LA TELA DI BLONDIE
Luisa Pachera
A mio padre che non ho fatto in tempo a conoscere
Carissimi, siete ancora vicini e già vi scrivo, non siete ancora al porto e già mi mancate. Che dire di questa desolazione che sento invadermi il cuore, che a tratti mi strazia e a tratti mi esalta, in un’alternanza che mi affatica la mente? Vi sembra mai possibile che assieme alla sofferenza del vostro distacco, mi senta contento di sapervi lontano? Lo so che non vi rivedrò più, da giorni conosco la mia sorte e so cosa mi attende dietro le curve che piegano il corso della mia strada, ma credetemi, non ho paura, da quando siete partiti il dolore che avverto non mi è più nemico, mi aiuta a ricordare che siete vivi, liberi e salvi, che nessuno potrà farvi del male. Questo è quanto chiedo al futuro, solo questo. Cara Sonja, bambina mia, ti ho vista piangere mentre stringevi al petto la mia piccola principessa addormentata, lo so che hai capito, tuo marito insisteva nel chiedermi dove e quando vi avrei raggiunti, ma tu stavi zitta e lasciavi che la maglietta di Irma assorbisse le tue lacrime. Hai ragione tu, le nostre strade qui si dividono e il viaggio che mi preparo a compiere non mi porterà da te, sono malato e il tuo affetto, la tua vicinanza non potranno guarirmi. Mi hai detto che sono crudele, ma non è vero, non mi resta molto da vivere e non voglio andarmene prima di aver chiuso la parentesi che si è aperta dinanzi a me quarant’anni fa, devo farlo. Abbi cura della piccola Irma, proteggila da ogni male come io ho cercato di fare con te, lei è il mio futuro, l’unico che mi rimane, e se puoi parlale di me, dille che il nonno era orgoglioso di lei, che le voleva bene anche se non le raccontava mai le fiabe, dille che avrebbe voluto farlo, ma che aveva la testa piena di brutte storie che temeva riprendessero vita e gli uscissero di bocca per rovinarle il sonno. E sii serena, concentrati su quello che devi fare, ora che sei lontana anch’io cercherò di portare a termine un compito che fino a poco fa mi era negato.
Capitolo primo
La sera in cui Beatrice spalancò la finestra di quella che era stata la sua camera da letto da bambina, non pensava di avere davanti la settimana più lunga della sua vita, la più strana, di sicuro la più inquietante, al contrario era convinta di aver definitivamente superato la china della sua desolazione e se non si considerava felice, quantomeno si sentiva serena, in pace con se stessa. Aveva lasciato in una città lontana, al di là delle Alpi, i suoi affanni, piccoli o grandi che fossero, non se li era portati dietro, aveva la mente libera e il cuore leggero e poteva guardare fiduciosa ai giorni che l’aspettavano, avrebbe fatto quello che doveva fare, respirato un po’ d’aria di casa e sarebbe ripartita, era quasi in vacanza, quindi, che voleva di più? Se fosse dipeso da lei non avrebbe lasciato la Germania, stesa da giorni sul fondo di un pozzo nero, non aveva né la voglia, né la forza di tornare alla luce, figurarsi di fare la valigia e valicare il Brennero..., così lo strano messaggio trovato quella mattina sulla segreteria telefonica, era giunto inaspettato, ma sicuramente propizio. Un certo signor Fioravanti, geometra comunale del suo paese d’origine, la chiamava per informarla che la concessione cimiteriale di cui beneficiava la sua famiglia, era scaduta da tempo e che il giorno successivo avrebbe provveduto a far riesumare quanto restava dei suoi cari per far posto a una coppia di sposi deceduti in un incidente stradale, voleva esserci? Beatrice aveva ascoltato più volte la registrazione cercando di fugare i propri dubbi, la voce giovane e cortese presentava qualche incertezza nella dizione, ma il tono grave, molto formale, trasudava competenza e tutto sembrava in regola, anche il fatto che la telefonata fosse giunta in una domenica d’agosto trovava giustificazione nell’urgenza e nell’eccezionalità del caso. Aveva chiamato un vicino di casa, un’amica dei tempi della scuola e un conoscente, niente…, Ferragosto era alle porte e pareva che in paese non fosse rimasto nessuno, così aveva buttato qualcosa in valigia ed era partita. Per strada si era subito sentita meglio, erano anni che non tornava in Italia e a un tratto ne provava nostalgia, si sarebbe fermata un paio di giorni in paese, poi avrebbe raggiunto qualche luogo di villeggiatura, forse in montagna oppure al lago poco lontano, chissà…, in fondo non c’era molto che la trattenesse in
Germania, di certo non il marito a cui cercava di pensare il meno possibile. Era partita senza dir niente a nessuno, non aveva salutato e nemmeno lasciato messaggi, Alfredo si meritava questo e altro, se avesse potuto gli avrebbe fatto credere di essere in viaggio con un trentenne alto e aitante, ma in giro non era facile trovarne di disponibili e lei aveva quarantacinque anni ati... Con lui non parlava da settimane, vivevano nella stessa casa, ma in comune avevano solo la cucina e poche altre cose, lui dormiva a piano terra, in una stanzetta poco più grande di un ripostiglio, lei invece di sopra, in un locale ampio e luminoso, dove si crogiolava nel dolore e nella rabbia e dove ostinatamente s’allenava a fingere un’indifferenza che era ben lungi dal provare. Forse era il destino che la spingeva a tornare in Italia, forse affrontare un viaggio da sola le avrebbe fatto bene, forse… Da giorni si sforzava di accettare la sua nuova condizione, era una single e da single doveva comportarsi, questo voleva dire acquistare porzioni minime di carne in macelleria, uscire con gente diversa e anche andare in vacanza da sola. Un tempo era più autonoma, più coraggiosa, da ragazza le piaceva mettersi uno zaino in spalla, salutare tutti e partire, poi aveva incontrato Alfredo e tutto era cambiato, poco alla volta si era assuefatta alla sua presenza e ora trovava difficile riabituarsi alla solitudine. Così, aprendo la finestra della sua stanza quella sera d’estate era contenta di sentirsi di nuovo in forma, le imposte di legno si schio a fatica rilasciando una leggera polvere chiara, Beatrice sorrise guardandola disperdersi nell’aria, sembrava la sua angoscia che se ne andava in cerca di qualcosa su cui posarsi, trattenne il fiato e mosse le mani per allontanarla, ecco cosa doveva fare, scacciare i brutti pensieri e liberare la mente, solo questo. Con la coda dell’occhio vide due scorpioni correre a nascondersi in una crepa del muro e subito avvertì un brivido lungo la schiena, la casa era sporca e piena di polvere, erano anni che non la puliva, avrebbe dovuto prendere in mano una scopa e are un panno sui mobili, ma non ne aveva voglia, il giorno dopo era lunedì, sarebbe andata in Comune e nel pomeriggio sarebbe ripartita. Si sporse sul davanzale per guardare il campanile che si vedeva lontano, l’orologio segnava le sei esatte, la luce era ancora chiara, era quasi la metà di agosto e le giornate avevano già cominciato ad accorciarsi, ma c’era ancora tempo per una eggiata, giusto un giretto per comperare qualcosa e riallacciare i rapporti col posto. La cosa migliore era andare in piazza da Arturo,
acquistare un giornale nel suo negozio equivaleva a salutare l’intero paese. Socchiuse la finestra e scese di sotto, prese la borsa e uscì sul poggiolo, si aspettava il latrato di un cane, di due cani, di dieci…, niente, decisamente tutto il paese era in vacanza, perfino i cani. Chiuse la porta e scese la scala a o svelto, non vedeva l’ora d’incontrare qualcuno, era contenta, addirittura eccitata, dietro l’angolo l’aspettava qualcosa ben più temibile della sua vecchia depressione, il pozzo di maiolica levigata in cui da settimane si trovava a vivere, ma in quel momento non lo sapeva e questo bastava a renderla euforica. In Germania non aveva lasciato nessuno, i pochi amici che aveva erano in ferie, perfino la sua agente se n’era andata dopo aver osservato con sguardo distratto i suoi ultimi schizzi, troppo cupi, malinconici, doveva metterci più sole…, le aveva detto, adesso era sull’Adriatico come la maggior parte dei tedeschi che conosceva. Beatrice era un’illustratrice che viveva disegnando le storie degli altri, era considerata brava, aveva pubblicato sei raccolte di fiabe e un fumetto per adulti che era andato molto bene, lei era un’inguaribile insoddisfatta, ma quando la sua mente era libera e il suo cuore sereno, si riteneva addirittura un’artista. Non in quei tempi, però, nelle ultime settimane aveva ben altro da fare che disegnare ridenti paesaggi assolati, si sentiva vuota e priva della solita ispirazione, fissava il foglio bianco per ore e quando faceva la punta alla matita era agli occhi del marito che pensava, a come cavarglieli. Ovviamente di tutto questo non aveva mai detto niente a nessuno, lei si limitava a fingere distacco e indifferenza, ma dentro era piena di rancore, era un vulcano pronto a eruttare. La cosa con Alfredo le era sfuggita decisamente di mano, su questo non aveva dubbi ed era anche disposta ad ammetterlo, se fosse stata un po’ più accorta avrebbe potuto salvare qualcosa del loro matrimonio, ma la sua proverbiale elasticità, quella che tutti le invidiavano sempre, d’un tratto era venuta meno e l’aveva lasciata a due i dal divorzio. In effetti con suo marito non c’era mai stata una vera e propria lite, e chi aveva mai visto Alfredo litigare con qualcuno?, solo una drastica separazione di fatto, definitiva anche se non ancora legalizzata. Tutto era cominciato, anzi era finito, quando l’aveva scoperto nella mensa dell’ospedale che piluccava distratto qualcosa da un piatto con la sua
nuova assistente. La cosa poteva sembrare innocua anche se il piatto era unico per entrambi e lei aveva la metà dei suoi anni e gli occhi languidi di una cerbiatta, quello che non le era per niente piaciuto, era il ginocchio che lei teneva mollemente poggiato sulla coscia di lui. Sembrava capitato lì per caso, quasi dimenticato, il piede dondolava lento a qualche centimetro da terra tra quelle gambe che mai per un momento aveva pensato di dover dividere con qualcuno, e lui sorrideva beato. Al momento non aveva detto niente, si era avvicinata e l’aveva salutato serena, poi gli aveva ricordato la piega dei pantaloni che si stava stropicciando sotto il tavolo e se n’era andata. Il fatto che indossasse jeans senza alcuna pretesa di stiratura, l’aveva fatta sentire ancora più stupida, tanto stupida che quando lui era tornato a casa aveva trovato le sue cose ammassate nella stanzetta a piano terra. Era stata irremovibile, più di quanto forse avrebbe dovuto, ma lei era fatta così, era un’emotiva priva di un grande equilibrio e spesso le capitava di estremizzare le cose, anche a costo di farsi del male. Qualche volta lo incrociava in cucina dove lui le lasciava messaggi che fingeva di non leggere, in un paio di occasioni aveva cercato anche di spiegarsi, di scusarsi, ma all’inizio lei era troppo arrabbiata per ascoltarlo e dopo un po’ lui si era stancato di provarci. Le mancava, doveva ammetterlo, ma ogni volta che le veniva voglia di bussare alla sua porta, lo vedeva alla mensa con la sua nuova collega, teneva la forchetta a mezz’aria e sembrava non far caso al ginocchio che poco più sotto gl’intiepidiva la coscia, un atteggiamento intimo che andava ben oltre la semplice amicizia e che bloccava ogni sua voglia di riappacificazione. Così aveva cercato di farsene una ragione e di abituarsi a vivere senza di lui, ma le mancava, più di quanto fosse disposta ad ammettere. Le mancava la sua aria sorniona, un po’ trasognata, la sua indolenza, la sua incapacità di prendere l’iniziativa, il suo lasciarsi andare alla deriva per settimane per poi bruciare le tappe in un minuto, le mancavano i suoi discorsi, i suoi sogni, i suoi progetti, la sua gentilezza, il suo modo di fare all’amore, tutto… All’inizio era stata travolta da una rabbia talmente forte che avrebbe voluto ucciderlo con le sue stesse mani, in più di vent’anni di matrimonio non aveva mai pensato che lui potesse tradirla, mai, nemmeno una volta, così si sentiva stupida oltre che ferita e umiliata e cominciava a maledirlo al mattino, quando si svegliava, per continuare poi per tutto il giorno, fino a sera. Ovviamente dalla sua bocca non usciva parola, le poche volte che incontrava Alfredo gli sorrideva e continuava per la sua strada, si sarebbe tagliata la lingua piuttosto che mostrare
la sua gelosia, lei si riteneva una donna forte e sicura, una che da giovane aveva predicato la libertà in amore e aborrito i legami asfissianti e ora non poteva permettersi di smentire se stessa. Quando si era innamorata di Alfredo si era ben guardata dal rinnegare i proclami che da sempre erano stati la sua bandiera, li aveva solo lasciati nell’ombra, celati sotto un velo di polvere spessa, non si vedevano più, ma c’erano ancora, così per salvare quel poco di dignità che le rimaneva, non aveva fatto scenate né all’ospedale, né più tardi a casa, non aveva urlato la sua rabbia, non gli aveva tirato addosso quello che le ava per le mani e nemmeno aveva cercato di parlare, di ragionare, si era tenuta dentro tutto lasciandosi scivolare in una depressione molliccia e malsana che non aveva mai conosciuto e che le sembrava non dover finire. Per fortuna non era stato così, le era bastato partire per sentirsi meglio, a Innsbruck era già un’altra e a Bolzano stentava a ricordare la nebbia in cui si dibatteva fino a poche ore prima. Aveva trovato il paese come lo ricordava, apparentemente niente era cambiato. La piazza era quella di sempre, aveva una pavimentazione nuova con disegni stilizzati che s’alternavano al porfido, ma nel complesso era sempre la stessa, lunga e asimmetrica come una grande nave che galleggia sulla valle, non mancava niente, la chiesa da una parte, la scuola dall’altra, la fontana col platano accanto e tante automobili, troppe…, forse, più che una nave, sembrava un ferryboat stipato all’inverosimile. Il negozio di Arturo era chiuso, dentro c’era il nipote intento a spolverare gli scaffali, si fece aprire e comperò un quotidiano locale sforzandosi di mascherare la delusione, cercò la notizia dell’incidente di cui aveva parlato il geometra al telefono, ma non la trovò, neanche il ragazzo ne sapeva niente. La cosa avrebbe dovuto insospettirla e portarla ad approfondire l’argomento, se così avesse fatto il suo futuro sarebbe stato senz’altro migliore, lei però non vi fece caso, si strinse nelle spalle e uscì all’aperto dove l’aspettava la sorpresa di un profumo che non sentiva da una vita e che le fece salire le lacrime agli occhi, sembrava baccalà…, baccalà in umido, alla vicentina, impanato, mantecato, stufato, con le olive, le acciughe, i pomodori… Chiuse gli occhi e si diresse verso la parte alta del paese, nel deserto dei suoi pasti precotti, delle sue buste di risotto ai funghi e di leberkäse con doppia senape e patatine, un simile profumo era da considerarsi al pari di un miraggio. Imboccò la strada sinuosa che portava al castello, ogni tanto ai lati s’aprivano dei
vicoli, una corte, una piazzetta con una fuga di porfido e una fontana, l’aria era umida e calda, incollava i vestiti alla pelle e annebbiava la mente, Beatrice camminava svelta e a ogni o si sentiva trasportata in un sogno a cui da tempo non pensava, avvertiva la stessa atmosfera dorata di quando bambina guidava i suoi prodi contro i nemici che minacciavano il paese, esplorava i boschi alla ricerca d’improbabili tesori o setacciava i sentieri per leggere sulle pietre dei muri e dei selciati i segni lasciati dalla storia. Erano ati tanti anni dal tempo in cui trascorreva i pomeriggi a scavare attorno a un sasso marcato da una croce, ma l’emozione che provava sembrava non tenerne conto. Le ombre erano ormai lunghe, qualcuno irrorava le viti contro gli ultimi parassiti della stagione, si sentiva euforica, anche il sentore del veleno spruzzato poco lontano non riusciva a innervosirla. Dodici ore prima era seduta nel suo salotto tedesco a chiedersi come risolvere un problema che era venuto a turbare il suo quieto malessere, e ora respirava a pieni polmoni quell’odore pungente che, ne era sicura, si sarebbe annidato in qualche suo alveolo per avvelenarle il sangue. Beatrice si sedette su una panchina e si guardò attorno. Alle sue spalle il castello s’alzava ripido sulla montagna, alla sua destra scorreva un torrente in secca, poco più in là una chiesetta nascosta tra le viti osservava la valle. I rumori erano soffocati, l’autostrada rombava lontano, ogni tanto un insetto le ronzava attorno, la guardava e se n’andava per la sua strada. Era tornata a casa e stava bene, Alfredo le mancava, ma si sentiva di nuovo forte, in pace con se stessa. Aprì le braccia e respirò a fondo, avrebbe voluto rimanere su quella panchina tutta la sera, sdraiarsi sul sedile e lasciarsi andare al sonno, ma era tardi e aveva fame, così s’alzò in piedi e a malavoglia tornò a scendere verso il paese. Arrivò nella piazzetta dove abitava che era quasi buio, la trattoria era aperta, chiese polenta e baccalà e qualcuno si mise a ridere, lo sapeva che era un miraggio…, s’accontentò di un piatto di gnocchi di cui da tempo aveva dimenticato il sapore, fu lì che ricevette il bagno di folla, il suo primo bentornata a casa. Così in poco più di un’ora, giusto il tempo per degustare un marzemino denso e scuro che faceva lacrimare gli occhi, venne a sapere tutto quello che aveva perso negli ultimi dieci anni di vita. Nessuno le disse, né certo poteva farlo, quello che l’aspettava il giorno dopo e questo di sicuro non le fu di giovamento. Più tardi ripensando a quei momenti, si sarebbe sorpresa della sua ingenuità, era difficile immaginare che un dipendente comunale, per quanto ligio ed efficiente, rincorresse un utente per mezza Europa nella domenica che precede
Ferragosto… Forse aveva bisogno di una scusa per tornare a casa, il geometra gliel’aveva offerta e lei l’aveva colta al volo. Così adesso, seduta sui gradini appena dentro il cancello, non doveva stupirsi se avvertiva un peso gravarle sulle spalle, l’effetto del marzemino stava svanendo lentamente, si sentiva lucida e ancora serena, addirittura eccitata per l’accoglienza appena ricevuta, ma non aveva voglia di salire di sopra dove l’aspettavano polvere, scarafaggi e un letto da preparare. Era stato un buon rientro, migliore di quanto s’aspettasse, si disse appoggiandosi all’indietro sugli scalini e respirando a fondo, nell’aria c’era un leggero sentore di letame, un lezzo che un tempo le dava la nausea e che ora le sembrava familiare come le risate che provenivano dal bar. D’un tratto le tornarono in mente i coniugi morti nell’incidente stradale e tutta quell’allegria le sembrò fuori luogo, si era dimenticata di chiedere chi fossero e nessuno ne aveva parlato, la cosa cominciava a incuriosirla. Stava pensando di tornare nel locale o almeno di spingersi fino al muro dove un tempo venivano affissi gli annunci mortuari, quando il trillo del telefono attirò la sua attenzione. S’alzò di scatto e raggiunse la porta saltando i gradini a due a due, si chiedeva chi fosse a chiamarla, nessuno sapeva dov’era, nemmeno Alfredo, ma era contenta di non aver disdetto l’allacciamento telefonico, manteneva la casa viva, come la luce, l’acqua e il gas. Cercò le chiavi e la borsa le cadde a terra, la raccolse assieme alla scatola di antidepressivi ancora sigillata che si portava dietro da giorni, entrò e accese la luce, buttò tutto sul tavolo e corse all’apparecchio che continuava a suonare. - Pronto? – chiese dimenticando di colpo dieci anni di “Hallo?” tedeschi – pronto? – provò di nuovo. La linea era muta, non c’era un rumore, nemmeno un respiro che turbasse il silenzio, poi un “clic” leggero come un soffio chiarì la situazione. Qualcuno doveva aver sbagliato numero, si disse abbassando la cornetta, nessuno sapeva che era lì, quindi non poteva essere che un errore. Andò in bagno, poi salì al piano di sopra per preparare il letto nella sua stanza, quella dei genitori era più spaziosa, più fresca e aveva il telefono, ma a lei non era mai piaciuta. Aveva appena finito e si stava sdraiando quando l’apparecchio riprese a suonare, s’alzò pensando che doveva acquistare una prolunga per spostarlo sul suo comodino. - Pronto? – ancora silenzio – pronto?, chi è? – ripeté con la voce incrinata dal
dubbio. Un altro clic e la linea era di nuovo libera, si chiese chi potesse farle uno scherzo del genere, pensò agli amici incontrati in trattoria, ma era più facile credere a un’interferenza, a un problema tecnico… Spense la luce e si rimise a letto, ma non cercò di addormentarsi, rimase in attesa e due minuti dopo il suono del telefono riprese a perforarle il cervello. Beatrice tornò ad alzarsi, era turbata e quando sollevò la cornetta rimase in ascolto senza parlare, dall’altra parte c’era solo silenzio, un lungo, freddo e fastidioso silenzio, poi avvertì un sospiro profondo e la linea che veniva interrotta. Scese di sotto per prepararsi qualcosa di caldo, rovistò in dispensa finché trovò della camomilla solubile scaduta da tempo, ne preparò una tazza pensando che era solo erba secca, che forse non l’avrebbe calmata, ma nemmeno avvelenata, poi se ne tornò a letto. Dormì poco e male, il letto era stretto e scomodo e le sembrava di avere dei bozzi sotto la schiena, sognò di una festa paesana in cui incontrava gente che fingeva di non conoscerla, le immagini si rincorrevano tra un risveglio e l’altro, cambiavano intensità ma rimanevano uguali. Alle sette decise di smetterla, s’alzò per spalancare le imposte, poi tornò a letto con un libro e vi rimase a leggere fin quasi alle otto. Solo allora si sentì pronta per fare quello che doveva fare. Non perse tempo a prepararsi il caffè che in ogni caso sarebbe stato imbevibile come la camomilla della sera prima, prese la macchina e si diresse verso il municipio, parcheggiò poco lontano, nella piazzetta di fronte alla banca, prelevò del denaro allo sportello automatico, poi entrò nel bar per gustarsi un espresso come da tempo non beveva. Trovò altra gente cordiale, ancora sorrisi e saluti, cominciava a farci l’abitudine, cercò di sbrigarsi, rinunciò alla brioche che la tentava dal bancone e andò in Comune dove l’aspettava la prima sorpresa della giornata. L’impiegata non sapeva niente della telefonata che l’aveva raggiunta in Germania, il geometra era in ferie fino a Ferragosto e a lei non restava che aspettare il suo rientro oppure accontentarsi di quanto potevano scoprire consultando la pratica in questione. Tempo un minuto e sullo schermo del computer apparve la scadenza ancora lontana della concessione cimiteriale di famiglia, la ragazza le rivolse un sorriso indulgente che virò in leggero fastidio quando, per ben tre volte, dovette assicurarle che non c’erano stati incidenti negli ultimi giorni da quelle parti. Beatrice si disse che doveva esserne contenta, ma non lo era, per niente. Ringraziò, salutò e si scusò del fastidio arrecato, era il minimo che potesse fare,
se ne andò lasciandosi alle spalle l’immagine di una donna confusa che non le piaceva affatto. Tornò al bar per un altro caffè, ma era pieno di gente che conosceva, così si diresse verso il supermercato poco lontano, convinta che non ci fosse niente di meglio che spendere un po’ di denaro per ritrovare se stessa. Solo più tardi, mentre sistemava la spesa in macchina, si rese conto di aver già preso una decisione, senza nemmeno accorgersene aveva scelto di aspettare il rientro del geometra, voleva capire cosa ci fosse sotto quella faccenda e di colpo le era ata la voglia di partire per le ferie, il lago e la montagna non l’attiravano, il mare in agosto l’angosciava…, si sarebbe fermata poco, solo qualche giorno. Beatrice era convinta di fare la cosa giusta, la migliore, eppure, ripensandoci, avrebbe fatto bene ad affrontare i venti chilometri di coda previsti per quel giorno all’uscita Rimini Nord dell’A14, piuttosto che fermarsi in paese, ma del senno di poi nessuno sapeva che farsene, nemmeno lei. Il pomeriggio si trascinò lento, spolverò alcune cose, curiosò in cassapanche che sembravano enormi scatole di cartone pressato e in armadi di legno opachi per l’incuria. Fuori il sole bruciava implacabile, da anni non era abituata a simili temperature, sudava anche senza far niente, beveva e beveva cercando di annacquare i ricordi che premevano in lei per uscire. Il telefono taceva, tutto il paese taceva, non c’era un cane che abbaiava, neanche un clacson o un motorino che desse fastidio, niente, mancava poco Ferragosto e, malgrado l’afa, chi era potuto partire era partito lasciando il paese sotto lo choc del silenzio. Alle cinque era già stanca di rivangare il ato, rimise a posto un cassetto pieno di vecchie fotografie e s’avvicinò alla finestra, fuori il cielo era limpido, azzurro come in una cartolina, non c’era una nuvola, neanche un’ombra opaca che potesse far sperare in un acquazzone che lavasse l’aria dalla polvere accumulata da giorni. Si cambiò e uscì. All’esterno il caldo era insopportabile, si fermò indecisa sul poggiolo, poi si fece coraggio e imboccò le scale, arrivata al cancello sentì il suono del telefono, ma non era sicura che fosse il suo, per cui lasciò perdere e proseguì verso la piazzetta. Questa volta si spinse fino al cimitero. La tomba di famiglia era semplice e ordinata, sul marmo grigio spiccava un sempreverde con le foglie lucide macchiate di chiaro, una lampada perenne rilasciava un leggero chiarore proprio sotto un crocifisso di ottone. Beatrice tolse qualche foglia ingiallita, spolverò la
lapide, poi provò a recitare una preghiera, ma quella che le venne in mente era in latino e non riuscì a concluderla. Al ritorno imboccò di nuovo la strada per il castello, questa volta decise di arrivare fin sotto i bastioni dove sapeva di poter trovare l’aria più fresca del mondo. Camminò piano per controllare l’affanno, i muri che sostenevano i campi erano quelli di un tempo, le pietre della stradina erano levigate come ciottoli di fiume e un paio di volte scivolò e rischiò di cadere, ma non s’arrese. Quando si ritrovò sotto la cinta muraria aveva i capelli appiccicati alla fronte e un cattivo odore addosso, ma era contenta, la valle le si apriva davanti limpida come la ricordava, guardando le case più in basso, il fiume e i paesi che si alternavano sulle sue sponde, le venne un nodo in gola e avrebbe voluto avere Alfredo vicino. Cercò di non pensarci, salì l’ultimo tratto di strada ed entrò nel castello, era tardi e mancava poco alla chiusura, ma ancora una volta venne accolta dal solito abbraccio caloroso. I sassi che segnavano la stradina interna erano candidi, in fianco c’erano gerani rossi, vigne coi grappoli ancora acerbi e, più su, la Casa delle guardie con gli affreschi che la incantavano da bambina. Si perse per i viottoli lasciando ai suoi piedi il compito di guidarla, poi tornò verso il basso per mangiare qualcosa al ristorante aperto nelle scuderie. Avrebbe voluto fermarsi di più, ma era tardi e poco dopo s’avviò all’uscita. Le ombre si erano fatte lunghe, non era buio ma lo sarebbe stato tra non molto. Scese per il sentiero stretto che attraversava il prato, ò sul torrente in secca che più in basso tagliava il paese a metà e raggiunse una chiesetta che se ne stava in bilico su un dosso, come una sentinella dimenticata lì da qualche esercito di aggio. Seduta sugli scalini con la schiena appoggiata alla porta di legno scheggiato, Beatrice si lasciò andare ai ricordi e si ritrovò con le lacrime agli occhi. Non era la prima volta che le succedeva in quel posto, l’ultima risaliva alle insicurezze amorose della sua adolescenza, a quel tempo di lì non ava nessuno e lei poteva permettersi qualsiasi cosa, perfino di scoppiare a piangere. Si soffiò il naso e si asciugò il viso, era ormai buio, ma non aveva voglia di rientrare, così tornò a immergersi nei suoi pensieri e non s’accorse dell’ombra che si stava avvicinando sulla strada. Quando udì il rumore di un o sulla ghiaia, alzò lo sguardo e sentì il cuore esploderle in petto, spostò gli occhiali sul naso finché distinse qualcuno che avanzava nell’oscurità, poteva essere chiunque, ma a lei tornò in mente il telefono che squillava a vuoto e si lasciò prendere dal panico.
S’alzò di scatto maledicendo la sua apprensione, finse indifferenza, si spazzolò il retro dei pantaloni, poi alzò gli occhi sull’ombra ormai vicina e non capì più niente, afferrò la borsa e imboccò di fretta il sentiero che portava alla strada principale. Verso la fine smise ogni ritegno e si ritrovò a correre scomposta, si sentiva ridicola e avrebbe voluto rallentare, girarsi per controllare se qualcuno la stesse davvero seguendo, ma non ne fu capace e riuscì a fermarsi solo quando raggiunse le prime case del paese. Lì s’appoggio a un muro sotto un lampione, piegò il busto in avanti e mise le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, poi finalmente buttò uno sguardo all’indietro per scoprire quello che già sapeva, non c’era nessuno. Si sedette su una panchina a meditare su quanto fossero fragili i suoi nervi, era tutta colpa di Alfredo, ne era convinta, poi riprese il cammino verso il basso, era ancora scossa dall’adrenalina che per qualche istante aveva infiammato il suo sangue, non aveva fame, ma sentiva il bisogno di bere qualcosa di forte, era stata una sciocca a mettersi a correre in quel modo, quello era il suo paese, non il quartiere malfamato di una metropoli, si disse entrando nel bar di fronte a casa. Ordinò un grappino e lo trangugiò in un soffio, ne chiese un altro e qualcuno si girò a osservarla incuriosito, lei avrebbe voluto spiegare che di solito non beveva superalcolici, che le mettevano addosso una malinconia e un torpore che poi le era difficile scrollarsi di dosso, ma si limitò a sorridere e ad alzare le spalle, quella era un’occasione speciale e se non fosse stata nel posto in cui era, si sarebbe scolata un’intera bottiglia di cognac. Non si fermò molto, i pochi clienti del locale stavano guardando una partita alla televisione e lei non era più una novità per nessuno, un maresciallo dei carabinieri basso e tarchiato giocava a carte con un bell’uomo dai capelli corti e folti, alle loro spalle due ragazzi litigavano per qualcosa che era scritto sul giornale, come il giorno prima non c’erano donne, forse erano tutte in vacanza, forse no. L’alcool cominciava a farle effetto e aveva voglia di andare a dormire, ma ancora non se la sentiva di chiudersi in casa, mangiò un gelato e cominciò a parlare col marito di un’amica che non vedeva da una vita, s’informò della salute, dei figli, del lavoro, poi raccontò della Germania, delle novità incontrate in paese e senza volerlo si ritrovò a ridere dell’avventura vissuta poco prima ai piedi del castello. Solo dopo aver scherzato sui suoi stupidi timori, si sentì abbastanza tranquilla da rientrare in casa, attraversò la piazzetta con o sicuro, varcò il cancello e lo
chiuse a doppia mandata. Alle dieci era già a letto, senza libri e con la luce spenta, era stanca, ma si sentiva bene, aveva ritrovato un certo equilibrio emotivo e il sonno non si fece attendere. Quando aprì gli occhi pensò che fosse mattina. Il rettangolo buio della finestra la convinse a richiuderli e a girarsi sul fianco per trovare una posizione migliore. Stava scivolando di nuovo nel sonno quando le tornò in mente la mucca che anni prima viveva legata nella stalla dei vicini, dalla sua camera la sentiva spostarsi e sfregarsi con un tramestio strano e continuo che ora le sembrava di udire di nuovo, era stato quel rumore a svegliarla. S’alzò piano per guardare dabbasso, oltre le imposte accostate non si vedeva niente, la luna era coperta da un’unica spessa nube che pareva d’argento e la luce dei lampioni della piazzetta arrivava a lambire solo i primi gradini della scala, il resto del cortile era nero come la pece, ma il rumore era cessato, il cancello era chiuso a chiave e da vent’anni non c’erano mucche nei dintorni. Tornò a letto, accese la luce e guardò l’ora, erano quasi le due e non aveva più sonno, così decise di scendere a bere qualcosa. Da piccola si portava sempre un bicchiere d’acqua da tenere sul comodino, non la beveva per non dover poi andare in bagno, le bastava averla vicino per non sentire la sete. In un armadietto della cucina trovò una bottiglia di marsala quasi vuota, se la portò alle labbra e assaggiò un sorso di quello che un tempo era un nettare e ora pareva un insipido intruglio, lo sputò nel lavandino e si sciacquò la bocca. Fu a quel punto che sentì di nuovo il rumore, uno scalpiccio leggero che veniva da poco lontano. S’avvicinò alla finestra per ascoltare meglio e ancora una volta avvertì uno strano fruscio, cercò di sdrammatizzare, si disse che in cortile c’era un boa di dodici metri che trascinava le sue squame sul cemento, che stava fuggendo e che tra non molto sarebbe ato tra le stecche del cancello per dileguarsi nella piazzetta. L’idea non la divertì affatto, così decise di uscire per dare un’occhiata, l’alternativa di chiamare i carabinieri l’attirava ancor meno, quella di tornare a letto e far finta di niente era addirittura impensabile. Accese la luce esterna e andò sul poggiolo, di nuovo il rumore era cessato, la luna si era lasciata alle spalle la nuvola grigia e splendeva libera in cielo. Beatrice si guardò attorno, da dove si trovava poteva distinguere una formica aggrappata al bordo esterno del poggiolo, al di là della ringhiera, però, il buio era ancora più fitto di prima, si girò per assicurarsi che la porta rimanesse socchiusa e fu allora che avvertì la prima stretta di panico. Uno scalpiccio veloce e un tonfo metallico la costrinsero a voltarsi, guardò il cancello che sembrava chiuso
come l’aveva lasciato, qualcuno era uscito sbattendolo con forza, ma in giro non c’era nessuno e lei tremava vistosamente. A quel punto la cosa migliore era rientrare in casa e attaccarsi al telefono, Beatrice invece cominciò a scendere le scale ubbidendo a un impulso che rasentava l’incoscienza. Ad attirarla verso il basso era stato qualcosa di scuro che, a forza di strizzare gli occhi, era riuscita a vedere in mezzo al cortile, sembrava un grosso fagotto cilindrico, una coperta che nascondeva un cesto, forse una piccola botte. o dopo o arrivò all’ultimo gradino, ora davanti a lei si stagliava la sagoma del portico con la scala che saliva al soppalco dove chiunque avrebbe potuto nascondersi per saltarle addosso, sulla parete alla sua sinistra c’era la tenda con l’uscio che portava alle due stanzette umide e fredde in cui da ragazzina fingeva di abitare. Beatrice aveva lo stomaco contratto dalla paura, avrebbe voluto tornare indietro, ma c’era quella coperta che l’attraeva, non poteva lasciarla lì e tornarsene di sopra come se niente fosse, così si fece coraggio e proseguì. Era scalza e sotto i piedi avvertiva la rugosità del cemento del cortile, ora la luce della piazzetta illuminava il suo cammino restituendo alle cose il contorno di sempre, non c’era nulla di cui aver paura, si disse per calmarsi, nulla… Trasse un respiro profondo e allentò la morsa delle mani chiuse a pugno, poi si piegò per sfiorare il fagotto che aveva davanti e fu a quel punto che la flebile luce che aveva accompagnato i suoi ultimi i, si spense all’improvviso. L’ultimo suo pensiero prima di svenire fu per il sottoscala buio, l’ultima sensazione invece fu qualcosa di morbido nascosto sotto la coperta che sapeva di muffa, poi ci fu solo il buio. Quando rinvenne accanto a lei non c’era nessuno, nessuna persona pronta a ucciderla, nessun fagotto informe, niente, se non fosse stato per il bernoccolo che si sentiva pulsare tra i capelli, avrebbe potuto pensare di essere scivolata da sola, di aver fatto soltanto un brutto sogno. Si mise seduta, la testa le faceva male, cercò con le dita il punto che più le doleva e quando si guardò la mano la vide sporca di sangue, la luna si era liberata dalle ultime tracce di nuvole e non lasciava dubbi sulla sostanza che le macchiava la pelle. Sentì un senso di nausea salirle in bocca, si chiese se fosse paura o commozione cerebrale, nel primo caso avrebbe dovuto alzarsi e scappare lontano, nel secondo sdraiarsi e aspettare, ma aspettare chi? Decise per la prima ipotesi, s’alzò e appoggiandosi con la mano al muro, raggiunse con cautela il cancello, provò ad aprirlo, ma non ci riuscì, era chiuso a chiave.
Beatrice si sentì presa da un vortice e dovette aggrapparsi alla maniglia per non cadere all’indietro, non era lucida, non riusciva a capire come mai il cancello che prima aveva chiuso a chiave e che poi aveva sentito sbattere da qualcuno che usciva, ora fosse di nuovo come l’aveva lasciato, quando si era sbagliata?, prima, dopo oppure alla fine? Tornò indietro, salì le scale ed entrò in casa chiudendosi la porta alle spalle. Sul lavandino c’era la bottiglia di marsala, ne bevve un sorso chiudendo gli occhi per il dolore alla nuca, poi si fece coraggio e cominciò a spostarsi in tutte le stanze accendendo le luci, in casa non c’era nessuno, almeno su questo poteva stare tranquilla. Stava per tornarsene a letto, quando le venne in mente il fagotto in mezzo al cortile, sotto la coperta un po’ ruvida c’era nascosto qualcosa, ne era sicura, prese il telefono e chiamò i carabinieri. Quando il maresciallo Saluzzo parcheggiò la camionetta accanto all’automobile di Beatrice, mancava poco all’alba, il cielo era ancora buio e l’aria era fresca e frizzante come lui avrebbe voluto fosse sempre. La chiamata era arrivata nel pieno del suo primo sonno, ma non si era arrabbiato, non era colpa di nessuno se dormiva poco e male, stava invecchiando e il traguardo della pensione era vicino, fin troppo vicino, comunque gli piacevano le uscite notturne, davano spessore alla sua professione, la distingueva da tutte le altre, peccato fossero così rare. Un brav’uomo qualunque, magari con famiglia, incensurato, cattolico praticante e politicamente retto, se girava in paese in piena notte e a velocità sostenuta, destava sospetti, faceva pensare all’alcool, a un’amante segreta se non a qualche malaffare insospettato. Lui, invece, se correva con la sua amata camionetta su per le stradine del paese, destava stupore, curiosità, meraviglia, addirittura ammirazione. Era il bello dell’appartenere all’arma, pochi carabinieri lo ammettevano, ma tutti lo sapevano. Saluzzo era un buon uomo, onesto e decisamente ingenuo, aveva una visione di se stesso e della sua professione che non corrispondeva esattamente al senso comune, ma non ci si poteva lamentare, in giro c’era di peggio, sia dentro che fuori la Benemerita. Beatrice lo stava aspettando alla finestra della cucina, quando lo vide arrivare scese di sotto per aprirgli il cancello, non era solo, con lui c’era un ragazzo alto con gli occhi chiari che sembrava un cherubino, si chiamava Germano, non si capiva se di nome, di cognome o addirittura di soprannome, considerato che parlava con accento siciliano. Al telefono erano stati gentili, perfino premurosi,
in casa però i loro toni erano cambiati e le loro domande si erano fatte via via più distaccate, forse anche un po’ canzonatorie. Beatrice era consapevole delle stranezze legate alla sua storia, ma pretendeva di essere creduta e rispettata, non le piaceva sentirsi trattata come una donnina dalle idee confuse e dai nervi fragili, per niente. Dopo dieci minuti era chiaro che i due carabinieri non le credevano affatto, le loro domande erano dovute, del tutto plausibili, ma le venivano poste con una condiscendenza che le annebbiava la mente. “Quando ha sentito il rumore?, cosa ha visto esattamente?”, e poi “ma è proprio sicura di aver chiuso il cancello a chiave?, di solito dorme bene?, prende calmanti o sonniferi prima di coricarsi?, magari alcool?, le piace il marsala?”, e via di seguito. Di certo ai due uomini non era sfuggita la bottiglia sull’acquaio e forse neanche gli antidepressivi dimenticati sul tavolo. Sembrava fossero convinti di aver a che fare con una disturbata, una donna più da compatire che da rimproverare. La cosa la fece star male, la mise in imbarazzo e mentre le guance le diventavano rosse, anche la lingua cominciò a tradirla, le pareva di non essere più in grado di esprimersi correttamente, faticava a trovare le parole, come in Germania quando annaspando si buttava in argomenti difficili da dipanare. Dopo quaranta minuti di pena, non vedeva l’ora che se ne andassero, s’alzò in piedi sperando che fero altrettanto, ma loro non si mossero e lei avrebbe voluto tappare la bocca al maresciallo che raccontava con estro la sua disavventura sotto il castello, citava le sue stesse parole, ricordava i suoi timori fuori luogo, i due grappini bevuti con disinvoltura…, non era piacevole, per niente. Beatrice si sentiva accaldata e consapevole delle macchie di sudore che si allargavano sotto le sue ascelle, e avrebbe voluto mettersi a urlare. Alla fine se n’erano andati chiedendole di are in caserma per formalizzare la denuncia, erano stati gentili, uno sembrava un padre angustiato dalla fragilità della figlia, l’altro un detective mancato, pieno di buoni propositi ma privo di spessore, “vada a letto e ci pensi un po’ su, non c’è fretta, e non si preoccupi se decide di lasciar perdere”, avevano detto, in altre parole “torni a dormire e si dia una calmata!” Beatrice fece finta di non capire e disse che sarebbe ata in mattinata, ma li avrebbe gettati volentieri dalle scale, tutti e due, anche l’angelo biondo che a un certo punto s’era fermato per indicare al suo capo come da lì qualcuno un po’ instabile sulle gambe, avrebbe potuto scivolare e andare a sbattere contro il
pilastro che sorreggeva il portico poco lontano. Lei era sul poggiolo ma l’aveva sentito con chiarezza, mezzo paese l’avrebbe sentito se a quell’ora fosse stato sveglio. Il maresciallo aveva scosso la testa senza dir niente, forse anche a lui sembrava difficile sbattere la testa in un punto e risvegliarsi tre metri più in là. Li lasciò andare senza chiudere il cancello, la cosa migliore era tornarsene a letto, ormai era l’alba e non avrebbe ripreso sonno, ma tanto valeva sdraiarsi e riposare, buttò la maledetta bottiglia di marsala e andò in bagno. Stava tornando per la seconda volta a controllare la chiusura della porta, quando il telefono si mise a suonare e la fece sobbalzare come un automa. Tese la mano indecisa se staccare la cornetta, una parte di sé sperava fosse il maresciallo che voleva accertarsi che tutto andasse bene, l’altra sapeva che non era così e aveva ragione. - Pronto? – il solito silenzio rotto da un respiro leggero, quasi impercettibile. – Pronto?, chi c’è in linea?, guardi che se non risponde riattacco – stava per farlo quando le parve di avvertire un rumore, non era una voce, sembrava piuttosto uno strano brusio. - Pronto?, pronto… – provò ancora una volta, niente – sa che le dico?, vada all’inferno! – e riappese con tutta la forza che aveva. Questo era troppo!, Beatrice aveva le gambe che tremavano e le mani che non riuscivano a star ferme, andò a lavarsi la faccia, poi tornò al telefono per chiamare i carabinieri. Sollevò la cornetta, ma non compose il numero, a impedirglielo fu l’immagine sorniona del maresciallo che sorrideva ascoltando quello che sembrava un misero tentativo di rendere interessante una storia bislacca, magari le avrebbe chiesto se dal marsala era ata a qualcosa di più forte… Prima aveva commesso l’errore di non accennare alle telefonate e parlarne adesso era poco credibile, così lasciò perdere, non aveva voglia di sorbirsi ulteriori battute sarcastiche. Tornò a letto a rimuginare su quanto era successo, pensava di non dormire e invece crollò in un sonno lungo e pesante, quando si svegliò il sole era già alto e lei aveva trovato di nuovo se stessa. Era calma e decisa, quasi avesse trascorso ore a chiarirsi le idee, sapeva cosa doveva fare, doveva andarsene, solo andarsene, non aveva alcun motivo per fermarsi, neanche aspettare il geometra aveva più senso, forse non avrebbe mai capito chi l’avesse chiamata in Germania e per quale motivo, ma a quel punto preferiva vivere nell’ignoranza.
Scese dabbasso per fare colazione, aprì il frigorifero e guardò desolata tutto il ben di dio che aveva comperato il giorno prima, non sapeva che farne, qualcosa poteva portarsela dietro, ma non tutto. Cercò la chiave col talloncino giallo, era sicura che nei locali a piano terra ci fosse un vecchio frigorifero portatile. Sulle scale le tornò in mente la scena di poche ore prima, ma era tutto così diverso, assurdo, il sole era alto e forse i carabinieri avevano ragione nel credere che le era dato di volta il cervello, che aveva avuto un’allucinazione da marsala e si era colpita in testa da sola per perdere i sensi. In cortile scostò la tenda che nascondeva l’entrata di quello che da ragazzina considerava il suo regno, due stanzette senza servizi, fredde, umide e piene di muffa e scarafaggi, un paradiso... Inserì la chiave cercando di girarla nella serratura, tentò un paio di volte senza successo, l’estrasse e provò a capovolgerla, niente, non entrava nemmeno. Non riusciva a capire e cominciava a innervosirsi, controllò il talloncino, poi fece un altro tentativo e un altro ancora, scosse la maniglia con forza, spostò la tenda per sbirciare dalla finestra che stava a due i, ma le imposte erano chiuse e del tutto impenetrabili. Beatrice era perplessa, tornò sotto il telo e provò ancora una volta ad aprire la porta, niente, la chiave non sembrava difettosa, l’ultima volta che l’aveva usata funzionava perfettamente, per cui veniva da pensare al peggio, forse qualcuno in sua assenza aveva cambiato la serratura per utilizzare le stanze…, magari la stessa persona che l’aveva colpita in testa la notte prima… Era un’ipotesi strana ma plausibile, si disse dando una spallata allo stipite, ora aveva caldo e cominciava a mancarle l’aria, così decise che ne aveva abbastanza, si spostò per uscire alla luce del sole e si scontrò contro qualcosa di solido e inaspettato. La tenda che Beatrice aveva davanti non era più un drappo morbido e polveroso, d’un tratto aveva preso consistenza e sembrava nascondere un corpo rigido e minaccioso, trasse un grido e subito si ritrovò a rivivere le emozioni di qualche ora prima, qualcuno la stava aggredendo e le impediva di uscire, non sapeva chi fosse, ma questa volta non si sarebbe fatta prendere dal panico, doveva reagire, colpire con forza. Per un attimo immaginò il maresciallo osservarla lottare contro i suoi fantasmi e si sentì ridicola, magari era venuto a cercarla e ora si stava prendendo i suoi pugni in faccia… Con uno strattone lacerò la tenda cotta dal sole e la strappò dal sostegno che stava sopra di lei, fece in tempo a incontrare due occhi scuri che la guardavano stupiti, poi cadde a terra graffiandosi le ginocchia sul cemento. Stava per rimettersi in piedi quando il paletto di metallo che tratteneva gli anelli della tenda pose fine al suo goffo
dimenarsi, udì un colpo secco e una botta in testa, la seconda in poche ore, decisamente troppo, e le si annebbiò la vista. Chiuse gli occhi, ma non svenne, non completamente almeno, la paura dello sconosciuto che le stava davanti le diede la forza di non perdere i sensi, forse aveva una pistola, forse era tornato per far sparire una testimone scomoda, era un classico e lei doveva reagire..., si fece coraggio, scosse il capo, strizzò gli occhi, una volta, due volte, poi, lentamente, tornò a vedere. Osservato dal basso l’uomo sembrava meno bello di quanto in effetti era, aveva una smorfia che gli deformava la faccia, dovuta forse alla sorpresa o all’affanno per la lotta sostenuta, era alto, muscoloso, pericoloso... Beatrice lo guardò meglio, i suoi capelli corti che si spingevano verso il centro della fronte le sembravano familiari, decise di non fidarsi e si scagliò con tutte le forze contro i suoi jeans che dal punto in cui si trovava, le parevano fin troppo stretti. Forse gridò, o forse no, lui di sicuro trasse un urlo mentre cadeva all’indietro trascinandola sopra di sé. La cosa più logica era puntare agli occhi, si disse Beatrice, tutti i corsi di autodifesa a cui aveva partecipato, suggerivano colpi ai testicoli e unghie negli occhi e vista la posizione in cui si trovava le sembrava logico optare per la seconda ipotesi. L’idea delle sue unghie rosicchiate che penetravano fin dentro ai bulbi oculari di qualcuno, però, la faceva svenire più delle botte in testa, così puntò alla gola, mani attorno al collo e pollici sotto il pomo d’Adamo, premere con forza e più a lungo possibile… Era orribile, certo, addirittura inconcepibile per una che si era sempre battuta contro ogni forma di violenza, ma aveva di fronte un delinquente della peggior specie, uno che la tempestava di telefonate, che disseminava di strani fagotti il suo cortile, che la picchiava in testa… L’idea di strozzarlo era buona e avrebbe funzionato se anche lui non avesse avuto due mani con le quali allargare la morsa delle sue dita e un corpo con muscoli decisamente più prestanti ed elastici dei suoi, un colpo di reni e in un attimo si ritrovò di nuovo a terra. - Ma è pazza?, cosa voleva fare, strangolarmi? Lei non rispose, preferiva concentrarsi sulla prossima mossa, le rimanevano pur sempre i testicoli… - Ehi, ferma, non ci provi nemmeno! – urlò lui intuendo la mossa.
Beatrice tornò a scrutarlo con attenzione, l’uomo non sembrava un delinquente e men che meno un mostro, anzi, era fin troppo bello, era alto e ben proporzionato, aveva un viso regolare, un po’ spigoloso, ma perfetto per il taglio di capelli che portava, aveva anche un sorriso stupendo. Nell’insieme, quindi, non somigliava per niente all’idea di malvivente incallito o di delinquente psicotico che si era fatta, rimase seduta a terra con il cemento che le graffiava il palmo delle mani e il cuore che le batteva in gola, lo guardò rimettersi a posto, alzarsi e spolverarsi con cura i pantaloni, era di nuovo calmo, ma continuava a tenerla d’occhio e a brontolare. - Roba da matti – disse lui porgendole la mano per aiutarla ad alzarsi. Ormai Beatrice aveva perso la carica e con essa anche l’energia per reagire, avrebbe voluto dargli un pugno, ma non ne aveva la forza e lasciò perdere, si tirò su da sola fingendo una calma che non provava. - Cosa ci fa qui?, questa è casa mia, quello è il mio cancello e questo è il mio cortile, chiaro? - Mai avuto dubbi. - E allora perché è qui e perché mi è saltato addosso? - Cos’è che avrei fatto?, ma sta scherzando? – si mise a ridere e gli occhi gli sparirono dietro una sfilza di piccole rughe. - Mi ha colpito da dietro la tenda – lo guardò meglio, sembrava un attore del cinema. - Ma si figuri..., io l’ho vista entrare e uscire da lì sotto, l’ho anche chiamata ma lei non mi ha risposto, così mi sono avvicinato – pareva irritato, ma forse non lo era – mi dica, prende a calci tutti i suoi ospiti o ce l’ha solo con me? - Non sia ridicolo, è chiaro che ce l’ho con lei e solo con lei – ora ricordava dove l’aveva visto, al bar che giocava a carte col maresciallo – è sempre tra i piedi, mi telefona in continuazione, mi aggredisce… - Qui ci dev’essere un equivoco oppure la botta che ha preso in testa è stata più forte di quanto pensassi – ancora il suo sorriso strano – per quel che mi riguarda sono pronto ad assumermi le mie responsabilità, non le ho mai telefonato ma ho
qui la macchina e posso portarla al pronto soccorso. - Non faccia lo spiritoso, non verrei con lei neanche per tutto l’oro del mondo. - Perché no?, guardi che ho la patente in regola, la vuole vedere? - Ecco bravo, la tiri fuori. Lui scosse la testa continuando a sorridere, si tolse il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans e le porse la patente. Beatrice fece appena in tempo a leggere il nome, Wolfgang qualcosa, e l'anno di nascita, prima che lui la riprendesse lasciandola con meno dubbi ma a mani vuote. - Bene, ora sa chi sono, cos’altro vuole sapere? - Un mucchio di cose, per esempio che ci fa qui e cosa vuole da me – nome tedesco, patente italiana, trentacinque anni, occhi e capelli scuri… - Niente, se la mette su questo piano non voglio niente, anzi me ne vado, la saluto – si girò di scatto per andarsene, sulla maglietta portava ancora i segni della caduta, un po’ di polvere e qualche pagliuzza gialla, Beatrice s’impose di non toccarlo, non era mai stata una patita della pulizia, ma decisamente quell’uomo aveva delle spalle stupende. - Ma come?, viene qui, ne combina di tutti i colori, mi aggredisce o quantomeno mi spaventa a morte, poi saluta, fa l’offeso e se ne va? - Questa è bella – disse lui tornando indietro – sono io che avrei fatto tutte queste cose? - Certo, perché mi cercava? - Perché a un tratto lei è diventata famosa e io sono un inguaribile curioso – si stava togliendo qualcosa dai capelli, forse una pagliuzza invisibile – facciamo pace? - Io famosa? - Certo, lei, è da ore che al bar non si fa che parlare delle sue recenti vicissitudini, delle sue visioni notturne, se preferisce.
- Ma non è possibile…, chi le ha detto di me? – Beatrice guardò l’orologio, non era ancora mezzogiorno, aveva dimenticato qual era il bello del vivere in paese – non mi dica che ha giocato a briscola col maresciallo anche questa mattina… - Gli dovevo la rivincita. - A quest’ora?, ed è stato lui a raccontarle quello che mi è successo? - Non mi faccia parlare, non è da gentiluomini svelare i segreti di un maresciallo in piena fase investigativa – ora il sorriso era ampio, contagioso – posso solo dirle che la sua storia mi ha incuriosito al punto di venire a cercarla, io sono uno scrittore e… - Un giornalista? – Beatrice si sentì drizzare i capelli in testa al pensiero del suo nome sulla stampa. - Solo un poeta, al momento però sto raccogliendo materiale per un romanzo e la sua storia mi è sembrata particolarmente gustosa. - E bravo il nostro maresciallo… - Sì è bravo, sa chiedere e farsi ascoltare, ma ora mi piacerebbe sentire la sua versione, che ne dice di venire a pranzo con me? - Grazie, ma non posso, sto per partire. - Ma allora è vero che è successo qualcosa di grave…, la prego non scappi prima di avermi raccontato tutto, mi costringe a seguirla in Germania. - Io non sto scappando, per niente – ma aveva ragione lui, se la stava dando a gambe e questo non le piaceva, così decise di accettare l’invito, non era convinta che fosse la cosa giusta da fare, ma lei era un’istintiva e aveva voglia di parlare con qualcuno che le fosse simpatico. Lo lasciò seduto sugli scalini mentre tornava in casa per prendere la borsa e chiudere tutto. A quel punto il mal di testa c’era ancora, ma l’attribuiva più alla fame che alle sue disavventure, in fondo Beatrice era sempre stata un’ottimista.
La nostra è una terra di buchi, fosse profonde che sfiorano l’inferno.
Capitolo secondo
Loris spostò l’oculare su Proxima Centauri, non sempre riusciva a vederla, ma quella era una notte speciale e sembrava che la stella brillasse solo per lui, luminosa nel cielo scuro come l’inchiostro. Niente di strano, in fondo ogni cosa che gli stava attorno esisteva unicamente per la sua persona, era dai suoi lontani otto anni che in merito non aveva dubbi. Chiuse gli occhi per evitare che il pizzicore che sentiva salirgli dal naso, si trasformasse in lacrime, era stanco, molto stanco, si massaggiò le tempie, poi si piegò all’indietro e appoggiò le dita alle palpebre incandescenti. Era meglio chiudere tutto e andare a letto, pensò, forse non si sarebbe addormentato, ma almeno avrebbe disteso le gambe. Spostò il cannocchiale a infrarossi e lo ritrasse dalla fessura aperta appena sotto le tegole del tetto, non aveva senso star lì ad aspettare, la piazza era vuota e silenziosa, il cancello chiuso e le luci spente da ore. Sì, era meglio andare a dormire. Guardò il cellulare indeciso, poi alzò le spalle e si diresse verso la porta, doveva smetterla di chiamarla, l’aveva già fatto fin troppe volte e correva il rischio di spaventarla e di farla fuggire, sarebbe stata una tragedia... Spense la luce e scese di sotto. Doveva stare attento a dove metteva i piedi, la scala era stretta e girava in spirali sporche e prive di luce, i gradini erano irregolari e sconnessi e lui doveva muoversi in fretta trattenendo il respiro e incassando il collo tra le spalle. Non gli piaceva quel posto, era orribile e gli chiudeva la gola come una morsa, ma era così che lo voleva, brutto, sporco e buio, l’ideale per tener lontani i curiosi. Si curvò per are sotto le assi saldamente incrociate sui gradini più in basso, aprì la porta e si trovò sul terrazzo. L’aria era frizzante, aveva un buon sapore di fresco, di umidità, forse di rugiada. Anche lì il buio era completo, ma lui aveva gli occhi di un gatto e conosceva la strada, seguì il poggiolo che si sporgeva sul cortile ed entrò nel suo appartamento senza il minimo rumore. Per lui era sempre così, si era allenato fin da piccolo al movimento furtivo e silenzioso, si spostava come una brezza leggera, senza lasciar traccia dietro di sé. Non che in quel preciso momento vi fosse bisogno di un atteggiamento tanto guardingo, in casa non c’era nessuno, vicini non ne aveva, non da quel lato della strada almeno, e poteva fare tutto il rumore che voleva senza che qualcuno si lamentasse, ma il silenzio era una disciplina interiore, un’abitudine sana seppur
rigorosa, che gli era tornata utile in molte altre occasioni. Confidava di averne ancora bisogno, e al più presto anche. Andò in bagno per una doccia veloce, non era sporco, lo sapeva, si era lavato non più di tre ore prima, ma il aggio per il budello stretto della scala a chiocciola gli faceva uno strano effetto e non poteva pensare di andare a letto senza un’ultima rinfrescatina. Lui non si considerava un ossessivo, per niente, si lavava cinque, sei volte al giorno, spesso anche di più, ma solo perché viveva in una casa vecchia dove era facile farsi sfiorare dalla bava penzolante di qualche ragno schifoso, lui ne ammazzava più che poteva, ma era sicuro che da qualche parte ce ne fossero ancora tanti, a migliaia. Loris non aveva paura degli animali, grandi o piccoli che fossero per lui non erano un problema, da ragazzino prendeva i topi con le mani e li spiaccicava a terra o torceva loro il collo senza alcun timore, si divertiva a catturarli per immolarli sull’altare che si era costruito sul terrazzo, era andato avanti così per anni, poi aveva capito che non c’erano divinità a cui sacrificare nulla e aveva smesso. No, gli animali non lo preoccupavano, lui era forte e poteva farne quello che voleva, ma i ragni erano animali? Per quanto avesse letto tante argomentazioni a favore di tale ipotesi, Loris non ne era per niente convinto, da bambino si era fatto l’idea che di animale i ragni avessero solo il guscio, la sembianza, e che in realtà fossero l’incarnazione di qualche entità sconosciuta e maligna. Sembrava strano, ma era così, glielo aveva detto il nonno che di quelle bestiacce ne sapeva più di qualsiasi entomologo, da giovane aveva vissuto molti anni in Cile, in una hacienda che coltivava ragni e caffè, o viceversa, o forse solo caffè, non ricordava bene, quello di cui non dubitava era che quel posto pullulava di ragni, ce n’erano di tutti i tipi, alcuni grandi come una mano, altri che volavano e altri ancora che tessevano una ragnatela più resistente dell’acciaio, capace d’immobilizzare una mucca per succhiarne poi lentamente il sangue. Erano racconti ingenui e spudoratamente falsi che un adulto avrebbe trovato ridicoli. Un adulto però, non un bambino. Così Loris era cresciuto storpiato dalle sue paure, era convinto che il nonno avesse portato dal Cile oltre allo zaino colmo d’oro con cui aveva comperato casa e campi, anche una scatola piena di tarantole che avevano attraversato il mare mangiandosi l’un l’altra. Solo le più aggressive erano sopravvissute infestando la casa fin negli angoli più remoti, al punto che lui ora doveva stare attento a dove posava le mani per non infastidire
qualche Rosa del Cile o qualche malmignatta o Tigre del Costarica, non ne aveva mai viste ma era sicuro che ci fossero, quella che più temeva era la Mangiatrice d’Uccelli, ma anche i ragnetti più comuni lo mettevano in agitazione. L’acqua era fresca, lo puliva e ristorava allo stesso tempo, impossibile farne a meno. Loris sentiva ancora la pelle accaldata dalla ginnastica di poco prima, vogatore e cyclette per scaldarsi, poi anelli e sollevamento pesi, aveva battuto il suo record personale e la serata si era accesa di mille fuochi di artificio. Così era salito nel suo osservatorio senza are dalla doccia, cosa alquanto insolita e decisamente riprovevole se si considera il suo timore che qualche sottile ragnatela, sfuggita malauguratamente ai suoi ripetuti e accurati controlli, lo sfiorasse e gli si appiccicasse ai capelli. S’infilò un accappatoio candido, poi spense la luce e si sdraiò sul letto a pensare, una ginnastica diversa ma non meno importante di quella fatta poco prima nella sua piccola palestra. Aveva il resto della notte a disposizione, ore e ore che si scioglievano lente mentre i suoi pensieri si rincorrevano liberi nei meandri della sua mente. In fondo dormire non era importante, quella era una cosa che sapevano fare tutti e lui non voleva confondersi con nessuno. Aprì l’accappatoio e se lo tolse di sotto. La pelle ancora umida si rizzò in tanti piccoli brividi che corsero sul suo corpo dandogli una piacevole sensazione di potenza. Si sentiva bene e non solo perché il suo corpo era sano e perfetto, questa era una cosa acquisita da tempo, si sentiva bene perché sapeva di essere ormai prossimo alla meta. In effetti Loris non era presuntuoso quando pensava a se stesso come a un bel ragazzo. La sua vita sociale era ridotta al lumicino, ma le poche volte che usciva dagli anfratti della sua solitudine, non ava di certo inosservato. Era alto, muscoloso e di portamento ben diritto, aveva gli occhi azzurri e i capelli chiari tagliati corti per poterli lavare, lavare e ancora lavare, parlava mangiandosi un po’ le parole, ma questo non era importante considerata la sua consegna al silenzio. La sua pelle era liscia e dorata, tanto morbida che spesso aveva pensato di farsi crescere la barba, non l’aveva mai fatto perché l’idea di qualche ragnetto nascosto tra i peli del suo viso lo faceva inorridire, ma era stata una decisione sofferta perché era convinto che una bella barba lunga e folta gli avrebbe evitato non pochi problemi, primo tra tutti quello di essere scambiato per chi in effetti non era. Per anni questo era stato il suo incubo peggiore, quello che lo faceva arrossire e
gli annebbiava la mente, lui non aveva dubbi sulla sua identità, era Loris, un maschio come il nonno e come tanti altri, ma sua madre non voleva saperne e continuava a chiamarlo Loretta creandogli una confusione che gli dava la nausea. Ovviamente lei lo faceva solo in casa perché il nonno l’avrebbe ammazzata se avesse tirato fuori quel nome in presenza di estranei, eppure qualcosa in paese doveva essere trapelato, perché non era raro che qualche coetaneo, in gruppo naturalmente, mai da solo, gli fe il verso sculettando come solo Loretta avrebbe potuto fare. Aveva dovuto mettersi a far ginnastica e a spaccar denti a più non posso per non sentirsi più chiamare con quel nome. Era stato il nonno a dirgli come fare. Crescendo le cose erano cambiate, si era calmato e la gente aveva cominciato ad apprezzarlo, tutti lo consideravano un bravo ragazzo, magari un po’ scontroso e solitario, ma sicuramente innocuo, in paese lo s’incontrava poco e quando succedeva era sempre pronto al sorriso e al saluto, tanto che qualche madre lo additava come esempio, non beveva, non si drogava, non frequentava cattive compagnie e non dava fastidio a nessuno, era anche pieno di soldi e aveva il corpo di un attore del cinema…, che c’era di meglio? In effetti Loris teneva molto al suo aspetto, da anni aveva imparato a coltivare il suo fisico come l’orto che si stendeva sotto gran parte del terrazzo, pezzo per pezzo, senza dimenticare alcun angolo per quanto impervio e ostile potesse sembrargli. Così era cresciuto sano e proporzionato, con i muscoli spessi e coriacei che a ogni movimento gli correvano lungo il corpo come saette in un temporale estivo. In questo il nonno non c’entrava per niente. Lui gli aveva detto di picchiare sodo, ma se aveva un fisico di cui andava orgoglioso, tanto orgoglioso, troppo orgoglioso, lo doveva solo a se stesso, alla costanza con cui si applicava sugli attrezzi nella palestra che aveva ricavato nel ripostiglio sul terrazzo. Il nonno non era per niente contento di quello che faceva in quel locale e continuava a portar dentro gli utensili e le cianfrusaglie che lui aveva eliminato. Per fortuna a un certo punto era morto, altrimenti non avrebbe mai potuto trasformare quel buco in una linda, luminosa e attrezzatissima palestra dove coltivare il proprio corpo e il proprio spirito, mens sana in corpore sano. Poco dopo era morta anche la mamma, così Loris, compianto da tutto il paese per la solitudine e la desolazione in cui si trovava, si era tirato su le maniche per trasformare il disordine che gli stava attorno nel mondo dei suoi sogni. Un periodo eccitante, intenso, in cui aveva lavorato molto realizzando gran parte dei suoi obiettivi, non tutti però, gli mancava ancora l’ultimo, il più importante.
Ora la casa rispondeva alle sue esigenze, un appartamento ridotto al minimo, circondato da innumerevoli stanze chiuse, la sua palestra e poi, di sopra, il suo osservatorio. Aveva lavorato in proprio spendendo pochissimo, utilizzando materiale che recuperava in altri locali e acquistando il minimo indispensabile, non intendeva offrire spunti di conversazione a operai o fornitori curiosi e chiacchieroni. No, non era per avarizia che aveva voluto far tutto da solo, era ricco e poteva permettersi quello che voleva, il denaro non era mai mancato nella sua famiglia e dopo la vendita dei campi poteva addirittura non pensarci, faceva una vita parca, per niente dispendiosa, oltre al computer e alla palestra non aveva molti altri interessi, o per lo meno non ne aveva di costosi. Il suo tempo lo ava navigando su Internet, sudando su attrezzi spesso ridicoli e complicati oppure osservando le stelle con un cannocchiale più adatto ai servizi segreti che all’osservazione astronomica. E poi aveva l’orto. L’unico pezzetto di terra che si era tenuto quando, finalmente, era rimasto solo, si stendeva proprio sotto il terrazzo, chiuso tra la casa a forma di elle e il cortile. Il lato che dava sulla strada esterna era protetto da una folta siepe che nascondeva una barriera di metallo impenetrabile a tutti, perfino allo sguardo. Fin da ragazzo Loris aveva lavorato nell’orto imparando dal nonno tutto quello che c’era da imparare, era stato lì che aveva rinforzato i muscoli per spaccare i denti a chi lo confondeva con Loretta. Amava coltivare la terra e se non fosse stato che i campi erano dall’altra parte del paese e quindi per lui in capo al mondo, non li avrebbe mai venduti, gli piaceva usare il badile e il rastrello, piegarsi tra le zolle e strappare l’erba, portare l’acqua nei punti dove l’impianto irriguo non arrivava. Non gli interessava molto quello che coltivava, di sicuro non gli interessavano gli ortaggi, da anni non mangiava una foglia di lattuga o un ravanello, lui era un carnivoro, non una capra, più che le carote lui amava le dalie, più dei pomodori, i narcisi e i tulipani. Ovviamente quando c’era il nonno non poteva permettersi di coltivare qualcosa che poi non si potesse mangiare, sarebbe stato un sacrilegio, ora però poteva fare quello che voleva e dell’orto di un tempo era rimasto solo il nome. Quello che si estendeva sotto il terrazzo infatti, era un giardino meraviglioso, pieno di splendidi fiori irrorati coi pesticidi più terribili e quindi liberi da ogni sorta d’insetto, ragni compresi, un posto che avrebbe destato l’invidia di qualsiasi floricoltore, se solo avesse potuto vederlo. Del suo isolamento questo era l’aspetto che più gli pesava, forse l’unico, Loris infatti avrebbe preferito condividere con altre persone il suo estro botanico invece di limitarsi a immettere in rete fotografie prive di spessore e di profumo, ma non aveva scelta, se voleva tener fuori dalla sua vita la gente che gli stava
attorno, non poteva fare diversamente, non doveva aprire alcuna porta, neanche uno spiraglio al mondo che premeva all’esterno. Per il resto la solitudine non gli pesava per niente. Abitava in due stanze minuscole, ordinate e ben ammobiliate, che si aprivano direttamente in cima alla scala che dal cortile portava al poggiolo del primo piano. La casa era molto grande e alta, ma Loris aveva chiuso gran parte delle stanze e da anni non vi metteva piede, convinto com’era di aver sepolto in quei locali il suo ato, sua madre e suo nonno, nidi di tarantole compresi. Teneva le chiavi in una cassettina di legno sopra l’armadio e si sforzava di credere che non esistessero neppure. La scala a chiocciola che portava al suo osservatorio stava in un ripostiglio dietro la porta che si apriva dove il poggiolo s’allargava nel terrazzo, ma di questo nessuno sapeva nulla. Anche da piccolo Loris era stato un bel bambino, bello, intelligente e sano, cosa voleva di più?, allora pensava di avere tutto, ma in effetti non era così, per niente. Gli mancava per esempio un padre, mai visto e nemmeno conosciuto, anche se lui era convinto di sapere chi fosse, e gli mancava pure l’affetto sano di una madre sana, ma anche di questo non poteva dir nulla, non possedendo un termine di paragone adeguato. Per lui le madri erano un’entità fortemente ansiogena, una fonte perenne di odio e di amore, un incubo…, di norma le considerava delle stupide al pari della cicciona insopportabile che l’aveva allevato, c’erano però delle eccezioni, delle splendide eccezioni, la donna che l’aveva generato era una di queste. Questa distinzione tra la madre che l’aveva messo al mondo e quella che l’aveva cresciuto era per lui molto importante, era infatti convinto di aver subito da piccolo un grave torto, qualcuno, e chi se non la strega che gli cantava in testa?, l’aveva rapito, trafugato e costretto a vivere una vita odiosa. La sua era un’idea bislacca intrinsecamente errata, che fondava la sua ragione non su dati di fatto, ma sulle emozioni negative derivanti dal disagio di considerare madre una donna che lo chiamava Loretta e lo mandava in giro con il pene incerottato all’inguine, che lo vestiva di pizzi, gli arricciava i capelli con la spazzola elettrica e gli graffiava le gote per renderle della sfumatura adeguata. Se Loris era cresciuto senza rilevanti pulsioni omosessuali, lo doveva soltanto al nonno che vedeva pisciare dal terrazzo nell’orto, un gesto liberatorio che lui riteneva la pura essenza della mascolinità. Poco alla volta le costrizioni a cui veniva quotidianamente sottoposto, lo
avevano portato a odiare prima la madre e poi tutte le donne che in qualche misura facevano pensare a lei, piccole, grasse e coi capelli scuri arricciati fino alle spalle. Sentimenti come questi, se vissuti nell’infanzia o nella prima adolescenza, lasciano segni profondi, indelebili e forse anche pericolosi. Loris non era immune da simili ferite e spesso si sentiva strano e agitato, per quanto gli era possibile cercava di non farci caso, faceva ginnastica o annaffiava le dalie, solo quando la marea delle emozioni pareva travolgere ogni riparo, andava in cortile alla ricerca di qualche bel ratto da catturare, il più delle volte, però, non ne aveva bisogno, alzava le spalle e si diceva che era solo questione di tempo e che prima o poi avrebbe pareggiato i conti con sua madre e con il mondo intero. Così era stato e ora che si sentiva padrone della sua vita, poteva finalmente permettersi di pisciare come il nonno dalla ringhiera e spruzzare l’erba e le aiuole, i cespugli e la terra dell’orto che celava nel suo ventre i più oscuri segreti. Che questo gesto potesse in qualche modo compromettere lo sviluppo dei suoi fiori era tutto da dimostrare, era convinto che la sua urina li aiutasse a crescere rigogliosi, che fosse un concime prezioso, un vero toccasana. A ventiquattro anni Loris non aveva ancora fatto all’amore e non ne sentiva granché l’esigenza, aveva un’idea deformata della sessualità che lui riteneva del tutto plausibile e che occasionalmente aveva sperimentato con qualche donna di aggio che ora contribuiva fattivamente alla fioritura delle sue aiuole, ma questa era un’altra faccenda che in ogni caso non aveva previsto alcun innamoramento. Spesso nella ginnastica mentale che occupava le sue notti insonni, si eccitava a tal punto da dover uscire di corsa sul terrazzo per dare seguito al rituale appreso dal nonno. Di fatto, in quei casi, non si trattava di pisciare nel senso stretto del termine, ma per lui questo era, niente di più. Il suo vissuto decisamente anomalo della sessualità andava di pari o con quello altrettanto singolare della minzione, per certi aspetti le due funzioni rimanevano distinte, per altri si sovrapponevano assumendo connotazioni a dir poco grottesche. Di tutto questo Loris capiva poco o quantomeno non ne aveva piena consapevolezza, non era però uno stupido e sapeva riconoscere la pericolosità di certe situazioni riuscendo così a tenersene alla larga, per esempio, lui non sarebbe mai entrato in un gabinetto pubblico, convinto com’era che lo scroscio prodotto dal getto dell’urina di qualche ignaro vicino o ancor peggio il suo odore pungente, gli avrebbe procurato una potente stimolazione sessuale, qualcosa che era meglio gestire da soli sul terrazzo, piuttosto che nel retro di un bar o di una sala cinematografica.
Loris aveva un’intelligenza di tipo normale, forse non particolarmente brillante, ma di sicuro migliore di tante altre, amava leggere libri e riviste di argomento botanico, aveva buone capacità logiche e sapeva ragionare con acutezza su un’infinità di cose, poi inciampava nell’argomento sbagliato e sembrava annaspare come un bambino a cui hanno bucato il salvagente in mezzo al mare. Più che nella sua mente, quindi, il problema era nel suo cuore, a un certo punto del suo sviluppo affettivo qualcosa si era spezzato, o forse solo piegato, e aveva preso una direzione che lo avrebbe segnato per tutta la vita. Così in lui coesisteva il ragazzo intelligente e creativo e quello che credeva che il mondo delle cose fosse vivo e avesse un’anima percepibile solo agli eletti. Lui naturalmente era uno di questi e lo era anche suo nonno che litigava con le sedie e con le porte su cui andava a sbattere quando era ubriaco. Altre persone capaci di una simile sensibilità non ne conosceva, questo però non voleva dire che non esistessero, era sicuro che prima o poi la sua ricerca in rete gli avrebbe dato soddisfazione. Loris si sistemò il cuscino sotto il capo, intrecciò le mani dietro la nuca e cercò di rilassarsi. Non riusciva a tener ferme le gambe, avrebbe voluto tornare in palestra per scaricarsi ma non aveva voglia di rimettersi a cercare bave di ragni tra gli attrezzi e poi aveva ben altro per la testa..., non pretendeva di dormire, desiderava solo liberarsi dello stato di irrequietezza che avvertiva da giorni. Sapeva di cosa aveva bisogno per ritrovare la calma, in un’altra situazione avrebbe già fatto quello che doveva fare, ma ora c’era lei e non poteva permettersi di correre rischi e rovinare tutto. Anche tornare di sopra al cannocchiale non gli sembrava una buona idea, per niente, non aveva voglia di rincorrere stelle e alla lunga tutto quell’osservare l’asfalto della piazza l’aveva stufato, erano due giorni che praticamente non si staccava dall’oculare e gli pareva più che sufficiente, e poi non aveva ancora superato lo spavento della notte prima, quando l’aveva vista scendere le scale come una sonnambula e sparire nel buio. Se ci pensava sentiva i crampi della paura mordergli lo stomaco, aveva aspettato qualche minuto chiedendosi cosa stesse succedendo, poi si era ritrovato in piazza a due i dal cancello e aveva fatto in tempo a vederla risalire le scale col o malfermo di un’ubriaca. Si era nascosto dietro un portone e vi era rimasto fino all’arrivo dei carabinieri, poi era tornato a casa, ma era agitato e avrebbe voluto mettersi a piangere, era andato a letto senza farsi la doccia, così al mattino aveva dovuto cambiare le lenzuola e pulire a fondo l’intero appartamento, un disastro.
Loris alzò gli occhi verso l’orologio appeso alla parete, era mezzanotte, troppo presto per dormire e troppo tardi per telefonare, non gli restava che calmarsi e aspettare l’alba. Si mise seduto con la testa appoggiata alle ginocchia e le braccia intrecciate sotto le cosce. Sapeva perché si sentiva così strano, lei non c’entrava per niente, era la voce che gli cantava in testa ad agitarlo. Era un bel po’ che non si faceva sentire, pensava se ne fosse andata e invece da qualche giorno aveva ripreso a cantare senza un attimo di tregua, era ovunque, in soffitta, in palestra, lo seguiva perfino nell’orto e gl’impediva di concentrarsi, i suoi acuti gli perforavano i timpani… Doveva fare qualcosa per chiuderle la bocca, doveva agire, subito, domani stesso, era stato un errore aspettare tanto. La voce melodiosa che tanto infastidiva Loris, era quella di sua madre, della “cosiddetta madre”, come lui la definiva, una voce chiara quasi perfetta sia nel timbro che nell’estensione della nota, bella e degna di un vero soprano. Poteva piacere a tutti, di sicuro non a lui. Da piccolo era diverso, ma da piccolo, si sa, tutto è diverso. Prima che il nonno gli aprisse gli occhi sul torto che aveva subito, lui voleva bene a sua madre, certo non quando lo chiamava Loretta o gli faceva i suoi stupidi giochini, allora ne era spaventato e l’odiava con tutto se stesso, per il resto però l’amava, adorava sentirla cantare, lei non gli raccontava mai fiabe, gliele cantava. Conosceva gran parte del repertorio verdiano, a volte si spingeva fino a Puccini e Mascagni, più in là non andava, ma era sufficiente per coltivare la fantasia, i sogni di un bambino che non sapeva niente di Cappuccetto Rosso e Biancaneve, ma che conosceva lo strazio di Azucena e l’ambiguità di compare Turiddu. Per anni era andato tutto bene, si nutriva ancora di latte e pappette, ma conosceva le gesta della celeste Aida, le prime parole le aveva imparate sul Nabucco e il suo incubo notturno più ricorrente era il fuoco azzurro di una pira che l’attirava come una calamita. Poi le cose erano cambiate, sua madre aveva via via ristretto il suo repertorio condensandolo in un’unica opera, quella che da giorni non gli lasciava libera la mente, trasformando così il bel canto in qualcosa di ossessivo e di morboso. Era stato in quel periodo che aveva aperto gli occhi cominciando a capire le insinuazioni maliziose di suo nonno, era stato terribile, un processo breve ma intenso che lo aveva portato a odiare sua madre con tutto il cuore, lei, come Violetta, era una donna traviata e non meritava né simpatia né comprensione, era una bugiarda, una poco di buono, un’imbrogliona e proprio per questo era degna di una fine dolorosa e prematura. Aveva aspettato anni un malore che non veniva, ad ogni suo colpo di tosse pensava al mal sottile, non certo alla raucedine, e quando aveva capito che i polmoni di sua madre non somigliavano
per niente a quelli di Violetta, aveva provveduto ad aiutare la natura. A modo suo ovviamente. Non aveva mai rimpianto quello che aveva fatto, d’un tratto si era ritrovato libero e padrone della sua vita, la Traviata aveva smesso di cantare e solo raramente tornava a occupargli la mente. È vero che nell’andarsene sua madre si era lasciata alle spalle uno strascico inquietante che a volte lo turbava quanto i ragni, ma in fondo non era gran cosa, col tempo aveva imparato a non badarci ed era riuscito a recuperare sia il buon umore che la serenità. Loris non si considerava un matricida, per niente, lui era solo una persona che aveva avuto il coraggio di vendicare un’usurpazione, un’ingiustizia, era un eroe quindi, non un criminale. E comunque la donna che era morta schiantandosi in cortile, non era sua madre, di questo era sicuro, non l’amava e non le somigliava nemmeno, lui era alto, biondo e aveva gli occhi azzurri come di certo anche l’altra madre aveva, lei invece era bassa e grassa, era pelosa e puzzava di rancido da tanto poco si lavava. No, lui non era suo figlio, era da quando era bambino che in merito non aveva dubbi, da quando anche Rigoletto aveva dovuto perire dopo Aida, Norma e tante altre, davanti all’invadenza malsana e aggressiva della Traviata. Loris tornò a sdraiarsi serrando forte gli occhi, con la punta delle dita si tappò le orecchie, ma nel silenzio più completo la voce di sua madre sembrava ancora più limpida. Così non andava…, accese la lampada e si alzò, forse era meglio tornare in palestra. S’avvicinò al tavolo che un tempo era stato la sua scrivania e controllò la mensola che vi stava sopra, la fotografia era di nuovo al suo vecchio posto. Trasse un respiro profondo e scosse la testa, non valeva la pena di arrabbiarsi, sapeva chi doveva ringraziare per quello scherzetto, ma lui aveva i nervi saldi e non avrebbe reagito, prese in mano la cornice di metallo e la ripose nel cassetto, aveva bisogno di un giorno, di appena ventiquattro ore e poi avrebbe bruciato la foto di sua madre col poco di lei che ancora conservava. Si girò e s’allontanò di qualche o, poi si fermò e tornò indietro sbuffando, la pulsione di controllare la mensola una volta, due volte, cento volte, lo snervava, era una cosa assurda, che lo irritava profondamente, ma a cui non sapeva resistere, diede una sbirciatina, poi si costrinse a proseguire verso il letto.
In effetti, per quanto Loris non volesse ammetterlo, la persona verso la quale
riservava tanto rancore, era proprio la sua vera e unica madre, una donna con seri problemi psichici incapace di avere rapporti costruttivi con alcuno, tanto meno con il figlio. Come spesso accade in casi del genere, lei non aveva colpa della sua condizione, era stata allevata da un padre perennemente ubriaco che se la portava a letto da quando gli era morta la moglie e lei andava ancora all’asilo. Quello che le faceva sotto le coperte non lo sapeva nessuno, ma in qualche modo le aveva ferito il cuore e la mente, portandola a vivere una vita alienata che si sforzava di credere diversa da quella che in realtà era. Da piccola era una ragazzina sventata con lo sguardo spesso vuoto e spiritato, era strana, sempre pronta a farsi del male, a dieci anni era caduta dal terrazzo procurandosi una commozione cerebrale che più tardi tutti avrebbero considerato come la causa delle sue stranezze, qualche tempo dopo si era arrampicata sulla ringhiera del poggiolo e aveva spiccato un salto come per volare, infine si era procurata una ferita profonda sulla parte interna del polso sinistro affettando un grosso salame all’aglio. Da un po’ la gente aveva cominciato a mormorare, c’era chi nell’incidente vedeva un reiterato tentativo di suicidio e chi addirittura prospettava scenari di violenza familiare, in ogni caso il salame da affettare c’era davvero e chi era andato a chiedere delucidazioni al padre era tornato a casa mezzo ubriaco e aveva saltato la cena. Le cose per Renza, così si chiamava la madre di Loris, erano cominciate a migliorare nell’ultimo anno che aveva ato sui banchi di scuola. In terza media era stata bocciata e l’anno successivo era stata inserita in una classe nuova in cui non conosceva quasi nessuno. Aveva fama di ragazza lenta e silenziosa e l’insegnante l’aveva messa in banco con quella che era considerata la peggior chiacchierona dell’intera scuola, Beatrice Viviani. La piccola Renza, piccola di statura e forse di cervello ma non certo di cuore, era subito rimasta incantata dall’esuberanza frenetica della sua nuova compagna che parlava, parlava e parlava pur guardando in faccia i professori e rispondendo a modo quando veniva interpellata. Nessuno sapeva come fe, teneva i gomiti sul banco e le mani incrociate all’altezza della bocca, sembrava l’allieva più attenta della classe, sempre pronta a alzare la mano e a intervenire, ma chiacchierava dalle otto di mattina fin oltre mezzogiorno. Renza aveva imparato ad ascoltarla stando anche lei ben diritta e seguendo gli insegnanti con gli occhi, non capiva molto di quello che dicevano e spesso era la sua compagna di banco che le scriveva i compiti sul diario o le dettava la soluzione di un problema, ma da lei i professori non si aspettavano niente, si sapeva che era un po’ spenta, una bocciata da ribocciare all’infinito, e anzi si stupivano quando riusciva a portare a
termine qualche compito di pur minima difficoltà. Quello per Renza era stato un anno speciale, il migliore di tutti, come più tardi avrebbe detto al figlio, l’anno in cui aveva imparato della vita tutto quello che c’era da imparare. Grazie alle chiacchiere della sua compagna, infatti, lei aveva viaggiato per il mondo, conosciuto gente nuova e fatto esperienze incredibili e meravigliose, aveva incontrato i pirati della Malesia e raggiunto l’iperspazio a bordo di una navicella supersonica, aveva praticato le arti marziali e combattuto a fianco degli indiani d’America, aveva ballato e soprattutto aveva cantato, cantato e ancora cantato. Era stato magnifico, stupendo. Ovviamente la sua compagna di banco aveva una percezione diversa di tutto questo e specie all’inizio aveva mal sopportato la sua muta e opaca presenza, col tempo però aveva cambiato idea e cominciato a considerare il silenzio di Renza come un’ottima opportunità di sfogo. In quei mesi Beatrice stava vivendo il travaglio dell’adolescenza e se dentro era ancora una bambina, fuori si vedeva come una ragazza sgraziata e piena di difetti, brutta da far paura e mediocre d’intelligenza. Così non era male avere vicino un’amica silenziosa con cui parlare, con cui sognare a occhi aperti e confidarsi senza temere critiche o derisioni, a lei poteva raccontare tutto, perfino le storie piene di ione e sangue che lei mutuava dal mondo della lirica, era un’amante precoce della musica operistica e non c’era giorno che non ascoltasse i dischi della Tebaldi, di Del Monaco o della Callas. Per certi aspetti, quindi, erano una coppia ideale, diverse e complementari, sembravano fatte apposta per stare assieme. La cosa però non poteva durare, c’era troppo squilibrio, e già in primavera Beatrice si era stufata di quella situazione, continuava a raccontare di sé e dei suoi amati melodrammi, ma senza più l’entusiasmo di prima, a volte taceva creando in classe un silenzio anomalo, qualcuno aveva spento la radio o chiuso il vento fuori dalla finestra, commentava qualche insegnante spiritoso. Renza invece non era stanca per niente, anche quando tra loro calava il silenzio, lei non cambiava posizione, se ne stava muta, quasi trattenendo il respiro, pronta a immergersi un’altra volta nella vita della sua compagna di banco. Poi era venuta l’estate e le due ragazze avevano preso strade diverse, una aveva proseguito gli studi prendendo il volo verso altri lidi, l’altra era rimasta in casa per accudire il padre in un isolamento sempre più insano e coatto. Da quel momento non si erano più viste e Renza si era ritrovata sola, non frequentava
nessuno perché non aveva né amici né parenti, ogni tanto si vedeva con i contadini che coltivavano i campi fuori paese, portava loro le direttive del padre, ma nient’altro, viveva con poco e di poco, era ricca ma lei non lo sapeva o almeno non se ne curava. Ben presto il bozzolo di solitudine in cui da sempre era stata rinchiusa, aveva ripreso ad avvolgerla nelle sue spire, la sua vita sembrava quella di un tempo, ma non era così, perché in realtà la Renza del ato non esisteva più, quell’ultimo anno scolastico l’aveva cambiata, profondamente cambiata. Era sempre piccola e grassottella, ma camminava eretta come fosse alta e ben diritta, ogni tanto si aggiustava degli invisibili occhiali sul naso o si sistemava una ciocca di capelli ribelli con un gesto che aveva imparato sui banchi di scuola, a volte si chiudeva in bagno a leggere dei libri di cui capiva poco e cantava, cantava tutte le arie che era riuscita a memorizzare in nove mesi di scuola e che ascoltava e riascoltava sui dischi che Beatrice le aveva regalato. Faceva una vita strana, è vero, ma non era mai triste, dalla sua mente erano spariti certi brutti pensieri e per niente al mondo sarebbe tornata a scavalcare ringhiere o a giocare coi coltelli. Nonostante la solitudine da cui era circondata, Renza non si sentiva sola, dentro di lei continuava a parlare e parlare la compagna di banco alta e spigolosa, che la seguiva ovunque e in qualsiasi momento del giorno. Dovevano are anni, molti anni perché quella voce si spegnesse, qualcuno avrebbe dovuto offrirle un latte alla menta impregnato di Valium e condurla al suo terzo e ultimo tentativo di volo acrobatico, per far smettere Beatrice di raccontare di sé, delle sue fantasie e dei suoi sogni. Ma a quel tempo lei era già vecchia. Renza era morta il giorno del suo trentanovesimo compleanno, era giovane quindi, ma la sua pelle, i suoi capelli, tutto il suo corpo portavano il peso di due vite intere, ed era invecchiata precocemente. Se nelle sue chiacchiere quotidiane sui banchi di scuola l’amica avesse affrontato argomenti quali la cura del proprio corpo, l’importanza di fare sport e di nutrirsi in modo adeguato, forse la sua vita sarebbe stata migliore. Invece a quel tempo Beatrice sbuffava contro tutto quello che le sembrava normale, lei voleva essere diversa, per questo indossava gli stessi pantaloni finché non cadevano a pezzi, si lavava i capelli proprio quando sua madre le ficcava la testa sotto il lavandino e mangiava patatine e ogni cosa croccante che le capitava sotto tiro. In questo era stata una cattiva maestra, perché se per lei il tempo si era mostrato buon consigliere e l’aveva aiutata a crescere sana ed equilibrata, per la sua compagna non era stato così. Renza ava le giornate a chiacchierare con la sua amica e a mangiare ogni ben di
dio, queste erano le uniche cose importanti della sua esistenza, oltre alla lirica ovviamente. Anche l’arrivo di Loris non aveva modificato la sua vita. Era giovane e all’inizio non capiva cosa le stesse succedendo, il suo ciclo mestruale era sempre stato irregolare, a volte spariva per mesi senza sapere perché, la sua mole nascondeva ogni ulteriore rigonfiamento, si sentiva strana e più volte l’aveva detto a Beatrice. Lei però sembrava non farci caso, alzava le spalle proponendo un gelato alla crema, l’ideale per far are ogni malanno, così quando erano arrivate le doglie si era chiesta cosa fosse quella cosa che spingeva e cercava di spaccarla a metà, aveva chiamato il medico, prima e unica volta in vita sua, e questi era arrivato in tempo per tagliare il cordone ombelicale. Più tardi si era arrabbiata con l’amica, avrebbe voluto picchiarla per farle provare il suo stesso dolore, ma quando lei si era scusata dicendo che non se ne intendeva di quelle cose, l’aveva perdonata, che altro poteva fare? Quello era stato un periodo un po’ difficile. Il bambino era sano e non aveva problemi, ma era un maschio e questo le pareva inaccettabile, non sapeva perché, ma la cosina che gli spuntava tozza tra le gambe le dava un acuto senso di malessere, quasi che crescendo potesse trasformarsi in qualcosa di mostruoso, forse anche pericoloso. Beatrice ovviamente era d’accordo con lei, la tranquillizzava, le spiegava che non si poteva pretendere da una madre di allevare una serpe in seno, che per il momento era meglio far finta di niente, ma che poi, fra qualche anno, sarebbero intervenute loro in modo drastico e definitivo. Assieme avevano deciso di chiamarlo Loretta, giusto perché s’abituasse per tempo alla sua futura condizione. Naturalmente la cosa non era ata inosservata, il prete si era rifiutato di battezzarlo con un nome da femmina e Renza aveva scoperto che suo padre aveva denunciato la nascita del figlio col nome di Loris. Alla fine aveva dovuto battezzarlo lei sul lavandino in cucina, avrebbe preferito qualcosa di meglio, ma c’era Beatrice a reggerle la mano mentre versava l’acqua sulla testa di quella che considerava la loro bambina e questo non poteva che renderla felice. Non c’era quindi da stupirsi se Loris crescendo avesse maturato un carattere bizzarro e una certa confusione su chi fosse la sua vera madre. Renza sosteneva che era anormale e forse aveva ragione, aveva continuato a trattarlo come una femmina anche se lui non sembrava apprezzarlo e aveva smesso solo il giorno in cui si era ritrovata la punta delle forbici alla gola, era matto e lei lo sapeva dal
tempo in cui immolava i suoi ratti sul terrazzo, che schifo…, Beatrice ne era sconvolta. Nei suoi giudizi Renza non era per niente obiettiva, criticando il figlio dimenticava le stranezze del padre che parlava coi lampioni e le bottiglie e dimenticava perfino se stessa che continuava a conversare con un’amica che non vedeva da una vita. Ma da lei non si poteva pretendere troppo, Beatrice era l’unica persona con cui parlava, era il suo alter ego, la sua coscienza, il suo mondo, era la parte più dinamica del suo io e non poteva vivere senza di lei, solo una volta l’aveva odiata al punto di volersela strappare di dosso con il suicidio. In paese si era sparsa la voce del suo matrimonio e d’un tratto il mondo le era caduto in testa, aveva temuto di perderla e per reazione aveva voluto morire, aveva cercato di tagliarsi le vene, di bere il veleno per le viti, ma era troppo piena di rabbia per prendersela con se stessa, così per due giorni la sua furia si era abbattuta sulla casa, aveva rovesciato, spaccato, strappato, nessuna stanza era rimasta indenne, tutto sembrava travolto da un ciclone e fatto a pezzi. Le cose erano tornate alla calma solo dopo che Beatrice aveva ammesso le sue colpe e si era scusata offrendo in cambio l’unica cosa che aveva, il marito. E così quei locali già pieni di presenze strane, si erano popolati di un ulteriore fantasma, quello di un uomo che nessuno aveva mai visto e che a un tratto e senza saperlo si era ritrovato a essere padre oltre che bigamo. Il matrimonio era stato celebrato sul terrazzo, a due i dalle tavole imbandite di ogni leccornia trovata al mercato, era stata una festa bellissima, indimenticabile.
Questo era il mondo in cui era cresciuto Loris, un mondo popolato di fantasmi che lo turbavano più da sveglio che mentre dormiva e d’altra parte erano poche le ore che lui concedeva al sonno, brevi attimi in cui si sentiva trascinare in un abisso profondo e scuro del quale al risveglio ricordava poco, quasi niente. Loris prese il cuscino e se lo strinse attorno alla testa, sentiva ancora la voce di sua madre, ora stava cantando un pezzo che non le spettava, stava alzando il calice e brindava a un amore che come sempre sarebbe finito in lacrime. Da quando si era sdraiato era la terza volta che sentiva quelle parole, forse sua madre stava restringendo ulteriormente il suo repertorio e non sapeva se questo era un bene oppure un male, in ogni caso era stufo di ascoltarla, l’avrebbe ammazzata un’altra volta pur di farla smettere. Spesso si chiedeva perché
proprio a lui fosse toccata una croce simile, perché non gli fosse capitata una madre normale che puliva la casa e preparava da mangiare, primo, secondo, contorno, frutta e di domenica anche il dolce. Perché proprio a lui? Per quanto possibile cercava di evitare una domanda così diretta, la temeva come il diavolo teme l’acquasanta, ma avrebbe voluto che qualcuno gli rispondesse, che gli spiegasse cos’era successo in quella casa quando lui era nato… L’unica cosa che sapeva per certo era che sua madre non era quella cantante brutta e cicciona che tanto aveva odiato, non poteva esserlo, ne era sicuro, lui aveva gli occhi e i capelli di un’altra donna e la statura e il portamento di un uomo che non aveva mai visto e che ancora non aveva deciso se amare oppure odiare. Loris s’alzò di scatto, basta, si disse, era stufo, doveva muoversi, fare qualcosa…, sentì una carezza sfiorargli la testa e un grido smorzato gli uscì dalla gola. Si strofinò i capelli con foga per togliersi con le dita qualche improbabile ragnatela, poi si diresse verso il bagno pronto ancora una volta ad aprire la doccia, accese la luce e subito tornò calmo, dal lampadario pendevano morbide due calze di nylon, con mano ancora tremante le prese, le arrotolò e le depose nell’ultimo ripiano dell’armadio, quello di Loretta.
Io sono nato a Fiume, a Rijeka come diciamo adesso, ma ho vissuto gran parte della mia infanzia tra i prati e le forre dell’entroterra, papà lavorava al porto e quando poteva mi portava a Podhum, un paese dal destino tragico e ingiusto, dove però un cognome croato era la norma, non l’eccezione. Tra quei sassi i nonni possedevano una casa e una stalla, erano poveri come tutti i contadini del Carso, ma non stavano male, avevano pecore, capre e mucche e da loro non mancava né da mangiare, né da lavorare. Lì stavo bene, in paese gli italiani non erano molto apprezzati, ma io ero un mezzosangue e venivo accettato nonostante il nome scomodo che mi ritrovavo. Alla mia nascita la mamma aveva avuto l’idea di chiamarmi Italo per bilanciare il cognome Rosović di papà, era il suo modo di favorire un processo d’integrazione culturale che era ben lungi dal venire, una mera illusione e una pessima esperienza per me. Così mi capitava di essere chiamato “Italo il fascista” a Podhum e “Rosović čevapčići” a Fiume, ero poco amato e spesso osteggiato da entrambe le parti, ma c’era chi stava peggio e in fondo io non me la avo tanto male.
Capitolo terzo
Lupo abbassò lo schienale e spinse le gambe verso il sedile che gli stava accanto, con la punta dei piedi si sfilò le scarpe facendo leva sui talloni, poi s’appoggiò al finestrino che aveva alle spalle cercando una posizione più comoda, cominciava ad avvertire un leggero bruciore allo stomaco, nulla di grave, solo un velato fastidio che di solito spariva in pochi minuti. Alzò le braccia sopra la testa, le stirò con forza come a voler raggiungere il punto più lontano della capote e subito si sentì meglio, torse la schiena su un fianco, poi sull’altro, chissà cos’era quello spillo che ogni tanto gli bucava lo stomaco…, mise in bocca un po’ di liquirizia e chiuse gli occhi. Tutti gli esami avevano dato esito negativo, l’ecografia, la gastroscopia e quant’altro avevano mostrato un sistema digerente in ottime condizioni, privo di calcoli, di tumori o di patologiche infiltrazioni batteriche, non aveva niente, era sano, peccato che il suo stomaco non lo sapesse. Meglio mettersi calmo e cercare di rilassarsi, non che fosse facile, era da anni che non si sentiva così teso e nervoso. Tutto era iniziato esattamente quattro giorni prima. Lui era tornato a Milano dopo una breve vacanza al mare che gli era parsa più noiosa del solito, pensava di fermarsi il tempo di fare una doccia e di recuperare le ultime poesie che aveva scritto, poi sarebbe ripartito per il Brennero, per casa sua. Aveva dato un’occhiata alla posta ed era andato in bagno lasciando la porta aperta per ascoltare i messaggi della segreteria telefonica, si stava spogliando quando aveva sentito la voce strana e roca di Anna ed era rimasto bloccato con la maglietta ancora infilata nelle braccia. Aveva premuto il pulsante per riascoltare la registrazione, poche frasi buttate lì in modo affrettato, forse agitato, per dirgli che lo cercava, che aveva bisogno di parlargli con urgenza, dal tono sembrava convinta che lui la stesse ascoltando e non volesse alzare la cornetta, era già successo e più di una volta anche, in tutto c’erano tre chiamate, l’ultima era la più strana e aveva segnato il ritorno del suo malaugurato mal di stomaco, “ci vediamo a casa, a casa nostra, hai capito?”, aveva detto prima di chiudere la comunicazione, e non aveva più richiamato. Lupo era rimasto senza fiato, nella sua testa si rincorrevano quelle parole prive di senso, loro non avevano una casa, non l’avevano mai avuta… Due anni prima, quando si erano conosciuti, avevano vissuto assieme un’avventura esaltante, un
amore breve e intenso che era durato una settimana ed era finito nel modo peggiore possibile. Lui ne era uscito con le ossa rotte, ci aveva messo mesi a guarire, ma alla fine ce l’aveva fatta e da allora non voleva avere niente a che fare con lei, era per questo che non rispondeva quando lei lo chiamava. Quella frase buttata lì prima di chiudere la comunicazione, però, era riuscita a turbarlo, era diversa dalle solite e lo faceva star male. Si era seduto alla scrivania per cercare i fogli che era ato a prendere, pochi versi che non aveva ancora deciso se inserire nella sua ultima raccolta, li aveva trovati in un cassetto, li aveva piegati e infilati in tasca mentre finalmente riusciva a prendere una decisione. Non sapeva se Anna era veramente nei guai, il tono di voce lo faceva pensare, ma non era la prima volta che gli telefonava accorata e lui aveva smesso da tempo di crederle, la cosa migliore era ripartire e dimenticarsi di tutto, non aveva intenzione di lasciarsi coinvolgere, l’aveva già fatto in ato e gli era bastato. Così non si era fatto la doccia e non si era cambiato, non aveva mangiato e neanche si era riposato, aveva ripreso la valigia ed era uscito pensando che fosse sufficiente andarsene per scordare quello che aveva appena ascoltato. Un’illusione di breve durata, destinata a svanire non appena si era reso conto di non essere diretto in periferia, ma verso il palazzo dove due anni prima lei viveva col suo ragazzo, quello che gli aveva detto di aver lasciato e che invece l’aiutava a spacciare cocaina nei salotti bene della città. Dio, quanto l’aveva odiata a quel tempo. Nell’atrio non c’era nessuno e di questo era contento, non aveva voglia d’incontrare la portinaia che un tempo era stata la testimone accorata della sua disfatta, aveva imboccato le scale per non aspettare l’ascensore e intanto si rimproverava la debolezza che l’aveva portato fin lì, si era ripromesso di non farlo mai più, e invece…, arrivato al terzo piano si era accorto subito che qualcosa non andava. La porta a cui lui aveva bussato un numero infinito di volte non era solo chiusa come si aspettava, ma anche sigillata con del nastro adesivo colorato. Era rimasto fermo, indeciso sul da farsi, poi aveva sentito l’ascensore spostarsi verso il basso e si era costretto a scendere le scale. “Ci vediamo a casa”, gli aveva detto, ma di sicuro non era quello il posto a cui Anna si riferiva. Al piano terra c’era la portinaia che pareva aspettarlo, portava lo stesso vestito di due anni prima o uno del tutto simile, anche il sorriso di compatimento non
sembrava per niente diverso. Le aveva dato la mano e le aveva chiesto come stava, una domanda formale che non pretendeva risposta, lei gli aveva offerto il caffè, lui aveva rifiutato, era di fretta, non poteva fermarsi, era arrivato al portone quando lei aveva cominciato a raccontargli della Mascagni del terzo piano, che aveva sparato al suo ragazzo ed era scappata con la maglietta sporca di sangue e la pistola ancora in pugno, lei stava per andarsene a casa e per poco non era svenuta quando l’aveva vista scendere le scale di corsa, il Ruggeri era un poco di buono, era vero, ma ammazzarlo in quel modo le sembrava eccessivo. Lupo era uscito in strada con l’affanno, sudava e aveva freddo allo stesso tempo, anche Anna era una poco di buono, era una drogata incosciente che seminava dolore dove ava, ma non un’assassina, di questo era sicuro, quasi sicuro. Nel tornare alla macchina aveva acquistato un giornale che riassumeva un po’ la notizia, il Ruggeri non era morto come riteneva la portinaia, ma era in coma con una lesione all’intestino e una brutta commozione cerebrale, l’articolo parlava anche di Anna Mascagni, amica di vecchia data della vittima e proprietaria dell’appartamento dov’era avvenuto il fattaccio. Seguivano alcune supposizioni che ricalcavano le parole della portinaia e un paio di fotografie prese dal suo repertorio di fotomodella. In città Anna era conosciuta, pochi sapevano chi era e dove viveva, ma molti avevano visto la sua faccia sul retro di qualche autobus o sui manifesti appesi ai lati delle strade. Lupo aveva raggiunto la macchina deciso a non farsi coinvolgere in una faccenda tanto seria, avrebbe potuto chiamare un suo amico poliziotto per chiedergli qualche informazione, ma non gli pareva il caso, non voleva immischiarsi, c’era il rischio che qualcuno collegasse il Ruggeri all’aggressione che lui stesso aveva subito due anni prima e l’idea non gli piaceva affatto. Aveva lo stereo e si era imposto di pensare ad altro, ma era difficile, in città gli era andata bene perché il traffico in uscita era caotico e gli teneva la mente occupata, sull’autostrada invece la guida era più sciolta e gli lasciava il tempo di crogiolarsi nei dubbi. Si chiedeva cosa avesse fatto realmente Anna, dove si trovasse in quel momento e perché gli avesse lasciato quello strano messaggio... Dentro di sé conosceva già la risposta alle due ultime domande, ma ancora stentava ad ammetterlo, solo quando a metà strada tra Verona e Trento, sull’autostrada del Brennero, aveva imboccato l’uscita che lo riportava indietro nel tempo, aveva capito che era quello l’unico posto in cui poteva andare. Due anni prima aveva preso lo stesso svincolo ma venendo da nord, si era
appena laureato in Sociologia, la sua seconda laurea, la migliore, e al suo fianco era seduta una ragazza che aveva conosciuto per caso e di cui non sarebbe più riuscito a liberarsi. Era una calda mattina di luglio, a Milano i suoi studenti stavano affrontando la maturità, ma lui era stato esonerato dalle varie commissioni d’esame e si riteneva a tutti gli effetti in vacanza. Anche a Trento l’aria era afosa e pesante, lui però non se ne curava, aveva discusso la tesi tra il silenzio attento dei professori e del pubblico venuto ad assistere, tutta gente che lui non conosceva e che stranamente sembrava interessata al suo lavoro, aveva illustrato l’argomento e risposto alle domande, quando si era girato per uscire l’aveva vista per la prima volta. Era in piedi appoggiata alla finestra, aveva i capelli castani trattenuti in una lunga coda di cavallo, portava una maglietta corta dallo scollo profondo e senza maniche e dei pantaloni attillati che finivano dietro le sedie della sala. Pensava che stesse aspettando qualcuno, un professore o un laureando venuto per assistere al rito, invece era lì per lui, a vederla non sembrava, ma stava tessendo una tela nella quale tra non molto lui sarebbe caduto, più che una bella ragazza quella era un ragno, uno di quelli grossi e famelici, capaci di ammaliarti con lo sguardo prima di iniettarti il loro veleno. A quel tempo, comunque, tutto questo non poteva saperlo e quando alla fine lei si era avvicinata per le congratulazioni di rito, lui si era lasciato abbracciare come se si conoscessero da sempre. Poi l’aveva persa di vista, lui era andato a bere qualcosa col suo relatore che insisteva perché lasciasse Milano e lo seguisse in facoltà, e quando aveva raggiunto la sua automobile nel parcheggio dietro via Verdi, lei era riapparsa come per incanto. A quel punto avrebbe dovuto capire che c’era qualcosa di strano nel suo comportamento, ma lui era ancora sotto l’effetto esaltante dell’esame e trovava la cosa divertente, addirittura eccitante. Lupo le aveva aperto la portiera con un sorriso, lei si era seduta con un movimento flessuoso piegando le lunghe gambe all’indietro, aveva appoggiato lo zaino sul sedile posteriore e si era agganciata la cintura di sicurezza, sembrava tranquilla, ma non lo era, si guardava attorno con una certa insistenza, continuava a girarsi all’indietro e a arsi le mani tra i capelli, più tardi gli avrebbe raccontato la storia di uno spasimante noioso e troppo assillante che la stava seguendo da ore, una bugia neanche tanto originale che però lui aveva bevuto senza battere ciglio. Erano usciti dalla città senza dir niente, sulla circonvallazione lei aveva indicato la direzione sud dell’autostrada e lui che aveva intenzione di raggiungere sua madre al Brennero, aveva imboccato
l’entrata senza fiatare, non voleva correre il rischio di vederla scendere e sparire nel nulla, in fondo a Milano aveva un mucchio di lavoro in sospeso e tornarci non era una cattiva idea. Ma a Milano non era tornato, non subito almeno. Una trentina di minuti dopo, lei gli aveva indicato un’uscita e lui, ancora una volta, non aveva opposto resistenza. In alto sulla destra si vedeva un castello sdraiato sul fianco della montagna, conosceva quella zona per esserci ato molte volte, erano ancora in Trentino, ma il Veneto era poco lontano. In macchina c’era silenzio, nessuno parlava, lui avrebbe voluto chiederle chi era, da dove veniva e dov’era diretta, ma l’eccitazione dell’esame se n’era andata lasciandogli addosso un fatalismo che non conosceva, si sentiva rilassato, ma anche vuoto e un po’ intontito, forse era solo stanco, la ragazza che gli stava accanto era bella e misteriosa, magari era il premio che gli spettava per essersi laureato col massimo dei voti. Avevano lasciato la macchina in piazza ed erano saliti al castello a piedi, avevano bevuto un caffè nel locale aperto a ridosso delle mura ed erano rimasti sul posto fin quasi al tramonto. Quando erano tornati al parcheggio le ombre erano lunghe, lei si era seduta su una panca sotto un platano dai rami grossi e nodosi, per un po’ non aveva parlato, poi, di punto in bianco, gli aveva proposto di cercare un albergo dove are la notte. Si era alzata e si era diretta verso l’automobile, quando si era accorta che lui non la seguiva, si era girata a metà per guardarlo, aveva la coda di cavallo, lo zaino in spalla e un’espressione seria che più tardi, quasi un anno dopo, l’avrebbe sconvolto ogni volta che la vedeva sui muri di Milano. Ma allora di tutto questo non sapeva niente, gli sembrava meravigliosa, buona festa di laurea, caro Lupo, si era detto aprendo la portiera. Avevano trovato l’albergo poco lontano, sopra una pizzeria dove avevano cenato per la prima volta assieme. Lei si chiamava Anna e come lui veniva da Milano, se durante il viaggio avesse parlato un po’ di più se ne sarebbe accorto dall’accento decisamente marcato, lavorava saltuariamente nel campo della pubblicità, si faceva fotografare con dentifrici, calzini e brodi vegetali, ogni tanto girava qualche spot per le tivù locali, niente d’importante, quasi sempre cose mal pagate e deprimenti, non aveva parenti e nemmeno fidanzati, l’ultimo l’aveva lasciato qualche giorno prima e per il momento non aveva intenzione di trovarsene altri. Questo era tutto quello che era riuscito a sapere quella sera. Dopo cena avevano fatto una eggiata in paese, si erano spinti fin dove le
case finivano e s’apriva una stretta valle con una chiesa romanica proprio al suo imbocco, si erano ripromessi di visitarla il giorno dopo, prima di rimettersi in viaggio per Milano. Ma il giorno dopo non erano partiti e neanche quello successivo, si erano invece presi tutto il tempo che serviva per seguire il torrente fino in fondo alla valle, per visitare la pieve e tornare in castello, erano andati in cerca di trattorie e di cantine dove il ato si sposava al presente e guardava al futuro senza timore, erano euforici, si sentivano felici e si credevano innamorati, tanto innamorati da acquistare un rudere in mezzo agli olivi per andarci a vivere. Dei due il più pazzo era decisamente lui, aveva mosso monti e mari per comperare quei quattro sassi, li aveva pagati uno sproposito, ma erano in una posizione stupenda con il castello proprio alle spalle e lui pensava di lasciare il suo lavoro per accettare quello che gli era stato offerto a Trento…, era fuori di testa. Anche lei sembrava contenta, continuava a parlar poco e aveva dei forti sbalzi d’umore che gli parevano un po’ strani, un paio di volte l’aveva vista piangere, ma di solito era allegra, diceva di dover rientrare a Milano per sistemare una faccenda di cui non voleva dir niente, una sciocchezza che non le avrebbe portato via più di mezz’ora, poi intendeva tornare in quel posto per viverci per sempre. Lui le aveva creduto e non aveva fatto domande, pensava di averne l’opportunità più avanti e non aveva voglia di guastare l’atmosfera che c’era tra di loro, così si era limitato a parlarle del futuro, solo di quello. Da quando quella prima notte avevano fatto all’amore, non aveva sentito più il bisogno di chiederle nulla, gli bastava averla vicina e questa per lui era una sensazione nuova, inaspettata. La vita affettiva di Lupo, fino a quel momento, era stata un susseguirsi di storie per lo più brevi e poco esaltanti, a trentatré anni compiuti ancora non sapeva di avere un animo profondamente romantico e di essere un poeta alla ricerca dell’amore assoluto e travolgente. Se l’avesse intuito se ne sarebbe vergognato, lui si considerava un uomo coi piedi per terra e per niente incline alle ioni estreme. L’unica volta nella sua vita in cui aveva provato qualcosa di insolitamente intenso, era stato quando a diciannove anni s’era innamorato di Roberta, un’impiegata delle Poste del suo paese che quando era tornata nella sua terra d’origine, se l’era portato dietro come un souvenir. Le sorelle di Lupo avevano studiato a Innsbruck come i suoi amici e quasi tutti quelli che conosceva, solo lui aveva scelto di andare a Milano al seguito della
sua bella postina, era stata una decisione sofferta e combattuta, che non aveva mai rimpianto e che gli aveva cambiato la vita. In città si era scontrato con una realtà eccitante e inaspettata, un vortice di emozioni che ben presto aveva dissolto ogni suo buon proposito, perfino il sentimento che lo legava a Roberta era svanito nel nulla, dopo due settimane aveva una nuova ragazza, poi un’altra e un’altra ancora, era andato avanti così per anni convinto di essere un inguaribile incostante, perennemente alla ricerca di sensazioni nuove. Solo con Anna aveva provato un’emozione tanto profonda da fargli credere che fosse per sempre. Avrebbero voluto rimanere in paese più a lungo, ma non era possibile, in tutto si erano fermati sei giorni, il settimo era martedì, lei aveva fatto una telefonata e all’improvviso aveva deciso che era il momento di rimettersi in viaggio. Erano partiti nel pomeriggio dopo essere stati dal geometra che li aveva aiutati nell’acquisto della casa, erano ati anche dal contadino che coltivava il loro uliveto, avevano comperato vino e formaggio e s’erano avviati. Pensavano di tornare al massimo entro la settimana successiva, ma non l’avevano mai fatto, quantomeno lui non l’aveva mai fatto. A Milano l’aveva lasciata sotto casa, doveva are a prenderla il giorno dopo per andare a pranzo, ma non l’aveva più rivista fino alla primavera seguente. Nel cuore della notte era stato svegliato dal suono del camlo, si era alzato di soprassalto e aveva aperto la porta senza neanche chiedere chi fosse, era convinto di trovare lei sul pianerottolo, lei che si sentiva sola e che ancora una volta veniva a cercarlo, ma si sbagliava. Chi stava suonando con insistenza non era Anna, ma un giovanotto alto e muscoloso, con la pelle chiara coperta di efelidi e gli occhi di un azzurro che sembrava finto, portava un paio di jeans scuri e una canottiera che metteva in risalto la potenza del suo torace, era un bel ragazzo, i capelli erano biondi e ricci e partivano un po’ indietro sulla fronte che così risultava fin troppo libera e spaziosa. Più tardi Lupo avrebbe avuto modo di ripensare alle sembianze dell’uomo che si era trovato davanti quando aveva aperto la porta, al momento però non aveva avuto il tempo nemmeno di stupirsi, il pugno che l’aveva colpito in mezzo allo stomaco l’aveva preso di sorpresa e mandato a sbattere all’indietro contro lo schienale del divano. Qualcosa di amaro gli era salito in gola e colato di bocca, non capiva cos’era, aveva cercato di pulirsi con una mano mentre con l’altra tentava di mantenersi in piedi, poi era arrivato il secondo pugno che l’aveva scagliato sul pavimento, avrebbe voluto urlare, ma non aveva né la voce né la forza per imporsi al gigante che lo stava massacrando, era scosso da conati
di vomito e a malapena riusciva a farsi delle domande. In un primo tempo l’aveva scambiato per un ladro, poi, sopra il frastuono del sangue che gli rombava nelle orecchie, lo aveva sentito nominare Anna e aveva pensato che fosse un innamorato geloso e pazzo, ma anche questo era assurdo, aveva gli occhi allucinati e la bava alla bocca, sembrava fatto di chissà quali porcherie e continuava a parlare di cocaina… A un certo punto Lupo aveva picchiato il capo e perso i sensi, quando aveva aperto gli occhi aveva creduto di trovarsi nel suo letto, invece era sdraiato sul pavimento del soggiorno in mezzo ai resti di quello che un tempo era stato il suo mondo, il ragazzo era inginocchiato al suo fianco e lo stava scuotendo, gli stava chiedendo di Anna e di quello che era successo a Trento, aveva le pupille dilatate e faceva paura. Lui non capiva, lo ascoltava in silenzio cercando dentro di sé una risposta alle domande che gli affollavano la mente, si chiedeva chi fosse quel mostro, cosa volesse, chi gli avesse dato il suo indirizzo, temeva l’avesse estorto ad Anna, che l’avesse picchiata, violentata, uccisa… Aveva provato a dire qualcosa, ma aveva la testa confusa e la gola arsa dall’angoscia, si era fatto coraggio, aveva trattenuto il respiro e aperto la bocca, ma un pugno l’aveva colpito allo sterno e aveva cominciato a tossire e a lacrimare. Aveva chiuso gli occhi disperato, doveva fare qualcosa se voleva sopravvivere a quel massacro, doveva reagire, scappare… Aveva indugiato qualche minuto, poi si era guardato attorno, il rumore si era spostato in cucina e nella stanza non c’era nessuno, era il momento giusto per muoversi…, si era piegato su un fianco e si era seduto sul pavimento, avvertiva una fitta acuta al torace e del sangue gli colava dal naso, ma non intendeva fermarsi, aveva provato ad alzarsi proprio nell’istante in cui era tornato il silenzio e con esso anche il ragazzo. Lupo aveva sentito il panico invadergli la mente, avrebbe voluto mettersi a urlare, ma il pensiero di Anna che forse stava peggio di lui l’aveva aiutato a mantenersi lucido, aveva aspettato che il ragazzo gli fosse vicino, poi si era inclinato all’indietro e gli aveva sferrato un calcio con tutta la forza che aveva. Non era riuscito a capire dove l’avesse preso, ma quando l’aveva visto piegarsi e mugolare, si era sentito contento, ne aveva approfittato per colpirlo alla caviglia e questa volta l’aveva mandato a sbattere contro un tavolino di cristallo che era
caduto a terra con un rumore assordante. Per un attimo la stanza era sembrata vibrare, Lupo aveva chiuso gli occhi aspettandosi il peggio, quando era tornato a guardare, in casa c’era di nuovo silenzio, il ragazzo era seduto in mezzo ai pezzi di vetro con l’espressione assorta di chi sta ascoltando dei rumori lontani, qualcuno al piano di sopra si era svegliato e aveva sbattuto una porta, il vecchio ascensore aveva ripreso a sferragliare e all’improvviso il telefono si era messo a suonare, ma di tutto questo Lupo non aveva sentito che una piccola parte, perché era stato colpito ancora una volta e aveva perso i sensi. S’era svegliato sull’ambulanza che lo portava all’ospedale, nelle sue orecchie c’era un fischio che gli bucava il cervello, aveva provato a scuotersi e subito gli era tornata in mente Anna, l’aveva vista ferita, in fin di vita e aveva tentato di alzarsi, voleva telefonarle, andare a cercarla…, ma aveva il corpo intorpidito, la testa confusa e una fitta al petto che non gli permetteva di respirare. Aveva sentito qualcuno avvicinarsi e un ago entrargli nel braccio e finalmente era tornato il silenzio. Quando si era ripreso c’era un poliziotto seduto a fianco del suo letto, un uomo della sua età, alto, grosso, con le sopracciglia cespugliose e gli occhi cattivi, più tardi sarebbe diventato suo amico e avrebbe riso con lui di quelle sue prime percezioni, ma al momento non gli era piaciuto e voleva che se n’andasse e lo lasciasse in pace. Aveva risposto alle sue domande a monosillabi, raccontando il meno possibile, non aveva ancora deciso la strategia da seguire, il ragazzo aveva parlato di Anna come se fosse invischiata in qualcosa di losco, aveva accennato alla cocaina…, così aveva chiuso gli occhi e aveva finto di dormire. Un’ora dopo il poliziotto era ancora lì, ma lui nel frattempo si era chiarito le idee, aveva ancora un mucchio di dubbi, ma temeva per l’incolumità di Anna e non voleva peggiorare la sua situazione prima di averle parlato di persona. Aveva aspettato che l’agente se ne andasse, poi si era fatto portare un telefono e aveva provato a chiamarla per tutto il resto della giornata, verso sera aveva deciso di andare a cercarla e aveva lasciato l’ospedale nonostante il parere contrario dei medici, aveva due costole rotte, contusioni in più parti del corpo e alla testa e potevano insorgere complicazioni. Non l’aveva trovata. Nei giorni seguenti era tornato a suonare all’appartamento di via Siroli un numero infinito di volte, non era più preoccupato, sapeva che Anna stava bene e
che non le era successo niente di male, ma aveva un mucchio di domande da farle. Qualche ora dopo la sua aggressione la portinaia l’aveva vista partire contenta per una lunga vacanza, le aveva chiesto di tenerle la posta perché non sapeva quando sarebbe tornata, aveva accennato a un’isola di cui non ricordava il nome. Lupo sperava di rivederla presto, per questo era rimasto in città a suonare e risuonare al suo camlo, si rifiutava di trarre conclusioni affrettate sul suo comportamento, era convinto che ci dovesse pur essere una spiegazione al fatto che se n’era andata in vacanza proprio mentre un suo amico mandava lui in ospedale, voleva chiederglielo, voleva sapere la verità direttamente dalla sua bocca, poi sarebbe tornato a casa, in montagna a leccarsi le ferite. In effetti le spiegazioni non si erano fatte attendere molto, non erano state di suo gradimento, ma lui le aveva accettate per quello che erano, una luce che dissolveva il buio e gli permetteva di vedere con chiarezza lo squallore che gli stava attorno, era sempre meglio di niente. Una sera afosa di fine luglio, infatti, la porta che dava sul terzo piano di un palazzo che ormai cominciava a odiare, non era rimasta chiusa come al solito, ma si era aperta sul volto pallido di qualcuno che avrebbe preferito non rivedere mai più. Lupo era rimasto in silenzio ad ascoltare il ragazzo presentarsi in modo completo, quasi forbito. Si chiamava Enrico Ruggeri, era il fidanzato di Anna, l’amico che un tempo aveva diviso con lei quelle stanze e che saltuariamente tornava per bagnarle i gerani sul balcone. Si era fatto da parte per farlo entrare, aveva insistito, una volta, due volte, lui non aveva accettato, così erano andati a bere qualcosa in un locale vicino. Seduto a un tavolino sporco e bruciacchiato, Lupo aveva ascoltato quello che non avrebbe mai voluto sentire, una storia lunga e intricata che per lui si riassumeva in pochi concetti chiari e angoscianti. Anna si drogava da quando portava i calzettoni, lo faceva bene, con intelligenza, senza richiamare l’attenzione su di sé, aveva cominciato con gli spinelli quando era ancora in collegio e nessuno se n’era mai accorto anche se le annusavano l’alito a ogni rientro, poi era ata all’eroina per approdare infine alla cocaina, quella che considerava la sua amica migliore. Spacciava regolarmente a colleghe, impresari e fotografi vari, aveva un giro ristretto, ma di ottima qualità con gente sicura, piena di soldi e di voglia di spenderli, era molto apprezzata e non solo dagli acquirenti, lo era anche e soprattutto dai fornitori…, questo fino a quando aveva
deciso di mettersi in proprio a loro spese. Tre settimane prima era andata a Trento per ritirare un pacco per conto di un amico, roba buona, pura al cento per cento che poteva far felice un mucchio di gente e che a Milano non era mai arrivata. Anna l’aveva presa, pagata con soldi non suoi ed era sparita, per una settimana era rimasta nascosta ad aspettare che le acque si calmassero, poi aveva telefonato e quando aveva saputo che lui si era venduto la macchina per coprirle le spalle, era subito tornata a casa. Si era scusata, aveva promesso di restituirgli il denaro e si era inventata un mucchio di balle, prima aveva cercato di fargli credere che all’appuntamento a Trento non si era presentato nessuno, poi che era stata aggredita e derubata, che l’avevano picchiata e mandata all’ospedale, aveva riso, pianto, giurato che non si era tenuta niente di niente, che non voleva mettersi in proprio e che sarebbe tornata subito a Milano se non avesse avuto una paura terribile… Ma anche questo non era vero, Anna non aveva paura di nulla e di nessuno, stava costruendo il suo piccolo impero ed era pronta a tutto pur di difenderlo, per questo aveva negato e ancora negato e solo dopo una lunga e snervante discussione aveva ammesso di aver incontrato a Trento un amico e di essersi messa in affari con lui, gli aveva dato l’indirizzo, lui era andato a trovarlo e intanto lei era sparita di nuovo senza lasciargli né un recapito né uno straccio di assegno per ricomprarsi l’auto. Prima o poi, però, sarebbe tornata, lui lo sapeva ed era lì per questo, l’aspettava e siccome nonostante tutto le voleva bene, le curava le piante nella speranza che non si fe attendere troppo. Lupo aveva ascoltato Enrico in silenzio, non aveva voglia di parlare e nemmeno di chiedergli niente, le tante domande che fino a poco prima gli giravano in testa, si erano dissolte come neve al sole e ora voleva solo andarsene per ripensare con calma a quello che aveva appena udito. Si sentiva avvilito, era stato un idiota a non accorgersi che Anna si drogava, lo portava scritto in fronte e gli faceva male capirlo soltanto adesso. Era tornato a guardare il ragazzo con attenzione, ora non gli sembrava più tanto robusto e vigoroso come la prima disgraziata volta in cui l’aveva incontrato, aveva il volto pallido e le occhiaie profonde, quasi viola, un’altra vittima di Anna, si era detto, e aveva cominciato a compatirlo commettendo così un errore che avrebbe influenzato pesantemente il suo futuro. Se invece di credere ciecamente alle sue affermazioni, le avesse infatti ribattute e contestate con la forza che i suoi sentimenti meritavano, avrebbe scoperto alcuni aspetti del carattere di Enrico che Anna conosceva già da tempo, per esempio
avrebbe capito che lui non era solo un energumeno pericoloso e manesco, ma anche un ragazzo cresciuto poco e male, squilibrato nel suo sentirsi forte come un pugile e fragile come un bambino, convinto di meritarsi il paradiso in terra e quindi amore e cocaina senza limiti di sorta. Era innamorato di Anna dalla sera in cui l’aveva conosciuta e il fatto che lei lo trattasse come un fratello minore e niente di più, non gli piaceva ma neanche lo turbava, era convinto che prima o poi lei avrebbe aperto gli occhi e scoperto che lui era l’uomo della sua vita, così, nel frattempo, si era riproposto di proteggerla, di servirla e anche di tenerla lontana da eventuali seccature e seccatori. In quest’ultima categoria facevano bella mostra i suoi numerosi ammiratori, alcuni li considerava dei semplici mosconi di aggio, bastava star fermi e loro se n’andavano da soli, altri invece erano pericolosi e meritavano una maggior attenzione, un paio li aveva spediti all’ospedale, ad uno aveva mandato la polizia nel bel mezzo di un party alle spezie, Lupo… Lupo era stato l’osso più duro, con lui il metodo classico non aveva funzionato, lo aveva riempito di botte, spaventato a morte, ma lui era tornato a suonare alla porta di Anna giorno dopo giorno, a quel punto non sapeva che fare, ucciderlo gli sembrava eccessivo, lui non era un assassino e in ogni caso gli pareva opportuno offrirgli prima un’altra possibilità. Pensava di concedergli una seconda visita notturna, giusto per battere il ferro finché era caldo, ma era stanco, da un paio di settimane non si sentiva bene, aveva sempre un po’ di febbre e strane perdite dal naso, aveva fatto le analisi e quello che vi aveva scoperto non gli era piaciuto per niente. Era stato a quel punto che aveva deciso di darsi una mossa, sentiva che il tempo gli era ostile, aveva fretta, tra non molto Anna sarebbe tornata e lui aveva bisogno di avere mano libera, non voleva rivali tra i piedi. Così, se quella sera Lupo avesse accettato di entrare nell’appartamento, lui l’avrebbe stupito con effetti speciali, gli avrebbe mostrato un’immagine inedita di Anna e del suo mondo, gli avrebbe offerto un ventaglio di proposte allettanti e diversificate, che spaziavano dal semplice consiglio amichevole, fino alla minaccia, alle percosse, all’obitorio…, ma Lupo non era entrato e lui aveva dovuto optare per un’esibizione più soft e limitarsi a parlare, solo a parlare. Alcune delle cose che aveva raccontato di Anna erano vere, solo alcune però e anche quelle erano state gonfiate e collocate in un contesto sfalsato che chiunque sarebbe riuscito a smascherare. Chiunque, non Lupo che non ci aveva nemmeno
provato, lui aveva preferito trovare nelle parole di Enrico la conferma ai suoi dubbi, aveva confrontato le sue affermazioni con le stranezze di Anna, con la sua paura di essere seguita, la sua voglia di isolamento, i suoi sbalzi d’umore, i suoi segreti, poi aveva ricordato la sua presenza immotivata in facoltà, la sua telefonata che aveva causato il loro brusco rientro, il suo indirizzo dato in mano a un delinquente e la sua improvvisa sparizione, e aveva deciso di non offrirle nemmeno una chance. In questo aveva sbagliato, Anna era piena di difetti e di problemi, ma meritava quantomeno il beneficio del dubbio. Lupo era tornato a seguire il ragazzo che ora si stava scusando per la visita inopportuna di qualche sera prima, gli spiaceva per quello che aveva combinato, ma Anna gli aveva detto che la roba era tra i suoi libri e lui le aveva creduto, solo più tardi aveva capito che non era vero e avrebbe voluto tornare a trovarlo per scusarsi e ringraziarlo di non aver fornito alla polizia un identikit attendibile, se l’avesse fatto l’avrebbero preso in un’ora, in giro era molto conosciuto. Lupo lo aveva ascoltato in silenzio, il puzzle che stava prendendo forma nella sua mente non gli piaceva, ma aveva una logica impeccabile. Nel locale l’aria sembrava irrespirabile, si era alzato ed era uscito mettendo in mano al cameriere una banconota di cui non conosceva neanche il valore. Fuori la situazione non era migliore, il traffico era caotico e il rumore assordante, ma lui si era sentito subito meglio, si era avviato alla macchina con il Ruggeri che gli stava al fianco e continuava ad affondare il coltello nella piaga e, per la prima volta in vita sua, aveva provato il desiderio di mettere le mani attorno al collo di un uomo e stringere, stringere con tutte le forze. Si erano lasciati con una pacca sulla spalla, due settimane prima uno dei due aveva massacrato di botte l’altro e ora si salutavano quasi fossero amici. A dir il vero nessuno s’illudeva che esistesse tra loro un simile sentimento, anzi, le loro strade a quel punto si dividevano ed entrambi speravano che fosse per sempre, Enrico sarebbe rimasto in città ad aspettare Anna, Lupo invece sarebbe partito per il paese che gli aveva dato i natali e che al momento si pentiva amaramente di aver lasciato. Lupo era nato al Brennero, in un paesino di confine stretto tra monti alti che a volte sembravano soffocarlo più degli insopportabili miasmi di Milano. Era figlio di un ferroviere di origine veneta che invece di andarsene appena possibile come facevano tutti i suoi colleghi, ci aveva preso gusto e aveva sposato la giovane proprietaria di una pensione a due i dalle terme. Tra quelle
montagne lui diceva di sentirsi in vacanza, così era rimasto e aveva fatto carriera, era diventato capostazione e aveva messo al mondo tre figli, due femmine e un maschio, Wolfgang appunto, detto Lupo, a sessantacinque anni era andato in pensione e dieci mesi dopo era morto d’infarto mentre guardava un treno merci uscire in retromarcia dalla stazione, il macchinista era un incompetente, stava sbagliando manovra, ma lui non era riuscito a dirglielo, aveva alzato un braccio e si era accasciato sulla panchina dove aveva preso l’abitudine di sedersi. A quel tempo Lupo era solo un ragazzino, alto e spigoloso come la maggior parte dei suoi compagni, era simpatico a tutti e a scuola veniva considerato come una promessa, era intelligente, parlava bene due lingue, amava l’Austria e sognava l’Italia. La morte del padre aveva messo fine alla sua infanzia serena, gli aveva aperto gli occhi sui dolori della vita e l’aveva allontanato da una cultura e da una nazione che al Brennero sembravano distanti mille miglia, aveva dovuto superare l’adolescenza per ritrovare un certo equilibrio, un processo lungo e faticoso, a volte snervante. Dopo la maturità si era trasferito a Milano al seguito di Roberta, il suo primo grande amore, lì aveva frequentato la Facoltà di Lingue con buoni risultati e scarso interesse, contava di darsi all’insegnamento, ma il suo sogno era scrivere, quando poteva tornava a casa, dove la madre e le sorelle avevano trasformato la loro pensione in un albergo a tre stelle con cucina internazionale e ottima clientela. Villa am Brenner era piccola e autosufficiente, lì nessuno aveva bisogno del suo aiuto e quando tornava era solo per sciare o stendersi al sole a sognare. A casa sua era sempre stato così, vigeva il matriarcato più assoluto e appagante e anche suo padre che era stato amato e coccolato dalle sue donne fino all’eccesso, era sistematicamente tenuto lontano dalle faccende dell’albergo, a quelle pensavano le sue sorelle che, dal punto di vista professionale, erano considerate dei veri mostri di perfezione ed efficienza. Karla e Renate vivevano entrambe in pensione, la prima con le figlie avute dal marito separato, la seconda con un’amica con cui divideva la stanza, nessuna delle due aveva mai pensato di cercare altrove qualcosa di meglio, loro il meglio ce l’avevano già. Lupo fino ai vent’anni era stato avvolto dal tepore di quel matriarcato, in famiglia si viveva e si parlava al femminile, un’esperienza che gli era difficile spiegare agli altri e che a Milano gli era mancata più di ogni altra cosa. Dopo la
laurea era tornato al Brennero con l’intento di scrivere un romanzo, non aveva ancora deciso la trama, ma le idee non gli mancavano, anzi, il problema era proprio questo, aveva troppe idee che gli ingombravano il cervello e gli impedivano di scrivere, aveva riempito fogli e fogli, tracciato schemi, inventato storie e personaggi, intanto l’estate finiva e la prima brina di settembre gli aveva riportato la lucidità che da un po’ sembrava mancargli. Così aveva rifatto i bagagli ed era partito per Milano alla ricerca di una supplenza in qualche scuola della città. Gli era andata bene, aveva un buon punteggio che gli aveva consentito di lavorare anche durante l’abilitazione, poi era entrato in ruolo come insegnante di lingue presso un istituto tecnico e da lì non si era più mosso. ava le vacanze a casa a lamentarsi che il paese era troppo piccolo, il valico troppo stretto e il traffico eccessivo, poi tornava a Milano per lagnarsi della città troppo grande e rumorosa, troppo piena di palazzi alti più delle montagne del Brennero, troppo inquinata, troppo tutto. Si definiva un perenne scontento, uno che doveva ancora scoprire il posto dove si sarebbe fermato. Questo fino a quando era approdato in quella terra bagnata dall’Adige e coperta di vigne dove per sei giorni, quasi sette, aveva pensato di aver trovato la sua casa e la donna dei suoi sogni. Anna era stata lo scherzo peggiore della sua vita. Col tempo i suoi sentimenti erano cambiati e l’astio che nei primi mesi aveva provato nei suoi confronti, aveva lasciato il posto a un malinconico e disincantato rancore. All’inizio, però, era stato terribile, per la prima volta nella sua vita aveva sentito di odiare qualcuno, spesso immaginava d’incontrarla per strada e di fermarla per dirle quanto la disprezzasse, per buttarle addosso delle frasi, dei pensieri che sera dopo sera s’affinavano in un linguaggio sempre più contratto e simbolico. Era andato avanti così per mesi, poi finalmente aveva cominciato a riprendersi. La sua guarigione era iniziata la notte in cui aveva la luce e aveva preso in mano una penna e un pezzo di carta. Pensava di scriverle una lettera, poche righe che non intendeva neanche spedire, e invece dalla sua testa era uscita una poesia, poi un’altra e un’altra ancora. Aveva scritto per tutte le vacanze di Natale svuotando il suo cuore di ogni emozione. A gennaio stava già meglio, a febbraio era tornato a uscire con gli amici di sempre, a marzo si sentiva di nuovo bene nonostante dai muri della città cominciasse a occhieggiare un volto che pensava di aver ormai dimenticato. Dimmi cos’è quel brivido di freddo
che corre su di me quando ti vedo. Quando l’aveva conosciuta non era famosa, lavorava nel mondo sommerso della pubblicità senza apparire con evidenza né in televisione, né sulla carta stampata, poi, nella primavera di quell’anno, aveva cominciato a farsi notare, non era una stella di prima grandezza, ma per Lupo che avrebbe voluto dimenticarla, era una presenza fin troppo ingombrante. Era lei che gli consigliava il dentifricio, lo spumante e la crema da barba…, quando su un manifesto di due metri per tre l’aveva vista con i capelli legati a coda di cavallo, la maglietta corta e lo zaino buttato sulle spalle, aveva sentito la prima fitta di mal di stomaco e aveva cominciato a pensare che forse la cosa migliore era andarsene definitivamente da Milano. Ad aprile aveva ricevuto la sua prima telefonata, poi ne era seguita una seconda e una terza, alla quarta aveva comperato la segreteria telefonica, non voleva parlarle, non voleva incontrarla né da solo né in compagnia e gliel’aveva anche detto un giorno che aveva aperto la porta per uscire e se l’era trovata sul pianerottolo di casa. Era radiosa, più bella di come la ricordava, ma lui non l’aveva fatta entrare, lei lo aveva preso per un braccio e aveva provato a parlargli, gli aveva chiesto come stava e lui aveva finto di non conoscerla, le aveva detto che non gli serviva nulla, che non aveva intenzione di acquistare né enciclopedie, né detersivi e men che meno cocaina, poi aveva chiuso la porta dietro di sé e s’era avviato verso le scale senza degnarla di uno sguardo. In maggio l’aveva incontrata in una discoteca, stava ballando, rideva e sembrava felice. Qualche giorno dopo l’aveva vista davanti alla sua scuola, era appoggiata al muretto e sembrava aspettare qualcuno, lui aveva pensato alla droga che sicuramente era lì per vendere e avrebbe voluto mettersi a piangere, oppure affrontarla e dirle di andarsene, prenderla a schiaffi, invece aveva preferito mettere un braccio attorno alle spalle di una collega e girarsi dall’altra parte. Da quel giorno non si era più fatta vedere né sentire e per Lupo era stato un sollievo, erano ati i mesi, poi le stagioni e finalmente aveva creduto di essersi liberato della sua ossessione. La città però era ancora piena dei suoi manifesti e gli autobus s’allontanavano assieme al suo sorriso bianco come la neve di montagna, così era tornato a pensare che la cosa migliore fosse andarsene via, in fondo lui non era mai stato un uomo di città e quindici anni vissuti nello smog gli parevano più che sufficienti. Alla fine della scuola aveva chiesto un anno di aspettativa, voleva tornare a casa e provare a scrivere, aveva
già pubblicato un libro di versi, il secondo era quasi pronto, ma la sfida a cui agognava era un romanzo, voleva sedersi davanti al computer senza orari o impegni che gli legassero le mani e mettersi alla prova. Era andato al mare otto giorni con un’amica fin troppo cara e poi era ato da Milano prima di raggiungere il Brennero. Era stato a quel punto che i messaggi lasciati da Anna sulla sua segreteria avevano innescato il meccanismo che lo aveva riportato nei luoghi dove due anni prima aveva vissuto una storia impossibile. Era arrivato in paese al tramonto, aveva parcheggiato la macchina sotto il solito platano e si era diretto verso la rivendita di giornali poco lontana, il posto ideale per dare il via alla piccola indagine che aveva in mente di fare. Intendeva chiedere di Anna in un paio di negozi, poi sarebbe andato dal contadino che gli curava gli olivi e che per quanto ne sapeva poteva esser morto da almeno due anni, gli avrebbe chiesto di cercargli un acquirente, uno qualsiasi, bastava che si prendesse tutto e che lo lasciasse libero da ogni incombenza. Solo allora sarebbe ato dal rudere per vedere se in giro c’era qualche traccia di Anna, l’avrebbe fatto anche se era sicuro che fosse inutile, “ci vediamo a casa”, gli aveva detto, ma quella non era una casa, non lo era affatto, lui ricordava dei muri tenuti assieme malamente, delle finestre con i vetri rotti e un tetto pieno di buchi, nessuno avrebbe potuto abitare in quel posto, di certo non una modella abituata ai lussi di Milano. Lupo non aveva dubbi in proposito, era anche convinto che in quel posto nessuno si ricordasse di lui, tranne forse il contadino e il geometra che abitava fuori paese, così quando aveva varcato la soglia del negozio con l’atteggiamento circospetto di chi è nuovo del posto, di tutto s’aspettava, eccetto che gli venisse riservata l’accoglienza del figliol prodigo. Dentro c’erano due uomini, uno era il proprietario di cui non ricordava il nome, l’altro non l’aveva mai visto, entrambi però gli erano andati incontro per stringergli la mano e dargli il benvenuto, sembravano contenti del suo arrivo, mancava poco che l’abbracciassero. Lupo era cordiale di natura e si era adattato con piacere a quelle effusioni che gli sembravano fuori luogo, aveva parlato del caldo, del traffico sull’autostrada e della piazza pavimentata a nuovo, aveva perso tempo e questo era stato un male o forse un bene, chissà, perché quando era venuto il momento di are alle cose serie non aveva avuto il coraggio di farlo, ancora non capiva cosa stesse succedendo, ma gli sembrava che i loro discorsi sottintendessero qualcosa che
lui ignorava, che lo metteva a disagio e gli impediva di essere se stesso. Quando gli avevano chiesto, per esempio, dove avesse lasciato sua moglie, avrebbe potuto cogliere la palla al balzo e spiegare il malinteso, lui non era sposato e non c’era dubbio che lo confondessero con qualcun altro, invece era rimasto in silenzio e li aveva lasciati continuare fino al punto di non ritorno in cui avevano pronunciato per la prima volta il nome di Anna. Da quel momento non si era più posto il problema di quello che doveva o non doveva dire, e li aveva lasciati parlare senza interferire. Sembrava che sapessero tutto di lui, del suo lavoro a scuola, della sua famiglia al Brennero, dell’incidente in cui aveva distrutto la macchina e di quella nuova che aveva comperato in primavera, della raccolta di poesie che stava ultimando e di quella precedente che in paese era andata a ruba. Lupo li ascoltava in silenzio, avrebbe voluto interromperli per chiedere di Anna, ma non ne aveva il coraggio e quando il proprietario del negozio gli aveva messo in mano una copia del suo libro e l’aveva ringraziato per la sua bella dedica, lui aveva sentito l’impulso di mollare tutto e di scappare. Invece era rimasto e aveva sfogliato alcune pagine finché aveva trovato quello che cercava, nella quinta, in alto, proprio dove di solito scriveva lui, c’era una breve frase, formale e gentile, seguita da una firma, la sua. C’era quasi da mettersi a ridere, le parole potevano anche are, ma non la calligrafia che era ben diversa dai suoi scarabocchi, e comunque lui non aveva mai dedicato alcun volume “al caro Arturo, che legge e sa apprezzare”, e di sicuro non glielo aveva mandato per mano di sua moglie. Sembrava tutto uno scherzo, Lupo cominciava a capire, ma a fatica, una parte del suo cervello si rifiutava di assimilare quello che le sue orecchie sentivano, sua moglie... Ora provava l’urgenza di muoversi, aveva comperato il giornale e si era avviato verso la porta nella speranza di non essere seguito, il negoziante però non aveva ancora finito, continuava a parlare di Anna, era un bel po’ che non si faceva vedere... Lui aveva borbottato qualcosa sui suoi tanti impegni e li aveva lasciati col proposito di rivedersi più tardi al bar, ovviamente non aveva alcuna intenzione di andarci, ma al momento avrebbe promesso qualsiasi cosa pur di rimanere solo a controllare il giornale appena comperato, era uguale a quello che aveva in macchina, ma sembrava più leggero. Seduto sul sedile della Toyota lo aveva sfogliato pagina per pagina e si era sentito meglio quando si era accorto che mancava la cronaca milanese, questo faceva sperare che in paese nessuno sapesse niente di via Siroli.
Poi si era diretto verso il suo podere, quello che la gente del posto chiamava “le Marogne” per la sua posizione impervia e per i muri di sassi che lo sostenevano. Con la sua Rav avrebbe potuto arrivare fino in cortile, ma lui aveva preferito parcheggiare lontano, aveva bisogno di sgranchirsi le gambe e non voleva farsi annunciare da alcun rumore. Ricordava perfettamente la strada, aveva seguito il torrente fin sotto il castello, poi aveva svoltato a destra e dopo pochi metri a sinistra, già si vedevano gli olivi ma quello che cercava era ancora più in su. Aveva camminato in silenzio con le mani in tasca e gli occhi incollati al sentiero pieno di sassi, le ombre erano ormai lunghe e l’aria fresca, ma le cicale continuavano a cantare, aveva dimenticato quel rumore continuo e assordante che Anna diceva di preferire a Vivaldi, dopo l’ultima svolta era apparsa la casa. Lupo si era fermato a guardarla da lontano, era uguale a due anni prima e allo stesso tempo diversa, completamente diversa, i muri erano ancora di sasso, il portico di legno e il tetto di tegole scure, ma non era più la stessa, affatto. Si era avvicinato in silenzio, le finestre erano coperte in parte da delle imposte color marrone, sotto si vedevano i vetri e dietro le tende. Lupo aveva sentito il cuore battergli in petto al pensiero che lei potesse nascondersi in quelle stanze, con un balzo aveva superato i gradini della veranda e raggiunto la porta, anche quella sembrava diversa, era vecchia e massiccia, senza però le fenditure che ricordava, aveva girato la maniglia, ma il battente non si era spostato. Si era guardato attorno, non c’era stuoino che potesse nascondere quello che cercava, alla parete era appesa una vecchia ruota di carro, dietro aveva trovato la chiave, era lunga e pesante come doveva essere. Aveva aperto la porta con circospezione ed era entrato in punta di piedi, il fatto che fosse chiusa faceva pensare che non ci fosse nessuno, ma con Anna non si era mai sicuri di niente. Dentro sembrava di essere in un mondo diverso, anche alla scarsa luce che proveniva dall’esterno Lupo si era subito accorto delle novità, le pareti erano intonacate e parzialmente coperte da mobili e quadri, c’erano tende alle finestre e infissi nuovi dappertutto, il pavimento era in cotto color ambra scura e dal soffitto pendeva un lampadario d’ottone formato da tre semplici campane. Due anni prima quello era un unico grande locale, un magazzino cupo privo di luce e di acqua, pieno di roba vecchia da buttare, e ora era bastato sfiorare un interruttore perché tutto prendesse vita. La stanza era ampia e ben disposta, vicino al muro c’era una lampada con una poltrona dallo schienale alto e imbottito, sotto la finestra una scrivania massiccia
e al centro un tavolo tondo con tre sedie impagliate. Un’apertura ad arco portava a una piccola cucina moderna con armadietti laccati di bianco e fornello a quattro fuochi, il frigorifero era in funzione ma quasi vuoto, su un ripiano c’erano dei sottaceti, del pancarrè, un vasetto di marmellata e un litro di latte aperto, l’acquaio era di marmo rosa, era ampio e pulito. Dalla cucina si poteva are a un corridoio sul quale s’affacciavano il bagno e una stanza con un letto, un armadio e un piccolo scrittoio, un ultimo uscio dava su una scala che portava in soffitta, un locale ampio privo di pareti divisorie e vuoto, il pavimento era di legno e le pareti erano nude con i sassi che affioravano dall’intonaco, guardando in alto si vedeva il tetto che nonostante la poca luce pareva integro e compatto. Lupo era tornato al piano di sotto e si era seduto in poltrona a chiedersi il significato di quei cambiamenti, che Anna fosse stata lì era evidente, quando e per quanto tempo, era impossibile dirlo, il cibo trovato in frigorifero sembrava recente, ma i lavori fatti alla casa dovevano risalire a mesi addietro. C’era di che impazzire, si domandava come avesse fatto Anna a trasformare quel rudere in una casa senza che il proprietario, cioè lui, ne sapesse qualcosa, chi avesse allacciato la luce e l’acqua, concesso l’abitabilità… Lei si spacciava per sua moglie e la gente del paese poteva anche averla bevuta, ma era mai possibile che in Comune nessuno le avesse chiesto uno straccio di documento? Qualcuno doveva averla aiutata, ne era sicuro e a quel punto non poteva partire senza aver prima scoperto chi fosse stato, la cosa migliore era andare in municipio e parlare col geometra Fioravanti, l’unico che lui conosceva e che forse sapeva qualcosa di quel pasticcio. Si era alzato e aveva preso ad aprire i cassetti della scrivania, le ante della vetrina di noce e i mobiletti della cucina. Cercava qualcosa che gli chiarisse le idee, ma non c’era molto da trovare, sulla libreria assieme a qualche romanzo, c’erano quattro copie del suo libro, una sgualcita, le altre intonse, in un cassetto c’erano delle fotografie che ripercorrevano le tappe dei lavori di ristrutturazione della casa, le date scritte sul retro indicavano l’inverno successivo al loro incontro, su una era riconoscibile il geometra Fioravanti con dei baffi che non ricordava. Era uscito all’esterno, ormai era buio e in cielo si vedevano le stelle, aveva girato attorno alla casa e subito si era scontrato con il profilo sontuoso del castello illuminato. Poco lontano aveva trovato l’uscio che un tempo portava alla stalla,
era chiuso, così era tornato in casa per prendere le chiavi che aveva visto sulla scrivania, erano due, la prima era quella giusta e aveva fatto scattare la serratura. Dentro c’era un laboratorio con un tavolo molto grande, un paio di macchine da cucire, una normale e una con cinque rocchetti porta filo, e tanti attrezzi, ci aveva messo del tempo per dare un senso a quello che vedeva, poi aveva compreso che lì qualcuno confezionava bambole di stoffa dal volto gonfio e morbido e dai capelli di lana, ce n’era un armadio pieno. A Lupo sembrava strano che fosse proprio Anna a lavorare a quel tavolo, a tracciare i disegni ora raccolti in una grossa teca, a tagliare la stoffa per cucirla e farne vestiti, scarpe e borsette, ma chi poteva essere se non lei?, aveva rovistato ovunque senza trovare niente che gli offrisse una valida alternativa. Si era seduto su una sedia e si era guardato attorno chiedendosi cosa avessero a che fare quelle bambole con l’immagine di una donna ricca e affermata, che sniffava cocaina come gran parte della gente che frequentava e che la vendeva per sfizio oltre che per soldi, non capiva… Poi gli era tornato in mente quello che il Ruggeri gli aveva detto due anni prima, per mettersi in proprio Anna aveva bisogno di un posto pulito e di una nuova copertura, incontrando lui aveva trovato entrambi, tombola! In paese era conosciuta come la signora Grimaldi, moglie di Wolfgang Grimaldi, insegnante e poeta troppo impegnato per seguirla in campagna, una donna encomiabile, seria e laboriosa, che ava il tempo a confezionare bambole dagli occhi di vetro e dal ventre morbido pieno di ovatta e forse anche di qualcosa d’altro. Ora tutto era più chiaro. A Milano Anna aveva litigato col Ruggeri che forse aveva scoperto il suo rifugio e voleva una compartecipazione agli utili, gli aveva sparato ed era tornata in paese, il posto però non era più sicuro e lei non si sentiva tranquilla, così era fuggita di nuovo e ora chissà dov’era. Rimaneva da spiegare perché avesse telefonato proprio a lui…, forse si era convinta che il ruolo di vedova presentasse dei vantaggi e aveva deciso di ammazzarlo, o magari qualche bravo impiegato comunale aveva scoperto a chi apparteneva la casa e lei voleva correre ai ripari. Era anche possibile che il Ruggeri non fosse l’unico a conoscere il suo nascondiglio e che qualche altro delinquente avesse bussato alla sua porta per saldare i conti lasciati in sospeso. Lupo si era alzato in piedi, aveva spento la luce ed era uscito sul prato, non voleva pensare a una simile eventualità, a lei prigioniera, ferita o addirittura morta e buttata in qualche angolo fuori mano, preferiva credere che fosse con
qualche amante e stesse ridendo di lui come aveva fatto in ato. Aveva seguito il perimetro della casa fino a sbucare sull’altro lato, la stradina che portava in paese arrivava davanti a un portone a due battenti, lo aveva aperto con la seconda chiave, dentro vi aveva trovato un’automobile, una piccola Smart argento e blu, era di Anna, non c’era dubbio. Stava controllando i documenti nel cruscotto quando aveva sentito un rumore provenire dall’esterno, era uscito convinto di vedere la sua figura stagliarsi contro la luce gialla del castello e invece era andato a sbattere contro un uomo alto e ben piantato, che in un primo momento non aveva riconosciuto. Era il contadino che gli curava il campo e di cui non ricordava neanche il nome, l’uomo sembrava contento di vederlo, stava uscendo di casa quando aveva intravisto una luce in mezzo agli olivi ed era corso a dare un’occhiata, due sere prima era successa la stessa cosa, aveva pensato che fosse Anna, ma quando al mattino era salito per salutarla non aveva trovato nessuno. Lupo aveva chiuso il portone alle sue spalle nella speranza che l’altro non avesse notato l’automobile, avrebbe voluto farlo entrare per offrirgli da bere e farlo parlare, ma non sapeva neanche dove fossero i bicchieri, così gli aveva proposto di accompagnarlo in trattoria, aveva fame e il frigorifero era vuoto. L’uomo aveva accettato con piacere, era un gran chiacchierone e in pochi minuti gli aveva raccontato dei suoi olivi che crescevano bene e davano frutti grossi come quelli del lago, del loro olio denso e saporito e delle migliorie apportate al campo. Dava per scontato che lui sapesse già tutto, ma non era così, per niente. Per fortuna erano arrivati in fretta davanti al bar della piazzetta, dentro c’era Arturo che giocava a carte, appena lo aveva visto entrare si era fermato per presentarlo alla gente che gli stava attorno, ma sembrava non servisse, tranne il maresciallo tutti lo conoscevano da tempo, se non lui almeno sua moglie. Lupo aveva scherzato sulla popolarità di Anna, si era detto incuriosito e anche un po’ geloso, nei prossimi giorni si sarebbe dato da fare per recuperare il tempo perduto, intendeva far visita a tutti i suoi amici. Quando era tornato a casa aveva la testa che gli girava per il vino scuro che aveva bevuto e per i tanti discorsi che aveva ascoltato, ma si sentiva leggero, addirittura sereno. I giorni che erano seguiti li aveva ati facendo visita ai conoscenti di Anna, con la scusa che stava raccogliendo immagini e idee per un romanzo ambientato sul posto, s’intrufolava nelle case di perfetti estranei che però sembravano
accettarlo di buon grado. Lui si vedeva come uno scocciatore, un tipo invadente e strano, forse anche ridicolo nel suo continuo girovagare, nessuno comunque gli aveva chiuso la porta in faccia e giorno dopo giorno era riuscito a completare il mosaico degli amici di Anna, almeno di quelli che non erano in vacanza. Così aveva scoperto che pochi la conoscevano bene come in un primo tempo gli era sembrato, forse nessuno, di lei sapevano che costruiva bambole di pezza, che viveva per la maggior parte a Milano e che era sempre gentile con tutti, quando era in paese se ne stava chiusa in casa a lavorare, qualche volta, verso sera, andava a cena in trattoria, veniva chiamata “la milanesa”, ma senza disprezzo e nemmeno antipatia. Questo era quanto era riuscito a sapere, quasi niente, la sua vita sembrava irreprensibile, non aveva amici speciali e se li avesse avuti non l’avrebbero detto a lui che era il marito, in ogni caso nulla faceva pensare che fosse implicata in qualcosa di losco, ma Anna non era una stupida e se spacciava droga non l’avrebbe di certo fatto con la gente del posto. Di lei comunque non aveva trovato traccia, di recente nessuno l’aveva vista e niente faceva pensare al peggio, così poco alla volta si era convinto che se ne fosse andata di sua spontanea volontà dopo aver nascosto la macchina in garage. Non aveva senso, lo sapeva, ma con Anna poche cose avevano senso. Il suo amico Ruggeri diceva che aveva sette vite come i gatti e forse aveva ragione, magari in quel momento era al mare e se la stava sando alla grande, non sarebbe stata la prima volta. Così quella mattina aveva deciso di tornare a Milano per informarsi sull’indagine, sapeva a chi rivolgersi ma voleva farlo di persona, intendeva fermarsi fino a Ferragosto per consentire al Fioravanti di riprendere servizio, in quei giorni era in ferie e il suo telefono suonava a vuoto. Per questo si era alzato presto, aveva raccolto le sue poche cose, riordinato la casa e rifatto il letto che ancora tratteneva il profumo di Anna ed era sceso in paese per fare colazione nel solito caffè, lì si era scontrato con la voglia di giocare del maresciallo, che dava le carte e intanto parlava con la gente che gli stava attorno, sembravano le solite chiacchiere, ma non lo erano. Era stato in quel modo che aveva saputo quanto era successo alla donna che abitava poco lontano e che aveva intravisto qualche sera prima proprio in quel locale, era una storia inverosimile, ma interessante e gli spiaceva di non poterne parlare a tu per tu col maresciallo, forse in quel cortile c’era stato davvero un plaid buttato sul cemento per nascondere qualcosa, magari un corpo morbido di donna, chissà...
Era stato pensando ad Anna che Lupo aveva posticipato la partenza, aveva attraversato la piazzetta ed era andato a cercare Beatrice, l’aveva trovata sotto una tenda pesante che scalciava come un’ossessa, gli era sembrata simpatica e spiritosa, forse un po’ nervosa, ma questo era comprensibile visto quello che aveva ato. Erano stati a pranzo assieme e si erano raccontati le loro vicende, non tutte, solo le più importanti, poi lei lo aveva invitato a cena e lui si era offerto di rintracciare il geometra Fioravanti attorno al quale sembrava girare ogni cosa. Aveva provato a telefonargli ancora dal ristorante, poi era ato da casa sua, aveva suonato il camlo, ma nessuno gli aveva risposto nonostante le finestre fossero spalancate, aveva riprovato un’ora più tardi, si era fermato un bel po’ davanti al cancello e se non fosse stato per il cane che abbaiava appena più in là, sarebbe entrato per dare un’occhiata. Lupo non amava i cani, men che meno amava quelli grossi come vitelli, gli facevano paura e ne aveva motivo, l’ultima volta che era stato morso da uno di loro aveva sedici anni, la prima nove, la seconda dodici, gli bastava questo per tenersene alla larga. Così non aveva varcato subito quel cancello dal battente accostato e si era spostato nella piazzola in fondo alla valle ad aspettare che il bravo geometra rientrasse in casa, era quasi sera ed era sicuro che non avrebbe tardato, aveva allungato le gambe per mettersi comodo e aveva ripercorso con la mente le vicende che lo avevano portato in quell’angolo di mondo incantato. Due anni prima anche ad Anna era piaciuto quello sperone di roccia che si alzava ripido verso il cielo, a lei pareva un corno che irrompeva violento tra i sassi e le pozzanghere del torrente, a lui invece il dente possente di un animale preistorico, dimenticato lì dalla notte dei tempi. Lupo sorrise, quelli erano stati giorni bellissimi che non avrebbe mai dimenticato, poi erano arrivati i tempi bui, ma anche quelli per fortuna erano ati. Ora stava bene, se non fosse stato per quel leggero mal di stomaco che ogni tanto faceva capolino alla sua coscienza, avrebbe potuto definirsi contento, è vero che stava cercando le tracce di una donna che una parte di sé sperava di non trovare, ma l’eccitazione di quei giorni lo aveva strappato dal torpore degli ultimi mesi e ora finalmente si sentiva pieno di energia, la sua vita era cambiata, anche le sue aspirazioni. Da un po’ nella sua testa stava prendendo forma la trama di un romanzo, una storia semplice con Anna come protagonista, che forse non sarebbe mai stata pubblicata ma che di sicuro l’avrebbe liberato definitivamente dal suo fantasma. Ancora il suo editore non lo sapeva, ma avrebbe dovuto aspettare un bel po’ prima di ricevere l’ultima stesura delle sue poesie.
Seguire le tracce di Anna, quindi, rispondeva a esigenze diverse, si disse Lupo avviando la Rav e portandola sulla carreggiata di marcia. Ovviamente non era tanto ingenuo da credere che i suoi sentimenti, buoni o cattivi che fossero, non stessero alla base di tutto quel darsi da fare, era però contento che ci fosse anche dell’altro. Da quel pastrocchio avrebbe ricavato un libro, qualcosa di differente dal solito, dove la protagonista per quanto bella da morire, non era anche buona e alla fine non avrebbe trionfato su tutto e tutti. Si fermò davanti al cancello del Fioravanti. Due anni prima lo aveva varcato assieme a una ragazza stupenda, che saltellava entusiasta sui sassi sconnessi e diceva di volere un giardino proprio come quello, un orto uguale con alberi da frutto e verdura da coltivare e una casa vecchia, comoda e sicura per viverci tutta la vita. E lui che a quel tempo ancora paventava l’idea di tornare ad abitare in un paese, l’ascoltava estasiato, pronto a darle qualsiasi cosa pur di renderla felice, era come ubriaco e di sicuro avrebbe lasciato Milano, la scuola e gli amici senza rimpianti se il giorno dopo non gli fosse crollato il mondo addosso. Meglio non pensarci, si disse Lupo scendendo dalla macchina. La situazione dal Fioravanti sembrava immutata, lui suonava e nessuno rispondeva. Si guardò attorno, tutto sembrava come due anni prima, la casa piccola e massiccia, il prato che scendeva ripido verso il torrente, perfino il profumo di uva fragolina era quello di allora. Trasse un respiro profondo, si fece coraggio e aprì il cancello. La belva sembrava aspettarlo in fondo al sentiero, una settantina di chili di muscoli potenti ricoperti da una massa compatta di lunghi peli bianchi che parevano alzarsi nella brezza della sera, era un cane da montagna dei Pirenei, simile al maremmano e al terranova, lo sapeva…, un tempo, per esorcizzare la paura, si era fatto una cultura su di loro, ma non era servito a niente. L’animale aveva smesso di abbaiare e questo diede a Lupo il coraggio di percorrere il primo tratto del vialetto, pochi i e si fermò indeciso, con un po’ di fortuna poteva ancora tornare indietro e mettersi al sicuro in macchina, ma aveva le gambe molli e il cuore che gli batteva in gola, e preferì appoggiarsi al muretto che correva lungo la stradina, se rimaneva calmo forse avrebbe evitato il peggio. Il cane era ancora fermo, scuoteva la coda con forza ed emetteva un lamento che faceva rizzare i capelli in testa, Lupo decise di affrontarlo e tornò ad avviarsi, arrivato vicino alla casa, la bestia mugolò, si girò e con un balzo prese a correre verso la parte bassa del cortile chiedendogli di seguirlo, aveva il pelo candido che s’alzava al ritmo della sua andatura, era imponente, elegante, magnifico…
Per tutti, non per Lupo che approfittò del diversivo per superare i pochi gradini che portavano al terrazzo ed entrare in casa chiudendosi la porta alle spalle. Dentro l’ambiente era in penombra, tutto sembrava uguale a due anni prima, solo il disordine era nuovo. L’aria gonfiava le tende davanti alle finestre e dava un senso d’irrealtà a quello che era sparso sul pavimento, Lupo si piegò per raccogliere un libro caduto sui cocci di una bottiglia scura, sulla segreteria del telefono lampeggiavano dei messaggi, il tappeto ai piedi del televisore era macchiato e arricciato in un angolo, uno dei cuscini del divano era scivolato in avanti e quasi sfiorava il pavimento, gli venne voglia di rimetterlo a posto, ma preferì non farlo, se era stato il montagna a combinare quel pasticcio era meglio che il suo padrone lo vedesse. Provò a chiamare il geometra per nome, ma non ricevette risposta, entrò in cucina e in camera da letto, lì tutto era pulito e in ordine, quando aprì la porta del bagno una folata d’aria fece sbattere le imposte dell’unica grande finestra. S’avvicinò per chiuderla e subito scorse la macchia chiara del cane sui ciottoli del torrente. Se ne stava fermo con le zampe ben piantate a terra e la coda che si muoveva in modo frenetico, spostava la testa piano dall’alto verso il basso, quasi a indicare il corpo scomposto che era steso poco più in là. Lupo si sentì mancare, si sporse per veder meglio, poi tornò in soggiorno, scese le scale che portavano dietro la casa e raggiunse il montagna sul greto del torrente, una nuvola d’insetti s’alzò in volo e rimase sospesa sopra la sua testa, prese il fazzoletto e si coprì la bocca e il naso, l’odore lì vicino sembrava insopportabile, l’uomo era piegato su un fianco ma la faccia era immersa in una piccola pozza d’acqua scura. Lupo si fece coraggio e spostò il corpo per poterlo riconoscere, sapeva già chi era, ma voleva averne la certezza, quello che vide lo trovò impreparato, sotto i capelli sottili e bagnati del geometra Fioravanti c’era ben poco da vedere, le ossa del naso e dello zigomo sinistro si stagliavano chiare sul grigio dei rari brandelli di pelle rimasti. Si girò e vomitò tra le zampe frementi del cane. Quello che successe dopo fu come un sogno lento e angosciante, solo il disagio del trovarsi sempre il montagna tra i piedi gli sarebbe rimasto in mente, il resto era come immerso in una nebbia fredda e umida. Era tornato in casa, aveva cercato il numero di telefono dei carabinieri e li aveva chiamati, poi aveva frugato nel frigorifero per scovare qualcosa da mangiare per il cane che sembrava affamato, aveva trovato della pasta vecchia e forse un po’ ammuffita e gliel’aveva appoggiata sul pavimento. A quel punto non gli restava che aspettare,
aveva chiamato Beatrice e si era seduto su una poltrona cercando di recuperare la calma. Era stato allora che gli erano tornate in mente le telefonate che aveva fatto al geometra, aveva lasciato dei messaggi, in uno aveva parlato perfino di Anna, allungò la mano per pigiare il pulsante dell’ascolto e rimase impietrito nell’udire la voce che si fece strada nella stanza. Anna era agitata, sembrava tesa, forse arrabbiata, voleva che il geometra le riportasse la sua neve, subito, al massimo entro il mattino successivo, aveva ripetuto il concetto due volte, poi aveva troncato la comunicazione con un breve saluto. Seguivano due messaggi vuoti, uno dell’Ufficio tecnico comunale e infine i suoi. Lupo si ò le mani tra i capelli maledicendo Anna e la sua neve, era un’incosciente, aveva coinvolto il Fioravanti nei suoi traffici di droga e poi l’aveva piantato in asso, lui era morto e lei era scappata, ma che brava! Fece per riascoltare la registrazione, ma un rumore attirò la sua attenzione, sulla strada si era fermata una macchina, alzò gli occhi e dalla finestra vide un lampeggiante brillare oltre il prato, senza pensarci schiacciò il pulsante per cancellare i messaggi, l’apparecchio era simile al suo e privo di nastro magnetico, confermò la rimozione, poi pulì il tasto e andò incontro ai carabinieri che erano ormai sul vialetto d’entrata. Quando Lupo salì in macchina per tornarsene a casa era buio già da un bel po’, come fossero ate tutte quelle ore, proprio non sapeva dirlo, aveva risposto a molte domande, non aveva mai mentito, ma in molte occasioni era stato reticente e poco chiaro, non aveva parlato di Anna, ma nessuno gli aveva chiesto di lei, aveva detto di essere lì per conto di Beatrice e anche questo era vero, almeno in parte. Erano arrivate altre macchine, un medico e alcuni tecnici della scientifica, lui era stato a guardare per ore, poi aveva chiesto se poteva tornare a casa, era stanco e voleva andare a dormire. Il maresciallo lo aveva accompagnato sulla strada e aveva riso vedendo i tentativi del cane di entrare in macchina, lo aveva pregato di prendersi cura di lui, ma Lupo aveva rifiutato categoricamente ed era ripartito con i finestrini chiusi per la paura che l’animale con un balzo vi saltasse dentro. Avrebbe voluto are da Beatrice per raccontarle nel dettaglio l’accaduto, ma nella piazzetta non c’era un angolo libero e di cercare un altro parcheggio non aveva voglia, così proseguì verso la parte alta del paese, le avrebbe telefonato
appena arrivato a casa. Fermò la macchina davanti al garage, spense i fari ma non scese, rimase seduto ad ascoltare i rumori della notte, nel prato attorno alla casa c’erano dei grilli che cantavano, e intanto pensava alla piccola automobile nascosta dietro al portone e si chiedeva come avesse fatto Anna a cacciarsi in un guaio tanto serio, e perché mai avesse coinvolto quel pover’uomo del Fioravanti, una persona mite e disponibile che non somigliava affatto a certi suoi amici di Milano. A meno che tutto quello che era successo non fe parte di un piano più ampio e che anche le cose più ovvie, quelle che lui aveva dato per scontate, non fossero tali. Forse Anna conosceva il geometra da molto più tempo di quanto lui pensasse, forse non era stato un caso che due anni prima lei lo avesse portato proprio in quel paese dove c’era una vecchia casa in mezzo agli olivi pronta per essere acquistata e un tecnico comunale tanto disponibile e gentile da facilitare tutte le pratiche e rendere possibile quello che di fatto sembrava impossibile. Chissà quanto avevano riso… Lupo scese dalla macchina sbattendo la portiera, si sentiva stanco ma allo stesso tempo pieno di energia, avrebbe voluto mettersi a correre attorno alla casa, urlare alle stelle e agli olivi la sua rabbia, zittire gli usignoli che invece sembravano prendersi gioco di lui. Si sedette sullo scalino sotto il portico e si premette il palmo delle mani sulle orecchie. Quello che più gli faceva male era constatare quanto potere Anna avesse ancora su di lui, non era possibile sentirsi così avvilito per quello che aveva scoperto, che fosse una poco di buono lo sapeva già da tempo, non era una sorpresa. Era stato lui a sbagliare, si era lasciato coinvolgere e ora si trovava nei guai, aveva manomesso la scena di un delitto, cancellato un messaggio che parlava di droga, di neve…, e questo non era un reato da poco. Non gli restava che pagarne le conseguenze, il giorno dopo sarebbe andato a trovare il maresciallo Saluzzo e gli avrebbe raccontato tutto, anche le cose più incresciose, quelle che lo facevano sentire stupido, poi sarebbe ripartito per il Brennero, sempre che glielo avessero permesso… Fu nel momento in cui Lupo riacquistava la padronanza di sé e s’apprestava ad alzarsi per entrare in casa che i grilli smisero di cantare, scosse la testa per liberarsi del silenzio che si era fatto assordante e fu così che avvertì il leggero ansito che gli stava alle spalle, subito la pelle gli s’increspò dalla paura e il suo pensiero corse ad Anna che si nascondeva da qualche parte, al Ruggeri ferito,
forse ucciso, e al Fioravanti con la gola squarciata in tutta la larghezza. Fece per tirarsi su, pronto a colpire chi gli stava alle spalle, ma non ne ebbe il tempo, perché fu travolto da una massa morbida di pelo caldo e fremente che lo mandò a terra lungo disteso. Chiuse gli occhi mentre una lingua calda e ruvida prendeva a lambirgli il collo e la faccia fin sopra ai capelli.
So che la gente a quel tempo non era felice, che c’erano tanti problemi dovuti alla convivenza forzata di due popoli che avevano una lingua e una cultura differenti, lo so perché vivevo quei problemi sulla mia pelle, perché quando ero sulla costa mi sentivo slavo tra gli italiani e quando ero all’interno diventavo italiano tra gli slavi.
Capitolo quarto
Anna era un’orfana di guerra, quasi nessuno lo sapeva, ma lei si considerava tale fin dalla più tenera età e continuava a crederlo nonostante dei suoi genitori non avesse alcun ricordo, neanche l’immagine sfumata di una carezza. L’idea di essere un’orfana di guerra era nata in lei una sera in cui disperata si era chiusa nello stanzino ricavato nel sottoscala del collegio. Abitava in quel palazzo dalle finestre irraggiungibili da poco tempo, non sapeva da quanto, era spesso triste e frastornata dalle tante novità che doveva assorbire, provava un’acuta nostalgia di qualcosa che non sapeva definire e spesso piangeva senza motivo, era anche spaventata e di notte si svegliava in preda agli incubi, sentiva dei rumori, qualcuno che urlava con voce roca, che bestemmiava…, lei teneva gli occhi chiusi con i pugni premuti sulle orbite, quasi temesse che quello che era in lei potesse uscire e prender forma ai piedi del suo letto. Col tempo Anna aveva imparato a sorridere di questo suo ritenersi orfana di guerra, negli anni Settanta non c’erano conflitti in cui i suoi genitori avessero potuto morire, non in Italia almeno. E in questo si sbagliava, perché per quanto potesse sembrar strano, lei era realmente quello che credeva di essere, i suoi genitori erano caduti sul campo di battaglia di una vecchia guerra non ancora conclusa, non erano armati ma chi li aveva uccisi sì, e fino ai denti anche. Anna aveva perso la memoria del suo ato nel momento stesso in cui qualcuno le aveva ammazzato i genitori davanti agli occhi, lei non ricordava niente di tutto questo, neanche di aver accompagnato due signori su per la scala e fin dentro l’appartamento, di averli visti estrarre la pistola e senza una parola sparare in faccia a mamma e papà, non ricordava le loro urla e nemmeno di essere scappata via come il vento, ogni tanto sognava le pareti di una cucina imbrattate da orribili macchie rosse, ma non sapeva cos’erano e non voleva saperlo. A distanza di più di vent’anni tutto era ancora avvolto nel buio più assoluto, la prima cosa che rammentava di aver visto era il muso di un cane con una stella chiara in mezzo agli occhi, lei l’aveva stretto a sé e subito si era sentita bene, nient’altro. Anche delle settimane successive al suo ritrovamento ricordava poco, viveva in una stanza grande con le finestre altissime che non le piaceva, le avevano portato via il cane e c’era molta gente, troppa gente che voleva parlarle, visitarla. Poi aveva cambiato casa, una suora dal velo nero e le mani tiepide
l’aveva portata in un edificio fuori città dove c’era il suo cane ad aspettarla e dove avrebbe vissuto per quasi quattordici anni senza che nessuno le chiedesse più niente del suo ato. Anna era stata ritrovata una sera di fine agosto in un piccolo parco della periferia milanese, era in mutandine e canottiera e se ne stava seduta muta tra due cespugli fioriti che le pungevano la pelle. Qualcuno l’aveva notata e aveva chiamato il pronto intervento. La prima cosa che gli agenti avevano pensato vedendo quella bimba dagli occhi sbarrati e dai capelli lunghi e arruffati, era che fosse vittima di un maniaco che, dopo aver abusato di lei, l’aveva abbandonata come un giocattolo rotto e ormai privo d’interesse. Per fortuna non era così, la piccola non aveva subito violenza, quantomeno non fisica, era sofferente, ma molti segnali mostravano uno stato di choc in fase decrescente, rispondeva poco agli stimoli generici e male alle domande dirette, quando però veniva coinvolto il cane che teneva stretto al petto, reagiva in modo adeguato, come una bambina vivace e attenta. Di lei non si sapeva nulla, non si conosceva il nome, l’età e nemmeno da dove venisse, in tutta la città nessuno aveva denunciato la scomparsa di una bambina che potesse anche solo somigliarle e il confronto con le fotografie che provenivano dal resto d’Italia, era risultato inconcludente, non c’era un indizio che portasse a una plausibile traccia. Di conseguenza era stata affidata alle suore di un istituto che ospitava bambini in transito, doveva essere una soluzione temporanea, come il nome provvisorio e l’età desunta in modo del tutto arbitrario, ma così non era stato e qualche tempo dopo lei era divenuta a tutti gli effetti Anna Mascagni nata a Milano il 30 agosto 1973, prendendo per buoni il nome della via e il giorno e il mese in cui era stata ritrovata nel parco, per l’anno si era andati per approssimazione, sembrava avere sei anni. Col tempo Anna si era abituata alla vita del collegio, non subito però, all’inizio aveva opposto un rifiuto netto e categorico a qualsiasi tentativo di approccio sia comunicativo che affettivo, non voleva parlare, né giocare, mangiava poco, quasi niente e di notte rimaneva sveglia per ore e ore con gli occhi sbarrati per non dormire. Poi aveva fatto amicizia con suor Adriana e la vita aveva preso a scorrere più serena, assieme avevano tante cose da dividere, l’amore per i cani, la ione per i racconti d’avventura, l’insonnia e non ultimi certi ideali di giustizia, uguaglianza e libertà che sembravano stonare più sulla bocca della suora che della bambina.
Così, poco alla volta, Anna aveva cominciato a considerare il collegio come la sua vera casa e le suore come la sua vera famiglia, non aveva fratelli perché i pochi bambini che soggiornavano nell’istituto erano lì solo di aggio, ma questo non sembrava pesarle, stava bene, raramente piangeva, a scuola era considerata intelligente e attenta, era anche carina e di sana e robusta costituzione, tutte doti che l’avevano avviata a quattro tentativi di affido, tutti miseramente falliti e quasi sempre per colpa sua. La principale artefice di questo repentino processo di maturazione era stata indubbiamente suor Adriana, una donna di mezza età, abituata a vivere all’aria aperta e dotata di una forza a dir poco impressionante. Era decisamente in sovrappeso, il vestito nero e lungo fino ai piedi che portava, nascondeva innumerevoli e profonde pieghe sulle quali Anna poggiava il capo per dormire. Era una donna semplice, priva di grande fantasia, che non conosceva le favole classiche e non ne aveva mai letta né ascoltata una, le storie che raccontava alla sua piccola amica, quindi, non venivano dalla sua mente ma solo dalla sua vita, da giovane era stata partigiana sulle montagne del veronese, allora si faceva chiamare Andreina, un nome che ad Anna era subito piaciuto e che aveva adottato senza riserve. Suor Adriana aveva cominciato a raccontare le avventure di Andreina una sera piovosa di fine settembre. A quel tempo Anna era ancora in lotta col mondo intero, non le permettevano di tenere Stella in dormitorio e lei si era nascosta in un sottoscala decisa a non farsi più trovare. Era stato in quello stanzino buio e polveroso che aveva imparato a conoscere Andreina, una ragazza forte e coraggiosa, una giovane orfana di guerra generosa e un po’ sventata, capace di rischiare la vita per un ideale che a malapena comprendeva. Quella sera, uscendo dal sottoscala a quattro zampe e con la testa ben diritta in segno di sfida, Anna aveva deciso che se doveva proprio essere un’orfana, ebbene sarebbe stata un’orfana di guerra, lei come Andreina aveva un mucchio di cose da fare, doveva raddrizzare il mondo. Suor Adriana non aveva fatto niente per impedire che una simile immedesimazione prendesse piede nella mente della sua piccola amica, lei non l’avrebbe mai ammesso, ma era contenta di sentir rivivere la parte della sua vita che aveva sottoposto alla censura più ostinata e assoluta, nessuno in convento sapeva della giovane Andreina che saliva in montagna incinta di cose che pochi avrebbero apprezzato e che portava al braccio il fucile come le sue amiche portavano la borsetta, quello era un segreto che aveva cercato di dimenticare, ma
che era ancora vivo al punto di crearle un’emozione intensa. Così lasciava che la fantasia di Anna colmasse le lacune della sua memoria e man mano che gli anni avano, era la ragazzina alta e magra più del dovuto a raccontarle le avventure della giovane partigiana che era stata, lei le ascoltava e si beava di quello che forse aveva fatto, del coraggio che aveva avuto e della forza che aveva dimostrato, e quando si era spenta all’ancor giovane età di sessant’anni, aveva ceduto Andreina alla sua amica, non se l’era portata dietro. La morte di suor Adriana aveva lasciato Anna in balia di se stessa, aveva quindici anni e la voglia di provare esperienze nuove anche a costo di farsi del male. I primi spinelli aveva cominciato a farseli a quell’età, ma non erano stati loro a farla scivolare lentamente nel baratro della droga, quella vera, pesante come una catena legata alla caviglia, era stata la sua entrata nel mondo luccicante delle modelle a cambiarle la vita. Nessuno in collegio lo sapeva, ma poco dopo la morte di suor Adriana, Anna aveva conosciuto un fotografo, un uomo piccolo di statura e anche d’intelletto, col cranio lucido e il sorriso stentato, un tipo mediocre che di giorno faceva il bancario e di sera il venditore di sogni, in giro c’era di peggio. Anna era arrivata a lui trascinata da un’amica che da tempo riforniva il suo guardaroba posando per le sue squallide fotografie. Lo studio era in periferia, in un quartiere grigio e sovraffollato, dove spesso le automobili rimanevano in strada e i garage venivano affittati per ben altri lucrosi scopi. Lo spazio era ridotto al minimo, davanti ai riflettori troneggiava un ampio divano di damasco rosso sul quale le ragazze si esibivano in un repertorio pieno di malizia e seduzione. Anna si era fermata poco, il tempo di vedere la sua compagna carezzarsi languida sotto i flash accecanti della macchina fotografica, se n’era andata in punta di piedi indecisa se mettersi a ridere oppure a piangere. Per strada era stata raggiunta dall’uomo che prima aveva cercato di convincerla a tornare e poi le aveva ato un biglietto con l’indirizzo di uno studio che lavorava nel mondo della pubblicità e della moda. Doveva are un anno prima che lei si decidesse ad andarci, voleva farlo, ma c’era ancora il ricordo di Andreina a frenarla, non era possibile conciliare l’idea di una ragazza calendario che si lascia appendere in garage, con la sua vocazione a eroina che salva il mondo dal male. Poi un giorno si era fatta coraggio e le era andata bene, se a quel tempo avesse accettato tutte le proposte che le venivano fatte, in breve sarebbe diventata una celebrità, ma lei aveva le sue idee e per
quanto spesso non se ne rendesse conto, c’era pur sempre Andreina a guidarle il o. Così non aveva mai raggiunto il pieno successo e quando le avevano proposto di girare il suo primo spot televisivo non era più una ragazzina, aveva già superato gli esami del primo anno di Scienze Politiche ed era molto contenta di se stessa. L’indipendenza economica l’aveva allontanata dalla sua vecchia vita, il collegio come lo ricordava lei non esisteva più, da tempo era stato trasformato in un convalescenziario e delle suore che l’avevano aiutata a crescere ne erano rimaste poche, così il giorno del suo ventesimo compleanno era andata a vivere con un’amica e ancora una volta aveva girato pagina e si era lasciata il ato alle spalle. In quel periodo Anna era una ragazza forte e radiosa, era molto bella e piena di energia, ancora non aveva imboccato il sentiero tragico della droga, si limitava a fumare qualche spinello che le annebbiava un po’ la mente e le rendeva il cuore leggero come una piuma, e forse per questo era simpatica a tutti e molto ricercata. Solo in amore le cose non sembravano andare per il meglio, non si era mai realmente innamorata, ma aveva uno stuolo di corteggiatori che le davano sicurezza e tenevano lontana la solitudine e lei era convinta che questo potesse bastare. Quando aveva deciso che era venuto il momento di entrare nel cosiddetto mondo adulto, si era cercata un ragazzo con cui avviarsi alle gioie del sesso, lo aveva scelto giovane per non essere messa in soggezione e senza rendersene conto si era trovata invischiata in una relazione appiccicosa che poi le era stato difficile troncare. Qualche tempo dopo aveva incontrato chi l’aveva introdotta nel mondo della droga pesante, un uomo di mezza età famoso in città più come pusher che come pubblicitario e di colpo hascisc e marijuana non le erano più bastate, voleva qualcosa di nuovo, qualcosa di stimolante che le permettesse di volare oltre i suoi limiti, di amare e farsi amare con la pienezza dei sensi che le mancava, e in pochi mesi si era ritrovata nel mare salato dell’eroina, dove si nuota per sopravvivere e mai per piacere. Vi era rimasta poco, il terrore irrazionale che avvertiva ogni qual volta prendeva in mano una siringa, l’aveva spinta ad abbandonare quelle infide acque per trascinarsi dolorante sul bagnasciuga, ma ormai il danno era fatto e non c’era giorno che non ripercorresse gli strani rituali della dipendenza. Pensava fosse un disagio temporaneo, che il suo bisogno di polveri e pasticche fosse strettamente
legato alla precarietà del suo lavoro, dove successo, denaro e cocaina formavano una triade indissolubile, ma non era così e terminati gli studi non aveva mosso dito per imboccare la carriera universitaria alla quale si credeva votata, aveva preferito rimanere quieta sotto le luci abbaglianti dei riflettori e non pensare a nulla. A quel tempo l’Andreina che era in lei aveva smesso di farsi sentire, forse si era stancata di rimproverarla o di spronarla, o forse, più semplicemente, godeva anche lei dell’effetto soporifero di qualche anfetamina. Nel complesso, comunque, Anna non somigliava per niente allo stereotipo della drogata, non era ricca, ma aveva abbastanza denaro per comperarsi dignitosamente il meglio di quanto le serviva, era una ragazza dalle idee chiare, sniffava cocaina con una certa frequenza, ma era equilibrata e conduceva una vita accettabile, se non addirittura invidiabile. L’unico suo scompenso risiedeva nella sfera affettiva, nel campo dell’amore, infatti, era come una bambina dalle idee confuse, che inseguiva un sogno dai contorni sfumati, che cercava armonia, calore, sicurezza senza sapere dove trovarle. Avrebbe dovuto aspettare anni, per incontrare l’amore e riconoscerlo senz’ombra di dubbio, per vincere lo stato di disordine emotivo che le veniva dal ato e guardare con serenità al futuro. Nei ricordi d’infanzia di Anna non c’era l’immagine di una famiglia, di un uomo e una donna innamorati che condividevano nel bene e nel male la quotidianità della vita, nei suoi ricordi c’era un istituto pieno di donne laboriose, di formichine mai stanche che non smettevano di lavorare neanche quando se ne stavano ferme con gli occhi chiusi e le mani giunte. Questo era il mondo da cui proveniva, lì dentro la parola amore aveva un significato diverso da quello incontrato al cinema e sui libri presi in prestito in biblioteca, era un sentimento che cozzava brutalmente con quello sbandierato sotto le luci psichedeliche delle discoteche. Anna non aveva propensione per la vita monastica, amava le suore, specialmente quelle giovani che si rincorrevano nel cortile facendo schioccare le gonne al vento, ma non aveva la forza e nemmeno la fede per prendere i voti, allo stesso tempo però non aveva un valido modello da sostituire al loro e questo sicuramente non aveva giovato al suo equilibrio. Se suor Adriana avesse ritardato di qualche anno la sua uscita di scena, se avesse atteso che la sua giovane amica avesse le idee chiare e i nervi più saldi prima di lasciarla in balia di se stessa, forse la vita di Anna sarebbe stata meno precaria e fragile, magari non avrebbe incontrato la droga o, quantomeno, non le avrebbe permesso di condizionarle per anni l’esistenza. Invece suor Adriana l’aveva abbandonata in piena adolescenza, senza un’idea precisa di quello che doveva
fare in futuro, incapace d’immaginarsi inserita in qualsiasi ambiente lavorativo e ancor meno di sognare una famiglia e degli affetti normali. Per lei era stata una perdita grave che l’aveva portata a reagire nell’unico modo conosciuto, chiudendo la porta sul suo ato e guardando altrove. A differenza di quando era scappata davanti alla strage dei suoi genitori, però, questa volta non aveva interrotto il flusso della memoria, si era limitata a guardarsi attorno con occhi nuovi e a diventare un’altra. Così d’un tratto, mentre il suo corpo sbocciava e la trasformava da agile furetto in splendida gazzella, Anna aveva smesso di pensare ad Andreina, di sognare di essere come lei che scalava le montagne per sconfiggere il male e aveva smesso anche di pensare a se stessa come a un’orfana di guerra. Incontrare Enrico non l’aveva aiutata a superare i suoi problemi affettivi. L’aveva conosciuto sui gradini esterni della discoteca in cui faceva il buttafuori, lui era stanco, la serata era stata movimentata e in un paio di occasioni aveva dovuto menare le mani, lei era un po’ suonata, aveva bevuto una bomba che le aveva dato alla testa e le pareva che la realtà si fosse sdoppiata, il ragazzo che le stava accanto, per esempio, sembrava un angelo coi capelli biondi e allo stesso tempo un criminale losco e pericoloso. Non sapendo quale delle due immagini fosse quella vera, aveva preferito chiudere gli occhi e lasciarsi un po’ andare. Forse si era addormentata, non ne era sicura, quando si era svegliata era nel letto di casa sua. Qualche giorno dopo aveva rivisto Enrico per strada e avevano cominciato a frequentarsi. Non era stato un incontro fortuito, ma lei non lo sapeva, così non aveva posto limiti alla loro amicizia. Lui ci aveva messo poco a innamorarsi, Anna si era accontentata dell’affetto, lo considerava un gigante coi piedi d’argilla e forse in parte aveva ragione. Aveva un paio d’anni meno di lei, era impulsivo, aggressivo e bugiardo, aveva poche doti e molti difetti, ma era orfano e come lei aveva ato l’infanzia e l’adolescenza in un collegio e questo era bastato a intenerirla, a far nascere in lei un sentimento fraterno mai provato. In realtà Enrico Ruggeri non era orfano, ma lo era lei e questo lo aveva portato a cancellare con un colpo solo due genitori, tre fratelli e perfino una nonna, era un ragazzo pieno di problemi, che era scappato di casa all’età di tredici anni e che aveva ato gran parte dell’adolescenza in riformatorio e non in collegio, ma non era cattivo, quantomeno non troppo e non nel senso comune del termine. Aveva un carattere focoso e incontenibile, non sapeva porsi limiti e se una cosa
gli piaceva non c’era verso di fargli distogliere lo sguardo, era stato così per il motorino, lo stereo, il girocollo d’oro massiccio, l’orologio da miliardario ed era stato così perfino con Anna. Quando l’aveva conosciuta era rimasto folgorato, la voleva a tutti i costi e per averla avrebbe fatto qualsiasi cosa, perfino cambiato vita. Così aveva rivolto qualche domanda in giro, giusto per sapere con chi avesse a che fare, e s’era presentato a lei come un orfano dal ato triste, dal presente sfortunato e dal futuro incerto, e lei gli aveva creduto e nel giro di qualche settimana l’aveva accolto in casa come un fratello bisognoso, lui aspirava ad altro, ma non si era posto limiti, contava di avere a disposizione tanto tempo per raggiungere i suoi scopi. Su questo si sbagliava. Anna era un’ingenua, ma non una stupida e non ci aveva messo molto a capire che Enrico non era quello che voleva far credere, per esempio sosteneva di non essere ricco, ma aveva un tenore di vita poco adatto allo stipendio di un buttafuori e le faceva regali costosi che neanche lei poteva permettersi, così l’aveva tenuto d’occhio e ben presto aveva scoperto che il suo fratellino d’adozione si faceva di eroina e la spacciava alla grande sia in casa che fuori casa. Era stato uno choc, su certe cose Anna era un tipo intransigente e non privo di contraddizioni, per dar lustro alla sua vita, infatti, lei acquistava cocaina a man bassa, al tempo stesso, però, non sopportava chi gliela vendeva e considerava l’eroina ancor peggio della peste, così non aveva accettato né giustificazioni né promesse e, senza remore, aveva sbattuto Enrico fuori di casa. Su questa drastica decisione Anna non era più tornata, in qualche rara occasione l’aveva ospitato per una notte o due, quando proprio non poteva farne a meno e se lo trovava attaccato al camlo alle tre del mattino, ma aveva cercato di non farne un’abitudine e lo teneva lontano, gli voleva bene, ma non si fidava e ne aveva motivo. In effetti lei sapeva ben poco di quello che si celava sotto il sorriso un po’ infantile di Enrico, non sapeva della sua famiglia che abitava nel bresciano e della sua salute che era sempre più precaria, non sapeva che aveva duplicato le chiavi del suo appartamento e nemmeno che nel suo armadio a muro aveva ricavato un piccolo pertugio dove nascondeva le sue scorte e i suoi tesori. Di tutto questo Anna non sapeva nulla e quando una limpida mattina di luglio lui aveva suonato alla sua porta, gli aveva aperto e lo aveva fatto entrare come
sempre. Era presto ma sembrava che Enrico non avesse chiuso occhio tutta notte, era agitato, parlava in modo sconnesso accavallando discorsi sensati a frasi sconclusionate, non l’aveva mai visto in quello stato, aveva bisogno di aiuto, era ferito e il sangue filtrava dal fazzoletto che si teneva premuto sul collo. Così Anna gli aveva disinfettato il taglio che per fortuna non era grave, gli aveva messo in bocca un analgesico ed era andata in banca a prelevare del denaro dal suo conto, poi era partita per Trento per fare quello che non avrebbe voluto fare per niente e nessuno al mondo. Il suo compito non era difficile, era solo orribile, angosciante e pericoloso, più volte sul treno aveva pensato di scendere e di tornare indietro, ma non l’aveva fatto, Enrico doveva dei soldi ai ragazzi che lo avevano ferito e lei glieli avrebbe portati. Lui sosteneva di avere un debito di gioco con loro, ma Anna non gli credeva e sospettava c’entrasse la droga. Era partita in preda all’apprensione, se avesse potuto si sarebbe rifiutata di aiutarlo, ma lui sembrava sull’orlo di un collasso nervoso, aveva la febbre alta ed era sicuro che l’avrebbero ucciso se non si presentava a Trento all’ora stabilita. L’appuntamento era per le tredici in centro, lei doveva recarsi a un’edicola tra Piazza Duomo e via Belenzani, comperare una rivista di architettura, infilarci la busta col denaro, buttare il tutto nel cestino vicino alla fontana e tornare a casa. Sembrava fin troppo semplice, ma non lo era stato, per niente. Prima di tutto all’ora pattuita l’edicola era chiusa e quando qualcuno l’aveva aperta dall’interno, Anna era già in fibrillazione, poi aveva notato che le fontane erano due, una grande in piazza e una più piccola sull’angolo della strada e che l’unico cestino a portata di mano era colmo di cartacce fino all’orlo. Si era guardata attorno incerta, aveva fame, sete e non sapeva che fare, aveva sentito dei i affrettati, si era girata e qualcuno l’aveva travolta e buttata a terra. Aveva urtato contro l’espositore dei giornali che era caduto fragorosamente, un uomo era accorso e l’aveva aiutata ad alzarsi, lei aveva raccolto il cellulare che le era sfuggito di mano e non dava più segni di vita e quando aveva spostato lo sguardo aveva visto due giovani dagli occhi obliqui salutarla con un inchino e andarsene. Se Anna fosse stata più lucida avrebbe capito quello che stava succedendo, ma era confusa, aveva un gomito che le doleva, la bocca impastata e il bisogno impellente di qualcosa di buono che la rimettesse in forma. Era stato pensando a
questo che le era sorto il primo dubbio, aveva infilato la mano nello zaino e le si erano rizzati i capelli in testa, la busta col denaro era sparita. Più tardi, ricordando l’ansia di quegli istanti, Anna non avrebbe saputo dire quanto tempo era rimasta a fissare la fontana col duomo che si ergeva sullo sfondo, la piazza era molto bella, asimmetrica e armoniosa, e ogni tanto il suo cervello tentava di sfuggire all’angoscia del momento per seguire il contorno di un fregio o di un affresco. Aveva voglia di tornare alla stazione, di chiudersi nel gabinetto fino all’arrivo del primo treno per Milano, invece aveva cercato un telefono e aveva composto il numero di casa. Enrico stava dormendo e c’erano voluti interminabili secondi per riportarlo alla vita, aveva il collo dolorante e l’ultima dose gli aveva intorpidito il cervello, aveva sfilato il braccio da sotto il cuscino e l’aveva allungato per prendere la cornetta, si era schiarito la gola per darsi un contegno, poi era rimasto muto ad ascoltare la voce tesa di Anna che gli spiegava quanto era accaduto. Non riusciva a capire, tutto era confuso e allo stesso tempo chiaro, molto chiaro… Quella storia stava diventando un incubo, un vero tormento… Tempo addietro, in una delle sue trasferte di carattere commerciale, aveva venduto farina al posto di eroina a dei ragazzi che credeva stupidi solo perché vivevano in montagna tra le genziane e le stelle alpine, era stato un errore, un grave errore, lui però l’aveva capito tardi ed era stato rintracciato, minacciato, picchiato e ora anche palesemente umiliato. L’aggressione di Anna era opera loro, non aveva dubbi, tra i montanari che l’avevano accoltellato la notte prima, ce n’erano due con gli occhi a mandorla, li chiamavano “i coreani”. Aveva bisogno di un po’ di roba buona per tornare lucido e pensare, ma con Anna che gli urlava nell’orecchio era impossibile concentrarsi, aveva ingoiato un sorso di grappa da una bottiglia mezza vuota, poi aveva cominciato a improvvisare. Le aveva detto di rimanere calma, che quello che era successo era un guaio, ma non una tragedia, che era stata scippata, ma che nessuno ce l’aveva con lei, neanche i due coreani che le avevano perfino lasciato il portafoglio e l’orologio…, ora doveva piantarla di strillare, mettersi tranquilla e usare la testa, doveva far finta di essere una turista, camminare disinvolta per la città e intanto guardarsi alle spalle, se nessuno la seguiva poteva prendere il primo treno per Milano, altrimenti doveva richiamarlo. Era convinto di risentirla entro un paio d’ore e invece aveva ato una
settimana d’inferno a cercarla dappertutto, sembrava sparita nel nulla, era perfino andato a Trento per vedere se riusciva a seguirne le tracce, ma non era servito, neanche i montanari ne sapevano niente, in Piazza Duomo avevano fatto un lavoro pulito, secondo loro eccellente, mentre uno aveva preso il largo con il dovuto, l’altro l’aveva seguita per mezza città fino a quando l’aveva persa tra la folla. Enrico era rientrato a Milano e si era sistemato nell’appartamento di Anna convinto che prima o poi si sarebbe fatta viva e così era stato. Un mattino lei aveva chiamato per sapere se le acque si erano calmate e alla sera era tornata con una luce negli occhi che non le aveva mai visto. Era stato uno choc, pensava di doverla consolare, tranquillizzare, forse anche coccolare e invece era raggiante, si vedeva lontano un miglio che era innamorata, le aveva chiesto dov’era stata, ma lei aveva riso e l’aveva pregato di lasciare l’appartamento quella sera stessa, praticamente subito. Lui aveva cercato di farle cambiare idea, era tardi, non sapeva dove andare e non stava ancora bene, niente da fare, allora aveva inventato qualcosa per spaventarla, le aveva detto che la questione a Trento non era ancora chiusa, che era capitata in mezzo a due bande rivali, che i montanari la cercavano per riavere i loro soldi e i coreani per chiuderle la bocca, che non doveva sottovalutarli, che aveva bisogno della sua protezione perché erano pericolosi… Lei all’inizio lo aveva guardato con apprensione, sembrava preoccupata, forse anche impaurita, poi aveva scrollato le spalle e gli aveva sorriso, non era un problema, gli aveva detto, per qualche anno sapeva dove nascondersi, ed era andata in bagno per farsi una doccia. Enrico avrebbe voluto seguirla per chiederle una spiegazione, ma sapeva che era inutile, che doveva imboccare un’altra strada se non voleva perderla, così aveva frugato nel suo zaino e se n’era andato solo dopo aver trovato quello che cercava, un biglietto con l’indirizzo di una strada poco distante, un nome sottolineato due volte, c’era anche un numero di telefono ma quello non gli serviva. Era uscito nell’aria fresca della sera con la testa in tumulto, doveva trovare l’uomo che aveva fatto innamorare Anna e metterlo fuori gioco, l’ideale sarebbe stato parlargli chiaro, o si toglieva di torno o l’ammazzava, ma non voleva correre il rischio che Anna lo venisse a sapere, per cui aveva deciso d’inscenare un furto, sarebbe andato a casa sua quella sera stessa, lo avrebbe ucciso e poi
avrebbe sparso in giro un po’ di polvere, così Anna avrebbe pensato ai coreani e lui sarebbe rientrato nei suoi favori. Era un piano geniale. Per strada si era fermato per aspettare che la notte fosse ancora più fonda, era entrato in un locale e si era nascosto nel gabinetto per farsi un po’ di roba buona, poi aveva bevuto qualcosa che gli aveva bruciato la gola ed era tornato in strada con la testa leggera e gli occhi fuori dalle orbite. Le cose non erano andate come aveva previsto, Enrico era un pessimo elemento, capace di massacrare di botte un uomo senza pensarci due volte, ma non di ucciderlo a sangue freddo. Se nella lotta Lupo avesse battuto la testa su qualche spigolo acuminato e fosse morto, lui ne sarebbe stato contento, ma affondargli una lama nel cuore mentre si trovava a terra in un lago di vomito e sangue era un’altra cosa, non ce l’aveva fatta e aveva perso tempo finché a un certo punto aveva dovuto togliersi di torno e prendere il largo. Quelli che erano seguiti erano stati gli ultimi giorni sereni della sua esistenza, al momento gli erano sembrati pessimi, pieni di tensione e di amarezza con Anna che era daccapo sparita e lui che doveva riorganizzare di nuovo la sua vita, ma più tardi avrebbe capito e cambiato idea. Intanto quella sera Anna si era fatta la doccia e si era messa a letto indecisa se chiamare Lupo subito oppure aspettare il giorno dopo. Era agitata, continuavano a venirle in mente le parole di Enrico e non vedeva l’ora di tornare in paese per sistemare la sua nuova casa, aveva da parte del denaro e sapeva come adoperarlo, ma era notte, le banche erano chiuse e l’indomani doveva andare in agenzia per disdire un sacco di impegni. Aveva provato a distogliere l’attenzione dai suoi guai, a concentrarsi su quanto di bello le era successo, ma non c’era riuscita, era preoccupata, il pensiero dei coreani la teneva sveglia e la riportava indietro alla paura dei giorni ati. A Trento, in piazza Duomo, Anna si era sentita perduta, le parole che Enrico le aveva detto al telefono non l’avevano tranquillizzata, all’opposto l’avevano indotta a credere di essere in pericolo, in grave pericolo, così si era messa a camminare a o lesto per la città, ogni tanto si girava per controllare che nessuno la seguisse e all’inizio le era andata bene, c’erano turisti, anti, bambini…, poi aveva notato un ragazzo dalle sembianze orientali e non aveva più capito niente, si era messa a correre lungo una strada affollata che riconduceva al duomo e aveva infilato le scale che portavano a un palazzo
austero con il cuore che le batteva in gola e la testa in fiamme. L’atrio era pieno di gente, giovani, anziani, signore eleganti con cappello, tacchi a spillo e mazzo di fiori, Anna si era intrufolata in un gruppo di ragazzi e si era spostata con loro verso le scale interne, camminava con le ginocchia leggermente piegate e lo sguardo a terra, non parlava, quasi neanche respirava, quando aveva alzato gli occhi, si era ritrovata in una sala con un gran numero di sedie disposte a semicerchio, qualcuno aveva cominciato a parlare e lei non se n’era nemmeno accorta. Stavano discutendo una tesi, ai lati di un lungo tavolo si fronteggiavano una ragazza e dei professori, c’erano stati discorsi, domande, risposte, silenzi, qualche lacrima…, la stanza si era svuotata e di nuovo riempita, ma lei non si era mossa e quando Lupo era entrato aveva trattenuto il respiro e non era più riuscita a togliergli gli occhi di dosso. Anna non lo conosceva, di lui non sapeva niente, neanche il nome, solo che era un uomo stupendo su cui aveva fantasticato per mesi. Lo aveva visto la prima volta in una discoteca fuori Milano, un locale immenso con pista da ballo ovale, poltrone e tavolini, luci abbaglianti in centro e soffuse ai lati. Lei stava entrando, era l’ultima di quattro amici ed era rimasta indietro per osservare quanto stava succedendo su uno dei divanetti d’angolo che seguivano la parete. Un uomo e una donna si stavano baciando e tutto sembrava normale, lei però aveva le braccia lungo il corpo e il suo compagno le stringeva il viso tra le mani, lo teneva accostato con le dita allargate sulle orecchie, sotto lo sguardo di un altro uomo che pareva aspettare paziente il suo turno. Anna non sapeva se ad attirare la sua attenzione era stato l’atteggiamento distaccato di quest’ultimo o il luccichio dell’orecchino della ragazza piegato verso l’alto in una posizione tesa e forzata, senza pensarci si era fermata dietro il paravento e quando i due si erano staccati, non si era stupita nel vedere il volto di lei rigato di lacrime e mascara, se ne stava immobile mentre lui rideva, si versava da bere e scambiava qualche frase spiritosa con l’amico poco lontano. Anna si sentiva la gola secca, l’Andreina che era in lei avrebbe voluto balzar fuori per difendere la ragazza che ora sembrava quasi una bambina, ma non aveva osato e non s’era mossa, da anni aveva imparato a non dar retta alla sua voce, viveva in una realtà piena di contrasti in cui le tensioni si dissolvevano con quanto di buono si portava in tasca, al bisogno sapeva ancora reagire, senza però l’immediatezza e la ione di un tempo.
Intanto la coppia era tornata a baciarsi, ora l’uomo tratteneva con una mano la ragazza per i capelli mentre con l’altra sembrava frugare sotto l’orlo del suo vestito, e ancora lei piangeva con gli occhi sbarrati macchiati di nero. Anna non udiva più i rumori, qualcuno la stava chiamando ma lei non lo sentiva, stava sudando, avvertiva una pressione interna che stava aumentando sempre di più, era Andreina che voleva uscire, lo sapeva, e se non faceva qualcosa fra non molto sarebbe esplosa lanciando bombe e granate ovunque. Aveva già alzato la pistola e stava prendendo la mira pronta a sparare puntando dritto agli occhi, quando un uomo che le stava alle spalle l’aveva urtata anticipando ogni sua mossa. Erano volati pugni e bestemmie, era intervenuta gente, qualcuno si era schierato da una parte, qualcuno dall’altra, lei avrebbe voluto fermarsi per mettersi a fianco del suo partigiano, ma si era costretta a seguire la ragazza che era sgusciata via dal groviglio ancora in lacrime. L’aveva trovata al gabinetto che si lavava la faccia, era calma e scostante, non aveva bisogno di niente e tanto meno di gente che s’impicciasse dei fatti suoi, le aveva detto sgarbata. L’aveva lasciata con l’adrenalina che le pulsava ancora in testa, avrebbe voluto prenderla a schiaffi. Quando era tornata in sala la scena si era ricomposta e non c’era più niente che fe pensare alla violenza di poco prima, lei aveva raggiunto gli amici che la stavano aspettando, ma si era fermata poco, con gli occhi continuava a cercare l’uomo che aveva fatto quello che lei non aveva saputo fare, ma non era riuscita a trovarlo. Non c’era più, era sparito, di lui ricordava l’espressione irata, il profilo teso con la bocca che mostrava i denti, i capelli corti che si spingevano in avanti sulla fronte ampia e contratta, le dita lunghe e arcuate che prendevano per il bavero l’uomo seduto sul divano, questo e poco altro. Era un bell’uomo, ma al momento non era stato questo a colpirla, a far emergere i suoi sogni di ragazzina erano state le armi che lui portava in spalla, il velo di barba sul mento e lo sguardo selvaggio e puro che aveva intravisto per un solo secondo, era stato l’odore di muschio a farle scorgere quello che non c’era, un soffio leggero d’aria di montagna, capace di mitigare l’afa quasi estiva che pesava nella sala. Non l’aveva più incontrato, un giorno ando in macchina aveva notato un uomo che sfogliava un giornale appoggiato a un lampione e aveva creduto che fosse lui, aveva fatto il giro dell’isolato con il cuore che le batteva in gola pensando a una scusa qualsiasi per abbordarlo, aveva parcheggiato in doppia fila e proseguito a piedi per poi scoprire che il marciapiede era libero e che non
c’erano partigiani appoggiati ai lampioni. Pensava di averlo dimenticato, da mesi lo aveva relegato nel pozzo dei suoi sogni, dove ogni tanto pescava qualcosa per farsi soffrire, di rado per fortuna. Era lui che prendeva in braccio la bambina che popolava i suoi incubi, che la consolava quando vedeva la vernice rossa imbrattare i muri bianchi della cucina, era lui che l’aiutava a correre veloce come il vento, che la portava in un parco e la nascondeva sotto un cespuglio fiorito… Tutte cose che un tempo era Andreina a fare e che da anni sembravano sparite, rimosse. Sì, pensava di averlo dimenticato, ma non era così, era bastato vederlo entrare in quella sala gremita di gente bisbigliante per riconoscerlo, in quel momento lei era in pericolo, si sentiva spaventata e aveva bisogno di aiuto e chi poteva darglielo se non il suo bel partigiano?, era un miracolo che fosse lì, un’occasione da non perdere, aveva pensato alzandosi dalla sedia su cui cercava di nascondersi, d’un tratto voleva che lui la vedesse, che la riconoscesse o che almeno la notasse. Aveva fatto di tutto per attirare la sua attenzione, lo aveva avvicinato per le congratulazioni di rito, ma non era servito a niente, lui le aveva rivolto un sorriso strano, bellissimo, una freccia che le si era conficcata in fondo al cervello, e se n’era andato con un professore in un caffè poco lontano. Lei si era nascosta tra gli alberi del parcheggio e quando era riapparso e si era avvicinato a un’automobile, aveva preso il coraggio a due mani ed era salita al suo fianco. Era imbarazzata ma risoluta, riteneva che fosse l’unica cosa da fare, lui era un partigiano, il suo partigiano, e l’avrebbe aiutata come aveva fatto con la ragazza della discoteca, ne era sicura. Avevano lasciato Trento senza quasi parlare, a un certo punto lei aveva indicato l’entrata dell’autostrada e lui l’aveva imboccata con un sorriso che veniva voglia di baciare. Poi aveva cercato di pensare, si sentiva leggera, la testa e il cuore erano alle stelle e le braccia e le gambe prive di peso, averlo vicino era un sogno, una fortuna inattesa che però non cancellava le sue paure, così aveva deciso di non raccontargli niente di quello che era successo, non subito almeno, aveva inventato la storia di un corteggiatore assillante e si era sentita tranquilla, lui non le aveva creduto ma non aveva fatto domande e lei era contenta di tenerlo fuori dai suoi problemi. Ogni tanto si girava a guardarlo e si stupiva di sentire dentro di sé un’emozione
che non aveva mai provato, era bello, anzi, secondo il suo senso estetico era bellissimo, ma era abituata a lavorare con uomini perfetti e non era questo che la turbava. In lui c’era qualcosa che le sfuggiva, forse erano le allusioni che filtravano sotto l’ironia del suo sorriso o forse i suoi silenzi capaci di comunicare più delle parole, credeva di piacergli perché l’aveva accettata senza riserve e contro ogni logica, ma non ne era sicura, lei era abituata a dimostrazioni d’interesse ben più palesi. Di quello che era successo in seguito non ricordava molto, solo alcuni sprazzi di luce, lei che indicava un castello appoggiato alla montagna e lui che imboccava l’uscita dell’autostrada, le eggiate, i panini con la bondola, la prima notte ata assieme, l’ultima prima del baratro… Avevano parlato di politica, di cultura, di viaggi, poco del loro ato, quasi niente del presente, lei era stata attenta a evitare ogni accenno a problemi che avrebbero potuto allontanarlo, lui era stato più generoso e aveva raccontato di sé quanto bastava per farle venir voglia di partire per il nord, per quel Brennero che non era solo un confine, ma anche un paese e un lago e forse dell’altro. Lo avrebbe ascoltato per ore, parlava in modo fluido, armonioso, in un italiano dalla dizione perfetta che solo nell’enfasi del discorso lasciava trasparire un accento diverso, un’intonazione eccentrica capace di muoverle onde di brividi sulla pelle, ogni tanto chiudeva gli occhi e si lasciava cullare da quella musica mai sentita. Avevano preso due stanze separate in un albergo del paese. Lei era felice, non aveva più paura e fino al giorno dopo non intendeva pensare né ai coreani, né a Milano. Avevano cenato con pizza e gelato e lui aveva accettato che a pagare fosse lei, poi erano tornati a eggiare per ritardare il più possibile il momento di andare a dormire. Lui sembrava a suo agio, per niente disturbato dalla situazione intrigante, lei si domandava come sarebbe finita la serata, se avrebbe dormito da sola o con un partigiano sdraiato al suo fianco. Avevano tirato tardi fingendo interesse per una partita di biliardo e quando lei aveva dato sfogo al suo ultimo sbadiglio, lui aveva sussurrato un “andiamo a letto?” del tutto privo di doppi sensi. Si erano salutati nel corridoio, ma dopo qualche minuto ato in camera a guardare dalla finestra, lei era uscita di nuovo, non riusciva a star ferma, aveva bisogno di aria fresca e neanche la cocaina sembrava darle sollievo. Si era seduta sull’ultimo scalino esterno della veranda, aveva appoggiato il mento sulle mani e si era messa a pensare a come togliersi dal guaio in cui si trovava. Dentro c’era ancora gente che giocava, non
era tardi, qualcuno se ne andava andole a fianco e sfiorandola appena, lei alzava gli occhi e sorrideva a chi si scusava e la salutava, nient’altro. Poi aveva avvertito una presenza alle sue spalle, non sapeva da quanto tempo lui fosse lì, ma non era più sola, avrebbe voluto girarsi, dire qualcosa, invece aveva lasciato che le sue gambe si aprissero attorno al suo corpo e la chiudessero in una stretta mai provata. Lupo si era seduto sul gradino dietro di lei e in silenzio l’aveva avvolta come in un bozzolo, aveva ato le mani sotto il suo seno e aveva appoggiato il volto sulla sua spalla. Anna avrebbe voluto tendere la mano per carezzarlo, per dirgli che era contenta che fosse lì, che l’avesse cercata e finalmente trovata, ma non si era mossa, aveva rilassato il collo e si era lasciata andare al suo abbraccio. Erano rimasti così per lunghi istanti, quando si erano alzati lo avevano fatto piano, senza rumore e gli usignoli avevano continuato a cantare sereni, forse non se n’erano nemmeno accorti. Così era cominciata la breve ma intensa storia d’amore di Anna e Lupo, iniziata nella paura e finita nel dolore, nell’amarezza dell’incomprensione. Ripensando a quei giorni Anna si era spesso rimproverata molte cose, non era stata sincera, non del tutto e non sulle cose essenziali, aveva sbagliato a non fidarsi di Lupo, ma non voleva che ci fossero malintesi tra di loro ed era convinta di poter sistemare tutto da sola. Lui era un tipo pulito, un professore che guardava il mondo con gli occhi limpidi di un ragazzino, un partigiano pronto a battersi contro il male, non poteva dirgli che sniffava cocaina regolarmente, che frequentava un ambiente in cui era impensabile non farlo, dove spacciare non era un delitto contro l’umanità, ma un servizio utile se non indispensabile, non poteva, era sicura che non avrebbe capito. Era per questo che non gli aveva detto niente, prima aveva aspettato che si presentasse il momento giusto, poi si era lasciata travolgere dal suo entusiasmo e non ne aveva più avuto il coraggio. Lupo faceva progetti a getto continuo, sognava viaggi intorno al mondo e case immerse negli olivi, tutte cose stupende alle quali lui sembrava credere più di lei, ma che le davano gioia, le scaldavano il cuore e di notte la facevano dormire come mai aveva dormito, neanche da bambina. Dei due, lei era quella che rimaneva un po’ indietro nel turbinio di quei sogni, timorosa che tutto poi finisse male, ma era felice e quando lui aveva acquistato un vecchio rudere per trasformarlo nella loro casa, aveva smesso ogni difesa e si era riproposta di raccontargli tutto, tutto di Milano, di Trento, della droga, perfino del buco nero che aveva inghiottito la sua infanzia, bastava solo
trovare il momento giusto per farlo, era convinta che non sarebbe stato difficile. Ma in questo Anna si sbagliava, con gli anni avrebbe capito che nella vita c’è un tempo per tutto e che rimandando e rimandando, lei si era lasciata sfuggire il momento magico di quella parentesi da sogno, quando si sarebbe potuta permettere qualsiasi cosa, perfino di dire la verità e pretendere di essere creduta. L’ultima occasione di rimettere le cose a posto l’aveva avuta nel viaggio di ritorno a Milano, lei era serena, dopo la telefonata fatta al mattino aveva smesso di avere paura e avrebbe potuto aprirsi e raccontare tutto, ma poi si era chiesta fino a che punto poteva fidarsi di Enrico e si era convinta che in fondo non sarebbe crollato il mondo se avesse aspettato ancora qualche ora, il giorno dopo avrebbe sistemato tutto, definitivamente. E invece l’indomani Lupo era sparito, nel suo appartamento non c’era o almeno non rispondeva né al suono del telefono né a quello del citofono, aveva provato e riprovato fino alla nausea, era rimasta ore nel bar di fronte al suo palazzo, ma non era servito a niente, era preoccupata, l’indirizzo era giusto e non capiva dove fosse andato..., più il tempo scorreva e più si sentiva insicura, era ata in banca e in agenzia, aveva mangiato qualcosa e intanto telefonato e ancora telefonato. Nel pomeriggio si era lasciata prendere dallo sconforto, Lupo se n’era andato, l’aveva abbandonata e in giro c’erano i coreani che la stavano cercando…, era tornata a casa, aveva buttato qualcosa in una borsa ed era scappata con la testa piena dei peggiori pensieri. Le settimane successive erano state difficili ma molto importanti per la sua vita, l’avevano portata a scelte drastiche e dolorose che l’avevano fatta maturare e le avevano dato la forza di strapparsi dalla palude in cui si trovava. Così, dopo un primo sbandamento in cui il bisogno di fuggire lontano era secondo solo alla voglia di farsi con qualsiasi schifezza le capitasse a tiro, si era calmata ed era tornata sui suoi i, nel paese ai piedi del castello dove per qualche giorno si era sentita forte e felice. Non sapeva cosa l’avesse guidata alla vecchia casa tra gli olivi, forse la speranza di ritrovarvi Lupo e le opportunità che vi aveva perduto, o forse, semplicemente, il desiderio di sparire, di nascondersi in una tana per leccarsi le ferite. Pensava di fermarsi poche ore, giusto il tempo di guardarsi un po’ attorno e sgranchirsi le gambe, ma era sera, l’aria era fresca e dolce come la ricordava e non aveva voglia di rimettersi in viaggio, così aveva cercato qualcosa per ripulire l’unico
locale decente della casa ed era rimasta fino a quando aveva conosciuto Norma, un’Andreina piccola e scontrosa che si era fatta carico della sua disperazione e l’aveva trascinata in montagna per guarirla. Delle prime settimane ate alle Falde Anna non ricordava niente, non ricordava il viaggio fatto all’imbrunire un po’ a piedi e un po’ a dorso d’asino e non ricordava come le era apparsa l’immensa casa che per mesi sarebbe stata il suo ospedale, il suo rifugio. Quando ripensava a quei giorni le tornava in mente solo la sua disperazione, sentiva la sua voce stridula urlare cose indecenti e il rumore della catena che sbatteva sul marmo, sul cemento e perfino sull’erba. Era rimasta legata a una vecchia sdraio di metallo per un tempo indefinito, la sua caviglia era imprigionata in un anello che le sfregava la pelle e che non si apriva né con la forza, né con le suppliche. La sua era una strana prigione, le consentiva di muoversi ma non troppo, la sdraio era ingombrante ma non pesante, poteva chiuderla e uscire sul prato per prendere il sole, ma era impensabile trascinarla lungo i sentieri ripidi e sassosi che scendevano in paese, ci aveva provato una volta ed era stato più che sufficiente. Su quella sdraio Anna aveva smaltito le sue crisi di astinenza, aveva pianto, urlato e maledetto la donna che si era proposta di salvarla, che l’aveva portata fin lassù quasi di peso e che aveva seppellito fuori casa quanto le rimaneva della sua preziosa scorta, convinta che non fosse cosa buona e che anche portandole acqua ogni mattina, smuovendo il terreno e concimandolo col miglior letame al mondo, non sarebbe cresciuto niente, nemmeno un germoglio, una fogliolina. Per giorni Anna aveva pensato di essersi messa spontaneamente nelle mani di una pazza, una donna dal corpo minuto e dalla mente malata, che la costringeva a bere tisane amare e vomitevoli, che non apriva bocca per ore e che quando parlava sembrava recitare nenie d’altri tempi. Aveva vissuto un incubo che le era parso interminabile, orribile, e piangere o pregare non serviva a niente, solo a rincarare la dose dei fetidi decotti da ingoiare. Poi tutto era cambiato. Una mattina si era svegliata e aveva sentito la pioggia battere sui vetri della finestra, si era alzata e si era diretta verso la porta senza rendersi conto che la sdraio su cui aveva dormito, era rimasta dove l’aveva lasciata. Fuori l’acqua scendeva a fiotti e lavava le lastre di pietra che affioravano nel prato, gli alberi erano grigi e il bosco poco lontano sembrava una
massa compatta che si perdeva nella foschia. Anna si era guardata attorno e si era sentita libera, non aveva più la catena alla caviglia, nemmeno quella invisibile che da anni le stringeva la gola e le toglieva il respiro, si era spogliata ed era uscita per farsi lavare dalla pioggia. Da quel momento la vita di Anna aveva preso un ritmo nuovo, correva veloce come gli uccelli che scendevano in picchiata nella valle e allo stesso tempo era lenta e scandita in attimi che poco alla volta aveva imparato ad assaporare con gusto. Nella casa non c’erano né radio, né televisore, il telefono era sconosciuto e il cellulare bandito, a parte qualche libro, i boschi e i prati, alle Falde non c’era niente che aiutasse lo scorrere delle ore, eppure le ore avano e avano le giornate e anche le settimane. Anna era sola e di questa solitudine si sentiva appagata, ogni tanto cenava con Norma o se ne andava con lei per i boschi in cerca di foglie e germogli pregiati, spesso se ne stava seduta vicino al fuoco e questo le bastava. Solo quando si era sentita sazia di quell’aria nuova e saporita che le rinvigoriva l’anima oltre che il corpo, era scesa a valle per ricominciare a vivere nel mondo, non aveva paura, sapeva cosa l’aspettava e cosa voleva, per la prima volta da quando era morta suor Adriana, sentiva di avere le idee chiare e un futuro da vivere davanti. Quel giorno stesso era andata a cercare Fioravanti, un geometra che col tempo sarebbe diventato suo amico e che l’avrebbe aiutata a ricostruirsi una casa e con essa una nuova esistenza. Si era fermata in paese fino alla primavera successiva, il tempo sufficiente per ristrutturare il rudere di Lupo e per farsi accettare dalla gente nel suo strano ruolo di donna felicemente sposata a un marito assente. Ogni tanto tornava alle Falde, ma spesso era Norma che la raggiungeva in paese dove il fuoco del camino era più caldo che altrove e dove la pioggia evaporava appena fuori dalla veranda. Quando aveva finito i soldi era tornata a Milano e si era rimessa a lavorare, era in splendida forma e sembrava perfino più giovane, era molto ricercata ma anche molto riservata. Non frequentava più gli amici di un tempo, faceva qualche servizio e poi spariva per settimane, a volte per mesi, non fumava e nemmeno si drogava, beveva solo analcolici e si concedeva al vino o a qualcosa di più forte solo quando si sentiva protetta dalle mura delle Marogne. A Lupo pensava ancora, ma senza il dolore che l’aveva segnata all’inizio. Un
paio di volte aveva cercato d’incontrarlo per raccontargli quello che non gli aveva mai detto, per spiegargli della casa e chiedergli di vendergliela. Forse sperava anche in qualcosa di più, ma da lui non aveva avuto niente, né un rimprovero, né una spiegazione, sembrava una persona diversa da quella che aveva conosciuto, era scostante e sgarbato, così lei aveva deciso di lasciar perdere e di tenersi la sua casa il più a lungo possibile. Lavorava poco, solo quanto bastava per vivere dignitosamente, ava il suo tempo libero in paese dove cuciva bambole che a Milano andavano a ruba oppure alle Falde dove scappava ogni qual volta la depressione o anche solo il malumore cercavano d’intaccare il suo equilibrio. Continuava a vedersi con Norma che col tempo aveva perso il suo ruolo di guaritrice per assumere quello di amica o forse di sorella, ma frequentava poca gente, viveva in due mondi diversi che teneva ben separati, gli amici della città non sapevano niente di quelli del paese e viceversa. Col tempo aveva riallacciato i rapporti con Enrico, di lui continuava a non fidarsi, ma quando aveva saputo dei suoi problemi di salute era andata a cercarlo e l’aveva trovato diverso, più maturo, sicuramente meno aggressivo e spavaldo di come lo ricordava. Era dimagrito, i suoi muscoli non avevano più né tono né consistenza, aveva le borse sotto gli occhi e anche i capelli sembravano opachi, era ancora un bel ragazzo, ma aveva perso il sorriso scanzonato di un tempo, oltre agli amici, al lavoro, all’appartamento e a quasi tutto quello che possedeva. Entrava e usciva dall’ospedale, viveva alla meglio con gente conosciuta da poco, giurava di aver chiuso con la droga, ma non era vero, continuava a farsi di ogni porcheria che gli capitava a tiro, prima la tagliava e poi la vendeva a disgraziati come lui, da tempo era fuori dal giro importante, i ricchi che fino a pochi mesi prima lui considerava alla pari, ora lo tenevano lontano, non amavano intrattenere rapporti con i sieropositivi, neanche rapporti di tipo strettamente commerciale. Ad Anna piangeva il cuore vederlo così, avrebbe voluto aiutarlo, portarlo alle Falde a guardare dall’alto il fiume che tagliava la valle, ma non era possibile, nessuna catena legata a una sdraio avrebbe potuto guarirlo, nessuna tisana… Così gli aveva dato le chiavi del suo appartamento e ogni mese gli pagava il conto in un negozio di alimentari sotto casa, era poco, ma lui era contento e in cambio le faceva da segretario, le apriva la posta annotando impegni e proposte, rispondeva al telefono e aspettava che lei lo chiamasse per riferirle ogni cosa con ordine e precisione.
A volte gli assegnava degli incarichi, piccole cose per riempirgli la vita tra un ricovero e l’altro, lettere da scrivere, regali da acquistare, pacchi da ritirare…, di solito faceva più di quanto servisse e questo non sempre era un bene. Giorni prima l’aveva mandato in quello che era stato il suo vecchio collegio, l’edificio doveva essere abbattuto e c’era ancora una suora tra quelle che l’avevano vista crescere, doveva ritirare una scatola con qualche quaderno, delle pagelle e dei libri, solo questo, ma lui aveva fatto di meglio e di più e quando Anna l’aveva chiamato per sapere come stava, l’aveva sentito eccitato come un ragazzino, voleva che rientrasse a Milano all’istante, aveva appena fatto un viaggio incredibile e doveva dirle cosa aveva scoperto. Lei l’aveva ascoltato con un misto di curiosità e apprensione, aveva cercato di saperne di più, ma lui non aveva voluto aggiungere altro, così l’aveva accontentato ed era partita, non subito però, in quei giorni era impegnata in un servizio fotografico e se l’era presa comoda, non pensava ci fosse niente di veramente urgente e quando aveva aperto la porta del suo appartamento l’aveva trovato a terra in un lago di sangue. Anna aveva cercato di gridare, ma dalla sua bocca era uscito solo un flebile suono, si era guardata attorno impaurita mentre un vecchio sogno quasi dimenticato prendeva il posto della realtà, ora non si trovava più nel suo solito soggiorno, ma in una cucina dalle pareti bianche macchiate di sangue, una voce stava urlando, un’altra stava dicendole di fuggire… Lei avrebbe voluto ubbidire, scappare come aveva già fatto in ato, ma il suo corpo non le dava retta e quando aveva alzato gli occhi, aveva incontrato lo sguardo obliquo di un uomo che di colpo l’aveva ricondotta al presente. Era caduta a terra colpita alla nuca mentre cercava di capire perché il sorriso incerto di quel giovane la riportasse a Trento, in una piazza bellissima che mai avrebbe dimenticato. Era rinvenuta col volto schiacciato sul pavimento, si era guardata attorno sforzandosi di mettere a fuoco la stanza, si era alzata piano, aggrappandosi a una sedia, avrebbe voluto piangere, urlare, ma non c’era tempo, d’un tratto aveva le idee chiare e una grande fretta. Era andata al telefono e aveva chiamato il 118, aveva dettato l’indirizzo e chiesto l’intervento per un infartuato che stava rantolando, sperava in quel modo di ritardare l’intervento della polizia, poi aveva raccolto le sue cose ed era scappata lasciando la porta socchiusa. Solo in macchina si era accorta di stringere tra le dita la scacciacani che di solito teneva in un cassetto accanto al letto, era sporca e scivolosa.
Si era diretta a est, come sempre, guidava tesa senza staccare le mani dal volante con gli occhi sottili dell’orientale che l’osservavano dal crepuscolo oltre il vetro, non vedeva l’ora di svoltare verso quel nord che già in ato le era stato d’aiuto, ma era presto, ci voleva il buio per affrontare le case degli amici, la gente per le strade, in piazza, ci voleva il silenzio della notte, così si era fermata in un parcheggio sull’autostrada e aveva cominciato a pensare. Era preoccupata per Enrico, ma non solo, se il ragazzo che aveva appena visto era uno dei coreani di Trento, allora era preoccupata anche per se stessa e anche per Lupo. Tempo prima Enrico le aveva assicurato che tutto era a posto, che la questione era chiusa e che non correva più alcun pericolo, lei non gli aveva creduto del tutto, ma poco alla volta si era rilassata e si era dimenticata del problema completamente. Era stato un errore, un grave errore e ora doveva avvertire Lupo, metterlo in guardia, se quella gente era arrivata fino a lei, forse sapevano anche di lui… Aveva cercato il suo numero sull’agendina, era certa di non averlo cancellato, e lo aveva chiamato, una volta, due, poi gli aveva lasciato un messaggio che solo lui avrebbe potuto capire, almeno questo era quanto sperava. Aveva aspettato il buio prima di riprendere il viaggio, quando era arrivata in paese pioveva e le strade erano deserte e silenziose. Era entrata in casa con la mente in tumulto, si era lavata e si era stesa sul letto ad aspettare. Aveva atteso un giorno con le imposte socchiuse e la paura nel cuore, poi due, quando aveva capito che Lupo non sarebbe venuto, aveva imboccato il sentiero di sempre, quello che portava al balcone sulla valle dove già una volta era stata curata e riportata alla vita.
Al porto di Fiume gli operai avevano indetto una manifestazione contro la guerra di Spagna, stavano marciando lungo il molo quando vicino allo sbocco del canale sono stati raggiunti e aggrediti dalla milizia. I carabinieri, che fino a quel momento avevano seguito il corteo senza intervenire, hanno colto l’occasione per caricare, sul suolo sono rimaste senza vita sei persone, quattro italiani e due slavi, non si è mai saputo chi fosse stato a sparare. In caserma sono state portate decine e decine di manifestanti, degli italiani non si è più saputo niente, dei croati invece si è fatta subito chiarezza, ancora il giorno dopo sono stati restituiti alle famiglie come cadaveri, erano stati fucilati in quanto traditori della Patria, tra questi c’era mio padre.
Capitolo quinto
Con il senno di poi, Beatrice, doveva ammettere che il pranzo di quel giorno era stato qualcosa di veramente speciale, al momento le era sembrato del tutto normale, una pausa di serenità in mezzo a una giornata tumultuosa, niente di più, ma se si consideravano i fatti della notte precedente e quelli che sarebbero successi di lì a poco, il tutto prendeva una luce diversa e diventava qualcosa di prezioso e unico. Avevano mangiato in una trattoria fuori paese, un agritur specializzato in carne alla griglia e polenta abbrustolita, un altro ottimo rientro, e chiacchierato per ore e ore in piena confidenza. In questo erano stati aiutati dal vino forte e scuro servito durante il pasto, un liquido amarognolo, vecchio come il tempo, ricavato da un vitigno coriaceo dal frutto resistente e lento a maturare che Beatrice adorava. In Germania non mancavano i negozi di specialità gastronomiche italiane, ce n’erano un po’ ovunque, ma l’aria là sapeva di gulasch e di birra e raramente lei si concedeva il lusso di una bottiglia di marzemino o di teroldego, perfino gli spaghetti e la pizza, a quelle latitudini, parevano fuori luogo e quando usciva a cena preferiva mangiare knödel e spätzle e bere pils dalla schiuma densa e profumata, piuttosto che rovinarsi la digestione in sterili confronti. Niente da stupirsi, quindi, se già al secondo bicchiere Beatrice si sentiva euforica come da tempo non succedeva, in questo Lupo le stava alla pari, era meno loquace di lei, ma allegro e spiritoso, il profumo del vino aveva attenuato il vigore delle sue preoccupazioni e ad un tratto i suoi timori gli apparivano esagerati, addirittura infondati. A due occhi estranei il rapporto che si era instaurato tra di loro poteva sembrare insolito, a vederli parevano amici di vecchia data, forse di più, ma non era così e incolpare di un simile trasporto gli effluvi dell’enantio era sicuramente azzardato. Beatrice era socievole per natura, come molte persone che nell’adolescenza avevano vissuto il peso di una timidezza eccessiva, godeva nel parlare e nel dare confidenza alla gente senza imporsi particolari limiti, non era però una sprovveduta e di solito evitava gli argomenti in cui più si sentiva coinvolta. Faceva così con tutti, ma non con Lupo al quale, già all’arrivo della polenta, aveva confidato per filo e per segno le sue disavventure affettive, gli
aveva raccontato di quanto amasse il marito, di come si fosse sempre fidata di lui, delle innumerevoli volte in cui l’aveva visto con colleghe e amiche senza mai provare un moto di gelosia, nemmeno quando ava le notti lontano da casa impegnato in convegni che forse neanche esistevano, e di come poi, davanti a un piatto di spezzatino malamente condiviso in una mensa d’ospedale, fossero crollati anni di matrimonio e un ridicolo castello di sentimenti. Aveva parlato e parlato, ma il suo non era stato un monologo, se così fosse stato di sicuro si sarebbe fermata prima. Anche Lupo aveva raccontato di sé, del paese in cima alle Alpi da dove veniva, della sua vita a Milano, del suo lavoro e della poesia, ma tutto questo sembrava solo un preambolo, un lento girare attorno a qualcosa che solo a fine pranzo aveva preso forma. Così mentre si concedevano il dolce, e poi il caffè e un digestivo e ancora una tisana calda dal profumo un po’ speziato, Beatrice, per la prima volta, aveva conosciuto l’amore di un poeta, un sentimento diverso dal suo per Alfredo, una ione intensa, apparentemente sopita di cui sotto la cenere s’intravedeva ancora il fulgore della brace. Più tardi, ripensandoci, aveva trovato molte lacune in quello che Lupo aveva detto della moglie, c’erano vuoti, silenzi che non riusciva a spiegare se non con il dolore dell’amore deluso, lui si era limitato all’essenziale distogliendo lo sguardo dalle ferite che ancora sanguinavano e questo era stato sufficiente per farglielo sembrare più caro, più vicino. Si erano lasciati che era quasi ora di merenda, lui sapeva di lei decisamente più di quanto lei sapesse di lui, ma Beatrice era contenta, Lupo le aveva raccontato del romanzo che intendeva scrivere e aveva trovato interessante la vicenda che l’aveva riportata in paese, lui conosceva personalmente il geometra Fioravanti e a quel punto non intendeva aspettare il suo rientro al lavoro per chiedergli quello che voleva sapere, lo avrebbe fatto subito, quel pomeriggio stesso. A Beatrice pareva un’ottima idea, lei intanto avrebbe cercato un falegname per cambiare la serratura della porta che non riusciva ad aprire, poi avrebbe preparato qualcosa per cena, sperava che Lupo riuscisse a convincere il geometra a seguirlo, le sarebbe piaciuto conoscerlo di persona. Nella realtà il pomeriggio aveva preso una piega del tutto inaspettata, Lupo aveva atteso per ore che il geometra si decidesse a rispondere a un camlo che non poteva sentire e se non ci fosse stata una belva feroce a presidiare il cancello, avrebbe fatto decisamente prima e si sarebbe risparmiato l’amarezza di certi ricordi.
Beatrice invece si era messa al telefono per scoprire che dei quattro falegnami residenti in zona, solo uno era disposto a raggiungerla subito, dopo due ore era ancora lì ad aspettarlo, aveva provato a richiamare, ma il suo apparecchio risultava occupato oppure libero, così aveva lasciato un messaggio in segreteria, poi un altro, al terzo era andata a cercare un’amica per riempire con le sue chiacchiere delle lacune che a quel punto le sembravano voragini. Da lei si era fermata poco, il tempo di chiarirsi le idee su Lupo e la sua compagna, su quella Anna bella e misteriosa, che appariva e spariva in continuazione, che parlava del marito come di un uomo meraviglioso lasciando trasparire un sentimento che forse solo lui non conosceva, che era sempre sola, talmente sola che in paese qualcuno aveva cominciato a bisbigliare… Tutti discorsi stupendi, concetti che l’amica sapeva disporre con maestria davanti ai suoi occhi, lei li ascoltava e si sentiva ammaliata dall’immagine di quella donna bellissima, di quella vedova bianca che avrebbe potuto avere uno stuolo di uomini ai suoi piedi e che invece preferiva vivere in un eremo circondato dagli olivi. Era tornata a casa di corsa nella speranza di trovare il falegname ad aspettarla, non c’era, l’aveva cercato un’ultima volta al telefono, poi si era lavata i capelli e li aveva asciugati sul poggiolo nell’aria calda di quell’afosa serata estiva. Di norma Beatrice si lavava la testa due volte la settimana, non lo faceva per igiene e nemmeno per civetteria, ma solo per puro buon senso, era convinta che a quarantacinque anni ati una donna con i capelli in ordine e la pelle ben curata potesse ancora guardarsi allo specchio e sorridersi, alla sua età sua madre era vecchia, lei no. Avrebbe voluto indossare qualcosa di bello, una gonna lunga di seta arricciata, una camicia larga che lasciasse intravedere più che mostrare, ma non aveva portato né l’una, né l’altra, così s’accontentò dei soliti jeans e di una casacca di viscosa frusciante e fresca, poi cominciò a occuparsi della cena. Beatrice non era una brava cuoca, non lo era mai stata, amava mangiare ma ai fornelli era alquanto impacciata e se non aveva davanti un ricettario semplice e preciso che la guidasse o per o, si faceva prendere la mano dalla fantasia e inventava cose dall’aspetto grazioso e dal sapore inconsueto, spesso addirittura sgradevole. Ci aveva messo del tempo per capire che non doveva fidarsi della sua creatività, da allora aveva optato per piatti semplici e veloci, oppure per precotti al sapore triste del glutammato, ogni tanto Alfredo le lasciava in caldo qualcuna delle sue specialità orientali, ma di rado e solo per cena, a pranzo era sempre sola, lui si fermava in mensa dove trovava tutto quello che gli serviva, perfino la compagnia.
Conosceva comunque un paio di ricette facili e di sicuro effetto, la pasta alle verdure era una delle sue preferite, funzionava a tutte le latitudini e a tutte le ore. Bastava aprire la dispensa o il frigorifero e sperare di trovarvi degli ortaggi, carote, zucchine, fagiolini, pomodori, melanzane, patate, peperoni e quant’altro, lavarli, tagliarli e stufarli con un po’ di olio, sale e acqua al bisogno, poi cuocere la pasta e arla nelle verdure ben cotte e insaporite, ecco fatto, dopo di che mozzarella, affettati e insalata mista con carciofini, olive e pomodori secchi sott’olio potevano rappresentare un ottimo coronamento del pasto. Stava stendendo la tovaglia quando il telefono la distolse dai suoi pensieri, credeva fosse Lupo per cui rispose col tono cordiale che si riserva a un amico e il silenzio che trovò al di là del filo la colpì come uno schiaffo, appese la cornetta con un brivido di paura e si sedette chiedendosi chi potesse godere dei suoi dubbi e del suo imbarazzo, non ne aveva la più pallida idea. Stava ancora fissando l’apparecchio quando avvertì il ronzio del cellulare, lo prese in mano, a fianco del segnale che indicava l’esaurimento della batteria, brillava l’ultimo numero inserito in memoria, quello di Lupo. Rimase in ascolto pochi istanti, la linea era disturbata e la voce gracchiante, riuscì a capire che non sarebbe venuto a cena, che erano sopraggiunti dei problemi e che le avrebbe spiegato tutto il giorno dopo, poi la voce era sparita assieme a ogni segno vitale dell’apparecchio. Beatrice sospirò, non era questo che aveva immaginato per la serata, alzò le spalle e tornò in cucina per servirsi di una razione abbondante di pasta, non era per niente contenta. Fuori si era fatto buio, aveva voglia di uscire, ma le ombre che si allungavano al di là del poggiolo le procuravano un senso di disagio che non sapeva spiegare. Ci mise del tempo per capire da dove veniva quella spiacevole percezione, il rumore del cancello che si muoveva sotto il peso di un gatto che cercava di scavalcarlo le fece tornare in mente quello che era successo la notte prima. Chiuse la porta determinata a non farsi prendere dal panico e accese il televisore, si mise comoda sul divano con un cuscino stretto al petto e cominciò a girare da un canale all’altro alla ricerca di qualcosa che distraesse la sua mente. Dopo mezz’ora si rassegnò, prese un libro dall’esigua libreria di casa ricordando a malincuore i romanzi stipati nelle stanzette a piano terra, poi si decise ad andare a letto, erano appena le nove e mezzo ma tanto valeva sdraiarsi e cercare di recuperare il sonno perduto la notte prima. Fu in quel momento che il telefono ricominciò a suonare, Beatrice tese la mano verso la cornetta, ma non la staccò, al decimo squillo tornò il silenzio e lei
riprese a respirare. Si diresse verso il bagno con la testa confusa, era preoccupata e si sentiva sola più che mai, le mancava Alfredo e aveva voglia di mettersi a piangere. Decise di reagire, doveva fare qualcosa per togliersi dallo scomodo ruolo di vittima, controllò che porte e finestre fossero chiuse e mentre il trillo del telefono tornava a bucarle il cervello, si mise a rovistare nei cassetti finché trovò quello che cercava, un piccolo fischietto di metallo di quando era bambina, lo strinse tra le dita e subito si sentì meglio, infilò le scale che portavano al piano superiore con la testa libera e il sorriso sulle labbra. Non era ancora a letto quando l’apparecchio squillò di nuovo, questa volta non perse tempo, staccò la cornetta e l’accostò alla bocca mentre un sibilo lacerante usciva dal fischietto che stringeva tra i denti, poi riappese felice, perfino eccitata e s’addormentò senza più pensare a niente. Quando si svegliò non voleva credere alle proprie orecchie, stava succedendo di nuovo e lei si sentiva paralizzata, incapace di muovere un dito e con il corpo ricoperto di sudore, fece un respiro profondo, poi un altro e un altro ancora e finalmente la sua mente cominciò a emergere dalla nebbia fitta in cui si trovava. Qualcuno era entrato in casa, i rumori che sentiva erano confusi, ma non lasciavano dubbi su quanto stava succedendo di sotto, si mise seduta e appoggiò i piedi a terra, doveva andare nell’altra stanza a telefonare…, tese l’orecchio, il rumore si era spostato, in soggiorno qualcuno aveva urtato una sedia e lei era balzata in piedi come una marionetta, aveva bisogno di un’arma, di un coltello, un bastone…, trasse un respiro profondo e si guardò attorno, nella fioca luce che entrava dalla finestra vide un quadro, una lampada, un bicchiere, un libro, un tappeto, niente che fe al caso suo, aprì l’armadio che aveva di fronte, era pieno di vestiti e cappotti che puzzavano di naftalina, ne sfilò uno e con la gruccia in mano s’avvicinò alla porta. Il suo cuore batteva in modo assordante e nelle orecchie il fruscio del sangue copriva ogni altro rumore, socchiuse l’uscio e affrontò il buio del corridoio, fece un o tendendo le mani in avanti, un altro…, poi avvertì lo schiocco della porta che s’apriva al piano di sotto e non riuscì più a controllarsi. Con l’appendiabiti impugnato come una clava si precipitò lungo il budello e imboccò le scale, l’impatto con qualcosa di ruvido e solido la lasciò senza fiato, avrebbe voluto essere agile e vigorosa, ma le pareva di avere le braccia molli e inconsistenti, sferrò qualche colpo, poi si lasciò andare trascinata verso il basso dal corpo del suo aggressore. La scala era ripida e stretta, verso la fine piegava
ad angolo retto formando un piccolo pianerottolo quadrato, fu in quello spazio angusto che terminò la sua corsa, la sua foga e per un attimo anche la sua lucidità. Attorno c’era buio, ma Beatrice vedeva dei lampi fosforescenti brillare nel fondo dei suoi occhi, sentiva qualcuno gridare parole strane, prive di significato, voleva divincolarsi, alzarsi, tornare a colpire… Non sapeva quanto tempo fosse rimasta in quello stato, poco alla volta riprese la percezione del suo corpo e si vide piegata in avanti in una posizione scomoda e ridicola, aveva le mani appoggiate a terra e le ginocchia su qualcosa di morbido, quando si costrinse a chiudere la bocca, finalmente tornò il silenzio. Beatrice aprì gli occhi nella fioca luce che entrava dalla porta, spostò lo sguardo lentamente, con cautela e quello che vide non le piacque affatto. Davanti a lei stava il corpo di un uomo che conosceva, aveva la testa inclinata e un rivolo scuro che dalla fronte gli scendeva lungo il naso, riprese a urlare mentre in testa si riaccendeva il solito frastuono. Alfredo teneva il capo piegato all’indietro e gli occhi chiusi, per qualche istante aveva perso i sensi e ora faceva fatica a comprendere dove si trovasse, aveva qualcosa di duro e pungente sotto la nuca e un prurito insistente che si spostava lungo il naso come una processione di formiche in fila indiana. Un rumore assordante gli feriva i timpani e lo costringeva a tenere gli occhi strizzati, se avesse potuto avrebbe premuto le dita contro le orecchie, ma da un po’ non sapeva dov’erano finite le sue mani e questo lo preoccupava, provò a cercarle nel mare formicolante in cui nuotava il suo corpo e quando le trovò inchiodate sotto il macigno che lo teneva incollato al suolo, trasse un respiro di sollievo, erano prigioniere, ma calde e vive, era un buon segno. Si chiese cosa gli fosse successo, cercò nella sua mente una risposta plausibile, ma il buio che era nei suoi occhi, era anche nella sua testa e per quanto si sforzasse gli pareva impossibile riconoscere i relitti che aveva disseminato nella soffitta della sua memoria. C’era una donna seduta alla finestra, no, era un bambino, o forse suo padre, un cane stava scavando una buca sotto un albero, aveva il pelo sporco e un filo di bava gli scendeva dalla bocca, su una panchina una ragazza mangiava un panino, poi spostava la gamba e gli sfiorava la coscia, il telefono era muto, lo teneva in mano, ma non serviva a niente, le valige erano due, una aveva una cinghia gialla che le girava attorno, al valico c’era la neve, l’aria era tiepida, ma la terra era nascosta sotto un manto di candida schiuma, la
macchina era a due i dal cancello, aveva appoggiato la mano sul cofano e aveva sorriso, la chiave era vecchia, fredda e arrugginita, aveva alzato il capo per catturare la brezza che scendeva dai monti, aveva la luce e bevuto un bicchiere d’acqua, il lavandino era ingombro di piatti e tegami, si era seduto un attimo, poi si era alzato e aveva ripreso il cammino. Alfredo socchiuse gli occhi e fu come tornare alla vita, le ombre sostituirono il buio e dal silenzio prese corpo una voce, anche il dolore lentamente lasciò il posto a un malessere opaco che si spegneva in mille frange colorate. Ora ricordava, aveva notato l’assenza di Beatrice due sere prima, era rientrato dopo cena e lei non c’era, niente di strano, si era detto, ma qualcosa di fastidioso aveva preso a frullargli in testa, erano giorni che non la vedeva, troppo per il suo equilibrio, e poco alla volta aveva sentito riemergere il timore d’averla persa per sempre. Si era versato da bere ed era salito nella sua stanza, un ordine insolito aveva confermato i suoi sospetti, non c’erano calzini ai piedi del letto e nemmeno magliette buttate sulla poltrona, se n’era andata. Era tornato di sotto a mangiarsi il fegato, al terzo cognac l’aveva vista in compagnia di un uomo, quello che qualche sera prima l’aveva accompagnata a casa e che sembrava non volersene più andare, al quarto aveva deciso di non poter vivere senza di lei. Aveva fatto qualche telefonata senza concludere niente, molti amici erano in ferie oppure dormivano o erano solidali con lei e non volevano dirgli nulla. Aveva trascorso il giorno seguente sforzandosi di non pensare a lei, era in ferie e sembrava che il tempo non asse mai, alla sera era andato al cinema, poi in una birreria, in un’altra e in un’altra ancora, era rientrato all’alba e subito aveva notato la luce rossa della segreteria telefonica. Aveva ascoltato il messaggio di un collega che lo invitava a cena per la sera dopo, poi aveva riavvolto il nastro dall’inizio e vi aveva trovato le parole un po’ farneticanti di un geometra che chiamava dall’Italia e a un tratto aveva capito dov’era andata Beatrice e si era messo il cuore in pace, non c’erano uomini nella vita di sua moglie, si era detto, e aveva dormito come un sasso fino alle undici di mattina. Al pomeriggio aveva giocato a tennis e aveva vinto, era contento e si riteneva rinsavito dai dubbi del giorno prima, ma alla sera era ricaduto nella smania di sempre, dov’era Beatrice? Aveva tentato di rintracciarla al cellulare, era staccato, al telefono in Italia, non rispondeva…, la terza volta che aveva composto il numero, un fischio atroce gli aveva perforato il timpano rimbalzando senza posa nei lobi del suo cervello. Non aveva aspettato altro, aveva cercato le chiavi di casa ed era partito.
Provò a spostare il capo, c’era qualcosa che gli pungeva la nuca…, scivolò sul fianco e finalmente alzò lo sguardo. Beatrice non sapeva per quanto tempo avesse urlato, forse pochi secondi che a lei però sembrarono eterni, prima l’aveva fatto per la paura, poi per l’orrore di quello che aveva davanti. Alfredo teneva il capo piegato in modo strano e lei aveva pensato che fosse morto, il rivolo di sangue che gli scendeva dalla fronte sembrava una ferita e c’era voluto del tempo per rendersi conto che stava respirando, che non si era spezzato il collo e che se non si muoveva era perché le sue ginocchia gli premevano il torace e gli toglievano il fiato. Quando si spostò, lui emise un sibilo strano, poi alzò gli occhi e le rivolse un sorriso luminoso, talmente bello che in un attimo Beatrice gli perdonò tutto, anche quello che credeva imperdonabile. E subito si sentì bene, stava piangendo ma allo stesso tempo era lucida e in grado di gestire con efficienza la precarietà della situazione. Gli liberò il collo dalla gruccia, poi gli fece muovere le braccia e le gambe per accertarne lo stato e solo allora l’aiutò ad alzarsi. Voleva portarlo al Pronto soccorso, ma lui si rifiutò e preferì sdraiarsi sul letto, lei si coricò al suo fianco e lo tenne stretto come si fa con un bambino, o meglio, come si fa con un amore che si credeva perduto e si è appena ritrovato. Si addormentarono all’alba per svegliarsi e risvegliarsi a più riprese, consci della vicinanza l’uno dell’altro e quando Beatrice nel dormiveglia avvertì il tocco sapiente delle sue mani aprirsi varchi nelle pieghe del suo corpo, capì di essere finalmente tornata a casa. Col mattino arrivò il momento dei rimproveri e delle spiegazioni, Alfredo e Beatrice avevano molte cose da chiarire e ci misero ore per farlo, il poco tempo ato abbracciati aveva sciolto il ghiaccio che c’era tra di loro, ma non aveva risolto i problemi che si erano accumulati nelle ultime settimane. Si rinfacciarono molte cose, lei si lasciò prendere dall’emozione e fu aspra e tagliente come un rasoio, urlò, pianse, l’insultò e gli ricacciò in gola ogni tentativo di mascherare la verità. Lui non fu da meno, i suoi toni erano più pacati ma non le risparmiò niente, si giustificò tirando in ballo la sua presunta indifferenza e negò, negò e ancora negò, la ragazza che era con lui a mensa era una collega, una giovane amica forse troppo espansiva, nient’altro. Sull’argomento si fermarono fino alla nausea, fino a quando cioè Alfredo si
decise a riconoscere l’eccentricità della scena a cui Beatrice aveva assistito e ammise che, ebbene sì, la ragazza era giovane, fresca e intrigante, l’affascinava e se lei non fosse capitata nel bel mezzo di quello spezzatino, non sapeva come sarebbe finita… Comunque non era successo niente, niente di niente e questo le doveva bastare. Non era molto ma era più di quanto Beatrice s’aspettasse, le sue ammissioni seppur parziali le consentivano di salvare la faccia e di accettare di buon grado quello che, a quel punto, avrebbe accettato comunque. A mezzogiorno depose le armi, nello stato d’animo in cui era non le conveniva affondare il coltello nella piaga, così si fece una doccia e chiamò Lupo, nessuna risposta, gli lasciò un messaggio in segreteria e tornò in cucina per spartire con Alfredo la poca pasta rimasta dalla sera prima. Continuarono con salame e finirono con formaggio e pane molle che sapeva da frigo, non fu un gran pranzo, ma in compenso si concessero del Pinot grigio che sembrava un sogno. A Beatrice il vino bianco non piaceva molto, le bloccava le ghiandole salivari per cui cercava di evitarlo il più possibile, quello, però, aveva il profumo di rosa canina e il sapore della riconciliazione, era ottimo. Poi uscirono per fare una eggiata. Alfredo era di Bolzano e conosceva poco del paese in cui Beatrice aveva vissuto la prima parte della sua vita, era figlio di meridionali trasferitisi alla fine degli anni Quaranta in quello che consideravano l’unico vero paradiso esistente al mondo, l’Alto Adige, una terra verde, bagnata dalle sorgenti più generose, ricca di lavoro e di energia, chiusa tra confini naturali che proteggevano chi vi viveva e rassicuravano i viandanti segnando loro il cammino. E poco importava se a quel tempo essere della Sicilia, addirittura di Canicattì, non fosse dagli indigeni considerato un privilegio, un fatto di cui andar fieri, se camminando per strada il termine “terrone” fosse una sorta di parola magica che apriva la folla e spostava la gente sui marciapiedi, se l’asprezza della lingua inducesse a chiudersi nel ghetto di chi parlava con lo stesso accento, che muoveva le mani e anche il corpo in una danza che ricordava il mare. No, queste non erano cose importanti, lì, nella conca dorata dove l’Isarco incontra l’Adige, dove la cultura tedesca si mescola a quella italiana senza quasi compenetrarsi, lì i genitori di Alfredo avevano deciso di fermarsi, avevano aperto un negozietto e messo al mondo tre figli, li avevano iscritti alle scuole tedesche e li avevano mandati nelle università del nord perché non avessero dubbi su qual era la realtà culturale a cui dovevano ispirarsi. Il risultato non era stato omogeneo e per molti aspetti nemmeno esaltante, i due figli più giovani avevano abbracciato la causa con un’enfasi addirittura sospetta, Alfredo, all’opposto, era rimasto nel suo intimo un uomo del
sud, viveva in Germania ma era orgoglioso delle sue origini, era innamorato del mare e di tutto quello che gli ricordava l’Italia. Dopo la laurea si era specializzato in psichiatria e aveva cominciato a lavorare a Monaco, era lì che aveva conosciuto Beatrice. A quel tempo lei era perennemente in fuga davanti a se stessa, dopo un’infanzia e un’adolescenza fin troppo spensierate, per Beatrice, infatti, erano cominciati gli anni dell’incertezza e della depressione, non si piaceva per niente, lei avrebbe voluto essere bella, affascinante e creativa, cantare come la Callas e dipingere come Rousseau, invece era una grande, vistosa, ossuta nullità, se almeno fosse stata piccola avrebbe potuto sperare di are inosservata… Così si era rassegnata a frequentare un liceo vicino a casa con l’atteggiamento della vittima dolente, col tempo aveva imparato a nascondere la sua insicurezza sotto la maschera dell’intransigenza ed era stato ancor peggio. Dopo la maturità si era iscritta all’Accademia delle Belle Arti scegliendo di lavorare per mantenersi agli studi lontana da casa, il risultato era stato scadente in entrambi i ruoli, era una pessima cameriera sempre accigliata e stanca e una studentessa mediocre, piena di sonno arretrato e di risentimento. La cosa era andata avanti per quasi un anno, poi si era stufata, aveva piantato tutto ed era partita per Monaco. Doveva essere una vacanza ma per diciannove mesi non era più tornata a casa. In Germania Beatrice si era ambientata al meglio e in breve aveva ritrovato se stessa, lì era sola e non doveva dimostrare niente a nessuno, si manteneva vendendo gelati e non doveva essere né bella, né simpatica, né intelligente, del suo talento artistico i tedeschi non sapevano che farsene e lei si sentiva libera, nuova di zecca, addirittura felice. Così la depressione era ata e ben presto aveva ripreso a sorridere, si era trovata un ragazzo, poi un altro e un altro ancora, Alfredo era stato il quinto uomo della sua vita, l’ultimo e il definitivo. Lui era alto quanto lei, aveva i capelli lunghi sulla nuca e un po’ mossi, era bello coi lineamenti maturi e gli occhi liquidi e verdi come l’acqua, era uno psichiatra che amava la filosofia e si perdeva in disquisizioni esistenziali in cui lei inevitabilmente smarriva il filo, era un ottimo comunicatore, sapeva attirare l’attenzione di chi gli stava attorno, farsi capire e anche apprezzare. Quando lo aveva conosciuto la vita di Beatrice scorreva già su binari tranquilli, con lui, grazie a lui, aveva completato quel processo che l’aveva portata a un nuovo equilibrio, una pace e una sicurezza che erano rimaste con lei per molto tempo.
Alfredo le aveva dato molto, le aveva insegnato ad amarsi e ad accettarsi per quello che era, l’aveva incoraggiata a riprendere gli studi e ad avviarsi in una professione che credeva le fosse preclusa. Anche i momenti negativi che avevano vissuto assieme erano ricordati da Beatrice senza dolore, i lutti che avevano colpito le loro famiglie, il lavoro che li costringeva a spostarsi e a cambiare amici, affetti e abitudini, il fatto di non avere figli, il brutto incidente che l’aveva tenuta a letto per quasi un anno, erano cose pesanti e sgradevoli che però non avevano inciso sul loro rapporto. Poi c’era stata la sua inopportuna comparsa alla mensa dell’ospedale, dove davanti allo sguardo radioso di una ragazza, lei aveva sentito aprirsi un baratro sotto i suoi piedi, era arrossita e questa forse era stata la cosa peggiore, quella che non si era perdonata. Ma se Parigi val più di una messa, allora anche vent’anni d’amore e d’amicizia possono contare più del sorriso luminoso di una giovane donna, si disse infilando la mano sotto il braccio del marito. Lui si girò, la guardò e le sorrise, lei distolse lo sguardo e giurò a se stessa che mai e poi mai lo avrebbe cercato in una mensa d’ospedale senza il dovuto preavviso. Uscirono di casa convinti di trovarvi il sole e invece il cielo era pieno di nuvole che si muovevano lente, strato su strato, ogni tanto s’aprivano per lasciar intravedere squarci d’azzurro profondo, sembrava dover piovere da un momento all’altro, ma non c’era un filo di vento a muovere l’aria che era calda e lasciava la pelle umida e salata. Sulle strade e nelle corti non c’era nessuno, i cani che latravano in lontananza sembravano gli unici esseri viventi di un paesaggio di case vuote con le imposte serrate. Fecero il solito giro del paese scegliendo di volta in volta le viuzze più strette e più romantiche, Alfredo era un entusiasta e sapeva apprezzare le piccole cose, l’arco in pietra quasi nascosto dal cemento, il portone in legno dipinto di verde, la fontana sbrecciata, un fregio, una boccia di marmo…, gioielli preziosi che meritavano una sosta, un commento, rispetto. Arrivati a ridosso del castello piegarono a destra lungo un viottolo sassoso che, scavalcando orti e vigneti, li portò agli olivi e alla casa dove Beatrice credeva di trovare Lupo. Lei non ricordava di essersi mai spinta oltre la strada principale, da ragazzina, al tempo in cui si considerava il dottor Livingstone della zona, di sicuro era arrivata fino al bivio scosceso, ma la casa di sassi con le imposte socchiuse era certa di non averla mai vista. Era piccola, divisa in due parti, quella più bassa si estendeva col tetto su una veranda di legno rialzata da un paio di gradini sul
cortile. Si avvicinarono in silenzio, immersi in un vuoto simile a quello che li aveva accompagnati per tutto il tragitto, Beatrice era a disagio, si pentiva di non essersi fatta annunciare da una telefonata e avrebbe voluto andarsene, in fondo di Lupo non sapeva niente, magari era tornata la moglie e non voleva essere disturbato o era partito all’improvviso dimenticando di salutare gli amici, tutti, di sicuro quelli conosciuti il giorno prima. La cosa era poco probabile considerato che le finestre erano aperte, comunque l’imbarazzo rimaneva, così lei affrettò il o e assunse un contegno disinvolto, sulla veranda cercò un camlo che non c’era, quando notò la porta socchiusa, bussò e con un leggero “è permesso?”, entrò in casa. Beatrice s’aspettava un atrio sobrio, un corridoio o una cucina come ce n’erano tante nelle abitazioni di campagna, ma di tutto questo non vide niente. Il locale era ingombro di mobili rovesciati, c’erano un tavolo appoggiato su un lato e una credenza scostata dal muro, per terra c’erano scatole, libri, quaderni e una poltrona inclinata su un fianco. Si girò per chiamare Alfredo che si era attardato in cortile e un ragazzo spuntato dal nulla le si parò davanti e la spinse con forza contro la parete, lei allargò le braccia per non perdere l’equilibrio, poi scivolò all’indietro e finì a terra, a due i dal corpo di Lupo riverso in un mare di fotografie.
Di quanto è successo io non ricordo molto, solo di essere stato preso e portato in una cava poco lontana, mi ero addormentato nel letto vicino a mio cugino e mi sono svegliato in un incubo. Più tardi ho saputo che tutte le case di Podhum erano state saccheggiate e bruciate e il bestiame razziato, che novantun uomini erano stati fucilati, uno era un bambino di tredici anni, e che quasi novecento persone avevano preso la via dei campi d’internamento, tra questi c’ero anch’io assieme a quattrocento bambini, a donne e vecchi che a malapena si tenevano in piedi.
Capitolo sesto
Loretta si levò le calze e le buttò sulla poltrona, erano belle ma non aveva voglia di sentirsele addosso, faceva troppo caldo e ne avrebbe fatto a meno, come quasi sempre del resto. Ogni volta che si metteva qualcosa di elegante si costringeva a infilarsi quei veli impalpabili, li amava e li odiava allo stesso tempo, li considerava uno strumento di raffinata seduzione e d’intollerabile tortura e di solito non resisteva per più di qualche minuto. Solo d’inverno le sembrava di poterli sopportare, le davano fastidio ma con le gonne erano indispensabili, appena però il caldo tornava a farsi sentire, lei preferiva farne a meno per tornare a respirare in libertà. I collant erano anche peggio, un tormento, premevano dove non dovevano e fasciavano il corpo in modo a dir poco indecente. Cambiò vestito, riappese nell’armadio quello nero con giacchina damascata e ne tolse uno di chiffon a due veli nei toni caldi del marrone. L’infilò sentendo un brivido sulla pelle, era leggero e fresco, lo strato interno era più scuro, aveva le spalline sottili e un seno abbondante e sodo da far invidia a qualsiasi donna, quello più esterno era a fiori e aveva le maniche lunghe e trasparenti. Era bellissimo, l’unico del suo guardaroba che non avesse ancora indossato, l’aveva acquistato in rete pensando a qualche occasione speciale che poi non era venuta, ultimamente usciva poco, quasi mai, fino a qualche mese prima era diverso, Loris era meno invadente, dormiva di più e lei riusciva a sfuggirgli tra le dita come un’anguilla. Scelse un paio di scarpe chiare col tacco da cinque centimetri, larghe abbastanza per accontentare i suoi piedi abituati a camminare liberi, non le piacevano, avrebbe preferito dei sandali scollati che mettessero in risalto le sue gambe lunghe e ben modellate, ma aveva smesso di acquistarli, Loris era un idiota e li buttava non appena li vedeva in giro, a volte pensava di ucciderlo. Prese una sciarpa e se l’avvolse attorno al collo, si guardò allo specchio e fece una smorfia, era di una sfumatura sbagliata e stava meglio senza, la lasciò cadere a terra dove già erano sparse le calze, un golfino di seta dorata e un tubino nero che sembrava uno straccio, sorrise pensando all’espressione di Loris davanti a quel disordine, si sarebbe arrabbiato, ne era sicura, ma lei era contenta, più appendeva i suoi abiti nell’armadio e meno cercava ragni negli angoli della casa.
Andò in bagno e accese la luce, l’aria sapeva di chiuso, avrebbe voluto spalancare la finestra, ma l’unica che c’era era murata e neanche con la piccozza sarebbe riuscita ad aprirla, alzò gli occhi e si guardò in viso, fece qualche smorfia per rilassare i muscoli delle guance e si sorrise, si piaceva, si lisciò un sopracciglio, era biondo, dorato e arcuato al punto giusto, anche il naso era perfetto, sottile ma non troppo e gli occhi erano di un verde smeraldo luminoso. Non era il loro colore naturale, era vero, ma questo non voleva dire che non fossero stupendi, del resto neanche il seno e i capelli erano suoi, eppure non si poteva negare che fossero belli. Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie, poi tornò a guardarsi da vicino, il trucco era perfetto, leggero quanto un’abbronzatura estiva, gli zigomi avevano una sfumatura di terra bruna e gli occhi erano appena segnati dalla matita e dal mascara, scosse i capelli che le si mossero attorno come un’onda morbida, castani con una lieve nuance ramata. Si tolse dallo specchio e accese un’altra lampada, con un po’ di fortuna Loris avrebbe continuato a dormire fino a notte inoltrata e lei sarebbe riuscita a sfuggirgli sotto il naso, doveva stare attenta a quello che faceva, nessun rumore, nessun batticuore, nessun pensiero infido… Lui era un tipo strano, eccentrico e un po’ malato, diverso dalla gente che lei amava frequentare, ma a nessuno era data la possibilità di scegliersi i parenti, così Loretta lo accettava com’era, cos’altro poteva fare?, non capiva come mai un bel ragazzo come lui asse il suo tempo tra l’orto, la soffitta e la palestra, le pareva una cosa innaturale, perfino malsana, ma non erano affari suoi e teneva la bocca chiusa. Loretta odiava la ginnastica, la odiava almeno quanto Loris l’amava. Non dubitava che fosse un ottimo mezzo per mantenersi in forma, ma era scomodo e faticoso, ed era convinta che per una ragazza con problemi di linea, ci fossero metodi meno rigorosi per non ingrassare, per esempio poteva limitarsi a tavola, seguire una dieta ipocalorica o addirittura astenersi del tutto dal mangiare... Lei faceva così ed era contenta, non metteva mai niente in bocca, né prima, né dopo, né durante i pasti e ovviamente non ingrassava. Beveva acqua del rubinetto, buona o cattiva che fosse bisognava pur idratare la pelle e la cosa migliore era farlo dall’interno, lo sapeva, l’aveva letto sulle mille riviste a cui era abbonata. Per quanto si sforzasse di ricordare, lei aveva seguito da sempre la dieta dell’acqua e solo acqua e ne era entusiasta, non aveva fame e nemmeno sete, il suo corpo era sano e vigoroso, non aveva cellulite né cedimenti muscolari o adiposi che ne alterassero il profilo. Così era convinta che fosse meglio non mangiare piuttosto che are il tempo a sudare per toccarsi col naso le
ginocchia come faceva Loris, ma lui era matto, lo sapeva e quando non faticava in palestra, se ne andava in giro in cerca di tarantole. Loretta raccolse la spazzola e la portò alla luce, ne sfilò due lunghi capelli ramati e li appoggiò con delicatezza sull’orlo del lavandino, poi prese la lacca e con uno spruzzo leggero li bloccò sulla ceramica bianca, sperava somigliassero alla bava di qualche ragno di aggio, Loris ne sarebbe stato sconvolto. Tornò in camera e s’avvicinò alla finestra, la luce stava calando, guardò l’orologio, erano quasi le sette, quanto ci voleva ancora perché fosse buio?, s’avvicinò alla mensola per sistemare meglio il portafotografie trovato nel cassetto, poi inforcò gli occhiali da sole per illudersi che la notte fosse ormai vicina. Loretta amava l’estate, le piaceva osservare la gente mezza nuda camminare per strada, sfregarsi e toccarsi senza i pudori della stagione fredda, amava vestirsi leggera e sentire il fruscio dei suoi abiti sulla pelle, amava perfino sudare, le gocce salate che le scendevano lente dai peli biondi delle ascelle, le davano un brivido di piacere pari solo allo sguardo sfrontato di qualche bella ragazza in cerca d’avventure. Ah, le ragazze, quanto le mancavano… Sentì qualcosa muoversi nel suo petto e scendere verso il luogo dove confluivano le sue emozioni, scosse la testa per allontanare l’immagine di una donna che si ava la lingua sulle labbra, era troppo presto per simili pensieri, c’era ancora il sole. Loretta amava tutto dell’estate, tutto tranne la profonda e palese imparzialità tra le ore di luce e quelle di buio. Lei era un animale notturno, una civetta nel senso più esteso del termine e adorava l’oscurità che le permetteva di uscire di casa senza essere vista, ma amava anche il caldo, i vestiti succinti, la pelle esposta alla carezza della luna e trovava illogico, perfino ingiusto che le ore di luce e di buio non fossero equamente suddivise nell’arco delle stagioni. Non capiva il perché di una simile discriminazione, l’ipotesi di Loris che tutto dipendesse da una specie di asse inclinato che traava la Terra come uno stecchino infilzato nel burro, era suggestiva ma decisamente improbabile…, e poi non spiegava il lento e continuo peggioramento del fenomeno, qualche anno prima le cose andavano meglio, c’era più armonia tra il giorno e la notte ed era più facile divertirsi, lei non aveva una grande memoria, ma di questo era sicura.
A differenza di Loris, Loretta rammentava poco del suo ato, i suoi ricordi più lontani risalivano alla tarda adolescenza, al periodo successivo la morte di Renza, di quello che era successo prima non sapeva niente e nemmeno se ne curava. Nella sua presunzione lei si vedeva come un corpo celeste, un astro bellissimo, privo di madre, di padre, perfino di un’infanzia da ricordare, lei era una stella e come tale era nata già grande, quando di lei si era cominciata a vedere la luce. Quello che era accaduto nei suoi primi anni di vita poteva lasciarlo a Loris che si tormentava nell’immaginare cosa avrebbe potuto essere se non fosse successo questo o quest’altro, se andava avanti così si sarebbe bevuto il cervello, ne era sicura, un po’ pazzo lo era sempre stato, ma da qualche tempo sembrava decisamente peggiorato. Era sempre teso, intrattabile, mai che si rilassasse un minuto, che ridesse o si divertisse, mai che scoe o pensasse al sesso, che s’innamorasse di qualcuno o qualcuna come succedeva a tutta la gente del mondo. In questo lei non gli somigliava per niente, era piena di vita e dormiva di giorno per uscire di notte, era fatta così e non intendeva cambiare, amava vivere e divertirsi, a volte era un po’ sventata e si spingeva in situazioni strane e pericolose, ma era brava, veloce e sempre in grado di cavarsela bene, in più di un’occasione era stata lei a trarre Loris d’impaccio. Di lui apprezzava ben poco, era troppo metodico e assillante, pieno di paure e di fissazioni che rovinavano la vita a entrambi, l’ossessione per la pulizia e per la ginnastica potevano anche are, ma quella per i ragni era a dir poco eccessiva. Erano diversi, molto diversi. Loretta non si lavava mai, eppure era sempre pulita, il suo sudore non puzzava e la sua pelle era fresca come appena uscita dalla doccia, non amava trastullarsi con gli attrezzi della palestra, non mangiava e provava ribrezzo per ragni e tarantole, ma non certo terrore. E poi lei amava fare sesso, le piaceva toccare e farsi toccare, e non c’era gesto o rituale per quanto strano ed eccessivo, che le sembrasse impraticabile. Non aveva pregiudizi né sulle diverse tecniche amatorie, né sui soggetti con cui condividerle, si rimproverava una certa predilezione per il mondo femminile, per le ragazze dagli occhi ammiccanti e dal sorriso malizioso, ma le piacevano anche i bei ragazzi, quelli alti e magri con la peluria del mento che stentava a crescere. Loretta s’avvicinò alla porta in punta di piedi, doveva far piano per non svegliare Loris, quella sera non voleva restare chiusa in casa, doveva uscire o sarebbe
impazzita, era un’eternità che non sentiva la carezza della luna sulla pelle… Scostò il battente e subito le stelle entrarono nella stanza, l’aria era fresca e sapeva di fieno, trasse un respiro profondo e la sua mente si perse in rivoli di fuoco, mancava poco a Ferragosto e lei era pronta a vivere una notte indimenticabile. Uscì sul poggiolo e si chiuse l’uscio alle spalle, stava per imboccare le scale quando un brivido improvviso le gelò il sangue, mio Dio, no!, sentì i peli delle braccia alzarsi all’unisono e i capelli sulla nuca premere contro la parrucca, mosse un o, poi due, tre, doveva fare in fretta, raggiungere il cancello prima che fosse troppo tardi… Ma era già troppo tardi e il cancello stava ridendo di lei assieme al cortile, all’orto, perfino alla luna.
Io fui destinato al campo di Arbe, o di Rab come lo chiamavamo in croato, che si trovava sull’omonima isola, quando siamo arrivati era appena stato aperto, ma le tende erano vecchie come la paglia su cui dormivamo, doveva ospitare seimila internati, ma nei suoi quattordici mesi di vita ne alloggiò quindicimila, per lo più sloveni, croati ed ebrei, guardati a vista dai soldati e dai carabinieri, lì vi trovarono la morte più di millecinquecento persone.
Capitolo settimo
Quel mattino Lupo si svegliò stanco e irritato. La notte era stata un lungo susseguirsi di sogni inquieti, si era destato più volte e più volte si era addormentato nella consapevolezza di aver commesso un errore, aveva cancellato i messaggi registrati sulla segreteria di un morto ammazzato e non si sentiva per niente tranquillo. Poco dopo l’alba aveva avvertito un rumore provenire dal cortile e aveva pensato ad Anna che forse era tornata per recuperare la macchina, poi si era ricordato del cane che aveva chiuso fuori dalla porta e si era rimesso a dormire per l’ultimo sonno decente della nottata. Quando aprì gli occhi non era più solo in casa, un uomo e una donna gli stavano davanti e lo guardavano con un’espressione per niente imbarazzata, erano entrambi sui quarant’anni, lui era basso e leggermente panciuto, con due strisce di capelli ai lati della testa calva e il viso tondo del bambino da svezzare, lei era magra, alta coi tacchi che ne accentuavano la statura e un volto grazioso contornato da capelli corti di un nero corvino. Entrambi portavano gli occhiali scuri, una camicia candida e dei pantaloni blu notte, sembravano fatti apposta per stare assieme. Lupo li osservò stupito, non capiva chi fossero, poi si mise seduto e cercò di dire qualcosa, ma la saliva gli andò di traverso e gli provocò un eccesso di tosse, quando si riprese alzò lo sguardo e vide il maresciallo Saluzzo entrare dalla porta e dirigersi verso di lui. - Buon giorno, signor Lupo, scusi l’intrusione ma i colleghi della polizia sono appena arrivati da Milano e avevano urgenza d’incontrarla. Lupo si guardò attorno stupito, non capiva cosa stesse succedendo per cui decise di rimanere in silenzio, scese dal letto e s’infilò i jeans, poi si sedette su una sedia e attese. Fu il maresciallo a riprendere la parola, era imbarazzato, sembrava sulle spine. - Le presento gli investigatori Bigazzi e Salemi, la signora Lucia Bigazzi e il signor Franco Salemi, volevano farle alcune domande, l’ora forse non è opportuna, ma…
- E di questo ci scusiamo, purtroppo abbiamo una certa fretta, per cui ci perdonerà se veniamo subito al sodo – s’intromise la donna che sembrava infastidita da tanta buona educazione, il suo collega intanto si era avvicinato alla scrivania e si era messo a sfogliare il quadernetto d’appunti che vi era appoggiato sopra – ci risulta che lei sia il signor Wolfgang Grimaldi, il nome Lupo ci torna del tutto nuovo. - Forse perché non sono schedato – disse lui sforzandosi di rimanere calmo. - Questo lo sapevamo già, sono altri i dubbi che abbiamo su di lei – l’uomo pareva irritato. - Per esempio? – Lupo guardò l’orologio, erano le otto ate da poco, questo voleva dire che erano partiti da Milano attorno alle sei, era preoccupato. - Per esempio ci risulta che lei non sia sposato e questo non è quanto si dice in giro. - Io non ho mai detto di essere sposato – Lupo alzò le spalle irritato, avrebbe preferito mantenere un tono più colloquiale, ma non ne era capace. - Bene, quindi Anna Mascagni non è sua moglie – riprese la Bigazzi zittendo con un gesto il maresciallo che voleva intervenire. - Esatto. - E allora, scusi, cos’è per lei la signora? – continuò ostinata. - Perché lo domanda a me?, non ha trovato niente nei suoi schedari? - La prego di non rendere la faccenda più difficile di quanto già sia – s’intromise l’uomo in tono sbrigativo – ci sono molte cose che non ci piacciono di lei, per primo il suo nome. - Condivido appieno la sua opinione, anche lei non mi piace e la sua collega ancor meno – Lupo parlò piano scandendo le parole, sembrava tranquillo, ma non lo era affatto – non ho ancora visto i vostri documenti e nemmeno ho capito come abbiate fatto a entrare, non ricordo di aver dato alcuna chiave al qui presente maresciallo, quindi…
- La porta era aperta e noi abbiamo bussato senza ricevere risposta. - Questo è da vedere, comunque tornate fuori e riprovateci, poi cercheremo di riprendere il discorso. I poliziotti si guardarono in silenzio, scossero la testa e abbozzarono un sorriso, poi alzarono le spalle e uscirono senza una parola, l’attimo dopo rientrarono con un ghigno ironico sulle labbra e il tesserino di servizio ben in vista. Il maresciallo era rimasto al suo posto, ingoiava saliva e si sfregava le mani sui pantaloni, era turbato. - Come vede, siamo entrati perché c’era la porta aperta e lei non ha risposto quando l’abbiamo chiamata, ci ha sentiti vero?, abbiamo urlato il suo nome più volte. Lupo decise di non compromettere ulteriormente la sua posizione, finse di non avvertire il sarcasmo nella voce dell’uomo e scoppiò a ridere, poi si spostò in cucina per preparare il caffè, prese la moka grande, quella da sei che sembrava nuova di zecca, e fece accomodare i suoi ospiti attorno al tavolo, solo il maresciallo rimase in piedi. Quando cominciò a parlare era di nuovo calmo, sfoderò il suo sorriso migliore e le sue innate capacità comunicative, si rivolse essenzialmente alla donna che sembrava più vulnerabile e la trovò attenta e interessata, le spiegò che il suo nome era la semplificazione italiana di Wolfgang, Wolf in tedesco voleva dire lupo, poi le raccontò del Brennero e infine di Anna, sua amica e compagna da più di due anni, una moglie di fatto se non di diritto. Il maresciallo Saluzzo scosse la testa con riprovazione, le coppie conviventi non ricevevano la sua simpatia e ci teneva che fosse chiaro, i poliziotti, invece, non si concessero nemmeno uno sguardo d’intesa, loro erano gente di città e avevano visto ben altro, si limitarono a chiedere qualche informazione su come e quando si erano conosciuti, a loro non risultava che Anna Mascagni avesse un rapporto fisso con qualcuno e questo li trovava impreparati. Lupo si strinse nelle spalle e parlò del bisogno di privacy di molte persone famose, Anna ne era addirittura ossessionata, poi ò al contrattacco e chiese il motivo della loro visita, lo fece in tono sicuro nella speranza di ricevere una risposta chiara e precisa. Rimase deluso, dopo qualche istante di silenzio la donna accennò a un controllo di routine su cui non valeva la pena di soffermarsi,
avevano bisogno di parlare con la signora Mascagni, di farle un paio di domande, punto e basta, volevano sapere dove e quando potevano trovarla. Lui decise di non insistere, in fondo conosceva già la ragione della loro presenza e non aveva senso impuntarsi, così si scusò di non poterli aiutare e diede spazio alla fantasia, disse che Anna era all’estero per lavoro e che la sera prima lo aveva chiamato dal Madagascar dove era praticamente irreperibile, girava da un posto all’altro dell’isola senza un recapito fisso e aveva perso il cellulare durante la traversata, una vera sfortuna. Quando alzò lo sguardo vide il maresciallo arsi il fazzoletto sulla fronte, era in un bagno di sudore, gli altri sembravano sulle spine e lui era contento. Si fermarono pochi minuti, i due poliziotti non bevvero il caffè e nemmeno si finsero dispiaciuti per il fastidio arrecato, il carabiniere gli porse la mano e borbottò qualcosa, un attimo ed erano già fuori. Lupo dalla finestra li vide incamminarsi verso la strada, erano arrivati a piedi e questo voleva dire che contavano sulla sorpresa, la cosa gli parve esagerata, stava per tornare in cucina quando scorse la donna prendere il maresciallo sottobraccio e spingerlo in avanti parlandogli fitto, pareva volerlo allontanare dal collega che intanto si tastava la giacca e recitava la scena di chi aveva perso qualcosa, era un pessimo attore. Salemi rientrò in casa con un sorriso imbarazzato sulle labbra, il primo del loro breve incontro, s’infilò una mano in tasca provocando in Lupo un brivido di paura, farfugliò una frase incomprensibile e gli allungò un album fotografico, di quelli piccoli di plastica che raccoglievano le istantanee a due a due, dorso contro dorso. Lupo lo prese in mano senza capire. - Dia un’occhiata e mi dica cosa ne pensa. - Cosa dovrei pensarne? – chiese Lupo sfogliandolo, c’erano vecchie foto in bianco e nero, paesaggi, momenti familiari, vacanze al mare, niente di speciale – che significa? - Niente, riconosce qualcuno? - Nessuno, dovrei? - Quando ha visto l’ultima volta il signor Ruggeri? – Lupo avvertì un senso di disagio, il poliziotto non metteva neanche in dubbio che conoscesse l’amico di Anna, così tornò a guardare le fotografie con maggiore interesse.
- Mesi fa, forse l’anno scorso, è lui il bambino nelle foto? – si riferiva a un paio di immagini dove si vedeva un biondino con degli adulti e un cane. - Lei che ne dice? - Non lo so, dove le avete trovate? - Cosa? - Le foto – chiese restituendo l’album. - È sicuro di non averle mai viste?, di non riconoscervi nessuno? – solo domande, nessuna risposta. - Sicuro. - Bene, allora la saluto – disse l’ispettore girandogli le spalle e lasciandolo di nuovo solo. Lupo avrebbe voluto raggiungerlo e prenderlo a schiaffi, raramente aveva incontrato una persona più sgradevole, ma lasciò perdere, era contento che se ne fosse andato. Attese qualche minuto, poi uscì in cortile, fece il giro della casa e raggiunse la porta del garage, era chiusa e pressoché irraggiungibile con la sua Rav parcheggiata davanti, alzò lo sguardo e vide qualcosa di bianco correre tra gli olivi, si girò di scatto e rientrò in casa con o dignitoso ma decisamente sostenuto. Si fece una doccia pensando al corpo putrefatto del Fioravanti, sembrava che il maresciallo se ne fosse dimenticato, ma a lui era bastato rivedere il pelo candido del suo montagna perché gli tornasse in mente. Prese in mano gli appunti che avevano attirato l’attenzione del poliziotto e cominciò a riordinarli. Se qualcuno li avesse letti con cura, avrebbe potuto riconoscervi l’immagine di una donna del tutto simile ad Anna, stessi occhi, stessi capelli, stesso tutto... Lesse qualche riga priva di senso, era distratto, prese il telefono e chiamò il maresciallo, voleva chiedergli come avesse fatto la polizia di Milano ad arrivare fino a lui, aspettò in silenzio e quando la linea tornò libera ne fu quasi contento. Scrisse qualcosa. Ti ho dato un angolo del mio cuore,
e ti sei presa il fegato e la milza, Dio, che orrore! Si mise a ridere, gettò la matita sul tavolo, prese un libro e si sdraiò sul divano. Sentì il cane abbaiare in cortile e per un attimo tornò ad agitarsi, sperava se ne andasse in fretta perché intendeva uscire e non gli piaceva l’idea di scavalcare la finestra. Aveva già fatto un programma dettagliato per le prossime ore, voleva raggiungere Beatrice per raccontarle quanto era successo, poi cercare il maresciallo per chiarire le questioni rimaste in sospeso e infine tornare a casa, chiudere porte e finestre, distrarre il montagna e ripartire per il Brennero, amen. Scrisse qualcosa, lo rilesse, strappò il foglio e si rimise a scrivere. Credevo fossi un giglio delicato, un germoglio, un dono inaspettato, e invece, ahimè, che male, ahimè, che guaio, scoprire in te soltanto il macellaio. Tornò a ridere, era una vena nuova, diversa dall’umore tetro dei suoi soliti versi, buttò il quadernetto sulla scrivania e chiuse gli occhi per pensare. Gli tornò in mente una delle foto che gli aveva mostrato il poliziotto, un battesimo di qualche anno prima, c’erano fiori, ceri e addobbi strani, un bambino piccolo con una cuffietta in testa era conteso tra una donna e un uomo con dei grossi baffi grigi. In un’altra si vedevano delle case a strapiombo sul mare, sullo sfondo c’era una chiesa sfuocata con il campanile alto e sottile, in primo piano un bambino di forse due o tre anni teneva stretto al petto un cane con una stella bianca in mezzo agli occhi. L’immagine del cane lo riportò al cupo abbaiare che proveniva da fuori, fece per alzarsi, ma subito tornò il silenzio e lui rimase sdraiato a rincorrere qualche verso che lo fe ridere ancora una volta. Quando sentì dei i sulla veranda, s’infilò le scarpe e si tirò in piedi, avrebbe voluto fare di più, ma non ne ebbe il tempo, perché all’improvviso la porta si spalancò per fare entrare due
uomini che non aveva mai visto, non sembravano poliziotti, erano orientali. Lupo li guardò stupito, incapace di capire chi fossero i nuovi arrivati, uno era basso e grasso, con rotoli di adipe che gli segnavano la maglietta, aveva i capelli castani, diritti e radi che sembravano incollati alla testa, sudava copiosamente e teneva le mani strette a pugno, non era armato, ma dava l’impressione di esserlo. Pure l’altro era basso, ma più magro, con le gambe arcuate da fantino e i capelli scuri, girava tra le dita un coltello a lama fissa come neanche i delinquenti dei telefilm facevano più, pareva un po’ stupido. La pelle olivastra, il naso minuto e gli occhi tagliati sottili e piegati all’insù, li rendevano simili, poteva essere solo una questione di razza, ma non lo era, oltre che malviventi della peggior specie, quei due erano anche cugini. Questo però Lupo non poteva saperlo, al momento i due ragazzi gli sembrarono dei giapponesi senza macchina fotografica capitati lì per caso o forse per errore, nient’altro, avrebbe voluto fare qualcosa, chiedere chi fossero, cosa volessero, mandarli via, ma non ne fu capace perché un pugno pesante come un macigno lo centrò al petto, gli tolse il fiato e lo mandò a sbattere contro la parete. Il suo primo pensiero fu per il suo povero stomaco malandato, il secondo non riuscì a formularlo, perché una gragnola di colpi lo investì come una bufera, lo buttò a terra, gli tolse il fiato e anche la lucidità. Lupo non svenne, ma ci vollero lunghi minuti di pena e di dolore prima che tornasse pienamente alla ragione, quando aprì gli occhi si vide appoggiato con la schiena al muro, uno dei due orientali gli stava accanto, quello smilzo che ora non gli sembrava affatto stupido, gli stava chiedendo qualcosa e lui avrebbe voluto rispondergli, ma aveva un nido di vespe in testa e non capiva una parola di quello che gli stava dicendo, niente. Spostò lo sguardo sull’altro ragazzo, quello più grasso che pareva preso da un cieco furore per ogni cosa che gli capitava a tiro, frugava, rompeva, calpestava, il pavimento era cosparso di libri e di cocci, le mensole vuote, il tavolo rovesciato e la poltrona pericolosamente inclinata su un fianco. Lupo stava male, si sentiva ferito nell’animo oltre che nel corpo e aveva la sensazione di assistere a una scena già vista, ogni volta che s’avvicinava al mondo di Anna, si scontrava con qualche pazzo che lo picchiava e gli distruggeva la casa, due anni prima era stato il Ruggeri, ora i giapponesi, ne aveva abbastanza. Fece per alzarsi, ma uno schiaffo lo ributtò all’indietro, si sentiva solo e impotente ed era convinto che senza un bastone, un coltello o
magari una pistola non avrebbe potuto salvarsi. Lupo non era di indole bellicosa, non lo era mai stato, da ragazzino non era mai il primo che iniziava una lite, lui si limitava a difendersi e usava i pugni solo quando non poteva farne a meno, di solito se la cavava meglio con le parole e spesso si rifugiava nella fantasia dove il Vendicatore Nero riusciva sempre a toglierlo dai guai. Anche adesso avrebbe voluto trasformarsi nello Schwarzrächer di quando era bambino, un eroe stupendo che univa in sé le doti di Zorro e di Tarzan, che era bello, forte e coraggioso, amato dagli oppressi, adorato dalle ragazze e temuto dai truffatori di tutto il mondo, da quelli austriaci e da quelli italiani, forse anche da quelli giapponesi. Tornò a guardare l’uomo che gli stava a fianco, sembrava stanco del suo silenzio, aveva l’alito che puzzava di alcool e gli occhi più stretti di una fessura, imprecava in una lingua che pareva più slavo che giapponese, urlava, con una mano lo teneva per il collo e con l’altra lo minacciava con il coltello. Lupo non sapeva che fare, chiuse gli occhi e trattenne il fiato aspettandosi il peggio. Non successe nulla, quando tornò a respirare, il ragazzo lasciò il posto al suo compare che in un italiano incerto ma ben scandito, gli spiegò quello che volevano, stavano cercando le fotografie di un vecchio, erano sicuri che fossero in casa e se non saltavano fuori gli avrebbero spezzato le ossa a una a una. Era la seconda volta in poche ore che Lupo aveva a che fare con delle fotografie e la cosa gli sembrava alquanto strana, cercò di pensare a quelle che gli aveva mostrato Salemi, ricordava un vecchio, forse due… Si chiese che senso avesse collegare la polizia di Milano a quei delinquenti, ma non riuscì a darsi una risposta perché il ragazzo gli assestò un pugno all’altezza della milza che lo riportò al presente, si morse le labbra e chiuse gli occhi, quando li riaprì aveva davanti una scatola da scarpe piena a metà di istantanee. - Cerca il vecchio – gli disse l’uomo misurando le parole. - Quale vecchio? - Cerca! – incalzò lui minaccioso. Lupo si mise a sedere, si ò le mani sulla fronte e cominciò a sfogliare le fotografie una per una, faceva piano per riprendere fiato e guadagnare tempo, non aveva mai visto quelle immagini eppure non aveva scelta, doveva trovare un vecchio, uno che andasse bene a loro e che allo stesso tempo non fosse
facilmente identificabile perché non intendeva mettere nei guai nessuno. Assunse un atteggiamento pensieroso, di ricerca, la maggior parte delle fotografie era della casa, prima, durante e dopo i lavori, ma c’era anche Anna con un cucciolo appena nato, con gente del paese, durante una festa popolare e seduta su un tappeto circondata dalle sue bambole. E c’era pure lui che stava bevendo qualcosa da una tazza che gli copriva a metà il viso, era in un locale di Milano, ma non ricordava quale. Provò a girare il cartoncino alla ricerca di un appunto, ma una pedata lo riportò alla realtà, aveva quasi finito e cominciava a temere il peggio quando finalmente trovò quello che gli serviva. In una busta marrone c’erano quattro istantanee prese di notte con della gente che mangiava da scodelle di plastica fumanti, in una si vedeva chiaramente il volto del Fioravanti bruciato dal flash troppo ravvicinato, aveva un berretto di feltro in testa e un grembiule col muso di un maiale ricamato sopra, sembrava più brutto e più vecchio di come lo ricordava, aveva i baffi. Lupo porse la fotografia al suo aguzzino che la guardò, l’infilò in tasca e gl’intimò di continuare, così non gli restò che riprendere tutto daccapo. Il geometra era uno dei soggetti preferiti da Anna che lo aveva ritratto in numerose pose durante i lavori alla casa, non era un uomo particolarmente affascinante, ma forse lei la pensava diversamente…, continuò a cercare finché trovò un altro Fioravanti che faceva al caso suo, aveva i capelli bianchi e si appoggiava a un bastone, al suo fianco c’era Anna con una parrucca grigia e un vestito scuro, sullo sfondo si vedeva la gamba di un arlecchino e questo la diceva lunga sul tenore della fotografia. Lupo non disse niente e la porse all’uomo che gli stava accanto. - Ce ne sono altre? – chiese l’orientale mettendola assieme all’altra. - No, sono le uniche – rispose Lupo appoggiando le ultime immagini sul fondo della scatola. - Speriamo che sia vero, hai un fax? - Un cosa? - Un telefax, qualcosa per spedire lontano queste foto – disse lui spazientito. - No, qui non c’è nemmeno il telefono, dove devi mandarle?
- Non sono affari tuoi – ribatté secco – ora io vado in paese a cercare un fax, spero per te che il vecchio delle fotografie sia quello giusto… - Altrimenti? - Abbiamo due taniche di benzina nella macchina – disse l’uomo abbozzando un sorriso. Lupo rabbrividì al pensiero di quello che sarebbe successo di lì a poco, era nei guai e doveva fare qualcosa se non voleva bruciare assieme alla casa. Aspettò che il ragazzo fosse uscito, poi si lanciò contro le ginocchia dell’altro, ci mise tutta la forza che aveva e lo mandò a sbattere contro la poltrona che perse definitivamente l’equilibrio e rovinò a terra. Bastò questo per dargli il coraggio di proseguire, sentiva il suo avversario imprecare, ma lui non se ne curava, ormai non era più il bravo professore di tedesco con vane ambizioni letterarie, di colpo si era trasformato nel Rächer mascherato dei suoi sogni e niente più gli faceva paura. Si buttò contro l’uomo che stava cercando di rialzarsi e gli sferrò un pugno sul naso, era pronto a colpire un’altra volta, quando udì dei i frettolosi alle sue spalle, si girò e fece in tempo a vedere l’altro orientale piombargli addosso, per un attimo riuscì a cogliere la somiglianza che c’era tra i due, stessi occhi, stessa pelle, stesso naso…, poi sentì qualcosa calargli sulla testa e precipitò nel nulla più assoluto. Rimase svenuto pochi istanti, quando si riprese la scena davanti a lui era di nuovo cambiata, la stanza era nel disordine di prima, ma non c’erano più i giapponesi pronti a picchiarlo o a dargli fuoco, al loro posto c’era Beatrice che gli premeva uno straccio umido sulla fronte, poco più in là un uomo era accucciato sul montagna che guaiva mestamente, lo stava tastando con dita esperte, forse era un veterinario... Lupo si tirò su di scatto, il cane percepì il suo movimento, socchiuse gli occhi e scrollò il pelo come per scacciare gli ultimi residui di paura, aprì la bocca per abbaiare, poi cambiò idea e gli si buttò addosso con un’enfasi che lo sconvolse ancor più delle attenzioni ricevute dagli orientali. Pochi minuti e le cose tornarono nei loro giusti ranghi, al montagna venne offerta dell’acqua e si calmò in un attimo, aveva un bernoccolo in testa, ma sembrava non fosse niente di grave, anche le contusioni di Lupo non destavano preoccupazioni, un velo di arnica in crema, una borsa con del ghiaccio e una tazza di caffè lungo e bollente erano più che sufficienti per rimetterlo in sesto,
parola di Alfredo, un medico specializzato in psichiatria, ma pur sempre medico. Seguirono le presentazioni e le rispettive spiegazioni, poi si sedettero attorno a un tavolo e assieme provarono ad analizzare la situazione che a quel punto pareva alquanto intricata, ognuno diceva la sua cercando collegamenti che avessero senso, anche il cane, a modo suo, fece la sua parte abbaiando ogni qual volta Lupo tentava di allontanarlo, in media ogni cinque minuti, quindi. Parlarono e parlarono senza arrivare ad alcuna conclusione. L’intera vicenda aveva dei punti molto saldi, chiari finché rimanevano separati, confusi non appena si cercava di legarli assieme. Era indubbio che Anna e il Fioravanti fossero coinvolti in qualcosa di losco, il fatto sembrava inconfutabile anche senza tirare in ballo la droga, lei era scappata da Milano lasciandosi alle spalle un moribondo, aveva chiesto aiuto a Lupo, poi si era nascosta lasciando lui in balia di chi la stava cercando. Nel frattempo il geometra aveva telefonato a Beatrice e l’aveva fatta rientrare in Italia, forse voleva metterla al corrente di quanto stava succedendo a casa sua o forse no, in ogni caso non aveva fatto in tempo a parlarle perché era stato ucciso dagli orientali che cercavano Anna e che più tardi avevano aggredito sia Beatrice che Lupo e il cane. I fatti sembravano chiari, ma non lo erano per niente, rimanevano in piedi troppi interrogativi a cui non si poteva rispondere, non si capiva, per esempio, il comportamento degli investigatori di Milano e nemmeno quello degli orientali che non avevano riconosciuto nelle fotografie del Fioravanti l’uomo che avevano sgozzato qualche giorno prima. L’intera vicenda era piena di dubbi, di vicoli ciechi che non portavano da nessuna parte, dopo due ore di discussione e tre tazze di caffè, sembrava che l’unica traccia valida, si trovasse a casa di Beatrice, nei locali a piano terra che lei non riusciva ad aprire. Decisero di andare a vedere, probabilmente era tempo perso, ma a quel punto tutti e tre sentivano l’esigenza di fare qualcosa e quando raggiunsero l’automobile di Lupo erano di buon umore, se non contenti, almeno eccitati. Col senno di poi sarebbe stato meglio che, invece di recarsi nella piazzetta poco più sotto, avessero raggiunto la vicina caserma dei carabinieri, lì avrebbero potuto esporre i loro dubbi, le loro ipotesi, denunciare l’aggressione dei due orientali e chiedere l’intervento competente delle forze dell’ordine, ma questo, purtroppo, non venne in mente a nessuno, neanche al cane.
Ad Alfredo bastò un cacciavite per aprire la porta tanto agognata, la serratura era nuova e ben oliata, cambiata di recente, nelle due stanze non trovarono niente di sospetto, oltre alla solita muffa, c’erano tre sedie, una scrivania, un divano, una libreria, un fornello a legna e un armadio con gli indumenti che Beatrice vi aveva lasciato. Tutto era pulito, fin troppo, l’unico residuo di sporco, forse di talco o farina, era uno strato bianco di polvere trovato in un cassetto. Lupo non disse niente, ma si sentì rizzare i capelli in testa e avrebbe voluto essere un tecnico della scientifica o uno spacciatore incallito per capire con uno sguardo o un semplice aggio della lingua, cos’era in realtà quella roba chiara, da parte sua non aveva dubbi e se non disse niente fu solo perché si vergognava di aver nascosto ai suoi amici i vizi più segreti e odiosi di Anna. Non trovarono altro, la cosa più strana in quelle due stanze era che non ci fosse proprio niente fuori posto, erano fin troppo in ordine e questo poteva voler dire tutto e l’opposto di tutto. Forse le loro congetture erano sbagliate, addirittura ridicole, o forse qualcuno aveva cambiato la serratura e teneva pulito il posto perché lo usava regolarmente. Decisero di concedersi ancora del tempo prima di abbandonare quella pista, per un paio di giorni avrebbero sorvegliato quelle stanze nel modo più accurato possibile, vi avrebbero vissuto dentro a turno, così se fosse successo qualcosa se ne sarebbero accorti. Mangiarono un panino al piano di sopra, poi Lupo si fece prestare carta e penna e tornò dabbasso con l’intento di scrivere. Non cominciò nemmeno, i pensieri che gli frullavano in testa viaggiavano in un’unica direzione, non riusciva a spiegarsi perché Anna gli avesse lasciato quel messaggio in segreteria, perché avesse chiamato proprio lui, si chiedeva dove si trovasse e, suo malgrado, sentiva una fitta al cuore al pensiero che le fosse successo qualcosa. Di nuovo, come due anni prima, provava ansia nei suoi confronti e non ne era affatto contento. A un certo punto chiuse gli occhi, la giornata era stata pesante e lui si sentiva stanco, pensava di concedersi un attimo di riposo e invece piombò in un sonno talmente profondo, che non avrebbe sentito avvicinarsi nessun cinese, giapponese o filippino che fosse. Alfredo lo svegliò al tramonto con la prospettiva di un piatto con tonno, fagioli e formaggio che l’aspettava di sopra, lui avrebbe atteso l’alba leggendo L’assenza dell’assenzio di Pinketts trovato alle Marogne, si era procurato una minuscola torcia elettrica da applicare direttamente al libro, con le imposte accostate nessuno all’esterno avrebbe visto la luce. Nel caso si fosse addormentato contava sul suo sonno leggero,
conoscendosi era sicuro di svegliarsi al solo schiudersi dell’uscio o al primo gemito della serratura. Di certo Alfredo aveva ragione nel credere che se qualche malintenzionato fosse entrato dalla porta che gli stava di fronte, lui si sarebbe svegliato immediatamente anche se si fosse trovato nel migliore dei suoi sogni. Se però, poco prima dell’alba, qualcuno fosse salito da Beatrice, l’avesse narcotizzata e portata fuori casa avvolta in un lenzuolo e appoggiata direttamente su una spalla, lui difficilmente se ne sarebbe accorto, avrebbe continuato a dormire sereno in attesa del dolce risveglio che gli era stato promesso, caffè con brioche e forse qualcosa di meglio. Ma di questo al momento nessuno sapeva niente, neanche Lupo poteva immaginare quello che sarebbe successo di lì a poche ore a Beatrice e men che meno a lui stesso. Se fosse tornato a casa subito, forse la serata avrebbe preso una piega diversa, per certi versi migliore, ma in piazzetta aveva visto la camionetta dei carabinieri e lui non aveva resistito all’impulso di entrare nel bar per scambiare qualche chiacchiera col buon maresciallo. Aveva rimandato il rientro di un’ora, forse meno, in cambio aveva saputo poco, quasi niente, unica consolazione della serata era la scomparsa del cane, che forse, finalmente, aveva trovato la giusta via di casa. Come sempre il maresciallo stava giocando a carte, aveva un re di bastoni, un asso e un tre di spade, era soddisfatto, ma meno del previsto e quando spostando lo sguardo incrociò quello serio di Lupo, saggiamente inventò una scusa e s’alzò in piedi. Sembrava contento di vederlo, lo salutò con simpatia, poi lo prese sotto braccio e lo condusse sul terrazzino del locale per spiegargli quello che in fondo neanche lui aveva capito. Dopo la brutta faccenda del Fioravanti era stato costretto a chiedere informazioni su di lui un po’ in giro, non doveva offendersi, era una prassi comune considerato che era stato lui a rinvenire il corpo del povero geometra. I colleghi milanesi avevano richiamato quasi subito e lì era nato un equivoco legato al suo stato civile, che fosse celibe o coniugato sembrava del tutto irrilevante, quando però avevano saputo il nome di quella che tutti in paese consideravano sua moglie, la signora Anna Mascagni, avevano mandato via fax una sua fotografia e avevano richiesto una veloce conferma. Alla fine tutto sembrava in ordine e lui era andato a letto a ripensare al povero Fioravanti che era stato sgozzato ed evirato con una ferocia inaudita.
Il mattino dopo stava facendo colazione quando erano arrivati i due investigatori con la ferma intenzione di recarsi alle Marogne da soli, volevano il suo indirizzo e nessuno tra i piedi, ma lui non aveva ceduto, era una questione di principio e fino a prova contraria la polizia di Milano non aveva alcuna giurisdizione sul suo territorio. Ufficialmente erano venuti in paese per puro spirito di collaborazione, dicevano di volerlo aiutare, di essere lì perché nell’omicidio era coinvolta una persona che viveva nella loro città, ma non era vero, non erano affatto interessati al caso, non avevano chiesto alcun incartamento e lui s’era ben guardato dal dire qualcosa. E d’altra parte, c’era ben poco da dire, al momento l’inchiesta era a un punto morto, tutto era nelle mani dei colleghi del Ris di Parma e si doveva solo portare pazienza, tanta pazienza. Lupo si rimise in macchina con la testa confusa, in quella brutta storia c’erano tanti filoni d’indagine che sembravano autonomi, ma che non lo erano affatto, c’era da perderci la testa. Anna che spacciava droga a Trento e a Milano, che sparava e forse uccideva il suo amico, che lo richiamava in paese per lasciarlo in mano a degli assassini e intanto il geometra che veniva ammazzato, addirittura evirato… C’era troppa carne al fuoco per i suoi gusti, era meglio tornare a casa e mettersi calmi, non aveva sonno, ma avrebbe cercato di dormire per qualche ora o quantomeno di riposare. Così risalendo verso la parte alta del paese non si sentiva tranquillo e s’aspettava qualche brutta sorpresa, era pronto, per esempio, a vedersi piombare addosso un cane bianco e grosso come un vitello oppure due orientali armati di pugni e coltello. Questo s’aspettava parcheggiando la macchina in cortile, non di trovare l’intero piano terra della casa illuminato a giorno e un piccolo essere strano intento a scopare il pavimento della veranda. Lupo scese dall’auto con fare guardingo, durante la giornata aveva avuto fin troppe sorprese e non voleva sottovalutare niente, neanche la presenza di un folletto operoso. Si avvicinò alla figura lentamente per non spaventarla e fu contento quando s’accorse che non era un elfo, ma una piccola donna dall’aspetto bizzarro, tozza e vestita di scuro, coi capelli grigi, ricci e tagliati in modo irregolare, a vederla non sembrava una fata, ma per fortuna nemmeno una strega. Quasi avesse sentito i suoi pensieri, la donna alzò la testa di scatto, lo guardò dritto negli occhi e scosse le spalle, poi borbottò qualcosa, si girò ed entrò in casa sbattendo la porta.
Poi la sera dell’8 settembre abbiamo saputo dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati e nel campo è scoppiata un’euforia generale che ha coinvolto anche alcuni soldati, ci abbracciavamo e ballavamo convinti che la guerra fosse finita, non era così ma la gioia di quelle ore è stata l’emozione più intensa di tutta la mia vita.
Capitolo ottavo
Norma era arrivata alle Marogne nel tardo pomeriggio, non sapeva quando, non portava orologio e del tempo aveva una concezione molto approssimativa, legata alla posizione del sole nell’arco tra le montagne, più che allo scandirsi lento e ossessivo delle ore, comunque era quasi il tramonto quando si era lasciata il castello alle spalle e questo era quanto le bastava sapere. Aveva trovato la casa sporca e in disordine, piena di cianfrusaglie sparse un po’ ovunque e si era messa a pulire di buona lena pensando fosse opera di qualche diavolo burlone, non era contenta perché in paese aveva un mucchio di cose da fare e voleva tornare alle Falde prima dell’alba. Norma era una persona speciale, del tutto fuori del consueto. A prima vista la sua diversità pareva consistere essenzialmente nel suo aspetto esteriore, era piccola e snella, a malapena superava il metro e mezzo d’altezza e aveva il fisico di un’adolescente, aveva i capelli ricci e grigi che le partivano appena sopra le sopracciglia folte e scure e vestiva sempre allo stesso modo, pantaloni ampi e informi che si chiudevano immancabilmente nei calzini alle caviglie e maglie a girocollo con le maniche lunghe fino ai polsi. D’inverno vestiva uguale, solo più pesante, a volte sovrapponeva strati su strati e s’infilava in testa un berretto di lana che le copriva gran parte del viso, ma col freddo era difficile vederla, entrava in letargo come gli orsi che da qualche tempo ripopolavano le montagne e si chiudeva alle Falde fino al ritorno della bella stagione. I tratti somatici che saltavano all’occhio non appena la s’incontrava, non erano però gli unici a distinguerla dai comuni mortali, a questi si dovevano aggiungere anche quelli altrettanto consistenti che appartenevano alla sua affascinante personalità, i vezzi, i tic, i modi di fare e di muoversi che poco alla volta erano entrati a far parte della mitologia locale. In paese si diceva che Norma fosse una strega, una strega buona ma non per questo meno inquietante, che fosse muta e parlasse solo col diavolo e, cosa più importante di tutte, che fosse vecchia come il castello o forse di più. Ovviamente nessuno credeva a queste dicerie, in modo particolare non ci credevano i bambini che, abituati a maneggiare software di elevata tecnologia virtuale, dove maghi e streghe erano ben più temibili e interessanti di Norma,
non avevano tempo per prestare orecchio a simili fantasie. Questo però non voleva dire che non esistessero, le chiacchiere su di lei c’erano e a lungo andare avevano creato una serie di leggende che l’avevano resa famosa ben oltre i confini comunali. Un po’ di verità in tutto quello che si diceva su di lei, comunque, c’era. Per esempio, pur non essendo muta, era vero che parlava poco e che spesso lo faceva intonando nenie su diavoli malvagi privi di coda e corna, che godevano nel dare sofferenza e nel turbare l’equilibrio dell’universo, e si vedeva lontano un miglio che non era più giovane, anche se di sicuro non aveva l’età del castello come si voleva far credere. In realtà lei era nata una sessantina d’anni prima in una casa sperduta in mezzo ai campi che circondavano il paese, ma pochi lo sapevano e tra questi molti l’avevano dimenticato, come lei stessa del resto. Norma aveva scarsa memoria del suo ato, non aveva ricordi della madre che era morta di tetano quando lei era ancora piccola, e pochi anche del padre che l’aveva allevata con tanto amore e altrettanta rudezza, che s’intendeva più di vigne che di bambine da accudire e che le aveva dato comunque tutto quello che le poteva dare, quasi niente o forse tanto, a seconda dei punti di vista. Per esempio le aveva insegnato a coltivare la terra seguendo i ritmi della natura, a rispettare la vita nelle sue diverse forme, anche quelle meno manifeste, e l’aveva persino mandata a scuola, anche se con poco entusiasmo e ancor meno costanza, le tante malattie che avevano turbato la sua crescita, infatti, erano state sempre ben accolte, a volte ricercate e quando non c’erano, spesso addirittura inventate. Alla morte del padre Norma aveva lasciato il paese e si era ritirata alle Falde, nella casa di montagna della famiglia di ceppo aristocratico che possedeva anche il podere in cui lei fino ad allora aveva abitato. Al funerale il vecchio conte era pronto a offrirle un posto di domestica nella villa sul lago dove viveva, ma si era piegato davanti alla ferrea volontà della ragazza che a tutti i costi intendeva ritirarsi in una casa attaccata al costone della montagna, scomoda, vecchia e raggiungibile solo attraverso un sentiero tortuoso e ormai in disuso. Aveva accettato convinto di essere davanti a un desiderio di isolamento di breve durata, dovuto al lutto, al dolore di quella giovane strana che considerava un po’ come una lontana parente, una nipote sfortunata e povera da accudire o almeno aiutare, ma non era così e quando alcuni anni dopo aveva deciso di donarle quella casa scomoda e inutilizzabile, qualcuno della famiglia aveva storto il naso, ma non si era stupito e lo aveva lasciato fare.
Così in breve tempo di Norma si erano perse le tracce, pochi sapevano dov’era, nessuno la cercava e forse neanche la ricordava, e lei per anni aveva potuto vivere nell’isolamento più appagante, libera come gli animali della foresta, senza bambini che la prendessero in giro e adulti che la compiangessero. Quello, per lei, era stato un periodo molto importante della sua vita, un intervallo in cui aveva saputo ripulire la mente dagli affanni e risanare il cuore dal dolore e quando finalmente si era sentita pronta per scendere a valle, l’aveva fatto in punta di piedi, a piccoli i, trovando di riflesso nella gente un atteggiamento guardingo e curioso, non sempre positivo. E non poteva essere diversamente considerato il suo modo di vivere e di pensare. Così, poco alla volta, era diventata un elemento folcloristico, una persona strana e interessante, da prendere per il verso giusto e tenere alla larga, ma anche da valorizzare per quanto di meglio poteva offrire. Norma sapeva guarire con le erbe, non faceva magie e tanto meno stregonerie come qualcuno insisteva nel dire, era solo una brava erborista, capace di preparare pozioni salutari secondo antiche ricette che non le venivano dai diavoli spesso citati nei suoi brevi e inquietanti monologhi, ma da un compendio di erboristeria medica trovato nella biblioteca della sua casa in montagna. Alle Falde coltivava ortaggi, aromi ed erbe officinali, tutto quello che non trovava nel bosco lo seminava in una grande aiuola rivolta a oriente o addirittura in cantina. Aveva due capre, otto galline e due asini, un maschio e una femmina, si nutriva con la parsimonia del salutista, era vegetariana tutto l’anno, tranne in inverno quando si concedeva il parco consumo della sua riserva di carne cacciata in autunno e conservata secondo antiche pratiche naturali. Non aveva telefono, né corrente elettrica, nella legnaia a fianco della stalla c’era un generatore ancora funzionante che lei non degnava nemmeno di uno sguardo, l’acqua era un po’ ovunque, nel pozzo in cortile e nelle sorgenti sparse per il sentiero e attorno al prato. Dormiva su un’amaca disdegnando i molti letti che ammuffivano nelle stanze al piano superiore e si scaldava con la legna, la casa era grande, ma lei utilizzava solo i locali che un tempo erano stati della servitù a pianterreno, una cucina e una camera con annesso un gabinetto dotato di un rudimentale ma efficace scarico fognario. Le altre stanze preferiva tenerle chiuse, ogni tanto faceva un’incursione in biblioteca o nella sala del caminetto a fianco della cappella, per guardare dall’alto il panorama della valle o per far visita ad Anna quando c’era, ma si fermava poco, la sua vita si svolgeva per lo
più all’aperto dove il fruscio del vento riempiva i suoi silenzi e la sua solitudine. Alle Falde Norma non aveva ospiti, Anna era stata la prima e unica persona a viverle a fianco per lungo tempo, un’eccezione di cui non si era mai pentita. Con la bella stagione, ogni tanto capitava che un visitatore si spingesse fino alla casa che dalla valle sembrava appiccicata alla montagna, per lui c’era sempre qualcosa da bere, acqua di sorgente, la migliore, o da mangiare, brodo vegetale, denso e dolce come le carote dell’orto, e non mancavano nemmeno le pomate contro dolori, contusioni o eritemi e neanche la pinzetta per togliere le zecche che infestavano il sentiero, questo e niente di più. Norma preparava tisane, tinture madri e unguenti che poi lasciava in paese da Arturo per chi ne avesse bisogno, in cambio si portava via olio, pasta o qualche oggetto lasciato lì per lei, non vendeva i suoi prodotti e non li preparava su ordinazione, aveva dei tempi lunghi, troppo lunghi per rispondere ad esigenze di tipo medico. Per quasi quarant’anni era vissuta in piena solitudine, senza sentire la mancanza di un amore o di un’amicizia, non era arida, era solo diversa, poi aveva incontrato Anna, un uccellino ferito dalle pupille dilatate e dalla bava alla bocca, e se l’era portata a casa con l’intento di guarirla, dando così l’avvio ad un processo che avrebbe suscitato in lei un sentimento nuovo, forse di maternità tardiva o di sorellanza mai provata che a distanza di anni esisteva ancora. Anna era l’unica persona ad avere una stanza alle Falde, al piano di sopra, non troppo vicino all’intimità dell’amica, a conoscere i sentieri e le scorciatoie che si allargavano a raggiera lungo i pendii, a sapersi proteggere dalle zecche che presidiavano il cammino come un esercito in difesa delle postazioni più in alto. Aveva imparato tutto lentamente, tornando e ritornando nella vecchia casa padronale che l’aveva vista rinascere a nuova vita e nella quale, poco alla volta, si era creata uno spazio rigenerativo pieno del silenzio che in nessun altro posto al mondo riusciva a trovare. Allo stesso modo Norma vedeva nelle Marogne un luogo dove riposare le sue ossa nei viaggi che faceva giù in paese, non ci andava spesso, in media una volta ogni due settimane, dipendeva dal tempo, dalla luna e da un sacco di altri fattori che si potevano riassumere nel disagio che lei provava a contatto della cosiddetta civiltà, e quando poteva si fermava poco, di solito un paio di ore erano più che sufficienti per riprendere la via della montagna.
Anche quel giorno non aveva intenzione di fermarsi a lungo, doveva lasciare il tarassaco e il gelsomino da Arturo e proseguire fino alla casa di un amico di Anna, un geometra che sperava non le fe perdere troppo tempo, perché al ritorno voleva approfittare della luna piena per raccogliere la sassifraga gineprina, in cielo le nuvole erano rade e confidava di non confonderla con la tombeanensis e men che meno con la mutata. Così era ata alle Marogne con l’idea di trattenersi solo un momento, il tempo di bere un bicchiere d’acqua e liberare il frigorifero dalle cose che Anna vi aveva lasciato, contava di rimettersi in marcia in pochi minuti e questo era quanto avrebbe fatto se il diavolo non avesse deciso di metterci lo zampino. Già da lontano si era accorta che qualcosa non andava, le imposte erano aperte e l’aria spingeva le tende fin oltre il davanzale animando la casa di una presenza inquietante, aveva dovuto fare tre giri attorno al cortile e recitare ben sette giaculatorie, prima di risolversi ad entrare. All’interno aveva trovato un disordine incredibile, qualcosa che solo un demone era in grado di fare, era rimasta pensierosa a guardare quel disastro, poi aveva deciso che i suoi impegni potevano anche aspettare, contrariare il lavoro di un diavolo era una delle cose che le riusciva meglio, conosceva le formule, i rituali giusti ed era anche uno so. Così s’era messa con foga a riordinare, aveva cominciato dalla camera da letto, poi era ata al soggiorno e alla cucina e avrebbe proseguito anche all’esterno sulla veranda se all’improvviso qualcosa non l’avesse distratta. Aveva sentito il rumore di una macchina avvicinarsi, ma era troppo occupata per darsene pena, doveva finire le pulizie, raccogliere la salvia e l’alloro, bruciarli, spargere le ceneri fin oltre il cortile e… In un angolo del suo cervello le era sorto il dubbio che la figura alta e snella che era scesa dall’automobile e che le stava venendo incontro, fosse uno dei delinquenti di cui Anna le aveva parlato, ma non aveva gli occhi a mandorla ed era bello, talmente bello che era propensa a credere che fosse invece un diavolo in carne e ossa. Così non aveva perso tempo, era rientrata in casa e aveva intonato la terza strofa del rituale, doveva sbrigarsi, ne aveva ancora quattro. Giuggiole, lardo, poina e bro’ brusà, se te sei en diaol
va via de qua. Lupo sentì il fruscio della sua voce e rallentò il o indeciso, la donna era strana e teneva in mano una scopa, ma non sembrava particolarmente minacciosa, stava facendo quello che lui avrebbe dovuto fare già da ore e non poteva che ringraziarla. A scanso d’equivoci, comunque, attese qualche istante prima di muoversi, poi salì sulla veranda, spinse la porta ed entrò in casa. Dentro tutto era tornato in ordine, il pavimento era sgombro, la poltrona al suo posto e le mensole di nuovo piene, una meraviglia, aprì la bocca per dire qualcosa, poi vide una fotografia sotto il tavolo, si piegò per raccoglierla e un’intera montagna gli crollò addosso e lo mandò a sbattere contro la scrivania. Provò a rimettersi in piedi, ma aveva un’arpia aggrappata alle spalle e non ci riuscì, così si lasciò scivolare sul fianco spostando una sedia e creando di nuovo scompiglio. Giuggiole, lardo, poina e mortadella se te sei en diaol te coso en padela. Lupo non capiva cosa stava succedendo e nemmeno capiva il senso di quello che udiva, cercò di liberarsi con un colpo di reni e sentì le unghie della donna graffiargli il collo, emise un grugnito di dolore o forse di rabbia, poi con le mani allentò la morsa che gli stringeva la gola, piegò le ginocchia e si girò di scatto per scrollarsi il peso di dosso. Giuggiole, lardo, farina e minestrom, se te sei en diaol te copo col bastom. Ora la donna era rannicchiata in un angolo, Lupo la vide muovere la bocca in una nenia che gli fece rizzare i capelli in testa, se ne stava quieta, ma sembrava
pronta a saltargli di nuovo addosso, chiudeva e apriva gli occhi, li strizzava con forza quasi sperasse con quel gesto di vederlo sparire, la guardò meglio, pareva fuori di senno ma non pericolosa. Decise di provare a farsela amica, la giornata era stata lunga e stressante e non vedeva l’ora che fosse finita, si mise in piedi e s’avvicinò tenendo le mani bene in vista, voleva parlarle, solo parlarle, ma lei non glielo permise e con un balzo si tirò su, raggiunse la porta e uscì sulla veranda. Fu questione di un attimo, Lupo la rincorse, tese le braccia e fece appena in tempo ad afferrarla per la maglia, la strinse forte, poi la trascinò dentro e non trovando di meglio, la spinse nello stanzino delle scope e chiuse l’uscio tenendo ben ferma la maniglia. Dio che giornata!, si disse traendo un respiro profondo, la polizia, i giapponesi e ora anche quella pazza scatenata. Cercò di pensare, di ragionare su chi potesse essere quella donna, sperava fosse una conoscente di Anna venuta a prenderle qualcosa in casa, gli sembrava l’ipotesi più probabile e in una situazione normale avrebbe tentato un’altra volta di parlarle, di farsela amica, le avrebbe raccontato tutto e chiesto aiuto. Quella però non era una situazione normale, per niente, ed era impensabile che una simile fattucchiera gli dicesse spontaneamente dov’era Anna, così non rimaneva che giocare d’astuzia, fingere di lasciarla scappare per poi seguirla di nascosto, fuori non c’erano macchine e di certo non sarebbe andata distante. Abbandonò la maniglia e si spostò in cucina, smosse una sedia, aprì un cassetto e cominciò a tossire, poi vide qualcosa che lo distrasse, vicino al lavello era appoggiata una borsa di stoffa, dentro vi trovò un sacchetto di carta pieno di bustine di tessuto grezzo. Alcune erano vuote, altre piene e cucite con piccoli punti, ci volevano le forbici per aprirle, al tatto sembravano contenere fiori secchi o erba, qualcosa che somigliava alle foglie di coca che secoli prima un suo amico si era portato dalla Colombia. Un rumore lo fece tornare al presente, uno schiocco, due battenti che s’incontrano e la sua ospite era di nuovo sulla veranda. Lupo raggiunse la finestra appena in tempo per vedere la donna girare attorno alla casa, il paese era da tutt’altra parte e questo non gli piaceva per niente, cercò di scacciare l’idea di un complice che l’aspettava sulla strada del castello e uscì nel cortile col timore di essersela lasciata scappare, non se lo sarebbe mai perdonato. Fuori la luna rischiarava il prato, i grilli cantavano e in lontananza si sentiva il rumore soffuso dell’autostrada, ormai mancava poco a Ferragosto e il traffico era
sostenuto e costante. Lupo non si fermò a pensare, girò attorno alla casa e scorse la donna in alto tra gli olivi, s’arrampicò rapido sul prato fino a raggiungere la strada illuminata dal castello e quando alzò gli occhi la vide sparire nel fitto del bosco, camminava svelta e sicura verso la montagna, sembrava una ragazzina. Lui invece era già stanco e aveva il fiatone, s’impose di non pensarci e continuò a correre fin dove le cime degli alberi s’intrecciavano per respingere la luce della luna, lì si fermò indeciso, era buio e perfino le pietre su cui poggiava i piedi erano scomparse nel nulla, si sedette su un masso per riprendere fiato, in quelle condizioni era impossibile proseguire. Attese qualche minuto nella speranza che la donna tornasse indietro, ma attorno a lui tutto era immobile e muto e ben presto dovette arrendersi all’evidenza di essersi lasciato sfuggire l’unica traccia che portava ad Anna. Così era deluso e anche un po’ arrabbiato mentre scendeva a o lento e cadenzato lungo il sentiero, in testa aveva mille api che ronzavano selvagge e che s’acquietarono solo quando si trovò di nuovo circondato dagli olivi. Fu lì che Lupo recuperò la calma e anche l’ottimismo, che si convinse d’aver perso una battaglia ma non la guerra, che s’illuse che con una buona torcia elettrica e un po’ di fortuna, avrebbe potuto riprendere il cammino appena interrotto, per magari scoprire che più avanti piegava verso il basso e tornava in paese. Il cortile era come l’aveva lasciato, entrò in casa per spegnere la luce, poi chiuse la porta e andò alla macchina, prese una grossa torcia e, senza pensarci, raggiunse di nuovo il pendio. In un attimo superò gli olivi e la strada, affrontò il bosco e si ritrovò nel punto in cui poco prima si era fermato, ora non aveva più il fiatone, si sentiva calmo, pronto a seguire quel sentiero impervio fino in capo al mondo, procedeva con ritmo lento e regolare puntando la luce della torcia davanti ai piedi, pestava sui sassi più larghi e chiari evitando con cura quelli scivolosi, ogni tanto si arrestava per ascoltare i rumori del bosco, poi riprendeva il cammino cercando di non farsi travolgere dal pessimismo. Ci volle del tempo perché si arrendesse di nuovo alla realtà, perché comprendesse che tutto quel faticare non l’avrebbe riportato in paese come sperava, ma in qualche angolo sperduto tra i monti, e quando finalmente si costrinse ad accettare la sconfitta, si cercò un posto fuori dal bosco per riposarsi prima di riavviarsi nella direzione opposta. Sedette su un masso in mezzo a un prato, più avanti il sentiero spariva tra l’erba alta e fitta, Lupo guardò in basso, le luci del paese ammiccavano silenziose e
l’autostrada pareva un nastro di fuoco che si spostava muto, si lasciò scivolare lungo la pietra fino a terra, le stelle erano vicine, sembravano pulsare attorno alla luna che ogni tanto spariva dentro una nuvola scura, appoggiò la nuca all’indietro e chiuse gli occhi, era bello stare lì, forse avrebbe dormito un poco prima di riprendere il viaggio verso casa. Fu in quel momento che avvertì un ansito regolare provenire dalla sua destra e la paura che fino ad allora non aveva avvertito, gli scoppiò in testa con mille petardi colorati. Strinse la torcia e fece per alzarsi, ma una massa calda e pulsante gli piombò addosso togliendogli il respiro, perse l’equilibrio, cadde a terra e dalla sua gola uscì un grido strozzato che finì in un singhiozzo dal lontano sapore di vomito. La sua mente ci mise poco a capire quello che stava succedendo, ma questo non fu sufficiente a ridargli la calma e nemmeno la lucidità, perché il terrore di essere aggredito da qualche delinquente malintenzionato, ben presto lasciò il posto a quello di essere sbranato dall’animale più impiccione e ingombrante che avesse mai conosciuto. Lupo chiuse gli occhi e trattenne il fiato sull’alito bollente del montagna che gli aveva appoggiato le zampe anteriori sulle spalle e muoveva la coda come se fosse al massimo dell’eccitazione. Sentiva gocce di saliva bagnargli il collo e un impulso incontenibile a scaricare la vescica, aspettò un attimo, controllò il respiro, poi aprì gli occhi e si sforzò di sorridere alla bestia che lo guardava con la testa piegata di lato e le orecchie basse. - Devo fare pipì – disse in un soffio – scusa se te lo chiedo, ma dovresti spostarti…, non ne posso più. Usò un tono gentile, il migliore che avesse a disposizione, considerato che le fauci dell’animale erano a pochi centimetri dalla sua giugulare, non ricevette risposta, allora si piegò piano scivolando di lato e si alzò per urinare verso la valle con le mani che gli tremavano ancora vistosamente. Il cane si spostò per fare altrettanto su un albero poco lontano, a vederli sembravano quello che non erano, una coppia perfetta, un uomo con il suo migliore amico, un cane. Lupo risalì il pendio e tornò a sedersi nel punto di prima, voleva riprendere il cammino verso casa, ma aveva ancora le gambe molli e temeva di cadere, guardò il montagna che s’era messo al suo fianco e scosse la testa con un misto di disperazione e d’impotenza, provò a spostarsi ma non servì, l’animale si mosse e gli tornò vicino, sentiva il pelo sfiorargli la pelle del braccio e un
brivido corrergli lungo la schiena, aveva la nausea. Lupo non odiava i cani, ne aveva il terrore ma non li odiava. La sua paura veniva da lontano, l’ultima volta che era stato azzannato era solo un ragazzino e se ne stava sulla riva dell’Isarco con tre amici a pescare, l’animale era arrivato di soppiatto, li aveva guardati e aveva scelto lui per saltargli addosso e buttarlo a terra. Avevano dovuto usare la forza per allontanarlo, non era rabbioso e il suo morso sulla spalla era stata una cosa leggera, quasi un gioco, ma la saliva calda che gli bagnava la faccia e la gola faceva ancora parte dei suoi incubi da digestione pesante. Era un terranova, nero come la pece, ma per il resto del tutto simile al cane da montagna dei Pirenei che gli stava accanto, conosceva la razza ed era per questo che non intendeva lasciarsi andare ad alcun gesto che potesse essere frainteso, forse se avesse allungato la mano per grattargli il pelo dietro alle orecchie non sarebbe successo niente, lui però non voleva rischiare, aveva appena cominciato un romanzo e le sue dita gli servivano per scrivere. Tornò a guardare la valle, poi s’alzò per interrompere l’atmosfera di comunione contemplativa che s’era instaurata tra di loro e s’avvio verso la direzione da dov’era venuto. Un guaito lo fece girare verso l’animale che si era invece diretto verso la salita. Lupo lo guardò e sorrise, ecco la soluzione ideale, si disse contento, assieme avevano rimirato la valle, pensato all’infinito e alle ate stagioni, e ora ognuno proseguiva per la sua strada, aufwiedersehen. Fece qualche o e il cane cominciò ad abbaiare. - Smettila, tanto non cambio idea, io vado in giù e avrei piacere che tu andassi in su, è meglio per entrambi, credimi – riprese a muoversi, un metro, due, poi si fermò rendendosi conto che gli mancava qualcosa, senza un po’ di luce era impensabile affrontare il buio del bosco. Di malavoglia tornò indietro e quello che vide non gli piacque per niente. L’animale era seduto sulle gambe posteriori nel punto in cui l’aveva lasciato, era illuminato dalla luna e il suo pelo bianco splendeva quasi fosse fosforescente, in bocca teneva la torcia elettrica e sembrava non avere alcuna intenzione di cederla al suo legittimo proprietario. - Non fare scherzi, dammela, tanto a te non serve – s’avvicinò e tese la mano, ma il cane emise un guaito e si girò per indicare col muso la montagna – scordatelo, io me ne torno a casa. L’animale rimase fermo ad ascoltarlo, sembrava sicuro di quello che voleva, scosse il pelo una volta, due, poi si voltò e lentamente riprese a salire.
- Ma che fai?, torna qui – gridò Lupo seguendolo suo malgrado, non avrebbe voluto farlo, ma non gli piaceva l’idea di camminare alla cieca sulle lastre scivolose del sentiero e meno ancora aveva voglia di fermarsi ad aspettare l’alba, era senza giacca e cominciava a sentir freddo – okay, fermati, ragioniamo un attimo – ma il cane era ormai rientrato nel buio del bosco e il suo pelo sembrava l’unica luce dell’intero universo. - Va bene, hai vinto tu, se lasci a terra la torcia io la raccolgo e proseguo con te – l’animale non ubbidì, ma si fermò ad aspettarlo e quando gli fu vicino si lasciò togliere la pila di bocca con un ringhio che a Lupo parve di oscuro avvertimento – va’ avanti che ti seguo. Procedettero in silenzio uno dietro all’altro per un tempo che a Lupo parve interminabile. Ben presto i muscoli delle gambe tornarono a sciogliersi, il respiro prese un ritmo regolare e mentre un piacevole intorpidimento invadeva il suo corpo anche le sue emozioni mutarono aspetto. Lentamente, senza nemmeno rendersene conto, qualcosa scattò nella sua mente e gli fece perdere il senso della realtà, così d’un tratto non stava più rincorrendo una sconosciuta su una montagna ancor più sconosciuta, non stava inseguendo un cane lanciato verso una meta misteriosa e non era più un uomo adulto, adesso lui era un ragazzo che arrancava sui pendii che portavano al Kreuzjoch e camminava per il solo gusto di camminare, come tante volte in ato aveva fatto. Sentiva l’aria fresca entrargli nei polmoni, non aveva più freddo, i muscoli delle gambe erano sciolti e la sua testa leggera, il profumo della resina lo aveva portato lontano, sulle cime che circondavano il Brennero ed era felice. Ogni tanto alzava gli occhi e se incontrava lo sguardo infuocato dell’animale, sentiva riemergere dentro di sé la voglia di tornare indietro, ma era per poco, bastava che si fermasse un momento, che allargasse le braccia per riempire i polmoni di quell’aria fresca che sapeva di muschio, per riprendere subito il cammino contento di quell’eccitazione che non provava da anni. Si muoveva spedito con un’agilità che pensava di aver perduto, nei tratti in cui il sentiero era scoperto, spegneva la torcia e procedeva alla luce della luna. Il cane era sempre davanti a lui, correva un po’ fino a sparire dietro una curva, poi si fermava ad aspettarlo, lui ne sentiva il respiro ancora prima di vederlo, gli faceva paura, ma allo stesso tempo ne apprezzava il ritmo e la potenza. Lupo sapeva che quelle emozioni non potevano durare, che prima o poi si sarebbe ritrovato stanco senza neanche la forza di tornare indietro, ma per il
momento stava bene e avrebbe voluto che il tempo si fermasse. Affrontò una salita ripida con gli usignoli che gli cantavano nelle orecchie e coprivano il ronzio del suo sangue, quando il sentiero s’aprì in uno slargo, vide davanti a sé dei bacini di pietra colmi d’acqua, era una fontana, una lunga fontana costruita nei tempi in cui la montagna era viva, popolata e coltivata. Per un attimo si chiese quale potesse essere il punto d’arrivo di tutto quel camminare, lui non lo sapeva, l’unico che sembrava avere le idee chiare era il cane, che procedeva puntando sicuro alla meta, Lupo sorrise piccato pensando che forse lo stava portando in una tana dove una nidiata di cuccioli lo aspettavano affamati per cena. Si tolse la maglietta e immerse le braccia nel primo bacino, l’acqua era fredda e gli trasmise una scossa che lo fece scoppiare in una risata eccitata, tuffò ancora le mani e si spruzzò il corpo, avrebbe voluto spogliarsi ed entrare nella vasca, ma si limitò ad infilare la testa sotto il getto che usciva più in alto dalla roccia. Bevve un sorso, poi un altro e tornò a ridere, non sapeva da cosa gli venisse quel senso di pienezza che avvertiva, era felice, aveva trentacinque anni ma si sentiva un ragazzino e aveva voglia di urlare. Si rivolse alla luna e con le mani attorno alla bocca, lanciò l’antico grido del Vendicatore Nero, dapprima lo fece piano, quasi con timidezza, poi incrociò lo sguardo del cane che sembrava aspettarsi di meglio e urlò con tutta la forza che aveva, lo fece una volta, due, tre, finché il vigore che lo aveva sostenuto durante tutto il tragitto lo abbandonò di colpo e si ritrovò a terra privo di energia e con la schiena graffiata dai sassi che affioravano dal prato. E ancora si sentiva bene, era un granello di sabbia nell’intero universo e gli veniva da piangere, da ridere e anche da cantare. Fu la visione del cane a distoglierlo dalle proprie emozioni, gli bastò scorgerlo sdraiato al suo fianco con la saliva che gli colava dalla lingua a pochi centimetri dal suo braccio, per recuperare l’energia e rialzarsi di scatto. Anche l’animale si tirò su pronto a riprendere il cammino, ma lui era ormai stanco e voleva tornarsene a casa, così di nuovo si separarono, uno s’avviò verso la valle e l’altro verso la montagna. Lupo fece qualche o e poi si fermò, il sentiero si perdeva nel prato e anche con l’aiuto della torcia non era possibile ritrovarne la traccia, ricordava una salita ripida, ma non sapeva dove imboccarla. Si girò e vide il cane che l’aspettava più in alto, aveva in bocca la sua maglietta e la cosa lo fece sorridere, provò a chiamarlo, s’inventò un nome, poi un altro e un altro ancora e finalmente l’animale lo raggiunse, si fermò un attimo a guardarlo, poi si voltò e riprese la
sua strada perché gli fosse chiaro cosa voleva, si doveva procedere verso l’alto, non c’era niente da fare. Lupo tornò a seguirlo nella speranza di trovare una casa, magari una malga con del bestiame e della gente disposta ad aiutarlo, qualcuno doveva pur usare quella fontana…, camminava piano con le gambe rigide che lo sostenevano malamente, l’eccitazione di quella sosta lo aveva svuotato delle forze e anche dell’allegria e avrebbe voluto fermarsi ad aspettare l’alba. Proseguì ancora per qualche minuto fino a quando il sentiero s’aprì in una radura pianeggiante di cui non riusciva a vedere i contorni. Nel cielo una nuvola nera dai bordi argentati aveva coperto la luna e a malapena Lupo riusciva a vedere i grandi lastroni di pietra che gli stavano davanti. Il cane si era lasciato raggiungere, sembrava eccitato, aveva la bocca aperta e la coda che frustava l’aria in modo festoso, guardava davanti a sé come se riuscisse a vedere oltre il buio che gli stava attorno. Lupo si piegò per raccogliere la sua maglietta, aveva freddo e avrebbe voluto indossarla, ma era umida di saliva, in certi punti perfino viscida… Fu in quel momento che avvertì uno schiocco secco e un sibilo argli vicino, s’alzò di scatto pensando a un animale selvatico, una civetta o un pipistrello che forse l’avevano sfiorato per volare lontano, cercò con lo sguardo il cane che sembrava sparito e quando sollevò gli occhi rimase folgorato dalla visione di una grande casa incollata alla montagna, trattenne un grido davanti a quell’immensa vela schiacciata dal vento sulla roccia, fece un o avanti per raggiungerla, ma subito si fermò sentendo ancora una volta un rumore secco seguito da un sibilo che si perdeva alle sue spalle. Ci mise un attimo per capire cosa stava succedendo, poi si buttò a terra senza fiatare, sembrava incredibile ma qualcuno gli stava sparando addosso. Subito tornò il silenzio e con esso il buio, la nuvola ricoprì la luna restringendo l’orizzonte ai contorni di prima, la vela scomparve e attorno a lui rimasero solo gli steli dell’erba a pungergli il naso. Pensò all’uomo che voleva ucciderlo, al cane che aveva scelto proprio quel momento per tagliare la corda, ai giapponesi che forse l’avevano visto rincorrere la donna, al Fioravanti, al Ruggeri…, poi udì la voce e un brivido di gelo gli percorse la schiena rizzandogli i capelli in testa. - Alzati e girati verso di me, voglio vedere chi sei – il tono era aspro e duro, deformato dalla tensione, Lupo si mosse piano, indeciso se ubbidire o darsi alla
fuga – non fare il furbo, non ti conviene, hai un fucile puntato addosso per cui tieni le mani bene in vista. All’improvviso la luna tornò a illuminare la scena facendo riemergere la casa dall’ombra, gli spazi erano di nuovo immensi, ma Lupo non vedeva niente di tutto questo, teneva lo sguardo fisso sulla figura minacciosa che gli stava di fronte con le gambe ben piantate a terra, aveva le braccia alzate e tese per sostenere il fucile davanti al viso, sembrava alta, molto alta per lui che era sdraiato. Si tirò in piedi lentamente tenendo le mani in vista, stava pensando a cosa fare, ma era stanco e confuso e il rumore che sentì alle sue spalle lo colse un’altra volta impreparato. Girò il capo giusto in tempo per vedere il montagna emergere dal buio, sfrecciargli accanto e buttarsi di peso contro il suo aggressore e per la prima volta dopo quasi trent’anni, Lupo sentì nascere dentro di sé l’impulso di abbracciare un cane e di stringerlo al petto, bravo amico, così si fa! Scosse la testa per favorire il lento defluire del sangue che gl’ingombrava il cervello, tese l’orecchio, s’aspettava uno sparo, delle urla rabbiose, cattive, non le esclamazioni di gioia che provenivano dall’ammasso di bestia e uomo che si rotolava a terra. - Neve sei tu?, ma non è possibile… Lupo chiuse gli occhi riconoscendo nei toni euforici del suo aggressore la voce calda di una donna, rimase fermo ad ascoltare quelle parole che scavavano nel suo cuore solchi larghi come quelli di un aratro, e avrebbe voluto mettersi a urlare, picchiare qualcuno, bestemmiare o magari buttarsi anche lui nella zuffa giocosa che sembrava non voler finire mai. - Anna! – disse, e lei si bloccò all’istante. - Fermati, non avvicinarti, sei ancora sotto tiro – ma non era vero, aveva il cane tra le braccia e il fucile era sparito tra l’erba – chi sei? - Lupo – avrebbe voluto dire di più, ma aveva la gola chiusa, il cielo si era fatto più basso e sembrava premergli sulla testa. - Lupo? – anche Anna era stupita e lasciò scorrere lunghi attimi di silenzio prima di riprendere a parlare – vieni avanti, fatti vedere, ma come sei conciato? – e scoppiò a ridere.
Lupo si guardò, aveva i pantaloni pieni d’erba secca ed era a torso nudo, abbozzò un sorriso mentre un brivido di freddo o forse d’eccitazione gli corse lungo la pelle. - È stato il cane, mi ha rubato la maglietta giù alla fontana ed è scappato – si sentiva stupido. - Prima o dopo l’entrata in scena di Tarzan? - Mi hai sentito? – era arrossito, ma era buio e quindi non contava. - Tutti ti abbiamo sentito, fin dall’altra parte della valle – stava scherzando – che ci fai qui? - Come che ci faccio, sei stata tu a chiamarmi, no? - Certo, ma non era qui che dovevi venire e comunque non adesso…, come hai fatto a trovare la strada? - Ho seguito il cane. - Neve?, ma non è possibile, non è mai stato qui. - Credo abbia fiutato l’odore della tua amica – disse Lupo indicando la figura che si stagliava davanti alla casa, non riusciva a distinguerla bene, ma sapeva chi era – scusa, ma come hai detto che si chiama il tuo cane?, hai detto Neve? - Sì, è candido, non vedi? - Vuoi dire che è lui la neve che Fioravanti doveva portarti? – lei lo fulminò con un’occhiata – non guardarmi così, ho ascoltato il messaggio che gli hai lasciato in segreteria e ho creduto... - Che mi riferissi a qualcosa di ben diverso. - Beh, conoscendoti mi sembrava la cosa più logica a cui pensare. - Idiota – disse lei alzandosi di scatto e avviandosi verso la casa. Lui si fermò un poco prima di seguirla, ora tutto era più chiaro, il montagna si chiamava Neve e non era del geometra ma di Anna che glielo affidava ogni
qualvolta lasciava il paese, poi riava a prenderlo o se lo faceva portare, elementare Watson! L’animale guaì a conferma dei suoi pensieri, Lupo lo guardò, gli era rimasto al fianco e la cosa non era di suo gradimento. - Vattene! – gli disse in un sussurro cercando di spostarlo con la gamba, il montagna non apprezzò e cominciò ad abbaiare – smettila, va’ dalla tua padrona! - Che gli stai facendo? – Anna s’affacciò all’uscio preoccupata. - Niente, non l’ho neanche sfiorato, è lui che continua a starmi addosso, non mi molla un momento. - Mi sembra logico, ogni simile ama il suo simile, no? – aggiunse lei. - Mi stai dando del cane? - Beh no, ma sei il primo lupo che incontra e chissà…, forse sente il richiamo della foresta – e rientrò in casa senza dargli il tempo di replicare. Lupo la seguì in una stanza ampia illuminata da due lampade a olio, Neve gli camminava al fianco strusciandogli la gamba e lui avrebbe voluto allontanarlo, gli dava il prurito e aveva voglia di grattarsi. Accanto al tavolo c’era l’amica di Anna, aveva in mano una tazza fumante, gliela porse e lui, senza dir niente, si mise a bere. Il liquido non era buono, l’amaro si mescolava al dolce rendendolo a dir poco sgradevole, ma lui fece finta di nulla e lo trangugiò in un sorso. - Con questo hai superato la prima prova di Norma, bravo, ora tocca alla seconda, vieni – disse Anna impugnando la torcia elettrica – credo che di notte le zecche dormano, ma non si può mai dire, magari qualcuna soffre d’insonnia, dai, spogliati. - Neanche per sogno, non sono stato punto da alcuna zecca… - disse Lupo osservando Anna alla luce della lampada, aveva i capelli legati in una lunga treccia che le batteva pesante sulla schiena, il volto aveva la pelle tesa e luminosa, era bellissima, più di quanto ricordasse. - Tu che sei mezzo austriaco dovresti sapere come funziona, non le senti quando ti pungono e dopo è troppo tardi – fece un cenno a Norma che s’avvicinò con una pinzetta di plastica in mano e a Lupo vennero i brividi.
- Ma che volete fare? – disse indietreggiando fino alla parete – questa non è una zona a rischio encefalite. - È vero, le nostre zecche non portano la meningite, ma possono iniettare il tetano e la borelliosi e prima si tolgono meglio è – continuò Anna facendogli cenno di togliersi i pantaloni – dai, non fare il bambino, levali, poi faremo la stessa cosa a Neve. - Bene, allora cominciate con lui che io sto a guardare – ma aveva le spalle al muro e non poté far altro che ubbidire, si slacciò i pantaloni e li lasciò cadere a terra, pensava di provare imbarazzo, ma non fu niente a confronto di quando Anna cominciò a toccarlo, con la punta delle dita lei prese a tastargli ogni segno scuro che vedeva sulla pelle, ed erano tanti, un tocco lieve alla ricerca di una sporgenza da illuminare con la lampada e ogni volta era una scossa che gli attraversava il corpo fino a scaricarsi nel cervello. Lupo trattenne un gemito quando la sentì scendere oltre l’elastico dei boxer e raggiungere le natiche, avrebbe voluto essere solo con lei e avere il coraggio di dirle quello che provava…, chiuse gli occhi sperando che l’ombra gli nascondesse il viso, quando sentì le sue dita sfiorargli un capezzolo si scostò brusco, avrebbe voluto fuggire, aveva la testa in fiamme e un’erezione di cui si augurava nessuno notasse l’evidenza. - Sta’ fermo – disse Anna concentrata sul suo lavoro – non ti facciamo niente. Lupo non rispose preso da un’emozione incontenibile, aveva freddo, ma sudava e in testa avevano ripreso a ronzare le solite api furiose, spostò una mano per toglierle una ciocca di capelli dalla fronte, come aveva fatto a vivere due anni senza quella donna? Anna alzò lo sguardo e scosse il capo quasi per allontanare un insetto fastidioso, poi puntò la luce sotto la sua ascella tenendola ferma in un punto. - Guarda – disse indicando all’amica una macchiolina scura – dai, tocca a te. Norma avvicinò la pinzetta alla pelle di Lupo, l’appoggiò leggermente imprigionando la parte dell’insetto che fuoriusciva e con un movimento rotatorio la staccò e la portò sotto il fascio di luce. - Una zecca nottambula, se è l’unica ti è andata bene – disse Anna porgendogli la torcia – mentre diamo un’occhiata a Neve, tu guardati nelle mutande, fa’ le cose
con calma e non tralasciare niente, nemmeno la zona dietro le ginocchia e quella…, questa qui – aggiunse sfiorandogli la pelle tra le cosce. Lupo le prese il polso e lo tenne stretto, lei lo guardò fisso negli occhi, sembrava non capire quello che lui provava e non poté far altro che lasciarla andare, neanche due anni prima aveva mai sentito un’emozione così intensa, aveva bisogno di abbracciarla, di…, si tirò su i pantaloni e uscì all’aperto, seguito dal guaito di Neve che avrebbe voluto accompagnarlo. Anna si spostò alla finestra e lo guardò camminare nel cortile, scosse la testa e si portò le mani alle guance che scottavano come braci, lo vide allontanarsi seguito da Neve che era riuscito a liberarsi dalla stretta di Norma, quando il cane lo raggiunse, lui sobbalzò perdendo un po’ l’equilibrio e lei scoppiò a ridere lasciando finalmente scorrere le lacrime che per troppo tempo aveva trattenuto. Norma la costrinse a girarsi e a piegarsi per abbracciarla, la tenne stretta finché sentì i singhiozzi uscire liberi dalle sue labbra e scuoterla come una pianta di sambuco al vento. Anna non capiva perché stesse piangendo, non ne aveva motivo, era contenta che lui fosse arrivato, lo aveva chiamato, erano due anni che lo chiamava e questa volta non si era negato, le pareva un sogno averlo vicino, sapeva che lui non la stimava, che la credeva invischiata in storie che da tempo si era lasciata alle spalle, ma aveva scalato una montagna per raggiungerla e poco prima lo aveva sentito tremare sotto il tocco delle sue dita e aveva una luce nello sguardo che credeva di aver perduto per sempre. “E allora perché piangere?”, le chiese Norma in silenzio. “Non lo so…”, rispose lei con un sorriso, poi alzò lo sguardo e lo vide sulla porta che la fissava, anche i suoi occhi le stavano rivolgendo una domanda, ma lei non riusciva a capire e si sentiva strana, confusa, così si girò e uscì dalla stanza senza una parola. Lupo fece per seguirla, ma Norma gli toccò il braccio e gli indicò una sedia, così la lasciò andare e si sedette a tavola dove l’attendeva una seconda tazza di liquido amarognolo. Bevve con calma e rassegnazione, come se stesse espiando una colpa che non sapeva di avere e che gli pesava sulle spalle al pari di un macigno, e alla fine si sentì meglio. - Perché? – domandò alla donna senza aspettarsi alcuna risposta, la vide
sorridere mentre gli riempiva di nuovo la tazza, avrebbe voluto scusarsi per averla chiusa nello stanzino, ma lei lo anticipò sfiorandogli la mano con una carezza che gli lasciò un segno invisibile sulla pelle, poi tornò a sorridere pronunciando quelle che sarebbero state le sue uniche parole della serata, forse dell’intero giorno o magari della settimana. - Adesso va’! Lupo s’alzò di scatto e uscì all’aperto, doveva trovare Anna e chiarire un sacco di cose, voleva sapere la verità, tutta, anche quella più sgradevole che forse l’avrebbe fatto star male, poi avrebbe chiarito i malintesi che c’erano tra di loro, le avrebbe raccontato del Fioravanti e dei giapponesi e alla fine le avrebbe detto che l’amava, non gli sembrava di avere altra scelta. Si guardò attorno, ma non c’era nessuno, la luna era limpida e rischiarava il prato cosparso di larghe lastre chiare, una leggera brezza gl’increspò la pelle, aveva freddo e non ricordava dove avesse lasciato la maglietta, s’avvicinò all’imbocco della mulattiera che portava al paese e fu lì che notò qualcosa muoversi tra gli alberi e sparire più sotto. Anna se ne stava seduta su uno sperone di roccia a strapiombo sulla valle, non era sul sentiero, tutto attorno aveva il buio fitto di un prato o forse del nulla in cui sembrava galleggiare. Lui la chiamò, “Anna”, disse in un sussurro, e lei si girò, aprì la bocca per dirgli qualcosa, forse un saluto o magari un avvertimento che in ogni caso lo raggiunse tardi, troppo tardi per scongiurare il peggio. Lupo si mosse verso di lei, avvertì l’erba sfiorargli la caviglia, poi qualcosa di molle sul quale le sue scarpe non fecero presa e scivolò. Cadde a terra battendo la schiena con un colpo sordo, poi sentì il suo corpo spostarsi lentamente verso il basso, più sotto le luci del paese ammiccavano mute, cercò di aggrapparsi a qualcosa, strappò dell’erba, degli steli leggeri come il vento, quando sentì una voce chiamarlo, allargò le braccia e incontrò una mano che lo trattenne. - Tieniti stretto! Lui ubbidì aggrappandosi con maggior forza, chiuse gli occhi per interrompere la malia delle luci che l’attiravano più in basso e si girò sul fianco per cercarla. Anna si reggeva con un braccio allo spuntone di roccia su cui prima era seduta e con una mano lo teneva stretto all’altezza del gomito, i piedi annaspavano alla ricerca di un appoggio sul prato che scendeva ripido fino al bosco.
- Sei ben salda? - Non proprio, comunque riesco a sostenerti. - Allora fa’ attenzione che mi aggrappo anche con l’altra mano, sei pronta? – aspettò un istante, poi si dondolò lentamente finché riuscì a raggiungerla, ora era rivolto verso il prato e poteva tastare coi piedi il terreno, appena sentì una rientranza vi si appoggiò per alleggerire Anna del suo peso – Va meglio?, io ho trovato un appiglio, cercalo anche tu. - Fatto! – disse lei dopo un attimo di silenzio. - Bene, adesso proviamo a tirarci su, dai forza… - Non ci riesco, pesi troppo, ma dico io, non potevi guardare dove mettevi i piedi? – il tono era più leggero, meno spaventato di prima. - E tu non avevi altri scogli su cui fare la sirena? - Stai per caso insinuando che mi sono messa qui apposta per farti cadere? - Mi sembra ovvio, volevi ammaliarmi oppure buttarmi di sotto, una delle due. Lupo arrancò ancora per raggiungere una posizione più stabile, s’arrampicò di un o, due, poi staccò una mano e tastò il terreno finché trovò una sporgenza ben salda, a quel punto avrebbe potuto risalire il resto del pendio, ma era all’altezza di Anna e sentiva il profumo dell’erba mescolarsi a quello dei suoi capelli, così preferì non scostarsi, le ò un braccio attorno alla vita e appoggiò la fronte alla sua spalla come da sempre sognava di fare. - Ma sei proprio scemo, meriteresti che ti lasciassi cadere – disse lei inquieta, poi s’aggrappò meglio alla roccia, alzò gli occhi e vide il cane sul sentiero che li guardava incerto – Neve, corri da Norma, portala qui!, dai Lupo, digli anche tu di andare… Lui però non l’ascoltava, aveva raggiunto una posizione stupenda e il cane era l’ultimo dei suoi pensieri, avvicinò la bocca al collo di Anna e con le labbra ne percorse un piccolo tratto, lei stava sudando e il salato della sua pelle gli sembrò più dolce del miele.
- Ma che fai?, sei pazzo?, scostati… - Lui non rispose e si spinse a sfiorarle il lobo dell’orecchio, lo prese tra i denti e lo morse piano. – Smettila, vuoi che ti lasci andare? – Ma era lui che si teneva a lei e da quel posto non si sarebbe mosso per niente al mondo. - No, amore, non farlo – “Cristo!, ma che dico?”, pensò stupito. - Non parlare così, piuttosto manda Neve a cercare Norma, sembra che ascolti più te che me. - Più tardi – “mai!” - No, adesso! - Prima dimmi che mi ami – “subito!” - Cosa? - Dillo o mi lascio andare – “di', ti amo Lupo”. - Dio mio, ma allora sei pazzo sul serio. - Dillo! – “ti prego, dillo...” - No! - Allora vado, addio – lasciò una mano e scivolò verso il basso piegando le ginocchia, la sentì irrigidirsi e avrebbe voluto girarla e baciarla, fare all’amore lì in piedi, tra i ranuncoli ormai chiusi e l’erba bruciata dal sole. - Va bene, va bene, ti amo. Adesso però tirati su! - Da quando? – le chiese tornando a baciarle il collo e la nuca. - Da quando cosa?, ti amo e basta, che vuoi sapere di più? - Da quanto tempo mi ami?, da un giorno, un mese, due anni? – con la lingua raccoglieva le gocce del suo sudore e non sembrava mai sazio. - Questo non è il momento per giocare, te lo dico quando siamo sul sentiero, dai, tiriamoci su – ma anche lei non si muoveva.
- Adesso, dimmelo adesso o mi butto di sotto – aveva spostato la mano per alzarle la maglietta e sentire il tepore della sua pelle, era ancora a torso nudo ma non provava freddo, per niente. - Da tre anni, forse di più. - Non rovinare tutto, tre anni sono troppi, non mi conoscevi nemmeno – alzò la mano per sfiorarle il seno e la sentì tremare. - Tre anni e mezzo – ripeté lei in un sussurro. - Ma che dici?, ci siamo incontrati due estati fa – Lupo si fermò, qualcosa di strano era entrato nella sua mente e lo turbava. - Non è così, ti avevo già visto prima…, in una discoteca di Milano. - Oh, Cristo! – il piede gli scivolò e fu costretto ad aggrapparsi di nuovo a lei – allora a Trento sapevi già chi ero… - Non proprio, per me eri…, eri…, come faccio a spiegartelo? - Provaci, chi ero? – a quel punto si aspettava il peggio. - Eri…, eri il mio partigiano, ecco chi eri. - Il tuo cosa?, mi stai prendendo in giro? – Lupo non capiva, si sentiva confuso e gli pareva che il gioco fosse durato fin troppo, era meglio smetterla, spostò la mano per aggrapparsi a una sporgenza vicina, si lasciò dondolare e con un colpo di reni riuscì ad issarsi oltre il dirupo, poi si tese verso di lei – basta scherzi Anna, vieni su e raccontami tutto. - Ma allora non eri in pericolo…, vattene, faccio da sola – ma lui la prese sotto le ascelle e l’aiutò a sedere sullo sperone di roccia, poi le si mise dietro e come due anni prima la cinse in un abbraccio che le fece tornare le lacrime agli occhi. Le stelle c’erano ancora tutte, così come le luci del paese e dell’autostrada, ma Anna non le vedeva più, davanti ai suoi occhi sfumavano le une nelle altre, mescolandosi in un insieme confuso. - Non fare così, non piangere – le disse Lupo cullandola dolcemente – io di te non so niente e non voglio sapere niente, non più, fa’ della tua vita quello che
vuoi, ma lasciami un angolo per starti vicino. Lei s’asciugò gli occhi con la punta delle dita e s’aggrappo alla sfumatura di sincerità che sentiva nella sua voce, aveva tante cose da dirgli, da chiedergli, anche da rimproverargli, ma quel momento era magico e non voleva sciuparlo. - Perché mi dici questo?, cos’è cambiato dall’ultima volta che ti ho cercato?, sei rimasto a corto di accompagnatrici? – appoggiò la testa all’indietro fino a incontrare la sua spalla. - No, è che non ricordavo il sapore della tua pelle – e di nuovo le sfiorò con la lingua l’orecchio, lei avvertì un brivido e cercò di spostarsi. - Smettila, quante volte mi hai respinto in questi due anni? – ora il tono era tagliente. - E tu quante volte mi hai mentito?, quante volte mi hai usato per i tuoi scopi? – Lupo non avrebbe voluto che l’amarezza offuscasse la bellezza di quel momento, voleva tacere, ma non ci riuscì – due anni fa ti sei presa gioco di me per giorni e giorni, giusto il tempo che ti serviva per appianare i tuoi problemi e poi mi hai buttato, hai preso le tue cose e sei partita per le Maldive. - Per le Maldive? - Per le Canarie, le Antille, le Seychelles, che ne so?, sei andata da qualche parte in vacanza a spendere i soldi che avevi guadagnato a Trento. - Ma come ti vengono certe idee? – cercò di liberarsi dal suo abbraccio, ma lui glielo impedì – dovresti lasciare la poesia e scrivere un romanzo. - Ci sto provando. - È vero che ti ho usato, ma non come intendi tu – aveva la voce scossa da un tremito – il giorno dopo il nostro rientro a Milano ti ho cercato, avevo dei problemi e dovevo andarmene in fretta, così ti ho telefonato e sono venuta a suonare al camlo di casa tua, ma tu niente…, in poche ore avevi deciso di escludermi dalla tua vita come hai fatto poi per due anni interi. - Non ero in casa.
- Certo, col tempo l’ho capito, ma al momento credevo non volessi aprirmi, mi sembrava impossibile che mi avessi accompagnato a casa per ripartire subito senza dirmi niente. - Non è andata così, ero all’ospedale… - finalmente riuscì a dirlo – durante la notte è venuto a trovarmi un tuo amico che mi ha rotto un paio di costole, ecco perché non c’ero. - Di che amico stai parlando? – ancora una volta cercò di girarsi, ma lui non glielo permise. - Del tuo ragazzo, quello che viveva con te e che qualche tempo dopo si è preso la briga di spiegarmi chi eri e cosa facevi a Trento – aveva ancora tanta amarezza dentro, tanta rabbia, e gli spiaceva che trasparisse dalla sua voce – comunque in ospedale ci sono stato poco, il giorno dopo mi sono fatto dimettere e sono venuto a cercarti, non c’eri e la tua portinaia mi ha detto che eri partita per il mare. - Non è vero, ho detto così a lei e forse all’inizio pensavo anche di andarci, ma non ce l’ho fatta e sono tornata qui in paese, a casa. - A casa…, noi non abbiamo mai avuto una casa. - Io credevo di sì e ti ho aspettato, poi ho conosciuto Norma che mi ha portata quassù e mi ha legata a una sdraio finché non mi sono usciti i diavoli dal cervello – riprese a piangere e per Lupo era uno strazio sentirla. - Non lo sapevo, mi dispiace, ti amo. - Non dire così, tu non mi hai mai amata – e con uno strattone si staccò dalle sue braccia. - Ti amo da due anni e un mese. - Non è vero, tu non sai neanche cosa vuol dire amare, anch’io avevo dei dubbi su di te, non capivo perché te ne fossi andato, ma ho continuato a cercarti, volevo spiegarti…, io ti amavo, non tu! – Si alzò e con o insicuro raggiunse il sentiero che portava alla casa. Lupo rimase fermo a guardare la valle che lentamente spegneva le sue luci, il fiume non si vedeva più, così le strade e gran parte delle case. Aveva ragione lei,
si era arreso troppo presto, pochi giorni a cercarla inutilmente, un colloquio sgradevole con un pazzo dalle mani pesanti ed era partito per il Brennero, questione chiusa. Si lasciò andare fino a incontrare con la schiena il prato, era umido e freddo, qualcosa di appuntito gli entrò nella pelle provocandogli una fitta di dolore ma non si mosse, ben gli stava. Dal bordo del sentiero Neve guaiva piano, aveva seguito Anna fino alla casa, poi era tornato indietro e si era fermato ad aspettare, era indeciso. Anche Lupo se ne stava fermo, ma lui non era indeciso, per niente, sapeva cosa doveva fare, doveva entrare in casa, cercare Anna e chiarire tutti gli equivoci che c’erano tra di loro, doveva fugare ogni dubbio, spogliarsi di ogni difesa e mostrarsi a lei per quello che era. E doveva ripulire la sua mente da tutti i malintesi che aveva accumulato in quegli anni, a cominciare da quelli più lontani legati a Trento, per continuare con quelli del Fioravanti e del Ruggeri, sperava che lei lo volesse ascoltare e volesse spiegargli quello che ancora non capiva, aveva tante cose da chiederle, voleva anche sapere del partigiano… Entrò in casa, ma la luce era spenta e sembrava non ci fosse nessuno. Aspettò un po’ per abituarsi al buio, poi aprì una porta, guardò nella stanza e subito la richiuse, due occhi sembravano galleggiare in mezzo al niente, ondeggiavano lenti al ritmo della brezza che entrava dalla finestra. Lupo sentì un brivido lungo la schiena, sapeva di chi erano quegli occhi, ma non capiva dove fossero sospesi, inciampò in Neve che emise un leggero guaito, poi si spostò in un’altra stanza e in un’altra ancora, Anna non c’era e non sapeva dove trovarla. Tornò in cucina e alla luce dell’alba che ormai filtrava dalla finestra, cercò un posto dove mettersi a dormire, spostò una sedia e si sdraiò sulle assi che circondavano la stufa ancora tiepida, e non pensò agli scorpioni, agli scarafaggi e nemmeno ai topi che potevano essere lì attorno, aveva sonno, per cui chiuse gli occhi cercando di liberare la mente da ogni preoccupazione. Aveva anche freddo, così non disdegnò la coperta morbida e calda con cui nel dormiveglia si sentì ricoprire e poco importava che avesse quattro zampe e due orecchie ben vigili.
Quello che è successo in Istria subito dopo l’8 settembre, ha dell’incredibile. Le strutture amministrative e militari dello Stato non opposero alcuna resistenza e in un paio di giorni i Carabinieri, gli Alpini, perfino la Fanteria Costiera e la Guardia di Finanza abbandonarono i depositi, le armi, le installazioni, i magazzini e le riserve di viveri, alcuni soldati si unirono addirittura agli insorti, solo in un caso la guarnigione sparò sulla folla uccidendo tre civili. Subito Trieste, Gorizia, Fiume e Pola vennero occupate dalla Wehrmacht, ma all’interno dell’Istria s’instaurò un vuoto di potere nel quale le formazioni partigiane e la rivolta dei contadini crearono un clima di terrore insostenibile per gli italiani. Tutto ebbe termine il 13 ottobre, quando i tedeschi s’impadronirono della penisola aprendo un nuovo scenario di terrore. Furono trentacinque giorni di follia collettiva. Più tardi zio Nikola mi ha spiegato che i partigiani avevano ricevuto l’ordine di isolare i gerarchi fascisti senza infierire contro la popolazione italiana, e all’inizio fu così, solo all’inizio però. Ben presto la rabbia trattenuta prese il sopravvento e portò a una vera e propria caccia all’uomo, dove spesso fascista veniva identificato con italiano e dove le responsabilità di qualcuno venivano generalizzate ad altri. Fu una vera tragedia, molta gente colse l’occasione per vendicarsi di quanto aveva subito, qualcuno inventò accuse per puro opportunismo e nelle carceri i colpevoli si mescolarono agli innocenti; con l’avvicinarsi dei tedeschi molti furono liberati, altri scapparono, troppi morirono e furono inghiottiti dalle viscere della nostra terra. Si presume che in quei giorni sparirono nelle foibe dalle cinquecento alle settecento persone, fascisti italiani, ma non solo, anche antifascisti, membri del Comitato di Liberazione Nazionale e sloveni e croati.
Capitolo nono
Loris portò la scopa fuori dalla porta, la sfregò con forza sul primo gradino e l’appoggiò al muro, poi tornò nella mansarda e si buttò sulla poltrona, aveva sonno, era una vita che non dormiva e aveva voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi andare, ma non l’avrebbe fatto, non adesso, prima doveva controllare che tutto fosse in ordine. Scrutò il pavimento alla ricerca di qualche segno che interrompesse il bianco uniforme della vernice, ne trovò uno a un o dal cannocchiale e subito si sentì tremare, il suo cervello sapeva che non era un ragno ma il suo cuore purtroppo no, così s’avvicinò con cautela e tornò a respirare solo dopo averlo osservato con cura, era una macchia, solo una piccola, stupida, insignificante macchia scura. Prese uno fazzoletto di carta e la strofinò con foga fino a farla sparire, poi s’alzò in piedi e si guardò attorno soddisfatto, ora tutto era perfetto, candido e pulito come la neve fresca, le pareti, il soffitto e il pavimento erano bianchi, ed erano bianchi i mobili, gli infissi, la porta, il paravento, le tende, tutto…, le uniche chiazze di colore della stanza erano lui e la sua ospite, cosa voleva di più? Loris non amava l’uniformità piatta e accecante del bianco, non gli piaceva e se l’aveva adottata senza riserve in quello che considerava il posto migliore della casa, era solo perché la riteneva un ottimo sfondo su cui intravedere insetti o ragni di aggio, questo e nient’altro. Si grattò la testa, aveva bisogno di una doccia, la terza in poche ore, ma non era attrezzato e non aveva voglia di scendere di sotto, s’avvicinò al secchio appoggiato alla parete, era pieno d’acqua fin quasi all’orlo, v’intinse le dita e subito si sentì meglio, girò il capo verso la poltrona, lei stava ancora dormendo, forse… Cominciò a spogliarsi, doveva fare in fretta e in silenzio se non voleva svegliarla, non era bello che un figlio si mostrasse nudo alla madre, non era mica un bambino… Lanciò un’occhiata al paravento poco lontano, poi scosse la testa risoluto, no, quello non l’avrebbe spostato, nascondeva l’angolo più disgustoso della stanza e sarebbe rimasto dov’era. Si tolse gli slip, infilò un guanto di spugna e cominciò a bagnarsi e a sfregarsi per tutto il corpo, aveva una leggera erezione che non riusciva a spiegare, aveva urinato da poco e non gli scappava affatto. Una risata leggera lo colpì come uno schiaffo, con la coda dell’occhio
tornò a guardare verso la poltrona, ma lei continuava a dormire, così fece finta di niente e tornò a lavarsi scrollando le spalle con aria spavalda. Beatrice aveva le palpebre abbassate ma non stava dormendo, quando poco prima aveva aperto gli occhi era sola e aveva creduto di trovarsi in uno degli incubi che la tormentavano da bambina, aveva appoggiato la testa all’indietro e aveva cercato di tranquillizzarsi, fra non molto si sarebbe svegliata e avrebbe trovato Alfredo vicino…, poi era entrato il ragazzo e le era crollato il mondo addosso, aveva spostato lo sguardo sui suoi polsi e una giostra impazzita si era impadronita della sua testa e l’aveva costretta a chiudere gli occhi. Loris era stato veloce, si era lavato e asciugato in un attimo e ora si sentiva bene, non era più stanco e nemmeno aveva voglia di dormire, si annodò ben stretto un asciugamano in vita e si lasciò andare soddisfatto sull’unica poltrona libera che c’era, sull’altra era seduta sua madre, una donna stupenda che lui aveva trattato con mille attenzioni, aveva dovuto legarle mani e piedi, è vero, ma questo non voleva dire che non l’amasse, lui era convinto di adorarla. Stava ancora dormendo e la cosa cominciava a impensierirlo, secondo i suoi calcoli l’effetto del cloroformio avrebbe dovuto svanire da un pezzo, ma forse la sera prima lei aveva bevuto dell’alcool o preso un sonnifero ed era già molto se respirava regolarmente. Non aveva ancora deciso come affrontare il suo risveglio, aveva in testa più di un modello e non sapeva quale scegliere, di sicuro non si sarebbe buttato ai suoi piedi chiamandola mamma, odiava le scene melodrammatiche, ne aveva già viste fin troppe, forse la cosa migliore era aspettare e decidere al momento, quella era una donna crudele e sconsiderata, ma era anche intelligente e lui contava su una sua reazione equilibrata e razionale. Era perfino disposto a perdonarla se mostrava il giusto pentimento. Di nuovo sentì una risata risuonare nell’aria e ancora una volta decise di non farci caso, controllò che i legacci ai polsi e alle caviglie fossero ben saldi, poi, finalmente, chiuse gli occhi contento del silenzio che aveva in testa, Violetta era morta, viva Violetta! Beatrice aspettò che il respiro del ragazzo si calmasse, poi socchiuse le palpebre e si guardò attorno cercando di controllare il panico che tentava di travolgere la sua mente. Si trovava in un posto mai visto, addirittura mai pensato, tutta la stanza era immersa nel bianco, solo il corpo che aveva davanti spiccava sulla
monotonia dello sfondo. Lo guardò meglio sforzandosi di richiamare alla memoria qualcosa che forse le stava sfuggendo, le pareva di non conoscerlo, ma non ne era sicura…, si sentiva confusa, aveva un potente mal di testa e il bianco del locale la costringeva a tenere gli occhi socchiusi. Fu in quel momento che il giovane riprese a muoversi, si stirò e con uno scatto sinuoso s’alzò sulle punte dei piedi ancora scalzi, si portò al centro della stanza e allargò le braccia, poi fece una piroetta e gettò la testa all’indietro in una risata argentina, priva di senso. Beatrice avvertì un brivido correrle lungo la schiena, voleva parlare, dire qualcosa, ma aveva la gola secca e la testa confusa e non riusciva a staccare lo sguardo dal ragazzo che si stava esibendo in una danza silenziosa e sensuale, che si tendeva e si curvava in piroette che gli allentavano l’asciugamano sui fianchi, che si piegava, si torceva, saltellava… Chiuse gli occhi per togliersi dalla malia di quella visione, rimase immobile e quando lo sentì avvicinarsi e sfilarle i sandali dai piedi, trattenne il respiro finché non fu di nuovo lontano. Solo allora socchiuse le palpebre per osservare il giovane che, piegato su se stesso, si allacciava i suoi Birkenstock alla caviglia, erano corti e sicuramente scomodi, ma lui non sembrò badarci e nell’alzarsi in piedi si esibì in un saltello pieno di grazia e di malizia. Beatrice lo vide spostarsi di lato per fissare i segni scuri apparsi sul pavimento, s’aspettava il moto di stizza di poco prima, invece lui scoppiò a ridere, buttò la testa all’indietro e si lanciò in una danza sfrenata che somigliava al flamenco. Si muoveva a scatti battendo i tacchi a terra, roteava le mani imitando il movimento delle nacchere, aveva gli occhi aperti, ma pareva non vedere niente e nessuno, quando l’asciugamano s’allentò se lo tolse dai fianchi e se lo mise sulle spalle come una mantiglia, poi si girò di fianco e fu allora che incontrò lo sguardo di Beatrice. - Sei sveglia? – le chiese cingendosi di nuovo la vita e scalciando lontano i sandali – cos’hai da guardarmi in quel modo?, non sono mica nudo. Beatrice continuava a tacere ammaliata dalla strana luce che gli scorgeva negli occhi, le faceva paura, lo vide avvicinarsi, sorriderle contento, poi piegare la testa sui tanti segni scuri che sporcavano il pavimento e cambiare repentinamente espressione. Un grido soffocato gli uscì dalla gola, fece un salto all’indietro, poi si girò verso di lei con lo sguardo teso e minaccioso. - Con te faccio i conti più tardi – sibilò mentre raccoglieva il guanto di spugna e
cominciava a pulire il pavimento, continuò in silenzio finché tutto tornò candido come prima – perché l’hai fatto? - Fatto cosa? – Beatrice avrebbe voluto rimanere in silenzio, tacere almeno fino a quando il carosello che le girava in testa non si fosse fermato, ma non era possibile, doveva uscire da quell’incubo. - Come cosa?, i segni, no?, un’altra volta fa’ attenzione a dove metti i piedi. - Senti…, io sono legata e senza scarpe, per cui non posso aver fatto alcun segno – sembrava uno scherzo. - E allora chi è stato, io forse? - Certo, chi altro? – si morse la lingua per non proseguire. - Smettila, stai rovinando tutto. - Cosa sto rovinando? - Tutto, forse è meglio cominciare daccapo. Scusa, torno subito – e corse fuori chiudendosi la porta alle spalle. Beatrice trasse un respiro profondo e cominciò a scuotere la poltrona su cui era legata, sentiva le cinghie di stoffa segarle la pelle dei polsi e delle caviglie, chiuse gli occhi cercando di controllare il tremito che le muoveva le labbra, le veniva da piangere, le poche frasi scambiate col ragazzo non le lasciavano dubbi, era in balia di un pazzo, un malato di mente pericoloso che prima o poi l’avrebbe uccisa. Per qualche minuto tornò a dibattersi disperata, poi la porta si aprì e riapparve il ragazzo vestito di tutto punto, camicia e pantaloni leggeri, calzini e scarpe di tessuto con suola bianca, sui capelli brillava ancora qualche goccia d’acqua. - Eccomi qua, ciao, ti sei svegliata? Beatrice lo guardò sedersi sulla poltrona che le stava di fronte, era di nuovo tranquillo e stava sorridendo, sembrava un bravo ragazzo, uno di quelli che si vedono nei telefilm americani con capelli corti, occhi chiari e una fila interminabile di denti perfetti. Decise di tacere, questa volta non avrebbe detto una parola.
- Hai sete?, fame?, se ti serve qualcosa devi dirmelo, qualsiasi cosa… - Un paio di forbici – sibilò lei e lo vide buttare la testa all’indietro e scoppiare in una risata calda e spontanea, diversa dagli scoppiettii argentini di poco prima. - Ma allora è vero che sei simpatica... - Chi te l’ha detto? - Non importa, comunque le forbici non ti servono – disse sorridendo – appena mi accorgo che posso fidarmi, ti slego. - Fidarti in che senso…, che devo fare perché tu ti fidi? - Niente, sii te stessa. - Allora oltre alle forbici mi servirebbe anche un coltello o una pistola – di nuovo lo sentì ridere. - Mi piaci, sei proprio come t’immaginavo, sono contento che tu sia qui. - Io no, per niente – aggiunse con la voce strozzata – dimmi chi sei e cosa vuoi da me, perché mi hai portata qui? - A suo tempo saprai tutto, te l’ho già detto, se ti comporti bene ti slego in fretta, forse domani. - Ma spiegami almeno perché mi hai rapita, perché mi tieni prigioniera… – lo vide agitarsi indeciso e per un attimo le tornò la speranza che tutto quell’incubo potesse finire, magari anche in fretta, poi lui le si avvicinò, le strinse le mani e la fissò negli occhi, aveva le pupille minuscole come la capocchia di uno spillo, un punto nero in un mare azzurro chiaro. - Guardami bene, mi riconosci? – aveva un leggero tremito alla palpebra sinistra, era emozionato. - Dovrei? - Certo che dovresti! – Il tono si era fatto più aspro e Beatrice si ripromise di fare attenzione a quanto diceva, quello non era un gioco.
- Allora aiutami, dimmi chi sei e cosa vuoi da me – chiese con voce alterata, ma lui sembrò non sentirla e per un po’ rimase in silenzio. - Sono Loris, tuo figlio – e tacque di nuovo guardandola negli occhi. - Come mio figlio?, scusa non capisco… – Beatrice avrebbe voluto uscire in un’esclamazione più forte o magari scoppiare a ridere, ma si era fatta attenta, nello sguardo del ragazzo vedeva una luce che imponeva prudenza. - Hai capito benissimo, sono tuo figlio, quello che hai abbandonato appena nato. - Guarda che c’è un equivoco, io non ho figli, avrei voluto averne, ma non mi è stato possibile – e di colpo tornò a sperare che tutto potesse finire presto. - Non è vero, hai avuto me. - Loris, credimi, sono sterile, da giovane ho avuto un aborto che mi ha resa sterile. - Come un aborto? - Ho avuto un incidente e ho perso il bambino che aspettavo, da allora… - Bugiarda, bugiarda, bugiarda – l’interruppe Loris alzandosi di scatto e cominciando a camminare per la stanza, era agitato, ogni tanto si sfregava le mani lungo i fianchi come se fossero madide di sudore e respirava a tratti brevi e frequenti – non fare la furba con me, ci ho messo mesi a organizzare tutto e ora non mi farò prendere in giro da nessuno. - Come ci hai messo mesi…, che vuoi dire? – poi cominciò a capire – sei stato tu a telefonarmi in Germania? - Io sono tuo figlio, non puoi negarlo – si fermò con le braccia sui fianchi – l’incidente e l’aborto li hai avuti dopo che sono nato io e sono stati la giusta punizione per quello che hai fatto. - Ma cos’è che ho fatto, me lo spieghi? - Mi hai messo al mondo e mi hai buttato via, mi hai dato alla cicciona come se fossi un pacco di dischi.
- Quale cicciona e di che dischi stai parlando? - Sei peggio di quello che credevo, io pensavo che fossi cambiata, che ti fossi pentita… – ora teneva i pugni stretti in modo minaccioso, aveva il volto contratto e faceva paura. - Calmati, qui c’è un equivoco – Beatrice cercò di controllare la voce – siediti e aiutami a capire, se fosse vero quello che dici… - È vero, è vero, è tutto vero, mi hai scaricato come un peso morto, cos’avevo che non ti piaceva?, non ero abbastanza bello? – si era seduto ma continuava a muoversi agitato. - No, credimi, sei un bel ragazzo e sicuramente eri un bambino bellissimo, solo che io non c’entro niente coi tuoi problemi – non voleva irritarlo – dov’è ora la donna che ti ha fatto da madre? - Dove merita di essere, sotto terra. - È morta? – l’aveva guardato e aveva visto nei suoi occhi quello che non avrebbe voluto vedere, ora cominciava a capire – l’hai uccisa tu?, dimmelo…, hai ucciso anche il Fioravanti? - Smettila di fare domande, io non ho ammazzato nessuno – però aveva uno sguardo strano – tu sarai la mia prima vittima, la prima e forse l’ultima. - Non scherzare… - Non scherzo affatto, è quello che ti meriti. - Perché vuoi uccidermi?, perché non sono tua madre? - No, perché lo sei e non vuoi ammetterlo, perché mi hai abbandonato e non ti sei pentita, ecco perché. - Senti, te lo spiego un’altra volta, io non ho mai avuto figli – aveva la voce incrinata, sentiva che qualsiasi cosa avesse detto non lo avrebbe smosso dalla sua convinzione – mi sarebbe piaciuto averli, per anni ho cercato di averli, dopo l’aborto ho fatto cure, mi sono ricoverata all’ospedale…
- E io intanto? - Non sapevo niente di te… - non finì la frase perché lui le piombò addosso e spinse la poltrona contro la parete. - Non dire così, brutta stronza o ti ammazzo subito – gridò mettendole le mani al collo – ascoltami bene, questa è l’ultima volta che te lo dico: tu sei mia madre! – era un’affermazione, non una domanda. - No, non lo sono. - E allora te la sei voluta tu, farai una morte lenta e orribile, vedrai… – s’alzò in piedi di scatto e riprese a camminare avanti e indietro. - Ma che dici? – Beatrice si morse le labbra, stava sbagliando tutto, doveva mostrarsi condiscendente, inventarsi qualcosa e dargli ragione, ma era difficile… Tornò a guardarlo, ora si era spostato dietro la poltrona e sembrava più tranquillo, continuava a sfregare le mani sullo schienale, ma il suo viso era di nuovo rilassato e faceva più paura di prima. - Avrai un’agonia lunga e penosa, ti spalmerò i piedi di miele e quando verranno a succhiarti il sangue io sarò lì a guardare – pareva credere a quello che diceva, Beatrice aveva un groppo in gola che le impediva di parlare – e tu urlerai, urlerai come quando mi hai messo al mondo, ma non ci sarà nessuna grassona ad asciugarti la fronte, solo io… - Smettila! – era la seconda volta che menzionava una donna in sovrappeso e forse non era un caso. - E ti lascerò cantare, Verdi, Puccini, Mascagni, quello che vuoi, tanto nessuno ti potrà sentire, solo io sarò qui ad applaudirti fino a che le tarantole ti avranno succhiato anche l’ultimo filo di voce. - Le tarantole? – Beatrice continuava a non capire, ma ormai dal suo ato era emersa l’immagine di una ragazza paffuta dai capelli ricci e neri che le sfioravano le spalle. - Sì, arriveranno da tutti gli angoli della casa, t’avvolgeranno nella loro tela potente e cominceranno a divorarti, la Mangiatrice d’uccelli entrerà in te dalla bocca e lo farà dall’interno, le altre dalle dita, dagli occhi e dai piedi e
continueranno finché di te non resterà niente, solo una macchia di umido sul pavimento – si piegò in avanti per catturare il suo sguardo, lei chiuse le palpebre per sfuggirgli, ma le sue parole le entrarono in testa con l’irruenza di un fiume in piena – e allora interverrò io e le ammazzerò tutte, una a una, nessuna riuscirà a sfuggirmi e finalmente sarò libero. Beatrice trattenne il fiato e per un attimo tornò il silenzio, quando sentì il tonfo della porta che si chiudeva, riaprì gli occhi e si lasciò andare ai singhiozzi, la sua mente era in preda a emozioni possenti e devastanti che non poteva controllare, cercò d’imporsi la calma, di richiamarsi alla razionalità, si disse che le tarantole non divoravano gli uomini e non costruivano la tela, ma servì a poco… arono i minuti e quando finalmente riuscì a riprendere il controllo di sé stessa, si sentì vuota e priva di forze, piegò la testa all’indietro e lasciò vagare la mente finché l’immagine di una ragazza piccola e paffuta emerse dai suoi ricordi più lontani. Renza, dove aveva lasciato Renza?, l’ultima volta che l’aveva vista erano pressoché bambine, erano amiche, ma di lei sapeva poco, quasi niente, era sempre silenziosa, accondiscendente, opaca. Viveva con il padre in una casa vicino alla sua, lui era un uomo alto e robusto, con un bel portamento, dei baffi spioventi e un cappello perennemente abbassato sulla fronte, era sempre accigliato, taciturno e scontroso, usciva poco e non aveva amici, era italiano ma veniva dal Cile come la donna che più tardi l’aveva raggiunto per dargli una figlia, Renza. Così quando lei alle medie si era trovata a fianco quella ragazzina seria e un po’ musona, si era sorpresa della sua normalità, credeva fosse stupida e cattiva e invece era solo timida e silenziosa, anche il fatto che non fosse stimolante non le pesava, in quel periodo lei era perennemente su di giri e preferiva parlare piuttosto che ascoltare, aveva bisogno di sentirsi apprezzata, ammirata e in questo Renza era il massimo che la scuola potesse offrire. C’era voluto del tempo perché si stufasse della sua dedizione costante, assoluta e anche un po’ asfissiante, probabilmente se non ci fosse stata la musica a legarle, la loro amicizia sarebbe durata ben poco. Facevano la strada che le separava da scuola cantando, lei accennava un’aria di Verdi e l’altra la ripeteva con la sua voce calda e vibrante, a volte intonavano duetti e le compagne rimanevano un po’ indietro ad ascoltarle, poi applaudivano, chiedevano il bis…, era stupendo. Erano entrambe brave ma Renza lo era di più, era un vero prodigio e Beatrice
non si stancava di ascoltarla, di confrontare i loro gorgheggi, i loro acuti…, così poco alla volta aveva capito di non avere la stoffa della cantante e alla fine dell’anno le aveva regalato tutti i suoi dischi. La loro amicizia era terminata con l’esame di terza media, durante l’estate un paio di volte aveva suonato al suo camlo, ma non aveva insistito, le finestre erano sempre chiuse, il cancello sprangato e aveva preferito lasciar perdere. In seguito aveva saputo della nascita di un bambino che i maligni attribuivano al padre, poi non ne aveva più sentito parlare, lei si era trasferita in Germania e aveva smesso d’interessarsi alle vicende del paese, anche la notizia della sua morte le era giunta con notevole ritardo, le era spiaciuto, nient’altro. E ora si trovava legata a una poltrona a tormentarsi al pensiero di essere in balia di suo figlio, di essere rinchiusa nella sua casa… Si guardò attorno in cerca di indizi, il bianco delle pareti continuava nel soffitto spiovente della mansarda, una finestra oscurata da un pannello lasciava intravedere un filo di luce, era mattino, di questo era sicura, solo di questo. Poco lontano su un treppiede era appoggiato un grosso cannocchiale, un tubo di metallo sormontato da un mirino e da una tastiera numerica, sembrava un’arma, uno strumento adatto a spiare la gente più che a scrutare le stelle. Beatrice sentì un brivido correrle lungo la schiena, stava sudando e allo stesso tempo aveva freddo, cercò di strattonare le corde che la legavano ai braccioli, niente, provò ad alzarsi in piedi per muoversi nella stanza, ma la poltrona era troppo pesante e le forbici che vedeva appoggiate sul tavolo sotto la finestra, parevano un miraggio irraggiungibile. Scosse la testa per non farsi prendere dal panico, doveva rimanere calma, se si fosse messa a urlare sarebbe tornato il ragazzo che parlava di miele e di tarantole e non voleva..., provò a dondolarsi per spostare la poltrona, ma ancora una volta fu costretta a rinunciare. Doveva pensare, dimenticare le forbici e usare la testa, era l’unica arma che aveva a disposizione. Se Loris era figlio di Renza, allora probabilmente lei si trovava nella sua casa e il cannocchiale era puntato sulla piazzetta, forse sul suo stesso cortile, sulle sue finestre…, lui era convinto di essere suo figlio e la stava spiando per vendicarsi di essere stato abbandonato, aveva organizzato tutto per tempo, le aveva telefonato in Germania, poi aveva ucciso il Fioravanti per impedirgli d’incontrarla…
Si chiese se in casa fossero soli e le tornò in mente il ragazzo allegro che ballava il flamenco con addosso i suoi sandali e l’asciugamano sulle spalle, sembrava così diverso dall’altro, più solare, simpatico. Di nuovo Beatrice scosse la testa per tornare lucida, ma non era facile, aveva paura, troppa paura per rimanere calma, era prigioniera di un pazzo che aveva già ucciso una volta, forse di più, che la teneva legata…, sentiva di non poter resistere oltre, doveva andarsene, scappare o sarebbe impazzita. Udì un rumore fuori dalla porta, un ticchettio leggero e lontano che le annebbiò la mente e la fece precipitare nel mare dell’irrazionalità. Immaginò delle tarantole, le vide salire le scale in fila indiana guidate dalla Mangiatrice d’uccelli, chi era la Mangiatrice d’uccelli?, montare sullo stipite dell’uscio, arrivare alla maniglia, spostarla ed entrare nella stanza… Beatrice odiava i ragni, non quanto i topi e i pipistrelli, ma abbastanza da farla inorridire al pensiero delle loro zampette che si muovevano all’unisono. Fu questa immagine a schiudere le cataratte dell’angoscia che fino ad allora era riuscita a controllare, di colpo serrò le palpebre e dalla sua gola uscì un urlo strozzato che si trasformò in un pianto irrefrenabile e convulso. Continuò così per lunghi, interminabili minuti, quando smise e aprì gli occhi, non era più sola, davanti a lei c’era una ragazza dai capelli lunghi ramati che la guardava sorridendo, era bella, sembrava… Beatrice tornò a piangere riconoscendo nel suo volto le sembianze di Loris, era alta, aveva le spalle larghe e il seno decisamente abbondante, vestiva un abito leggero, forse di seta o viscosa che le si drappeggiava attorno in mille pieghe svolazzanti, ma era lui, era il ragazzo che l’aveva rapita e legata e che si credeva suo figlio contro ogni logica spiegazione. Quando tornò ad osservarla, lei era nella stessa posizione di prima, aveva piegato un po’ la testa e le stava sorridendo, in mano teneva un bicchiere colmo di liquido trasparente, forse acqua, forse acido o veleno. Beatrice strizzò gli occhi e si costrinse a tenere a freno la fantasia, doveva stare attenta se non voleva peggiorare la situazione. - Hai sete? – chiese la ragazza con voce dolce e inespressiva. - No, grazie – non avrebbe accettato niente, non prima di essersi chiarita le idee. - È acqua naturale, non gasata, ti fa bene – le avvicinò il bicchiere alle labbra, ma Beatrice piegò la testa di lato – guarda che è importante bere, il nostro corpo
ha bisogno di molti liquidi, possiamo anche non mangiare, ma dobbiamo introdurre almeno due litri d’acqua al giorno, meglio tre. Beatrice la fissò senza replicare, cercava di capire, forse Loris aveva una gemella e lei era fuori di testa a pensare che quella ragazza fosse sempre e solo lui. - Non ti fidi?, se vuoi ne bevo un po’ anch’io, non è veleno, è solo pura e semplice acqua di rubinetto – accostò il bicchiere alle labbra e bevve un lungo sorso, poi lo guardò e scoppiò a ridere, era vuoto – scusa, ma è così buona… Beatrice non disse niente, quella breve risata le aveva tolto le ultime speranze, aveva già sentito quello scoppiettio strano poco dopo essersi svegliata, quando di nascosto aveva osservato il ragazzo lavarsi e poi ballare il flamenco, era lei che rideva in quel modo, non lui. - Vuoi che vada a prenderne dell’altra?, no?, magari più tardi, eh, che ne dici? – si mise seduta sulla poltrona in una posa composta, tirando il tessuto del vestito da sotto il sedere per non sgualcirlo – come stai?, hai fame?, no, vero?, meno male, perché il cibo non è di mia competenza, dovrei rubarlo a Loris e la cosa non mi garba affatto. Invece se vuoi bere non c’è problema, a quello ci penso io. - Chi sei? – chiese Beatrice cercando di mantenere la calma. - Scusa, non mi sono neanche presentata – tese la mano destra in avanti, poi la ritrasse e tornò a ridere – piacere, mi chiamo Loretta, tu sei Beatrice, vero? - Sì, sono Beatrice – cercava di pensare a cosa dire, lei non aveva grandi conoscenze psichiatriche, ma se la ragazza era ciò che temeva, doveva cercare di non irritarla, di assecondarla – dov’è Loris? - Non so, forse in camera a dormire, di sicuro non è uscito. - Come fai a esserne certa? - Perché non lo fa mai, il suo mondo è l’orto, il computer e la palestra, nient’altro. - E tu? - Io cosa?, mi stai interrogando? – fece una smorfia e incrociò le dita in grembo.
- Scusa, non volevo essere indiscreta – doveva stare più attenta a quello che diceva – è solo che ho bisogno di scambiare quattro chiacchiere e pensavo che tra donne fosse più facile. - Hai ragione, ti piace il mio vestito? – disse la ragazza rimettendosi in piedi per una piroetta veloce. - È bello, dove l’hai preso? - In un negozio di gran classe, cose costose, taglie tedesche, stupendo. - Qui in paese? - No, a Parigi, Amburgo, New York. - Dove? - In rete – ancora una risatina – anche il completo che indossi l’ho comprato lì, ti piace? - Molto, grazie per avermelo prestato – erano pantaloni e blusa di tessuto uguale, verde a fiori gialli. - Figurati…, è vecchio e mi sta anche stretto, non hai un gran seno, eh? - Hai ragione – che altro poteva dire? – cosa fai di bello oltre che viaggiare in rete?, studi, lavori? - Niente di tutto questo – non sembrava interessata all’argomento – hai sete?, vuoi che vada a prenderti dell’acqua? - No, grazie, preferisco parlare con te. - Grazie, sei gentile. Forse Loris ha ragione, sei proprio un tipo in gamba. - È questo che dice di me? - Non so se lo dice ancora, ma un tempo stravedeva per te, diceva che eri la madre ideale… - Ma io non sono sua madre – l’interruppe Beatrice con foga – tu lo sai vero che
io non sono sua madre. - Io non so niente – disse sbuffando – ora me ne vado perché cominci a stufarmi, sei noiosa, non bevi e sei troppo curiosa, forse non sei così simpatica come credevo. - E cosa succede se scopri che sono antipatica?, chiami anche tu le tarantole per farmi succhiare il sangue? – Loretta la guardò e scoppiò a ridere buttando la testa all’indietro, sembrava di nuovo contenta. - Te l’ha detto?, ti ha minacciato con i suoi ragni, ti ha parlato anche del miele? - Anche. - E tu hai avuto paura? - Per niente, le tarantole non amano il miele e nemmeno divorano le loro vittime, e poi qui non ci sono tarantole. - Questo lo pensi tu, Loris dice che il nonno ne ha portato una scatola piena dal Cile. - Non è vero, Renza me l’avrebbe detto, eravamo molto amiche da giovani – cercò di mantenersi calma, ma l’accenno al Cile aveva fugato ogni suo dubbio e stava male. - Beh, se non hai sete allora me ne vado, magari torno più tardi, non appena quello scemo volta l’occhio – era brava nell’evitare gli argomenti scomodi. - Non ti piace Loris? - Da morire… - e rise. - Gli somigli molto, è tuo fratello? – non avrebbe dovuto chiederlo, ma ormai era fatta. - Una cosa del genere. - Ho capito – quello era un argomento da evitare. - Non credo, ma non importa – aveva il broncio, si era alzata in piedi e con un
gesto della testa aveva liberato le spalle dai capelli – ora torno di sotto, voglio darmi la lacca alle unghie, che ne dici, è meglio il blu o il viola? - Né l’uno, né l’altro, a me i colori scuri non piacciono, sono volgari e poco eleganti – avrebbe inventato qualsiasi cosa pur di convincerla a fermarsi. - Ma sono di gran moda… - Sì, ma stanno bene alle adolescenti, non alle belle ragazze come te. - Capisco…, in ogni caso non importa, tanto con Loris in giro non posso laccarmi le unghie. - Non può impedirtelo. - Può, può…, è una carogna – un sospiro, un’alzata di spalle ed era di nuovo serena – ora è meglio che vada, ci vediamo più tardi, ciao. - No, aspetta, rimani ancora un po’, mi piace chiacchierare con te – non era vero, ma non voleva che al suo posto tornasse Loris. - Anche a me, ma non vorrei che lui s’arrabbiasse, sai, diventa una belva quando lo si contraria. - E cosa può farti?, legarti e darti in pasto alle tarantole? - Questa è bella! – disse ridendo, si rimise seduta, ma era inquieta, sembrava sulle spine – io non ho paura di quelle bestiacce, non porto scarpe aperte e potrei schiacciarne dieci in un colpo solo. - Credevo ti piero i sandali… – poco prima sembrava entusiasta dei suoi vecchi Birkenstock. - È vero, adoro portarli, mi danno una sensazione impagabile, mi fanno sentire donna, una vera signora. - E allora perché non li indossi? - Perché Loris non li sopporta e appena li compero li fa sparire. - Per via delle tarantole?
- Sì, ma è assurdo, io riuscirei a ucciderle anche a piedi nudi – disse spavalda. - Dunque sei convinta che esistano… - Certo che esistono, se non si vedono è perché Loris pulisce tutto cento volte al giorno – fece per alzarsi così Beatrice fu costretta a inventare qualcosa d’altro per trattenerla. - Ti piacciono i miei sandali?, se vuoi te li regalo. - Dici davvero?, oh grazie, grazie, grazie, sei un’amica – l’aveva guardata con gli occhi lucidi d’emozione, sembrava felice mentre li raccoglieva e li stringeva al petto – li metterò ‘sta sera stessa. - Dove vai di bello?, a ballare? - Sì, forse…, se riesco ad andarmene. - Loris non ti lascia uscire? - Non mi lascia uscire, conoscere gente nuova, ballare, fare l’amore… – una luce maliziosa si era accesa nel suo sguardo – a te piace fare l’amore? - Beh, certo – era un argomento difficile da gestire – con mio marito mi piace…, e a te? - Con tuo marito non so, non ho ancora provato – la risata aveva un che di argentino che dava sui nervi – magari più tardi vado a trovarlo, che ne dici? - Dico che ti piace scherzare, sei simpatica – anche Beatrice si sforzò di ridere. - Guarda che non sto scherzando affatto – aggiunse seria – comunque non credo sia il mio tipo, io preferisco te, che ne dici, ti piacerebbe giocare un po’ con me? - No, credo di no e comunque sono legata e non posso fare molto – ci voleva anche questa! - Lo so che adesso è impossibile, Loris non me lo permetterebbe, ma più avanti quando le acque si saranno calmate… - Vedremo…, ti piacciono le donne?
- Non sempre e non solo – si avviò alla porta decisa a fare sul serio – ora vado. - E il flamenco?, ti piace ballare il flamenco? – stava arrampicandosi sui vetri per trattenerla. - Da morire…, mi hai vista poco fa? – ma la risposta non era importante – sono brava vero? - Bravissima…, e cantare?, ti piace anche cantare? – Beatrice era spaventata, non voleva che se ne andasse, ma la ragazza aveva già aperto la porta e non sapeva che altro dire, così provò a cantare, Renza amava cantare… Oh! dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Loretta si fermò di colpo e Beatrice trasse un respiro di sollievo, forse quello era il modo giusto per impedirle di uscire, si disse, così decise di continuare, aprì la bocca per provarci, ma non ne ebbe il tempo, perché la ragazza si girò di scatto e tornò indietro come una furia. Lo schiaffo la colpì in pieno viso, non se l’aspettava e la sorpresa, più che il dolore, le fece salire le lacrime agli occhi. - Non farlo mai più, non t’arrischiare più a cantare quella schifezza – ora la stava minacciando col dito alzato e sembrava strana, i vestiti le pendevano addosso in modo informe e mettevano in risalto l’assurdità del suo seno posticcio, i sandali erano di nuovo per terra. Beatrice sentì un urlo salirle dal petto, cercò di fermarlo, piegò la testa in avanti per comprimerlo in gola, chiuse la bocca e si morse le labbra fino ad avvertire il sapore salmastro del suo sangue, ma solo quando udì lo schiocco della porta che si chiudeva si lasciò andare al terrore che la stava invadendo, e le lacrime, i singhiozzi che aveva cercato di trattenere, invasero la stanza fino a riempirla in ogni suo angolo.
Il primo maggio del ’45 siamo entrati a Trieste e tu sei nata esattamente il giorno dopo, mentre le truppe neozelandesi prendevano posto in città. Eri prematura, piccola e leggera come una piuma, tua madre ha voluto che la portassi lì per darti alla luce e poi morire, diceva che prendere Trieste era come prendere l’Italia intera e che nascere lì voleva dire nascere liberi.
Capitolo decimo
Lupo si svegliò che il sole era già alto, aprì gli occhi nel ricordo ancora vivo di un corpo caldo che gli ansimava addosso e se nel sonno si era illuso che fosse una coperta morbida di mohair, ora la pensava diversamente e la cosa gli procurava un certo fastidio. Ma forse si sbagliava, al risveglio si era ritrovato avvolto in un plaid caldo e peloso, per cui magari era colpa di qualche incubo notturno se gli pareva di aver sentito l’umidore di una lingua lunga e tiepida sfiorargli il collo, e poi in casa non c’erano cani, quantomeno non c’erano in cucina e non in quel momento. Su una sedia trovò quello che gli serviva per entrare col piede giusto nella giornata, una maglietta pulita, una canottiera, un asciugamano e uno spazzolino da denti, niente sapone e niente dentifricio, ma di quelli in montagna si poteva anche fare a meno, si disse Lupo contento, non sapeva se ringraziare Anna o Norma per quelle cose, sperava solo che Neve non ci avesse messo il muso. La casa era vuota, fece un giro per tutte le stanze senza incontrare nessuno, chiamò, urlò, niente, così uscì sul prato per lavarsi nell’acqua gelida di una tinozza, si asciugò e rivestì al sole, poi imboccò un sentiero che seguiva il contorno dell’edificio e s’alzava tra la parete e la montagna, un paio di gradini e arrivò all’entrata posteriore. Socchiuse la porta e si trovò in un lungo corridoio sul quale s’affacciavano alcune stanze, una biblioteca, un salone con cappella e delle camere da letto, l’ultima era di Anna. Lupo rimase un attimo indeciso, poi spinse l’uscio ed entrò, i mobili erano vecchi, spartani, ridotti al minimo, il letto era alto, massiccio, sul comodino c’era un libro, una lampada a olio e una tazza, vicino all’armadio spiccava una sdraio di plastica con l’intelaiatura pieghevole di metallo, alla base del bracciolo sinistro vi era l’anello a cui un tempo era stata legata la vita di Anna. Lupo s’affacciò alla finestra dalle imposte accostate, la spalancò, ma in un primo momento non riuscì a vedere niente, la sua mente stava seguendo una giovane donna disperata, che urlava e imprecava in preda a una violenta crisi d’astinenza, che cercava di fuggire trascinandosi dietro il peso delle sue catene, che attraversava il prato, imboccava il sentiero, scivolava, si rialzava, tornava a imprecare, a piangere finché il dolore e la rassegnazione le facevano aprire la
sdraio per sedersi al sole a guardare la valle. Scosse la testa per allontanare quell’immagine straziante, avrebbe voluto racchiuderla in poche frasi, in una poesia per non dimenticarla, si sporse sul davanzale per guardare le capre e gli asini che brucavano l’erba vicino al pozzo, poco più in là alcune galline parlottavano tra di loro, col becco frugavano nel prato, poi alzavano il capo, lo scuotevano e tornavano a cercare tra i sassi. Nei paraggi non c’era nessuno, attese qualche istante, poi mise le mani attorno alla bocca e gridò il nome di Anna e di Norma, niente, provò ancora una volta, silenzio, ogni tanto un moscone entrava nella stanza, dava un’occhiata in giro e se ne andava, chiamò Neve e una cornacchia gli fece il verso stizzita, anche lui era scomparso e di questo non poteva che essere contento. Uscì nel corridoio, trovò una scala che portava di sotto e tornò in cucina alla ricerca di qualcosa da mangiare, sulla credenza c’era un tagliere con del pane scuro, del formaggio e del burro chiuso in un sacchetto di nylon e immerso in un vaso pieno d’acqua. Si preparò un piatto con un po’ di tutto, aggiunse un bicchiere di latte dal sapore strano e uscì per gustarsi al sole quella che gli sembrava la miglior colazione della sua vita. Mangiò piano, assaporando pezzo per pezzo quello che metteva in bocca, il cielo era limpido e nella valle si scorgevano i tetti del paese sovrapporsi l’un l’altro, allontanarsi per formare un’isola di orti e poi restringersi attorno a piazze e piazzette, respirò a fondo riempiendo i polmoni d’aria buona, cercò la sua casa e subito vide l’anello di olivi che la cingeva appena sotto il castello, c’era una macchia scura nel cortile, tornò dentro alla ricerca di un binocolo, non lo trovò, rimise un po’ in ordine e uscì di nuovo. Non sapeva che fare, non aveva voglia d’avventurarsi in eggiate prive di meta e men che meno aveva voglia di prendere un libro e di sdraiarsi a leggere al sole, aveva bisogno di vedere Anna, soltanto di questo. Pensò di rimettersi a urlare, ma non ne ebbe il tempo, sentì un rumore alle sue spalle, si girò e scorse la macchia bianca di Neve sbucare dal bosco e corrergli incontro. La sua prima reazione fu di chiudersi in casa e sbarrare la porta, ma forse Anna era vicina e lo stava guardando, così si fece forza e provò ad assumere un atteggiamento più sicuro, puntò i piedi, alzò il mento e con una mano sul fianco e l’altra tesa in avanti, si rivolse al cane che ormai era a due i. - Fermati – disse in tono minaccioso – non t’azzardare a saltarmi addosso, perché t’ammazzo!
E il montagna come per incanto frenò la sua corsa fino a bloccarsi ansimante, si sedette sulle zampe posteriori e lo guardò con la testa piegata di lato, scosse il pelo e guaì stupito, poi con un balzo gli saltò addosso e lo buttò a terra. Lupo lo lasciò fare rassegnato, aveva il cuore che gli batteva all’impazzata, ma s’impose di non reagire, contò mentalmente fino al dieci, raggiunse il venti, il trenta, al quaranta decise di aver sofferto abbastanza e spostò l’animale per rimettersi in piedi. Ma Neve non era d’accordo, aveva ancora voglia di giocare e non intendeva calmarsi, gli girava attorno andogli tra le gambe, gli metteva le zampe sullo stomaco e lo spingeva, gli afferrava i pantaloni tra le zanne e lo strattonava. L’uno urlava e inveiva, l’altro guaiva e abbaiava, sembravano alla pari, ma non lo erano affatto. Solo dopo lunghi minuti d’indicibile pena, il montagna perse il gusto di quel gioco così mal condiviso e si fermò, fece una corsa avanti, tornò a fermarsi, si voltò per latrare qualcosa all’indietro, poi imboccò il sentiero da cui prima era arrivato e sparì tra gli alberi. Lupo avrebbe voluto approfittare dell’occasione per rintanarsi in casa, quel cane era un incubo, un impiastro, un tormento, ma lui era curioso, troppo curioso per lasciarlo andare, la sera prima l’aveva portato da Anna e ora sperava fe altrettanto, così si rassegnò e nonostante temesse il peggio, si costrinse a seguirlo. Neve era fermo poco più avanti e lo stava aspettando, Lupo cercò di mantenere le distanze, ma non funzionò e dovette raggiungerlo per affrontare con lui il groviglio di larici e noccioli del bosco, il sentiero era appena segnato, s’alzava e abbassava rasentando il pendio della montagna, assieme lo seguirono finché sbucarono in uno slargo occupato quasi interamente da un bacino d’acqua scura. Lupo si fermò stupito, era un invaso naturale allargato e modificato da una mano laboriosa, era alimentato da tanti rivoli che scendevano lambendo la roccia e da una piccola cascata che cadeva da una tegola conficcata in una fessura tra i sassi, sembrava profondo, nella sua parte più esterna terminava in una diga di tronchi e pietre sulla quale si doveva are se si voleva proseguire. Lui avrebbe preferito fermarsi per immergersi e rinfrescarsi o anche solo per bere, ma il cane non era d’accordo e dovette affrettare il o per non perderlo di vista. Poco più in là c’era quello che sperava di trovare. Anna era in mezzo a una radura coperta d’erba tagliata ed essiccata al sole, la
stava raccogliendo in piccoli cumuli che formava lungo il cammino, indossava una camicia azzurra annodata in vita e un paio di pantaloni corti con le frange che le sfioravano le cosce, in testa portava un cappello dalle tese larghe entro il quale spariva la sua treccia e ai piedi un paio di stivali di gomma che le arrivavano al ginocchio, le mani erano protette da guanti da lavoro tagliati all’altezza delle falangi. Lupo rimase a guardare quell’immagine che fino al giorno prima avrebbe trovato assurda, Anna che rastrellava il fieno come le contadine sui prati dell’Isarco, che s’inzuppava di sudore maneggiando un attrezzo pesante…, incredibile, la camicia sotto le ascelle era bagnata e a lui tornarono in mente le gocce salate che la sera prima aveva raccolto con la lingua lungo il suo collo. All’arrivo di Neve Anna si fermò, si piegò su di lui per carezzarlo e per sussurrargli qualcosa all’orecchio, poi alzò gli occhi e vide Lupo che l’osservava appoggiato con la schiena a un albero, lo salutò con la mano, gli sorrise e riprese il lavoro. - Non sapevo che ti pie la vita faticosa… - disse Lupo avvicinandosi. - Cosa? – chiese lei togliendosi gli auricolari. - Ho detto che non sapevo ti pie rastrellare. - Infatti non mi piace per niente, ma Norma è in giro per i boschi e non tornerà fino a sera. - Posso aiutarti? - Prego, sai come si fa?, vuoi i guanti? – gli disse porgendogli il rastrello. - Non rispondo alle provocazioni, ricordati che ho vissuto per vent’anni in montagna. - Allora saprai anche delle vipere, fa’ attenzione a dove metti i piedi – si tolse il cappello e glielo mise in testa. - Non mi fanno paura – era vero, ma non del tutto. - Ma come, hai paura dei cani e non delle vipere?
- Loro non azzannano la gente per sfizio – disse cominciando a formare un nuovo mucchio di fieno, il prato era quasi sgombro, pochi minuti e avrebbe finito – non mi piacciono e se posso le evito, però non mi hanno mai morso, mentre i cani sì, e più di una volta anche. Anna alzò le mani in segno di resa e si sedette all’ombra di un albero dove era appesa una borraccia di alluminio, sciolse il nodo della camicia e con un lembo si asciugò la faccia sudata, poi bevve un sorso d’acqua e appoggiò la testa al tronco, chiuse gli occhi e cercò di allontanare ogni pensiero, ogni proposito. Vivi questo momento come se fosse il tuo ultimo respiro, pensò liberandosi della radiolina che portava in vita, qualsiasi cosa lui dica o faccia, non potrà ferirti più di quanto abbia già fatto. Aprì gli occhi al suono di parole sperse nell’aria. Quando mi risveglierò nel tuo corpo che si modula come la voce dell’usignolo Si estenua come il colore rilucente del grano maturo Nella trasparenza dell’acqua l’oro velino della tua pelle si brinerà di moro Era una poesia, Anna aveva perso i primi versi e avrebbe voluto chiedergli di tornare indietro e cominciare daccapo, si piegò in avanti, girò la testa per
catturare ogni parola, ma lui nel frattempo si era spostato e la sua voce era solo un sussurro confuso. Poi tornò il silenzio. - È tua? - Cosa? - La poesia. - Troppo onore, è di Ungaretti. - Avrei dovuto capirlo, il tuo stile non conosce simili dolcezze. - Cos’è, non ti piacciono i miei versi, mancano di miele? – sorrideva, ma intanto continuava a lavorare, a riunire i mucchi di fieno uno a uno, col rastrello era difficile, serviva una forca. - Sono aspri come succo di limone concentrato, danno i brividi – e cominciò a recitare facendogli il verso. Se t’addormenti giuro che t’ammazzo. Se chiudi gli occhi e lasci che il mio cuore si tolga dall’incanto del tuo sguardo, ti giuro che ti strappo alle radici, che faccio di te solo erba secca. - Hai ragione, sono un tantino crudi per un orecchio delicato come il tuo – aggiunse lui con sarcasmo – vorrà dire che non scriverò mai più un verso in vita mia. - Dio, quanto sei suscettibile…
- Come tutti i poeti, mia cara, i dilettanti sono i peggiori – adesso in mezzo al prato c’era un unico covone – e di questo che ne facciamo?, hai una carriola, qualcosa per portarlo alla casa? - No, lo lasciamo qui, Norma viene a prenderlo domani con Tilde. - Tilde?, e questa chi è? - L’asina – disse alzandosi – andiamo, ho fame e prima voglio fermarmi a fare una doccia. - Conosci qualche hotel nelle vicinanze? - No, perché tu sì? – Anna raccolse la radiolina e la borraccia, si rimise il cappello e si avviò verso il sentiero con Neve che le faceva da retroguardia. Lupo non la seguì, non subito, preferì tardare qualche istante per osservarla mentre imboccava la traccia che s’inoltrava nel bosco, la vide piegarsi per raccogliere uno stelo da portarsi alla bocca, era sinuosa, la sua linea era asciutta e perfetta e non aveva bisogno di tacchi a spillo, di strass e lustrini per essere valorizzata, a lei bastavano un paio di stivali di gomma e una vecchia camicia stazzonata per far girare la testa a chiunque, a lui di sicuro, pensò avviandosi piano sulla sua scia. E in effetti era da un po’ che si sentiva strano, era accaldato e con i muscoli tesi e doloranti, avrebbe voluto raggiungerla, metterle un braccio attorno alle spalle e tenerla ben stretta, ma sapeva che lei non gliel’avrebbe permesso, e c’era il sentiero angusto, c’era il cane…, troppi ostacoli da superare. Davanti all’invaso d’acqua scura lei si fermò e si voltò per indicargli la direzione. - Va’ avanti, ci vediamo alle Falde. - Perché?, anch’io sono sudato e ho bisogno di rinfrescarmi – non se ne sarebbe andato per niente al mondo. Lei rimase indecisa, con un lembo della camicia in mano. - Bene, mi sembra giusto – disse e in un lampo si spogliò ed entrò in acqua. Lupo restò a guardarla deluso, per quanto non battesse ciglio non riuscì a vedere
molto e ne fu dispiaciuto. Tutto fu troppo veloce, quasi fulmineo, prima lei si tolse gli stivali e i calzini, poi si sfilò i calzoncini e rimase con la camicia che ora gli pareva assurdamente lunga, alla fine si levò anche quella e la lanciò sul sentiero e lui fece in tempo a scorgere la sua schiena nuda e il profilo chiaro del suo seno, quello e solo quello, perché in un attimo lei s’immerse nell’acqua e tutto scomparve nel nulla. Così cominciò a spogliarsi pure lui, lo fece in fretta, contento che lei gli girasse le spalle e non potesse vederlo. Di solito, nei preliminari dell’amore, Lupo non era timido, gli piaceva guardare e farsi guardare e non soffriva di particolari inibizioni. Di solito..., non questa volta, però. Ora avvertiva un leggero imbarazzo che gl'intorpidiva i sensi, tra loro c’era troppo squilibrio, lei ostentava un’indifferenza disarmante che gli toglieva baldanza e spontaneità, lui, all’opposto, si sentiva preda di emozioni potenti, continuava a chiedersi dove fosse finita la biancheria intima di Anna e questo gli procurava un’eccitazione che non intendeva svelare a nessuno, men che meno a lei. Entrò nel bacino che era meno profondo del previsto, piegò le ginocchia per immergersi, scese un gradino scivoloso e la raggiunse mentre con gli occhi chiusi e la testa piegata all’indietro si faceva scorrere rivoli d’acqua gelida lungo i capelli. Si disse che doveva far piano, trattenersi, imporsi una calma che non provava, non voleva spaventarla e nemmeno irritarla, lei lo stava aspettando, lo sapeva, ma se commetteva un errore, se faceva o diceva qualcosa di sbagliato, sarebbe uscita da quel lago colorato di muschio e se ne sarebbe andata. La cinse da dietro rubandole spazio sotto la cascatella che scendeva dalla tegola in alto, l’acqua era fredda ma non si ritrasse, la tenne stretta per qualche minuto, poi la girò verso di sé e la baciò sulla bocca, erano due anni che non lo faceva e il cuore gli batteva nelle orecchie come un tamburo. Anna lo sentì tremare e ne fu felice, aveva ato l’intera mattinata ad aspettarlo e ora non l’avrebbe lasciato andare per niente al mondo, lo amava e gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa, questo lo sapeva da un pezzo, ma prima voleva parlare, strapparsi gli ultimi dubbi dal cuore. Era dalla sera prima che pensava a quel momento, voleva che avvenisse proprio lì, nell’unico posto costruito con le sue mani e che aveva colorato di rosa molti suoi sogni romantici. Lui non lo sapeva, ma in quel laghetto loro avevano fatto l’amore decine e decine di volte, nell’acqua, sotto la cascata, sul sentiero, perfino sui sassi della diga coperti di licheni. Sperava che tutto andasse bene, che lui non la umiliasse
con la purezza del suo rigore, che non pretendesse da lei quello che non poteva dare…, lui era un uomo integro, un partigiano capace di distinguere con chiarezza il bene dal male, lei all’opposto aveva alle spalle una vita piena di angoli bui, di buchi profondi e angoscianti pronti a inghiottirla, lui camminava con i piedi ben saldi a terra, lei a ogni o scivolava sul muschio del sentiero. Erano diversi, molto diversi, lui la disprezzava e allo stesso tempo l’amava, di questo era sicura, per lei aveva affrontato una montagna, superato le sue paure e i suoi pregiudizi, non era poco, neanche nei suoi sogni migliori aveva mai sperato tanto. Sentì la sua mano scendere lungo la schiena. - Fermati – disse scostandosi un poco – usciamo, dobbiamo parlare. - No, non voglio parlare, voglio fare all’amore, solo questo – Lupo la guardò, aveva la pelle cosparsa di perle trasparenti e i capezzoli eretti e scuri per il freddo, provò a sfiorarli, piegò la testa per raggiungerli seguendo un rivolo d’acqua, ma lei glielo impedì. - Aspetta – lo prese per mano nel tentativo di trascinarlo fuori. - Perché? – lui resisteva. - Perché l’acqua è gelida e perché devo dirti delle cose, è importante, credimi. - Dopo, mi dici tutto dopo – Lupo non aveva voglia di ascoltarla, non voleva sentirla parlare di droga o di amanti lontani, e men che meno voleva raccontarle del Fioravanti e dei vermi che gli uscivano dalle orbite, voleva solo tornare a baciarla, prenderla per la vita, sollevarla quel tanto che bastava per perdersi dentro di lei fino a morire, solo questo voleva, pensò seguendola fuori dall’acqua. - Raccontami di Enrico, di quel mio amico che ti ha aggredito a Milano, poi ti dirò quello che gli è successo – Anna si sedette sulla sua camicia in un punto del prato dove il sole filtrava tra i rami degli alberi e se lo tirò vicino, poi si sciolse la treccia e scosse i capelli pettinandoli con le dita, teneva le gambe socchiuse e leggermente piegate e Lupo si chiedeva come fosse possibile parlare del Ruggeri senza venir risucchiato nel recesso sinuoso del suo ventre…, come una nave dispersa nell’immensità dell’Atlantico, anche lui era destinato a perire in quell’ombroso Triangolo delle Bermuda. Si ò la mano sugli occhi sforzandosi di ascoltare quello che Anna gli stava dicendo, ma non aveva senso o forse, semplicemente, non ne aveva voglia.
- Ferma, non ti muovere – le disse afferrandole con una mano il mento e con l’altra la spalla. - Che c’è? – Anna si sforzò di non ridere, quello che aveva davanti sembrava un uomo, ma era un ragazzino, uno splendido ragazzino dagli occhi lucidi e dal sorriso intrigante. - Una zecca! – Lupo prese a toccarla, le sfiorò la pelle dietro l’orecchio, poi scese piano lungo il collo fino al seno per poi continuare verso il basso. - Non dire scemenze, qui non ci sono zecche. - Ci sono, ci sono…, sdraiati e non muoverti – la fece scivolare all’indietro e con una mano riprese a toccarla – contro queste bestiacce la cosa migliore è il tempismo, prima le togli e meglio è. - Smettila, le zecche sono sul sentiero vicino alla fontana, non qui – ma stava ridendo sotto il tocco delle sue dita che la carezzavano piano e si spostavano altrove, lambivano l’ombelico e proseguivano ancora. - Ferma, eccone una…, svelta, dammi la pinzetta – le sfiorò i peli del pube e allungò la mano verso di lei senza alzare gli occhi da quello che stava fissando. - Non ce l’ho – era sicura che stesse scherzando, quasi sicura. - Allora dovrò fare senza – si piegò su di lei e con le labbra e i denti prese a morderle piano la pelle fino a farla gemere – eccone un’altra e un’altra ancora, ma benedetta figliola, qui è tutta una zecca – borbottò prima di tornare a immergersi nel silenzio delle sue emozioni. - Lupo, basta, ti prego… – ma gli stava carezzando la testa, non certo allontanandola e ben presto attorno a lei sparì il bosco e il rumore della cascata e sparì anche l’alito di Neve che le lambiva l’orecchio, ogni cosa fu sommersa dall’onda montante che attraversò il suo corpo scaricandosi in mille lampi di luce. Attese un attimo, poi gli sfiorò le braccia per farlo salire verso di lei, lo baciò sulla bocca umida e seria e si lasciò penetrare per vivere ancora una volta la sensazione del mare che muoveva la zattera sulla quale era adagiato il suo corpo. Lupo aprì gli occhi sulla bava di Neve che gli colava addosso, represse un
singulto e nascose il viso nell’incavo del collo di Anna, che schifo!, sussurrò baciandole la gola scossa da una risata, aveva la pelle fresca che sapeva di menta e lui avrebbe voluto tornare a cercare le zecche nelle pieghe più umide e scure del suo corpo. - Alt, fermati! – disse Anna bloccandogli la mano – ora parliamo. - Non posso, c’è una belva che mi sta sbavando addosso…, mandala via. Lei carezzò il muso di Neve e si lasciò leccare le dita prima di spingerlo di lato, poi si sfilò dal corpo di Lupo e si sedette con i piedi nell’acqua pronta ad ascoltarlo. Lui cominciò dalle cose più lontane, il suo primo tragico incontro col Ruggeri, e via via si avvicinò al presente, alla notte ata a rincorrere Norma e un cane su per sentieri che non conosceva. Raccontò i fatti senza tralasciare niente, neanche i sentimenti che più lo coinvolgevano aveva taciuto e quando accennò ai lunghi mesi del suo dolore, in cambio ricevette una carezza che lo ripagò di ogni sofferenza. Poi venne la parte più difficile, quella più penosa, l’aveva lasciata per ultima temendo la sua reazione e aveva avuto ragione. La notizia della morte del Fioravanti, trovò Anna impreparata, non riusciva a capire e dopo un attimo di smarrimento, iniziò a piangere e a darsi la colpa di quanto era accaduto. Lupo dovette abbracciarla stretta per farla tornare al presente, cercò di distrarla parlandole di Beatrice, di Alfredo, di Neve…, ma servì a poco e quando le chiese di raccontare di lei, del suo ato, aveva ancora la mente confusa e il corpo scosso dai singhiozzi. Anna aspettò qualche minuto per ritrovare la calma, poi cominciò a parlare e continuò a farlo fino a svuotare il cuore di ogni preoccupazione, gli disse tutto quello che sapeva, iniziò dal buco nero della sua prima infanzia, quello che non aveva mai svelato a nessuno e terminò con Tarzan che urlava nella valle. Finirono a pomeriggio ormai inoltrato, nel bosco era quasi buio, ma alla casa trovarono il sole. In cucina Norma aveva preparato il minestrone, aveva apparecchiato per tre e stava raccogliendo le ultime cucchiaiate dal suo piatto, per la maggior parte della gente quello era il momento della merenda, ma lei era stanca e non vedeva l’ora di andare a dormire. Sul tavolo vicino al pane c’era un portafoglio, Lupo lo riconobbe, ringraziò e se lo mise in tasca. Bastò quel gesto per fargli tornare in mente quello che aveva
dimenticato, Beatrice e Alfredo l’aspettavano al tramonto per il suo turno di sorveglianza, doveva avvisarli che non sarebbe andato, pensava di fermarsi in montagna fino al giorno dopo, magari anche di più. Si guardò attorno alla ricerca del cellulare, la notte prima l’aveva appoggiato a terra assieme al portafoglio, ma ora non lo vedeva. - Cosa stai cercando? – chiese Anna cominciando a mangiare. - Il mio telefono, credo l’abbia preso il cane. - È più facile che sia stata Norma, qui non sono ammesse diavolerie di nessun genere – sorrise guardando l’amica che stava sistemando del formaggio molle sopra una fetta di pane spalmata di burro – speriamo non sia troppo tardi. Si alzò e si diresse verso il grande acquaio di marmo rosa, sotto, nascosti da una tenda scura, c’erano due secchi, uno era pieno di bucce e di resti di verdura, l’altro conteneva solo una maglietta sporca e un cellulare, erano arrivati in tempo. Lupo controllò lo schermo ancora , accanto all’icona che avvertiva dell’ormai prossimo esaurimento della batteria, c’erano gli avvisi di due telefonate perse e di un messaggio depositato in segreteria. Tutte e tre le chiamate venivano da un numero sconosciuto, attivò la registrazione e subito riconobbe la voce angosciata di Alfredo, fece appena in tempo a sentirlo dire di richiamarlo con urgenza, quando un getto d’acqua investì l’apparecchio spegnendo oltre alla voce anche ogni fonte luminosa. Lupo alzò gli occhi e vide Norma poggiare il bicchiere sul tavolo e riprendere a mangiare come se niente fosse, avrebbe voluto dire qualcosa, ma sapeva che non sarebbe servito, così prese il fazzoletto che Anna gli porgeva e si mise ad asciugare i tasti uno ad uno, poi s’alzò per andarsene. - Scusate, ma è meglio che io torni a valle, dev’essere successo qualcosa a Beatrice e se mi sbrigo posso arrivare in paese prima di notte. - Adesso mangia – la voce di Norma era strana, roca e bassa, sembrava non aspettarsi né una replica né un rifiuto, lui cercò l’aiuto di Anna che però era sparita, così tornò a sedersi e si mise a mangiare. Il minestrone era squisito, dentro tra la verdura tagliata a piccoli pezzi, c’erano schegge di formaggio filante, e crostini di pane abbrustolito, una bontà. Ne mangiò due piatti, poi si servì di pane, di ricotta e di una razione abbondante di fagioli amalgamati in una
pastella densa nella quale s’intravedeva solo qualche foglia di salvia, domandò il nome della ricetta ma davanti all’enigma “fasoi embragai” non ebbe il coraggio di chiedere altro. - Mettiti questi – gli disse Anna porgendogli un paio di calzettoni e un foulard – fai come me. Lupo la guardò sedersi e riprendere a mangiare, era vestita in modo diverso da poco prima, indossava un paio di jeans infilati nei calzettoni e un fazzoletto stretto attorno alla gola, una camicia coi polsini chiusi e un berretto in testa. - Tu non vieni – cercò di dire Lupo, ma ci mise poca convinzione, aveva voglia di stare con lei nonostante sapesse che era pericoloso. Si tolse le scarpe e cominciò a prepararsi. - Sono per le zecche, così non dovremo fermarci a controllare – disse lei, nessun commento sul fatto che lo accompagnasse, era una cosa scontata. - Comunque portati la pinzetta, lo sai che mi piace andare in cerca di quelle bestiacce – ribatté Lupo annodandosi il foulard al collo. Lei rise, gli ò un berretto come il suo e si avviò verso l’uscita tenendo Norma per mano, raggiunse il sentiero senza mai verificare se lui la seguisse e ovviamente lui la seguiva e non era solo, Neve gli stava al fianco e gli sfiorava col pelo la gamba come i cani ben addestrati dovrebbero fare col loro padrone, solo che lui non era il suo padrone. Salutarono Norma in cima al sentiero, Lupo aprì la bocca per dire qualcosa e lei gli buttò le braccia attorno alla vita in una stretta breve e forte, poi gli sorrise e si girò per tornare in casa. - Le piaci, nonostante il cellulare e la tua bellezza diabolica, le piaci – commentò Anna soddisfatta. - La mia cosa? - Ha detto che sei bello come un diavolo – e si avviò a o svelto verso la valle con lo zaino che le batteva sulla schiena. Alla fontana fece una pausa per bere un goccio d’acqua poi riprese il cammino tagliando per mulattiere che Lupo non ricordava di aver mai visto. Tutto gli pareva nuovo, credeva fosse colpa della
luce che dava prospettiva al paesaggio, ma non era così e solo alla fine si rese conto di aver seguito un sentiero diverso da quello fatto all’andata, forse meno ripido, più largo. Giunti in valle arono davanti a un allevamento di maiali e a villette isolate dove abbaiavano cani, cani e ancora cani, poi sbucarono su una strada che portava direttamente al paese. Arrivati all’asfalto Anna buttò il bastone che si era procurata durante la discesa, si tolse il berretto e lo mise nello zaino, s’allentò il fazzoletto alla gola e sfilò i pantaloni dai calzettoni. Lupo fece altrettanto, provò ad accendere il cellulare che diede un pallido segno di vita, poi s’avviò a fianco di Anna combattuto tra la fretta di raggiungere Beatrice e il desiderio di rallentare per disperdere pian piano quello che aveva accumulato in montagna, un paio di volte cercò di cingerle le spalle con un braccio, ma lei non glielo permise. La strada che stavano percorrendo li portò prima nella grande piazza della chiesa e poi in quella più piccola dove erano parcheggiate le macchine di Beatrice e Alfredo, era la vigilia di Ferragosto e tutto sembrava fermo, anche il tempo. Lupo superò il cancello di ferro e salì di corsa le scale, entrò dalla porta socchiusa senza aspettare che qualcuno rispondesse al suono del camlo, si aspettava una sorpresa e fu accontentato alla grande. Alfredo era appoggiato a una parete della sala con le braccia strette al petto, davanti a lui stavano due giovanotti ben vestiti e ben rasati, capelli corti con gel, jeans strappati al punto giusto, maglietta con coccodrillo, orecchino e un leggero profumo dolciastro che sapeva d’Oriente. Avevano il volto imbronciato. Quando Anna entrò nella stanza entrambi i ragazzi scattarono in piedi per chiederle di aiutarli, la conoscevano e speravano che spiegasse ad Alfredo che non erano dei delinquenti… Lui disse loro di sedersi e di star zitti, poi si staccò dalla parete e precedette Anna e Lupo in cucina per raccontare loro quello che da soli non avrebbero mai immaginato. Alfredo aveva capito cosa era successo a Beatrice molto tardi, troppo tardi. Quando al mattino non l’aveva trovata in casa, non si era preoccupato, in Germania succedeva spesso che lei uscisse presto per una eggiata, era una buona abitudine che forse aveva voluto riprendere… Si era fermato in cucina e aveva preparato la colazione, poi si era messo in attesa. Alle dieci era tornato di sopra e aveva cominciato a guardarsi attorno, mancavano gli occhiali, i sandali e la camicia da notte, il cellulare era sul comodino e i suoi vestiti erano a terra
sotto una sedia rovesciata, ma ancora non aveva capito, solo verso mezzogiorno aveva chiamato i carabinieri che erano arrivati in meno di dieci minuti. Il maresciallo sembrava imbarazzato oltre che preoccupato, all’inizio aveva cercato di tranquillizzarlo, era ancora presto per pensare a un rapimento ed era più facile supporre che la signora fosse andata a trovare qualcuno e si fosse trattenuta più del previsto, gli aveva detto, ma lui stesso pareva non crederci e man mano che ava il tempo mostrava un disagio sempre più evidente. In effetti Saluzzo era più angustiato di quanto volesse far credere, in paese stavano succedendo cose incresciose che non sapeva spiegare, dopo anni di tranquillità quasi assoluta, perfino noiosa, a un tratto si ritrovava travolto dal turbinio di una giostra, l’omicidio del Fioravanti, l’arrivo dei poliziotti milanesi e per ultima la sparizione di una donna che giorni prima era stata aggredita nel suo stesso cortile di casa… Tutto sembrava correre troppo velocemente, lui era abituato ad altri ritmi e non era contento della prospettiva che aveva davanti, di prassi avrebbe già dovuto avvisare i colleghi del Comando Compagnia vicino e se non l’aveva ancora fatto era perché intendeva svolgere una piccola indagine personale prima di vedersi scavalcare da commilitoni in borghese con cellulari e orologi al quarzo, odiava ogni ostentazione di modernità. Così aveva ascoltato quanto Alfredo aveva da riferirgli ed era tornato in caserma per sguinzagliare i suoi ragazzi in zona, con loro aveva bussato a tutte le porte del paese senza scoprire alcunché, la maggior parte della gente era in vacanza e quasi nessuno rispondeva al camlo. A pomeriggio inoltrato si era arreso e aveva chiesto aiuto ai colleghi che già stavano seguendo il caso Fioravanti, li aveva aspettati nel suo ufficio, poi li aveva accompagnati sul luogo del presunto crimine, a casa di Beatrice. Pochi minuti dopo la loro uscita, Alfredo aveva sentito suonare di nuovo il camlo e questa volta si era trovato davanti due ragazzi dai vestiti alla moda e dall’aria fin troppo disinvolta, si erano presentati con il loro nome e cognome e avevano detto di esser lì per Beatrice. Ad Alfredo non erano piaciuti, pensava fossero coinvolti nel rapimento, così li aveva fatti entrare, poi li aveva presi per il bavero e spinti contro la parete, uno aveva rovesciato una sedia e vi era caduto sopra, l’altro aveva alzato le mani per proteggersi il viso e aveva chiesto di poter parlare. Lui li aveva fatti sedere e li aveva ascoltati, alla fine ne sapeva di più, ma non abbastanza per ritrovare Beatrice.
La storia era di quelle che lasciavano l’amaro in bocca. Un paio di anni prima alcuni ragazzi del paese avevano scelto i famosi locali a piano terra come loro sede di ritrovo o per meglio dire, come loro fumoir. Venivano da esperienze diverse e negative, nei posti adottati in precedenza c’era sempre troppa gente che ficcava il naso e si lamentava, lì invece, a due i dalla piazzetta, tutto era perfetto, c’era la luce, un fornello per l’inverno e nessun proprietario a cui pagare l’affitto, bastava stare attenti entrando e uscendo e il gioco era fatto. Procurarsi la chiave del cancello era stato facile, uno degli amici abitava nella casa a fianco e aveva potuto fare con calma, per quella del portoncino avevano dovuto cambiare la serratura, ma poi tutto era filato liscio come l’olio, avevano ammucchiato i mobili in una sola stanza, si erano portati dei materassi, dei piumini, uno stereo e poche altre cose, e non avevano rovinato nulla, non avevano scritto sulle pareti, rotto vetri, fuochi, niente, non volevano combinare guai, solo avere un posto dove trovarsi, ascoltare musica e farsi un po’ di fumo. L’arrivo di Beatrice li aveva gettati nel panico, non osavano immaginare cosa sarebbe successo se lei avesse visto lo stato dei due locali, così avevano deciso di rimettere tutto in ordine e di far sparire ogni traccia della loro presenza. La notte dopo avevano aspettato per ore nel buio del sottoscala per essere sicuri che lei stesse dormendo e verso l’una avevano cominciato le grandi pulizie, avevano rimesso i mobili al loro posto, raccolto le bottiglie, i bicchieri e tutto quello che era di loro proprietà, poi avevano arrotolato i materassi e li avevano portati fuori con i piumini. Era stato a quel punto che si era accesa la luce ed era apparsa Beatrice sul poggiolo, loro si erano nascosti e non avevano potuto far altro che colpirla in testa per portare a termine il lavoro. Era stato tremendo, non volevano farle del male, quando si erano chiusi tutto alle spalle lei era ancora svenuta, ma respirava regolarmente ed erano sicuri che si sarebbe ripresa in fretta. Poi avevano saputo della sua sparizione e avevano deciso di farsi avanti per dare una mano. Aveva parlato solo uno, quello dei due che sembrava più sveglio e che ogni tanto si spingeva ad alzare gli occhi per sfidare lo sguardo di Alfredo. Lui lo aveva lasciato dire senza interromperlo, la loro storia aveva senso e sembrava sincera, quelli erano ragazzi viziati e incoscienti, dei piccoli delinquenti che si prendevano quello che volevano senza curarsi del male che facevano, che si spingevano nell’illegalità solo quel poco che bastava per ricavarne benefici, che non si esponevano e non rischiavano… Dopo un lungo silenzio si era rivolto all’altro ragazzo e si era fatto raccontare tutto daccapo e poi ancora una volta
finché era suonato il camlo ed erano entrati Lupo, il cane e per ultima Anna. Per Alfredo vederli era stato un sollievo, in paese non conosceva nessuno, si sentiva angosciato e solo, aveva bisogno di sfogarsi e il loro arrivo gli aveva ridato un po’ di ottimismo. Avevano parlato sottovoce e con la porta chiusa per non farsi sentire dai ragazzi, lì Alfredo aveva conosciuto Anna e ritrovato le effusioni del cane, aveva raccontato e aveva ascoltato, poi si era alzato ed era tornato in soggiorno per sedersi in poltrona e lasciare mano libera ai suoi amici. - Michele, ti rendi conto che sei nei guai, vero? – esordì Anna in tono serio. - Non abbiamo fatto niente di male. - Vuoi dire che saresti contento se qualcuno si procurasse le chiavi di casa tua per andarci di nascosto a bere, a fumare e a fare altre porcate?, che ti piacerebbe? - Beh, no, però erano locali disabitati… - Non giustificarti, piuttosto pensa a un valido motivo per cui Alfredo non vi debba denunciare. - Perché siamo venuti spontaneamente a parlargli… - disse l’altro ragazzo con baldanza. - Ecco bravo, spiegaci perché all’improvviso siete diventati così coscienziosi – la voce di Lupo tagliava come un rasoio – come mai siete qui? - Perché abbiamo sentito che la signora è stata rapita e volevamo dare una mano. - Balle!, sta’ attento bamboccio, non fare il furbo con me perché finisci male. E ora riprova, perché siete qui? – avrebbe voluto prenderlo per le spalle e scuoterlo. - Ma gliel’ho detto, volevamo solo essere d’aiuto – continuò il ragazzo più spavaldo, Gianni. - Alfredo chiama il maresciallo Saluzzo, ce l’hai il numero? – Lupo tirò fuori il cellulare e l’accese.
- Va bene, siamo venuti qui perché avevamo paura – ammise controvoglia Michele. - Di chi? – il telefono brillò per un attimo, poi si spense. - Dei carabinieri, mi sembra ovvio. - Adesso vedremo se è vero, dai chiamali – continuò Lupo. - Non solo… – Michele guardò il compagno e gli ò la parola – dai Gianni, diglielo e facciamola finita. - Se vi raccontiamo tutto, poi chiamerete i carabinieri? – c’era ancora una briciola di arroganza nella sua voce, troppa. - D’accordo, niente carabinieri – disse Alfredo pieno di speranza – comincia. - Qualche giorno prima del trasloco abbiamo avuto un problema – Gianni aspettò un cenno dell’amico per proseguire – non un vero problema, un inconveniente… - Spiegati meglio. - Ci siamo accorti che la casa era sorvegliata – parlava guardandosi le ginocchia, era turbato. - In che senso sorvegliata e da chi? – s’intromise Lupo con impazienza. - Non lo sappiamo, qualcuno stava tenendo d’occhio il cortile, entrava e usciva dal cancello mentre eravamo dentro e noi eravamo preoccupati – disse alzando le spalle. - Chi era?, prova a descriverlo. - Un tipo grande e grosso, molto forte e… incappucciato. - Cosa? – chiese Anna incredula. - Sì, non l’abbiamo mai visto da vicino, per noi era un’ombra con una calza di nylon in testa, nient’altro. - Coraggio Alfredo, chiama i rinforzi – Lupo si voltò a indicare il telefono –
questi ci stanno prendendo in giro e hanno bisogno di una lezione. - Ma avevate promesso di non chiamare i carabinieri – dei due Michele era il meno aggressivo. - Va bene, chiama la polizia, vuoi il numero? - La prego, non lo faccia, cosa vuole che le diciamo, non sappiamo nient’altro. - Prima di tutto chi è questo incappucciato, voglio un nome e una descrizione seria. - Non è possibile signore, mi creda, non l’abbiamo mai visto in volto – Michele era titubante. - Alfredo chiama il 113, muoviti, comincio a stufarmi. - Ma perché fa così, le abbiamo detto tutto – anche Gianni stava perdendo la patina di duro. - Non è vero, tu sai molto più di quanto vuoi farci credere, sei uno stronzetto che fa il furbo e mi hai stufato – Lupo riprese il cellulare e provò di nuovo ad accenderlo – bene, lo chiamo io il 113. - No, non lo faccia, cosa vuole sapere? – disse Michele con un singhiozzo. - Te l’ho già detto. - Non sappiamo chi era quell’ombra, signore, glielo giuro – il ragazzo guardò l’amico e alzò le spalle – però una volta l’abbiamo visto da vicino… - Così va meglio, quando? - Qualche giorno fa – disse Gianni. - Sii più preciso. - Tre o quattro giorni prima del trasloco. - Quando Beatrice non era ancora arrivata, quindi.
- Sì – confermò Michele in un soffio. - E cosa è successo?, dai parla, non farti togliere le parole di bocca. - Stavamo uscendo, di solito lo facciamo uno alla volta per non dare nell’occhio, il primo lascia la chiave all’interno del cancello e l’ultimo chiude e raggiunge gli altri sotto il platano in piazza. Quella sera in coda c’era lui – disse indicando l’amico con un risolino – lo abbiamo aspettato, quando abbiamo visto che non veniva siamo andati a cercarlo e l’abbiamo trovato nella merda. - Spiritoso… - Gianni arrossì fino alle orecchie. - Cos’era successo? - Gliel’ho detto, l’abbiamo trovato che se l’era fatta sotto – ancora una risatina – diceva di essersi scontrato con un gigante che l’aveva sollevato a un metro d’altezza con una sola mano, ovviamente non gli abbiamo creduto, aveva bevuto ed era più facile pensare che soffrisse di dissenteria. - Non ascoltarlo – Anna si rivolse direttamente a Gianni che sembrava disperato – prova a ricordare quello che ti è successo. - Non so bene, forse ha ragione lui, avevo preso delle pasticche che non conoscevo e avevo anche bevuto… - Allora sei proprio scemo – aggiunse lei scuotendo la testa. - Lo so… - il ragazzo aveva le lacrime agli occhi – ho visto quel colosso che mi prendeva per il collo e mi sono messo a ridere, quando mi ha alzato da terra ho provato a urlare, ma avevo la gola stretta in una morsa e mi pareva di soffocare, prima di mollarmi mi ha tirato verso di sé e mi ha detto che non era per niente contento di noi, che stavamo rompendo i suoi piani e che dovevamo andarcene al più presto. Poi sono caduto e mi sono fatto la pipì addosso, solo quella, non il resto. - L’hai visto in faccia? - No, portava una calza scura in testa, di questo sono sicuro perché ricordo di avergli visto battere le ciglia, era orribile e se ci penso mi scappa ancora… Gianni sembrava sincero.
- Nient’altro? – Alfredo sperava in qualcosa di più consistente. - Nient’altro, aveva un buon profumo, non so di cosa, ma era buono. - E nonostante la paura avete continuato imperterriti i vostri incontri. - No, fino alla sera del trasloco non siamo più tornati, tutti mi prendevano in giro ma nessuno aveva il coraggio di farlo, neanche quello lì… - concluse guardando l’amico con sfida – abbiamo rimesso piede nel cortile solo per fare quello che voleva l’ombra, per andarcene. - Questo è tutto – aggiunse Michele – davvero, ne abbiamo parlato tra di noi per sere intere e non c’è veramente altro. - Va bene – disse Lupo mettendogli una mano sulla spalla – e ora spiegateci perché siete qui. - Volevamo essere d’aiuto, gliel’abbiamo già detto. - Balle!, voi eravate terrorizzati dall’idea che qualcuno vi avesse visto e vi collegasse al rapimento, eravate preoccupati per voi, non per Beatrice o per Alfredo. I ragazzi negarono, cercarono di giustificarsi ma senza troppa convinzione, erano stanchi, sudati e afflitti, e quando se ne andarono camminavano distanti come se temessero di sfiorarsi, solo Gianni si fermò un attimo da Alfredo per dirgli che gli spiaceva per sua moglie. Anna li seguì e li raggiunse sul cancello, dal poggiolo nessuno sentì quello che lei disse, ma di sicuro non fu un colloquio piacevole perché i ragazzi cercarono prima di replicare e poi cominciarono a litigare fino a mettersi le mani addosso. Quando lei tornò di sopra aveva ancora gli occhi scuri di rabbia, entrò in casa e si versò dell’acqua in un bicchiere, ne bevve un sorso che le andò di traverso e subito scoppiò a piangere. Lupo cercò di abbracciarla, ma lei lo respinse e andò sul poggiolo a meditare sulla strada che quei giovani avevano imboccato, sulla desolazione che li attendeva se non riuscivano a dare un senso alla loro vita. Quando ritrovò la calma Lupo e Alfredo la stavano aspettando per andare dai carabinieri, non avrebbero fatto i nomi dei ragazzi, ma la loro storia doveva essere raccontata. Anna decise di seguirli, aveva anche lei delle cose da riferire al maresciallo, era il momento di scoprire le carte e non avrebbe aspettato un
minuto di più. In caserma si fermarono poco, solo il tempo di sapere che non c’erano altre novità se non quelle portate da loro, Beatrice sembrava essersi dissolta nel nulla e anche accettando la bizzarra idea di un rapitore incappucciato, non si sapeva dove cercarla. Furono comunque accolti di buona grazia, Saluzzo ascoltò incredulo la storia raccontata dai ragazzi, la considerava frutto di un’immaginazione turbata dall’uso deleterio della droga e quindi priva di fondamento, ma non fece commenti sarcastici e nemmeno negativi. Stavano per salutarsi quando Anna estrasse dallo zaino una pistola e l’appoggiò sul tavolo davanti al maresciallo. Tutti rimasero senza fiato, Lupo per primo che allungò la mano nel vano tentativo di fermarla. - Questa è l’arma che gli ispettori di Milano cercavano a casa mia – Anna era calma, sorrideva. - Una pistola…, cercavano una pistola?, mannaggia a loro… – borbottò il maresciallo bloccando l’appuntato che stava per toccarla. - La guardi bene – insisté lei indicandola col dito. - Ma questa non è una vera arma… - disse stupito. - Esatto, è una scacciacani – confermò Anna con un sospiro – e ora chiami Milano e mi i uno degli ispettori che sono venuti alle Marogne. - Signora, cioè signorina, mi scusi, ma non so più come chiamarla… - si aspettava di essere corretto, attese un po’ prima di continuare – nessuno voleva mancarle di rispetto, in casa sua non è stato toccato niente e poi era presente il signor Lupo, cioè Wolfgang, che ci risulta essere il proprietario, per cui… - Lasci perdere e telefoni. - Mi spiace, ma prima lei mi deve spiegare l’intera faccenda, vorrei capire come mai due ispettori di Milano si sono presi la briga di venire fin qui a cercare una scacciacani a casa sua, cioè di suo marito, o del suo… - lasciò la frase in sospeso – faccia pure con calma, io ho già cenato. Anna guardò Lupo e sorrise, poi fece una breve sintesi di quello che aveva trovato nel suo appartamento di Milano, il suo amico a terra ferito che stringeva
la scacciacani bagnata di sangue, i due orientali che l’avevano stordita, la sua telefonata al 118, la sua fuga in paese fin su alle Falde e poco più. Il maresciallo l’ascoltò con attenzione, poi si spostò in un altro ufficio per chiamare Milano. Al rientro sembrava ringiovanito di una decina d’anni, disse qualcosa sull’incapacità organizzativa di certi settori della polizia di stato che, per quanto si dessero un sacco di arie, si mostravano spesso incompetenti o quantomeno inconcludenti, poi ò ai fatti. I due ispettori che seguivano il caso Ruggeri, la signora Bigazzi e il signor Salemi, erano entrambi in vacanza, era la vigilia di Ferragosto per tutti in Italia, tranne che per i carabinieri, ma stavano per essere rintracciati e avrebbero richiamato fra non molto, per il momento, se volevano favorire, di sopra c’era ancora un po’ d’insalata di riso… Tutti ringraziarono, ma nessuno accettò, Alfredo era sulle spine e voleva tornarsene a casa e anche Neve era inquieto, in giardino aveva scavato un buco enorme come solo un montagna poteva fare. Quando il telefono si mise a suonare tutti balzarono in piedi. Era l’ispettrice Bigazzi che parlò prima col maresciallo e poi si fece are Anna per farsi confermare quello che già sapeva, discussero per qualche minuto, quindi la cornetta tornò in mano a Saluzzo che si profuse in saluti a dir poco esagerati. Poi si schiarì la voce e fece il punto della situazione. La signora Anna era scagionata da qualsiasi accusa legata al ferimento del Ruggeri, che stava ancora male ma non era più in coma, secondo le sue dichiarazioni era stato aggredito da due orientali senza alcun valido motivo, in ogni caso era stato ferito da un coltello e non da una pistola. L’ispettrice sperava che lei avesse la compiacenza di non muoversi dal paese per qualche giorno, contava di rientrare dalle ferie e di raggiungerla al più presto possibile e moriva dalla voglia di conoscere una modella famosa come lei, alla fine aveva anche parlato di fotografie, ma il maresciallo non aveva inteso bene se la Bigazzi voleva essere fotografata con lei o se semplicemente voleva una sua fotografia con autografo…, con tutte le belle professioni che c’erano al mondo, non capiva perché una donna si dovesse mettere in testa di fare la poliziotta, magari l’ispettrice, aveva borbottato accompagnandoli alla porta. Il ritorno fu mesto e silenzioso, Anna e Lupo accompagnarono a casa Alfredo che era stanco e depresso, volevano fermarsi a fargli compagnia, ma lui preferì rimanere solo, doveva pensare a come affrontare le prossime ore, Beatrice aveva dei parenti e doveva decidere se chiamarli o aspettare ancora un po’. Lupo andò
a prendere qualche panino al bar, mangiarono assieme, poi lo lasciarono con davanti una tazza di camomilla che non sapeva di niente e proseguirono a piedi fino alle Marogne con Neve che faceva da retroguardia. Camminarono discosti alla luce della luna che splendeva tonda in cielo, avevano il cuore invaso da sentimenti contrastanti, all’angoscia per la sorte di Beatrice s’univa l’eccitazione di essere per la prima volta assieme davanti a quello che due anni prima era stato il loro sogno, il loro progetto per il futuro. Arrivarono al cortile con le gambe molli per l’emozione, quella che avevano di fronte era casa loro, l’avevano sempre saputo.
Nei quaranta giorni che sono seguiti l’occupazione di Gorizia e Trieste, furono uccise più di cinquemila persone, forse dieci o dodicimila, per la maggior parte fascisti, ma non solo, anche italiani dichiaratamente antifascisti, partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale, sloveni e croati, tutta gente, in sostanza, che non vedeva di buon occhio l’annessione delle due città alla Iugoslavia. Questo era il motivo che determinò la carneficina, più che l’odio per gli italiani e per il fascismo, contò il desiderio di annessione dei territori liberati il 1° maggio e le foibe tornarono a riempirsi e a ossessionare la mia vita.
Capitolo undicesimo
Loris guardò Beatrice con apprensione, dormiva con gli occhi socchiusi e la bocca aperta, era…, era orribile, dalle sue labbra usciva un rantolo leggero che spezzava il silenzio e gli faceva venire la pelle d’oca, che stesse morendo?, no, questo non era possibile…, però non si sentiva tranquillo, temeva di aver esagerato con le gocce, non aveva neanche fatto in tempo a ficcargliele in gola che era crollata in un sonno pesante dal quale sembrava non doversi svegliare. Gli spiaceva, non intendeva arrivare a tanto, ma sua madre a volte era veramente insopportabile. Tutto era andato bene fino a quando lei aveva voluto andare al gabinetto, era già successo per cui non era preoccupato, per niente. L’aveva slegata e accompagnata all’orribile bugliolo che aveva nascosto dietro al paravento, lei aveva chiesto di restare sola, gli aveva rivolto un sorriso così dolce e imbarazzato, così… materno, che non aveva potuto opporsi. Era rimasto vigile, pronto a intervenire e all’inizio tutto era andato bene, aveva udito il fruscio dei vestiti e il rumore di lei che si sedeva sulla ciambella, poi era successo quello che non doveva succedere… Dopo un attimo di silenzio era seguito uno scroscio argentino che gli aveva sconvolto la mente e offuscato la vista, il bianco accecante del paravento si era dilatato fino a sparire e al suo posto era apparsa una cascata di liquido ambrato che cadeva e cadeva sollevando schizzi che s’allargavano in tanti piccoli ventagli luminosi. Una cosa disgustosa. Loris aveva chiuso gli occhi, ma era troppo tardi, un tremito improvviso e violento aveva invaso il suo corpo, aveva sentito il cuore accelerare e battere contro le costole per uscire, aveva provato a recuperare la calma, aveva respirato a fondo e s’era imposto il solito gioco della conta, ma non era servito e ben presto aveva allungato la mano per spostare il paravento. S’aspettava una scena scomposta, qualcosa di sgradevole da dimenticare in fretta e invece non aveva visto nulla perché un getto d’acqua l’aveva investito e riportato bruscamente alla realtà. Il secchio era arrivato subito dopo e l’aveva ferito appena sotto lo zigomo, non era stato niente di grave, ma lui aveva fatto fatica a trattenersi dal massacrare Beatrice di botte. La lotta che ne era seguita era stata breve e dolorosa, non si picchia così una
madre, anche se è stupida come la sua, lo sapeva, ma non aveva potuto farne a meno, le aveva assestato un paio di ceffoni che le avevano fatto are la voglia di mordere e graffiare, poi l’aveva legata alla poltrona ed era corso di sotto per pisciare dal terrazzo, aveva fatto in fretta ma non abbastanza, per cui aveva dovuto farsi la doccia e cambiarsi da capo a piedi, una cosa umiliante. Era tornato di sopra con un diavolo per capello, si era portato il Valium e mezzo bicchiere d’acqua e senza dirle una parola aveva cercato di farle ingoiare una quarantina di gocce, lei si era rifiutata e le aveva lasciate scorrere ai lati della bocca, così le aveva forzato le labbra con il beccuccio del flaconcino e gliele aveva versate direttamente in gola, sperava non fossero troppe, con Renza ne erano bastate settanta per farle credere di poter volare oltre il cortile, fin sopra i giacinti ancora in boccio. Adesso non era contento di quello che aveva fatto, non si tratta così una madre, anche se è una disgraziata che abbandona i figli come la sua, quante volte se l’era detto nell’ultima ora?, ma c’era un limite a tutto… E comunque se più tardi si fosse svegliata e gli avesse chiesto di tornare al gabinetto, lui le avrebbe risposto di farsela addosso, ecco cosa le avrebbe risposto… Si alzò per controllarle un’altra volta il polso, quaranta battiti al minuto, bradicardia congenita o da Valium? Che idiota era stata, pensò sfiorando la lunga catena che pendeva dalla parete, se invece di buttargli addosso il secchio dello sciacquone, avesse accettato la sua nuova situazione, ora avrebbe potuto godere di un regime di maggior libertà, alzarsi, fare qualche o per la stanza, non molto, ma sempre meglio che rimanere legata a una poltrona. Aveva preparato cinque livelli di emancipazione progressiva, cinque aggi che l’avrebbero portata dalla prigionia alla libertà, ma lei non aveva capito, così adesso dovevano ricominciare tutto daccapo. - Te l’avevo detto di non fidarti – la voce di Loretta esplose all’improvviso, era poco più di un sussurro, ma colpì Loris come uno schiaffo, lui s’irrigidì ma non rispose. - Ehi, mi ascolti? – niente, ma Loretta era una ragazza paziente… - Taci – sibilò lui piccato. - Ti sei fidato e lei ha cercato di scappare.
- Smettila, con lei non è una questione di fiducia, ma di tempo, ha bisogno di più tempo per capire, tutto qui! – Nessuna risposta, solo una risata leggera, Loris attese un po’ prima di riprendere il corso dei suoi pensieri. Sì, era stato un errore non concederle maggior tempo, lei non era ancora pronta, non aveva ancora assimilato le novità e accettato il suo nuovo status, per cui era stato lui a sbagliare, non lei. Anche quello che era accaduto al gabinetto era colpa sua, se avesse lasciato il paravento aperto, se si fosse tappato le orecchie e avesse fissato un punto appena sopra la sua testa come aveva fatto la volta precedente, non sarebbe successo niente, ne era sicuro... Si alzò e si mise a camminare avanti e indietro sfregandosi le mani lungo i fianchi, era agitato e questo non gli piaceva, doveva fare qualcosa per ritrovare la calma, l’ideale sarebbe stato avere a disposizione qualche bel ratto peloso, ma era da tempo che non ne vedeva, sembrava si fossero estinti. S’avvicinò al cannocchiale, spostò la tenda per infilarlo nella feritoia, fuori la luce era accecante, era quasi sera, ma il sole sembrava ancora incandescente, in giro non c’era anima viva, spostò l’oculare sul poggiolo della casa dove poco prima aveva visto suo padre agitarsi col maresciallo dei carabinieri, anche lì non c’era nessuno. Suo padre…, Loris non era sicuro che quello fosse suo padre, non sentiva nulla per lui, neanche la più piccola emozione, prima di vederlo non aveva dubbi e si era perfino illuso di somigliargli, ma ora aveva cambiato idea, non gli piaceva per niente, non intendeva costringersi ad amarlo e men che meno voleva coinvolgerlo nei sui progetti. Era da quella mattina che teneva d’occhio il suo andirivieni e la cosa cominciava a preoccuparlo, quell’uomo poteva diventare pericoloso e doveva trovare il modo di neutralizzarlo e tanto peggio se era suo padre. In fondo un padre è tale solo se ti alleva, se si prende cura di te riscattando così il nulla che l’ha coinvolto nella procreazione. Non è come una madre che rimane tale anche se è pazza e ti molla a un’amica, il suo status non cambia con la sua condotta perché è lei che ti ha dato la vita, che ti ha formato cellula su cellula componendo un mosaico che nessun’altra donna al mondo potrebbe eguagliare. Spostò l’obiettivo su due ragazzi che stavano varcando il cancello, da lontano sembravano dei bambini rachitici, bassi e schiacciati a terra come formiche, sapeva chi erano e il fatto che fossero lì non gli piaceva affatto.
- Guarda, guarda chi si vede… – disse Loretta con ironia. - Lasciami in pace, vattene! – sbuffò Loris spostando il cannocchiale e coprendo l’oculare. Tornò a sedere sulla poltrona, si mise comodo e chiuse le palpebre per togliersi quella voce dalla testa, di solito bastava un attimo per farla sparire, lo sapeva, solo un attimo di pazienza… Pensò ai ragazzi che aveva visto poco prima, ma era quasi peggio, scosse il capo e riaprì gli occhi per osservare di nuovo Beatrice, le tastò il polso, ancora quaranta battiti, erano pochi ma stabili e questo gli pareva un buon segno. Le spiaceva tenerla in quello stato, non voleva farle del male, era sua madre e per quanto lei continuasse a negarlo, lui ne era più che mai convinto. Se lei non avesse fatto la stupida adesso sarebbe stata legata a una semplice catena e avrebbero potuto mangiare qualcosa assieme, bere un goccio di vino, chiacchierare... E poi non era contento di vederla coi polsi stretti in quel modo, facevano male, lo sapeva per esperienza, da piccolo aveva ato ore in quella posizione con Renza che gli arricciava i capelli e intanto gli cantava del suo Alfredo Germont, di quanto lo amava e di quanto ne era amata…, era una stronza e anche una puttana, come Violetta del resto. - Comunque la tua Beatrice non è certo migliore – il tono di Loretta era leggero, lievemente canzonatorio – l’hai sentita no?, si è messa a cantare per farti dispetto. - Che c’entra?, quella non era mica la Traviata…, e poi ha smesso subito. - Solo perché l’hai presa a schiaffi. Loris serrò le labbra e strizzò le palpebre, di norma bastava chiudere gli occhi e tacere per farla sparire, ma quel giorno sembrava più eccitata del solito e continuava a rispuntare da ogni parte. La cosa migliore era fingere di non ascoltarla, ma c’era sua madre che poteva svegliarsi da un momento all’altro e non se la sentiva di correre rischi, così se non se ne andava per conto suo avrebbe dovuto ricorrere alle maniere forti, l’idea non gli piaceva perché aveva le braccia già piene di cicatrici e non aveva voglia di farsene altre... Da sempre Loretta non sopportava il dolore e men che meno sopportava la vista del sangue, del suo ovviamente, solo del suo.
- Vattene! - Che ti costa ammetterlo? - Smettila, sparisci! - L’hai anche minacciata con i ragni. Loris si alzò e raggiunse il tavolo appoggiato alla parete, allungò la mano verso le forbici che vi stavano sopra, le sfiorò e come per incanto la stanza ripiombò nel silenzio più assoluto, sorrise e tornò da Beatrice che continuava a dormire un sonno immobile e pesante. Era vero che l’aveva minacciata con i ragni, lei continuava a negare l’evidenza e lui non era riuscito a trattenersi, non avrebbe voluto farlo anche perché non intendeva aizzarglieli contro, non era per niente sicuro che il miele funzionasse ed era terrorizzato dall’idea di non saperli poi controllare. Aveva sbagliato a parlarle in quel modo, si era riproposto di rimanere calmo, di usare la dolcezza e la persuasione e invece si era ritrovato a strillare fuori di testa. Era sceso di sotto come una furia e per punirsi aveva vangato l’aiuola delle dalie, poi quelle dei tulipani e dei fiordalisi, ci aveva messo un’ora a buttare via tutto e a smuovere la terra zolla per zolla e alla fine avrebbe voluto mettersi a urlare per lo scempio che aveva combinato, aveva cercato di consolarsi pensando a quello che avrebbe seminato il giorno dopo, ma aveva un nodo in gola e tanta voglia di piangere. Si era fatto una doccia e si era sentito subito meglio, ma ancora non era calmo, non abbastanza per tornare di sopra, aveva fatto le pulizie e un po’ di sollevamento pesi, poi si era lavato un’altra volta, l’ennesima della giornata, e finalmente aveva ritrovato un certo equilibrio, si era sdraiato per assaporare quel raro stato di grazia, tutto era in ordine, pulito e candido, la sua mente era lucida e in giro non si vedevano ragni neanche a cercarli con la lente d’ingrandimento. Non si vedevano, ma c’erano, su questo non aveva dubbi, Loris era convinto che negli anfratti della casa si nascondessero eserciti di opilioni, di migali, di tarantole e di scorpioni pronti a saltargli addosso. Così quando più tardi era salito di nuovo in mansarda, non era più tanto sereno e forse era per questo che aveva reagito male alla faccenda del gabinetto. Loris vide Beatrice spalancare gli occhi e spostarsi col busto in avanti, fece per
dirle qualcosa, ma lei piegò la testa di lato ed emise un urlo che gli gelò il sangue, poi si lasciò andare contro lo schienale della poltrona e richiuse le palpebre di scatto, non era sveglia, stava ancora dormendo. S’alzò per controllarle il polso, ora gli sembrava leggermente accelerato, le sfiorò una guancia sudata, era fresca e questo gli sembrava un buon segno, le spostò i capelli dalla fronte e rimase indeciso se curvarsi per darle un bacio, poi pensò alle risatine che ne sarebbero seguite e rinunciò. Tornò a puntare il cannocchiale sulla piazzetta, era deserta, vuota come era giusto che fosse alla metà di agosto, spostò l’obiettivo per seguire la strada che portava alla piazza, non c’era un cane, anzi no, un cane c’era, era grande e grosso come una tigre e correva sollevando nell’aria il suo lungo pelo bianco, ogni tanto si fermava, tornava indietro, spariva tra le case e riappariva in un gioco che pareva non stancarlo. Loris pensò alle pulci che in quel momento gli stavano succhiando il sangue e provò un brivido di freddo, forse aveva anche le zecche. Ora la bestia si era fermata ad aspettare, muoveva la testa avanti e indietro come se fosse impaziente di proseguire, ma rimaneva immobile, e lui se avesse potuto, avrebbe preso il fucile del nonno e gli avrebbe sparato, così… solo per vedere il suo padrone incupirsi dal dolore, guardarsi attorno nell’inutile ricerca dell’arma da cui era partito il colpo, disperarsi, mettersi a urlare. Ma quello non era il momento di giocare, si disse inquadrando l’uomo e la donna che avevano raggiunto il cane e stavano attraversando la piazzetta, lei aveva una faccia nota ma non sapeva chi fosse, li vide spingere il cancello della casa di sua madre e sparire su per le scale, la cosa non gli piacque per niente. Si chiese cosa stesse combinando suo padre, prima il maresciallo, poi i ragazzi e infine quei due, gli sembrava eccessivo, ritrasse il cannocchiale dalla feritoia più preoccupato di prima. Beatrice stava ancora dormendo, ma non era più immobile, ogni tanto muoveva una spalla o arricciava il naso come se gli occhiali che lui stesso le aveva infilato, le dessero fastidio. Provò a levarglieli, ma la donna che vide non era più sua madre, così glieli sistemò meglio seguendo le asticciole fin dietro le orecchie. Gli piaceva sua madre, in fondo anche il suo insistere nel negare l’evidenza gli piaceva, lo addolorava ma allo stesso tempo lo inorgogliva, lei era una donna di carattere, pronta a lottare con le unghie e coi denti per difendersi. Anche lui faceva così da una vita, era sicuro di somigliarle. Non vedeva l’ora che si svegliasse, sapeva che sarebbe accaduto di lì a poco,
ormai il suo respiro era leggero, pressoché normale. Spostò la poltrona e si mise comodo davanti a lei, voleva essere la prima cosa che scorgeva aprendo gli occhi, chissà… magari il lungo sonno l’aveva fatta rinsavire e gli avrebbe sorriso come una vera madre, il Valium a volte faceva miracoli. In ogni caso si ripromise di rimanere calmo, doveva usare un approccio dolce, ma deciso e scordare ogni precedente dissapore, non aveva intenzione di rinfacciarle niente, né il suo abbandono né la secchiata d’acqua che gli aveva tirato addosso, il ato è ato, amen, guardiamo al futuro. Era una vita che sognava quel momento, se fosse riuscito nel suo intento avrebbe potuto cancellare anni di disperazione e menzogne, con una madre nuova avrebbe potuto dimenticare quella vecchia, ripulire la mente delle immondizie che lei vi aveva depositato e costruirsi un’esistenza degna di essere vissuta. Sapeva che non tutto poteva essere recuperato, che certe ferite non sarebbero guarite, ma lui s’accontentava di salvare il salvabile, era giovane e con una madre vicino era sicuro di poter vincere le sue paure, perfino i ragni non sarebbero più stati un problema. Appoggiò la testa all’indietro per assaporare questa nuova certezza. - E con il nonno come farai, cancellerai anche lui? – di nuovo Loretta. - Assieme a te. - Non potrai farlo. - Certo che lo farò, ti legherò al letto e ti brucerò assieme a questa casa, se servirà. - Povero illuso… Chiuse gli occhi e si morse le labbra per impedirsi di parlare, per un attimo tornò il silenzio e la pace, poi una vocina leggera iniziò a cantare Parigi, o caro noi lasceremo, la vita uniti trascorreremo: de' corsi affanni compenso avrai, la mia salute rifiorirà.
Loris sentì la saliva corrergli in bocca, ma non cedette, con le mani si coprì le orecchie finché il silenzio, ancora una volta, s’impadronì della sua mente. Ce l’avrebbe fatta, bastava solo volerlo, lui era forte come sua madre e come lei sarebbe riuscito a vivere nel mondo assieme alla gente, con lei avrebbe lasciato la sua prigione e non vi sarebbe più tornato. Due lacrime presero a colargli lungo le guance, le lasciò andare, sarebbero state le ultime, ne era sicuro. Poi Loretta cominciò a parlare, a scavargli trincee nel cervello, fosse putride e malsane che non sapeva dove portassero, la sua voce era una cantilena e lanciava le parole come si scagliano i sassi nello stagno, raccontava. “Quando ho preso la nave ero felice, era alta come un palazzo di Santiago, uno di quelli di cuarenta pisos che dovevi prendere un elevador per arrivarci in cima, sono salito sulla erella con le gambe che mi tremavano, c’era gente davanti e gente dietro, tutti avevano valigie e pacchi, io portavo sulle spalle uno zaino legato con lo spago perché nessuno me lo rubasse, una piccola sacca che conteneva una casa grande come una hacienda e campi, campi e ancora campi, non avevo mutande né calzini, non ci stavano da nessuna parte.” - Taci… “Con una mano mi aggrappavo alla soga cercando di vincere la nausea dell’oceano, con l’altra tenevo il legaccio della mia scatola rossa, aveva dei buchi piccoli come uno spillo ed era piena degli unici amigos che avevo. Un uomo per vivere ha bisogno di poche cose, dinero per non piegare la testa, una donna capace di figliare e amigos, tanti amigos. A me mancava solo la seconda.” - Smettila, ti prego! “La traversata è stata lunga e faticosa, più di quanto immaginassi. La primera noche ho dormito nello stanzone sottocoperta con una quarantina di straccioni, poi mi sono deciso a chiedere una cabina dove poter vomitare in santa pace.” - Ti scongiuro nonno, taci… - ma non era il nonno che parlava, lo sapeva. “Ogni sera scioglievo lo spago della scatola, era grande e coperta da una fitta rete metallica, mangiavo seduto sul mio letto e dividevo il cibo con i miei amigos contando i giorni che mancavano alla fine della nostra prigionia. Col tempo il mio stomaco è tornato normale e anche il mio morale, loro invece sembravano incupirsi sempre di più, si muovevano agitati spostando la cassetta
che pareva quasi animata..., poi è successo l’irreparabile.” - Non dirlo! “Una sera, poco prima della fine del viaje, ho aperto la scatola e ho visto cos’era rimasto dei tanti amigos che mi ero portato, sul fondo c’era ancora qualche resto confuso, ma niente che potesse somigliare alla varietà di esemplari che avevo raccolto, alcuni avevano più di dieci anni e venivano dall’altra parte del mondo. In silenzio ho guardato quel disastro e mi sono messo piangere, era la primera vez.” - No, no, no… - era più un urlo che una preghiera. “Avevo già previsto una cosa simile, le tarantole possono digiunare per giorni e poi divorare ogni cosa capiti loro a tiro, per questo avevo riempito la scatola di ogni tipo d’insetti, ma non mi aspettavo una strage del genere. Erano rimaste una Rosa del Cile, una Zebra e, sia ringraziato il cielo, entrambe le Mangiatrici d’uccelli, le mie amate Theraphosa Blondie, le migliori, le più potenti e le più aggressive.” - Basta! “Non mi hanno mai deluso, erano un maschio e una femmina e con la prima nidiata mi hanno regalato cento hijos che al solo sfiorarli ti facevano star male, poi altri cento e cento ancora, le tenevo in un erbario in giardino, dove scavavano buche ed erano felici, sono rimaste lì per anni, fino a quando…” Loris emise un grido e balzò in piedi, aveva gli occhi sbarrati e una bava biancastra gli usciva dagli angoli della bocca, portò le mani in avanti come per difendersi da un aggressore, poi chiuse i pugni e corse al tavolo poco lontano, prese le forbici e se le conficcò nell’incavo del braccio. Il sangue rosso scuro che gli rigò la pelle riportò la sua mente alla calma e la stanza al silenzio, quando alzò gli occhi incontrò lo sguardo di Beatrice e scoppiò a piangere.
Non ho mai accettato l’omertà sulle foibe, ma nemmeno quella sugli eccidi fascisti, finita la guerra tutti noi ci aspettavamo giustizia e invece abbiamo avuto la sensazione che si stesse attuando un grande imbroglio, un accordo soprannazionale per cui “io non mi lamento dei miei morti se tu fai lo stesso con i tuoi”. È stato come ucciderli due volte. Per anni abbiamo atteso una voce autorevole che fe chiarezza e chiedesse giustizia per le vittime di entrambe le parti, ma non l’abbiamo mai sentita, ci sono state molte lagnanze locali, alcune serie e inascoltate, altre di parte, politicamente schierate e prive di fondamento storico, nient’altro.
Capitolo dodicesimo
Se Anna e Lupo davanti alla loro casa provarono emozioni simili e potenti, Neve, nel suo piccolo, non fu decisamente da meno. Nella sua storia non c’era alcun amore tradito, alcun sogno di vita andato in frantumi e ricomposto quasi per miracolo, eppure l’eccitazione che sentiva poteva stare alla pari con quella degli amici che aveva al fianco, solo che lui non l’esprimeva coi lineamenti tesi e gli occhi luccicanti, ma scodinzolando e guaendo com’era giusto che un montagna fe. Se avesse avuto il dono della parola, una delle poche virtù che in effetti gli mancava, li avrebbe avvertiti del disagio che provava, li avrebbe informati dell’odore insopportabile che proveniva dalla casa, ma come poteva fare?, lui era un cane e per un cane è complicato esternare le proprie intuizioni agli umani, specialmente a quelli che all’improvviso si comportano da stupidi. A Neve spiaceva ammetterlo, ma era così che da un po’ vedeva i suoi amici, erano diversi dal solito, sembravano strani, intontiti, camminavano staccati eppure continuavano a sfiorarsi, una si ava le dita tra i capelli senza accorgersi delle mille scintille fastidiose che spargeva attorno, l’altro parlava gesticolando come se le sue mani non potessero trovar requie in tasca, quasi quasi gli veniva voglia di morderle. In quello stato era impossibile metterli sull’avviso, non ascoltavano i suoi richiami, anzi probabilmente non li sentivano nemmeno e lui cominciava a stufarsi. Avrebbe preferito che si fermassero in cortile e non salissero sulla veranda dove l’odore pareva ancora più forte, che non si chiudessero in trappola da soli… Lui non capiva il bisogno degli umani di vivere in una casa, poteva andar bene nella cattiva stagione, ma non in estate quando l’aria è fresca e deliziosa, il prato grasso e morbido e il cielo pieno di luci… Provò ad abbaiare più forte, ma Anna non lo guardò nemmeno e Lupo gli lanciò un’occhiata da far pena. Erano proprio persi, forse avevano bisogno di qualche minuto per riprendersi e tornare normali, sperava fero in fretta perché lui non era per niente tranquillo. Lupo sentì Neve allontanarsi e provò un attimo di sollievo, con lui vicino gli era difficile concentrarsi, aveva già il cuore in disordine per conto suo, se poi ci si
metteva anche il cane…, davanti alla veranda allungò la mano per sfiorare i capelli di Anna, lei lo guardò senza sorridere e lui capì che sarebbe stato per sempre, la prese tra le braccia e le baciò la fronte, e intanto pensava che doveva tornare a Milano, disdire l’appartamento, portare qui le sue cose, poi andare al Brennero, radunare la famiglia… Anna lo guardò senza vederlo, in mente aveva un ricordo che stentava a mettere a fuoco e che le dava un’emozione nuova, appagante. Alzò gli occhi sul rustico che aveva davanti e sorrise, ci aveva lavorato per mesi senza rendersi conto che stava costruendo la casa che sognava da ragazzina, quella in cui Andreina si rifugiava dopo le sue azioni spericolate, in cui si nascondeva, portava i suoi amici e più tardi i suoi amanti. La prima volta che Andreina aveva fatto all’amore col suo bel partigiano, era stato in un posto del tutto simile alle Marogne, ne era sicura. Anna inghiottì saliva cercando di controllare l’emozione, se Lupo rimaneva con lei, ora non le mancava più niente, era felice e perfino i dubbi sulle sue origini le parevano insignificanti, d’un tratto non era più importante sapere se i suoi genitori l’avevano abbandonata oppure smarrita, se proveniva da qualche accampamento di zingari o se era nata sotto il cespuglio di spine dove era stata trovata. Alzò gli occhi e lo vide sorridere. - Entriamo – disse Lupo quasi per farsi coraggio. - Sì…, ti piace? – e indicò la casa. - È bellissima, non potevi fare di meglio. - Grazie, è tua – disse lei carezzandogli i capelli. Lui le sfiorò le labbra con un bacio, poi spostò lo sguardo sulla veranda e rimase perplesso, la ruota di legno giaceva inclinata a terra, sul primo gradino c’erano una bottiglia di vetro e una rivista che muoveva le sue pagine al vento…, gli venne il sospetto che in casa ci fosse qualcuno, avvertì il ringhio sommesso di Neve e un brivido freddo gli corse lungo la schiena, prese Anna per mano e con lei e il cane tornò sui suoi i, raggiunse la Rav parcheggiata poco lontano e vi si nascose dietro. arono i minuti, ma tutto sembrava fermo e silenzioso, Lupo sorrise, forse si era spaventato per niente, si spostò alle spalle di Anna, la cinse in un abbraccio e le baciò il collo appena sotto l’orecchio.
- Non era questo il rientro che sognavo, comunque… - le sussurrò piano, mentre Neve tornava a far sentire il suo dissenso. - Aspettiamo ancora un po’ – disse lei piegando il viso di lato per incontrare le sue labbra. Lupo le infilò le mani sotto la maglietta, sentì la sua pelle morbida e fresca e subito gli ò la voglia di rientrare, sotto i piedi c’era l’erba del prato, sopra c’erano le stelle e in mezzo loro…, non aveva senso chiudersi in casa, aveva pensato prendendo in prestito un concetto molto caro a Neve, risalì verso il seno, lo sfiorò piano con una carezza, poi tornò a scendere verso il basso e lì si fermò colpito da quanto stava succedendo sulla veranda. La porta si era aperta e si era accesa la luce, un uomo era apparso e avanzava trascinando incerto i piedi, era il giapponese, quello più giovane, più magro e più nervoso, in pugno teneva una pistola che non lasciava dubbi sulle sue intenzioni. Anna lo riconobbe come l’uomo che aveva visto nel suo appartamento a Milano, si girò per dirlo a Lupo, poi si piegò su Neve, lo carezzò e gli sussurrò all’orecchio di star buono. L’orientale si fermò in mezzo al cortile, volse la testa verso la casa e disse qualcosa a voce alta, poi tacque ascoltando una risposta che solo lui udì, si grattò la testa e riprese a parlare. Anna e Lupo rimasero fermi col fiato sospeso, l’uomo sembrava indeciso se proseguire o tornare indietro, camminava insicuro sulle gambe e intanto spostava la pistola davanti a sé come fosse una torcia elettrica, fece ancora un paio di i, poi cominciò a indietreggiare, risalì gli scalini della veranda e oltreò la porta chiudendola con forza. Solo allora Lupo e Anna tornarono a respirare normalmente, forse anche Neve. - E adesso che facciamo? – chiese lei. - Dobbiamo scappare e in fretta anche. - Ma dove? - Non lo so, al Brennero forse, da mia madre – ma non era sicuro che fosse una buona idea. - Sei pazzo?, vuoi coinvolgere anche lei?
- Intanto andiamo da Alfredo, poi decideremo, sei capace di strisciare sull’erba? – le chiese sbirciando sopra la Rav. - Io non l’ho mai fatto, ma Andreina sì. - Chi, la tua partigiana? Lei non gli rispose, grattò la testa a Neve, poi s’accucciò e cominciò a trascinarsi all’indietro, Lupo era al suo fianco e poteva sembrare un gioco, ma non lo era, per niente. Arrivati all’inizio della strada si alzarono e si misero a correre verso il paese, il cane era davanti, veloce e silenzioso sembrava una nuvola bianca che si sollevava al ritmo dei suoi balzi. Lupo lo lasciò andare, non sopportava l’idea di averlo alle spalle, lo vide piegare il capo per guardare all’indietro e per un attimo fu trafitto dal suo sguardo di fuoco. Era bello, non gli piaceva ammetterlo, ma era stupendo. Giunti tra le case non rallentarono la corsa, solo in piazzetta si fermarono per riprendere fiato, aprirono il cancello e scorsero una figura seduta sui gradini in fondo alla scala. Alfredo alzò la testa stupito nel vederli arrivare, la sua faccia era buia come la notte in cui era immersa, balzò in piedi per chiedere cosa fosse successo e per un istante nel suo sguardo apparve un barlume di speranza, poi capì che non erano buone nuove quelle che i suoi amici erano venuti a portargli, si girò e li precedette in casa. Anna si sedette di fronte ad Alfredo per raccontargli quanto era successo, Lupo invece tornò di sotto e si nascose nel buio del portico per controllare i movimenti della piazzetta, Neve ovviamente lo seguì e rimase con lui, se ne stava muto e fermo, col corpo massiccio incollato alla sua gamba. Quando lei li raggiunse sembrava serena, quantomeno decisa, teneva in mano una chiave e sorrideva, per un attimo si curvò sul cane e gli parlò nell’orecchio, lui non pareva contento, scosse la testa e guaì piano, poi s’accucciò e di lì non si spostò più, neanche quando lei si diresse verso una delle automobili parcheggiate in piazzetta. Anna si mise al volante della Polo di Beatrice, con una mano salutò Alfredo rimasto sul cancello, poi avviò il motore e tolse il freno. L’auto si mosse mentre Lupo era ancora in piedi, con un balzo la raggiunse, si sedette e chiuse la portiera, se non si sbrigava rimaneva a terra.
- Andiamo a Milano, non riesco a collegare il rapimento di Beatrice con quello che ci sta succedendo, ma credo che tutto risalga a quanto mi è successo a Trento due anni fa, anche allora sono stata aggredita da due orientali, erano coreani. - Quindi, secondo te, c’entra la droga. - Solo Enrico può dirlo. - Speriamo sia in grado di farlo. Entrarono in autostrada alle 22 e ne uscirono poco prima di mezzanotte, la macchina di Beatrice volò veloce sull’asfalto polverizzando in un soffio i record accumulati da Lupo in tanti anni da pendolare. Anna era contenta, lui un po’ meno. La clinica citata dall’ispettrice Bigazzi era nella periferia orientale della città, Anna la conosceva, aveva un reparto per sieropositivi e vi era già stata un paio di volte con Enrico. Il problema non fu trovarla, fu entrarvi. Il portinaio non li lasciò are, provarono a insistere, ma fu irremovibile, così suonarono al Pronto Soccorso e da lì arrivarono in una sala d’attesa piccola e affollata. Si misero seduti ad aspettare il momento giusto per superare la porta che immetteva ai reparti, su una parete si apriva una finestra dietro la quale un infermiere prendeva nota dei nuovi arrivati. Lupo diede il suo nome, disse che era caduto dalle scale e che aveva perso i sensi battendo la testa. I minuti avano, la gente veniva chiamata per nome e loro non sapevano che fare. Due donne anziane erano sedute poco lontano, quando fu il loro turno s’alzarono a fatica, Anna fece altrettanto, sorrise e ò la porta a vetri tenendole sotto braccio. Lupo non se l’aspettava e rimase senza parole, provò a seguirle, ma l’infermiere gl’intimò di non muoversi, c’erano altre quattro persone prima di lui e doveva solo portare pazienza. Anna consegnò le signore a un’infermiera e si sedette su una sedia fuori dell’ambulatorio, quando restò sola percorse il corridoio finché trovò una porta con la scritta “Personale”, l’aprì ed entrò in un locale immerso nel buio, pochi istanti e riuscì a scorgere il contorno dei mobili, aprì un armadio, al tatto sentì il tessuto ruvido di un camice, lo tolse dalla gruccia e lo indossò, era corto e stretto, così non lo chiuse e arrotolò le maniche fino ai gomiti. Fuori non c’era nessuno, spinse la porta in fondo al corridoio e si trovò
nell’atrio, da lì era facile arrivare dove voleva, sempre che Enrico fosse nel solito reparto… Confidava nella fortuna che fino a quel momento era stata generosa e ancora una volta fu premiata, l’ascensore era spalancato e libero e in un attimo la condusse all’ultimo piano, lì s’apriva un unico corridoio in fondo al quale c’era quello che cercava. Fu a quel punto che comprese di non poter più contare sulla sua buona sorte, vicino all’ultima porta era seduto un poliziotto con tanto di divisa e pistola. Avrebbe dovuto immaginarlo, pensò in preda all’agitazione, fece per tornare indietro, ma l’uomo alzò gli occhi e la vide. - Buonasera – le disse chiudendo la rivista che stava sfogliando. - Buonasera agente, come va? – recitare, che altro poteva fare? - Al solito, una noia da morire. - Capisco…, vuole che le porti un caffè? - No, grazie, è nuova? – sembrava più incuriosito che sospettoso. - Sì, ho preso servizio questa sera e… - E voleva dare un’occhiata alla nostra celebrità – aggiunse in tono ironico. - Quale celebrità? – chiese lei avvicinandosi. - Il nostro paziente più famoso, quello apparso in televisione…, se vuole entrare faccia pure. - Davvero posso? – era incredibile che fosse così facile, che senso aveva mettere di guardia un poliziotto se poi questo lasciava are chiunque? – mi fermerò solo un secondo, grazie. Lui sorrise e tornò a guardare la rivista che aveva sulle ginocchia, la lasciò entrare, poi controllò la foto che era infilata tra le pagine, prese il cellulare e compose un numero, “è qui”, disse prima di togliere la comunicazione e alzarsi. Anna s’avvicinò al letto, accese la luce sopra la spalliera e vide gli occhi di Enrico sorridergli, due tubicini gli uscivano dal naso e la bocca era una linea stretta e dolorosa, era senza capelli e una flebo scaricava nella sua mano un liquido scuro che sembrava sangue.
- Anna, quanto ci hai messo… - aveva la voce roca, quasi impercettibile. - Sono venuta appena ho potuto, non è stato facile. - Lo immagino, come hai fatto a are? - Lo sai che sono piena di risorse – cercò di sorridergli – come stai? - Male, sto morendo. - Non dire così, non sei ferito tanto gravemente. - Io non ho bisogno che i tuoi amici mi accoltellino per crepare, so fare tutto da solo. - Smettila…, perché dici “miei amici”, li conoscevi? – Dio che pena! - No, ma volevano te – fece una smorfia che forse doveva essere un sorriso, poi cominciò a tossire. - E perché mai?, io non so chi siano. - È te che cercano – disse spezzando le parole – dammi da bere, c’è un bicchiere sul comodino. - È per via di Trento? – lei gli porse un cucchiaio d’acqua e subito la tosse si calmò. - Cosa?, che c’entra Trento? – pareva non capire. - Non ti ricordi?, due anni fa mi hai mandato a Trento…, è per questo che ti hanno ferito? – parlava sottovoce ma aveva voglia di urlare, lo prese per il braccio libero e lo scosse un po’, la tosse riprese più stizzosa e una luce rossa s’accese sul monitor a fianco del letto. - Devi andare, tra poco saranno qui – disse lui con un sospiro – Trento non c’entra niente, e neanche io c’entro, è te che vogliono. - Ma non è possibile, ti sbagli – gli fece bere dell’altra acqua. - In via Masai…, sono stato in via Masai…, nel ‘79 hanno bruciato una casa,
adesso c’è una piscina…, sono morte tre persone, la più piccola non era una bambina… - stava perdendo lucidità, sembrava confuso. - Come non era una bambina…? - Era troppo grande per la sua età, e poi a lei non hanno sparato, è morta asfissiata. - Qualcuno ha sparato a della gente in via Masai? - Sì, a degli stranieri arrivati da poco, io ho parlato con uno che li ha conosciuti – aveva il respiro affannoso – quello che c’è sul Corriere è falso. - Sul Corriere della Sera?, Enrico, non capisco niente, spiegati meglio… - La polizia non ha indagato a fondo, erano forestieri e nessuno ha reclamato i loro corpi. - Ma perché mi racconti tutto questo, che c’entra con noi? – lui però sembrava non ascoltarla. - Sono stato anche in Istria e poi a Trieste, sta’ attenta, è pericoloso. - Ma che stai dicendo, perché è pericoloso?, chi sono i due che ti hanno aggredito? - Sono assassini, sono stato io a portarli qui…, mi dispiace Anna, volevo farti una sorpresa, una bella sorpresa… - spostò lo sguardo sulla porta che si era aperta per far entrare un uomo in camice bianco. - Chi è lei e che ci fa qui? – disse brusco il nuovo arrivato – dov’è il poliziotto di guardia? Anna si scostò dal letto, non voleva andarsene, aveva ancora delle domande da fargli. - Ma cosa vogliono da me? – tornò a chiedergli. - Venga via! – il medico l’afferrò per il camice e la tirò verso la porta. - La lasci stare, è un’amica – provò a dire Enrico, ma la sua voce era un sussurro
quasi impercettibile, così, con fatica, alzò il braccio libero e si strappò la flebo dalla mano. - Fermo! – gridò il dottore bloccandosi all’istante. - Anna, cerca nel tuo sgabuzzino, guarda bene… - continuò Enrico mentre osservava il liquido scuro spargersi sulla sua pelle e colare sulle lenzuola. Sul monitor s’accese una nuova luce, un camlo si mise a suonare e il medico fu costretto a scegliere, lasciò Anna e s’avvicinò al letto. Lei corse fuori e in un attimo si trovò in corridoio, poi nell’ascensore e infine nell’atrio. Lì tutto era tranquillo, non c’erano camli che suonavano, né gente che scappava, si obbligò a rallentare il o e a ritrovare la calma, trasse un respiro profondo e assunse un atteggiamento assonnato, adeguato all’ora e all’ambiente, sullo sfondo s’aprivano le vetrate dell’uscita principale a fianco della quale c’era la portineria e oltre il buio più totale. Strinse i pugni, li infilò in tasca e s’avviò decisa verso la meta, sulla sinistra incrociò la porta che conduceva al Pronto Soccorso, la stava superando quando, con uno schiocco metallico, uno dei battenti si spalancò per lasciar are un’infermiera che spingeva una sedia a rotelle. La donna era bionda, alta e muscolosa, con una mano stringeva il manubrio e con l’altra premeva come una morsa sulla spalla di un paziente irrequieto e litigioso. - Le ho detto di stare fermo o chiamo qualcuno che la leghi, ha capito? – l’accento straniero rendeva comica la situazione, Anna abbassò lo sguardo e vide l’uomo fissarla accigliato. - Che succede? – chiese in tono autorevole. - Devo portarlo alla Tac, sul lettino non vuol stare, sulla carrozzella neanche, è peggio di un bambino. - Dallo a me, faccio io – e allungò la mano – va’ a prenderti un caffè, ne hai bisogno. - E tu chi sei per darmi ordini?, fammi are – e si rimise a spingere. - Ti ho detto di andare, hai capito?, non è questo il modo di trattare i pazienti, vuoi che chiami il primario? – Anna vide l’infermiera dubbiosa, trattenne il respiro in attesa di una sua decisione.
- Okay, è tutto tuo, sposatelo! – disse la donna abbandonando la sedia per tornare indietro, Anna prese il suo posto e s’avviò verso l’uscita. - Che idiota! – disse Lupo tra i denti – tu, non lei…, pensavi di lasciarmi qui e filartela da sola? - Taci o ti porto sul serio alla Tac – gli intimò Anna oltreando la guardiola, il portinaio s’alzò per offrirsi d’aiutarla, lei gli sorrise, scosse la testa e proseguì verso i sei poliziotti che li aspettavano appena oltre la vetrata. Anna li vide e scoppiò a ridere, Lupo avrebbe voluto imprecare, ma la situazione era talmente assurda che preferì imitarla, gli unici a non divertirsi sembravano gli agenti, in particolar modo l’ispettore Salemi, che pareva stravolto dal sonno e dalla stanchezza. Arrivarono alla centrale senza baccano, senza sirene e senza lampeggianti, e questo fu un vero sollievo, l’ispettore sparì per qualche minuto e quando tornò aveva la faccia umida e l’espressione più cordiale, si vedeva lontano un miglio che era soddisfatto di aver portato a termine una buona operazione, li fece sedere attorno a un tavolo rotondo e fece portare del caffè. - Signora Mascagni, sono contento di conoscerla, sono giorni che la stiamo aspettando – si avvicinò alla parete, girò il cartello che vi era appeso, poi si accese una sigaretta soddisfatto – cosa le ha detto il Ruggeri? - Niente, era intubato e non aveva neanche la forza di parlare. - Ne è sicura?, guardi che non può permettersi di scherzare con noi, lei è nei pasticci, lo sa vero?, la clinica sporgerà denuncia per la sua intrusione e... - Non credo le convenga, ne ricaverebbe una pessima pubblicità. - Staremo a vedere…, in ogni caso io confido nella sua collaborazione, sono tornato dalle ferie apposta per lei e spero che non mi deluderà – l’ispettore si mise a ridere, non valeva la pena metterla giù dura – vediamo di ripartire col piede giusto, vuole cominciare lei signor Grimaldi?, cos’è successo dopo che ci siamo lasciati nella sua casa in mezzo agli olivi? Lupo si stirò sulla sedia, guardò Anna che sembrava stanca e le sorrise, indossava ancora il camice bianco, le stava piccolo e pareva una farfalla chiusa
in un bozzolo troppo stretto, tra poco sarebbe uscita e avrebbe preso il volo, ne era sicuro, l’aiutò a toglierlo, poi tornò a sedersi e cominciò a parlare. Raccontò quanto era successo in modo conciso e decisamente parziale, in pratica non disse molto, si limitò a confermare quanto avevano già detto al maresciallo Saluzzo, quasi niente quindi. Poi chiese di rivedere le fotografie segrete, le chiamò così e fu contento nel notare l’imbarazzo di Salemi, quando questi gliele porse, lui le ò ad Anna che cominciò a sfogliarle con attenzione. Subito nella stanza calò il silenzio, tutti aspettavano un suo commento, un’esclamazione. - Mi spiace ma non mi dicono niente, non riconosco nessun posto e nessuna persona, zero. - Non ci credo – disse Salemi in tono serio, neanche Lupo le credeva. - Davvero, sono fotografie vecchie e non so cosa dovrei trovarvi di tanto interessante. - Non lo so nemmeno io, ma mentre le osservava non sembrava per niente indifferente. - Mi dispiace, ma non posso aiutarla, magari dormendoci sopra… - Sta offrendosi di tornare domani o di fermarsi a farci compagnia? – Salemi sorrise. - Si figuri…, pensavo che ne avesse delle copie e che potesse prestarmele, tutto qui. - Mi spiace, ma non è possibile – disse tendendo la mano. - Dove le ha trovate?, questo almeno può dircelo? - Le aveva addosso il suo amico quando è stato ferito – riprese l’album e lo rimise nel cassetto – se desidera rivederle sono a sua disposizione. - E oltre alle foto cosa ha trovato – lo vide incupirsi – a casa mia, intendo. - Nient’altro, neanche un grammo di eroina, una siringa, una pipetta di vetro,
niente…, o il Ruggeri di colpo è diventato un santo o ci ha preso in giro alla grande. - In che senso scusi? – provò a insistere lei. - Nel senso che il suo amico è nel giro della droga fino al collo, ma quando lo troviamo in fin di vita e con l’intestino sul pavimento, è pulito come un uovo, non le sembra strano? – s’alzò, spense la sigaretta e prese la giacca dall’attaccapanni – andiamo, vi faccio portare alla macchina da uno dei ragazzi, dove posso trovarvi domani mattina? - Da me – disse Lupo – credo che sappiate il mio indirizzo. - Puoi scommetterci amico – disse Salemi con l’accento del poliziotto americano, e tutti scoppiarono a ridere. Lupo fermò l’auto sotto il palazzo di Anna, stavano ancora parlando delle fotografie e non voleva interrompere il discorso, lei sosteneva di non aver riconosciuto nessuno e che si era incuriosita, forse anche emozionata, solo davanti al bambino col cucciolo dalla stella in fronte, da piccola ne aveva uno simile. Lui cercava di ricordare dei particolari che gli parevano importanti, l’uomo coi baffi, la chiesa col campanile sottile…, ma era tempo perso, così decisero di salire, era tardi e volevano dare un’occhiata all’appartamento prima di andare a dormire. Anna entrò dalla porta col cuore che le batteva nelle orecchie, in soggiorno c’era una macchia scura che s’allargava sulla moquette, tutto il resto era pulito, chi aveva frugato nelle sue cose lo aveva fatto con cura, rimettendo poi tutto a posto. Diede un’occhiata in giro mentre un freddo glaciale cominciava a invaderle il corpo, la stanza da letto era in ordine, il bagno anche, in cucina trovò una tazza sporca con un cucchiaino, nient’altro, poi tornò all’armadio a muro dell’entrata, dentro c’erano poche cose, qualche scatola, un ombrello, una borsa, delle scarpe, un plico di asciugamani e uno di lenzuola. - Cosa cerchi? – chiese Lupo. - Enrico ha farfugliato qualcosa su uno sgabuzzino, credo si riferisse all’armadio a muro. - Spostati, faccio io, qui la polizia avrà già controllato per bene – si mise a
guardare gli scaffali di legno pensieroso, poi afferrò le cose che vi stavano sopra e le appoggiò a terra – chissà cosa volevano da lui quegli orientali… - Ha detto che cercavano me e che lui non c’entrava niente, e neanche Trento. - Sei sicura di aver capito bene? – liberò i ripiani, poi li tolse uno a uno e cominciò a tastare la parete di fondo e le mattonelle del pavimento – forse voleva dire che non era colpa sua. - No, ha precisato che cercavano proprio me – lei si sedette sul tappeto e appoggiò la testa al muro – non ha senso, lo so, ma è la stessa cosa che ha detto il tizio alle Marogne e quindi dev’essere vero. - Chi ha detto cosa? – Lupo si girò a guardarla. - L’orientale, quello che ci stava aspettando a casa – chiuse gli occhi, era stanca – ha parlato di un cane che abbaiava e di una ragazza, di una modella. - Cosa? - Sì, e ha detto pure che se gli capita a tiro qualche lupo, gli spara in mezzo al muso, credo si riferisse a te – sorrise, aprì gli occhi e solo allora s’accorse di quanto era stupito – che c’è? - Come fai a saperlo? - Come faccio a sapere cosa?, mi sembra logico, ha parlato di un “lupo”, probabilmente conosce il tuo nome – poi tacque pensierosa. - Perché non mi hai detto che capivi quello che diceva? - E quando lo facevo?, mentre correvamo verso il paese? – era sulla difensiva – e poi non me ne sono neanche accorta e ho afferrato poco, solo qualche parola. - Che lingua era? - Non lo so. - Come non lo sai?, conosci una lingua e non sai che lingua è?, non è possibile – le si avvicinò e la prese tra le braccia, tremava, nell’appartamento si soffocava
dal caldo, ma lei aveva freddo. - Non lo so e basta, a scuola ho studiato inglese, ho fatto un corso di se e due di tedesco, basta, non conosco nessun’altra lingua – lo allontanò bruscamente – hai finito?, possiamo andare? - No, ancora un momento – Lupo tornò a tastare le mattonelle, sembravano tutte ben salde – prova a concentrarti su quello che hai sentito, dai fallo per me. - Smettila, ho freddo e voglio andare via, ti prego – si alzò in piedi, fece una paio di i ma non si allontanò. Lupo salì su una sedia per sbloccare l’anta rigida dell’armadio, poi si fece portare un coltello per smuovere la mattonella che stava a metà dell’apertura, era spessa e pesante e picchiandoci sopra sembrava uguale alle altre, ma non lo era, sotto vi era nascosto uno spazio stretto e profondo, dove con ordine Enrico aveva stipato i suoi tesori. I minuti che seguirono furono densi di emozioni. Anna prese le bustine di eroina e le svuotò nel gabinetto, quando azionò lo sciacquone sorrise nel vedere lo sguardo preoccupato di Lupo, mise le fiale in un colino di plastica e le pestò sul lavandino con il fondo di un bicchiere, poi buttò tutto nel sacchetto mezzo vuoto delle immondizie e si lavò le mani. Sul tavolo erano rimasti gli orecchini d’oro che credeva di aver perso, un orologio massiccio che non aveva mai visto e una busta gonfia e ingiallita dal tempo. La prese e l’aprì con mani tremanti, quasi aspettandosi il peggio, era indirizzata all’Ufficio Postale Centrale di Milano, sotto c’era scritto “Fermo Posta” e un numero di aporto, dentro c’era un’altra busta con l’indirizzo di una certa Letizia Giudice che abitava in via Della Ginnastica a Trieste. Anna sfilò la lettera che vi era dentro, una decina di fogli scritti su ambo i lati con una penna blu che bucava la carta, e cominciò a leggere. Lupo le si mise dietro, ma il testo era solo parzialmente in italiano e a lui risultava difficile da comprendere, così tornò in cucina, preparò del caffè e attese in silenzio che lei arrivasse all’ultima riga. Alla fine Anna alzò gli occhi, fece una smorfia e si strinse nelle spalle. - È una storia bellissima, incredibile e terribile – disse guardandolo dubbiosa – ma non c’entra niente con me.
- Però l’hai capita. - Quasi del tutto, comunque è stata scritta nel 1979 a Rovigno e io in Croazia non conosco nessuno. - Hai detto Croazia? - Beh, è lì che si trova Rovigno, a quel tempo faceva parte della Iugoslavia. - E tu conosci la lingua croata…, l’orientale alle Marogne parlava croato, vero? - A questo punto credo proprio di sì, ma continuo a non capire. - Dai raccontami cosa c’è scritto – le disse accompagnandola al divano – va’ piano, m’interessa tutto. Lei riprese in mano la lettera di malavoglia e iniziò a tradurla a grandi linee saltando interi paragrafi. Lupo la lasciò fare, poi le chiese di ricominciare daccapo e con maggior precisione, lei si rifiutò, era stanca e voleva dormire, ma lui non le diede tregua e alla fine dovette cedere. Anna iniziò a piangere verso la metà della seconda pagina e continuò fino all’ultima, le parole le uscivano chiare quasi non fossero turbate dall’emozione, ogni tanto si fermava e tornava indietro per trovare il senso di quanto non capiva, poi riprendeva senza dar segno di stanchezza, solo alla fine si lasciò andare e scoppiò in singhiozzi irrefrenabili. Lupo l’ascoltò in silenzio perché da un pezzo aveva capito chi era la piccola principessa citata più volte nella lettera, la lasciò proseguire scoprendo con lei la prima traccia del suo ato, alla fine l’abbracciò e le sussurrò parole dolci, d’amore, frasi che non aveva mai detto a nessuna donna e che forse non aveva mai pensato, le parlò della loro casa e del loro futuro, di figli e anche di cani, di entrambi poteva averne quanti ne voleva, bastava che fosse felice. Smise solo quando si accorse che stava dormendo, allora l’adagiò sul divano e la coprì con un plaid, poi tornò a concentrarsi sulla lettera, sperava che Anna si fosse addormentata prima della sua promessa sui cani, al solo pensiero di una casa piena di quelle bestiacce gli venivano i brividi. La svegliò poco dopo, l’Intercity per Trieste partiva alle sei e qualche minuto, almeno così gli avevano assicurato per telefono, e avevano appena il tempo di
farsi una doccia e bere un caffè. Arrivarono alla stazione in anticipo, acquistarono i biglietti e in un bar presero un bicchiere di latte e una brioche, poi salirono sul treno mezzo vuoto e finalmente tornarono a parlare della lettera. Anna capiva il croato, senza mai averlo studiato lo conosceva in modo discreto, se non addirittura buono, questo faceva pensare che lo avesse imparato negli anni della sua prima infanzia e che fosse proprio lei la piccola Irma, la principessa di cui parlava la lettera ancora nelle sue prime righe. Se l’ipotesi era corretta, allora si poteva supporre che lei fosse la nipote di Italo Rosović, la bambina scappata da Rovigno con i genitori e ritrovata abbracciata a un cane sotto un cespuglio in un parco di Milano. Cosa fosse successo quel lontano agosto del ‘79, Anna non lo sapeva, la sua mente aveva scelto la strada dell’oblio e in un attimo aveva spazzato via ogni ricordo che potesse farla soffrire, gli affetti, i luoghi della sua infanzia, perfino una delle due lingue abitualmente parlate in casa. Era un’ipotesi, una buona ipotesi. La lettera era stata spedita da Italo Rosović a sua zia Letizia Gentile di Trieste, che a sua volta l’aveva inviata “Fermo Posta” a Milano in una busta che portava un doppio timbro postale, uno di andata e uno di rientro giustificato dalla scritta “rispedita al mittente” in stampatello maiuscolo. Il plico quindi era tornato in via Della Ginnastica e lì era rimasto fino a che qualcuno, forse Enrico, chi se non lui?, l’aveva riportato a Milano. Quindici giorni prima Anna aveva incaricato l’amico di are dal suo vecchio collegio per ritirare un pacco di quaderni e pagelle destinate al macero, l’istituto era chiuso da anni e l’ultima suora stava per trasferirsi in un altro convento. Era un lavoretto semplice e veloce, lui doveva presentarsi a nome suo, prelevare il dovuto e tornarsene a casa, invece era incappato in qualcosa che lo aveva portato in Istria, poi a Trieste e infine all’ospedale. Che la lettera fosse tra le cose di Anna in collegio era da escludersi, nell’armadio avevano trovato una scatola con dentro quanto doveva esserci, le pagelle delle elementari, quelle delle medie, alcuni quaderni e un paio di libri, c’era anche un elenco dettagliato del suo contenuto senza alcun riferimento a missive scritte in croato e men che meno a fotografie dei tempi andati. Il treno correva veloce e intanto loro parlavano e parlavano senza riuscire a
superare il vicolo cieco in cui si trovavano, le certezze erano poche e si perdevano in un mare di dubbi. Probabilmente la suora aveva raccontato a Enrico il mistero del suo ato, lui si era incuriosito e aveva svolto una ricerca sulla stampa del tempo, lì aveva trovato la notizia di un incendio avvenuto lo stesso giorno della sua apparizione nel parco, era andato sul posto e aveva rintracciato qualcuno che conosceva le vittime, che si ricordava di una bambina che forse era morta nel rogo o forse no, che sapeva perfino da dove venivano. L’ipotesi era suggestiva, ma non risvegliava in Anna alcun ricordo. S’addormentarono chiedendosi a chi appartenesse il terzo corpo trovato in via Masai, forse a una vicina o a un’altra straniera…, quando si svegliarono erano a Mestre, mancava poco alle nove e Anna aveva il volto stravolto, sembrava in preda all’angoscia, ma rimase zitta fino a quando ripresero posto sulla coincidenza per Trieste. - Ho rifatto il mio solito sogno – disse portandosi le mani al viso. - L’incubo col sangue sui muri della cucina? - Sì, solo che questa volta è iniziato prima, ero in un cortile piccolo e vuoto, c’era silenzio, non ricordo un solo rumore fino al primo colpo di pistola – si mise a piangere, ma quando Lupo fece per abbracciarla, lei lo allontanò – ho visto una bambina accompagnare due uomini su per una scala, ero io, ne sono sicura, ci siamo fermati su un pianerottolo, si è aperta una porta ed è apparso un uomo, forse mio padre, siamo entrati in una stanza, lì ho udito il primo sparo e ho visto il sangue schizzare sulle pareti bianche. Il sogno si ferma qui, ma ora ricordo anche quello che è successo dopo, la mamma è arrivata dall’interno, era terrorizzata, si è buttata addosso ai due uomini e mi ha detto di scappare. Sono giunta in fondo alle scale in un attimo e mi sono messa a correre a più non posso, a un certo punto mi sono fermata, ho abbassato lo sguardo e ho visto delle macchie sul vestito, mi sono spogliata e ho ripreso a correre, quando mi è mancato il fiato mi sono nascosta in un cespuglio e solo allora mi sono accorta che Stella era con me. - Stella? - Il cane della fotografia di Salemi, il bambino e l’animale eravamo io e Stella, l’unico mio legame col ato. - Oh, Cristo!
- È morto quando avevo dieci anni, in collegio – aggiunse soffiandosi il naso in un fazzoletto di carta. - Così ora siamo sicuri che la lettera è stata scritta da tuo nonno. - Sì, credo proprio di sì. - Rimane da chiarire come abbia fatto Enrico a trovarla – era importante saperlo. - Certo, e anche come si sia permesso di indagare sulla mia vita senza dirmelo. - Voleva farti una sorpresa e di sicuro non pensava di suscitare un simile vespaio. - Sì, me l’ha anche detto – aggiunse lei con un sospiro – quando l’ho chiamato, mi ha chiesto di tornare subito a Milano, io me la sono presa comoda e quando sono arrivata era ormai troppo tardi. - Non potevi immaginare quello che sarebbe successo – la questione era seria e cominciava a preoccuparlo – comunque, ora che abbiamo capito in che genere di guai ci siamo cacciati, io propongo di lasciar perdere, appena arrivati in città prendiamo il primo treno e torniamo indietro. - Prendilo tu, io non posso. - Perché?, guarda che la faccenda è pericolosa, hai visto Enrico che fine ha fatto e non è lui che stanno cercando, ma te – sapeva che non l’avrebbe convinta, ma gli pareva doveroso insistere – devi sparire, trovare un posto dove nasconderti per un po’ di tempo. - Io non ho paura, abbiamo lasciato gli orientali in paese e nessuno sa dove siamo diretti – dalla voce traspariva curiosità, eccitazione, Lupo la capiva, al posto suo avrebbe fatto lo stesso – in ogni caso non tornerò indietro, non prima di aver capito chi sono, da dove vengo e perché ce l’hanno con me. - Ma sai già tutto… - Non è vero, so molte cose ma non tutto, so che mi chiamo Anna, ma che in realtà sono Irma, che sono nata il 29 giugno del ’73 e non il 30 agosto come credevo – tacque e per un attimo rimase soprapensiero – ehi, non sapevo che il mio compleanno fosse già ato, avevo promesso di festeggiarlo con Norma
alle Falde… – e sorrise, finalmente sorrise e tese le braccia verso Lupo che s’inginocchiò ai suoi piedi per stringerla forte. Anche la signora seduta poco distante sorrise, volse lo sguardo altrove, ma poi tornò a osservarli, li vide felici e sentì una stretta al cuore di cui subito si vergognò. Arrivarono a Trieste alle undici, un taxi li portò in via Della Ginnastica, dove per fortuna qualcuno si ricordava ancora della vecchia signora che abitava all’ultimo piano in compagnia di cani e gatti. A metà degli anni Novanta aveva cominciato a perdere la memoria, a confondere le persone e a smarrire la strada, così, in un momento di lucidità, aveva sistemato le sue bestie e si era trasferita in una casa di riposo per anziani, Villa Serena, vicino al mare. Era ancora là, vecchia con la pelle incartapecorita dal tempo, con la mente che si perdeva nei meandri della memoria per poi ripiombare nella desolazione del presente, ma ancora viva. Si fermarono con lei un’ora, non di più, poco per recuperare un ato lungo una vita, abbastanza per ricollegarne i fili brutalmente spezzati. Anna si fece annunciare come Irma, la nipote di Italo, ma quando l’anziana signora alzò gli occhi, fu Giuliana che vide, sua sorella, quella che aveva piantato tutto per sposare uno slavo mentre lei doveva sobbarcarsi anche la sua parte di lavoro in sartoria. - Lo sapevo che saresti tornata, quello non era un uomo per te, te l’ho detto fin dall’inizio, io non ho niente contro Duran, ma è un croato e tu sai come sono fatti i croati – si era ata la mano sulla fronte, prima di riprendere – Italo dov’è?, non l’avrai mica lasciato a Podhum, vero? Anna avrebbe voluto interromperla, spiegarle chi era in realtà, ma aveva un nodo in gola ed era presa dall’immagine di sua bisnonna, si chiedeva quanto le somigliasse realmente. - E lui chi è?, non è tuo marito… – disse la donna guardando Lupo, più che incuriosita sembrava preoccupata – Giuliana, che stai combinando? - Zia Letizia, non sono Giuliana, sono Irma, la figlia di Sonja, ti ricordi di me? – Anna parlò con voce commossa e subito qualcosa cambiò nello sguardo dell’anziana. - Sei Irma?, la piccolina? – ora pareva lucida – ti è piaciuto il regalo?, Italo mi ha
scritto che tua madre non voleva dartelo, aveva paura che ti mordesse. - Stella…, sì l’ho ricevuto, è stato il più bel regalo della mia vita, grazie zia. - Ne ero sicura, un cane aiuta i bambini a crescere, sempre, ne ho regalato uno anche a tuo nonno quando era piccolo – poi tornò al ato, a quando il tessuto non voleva rimanere in piega e i clienti stentavano a pagare, a quando i fascisti credevano di essere i padroni del mondo e gli slavi le vittime dell’universo. - Signora Letizia – disse Lupo togliendosi di tasca la busta ingiallita – si ricorda di questa? - E lei chi è?, si faccia vedere giovanotto – aveva piegato la testa all’indietro per guardarlo meglio, poi aveva fatto un gesto sprezzante con la mano – ah sei tu…, perché non hai consegnato la lettera a mia nipote?, e le fotografie?, dove sono le mie fotografie? - Le ho io, zia Letizia, non ti preoccupare, ho tutto io – s’intromise Anna prendendole una mano. - Ah, bene, allora siamo a posto, ma di’ a tuo nonno che venga a prendersi anche il resto prima che i topi se lo mangino – poi cambiò argomento – dov’è tua madre, in negozio? - Sì…, è al lavoro – provò a dire Anna, ma la vecchia signora pensava già ad altro, era lontana e sembrava nervosa. - E voi chi siete?, come avete fatto a trovarmi? – tornò a chiedere in preda all’ansia – Italo aveva promesso di non dare il mio indirizzo a nessuno, siete ustascia? - No zia, sta’ tranquilla… - disse Anna carezzandole la mano, ma lei non l’ascoltava più, era scivolata di nuovo nel ato, a quando aveva lasciato la casa di Piazza Mazzini tirandosi dietro un paio di valige pesanti come il piombo, a quando gli angloamericani avevano abbandonato Trieste e lei tremava al pensiero che tornassero gli slavi… Continuò così per qualche minuto, poi chiuse gli occhi e si assopì. Se ne andarono in punta di piedi portandosi via solo qualche conferma e il nome di una piazza, niente di più, sul taxi chiesero all’autista qual era il modo più
veloce per raggiungere Rovigno e lui si diresse al molo dove conosceva qualcuno disposto a portarli via mare. Per strada si fermarono prima in banca e poi in un negozio di alimentari, era l’una e il loro stomaco era da un bel po’ che se n’era accorto. Il marinaio era giovane, poco più di un ragazzino, il suo motoscafo invece era vecchio, ma filava leggero volando sulle onde increspate dal vento. Il cielo era limpido e il sole sembrava bruciare la pelle, Anna si protesse gli occhi con una mano e osservò Lupo mangiare il suo secondo panino, si era levato la maglietta e la canottiera lasciava intravedere le fasce muscolari del torace, era un piacere guardarlo. Si girò verso il paesaggio stupendo che stava venendo loro incontro, Rovigno era una penisola che si sporgeva sul mare, le case a picco sull’acqua ricordavano Venezia e i suoi colori, più in alto s’innalzava una chiesa, Anna si domandò se vi fosse mai entrata, se era lì che i suoi genitori si erano sposati, poi vide il porto e cercò di ricordare la sua partenza in quella notte lontana…, niente. Il motoscafo si fermò sul molo a nord di Rovigno, sulla riva c’erano turisti che eggiavano, più in là un piccolo parco con prati, alberi e panchine quasi tutte occupate, erano a due i dalla città vecchia. Anna e Lupo si guardarono attorno in cerca di qualcuno a cui dover render conto del loro arrivo, un poliziotto, un doganiere…, nessuno li stava osservando e il ragazzo che li aveva portati sembrava tranquillo, aveva legato la gomena a un pilastro di ferro sulla banchina e stava contando il denaro che gli avevano dato, duecento euro per l’andata e la promessa di altri trecento per il ritorno, sempre che si fossero presentati prima delle otto, lui lavorava al porto e il suo turno cominciava alle dieci. - Sei sicura? – chiese Lupo – guarda che siamo ancora in tempo, ci prendiamo un gelato e ci sdraiamo al sole, che ne dici? - Andiamo. Si diressero verso quello che il loro marinaio aveva chiamato Teatro, in Trg Valdibora, lì imboccarono la Giuseppea Garibaldija e la seguirono fino alla Trg Matteottija dove persero l’orientamento, dovettero chiedere a un ante che parlava un italiano dall’accento veneto per arrivare a quella che un tempo era stata Piazza Vittorio Emanuele III e che ora si chiamava Trg Tita. Giunti sul lungomare Obala Pina Budicina, proseguirono fino a Trg Pignaton, quella che un tempo era stata Piazza Mazzini, era lì che dovevano arrivare.
La casa era alta e stretta, il colore giallo slavato la distingueva da quelle vicine che erano più grandi e decisamente più curate, era formata da tre piani su ognuno dei quali si aprivano quattro finestre con le imposte chiuse, a livello del terreno c’era un portoncino di legno consunto con un’apertura centrale coperta da una grata di metallo. Era una casa come le altre e sarebbe stato difficile riconoscerla se non fosse stato per il nome riportato sotto il camlo d’entrata, “N. Rosović”. - Nikola Rosović – esclamò Lupo – quello citato più volte nella lettera! - Non è detto che sia lui. - Ma sì, vedrai che è così, Italo ha lasciato tutto a suo zio Nikola… - Questo vorrebbe dire che è morto. - Speriamo di no – aggiunse Lupo suonando il camlo.
Capitolo tredicesimo
Rovigno, 18 agosto 1979 Carissimi, siete ancora vicini e già vi scrivo, non siete ancora al porto e già mi mancate. Che dire di questa desolazione che sento invadermi il cuore, che a tratti mi strazia e a tratti mi esalta, in un’alternanza che mi affatica la mente, vi sembra mai possibile che assieme alla sofferenza del vostro distacco, mi senta contento di sapervi lontano? Lo so che non vi rivedrò più, da giorni conosco la mia sorte e so cosa m’attende dietro le curve che piegano il corso della mia strada, ma credetemi, non ho paura, da quando siete partiti il dolore che avverto non mi è più nemico, m’aiuta a ricordare che siete vivi, liberi e salvi, che nessuno potrà farvi del male. Questo è quanto chiedo al futuro, solo questo. Cara Sonja, bambina mia, ti ho vista piangere mentre stringevi al petto la mia piccola principessa addormentata, lo so che hai capito, tuo marito insisteva nel chiedermi dove e quando vi avrei raggiunti, ma tu stavi zitta e lasciavi che la maglietta di Irma assorbisse le tue lacrime. Hai ragione tu, le nostre strade qui si dividono e il viaggio che mi preparo a compiere non mi porterà da te, sono malato e il tuo affetto, la tua vicinanza non potranno guarirmi. Mi hai detto che sono crudele, ma non è vero, non mi resta molto da vivere e non voglio andarmene prima di aver chiuso la parentesi che si è aperta dinanzi a me quarant’anni fa, devo farlo. Abbi cura della piccola Irma, proteggila da ogni male come io ho cercato di fare con te, lei è il mio futuro, l’unico che mi rimane, e se puoi parlale di me, dille che il nonno era orgoglioso di lei, che le voleva bene anche se non le raccontava mai le fiabe, dille che avrebbe voluto farlo, ma che aveva la testa piena di brutte storie che temeva riprendessero vita e gli uscissero di bocca per rovinarle il sonno.
E sii serena, concentrati su quello che devi fare, ora che sei lontana anch’io cercherò di portare a termine un compito che fino a poco fa mi era negato. Questa notte non dormirò, ho troppe cose nella mente, ho bisogno di ordine, così scriverò una lettera, una lunga lettera che comincia con un addio e continua con una storia. Quando la riceverai forse non ci sarò più, ma tu conoscerai quello che per paura e anche per pudore, non ti ho mai detto e avrai una risposta alle tante domande che da bambina mi hai posto e alle quali non ho mai potuto rispondere. Sarà una lettura dolorosa, ma alla fine, vedrai, ti sentirai bene. Spedirò questa lettera a zia Letizia, non lo farò direttamente per cui confido che arriverà a destinazione senza problemi, ci penserà lei a fartela avere all’Ufficio postale di cui ti ho già parlato. Bene, da dove posso cominciare?, non so…, da me, dalla mia infanzia, dal nostro Paese che tu conosci ma forse non del tutto. Ti ricordi quante volte mi hai chiesto di raccontarti della nostra storia, del nostro ato?, bene, ora finalmente sono pronto a farlo, a far luce sul fondo della foiba in cui ho seppellito i miei ricordi, alcune cose le sai già, porta pazienza non sono molte, vedrai... La nostra è una terra di buchi, fosse profonde che sfiorano l’inferno. Io sono nato a Fiume, a Rijeka come diciamo adesso, ma ho vissuto gran parte della mia infanzia tra i prati e le forre dell’entroterra, papà lavorava al porto e quando poteva mi portava a Podhum, un paese dal destino tragico e ingiusto, dove però un cognome croato era la norma, non l’eccezione. Tra quei sassi i nonni possedevano una casa e una stalla, erano poveri come tutti i contadini del Carso, ma non stavano male, avevano pecore, capre e mucche e da loro non mancava né da mangiare, né da lavorare. Lì stavo bene, in paese gli italiani non erano molto apprezzati, ma io ero un mezzosangue e venivo accettato nonostante il nome scomodo che mi ritrovavo. Alla mia nascita la mamma aveva avuto l’idea di chiamarmi Italo per bilanciare il cognome Rosović di papà, era il suo modo di favorire un processo d’integrazione culturale che era ben lungi dal venire, una mera illusione e una pessima esperienza per me. Così mi capitava di essere chiamato “Italo il fascista” a Podhum e “Rosović čevapčići” a Fiume, ero poco amato e spesso osteggiato da entrambe le parti, ma c’era chi stava peggio e in fondo io non me la avo tanto male, specialmente
dai nonni che vivevano fuori paese e quindi lontano dai guai. Da loro c’erano i cugini e gli zii che mi mancavano in città, tra i tanti zio Nikola era il mio preferito, era poco più vecchio di me, ma io stravedevo per lui, era il mio idolo, lo è tuttora. So che la gente a quel tempo non era felice, che c’erano tanti problemi dovuti alla convivenza forzata di due popoli che avevano una lingua e una cultura differenti, lo so perché vivevo quei problemi sulla mia pelle, perché quando ero sulla costa mi sentivo slavo tra gli italiani e quando ero all’interno diventavo italiano tra gli slavi, ma in famiglia dicevano che era colpa dei fascisti e che bastava mandar via loro per ritrovare l’equilibrio, per cui non mi preoccupavo più di tanto, e poi ero piccolo e di quel periodo ricordo solo l’insofferenza per la scuola italiana e per certe leggi ingiuste, quelle che storpiavano i nomi della gente e dei posti, per esempio, che trasformavano Rosović in Rosovi e Grobnik in Grobnico, nient’altro. Poi nel gennaio del ’36 hanno ucciso papà, io avevo undici anni e da allora i miei ricordi si sono fatti più precisi. Al porto di Fiume gli operai avevano indetto una manifestazione contro la guerra di Spagna, stavano marciando lungo il molo quando vicino allo sbocco del canale sono stati raggiunti e aggrediti dalla milizia. I carabinieri, che fino a quel momento avevano seguito il corteo senza intervenire, hanno colto l’occasione per caricare, sul suolo sono rimaste senza vita sei persone, quattro italiani e due slavi, non si è mai saputo chi fosse stato a sparare. In caserma sono state portate decine e decine di manifestanti, degli italiani non si è più saputo niente, dei croati invece si è fatta subito chiarezza, ancora il giorno dopo sono stati restituiti alle famiglie come cadaveri, erano stati fucilati in quanto traditori della Patria, tra questi c’era mio padre. A quel punto non aveva più senso vivere a Fiume, la mamma era senza lavoro e benché italiana in una città in gran parte italiana, non le si perdonava di aver fatto due figli con un croato, un sovversivo per giunta, così era partita per Rovigno dove sua sorella, zia Letizia, gestiva la sartoria di famiglia e da tempo le chiedeva di tornare per darle una mano. Da quell’anno sono tornato a Podhum solo d’estate, dopo la fine della scuola, ogni tanto zio Nikola veniva a trovarci, ma si fermava poco, un giorno, al massimo due, considerava Rovigno una città italiana e nelle sue piazze si sentiva
straniero. In quel tempo ho conosciuto Milan Karelić, un ragazzo strano che nell’arco della sua vita ha cambiato spesso nome, ora è conosciuto come Milovan Karlović, il mio incubo peggiore. Era più grande di me di una decina d’anni, ma a me non piaceva, era spesso arrogante e aggressivo e io gli stavo alla larga; alla mamma però faceva pena e ogni tanto gli affidava delle commissioni intenerita dal fatto che era un orfano e un mezzosangue come me. Aveva il sorriso accattivante, era servizievole e piaceva a molti, ma era una serpe, un vero irresponsabile. A distanza di anni ho maturato l’idea che dietro l’incendio in cui sono morti i suoi genitori, ci fosse la sua mano, lui sosteneva di essersi svegliato circondato dalle fiamme, ma quando è giunto in paese per chiedere aiuto, il fuoco era già al tetto della casa e lui era vestito di tutto punto e puzzava di benzina oltre che di fumo. Adesso non ho dubbi che già a quel tempo Milan fosse un criminale, ma allora suscitava soltanto comione, era un ragazzo sfortunato e la sua propensione alla rissa era accettata come lo scotto da pagare a una vita infelice e precaria, anche mia madre ne era convinta, e quando fu accusato di stupro da due ragazzine che vivevano accampate fuori città, gli andò bene ancora una volta, erano nomadi e non furono credute, la parola di un mezzosangue valeva poco, ma quella di due zingare ancora meno. Il fatto però aveva attirato l’attenzione delle forze dell’ordine e lui che era malvagio ma non stupido, aveva preferito togliersi di torno, così per qualche anno non l’ho più visto e quando è ricomparso sulla mia strada ho stentato a riconoscerlo. Nel frattempo avevo aperto gli occhi su molte cose, ero cresciuto e mal sopportavo l’opinione ingiusta e offensiva che dilagava negli ambienti slavi lontani dalla costa, dove chiunque era italiano era considerato fascista e solo fascista. Era un’equazione sbagliata e io lo sapevo bene, mia madre e mia zia erano decisamente antifasciste come molti dei loro amici che più tardi sarebbero morti nel tentativo d'impedire ai tedeschi di occupare la città. Eppure in quegli anni era così che spesso venivano identificati gli italiani, io ci rimanevo male perché mi sentivo lacerato dalle due anime che erano in me, una si ribellava davanti a certe stupide generalizzazioni, l’altra era propensa a comprendere, a giustificare.
Non era facile vivere con distacco gli avvenimenti del tempo, sulla costa si dava per scontato che l’Istria fosse terra italiana, ma all’interno i contadini la pensavano in modo diverso. Io mi trovavo in mezzo a queste due realtà e faticavo a trovare la mia strada, quando mi sembrava di aver raggiunto un certo equilibrio, capitava che arrivasse zio Nikola e mi buttasse tutto all’aria, era lui che mi spiegava, che mi portava gli esempi dell’inaudita brutalità con cui il regime fascista cercava d’italianizzare l’Istria, negli ultimi tempi non si trattava più di cambiare il nome di un paese, di togliere qualche consonante a un cognome troppo complicato, ora c’erano villaggi interi distrutti, bruciati, c’era bestiame razziato, c’erano furti, stupri, violenze, omicidi… E poco alla volta la responsabilità del dolore, del sangue e della morte che caratterizzarono quegli anni, fu addossata agli italiani, non allo Stato fascista, alle forze dell’ordine o ai gerarchi locali, ma a tutti gli italiani, anche a quelli che non c’entravano niente. Era un’idea profondamente errata oltre che ingiusta, zio Nikola ne era consapevole e come lui molti altri, ma i contadini dell’interno erano disperati e non avevano più lacrime per piangere e nemmeno voglia di sottilizzare, per loro erano gli italiani la colpa di tutto, solo gli italiani. Io ascoltavo dubbioso quello che lui mi raccontava, sapevo che era sincero, ma una parte di me ancora non voleva credergli, così quando nel luglio del ’42 mi sono trovato in mezzo all’uragano, non ero ancora pronto e ho creduto di soccombere, di non riuscire a sollevare la testa al di sopra del mare in tempesta. Ero a Podhum da poco, quell’anno ero arrivato tardi e disobbedendo alla mamma che non voleva lasciarmi partire, da amici aveva saputo che in zona era in atto una vasta operazione militare alla ricerca di chi aveva ammazzato due insegnanti italiani, e riteneva che fosse pericoloso. Aveva ragione, ma era proprio per questo che io volevo raggiungere il paese, sapevo cosa diceva zio Nikola delle crudeltà di cui si erano macchiati i due maestri e volevo immergermi di persona in quello che stava succedendo, avevo quasi diciassette anni e solo questo può giustificare la mia stupidità. Sono arrivato dai nonni il dieci luglio, mi aspettavo tensione, rabbia, perfino combattimenti e invece ho trovato una calma irreale che avvolgeva, quasi soffocava l’intera zona di Grobnik, sono rimasto deluso, ho aspettato un paio di giorni, ma tutti facevano le cose di sempre, per cui mi sono convinto che fosse meglio tornare sulla costa dove almeno c’erano gli amici, il mare…, non l’ho fatto e questo è stato un errore, perché all’alba del 13 luglio il paese è stato
messo a ferro e fuoco. Di quanto è successo io non ricordo molto, solo di essere stato preso e portato in una cava poco lontana, mi ero addormentato nel letto vicino a mio cugino e mi sono svegliato in un incubo. Più tardi ho saputo che tutte le case di Podhum erano state saccheggiate e bruciate e il bestiame razziato, che novantun uomini erano stati fucilati, uno era un bambino di tredici anni, e che quasi novecento persone avevano preso la via dei campi d’internamento, tra questi c’ero anch’io assieme a quattrocento bambini, a donne e vecchi che a malapena si tenevano in piedi. Ho lasciato la cava con gli occhi che mi bruciavano, piangevo e non sapevo se per il fumo che c’era nell’aria o per quello che mi stava succedendo, ando vicino a un recinto pieno di pecore, ho visto Milan Karelić discutere con dei militari, non capivo cosa ci fe a Podhum, poi qualcuno mi ha spiegato che era arrivato con loro, che era la carogna che comperava dai soldati il bestiame razziato ai contadini, e io, per la prima volta, ho sentito di odiarlo con tutto me stesso. Credo sia stato quello il momento in cui ho smesso di considerarmi un ragazzino e mi sono sentito uomo, un uomo pieno di paura, che piangeva e tirava su col naso, ma pur sempre un uomo. Io ero cambiato, com’era cambiato il mio Paese e anche la storia, solo che fino a quel momento non me n’ero reso conto. Nell’aprile dell’anno prima l’Italia e la Germania avevano invaso la Croazia e la Slovenia stravolgendo gli assetti nazionali e creando dal niente nuovi stati. Sapevo di tutto questo, ma mia madre cercava di tenermi lontano dalla politica temendo ritorsioni contro la nostra famiglia, quasi da subito si era sentito parlare della “resistenza”, di giovani che lasciavano i paesi per andare a combattere contro l’invasore, tra questi c’era anche zio Nikola e io avrei voluto essergli al fianco. Sembrava un gioco, ma non lo era e ben presto me ne sono reso conto. La reazione italiana alle incursioni partigiane fu feroce, furono istituiti tribunali speciali e di guerra e si costruirono campi di concentramento un po’ ovunque, solo sul territorio iugoslavo ne sorsero una trentina, in essi arono decine di migliaia di persone e ne morirono almeno settemila. Io fui destinato al campo di Arbe, o di Rab come lo chiamavamo in croato, che si trovava sull’omonima isola, quando siamo arrivati era appena stato aperto, ma le tende erano vecchie come la paglia su cui dormivamo, doveva ospitare seimila
internati, ma nei suoi quattordici mesi di vita ne alloggiò quindicimila, per lo più sloveni, croati ed ebrei, guardati a vista dai soldati e dai carabinieri, lì vi trovarono la morte più di millecinquecento persone. Non voglio ricordare la vita nel campo, in questi ultimi tempi si è scritto e letto molto sull’argomento e non serve che lo faccia anch’io, nei lager nazisti c’erano i forni crematori, in quelli italiani no, ma ci si ammalava e si moriva lo stesso, e s’incontravano persone sadiche che godevano nell’umiliare gli altri, nel farli soffrire. Io sono stato fortunato, ero giovane e forte, ho preso la scabbia e la dissenteria due volte, ma sono sempre guarito, mi chiamavo Italo e forse questo mi ha reso simpatico ai miei secondini, il mio piatto di minestra era sempre pieno e qualche volta ricevevo due fette di pane al posto di una, credo che se non fossi stato il nipote di Nikola Rosović mi avrebbero lasciato andare. Lo zio era arrivato al campo due giorni dopo di me, lo avevano preso poco lontano dal paese, il nonno era stato fucilato nella cava e la nonna era morta per strada mentre la trascinavano via dalla sua casa in fiamme, e lui era tornato per seppellirli, qualcuno diceva che lo stavano aspettando e io ancora non capisco come mai non l’abbiano ammazzato sul posto. Quando potevo stavo con lui, era una gioia sentirlo parlare, lo ascoltavo spiegarmi la storia del nostro Paese, delle nostre disgrazie e delle nostre speranze, diceva che tutti gli uomini erano uguali, che avevano pari dignità sia i prigionieri legati alle catene che i loro aguzzini armati fino ai denti, che la differenza stava nel loro pensiero e nelle loro azioni, non nella loro lingua, e che io potevo essere italiano oppure croato, non aveva importanza, non cambiava il fatto che ero sempre il solito Italo Rosović… Mi piacevano i suoi discorsi, io li memorizzavo e poi li portavo in giro per il campo, ero l’unico che poteva muoversi con una certa libertà, a volte li ripetevo anche ai soldati che ridevano e scuotevano la testa con condiscendenza, alcuni mi davano perfino ragione. Poi nel ’43 le cose sono cambiate, nell’aria si sentiva profumo di pace e le condizioni di vita del campo sono migliorate di colpo, il cibo era sempre schifoso, ma i malati vennero trasportati in alcuni alberghi dell’isola trasformati in ospedali, e tutti eravamo eccitati. Il 25 luglio abbiamo accolto la notizia della caduta del fascismo cantando, i soldati e i carabinieri ci hanno lasciato fare in silenzio, sembravano imbarazzati. Poi la sera dell’8 settembre abbiamo saputo
dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati e nel campo è scoppiata un’euforia generale che ha coinvolto anche alcuni soldati, ci abbracciavamo e ballavamo convinti che la guerra fosse finita, non era così ma la gioia di quelle ore è stata l’emozione più intensa di tutta la mia vita. Più tardi ci siamo riuniti in assemblea e abbiamo eletto la nuova amministrazione del campo, abbiamo ammainato la bandiera italiana con le lacrime agli occhi e abbiamo disarmato i militari che poi sono stati portati al porto di Rab, per quanto ne so nessuno ha subito ritorsioni, solo un colonnello è stato processato e fucilato, un sadico che si era fatto odiare perfino dai suoi sottoposti. Il 15 settembre sono sbarcato sulla terraferma con l’intento di raggiungere mia madre a Rovigno, avevo le gambe che mi tremavano ma non avevo intenzione di fermarmi. Qualche ora dopo lo zio Nikola mi ha raccolto sul suo camion diretto a Fiume e solo allora mi sono calmato e sono scoppiato a piangere. Sono arrivato a casa il mattino del giorno dopo, mia madre non c’era, la porta e le finestre erano sprangate e io non capivo perché, anche zia Letizia era sparita. Le strade e le piazze sembravano deserte, mute, guardandomi attorno avevo la sensazione che la gente fosse fuggita o se ne stesse chiusa in casa a leccarsi le ferite, qualche giorno prima sul Leme e a Dignano era stata bloccata una colonna di tedeschi che proveniva da Trieste, sul suolo erano rimasti molti morti, tra gli antifascisti c’erano degli italiani di Rovigno e ora la città si aspettava il peggio. Quello che è successo in Istria subito dopo l’8 settembre, ha dell’incredibile. Le strutture amministrative e militari dello Stato non opposero alcuna resistenza e in un paio di giorni i Carabinieri, gli Alpini, perfino la Fanteria Costiera e la Guardia di Finanza abbandonarono i depositi, le armi, le installazioni, i magazzini e le riserve di viveri, alcuni soldati si unirono addirittura agli insorti, solo in un caso la guarnigione sparò sulla folla uccidendo tre civili. Subito Trieste, Gorizia, Fiume e Pola vennero occupate dalla Wehrmacht, ma all’interno dell’Istria s’instaurò un vuoto di potere nel quale le formazioni partigiane e la rivolta dei contadini crearono un clima di terrore insostenibile per gli italiani. Tutto ebbe termine il 13 ottobre, quando i tedeschi s’impadronirono della penisola aprendo un nuovo scenario di terrore. Furono trentacinque giorni di follia collettiva. Più tardi zio Nikola mi ha spiegato che i partigiani avevano ricevuto l’ordine d'isolare i gerarchi fascisti senza infierire contro la popolazione italiana, e all’inizio fu così, solo all’inizio
però. Ben presto la rabbia trattenuta prese il sopravvento e portò a una vera e propria caccia all’uomo, dove spesso fascista veniva identificato con italiano e dove le responsabilità di qualcuno venivano generalizzate ad altri. Fu una vera tragedia, molta gente colse l’occasione per vendicarsi di quanto aveva subito, qualcuno inventò accuse per puro opportunismo e nelle carceri i colpevoli si mescolarono agli innocenti; con l’avvicinarsi dei tedeschi molti furono liberati, altri scapparono, troppi morirono e furono inghiottiti dalle viscere della nostra terra. Si presume che in quei giorni sparirono nelle foibe dalle cinquecento alle settecento persone, fascisti italiani, ma non solo, anche antifascisti, membri del Comitato di Liberazione Nazionale e sloveni e croati. Il giorno del mio arrivo a Rovigno, però, tutto questo non si era ancora consumato, per cui io non ero preoccupato e poi non pensavo che i partigiani se la prendessero con mia madre, era socialista e molti lo sapevano. Finalmente verso sera sono riuscito a rintracciare zia Letizia, se ne stava nascosta in casa di amici, da lei ho saputo quello che da solo non avrei mai immaginato. Mia madre era stata portata nel carcere di Pisino con l’accusa di aver collaborato con i fascisti, mia zia si era salvata solo perché era in sartoria quando tre uomini avevano bussato alla loro porta. Era una calunnia assurda e ridicola, eppure qualcuno l’aveva formulata dando il via a un processo che ben presto avrebbe portato a un tragico epilogo. Sono partito per Pisino con il cuore in gola e la testa che mi scoppiava, cercavo di indovinare chi potesse aver inventato quelle accuse, ma non riuscivo a capire, sapevo che non avrei dovuto perdere tempo, che la cosa migliore era cercare zio Nikola per chiedergli aiuto, ma volevo prima vedere mia madre e pensavo di farlo più tardi. Questo fu il mio primo grande errore. Sono arrivato sul posto che era buio e ho dovuto aspettare il giorno dopo per parlare con uno dei responsabili della prigione. Ho raccontato la mia verità, ma l’accusa verso mia madre era partita da qualcuno molto in alto, una persona competente che aveva lavorato coi fascisti fino a poco prima, di cui non ci si fidava molto, tanto è vero che si trovava in prigione, ma che si credeva fosse a conoscenza di tutte le infamie commesse dal regime nella regione. Al momento non ho capito che stavano parlando di Milan Karelić, l’ho saputo più tardi dalla bocca di mia madre. L’ho vista al tramonto per pochi minuti, è stato un incontro straziante con lei che
piangeva e io che non le badavo per non perdermi neanche una parola di quello che diceva, se avessi pensato che era l’ultima volta che la vedevo, mi sarei comportato diversamente. Da lei ho saputo del ritorno di Milan a Rovigno e della sua vendetta contro le zingare che l’avevano denunciato, erano state trovate nude in una discarica fuori città con gli occhi mangiati dai topi, i polsi legati con il filo di ferro e la gola tagliata. Avevano la mia età e mia madre si era messa a capo di una delegazione e si era recata in Comune a chiedere giustizia, portava una lettera firmata da centinaia di persone e Milan era stato di nuovo costretto a scappare. Ma non aveva dimenticato e quando era stato catturato dai partigiani aveva cercato di salvarsi imboccando la strada della delazione, per primi aveva denunciato i gerarchi che lo avevano arricchito, creandosi così una palese credibilità, poi gli amici che lo avevano accompagnato nelle sue tristi scorribande e infine le persone che lo avevano infastidito se non addirittura umiliato. Mia madre era una di queste, con lei sono finiti a Pisino altri sette innocenti, due dei quali dichiaratamente antifascisti, Milan invece era stato portato a Pinguente dove prima dell’arrivo dei tedeschi fu liberato assieme a tutti gli altri prigionieri. I detenuti di Pisino furono meno fortunati, quando si sparse la notizia che la Wehrmacht era ormai vicina furono fucilati, qualcuno riuscì a fuggire, non mia madre. E io non ero lì, ero andato in cerca di zio Nikola convinto che solo lui avesse l’autorità e la credibilità per liberare mia madre, avevo ragione, ma avrei dovuto farlo prima, quando siamo arrivati a Pisino il carcere era vuoto e dei corpi dei fucilati non c’era traccia. Ho ato tre giorni a cercare il cadavere di mia madre, sapevo cosa si diceva in giro, ma io ho continuato a farlo senza ascoltare niente e nessuno, quando ho smesso mi sono unito a un gruppo di partigiani col palese intento di setacciare paese su paese alla ricerca di Milan Karelić. Non l’ho trovato, a quel tempo era a Trieste a contare i soldi che aveva depositato in banca in anni di infamia, e non ava notte che io non mi svegliassi convinto di essere sull’orrido cratere di una foiba ad ascoltare i lamenti di mia madre che si spegnevano pian piano. Ho cercato Milan dappertutto e dappertutto ho trovato le sue tracce, aveva razziato mezza Istria, ma non solo, si era spinto in Slovenia arrivando fino a Lubiana che nel ’41 era diventata provincia italiana, e non aveva risparmiato il Regno di Croazia a cui nel frattempo era stato imposto un Savoia come re.
Ovunque aveva disseminato dolore e rabbia, ma questo invece di renderlo più fragile, lo aveva trasformato in mito, qualcosa di temibile e spaventoso, capace di recare dolore e di uccidere senza lasciare traccia, e a poco a poco, nella mia fantasia, la sua immagine si è sovrapposta a quella delle foibe, quei buchi profondi e malsani che divorano senza mai essere divorati. Un paio di volte l’ho sentito vicino, mai abbastanza per poterlo raggiungere, le sue tracce riguardavano il ato, nel presente sembrava volare senza poggiare i piedi a terra, c’era chi riteneva fosse in Italia, chi a Belgrado e chi addirittura credeva di averlo visto tra i partigiani di Zara, di sicuro era abbastanza ricco per sospendere le sue razzie e abbastanza intelligente per prepararsi una vita nuova in quello che ormai si capiva sarebbe stato il futuro della nostra terra. Per mesi e mesi ho continuato a cercarlo preso tra incubi e sogni di vendetta, e intanto combattevo i tedeschi che, aiutati dai fascisti, seminavano morti a migliaia al loro aggio. A differenza di zio Nikola che si spostava un po’ ovunque, io non ho mai lasciato l’Istria, una volta mi sono spinto fino a Postumia dove i partigiani avevano incendiato il deposito di esplosivo nascosto nelle grotte ed era in atto una forte rappresaglia nazista, ma non sono mai andato oltre. Sono stati mesi di paura e di rabbia, ma stranamente anche d’amore. Ho conosciuto tua madre vicino a Pola, è stato lo zio ad affidarmi a lei poco dopo aver lasciato Pisino, era più grande di me di una decina d’anni e se mi sono salvato sia nella mente che nel corpo lo devo a lei, al suo equilibrio e alla sua esperienza. Era il comandante del mio gruppo e all’inizio pensavo fosse un uomo, era rispettata e temuta da tutti, ma era anche umana e dolce come nessuna donna era mai stata con me tranne mia madre, me ne sono innamorato subito, forse ancor prima di scoprire chi era veramente. Lei mi prendeva in giro, mi chiamava “bambino” in italiano e tutti ridevano per la dedizione che le mostravo, poco alla volta però anche lei si è innamorata e allora tutto è cambiato, i miei incubi si sono allentati e sono tornato a sorridere come era giusto che fe un ragazzo di neanche vent’anni. Il primo maggio del ’45 siamo entrati a Trieste e tu sei nata esattamente il giorno dopo, mentre le truppe neozelandesi prendevano posto in città. Eri prematura, piccola e leggera come una piuma, tua madre ha voluto che la portassi lì per darti alla luce e poi morire, diceva che prendere Trieste era come prendere l’Italia intera e che nascere lì voleva dire nascere liberi.
È morta per un’emorragia sottovalutata nell’eccitazione del momento, l’ospedale era pieno di feriti e io non so dare la colpa a nessuno di quello che è successo se non alla mia stupidità, quando ho imbracciato il fucile per chiedere a un medico l’attenzione che tua madre meritava, lei era già spirata. Ti ho dato il suo nome e ti ho riportato a casa da zia Letizia, era l’unica cosa che potessi fare. Così di quanto è accaduto in quei giorni a Trieste io non so niente in prima persona, ero tutto preso a leccarmi le ferite che ancora una volta la vita mi aveva inferto, è stato zio Nikola a raccontarmi quello che io avrei preferito ignorare. La storia non insegna niente a nessuno e gli uomini sono sempre pronti a commettere gli stessi errori, sono sicuro che anche adesso, mentre ti sto scrivendo, in qualche parte del mondo c’è qualcuno che sta massacrando qualcun altro in nome di un’idea priva di senso. I fatti che erano successi nel ’43 non avevano disgustato solo me, molti compagni si erano detti inorriditi dalla caccia all’uomo che aveva sconvolto l’Istria dopo l’8 settembre e che aveva offuscato gli ideali della lotta partigiana, e ora tutto stava succedendo di nuovo. Nei quaranta giorni che sono seguiti l’occupazione di Gorizia e Trieste, furono uccise più di cinquemila persone, forse dieci o dodicimila, per la maggior parte fascisti, ma non solo, anche italiani dichiaratamente antifascisti, partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale, sloveni e croati, tutta gente, in sostanza, che non vedeva di buon occhio l’annessione delle due città alla Iugoslavia. Questo era il motivo che determinò la carneficina, più che l’odio per gli italiani e per il fascismo, contò il desiderio di annessione dei territori liberati il 1° maggio e le foibe tornarono a riempirsi e a ossessionare la mia vita. In quei giorni io ero preso da te che eri fragile e che stentavi a trovare il tuo posto nel mondo, pesavi poco, due chili scarsi e sputavi il latte che cercavo di darti, piangevi senza sosta e io ero convinto che non saresti sopravvissuta all’estate e mi preparavo a un dolore che ero sicuro mi avrebbe ucciso. Fortunatamente mi sbagliavo, già in giugno quando zio Nikola ò a salutarci dopo il ritiro di Tito nella “zona B”, stavi meglio e io con te, avevi cominciato a mangiare e a rimpolpare il tuo corpicino lungo, ma spaventosamente magro. È stato a quel punto che ho saputo di quanto era successo nella “zona A” e mi è tornata la voglia di cercare Milan, quasi fosse lui il responsabile di quei poveri morti. Sapevo che non era così, ma mi era difficile slegare il suo nome da quello delle foibe e come due anni prima sono ripiombato nell’ossessione di rintracciarlo e di assicurarlo alla giustizia o meglio ancora di ucciderlo.
Così ti ho lasciato, per mesi sono stato lontano tornando a vederti solo di sfuggita per qualche coccola che tu mal sopportavi, sono stato a Lubiana e a Belgrado, ho ato al setaccio tutte le città della costa fiutando l’aria come un segugio, ma Milan si era volatilizzato, alla fine ho rinunciato, convinto che quel bastardo fosse morto o che avesse preso il volo cambiando ancora una volta il suo nome, seguendo le sue orme ho trovato traccia di ventitré suoi delitti e di altrettante infamie. Sono tornato a Rovigno in tempo per permettere a zia Letizia di andarsene, era da un po’ che non stava bene, si sentiva arida, depressa e non sopportava più di vivere in città, noi eravamo i suoi unici parenti, ci amava, ma la nuova situazione così forzatamente anti-italiana le toglieva il respiro, voleva una vita nuova, una casa nuova e anche una famiglia nuova, per questo non intendeva partire coi tanti amici che stavano preparando i bagagli, ma avrebbe seguito una strada tutta sua senza lasciarsi alcuna traccia alle spalle. Più tardi, molto più tardi, mi ha scritto il suo recapito, io le ho risposto, le ho mandato un paio di fotografie e qualche volta ci siamo sentiti per telefono, ma anche se abita a due i da qui, non l’ho più vista e ho sempre rispettato il suo desiderio di vivere una vita nuova dove non ci fosse spazio per i ricordi orribili che hanno insanguinato la nostra famiglia. Gli anni che sono seguiti li ho ati con te e solo con te, non so se sono stato un buon padre, io credo di sì, perché ti ho amata e ho cercato di non farti mancare niente, per te ho liberato la mia mente dalle mie ossessioni, ho gettato Milan in una delle tante foibe che si aprivano nei miei sogni, e sono stato bene. Mi sono fatto nuovi amici, ho avuto delle compagne, degli amori, ma nessuno che potesse far ombra alla mamma e nemmeno a te, ho lavorato tanto e sodo, ho trasformato la nostra piccola sartoria in un ottimo investimento e di questo sono orgoglioso, ora il laboratorio non sarà più lo stesso senza di te, domani non ci sarà nessuno ad aprirlo. L’unico momento di panico di questi anni, l’ho vissuto quando mi hai detto che intendevi sposarti, per un attimo ho pensato che te ne saresti andata, la famiglia di Ante è di Pola e quindi non molto lontana, ma io allora non avrei sopportato di separarmi da te neanche di pochi chilometri. Mi è andata bene e tuo marito è stata un’ottima scelta, è un bravo ragazzo e so che avrà cura di te, all’inizio non la pensavo così, ma il 29 giugno di sei anni fa ho cambiato idea definitivamente. Quel giorno l’ho visto prendere in braccio la piccola Irma e porgermela con gli occhi bagnati di lacrime e io non ho potuto fare a meno di amarlo, lui e la
principessa che aveva gli occhi tuoi e di tua madre. E ora mi trovo a vivere questa nuova evenienza, sono malato, ma non è la mia malattia che mi porterà alla morte, è Milan, lo so e sono pronto. Ma prima devo dirti un’ultima cosa, devo farlo anche se non ne ho voglia e non credo che ti renderà felice. Di quanto ti ho scritto in queste pagine sapevi quasi tutto, forse ti mancavano certi particolari, ma non l’essenziale, eppure ho voluto ripercorrere con te la mia vita per arrivare a qualcosa di cui non ti ho mai detto niente, questa è la mia ultima occasione per farlo, o adesso o mai più. Tu sai come mi stia a cuore la storia che ha segnato la nostra terra e come abbia mal digerito il silenzio sotto cui sono ate le brutalità che hanno sporcato le mani degli italiani prima dell’8 settembre del ’43 e degli slavi subito dopo e nel ’45. Non ho mai accettato l’omertà sulle foibe, ma nemmeno quella sugli eccidi fascisti, finita la guerra tutti noi ci aspettavamo giustizia e invece abbiamo avuto la sensazione che si stesse attuando un grande imbroglio, un accordo soprannazionale per cui “io non mi lamento dei miei morti se tu fai lo stesso con i tuoi”. È stato come ucciderli due volte. Per anni abbiamo atteso una voce autorevole che fe chiarezza e chiedesse giustizia per le vittime di entrambe le parti, ma non l’abbiamo mai sentita, ci sono state molte lagnanze locali, alcune serie e inascoltate, altre di parte, politicamente schierate e prive di fondamento storico, nient’altro. E intanto, da qualche parte del mondo, in Italia, in Istria o addirittura nelle alte sfere a Belgrado, gli aguzzini continuavano a vivere tranquilli, alcuni godendo i frutti della loro infamia, Milan Karelić era uno di questi, lo so per certo. Così alcuni anni fa, io e certi amici di cui non ti farò il nome, abbiamo deciso di rimboccarci le maniche per svolgere un compito che non ci spettava e che nemmeno ci dava gioia, un lavoro che ritenevamo indispensabile se volevamo accantonare per sempre i nostri incubi e concederci finalmente il lusso d’invecchiare. All’inizio si trattava solo di raccogliere informazioni, dati e documenti da inviare a Roma e a Belgrado, ognuno di noi aveva un suo aguzzino di cui doveva curare un dossier, io avevo Milan Karelić, mi sembra ovvio. E così abbiamo fatto, i primi plichi spediti non hanno dato alcun esito, abbiamo aspettato mesi che un
governo prendesse posizione o che almeno un parlamentare presentasse un’interrogazione, abbiamo dato la colpa ai precari equilibri internazionali che nella nostra zona sembravano pesare più che altrove, per cui abbiamo atteso e atteso ancora, niente, abbiamo rispedito i dossier, ancora niente, allora abbiamo coinvolto la stampa che ha dato il via a una campagna denigratoria e di parte che in Iugoslavia parlava solo di eccidi fascisti e in Italia di foibe. È stato tremendo, per i miei amici più che per me, io me l’aspettavo e mi ero tenuto ben stretto il mio dossier, non intendevo allarmare Milan e farlo scappare. Quando ci siamo resi conto che nessuno avrebbe rispolverato il ato e che se volevamo giustizia dovevamo arrangiarci da soli, ci siamo tirati su le maniche e abbiamo fatto quello che dovevamo fare, fino ad allora ci eravamo mossi nell’anonimato per cui il aggio alla fase operativa non ha comportato gravi problemi, abbiamo solo dovuto trovare il coraggio di cominciare. La prima azione è stata portata a termine nel 1968, l’ultima qualche mese fa, non ho intenzione di dirti di più, non voglio mettere a repentaglio la vita dei miei amici, alcuni li conosci anche tu, altri vivono oltre confine, tutti hanno ancora molto da fare. Solo di Milan voglio parlarti, di lui sono io il responsabile e credo che lui ti debba qualcosa, una nonna per esempio, non è poco. Per Milan Karelić il problema non è mai stata la quantità o la qualità delle informazioni, in questi anni ne ho raccolte molte e credo che lui lo sappia perché di recente sono spariti testimoni, bruciati archivi…, non conosco il suo ultimo rifugio, ma so per certo che ha lasciato la Iugoslavia negli anni Sessanta, che è stato in Grecia, in Turchia e in Egitto prima di sparire nel nulla, per un certo periodo mi ero illuso che fosse morto e mi sono messo il cuore in pace, ma non era così e ho dovuto ricredermi perché ora è di nuovo qui. Si fa chiamare Milovan Karlović, ha un nome croato ma un aporto orientale, di Formosa, è un distinto signore dal ato impeccabile, un uomo d’affari che opera nel campo immobiliare, compra, vende, costruisce enormi cubi di cemento sul mare, in questi giorni è a Split, in una villa fuori città, un posto bellissimo vicino agli scogli che io ho lasciato solo poche ore fa. Ed eccomi al punto. Credevo di essere furbo, ma lui lo è di più, l’ho sempre saputo ed è stato un errore dimenticarlo. Sono arrivato a Split questa mattina con un amico italiano,
pensavamo di fargli una sorpresa e invece lui ci stava aspettando, ci siamo finti turisti e ci siamo messi a perlustrare la zona senza accorgerci degli scagnozzi che ci seguivano in silenzio. In breve ci hanno presi e portati di peso nella sua villa, quando me ne sono andato ero solo, il mio compagno si è dovuto trattenere, aveva una gamba spezzata e Milan mi ha assicurato che, se entro domani non tornerò con il suo dossier al completo, lo ucciderà con le sue stesse mani, poi toccherà a te, a tuo marito e alla tua bambina. Ora capisci perché ho voluto la vostra partenza?, Milan non è cambiato, gli anni lo hanno invecchiato ma non migliorato e non ho dubbi che sarebbe capace di mettere in atto il suo proposito. Quindi non mi resta che tornare a Split e farla finita, mi spiace per il mio amico che non sopravvivrà all’epilogo della mia ossessione, ma non ho scelta. E mi spiace anche per te, per la mia principessa che non vedrò diventar regina e anche per Ante che è molto legato ai suoi…, non so che dirvi, portate pazienza, se tutto andrà bene fra non molto potrete tornare. Io sono sicuro di riuscire a uccidere quel mostro, ho un piano buono, semplice ed efficace, forse non uscirò vivo da quella villa, ma neanche Milan lo farà, non temete... Fino a domani, però, non posso esserne certo e non voglio che corriate rischi, per questo ho voluto che ve ne andiate adesso che siete ancora in tempo, quel pazzo ha un’indole vendicativa e se la prenderà con voi se qualcosa andrà storto. Sonja, ti prego, non sottovalutare il problema, Milan è potente e malvagio, se potessi fermarlo semplicemente divulgando il suo dossier, lo farei, ma non è così semplice, i documenti che ho raccolto sono molto compromettenti, parlano del suo coinvolgimento con i vari regimi del ato, di acquisizioni illecite, di truffe legalizzate grazie alle sue conoscenze importanti, tutte cose che se venissero alla luce, gli procurerebbero seri fastidi e di sicuro lo manderebbero in prigione. Ma quanto vi rimarrebbe?, io credo poco, giusto il tempo di far intervenire i suoi amici influenti e i suoi prestigiosi avvocati, poi tornerebbe fuori, libero di vendicarsi e di fare quello che ha sempre fatto. Per questo voglio risolvere il problema a modo mio, radicalmente, è una vita che aspetto questo momento, ti prego, vi prego, aiutatemi a realizzare questo sogno, lo so che vi chiedo molto, ma statemi lontani, seguite esattamente le mie istruzioni, non mettetevi in contatto con me per nessun motivo, né con me né con amici o parenti, e guardatevi le spalle, prima di arrivare a Milano seguite il percorso che vi ho indicato, solo allora…
Ma perché vi sto dicendo tutto questo?, se state leggendo questa lettera vuol dire che siete salvi e potete cominciare una nuova vita. Queste mie righe vi aspetteranno alla Posta Centrale di Milano, non so dove si trovi, ma zia Letizia vive in Italia e lo scoprirà con facilità, prima di spostarvi aspettate una mia seconda lettera, se entro dieci giorni non arriverà, trovatevi un rifugio sicuro, avete denaro a sufficienza per organizzarvi, non tornate qui, a meno che non sia io a dirvelo. Vi abbraccio senza ulteriori parole, non le sopporterei, con affetto vostro padre, tuo nonno Italo.
Capitolo quattordicesimo
Beatrice aprì gli occhi su quella che sarebbe stata la giornata più lunga della sua vita, si guardò attorno per un momento, poi tornò a richiuderli, il baratro in cui si trovava le faceva temere il peggio e la spingeva a ritardare il rientro in una realtà che sapeva di follia e di morte. Per questo preferiva soffermarsi ancora un po’ nel mondo velato del dormiveglia, non voleva che i colori del mare e dell’isola in cui si trovava, sbiadissero nel bianco accecante della sua prigione. Quando si sentì definitivamente sveglia e aprì di nuovo gli occhi, avvertì un urlo salirle dal petto, serrò le labbra e s’impose il silenzio, il ragazzo stava dormendo e non intendeva svegliarlo. Sentiva la bocca impastata e la lingua spessa, perfino l’aria che respirava sembrava amara, alzò lo sguardo verso l’abbaino, era socchiuso, da lì entrava una brezza leggera e fresca, c’era luce e forse era mattino, non sapeva quanto tempo avesse dormito, era sera quando il ragazzo l’aveva costretta a bere per la seconda volta il Valium, poi le aveva fatto ingoiare una minestra densa di semolino e l’aveva portata di peso al gabinetto. Stirò le gambe e per un attimo si sentì meglio, era bello tendere i muscoli fino a farli dolere, provò ancora e solo allora si rese conto di avere le caviglie libere, provò i polsi, ma quelli erano ben stretti nella solita cinghia di stoffa, tornò a guardarsi i piedi infilati in calzini di cotone, un’altra piacevole sorpresa, i suoi sandali stavano invece dove li aveva lasciati il ragazzo, cioè no…, la ragazza. Dio che storia…, si disse angosciata, chissà chi era la persona che adesso stava dormendo davanti a lei, sembrava un maschio, ma forse non lo era, Alfredo avrebbe potuto capire gli abissi della sua mente, ma lei non intendeva nemmeno provarci, il ruolo di vittima non le concedeva il privilegio della comprensione. La sera prima aveva aperto gli occhi inorridita sulla scena che aveva di fronte, il ragazzo stava eseguendo uno strano duetto, recitava un copione difficile nel quale interpretava due ruoli distinti, a momenti era vittima e a momenti carnefice e il viso cambiava espressione a seconda che la voce raccontasse di ragni famelici o implorasse di smetterla, di tacere. Lei lo aveva ascoltato di nascosto e per la prima volta aveva sentito un moto di
pietà per quel giovane che sembrava dibattersi in una gabbia troppo stretta e quando aveva visto il sangue imbrattargli la pelle del braccio, si era commossa, avrebbe voluto toccarlo e dirgli di tacere, di fermarsi…, poi aveva provato ad alzarsi ed era tornata alla realtà, era lei quella da compiangere, non lui. Si era schiarita la voce e gli aveva chiesto cosa stesse facendo, aveva cercato di controllarsi, non voleva fargli capire che aveva paura della luce che gli vedeva negli occhi. Lui non le aveva risposto, si era seduto sulla poltrona e per un po’ aveva continuato a piangere senza parlare, poi aveva allungato le gambe fin quasi a sfiorarla e aveva chiuso gli occhi. Ogni tanto tirava su col naso, sembrava dormire, ma era sveglio, con l’indice della mano si teneva premuta la ferita sul braccio e il sangue lentamente si era fermato. La stanza era in disordine, il secchio era rovesciato e il tavolino ingombro di oggetti, una spugna, un bicchiere, del nastro di stoffa, le solite forbici…, il pavimento era sporco, ma nessuno questa volta aveva pensato di pulirlo. Aveva provato a dirgli di disinfettarsi, così giusto per spezzare il silenzio, ma lui aveva finto di non udire e lei si era sentita stupida, se gli veniva il tetano ne era più che contenta, bastava fosse fulminante…, poi lui aveva aperto gli occhi e cominciato a parlare di Renza. Per lunghi minuti le aveva raccontato dell’infanzia ata con una donna che diceva di essere sua madre e non lo era, che cantava dalla mattina alla sera con una voce che gli forava il cervello, che era cattiva e non lo amava, che lo voleva diverso da quello che era…, quando era morta era stato un sollievo. Beatrice sentiva un brivido di gelo correrle lungo il corpo, stava avvicinandosi alla verità e aveva paura, era stato a quel punto che aveva commesso un errore. Avrebbe dovuto tacere e lasciarlo parlare liberamente, ma in testa aveva mille domande e la più importante riguardava la ragazza che ballava il flamenco e che raccontava le avventure del nonno, così gli aveva chiesto di Loretta e lui l’aveva guardata inorridito, poi era andato a prendere la bottiglietta del Valium e gliel’aveva ficcata in bocca scuotendola contro i denti finché anche l’ultima goccia le era caduta in gola, era la seconda volta che succedeva. Ora non sapeva che fare, era nelle mani di un pazzo privo di scrupoli e si sentiva confusa, aveva bisogno di pensare, di capire perché si trovasse in una situazione del genere, lo vide muoversi leggermente e portarsi una mano alla fronte per spostare una ciocca di capelli che non c’era, trattenne un singhiozzo e tornò a chiudere gli occhi, non voleva guardarlo, il fatto di non sapere chi realmente
fosse, le creava un’angoscia insostenibile, sperava si trattasse della ragazza, anche lei faceva paura, ma era meno cattiva e non aveva il suo rigore. - Lo so che sei sveglia – lo sentì dire, era Loris, non c’era dubbio, la sua voce era inconfondibile. Aprì gli occhi, con lui non aveva senso giocare a nascondino, doveva farlo parlare se voleva capire cosa aveva in mente. - Stavo pensando. - A cosa? – lui si alzò per sgranchirsi le gambe, lei avrebbe voluto fare altrettanto. - A te, tu vorresti che ti dicessi certe cose, quando però sono io a farti una domanda, allora mi riempi di Valium. - È finito. - Cosa? - Il Valium, che vuoi sapere? - Dimmi se ho ragione: prima mi hai telefonato in Germania, poi hai ammazzato il geometra e sei venuto a casa mia per rapirmi, io sono scesa in cortile e tu mi hai colpito e sei scappato. È andata così? - Solo la prima parte è giusta, il resto cancellalo, a darti la botta in testa sono stati gli idioti che usavano casa tua per i loro comodi, papà lo sa già, li ha incontrati ieri pomeriggio. - Papà? - Alfredo, è mio padre no? – Beatrice si costrinse a non rispondere, doveva evitare i trabocchetti. - E il Fioravanti?, l’hai ammazzato perché non volevi che gli parlassi, vero? - No, sei fuori strada. - E allora perché l’hai fatto? - Io non ho fatto un bel niente – era imbarazzato – quello era un ficcanaso e
aveva un sacco di nemici. - È venuto qui? - Almeno tre volte – alzò le spalle annoiato. - E cosa ti ha detto? - Niente, non gli ho aperto e quindi non mi ha detto niente, ma non mi piacciono i curiosi. - Così sei andato a casa sua – Beatrice sperava che lui negasse – perché ti stava cercando? - Che ne so?, forse per via dell’abbaino, pare servisse un permesso per aprirlo – sbuffò indicando il soffitto – ha mandato una lettera per un sopralluogo. - E tu l’hai ucciso. - Adesso mi hai stancata, il Valium è finito, ma posso trovare qualcosa d’altro per farti star zitta, ti piacciono gli antiparassitari? - Va bene, lasciamo perdere – doveva continuare a farlo parlare, quello che diceva era un miscuglio di verità e fantasia, ma non era un grande attore e si capiva quando mentiva – parlami di tuo nonno. - Cosa vuoi sapere?, era alto, scuro, vecchio, ti odiava… - E perché mai?, non lo conoscevo nemmeno – era vero, non gli aveva mai parlato. - Diceva che hai rovinato sua figlia, che le hai fatto entrare gli spiriti in testa. - Era pazzo… - Non è vero, è stata l’unica persona che mi ha voluto bene, se avevo bisogno di qualcosa era da lui che andavo, non certo da te – aveva i pugni chiusi e sembrava arrabbiato. - È stato lui a dirti che ti ho abbandonato?
- Certo, e chi se no? - Ma non è possibile che si sia inventato una cosa del genere… - E infatti non se l’è inventata – rispose in modo caparbio – un giorno gli ho chiesto chi era mio padre e lui mi ha detto che io non avevo né padre né madre, che ero figlio di una vagabonda che mi aveva ceduto a Renza. - E tu gli hai creduto? - Io gli ho ribattuto che non era vero, ma lui si è messo a ridere e mi ha detto che Renza non aveva un uomo, che non l’aveva mai avuto, per cui non poteva essere mia madre. - Ed è bastato questo per convincerti? - Sì, perché dava senso alle parole di Renza che mi parlava di te come di una cantante famosa che girava il mondo, diceva che eri la sua migliore amica, che eri mia madre al par suo, che dovevo amarti, ubbidirti, non farti arrabbiare… – parlò d’un fiato per non essere interrotto. - Ma sono tutte sciocchezze, io non sono una cantante e tu hai frainteso le sue parole. - Lei diceva che Alfredo era mio padre… – aveva le mani che tremavano. - Ma non è vero, Alfredo è mio marito. - Adesso, ma prima stava con Renza. - Ma se hai appena detto che non aveva uomini, sei in contraddizione… - Aveva lui, solo lui e tu gliel’hai portato via – disse digrignando i denti – aveva ragione il nonno, sei una poco di buono. - Non poteva dirlo perché non mi conosceva, lo sai com’era fatto, beveva... - Anche da ubriaco mi era più vicino di quanto non fossi tu. - Ti ha raccontato un sacco di bugie su di te, su di me, su tua madre, perfino su se stesso e sui suoi ragni… – questo fu il secondo errore della giornata, ne
sarebbero seguiti altri. Beatrice vide lo schiaffo arrivarle in pieno viso, ma non si spostò e nemmeno pianse, continuò a guardare il ragazzo negli occhi e questo fu un bene, perché lui si calmò e tornò a sedersi nella poltrona davanti a lei. I minuti che seguirono furono segnati da un lungo monologo, una dissertazione all’inizio scientifica, poi sempre più assurda, irreale sulla vita, le abitudini, perfino sull’anatomia delle tarantole. Suo nonno le chiamava così e in questo si sbagliava, quelle che aveva portato dall’America non erano delle vere tarantole, ma delle Theraphosidi, animali dotati di un veleno potente capace di sciogliere i tessuti organici e di trasformare le vittime in un ammasso gelatinoso da bere come un caffè. Beatrice rimase zitta mentre lui descriveva la chitina dell’esoscheletro nelle sue singole parti, gli speroni dei maschi, i cheliceri con il veleno, le setae da lanciare nell’aria come frecce. Si finse interessata al processo della muta e dell’accoppiamento con i maschi che finivano spesso divorati dalle loro compagne, della posa e della cova delle uova da cui nascevano centinaia, a volte migliaia di piccoli cannibali. Quando però il ragazzo smarrì il senso della realtà e cominciò a delirare sulla capacità della Tigre del Costa Rica di scavare buchi nei muri, sull’irritabilità della Rosa del Cile e sulla voracità della Mangiatrice d’Uccelli, la terribile Teraphosa Blondie…, perse il controllo e scoppiò a ridere. Dapprima Loris non reagì, alzò le spalle con sufficienza e continuò a disquisire sul veleno della Blondie, sui suoi sette etti di peso e i venticinque centimetri d’apertura zampe, sulle sue strategie d’assalto e sulla sua tela capace di avvolgere la preda per poi succhiarla come un sorbetto…, e Beatrice che si era imposta di tenere la bocca chiusa, cedette e si mise di nuovo nei guai. - Non dire sciocchezze, le tarantole non fanno la tela – ne era quasi sicura. - Certo che la fanno, tu non sai niente, i maschi producono quella spermica e le femmine quella per imbottire le tane – aveva il mento che tremava per la rabbia – e dagli incroci del nonno sono nate delle Blondie capaci di farne una più forte dell’acciaio. - Non ci credo, ma se lui ti ha detto questo, allora era un pazzo incosciente – lo schiaffo questa volta le spaccò il labbro inferiore, Beatrice sentì il sapore del suo sangue, chiuse gli occhi e per un attimo vide il muso orribile di una Blondie
avanzare nel buio, li riaprì in preda al panico. - Ma quanto sei bravo, Loris – doveva cambiare argomento, subito – è così che tuo nonno trattava le donne?, le legava e le picchiava? - No, lui pisciava loro addosso. - E come faceva, se le portava al gabinetto? – il terzo schiaffo la colpì di striscio e non le fece male, ma era stanca, troppo stanca per continuare – trattava così anche Loretta? - Chi? – Loris si fermò con la mano a mezz’aria. - Ti ho chiesto di Loretta, parlami di lei – nemmeno questo era un buon argomento, ormai lo sapeva. - Non conosco nessuna Loretta – però era nervoso. - Ma io sì, ieri è venuta a trovarmi, non te lo ricordi? - Non è vero, piantala! – era agitato, forse anche preoccupato. - Dov’è adesso? – stava di nuovo sbagliando, ma era più forte di lei, metterlo in difficoltà era il suo modo di prenderlo a pugni – dove sei Loretta?, vieni fuori. - Eccomi… - disse lei e Loris fece un balzo all’indietro, per un attimo sul suo volto apparvero mille espressioni diverse, come se in lui qualcosa stesse lottando per prendere il sopravvento, si guardò attorno atterrito, poi agguantò le forbici sul tavolino, se le conficcò nel braccio e sparì dietro la porta che portava di sotto. Beatrice rimase ferma combattuta tra il desiderio che lui tornasse, magari sotto l’aspetto di Loretta, e quello di non vederlo mai più, avrebbe voluto mettersi a piangere, ma non aveva più lacrime, aveva solo fame, sete e tanta paura. Cercò di calmarsi per prepararsi al prossimo incontro, ancora non sapeva che avrebbe dovuto aspettare ore prima di rivedere qualcuno, pensava di concedersi una breve pausa, ma il ragazzo era in preda a emozioni potenti che l’avrebbero tenuto lontano fino a pomeriggio inoltrato. Loris fece le scale saltando i gradini nel buio, nelle orecchie sentiva il sibilo del vento, non sapeva dove andare, cosa fare, tutto era confuso e a malapena
riconosceva il posto in cui si trovava, si appoggiò al muro del terrazzo e si prese la testa tra le mani, anni prima aveva commesso un errore, un grave errore e ora ne stava pagando le conseguenze. Quando dopo la morte di Renza, Loretta aveva fatto la sua prima comparsa, avrebbe dovuto capire che era pericolosa, avrebbe dovuto allontanarla, ucciderla, piantarle un coltello in gola e lasciarla dissanguare, ecco cosa avrebbe dovuto fare…, adesso era tardi, lei era sempre più forte e correva il rischio di rovinare tutto. Entrò in palestra come una furia e cominciò a lavorare agli attrezzi ignorando sia la pulizia che il riscaldamento, s’impegnò a fondo e subito si ricoprì di sudore, sentiva male al braccio che ancora gocciolava sangue, un dolore lungo e continuo che saliva fin oltre la spalla, ma non volle fermarsi neanche un momento, smise di dimenarsi solo quando una vertigine lo colse di sorpresa e lo fece cadere dalla spalliera. Si tirò su e si prese la testa tra le mani, tutto quel faticare non era servito a niente, era stanco, ma la sua mente era ancora sconvolta, non poteva andare avanti così, doveva risolvere il problema di Loretta una volta per tutte. Si alzò in piedi e uscì sul terrazzo, il sole era a picco sopra la casa, aveva fame, ma al momento aveva ben altro a cui pensare. Per la prima volta da quando era rimasto solo, Loris entrò nel suo appartamento senza accorgersi di essere sudato e sporco, raggiunse la camera da letto, poi aprì l’armadio e cominciò a togliere tutto quello che non gli apparteneva, vestiti colorati, magliette, calze, sciarpe, parrucche, un’infinità di cose che occupavano la maggior parte dello spazio. Buttò tutto per terra incurante della voce che si stava alzando nella sua testa, all’inizio era solo un bisbiglio ma adesso era ormai un urlo, guardò i rivoli di sangue rappreso, poi si diresse verso la cucina. Quando tornò aveva una ferita in più sul braccio, ma la mente sgombra, c’era ancora un po’ di vento che soffiava inquieto, ma nessuna voce gli diceva di non toccare questo e di non toccare quello. Raccolse tutto, con mano tremante cercò la chiave sopra l’armadio e l’infilò nella porta che per anni aveva finto di non vedere, trasse un respiro profondo e l’aprì sperando che non vi fosse Blondie in agguato, vi lanciò dentro le cose che stringeva al petto e la richiuse il più presto possibile. Solo allora si sentì meglio, si lasciò scivolare lungo la parete fino a sedersi sul pavimento e scoppiò a ridere. Rise per lunghi minuti con singulti che sembravano il pianto di un bambino, quando finalmente smise, nella sua testa tornò il silenzio e si sentì bene. Si alzò, fece una doccia e si cucinò una bistecca ai ferri, mangiò di gusto, bevve un
bicchiere di latte e sparecchiò, il dolore al braccio non era ancora ato, il sangue però si era rappreso e questo non gli piaceva affatto, prese un pezzo di pane e uscì sul poggiolo, non aveva voglia di portarlo a Beatrice, ma sapeva che doveva farlo. Fu ando davanti alla palestra che sentì di nuovo la presenza di Loretta e un urlo gli uscì dalla gola, non poteva andare avanti così…, lasciò cadere il pane e corse dabbasso, entrò nell’orto come una furia e vi rimase per un tempo indefinito, un attimo secondo lui, ore in realtà. Quando aprì gli occhi si ritrovò seduto vicino al muretto di cinta, non ricordava cosa fosse successo, il sole era basso e attorno a lui non c’era più niente del suo mondo, non un fiore, non uno stelo era rimasto integro, la terra scura spuntava tra gli ammassi verdi e colorati che erano stati il suo ponte sul mondo, l’unica cosa che condivideva col genere umano. Si coprì gli occhi con le dita per non vedere lo scempio che aveva davanti, poi tornò di sopra, si fece una doccia e si sdraiò sul letto. Beatrice la vide e la riconobbe subito, non portava la parrucca e nemmeno il seno posticcio, eppure la persona che era entrata come una folata di vento, era una ragazza, ne era sicura, indossava dei jeans slavati e una camicia con le maniche corte annodata in vita, le si vedeva l’ombelico. - Ciao – la sentì dire con voce roca – mi presti i tuoi sandali? – e li infilò senza aspettare risposta, allargò le cinghie sulle dita e tirò quella della caviglia finché riuscì ad agganciarla. - Sono già tuoi, te li ho regalati ieri, non ricordi? – disse Beatrice senza staccare gli occhi dalle ferite che aveva sul braccio, sembravano tre, ma forse erano di più – dov’è Loris? - Dorme. - Bene, così possiamo parlare un po’ tra di noi, che ne dici? - Vuoi fare l’amore? - Oh Dio, no, sono troppo sporca e troppo debole, ho anche fame, magari se mi sleghi…
- Scordatelo, Loris mi odia già abbastanza – sorrise e si lasciò cadere sulla poltrona. - Senti…, spiegami perché io posso parlare con te di Loris e non viceversa – chiese Beatrice guardandola negli occhi. - Perché lui è fatto così – disse alzando le spalle – mi fanno un bel piede, sei sicura che non ti servano? - Sicura – ancora non capiva se fosse stupida o meno – parlami di te, quanti anni hai? - Ventiquattro, l’età è l’unica cosa che ho in comune con Loris. - A vedervi non si direbbe, vi somigliate molto. - Per niente, siamo molto diversi, specie di carattere – il tono non ammetteva repliche. - Questo è vero, tu sei decisamente più simpatica. - Se è per questo sono anche più bella, più furba e più cattiva – si tolse un sandalo per guardarlo da vicino – lui è una capretta al mio confronto. - Una capretta? - Sì, bruca, bruca ma non mastica – sembrava soprappensiero. - Tu invece cosa mastichi? - Di tutto, io divoro, sbrano. - Credevo non ti pie mangiare. - Senti…, ti serve ancora il completo che indossi? – chiese con un sorriso malizioso – pensavo di regalartelo, ma sono rimasta a corto di vestiti e lo vorrei di ritorno. - Se mi sleghi te lo do – l’idea di spogliarsi non le piaceva, ma era pur sempre un’opportunità.
- Va bene, forse più tardi. - Secondo me Loris è più cattivo di te. - Questo è quanto crede lui, poi però sono io quella che lo toglie dai guai, sempre – e scoppiò a ridere. - Sei stata tu a uccidere il Fioravanti? - Loris è come un bambino, è grande e grosso, ma non conosce i suoi limiti e si caccia in situazioni da cui poi non sa uscire – sembrava parlare del più e del meno. - Per esempio? – Beatrice tremava, ormai aveva capito cos’era successo al geometra, era stata lei ad ammazzarlo, le pareva impossibile, ma era così. - Che ne so…, fa entrare una zingara e ci prova. - Come ci prova? - Cerca di scoparla, no?, sei scema?, ci prova una volta, due, di più, fino a incasinarsi, poi devo intervenire io e darmi al giardinaggio – la guardò con ironia, con cameratismo. - Che vuoi dire? - Che devo tirarmi su le maniche e cambiare posto alle dalie dell’orto, ecco cosa voglio dire, e lui invece di essermi incondizionatamente grato, mi odia, non mi sopporta. - Hai seppellito delle donne in giardino?, non ci credo… – e invece le credeva, aveva sbagliato tutto, ora sapeva che dei due era Loretta la più pericolosa – non è possibile che tuo nonno e tua madre te l’abbiano lasciato fare. - Renza non l’ho conosciuta, quando sono arrivata io era già morta e secondo Loris non ho perso niente – un’altra risata – e del vecchio non voglio parlare. - Il nonno non ti piaceva? - Aveva le mani troppo lunghe per i miei gusti.
- Ti ha fatto del male? - Ho detto che non voglio parlarne – torse la bocca in una smorfia che Beatrice aveva già visto sul volto di Loris – ora mi stai proprio stufando. - Quanti anni avevi quando è successo? - Successo cosa?, io non c’ero a quel tempo, lui è morto prima di Renza ed è stata una fortuna altrimenti gli avrei tagliato l’uccello e l’avrei piantato nell’orto. - Se non l’hai conosciuto non può averti fatto del male. - Ma allora sei proprio scema – cominciava ad arrabbiarsi – chiedilo a Loris. - Vuoi dire che ha fatto del male a lui e non a te? – ne aveva fatto anche a Renza, ne era sicura. - Basta, mi hai stancata – disse alzandosi di scatto – con te è peggio che stare in questura, fai una domanda dopo l’altra, mi togli il fiato. - Scusami, non volevo irritarti – aveva ragione lei, Loris al suo confronto era una capretta – potresti darmi qualcosa da bere? - No, io non ho sete e non bevo, grazie – s’avvicinò in modo aggressivo – tu invece ridammi i miei pantaloni! - Certo, non c’è problema – disse Beatrice nervosa, voleva rimanere calma, ma la ragazza le si inginocchiò davanti e con forza cercò di abbassarle l’elastico sui fianchi, così non riuscì a controllarsi e reagì d’istinto, alzò il ginocchio di scatto e la colpì in pieno viso. - Perché l’hai fatto? – chiese Loris toccandosi il naso e guardandosi le dita, non c’era sangue, ma Loretta aveva preferito sparire prima ancora di esserne certa. - E tu perché volevi togliere i pantaloni a tua madre? – era la sua ultima speranza e doveva giocarsi anche quella, non aveva scelta. - Io non ho…, cos’hai detto?, sei mia madre? – sembrava incredulo. - Sì, non vale più la pena negarlo – ora doveva convincerlo di essere in buona
fede. - Lo dici solo perché hai paura. - Su questo hai ragione, sono atterrita all’idea di essere tua madre e se potessi continuerei a negarlo. Loris si sedette sulla poltrona e per qualche minuto non disse niente, poi scosse la testa sconsolato, lui non aveva dubbi su chi fosse Beatrice, ma non si fidava di quel repentino cambiamento, temeva nascondesse un imbroglio. - Raccontami di Renza – voleva metterla alla prova. - Cosa devo dirti?, era una ragazza simpatica e intelligente. - Sbagliato, stai raccontando balle. - D’accordo, non era né l’una, né l’altra, a scuola capiva poco, ava il tempo ad ascoltare quello che le dicevo e non parlava mai – aveva la sensazione di mettersi in guai ancora peggiori. - Mai? - Mai, si beveva qualsiasi frottola le raccontassi, qualsiasi, però non era cattiva. - Sbagliato! - Con me non lo era. - Dimmi di quando ha conosciuto Alfredo – allungò le gambe e si mise comodo, come se si aspettasse una lunga storia. - Non è mai successo… – Beatrice parlò a denti stretti, non era la prima volta che Loris nominava Alfredo e questo la faceva star peggio di quanto già stava. - Falso, sta’ attenta a quello che dici – sembrava un gioco. - Ti sbagli, Renza non ha mai incontrato Alfredo, ne sono sicura – lui doveva rimaner fuori da quella brutta storia. - La festa, parlami della festa.
- Quale festa? - Quella in cui si sono conosciuti, a Parigi… – e Loris prese a recitare con voce tremula i versi che un tempo aveva amato, poi odiato e che ora gli parevano di nuovo stupendi. Libiam ne’ dolci fremiti che suscita l’amore, poiché quell’occhio al core onnipotente va. - Ah sì, la festa…, l’avevo dimenticata – Beatrice sentiva lo stomaco contratto dall’angoscia, d’un tratto aveva capito cosa voleva il ragazzo, voleva che Renza fosse Violetta Valéry, la Traviata, e che Alfredo fosse Alfredo Germont, il suo amante, era un gioco, soltanto un gioco ripescato dall’infanzia. Si raschiò la gola e provò a cantare, ma aveva la voce roca, diversa da come l’avrebbe voluta. Tra voi saprò dividere il tempo mio giocondo: tutto è follia nel mondo ciò che non è piacer. - Non sei molto brava a cantare, Renza era meglio – lo disse come se fosse un complimento – si amavano molto? - Moltissimo A quell’amor ch’è palpito dell’universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor.
- Sì…, sì, era così, loro si amavano veramente, ne sono sicuro, poi è successo qualcosa che li ha separati, sei arrivata tu – stava piangendo, Beatrice vide le lacrime scendere dagli occhi arrossati del ragazzo e si sentì sopraffare dall’emozione, aveva le labbra tumefatte e i polsi segnati dai legacci, ma avrebbe voluto consolarlo, cantargli quel poco che ancora ricordava della Traviata. - No, io non ho fatto niente – questo era un momento delicato, pericoloso. - E allora chi è stato, chi li ha divisi? – si asciugò il viso con entrambe le mani. - Tuo nonno – stava dicendo un’idiozia, ma non voleva prendersi colpe che non aveva – è stato tuo nonno a separarli, a pretendere che Renza lasciasse Alfredo. - Ma perché? - Non lo so, forse perché era geloso e la voleva tutta per sé, tu sai com’era fatto… – stava sudando, grosse gocce di sudore le scorrevano ai lati del viso – magari aveva minacciato di darlo in pasto a Blondie, credo che lei fosse disperata. Ah, no… giammai! Non sapete quale affetto vivo, immenso m’arda in petto? Che né amici, né parenti io non conto tra i viventi? - Sì, è così che è andata, a volte il nonno era più velenoso dei suoi ragni, avrei dovuto ucciderlo invece che stare ad ascoltarlo – per un po’ rimase in silenzio, come inseguendo dei ricordi lontani – ma tu che c’entri?, come hai fatto a portar via Alfredo a Violetta? - Non gliel’ho portato via, me l’ha dato lei – ormai era nel gioco e intendeva giocare. - Ma non ha senso…
- Lo ha mandato da me perché mi voleva bene e se Alfredo non poteva stare con lei, doveva stare con me, solo con me. Se una pudica vergine degli anni suoi nel fiore a te donasse il core… sposa ti sia… lo vo’. - Era una donna generosa – si asciugò le ultime lacrime, ora sembrava tranquillo – era orribile, puzzava ed era fuori di testa, ma era generosa. - Sì, lo era – cos’altro poteva dire? - E quando sono nato io cos’è successo? Beatrice ingoiò a vuoto, aveva la gola secca e un terribile mal di testa, ma la cosa peggiore era che non sapeva che rispondere, Violetta non aveva avuto figli, Verdi l’aveva fatta morire giovane, come Dumas del resto, si chiese se potesse concedersi una digressione nel Rigoletto... - Ho sete – la cosa migliore era cambiare discorso. - Taci! – disse Loris alzandosi in piedi di scatto – cos’è stato? - Io non ho sentito niente – replicò lei, ma non era vero, anche lei aveva udito un rumore provenire dall’esterno e subito il cuore si era messo a correre come un matto, che fossero i carabinieri? Loris s’avvicinò alla porta, l’aprì per ascoltare meglio e di nuovo captò qualcosa d’insolito, la richiuse e con un balzo salì sul tavolino appoggiato alla parete, si sporse dalla finestrella per osservare il terrazzo, poi saltò a terra e in un attimo sparì nell’antro scuro che si apriva sulle scale, oltre lo stipite dell’uscio. Beatrice non lo vide uscire, sentì l’aria che si spostava al suo aggio, ma i suoi occhi non lo seguirono, rimasero incollati sulle cose cadute sul pavimento assieme al tavolino, c’erano una spugna, un bicchiere, del nastro di stoffa e c’erano anche le forbici.
Sfortunatamente non erano i carabinieri quelli che, scuotendo la porta sul terrazzo, avevano provocato la brusca reazione di Loris, in questo Beatrice non aveva speranza. In paese non era in atto alcuna perquisizione ufficiale, le forze dell’ordine non credevano al suo rapimento e preferivano immaginarla da tutt’altra parte, magari più a sud, impigliata in qualche ansa del fiume, si sapeva che era un po’ strana, che aveva forti sbalzi d’umore, che amava l’alcool… Alfredo ovviamente non era d’accordo e aveva ato ore a spiegarlo ad appuntati e a marescialli che sembravano comprensivi, disponibili ma impermeabili alle sue mozioni. Era lui, quindi, non i carabinieri la causa dello sconvolgimento di Loris, veniva da una giornata d’inferno, lunga e stressante come non mai e a quel punto era disposto non solo a scuotere una porta, ma anche a scardinarla, a sfondarla, a bruciarla… Tutto era iniziato la sera prima quando aveva visto partire Anna e Lupo e si era sentito solo, disperato e tragicamente impotente davanti agli eventi del destino. Non era sua abitudine lasciarsi prendere dallo sconforto, era dannoso e controproducente, lo sapeva, così s’era imposto di reagire e di smetterla di frignare, si era fatto una doccia, si era preparato da mangiare e per ultimo si era sistemato in poltrona a meditare, e poco alla volta il suo solito ottimismo aveva ripreso vigore e la sua mente aveva cominciato a elaborare ipotesi, strategie. Immaginare un collegamento tra gli orientali chiusi alle Marogne e la sparizione di Beatrice, era difficile quasi quanto supporre che in paese fossero presenti due bande di criminali che agivano in contemporanea e su fronti diversi. I dubbi erano molti, le domande pure, Alfredo si chiedeva cosa accomunasse i due casi, come mai dei delinquenti armati fino ai denti presidiassero una casa sperduta in mezzo ai campi, cosa vi nascondessero, chi vi nascondessero. Le risposte potevano essere tante, l’unica che lui trovava interessante era che vi tenessero prigioniera Beatrice. L’ipotesi aveva una certa logica, ma si basava su presupposti infondati, era dettata dalla disperazione più che dal raziocinio ed era quindi sbagliata, completamente sbagliata. Alfredo ne era in parte consapevole, ma era stufo di piangersi addosso, voleva fare qualcosa, rendersi utile, così aveva deciso di non porsi ulteriori quesiti, era salito in macchina e si era diretto verso il castello con Neve che guaiva solidale al suo fianco.
La casa era buia e avvolta nel silenzio più assoluto, aveva lasciato l’auto più sotto e tutto sembrava fermo, immobile, la luna in cielo era piena e illuminava il cortile fino al primo gradino della veranda. Alfredo si era mosso piano, sapeva che i due uomini erano dei professionisti e che poteva batterli solo con l’astuzia, così si era dato tempo, non aveva fretta, voleva che uno si mostrasse all’aperto per seguirlo e colpirlo con una pietra, poi l’avrebbe legato, imbavagliato e trascinato in qualche angolo buio, si era portato un coltello, una torcia e una corda, di sassi in giro ce n’erano a iosa. Dopo un’ora d’inutile attesa, tutto era come prima e lui era ormai preda dei dubbi più atroci, entrare in casa era una follia, ma Neve era tranquillo e non gli pareva di avere alternative, così s’era avvicinato e aveva spinto la porta appena accostata, era entrato e aveva la luce. Beatrice non c’era e i due delinquenti se n’erano andati lasciandosi alle spalle solo sporco e confusione, il pavimento era coperto di libri, piatti, bicchieri, mozziconi di sigaretta e bottiglie, la poltrona aveva i cuscini sventrati e i lampadari pendevano in frantumi, nell’aria c’era odore di vomito e Neve si era rifiutato di oltreare la soglia. Alfredo si era guardato attorno con disgusto, lì non c’era nulla che lo potesse aiutare, aveva cercato una traccia della presenza della moglie, un indizio anche minimo, un segno..., aveva ato al setaccio ogni stanza, ma non aveva trovato niente, così aveva deciso di tornare indietro, di chiudersi in casa alla ricerca di un’altra possibile soluzione. Era uscito con il cuore pesante e gli occhi che gli bruciavano di lacrime, era di nuovo solo e disperato, era quasi l’alba e a quel punto anche Neve aveva scelto di non condividere con lui la strada, era sparito. Alfredo si riteneva una persona fortunata e sostanzialmente aveva ragione, negli ultimi giorni gli erano capitate cose che minavano le fondamenta del suo ottimismo e nonostante questo, dentro di sé, sentiva ancora ardere la fiammella della speranza, era angosciato e disperato, ma era convinto che tutto quell’incubo sarebbe finito in fretta e bene, ne era sicuro, quasi sicuro. Beatrice non aveva il suo stesso carattere, lei era dell’idea che il suo ottimismo rasentasse l’incoscienza e che la fortuna di cui tanto lui parlava, non fosse altro che la lettura infantile dei casi del destino. In questo frangente, però, Alfredo non aveva torto nel ritenersi baciato dalla sorte, lui non lo sapeva, ma durante la notte aveva evitato per un soffio d’imbattersi negli orientali e gli era andata bene, perché per quanto lui si sentisse forte e coraggioso, non c’era dubbio su come sarebbe finito il loro incontro.
I due ragazzi con gli occhi a mandorla non erano dei criminali particolarmente dotati, dal punto di vista professionale erano pericolosi, ma decisamente dozzinali e poco affidabili, e se continuavano a lavorare e a percepire un regolare stipendio, era solo grazie alla protezione omertosa del clan a cui appartenevano che copriva i loro errori e anche i loro misfatti. Erano di origine asiatica, precisamente di Taiwan, ma non amavano le loro radici, erano nati in cattività, a Fiume, e forse era per questo che non apprezzavano la cultura cinese e non praticavano le arti marziali, alle mani e ai piedi loro preferivano le mitragliette e i coltelli e i vecchi della famiglia erano veramente preoccupati. Il loro principale difetto, tuttavia, non era questo, ma la loro giovane età unita a un’irruenza incontenibile, loro erano del tipo “prima ti ammazzo e poi ne parliamo”, e questo li aveva portati a commettere sbagli imperdonabili, era successo con Enrico, con Anna e in parte anche con Lupo, e la famiglia aveva deciso di aver portato fin troppa pazienza, era stufa di coprire, di nascondere i loro pasticci e aveva mandato un maestro per rieducarli e per risolvere drasticamente qualsiasi problema, ne andava di mezzo il buon nome di tutti. Erano cugini, il più giovane aveva vent’anni, l’altro due di più, entrambi erano bassi, uno però era anche grasso e soffriva di un complesso d’inferiorità che lo rendeva più fragile e quindi più manesco. Erano di poche parole, solo in particolari momenti d’euforia si lanciavano in discorsi complicati dove il cinese lasciava il posto alla loro lingua d’adozione, il croato, l’unica che amassero e apprezzassero, forse perché era anche l’unica che desse loro da mangiare. Il maestro inviato dalla famiglia non la pensava allo stesso modo, affatto, lui era nato a Tan Shui, il luogo dove era giusto nascere, e si era trasferito in Occidente solo di recente. Il suo occhio era fisso al ato, parlava cinese e per lottare usava il cervello, i piedi e le mani, nel dovuto ordine, si esprimeva sottovoce e lentamente, sul lavoro non accettava distrazioni ed esigeva rigore, competenza e serietà, si rilassava meditando, non usava droghe e pretendeva che i suoi allievi fero altrettanto. Nel complesso era una vera disgrazia. Loro sognavano di ucciderlo, ma lo temevano e facevano di tutto per accontentarlo, sbuffavano sottovoce e torcevano il naso di nascosto, a Fiume il vecchio era considerato un mito ed era per questo, solo per questo, che erano andati a prenderlo all’aeroporto e l’avevano sistemato in albergo mentre loro sfacchinavano su e giù per gli olivi. E ovviamente non si drogavano, si limitavano a bere e bere ancora, cosa non dichiaratamente proibita, in casa avevano trovato vino e limoncino, due bevande che prese separatamente potevano anche esser buone, ma che mescolate davano effetti strani. Il primo a vomitare era stato quello più
grasso, lo aveva fatto con un trasporto talmente sincero che subito era stato imitato dall’altro. Così, dopo ore d’inutile attesa, s’erano avviati alla macchina convinti che il mondo intero potesse fare a meno di loro, erano a pezzi e a fatica avevano raggiunto l’albergo sul versante opposto della valle dove il vecchio li stava aspettando. Purtroppo non erano stati accolti come speravano, il maestro era seduto in un angolo al buio e non aveva apprezzato né la loro presenza, né il loro odore, si aspettava dei risultati e il fatto che non ci fossero gli torceva la linea della bocca verso il basso, non era bello da vedere. Loro avevano cercato di spiegarsi, di giustificarsi, questa volta non avevano commesso errori, avevano seguito le sue istruzioni e non era colpa loro se nessuno si era avvicinato alla porta di quella maledetta casa di sassi. Naturalmente si erano ben guardati dal raccontare del cane che abbaiava in cortile, era stato poco prima che vomitassero e non erano neanche sicuri di averlo sentito veramente. Il maestro non aveva parlato, ma loro sì, e ad alta voce anche, era pure volato qualche pugno, tra i cugini ovviamente, così quando qualcuno aveva bussato alla porta per lamentarsi del baccano, avevano deciso di piantarla per concedersi un paio di ore di sonno. Avevano messo la sveglia per le sette, ma il vecchio li aveva chiamati ancora prima delle quattro, così da essere al lavoro con la luce dell’alba che illumina il cuore, erano partiti carichi di quanto serviva per un’attesa che poteva durare all’infinito ed era stata una vera sfortuna, o fortuna, dipende dai punti di vista, se per strada non si erano scontrati con Alfredo reduce dalla sua inutile perquisizione alle Marogne.
Alfredo guidava in modo sicuro e veloce sulle stradine strette che scendevano in piazza, in giro non c’era nessuno e anche se ci fosse stato non l’avrebbe notato, aveva la testa confusa, la bocca amara e tanta, tanta fretta, non vedeva l’ora di togliersi di dosso l’odore di vomito per andare in caserma, era la mattina di Ferragosto ma se Saluzzo non si dava una mossa, era disposto a menare le mani. Questo era il suo proposito, non quello che in effetti avrebbe fatto, perché dopo essersi ripulito si era sdraiato sul divano e aveva dormito fin quasi a mezzogiorno. Benedetta incoscienza, si era detto svegliandosi di scatto, ora doveva muoversi se voleva recuperare il tempo perduto, si era vestito e lavato alla meglio, poi
aveva preso una scatola di biscotti dalla credenza e si era avviato verso la macchina cercando di evitare qualsiasi pensiero che non portasse con sé almeno un alito di speranza. Beatrice era viva, di questo era sicuro, stava vivendo un’esperienza orribile che presto sarebbe finita, era così, doveva essere così, chissà se alla loro età era ancora possibile adottare un bambino… Il maresciallo non c’era, si trovava sulla riva dell'Adige alla ricerca della camicia da notte e dei sandali di Beatrice. La sera prima qualcuno aveva segnalato la presenza di una figura strana sulla ciclabile che costeggiava l'argine e subito si era voluto pensare al peggio. L'arrivo di Alfredo in caserma aveva creato scompiglio. All’inizio l’appuntato Germano si era rifiutato di portarlo sul fiume, si sentiva in colpa per avergli detto anche quello che avrebbe dovuto tacere, ma non era sicuro di come il suo capo li avrebbe accolti e non intendeva correre rischi. Gli rincresceva non accontentarlo perché dapprima quell’uomo gli era parso simpatico, era di origine sicula come lui e come lui viveva in terra straniera, credeva fosse un tipo in gamba, meritevole di stima e di amicizia, ma non lo era affatto, aveva un pessimo carattere e tutto a un tratto era come impazzito, si era messo a urlare e a imprecare incurante delle finestre aperte e di chi vi ava sotto…, non era stato piacevole, per niente. Lui aveva pensato che fosse stanco, un po’ esaurito e l’aveva lasciato fare anche se ci andava di mezzo l’immagine dell’arma e avrebbe voluto dargli una botta in testa e legarlo in cantina, poi si era stufato e aveva ceduto, aveva preso le chiavi della camionetta e l’aveva trascinato fuori quasi di peso. Sull’Adige il maresciallo non c’era, Alfredo aveva percorso avanti e indietro la stradina senza trovare né lui, né gli indumenti di chicchessia. Alle quattro del pomeriggio aveva chiesto all’appuntato di riaccompagnarlo in paese, gli aveva detto di sbrigarsi altrimenti l’avrebbe buttato nel fiume con le sue stesse mani. Germano non aveva commentato e s’era avviato alla camionetta nel silenzio dignitoso proprio degli appartenenti all’arma. L’auto di Saluzzo era parcheggiata di fianco alla caserma, lui però era impegnato e al momento non poteva riceverlo. Alfredo era salito in macchina e si era messo ad aspettare, il bar in piazzetta era di sicuro ancora aperto, per cui, prima o poi, il suo uomo sarebbe uscito, non aveva dubbi. Alfredo era stanco e prossimo al tracollo nervoso, per cui non poteva
comprendere le difficoltà in cui pure gli altri si dibattevano. Il maresciallo, per esempio, non stava perdendo tempo, non stava giocando a carte e nemmeno guardando la televisione, era in riunione con i suoi superiori venuti appositamente dalla città e di certo avrebbe preferito tornarsene a piedi sull’Adige, perfino sedersi in macchina con lui a litigare, piuttosto che sopportare la loro invadenza. Lui non era ancora convinto che la signora Beatrice fosse stata rapita, non del tutto, ma c’era la morte del geometra e le dichiarazioni della signora Mascagni e del signor Comesichiama a metterlo in apprensione, per cui aveva accettato con rassegnazione l’ingerenza dei colleghi, la cosa lo disturbava parecchio perché sapeva quanto poco considerassero i marescialli di paese. C’erano anche due colleghi del Ris di Parma, quelli gli piacevano, se ai suoi tempi ci fosse stata la possibilità di specializzarsi in polverine fosforescenti e pilucchi vari, lui non avrebbe esitato…, oltretutto era originario di Modena e a Parma si sarebbe sentito di casa. Gli esperti avevano trovato tracce di tutti i tipi, talmente tante che era difficile catalogarle, escludendo sia le più ovvie, sia le meno chiare, rimaneva una sciarpa di seta che sembrava non aver niente a che fare col guardaroba del defunto e forse neanche con le sue preferenze sessuali. Il maresciallo non aveva capito l’allusione, ma aveva fatto finta di niente. C’era poi una caterva d’impronte digitali sconosciute che non aggiungeva niente al nulla che avevano in mano. La morte era avvenuta quattro o cinque giorni prima del ritrovamento e per taglio netto della gola, era stata immediata, la maggior parte delle ferite era dovuta all’intervento di animali post mortem, denti piccoli e affilati, decisamente non appartenenti a un cane da montagna dei Pirenei, il pene tagliato e ritrovato tra i ranuncoli in boccio, faceva pensare a qualche ritorsione del giro omosessuale. Il maresciallo aveva ascoltato allibito, tutti si erano girati verso di lui con lo sguardo di quelli che sono abituati a parlare di ogni genere di cosa, lui non lo era affatto ed era arrossito come un bambino beccato con le mani nella patta dei pantaloni. La tosse che ne era seguita era stata la diretta conseguenza di quest’ultimo pensiero, si era schiarito la voce e, a modo suo, aveva tentato di difendere il buon nome del geometra Fioravanti, ormai poveretto non gli restava nient’altro…, a lui non risultava che fosse di “quella certa tendenza” e se era solo per quell’affarino lanciato per aria e ritrovato tra i fiori, si potevano fare tante altre supposizioni. Ma anche questo non era stato apprezzato e qualcuno si era permesso di correggergli il tiro, lì non si trattava di difendere niente e nessuno, l’omosessualità era una pratica adottata da molta gente che non per questo doveva essere criticata o giustificata. Se era per quello, neanche
ammazzata, si era permesso di aggiungere il maresciallo strappando il sorriso a due delle sei persone che gli stavano di fronte, le meno importanti. L’incontro era andato avanti per qualche ora e aveva aggiunto confusione alla confusione, poi, finalmente, ognuno aveva preso la sua strada e il maresciallo aveva tratto un sospiro di sollievo. Meglio soli che male accompagnati, si era detto lisciandosi la giacca e preparandosi a uscire, chi fa da sé fa per tre, e poi, aiutati che il ciel t’aiuta, aveva continuato scendendo le scale, lui era un estimatore della saggezza popolare e quello che s’accingeva a fare lo dimostrava appieno. Da quel momento avrebbe fatto di testa sua, avrebbe proseguito le indagini da solo e direttamente sul posto. Era salito in macchina e si era diretto verso il bar, il luogo dove si sa che da sempre convogliano le energie del paese, tutte le informazioni e anche i pettegolezzi, c’era perfino dell’ottimo marzemino. Quando il maresciallo Saluzzo era uscito dalla caserma, Alfredo non era lì ad aspettarlo, era tardi e lui si era stancato e aveva deciso di fare da solo quello che i carabinieri di solito fanno in compagnia, una perquisizione a tappeto. L’idea gli era venuta all’improvviso, gli era sembrata difficile da praticare, forse impossibile, ma non aveva niente da fare e l’attesa lo faceva impazzire. La piazzetta era contornata da tante abitazioni, oltre al cancelletto, c’erano tre portoni grandi e due piccoli, compreso quello del bar poco lontano. Alfredo non sapeva da che parte cominciare, tutto sembrava così normale ed era impensabile che Beatrice fosse nascosta lì vicino. Si era appoggiato alla macchina per guardarsi attorno, in giro non c’era nessuno, il bar era aperto ma sembrava vuoto, aveva controllato le pareti delle case a una a una, ma non aveva trovato niente d’insolito, stava per rinunciare quando una luce aveva attirato la sua attenzione. Qualcuno dietro a una finestra stava lanciando dei messaggi luminosi e subito in testa gli era scoppiato un vulcano che l’aveva scosso da cima a fondo. In realtà quello che Alfredo aveva visto non era un rudimentale sistema di segnalazione, ma una semplice lampadina avvitata male, il suo tremolio però era bastato ad alimentare la fiammella della speranza che da un po’ sembrava destinata a spegnersi e gli aveva messo le ali ai piedi. Così aveva premuto il camlo del portone che stava di fianco al cancello, aveva provato una volta, due, ma non aveva udito alcun rumore e questo lo aveva fatto sentire sulla strada giusta, la casa sembrava disabitata eppure c’era una luce che ammiccava proprio nell’ultima finestra a due i dal tetto. Aveva guardato in alto, scalare la
facciata non era possibile, aggirarla invece sì. Aveva spinto il battente del cancelletto e a i che sembravano falcate aveva superato i gradini ed era entrato nell’appartamento che non gli era mai piaciuto e che lentamente stava diventando il suo mondo, era volato tra i locali e sulle scale interne e in un lampo era arrivato nella camera che era stata dei suoceri. Dalla finestra si toccava il muretto del terrazzo della casa vicina, per un uomo di mezza età che praticava il tennis quattro volte la settimana, raggiungerlo e scavalcarlo era stato un gioco da ragazzi. Alfredo ancora non lo sapeva, ma quella non era la casa che lui cercava, dentro non vi abitava chi teneva prigioniera Beatrice, ma una signora che sembrava la tipica vecchina delle fiabe. Aveva poco più di settant’anni ma un’artrite reumatoide le aveva rinsecchito e deformato le ossa, sembrava quindi molto più anziana di quello che era, una cariatide rimasta lì dai tempi più lontani, qualcuno che nella penombra poteva anche far paura, ma che in cambio di un favore fatto col sorriso sulle labbra, sturare un lavandino, aggiustare un citofono, avvitare una lampadina…, poteva raccontare aneddoti e pettegolezzi, perfino fatti reali sbirciati dall’alto del suo maniero. Alfredo era un tipo fortunato, l’aveva sempre saputo, aiutati che Dio t’aiuta, gli diceva sua madre, lui non credeva in Dio, ma forse qualcuno che lo spingeva nella direzione giusta c’era, aveva pensato tornando in piazza e dirigendosi verso il vicolo che s’apriva poco lontano. La vecchia signora gli aveva raccomandato di non andare in quella casa da solo, là un tempo vi abitava un uomo terribile, uno che aveva rubato la terra alla gente comprandola per due soldi quando era di moda andare in fabbrica e non nei campi, era morto da un bel po’, ma nessuno della sua discendenza aveva le rotelle a posto, anche il nipote non le piaceva, sembrava normale, ma teneva un fucile grosso come un cannone spianato sulla piazza, pronto a far fuoco sui anti, lo tirava dentro e fuori da una feritoia nel muro, aveva una lucetta rossa che si accendeva e spegneva, era... inquietante. Quando la lampadina aveva cominciato a tremolare, aveva chiamato i carabinieri e aveva chiesto loro di venire a controllare quell'orribile cannone, li stava ancora aspettando…, era una fortuna che fosse arrivato lui perché ormai aveva gli occhi che le bruciavano. Il vicolo era corto e buio, in piazzetta c’era ancora luce, ma lì sembrava notte fonda, l’unico lampione era spento, forse rotto, forse disattivato, un cane abbaiava in lontananza e per un attimo Alfredo aveva pensato a Neve che non vedeva dal giorno prima. Pochi i e aveva raggiunto il punto in cui la stradina
terminava in un portone sostenuto da una parete irregolare di sassi, il limite estremo del paese oltre il quale s’apriva la campagna. Si era guardato attorno, da un lato s’alzava una casa dalle finestre sbarrate con assi incrociate, dall’altro un cancello massiccio che proseguiva in una barriera di metallo compatta, alta e invalicabile. Era lì che doveva andare. Suonare al camlo era impensabile, scavalcare la recinzione anche, così Alfredo aveva raggiunto il muro sconnesso che chiudeva la strada e lo aveva tastato con le mani in cerca di appigli, poi si era fatto coraggio e aveva cominciato a scalarlo. Non era stato difficile, arrivato in cima si era seduto a cavalcioni, aveva alzato lo sguardo sulla costruzione che gli stava davanti e aveva scorto una luce in alto, proprio sotto il tetto. Beatrice era là, ne era sicuro, e questa volta aveva ragione. Aveva ripreso a muoversi facendo leva sulle mani, si era spinto fino all’estremità del muro, spostato una gamba e appoggiati entrambi i piedi tra le punte acuminate della recinzione, poi aveva tratto un respiro profondo e spiccato un salto nel vuoto aspettandosi il peggio. Era finito su un terreno morbido cosparso d’erba strappata di fresco, di fiori e di germogli ormai apiti che avevano attutito la caduta. Quando aveva raggiunto la scala aveva la mente lucida e i sensi all’erta, i capelli sulla nuca erano rizzati dalla tensione o forse dalla paura, era eccitato, sentiva di essere nel luogo giusto, non aveva dubbi, Beatrice era vicina, ne avvertiva l’odore. Arrivato al poggiolo si era fermato per guardarsi attorno, alla sua sinistra s’apriva una porta, più avanti s’allargava un terrazzo con altri due usci scuri poco distanti, si era diretto verso quello posto sotto la luce che filtrava dal tetto, aveva cercato di aprirlo scuotendolo piano, ma lo stipite era bloccato dall’interno e non si era mosso. Aveva provato di nuovo e con maggior forza, ma non era servito a niente. Tutto sembrava calmo e tranquillo, ma non era così. Dall’alto qualcuno si era affacciato un istante per guardare preoccupato verso il basso, ma Alfredo non se ne accorse e spostò altrove la sua attenzione. Raggiunse l’uscio che stava di fronte, lo spinse e si ritrovò in una stanza piena di attrezzi ginnici, non c’era nessuno, tornò indietro e si fermò davanti alla prima porta che aveva incontrato salendo, piegò la maniglia ed entrò nel minuscolo appartamento che malamente Loris divideva con Loretta.
La cucina era piccola, un frigorifero, un fornello, un tavolino con una sola sedia adagiata sul pavimento, più avanti c’erano il bagno e una camera da letto ammobiliata in modo spartano, un armadio socchiuso e mezzo vuoto, un letto sfatto, una scrivania con il computer, uno sgabello e poco altro. C’era disordine, per terra scorse una parrucca arruffata, la luce era accesa, non c’erano finestre, solo un’altra porta con la chiave ancora inserita nella serratura. Alfredo sentì un brivido corrergli lungo la schiena mentre schiudeva il battente ed entrava nel locale dov’era convinto di trovare sua moglie. Beatrice non era lì, ma era poco lontana, si trovava due piani più in alto e stava lottando con una poltrona che sembrava inchiodata al pavimento, coi piedi aveva raggiunto le forbici e ora doveva piegarsi in avanti, dondolarsi fino a cadere sulle ginocchia, poi sul fianco… Alfredo entrò nel buio della stanza trascinando le scarpe, con la mano cercò un interruttore sulla parete, ne trovò uno che però non funzionava, man mano che gli occhi si abituavano all’oscurità, riusciva a distinguere gli ammassi di mobili ammucchiati nel disordine più assoluto, il pavimento era ricoperto di stracci, tavoli e sedie erano accatastati vicino ad armadi. Era capitato in un magazzino e di Beatrice non c’era neanche l’ombra, non provò nemmeno a chiamarla, non serviva. Attraversò la stanza aprendosi varchi tra le ragnatele, ogni tanto inciampava in oggetti sparsi sul pavimento, era deluso, più procedeva e più si convinceva che stava commettendo un errore, che era meglio tornare indietro e tentare la sorte in un’altra direzione. Stava per farlo, quando con le mani incontrò la parete che gli stava di fronte, c’era un’altra porta e forse era quella giusta. L’aprì e si trovò in un salotto d’altri tempi. Lì non era buio, la luce gialla della piazzetta sottostante entrava da una finestra con le imposte incrinate, Alfredo le raggiunse e le spalancò, poi si guardò in giro e con la memoria tornò al soggiorno di quand’era ragazzo, un lampadario imponente, due vetrinette di teck lucido, una alta fin quasi al soffitto, l’altra sovrastata da un lungo specchio ormai opaco, un tavolo rotondo con una tovaglia di pizzo a maglie larghe e quattro sedie che gli correvano attorno, infine un treppiede con un grammofono d’altri tempi e un disco ancora appoggiato sopra. Nell’insieme la stanza sembrava risalire agli anni sessanta, ma un calendario fissava il momento in cui tutto si era fermato a soli sei anni prima. Sentì un rumore provenire da oltre la porta, con lo sguardo cercò una via di fuga che non c’era, poi s’acquattò dietro il tavolo e si mise in attesa. - Papà, sei tu?
Alfredo udì la voce e perse ogni speranza, credeva di aver trovato il covo di un delinquente e invece era entrato in una casa come tante, dove il figlio che sente un rumore chiama il padre preoccupato…, aveva sbagliato tutto e ora avrebbe dovuto giustificare la sua intrusione, scusarsi e perdere tempo, troppo tempo. Rimase immobile sperando che il ragazzo tornasse indietro. - Dove sei papà?, rispondimi, ti ho visto sul terrazzo e so che sei qui – la voce era timorosa, veniva da lontano, da oltre il locale infestato di ragnatele. Alfredo s’impose il silenzio, forse il ragazzo non sarebbe entrato…, poi lo sentì avvicinarsi e il suo stomaco si contrasse in un brivido di paura. - Cosa fai, Alfredo, ti nascondi? – ora la voce era diversa, simile a quella di prima, ma più dolce, quasi una cantilena – dai non fare così, vuoi giocare con me a nascondino?, okay, giochiamo, se ti trovo cosa fai?, mi dai un bacio? Alfredo inghiottì saliva e s’alzò in piedi, avrebbe preferito rimanere dov’era, ma nella stanza era entrato qualcuno che conosceva il suo nome e non gli pareva bello farsi trovare nascosto dietro la rete di una tovaglia, era anche curioso di vedere in faccia chi lo stava cercando, aveva la sensazione che ci fossero due giovani, un maschio e una femmina e che solo quest’ultima si fosse spinta oltre il marasma del locale accanto. La cosa non gli piaceva, la voce della ragazza sembrava falsa, i suoi toni erano forzati in una cantilena stonata e l’allusione sessuale che gli aveva rivolto gli faceva suonare un camlo d’allarme in testa. Poi vide una figura uscire dall’ombra e d’un tratto comprese di essere arrivato dove voleva, ora sapeva che Beatrice era vicina, che era tenuta prigioniera da due ragazzi malati o forse da uno solo con due personalità diverse e sicuramente in contrasto. Alfredo propendeva per quest’ultima ipotesi, conosceva il problema, non era la prima volta che l’incontrava, era uno psichiatra e in quel momento la sua professionalità lo aiutò ad affrontare una situazione che pareva fuori di ogni logica. - Sono qui, vieni avanti – disse sedendosi su una sedia e appoggiando le mani sul tavolo quasi fosse una scrivania. Quando lei s’avvicinò, capì di non essersi sbagliato. - Ciao, come stai? – sussurrò la ragazza con una voce che voleva essere sensuale. - Bene, grazie e tu? – era così che riceveva i pazienti nel suo studio e così
doveva fare anche adesso. - Perfettamente, non si vede? – disse lei andosi una mano sul collo. - Sono contento, siediti e dimmi come ti chiami. - Sono Loretta e non mi siedo, preferisco farlo in piedi – sorrise, poi fece un o in avanti e appoggiò le mani sullo schienale di una sedia. - Solo un minuto, dai siediti… - lei non si mosse – quanti anni hai Loretta? - Che t’importa?, sono giovane, più giovane di tua moglie, non ti basta? Alfredo non reagì, gli anni di lavoro che aveva alle spalle lo aiutarono a mantenere la calma, a non saltare al collo della ragazza che aveva di fronte, aveva voglia di prenderla a pugni, ma non lo fece. - Mettiti a posto la parrucca, è storta – usò il suo solito tono distaccato. - E tu sei un porco – sibilò lei sistemandosi i lunghi capelli scompigliati. - Ah sì? – non doveva offrire il fianco alle provocazioni. - Certo, come tutti gli uomini del resto – si scostò dallo schienale della sedia, ma ancora mantenne le distanze – allora, mi hai guardata abbastanza?, ti piaccio? - Cosa ti sei fatta? – chiese Alfredo indicando i segni che aveva sul braccio. - Niente, andiamo di là, qui è pieno di polvere. - Ti sei ferita da sola? – molti malati s’infliggevano punizioni per tenere lontana l’ansia o per mantenere il controllo su se stessi. - Tu credi che sia pazza, vero?, beh, ti sbagli, non lo sono, io sono sana come un pesce. - Anche i pesci si ammalano – non riusciva a vederla bene, ma era un maschio, ne era sicuro. - Non io.
- Va bene, cosa vuoi?, perché sei venuta a trovarmi? – il paradosso era uno dei suoi strumenti di lavoro, come il bisturi per un chirurgo. - Non lo so, potrei succhiartelo, oppure tagliarti la gola, cosa preferisci? - E tu cosa preferisci? – teneva qualcosa in mano, forse un coltello. - La seconda delle due, è ovvio. - Ti piace il sangue?, è per questo che ti ferisci al braccio? - Sta’ attento a quello che dici… - urlò la ragazza alzando la mano stretta a pugno, fu solo un istante, poi scosse la testa e tornò a sorridere – no, il mio sangue non mi piace affatto, ma in quello degli altri ci farei il bagno. - E allora quei segni? – ad Alfredo era bastato quell’attimo di collera per capire. - Quali segni? - Ti ferisce con il coltello? - Anche con le forbici – si morse le labbra come se non avesse voluto dirlo. - Lo fa per controllarti? - Perché è geloso e perché mi odia – aggiunse scrollando le spalle – ma il sangue prima o poi coagula e io torno più forte di prima. - Il sangue può anche finire. - Cosa vuoi dire? - Che un giorno o l’altro vincerà lui. - Non è possibile, se perdo io, perde anche lui. - Dov’è Beatrice? – non era il momento di chiederlo, lo sapeva, ma era stanco di recitare e non poteva più aspettare. Si alzò in piedi, la seduta era finita. - Perché vuoi saperlo? – sembrava sul chi vive.
- È mia moglie. - E con questo? – lei alzò il coltello per farglielo vedere. - Portami da lei. - Non posso, lo farei volentieri, ma è morta questa mattina per collasso cardiocircolatorio, Loris l’ha sepolta sotto i crisantemi, quelli nell’orto in fondo a sinistra. Alfredo si morse le labbra per non replicare, sapeva che non era vero, quantomeno lo sperava. - Non ci sono più fiori nell’orto, non te ne sei accorta? - Certo che me ne sono accorta – ma era turbata, qualcosa stava sfuggendo al suo controllo e non le piaceva – allora, facciamo all’amore? - Prima portami da Beatrice. - Vuoi farlo davanti a lei?, lo sapevo che eri un porco. - Portami da lei e poi vedremo – aggiunse buttando alle ortiche anche l’ultima traccia di professionalità, si spostò e le si avvicinò di un o, pensava di seguirla fuori dalla stanza, invece la vide alzare il coltello e dovette buttarsi all’indietro per non essere colpito. Alfredo perse l’equilibrio e finì a terra con un rumore infernale, con lui caddero due sedie e qualcosa di vetro che andò in frantumi, fece appena in tempo a spostarsi di lato che la lama si conficcò nel pavimento a pochi centimetri dalla sua testa, poi udì un rumore venire da lontano e una voce gridare il suo nome, ma lui non aveva tempo per ascoltare, la ragazza gli era saltata addosso e lo stava colpendo con pugni pesanti come macigni. - Basta! – sentì urlare e per un attimo Alfredo pensò che fosse arrivato qualcuno in grado di fermare la furia che lo stava massacrando. - Smettila ti ho detto, è tuo padre! – ma i colpi continuavano a cadere e lui cominciava ad avere la mente confusa, ora gli pareva di udire la voce di Beatrice.
- Attento Loris, c’è Blondie alle tue spalle! – sentì ancora, e i pugni all’improvviso cessarono, il suo carnefice spostò il corpo di lato e girò la testa per guardare all’indietro, aveva perso il sorriso malizioso di poco prima e ora sembrava solamente ciò che era, un povero ragazzo in preda al terrore. Anche Alfredo si piegò per guardare nella stessa direzione e solo allora vide Beatrice ergersi come un fantasma sopra di loro, subito avvertì un leggero tramestio al cuore, ma non stette a badarci, aveva un ginocchio che gli premeva sullo sterno e non voleva lasciarsi trasportare dalle emozioni. Cercò di liberarsi per rimettersi seduto, ma era difficile, si spostò leggermente sul fianco, tastò il pavimento alla ricerca del coltello, non c’era, provò più in là, niente, ormai gli mancava il respiro e il buio stava invadendo la stanza, così afferrò la tovaglia di pizzo che pendeva dal tavolo, la tirò e la lanciò contro il suo aggressore. L’urlo che s’alzò nell’aria piena di polvere coprì ogni altro rumore, anche le parole di Beatrice e i battiti del suo cuore, “la tela di Blondie!”, sentì gridare, poi venne spinto da parte dalla furia del ragazzo che si dibatteva nella rete, colpì con la testa uno spigolo e perse i sensi. Quando riaprì gli occhi c’era Beatrice inginocchiata al suo fianco, stava cercano di svegliarlo con piccoli schiaffi sulle guance, dopo i pugni di poco prima sembravano carezze. Le sorrise, poi a fatica e senza una parola si alzò in piedi, l’abbracciò stretta e con lei s’avviò verso la porta lasciando sul pavimento la tovaglia lavorata al tombolo che sembrava una ragnatela ma che una ragnatela non era. Beatrice e Alfredo avevano tante domande da porsi, tanti dubbi da chiarire, ma quello non era il momento per farlo e sostenendosi a vicenda uscirono dalla stanza, poi da un’altra e da un’altra ancora, finché si ritrovarono all’esterno, scesero le scale, aprirono il cancello e percorsero il breve tragitto che li separava da casa. Solo dopo aver chiuso la porta alle loro spalle si concessero il lusso di tornare a essere quello che erano, due esseri umani stanchi, scossi, ma anche felici come nessun altro al mondo. I carabinieri furono di una velocità incredibile, il maresciallo Saluzzo ricevette la telefonata del brigadiere di turno direttamente al bar, attraversò la piazzetta e arrivò sul posto che Beatrice e Alfredo stavano ancora piangendo. Si comportò al meglio, raccolse le loro deposizioni in rispettoso silenzio senza esprimere commenti o fare domande che potessero guastare la solennità del momento,
quando ogni cosa fu chiarita, si attaccò al telefono per mettere in moto quella che lui definì la prodigiosa macchina investigativa dell’arma. Si doveva perquisire una casa, forse due o tre, controllare le vie di fuga e seguirle pure in capo al mondo, cercare un ragazzo mentalmente malato e pericoloso, da trattare con riguardo senza mai sottovalutarlo, un maschio che poteva anche essere una femmina, di portamento alto e robusto, con capelli corti e biondi o forse lunghi e rossicci, una figura conosciuta in paese ma non troppo, con jeans, camicia e sandali ai piedi, segni particolari: sguardo allucinato e ferite da taglio al braccio sinistro. Nel trambusto del momento dimenticò d’informare chi di dovere dell’evolversi della situazione, un errore piccolo e forse non del tutto inconsapevole, che contava di pagare a lieve prezzo, con un richiamo verbale o una breve nota a matita sul fascicolo personale, niente di più. Quando il maresciallo se ne andò, si lasciò alle spalle una situazione stupenda, addirittura romantica. Già in macchina, ma anche più tardi in caserma e nell’appartamento che divideva con un gatto ormai vecchio e malandato, Saluzzo si soffermò a pensare a quella coppia non più giovane e sicuramente innamorata, che si stava consolando e preparando a qualcosa di cui lui sentiva una nostalgia acuta e innegabile, non aveva alcun dubbio sul modo in cui quei due si apprestavano a concludere la serata, nessuno. E in questo si sbagliava. È vero che per lungo tempo Beatrice e Alfredo si leccarono le ferite mostrandosi un affetto e una tenerezza che non ricordavano di essersi mai manifestati, ma erano ben lungi dal fare all’amore, se era a questo che il maresciallo in vena di rimpianti pensava nel chiuso della sua camera. Assieme ripercorsero una, due volte i fatti e le emozioni delle ultime ore, poi si lavarono, si rifocillarono e cominciarono daccapo. Alla fine i conti non tornavano, c’erano due orientali di troppo, gente con le mani lunghe, le pistole e le taniche di benzina, tutte cose che con Loris e Loretta sembravano non aver niente a che fare. Così Alfredo era di nuovo arrabbiato o quantomeno risentito mentre saliva in macchina per dirigersi verso le Marogne, non voleva che Beatrice lo seguisse, ma lei aveva puntato i piedi decisa a non rimanere sola neanche un minuto, Loris era ancora libero e non c’era alcuna chiave che potesse darle la tranquillità. Quando parcheggiarono l’auto e scesero per affrontare l’ultimo tratto di strada a piedi, avevano entrambi ancora il broncio, ma non erano più arrabbiati, non potevano esserlo dopo quello che era successo e con un cielo così colmo di
stelle. Si presero sotto braccio e cominciarono a camminare, erano le 22 esatte e la luna era tonda, piena e gonfia come un’arancia matura.
Capitolo quindicesimo
L’anziana signora li precedette lungo il corridoio in penombra, alle pareti c’erano stampe che riproducevano la costa dalmata, sul pavimento un tappeto morbido con le frange consunte, non c’erano mobili, solo un telefono appeso al muro, arono davanti a delle porte socchiuse, una cucina grande e in ordine, una sala con un tavolo rotondo coperto da una tovaglia, un bagno rivestito di mattonelle e infine una camera da letto. Nikola Rosović era seduto su una poltrona vicino all’unica finestra della stanza, il sole entrava a scacchi attraverso l’inferriata e illuminava le sue gambe rinsecchite e la sedia a rotelle poco distante, le pareti erano bianche e spoglie, un letto, un comodino e una cassapanca riempivano il poco spazio che rimaneva. L’uomo teneva la testa appoggiata all’indietro e gli occhi chiusi, era vestito in modo sobrio e decisamente pesante, camicia con maniche lunghe, gilè di lana e pantaloni di fustagno, ai piedi portava scarpe alte chiuse con lacci fin troppo stretti per uno che si presumeva non avesse l’uso delle gambe. La mano destra sembrava tesa in uno spasimo che ne deformava l’aspetto, l’altra era appoggiata in grembo sotto un libro semiaperto, sul viso la pelle era sottile e lasciava trasparire le ossa del cranio, pareva un teschio animato da un leggero respiro. - Eccolo, è qui – disse la donna in un italiano stentato, quando aveva aperto la porta era pronta per uscire e solo l’insistenza di Anna l’aveva convinta a rientrare – è vecchio e malato, se avete da fargli delle domande risparmiate il fiato, non vi risponderà. - Non può parlare? – chiese Lupo. - Rimane in silenzio per settimane, poi all’improvviso chiede del vino, un giornale… - gli ò una mano sui capelli ormai radi – nel ’79 ha avuto un ictus e da allora a il tempo a leggere e a guardare dalla finestra. - Volevamo chiedergli delle informazioni, abbiamo fatto un lungo viaggio e… - Da dove venite? - Dall’Italia, da Milano.
- Anche voi? – si era stretta il foulard in testa, poi aveva indicato la porta per invitarli a uscire – è stato il giornalista a mandarvi? - Chi? – domandò Lupo. - Il milanese alto e magro come un chiodo… - No, non è stato lui, ma sappiamo chi è, cosa voleva da zio Nikola? – Anna parlò in un soffio, ma la reazione alle sue parole fu forte e inaspettata, la donna si girò a guardarla e gli occhi del vecchio si aprirono di scatto. - Perché l’ha chiamato così?, è sua parente? - Forse…, penso di essere Irma Gorica, la nipote di Italo – si avvicinò all’uomo che ora la guardava con gli occhi stretti come fessure. - La figlia di Sonja? – chiese lei incredula. - Non ne sono sicura, sono qui apposta per capire. - Come fa a non saperlo?, ha perso la memoria? - Sì, da bambina, ma adesso mi sta tornando e ho un sacco di dubbi in testa. - Beh, non cerchi aiuto da lui, tanto non potrà darglielo – la donna si spostò dietro la poltrona e vi appoggiò sopra i gomiti – un tempo era un uomo eccezionale ma ora ha solo bisogno di riposare, lasciatelo in pace. - Forse anche lei può darci una mano, di sicuro conosce il signor Nikola molto bene, è sua parente? – Lupo usò un tono suadente ma la donna sembrò non badarci – si ricorda cosa voleva l’uomo di cui diceva prima? - Cercava informazioni su una coppia di Rovigno che è stata uccisa a Milano tanti anni fa, forse c’era anche una bambina… – parlava senza distogliere lo sguardo da Anna – era in città da due giorni e aveva già incontrato altra gente, qualcuno lo ha mandato da noi, è stata lei? - No, assolutamente, cosa gli ha detto? - Che noi non conosciamo nessuno che abiti o abbia abitato a Milano.
- Ne è sicura? – Lupo sperava non lo fosse. - Senta, io sono una cugina del vecchio e so di lui più di chiunque altro, si è trasferito qui una ventina d’anni fa, dopo l’ictus e se qualcuno dall’Italia gli avesse telefonato o scritto, io di certo lo saprei… – disse con impazienza. - Sì, però… - provò a insistere lui. - Però un bel niente, scusate, ma ora dovete proprio andare, ho un’altra faccenda da sbrigare prima di tornare a casa e sono già in ritardo – ma non si mosse. - Ancora un minuto…, chi abitava in questa casa prima che arrivasse lui? - Una delle tante famiglie volate all’ovest in cerca del paradiso, papà, mamma, figlia, nonno e cane, tutti spariti dalla sera alla mattina, erano suoi parenti – disse indicando il vecchio che intanto non distoglieva lo sguardo da Anna. - Li conosceva? - No, a quel tempo abitavo in paese, però ne ho sentito parlare, se ne sono andati lasciando la casa in uno stato penoso, tanto che all’inizio la polizia aveva pensato al peggio, a un furto, un rapimento… - E poi? – continuò Lupo. - E poi cosa? – si girò per rivolgersi ad Anna – è lei la bambina? - Credo di sì, ma non ne sono sicura…, cos’è successo dopo? - Non lo so, in città si diceva che fossero emigrati, era già successo in questa casa – li guardò per capire se la cosa potesse interessare – alla fine della guerra qui abitava una donna che è sparita nel nulla, nessuno ha mai saputo dov’era andata, tranne io… - Lei? – chiesero Anna e Lupo all’unisono. - Sì, io, tempo fa ho trovato una cartolina col suo indirizzo fissata dietro lo specchio in bagno, a lui non ho detto niente per non farlo agitare, ma io ho riconosciuto il nome… – aggiunse indicando il vecchio che aveva di nuovo richiuso gli occhi.
- Ce l’ha ancora? – chiese Anna. - Cosa, la cartolina?, no, me l’ha rubata il giornalista – chiuse i pugni con rabbia. - Che altro gli ha detto? – s’intromise Lupo. - Poco e se avessi saputo che era un ladro gli avrei detto ancor meno – ci pensò un attimo – voleva incontrare qualcuno che conosceva la famiglia che abitava qui e io l’ho mandato da un paio di vecchi che stanno qui vicino. - Potrebbe dare anche a noi gli stessi indirizzi? - Cos’è, mi ha preso per una postina? – sembrava arrabbiata, ma non lo era – gli ho detto di provare da Rosa Lošinj e Mirko De Stefani che abitano in cima alla Grisia, e da Milovan Karlović che è proprietario della casa rossa sull’Obala Alda Rismonda. - Tutto qui? – ma non era poco, anzi… - Certo, a quel punto il vecchio si è sentito male e ho dovuto mandarlo via. - E lui è andato da quella gente?, da quel Karlović? – Lupo vide Anna impallidire. - Non lo so, non potevo mica pedinarlo…, io ero presa da lui che tossiva come un cane rabbioso e quando mi sono girata era sparito – aggiunse avviandosi risoluta lungo il corridoio – mi spiace, ma ora dovete andarvene anche voi, venite... Anna non le diede retta e non la seguì, s’inginocchiò davanti al vecchio che sbatté le palpebre e raddrizzò la testa, gli mise le mani sulle ginocchia e gli parlò in croato, piano e con dolcezza. Più tardi avrebbe spiegato a Lupo di avergli detto di chiamarsi Anna Mascagni, ma di sentirsi Irma Gorica, di essere contenta di averlo conosciuto, che sarebbe tornata presto per raccontargli di sé e riannodare i fili che qualcuno aveva spezzato. L’Obala Alda Rismonda era un lungomare a due i dalla grande Trg Pignaton dove s’affacciava la casa di zio Nikola, l’unico edificio rosso era una villetta signorile con giardino e muro di cinta che correva tutto attorno, sul cancello non appariva alcun nome, solo un’insegna commerciale con la scritta “Centro
Immobiliare Villa Croata”. Lupo costrinse Anna a proseguire, voleva cercare un caffè per ragionare con un minimo di calma, la situazione si faceva sempre più pericolosa e la cosa migliore era tornarsene al molo e riprendere il mare. Lei gli concesse il lusso di una panchina e di pochi minuti, quanto bastava per assimilare le nuove informazioni e formulare un piano, niente di più. Essenzialmente parlarono di Enrico e del ruolo che aveva avuto nell’intera vicenda, ora le cose sembravano più chiare. Dopo via Masai era arrivato direttamente a Rovigno, qui aveva parlato con qualcuno che l’aveva indirizzato da zio Nikola e quindi da Milan Karelić o Milovan Karlović che dir si voglia, poi era andato a Trieste da zia Letizia e infine era tornato a casa ad aspettare con impazienza che Anna telefonasse. Italo doveva esser morto poco dopo aver spedito la lettera, Milan l’aveva ucciso e aveva fatto sparire il suo corpo, non era però riuscito a recuperare il suo dossier, così aveva prima buttato all’aria la sua casa e poi aveva rintracciato e fatto uccidere Ante e Sonja a Milano. La fuga della bambina l’aveva costretto a tornare nell’ombra, si aspettava un’indagine per omicidio, forse anche il ritrovamento del dossier, ma non era successo niente e ben presto aveva ripreso la vita di sempre. Questo fino all’arrivo di Enrico. Suonarono al camlo alle sedici in punto, poco più il là un venditore ambulante di gelati li vide entrare, si trattenne un poco, poi tornò verso l’ombra della città vecchia, anche se si fosse fermato non li avrebbe più visti uscire, non da quella parte almeno e non assieme. Si presentarono come marito e moglie in cerca di una villetta al mare, cercavano qualcosa di veramente bello, minimo otto stanze, tripli servizi, doppio garage, giardino e spiaggia privata, non badavano a spese per cui volevano trattare direttamente col titolare. L’impiegata li guardò in modo strano, erano vestiti come due straccioni e questo poteva anche are, con i turisti era abituata al peggio, ma il fatto che puzzassero di mare la rendeva alquanto inquieta, disse che il signor Karlović era impegnato e non poteva riceverli, chiese le loro generalità e dove alloggiassero sfoggiando un accento leggermente toscano, quando le fu nominato lo yacht che aveva appena buttato l’ancora in porto, parve subito rincuorarsi, anche l’odore di pesce non era più un problema.
Prese le schede delle migliori offerte immobiliari, ma i due clienti non vollero neanche ascoltarla, se il titolare non aveva tempo per loro, loro non ne avevano per lei, aggiunse Lupo in quello che sembrava l’idioma più apprezzato della Croazia, il tedesco. Lei sembrava imbarazzata, perfino intimorita e non si capiva se dalla lingua o dalla paura di perdere due facoltosi clienti, provò a insistere usando il tedesco con un accento da film americano, ma quando li vide avviarsi alla porta, non poté far altro che cedere. Seguirono un paio di telefonate, una in uscita e una in entrata, in croato ovviamente, poi la porta che stava alle sue spalle si aprì e un uomo alto e muscoloso si fece avanti con un inchino. Anna vide i suoi occhi a mandorla e piantò le unghie nella mano di Lupo per non urlare, lui ingoiò saliva per non fare altrettanto. - Prego, da questa parte – disse l’orientale prima in tedesco e poi in italiano. Entrarono in un corridoio lungo e stretto che aveva un’unica apertura sullo sfondo, una porta di metallo laccato sovrastata da una piccola telecamera fissa. Senza muovere le labbra, Anna sussurrò un leggero “andiamocene”, in direzione di Lupo, lui le sorrise e le rispose un piccato “troppo tardi, mia cara”, poi le baciò i capelli e l’accompagnò oltre l’uscio che si era aperto davanti a loro. Milan stava seduto dietro una scrivania di legno massiccio, era alto e magro, i capelli grigi, quasi bianchi, erano folti e gl’incorniciavano il viso come un’aureola, quando li vide entrare depose il foglio che stava leggendo, non portava occhiali e considerata l’età la cosa poteva dirsi eccezionale. Aveva folte sopracciglia che ben s’intonavano alla sua chioma vaporosa e un sorriso gradevole e diretto che fece sorgere qualche dubbio nella mente dei suoi ospiti, indossava una polo leggera con le maniche lunghe, dalle quali spuntavano due mani ossute coperte di una fitta rete di macchie scure che mostravano senza pudore la sua età. Con un gesto indicò le due poltroncine che aveva davanti, continuò a sorridere, ma non tese la mano, né diede l’avvio a qualche sorta di presentazione. - Mi è stato detto che siete interessati a una casa, una bella casa…, avete già visto qualcosa di vostro gradimento? – parlava italiano con il solito accento veneto. - No, veramente ci aspettavamo da lei qualche bella offerta – Lupo sperava di
mantenere la conversazione su un piano formale, se non commettevano errori forse potevano andarsene senza problemi. - Bene, allora seguitemi – l’uomo si alzò senza mostrare fatica, poi si diresse verso una porta che s’aprì a soffietto con un leggero fruscio. Entrarono in un ampio ascensore che prese a scendere lentamente, Anna vide Lupo tentennare prima di muoversi e avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma aveva paura di lasciar trasparire la sua ansia e preferì tacere. Quando la porta s’aprì il vecchio si spostò per farla are, lei rimase un attimo indecisa, poi scosse il capo e imboccò il corridoio incuriosita dai quadri appesi alle pareti. - Le piace la mia pinacoteca personale? – disse l’uomo prendendola per il gomito – venga, le faccio vedere un capolavoro, conosce Segantini? – e la condusse oltre un uscio appena socchiuso. Lei spostò il braccio per liberarsi dal suo tocco gelido, poi si guardò attorno e il panico le annebbiò la mente, nella stanza non c’era nessuno, solo quell’orribile vecchio sulla cui identità ormai non aveva più dubbi. - Dov’è Lupo? – chiese con voce strozzata. - Intende il suo pastore tedesco? – e le poggiò una mano sulla spalla. - Stia lontano da me, dov’è mio marito? - In questo momento sta valutando alcune opzioni interessanti con un mio dipendente, ma non si preoccupi, ci raggiungerà presto – disse carezzandole il braccio con il dorso delle dita. Lei si ritrasse, ma Milan le prese il polso e lo torse con forza. - Mi lasci andare… – Anna fece un o indietro per mantenere l’equilibrio, sentiva un dolore lancinante invaderle il braccio, strizzò gli occhi per non mettersi a piangere, l’uomo continuava a parlare ma lei faceva fatica ad ascoltarlo. - Hai gli stessi occhi di tua bisnonna, quando ti ho vista ho preso un colpo, sai…, un tempo mi eccitavo anche solo a guardarla – la lasciò andare bruscamente – era una donna speciale, aveva i capelli più scuri e credo più corti dei tuoi, li portava arrotolati attorno al capo, era bella, a quarant’anni era ancora splendida.
- Cos’ha intenzione di fare?, dov’è Lupo? - A cuccia, credo, dov’è giusto che stia un cane… - Non scherzi. - Non sto scherzando, ti sembra che io abbia mai scherzato con qualcuno della tua famiglia? – sorrise con amarezza – Giuliana era bella ma stupida, spero tu lo sia meno. - Perché dice così? - Se avesse avuto un po’ più di cervello, non sarebbe finita dov’è finita. - È stato lei a denunciarla, ha inventato un sacco d’infamie per vendicarsi… - Chi te l’ha detto? – il tono di voce era duro, tagliente. Anna non sapeva che rispondere, sentì un fruscio alle spalle e la speranza tornò a farle battere il cuore, si girò e vide l’orientale porgere a Milan la lettera di Italo. - Ah, finalmente qualcosa d’interessante – disse Milan sfilando i fogli dalle due buste, diede un’occhiata all’indirizzo e sorrise scuotendo la testa, poi si sedette su una poltroncina e iniziò a leggere. Anna fece per parlare, ma lui le intimò di tacere, provò a insistere e uno schiaffo le strappò un singhiozzo, si mise a piangere e lui tornò alla lettura, quando ebbe finito ripiegò la lettera con sussiego, sembrava deluso. - Ecco dove hai saputo di Giuliana – esclamò scuotendo i fogli – comunque non è andata così, Italo sapeva molte cose ma non tutto, se lei non fosse stata così scontrosa…, spero che tu non faccia lo stesso errore. - Vuol dire che s’è vendicato perché lei lo ha rifiutato? - Una cosa del genere, ma più romantica – disse ammiccando all’orientale che intanto si era spostato sullo sfondo – sai a me piacciono le donne un po’ riottose, quelle con carattere, che non si concedono subito, mi diverte domarle come si fa coi cavalli…, alla lunga, però, se non si lasciano mettere il morso, mi stufo e me ne disfo…, ho fatto così con tua bisnonna, farò lo stesso anche con te.
- Lei è malato… - Forse, la mia però è una malattia bellissima che mi mantiene giovane – disse tornando a carezzarle il braccio. - Stia lontano da me, un giorno o l’altro dovrà render conto del male che ha fatto. - Vuoi dire che prima o poi salterà fuori il dossier di Italo, vero?, sono d’accordo con te, è per questo che sono contento che tu sia qui – di nuovo alzò le spalle e sorrise, poi indicò la lettera sulla scrivania – peccato non ci sia scritto dov’è nascosto, mi avrebbe risparmiato un bel po’ di fatica, ma d’altra parte tuo nonno non ha mai brillato per spirito di collaborazione. - Non lo troverà mai e spero che quando salterà fuori, lei sia ancora vivo per pagarne le conseguenze. - Sta’ attenta ragazzina, ti ho detto che mi piacciono le donne di carattere, ma non devi esagerare – le puntò un dito addosso – io so dov’è quel maledetto dossier e anche tu lo sai. Ci sono due possibilità, ce l’hai tu oppure tua zia Letizia, che ne dici? - Che è fuori strada, completamente – rispose lei nascondendo l’apprensione. - Va bene, se questo è il tuo atteggiamento allora mettiamoci al lavoro – fece un gesto all’orientale che si avvicinò in silenzio – hai già avuto modo di conoscere i miei collaboratori, vero?, sono una grande famiglia, un clan, li ho portati con me da Taiwan e sono fedeli più del tuo cane pastore. - Dov’è Lupo? – tornò a chiedere Anna. - Vuoi proprio vederlo?, se credi che ti sia più facile parlare con lui davanti, per me va bene, andiamo... – e si diresse verso la porta seguito da lei e dal cinese. arono attraverso stanze vuote e prive di mobilio, Anna ne contò tre cercando di memorizzare il tragitto, poi avvertì un gemito lontano e subito perse il conto e anche l’orientamento. - Cos’è? – chiese spaventata, poi comprese – cosa gli state facendo? - È una normale prassi interlocutoria, non preoccuparti non morirà – disse Milan
senza girarsi. - Come non morirà?, è pazzo? – allungò la mano per fermarlo, ma qualcosa di appuntito la toccò sulla schiena – lui non sa niente di Giuliana, di Italo, e nemmeno di Sonja… - Certo, e non sa neanche della lettera, vero?, ce l’aveva solo addosso. Entrarono in una stanza che somigliava a una prigione, era spoglia come le altre e priva di finestre, dal soffitto però pendeva un lampadario di cristallo pieno di gocce che riflettevano la luce rendendo l’atmosfera surreale, sotto c’era Lupo con le braccia legate dietro la schiena, se ne stava seduto su una sedia di paglia e aveva il capo ripiegato in avanti. Anna lo vide e gridò il suo nome, lui la sentì, alzò la testa e sorrise, era pallido, aveva gli occhi scuri e gocce di sangue gli scendevano dal collo e si perdevano nella maglietta. Provò ad avvicinarsi, ma l’orientale alzò il bastone che aveva in mano e ancora una volta dovette fermarsi. Nella stanza c’era un’altra persona, se ne stava in piedi vicino alla porta, era una cinese dai capelli cortissimi e dai lineamenti graziosi, aveva le braccia incrociate e un attrezzo simile a quello del suo collega le pendeva dal polso. - Anna… - mormorò Lupo. - Non parlare amore, non dire niente. - Come stai?, cosa ti hanno fatto? – un rivolo di saliva rosata gli scendeva da un angolo della bocca, Anna lo pulì con la punta delle dita. - Sto bene, non preoccuparti. - In effetti state tutti e due fin troppo bene, vediamo di movimentare un po’ la situazione… – disse appoggiandosi all’unica sedia libera presente – signor Lupo, come pensa che reagirà la sua memoria se chiedessi alla mia collaboratrice di prendersi cura di Irma? - Non la tocchi – ringhiò Lupo vedendo avvicinarsi la donna, impugnava il manganello come una torcia elettrica – le faccia del male e giuro che l’ammazzo. - Ma allora è proprio un eroe… - lo canzonò lui – sa quanti ne ho visti io di eroi
come lei?, a dozzine, e sa dove sono adesso? - Lo immagino – continuò Lupo – lei finirà allo stesso modo se le farà del male, non lo dimentichi. - Allora non le faremo del male, d’accordo ragazzi?, troveremo qualcosa d’altro per invogliarla a parlare – disse rivolto ai due orientali che rimasero immobili come statue – signora Liang He, che ne dice di dedicare un po’ del suo tempo a questa ragazza? La donna alzò gli occhi e assentì, non sembrava particolarmente entusiasta, era in servizio dalle prime ore del mattino e avrebbe preferito correre lungo l’obala o uscire in cerca di datteri al largo di Santa Caterina, ma non si sarebbe tirata indietro, col vecchio non si scherzava e nemmeno si discuteva. Avanzò di un o e Lupo ne approfittò per tirarle un calcio, il pugno che ricevette in risposta lo sbilanciò all’indietro e per poco non lo fece cadere. Anna si protese in avanti, ma Milan la trattenne. - Basta così, signori miei, il nostro amico cane è di gusti difficili, per cui dovremo cambiare di nuovo tattica – sollevò la testa verso il cinese che s’avvicinò e con pochi gesti veloci e sbrigativi sfilò ad Anna la maglietta di dosso. Lei cercò d’impedirglielo, si torse, si piegò, poi sentì il contatto del bastone e una leggera scossa le percorse il corpo annebbiandole la vista. L’urlo di Lupo riportò Anna al presente, non capiva cosa fosse successo, scosse la testa, poi mise le mani avanti e con le unghie raggiunse gli occhi dell’orientale. L’uomo si scostò, si toccò le palpebre brucianti e tornò alla carica, le bloccò i polsi dietro la schiena e la spinse in avanti verso Milan. Si mosse piano, senza mostrare particolare emozione, sembrava sorridere, ma non era contento, anche lui non si stava divertendo, stava solo lavorando e come la sua collega avrebbe preferito trovarsi in tutt’altro posto. - Ma guarda che meraviglia… – disse il vecchio sfiorando con una carezza la pelle di Anna – che dice signor Chang, hanno il seno così bello le sue cinesine?, la sua piccola Liang Ling, per esempio, ha dei boccioli altrettanto corposi? L’orientale non rispose, con una mano teneva i polsi di Anna mentre con l’altra le premeva sulla spalla, aveva una leggera pulsazione sulla palpebra destra e questo faceva pensare a una certa contrarietà o quantomeno a un certo disagio.
Lupo guardava la scena e piangeva, aveva provato di tutto e ora non sapeva che altro fare, aveva urlato, imprecato, inventato ipotesi suggestive, giurato che il dossier era a Milano, che l’avevano perso in treno, sul motoscafo, aveva pregato, maledetto, ma non era servito a niente, così ora piangeva. Piangeva vedendo Anna tra le mani di quell’uomo orribile dalle dita nodose, sentiva il fruscio della sua pelle secca sul velluto del suo seno e avrebbe voluto intingere le dita nel suo sangue, ucciderlo. Scosse la testa con rabbia, piangere non serviva a niente, doveva reagire, fare qualcosa prima che fosse troppo tardi, si disse e si scagliò con forza contro Milan. Non servì a niente, la donna intervenne per sostenere il suo padrone e Lupo cadde sul fianco con la sedia legata ai polsi come il guscio di una tartaruga. Anna si mise a urlare, il cinese la teneva ferma da dietro, ma non riusciva a fare molto di più, era già tanto se evitava i suoi calci. - Lo raddrizzi e facciamola finita – disse Milan alla donna, poi si rivolse ad Anna, la prese per la coda di cavallo e tirò finché lei smise di strillare – ah, così va meglio, mi piace la vita movimentata, ma ora comincio a stufarmi – quando la lasciò andare, lei s’allontanò di scatto. - Dio che male… – disse toccandosi i capelli – giuro che domani me li taglio. - Scordatelo – sussurrò Lupo ansimando – se lo fai poi non ti sposo… – e scoppiò a ridere assieme a lei che intanto s’infilava la maglietta e sembrava più bella che mai. - Questi sono matti – brontolò Milan scuotendo la testa – basta perdere tempo, allora…, c’è qualcuno di voi due che vuole dirmi dov’è nascosto il dossier? - Io non lo so – disse Anna. - Nemmeno io – rimarcò Lupo. - Allora procediamo, signor Chang Lu, tocca a lei… - l’uomo s’avvicinò e sfiorò Lupo col bastone strappandogli un grido acuto che tagliò l’aria come un coltello. - Ma cosa fa, è impazzito? – tornò a urlare Anna mentre Lupo si contorceva dal dolore – non so dove sia il suo maledetto dossier, se lo sapessi glielo direi. - Irma, ti prego, usa la tua intelligenza, quello che hai visto è un utilizzo banale,
direi improprio del manganello elettrico, è possibile aumentare la potenza della scarica di altre cinque volte, poi lo si può applicare in punti delicati, ti piacerebbe vedere il pene del tuo bell’amico sfrigolare come un salsicciotto alla brace? - Gliel’ho già detto, non so niente delle sue carte, fino a poco fa non sapevo neanche chi fossi. - Chang Lu, provi sul collo. - No, fermo, non lo faccia – Anna era terrorizzata – va bene, glielo dico…, non c’è alcun dossier, Italo l’ha distrutto prima di venire a Split da lei. Milan sorrise, scosse la testa e alzò una mano. Chang Lu avanzò di un o, allungò il braccio per evitare Anna che voleva bloccarlo, poi tese il bastone e sfiorò la spalla di Lupo che subito impallidì, si tirò in piedi sollevando la sedia a cui era legato e crollò a terra senza emettere un lamento. L’unico urlo, lungo e possente, fu quello di Anna che riempì la stanza rimbalzando sulle pareti fin quasi a smuovere i cristalli del lampadario, quando tornò il silenzio lei alzò il capo pronta a trattare, era seduta a terra ma non si era accorta di essere caduta. - Va bene, brutta carogna, lascialo andare e io ti porto al dossier – disse ando a dargli del tu. - Ma come, così in fretta? – Milan stava ancora sorridendo – o mi stai raccontando una bugia oppure non sei la nipote di Italo, una delle due. - Io sono Anna Mascagni, non Irma Gorica, e se lasci andare Lupo ti do tutto quello che vuoi. - Ma senti, senti – il tono era incredulo, ma interessato – e dove sarebbe questo benedetto dossier? - Lascialo andare… - Anna strisciò sul pavimento fino a raggiungere Lupo, gli infilò le ginocchia sotto la testa e si chino a baciarlo, sembrava morto ma respirava. - Tu lo sai che potrei torturarti fino a farti parlare… - Sì, e potresti anche uccidermi – d’un tratto sentiva di dover tentare il tutto per
tutto, Andreina non si sarebbe mai tirata indietro, ne era sicura – ma Italo ha messo il dossier dove è giusto che sia, lo sai, e un giorno o l’altro verrà trovato. - Ragazzina, sta’ attenta…, non mi sfidare – disse Milan con stizza – nella mia vita ho affrontato persone ben più forti e pericolose di te, e ho sempre vinto. - Anche questa volta puoi vincere… - ma lui non sembrava ascoltarla. - Ho vinto sugli slavi, sugli italiani, sui tedeschi, su tutti, ho avuto due vite, cento vite, mi sono costruito un impero, ho quattro case, tre automobili e un elicottero, a Taiwan sono considerato un re…, e perché mi sarei dato tanto da fare?, per farmi prendere in giro dalla nipote di Italo? - Come hai ucciso mio nonno? – parlava e intanto carezzava i capelli di Lupo che pareva dormire pesantemente. - Qualche anno fa ci siamo incontrati, anzi scontrati, e a lui è andata male, io ho preso il suo amico e lui mi ha chiesto tempo per racimolare le varie parti del dossier, diceva di averle sparpagliate per precauzione…, era furbo, troppo per i miei gusti, abbiano perso un giorno intero a seguirlo in giro per l’Istria e intanto voi scappavate – fece una risata triste – e quando si è ripresentato aveva un pacco di cartaccia sotto il braccio con un coltellino nascosto in mezzo, mi ha ferito alla gola, io mi sono salvato, lui, ovviamente, no, come il suo compare del resto. - Però non avevi il dossier. - Esatto e la cosa non mi piaceva affatto. - E allora sei venuto a Milano. - Non subito, tuo padre era un insegnante, un’ottima persona dicevano, sicuramente intelligente e colto, ma non certo all’altezza di tuo nonno e credo neanche di tua madre – il tono era sarcastico, ma nascondeva un’ammirazione che sembrava genuina – dopo dieci giorni di silenzio è crollato e ha telefonato a sua sorella, noi eravamo poco lontano, il resto è stato facile… - Hai ucciso anche lei? – era strano che non avesse ancora pensato alla famiglia di suo padre.
- Non personalmente, dopo la vostra sparizione io sono ripartito per Taiwan – si appoggiò alla parete, forse era stanco – sono tornato in tempo per seppellire Tito, il comunismo e la Iugoslavia intera. - Ma ancora non eri tranquillo – con la mano destra raggiunse i polsi di Lupo, sfiorò il laccio che li legava e proseguì oltre. - Ti sbagli, io ero sereno, ricco, sano e contento, non mi mancava niente ed è andata alla meglio per anni, poi è arrivato quel tuo amico a fare domande e tutto si è rimesso in moto. - Così hai mandato i tuoi sicari a Milano per ucciderlo – Lupo aveva cambiato ritmo di respiro, forse stava per svegliarsi, tornò a toccargli i polsi e questa volta si fermò. - E perché mai?, lui non era un problema e quello che sapeva me l’ha detto subito – sorrise sornione – era simpatico, socievole, un gran buon naso. - Però non poteva dirti niente perché non sapeva niente – infilò un dito sotto il laccio e lo tastò. - Sbagliato, mi ha raccontato la tua storia e mi ha dato il tuo indirizzo, cosa vuoi di più? – si stava accalorando – quando è tornato a Milano i miei ragazzi avevano già controllato l’appartamento e si erano trovati un posticino per aspettare il tuo rientro. - Ma non sono riusciti a prendermi… – cominciò ad allentare il nodo muovendo le dita senza spostare il braccio. - Sei stata fortunata o forse, chissà…, non ti ho mandato i miei cinesi migliori – disse alzando le spalle rassegnato – dopo un paio di giorni non riuscivano più a star fermi e si sono presentati dal tuo amico che li aspettava armato fino ai denti. - Figurarsi…, aveva una vecchia scacciacani… - il nodo era stretto e Anna maledì la sua mania di tagliarsi le unghie corte. - Una cosa?, signor Chang, lei ne sa niente? – si girò verso l’orientale che finse di non sentire e non rispose – che idioti…, ho dovuto sborsare un sacco di soldi per ritrovarti.
- Hai pagato la polizia? – parlò in tono ammirato per distogliere l’attenzione da quello che faceva, i cinesi erano appoggiati alla parete vicino alla porta e non la stavano guardando. - È una prassi comune, eri indiziata di tentato omicidio e questo ci è stato d’aiuto. - Ma perché i tuoi uomini cercavano la fotografia di un vecchio? – ce l’aveva quasi fatta. - Con loro non ho mai parlato del dossier, quando mi hanno chiamato per dirmi che avevano trovato la tua casa, ho pensato che fosse meglio avere delle prove prima di bruciare tutto e tornare a dormire tranquillo, così ho chiesto di mandarmi la fotografia di un vecchio con capelli e baffi grigi – adesso sembrava alterato, la lunga chiacchierata lo aveva stancato o forse irritato – io pensavo a tuo nonno e loro mi hanno faxato la foto di un tizio in maschera… - Sono ancora in paese? – tolse la mano per grattarsi la testa, il primo nodo era sciolto e non voleva insospettirlo. - Sì, li ho sentiti qualche ora fa, ti stanno aspettando – sorrise soddisfatto – hanno organizzato una festa per il tuo rientro, fuochi d’artificio e falò, dovrò chiamarli per dirgli di cominciare senza di te. - Un falò?, hanno intenzione di bruciare la casa? – Anna cercava di mantenere la voce salda, ma era in preda all’angoscia, quanti nodi c’erano ancora? - Vogliono chiudere in bellezza. - Non lasciarglielo fare, ti prego… – Anna pensava a Norma che doveva scendere a valle in serata. - Basta chiacchiere, ho risposto a tutte le tue domande, ora tocca a te farlo, dov’è il dossier? - Te l’ho detto, libera il mio amico e lo avrai – spostò la mano per carezzargli la fronte e sentì le sue ciglia muoversi, era sveglio – e telefona ai tuoi uomini, di' loro di tornare e di non bruciare niente. - Quando mi avrai dato quello che voglio.
- No, ti prego, fallo subito – affrontò il secondo nodo, lo allentò, poi il cinese si mosse e dovette togliere la mano. - Sei noiosa, dimmelo adesso oppure lo ammazzo davanti ai tuoi occhi – fece un cenno all’uomo. - E va bene, è…, è a Gorizia – buttò lì a caso. - E perché mai a Gorizia? – chiese lui incredulo. - Pensaci, dei due sei tu il più intelligente, no? – aveva bisogno di altro tempo, pochi minuti ancora. - Gorizia…, tu sei una Gorica e lui ha nascosto il dossier a Gorizia, non mi sembra un piano degno di tuo nonno – era dubbioso – chi te l’ha detto? - Pensaci… - e intanto sperava che il cinese tornasse vicino alla porta. - Sei brava a condurre il gioco, vediamo…, chi può essere stato? – sembrava perplesso – ma certo…, è stata Letizia, lei ha sempre saputo dov’era il dossier, anzi, credo sia stata lei a nasconderlo, tuo nonno avrebbe fatto di meglio. - Chissà… - tornò a lavorare sul nodo - Bene, così se non mi dirai tu dove si trova, me lo dirà lei – era di nuovo contento. - È difficile che i morti parlino, è spirata sei mesi fa, ha donato i suoi soldi a un canile, poveretta… – non era lei che parlava, era Andreina, erano la sua sicurezza e il suo coraggio che le suggerivano cosa dire. - Va’ avanti… - Questa mattina sono stata all’ospizio e ho visto le poche cose che ha lasciato, un libro di preghiere sbrindellato che ho bruciato e la lettera che hai appena letto, nient’altro. - E tu pensi che io ti creda? – disse ironico – e Gorizia?, come hai fatto a sapere di Gorizia?
- Nel libro ho trovato una cartolina della città con una piazza in primo piano, su una casa c’era una croce e la parola “Italo” in stampatello… – era una storia stupida, assurda. - Stai inventando tutto e io sto perdendo la pazienza. - Ti dico che è così, non ricordo il nome della piazza, ma se vuoi posso aiutarti a cercarla – sperava non servisse. - Questo è poco ma sicuro. - D’accordo, adesso però mantieni la promessa e richiama i tuoi uomini dal paese. - E perché mai?, sono giovani e devono farsi le ossa – disse Milan alzandosi a fatica – e in ogni caso prima voglio vedere cosa c’è a Gorizia. - E allora lascia libero Lupo. - Ragazzina, mi stai facendo perdere un sacco di tempo, sono le sei e dovevo essere a Pazin già da un pezzo – guardò l’orologio, poi fece un cenno alla donna che s’avvicinò silenziosa. Anna vide la cinese avanzare ma non riuscì a fermarla, provò a deviare il manganello, ma qualcuno la tirò in piedi e la allontanò da Lupo che tornò a scuotersi come un automa, si mise a urlare e continuò a farlo mentre veniva trascinata fuori dalla stanza. Più tardi Anna avrebbe avuto un ricordo confuso di quanto era successo, l’avevano fatta salire su un’automobile con i vetri scuri, avevano viaggiato in silenzio, lei imbavagliata e legata sul sedile posteriore, Milan davanti con Chang Lu che gli faceva da autista. Si erano fermati in un posto desolato, quando l’avevano fatta scendere era sera, il sole era tramontato, ma c’era luce a sufficienza per distinguere la strana costruzione che aveva davanti. Intanto a Rovigno le cose erano in piena evoluzione. Se Anna stava male ed era in preda al terrore per quello che stava accadendo, di sicuro Lupo non si trovava in condizioni migliori. L’ultima scossa ricevuta era indubbiamente più leggera delle precedenti, ma aveva infierito su un corpo debilitato e ora lui aveva solo voglia di dormire, era già tanto che non fosse svenuto un’altra volta. Chiuse gli
occhi e cercò di rilassare i muscoli contratti delle gambe, nella stanza c’era silenzio, un grande silenzio, prese a camminare sul ciglio del sentiero, gli abeti s’alternavano ai larici formando delle quinte che si spostavano assieme a lui, con le mani sosteneva da dietro lo zaino che aveva sulle spalle, muoveva un o dopo l’altro e intanto cantava una vecchia canzone di sua madre Alle meine Entchen schwimmen auf dem See, schwimmen auf dem See… Quanto tempo era che non pensava a quella canzone?, suo padre non era mai riuscito a impararla, la recitava a modo suo, saltando tutto quello che non riusciva a pronunciare, tanto, diceva lui, le anatre non erano mica permalose. Era grande suo padre! Sentiva un prurito insistente sotto il naso, avrebbe voluto grattarselo, ma doveva sostenere lo zaino e non poteva spostare le mani. Si chiese cosa ci avesse messo dentro sua madre di così pesante, aveva le spalle intorpidite e aveva voglia di fermarsi, magari se mangiava qualcosa si sarebbe sentito meglio, no…, non aveva fame, in bocca sentiva un sapore che gli ricordava il vomito, forse aveva sete, ecco, sì, aveva bisogno di un bicchiere di latte oppure di Apfelsaft, qualcosa che gli togliesse l’amaro dalla lingua. Spostò la mano per far scivolare in avanti lo zaino e subito avvertì il peso di suo padre spostarsi sulle spalle, doveva stare attento, non voleva che cadesse. Lo aveva visto accasciarsi sulla panchina lungo il binario, lo aveva chiamato, non era possibile che avesse bevuto già a quell’ora, erano appena le dieci…, i treni avano ma lui non si muoveva, lo aveva chiamato ancora una volta, poi un’altra, quando si era avvicinato aveva visto il suo viso piegato dal dolore, l’aveva caricato sulle spalle e si era messo a correre verso l’ambulatorio dall’altra parte del paese, era un uomo alto e robusto, ogni tanto sentiva il suo peso scivolare di lato, non doveva cadere… Lupo si spostò piano, qualcuno l’aveva svegliato con i suoi singhiozzi e lui voleva tornare a dormire, alzò lo sguardo verso il sole e la luce accecante di dodici lampadine gli entrò nella testa come mille aghi acuminati, nella stanza non c’era nessuno, chiuse le palpebre e tornò alla canzoncina delle anatrelle che nuotavano nel lago per calmare il pianto convulso del ragazzo che era dentro di
sé. Quando aprì gli occhi aveva il volto bagnato di lacrime, ma la mente lucida, era a terra, sdraiato sul fianco, provò a muovere le mani e gli venne in mente il lento e costante lavorio di Anna, che chiacchierava e intanto allentava i nodi che gli legavano i polsi. Era rinvenuto mentre lei parlava delle Marogne, l’aveva sentita agitarsi e per un attimo le sue dita si erano fermate, poi avevano ripreso fino all’orrore dell’ultima scossa. Non voleva pensare a quello che era successo in quella stanza, doveva mantenersi lucido e concentrarsi sull’unica cosa importante, la fuga. Provò a muovere i polsi, la corda era allentata e con un po’ di pazienza avrebbe potuto sfilare una mano, doveva riuscirci…, gli tornò in mente Anna che si allontanava tranquilla parlando di Segantini e intanto lui rimaneva indietro con la bocca tappata e un coltello alla gola… Sentì la pelle bruciare per lo sfregamento della corda, chiuse gli occhi, serrò i denti e finalmente la mano riuscì a forzare il cappio che l’imprigionava, con l’altra fu più facile. Stese le braccia in avanti, mosse le spalle, i gomiti e le ginocchia, fece roteare i piedi, poi s’alzò, raccolse la sedia e s’acquattò dietro l’uscio dal quale era entrato, sperava che fosse quello giusto perché ce n’era un altro e non poteva permettersi di sbagliare. Non dovette aspettare molto, un fruscio lento e costante si stava avvicinando, quando la porta s’aprì, Lupo riuscì a distinguere prima una carriola e poi la cinese che la spingeva, non stette a pensarci e calò la sedia sulla testa della donna che s’accasciò senza un lamento. Legarla e imbavagliarla fu questione di poco, le svuotò le tasche, trovò un coltello a serramanico e un mazzo di chiavi, il manganello elettrico purtroppo era sparito, poi uscì nel corridoio buio, alle pareti c’erano ancora i quadri, ma ora nella penombra parevano opachi, privi di colore. L’ascensore era una macchina di cui non si fidava, cercò una scala ma le porte che davano sul corridoio erano tutte chiuse, tornò indietro e pigiò il pulsante rosso infisso nel muro. Al piano superiore ogni cosa era uguale a come l’aveva lasciata. Aprì una porta e ritrovò il corridoio che conduceva all’ufficio vendite dell’immobiliare, sentì una risata, poi qualcuno parlare in tedesco, avrebbe voluto proseguire, ma c’era una telecamera appesa sopra lo stipite e preferì non rischiare, bloccò la maniglia con una sedia e si guardò attorno in cerca di un’alternativa, in mano aveva una
chiave lunga e appuntita, si chiese a cosa potesse servire. Nella stanza non c’erano altre porte e nemmeno finestre, solo un grande armadio che nascondeva una cassaforte e uno schedario. Sulla parete, appena sotto il pulsante dell’ascensore, c’era un piccolo foro tondo, Lupo infilò la chiave cilindrica, la ruotò e con un fruscio il soffietto tornò ad aprirsi rivelando una sorpresa. La cabina era quella di prima ma con una significativa e stupefacente differenza, mancava completamente della parete di fondo, al suo posto c’era un cunicolo stretto e buio che conduceva a un’ultima porta chiusa con due serrature, quando finalmente riuscì ad aprire anche queste, si ritrovò all’aperto, nel giardino dietro la casa. Lì tutto sembrava tranquillo, c’erano cespugli, alberi e un prato verde che terminava a ridosso di un’inferriata alta e priva di appigli, non c’erano rumori, solo quello del mare che s’infrangeva sul molo. Lupo si guardò attorno cercando di farsi venire un’idea, era ancora giorno e non voleva attirare l’attenzione di nessuno, raggiunse uno spigolo della casa e sbirciò verso il lato che dava sull’entrata principale, appoggiato al cancello c’era un uomo con le mani in tasca, tornò indietro, oltre la recinzione vide una strada con alcune macchine parcheggiate, al volante di una vecchia Fiat c’era qualcuno che guardava nella sua direzione, era inquietante. Lupo s’acquattò dietro un cespuglio per vedere chi fosse, attese un attimo, poi sentì un fischio e il motore dell’auto che s’avviava, alzò la testa e scorse un braccio sbucare dal finestrino e indicare il salice poco lontano, alcuni rami salivano fin sopra l’inferriata, sembravano sottili e per niente affidabili. Trasse un respiro profondo e si grattò il mento preoccupato, poi decise di non dar retta a quello che gli diceva il buon senso e s’avvicinò alla pianta. Arrampicarsi fu facile, il difficile fu lasciarsi andare oltre le paurose punte della cancellata, ci mise minuti, preziosissimi lunghi minuti per entrare nei panni del Vendicatore Nero, quando optò per Tarzan, fu più semplice, afferrò un ramo come se fosse una liana, chiuse gli occhi e si lanciò nel vuoto. Non urlò e non atterrò con l’estetica che il personaggio avrebbe richiesto, ma quando si rialzò era contento di essere ancora intero, raggiunse la portiera con la macchina già in movimento e considerato quello che gli era capitato nelle ultime ore, era soddisfatto, molto soddisfatto di se stesso. Si sedette sul sedile della Millecento mimando un gesto di vittoria, poi mise a fuoco l’uomo seduto dietro al volante e la sua esuberanza si spense in un gemito accorato.
Nikola aveva la bocca storta e un filo di saliva che gli colava dal mento, guidava con una mano sola, la destra era appoggiata tra le gambe che parevano due rami secchi pronti a spezzarsi. - Non fare quella faccia – disse il vecchio in un italiano malconcio – il mio lato sinistro è in ottimo stato e io sono mancino dalla nascita. - Parli? – la voce gli uscì a fatica. - Solo al bisogno. - Ma la donna ha detto… - Lupo era ancora stordito, tutto si aspettava, un poliziotto, un cinese pentito, una spia di Pechino, qualsiasi cosa, ma non quel vecchio paralitico. - Senti, se vuoi stiamo qui a parlare di me per ore – disse l’altro stizzito – ma credo che faresti meglio a dirmi dove andare, fra poco sarà buio e non sono sicuro che questa carcassa abbia i fari che funzionano. - È tua? – veramente sembrava più un rottame che una vettura. - Cosa? - La macchina… - Era di Italo, ora la usa un ragazzo per portarmi in giro – tossì e un grumo di catarro andò a incollarsi sul volante – allora…, dove andiamo? - Non ne ho la più pallida idea, forse dovremmo rivolgerci alla polizia… – in ogni caso aveva ragione lui, dovevano sbrigarsi, ai dettagli potevano pensare dopo. - Ho visto partire la Mercedes, ma non so chi vi fosse dentro – continuò Nikola sterzando per evitare un lampione. - Credo Anna, con Milan e Chang Lu. - Il cinese di Formosa…, e dov’erano diretti? – arono un semaforo rosso, un altro, Lupo chiuse gli occhi per non vederli.
- Li ho sentiti parlare di Gorizia. - Merda, è lontano. - Milan ha nominato anche Pazin, ma non so cos’è. - Una buona alternativa a Gorizia, ecco cos’è – e sterzò facendo stridere le ruote. Lasciarono la città e si diressero verso l’entroterra, arrivati sulla strada principale presero una scorciatoia che tagliava per Kanfanar e che li portò a Pazin in poco più di mezzora. Nikola guidava veloce mostrando una sicurezza che non aveva, col piede sinistro governava il freno e la frizione, col destro pigiava sull’acceleratore grazie alla collaborazione di Lupo che ad ogni curva lo scongiurava di lasciargli il posto. In trenta minuti di viaggio litigarono quattro volte, per il resto parlarono chiarendo gli ultimi dubbi che erano rimasti. Se Italo era la mente che aveva voluto e ideato le azioni contro i criminali di guerra dimenticati, lui, Nikola, era il capo indiscusso del gruppo. La loro organizzazione era segreta e quando Milan era riuscito a sterminarla, era svanita senza lasciare tracce. Erano in nove, sei uomini e tre donne, lui era il più vecchio, la più giovane era un’italiana scampata alle foibe per caso, tutti erano spariti nel giro di pochi giorni nell’estate del ‘79, non avevano neanche fatto in tempo a capire cosa stesse accadendo, nessun corpo era mai stato ritrovato. Aveva cominciato a insospettirsi la sera del 20 agosto, alla riunione convocata a Fiume si erano presentati soltanto in quattro e lui aveva intuito che stava succedendo qualcosa di brutto, aveva fatto qualche telefonata, poi era andato a Rovigno da Italo e aveva trovato la sua casa vuota e devastata, non c’era più nessuno, neanche Sonja e la piccola Irma… Era stato girando per quei locali saccheggiati e quasi irriconoscibili che Nikola aveva finalmente compreso quello che stava avvenendo, Milan Karelić era tornato per chiudere i conti col ato e lui non avrebbe più rivisto né Italo né la sua famiglia. Aveva provato un senso di vertigine, un dolore acuto alla testa e qualcosa nel suo cervello, nel suo corpo, irrimediabilmente si era spezzato. Era rimasto in coma per tre giorni, l’ictus che l’aveva colpito era grave, ma non al punto di impedirgli la parola e il movimento, dall’ospedale aveva cercato di mettersi in contatto con gli ultimi amici rimasti, di avvertirli del pericolo, quando aveva capito di essere l’unico sopravvissuto, aveva deciso di cambiare ancora una volta vita e si era trasformato nel relitto di se stesso.
Così era restato fermo e in silenzio ad aspettare il momento della vendetta, sapeva che sarebbe arrivato, non avrebbe accettato di morire prima di chiudere la partita. Col tempo aveva ereditato la casa di Italo e si era trasferito a Rovigno, di notte girava per le stanze e parlava coi fantasmi del suo ato, di giorno guardava dalla finestra, leggeva e piangeva sulla desolazione della sua vita. Questo fino a quando era arrivato qualcuno a ridargli speranza, un uomo strano che somigliava più a un internato di Rab che a un giornalista di Milano. Lupo l’aveva ascoltato senza interromperlo, ogni tanto gli premeva sul ginocchio per fargli aumentare la velocità, a volte doveva piegarsi per allentare il piede schiacciato sull’acceleratore, ma non si era perso nemmeno una parola di quel lungo discorso. Gli aveva asciugato la saliva che colava dalla bocca piegata e gli aveva raccontato la parte della storia che lui non conosceva, quella di Irma e dei suoi genitori, quella di Anna... A Žminj aveva tirato il freno a mano e costretto Nikola a cambiare sedile, stava piangendo e la strada era ripida e pericolosa. - Sai niente del dossier di Milan? – gli chiese sistemandosi dietro al volante. - Poco, Italo non ne parlava volentieri – ora era di nuovo calmo – qualche mese prima di sparire mi ha detto di averlo mandato in Italia, ma non so dove. - Forse a Trieste, da sua zia. - Non saprei, fino a poco tempo fa credevo fosse morta. - Mi domando cosa farà Anna quando arriverà a Gorizia… - borbottò Lupo preoccupato. - Non pensarci, dai, muoviti – ribatté il vecchio indicandogli la strada – dobbiamo trovare la casa di Milan, dovrebbe essere appena fuori Pisino. - Pisino…, hai detto Pisino? - Sì, Pazin in croato – si pulì la bocca con la manica. - Ma è dove è sepolta la madre di Italo… - Ti sbagli, Giuliana non è sepolta da nessuna parte, è stata gettata in una foiba assieme ad altre decine di persone, è diverso… - tornò inquieto – non ci ho mai pensato, forse anche Italo è lì e non solo lui.
- Ma che dici? – chiese Lupo rabbrividendo. - Taci, lasciami riflettere…, io ci sono stato subito dopo la strage del ’43 e ricordo ancora come arrivarci…, non entrare in paese, svolta a destra, presto! – gridò all’improvviso. - Non mi pare il momento di visitare una foiba, dobbiamo andare a casa di Milan, hai detto che è da queste parti – ma sterzò come voleva lui. - Fa’ come ti dico, se è vero quello che penso, quel delinquente non poteva scegliere posto migliore per costruirsi una villa – con la sinistra si teneva l’altro braccio che pareva muoversi da solo. - Credi che stia portando Anna alla foiba? – non voleva neanche pensarci. - Corri! – e Lupo ancora una volta ubbidì, chiuse la bocca, si concentrò sulla guida e corse – ecco, ci siamo quasi, muoviti. - La macchina sta perdendo colpi… - Non dirlo neanche per scherzo, vai, accelera! – E lui aveva accelerato, ma più di tanto non poteva. Raggiunto il bivio lasciarono la strada asfaltata e ne imboccarono una in salita, pochi metri e si aprirono altri viottoli che si perdevano nel bosco, la memoria di Nikola era alquanto imprecisa, così Lupo ad ogni bivio optava per quello più largo, che considerava più adatto a una Mercedes, non aveva altri criteri di scelta. La grande villa apparve subito dopo una curva, una delle tante, il cancello era aperto, ma non c’era alcuna automobile parcheggiata sul viale d’ingresso, Lupo sentì un brivido corrergli lungo la schiena, se avevano sbagliato posto era una tragedia, se erano arrivati tardi era ancor peggio. Fermò la macchina a fianco del portoncino d’entrata, scese e andò a dare un’occhiata, la casa sembrava vuota, le imposte erano chiuse, provò a suonare il camlo, ma non rispose nessuno, stava ancora aspettando quando sentì il fischio di Nikola, si girò e lo vide fargli segno di avvicinarsi, non voleva perdere tempo, ma non disse niente e tornò sui suoi i. Si fermò poco, abbastanza per litigare un’altra volta, sarebbe stata l’ultima. Quando qualche minuto dopo riprese il cammino aveva i nervi a fior di pelle e
una leggera pulsazione alla tempia, quel vecchio era un uomo impossibile, aveva un pessimo carattere e la sua malattia non l’aveva di certo migliorato, aveva la fissazione del capo e s’aspettava che tutti gli obbedissero, lui aveva provato a resistergli, ma aveva fretta e alla fine aveva dovuto cedere. Dietro la casa c’era una Mercedes nera, era parcheggiata su uno spiazzo lastricato, più in là si vedeva spuntare dal prato una strana costruzione, sembrava un bunker infossato in una dolina ampia e profonda, il tetto era piatto, dall’alto pareva un terrazzo formato da larghi pannelli rettangolari che riflettevano l’ultima luce del giorno. Lupo s’avvicinò furtivo, la macchina era chiusa e vuota, fece qualche o, scese il pendio e raggiunse l’edificio. Le pareti in muratura erano tre, la quarta non c’era oppure era appoggiata alla parete della dolina che in fondo saliva ripida verso il cortile della casa, non c’erano finestre, solo una porta verso la quale Lupo si diresse, non aveva scelta. Tirò il battente che si mosse senza rumore, dentro trovò una piccola cabina delimitata da dei tramezzi, non c’era soffitto, guardando in alto si vedevano i pannelli del tetto continuare e sparire nel locale a fianco, sulla parete di fronte c’era un riquadro pieno di leve e pulsanti, due lampeggiavano a intermittenza. Un uomo con una cuffia stava parlando in un microfono, Lupo lo udì e per un attimo si sentì in bilico tra l’esultanza e la paura, era arrivato dove doveva arrivare. Il cinese pigiò un bottone e attese che sul quadrante alcune luci cambiassero colore, quando un leggero tremito percorse l’intera struttura, si tolse la cuffia e si voltò, solo allora s’accorse di non essere solo, gridò qualcosa ma la sua voce fu coperta da un rumore assordante, si girò verso il pannello elettronico, allungò la mano per raggiungere una leva, ma non ci riuscì e cadde a terra con un tonfo smorzato. Lupo guardò la pistola che aveva in mano, tremava come una foglia ed era umida di sudore, fece un respiro profondo e s’accucciò vicino all’uomo che aveva appena colpito, aveva gli occhi chiusi, ma respirava e non sapeva se essere contento o meno, non poteva lasciarlo così… Si tastò la cintura che Nikola gli aveva imposto d’indossare, lui non voleva e aveva ceduto solo perché lo aveva visto agitato, troppo per uno che aveva già un ictus alle spalle, trovò dei lunghi lacci di plastica da idraulico, mise a terra la vecchia Luger arrugginita e cominciò a immobilizzare il cinese, gli legò sia i polsi che le caviglie, stava per andarsene quando lui aprì gli occhi e cominciò a urlare, così lo colpì di nuovo in
testa e gli ficcò il suo fazzoletto in bocca. Fu in quel momento che il rumore cessò e nell’edificio tornò il silenzio, Lupo alzò lo sguardo e vide che il soffitto si era abbassato fino ad appoggiarsi sulle pareti della cabina, quasi che i pannelli del tetto si fossero impilati uno dopo l’altro sopra la sua testa, era incredibile, dovette attraversare il varco alla sua sinistra per capire cos’era successo. Lupo si aspettava di tutto, ma non quello che si trovò davanti lasciandosi alle spalle la prima vittima della sua vita. Il locale era immenso, aveva le pareti lontane e rivestite di metallo riflettente, al posto del pavimento c’era il prato, al posto del soffitto il cielo, proprio in mezzo troneggiava un elicottero che lui conosceva benissimo, era un Robinson R44, un monomotore a pistoni di 260 hp, velocità di crociera 209 km/h, autonomia chilometrica di 640 km, quattro posti compreso il pilota, un sogno, peccato fosse blu e bianco, lui lo preferiva rosso, il suo era in scala 1:200 e l’aveva costruito non più di un mese prima, una meraviglia. Un uomo era seduto al posto del pilota, era piegato in avanti e stava controllando qualcosa sulla cloche, non l’aveva visto entrare, era sceso dal velivolo con un piccolo salto e quando si era girato si era trovato una pistola puntata ad altezza del cuore, era rimasto fermo e aveva alzato le mani, sul viso non era apparsa alcuna emozione, solo un sorriso leggero quasi impalpabile, ma da lui Lupo non s’aspettava niente di buono, gli pareva di conoscere Chang Lu da una vita. Lo fece girare, appoggiare le mani allo sportello e allargare le gambe come aveva visto fare in tanti telefilm americani, poi cominciò a perquisirlo, in tasca aveva il portafoglio e nient’altro, era pulito, si disse assumendo pure il gergo adeguato, avrebbe preferito trovare una pistola, un coltello, qualcosa che lo spingesse a tramortirlo per poterlo poi immobilizzare, così non era facile, gli volgeva le spalle e lui non aveva neanche fatto il militare... Chang Lu non aveva armi, non ne aveva bisogno e questo Lupo avrebbe dovuto saperlo, quando si voltò fu per colpire e se il suo polso non si sbriciolò all’istante, fu solo per la sua buona stella che dall’alto, in qualche luogo, continuava a brillare, di scatto ritrasse la mano evitando il fendente che centrò la pistola mandandola lontana. Lupo balzò all’indietro deciso a sottrarsi a qualsiasi scontro, le mani di un insegnante, di uno scrittore, erano ben poca cosa a confronto di quelle di un karateka dal sorriso glaciale, continuò a retrocedere senza girargli le spalle finché sentì la parete fredda del bunker toccargli la schiena, ora non aveva più
scampo, poteva parlare, solo questo poteva fare. - Senti Chang Lu, io non ce l’ho con te, affatto, sto cercando Anna, ho paura che il tuo padrone le faccia del male…, è la mia donna, capisci? – niente, nessun cambiamento d’espressione. L’orientale lo guardava fisso negli occhi, sembrava fermo, ma continuava ad avanzare sul prato senza alcun rumore, Lupo si tastò la cintura, trovò altre cinghie di plastica, una torcia elettrica, due scatolette e un cilindro di metallo, nessuna pistola di riserva. - Lo sai che è pazzo, l’hai visto anche tu, no?, vi tratta come schiavi, sembra che vi abbia comprati al mercato – era come parlare al vento che soffiava sopra le pale dell’elicottero – ha detto che siete degli idioti, che tutti i cinesi di Formosa lo sono, che Mao ha fatto male a non spazzarvi via e che i comunisti prima o poi… Quando Lupo sentì le sue mani attorno al collo, smise di parlare, cos’altro poteva fare?, è vero che ne ferisce più la lingua che la spada, ma non sempre la cosa funziona e una bella spada, anche solo un pugnale, a quel punto sarebbe stato di maggiore effetto. - Gli piacciono le ragazzine – era la sua ultima risorsa, ormai gli mancava l’aria, respirava a piccoli tratti e gli girava la testa, aveva una morsa che gli chiudeva la gola e un ginocchio puntato al petto, fra non molto avrebbe avvertito lo scricchiolio del suo sterno che s’incrinava – hai sentito cosa ha detto di…, come si chiama…, Liang Ling, la tua bambina, ha parlato del suo seno…, non puoi fidarti di lui, è un mostro, un depravato. Lupo sentì allentarsi un attimo la presa e tornò a respirare liberamente, Chang Lu non sorrideva più e sembrava pensieroso, così tornò ad affidarsi a San Nikola da Podhum, staccò il cilindro di metallo dalla cintura, fece saltare col pollice il coperchio e gli spruzzò lo spray in viso. Nell’aria si sparse un forte profumo floreale, sembrava la lacca per capelli di sua madre, era nauseante, a lui non piaceva e il cinese pareva gradirla ancor meno perché di colpo fece un o all’indietro e lasciò il suo collo per sfregarsi gli occhi. Lupo congiunse le mani attorno alla bomboletta, le strinse forte e gliele calò in testa, lo fece una volta, due volte, tre, solo quando lo vide a terra svenuto si costrinse a fermarsi. Gli legò i polsi e le caviglie, stava cercando qualcosa da mettergli in bocca, ma un urlo lo
bloccò e lo portò lontano. Sul muro alle spalle dell’elicottero, s’apriva una porta che prima non aveva notato, quando Lupo l’aprì ebbe una seconda incredibile sorpresa, e non sarebbe stata l’ultima della serata. Lì il locale era più piccolo e illuminato, c’era il soffitto che terminava infisso nella roccia, mancava la parete di fondo e il pavimento era ancora una volta il prato. Per terra in mezzo alla stanza s’apriva una voragine larga quasi due metri, Anna vi era inginocchiata vicino e si copriva la faccia con le mani, stava piangendo, poco più in là c’era Milan che parlava in tono irato, era appoggiato a un bastone e aveva in pugno una pistola che non somigliava per niente alla vecchia Luger di Nikola. L’irruzione di Lupo creò un certo scompiglio, l’uomo alzò il capo e puntò l’arma contro di lui, Anna ne approfittò per spostarsi lontano dalla foiba, non piangeva più, ma era scossa da un singhiozzo che la faceva sobbalzare. - Ma guarda, guarda chi si vede…, il nostro cane lupo ha trovato la traccia – l’ironia di Milan nascondeva un certo nervosismo – come hai fatto ad arrivare fin qui? - Ho buon fiuto – rispose Lupo costringendosi a fissarlo negli occhi, avrebbe voluto guardare altrove, ma non era il momento di distrarsi – Anna, stai bene? - Sì – e non aggiunse altro. - Sei solo? – Milan aspettò una risposta che non venne, poi continuò – non importa, spero ti piaccia volare, perché stai per spiccare un bel salto, avvicinati alla forra. - E se non lo faccio che fai?, mi spari? - Indovinato – disse Milan premendo il grilletto, il colpo riecheggiò nel locale con un rumore infernale, Lupo sgranò gli occhi, fece un o e si portò la mano al petto, poi barcollò e cadde all’indietro senza un lamento. Anna spalancò la bocca inorridita e lanciò un urlo straziante, corse da lui incurante delle parole dell’uomo che le ordinava di tenersi lontana, lo abbracciò, lo baciò, poi lo tastò e finalmente ritrovò la calma. Si alzò in piedi come una furia, quel vecchio era un mostro, aveva sparato al suo uomo, fatto uccidere i suo genitori e gettato il corpo di suo nonno in quell’orrido buco, voleva farla finita,
Andreina si sarebbe mossa già da tempo. - Sta’ ferma – le intimò Milan vedendola avanzare – tu adesso verrai con me a Gorizia, l’elicottero è già pronto. - Brutto verme schifoso…, tu non andrai da nessuna parte. - Ti ho detto di fermarti – non voleva spararle, aveva ancora bisogno di lei – non costringermi a farti del male, posso ferirti e trascinarti con me con la forza. Ma Anna non intendeva ascoltarlo e continuò a procedere piano con le mani aperte che sembravano artigli, lo avrebbe ammazzato e poi buttato nella foiba, giù c’era suo nonno che lo aspettava da un quarto di secolo. - Ha ragione lui, fermati Irma – disse una voce roca alla sua destra, lei si girò e vide un vecchio avanzare piano sul prato, aveva un braccio che gli pendeva inerme e nella mano sinistra teneva un bastone a tre piedi sul quale s’appoggiava stanco. - Zio Nikola! - Ma non mi dire, abbiamo anche Lazzaro uscito dalla tomba… – Milan era stupito e non cercava di nasconderlo – mi avevano detto che eri…, questa sì che è una sorpresa, cosa ci fai qui? - Avevo paura che qualcuno chiudesse la partita senza di me – parlava piano e con fatica – avevo giurato di essere presente alla tua morte e sono arrivato giusto in tempo. - Sei sempre il solito burlone, Rosović, più apprezzato per le tue battute che per le tue azioni. - Dammi tempo, carogna, dammi tempo. Anna era paralizzata dallo stupore, zio Nikola parlava e camminava…, ed era arrivato fin lì…, com’era possibile?, tornò vicino a Lupo e guardò i due vecchi affrontarsi, avrebbe voluto fare qualcosa, ma l’Andreina che era in lei le suggerì di mettersi da parte e di tacere. Tra i due uomini ava una forza incredibile, uno era armato, ma l’energia più possente veniva dall’altro, da quello che aveva l’unica mano valida occupata dal bastone, che si spostava lentamente
trascinando i piedi sull’erba e che aveva il viso sereno nonostante la smorfia che gli deformava la bocca. - Fermati Rosović o ti ammazzo come un cane. - Non come un cane, Milan, ma come Giuliana, come Italo, come Sonja, Ante, Ivan, Edwar, Franco, Luigi, Sara, Marin, Trudi, Fragoljub, le sorelle Glavotok, il piccolo Gospić, e i tuoi genitori e tutti quelli di cui non so il nome. - Smettila! - È finita, carogna, finita… - Fa’ un o indietro! - Io, Nikola Rosović, figlio di Jano Rosović e di Lula Franzik, nato a Podhum nel 1917, in qualità di comandante della XII squadriglia della IV Armata dei Partigiani Croati, dichiaro te Milan Karelić, detto anche Carlo Milani e Milovan Karlović, nato a Rovigno nel 1914 da Maria Guidi e Saro Karelić… - Ma che dici? - …colpevole di omicidio plurimo e aggravato… - Sei pazzo Nikola, pazzo! – la voce era stentorea ma rabbiosa. - …per aver seviziato, ucciso uomini, donne e bambini, per averli privati di una sepoltura, della consolazione di un fiore, di una preghiera… - il tono era austero, da tribunale. - Smettila, non sono stato io a usare le foibe per primo, siete stati voi… - il colpo partì secco e come prima rimbombò nel locale, ò attraverso il braccio destro di Nikola che si mosse all’indietro. - …per aver continuato a farlo anche quando la condanna unanime dell’umanità aveva mostrato l’abominio in cui erano caduti alcuni di noi… - Non alcuni di voi, Rosović…, ma tutti, anche tu… - Non tutti e non io, infame, io non ho mai gettato nessuno nelle foibe e come me
molta altra gente, la maggior parte dei compagni ha le mani pulite… - un altro sparo lo colpì alla spalla, il vecchio questa volta vacillò e puntò il bastone per non cadere, poi scosse la testa e per un attimo parve cambiare espressione, sorridere. - Ti sbagli, tutti si sono sporcati le mani in quella guerra, tutti… - Milan era spaventato, sparava, sparava e quell’idiota era ancora in piedi. - Per questo io ti condanno alla pena di morte – la voce di Nikola era tornata austera, Anna si strinse le ginocchia al petto mentre il singhiozzo tornò a scuoterle il corpo. - Chi sei tu per giudicare, chi sei? - Io sono la parte lesa, gente come te ha buttato fango sulla nostra storia, su quelli come me, sul movimento di liberazione, sull’intera umanità – riprese a trascinarsi in avanti – Milan Karelić sei un miserabile, un bastardo. - Ma certo, ora mi dirai che sono un mezzosangue italiano, che è questa la differenza che c’è tra te e me – Milan abbassò la pistola scoraggiato, parlava in tono calmo, quasi canzonatorio – sai quante volte mi sono sentito chiamare “bastardo italiano”? - Quante hanno chiamato me “bastardo slavo”, il problema non sta nel tuo sangue, ma nel tuo cervello – ora Nikola era a un o dal suo rivale, lo fissò negli occhi, poi portò il peso del corpo sul lato sinistro e lasciò cadere il bastone – è per questo che ora la corte degli infoibati che sta sotto di te ti condanna a morte, guarda le tue vittime Karelić, sono tutte in piedi. Milan spalancò la bocca ma non riuscì a dir niente, era atterrito, girò la testa per osservare i suoi giudici, li cercò con lo sguardo, poi vide il suo nemico sorridere e tendere le braccia fino a sfiorarlo e lui che nella sua vita aveva vinto e solo vinto, intese quel gesto come una richiesta di tregua, un moto insperato di riappacificazione… Per questo fece un o in avanti e lo imitò, lasciò cadere il bastone e alzò le braccia per sostenere il suo corpo fragile e insicuro, persuaso ancora una volta di poter trionfare sopra tutto e tutti, perfino sopra la storia. Nikola lo strinse al petto con l’unico braccio buono che aveva, quello del cuore, e si gettò nella foiba convinto di chiudere la sua vita nel modo migliore possibile. Nessuno gridò, il silenzio d’un tratto divenne spesso come melassa,
pesante, insopportabile… Anna strisciò fino all’apertura nella roccia, sporse l’orecchio per ascoltare qualcosa che sperava di non udire. - Dio, fa che abbia battuto la testa e che sia morto – mormorò piano – tutti e due, ti prego. Lupo si sdraiò al suo fianco e le cinse le spalle con un braccio, se pensava di stupirla, rimase deluso, ma non lo diede a vedere, non molto almeno. - Cos’è, io muoio e risorgo e tu non batti ciglio? – la baciò sulla tempia, lei si girò e lo guardò sgomenta – beh, almeno il singhiozzo è ato. - Lo sapevo che eri vivo, quando ti ho abbracciato ho sentito che portavi il giubbotto antiproiettile, dove l’hai preso? – e gli sorrise. - Diavolo di un Nikola, abbiamo litigato di brutto e non mi ha lasciato andare finché non me lo sono infilato, lo aveva addosso anche lui – disse con ammirazione – ancora mi chiedo come abbia fatto ad arrivare fin qui, era un uomo eccezionale. - Sì ma è morto in modo atroce. - Era quello che voleva, chiudere una porta rimasta aperta per troppo tempo. - E se fosse ancora vivo? – era un pensiero orribile. - Non credo sia possibile e comunque aveva con sé un coltello – l’aiutò ad alzarsi, poi tornò ad abbracciarla. - Bene, ho appena ritrovato una famiglia e l’ho subito persa – disse lei appoggiando la testa sulla sua spalla – mi resta solo zia Letizia. - E io, te l’ho detto che se non ti tagli i capelli ti sposo, no? – aggiunse cercando di farla ridere. - E c’è Norma… - E c’è anche Neve, purtroppo – ma lei non lo stava più ascoltando, aveva
sbarrato gli occhi con apprensione e lui si girò di scatto aspettandosi un’altra brutta sorpresa, non l’avrebbe sopportata. - Norma…, Milan ha detto che questa notte i cinesi bruceranno la nostra casa… – stava per rimettersi a piangere. - Allora non c’è tempo da perdere, andiamo – la prese per mano e la trascinò oltre la porta. - Andiamo dove?, il motoscafo sarà già ripartito e ci vorranno ore anche solo per raggiungere Trieste. - Vorrà dire che arriveremo in paese volando – disse lui indicando l’elicottero. - Sai pilotare quel coso? - Io no, ma conosco una persona in grado di farlo – si diresse verso la parete dove aveva lasciato Chang Lu, l’uomo era sparito e per terra c’erano i lacci di plastica che qualcuno aveva tagliato di netto. Lupo si guardò attorno aspettandosi il peggio, prese Anna per un braccio e fece per allontanarsi, ma proprio in quel momento esplose assordante il rumore dell’elicottero in via di accensione, l’elica si mise a girare pigramente, poi acquistò forza spostando l’aria come un uragano. Un uomo dall’interno dell’abitacolo fece cenno di salire, loro si curvarono e corsero nella sua direzione, aprirono il portellone e saltarono dentro giusto in tempo per non rimanere a terra. Lupo chiuse lo sportello e agganciò la cintura di sicurezza sua e di Anna che intanto guardava il pilota con gli occhi sbarrati, quando si sporse in avanti e vide chi era, comprese i suoi dubbi. - Dove andiamo? – Chang Lu sembrava calmo, aveva sul volto il suo solito sorriso, ma questo non voleva dire molto. - Chi ti ha tagliato i lacci? - Io. Allora…, dove devo portarvi? - Da solo non potevi farcela – insistette Lupo. - È stato zio Nikola, vero? – chiese Anna.
- Il signor Rosović era un uomo d’onore – disse Chang Lu piegando lentamente la cloche.
Capitolo sedicesimo
Quando l’elicottero imboccò la valle che dalla pianura porta fin oltre i valichi alpini, il cielo era ormai buio da tempo, sopra, le stelle si tenevano lontane dalla luna che sembrava gonfiarsi man mano che le ombre si facevano scure, sotto, le luci dei paesi s’alternavano a grappoli sul nastro d’argento del fiume, ogni tanto i fari di un’automobile, due o poco più, sfrecciavano verso sud, i turisti erano ormai tutti dove dovevano essere, il resto non aveva importanza. Il velivolo giunse all’altezza del castello, si piegò sul fianco sinistro e girò su se stesso fino a sorvolare la grande macchia scura del campo sportivo, la pista era vuota, i fari spenti, anche la piscina poco lontana sembrava uno specchio privo di vita. Nella caserma dei carabinieri l’appuntato Germano sentì l’assordante rumore del motore che s’avvicinava, spense il televisore e prese in mano il telefono, non aveva dubbi su chi stesse arrivando, aveva già ricevuto quattro chiamate a dir poco imbarazzanti, tutte seccate, se non addirittura minacciose, l’ultima veniva da un’ispettrice di Milano di cui si era segnato nome, cognome e numero di telefono, voleva parlare col maresciallo e si era messa a urlare quando lui le aveva detto che non c’era, minchia, non era mica colpa sua se dopo la prima chiamata, il capo aveva colto l’occasione per tagliare la corda intimandogli di rintracciarlo solo se la caserma andava a fuoco. Con la cornetta in mano soppesò la situazione, in giro non c’era odore di fumo che potesse fungere da pretesto, ma il rumore era sempre più vicino, la caserma vuota e lui non aveva voglia di affrontare da solo la furia di qualche capo del capo, tanto meno della poliziotta di Milano…, così fece il numero piegando sulla spalla l’orecchio libero per non venire assordato dal frastuono che proveniva dall’esterno. L’appuntato Germano che pur venendo da Messina era alto, biondo e aveva gli occhi chiari com’era giusto che avesse uno che portava un nome come il suo, rimase al telefono qualche minuto nel tentativo di far capire al suo superiore qual era la situazione, il concetto era semplice, ma il rumore era talmente forte che dovette ripeterlo più volte e quando chiuse la comunicazione e s’affacciò alla finestra che dava sul campo sportivo, era ormai tardi per vedere qualcosa d’interessante, l’elicottero si stava già alzando e dirigendo verso sud. Che il
colonnello in persona o l’ispettrice di Milano avessero spiccato il salto dall’apparecchio ancora in volo, gli pareva poco probabile, eppure era quella la sensazione che aveva nell’osservare le ombre che correvano sulla pista d’atletica e si perdevano oltre la sabbiera del salto in lungo. Scosse la testa indeciso, non gli piaceva l’idea di telefonare un’altra volta al maresciallo, un attimo prima non gli era sembrato dell’umore giusto, aveva borbottato qualcosa d’incomprensibile e gli aveva intimato di lasciarlo in pace, aveva tra le mani qualcosa di grosso e per un po’ non si sarebbe mosso da dove si trovava. Questo gli aveva detto e ora Germano non sapeva che fare, si sporse sul davanzale della finestra, diede un’occhiata in giro, poi alzò le spalle, tornò al divano e riaccese il televisore. In effetti la presenza del maresciallo Saluzzo sull’argine del fiume pur non essendo indispensabile, era sicuramente opportuna. I due carabinieri mandati alla ricerca di Loris non avevano perso tempo, con la camionetta avevano imboccato la pista ciclabile e perlustrato per bene la riva destra dell’Adige, quando si erano spinti a piedi lungo la massicciata di contenimento, avevano subito trovato quello che cercavano. Erano stati fortunati, forse anche bravi, qualcuno più tardi avrebbe pensato che erano stati ingenui, ma al momento non si poteva dire e quando avevano telefonato in caserma erano eccitati come ragazzini al primo appuntamento. Il maresciallo li aveva ascoltati con calma, poi si era infilato la giacca e li aveva raggiunti nel giro di pochi minuti. Gli indumenti erano ripiegati per bene sul muretto che costeggiava la strada, sopra vi era stata messa una pietra per impedire che il vento li portasse via, c’erano un paio di jeans e una camicia, ovviamente mancava la biancheria intima e anche un biglietto di commiato, ma quello che avevano trovato era sufficiente per trarre una conclusione ovvia e definitiva. Di certo nei prossimi giorni il fiume avrebbe restituito le spoglie di quel ragazzo strano che tutti pensavano di conoscere e che nessuno conosceva, di questo il maresciallo Saluzzo era più che mai convinto. Anna e Lupo non avevano visto l’elicottero alzarsi in volo, non ne avevano avuto il tempo, erano saltati a terra con un unico balzo e subito si erano messi a correre sul prato quasi avessero le ali ai piedi. Arrivati tra gli alberi che costeggiavano la pista di atletica, si erano fermati e avevano levato lo sguardo verso l’apparecchio che stava ormai scomparendo nel buio della valle, era diretto a sud ma fra non molto avrebbe piegato verso est, ne erano certi, Chang Lu
sarebbe arrivato a Rovigno in meno di novanta minuti, cosa a quel punto avrebbe fatto nessuno lo sapeva, durante il viaggio aveva aperto bocca solo per chiedere informazioni sulla rotta da seguire e non aveva risposto ad alcuna domanda. A fatica si erano fatti largo tra gli arbusti e le piante che coprivano il pendio sopra il campo sportivo, camminavano in silenzio, una davanti all’altro senza sfiorarsi, quando raggiunsero il muro che delimitava la strada, lo seguirono finché trovarono un varco in cui are, poi si diressero verso il castello. Anna sapeva dove andare, aveva fretta e correva veloce come il vento, non era stanca, sull’elicottero aveva dormito e sembrava avere le ali ai piedi. Arrivati a un bivio abbandonarono la strada asfaltata e s’immersero nei campi che costeggiavano il paese, salirono fin oltre una chiesa, poi piegarono verso il castello e finalmente videro la casa. Lupo era sfinito, Anna meno, entrambi speravano che Norma non fosse scesa a valle. Giunsero al cortile dall’alto, ando attraverso gli olivi e tenendosi a una certa distanza, l’accordo era che se ad uno succedeva qualcosa, l’altro doveva correre in paese in cerca di aiuto. Si sedettero sull’erba e guardarono la casa immersa nell’oscurità, sembrava chiusa e abbandonata, decisero di non fidarsi, Milan non aveva fatto in tempo a chiamare i suoi uomini che di sicuro erano all’interno e li stavano aspettando armati fino ai denti. Anna scacciò l’immagine del vecchio che telefonava dal fondo della foiba, s’alzò di scatto e scivolò sul prato, quando tornò a guardare verso il basso, vide Lupo svoltare lo spigolo della casa e sparire nel buio. Ci mise poco a drizzarsi e a riprendere il o, abbastanza per cambiare il corso delle prossime ore. Quando lo raggiunse dietro l’angolo, lui era a terra raggomitolato su se stesso, non aveva emesso un grido, nemmeno un lamento, ma aveva qualcosa di metallico che gli usciva dalla coscia. Anna gli si inginocchiò a fianco e gli prese la testa tra le mani, era terrorizzata, ma l’esperienza vissuta nel pomeriggio le aveva asciugato le lacrime e prima di parlare, di chiamarlo, avvicinò la bocca al suo orecchio. Lupo aprì gli occhi e, nonostante la smorfia che aveva sul viso, ad Anna sembrò più bello che mai, d’un tratto lo vide come sarebbe stato tra vent’anni e le piacque, voleva invecchiare con lui, ecco cosa voleva fare, si disse piegandosi per sfiorargli le labbra. - Hanno preso qualcuno – lo sentì dire – in casa c’è un ferito che si lamenta.
- Norma! – e subito tornò alla realtà. - Non credo sia lei…, va’ a chiamare il maresciallo, corri! - Prima lascia che ti aiuti – Anna cercò di prenderlo sotto le ascelle per spostarlo. - Sta’ ferma, qui è pieno di trappole, io sono stato fortunato… - Come trappole? - Congegni che lanciano frecce…, va’, ti ho detto! Anna si alzò in piedi incapace di prendere una decisione, gli guardò la gamba, il fuso di metallo era sottile e sporgeva di una decina di centimetri, i pantaloni non erano lacerati, solo traati come il muscolo e tutto il resto, c’era poco sangue, quasi niente. - Ti aiuto a nasconderti e poi vado – e se quando tornava lo trovava morto? - No, posso farcela da solo, va’ in paese – disse strizzando gli occhi per il dolore, perché non andava?, non c’era un minuto da perdere… – cos’è, hai paura? - Non voglio lasciarti solo. - Ti prego, Anna, muoviti – ma lei sembrava non ascoltarlo, era come intontita – dov’è finita l’Andreina che lottava con i partigiani?, si è arresa? - Non è questo… - E allora cos’hai?, sembri una bambina spaventata. - Non posso andare, non ce la faccio... - Lo sapevo che prima o poi saresti crollata, ti manca la cocaina, vero? – il tono era volutamente sprezzante. - Che idiota! – Anna si girò di scatto, si guardò attorno, poi si diresse verso la casa incurante dei segni di protesta di Lupo, raggiunse una finestra e scostò le imposte socchiuse per guardarci dentro. La stanza era immersa nel buio, la porta era aperta e sembrava un buco grigio sul nero dello sfondo, tese l’orecchio e sentì il rumore di qualcosa che strisciava sul pavimento, poi vide il volto di una
donna emergere dall’oscurità, solo quello, aveva i capelli scarmigliati, la bocca chiusa da un cerotto e gli occhi disperati dietro le lenti degli occhiali, era piegata all’indietro come se avesse i polsi legati sulla schiena. Anna non sapeva chi fosse, non l’aveva mai vista, aprì la bocca per dirle qualcosa, ma l’urlo che udì le bloccò le parole in gola, tornò a girarsi e scorse Lupo inveire contro una figura nell’ombra, era tozza e portava in mano qualcosa di pesante, sembrava una tanica. Avrebbe voluto dirgli di tacere, ma era tardi, l’uomo si spostò per vedere meglio, rise e urlò una frase a qualcuno che gli stava alle spalle, poi accese una torcia elettrica e si avvicinò. L’ultima cosa che lei notò fu lo sguardo teso di Lupo che l’implorava di fare quello che doveva fare, di scappare, e lei questa volta ubbidì e si mise a correre. Tornò indietro, risalendo la costa in mezzo agli olivi, qualcosa le diceva che era la strada sbagliata, che doveva seguire il perimetro della casa nell’altro senso e scendere poi verso il paese, ma era più semplice nascondersi in mezzo agli alberi e questo fu quello che lei riuscì a fare. Arrivata in alto si girò a guardare quanto si era lasciata alle spalle, vide il fascio di luce spostarsi fino a investire Lupo e avrebbe voluto mettersi a piangere, ora l’avrebbero ucciso, gli avrebbero sparato oppure l’avrebbero trascinato in casa per poi bruciarlo assieme alla donna e a tutto il resto. Doveva fare qualcosa, distogliere l’attenzione di quei mostri, creare un diversivo…, così decise di fare per Lupo quello che lui poco prima aveva fatto per lei, si portò le mani alla bocca e lanciò un urlo con tutto il fiato che aveva. La luce si spense, poi si riaccese per frugare tra gli alberi dove lei era nascosta. Questo fu l’inizio della sua metamorfosi. Quando si mosse e riprese a correre, era ancora la solita Anna che scappava come un coniglio spaventato, sotto le mura del castello, però, qualcosa in lei mutò e la rese forte, libera e potente, la trasformò in Andreina, una ragazza con grandi ideali e tanta incoscienza, capace di sopportare la paura e di convertirla in coraggio. E finalmente comprese perché aveva imboccato quella strada, il male che la stava inseguendo era affar suo, un problema che veniva dal suo ato e che doveva affrontare e risolvere da sola, una volta per tutte. Continuò a correre senza avvertire lo sforzo della salita, arrivata sotto le mura si girò e vide l’uomo tarchiato arrancare sul selciato, era già oltre l’ultima grande curva per cui era vicino, molto vicino, più sotto un’altra figura avanzava
solitaria, Andreina non stette a pensarci, ma Anna sentì una fitta al cuore, si chiedeva se avesse ucciso Lupo prima di lasciare la casa… Tornò a voltarsi per riprendere la corsa, in un’altra situazione Andreina avrebbe avuto un fucile in spalla, una granata in tasca, forse due o dieci, chissà…, ora poteva contare solo sul suo cervello, non era poco, ma un paio di bombe l’avrebbero rassicurata. Superò il cancello che portava all’entrata del castello, sperava che il suo inseguitore, almeno uno dei due, imboccasse la stradina che conduceva al portone…, lei non rallentò, continuò a correre finché si trovò davanti un dirupo che saliva ripido verso la montagna, c’erano massi di ogni dimensione, ne cercò uno abbastanza grande e vi si accucciò dietro. Non dovette aspettare molto, quando l’uomo apparve tra gli alberi dell’ultima curva, lei era pronta a riceverlo. Lo vide avanzare con fare guardingo, era ancora lontano, ma la luna lo rischiarava rendendolo un bersaglio perfetto per chi avesse avuto un fucile a disposizione. Anna non lo aveva e purtroppo nemmeno Andreina. Man mano che si avvicinava riusciva a distinguerne i lineamenti, era basso e muscoloso, il viso era tondo e segnato dagli occhi stretti come una fessura, Anna sapeva che era cinese, ma Andreina preferiva pensarlo giapponese, uno spietato alleato dei nazisti. Un uccello notturno s’alzò in volo, l’osservò posarsi sulla cima di un albero, piegarla, scuoterla…, quando tornò a guardare davanti a sé, l’uomo era ormai vicino. Alzò il braccio e lanciò la pietra che stringeva tra le dita, un’arma impropria, ridicola, ma di sicuro effetto se usata da una partigiana risoluta e motivata come lei, lo vide barcollare e portarsi la mano alla testa, fece un altro lancio e questa volta lui cadde all’indietro, brava!, si disse, en plein, aveva vinto la possibilità di scappare. Ma non era ancora finita, Andreina sapeva che ora veniva la parte peggiore, se il ragazzo non era morto, doveva ucciderlo con le sue mani e la cosa non le piaceva affatto, per una partigiana era impensabile lasciarsi alle spalle un assassino, ma finirlo a sangue freddo era ancora peggio. S’alzò in piedi e lo raggiunse incerta, l’uomo era vivo, respirava a bocca aperta con gli occhi chiusi e il volto rigato di sangue, avrebbe voluto legarlo, ma non sapeva come fare, di solito si portava una corda avvolta attorno alla vita, del filo di ferro, dei lacci da scarpe… Raccolse un altro sasso e si preparò a colpire, poi l’uccello tornò a distrarla, era grosso, sembrava un allocco, lo seguì nel suo volo e quando spostò lo sguardo vide l’altro ragazzo avanzare verso di lei, era basso anche lui, ma magro come un chiodo.
Andreina non perse tempo e con un balzo si diresse verso gli alberi che seguivano il torrente, corse saltando da un sasso all’altro facendo attenzione a dove metteva i piedi, se scivolava era perduta, solo una volta si girò per guardare l’orientale accucciato a fianco del suo compagno, poi tornò a scendere lungo la china. Il rio era in secca, chiazze d’acqua ferma s’aprivano tra i sassi, lo attraversò ed entrò in un bosco dove gli alberi erano più un intralcio che un riparo. Ora c’era qualcuno alle sue spalle, avvertiva la sua presenza nonostante non sentisse rumori al di fuori del sangue che le pulsava in testa, era un uomo solo, ma non lo sarebbe stato per molto, ne era certa. Per un attimo immaginò di essere l’allocco che guardava la valle dall’alto, vide qualcuno scappare, guardarsi alle spalle e riprendere la corsa inseguito dai suoi assassini, e le tornò in mente la leggenda degli Orazi e dei Curiazi. Tutto sembrava perso per i romani, dei tre Orazi ne era rimasto uno solo e i guerrieri albani erano ormai prossimi alla vittoria. L’ultimo degli Orazi si era guardato attorno preoccupato, i numeri erano contro di lui e doveva giocare d’astuzia se voleva vincere, così si era girato di scatto e si era messo a correre più veloce del vento. Uno alla volta i Curiazi l’avevano raggiunto, e uno alla volta erano stati ammazzati. Ecco cosa doveva fare, correre, girarsi e colpire, pensò Andreina accelerando, il fatto che i suoi avversari fossero due e non tre, le pareva un vantaggio, solo un vantaggio. All’improvviso si trovò sul pendio ripido di un prato, l’erba era alta e le impediva di prendere velocità, alzava le gambe per liberare i piedi dall’intralcio degli steli, ma era faticoso, la luna in cielo era limpida e lei avrebbe voluto che sparisse o quantomeno che si celasse dietro a una nuvola. Sentì un rumore, piegò il viso di lato e vide il suo inseguitore poco lontano, cercò di aumentare la velocità, ma era stanca e quando si sentì sfiorare la spalla si lasciò cadere in avanti e cominciò a scivolare, qualcosa le graffiò il collo, avvertì un dolore che le ricordò la trappola che aveva fermato Lupo, poi il prato tornò piano e lei si ritrovò supina a fissare le luci del castello, spostò lo sguardo e vide l’uomo sovrastarla, stava sorridendo e gli occhi sembravano sparire dietro le palpebre. Anna lo riconobbe per quello che era, un delinquente pagato per ucciderla, Andreina invece vide in lui tutt’altra cosa e smise il suo ruolo di partigiana per calarsi in quello di guerriero romano, lei era l’ultimo degli Orazi, il terzo, forse non il più forte, di sicuro il più scaltro. Si scostò di lato mentre l’uomo le si
buttava addosso, riuscì a sfuggirgli, ma non del tutto, si rialzò con lui che la teneva per la maglietta, si liberò e riprese a correre lungo il pianoro fino a quando si sentì travolgere e crollò a terra trascinando con sé il suo rivale, il primo degli albani. Cercò di dibattersi, di liberarsi, ma la posizione in cui si trovava non le consentiva alcun movimento, a malapena riuscì graffiargli il viso con le unghie scheggiate e sporche, lui sembrò non farci caso e quando la bloccò a terra tenendola per i polsi, continuava a sorridere come prima. Ora lo vedeva bene, la luce del castello gli illuminava il viso e gli occhi non erano più dei segni scuri tracciati di traverso, erano piccoli, ma ben visibili, lanciavano scintille che la ferivano come piccole frecce acuminate. Stava parlando, a vederlo non sembrava arrabbiato, ma le sue parole erano cattive, sapevano di morte come quelle che aveva sentito da Milan, all’inizio si era espresso in italiano, poi era scivolato nel croato e lì si era fermato. Ce l’aveva con lei perché era stupida, perché era una puttana che li aveva resi ridicoli davanti al loro capo e all’intera famiglia, perché aveva quasi spaccato la testa a suo cugino che aveva giurato di strapparle le unghie a una a una. Anna era spaventata, ma Andreina non lo ascoltava nemmeno, a lei non piaceva il croato e la sua testa era impegnata a cercare una via di fuga, doveva liberarsi prima dell’arrivo del secondo dei Curiazi, doveva scappare, correre veloce per ucciderli uno alla volta. - Milovan è morto – gli disse piano – il tuo padrone, Milovan Karlović è stato ammazzato, non gli devi più niente e non ti pagherà per la mia morte. - Non è vero, l’ho sentito questa mattina ed era sano come un pesce – rispose lui stringendole i polsi ancora più forte – sei peggio di una vipera e forse ti faccio fuori prima che arrivi mio cugino. - Ti dico che è morto, se non fosse così ti avrebbe richiamato. - Abbiamo il cellulare scarico, brutta cretina – e le infilò un ginocchio tra le gambe. - Pensaci, se ho ragione io e Milovan è morto non ha più senso uccidermi, se invece è vivo e lo fai prima di aver trovato quello che cerca…, allora saranno guai – provò a insistere.
- Hai ragione, prima è meglio che mi prenda quello che mi spetta – e cominciò a sfregarsi contro di lei, si stava eccitando e per Andreina bastava questo per tagliargli la gola. - Smettila e prova a ragionare, cos’è che vuole Milovan? – peccato non avere un coltello… - Che ti uccida. - Non solo, sta cercando una cosa molto importante. - Le fotografie del vecchio, ma quando la casa andrà in fumo si metterà il cuore in pace, ci puoi scommettere – sorrise soddisfatto, aveva un incisivo spezzato e non era bello da vedere, per niente. - Dall’espressione non credo che tuo cugino sia d’accordo, prova a chiederglielo… - e indicò dietro di lui qualcuno che per fortuna ancora non c’era, l’uomo si sollevò sul fianco, si distrasse quel poco che bastò ad Andreina, a lei certo, non ad Anna che stava morendo di paura, per liberare un ginocchio e colpirlo con forza all’inguine. Lui emise un gemito, si spostò, perse l’equilibrio e scivolò di lato, lei riuscì a sgusciargli tra le gambe, s’alzò in piedi e riprese a correre verso il basso come l’ultimo degli Orazi che volava davanti ai Curiazi. In fondo al prato c’era una baracca di legno, vi si nascose dietro e si mise in attesa, da lì poteva vedere la strada che portava al castello, un parapetto di legno segnava il ponte sopra l’alveo del torrente, non dovette aspettare molto, un rumore l’avvertì che non era più sola. L’uomo camminava male sfregandosi ogni tanto il basso ventre, raggiunse la strada e la ringhiera sul torrente, si sporse per guardare, sentì uno scalpiccio e fece per girarsi, ma non ci riuscì, due mani lo spinsero in avanti, lui si piegò, allargò le braccia ed emise un urlo, poi spiccò il volo oltre il parapetto e andò a schiantarsi tre metri più sotto, poco distante da una pozzanghera d’acqua scura. Anna avrebbe voluto scendere sull’alveo, ma Andreina glielo impedì, aveva vinto una battaglia, non la guerra e c’era ancora il secondo dei Curiazi da sistemare prima di fermarsi. Sentì un cane abbaiare lontano, alzò gli occhi e vide il ragazzo scendere svelto il prato. Fu pensando a Neve che ritrovò la calma e riprese a correre, sapeva che non era suo il latrato che aveva appena udito, ma il pensarlo le diede forza, immaginò la
sua falcata elegante, la sua pelliccia candida che s’alzava e abbassava al ritmo della corsa, lo vide dirigersi verso la tettoia degli attrezzi in fondo all’uliveto e solo allora comprese qual era il luogo dov’era diretta, laggiù c’era un’accetta, un rastrello, una vanga... Lasciò la strada che portava al castello ed entrò nel vigneto, il buio le si chiuse attorno come un sudario e le tolse il respiro, si fece coraggio e continuò a correre piegata in avanti, ogni tanto avvertiva la carezza di un grappolo d’uva sui capelli, un uccello alzarsi in volo, sterpi e rovi frenarle i piedi, ma lei non rallentava, il silenzio in cui era immersa non era completo, alle sue spalle qualcuno stava imprecando. D’un tratto le viti finirono e lei si trovò di fronte al suo uliveto, era in piena luce, una nuvola oscurava la luna ma il castello alle sue spalle mandava un bagliore accecante, si tenne alta sul pendio, lontana dal cortile, sotto di sé vide la casa buia, fredda e priva di vita e per un attimo perse la voglia di continuare, di salvarsi, se Lupo era morto, cosa correva a fare?, si chiese Anna disperata, ma non si fermò e nemmeno rallentò, si fece solo da parte per consentire ad Andreina di riprendere il suo posto. Arrivata alla tettoia degli attrezzi si lasciò scivolare verso il basso fino a raggiungere l’entrata, era spossata, aveva il fiato corto e le gambe che non la reggevano, sentiva un bisogno impellente di sedersi anche solo per un attimo, ma non poteva permetterselo e si costrinse a cercare l’accetta, la trovò nel momento stesso in cui un’ombra apparve tra gli olivi. L’afferrò per il manico e provò a toglierla dal tronco in cui era infissa, la lama si mosse ma non si staccò, alzò lo sguardo e vide il ragazzo avanzare con i pugni sui fianchi, era stanco e arrabbiato, fu mentre lo fissava negli occhi che riuscì a strappare la scure dal ceppo, la strinse tra le mani e si preparò al peggio. L’uomo si fermò appena fuori dalla tettoia, in piena luce, allargò le braccia e cominciò a parlare, le disse di appoggiare l’accetta a terra, che non voleva farle del male…, la voce era calma, ma il viso era contratto e coperto di segni scuri, sembrava una maschera tragica. Lei avanzò di un o, lo guardò meglio e scoppiò a ridere, lo fece per debolezza non per spavalderia, ma lui non lo sapeva e s’infuriò, aveva un atroce mal di testa e i venti chili di troppo che si portava dietro lo rendevano suscettibile, spiccò un salto e le si buttò addosso. Andreina alzò l’accetta e l’abbatté sulla sua spalla, l’idea era di puntare alla gola e se così avesse fatto avrebbe risolto il problema definitivamente, all’ultimo momento però era intervenuta Anna che aveva deviato il colpo creando solo
confusione. Il ragazzo gridò, si sbilanciò all’indietro, poi si riprese e le strappò l’ascia di mano. Lei mollò la presa proprio nell’istante in cui si spense la luce, dapprima pensò di aver perso la vista, di essere rimasta colpita da qualcosa che l’aveva accecata e un singhiozzo le uscì di bocca, poi comprese…, il riverbero accecante del castello s’era dissolto e le mura, le torri, perfino gli olivi poco lontani erano stati inghiottiti dal buio più fitto. Non perse tempo, si spostò di lato e corse fuori dalla tettoia, s’avviò alla cieca lungo il largo sentiero erboso che portava al punto in cui un’ora prima, anni prima, aveva lasciato Lupo ferito, non aveva bisogno della vista per raggiungerlo. Come temeva ai piedi dell’albero non c’era nessuno e l’angoscia di Anna ebbe il sopravvento sul coraggio di Andreina, Lupo era sparito, lo avevano preso, ucciso e il suo corpo era nascosto in casa assieme a quello della donna con gli occhiali…, si portò le mani al viso e provò a piangere, non ci riuscì, allora si nascose dietro la pianta ad aspettare in silenzio. Poco alla volta i suoi occhi riacquistarono la vista, la luna fece capolino tra le nuvole e il paesaggio riprese forma e spessore. I minuti avano lenti e lei si chiedeva dove fosse finito il ragazzo, s’impose di non muoversi, in giro c’erano le trappole che avevano fermato Lupo e se fosse stato per lei non si sarebbe spostata di un o, ma Andreina fremeva e benché avesse perso gran parte della sua prestanza, la sua volontà prevalse ancora una volta e la condusse sul sentiero da dov’era venuta. Avanzò piano, senza alzarsi dal suolo, attenta alle ombre e ai sibili che le correvano attorno e quando lei, ultima degli Orazi, trovò quello che considerava l’ultimo dei Curiazi, non dovette girarsi per ammazzarlo, si limitò ad abbassargli le palpebre con un gesto che aveva imparato nella sua vita precedente, quella ata sulle montagne del veronese. Il ragazzo aveva una punta acuminata di metallo che gli usciva dalla gola, era entrata di lato tranciando i grossi vasi che irroravano il cervello ed era uscita a fianco della colonna vertebrale, era caduto senza un lamento e il terreno sotto di lui si stava impregnando del suo giovane sangue. Anna si sedette al suo fianco e si mise a piangere, seguitò a farlo in silenzio per lunghi minuti, finché sentì le forze venirle meno, allora si sdraiò e chiuse gli occhi incurante del morto che aveva accanto e delle flebili esortazioni di Andreina che ormai pareva lontana, evanescente. Era stanca, troppo stanca per continuare, non aveva voglia di entrare in casa, sapeva cosa l’aspettava, ormai
era tutto finito, i due cinesi erano morti, Lupo anche e a lei non restava che constatare l’entità della sua disfatta. “E se fosse ancora vivo?”, le sussurrò lieve Andreina , ma lei aveva sonno e voleva solo dormire, si girò sul fianco e immerse il viso nel trifoglio, non poteva spingere quella porta, varcare quella soglia, non ne aveva il coraggio, già un’altra volta, tanti anni prima, l’aveva fatto e aveva visto le pareti della cucina imbrattate di sangue, non voleva che succedesse ancora. “Se è vivo non puoi lasciarlo solo, se è morto neppure…”, continuò la voce che ormai era solo un bisbiglio, un mormorio lontano quasi indistinto. A fatica Anna si tirò in piedi, era debole e avrebbe voluto tornare a sdraiarsi, ma aveva ragione Andreina, non poteva lasciarlo solo, così s’impose di fare quello che era giusto fare, avanzò piano come un automa mosso da una molla ormai scarica, un o, due, poi avvertì un sibilo e qualcosa le ferì il braccio, d’istinto si piegò sulle ginocchia e si toccò la manica della maglietta, il tessuto era strappato, ma lei non sentiva dolore, nemmeno il più leggero bruciore, cercò Andreina dentro di sé e sentì soltanto il silenzio della notte. Riprese ad avanzare accucciata per tastare il terreno con le mani, trovò un filo che correva nascosto tra l’erba del prato, ne trovò un altro e un altro ancora, Anna si sentì mancare, chiese aiuto ad Andreina, ma ancora una volta non ricevette risposta, se n’era andata. Raggiunse la veranda piegata sulle ginocchia, sostò un poco per riprendere fiato, poi s’alzò in piedi e procedette con o incerto verso la porta, doveva smetterla di scappare davanti al baratro dei suoi ricordi, qualsiasi cosa avesse trovato entrando, non avrebbe urlato e nemmeno sarebbe scappata, si disse per farsi coraggio, era sola, Lupo era morto e Andreina l’aveva abbandonata al cospetto del suo ato, quello vero che risaliva alla sua infanzia dimenticata, non quello rubato a una suora che da giovane aveva cullato il sogno della rivoluzione. Spinse la porta ed entrò, fece un o e subito dovette reprimere la voglia di urlare, il pavimento era cosparso di cumuli strani, si coprì gli occhi e accese quanto restava del lampadario, quando tornò a guardare si vide circondata dal caos, la poltrona era sventrata, la libreria capovolta e libri, quadri e vasi erano rotti e mescolati a terra. Anna alzò le spalle e scosse la testa, questo era niente rispetto a quanto s’aspettava, fece per raddrizzare una sedia ma un rumore attirò la sua attenzione, così scavalcò uno sgabello e con il cuore che le batteva in gola,
si diresse verso la stanza da letto, entrò, accese la luce e per un attimo, un minuto, forse meno, si sentì felice come mai si era sentita in vita sua. Lupo era seduto a terra contro il muro, aveva le mani legate dietro la schiena e le caviglie strette da una corda sottile, la bocca chiusa da un cerotto e l’espressione di chi vuol dire qualcosa e non riesce a farlo, batteva i piedi sul tappeto e non voleva smettere neanche adesso che lei era entrata. Anna emise un grido di gioia e gli corse incontro, poco lontano c’era la donna che aveva visto dalla finestra, era legata schiena contro schiena ad Alfredo, per cui forse era Beatrice…, le sorrise per scusarsi di non liberarla per prima, poi s’inginocchiò vicino a Lupo che non sembrava per niente contento di vederla, aveva gli occhi sbarrati e buttava la testa all’indietro contro il termosifone, gli sfiorò la coscia e lo sentì tremare, il fuso di metallo era sparito. - Che fai?, calmati, i due Curiazi sono morti, è tutto finito – gli disse ridendo del gioco che nell’ultima ora le aveva dato il coraggio di lottare e la forza di vincere, provò a togliergli il cerotto dalla bocca, ma era difficile con lui che continuava a contorcersi, pareva volerle dire qualcosa. In effetti Lupo aveva tutte le ragioni per dimenarsi, voleva che Anna non perdesse tempo con lui, voleva che tornasse da dov’era venuta, che scendesse in paese, che sparisse… Era contento di sapere che i due cinesi, i Curiazi come li aveva chiamati lei, non fossero più un problema, ma si stupiva che non riuscisse a portare il gioco alla sua giusta conclusione, la storia narrava della valorosa impresa dell’ultimo degli Orazi contro tre guerrieri Curiazi, tre..., non due! Anna si girò seguendo lo sguardo di Lupo e per poco non prese un colpo, sulla porta c’era un uomo che non aveva mai visto, era alto e magro, aveva i capelli grigi tirati all’indietro in un codino, gli occhi stretti come lame e l’espressione soddisfatta di chi finalmente vede premiata la sua pazienza. Era un cinese, non c’era dubbio, lei però, preferì considerarlo come un guerriero albano, come l’ultimo dei Curiazi. Provò ad alzarsi, ma un calcio piovuto da chissà dove la costrinse di nuovo seduta, non sentì male, ma decise di non opporre resistenza, lì non c’era spazio per correre, girarsi e colpire e forse questa volta non sarebbero stati gli Orazi a vincere. Cominciò a parlare, ma non servì a molto. - È inutile che tu faccia così, i tuoi ragazzi sono stati catturati dalla polizia e il tuo capo è morto, capisci quello che dico? – nessuna reazione, Anna provò a ripetere la stessa cosa in croato ma lui rimase imibile e muto – tutte le strade
che portano qui sono piene di agenti, anche se ci uccidi non la farai franca. Niente, l’uomo pareva soprappensiero. Anna lo guardò meglio, il corpo asciutto e nodoso trasudava energia, i muscoli lunghi e stretti delle braccia si contraevano a ritmo costante, metteva soggezione, vestiva pantaloni e gilè di pelle scura, non portava camicia e forse neanche canottiera. - Prova a chiamare il tuo padrone, telefona a Rovigno, vedrai che ti risponderà il silenzio dell’oltretomba, prova… E finalmente lui si mosse, non si grattò la testa dubbioso e nemmeno si girò per andarsene in preda alla paura, no, si limitò ad alzare la mano e a farle cenno di raggiungerla. Anna scosse il capo in segno di diniego, avrebbe ubbidito se avesse sentito la pur minima traccia di Andreina dentro di sé, ma lei non c’era, l’aveva lasciata nel momento in cui più ne aveva bisogno, alla fine della partita, così preferì non spostarsi. - Non vengo, se vuoi puoi trascinarmi per i capelli, ma da sola non mi muovo – disse con una sicurezza che non provava, ci mise poco a cambiare idea, quando lo vide togliersi dalla cintura il coltello, s’alzò pronta a fare quello che le veniva chiesto. Ancora una volta lui non reagì, si piegò in avanti per tagliare la corda che legava le caviglie di Lupo, poi fece la stessa cosa per i polsi dietro la schiena e Anna strinse le mani a pugno e lo colpì sulla nuca con tutta la forza che aveva. Non fu una gran mossa, Andreina avrebbe fatto senz’altro di meglio, la botta sembrava non aver stordito e nemmeno infastidito il cinese che si tirò in piedi e con uno schiaffo la mandò a sbattere contro la parete opposta. Lei si toccò il naso convinta di esserselo rotto, ormai era piena di ferite e una in più o in meno non faceva differenza, poi alzò lo sguardo e vide Lupo strattonato per il collo e con il coltello puntato alla gola, non aveva più il cerotto sulla bocca, ma non parlava e le sue labbra erano tese e sottili come le palpebre dell’uomo che gli stava alle spalle, si sosteneva appoggiandosi al lato sinistro, sulla coscia destra una macchia scura si allargava sul tessuto. Anna s’avviò verso la porta, uscì per prima come le era stato ordinato con un gesto del mento, quando piegò la testa all’indietro vide Lupo e l’orientale poco lontani, Beatrice e Alfredo erano rimasti dov’erano. arono nel soggiorno, poi uscirono sulla veranda dove l’aria era fresca e sapeva di buono, dove tutto era come sempre e le viti e gli olivi sembravano non accorgersi della follia che
aveva investito la casa. Appoggiata agli scalini c’era una tanica nera con il simbolo delle sostanze infiammabili, Anna sapeva cos’era e sapeva anche cosa avrebbe dovuto fare, per questo si rifiutò di guardare nella direzione del cinese e tenne lo sguardo fisso a terra. Fu Lupo a parlare. - Vuole che tu sparga la benzina attorno alla casa. - Lo so – disse e cominciò a piangere. - Non hai scelta. - Ci sono Beatrice e Alfredo là dentro – stava singhiozzando. - Andreina che pensa di fare? - Se n’è andata, quella stupida mi ha piantata in asso sul più bello. - Prova a pensare con la sua testa – voleva dire dell’altro ma un grido di dolore gli uscì di bocca, il cinese era impaziente di portare a termine il lavoro e gli aveva affondato la punta del coltello nella spalla. Anna svitò il tappo della tanica e cominciò a cospargere gli scalini di benzina, un altro lamento le fece capire che l’uomo non era contento, che voleva che il liquido fosse versato sulla veranda, lei strizzò gli occhi, finse di non sentire e svuotò tutto il contenuto sull’erba del prato. E finalmente, per la prima volta, sentì la voce dell’ultimo dei Curiazi, un soffio leggero che s’intrufolò tra i gemiti di Lupo, quasi un sibilo di vento che in un croato alquanto impreciso le spiegò quali alternative avesse davanti, una fine veloce e indolore o l’incubo del fuoco per lei e il suo stupido amico. - Perché? – chiese lei disperata – è tutto finito, i tuoi amici sono morti, anche il tuo padrone…, perché non te ne vai e ci lasci in pace? - Disciplina! – disse l’uomo concedendosi l’unico sorriso della serata e Anna capì che anche lui come l’ultimo dei Curiazi, avrebbe continuato a correre e correre fino a raggiungere il nemico per ucciderlo o venirne ucciso. Poi il cinese commise un errore, un piccolo errore che al momento sembrò soffiare sulla speranza di un finale diverso, scostò il braccio dal collo di Lupo e infilò la mano in tasca forse per cercare qualcosa che desse il via alle fiamme, e
Anna si fece forza e gli scaraventò addosso la tanica vuota. Ovviamente colpì Lupo che stava davanti e si piegò per sfuggire alla tortura della lama, lei ne approfittò per lanciarsi contro l’orientale con la furia della disperazione. Non concluse molto, forse Andreina sarebbe riuscita a evitare il calcio che dal niente si materializzò nell’aria, lei no, non lo vide nemmeno arrivare, si sentì sollevare e spingere all’indietro, solo questo. Andò a sbattere con la testa sui gradini della veranda e perse i sensi. Rimase svenuta pochi istanti, quando si riprese avvertì l’odore acre della benzina bruciarle la gola e gli occhi, tossì, poi si guardò attorno, alle sue spalle c’erano Beatrice e Alfredo ancora legati e imbavagliati, in qualche modo erano riusciti a trascinarsi fuori e ora stavano fissando l’oscurità che avevano di fronte. Anna seguì il loro sguardo e inorridì, poco lontano due uomini stavano lottando o, per meglio dire, un uomo stava riempiendo di botte un altro, cercò di alzarsi, ma era ancora intontita, aveva la testa che girava come una trottola e le impediva di mettersi in piedi, si piegò di lato e cominciò a vomitare. Lupo era ancora vivo, ma era ferito e ormai privo di forze, si teneva appoggiato all’unico melo del prato e guardava l’orientale eseguire davanti a lui una danza che aveva il sapore della morte, muoveva le braccia e le mani con guizzi armoniosi, volteggiava librandosi nell’aria, si piegava, si girava colpendolo ora con un piede, ora con una mano aperta, con un pugno… Sentì Anna urlargli di scappare, ma non aveva senso, non c’era posto dove potesse andare e il tronco a cui era appoggiato gli sembrava un ottimo posto su cui stare. Poi vide una luce nuova negli occhi del suo aguzzino e capì che il gioco era alla fine, con le mani cercò un sasso per colpirlo, non lo trovò, frugò con le unghie nella corteccia del melo e finalmente avvertì la superficie ruvida di un cubetto di porfido graffiargli le dita, lo strinse con forza, lo alzò in alto e lo lanciò nel vento, lo vide seguire una lenta traiettoria e colpire inesorabilmente il suo rivale l’istante prima che diventasse il suo assassino. Solo allora Lupo sorrise e si lasciò scivolare a terra, non era contento ma si sentiva soddisfatto, in pace con se stesso, sapeva che in realtà non c’era alcun cubetto di porfido nascosto nella corteccia del melo, che quello era solo un pietoso espediente creato dalla sua mente per distoglierlo da quanto gli stava accadendo, era ancora lucido e per quanto rassegnato, non aveva perso la sua capacità di raziocinio, così quando aveva visto cadere in avanti il suo nemico, si era detto che non era possibile, che era contro qualsiasi legge fisica, che un sasso per quanto immaginario, avrebbe dovuto spingere quel bastardo all’indietro e
non verso di lui… E in questo aveva ragione, il cinese era caduto in avanti travolto da settanta chili di carne viva, un cubetto di porfido non avrebbe fatto altrettanto, ma questo Lupo non riuscì a comprenderlo, perché scelse proprio quel momento per chiudere gli occhi e togliersi dall’impaccio del dubbio. La sua mente rimase lontana pochi istanti, giusto il tempo d’immergersi in un sogno bellissimo, era a Rovigno, su una spiaggia stupenda e Anna era sdraiata su di lui e lo stava baciando con una ione che non gli aveva mai mostrato, sentiva la sua lingua sfiorarle le labbra, il naso e le guance, era umida e calda, lunga…, troppo lunga per quanto ricordava. Aprì gli occhi e per un attimo desiderò tornare indietro, svenire di nuovo per scacciare dalla mente l’immagine di Neve che gli sbavava addosso. Non disse niente, non era nelle condizioni per farlo, ma avrebbe voluto mettersi a urlare, spostò lo sguardo e vide Norma seduta di peso sul corpo del cinese, sulla veranda Anna stava slegando Alfredo con l’aiuto di Beatrice, nessuno si stava curando di lui, alzò le braccia per richiamare l’attenzione su di sé, poi cambiò idea e le strinse attorno al corpo del cane. All’inizio fu difficile, poi l’abbracciò stretto e per la prima volta dopo anni e anni di diffidenza e paura, si sentì felice come un bambino che stringe al petto il suo migliore amico.
Epilogo
La casa è piena di luce e di musica, troppa sia dell’una che dell’altra, la festa è quasi alla fine e la gente è sparpagliata un po’ ovunque, qualcuno ha già tolto le tende, pochi per i miei gusti, ma io non me la prendo, ho promesso a me stesso di rimanere calmo e starò calmo, in fondo non è difficile, fra non molto se ne andranno via tutti e io tornerò padrone del mio mondo, devo solo aspettare. Mi sono nascosto tra gli olivi, così posso vedere la casa senza essere visto, spero che nessuno arrivi fin qui, ho già dovuto spostarmi due volte e comincio a perdere la pazienza, è vero che sono di indole buona, ma se mi arrabbio posso anche far danni. Poco fa, tre milanesi si sono seduti sotto il mio albero preferito, ridevano e cantavano, e questo poteva anche are, ma puzzavano in modo incredibile e avevano un’aureola azzurra attorno alla testa, ho fatto un po’ di casino per farli sloggiare, due non sono neanche riusciti ad alzarsi e sono ruzzolati fino al cortile, non credo mi abbiano visto, ma io ho visto loro e questo è quanto basta. Anna dovrebbe fare attenzione nello scegliersi gli amici, certi sono proprio suonati, al limite del ridicolo, su questo condivido appieno l’opinione di Norma che non li sopporta, questa sera c’era anche lei, ma si è fermata poco e appena ha potuto se l’è svignata, se non temessi di trovarla con quell’impiastro di Saluzzo, quasi, quasi la seguirei. Il maresciallo è proprio una lagna, era qui fino a poco fa, e ora, guarda caso, è sparito, credo non abbia nemmeno salutato, io almeno non l’ho sentito, da quando ha puntato gli occhi su Norma sembra un altro, è sempre tra i piedi, si gira i capelli in testa e si profuma da schifo, quando mi a vicino mi viene la nausea, che sia colpa del mio olfatto delicato? Come coppia non sono un granché, ma l’unico a non rendersene conto sembra proprio lui, dice di essere affascinato dalla selvatichezza di Norma e nonostante lei non lo degni di uno sguardo, le sta dietro fin dalla notte dei cinesi, quando è arrivato convinto di dover rincorrere delinquenti tra gli olivi e si è ritrovato due morti tra i piedi e un esaltato già bello legato e impacchettato. Che notte ragazzi..., peccato mi sia perso la parte migliore. Da quel momento le ronza attorno come una mosca infreddolita, sta pensando alla pensione e le Falde gli
sembrano il posto ideale per comporre i suoi poemi. Anche lui scrive, come gran parte degli italiani, sembra. Sta uscendo il secondo libro di Lupo, io non lo leggerò di sicuro, ma Anna è convinta che sia migliore del primo. Il romanzo invece è stato messo da parte, Lupo dice che la trama è troppo complicata, che la tesi iniziale stona con il proseguimento della storia, che è troppo coinvolgente…, lei gli crede, ma io no, per niente visto che s’è messo a scriverne uno ancora più intricato. Da quando sono tornati da Trieste, a le giornate tra cartacce piene di polvere e muffa, non è sano, per niente, ma lui è felice, dice che quella roba è una bomba, che cambierà la storia…, e io tremo al solo pensarci, ultimamente qui attorno c’è stato fin troppo casino senza che ci si metta anche lui. Sarà che non me ne intendo, ma io butterei tutto alle ortiche, mi sembra da idioti consumarsi la vista su dei fogli ammuffiti. Comunque non sono affari miei, Lupo mi piace, è un tipo in gamba e sono contento della sua storia con Anna, spero solo che questo serva a tenerli tranquilli, tutti e due, anche lei che è sempre in giro per il mondo come una farfalla impazzita, ora sembra che voglia piantare ogni cosa per trasferirsi qui definitivamente, sarebbe ora, Lupo l’ha già fatto da mesi. Di questo io non posso che essere felice, contenti loro, contenti tutti, mi ripeto sempre, l’unica cosa che mi chiedo è di cosa vivranno, che io sappia non è facile campare di libri. Questi comunque sono fatti loro e io non intendo dispensare consigli a nessuno, si può essere amici, molto amici, ma poi ognuno deve fare le proprie scelte, la riservatezza per me è una questione di principio, se non fosse così, sai a quanta gente dovrei dire questo e quest’altro?, roba da perderci il fiato. A Norma, per esempio, dovrei dire di rivedere i suoi teoremi d’erboristeria, quantomeno quelli sull’eufrasia, sull’equiseto arvense e sull’amamelide. Preferirei vederla invischiata col maresciallo che in certe concezioni strampalate, lei è una donna eccezionale e non capisco come faccia a non vedere oltre le pagine dei suoi libri, in questo periodo è fissata coi poteri dell’echinacea, ma ci sono piante ben più efficaci di quella, via…, lo sanno tutti. Agli ispettori milanesi che poco fa si davano arie da salvatori del mondo, direi di cercarsi un posto dove l’aria sia buona e dove gli omicidi siano qualcosa su cui scrivere un romanzo, piuttosto che impostarci lo stipendio. La Bigazzi, mi piace, oggi l’ho vista farsi una canna con un ragazzo che pareva suo figlio,
quando s’è alzata sembrava ubriaca, se n’è andata con la sua moto sollevando una nuvola di polvere venefica. Salemi l’ha guardata imbarazzato, poi ha sparso la voce che la collega era sotto copertura, che si era intrufolata in un giro sporco per servizio. Ovviamente nessuno gli ha creduto. Al ragazzo tutto ossa e pustolette raccomanderei di sorridere un po’ di più, lo so che la vita non gli sembra una gran cosa e che nel suo orizzonte c’è ben poco di cui essere allegri, ma è ancora giovane e può sperare. Mi piacerebbe che si fermasse un po’ con noi, che si sedesse al sole per asciugarsi le ossa e riscaldarsi il cuore. A Beatrice e Alfredo suggerirei di finirla di andare avanti e indietro come delle trottole, Germania Italia, Italia Germania, tre volte in pochi mesi…, mi fanno girare la testa, spero si decidano a fermarsi in fretta perché la vita è troppo breve per arla in autostrada. A Beatrice in particolare, direi di smetterla di torturarsi per i suoi sandali, cosa saranno mai un paio di sandali…, può comprarsene degli altri, non credo le manchi il denaro. Veramente non capisco la ragione di una simile fissazione, dice che quello che il maresciallo ha trovato sulla riva del fiume non conta niente e che i jeans e la camicia non sono importanti, è convinta che Loris avrebbe anche potuto buttarsi in acqua, ma che Loretta non l’avrebbe mai fatto e che di sicuro lei è ancora in giro a ciabattare coi suoi sandali ai piedi. Mi sembra esagerato sollevare un simile putiferio solo perché quel povero ragazzo si è suicidato senza togliersi le scarpe di dosso…, ma lei è fatta così e credo che non si calmerà finché non troveranno il suo corpo. Sempre che lo trovino. Infine a Lupo direi di rilassarsi, scrivere fa bene, ma vivere fa meglio, gli direi anche di volermi bene e di starmi vicino…, mi piace quel ragazzo, l’ho già detto, e se non fossi un cane oggi l’avrei sposato io.
Created with Writer2ePub by Luca Calcinai