Le Cronache di Ferro
Copyright 2013 Eleonora Vaiana Published by Eleonora Vaiana at Smashwords
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Indice
Introduzione Cacciatori di Scorie La Regina Cremisi La Fabbrica di Rame Nero I Fiori d’Ottone La Drive Shaft Tower Hashshashin Il Treno Sottomarino La Fossa del Terrore Il Juggernaut La Corte di Ferro Il Pinnacolo dell’Imperatrice Ritorno a Vorsorge Epilogo Scopri Progetto Sommossa
Introduzione
Il mio nome è Allan Felix Rezzonico, e dopo un lustro di ripensamenti sono infine giunto alla conclusione che sarebbe stato giusto e necessario che io mi prodigassi nel metter su carta le mie memorie e conoscenze, affinché queste non fossero perdute nell’oblio e perché fossero utili insegnamenti per i posteri, sempre se ve ne saranno. È strano quanto la mia storia possa aver avuto principio sessant’anni prima della mia nascita, nei primi decenni del ventesimo secolo, quando la fine del mondo, senza invito, si presentò alle porte di questo pianeta. Era un freddo settembre quando l’attività elettromagnetica del nostro astro aumentò improvvisamente, e un’enorme onda d’urto elettromagnetica a bassa frequenza, si abbatté sul nostro pianeta. Questo fu il primo grande effetto dell’aumento dell’attività solare e anche il più devastante a breve termine. In quell’epoca era in gran voga l’energia nucleare, tanto temuta per la sua pericolosità, ma talmente conveniente da rendere impensabile l’idea di non utilizzarla. Quando il grande impatto avvenne, in un battibaleno si spensero per sempre e all’istante tutti i computer del mondo; l’onda si rivelò talmente pregna di distruzione, che nessuna protezione di cemento armato e nessun’altra sofisticheria costruita al fine di proteggere questi preziosi circuiti, fu in grado di annichilirla, né smorzarla: tutte le memorie elettroniche andarono così distrutte, perdute per sempre. Ma questa fu una mera sciocchezza rispetto al vero grande disastro: all’avvicinarsi dell’onda la rete di satelliti predisposta ad allarmare l’intera umanità, affinché iniziasse lo shut-down forzato di tutti i sistemi, non operò, e il perché di ciò è celato tutt’ora nell’ombra. Chi può sapere se i capi del mondo sottovalutarono il problema; chi può sapere se non si adoperarono nei tempi dovuti; chi può sapere se decisero di non dar adito ai valori sicuramente fuori dalla norma che lessero; o forse, addirittura, i satelliti furono zittiti dall’onda, e così arrestati dall’annunziare il pericolo
incombente. Ma queste, sono solo ipotesi e tali resteranno: indiscutibile però, è che l’impatto trascinò dietro a sé una scia di conseguenze devastanti, tra le quali l’aver impedito l’abbassamento delle barre di controllo nei reattori nucleari e il mancato raffreddamento di questi per mezzo di pompe d’acqua. Nell’improvvisa tenebra generata dal grande urto, che spense qualsivoglia lume, la fredda oscurità fu rischiarita dal caldo bagliore di tutti i reattori del creato, che contemporaneamente, come quasi a dirigerli fosse un vero e proprio direttore d’orchestra, fo i loro noccioli all’unisono. Sotto quel cielo coperto dal nugolo radioattivo, il panico fu improvviso, duraturo e devastante. Il mondo intero conosceva la sua fine: nessuno con precisione può raccontare quel che avvenne in seguito, perché il caos non può essere controllabile in alcun modo, ma tutto, o meglio quasi tutto, fu distrutto in quei mesi di oscurità, in poco tempo solamente un quinto della popolazione rimase in vita. Posso solo dire che per mia grande fortuna, pur essendo un vecchio stanco, non vissi nei primi anni dopo il gran disastro. I miei nonni paterni erano italiani e riuscirono a sopravvivere in quella terra colpita solo indirettamente dalle radiazioni; ma i miei nonni materni, di origine se, non si sono mai espressi circa le condizioni che gli hanno permesso di sopravvivere in quei primi terribili anni, e sicuramente il loro silenzio aveva le sue motivazioni. Come per ogni avvenimento naturale, dalla devastazione iniziò la ricostruzione. Tuttavia l’attività del sole, dopo il grande impatto, continuò a rimanere elevatissima rispetto al ato, e nessuna trasmissione elettromagnetica fu più resa possibile: niente dell’antica tecnologia digitale, che oggi definiremmo obsoleta, fu impiegabile, nessuna di quelle che conoscevamo come le antiche reti elettriche, fu più adoperabile a causa delle frequenti tempeste magnetiche. Niente radio, niente telefono, niente televisioni. Niente.
Ma un giorno, dalle rovine, venne a galla una ricerca terminata e fortunatamente stampata, poco prima della grande catastrofe. Un documento rivoluzionario che ancora oggi condiziona le nostre vite; un gruppo di scienziati, infatti, scoprì un particolare cristallo di bario ed alluminio, facile da sintetizzare, con semplici
processi chimici. La straordinarietà e la nota rivoluzionaria dell’invenzione, consiste nel fatto che, inserendo in questo cristallo un qualsiasi oggetto con della radioattività residua e portando il tutto ad una sufficiente pressione ed in presenza di acqua, i raggi gamma emanati vengono catturati dal cristallo, che li trasforma (attraverso il processo quantistico simile a quello dell’inversione di popolazione) in raggi infrarossi in grado di surriscaldare l’acqua e generare vapore sfruttabile in qualsiasi sistema motrice. Il cristallo inoltre ha una duplice funzione: i raggi non catturati vengono riflessi in maniera risonante all’interno dello stesso, diminuendo così il tempo di decadimento del materiale radioattivo.In questo modo l’energia estratta dal materiale è maggiore ed allo stesso tempo le scorie radiattive perdono la loro nocività in tempi minori rispetto alle migliaia di anni che solitamente occorrono; fatto sta che cessando di essere radioattivo in brevi termini, il materiale utilizzato da questa tecnologia deve essere continuamente sostituito. La tecnologia in questione ha portato ad un brevetto conosciuto come Steam Decay Deviece, SDD Machine la sua abbreviazione, o più semplicemente Steam Machine ed è questa la tecnologia che permette alla nostra società di sopravvivere, in un mondo pieno di scorie radioattive, arido e bollente. Ho lavorato per anni come ingegnere imperiale addetto a queste macchine, ed è per questo che le conosco così bene. Ne ho costruite di tutte le dimensioni, da grandi impianti per le industrie, a Steam Machine portatili, leggere e comode da portare a spalla. Mi ricordo in particolare di un paio di queste macchine portatili, che ho costruito e troppo spesso riparato dai fori delle pallottole. Queste appartenevano a due cacciatori di scorie, il peggiore fra tutti i mestieri della mia epoca
Cacciatori di Scorie
Credo si chiamassero Janet e Kurt, ma tutti li chiamavano “La Rossa” e “Big K”. Frequentavano spesso la mia bottega, pagavano subito, pagavano bene, e fin troppo spesso ho riparato le loro attrezzature da sprangate, danni da surriscaldamento e soprattutto fori di pallottole. Non hanno mai parlato molto di come ogni volta riuscissero a ridurre così i loro strumenti di lavoro, ma dopotutto era scontato: loro erano cacciatori di scorie, il lavoro più rischioso della mia epoca, ma allo stesso tempo uno dei più remunerati, soprattutto per la gente di queste parti. Un cacciatore di scorie procura alla popolazione la materia prima di questi tempi, ovvero materiale di qualsiasi tipo con una radioattività residua minima per esser impiegata con una SDD Machine. Trovare questi materiali diventa sempre più difficile, i posti facili sono i primi a esser saccheggiati, e bisogna inoltrarsi nel deserto in cerca delle rovine di quelle che erano le centrali nucleari o altri depositi. Ma bisogna star bene attenti a non avvicinarsi troppo ai nuclei ancora ardenti che queste hanno lasciato, come profonde cicatrici nella terra, voragini dalle quali escono gas, solo gas radioattivi, ad aver fortuna. E dunque il cacciatore di scorie non è certo un lavoro per tutti, è necessaria la giusta dose di sconsideratezza, di follia, di freddezza e talvolta pure di whiskey. I presunti Janet e Kurt avevano tutto quello che era necessario per una simile carriera, lei era un piccolo blocco di marmo: spigolosa nelle forme, gelida nel carattere, la sua unica fonte di calore erano quei bizzarri capelli rosso fuoco. La sua acconciatura mi ricordava molto quella di un mio vecchio compagno del reparto di Ingegneria Imperiale, Smith Cornwell, un tonto ragazzotto che sicuramente si tagliava i capelli da solo, visti i risultati. Lei indossava sempre gli stessi abiti: una maglia nera, una giacca in pelle verde militare ed entrambi erano accomunati dal velo di polvere che li avvolgeva. Aveva dei guanti, con le dita scoperte e delle tracce oleose, che emettevano un odore molto acre. Indossava dei pantaloni neri, tendenti al marrone per il
sudiciume che vi regnava, dai quali fuoriuscivano degli stivali, evidentemente segnati da polvere, fango e sparatorie. E potrei giurare, anche delle macchie di sangue. Immancabili gli occhiali tondi con un laccio in cuoio unto dai capelli sporchi e le lenti graffiate che le ciondolavano giù dal collo o le incoronavano la testa; non sono sicuro di averla mai vista indossarli come si dovrebbe, sugli occhi, anche se sicuramente le risultavano indispensabili sotto il sole che impera nel deserto. Possedeva una lunga rivoltella a vapore, una Steamgun, collegata alla SDD Machine attraverso un tubo coibentato: un’arma molto comoda per potersi arrangiare in ogni situazione. La forma era quella classica di ogni revolver, color bronzo con il tamburo argentato e l’impugnatura rivestita in legno. A caratterizzarla era la punta, piuttosto lunga e larga, e un mirino da cecchino perfetto, di lunghezza pari a quella della canna. Ciò che sparava non erano proiettili convenzionali, costosi e facilmente esauribili, ma grazie ad uno speciale sistema era capace di sparare qualsiasi oggetto di piccole dimensioni si trovasse di fronte. Lo speciale sistema era una piccola fustellatrice a pressione, un cilindro con i bordi seghettati, con l’apertura a scatto e dotato di un potente pistone. In pratica si trattava di inserire un oggetto nel piccolo cilindro, collegare lo zaino SDD Deviece al marchingegno, aspettare un suono sibilante per trovarsi pronti all’uso sei bei proiettili. Potrei riconoscere una Steamgun solo dal rumore, per quante ne ho costruite ma soprattutto per quante ne ho riparate. Potete ben intuire quanto sia facile finire una scatola di proiettili in piombo, e di quanto sia difficile non trovare almeno un sasso nel deserto: sfruttava proprio questa tipologia di situazione, accompagnando ogni azione con un teatrale rumore emesso dalla caldaia a vapore. Ad ogni “Bang” seguiva un “Fssssss”. Kurt invece, chiamato “Big K”, era un ammasso di massa magra e sudore, una montagna di carne umana. Era di poche parole, anzi, giurerei di non averlo mai sentito parlare in tutte le occasioni che l’ho potuto vedere, il massimo che concedeva era un sordo grugnito di approvazione, che a dire la verità inquietava non poco. Era sempre coperto da una patina oleosa, che si notava sulla pelle scoperta, specie sotto agli occhi e nella fossetta sotto al naso. Completamente glabro, sarei pronto a mettere la mano sul fuoco dicendo che aveva muscoli anche in testa, ne aveva sparsi in tutto il corpo, con un collo largo quasi una spanna e mezzo, e la distanza tra una spalla e l’altra di più di uno yard, non sarebbe neppure da
stupirsi se la mia teoria fosse confermata. Quando Big K si muoveva emetteva un fastidioso cigolio che solo la Rossa sembrava sopportare, ma non perchè come la maggior parte dei mutilati dei miei tempi, avesse impiantate delle protesi meccaniche, bensì perchè indossava costantemente un esoscheletro da lavoro. Questa tipologia di attrezzatura è utilizzata dagli operai specializzati, che devono alzare grandi quantità di peso nelle acciaierie. Ma il nostro amico utilizzava quell’agglomerato di pistoni ed ingranaggi, (alimentato ovviamente dalla SDD Machine) non solo per risolvere tutti quegli inconvenienti che il deserto e le rovine radioattive possono offrire, affrontabili con la pura forza bruta, ma anche tutte quelle discussioni alle quali la dialettica non può porre fine. Vorrei onestamente conoscere il numero dei codardi che, credendolo disarmato, hanno finito poi i loro giorni, triturati in una poltiglia di carne e ossa, le ultime talmente sminuzzate da poter diventare pallottole per la Steamgun della Rossa. Big K sembrava ancor più un colosso indossando l’esoscheletro, più di quanto non fosse già di per sè con la sua ingombrante corporatura: sulla pettorina era visibile un quadrante color castagna, sul quale era presente una scala in numeri romani e una piccola lancetta che traballava sempre. Di fianco un altro quadrante, color ottanio, con una lancetta bronzea che segnava il limite della temperatura di surriscaldamento, che ovviamente era continuamente superato. Portarsi a so un esoscheletro, sotto il sole, nel deserto non è cosa da tutti, considerando che può rimanere solo per brevi lassi di tempo: significa trasportare un peso morto su e giù per le dune assolate, con i piedi che affondano nella sabbia e nemmeno una goccia d’acqua non radioattiva. Né del whiskey. Conoscevo un solo uomo in grado di farlo signori, e quello era Big K. Non ho mai capito se i due cacciatori fossero qualcosa di più che semplici colleghi, stavano sì continuamente insieme, ma il loro rapporto somigliava più a quello di due fratelli, che a quello di due amanti. Quel che però è certo è che entrambi erano sterili, la malattia più frequente nel loro ambito lavorativo. Una spedizione tipo dei nostri due cari amici comprendeva lo svegliarsi in piena notte, l’uscire dal villaggio senza essere notati dalla concorrenza, camminare initerrottamente per tre giorni nel deserto seguendo qualche mappa
scarabocchiata o qualche indicazione di un nomade, una soffiata presa al Saloon o semplicemente l’istinto, in cerca di qualche rottame con radioattività residua tale da poter fruttare una discreta quantità di quattrini. Il resto del viaggio era una eggiata, comprendeva solamente il sopravvivere ai banditos che cercavano di portare via quel piccolo gruzzolo che erano riusciti a trovare, a uccidere scorpioni giganti mutati dalle radiazioni o a disinnescare qualche mina lasciata dalle ultime rappresaglie che l’Esercito Imperiale aveva sedato. E infine c’era il ritorno in città, il momento in cui tutti li guardavano in cagnesco chiedendosi se con se portassero qualche reliquia preziosa: li sentivano sparlare alle spalle, e l’udito si affinava, pronti a capire se qualcuno avesse anche solo sfiorato il calcio della pistola. Al bazar della Raffineria pagavano bene, pagavano subito e soprattutto pagavano senza fare domande. Tutte le volte che finivano una spedizione, era possibile trovarli sotto alla tettoia fuori dal Saloon, a sciacquarsi le budella con del Whiskey da due soldi: fu proprio lì, davanti quella bettola di amianto e guano, che il destino incrociò le loro strade. Quel destino era piccolo e color ebano, e viaggiava vestito solo con una sacca di juta. Mi ricordo bene quel giorno, ero nel mio laboratorio come sempre, ad aggiustare la motoretta a vapore del signor Fentick, quando vidi dei forestieri muoversi come blatte fuori dalla mia porta. Non avevo un buon presentimento e così mi affacciai di soppiatto all’uscio, come usano fare le bisbetiche vecchiette. Riuscii a vederli solo di sfuggita e, seppure fossero infagottati in logore mantelle color ratto, fui in grado di riconoscere le fattezze di un uomo e di una donna. Lui si aiutava per il suo affannato o con un nodoso bastone di poco valore e portava sulla schiena un sacco marrone rammendato, che probabilmente conteneva tutto ciò che i due possedevano. Lei sembrava più giovane e agile, a giudicare quel poco che si scorgeva dalla mantella: si muoveva a piccoli e veloci i, stringendo fra le braccia color latte un fagotto di juta, dal quale spuntava il volto di un bambino dalla pelle nera. La prima cosa che pensai fu relativa a quanto fosse strano vedere una madre così premurosa verso un bambino che probabilmente non era neppure suo, dato che la coppia era di carnagione chiarissima, ma fui immediatamente distratto dal bisbiglio pettegolo a cui il signor Toffmann, dall’altra parte della strada, stava
dando adito con le sue due suocere. Ebbi l’irresistibile tentazione di saperne di più, così presi la giacca e chiusi la porta dietro di me. Mi diressi verso quella bettola che era il Saloon, dove le notizie arrivavano prima anche che ai giornali. Mi avvicinai a quella baracca, con o svelto, chiedendo fra me e me ancora una volta come quel cumulo di amianto potesse ancora rimanere in piedi nonostante le frequenti tempeste di sabbia che si abbattevano sulla nostra cittadina. Spalancai dolcemente l’anta destra della porta basculante del Saloon, la Rossa e Big K erano là fuori, al solito posto, mi avvicinai al bancone chiedendo il solito, mentre gli sguardi tutto fuorché amichevoli dei clienti del Saloon si incrociavano col mio. Il barista reagì alla comanda con un bicchiere di latte di capra, mi sedetti al bancone, feci un cenno al barista e gli chiesi se sapesse qualcosa in merito alla strana agitazione che girava in città: lui scrollò le spalle e riprese ad asciugare i bicchieri, come se fossi un vecchio pazzo al quale non dare ascolto...e a pensarci bene, non posso dargli tutti i torti! D’un tratto la porta si spalancò e spuntò quel piccolo ritardato di origini si, Julien, che come al solito sbraitò ai quattro venti quelle poche informazioni che era solito carpire origliando i discorsi degli altri : - Avete sentito?! Le Guardie Imperiali stanno cercando quei due forestieri con un bambino che sono appena arrivati in città! Sembra che siano dei pericolosissimi ricercati! - A me non erano sembrati affatto pericolosi, mi sembravano due straccioni inoffensivi, ma prima ancora che questi miei pensieri potessero delinearsi, sentii due spari in velocissima sequenza che mi fecero precipitare immediatamente alla finestra sporca di grasso, che pulii con la manica della giacca per riuscire a sbirciare. La coppia che avevo visto in precedenza giaceva a terra, in una pozza di sangue, e a una media distanza due Guardie Imperiali imbellettate con le loro giubbe blu ed il cappello piumato si avvicinavano a o svelto, imbracciando i loro lunghi moschetti. Nessuno mosse un dito, perchè nessuno osa mai farlo quando ci sono di mezzo delle Guardie Imperiali. Una delle guardie si chinò sui corpi e strappò dalle mani della donna esanime il fagotto, dal quale uscì il bambino in lacrime che si dimenava impiegando tutte le sue forze. L’altra guardia con fare deciso ordinò: -
Tienilo fermo! Sbrigati! - e alzò la baionetta per infilzare il bambino. Ricordo perfettamente quell’istante in cui un raggio di sole, colpendo la lucida lama della baionetta, si riflesse verso di noi, in un bagliore accecante: fu in quel momento che udimmo un colpo sordo, seguito dal classico “Fssss” di una Steamgun. Nessuno riuscì a capire da dove provenisse il colpo, ma io riconobbi immediatamente il timbro di quella canna, e compresi subito a chi appartenesse quell’arma: quando mi voltai per vedere dov’erano finiti La Rossa e Big K,vidi le loro sedie vuote. La guardia che stringeva il bambino, guardando esterrefatta il collega morto per una pallottola che lo aveva colpito nell’orbita e gli aveva traato il cranio da parte a parte, gettò a terra il bambino, il cui pianto risuonava in tutta la strada come una straziante sirena. La guardia imbracciò il moschetto a vapore, e cominciò a gridare con uno sforzo tale da fargli gonfiare il collo, da farlo arrossare e far emergere quelle radici ematiche color verde che gli percorrevano il collo: - Chi diavolo è stato? Si faccia avanti, lo ordino in nome dell’Imperatrice! - Alla sua domanda rispose La Rossa, in fondo al viale con la pistola ancora fumante - Io! - gridò, con una freddezza che avrebbe fatto gelare il sangue a chiunque. La guardia con uno scatto orientò la bocca del suo moschetto verso Janet, ma fu proprio in quel momento che Big K lo sorprese alle spalle, agguantandolo con entrambi le mani tra il collo e la testa: i pistoni del suo esoscheletro sfiatarono e con un unico fluido gesto Kurt sfilò il cranio del malcapitato dal resto del corpo come un agricoltore sfila una carota dal terreno, portandosi dietro l’intera colonna vertebrale. Fu l’ultima volta che vidi La Rossa e Big K, dopo che lei calpestando con grazia i cadaveri delle guardie, raccolse il bambino e se lo portò al petto. Fu solo allora che noi dentro al Saloon ci rendemmo conto di ciò che era successo, quando il bambino cessò di piangere all’improvviso, e quel lamento fastidioso al quale ormai quasi ci eravamo abituati si interruppe. Le persone attorno a me cominciarono a parlare dell’accaduto ovviamente, borbottando le classiche frasi da provincialotti, mentre silenziosamente i tre si dileguavano. A volte mi chiedo cosa sia saltato in testa a quei due, erano sempre rimasti in
disparte, a pensare ai propri problemi e stare lontani dai guai. Non so cosa abbia fatto scattare la molla nel loro cervello, forse la condanna alla sterilità, ed il convivere con la certezza di non poter mai avere figli. Ma vidi qualcosa di strano in loro, una strana luce nei loro occhi: era come se sentissero che prendersi cura di quel bambino fosse il loro destino.
La Regina Cremisi
Tre fastidiose mosche in quel tardo e afoso pomeriggio, erano impegnate a ostacolare il mio lavoro, posandosi ripetutamente sul mio nasone, sui miei occhiali, sulla fronte, e tentando, quelle disgraziate, di inserirsi senza motivo all’interno del mio orecchio, forse per risalire il mio condotto uditivo, e farsi una gita all’interno della mia testa. Accanto a me tenevo un marchingegno da me costruito, per uccidere queste luride bestiacce: una paletta di cuoio collegata per mezzo di una molla al manico controbilanciato, in modo da aumentarne il momento angolare e aumentare la sua potenzialità di uccidere la mosca all’istante. In più vi avevo assemblato un rotore a manovella basculante per renderlo ancora più letale. Peccato che queste riuscissero sempre a essere più veloci di me e della mia attrezzatura.Fu in quel frangente che sentii bussare alla porta del mio laboratorio, e le mosche divennero improvvisamente un problema insignificante: entrò a o cauto una giovane fanciulla dai capelli riccioluti e neri, e dall’aspetto poco curato. Aveva lineamenti tozzi ma nonostante tutto gradevoli; indossava una salopette di qualche taglia in più rispetto alla sua, e degli stivali da uomo. Poggiò le sue mani mascoline, sporche e mangiucchiate sul tavolo - Lei è Alan Felix Rezzonico? - Sì - risposi. - Lei è l’ex ingegnere Imperiale, che ha risolto il quasi disastro della diga di Black Hill? - Esattamente - risposi, supponendo che la ragazza mi stesse prendendo in giro, considerato il tono con cui mi stava ponendo le domande. - Quindi è stato lei a prevenire l’esplosione della caldaia del treno del Granduca di Glareball?
-Proprio io - Risposi, questa volta senza riuscire a trattenere il mio sarcasmo. - Bene. Ho un apparecchio che necessita il suo intervento. Vede, anche io sono un Ingegnere, ma dopo aver esaminato il guasto, mi sono resa conto di non avere l’esperienza necessaria per effettuare una simile riparazione. Con un misto di stupore e curiosità le chiesi di mostrarmi il macchinario, e così la ragazza uscì fuori: - Dev’essere qualcosa di molto ingombrante - pensai. Rimasi totalmente confuso quando una stupenda donna varcò la soglia del mio lezzo laboratorio: portava un corsetto in ottone, dal quale fuoriusciva una bellissima veste color rosso carminio che le scendeva fino ai piedi. Degli splendidi arabeschi erano incisi su quella veste così preziosa, e posso dire fermamente di non aver mai visto niente di simile in tutta la mia vita. Un decoltè mozzafiato da far resuscitare i morti, era sovrastato da un meraviglioso volto angelico, ma dal quale traspariva una dose letale di tentazione allo stato puro, tanto da avermi fatto discostare le labbra, facendo trapelare un filo di bava. La sua testa era cinta da un piccolo turbante impreziosito da lapislazzuli e smeraldi, e da questo sgorgavano poche ciocche di capelli color rubino. C’era qualcosa di strano in lei tuttavia, ma ero talmente abbagliato da quella copiosità di bellezza che lasciai andar via questo pensiero.Non parlò, si guardò solo intorno, e poi cominciò a fissarmi. Avrei voluto chiedere dove fosse il macchinario, ma ero completamente pietrificato. Fu la ragazza ingegnere, che nel frattempo era entrata e sostava dietro alla Signora in Rosso, ad interrompere quell’atmosfera gelida che si era venuta a creare. - Dov’è il suo tavolo da lavoro? Io continuavo a non capire, e il mio cervello paralizzato non collaborava affatto. Nonostante questo riuscii ad indicare meccanicamente con la mano l’ingresso alla saletta dove si trovava il bancone. L’elegante signora si mosse velocemente e sinuosamente verso quella stanza, quasi come se fluttuasse a 10 centimetri da terra per quanto leggiadro fosse il suo o: ero totalmente ammaliato da quello splendore, da non essere in grado di muovermi, tanto da raggiungerle con una dozzina di secondi di ritardo. La Signora in Rosso si era seduta sull’alto tavolo, mentre l’altra ragazza stava
sganciandole lentamente la parte posteriore del corsetto. Mi chiese di avvicinarmi, ed ero talmente allibito dalla situazione, da non essere neppure in grado di eccitarmi. Dopo aver sciolto tutti i lacci, aprì lentamente il retro del corsetto, incernierato all’altezza dei fianchi della Signora: mi domando quale espressione abbia acquisito il mio volto, quando sgranando gli occhi ed avvicinandomi gli occhiali, la flebile luce della stanza mi mostrò che all’interno della Signora in Rosso non vi erano organi e sangue, ma decine di ingranaggi sincronizzati che emettevano un timido ticchettio, simile a quello di un cassetto pieno di orologi. Al centro del suo grembo regnava una superba SDD Machine, incastonata alla colonna vertebrale di puro ottone: era un eccellente pezzo, e una flebile luce azzurra trapelava dall’oblò della cella di decadimento, probabilmente del purissimo Cesio 147. Nella parte interna dello sportellino ormai aperto, un’iscrizione indicava l’origine militare di questo automa; neppure io avevo mai visto niente di simile e probabilmente doveva risalire alla Quarta Grande Guerra, quando il nostro Impero impiegava queste macchine contro i Russi, e quando, da giovane ingegnere qual ero, non avevo ancora le possibilità di vedere un’opera d’arte ingegneristica di questo calibro. - Vede? È qui il problema - mi disse il giovane Ingegnere. - Tutta questa sezione di ingranaggi è bloccata, e non ne capisco il motivo. Da’ gravi disfunzioni a tutta la gamba destra - La faccia distendere - dissi mentre indossavo i miei occhiali ingranditori a lenti multiple. L’automa si distese, e iniziai subito a lavorare: dovetti isolare un’intera sezione per poter rimuovere la parte bloccata e poter esaminare al di sotto di quest’ultima. Non avevo mai lavorato a niente di più sofisticato, i materiali utilizzati erano di altissima qualità e ogni ingranaggio era intarsiato come dalla mano di un orefice: chiunque avesse costruito questo macchinario, oltre ad avere delle mostruose conoscenze, aveva fatto qualcosa di più. Era talmente perfetta da domandarsi se il suo costruttore le avesse progettato anche un’anima. Ero immerso in questo turbinio di pensieri, quando trovai quel che aveva inceppato gli ingranaggi: era parte di una mano umana, per l’esattezza medio,
anulare e mignolo di una mano destra, dalle dita abbastanza tozze e le unghie piccolissime. Le tre dita erano unite da un sottile strato di carne, ed avviate ormai ad uno stato di decomposizione avanzato. Le estrassi posandole su di un piatto che avevo vicino, e per un istante mi sentii un antico medico legale, quando, prima del grande disastro, sezionavano i cadaveri per capire le cause del decesso. Sudai freddo, ma cercai di non far trasparire il mio ovvio stupore, nell’aver trovato qualcosa del genere all’interno di quella splendida Signora, e mi comportai come se tutto ciò fosse normalissimo. Dopo averla pulita ed oleata, la rimontai con cura e richiusi il corpetto: l’automa a quel punto si alzò, con un movimento innaturale per un essere umano, tornando in posizione eretta. Credevo di averne viste abbastanza per oggi, ma non era finita, così, l’automa aprì bocca e parlò guardandomi fisso negli occhi, con un’espressione fredda, ma comunque bellissima. - Puoi uscire Cassandra - e il giovane Ingegnere uscì dalla mia abitazione senza fiatare. Non potevo fare a meno di pensare a quale complicato sistema di sacche areatoree generasse un timbro di voce così naturale. - Mi chiamano la Regina Cremisi, ma non ho nessun titolo nobiliare, bensì svolgo il mestiere più antico del mondo per il quale sono stata programmata durante la Grande Guerra, quando dovevo sedurre i generali russi e ucciderli durante l’amplesso. Il mio mantenimento è molto costoso, e adesso lavoro in patria. Ti sembrerà bizzarro, ma credo di aver acquisito in questi anni qualcosa di simile a quello che voi umani chiamate coscienza, e con questa credo di aver sviluppato un mio senso di giustizia. La mano che hai rinvenuto apparteneva al Baronetto Sigismondo Callischi, la cui famiglia ha schiavizzato due interi villaggi per le loro miniere: egli è stato complice di innumerevoli barbarie nei confronti di 15 ragazze di basso ceto, violentate, picchiate e tre di loro uccise. Aveva martoriato una ragazza persino la stessa sera prima di venire da me, e il mio senso di giustizia è stato soddisfatto, quando ho rimestato fra i suoi organi interni, in cerca del suo cuore. Del resto era stato lui a dirmi che sperava di trovare un giorno una ragazza che gli rubasse il cuore. Questo è il tuo compenso Ingegnere, - disse mentre sfilava un sacchetto di velluto dalle vesti, che appoggiò
sul tavolo - So che non dirai niente a nessuno, perchè leggo nei tuoi occhi lo stesso spirito di giustizia che aveva il mio costruttore.
La Fabbrica di Rame Nero
Il viaggio era stato stancante, ma almeno il treno puntuale: Fortune City era una piccola cittadina del Sud-Est, situata su di un’arida spianata. A nord vi era la piccola stazione, mentre verso sud si estendeva la città, incorniciata da una baraccopoli come tante altre: la distesa di baracche si diramava fino alle grandi mura che circondavano la fabbrica, la quale aveva dato nome ed origine alla città. Nonostante fosse mattino, non riuscii a vedere nessun abitante di quel posto, neppure quando arrivai dinnanzi ai cancelli dell’immenso stabilimento: un ometto rachitico e quasi totalmente calvo aprì una porta posta di lato rispetto al cancello, e devo ammettere che fu piuttosto tempestivo, dato che mi venne incontro poco dopo aver scosso il batacchio della campana. Il motivo per il quale mi trovavo lì, e per il quale ero stato convocato, era la riparazione delle servopompe. L’impianto era famoso in tutto il continente per l’innovazione tecnologica che produceva: il rame nero. Il processo di produzione del rame nero era ancora sotto brevetto, e, data l’importanza della scoperta, la fabbrica era militarizzata; a testimonianza di ciò erano le due mitragliatrici a vapore, di grosso calibro, appostate sopra le alte mura. Effettivamente mi sentivo piuttosto onorato potendo accedere, grazie a un permesso esclusivo, in quello stabilimento, ma del resto sapevo già bene che mi sarebbe stato mostrato ben poco. L’ometto mi condusse presso le guardie, che mi pedinarono durante tutta la mia permanenza, e solo in queste condizioni mi fu consentito l’accesso al cortile della fabbrica: a quell’ora il luogo era semi desolato, poiché il turno ancora non era cominciato ed inoltre doveva giungere il carico di rame vergine proveniente da un treno merci. Osservavo con curiosità i vari silos e fabbricati, dai quali sorgevano ciminiere e reticoli di tubazioni nere; nel mentre sentivo anche un ronzio di sottofondo, probabilmente, pensai, solo uno scherzo della mia immaginazione. Immediatamente fui condotto vicino alla servopompa, che onestamente speravo fosse all’interno degli edifici, ma ahimè, fui costretto a constatare che si trovava solo nel cortile.
Cominciai il mio lavoro, sotto lo sguardo severo e attento delle due guardie, armate per lo più fino ai denti e che sputavano a terra continuamente, come i peggiori mercenari: il mio lavoro di lubrificazione fu complicato dalle grosse incrostazioni che si erano accumulate per un uso eccessivo dell’apparecchiatura. ata la prima ora, le guardie cominciarono a mettermi fretta, insistendo sul fatto che avrei dovuto terminare nei tempi più brevi possibili il mio lavoro, ma era piuttosto evidente quanto ciò fosse impossibile, vista la grande quantità di ingranaggi che avevo dovuto estrarre dal macchinario e il fatto che solo io avrei potuto, nel raggio di chilometri, rimontare tutto nel modo giusto. In effetti devo dire che velocizzai il mio operato non appena sentii uno dei due caricare l’arma: finii con quaranta minuti di ritardo, e i due soldati mi scortarono frettolosamente verso l’uscita, spingendomi ripetutamente con il dorso della loro arma. Arrivati a metà del grande cortile, una sirena claustrofobica suonò, le guardie evidentemente agitate si fermarono, mentre i cancelli si stavano aprendo e in lontananza si scorgeva una lunga schiera di operai, che si incamminava a o lento verso gli edifici del complesso. Quando gli operai furono sufficientemente vicini da poterli distinguere abbastanza chiaramente, mi si palesarono agli occhi dei connotati simili in ognuno di essi, come se fossero stati concepiti tutti dallo stesso padre e dalla stessa madre: erano gobbi e sporchi, e questo certamente non mi stupiva, del resto accadeva in ogni grande stabilimento, ma quel che li distingueva era una quantità impressionante di tic nervosi che rivelavano ad intervalli brevi ma regolari. Molti di loro tremavano, altri digrignavano i denti, mentre altri di loro muovevano repentinamente ed asimmetricamente le pupille dilatate. La cosa che però accomunava tutti i lavoratori, era l’enorme gozzo rigonfio e la quasi totale assenza di capelli. In secondo luogo poi mi resi conto che in quella mandria di esseri umani poco in salute, figuravano anche delle donne, assolutamente irriconoscibili se non dalle lievi forme morbide che si nascondevano fra le vesti sudicie e le ossa sovrane, le quali camminavano diversamente dagli uomini. Rimasi stupito di tutto ciò. Uno di loro mi si avvicinò più degli altri, tentando speranzoso di poter dar inizio a una conversazione, ma col solo risultato di blaterare fonemi assolutamente incomprensibili, simili a un attacco epilettico: il dialogo fu interrotto da un signore distinto, con le basette bianche e un panciotto ripieno del suo addome adiposo, il quale si avvicinò celermente a me chiamandomi per nome. Fece un gesto alle guardie alle mie spalle, che non mi avevano lasciato solo neppure per un istante, e solo allora fui in grado di rendermi conto che avevano le armi puntate verso di me, chissà da quanto, lo capii solo vedendogliele abbassare.
- Venga pure, mi segua nel mio ufficio - disse il distinto signore. Salii per le strette scale, piuttosto turbato, fino a giungere nell’ufficio, dove quell’uomo fece cenno di sedermi: mi si presentò come il titolare ufficiale del brevetto per la fabbricazione del rame nero, nonché come padrone unico dell’intera attività. - Sono molto contento di averla qui, e sappia che è ben difficile trovare degli ingegneri capaci come lei. Vista la sua professionalità nello svolgere il suo lavoro, vorrei veramente che il nostro rapporto lavorativo potesse continuare, considerato che questo è un grosso impianto e che i miei operai non possono compiere da soli certe mansioni - disse l’uomo. Quel che mi stupiva, era il tono di voce pacato, sembrava quasi stesse raccontando una favola, e accompagnava le parole a dei gesti morbidi, che incutevano tranquillità e sicurezza. Parlava in una lingua perfetta, senza neppure un cenno di accento, e aveva stampato in faccia un sorriso piuttosto forzato, ma che evidentemente, da quanto vi era abituato, a tratti risultava anche naturale. - Il rame nero è il nuovo metallo nobile della nostra epoca, un’invenzione a dir poco straordinaria che riesce a diminuire del 73% le dispersioni di energia, aumentando vertiginosamente i rendimenti di qualsiasi macchinario sul quale venga utilizzato. Tutti lo desiderano, e apporterà una vera e propria rivoluzione alla nostra società. Certo che la sua produzione non è semplice, ci sono molti aggi intermedi, piuttosto complicati e difficoltosi, che richiedono un impianto molto grande e soprattutto tecnologico, ma il prodotto finale è eccezionale, così tanto da aver avuto anche il patrocinio completo dell’Impero disse tutto tronfio. Dopo aver pronunciato la parola “Impero” il suo sorriso divenne ancora più smagliante, quasi spontaneo, intriso di orgoglio e sicurezza. Parlava con parole chiare, senza troppe trovate linguistiche che mirassero a stupirmi, conscio del fatto che già di per sé il suo brevetto, era fonte di stupore ed ammirazione. - L’arconte Baswarth è stato uno dei primi a credere in questo progetto, ed è grazie a lui se la nostra proposta è stata presentata direttamente all’imperatrice, che ci ha garantito, in questo modo, la completa militarizzazione dello stabilimento, per far sì che possa esser protetto da eventuali farabutti, che potrebbero tentare di rubare il brevetto - disse indicando una targa appesa alla
parete di fronte a me. - L’importante è che tutto funzioni bene, l’impianto è sicurissimo, sfama ben 250 operai e le loro famiglie. Il progresso è benessere, e sono sicuro che lei sia concorde con me! - affermò sorridente, ma con gli occhi ben aperti, pronto a osservare la mia reazione. Io non potei far altro che abbozzare un sorriso timido, tentando di mascherarlo dal senso di soffocamento che quell’uomo mi infondeva: annuiva da solo a ogni sua affermazione, non so se speranzoso di un effetto camaleontico, che portasse anche me a farlo e a crederci, o per un eventuale ulteriore tic nervoso, dato che tutti i suoi operai ne erano pieni. - Benissimo, questo è il suo compenso e stia sicuro che non appena avremo bisogno nuovamente dei servigi di un ingegnere, chiameremo sicuramente lei, poiché mi creda, siamo rimasti veramente soddisfatti del suo lavoro! - Arrivederci! Quella che inizialmente sembrava una conversazione pericolosa, si concluse come un inquietante monologo, e le guardie frettolosamente mi scortarono fuori dai cancelli dello stabilimento.
I Fiori d’Ottone
Il male ha tante forme e molte impersonificazioni: qui nel West End è noto col nome di Arconte Laurus III. Gli arconti, è giunto il momento di parlarne, sono lo strato della società che sottostà immediatamente all’Imperatrice, la quale ha potere assoluto, ed è giusto così, visto e considerato che fin dalla nascita ha ricevuto un’educazione valida per poter svolgere tale ruolo, e nessun altro potrebbe svolgerlo in maniera più consona. Purtroppo però l’Imperatrice non possiedei poteri divini di cui dovrebbe essere in possesso, come l’obiquità e l’onniscenza, e dunque vi è un processo di delega delle varie responsabilità, soprattutto per le regioni più remote. Dove il volere dell’imperatrice non può arrivare si instaura la dittatura dei vari Arconti di zona, una gerarchia di tipo paramilitare, una nobiltà acquisita tramite il riconoscimento da parte dell’esercito: teoricamente il loro ruolo dovrebbe essere quello di far da tramite fra i desideri e i problemi della popolazione, e il volere dell’Imperatrice, ma spesso gli Arconti finiscono per gestire il territorio quasi si sentissero investiti di un potere divino. Questa è la mia idea, e probabilmente, se questo diario fosse letto dalla persona sbagliata, sarei sicuramente condannato a morte. Repetita iuvant. Il male ha tante forme e molte impersonificazioni: qui nel West End è noto col terribile nome di Arconte Laurus III. Questi è sfortunatamente un apionato di tecniche di controllo mentale, che ha deciso di creare nella città di Purplestone il suo laboratorio personale, e da quel momentola città ha preso il nomigliolo di “Giardino dei Fiori d’Ottone”. A ogni incrocio e dentro ogni abitazione l’Arconte ha tristemente deciso di installare un altoparlante dalle fattezze di un grammofono, che attraverso un sistema pneumatico di condutture, fa sì che questo possa essere controllato da una bassa torre, piuttosto scura con base circolare, da dove l’Arconte conduce i suoi esperimenti: è lì che le tubazioni si riuniscono come canne di un enorme organo in un unico grande salone dove un grande disco di alabastro gira ininterrottamente riproducendo così le voci incise su di esso. Attraverso un processo di indottrinamento costante, l’Arconte pensa di piegare alla sua volontà l’intera popolazione, così ogni 30 secondi la voce autoritaria ripete frasi che ledono la libertà personale dei cittadini, invitandoli a non compiere scelte se non
quelle autorizzate dall’Arconte, a non riprodursi, a non lottare per le proprie idee, a non protestare per i misfatti e accettare ogni decisione improrogabile. Infatti il disco insegna loro a essere felici, ovvero a non pensare più. La situazione è molto meno surreale di quanto possa sembrare: all’inizio i cittadini respingevano le frasi enunciate dagli altoparlanti, ma il prolungarsi di questo per l’intero arco del giorno e della notte, le ha fatte are in sottofondo all’udito delle persone che ormai non le sentono più consciamente, ma vengono costantemente assorbite dal loro inconscio. La popolazione risulta quindi totalmente assuefatta dalle imposizioni inconsce, tanto da non manifestare il minimo stralcio di personalità, che, se non ricordo male, dovrebbe essere una parola illegale a Purplestone. Purplestone, già, Purplestone: la città che ha per nome un colore, ma che non ne tollera neppure uno, tranne il grigio. Leggesi: ogni colore al di fuori del grigio è assolutamente illegale e lo è da talmente tanto tempo che è l’unico esistente per i cittadini. Il grigio è l’unico colore che tinteggia le case, gli edifici, le fabbriche i monumenti, gli abiti delle persone, che non possono differenziarsi in nessun modo, vi è un solo negozio di vestiti, che vende gli unici modelli ammessi: una casacca grigia per i bambini, una camicia e una gonna grigia per le donne e un completo, udite udite, grigio per gli uomini. E le scarpe? C’è un solo negozio di scarpe a Purplestone, che vende gli unici modelli ammessi: delle scarpine chiuse per i bambini, delle scarpe basse per le donne e dei mocassini per gli uomini, il tutto ovviamente grigio. Anche le acconciature sono regolate da leggi specifiche, che sanciscono 2 pollici di lunghezza per gli uomini e 5 pollici per le donne: esistono ben due tipologie di tagli di capelli, ciascuno per un sesso, un vero e proprio mestiere per sbizzarrirsi, quello del parrucchiere. Sembra quasi che il grigio in quella città si possa respirare, anche il cielo e il vento sembrano essersi adattati alle folli leggi imposte dall’Arconte Laurus III, un genio del male, letteralmente, che incute terrore anche solo a pronunziare il suo nome: ha architettato tutto quanto da solo, la città, il programma di questa, è riuscito a seguire il suo disegno, il suo progetto, meglio di qualsiasi divinità esistente ed esistita sulla faccia del pianeta. Capita alle volte che nasca un elemento particolare, un bambino fuori dal
comune che senta il bisogno dei colori del mondo, che soffre per questo motivo: l’unico modo per riportare certe rare eccezioni sulla retta via, è un apposito collegio, dove viene insegnato come vivere nella città, da insegnanti e dai vari ripetitori, che blaterano ogni 30 secondi le solite cose. Il collegio è chiamato “Centro di Rieducazione di Purplestone”, e alla fine dei conti più o meno tutti i cittadini finiscono per ritrovarvisi: qualsiasi sia l’infrazione, anche minima, si finisce là dentro. È questa la cosa strana della città, il codice penale non prevede pene di morte, torture o chissà cos’altro ci si possa immaginare da un posto del genere: più grave è il reato commesso, più tempo si a nel Centro. Il Centro è suddiviso in varie sezioni, a seconda dell’età, del sesso e del problema riscontrato nel rieducando, ma riguardo ai programmi riabilitativi non è noto assolutamente nulla. Quel che è chiaro è che i sottoposti ai trattamenti rieducativi, escono da quel posto completamente annichiliti, non parlano più, hanno lo sguardo ancor più vuoto di quanto non avessero in precedenza, sono assenti, i capelli rasati e si intravedono sempre cicatrici evidenti di elettrodi. Insomma, l’utilizzo dell’elettroshock è quasi un dato di fatto, per non parlare delle lobotomie e degli intrugli medici che solo la mente dell’Arconte sarebbe in grado di progettare. Usciti da lì, si è dei perfetti cittadini grigi nell’anima, grigi nel vestiario e grigi nella personalità. L’Arconte per evitare che tali incidenti possano capitare, e per far sì che la popolazione risulti il più omogenea possibile, ha imposto rigide leggi per controllare le nascite: ci si può sposare e si può procreare solo se della stessa altezza e solo se con lo stesso quoziente intellettivo. Il quoziente intellettivo legale è di 100, e chiunque ne abbia uno superiore, finisce nel collegio. La visione dell’Arconte Laurus III dunque prevede una popolazione uguale in ogni minima parte, nessuno deve differenziarsi dal resto del gruppo, e nel caso in cui lo faccia, finisce sempre e comunque in una zona rieducativa che lo fa tornare in poco tempo un “grigio”. Sembrano tutti Bocche di Leone, quelle piante a fiore appartenente alla famiglia delle Asteracee così fragili da spazzarle via con un soffio leggero, anch’essi grigi e piuttosto insignificanti a mio parere: “Bocche di Leone” in un “Giardino di Fiori d’Ottone”.
Un’altra trovata cromatica rientra nei piani dell’Arconte Laurus III: il suo esercito personale, infatti, è l’Armata dei Soldati Neri. Ne fanno parte elementi allevati sin dalla nascita al rigore e soprattutto all’insensibilità più assoluta al dolore degli altri, talmente evidente da non farli sembrare neppure esseri umani, considerando anche il grado di terrore che traspirano. Così come la popolazione grigia di Purplestone è plasmata a partire dal colore grigio, allo stesso modo le guardie nere sono allevate per essere, pensare ed agire in sintonia con il nero. Com’è ovvio, oltre alla chioma ed agli occhi neri, anche il vestiario è omologato cromaticamente. Gli addestrati sono sottoposti a un lavaggio del cervello che, visti i risultati, sembra essere molto più aggressivo rispetto ai centri di persuasione presenti nella città di Purplestone, tuttavia, in merito a pratiche e addestramenti, si hanno solo leggende in merito ai metodi di manipolazione che l’Arconte sperimenta costantemente in questi luoghi da brividi. Al di fuori della città si trova un altro cerchio di strutture, finalizzate esclusivamente all’educazione dei Soldati Neri: tali soldati, vestono interamente di nero, sono armati e un requisito fondamentale per poterne far parte è quello di avere gli occhi neri. Si suppone che l’armata dei Soldati Neri sia composta da eccezioni della città: infatti la quasi totalità dei cittadini, con l’andare delle generazioni sempre tenute sotto controllo, presenta colorazioni degli iridi di un azzurro tenue, per ironia della sorte tendente al grigio. I soldati neri sono le eccezioni genetiche degli accoppiamenti programmati e tutelati dalle varie leggi, oltre che dai “Funzionari dell’Accoppiamento”, prelevati fin dalla tenera età dai genitori e rinchiusi in centri specializzati, per far sì che diventino perfetti nella loro naturale inclinazione. Macchine da guerra umane, vestite di corpi statuari, volti bellissimi e dalla carnagione pallidissima. Al solo sfiorarli con gli occhi, una sensazione di appannamento perviene alla vista, un senso di umido corrode il corpo indigesto ai liquami putridi dei quali sembra quasi avvertirne l’odore nei pressi di uno di questi esemplari. Immaginando un Soldato Nero, tenendo gli occhi chiusi e dopo averne sfiorato la presenza anche a distanza di metri, torna a mente l’odore e la sensazione e il disgusto naturale. Un imprinting immediato al primo sguardo, rende chiaro quanto ognuno di questi individui sia squamoso nel profondo dell’anima. Uno scrigno di squame racchiude un cuore di melma, spurgo di una vita spesa
all’insegna della violenza, maschera di pusillanimità trasfigurata in temerarietà dal sapore gelatinoso, molle, acre. Doppia faccia all’apparenza trattenuta da vesti perfettamente ordinate e linde: ogni Soldato Nero è contenuto in arroganti e altezzose vesti di pelle nera. Ogni divisa comprende camicia, pettorina rinforzata, pantaloni attillati, stivali, tutti rigorosamente in pelle di Rasputinguo Famelis nero: la morte del fetido animale taurino, copre anche l’intimità dei Soldati, costretti a lasciare i genitali a ribollire in una disgustosa guazza salina. Il Rasputinguo Famelis nero è un animale pericoloso, che però attacca solo se al sicuro nell’ombra, in branco, alle spalle: ogni Soldato Nero eredita un pezzo di spirito rasputinguano, costretto negli abiti e costretto nell’anima, costretto a celare la meschinità e la codardia, dietro a un’impalcatura di pesante pelle nera. Purplestone è la città dei contrari che si incontrano alla fine: due squadre di automi, una grigia e l’altra nera, entrambe educate alla ività del colore vestito. Laurus III è il condottiero sadico di questo binomio annichilente, un’anima talmente timorosa dal non essere accettata, da aver costruito un impero basato su menzogne, follie e repressioni. Purplestone è la città del disgusto, la disgustosa città dal cuore viola, che di viola non ha più né un cuore, né altro.
La Drive Shaft Tower
Era l’inizio della stagione invernale e mi stavo dirigendo verso la città di Rottenmouth,in treno: stavamo attraversando una regione semi-deserta dove la ferrovia tagliava in due la triste landa desolata, mentre alla mia sinistra potevo scorgere, non molto distante, un piccolo aggregato di colline rocciose, che si innalzavano come un enorme porro si innalza sul mento di una vecchia. Viaggiavo in seconda classe, e nel mio vagone c’era un modesto silenzio dato che i miei compagni di scompartimento erano tutti impegnati: chi leggeva, chi regolava con precisione qualche marchingegno a molla, chi accarezzava il proprio bastone decorato. Amavo viaggiare in seconda classe per il silenzio e per la compagnia. Su un treno trans-regionale come questo, viaggiare in classe economica sarebbe stato un inferno: il borbottio costante delle famigliuole in cerca di una nuova vita, in un’altra landa desolata e il grugnire di qualche pistolero incallito, non mi avrebbero dato pace, ma d’altronde viaggiare in prima classe, non solo sarebbe stato eccessivamente oneroso per un semplice viaggio di lavoro come il mio, ma il tintinnare di bicchieri e tazzine da tè, coadiuvato alle false risatine dell’alta borghesia, mi avrebbe oltremodo disgustato. Avevo fatto conoscenza di Mr. Hugo Fishermann, un insegnante proveniente da Sud. Una mente brillante posta all’interno di una rotonda testa rosa e calva, impreziosita da dei profondi occhi azzurri posizionati immediatamente sotto a delle spesse ciglia pettinate all’insù. Portava una cravattina di velluto amaranto, ed un gilet di camoscio verde dal quale spuntava la sua rotonda pancia. Avevo attirato la sua attenzione quando mi ero proposto di aggiustare il suo orologio da taschino che si era bloccato e si stupì quando mi vide aggiustarlo lì, sul piccolo tavolo dello scompartimento, mentre il treno ci sballottava sfrecciando sui binari. In men che non si dica l’oggetto era nuovamente funzionante, e il pingue uomo scoprì i denti in una grassa risata, in un misto di approvazione e stupore. Fu quando arrivammo presso le colline rocciose di cui vi ho parlato in precedenza, che il treno si arrestò improvvisamente -Sicuramente adesso avranno bisogno di lei! - disse l’uomo panciuto e così ci incamminammo verso
la locomotiva, per vedere se ci fosse stato bisogno del mio aiuto. Scendemmo lungo i binari e quando arrivammo in testa al treno, vedemmo un gruppo di macchinisti intenti ad osservare un grosso, turpe buco sulla caldaia: evidentemente una riparazione mal effettuata, con le alte temperature aveva ceduto, e non potevo farci niente senza un pezzo di ricambio. I macchinisti erano perfettamente in grado di riparare il guasto, ma ci sarebbe voluto un bel po’: la caldaia avrebbe dovuto raffreddarsi, una saldatura ad hoc avrebbe tappato il buco e infine avrebbe dovuto esserci il lungo processo di ripristino dei valori standard della SDD Machine. che dava energia al treno. In sostanza non potevo farci niente, e avremmo dovuto aspettare almeno cinque ore: fu così che girando su me stesso sconsolato ad ammirare il paesaggio, notai qualcosa di strano persino per un deserto. Una lunga scia di carcasse animali perpendicolare alla ferrovia, proveniente dalle profondità del deserto, si dirigeva verso quelle sinistre colline rocciose: cumuli d’ossa di bisonti, cavalli e persino grandi mammiferi come il Mammuth del deserto rendevano lo scenario terrificante. Mr. Fishermann, notando con probabilità il mio stupore nei confronti di questo paesaggio alieno disse: - Signor Rezzonico, suppongo che lei non abbia mai sentito parlare della Drive Shaft Tower! Mi voltai verso il mio interlocutore con lo sguardo allibito: - Circa una sessantina d’anni fa, la leggenda narra, tra queste colline rocciose tre fratelli Fred, uno scultore; Hisaac, uno scienziato; ed Alan, un occultista, si unirono con un nefasto patto, il cui risultato è ciò che si cela tra quegli anfratti rocciosi. La chiamano la Drive Shaft Tower e nessuno sa quale sia la sua reale funzione: l’unica conseguenza provata è che qui viene a morire ogni tipologia di bestia, come dimostrano tutte quelle carcasse. Quando un animale sente che la sua ora sta arrivando, si stacca dal branco, e viene qui a morire La mia curiosità si infiammò e mi sentii in forze, bruciante di voglia di scoprire, come se avessi avuto venti anni in meno sulla schiena. Naturalmente il mio compagno di viaggio si rifiutò di seguirmi verso quella strana torre, ma questo non mi fermò, e anzi, il malcontento che si stava sollevando dai vagoni del treno per l’improvvisa fermata fu la motivazione definitiva per farmi incamminare verso le vicine colline, non prima di essermi assicurato che il mio compagno avrebbe fatto di tutto per trattenere il più possibile il treno prima del mio ritorno.
Seguivo le grandi impronte nel terreno screpolato che avevano lasciato quei grandi mammiferi e aggiravo le loro carcasse talvolta ridotte a bianchissime ossa, talvolta ancora putrescenti. Un odore nefasto si levava da quei cadaveri, e dovetti tapparmi il naso col mio fazzoletto in più di un’occasione. Gli unici altri esseri viventi intorno a me erano gli avvoltoi che volteggiavano sopra il fiero banchetto, e con disgusto vidi uno di loro staccare col becco l’occhio dalla carcassa di un asino, ma la mia estrema curiosità mi spinse a proseguire senza voltarmi indietro. Fu nei pressi di una carcassa di cammello, dal cui stomaco aperto usciva un fluido lattiginoso, che vidi circondata da una corona di colonne di roccia un’enorme struttura. Si trattava di una torre di pietra scura, divisa in tre sezioni che ruotavano su sé stesse l’una nel verso contrario dell’altra, producendo un suono grave, quasi impercettibile all’orecchio umano, ma potevo sentire la terra vibrare sotto ai piedi. In cima alla torre un’enorme a lastra a forma di mezza luna orizzontale, stava ferma e immobile senza ruotare come il resto della torre. Fu soltanto in quel momento che mi resi conto che per arrivare fin lì avevo dato fondo a tutte le mie energie, e crollai sfinito a terra. Come un getto di vapore imprevisto ed ustionante ti sfiora il volto ricordandoti quanto sia facile morire, allo stesso modo uno schizzo di acqua tiepida mi bagnò il volto risvegliandomi. Quando aprii gli occhi a porgere la mano per aiutarmi ad alzare fu un uomo dal volto scavato e segnato da cicatrici. Si presentò come Oliver Stone e ogni sua caratteristica fisica diceva tutto di lui, riguardo al suo essere un uomo provato dalla vita. - Sei venuto anche tu a morire in questo posto? - disse l’uomo brizzolato. - Veramente... no - risposi e spiegai al mio nuovo interlocutore che il motivo della mia presenza era solo la curiosità per quell’antico artefatto. L’uomo sembrava volenteroso di ascoltarmi ma anche di parlare, dato che con tutta probabilità non scambiava parola con nessuno da diverso tempo. Allorchè arrivai subito al dunque: - Devo supporre, quindi, che tu sia in questo posto aspettando di morire - dissi. L’uomo non esitò ad iniziare quello che si presentava come un tremendo racconto.
- Io ero il Comandante della Settima Legione Imperiale. Per 15 anni ho servito l’Imperatrice ed i miei superiori senza mai osare contraddirli, ma ho visto e fatto cose che non avrei mai voluto neppure pensare, fintanto che un giorno dovetti ammettere a me stesso che non stavo portando ordine nel nostro Impero, a dir la verità non stavo più neppure seguendo gli ordini della mia cara Imperatrice. Stavo soltanto obbedendo ciecamente alla crudele volontà degli Arconti. Mentre Stone parlava, notai che non stava guardando me negli occhi, ma osservava un punto imprecisato dietro le mie spalle, come se stesse rivivendo quei momenti. - La Settima Legione credeva in me, come io credevo in loro, e mi seguirono ciecamente nella mia ribellione contro il potere degli Arconti. Per sei mesi ho dato filo da torcere a quei cani bastardi, sabotando ogni loro azione bellica e mettendo a rischio l’intera struttura militare Imperiale: eravamo invincibili, determinati, e alle nostre file si aggiungevano ogni giorno giovani volenterosi, provenienti dai piccoli villaggi che liberavamo dall’oppressione maniacale degli Arconti. Ero accecato da una furia e una rabbia incontrollabile, che mi dava forza, sì, ma mi aveva fatto dimenticare ciò per cui lottavo. Fu così che gli Arconti mi sconfissero, ferendomi nel mio punto più debole. Vivevamo nascosti nel deserto, come nomadi iteravamo da una zona all’altra, con le nostre famiglie, in modo da non essere vulnerabili, ma il mio Primo Ufficiale Jakob Bane ci tradì, rivelando la posizione dell’accampamento al temibile Arconte Vodlak. Questi tenne impegnati me e i miei uomini in uno scontro frontale sulle colline della Valpurma. Sterminammo i suoi uomini, ma quando facemmo ritorno all’accampamento questo era stato attaccato. Priscilla, la sorella di mia moglie, mi corse incontro e mi parlò in un modo strano, quasi non avesse il coraggio di pronunciare le parole che aveva in mente. Mi guardai intorno e tutti avevano una strana espressione sul volto. Quando il Sergente Brown venne incontro a me per fare il resoconto della situazione in relazione all’attacco, mi disse che una sola tenda era stata bruciata, la numero 21. Gettai a terra tutto quel che avevo in mano e corsi verso il centro dell’accampamento, dove vidi il nero scheletro della tenda numero 21, adagiato a terra come la spoglia cassa toracica di quel Mammuth del deserto; nel mezzo a questo vi erano i corpi carbonizzati e irriconoscibili di mia moglie e mio figlio,
abbracciati l’un l’altra nel momento della morte. Gridai verso il cielo, lanciando l’urlo più straziante di tutta la mia vita: l’Arconte Vodlak aveva appena sconfitto ed ucciso il suo più acerrimo nemico. Di tutto l’accampamento, lui aveva distrutto solo quella tenda e ucciso solo quelle due persone: la mente calcolatrice e malvagia dell’Arconte era in effetti infallibile. Abbandonai i miei uomini la sera stessa, li abbandonai al loro destino, e non ho mai saputo quel che è successo alla VII Legione Imperiale da quel momento in poi: non è affare mio, non ho più un codice di onore, non ho più niente, perchè in effetti io sono morto. È vero, respiro ancora, ed è per questo che sono qui, in questo luogo di misera desolazione, per aspettare che la Morte finalmente mi prenda. Ma … non ci sto riuscendo, non capisco perchè … io sia ancora vivo. Non capisco cosa ancora la Morte possa volere da me dopo che mi è stato già portato via tutto. Avrei solo bisogno di poche risposte, che solo lei può darmi … ma Ella rimane … in silenzio Terminò così il suo straziante monologo; rimase a fissare la Drive Shaft Tower, il grave suono che emetteva risaltò di nuovo alle mie orecchie. Il silenzio che ne seguì fu imbarazzante, non sapevo che dire ad un uomo in quelle condizioni, poi quasi senza volerlo dalla mia bocca uscirono quelle parole : - Se la Morte non ti vuole, forse è perchè ha per te in servo ancora qualcosa Al pronunciare di questa frase l’uomo sgranò gli occhi, come risvegliato dal torpore nel quale era sprofondato e in quel momento sentii in lontananza l’acuto fischio del treno, che preannunciava l’imminente messa in moto. E così mi affrettai per la strada del ritorno, lasciando Oliver Stone in quella oscura valle. Il viaggio verso Rottenmouth si concluse senza ulteriori intoppi, ma sebbene all’inizio della stagione invernale le temperature non fossero ancora così fredde, una sensazione di gelo mi rimase nelle ossa per diversi giorni.
Hashshashin
Quando lavoravo in giovane età nella capitale, avevo bisogno di molto denaro per poter pagare l’affitto del mio laboratorio, e nei momenti in cui le commesse imperiali calavano mi ritrovavo a fare i lavoretti più strani, come la riparazione di armi di contrabbando. Quella volta il mio strano cliente non venne nel mio laboratorio, lo incontrai su un dirigibile, mentre mi dirigevo a Buckingstone: mi ritrovavo a poppa del grande scafo sorretto dall’enorme pallone. Le quattro eliche laterali giravano timidamente, facendoci spostare ad una velocità costante sopra quel piccolo lago artificiale. Un fumo bianco si levava dalla ritorta ciminiera a forma di bocca di macaco e il pilota era un vecchio militare senza un occhio, che negli anni si era specializzato nel contrabbando di merci rubate, oltre che nel trasporto di persone. Un gran combina guai e attaccabrighe, ma del resto era un eccellente pilota. Non si poteva dire lo stesso, però, riguardo la manutenzione del suo dirigibile e più di una volta avevamo rischiato un ammaraggio se non ci fossi stato io a preoccuparmi del guasto. Così ero intento a osservare attentamente lo sbocco della caldaia a poppa, poiché mi pareva di sentire uno strano rumore: una ragazza dai tratti mediorientaleggianti, ma vestita con abiti maschili, di fattura piuttosto inusuale mi si avvicinò, aveva il volto coperto, e solo i suoi bellissimi occhi si mostravano. - So che lei è un abile ingegnere e che è in grado di riparare praticamente tutto - È vero signorina - risposi. - Avrei bisogno che lei desse un occhiata a questo, ma non deve aprirlo finchè non si trova da solo nel suo laboratorio - disse porgendomi uno strano cilindro di legno, dal diametro di non più di 15 centimetri, e lungo quasi due metri, avvolto in un lungo laccio di seta.
Ero intento a guardare l’oggetto, quando la signorina disse: - Ci vediamo qui, tra una settimana esatta. Quindicimila le bastano? - A-altro che! - borbottai voltandomi verso di lei, ma la misteriosa signorina era già scomparsa. Arrivai al mio laboratorio che non stavo più nella pelle per la voglia di scoprire cosa stava dentro al cilindro: sciolsi con cura il laccio di seta e aprii lentamente la custodia. All’interno vi era un meraviglioso fucile dalla fattura esotica; si trattava di un’arma lunga 183 centimetri, dalla canna e l’impugnatura estremamente sottili ed era tutta minuziosamente intarsiata di arabeschi. Non era un’arma convenzionale, la sua peculiarità era quella di funzionare senza l’uso di proiettili solidi. La camera di decompressione sfruttava la bassa densità di un gas nobile, contenuto in una piccola fiala che veniva agganciata vicino all’impugnatura. Una bolla di gas veniva quindi proiettata verso il bersaglio a una velocità ultrasonica, andandolo a colpire con una forza invisibile. Sicuramente la forte decompressione avrebbe ridotto in pezzi la fiala. Era un’arma prodigiosa, ma purtroppo senza manutenzione da troppi anni: del resto dubito che ben pochi in questa città sarebbero riusciti a capirne il solo funzionamento. Sostituii cinque delle sei valvole della camera di saturazione, la molla di recupero era andata e un detrito otturava la parte del canalino di areazione ritardata. Quell’arma era così straordinaria che nel poco tempo che mi rimase cercai di ricavarne un disegno, magari per poterla ricostruire in futuro, ma tutt’ora ci sono dei punti oscuri che non riesco a comprendere. Esattamente una settimana dopo mi ritrovavo di nuovo lì, sul ponte della nave dirigibile, a guardare il panorama sottostante. Sentii una mano femminile posarsi sul mio fianco e una soave voce che riconobbi immediatamente, mi sussurrò all’orecchio: - Ingegner Rezzonico, è riuscito nel suo lavoro? - Sì - risposi pietrificato dalla lama ricurva che sentii appoggiarsi sul costato Suppongo che come sempre Lei abbia fatto uno splendido lavoro. - disse, facendomi scivolare nelle tasche un rotolo di banconote. Quando mi girai il cilindro era scomparso, così come la misteriosa signorina.
Pensai che non avrei più sentito parlare di lei, ma ati pochi giorni uno strano articolo di giornale mi incuriosì: “Misterioso assassinio in via Glotch”. Un membro dell’alta borghesia, conosciuto e discusso per la sua intraprendenza imprenditoriale, nel momento in cui stava per firmare un contratto di usufrutto per scopi industriali di una regione paludosa a Sud - Ovest di Brockville, era stato colpito e traato da parte a parte da un misterioso proiettile che sembrava scomparso nel nulla, dopo avergli forato il cranio. Nella postazione dove secondo i calcoli balistici sarebbe stato appostato il killer, non era stata trovata alcuna traccia dagli Investigatori Imperiali, se non tre microscopici frammenti di vetro, che gli stessi non sono riusciti a mettere in relazione in alcun modo con l’omicidio. Per me naturalmente non era affatto un mistero né che cosa fosse accaduto e né chi fosse stato a compiere tale omicidio, ma non mi ò per la testa neppure per un istante di andare a depositare la mia testimonianza agli inquirenti, poiché temevo che uno stesso proiettile invisibile mi avrebbe forato il cranio non appena fossi uscito dal commissariato. Li chiamano Hashshashin e sono killer specializzati provenienti dall’oriente, così a oriente da essere fuori dalla dominazione dell’Impero: sappiamo pochissimo di quei posti se non che siano dominati dal Califfo Bianco, considerato praticamente un semidio dai suoi sudditi, senza che nessuno sappia quanto questa affermazione sia distante dalla verità.
Il Treno Sottomarino
Puntuale come al suo solito udii il fischio della corriera a vapore, alle 11 del mattino, né un minuto prima né un minuto dopo: mi divertivo solitamente a scommettere con me stesso e il mio orologio da taschino sull’ora alla quale sarebbe arrivata, stupendomi sempre di quanto riuscisse a essere puntuale. Quando arrivai alla piazza centrale, la corriera stava già ripartendo. Era un grosso cingolato color ottone con una lunga e affusolata caldaia, che sovrastava tutta la parte frontale. Era un mezzo corazzato pieno di spuntoni acuminati, capace di trascinare via una qualsiasi carovana: al suo interno viaggiavano i messaggeri imperiali scortati da due guardie imperiali armate fino ai denti, dotate persino di due enormi mitragliatrici a vapore collegate direttamente alla caldaia centrale, una potenza di fuoco capace di spazzar via qualsiasi strana creatura del deserto e, naturalmente, difendersi dagli attacchi dei copiosi gruppi di pirati della sabbia. Del resto quel mezzo doveva raccogliere le tasse e portare gli avvisi imperiali in tutta la regione. Dopo aver consegnato il mio modulo per la tassazione C2824 e il relativo onere, ricevetti oltre alla ricevuta la gazzetta imperiale semestrale, periodico redatto nella capitale che annunciava a tutti gli importanti eventi della vita dell’impero. Solo un articolo però riscosse la mia attenzione: Catturata la Settima Legione, spezzato il fronte ribelle. Le forze imperiali del capitano Jakob Bane, sostenute dall’Arconte Vodlak, sono riuscite nell’intento di catturare la legione ribelle numero VII. Dopo la sconfitta dell’ex capitano Oliver Stone, a capo delle forze ribelli, la Settima Legione è stata abilmente catturata dalle forze Imperiali, nel Canyon Penada:i ribelli sono stati condotti nella capitale, dove sono stati processati per direttissima e condannati ad una singolare pena ideata dai membri della Corte di Ferro, simpatizzanti dell’Arconte Vodlak. I membri della legione si trovano adesso sigillati nel treno sottomarino Nautilus. Come i nostri lettori ricorderanno il progetto del treno sottomarino Nautilus doveva collegare le due coste dell’Arcipelago Di Sturbia creando un collegamento veloce tra le piccole isole e la terra ferma, ma il progetto non fu mai completato a causa dell’intensa attività
vulcanica dell’Arcipelago. Il treno Nautilus è rimasto inutilizzato sul fondo del mare per circa tre anni ed ora è stato adibito a prigione permanente per la Settima Legione: il treno ovviamente non ha possibilità di movimento essendo ancorato sul fondo del mare ed è collegato con la superficie solamente per il rifornimento di ossigeno, il rifornimento alimentare ed un collegamento ad un vibrafono. Il progetto dell’Arconte e dei suoi sostenitori è quello di punire i ribelli rendendoli un monito costante per chiunque abbia l’intenzione di ribellarsi al nostro glorioso Impero. È così possibile osservare il Nautilus da vicino tramite visita guidata sottomarina recandosi al molo 7 del porto di Downwitch. Non riuscii a dormire quella notte pensando alla storia di Oliver Stone e del suo infausto destino. Ero combattuto, dato che nonostante io sia un imperterrito sostenitore dell’Impero, non comprendo come mai la nostra Imperatrice lasci che gli Arconti si comportino come crudeli sovrani, quando il loro ruolo dovrebbe essere solo quello di riferirle le problematiche delle loro zone di controllo. La mia fede nell’Impero è forte e nessuno potrebbe governare meglio dell’Imperatrice, nata ed educata con questo scopo, però comprendo alcune delle motivazioni dei ribelli, e sono conscio dell’eresia che sto dicendo. Ma capisco la loro rabbia nei confronti degli arconti e delle malefatte che compiono e non mi stupisco di come uomini giusti come Stone si siano ribellati dopo aver visto da così vicino le più crudeli malefatte e aver dovuto eseguire i più disempatici ordini. Dovevo saperne di più, o almeno vedere che fine aveva fatto la Settima Legione e dato che non riuscii a dormire utilizzai la notte per preparare un piccolo bagaglio e partire la mattina successiva verso Downwitch con la prima carovana. Downwitch era una piccola e inutile cittadina portuale piena di grassocci marinai, come ogni città di mare, non aveva alcuna attrazione ed era totalmente decadente, priva di vita. Provavo una sensazione raccapricciante a stare lì, come in preda ad una nausea costante. Il piccolo porto malandato ospitava vecchie carcasse del mare ancora utilizzate come pescherecci: si trattava di vecchi incrociatori imperiali dalla vetusta
tecnologia riadattati per la pesca, ma si potevano ancora intravedere le pesanti lamiere incrostate, i boccaporti per i cannoni e il buffo motore a ruota ormai in disuso data la sua difficile manutenzione e il fatto che fosse facilmente sabotabile. Si potevano intravedere perdite di liquido radioattivo, probabilmente sali di cerio mescolati a refrigeranti, e non mi sarei tuffato in quelle acque nemmeno per tutto il platino del mondo. Quando arrivai a quello che si presentava come il Museo della Soppressione dei Ribelli, questo appariva come l’unico edificio costruito recentemente a Downwitch: era una cupola marmorea che si affacciava direttamente sul mare, nel bel mezzo del porto, e sopra lo stipite della porta vi era un’enorme scritta in ottone lucente: Sempre schiacceremo la disobbedienza. Vi erano pochissimi visitatori e lungo le pareti interne della struttura, erano scolpite nella pietra, come se fossero state gesta eroiche, le azioni militari che avevano portato alla cattura della Settima Legione: erano state inscritte come se già appartenessero alla storia quando in realtà erano accadute da pochi mesi, ed evidentemente le incisioni riportavano eventi mai accaduti, o banali ma gonfiati all’ennesima potenza, con una presunzione degna soltanto dell’arconte Vodlak. Al centro del complesso vi era la biglietteria, grazie alla quale si accedeva per mezzo di una lunga gradinata, a un buffo sottomarino a forma di carpa, una grande carpa d’ottone, ricoperto di oblò ampi su entrambe le fiancate. Uno strambo capitano zoppo e dal volto mal concio, era stato imbellettato con abiti nuovi di zecca, ma che di certo non erano sufficienti a garantirgli un aspetto né un odore gradevoli. Io e gli altri pochi visitatori salimmo a bordo, e lentamente il sommergibile si inabissò; il capitano anziché spiegarci e illustrarci il complesso, lesse quello che probabilmente avrebbe dovuto sapere a memoria, in modo svogliato e cantilenante. Seguimmo i binari che correvano lungo il fondale marino e arrivammo al maestoso treno sottomarino, adagiato sul fondo, immobile da anni: era un mezzo slanciato a sezione triangolare, un tempo doveva essere di splendido ottone lucido, mentre adesso sembrava soltanto una carcassa ricoperta di alghe. Non si scorgevano né oblò né luci provenienti dall’interno, niente
lasciava intuire che un’intera legione fosse rinchiusa dentro quel treno che sembrava infinito. Solamente quando ci avvicinammo a sufficienza da far sentire agli abitanti della prigione il rumore dei nostri motori, ricevemmo come risposta un sordo colpo sulla lamiera del treno che mi fece sobbalzare. Riemergemmo dall’oscurità del fondale marino, insoddisfatto scesi dal sottomarino furioso per aver compiuto un così lungo viaggio e non aver visto un bel niente, quando il capitano ci indicò la tappa successiva della visita. Vi era una grande veranda in vetro, che prima non avevo notato: questa puntava verso il mare e il capitano ci mostrò le strumentazioni che permettevano di tenere in vita i prigionieri. Una prima grande tubazione emergeva dalle acque, andando a collegarsi a una grande ventola posta sul tetto della cupola esterna: quello era il sistema di areazione che consentiva il ricambio d’aria dentro la prigione. Un secondo tubo, parallelo all’altro, emergeva dalle acque e arrivava al centro della veranda; il capitano ci mostro come la dose giornaliera di cibo arrivava ai prigionieri: arrivarono due rivoltanti cuoche, trascinandosi dietro un enorme calderone, contenete un nauseabondo minestrone che nel migliore dei casi poteva essere fatto di ratti e verdure marcescenti. Un argano sollevò il pentolone e riversò il contenuto nella tubazione, dalla quale per lo sbalzo di pressione, uscì un odore simile a quello delle fogne. Vi era un ultimo strumento, che il capitano ci mostrò a malapena: si trattava di un robusto filo metallico che teso usciva dalle acque andandosi a collegare a un grande padiglione di rame. Evidentemente eravamo di fronte ad un grande vibrafono. Il capitano proseguì il giro del museo illustrando attraverso manichini e disegni, le scene più che pompate della battaglia, e io colsi l’occasione per fare esattamente ciò per cui ero venuto qui. Allontanandomi dai visitatori mi avvicinai al vibrafono, e sussurrai in esso per sentire se effettivamente qualcuno fosse all’interno del treno: mi rispose una voce rantolante, che si presentò come il Sergente Ronald J. Robinson. Colsi l’occasione per chiedere al sergente se qualcuno si era salvato all’imboscata che li aveva catturati, e parlai anche del loro capitano Oliver Stone.
Purtroppo ricevetti una risposta che non mi sarei mai aspettato. - La prego mi descriva il colore del sole, il colore del mondo luminoso e della luce del sole. La prego mi descriva anche il calore del sole sulla pelle e l’odore dell’aria pulita. Io non ricordo più niente di tutto questo, il sole com’è? Verde? Giallo? Non ricordo. Forse è Giallo? No, no sono sicuro che sia verde. Io amo il sole, vorrei baciare il sole, abbracciare il sole, credo di averci fatto l’amore una volta e ci siamo amati. Anche a lei piace il sole vero? A me piace tanto il sole, e credo che il suo ricordo sia l’unica cosa che non mi fa impazzire stando qua sotto. I miei compagni, vede, loro sì che sono pazzi! Sono arrivati a mangiarsi tra di loro, mentre io vorrei solo amare di nuovo il sole. Disprezzo i giorni in cui ho odiato il sole, perchè io lo amo il sole, lo voglio annusare, amo la sua luce, lo voglio percepire, toccare ed abbracciare. Anche baciarlo, perchè io amo il sole. Torna a casa Ronald, torna a casa. Dai Ronald, torna a casa, che forse non è del tutto bruciata Mi allontanai tremante dal vibrafono, mentre quell’uomo continuava col suo delirio, e feci ritorno verso la mia città il più in fretta possibile, turbato, per quanto gli Arconti fossero in grado di distruggere le menti degli sfortunati che vi si imbattevano.
La Fossa del Terrore
La storia della VII Legione e del suo capitano mi turbava profondamente: anche io ero stato un soldato in giovane età, ed avevo visto con i miei occhi cosa significasse essere arruolato in una legione imperiale e quali atrocità fossero all’ordine del giorno. A ventidue anni militavo nella XXIV legione come addetto alle comunicazioni e riparazioni, e non dimenticherò mai quell’evento che portò la quasi totalità dei miei compagni alla morte. All’epoca era ancora in vita l’Arconte Nicodemus, un fanatico con un ato da inquisitore: era fissato con la purezza della specie umana, e pertanto non tollerava l’esistenza di mutanti. Le radiazioni che avevano invaso il nostro mondo negli anni successivi al grande impatto, avevano generato una miriade di mutazioni, sia nella specie umana che nel mondo animale: non era difficile incontrare scorpioni, millepiedi e cavallette giganti, né imbattersi in grossi ratti masticatori di teste. Anche fra l’uomo vi erano le più svariate mutazioni, dalle più banali, come un dito in più nelle mani e nei piedi, alle più aggressive, come lunghe gambe deformi, quattro arti superiori, bocche sovraffollate di denti acuminati, code e mani palmate. Questi individui erano normalmente esclusi dalla società e nel migliore dei casi venivano abbandonati sin dall’infanzia nel deserto: un numeroso gruppo di questi mutanti, si era accampato stabilmente nel cunicolo di grotte naturali di Canoseye, complesso accessibile tramite un’enorme voragine nel terreno. Questierano talmente numerosi da costituire una minaccia per le vicine città imperiali, ma la miccia che fece scattare l’Arconte Nicodemus,fu quando venne a sapere che il dottor Fangus McNeal era loro capo. Il dottore era stato un notissimo chirurgo imperiale, fino a quando, lo stesso Arconte Nicodemus, non scoprì che questi era un mutante. Egli possedeva infatti sei dita dei piedi, una mutazione irrilevante per quanto mi riguarda, ma sufficiente all’Arconte per montare una campagna di diffamazione contro il dottore, fino a portare al suo esilio ufficiale dalle terre dell’Impero. L’Arconte mosse con un gruppo di forze immani, rispetto a quella che era la minaccia, e ci condusse a Canoseye: in superficie non vi era traccia di mutanti,
poiché si nascondevano nel sottosuolo. L’unica via di accesso conosciuta era il grande squarcio nel terreno che dominava la zona. L’Arconte fece costruire sul posto un vasto sistema di carrucole che avrebbero permesso ai soldati, al momento dell’assalto, di entrare nella fossa uno dietro l’altro facendo irruzione così nel covo dei mutanti. Il mio compito principale era quello di addetto alle comunicazioni tra la mia posizione in superficie nel campo base, circondato da ufficiali, e l’altro addetto alle comunicazioni, il Sergente Karl Freud che invece avrebbe dovuto calarsi assieme ai soldati. La comunicazione era stabilita per mezzo di un vibrafono tubulare a stadi, del quale dovevo controllare che la pressione all’interno di ogni stadio si mantenesse costante. L’attacco in massa era previsto per mezzogiorno del dì successivo, i soldati furono muniti di lanterne ad acetilene e, con mio grande stupore, di capsule di cianuro per il suicidio volontario, non presenti nella dotazione standard imperiale. Giunta l’ora, le prime a calarsi, furono le truppe Avanguardiste, che ci informarono dell’impressionante quantità di cunicoli che si diramavano nel sottosuolo, e dell’apparente assenza di bersagli nemici. Ricordo ancora vividamente come uno degli ufficiali esordì: - Devono essere là sotto quelle bestie! Dobbiamo stanarli a tutti i costi! Fate calare il resto delle truppe! E così fecero: a poco a poco tutti si inabissarono nelle profondità della terra, fin quando solamente il personale di o fu l’unico a rimanere in superficie. I momenti successivi furono confusi e caotici,e ho difficoltà a ricordare con che precisione avvennero i fatti, quel che è certo è che la XXIV legione fu vittima di un’imboscata. Non appena le luci ad acetilene inquadrarono quegli angoli bui, nelle grotte dove i mutanti si stavano nascondendo, un’orda di mostri completamente a loro agio nelle tenebre, si avventò sui giovani soldati, massacrandoli. Ricordo ancora come il Sergente Karl Freud tentò di descriverci la situazione e la sua voce terrorizzata ci raccontò degli abomini che si trovavano là sotto: non solo mutanti reietti della società, ma un vero e proprio esercito assemblato dal dottor Frangus McNeal. Creature nate dalla fusione di altri esseri, cucite insieme dall’abile mano del dottore, giganti di carne senza volto, trainati da umanoidi privi di arti inferiori, che si trascinavano sui gomiti; donne con le palpebre cucite e gli arti superiori asportati, che come avvoltoi si nutrivano dei cadaveri dei caduti ed altri scempi contro natura che non oso nemmeno ricordare.
Quando gli ufficiali capirono che non vi era speranza di successo, fecero ritirare gli argani che avevano permesso ai soldati la discesa e che ne avrebbero consentito la risalita condannando così tutti quei poveri disgraziati a morte certa.Gli spari e le urla strazianti, continuarono invano per lunghi minuti, e alla fine anche la voce del Sergente Karl Freud si zittì con un rantolo gorgogliante di sangue: il cavo del vibrafono venne sganciato e gettato all’interno della fossa, e fu l’ultima cosa che vi entrò, prima dell’ordine di sgomberare immediatamente il campo di battaglia. Ho ancora incubi per quelle urla, nonostante non abbia visto neppure una goccia di sangue, e un brivido di terrore mi percorre la schiena ogni volta che scorgo il tatuaggio sul mio braccio destro. “XXIV - 466791”
Il Juggernaut
Ho appena fatto ritorno da un viaggio durato due settimane nella Capitale del nostro Impero, New Sion, e credo che siano accadute più disgrazie in questi pochi giorni a me, di quante non ne possano accadere in un’intera vita. Entrando nel mio laboratorio ho sbarrato la porta alle mie spalle e mi sono nascosto nel sotterraneo, il mio rifugio dall’accesso ben celato: qua sto scrivendo quelle che potrebbero essere le mie ultime memorie dato che da un momento all’altro degli ufficiali Imperiali potrebbero irrompere nell’edificio. Tutto è cominciato quattordici giorni fa, quando una missiva in carta pergamena, con tanto di sigillo Imperiale, mi comunicava che avrei dovuto presentarmi come testimone presso la Corte di Ferro, per l’udienza fissatail 17 aprile. La missiva non mi informava di altro, se non che se avessi rifiutato di presentarmi sarei incorso in un reato penale di secondo grado, per il quale era di norma prevista l’incarcerazione, che usualmente, viste le condizioni delle prigioni imperiali, equivaleva a una morte certa. Ero costretto a partire, lasciando tutti i miei progetti e le mie riflessioni a metà. Durante il viaggio non feci altro che pensare a quale sarebbe potuto essere stato il motivo della mia convocazione a testimoniare e speravo di risolvere il tutto nel minor tempo possibile. Per arrivare a New Sion dovevo cambiare treno nella città di South Vorsorge, il luogo in cui ho vissuto la mia infanzia. Non vi era più niente della città come la ricordavo, poiché dieci anni prima era stata rasa al suolo da una tremenda incursione da parte di un vasto gruppo di Pirati della Sabbia. I miei genitori all’epoca erano già morti, e i miei fratelli dispersi in tutta la regione come una diaspora, fortunatamente quindi non persi nessun affetto, anche se i luoghi della mia fancullezza furono distrutti. Avrei dovuto aspettare la coincidenza in quella città per due ore, così decisi di andare a visitare il luogo in cui sorgeva la mia casa, ma era tutto profondamente cambiato e non riuscivo a riconoscere neppure una via. Non trovai niente di
familiare, né un qualsiasi elemento che mi ricordasse la vecchia Vorsorge, eccezione fatta per quello strano e stretto altopiano di tufo che affiancava la città a ovest, dove giocavo da bambino: mi tornò così alla mente anche un evento che credevo di aver quasi del tutto dimenticato. Avevo circa dieci anni quando con i miei amici più fedeli Artur e Joshua, giocavamo a fare gli esploratori e avamo le nostre giornate a nasconderci dagli adulti. Il posto dove amavamo più giocare erano le pendici di quello strano altopiano: le sue pareti ripide e le insenature nascoste erano il luogo perfetto dove nascondersi, ma un’estate scoprimmo una grotta che scendeva nel cuore dell’ammasso roccioso. Riuscivamo ad inoltrarci nella grotta solo per qualche decina di yard, poi la paura era troppa e tornavamo sempre indietro. Un giorno Artur riuscì a rubare a suo padre una grossa lanterna a olio e così arrivò il momento di far valere il nostro coraggio e ci inoltrammo con incoscienza nella grotta. Dopo quello che sembrava un interminabile tragitto, le pareti della grotta si trasformarono in un aggio in muratura, poi il corridoio si diramò in un vero e proprio labirinto. Ci perdemmo. Volevamo soltanto uscire da quell’inferno e l’unica idea che ci venne in mente fu quella di seguire la rete di condutture che costellavano il soffitto, e fu così che arrivammo in un’enorme sala. La grotta naturale si apriva in un lago sotterraneo e lungo tutto il perimetro del bacino vi era un pontile in metallo sul quale erano presenti decine e decine di quelli che sembravano antichi macchinari agghindati di polvere e incrostazioni. Grandi tubi e cavi si immergevano nelle torbide acque: ci avvicinammo al bacino e illuminandolo ci parve di scorgere qualcosa di enorme sotto il pelo dell’acqua. Io ero terrorizzato da quell’ambiente e con me anche Artur, ma Joshua, il più spaccone tra di noi (pace all’anima sua!), era sovreccitato, tanto da correre a destra e sinistra tra un macchinario e l’altro. Credo cercasse qualcosa da sgraffignare, o semplicemente la sua sconsiderata curiosità lo portava a tocchicciare ovunque, premeva pulsanti e abbassava leve: io e Artur provammo a intimargli di fermarsi, perchè non sapevamo cosa sarebbe potuto succedere se avesse continuato ad armeggiare, ma proprio mentre
stavamo per finire la frase Josua tirò giù un interruttore automatico. All’improvviso flebili luci gialle tremolanti si accesero lungo tutto il perimetro del lago, e uno strano brusio metallico affiorò dal silenzio che lo aveva preceduto. I macchinari si illuminarono e partì quello che sembrava un conto alla rovescia: in tutto questo noi rimanemmo pietrificati dal terrore, tutto sembrava poter esplodere da un momento all’altro. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Dal cuore del lago cominciarono a uscire sbuffi di vapore e una strana luce verdastra sotto il pelo dell’acqua si intensificava sempre di più: un mastodontico gigante di metallo riversava supino nelle acque del lago e stava lentamente emergendo. Artur mi afferrò per un braccio e mi tirò via, lungo la strada da cui eravamo arrivati: iniziammo a correre in preda al panico e riuscii solo a voltarmi un’ultima volta. In quell’occasione vidi solo un’ unica luce rossa divampare dal petto dell’immenso mostro. Non so per quanto corremmo ma alla fine riuscimmo a ritrovare la strada del ritorno, e uscire finalmente dalla grotta. Non vi entrammo mai più e giurammo di non dire niente mai a nessuno.
La Corte di Ferro
L’ora della coincidenza per New Sion era giunta e mentre ci allontanavamo sui binari da Vorsorge osservavo il grande altopiano rimpicciolirsi, senza riuscire a smettere di pensare a quali nefaste tecnologie potevano celare le sue profondità. New Sion era una metropoli splendida, la più evoluta e tecnologica dell’intero Occidente: a dominare il cielo le sue alte torri, dove la più maestosa rappresentava il simbolo dell’Impero. Sto parlando del Pinnacolo dell’Imperatrice, un’austera costruzione marmorea, dalla cui vetta l’Imperatrice ci ha sempre osservato e protetto. La città aveva una pianta circolare ed era organizzata ad anelli: vi erano molti modi per spostarsi al suo interno. Una rete di monorotaie sospese collegava i punti nevralgici della città, mentre il traffico di carrozze e vetture a vapore intasava giorno e notte le vie di ogni quartiere. Ma il mezzo da me prediletto, che, anche se costoso e pericoloso, permetteva di evitare il traffico, era l’areostato motorizzato. Ne giravano a centinaia, come avvoltoi sopra i cieli di New Sion, attraccando nei più improbabili e improvvisati aeroscali, dai nobili col proprio dirigibile personale che sbarcavano sulla cima delle loro torri, ai dirigibili a tassametro che sbarcavano su qualsiasi appiglio immaginabile, la maggior parte delle volte sui tetti delle abitazioni. Negli anelli più esterni della città erano situate le grandi fabbriche, il nervo produttivo della metropoli. A est si trovava la baraccopoli che ospitava la manodopera di basso livello che animava la produzione industriale. Avvicinandosi al centro della città si trovava il quartiere della media borghesia, ed addentrandosi ancor di più verso l’interno si innalzavano come sequoie di cemento le torri dell’alta borghesia e della nobiltà, continuamente in lotta fra di loro per dimostrare, tramite l’altezza delle loro costruzioni, il loro maggior prestigio. Successivamente si arrivava al bianco confine del cerchio interno, delimitato da enormi colonne di alabastro che racchiudevano tutte le strutture legate al funzionamento burocratico dell’impero, dal Gabinetto dell’Alta Tecnocrazia, all’Accademia della Regione Imperiale, ando per l’Archivio Notarile di Stato, fino all’enorme Biblioteca Boltzmanniana.
Le due strutture più grandi del complesso erano il Tribunale della Corte di Ferro ed il Pinnacolo dell’Imperatrice. Il Pinnacolo era un’enorme torre di marmo del diametro di 200 yard, con un’unica maestosa entrata: la torre era completamente priva di finestre fino alla sua cima, dove si apriva una grandissima terrazza sulla quale si affacciava la vera e propria dimora della Sacra Imperatrice. Le fondamenta della torre affondavano nei meandri della terra fino ad arrivare a una sorgente geotermica, che attraverso enormi vaporodotti alimentava non solo l’intero Pinnacolo, ma la stessa intera città. Il Tribunale della Corte di Ferro assomigliava a un’enorme cattedrale piena di guglie e archi ed era lì che ero diretto, dove ad attendermi era il mio destino. Non avevo mai varcato la soglia dell’enorme struttura. Nonostante l’esterno fosse di un luminoso e rassicurante color bianco, l’interno si presentava buio e piuttosto minaccioso: le enormi vetrate visibili dall’esterno erano tutte oscurate, e le uniche luci provenivano da bassi candelabri sparsi un po’ ovunque, che non riuscivano a illuminare a sufficienza l’alto soffitto. Nell’ambiente dominava uno strano silenzio e vi erano centinaia di persone sedute immobili su panche simili a quelle di un’antica cattedrale del vecchio mondo. Chiesi informazioni alla prima persona dal volto amichevole che vidi, ma questi mi rispose con un sonoro “Shhhhh!”, indicandomi un vistoso cartello che non avevo notato, con su scritto: “È vietato parlare. Per l’accettazione dirigersi infondo alla sala”. È così feci. Di fronte all’entrata le panche si disponevano a formare un largo corridoio che portava a una costruzione marmorea, quasi fosse un edificio dentro l’edificio; mi diressi verso questa struttura la cui entrata era protetta da due alte guardie vestite di velluto scarlatto, e dal volto coperto da un grande elmo di rame. Imbracciavano due possenti e strane alabarde, le cui lame erano sostituite da spesse catene dentate, azionate da un motore a vapore. Varcai la soglia del piccolo edificio, una buia saletta che ospitava una grande scrivania piena di scartoffie e pergamene, dietro la quale un curvo vecchio mi stava aspettando. Mi presentai, e l’uomo senza nessun convenevole, mi porse
una piccola pergamena recante le mie credenziali ed un codice identificativo, dicendomi poi di dirigermi verso il varco numero 9, dove avrei dovuto aspettare il mio turno. Aspettai per due ore senza parlare con nessuno, finché l’annunciatore non urlò il mio numero: mi diressi verso di lui e attraversata la soglia del varco numero 9, l’apparente calma si interruppe poiché due guardie mi presero violentemente e mi spintonarono per una buia scalinata sotterranea. Fu in quel momento che cominciai a temere per la mia incolumità: non sapevo perché fossi lì e due guardie mi stavano già praticamente trascinando come il peggiore dei pirati del deserto verso non so dove. La lunga scalinata si trasformò in un tetro corridoio scavato nella roccia: finalmente però una luce in fondo al lungo tunnel segnava il nostro arrivo, si trattava di una grande sedia in legno illuminata dall’alto come se fosse stata in fondo ad un pozzo, sulla quale le guardie mi invitarono a sedermi chiudendo alle mie spalle un cancello di ferro. Visto che non mi rimaneva altro da fare se non sedermi su quell’inquietante trono, rassegnato obbedii, una scelta fra le peggiori della mia vita dato che non appena appoggiai la schiena, delle cinghie automatiche mi bloccarono mani, piedi e collo. Sentii le guardie allontanarsi con una risata meschina, ma le mie preoccupazioni stavano solo iniziando, dato che un rumore meccanico squarciò il silenzio e sentii tremare il pavimento: mi trovavo infatti in una specie di ascensore che cominciò a salire velocemente verso quello che sembrava un pozzo. Stavo risalendo velocemente verso la luce, e raggiunta la superficie il meccanismo si fermò di scatto, strozzandomi alla sedia. Non appena i miei occhi si abituarono a quel bagliore intenso mi accorsi di essere al centro di un anfiteatro, dove gli alti spalti erano riempiti da una cinquantina di buffi e inquietanti personaggi vestiti di nero, con orride parrucche bianche. Uno di loro si alzò e gridò ad alta voce: - L’alta Corte di Ferro procede a esaminare il caso 15.722/F. È chiamato a testimoniare l’Ingegner Alan Felix Rezzonico riguardo ai fatti avvenuti lo scorso 26 aprile a Yellowsmith sul caso di Janet Melbournes e Kurt Santiago sui quali vige una taglia di 800.000 pezzi d’oro per l’assassinio delle guardie imperiali Stendus Fobrim e Julius Cobram, per alto tradimento e per grave attentato all’incolumità della Patria con il tentato omicidio dell’Arconte Visnuk. Il qui presente Ingegnere è noto per essere stato presente durante lo svolgimento dei fatti. Duca Wellington, a lei la parola -
- Signor Rezzonico - disse il Duca - Altri testimoni ci hanno confermato la sua presenza all’uccisione delle Guardie Imperiali dal Saloon dove stava trascorrendo il suo tempo libero. È vero? - Sì - risposi. - È vero anche che lei stava sorseggiando una bevanda alcolica? - No, Signore. Stavo bevendo del latte. Alla mia informazione un brusio si levò dalla corte. - Quindi lei non era ubriaco al momento dei fatti? - No Signore. - Quindi lei nonostante non fosse ubriaco non è intervenuto per fermare i due ricercati mentre assassinavano senza motivo le due Guardie? - Temevo per la mia vita Signore. -OLTRAGGIO ALLA CORTE! QUEST’UOMO AFFERMA QUINDI DI TENERE DI PIÙ ALLA SUA VITA CHE ALL’INCOLUMITÀ DELL’IMPERO E DEI SUOI SOLDATI! -Non volevo dire questo Signore. Il terrore mi ha impedito di agir... - Per gli articoli 15, 32, 74 e 75 del codice penale del nostro Sacro Impero chiedo alla giuria di votare per approvare la pena di Scaminitizzazione immediata - non avevo idea di cosa fosse, ma non suonava di certo bene. La giuria votò ovviamente all’unanimità a favore dell’accusa. -La Corte di Ferro acconsente quindi a procedere all’esame interno della cavità cranica dell’imputato con effetto immediato!- disse il Duca con voce altisonante. Non so descrivere le emozioni di terrore che provai in quel momento, mi dimenai inutilmente su quella sedia di legno mentre dall’alto calava lentamente il macchinario che mi avrebbe aperto la scatola cranica per una non ben precisata ragione giuridica.
Le mie urla sembravano divertire i giudici della suprema corte che iniziarono a ridere come scimmie. Se sono qua a potervi raccontare il resto della storia lo devo ad un fortunatissimo imprevisto: un uomo magro e dai tratti effeminati, vestito di un orrendo acqua marina e pieno di merletti, irruppe nella sala. - Che l’esecuzione venga fermata! -gridò con voce stridula. - Per decreto istantaneo dell’Imperatrice l’ingegner Alan Felix Rezzonico è convocato immediatamente nella sala del trono per effettuare la riparazione dello stesso, essendo egli l’ingegnere qualificato di quinto grado più vicino.
Il Pinnacolo dell’Imperatrice
L’isterica figura vestita acqua marina che mi aveva tirato fuori da quella pessima situazione, mi stava trascinando a mia insaputa in un incubo ancora più terribile. Camminammo nell’ombra dei cunicoli sotterranei che collegavano il Tribunale della Corte di Ferro al Pinnacolo dell’Imperatrice, senza che quello strano personaggio smettesse mai di farneticare, parlando con la sua odiosa e acuta voce; cominciavo già a non sopportarlo più, quando salimmo su una preziosa e illuminatissima piattaforma che cominciò a sollevarsi velocemente verso la vetta del pinnacolo. - È stata proprio una fortunata coincidenza, anzi una vera e propria benedizione che un ingegnere di quinto livello si trovasse nei paraggi! - disse il bizzarro ometto. - Vede, questo antico e arcaico palazzo è stato costruito centinaia di anni fa dai massimi ingegneri dell’epoca, dei veri e propri geni, una genialità che non è stata più raggiunta dagli ingegneri delle nuove generazioni, che studiano nella nostra grande Accademia. Sono così ossessionati dalla termomeccanicae dalla fisica nucleare da aver perso totalmente ogni senso pratico! Si figuri che l’ultima volta che abbiamo chiamato un gruppo di ingegneri dell’Accademia per una riparazione, ci hanno messo settimane! E invece che dedicarsi alla riparazione vera e propria, pregavano con strani rituali un presunto “Dio Macchina”! Che assurdità!Tutti sanno che l’unica entità divina tangibile in questo mondo è la discendenza della famiglia Imperiale! Ma non si preoccupi, conosciamo tutto di lei e sappiamo che lei è un vero e proprio ingegnere, come quelli dei secoli che furono, un uomo pratico e affascinante e maestro di questa arte! Sono sicuro che lei saprà riparare il Sacro Trono dell’Imperatrice, e non tema, anche se lo leggo nel suo sguardo, non tema! Perchè l’Imperatrice nonostante sia una divinità è molto vicina a tutti i suoi sudditi! Non deve aver timore di conoscerla! Nel mentre quel fanatico parlava, mi resi lentamente conto che si presentava di fronte a me un’occasione irripetibile: pochi minuti prima stavo per morire, torturato dalla Corte di Ferro, mentre adesso stavo per incontrare l’Imperatrice e addirittura per parlarle. In tutti questi anni mille e mille volte mi ero ripetuto, di fronte alle ingiustizie degli Arconti che si presentavano ai miei occhi, “se
solo potessi farlo presente a Sua Immensità Imperiale quante cose potrebbero cambiare!”. E adesso su di me si caricava un’enorme responsabilità, avrei voluto dirle mille cose, ma dovevo scegliere fra le più importanti. Quando la piattaforma raggiunse la cima del pinnacolo, l’edificio cambiò nello stile e nell’aspetto: le larghe colonne austere che avevano dominato fino ad allora la struttura, si trasformarono in archi ricurvi di forme gentili intrecciate fra loro, lo spazio era illuminato da centinaia di finestre colorate e l’intera struttura in marmo bianchissimo era finemente cesellata di strani e minuscoli simboli. Il riflesso su queste pietre era una visione onirica e il mio stupore fu così grande da scatenare nella mia testa una pioggia di emozioni mai provate e che non riesco a riportare a parole.Nella mia mente avevo immaginato un posto del genere solo quando da bambino avevo letto del grandioso Monte Olimpo, dove abitavano gli Dei dell’antica Grecia. Il bizzarro uomo acqua marina mi condusse nell’ancor più maestosa Sala del Trono sormontata da una cupola con un grande foro al centro, che proiettava un fascio di luce esattamente sul Trono. Questo non era come lo avevo immaginato, come un enorme baldacchino in oro, bensì era una seduta orizzontale, quasi fosse un lettino, costruita di uno strano metallo, credo una lega di platino. Aveva delle forme dolci e ricurve, di un’ergonomicità straordinaria: vedendolo da vicino si capiva che questa era un’attrezzatura totalmente meccanica in grado di assumere le più svariate forme e inclinazioni, e dotata di una serie di pulsantiere dalle funzioni a me sconosciute.Era fissata al terreno tramite un braccio meccanico snodabile che terminava in quella che sembrava essere una grande sfera metallica posta al di sotto del pavimento, e visibile solo in parte per un’apertura circolare dello stesso. Il guasto sembrava risiedere nel braccio meccanico: l’uomo in acqua marina ruotò un ingranaggio sottilissimo fissato al pavimento e la struttura intorno al trono si aprì come un fiore di loto, rivelando centinaia di minuscoli ingranaggi e pistoni, nonché un pannello contenete sette attrezzi da lavoro dalla forma esotica, costruiti dello stesso metallo del Trono. - Buon lavoro! - disse l’ometto allontanandosi e lasciandomi solo in quell’enorme stanza. Una persona normale credo sarebbe entrata nel panico pensando alle conseguenze che sarebbero potute capitare a seguito di un eventuale insuccesso della riparazione, ma io, sotto ad uno strano incantesimo, ero totalmente affascinato da quello che mi si presentava come un meccanismo che sono certo non avrei più avuto occasione di toccare.
Dopo un tempo che non saprei quantificare,ero finalmente arrivato a comprendere la funzione di quell’antico meccanismo, che sembrava in realtà rotto da anni: era una sorta di orologio astronomico che avrebbe inclinato il trono in una posizione particolare a seconda dell’allineamento stellare, suppongo per una pratica mistica della Divina Imperatricedistesa su di esso, ma che purtroppo, secondo i miei calcoli, era interrotta da almeno settant’anni. Gli strani strumenti avevano la funzione di normali chiavi inglesi e cacciaviti, ma adeguati alla forma straordinaria dei bulloni e delle viti del complesso meccanico. Dopo aver risolto il problema relativo all’inceppamento dell’orologio, ai alla sua ricalibrazione e al successivo monitoraggio di sicurezza. Infine, soddisfatto, richiusi il meccanismo che si ripiegò su se stesso così come si era aperto. Non ebbi il tempo di pensare a come richiamare l’uomo acquamarina, che spuntò silenzioso da dietro uno dei tendaggi: gli spiegai come avevo effettuato la riparazione e l’uomo, esaltato, mi disse che come ricompensa per il mio lavoro tutti i casi di accusa contro di me sarebbero stati immediatamente cancellati, e avrebbe anche voluto offrirmi un posto fisso nella Torre, ma purtroppo le mie origini non nobili non lo permettevano. Queste erano le severe regole del Pinnacolo dell’Imperatrice. Prima di liquidarmi mi disse che avrei avuto un incommensurabile onore per una persona del mio rango, avrei conosciuto l’Imperatrice in persona. Divenni rosso in viso e agitato,cominciai a sudare e sentivo il mio cuore palpitare all’impazzata per l’emozione, ma dovevo concentrarmi per scegliere le parole che avrei pronunciato di fronte al Lei. Dovevo trovare l’occasione per riferirle tutto ciò che sapevo delle malefatte degli Arconti della nostra terra, o almeno incuriosirla per far sì che indagasse sul loro conto: era un’occasione imperdibile, e anche se quelle parole mi fossero costate la vita sarei morto soddisfatto. Seguii l’uomo acquamarina sino a un salone di egual grandezza della Sala del Trono: un grande baldacchino imperava nella stanza, le ampie arcate che circondavano la sala rotondaportavano all’interno una luce splendente e un vento leggero, che muoveva con delicatezza i sottili veli di raso bianco che coprivano il baldacchino, sotto il quale si vedeva distesa la figura femminile dell’Imperatrice. - Sta riposando - mi sussurrò l’uomo acquamarina. Nella sala vi erano all’incirca una quindicina di persone, tutte esponenti dell’alta nobiltà come
giudici, qualche Arconte e nobili di vario tipo. Stavano parlando fra di loro ad alta voce, evidentemente non curanti del riposo dell’Imperatrice. Imbarazzato, gettai uno sguardo fuori dalla finestra e rimasi affascinato dal panorama mozzafiato che si poteva ammirare da quell’altezza: ci trovavamo quasi al pari delle nuvole e le abitazioni erano microscopiche. Improvvisamente nel grande salone calò il silenzio e l’uomo acquamarina mi sussurrò nell’orecchio in modo invadente - Si è svegliata! Potevo vedere una figura seduta dietro ai veli di raso, tutti i presenti nella stanza la guardavano in silenzio, in attesa di un suo gesto che non si fece attendere troppo: una gracile mano sporse dai tendaggi col palmo rivolto verso l’alto, mentre le dita facevano strani movimenti. Subito l’uomo acquamarina batté le mani due volte e una delle porte si aprì immediatamente: un damerino vestito di pizzo nero, piuttosto impacciato, spuntò sulla soglia della porta con un grandissimo vassoio d’argento sollevato dalla mano destra. Sopra il vassoio un calice di cristallo di fattura orientale, conteneva un liquido verdastro. Il cameriere però camminava troppo velocemente per il carico piuttosto instabile e prezioso che stava trasportando, infatti dopo pochi i cadde rovinosamente a terra, rovesciando il bicchiere ed il suo contenuto sul pavimento e facendo un enorme frastuono.Un grido dilaniante si levò da dietro i veli di raso e la nobiltà pietrificata cominciò a sussurrare inviperita: le uniche parole che riuscii a cogliere riguardavano il fatto che il prezioso oppio dell’imperatrice era stato rovesciato. Il cameriere terrorizzato non riusciva né a muoversi né a parlare, ma provò impacciatamente a raccogliere i frantumi del bicchiere, ferendosi incurante le mani. L’Imperatrice urlò - Voglio che quell’inutile essere venga severamente punito! Adesso! Uno dei nobili, vestito con una grande palandrana rossa, si avvicinò al servo ed appoggiò lentamente il piede sulla sua schiena:non appena ebbe la presa salda lo schiacciò a terrà e immediatamente due loschi figuri, dei veri e propri ammassi di muscoli completamente nudi e vestiti solo di una cappa nera sulla
testa, fecero ingresso nella sala. Uno dei due prese saldamene tra le mani la testa del servo, schiacciandola a terra, nel mentre questo urlava a squarcia gola di essere risparmiato;l’altro sfoderò una grande sega con la quale iniziò, naturalmente, a recidere lentamente il collo della vittima. Non so quanto durò quell’atroce procedura, mi sembrò un’infinità e da prima il malcapitato continuava a urlare, ma a un certo punto il suo fiato si affievolì, in un rantolo, per poi cessare del tutto. A metà del diametro del collo, il macabro boia si fermò ed estrasse la sega dalla vittima e se ne andò: a completare l’opera rimase l’altro boia, che strappò via la testa dal corpo trascinandosi dietro almeno mezza spanna di trachea. Ora che giustizia era stata compiutail nobile dalla palandrana rossa sollevò il piededal corpo esanime e cominciò a battere lentamente le mani in un fragoroso applauso che fu imitato da tutti gli altri membri della corte. Un gruppo di servi minuti si avventò sul corpo come uno stormo di avvoltoi su di una preda, trascinandolo via dalla stanza e ripulendo celermente il sangue che aveva sporcatoil pavimento. - Giustizia è stata fatta! - mi sussurrò l’uomo acquamarina nell’orecchio, dopo di che batté le mani a richiamare il nuovo oppio per l’Imperatrice. Questa volta un servo riuscì a trasportare il calice senza nessun’ intoppo, e l’Imperatrice bevve avidamente la verde bevanda per poi cadere sul suo morbido materasso in una trance orgasmica. I miei pensieri riguardo alle malefatte degli Arconti, che volevo presentare all’Imperatrice, svanirono come nuvole di vapore al vento: era evidente che l’Imperatrice era qualcosa di totalmente diverso da quello che avevo sempre immaginato. Ella viveva in una dimensione a sé, totalmente estranea alla realtà che la circondava ed è proprio da questa situazione che gli Arconti traevano il loro potere. Dubito che fosse sempre stato così, l’attrezzatura che avevo riparato poco prima lo dimostrava e forse, persino la bevanda oppiacea tanto bramata, un tempo aveva una funzione divinatoria, come nella mitologia della Sibilla dell’oracolo di Delfi. Ero terrorizzato e nauseato dopo ciò che era accaduto, ma era niente in confronto alla rivoluzione che stava avvenendo dentro di me: tutto ciò in cui avevo creduto
in questi anni stava crollando, la mia fede verso l’Imperatricee verso l’Impero si era dissolta in un soffio, e tutto quello per cui avevo lavorato e combattuto nella mia vita si stava disperdendo come sabbia che scivola fra le dita. L’uomo acquamarina mi condusse all’uscita del Pinnacolo, blaterando frasi che non ricordo riguardo a quanto avrebbe avuto piacere nel trovarmi un posto all’interno della servitù, ma percepivo le sue parole ovattate perché immerso nell’oceano dei miei pensieri.Mi allontanai dalla capitale in uno stato di apatia più totale; deluso e rammaricato salii sul treno che mi avrebbe riportato a casa, ma il destino era ancora una volta lì ad aspettarmi.
Ritorno a Vorsorge
Il treno si arrestò improvvisamente con un lamento stridulo. Il mio bastone cadde nella frenata, mi chinai subito per raccoglierlo e quando mi rialzai, mi affacciai al finestrino per comprendere il motivo per il quale ci eravamo fermati. Vi era una grande folla sui binari e così mi avvicinai alla locomotiva per chiedere al capotreno cosa fosse successo, ma quando mi trovai di fronte alla porta scorrevole dell’ultimo vagone, dall’oblò vidi due soldati parlare minacciosamente al capotreno. Facendomi largo tra i eggeri furiosi per la sosta, mi avvicinai a un’uscita e scesi giù dal treno con l’imprudenza di un ventenne (in effetti gli eventi appena accaduti mi avevano veramente turbato). Percorsi la lunghezza del treno dall’esterno: quando arrivai alla locomotiva vi era una grande folla sui binari; ci trovavamo molto vicino alla mia città natale, Vorsorge, e il grande altopiano si ergeva dietro alla marmaglia. Cercai di capire cosa stava succedendo mimetizzandomi tra i curiosi. Vi era un’intera tribù nomade accampata al margine della ferrovia, beduini tatuati dall’aspetto e il vestiario caratteristico per il proprio clan: era un gruppo folto e piuttosto minaccioso, ma pacifico per tradizione. Dall’altra parte della ferrovia vi era una guarnigione imperiale in forte minoranza numerica rispetto alla tribù nomade, che a malapena sarebbe riuscita, nonostante il pesante armamento, a tenere a bada i beduini. Il capitano a capo dei soldati stava discutendo animatamente, non lontano da me, con quello che sembrava essere il gruppo di anziani della tribù: decisi così di avvicinarmi per cercare di carpire le loro parole. I vecchi beduini canuti, dalla barba folta e ispida, erano su tutte le furie, ma sembravano comunque cedere il o all’agguerrito comandante, un uomo alto, muscoloso, completamente glabro e dallo sguardo infame. Sporco e sudato, indossava una giacca in pelle logora e bisunta, che lasciava scoperto il possente petto pieno di cicatrici. A completare l’opera, una benda sull’occhio sinistro copriva una cavità oculare totalmente sfregiata, da sotto la quale spuntavano venature e cicatrici mal rimarginate.
Riuscii a carpire solo alcune parole prima che alcuni militari mi intimassero di allontanarmi: - ... Questa faccenda può essere ancora conclusa senza lo spargimento di sangue che vi meritereste per aver intralciato l’impero nei suoi scopi. Non dovrete fare altro che semplicemente consegnarci il bambino, non ci importa più niente neanche dei suoi balordi protettori. Consegnateci il pargolo, e vi lasceremo andare senza uccidervi,senza sterminare le vostre famiglie, senza stuprare le vostre donne, mentre voi, starete lì a guardare incatenati e mutilati. I beduini si consultarono tra loro velocemente, e molto pacificamente risposero al comandante: - Non vi consegneremo mai il bambino, dovrete ucciderci tutti per averlo, ma non credo che riuscirete a farlo con la vostra manciata di uomini. Noi siamo un popolo pacifico, ma sappiamo come difenderci. Il capitano rispose: - La mia manciata di uomini può uccidervi, ma non schiacciarvi.A quello ci penserà l’intera legione che sta arrivando qua, avete trenta minuti per consegnarmi il bambino, dopo di che avrete segnato il vostro destino per sempre. Il capitano si voltò e ritornò tra le fila dei suoi uomini. Si cominciava a respirare un’aria di tensione, la folla dei curiosi che in un primo momentosembrava così apionata alla faccenda, aveva compreso che da lì a breve la situazione sarebbe degenerata in un sanguinoso scontro e per questo cominciò a disperdersi. Il treno con cui ero arrivato lì invertì il senso di marcia e si allontanò lentamente: fu in quel momento che notai tra il gruppo di beduini qualcuno non appartenete alla loro stirpe,un volto che conoscevo. Si trattava della mascolina ragazza alla quale tante volte avevo riparato la Steamgun, era Janet “La Rossa”. Quasi senza rendermene conto mi trovai a gridare il suo nome ed a cercare di avvicinarmi a lei, quando un paio di alte guardie beduine mi sbarrarono la strada, facendomi capire che non avrei potuto procedere oltre. Uno dei saggi però, che avevo visto parlare con il capitano, si avvicinò a me, incuriosito dal fatto che io sapessi il nome della ragazza: mi chiese chi fossi e come fi a conoscerla, e mi spiegò che Janet era una sorvegliata speciale alla quale non avrei potuto avvicinarmi per nessun motivo nonostante la conoscessi. Fu così che mi narrò della Profezia, secondo la quale un giorno si sarebbe
manifestato il Messiah. Secondo la tradizione del popolo beduino, il Messiah doveva essere un bambino di carnagione scura e tatuato fin dalla nascita, Il figlio del Deserto: egli sarebbe stato protetto dai giusti e cacciato dagli infami, poiché la sua missione è quella di riportare l’equilibrio nel nostro continente. È per questo motivo che gli Arconti lo temono e lo cacciano, perchè temono di essere spodestati del loro potere. Janet e Big K, dopo aver preso il bambino dalla precedente coppia di protettori, ormai deceduta nell’infausta occasione per la quale sono stato costretto anche a testimoniare, si sono diretti nel deserto da soli ed hanno percorso diverse centinaia di miglia come se avessero saputo la direzione precisa verso cui andare, fino ad arrivare a questa tribù di beduini. Era tutto così surreale, ma era proprio questo che faceva pensare che ci fosse qualcosa di vero nella profezia. Quello che a me poteva sembrare una favola che nascondeva qualche brandello di verità, per i beduini era qualcosa di reale e tangibile: erano pronti a tutto pur di proteggere il bambino, anche ad immolarsi sacrificando la propria vita per il loro credo. L’irascibile capitano evidentemente non avevanessuna intenzione di rispettare l’ultimatum e, annoiato dalla situazione, si fece largo fra i suoi uomini ed urlò a gran voce: - Io sono il capitano Jakob Bane e sono conosciuto per non portare rispetto per nessuno né onorare i patti, e soprattutto sono conosciuto per essere una persona che si annoia FACILMENTE. Lancio quindi una sfida verso il più valoroso dei vostri guerrieri, una sfida a mani nude nella quale schiaccerò la testa del mio avversario. In quel momento realizzai che quel nome mi era vagamente familiare, ma non riuscivo a focalizzare dove già lo avessi sentito: a farmelo tornare alla mente fu l’identità dell’avversario. Quel personaggio avvolto in un logoro mantello era ato inosservato fino a quel momento, e nessuno comprendeva da dove fosse saltato fuori; ma quando si tolse quel mantello trasandato tutti riconobbero i gradi e le insigne della VII legione sulla logora giacca, Jakob Bane, l’ex primo ufficiale della VII legione sbiancò alla vista del suo ex capitano Oliver Stone. - Raccolgo io la tua sfida, bastardo - disse Stone. - Oh, guardate un po’ cos’ha rigurgitato l’inferno, il mitico capitano della VII
legione, colui che ha abbandonato i suoi compagni nel momento del bisogno facendoli finire tutti quanti in fondo al mare! Un vero e proprio uomo d’onore che non ha fatto altro se non scappare per tutto questo tempo! Ti vedo fiacco, vecchio mio, sembri proprio fuori forma - ribatté Jakob. Stone non perse tempo e non appena il suo avversario ebbe finito di parlare, sferrò un rabbioso destro sulla mandibola del nemico che cadde a terra incassando in malo modo il colpo. - Picchi ancora duro, Stone, però ci sono stati diversi cambiamenti negli ultimi anni - disse Jakob mentre si sganciava il pesante giubbotto di pelle. Rimase a petto nudo, mostrando con un sorriso pazzoide il braccio meccanico che aveva impiantato, un’arma imperiale di ultima generazione con SDD Machine incorporata. Jakob sferrò cinque brutali colpi sull’addome ed al volto dell’ex comandante, ogni pugno era seguito da una serie di rumori metallici. La forza sovrumana del braccio meccanico non lasciava scampo, frantumava ossa su ossa ad ogni colpo ed il povero Stone si trovò in un attimo sconfitto in una pozza di sangue. Jakob alzò il corpo dell’ex compagno per mostrarlo a tutti: - Questo è il vostro Oliver Stone? Il famoso Oliver Stone? Il condottiero invincibile? Guardatelo, inoffensivo e invertebrato. Ma ho deciso di lasciarlo ancora una volta in vita per farvi capire cosa succede a chi si oppone all’Impero! - si avvicinò all’orecchio di Stone e disse - No, non ti faccio il favore di ucciderti, non ti darò la tua tanto agognata morte, soffrirai ancora, Oliver, soffrirai finchè lo vorrò - detto questo scaraventò l’ex comandante vicino ai miei piedi e prontamente cercai di trascinarlo via, mentre la folla si agitava. Era ancora vivo, anche se sputava sangue in un modo poco rassicurante. Appena riuscii a trascinarlo fuori da quel marasma Stone con mia sorpresa si alzò da solo, anche se barcollante, e tentò subito di ributtarsi nella mischia per affrontare Jakob, ma prontamente lo fermai: dovevo trovare un modo per portarlo via di lì e così ebbi un’idea disperata, mi ricordai di quell’enorme posto che aveva tormentato la mia infanzia, dove da piccolo avevamo quasi risvegliato non so bene cosa. Gli dissi che forse avremmo trovato un modo per fermare tutto questo, lui stranamente mi credette e si convinse a seguirmi.
Epilogo
Ci dirigemmo in quell’antro dove ancora vivevano le mie paure di bambino: tutto era rimasto immutato anche se mi sembrava tutto più piccolo. Con la mia torcia a incandescenza automatica, facevo strada, ed era come se ricordassi perfettamente il percorso che da bambini ci aveva condotto in quellagrande caverna. La grande sala rocciosa che al centro ospitava il torbido lago, era sorprendentemente identica a come la ricordavo, come se il tempo si fosse fermato. Ancora giacevano attorno al bacino i grandi e vetusti macchinari, Stone esclamò: - Che razza di posto è questo? La mia voce tremava mentre cercavo di spiegargli come avevo conosciuto quel posto, e la dubbia origine di quegli antichi artefatti, lasciati a noi da chissà quali misteriosi progenitori. Illuminai con la torcia le plance di controllo, questa volta però ero un istruito ingegnere e cominciai a comprendere il significato di ognuna di quelle leve. Non ci misi molto ad aver chiaro cosa avrei dovuto fare, e con la mano tremante per i miei incubi di bambino, mi adoperai a ripetere ciò che era accaduto quarant’anni fa. La sequenza cominciò e la barcollante piattaforma iniziò a tremare: di nuovo si accesero quelle luci gialle e tremolanti che erano rimaste impresse nella mia mente come litografie. I barometri schizzarono al massimo e innumerevoli lampadine cominciarono ad accendersi a ripetizione; il rumore sordo proveniente dal cuore del lago cominciò ad aumentare, e nuovamente spruzzi di vapore sorgevano dalla superficie. Sentii Stone urlarmi se sapevo quel che stavo facendo, ma non avevo tempo di rispondergli.Finalmente potevo scorgere nitidamente le fattezza di quel mastodontico gigante che aveva terrorizzato per così tanto tempo i miei sogni: si trattava di un umanoide metallico di proporzioni incredibili, e mano a mano
che le sue forme uscivano supine dalla torbida acqua del lago, incredulo osservavo la tecnologia che lo aveva forgiato. Se devo esser sincero, molto simile a quella del trono dell’Imperatrice che avevo riparato poco prima. Quando l’enorme mostro fu completamente emerso dall’acqua, il grande frastuono terminò: sembrava un gigantesco cadavere, privo di vita, che non aveva nessuna intenzione di alzarsi. Salimmo su una pedana che ci permise di vederlo dall’alto, al centro del petto si schiudeva un’apertura non più grande di sette piedi di lunghezza e tre di larghezza, che emetteva dalle pareti interne un bagliore rossastro molto intenso e pulsante. Per un attimo ebbi l’impressione di osservare l’enorme cuore vuoto della creatura gigantesca, ero così colto da quello strepitoso spettacolo che parlavo senza nemmeno più guardare il mio compagno. Gli spiegavo come avevo eseguito tutte le procedure, e che a questo punto il mostro si sarebbe dovuto animare...ma per qualche strano motivo restava ancora in uno stato di stasi. Ma Stone aveva già capito tutto: aveva capito perchè il mostro giaceva inerme, aveva capito perchè il destino lo aveva condotto in quell’oscuro antro. Aveva capito perchè e per tutto quel tempo la Morte non lo aveva accettato, e fu così che con un lungo salto entrò dentro l’apertura dal bagliore rossastro. Quando si distese al suo interno il bagliore aumentò, fino al punto che riuscivo solo a distinguere la sua silhouette: qualcosa di simile a sei grandi siringhe si conficcarono contemporaneamente nel torso di Oliver, e come un fiore al tramonto la grande apertura cominciò a chiudersi su se stessa. Non scorderò mai le parole che Oliver mi rivolse prima di essere inghiottito da quell’enorme mostro: -Grazie Alan, per avermi portato sulla strada del mio destino. È bello poter lottare ancora una volta per una causa più grande di sé stessi. Quando la capsula si chiuse, la pedana si ritrasse e di nuovo tutto ricominciò a tremare. Questa volta però sembrava come se la caverna non potesse resistere a tutta quell’energia, e così fu: riuscii a mala pena a ripararmi sotto le scale metalliche, quando la volta cominciò a crollare. Credevo fosse arrivata la mia fine, ma scoprii con mia grande sorpresa di non trovarmi come pensavo nelle profondità della montagna, ma pochi metri sotto la cima dell’altopiano.
Tutta la struttura si innalzò lentamente, e vidi di nuovo la luce del sole. Dalla cima dell’altopiano potevo scorgere l’intera legione imperiale che ormai era arrivata nei pressi dell’accampamento beduino e si era riunita al suo comandante. I beduini erano circondati e credo mancasse davvero poco a che lo sterminio iniziasse. La legione era armata pesantemente, con carri a vapore ricoperti di cannoni, ma le urla della folla furono squarciate dal tremendo grido che l’enorme mostro emise. Era come se milioni di aghi bucassero la mia testa, un surrogato di striduli acuti simili al fischio di un treno aveva risvegliato in me le paure più ancestrali, ed ero terrorizzato dalla stessa creatura che avevamo risvegliato. Gli enormi occhi spalancati del Juggernaut brillavano dello stesso bagliore rosso che avevo visto poco fa, e le incrostazioni delle sue giunture schizzarono via mentre questi, contorcendosi, si alzava. Il grande umanoide si muoveva lento e i suoi i pesanti facevano tremare la terra; con noncuranza scese lungo il crinale, verso l’accampamento beduino: io mi nascosi dietro qualche rocca, da dove avevo un’ottima visuale della vallata. Il risveglio del mostro aveva zittito il frastuono delle genti sottostanti che lo guardavano allibite, ma quando videro che questo si avvicinava minacciosamente a loro con le sue grandi falcate, nel panico iniziarono a reagire: i beduini si serrarono tra di loro, proteggendo le donne e i bambini al centro del gruppo. La legione serrò i suoi ranghi e rivolse le bocche dei grandi cannoni e delle mitragliatrici, posti sugli imponenti carri a vapore , contro il mostro. Vidi in lontananza la sagoma del capitano Bane ordinare il fuoco, e una nube di fumo si stagliò sul campo di battaglia: una dopo l’altra le cannonate centravano tutte il bersaglio, ad ogni colpo il Juggernaut indietreggiava e si fletteva sulle ginocchia, ma erano appena visibili le scalfitture sul suo grande esoscheletro. Il Juggernaut affrettò il suo o ed entrò prepotente nella nube densa di fumo che circondava il campo di battaglia: vidi solo alcuni lampi e udii un tremendo frastuono, finché il fumo non si fu sufficientemente diradato per vedere cosa stesse succedendo. I carri a vapore venivano dilaniati dal mostro, che con una tremenda forza squarciava le loro corazze e ne spargeva i frammenti per tutto il campo di battaglia.
Piegava i loro cannoni e scaraventava le stesse macchine le une sulle altre sollevandole, come se per lui fossero leggerissime. Ben presto il campo di battaglia divenne un cimitero di metallo e i soldati della legione si erano per la maggior parte dispersi nel deserto. Un ultimo gruppo di truppe speciali era rimasto sul campo di battaglia a protezione del capitano: si trattava di una squadra di lanciafiamme, che avvolse il Juggernaut in una tremenda nube di fuoco non appena fu alla loro portata. Ma, evidentemente, niente possono le fiamme, a colui che brucia dall’interno. Il Jujjernaur li scacciò come mosche e rimase solo col capitano, anzi con l’ex primo ufficiale Jakob Bane: il grande mostro lo fissò immobile, fintanto che questi non indietreggiò per fuggire in preda al panico. Fu in quel momento che il Juggernaut lo schiacciò, come se fosse un inutile insetto. Il Juggernaut si allontanò lentamente lasciandosi alle spalle quel campo di sterminio dove gli unici sopravvissuti e illesi, erano i beduini, con il loro prezioso protetto: il mostro si diresse verso l’altopiano dove mi trovavo e si distese supino sulla piattaforma dove lo avevamo trovato. Mentre tutto il complesso meccanico sprofondava di nuovo nel cuore della montagna, il sarcofago nel petto della creatura si aprì, ma non vi era più alcuna traccia del capitano Oliver Stone. Avrei voluto parlare con Janet o unirmi ai beduini e alla loro causa, ma sentivo dentro di me che il mio destino mi avrebbe portato altrove. Per prima cosa avrei dovuto terminare questo manoscritto per lasciare una testimonianza ai posteri, e riabilitare la reputazione dell’eroico comandante Oliver Stone. Poi sarei dovuto riuscire a sopravvivere, perché il mondo ha sì bisogno di martiri ed eroi, ma anche di uomini vivi e infiltrati tra le fila del loro stesso nemico. Spero solo che non mi trovino qui, nel mio nascondiglio, e che non sia stato tutto inutile. Infondo devo ancora da liberare un’intera legione prigioniera in un treno sottomarino.
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