi hai portato con te? Hai insistito che venissi e non certo per farti da guida visto che le hai già. Se dovevo venire è perché esiste uno scopo che nemmeno tu conosci. Io devo venire, devo vedere Leonardo.» «Dio me l’avrebbe detto non ti pare?» «Possibile che solo tu non lo capisci?» «Sei testarda Suora, non insistere!» «Insisto eccome, io vengo e non si discute.» Urlò rabbiosa in mezzo al vento! «Uff…va bene vieni, ma starai in disparte qualunque cosa accada. Promesso?» «Promesso!» Avvisammo le guide della nostra uscita assicurando loro che presto saremmo ritornati. Ci guardarono attoniti rimettendosi nuovamente al riparo dalla tempesta. Si combatteva con acqua e vento, ogni o era una sfida, una lotta fisica e mentale per giungere alla meta. Fianco a fianco, gomito a gomito per non perderci di vista e giungere al grande vortice del ciclone che imponente c’era apparso. Fu improvviso, una sorta di liberazione, quando riuscimmo a varcarlo a fatica, addentrandoci nel suo grande occhio che aumentava la sua forza sempre più. Un aggio che sarebbe stato inibito a chiunque, riuscimmo ad oltrearlo con stupore.
Niente più vento e niente acqua, né fulmini né tuoni ma solo una colonna alta sino al cielo che ruotava come un frullatore in pianta stabile. Ci scrollammo la sabbia dagli abiti e raggiunsi il centro esatto, pregando Suor Maria di stare più a margine possibile e aspettare. Ci guardammo in silenzio, sapendo che stava accadendo qualcosa di unico. Alzai lo sguardo al vortice scorgendo una luce bianca abbagliante che discendeva. Aprii le braccia, la sentii arrivare e avvolgermi come onda di mare. Guardavo il corpo lucente e pareva che l’avessi rubato al mondo, senza riuscire a dare una giusta definizione del mio essere, se non quello di avvertire d’esser leggero come piuma. Ero la porta che si apriva al mistero, la porta di Dio. Vidi discendere un arcangelo al suolo e potei finalmente guardare com’era fatto. Possedeva davvero le ali, dunque non era una leggenda. Somigliava tanto a quelli delle raffigurazioni e non capivo com’era possibile che gli artisti di tutto il mondo e di tutti i tempi fossero riusciti a imprimerli nelle tele, accarezzandone portamento e aspetto. Nessuna arma se non strani disegni sul corpo. Con meraviglia vidi che teneva fra le mani una clessidra con polvere d’oro a scandire il tempo, e quando discese nella sua parte inferiore l’arcangelo aprì le braccia. Queste furono le mie ultime immagini. «Sveglia Paolo…sveglia!» Sentivo piccoli schiaffi sul viso, stava tentando di rianimarmi e aperti gli occhi, le chiesi di smetterla di schiaffeggiarmi. «Cos’è successo Suor Maria, dov’è la tempesta turbinante e l’arcangelo con la sua clessidra… la luce e le anime… sono ate? «E’ tutto finito Paolo… tutto.» «Tutto cosa? Hai visto tutto?» «Tutto!» Disse. «Io non ricordo nulla…» «Alzati e torniamo indietro, le guide saranno in pensiero.» «Ma devi dirmi! Devo sapere...»
«Avremo tempo per farlo... non ti pare?» «Sì, hai ragione, ma tu ricordi tutto?» «Tutto Paolo.» Tornammo indietro e ci accorgemmo che in fondo non c’eravamo allontanati di tanto. I Tuareg avevano scommesso che non ci avrebbero più rivisti e s’erano dati un tempo limite che invece pareva avessimo rispettato. Tutto era nuovamente infuocato, come se nulla fosse accaduto e a me mancava la visione, magari sarebbe venuta in seguito ma la voglia di sapere cos’era avvenuto cresceva. Certamente avremmo avuto tempo per farlo durante il viaggio di ritorno ma in quell’istante avrei voluto prenderla per le braccia e tirarla giù dal cammello, lei però, poco avanti, piangeva in silenzio. Che cosa avevo fatto? Ovvero… Dio cosa avevi fatto? Rivivevo il suo sguardo sull’uscio della comunità al mio arrivo, sorridente, viva, mentre adesso si cuciva ferite su tutto il corpo. Mangiammo in totale silenzio evitando persino gli sguardi, usando pesanti assensi. Sapevamo entrambi che dovevamo parlare e nessuno voleva cominciare. Le guide scelsero lo stesso posto per accamparci. Non so come fero, ma tenevano il deserto stampato in mente, duna per duna, come una piantina di una città e se qualcosa nel frattempo mutava, lo sapevano. Il cielo si annottava e cedetti la tenda a Suor Maria, preferendo accamparmi poco distante; portai con me solo una coperta raggrinzendomi in essa come una foglia d’autunno. Volevo ancora una notte per guardare in faccia Dio, una notte infinita, vibrante come una corda di viola sul brusio del mondo, ancora scegliere le note migliori; un’altra notte di stelle e di buio da decifrare, ma stanco, come anestetizzato, mi addormentai al suono dei miei stessi pensieri. Di nuovo! Era accaduto ancora e stavolta potevo ben dire che non era dipeso da me. Stavamo abbracciati nella piccola coperta al freddo mattino del deserto, come due amanti. Questa Suora creava imbarazzo anche nel bel mezzo del Sahara. «Cosa ci fai qui? Hai visto che siamo nuovamente attaccati?»
«Sì, e allora?» «Come allora?…tu sei una suora ed io sono sposato, le guide ci osservano e chissà cosa staranno pensando.» «Si però noi amiamo.» «Noi ci amiamo? Ma stai bene?» «Non ho detto “ci amiamo”, ma “ noi amiamo” disse con occhi lucidi.» «Beh qualunque cosa sia Suor Maria è meglio che stiamo staccati!» «Va bene Paolo… va bene, scusami!» Sospirai all’ignoranza dell’istinto cieco… «Scusami tu, è così evidente che non ho compreso nulla. L’amore possiamo spiegarlo a tutto il mondo per un’intera vita, gridarlo nelle piazze, nei templi, nelle scuole, scriverlo sui muri di ogni palazzo per poi accorgerci da un gesto come il tuo, di non averlo riconosciuto.» «So che stai aspettando di sapere e adesso saprai, ma prima ancora devo dirti una cosa importante e riguarda proprio l’amore.» Disse sospirando come se avesse qualcosa di forte da buttare fuori. «Cosa?» «Ho preso una decisione che fino a ieri era impensabile.» «Avanti parla, non tenermi sulle spine!» «Paolo, da domani potrai chiamarmi solo Maria.» Cosa le era accaduto, com’era possibile che nel giro di due giorni una suora felice avesse cambiato radicalmente la propria esistenza? Leggevo l’intensità del nuovo sguardo, quella forza capace d’estirpare una radice di quercia per lasciarla morire al sole, ignuda, senza vita. «Dimmi cosa è successo, ti prego.»
«E’ stato come un sogno, un segno sulla pelle indelebile che porterò fino alla fine dei giorni, mi sono chiesta perché a me, così nascosta in questa terra arida quando l’amore lo vivono tutti intensamente, sia in gioia che in sofferenza. Non ho mai smesso d’amare Leonardo ecco cos’è. Ti ricordi che ieri ti avevo detto delle sue ultime parole? «Si ricordo, sul punto di morte…» «Ti ho mentito Paolo, quelle ultime parole erano le mie. Fuggii da lui e dal mondo che mi circondava per non vivere un amore non mio, perché sapevo che Leonardo non mi avrebbe lasciata andare. Il tempo cancella tutto, così mi dicevo, l’amore svanisce e la vita prende nuove direzioni. Non è stato così Paolo, l’amore è ancora qui, non si è spostato di un millimetro dal cuore.» «Allora cosa sei venuta a fare con me? Hai detto che volevi vedere Leonardo!» «Perdonami Paolo, perdonami perché a Dio l’ho già chiesto.» «Parla Maria!» «Son venuta perché la voce realmente l’avevo sentita e diceva di seguirti, solo per quello.» «Quindi Leonardo è vivo.» «Sì, è vivo.» «Mi dici allora cosa è successo?» «Eri luce intensa, abbagliante. L’arcangelo teneva in mano…» «Questo lo so, una clessidra con polvere d‘oro e quando è sceso verso il basso ha aperto le braccia… è il seguito che mi manca!» «Dalla base del grande ciclone, miste a sabbia, salivano le anime verso l’alto come un fiume e pareva venissero lavate come in una grossa centrifuga. La sabbia ricadeva al suolo mentre loro avano attraverso il tuo corpo. Uno spettacolo surreale che nemmeno i sogni son capace di dare. Erano infiniti volti.»
«Ma che aspetto avevano, com’erano fatti?» «Hai presente gli ologrammi? Anime trasparenti, silenziose, che nel momento di entrare diventavano scintille.» «Hai riconosciuto qualcuno?» «Scorrevano veloci ma una sola un’anima… l’ho riconosciuta, poi la porta si è chiusa e l’arcobaleno che avevi addosso di colpo è scomparso e tu sei caduto sulla sabbia all’istante, svenuto.» «Tutto è ato allora, tutto è compiuto, e i sospesi risorti nella gloria di Dio.» «Maria non vuol esser più Suor Maria, adesso mi spieghi perché?» «Ora so il perché della chiamata Paolo, so perché dovevo venire con te. L’amore Paolo, l’amore per Leonardo.» «Cioè?» «L’arcangelo ha rigirato la clessidra e si è voltato verso di me con un sorriso strano, indescrivibile, mai visto, che metteva i brividi. Tenevo il cuore in gola, sentivo di svenire come te, ma lui mi ha aperto a una visione. Ho visto Leonardo seduto sulla riva di un fiume, leggeva gli scritti del mio diario, la mia vita, l’amore disperato. L’amo Paolo, non ho mai smesso nemmeno un istante e tantomeno lui. Pur vivendo qui, in questa terra arida, in ogni cosa che ho fatto, in ogni forza che ho tirato fuori in questi anni, giorno e notte, lui è sempre stato presente in me. Ho capito la vergogna del mio gesto, l’averlo abbandonato a una sofferenza senza limiti, atroce, ma non avevo scelta. Sono ati sette anni ed è tempo di vivere con lui.» «E tua sorella?» «Mia sorella già allora era ammalata…» «Stai cercando di dirmi che chi hai visto are era tua sorella!» «Si Paolo, l’ho vista e nel suo sguardo fiero, prima d’entrare, prima di esser scintilla, mi ha detto: “Sarò a fianco del male!”.»
«Che significa a fianco del male Maria? Dovrebbe esser a fianco al bene.» «Credo sia il male suo, quello sofferto, una sorta di rassegnazione che l’ha portata ad accettare la malattia.» «Maria, io credo per il suo amore perso.» «C’è qualcosa di strano in tutto questo, qualcosa che non riesco a mettere a fuoco, dovrò riflettere… e molto!» Ahmed tornò col suo biplano e non ero il solo ad aspettarlo. Maria aveva una nuvola di capelli ricci e neri e un leggero trucco, con un leggero vestitino giallo che rendeva la sua bellezza ancora più disarmante. Ahmed mentre caricava i bagagli non le staccava gli occhi di dosso e continuava a farmi cenni di complimenti. «Monsieur non so come avete fatto a conquistarla ma avete al vostro fianco una donna da mille e una notte.» Disse sottovoce. «Ahmed non ho conquistato nessuno e questa donna sta per tornare dal suo uomo.» «Ah che peccato, potevo provare io a conquistarla…» «Ahmed il suo cuore è già stracolmo d’amore e del tuo non c’entrerebbe nemmeno uno spillo.» «Ma Monsieur nel cuore c’è sempre posto per l’amore.» «Hai ragione, esistono miliardi di modi per amare.» Sorridemmo e l’aereo lasciò quella strana terra. Maria dal finestrino vedeva allontanarsi all’orizzonte quella piccola casa dove aveva convissuto per anni con le sorelle. Le teneva tutte nel cuore e aveva promesso che sarebbe ritornata con Leonardo. «Monsieur…» «Dimmi Ahmed.»
«Eppure questa donna mi sembra già di averla incontrata, ha un viso famigliare…» «Certo che sì, è Suor Maria…ovvero era perché adesso è solo Maria.» L’aereo si comportò come se avesse preso un vuoto d’aria, Ahmed era rimasto talmente sconcertato da quella rivelazione che aveva mollato per un attimo la guida dall’aereo. «Incroyable… vraiment incroyable.» Tornammo in Italia e durante tutto il viaggio non smettemmo mai di parlare come vecchi amici. «Paolo cosa avverrà tra cinque anni?» «Maria qualsiasi cosa avverrà avremo l’amore con noi.» Il treno delle nove era partito dalla stazione di Roma Termini, poche ore e sarei arrivato a casa. Non avevo comprato souvenir per Elena e per i ragazzi, non avrei saputo giustificarli e questo mi rattristava molto. Avrei voluto vedere il viso di Leonardo nel rincontrar Maria, vedere l’amore mai perso riunirsi nuovamente. «Mah, succedono cose strane e inspiegabili nel mondo.» Disse il signore seduto accanto mentre leggeva il giornale. Incuriosito, volsi lo sguardo sulla seconda pagina e lessi a titolo cubitale: “ Cimiteri al buio in tutto il mondo”. «Signore, posso chiederle di farmi leggere quest’articolo quando avrà finito?» «Certo che sì, una cosa davvero sconvolgente e che fa pensare, glielo cedo volentieri.» Lessi l’articolo e se c’era una persona al mondo che non era rimasta sconvolta da quella notizia ero io. In tutto il mondo si erano spente parte delle fiamme votive poste davanti ai defunti senza nessun corto circuito in atto e la notizia aveva fatto subito il giro del mondo.
Scienziati e fedeli si stavano interrogando sullo strano fenomeno e pareva che non esistesse spiegazione logica. Molte le ipotesi azzardate e tra esse anche quella della resurrezione, anche se la stragrande maggioranza era scettica e orientata a credere che il tutto fosse stato architettato da una setta ignota. Altri accennavano alla discesa degli alieni, decisi a lasciare un segnale chiaro dell’imminente arrivo. Ovviamente il caso investiva quasi tutte le rappresentazioni religiose del mondo che invitavano al pentimento e alla purificazione dell’anima. L’articolo si concludeva precisando che erano in atto esami scientifici che presto avrebbero dato una risposta logica e razionale. «Cosa ne pensa?» Disse il signore quando si accorse che avevo terminato di leggere. «Qualsiasi cosa le dirò caro signore lei troverà un modo per rifiutarla ma in ogni caso l’accontento. Secondo me deve esser qualche fenomeno legato al vento solare.» «Certo è che se ne parlerà per anni di questo fenomeno… non trova? Si scateneranno riviste e documentari, ci sarà da divertirsi e da tirar fuori teorie per anni e anni. Fenomeno solare? Bazzecole, sarebbe andata via ovunque»
XVIII
Mercoledì 5 agosto 2011
Le cicorie non c‘erano mai piaciute, quel gusto amarognolo che lasciava in bocca era orrendo, Alex addirittura non poteva vederle neanche lontanamente, specialmente quando venivano mischiate alla carne bollita di pollo. La nonna gli preparava a parte la pasta al ragù. «Ah, non capite proprio nulla, questo piatto è delizioso e salutare. » «Sì nonna mangialo pure, preferiamo non capire nulla.» Aveva risposto Alex voltandosi disgustato. “La mente, seppur veloce, processa una sola operazione alla volta”. E’ così che diceva il Professor Signori quando mi distraevo dalla lezione. Poi soggiungeva “Paolo non puoi stare in due posti contemporaneamente ”. Cercavo d’essere presente, di alternare i discorsi che si tenevano a tavola, ma spesso ne perdevo il filo logico per poi venir redarguito da Alex. C’era un mondo strano lì fuori nel quale ora avevo trascinato anche Peppino. «Alex prepariamo le canne, si va a pesca!» «Wow finalmente!» Aveva esclamato felice. Sentivo il bisogno di stare in un posto tranquillo e di vuotare la tensione come facevo da ragazzo, di tornare a pescare. Il fiume Volturno era a poche centinaia di metri e il tragitto ava davanti alla casa di Peppino, così l’avevo invitato col figlio sco a unirsi a noi. Il posto di sempre non esisteva più. Il vecchio ponte di ferro rivettato era stato abbattuto e poco distante avevano costruito quello moderno in cemento. Anziché smantellarlo, l’avevano fatto cadere direttamente e adesso che era periodo di secca, affioravano le vecchie colonne di ferro.
Peppino pareva aver colto i miei pensieri e alla vista disse: «Un vero peccato, si sarebbe potuto recuperare e destinarlo a aggio pedonale.» Trovammo più in là uno spiazzo, dove pescare senza pericolo per i ragazzi. «Quanto tempo è ato Paolo dall’ultima volta che siamo venuti, non so darmi un momento preciso, proprio non lo ricordo. Tutto è cambiato, l’ambiente circostante, l’ampiezza e la portata del fiume. Anche questa curva che era a gomito, sembra aver aperto le braccia a quest’acqua oramai trascolorata». «Paolo io non capisco.» «Cosa?» «Stanotte non ho dormito, guardavo il soffitto con le stelline fosforescenti attaccate e pensavo… pensavo e ancora pensavo sino a quando si sono spente tutte, poco a poco, una a una… e mi sono smarrito. Che cielo è questo, che cabala strana. E’ così che finirà tutto… ci spegneremo come quelle stelline? Finirà tutto com’è iniziato? Dio è solo un elettricista? Ha lanciato la luce nel buio e poi se n’è andato, ha abbandonando tutto al suo destino, alla sua fine. Insomma non voglio accettare la fine, guarda là come si divertono i nostri figli, guarda questo cielo azzurro, gli alberi, senti l’aria dolce che arriva. Non voglio che Dio faccia questo, anche se dovesse portarci in un posto nuovo e più bello, vorrei che rimanessimo tutti qui, ancora.» Nessun pesce aveva fame e i figli dopo aver impigliato le loro lenze s’erano inventati un nuovo atempo, costruire una capanna di legno, rastrellando in giro rami e foglie. Guardarli all’opera ci emozionava tanto. «Peppino, continuiamo a parlare di Dio ma posso dirti che le cose non stanno proprio così. Da sempre, ogni nuova vita che nasce su questo mondo, appartiene alla stessa vita. Dio l’accende, l’umanità la spegne. La luce è il legame che ci unisce… più piccola dei neutrini e del quark che conosciamo. Non ho la certezza di cosa ci aspetta e forse a breve lo sapremo, ma aborro come abbiamo immaginato la figura di Dio. Insomma Peppino, Dio non è quello che ci hanno raccontato, ma un poco gli somiglia.» «Paolo, mi hai trasmesso questo sogno surreale da ieri. Una cosa cercata da
sempre e che adesso mi fa terrore e ti confesso che avrei preferito non sapere. Stanotte nei miei lunghi pensieri pensavo a tutto il tuo percorso, al bene, e rivivevo le tue parole trasformate in gesta, ma poi è arrivata l’insinuazione, la paura, il male. Perdonami ma sono un uomo proprio come te, e stanotte sono stato il San Tommaso di Cristo e mi sono chiesto se fosse tutto vero, se il Paolo che conoscevo fosse rimasto tale.» «Peppino guarda intorno tutte queste persone che pescano… sono qui per noi. Chiama i ragazzi e andiamo via, sta per arrivare una piena. «Una piena ad agosto? Ma che dici, com’è possibile e se è vero, bisogna avvisarli altrimenti morirebbero.» «Per questo che ce ne andiamo, per salvarli.» A malavoglia i ragazzi dovettero abbandonare la capanna appena costruita e mentre Peppino dava indicazioni ai ragazzi cercava risposte con insistenti domante. «Ma mi spieghi da dove ti è venuta questa idea?» «Peppino dopo ne parliamo ti prego, saliamo adesso.» Salimmo in cima che già si udiva il rombo lontano e Peppino smise di fare domande. Arrivò maestosa da far tremare la terra circostante, onde giganti, muri d’acqua che spazzavano via tutto quello che incontravano sul cammino. Nel caldo d’agosto Peppino e i ragazzi, increduli e tremanti di paura, si unirono stretti come chicchi di melograno. «Barabba uno a Barabba o. Barabba uno a Barabba o.» «Avanti Barabba uno.» «Barabba è successa una cosa incredibile, siamo dovuti scappare di corsa per un’inondazione improvvisa.» «Inondazione?» «Affermativo Barabba, eravamo appostati… e non eravamo gli unici. Li abbiamo visti risalire l’argine e allora abbiamo fatto lo stesso ma all’improvviso
si è sentito un forte rumore e poco dopo si è vista una massa d’acqua gigante che avanzava; siamo riusciti a metterci in salvo per il rotto della cuffia, sia noi sia le altre due unità. Una piena che ha travolto tutto. Inoltre i microfoni direzionali non funzionavano, eppure ieri li avevamo testati, ma che cosa sta succedendo? Chiediamo istruzioni Barabba.» «Rimanete in una zona sicura e attendete.» Nella sala operativa erano tutti impietriti, attoniti nell’aver udito quelle parole metalliche. «Signori, è chiaro che questo è un atto di sabotaggio ordito dai concorrenti, così come è evidente che mirano a eliminarlo. Bisogna proteggerlo a tutti i costi. C’è una diga nelle vicinane?» Chiese il Colonnello. «Signore, su google maps ne appare una a pochi chilometri da qui, do le coordinate.» «Presto dirottate subito l’elicottero sulla diga e vediamo cosa è successo, devono averla fatta saltare, tra poco ci sarà il caos perché interverranno la protezione civile e le altre forze dell’ordine.» Pochi minuti dopo si sentì l’operatore dell’elicottero: «Barabba qui Tuono o.» «Avanti Tuono.» «Barabba la diga è al suo posto, nessun cedimento ed è chiusa, abbiamo fatto il giro due volte a volo basso ma non abbiamo notato alcuna anomalia.» Silenzio, sgomento e stupore, ma cosa stava accadendo? Era lui che aveva creato questo? No, non era possibile, doveva esserci una spiegazione. «Tuono qui Barabba, perlustrate tutti gli affluenti che immettono nel Volturno e individuate la zona da dove è partita la piena, forse hanno usato l’esplosivo, segnalate qualsiasi anomalia, insomma portatemi una fottutissima prova.» Disse il Colonnello adirato. «Ricevuto Barabba proseguiamo.»
«Colonnello se mi consente mi pare poco probabile un’esplosione, tenga presente che il fiume è sotto i limiti di portata, poche decine di centimetri e un’esplosione, seppur forte, non avrebbe prodotto una massa d’acqua così grande.» Disse l’agente Ingroia. «Sono d’accordo con la sua deduzione ma non possiamo escludere nulla vista la situazione. Prendiamo il secondo elicottero, voglio visionare di persona la zona e soprattutto voglio che teniate sotto controllo gli agenti internazionali. Rapportatemi qualsiasi novità via radio.» «Certo signore, sarà fatto!» Nel paese tutti avevano avvertito il gran rumore, e la voce era corsa di bocca in bocca. La gente si era riversata sulle rive del fiume per accalcarsi nei posti più disparati. La polizia locale a fatica e con voce grossa cercava di trattenerli e alla fine, molte ore dopo e a calma raggiunta, la scientifica aveva emanato un bollettino stabilendo che la massa d’acqua aveva preso forma in un tratto distante poche centinaia di metri senza ravvisare la causa che l’aveva determinata, un fenomeno inspiegabile che stava attirando curiosi da ogni luogo.
XIX
Ufficio del falso Vescovo
I finti Mattias e Padre Antonio, seduti nelle poltrone del finto ufficio arcivescovile, assaporavano il fallimento dell’operazione. «Helmas… non ha funzionato, ormai è sicuro, non verrà.» «Lo credo anch’io Eduard.» «Che si fa allora?» «Ho già avvisato l’Ordine, chiedono di are al piano di riserva.» «Il piano di riserva? E quale sarebbe?» «…Ucciderlo!» Rimasero a guardarsi a lungo, poi Eduard, versandosi un Martini bianco, se lo sguazzò in bocca come fosse collutorio buttandolo giù di colpo; con calma e gesto inatteso estrasse la sua beretta calibro 9 munita di silenziatore puntandola verso Helmas. «Mi dispiace amico mio, ma l’Ordine viene dopo… molto dopo, che Dio ti abbia in gloria.» Helmas non ebbe nemmeno il tempo di meravigliarsi del lampo freddo nel corpo e fu nulla più. Chinò la testa lentamente in avanti accasciandosi come un bambino preso dal sonno nel seggiolino, con rivoli di sangue che scorrevano lungo la mozzetta paonazza. Eduard con la stessa calma ripose la pistola nella tasca, accese il suo cellulare e digitò un numero: «Santo Padre…»
«Figliolo…» «Assolvetemi Santo Padre…assolvetemi…» «Ego te absolvo a peccatis tuis innomine Patris et Filii et Spiritus Sancti… Amen.» «Amen.»
XX
L’intuito
Quante verità esistono, quante ne conosciamo vere, quante distorte, quante mai raccontate. Vinto dallo scorrere del tempo, come una perpetua cometa di ritorno dal suo viaggio siderale che solca il limpido cielo notturno con la sua bianca chioma, così tornavo io dopo cinque anni per affrontare l’ultimo messaggio. In trentacinque anni i miei pensieri avevano cercato con insistenza questo momento che avrebbe posto fine al viaggio imposto. Una nuova forza gravitazionale sarebbe giunta a staccarmi da quel giro per scagliarmi lontano nell’universo e non tornare più. Tutto sembrava compiersi e la paura aveva preso le sembianze di un Re che dall’alto del suo trono, con tanto di scettro e corona, attendeva impaziente sul letto di morte, l’esito finale della battaglia. Il peso del mondo mi schiacciava, il bene e il male coi loro respiri affannosi si erano nascosti dietro gli angoli della storia, contando i battiti del mio cuore, pronti a contendersi l’albero della conoscenza di un futuro che sentivo finito, mentre lupi e agnelli aspettavano per dominare l’umanità che da pochi millenni calpestavano. Possibile che l’esistenza di questo granello di mondo sparso nell’universo dipendesse da quest’ultimo messaggio? Quel disegno terreno, quel filare di barchette colorate così unito, intrecciato, cucito a strette maglie, dove Dio aveva impresso l’impronta. L’ultima barchetta dal colore violetto era fra le mie mani, l’ultimo messaggio pronto per essere svelato. Dal terrazzo osservavo chi si apprestava a entrare dal fornaio; chi si avviava al lavoro contando i giorni che lo separavano dalla pensione, mentre bambini stretti nelle mani delle mamme varcavano l’asilo per apprendere il sapere dei grandi, inconsci del fatto che tutto poteva finire. Un
attacchino incollava sul palo di cemento un manifesto a lutto mentre una vecchia signora querula, avvolta in un nero scialle, lo seguiva nei movimenti, ansiosa di conoscere chi fosse dipartito. Questo era il mondo, miliardi di piccoli miracoli che giravano intorno inseguendosi come il giorno e la notte. Sentivo d’essere in tutti loro, nei pensieri, nelle gesta e nei volti, sentivo ad ogni o riecheggiare i loro sguardi, i sospiri, l’unione delle anime, tante vite in una sola. Mi richiusi in bagno, proprio come allora, quando da ragazzo aprii la prima barchetta. In questo luogo così intimo, meglio di qualsiasi stanza segreta, dove nessuno avrebbe immaginato che stessi per leggere un messaggio così importante. Erano ati trentacinque anni e quella barchetta di quello strano colore mai piaciuto, non si era né sgualcita né sbiadita. Regnava un silenzio assoluto, nessun gocciolamento che spezzasse i pensieri, né una voce lontana o una mosca che ronzasse nell’aria, tutto fermo. Sette barchette di sette colori con sette messaggi, ecco il destino che giungeva a termine. Sentivo che sarebbe stato un messaggio diverso, non un luogo, né una meta, ma una rivelazione, forte… più forte del grande albero. Un annuncio che avrebbe interessato o coinvolto il mondo intero. Iniziò a filtrare dalle persiane una debole luce viola che s’intensificò sempre più, sino a cambiare aspetto alla stanza, come se tutto il viola del mondo si fosse rifugiato in quel piccolo ambiente. Un cambiamento inatteso, che fermò le intenzioni. i veloci salirono le scale a quattro a quattro e presto Alex venne a rompere l’incantesimo, bussando con veemenza alla porta. «Papà fai presto che mi scappa ti prego… è urgente!» «Non puoi andare al bagno di sotto?» «No, c’è la nonna e ne avrà per molto!» «Va bene esco, dammi un minuto!» Infilai la barchetta nel taschino interno della giacca uscendo pensieroso mentre la stanza aveva ripeso il suo vero aspetto di luce. Era un caso l’arrivo improvviso di Alex? Nulla arriva mai per caso…nulla! Saulo! Ecco cosa sentivo e dovevo fare, andare da Saulo e semmai aprire dopo l’ultimo messaggio, un cambio di programma, ora ne ero certo.
Alex avrebbe ato la sua giornata con i nonni, lontano da ciò che stavo vivendo, ma sull’uscio di casa, sorprendendomi, mi abbracciò forte dicendomi: “Torna presto papà… torna presto”. Poche parole per sciogliermi nell’emozione e accorgermi di quanto fosse facile piangere. Avevo preso una strana decisione: Peppino il San Tommaso del mondo, sarebbe venuto con me da Saulo. «Sei pronto?» «Sono pronto.» «Sto venendo a prenderti.»
XXI
La scelta
«Il Senatore Smith è in linea sulla due Comandante, glielo o…» «Agli ordini Senatore!» «Ci sono novità?» «Sì Senatore… stanno accadendo delle cose inspiegabili, ieri a pochi chilometri dal paese, in una città chiamata Capua è stato trovato assassinato un certo Helmas, identificato dagli agenti come un appartenente all’Ordine. Era camuffato da vescovo e stiamo lavorando per identificare l’assassino. Sicuramente è collegato alla vicenda perché alcuni testimoni affermano di aver visto Paolo entrare l’altro giorno in questo palazzo dove Helmas aveva allestito un finto ufficio arcivescovile, ma credo che qualcosa non sia andato per il verso giusto. Tra le ipotesi c’è sicuramente quella di voler conoscere l’ultimo messaggio. All’interno della sede non siamo potuti entrare perché la scientifica italiana stava facendo i rilevamenti e pare si siano portati via tutto il materiale.» «E cosa ci sarebbe d’inspiegabile?» «Senatore di inspiegabile è ciò che è successo a due dei nostri agenti. Hanno rischiato d’esser travolti da una piena improvvisa e misteriosa avvenuta nel fiume del paese proprio quando Paolo aveva deciso di abbandonare la pesca e di risalire i margini, come se sapesse d’esser sorvegliato e l’avesse originata per depistare gli agenti. Sapevamo già di non essere gli unici a tenerlo sotto controllo ma i rilevatori elettronici mostravano molte fonti di provenienza di segnali nelle vicinanze. Il bello è che a un certo punto tutto è stato oscurato e non abbiamo potuto registrare nessuna conversazione. Dai rilevamenti di controllo del satellite sembra che tutto fosse a posto, un black out inspiegabile. La polizia locale dice che il fenomeno è unico e non si riesce a trovare la causa che ha originato la
piena. Ho trasmesso in posta gli articoli dei giornali locali che ne parlano, se vorrà darci un’occhiata… ma la notizia si sta allargando a macchia d’olio. Insomma un mistero bello e buono.» «Va bene, informerò il Presidente, intanto procedete con il protocollo.» «Certamente Senatore!» Nella sala operativa dell’Aeroporto di Grazzanise il Colonnello Astori, capo della Task Force “Arcobaleno”, dopo essersi consultato con gli uomini, aveva ragguagliato il Generale Vaccaro sugli eventi. Si era chiuso nella sua stanza per riflettere su cosa fare, doveva trovare una soluzione e presto. Ne aveva viste tante in vita sua di situazioni difficili e disperate, ma chissà perché questa gli sembrava diversa e quello che era accaduto strabiliante. L’impressione era d’aver a che fare con uno stregone o qualcosa del genere. Rileggeva il dossier, anche se lo conosceva a memoria. Possibile che gli fosse sfuggito qualcosa? Gli ordini erano chiari, non lo si poteva avvicinare, né lui né la famiglia e questo era un grosso limite, ma perché questo vincolo del governo? Chi c’era dietro questi ordini? Uscì dalla stanza sbattendo la porta, riadunò lo staff e disse loro: «Signori, se non possiamo avvicinare lui, possiamo farlo con l’amico. Sicuramente sa qualcosa e quel qualcosa dovrà dirlo perdio! Voglio un contatto immediato, che venga prelevato e interrogato. Fate presto!» Gli agenti si misero in moto e in un baleno si fiondarono a casa di Peppino. «Buongiorno signora, stiamo cercando suo figlio.» «Chi siete?» «Amici, eravamo di aggio e vogliamo salutarlo.» «Oh mi dispiace, ma Peppino è uscito poco fa.» «Uscito da solo o con chi?» «E’ venuto a prenderlo un suo amico, senza dire dove andava.»
«Per caso Paolo.» «Sì Paolo, lo conoscete anche voi?» «Certo signora, ma ora dobbiamo controllare la sua casa per vedere se è vero.» «Come sarebbe a dire controllare la casa, ma voi chi siete? Non siete suoi amici.» «No signora non lo siamo.» «Chiamo la polizia, andate via da qui!» «La polizia siamo noi signora, ecco il nostro tesserino, la prego ci faccia entrare altrimenti saremo costretti a farlo anche senza il suo consenso.» «Oh buon Dio ma cosa volete da lui, cosa ha fatto?» «Nulla di grave signora, dobbiamo solo fargli delle domande.» Gli agenti s’infiltrarono in casa controllando ogni angolo disponibile senza trovarlo, alla fine l’agente Caruso si scusò per l’invasione barbara. «Le chiedo di fornirci il suo numero di cellulare signora…» «Elisa, mi chiamo Elisa... ecco il numero ma vi prego non fategli del male.» «Stia tranquilla, siamo poliziotti mica assassini.» L’agente Caruso attaccò la radio e chiamò il Capo. «Colonnello questo Peppino a casa non c’è e la madre non sa dove possa essere, abbiamo provato a chiamarlo sul cellulare ma pare spento, la madre sostiene che sia venuto a prenderlo Paolo poco fa. «Maledizione! Cercate ovunque, anche Paolo è uscito da casa e pare essersi dileguato. Possibile che ci abbiano raggirato in questo modo? Possibile che nessuno li abbia visti? Ma allora cosa cazzo stiamo controllando?» «Ma Colonnello, non c’erano i colleghi a sorvegliare la casa?»
«Sì c’erano e l’hanno visto uscire, ma non so come è stato possibile l’hanno perso dal campo visivo in un istante, come se fosse scomparso all’improvviso.» «Che facciamo?» «Caruso credo di sapere dove sono, dirigiamoci tutti alla vecchia masseria abbandonata e perlustriamo tutta l’area intorno all’Agnena. Sono andati all’appuntamento e dobbiamo esserci anche noi. Caruso, mi raccomando con circospezione e tutti vestiti da contadini…sperando d’esser soli lì. Presto! Tra dieci minuti tutti operativi.» «Signorsì Colonnello.» Pochi attimi per riflettere, al Colonnello sembrava scoppiare il cervello per la tensione. L’appuntamento era in atto e loro erano in ritardo, raggirati come principianti. Doveva pensarci prima a metter qualcuno già sul posto, solo due giorni prima aveva fatto una ricognizione e l’idea, gli era pure balenata in testa… quello era il posto finale e lì Paolo pareva avesse questo strano appuntamento, però non gli tornava Peppino, perché portarsi anche lui? Erano davvero andati lì? Pensava a tutto questo mentre la macchina correva verso la meta. «Paolo andiamo da Saulo?» «Sì, andiamo all’appuntamento atteso per trentacinque anni.» «Ci staranno tutti dietro, che facciamo? Dobbiamo stare attenti.» «Siamo invisibili!» «Invisibili? Fisicamente dici?» «Sì.» «Ma cosa dici? Come facciamo a esserlo!» «Vedrai Peppino.» «Ma lo siamo già adesso?»
«Sì, già lo siamo.» Peppino non credeva a quella parola “invisibile”. Dio era invisibile, i fantasmi erano invisibili, gli angeli, i demoni… uno dei fantastici quattro era invisibile, ma non loro… non era possibile. Guardava intorno scorrere la vita dietro i vetri della macchina, i cani rovistare nella spazzatura, gli alberi, persone che discutevano, bambini che giocavano, guardava il mondo e secondo il suo amico si era invisibili. «Ferma la macchina Paolo, fermati un attimo.» «Ma dove devi andare… ti pare il momento?» «Ferma, ferma!» Appena fermo, Peppino scese al volo dicendo: «Prendo le sigarette al tabacchino.» Poco dopo uscì lentamente dal negozio sbiancato, si rinfilò in macchina senza aprir bocca. «Hai comprato le sigarette San Tommaso?» «Lo sapevi vero? Sapevi che non ci credevo. Sono entrato, ho chiesto ma non esistevo per nessuno. Sono invisibile! Io sono invisibile e quale prova ho da chiedere ancora!» Peppino aveva superato San Tommaso, l’evento sulle rive del fiume non gli era bastato. Stralunato da quell’evento mi chiese ancora: «Paolo, cosa ti aspetti da Saulo?» «Trentacinque anni fa ero un bambino e forse avrei saputo porgli domande migliori. Ho molte cose da chiedergli ora e in tanti anni puoi immaginare quante siano rimaste ferme nel cervello in attesa di una risposta. Non so se le riceverò, se placherò la sete, ma sta sicuro che chiederò. Peppino c’è qualcosa che non quadra, ho una sorta di presentimento, di paura.» «Paura di cosa Paolo? Che finisca il mondo? Beh adesso siamo sicuri che
continueremo il percorso altrove, Dio esiste e abbiamo le prove, cosa possiamo temere? I nostri cari ci saranno, non ci perderemo, anche nell’universo infinito… uffa Paolo, come si fa a non averla, e poi questo mio desiderio di saper tutto e presto.» «Peppino se dovesse succedere voglio avere il tempo di tornare dalle persone care, di abbracciarli ancora, voglio avere il tempo di guardare ancora il mondo così com’è, con tutti i suoi errori e orrori, voglio ancora guardare negli occhi Elena e i miei figli.» «Lo voglio anch’io questo tempo. Se dovesse accadere, spero che Iddio lo conceda.» Parcheggiai in uno stradone poco distante dal luogo dell’appuntamento, evitando al cuore di rivedere lo stato di abbandono del rudere, camminammo seguendo le sponde dell’Agnena e prima di arrivare sul luogo chiesi a Peppino di fermarsi lì e di aspettare. «Aspettare? No Paolo, non sono qui per starmene ai margini del mondo, non lontano da te.» «Peppino è la seconda volta che mi capita di discutere di questo. Ti ricordi di Maria? Anch’essa volle a tutti i costi venire, ma adesso è diverso.» «Certo che me lo ricordo e so anche che ti è stata utile, insomma che promessa è questa? Non puoi escludermi, proprio non puoi! Guarda Paolo, vedo macchine in giro che si fermano, sono arrivati, tra poco saranno tutti qui, ti prego fammi stare con te.» Per la seconda volta dovetti arrendermi. Peppino rivendicava la promessa. Gli avevo raccontato tutto, chiesto aiuto… e adesso volevo escluderlo. Non me la sentivo e se qualcosa stava cambiando era per un solo motivo: “eravamo umani”. «Va bene, starai a pochi metri, ma non proferirai parola…nulla.» «No… starò con te, affianco!» «Va bene, va bene… starai con me.» L’Agnena era diventato un fievole ruscello e quel filo d’acqua faticava a
are tra l’erba alta tanto che nessuna barchetta sarebbe mai potuta arrivare lontana, nessun sogno a solcare le onde del mare, ma le rane…oh quelle sì che c’erano ancora, come pure l’albero divenuto ormai grande. Eravamo lì, seduti ad aspettare Saulo, osservando gli agenti che vagavano per i campi in tenuta da contadino. «Ma tra quanto dovrebbe venire? Sono pieno d’ansia Paolo.» «Prima dell’imbrunire credo.» «Non manca tanto allora, nel frattempo posso chiederti alcune cose?» «Certo che puoi amico mio.» «Perché io e non Elena, oppure un tuo figlio… insomma perché hai scelto me?» «Perché Maria dovrei risponderti, in realtà non lo so, forse perché hai cercato insistentemente Dio per tutta la vita.» «Ma tutti lo cercano!» «Vero, ma non tutti sono miei amici.» «Dovrei accontentarmi di una simile risposta? Maria non era tua amica.» «Peppino la maggior parte delle scelte sono state imposte, come seguissi un percorso tracciato.» «E che senso può avere un percorso segnato, senza la libertà di poter decidere di cambiarlo?» «Già, ed è questo che mi assilla da sempre, non poter decidere tutto, in altre parole non aver la forza e la capacità di farlo. La grande prova che sono stato chiamato a sostenere ha un nome: “Atto di fede”. Trentacinque anni di obbedienza pura, aspettando l’ultimo atto. Credo, anzi ne sono quasi sicuro, che in questo momento, nel loro angolo di mondo, anche i miei fratelli aspettano il loro Saulo. Chissà se hanno un amico con loro… «A proposito ti ricordi alcuni dei messaggi che lasciavi da bambino?»
«Erano desideri e promesse verso il mondo intero, a volte capitava di scrivere un’unica parola.» «Quale?» « “Amore”. Sembra banale ma ancora oggi non sono mai riuscito a trovarne una che possa sostituirla… e credo non esista.» «Ci stiamo guardando intorno senza veder traccia di Saulo, proprio come fanno tutti questi finti contadini che circolano come pecore al pascolo, ma arriverà?» «Sì che arriverà Peppino, stanne certo e soprattutto ogni tanto cerca di credere. Possibile che tu sia sempre così diffidente?» «Scusami Paolo è l’impazienza, ma mi spieghi come hai fatto ad aspettare tutto questo tempo… anni su anni per leggere i messaggi… non sei impazzito?» «Come hai fatto tu a cercare Dio per una vita senza trovarlo?» «Sei davvero speciale Paolo e sono così contento di esserti affianco. Guarda su, guarda che cielo Paolo, sembra sia stato appena pitturato di bruno, forse viola… che strano.» «Peppino ci siamo… voglio solo dirti che sono io a doverti ringraziare per essermi stato vicino.» L’aria smise di are tra le foglie bruciate dal sole, lasciandole appese all’albero come impiccate. Nulla sembrava gioire, tutto obbedire. Vicino al palmo della mano, tra l’erba ingiallita e rarefatta una lunga scia di formiche s’infilò veloce in un buco sotterraneo come se avessero percepito l’arrivo di un guaio e la cosa non mi piaceva. Com’è che il mondo coglieva e assorbiva il mutare mentre noi rimanevamo sordi e immobili? Questo non era ciò che attendevo, nulla che assomigliasse alla grande pace vissuta sotto l’albero di Tule e anche Peppino avvertiva l’inquietudine amplificarsi. Il presagio divenne certezza quando di fronte ai nostri occhi increduli, sulla sponda opposta dell’Agnena, nuovamente apparve il male. «Guarda Paolo, il ragazzo col bastone e la capra… il diavolo!» Disse Peppino tremante di paura.
Esistono miliardi di sguardi da leggere, e ogni singolo movimento impercettibile captato delle pupille restituisce una somma di pensieri, ma da lui non arrivava nemmeno il nulla. Eravamo come statue vetrificate, inermi, pronte a frantumarsi in un battito di ciglia. Quel sottile sorriso, ancora una volta, dovetti vederlo uscire da quelle labbra ancor prima delle parole. «Il tuo viaggio giunge al termine così come la tua fede, quella dei tuoi fratelli e di questo mondo.» Sette barchette di sette colori, sette inganni per sette porte che spalancano la vittoria. Sette inchini al volere del male.» Sentenziò il ragazzo. Stordito mi alzai in piedi come ad affrontarlo nuovamente raccogliendo con tutte le forze l’invocazione di Saulo e l’aiuto di Peppino. «Presto Saulo verrà a schiacciare le bestie sotto i suoi stessi piedi!» Una lunga risata imponente e roca scosse persino l’aria. L’estate s’acquattò, lasciando il viola a scorticare le pietre e i nostri pavidi cuori a disperdere colore. «Pensi davvero piccolo essere che i tuoi esorcismi possano sortire effetto sull’immane potenza? Saulo, il tuo Saulo… è questo che aspetti da tanti anni? Eccolo allora, guardami.» Il ragazzo dallo strano sorriso mutò sembianze, come nuvole a coprire il sole, apparendo nella figura di Saulo, lo stesso che tenevo stampato da una vita nella mente. Peppino per la paura s’accasciò sotto all’albero tentando di scorticarlo con le unghie per sorreggersi, ma cedette ai sensi e a nulla servirono le mie grida per tenerlo vigile. «La grande giostra del tempo sta per fermarsi. Il Dio che non conosceva limiti, quello che diffondeva il “Gran Sigillo” seme della vita, negli spazi infiniti dell’universo, ci ha costretti a vagare da sempre per trovarlo. Ti sei fidato della croce in cambio del mio bastone, ma non immagini nemmeno di quale potenza sia strumento.» «E quale sarebbe il Segreto di Dio?»
«Quello che tu ignaro possiedi.» «Non m’inganni e non cederò ai tuoi miseri giochi da illusionista.» Peppino che pareva addormentato si destò in un lampo cacciando dall’anima un grido inumano: «No! No! No! E poi ancora no! Sono qui per sapere, che sia di te o di Dio, male o bene. Sapere è tutto ciò che voglio!» «Vuoi la conoscenza? Attraversa questo ruscello e l’avrai.» Disse il ragazzo. Lo imprecai cercando di trattenerlo con tutte le forze ma in preda alla sua sete si divincolò dalla presa raggiungendo con un lungo balzo la sponda opposta. Il male stette a parlargli sottovoce per un tempo infinito, mostrandogli più volte il bastone che s’illuminava di quei simboli strani col funesto sorriso. Peppino, chiedeva e ogni volta otteneva risposte e quand’ebbero a finire, con gran sorpresa, mi gelò l’anima affiancandosi alla capra. Bastò vederlo posare la mano sul capo dell’animale per capire d’aver perso l’unico amico di sempre. Cosa ci facevo adesso su quella maledettissima riva e dov’era il Saulo che aspettavo? Che cosa avevo inseguito in tutti questi anni, quale significato avevano adesso quei messaggi aperti in gran segreto ogni cinque anni?… e cosa ci faceva tutta questa gente intorno che cercava di conoscere ciò che neanche io sapevo? Chi ero veramente? Il cielo del cieco, il prescelto che improvvisamente aveva rifiutato la conoscenza, la formica nascosta nelle viscere della terra che sfilava come corona di rosario i messaggi ricevuti negli anni cercando un nesso, una sequenza, un percorso. Tutto appariva disgiunto, lontano dal tempo, appendendomi all’unico esile e crudele filo che associavo alle barchette colorate. Ora tutto tuonava in testa con una sola frase: “i sette inganni”. Quali maledette parole aveva usato il diavolo per portare l’anima di Peppino dalla sua parte e quale grande segreto gli aveva svelato per strappargli all’istante il credo e la fede? Ero io quello che doveva porre domande, io chiedere, io e non lui! Don Salvatore, se solo mi fosse stato accanto, sarebbe stato capace di trovare un nesso per spingermi oltre, ma il male era di fronte e si era preso anche un pezzo del mio cuore.
Ciò che non chiesi uscì dalla sua bocca come vomito a coprire il mondo, il male rivelò con gli occhi di Saulo il grande inganno: «Lo credevi impossibile vero? Scelto quale successore terreno del “Gran Sigillo” prima ancora che emettessi l’iniziale respiro, affidandoti la chiave d’accesso da questo mondo al suo, l’origine della vita. Io sono il male, l’inganno, la bestia intelligente, il ribelle, quello che ha atteso con pazienza la battaglia finale contro chi non è stato capace di capire, preparando nei dettagli il grande inganno. Lo ricordi? “L’ordine è nelle tue mani, il bene è come il male” Io ero il Saulo che venne a lasciarti i messaggi. Io, lo stesso che adesso vedono i tuoi occhi. Io l’artefice del grande gioco, nell’attesa di questo istante. Io la trappola per Dio.» Brividi d’inganno graffiavano la pelle legnosa, un burattino sognatore legato ai fili invisibili del male assisteva immobile alla più grande lezione a cui il mondo stava per assistere, annaspando tra i pensieri in cerca di un’improbabile uscita dal quel labirinto infernale. La serpe che strisciava silenziosa da anni era venuta fuori, quel presentimento nascosto, quell’intuito rifiutato, intrecciavano il mio destino su quelle aride sponde. La vita divenne secca, profonda, amara… e mentre li guardavo, arrivavano le immagini di zio Enrico quando mi sottoponeva al gioco delle tre carte con destrezza, senza farmi mai trovare l’asso. Era giunto il momento di scegliere, di fondere per un attimo cuore e ragione, di inventare un nuovo gioco per tentare di sconfiggerlo… Ma come? «Perché tutto questo, dimmi perché?» Dissi. «Siete alla fine del vostro tempo e per noi l’inizio di una nuova era, un’inversione delle forze che tutto regolano. Egli muove la grande rete, la vita sparsa nell’universo, tenendola unita al celeste tramite porte spirituali. Deposita nel luogo prescelto il “Gran Sigillo”, il seme originario, consentendogli di riprodursi ed evolversi. Il seme permane nel luogo prescelto e senza di esso cesserebbe il flusso energetico e la vita stessa che conoscete. Questo è il segreto del “Gran Sigillo” che collega l’origine al suo creatore. Esso ha la particolarità di spostarsi da un’entità all’altra, sia che essa appartenga al regno animale sia a quello vegetale, senza coscienza. Da allora il male lotta con un solo obiettivo, impossessarsene! A ogni suo aggio generazionale il seme aumenta d’energia, permettendoci
di individuarlo. Attendere, solo questo potevamo fare, attendere sino a quanto non fosse stato sufficiente da permettere l’apertura della porta e accedere al suo regno. Tu altro non sei che l’erede, l’anello finale, il discendente atteso da sempre, che possiede l’energia che ci darà l’accesso alla porta di Dio.» «E tu pensi che Dio ti permetta di varcare la porta? Che non si accorga del grande inganno?» Dissi. «Il “Grande Inganno” ecco la definizione esatta. Vedi questo bastone? E’ ciò che ha permesso il grande inganno. Possiede il dono che chiamo “Mutazione Spirituale” consentendomi di non essere rilevato quale entità negativa dal tuo Creatore.» «Trentacinque anni d’attesa sacrificando pezzi della mia vita nel nome di Dio per scoprire d’essere stato tuo servitore. Non ti consentirò di accedere alla mia energia, mai!» Di nuovo il sorriso che tanto odiavo scosse l’aria…. «La tua vita… e cosa vuoi che conti se nulla è importato al tuo stesso Dio! Altro non sei che l’atto finale di questo gioco, e in te tutto dovrà compiersi e nulla potrà la tua volontà. La vendetta attesa da sempre sta per compiersi. Godo nel vedere sulle tue labbra il segno della sconfitta, la delusione per un Creatore che credevi infallibile. Povero inutile uomo, corso dietro ad illusioni assecondate… “ L’ordine è nelle tue mani, il bene è come il male”. Volevo che sapessi ciò che non eri in grado di interpretare, come segno di castigo al volere imposto da Dio. La tua forza di volontà, la determinazione, la cieca fede in Dio le ho vendicate piegando il capo di Massimo, l’unico essere di questo mondo capace d’illuminarti. L’ho ucciso, proprio quando era in cerca di te. Io e non tu, io, per non sporcare la tua energia. Ti ho condotto a Siracusa sulle orme di Saulo, per conoscere il tuo livello di energia, fingendo di darti un dono che già possedevi. Io ero il supremo, il male
che non hai riconosciuto e mentre crescevano le tue domande aprivi barchette colorate. La casa di Roma, un faticoso viaggio a piedi per incontrare il capo del nulla e rendere ancora più credibile la tua falsa missione. Ho assecondato eventi benefici affinché potessi conoscere la mia potenza, falsi miracoli, false anime. Protetto dal bastone ti ho mostrato la schiera immane, proponendoti uno scambio con la croce, sapevo che non avresti mai ceduto. L’Albero di Tule è l’albero del male, il luogo dove ho trascorso il mio tempo nell’attesa che tutto si compisse, la mia casa. Visioni magiche per confonderti e tormentarti ancora con il numero sette e parole di speranza a lungo attese. Nel grande deserto ho collegato il “Gran Sigillo“ alla porta del male per sottrarre la schiera degli impuri rimasti sulla terra e rafforzarmi in potenza. Hai ancora una barchetta da aprire vero? Te l’ho lasciata apposta… aprila!» Dio come hai potuto permettere tutto questo? Come hai fatto a non percepire l’inganno lasciandomi solo, appeso al destino del male? Dove sei stato quando ho messo in fila gli eventi senza trovare l’errore, il difetto, il nesso? Dimmi quale distanza ci separa, dimmi dove sei. Io sono stato il gioco, l’intelligenza del nulla, spostato dalla mano del male nella grande scacchiera.
«Colonnello non c’è nessuno su queste sponde ma i cani sono irrequieti, continuano a tirarsi indietro come se volessero scappare. Sembrano aver paura... è strano!» «Ho notato Caruso, così come lo strano colore di queste nuvole che danno sul viola.» «Già, non a caso è l’ultimo colore dell’arcobaleno che dà nome a questa missione; l’ultimo messaggio da aprire.» «Barabba quattro a Barabba o.» «Barabba in ascolto, avanti Barabba quattro.»
«Barabba una macchina si è fermata nei pressi della casa diroccata, c’è una donna a bordo ma tutto sembra fuorché una contadina.» «Bloccatela, deve essere una dei servizi esteri.» «Barabba quattro a Barabba o.» «Ti ascolto Barabba quattro.» «Barabba la donna vuole parlare con un responsabile, dice che è urgente e non rilascia dichiarazioni, non ha armi, solo un libro in mano che ho già verificato non contenere minacce. Chiediamo istruzioni.» «Un libro? Un libro… va bene portatela da me.» «Ricevuto Barabba.» Il Colonnello parlò con la donna animatamente sino a quando prese il ricevitore e disse ai suoi uomini: «Lasciate are la donna!» La donna si tolse scarpe e calze e con il libro in mano si diresse verso l’albero. «Colonnello mi tolga una curiosità... ma chi è quella donna?» «Quella che forse ci salverà, Caruso.» «Scusi se mi permetto, ma se fosse una dei servizi esteri? La lasciamo girare tranquillamente. Non è pericoloso?» «Caruso quella donna ha detto che Paolo è lì insieme a Peppino e che noi non li vediamo. Inoltre ha anche detto che non è Saulo ad attenderli, ma il Male.» «Colonnello non vorrà credere a una cosa del genere… ma chi è questa donna?» «Caruso ha mai visto un cielo così e cani paurosi senza apparente motivo? Ha mai visto una piena venir fuori dal nulla?» «No Colonnello... mai.»
«Mi sono fidato di quegli occhi e… mi creda, non abbiamo nulla da perdere poiché ufficialmente è andata in un luogo dove non c’è nessuno.»
XXII
Città del Vaticano
Nella grande sala cinquecentesca si erano nuovamente tutti riuniti in preghiera aspettando trepidanti notizie dagli emissari. «Santità per il momento continua a non accadere nulla, ci sono uomini defilati ovunque ma di Paolo nemmeno l’ombra. C’è un cielo viola mai visto e tutti percepiscono come se stesse per accadere qualcosa da un momento all’altro. Sì è creato un corridoio di aggio per l’arrivo di Paolo ma l’unica persona arrivata è una donna. Ha parlato con la Sicurezza Italiana e dopo esser stata accuratamente controllata ha parlato con un responsabile.» «Buon Dio, una donna… Che aspetto ha? Sappiamo qualcosa?» «Sulla quarantina credo, signorile, mai vista.» «Chi sarà mai questa donna?» «Santità la cosa strana è che si è tolta le scarpe e si sta avviando verso il luogo con un libro tra le mani.» Il Cardinale Brummer si alzò di scatto urlando “La Madonna, è la Madonna!” Un vocio assordante echeggiò dalle pareti affrescate tanto che il Santo Padre, irritato, fece sentire la sua voce come fa una maestra con i bambini indisciplinati: «Basta Fratelli! La Madonna, i che parli con un addetto, ma che si faccia perquisire! Pregare, è questo che c’impone Dio e quindi preghiamo!»
Quando finirono le meste e confortanti preghiere, il Cardinal Borrini s’avvicinò al Santo Padre sussurrandogli: «Cosa ne pensa Santità?» «Penso a Dio, Borrini, all’umanità… al mio corpo stanco che non si è mai bagnato nel mare. Non so chi sia questa donna, ma percepisco un’anima pura. Devo dirti una cosa che terrai per te, almeno per ora… se il buon Dio ci salverà, lascerò la guida della Chiesa. Sono stanco… molto stanco.» «Ma Santità…» «Ssss Borrini, preghiamo.»
XXIII
Il limite
«Presidente anche se abbiamo identificato la donna, trovo sconcertante la sua presenza nell’area. E’ Paolo che ha l’appuntamento non certo lei.» «Collins di sconcertante non c’è più nulla. Abbiamo dei limiti umani e le prove sono negli eventi… insomma capisce che qui non stiamo facendo la guerra.» «E’ plausibile che Paolo abbia previsto di delegarla nel caso fosse stato impedito…» «Collins questo è un mistero, rimane il fatto che lo Stato italiano o meglio ancora la Chiesa ci hanno negato ogni intervento.» «Possiamo forzare, farlo are per un incidente… possiamo farlo… le cose si sistemano sempre.» «No Collins, questa volta no. Questa volta non faremo nulla, se non aspettare.
«E la donna?» «Vediamo cosa accade Collins e volevo dirle…» «Cosa Presidente? » «Nel caso ne sentisse il bisogno… preghi.»
XXIV
L’esclusa
«Non c’è colore che cieco non veda, né anima che non sappia farsi il bucato. Amico mio salta questo fosso come capra non sa fare. Abbandona il sapere, restituisciti la fede. A Dio non servono bastoni per sorreggersi.» Peppino alzò gli occhi al cielo fissando quelle intense nuvole viola sul capo che iniziavano una danza a cui già avevo assistito anni addietro nel deserto, mentre il male preparava il bastone al volteggio malefico. Fu un attimo segnato da una forza sovraumana, da un grido di dolore: afferrò per le corna la capra alzandola verso l’alto per poi sbatterla con forza a terra. La bestia dagli occhi di fuoco fece un tonfo secco, piegando arbusti di risposte insperate. Un boato squarciò il suo ventre spargendo sangue e viscere alitose tutt’intorno, poi voltandosi verso il diavolo disse: «Anche se fosse così lontano, ci sentirà. Dio ci sentirà.» Lentamente, come vita che nulla più si aspetta, ridiscese attraversando il rigagnolo, dall’amico di sempre. Lo sguardo imibile del Diavolo assunse lo stesso colore delle nubi vorticanti, mentre il corpo iniziò a squamarsi come serpe, rivelando l’aspetto terrificante della vera bestia immonda. Con voce tuonante sentenziò la vendetta
ai due uomini che s’erano presi per mano, consci che nessuna paura più grande sarebbe mai potuta arrivare. «Non c’è sacrifica capra sull’altare che non conosca l’amore del male. A te che in sfida hai saccheggiato il gioco della conoscenza riservo l’odore acro dell’ineluttabile capra e della sua erba che sarai. «A te invece che t’ostinasti a perseguire fede inventata, ho svelato il vero gioco dell’inganno e sarai solo energia da possedere, flusso da attraversare per debellare l’arcaica sottomissione. Smetterete d’essere tutto ciò che siete, per restare uniti nel dolore, per sempre. Il tempo del nuovo ordine universale che sancirà la fine dell’oscurata falsa sapienza è giunto. Il male è forza avversa ad altra forza, solo questo. S’apra il grande aggio alla battaglia che porterà alla vittoria; s’apra la nuova era dal fuoco di questo mondo che mai sarà più.» Uomini immobili, sulla deriva cieca, aspettavano la fine del mondo, mentre gli scorrevano davanti immagini di cari che mai avrebbero più rivisto. «Colonnello cos’è questo strano calore che arriva dalla terra? Tutti gli insetti e i rettili stanno uscendo dalle tane, come per scappare da un rifugio che pareva loro sicuro.» «Già, c’è un improvviso innalzamento della temperatura e dalle comunicazioni giunte pare che stia succedendo in ogni angolo del mondo. Dio mio, stiamo bruciando tutti e l’unica speranza è riposta in quella strana donna che s’è avviata verso il grande albero. Che Dio ci abbia in gloria, che ci salvi.» Viola su viola… il mondo assorbiva questo colore mai piaciuto, rilasciando nell’aria calore viscerale. Balenio di nubi obbediva al volere del male, che con il suo bastone rosso fuoco, illuminato da quegli strani simboli, le dirigeva in grande orchestra. Il mio corpo impotente pian piano cedeva energia vitale, preparandosi ad aprire il varco al malefico inganno, senza nulla potere. Infilai le dita nella tasca dei jeans cercando di spiegare l’ultima barchetta nell’improbabile speranza che portasse a qualche nuova verità, tenendo l’altra sempre stretta a quella di Peppino. Una sorta di rifiuto della certezza del grande inganno, ma a un tratto sentimmo alle spalle una voce gridare.
«No Paolo, non farlo!» Invisibili agli occhi del mondo per volere del male, ci guardammo allibiti quando volgemmo indietro lo sguardo. Com’era possibile… lei qui, fra noi, scalza, con un libro in mano aperto sulle ultime pagine. Lei con quell’aria seria mai vista, spaccata da quel leggero filo di trucco sugli occhi di mare, per nulla intaccati dal viola del mondo, lei… l’esclusa di sempre. Lei, Elena! Riconobbi la copertina di quell’antico libro avuto tra le mani solo pochi giorni addietro e fu quello l’attimo in cui specchiai a ritroso il senso di quel titolo “OSTIUM DEI”. ò fra noi dividendoci le mani intrecciate, per fermarsi sul bordo dell’Agnena proprio di fronte al male. L’avevo cercata e trovata nella mente di quei drammatici istanti per lasciarle l’addio e invece adesso la rivedevo in tutto il suo serio splendore sfidare l’impossibile, fronteggiare a testa alta il Male che al cospetto della sua improvvisa presenza aveva gonfiato le orbite degli occhi d’odio e d’ira con mille crepe pronte ad esplodere da un momento all’altro. Avvertivo il terreno scricchiolare per l’intenso calore emanato dal sottosuolo che iniziava a bruciare le radici della vita mentre l’acqua dell’Agnena gloglottava tra fumi di vapore. Elena, dissociata dal mondo, immune agli eventi, aveva creato un contatto unisono con la Madre Terra, proprio mentre il mio corpo iniziava il processo di trasformazione energetica, spalancando la porta al male. Senza perdere nemmeno un istante, quella donna che non pareva più la mia donna, iniziò un canto ignoto, privo di suoni, mai inventato, che s’alzò lento dal libro, vibrando nell’aria circostante come bacio sul mondo. Un volo di farfalla innocente, con eleganti battiti di vita breve, si posò sul dorso della mia mano. Fu un tocco leggero, di sosta inaspettata, fuggente, colorata. Fu quello l’attimo in cui sentii d’essere un estraneo, giunto per caso in quel luogo. Il canto di Dio finì e il libro che non avevo mai letto divenne polvere di luce a
disperdersi tra le nuvole, lasciando all’incredulo Male, come quando si stacca improvvisamente la corrente di un luna park, silenzio e sgomento. Tutto ciò che credeva d’essere smise, facendo posto a un grido disperato mentre osservava il bastone disgregarsi per la fine di una battaglia mai combattuta. Era vinto. Il suo malefico piano, così minuziosamente concepito, era miseramente fallito sin dall’inizio, da sempre. La potenza di Dio era scesa annullando il male, facendolo svanire così com’era venuto, con il suo viola delle nubi. L’ultima barchetta s’era dissolta anch’essa ed io avevo tanto da chiedere a quella donna… a mia moglie. Il mondo ritornò quello di sempre, coi suoi colori e la sua anima, un pulsare di vite salvate dal male. «Colonnello li vede adesso? Eccoli! Paolo e Peppino sono lì con quella donna, e tutto sembra esser finito! Siamo salvi Colonnello… salvi! Presto andiamo da loro!» disse abbracciandolo. «No! Fermati e ferma tutti. Fai aprire un corridoio protetto e lasciali are… lasciali andare.» «Ma Colonnello se non li fermiamo noi lo faranno gli altri.» «Nessuno, e dico nessuno, saprà o chiederà più di quanto ha visto o sentito. Nessuno. Il mondo è ripartito, grazie a Dio.» Peppino corse fra i campi, impazzito di gioia, iniziando a saltare e a baciare ogni cosa che incontrava, ogni forma di vita. Elena ed io ci sciogliemmo in un lungo abbraccio di pianto, raccogliendo quella felicità inaspettata. Ecco gli occhi della mia donna, quella di sempre, farsi cuore nuovamente. «Elena… come sapevi?» «Quella stessa notte, prima della tua partenza, avevo fatto uno strano sogno, quasi reale, vero. Pagine e pagine mi scorrevano davanti ed io ero desiderosa di leggerle come se dovessi cercare un qualcosa che mi apparteneva, da sempre. Quando quel libro si chiuse, lo riconobbi. Il giorno stesso della tua partenza lo andai a riprendere da quel cofanetto e iniziai a leggerlo. A ogni pagina scoprivo
la tua storia, quella che non avevi voluto raccontarmi, celata da una vita. Ero frastornata, coincidevano nomi e luoghi. All’inizio avevo pensato che fosse un diario tuo, ma poi ho capito che quel libro non ti apparteneva ma raccontava la tua storia per uno scopo preciso. Quel libro apparteneva a me, ero io la prescelta, quella chiamata al canto di Dio, alla liberazione di tutto, ed è così che leggendolo, ho capito il grande pericolo che correva il mondo. Avevo in mano lo strumento in grado di fermare il male, un dono lasciato per sconfiggerlo.» «Era tutto segnato… Dio aveva tracciato il mio e il tuo destino.» «Elena allora questo spiega molte cose, come la morte di…» «Di Esterina? Sì Paolo, credo di sì… Come spiega l’abbandono e la sofferenza di mio padre, il non aver potuto scegliere, perdendo l’amore, il suo amore, per qualcosa di più grande di lui.» «Elena tuo padre sapeva, era a conoscenza di quel libro, ecco perché ha accettato la sconfitta e il suo destino.» «Già Paolo… sapeva.» «Il libro conteneva il canto ed io non l’ho degnato nemmeno di uno sguardo.» «E la barchetta? Perché mi hai fermato?» «Il male ti conosceva, sapeva che l’avresti aperta, e credimi, se ciò fosse accaduto, avrei smarrito il canto.» «Ma Elena, Dio me l’ha impedito e l’avrebbe fatto ancora... «L’ha fatto Paolo… l’ha fatto.» «Già Elena… l’ha fatto.» «E la mia energia, quella pronta ad aprire il varco, dove è andata?» Mi guardò con un sorriso meraviglioso dicendo una sola parola: «La farfalla.»
Il Cardinal Borrini, con i delicati, si avvicinò al Santo Padre ritirato in preghiera. «Santità ho fatto tutto come ha chiesto. A ogni ordine e presidente ho dato la medesima missiva “Nessuno, e dico nessuno, saprà o chiederà più di quanto ha visto o sentito”.» «E così sia Borrini.»
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OSTIUM DEI
di Paolo Caianiello
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