Lars Maehle
La porta scura
ISBN: 9788865641262
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Indice dei contenuti
La porta scura Giorno 3 Giorno 4 Giorno 5 Giorno 6
La porta scura
Giorno 1
Lærs Mæhle
La porta scura © 2015 Atmosphere libri Edizione riveduta
www.atmospherelibri.it Un uomo viene brutalmente ucciso tra le rovine di una chiesa medievale norvegese. Sempre in una chiesa, cinque anni prima era stato ritrovato il corpo dello psicologo Karsten Scheel. Ina Grieg, collega e amante di Karsten, viene ora coinvolta nell'indagine e per arrivare alla verità è disposta a mettersi a rischio con metodi poco ortodossi. Anche il professore di psicologia in pensione Trygve Winther, vecchio amico e mentore di Ina e Karsten, offre il suo aiuto e verrà a giocare un ruolo chiave nell'indagine. È presto chiaro che si trovano alle prese con un serial killer mosso da sete di vendetta, ma sulle tracce dell'assassino Ina si troverà a combattere contro molti demoni, esterni e interni. Ancor prima che in Norvegia, La porta scura è stato lanciato sul mercato tedesco dalla prestigiosa casa editrice Ullstein Buchverlag, che ha scommesso su Lars Mæhle dopo aver pubblicato autori di gialli come Jo Nesbø, John le Carre e Lisa Marklund.
Un notevole debutto nel genere del giallo (Aftenposten)
Lars Mæhle ha scritto un thriller molto suggestivo, in cui persone con grandi capacità di fare del bene vengono trascinati in un portone oscuro e non riescono più a tornare indietro. (Stavanger Aftenblad)
Ottimo debutto, bei personaggi e trama avvincente. Sarebbe bello poter seguire ancora la psicologa Ina Grieg. (Dittoslo)
Guarda con tutti i tuoi occhi, guarda. Jules Verne, Il corriere dello zar
Maridal, domenica 5 dicembre 2010
L’ultimo giorno. Tutte le mattine si è svegliato con quel pensiero. È l’ultimo giorno. Ottar Heggvik rabbrividisce, si sfrega le braccia contro il corpo per il freddo pungente e finalmente scorge l’autobus che spunta dalla cima della salita e sfreccia verso di lui. Un’ombra rettangolare sullo sfondo rossastro, quasi arancio, del cielo. Un ultimo residuo di sole pomeridiano che si posa dietro le nuvole a occidente. L’autobus raggiunge la fermata e le porte si aprono. Ottar Heggvik sale. La solita frase lo assale ancora. È l’ultimo giorno. Prova a riprendersi concentrandosi sulle piccole cose contingenti: la banconota da cento in mano, l’autista che gli dà il resto, i i verso il retro dell’autobus. Nota che ci sono pochi eggeri, sceglie due sedili liberi in fondo all’autobus e si lascia scivolare in quello accanto al finestrino. Le dita ghiacciate gli tremano in modo del tutto incontrollato e la paura, che negli ultimi giorni ha preso il sopravvento sul suo corpo, ora lo paralizza completamente. Riesce a malapena ad aprirsi la cerniera del giaccone. Alla fine infila la mano nella giacca, tira fuori le cuffie e se le mette sulle orecchie. Appoggia la testa sullo schienale del sedile. Le prime note di Fembot di Robyn gli suonano nelle orecchie e lo avvolgono. Che meraviglia! Nel 2010 non esiste immagine sonora migliore di quella.
Heggvik chiude gli occhi. L’autobus 51 parte da Brekkekrysset alle 15:36, esattamente come da tabella. Le gomme slittano appena sulla neve sciolta svoltando su Maridalsvegen, ma ritrovano subito la presa e l’autobus si immette tranquillamente in strada. Il paesaggio si apre. La valle di Maridal affiora nella luce invernale, incorniciata a ovest dall’intenso riverbero rosso del cielo. Il quadro è completato dal bianco tappeto della collina, formato dalla neve rimasta dalla nevicata del fine settimana. Dopodiché è arrivato il gelo polare dalla Siberia, in anticipo rispetto all’anno scorso. Ora a Oslo ci saranno almeno quindici gradi sotto zero, e lassù probabilmente ancora meno. La capitale si allontana alle sue spalle, quella dannata città con tutto il suo fracasso, la gente indaffarata, lo stress, la polvere e l’inquinamento. Heggvik pensa a tutte le cose che in quella città non è riuscito a fare: incontrare la Donna con la D maiuscola, metter su famiglia. È riuscito soltanto a fallire su ogni fronte. Heggvik nota il suo riflesso sul finestrino dell’autobus e abbassa lo sguardo. Quanto tempo ha buttato via. Quanti ricordi ha rimosso. Sfila con discrezione la lettera dalla tasca e si piega in avanti a leggerla di nascosto, gli occhi che vagano ancora una volta su quella breve frase. Eppure è così assurdo. Perché è dovuto tornare tutto indietro? Aveva provato a rimuovere ogni dettaglio di quel periodo, non voleva più pensare al gruppo né a quello che era successo. Avevano fatto un patto: separarsi e non rivedersi mai più. Altrimenti sapevano bene quali sarebbero state le conseguenze. Era quasi riuscito a lasciarsi alle spalle il Generale, quando era capitato l’episodio della sorella. Era successo molti anni dopo. L’avevano colpita sul viso con un oggetto contundente mentre tornava da una festa, a Vik. Il commissario non ne era venuto a capo, si era trattato di pura, cieca violenza. Non avevano mai trovato il colpevole.
Ma Ottar Heggvik sapeva. Il segno sulla guancia della sorella diceva tutto. Era la firma del Generale. Poi quel pacco che gli era arrivato cinque anni fa, quando di nuovo era quasi riuscito a dimenticare tutto. Già al ritiro, nell’ufficio postale, aveva sentito la puzza. Quando l’aveva aperto, aveva capito che non aveva speranze. Era finita per lui. L’immagine del cadavere del gatto con un profondo taglio alla gola gli si impresse negli occhi. Quella visione l’avrebbe perseguitato. Quel fagottino esanime. La lingua tra i piccoli denti aguzzi, irrigidita dalla morte. Dopo quell’episodio si era barricato in casa e non era uscito quasi più. Vedeva il Generale dappertutto, in ogni volto. Heggvik si raddrizza sul sedile. Si chiede se anche gli altri della banda abbiano ricevuto simili orribili pacchi, o se è solo lui ad essere considerato una minaccia di tradimento. Non sa niente degli altri, non ha idea di dove abitino, di cosa facciano, se siano vivi o morti. Ha evitato ogni contatto, proprio come da accordo. Ma a quanto pare, dopo tutti questi anni, ora c’è un cambiamento. Le misteriose lettere del Generale l’avevano colto del tutto alla sprovvista. La prima gli aveva fatto impazzire il cuore. La seconda l’aveva spaventato a morte. La terza, quella che teneva in mano, era la peggiore di tutte. Era diretta e sintetica: Ci vediamo alle rovine di Margareta il 5 dicembre alle 16:00. Il Generale. Heggvik prova di nuovo a perdersi nella musica tecno, ma anche lì non trova altro che la sua paura. Quando le porte dell’autobus si aprono, il freddo gli punge il viso. Ogni respiro gli brucia la gola. Spegne l’iPod, ma tiene le cuffie sulle orecchie. Le rovine di Margareta si innalzano di fronte a lui. Si porta la mano agli occhi per vedere meglio. La luce rossa è forte, ma non durerà a lungo.
Presto imbrunirà. Heggvik si guarda intorno con attenzione. Davanti alla fermata ci sono due fattorie, ma vicino alle rovine non c’è nessuno. Anzi, veramente non si vede anima viva da nessuna parte. Heggvik fa un respiro profondo e si avvia verso la strada che sale alle rovine. Sulla salita le tracce di sci hanno scavato solchi che vanno in tutte le direzioni, lui si infila in quello più ampio. Il gelo ha indurito la neve, così è più facile camminarci dentro. Ma ancora non si vede un’anima. Continua a salire. Quando arriva in cima è contemporaneamente sudato fradicio e irrigidito dal gelo. Le orecchie sono ghiaccioli che bruciano e fanno male. Si toglie le cuffie e ci strofina contro i guanti, mentre nel frattempo ispeziona le mura: grossolani ma irremovibili ammassi di pietre rimasti lì per quasi 800 anni. Si guarda intorno ancora una volta. E poi ancora. Solo uno sciatore solitario sul lago di Maridal. Heggvik aguzza gli occhi verso l’ombra che si avvicina. Gli sembra che abbia qualcosa sul petto. È possibile che quel tipo stia facendo sci-orientamento, perché porta sul davanti uno di quei sostegni per cartine topografiche. Per il resto indossa un giubbotto rosso con il cappuccio ben tirato sulla testa. Heggvik pensa che debba essere pazzo a uscire con questo freddo. Ma il più pazzo di tutti dev’essere lui, porca miseria, che non si è nemmeno comprato un cappello! Tuttavia comincia a sentire una specie di sollievo farsi strada dentro di lui. Il Generale gli ha solo tirato un brutto scherzo. Se la caverà anche stavolta. Sta per allontanarsi dalle rovine quando scorge un’ombra giù ai piedi della discesa. Lo sciatore. Sta salendo. Oddio, ma allora è lui!
Santo cielo, ha attraversato il lago e adesso sta venendo qui. Ottar Heggvik si irrigidisce man mano che l’ombra si avvicina, oddio, oddio… La figura ancora vaga si toglie gli sci e va verso di lui a o veloce. Non si ferma finché non è proprio di fronte a Heggvik. Il volto ancora nascosto dal cappuccio. Il sostegno con la cartina fissato al petto. «Generale?» Il tremolio della voce tradisce la sua paura. Una paura folle. La figura non risponde, si limita a sollevare il braccio destro e a indicare verso l’ingresso delle rovine. Heggvik capisce. E obbedisce. È l’ultimo giorno. Entra nel varco di ingresso. Una volta all’interno delle rovine di Margareta, l’ombra indica di nuovo. Stavolta verso l’angolo in cui si incontrano le due pareti più alte. Heggvik avanza nel buio. Si volta. L’ombra si avvicina. Oddio, oddio… «Generale?» L’ombra continua a tacere. Resta lì a respirargli in faccia finché alla fine solleva la mano, afferra il foglio che porta sul sostegno e glielo mette davanti agli occhi. È una foto. All’inizio non riconosce quel viso distorto in un’orribile smorfia. Continua a guardare. C’è qualcosa di estraneo e nello stesso tempo di famigliare, in quel volto. Il ragazzo… Un brivido gelido gli attraversa il corpo. I suoi occhi cercano sotto al cappuccio. D’un tratto Ottar Heggvik capisce chi ha di fronte. La somiglianza non lascia margine d’errore.
Sente un colpo al petto e cade giù. Realizza allora che non deve aspettare oltre. L’ultimo giorno è qui. Adesso. Questo è l’ultimo giorno.
Giorno 1 Lunedì 6 dicembre 2010 1
Sempre lo stesso sogno. Le bambine. Non riesce a trovarle. Ina corre di stanza in stanza cercandole, apre a calci una porta dopo l’altra e irrompe in nuove stanze, ma sono sempre vuote. Va avanti così, abbattendo porta dopo porta e ando di stanza in stanza. Sono tutte vuote, non c’è nemmeno un mobile. Le pareti grigie la fissano mute, mentre i suoi occhi cercano le bambine dappertutto senza trovarle. Tutto quel che può fare è continuare a correre verso la porta successiva e irrompere nell’ennesima stanza finché non si rende conto che è la stessa in cui si trovava prima, la stessa da cui è appena uscita. Tutte le stanze che ha attraversato sono la stessa stanza, ogni porta che ha abbattuto la stessa porta. Eppure va avanti. Stessa stanza. Stessa porta. Guro ed Eline però non ci sono. Sa solo che ha perso le bambine, che è colpa sua e che Amund non la perdonerà mai. Prova a fermarsi a pensare, a ricordare come possano essersi allontanate, ma tutti i suoi ricordi sono sfumati via.
Sa solo che ne va della vita. Finalmente un cambiamento. Entra in una stanza più grande, quasi un salone. Dalla parte opposta scorge un’enorme porta di metallo scuro. Un portone scuro. Lentamente lo raggiunge. È chiuso a chiave e non c’è modo di smuoverlo, sembra impossibile oltrearlo. Sente salire contemporaneamente la disperazione e la consapevolezza di dover entrare: lì dietro si nasconde la risposta che sta cercando e cioè cosa è accaduto alle sue figlie. Eppure indugia, spaventata a morte dalla visione che l’aspetta dietro al portone scuro. Comincia a indietreggiare, col viso sempre rivolto alla porta. Un sussulto. All’improvviso accanto a lei compare una ragazzina. Non è Guro né Eline. Un’estranea. Ina si ferma e la scruta con attenzione. Indossa un abito bianco e se ne sta lì immobile a fissarla a bocca aperta, probabilmente spaventata a sua volta. D’un tratto la riconosce: è Solveig, sua sorella minore. Solveig solleva lentamente il braccio verso Ina e quest’ultima riprende a indietreggiare, lontano da Solveig e dal portone. Subito dopo sente delle dita ghiacciate entrarle nella spalla... Ina Grieg si sveglia di soprassalto e balza a sedere nel letto. Una vocina risuona lontana, come avvolta nella nebbia. «Sbegliati, mamma!» Gli occhi di Ina si posano lentamente sulla figurina impaziente che le preme la spalla e i suoi due occhioni tondi. «Ti devi sbegliare!» insiste la vocina. Eline.
Il sogno è ancora lì, come un sottile strato di ghiaccio posato sui suoi pensieri e le sue impressioni. Un’occhiata alla sveglia. Le 05:14. Ina si sdraia di nuovo e sente il materasso premerle dolcemente la schiena. Tira fuori un piede dal piumone, si gira su un fianco e rimane un attimo così, in posizione fetale, ad ascoltare il battito del suo cuore: forte e accelerato. Le immagini del sogno fluttuano di nuovo nei suoi occhi: il portone, la sorella, le bambine scomparse. Ancora una volta prova a convincersi che non si metterebbe mai nelle condizioni di perderle. Mai e poi mai. «Sbegliati!» «Va bene, va bene» bofonchia, senza però muoversi. Getta un’occhiata al compagno. Amund dorme sdraiato sulla schiena, come sempre, la bocca semiaperta e le narici che vibrano lievemente. Ha il respiro pesante, ma almeno non russa. Ina gli invidia la capacità di dormire, specialmente la notte. Quando gli altri dormono, lei non riesce mai a prendere sonno. Quella notte è rimasta sveglia fino alle tre o alle quattro in preda ai pensieri che le turbinavano in testa. In compenso però di giorno riesce ad assopirsi in qualsiasi situazione, più o meno consona che sia. Le 05:14, Santo Dio. Ma ormai non può farci più niente, è inutile. La verità è che, specialmente quando si trova in questo stato a metà tra il sonno e la veglia, spesso si infila in pantani di pensieri distruttivi. A volte arriva persino a dubitare di trovarsi davvero in quel letto a Nittedal, madre quarantenne di due gemelline di quattro anni e con un compagno di nome Amund. Un ironico scherzo del destino. Fosse per lei, vivrebbe ancora una vita senza legami nel quartiere di Grünerløkka, proprio come nei dieci anni prima di incontrare Amund. A quel tempo ava da un uomo all’altro e si defilava ogni volta che la cosa
cominciava a farsi seria. Una serie di amanti stabili e amanti eggeri, fino a quando non si era tuffata di testa e anche un po’ controvoglia nel comune di periferia dove abitava Amund. Non le piacevano nemmeno i bambini e aveva giurato a se stessa che non ne avrebbe mai avuti. Ma le circostanze l’avevano incastrata. Karsten Scheel, una delle persone che sentiva più vicine e suo amante per molti anni, era stato ucciso e lei era inciampata nelle braccia dell’uomo più rassicurante del mondo, Amund. Quest’ultimo lavorava come pedagogista per bambini con difficoltà nella scuola di Rotne ed era una specie di orsacchiotto tenero e allegro alto un metro e novanta. Il tipo perfetto in cui trovare rifugio. Ma da lì a rimanere incinta? Ina ancora non se ne capacitava. Che diavolo poteva essere andato storto? L’orologio biologico aveva davvero suonato anche per lei? O erano stati solo il momento e la reazione al dolore a farla agire in modo così irrazionale? Alla prima ecografia poi le cose erano andate di male in peggio: l’ostetrica li aveva guardati e con tono neutro aveva detto: «Pare che siano due». In quel momento il mondo le era crollato addosso. Durante la gravidanza Ina aveva intravisto la piccola speranza che la natura avrebbe messo a posto le cose e che anche in lei si sarebbe potuto svegliare un certo istinto materno. Ma non era successo. D’altra parte era consapevole che poteva trattarsi di normali resistenze e che le avrebbe fatto bene un po’ di psicoterapia per affrontare i circoli viziosi di brutti pensieri. D’altronde era lei l’esperta, quella con il titolo di "psicologa". Ina lavorava nello studio di Rotnes ormai da diversi anni. I suoi due soci, Jon Bork e Karsten Scheel, erano vecchi compagni di università. Dopo gli studi erano stati assunti in varie cliniche nei dintorni di Oslo e Ina aveva lavorato al Policlinico Psichiatrico del carcere di Oslo. Ora si erano riuniti di nuovo, su consiglio del loro mitico tutor universitario, il professor Trygve Winther. Il professore riteneva che a Nittedal ci fosse carenza di psicologi.
Rotnes e Nittedal erano ben lungi dal poter essere considerate metropoli, erano zone provinciali che però si trovavano a soli venticinque minuti di treno da Oslo. E nonostante lo scetticismo all’idea di lavorare fianco a fianco con Karsten, il suo amante, Ina aveva deciso di buttarsi in quell’avventura. Forse a spronarla era stata la riverenza nei confronti di Winther, uno dei pochi che Ina ascoltava davvero. «Sbegliati!» insiste ancora la vocina nel suo orecchio. «Non vuoi sdraiarti un po’ qui con noi?» le chiede Ina. Amund si gira dall’altra parte. Tocca a Ina oggi alzarsi con le bimbe. È il suo turno di portarle all’asilo. Amund può dormire almeno un’altra ora. Quindi si farà una bella doccia e una brioche salata fatta in casa farcita con paté, insalata e pomodoro. Poi eggerà fino alla scuola di Rotnes per un’altra giornata di lavoro come assistente scolastico. Ina sente che è entrato in una dimensione di sonno beato. Le 05:14. Tortura allo stato puro. Eline si arrampica sul letto, si infila nello spazio tra i genitori e si accoccola lì con il respiro tranquillo. Per cinque secondi. «Sbegliati!» Dalla camera delle bambine si sente un “click”. L’abat-jour di Guro. Ci mancava solo questa. Ina spinge i piedi giù dal letto e sente il parquet freddo pungerle le piante. «Prima io!» Eline le tira la mano. «E va bene. Ti vesto per prima» sussurra Ina.
«Hai promesso!» «Ok». Prende Eline per mano e la porta fuori dalla camera da letto. In corridoio viene loro incontro la testa arruffata di Guro. «Mamma?» «Che c’è?» «Esistono i mostri?» «No, piccola. Esistono solo qui dentro...» dice indicandosi la testa, «... nella fantasia. Hai fatto un brutto sogno?» «No, ma potevo anche farlo». «Allora per stanotte l’hai scampata» dice Ina. «Ormai è tanto che non hai più gli incubi» «E se invece ci sono?» «Cosa?» «Se i mostri esistono?» «No, te lo giuro. I mostri non esistono». «Nemmeno il Capitan Urcigno?» Ina scoppia a ridere e le trascina in bagno. «No, lui proprio no. E poi mi hanno detto che è tutta una bufala». «Che significa una bufala?» domanda Eline. «Significa che fa finta di essere un duro, ma non lo è davvero». «Come te?»
A questa replica Ina reagisce istintivamente cercando la propria immagine nello specchio. Sussulta. Amund ha ragione. È davvero dimagrita. Il volto che si trova di fronte è spento. Il piccolo naso all’insù ammicca come al solito, mentre i suoi occhi verdi sono opachi, scoloriti e incorniciati da pesanti occhiaie alla “ispettore Derrick”. Scompiglia i capelli alla figlia, prova a sorridere ma ci riesce solo a metà. «Sì, proprio come me». Quindi un’occhiata al termometro sulla parete: 18,3 gradi all’interno, -22,4 fuori. «Vestirmi!» incalza Eline. Ora comincia ad assillare anche Guro e la confusione delle bambine le martella le orecchie, mentre l’unica cosa che vorrebbe è un po’ di riposo. Tutt’un tratto non ce la fa più. Ina esce bruscamente dal bagno e lascia le gemelle a urlarsi contro, afferra al volo il cappotto dall’attaccapanni nell’ingresso, si infila le pantofole tigrate di fronte alla portafinestra del balcone ed esce nella buia e ghiacciata mattina di dicembre. Il gelo le preme le guance. Con le dita un po’ tremanti Ina tira fuori dalla tasca il pacchetto da venti e si accende la prima sigaretta della giornata. Il freddo le fa tremare le gambe nel pigiama, ma non importa. È diventata dipendente da quell’abitudine mattutina per riuscire a mettersi in funzione. Un lungo tiro profondo giù nei polmoni. Ecco… così. Adesso riesce finalmente a respirare. Osserva la brace della sigaretta, rosso rovente e resta così a fissarla finché i suoi pensieri – come le accade spesso – si dirigono su Amund, o meglio, su tutte le cose che la innervosiscono di lui. Con il tempo sono diventate un bel po’. A dire il vero sarebbe irritata con chiunque fosse così stupido da dividere una casa con lei ma, a parte questo, Ina si sente presa in giro dalla vita.
È stata con il capitano della squadra di calcio locale e adesso si ritrova con un uomo tenero, moderno, che fa il pane in casa. Un uomo che la maggior parte delle donne adorerebbe, mentre lei è infastidita quasi da tutto in lui, non da ultimo dal fatto che è il più amato dalle bambine. Le gemelle lo adorano, mentre con lei sono molto più trattenute. Lui è paziente e concessivo, mentre lei si innervosisce subito, scoppia e urla. Ina fa un altro tiro profondo. Tutt’un tratto si sente sconfitta. In fondo sa che Amund è un ragazzo a posto e che, al contrario di lei, è allegro e alla mano. Ina sbuffa anelli di fumo che scompaiono nel buio. Ogni tanto si chiede come è possibile che abbia scelto di diventare proprio una psicologa. Con tutte le difficoltà che ha a mettere a posto la sua vita, non dovrebbe esserle permesso di mettere mano a quelle degli altri. Però nell’ambito professionale è diverso: lì ha la possibilità di concentrarsi sugli aspetti scientifici, di vedere la persona come un “caso”, come qualcosa di esterno a sé. Nel privato non funziona. Tutto diventa profondamente esistenziale. Sente una vibrazione nella tasca del cappotto. Il cellulare. Così presto? Sullo schermo lampeggia “Hege R”. Cosa vuole l’agente di polizia Hege Rimbereid? «Pronto?» risponde con tono dubbioso. «Ciao Ina! Scusa se ti chiamo così presto». «Senti, ho un po’ da fare in questo momento…» «Hai letto l’Aftenposten stamattina?» «Ti vorrei ricordare che sono le sei e mezzo». «Ti ho già chiesto scusa per l’orario, ma è importante. Dai un’occhiata all’Aftenposten e poi richiamami. Credo che si tratti di nuovo del nostro uomo». «Il nostro uomo?» «Leggi, poi richiama».
La telefonata si chiude così. Ma che cavolo...? Dapprima le domande le si affollano in testa, poi i pezzi cominciano ad andare ognuno al loro posto. Il nostro uomo. Merda! Ina Grieg si precipita in casa e giù per le scale. Sente le bambine che gridano in bagno: «Prima io! prima io!» ma non ci fa caso. Esce sulle scale e afferra i quotidiani dalla cassetta della posta. Il titolo di prima pagina dell’Aftenposten attira il suo sguardo: “Omicidio a Maridal”. Il nostro uomo. Non può essere vero. L’incubo è tornato. 2
Un velo di ghiaccio ricopre il suolo. Sono ancora le 07:30. Le auto si affollano verso il raccordo per Oslo e Ina Grieg spinge il eggino su per la salita. Il freddo le morde il viso. Le bambine sono stranamente tranquille. Eline dentro il piumino imbottito, Guro in piedi sulla pedana da eggino. Le ha imbacuccate in strati e strati di lana e piumini e avvolte in sciarpe e amontagna. Gli occhi spuntano appena in mezzo a tutti quei vestiti. C’è ancora buio. E silenzio. Si sentono solo i loro i, regolari e leggermente crepitanti sulla neve ghiacciata. Crm-crm. Crm-crm. Ina scompare dentro di sé. Torna a quella mattina, quell’orribile mattina di cinque anni prima in cui ricevette la notizia di Karsten. Il caso che la stampa avrebbe battezzato come “L’omicidio di Hakadal”.
Quella mattina il tempo era mite. Il termometro si aggirava intorno agli zero gradi, come aveva fatto per gran parte dell’inverno del 2005. Si ricordava le sensazioni di quell’inverno tiepido, il nevischio che colpiva il cappuccio dell’impermeabile, gli schizzi delle automobili, il miscuglio di acqua e neve sotto alle scarpe. Si ricordava della cappa grigia di nebbia che la metteva sempre di cattivo umore e delle nubi che formavano un perenne coperchio umido sopra ai giorni. L’immagine le si ripresentò ancora una volta, l’ultima istantanea che avrebbe avuto di Karsten: era di spalle e usciva dallo studio, il corpo lentamente spariva nella nebbia del parcheggio vicino al Mosenteret, una sagoma scura che veniva pian piano cancellata, quasi risucchiata in tutto quel grigio. E proprio mentre stava per essere inghiottito, la nebbia si era diradata per un attimo e un pallido chiarore si era aperto la strada. Ed eccolo lì, Karsten Scheel, l’uomo che era stato suo amante per molti anni: un uomo mediamente alto e mediamente bello, ma intelligente, diverso dagli altri. Un uomo che aveva tradito sua moglie e amato Ina in un modo triste, quasi disperato. Ina prova a rievocare il viso di Karsten, un frammento di quel tempo in cui si incontravano di nascosto, prima nel suo appartamento da studentessa, poi in quello di Gamlebyen e poi ancora in qualche piccolo hotel o affittacamere. Però non le riesce. Piccoli barlumi sfuggenti del suo volto le ano davanti agli occhi: i denti scoperti in un raro sorriso, un paio di calmi occhi azzurri. Prova a rievocare la sua piacevole voce, ma anche quella si è fatta indefinita, come ovattata. La sua memoria di Karsten è priva di sonoro e di tratti distinti. Il poco che ricorda è legato a qualche dettaglio intimo: il corpo ricoperto di peli, ad esempio, persino sulla schiena e sul collo. Però non riesce a ricordare l’odore del suo dopobarba, qualche episodio del tempo ato insieme, un momento in cui erano stati particolarmente felici. Karsten è ormai sfocato nella sua mente. Ad eccezione di quell’unica immagine che lo collega alla morte, alla perdita e al dolore, la sagoma di spalle, il cappotto scuro, la borsa da lavoro nella mano
destra. Quell’ultimo piccolo attimo di chiarore prima che la nebbia si richiudesse per sempre su Karsten Scheel. Fortunatamente Ina non ha mai visto il cadavere di persona, ma Hege Rimbereid le aveva riferito i dettagli: Karsten era stato trovato appeso al pulpito della chiesa di Hakadal con una dozzina di coltellate al petto e al ventre. Una ferita da taglio gli attraversava la gola da parte a parte e il sangue aveva formato una pozza sul pavimento. Tuttavia non era stato ucciso lì in chiesa. I tecnici della scientifica avevano scoperto che il corpo era stato trascinato su da una sorta di catacomba che si trovava nei sotterranei dell’edificio. Si trattava di rovine medievali, sopra alle quali era stata costruita la chiesa odierna. Erano stati trovati resti di cera. Qualcuno aveva delle candele nei sotterranei. Ma l’indagine si era arenata. In effetti era stata proprio Ina a trovare l’unica prova concreta, che però era anche la più bizzarra, nell’agenda di Karsten. Aveva segnato un nome nella pagina del giorno in cui era stato ucciso. Un unico nome che spiccava sul foglio bianco: «Il Generale». Ma niente orario né luogo di incontro. Un nome. Tutto qui. Nessuno della cerchia di Karsten conosceva però qualcuno con quel titolo o soprannome. Né la vedova, né il figlio. Nemmeno i colleghi, nessuno. Il Generale era rimasto un mistero. * Ina lascia le bambine all’asilo, ma stamattina non è molto presente a se stessa. Ha lasciato a casa sia la merenda che i calzettoni di ricambio, perciò deve chiamare la suocera e chiederle se può pensarci lei a riparare.
Da parte sua, Ina ha un appuntamento con una at grigia. Nel momento in cui si chiude alle spalle la porta dell’asilo, la vede nel parcheggio. Nonostante l’abbia scelta per are il più inosservata possibile, c’è solo una persona a Rotnes con quella macchina. L’agente Hege Rimbereid sporge il corpo robusto verso il sedile del eggero e abbassa il finestrino. «Puoi disdire tutti i tuoi appuntamenti di oggi». Ina apre lo sportello e sale in macchina. «Allora?» «Vieni con me alla centrale di Oslo» aggiunge Rimbereid. «Si chiama centrale di Grønland. Distretto di polizia di Oslo». Ina si allaccia la cintura. «Fa lo stesso» dice Rimbereid. «Il punto è che stavolta devi partecipare all’indagine». «Come ci sei riuscita?» «Ordini dall’alto. Inger-Lise Lie, capo della Polizia Giudiziaria, ha richiesto personalmente la tua assistenza». Ina cerca lo sguardo di Rimbereid. Conosce ogni sfumatura di quegli occhi e stavolta è piuttosto sicura che stiano mentendo. D’altronde non sarebbe la prima volta. Il suo viso abbronzato si apre in un sorriso. «Ti giuro che è vero. Lo vedrai coi tuoi occhi!» Ora sorride anche lei, lanciando un’occhiata alla silhouette robusta seduta accanto a lei. Per quanto non sembri, anche Hege Rimbereid è alla soglia della quarantina. Single da sempre, Ina l’ha vista senza divisa una sola volta e per
qualche ragione l’ha memorizzata fin nei minimi dettagli: il corpo generoso in un vestito di jeans, i capelli raccolti una coda, le labbra carnose screpolate con un rossetto un po’ troppo accesso. Come se la visione di un attimo possa rivelare la vera identità di qualcuno. Ina sa bene quanto sia impossibile nel caso di Hege, che anzi è la testimonianza vivente di quanto una persona possa essere piena di contraddizioni. Rimbereid dà l’impressione di essere confusionaria, mentre in realtà è rigorosissima. Può sembrare insensibile, ma ha la lacrima facile. Se ne infischia delle regole, ma ha un altissimo senso morale. Soprattutto però Rimbereid è testarda ed eccentrica, sebbene in senso positivo, almeno secondo Ina la quale però, a dire il vero, non è certo la persona più adatta a giudicare le stranezze sociali degli altri. Sono entrambe fatte un po’ a modo loro. Forse vanno d’accordo proprio perché si riconoscono nelle fissazioni e nelle contraddizioni l’una dell’altra. Rimbereid si contraddistingue per essere un’agente molto dedita al suo lavoro, caratteristica che presenta anche lati problematici, come le nottate ate in ufficio. Inoltre, essendo praticamente incapace di prendere le distanze dai casi che la coinvolgono emotivamente, si trova in conflitto con diversi colleghi. Se si apiona a qualcosa va fino in fondo anche quando, anzi specialmente quando le viene ordinato di lasciar perdere. L’omicidio di Karsten era la sua fissazione: aveva ato molte notti in bianco su quel caso, soprattutto dopo aver ricevuto l’ordine di sospendere le indagini. Una fissazione che condivideva con Ina. Nessuna delle due riesce a togliersi Karsten dalla testa, né a trovare pace finché non avranno arrestato il bastardo che l’ha ammazzato. Ora Ina sente salire l’adrenalina. Finalmente una possibilità. Cinque anni prima si era offerta di collaborare all’indagine, ma le era stato detto che essendo troppo vicina alla vittima non sarebbe riuscita a mantenere la giusta distanza professionale. Ina l’aveva presa così male che aveva tirato un pugno al muro rompendosi due dita.
Poco professionale, in effetti. Poco dopo però, con sua grande sorpresa, era stata contattata da Hege Rimbereid. Così era iniziata la loro storia e da allora aveva aiutato Rimbereid di nascosto con il caso, con il contributo di un’altra importante risorsa: Trygve Winther. Stavolta però pare che anche lei avrà un ruolo ufficiale nell’indagine. Ina appoggia la testa al sedile e chiude gli occhi. Finalmente è dentro. 3
Ina si sveglia sentendosi tamburellare insistentemente la spalla. Sussulta sul sedile e la accoglie il viso sorridente di Rimbereid. «Ci siamo quasi». È ancora in stato di dormiveglia. «Vorrei avere il tuo dono del sonno» commenta Rimbereid. «È incredibile come riesci ad addormentarti ovunque». «Eh sì, di giorno. Magari ci riuscissi di notte». Si raddrizza sul sedile e riconosce il paesaggio intorno a sé. La circonvallazione di Sagene. Il cimitero. Alla sua destra gli alberi scintillano al sole bianchi di brina. A sinistra c’è Lindern, una delle zone più belle di Oslo, una perla nascosta, al riparo dal caos della città. Rimbereid imbocca un incrocio e l’auto dietro di loro suona immediatamente il clacson. Ina sbianca, mentre Rimbereid mostra il dito e accelera entrando in Geitmyrsveien. Poi sorride. «Devi prepararti all’incontro con Inger-Lise Lie» dice Rimbereid.
«In che senso?» «Mi ricordo che alla Scuola di Polizia tutti la chiamavano la Lady di ferro». «Una Thatcher in uniforme?» «Una specie. È acuta e anche parecchio dura. Il suo lato positivo è che a volte si dimostra aperta a soluzioni creative, come quella di coinvolgere uno psicologo nell’indagine…» Rimbereid infila la at in un parcheggio libero ed escono. I rumori del cantiere aperto giù in strada le investono. Un martello pneumatico fa vibrare l’asfalto. Ina si tappa le orecchie con le dita e si affretta lungo la strada, due i dietro alle spalle larghe di Rimbereid. Il freddo è pungente anche in centro, anche se qui ci saranno almeno cinque gradi in più rispetto a Nittedal. Non appena mette piede sul marciapiede rischia di finire a gambe all’aria. Il sottile strato di neve che ricopre il ghiaccio è un pericolo micidiale. Il martello pneumatico ricomincia e il frastuono le penetra fin nelle ossa. Alza gli occhi e guarda il palazzo grigiastro davanti a loro. Fuori al portone c’è una donna che si scalda sfregandosi le braccia sul petto, probabilmente si tratta proprio del capo della Polizia Giudiziaria di Oslo, IngerLise Lie. Ina cerca di inquadrare la sua figura alta, dalla schiena perfettamente dritta. Indossa un piumino scuro, sciarpa e cappello di lana neri. Gli scarponcini Sorel sformati stonano con l’impressione dello stile generale. «Diciassette minuti di ritardo» dice Inger-Lise Lie guardando l’orologio e scrutando poi Rembereid con aria seccata. Quindi sposta l’attenzione su Ina. «E qui abbiamo la psicologa?» Lie afferra e stringe la mano di Ina, o per meglio dire la stritola. Ina riesce a malapena a presentarsi. «Bella stretta» commenta Lie, trattenendole la mano ancora qualche secondo, per poi lasciarla andare e fare un o indietro solo per osservarla meglio. «Mi
ricordo di te. Lavoravi nel carcere psichiatrico qualche anno fa, giusto?» «Esatto». «Quando mi hanno chiesto di includerti nell’indagine pensavo di rifiutare. Abbiamo personale competente a sufficienza». «Cosa ti ha fatto cambiare idea?» «Il tuo trucchetto». Ina si irrigidisce. «Trucchetto?» «Fingevi di portare di nascosto le sigarette ai detenuti per conquistarti la loro fiducia» spiega Lie. «Mentre in realtà era uno stratagemma studiato con le autorità». Ina sorride. In effetti anche lei era piuttosto soddisfatta di quel trucchetto. «Hai già prestato servizio come consulente in qualche indagine?» «Sì». «Bene. Ho bisogno di una persona sveglia e con uno sguardo obiettivo. Un esperto della mente umana. Questo caso è assurdo anche per i nostri agenti più navigati». Ina osserva il commissario e prova a mettere in pratica un trucco che ha imparato da Trygve Winther. Si tratta di mettere a fuoco tre caratteristiche fondamentali che ti colpiscono subito in una persona. Le tre parole chiave che le vengono in mente nel caso di Lie sono: forte, precisa, controllata. «Beh, cosa stiamo aspettando?» interrompe Rimbereid asciugandosi una goccia dal naso. «Un amico di Heggvik» risponde Lie. «Ingar Johnsrud. Ci accompagna nel suo appartamento. In effetti è uno dei pochi che ci sia mai stato. Ma chissà perché
proprio oggi devono essere tutti in ritardo, con questo freddo». Lie le abbraccia entrambe con lo sguardo. «Cosa sai di Heggvik?» domanda Rimbereid. «Un tipo sui cinquanta» risponde Lie. «A quanto pare un fissato di sistemi HiFi». «Karsten Scheel aveva a malapena un lettore cd» commenta Ina. «Ci sono altri tratti in comune» replica Lie. «Ad esempio la faccenda delle chiese» si inserisce Rimbereid. «Entrambi gli omicidi sono stati commessi nelle rovine di due chiese medievali». «Questo almeno è il tratto più eclatante» afferma Lie sfregandosi di nuovo le braccia per il freddo. «Nessun testimone?» «L’unica segnalazione degna di nota al momento riguarda uno sciatore solitario con un giubbotto rosso. Nel bel mezzo del lago di Maridal». «Heggvik è di Oslo?» chiede Ina. «No, è cresciuto a Vik, nel distretto di Sogn». «Hai una foto?» Lie estrae prontamente una fotografia dalla tasca. Ritrae due uomini, uno alto e uno basso. «Chi dei due è Hoggvik?» domanda Rimbereid. «Quello a destra» risponde Lie. Ina punta lo sguardo su Heggvik. Un uomo robusto, ricorda un gigante un po’ goffo con gli occhi che evitano l’obiettivo. Deve essere alto circa due metri, a meno che l’altra persona non sia
estremamente bassa. La barba gli copre quasi tutto il viso, perciò è difficile indovinarne l’età. Il berretto probabilmente nasconde un’ampia stempiatura. Ina cerca tre parole chiave anche per Ottar Heggvik e lentamente affiorano nella sua mente: enorme, timido, riluttante. «Dove è stata fatta la foto?» «A una fiera di audio e video in Germania. Quello accanto è Ingar Johnsrud». «Arma del delitto?» domanda Rimbereid. «Arma da taglio» risponde Lie. «Diciassette coltellate al petto. E una profonda alla gola. Dopodiché è stato appeso per i piedi e dissanguato dalla giugulare». «Esattamente come Karsten» commenta Ina. Di nuovo vede davanti a sé la sagoma di Karsten che scompare nella nebbia. Cerca disperatamente di scacciare l’immagine dalla testa, ma non ci riesce. In quel momento, dall’altra parte della strada, si vede un uomo con un piumino blu affrettarsi verso di loro. Sulla trentina, basso, al massimo un metro e settanta, baffi e basettoni, berretto stretto e nero con un logo rotondo all’altezza della fronte. Un tipo vagamente alla moda che Rimbereid definirebbe studiato e pretenzioso. Il ragazzo trotterella ansimando verso di loro. «Inger-Lise Lie?» chiede. Lie gli stringe la mano e a Ina torna in mente la sua presa stritolante. «Ingar Johnsrud». «Eri amico di Heggvik?» «Amico è una parola grossa. Non credo che Heggvik ne avesse». «Perché no?» interviene Rimbereid. Johnsrud sposta lo sguardo su di lei. Ina coglie un certo nervosismo. La voce è
acuta, inquieta. «Ottar era molto introverso» risponde Johnsrud. «Dava spesso l’impressione di essere arrogante e superiore, ma in realtà aveva solo paura degli altri». Inger-Lise Lie annuisce, come se si fosse già fatta un’idea abbastanza chiara di che tipo fosse Hoggvik. «Non toccate niente dentro» ordina distribuendo a tutti dei guanti di plastica. «Ora vediamo di entrare prima che finisca di congelarmi». Inger-Lise Lie gira la chiave e apre con decisione il portone del palazzo. Dall’ingresso parte una ripida scala a chiocciola. Ina avverte un debole sentore di detersivo, anche se le scale sono sporche. Uno strato grigiastro di sporcizia mista a neve è posato sopra a ogni scalino. Alza gli occhi al soffitto: diverse lampadine saltate, ragnatele che pendono ovunque. Le finestre sul cortile interno sono lunghe, strette e polverose. Ina fa attenzione ai camli sulle porte. Su uno al piano terra è segnata una sfilza di nomi. Probabilmente un appartamento di studenti. Ina sale il primo scalino e il rumore dei i comincia a entrarle nel cervello, un ritmo regolare che echeggia per tutto il palazzo. «Heggvik ha vissuto qui a lungo?» risuona la voce profonda di Lie, poco avanti a lei. «Ottar ha comprato entrambi gli appartamenti all’ultimo piano negli anni Novanta» spiega Ingar Johnsrud. «Poi li ha uniti. Ha fatto tutto da solo, era un mago con le mani». «Venivi spesso a trovarlo?» «Sono stato qui una volta sola. E sono ati ormai… sei o sette anni. Erano i primi anni del Duemila» risponde Johnsrud. Si volta indietro verso di loro. Il suo viso è colpito da una serie di tic e strizza l’occhio destro diverse volte.
“Strano” pensa Ina e si chiede se sia la situazione a provocargli quegli scatti nervosi oppure se si tratti di tic permanenti. In questo caso Johnsrud potrebbe avere un disturbo neurologica, ma ne dubita. «Me la ricordo come una specie di tana da scapolone a quel tempo» si affretta ad aggiungere Johnsrud come per deviare l’attenzione dai suoi tic. «E di sicuro adesso è ancora peggio. Negli ultimi anni Ottar si era chiuso ancora di più. Usciva raramente e da quel che ho sentito dire si faceva persino consegnare il cibo a casa. Poi ha cominciato a girare anche un’altra voce…» «E cioè?» fa Lie. «Che aveva costruito una specie di sala cinema in uno dei due appartamenti». Johnsrud fa un sospiro. «Ora vediamo se è vero». 4
Appena mette piede nell’appartamento, Ina viene colta da un terribile senso di claustrofobia, da un senso di vuoto e di chiuso. È uno spazio scuro, tetro e ovattato. Non solo ci sono poche fonti di luce, ma anche la tappezzeria è scura e la stanza è quasi priva di mobili. Procedono in silenzio. L’aria è pesante e Ina sente anche un vago odore di muffa. Lie accende la luce dell’ingresso. Raggi di luce sottile partono da tre faretti, diffondendosi sulle pareti e sul pavimento. Ina va avanti lentamente. Mette al lavoro gli occhi in cerca di dettagli, di un elemento qualsiasi che rompa con quella cupa monotonia. Prova a intuire che tipo fosse Heggvik prendendo le mosse dall’arredamento: linee dritte, minimalismo, struttura. Non incontra certo il suo gusto, né probabilmente quello della maggior parte delle persone: costoso, cupo e sistematico. Rivestimenti per il riscaldamento a terra nei corridoi. Impianti audio e altoparlanti dappertutto. Freddo, rigoroso, macchinoso.
Con sua grande irritazione, Ina non riesce a liberarsi di quel peso nel petto, quella sensazione di clausura che preme da dentro. Dà un’occhiata al bagno. Maioliche nere. Sul lavandino c’è solo uno spazzolino elettrico. Annusa l’aria. L’odore di muffa deve provenire da lì, perché è leggermente più intenso. Heggvik forse si era abituato all’odore tanto da non farci più caso. Anche il salone grande è buio. Tutta la parete che dà sulla strada è coperta da un telo che scherma ogni possibile luce naturale. Un’unica poltrona reclinabile con il poggiapiedi è piazzata al centro della stanza. Alla sua destra un tavolinetto di vetro e sopra di esso solo un telecomando. Sul soffitto è montato un proiettore, mentre le pareti sono ricoperte da file di scaffali stracolmi di cd e dvd. Devono essere decine di migliaia, tutti sistemati in un ordine meticoloso. Ina si sofferma davanti a uno degli scaffali. Tutti i cd sono disposti in ordine alfabetico, ma sono anche suddivisi per genere. Pop e Rock in un settore a parte. I dischi jazz occupano per intero una delle pareti più corte. La musica classica è da un’altra parte ancora. Ina cerca di indovinare quale musica preferisse Heggvik, ma sembra tutto possibile. Ha i dischi più belli di ogni genere musicale: ne deduce che Heggvik abbia voluto mettere su una sorta di biblioteca musicale globale. Ina avanza lentamente. L’altra parete è piena di dvd, principalmente classici americani e inglesi. «È così anche a casa tua?» È la voce di Lie a sollevare la domanda da qualche parte nella stanza. «Non proprio» risponde Johnsrud, la cui voce suona ancora più acuta di prima. «E questo è solo un assaggio. Non abbiamo ancora visto il cinema». Johnsrud torna indietro verso il corridoio e apre una porta. Entrano in una specie di sala cinematografica. Poltroncine da cinema sono disposte in cinque file e il pavimento è costruito in modo tale da creare una leggera pendenza. Quando Johnsrud accende la luce, nella sala si leva un basso e minaccioso ronzio. Probabilmente un condizionatore. In fondo al locale Ina scorge due lunghe finestre orizzontali, dietro alle quali probabilmente si trova il proiettore cinematografico.
Johnsrud si affretta proprio in quella direzione e solo ora si toglie il berretto. Ina nota la sua testa rasata a zero. Johnsrud entra nella sala macchine, rovista un po’ e poi ne esce con il volto . «Lo sapevo, è proprio come immaginavo!» esclama. «È riuscito a procurarsi un proiettore 70 mm!» «È una cosa speciale?» chiede Lie. «Lo puoi dire forte. Diciamo che se ne trovano solo sette o otto in tutto il paese. Qui a Oslo ad esempio ce l’hanno solo il cinema Colosseum, il Klingenberg e la Filmens Hus. Al massimo uno nelle altre città principali». «Come poteva permetterselo?» domanda Rimbereid. «Ottar non aveva uguali nell’ambito dell’audio e del video» risponde Johnsrud. «Negli anni Novanta ha girato tutta Europa installando sistemi di Dolby Digital Sound e guadagnava milioni ogni anno. Sono sicuro che in questo momento ci troviamo nella sala cinematografica più tecnologicamente avanzata di tutta la Norvegia. È troppo un peccato che sia…» «… stato ucciso?» conclude Lie. Johnsrud annuisce. Ina si accorge che è imbarazzato, come se si fosse reso conto di essersi entusiasmato troppo, viste le circostanze. «Sì, infatti, è… terribile» aggiunge. «Come mai ha avvicinato proprio te?» domanda Lie. «Beh, io credo che… abbia riconosciuto le mie capacità». «Anche tu ti intendi di impianti audio?» «Lavoro all’Hi-Fi Klubben» spiega Johnsrud. «Ottar era un cliente». Ina si schiarisce la gola. «Quanti anni aveva Heggvik?»
«Una cinquantina, credo» risponde Johnsrud. «Cinquantadue» rettifica Lie. «Non era un po’ adulto per essere così fissato con film e Hi-Fi?» aggiunge Ina. «Oh, no, una volta che ti prende la malattia non te ne liberi tanto facilmente» risponde Johnsrud. «Conosco gente di oltre settant’anni fissata con audio e video» «Un’altra cosa» interviene Rimbereid. «Heggvik era scapolo. L’hai mai visto con qualche donna?» Ingar Johnsrud arrossisce appena. «No, ma non credo che fosse… omosessuale o qualcosa del genere. Penso che fosse solo un po’ nerd». «Che ci faceva Heggvik a Maridal?» incalza Rimbereid. «Come hai detto prima, metteva a malapena il naso fuori di casa». «Non ne ho idea.» risponde Johnsrud. «È proprio un mistero». “Già, un mistero” pensa Ina mentre vaga con lo sguardo per tutta la sala cinematografica di Ottar Heggvik. Qui c’è solo la superficie, ma è assolutamente certa che c’è una ragione se Heggvik si è murato vivo lì dentro e si è trasferito una sorta di mondo alternativo per dimenticare quello reale. E la ragione è anche abbastanza scontata. Heggvik era spaventato, spaventato a morte. Eppure in qualche modo era stato attirato a Maridal. Ina a questo punto è certa di una cosa: Ottar Heggvik non è stato una vittima casuale. E nemmeno Karsten Scheel. 5
Dopo che Ingar Johnsrud ha lasciato l’appartamento, Ina e Inger-Lise Lie restano nella sala quasi spoglia. Anche se la stanza è grande, Ina non riesce a scacciare quel senso di claustrofobia. L’assenza di luce la rende inquieta, tutto ciò che
desidererebbe è tirare giù quelle tende nere che coprono ogni finestra. «È strano» dice Inger-Lise Lie. «Quelli della scientifica dicono qui dentro è tutto clinicamente pulito». «Già. Sembra tutto troppo ripulito, qui» commenta Ina. «Ma magari può essergli sfuggito qualcosa». Lie la fissa interrogativa. «Ok. Dove nascondeva i suoi segreti?» «Una cantina?» suggerisce Ina. «Ispezionata centimetro per centimetro. Niente. Solo gli scatoloni vuoti di tutta questa… attrezzatura». «La camera da letto» interviene Rimbereid alle loro spalle. Lie si volta e fissa Rimbereid per qualche secondo prima di decidersi: «Andiamo a vedere». Anche la camera da letto è immersa nella penombra. Lie non riesce a trovare alcun interruttore accanto alla porta e avanza a tentoni finché non riesce ad accendere l’abat-jour accanto al letto. Ina comincia a mettere a fuoco. a in rassegna minuziosamente il pavimento, le pareti, il soffitto, il mobilio. Anche la camera porta i segni della ione di Heggvik: altri scaffali pieni di dvd e un grande telo che copre la finestra di faccia al letto. Anche qui un proiettore sul soffitto. Ina realizza ancora meglio il bisogno di Ottar di lasciare a tutti i costi fuori il mondo esterno. «Letto matrimoniale» osserva Lie battendo una mano sul lenzuolo. «Forse invece ce l’aveva una donna». «O un uomo» specifica Rimbereid. Ina lascia scorrere ancora lo sguardo. A parte il letto e il contenuto degli scaffali, la camera è vuota. Niente sedia con vestiti buttati sopra, niente coperte. Niente. Si avvicina allo scaffale dei dvd e di nuovo osserva i titoli sulle custodie: Fellini,
Goddard, Kieslowski, Malle, Scola, Truffaut. Ricorda vagamente quei nomi dal tempo in cui usciva con uno che frequentava la Cinemateca e che ogni volta, dopo il sesso, restava sdraiato a snocciolare nomi di registi. Dio che nervi. Sarebbe stato capace di allestirsi una camera simile a questa, anche se forse non altrettanto estrema… Lie le batte sulla spalla. «Dunque era questo il segreto?» Ina non risponde, sta ancora cercando di capire quella stanza, di penetrare l’uomo che ci ha vissuto. Heggvik si è murato vivo. Era spaventato da qualcosa. Ma da cosa? Solo ora si accorge dell’armadio accanto al letto. È un armadio a muro. Ina lo raggiunge e lo apre. Nient’altro che vestiti: magliette piegate accuratamente, un ripiano per le mutande, uno per i calzini e accanto una sfilza di camicie appese – tutte nere. Solleva un po’ di indumenti qua e là, ma sotto non c’è niente. Nessun segreto. Eppure è sicurissima: hanno trascurato qualcosa, un dettaglio, un graffietto sulla vernice. “Trova un’imperfezione! Se non altro fallo per Karsten!” incita se stessa. “Trova un’imperfezione!” Lei dove avrebbe nascosto qualcosa di sconveniente? All’improvviso le torna in mente un episodio di quand’era adolescente. Il padre aveva trovato una rivista porno che lei aveva nascosto in camera sua. Si ricordava di averla rubata a qualche festa, ah sì, nientemeno che nella camera dei genitori di una delle ragazzine più snob della scuola. Il giorno dopo, quando l’aveva sfogliata in preda ai postumi della sbornia, era rimasta scioccata. Le foto erano crude, repellenti e attraenti nello stesso tempo. Comunque l’aveva nascosta sotto il materasso e ci fu un trambusto allucinante quando il padre la trovò. L’aveva guardata dritta negli occhi e le aveva dato della sgualdrina pervertita, mentre lei urlava come una pazza e piangeva di rabbia. La sensazione peggiore era che lui si fosse intrufolato in uno spazio privato, segreto e, sì, anche sporco.
Ina prova a liberarsi di quel ricordo orrendo e si avvicina al letto di Heggvik. Si china e guarda sotto di esso. «In cerca di batuffoli di polvere?» fa Lie sopra di lei. Ina si alza. «Mi aiutate a spostare il letto?» Lie e Rimbereid si attivano, ma il letto è pesante. Persino tre adulti fanno fatica a smuoverlo dalla sua posizione. Alla fine comunque riescono a spostarlo un po’. Sotto al letto il parquet di rovere è un po’ più scuro rispetto al resto della stanza. Eppure non c’è niente nemmeno lì. Niente stanze segrete sotto al letto. Mentre lo rimettono a posto, Ina sente una grande frustrazione: Heggvik è rimasto misterioso tanto quanto lo era prima che entrassero nel suo appartamento. Non è riuscita a fare il suo lavoro, a scalfire la superficie di quel cavernicolo. Difficile che Lie sia rimasta impressionata dalle sue capacità conoscitive dell’animo umano. Il commissario, dietro di lei, si rigira in mano le chiavi. «Beh, allora andiamo?» Ma Ina rimane immersa nei suoi pensieri ancora un po’ lì accanto al letto e, come in un’illuminazione, decide di are le mani sul il materasso, sotto al lenzuolo. Trova una zip, la apre con un movimento rapido e si accorge subito di uno strano scomparto che Heggvik deve essersi costruito da sé. Ha fabbricato uno speciale contenitore che entrasse perfettamente nel materasso. Ina infila il braccio nello scomparto, riesce ad afferrare una prima scatola, lentamente lo tira fuori e lo posa sul pavimento. Dentro ce ne sono altre. Rimbereid e Lie si curvano su Ina e leggono l’etichetta: «Film porno!» esclama Rimbereid. Saranno una ventina di scatole, ognuna contrassegnata da un titolo. Una calligrafia elegante, quasi femminile, fa mostra di sé sulle bianche etichette. Lie solleva quella più vicina a lei: “Playboy 1965-1970”.
Solleva il coperchio e rivela per l’appunto una pila di vecchi Playboy. Li fa scorrere tra le dita. «In ogni caso era un uomo ordinato» afferma Lie. «Ha catalogato persino le collezioni di porno». «Playboy è abbastanza innocente, tutto sommato» osserva Rimbereid. «È vero, ma qui c’è altra roba». Lie estrae il contenuto di un’altra scatola. Si trovano di fronte la copertina di Deep throat. Ina torna a controllare l’etichetta: “Dvd – Classici 1970-1980”. Heggvik aveva creato anche una biblioteca erotica, là dentro c’erano di sicuro i migliori lavori della storia della pornografia. Ina si accorge che Lie la sta osservando. «Una moneta per i tuoi pensieri» le dice. «Il ragazzo doveva soffrire di una sorta di sindrome del collezionista» risponde Ina. «Un sacco di gente colleziona roba, no?» «Sì ma questa … è una modalità particolare, dovete riconoscerlo. Si è murato vivo dentro casa e ha messo su una biblioteca globale nell’ambito di musica e film». «Perché mai avrà nascosto i porno così bene?» domanda Lie. «D’altronde non faceva entrare nessuno nel suo appartamento. Nessuno li avrebbe trovati comunque». «Ci sono due possibilità» risponde Ina. «La prima è che non voleva ammettere i suoi desideri». «E l’altra?» incalza Rimbereid. «L’angoscia di non essere ricordato per la ragione giusta» conclude Ina. «Cioè?»
«Se dovessi morire oggi, qualcuno erebbe in rassegna le mie cose. Proprio come stiamo facendo noi con quel che ha lasciato Heggvik dietro di sé. Nessuno vuole che il mondo lo ricordi per qualcosa di umiliante. La maggior parte della gente prova a lasciare un’immagine di sé il più pulita possibile…» «A volte ci si riesce solo nascondendo lo sporco molto bene» interviene Rimbereid. Lie torna a rivolgere l’attenzione agli scaffali, poi allunga il più possibile il braccio dentro al materasso. È rimasta solo una scatola, in fondo. Si infila per tutta la lunghezza del braccio e riesce a tirarla fuori. Tutte si irrigidiscono nel leggere la scritta sul coperchio. “Non aprire prima della mia morte”. Rimbereid e Ina si stringono intorno a Lie. Nessuna apre bocca. Lie solleva la scatola e la scuote. «È leggerissima» dice. «Direi di correre il rischio e aprirla». Solleva lentamente il coperchio. Tutto ciò che contiene è un foglietto di carta con su scritta un’unica frase: Ecco gelarti tra le gocce Il Generale Ina sussulta e cerca immediatamente lo sguardo di Rimbereid, che risponde con un cenno del capo. Hanno già incontrato quel nome una volta: nell’agenda di Karsten, sulla pagina del giorno in cui è stato ucciso. 6
Ina si affretta a raggiungere il suo studio, i cui uffici si trovano all’interno del centro commerciale di Mo, proprio di fronte a Peppe’s Pizza. È infreddolita e
affannata. L’orologio segna le 14:12, ovvero è in ritardo di dodici minuti per l’appuntamento con il suo paziente. Ina fa un cenno alla segretaria seduta all’accettazione, Maria Souranta, una ragazza di ventidue anni che viene dal Groruddalen, a nord di Oslo. Appartiene alla seconda generazione di immigrati, di madre finlandese e padre giapponese e da circa sei mesi Ina e Jon Bork l’hanno assunta part-time, in modo da non essere disturbati durante le sedute e poter prendere più appuntamenti. A prima vista Souranta può sembrare un po’ anonima e inquadrata, con i suoi occhiali di marca e le camicette chiare. Ma la facciata impersonale nasconde una personalità interessante. Ina è rimasta colpita in diverse occasioni, ad esempio la prima volta che l’ha vista pantaloncini: Souranta infatti ha un diavolo tatuato su una gamba. Inoltre ha due occhi scuri che possono accenderle il viso ed esercitare un certo effetto sugli altri. Ina ha visto più di un paziente intimidirsi di fronte alla ragazza. Ora gli stessi occhi si rivolgono a Ina con una punta di rimprovero. «Il paziente sta aspettando». «Immaginavo». Mentre appende il cappotto all’attaccapanni, Ina si accorge del biglietto sulla macchina del caffè: “Fuori servizio”. «Merda». «La macchina è morta oggi. Erling non è riuscito a metterla a posto, dice che deve ordinare un pezzo dalla Germania…» «È un classico!» «… però ci ha portato un thermos da casa». Segue la direzione indicata dal dito di Souranta e vede il thermos sul bancone. «Dio benedica Erling il tuttofare!» sospira Ina versandosene una tazza. Si appoggia al bancone e prova riprendere fiato, prima di concentrarsi sul
paziente in attesa. Alla fine però deve ammettere con se stessa di non essere pronta. Non per Karl Osberg. Osberg non è un paziente qualsiasi. Ha un incarico ai vertici nel settore bancario, anche se Ina non sa esattamente che titolo abbia. Comunque non è un argomento di cui parlano durante le sedute. Osberg va da lei per cercare di superare le sue manie di controllo. Il bisogno di strutturare nei dettagli la sua esistenza l’ha portato molto avanti in termini di carriera, ma ha distrutto tutto il resto. Per sua stessa ammissione, Osberg in casa è un tiranno in tutto e per tutto e le sue manie di controllo si manifestano in una specie di paranoia nei confronti della sporcizia, delle impurità. Si lava le mani trenta volte al giorno. In ato ancora di più. Porta sempre in tasca un flaconcino di disinfettante. L’aspetto peggiore è il rapporto con i figli. Ora sono grandi, ma hanno rotto ogni rapporto con lui. Da ragazzini li ha terrorizzati con le sue pretese: dovevano essere pulitissimi, ordinatissimi, impeccabili. Se li beccava con le dita nel naso, dava in escandescenze. Se si pulivano la bocca con le maniche invece che con il tovagliolo, li prendeva a schiaffi. Se non si comportavano bene in presenza di ospiti, dopo erano botte. Una volta raggiunta l’età per ribellarsi, l’avevano fatto. Ora i due maschi abitano a Göteborg e la figlia in America. La moglie gli era rimasta vicina per senso del dovere in tutti quegli anni ma, non appena i figli se n’erano andati, aveva fatto lo stesso anche lei. Queste erano problematiche fin troppo familiari per Ina. Le avrebbe fatto piacere se anche suo padre avesse chiesto aiuto a uno psicologo. Originariamente Osberg era un paziente di Karsten e, come tutti gli altri, aveva preso molto male l’omicidio. A tutti i pazienti era stato suggerito di proseguire le terapie con Ina o con Jon Bork. Osberg aveva scelto Ina. Quella mattina ha un’aria visibilmente nervosa e impaziente. Non si è nemmeno
tolto il cappotto e sta seduto sulle spine, sul bordo della poltrona preposta ad accogliere i pazienti. Anche la sua capigliatura brizzolata è un po’ più scompigliata del solito. «Sei in ritardo di un quarto d’ora». «Non temere, faremo comunque i nostri cinquanta minuti». «Bene.» risponde Osberg. «Hai saputo dell’omicidio di Maridal?» «Sì». «Ricorda parecchio quello di Scheel, non è così?» Ina fa una pausa cercando di soppesare le parole, ma non ha bisogno di rispondere perché Osberg va avanti. «Mi è andato il caffè per traverso quando ho letto la notizia. Ti ho chiamata immediatamente. È spaventoso!» «Vuoi parlare di questo, oggi?» «Sì, voglio sapere cosa ne pensi. Se secondo te c’è un pazzo in giro che pesca le sue vittime a caso». «Non ne ho la più pallida idea, Karl. La polizia deve svolgere le sue indagini». «La polizia? Eppure hai visto quanto sono arrivati lontano con l’omicidio di Scheel! Sono degli incompetenti, non sanno come muoversi». «Non sta a me giudicare» dice Ina. «Ma deve essere dura per te rivivere queste cose. Credo che faremmo meglio a concentrarci sui tuoi problemi. Hai pensato a quello che ci siamo detti l’ultima volta?» «Le manovre di deviazione ogni volta che sento il bisogno di lavarmi le mani?» «Sì, anche quelle. Ma mi riferivo di più alla storia di tuo nonno. A quello che hai cominciato a raccontarmi di quel compleanno… quanti anni compivi? Cinque?» «Non mi va di parlarne».
«Perché no?» Nello sguardo di Karl Osberg è calata un’oscurità imperscrutabile. «Tu vorresti semplicemente giungere alla conclusione che le mie manie di controllo derivano da un episodio particolare della mia infanzia. Mi sono sentito sporco allora, mi così mi sento sporco oggi e per questo mi lavo le mani così spesso». «Karl, sono diversi anni che vieni in terapia ormai. Potrebbe anche essere il caso di parlare un po’ della tua infan…» «No, quelle fesserie freudiane sono solo teorie rimasticate che si studiano a scuola. La verità è che non sappiamo un bel niente del profondo dell’animo umano. Se per esempio io stessi mentendo?» Un brivido freddo le corre lungo la schiena. «Perché dovresti?» «Il punto è che tu non puoi saperlo. Per quel che ne sappiamo, gli avvenimenti negativi nelle nostre vite possono anche non avere alcun significato per noi come persone. Il male potrebbe benissimo essere dentro di noi fin da prima. Magari è annidato nei nostri geni e aspetta solo di essere risvegliato». «Capisco il tuo punto di vista ed è vero, i geni hanno sempre un ruolo. Tuttavia potresti trovare delle risposte – risposte diverse – anche guardando all’infanzia e all’ambiente in cui hai vissuto. Magari solo un pezzetto di una risposta più ampia». «Questo è il tipo di cose che sei pagata per dire. Nel frattempo qualcuno se ne va in giro ad ammazzare la gente e magari la prossima volta toccherà a noi, Grieg, se non stiamo bene in guardia». Lo sguardo di Osberg si fa ancora più cupo. «Questa storia non è facile per te, Karl» commenta Ina alla fine. «Ma credo che potrebbe farti bene parlare della tua infanzia…» «Piuttosto risparmio i soldi» la interrompe Osberg alzandosi bruscamente.
«Vuoi già chiudere?» «Così pare» risponde Osberg seccamente. «A proposito… sbaglio o ho letto qualcosa su di te ultimamente sul giornale? Non ti hanno dato un premio o qualcosa del genere? Cos’era … qualcosa dell’Ordine reale di Sant’Olav?» Osberg sorride. «Non proprio. È un riconoscimento per lunghezza e fedeltà nel servizio alla banca. La cerimonia si terrà venerdì alla Fortezza di Oscarsborg». «Beh, deve essere una bella sensazione. Le tue fatiche che vengono premiate». «Si, certo. Le mie fatiche. Te la faccio semplice: sono nell’amministrazione da almeno vent’anni e immagino che si sentano obbligati ad appuntarmi una medaglietta al petto. Ma le nostre conversazioni non riguardano queste faccende». «Perché no?» «Perché queste sedute mi servono per domare il mostro che ho dentro». A Ina si accappona la pelle. «Non ti seguo, Karl». «Credo che alcune persone siano semplicemente nate malvagie. E io ho paura di essere una di quelle». «Cosa? Io non credo proprio». «Non oseresti dire qualcosa di diverso. L’alternativa sarebbe troppo spaventosa, ma sai una cosa, Grieg? Per quanto ne sai, io potrei essere la persona più malvagia che tu abbia mai incontrato. Il punto è che non puoi saperlo». «Nessun uomo è un mostro, Karl. Nemmeno tu». Karl Osberg si sporge verso Ina e la fissa intensamente negli occhi. Ina è assalita da una sorta di inquietudine, una sensazione che fortunatamente le capita di
provare molto raramente con i pazienti e cioè quella che la persona di fronte a lei possa davvero rappresentare una minaccia. «E se fosse come dico io? Se fossi davvero un mostro nel profondo di me? Che diresti?» Ina sta per rispondere qualcosa, ma si trattiene. Invece dice: «Non esistono i mostri» si porta l’indice alla tempia. «Esistono solo qui, nella fantasia». 7
«Pronta a stendere un principiante?» Tore Vannebo tira a Ina un colpetto scherzoso alle costole. Il gigante di due metri e pelato dell’Østfold le sorride facendo un cenno con la testa verso l’altro lato del ring. Ina dà un’occhiata al nuovo arrivato. Un ragazzo sui vent’anni in canottiera nera sta prendendo a pugni un sacco da boxe. «Chi è?» fa Ina. «Non ne ho idea» risponde Tore. «È spuntato oggi pomeriggio e ha chiesto di allenarsi con noi». «E tu vuoi fargli il solito scherzetto?» Tore allarga le braccia. «Mi diverto troppo ogni volta» dice sorridendo. È un giochino che fanno spesso. A volte l’ambiente della kickboxing può trasformarsi in un ricettacolo di teste calde, ragazzini con tanta voglia di picchiare e nessuna consapevolezza di sé. Tore adora fargli abbassare la cresta. Così li manda direttamente sul ring per un incontro con Ina. Solitamente salgono su tutti gasati – e vengono buttati giù con umiliazione. La lezione è: mai
sottovalutare il proprio avversario, indipendentemente dal suo aspetto. A parte questi idioti, comunque, il ristretto ambiente della kickboxing è molto distante dai pregiudizi che girano sullo sport. La maggior parte della gente che non ne sa niente crede che gli apionati di kickboxing siano persone aggressive e dal limitato quoziente intellettivo. In base alla sua esperienza, Ina direbbe che è il contrario per entrambi gli aspetti. Quasi tutti i compagni di allenamento di Ina sono persone riflessive e determinate. Non sono certo conformisti benpensanti, ma comunque gente spinta da motivazioni normalissime. C’è la ragazza che vuole imparare a difendersi da prepotenti e potenziali aggressori. Ci sono professori che riescono a smaltire lo stress solo contro il sacco da boxe o sul ring. La maggior parte va lì perché la kickboxing prevede un allenamento durissimo, mentre alcuni – come Ina – lo fanno soprattutto per via di Tore. Il cinquantatreenne di Sarpsborg è il leader del gruppo, un gigante buono ammirato da tutti. Tore è stato l’allenatore di Ina fin da quando ha cominciato con la kickboxing da adolescente. Poi, per un periodo breve ma intenso nei primi anni Novanta, sono stati anche amanti, ma come sempre Ina aveva messo fine alla relazione non appena Tore aveva mostrato segni di voler fare sul serio. Lui all’inizio l’aveva presa male, ma l’aveva accettato e ora Tore è uno dei suoi migliori amici anzi, a dirla tutta, la conosce molto meglio di Amund. Di giorno Tore lavora come pedagogista in un asilo ed è una specie un orsacchiotto gigante e affettuoso. Ma è anche di una forza micidiale. Ina cerca il suo sguardo. «È bravo il ragazzo nuovo?» Tore le dà un colpetto sulla spalla. «Lo gestirai alla grande». Ina scruta il giovane davanti al sacco da boxe: è piuttosto potente, determinato e concentrato. Colpisce con forza. Chi non conosce i segreti della disciplina crede
che contino solo la forza, i muscoli e l’aggressività. In genere sono loro che vanno al tappeto per primi. Se c’è una cosa che Ina ha imparato è l’importanza di domare il proprio temperamento. Se sei arrabbiato, tendi a perdere il controllo e l’avversario avrà più facilità a prevedere i tuoi attacchi. La tattica e la pazienza sono importantissime. Si tratta di decifrare l’avversario. Aspettare e osservare. Scoprire che razza di uomo hai di fronte e scoprirne i punti deboli. Lasciare che sia lui ad attaccare per primo per poi contrattaccare al momento opportuno. Solo allora puoi mettere a segno pugni e calci in modo da fomentare la rabbia nella persona davanti a te. A quel punto – lentamente ma con assoluta certezza – l’altro comincerà ad aprirsi e tu potrai colpire in modo sempre più impietoso e mirato. Ina sa bene che al di fuori dell’ambiente sono in pochi a ritenere la kickboxing un’attività edificante. Probabilmente Amund è la persona che odia il suo hobby più profondamente di tutti. Ritiene che sia uno sport che esalta la violenza, i knockout brutali e la distruzione fisica. Ina sa che in fondo è solo preoccupato per lei, per l’eventualità di un danno cerebrale, però se ne infischia della sua opinione. Oltretutto lei non condivide affatto quel timore. Non ha mai subito un knockout, non ci è mai andata nemmeno vicina e per lei la kickboxing è tutt’altro che distruttiva, anzi è l’attività più totalizzante che svolge in tutta la giornata. I combattimenti sono gli unici momenti in cui è totalmente presente e in cui le sue devastanti paranoie non trovano spazio. «Sei pronta Ina?» La voce di Tore interrompe i suoi pensieri. Vede le sue braccia enormi poggiate alla corda del ring. Ina annuisce. «C’è qualcosa che non va?» domanda lui. «Perché?»
«Hai lo sguardo assassino». «È solo che…» «Dimmi». «Sono coinvolta in un’indagine per omicidio». Tore la osserva con serietà. «Non sarà quello di Maridal?» «Proprio quello. Pare che sia connesso all’omicidio di Karsten». «Gesù!» dice Tore. «Ci ho indovinato meglio di quanto credessi». Ina è troppo assorbita dai suoi pensieri per cogliere il senso di quella frase. «C’è un malato di mente in giro» dice invece. «Si fa chiamare il Generale. Pugnala a morte le vittime e poi lascia strani messaggi criptici accanto ai corpi». «Sguardo assassino» ripete Tore distratto. «Come?» «È così che ho appena definito la tua espressione. E non sapevo che eri coinvolta in un’indagine per omicidio. Non è strano?» Ina fissa con aria interrogativa quell’omaccione tenero e muscoloso. Tore sospira. «Cerca di non andarci giù troppo pesante con il novellino, dai» si limita a dire. «Smettila di preoccuparti. Fallo venire su!» risponde Ina. Un minuto dopo si trova nel ring, faccia a faccia con il ragazzino. È ben più alto di lei, ma ci è abituata. Per il resto non è un granché: brufoli su viso e collo, capelli corti e biondi, muscoloso. Però è difficile da decifrare. La fissa negli occhi in un modo esageratamente intenso. Ina ha l’impressione che abbia visto troppi incontri di boxe in tv, dove gli avversari si fissano a lungo negli occhi con
sguardi glaciali. Patetico. Prova a fare l’adulto, ma si comporta come un bambino. All’improvviso al ragazzino spunta un sorriso sarcastico. Le labbra si sollevano e appare la protezione per i denti. Santo Dio, non vede l’ora di spegnere quel ghigno. Sente un formicolio nel corpo e controlla il respiro. Ora è nel suo elemento naturale. A differenza di tutte le altre – e di quasi tutte le situazioni sociali – questa è un’arena che sa gestire. Qui è lei la migliore. Qui ha il pieno controllo. Suona la campana d’inizio. Comincia il round. Il ragazzo avanza rapidamente, poi si ferma e la guarda. Ina si mette in guardia e aspetta. Aspetta ancora. L’esito del primo attacco è abbastanza scontato: Ina si curva in avanti e sferra un fulmineo contraccolpo. Il ragazzo geme ma si rialza subito e la inchioda di nuovo con i suoi occhi azzurri. Ina è percorsa da un brivido freddo. Quello sguardo l’ha già visto. Ma dove? Non fa in tempo a pensarci oltre, perché l’attacco successivo arriva in fretta. Il ragazzo ruota sul proprio asse e indirizza un calcio volante contro di lei. È veloce, ma non abbastanza. Ina riesce a evitare il suo piede rotante, anche se per un pelo. Il ragazzo sorride. Questo non se l’aspettava. A quel punto di solito l’avversario comincia a realizzare con chi ha a che fare e di conseguenza reagisce o con esitazione oppure con una violenza scomposta. Ma lui no. Quello sguardo. Quel sorriso. Ecco che torna all’attacco, ma più velocemente e con precisione. La sua serie di pugni va a colpire i guantoni di Ina, ma riesce comunque ad assestarle un calcio dritto sulla coscia.
Il dolore si propaga dal punto colpito. Merda! La rabbia la afferra e per un attimo perde la concentrazione. È più che sufficiente. Non sa nemmeno da dove arriva il pugno, ma la prende dritta al mento. Sente un dolore penetrante al volto e il sapore di sangue in bocca, la testa viene gettata all’indietro. Riesce a malapena a tenersi in piedi, ma ce la fa comunque a riprendersi in tempo per recuperare la posizione di guardia e parare il potentissimo calcio successivo. «Ehi, ehi, ehi!» urla Tore dal lato del ring. Che diamine stava succedendo? Quel calcio avrebbe potuto metterla al tappeto e probabilmente procurarle qualche settimana di malattia. Ina ora se ne rende conto: quel ragazzino non è affatto un principiante. Ma non gli lascerà certo avere la meglio, accidenti! Ina stringe i denti. Per il calcio successivo si fa trovare preparata, lo schiva e parte con un potente contrattacco, una serie di colpi devastanti mirati alle costole del bamboccio. Sente di andare a segno. Decisamente. Il ragazzino geme di nuovo, ma si tiene in piedi. Adesso la rabbia si disegna anche sul suo volto. Finalmente. Ora l’ha portato dove voleva lei. Lo sa per certo. Se lascia che la rabbia lo conduca e lo deconcentri, è destinato a perdere. Come volevasi dimostrare: la sua serie di colpi potenti non arriva nemmeno a sfiorarla, mentre Ina risponde mandando a segno altrettanti pugni e calci. Solo che non riesce a smettere, anche dentro di lei è cresciuta la rabbia ed eccolo lì a reagire con quel suo sorrisino e
un tentativo di metterla a terra. Ina continua a colpire e scalciare anche quando è il ragazzo ormai ad essere a terra, proteggendosi la testa con le braccia. Suona la campana. Tore accorre sul ring e la tira a sé, lontano dal ragazzo. «Che ti prende Ina?» le urla contro. «Lo vuoi ammazzare?» Il ragazzo si alza in piedi barcollando. Fissa Ina con lo stesso guizzo sarcastico negli occhi e il sangue che gli cola da uno spacco sul labbro. Quindi sputa in terra la protezione per i denti ed esce dal ring, direzione spogliatoio. «Ooook» se ne esce Tore. «Chi cavolo era quel tipo?» «Non ne ho idea» risponde Ina. «Ma una cosa la so». «E cioè?» «Che è stato lui a fregarci, non noi a fregare lui». 8
Quella sera Ina rientra a casa che sono già le 23:15. Si libera di qualche strato di vestiti e resta un attimo seduta sulla sedia dell’ingresso. Sente vampate di dolore irradiarsi dal mento e dalla gengiva e le sembra che un dente di sotto si muova anche un po’. Ecco il prezzo della sua superbia. Merda. Cerca di rievocare il volto ostinato di quel ragazzo, ma tutto quel che riesce a risvegliare è l’immagine di Karsten. La sagoma che viene inghiottita dalla nebbia. Quell’attimo di pallido chiarore prima che tutto torni indistinto. Il minuscolo sprazzo che si riapre ancora e ancora. Quell’immagine la rende più forte.
Prova a ricordare a se stessa cosa significasse Karsten per lei, perché fe parte della sua vita e perché fosse sempre lui quello da cui tornava. Brandelli di risposte si affacciano nella sua mente: ad esempio perché non aveva mai parlato di lasciare sua moglie, perché non aveva mai detto direttamente che la amava e perché non aveva mai folli idee romantiche di un futuro insieme. C’erano solo i loro incontri, il sesso muto e disperato. Era quello che condividevano. Era proprio quello ad essere così liberatorio e forse a volte anche un po’ spaventoso. In fondo Ina immaginava il motivo per cui Karsten riusciva a capirla così bene: anche lui aveva conosciuto l’oscurità. Vi era stato immerso e ne riconosceva in lei i segni. Ina rabbrividisce. Si alza e va in cucina, dove già a distanza scorge un biglietto sul frigorifero con la bella e nitida calligrafia del compagno: Cara Ina, lasagne fatte in casa nel frigorifero. Sono a letto. Ti amo :) Baci, Amund Ina sospira. Quell’uomo è buono in un modo snervante. Non riesce a manifestare nemmeno un briciolo di comportamento ivo/aggressivo. Lei invece è una mina vagante. È sempre lei a recriminare qualcosa ad Amund, mai il contrario. Ed è sempre Amund a provare a calmare le acque con frasi intollerabili tipo: «Rilassati», «Ne riparliamo più tardi» oppure «Adesso facciamo un attimo di pausa, ok?» Ina deve ammettere che Amund è proprio inattaccabile. Ma, anche se ne è consapevole, non riesce lo stesso ad evitare di forzare in continuazione quella sua bontà, regalandogli una vittoria ad ogni discussione. Deve riconoscere che nella coppia sarebbe dovuto essere lui lo psicologo: è lui quello paziente, quello che ascolta, capisce, consola e regala quei suoi abbracci da orso. Che squadra formerebbero Amund e Tore! Potrebbero benissimo prendere in mano lo studio di psicologia e sostituire quei due disturbati che ci lavorano, ovvero lei e Jon. Indugia un po’ su quel pensiero aprendo il frigorifero. Eccolo lì, come annunciato, il piatto di lasagne avvolto nella pellicola. Amund
ha anche decorato il piatto con qualche pomodorino, un cetriolo e dell’insalata disposti in modo da formare una faccina sorridente. Il suo umore crolla di nuovo, ma afferra comunque il piatto e sale le scale che la portano allo studio. Accende il computer e controlla la posta. Due nuove e-mail. Una è di Tore e dice: DEVO parlarti. Vieni all’autofficina per la verniciatura di Alna domani alle 13:00. Tore Un’autofficina per la verniciatura? Ma è assurdo. E poi sono ati solo pochi minuti da quando si sono salutati. Che cosa ci potrà mai essere di tanto urgente? Oltretutto Tore abita a Nordstrand, che è a diversi chilometri da Alna, e a quell’ora dovrebbe essere a lavoro all’asilo. Ina ha tutte le antenne in allerta. Sente puzza di guai. Ma un appuntamento ad Alna le fa venire in mente un’altra cosa, ovvero che potrebbe combinare quella gita con un’altra visita, che sta rimandando da troppo tempo e non avrebbe nessuna voglia di fare. Ina non riesce a indugiare oltre su questi pensieri perché in cima a tutte le e-mail riconosce un altro indirizzo, quello di Trygve Winther. Anche lui adesso. Ina sospira profondamente rileggendo l’oggetto: “Contattami su Skype”. Clicca per aprire la e-mail, ma non c’è scritto altro, nemmeno “ciao”, “come stai” o cose così che avrebbe scritto chiunque. Tipico di Winther. Ina scava con la forchetta nelle lasagne, cercando di allontanare lo sguardo insistente di Winther. Ma non c’è niente da fare. Resta lì, impresso negli occhi. Tutti gli studenti di psicologia erano terrorizzati dal professor Trygve Winther. Era famoso per le sue risposte fulminanti ben oltre i corridoi dell’Università. Winther aveva occhi scintillanti che traavano le vittime da parte a parte e poi, se era in vena, le trascinavano allo scoperto davanti a tutti. Ina ricordava di aver letto che Winther veniva da una famiglia di accademici benestanti di Ris, il quartiere più esclusivo di Oslo ovest. I Winther erano
professori di filosofia da generazioni. Con i suoi capelli bianchi sempre in ordine, ricordava un po’ l’attore Toralf Maurstad. Winther aveva studiato alla Sorbona negli anni Sessanta e negli anni Settanta aveva fatto carriera come psicologo in Norvegia. Col tempo però aveva lasciato l’esercizio della professione per dedicarsi sempre di più alla ricerca e all’insegnamento. Per quanto riguardava la sua vita privata, Ina sapeva che era divorziato. Si era innamorato di una compagna di studi se negli anni di Parigi e l’aveva portata con sé – incinta – in Norvegia. Ebbero una figlia, Elsa, ma il loro matrimonio era finito pochi anni dopo. Moglie e figlia si erano trasferite in una villetta a schiera su nel quartiere di Kringsjå, a Oslo nord. Quando a Ina venne assegnato Winther come tutor per un esame collettivo, prese seriamente in considerazione di mollare tutto e rimandare di un anno. Non voleva che quello snob distruggesse il poco di autostima che le restava. Quando se lo ritrovò davanti però si accorse che era gentile. Invitò lei, Karsten e Jon a cena a casa sua e li seguì anche di più di un tutor qualsiasi. Quando andò in pensione, li sorprese nuovamente: all’improvviso smise di frequentare familiari e amici dal vivo, dedicandosi sempre più al computer e ai social network. Pian piano era diventato esperto e fissato di tecnologia. Era stato Winther, ad esempio, a convertirla al Mac e a far sì che oggi Ina fosse proprietaria entusiasta di un iMac. Winther l’aveva anche indotta a utilizzare un programma che collegava tra loro diversi social network. Aveva collegato i suoi profili di Twitter, Facebook e GooglePlus, in modo che ogni volta che inseriva un commento su uno di essi, appariva su tutti. Winther aveva anche provato a convincerla a chattare in video su Skype, ma in quello non era riuscito e lei aveva insistito per rimanere alle funzioni base della chat: immagine del profilo e scrittura. L’immagine del profilo di Winther era Harry Houdini, mentre quella di Ina era Melina de L’isola dei Gabbiani. Ma da quando Ina era stata risucchiata dalle due bambine, non era riuscita a mantenere i contatti con Winther. La loro comunicazione aveva raggiunto i minimi storici. L’ultima volta che si erano contattati in chat era stata… beh, non riesce a ricordarsene. Forse un paio di mesi prima.
Ina Grieg: Sei lì? ano dieci secondi. Poi: Trygve Winther: E dove altrimenti? I: Sempre il solito acido, eh? T: Almeno non mi sono ammuffito come qualcun altro. I: Simpatico. Che vuoi? T: L’omicidio di Maridal. Stesso uomo. I: Quando hanno ucciso Karsten hai detto che i serial killer non esistono. T: Quasi non esistono. In Scandinavia. Al giorno d’oggi. I: Mai un serial killer in Scandinavia? T: Sì, in ato. John Ausonius, “L’uomo laser”, in Svezia. I: E in Norvegia? T: Arnfinn Nesset. Punto. I: Eppure adesso ce n’è uno in giro. T: Una precisazione. I criminali seriali esistono anche qui. I: Cosa li contraddistingue? T: Fissazione con il sesso o dipendenza da alcol. Uomini. I: Tipo l’ “Uomo delle tasche”[1]? T: Esatto, ma l’Uomo delle tasche non uccideva le sue vittime. I: E perché gli assassini seriali non esisterebbero secondo te? T: Perché in fondo nessun uomo vuole essere un barbaro.
I: Cosa c’è di diverso stavolta? T: L’aspetto rituale. I: E quindi? T: Mostrare la vittima = la vittima meritava di morire. I: Vendetta? T: Probabilmente. Inoltre: l’aspetto della vittima era importante anche nel caso di Karsten. I: A proposito di Karsten. Ricordi il nome sulla sua agenda? T: Il Generale? I: Stesso nome anche qui. T: In che contesto? I: Una lettera a Heggvik. T: Heggvik? I: La vittima di Maridal. Ottar Heggvik. T: Che tipo era? I: Solitario e fissato di Hi-fi. T: Non un paziente di Karsten, vero? Ina si irrigidisce. Naturalmente anche l’altra volta avevano discusso l’eventualità che l’assassino di Karsten potesse essere uno dei suoi pazienti, ma ne avevano ato in rassegna la lista senza trovare la minima traccia. Nello stesso tempo il segreto professionale rendeva difficile seguire fino in fondo quella pista. Uno dei più grandi misteri al tempo era stato che l’archivio di Karsten, che conteneva le cartelle cliniche di tutti i pazienti era stranamente vuoto. Era stato Karsten a
svuotarlo per nascondere qualcosa, o era stato qualcun altro? Ad esempio l’assassino? I: Devo controllare. T: Luogo del delitto? I: Antiche rovine medievali a Maridal. Rovine di una chiesa. T: Cfr. Chiesa di Hakadal. I: L’assassino è religioso? T: Non necessariamente. I: Qualcuno che vuole dimostrare di essere bravo? T: Più probabile. L’assassino può aver pianificato gli omicidi molto tempo prima. I: Qual è il messaggio? T: Qualcosa tipo: “Queste persone meritavano di essere sacrificate. Dio capirà. Dio perdonerà”. I: Stai sovrainterpretando. T: Essere visto e capito = il vero desiderio dell’assassino. Il movente lo devasta. I: Tanto da giustificare la barbarie? T: Hai afferrato. I: Credi che Karsten avesse qualche scheletro nell’armadio? T: Cosa sai tu del suo ato? Ina prova a scavare nella memoria, a riportare a galla qualche episodio che Karsten possa averle raccontato, una frase detta di sfuggita, una situazione in cui sia uscito allo scoperto o abbia parlato troppo. Ma sa già che non c’è niente. Karsten non si era mai spinto a parlare della sua vita privata né del suo ato.
Proprio questa era stata la chiave per conquistarla: mai, a nessun costo, entrare nel personale. Torna a rivolgersi allo schermo e scrive: I: Niente di niente. Che tipo è l’assassino secondo te? T: Qualcuno che si sente vittima di un’ingiustizia. I: Perché? T: Qualcuno ha oltreato un limite nei suoi confronti. Karsten e … I: Ottar Heggvik. T: Esatto. Ci deve essere qualcosa che li collega. Entrambe le vittime hanno fatto un torto al Generale. I: Già, ma cosa? T: È proprio lì che ti devi addentrare. Devi entrare nella mente dell’assassino. I: Più facile a dirsi che a farsi. T: Focalizza sul movente. I: Cosa può essere? T: Finora quello che sappiamo è che qualcosa a un certo punto ha agitato l’assassino. I: Ma cosa? COSA? Un’aggressione? Una prepotenza? Mobbing? Una fesseria ingigantita col tempo? T: Hai appena iniziato a comporre il puzzle, Ina. Devi essere paziente. I: Ma non abbiamo i pezzi. T: Hai ragione. Vai a cercare il pezzo d’angolo, il movente. Una volta trovato quello, il Generale ti aspetterà dietro l’angolo.
Chiesa di Hakadal, lunedì 5 dicembre 2005
Karsten Scheel respira profondamente immerso nella nebbia. La temperatura si aggira sui cinque gradi. Una pioggerella fine tamburella sul cappuccio dell’impermeabile e il cuore gli rimbomba in petto. È nervoso, molto più nervoso di quanto si aspettava. Gli sembra quasi di essere tornato indietro nel tempo, a quel tempo, a quel giorno. Le due parole-chiave della sua esistenza gli riaffiorano nella coscienza: rimpianto e perdono. È più o meno il massimo che possiamo sperare: incontrare un pizzico di umanità, in noi stessi e negli altri. Scheen prova a controllare il respiro, a concentrarsi su quello che lo aspetta. Davanti a lui il viale di aceri che fronteggia la chiesa di Hakadal. A malapena riesce a scorgerne la guglia nella nebbia. L’edificio quasi si confonde con il grigio circostante. I rami degli aceri pendono muti, mentre grandi foglie marroni marciscono al suolo. Gli alti alberi fanno pensare a tristi sculture giganti avviluppate nella nebbia. Apre il biglietto scritto a macchina e legge ancora una volta quelle poche frasi, mentre leggere gocce di pioggia colpiscono la carta: Scheel, siamo rimasti solo io, te e Pinzetta. Qualcuno ha scoperto tutto. Dobbiamo incontrarci in campo neutro e discutere le nostre opzioni. Vediamoci il 5 dicembre alle 16:00 nella chiesa di Hakadal. Il Generale Solo la data è sufficiente a dargli i brividi. Una paura paralizzante torna ad afferrarlo, seguita sempre dalla stessa immagine: il volto devastato del ragazzino a terra sotto di lui e il pugno di ferro che continua a colpire… Karsten Scheel fa un respiro profondo. Il rimpianto tornerà sempre ad affacciarsi, così come la paura. Se aveva due
fedeli seguaci nella vita erano loro, l’angoscia e la coscienza sporca. Eppure aveva imparato a conviverci, come si può convivere con due scimmie aggrappate alla schiena. Quella sensazione dolorosa è tornata a bruciare con l’arrivo della lettera del Generale e ancor di più adesso che sta per incontrarlo di persona. Scheel osserva il fumo che gli esce dalla bocca per il gelo, in piccole nubi. Al di là di esso, di fronte a sé, intravede i contorni della guglia immersa nella nebbia. Fa il primo o. Il pietrisco scricchiola sotto le sue scarpe, i piedi avanzano lentamente lungo il viale e i contorni della chiesa si fanno sempre più distinti. Le bianche assi di legno verticali, le tegole rosse, le finestre rettangolari. Tutto appare più chiaramente. Gli viene in mente che la chiesa di Hakadal veniva anche chiamata “Chiesa di Lavrans” per via di San Laurentius, il santo dei poveri. È una delle chiese più antiche della zona, forse di tutta la regione. È strano che gente di ogni epoca sia venuta proprio qui per cercare conforto. E per sacrificare. Scheel rabbrividisce. Anche Pinzetta era una vittima, come gli altri del gruppo. Ma Pinzetta stava peggio di tutti: era quello più in basso, era l’ultimo. La cosa peggiore è che Scheel l’ha quasi dimenticato. Ora però gli torna in mente il suo viso, quel viso sempre nascosto. Un ciuffo scuro, un corpo grande e chiuso su se stesso. A parte questo, a parte cioè le sue particolarità fisiche, l’unica cosa che si ricorda di Heggvik è quanto fosse spaventato quel giorno. Lui come tutti gli altri. Scheel si chiede dove sia ora Pinzetta. Per fortuna non ha mai più avuto sue notizie da allora. Era lui l’anello debole, su questo erano tutti d’accordo. Ma a quanto pare è ancora vivo. Il portone della chiesa di Hakadal cigola di fronte a Karsten Scheel. È strano che Il Generale abbia voluto incontrarlo proprio qui. Non si era mai mostrato particolarmente religioso. Scheel apre la porta e subito infila il corridoio centrale.
Fiammelle di candele tremolano intorno all’altare, illuminando parte del locale. All’ultima panca è seduto un ragazzo, con la fronte appoggiata sullo schienale di fronte. Scheel lo supera, guardandosi attentamente attorno. Davanti a sé scorge la pala d’altare con il crocifisso che diventa più nitido ad ogni o. I chiodi nelle mani. La corona di spine. Karsten Scheel sussulta. Quel luogo sacro lo fa sentire piccolo e spaventato. Lascia vagare lo sguardo nella sala: non c’è ancora traccia del Generale. Strano, perché le quattro sono ate da un pezzo. Scheel si inginocchia sotto l’altare e afferra un libro di salmi. Lo sfoglia un po’ a caso e sente che il cuore comincia a battergli in modo incontrollato, riesce a sentirne il rumore e prova a calmarlo, a respirare più lentamente. In quel momento qualcuno gli tocca la spalla. Un altro sussulto. L’uomo dell’ultima fila l’ha raggiunto e si trova a fianco a lui, con una mano tesa in avanti. «Mi spiace, non ho soldi con me» dice Scheel, sperando così che l’uomo – un mendicante? Lì dentro? – se ne vada. Ma quello resta immobile. Scheel non riesce a vedergli il viso, scorge solo un po’ di barba sotto al cappuccio di un giubbotto rosso. Lentamente l’uomo alza la mano e indica la direzione alle spalle dell’altare. «Devo andare di là?» domanda Scheel. L’uomo col giubbotto rosso annuisce. Scheel si alza. Non osa disobbedire. Il pavimento di legno cigola sotto i suoi i. Supera l’altare. L’uomo scivola silenziosamente alle sue spalle e la schiena di Scheel è percorsa da un altro brivido. Si volta e prova di nuovo a discernere il volto sotto al cappuccio. «Sei tu, Generale?»
La sagoma solleva la mano e il suo indice ordina di proseguire ancora. Scheel ha quasi raggiunto la sagrestia e l’atmosfera sacra della chiesa è sostituita da un buio strisciante. Dita gli affondano nel braccio e lo costringono ad andare avanti. Scheel scorge una botola aperta nel pavimento. «È proprio necessario?» La presa sul suo braccio si stringe ancora e nel momento in cui Scheel scende il primo scalino nel freddo della botola il cuore ricomincia a battergli all’impazzata. Gli occhi dell’uomo gli bruciano sul collo. Deve essere pazzo ad assecondarlo, eppure è completamente arrendevole, proprio come quella volta. Scheel sbuca in una specie di scantinato, le cui pareti gli rimandano addosso una fredda umidità. Scorge una lucina in lontananza, da qualche parte dietro a una curva della parete. Le ombre di una fiammella si riflettono sui muri. Avanza lentamente, un o alla volta e supera l’angolo. La visione lo sorprende: la piccola sala di una chiesa. Scheel immagina che si tratti dell’originaria chiesa di Hakadal, quella costruita nel Medioevo. Una sorta di cripta in pietra all’altro capo della quale nota una pala d’altare. Davanti ad essa due ceri accesi che illuminano una foto. Scheel si ferma. In quell’attimo sente un colpo alla schiena. Fa ancora un o. Poi un altro. Solo allora riesce a discernere i dettagli della fotografia. E il motivo di tutto questo si fa più chiaro. Un brivido lo scuote. Il volto del ragazzo della foto. La mano che affonda nel suo braccio. C’è una forza selvaggia in quelle dita. Una rabbia rimasta soffocata a lungo. Il dolore gli percorre il corpo e un attimo dopo i suoi occhi discernono una lama e uno spiraglio del volto sotto al cappuccio. Finalmente Scheel capisce. Intuisce chi è a pugnalarlo al petto e il rimorso di nuovo affiora alla sua coscienza.
Ma di perdono non c’è traccia. Quel pomeriggio esistono solo rimorso e vendetta.
Giorno 2 Martedì 7 dicembre 2010 1
Centrale di polizia di Grønland, ore 9:00. Inger-Lise Lie è accanto alla sedia sul podio della piccola sala conferenze. Ina la osserva con attenzione. A differenza dell’altro giorno nell’appartamento di Heggvik, ora Lie indossa l’uniforme e l’autorevolezza che emana già in modo naturale è ancora più accentuata. In questo momento le ricorda il falco di Lingså, nel nord dello Jutland, dove andava spesso in vacanza da bambina. Di sera andava sempre con i genitori a eggiare sulla spiaggia per guardare il tramonto e quando il gioco dei colori arrivava al culmine della bellezza il falco era sempre lì, a dieci metri da terra, sempre nello stesso posto, nel punto esatto in cui le dune di sabbia cedevano il posto alla vegetazione. Le ali vibranti, il corpo immobile e lo sguardo inchiodato sulla prossima vittima, un piccolo roditore o un insetto. Inger-Lise Lie in piedi sul podio ha lo stesso atteggiamento, il corpo sporto a dominare la sedia, perfettamente immobile senza alcuno sforzo apparente. Sa di avere il controllo sulle persone riunite sotto di lei – sei o sette poliziotti disposti a semicerchio intorno ai banchi. L’ispettore Lie dà un colpetto al microfono per provarlo. «Benvenuti all’incontro di stamattina. Un’informazione preliminare: come potete vedere ho invitato l’agente Hege Rimbereid della polizia di Nittedal e la psicologa Ina Grieg. L’omicidio di Maridal ha infatti parecchi punti in comune con quello di Hakadal del 2005, perciò trarremo sicuramente vantaggio dalla loro esperienza. Ma veniamo ora al caso...» Lie preme un tasto su un telecomando e sul telo accanto al podio appare una slide con la scritta: Vittima. Ottar Heggvik (1958-2010) «Ecco quello che sappiamo» introduce Lie. «Ottar Heggvik è nato a Vik, nella
regione di Sogn e Fjordane, nel 1958, quindi aveva 52 anni. Ecco ciò che abbiamo scoperto su di lui finora. Punto uno: era single e senza figli. Punto due: era fissato con gli impianti Hi-Fi, un nerd, un solitario». «Sappiamo qualcosa sulla sua infanzia?» domanda Ina. La voce le trema sensibilmente, ma non può farci niente. Ha deciso che vuole farsi notare fin da subito, perché sa che deve fare buona impressione se vuole avere la possibilità di rimanere nella cerchia più stretta dell’ispettore. «Ed ecco il punto su cui si attiva la psicologa» commenta Lie. «Ci stiamo lavorando. I colleghi di Sogn e Fjordane si stanno recando a Vik, ma personalmente dubito che troveranno qualcosa. Cosa mi dite invece del vostro uomo, Karsten Scheel? Non era cresciuto a Sogn, giusto?» «No infatti. Ad Asker». «Scheel aveva famiglia?» «Sì» risponde Rimbereid. «Un figlio ventenne. La moglie è morta un paio d’anni fa». «Il figlio abita ancora nella casa di famiglia ad Asker» aggiunge Ina. «Da quanto sappiamo è celibe. Ho provato a contattarlo ma senza successo». «Cosa mi dici invece dell’aspetto rituale degli omicidi?» domanda Lie. «È molto particolare» risponde Ina. «Il trattamento riservato alla vittima è lo stesso in entrambi i casi. Inoltre la scelta del luogo del delitto, ovvero chiese di importante valore simbolico, indica che l’assassino vuole lanciare una sorta di messaggio a Dio e al mondo. Potrebbe voler comunicare che la vittima ha meritato il suo destino». «Mi viene in mente adesso un altro omicidio avvenuto in una chiesa» interrompe Rimbereid. «Su ad Alstahaug, negli anni Ottanta. Un caso terribile, un omicidio rituale che non è mai stato risolto». «Me lo ricordo anch’io» interviene Lie. «Ma sono trascorsi trent’anni, dobbiamo are oltre».
Preme di nuovo sul telecomando e compare una schermata con la frase misteriosa: Ecco gelarti tra le gocce Il Generale Lie getta uno sguardo interrogativo ai colleghi. «Qualcuno ha idea di cosa possa significare?» Nessuna risposta. D’un tratto a Ina sembra di scorgere un barlume di sorriso sulle labbra di Lie. Quanto le piace il suo ruolo! Quanto gode il falco a starsene lassù e specchiarsi negli sguardi degli altri! Però deve ammettere che Lie emana davvero una certa autorità. Sarebbe potuta diventare un dittatore perfetto. Lie preme di nuovo sul telecomando. «E infine c’è questo. L’abbiamo trovato nella tasca di Ottar Heggvik». Lo schermo mostra un oggetto che Ina non riesce subito a identificare. Una specie di stella? «È un esagramma. Una stella a sei punte» informa Lie. «Questo elemento è davvero interessante, perché fu trovato un pentagramma – una stella a cinque punte – sulla vittima del caso Nittedal». Ina sente l’adrenalina che sale. Sta per dire qualcosa, ma Rimbereid la anticipa. «E questo che significa? Perché ci avrebbero dovuti tenere all’oscuro di questa informazione?» Ina intravede un lampo di insicurezza sul viso di Lie. Per una frazione di secondo appare incerta, ma riprende subito il controllo fissando lo sguardo su Rimbereid.
«Posso solo immaginare che il mio predecessore abbia voluto tenere alcune carte coperte. A volte si tende a farlo quando ci sono in ballo dettagli piccanti. Io, da parte mia, ho intenzione di mantenere una linea più aperta, ma a questo proposito voglio sottolineare con forza che tutto ciò che viene detto qui non deve lasciare questa stanza. Ci siamo capiti?» «È assurdo che non siamo stati informati» insiste Rimbereid. «Sarebbe potuto essere di fondamentale importanza per l’indagine». Lie si sporge in avanti sulla sedia. «Non posso sapere che tipo di disposizioni abbia dato il mio predecessore». «Io me lo ricordo bene il suo predecessore. Era un buono a nulla». Inger-Lise Lie fissa Rimbereid in silenzio. ano cinque secondi. Tutti gli agenti abbassano lo sguardo. Ina impreca dentro di sé alla sola idea che Rimbereid possa aver mandato tutto all’aria proprio adesso. «Se fossi in te, cercherei di essere più diplomatica» commenta infine Lie. Ina sente Rimbereid rientrare nei ranghi e cerca di recuperare: «In ogni caso non avremmo colto il nesso fino ad oggi». Rimbereid la guarda sorpresa e anche un po’ ferita. «Infatti» conclude Lie calmandosi. «Altre domande?» «È stata trovata l’arma del delitto?» domanda uno degli agenti. «No» risponde Lie. «Ma si tratta di un’arma da taglio, molto probabilmente un coltello dalla lama lunga e sottile. La vittima riporta diciassette ferite al petto». «Altre tracce?» interviene Rimbereid. «Impronte digitali? DNA?» «Niente». Nell’auditorio torna il silenzio. «Tuttavia» riprende Lie, «è molto probabile che abbiamo a che fare con un omicida seriale. Chi si ricorda il caso Hakadal sa bene che i giornalisti ci
andranno a nozze e si metteranno tra i piedi. Ma potrebbero anche tornarci utili». Un mormorio si leva nel locale. «Sì, sì, lo so» cerca di calmarli Lie. «È faticoso. Dico solo che la stampa può farci arrivare suggerimenti importanti da parte della gente. Sono molti a bloccarsi quando c’è da contattare la polizia». Lie spegne il computer e nella stanza si accende la luce. «Bene» aggiunge, «non possiamo far altro che cominciare». 2
Ina appoggia sul primo gradino la stufa elettrica che ha comprato da Clas Ohlson. Poi sale i due scalini che conducono alla porta, suona il camlo e torna giù. Resta lì a sfregarsi le braccia per il freddo, mentre lancia occhiate nervose al quartiere di Toftdahls veg. Alla fine sente un rumore e scorge due occhi scettici che la scrutano attraverso la fessura del portone. Un sentore di fumo e piscio di gatto si mescola all’aria invernale. A quel punto comincia il minuzioso rituale di apertura di tutte e tre le serrature di sicurezza, dall’alto verso il basso, prima che finalmente appaia il padre in tutta la sua figura: un settantottenne ricurvo in pantaloni della tuta e maglione di lana ai ferri, la sua divisa da quando è andato in pensione. Ina si chiede se il padre abbia diversi esemplari di quel maglione o se indossi davvero sempre lo stesso. Le viene un brivido. Il vecchio si trascina in casa senza dire una parola e Ina lo sente tossire. Fumando due pacchetti di sigarette al giorno dall’età di quindici anni, è un vero e proprio miracolo che sia ancora vivo. Può darsi che ci sia qualche gene speciale nella famiglia Grieg, che magari a un certo punto dell’albero genealogico si sia insinuato un gene nicotinico, sta di fatto che padre e figlia coltivano quella cattiva abitudine con la stessa serietà e costanza.
«Ti ho portato una stufa!» urla Ina mentre trasporta la scatola nell’ingresso. «Lo vedo» borbotta il padre da qualche parte in casa. «Ma non ti ho chiesto niente e la corrente costa troppo». «Ti farai venire una polmonite». «Mi arrangio» ribatte il padre, «come ho sempre fatto. E dire che non è stato sempre facile». Ina pensa a quanto non sia stata facile la loro famiglia. Ma non c’è dubbio che la cosa più difficile di tutte era stata proprio lui, il padre. L’ex maggiore era stato un uomo con delle pretese impossibili verso se stesso e verso gli altri. Per tutta la sua infanzia Ina aveva dovuto fare rapporto su tutto: se avesse fatto i compiti, messo in ordine la camera, si fosse fatta valere nello sci di fondo o nella lotta, che erano i suoi sport da bambina. Il padre non era mai soddisfatto. La cosa più snervante però era che la rimproverava in continuazione di avere un carattere strano e difficile e le diceva che con quell’atteggiamento sarebbe arrivata da nessuna parte nella vita. La figlia ideale del maggiore Gunnar Grieg, che in realtà si chiamava Hanssen ma aveva assunto il cognome del suo compositore musicale preferito, era dura, ambiziosa e risoluta. Le prime due ce le aveva anche. Ma che fosse tutta d’un pezzo, no, questo di lei non si poteva dire. Secondo il padre smussare un po’ gli angoli era un peccato mortale: per lui bisognava votare per i comunisti o per l’estrema destra, mai andare a cercare nelle zone intermedie. La stessa regola valeva in politica, nel lavoro e in tutti gli aspetti della vita. Ina si era impegnata consapevolmente a sabotare tutto questo. A quattordici anni si era iscritta alla Gioventù Rossa e, come se non bastasse per scioccarlo, aveva anche cominciato a praticare la kickboxing. Il padre la accusava di star solo provando a bruciarsi a suon di botte quel poco di intelligenza che le restava, ma per fortuna a quel punto Ina era diventata abbastanza immune a Gunnar Grieg e le bastava ricordare a se stessa che ben
presto – se necessario – avrebbe potuto mettere al tappeto quel vecchio pignolo. Su una cosa comunque il padre si sbagliava: a scuola non la batteva nessuno. Aveva la sufficienza in alcune materie e voti brillanti in quelle che le piacevano davvero e con il suo allenamento non l’avrebbe battuta nessuno nemmeno fisicamente, perché ora era sul serio la migliore. Le sue scelte d’altra parte l’avevano portata ad avere pochi amici, ma se si prendono decisioni estreme è normale che la gente si insospettisca e si allontani, forse più di tutti proprio la tua stessa famiglia. L’infanzia di Ina era stata tutta un continuo trasloco. Lei, sua madre e sua sorella Solveig avevano seguito il padre lungo tutta la sua folle – e per molti versi piuttosto fallimentare – carriera militare, di guarnigione in guarnigione. Setermoen, Andøya, Kirkenes, Jørstoen. Ma nonostante la forte ambizione non era mai riuscito ad arrivare ai vertici delle gerarchie. Ina si era fatta l’idea che le ragioni potessero essere due. La prima era che Gunnar Grieg non era proprio un campione di empatia. Ina aveva infatti l’impressione che i colleghi lo trovassero troppo rigido e in effetti, pur avendo molti conoscenti, il padre non aveva nessun vero amico. Le sue capacità sociali erano ben sviluppate in determinati campi, ma nulli in altri. L’altra ragione era collegata alla prima e affondava le sue radici nel fatto che il padre – a dispetto delle sue pretese morali sugli altri – amava troppo i pettegolezzi. E anche se è vero che parlar male della gente alle spalle piace un po’ a tutti, farlo troppo è controproducente, perché le persone penseranno che lo fai anche con loro e ti si metteranno contro. Il padre aveva un vero talento nel riuscire a captare tutto ciò che gli succedeva intorno, almeno fin quando non era andato in pensione e si era rinchiuso con la sua amarezza nella sua tana in Tofdahls veg. Ina spinge l’imballaggio al centro del salotto. Il termometro sulla parete segna 15,7 gradi. «Non metto su il caffè» dice il padre dalla cucina prima di esplodere in un nuovo attacco di tosse e sputare. «Fa niente» risponde Ina.
«Va bene, va bene, lasciamela pure la stufetta, visto che me la vuoi appioppare a tutti i costi». «Fa un freddo bestiale, papà. Anche qui dentro». «Basta coprirsi bene» ribatte il padre accendendosi una sigaretta. Ina armeggia intorno all’imballaggio. «Hai un taglierino?» Il padre fa un cenno con la testa verso il corridoio. Ina va verso il ripostiglio ed è di nuovo assalita dal puzzo acre di urina. «Santo Dio, devi liberarti di questo gatto!» urla. «Ma se è pulitissimo! E poi è l’unico che mi viene a trovare» le urla il padre di tutta risposta. “Ti pareva” pensa Ina con amarezza. In bagno vede la lettiera del gatto piena di escrementi. Entra e afferra senza esitare la cassetta di plastica blu, poi esce nel freddo – continuando a trattenere il respiro – finché non ne rovescia il contenuto in un angolo. In quel momento sente vibrare la tasca. Con una mano tiene la lettiera e con l’altra apre il messaggio di Tore. «Vieni?» «Da mio padre» digita in risposta. Tornata in bagno, infila la lettiera nel lavandino, ci versa il primo detersivo che trova a portata di mano e la riempie d’acqua bollente. Poi si lava con cura le mani, strofinando e sfregando il sapone contro la pelle. In sala il padre è seduto a fumare sulla sua poltrona reclinabile, con il gatto acciambellato in grembo. Ina tira fuori la stufa e nota con la coda dell’occhio che la sta osservando. «Tu vuoi solo spedirmi in una casa di riposo» dice d’un tratto. «Come?»
«Lo vedo. Ho capito che stai rimuginando qualcosa». «È vero, sto rimuginando, ma dimmi una cosa: quand’è stata l’ultima volta che sei andato a trovare qualcuno?» «Perché mai dovrei andare a trovare qualcuno? Anche tu, tra l’altro, non è che sei un modello di socialità». «Finirai per distruggerti lentamente, qui dentro». «E tu, che mi dici di te? Hai distrutto qualcuno ultimamente?» Ina sente una piccola scossa, seguita da un impeto di rabbia muta, di disperazione. È tipico del padre, se lo doveva aspettare. Non perde mai l’occasione di rigirare il coltello nella piaga. Quella risposta allude infatti alla loro grande tragedia familiare. Al suicidio di Solveig, la sorella minore di Ina. Arrivò solo a sedici anni e a quell’età era già stata ricoverata in diversi istituti psichiatrici. Nonostante ciò la tragedia era arrivata come un fulmine a ciel sereno sulla famiglia. Sua madre non si era mai veramente ripresa, aveva continuato a vagare per la vita come uno spettro fino a quando, dieci anni dopo, era morta di cancro. Anche Ina ne era stata distrutta. Ogni tanto si chiede se la scelta del suo lavoro non sia stata una specie di disperato tentativo di auto-terapia. Non era riuscita a salvare la creatura che sentiva più vicina. Ora scontava la sua pena cercando di rimettere a posto altre persone. Se per un giorno riusciva a non incolparsi per la morte di Solveig, ci pensava il padre a farlo al posto suo. Tutto era nato da un piccolo, vecchio episodio apparentemente innocuo. Una volta Ina e un’amica avevano chiuso in bagno la sorella più piccola e le avevano fatto delle domande sul sesso. Stupidate che solo delle adolescenti immature possono fare. Solveig a quel tempo aveva solo dodici anni, Ina tre in più. Ricordava che la sorella aveva avuto una specie di attacco di claustrofobia e aveva iniziato a battere contro la porta come una pazza. Loro stesse erano state prese dal panico e le avevano aperto subito. Solveig era corsa
via finendo dritta tra le braccia del padre. Ina si era beccata una settimana di clausura, ma la punizione era ben lungi dall’essere conclusa. Un anno dopo, quando la sorella ebbe il primo crollo psicologico, il padre incolpò Ina. L’episodio del bagno divenne per lui una sorta di catalizzatore dei problemi della figlia minore e ripeteva che Solveig sarebbe stata benissimo se lei non le avesse rovinato la vita. In realtà, per come la vedeva lei, la causa dei problemi di Solveig poteva benissimo risiedere nella durissima educazione del padre. Ina chiude gli occhi, ben sapendo che tutte le domande e il doloroso senso di colpa non la lasceranno mai in pace in ogni caso. Impreca contro il padre mentre sistema la stufa contro la parete vicino alla tv e attacca la presa elettrica. Lui la fissa con sguardo gelido. «Non sai che rispondere?» «Non ho voglia di litigare». Ina si ferma accanto alla stufa e a le dita sulla sua superficie irregolare. Ancora nessuna reazione. «Ti andrebbe di venirci a trovare?» dice. «È ato un sacco di tempo». Il padre borbotta qualcosa. «Non sono il benvenuto a casa vostra». «Santo Dio, papà...» «I tuoi suoceri sono troppo bigotti» aggiunge. «E Amund cucinerebbe qualche piatto che non si trova nemmeno nei dizionari stranieri». «Potresti semplicemente venire a trovare le tue nipoti». «L’hai detto tu stessa. Fa un freddo bestiale».
Ina chiude gli occhi. Conta fino a dieci. «Guro ed Eline chiedono sempre di te» si decide poi a dire. La butta lì. Una microscopica reazione sul volto del vecchio bisbetico. Un accenno di tenerezza che subito scompare. «Sì ma lo sai com’è. Qualcuno deve pur dare da mangiare al gatto». Quel dannato gatto. Ina annusa l’aria. Un debole sentore di polvere bruciata comincia a diffondersi nella stanza. «Tra poco comincerà a scaldarsi» dice. «Ora devo scappare. Ho un incontro importante». «Già, sei brava a scappare.» commenta il padre. «Questo non te lo nego». 3
Mentre mette la freccia a destra per svoltare verso Bryn, proprio davanti al Caffè Olsen, Ina osserva quanto quella zona faccia davvero schifo. La vecchia e fedele Toyota si infila tra le ombre della collina e prosegue su Jernebanevegen, un viottolo stretto che poi cambia nome in Smalvollvegen e sbuca infine nelle arterie a scorrimento veloce della E6 e della Statale 4. Il paesaggio è un deserto senza fine di capannoni, una zona industriale piena di container, autofficine, piste da go-kart, autodemolizioni, rimesse di periferia con relitti d’auto abbandonati lungo i marciapiedi. È il paesaggio più triste di Oslo in assoluto. E, da qualche parte lì intorno, Tore la sta aspettando. Perché mai avrà voluto vederla proprio lì? Ina sa che gli piacciono le moto, ma solitamente le riserva un trattamento migliore. Perché non vedersi in un caffè del centro? Finalmente scorge l’insegna illuminata che stava cercando: «Alna Verniciature Auto». Entra nel cancello e parcheggia, poi esce dall’auto. C’è un odore di vernice
fresca e proprio accanto alla sua Toyota c’è una Opel con la carrozzeria ricoperta di fiamme. Ina ha un brivido e si avvia verso l’ampia entrata dell’officina. Una mano sulla spalla. «Sono contento che sei venuta». Ina si volta bruscamente. Tore troneggia dietro di lei, in giacca da motociclista in pelle e amontagna. Non aggiunge altro, le fa solo un cenno in direzione dell’entrata e proseguono. Ina muove un o esitante nell’ingresso. Poi un altro e un altro ancora. L’odore acre di solvente le penetra ancora di più nelle narici e anche il rumore aumenta. Vibrazioni di macchinari, colpi metallici. Gli operai all’interno del locale, tutti pachistani, li hanno notati e la scrutano con sospetto, ma sembrano riconoscere Tore e per questo accettare la sua presenza. Avanzano ancora di qualche o, poi Tore si ferma e si toglie il amontagna. «Allora?» fa Ina. «Un’officina di verniciatura, eh? Romantico, non c’è che dire». «È un trucco che ho visto in un film». «Ma di che parli?» «Fissare un incontro segreto in un posto enorme, aperto e molto rumoroso. Così puoi stare sicuro che non ci saranno orecchie indiscrete ad ascoltare. Né microfoni». «Credi che voglia registrarti?» «No, ma voglio essere sicuro, specialmente vista la storia che devo raccontarti. Devi giurare su quello che hai di più caro che non farai il mio nome con la polizia». «Santo Dio, Tore, di che si tratta?» Tore fa un cenno con la testa indicando l’officina. «Pensi forse che questa sia un’attività criminale?»
Ina solleva le spalle. «Lo conosco bene il proprietario» aggiunge Tore. «Si chiama Hassan. L’anno scorso è stato nominato “imprenditore dell’anno” e il suo titolo venduto per decine di milioni». «Ok, non penso che mi hai trascinato qui per parlarmi dell’imprenditore dell’anno, dico bene?» Tore ha un attimo di esitazione, poi raddrizza la schiena. «Ci sono un sacco di cose che non sai di me, Ina. O meglio, di quando ero giovane. Ho fatto un certo numero di follie, sai». «Che intendi dire?» «Era molto prima che ti conoscessi, avevo diciotto o vent’anni al massimo». Tore la guarda con serietà. «E ieri, quando hai menzionato quel… nome…» continua. «… per poco non me la faccio sotto». «Eh?! Tu?! Ma… che nome?» «Il soprannome di chi ha fatto fuori quel tizio a Maridal». «Il Generale?» Tore annuisce. «Esatto. Conoscevo una persona con quel soprannome, un tempo. Saranno ati… più di venticinque anni ormai, ma non si dimentica facilmente». «Allora? Racconta!» incalza Ina. Un camion entra facendo vibrare tutto il locale, a loro davanti e li supera. Tore aspetta che sia lontano abbastanza, poi riprende. «Facevo parte di una specie di circolo di boxe clandestina» si decide infine a dire.
«Come scusa?» «A diciott’anni avevo già vinto un paio di tornei giovanili di boxe. Un giorno dopo un incontro mi contattò un tipo un po’ strano, basso e tutto vestito elegante. Venne fuori che organizzava incontri di boxe illegali e che aveva contatti in molti ambienti quanto meno sospetti, tra cui alcuni club di motociclisti». «Hai partecipato a incontri di boxe clandestini?» «C’erano un sacco di soldi da guadagnare, anche per chi organizzava gli incontri». «Di che tipo di incontri stiamo parlando? Boxe? Kickboxing?» «Non c’erano regole. Pura lotta da gladiatori». «Stai scherzando? Combattimenti di galli in cui erano uomini a scontrarsi? Con gente che scommetteva?» «Proprio così. Scontri a pugni nudi che duravano finché uno non atterrava l’altro. Ricordati che stiamo parlando di molto tempo prima del successo delle Arti marziali miste». «E tu hai preso parte a questa cosa?» Tore annuisce. «Beh, ho vinto i pochi incontri a cui ho partecipato, ma per fortuna mi sono tirato indietro in tempo. E la causa risiede in un episodio preciso». «È qui che entra in scena il Generale?» «Infatti. Al tempo nell’ambiente degli sport da combattimento girava una voce. Si diceva che qualche anno prima un tale chiamato il Generale, che ava per essere un pugile particolarmente violento e per colpire in modo estremo, avesse fatto a pezzi un avversario, continuando a colpirlo selvaggiamente ben oltre il fischio finale dell’arbitro. Dopo quell’episodio non aveva più potuto combattere e il malcapitato era sopravvissuto per un pelo». Ina è paralizzata dallo stupore, mentre sente salire sempre più la rabbia.
«Vuoi dire che tu sai chi è il Generale?» esplode infine. «Uno dei miei migliori amici è stato ucciso, sono ati cinque dannati anni e adesso tu mi vieni a dire che conosci l’assassino?» Tore alza la mano facendole segno di calmarsi. «Fammi finire il mio racconto. Partì un’indagine su quell’episodio, ma quando la polizia cercò di interrogarlo, quello era come scomparso dalla faccia della terra e venne fuori che aveva usato un falso nome. Il Generale si era volatilizzato. Tuttavia girava un’altra voce secondo la quale aveva cominciato un’altra vita, con un altro nome, in cui faceva un lavoro normale. In pratica aveva due esistenze parallele: una da borghese di giorno e una da lottatore clandestino di notte». «E poi?» «Dunque, si stava organizzando una grossa manifestazione di motociclisti. Era la festa di uno dei club più grossi ed erano stati invitati VIP da tutta Europa. Mi venne offerto di partecipare a un combattimento e la ricompensa era enorme. C’erano molti lottatori in gara e nel backstage era appeso un manifesto con tutti i nomi dei partecipanti: uno di essi mi si conficcò in testa». «Il Generale» mormorò Ina. «Esatto. In pratica era l’attrazione principale, ma non lo incontrai mai di persona. A differenza degli altri lottatori, lui aveva un camerino privato e non si fece mai vedere nel backstage. Oltretutto aveva imposto una condizione per partecipare». «Cioè?» «Sarebbe salito sul ring con una maschera che gli copriva tutta la faccia. E non una maschera qualunque, ma tutta d’oro». A Ina viene la pelle d’oca. «Cosa successe?» «Combattei uno dei primi incontri e riuscii a vincere. Ricordo che l’atmosfera era totalmente fuori controllo. I motociclisti avevano goduto per tutta la sera di
alcol e strip-tease gratis, mentre i combattimenti dovevano essere il culmine della festa». «Chi era l’avversario del Generale?» «Un est-europeo non certo mingherlino, anzi era più alto e più grosso del Generale e quasi tutti avevano scommesso su di lui. In molti pensavano che il tizio misterioso con la maschera d’oro fosse una specie di scherzo, nonostante girassero le storie sul suo ato. Il combattimento doveva iniziare verso mezzanotte». «Cosa avvenne?» «A un minuto dall’inizio del primo round era già tutto finito. Il Generale lo mise subito k.o. con un colpo talmente forte che i denti si sparsero sul ring, ma non si fermò lì. Continuò a colpire e colpire la testa dell’avversario mentre quello giaceva esanime. Nella sala era sceso un silenzio di tomba. Il combattimento era finito da un pezzo, ma non per il Generale, che continuava a colpire… Alla fine non ce la feci più a guardare e uscii da solo nella notte a piangere. A tutt’oggi non ho idea di cosa sia capitato all’avversario né se sia riuscito a sopravvivere. Cercai di rimuovere tutto e non volli più sentir parlare di quel combattimento. L’unica cosa che ricordo, a parte la brutalità, è lo sguardo del Generale poco prima di salire sul ring, quegli occhi intensi nella maschera d’oro...» «Com’era il suo aspetto?» «Come ti ho detto non ho mai visto il suo viso». «Altri particolari degni di nota?» «Capelli corti e scuri. Un metro e ottantacinque circa. Fisico piuttosto massiccio, ma non troppo». «Devi contattare la polizia e raccontare tutto» dice Ina. Tore ride di rassegnazione. «Se conoscessi i metodi di chi organizzava quei combattimenti, lasceresti perdere anche tu. Ma è proprio per questo che te lo sto raccontando, perché tu possa portare avanti l’indagine senza coinvolgermi. Devi promettermi di non
rivelare la mia identità, Ina». In quel momento il camion dietro di loro suona il clacson. Ina sussulta, si fa da parte e il camion a loro accanto. Ina fissa Tore negli occhi. «Non mi piace per niente, ma va bene» afferma. «Che mi dici del ragazzo dell’allenamento di ieri? Che ne pensi?» Tore la guarda con serietà. «Non ho idea di chi fosse» risponde. «So solo una cosa: non mi piace che questa roba venga fuori tutta insieme. Non mi piace per niente».
4
Ina maledice il buio che arriva ogni giorno più presto ad accorciare i pomeriggi. Getta uno sguardo all’orologio: sono quasi le quattro e quaranta. Si agita nervosamente sul sedile, mentre apre e chiude la mandibola, come per controllare che sia tutto a posto dopo i colpi del giorno prima. Le fa ancora male la gengiva, ma al momento è l’ultima delle sue preoccupazioni. L’asilo è aperto solo fino alle cinque e lei ha promesso solennemente ad Amund che sarebbe andata a prendere le bambine. Le auto incolonnate sulla Statale 4 si muovono ad appena trenta chilometri l’ora. Lo smog si espande da ogni tubo di scappamento. Non ce la farà mai ad arrivare in tempo. «Dannato traffico di merda!» Sbatte il pugno contro il volante, ma tutto quel che ottiene è un arrossamento delle nocche. Alla rotonda di Gjelleråsen però la coda si allenta miracolosamente un po’ e poco dopo, nel tunnel di Hagan, Ina ha finalmente la strada libera.
La Toyota sfreccia in direzione Hadelandsvegen. Alle sedici e cinquantacinque è davanti all’asilo di Solkroken, che occupa una posizione idilliaca al centro di un quartiere residenziale di villette a non più di cinquecento metri in linea d’aria da casa loro, ma con cinquanta metri di altitudine di differenza. Ina sbatte lo sportello. Fa un freddo cane, ma non ha tempo da perdere a mettersi la sciarpa. Indugia qualche secondo con il meccanismo di apertura del cancello che è completamente congelato, ma alla fine riesce ad estrarre il chiavistello dal ante. Quindi si affretta verso l’edificio. Mentre si dirige verso l’ala in cui si trova la classe di Guro scorge Janne, la responsabile, che sta chiudendo il portone. Quest’ultima si volta e guarda Ina con sorpresa. «Ho fatto appena in tempo, eh?» dice Ina affannata. «Ma è già venuto Amund a prenderle» replica Janne. «Ah sì?» «Verso le due… mentre giocavano fuori». «Giocavano fuori? Con venti gradi sotto zero?» «Oggi pomeriggio erano solo meno dodici gradi e i bambini stavano impazzendo tutto il giorno rinchiusi…» «Aspetta un attimo: qualcuno è venuto a prenderle?» «Beh, così mi pare … sai io non c’ero in quel momento…» Vede l’ansia montare nello sguardo di Janne e anche lei si sente afferrare da una specie di gelo interiore. Dio. Mio Dio.
Prende il cellulare e chiama Amund, che risponde dopo quattro squilli. «Sei venuto tu a prendere le bambine all’asilo, Amund?» «Le bambine? Ma toccava a te… io ero di turno a scuola e…» «Qui non ci sono». Torna a guardare Janne, che è impietrita con una mano davanti alla bocca. «Ma che stai dicendo!?» esclama Aamund. «Qui non ci sono! Guro ed Eline non ci sono!» Ina prova a pensare con lucidità, ma l’angoscia la paralizza completamente. Alla fine cerca di riprendersi. «Aspetta Aamund» dice con tono un po’ più tranquillo, «devo parlare un momento con Janne. Non ti far prendere dal panico. Ti richiamo subito». Si volta e Janne è ancora lì con la mano davanti alla bocca. «Chi è venuto a prenderli?» «Non lo so.» sussurra «Eravamo così presi a coprire per bene i bambini. Qualcuno ha avuto il permesso di andare avanti da solo…» «Senza alcun controllo?» «… ma qui fuori è così tranquillo… e giocavano tanto bene… a Ella è sembrato di vedere Amund…» «Beh, non era lui!» «… Guro ed Eline stavano giocando alla rete d’arrampico vicino al cancello. E poi non c’erano più. Pensavamo che fosse tuo marito». «Merda …» sussurra Ina. In quel momento vibra il cellulare in tasca.
«Sì?» «Ho parlato con mia madre» dice Aamund. «Né lei né papà sono stati all’asilo. Non capiscono cosa sta succedendo». «Ma chi può essere stato allora?» Ina si volta di nuovo verso Janne e abbassa la mano che tiene il telefono. «Non ne ho idea» mormora. «Mio Dio…» Riporta il telefono all’orecchio. «Aamund, chiamo Hege Rimbereid». «Fallo subito. Sto arrivando». Il cuore le martella in petto e i muscoli si irrigidiscono. Ina vede se stessa muoversi eppure non è lei, è come se fosse uscita dal suo corpo. Chiama Rimbereid, ma non riconosce la propria voce urlare che le sue bambine sono scomparse, che sono state rapite da un uomo sconosciuto. Calmati, sente dire a Rimbereid, andrà tutto bene, deve esserci una spiegazione logica. Ma le parole scivolano via. All’improvviso le sembra di essere di nuovo nel suo sogno, quello in cui corre di stanza in stanza cercando le sue bambine, ma Guro ed Eline non sono da nessuna parte. L’incubo è qui e adesso. Ma com’è possibile che sia così facile entrare in un asilo, portarsi via un bambino, anzi due, e poi sparire senza che nessuno si accorga di niente? Basta farli salire in una macchina pronta in attesa e filare via… Si può are il confine con la Svezia senza che nessuno se ne sia ancora accorto… Corre di stanza in stanza e abbatte una porta dopo l’altra, ma non fa che ritrovarsi sempre nella stessa stanza. Le sue bambine sono scomparse e per una
frazione di secondo la afferra il desiderio fortissimo di colpire con un pugno la faccia di Janne. Ma le sue gambe si sono già messe in movimento, allontanandola dalla donna e dalla sua faccia potenzialmente sfracellata. Sta scappando dall’asilo correndo e tirando giù a calci porta dopo porta, questa è la sua punizione perché non ama abbastanza le figlie, è la punizione perché non si occupa abbastanza delle persone che la circondano, è la punizione per non essere stata abbastanza attenta… I suoi piedi si affrettano sul cortile dell’asilo e il ghiaccio scricchiola sotto alle scarpe. Si guarda intorno, a destra e a sinistra, come se per miracolo Guro ed Eline potessero fare capolino da un mucchio di neve e tutto fosse stato solo un malinteso, solo un nonno che ha portato via le bambine sbagliate e sta tornando a restituirle. Ma contemporaneamente un altro sospetto comincia a farsi strada nella sua testa: che tutto ciò possa avere a che fare con il caso, con l’omicidio di Maridal, con Karsten. Il cuore le martella più forte in petto e accelera ancora il o, senza una meta, senza una direzione. Ora è proprio come nel sogno, dove non fa che correre senza arrivare da nessuna parte e non riesce a uscire da questo stato di trance finché non vede Amund che le sta andando incontro di corsa. Si corrono incontro e lui la circonda con le sue braccia da orso. Ina ci affonda dentro e solo allora arrivano le lacrime. Alza gli occhi verso di lui e per fortuna non vede uno sguardo di rimprovero, ma solo terribilmente spaventato, proprio come il suo. Ina sprofonda nel petto di Aamund. Il suo corpo trema e sente la propria voce dire: «Le abbiamo perse!» «Non dire così» dice Aamun accarezzandole la schiena. «Torneranno presto. Sono sicuro al cento per cento che si tratta di un errore». Ma la sua voce non è convincente. Ina afferra la sua mano e lo trascina con sé, mentre vede in lontananza i lampeggianti delle auto della polizia che si avvicinano. Le sirene la scuotono dal torpore e all’improvviso le viene in mente chi può esserci dietro. Il ragazzino della kickboxing. Quel ghigno di disprezzo le si è impresso negli
occhi. Ne è quasi convinta. È stato lui.
5
Quasi tutti i dipendenti sono stati riuniti davanti all’asilo di Solkroken e tutti hanno la stessa espressione scioccata sul viso. Rimbereid abbraccia Ina e cerca di rassicurarla dicendole di stare tranquilla e che si risolverà tutto, mentre Ina si sente debole e disperata come se fosse nel mezzo di una caduta senza fine. Si fa portare in disparte e risponde meccanicamente alle domande di Rimbereid: qualcuno è venuto a prendere Guro ed Eline all’asilo e i dipendenti credevano si trattasse di Aamund. Ma non fa parola del ragazzino della kickboxing. È tale il desiderio che questa faccenda non abbia niente a che vedere con lei o con gli omicidi, che prova a smettere di pensare al ragazzo, benché non ci riesca del tutto. Quel sorriso sprezzante e il paradenti insanguinato che cade a terra si susseguono nella sua mente come in un vortice. Dopo tutte le domande di prassi, Rimbereid si offre di accompagnarli a casa assicurando loro che non c’è altro che possono fare lì. Amund annuisce piangendo e Ina si chiede se possa aver avuto anche lui il suo stesso pensiero, cioè che la scomparsa delle figlie possa avere a che fare con gli omicidi di Karsten e di Ottar Heggvik. Rimbereid lo ha pensato di sicuro, di questo è più che certa. Durante il viaggio in macchina verso casa Ina si sente completamente alienata. Si stringe ad Amund sul sedile posteriore e quasi non si accorge quando la at di Rimbereid arriva sotto casa loro. «Ina! C’è la luce accesa!» esclama Amund.
«La luce?» «Sì! A casa nostra!» Gli occhi di Rimbereid li guardano seri dallo specchietto retrovisore. «Pensi che…» comincia a dire Ina. «C’è qualcuno in casa!» la interrompe Amund. Ina ha il cuore impazzito e si fionda fuori dall’auto. Rimbereid si affretta a seguirla, facendole segno di fare silenzio. Si abbassano e usano la at come copertura, raggiungendo poi la porta d’ingresso con Amund alle loro spalle. Ina abbassa cautamente la maniglia. È aperto. Tira a sé il portone. Fa un cenno a Rimbereid e Amund, che si infilano nell’ingresso. Si sentono dei suoni provenire dal salotto, c’è qualcuno che sta parlando, ma le voci sono sconosciute. Rimbereid fa un cenno con la testa verso la porta del salotto: vuole che Ina la apra mentre lei le copre le spalle, pronta a intervenire. Ina prende la maniglia, la abbassa senza fare rumore e tira a sé la porta con un’attenzione infinita. Rimbereid la raggiunge e irrompe nella stanza. «Aaaaahhhh!!!!» Un grido perfora le orecchie di Ina, ma è un grido conosciuto e il pianto che segue è un pianto conosciuto. Guro ed Eline. Un pianto meraviglioso. In un secondo si ritrova Eline aggrappata a una gamba, mentre a poca distanza continua il vocio di un film alla televisione. Ina lo riconosce, è La principessa e
il ranocchio, il cartone animato preferito delle gemelle. «È cattiva!» dice Eline tra i singhiozzi. Ina la prende in braccio e la stringe a sé, ma Eline si divincola per raggiungere il suo papà, che ha fatto irruzione nella stanza dietro alle due donne. Nemmeno in quel momento le bambine vogliono stare con lei. Ina si affretta a raggiungere Guro, ma anche lei cerca solo l’abbraccio consolatorio del padre. Alla fine però sono lì tutti e quattro insieme ad abbracciarsi. «È buona.» dice Ina alle bambine indicando Rimbereid. «Voleva solo assicurarsi che stavate bene». «Non dovevi venire a prenderci all’asilo?» Lo sguardo di Guro la traa. «Sono venuta» risponde Ina. «Ma voi non c’eravate. Chi è venuto a prendervi?» «Un signore buono» risponde Guro. «E chi è?» «Doveva andare via» dice Eline. «Come ha fatto a entrare?» domanda Aamund. «Con la chiave» risponde Eline. Ina e Amund si scambiano un’occhiata. «Ha detto che ti conosceva, mamma» aggiunge Guro. «Conosceva me?» Amund affonda ancor di più gli occhi in quelli di Ina. «L’ha detto lui» dice ancora Guro. «Ha detto che dovevi leggere la lettera». «Che lettera?»
«Là, sul mobile». Ina attraversa la sala e trova una piccola busta bianca con il suo nome scritto. Lettere stampate con una vecchia macchina da scrivere, apparentemente. Fa per afferrarla, ma sente la mano di Rimbereid sulla sua. «Aspetta». «Avrò pure il diritto di aprire la mia lettera!» esclama Ina infuriata. Rimbereid tira fuori un paio di guanti di plastica e Ina se li infila con le mani tremanti. Le dita tremano mentre solleva la lettera dal mobile. Apre il foglio A4. Due semplici frasi scritte a macchina: Capirai. Tu stessa hai dei figli. Ina si irrigidisce. La mano con il foglio si abbassa. «Come lo interpreti?» le chiede Rimbereid. «Non ne ho idea» mormora Ina. «Ina, tu conosci il rapitore?» incalza Amund. «Non saprei». «L’ha detto lui!» interviene Guro. «Ma certo, ti crediamo» la rassicura Rimbereid. «Un’altra cosa però, Guro: ti ricordi per caso com’era vestito?» «Aveva una specie di… giubbotto» risponde Guro. «... con il cappuccio tirato su. Perché ha detto che aveva freddo. Anche dentro casa!» Ina sente un formicolio per tutto il corpo. «Di che colore era il giubbotto?» chiede a sua figlia.
«Rosso» risponde Guro. «Era un giubbotto rosso».
6
Le bambine si sono addormentate. Elina è crollata subito come al solito, mentre Guro ha faticato un po’ dopo le emozioni della giornata. Per fortuna non si sono molto rese conto, ma abbastanza da spaventarsi. Ina è sicura che stanotte Guro avrà di nuovo gli incubi. E probabilmente anche lei. Una specie di gelo le si è insinuato in corpo e non va più via. Non vuole andarsene nemmeno il dolore alla mandibola, dove è cominciato a comparire uno strano e brutto livido. Ina prova a recuperare la lucidità e a mettere insieme i pezzi che ha in mano. Un uomo sconosciuto (l’assassino? il ragazzino della kickboxing?) è andato a prendere le sue figlie all’asilo e poi, ancora peggio, quella stessa persona è entrata in casa sua con le chiavi. Se il suo scopo era di spaventarla, beh, c’è riuscito appieno. Non riusciranno mai più a stare in casa senza pensarci. Hanno appena chiamato un fabbro in servizio 24 ore su 24, che sta arrivando per cambiare la serratura del portone. Persino Amund, sempre così calmo, ha mostrato segni di nervosismo. Dopo che le bambine si sono addormentate, si è messo a camminare avanti e indietro al piano superiore, entrando a controllarle ogni cinque minuti per assicurarsi che ci fossero per davvero. In pratica non riusciva a scendere al pian terreno. E non l’ha fatto prima del ritorno di Rimbereid, che nel frattempo aveva fatto tutto il giro del vicinato, suonando porta per porta. Ora l’agente Rimbereid è sul loro divano e fa un prospetto della situazione. «Nessun vicino ha notato qualcosa di insolito» riferisce. «Ma non siamo ancora riusciti a parlare con quelli dall’altra parte della strada».
«Erano sicuramente a casa all’ora che ci interessa. Ma adesso non ci sono». «Tanto non hanno visto niente di sicuro. Non ci vede bene nessuno dei due». «Ok, ok. Per riassumere: Guro ed Eline dicono di essere venute in macchina, presumibilmente l’uomo ha parcheggiato giù in strada e poi hanno fatto a piedi l’ultimo pezzetto fino a casa. Le probabilità che qualcuno li abbia visti sono alte…» «La cosa peggiore» interrompe Amund «è che il rapitore deve essere rimasto appostato intorno all’asilo a spiarle, aspettando l’occasione giusta. Voglio dire, non poteva certo sapere che i bambini sarebbero usciti a giocare con questo freddo!? Deve essere rimasto in macchina a spiare a lungo. Qualcuno avrà pur notato la sua macchina anche lì?» «Certo, lo verificheremo» lo rassicura Rimbereid. «Un’altra cosa: in base alle segnalazioni dobbiamo prendere in considerazione che si tratti dello stesso uomo di…» Rimbereid si schiarisce la gola. «… Maridal». «Qualcuno deve averlo visto!» esclama Amund. Il suo corpo freme sui cuscini del divano. «Chi ha una copia delle vostre chiavi di casa?» chiede Rimbereid. «Solo noi due» risponde Amund guardando Ina «e i miei genitori». «Non le avete mai perse?» «No» risponde Amund. «Ne avete una copia in più?» Ina d’un tratto se ne ricorda. Lei ce l’ha una copia in più e non in un posto qualunque, bensì nel cassetto in alto della scrivania in ufficio, che non è nemmeno chiuso a chiave. Ma in quel momento non ha il coraggio di incrociare
gli occhi di Amund e si limita a scuotere lievemente la testa. Proprio allora Ina avverte una vibrazione in tasca. Il cellulare. Lo guarda: Vieni su Skype. Urgente. Trygve. Il messaggio arriva con un tempismo perfetto. Ina si alza. «Che succede?» chiede Amund. «Devo contattare Trygve Winther». «Adesso??» «È importante». «E questo allora non è importante? Le tue figlie sono state rapite!» Rimbereid si schiarisce la gola. «Lasciala andare» interviene. «Riguarda sicuramente il caso e quindi anche le vostre figlie». Vede una specie di disperazione affacciarsi negli occhi di Amund, che subito dopo assume quel suo sguardo di rimprovero che sembra dire: “Non lasciarmi adesso”. Ma è proprio ciò che fa. Il senso di colpa la assale non appena poggia il piede sul primo scalino, ma non si ferma e va avanti finché si chiude nel suo studio. Accende il computer e un attimo dopo scrive a Winther: Ina Grieg: Spero che sia davvero importante. ano cinque secondi. Trygve Winther: Altrimenti non ti avrei contattata.
I: Oggi hanno rapito le nostre figlie. T: Lo so. I: Come fai a saperlo? T: Se ne parla su Internet. I: Ci sono i nomi?? T: No. Ho fatto due più due. I: Credi che sia lo stesso uomo di Maridal? T: È possibile, sì. I: Ha lasciato un messaggio: “Capirai. Hai dei figli anche tu”. Che diavolo può significare? ano cinque secondi. Poi dieci. Ancora niente. Quindi: T: Devi esserne contenta, Ina. I: Contenta?? T: Il messaggio non è un’intimidazione. I: Ci ha minacciati portandoci via le bambine! T: No, al contrario. Vuole che tu capisca che questo è il suo movente. I: Qualcuno ha fatto del male ai suoi figli? T: Bingo. I: Ti sbagli. Il Generale è spuntato fuori in un’altra situazione. T: In che contesto? I: Combattimenti clandestini a Oslo una ventina d’anni fa. Lotte da gladiatori. Ha quasi ucciso un avversario.
T: Wow. Siamo sicuri che sia lo stesso Generale? I: Pare proprio di sì. T: Occupiamoci intanto della lettera. È molto interessante. Apre alla possibilità che tu abbia un rapporto personale con il rapitore. I: È impensabile! T: Stammi a sentire. Ci sei vicina. I: Un’altra cosa. Indovina cosa hanno trovato sul corpo di Heggvik. T: ? I: Un esagramma. E un pentagramma fu trovato su Karsten. Ma l’informazione fu tenuta nascosta. T: QUESTO sì che è interessante. I: Cosa ci leggi? T: Numeri. Karsten = 5. L’ultima vittima = 6. I: Quindi? T: Scoperta numerica = sistema e struttura. I: Un assassino fissato coi numeri? Ma i numeri 1, 2, 3 e 4 allora? T: Appunto. I: ? T: I numeri possono rimandare a un gruppo di persone… I: (!) Sei – o più – persone che hanno fatto un torto all’assassino? T: Una buona teoria. I: Ma non torna. Karsten e Heggvik erano troppo diversi…
T: Esistono molte situazioni in cui persone molto diverse si ritrovano insieme. I: Scuola? Squadra? T: Per esempio. I: Ma se i numeri rimandano davvero a un gruppo di persone, ci saranno altri omicidi … T: O ci sono già stati. I: Cosa? T: Beh, non è molto comune cominciare dal numero 5, no? I: Ma sarebbero stati scoperti… T: Sappiamo troppo poco di come opera. I: I primi omicidi potrebbero essere stati tenuti nascosti? T: È possibile. I: Dunque: stai supponendo davvero che possano esserci stati altri quattro omicidi commessi dallo stesso uomo? T: Non lo so. È una teoria. La migliore che ho per ora. I: Non ci credi nemmeno tu. T: Invece sì. I numeri mostreranno la via in questa indagine. I: Come possiamo agire? T: Bisogna cercare tra i vecchi casi di omicidio. Vedere se si trovano punti in comune. Altri omicidi con elementi numerici, chiese o aspetti rituali. I: Abbastanza specifico… Non mi sento certo più tranquilla adesso T: Devi stare calma, Ina. Il rapitore te l’ha appena detto.
I: Il suo messaggio può significare tutto il contrario! T: No. C’è un’altra cosa, però. Una cosa così banale che ieri mi è sfuggita: la data. I: Cosa? T: È a stessa data. I: ? T: Heggvik & Karsten sono stati uccisi entrambi il 5 dicembre. Un caso? Non direi. I: Dunque dobbiamo cercare omicidi ati compiuti il 5 dicembre? T: Ben detto. Anche la data aiuterà a capire il movente. I: Credi che gli omicidi sono avvenuti il 5 dicembre perché è la data in cui avvenne il torto subito? T: Esatto. La mia teoria è: il 5 dicembre dell’anno X è stato compiuto un misfatto. I: … ai danni dell’assassino o di suo figlio… T: Proprio così. Ed è stato qualcosa di così orribile per l’assassino, che l’unico modo per lui di fare giustizia è compiere l’azione peggiore che possa esistere per un uomo: uccidere.
Chiesa dei Marinai, Lanzarote, giovedì 5 dicembre 1998
Fuori le chiome delle palme si piegano al vento e la pioggia sferza l’asfalto. Sono arrivate le bufere invernali. Il maltempo durerà ancora qualche giorno, poi tornerà il sole e il sereno, ma le temperature saranno più basse, forse scenderanno fino a quindici gradi.
Per Erik Sande guarda fuori dalla finestra. È tardo pomeriggio, ma è già buio. Lascia correre lo sguardo oltre le inferriate del balcone al secondo piano, lungo il viale di Puerto del Carmen, Avenue de la Playas, la via del turismo su cui di solito scorre la vita, gente che viene e che va, confusione di bar, ristoranti, pub. I turisti sono di tutte le nazionalità, specialmente inglesi, ma anche scandinavi. La cosa strana è che quasi tutti gli scandinavi che vedono l’insegna della Chiesa dei Marinai[2] fanno una deviazione e si fermano, anche se non sono cristiani. Sande sente un calore diffondersi in corpo. Pensa al fatto che qui tutti vengono accolti, poveri e ricchi, peccatori e non peccatori. Qui tutti possono trovare riparo, riprendere fiato dalle feste e dalla vita da spiaggia. Guarda il foglio bianco davanti a sé. Il suo sermone. Ha ato quasi mezz’ora a fissare quel foglio. Mancano ancora tre giorni a domenica, ma c’è un motivo se comincia sempre prima a preparare i discorsi. Il fatto è che le parole non gli vengono più. Il vuoto assoluto. In un certo senso si sente… sì, esaurito è la parola giusta. Fatica a trovare un senso in quello fa, a tirar fuori frasi nuove e significative, a provare a convincere gli altri che la parola di Gesù è la verità. È davvero così? Quell’uomo che se ne andava in giro con dodici discepoli era davvero il figlio di Dio? Sande ha cominciato a dubitarne, o meglio, ha sempre avuto dubbi ma l’inquietudine ha preso sempre più spazio dentro di lui. E se Gesù fosse stato semplicemente un pazzo? Uno che era uscito di testa? Anche oggi sono in molti a immaginarsi, anzi ad essere certi di essere i veri salvatori dell’umanità, ma per lo più vengono rinchiusi in istituti psichiatrici e se ne stanno rannicchiati negli angoli bui.
Inoltre ci sono diverse cose nel maestro di duemila anni che Sande trova sempre più difficili da mandare giù. Per quanto riguarda l’aspetto meno credibile di tutti, e cioè l’essere nato da una vergine, lo stupisce ad esempio che la cosa sia menzionata solo nel Vangelo di Matteo e non negli altri tre. Strano. Il racconto su Gesù è arrivato in quattro diverse versioni, mediato da quattro diversi narratori e ognuno mette l’accento su diversi episodi della vita di Gesù. A volte invidia gli ebrei, perché hanno un solo libro e una sola verità con cui confrontarsi. A Sande non piacciono tutte le immagini spaventose del Vecchio Testamento, ma anche nel Nuovo non mancano parole terribili, persino pronunciate dalla bocca di Gesù. Alcune frasi gli si sono impresse a fuoco nella coscienza. Chiude gli occhi e le parole gli affiorano sulle labbra: Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Matteo 13: 49-50 Una ventata fa sbattere una finestra. La pioggia sferza il vetro. Sande riapre gli occhi. Quale destino spetterà a lui? La fornace ardente? Continua a fissare il foglio bianco. Quella domenica non verranno in molti, perché l’inizio di dicembre è un periodo morto per il turismo. I norvegesi se ne stanno a casa a fare preparativi per il Natale. Dietro le insegne luminose al neon lungo il viale del eggio è tutto vuoto e i baristi se ne stanno seduti da soli al bancone a fissare qualche schermo. In giorni come quelli non si affaccia nessuno nella Chiesa dei Marinai. Tuttavia ci deve pur essere qualcuno che per le ragioni più disparate si trova a are l’inverno a Lanzarote, ad esempio qualche malato affetto da gotta o da psoriasi. Capita anche che qualcuno fugga dallo stress natalizio norvegese.
L’uomo con il cappello dev’essere di quest’ultimo tipo. Nell’ultima settimana è ato ogni pomeriggio. Sande ha sentito i suoi i sulle le tavole del pavimento sempre alle 18:30 precise, poi si versava una tazza di caffè, si sedeva sulla poltrona di vimini dal lato corto del tavolo di pietra a leggere il giornale fino all’orario di chiusura. Alle 19:00 si alzava di scatto e tornava fuori nella bufera. Quante anime perse per il mondo, pensa Sande includendovi se stesso. Chiude gli occhi. “La speranza è per chi è solo e perduto” pensa, “non per i fortunati. Tutte le anime possono trovare la salvezza, anche il peggiore dei peccatori”. Sande avverte un lieve tremito alla mano e poi le parole cominciano a fluire insieme alla penna sul foglio: Gesù, figlio di Dio, è stato crocifisso per i nostri peccati. Dio Padre ha sacrificato ciò che aveva di più caro: il suo proprio figlio. Ha mandato il figlio sulla terra con un compito, ovvero mettere a posto il caos che avevamo creato, spazzare via l’immondizia dei nostri peccati, darci l’opportunità di ricominciare da capo, di fare tabula rasa. Ma noi non abbiamo colto l’opportunità. L’uomo ha continuato a scegliere il peccato. Perché? Perché scegliamo sempre la via del male? Questa domanda rimanda a sua volta a un altro paradosso: perché è possibile scegliere il peccato? Possiamo credere che un Dio buono ci voglia così male da seminare le tentazioni proprio davanti al nostro naso? Menzogna, fornicazione, ebbrezza. Perché abbiamo la possibilità di scegliere tra queste cose? Litigi. Guerre. Conflitti.
Perché devono essere soluzioni possibili ai nostri problemi? La penna si ferma. Sande rilegge le sue frasi e realizza che i suoi sermoni finiscono sempre su questo paradosso: perché l’uomo sceglie il male, se il bene si trova lì accanto come soluzione alternativa? Il cristianesimo ha proposto molte risposte a questa domanda, tra cui la più convincente è che l’esistenza non è altro che una lunga serie di prove che nel giorno del giudizio distingueranno i buoni dai cattivi. E in base alle nostre scelte finiremo in paradiso o all’inferno. Semplicemente così. Eredità dell’Antico Testamento. Premio o punizione. Paradiso o inferno. Bianco o nero. Sande fa un sorriso sarcastico. Ovviamente è tutto molto più complicato di così. La penna ricomincia a scorrere sulla carta. Perché l’uomo sceglie il male? Sono infinite le risposte a questa domanda, come infinite sono le circostanze attenuanti: un’infanzia difficile, un ambiente sbagliato, povertà, oppressione. Il nostro background, i nostri geni, le zavorre che volontariamente o involontariamente ci trasciniamo dietro nella vita e non da ultimo gli ambienti che ci troviamo a frequentare, faranno sì che sceglieremo diversamente a seconda della situazione. L’importante è che Dio ci ama per quello che siamo. E sapete in cosa credo? Io credo in un Dio misericordioso. Un Dio che ci capisce. Che sa mettere i nostri peccati in prospettiva e non ci giudica ciecamente. Siamo tutti peccatori agli occhi di Dio, tuttavia Egli sa che alcuni di noi non hanno avuto scelta e perciò perdona i nostri errori. Sbagliare è parte integrante della natura umana: il Dio d’amore ci accetterà e ci amerà con tutte le nostre mancanze.
Per questo anche noi dobbiamo amare Dio e il nostro prossimo. Questo è il pilastro di ogni civiltà. Sande si rende conto di essersi quasi commosso. “Quante cose abbiamo in comune noi uomini” pensa “eppure, quanto siamo irrimediabilmente diversi e quanti conflitti siamo capaci di creare”. In quel momento sente dei i giù in chiesa e getta una rapida occhiata all’orologio. Le 18:30. L’uomo col cappello. Sande si alza. Basta cristianesimo da scrivania. Ora vuole incontrare un uomo in carne ed ossa. Forse è venuto proprio in cerca di compagnia? Forse non aspetta altro che un segno di socievolezza da parte del prete? Sia quel che sia, è Sande in prima persona a sentire il bisogno di stare con qualcuno. È una cosa che ha a che fare con le bufere invernali e il buio. Gli ricordano… Un brivido lungo la schiena. Affretta il o, scende le scale di corsa ed entra nel salone comune. Come si aspettava, eccolo lì l’uomo col cappello, sulla poltrona di vimini a leggere l’Aftenposten odierno. Sande si avvicina. «Allora? Qualche novità dal nostro paese, oggi?» L’uomo col cappello alza lo sguardo dal giornale, non risponde e torna ad abbassarlo. «Non sono qui per divulgare il Verbo di Gesù» si affretta ad aggiungere Sande, «se è questo che la spaventa. La lascio leggere il giornale e bere il suo caffè in pace».
Silenzio. Sande mette le mani dietro la schiena e comincia a ritirarsi, ma non appena messo il piede sul primo scalino sente la voce dell’uomo alle sue spalle. «È accaduto qualcosa di terribile una notte in Norvegia» dice. Sande si irrigidisce nel suo movimento. Si volta e studia nuovamente l’uomo. Riesce a malapena a scorgerne il volto sotto al cappello. La barba di qualche giorno, ma soprattutto gli occhi, è come se lo assero da parte a parte. «Ah sì?» fa Sande. «Sono qui per ricordartelo». Un altro brivido corre lungo la schiena del prete. C’è qualcosa di affettato in quella voce. E nello stesso tempo… come dire… di represso. Come se non avesse proferito parola per lunghissimo tempo. Una specie di voce ancestrale. La sua figura gli ricorda qualcosa… Il salvatore? Sande si schiarisce la gola. «Allora?» «Ti ricordi la ragazza, Sande?» «Che ragazza?» «Quella del camper». Sande sussulta. «Ha sussurrato il tuo nome» aggiunge l’uomo col cappello. «Il mio nome?» «Rølvåg e Sande…» ribadisce l’uomo, «Rølvåg e Sande…»
Il prete è afferrato da una sorta di dolore, prova a chinare il capo ma l’uomo lo inchioda con lo sguardo. «Ora devi aiutarmi con un altro nome. L’ultimo». L’uomo gli porge una busta, Sande la prende e la apre. Dentro c’è un biglietto e il prete lo solleva alla luce. C’è scritta una sola parola, un soprannome che paralizza ogni muscolo del suo corpo. «Ti ricordi il Generale?» domanda l’uomo. Sande ha un sussulto e prova di nuovo a scrutare il volto dell’uomo. Gli sembra di riuscire a scorgerlo un po’ meglio adesso e i suoi tratti si delineano pian piano. Occhi che vibrano sotto al cappello. «Scrivi il nome di quest’uomo. Adesso!» gli intima. Sande osserva incredulo la penna che gli viene offerta. Non capisce perché mai dovrebbe scrivere quel nome. Non ha senso, tuttavia alla fine prende la penna, velocemente, purché finisca tutto il prima possibile. Il cuore gli batte impazzito nel petto mentre restituisce il biglietto. «Bene» dice l’uomo. «Sapevo che mi avresti aiutato». Osserva il nome sul biglietto, poi chiude gli occhi e comincia a dondolare la testa, come se lo stesse imparando a memoria. Infine riapre gli occhi e li affonda in quelli di Sande. «E il ragazzo, te lo ricordi?» gli chiede allora. Lentamente si toglie il cappello. «Il ragazzo?» L’uomo non risponde, si limita a tendergli il cappello. Dentro di esso è riposta una foto. La foto di un ragazzo.
Il volto mostrato in un’orribile smorfia, come se qualcuno lo stesse infilzando con degli spilli. «Non te lo ricordi?» Sande abbassa lo sguardo e annuisce. «Come potrei dimenticare…» «Credi nell’inferno e nel paradiso, Sande?» «No» sussurra lui. «Io sì» replica l’uomo. «Io sono stato all’inferno. So com’è fatto». L’attimo dopo lampeggia un coltello. «Ora è il tuo turno di bruciare all’inferno». * La croce che l’uomo avrebbe poi legato alla gamba di Sande fu rinvenuta dalla polizia spagnola e menzionata tra i dettagli del rapporto sull’omicidio. Ma non c’era niente di stupefacente in una croce ritrovata su un prete. Nessuno la collegò al numero quattro. Due braccia per due. In seguito la croce venne messa in uno scatolone insieme ai pochi effetti personali di Per Erik Sande e chiusa in una qualche cantina di Puerto del Carmen.
[1] Erik Andersen, norvegese, arrestato nel 2008 con l'accusa di molestie sessuali verso centinaia di minori perpetrate fin dal 1976. [2] La Chiesa dei Marinai, o Chiesa Norvegese all'Estero, è un'organizzazione ecclesiastica che fornisce servizio religioso ai norvegesi in viaggio fin dal 1864 con chiese sparse per tutto il mondo. Nata per offrire conforto religioso ai marinai norvegesi, è oggi più che altro un luogo di ritrovo dove i viaggiatori norvegesi possono ritrovarsi, leggere i loro giornali, comprare cibo di casa.
[3] Max Manus (1914-1996), famoso partigiano norvegese, scrisse due autobiografie dalle quali nel 2008 fu tratto il film biografico “Max Manus” per la regia di Joachim Rønning e Espen Sandberg [4] Petter Dass (Herøy, 1647 – Alstahaug, 1707), oltreché pastore protestante, fu il più grande poeta norvegese del Seicento.
Giorno 3
Giorno 3 Mercoledì 8 dicembre 2010 1
C’è un silenzio di tomba nella sala conferenze della centrale di Grønland. Hege Rimbereid ha appena concluso di riferire sugli avvenimenti del giorno prima: sul rapimento delle figlie di Ina e poi sulla svolta inaspettata, ovvero che Eline e Guro fossero state portate a casa da un uomo sconosciuto e ritrovate davanti alla tv a guardare il loro cartone animato preferito. Nel riascoltare i fatti, anche se è ato un giorno, Ina sente un formicolio per tutto il corpo. Persino il viso di Inger-Lise Lie sembra segnato, sprofondato nei suoi pensieri sulla sua sedia sul podio. Gli agenti, nelle file di banchi, sono seduti in totale silenzio. «Le segnalazioni coincidono con quella del testimone di Maridal» aggiunge Rimbereid. «Giubbotto rosso. Potrebbe trattarsi dello stesso uomo». «Siamo proprio sicuri che sia un uomo?» domanda Lie. «Le figlie di Ina hanno detto così». «Manda la Scientifica su a Nittedal, Arnholt. Bisogna trovare qualche traccia del rapitore… e controlla se le telecamere di sicurezza hanno ripreso la macchina… cos’era? Una Ford scura?» «Non sprecare tempo» interviene Rimbereid. «Abbiamo già il numero di targa».
«Davvero?» «Il vicino di casa di Ina l’ha annotata». «Incredibile». «La targa è: DC 35923». «Arnholt, fai una ricerca nel nostro sistema». «Non ce n’è bisogno» dice ancora Rimbereid. «Si tratta di una Ford Mondeo S/W 1,8 station wagon nera ed è stata noleggiata alla Hertz dell’aeroporto di Gardermoen due giorni fa. È stata ritrovata stanotte nel Parcheggio Ibsen, con le chiavi inserite». Lie guarda Rimbereid con scetticismo. «Forse avete anche il nome di chi l’ha affittata, allora?» «Jacob Wilhelm Nordan». «Nordan? Un nome falso?» «No, in realtà il nome è vero, solo che Jacob Wilhelm Nordan è morto più di cento anni fa». «Ma…» «Lasciami finire.» la interrompe Rimbereid «Nordan è un architetto dell’Ottocento. Le sue opere più famose sono la stazione di polizia di Møllergata e gli archi che danno sulla piazza di Youngstorget. Chiunque abbia visto il film su Max Manus[3] conosce il forte valore simbolico che assunse quell’edificio durante la guerra» «La stazione di polizia divenne la base della Gestapo» interviene l’agente Sørensen, «e venne usata come prigione e luogo di tortura». Rimbereid annuisce. «Però non credo che sia questa la cosa rilevante».
«Ah no?» incalza Lie. «La specialità di Jacob Wilhelm Nordan erano le chiese. Ha progettato più di cento chiese in Norvegia, tra le quali quelle di Sofienberg e di Kampen qui a Oslo. Tornando al caso però, la cosa significativa è che ha disegnato lui anche la chiesa di Nittedal». Ina percepisce l’irritazione di Lie. È arrivato il momento per Rimbereid di tornare al suo posto e mettere via quel tono saccente, altrimenti è quasi certo che verrà presto esclusa dalle grazie del falco. «Come ha fatto ad affittare l’auto sotto falso nome?» domanda l’agente Sørensen. «Avrà dovuto lasciare un documento». «Ottima domanda» risponde Rimbereid. «È evidente che ha ingannato il personale della Hertz». «Bene!» esclama Lie rivolta a tutti. L’eco della sua voce si affievolisce e poi scompare. «Pensiamo un momento a te, Ina, il rapimento deve essere stata un’esperienza terribile. Immagino che siano stati presi provvedimenti anche su questo fronte, giusto?» «C’è un agente in borghese all’interno dell’asilo, sotto copertura come dipendente». «Benissimo» commenta Lie afferrando il quotidiano VG. «iamo a un’alta cosa, allora. I giornali oggi sguazzano nel nostro caso. Potete dirmi dove diavolo hanno preso le informazioni? Qui parlano persino dell’esagramma, dettaglio che è venuto fuori unicamente in questa stanza». Il viso di Inger-Lise Lie si fa sempre più rosso, mentre il suo petto soleva e si sporge in avanti. Ina percepisce l’atmosfera cambiare completamente in un nanosecondo. Tutti trattengono il fiato. La Lady di ferro sta tornando in vita. «Qualcuno qui si è divertito a spifferare» tuona ancora Lie. «E quel qualcuno perderà il posto non appena scoprirò chi è». Nessuno fiata e Lie si calma un po’.
«Torniamo alla nostra psicologa. Mi sembra di aver capito che hai un teoria in base alla quale l’assassino avrebbe diversi omicidi sulla coscienza, dico bene?» «Esatto.» risponde Ina «Forse addirittura altri quattro e tutti compiuti in data 5 dicembre». «Su cosa si basa questa teoria?» «Gli omicidi di Maridal e di Hakadal sono stati commessi lo stesso giorno. Non può essere un caso. Inoltre sui cadaveri sono stati collocati i numeri 5 e 6. Crediamo che possano alludere a una serie numerica e che dunque possano esserci state altre quattro vittime». «Anche gli altri sarebbero stati uccisi all’interno di chiese?» «Non lo sappiamo» ammette Ina. «Ma è molto probabile che si tratti dello stesso assassino. Un assassino paziente e interessato a sistematicità e struttura». «Quando dici “noi”, ti riferisci a te e all’agente Rimbereid?» Ina annuisce. Non vuole mettere in mezzo Winther. Lie cerca riscontro negli sguardi degli altri agenti e per la prima volta a Ina sembra di scorgere una punta di incertezza su quel volto solitamente così sicuro. «Grazie Grieg» conclude. «Tu che mi dici, Halle? Cosa hai scoperto sull’infanzia di Heggvik a Sogn?» «Non molto» risponde Halle, un agente alto, dai capelli corti e rossi ed evidentemente nervoso. «Ho parlato al telefono con un agente della polizia di Vik, che ha avuto parecchie difficoltà a raccogliere informazioni. Quasi nessuno si ricorda più di Heggvik». «Quanti abitanti ci sono a Vik?» «Non arrivano a 3000 in tutto il comune». «E tuttavia non lo conosce nessuno?» «Sono ati più di trent’anni da quando se n’è andato» commenta Rimbereid
con secchezza. Halle le manda uno sguardo di gratitudine. «Anche i suoi genitori sono morti» aggiunge l’agente. «Ma ha ancora una sorella che vive a Vik. E lei in effetti ha una brutta storia alle spalle…» Halle scartabella tra i suoi fogli e prosegue. «… l’agente di Vik mi ha raccontato che fu aggredita mentre tornava a casa da una festa. Perse diversi denti e gli ruppero uno zigomo con un pungo solo». Ina sussulta sulla sedia. Le tornano in mente frammenti della conversazione con Tore. «Secondo una delle nostre fonti» interviene esitante. «il Generale sarebbe capace di colpire con una forza fuori dal comune. Anche questa potrebbe essere opera sua». «Che fonte?» «Mi dispiace, ho promesso di mantenere l’anonimato». Ina si rende subito conto della reazione di Lie dalla sua espressione. È scettica e anche Rimbereid si mostra sorpresa, visto che non ha fatto menzione nemmeno con lei della storia di Tore. Ma Lie reagisce in modo aggressivo al suo contributo, alla fine scoppia. «Non devi scordare mai che sono io la responsabile di questa indagine. Se scopro che ti metti a giocare al detective alle mie spalle sei fuori, capito? Mi ci vuole un attimo a metterti sotto interrogatorio se viene fuori che ci tieni nascosto qualcosa, ci siamo chiariti?» Ina si sente avvampare, ma si morde la lingua e prova a reagire con una specie di sorriso, annuendo. Deve per forza provare a restare nella squadra di Lie il più a lungo possibile, non deve perdere il controllo adesso. Per fortuna anche l’ispettore sembra calmarsi un po’. «La tua teoria però è interessante» conclude infatti.
«Quando è avvenuta l’aggressione contro la sorella?» domanda Rimbereid. Ina la guarda con gratitudine. «Nel 1981» risponde Halle. «Violenza sessuale?» chiede Lie. «No, solo un pugno. Ci furono speculazioni sul fatto che l’aggressore avesse utilizzato o meno un pugno di ferro. Lo zigomo era maciullato». «La ragazza si è ripresa dopo l’episodio?» «Beh, fisicamente sì» risponde Halle. «Ma queste cose restano. Tu che sei psicologa conosci ovviamente i meccanismi…» Ina annuisce. Oh sì. Purtroppo li conosce fin troppo bene. Le vittime di violenze sviluppano spesso forti ansie, restano intrappolate in spirali negative e finiscono per isolarsi sempre di più, invece di chiedere aiuto. «Ok» interviene Lie. «Altre informazioni su Heggvik?» «L’agente di Vik ha interrogato diversi suoi coetanei. Un compagno di classe delle medie lo ha descritto come “nervoso e incapace di socializzare”. Ha detto che veniva spesso picchiato dai compagni, nonostante fosse più alto e forte. Heggvik non ha mai frequentato le superiori. Ha lavorato un paio d’anni come elettricista in un’impresa locale. Lo descrivono come una specie di genio della meccanica, però se ne stava per lo più per conto suo. A un certo punto, alla fine degli anni Settanta, se n’è andato e non è più tornato». Lie annuisce e si rivolge a Ina. «Che ne pensi, Grieg?» «L’aggressione alla sorella è interessante» commenta Ina. «È esattamente il tipo di episodio che può rappresentare il movente per una vendetta. Per quanto riguarda Heggvik, la combinazione tra forza fisica e timidezza a socializzare è abbastanza bizzarra». Halle si schiarisce la gola.
«Beh, ora che dici così, ecco… l’agente di Vik mi ha raccontato un’altra storia di un compagno di classe. Una storia… un po’ strana per dirla con un eufemismo. Insomma il compagno sosteneva che Heggvik fosse affetto da quello che la medicina chiama “pene retratto”». «Di che si tratta?» domanda Lie. Halle fissa il banco, nervoso. «Beh… ad alcuni uomini capita che, quando il pene è… rilassato, si ritiri completamente fino ad essere quasi risucchiato dal corpo. Quasi come ai cavalli». «Dio mio.» mormora Lie «Poveracci». A Ina sembra tuttavia di scorgerle un piccolo accenno di sorriso agli angoli della bocca, prima che cominci a grattarsi il mento come per nascondere la sua reazione. «Ok, ok» dice infine. «Ora dobbiamo muoverci di qui. Comunque direi che abbiamo molto su cui lavorare. Halle: scava di più nel ato di Heggvik. Approfondisci l’aggressione alla sorella. Arnholt: contatta la società responsabile della sicurezza del Parcheggio Ibsen e controlla se abbiano ripreso una Ford Mondeo nera. Poi fai una ricerca sul 5 dicembre nei nostri database e vai indietro negli anni. Vedi se viene fuori qualcosa». Lie fa un sospiro e poi aggiunge: «Sørensen: mi serve il tuo aiuto per gestire i media, la pressione inaudita dei giornalisti e questa dannata fuga di notizie. Questo è rivolto a tutti: tenete chiuse quelle maledette di bocche!!» 2
Ina si stringe nel cappotto e si affretta a raggiungere il suo ufficio a Nittedal. Il freddo le si insinua ugualmente nelle ossa e piccole ondate di dolore le attraversano la mandibola. Tuttavia prova a mettere da parte il disagio e a concentrarsi completamente sul Generale, vuole trovare la giusta chiave di
lettura per la persona che pare avere il ruolo principale nella zona cieca della loro indagine. Chiude gli occhi e rievoca le parole di Tore “l’unica cosa che ricordo… è lo sguardo del Generale… gli occhi intensi nella maschera d’oro...” In effetti lei conosce un paziente con un simile, imperscrutabile sguardo. Un uomo fisicamente imponente che ultimamente l’ha inchiodata con lo sguardo ed effettivamente avrebbe anche potuto trovarsi nei dintorni dell’asilo al momento del rapimento delle bambine. Ina sente il battito accelerare. Gli occhi penetranti di Karl Osberg le ricompaiono davanti. Apre il portone dello studio e raggiunge l’accettazione, dove la accoglie invece lo sguardo preoccupato di Maria Souranta. «Tutto bene, Ina?» «No». Percepisce la reazione spiazzata di Souranta, ma in quel momento non ha nessuna voglia di chiacchiere di cortesia. «Le bambine?» «Se la cavano». Souranta deglutisce. «Prima ha chiamato Jon» dice infine. «Ha dovuto aspettare un operaio, ma arriva subito. Era molto preoccupato per te». «Ok». «Credevo che avessi cancellato tutti gli appuntamenti di oggi» aggiunge poi. «Sarebbe stato meglio, no?» «Devo solo controllare una cosa in archivio.» risponde Ina. «A proposito: hai le chiavi della cantina?» Souranta cerca dietro al bancone.
«Mmm… strano, non ci sono. Credo che Erling ne abbia una copia». «C’è oggi?» Souranta fa un cenno verso sinistra. Solo allora Ina si accorge di Erling Kåven, il tuttofare, con la testa infilata nella macchina del caffè. Ina lo raggiunge a i veloci. «Oh no … niente caffè nemmeno oggi?» Kåven tira fuori la testi. Ha un cacciavite nella mano destra e le dita tutte sporche. «Già, è una cosa triste» risponde Kåven. «Manca solo un pezzetto minuscolo, ma il produttore non ne ha più in magazzino. Volevo vedere se riuscivo ad aggiustarla lo stesso, ma non ce l’ho fatta». «Beh, vorrà dire che non potremo più calmare i pazienti a forza di caffeina!» «Eh no, come si fa a guarire senza caffè?» dice Kåven facendo l’occhiolino. «Nel frattempo lo porterò io da casa». Il tuttofare fa un cenno verso il bancone della reception, dove è appoggiato un termos. Ina sorride. Gli è sempre piaciuto Kåven. È con loro fin dall’inizio. Quando si misero a cercare un tuttofare per lo studio che venisse un giorno alla settimana, Ina fu la prima a cedere al suo fascino del Nord. Karsten e Jon temevano che fosse troppo vecchio, ma a Ina Kåven era sembrato dotato di una certa sensibilità, a differenza degli altri candidati. Ciò che la spaventava era l’idea di mettersi in studio un impiccione senza rispetto per i disturbi psicologici. Già a quel tempo Kåven era vicino all’età della pensione, ma si sentiva “più in forma che mai”, come disse durante il colloquio. In effetti ha sempre tenuto fede a quelle parole. «Devo fare un salto giù in cantina» gli dice Ina. «Hai la chiave, vero?»
Kåven mette via il cacciavite. «Sì» risponde. «Seguimi». Poco dopo Ina e il tuttofare sono per le scale, uno spazio angusto di cemento grigio. Nessuna finestra e nessun colore, solo i gradini, la plastica nera del corrimano, il suono dei loro i, le scarpe che provocano piccoli schiocchi metallici. «Le bambine stanno bene?» Il cuore le balza in petto e continua a battere al ritmo di quella domanda che aleggia nell’aria. “Le bambine stanno bene?” … “Le bambine stanno bene?” … “Le bambine stanno bene?” … Ina si ricorda tutt’a un tratto delle chiavi di casa nel cassetto della scrivania in ufficio. È possibile che qualcuno le abbia prese da lì? Ma chi? Souranta? Kåven? Jon? No, è impensabile. Si rende conto all’improvviso che sta fissando Kåven negli occhi. «Sì, stanno bene» risponde Ina. «Ma come si fa a fare una cosa del genere… I figli sono la cosa più preziosa che abbiamo». «Immagino che debba essere questo l’argomento di conversazione principale, oggi». «Temo di sì, Ina». Kåven armeggia con il portachiavi. «Eccoci qui». La porta di cemento che dà accesso al magazzino degli archivi cigola mentre Kåven la tira a sé. Il tuttofare entra e prova ad accendere la luce, ma
l’interruttore non funziona. Un clic a vuoto. I contorni della cantina cominciano comunque ad affiorare alla debole striscia di luce proveniente dal corridoio. Una piccola stanza quadrata immersa nell’oscurità con le pareti di cemento e un odore metallico di chiuso. L’aria è fredda e secca. Lungo la parete di fondo ci sono tre armadi di metallo, due dei quali sono pieni di raccoglitori con documenti e cartelle cliniche in ordine alfabetico. Lei e i suoi colleghi avevano presto intuito il pericolo di catalogare elettronicamente i dati dei pazienti. Se i computer si beccavano un virus o se qualcuno riusciva a infilarsi nel sistema, le conseguenze sarebbero state catastrofiche. Informazioni sensibili sui pazienti sarebbero state a disposizione di chiunque. Perciò si erano messi accordo di archiviare le cartelle cliniche in un modo che si distanziava un po’ dalle direttive centrali: le informazioni sui pazienti potevano rimanere sui computer al massimo per un anno, dopodiché lo psicologo aveva la responsabilità di archiviare là sotto le stampe cartacee delle cartelle e di cancellare i file digitali. Era stato specialmente Jon Bork a insistere per quella soluzione. Era un po’ paranoico riguardo alle violazioni dei computer dall’esterno. Ora Jon e Ina avevano ognuno il suo armadio giù in cantina. Il terzo era appartenuto a Karsten. Ina ricorda perfettamente il giorno di cinque anni prima in cui Rimbereid aveva aperto l’archivio di Karsten trovandolo completamente vuoto. Chi era stato a svuotare l’armadio? Karsten stesso? L’alternativa, ovvero che fosse stato qualcun altro senza autorizzazione, era di gran lunga peggiore. Ma la domanda più importante che da quel giorno era rimasta senza risposta era se nell’archivio di Karsten ci fossero state informazioni potenzialmente pericolose per lui o per qualche paziente. «Ehi Ina! Posso tornare alla macchina del caffè?» La voce di Kåven la riporta alla realtà.
«Sì, certo, grazie». «Dopo scendo a mettere una lampadina» aggiunge Kåven indicando il soffitto. «Buona fortuna!» «Grazie …» mormora Ina, come da un altro pianeta. Il rumore di i veloci che si allontanano svanisce alle sue spalle, mentre Ina estrae il portachiavi. La serratura del suo armadio è un po’ dura, ma alla fine scatta. Apre il cassetto di mezzo e scorre tra le lettere: K… L… M… N… Eccola qui. O. «Osberg, Karl». Tira fuori la cartella e in un attimo panico la paralizza: è vuota! In quello stesso istante sente un rumore sordo e il buio si fa totale. Qualcuno ha chiuso la porta sul corridoio! Si sente girare la chiave nella serratura. «Ehi!!» urla Ina nel buio. Nessuna risposta. Tutto ciò che sente sono i i che si allontanano lungo il corridoio. Batte i pugni contro la porta di cemento ma inutilmente. Neanche lei riesce a sentirne il rumore. Ina si sfrega le mani sulle braccia, mentre il gelo della cantina si chiude su di lei.
3
La pesante porta di cemento si socchiude scricchiolando e dal corridoio torna a insinuarsi una striscia di luce. Il cuore le rimbomba nel petto, solleva i pugni e si mette in attesa di chiunque stia entrando. Una voce all’improvviso echeggia nella stanza.
«Oddio Ina, ma che ci fai qui?» Jon Bork è di fronte a lei spaventato a morte. «Mi hai fatto prendere un colpo» aggiunge subito dopo. «Potrei dire lo stesso. Mi stavi chiudendo dentro, dannazione» replica Ina, «Quando pensi che mi avrebbero ritrovato? Tra una settimana? Due?» Jon evita il suo sguardo. «Mi dispiace» risponde lui. «Scusa, scusa, scusa davvero. Volevo solo parcheggiare la bici in fondo alle scale e mi sono accorto che la porta della cantina era aperta. Non ti ho vista…» Ina sente il battito del suo cuore calmarsi e osserva il collega. Jon viene al lavoro in bicicletta da Lørenskog, pedalando per più di tre chilometri al giorno indipendentemente dal tempo, la stagione o la temperatura. Persino con venti gradi sotto zero prende la bici, quell’incorreggibile pazzo di Trøndheim. I riccioli brizzolati schiacciati dal casco la dicono lunga. Secondo Ina, Jon Bork manifesta tutta una serie di classici sintomi maschili da crisi di mezza età, tra cui la BMW nuova, il corso di se, correre la gara di Birkebeinerrittet in mountain bike e fare sollevamento pesi tre volte a settimana. Jon è bassino e in gran forma. I pantaloncini da ciclista aderiscono alle cosce muscolose. Non è male, ma non è il suo tipo: troppo egocentrico e assillante. Jon è di Trøndheim, è sposato con Tone, che fa la farmacista e insieme hanno una figlia che si chiama Jenny e va in seconda elementare. Ina e Amund sono andati a trovarli due volte, ma non hanno mai ricevuto nemmeno una visita da parte loro. Jon ha rifiutato parecchi inviti, sempre con scuse nuove e un po’ evasive. Ina sospetta che sia un po’ insicuro nelle situazioni sociali in cui non sia lui a condurre il gioco: persone con questa tendenza preferiscono invitare piuttosto che essere invitate. Una cosa che non si può negare è che sia uno psicologo eccezionale e dotato di una spiccata intelligenza. Però è anche un inguaribile polemico, con idee tutte
sue rispetto a molte questioni professionali. Ad esempio è un difensore dell’elettroshock, benché solo per i casi più estremi e questa è una posizione a dir poco inusuale per uno psicologo. Per il resto Jon è un conversatore brillante, di una cultura fuori dal comune su qualsiasi argomento. È capace di uscire con classe dai confronti più difficili e di intimidire anche i peggiori saccenti. Non c’è dubbio che si serva delle sue doti oratorie negli incontri con i pazienti. Ora è Jon a studiare Ina con attenzione. «Che ci fai tu quaggiù?» «Dovevo controllare una cartella clinica» risponde Ina chiudendo l’armadio. «Ho sentito delle bambine» dice Jon dietro di lei. «Stanno bene?» «Tutto sommato sì». «Senti Ina, perché tu e Amund non venite a trovarci… magari domani sera? Di sicuro vi farebbe bene staccare un po’». «Non saprei Jon…» «Avete bisogno di uscire, di vedere facce diverse, di pensare a qualcos’altro. Dovete farlo il prima possibile, fidati, sono uno psicologo». L’ultima frase è una loro battuta ricorrente, solo che oggi sembra fuori luogo. «Non possiamo lasciare le bambine adesso». «Portate anche loro!» ribatte Jon. «Potete anche restare a dormire. Abbiamo una casa enorme, con due camere per gli ospiti. Vi farebbe bene, davvero». Ina si arrende. «Ok. Ne parlo con Amund». «Brava! Che si fa? Torniamo su?» Ina sospira.
«Sì. A quanto pare ho finito qua sotto». Escono dalla sala degli archivi. La pesante porta di cemento si richiude e Ina dà un giro di chiave. Si ferma un attimo a soppesarla: qualcuno potrebbe davvero aver preso le sue chiavi di casa dalla scrivania e poi aver rapito le figlie? E magari aver anche ucciso Heggvik e Karsten e forse altri? Ma perché quel qualcuno sarebbe interessato proprio a lei? Ina non riesce minimamente a capire quale possa essere il suo ruolo in tutta quella faccenda. Percorrono in fretta il corridoio, fianco a fianco. «Non ti si vede quasi più ultimamente» Jon interrompe i suoi pensieri. «Parecchio lavoro per l’indagine?» «Già». «Avete scoperto qualcosa su Karsten?» «Non molto di nuovo, no». «Tutta questa storia è orribile. È per questo che eri in archivio?» «Era così scontato?» Jon apre la porta della reception. «Mi raccomando, venite domani! Salutami Amund e digli che ha l’obbligo di presenza!» «Di sicuro sarà troppo occupato a impastare il suo pane integrale» Jon le lancia un sorriso malizioso e scuote piano la testa. «Sei cattiva, Ina. Proprio proprio cattiva!» Poi si dirige verso il guardaroba, mentre lei va alla reception. Si rende conto che l’ultima battuta di Jon le sta risuonando in testa. Si spinge sempre un po’ oltre i confini professionali e probabilmente lo fa con intenzione. Ina raggiunge Kåven vicino alla macchina del caffè e gli restituisce le chiavi, poi si affretta verso il suo ufficio.
Chiude la porta e raggiunge a i svelti la scrivania. Sente il cuore accelerare e prova a respirare profondamente. Ora finalmente è da sola e può controllare se le chiavi di casa sono nel loro solito nascondiglio. Apre lentamente il primo cassetto. Le chiavi sono lì. Tira un sospiro di sollievo e altrettanto lentamente richiude il cassetto. Ma d’un tratto è presa dall’incertezza, come se ci fosse qualcosa che non torna, qualcosa di storto. Sente con tutta se stessa, che c’è un’asimmetria nella stanza, qualcosa di diverso da come l’aveva lasciato. Ed ecco che mette a fuoco di cosa si tratta: sulla scrivania ci sono tre volumi, impilati ordinatamente l’uno sull’altro. Beh, non c’erano l’ultima volta che è stata in ufficio. Solleva cautamente il primo. Riconosce la calligrafia, bella e inclinata all’indietro. Poi, non appena legge cosa c’è scritto, si mette una mano davanti alla bocca: Diario di Karsten Scheel 1966-1977 Di nuovo sente il battito accelerare. Oddio, eccoli qui. Ecco i segreti di Karsten, di tutta la sua vita. Chi le può aver messo i diari sulla scrivania? Qualcuno si è introdotto anche in ufficio? Ina chiude raramente la porta dell’ufficio, ma quella dello studio è sempre chiusa. Cerca di fare chiarezza tra i suoi pensieri, ma non le riesce. Comincia a insinuarsi dentro di lei la consapevolezza che qualcuno stia seguendo ogni suo o. Ma chi? La cosa peggiore è che i potenziali candidati sono davvero pochi. Un paziente o qualcun altro dello studio. L’unica certezza è che qualcuno vuole rivelarle i pensieri più intimi di Karsten, segreti in cui lei stessa potrebbe avere una parte.
4
La at argentata procede a velocità regolare lungo la Statale 4. Alla sinistra di Ina e Rimbereid migliaia di lucine lampeggiano all’orizzonte sulla città immersa nel buio. Procedono verso Oslo, nella direzione opposta a quella del traffico. Ina è sfinita, mentre Rimbereid è di buon umore e fischietta su una canzone alla radio. Un quarto d’ora prima Hege è andata a prendere Ina a casa sua proprio mentre si stava mettendo a tavola, a causa di una convocazione straordinaria per una riunione da parte di Inger-Lise Lie. «Posso fumare?» «Fai pure». Ina apre un po’ il finestrino, accende la sigaretta e fa il primo tiro, poi rilassa la schiena sul sedile, soffia una nuvola di fumo verso lo spiraglio, chiude gli occhi e prova a svuotare la mente, che però viene subito catturata di nuovo da Karsten e da quell’ultima immagine di lui, illuminato da quel chiarore pallido per poi sfocare di nuovo e sparire nella nebbia. Da qualche parte là fuori c’è un assassino. Ina riapre gli occhi e lascia vagare lo sguardo oltre il parabrezza. Vede le auto scorrere sulla corsia opposta, una fila infinita di mezzi busti anonimi, ombre scure dietro a un volante, poi un altro e poi un altro ancora. Un’altra nuvola di fumo vola verso lo spiraglio nel finestrino. Destini che sfrecciano via senza che dedichiamo loro nemmeno uno sguardo, un pensiero. Da qualche parte però c’è una persona che sa tutto, la stessa persona che ha tolto la vita a Karsten con una spaventosa e incrollabile brutalità. Da dove veniva tutto quell’odio? Quali segreti custodiva Karsten? Ina sente il disagio diffondersi nel suo corpo e spegne la sigaretta, benché non ne
abbia fumata nemmeno metà. «Sai tenere un segreto?» Rimbereid le getta un’occhiata diffidente. «Certo». «Sul serio, devi promettermi che non ne farai parola con Lie». Rimbereid annuisce quasi impercettibilmente. «Sai cosa ho trovato oggi sulla mia scrivania?» fa Ina. «Non ne ho idea». «I diari di Karsten, in tre volumi». «Santo cielo… chi ce l’ha messi?» «È questo il punto. Nessun mittente». Rimbereid si volta verso Ina e cerca di studiarne l’espressione, poi torna a guardare la strada. «Qualcuno dello studio?» «Mi sembra assurdo» risponde Ina. «Forse piuttosto un paziente». «Qualcuno che è riuscito a intrufolarsi sotto copertura? Un tecnico o qualcosa del genere?» «Ne dubito». «Nel romanzo di Jo Nesbø La stella del diavolo, l’assassino si traveste da ciclista». Ina scuote la testa. «Maria l’avrebbe bloccato alla reception. Ha ordini chiarissimi di non far are nessuno. Lavorando con persone con disturbi psicologici, potenzialmente
psicotici, abbiamo regole molto strette su queste cose». «Ma Souranta non lavora a tempo pieno, giusto?» Giusto, lavora part-time. È vero che ci sono diverse ore della giornata in cui la reception è incustodita, ma il portone è sempre chiuso e Maria è stata al bancone tutto il tempo l’altro giorno, a parte qualche minuto di assenza per piccole commissioni, probabilmente. Continua a rimuginare. C’è qualcosa che non la convince. Tutta una serie di coincidenze che riguardano l’indagine non fanno che indicare nella stessa direzione, ovvero verso di lei. Ma Ina non riesce ancora minimamente a vedere il collegamento. «Sai il perché di questa riunione?» domanda. «No. Lie è stata piuttosto misteriosa. Scommetto che ha pescato un asso e vuole giocarselo davanti a tutti. Ha provato a nasconderlo, ma era tronfia come un gallo». Lo stomaco di Ina brontola rumorosamente. «Dobbiamo sbrigarci» fa Rimbereid accelerando. «Così poi puoi cenare». * Nella sala conferenze del commissariato c’è un’atmosfera impaziente. Sul podio, Inger-Lise Lie appare pensierosa. Dapprima sfoglia i suoi appunti, poi alza lo sguardo, spinge il petto in fuori e si trasforma nel solito falco pronto a sferrare il suo attacco agli ascoltatori. Il brusio si spegne. «Allora. Ci troviamo di fronte a una specie di svolta nell’indagine. Seguite attentamente». Lie preme un tasto sul telecomando. Un uomo anziano con un maglione di lana in stile tradizionale compare sullo schermo. È seduto in una stanzetta anonima e appare nervoso e confuso. Si volta
a guardare a destra e a sinistra. È piuttosto massiccio, stempiato, una mezzaluna di capelli bianchi dietro le orecchie, barba e baffi importanti. «Anders Rønning?» domanda Lie. «Sì, eccomi» risponde il vecchio nel dialetto di Trøndheim. Rønning si assesta un po’ sulla sedia e punta lo sguardo nella telecamera. «Si può presentare brevemente?» gli chiede Lie. «Allora … sono commissario in pensione della polizia Alstahaug e Leirfjord, distretto di Helgeland. Ho smesso di lavorare due anni fa». «Ha contattato l’agente Arnholt oggi. Perché?» Rønning si agita sulla sedia, poi si schiarisce la voce. «Sì, beh, ho sentito che ha contattato l’attuale commissario. Io ho seguito con attenzione i fatti di Maridal e oggi sul sito del VG ho letto qualcosa che… beh, mi ha fatto suonare un camlo d’allarme». «Vada avanti». «Non abbiamo molti casi gravi quassù» prosegue Rønning. «E se posso vantarmi, abbiamo una percentuale molto alta di casi risolti e chiusi. Ma ce n’è uno che non mi ha mai dato pace». «L’omicidio di Alstahaug?» «Precisamente. Ero appena entrato in servizio a quel tempo». «Di quando parliamo?» «1984, poco prima di Natale». «Il 5 dicembre?» «Esatto». Anche qui il 5 dicembre, Santo Dio ha ragione Trygve a pensare che questo caso
si espanda molto indietro nel tempo. Un po’ comunque la disturba che Inger-Lise Lie si stia quasi prendendo il merito della scoperta di fronte a tutti, perché era stata Rimbereid a mettere la polizia su quella pista. L’ombra esile di Lie si riflette sulla parte inferiore del telo alla luce del proiettore. L’ispettore sarebbe stata una pessima giocatrice di poker, perché il suo linguaggio corporeo rivela fin troppo bene quanto si senta orgogliosa. «Chi era la vittima?» domanda ancora Lie. «Bjørnar Rølvåg» risponde Rønning. «Pescatore e padre di famiglia di Dønna, un’isola poco a Nord di Alstahaug. Non lo conoscevo di persona». «Come fu ucciso?» «Rølvåg presentava una serie di coltellate al ventre, al petto e una alla spalla. Inoltre l’assassino l’aveva legato per i piedi su un altare e gli aveva tagliato la giugulare. È stato ritrovato così, appeso, con una pozza di sangue sotto di lui». «Che cosa l’ha fatta reagire oggi?» «Beh, innanzi tutto le modalità dell’omicidio: una serie di coltellate al petto, lo stesso modus usato su Rølvåg. Ma ancor di più mi ha colpito il dettaglio rivelato dal VG riguardo a quella stella…» «L’esagramma?» «Sì, quello». Ina si sporge in avanti, tesa e convinta che stia per venire fuori qualcosa di essenziale. È evidente che Rønning sta sudando, solleva la grossa mano e si a il dorso sulla fronte per asciugarla, da destra verso sinistra. «Anche nel nostro caso avevamo un dettaglio particolare» continua Rønning. «L’assassino aveva inciso due linee sulla fronte di Rølvåg, Nessun collega ci diede particolarmente peso e in effetti non era l’elemento più lampante, considerati gli altri dettagli più brutali, ma io non sono mai riuscito a togliermele dalla testa, perché sembrava proprio un’azione finalizzata a qualcosa. Quando ho letto che l’esagramma poteva rappresentare un numero di una serie, mi è venuto un brivido e ho pensato che quelle due linee… potevano riferirsi al numero due».
Ina freme sulla sedia. Rønning ormai ha tutta la sua attenzione. «C’era altro, non è vero?» «Sì. Nella gola della vittima abbiamo trovato un foglietto». «Cosa c’era scritto sopra?» «Ecco gelarti tra le gocce». «Bene» mormora Lie. «Ci siamo chiesti cosa potesse significare ovviamente» commenta Rønning. «Un’ipotesi era che Rølvåg avesse fatto un torto a qualche altro pescatore, ma la gente dell’ambiente non volle nemmeno a prendere in considerazione una simile teoria». «Potete escluderla completamente» risponde Lie. «Lo stesso messaggio è stato ritrovato in collegamento alla vittima di Maridal. E non era un pescatore». «Oh Santo Dio…» «C’è altro che dovremmo sapere?» Rønning prende tempo. «No. Non mi viene altro. In pratica solo di una cosa fui contento all’epoca». «Ovvero?» «Riuscimmo a proteggere la famiglia di Rølvåg dalla stampa. Il suo nome non venne mai fatto sui giornali, anche se immagino che le chiacchiere di paese non fossero meno devastanti…» Ina annuisce tra sé e sé. Torna tutto. La voce di Lie riempie di nuovo la sala. «A quanto ne so, Dønna si trova a un bel pezzo da Alstahaug. Cosa spinse Rølvåg a fare un viaggio simile quel giorno?» «Anche su questo ho ragionato molto. Rølvåg deve aver ritenuto che quell’incontro fosse molto importante, ma non ne fece parola con la famiglia…
disse solo che doveva incontrare qualcuno». «L’assassino probabilmente». Rønning annuisce dallo schermo. «Non si scoprì niente sull’assassino?» chiede Lie. «Non era ancora l’epoca del DNA e non si fece avanti nessun testimone. Quella sera c’era un tempo terribile e quasi tutti erano chiusi in casa». «Nessuna traccia, dunque? Nessuna segnalazione?» «Furono trovati resti di pelle sotto le unghie di Rølvåg. Ma, come ho già detto, niente DNA». «Mmm… capisco» commenta Lie. «La ringrazio, Rønning. Il suo aiuto è stato prezioso». Anders Rønning annuisce di nuovo dallo schermo, che subito dopo diventa nero. Si riaccendono le luci nella sala e un mormorio sommesso si diffonde tra le file di banchi. Inger-Lise Lie appare concentratissima, finché una voce si distingue sull’inquieto mormorio, quella di Hege Rimbereid. «Dunque qualcosa di positivo c’è stato nella fuga di notizie». «Che vuoi dire?» Lie la inchioda con lo sguardo. «Beh, se non fosse stato per i dettagli diffusi dal VG, forse non avremmo saputo tutto questo». «Sei forse stata tu a contattare il VG?» «No, ma tu stessa ieri hai detto che la stampa poteva tornarci utile». Ina corruga la fronte. Così non va bene, Rimbereid deve assolutamente imparare a controllarsi. Con la coda dell’occhio riesce a cogliere tutto il nervosismo di Lie.
«Vediamo di finirla qui e di concentrarci invece su come utilizzare queste informazioni». «Heggvik è il numero 6» risponde Rimbereid. «Scheel il numero 5 e Rølvåg il numero 2». «Dunque ci mancano i numeri 1, 3 e 4?» commenta [4]. I: Cioè? T: Antica chiesa di epoca medievale. Poi? I: Ci siamo buttati nella pista del 5 dicembre. Possibile omicidio numero 4 = prete della Chiesa dei Marinai, Per Erik Sande. T: Dove e quando? I: Lanzarote, il 5 dicembre 1998. T: Non torna. I: Perché? La data torna. T: È l’anno che non torna. I: ??? T: Pensa alla data e leggi attentamente: 2 = 1984. 4 = 1998. 5 = 2005. 6 = 2010. Trova l’errore. I: Mi arrendo. T: Non c’è una sequenza regolare. 5 anni tra il 2010 e il 2005. 7 anni tra il 1998 e il 2005. I: Ha dovuto anticipare l’ultimo omicidio? Ina aspetta una reazione alla sua ultima ipotesi, ma non compare nessuna risposta. ano dieci secondi. Poi venti. Ecco infine: T: YES! GRAZIE! C’è un sistema! E hai ragione: Heggvikk è l’eccezione alla
regola. I: ? T: Quanti anni tra il 1984 e il 1998? I: 14 e allora? T: 2 x 7. L’omicidio del prete può essere uno della serie. L’intervallo è di 7 anni. 1984, 1991, 1998 e 2005. Il 2010 è la rottura dello schema. I: Ci può aiutare questa scoperta? T: Certo! Adesso abbiamo altre due date. I: Il 5 dicembre 1991? Il terzo omicidio? T: E anche quella del primo: il 5 dicembre 1977. I: WOW! T: Un’altra cosa: hai la data di nascita delle vittime? I: Non di tutte, non qui. Me le procuro. T: Fallo. Altro? I: Sapevi che Karsten teneva dei diari? T: No. I: Li ho trovati tutti sulla mia scrivania oggi. Mittente sconosciuto. T: Qualche idea su chi possa essere stato? I: 1) qualcuno che lavora allo studio 2) un paziente T: Potrebbe essere stato chiunque. Sce una porta è un gioco da ragazzi per un professionista. I: In pieno centro di Rotnes? Avrebbe rischiato di essere visto.
T: Rotnes non è il centro del mondo. Comunque, cosa rivelano i diari di Karsten? I: Ho appena cominciato a leggerli. Ma… Karsten parla del Generale in diverse pagine. T: In che contesto? I: Karsten potrebbe aver fatto parte di un gruppo capeggiato dal Generale. T: Quando? I: Ancora non lo so. T: Cos’altro dice del Generale? I: Usava un pugno di ferro e in un’occasione avrebbe colpito uno del gruppo. T: Cfr. il Generale con l’ambiente degli sport estremi. I: Possibile collegamento, sì. T: Ma Karsten, in una banda di violenti? I: Non torna, infatti. Una volta però deve essere successo qualcosa di terribile. Il gruppo è coinvolto, ma dietro al Generale. T: Questo episodio potrebbe essere il torto subito dall’assassino? La serie di omicidi = vendetta? I: No, ascolta. Il Generale è l’assassino. T: Quale sarebbe il suo movente? I: I membri del gruppo hanno informazioni che lo metterebbero in pericolo. T: Incoerenza logica numero uno: Perché un leader brutale dovrebbe uccidere con la modalità del sacrificio rituale? I: Copertura? Depistaggio? T: Ascolta. Anche Heggvik aveva ricevuto una lettera?
I: Sì, con un messaggio criptico. T: Cosa diceva? I: Una frase senza senso: “Ecco gelarti tra le gocce”. T: Cosa?! Dovevi dirmelo subito, Ina! I: Scusa… T: Vi chiedete cosa significhi il messaggio? I: Beh… sì. T: La risposta è che non significa niente. I: ? T: Però ci dice indirettamente qualcosa sull’assassino. I: E cioè? T: Che gli piacciono gli enigmi. I: ? T: Il messaggio è un palindromo. I: Quelle frasi che si possono leggere in entrambe le direzioni? Tipo “i topi non avevano nipoti”? T: Proprio quelle. I palindromi sono un’arte dimenticata ai giorni nostri, mentre era piuttosto popolare negli anni Sessanta. I: Quando studiavi a Parigi, vuoi dire? T: Risparmiati l’ironia. Capisci cosa significa? I: No… T: Che anche l’assassino può averlo fatto!
I: Studiare cinquant’anni fa? T: L’assassino potrebbe benissimo avere la mia età. I: Ma chiunque può mettersi a studiare l’arte dei palindromi. T: Sì, certo, ma vuoi ascoltare cosa ne pensa questo vecchio? I: Non sto più nella pelle :) T: Ok. Hai mai sentito parlare dell’OuLiPo? I: ??? T: Un gruppo letterario fondato negli anni Sessanta. Tra i membri c’erano gli scrittori Raymond Queneau e Georges Perec. I: Gli piacevano i palindromi? T: Esattamente! Agli scrittori dell’OuLiPo piacevano le sfide linguistiche impossibili. I: Ad esempio? T: Perec scrisse il romanzo La scomparsa come un lipogramma, senza mai utilizzare la lettera “e”. I: Dove vuoi arrivare? T: Il palindromo in sé non ci dice niente. Sono ingegnosi, ma pur sempre frasi senza significato. I: Quindi siamo da capo? T: No, siamo molto avanti. Questo ci rivela come minimo che l’assassino è una persona istruita. I: Nient’altro? T: Forse che è più anziano di quanto crediamo. Ricorda: la serie degli omicidi potrebbe essere cominciata già nel 1977.
I: C’è un’altra cosa, però. È molto probabile che il Generale fosse un paziente di Karsten. T: Oh no. Dice anche questo nei diari? I: Tra le righe. Abbiamo a che fare con un vero e proprio mostro! T: Questo non puoi saperlo. Gli uomini hanno molte facce. I: Risparmiami. Questo ha seguito Karsten – e probabilmente anche me – per un periodo lunghissimo. Cosa che mi fa accapponare la pelle. T: Stai tranquilla, Ina. Le bambine sono al sicuro… I: Cosa ne sai tu? Non sappiamo niente, Trygve. Niente a parte il fatto che il Generale è un assassino spietato che non si risparmia alcun mezzo.
Tivoli, Copenaghen. Sabato 7 dicembre 1991 I cavalli bianchi della giostra guardano fisso Jan Jakob Opdahl. La luna getta una pallida luce sulle briglie dipinte di rosso e sulle carrozze gialle. È quasi mezzanotte. Se solo la sua mente potesse trovare pace e il suo corpo la calma. Ma c’è così tanto silenzio, un silenzio terribile. Ora il suo respiro è un po’ più regolare rispetto a cinque minuti prima. Lui non è qui, il monaco, non può essere riuscito a entrare. D’un tratto lo colpisce il pensiero di quanto quel travestimento sia perfetto: tutti hanno visto il monaco, chiunque ricorderebbe di aver visto are la sua figura pacata, eppure nessuno l’ha visto veramente, cioè nessuno sarebbe in grado di identificare il volto nascosto nel cappuccio. Potrebbe essere chiunque. Eppure crede di avere intuito chi possa essere. Dapprima non aveva capito, non si spiegava perché il monaco si dirigesse con
o sicuro proprio verso di lui. Era un mistero bell’e buono. Jan Jakob Opdahl si a le dita sulla cicatrice sulla guancia sinistra. Ma il monaco non può essere riuscito a seguirlo, non fin lì, solo lui ha le chiavi del Tivoli, è l’unico che può stare lì dentro di notte. Opdahl percepisce il buio profondo del parco giochi intorno a lui. Continua a vagare in silenzio tra le ombre, diretto verso il piccolo avvallamento in cui sono riuniti fianco a fianco tutti i bar, ma non riesce a calmarsi e ha bisogno di fare ancora un altro giro per assicurarsi che quell’orrenda tunica sia scomparsa per sempre. Si infila nel aggio in cui le montagne russe, tutte decorate di bianco e rosso per il periodo natalizio, si tuffano sotto gli archi prima di tornare a impennarsi verso l’alto e scomparire di nuovo agli occhi del pubblico a terra. Si guarda attentamente attorno. Le giostre sono tutte prive di vita e movimento. Senza gli sguardi eccitati dei bambini ad accarezzarle, sono prive di senso. Tutti quegli oggetti di giorno così rumorosi, ora sono muti come se si fossero ritirati in se stessi, trasformati in gusci immersi in un silenzioso misticismo. Il Tivoli di Copenaghen si infila il suo mantello notturno, come ha già fatto moltissime volte sotto gli occhi di Jan Jakob Opdahl. La chiave dell’ingresso l’ha avuta in cambio di niente. Uno dei suoi clienti fissi, che lavorava al Tivoli, non poteva pagare, era indietro di diverse consegne e Opdahl stava per sguinzagliargli dietro uno dei suoi scagnozzi dell’Est. Alla fine, disperato, quello gli aveva offerto le chiavi del Tivoli. Opdahl era rimasto sorpreso e aveva accettato. Era stato un vero colpo di fortuna. Il Tivoli di notte è diventato il suo porto sicuro, l’unico posto in cui riesce a trovare pace. Di solito vi si introduce dopo il primo turno di guardia, alle undici e mezza. A quel punto sa di avere almeno un paio d’ore prima del turno successivo. A volte comunque si è preso il rischio di are la notte in una delle
carrozze della giostra: si è buttato addosso una coperta e si è addormentato … come un bambino. Qui nessuno può trovarlo. Qui nessuno può risvegliare il suo incubo. Un brivido lo scuote. Il monaco! La sua ombra scura troneggia in cima alle salita, la sagoma è inconfondibile. Opdahl gira bruscamente su se stesso e si affretta nella direzione opposta, di nuovo con il cuore in gola, il respiro pesante e violento che ormai gli pervade tutto il corpo, il petto, i polmoni, le orecchie. Continua a correre senza fermarsi, è totalmente sfinito e tutti quelli che negli anni gli hanno detto che la droga l’avrebbe tradito, ora hanno finalmente ragione. Opdahl continua a correre all’interno del Tivoli. Negli ultimi giorni il monaco spuntava dappertutto. La prima volta era stato nel bel mezzo della piazza di Kongens Nytorv e quasi non ci ha fatto caso. Non è una cosa che si vede tutti i giorni, ma nemmeno così impensabile. La seconda volta era seduto a due file da lui in metropolitana. Lì ci aveva fatto caso. Quando poi aveva adocchiato di nuovo il cappuccio del monaco sotto la luce del lampione di fronte a casa sua, beh, a quel punto aveva pensato di essere uscito di cervello o di essere in preda a un terribile trip negativo. Tuttavia non se lo spiegava, perché negli ultimi mesi non aveva praticamente toccato droga, giusto una striscia ogni tanto, ma sempre senza perdere il controllo, più o meno come ai tempi dell’Accademia di belle arti a Oslo. Un’immagine gli attraversa la mente. Si tratta del motivo di uno dei suoi quadri, forse il migliore, quello con cui si era presentato alla prova d’ingresso per l’Accademia. Un’uniforme vuota sopra a una ragazza nuda. L’immagine aveva impressionato molto la commissione, dando così una direzione alla sua vita. Nella valutazione avevano scritto che era riuscito a dare forma alla vacuità dell’esistenza in un modo originale. Se solo avessero saputo.
Tutti i suoi dipinti infatti non erano che variazioni intorno a un unico tema: tutto ciò che riusciva a dipingere erano uniformi vuote – senza corpo, senza volto – inserite in diverse situazioni del quotidiano. Un’uniforme vuota che faceva colazione con la fidanzata. Un’uniforme vuota che giocava a calcio. Un’uniforme vuota a un funerale. Quel motivo era diventato il suo tratto distintivo. Già al tempo faceva uso di droghe leggere, ma senza mai perdere il controllo del tutto. Il percorso verso la roba più pesante e soprattutto verso lo spaccio era stato però fin troppo breve. Alla fine le vie della droga l’avevano portato lì, a Copenaghen, dove nell’ultimo anno non aveva fatto che girovagare a caso come in una sorta di vagabondaggio nel deserto. Odiava le strade di quella città con tutto se stesso, ma non riusciva ad uscirne. Eppure negli ultimi tempi si stava davvero riprendendo. Il monaco non può essere un’allucinazione! È reale. Opdahl corre ancora, i suoi piedi battono le strade del Tivoli ma sente che le forze stanno per abbandonarlo, l’acido lattico gli si diffonde nelle cosce e i muscoli si irrigidiscono. Getta un’occhiata dietro di sé e vede l’ombra dell’abito del monaco, quindi prende una decisione fulminea e si lancia nel primo ingresso che trova a portata di mano. La casa degli specchi. Si spinge all’interno della sala e i riflessi lo seguono, specchio dopo specchio, in immagini sfuggenti e deformate di se stesso. Questa è la mia punizione, si scopre a pensare, cavolo, questa è davvero la mia punizione. Mi aspettano solo sofferenza e disperazione, indipendentemente da ciò che accadrà. Alla fine cede. Si accascia sul pavimento al centro di una delle sale più grandi nella casa degli
specchi. Lì si rannicchia in posizione fetale, chiude gli occhi e si limita ad aspettare, unisce le mani e formula una preghiera per quel Dio in cui non crede: Caro Dio, lasciami in pace. Fa che il monaco scompaia. Fa che mi addormenti e mi risvegli da questo incubo tremendo. Dammi un po’ di pace, quella che non ho mai avuto. Pace, pace. Calma, calma. E io smetterò con tutte le mie stupidaggini, lo giuro. Un o? Opdahl si mette in ascolto. Sente solo il proprio respiro. Infine trova il coraggio di aprire gli occhi e il cuore gli comincia a battere all’impazzata. Nello specchio di fronte a sé vede l’immagine deformata del monaco con il mantello tirato in avanti. Prova a discernere qualcosa sotto al cappuccio, ma è come guardare in enorme buco nero. «Non sei venuto» sussurra il monaco dallo specchio. «Venuto?» «Hai ricevuto l’invito a incontrarmi nella chiesa di Christian» aggiunge il monaco. «Martedì». Quella dannata lettera. Ma certo. Quella che in preda la panico aveva accartocciato e buttato nel cestino. L’ordine di presentarsi in quella chiesa a un orario preciso. La firma. Ecco che finalmente torna tutto. Non sono gli effetti di un trip negativo, è tutto reale. E Opdahl sa benissimo che la realtà è molto peggio dell’incubo. Il monaco cresce nello specchio. «Ho dovuto cambiare i piani». «Che piani?» Opdahl prova a riconoscere la voce, a rapportarla alla sua, ma non gli sembra di
ricordare che lui parlasse così. «Generale?» Il monaco non risponde. Infila invece la mano nel suo abito e tira fuori una foto, che poi mette sotto gli occhi di Opdahl. Il ragazzo. Tutto si ferma. «Il segno del Diavolo!» Il monaco urla nello specchio e l’eco del suo urlo rimbalza di parete in parete nella casa degli specchi. Opdahl si porta istintivamente la mano alla cicatrice sulla guancia. «Il Diavolo ha lasciato un segno sulla tua faccia» aggiunge il monaco. Il Diavolo ha lasciato un segno. È vero. Opdahl annuisce. Il monaco si sporge su di lui e lo scuote. «Ho scoperto quasi tutto!» urla ancora. «Devi aiutarmi con gli ultimi nomi, devi dirmi chi sono!» Opdahl prova ancora a scrutare all’interno del cappuccio. Vuole vedere quel volto e nello stesso tempo non vuole. L’attimo dopo si ritrova un foglio tra le mani. Riconosce tutti i nomi. Il monaco gli dà una penna. «Scrivimi gli indirizzi. E i nomi». «Ma non ho idea di dove…» «Scrivi tutto quello che sai, subito».
Alcuni nomi aleggiano nella sua mente, finché alla fine riesce a ricordare. Aveva ricevuto una cartolina da uno di loro un Natale di molti anni dopo. Sande? Sì, Sande l’aveva incoraggiato a convertirsi, a farsi cristiano. Le parole gli tornano in mente adesso… convertiti, salva altre anime, è l’unico modo per redimerci dai nostri peccati. E nel giornale studentesco aveva riconosciuto il più anziano… La sua mano è stranamente ferma mentre scrive lettera dopo lettera sul foglio: Per Erik Sande, Prete Karsten Scheel, Psicologia, Oslo Ancora un ultimo punto. Qual è il nome del Generale. Le dita si stringono intorno alla penna e tremano fuori controllo. Ma una parola ancora si forma sul foglio. Il Diavolo. Così. Ora l’aveva scritto. La penna gli scivola di mano e cade in terra. «Grazie» gli sussurra il monaco nell’orecchio. «Non aver paura. Il Diavolo sarà inchiodato alla croce». In un attimo gli sembra di essere tornato indietro. Il pugno di ferro che colpisce lo zigomo. Il rumore di ossa che si rompono. Il ragazzo e il pugno di ferro. L’uniforme vuota. Il dolore che avvolge tutto. Il cuore gli impazzisce in petto. Tutto sfuma.
La calma avvolge tutto. Eccola che arriva. Skagen Domenica 17 luglio 1966 Notte Sabbia, vento, acqua. Tutto quel che il tempo smussa e forgia, i minuscoli granelli di sabbia spinti dal mare e sollevati in aria dal vento, per essere poi sparpagliati su vaste zone di terra. Ogni anno la punta più a Nord della Danimarca, quella lingua di terra chiamata Grenen, si sposta di dieci metri verso nordest. A Grenen si incontrano due mari, lo Skaggerrak e il Kattegat, creando uno strano fenomeno naturale: le onde accorrono da entrambi i lati, da entrambi i mari e si scontrano nel mezzo, come se i due mari si inghiottissero l’un l’altro e si sciogliessero in un leggero ruggito schiumoso. Le correnti qui sono pericolosissime. Fare il bagno, immergersi in quelle correnti micidiali, è l’equivalente di un suicidio. Tuttavia quel luogo è come una calamita per i viaggiatori. Ogni giorno, specialmente d’estate, ne arrivano in gran numero con il solo scopo di riuscire a stare con un piede nello Skagerrak e con l’altro nel Kattegat. Sabbia, vento, acqua. Qui nidificano anche aquile di mare, aquile reali, nibbi e falchi. Volteggiano nel vento forte, si fermano in aria ad ali spalancate e si assestano in posizione d’attacco. I rapaci si affollano sulla lingua di terra più estrema, approfittando il più possibile della sosta prima del lungo viaggio sopra al Kattegat per raggiungere le zone di nidificazione in Svezia.
Quella notte su Grenen non si vedono né uccelli né esseri umani. Sono circa le due e soffia un forte vento fresco da sud-ovest, alcune folate hanno la forza di una burrasca e le nuvole sfrecciano nel cielo notturno. Sulla punta di Grenen c’è un paio di scarpe solitario. Delle scarpe da donna di marca Progress che stazionano sul bagnasciuga da circa un’ora. Un paio di calzini bianchi è stato ripiegato per bene e infilato in una delle scarpe, mentre nell’altra c’è un biglietto. Sale la marea e le onde si avvicinano sempre di più alle scarpe. Presto l’acqua accarezzerà le suole di gomma, prima di ritirarsi all’indietro scorrendo con il suo mormorio sulla sabbia e su migliaia di piccole conchiglie bianche. Tra un paio d’ore il mare sarà così alto che, se le correnti saranno forti abbastanza, le scarpe saranno sollevate dalla spiaggia e trascinate in acqua, come se volessero andare in cerca della persona che le indossava fino a poco tempo prima. Ma le scarpe non subiranno lo stesso destino del loro proprietario. Perché proprio in quel momento un uomo sta correndo su Grenen, superando a lunghe falcate le dune di sabbia, stremato e madido di sudore e di pioggia. Ha corso a lungo avanti e indietro per le strade di Skagen, fin dal momento in cui si è accorto che il posto di lei nel letto era vuoto e l’inquietudine gli ha riempito il petto. Per mezz’ora non ha fatto che entrare e uscire da stradine e viottoli, ando davanti alle stesse file di casette che poco prima l’avevano riempito di euforico calore. Ora invece gli sembrano estranee, quasi come gusci vuoti. L’unica cosa che sente è il bisogno di trovarla, di sapere che Louise sta bene. Ha persino lasciato solo loro figlio di quattro anni per cercarla, nella speranza che stia ancora dormendo tranquillo e ignaro nel suo lettino. Ma, preso completamente dal panico, non ha nemmeno avvertito l’uomo alla reception. Sa che è una questione di vita e di morte, la conosce troppo bene per pensare a qualsiasi altra spiegazione. Era diventato un pensiero fisso per lui, una specie di mania: voleva portarli a vedere i cieli di Skagen, quelli che con i loro particolari giochi di luce avevano ispirato i cosiddetti “pittori di Skagen”. Si era lasciato prendere completamente da quel progetto, il progetto di tirare fuori Louise dalle ombre, fuori dagli istituti che aveva frequentato negli ultimi anni.
I pittori di Skagen avevano in lui quel desiderio. Per tutto l’inverno non aveva fatto che leggere libri sull’affascinante gioco di luci e di ombre nei loro quadri, sulle correnti artistiche di quel tempo e sul cosiddetto impressionismo, in cui l’aspetto essenziale era il modo di cui si interpretava, il modo in cui si metteva se stessi nella rappresentazione del mondo esterno, proprio come facevano i pittori di Skagen. Nei primi giorni a Skagen l’uomo aveva girovagato in preda all’ebbrezza della felicità. Louise era un’altra, nei suoi occhi era tornata la vita, l’aveva di nuovo toccato dopo anni che non succedeva più. Ogni volta che sentiva la sua mano sulla pelle, gli venivano i brividi e cominciava quasi a piangere. Anche il figlio era felice. Aveva mangiato il gelato, i würstel rossi danesi e in hotel aveva trovato dei compagni di gioco della sua età. Avevano ricominciato a ridere e Louise finalmente era tornata a interessarsi al figlio, a rispondere alle cose che diceva o a commentare qualcosa che aveva fatto. Un’atmosfera del tutto diversa da quella del viaggio in macchina dell’andata, che invece era stato un inferno: un caldo insopportabile, ore infinite in mezzo ai boschi svedesi per poi mettersi in coda per il battello a Gøteborg. Ma arrivare a Skagen proprio all’imbrunire, uscire dall’aria viziata e chiusa dell’auto e scendere verso la costa, la spiaggia, accogliere l’orizzonte, era stato una specie di miracolo. Il gioco di colori nel cielo aveva impressionato persino Louise. Non la vedeva sorridere così da moltissimo tempo. Anche solo questo rappresentava una vittoria, perché le aveva parlato così tanto di questa luce da averla sicuramente stancata. Ora poteva vederla con i suoi occhi. Era una luce davvero speciale: limpida, intensa, piena di colori e di sfumature. E poi non era un caso che alloggiassero proprio all’Hotel Brøndum, che era stato la base dei pittori dello Skagen alla fine dell’Ottocento. Anna Ancher era stata la figlia stessa del proprietario dell’hotel, Erik Andersen Brøndum.
Aveva organizzato tutto fin nei minimi dettagli, perché doveva essere tutto perfetto. Quella vacanza doveva rappresentare l’inizio della loro nuova vita. Il pensiero l’aveva fulminato mentre vagava a caso nei vicoli intorno all’Hotel Brøndum. Grenen! Ecco dov’era andata. Se lo sentiva con tutto il cuore. C’erano stati solo poche ore prima. Si erano iscritti per un’escursione guidata e l’avevano fatta insieme a una coppia di tedeschi, nel vento battente. La voce della guida andava e veniva tra le folate, era impossibile capire tutto quello che diceva. In ogni caso non è che riuscisse a seguire molto, perché era terrorizzato che il figlio potesse cadere nella corrente e l’aveva tenuto fermo premendogli le mani sulle spalle per tutta la gita. Louise, da parte sua, aveva avuto un’aria un po’ assente, quasi spaventata, per tutto il tempo. Alla fine aveva detto di voler tornare in hotel. Probabilmente era cominciata in quel momento la nuova discesa. Aveva ignorato i segnali e il fatto che il momento in cui una persona debilitata comincia stare meglio è pericolosissimo. È quando si comincia a risalire che la caduta può essere fatale. Tutto ciò si fa strada dentro di lui mentre corre per Grenen. Le folate gli sferzano la faccia e le nuvole corrono all’orizzonte. Sabbia, vento, acqua. Il vento si fa sempre più forte man mano che avanza su Grenen. I capelli si agitano, i vestiti premono contro il corpo. Scorge la punta e continua a correre, ma non riesce a vederla da nessuna parte.
Un sollievo lo prende: allora non è venuta qui! Rallenta un po’, cammina cercando di riprendere fiato. È allora che vede le scarpe. Si ferma. Muove gli ultimi i verso l’estremità della Danimarca. Si piega e solleva le scarpe dalla sabbia. A quel punto scorge il biglietto infilato nella destra e lo apre lentamente. C’è solo una frase: Ecco gelarti tra le gocce Il foglio gli cade di mano e viene portato via dal vento e trascinato sulle dune di sabbia. Si alza in piedi e resta a fissare le correnti che dallo Skagerrak si infilano nel Kattegat, le onde che si inghiottiscono a vicenda. Capisce il messaggio. E nello stesso tempo non lo capisce. Sa solo una cosa: che lei è là da qualche parte tra le onde. Vorrebbe urlare qualcosa, ma non gli escono parole, né lacrime. Il mondo si è fermato. Resta immobile a fissare ora le onde, ora il cielo. Acqua. Cielo. È come se i colori fossero stati cancellati dall’orizzonte, come se stesse osservando un vuoto di luce e già sa che non potrà mai scordare questo buio. Questo vuoto di luce gli brucerà per sempre nell’anima, lo perseguiterà ovunque. L’unica cosa che avrebbe voglia di fare è imitarla, avanzare nella corrente e farsi trascinare via, farsi trascinare a fondo – e farsi accogliere da lei dall’altra parte. Ma sa che è impossibile, perché deve farsi trovare al risveglio del figlio, altrimenti non troverà nessuno.
Alza una mano per salutare e poi la lascia cadere nuovamente. Torna in hotel e quando il figlio si sveglia, la mattina dopo, lui è lì a tenergli la mano.
Giorno 4
Giorno 4 Giovedì 10 dicembre 2010 1
Sempre lo stesso sogno. Ina corre di stanza in stanza, ma le bambine non ci sono, sono scomparse, abbatte una porta e poi un’altra ancora, solo per ritrovarsi sempre in una nuova stanza, che è la stessa stanza. Un’altra porta. La stessa porta. Ancora e ancora. Sa che Amund si arrabbierà moltissimo con lei, che la incolperà per non essere stata attenta, perché non le importa abbastanza. Ha un’enorme paura di non amarle e prova ad autoconvincersi che le mancano, ma in realtà non prova niente. È per questo che non si arrende, per questo che abbatte porta dopo porta, per la paura di non avere niente dentro di sé. D’un tratto capisce che sta correndo dentro se stessa, alla ricerca di qualcosa di umano che potrebbe trovare oppure no. Infine arriva nel salone, di fronte al portone scuro, e sa bene che dietro di esso troverà la verità. Il suo respiro è calmo. Vuole entrare eppure non vuole. Vuole e non vuole. Ha paura che Solveig possa arrivare da un momento all’altro. È terrorizzata dalla sorella, che ora arriverà nel suo abitino bianco, la fisserà con quello sguardo che lei non riuscirà a sostenere. Ina si volta e comincia a correre nella direzione opposta, via dal portone, finché d’improvviso tutta la sala svanisce e lei si ritrova a cadere e cadere, precipitando
nel vuoto… La sveglia del cellulare la tira fuori dal sogno. Si stira verso il comodino e la spegne, poi infila il telefono nel taschino del pigiama. Quindi si alza grazie un puro atto di forza di volontà. Sente Amund prendere anche il suo cellulare sul comodino: «Ma sono le quattro e mezza!» esclama rassegnato. «Mi spiace, ma devo leggere i diari di Karsten». «Oddio!» esclama li in sospiro, tornando a sprofondare nel sonno. Ina deglutisce e si accorge che il dolore alla mascella è scomparso. Resta un attimo seduta ad aprire e chiudere la bocca, che non le fa più male. Finalmente. Esce in corridoio, si infila la giacca sopra al pigiama ed esce in veranda. Prima una sigaretta, poi la lettura. Immersa nel buio, aspira boccate di fumo lunghe e profonde. Quando cinque minuti dopo rientra e affonda nella sedia dello studio, il suo corpo è un ghiacciolo. Fa freddo persino dentro, ma il freddo la rende più lucida. Accende la lampada da tavolo. I tre diari si illuminano sotto ai suoi occhi. Prende il secondo, quello con la scritta “1978-1994”, poi si mette comoda, si appoggia una coperta in grembo e direziona la luce sul punto giusto. Va subito in fondo al diario. Pulviscoli di polvere aleggiano nel raggio di luce della lampada, mentre Ina focalizza lo sguardo sull’elegante calligrafia. Sa dove andare. Sfoglia tra le pagine in cerca dei primi tempi in cui Karsten studiava a Oslo, contando all’indietro negli anni. Dev’essere stato verso la fine degli anni
Settanta o nei primi anni Ottanta. Continua a sfogliare all’indietro la vita di Karsten, leggendo qualche frase qua e là. Le pagine sono quasi tutte caratterizzate dallo stesso tono, da uno stile conciso e solenne e quasi su tutte è posato uno strato di angoscia e pesantezza. Karsten ricorreva al diario quando si sentiva molto giù e tornava sempre su alcuni temi precisi. Sembra quasi che si faccia del male consapevolmente, che vada a pescare situazioni che lo mettano in una luce negativa, in modo da potersi poi denigrare. Lo sguardo di Ina si sofferma su un punto. Qui c’è qualcosa. Strizza gli occhi e legge: 16 marzo 1979 Devo allontanarmi da te, Regine, così non può continuare. Sei diventata una condizione, una parte malata della mia mente. Maledico me stesso. Maledetto. Maledetto. Non voglio abbassarmi mai più. Mai più così tanto. Ora ne ho l’opportunità. A Pasqua. L’opportunità di scrollarti via dalla mia vita. Forse per sempre. Ma so che non è vero. So che a primavera sarò di nuovo lì. Riesco già a sentire i miei i sulle tue scale, l’eco sulle pareti. Riesco a sentire miei i nel tuo monolocale e le mie urla. I colpi di frusta, quei colpi meravigliosi che mi sferzano la schiena. Il riflesso nello specchio. So che non ti piace quello che ti ho chiesto. Il volto nello specchio vorrebbe tutt’altro. A volte mi chiedo cosa avresti fatto tu, Regine, se questa vita ti avesse permesso di scegliere? Qualcos’altro, certo. Ma cosa? Quali sono i tuoi sogni più intimi? L’unica cosa certa è che non saresti qui con quella frusta. Non saresti nella stessa merda in cui si trovano quelli come me. Lo vedo nel tuo riflesso allo specchio, come l’ho visto in ato su un altro volto. Il volto terrorizzato di quella ragazza.
Il volto e il pugno di ferro che continua a colpire. Devo chiederti di fare esattamente questo, Regine, di sdraiarti e calmarti in modo che io possa vedere nel tuo viso un viso buono e diverso da quello del mio incubo. Poi, quando ho finito di piangere, devo assicurarmi che tu prenda più soldi e chiederti di restare ancora un po’ ad accarezzarmi i capelli, consolarmi e dirmi che andrà tutto bene. Dimmi che mi capisci. Mi capisci? Certo che no. Nessuno può capire, a parte coloro che erano lì. Rimorso. Perdono. La prima delle due parole è un peso di piombo sulla mia vita. La seconda porta in sé la speranza, la fede che possa spettarmi qualcos’altro oltre a questo, qualcosa di meglio. Se solo tu potessi darmi questo, Regine, anche solo per un attimo, prima che io torni a svegliarmi zuppo di sudore, a guardare negli occhi del Diavolo che mi fissa ogni notte. Il cuore di Ina batte velocissimo. Va alla pagina successiva, dove il diario a a una nuova data. Abbandona la testa all’indietro contro la sedia. In che cosa ti sei andato a infilare, Karsten? Chi diamine era Regine? Colpi di frusta? Non torna per niente… eppure Ina intuisce che c’è qualcosa di essenziale in quelle parole. Si trova in cima a una montagna di ghiaccio e sta scavando l’ingresso ai segreti più oscuri di Karsten, di quel Karsten che non conosceva. Ina si fa coraggio e continua a sfogliare il diario all’indetro, soffermandosi ogni tanto. Alla fine si arresta di nuovo. La data! Si concentra e legge: 5 dicembre 1978
Questa serie infinita di immagini che scorre. Piccole nubi di fumo dai tubi di scappamento. Uno, poi un altro, poi un altro ancora. Girando per le strade, le mura grigie dei palazzi ci imprigionano. Tutte queste persone sole al volante. Giriamo in tondo tutti in fila e nessuno dice niente, le parole stesse non significano niente. Solo gli sguardi dietro ai volanti esprimono qualcosa, anzi gli sguardi significano tutto: quelli che sfuggono, quelli che cercano, quelli che inchiodano. Le ragazze agli angoli delle strade. Nuvole di fumo dalla bocca per il freddo. Maledetto freddo. Dove sei, Regine? Non ti trovo stasera. Proprio stasera, proprio oggi, devi esserci. So che non ti chiami Regine, ma non puoi chiamarti altrimenti. Dove sei? Da nessuna parte. Sei con uomini che hanno smesso di essere uomini, uomini senza volto proprio come me. Questo sono diventato: un’ombra senza volto. Un uomo senza speranza. Una figura solitaria dietro al finestrino di un’auto. È così. È l’ombra di me stesso che vaga per le strade, ma sono le mie mani a tenere il volante. Tutto quello che posso sperare è che ti importi qualcosa di me, Regine, ma non me la prenderò se mi giudicherai. Non me la prendo con nessun altro a parte me stesso. Ti proibisco di provare pena per me, merito soltanto la mia punizione ed è quella che devi darmi. Però dopo tienimi la mano. Solo allora riesco a tranquillizzarmi, solo allora riesco ad espellere il male dal mio corpo. Per un attimo.
Solo allora posso provare a ritrovare il mio volto e a uscire dall’ombra. Ina si sente assalire dalla nausea e da una specie di prurito per tutto il corpo. Vorrebbe solo andarsi a fare una doccia. È mai possibile che Karsten frequentasse una prostituta? Solo il pensiero è completamente surreale. Eppure sa di essere sulla strada verso qualcosa di importante, deve resistere, indipendentemente dalle rivelazioni che la aspettano. Riprende a sfogliare il diario all’indietro e trova ancora un paio di pagine in cui viene menzionata Regine, anche se non così ampie e intime come le altre. Poi la donna scompare del tutto dal diario. Strano. Nel periodo precedente Regine non viene mai nominata. Quando è entrata nella vita di Karsten? E come? Continua a sfogliare pagina dopo pagina all’indietro, cercando ancora, ed ecco di nuovo qualcosa che attira la sua attenzione. 28 maggio 1978 Oggi ho parlato con Kirsti. Le ho detto che devo andare via. Di nuovo. Non sono riuscito a reintegrarmi nel mondo, nella scuola, ad abituarmi agli occhi che mi fissano. La verità è che non riesco a fare la cosa più basilare: resistere. Non riesco a resistere, dannazione. Così le ho parlato dell’appartamento che ho affittato nella capitale. Le ho parlato degli studi che vorrei iniziare in autunno e del fatto che farei il pendolare ogni settimana. Tutto ciò che hai risposto, Kirsti, è che sto fuggendo. Non ho negato e ho abbassato lo sguardo. Ovviamente è così. Fuggo. Non resisto. Qualcosa deve pur accadere. Qualcosa deve cambiare. Non voglio che tu mi guardi mentre mi sgretolo. Non riesco più nemmeno a guardare le mie mani. Le mie mani terribili. Kirsti, tu non puoi capire. È chiaro, nessuno può capire il male, nessuno può
accoglierlo dentro di sé. Non del tutto, a meno che non ne siano stati parte. Hai subodorato che c’era qualcosa di strano, qualcosa di profondo che non riusciva a uscire, ma hai evitato il confronto diretto con me. Forse preferisci non sapere. Se è così fai bene, lo capisco. Vorrei davvero raccontarti tutto, ma è impossibile, se voglio che il mondo resti lo stesso. Sono io il colpevole. L’unico colpevole. Nessun altro, anche se è vero che nessuno nel profondo è senza colpe a parte forse i bambini. Oppure è il contrario, forse è proprio quando viene fuori il bambino che è in noi che diventiamo pericolosi? Sì, deve essere così: il bambino che è in noi è assopito e non aspetta altro che l’occasione giusta per risvegliarsi e compiere azioni senza la minima censura. Così come solo i bambini sanno fare. E poi, poi non c’è più modo di tornare indietro. Ina chiude gli occhi e prova a immaginare Karsten che spiega tutto questo a sua moglie Kirsti, la donna che ha tradito più e più volte. Prostitute? Ina prova a ricordarsi di che cosa sia morta Kirsti, ma non le viene in mente. Torna a rivolgere lo sguardo al diario e solo ora si accorge che quella che ha appena letto era la prima pagina del secondo diario. Così a al primo, quello che Karsten scrisse tra il 1965 e il 1977. Vuole andare più a fondo. «È mattina, mamma?» Le si ferma il cuore. Guro è entrata nello studio e la osserva meravigliata nel suo pigiama, i lunghi capelli arruffati sulle spalle e il coniglietto di peluche sotto al braccio. Ina dà un’occhiata all’orologio. Le 05:35. «È ancora notte» risponde Ina. «Devi dormire ancora un po’». «Non ci riesco» dice Guro. «Ho fatto un brutto sogno». «Oh… cosa hai sognato?»
«Ho sognato che tu, papà ed Eline non c’eravate più e io ero tutta sola». «Ma siamo tutti qui. Siamo insieme a te». «Non voglio stare da sola» replica Guro. Si avvicina. «No, nessuno vuole stare da solo» dice Ina attirandola a sé e infilandola sotto la coperta. Sente il suo morbido corpicino caldo contro il petto e il proprio cuore rimbombare. “No, nessuno vuole stare da solo” pensa ancora, mentre le ritorna in mente l’immagine di Karsten inghiottito dalla nebbia. Eppure alcuni cercano comunque la solitudine. Di solito per una buona ragione. Il taschino del pigiamo vibra e Ina prende il cellulare. “Nuovo messaggio” appare sul display. È di Hege Rimbereid. Ina lo apre. “Abbiamo l’assassino…” sono le prime parole che legge. Il cuore quasi le esplode in petto, poi vede il resto: “… su un video”.
2
La sala conferenze della stazione di polizia di Grønland è quasi vuota. C’è solo Inger-Lise Lie, sprofondata in un giornale nella solita postazione sul podio. Sta reprimendo uno sbadiglio mentre entrano Rimbereid e Ina. «Cominciamo un po’ più tardi oggi. Gli altri stanno arrivando» «Ci sono novità, giusto?» domanda Rimbereid. «Non farti troppe illusioni» replica Lie. «Però sì, abbiamo un filmato con il
nostro sospetto». Lie torna a guardare il giornale di fronte a lei, ma il movimento del suo petto la tradisce: si alza e si abbassa un po’ troppo in fretta. «C’è una cosa che voglio dirvi adesso che non ci sono ancora gli altri» aggiunge Lie. «Avete visto il VG di oggi?» Ina percepisce lo sguardo da falco, mentre solleva la prima pagina del giornale verso di loro. “La data del mistero” recita il titolo. E subito sotto: “Tre omicidi commessi il 5 dicembre”. «Un’altra fuga di notizie» commenta Rimbereid. «Altrimenti come avrebbero fatto a saperlo?» Rimbereid si limita a sollevare le spalle, mentre Lie inchioda entrambe con gli occhi. «Hanno persino formulato la loro lista di altri possibili omicidi commessi il 5 dicembre, menzionando sia il prete di Lanzarote che l’omicidio di Alstahaug, nonostante abbiamo cercato di tenerlo nascosto. Non posso credere che uno dei miei abbia fatto una cosa simile. Perciò voglio affrontare la questione con voi faccia a faccia…» «Io e Ina non abbiamo spifferato» risponde Rimbereid con estrema calma. «Ci siamo limitate a portare avanti l’indagine e bisogna ammettere che l’abbiamo spinta molto più avanti di quanto non abbiate fatto voi». «Ok ok. Voglio solo dire che dobbiamo andare a fondo a questa storia, altrimenti rischiamo che il nostro uomo senta il fiato sul collo e se la fili. Non è quello che vogliamo, no?» Ina scuote impercettibilmente la testa. Infatti, è proprio ciò che non deve accadere. In quel momento entrano gli altri agenti nella sala, alcuni dei quali portando con sé il caffè e la colazione presi da Deli de Luca. Si sistemano stranamente
silenziosi tra i banchi. Al che Ina capisce che era tutto organizzato, Lie aveva architettato tutto per trovarsi da sola con Rimbereid e Ina prima dell’incontro. Con la coda dell’occhio la vede chinarsi sul computer. «Ok. Siete pronti?» Timidi cenni di assenso dalle file di banchi. Lie spegne la luce e sul telo appare l’immagine un po’ sfuocata di un angolo di parcheggio. «Dove siamo?» domanda Rimbereid. «Il Parcheggio Ibsen». Il video prosegue. Una striscia a in fondo alla schermata a intervalli regolari, mentre dei numeri che scorrono in fondo a destra dell’immagine mostrano l’ora. 01:27. I secondi ano e Ina cerca un movimento, qualche cambiamento in quel paesaggio di cemento vuoto, ma niente. Poi all’improvviso un’auto scura entra nell’inquadratura, svolta lentamente verso la telecamera, fa marcia indietro e si ferma, rimanendo inquadrata in modo tale che resta visibile solo una parte del cofano. Lie stoppa il video. 01:28. «Avete visto il logo della Ford e il numero di targa?» domanda Lie. «È lo stesso della Mondeo di Nordan, quella usata per rapire le figlie di Ina» risponde Rimbereid. «Purtroppo il volto del guidatore non è visibile» dice Lie premendo di nuovo il telecomando. «Guardate adesso, però». Subito dopo si vede comparire una figura che cammina rapidamente allontanandosi dall’auto dando le spalle alla telecamera. L’immagine viene stoppata e Ina cerca di mettere a fuoco.
La persona è ora inquadrata per intero, da dietro. Ha la testa e il volto nascosti nel cappuccio di un giubbotto. Ina si sente fremere per i nervi. Lie manda il video avanti e indietro più volte. L’ombra nera scivola sull’inquadratura, gira verso destra ed esce di scena. Lie manda ancora indietro, mostra nuovamente il video e si rivolge a Ina: «Riesci a intuire qualcosa dalla camminata?» le chiede. «Se è giovane, vecchio, sicuro, a disagio… qualcosa del genere?» Il frammento di video viene riproposto e Ina si concentra completamente, cercando di carpire qualcosa di importante, un dettaglio che possa rivelare qualcosa sulla persona, un barlume anche minuscolo da cui affiori una particolarità, ma quell’ombra scura scivola via sullo schermo ed esce dall’inquadratura in modo totalmente anonimo. Ancora una volta e poi un’altra. Quella sagoma la fa pensare a un fantasma. «L’uomo sembra molto determinato e con una fisicità potenzialmente compatibile con l’assassino» afferma infine Ina. «Età?» Ina osserva ancora più attentamente la sagoma sullo schermo, ma non c’è niente da fare. Scuote la testa. «Mi spiace, il video non mi sembra rivelare altro». Lie riaccende la luce. Alle sue spalle l’uomo col giubbotto è cristallizzato sullo schermo. «Eccolo qui, il nostro assassino. Perché è arrivato così tardi?» «Possibilità minime di incontrare qualcuno» commenta Rimbereid. «Ecco quindi la domanda successiva: cosa ha fatto nel frattempo?» «Ha rapito le figlie di Ina» risponde Rimbereid. «Sì, ma sono comunque ate dieci ore. Cosa ha fatto dopo?»
Nessuno risponde. «Avete interrogato il noleggio auto dell’aeroporto di Gardermoen?» chiede Rimbereid. «Era la Hertz, giusto?» Lie annuisce. «Sì, li abbiamo interrogati e hanno regolarmente registrato il noleggio». «Cosa hanno detto rispetto al fatto di aver noleggiato un’auto a un morto?» Ina sente il battito accelerare. Rimbereid ci sta andando di nuovo pesante. Lie prova con tutte le sue forze a mostrare indifferenza, ma Ina percepisce la sua irritazione per le malcelate critiche. «Un errore» risponde infine Lie. «La donna che ha seguito la pratica ricorda molto vagamente l’uomo e non è riuscita a dare nessuna indicazione. In ogni caso, Arnholt, puoi occupartene tu? Controlla se ci sono telecamere di sorveglianza anche a Gardermoeon intorno al noleggio auto». Arnholt annuisce. «Credo che sia tempo sprecato» interviene Ina prima che Rimbereid riprenda il suo filo polemico. «Siamo di fronte a un criminale che consapevolmente si camuffa, evita di rivelare la sua vera identità. Interpreta dei ruoli e ha messo in trappola le vittime fingendosi qualcun altro. Trovandosi a Gardermoen avrà fatto il possibile per are inosservato». «Avete scoperto qualcosa sul Generale?» domanda Lie. Ina valuta fin dove si può spingere. Deve tracciare una linea ben definita, perché sa che il rischio di far scattare di rabbia l’ispettore è dietro l’angolo. D’altra parte però è fondamentale che l’investigazione possa servirsi delle sue scoperte. «Pare che il Generale sia una specie di capobanda brutale e violento» si decide a dire. Lie incrocia le braccia. «Anche questo proviene dalla tua fonte anonima?»
Ina annuisce timidamente e continua: «È venuto fuori che l’apparentemente pacifico Karsten… Scheel in ato possa aver fatto parte della sua banda. Quello che mi chiedo dunque è che tipo di gruppo potesse essere». Nessun commento. «Dobbiamo riuscire a trovare qualcosa che li accomuna» conclude Ina. «Il minimo comune multiplo che lega tra loro tutte le vittime». Lie sospira dalla sua posizione di oratore. «Bene, ecco che si apre una possibile pista. Cosa sappiamo delle diverse vittime? E se davvero facevano parte di un gruppo: dove e quando si sarebbero incontrate?» «Molti dettagli punterebbero a Oslo, fine degli anni Settanta» risponde Ina. «A quel tempo sia Karsten Scheel che Ottar Heggvik si trovavano nella capitale». «Stai dimenticando Rølvåg, però» la interrompe Sørensen. «Abbiamo qualche prova che anche lui fosse a Oslo? In fin dei conti abitava nel Nord della Norvegia». «Mi fai venire in mente una cosa» dice Ina. «Qual è la data di nascita delle tre vittime?» Lie sfoglia tra le sue carte. Sørensen la anticipa: «Heggvik è nato nel 1958. Anche Rølvåg». «E Karsten Scheel?» chiede Rimbereid. «1952» risponde Ina, prendendo nota di tutti gli anni di nascita. «Dunque non possono essere andati a scuola insieme» commenta Lie. «Il terreno comune deve essere un altro. Possono essersi conosciuti tramite un hobby. Abbiamo un’idea degli interessi di Hoggvik, ma per quanto riguarda gli altri due cosa sappiamo?»
Ina si irrigidisce. A cosa era interessato Karsten? La triste risposta è che non ne ha la più pallida idea. Avevano studiato insieme, lavorato insieme, fatto l’amore per anni, eppure Karsten è per lei un mistero sempre più grande. Era un tipo discreto, che non entrava mai nella sfera privata e questa era tra l’altro una delle ragioni per cui l’aveva accettato come amante e gli aveva persino concesso di spingersi un po’ oltre rispetto agli altri uomini che aveva avuto, perché con lui anche lei poteva evitare di andare sul personale. Ma adesso si chiede: cosa gli interessava? Cosa faceva prima che si conoscessero? Conosce alcune informazioni che ha raccolto dopo il suo assassinio: sa che Karsten aveva cominciato a lavorare come supplente nelle scuole subito dopo il liceo, che aveva lavorato nella scuola di Hvalstad per diversi anni, prima di fare il servizio militare a Porsangmoen, già venticinquenne. Poi aveva frequentato la scuola per insegnanti a Oslo. Dopo gli studi era tornato a Hvalstad e ci era rimasto per diversi anni, ma non si era trovato bene ed era finito a studiare psicologia a Oslo. Karsten era un’anima inquieta, ma cosa gli interessava? Cosa? Cosa? Giocava forse a scacchi o a qualche altro gioco? Ina sospira e si concentra di nuovo su Inger-Lise Lie, i cui nervi irritati sembrano essersi calmati ed essere stati sostituiti dall’autentico desiderio di avvicinarsi alla verità. «Dunque, se escludiamo un terreno comune che coinvolga l’età, personalmente punterei a un collegamento di tipo criminale: magari spacciavano droga, erano coinvolti nel gioco d’azzardo, coltivavano cannabis. Magari qualcosa di piccolo che poi è diventato più grande di loro». «E se si trattasse di una setta religiosa?» azzarda Rimbereid. «Ti riferisci al particolare delle chiese come luogo del delitto?» domanda Lie. «Nelle comunità della Chiesa Libera spesso vige una rigidissima giustizia interna».
«Forse un’associazione di tifoseria?» propone Sørensen «Qualcosa tipo il Clan del Vålerenga… Quelli sono gruppi con una vera disciplina interna. Questa teoria tornerebbe anche con il fatto che i membri… cioè le vittime, provenivano da diverse regioni del paese. Se ad esempio si trattasse di un fanclub inglese…» «Suona terribilmente forzato» interviene Lie. «Mi convince di più una pista di violenta» dice Halle. «Magari l’appartenenza a una cerchia di pedofili». «Non è impossibile» replica Lie. «Ma dobbiamo tener presente che abbiamo a che fare un periodo precedente ai cellulari e a internet. Queste cerchie pedofile si sono affermate, almeno in modo più sistematico, solo a partire dagli anni Novanta e oltretutto negli omicidi non c’è niente che rimandi a questa pista». «Molto improbabile per quanto riguarda Karsten Scheel» aggiunge Ina. «Anche se è vero che aveva la coscienza sporca per qualcosa. Karsten ha…» Ina soppesa le parole, valutando quanto le è concesso rivelare dei diari di Karsten, poi continua: «… ha lasciato scritto un appunto riguardo a un pugno di ferro che colpisce qualcuno. Chi è a colpire?» «Probabilmente il Generale» risponde Lie. «Un’ultima domanda fondamentale» interrompe Rimbereid. «Chi è ad essere colpito? Chi è la vittima o chi sono le vittime dell’aggressione del gruppo?» Ina registra l’espressione pensierosa che assume il volto di Inger-Lise Lie. L’ispettore sospira e comincia a raccogliere i suoi fogli. «Beh, l’indagine è arrivata a questo punto» conclude. «Voglio la massima concentrazione sulla pista del 5 dicembre. ate in rassegna ogni minimo dettaglio di queste liste. Grieg e Rimbereid, occupatevi di Karsten Scheel, controllate i pazienti e ogni aspetto importante della sua vita. A tutti: cercate possibili collegamenti tra le vittime. Se troviamo cosa li collega, siamo a un o dall’assassino».
3
«Hai preso il cambio per Eline?» urla Amund dal bagno. «Sì, certo» risponde. «E i loro bicchieri?» «Nella borsa». «Le cose da bagno?» «Ho preso tutto, non ti preoccupare». Amund sporge la testa dalla porta del bagno. «Non sono sicuro che sia una buona idea, Ina». «È la migliore idea che potessimo avere. Dobbiamo cambiare un po’ aria». Ina si rende conto di quanto suoni forzato, perché la verità è che non ci crede nemmeno lei. «E le bambine? Reggeranno tutto questo, tutto insieme?» fa Amund. «L’adoreranno. E poi giocano tanto bene insieme a Jenny». «Sei sicura che Jon dicesse sul serio, vero?» «Che andassimo tutti insieme? Ma certo che sì. Mi ha mandato un messaggio con tre faccine sorridenti quando gli ho detto che andavamo. Lo conosci, no?» «No, in realtà non lo conosco» replica Amund. «Mi guarda sempre dall’alto in basso, sai, non sono abbastanza intellettuale per lui». «Santo Dio… Non devi far caso alla sua strafottenza…» Amund esce dal bagno con lo spazzolino ancora in bocca. Guro ed Eline sono pronte e sedute all’ingresso, ognuna nella sua tuta integrale rosa. Amund si mette
davanti allo specchio e si sistema il colletto della camicia, per poi tornare in bagno, finire di lavarsi i denti e aggiungere ancora: «È impossibile entrare davvero in contatto con Jon. Non appena la conversazione va sul personale, si tira sempre un o indietro e la butta sul ridere». «Siamo andati a trovarli già tre volte.» risponde Ina «Ti sei trovato così male?» «Ma no» la rassicura Amund. «È solo che Jon resta un mistero per me». «Ha delle opinioni molto originali» ammette Ina. «Ma in fondo è buono». Amund la osserva dallo specchio. «Beh, io non ne sono altrettanto sicuro». «Puoi sempre parlare con Tone, no?» scherza Ina facendo l’occhiolino. «Ti è sempre piaciuta, mi pare». «Almeno con lei è facile relazionarsi» dice Amund infilandosi il cappotto. «Al contrario di Jon. Ecco fatto, papà è pronto!» Amund prende le gemelline per mano e si avvia verso il garage. «Oh santo cielo, ma si gela qua dentro!» esclama Amund entrando nella Toyota dal lato del eggero. Ina invece sta sudando per allacciare le cinture di sicurezza di Guro ed Eline nei seggiolini. Subito dopo gira la chiave di accensione, ma niente. L’auto parte solo al terzo tentativo e Ina accende il riscaldamento alla massima potenza. «Tutti pronti?» «Sììì» rispondono in coro Guro ed Eline. «Allora si parte!» L’auto si immette lentamente in strada. Parte la musica. È la colonna sonora della Principessa e il ranocchio. La voce di Dr. John risuona dalle casse, ma Ina toglie il cd e lo sostituisce con uno di Håkan Hellström. Solo allora sente il
calore diffondersi per la macchina e nel corpo. Subito dopo però la disturba un pensiero. In realtà ha sempre pensato che questi momenti di famiglia fossero un male necessario. Non sa proprio spiegarsi perché abbia accettato l’invito di Jon, né tanto meno perché abbia insistito tanto per convincere Amund. La verità probabilmente non ha niente a che vedere con quello che ha detto ad Amund, ma consiste invece nel fatto che ha intenzione di consultare Jon riguardo a Karsten, anche se nel modo più confidenziale possibile. Jon sarà pure un maestro di saccenza e presunzione, ma è anche molto bravo a guardare le cose con punti di vista nuovi e inaspettati. Ed è proprio di questo che ha bisogno adesso, ovvero di una prospettiva fresca e originale sullo stato dell’indagine. Nello stesso tempo sa che Jon la provocherà e probabilmente provocherà anche Amund, come sempre. Amund cercherà di stargli lontano avvicinandosi a Tone e a lei toccherà sorbirsi tutti i sermoni di Jon, sentendo l’intolleranza pian piano impossessarsi di lei. La serata si svolgerà esattamente così, lo sa fin da ora. Tuttavia non ha altra scelta che affrontarla. * Nessuno dei due per strada fa caso all’auto dietro di loro. Una Honda Civic I.4i nera, modello del 2001. Nel momento in cui la Toyota di Ina e Amund si immette in strada, la Honda mette in moto. Il guidatore fa fare qualche giro a vuoto al motore, poi toglie il freno a mano e comincia ad avanzare. La neve ghiacciata scricchiola. La Honda si accoda all’auto davanti a sé, seguendo con discrezione la Toyota a distanza, lungo tutte le salite e le discese del centro di Rotnes. All’incrocio con la Statale 4, la Toyota mette la freccia a destra in direzione Oslo. La Honda fa lo stesso. Un’auto si intromette ma non importa, anzi forse è anche meglio, pensa il
guidatore. Si sente sorprendentemente tranquillo, pensando a quello che potrebbe succedere, anzi a quello che succederà. Adesso. Stasera. Non vuole rimandare nemmeno di un secondo, non può resistere ancora con quella smania. L’ultima volta è stato tutto così… abbozzato e non è stato chiarito niente. Quando Ina Grieg, il suo convivente e le figlie erano davvero usciti e si erano messi in macchina, era stato percorso da un brivido. Stavolta c’era di mezzo la famiglia di lei, non la sua. Forse quella serata gli avrebbe fornito l’occasione perfetta per la tanto agognata vendetta. Mentre fantastica sugli scenari possibili, torna a ricadere nel pensiero di sempre: quella donna ha fatto a pezzi la sua famiglia e per questo deve pagare. È in questa certezza che ha trovato la forza di andare avanti. E se la famiglia di lei dovrà assistere alla resa dei conti, beh, si è meritata anche questo. Vorrà dire che questa serata non servirà ad aprire gli occhi solo a Ina Grieg. È in prospettiva della battaglia importante che lo aspetta che è quasi sorpreso di sé. Il respiro tranquillo, la pulsazione regolare, i battiti pesanti e decisi. “In realtà è un gioco da ragazzi” pensa. Gli basta solo concentrarsi su una cosa alla volta. Adesso, ad esempio, deve solo tenere gli occhi appiccicati alla Toyota. Il resto verrà da sé. Quando la Toyota svolta sulla Statale 22 alla rotonda di Gjelleråsen e rallenta verso Skedsmo, la Honda fa lo stesso. Ora non ci sono auto tra di loro, ma il guidatore si tiene comunque a distanza. Continua a provare a respirare con calma, ma le sue dita guantate lo tradiscono: hanno cominciato a tamburellare sulla guaina di pelle del volante. Piccoli, cauti colpetti. Segue l’auto su per piccole stradine secondarie fino a Lørenskog, finché la Toyota non svolta in una casa indipendente a Rasta, alle porte dell’Østmarka. Lui prosegue dritto, mentre con la coda dell’occhio osserva Ina Grieg e la sua famiglia scendere dall’auto. Cerca di mettere a fuoco il numero civico: Østavegen numero 112. Allora la consapevolezza si fa definitiva dentro di lui: è qui che succederà.
La verità verrà fuori. Le dita tamburellano sul volante al ritmo delle sue pulsazioni. Ben presto si lascia la casa alle spalle e segue la strada fino allo svincolo sull’adiacente Vestavegen. Qui trova un posto per parcheggiare, spegne il motore e scende il silenzio. Tira indietro il sedile al massimo, finché non raggiunge la posizione supina e chiude gli occhi. Deve solo raccogliere le forze, poi metterà in atto il suo piano.
4
Spesso ci si accorge subito se una casa è buona oppure no. È racchiuso nelle sue pareti, nell’atmosfera. L’arredamento stesso porta in sé diverse sfumature di luci e profumi che naturalmente vengono plasmate, o per meglio dire rafforzate, dalle persone che vi abitano o almeno da alcune di esse. Quella situata in Østavegen numero 112 è una casa buona. La famiglia Grieg viene accolta con calore da Jon e Tone Bork. Jon abbraccia Ina, stringe la mano di Amund e scompiglia i capelli di Guro ed Eline. Nel tempo in cui Ina si toglie il cappotto, le bambine hanno già trovato l’intesa con Jenny. «Vi va di salire in camera mia?» chiede Jenny alle gemelle. Eline e Guro annuiscono intimidite. «Abbiamo portato le pantofole, vero Ina?» «Sapevo che qualcosa avrei scordato» borbotta Ina. «Abbiamo dei calzettoni di lana presi al museo di Lesja» dice Tone. «Dovrebbero andar bene». Ina si accorge a mala pena della risposta, si accorge invece di essere stanca e nervosa. Si impegna a regolarizzare il respiro lasciando vagare lo sguardo sulla parete e suoi occhi vengono rapiti dallo strano quadro che i Bork hanno appeso
nell’ingresso. Rappresenta un gatto che si morde la coda e Ina resta imbambolata un bel po’ a fissare quei malinconici occhi felini. I gridolini di gioia delle bambine su per le scale la risvegliano dai suoi pensieri. Si toglie le scarpe pesanti e segue Jon per il corridoio. «Gradisci un cicchetto, Ina?» «Un cicchetto? Ma come parli? Sei forse cresciuto all’epoca di mio padre?» lo prende in giro Ina. «Può darsi» sorride Jon. «Ma ci scommetto che hai bisogno di un goccio». «Devo guidare». «Ma dai, può guidare Amund al ritorno, no?» Ina ci pensa un momento. Amund è un guidatore tremendo, probabilmente non ha mai imparato davvero, ma purtroppo la anticipa e interviene: «Ma certo che posso!» esclama contento. Amund scompare quindi in direzione della cucina, probabilmente per dare una mano a Tone. Ina invece continua a seguire Jon per il corridoio e si accomoda sul divano in salotto. Poco dopo Jon le mette in mano un whisky and soda. Ne prende un piccolo sorso e sente l’alcol scenderle piacevolmente lungo la gola. Si mette più comoda. «Come procede la causa?» chiede Jon. «Ci siamo impantanati. Non riusciamo a trovare la direzione giusta». «Mi piacerebbe poter essere d’aiuto». Appunto. Ina decide di andare dritta al punto e si sporge in avanti. «Qual era la tua opinione su Karsten?» Jon abbassa gli occhi nel bicchiere e sorseggia il suo drink.
«Karsten era sfuggente. Non riuscivi mai ad entrarci veramente in contatto». Ina ripensa alla descrizione di Jon che Amund aveva fatto poco prima, usando esattamente le stesse parole. «Tuttavia aveva una natura abbastanza dominante» aggiunge Jon. «Faceva quasi tutto a modo suo senza apparire prevaricante». Jon non si tira indietro. «Anche quello è un talento» commenta Ina. Si sente inquieta e beve un altro sorso più abbondante. «Sapevi che teneva dei diari?» gli chiede. «No». «Qualcuno ieri li ha lasciati nel mio ufficio». Ina cerca gli occhi di Jon, che ora la scrutano seri. «Oh… E chi è stato?» «Non ne ho idea. Non lo sai nemmeno tu?» Jon scuote la testa. «Beh, cosa ci hai trovato?» Ina riflette un momento. «Non posso rivelare tutto, ma Karsten aveva degli enormi problemi personali». «Chi non ne ha». «Sì, ma qui si tratta di roba molto seria». Jon appoggia il bicchiere sul tavolo. «Forse non è bello da dirsi di una persona morta e per di più morta ammazzata»
comincia Jon, «ma Karsten non mi piaceva». Ina sussulta. Questo non è da Jon. «Perché?» «Si immischiava nelle mie cose, non te ne sei mai accorta?» «No… Karsten era sempre così discreto!» «Discreto un corno» replica Jon. «Solo che sapeva capire quand’era il momento di fare il timido. Giocava consapevolmente con la sua ritrosia, non significa che lo fosse davvero. Tu però non riuscivi a vedere dietro la maschera, nonostante foste tanto amichetti». «Che intendi dire?» Si rende conto che tutte le carte sono sul tavolo. Davvero Jon era a conoscenza della loro relazione, nonostante quanto si fossero impegnati a tenerla segreta? Jon allarga le braccia. «Lo vedevano tutti che ve la intendevate». Ina stringe i denti, ben sapendo che Jon sta cercando di provocarla e non volendo dargli la soddisfazione di vederla innervosire. Non stavolta almeno. «No. Karsten era un tipo ivo-aggressivo» continua ancora Jon. «Ma comunque sono rimasto scioccato quando è stato ucciso». Ina scuote la testa. Qui c’è qualcosa che stona. Maledizione. Jon che parla male di un collega morto in questo modo? «Potresti tagliare il tacchino?» Il viso sorridente di Tone si affaccia alla porta. Indossa un abito blu dalla scollatura profonda e ora si sporge nella stanza con una pendenza che spalanca la vista a chi lo desideri. Ina può immaginare dove siano stati incollati gli occhi di Amund negli ultimi minuti.
Sgualdrina. «Non ce la fate da soli, eh, voi gente di Nittedal… dovrà intervenire direttamente il talento di Trondheim». «Potrei servire come o psicologico…» commenta Ina. «Tutto sotto controllo» la ferma Jon sorridendo. «Tu goditi il tuo drink». Ina si ferma a metà mentre si sta alzando e in quell’attimo le sembra di scorgere qualcosa fuori dalla finestra, nel giardino che si stende oltre la terrazza. Un’ombra bianca tra i meli. Prova a mettere a fuoco, ma tutto ciò che riesce a vedere è il proprio riflesso sul vetro. Un fantasma ossuto dagli zigomi sporgenti.
5
Jon Bork fa tintinnare la forchetta sul bicchiere e si alza in piedi strusciando la sedia. Si prende una pausa per un gioco di sguardi con le bambine e poi declama: «Voglio darvi il benvenuto a tavola. È molto bello che abbiate accettato di venire». «È stato carino invitarci» dice Amund. «Avevi ragione Jon, ci ha fatto bene uscire». «Che ti dicevo» si pavoneggia Jon. «Non ti vantare» lo riprende Tone. «Non hai sempre idee altrettanto geniali qui a casa». Un mormorio si diffonde per la tavola e Jon sorride. «Il figlio del calzolaio ha le scarpe rotte, come si suol dire» si difende Jon. «Non è facile essere professionali con la propria famiglia. Non sei d’accordo, Ina?» Ina sussulta. Si sente stanca e non è preparata mentalmente per parlare davanti a tutti, ma risponde d’impulso:
«Con la famiglia le cose si complicano e le teorie non portano da nessuna parte…» Tone si schiarisce la gola. «Cominciamo a servirci il cibo». a il vassoio con il tacchino ad Amund e quello con le polpette a Eline. A Ina sembra di vedere un lieve tremito nelle sue braccia. «Mamma, sai cosa ha detto papà una volta?» fa Jenny. «No, tesoro, cosa?» «Che le persone che stanno molto male, stanno meglio se fanno lo shock». Tone fulmina il marito con un’occhiata. «Ah, ha detto così…» «L’ho sentito dire…» interviene Amund «Sei davvero a favore dell’elettroshock?» «L’elettroshock è stato assunto a emblema della mala psichiatria» risponde Jon. «Ma la verità è che per persone in stato di profonda depressione è la cura migliore, l’unica possibile in effetti». «Ci sono opinioni contrastanti in merito» replica Amund. «Per i pazienti maniaco-depressivi, quelli in stato avanzato, la psicoterapia è inutile. È come gettare una goccia nell’oceano». Ina getta uno sguardo rassegnato verso Jon. Sa che questo è uno dei suoi cavalli di battaglia e quando viene incanalato su questo argomento, proprio come Amund tanto ingenuamente si è prestato a fare, è difficile fargli cambiare discorso. «Ma l’immagine che ci siamo fatti dei pazienti che si agitano convulsamente legati ai lettini, beh è terribile» dice Tone. «Sono scene da età della pietra» sghignazza Jon. «Oggi le controindicazioni
sono pochissime». «Se non contiamo il fatto che alcuni perdono la memoria» ribatte Ina. «È molto, molto raro» si difende Jon. «Ma un uomo non è niente senza memoria» commenta Amund. «Questa era molto toccante, te lo concedo» fa Jon. «Ma se l’alternativa è un uomo semplicemente distrutto, io voto per l’uomo senza memoria». «Jon!» esclama Tone. «Potremmo parlarne in un altro momento, senza bambine?» «Non capiscono queste cose» replica Jon. Tone lo guarda con freddezza. Ina prende atto che i rapporti tra i coniugi Bork sono un po’ più tesi rispetto all’ultima visita, ma che altro ci si può aspettare con un pedante come Jon in giro per casa? «Potete continuare a parlare» interviene Jenny. «Basta che non vi arrabbiate». Jon si rilassa. «Non siamo arrabbiati, tesoro, siamo solo in disaccordo». «Tu sei arrabbiato!» risponde Jenny. «Solo tu!» «Ok, me lo sono meritato e accetto il tuo consiglio. Magari potrei arvi la salsa, allora!» risolve Jon sorridendo. «Bravo!» fa Tone. Jon tende il bricco della salsa a Ina, ma si blocca a metà del movimento. «Si è alzato il vento?» «Era calmo quando siamo arrivati» risponde Amund. «Mi è sembrato chiaramente di veder muovere quegli arbusti là fuori».
«Hai solo un po’ di traveggole» lo prende in giro Tone. Ina si accorge dell’espressione forzata di Jon e vede che sta morendo dalla voglia di controbattere, ma riesce a trattenersi. a la salsa a Ina senza dire una parola e sulla tavola cala il silenzio. Per un lungo momento si sente solo il leggero tintinnio delle posate. «Mi fa paura quando faccio gli incubi» dice Guro rompendo il silenzio. «Succede a tutti, piccola» le risponde Jon. «Abbiamo tutti paura di qualcosa, anche noi grandi». «Tu di che hai paura?» gli chiede Guro. Jon guarda Ina di soppiatto e apre la bocca per risponderle, ma poi cambia idea. «Sai Guro» dice, «i sogni non sono pericolosi, non per davvero». «Cos’è pericoloso per davvero?» chiede allora Eline. «Niente» risponde Amund. «Perché i grandi si prendono cura dei piccoli». «È vero per davvero?» domanda Guro. “No, non è vero” pensa Ina. “Io non mi sono presa cura di voi. L’assassino vi ha rapite e probabilmente l’ha fatto perché mi conosce. Vi ho esposto al pericolo”. Si maledice, ma non c’è modo di tornare indietro. Deve andare avanti fino a che il criminale – l’assassino, il rapitore – non verrà chiuso in prigione. «Sono io o fa caldo qui dentro?» sente dire a Jon sullo sfondo dei suoi pensieri. Jon si alza da tavola e si avvia verso il salotto, diretto al divano. Istintivamente Ina lo segue, immersa nei suoi pensieri, senz’altro scopo se non quello di recuperare il drink lasciato a metà che la aspetta sul tavolino. Si siede sul divano, mentre Jon apre la porta-finestra che dà sulla terrazza. Ina beve un sorso di cocktail tiepido e lo sente di nuovo bruciare lungo la gola, ma leggermente meno di prima. È sprofondata nel proprio mondo e sente a malapena il sospiro di sollievo di Jon: «Ah, ci voleva un po’ d’aria!»
Appena sente la corrente fresca invadere la stanza, Ina comincia automaticamente a cercare il pacchetto di sigarette nella borsa. Con la coda dell’occhio nota con irritazione che Jon sta richiudendo la finestra, ma si accorge anche di qualcos’altro là fuori. Scruta nel buio e d’un tratto vede chiaramente un’ombra bianca e immobile attraverso il vetro. La pelle le si accappona. L’attimo successivo l’ombra si sposta e diventa sempre più grande, fino a riempire gran parte del suo campo visivo. E proprio mentre Jon fa il primo o per allontanarsi dalla porta-finestra, Ina si rende conto che quell’ombra è un uomo. Salta sul divano in posizione di guardia: il suo istinto di lotta si è svegliato. Adesso l’ombra copre quasi tutta la porta-finestra e Ina riesce a scorgere un volto, la faccia bianca di un fantasma. Tutti sentono il suo grido lacerante, come di un animale, e tutto comincia a muoversi al rallentatore. Ina che si getta verso Jon e con un piede colpisce la porta-finestra. Succede tutto in un attimo. Il calcio che infrange la finestra, il rumore del vetro che esplode, Ina che trascina via Jon. Entrambi rotolano sul pavimento mentre mille schegge di vetro piovono nella stanza eil boato dell’esplosione prosegue finché non viene coperta dalle grida dei bambini. Ina alza lo sguardo e vede il volto dell’ombra sulla terrazza. Chiaro e distinto. Gli occhi furiosi e il volto deformato dalla rabbia. Il ragazzino della kickboxing entra come una furia nel salotto. Ina si rimette immediatamente in piedi. «Amund! Porta le bambine al piano di sopra e chiama la polizia!» Anche Jon si rialza in piedi e resta immobile senza reagire. «Anche tu, Jon!»
«Ma…» Il primo calcio parte ancor prima che abbia finito di parlare e la coglie impreparata, ma all’ultimo istante riesce a schivarlo. Il piede le sfiora la tempia e un dolore penetrante si comincia a diffondere intorno all’orecchio. «Cosa vuoi?!» gli urla Ina. Ma il ragazzino si limita a ridacchiarle davanti nella sua giacca a vento senza dire una parola. La fissa come un pazzo. C’è una ferocia in quello sguardo che la traa, la avvolge e la squarcia. Con la coda dell’occhio vede gli altri scappare, mentre il ragazzo non concede loro nemmeno uno sguardo. La sua attenzione è concentrata tutta su un unico punto: lei. All’improvviso ricomincia a gridare quel suo grido selvaggio e penetrante e riparte all’attacco. Si getta in avanti ma Amund compare come dal nulla e si frappone tra i due. Afferra il ragazzo per il busto, è decisamente più grosso di lui e cerca di spingerlo a terra, ma l’avversario è agile e riesce a divincolarsi dalla presa. Ina vorrebbe attaccare, ma non riesce a concentrarsi ora che anche Amund si è goffamente intromesso. Una nebbia scura si è posata sui suoi sensi come un coperchio. «Levati di mezzo!» gli urla. Amund la guarda sbalordito, realizzando che quella frase è rivolta a lui e non all’aggressore. L’attimo dopo Ina lo spinge via con tutte le sue forze. Amund è spaventato a morte. L’ espressione di Ina deve averlo veramente impressionato, ma è un bene. Ora può concentrarsi sull’avversario. Non ha molto tempo per prepararsi, però, che l’altro già le sta arrivando addosso. Ina capisce che sta usando una tattica diversa: vuole avvicinarla il più possibile, cercare il contatto fisico, starle così addosso da non permetterle di giocare le sue contromosse in velocità. In un primo momento riesce a evitarlo, ma anche lui riesce ad aggirarla con un movimento che gli permette di afferrarle la maglietta e con l’altro braccio la immobilizza intorno alle anche. In un attimo le sue braccia sono dappertutto e le tolgono il respiro. Ina annaspa e
prova a colpirlo con pugni sul viso e sulle clavicole, ma non riesce a dare abbastanza forza ai colpi, che anzi diventano sempre più deboli e molli finché non è completamente incastrata tra le sue braccia e il suo corpo viene costretto lentamente ma con forza a terra. Ina sa che a breve comincerà a mancarle l’aria, mentre l’alito acido e terribile di lui le invade il viso in rapide folate. Tra poco la stritolerà e si rende conto che sta continuando a prenderlo a piccoli pugni convulsi, usando le mani come bacchette impazzite. Tutto quel che può fare è dargli inutili colpetti sul volto. Alla fine il ragazzino riesce a stenderla completamente a terra e, dominandola, le allarga le braccia in fuori e la schiaccia con le ginocchia, per poi raddrizzarsi e prepararsi a colpirla. Ina si inarca e si contorce ma è impotente e non può fare altro che aspettare il colpo definitivo. In un ultimo spasmo disperato riesce però a liberarsi la mano destra e, quando arriva il colpo, la usa per pararsi il volto. Il pugno di lui affonda nella sua mano, poi scivola da un lato e colpisce il pavimento. Per una frazione di secondo il ragazzo perde l’equilibrio e Ina ne approfitta per spingergli tutto il corpo da una parte seguendo il movimento. Si divincola dalla presa e si rimette in piedi in posizione di guardia. Lui impreca furioso, ma è comunque altrettanto veloce a rimettersi in piedi e a riprendere l’attacco con la stessa intenzione di prima. Dritto al corpo a corpo per metterla a terra. Stavolta però Ina è preparata e si sente più sicura perché vede la furia nei suoi occhi. Il ragazzo si è spinto oltre la soglia della rabbia controllata e pericolosa. Ora è tutto suo. Ina sfrutta i piedi, muovendosi intorno a lui in cerchio con i leggeri e danzanti. Non gli lascia spazio per entrare. Lui prova ancora un paio di attacchi, ma non riesce a mandarli a segno. Vaga in cerchio intorno a Ina provando a trovare un varco, ma lei si tiene a distanza di sicurezza e lavora di gambe. Leggera sui piedi, leggera sui piedi. Quindi prova a incrociare il suo sguardo: «Chi sei?» Il ragazzino sghignazza. «Che te ne frega? Non te ne frega di nessun altro a parte te stessa!» I pensieri le frullano in testa. Che diavolo vuol dire? Deve averlo conosciuto in
qualche modo… o almeno lui in un certo senso la conosce… Sarà stato un suo paziente? No, se lo ricorderebbe. E tuttavia quel viso le pare stranamente familiare. L’odio che prova per lei, poi, da dove diavolo può venire? Ina è certa solo di una cosa, e cioè che si tratta di una questione personale. Ma non ha il tempo di riflettere oltre, perché il ragazzo riparte all’attacco e stavolta con una nuova tattica: arriva come una furia con pugni e calci selvaggi. Ma non è un attacco ragionato, non è concentrato, non è paziente. Si è trasformato in una preda facile. La serie di colpi successiva finisce contro il nulla e Ina a velocemente al contrattacco: un destro ben assestato ed estremamente preciso contro la guancia sinistra. Sente un dolore sordo diffondersi per la mano. Merda. Ha colpito fortissimo e il ragazzo vacilla per la sorpresa di fronte a quella forza, portandosi la mano al viso. Poi crolla sulle ginocchia. Da lì in poi Ina si muove solo d’istinto. Gli è sopra e gli afferra le mani, lo spinge sul pavimento e gli si siede sopra torcendogli le braccia dietro la schiena. Il ragazzo urla. «Chi sei?» gli urla Ina. Lui sputa per terra. Ina gli spinge le braccia verso l’alto. Il corpo sotto di lei ha un fremito, poi un gemito, ma ora la rabbia cieca comincia ad afferrare anche lei. Continua a fissare la nuca sotto di sé finché un dettaglio all’improvviso le dà la nausea. L’eccessiva peluria che dal collo scende alla schiena… Le sembra di affondare nelle tenebre e una rabbia folle si scioglie da qualche parte dentro di lei. Continua a fissare quella nuca e a spingere quelle braccia verso l’alto.
«Chi sei?» Il ragazzo sta quasi per piangere, ma si rifiuta di rispondere. Ina è fuori di sé, gli muove le braccia ancora più in alto e il ragazzo urla di dolore, ma non risponde. Lei continua a fissargli la nuca a fissare quella foresta di peli e la sensazione di averla già vista la afferra di nuovo. Quel tappeto di peli sulla nuca e sulla schiena… Schiaccia col suo peso le braccia del ragazzo mentre la rabbia la invade sempre di più. Proprio nel momento in cui sente lo schiocco, tutto si chiarisce: ha incontrato una sola persona con tutti quei peli sulla nuca e sulla schiena. L’ha incontrato molte volte e tutti i tratti del ragazzo diventano chiari e rivelatori. Lo sguardo, la postura del corpo, torna tutto. La persona che sta urlando sotto di lei con le braccia distorte in una posizione innaturale non è altri che il figlio di Karsten. Jan Scheel. 6
Ina fuma nervosamente in strada, davanti al numero 112 di Østavegen. Aveva temuto a lungo questa serata, ma il modo in cui si è sviluppata ha superato di gran lunga le sue peggiori aspettative. Jan Scheel avrà pure perso la lotta, ma il suo colpo era andato molto più a segno. Ina trattiene a stento le lacrime e cerca di rimandarle indietro soffiando grandi nuvole di fumo nell’aria fredda, ma l’angoscia preme agli angoli degli occhi e si morde le labbra con forza, nel tentativo di tirarsi fuori dalla spirale di pensieri negativi. Le poche frasi che ha scambiato con Jan Scheel prima che arrivassero l’ambulanza e la polizia si sono radicate dentro di lei. La ragione per cui l’aveva aggredita. Steso sul pavimento e annebbiato dal dolore, le aveva raccontato tutta la storia. La madre, Kirsti Scheel, aveva sospettato a lungo dell’infedeltà di Karsten.
Aveva assunto un investigatore privato specializzato in tradimenti e aveva scoperto tutto, sia che Karsten era infedele, sia con chi la tradiva. Ma Kirsti si era tenuta tutto dentro e aveva coltivato nel tempo un rancore sordo verso Karsten e Ina. Quando Karsten fu ucciso non resse più, esplose e raccontò tutto al figlio. In seguito la donna cominciò a incolpare se stessa di tutto, di non aver messo il marito di fronte al suo tradimento e di aver persino desiderato di vederlo morto. La coscienza sporca l’aveva colpita come una martellata alla tempia. Lentamente ma inesorabilmente il mondo intorno a lei aveva cominciato a crollare e il figlio non aveva potuto far altro che seguire da vicino, impotente, la discesa della madre verso il buio. Nemmeno un anno dopo la morte di Karsten, Kirsti Scheel un giorno aveva suonato il camlo di una famiglia a caso che abitava quattordicesimo piano del palazzo più alto del quartiere. Quando avevano aperto, lei non aveva detto una parola, era ata loro davanti attraversando il salotto, era uscita sul balcone e si era buttata giù. Da allora Jan Scheel aveva giurato a se stesso di vendicarla. Aveva spiato Ina, scoprendo che era tra le migliori lottatrici di kickboxing della città e aveva cominciato ad allenarsi. Si era esercitato per anni al solo scopo di batterla, tanto il suo odio era stato deciso e paziente. Ma aveva perso e adesso la polizia lo teneva in custodia. Ina sbuffa ancora nervosamente una nuvola di fumo. La cosa peggiore è che Jan Scheel ha ragione. Lei è veramente fredda e non riesce a preoccuparsi di nessun altro se non di se stessa. Allora come adesso. Quando frequentava Karsten, non aveva degnato la famiglia nemmeno di un pensiero. Pensava che fosse un problema di Karsten, non suo. Per lei la moglie e il figlio erano sagome senza nome e senza volto, non persone in carne ed ossa. Ora la loro sofferenza ha assunto un volto. Ma è possibile che Jan Scheel abbia avuto un qualche ruolo in quei macabri omicidi?
È poco probabile. Nel 1977 non era nemmeno nato. Ma sono altri i pensieri che la tormentano in quel momento su Østavegen, e cioè che avrebbe dovuto riconoscere Jan Scheel già la prima volta in palestra. Se l’avesse fatto, la tragedia di quella sera non sarebbe mai avvenuta e se fosse riuscita a parlarci, probabilmente sarebbe persino riuscita a placare quella sua furia cieca o almeno sarebbe riuscita a deviarla e a farle assumere forme più costruttive. Ora invece gli ha rotto un braccio e ha sottoposto le bambine a un trauma permanente. Ina getta il mozzicone di sigaretta sull’asfalto coperto di neve e ne accende subito un’altra. Getta un’occhiata verso la finestra della cucina e scorge le sagome degli altri dietro alle tende. Stanno tenendo una specie di riunione d’emergenza. Lei è scappata fuori non appena ne ha intravisto l’occasione, dopo aver interpretato il ruolo della madre preoccupata giusto per qualche minuto. Poi, invece di restare con le figlie, è subito fuggita a fumare. Ina chiude gli occhi e si maledice con tutta se stessa. Sì, Jan Scheel ha ragione. È davvero una donna di ghiaccio. Improvvisamente Ina sente vibrare la tasca del cappotto e tira fuori il cellulare. Cinque chiamate senza risposta. Tre messaggi. Tutti e tre dicono: “Vieni su Skype!” Santo Dio, che piattola. In quel momento Ina sente una mano su una spalla. Ha uno scatto e si mette in posizione di difesa, ma solo per incontrare gli occhi di Jon. Il respiro torna subito regolare. «Oddio, sei tu». «Vieni Ina, torna dentro». «Hai un computer?» domanda Ina. «Sì ma … dovresti stare un po’ con le bambine. Hanno bisogno di te».
«Devo controllare una cosa su internet». Jon la guarda incredulo. «Un computer ce l’ho». «È molto importante». Sente che Jon la sta ancora studiando. «Amund non riesce a spiegarsi perché il figlio di Karsten ce l’abbia tanto con te» le dice. «Perché non lo chiede a me, allora?» «Forse perché è in casa a consolare le vostre figlie». Quella risposta è come un pugno allo stomaco. «Che diavolo vorresti dire?» «Niente. Ma anche tu dovresti essere lì adesso». Jon la guarda col suo tipico sguardo indulgente, come faceva suo padre quand’era adolescente. Manca poco e salta al collo anche a lui, stupido saccente, ma per fortuna riesce a contenersi. Schiaccia rabbiosamente la sigaretta sotto alla scarpa e soffia l’ultima nuvola di fumo in faccia al collega. «Allora me lo dai o no questo computer?» Jon la fissa gelido negli occhi. «Seguimi». Ina lo segue in una stanza stretta e lunga al primo piano. Lì dentro, a differenza del resto della casa, c’è un certo disordine. Ina riconosce i segni e intuisce che quella dev’essere la tana di Jon. Lì dentro non entrano né Tone né Jenny. Adocchia subito l’iMac nuovo di zecca sulla scrivania accanto alla finestra. Jon la precede di un o e lo accende. Un lieve ronzio si diffonde per la stanza e restano in silenzio aspettando che parta il computer.
«Credi che il figlio di Karsten sia anche l’assassino?» le chiede Jon. «No. Ma è chiaro che non sta bene». «Facciamo un lavoro rischioso». Lo sguardo di Jon si fa serio. «Cos’hai scoperto davvero su Karsten?» Di nuovo Ina è colpita dall’interesse di Jon verso Karsten: che significa? «Niente» mente. «È questo il problema. Pensavo che potessi aiutarmi su questo punto, che magari aveste avuto delle conversazioni da uomo a uomo di fronte a una birra o qualcosa del genere…» Jon sorride rassegnato. «Se non c’eri tu, Karsten non usciva nemmeno. Io non gli piacevo. Tu, invece…» «Quindi nemmeno tu sai niente sul suo ato?» Jon si ferma a misurare Ina con lo sguardo, ma non risponde alla sua domanda. «C’è una cosa che devo dirti» dice invece cambiando discorso. «Ho preso una specie di virus sul computer, non riesco a togliere l’immagine che vedrai spuntare tra poco…» Lo schermo si illumina e Ina sussulta. Jon ha ragione di essere imbarazzato. Compare una foto pornografica parecchio volgare. «Si è installata da sola come desktop» spiega Jon. Ina non sa che dire e Jon lascia in silenzio la stanza. * Trygve Winther: Hai le date di nascita? Ina Grieg: Taci. Ora ascolti tu per un attimo.
Le racconta sinteticamente gli avvenimenti della serata. T: Ma le date? I: Ma che ti prende! Le date? T: Le date di nascita delle vittime. I: Date di nascita = Non in comune. T: Dammi solo le date, poi smetto di scocciare. Ina impreca tra sé e sé. Parlare di comunicazione a senso unico sarebbe un eufemismo. Tira fuori dalla tasca il suo foglio e scorre i nomi e gli anni che si è segnata. I: Ok. Heggvik e Rølvåg sono nati nello stesso anno, il 1958. T: Karsten? I: Nel 1952. T: Non torna. I: Infatti! Non sono andati a scuola insieme. T: Ascolta. C’è una circostanza in cui si incontrano giovani uomini. I: Cioè? T: Pensaci un attimo, Ina. I: Non puoi dirmelo e basta?! T: Il servizio militare, ovviamente. I: Ma le vittime non avevano la stessa età… Ina si accorge che le parole cominciano a ronzarle in testa e all’improvviso sgrana gli occhi.
I: Aspetta un attimo! Karsten ha fatto il servizio militare a 25 anni! T: Ok. Se è nato nel ‘52, quando ha fatto il militare? I: Nel 1977… T: E Heggvik e Rølvåg? I: Avevano diciannove anni nel ‘77. T: Ecco, questa è quella che chiamerei una TEORIA. Cosa ha fatto Karsten l’anno dopo? I: Ha lasciato la famiglia ed è venuto a studiare a Oslo. T: E andava a prostitute per farsi frustare? I: Dio mio… T: Dove ha fatto il servizio militare? I: A Porsangmoen… ma allora il Generale potrebbe essere un vero generale? T: Impossibile a dirsi. Ora bisogna stabilire se tutte le vittime si trovavano a Porsangmoen nel 1977. I: Trovare le liste delle reclute di quell’anno? T: Sì. E i nomi dei superiori. I: Così avremmo luogo e data del nostro incidente principale? T: Porsangmoen, 5 dicembre 1977. I: Ma ci mancano ancora le vittime numero 1 e 3… Ina aspetta la risposta di Winther. Si fa aspettare un po’. Poi arriva: T: Sì, ma concentrati su questo: qualcosa di terribile è successo il 5 dicembre del 1977 a Porsangmoen. Se scopri cos’è, troverai anche le vittime.
I: E l’assassino? T: Anche lui è nascosto lì da qualche parte. Stanne certa.
Alstahaug, 5 dicembre 1984 Martedì sera
Le nuvole corrono in cielo. Grigio su nero. Vento forte e neve che volteggia, quasi come quella volta a Grenen, quando trovò le scarpe in riva al mare. E l’altra notte, la più terribile di tutte… Dal suo nascondiglio al riparo del bosco riesce a malapena a scorgere la chiesa di pietra di Alstahaug, a Tjøtta, immersa nella bufera di neve. Questo è il luogo in cui più di trecento anni fa ha vissuto il poeta ed ecclesiastico Petter Dass. Dass riunì arte e religione, i due sistemi più belli al mondo. “Sum, fueram, fiam, sum, Dassisum unus et idem” mormora. “Sono, sono stato e sarò per sempre lo stesso Petter Dass”. Siamo ciò che siamo stati. Siamo ciò che le nostre azioni ci hanno reso. Per questo ha convocato Rølvåg, per metterlo di fronte alla responsabilità delle proprie azioni, sotto gli occhi di Dio e di Petter Dass. Chiude gli occhi. Una sfilza di immagini gli si affolla intorno, frammenti della sera in cui il mondo si è oscurato. La ragazza nella barca e l’incavo nel viso, mischiati insieme allo sguardo severo di Petter Dass in tutti i suoi ritratti. Deve stare attento a non farsi trasportare troppo da quella mania per Dass. D’altra parte il coinvolgimento del prete-poeta non era stato programmato. Si era imbattuto in una biografia di Dass in biblioteca quasi per caso. Ma come gli era già capitato in ato, era stato completamente assorbito dall’argomento
ed era rimasto seduto in biblioteca a leggere giorno dopo giorno e sera dopo sera. Una cosa che sapevano in pochi era che Petter Dass avesse giocato con le arti oscure. Lingue malevole sostenevano addirittura che non avesse l’ombra. Dass aveva fatto gli studi ecclesiastici a Wittenberg e nelle dicerie popolari il direttore di quella scuola era il Diavolo in persona. Il Diavolo aveva diritto al potere su un’anima per ogni classe, ma quando era toccato a Petter Dass, quello aveva detto proprio come i tre capretti furbetti: “Non prendere me, prendi il prossimo”. E così il Diavolo gli aveva preso l’ombra. Un uomo senza ombra, proprio come lui. Ha smesso di essere un uomo molto tempo fa, gli è rimasto solo l’involucro. L’unica cosa che lo tiene in vita è il suo piano, grazie al quale tutti i pezzi del puzzle andranno ognuno al suo posto, uno dopo l’altro. O meglio: forse in fondo è la sete di giustizia a guidarlo. Certo che è così. Ma la giustizia deve essere impartita in modo adeguato, perché se diventa impazienti tutto il suo piano ben architettato potrebbe andare a rotoli. E se così fosse il Diavolo, quel mostro di cui ancora non conosce il nome, sarà libero. Il tempo non gli manca, anzi il tempo è tutto ciò che ha. Il tempo per le visite quotidiane alla casa di riposo, il tempo per pianificare, i tempo per leggere. I libri lo occupano quasi completamente, sia al lavoro che nel tempo libero. La letteratura era diventata la sua strada. Aveva finalmente trovato il coraggio di avventurarcisi e soprattutto di avventurarsi in quei libri, quelli che Louise aveva amato tanto. Si era addentrato nell’opera e nelle tecniche dello scrittore se Raymond Queneau, uno dei fondatori del movimento letterario dell’OuLiPo. Credeva che quelle conoscenze l’avrebbero spaventato, dopo tutto quello che era successo, ma non poteva sbagliarsi di più. Era rimasto invece totalmente incantato dagli enigmi e dai sistemi. Dai palindromi. Dalle poesie “palla di neve”, dove ogni verso ha una lettera in più del precedente.
Dai lipogrammi, ovvero testi dai quali erano escluse una o più lettere. Dietro ai loro lavori c’era un fitto intreccio di sistemi e misteri, erano meravigliosi, la più nobile delle arti. In quel modo gli era sembrato in un certo senso di avvicinarsi a Louise, cominciava a vedere la bellezza che lei ci aveva trovato. Ciò che lo affascinava di più era il cosiddetto metodo N+7: consisteva nella sostituzione di un sostantivo in un testo con il sostantivo che veniva sette parole dopo di lui in un dato dizionario. Il risultato variava a seconda del dizionario di riferimento che si utilizzava. C’era qualcosa di estremamente affascinante in quell’idea, nel fatto che un testo potesse contenere codici segreti che solo alcuni pochi iniziati conoscevano. Anche il numero in sé gli era rimasto in testa. Sette. L’orrore, anche quello, non era forse legato a sette persone? Sette uomini. Sette anni di intervallo. Ecco come doveva andare. Il sette era il numero più sacro di tutti. E il più bello. Si era informato sul numero sette, aveva letto libri sui simboli numerici e sulla storia delle religioni. Più si addentrava in quelle materie e più restava colpito. Il sette era un numero centrale in tutte le religioni, specialmente nella Bibbia. Lentamente i pezzi del suo piano si allineavano gli uni agli altri. Sarà così bello… così necessario. Il numero sette dirigerà tutto, sarà la stella cometa. Ora è arrivato il momento di metterlo in atto. Tra poco Rølvåg arriverà. Tra poco tutto avrà inizio. Si tira su il cappuccio, si sistema all’ombra di un albero al riparo dal vento e controlla ora la chiesa ora il cielo. Quando guarda in alto è in cerca di lei, di Louise. Se solo potesse dargli un
segno! Indicargli se tornare a casa oppure andare avanti. Tutto ciò che vede, però, è la neve che cade, la neve che volteggia sul paesaggio costiero, si libra sul cimitero, crea piccoli cumuli sulle lapidi, si attacca alle staccionate di legno e ai pali della luce, depone il suo bianco velo su tutte le cose, vive o morte: case, persone, paesaggio. Il bianco avrà presto coperto ogni cosa. Si toglie i guanti di lana, unisce le mani a coppa e ci alita dentro. Poi controlla il coltello nella tasca interna e ria i dettagli del piano. È importante che entri ed esca dalla chiesa senza essere visto. Da questo punto di vista il cattivo tempo è una benedizione. Guarda l’orologio. Mancano solo cinque minuti. Prevede la via di fuga che prenderà, i i veloci per allontanarsi dalla chiesa, il percorso attraverso il bosco fino alla macchina parcheggiata sulla strada dietro di esso. Poi si tratterà di guidare protetto dal buio. Non troppo veloce né troppo lento, ma alla giusta velocità per non attirare l’attenzione. Ripensa ai due giorni in macchina per arrivare lì, a quanto è stato attento fino ai minimi dettagli. Ha persino dormito in macchina, in un parcheggio deserto appena fuori Narvik, solo per evitare di essere visto. Ma in fin dei conti si sente sicuro. Nessuno, nemmeno nei suoi pensieri più remoti, potrebbe mai sospettare che lui sia lì. Ha chiesto una settimana di ferie dal lavoro, dicendo che sarebbe andato a trovare i parenti di Louise a Copenaghen, giusto per cambiare un po’ aria. Sono stati tutti molto comprensivi, gli hanno detto che se l’era meritata quella vacanza. Ha dei bravi colleghi. Sì, tutto è andato secondo i piani. Ma d’ora in poi deve essere paziente, altrimenti si smaschererà. Ha già raccolto molte informazioni, ma gli mancano ancora diversi nomi. Adesso ha la sua occasione, adesso potrà sapere tutto – o quasi – quello che non ha ancora scoperto. Rølvåg è la chiave d’accesso.
Rølvåg e Sande. Si è attaccato con tutte le forze a questi due nomi. Oltre all’ultimo che resta misterioso. Sande non è riuscito a rintracciarlo, perché si è dimostrato un nome maledettamente comune. Solo quell’anno c’erano due Sande in caserma. Ma con Rølvåg è stato più facile, perché c’era solo un Bjørnar Rølvåg. Solo una persona con quel nome nell’elenco del telefono. L’indirizzo aveva reso facile la scelta del luogo. Raddrizza la schiena lì al margine del bosco e guarda l’orizzonte. Eccoli finalmente. Due fari sulla strada, una Volvo che avanza a fatica nella neve. L’uomo scivola dietro al tronco per spiare la vettura, vede la parte anteriore della Volvo avvicinarsi e poi fermarsi nel parcheggio. Una sagoma esce dall’auto, si sente uno sportello sbattere e qualcuno affrettarsi ad entrare in chiesa. Chiude gli occhi e comincia a contare i battiti del suo cuore. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… Al numero sette si getta lo zaino in spalla e comincia il suo cammino. Il corpo si è irrigidito per la lunga attesa e per un attimo teme che questo possa metterlo in difficoltà, che tutto l’allenamento dei mesi ati possano risultare inutili. Perciò aumenta il o, ma si riprende subito e aggiusta il ritmo della camminata in modo da non arrivare troppo presto. Alla fine si ferma. Il vento freddo gli sferza il viso. Apre lentamente la porta della chiesa e si assicura che Rølvåg non sia in agguato. Poi si infila nell’anticamera. Resta lì qualche secondo ancora per raccogliere le forze e si accorge che la mano destra ha cominciato a tremare, ma sa cosa deve fare: ripensa al volto del figlio, come ha fatto tante volte prima d’ora, e torna subito in pieno controllo. Scivola nella chiesa senza fare rumore. È sorprendentemente buio lì dentro,
tuttavia intravede la figura sotto all’altare. Bjørnar Rølvåg. Così vicino adesso, così a portata di mano. Rølvåg gli va incontro con o veloce. «Generale?» chiama. La sua voce un po’ acuta e con quell’accento cantilenante del Nord risuona contro le pareti. Lui non risponde e l’eco si smorza. Resta fermo a fissare Rølvåg in silenzio. Si era immaginato che fosse un tipo brusco e moro, con una barba folta. Invece è tutto diverso. Bjørnar Rølvåg è alto e magro, con i capelli lisci e rossi. «Ho ricevuto la lettera, Generale» dice Rølvåg. «Cosa vuoi?» Continua a non rispondere, si limita a respirare profondamente. «Credevo che avessimo chiuso con quella storia» continua Rølvåg, il cui linguaggio del corpo rivela quanto sia nervoso. «Credevo che ci dovessimo lasciare tutto alle spalle». «Voglio i nomi» dice infine. «I nomi?» «Delle altre persone coinvolte». Rølvåg allarga le braccia in un gesto di esasperazione. «Ma c’eri anche tu!» Estrae il coltello e il volto di Rølvåg adesso esprime solo una cosa: paura. «Dammi i nomi…» «Che significa questo? Eravamo d’accordo di lasciarci tutto alle spalle!» «Voglio fartela facile Rølvåg: dammi i nomi di chi è coinvolto e ti lascio vivere». Osserva Rølvåg valutare per un attimo la situazione e poi mettersi a correre.
Dannazione! Rølvåg ha già un po’ di vantaggio, ma lui parte all’inseguimento, inciampa tra le panche ma gli sta dietro, sempre con il coltello in mano, finché riesce ad intercettargli la caviglia e a farlo cadere. Rølvåg è in terra e lui gli monta sopra, gli spinge le braccia in fuori e gli preme le ginocchia contro il petto. Gli mette la lama alla gola, ma c’è una forza selvaggia in quel corpo magro e nervoso. Rølvåg lotta per la vita e per un attimo riesce a liberarsi una mano e a torcergli quella con il coltello spingendola contro il pavimento. Con l’altra mano l’uomo sbatte con tutte le sue forze la testa di Rølvåg contro il pavimento, ma non serve a niente. L’espressione di Rølvåg è determinata. «Dammi i nomi!» gli urla contro. Rølvåg riesce a rivolgere la lama contro il pavimento, la spinge piegandola fin quasi a spezzarla, ma all’ultimo riesce a fermarlo con un pugno nello stomaco. Il pescatore di Dønna emette un gemito e molla la presa. Finalmente riprende il controllo del coltello e colpisce Rølvåg alla spalla, infliggendogli una ferita profonda. Questi urla e il sangue comincia a sgorgare dal taglio in un flusso sorprendentemente abbondante. «Dammi quei dannati nomi» gli grida ancora. In quell’attimo Rølvåg riesce a liberarsi l’altra mano e a tirargli via il cappuccio. Rølvåg sgrana gli occhi, come se avesse visto un fantasma, e lui approfitta di quell’esitazione per affondargli il coltello nel petto più e più volte, mentre sente una voce quasi bestiale gridare. «Dammi i nomi! Ho avuto il tuo da Regine! Rølvåg e Sande, gridava! Rølvåg e Sande!» Dal corpo di Rølvåg sale un sospiro. Cede, si rassegna, la sua gola emette un gorgoglio. Solo i suoi occhi sembrano ancora vivi. «Puoi perdonarci?» sussurra Rølvåg.
«Solo se mi dai i nomi». E con le ultime forze rimaste Bjørnar Rølvåg tira fuori tutti i nomi, tra le pareti della chiesa di Alstahaug: «Ottar Heggvik, Jan Jakob Opdahl, Karsten Scheel, Per Erik Sande… e…» «Il Generale?» Il volto di Bjørnar Rølvåg e scosso da un tremito, l’ultimo gesto della sua vita. «… il Generale». * Una volta che il corpo sotto di lui si è fermato, l’uomo si tira di nuovo il cappuccio sulla testa, prende un bloc-notes dalla tasca del giubbotto rosso e si segna i nomi, sebbene li abbia già fissati nella memoria: “Ottar Heggvik. Jan Jakob Opdahl. Karsten Scheel. Per Erik Sande”. Si sofferma sull’ultimo e poi scrive: “Il Generale”. Non sarà facile. Ma ha già un’idea di chi sarà il prossimo. Jan Jakob Opdahl. Un nome insolito ma gradito. Gli altri verranno dopo, uno alla volta. Il tempo non gli manca. Già. Sette anni prima della prossima volta. Si alza e spende un attimo a osservare il cadavere sotto di lui, quel corpo che era stato umano, o meglio, disumano. Si rende conto in quel momento che la sua mano ha ripreso a tremare leggermente, ma è andato quasi tutto come da programma. Rølvåg è riuscito a reagire ed era sorprendentemente forte, ma lui è stato più forte, evidentemente.
L’uomo resta ancora un attimo a guardare la propria mano finché non smette di tremare e il suo corpo recupera la calma. In fin dei conti ha superato la prova. Il primo pezzo è andato al suo posto. Sposta quindi lo sguardo all’altare e al crocifisso. “Tu puoi capire” pensa. L’ultima parte del piano quasi non lo spaventa più. Si curva, recupera il coltello e incide due segni sulla fronte di Bjørnar Rølvåg. Poi prende la corda dallo zaino e lo trascina per i piedi fino all’altare. Qui comincia l’ultima parte del lavoro.
Giorno 5
Giorno 5 Venerdì 11 dicembre 2010 1
Ina fissa le tende a fiori nello studio di casa sua. Sono le cinque e mezza del mattino e il diario di Karsten 1966-1977 è aperto sulla scrivania di fronte a lei. Il testo recita: 14 aprile 1977 Sarà doloroso separarmi da te, Kirsti, mi sembra di sentire già la tua mancanza. Mi farà male non averti sempre intorno, mi ci sono abituato al punto che non so se riuscirò a farne a meno. Sono certo che la tua mancanza mi esploderà dentro ancora più forte non appena sarò seduto sull’autobus. Però devo ammettere anche che non vedo l’ora. Mi farà bene cambiare aria, poter pensare solo a me stesso. La notizia di dover partire per il servizio militare è arrivata quasi come un regalo. Chissà che aspetto avrà il mondo quando tornerò a casa dopo un anno in una specie di deserto ghiacciato! Nessuno può prevedere il futuro, potrebbe accadere tutto o niente laggiù. Tutti mi dicono che probabilmente l’addestramento mi farà bene, anche tu, Kirsti, mi prendi in giro perché ho le spalle strette! Ma a dire il vero non è l’impegno fisico a preoccuparmi, è tutto il resto che mi agita un po’. Condividere le camerate, pensare, vivere, spartire ogni momento della giornata con altre persone. Non so se ci riuscirò. Immagino che le giovani reclute mi si rivolteranno contro, oppure mi mostreranno un rispetto esagerato. Una delle due.
Come gestirò i mesi di buio? Per fortuna nel primo periodo si andrà verso la luce, così poi potrò abituarmi gradualmente al buio durante tutto l’autunno e l’inverno. Il buio arriva sempre puntuale. Ho paura o non vedo l’ora? Presto lo saprò. Tra poco mi addentrerò nel buio. Poi più niente, nemmeno una pagina di diario per tutto l’anno successivo. Nessun appunto il 5 dicembre 1977. Non è possibile! È quantomeno strano che Karsten così di punto in bianco abbia smesso di scrivere. Forse la vita di caserma a Porsangmoen non gli lasciava tempo libero per la scrittura, ma è un altro lo scenario che a Ina sembra più plausibile, ovvero che Karsten abbia scritto il suo diario anche durante il servizio militare ma le pagine siano andate perse. Le ragioni potrebbero essere diverse. Potrebbe aver lui stesso distrutto quel diario per tenerne nascosto il contenuto o potrebbe esser stato distrutto da qualcun altro, ad esempio dal Generale, per la stessa ragione. O ancora potrebbe essere stato tenuto nascosto da qualcun altro coinvolto nella vicenda, ad esempio dalla persona che glieli ha lasciati in ufficio. Ina non sa se piangere o ridere. Nel suo ingenuo ottimismo aveva sperato di trovare una risposta bell’e pronta lì nell’ultimo diario. Ora invece sa che dovrà seguire altre vie per scoprire cos’è successo a Porsangmoen. Accidenti! In mano non hanno altro che teorie e ipotesi, niente di certo. Anche se mancano ancora diversi pezzi, il legame tra gli omicidi e il suo studio è ormai evidente, oltreché estremamente inquietante.
D’un tratto si sente invadere da quel freddo strisciante che ha provato quando è rimasta chiusa negli archivi dello studio e ha sentito quei i allontanarsi e lasciarla sola tra le mura della cantina. Quel brivido di claustrofobia che l’aveva attraversata… Oddio. Un nome le si forma sulle labbra. Jon Bork. Ina prende il cellulare e digita il numero di Hege Rimbereid, la quale risponde subito dicendo: «Sei mattiniera». «Ascoltami attentamente» Ina va subito al sodo. La aggiorna brevemente sugli eventi della sera prima, le racconta di Jan Scheel e della loro lotta a casa di Jon e Tone Bork, poi le illustra le teorie di cui ha discusso con Winther e cioè che le vittime possano aver fatto il servizio militare insieme. Per una volta Rimbereid tace. «Ci sei ancora?» chiede Ina dopo un po’. «Sì, è solo che…» «Cosa?» «Ormai ci siamo, Ina. Tu e Winther siete riusciti a decifrare il codice». «Non possiamo ancora esserne sicuri». «Ma dai! Mi fa innervosire questa tua prudenza eccessiva!» «Beh, una cosa devo ammetterla: non vedo l’ora di vedere la faccia di Inger-Lise Lie quando glielo racconteremo!» «Non contarci». «Come?» «Dai un’occhiata al VG on line e capirai cosa intendo. Scommetto che la tua collaborazione all’indagine appartenga ormai alla storia…»
Ina non capisce di cosa stia parlando, ma ruota la sedia verso il computer e apre internet. Dopo pochi secondi ha la prima pagina del giornale davanti agli occhi. Il titolo troneggia in grassetto: “Omicidio di Maridal: Pista nella Psicologia?” Il battito accelera. Clicca per leggere l’articolo. All’inizio non capisce di cosa stiano parlando. Scrivono che una psicologa è stata coinvolta in una rissa e che ci potrebbero essere dei legami con l’omicidio di Maridal. C’è qualcosa di fastidiosamente noto nella foto pubblicata a illustrare l’articolo. Le ci vogliono un paio di secondi per realizzare cosa sta fissando: se stessa. Le si gela il sangue nelle vene. È una foto di un anno prima, fatta a Maspalomas durante un viaggio alle Canarie in famiglia. Quand’erano tornati Amund aveva pubblicato quella foto su Facebook e si ricorda ancora di quanto si fosse infuriata. Il testo della foto recita: “La psicologa e kickboxer Ina Grieg mette al tappeto un malvivente”. Ina si stropiccia gli occhi incredula: questo significa veramente grattare il fondo del giornalismo, persino per un giornale come quello. Poi legge rapidamente l’articolo: “Un uomo sui vent’anni si è introdotto rompendo una finestra in una casa di Rasta, a Lørenskog.” e continua. “Sarebbe imparentato con Karsten Scheel, lo psicologo ucciso ad Hakadal cinque anni fa. L’uomo è stato catturato stanotte a seguito di un intervento della polizia e messo sotto custodia”. «Santo Dio, ma come hanno fatto ad avere queste informazioni… Hege?!» «Qualcuno deve aver fatto una segnalazione al VG, non c’è altra spiegazione». Ina visualizza davanti a sé un volto, il volto di qualcuno che era decisamente nei pressi dell’incidente.
Jon Bork. Di nuovo. Oddio, ma non può essere… «Tuttavia non è questo che conta» commenta Rimbereid. «Il punto è che Lie reagirà molto male. Si può dire che sia una fortuna che tu abbia scoperto queste ultime informazioni fondamentali per l’indagine, però se fossi in te non mi presenterei alla riunione di domattina». «E cosa dovrei fare?» «Niente» risponde Rimbereid. «Cercherò di rimediare io meglio che posso». «Ma non è giusto!» scoppia Ina. «Io voglio collaborare, devo poterlo fare!» Un attimo di silenzio. Rimbereid si schiarisce la voce. «Credo che la cosa più furba sia farti un attimo da parte» dice. «Prenditi un giorno libero». «Oh Santo Dio, Hege… non penserai veramente anche tu che sia stata io a parlare?» «No, non lo penso. Ma credo che la faccenda per te si stia facendo troppo… personale». Ina vorrebbe rispondere a tono, ma le parole di Rimbereid improvvisamente le paiono assumere un altro significato. Troppo personale… ma certo! Ina chiude gli occhi. «Ok» dice infine. «Oggi me ne resterò a casa». «Bene» fa Rimbereid. «Ti chiamo nel pomeriggio per aggiornarti». Riattacca. Ina resta un attimo immobile e assente. Abbassa la mano con il telefono. Troppo personale… infatti… È proprio così.
Quel caso sta diventando troppo personale da moltissimi punti di vista ed ha appena avuto l’illuminazione su quale sarà il suo prossimo o. Ina deglutisce: conosce qualcuno che potrebbe avere informazioni su Porsangmoen nel 1977. E con questo qualcuno non ha semplicemente un rapporto personale. Non esiste al mondo rapporto più personale di quello.
2
«Cosa vuoi?» Gli occhi sospettosi del padre squadrano Ina dallo spiraglio della porta. «Mi fai entrare?» «Dipende». «Non fare il bambino». «Sei tornata troppo presto… sento puzza di guai». «Voglio solo parlarti». Il padre ci pensa un attimo. «Questa frase, poi, puzza proprio di guai». Un attimo dopo però sente il rumore di tutte e tre le serrature che vengono aperte. Ina entra in casa. L’odore acre di fumo e piscio di gatto la avvolge immediatamente, è quasi peggio dell’altra volta. Gesù, quel posto è invivibile. Ina getta un’occhiata verso il bagno e realizza che la lettiera del gatto non è mai stata svuotata da allora. Gli occhi ostili del padre la aspettano in salotto.
«Allora? Cosa c’è?» Non lo degna di risposta. Non è ancora il momento. Ina si rende conto di quanto faccia freddo in quella stanza, si stringe il cappotto al corpo, provando a coprire ciò che tiene nascosto sotto. Poi si avvicina alla stufa elettrica e ci a sopra le dita. «Papà, ma è spenta!» «I prezzi della corrente sono folli». «Ma posso pagartela io la corrente, se è questo il problema». «Non se ne parla!» Ina si arrende. Non ce la fa a discutere con quel mulo e poi non sarebbe strategico, visto quel che ha intenzione di chiedergli. «Non potremmo sederci?» propone in un sospiro. «Guai.» ripete il padre allontanandosi. «Porti solo guai…» Prende in braccio il gatto accoccolato sulla sua poltrona reclinabile, si accomoda al suo posto, se lo mette in grembo e accende una sigaretta. Con la sinistra accarezza il manto spelacchiato. Gli occhi del gatto sorridono e un dolce suono di fusa si diffonde per la stanza. «Sputa il rospo» dice quindi il padre. «Ecco…» comincia Ina. «Sto collaborando a un’indagine per omicidio…» «Ancora per quel tuo collega?» «In parte. C’è un possibile collegamento tra il suo omicidio e quello di Maridal». «Ho letto qualcosa». Ina si sporge in avanti sul divano. «Sembra che le vittime si siano conosciute durante il servizio militare».
Ecco quell’impercettibile smorfia sul volto del padre: ora sa di averlo preso all’amo. «Ah … il tuo collega e l’altro?» «È possibile che ci siano anche altre vittime». «Miseria…» «Quello che hanno in comune è che hanno fatto tutti l’anno di servizio militare a Porsangmoen nel 1977». Il padre si blocca per un attimo, poi finisce di portarsi la sigaretta alle labbra e soffia un’altra nuvola di fumo nella stanza. «È qui che entro in gioco io?» «Esatto. Al tempo avevi molti contatti nell’ambiente militare. Dov’è che abitavamo?» «Nel 1977?» Il padre si stiracchia la schiena sulla sua poltrona, Ina riesce quasi a vedere gli anni che gli scorrono davanti agli occhi. «Setermoen» risponde infine. «1974-1979. Posto orrendo». «Hai mai sentito parlare di qualche incidente accaduto a Porsangmoen nel 1977?» Il padre annuisce. «È possibile…» «Davvero?» «Potrei raccontartelo. Ma prima devi promettermi una cosa». «E cioè?» «Che non mi metterai mai in una casa di riposo».
«Oddio papà, ma quando crescerai?» Il padre incrocia le braccia. «Beh, se la metti così…» Ina stringe i pugni. Eccolo che vuole mercanteggiare davanti a un caso di omicidio… è troppo provocatorio… ma sa che la rabbia non l’aiuterà a risolvere un bel niente. Allora infila la mano nel cappotto. «E se invece ti dessi questa?» Ina tende al padre una stecca di sigarette. Lui la osserva un paio di secondi, mette in terra il gatto e lentamente la afferra. «Può darsi che io sappia qualcosa» dice infine. «Su Porsangmoen?» Il padre la osserva muto, Ina impreca dentro di sé e tira subito fuori la seconda stecca. Lui la accetta e annuisce. «Dev’essere successo in quel periodo… mi ricordo bene che ero a Setermoen quando ne ho sentito parlare». «Cosa accadde?» «Girava voce che dei soldati fossero coinvolti in una brutta storia di aggressione contro un ragazzino che era stato mandato quasi all’altro mondo. Ma a quanto ne so la storia fu insabbiata e qualcun altro si prese la colpa». «Chi?» Il padre allarga le braccia. «Non so altro». «Come hai fatto ad avere queste informazioni?»
«Se sai lisciare la gente al posto giusto e al momento giusto, vieni a sapere un po’ di tutto». «Davvero non sai nient’altro sulla faccenda?» «Giuro. Però so chi potrebbe sapere qualcosa». «Ah sì?» «L’allora comandante in servizio a Porsangmoen». «Chi era?» «Granhaug» risponde il padre. «Ivar Granhaug. Veniva da qualche parte nell’Hadeland e parlava quell’odioso dialetto di Toten». «Ne sei sicuro?» «Eccome! Si prese l’incarico che spettava a me, me lo soffiò proprio da sotto al naso. Forse è per questo che quella volta si mise a sparlare, dopo aver bevuto. Forse sentiva un certo senso di colpa nei miei confronti… o nei confronti della vittima e della famiglia». Ina torna a rilassare la schiena sul divano e si mette a soppesare un attimo le informazioni. Trygve Winther ci ha azzeccato molto più di quanto possa immaginare. Per tutto il corso dell’indagine Ina non ha fatto che imbattersi nella propria vita… e la storia continua ancora e poi ancora. Sullo sfondo si accorge che il padre si affretta verso il comò, probabilmente per mettere al sicuro il prima possibile le sue sigarette, ma nella sua testa Ina sta già andando via ed è Karsten ad affiorare nella sua mente. Adesso ci siamo quasi, Karsten. * Appena uscita da casa del padre, prende il cellulare e trova quattro chiamate perse. Tutte di Inger-Lise Lie.
Ma la Lady di ferro dovrà aspettare. Invece di richiamarla, Ina va su internet. Si fa coraggio. Sa che ciò che sta per fare non solo è completamente al di là delle sue mansioni, ma è anche al limite del regolamento e potrebbe anche avere ripercussioni sull’esercizio della sua professione. In ogni caso farà infuriare Inger-Lise Lie. Ma per come stanno le cose adesso, essendo stata esclusa dall’indagine, probabilmente non riuscirebbe a contribuire altrimenti, neanche se avesse in mano proprio la carta vincente. Nel frattempo ha cominciato a turbarla la preoccupazione che il padre possa finire in qualche modo in mezzo in questo delirio. È possibile che abbia informazioni che possano metterlo in pericolo? E se l’assassino ne fosse a conoscenza? Questo Granhaug, ad esempio, che ruolo gioca in tutta la storia? E se fe addirittura parte del gruppo? Se fosse lui il Generale? Se quel terribile sospetto si dovesse dimostrare fondato, Ina potrebbe davvero dare un contributo all’indagine, in un modo che sarebbe precluso alla polizia. Guarda la schermata di Google sul cellulare e con le dita lievemente tremanti digita il nome di “Ivar Granhaug”. Trova subito alcuni riscontri sugli elenchi fiscali e quelli telefonici. Clicca sui link. Nell’elenco del telefono c’è una sola persona con quel nome. Seleziona il numero e chiama. Uno squillo. Due. «Pronto?» «Parlo con Ivar Granhaug?» Un attimo di silenzio sulla linea. «Se è ancora la polizia, non ho altre informazioni» risponde una voce nel dialetto
di Toten. «No, sono la psicologa Ina Grieg. Ha un minuto?» «Veramente no». «La sto chiamando per la stessa questione». «L’ho già detto all’agente della polizia di Oslo cinque minuti fa: non so niente di Porsangmoen». Ina a velocemente in rassegna le sue possibilità. C’è sempre stato qualcuno un o avanti a lei per tutto il tragitto. Rimbereid deve aver informato i colleghi della pista comune durante la riunione di quella mattina, poi devono essere risaliti all’identità del comandante in carica a Porsangmoen nel 1977 ed essersi così imbattuti in Granhaug. Ma sente che c’è qualcosa che non va. Le informazioni del padre, il tono ostinato di Granhaug. Fa un respiro, poi dice: «C’è una differenza sostanziale tra me e la polizia». «E cioè?» «Il segreto professionale». Dall’altra parte della cornetta c’è silenzio e Ina va avanti: «Quello che voglio dire è che se lei fosse in possesso di informazioni importanti e volesse parlarne, potrebbe farlo con me senza che il suo nome venga mai fuori». «Qual è il suo ruolo in tutto questo?» le chiede Granhaug. «Collabora con la polizia?» «Una delle vittime era un mio collega» risponde Ina. «È una cosa personale. Però sì, ho anche collaborato con la polizia».
Sente il respiro pesante di Granhaug dall’altra parte. «Dunque se venissi da lei come “paziente”…» «... la sua storia resterebbe tra me e lei. Anzi, per essere più precisi: potrei usare le informazioni, ma la sua identità resterebbe segreta». «In tal caso vorrei prenotare un appuntamento» dice Granhaug tutto d’un fiato.
3
L’uomo seduto di fronte a Ina è abbronzato e comunica un’impressione di forza e giovinezza, a dispetto dei suoi settantadue anni. Ha i capelli corti e brizzolati, ma più scuri che bianchi, e indossa abiti informali: maglioncino a collo alto verde militare e pantaloni blu sportivi. A differenza della maggior parte delle persone che ha visto su quella sedia nel suo studio, l’uomo ha un’aria sicura. Anche fisicamente è sbalorditivo per la sua età: alto, magro, spalle larghe. Tuttavia ad impressionare maggiormente sono i suoi occhi. Sono scuri e hanno seguito Ina con calma e concentrazione fin da quando ha messo piede nella stanza. Ha una voce dolce, ma Ina riesce a immaginare la durezza che può celare. Finora non si sono scambiati che qualche frase di cortesia. Ora il riscaldamento è finito. Ivar Granhaug si sporge in avanti sulla sedia. «Ha pensato a quanto tutto sia casuale, Grieg?» «A dire il vero no». Granhaug non la molla con lo sguardo, ma nemmeno Ina vacilla. «Solo il fatto che io adesso sia seduto su questa sedia, è il risultato di una lunghissima serie di coincidenze improbabili. Le possibilità che io oggi mi
trovassi qui erano molto vicine allo zero. Tuttavia sono proprio seduto qui a parlare con lei. Era così che doveva andare». Ina annuisce. «Anche solo che io oggi sia in Norvegia non era affatto scontato» continua Granhaug. «Sono tornato ieri pomeriggio dalle Canarie. Io e mia moglie abbiamo un appartamento a Puerto Mogan e iamo laggiù gran parte dell’inverno. Siamo tornati in vista del Natale, perché vengono a trovarci figli e nipoti». Il suo sguardo scuro prende vita. «Ma bastava che avessimo prenotato il volo per un giorno dopo e io adesso non sarei seduto qui. Se lei non avesse chiamato, non avrei saputo trovare una via d’uscita da questa brutta faccenda, anzi avrei cercato di sabotare l’indagine della polizia e ci sarei riuscito. Quasi nessuno è a conoscenza delle cose che sto per dirle e non ci sono prove». Ina avrebbe le sue obiezioni, ma non vuole menzionare il padre per non rischiare di metterlo nei casini. «Cosa l’ha spinta a venire?» Granhaug si inumidisce le labbra. «Voglio alleggerirmi la coscienza» ammette. «Ma prima di tutto voglio precisare una cosa: non sono sempre stato al corrente degli omicidi e del fatto che potessero essere collegati a… l’incidente. Mi sento male al solo pensiero. Comunque… adesso le racconto cosa è accaduto nel 1977, così potrà farsi la sua opinione. Io mi sono fatto un’idea di chi potrebbe essere dietro a tutto questo disastro». Granhaug fa una breve pausa e Ina ne approfitta. «Ottar Heggvik era soldato a Porsangmoen nel 1977?» Gli occhi di Granhaug vagano lungo la parete e finiscono a fissare fuori dalla finestra. D’un tratto appare stanco, vinto.
«Sì» risponde quindi. «Lui era… uno del gruppo». «Insieme a Karsten Scheel, Per Erik Sande e Bjørnar Rølvåg?» «Non ricordo tutti i nomi» dice Granhaug. «A parte Heggvik e… l’altro, quello che mi ha perseguitato per tutti questi anni». «Racconti pure». Granhaug si mette comodo sulla sedia. «Tenga presente una cosa, prima che comincio» dice. «Il fatto di costringere tanti giovani uomini tutti insieme lontano da casa, in qualche modo li intacca. Lei che è psicologa conoscerà sicuramente i meccanismi: cameratismo, apatia, energia collettiva repressa, tutte queste cose insieme. La maggior parte delle reclute riesce a gestirle, ma alcuni reagiscono male. Ricordi che sono solo ragazzini, poco più che bambini in effetti. Il testosterone ribolle e a volte la tensione si fa tangibile. Ma…» «Sì?» «… il 1977 è stato un anno particolare. Nel corso dell’autunno sono accaduti molti episodi gravi di aggressione in caserma. Pian piano abbiamo capito che c’era un gruppetto che terrorizzava il resto delle reclute». «“Terrorizzare” è una parola forte». Per la prima volta nel corso della conversazione Granhaug sembra voler fare un o indietro. Ina si concentra. «Purtroppo però è il termine adatto» sospira. «Comunque. Decidemmo di mettere alle strette i disturbatori e capimmo presto che si trattava di un gruppetto fisso formatosi in una delle camerate. Erano sei persone che condividevano la stessa stanza». Granhaug si ferma e pianta gli occhi in quelli di Ina. «Sa quanti uomini servono per dare il via alla terza guerra mondiale, Grieg?» «No».
«Uno» risponde Granhaug. «Una persona è più che sufficiente». «Il gruppo era trascinato da una specie di leader? È questo che sta cercando di dire?» Granhaug annuisce. «È strano come una persona sola possa riuscire a far muovere un intero gruppo secondo le sue regole, ma queste specie di tiranni sono molto furbe. La stessa cosa vale per il leader della banda di Posangmoen. Era un sadico, un maestro nell’individuare le debolezze degli altri. Inoltre era forte, sia fisicamente che mentalmente. Credo che avesse un ato negli sport da combattimento, karate, boxe o qualcosa del genere. Ricordo che una volta mise al tappeto un ragazzone gigante e il medico che lo operò disse che la sua faccia sembrava un puzzle con troppi pezzi». «Questa persona aveva un soprannome?» Granhaug si rimette a guardare fuori dalla finestra. “Andiamo, basta rimuginare, sputa il rospo!” pensa Ina. «Sì, in effetti sì» risponde infine. «Generale?» «Esatto. Non era un generale in senso stretto, ovviamente, era una recluta come le altre, ma fu lui a comandare veramente quell’anno a Porsangmoen». «Che mi dice degli altri del gruppo?» «Non credo che fossero particolarmente malvagi. Si trovarono solo al posto sbagliato nel momento sbagliato, ovvero nella stessa camerata del Generale. Se fosse capitato in un’altra stanza, credo che altri compagni avrebbero condiviso lo stesso destino». Il respiro di Granhaug si fa più pesante. «Come può immaginare, ho riflettuto a lungo sull’argomento» dice. «Su tutte le coincidenze nelle nostre vite. Il caso può essere un amico o un nemico. Imbattersi nel male può essere il risultato di una lunga catena di eventi casuali.
Che sarebbe successo se il Generale fosse stato spedito da un’altra parte, che so, a Kirkenes o a Jørstoen? E se fosse stato valutato inadatto al servizio militare? Forse l’orrore non sarebbe mai capitato». “Oppure, che sarebbe successo se Gunnar Grieg fosse stato comandante a Porsangmoen? Come sarebbe andata e dove sarebbe oggi la sua famiglia?” pensa Ina. Prova a scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione e riprende a domandare: «Che tipo era il Generale?» «Né stupido né intelligente, ma dotato di una grande abilità sociale, specialmente quella di spiccare all’interno di un gruppo. Era un bravo manipolatore, spietato nel provocare rotture e alleanze. Sono i tipi come lui ad arrivare in alto in un sistema, non necessariamente i più intelligenti. La maggior parte della gente anzi fugge gli intelligenti, perché l’animale sociale non ama sentirsi intellettualmente sottomesso. Se si vuole arrivare in alto in questa vita, Grieg, bisogna essere furbi e spiccare il meno possibile». A Ina sembra di sentire l’eco delle parole del padre. Incrocia le braccia. «Già. Se ti metti in mostra, finisci per essere messo da parte» continua Granhaug. «O forse direttamente sotto. Visto che lo chiedeva, in effetti mi ricordo solo un nome a parte quello del Generale, ed è quello di Heggvik, ma unicamente perché aveva uno stupido soprannome». «Pinzetta?» Granhaug arrossisce. Ina intravede un barlume di rassegnazione nel suo sguardo. «Le persone possono essere davvero impietose, Grieg. Heggvik era un cane sciolto, tuttavia faceva parte del gruppo e anche lui ha avuto una parte nell’incidente. Credo che fosse una specie di musa per i Generale, vittima numero uno delle sue angherie e ultimo nella gerarchia del gruppo». «Perché non siete intervenuti?» «Abbiamo provato» risponde Granhaug. «Ma il Generale riusciva sempre a sfuggire. Anche quando avvenne quell’episodio terribile».
«Stiamo parlando del 5 dicembre del 1977, vero?» Granhaug annuisce. «È probabile che la data fosse quella, sì. Ricordo che era prima di Natale». «Vada avanti». «Quella notte fui svegliato dal commissario. Bussò alla mia porta così forte che credetti ci fosse un terremoto e mi catapultai giù dal letto. Un gruppo di soldati aveva pestato a sangue qualcuno… un ragazzo del posto, di Lakselv. Il ragazzo era stato trasportato in tutta fretta all’ospedale di Trømso, ma non si sapeva se sarebbe sopravvissuto. La stessa notte era scomparsa misteriosamente anche una ragazza russa. L’auto privata di uno dei sergenti era stata vista allontanarsi dal luogo dell’incidente. Per quanto fossi confuso e assonnato, mi ci volle un attimo per indovinare chi c’era dietro. Non poteva trattarsi del sergente, che quella notte tra l’altro era di turno. Quella storia puzzava di Generale e della sua banda lontano un miglio, ma non dissi niente. Mi limitai ad assicurare al commissario che avremmo condotto un’indagine interna. Mi guardò con sospetto e mi urlò “Ti rendi conto o no che questo mette la parola fine alla tua dannata caserma?” Era più disperato che furioso, in realtà». Ina reagisce a quelle parole: «Perché?» Granhaug batte le mani in un gesto di rassegnazione. «Sarebbe successo un disastro se quella storia si fosse rivelata vera. Le autorità non facevano altro che cercare una scusa per chiudere la caserma e risparmiare soldi, ma molti posti di lavoro erano legati ad essa. Uno scandalo e la conseguente chiusura avrebbero significato la perdita di decine di posti di lavoro da parte della gente del posto. Ecco cosa esprimevano gli occhi del commissario quella notte». «Cosa accadde poi?» «Subito dopo chiamai a rapporto il Generale. A quel punto avevo già scoperto che era stato lui a prendere in prestito l’auto del sergente, com’era ovvio. Chiesi al Generale se fosse al corrente dell’incidente e si limitò a scrollare le spalle. Ricordo che mi alzai in piedi e cominciai a camminargli intorno in cerchio. Avevo solo aspettato l’occasione per beccarlo, per strapparlo via dalla caserma
come l’erbaccia che era e ora ne avevo la possibilità. Conoscevo benissimo il luogo del delitto. Quell’anno tre ragazze russe si erano accampate con dei camper su un piccolo promontorio poco più a nord di Lakselv. Ebbene sì, vendevano sesso. Era molto prima che cominciasse il regolare traffico di sesso dalla Russia. Erano solo tre uccellini smarriti che erano finiti proprio lì, trascinati dal vento. Tutto accadde lì, in uno dei camper. Misi il Generale di fronte al fatto che lui e il suo gruppo erano stati visti allontanarsi dal luogo del delitto. Riesce a immaginare cosa mi rispose?» «No». «Prima mi fissò con disprezzo, poi raddrizzò la schiena e disse: “Attento a te Granhaug, anche tu sei stato visto nel luogo del delitto!”». «Anche lei aveva preso parte all’aggressione?» «Assolutamente no» si affrettò a rispondere Granhaug. «Ma qui entriamo nel territorio delle informazioni che non dovranno mai trapelare. Io e altri due ufficiali eravamo usciti a bere, il fine settimana precedente all’aggressione. Era stato allora che avevamo scoperto questi… camper. E no, non ne vado affatto fiero. Tre ufficiali ubriachi e tre prostitute. Può immaginare qualcosa di più triste? Io tra l’altro ero sposato con la donna che ancora oggi è mia moglie. Eravamo così sbronzi…» Ina fissa negli occhi Granhaug, che sembra rimpicciolirsi sulla sedia prima di proseguire con un sospiro: «Comunque, credevamo di essere riusciti a tenere segreta la nostra piccola fuga. Ora invece sapevo che almeno una persona ne era a conoscenza ed era senza dubbio la persona sbagliata. Per come lo conoscevo, le parole del Generale non erano solo una minaccia, ma anche una dichiarazione. C’era lui dietro alla brutale aggressione». «Vada avanti». «Sì, beh, non feci altro che abbassare lo sguardo. La sensazione peggiore era sapere che il Generale mi aveva in pugno e che non sarei mai sfuggito alla sua presa. Era giovane, molto più giovane di me, il che lo rendeva in un certo senso ancora più spaventoso. In quel ragazzo c’era una malvagità pura e naturale che faceva accapponare la pelle… ma dov’ero rimasto?»
«Ah… sì, certo… ricordo il Generale chinarsi su di me e sussurrarmi all’orecchio: “So cosa dobbiamo fare”. “Cosa?” domandai io. “Dobbiamo dire che è stata la puttana”. “A fare cosa?” domandai io. Il Generale si limitò a guardarmi e a sorridere muto. Subito dopo però il suo volto si tese di nuovo. “È stata la puttana a dare una lezione al ragazzino. Poi la stronza è scappata. Sarà tornata dai Soviet”. Si sporse in avanti e riesco ancora a ricordare il suo alito, un miscuglio di caffè e qualcosa di acido, mentre mi bisbiglia addosso: “Questa è la storia che devi raccontare al commissario: c’è la puttana dietro a tutto quanto. Tra poco io e i ragazzi della camerata ce ne andremo, ci sparpaglieremo ai quattro venti e non ci metteremo mai più in contatto tra di noi. Hai capito?” Ricordo che a questo punto della conversazione le lacrime mi avevano cominciato a premere negli occhi e non ero più riuscito a trattenerle. Piangevo come un bambino. Allora il Generale mi afferrò per le spalle e mi scosse violentemente: “Chi è stato?” mi urlò in faccia. “È stata lei.” risposi disperato “È stata la prostituta”. Il Generale annuì e lasciò la presa. Ricordo le mie mani che tremavano. Ero distrutto. Deve cercare di capire, Grieg: non avevo scelta se volevo che la mia vita andasse avanti. Se non avessi ceduto, le conseguenze sarebbero state catastrofiche per tutti: sarebbe stata la fine per i componenti del gruppo, la maggior parte dei quali innocente. Ma c’era in gioco anche il futuro della caserma e della comunità locale». «Si è voluto salvare la pelle. È questo che intende dire?» Granhaug abbassa lo sguardo. «Ok. Lo ammetto. Ebbene, questa è la storia che stava cercando. Nessuno la conosce, a parte me e i componenti del gruppo». «Cosa ne fu del ragazzino?» «Il ragazzo aggredito?» fa Granhaug. «Non ho mai più sentito parlare di lui, ma a quanto ne so non è morto». «E la donna? La prostituta che sparì?» «Non fu mai ritrovata, credo. È tutto un mistero. Forse è tornata veramente in Russia». «E non fu mai denunciato nessuno per l’accaduto?»
«Raccontai al commissario che tutti i nostri soldati erano a Moen quella sera e gli suggerii la possibilità che… la donna scomparsa… la prostituta… potesse essere dietro all’aggressione del ragazzo. Ovviamente intuì che qualcosa non tornava, ma in fin dei conti era una soluzione accettabile anche per lui, sì, per tutti. Non fece altre domande e lentamente si sparse la voce tra la gente del posto. “È stata la prostituta”. Se una diceria è abbastanza persistente e abbastanza piccante, può arrivare facilmente ad affermarsi e a diventare la verità». «Che ne fu del gruppo?» «Qualche ora dopo lasciammo che i sei fossero dimessi in segreto». «È mai possibile che l’episodio non ebbe davvero alcuna ripercussione?» domanda Ina. «La famiglia della vittima, ad esempio, si bevve quella storia?» «Ricordo appena il padre del ragazzo» risponde Granhaug. «Nei giorni prima di Natale vagava intorno alla caserma come un uccello rapace, poi scomparve. Di sicuro anche lui si persuase che le voci fossero vere, che fosse stata la donna. Anche i soldati dopo un po’ sembrarono accettare la cosa, mentre le altre due ragazze furono cacciate via dalla zona piuttosto precipitosamente. Poi, col tempo…» Granhaug si ferma a guardare Ina con un’espressione quasi tenera. «Cosa?» «… tutto svanì. Sono strane queste dinamiche, il modo in cui il tempo cancella ogni cosa. Quel che a distanza ravvicinata sembra enorme, pian piano si ridimensiona e sei mesi dopo nessuno ne parlava più. Tornò tutto a posto. Dimenticai, o meglio cercai di rimuovere, il Generale e tutto l’accaduto». «Di certo non sarà stato altrettanto semplice per i membri del gruppo.» commenta Ina «In ogni caso, non per Karsten Scheel». «Chi?» «Il mio collega ucciso cinque anni fa». Granhaug chiude gli occhi.
«Ha i nomi degli altri membri del gruppo?» «Come le ho detto, ho cercato di rimuovere il più possibile tutta la storia» risponde. «Compresi i nomi. A parte Heggvik, o Pinzetta, ricordo solo un nome e quello non lo dimenticherò finché vivo». «Quale?» Granhaug la fissa negli occhi. «Quello del Diavolo in persona, ovviamente» risponde. «Di colui che al tempo si faceva chiamare il Generale». Ina si avvicina. «Qual è il suo nome?» «Osberg. Karl Osberg». 4
«Dove sei, Hege?» a un secondo, poi due. Ina gira in tondo nel suo ufficio. Finalmente la voce di Hege Rimbereid risuona roca ed intermittente nel telefono. «In macchina, vicino a Ulven. Sono stata in centrale». Ina impreca. «Dannazione, tipico di Amund avere proprio oggi la macchina in revisione!» «Ti serve un aggio, Ina?» «Dobbiamo andare a Drøbak» risponde Ina senza fiato. «Adesso! Il Generale è un mio paziente e tra qualche ora ritirerà un premio a una festa nel forte di Oscarsborg. Devi contattare la polizia di Oslo, devono raggiungerlo il prima
possibile e arrestarlo!» «Ehi ehi, calma. Da dove provengono queste informazioni?» «Fonte anonima nell’ambiente militare. Le vittime hanno davvero fatto il servizio militare nel 1977 a Porsangmoen. Hanno pestato a sangue un ragazzino del paese, ma l’hanno ata liscia scaricando al colpa su una prostituta. Ecco il collegamento. Secondo la mia fonte il Generale potrebbe essere l’assassino e il Generale si trova al forte di Oscarsborg. Adesso!» «Come si chiama?» Ina esita un momento. «Se lo dobbiamo arrestare, puoi dire addio al tuo segreto professionale!» la avverte Rimbereid. «Karl Osberg» risponde Ina. «È un esponente dell’alta finanza». «Quale sarebbe il suo movente?» «Osberg può aver temuto che gli altri membri del gruppo danneggiassero il suo nome». «Ma perché adesso? Perché dopo così tanto tempo?» «Non ne ho idea!» urla Ina al telefono. «Ma dobbiamo sbrigarci, dobbiamo arrivare a Drøbak in tempo! Il prossimo battello per il forte parte esattamente tra un’ora. Devi fare in modo che Lie e gli agenti lo prendano!» «Come fai ad arrivare a Drøbak così presto?» Ina esce di corsa dall’ufficio, afferra al volo sciarpa e cappotto dal guardaroba ed esce nel freddo. «Non lo so» risponde, mentre il gelo le punge il viso. Con la coda dell’occhio intravede nel parcheggio un’ombra in cui riconosce il tuttofare, Erling Kåven, che sta salendo in macchina. Ina cerca di raggiungerlo e lo chiama: «Erling! Mi faresti un favore
grandissimo?» Kåven, fermo allo sportello della sua macchina, si volta. «Potresti darmi un aggio?» «Dove?» «Drøbak». «Sali, ti ci porto» risponde il tuttofare. «Sembra importante». «Davvero hai tempo?» «Ma sì, dai. Andavo comunque verso Oslo, è solo una piccola deviazione». Ina soppesa quella bugia, ma non è dell’umore per rispondere. Si limita a fiondarsi in macchina. Anche Kåven si siede subito al posto di guida e mette in moto. Un attimo dopo si stanno già immettendo sulla Statale 4. Ina riprende finalmente fiato. «Jon mi ha raccontato di ieri sera» sente dire a Kåven. «Mm». «Del tizio che ha fatto irruzione in casa sua spaccando una finestra. Le bambine stanno bene?» «Credi di sì». «I figli sono la cosa migliore al mondo» dice Kåven. «La migliore e la peggiore». «Peggiore?» «Tutte le preoccupazioni che ci danno». «Puoi dirlo forte».
D’un tratto Ina si sente stanchissima. «Riposati» le dice Kåven. «Tanto ci mettiamo lo stesso tempo ad arrivare, che tu ti stressi o meno». «Hai ragione» commenta Ina esausta, rilassando la nuca sul poggiatesta. * «Hai visite!» Ina sobbalza. Oddio, dev’essersi proprio addormentata. Erling Kåven le sorride sul sedile accanto. Solo allora si accorge del ticchettio sul finestrino. Ina si volta e si trova faccia a faccia con Hege Rimbereid, che la trascina fuori dall’auto. «Forza Ina!» la incalza. «Il traghetto parte tra cinque minuti». Ina ringrazia Kåven per il aggio ed esce nell’aria fosca e gelida, attraverso la quale intravede il piccolo traghetto grigio che si avvicina. Si affrettano a raggiungere il molo di Sundbrygga a Drøbak, facendo scricchiolare la neve morbida sotto i loro scarponi. «Lie è arrivata?» Rimbereid scuote la testa. «Non ce l’ha fatta per il primo traghetto». «Come, scusa?» «È incastrata con la conferenza stampa e poi è infuriata con te, convinta com’è che ci sia tu dietro alle soffiate ai giornali. Manda due agenti con il prossimo traghetto». «Non hanno ancora scoperto chi a le informazioni al VG?» «No. Sei tu, per caso?» Ina sgrana gli occhi.
«Santo Dio Hege, ancora! No, non sono io!» «Lo so» commenta Hege. «Dovevo solo sentirtelo dire». «Gesù!» impreca ancora Ina in un sospiro. «Sbrighiamoci a salire su questo traghetto, ché la festa al forte è già iniziata». * Poco dopo un uomo sale a bordo di un piccolo yacht ormeggiato al molo di Sundbrygga. L’imbarcazione lo aspettava in quella postazione dal giorno prima, quando l’uomo l’aveva noleggiata e aveva fatto un piccolo giro di prova nel canale, al riparo della notte. Doveva assicurarsi che il fiordo fosse navigabile, che non fosse impraticabile per via del ghiaccio. Sistema lo zaino sul fondo della barca. È stanco e si stende sui piccoli divani della stiva. Ad ogni movimento sente disperdersi le forze, ma stringe i denti. Deve farsi coraggio se vuole portare a termine il suo piano. Si china a prendere il giubbotto rosso dallo zaino e se lo infila sopra al maglione di lana, poi tira fuori la piccola mitragliatrice automatica con mirino red dot, una MP7, e la soppesa tra le mani. Si tratta di un’arma da professionisti, ma con il tempo grazie a tutte le esercitazioni di tiro anche lui lo è diventato. È l’arma giusta per poter colpire il bersaglio, ovvero stendere quel demonio anche nel caso in cui si trovi costretto a sparare attraverso un vetro. Deve ammettere che stavolta non ha tutto sotto controllo, ma si aggrappa alla sua speranza più grande, cioè che la testa del demonio a un certo punto spunti da una finestra del locale in cui si tiene la festa. In quel caso lui si farebbe trovare pronto sull’altura che domina il forte e gli sparerebbe. Dovrebbe funzionare anche a quella distanza e anche se dovesse attraversare un vetro. L’alternativa è aspettare che il demonio esca fuori e in quel caso lo coglierebbe senz’alcun dubbio, ma sarebbe più rischioso perché potrebbe essere circondato da altri partecipanti, che potrebbero poi vederlo fuggire dal luogo del delitto e quindi mettere la polizia sulle sue tracce. L’uomo chiude gli occhi. Dentro di sé a in rassegna possibili reazioni a diversi scenari.
È pronto, o almeno lo è al massimo delle sue possibilità. Dopo aver messo in moto, a al timone. Respira profondamente a pieni polmoni. Ha le dita congelate nonostante i guanti di pelle imbottiti e i pensieri gli tornano a quella notte, la notte dell’orrore. Spinge la manopola del gas leggermente in avanti e la barca si mette in movimento. L’uomo è esperto di barche, ma ha comunque paura di sbagliare qualcosa in questa fase. Si sentirà più sicuro all’aperto del fiordo, quando potrà infilarsi nella scia del traghetto liberata dal ghiaccio. Sa già dove si ancorerà: nella baia dietro a Kaholmen, nella parte meridionale dell’isola e al riparo da occhi indiscreti. Deve semplicemente seguire il traghetto quasi fino al molo, per poi staccarlo e aggirare discretamente l’isola, tanto vicino alla costa non c’è ghiaccio. Al ritorno dalla baia invece, può sfruttare la scia del traghetto per la Danimarca. La parte più difficile è quella che lo aspetta a terra, su alla fortezza. Si è informato su ogni dettaglio del programma della cena e della cerimonia, nonché su tutta la topografia della zona circostante, ma ci sono ancora cose che non sa, ad esempio quando succederà e dove. Stavolta deve improvvisare, è questo che lo inquieta. Non è bravo ad agire impulsivamente e, se dovesse riuscire, anche le ventiquattrore successive saranno critiche. Il o successivo del piano sarà quasi il più importante di tutti. Non ha alcun margine d’errore. Lentamente si tira sulla testa e sul berretto di lana il cappuccio rosso del giubbotto. Prova a concentrarsi e a ritrovare la pace interiore, poi comincia a condurre il piccolo yacht tra le altre imbarcazioni del porto. Con calma e sicurezza. Tra poco raggiungerà la scia del traghetto. Ora la lotta è tra lui e il male, come è sempre stato d’altronde.
Lui contro il Diavolo.
Rimbereid e Ina affondano nelle morbide poltroncine del traghetto. Ina è ancora un po’ intontita e prova a scrollarsi di dosso gli ultimi rimasugli di sonno. L’imbarcazione comincia a muoversi con un rombo monotono, interrotto solo dai piccoli tonfi delle collisioni con i pezzi di ghiaccio. Ina guarda il fiordo dal finestrino. L’acqua è percorsa da forti correnti e banchi di ghiaccio si muovono dappertutto sulla superficie. Il canale di Drøbak assomiglia a un fiume, nonostante gran parte della superficie sia ghiacciata. Cerca di mettere a fuoco le due isole di Kaholmen: sulla cima di quella meridionale spicca il forte di Oscarsborg. Davanti agli occhi le appare il volto di suo padre. Il volto di quando lei era piccola e lui ancora attivo ed energico. Anche allora era severo e difficile da trattare, ma niente a che vedere con il vecchio bisbetico in cui si è trasformato. Non era un gran narratore di storie, ma anche lui aveva il suo cavallo di battaglia: il racconto della mattina del 9 aprile 1940, quando l’incrociatore tedesco Blücher era affondato nello stretto di Drøbak. Nella versione del padre di Ina, l’abbattimento del Blücher rappresentava l’apice della resistenza norvegese nella seconda guerra mondiale, perché arrestando l’incrociatore tedesco l’invasione della capitale norvegese fu ritardata il tempo sufficiente affinché la famiglia reale e il governo riuscissero a fuggire. Il Blücher era un’imbarcazione velocissima, un colosso che sfrecciava nel fiordo di Oslo al riparo della notte. I tedeschi non si aspettavano nessuna resistenza perciò, quando il comandante norvegese Birger Kristian Eriksen dal forte di Oscarsborg diede l’ordine di preparare i cannoni, l’esito era scontato. Era impossibile fallire. Ina chiude gli occhi. Le sembra quasi di sentire il boato dei cannoni. Aveva solo cinque o sei anni quando il padre le aveva raccontato del Blücher la prima volta. Il maggiore era riuscito a evocare un’immagine vividissima della nave gigantesca che affondava nello stretto di Drøbak, dell’incrociatore che
virava sul proprio asse per poi andare giù come un sasso. Più di ottocento soldati erano annegati. Ma c’era un’altra storia su quella mattina, la storia della donna divisa in due. Ina l’aveva letta da grande e aveva realizzato che suo padre aveva omesso dalla sua storia eroica un brutale dettaglio. Ma non era forse quello il vero volto della guerra? La sofferenza dei civili. A una certa distanza dal dramma che si consumava nello stretto, e precisamente nella fattoria di Gylte a nord di Drøbak, il 9 aprile una famiglia fu svegliata all’alba da una serie di esplosioni che proveniva dal fiordo. In un primo momento non capirono nulla, perché nessun norvegese era preparato alla guerra. Poco dopo ci fu uno schianto proprio sopra alle loro teste. Si sentì un tuono, l’edificio tremò, i vetri e le assi di legno andarono in frantumi. I membri della famiglia sopravvissuti raggiunsero di corsa la camera da letto, da cui era provenuto il frastuono e lì trovarono la madre divisa in due. Il responsabile era stato un proiettile impazzito, partito a caso e atterrato proprio lì, su quella casa, in quella camera, su quella donna. Una fatalità diabolica. Un colpo di tosse di Rimbereid la riporta al presente. Ina si accorge che il traghetto sta rallentando, sono quasi arrivati. Dopo un attimo avverte l’ondeggiamento dovuto al contatto con il molo. Non appena mette piede a terra, Ina sente il peso di tutta la sua stanchezza. Ha i piedi pesanti come mattoni e il sudore appiccicato alla fronte sotto il berretto, però si sente lucida. La rabbia brucia. Si dà qualche pugno sulle guance e affronta a grandi falcate la salita verso la fortezza. Rimbereid le sta dietro a fatica, ma Ina non ha nessuna intenzione di rallentare, non finché non arriva in cima, almeno. Una volta lassù sente i i di Rimbereid avvicinarsi, mentre lei è come inchiodata al suolo.
La fortezza di Oscarsborg fa una grande impressione vista da lì. Si tratta di un imponente semicerchio di mattoni. Sembra un villaggio tratto da un romanzo fantasy, le sembra che il personaggio di Tengil de “I fratelli Cuordileone” possa uscire dal portone da un momento all’altro. Attraversano il ponte levatoio, oltreano l’arco d’ingresso ed entrano nel cortile. Il ponte è l’unica via d’accesso. E d’uscita. «Dove si tiene la festa?» domanda Rimbereid. «Non ne ho idea» risponde Ina. Sulla sinistra del forte vedono una porta, sulla quale è appesa la targa “Museo della Fortezza”. Entrano lì. Nel museo non c’è un’anima. Ina annusa l’aria: sa di chiuso. Aria secca e un lieve sentore di bruciato che proviene dalle stufe. Però sente anche qualcos’altro: voci molto in lontananza che rimbombano contro le pareti. Un vago eco si alza, poi si abbassa, si sposta da una parte all’altra e si spegne. Poi sembra tornare. Rimbereid apre un’altra porta e Ina salta di paura. Un manichino in uniforme la fissa in silenzio. Il cuore torna a calmarsi. Continuano ad avanzare addentrandosi nel museo del forte, attraversano stanze oblunghe e vedono una quantità di oggetti diversi: prototipi in miniatura del Blücher, foto della fortezza di un tempo e di oggi, fucili da esposizione, granate e siluri. Il brusio delle voci e l’eco contro le pareti si fanno sempre più vicini. Ben presto raggiungono la parete finale del museo, sulla quale c’è una porta: la attraversano ed entrano in un corridoio gelido e poco illuminato. Di lì parte una ripida scala in salita e solo allora Ina capisce che è da lassù che arrivano le voci. Le gambe le tremano mentre sale il primo scalino. Finalmente sono davanti alla sala in cui si tiene la festa.
Ina si affaccia cautamente dalla porta e lascia vagare lo sguardo su tutta quella gente elegante. Devono esserci almeno un centinaio di persone. La sala non è molto grande, ma i soffitti sono altissimi. Mattoni rossi e alti soffitti a volte. Su uno dei lati lunghi dalla sala ondeggia una fila di bandiere e Ina riconosce subito quella più grande, la cornetta della marina militare. Lascia ancora vagare lo sguardo sulla gente, fino alle finestre… Il battito accelera d’improvviso. Karl Osberg. Il Generale. Il suo volto è indistinto, in controluce accanto alla finestra, ma riconoscerebbe il suo scuro e possente collo taurino tra mille. Osberg è seduto accanto al balcone. Ina si sporge per vedere meglio e finalmente riesce a distinguere anche i lineamenti del viso. Ma i suoi occhi la inchiodano. Ina si ritira fulminea. «Merda, Osberg mi ha vista!» Anche Rimbereid getta un’occhiata nel locale. «Dov’è?» «Posto d’onore accanto al balcone». «Non c’è nessuno lì!» Ina si affaccia di nuovo. Dall’altro lato della sala vede Karl Osberg affrettarsi a superare la lunga tavolata e scomparire dietro a una porta. Ora Ina agisce puramente d’istinto. Attraversa la sala, attirando immediatamente l’attenzione di tutti i convitati, ma non gliene frega niente. Importa solo corre più veloce possibile.
Il suo unico pensiero è raggiungere l’uomo che si è appena defilato, acchiappare il Diavolo in persona prima che le sfugga. Con uno scatto Ina attraversa la porta e sfreccia giù per le scale, con la consapevolezza di essere stata lei a mettere in fuga il Generale. Ne intravede l’ombra da qualche parte in fondo alla scala, mentre i i di Rimbereid sono alle sue spalle. Ancora qualche metro e Ina si ritrova all’esterno del forte. Per una frazione di secondo adocchia la sagoma del Generale correre verso il ponte e uscire dall’area del forte. Ina lo insegue. Una volta superato il ponte levatoio, si rende conto che Osberg ha guadagnato ancora terreno e fa appena in tempo a scorgerne la schiena scomparire giù per la discesa dal lato opposto del molo. Ina lo insegue ancora. L’acido lattico comincia a indolenzirle le gambe, ma continua a correre oltre le sue possibilità. Il punto è che deve raggiungerlo, deve prendere quel maledetto Generale, se non altro lo deve a Karsten. Si rende conto di lasciare indietro Rimbereid e di essere da sola contro il Diavolo. A un certo punto della discesa si ferma. Da lì ha una buona visuale e vuole provare ad individuare la posizione di Osberg, tuttavia non vede né sente niente a parte i rami che si piegano sotto il vento gelido. In fondo alla strada Ina scorge un edificio. Riprende a correre in quella direzione e si ferma solo quando arriva all’ingresso. Oscarsborg Hotel & Spa Osberg potrebbe essersi nascosto e aver trovato riparo lì dentro, ma potrebbe anche aver continuato a correre e aver guadagnato così centinaia di metri di distacco. Potrebbe anche aver pronta a disposizione una barca da qualche parte, per quanto ne sa, e gli agenti non arriveranno che tra… quaranta minuti. Merda!
C’è solo una cosa da fare: giocarsi la carta dell’hotel. Deve entrare. Ina apre lentamente la porta. La reception è immersa nel buio più totale. Non si vede nessuno. Comincia a salire la scala che parte dalla reception. C’è un silenzio assoluto, tremendo, la mano sinistra sul corrimano, un o alla volta. Lentamente, lentamente. Al secondo piano c’è il ristorante. Un o dopo l’altro entra nella grande sala. Soffitto altissimo e luce spenta. Tuttavia, grazie alle grandi finestre, nella stanza entra un po’ di luce dall’esterno. Da lassù si apre la vista su tutto il fiordo. A Ina sembra quasi di vedere il Blücher inabissarsi, di sentir rimbombare i cannoni del 9 aprile 1940. Sopra alla finestra è appeso un ritratto di re Harald e della regina Sonja. Ma non c’è nessuno. Solo lei e i suoi i. Uno dopo l’altro. I battiti del suo cuore. Uno dopo l’altro. «Non ce l’hai fatta proprio a restarne fuori, vero?» Ina si volta di scatto. Karl Osberg è sulla porta e sorride. La sua corporatura possente stona con l’abito elegante. Ina vorrebbe dire qualcosa, ma la voce le si secca in gola e non esce niente. «Hai perso il dono della parola, Grieg? Proprio tu che hai tutte le risposte sul senso della vita?» Osberg avanza di un o. «Beh, vorrà dire che stavolta parlerò io» aggiunge. «Mi sembra di capire che hai scoperto il mio segreto». Ina annnuisce.
«E adesso hai paura?» «No». «Oh sì, invece, riesco a percepirla. Te la stai facendo sotto dalla paura, perché sai bene quanto sono forte». «Non ti sopravvalutare.» fa Ina «Sei oltre la cinquantina ormai». «Io vinco sempre le mie battaglie. Puoi chiederlo ai miei avversari, anche se non tutti sono in grado di rispondere». Ina ha un brivido lungo la schiena, ma cerca di mantenere la calma. «Non voglio battermi con te. Voglio solo delle risposte». «Spara pure!» «Perché hai cominciato a venire da Karsten? Voi del gruppo eravate d’accordo di non mettervi mai più in contatto, no?» Osberg la misura con lo sguardo. «Ricevetti una strana lettera da Scheel» risponde infine. «Mi intimava quasi di prenotare un appuntamento con lui, altrimenti… Sì, insomma, era strano. Una lettera di minacce. Non era da lui, ma si sa che la gente cambia e così, anche se riluttante, mi presentai allo studio di Nittedal. Non appena vidi la sua espressione però fu chiaro che non era stato lui a scrivermi». «Siete stati ingannati?» Osberg annuisce. «Ancora oggi mi chiedo chi ci fosse dietro a quell’inganno» aggiunge. «Chi fu a scrivere la lettera. Comunque ci trovammo lì uno di fronte all’altro, Karsten Scheel e io, e nessuno dei due aveva voglia di vedere l’altro, ma dopo quella strana lettera non potevo correre rischi, dovevo tenerlo d’occhio e scoprire se era lui a muovere i fili. Per questo continuai a prendere appuntamenti». «E poi l’hai ucciso?»
Osberg la guarda colpito. «Non sono stato io. Mi chiedo anch’io chi sia stato, credimi. Almeno quanto te». «Stai mentendo!» Osberg scuote la testa. «Spiegami un’altra cosa, allora» riprende Ina. «Perché hai continuato a venire da me, dopo l’omicidio di Karsten?» Osberg la scruta a lungo. «Eri totalmente sconvolta dopo l’omicidio» dice. «Tu e Bork eravate nella lista delle persone che potevano sapere di Porsangmoen. Insomma, dovevo tenere d’occhio anche voi. Le mie manie di controllo non sono inventate, sai. Senza controllo, non si va da nessuna parte». «È per questo che sei venuto a studio la mattina successiva all’omicidio di Maridal. Volevi capire se sapevo qualcosa…» «Esatto». «È sempre per lo stesso motivo che ti sei intrufolato negli archivi e hai fatto sparire tutte le tue cartelle?» Osberg solleva le sopracciglia. Sembra sinceramente stupito. «Non sapevo nemmeno che aveste un archivio» risponde. «E come ho già detto non ho ucciso io Karsten Scheel. E nemmeno Heggvik. C’è un assassino in giro e non mi dispiacerebbe sapere chi è». «Sei bravo a interpretare il ruolo del manipolatore». Osberg scuote piano la testa, mentre estrae un oggetto dalla tasca interna della giacca e stringe i pugni. Ina ha la pelle d’oca nel momento in cui realizza di cosa di tratta. Un pugno di ferro.
«Qual è la tua scusa?» gli chiede Ina per prendere tempo. «Il perché tutta questa violenza… te le prendi con la tua infanzia difficile? A cosa addossi la colpa?» «Non incolpo niente e nessuno» risponde Osberg. «Me la sono dovuta cavare da solo da quando sono al mondo. Una cosa però vorrei metterla in chiaro: non sono stato io a devastare di pugni la faccia di quel ragazzino. È stato Scheel». «Karsten?» esclama Ina sconvolta. «Vorresti farmi credere questo?» Il Generale allarga le braccia. «Forse non aveva scelta» sorride. «Comunque è stato lui. Opdahl si era rifiutato e Scheel aveva potuto vedere le conseguenze. Credo che Opdahl porti ancora in faccia la cicatrice. Dopodiché fu facile convincere Scheel. Sapeva qual era l’alternativa: colpire o essere colpito. Scelse la prima. Credimi, è stato Karsten Scheel a devastare la faccia di quel ragazzo con il pugno di ferro». Ina si sente vincere dalla nausea, da una rabbia furiosa. D’un tratto tutte le parole e le pagine di Karsten assumono un nuovo significato. Ecco il suo terribile segreto: era stato costretto a colpire con una violenza disumana un ragazzino innocente. Tutti i pezzi vanno al loro posto. Ora capisce anche perché Karsten era andato a cercare punizione e frustate. «Stai mentendo!» urla ancora. Osberg sorride scuotendo la testa. «Non avevamo scelta. Il ragazzino e la puttana avrebbero raccontato cos’era successo nel camper». «Cos’era successo?» «All’inizio era uno scherzo innocente» spiega Osberg. «Volevamo offrire una scopata a Heggvik. Non aveva mai toccato una ragazza». «Contro la sua volontà?» «Certo!» risponde Osberg. «E se quella puttana si fosse comportata bene e avesse fatto il suo dovere, non sarebbe successo niente. Ma ovviamente si negò e non ci vidi più dalla rabbia. Ero giovane, stupido, al colmo delle energie. La stesi
con un colpo solo. Sfortunatamente colpii un po’ troppo forte, sottovalutando l’effetto di questo». Osberg solleva la mano con il pugno di ferro verso Ina. «Quando entra in scena il ragazzino?» domanda. «Proprio in quel momento» risponde Osberg. «Doveva averci spiato. Entrò come una furia nel camper per salvarla». «Regine?» «Già, una follia. La cosa ancora più folle è che era da solo, così stesi anche lui con un colpo. Cadde e cominciò a sputare sangue fuori dal camper. A quel punto era troppo tardi per tornare indietro. Convinsi Scheel a portare a termine il lavoro col ragazzo e a dire la verità ancora oggi non mi spiego come abbia fatto a sopravvivere. Io mi occupai della puttana». Ina intravede un movimento sullo sfondo. Rimbereid! Si era infilata nel ristorante con un bastone enorme pronto a colpire. «Cosa ne fu di Regine?» «Le ruppi un piede» risponde Osberg. «Poi la nascosi ai piedi della collina dietro ai camper. Nessuno al mondo avrebbe potuto trovarla. Senz’altro morì congelata». Il pavimento scricchiola. Osberg si volta di colpo, perfettamente in tempo per abbassarsi ed evitare il bastone che sferza l’aria. Rimbereid è completamente sbilanciata dal colpo andato a vuoto e finisce a terra. In in attimo Osberg le sta addosso e la colpisce in faccia con il guanto di ferro. Si sente un rumore di ossa rotte, Rimbereid urla di dolore e resta a terra. «E così pensavate di fregarmi?» sibila Osberg. «Due donne? È ridicolo…» Ina indietreggia, mentre Osberg avanza. «Come hai fatto a scoprire tutto?» chiede Osberg stizzito. «La faccenda di
Porsangmoen non è stata uno scherzo, ho provveduto a cancellare ogni traccia, ma qualcuno deve aver parlato, vero? Forza, dimmi chi è stato!» Ina continua a indietreggiare, mentre il braccio con il pugno di ferro è sollevato e pronto a colpire. Non riesce a capacitarsi da dove provenga tutta la sua paura. Potrebbe battersi con chiunque, probabilmente anche con il Generale, che è molto più vecchio di lei… e invece… c’è qualcosa in lui, una determinazione, una spregiudicatezza, una crudeltà che la paralizza e la fa indietreggiare invece di combattere. Il pugno di ferro si stringe e Ina indietreggia. Lo sguardo di Osberg la inchioda. «Come è possibile che non ci fu alcuna indagine sui fatti di Porsangmoen?» «Questo non ti riguarda». Ina sente la finestra contro la sua schiena. Non può più indietreggiare. Il pugno di ferro davanti a lei manda un bagliore. «Non puoi più scappare adesso. Fammi vedere cosa sai fare». Osberg solleva entrambe le braccia, sembrano clave giganti. Il pugno di ferro nella destra riluce ancora. Ina si libera del cappotto e assume la posizione di guardia, fissando il Generale negli occhi. Lui è molto più grosso, ma lei è più agile e forse avvantaggiata anche dagli abiti normali, mentre lui è stretto nel completo elegante. Dovrebbe poter gestire una situazione come quella, ci si è già trovata innumerevoli volte riuscendo sempre a controllare il proprio battito. Ma ora non ce la fa. Decide di usare la stessa tattica di sempre e aspettare l’avversario. L’unica differenza è che la persona di fronte a lei non è un avversario qualunque, ma è più forte proprio lì dove di solito lei primeggia, ovvero sul piano psicologico. Il Generale si nutre delle paure degli altri. Si avvicina lentamente ma con determinazione, senza compiere mosse inutili.
«Dai, forza!» esclama poi abbassando la guardia. Un trucco vecchio come il mondo, ma come una stupida Ina ci casca e parte con un destro. Osberg lo schiva e la colpisce al fianco. Il pugno di ferro le affonda nelle costole. Un dolore pazzesco le toglie il fiato e si diffonde per tutto il corpo. Gesù. Gesù. Prova a farsi da parte, ma Osberg le sorride proprio di fronte al viso. Ina è spaventata, ma anche furiosa. Deve averle rotto diverse costole con un colpo solo, era stato come prendere in pieno un blocco di cemento. La vista le si offusca e in sottofondo sente i lamenti di Rimbereid. Per un attimo il mondo si ferma. Accade qualcosa e tutto vacilla. Non sente più il dolore, è oltre quello stadio, come in una sorta di stato di ebbrezza riesce a capire di essere stata messa al tappeto. Un pugno micidiale l’ha colpita dritta in faccia e i suoi piedi non si muovono come di solito sanno fare, non ricevono i messaggi del cervello, non riescono più a sostenerla. Ina crolla a terra come un sacco e resta lì, con una nausea tremenda le sale alla gola. Sopra di sé sente una risata attutita, una voce ovattata che dice: «È tutto qui, quello che sai offrire?» Lo intravede sopra di sé come immerso nella nebbia. Il Generale. Quel volto arrogante si curva su di lei e Ina prova a rimettersi in piedi, ma non ce la fa. Le sue gambe non collaborano. In un barlume annebbiato vede il pugno di ferro sollevarsi ancora una volta e istintivamente Ina si protegge la testa in attesa di un nuovo dolore lancinante. In quell’attimo si sente un colpo di pistola e subito dopo un altro. La finestra va in mille pezzi. Ina si stringe ancor di più le braccia sopra alla testa,
mentre il corpo di Osberg vacilla sopra di lei. Schegge di vetro piovono ovunque e Osberg crolla a terra, proprio accanto a Ina. Un attimo eterno, mentre in realtà tutto accade rapidamente. La finestra che esplode, i vetri che si spargono nella stanza. Alla fine Ina trova il coraggio di alzarsi, riuscendoci a malapena. Fa due i incerti nella sala ricoperta di schegge di vetro. Poco più avanti giace Hege Rimbereid, che geme tenendosi una guancia. Ina sente dei i salire per le scale. Si avvicina con cautela al corpo di Osberg con i vetri che scricchiolano sotto agli scarponi. Karl Osberg giace a faccia in giù. Il suo corpo le appare come circondato da un alone irreale e nebbioso, ma vede il foro dietro alla sua testa e la pozza di sangue che si allarga sul pavimento. Ina muove ancora un o verso la finestra infranta e là fuori, in fondo alla discesa, sta correndo un uomo con un giubbotto rosso.
5
È già mezzanotte quando Ina riesce a chiudersi la porta di casa alle spalle. L’appartamento è silenzioso. Nessun suono dalla camera delle bambine, nessun suono da parte di Amund. Appoggia sul ripiano dell’ingresso il mazzolino di tulipani che ha comprato al chiosco e si accascia sulla sedia con il cappotto ancora addosso. Scopre il proprio viso riflesso nello specchio. La parte sinistra è gonfia e rossa come un pallone. Le palpebre sono incollate tra loro. Tre costole rotte sono la conseguenza del primo colpo assestato da Osberg. Solo due in tutto e l’ha praticamente distrutta.
Al pronto soccorso di Drøbak erano stati così gentili da imbottirla di antidolorifici e ora non sente il dolore all’occhio. La sua testa gli sembra una sfera enorme e insensibile. Ma il dolore arriverà domattina come un colpo di cannone. Ina tira fuori dalla borsa gli antidolorifici e li posa sul ripiano accanto ai tulipani che ha preso per Amund. Ma ovviamente ormai è andato a dormire, proprio ora che si è preparata un discorso perfetto. Ci sono tante cose che vorrebbe dirgli. Anche che cambierà tutto. D’ora in poi sarà più presente, sia per lui che per le figlie. Deve esserlo. I buoni propositi hanno ormai ceduto il posto alla coscienza sporca. Un’altra volta. Sente vibrare la tasca. Oddio no, non crede proprio di farcela a chattare con Winther. Ma il messaggio non è suo, è di Tore. Ina! So che sei andata a caccia del Generale. Va tutto bene? Un abbraccio, Tore. Ma che diamine… come ha fatto a saperlo? Possibile che le notizie in rete siano così dettagliate? O è venuto a saperlo tramite altri canali? Non riesce quasi a digitare la risposta, ma alla fine scrive, più per dovere che altro: Tutto a posto. Ina Si rimette il telefono in tasca ai pantaloni e viene di nuovo risucchiata dallo specchio dell’ingresso. Il suo viso le restituisce un ghigno. Non ci vede nemmeno più, tanto vale che vada a letto il prima possibile. Ma non riesce a muoversi e alla fine resta lì seduta a rimuginare sulle
impressioni delle ultime ore. Dopo la sosta al pronto soccorso era stata portata alla centrale di polizia di Grønland. Inger-Lise Lie l’aveva interrogata molto più a lungo di quanto le sue condizioni fisiche permettessero. Era stata impietosa su tutta la linea: su quanto fosse stata imprudente e si fosse fatta ridurre così, sul fatto che Rimbereid fosse ricoverata in ospedale con lo zigomo rotto e un trauma cerebrale, persino sulle soffiate ai media. Lie la accusava soprattutto di essersi messa di traverso in un’indagine in corso e di essersi messa a giocare al detective, mentre avrebbe dovuto lasciar fare il suo lavoro alla polizia. Le aveva urlato contro che doveva solo ringraziare se non la denunciava. Ina aveva provato a difendersi dalle accuse alla meglio. La verità era che Lie era stata presa dal panico. La polizia di Oslo si era ritrova con un omicidio in più da risolvere. La stampa ci sarebbe andata a nozze, avevano già riempito le testate on line e l’unica cosa certa era che l’omicidio di Osberg si sarebbe potuto evitare. Ina era furiosa. Nell’intontimento degli antidolorifici, le aveva detto che doveva rispettarla. Era stata sul punto di essere uccisa e a salvarla all’ultimo istante, ironicamente, era stato proprio l’assassino di Osberg. Oltretutto lei e Rimbereid avevano segnalato ogni cosa ed era stata Lie a non prendere sul serio le loro informazioni. Era stata lei a preferire pavoneggiarsi in conferenza stampa piuttosto che raggiungerle. Lie non si era fatta intimidire e aveva continuato ad aggredirla verbalmente, ma Ina non cedeva di un o. Aveva agito d’istinto e aveva rischiato tutto nel tentativo disperato di prendere il Generale. Nello stesso tempo, però, doveva ammettere di essersi sbagliata sull’identità dell’assassino. Ora l’indagine era arretrata di diversi i. D’ora in avanti potevano seguire solo la pista della barca. L’uomo con il giubbotto rosso, infatti, era stato visto da molti testimoni allontanarsi verso Oslo con un piccolo yacht. C’erano buone possibilità di raccogliere altre testimonianze dai presenti.
Lie era furibonda. L’assassino era a piede libero e tuttora non identificato. Per fortuna Ina era riuscita a scoprire il collegamento tra tutte le vittime. Lie l’aveva aggiornata sulle ricerche intorno alla banda di Porsangmoen ed era stato confermato che le vittime avevano fatto il servizio militare insieme nel 1977. Lie aveva fatto pressione per farle rivelare la sua fonte, ma Ina si era appellata al segreto professionale così, se prima l’umore di Lie era pessimo, ora era diventato del tutto nero. L’unica cosa certa era che Ina era ormai fuori dalle indagini in maniera definitiva. Ina si sporge in avanti e osserva i propri occhi rossi e socchiusi. Santo Dio che razza di livido le verrà! Lentamente si scioglie i lacci dello scarpone destro. Di nuovo una vibrazione nella tasca. Prova a chiudere gli occhi, ma le lettere si illuminano sullo schermo davanti a lei: “Vieni su Skype!” Non è sicura di potercela fare, con il lieve trauma cranico in corso. Mettersi davanti a uno schermo è probabilmente l’ultima cosa che dovrebbe fare. Ma sa altrettanto bene che non riuscirà a resistere. Ina Grieg: Hai letto i giornali on line? Trygve Winther: Indovina? Forza, racconta! I: La vittima è il Generale (!) T: Chi è l’assassino? I: Non lo sappiamo. Fuggito in barca. T: Non avete visto niente? I: Non il viso. Solo il giubbotto rosso con il cappuccio, da dietro…
T: Chi era il Generale? I: Un mio paziente. Prima paziente di Karsten. T: Collegamento? I: Era davvero il servizio militare. Porsangmoen 1977. Tutte le vittime condividevano la camerata. T: Ed erano coinvolte in un delitto? I: Hanno aggredito un ragazzo del paese e fatto sparire una giovane prostituta russa. T: Opera del Generale? I: Il G. probabilmente è la mente, ma sarebbe stato Karsten (!) a mettere al tappeto il ragazzo con un pugno di ferro (!!). T: Non può essere. I: Purtroppo sì. Alternativa di Karsten = aggredire o essere aggredito. T: Ciò spiegherebbe i diari… I: E perché cercava prostitute che lo frustassero. T: Altra domanda. Quanti erano i compagni di camerata? I: Cinque. Sei in tutto. Formavano una banda che spargeva terrore nella caserma. T: Però non torna. I: ? T: L’omicidio di oggi è il settimo, non il sesto. I: Come? T: Heggvik = 6. Karsten = 5. Il prete = 4. Rølvåg = 2. Il tizio del forte di Oscarsborg?
I: Karl Osberg. T: Osberg, ovvero Il Generale = 7. Nella camerata erano sei. I: Quindi? T: C’è una persona di troppo! I: Ci manca di identificare gli omicidi numero uno e numero tre. Uno di essi è la misteriosa settima persona? T: Esatto. I: Comunque puoi dire addio alla teoria dei sette anni. T: No. L’intervallo è solo cambiato in corso d’opera. I: Speculazioni. T: Il sistema è solo cambiato. Da una frequenza stabile di sette anni a cinque con Heggvik. I: E adesso cinque giorni da Maridal. T: Il sistema è: sette vittime, sette anni. Fidati. I: Arrenditi. Domani potrebbero essere otto. T: Ti sbagli. I: Convincimi. T: Il Generale = la mente. L’assassino se l’è tenuto per ultimo, come gran finale. I: Mm … T: È così. Le questioni adesso sono: 1) Perché l’assassino ha interrotto il sistema dei sette anni? 2) Chi è la settima vittima? I: Stupiscimi.
T: Possibile risposta: L’assassino è il padre del ragazzino. I: Il ragazzino che fu aggredito dal Generale/Karsten? T: Sì. Tornerebbe tutto: la condizione di vittima, il fatto che le sue vittime meritassero la loro sorte, il rapimento delle tue figlie. I: In che senso? T: Nel senso che ti voleva far capire che cosa aveva ato con suo figlio. I: E la prostituta, allora? Anche lei avrà avuto una famiglia, no? T: Cosa sai di lei? I: Niente, a parte che è scomparsa. T: Del ragazzo invece sappiamo qualcosa. Possibile età: se era un ragazzino nel 1977, quanti anni potrebbe avere oggi? I: Se è ancora vivo, avrà quaranta o cinquant’anni. T: Infatti, e il padre ne avrà almeno sessantacinque, più probabilmente settanta. I: Un assassino anziano? T: Non poi così tanto. I: Scusa. T: Ti vengono in mente potenziali candidati di quest’età? I: No. T: Concentriamoci sul ragazzino. Cosa sappiamo? I: Fu gravemente ferito nell’aggressione. Osberg fece ricadere la colpa sulla prostituta. T: E tutta la banda se la cavò davvero così?
I: Sì. Si sparpagliarono e la vicenda fu insabbiata. T: Tre questioni fondamentali. I: Ovvero? T: 1) Chi è il ragazzo? 2) Chi è suo padre? 3) Dove sono oggi padre e figlio? I: Non sappiamo niente. T: Probabilmente sai più di quanto credi. I: Ma no! T: Non dimenticare l’irruzione in archivio e i diari sulla tua scrivania. I: Qualcuno in cerca di informazioni su Karsten? T: E/O sul Generale. I: Ma chi diamine può essere entrato là sotto? T: Dammi mezzo minuto e tiriamo le fila. I: Ok. Ina aspetta, finché ecco una nuova frase comparire sullo schermo. T: Ecco cosa sappiamo. L’assassino è qualcuno che conosci. È padre. È entrato nei vostri archivi e nel tuo ufficio. Come? Probabilmente è avanti con gli anni, tra i sessanta e i settanta. Conosci qualcuno su questa età? Qualcuno che possiamo supporre sia anche in possesso delle capacità materiali e intellettuali per mettere in piedi un piano così articolato? Le si congela il sangue nelle vene. Perché in effetti conosce una persona che risponderebbe fin troppo bene a queste caratteristiche. Punto per punto. No, no, no, non tu… Torna alla tastiera.
I: Bene. Terrò gli occhi aperti. T: Sarà meglio. I: Vado a letto. T: Buonanotte. E ricorda: lo prenderemo presto, Ina. I: Certo. Notte! Ina chiude Skype. Poi resta seduta davanti allo schermo, sprofondata nei suoi pensieri, mentre cerca di liberarsi dell’intorpidimento dovuto alle pillole. Deve essere lucida! Ma non può essere così… non può! Prova a schiarirsi i pensieri e rimette le dita sulla tastiera. Senza fretta apre l’elenco del telefono on line. Prova a rievocare un nome di ragazza. Il nome lo ricorda subito, Elsa, mentre il cognome le sfugge completamente, ma le viene subito in mente un modo per arrivarci. Apre una nuova pagina e accede a Google. Nello spazio di ricerca inserisce il nome della madre e il posto di lavoro in cui è impiegata. Un attimo dopo Ina ha trovato il cognome che cercava. Digita il nome completo della figlia nell’elenco telefonico e ottiene un indirizzo di Oslo: Dynekilgata a Rosenhoff. Inserisce l’indirizzo nel motore di ricerca ed escono fuori nove nomi. Ne riconosce subito uno.
Ora sa chi c’è dietro alle soffiate alla stampa. E forse anche a qualcos’altro. Sente il proprio battito accelerare. Nello stesso momento sente anche l’avviso sonoro della ricezione di una mail. Va sulla posta elettronica e apre la posta in arrivo. È una richiesta d’amicizia su Facebook. Si paralizza nel leggere il nome della persona: “Jacob Wilhelm Nordan”. Trattiene il fiato e clicca su “Accetta”. Sullo schermo compare la clessidra, seguita dalla scritta “Tu e Jacob Wilhelm Nordan siete amici. Puoi visitare i profilo di Jacob”. Ina sposta il cursore sul nome e clicca. La pagina Facebook di Nordan si apre. L’architetto di chiese morto e sepolto da più di un secolo ha già un amico: Trygve Winther. Sulla bacheca un unico post: “Ci vediamo al Centro di Sofienberg sabato 12 dicembre alle 15:00”.
Fiordo di Porsanger Notte di martedì 6 dicembre 1977
È in piedi sulla piccola imbarcazione e si tiene stretto al parapetto. C’è mare grosso, le onde sollevano e abbassano la punta della barca, mentre i fiocchi di neve tempestano il suo cappuccio rosso in una pioggia battente, insistente. Ha le mani irrigidite dal gelo, quasi non le sente più, ma non può mollare adesso. Deve resistere ancora qualche minuto e sarà tutto finito.
Tutto quanto. Gli ritorna in mente il volto del figlio e gli dà forza. Guarda la pietra posata sul fondo della barca e legata con la cinghia da rimorchio dell’auto. Segue con lo sguardo la corda per tutta la sua lunghezza, fino al corpo seminudo della ragazza. L’altro capo della cinghia è legato al suo piede. Il cadavere rotola da una parte all’altra sul fondo della barca. Chi sarà davvero la ragazza il cui viaggio è finito così tragicamente? Pensa al fatto che anche lei un tempo sarà stata una bambina con tutte le possibilità della vita aperte davanti a sé. Come sarà stata da piccola? Prova a immaginarsi un viso timido di bambina, ma non riesce a visualizzare niente. La verità è che non sa assolutamente niente di lei. L’unica cosa che sa è che ha avuto una relazione con il figlio. Un’ondata lo scaraventa via dal parapetto, lo lancia in aria come un manichino e gli fa sbattere la schiena contro la cabina di guida. Lancia un urlo e resta a terra per qualche secondo. Una tempesta di neve sta colpendo il fiordo di Porsanger. Dopo un po’ riesce a rimettersi in ginocchio, proprio accanto al corpo della ragazza. Si rende conto che non può rimandare oltre, se vuole riuscire a tornare a terra. Deve farlo adesso, qui, anche se non è arrivato così al largo come avrebbe voluto. È indeciso su cosa deve gettare prima, se la pietra o la ragazza. Poi sceglie la seconda. a un braccio sotto alla sua schiena e l’altro sotto alle ginocchia. Conta fino a tre, poi si alza in piedi. Lei segue ogni suo movimento. Vacilla un attimo con la ragazza tra le braccia, poi si decide finalmente a lanciarla oltre il parapetto. La corda si srotola e scorre sul bordo per poi
bloccarsi con uno strattone rimanendo tesa e vibrante. Il corpo della ragazza oscilla appeso, la testa e la schiena sbattono contro il fianco della barca. Lui si china ancora una volta e solleva la pesantissima pietra. Con una fatica enorme riesce a trasportarla per tutta la lunghezza della barca e poi a spingerla giù. Sente il tonfo attutito. Il corpo viene subito trascinato giù e scompare nell’acqua. Ancora per un attimo vede bolle d’aria risalire in superficie, poi una nuova ondata lo costringe in ginocchio. La ragazza ormai è storia, ora deve concentrarsi sul figlio, sul futuro, su cosa accadrà. Su cosa gli resta. Qualsiasi cosa sia. Si rimette in piedi, mentre le lacrime premono negli occhi. Si attacca di nuovo con le mani coperte dai guanti inzuppati al parapetto, mentre il mare continua a salire e la barca è ormai in balia delle onde. Il gelo avanza sempre di più nel suo corpo. Alla fine si ripara nella cabina di guida, afferra il timone e riesce a cambiare rotta per tornare indietro, verso terra. Finalmente ha il vento a favore. Sfreccia verso il porticciolo e solo ora realizza che ce la farà, riuscirà a tornare a terra illeso e senza essere stato visto. Nel momento in cui lo realizza, gli riaffiorano nella coscienza barlumi della serata: la telefonata, il cratere nel viso, l’elicottero, la ragazza ai piedi della collina. Tutto gli ripiomba addosso. * Aveva pensato che fosse il figlio a chiamare. Mentre attraversava il corridoio per andare a rispondere, era sicuro che avrebbe sentito la sua voce e sapeva anche perché stava chiamando. Di sicuro gli serviva un aggio. Avevano un tacito accordo per cui quando usciva in paese con gli amici, poi lo chiamava per
andarlo a prendere. Quella sera doveva incontrarsi con un paio di amici al Grillen. Era un lunedì sera come un altro e sarebbe dovuta essere una telefonata come un’altra. Ma non era andata affatto così. La voce al telefono non era quella del figlio. Era quella del commissario. «Mi dispiace molto» aveva detto. «Ma … c’è stata una rissa. Suo figlio è gravemente ferito». Si era paralizzato completamente. «Dov’è?» aveva finito per chiedere. «Al pronto soccorso. Gli hanno fornito una prima assistenza…» «Quanto è grave?» «Non lo sappiamo. Si tratta di una ferita alla testa. Bisogna trasferirlo all’ospedale di Trømso per essere operato. Sta venendo a prenderlo un elicottero». «Voglio vederlo!» «… allora deve fare in fretta, perché l’elicottero sta arrivando. Però non saprei se consigliarle di farlo…» «Chi è stato?» «Non lo sappiamo ancora… è successo vicino ai camper… sì insomma, giù vicino al fiordo». A quel punto aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro di lui. «Arrivo».
«Troveremo il responsabile» aveva detto il commissario. «Può starne certo». «Arrivo». Poco dopo era davanti alla barella e fissava il volto del figlio. La guancia sinistra era completamente incavata. Aveva capito subito che il figlio non sarebbe mai più stato lo stesso. La persona che era stata fino a quel giorno, nei suoi quindici anni di vita, non ci sarebbe stata più. Se fosse sopravvissuto, sarebbe comunque stato un altro. Una persona non autosufficiente. Un vegetale. Una nube nera era calata nella sua mente proprio lì accanto alla barella e aveva trascinato tutto nell’ombra, ogni minuscolo frammento di luce. Aveva continuato a fissare il volto del figlio, provando a rintracciare il suo sguardo sempre così sfuggente, gli occhi azzurri che aveva preso da lui. Ma gli era stato tolto tutto: i tratti, la mimica, lo sguardo, la voce. Il volto del figlio era come un grande buco nero. Le parole dei medici e degli infermieri gli ronzavano intorno. Dicevano che la situazione era stabile e che probabilmente ce l’avrebbe fatta. Ce l’avrebbe fatta? A fare cosa? Che vita lo aspettava? Non riusciva a capacitarsi della malvagità dietro a quell’evento. Qualcuno si era posto l’obiettivo di fare a suo figlio più male possibile. Una tale malvagità era impossibile da comprendere. Quando uno dei medici si era avvicinato dicendogli che non c’era posto per lui sull’elicottero e che dovevano dare la precedenza al personale medico, non era nemmeno riuscito a replicare. Aveva sentito le parole ronzargli intorno come insetti confusi. Uno dei medici aveva detto che bisognava contare sull’aiuto del tempo. Sapeva che erano tutte idiozie. Il tempo non avrebbe mai curato quella ferita, mai del tutto.
Qualcosa era stato distrutto per sempre, bastava una singola occhiata al volto del figlio per rendersene conto. E mentre la barella veniva trasportata sull’elicottero attraverso il vento prodotto dalle eliche, gli era tornato tutto in mente. Era tornato a Grenen, correva sulla spiaggia nella punta estrema dello Skagen, Louise l’aveva appena lasciato per gettarsi in acqua. Ecco gelarti tra le gocce. Quando l’elicottero si era sollevato ed era scomparso dalla vista, anche quella visione interiore era sparita ed era rimasta solo la bufera. * È in macchina diretto a Trømso, prima però deve capire una cosa, non riesce a partire se prima non va di persona nel posto in cui la violenza ha colpito il figlio dritto in faccia. Fiocchi di neve si agitano alla luce dei fari anteriori. Neve ammassata dal vento copre tutta la strada fino al fiordo. I tergicristallo faticano e stridono sul parabrezza con un rumore di gomma frenata. Infine scorge i camper. Sono parcheggiati su un piccolo slargo appena sopra alla strada, come due piccole uova bianche. Anche lui ha sentito le chiacchiere su quelle donne, su perché sono lì e cosa fanno, ma nemmeno nelle sue più remote fantasie avrebbe potuto immaginare che suo figlio… che proprio lui avrebbe potuto… Ha solo quindici anni! Non è così che dovrebbe andare. Un ragazzino dovrebbe trovarsi una compagna di scuola o di hobby oppure una ragazzina in un locale… Come diamine è possibile che sia finito qui!? Cerca di calmarsi ripetendo a se stesso più e più volte che ancora non sa che cosa abbia fatto né cosa sia successo. Sa solo che quassù suo figlio ha incontrato la violenza. Come sia successo è ancora tutto da scoprire. Ed è proprio quello che vuole provare a fare. Mette la freccia e accosta. L’auto si arena per un attimo nella neve sul bordo della strada, ma alla fine riesce
a uscirne e a proseguire per la salita. Così raggiunge lo slargo. Sale lentamente verso i camper con il vento che soffia e ulula. Si accorge di qualcosa che sventola in balia delle raffiche, è un pezzo di nastro segnaletico bianco e rosso. Uno dei capi deve essersi sciolto e adesso pende e sbatte sulla porta di uno dei camper. Bussa. Nessuna risposta. Si volta e vede la neve turbinare dappertutto, il vento arrivare in forti folate. Bussa anche alle porte degli altri due camper, ma niente, non si vede un’anima. Come è ovvio che sia. Se qui stasera è accaduto qualcosa di illegale, di sicuro le ragazze saranno a distanza di sicurezza, o forse sono sotto interrogatorio in commissariato. Torna al primo camper e resta fermo a guardare il nastro segnaletico che sventola. Afferra la maniglia e prova ad aprire. Chiuso. Gira intorno al camper e con la mano sulla fronte prova a sbirciare dalle finestre, ma tutto ciò che vede è il buio. Non si arrende, però. Continua a vagare intorno ai camper in cerca di un’impronta, una traccia di sangue, qualsiasi cosa. È allora che lo sente. Un grido portato dal vento. Si raddrizza e prova ad aguzzare le orecchie nella bufera. «Aiuto!»
Eccolo di nuovo. Una voce che viene da qualche parte sopra di lui. Per una frazione di secondo immagina che possa essere Louise che lo chiama dall’aldilà, ma si scrolla subito di dosso quel pensiero e si rimette in ascolto. «Aiuto!» Il suono è trasportato dal vento e lui comincia a scavalcare i cumuli di neve cercando di inerpicarsi sopra allo slargo dei camper. La neve gli arriva alle ginocchia, ma non ci fa nemmeno caso. Presta attenzione solo ai suoni, a quel grido d’aiuto proveniente da qualche parte nel paesaggio innevato. Avanza alla cieca nella direzione da cui gli sembrava provenisse il suono, con i piedi che continuano ad affondare nella neve profonda. Ben presto non riesce più a distinguere nemmeno i camper. Arrivato in cima all’altura, ecco di nuovo quella voce. «Aiuto!» Ora è proprio lì accanto. Si trova ormai alle pendici della collina e il suono proviene dalla sua destra. Si avvicina piano, supera una sporgenza della roccia e scende in un letto scavato da un torrente. È lì che vede la ragazza. Sdraiata sulla schiena, attaccata al fianco della collina al riparo dal vento e dalle raffiche di neve. Nessuno al mondo l’avrebbe trovata se non avesse gridato. Era assolutamente un miracolo che il vento fosse riuscito a trasportare il suo grido d’aiuto fino a lui. Un miracolo. Cerca di metterla a fuoco. Indossa una maglia verde, ma le gambe sono nude e viola per il gelo. Il suo viso è una maschera di sangue e la guancia sinistra è maciullata… Santo Dio, il marchio del male ha segnato anche lei. A un certo punto si rende conto che lo sta osservando. È solo una ragazza in preda al terrore con il corpo tremante. Si curva su di lei e la stringe a sé,
provando a arle un po’ di calore, ma è completamente congelata. Solo allora si accorge che ha una caviglia storta in una posizione totalmente innaturale. Si toglie i guanti e prova a sfregarle i piedi per scaldarli. A quel punto sente di nuovo la sua voce. «The General» balbetta. La guarda e scuote la testa. Lei comincia a piangere. «Rølvåg e Sande» cantilena. «Rølvåg e Sande». «Who are you?» le chiede. Lei lo fissa negli occhi. «Regine». «I’m his father» aggiunge lui, non sa nemmeno perché. Lei abbassa lo sguardo. «The boy» sussurra la ragazza. «He was so sweet … tried to save me». Lui prova a incontrare di nuovo i suoi occhi. «Who beat him?» le domanda. «Rølvåg e Sande … Rølvåg e Sande. No! The General. The other one after that». «Who are they?» Il suo corpo trema, ma sembra trovare un attimo di tregua. Prova a sollevare il busto, ma non ci riesce e ricade indietro. Per un momento lui teme che non resista più, ma riesce a fare ancora un ultimo sforzo. La voce torna a farsi sentire debolmente. «Soldiers» dice. «Six soldiers. One devil». «Who was the devil?» le chiede.
Lo guarda. «The General». Poi è come se il suo corpo si rilassi, ma nel momento in cui lui si piega per sollevarla ha uno spasmo e con un filo di voce aggiunge: «I’m sorry…» Lui la guarda senza capire e incontra il suo sguardo. «I’m sorry that I fucked your son» dice ancora, «can you please forgive me?» Il suoi muscoli si irrigidiscono, mentre quelle parole gli si insinuano dentro e cominciano ad agitarsi nella sua mente. Sa perché glielo sta dicendo, perché vuole il suo perdono nel caso in cui la sua vita stia per finire. Vuole liberarsi la coscienza prima che sia troppo tardi, salire al cielo come un’anima innocente. Lo capisce, lo sa bene. Ma quelle parole hanno cominciato ad agitarsi dentro di lui e non lo mollano, scavano sempre di più nella sua anima. I fucked your son. I fucked your son. I fucked your son. Osserva le proprie mani tremanti già dirette verso la ragazza ed è come se all’improvviso non gli appartenessero più, come se fossero possedute da una forza estranea, una forza selvaggia che non sapeva nemmeno di avere. Tutto converge in questo momento. E quando stringe le mani intorno alla sua gola tutto svanisce intorno a lui. Tutta la rabbia accumulata nel corso di quella sera si concentra in una forza mortale.
Giorno 6
Giorno 6 Sabato 12 dicembre 2010 1
Ina Grieg avanza sul marciapiede ghiacciato di Helgesens gate nel quartiere di Grünerløkka. Ha appena oltreato un punto illuminato dalla debole luce di dicembre per entrare in una zona d’ombra. Nuvole di vapore le fuoriescono dalla bocca. È concentrata, i muscoli del viso in tensione, il dolore diffuso sugli zigomi e il mal di testa devastante. Guarda l’orologio. Sono le 14:56. Si ferma e prende un’altra dose di antidolorifico: lascia le pasticche per due secondi sulla lingua, poi le manda giù con un sorso d’acqua da una bottiglietta. Dopo aver inghiottito, indugia un attimo con lo sguardo sull’edificio e una spiacevole sensazione le attraversa il corpo. Il Centro di Sofienberg, un enorme palazzo di mattoni rossi di sette piani con vetrate giganti, si innalza alla sua destra. L’edificio si trova a nord del Parco di Sofienberg, attaccato all’area residenziale di casette di legno di Rodeløkka. Ina riprende a camminare e si dirige verso l’ingresso, che si trova in un annesso adiacente di un solo piano. Su una targa legge che il Centro di Sofienberg è gestito dall’organizzazione ecclesiastica Kikens Bymisjon e che comprende diverse attività e istituti: strutture mediche, dentistiche, un centro di degenza diurna e un centro di ricovero permanente. Anche un centro per anziani.
Ina si volta indietro verso il parco e fa scorrere lo sguardo alla sua sinistra, verso la Chiesa di Sofienberg. Solo l’ultima parte della guglia è illuminata dal sole. Guarda ancora l’orologio e sono le 14:59. Fa un respiro profondo e spinge la porta. Entra nel vestibolo e resta un attimo disorientata, poi si affaccia nel reparto la cui targa indica: “Centro diurno”. Un certo numero di anziani è seduto intorno a dei tavoli. In fondo alla stanza, in un tavolino d’angolo, scorge l’uomo che si aspettava di trovare. È sprofondato in un giornale e si distingue visibilmente dal resto del gruppo, se non nell’età almeno nell’atteggiamento. L’uomo indossa un lungo cappotto beige, lo stesso cappotto elegante che ha sempre portato, che gli dà un’aria da persona per bene negli anni Sessanta. Ina gli si siede di fronte. «Ciao Ina» dice Trygve Winther con gli occhi ancora sul giornale. «Tutto bene?» «Non mi lamento». «Ho visto che abbiamo un amico in comune su Facebook». «Già» fa Winther. «Siamo la piccola cerchia dei prescelti». «Come al solito ne sai più di me, vero?» «Non so proprio niente, ma ho pensato che fosse meglio rispondere all’invito e venire qui. Immaginavo che anche tu avresti fatto lo stesso. Bisogna vedere se lo farà anche Nordan». «L’architetto dell’Ottocento». «Già» fa ancora Winther. «Sapevi che ha disegnato la Chiesa di Sofienberg?» Ina annuisce, poi chiede: «Chi credi che sia?» «L’assassino, ovviamente».
Solo adesso il professore in pensione alza gli occhi dal giornale. Osserva Ina con calma, poi ha un sussulto. «Oh mamma, quello sì che è un occhio nero!» «La firma del Generale» risponde Ina. «Non dell’assassino, dunque». «No. Quindi non sai chi possa essere, eh?» «No. Tu?» «Forse» risponde Ina. «Almeno so chi ha ato le notizie al VG». A Winther scappa un sorriso. «Allora non sei poi così ingenua, vedi? Anzi sei molto più sveglia di quanto tu creda…» «Lo prendo come un complimento, specialmente considerando che viene da te…» «Come hai capito che sono stato io?» chiede Winther. «Mi sono ricordata di tua figlia Elsa e l’ho cercata nell’elenco del telefono. Il giornalista del VG abita allo stesso indirizzo». «Bisogna aiutarsi in famiglia» commenta Winther. «Quello del giornalista non è un mestiere per smidollati, ma d’altra parte neanche tu saresti andata avanti senza qualche buona carta in mano. Potevo prendere due piccioni con una fava: aiutare te con l’indagine e mio genero con qualche dritta. Hanno vinto tutti». «Non so se la polizia è d’accordo…» «Tu non mi denunceresti in ogni caso» conclude Winther. Ina sente salire l’irritazione, ma d’altra parte è abituata all’arroganza saccente di Winther e sa bene quanto gli piaccia provocare gli altri in quel modo. Non è il momento di cadere nella trappola, deve mantenere la concentrazione.
«Ne sei proprio sicuro? Perché il commissario pensa che sia stata io a spifferare…» «Ti conosco» insiste Winther. «Sei troppo leale». «Che vorrebbe dire?» «Che se mi denunciassi, non riusciresti mai a perdonarti». «Sciocchezze!» reagisce Ina. «E se invece non me ne fregasse proprio niente di te?» Winther la osserva. «Parliamo di cose più importanti» dice con calma. «Ad esempio di come ti sei lasciata sfuggire l’assassino…» «Per favore, dimmi che non sei tu». Winther sgrana gli occhi. Per un attimo il professore sembra effettivamente colto alla sprovvista. «Tornerebbe tutto» continua Ina. «L’età, il profilo di Facebook, le competenze letterarie alla base della congettura del piano, il possibile accesso agli archivi nelle cantine dello studio. Visto che sei stato tu a suggerirci di aprire lo studio in quei locali, avresti potuto facilmente procurarti una chiave». «Una teoria impeccabile» commenta Winther seccato. «Dunque non sei tu Nordan?» «Nemmeno per sogno». Ina prova un gran senso di sollievo. «Ma allora chi è?» «Scommetto che avremo presto la risposta». Il cuore di Ina comincia a martellare.
«Vuoi dire che…» «Sì, che l’assassino per qualche oscura ragione desiderava incontrarci qui, ma non chiedermi perché». «Non sembri particolarmente spaventato». «Non abbiamo niente da temere. Per quanto ne so, noi non abbiamo mai aggredito nessuno…» Un infermiere va loro incontro: «Potete venire, adesso». «Davvero?» fa Winther. «E dove andiamo?» L’infermiere li osserva confuso. «Vi sta aspettando nel centro di ricovero. Stanza 502, quinto piano». L’ascensore si ferma con uno scatto, le porte si aprono e Ina e Winther escono al quinto piano, accolti da una musica ad alto volume. Alla loro sinistra, nella sala comune, un gruppo d anziani è impegnato in esercizi di motilità. Attraverso le grandi finestre Ina coglie uno scorcio della vista sulla città: le cime degli alberi del parco, i tetti dei palazzi che scendono verso il centro, qualche altra guglia di chiesa che spunta qua e là e in fondo a tutto il fiordo con le sue isole come puntini piccolissimi. Si lasciano alle spalle gli anziani con i loro esercizi e si avviano nella direzione opposta, lungo un corridoio. Alla fine sono davanti alla porta con il numero 502. Ina si accorge che le trema la mano mentre bussa. «Avanti!» La voce le sembra nota e il suo cuore riprende a martellare velocissimo in petto. Ina getta uno sguardo a Winther che risponde con un cenno di assenso. Lentamente tira a sé la porta. La stanza è immersa nella penombra. Gli ultimi rimasugli di sole si insinuano
dalla finestra e si posano sull’angolo di un letto su cui è sdraiato un uomo evidentemente non autosufficiente. Ha lo sguardo spento e un filo di saliva che gli cola dalla bocca. L’età è indefinibile, ma Ina pensa che possa essere sui quaranta o cinquant’anni. Nella sedia accanto al letto è seduto un altro uomo. Un giubbotto rosso è appeso alla spalliera della sedia. L’uomo si alza e a Ina per un attimo viene a mancare l’aria. «Benvenuti» dice Erling Kåven. «Speravo che veniste». Winther avanza e stringe la mano a Kåven. Ina è come una statua di ghiaccio. «Capisco che tu non voglia stringermi la mano, Ina» dice Kåven. «Non è facile per nessuno. Però vorrei raccontarvi la mia versione dei fatti, poi potrete giudicarmi. Sedetevi…» Kåven fa un gesto ad indicare le sedie, ma Ina gli tiene gli occhi incollati addosso, finché non si decide a rivolgerli nuovamente all’uomo nel letto. È semisdraiato, la schiena un po’ sollevata dal letto pieghevole. Le braccia inermi lungo i fianchi e il volto vuoto, privo di qualsiasi emozione. C’è una specie di incavo nella guancia sinistra, come se una parte della faccia fosse stata rimossa. «Vi presento mio figlio Edvard» dice Kåven. L’uomo nel letto non muove nemmeno un muscolo e continua a fissare il vuoto di fronte a sé. Quel vuoto in qualche modo contagia Ina, che sente per lui una pena infinita. «È chiuso in casa di riposo dall’età di diciotto anni» racconta Kåven. «E non è autosufficiente da…» «Dal 5 dicembre del 1977» conclude la frase Winther. «Esattamente» fa Kåven. «Ormai conoscete parte della storia, almeno a grandi linee, ma non conoscete il male che c’è dietro. Quello è impossibile da comprendere. Ho provato in tutti i modi a capirlo, in modo da poter perdonare chi l’aveva commesso, ma non ci sono riuscito. Né a comprenderlo, né a perdonare».
«Così hai ucciso sei persone…» interviene Ina. «Sette» la corregge Kåven. «Ho ucciso sette persone. Sei di esse lo meritavano mentre l’ultima, o per meglio dire la prima, l’ho solo aiutata a morire». «Chi era?» «Una prostituta russa». «Regine?» «Sì, mi sembra che si chiamasse così. Osberg l’aveva pestata a morte, come aveva fatto con mio figlio. Anche lei portava il segno del male sulla guancia sinistra. L’ho aiutata a smettere di respirare e le ho dato una degna sepoltura… in mare». «L’hai gettata in mare?» interrompe Winther. «Soffriva» risponde Kåven. «E poi sarebbe morta comunque. La cosa importante è che mi ha dato delle tracce da seguire». «Tracce di che?» fa Ina. «Dei sei che avevano aggredito Edvard. Mi diede tre nomi, due reali, Rølvåg e Sande, e un soprannome, il Generale. Ho cominciato con Rølvåg e ho proseguito le ricerche da lì». Ina si accorge che Kåven risponde in modo più lineare e meccanico, quando comincia a parlare degli omicidi e delle vittime, come se stesse recitando un discorso preparato per lunghissimo tempo, un riassunto con le informazioni più essenziali. Evidentemente ha preso le distanze dalle vittime, riducendole ad ombre lontane e anonime, per poter compiere meglio le sue orribili azioni. «Davvero i soldati non furono mai puniti per il loro crimine?» domanda Winther. «Si sarebbe dovuta avviare un’indagine seria…» «Il caso fu chiuso» risponde Kåven. «Il commissario mise in giro l’assurda diceria che fosse stata Regine». «Perché non hai raccontato la verità?» domanda Winther.
«L’ho fatto. Andai dal commissario e gli dissi che c’erano dei soldati dietro a quella storia, ma mi mandò via. Mi disse che aveva già tentato quella pista e che le sue informazioni provenivano da fonti sicure. Era stata Regine o qualcuno del suo giro, magari un protettore, ad aggredire mio figlio. Ovviamente erano tutte balle ma ovviamente non potevo raccontare al commissario cosa sapevo di Regine, altrimenti mi avrebbe messo dentro». «Come facevi a sapere che tutti e sei avevano preso parte all’aggressione?» gli chiede Winther. «Magari qualcuno aveva cercato di fermare il Generale…» «Se mi stai chiedendo se qualcuno di loro potesse essere innocente, la mia risposta è no. Chiunque dei cinque avrebbe potuto mettersi in mezzo, fermare quel diavolo oppure denunciarlo dopo i fatti. Dal momento che nessuno l’ha fatto, per me sono tutti colpevoli». «Ma perché non hai denunciato tu i soldati responsabili?» chiede ancora Winther. «Sarebbe stato inutile. La polizia e la caserma si coprivano a vicenda». «Perciò ti sei arreso? Potevi scrivere ai giornali. Sono certo che anche allora la stampa avrebbe accolto con entusiasmo una simile storia di cospirazione». Kåven osserva Winther stizzito. Per la prima volta Ina intravede l’oscurità imperscrutabile che si nasconde nei suoi occhi, la rabbia feroce. «Sapete cos’è stato mio figlio per il Dagbladet?» chiede, per poi rispondersi da solo «Una notiziola insignificante. Ricordo ancora il titolo dell’articolo: “Giovane in coma dopo una rissa”. Dopodiché cinque brevi frasi». «Non mi convinci» insiste Winther. «Avevi la possibilità di far esplodere un caso». «Mi era venuta un’idea migliore su come punire i colpevoli» risponde Kåven. «Dare il via a una serie di barbarici omicidi basata su un sistema coerente?» «Io non la vedo così. Per me tutto l’insieme dei fatti era necessario, sia il modo di agire che la fine delle vittime».
«Hai letto gli scrittori dell’OuLiPo?» gli chiede Winther. Kåven lo scruta attentamente. «È cominciato da lì, in un certo senso». «Anche i sette anni di intermezzo tra gli omicidi sono ispirati da loro?» «In realtà era mia moglie Louise ad essere un’apionata degli scrittori dell’OuLiPo, di numeri e strutture. Quando si ammalò, cominciò ad essere ossessionata da schemi, enigmi, anagrammi, combinazioni numeriche. Quando attraversava la strada, poteva scoppiare in una crisi di nervi se pestava la striscia bianca e se faceva troppi o troppo pochi i nell’ingresso poteva rifiutarsi di uscire». «Parli di tua moglie Louise al ato» interviene Ina. «Cosa le è successo?» «Suicidio» risponde. «A Grenen, la punta della Danimarca, nel 1966». Cala il silenzio. Poi è Ina a riprendere il filo. «Così anche tu sei stato ossessionato da numeri e sistemi?» «Dopo la morte di Louise ho cominciato a leggere la letteratura dell’OuLiPo. Volevo scoprire cosa ci avesse trovato di così apionante. Ero sicuro che quelle letture mi avrebbero depresso, che non avrebbero fatto altro che ricordarmi il suo terribile suicidio, ma mi sbagliavo. Ben presto fui risucchiato anch’io dal mondo di Louise. Enigmi, numeri e sistemi hanno qualcosa di bello». «Quindi i riferimenti numerici e il palindromo sulle vittime erano una sorta di saluto a tua moglie?» dice Winther. «Si potrebbe dire anche così, sì. Ma era soprattutto un modo per… sì, per ristabilire l’ordine». «Gli omicidi sarebbero un modo per creare armonia?» chiede Winther con sarcasmo. Kåven osserva il professore.
«Qualcosa del genere, sì» risponde poi. «Sei acuto. Ho capito presto che eri stato tu a metter su lo studio di psicologia, ero curioso di conoscerti da molto tempo. Ho letto i tuoi articoli scientifici sempre così brillanti e mi sono riconosciuto nel tuo modo di pensare. Per questo ti ho invitato qui, pensavo che avresti potuto capire. Ma sei anche arrogante e saccente, Winther, e non hai la minima idea di cosa ho ato». Poi si volta verso Ina: «Al contrario di te». Ina prova a farsi forza e cerca di pensare a lui solo come l’assassino di Karsten. «Ma non pensi che una persona possa cambiare?» interrompe Winther. «Che possa migliorare? Che si possa commettere un errore in un momento cruciale della propria vita ma comportarsi bene per tutto il resto del tempo?» «Raccontalo a lui» risponde Kåven facendo un cenno con la testa verso il figlio nel letto. «Chiedi a Edvard se crede nella bontà degli uomini. Come credi che ci si senta, anno dopo anno, di fronte a questo volto devastato?» «I parenti delle vittime sono innocenti tanto quanto tuo figlio» replica Winther. «Può darsi, ma riesco comunque a guardarmi allo specchio». «Chi sono le vittime numero tre e quattro?» domanda Ina. Kåven ci pensa un attimo. «Jan Jacob Opdahl è stato il terzo. Era finito a capo di un giro di spaccio a Copenaghen». «Però non è stato ucciso il 5 dicembre come gli altri, giusto?» chiede Winther. «Non fu puntuale all’appuntamento, per così dire» risponde Kåven. «Dovetti improvvisare e per questo dovetti anche indossare un altro costume, il che mi indebolì. Era diventato una sorta di rituale indossare questo…» Kåven tocca il giubbotto rosso. «… lo stesso che avevo il 5 dicembre del 1977 quando ho fermato il cuore di Regine». «Possibile che l’omicidio di Opdahl non risulti da nessuna parte?» interviene
Winther. «I giornali lo presentarono come un regolamento di conti tra narcotrafficanti» spiega Kåven. «E il quarto fu il prete a Lanzarote?» chiede Ina. Kåven sospira. Sembra stanco, ma trova ancora qualche forza residua per esprimere ciò che gli sta a cuore: «Per Erik Sande, sì. È stato l’omicidio più semplice di tutti e mi diede anche il nome del Generale, Karl Osberg». «Quando hai cominciato a tenere d’occhio Karsten?» domanda Ina. «Ho seguito Scheel fin dagli anni Novanta, quando è diventato psicologo, e ho continuato quando avete avviato lo studio di Nittedal. Poco dopo lessi l’annuncio in cui cercavate un tuttofare e mi sembrò perfetto. Ebbi la possibilità di pianificare tutto di quell’omicidio. In quanto tuttofare, avevo le chiavi di tutte le porte, anche di quella delle cantine e nell’archivio di Scheel trovai i suoi diari…» «Così sei stato tu a lasciarli sulla mia scrivania e a svuotare l’archivio?» «Ovviamente» risponde Kåven. «Era arrivato il momento che tu sapessi. Karsten Scheel non era l’angelo che credevi e nei diari era tutto nero su bianco: Scheel si sentiva in colpa. Non che avessi bisogno dei diari ormai per saperlo, ma mi sono comunque stati utili». Ina si rende conto di essere seduta sul bordo della sedia, con tutto il corpo in tensione. Cerca di calmare il respiro e di poggiarsi allo schienale, ma subito scatta di nuovo in avanti con il busto. «Come sei riuscito a mandare Osberg da Karsten? Si erano giurati di non incontrarsi mai più». Kåven sorride in silenzio. «Ho scritto a Osberg una falsa lettera in cui Karsten gli intimava di presentarsi in studio. Ovviamente avevo previsto di trovarmi nei paraggi al suo arrivo. Volevo
guardare il Diavolo negli occhi. Lui venne ed era visibilmente nervoso, ma con mia grande sorpresa continuò a venire». «Perché non l’hai ucciso prima?» gli chiede Ina. «Perché aspettare una circostanza così rischiosa come quella di Drøbak?» «Ho mandato anche a lui l’invito a venire in chiesa» risponde Kåven. «Ma ovviamente non si è presentato, era una cosa che avevo messo in conto. Quando ho letto sul giornale del premio che avrebbe ricevuto, un premio proprio a lui, mi è sembrato che Drøbak e il forte di Oscarsborg potessero essere un buon piano B». «Desideravi solo che il tuo piano ambizioso avesse il suo gran finale» lo interrompe Winther. «Che il maggior numero di persone possibile vedesse quanto eri bravo». «Pare che tu abbia una risposta per tutto» replica Kåven. «No, in realtà c’è una cosa che non riesco proprio a capire, e cioè perché hai interrotto la frequenza dei sette anni. Ci sono sette anni tra tutti gli omicidi, mentre gli ultimi due rompono lo schema». Kåven sorride amaramente. «Mi restano solo un paio di mesi da vivere» risponde toccandosi una clavicola. «Tumore al pancreas. Ho dovuto accelerare le cose se volevo che il diavolo la pagasse. Il forte di Oscarsborg era una bella cornice per la scena finale, sì, devo ammetterlo». «Prima mi hai dato un aggio fino a Drøbak e poi…» «… ho raggiunto l’isola con una barca a noleggio». «Il successo di quell’omicidio è stato del tutto casuale» commenta Ina. «Beh quasi, non del tutto» dice Kåven. «Avevo fatto le dovute ricerche, sapevo dove si sarebbe tenuta la cena, dove avrei ormeggiato la barca e quale via di fuga avrei utilizzato. Nient’altro. Quel che è accaduto lassù è stata pura improvvisazione. Avevo intenzione di tenermi nascosto sui bastioni del forte e da lì sparare a Osberg o tramite una finestra o se fosse uscito sul ponte. Ma tu hai
scombussolato tutto, Ina, facendolo scappare prima del tempo. La prima scena che ho visto salendo al forte è stata quella di Osberg che fuggiva verso l’hotel e tu dietro a lui. Poi la poliziotta. Vi ho seguiti e sono entrato nell’hotel. Ho sentito rumori di lotta, sono corso su per le scale e quando sono arrivato nel ristorante ho visto il Generale sopra di te con il pugno di ferro pronto a colpire. A quel punto c’era solo una cosa da fare: mirare e sparare. Credo che anche tu sia felice che l’abbia fatto, Ina. Osberg non aveva alcuna ragione per lasciarti in vita». A Ina si accappona la pelle. «È vero, dopotutto dovrei ringraziarti». «Ma perché sei fuggito subito dopo?» chiede Winther. «A quel punto il piano era concluso». «No, c’era ancora un punto importante da mettere in atto». «Cioè?» «Attirarvi qui». Kåven si alza in piedi, si avvicina al figlio e gli prende la mano. «Quando sarò morto, Edvard non avrà più nessuno» aggiunge. «Nessun familiare?» chiede Ina. «Io sono figlio unico» risponde Kåven. «Avrebbe una zia e dei cugini in Danimarca, ma non si sono mai fatti vivi». Kåven punta gli occhi in quelli di Ina. «Tu mi piaci, Ina» dice. «Sei ostinata, sei diversa dagli altri, ma credo che in fondo sei buona. Inoltre anche tu sei ata attraverso l’esperienza del suicidio di una persona cara. Sono sicuro che combatti ogni giorno con la tua coscienza e con la sensazione di estraneità. Mi rivedo molto in te». Per un attimo anche Ina lo guarda negli occhi, ma ritira subito lo sguardo, tremante.
«Voglio chiederti scusa per aver… preso Guro ed Eline all’asilo» aggiunge ancora. «Sapevo quanto ti saresti spaventata». «Hai usato le chiavi di scorta che tengo nella scrivania?» «Una copia». «Come hanno reagito Guro ed Eline quando ti sei presentato? Si sono spaventate?» Kåven prova di nuovo a entrare in contatto con i suoi occhi, ma Ina non vuole dargli la soddisfazione. «Se la sono cavata benissimo» risponde Kåven. «Erano scettiche e mi hanno chiesto subito perché ero andato io a prenderle. Ho raccontato loro che ero un tuo amico, che tu non ci potevi andare e mi avevi chiesto di fare da baby-sitter. Se la sono bevuta». «Quella è stata una mossa davvero rischiosa» commenta Winther. «Non potevi prevedere che sarebbe andata così liscia all’asilo. Potevi essere beccato dai vicini, rischiando così di farla are liscia al Generale». «Eppure è stato quasi il aggio più importante…» «Ah sì? Qual era il punto nel rapire le mie figlie?» Kåven sospira. «Si tratta solo di questo, alla fine, dei nostri figli. Sono la cosa più importante per noi. Ciò che conta più di tutto per me è quello che sto per chiederti. Vorrei che tu mi promettessi una cosa, Ina…» Kåven fa un respiro profondo prima di continuare. «… di venire a trovare Edvard, qui, una volta a settimana o qualcosa del genere… Adesso avrà bisogno di un amico più che mai… Me lo prometti?» Ina si irrigidisce. D’improvviso si sente totalmente sfinita e incapace di pensare, ma alla fine annuisce, non sa nemmeno lei perché.
«Bene» dice Kåven visibilmente sollevato. «Grazie infinite. Per me significa tutto. Alla fine la tua promessa per me era diventata importante tanto quanto eliminare i mostri. Assicurarmi che qualcuno sarà vicino a Edvard quando io… sì insomma… adesso non mi resta che…» torna a sedersi pesantemente. «… chiedervi l’ultimo favore. Posso rimanere da solo con Edvard mentre chiamate la polizia?» * Ina e Trygve sono nella sala comune del centro di ricovero al quinto piano. Gli anziani che si esercitavano sono spariti, probabilmente nelle loro camere o a mensa per la cena. Il cielo imbrunisce, mentre migliaia di lumicini brillano all’orizzonte. Sarà ato qualche minuto da quando Ina ha chiamato Inger-Lise-Lie per avvisarla. Le auto della polizia stanno arrivando e da un momento all’altro gli agenti irromperanno e arresteranno Erling Kåven. Winther è seduto e tamburella con le dita sul tavolo della sala. Ina lo osserva. «Non so perché mi viene in mente adesso» dice Ina. «Ma ultimamente faccio uno strano sogno». Winther smette di tamburellare. «Cioè?» «Nel sogno sto cercando le bambine, corro da una stanza a un’altra ma mi ritrovo sempre nella stessa e non riesco a trovare Guro ed Eline. Irrompo sempre nella stessa stanza abbattendo sempre la stessa porta». «Sembra un incubo piuttosto comune, che esprime la sensazione di non riuscire ad andare avanti nella vita». «Ma alla fine invece arrivo da qualche parte. Sono in una sala con un porta, una specie di imponente portone scuro. Lì mi viene incontro Solveig». «Tua sorella?» chiede Winther. «Quella che si è suicidata?» Ina annuisce e va avanti:
«Mi pare di capire che cerchi di calmarmi, forse di consolarmi. Io sono spaventatissima. So che c’è qualcosa che mi aspetta là dietro e non so cosa, ma temo sia qualcosa di terribile. È come se là dietro ci fosse la risposta a cosa è accaduto alle bambine ma io non abbia il coraggio di entrare. Non oso guardare cosa si nasconde dietro al portone scuro». «Non a tutti piacerebbe la risposta». «Quindi sai di cosa sto parlando?» «Certo» risponde Winther. «Ma ciò che troverai là dietro non è la risposta a cosa sia accaduto alle tue figlie. Dietro alla porta scoprirai qualcosa che è ben nascosto dentro di te». «Ah sì?» «Per questo non hai il coraggio di entrare. Hai paura che dentro di te ci sia qualcosa di orribile». «Come in Erling Kåven…» «Dietro a quella porta Kåven ha trovato solo l’oscurità» replica Winther. «E ci si è perso dentro. Ma non è detto che tutti trovino la stessa cosa. È questa l’aspetto più bello – e più terribile – della vita. Qualcuno troverà la luce, mentre altri troveranno…» «… il mostro nascosto in loro» sussurra Ina. Winther sorride con rassegnazione. «Non c’è niente di certo» dice raddrizzando la schiena. «Hai letto qualcosa sull’epigenetica, la nuova branca della biologia e della psicologia?» «Qualcosa… perché è rilevante?» «Va dritta al nocciolo della questione, alle cause di ogni cattiva azione commessa dagli uomini direi». «In che modo?»
«L’epigenetica sostiene che ognuno di noi ha delle predisposizioni genetiche, ma il modo in cui esse trovano espressione dipende dalle persone che incontriamo nella vita e dagli avvenimenti a cui siamo sottoposti» Ina soppesa le affermazioni. «Perciò lo stesso gene può dare diversi risultati a seconda delle persone che incontri e dei traumi che subisci?» Winther annuisce. «È una teoria. Ma in base ad essa un gene può accendersi o spegnersi a seconda di come viene influenzato. Se hai dei genitori affettuosi, quel gene può generare creatività, se invece hai un’infanzia infelice, lo stesso gene può degenerare in rabbia e violenza». «Ma non può velere per tutti». «No infatti, questa è la parte interessante: Alcuni bambini sono forti e sembrano svilupparsi bene indipendentemente dagli eventi a cui sono stati sottoposti». «I cosiddetti “bambini soffione”…» «Esatto. Ma esistono anche casi opposti. Nuove ricerche mostrano l’esistenza di un altro tipo di persone, i cosiddetti “bambini orchidea”. L’orchidea è bella ma fragile. Se viene curata bene, fiorirà e sarà il più bello tra i fiori. Una persona di questo genere potrebbe diventare un artista, un virtuoso, un uomo pieno di prospettive in qualunque campo». «Ma se viene esposto a un ambiente sbagliato o a eventi traumattici?» «L’orchidea apisce e la persona potrebbe finire agli estremi opposti della scala. Nella peggiore delle ipotesi come uno psicopatico violento o un assassino». «Stai provando a giustificare ciò che hanno fatto il Generale e Kåven?» «No. Da psicologo provo soltanto a capire le persone, i mostri tanto quanto i più buoni tra noi».
Ina ha un brivido freddo. «Quindi è possibile che ci sia un demone nascosto in ognuno di noi, senza che ce ne rendiamo conto?» «No, come ho già detto. Solo in alcuni». «Ma non sappiamo chi». Winther allarga le braccia. «Se l’epigenetica e le ricerche sul cervello umano hanno ragione, un test dei geni potrebbe dirci fino a un certo punto se abbiamo delle predisposizioni». «Se si è predisposti a finire come psicopatici?» Winther annuisce. «Ma non si parla di risposte certe…» riprende Ina. «Quanta parte delle nostre azioni infatti dipende dai geni e quanta dall’ambiente? Come si fa a determinare se siamo buoni o cattivi nel profondo?» «Ovvio che non si può. Non ci sono risposte certe a questo tipo di domande. Se ci fossero state, saresti disoccupata». «… in fin dei conti c’è sempre quella cosa chiamata libero arbitrio». «Prova a dirlo a uno psicopatico». Winther si alza e le mette una mano sulla spalla. «La prossima volta che ti trovi in quel sogno devi abbattere il portone, Ina. Devi entrare. Rimarrai sorpresa da ciò che troverai». «Il mostro che è in me» sussurra Ina. Winther le scuote la spalla. «Proprio così!» Ina alza lo sguardo sul suo viso e incontra esattamente il sorriso ironico che si
aspettava di trovare. «Non dovremmo rientrare da Kåven» gli chiede accennando al corridoio, «prima che arrivi la polizia?» «Troppo tardi». «In che senso? Pensi che sia riuscito a fuggire?» Winther ritira la mano. «Forza Ina! Sei troppo ingenua… davvero non sai cosa ci aspetta là dentro?» «No». «Kåven si è tolto la vita e giace morto accanto al figlio». «Cosa? Lo pensi davvero?» «È scontato, era l’ultimo pezzo del piano. Ha sempre ottenuto quello che voleva. È stato sempre un o avanti a tutti e nessuno è riuscito a scoprirlo. Ora è finita». «Non fai niente per fermarlo?» «Perché dovrei? È la soluzione più semplice per tutti» conclude Winther dirigendosi verso l’ascensore. «Te ne vai?» chiede Ina. Winther si volta. «Non c’è altro da fare qui e preferirei non farmi trovare quando arriva la polizia». «E io dovrei… da sola?» «Preferirei non trovarmi qui nemmeno quando prenderai la mano a Edvard Kåven» la interrompre Winther. «Perché la cosa peggiore in questa storia è che finirai per mantenere la tua promessa e verrai a trovarlo ogni settimana che dio manda in terra».
«Ma lui non ha colpe in…» «Non si accorgerà nemmeno della tua presenza». «Questo non puoi saperlo». «Beh, fai come credi» dice Winther. «Siamo in un paese libero». «Ma non puoi…» Winther solleva una mano in segno di saluto, si volta e scompare nell’ascensore. Ina corre nella stanza 502. Il corpo di Erling Kåven è steso a terra accanto alla sedia. Lo sguardo spento. Ina si abbassa e lo scuote. Nessuna reazione. In lontananza sente le sirene che si avvicinano sempre di più ad ogni secondo che a e già teme il momento in cui si dovrà confrontare con Inger Lise-Lie. Chiude gli occhi. Scompare dentro se stessa, spegne il suono delle sirene e con tutta la calma possibile cerca di rievocare l’immagine di Karsten, prova a immaginare un impensabile e terribile Karsten che colpisce con il guanto di ferro il volto di un ragazzino sconosciuto. Apre di nuovo gli occhi. Tutto ciò che vede è il viso devastato di Edvard Kåven. Ora le sirene quasi le esplodono nelle orecchie, si avvicinano sempre di più e si fanno sempre più invadenti per poi spegnersi una volta raggiunto il Centro di Sofienberg. Nel momento in cui Ina sente sbattere gli sportelli delle auto afferra la mano di Edvard Kåven e la stringe forte.
Giorno 7
Domenica 13 dicembre 2010
Di nuovo lo stesso sogno. Le bambine. Non riesce a trovarle e non capisce dove possano essere né tantomeno come è possibile che le abbia perse di vista. Sa solo che sono scomparse. Corre di stanza in stanza, butta giù le porte, gli occhi vagano in cerca di qualcosa, non sa nemmeno cosa, un piccolo cambiamento forse, un dettaglio che magari le è sfuggito. Qualsiasi cosa. Ma niente cambia. Continua a irrompere nella stessa stanza e ad abbattere la stessa porta. Stessa stanza. Stessa porta. Stessa stanza. Stessa porta. Le bambine non sono da nessuna parte, si sono come volatilizzate nel nulla. Sa che Amund le rivolgerà quello sguardo d’accusa. La paura di cosa possa essere accaduto loro la paralizza completamente. È incastrata nella propria rete. Stessa stanza. Stessa porta. Ancora e ancora. Ma in profondità vibra un’inquietudine, la consapevolezza strisciante che qualcosa stia per cambiare. E in effetti qualcosa cambia davvero. D’un tratto è lì, nella sala davanti al portone scuro. Si ferma. Lo guarda. Acciaio. Respira. È terrorizzata dalla vista che l’aspetta. Qualcosa di terribile. Qualcosa di bello.
Vuole tornare indietro, ma qualcosa la trattiene lì. Una mano sulla spalla. Si volta e la vede chiaramente adesso. È Solveig. Sua sorella. Con quel vestito bianco. La sua mano tesa la tenta. Vieni! Le afferra la mano, fissa gli occhi sulla porta e poi, quasi senza accorgersene, comincia ad avanzare. Il ritmo dei suoi i aumenta a poco a poco e a un certo punto si accorge che non fa che accelerare, che sta correndo insieme a Solveig. La sorella la spinge, Ina allunga il o, fissa gli occhi sul portone e accelera ancora di più. Si sforza al massimo, corre il più velocemente possibile e quando arriva sotto al portone prende lo slancio, salta in aria e si fa scudo con le spalle. Nel momento in cui il suo corpo incontra la porta sente l’acciaio cedere, tutto si dissolve e l’ultima cosa che ricorda prima di svegliarsi la mattina del 13 dicembre 2010 è una percezione di bianco, la sensazione di aver riconosciuto un suono, l’inizio di una vibrazione nell’orecchio. È quasi sicura di sapere cos’è. Con gli occhi ancora chiusi prova a rievocarlo. Pianto di bambino? Ina si siede stordita sul letto e intuisce la figura della figlia proprio davanti a sé. Guro le scuote una spalla e dietro alla figlia intravede la sveglia. Le 04:55. Oh no! Sente Amund grugnire qualcosa dalla sua parte di letto e girarsi sull’altro lato. Tutto ciò che vorrebbe è fare lo stesso e lasciarsi risucchiare dal sonno, tuttavia prova a incontrare gli occhi della figlia nel buio. Non vede niente. «Hai fatto di nuovo un brutto sogno, Guro?» «Mi hai svegliato tu» risponde Guro.
«Io?» «Sì, stavi strillando mamma…» «Ma … devo averlo fatto nel sonno…» Il sogno. Il portone. Le torna tutto in mente e d’improvviso è lucida. «Cosa stavo urlando?» Guro fa ancora un o verso di lei. «Il mostro è qui». Ina ha un brivido freddo. Si siede sul letto e abbraccia la figlia. «Non c’è nessun mostro qui, Guro. È domenica e dobbiamo dormire ancora un po’». La figlia scuote la testa. «Dai, vengo con te». Escono in corridoio e accompagna Guro in cameretta. Quando la figlia sale sul letto e mette un piedino sopra al piumone, come fa sempre, Ina non riesce quasi più a trattenere le lacrime. Resta lì a guardare il corpicino della bambina, finché non vede che si è calmata. Da parte sua, sa bene che non riuscirà più a dormire per quella notte. Di nuovo in corridoio, scorge qualcosa con la coda dell’occhio. Qualcosa di diverso. Qualcosa che la fa esitare. Si ferma e ora lo vede chiaramente, anche se non riesce a credere ai suoi occhi: la neve dalla finestra sul balcone. Si avvicina di un o. Nevica con grandi fiocchi bianchi. Finalmente è in arrivo il periodo più mite dell’inverno. Resta a lungo impalata a fissare i grossi fiocchi di neve. Danzano silenziosi nella notte e pian piano si mescolano alle impressioni rimaste del sogno. Il portone. La neve. La sensazione di qualcosa di bianco. Tutto appare con più chiarezza. Fa l’ultimo o e appoggia delicatamente le labbra contro la finestra. Il fiato
appanna il vetro. Pian piano la frase comincia a riaffiorarle nella coscienza e le labbra a muoversi, sussurra le parole in quell’alba domenicale, le pronuncia come se fossero una formula magica, una corazza contro tutto ciò verrà. Le sussurra più e più volte. Parole contro il vetro. Condensa che pian piano svanisce. Non c’è nessun mostro qui. Nessun mostro.
Ringraziamenti Non sarei riuscito a scrivere questo libro senza i miei “piccoli aiutanti”. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno letto il manoscritto, specialmente il mio redattore e i consulenti della casa editrice Samlaget. Un ringraziamento speciale a Jørn Lier Horst avermi dato consigli sul lavoro della polizia e a Magne Mæhle per i suggerimenti di psicologia e per avermi segnalato l’epigenetica. Un ringraziamento di cuore per le accurate letture anche agli esperti di gialli Kari Jacobsen e Truls Grøndahl Madssen. Grazie a Simone Stibbe, redattore della casa editrice Stabb, per i consigli riguardo al mondo delle chat. Grazie a Lars Mytting per la consulenza sui dettagli delle armi e grazie agli altri aiutanti su cui ho potuto contare nel corso delle mie ricerche: Bjørnar Granheim al museo del Forte di Oscarsborg e Ingrid Gulowsen del Centro di Sofienberg. Inoltre grazie a uno dei miei scrittori preferiti, Stian Hole, per il forte incoraggiamento. Infine come sempre grazie al mio primo e miglior lettore, mio padre Magnus Mæhle. A Mari, Yngve e Marie: siete i migliori! Oslo, 22 ottobre 2012 Lærs Mæhle.