Il Prezzo Del Silenzio 50tx

© 2014 goWare, Firenze

in accordo con Thèsis Contents Agenzia Letteraria, Firenze-Milano

ISBN 978-88-6797-254-8

Copertina: Lorenzo Puliti

Redazione: Marco Rosati

Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing

Fateci avere i vostri commenti a: [email protected]

Blogger e giornalisti possono richiedere una copia saggio a Maria Ranieri: [email protected]

Seguici su

facebook twitter newsletter

flipboard: goware blog

Presentazione

Gli attentati mafiosi degli anni Novanta, la trattativa con lo Stato e le vicende di Tangentopoli rivivono in una folgorante spy-story. Un vero pugno nello stomaco del lettore.

Esperto di intercettazioni, Davide era a Palermo nel ’92. Dal centro di spionaggio ha visto saltare in aria la poliziotta che amava. Da allora vive come un eremita. Quando il suo destino incrocia quello di una rapinatrice, è costretto ad affrontare i fantasmi del ato. Coinvolto suo malgrado in un gioco più grande di lui, scoprirà l’esistenza di un patto segreto tra Cosa nostra, politici e istituzioni.

Un racconto mozzafiato. Un’opera che varca il “confine che separa Stato e antiStato, crimine e legge, in un paesaggio umano dove Bene e Male sono inutili astrazioni” (Alan Altieri).

* * *

Alex B. Di Giacomo è lo pseudonimo di un noto sceneggiatore. Docente di scrittura creativa, autore di serie tv di successo, di un premiato corto e di un horror realizzato all’estero, ha scritto un manuale di sceneggiatura e diretto una collana di gialli. Al suo attivo il thriller Eva crudele (Ciesse, 2014) e il romanzo vincitore del premio Tedeschi Punto di rottura (Mondadori, 2010), di cui Il prezzo del silenzio è la versione rimaneggiata.

Estate 1992 Palermo

La mafia è una confederazione di mafie: qualche volta in pace, qualche volta in accordo, spesso in conflitto. Conflitti che è da credere nascano appunto dalla volontà di prevaricare, di sconfinare, di sconvolgere l’equilibrio federativo per fare uno stato unitario e assolutistico.

Leonardo Sciascia

Gli ordini Davide non li discuteva. Li applicava alla lettera.

«Voglio sapere che fa la signora Colaianni, con chi parla, se incontra il fratello», gli aveva detto il capocentro, Rizzo.

Davide sfoderò la Kodak con dorso digitale e motore modificato. Scattò centinaia di foto. Gli alti papaveri del SISDE volevano un servizio completo. L’Obiettivo Umano li avrebbe accontentati.

Ada Colaianni ritornava dal mercato di da piazza Verdi. Click. Aveva le sporte traboccanti. Click. Nessun mafioso nei paraggi.

Davide mise via la macchina fotografica. La scena si spostava dentro l’appartamento. La mini-telecamera occultata nel sensore antincendio filmava alla grande. La spesa sul tavolo, lumie che cadevano, Ada che le raccoglieva. Ripresa dal soffitto. Ada faceva ordine nel frigo.

Davide pulì le lenti degli occhiali. Focalizzò il monitor e mise il ventilatore a piena potenza. Si sarebbe goduto l’intero spettacolo con obiettivo pin-hole. Era abituato alle lunghe attese. Il centro di sorveglianza puzzava di le e salsedine. Il resto della squadra era acquartierato sopra Palermo.

Davide aveva odiato quella città. Fino a quando, l’anno prima, conobbe Teresa a Mondello. Si erano incontrati sulla spiaggia. Si erano capiti all’istante. Erano usciti e furono subito scintille. Lui le aveva detto «Meriti qualcos’altro». Lei gli aveva detto «Sei una persona speciale». Teresa faceva sul serio. Teresa lo aveva

presentato alla famiglia. Lei aveva poco tempo libero. Lavorava al servizio scorte. Davide non le aveva mai rivelato il suo vero lavoro. Avrebbe dovuto dirle: “Io sono pagato per fare il guardone, mentre tu fai la scorta ad un procuratore condannato a morte dalla mafia”?

Davide s’affacciò alla finestra. Sorrise. Bingo. Oltre chiazze di profumati gerani appesi ai balconi, apparvero due auto dai vetri scuri che stringevano a panino la Croma blindata del magistrato.

Alberto Colaianni aveva il più alto indice di produttività dell’intera procura. Non poteva camminare in strada. Aveva cambiato dieci volte alloggio e nell’ultimo aveva montato una garitta con vetri antiproiettile. La sua abitazione era sotto vigilanza anche quando non c’era nessuno. Alberto con la sorella aveva un rapporto speciale. Ada era la sua migliore amica. Lei gli comprava le cravatte e gli regalava i dischi. Lei poteva entrare in un negozio, parlare con la commessa e fare un acquisto. Quello che non sarebbe stato possibile fare in Sicilia a un magistrato. Per Alberto c’erano percorsi segreti, programmi codificati, scelte di autodifesa. Una vita da guerra.

Davide afferrò di nuovo la macchina digitale e sorrise. Una bella coincidenza. A Teresa quel giorno toccava il servizio di scorta. Mentre faceva colazione l’aveva sentita parlare al telefono con l’ufficio turni. Doveva sostituire un collega che aveva la febbre.

Una berlina guidava il corteo sgommando nervosa. Click. Osservò la donna che aveva promesso di sposare. Si preparò allo show. La Croma si fermò davanti al portone a motore . Click. Un angelo custode scese dall’auto di coda. Click. Smontò Teresa. Click. Controllava i tetti dei palazzi, un M12S alla mano. Click. La divisa le donava. Click. Due agenti scrutarono un ante ignaro. Click. Via libera al magistrato per raggiungere il portone.

Alberto Colaianni aveva portato a termine centinaia di inchieste sulla mafia, infliggendo parecchi ergastoli. Si era tolto di dosso il fango con cui avevano cercato di distruggerlo. Per i risultati conseguiti aveva ottenuto attestati di stima dalla stampa, dall’opinione pubblica e dal mondo della politica. Ma aveva capito di essere scomodo. L’ultimo filone dell’inchiesta si occupava di mafiosi di rango, imprenditori, uomini delle istituzioni. Lavorava febbrilmente su migliaia di faldoni per restituire un briciolo di dignità alla sua terra. Era sul punto di spiccare i primi mandati di cattura. Sapeva di non avere molto tempo, ma non sospettava che il suo tempo sarebbe finito quella domenica.

Davide staccò gli occhi dal teleobiettivo per bere il caffè appena uscito dal fornello. Sentì un sibilo penetrargli nelle orecchie. Poi il boato che doveva cambiargli l’esistenza. Il vuoto d’aria fu simile al soffio di un gigante. Lo gettò a terra con violenza inaudita.

La tazzina distrutta. I vetri della finestra in pezzi. Gli occhiali sbriciolati. Una nube densa avvolse la strada. La Croma del magistrato spostata di venti metri. Dei suoi occupanti brandelli di corpi. Infissi di balconi pendenti nel vuoto. Il manto stradale scoperchiato, come se l’inferno si fosse materializzato sulla terra. Sirene di volanti perse in lontananza.

Davide restò giù. Senza occhiali. (Per quanto tempo?)

Faticosamente mise a fuoco i piedi del dottore Rizzo: sempre più vicini.

Il capocentro, Sergio Rizzo. Gli urlò: «Che cazzo è successo?».

Davide chiuse gli occhi da talpa. Non alzarti. Meglio fare la sua fine. Meglio

essere divorati dalle fiamme. Come lei. Chiuderla lì per sempre.

Rizzo fece entrare un suo sottoposto. Un bestione di un metro e novanta, le vene delle braccia tese come cavi di acciaio: il tenente Candida.

Un’occhiata disgustata, come a un insetto da schiacciare.

«Chi è stato?», domandò Candida.

Non rispondere. Fingi di dormire.

Candida sorò il monitor e gli apparecchi di sorveglianza. Calpestò schegge di vetro. Attraverso ciò che restava della finestra, vide che la fitta coltre nella strada si stava dissipando.

«Sono morti tutti?».

C’era una nota di angoscia nella voce di Rizzo.

Candida assentì. Sull’asfalto le membra carbonizzate dei poliziotti di scorta.

Non alzarti. E lascia che il sonno continui per l’eternità.

27 giugno–4 luglio 1994 Washington, Versilia, Roma

L’uomo tende a creare in sé un quadro semplice e chiaro del mondo con un metodo più o meno adeguato; e ciò non solo per controllare il mondo in cui vive, ma anche per cercare di sostituire in qualche misura il mondo col quadro che se n’è fatto.

Albert Einstein

1.

L’RFK Stadium di Washington gremito. Caldo torrido. Cinquantamila spettatori che soffocano sbadigli. Il soccer noioso. Gli azzurri facevano possesso palla, i messicani cercavano di contrattaccare. Alla ripresa Sacchi aveva tolto Casiraghi e inserito Massaro. Serviva un gol per la qualificazione agli ottavi e, dopo tre minuti, i tifosi furono accontentati. Un gran lancio di Albertini, Massaro girò a rete con un rasoterra imprendibile. Migliaia di spettatori si erano alzati come un solo uomo urlando forza Italia!

In piedi nella tribuna d’onore, in camicia a pois gialli con le maniche arrotolate, il Professore non ebbe il tempo di gioire. Vide – con uno dei capovolgimenti tipici del calcio, sport cinico e imprevedibile – la palla trasmigrare verso la porta difesa da Marchegiani, Bernal stampare un diagonale lento e Marchegiani distendersi, allungare il polso, snodare le dita, e il pallone continuare a viaggiare insaccandosi con un rumore di lana.

I tifosi del Messico si alzarono urlando da ossessi. Goal!

«Come si fa a prendere una rete simile?», imprecò il Professore, che si lasciò cadere sul sedile. Il pareggio assurgeva a un valore su scala più ampia, di catastrofe. Il Professore era volato negli States per vigilare che tutto andasse secondo i suoi disegni. Conosceva i giocatori come tipi strani, con le loro stravaganze e debolezze. In caso di necessità, era pronto a dare loro un aiutino. Ma adesso le cose si stavano mettendo davvero male.

Benarrivo chiudeva gli spazi, un timido contropiede di Massaro, una veloce

fantasia di Baggio, e poco altro. Noia assoluta. L’Italia di Sacchi si avviava ad incassare l’ennesimo pareggio. Gli spalti rumoreggiavano.

«Onorevole, non è un bello spettacolo, vero?».

A rivolgergli la parola era stato un assistente brufoloso.

Il Professore imprecò, deterse le labbra dal sudore e constatò che il suo attaccante preferito, Berti, non riusciva ad espugnare la roccaforte messicana.

«Guadagnano miliardi, e sembrano di pasta frolla».

«Neppure l’uggia dell’onore», fece eco una donna che faceva parte della delegazione, inguainata in un vestito rosa incurante dei quaranta gradi.

Il Professore non diede confidenze. Si arroccò nel siculo mutismo. In verità aveva la testa a Roma. Erano stati giorni densi, prima della partenza. Eletto alla Camera dei Deputati con il 60% dei voti al collegio di Bagheria, aveva salito le scale di Montecitorio per la prima volta in vita sua. Ma il governo appena formato traballava, ricattato dagli appetiti di schieramenti dissimili. E poi c’erano le toghe rosse che demolivano il vecchio sistema e i principi del nuovo. La giustizia aveva sostituito al simbolo della bilancia quello delle manette. Il legame tra giornalisti di sinistra e giudici campioni di narcisismo era stretto, e il segreto istruttorio un mistero buffo. Cosa Nostra – che aveva comprato i suoi voti – avanzava pretese. I mediatori dei clan vincenti raccomandavano di rispettare gli accordi. E lui si era rimboccato le maniche, aveva pescato nel mazzo e tirato fuori il jolly. I Mondiali! L’Italia campione del mondo!

Quando la partita terminò col pareggio, il Professore sprofondò nella delusione. Vide la muraglia di bandiere, volti e sudore aprirsi come il mare davanti a Mosè. Vide il suo progetto sgretolarsi. Vide il pubblico che sciamava lentamente dallo stadio a testa bassa.

«Cosa succede adesso?», domandò al collaboratore brufoloso.

«A eguale differenza reti, decidono i gol segnati. Messicani e irlandesi ano il turno, mentre la Norvegia resta fuori».

«Della Norvegia non me ne fotte una minchia. Io voglio capire che sarà della squadra che rappresenta il mio paese».

«Il aggio del turno è appeso a un filo: per essere ripescati come migliori terzi, servono due classificate terze con punteggio inferiore. La prima c’è: la Corea del Sud ha chiuso il gruppo con due punti... per l’Italia, serve la seconda».

«E quindi?», chiese spazientito il Professore che di calcoli non ne voleva sapere.

«L’Italia prosegue il torneo solo se il Camerun non fa punti con la Russia. Insomma, dobbiamo pregare che il Camerun perda».

Concesso un pomeriggio di libertà ai poliziotti della scorta, il Professore rinunciò a visitare il Wilson Building e percorse i sotterranei di uno stadio

americano con una valigetta di cuoio. Aveva infinite risorse, lui. Era in grado di prevedere l’imprevedibile. Aveva numeri che non si trovavano nell’elenco.

Nel lungo corridoio illuminato dal neon l’accompagnava una ragazza in rosa, con un terzo dei suoi anni. La famiglia di Partinico aveva insistito per farle fare le ossa a Roma. E la ragazza nei fine settimana era diventata la sua amante. Il Professore l’aveva portata a Washington, senza sapere che gli sarebbe tornata utile. I sotterranei erano un antro rabbrividente. Un posto inadatto a un influente deputato.

«Io non capisco... Che c’entra la nazionale di Baggio con la politica nazionale, e con la vita del nostro partito?», protestò la ragazza.

«Puoi smetterla di fare domande, per una volta, ed eseguire semplicemente un ordine?».

«Volevo dare un contributo. Scusami».

Il Professore ebbe un sussulto di tenerezza. Le carezzò il viso di porcellana, pentito. Decise di impartirle una lezione di saggezza.

«Hai mai sentito parlare dell’effetto farfalla?».

La bionda scrollò i suoi meravigliosi capelli: stava per uno sconsolante “no”.

«Si dice che un semplice battito di ali di un insetto in Brasile causi una catena di movimenti di molecole fino a scatenare un uragano in Texas... Questo per dire che a volte si fanno delle azioni che non sono apparentemente collegate alle altre, ma che servono a innescare delle reazioni».

«Ho capito», disse la ragazza con l’aria di chi non aveva capito affatto.

«Ora non te lo sto a spiegare per filo e per segno... ma questo c’entra con l’attentato a Colaianni, e può provocare benefici al nostro corso politico... Effetto farfalla: appunto. Gli eroi sportivi catturano la luce dei riflettori, assorbono le energie degli spettatori. Sono una concausa di disattenzioni, rimozioni, investimenti... Sono anni che i concittadini mi rompono i coglioni col martirio del giudice antimafia, e vedrai che è la volta buona che Colaianni se lo dimenticano! Tutti! Grazie ad Arrigo Sacchi! E noi potremo fare il bello e il cattivo tempo!».

Nel corridoio si sentirono dei i, amplificati da una vasta eco. Il rumore risuonava per i sotterranei. La ragazza si strinse all’onorevole. Il Professore la scansò. Aprì la valigia e ne verificò il contenuto. Un flacone romuro di pinaverio e atropina appena usciti da un laboratorio clandestino. Le giuste dosi per diminuire le prestazioni senza condurre a una paralisi del sistema nervoso dei giocatori. Il Professore richiuse la valigia e spronò la ragazza.

«Portala al nostro uomo... e poi torneremo a Roma a festeggiare il aggio del turno».

Il suo contatto, il preparatore atletico del Camerun, era rimasto a una trentina di metri. Il luogo fissato per la consegna era vicino all’uscita delle tribune. Per il Professore era più prudente non farsi vedere.

«È nero come la cioccolata», sussurrò alla ragazza incoraggiandola con una leggera spinta.

La bionda esitò, con la valigia in mano, prima di farsi inghiottire dalla lunga ombra. Il Professore sorrise, pregustando la figura che avrebbe fatto la nazionale camerunense. Ripensò a uno dei letterati da lui più amati, che aveva scritto che il calcio era “l’ultima religione moderna”. Beh, lui stava per dissacrare anche quella.

2.

La politica nettata dalla magistratura. Il mezzobusto del giornalista snocciolava il rosario degli arresti. Tangenti versate da sedici imprenditori. Perquisizioni in casa Andreotti. L’ex ministro della Sanità in carcere. Sotto accusa le precedenti legislature. Tangentopoli: una bufera che minacciava di portarsi via tutto.

Davide non seguiva il bollettino giudiziario in cui s’era trasformato il tg. Spense il televisore. Osservò il mondo intorno a sé in uno stato sonnolente, come in una sbornia senza felicità. La villa sulla Riviera Apuana in cui si era trasferito dava l’idea di un bastimento. Silenzio assoluto, intervallato dal mare gorgogliante. Un divano. Pochi mobili. La scalinata in pietra che portava al piano superiore. Mura spoglie, senza segni distintivi. La porta finestra costituiva l’unica via di fuga in uno spazio deserto.

La nuova casa acuiva la sensazione di provvisorietà. Troppo grande per una persona sola. Il luogo ideale per perdersi, o per ritrovarsi.

Davide continuava a sentire l’odore di esplosivo. Una bomba che, ogni giorno, gli esplodeva nella testa. Al suono del camlo, represse l’ansia.

«Accomodati», disse mentre apriva la porta a Michele.

Afflitto da alopecia, Michele era stato suo compagno di liceo, ma sembrava avere il doppio degli anni. Una modesta carriera di dottore di provincia non lo

aveva reso soddisfatto e gli aveva dato un’aria tediosa e depressa.

«Sono due mesi che ti sei trasferito... e ancora non hai sistemato?»

«Non ne ho avuto il tempo», mormorò Davide seccato.

«La gente si sta facendo un’idea strana su di te. Cinquale è un piccolo paese, e l’arrivo di un forestiero fa parlare».

«E che dicono?».

«Che sei un tipo particolare. Stai sempre a guardare il mare, a fissare le persone. Parli poco. Insomma, credono che sei un po’ matto».

«Non mi importa quello che pensano».

Michele preferì non insistere. Si massaggiò la testa calva e si guardò intorno. La sala era intasata da scatole di cartone e imballi da trasloco, che nessuno si era degnato di svuotare. Alzò le spalle. Non era quello il problema maggiore. Aprì una cartellina dell’ospedale e tirò fuori le analisi mediche. «Cuore, sangue e tutto il resto sono a posto. Insomma: sano come un pesce».

Davide diede un’occhiata distratta. I valori erano nella norma.

«Io ancora mi chiedo come hai potuto...? Ci conosciamo da una vita... Adesso che sei uscito dal tunnel, promettimi che non ci ricadrai».

Davide annuì. Restò in silenzio per un minuto e sospirò, come se quella casa fosse il suo ultimo rifugio. Non aveva mai fatto parola della missione in Sicilia e dell’appartenenza al SISDE. La segretezza era parte integrante del lavoro.

«Leo? Si è più fatto vedere?», domandò a Michele.

«Lo conosci com’è fatto. Appare, scompare. Deve essere sempre originale. Ha detto che presto faremo una rimpatriata».

«Ha le sue manie di grandezza, ma gli sono grato... come anche a te... Mi siete stati vicini, in questi ultimi mesi, e non lo dimenticherò».

«Abbiamo fatto quel che potevamo».

«Leo mi faceva visita ogni settimana al centro di recupero. Ho apprezzato il suo impegno... e anche il tuo».

Michele ammirò il mare nero come l’inchiostro, poi sembrò ridestarsi dal torpore. Indicò una porta metallica che attirava la sua attenzione. «E dietro quella porta che c’è?».

«Le mie attrezzature tecniche».

«Il solito topo di informatica», aggiunse lui con un sorrisetto.

«Grazie di avermi portato le analisi», disse Davide ritirando la cartellina e congedando Michele con uno sguardo.

Michele era consapevole della sua mediocrità e invidioso del successo altrui. Aveva un carattere sfuggente e astioso. Eppure Davide gli voleva bene come a un fratello, forse perché dopo una lunga frequentazione era portato a tollerare i suoi difetti. Da uno schermo collegato alle telecamere, osservò l’amico allontanarsi attraverso il giardino. Si versò del tè freddo e raggiunse il patio. I suoi i riecheggiavano nel silenzio. L’oscurità divorava la costa zigzagante cosparsa di luci. Il patio sembrava galleggiare nell’ignoto. Si accomodò su una sdraio e bevve. Il fresco della bibita. La fragranza della sera. La spuma delle onde. Le costellazioni sopra la testa svuotata. La solitudine che sapeva di dolce e amaro. Tornò ai pensieri che – sempre a quell’ora – lo assalivano.

Dopo la carneficina, la psicologa gli aveva parlato di una malattia che si impossessa delle persone che assistono a una strage. Lui credeva che avrebbe assorbito la botta. Aveva ripreso servizio, come niente fosse. Però aveva sempre una grande tristezza, accompagnata da una strana assenza di dolore. Una patologia con sintomi indefiniti. Aveva eretto barriere su barriere. Improvvisamente, era andato in tilt. Il suo equilibrio aveva ceduto, schiantato di netto. Gli era sembrato di impazzire. Visioni. Voci nella testa. Crisi di nervi per lo scoppio di un palloncino. L’aggravio dei segreti: la sua versione dei fatti. I principali incubi: Ada Colaianni e Teresa.

Che provava in definitiva? Niente. Si sentiva vuoto. Era attraversato da un’oscena sensazione di vacuità. Dentro di sé c’era solo il deserto.

La droga gli era apparsa come una liberazione. Fortissime sensazioni di piacere. Dimenticare la Colpa. Stare bene per la prima volta. Andare a migliaia di chilometri dal mondo. Allucinazioni, dispnea, cefalea. Stare male. Intossicazione. Aveva visto i drogati sfruttare il proprio disagio per ottenere ciò che volevano. Lui non aveva mai utilizzato la sua debolezza come strumento di manipolazione. Il centro medico lo aveva liberato dalla droga. Dosi massicce di naloxone. Terapia di gruppo. L’aiuto della comunità. Capire gli errori. Superare le paure. Aveva abolito la parola “futuro”. Era andato nel buco di paese dove era nato. Aveva ristrutturato la casa paterna. Aveva acquistato un motoscafo. Aveva lasciato i suoi strumenti tecnologici in un laboratorio pieno di ragnatele. Aveva sconsigliato al mondo intero di occuparsi di lui.

Una telefonata lo strappò dal bilancio esistenziale. Davide tornò in salone. I ripetuti squilli avevano rotto la pace serotina. Era tentato di non rispondere. Quasi obbedendo a un istinto incondizionato, alzò il ricevitore.

«Va bene. Verrò a Roma», concluse glaciale. Quando mise giù la cornetta, ebbe un brivido. In molti avevano preannunciato il suo ritorno ai Servizi, ma era qualcosa davanti a cui aveva chiuso gli occhi. Fino a quel preciso momento, quando una voce familiare lo aveva ridestato. Ragionò sul suo percorso ciclico. Il dato assurdo era di essere tornato al luogo esatto da cui era partito.

3.

«È considerato uno dei migliori addetti alla sorveglianza audiovisiva, ma comprenderà che non possiamo reintegrarla senza aver valutato la sua salute mentale».

«Sono qui per questo».

Lo torchiavano per l’ennesima volta. Il tenente Candida e una psicologa desiderosa di fare bella figura. Sicuri. Spavaldi. Senza rispetto. Ignoravano la sua storia. Chissà che avrebbe detto il grand’uomo, Fabrizio Bazzichi, di quel trattamento. Al terzo giorno di colloqui, test e perizie psichiatriche, Davide era stordito. Si sentiva come un anacoreta che, dopo un lungo ritiro, è costretto ai commerci della carne. Aggiustò gli occhiali, scivolati sulla punta del naso.

La capitale non gli era mai piaciuta. Era un puro simbolo, il centro espansivo di una civiltà guasta. Gli agrumi che in Versilia si mischiavano a fragole ed erbe aromatiche qui si crogiolavano sotto biossido di azoto. Per fortuna la mattina dopo sarebbe ripartito.

La psicologa gli chiese di raccontare, con parole sue, in cosa era consistito il suo lavoro a Palermo.

Davide ricostruì i fatti in modo logico, senza emozioni. La bonifica delle procure. Le intercettazioni sui parenti dei mafiosi. Il aggio alla sorveglianza

di casa Colaianni. L’esplosione di cui era stato testimone. Era come se avesse visto un film dell’orrore e ne raccontasse la trama. La prima regola per sopravvivere: anestesia percettiva. Glielo aveva insegnato il padre: metti uno scudo tra te e il prossimo.

«Ha notato movimenti sospetti attorno all’abitazione?».

«No. Ada Colaianni aveva orari regolari. Non vedeva molte persone. E la via dove abitava era abbastanza tranquilla».

«Ha mai sentito la signora parlare di un diario tenuto dal fratello?».

«Ricordo con precisione una sua frase: “Alberto ha un’agenda elettronica in cui sta trasferendo informazioni importanti. A futura memoria”».

«È risaputo che il magistrato nutriva una forte avversione verso l’informatica. Le sembra verosimile che negli ultimi tempi memorizzasse tutto su quest’agenda elettronica?».

«Credo che quell’agenda la potesse maneggiare anche una persona non esperta. Comunque, in un precedente incontro con la sorella, Colaianni disse che si stava divertendo con una macchina infernale. Avrebbe potuto riferirsi all’agenda».

«Dopo l’attentato, qualcuno si è avvicinato ai resti della Croma? Qualcuno avrebbe avuto il tempo di portare via l’agenda?».

«Io quel giorno non ho visto nessuna agenda. E se anche ci fosse stata, nell’auto, si sarebbe carbonizzata».

«È vero o non è vero che un suo collega, Matteo Ganci, era presente sul posto nonostante fosse il suo giorno libero, e ha indicato con esattezza la vettura dove è stato nascosto l’ordigno dinamitardo?».

«Ganci ha preso parte ai soccorsi e alle prime fasi dell’indagine. La scena del crimine era confusa, ma mi sarei accorto se avesse prelevato un oggetto dall’auto del giudice».

Stava mentendo. Era troppo impegnato a vomitare, sprofondato all’altezza del pavimento, per poter osservare la scena. Aveva collaborato agli accertamenti. Dopo. Ma non era saltato fuori niente sul diario. Non uno straccio di carta negli uffici del giudice. Era stato aperto un procedimento contro ignoti per furto aggravato. Ma c’era qualcuno disposto a giurare sul fatto che la storia dell’agenda elettronica fosse solo una colossale bufala.

«Lo sa che Ada Colaianni si è trasferita a Roma? L’ha mai interrogata? Le ha chiesto di questo benedetto diario?».

«No. Però sarei curioso di sentire l’opinione della signora».

Gli occhi della psicologa tradivano scetticismo. Consultarono un dossier.

BAZZICHI Davide

Nato il 10 maggio 1955 a Cinquale. Studi: ingegneria alla Normale di Pisa. Laurea conseguita con il massimo dei voti.

Incarichi: bonifiche ambientali in sedi riservate; intercettazioni su GARDINI e DE BENEDETTI; acquisizione informazioni sul clan BONOMI e criminalità organizzata; sorveglianza su magistratura in uffici di Palermo.

Fidanzamento con CALÒ Teresa (agente di polizia medaglia d’oro al valor civile).

Lunga amicizia con ABETI Leonardo (figlio del noto costruttore titolare della Toscana Calcestruzzi). Sodalizio iniziato negli anni del liceo Virgilio di Pisa.

Profilo: freddo, organizzatore, solitario, ligio al dovere. Forti tendenze anaffettive. Trova compensazione per l’assenza di sentimenti nella componente voyeuristica del suo lavoro. Complesso di inferiorità (verso il padre).

Stato attuale: colpito da stress e angoscia permanente. Lutto in via di elaborazione. Trasferito in una villa isolata di sua proprietà a Cinquale.

Note: figlio unico di BAZZICHI Fabrizio (ex funzionario del SISDE distintosi per l’operato, con encomi e riconoscimenti).

La psicologa temeva si fosse imparato a memoria la parte. Mise via il dossier, come se stesse sparecchiando una tavola, e gli parlò a voce bassa. Per prenderlo alla sprovvista. «Che effetto le farebbe tornare in Sicilia oggi?».

«Non ci starei male. Prima era una ferita profonda, non lo nego. Adesso sono guarito. Tutti questi mesi di vacanza mi hanno fatto riflettere. Adesso vedo le cose dalla giusta prospettiva. Da una prospettiva più distaccata».

«Se è per questo, a mio parere la sua prospettiva è eccessivamente distaccata. Come se avesse assunto un meccanismo di autodifesa. Si chiama sindrome da stress post-traumatico. Di solito colpisce chi vede la morte in faccia».

«È una sua opinione, dottoressa», ribatté Davide.

«Sono pagata per le mie opinioni».

«Io invece sono pagato per spiare le persone. Formarsi opinioni è considerato dannoso nel mio campo. Ho sempre assolto agli incarichi in modo brillante».

La psicologa scosse il capo. Stentava a capirlo. Era come se Davide si trovasse da qualche altra parte, come se le sue risposte giungessero con ritardo.

Davide aveva scattato migliaia di foto e registrato centinaia di bobine. Era stato torturato dal caldo asfissiante dei furgoni. Aveva atteso con pazienza il ritorno a casa dei suoi “obiettivi”. Aveva sorvegliato appartamenti e alcove di politici e imprenditori. Aveva redatto i suoi resoconti con un talento letterario che

suscitava l’ilarità dei colleghi. Aveva raccolto informazioni sui mammasantissima. Aveva subìto l’attacco di zanzare tigre nelle basi coperte. Aveva preso nota di ogni movimento sospetto di fattorini e camerieri. La sua azione più rischiosa era stata piazzare una cimice dalla cognata di un latitante. Ma il suo ruolo era importante come quello di chi compiva gli arresti sotto la luce dei riflettori. Aveva svolto con zelo compiti informativi per la difesa dello Stato. Aveva avuto solo un piccolo insignificante cedimento. Capita anche ai migliori.

Il tenente Candida diede uno sguardo alla psicologa, come a chiederle di intervenire. Niente giri di parole. Si alzò. Torreggiava su Davide. La differenza era di undici centimetri per statura e, quanto a muscoli, trenta chili di peso. Bicipiti guizzanti premevano sotto l’uniforme. Aveva partecipato a missioni bagnate. Aveva rischiato la pelle nella guerra civile dell’ex Iugoslavia e nella “missione di polizia” sul Golfo. Per lui Davide era un raccomandato, un secchione da scrivania. Lo infastidiva la sua sola presenza.

«Mi risulta che due mesi dopo l’attentato sei stato ricoverato in ospedale, per una presunta intossicazione alimentare».

«Avevo problemi di salute. Non correlati con l’accaduto».

«E li hai risolti, poi, questi problemi di salute?».

Annuisci. Sostieni lo sguardo del tenente. Evita di menzionare la droga. E non parlare del capo che ti ha coperto il culo.

Candida lo scandagliava con occhi penetranti. Non c’era buon sangue tra loro.

Piccole scintille. Rivalità tra colleghi.

«Sarò molto franco. In questi ultimi mesi hai mai fatto uso di stupefacenti?».

«Assolutamente no».

Indossi una camicia con le maniche lunghe per coprire le braccia martoriate. Tieni per te l’inferno dell’eroina. Non dire dell’ansia di punirti e dell’ago infilato tra le dita dei piedi per trovare altre vene.

Nella stanza fece capolino Sergio Rizzo. Capelli sale e pepe, barba fluente, sessant’anni ben portati e l’aria da padre di famiglia. «Se avete finito, lo accompagno fuori», mormorò il funzionario.

Il tenente e la psicologa assentirono, per una forma di rispetto, si scambiarono uno sguardo eloquente e salutarono Davide.

La stretta di Candida aveva la forza di cinque ganasce di una tenaglia da carpentiere. Davide si toccò la mano ancora dolorante, scortato da Rizzo per il lungo corridoio. Uscirono dall’ascensore senza scambiarsi una parola. Restarono in silenzio sotto la luce dei neon, mentre le pareti bianche del Condominio erano attraversate da un sole stanco.

Davide si sentiva sospeso in una specie di limbo: non era stato reintegrato e non era un civile. L’attesa di un giudizio pesava.

I suoi colleghi giravano indifferenti per i corridoi. Non l’avevano mai considerato uno di loro. Provavano diffidenza verso l’erudizione scientifica. Erano spaventati dalla sua preparazione tecnica. Erano innervositi dall’Occhio Umano. Lo avevano posto un gradino sotto la specie umana.

Lo salutarono con gesti tiepidi della mano. Tutti. Tranne Matteo Ganci. Gli si fece incontro e lo baciò su una guancia.

«È fatta. Adesso è solo una questione di formalità, e poi sei di nuovo dei nostri. Contento?».

«Ancora non è sicuro...».

Occhi cerulei, zazzera bionda e pelle come neve, Ganci contraddiceva l’immagine stereotipata del siciliano scuro di carnagione. «Cerca di essere ottimista... Di’ un po’, che domande ti hanno fatto? Hanno chiesto di me?».

«Matteo, non rompere», intervenne Rizzo. Lo sapeva che era lì per un tornaconto personale. Si stava preoccupando di salvare le chiappe.

«Semplice curiosità. Ok. In bocca al lupo Davide».

Ganci gli diede un’espansiva stretta e lo baciò, come faceva con tutti, in segno di solidarietà. Davide avrebbe voluto pulirsi dal contatto. Seguito da uno ieratico

Rizzo, guadagnò l’uscita con sollievo.

La palazzina risaliva alla fine degli anni Trenta. Il monolitico portone dell’epoca fascista dava su un’ampia strada costellata di lecci. Il funzionario e il suo pupillo stazionarono alla luce arancione del tramonto con un’aria gualcita.

«Non farci caso a Matteo. È preoccupato di finire indagato».

«Se è pulito, non ha niente di cui avere paura».

«Beh, sai com’è. A ogni cambio di governo cercano di tagliare qualche testa, di fare un repulisti. E ho l’impressione che ai vertici farebbe comodo un capro espiatorio per una stagione di insuccessi».

Forse il dottor Rizzo non apparteneva a quelli che sarebbero stati traghettati nella Seconda Repubblica cambiando aspetto come camaleonti. Amava troppo il suo lavoro e troppo poco i notabili che contano. Stava col fiato sul collo all’ala militarista di Cosa Nostra. Aveva studiato, intercettato e pedinato i boss. E aveva trascurato la cosa più importante: le pubbliche relazioni.

«State per chiudere l’indagine? Ho letto dei mandati di arresto», disse Davide.

«Non sono autorizzato a parlarne. Almeno finché non sarai tornato tra noi».

«La tua opinione?».

«La situazione non è più quella di prima. Direi che si è normalizzata. Quando hai lasciato, eravamo sul piede di guerra».

Davide ripensò alle voci sentite in giro. La morte di Alberto Colaianni era stata l’inizio della fine. Alla sua morte lo Stato rispose col 41 bis, carcere duro per i mafiosi. Riina progettò l’avvio di una sanguinosa rappresaglia. Di Maggio confessò a un generale dei carabinieri dove si trovava il boss di Corleone. I ROS lo catturarono a Palermo.

Le notizie successive gli erano arrivate quando era stato congedato.

I piani di Riina proseguirono, anche con lui in carcere. Una impressionante serie di attentati. 14 maggio 1993: un’autobomba esplose in via Fauro a Roma e coinvolse l’auto di Costanzo. 27 maggio: un ordigno esplose in via dei Georgofili a Firenze provocando cinque morti e danni al patrimonio artistico. Notte del 28 luglio: un’autobomba in via Palestro a Milano fece cinque vittime. Autobombe esplosero a Roma al vicariato, in piazza San Giovanni e alla chiesa di San Giorgio al Velabro. All’inizio del ’94 il difetto di funzionamento di un ordigno evitò una mattanza allo Stadio Olimpico di Roma.

Davide aveva seguito le fosche vicende da giornali e notiziari. L’eco delle bombe lo aveva accompagnato durante la sua disintossicazione. Come si era concluso? Lo scandalo di Tangentopoli riempì le cronache. Sulle stragi calò il black out. Berlusconi annunciò la sua discesa in campo. Forza Italia stravinse le elezioni. Il circo mediatico spostò i suoi tendoni.

«La morte di Colaianni si è rivelata un pessimo affare anche per Cosa Nostra. E se qualcuno avesse voluto sfruttare le trame di questo disegno? Se qualcuno avesse utilizzato i Corleonesi e poi li avesse gettati via, come pedine inutili?».

«Alcune ipotesi investigative non escludono il concorso di un’entità esterna alla mafia in quanto è successo. È di questo che sto occupandomi...».

«E le mie registrazioni? Le intercettazioni parlano chiaro. Anche in casa dei mafiosi sapevano che le bombe non erano roba loro. Una voce che circolava da tempo, che pezzi deviati delle istituzioni vi fossero coinvolti».

«Se c’è qualche mela marcia, non guarderò in faccia nessuno».

«Chi conosceva il programma delle uscite di Colaianni? Da dove è stato azionato il detonatore? Ho paura che non troverai risposte a queste domande».

Rizzo era attraversato da una sorta di pudico imbarazzo verso l’argomento. Si trattenne dal parlare. Strinse Davide. Gli costava fatica. Si schiarì la voce.

«Se ci fosse tuo padre, lui troverebbe le parole adatte. Fare discorsi non è il mio forte. Ma penso che non ci sia nessuno che non si senta responsabile della morte di Teresa, del dottor Colaianni e degli altri quattro membri della scorta. Ora, ovviamente, non è così, ma è così che tutti si sentono. Perché tutti amavamo quelle persone». Rizzo sembrava indovinare i suoi pensieri. Lo conosceva meglio di chiunque altro. «A volte, più amiamo una persona e più crediamo che sia stata colpa nostra... Davide, tu non potevi evitare quella carneficina. Tutte quelle persone sono state uccise dalla mafia. Tu non c’entri».

«Ma se io avessi vigilato, se mi fossi accorto che qualcosa non andava... insomma, io ero lì, comodamente seduto a poche decine di metri, a vedere tutti i movimenti su un monitor e a controllare il portone».

«L’attentato era stato pianificato da tempo, nei minimi dettagli, e portato a termine da professionisti».

«Non è solo quello... È che io... sono sempre stato alla finestra a guardare, per tutta la mia vita. Credo di avere qualcosa dentro che mi rende diverso dagli altri... Anche dopo l’attentato... non sono riuscito a capire chi ha premuto il bottone. E non sono sicuro neppure che mi interessi, la vendetta».

4.

Prima di rientrare in albergo, Davide sentì il bisogno di fare ciò che aveva rimandato da anni. Incontrare Ada Colaianni. Guardare in faccia l’altra sopravvissuta. Cercare un senso in quel che era successo. Capire se lei, almeno lei – che le cronache dipingevano donna forte e orgogliosa –, fosse riuscita a superare la tragedia.

Rigirò tra le mani il volantino che annunciava la conferenza stampa di Ada Colaianni nell’aula magna di una scuola superiore. Optò per muoversi a piedi. Nato in un comune toscano di diecimila abitanti, non si era mai abituato al traffico di Roma, nonostante vi avesse soggiornato per compiti istituzionali.

Trentanove gradi. Smog. Vento fetido. Ozono che brucia i polmoni. Si specchiò alla vetrina di un negozio cinese: sopra le borse e le cinture di marchi falsificati, erano riflesse spalle meno larghe di quelle di Candida, un collo imperlato dal sudore, il volto indifferente e occhiali tondi che gli davano l’aria da primo della classe.

Ricordava Ada Colaianni dritta come un fuso e con occhi inflessibili, quando aveva ricevuto nella sua casa palermitana il fratello, una settimana prima dell’esplosione.

«Perché ti hanno convocato a Roma?», gli aveva chiesto lei, con disappunto.

«Vogliono capire a che punto sono le mie indagini», aveva risposto Alberto Colaianni. Ci aveva fatto il callo a certe storture del sistema. Non poteva rivelare alla sorella il grumo opprimente che aveva nello stomaco, senza mettere a repentaglio la sua vita.

«Che sono questi segreti con me?».

«Nessun segreto. È la normale procedura».

«Di normale in questo paese non c’è niente. E tu sei l’unico giudice a non arretrare davanti ai condizionamenti politici».

La corrispondenza telepatica dei due e il senso di appartenenza a una lotta comune non erano sfuggiti a Davide, che aveva seguito la scena da un monitor. Il centro di sorveglianza gli era apparso come una colonia aliena. Si era chinato sullo schermo. Aveva ingrandito l’immagine dei volti, per tentare di leggere dietro i silenzi la verità. Poi per pudicizia aveva distolto lo sguardo dallo schermo che raffigurava un abbraccio inviolabile. Non era dato sapere al SISDE cosa albergava nel cuore di Alberto Colaianni, cosa nascondesse la massa dei suoi faldoni, dei verbali, degli appunti personali, né il magistrato riuscì a comunicare alla sorella il contenuto dei colloqui riservati tenuti al Viminale, perché al suo rientro in Sicilia il tritolo lo aveva fermato.

Davide non aveva mancato di collegare più tardi quel frammento di conversazione, sul cui significato si era interrogato, con l’intercettazione che aveva effettuato in un salotto della Palermo bene. Un mese dopo aveva imbottito di microspie, collegate via satellite, l’auto di un dottore e il suo studio medico e aveva ascoltato il luminare della medicina e un ex consigliere comunale di Agrigento parlare del putiferio che si era scatenato.

«Non è stata farina del sacco nostro».

«Che vuoi dire?».

«L’Anello ha dato un appoggio logistico. Almeno è quanto si sente dire».

Davide non aveva perso una sillaba del dialogo. Aveva nascosto l’apparecchiatura di sorveglianza in una cella al lato nord del chiostro di uno storico monastero e ascoltava dalle cuffie.

«Pensavo che l’Anello fosse solo una leggenda, una favola metropolitana».

«No. L’Anello esiste e so per certo che ha voluto chiudere i conti con Colaianni».

«Manca la sorella, però».

«Da Milano hanno detto di aspettare».

Cosa fosse l’Anello, questa struttura mitologica a cui persino due personaggi di primo piano accennavano con riverenza, Davide non l’aveva capito. O forse intuiva che la verità non sarebbe stata confortante.

Il liceo che ospitava la Colaianni aveva riaperto i battenti in occasione della conferenza, ma molti studenti erano già partiti per le vacanze o preparavano le valigie per le avventure estive. L’aula magna dell’istituto era fresca e spaziosa. Davide occupò uno dei tanti posti vuoti sotto il palco. Osservò la signora Colaianni prendere il microfono e togliersi il fermaglio dai capelli incanutiti, lasciandoli cadere ribelli sulle spalle. Una donna curata ma avanti negli anni, con occhi neri come lucida ossidiana. Si animava di una forza primordiale quando parlava del fratello.

«Sulla morte di Alberto sono state avviate inchieste dalla procura di Palermo, per capire come entrarono in gioco elementi deviati dello Stato in quella fase così delicata della vita democratica. Appare chiaro che l’attentato faceva parte di una strategia eversiva per far capitolare il Palazzo, per farlo scendere a patti. Io non so a quale risultanza porteranno le indagini. Quello che so, quello che conosco bene, è il fenomeno mafioso. Fin dal principio del loro agire, i mafiosi circuivano i feudatari con regalie e garanzie di protezione. Mi viene il sospetto che Cosa Nostra abbia lusingato i nuovi referenti, facendo loro il favore di eliminare una persona scomoda».

Davide si guardò intorno. Aveva un groppo alla gola. In mezzo alla sparuta folla c’erano un distratto giornalista del Manifesto e un fotografo inglese. Gli studenti sussurravano battute piccanti e mormoravano i nomi delle destinazioni balneari che presto avrebbero raggiunto.

Sul palco, Ada Colaianni irradiava una luce diafana, evanescente. Era la testimonianza dell’impegno e della ione civile. Il suo lavoro di ricostruzione dello scenario di due anni prima rappresentava una storia feroce e rabbrividente. Che poteva costarle la vita.

«La Cupola non esiste. È un’invenzione giornalistica. Io sono convinta che non

ci sia un capo dei capi, ma siano sempre esistite fazioni diverse di Cosa Nostra. Michele Greco, il capo della Commissione, è stato arrestato per volontà dei suoi nemici. Anche Totò Riina ha interrotto la sua latitanza grazie all’intervento di rappresentanti di Cosa Nostra. Oggi siamo in presenza di una rivoluzione nella storia delle mafie. Le cariche esplosive ai magazzini della Standa sono intimidazioni allo Stato, segnali sotterranei di ciò che sta avvenendo. Assistiamo alla nascita di nuovi equilibri. L’evento scismatico all’interno di Cosa Nostra ha portato alla ricerca di alleanze da ridefinire».

Davide attese che Ada Colaianni terminasse il suo intervento. Si domandava come faceva quella donna ad avere tanta forza dentro. Ada non aveva avuto una vita facile. Il padre non voleva che intraprendesse la carriera giudiziaria. Fu la prima donna siciliana a entrare in magistratura. Tutti avevano ammirato la sua dedizione al lavoro. Era stata la migliore confidente di Alberto. Dopo la sua morte, aveva lasciato la sezione penale di Caltanissetta e si era ritirata a Roma. Ora riusciva a dormire sonni tranquilli? Oppure come Davide si svegliava nel cuore della notte con l’impressione di soffocare? Era incredibile l’energia che metteva negli attacchi alle istituzioni. La sua ossessione di comprendere i fatti e di scuotere la stagnante politica la portava a fare campagne di informazione nelle scuole di mezza Italia.

Davide si fece incontro alla donna. Aveva riato il discorso tante volte. Voleva dirle quanto gli dispiaceva, manifestarle la propria vicinanza, mettersi a sua disposizione, ricomporre insieme i cocci di un ato lacunoso.

I loro occhi si incontrarono. Ada gli era vicina. Sempre più vicina. All’improvviso sentì una vertigine. Un vuoto. Qualcosa lo bloccò. Le lacrime gli sgorgarono bagnando il volto. Tacque. Non si mosse dalla sua posizione. Si mimetizzò tra gli studenti. La guardò mentre gli ava accanto. Ancora una volta spettatore. Forse era troppo presto per affrontarla. In compenso non aveva più l’emicrania. Le lacrime avevano avuto un effetto catartico. Non piangeva dalla morte del padre.

5.

Erano trascorsi tre giorni da quando la Russia di Oleg Salenko aveva inflitto un’umiliante lezione di calcio al Camerun. La sconfitta della squadra africana aveva consentito all’Italia di are il turno. I Mondiali elargivano poche emozioni. Il televisore della sala di aspetto trasmetteva Arabia Saudita-Svezia, quando Davide entrò nell’Hotel Royal.

Fisico atletico, un metro e ottanta di arroganza, Leo bussò alle spalle di Davide. Si era presentato senza preavviso. Davide si voltò meravigliato.

«Che ci fai qui?».

«Non sembri molto contento di vedermi».

«Non ti aspettavo. E non vedo l’ora di salire in camera per mettermi a letto».

«Che fanno? Ti riammettono oppure no?».

«Stanno valutando».

Leo era la sola persona, insieme a Michele, ad averlo aiutato a superare i

tentativi di autodistruzione, questo glielo concedeva. Ma non era disposto a tollerare la sua alterigia.

«Dove lo trovano un esperto di computer come te?».

Un sospiro. Nessun civile sapeva. La copertura reggeva.

«Decideranno a breve».

Un sorriso tirato. Non era dell’umore per una conversazione.

«Michele ha detto che ti sei rimesso... Ci prendiamo qualcosa da bere?».

«Magari un’altra volta».

Mi commuovono i tuoi salti di gioia nel vedermi».

«Volevo farmi una bella dormita e svegliarmi tra qualche ora».

«Quando ti ho chiamato, stamattina, ho sentito una voce femminile. C’era una donna nella stanza?».

«Sarà stata la donna delle pulizie», tagliò corto Davide.

«Non mi prendere in giro! Saliamo in camera e vediamo!».

«Ti dico che non c’è nessuno. Sono venuto da solo. Per il colloquio. E domattina torno a Cinquale».

Durante la loro quindicennale amicizia, Davide aveva imparato a convivere con la protervia del personaggio che Leo si era costruito addosso. Uscivano insieme dai tempi del ginnasio, quando lui era l’idolo della scuola e faceva strage di ragazzine e i suoi compleanni li festeggiava su un panfilo di quaranta metri ormeggiato a Viareggio.

«Io sarei solo contento se ci fosse una donna. Dopo due anni di astinenza, ti farebbe bene».

Davide si arrese. Optò per porre fine al tormento.

Scelsero una poltrona lontana dalla televisione e ordinarono. La cameriera posò i drink sul tavolo con una rapidità sorprendente. Leo le strizzò l’occhio.

«Grazie, bambola. Ci vediamo dopo».

La ragazza filò via, paonazza. Leo vuotò il suo bicchiere.

«Se non hai un’amante, te la trovo io. È la ricetta migliore per i casi disperati».

«Non è di questo che ho bisogno».

«Non ti spari droga nelle vene. È già un o avanti».

«Queste cose dovrebbero restare tra noi».

«Lo faccio per te. Per darti la carica. Hai costruito un bunker, non vedi più la luce del sole, hai tagliato i ponti col resto dell’umanità. Ma devi svegliarti».

Era indispettito dalla noncuranza con cui aveva citato i suoi drammi. Stile Leo: da caterpillar. Ostenterebbe tanta sicurezza se il padre non fosse un palazzinaro che ha fatto fortuna? Se non avesse avuto un autista personale fin dall’età di otto anni?

Gli spettatori arabi saltarono rabbiosi sul pavimento dell’albergo classificato monumento storico. Un cross pennellato da Brolin aveva scavalcato la difesa saudita e Dahlin svirgolato. La fine della favola araba. Un primo piano di Omam-Biyick che digrignava i denti restituiva la disperazione della squadra. C’era a chi era andata peggio, ricordava il cronista: il difensore del Colombia la sera prima era stato crivellato da una mitraglietta, uscendo da un ristorante di Medellin, sotto gli occhi della moglie, per aver segnato un autogol nella partita persa con gli Stati Uniti. Non avevano agito per nazionalismo. I narcotrafficanti avevano vendicato le perdite subite al Totonero.

«Perdere non piace a nessuno, a quanto pare».

Leo allentò i bottoni di madreperla alla camicia Battistoni, lasciando scoperto il petto fresco di sauna. Poi partì all’attacco dei rimasugli del bicchiere.

Quando gli arabi si furono calmati, Davide fissò gli occhi dell’amico offuscati dall’alcool e roteò la mano come a indicare la cornice fasulla dell’ambiente: «Ci pensi ancora a tagliare la corda? A mollare tutto questo?».

Leo abbandonò la consueta espressione sprezzante. «Tutti i giorni», rispose, il volto distorto da una piega tragica. Lo attraversò un soffio di inquietudine. Ci dava dentro nell’apparire insolente, ma Davide sapeva che non era affatto così. Era il suo modo di difendersi dalla vita.

Leo odiava i soldi di suo padre, ma non poteva farne a meno. Non gli aveva mai perdonato di essersi risposato tre volte, ma era attaccato a lui in modo morboso. Non prendeva posizione sul Pool di Mani Pulite, ma temeva che Antonio Di Pietro, prima o poi, avrebbe distrutto la carriera di Franco Abeti.

«Quando verrò a trovarvi, mostrerò a te e Michele il nuovo gioiellino. Il Freedom. Diciotto metri. Fresco di cantiere. Ci farò la traversata dell’Atlantico».

«Per andare dove?».

Gli occhi di Leo si animarono di una luce diversa. Era un sognatore. Aveva rifiutato il posto di consigliere di amministrazione della Toscana Calcestruzzi. Con l’acquisto di sei imbarcazioni si era aperto una società di Yacht Broker & Charter. «Ho scoperto un’isola meravigliosa, nell’arcipelago delle Madeira. La leggendaria Atlantide. Ho intenzione di trasferirmi lì insieme al babbo».

«Se Franco ricevesse un avviso di garanzia mentre si trova all’estero, diventerebbe una latitanza. Lo hai considerato?».

«Esattamente. Lì starà tranquillo. Finora non è entrato in nessuna indagine. Ma ti confesso che non ci sto dormendo. Qualche politico locale potrebbe tirarlo in ballo. Non voglio svegliarmi con la paura di scoprire che i carabinieri stanno portando via mio padre. Ho contattato un’agenzia immobiliare all’estero e mi sono comprato un rudere a picco sull’oceano. Ho pensato a tutto».

Quando parlava dei suoi progetti, sembrava accarezzare con lo sguardo i grandi spazi blu. Si sentiva un navigatore nato. Col suo giocattolo dotato di due motori da 1360 cavalli avrebbe abbandonato l’Italia di Tangentopoli una volta per sempre, avrebbe messo al sicuro il padre dalla Santa Inquisizione e avrebbe aperto una base estera per la sua società.

«Perché non vieni anche tu? Potrebbe essere una piacevole vacanza».

«Ci penserò sopra. Mi conosci. Non sono uno che improvvisa».

«Però non dire a nessuno quel che ti ho detto. Del mio viaggio. Ok?».

Davide trovò naturale che l’amico avesse dei segreti. Lui non si era mai fidato di nessuno. Neppure di Teresa, in fondo.

Quando chiamò un taxi per Leo, il suo sguardo fu calamitato da tre forestieri che si dirigevano alla reception.

Intuì che non erano venuti nella Città Eterna per una visita culturale. Notò la figura spigolosa del più anziano e i movimenti del calvo. Si soffermò infine sulla terza persona. Una ragazza dalla criniera nera e il braccio ingessato. Il portiere le chiese i documenti. La ragazza da copertina strizzò appena le pupille colore del mare e presentò il aporto di nazionalità americana.

6.

Lucy e i due uomini si accomodarono nella tripla deluxe del Royal in preda ad una composta agitazione. Il più anziano e ossuto, con occhi piccoli come spilli, era Marziano. Per la sicurezza gelida che emanava, era chiaro che fosse lui il capo. Cresciuto in una zona di palude, là dove le acque del Brenta ristagnano con l’alta marea, discendeva da contadini abituati a pronunciare poche parole. Si accomodò sul bordo del letto, teso.

Lucy con noncuranza sfilò il gesso dal braccio sudato e si tolse la parrucca, che aveva aderito ai capelli dorati. Si alleggerì del tailleur.

«Devo farmi una doccia – disse in un italiano perfetto, un’inflessione vagamente metallica – Ti dispiace?».

Marziano annuì. «Fai una cosa veloce».

Il tipo calvo si chiamava Flavi. Lasciò cadere uno sguardo interessato a quel ben di Dio che entrava nel bagno. Aveva inghiottito di nascosto due capsule di Ritalin, mentre i complici facevano buona guardia al loro piano. Il metilfenidato cominciava a scuoterlo con cariche elettriche. Il cervello gli bruciava. Si sentiva ciclopico. Non tollerava l’attesa. Si sedette accanto a Marziano sul letto.

«Di’ un po’ – gli diede una gomitata –, non mi hai mai detto come hai conosciuto l’americana?».

«In un buco di fogna a Verona. Lei era un bel po’ incasinata. Io l’ho tirata fuori dai guai. E siamo diventato soci».

Flavi annuì con un mugugno. La risposta non l’aveva soddisfatto.

«È vero che ha fatto anche la modella?».

«Un paio di erelle e il provino per una pubblicità. Poi è finita a ballare in un locale di strip-tease e a spogliarsi per vivere».

Flavi non provò neppure a immaginare l’americana di provincia, bocciata audizione dopo audizione, che perdeva le speranze di conquistare una convulsa Milano. Guardava la porta del bagno con una vaga idea di sfondarla.

«Ti fidi di lei?».

Marziano scrollò spalle da sfinge: «Come di una figlia».

Lucy era scivolata nella doccia, come una gattina ammaliante, pronta a levarsi di dosso l’odore del fallimento. Rimase nuda davanti allo specchio. Le occhiaie: lascito di notti inutili nella capitale della moda, dove aveva incontrato sempre una donna più bella di lei. I’ve Had The Time of My Life, recitava la colonna sonora nel suo film preferito. Il tatuaggio sulle spalle: la Chiave dell’Universo. Gli occhi: rimasti puri. Sorvolò sulle cicatrici che le deturpavano la schiena. All

right. Sospirò. Non ne poteva più di Marziano. Quell’uomo l’aveva resa forte, ma anche meschina. Aspettare l’occasione giusta per parlargli. Prendere in mano la sua esistenza. Dopo, s’era detta. Fargli un bel discorsetto... Sì. Ma quale? Non aveva futuro senza di lui. Non poteva rompere la linea di confine che separa la vittima dal carnefice, la colpa dai meriti. Una linea illusoria, creata per la sua rassicurazione: l’unica cosa palpabile che le dava conforto.

Flavi sentì Lucy fischiettare Radio ga-ga sotto l’asciugacapelli. Aveva capito che con l’americana non c’era storia. Era una gatta morta con problemi esistenziali.

Accese la televisione. La partita dell’Arabia Saudita era terminata, e lui ci aveva buttato un bel po’ di contante scommettendo sugli arabi. L’Argentina doveva cominciare a giocare. L’inazione lo logorava. Si diede da fare. Si diresse verso le valigie all’ingresso. Dalla prima tirò fuori volumi di elenchi telefonici e fogli sparsi di giornale. Li lanciò a terra. «Dov’è la nostra roba?».

«Nel trolley grigio», indicò calmo Marziano.

Flavi aprì la chiusura lampo del trolley. Si vedeva che era sotto effetto dell’anfetaminico. Si muoveva a scatti. Evitò una massa di quotidiani, appallottolati per fare volume. Su “la Repubblica” campeggiavano le foto degli attentati alle sedi Standa di sei città diverse. Il giornale avvolgeva una pistola semiautomatica e una mitraglietta MP5K smontata. «C’è tutto», mormorò.

Marziano lo fissò preoccupato. Aveva scoperto troppo tardi che era uno psicopatico. Sperava di saperlo gestire. «Usala solo se necessario».

Il sorriso di Flavi si contrasse in una smorfia gelida. Soppesò l’arma. Con quella

si sentiva il padrone del mondo. «Preoccupiamoci del resto».

«Per esempio?».

«Non vedo perché rivendere la merce al Cinese. Mica ci abbiamo firmato un contratto! Quella roba vale di più. Sai quanti ne troviamo che pagano meglio?».

«Il Cinese ha fatto la soffiata. Una percentuale gli spetta».

«Sì, ma noi ci siamo fatti il culo. Stiamo pedinando il pollo da giorni, gli siamo stati addosso come mastice, e ci prendiamo tutti i rischi se qualcosa va storto».

«Il Cinese è fidato. Questo mi basta. Di altri acquirenti non sono sicuro. Non ci ho mai lavorato e, per quel che mi riguarda, potrebbero anche fregarci».

Flavi lo guardò con l’aria seccata. Era stato un fiancheggiatore della mala veneta quando l’associazione criminale attorno a Maniero arrivava a contare più di quattrocento elementi e, se si voleva fare una rapina, bisognava chiedere il permesso ai vertici. A lui i capi non erano mai piaciuti. Ma sapeva quando era il caso di piegarsi alle regole.

Lucy tornò al cospetto degli uomini con l’accappatoio fregiato delle iniziali dell’albergo. La spugna cadeva morbida sul corpo bagnato, lasciando scoperta la gola avvolta da una catenina. Con o leggero raggiunse il suo protettore.

Marziano fissò Lucy con occhi predatori. Poi rivolse lo sguardo a Flavi. «Perché non metti via il cannone?», disse, infastidito.

Flavi non mancò di ammirare le forme della donna attraverso l’accappatoio. Un’espressione ebete gli si stampò sulla faccia.

«Vi dà fastidio se resto?», replicò con gli occhi allucinati. Sapeva che Marziano e Lucy dormivano insieme. Si chiese se ancora consumassero. Intonò l’inno ufficiale dei Mondiali con voce irritante.

«Domani tiferai per la tua nazionale?».

«Per me può anche uscire dal torneo, non cambia assolutamente nulla».

«Non sei patriottica. Nel tuo paese si stanno spellando le mani per Tony Meola. E tu sei qui a dirci che non te ne frega niente».

La trasmittente sul tavolo gracchiò. Professionale, Marziano parlò all’apparecchio: «Rosso, tutto bene?».

Il Rosso, un gigante dalla chioma rossiccia, era il quarto complice della banda. Se ne stava in strada, a rimirare al di là del vetro, in un ristorante, un uomo di colore che assaporava calamaro in salsa di cipolle e coriandolo.

L’uomo di colore fece dei gesti di gradimento al maestro del sushi. Il Rosso guardò stranito il menù. La pistola nella tasca dei pantaloni gli si era incollata alla gamba, tanto era sudato. Si allontanò dal ristorante di qualche o. Il pedinamento lo annoiava.

«Sta ancora a tavola, capo – disse il Rosso –. Non capisco come fa a mangiare quella merda!».

La trasmittente gracchiò di nuovo tra le mani di Marziano.

Flavi esplose in una risata sgangherata. «Capo! Ti ha chiamato capo!? Quello lì ha visto troppi film».

Marziano scoccò un’occhiataccia verso Flavi e disse al Rosso di avvisarlo quando il sorvegliato ava al caffè. Poi spense la trasmittente e giurò a se stesso che sarebbe stato l’ultimo colpo assieme a quegli imbecilli.

7.

Leo delirava. L’alcol gli aveva dato alla testa. Diceva di essere la reincarnazione di Magellano. Era pronto a perdersi in un oceano, per sfuggire al destino già scritto di titolare della Toscana Calcestruzzi.

Davide aveva faticato a metterlo dentro il taxi. Quando risalì in albergo, provò un senso di sollievo. La sua camera era immersa nell’oscurità. Cercò l’interruttore, senza trovarlo. Frugò nella penombra. L’alito di un respiro si posò sulle sue spalle. Un cuscino si librò nell’aria, volò a qualche centimetro dai suoi occhiali e atterrò su un vaso. La ceramica andò in pezzi.

Sara rise divertita e spinse Davide sul letto matrimoniale. A cavalcioni sopra di lui, iniziò a spogliarlo con gesti esperti. Abbronzata, capelli corti, bocca provocante. Davide osservò la sua amante e provò una sensazione di fastidio. Giusto il corpo gli piaceva di lei: temprato da esercizi in palestra e rassodato dall’allenamento. Le entrò dentro. Sembrava un doppione a penetrarla. Si rese conto di essere distante dalla ragazza quanto dalle decine di corpi spiati durante la sua carriera.

Ripensò alla prima volta con Teresa. L’emozione della prima uscita. L’incontro in un bar sulla spiaggia di Palermo. La magia degli sguardi. La notte trascorsa confessando le loro speranze.

Sara urlò, destandolo dai ricordi. Lo cavalcò pronunciando parole oscene. Davide si domandò se fingesse. L’eccitazione guidava i suoi movimenti, ma il sesso era qualcosa di meccanico. Fare l’amore era un servizio reso. Sara strinse i

glutei. Adagiò meglio il bacino. Ebbe un gemito. L’incavo delle cosce sussultò. Davide si liberò della presa e godette in silenzio.

Si sentiva in colpa per quel piacere. Un’impressione di sporcizia lo avvolse. Osservò Sara. Il fatto che fosse un agente di polizia era l’unica similitudine con Teresa. D’improvviso, provò pena per se stesso. Lei non era neppure l’ombra di Teresa. Era desiderabile unicamente a letto.

Sara accese una sigaretta. La fiamma dell’accendino le illuminò il volto. Diede una boccata, recuperò il telecomando e accese la tv. «Non ho capito che impegno avevi oggi. Io comunque ho approfittato per fare un po’ di shopping a via Condotti. La versione ufficiale, per Michele, è che ero in compagnia di una mia amica, quella che ha il banco di frutta».

Davide digrignò i denti. Non sopportava la sua abitudine di tenere sempre la tv accesa. «Scusa, puoi abbassare il volume?».

Sullo schermo le immagini di magazzini Standa distrutti, strade cordonate, vigili del fuoco in azione. Le fiamme avevano riempito di caligine sei città italiane. Le interviste ai testimoni raccontavano dei boati con cui il primo luglio l’Italia si era svegliata.

Tutto era estraneo a Davide. Tutto incommensurabilmente più piccolo rispetto alle bombe del ’92. Fuochi artificiali in confronto.

Il tg parlava della catena Standa nel mirino di presunti terroristi. Solidarietà verso il proprietario della Fininvest. La sparata di un rappresentante dell’opposizione: «Qualcuno non è contento dell’Uomo Nuovo. Si può supporre

che gli attentati siano una cosa interna. Sembra strano che si tratti di terrorismo con intenzioni politiche ed obiettivi stragisti, visto che gli ordigni esplosi non hanno causato nessuna vittima».

I pensieri di Davide correvano in tante direzioni diverse fino a scontrarsi. Non era turbato dagli incendi, quanto dal significato di quelle esplosioni. Spense il televisore e pose fine alle immagini di distruzione. Non gli importava nulla se la Prima Repubblica veniva sepolta da una congiura. Era la sua vita che andava a rotoli. Un’amante occasionale non avrebbe riempito il vuoto, buio e privo di sensazioni, lasciato da Teresa.

Sara disegnava anelli di fumo nell’aria. Contemplava Davide. C’era qualcosa in lui che non sarebbe mai riuscita ad afferrare. Qualcosa di oscuro che l’attirava. Niente a che vedere con l’universo grigio di Michele, il marito. Si era infatuata di Davide da quando s’era trasferito a qualche chilometro da casa sua, a Cinquale circolavano strane voci e il marito gli parlava di questo suo amico rinverdendo gli aneddoti del liceo. Davide viveva distante da tutto, disconnesso dalla gente, circondato da un’aura di mistero. Sara coltivava l’illusione di entrare nel suo mondo e cambiarlo. Aveva verso di lui quella condiscendenza che si riserva alle persone non comuni, di cui si è portati a giustificare anche l’egoismo, se si è ripagati con la loro eccezionalità.

Finì la seconda sigaretta e spense il mozzicone. Si sistemò accanto a Davide. Voleva fargli un po’ di coccole, anche se non c’era tagliata.

«Andiamo a cena fuori?», domandò mentre giocava con i peli del suo petto.

«Ordina al ristorante di sotto. Mangiamo in camera».

Davide era dispiaciuto del tono gelido che gli era uscito. Si girò dall’altra parte, per non mostrare l’espressione che gli aveva storto la bocca. Stava pensando a Michele. «Abbiamo sbagliato, e lo sai anche tu», disse.

8.

Alle otto del mattino, una lama di luce tagliò la camera tre piani sopra. Lucy sistemò il braccio ingessato appeso al collo.

«Sarà un lavoretto facile», disse Marziano. «Buona fortuna».

Lucy ricevette una pacca da Flavi, con la mano sinistra infilò la Browning nella borsetta e uscì senza dire nulla. La camera era tensione allo stato puro. I due uomini cercavano di rilassarsi, ma l’adrenalina si era impadronita di loro. Guardarono l’orologio.

«Andrà tutto bene», ripeté Flavi, più per confortare se stesso che il complice.

Marziano impugnò la calibro nove, comprata al mercato nero. Tirò avanti e indietro il carrello. Il primo proiettile si era portato in canna.

Flavi era concentrato sull’MP5K. Selezionò la modalità colpo singolo. Doveva svolgere la funzione di copertura, entrare in scena se le cose andavano storte. Aveva conosciuto Marziano in carcere. Aspettava la decorrenza dei termini di custodia per una rapina. Lui gli propose di mettersi in società. Fuori da San Vittore. Avrebbero rapinato i trafficanti di droga, coglioni che non potevano rivolgersi agli sbirri. Si sarebbero specializzati nel ripulire gli spacciatori. Flavi accettò: il nuovo socio era un pezzo da novanta della mala del Brenta, famoso già ai tempi in cui lui rubava stereo alle macchine. E poi gli sembrava un tipo a

posto, anche se a volte si dava troppe arie.

In quell’istante la trasmittente emise un fischio. La voce del Rosso avvertì i due complici di tenersi pronti. «Il pollo è su una Jaguar nera, capo. Stiamo a piazza di Spagna – si lamentò –. Probabilmente sta tornando al Royal».

Marziano avvisò Lucy. «Incrocerai il pollo nella hall, massimo cinque minuti».

Secondo il suo aporto, il pollo si chiamava Frederick Mfekete. Barba curata su guance ambrate, completo Armani di taglio classico. Ufficialmente, era l’amministratore delegato della Voc Service, società di import export leader. Ma un uccellino si era posato all’orecchio di Marziano e gli aveva cinguettato che quell’uomo trasportava con sé almeno un chilo di stupefacenti.

Nella hall Lucy lo riconobbe subito. Sperò che avesse un debole per le donne dagli occhi azzurri. Accelerò il o. Mfekete premette il tasto dell’ascensore. Lei lo raggiunse e si aprì in un sorriso di cortesia. Non esagerato. Il messaggio era: “sono una ragazza libera, emancipata, in cerca di avventure”. Mfekete rispose al sorriso. Quando l’ascensore aprì le porte, lui cedette il o alla ragazza. Le chiese a che piano andava e premette il tasto. Stava per domandare cosa si fosse fatta al braccio, ma l’ascensore era già arrivato.

Eccola in pista. Tirare fuori dalla borsa le chiavi della camera. Con la mano sinistra. Farle cadere sul tappeto del corridoio. Rifilare a Mfekete un’espressione sofferente. Lui sostava davanti all’ascensore, perplesso se seguire la fortuna. Non poteva rifiutare l’occasione.

«Mi scusi. Sarebbe per caso così gentile?».

A quel punto il pollo si tuffò sulla graticola. «Prego, mi dica».

«Potrebbe aprire la mia stanza. Da quando ho questo – Lucy sollevò il gesso – devo ancora abituarmi».

Mfekete si fece dare la chiave e aprì la stanza. Poi spalancò la porta e con discrezione rimase sul corridoio. Si voltò verso Lucy, che non smetteva di sorridere invitante. «Che cosa le è successo al braccio?».

Qualcuno lo afferrò e nello spazio di pochi secondi lo trascinò all’interno. Lucy seguì Mfekete e richiuse la porta alle sue spalle. Welcome to Rome. Il pollo trasalì quando sentì una pressione sulla guancia. Era la pistola di Marziano. Il sudafricano fissò la canna, non mutò espressione. Lucy lo frugava.

«È pulito», sibilò.

Marziano mise la canna nella bocca di Mfekete. «Non provare a dirmi che non hai l’eroina, perché sappiamo che non è vero. Hai due possibilità: o ci dici dove l’hai nascosta, oppure questo è il tuo funerale».

«Quale eroina?».

Marziano gli ruppe un dente con la canna della pistola. Il secondo colpo, col calcio dell’arma, gli aprì la fronte in due. Usava la pistola come un martello.

Mfekete sentì la testa esplodergli. Il sangue gocciolava sugli occhi. Cercava di riordinare le idee. Doveva scegliere. Sapeva benissimo che poteva essere ucciso dalla mafia. Don Tonio Bonomi non scherzava. Guardò per un istante la canna della pistola e capì che anche quello faceva sul serio. Lo avrebbe steso, senza pensarci due volte. Disse che una sacca impermeabile era nascosta nella sua auto. Aveva una Jaguar nel garage dell’albergo. Flavi propose di andare a controllare se diceva il vero. Marziano acconsentì, e fece un gesto col capo a Lucy, perché andasse anche lei.

Lucy e Flavi stavano scendendo le scale, diretti al garage. Poi tutto precipitò, e in pochi istanti successe il finimondo. Sentirono dei colpi da sopra. Preoccupati, risalirono i gradini e videro un energumeno dalle guance rosa e i capelli corti annaffiare di piombo la loro camera. Schegge di legno e geyser di fuoco volavano da tutte le parti. Marziano doveva essersi trincerato nella stanza con Mfekete, e rispondeva al fuoco dall’interno.

Dall’ascensore uscì un energumeno, più giovane del primo. Estrasse la pistola e cominciò a sparare contro la stanza dove stava Marziano. Dovevano essere i tramiti del corriere: erano lì per ritirare la droga. Erano venuti nel momento sbagliato. L’abbigliamento e l’aspetto tradivano un’origine rurale. Sembrava volessero buttare già la porta a colpi di proiettili.

Flavi guardò Lucy. Possedevano il vantaggio della sorpresa. Nessuno li aveva considerati. Flavi inquadrò dal basso il giovane. Mirò con calma. L’esplosione rimbombò. Carne aperta, tessuti squarciati, sangue. Il siciliano col collo di Tyson quasi meravigliato. Per un riflesso incondizionato, schiacciò il dito sul grilletto, prima di afflosciarsi su se stesso.

Flavi sentì la spalla bruciare. Cadde a terra anche lui.

L’uomo col fucile guardò il ragazzo. Il pavimento dipinto del suo sangue. Un affresco sulla parete. Imprecò. Caricò l’arma e aprì il fuoco verso il piano inferiore. Non vedeva gli aggressori. Pieno di rabbia finì i colpi. Gli spari si mischiarono alle grida di una cameriera che portava un carrello. I piatti si disintegrarono. Lucy non aveva ancora sparato. Tirò fuori l’arma. La puntò contro l’uomo col fucile. La Browning tremava nelle sue mani. Premette il grilletto. La camera di cartuccia sputò il proiettile, che terminò ai suoi piedi la breve corsa. Continuò a premere il grilletto. Frenetica. I colpi uscivano senza alcun effetto. Ridicolo. Tirò indietro l’otturatore. L’arma non sparava.

Flavi si rialzò, con la spalla sanguinante, impugnò la mitraglietta con una sola mano, e sparò. Fece crollare pezzi di muro e calcinaccio. I colpi, nonostante la potenza di fuoco, finivano troppo lontani dal bersaglio.

L’uomo col fucile occupava una posizione di vantaggio: li dominava dall’alto. Fuori dalla traiettoria di tiro. Minacciava di restare lì per un pezzo, e aveva le munizioni per farlo. Ricaricò. Si sforzò di ignorare il cadavere. Tirò la prima raffica contro la porta della camera. Un discreto disegno di fori. Grida di panico si levarono alte. Alcuni clienti dell’albergo scapparono, presi dal terrore.

Lucy si inginocchiò. Non aveva una visuale perfetta di quel che stava accadendo. Riarmò la pistola. La puntò verso l’uomo. L’inutile Browning scaricò i proiettili a terra. Pesava come un macigno.

Il tiratore aveva ripreso a impiombare le scale. L’intonaco cadde dalle mura sopra la sua testa. Una consolle si aprì in due. Il siciliano aggiustava la mira. Aveva ripreso la sua espressione standard da killer.

Flavi inveì contro la malasorte. L’avevano colpito. Voleva andarsene, e alla svelta. Bestemmiò. Disse a Lucy di proseguire verso il garage, di andare a

prendere la droga. Se restavano lì, erano spacciati.

«E Marziano?», squittì Lucy. Non percepiva i contorni delle cose, tra il fumo degli spari e l’odore di cordite. Tutto era confusione. L’istinto di sopravvivenza lottava contro il codice morale. Ma in quel momento non capiva nulla.

Flavi urlò di battere in ritirata, mentre da sopra le scale il siciliano, spalle all’angolo, caricava il fucile e ricominciava la musica. Sparava, santiava, sparava e santiava nuovamente.

9.

Più o meno alla stessa ora, il parcheggio dell’Hotel Royal era un mondo placido e disabitato, fatto di asfalto e geometrie precise. Davide percorse a piedi le viscere sotterranee tra una lunga fila di vetture di lusso. Salì a bordo della sua Bmw con quel senso di mollezza che sopraggiunge alla fine di un impegno gravoso. In fondo al vasto ambiente, era parcheggiata una Jaguar nera dai vetri oscurati. Un muro spesso impediva di sentire quello che accadeva fuori. Tutto era silenzio.

Prima di lasciare a Sara un laconico bigliettino, si era svegliato col solito incubo. Inferno, fuoco e fiamme: il rogo che si era portato via Teresa. Gli balenava l’immagine davanti agli occhi. La sua promessa sposa: i capelli strinati e la pelle incandescente per la combustione. La Croma trasformata in un rogo. Le braccia insanguinate che volavano nella sua direzione. Una scena da Apocalisse. Intorno, solo odore di ferraglia e pelle bruciata.

Si sistemò sul sedile avvolgente dell’auto, cercando di respingere l’assalto della memoria. Prima di fare ritorno a casa, si concesse una pausa. Regolò l’aria condizionata a un livello medio e accese lo stereo. Come ogni introverso, dedicava parte delle giornate alla riflessione. Non faceva parola dei suoi pensieri con anima viva. Deformazione professionale. Per anni aveva spiato, raccolto fotogrammi, scattato foto in silenzio. Per anni aveva rifiutato una compagna fissa. Era stato solo con se stesso. Lontano dalla gente. Ordinato e metodico. Non aveva confidato un segreto. Non aveva espresso un’opinione. Non aveva posseduto una vita personale. Lavoro. Occhi che stavano sospesi, dietro macchine di registrazione: guardavano e basta.

Il condizionatore all’interno della vettura cominciò a fare effetto. Aumentò il

volume dello stereo. Il conduttore radiofonico presentò l’autore del brano. Un suo conterraneo. “Andrea Bocelli. Primo tra le Nuove Proposte di Sanremo.”

Se Davide avesse potuto riprogrammarsi come una macchina, avrebbe eliminato i sentimenti. Avrebbe accantonato la tragedia di Palermo come un brutto sogno che, una volta svegli, si tende a scordare ricacciandolo nell’irrealtà. Teresa era stata una parentesi. Che si era richiusa.

La canzone era zuccherosa. Lievi accordi blues, un’apertura operistica, la voce del tenore. Non so cosa sia la fedeltà / la ragione del mio canto che resistere non può / ad un così dolce pianto.

Tornò con la mente alla cerimonia funebre. Un’omelia straziante. Palermo che piangeva i suoi caduti. I lenzuoli con la scritta “Dovete ucciderci tutti” stesi alle finestre. Il corpo di Teresa irriconoscibile. La cerimonia in forma riservata. Niente funerali di Stato. I politici spinti fuori dalla chiesa. L’esplosione di rabbia. Gli agenti delle scorte avevano sputato sulle autorità. Le bare portate sull’altare. I genitori di Teresa lo fissavano con disprezzo.

«Sarai contento adesso. Era quello che volevi», le aveva gridato la madre. Stesso carattere della figlia: testarda e orgogliosa. E sensibile, troppo per questo mondo. «È colpa tua se è morta!», aveva aggiunto tra le lacrime.

Lui avrebbe voluto fermarsi e dirle molte cose, ma tutte gli erano sembrate ridicole in quell’occasione.

Le strofe conciliavano la nostalgia. Bocelli punteggiava la romanza d’opera. Melassa allo stato puro. Se dentro l’anima / tu fossi musica / se il sole fosse

dentro te / se fossi veramente / dentro l’anima mia.

Un ricordo si affacciò alla mente, richiamato da una strana associazione di immagini: la mattina in cui il padre era morto per un incidente stradale. Una banalità, dopo una vita vissuta al massimo. Il padre! Che carriera. Addetto navale a Belgrado, agente infiltrato a Roma negli anni di piombo, ufficiale dell’Intelligence a Napoli, infine a Palermo al fianco di Boris Giuliano.

Davide si era sempre chiesto se sarebbe stato alla sua altezza.

Autorità e giustizia: i miti della giovinezza. Versilia: un bel posto per crescere. Un funzionario dell’Intelligence come patrimonio genetico. Adorava il padre sceriffo. Era attratto dall’Ordine. Patriottismo e fedeltà al Patto Atlantico. Aveva raschiato via ogni traccia di giovinezza. A ingegneria andava forte. Rispettava i regolamenti. Odiava i comunisti. Era un conservatore. Aveva fatto domanda al SISDE. Tre giorni prima che il padre uscisse di strada, era entrato nei Servizi. Analista, bonificatore, addetto alla vigilanza. Specializzato nelle intercettazioni. Il SISDE come seconda casa. Autorità e giustizia. Aveva ereditato la misoginia del padre, non il suo coraggio. Non datemi rogne. Non datemi una pistola. Loro gli avevano dato il kit del guardone. Gli incarichi eludevano l’obbligo del pensare. Missioni su missioni. Ovunque. Tutti i luoghi diventavano uguali. La velocità rendeva impossibile fermarsi. E ora che poteva restare immobile, era arrivato il tempo dei bilanci. Prevedeva come sarebbe andata. Rizzo avrebbe finito per reintegrarlo. Per pietà. Per misericordia. Era il migliore amico del padre. Alla sua morte lo aveva adottato. Lo aveva tenuto a battesimo. Gli aveva insegnato i trucchi del mestiere. E tra qualche giorno lo avrebbe accolto a braccia aperte. Riprendere il lavoro gli sarebbe stato di sollievo? O era solo una chimera? Individuare i responsabili della strage sarebbe stato possibile? La vendetta era una buona ragione per vivere?

Provò un brivido, nonostante la temperatura dell’abitacolo misurasse venti gradi. Girò le chiavi e mise in moto, mentre venti metri più avanti due figure accaldate

e nervose trafficavano sotto una Jaguar. Tempo qualche ora sarebbe entrato nella cittadina sonnacchiosa che profumava di salsedine. Avrebbe messo piede nella sua roccaforte.

Capolinea. Casa dolce casa. Il ritorno alla solitudine...

La canzone era finita. Il dee-jay snocciolava riferimenti biografici alla nuova promessa italiana. “Sposato. Di Lajatico. Non vedente.”

Il motore ronzava docile in folle.

Davide posò la mano sul pomello del cambio, pronto a innestare la prima. Dallo specchietto non vide avanzare un uomo e una donna.

Lucy trasportava la borsa impermeabile recuperata sotto la Jaguar. Mfekete era stato di parola. La borsa era pesante. Dentro c’era più di quanto pensavano. Chili di eroina da curvarle le spalle, e una piacevole sorpresa, una manciata di diamanti contenuti in un sacchetto, assieme a un insignificante floppy disk. Non si erano fatti troppe domande. Meglio così, no? Non c’era stato il tempo per gioire. Avevano preso tutto alla svelta: droga, pietre e dischetto.

Flavi digrignò i denti. Il Rosso se l’era data a gambe. Marziano lo dava per spacciato. Aprì la portiera della Bmw al lato guida e diede un’occhiata dentro. Con una mano si teneva la spalla, da cui grondava sangue. Con l’altra reggeva la MP5K, che puntò verso il solitario ascoltatore radiofonico.

«Adesso fai come dico io!».

Davide fissò senza rispondere il cerchio scuro della mitraglietta. Nella stessa frazione di secondo, Lucy si asciugò le lacrime e bussò al vetro dello sportello.

Davide girò la testa, e realizzò che la ragazza con la pistola era già seduta al suo fianco. L’altro individuo scivolò sul sedile posteriore e prese la refurtiva come un bambino il suo balocco preferito.

«Ce l’hai la lingua?».

«Come?».

«Muoviti! Parti!» ordinò Flavi. Non aveva tempo da perdere.

Davide obbedì. La vacuità dipinta sul suo viso era la rappresentazione perfetta dello stupore.

4–7 luglio 1994 Versilia, Città del Capo, Firenze

Questo è un ascesso che nasce da troppa pace e abbondanza, si spacca internamente, e fuori non si vede perché il malato muore.

William Shakespeare

10.

Rannicchiato sul sedile posteriore, Flavi stava perdendo sangue. Si era arrotolato la camicia per tamponare la ferita, ma manteneva la presa salda sulla mitragliatrice. «Vivi da solo?», chiese.

Davide annuì. Sudava freddo. L’ultima cosa che voleva era condividere il suo appartamento con un rapinatore armato di MP5K. Le sirene gli martellavano le orecchie e in senso opposto correvano decine di volanti.

«Non abbiamo un posto dove andare. La Versilia ti sta bene? La casa di questo tizio, intendo?», sussurrò Flavi all’orecchio di Lucy, che sedeva sul sedile davanti. Lo sguardo della donna era assente. Lucy fece solo un piccolo movimento in basso con la testa.

Davide respirava a fatica. Uscì dalla città immersa in una coltre umida e imboccò l’Aurelia. Guidò per ore senza parlare. Fissava come un’ebete l’asfalto della Roma-Firenze. I nervi tesi fino allo spasimo. Gli occhi incollati sull’autostrada. Rughe aperte come crepacci.

Flavi aumentò la pressione della mitragliatrice sulle sue spalle e urlò: «Non ci sono posti di blocco. Vai avanti così. La strada la conosci».

L’aria all’interno della vettura si era colorata di violenza. Intorno, la monotonia di un paesaggio industriale che si scioglieva per il caldo. Dopo un autogrill e

un’area di servizio, comparvero i cartelli stradali “Pistoia” e “Capannori”. Lungo la strada sfilavano i manifesti pubblicitari di case in vendita nei nuovi quartieri costruiti dalla Toscana Calcestruzzi.

Davide fermò la Bmw al casello. Flavi gli ò qualche pezzo da mille. «Non fare cazzate», abbaiò. Il rumore del colpo in canna si confuse coi battiti del suo cuore. Davide pagò il casellante. Un brivido lungo la schiena. Il freddo della MP5K dietro la nuca. La bocca gli era rimasta senza saliva.

Quando ripartì verso la costa, Davide divorò la strada. Le mani si erano appiccicate al volante. Non avrebbe fatto mosse avventate. Avrebbe assecondato i propri rapitori. Si ricordò di aver visto il giorno prima Occhi Azzurri entrare al Royal. La ricollegò alle facce patibolari dei suoi accompagnatori. Dallo specchietto, sbirciò lo Psicopatico. Era quello il più pericoloso. «Se mi lasciate andare non dirò niente. Potete fidarvi di me.», disse con una voce alterata, un quarto di ottavi sopra.

«Non se ne parla. Tu ora ci porti nella tua casetta. Datti una mossa, ma non superare i limiti!». Flavi era impaziente. Il proiettile gli aveva disegnato un ovale perfetto nella carne, da cui sgorgava sangue. La camicia ne era inzuppata.

Davide si immise sulla litoranea. Traffico rallentato. Caffè, boutique, pedoni in costume. La Dolce Vita stile balneare.

Lucy vedeva scorrere uno stabilimento dopo l’altro. Sembrava che la presenza di Davide non la riguardasse e che niente al mondo le importasse. Quando Forte dei Marmi si profilò all’orizzonte, tornò in se stessa. Uscì dalla trance. Prese a fissare Flavi. Lo guardava con rabbia. «Non dovevamo lasciarli lì.», gli disse rompendo il silenzio.

Flavi reagì come un cane idrofobo. «Senti, signorina, è anche colpa tua se le cose sono andate così».

«Che vorresti dire?».

«Marziano non ti ha insegnato a sparare?».

«Io...».

«Se tu avessi steso quel mafioso, non avrei un buco sulla spalla».

Lucy diede un’occhiata alla macchia di sangue. Brutta ferita, pensò. Poi distolse lo sguardo. Tanto valeva che quello squilibrato fosse crepato al posto di Marziano. A lei mancava qualcosa. Una guida, le sue vecchie sicurezze. Non pensava che le avrebbe rimpiante. Aveva sempre creduto che sarebbe stata una liberazione sganciarsi da Marziano. Ora però avvertiva una sensazione strana, come quando si sta su un aereo sopra le nuvole e dal finestrino si vede la terra conosciuta farsi piccola. Le vertigini la stordivano ed era incapace di parlare.

«Siamo arrivati?», s’informò Flavi. Osservò Cinquale. Un migliaio di anime. Il lungomare. Un modesto porticciolo. Frotte di vacanzieri nell’alta stagione. Pochi mezzi per le forze dell’ordine. Nessuno si sarebbe accorto di loro.

La villa di Davide era formata da due piani in pietra laterizia. Sorgeva isolata

alla fine di una strada privata. Si affacciava direttamente sulla spiaggia. Un posto da eremita ipertecnologico. Era dotata di impianti di sorveglianza, allarmi, sensori anti-incendio. E poi Davide era scapolo. Senza legami. Quanto di meglio potesse capitargli.

«Perché ti sei rintanato quaggiù?», gli chiese.

«Non sono una persona socievole».

«Bravo. Anch’io non amo avere gente intorno. E poi il mare fa bene ai polmoni».

La prima preoccupazione di Flavi fu di portare dentro la refurtiva. A fatica, in tre, trasportarono la sacca. La seconda preoccupazione fu di alleviare la sofferenza. Ingurgitò gli antidolorifici trovati nell’armadietto del bagno, pulì da solo la ferita e la disinfettò con acqua ossigenata. Poi rivolse la sua attenzione a Davide. Ignorava quanto tempo sarebbe rimasto in quella casa, ma doveva sapere se c’erano insidie o sorprese dietro l’angolo.

Si guardò in giro. Duecento metri quadrati. Pareti bianche senza quadri, senza foto, senza poster. Un ordine formale eccessivo. Malato. Una pulizia meticolosa, maniacale. «Che lavoro fai?», gli domandò.

«Ho una mia ditta. Sono un consulente di elettronica.», mentì Davide.

Flavi si fermò davanti a una porta metallica. «Ti offendi se do un’occhiata?».

Davide aveva la testa pesante. Per quanto irrazionale, la sua più grande paura era che violassero il suo laboratorio. Mentre consegnava le chiavi, trasalì come se un segreto della sua anima venisse banalmente violato, come se fosse stato infranto un antico rituale della sua famiglia.

Flavi dischiuse la porta metallica e vide nella penombra un tavolino occupato da un computer. Le mensole piene di dispositivi elettronici. Microspie, microfoni direzionali, schede software e telecamere. L’officina della perfetta spia. Si fece largo tra ragnatele e polveri atmosferiche. «Questa roba cos’è?».

«Apparecchiature di videosorveglianza.», puntualizzò Davide.

«Le hai costruite tu?».

Davide annuì. Restava sulla soglia, tradendo un certo nervosismo. «Mi occupo della sicurezza di alcune grandi aziende».

Flavi non badò alla fotografia che ritraeva Teresa davanti al duomo di Monreale. ò un dito sul tavolo e gli restò appiccicato uno strato di polvere. «Un museo, più che un laboratorio».

«Mi sono concesso una pausa dal lavoro».

«Per me racconti un sacco di balle. – scoccò un sorrisetto sarcastico. –

Comunque non me ne frega niente».

Flavi richiuse la porta e Davide tirò un sospiro di sollievo.

«Do un’occhiata al resto della tana. Seguimi.».

Accese la radio e ò in rassegna la casa. La radiocronaca del Mondiale faceva da colonna sonora. Gli era tornato il buon umore. Ascoltava distrattamente i commenti sulle partite della Coppa del Mondo. Una volta giunto in salone, notò alcune scatole impilate come se ci fosse stato un trasloco. Lo sguardo gli cadde sul led lampeggiante della segreteria. Premette il tasto play. La voce di Sara: Volevo solo sapere se eri arrivato... Forse siamo partiti col piede sbagliato, per me possiamo andare avanti. Michele non lo saprà mai. Ho letto il tuo bigliettino, non sono d’accordo... Qui in albergo c’è stato un po’ di trambusto, non ho capito cos’è successo. Comunque mi manchi. Stasera tornerò col treno. Ti saluto.

Aveva ascoltato con l’interesse di un maniaco. Si avvicinò minaccioso a Davide. Gli puntò la pistola alla gola.

«Chi era?». Mosse la canna sulla carotide. «Chi cazzo era?».

«La donna che stava con me all’Hotel Royal».

«Aspetti visite… da lei?».

«Non nei prossimi giorni».

Flavi brandiva il cannone. Potere di vita e morte: godeva a esercitarlo. Superò Davide e tranciò di netto i fili telefonici. «Solo una precauzione».

Rise, divertito dallo spavento che gli aveva fatto prendere. Poi costrinse Davide a seguirlo in cucina e si fece aiutare a mettere la sacca sopra il tavolo.

Il contenuto erano i diamanti, la droga e il floppy. Tolse la stagnola all’eroina e la pesò: trenta chili. Si concentrò sui diamanti. Una stramaledetta fortuna. Almeno un carato per pietra, tutte tagliate da professionisti, con diametri differenti. Ammirò la trasparenza del cristallo e poi strofinò la droga sul dorso della mano annusando l’acido acetico. Chiuse gli occhi ebbro di felicità. Si sentiva forte. Scambiò un’occhiata silenziosa con Lucy.

Un ultimo aggiornamento sui risultati calcistici. La Romania aveva battuto l’Argentina, e la Germania di Völler si era imposta sul Belgio. Lui aveva perso le scommesse. Poco male. Ormai aveva i soldi per comprarsi una squadra personale. Afferrò il dischetto e, dopo averlo rigirato tra le dita, lo tirò sul tavolo. «Hai detto che sei pratico di informatica. Vediamo che c’è qui dentro».

Davide accese un computer portatile, mentre sentiva due occhi puntati su di lui. Inserì il dischetto nel vano riservato al floppy disk, ma non risultava leggibile. «Il file è protetto», spiegò.

«E non si può superare questa protezione?».

«Bisognerebbe avere la . Così è impossibile accedere».

Lucy osservava distante. Si sgranchì le braccia. La maglia di cotone si era attaccata alla pelle lasciando intravedere le sue forme. Cercò di liberare la testa dai pensieri cattivi. Ritornò alla realtà. «Forse dentro c’è qualcosa che ha a che fare con quel Mfekete...».

Flavi rifletté. Sorrise, scoprendo un incisivo scheggiato. «Lasciamo stare. Abbiamo la droga. Abbiamo i diamanti. Accontentiamoci».

Mise il dischetto insieme al resto. Porse alla ragazza delle manette di acciaio temperato. Avrebbe dovuto utilizzarle per fermare il nego. Se qualcuno nell’albergo ci aveva rimesso la pelle, se l’era cercata. Squadrò Davide. Non gli piaceva. «Portalo in salone e ammanettalo. Fai in modo che non possa strillare».

Lucy eseguì con riluttanza il compito. Posò la semiautomatica sul comodino e strinse le manette ai polsi di Davide. Ne fece scattare la chiusura. I suoi occhi manifestavano un lieve imbarazzo. «All’inizio ti farà male, ma ti ci abituerai».

Per imbavagliarlo dovette avvicinarsi a lui. Tra i corpi ci fu un leggero contatto. Davide avvertì un fremito, lungo le costole. Percepì il respiro affannato della donna. Sniffò il profumo dei suoi capelli, misto al sudore. Non poté fare a meno di notare quanto era sensuale. Un pensiero assurdo, in quel contesto. Lei gli arrotolò il fazzoletto attorno alla bocca.

«Quanto ci vuole?», chiese Flavi.

Lucy si ritrasse. Aveva finito l’opera. Condusse Davide nel salone, gli legò i piedi con una corda robusta e chiuse a chiave la porta. Poi raggiunse il complice in cucina.

Davide sentiva la bocca incollata alla stoffa del fazzoletto e i polsi sigillati da un filo tagliente. Legato come un salame, non poteva muoversi. Un muro lo separava dai propri rapitori. L’odore dell’eroina galleggiava ancora nell’aria. Era dentro le sue narici. Un tempo avrebbe ammazzato per procurarsela. Adesso era completamente guarito. Ma la fatica per disintossicarsi rischiava di dimostrarsi inutile. Aveva visto in faccia i suoi aguzzini e nessun criminale lascia vivo un testimone. Lui lo sapeva bene.

11.

Fuochi incrociati per la catena di supermercati del gruppo Fininvest. Esplosi ordigni artigianali tra gli scaffali de “La casa degli italiani”. I Vigili del Fuoco spengono le fiamme. Alle 16.20 una telefonata a Radio Popolare: “Ascolta Milano, Standa Largo Cairoli”. Scoperto un incendio nel reparto telerie. Danni per miliardi. Alle 20, all’Aquila un’altra telefonata: “Una bomba a casa del direttore della Standa”. Le ricerche senza esito. Secondo il ministro degli Interni “gli attentati hanno un significato politico. Averli organizzati in posti così diversi, il giorno dopo l’approvazione del decreto sulla Rai, sembra un avvertimento. Hanno voluto mandare un segnale al governo”.

Le dichiarazioni del Viminale allietarono il dottor Aragona. Un lavoro pulito, senza ammazzatine. Potevano cantare vittoria. «È cosa fatta», decretò.

Don Tonio Bonomi spense il televisore. Aprì la finestra nel grattacielo confinante col Victoria & Alfred Waterfront. Cercò refrigerio nell’aria fresca che alitava dal molo di Robben Island. Dodici anni in Sud Africa e ancora non s’era abituato al clima. Il vento gli scompigliò i capelli bianchi. ò in salotto con un contegno da sovrano. Fece segno ad Aragona di accomodarsi sulla poltrona. Lui si mise su una sedia dorata. A un suo cenno, la cameriera servì il caffè. Don Tonio prese la tazzina per primo, come rispetto imponeva, e sorseggiò il caffè, facendo schioccare la lingua. Aragona usò il tatto che la circostanza imponeva. Sapeva che il capo della cosca era suscettibile.

«Prima dei botti il Professore mi aveva garantito che stava spingendo personalmente le nostre proposte».

«Questi colpetti che effetto ci fecero?», domandò il boss.

«Ci hanno dato un po’ di scanto. È persona fidata, lui».

Aragona era un ospite di riguardo. Aveva un’agenzia di pulizie con dieci centri in franchising in Lombardia. Era amico del Professore dall’infanzia e avevano studiato insieme giurisprudenza.

«Io mi sto giocando i denti per il Professore. E ti chiedo: dormo tranquillo?».

«Sto cristiano mica è il presidente della Repubblica. Ma ha le idee chiare. Quando eravamo piccirilli e giocavamo a pallone, sceglieva sempre la squadra più forte. Anche adesso lo farà. Ha la sua convenienza».

«Se non si muove, usciranno cose pesanti. Rivelazioni che gli daranno una scossa».

Don Tonio pensò che a quell’ora il dischetto era già ato nelle mani del corriere. Dopo l’operazione Standa, stava per realizzarsi la sua seconda mossa: quella definitiva. La migliore arma di ricatto. Avrebbe fatto più rumore delle bombe, il dischetto. Avrebbe provocato un terremoto istituzionale.

«È necessario?», domandò Aragona preoccupato.

«Se il Professore starà ai patti, le rivelazioni non usciranno».

Aragona ridusse la voce a soffio, come se qualcheduno potesse ascoltarlo. «Gli abbiamo chiesto di fare subito qualcosa», annunciò trionfale.

«Che cosa?».

«Escludere corruzione e associazione per delinquere dalla carcerazione preventiva. E far decadere le estradizioni per molti reati».

«Quando?». Don Tonio detestava i politici. Persone che promettevano e non concludevano. Come faceva a fidarsi? Già una volta il Professore lo aveva deluso.

«Ai tempi buoni. E i tempi buoni sono quelli dell’estate. La gente sta al mare, pensa alle vacanze, è distratta, non le sta a seguire certe cose di legge».

«Questo è sentir parlare», si lasciò scappare Bonomi per l’entusiasmo.

«Il Professore dice che gli italiani staranno tutti incollati davanti ai televisori, a tifare per l’Italia, ed è allora che agiranno».

Don Tonio si era fatto trascinare dalle altre famiglie mafiose in una specie di guerra santa. Ora voleva la pace. I Corleonesi si erano illusi di fare accordi e

avevano scelto le persone sbagliate. Avevano camminato con le scarpe chiodate. Erano qualcosa di superato. Lui aveva brindato all’arresto di zu’ Totò. Ricordava la Belva che atteggiava le labbra a un sorriso dietro le sbarre: «Io non ero latitante. Io ho preso aerei, treni, autobus, e mai nessuno mi ha chiesto generalità».

Don Tonio aveva compiuto una scelta diversa. Per evitare le sveglie all’alba, il timore delle soffiate, il mal di cuore. Lui aveva preferito la libertà in un paese straniero alla sopravvivenza nella sua terra. E se ne doleva ancora.

Aragona interruppe i pensieri con un colpo di tosse. Principiava a scocciarsi dei silenzi.

Don Tonio guardò dentro agli occhi dell’altro, sospirò. Erano sulla stessa sintonia. Basta con la stagione delle stragi. «Ristrutturazione affaristica» la nuova parola d’ordine. Ristrutturazione affaristica invocava anche Salvatore, il nipote che Don Tonio stava facendo studiare all’università.

In Sud Africa Don Tonio si era comprato mezzo Old Mutual Building, una decina di appartamenti in centro e una villa principesca per organizzarci feste con city-man, diplomatici, proconsoli e rappresentanti dell’Interpol. Aveva acquistato un titolo araldico, si faceva chiamare von Bonome Kolkatchenko, come un discendente della nobiltà zarista. Trafficava in droga, armi, diamanti, avorio. Possedeva imprese di acque minerali e allevamenti di struzzi. La Von Kolkatschenko Trust era un impero commerciale stimato in miliardi di rand. Aveva sulle spalle otto richieste di estradizione avanzate dall’Italia. Figurava tra i dieci latitanti più ricercati del mondo e, ciononostante, camminava sotto gli occhi di tutti. Un bel privilegio. Ma non era soddisfatto. La Sicilia gli mancava. E i pezzi grossi di Roma gli potevano fare un grande piacere.

«Bisogna confrontarsi con la realtà. – aveva ripreso il discorso Aragona – Dobbiamo tenere un profilo basso. Fare bisinissi senza scruscio».

«Un piso dal core mi state levando. I cristiani morti ammazzati fanno solo danni. Ora le armi devono tacere».

«Gli errori di Totò sono abbastati. Adesso si tratta».

«Ma non dimenticarlo. Il Professore avrà una bella tastata al polso se non si sbriga a fare fatti. Fagli presente questo mio... avvertimento».

Il dottor Aragona aveva capito che Bonomi aveva a disposizione qualcosa di grosso. Ma Don Tonio non avrebbe condiviso con lui il suo segreto.

«La politica ha i suoi tempi, la sua ritualità, il suo linguaggio. Portate pazienza. E vedrete che se la fortuna assiste la nazionale, i frutti delle nostre azioni cresceranno».

Quando la cameriera ritirò le tazzine, credeva che fosse giunto il momento di preparare le valigie. Aveva nostalgia delle sue impiegate, un esercito in polo verde con stampigliata la scritta “Aragona Pulizie”. La vacanza era finita. Si alzò dal tavolo chinando il capo riverente. «Ora devo andare».

«Sempre a disposizione», rispose Don Tonio, accompagnandolo alla porta.

«Ti auguro un mondo di bene. Il Signore ti benedica!».

«Farci dare i miei saluti a tutti i ragazzi, in Sicilia, da parte mia».

I due si abbracciarono e si baciarono, con grandi speranze per l’incontro di Roma. Rimasto solo, don Tonio suonò il camlo. Gli era venuto l’appetito. La cameriera gli servì un cabaret di cannoli. Una volta a settimana si faceva portare i dolci dalla sua regione. Aveva preso un cannolo da cui strabordava crema e già si vedeva a sbafarselo, quando fece il suo ingresso Salvatore. Il nipote teneva la faccia di chi riceve la comunicazione di un lutto.

Don Tonio mise da parte il cannolo e cambiò espressione. «Assettati e conta».

Salvatore gli ricordò della spedizione di Mfekete. L’uomo portava un ingente carico per la Famiglia, e aveva preso in consegna un dischetto. Il dischetto.

Don Tonio aggrottò le sopracciglia, preparandosi al peggio. Non c’erano forse il suo fedelissimo, il capomandamento di Cinisi, Vituzzo Lo Presti, e un suo nipote ad attendere l’arrivo del pacco?

Salvatore annuì, sempre più spaventato dalla reazione dello zio. Appoggiò la schiena alla spalliera e si decise ad aprire bocca. La faccenda era semplice e complicata al tempo stesso. «Una fitinzia, una grandissima camurria».

Poi prese fiato e lo disse. Disse che qualcuno aveva ucciso il nipote di Lo Presti e si era impadronito del pacco. Sì, tutto il pacco. Compreso il dischetto. I ladri se

n’erano andati senza lasciare tracce. Salvatore puntualizzò che il canale della Voc Service, però, non era bruciato.

Don Tonio soffiò aria dalle narici come un cavallo. Mulinò in aria le mani per il nervoso e schiacciò il cannolo impiastricciandosi di crema. Afferrò la scrivania e la rovesciò a terra. Se ne fotteva del canale. Se ne fotteva del picciotto stecchito. Rivoleva il dischetto. Picchiò un cazzotto sul muro. Prese a calci la biblioteca e la catapultò sul pavimento. Si trattenne dallo sferrare uno schiaffo a Salvatore, mordendosi le dita.

Pensò a quello che avrebbe perso. Una intimidazione verso il Professore. Un razzo nel culo dei governanti.

Salvatore non capiva, ma arretrò prudentemente.

Don Tonio voleva sapere chi aveva informato i ladri sul carico, perché un infame ci doveva essere, e come aveva fatto Vituzzo a farsi fregare. Poi cercò di calmarsi. Fece un respiro profondo. Gli attacchi di ira facevano male al cuore. Diede un ordine perentorio: i rapinatori dovevano morire di una morte lenta. E se ne doveva occupare chi aveva fatto la minchiata, e Salvatore assistere alla vendetta.

L’uomo che aveva iniziato la sua fortuna ripulendo nel 1984 un miliardo di dollari che Cosa Nostra aveva incassato vendendo eroina turca, l’uomo a cui gli svizzeri nell’86 avevano dato licenza a esercitare l’attività bancaria e permesso di amministrare un patrimonio che era un sedicesimo del bilancio della Confederazione, l’uomo che aveva cambiato nove volte la sua identità e si era organizzato una formidabile rete di protezioni a Città del Capo si tolse le schegge di porcellana dal palmo e si pulì la ferita. E precisò: i figli di puttana dovevano crepare di fame e sete, le loro carni dovevano essere staccate dai

cadaveri, i corpi sciolti in un bidone di acido e i tessuti polverizzati, e Salvatore gli avrebbe portato i frammenti residui. Ma prima, prima di tutto, doveva saltare fuori il dischetto.

12.

La conca in cui sorgeva Firenze era una fornace. Asciugandosi il sudore dalla fronte, Sergio Rizzo seguiva il corteo degli artificieri. Subito dopo l’attentato alla Standa, era stata transennata la zona tra Santa Maria Novella e il mercato. Era ora di rimuovere il nastro, anche se la città sembrava indifferente allo sfregio. Rizzo percorse via del Giglio in senso opposto a quello della stazione e si fermò davanti alla Standa. Esaminò l’entrata del magazzino, squassata dall’esplosione. Una pioggia di vetro e calcinacci. Vi lesse la firma del clan Bonomi.

Il tenente Candida era a un o da lui, con la solita espressione da duro e i suoi occhi gelidi. I tecnici incaricati dei sopralluoghi fecero il punto della situazione. Il commissario dell’esplosivistica concluse: «L’ordigno è scoppiato all’una e quarantacinque. Un congegno rudimentale ma efficace. Una piccola scatola, una confezione di cioccolatini, conteneva una sveglia a cui è stato rotto il vetro. Al suo interno un circuito elettrico, chiuso dal aggio della lancetta delle ore. La sveglia era collegata a una comune lampada da auto, a 12 volt, anch’essa col vetro rotto. Proprio la resistenza della lampada ha incendiato lo zolfo presente nella scatola. La fiammata, a sua volta, ha dato fuoco ad alcuni cubetti di diavolina. Da lì è divampato l’incendio».

«Poteva fare delle vittime?», chiese a bruciapelo Rizzo.

«Era roba artigianale. È stata piazzata in un reparto che conteneva merce infiammabile, c’erano tessuti sintetici, è vero. Ma l’attentatore non voleva fare danni. Più rumore che altro».

Candida diede un’occhiata al pavimento annerito dalle vampate. Masticò amaro. «Chi ha preparato i congegni? E perché alla Standa?»

Il tecnico proseguì: «Le stesse modalità degli altri attentati incendiari. Si tratta di scatolette collegate a ordigni rudimentali, a Roma, a Modena, come a Brescia e a Trento. Solo a Milano hanno proceduto con un modus operandi diverso. Mi gioco lo stipendio che la matrice è comune».

«Grazie commissario. Ci tenga informati se ci saranno sviluppi».

Rizzo congedò gli esperti della Scientifica e sostò davanti ai magazzini della catena. Candida gli lanciò uno sguardo interrogativo e ragionò ad alta voce, addentrandosi in un terreno che non gli era congeniale. «Forse la stabilità politica infastidisce le cosche egemoni. Cosa Nostra ha voluto intimidire i politici suggerendo una linea favorevole alle loro mire espansionistiche».

«È strano, però. – disse Rizzo – Da un anno e mezzo la mafia opera su un profilo più basso e le azioni criminali sono state circoscritte. I clan non hanno la potenza di fuoco che possedevano prima. Ormai è lontana la stagione stragista. Che senso ha colpire la Standa?».

«Non lo so. Però non mi allarmerei. La mafia non è in grado di portare un attacco militare allo Stato. Quando lo ha fatto si trovava in pesanti difficoltà e ha pensato di ricorrere alla forza. Adesso fanno solo carezze».

Rizzo annuì, pensieroso. Non aveva molta simpatia per Candida, che era considerato una specie di Rambo. Avrebbe dovuto tenerlo al collare. Ma condivideva gran parte delle sue riflessioni.

Si incamminarono verso l’albergo, costeggiando l’Arno. A nessuno dei due sfuggiva la bellezza di Firenze mentre eggiavano per le vie cariche di storia. Candida era stranamente loquace. Confessò di essere più preoccupato per la loro situazione personale che per un po’ di zolfo brillato in giro per l’Italia.

«Come ci regoliamo con i nuovi superiori? Io non ci sto capendo più niente».

«In che senso?», domandò Rizzo.

«Da una parte il governo dà ufficialmente attestati di stima all’Intelligence. Dall’altra il ministro degli Interni lancia un siluro devastante. La verifica disposta dal Viminale ha portato al rinvenimento di fascicoli intestati a esponenti parlamentari. Scoppierà il finimondo, e in molti si augurano un bel cambio di linea e la condanna esemplare dei colpevoli».

«Il nostro ufficio non ha mai fatto dossieraggio. Siamo sempre stati in prima linea nella lotta alla criminalità. Per cui dobbiamo stare tranquilli».

«Sì, ma non capisco perché i Servizi debbano essere chiamati in causa per ogni iattura nazionale».

«Vuoi sapere come la vedo? Depistamenti, ricatti, dossier e informazioni riservate si possono riassumere in una parola sola: politica».

Rizzo rientrò in albergo e si godette il tramonto dalla terrazza del palazzo rinascimentale che era stato un tempo abitato da Raffaello. L’albergo, dalla mobilia sontuosa, era lo stesso in cui aveva soggiornato nel maggio del ‘93. La vista era completamente diversa. All’indomani della strage di via dei Georgofili giacevano a terra cinque morti, c’erano ambulanze, volanti, gazzelle dei carabinieri e la Torre dei Pulci e la Galleria degli Uffizi emanavano un fumo denso e nero come l’ossidiana. Adesso l’unico fumo era quello profumato del toscano che andava lentamente inspirando. Assaporò l’aroma vellutato, considerò le varie ipotesi investigative e tirò le fila. Che esistesse una sorta di congrega di altissimo livello, una loggia massonica formata da imprenditori, militari e politici, denominata Anello, non c’erano prove ufficiali. Che l’Anello avesse incrociato la strada con la mafia, suggellando un patto con Cosa Nostra per l’attentato a Colaianni e all’Accademia dei Georgofili era indimostrabile. La procura di Palermo prima e quella di Firenze dopo avevano rigettato la pista dei mandanti esterni. I nastri di Davide erano fondati sui “si dice” e non potevano essere ammessi in tribunale, ma avallavano la tesi dell’esistenza dell’Anello e di un suo ruolo.

«Non è stata farina del sacco nostro».

«Che vuoi dire?».

«L’Anello ha dato un appoggio logistico. Almeno è quanto si sente in giro».

«Pensavo che l’Anello fosse solo una leggenda, una favola metropolitana».

«No. L’Anello esiste, e so per certo che ha voluto chiudere i conti con Colaianni».

Nelle orecchie di Rizzo riecheggiava la conversazione tra i due mafiosi, registrata da una microspia a un mese dalla morte di Colaianni. Quelle parole erano come uno spillo conficcato nel cervello.

Rizzo non si fidava di Candida. Non si fidava di Matteo Ganci. Non si fidava di nessuno. Non era in grado di dimostrare collegamenti tra le esplosioni alla Standa e la strategia degli anni precedenti. Ma avrebbe raccolto materiale utile, tutto ciò che riguardava l’Anello. Avrebbe creato una cartella personale, coperta dal segreto di Stato. L’avrebbe chiamato Operazione Reset. Pensò alle carcasse liquefatte di Alberto Colaianni e degli uomini di scorta. Pensò a Davide sopraffatto dalla colpa. Il suo coinvolgimento lo rendeva inadatto alla missione. Non gliene avrebbe parlato.

13.

I vestiti pieni di sangue mulinavano nella centrifuga. Mentre la lavatrice finiva il ciclo rapido, Lucy fissò i panni di cui s’era disfatta. Non aveva molti ricambi. Sistemò l’asciugamano sui fianchi flessuosi. Strinse il rettangolo di stoffa attorno alle ascelle. Sembrava inadeguato per le sue curve. Sentì un rumore che proveniva dal salone. Il prigioniero si era svegliato. Quell’uomo la incuriosiva. Celava un mistero. Forse sarebbe diventato un problema, ma per ora non voleva pensarci. Lucy si chinò davanti alla lavatrice e s’incantò a fissare il vortice. Il sapone liquido avvolgeva i vestiti in una spirale ipnotica.

Era stata una lavatrice a farle tentare la fortuna in Italia, molto tempo prima.

Si trovava in una lavanderia a gettoni di una cittadina americana e aspettava di raccogliere un carico di bucato. Ingannava l’attesa seguendo alla tv un servizio dedicato a Sydne Rome. Tutti i clienti della lavanderia avevano gli occhi sul monitor, incuranti delle rumorose asciugatrici. Quando Lucy vide che l’attrice ce l’aveva fatta, che a quarant’anni suonati era ancora sulla cresta dell’onda, pensò che anche lei avrebbe realizzato il suo sogno. Ma l’Italia non si era rivelata la terra promessa. Dopo una decina di provini andati male, aveva cominciato a spogliarsi nei locali di strip-tease e l’unico lavoro che aveva trovato era quello di escort nelle discoteche di Milano. Al Plastic aveva conosciuto una fotomodella dell’Ohio che, dopo un’orgia di coca, aveva sparato quattro pallottole a un playboy. Marziano non voleva che fe quella fine. Marziano aveva deciso di prendersi cura di lei. Le aveva tolto dalla testa le erelle della moda, i set televisivi e la ginnastica aerobica. Non l’aveva fatta più spogliare. Il pubblico maschile aveva perso la sua beniamina. Il proprietario di un night club si era irritato e aveva domandato a Marziano dove avrebbe trovato una troia che lo faceva venire duro anche ai buttafuori. Marziano gli aveva dato una craniata sul naso mandandolo in ospedale. Poi aveva preso Lucy da una parte e le aveva fatto una proposta. «Non hai il talento della modella e sei sprecata per fare la

prostituta. Però c’è una terza via». E siccome l’attitudine alla pianificazione, la tenacia, la pazienza, erano virtù che Lucy non aveva mai posseduto, lei aveva finito per accettare.

Lucy si riscosse dall’amarcord. La centrifuga della lavatrice restituì i vestiti spiegazzati. Il lato positivo era che erano quasi asciutti. Non bisognava esporli fuori. Mise gli abiti nello stendino della doccia e si guardò allo specchio.

Qualsiasi superficie riflettesse la sua immagine, ci si piazzava davanti. E quello che vedeva non le piaceva. Si toccò la schiena. Una linea dentata, livida, sghemba che non l’avrebbe più lasciata. Merda, quelle ferite. Una storia di guerra sotto la pelle. Sembrava che un sarto avesse compiuto dal vivo con ago e filo una sadica imbastitura sul suo corpo. Marziano aveva fatto cose molto brutte. Ma anche cose belle. Non poteva dimenticarlo.

Quale era stata la sua riconoscenza? Perché l’aveva lasciato lì senza fare nulla?

Ricordò gli attimi più concitati della sparatoria. La sua Browning che faceva clack, lei che riarmava la pistola e di nuovo l’arma che produceva uno stupido suono. Clack che le riecheggiavano nella testa. I proiettili al rallentatore finivano sulla moquette dell’albergo, e lei non sapeva spiegarsi perché non sparava. Quando aveva realizzato di avere la sicura inserita, era troppo tardi. La verità era che lei non era Nikita. Era solo una ladra con una fifa fottuta e, nella concitazione del momento, si era dimenticata di togliere la sicura.

Lucy aveva il cervello in ebollizione. Il piano di fuga era andato a farsi fottere. Compreso il nascondiglio: un appartamento affittato due settimane prima sotto falso nome. Troppo difficile raggiungerlo. Troppo rischioso. Marziano poteva rivelarne l’ubicazione. Flavi non aveva tutti i torti.

Ma se Marziano si fosse salvato, li avrebbe ritenuti responsabili? Non riusciva a pensare ad altro. La cosa che più la terrorizzava era la sua vendetta.

Un urlo improvviso spezzò il filo dei suoi ragionamenti.

«Vieni! Lucy! Vieni!».

Lucy si mise addosso i vestiti umidi. Scattò verso la cucina. Flavi era incollato al televisore. Il notiziario regionale del mattino. Un servizio che riguardava la rapina al Royal. Flavi indicò lo schermo. L’hotel presidiato dalla Mobile. I segni di gesso che disegnano una sagoma. I cartoncini numerati posati nell’area delimitata dai nastri. I poliziotti in sosta sull’androne dell’albergo, senza sapere cosa fare. Le telecamere del tg. I poliziotti si danno importanza. Descrivono un tentativo di estorsione ai danni di un diplomatico africano. Salvo per miracolo. Non si è evitata la tragica morte di un avventore dell’albergo: un giovane siciliano entrato nella traiettoria di tiro.

Flavi cadeva dalle nuvole. La ricostruzione era delirante. E poi nessuna menzione di Marziano e del Rosso. E neppure dell’uomo col fucile.

Lucy esultò, felice come una bambina: «Non l’hanno preso! È ancora vivo! È vivo!». Solo ora si rendeva conto che non era riuscita a tagliare il cordone ombelicale che la legava al suo protettore. «Marziano ce l’ha fatta».

«Calma, zuccherino. Non sappiamo nulla. Forse Marziano è nelle mani degli sbirri. Oppure è stato catturato dai mafiosi che adesso lo stanno torturando...».

«Che vadano tutti a fanculo! Marziano ce l’ha fatta!».

«Per noi non cambia nulla. Non sappiamo che cos’è accaduto dopo la nostra fuga. Una cosa è certa: non si può tornare indietro».

«Ti sbagli! – urlò Lucy piena di paura – Lui verrà qui a farcela pagare!».

«Mettitelo in testa: noi non avevamo scelta. Sorridi piccola, e vedi il lato positivo: spartiremo per due».

Lucy era sull’orlo di una crisi isterica. «No! Dovevamo attenerci alle istruzioni, e andare nell’appartamento. Abbiamo sbagliato».

«Non capisci che siamo soli. Soli contro tutti. Là fuori ci stanno dando la caccia».

«E se Marziano e il Rosso si sono rifugiati nel covo? Se sono lì?».

«L’appartamento non è sicuro. È l’ultima volta che te lo dico. Abbiamo fatto bene a cambiare piano. Ora non dobbiamo commettere errori. La mossa più sensata è che restiamo tranquilli in questa reggia. Niente spostamenti. Niente i falsi. I due tipi dell’albergo erano emissari della mafia. Un buon motivo per non mostrare la faccia in giro. E anche la polizia non starà ferma. Ricostruiranno i fatti, rintracceranno gli autori della sparatoria, calcoleranno le possibili vie di

fuga».

Per Flavi l’argomento era chiuso. Nel modo in cui guardava Lucy c’era tutto il disprezzo per le donne. Non era disposto a tornarci sopra. Se Lucy fosse stato un uomo, l’avrebbe già ammazzato. Con lei... si era sforzato di controllarsi. Magari sperava nella restituzione del favore da parte dell’americana.

Lucy aveva incassato. Ma c’era il resoconto del notiziario a tormentarla. Cercò di dare un ordine logico. Ripercorse mentalmente tutta la storia. Il Cinese gestisce una rete di escort a Milano. Una delle sue ragazze gli parla di un cliente africano che viene spesso in Italia, ogni volta con un carico di polverina. Il Cinese riporta quella storiella a un vecchio amico. Marziano. Il Cinese si fa dire quando il pollo torna in Italia e vuole un terzo della torta. La puttana di lusso riferisce che la prossima volta sarà a Roma. Marziano è lì ad attenderlo. Si procurano armi e un appartamento sterile. Si rivolgono a Fran lo Zingaro per i documenti falsi. Seguono il pollo negli spostamenti. Questo fino al cataclisma finale. Poi niente aveva più senso. La favoletta raccontata dal telegiornale faceva acqua da tutte le parti. Lucy ragionava a voce alta. «Ammettiamo che Marziano e il mafioso siano riusciti a scappare prima dell’arrivo degli sbirri. I poliziotti hanno trovato un cadavere. Quello del secondo siciliano. Possibile che non abbiano notato che era armato? E dai colpi e dai bossoli, come si dice – cercò l’espressione appropriata –, dall’esame balistico non hanno capito che anche lui ha sparato? Quanto ci vorrà perché ricostruiscano la dinamica della sparatoria?».

Flavi inspirò. La sua sopportazione era al limite. Studiò la figura dell’americana. Ogni curva al posto giusto. Provocante. Quel corpo era un vero spreco. Il suo attaccamento a Marziano lo irritava.

«Dovresti usare la bocca per qualcos’altro».

14.

La scena dell’attentato era uno dei suoi sogni ricorrenti. Rivedeva la Croma del magistrato esplodere. Un bel falò, e la fidanzata diventava polvere al vento. A quel punto Davide era solito levarsi di scatto dal letto e porsi domande a cui non poteva rispondere. “Perché lei? Perché quel giorno? Perché nel mio turno di sorveglianza? Perché io a fare da spettatore?”

La prima notte non aveva chiuso occhio. La seconda fu vinto dalla stanchezza. Non arrivarono incubi a svegliarlo. Forse perché era un incubo già quello che stava vivendo.

Intravide uno spiraglio di luce e cercò di alzarsi. Le manette lo inchiodarono sul divano. Si ricordò che era prigioniero nel suo piccolo regno. O quel che ne rimaneva. Tenebre, sudore, aria stagnante. E due intrusi armati.

Occhi Azzurri e lo Psicopatico parlavano a bassa voce. Come il ronzio in una sala cinematografica prima di un film. I movimenti nella stanza accanto erano diventati il suo teatro privato. Faceva uscire l’aria dal naso per consumare meno ossigeno. Adattava il respiro al bavaglio e stava attento a non fare gesti bruschi perché le manette non gli segassero i polsi.

Sentì in maniera distinta una voce maschile: «Che ne facciamo di quello di là? Mica ce lo porteremo dietro?».

Fu scosso da un’ondata di angoscia. Cercò di liberarsi dalle manette e dalla corda. Il bavaglio gli impediva di respirare. Si agitò come un pesce intrappolato nella rete. Più si muoveva, più le manette gli tagliavano la pelle e le corde gli ferivano le caviglie. Si avvicinava il momento in cui si sarebbero liberati di lui. Doveva farsi venire in mente qualcosa.

Dalla stanza accanto il mormorio cessò. Udì lo sbattere di una porta e il rumore di i. Lucy si affacciò nella stanza. Mise la Browning alla cintola e diede uno sguardo all’ambiente. Non notò niente di strano.

Si chinò verso Davide, slegò il fazzoletto e gli liberò la bocca. Davide rifiatò, come un sommozzatore che sale in superficie dopo un’immersione. «Non ce la facevo più», le disse riconoscente mentre si stropicciava gli occhi col braccio.

Lucy gli tolse le manette, ma evitò di incrociare il suo sguardo. Gli aveva portato una scatola di biscotti e una ciotola di latte.

«Perché non mi liberi anche i piedi? Tanto, dove vuoi che vada».

Lei fece segno di no con la testa.

«Potrei ricordarmene, quando tutto questo sarà finito», insistette Davide.

Lucy sciolse il nodo delle corde in un silenzio angoscioso. Era confusa.

Davide prese il cibo con avidità. Le sue mandibole tornarono in azione. Il sapore del frumento sembrava amplificato. Svuotò in pochi sorsi la ciotola del latte e fissò Occhi Azzurri. Portava una sua maglietta con la scritta “U2”. Le stava terribilmente bene. Ancora una volta l’ammirazione per quella bellezza spigolosa si fece strada nella sua mente in maniera dissonante, come le rose che aveva visto sbocciare rigogliose nei terreni aridi del deserto.

«Quando ve ne andrete da qui?».

«Non devi preoccuparti. Non ti torceremo un capello».

Doveva fingere di crederci? La studiò meglio. Il sorriso era asimmetrico. A un corso di psicologia applicata agli interrogatori gli avevano insegnato che il sorriso di circostanza era appoggiato a sinistra ed era più lento a spuntare.

«Tu non sei italiana. Da dove vieni?».

Lucy tentennò. Increspò la bocca in una smorfia triste. Dio solo sapeva quanto aveva bisogno di un conforto, di un abbraccio, di una parola amica.

«Non puoi dirmelo?»

«Da un piccolo centro vicino Indianapolis. Pacific City».

«E cosa c’è di bello a Pacific City?».

«Alabastro, carbone e stabilimenti chimici».

«Come ci sei finita qui? Non sembri una rapinatrice».

Lucy sibilò a denti stretti: «Vorrei saperlo pure io».

Davide si sorprese a pensare a quanto quella donna rassomigliasse a Teresa. Ma non credeva alle sue promesse. Doveva far leva sui suoi punti deboli.

«Per sequestro di persona sono dieci anni. Lo sai?».

«Sta zitto».

«Con il pazzoide non vai molto d’accordo».

Lei taceva, nervosa, tormentandosi le pellicine delle unghie.

«Testimonierò a tuo favore. Addosserai tutta la responsabilità a lui. Un bravo avvocato potrebbe tirarti fuori».

Lucy si tappò le orecchie. «Stai zitto! Zitto una buona volta!».

15.

Vituzzo Lo Presti aspettava Salvatore Bonomi all’aeroporto di Fiumicino. Era eccitato. Aveva fretta. Voleva assicurarsi che gli assassini di Carmelo pagassero un conto salato. Non aveva dimenticato l’espressione di tragica meraviglia del nipote e aveva bene impresso nella mente l’uomo fuggito via dal Royal.

Salvatore uscì dal gate e Salvatore non trattenne la delusione. Sembrava il manager di una multinazionale. Un damerino vestito a festa era l’ultima persona che gli serviva. Ma doveva adattarsi. Perché quello era un parente del capo. Un parente stretto.

«Benvenuto in Italia», disse prendendogli la valigia.

«Vituzzo? Zio mi ha parlato molto di te».

Sigaretta in bocca e occhiali specchiati da montagna, Salvatore lo seguì come un cagnolino. Mancava dalla capitale da parecchio. Incrociò l’hostess della South African Airways che gli aveva servito la colazione in prima classe e salutò la ragazza che usciva dall’aeroporto.

«Ho una sorpresa», disse Vituzzo, notando che gli occhi di Salvatore si erano appuntati sulle natiche della hostess.

«Come?», chiese Salvatore, destandosi dalle sue fantasie.

«Ti ho tenuto in caldo un infame».

«Quale infame?».

«Sta in una cantina a via della Muratella. In questi giorni mi sono dato da fare».

Durante il tragitto Vituzzo fece un resoconto dettagliato. Mfekete era andato a letto con un’orientale. La puttana di lusso veniva dal giro del Cinese. Mfekete aveva chiacchierato con la persona sbagliata. Aveva segnato il record delle minchiate. Un poliziotto su libro paga aveva sistemato le cose al Royal. Aveva fatto sparire i aporti dei ladri. Vituzzo aveva contatto gli ambienti giusti. Aveva fatto qualche domanda in giro. Aveva scoperto che i aporti erano usciti dalla stamperia di Fran. Esattamente dove erano diretti.

La saracinesca di un locale si richiuse alle loro spalle con un fragore sinistro. Salvatore turò il naso. Osservò lo scantinato. L’atmosfera era irrespirabile. Una vecchia radio. Pile di aporti, patenti e carte d’identità. Due stampanti su un tavolaccio. I timbri a secco e l’inchiostro utilizzato per le falsificazioni. E un uomo appeso a un gancio.

Vituzzo aveva gli occhi cattivi. Sembrava rapito da un demone. Accese la radio a tutto volume per non far sentire le urla della vittima.

Approfondimento politico: Il ministro della Giustizia invia ai gruppi politici la

copia del disegno di legge. Estensione del patteggiamento, anche per reati di criminalità organizzata allo scopo di favorire una larga collaborazione con lo Stato. Per chi si autoaccà, la pena sarà ridotta di un terzo.

Fran era nudo dalla cintola in su, con le mani incatenate. Le cicatrici gli bruciavano la pelle. Le sue urla superavano la voce del cronista radiofonico.

«Basta. Ti prego!».

Vituzzo estrasse un rasolino con una lama a punta mozza e si gustò il pianto. Agitava il coltello davanti al volto di Fran. «Un fastidio mi dai, a guardarti».

Cosparso di lacrime e sudore, Fran pensò che quell’uomo con lui si divertiva. Erano ore che lo torturava. Sadico di merda. «Ti scongiuro. Non ricominciare».

La lama di venticinque centimetri incise le carni con precisione chirurgica. Una collera sacra animava il torturatore. La vendetta gli dava la forza di proseguire. Un saraceno con la sua scimitarra: ecco chi sembrava a Salvatore.

La radio gracchiava: Prima di presentare il testo al Consiglio dei Ministri, il Guardasigilli attende di sapere se questa importante riforma della giustizia avrà l’appoggio dell’intera maggioranza governativa.

Salvatore capì perché Vituzzo era chiamato “u viccèri”. Il macellaio. Lui detestava la violenza gratuita. Se ne infischiava degli amici di Fran. Ma era costretto ad assistere al macabro spettacolo. Pareva la macellazione di un

capretto, legato per le zampe e scuoiato. Leggeva la paura negli occhi del bosniaco e si chiedeva quando avrebbe ereditato lo scettro del comando nell’organizzazione. Mentre la tortura andava avanti, capì che lo zio gli avrebbe fatto sempre ombra e in lui crollò l’illusione di una rappresentanza nel nuovo corso.

Vituzzo penetrò il filo convesso della lama nel suo sterno, facendo attenzione a non bucare le ossa. «’Na chiummatuna sarebbe facile, ma io voglio prendere la mia soddisfazione».

Le gocce di sangue scivolavano con una cadenza musicale. Una, due tre...

Fran era ato indenne dalla guerra civile del suo paese, era scampato alla pulizia etnica, era riuscito a fuggire da Sarajevo assediata dai serbi. Trovava beffardo morire a quel modo, per aver stampato quattro documenti falsi. Si contorceva come se fosse posseduto. Scalciava. Distorceva la bocca. Singulti disperati si strozzavano in gola.

«I tuoi amici hanno ucciso mio nipote, mi hanno sparato addosso, hanno fottuto la nostra roba. E tu hai fatto l’errore di aiutarli. Non chiedermi pietà».

Le parole gli venivano urlate nell’orecchio, come bombe esplose in un cuscino. Fran colava sangue a fiotti. La sua carne rosa pallido aveva una consistenza gelatinosa.

Vituzzo era perfettamente a suo agio in quell’ambiente saturo di violenza e impregnato di un tanfo nauseante. Invece Salvatore era piombato in un film dell’orrore. Avrebbe voluto interrompere lo scempio. Ma non voleva fare la

figura del pivellino. Don Tonio lo aveva messo alla prova affidandogli l’incarico. Ma l’obiettivo principale, dal suo punto di vista, era quello di rinsaldare le amicizie politiche. Si era lasciato condurre in quel posto perché sapeva che il capomandamento godeva della fiducia dello zio e nel ato aveva contato parecchio nella cosca. E un po’ perché Vituzzo gli faceva paura. Distolse lo sguardo. Decise di allontanarsi. Si tappò le orecchie. Si avvicinò alle grate per prendere una boccata d’aria.

Vituzzo affondò la lama nell’unico punto immune dalle ferite. Ma nell’istante in cui incise lo stomaco capì che aveva toccato qualche parte vitale, perché il bosniaco fece un’espressione strana e torse il collo dall’altra parte.

«Questo è andato», disse semplicemente. Spense la radio. Si accese una sigaretta con le mani impiastricciate di sangue. Tirò una boccata di fumo.

Salvatore evitò di guardare la sigaretta rossa nelle mani dell’assassino. «Del cadavere che ne facciamo?», chiese trattenendo un conato.

«Lo lasciamo qui».

Salvatore guardò la maglia imbrattata di sangue del Macellaio e la sua aria esaltata. «Non dovremmo far sparire il corpo?».

Vituzzo aspirò la sigaretta rosso vermiglio. Spense il mozzicone. «Voglio che lo sappiano. Loro devono sapere che noi stiamo per arrivare».

Salvatore cercò di non vomitare. Seguì Vituzzo come un cagnolino fuori dallo scantinato, respirando a pieni polmoni l’aria fresca del mattino.

«Abbiamo un indirizzo – disse Vituzzo, con gli occhi iniettati di rosso. – Prima di crepare si è ricordato di un covo».

16.

Lucy uscì dalla villa e sentì tremarle il terreno sotto i piedi. Si guardò attorno. Non conosceva Cinquale. Ma non aveva rinunciato a portarsi dietro la sua Browning. Il compito era rischioso. Flavi non immaginava quello che lei aveva in mente. Show must go on.

Si perse tra i vicoli del centro. Nella sua testa una speranza. Affrettò i i sui sampietrini. Era torturata da una serie di domande. Marziano dov’era? Covava risentimento per la sua fuga? Era possibile che fosse ancora nel covo?

La coabitazione con Flavi era una bomba a orologeria. Il ticchettio del timer era partito. Flavi era a letto con la febbre alta e delirava. C’era il rischio di un’infezione. Per scongiurarla, avrebbe dovuto suturare la ferita. Ma non disponeva di strumenti adeguati. Filo chirurgico, materiale in polifilamento, un ago con bassa curvatura. Solo in farmacia si sarebbe potuta procurare l’occorrente. E poi Flavi cominciava a uscire fuori di testa. Aveva nascosto droga e diamanti e dava i numeri. Aveva parlato di un complotto organizzato da Lucy e Davide per farlo fuori. Lei aveva cercato di tranquillizzarlo, ma non c’era riuscita. Il clima si faceva sempre più teso tra loro.

Lucy arrivò davanti alla fermata della corriera. Scrutava gli ambulanti di colore che attendevano l’arrivo del mezzo. Ripensò alla pelle di ebano di Mfekete. Aveva le sue debolezze. Che avrebbe detto alla polizia? E alla mafia?

Si voltò sentendo su di sé lo sguardo dei anti. La fissavano di traverso, o era la sua paranoia? Forse aveva bisogno di riposo. Aveva i nervi troppo scossi.

Il tramonto lasciò il posto alle prime ombre della sera, quando la corriera accostò alla fermata di Viareggio. Flavi non avrebbe approvato. Lucy scese sull’asfalto rovente e attraversò la strada. Un’infinità di corpi in costume da bagno uscivano dagli stabilimenti. Aveva scelto un posto abbastanza lontano dalla villa. Stava prendendo le giuste precauzioni.

Ricacciò indietro i ricordi della notte di sangue. Aveva un debito verso Marziano. Si fermò a una cabina telefonica col cuore in gola. Lo amava e lo disprezzava al tempo stesso, come una figlia a cui il padre cattivo ha portato via i suoi sogni. Inserì la tessera e compose il numero. La mano le tremava. Presto avrebbe saputo se Marziano si fosse rifugiato nel covo e se le loro cautele non fossero state eccessive.

In linea gli squilli ripetuti. Poi la cornetta sollevata. Un silenzio teso. Il respiro di qualcuno. Una persona nell’appartamento. Le tempie le battevano forte. L’emozione le seccò la lingua. «Pronto?».

Ripose solo un ansimare leggero.

La sua reazione fu istintiva: «Marziano?». Serrò la bocca. Non aggiunse altro.

Dall’altra parte del filo silenzio. Un silenzio opprimente. Qualcuno attendeva che lei fe una mossa. Lucy si morse il labbro per l’imprudenza. Tese l’orecchio. Non poteva sapere che l’artista della macellazione umana stava giocando con lei come il gatto col topo.

Quando Vituzzo capì che la ragazza non avrebbe più parlato, provò la terapia d’urto. Voleva spaventarla. «Tu hai qualcosa che appartiene a noi».

Lucy riattaccò con uno scatto talmente impetuoso che spaccò l’apparecchio. Urlò una raffica di no. Picchiò la mano sul vetro. Riprese la tessera telefonica, piena di rabbia. Uscì dalla cabina e camminò senza voltarsi. A testa bassa.

Quella voce le aveva messo i brividi. Le era entrata dentro. Si domandò a chi appartenesse. L’accento spiccatamente siciliano: un uomo della mafia. Forse lo stesso della sparatoria. Come aveva fatto ad arrivare così presto al covo? E cos’altro sapeva?

Non si sentiva più sicura. Non doveva commettere altri errori. Aveva ragione Flavi. I malavitosi non si sarebbero fermati. Dentro la sua testa si faceva strada un dubbio. Prima o poi l’avrebbero scoperta. Se erano arrivati all’appartamento, potevano scoprire qualsiasi cosa.

La corriera la portò qualche fermata avanti. D’improvviso ebbe freddo. Il sudore le si gelò addosso. Scese nella piazza di un consorzio turistico. Vide l’insegna di una farmacia. Fece un respiro lungo. Si disse che poteva farcela. Allontanò il panico che si stava impadronendo di lei.

I camerieri di un ristorante avano gli strofinacci sui tavoli mentre domandavano se il televisore era stato sistemato in cucina. Quella sera per nulla al mondo si sarebbero persi il tridente Baggio-Casiraghi-Signori. Anche se il tridente col Messico non era stato così incisivo. Alla gelateria una famiglia conquistava un tavolo sotto un ombrellone bianco come la panna. Sembrava un’oasi dove il tempo s’era fermato, come sospeso, nell’attesa degli ottavi di finale.

Lucy fece balenare sotto gli occhi di un mendicante una banconota da diecimila, la strappò a metà e gli consegnò una delle due parti. Spiegò cosa doveva fare per avere la seconda e gli diede un foglio con la lista dei medicinali. Il mendicante s’infilò nella farmacia all’angolo della piazzetta e dopo pochi minuti ricomparve con un sacchetto contenente gli acquisti. Lucy rifilò allo storpio la metà della banconota e tornò indietro col sacchetto in mano.

Ragionò sui suoi ultimi movimenti. Adesso che si era trasformata in una preda, doveva pensare agli inseguitori. Le forze dell’ordine non avevano niente in mano. Anche se disponevano del suo identikit, non aveva lasciato tracce. Il farmacista non l’aveva vista in faccia. E neppure l’autista della corriera. Altra storia Cosa Nostra. Lì i cacciatori erano spietati. Ma agivano con una violenza priva di intelligenza. L’errore era stato la telefonata. Però era certa che non avevano i mezzi per rintracciarla, non sarebbero riusciti ad acquisire un tabulato telefonico, e se ciò si fosse verificato sarebbero arrivati a una cabina in mezzo al nulla, sul litorale versiliese, a sedici chilometri dalla casa di Davide.

Cercò di calmarsi mentre tornava indietro a bordo della corriera. Seguì un proprio rigido schema mentale. Sedette agli ultimi posti e finse di leggere un giornale che le copriva il volto. Ignorò i vacanzieri e la gente del posto che affollava il pullman. Un signore si faceva aria con un ventaglio, scotendo il capo. «Baresi si è rotto. Per lui il Mondiale è finito».

L’amico era gonfio di orgoglio. «Non ne avremo bisogno. La Nigeria è andata bene nel suo girone, ma è sempre la Nigeria. Possibile che abbiamo paura di questi africani?».

Le porte si aprirono cigolando. Smontando dalla corriera, Lucy fece un respiro profondo. Ripeteva a se stessa che la villa era sicura. E riuscì ad autoconvincersi. Il cervello annebbiato uscì da un tumulto di correnti incrociate. I

palpiti del cuore erano svaniti, sostituiti da una sensazione di tranquillità. Addirittura, si sentiva contagiata da una strana esultanza, mentre camminava tenendo la testa china e gli occhi a terra. In fondo, nessuno avrebbe sospettato di un incensurato. Nessuno sarebbe risalito al loro ostaggio.

ò davanti a una fontana di pietra da cui non usciva acqua. Il ticchettio delle scarpe sui sampietrini echeggiava nelle viuzze del borgo e faceva girare le spalle a molti uomini. La sentenza emessa dalla mafia non doveva impensierirla. Col cavolo che avrebbe restituito il bottino! Non aveva corso tanti rischi inutilmente. Avrebbe fottuto anche i siciliani.

Fece il resto del percorso come in apnea. Restò indifferente ai discorsi della gente. La partita era un argomento totalizzante. La sfida, con l’eliminazione diretta. Sacchi il profeta di un calcio dove non c’era più l’uomo, il singolo, l’individuo, ma la squadra.

La villa si stagliava isolata in fondo alla strada. Quando entrò, percepì il cambiamento. L’atmosfera viziata. Le finestre chiuse. La semioscurità. Una confezione vuota di anfetamine e granelli bianchi sparsi a terra. Un silenzio cupo ristagnava nelle stanze. L’odore di morte si annidava nell’aria.

Lucy finse di non notare lo sguardo allucinato del complice. Flavi non riusciva a stare lontano dal Ritalin e dall’eroina. Gli abbassavano il dolore. Gli neutralizzavano il bruciore alla spalla.

Flavi distolse lo guardo dalle immagini delle telecamere di sicurezza. «Preso tutto?».

Lei gli mostrò il sacchetto dei medicinali, ma non gli disse della telefonata.

«Togliti la camicia. Vediamo come va».

Flavi si alzò dalla sedia lentamente. Quello sguardo voleva dire che la droga era ancora in circolo. «Come mai tutto questo tempo?».

«Ho fatto un giro più lungo».

Lucy studiò l’infezione. Era stata assistente infermiera all’ospedale di Indianapolis. Le sembrava un millennio fa, ma erano trascorsi pochi anni. Aveva cognizioni di medicina generale. Quello che vide non le piacque. Non era più roba superficiale. Era diventata un guasto letale. «Hai bisogno di un medico. Qui si sta mettendo male».

«Me lo dici apposta perché vuoi liberarti di me».

«Se entra in cancrena, sei spacciato. Fatti portare in ospedale. Un sistema lo troveremo».

«Io non mi muovo da qui. Non lascerò da soli te e quell’altro stronzo, con la mia droga e i miei diamanti».

«Ancora? Sta diventando un’ossessione».

«Pensa a curarmi».

Lucy si rassegnò. Poteva contare solo su di lui, nell’universo. Sarebbe venuto il momento di fargli un discorso. Per ora, meglio aspettare. Gli infilò la siringa. L’antibiotico e l’antidolorifico erano una prima barriera contro la penetrazione di microbi. Lavorò col filo chirurgico. La mano non aveva perso il tocco.

Ultimò la sutura a regola d’arte, consapevole che la testardaggine del complice lo avrebbe portato alla tomba.

17.

Davide non sentiva più né le mani né i piedi. Non poteva liberarsi dalle manette, ma doveva escogitare qualcosa per liberare i piedi dalle corde. Stava sul divano dalla mattina alla sera e aspettava i pasti come una liberazione, perché almeno per pochi minuti gli toglievano le manette e il bavaglio. Le lunghe ore di inerzia affievolivano la sua volontà. Scivolava nel sonno senza rendersene conto e la dimensione della realtà perdeva i connotati. Immaginò che Sergio Rizzo lo venisse a liberare. Le teste di cuoio irrompevano e Rizzo uccideva Flavi.

Un sogno a occhi aperti. Davide si rigirò sul divano e cercò di riprendere coscienza. L’immobilità gli procurava formicolii, fitte e indolenzimenti in tutto il corpo. Per sfuggire all’angoscia, il cervello chiedeva distrazioni.

La memoria riandò a Palermo. Pochi giorni prima della morte di Colaianni.

Una mattina si era svegliato di colpo, in casa di Teresa, con un energumeno che voleva picchiarlo. La montagna umana gli aveva sferrato un calcio in pancia. Lui si era accucciato. Si era portato una mano sul viso per parare i colpi. Aveva riconosciuto il suo aggressore e si era ritirato su se stesso, come una tartaruga nel carapace.

«Che fai?», aveva detto Teresa al fratello, ferita nell’orgoglio. La fierezza delle donne siciliane. Non voleva che gli altri intervenissero nelle sue questioni.

Teresa aveva convinto il fratello ad andare via. Era una cosa che riguardava solo loro due, e non voleva intromissioni.

«Tuo fratello deve volerti bene», le aveva detto lui.

«È abituato ad avere a che fare con criminali della peggiore specie, e pensa che i pugni siano più efficaci delle parole. Io credo che sia l’esatto contrario».

«In famiglia tutti poliziotti, eh?», aveva domandato per allentare la tensione.

«Mio nonno lavorava a Piana degli Albanesi e ci raccontava quello che faceva la banda Giuliano. Mio padre si è trasferito in centro e ha visto il corpo del presidente della Regione crivellato dai colpi. Io e mio fratello non potevamo che seguire la loro strada. Cu è figliu di gatta, surci piglia».

Aveva allungato la mano per farle una carezza. Gli era venuto in mente il suo, di padre. Teresa lo aveva scansato, infastidita.

Davide tornò in sé. Il flashback era stato una frustata. Il fratello di Teresa era la Sicilia. Flavi la Versilia. Ieri: la colpa. Oggi: il riscatto. Scacciò i fantasmi del ato. Aveva bisogno di focalizzarsi sul presente.

Il dolore alle gambe e alla schiena si acuì. Cambiò posizione nel divano ma aveva bisogno di libertà di movimento per avere un po’ di requie. I muscoli si stavano irrigidendo per l’inattività e presto gli sarebbero venuti dei crampi. La disperazione gli suggerì la decisione successiva: avrebbe sciolto il legaccio ai

piedi e tentato la fuga al momento opportuno.

Una luce accecante s’infiammò prima di smorzarsi. Qualcuno era venuto a portargli il pranzo. Quando vide Flavi col vassoio in mano, pensò che la cosa poteva tornare a suo vantaggio. L’uomo gli tolse le manette e il fazzoletto dalla bocca, per consentirgli di mangiare. Lo fissava con sguardo ostile e divertito. Gli piaceva tormentarlo, ma avrebbe avuto una bella sorpresa quel giorno.

«Beh, che vuoi? Che ti imbocchi?», lo punzecchiò Flavi.

Davide si produsse nella parvenza di un sorriso e impugnò la forchetta. Terminò in fretta il suo pasto e guardò Flavi sorridendo. «Oggi mi sembra che stai meglio», gli disse con aria di scherno. Era un gioco pericoloso, ma si armò di tutto il suo coraggio.

«Fatti gli affari tuoi», disse Flavi.

«Non ti illudere, hai una brutta ferita».

«Non usare questo tono con me. Non sei nella posizione per farlo. Se non te ne sei accorto, io ho una pistola e tu hai i piedi legati, coglione».

«Ti senti forte, eh! Ti atteggi a fare il capo, ma sei solo un pallone gonfiato».

«Non mi provocare. Falla finita».

«Non ti resta molto da vivere. Devi abituarti all’idea che andrai al creatore».

«Ci andrai prima tu, se continui a parlare a sproposito».

«Io dico di no. Con quella ferita non duri una settimana».

Davide non terminò la frase. Ossa e carne tremarono. La violenza dell’impatto lo scosse. Aveva le mani libere ma non si difese. Con la coda dell’occhio, vide che il vassoio era caduto e fece sparire la forchetta dentro la tasca. Accecato dall’ira, Flavi gli sferrò un pugno in pieno volto. Poi lo strattonò prendendolo per il colletto della camicia e si arrestò come se fosse stato percorso da una scarica elettrica. Nelle sue condizioni, quando non era imbottito di droga, non poteva permettersi simili sforzi.

Davide tastò la forchetta che aveva nascosto in tasca. Flavi si stropicciò il viso e, nonostante il pallore, lo fronteggiò nuovamente. Gli assestò un pugno nello stomaco, ancora più forte del primo. Voleva dimostrare che la ferita non l’aveva indebolito, ma era patetico. Si fermò e respirò come un pugile alla fine di un lungo incontro.

«Smettila!», gli gridò Lucy.

«Deve capire chi comanda!».

Lucy si piazzò davanti e cercò di portare via Flavi. Ma questo amplificò la furia dell’uomo. «Piantala!», urlò. Diede una spinta a Lucy e si avventò su Davide. Un’onda d’urto devastante.

Davide si raggomitolò su se stesso. Il sangue zampillò sul pavimento. Rumore di ossa spezzate. E poi calci e pugni.

Davide tentava di ripararsi con le mani libere, ma le corde ai piedi gli impedivano ogni movimento e restava in balia del suo aggressore. I colpi piovevano dall’alto implacabili. Una fontana di liquido caldo eruttò dal corpo. Il suo corpo. Davide vedeva tutto rosso, poi bianco, e poi di nuovo rosso.

Un’ombra si frappone a un’altra. «Lo stai ammazzando!».

Flavi si fermò. Ansimava per la fatica. Lo sforzo lo aveva fiaccato.

Lucy constatò le condizioni di Davide. Qualche contusione. Una ferita sotto lo zigomo e il labbro spaccato. Non sembrava nulla di grave.

Flavi si lasciò crollare su una sedia, esausto. Aveva gli occhi chiusi. Le palpebre abbassate come saracinesche. Ora era lui quello che aveva bisogno di cure. Lucy gli controllò le pulsazioni. Deterse la fronte con l’acqua. Gli alzò i piedi, per far defluire il sangue. Cercò di scuoterlo. Era in stato di incoscienza.

Lucy gli tastò i polsi. Sulla sedia era rimasta una pozza rosso scarmiglio. Perdeva sangue. Gli diede uno schiaffo sulla guancia. Flavi non si muoveva. Gli sollevò le palpebre e osservò un velo acquoso.

Flavi sussurrò nell’orecchio di Lucy: «Sto male. Fa qualcosa».

18.

Lucy ispezionò la ferita. Guardò il taglio. Il proiettile aveva toccato vasi sanguigni che avevano cessato di sanguinare. Un’emorragia esterna, ma non si era ancora cicatrizzata. «Tieni le braccia sollevate».

«Te ne approfitti, eh».

Lucy gli deterse la pelle con acqua ossigenata. Compresse lo squarcio con garze sterili. Flavi gridò dal dolore.

«Sta fermo. È solo una medicazione», ribadì con tono spiccio. I lembi di pelle e i bordi della ferita si erano anneriti.

«Mi fai male! Troia!».

«Zitto. E non offendermi. O ti faccio male veramente!».

Lucy ricoprì la spalla con compresse sterili. Terminò di fasciare la spalla con una bendatura stretta. Flavi borbottò tra i denti. Provò a muovere il braccio per controllare se tutto era a posto. Doveva abituarsi alla fasciatura. Poi mescolò l’eroina a una pasticca di anfetamina. Cominciò a triturare il composto come un bambino gioca al piccolo chimico e ingurgitò tutto insieme. Doveva essere un mix col botto. La bendatura sulla spalla si era colorata di rosso vermiglio, ma

Flavi non ci badava. Aveva ricevuto l’ennesima carica d’energia.

Lucy tornò a vedere in che condizioni era Davide. Oramai aveva assunto il ruolo dell’infermiera, ma sentiva che la situazione stava precipitando.

Davide aveva gli occhi chiusi e una smorfia indecifrabile. Era ricoperto da lividi, croste e ferite. La sua determinazione iniziava a offuscarsi. Un grumo di sangue gli impediva di vedere. Lei lo aiutò ad alzarsi e gli tolse le manette dai polsi arrossati. Preferì lasciargli i piedi legati, per evitare ulteriori problemi.

Davide sentì riprendere le forze. Socchiuse gli occhi, infastidito dalla luce. Le gambe gli tremavano, come trafitte da piccoli spilli. Le braccia erano scosse da un fastidioso formicolio. Si leccò la ferita al labbro. Sentiva le ossa a pezzi. Aveva qualche ammaccatura, un taglio allo zigomo e un misto di rabbia e frustrazione, ma soprattutto aveva fatto sparire una forchetta. Aveva ottenuto ciò che voleva e nessuno si era accorto di nulla, grazie alla confusione che aveva creato. Tastò nella tasca la posata come se fosse un prezioso smeraldo. Guardò Lucy con la faccia da ubriaco e gli scappò un sorriso di soddisfazione.

«Hai fatto incazzare il mio socio. E lui s’è messo in testa strane idee. È assurdo, ma pensa che io e te vogliamo ammazzarlo».

Davide si toccò la testa con una mano, facendo segno che era pazzo.

«Non fare più stronzate e non lo punzecchiare», lo redarguì Lucy.

«Comunque grazie per avermi difeso».

«Non so per quanto potrò farlo».

«Come sta lui?», chiese Davide mandando giù l’acqua che gli porgeva.

«Dorme adesso», rispose Lucy, rabbuiata.

«Lo sai meglio di me che prima o poi lui morirà, vero?», le chiese Davide.

«Tutti dobbiamo morire».

«Con quella ferita non andrà lontano».

Lucy sentiva addosso il suo sguardo. Era come una giocatrice di poker a cui l’avversario indovina il bluff. Era chiaro che Flavi non avrebbe avuto scampo.

«Che farai dopo?».

Lucy non sapeva dare una risposta. Si lasciò cadere sulla poltrona.

Davide trattenne una risata nervosa. «Veramente si è convinto che io e te...?».

«Pensa che noi due vogliamo mettere le mani sulla refurtiva».

«La droga gli ha fuso il cervello».

Lucy lo fissò. Dopo tutte quelle emozioni, la stanchezza si era abbattuta sul suo corpo. Troppi stati d’animo differenti l’avevano attraversata. «Perché ti sei ritirato in questo posto?».

«Volevo scomparire. Ma adesso ho capito che stavo sbagliando. Adesso voglio vivere».

Lucy si affacciò alla finestra. Lontano, sull’orizzonte nero, si vedevano le finestre illuminate e il riflesso dei televisori. Nell’oscurità della cittadina palpitavano tante banali esistenze all’interno delle loro case. Per un attimo invidiò le donne strette alla loro famiglia davanti a un tubo catodico. Avrebbe voluto essere come loro. Avere una vita normale, senza paura e solitudine. Costruire qualcosa. Trovare un uomo gentile. Avere dei figli.

Riprese le manette. Constatò quanto avessero scavato nella carne di Davide. Non poteva farne a meno. Bloccò i polsi del prigioniero e controllò se le corde ai suoi piedi erano ben strette. Uscì dalla stanza con un peso nel cuore.

Diede un’occhiata al monitor collegato alle telecamere esterne. Era inquadrato il portone della villa e nei paraggi non c’era nessuno. Perfetto.

Quando entrò in cucina, scoprì che Flavi si era già svegliato. Ancora stordito, lui sbadigliò e accese il televisore. Si era ripreso grazie a qualche robusta dose di eroina. Sembrava essere uscito da un letargo primordiale.

«Adesso va meglio. La dormita mi ha rimesso al mondo. Stasera ci giochiamo i quarti di finale. Non hai sentito le trombe? Si stanno preparando per il tifo».

Prese l’eroina, la tolse dal cellophane e la mischiò al Ritolin.

Lucy lo fissò con uno sguardo di condanna. Non sapeva se poteva più fidarsi di lui. Era fuori controllo. «Non puoi farne a meno?».

Lui polverizzò il cocktail. Ignorò lo sguardo di Lucy e inspirò tutto in una botta sola. I suoi lineamenti si trasfigurarono. Gonfiò i polmoni e iniziò a guardare male Lucy. Le rivolse la domanda come una frustata. «Te lo sei scopato?».

«Che cavolo dici?».

«Non vuoi che ti rovini la festa, eh? Cosa stavi facendo di là con lui?».

Flavi sentì una forza nuova impadronirsi della sua mente ed ebbe in un lampo la visione di Davide che rideva di lui. Ebbene sì. Davide si stava prendendo gioco di lui. Adesso gli era tutto chiaro.

«La refurtiva non te la lascio. Non la lascio a voi due».

«Stai esagerando con quella roba».

Flavi avvampò come un marito geloso. Si alzò con un’espressione di sofferenza e prese un bicchiere d’acqua.

Il cronista recitava le formazioni. In porta torna Pagliuca, Conte sostituiva Signori e in difesa Tassotti rimpiazzava lo sfinito Mussi.

Per il resto della sera Flavi tifò Italia come se niente fosse successo. Si concentrò sullo spettacolo e imprecò contro i negri che avevano piazzato una zampata al ventiseiesimo. Esortava Baggio alla controffensiva mentre si faceva il suo miscuglio di droga e anfetamine. Svanirono sonno e spossatezza. Tornò il vigore. Stava migliorando. O forse era solo la salita prima della caduta.

A due minuti dal termine la nazionale si sentiva già sulla scaletta dell’aereo e qualche giocatore pensava a dove trascorrere le vacanze. Roberto Baggio, implacabile, si trovò sui piedi il pallone che Mussi aveva conquistato sulla fascia. Il suo tiro era stato una rasoiata che si era infilata nell’angolo della porta nigeriana. Boati, clacson e suoni di trombe giunsero fino alla sua stanza. L’intero vicinato scoppiò in festa.

Ai supplementari l’Italia in dieci uomini era un’altra squadra, trascinata da un Baggio in stato di grazia. Il Codino aveva lanciato Benarrivo che, atterrato in area, si era procurato un rigore.

Flavi era tutto sudato a pochi centimetri dal televisore. Baggio piazzò la sfera sul dischetto e prese la rincorsa.

Flavi urlò: «Negri di merda! Tornatevene a casa!».

19.

Davide aveva benedetto il suono delle trombe che copriva il rumore che produceva. Aveva utilizzato la forchetta per sfibrare lentamente la corda. Aveva lacerato il nylon con i denti della posata. Se avesse avuto i piedi liberi, sarebbe stato in grado di muoversi e avrebbe ottenuto la libertà. Sarebbe tornato a fare le cose che gli restavano da fare, quelle che non aveva mai avuto il coraggio di portare a termine. Sarebbe uscito dalla sua campana di vetro. Avrebbe riso, scherzato, giocato. Si sarebbe di nuovo innamorato.

Aveva lavorato sulle corde per tutta la notte, e alla fine era riuscito a spezzarle con la forchetta. Dopo i boati, era calata una calma profonda. Non sentiva più rumori e dedusse che la partita fosse terminata e Lucy e Flavi dormissero. Era raggiante. Poteva camminare. Arrivò in punta di piedi fino all’ingresso. Le manette lo costringevano a coordinare bene i suoi movimenti e, seppure con le mani legate, riuscì ad aprire la porta. La chiuse alle spalle e, una volta fuori, strizzò gli occhi.

Il sole che sorgeva sulla spiaggia aveva il colore dell’acciaio. La cattività gli aveva fatto scordare tanta bellezza. L’aria salmastra gli riempì i polmoni. Avrebbe denunciato i suoi rapitori. La ragazza avrebbe fatto in tempo a scappare? Era folle provare un rimorso del genere. Accelerò il o. Diede un’occhiata al giardino. Crescevano piante infestanti. Erano bastati pochi giorni di incuria perché il trifoglio si guastasse. Un’altra cosa da mettere in conto ai rapitori. Varcò lo steccato di legno e cominciò a correre.

Un vento rovente sollevava la sabbia. C’erano solo i resti di un fuoco e due bottiglie di Bud. A poca distanza un vecchio pattino, roso dalla salsedine. Davide ansimava. Al suo sguardo si apriva una lingua di sabbia sferzata dallo scirocco.

Nessuno a cui chiedere aiuto. I pugni, racchiusi dalle manette, gli formicolavano. Inciampò su un tronco che aveva portato l’alta marea. Sentì i granelli di sabbia che entravano negli occhi. Il contatto con l’umida rena.

Quando si voltò, vide alle sue spalle chiara e distinta la figura di Lucy. Camminava piano, sicura. Il braccio teso nascondeva qualcosa dietro la schiena. Davide si rialzò. Mise a fuoco l’apparizione.

Lei si era svegliata presto. O aveva sentito la porta chiudersi. Domande oziose. Perché era a dieci metri, nove, otto, e stringeva in mano una pistola sforzandosi di rendere naturale quello strano modo di camminare. La Browning era celata dietro il corpo, come un’estensione naturale del braccio.

Davide aspettò. Con le manette non poteva andare molto veloce. Lucy lo raggiunse. Era fuori di sé. «Mi avevi promesso niente colpi di testa».

«Voglio evitare che quel pazzo mi spappoli il cervello».

Lucy parve ricordarsi solo in quel momento di avere con sé l’arma.

«Suppongo che ti dovrei sparare».

Davide la fissava senza parlare, quasi in segno di sfida. Il vento dell’Africa soffiava sul suo volto. I capelli dorati della ragazza danzavano nell’aria.

«Ti ho detto che non ti avremmo toccato. Che non avrei permesso che lui ti toccasse. Ma a patto che tu collaborassi».

«E cosa dovrei fare? Subire tutto, e dire anche grazie».

«Torna dentro. Se Flavi si accorge che stiamo qui fuori, succede un casino».

«Dovrai sparare per fermarmi».

«Non costringermi», sibilò Lucy.

Davide fece qualche o in avanti. Senza che un colpo lo bloccasse.

Flavi spuntò fuori dalla dune, armato. Stropicciò gli occhi e li fissò sbalordito.

«Ma che bel quadretto!».

Camminava a fatica. Non riusciva a connettere. A darsi una spiegazione. Si era sparato la razione mattutina di stupefacenti. Gli occhi iniettati di sangue. Si avvicinò e puntò l’arma prima verso Davide e poi verso Lucy. «In casa. Forza!».

Lucy non riconobbe niente di umano in quello sguardo. «Che ti prende?».

«Facciamo i conti a casa. Così diceva sempre mia madre».

Flavi ficcò la canna della mitraglietta tra le costole del prigioniero e lo scortò nella villa. Gli effetti degli acidi cominciavano a disperdersi nella testa. Ancora non capiva per quale motivo l’ostaggio fosse riuscito a uscire.

Lucy lasciò cadere su Flavi un’occhiata disgustata. Era imbottito di droga. Completamente ingestibile. Tentò di difendere Davide e di difendersi. «Ha cercato di scappare, ma si è arreso subito. Senza creare problemi».

«O sei tu che l’hai fatto scappare? Qual era il vostro accordo?».

«Non è come credi».

Flavi sprangò la porta. Tornò in cucina. Si disinteressò della donna e puntò verso Davide. Sentì crescere un misto di invidia, rabbia e frustrazione.

«Spiegamelo tu. Vuoi vedermi morto... come questa americana del cazzo!?».

Alzò la mitraglietta e picchiò il calcio dell’arma contro Davide, che crollò a terra. Quando tentò di rialzarsi, traballante, si accorse che il cranio era solcato da una vistosa spaccatura. Sapeva che le parole sarebbero state inutili.

«Vi siete messi insieme, eh?».

Flavi gli sferrò una ginocchiata. Davide ripiombò a terra, accecato dal sangue che gli sgorgava dalla fronte. Lucy intervenne. Flavi la scansò come un fuscello.

«Non stavolta. Non metterti in mezzo».

Flavi dimenticò il dolore. La spalla non gli faceva più male. Tornò a concentrarsi su quel pupazzo rannicchiato ai suoi piedi. Nella testa aveva una visione fastidiosa, che voleva cancellare. Quella dell’ostaggio che si prendeva gioco di lui. Sferrò un calcio sul prigioniero. Poi un altro e un altro ancora.

«Lascialo stare! Che stai facendo?».

Flavi si asciugò il sudore e guardò dall’alto Davide, con un’aria da matto. «Riderai più di me? Riderai?».

Era completamente fuori controllo. Si accaniva contro Davide, con un rumore sordo, come quello di un bastone che percuote un sacco.

Lucy era esasperata. Tirò fuori la pistola e la puntò contro la belva scatenata. Sibilò gelida: «Fermo».

Flavi si voltò, come se fosse stato punto da un insetto. Guardò la canna della

Browning con aria di sufficienza.

«Metti via quella pistola! Non farmi ridere. Te la stai facendo addosso!».

Lucy conservò il sangue freddo. Stringeva la pistola con tutte e due le mani, tenendo sotto mira Flavi. Non si lasciò spaventare neppure quando lui lentamente spostò la mitraglietta nella sua direzione.

Lucy impresse alla voce tutta la determinazione che aveva dentro e che non aveva mai espresso finora. «Lascialo stare!».

Flavi non si preoccupò della minaccia. La droga gli dava le giuste motivazioni per non arretrare davanti alla Browning. «Io non prendo ordini da te».

Davide si teneva prudentemente accucciato sul pavimento.

Flavi alzò la mitraglietta verso Lucy e scandì bene le parole.

«Sono io che stabilisco le regole».

«Basta!», urlò Lucy.

Per tutta risposta un ghigno tagliò la faccia di Flavi. «Non mi rompere le palle.

Tu non sei capace neppure di usarla».

Il bossolo uscì dalla finestra di espulsione. Una palla espansiva di centoventi grani centrò la fronte di Flavi. Il sorriso gli si increspò. La bocca vomitò sangue. Pezzi di materia cerebrale schizzarono dalla calotta cranica. Un fiotto di sangue raggiunse Davide.

Lucy continuava a reggere la pistola, a gambe divaricate, tenendo sotto mira un corpo senza vita. Davide si rialzò. Le gambe lo sostenevano a fatica. Fissò incredulo Lucy. Sentiva ancora il boato della pistola nelle orecchie. La pozza di sangue attorno alla testa andava allargandosi. Lucy ci si specchiò. Era diventata un’assassina. Ritirò la pistola e scoppiò a piangere. Perché l’aveva fatto?

20.

A volte scatta un meccanismo di difesa nelle vittime che si identificano con i propri sequestratori e parteggiano per loro. Si chiama sindrome di Stoccolma. Davide rifletteva su queste cose, mentre premeva una pezza sul labbro gonfio. Non aveva del tutto smaltito lo spavento. Si era medicato da solo, mettendo acqua ossigenata sulle escoriazioni, e si era infilato una maglietta pulita. Lo specchio gli restituiva l’immagine di sé con le labbra tumide e un occhio pesto.

Voleva dire qualcosa a Lucy. Avrebbe voluto consolarla, perché sapeva che per lei non era stato per niente facile uccidere un uomo. Si controllò un’ultima volta allo specchio e inforcò gli occhiali. Si affacciò in salone.

Lucy era nello stesso posto in cui l’aveva lasciata. Lui avrebbe voluto carezzarle i capelli e raccoglierle la testa sul petto dicendo “va tutto bene”. Invece si limitò a fissarla con occhi vuoti e ò in un’altra stanza.

Quando arrivò l’oscurità, tornò da lei. Lucy era sempre immobile. Si era asciugata le lacrime. Si era rivolta la stessa domanda per tante ore. Perché? Non aveva trovato una risposta che non le suonasse assurda.

Davide guardò la sua salvatrice. Gli veniva istintivo abbracciarla. E stavolta lo fece. Lei si ritrasse, rabbiosa. La Browning si interpose tra i due. «Stammi lontano. – sussurrò – Non mi ringraziare. Non dire niente».

Lei aveva commesso una follia. Non riusciva a perdonarselo. Anche se Flavi era condannato a morte sicura. Voleva dimostrare a se stessa che era ancora in grado di esercitare un controllo sulla situazione. Usò un tono gelido, cercando una distanza che, a quel punto delle cose, sembrava sbagliata. Indicò il corpo.

«Portiamolo via».

«Dove?», chiese Davide, stupito.

«Facciamolo sparire e diamo una ripulita».

Davide assentì, sostenendo il suo sguardo. Prese il cadavere e lo trascinò fino al corridoio. Era diventato un blocco rigido e pesante. Arrotolò il corpo nel tappeto del salone. Lucy recuperò il bossolo. Mise le tende sporche di sangue in lavatrice. Pulì il pavimento. Un’ora buona di lavoro. Sarebbe stata una brava massaia, se si fosse trattato di macchie di unto. Terminato il lavaggio, fece segno a Davide di non muoversi e infilò la pistola alla cintola. Controllò il monitor. Nessun movimento sospetto. L’eco del colpo poteva essere stata scambiata per qualche follia di un tifoso in ritardo sui festeggiamenti.

Sul muretto qualcuno aveva scritto “L’Italia s’è desta”. Accanto, una bandiera della nazionale disegnata con spray tricolore. Il cielo era nero, carico di pioggia. Stava per arrivare il classico acquazzone estivo. I bagnanti avevano fatto ritorno nelle loro case. Lucy non voleva indugiare. Raggiunse il box, tirò su la saracinesca e aprì il congelatore. Tirò fuori i rack e li lanciò in un angolo, scompaginando i contenitori. Poi tornò alla villa e sorrise. Pareva un vampiro. Una macchiolina di sangue le era rimasta attaccata alla manica della maglietta.

«Nel seminterrato. Lo metteremo nel congelatore».

I due issarono sopra le spalle il cadavere. Il corpo si andava irrigidendo e le braccia erano bloccate in una posizione innaturale. Uscirono in strada barcollando come due ubriachi. Tenevano quel tappeto dalla strana forma sopra le loro teste. Scesero i gradini, a i incerti, reggendo a fatica il peso. Prese a piovere. Una pioggerellina fitta. Si infilarono nel seminterrato.

Depositarono il loro carico nel congelatore. Lasciarono il pozzetto aperto. Si ripresero dallo sforzo. Si tapparono le narici. Richio lo sportello del congelatore, dopo avere dato un’ultima occhiata al cadavere. Davide regolò il termostato elettronico. Risuonavano i rintocchi lugubri della pioggia.

Lucy prese due birre dal frigorifero di riserva e ne ò una a Davide. All’esplosione convulsa della violenza era seguito un silenzio teso. Nessuno dei due parlava. Da quel cubicolo di cemento si sentiva il battere della pioggia, placido e regolare. Un blues di rumori metallici e liquidi faceva da colonna sonora. Diedero uno sguardo al display della temperatura, prendendo fiato. Poi bevvero le birre. Gelate. Sapevano di orrore, di sangue rappreso, di tradimento. Sapevano di tutto, tranne che di birra.

Lui si incamminò prima di lei, a dorso nudo. Stava risalendo i gradini. L’acqua acida si abbatteva implacabile sul suo corpo. Lucy era dietro. Con la coda degli occhi notò la macchina della polizia parcheggiata sulla strada e vide la sirena che lampeggiava nella semioscurità.

L’acqua seguitava a gocciolare su di loro. Fermi.

Una sbirra sui quaranta sostava davanti all’ingresso. Si guardava intorno.

Un collega ben piazzato, muscoloso e coi capelli a spazzola, spense il lampeggiante, smontò dalla volante e raggiunse la collega.

D’istinto Lucy si appiattì contro una colonna di cemento. Fece appena in tempo a sottrarsi allo sguardo dei poliziotti. Davide guardò indietro e non trovò nessuno. Tutto troppo veloce, per poter ragionare. Acqua a catinelle, e due figure in divisa che rompono il muro liquido. Un polipo di luce blu. Un’assenza improvvisa. E il terrore di dover fare una scelta.

I poliziotti gli fecero un cenno di saluto. «Cercavamo proprio te», disse Sara, togliendosi il cappello.

21.

Sara odiava la pioggia. Non le piaceva indossare la divisa col caldo di luglio. Non le piaceva la volante. Non le piaceva trascorrere tanto tempo con Ivan.

Alto, capelli corti, corpo scolpito da body-builder, il suo nuovo gemello aveva come unici argomenti di conversazione il calcio e la dieta sportiva.

A dirla tutta, a Sara non piaceva neppure il suo lavoro. In quel piccolo centro non succedeva mai niente. La maggior parte degli interventi erano cose insignificanti. Aveva attaccato la mattina con un caso pietoso. Un truffatore aveva convinto una vecchietta a farsi consegnare ottocentomila lire sostenendo che era un finanziere e le banconote andavano sequestrate. Sara aveva registrato la denuncia. Durante una pausa in questura, aveva provato a sentire Davide, ma il telefono era staccato. Alle sedici c’era stata un’altra chiamata. Un inquilino aveva avvertito il 113: «Nell’appartamento vicino al mio c’è una puzza tremenda». Avevano effettuato un sopralluogo. Un fetore incredibile, le finestre chiuse, nessun segno di vita. Temendo il peggio, i due avevano sfondato la porta. Nella penombra c’era il corpo del padrone di casa. L’afrore era insopportabile, avevano pensato di trovarsi di fronte a un cadavere. Ma l’uomo era semplicemente sprofondato nel sonno, e rivoleva indietro i soldi della porta rotta. Sul rapporto avevano scritto che l’allarme era stato causato da un’insopportabile puzza di piedi.

Sara sbuffò e andò incontro a Davide, incurante della pioggia. Scrutò l’aspetto malconcio di Davide e il suo sguardo ebete. Smorzò l’acredine che le premeva dentro e tirò fuori una voce atonale. «Cos’hai fatto?».

Davide rimase in bilico su uno scalino, sotto un diluvio acido. «Io...», tentennò e si voltò. Sembrava cercare qualcuno con lo sguardo. Poi abbozzò un sorriso. «Sono caduto dalle scale. Ma non è niente».

Sara lo squadrò. Non pareva sincero. Aveva del fiele contro di lui, ma non voleva dimostrarlo. Non almeno davanti al collega.

Ivan camminava verso di loro col petto in fuori e le gambe divaricate. Si prendeva sul serio. «Tutto bene qui?».

Davide annuì, tirato in volto. Osservò il poliziotto avanzare. La sua attenzione si concentrò sulla pistola alla fondina. Non staccava gli occhi dall’arma. Era così nervoso che quando la lampada esterna s’accese automaticamente fece uno scatto. Sentiva su di sé lo sguardo degli sbirri e, anche senza vederlo, quello di Lucy. L’acqua lo falcidiava. Era completamente bagnato, ma era come se la faccenda non lo riguardasse. Doveva dare l’impressione di essere perso nel suo mondo. Era sul punto di denunciare la presenza di Lucy, di portare gli agenti da una parte e indicare l’americana nascosta nell’ombra, ma ci ripensò.

Non sapeva neppure lui cosa gli attraversò la mente in quel momento. Ma da allora fu risoluto, come se dopo aver vagato in un banco di nebbia avesse riacquistato l’orientamento. Forse era stata la riconoscenza. In fondo Lucy gli aveva salvato la vita. O forse quel qualcosa che si era creato tra loro. Perché, lo aveva capito solo adesso, Lucy gli ricordava lo sguardo di Teresa.

Inspirò e cercò di assumere un contegno più dignitoso. Guardò prima Sara, poi il collega. «Ci ripariamo sotto la tettoia?».

I due annuirono e lo seguirono. La pioggia stava diminuendo d’intensità.

«Come mai da queste parti, agenti?», chiese loro.

Ivan scambiò uno sguardo con Sara. Era la più alta in grado. Toccava a lei spiegare. L’ennesima rogna della giornata.

Sara cercò di essere professionale. «Abbiamo avuto alcune denunce di furto in questa zona. La Polizia di Stato è stata interessata ai reati».

Davide controllò con una rapida occhiata attorno, poi seguì il discorso.

Sapeva benissimo che, in presenza di altri, non doveva mostrare confidenza verso Sara. «E io in cosa posso essere utile?».

Ivan aveva l’aria di chi voleva togliersi in fretta la scocciatura. «Ci chiedevamo se hai visto delle persone sospette aggirarsi nei dintorni. Stiamo indagando su una serie di furti».

Sara sistemò il berretto per ripararsi dalla pioggia. «La villa è vicina a quella di altri bersagli di un ladro seriale. Non ha mai notato brutte facce qui intorno?».

«No... Purtroppo no».

«Sicuro?».

«No, ripeto. E poi in questi giorni non sono stato molto a casa...».

«C’è qualcosa che potresti fare per noi. Ti va di perdere un po’ di tempo?».

«Veramente avevo altro da fare».

«Come cadere dalle scale».

«Mi dispiace, io non posso esservi di aiuto».

«Ci sono delle segnaletiche che vorrei mostrarti. Di individui che sospettiamo essere gli autori dei furti».

La radio della volante gracchiò. Sara disse a Ivan di andare a rispondere e aggiunse che avrebbe potuto fumarsi una sigaretta in santa pace. Ivan non vedeva l’ora di staccare e andare al Bar Roma. Schizzò verso la vettura con la rapidità di un centometrista.

«Queste sono le foto segnaletiche. Dacci un’occhiata, e dimmi se hai mai visto prima queste persone, che magari gironzolano nel quartiere».

Raggiunta la macchina, Ivan tutto contento tirò fuori il pacchetto di Marlboro, riparandosi dalla pioggia. Aveva incontrato il forestiero un paio di volte in paese. Ma non aveva mai avuto la minima curiosità verso di lui.

Sara aspettò che il collega salisse a bordo della volante, per cambiare subito espressione, dopo aver consegnato a Davide una cartellina. «Le foto non si vedono bene. Perché non andiamo di sotto, in cantina?».

«Perché lì?».

«Qui ci bagniamo».

Davide restò con i fogli in mano, a mezz’aria. Per nulla al mondo avrebbe portato un poliziotto sul luogo dove aveva appena occultato un cadavere. Lucy poteva cacciarlo nei guai. Rischiava complicità in omicidio.

Sara lo precedette e cominciò a scendere gli scalini sotto la luce fioca del lampioncino. «Potresti offrire da bere a me a al collega?».

Davide seguiva la sua amante come un fantasma bruciato. Provò a dissuaderla. Non c’era bisogno di andare nel seminterrato. Potevano prendere delle bibite in casa. Sara ricordava un grande frigorifero pieno di bevande fresche. Trovò la strada da sola. Accese la luce e piantò gli occhi su Davide. La recita era finita. Con Ivan doveva salvare le apparenze, ma nel chiuso della cantina il tono era mutato.

«Ti ho lasciato un messaggio in segreteria. Ho provato a chiamarti decine di volte. Ma tu niente. Hai staccato il telefono. Che fine hai fatto?».

Davide si schiarì la voce, mentre Sara si piazzò piena di collera davanti al congelatore. C’erano pochi centimetri tra lei e un cadavere. L’enormità della cosa lo gettò nel panico. Perlustrò con lo sguardo la stanza: pulita e in ordine. Anche una tipa sveglia come Sara non avrebbe notato nulla di strano. Ma sapere che il corpo assiderato di Flavi si trovava lì, in mezzo a loro, lo faceva sudare. Si frappose tra Sara e il congelatore, cercando di giustificarsi.

«Quello che avevo da dirti te l’ho già detto. È stata una cazzata».

«Tu mi stai evitando! Cerchiamo insieme una soluzione».

«Oddio. Non ricominciare. Che soluzione ci deve essere?».

Rabbiosa, Sara picchiò il pugno sul congelatore. Davide sussultò osservando l’involucro del freezer vibrare. Voleva far dimenticare a Sara l’idea delle bibite.

«E a Michele, non ci pensi?».

«E tu ci hai pensato, quando mi scopavi?».

«Non riesco a fare a meno di pensare a tuo marito».

«È stato il mio primo fidanzato. Ho fatto una cazzata a sposarlo e trasferirmi in questo paese di merda. Avevo tutta una vita davanti, tante possibilità, e me le sono lasciate alle spalle».

Un colpo di clacson fece voltare entrambi. Era la volante fuori.

«Il collega comincia a spazientirsi. Possiamo continuare questa conversazione domani?».

Lo sguardo di Sara si velò di tristezza. «Ho bisogno di bere».

Davide trasalì. Sara aveva le mani sullo sportello del congelatore e stava aprendo il pozzetto. Fu rapido nel precederla: tirò giù lo sportello con tanto impeto che per poco non le spezzava le mani. Sara lo guardò stupita.

«Ma che hai?».

«Non tengo qui le cose da bere».

Aprì il frigorifero di riserva alle spalle del freezer e ne mostrò il contenuto. «Cosa preferisci?», si affrettò a chiedere.

«Gatorade. Ivan è fissato con la palestra. Non sgarra mai: né alcol né zuccheri».

Sara dava le spalle a Davide, con gli integratori in mano, quando tornò indietro. «Hai saputo che è successo al Royal, dopo che te ne sei andato?».

«No», mentì Davide sempre più a disagio.

Un altro colpo di clacson segnalò che il tempo era scaduto.

«Ci vediamo in commissariato. a da me con la scusa dei furti. Dì che ti sei ricordato di un dettaglio e che vuoi metterlo a verbale. Ora devo andare».

Un arcobaleno segnava il cielo. Il diluvio era terminato. La volante aveva il motore . Ivan si stava innervosendo. Si attaccò nuovamente al clacson. Dalla centrale operativa alla volante “alfa 3” nessuna chiamata. Spense la sigaretta nel posacenere. Odore di tabacco in tutta la macchina. L’unico vizio per uno sportivo come lui.

Sara s’infilò al lato guidatore e sbatté forte lo sportello.

«Alla buon’ora!» la apostrofò Ivan.

«Gli ho mostrato le foto. Un flop».

«Andiamo!».

«Gentilmente offerte».

Sara ò il Gatorade al collega. Sorvolò sul fatto che avesse fumato in macchina. Era troppo stanca. Buttò la testa all’indietro spingendo il petto in fuori, per sgranchirsi.

Lo sguardo di Ivan si soffermò sul suo seno. Premeva sull’uniforme. Poteva indovinarne le forme. Ivan lo sapeva: il corpo di Sara era una meraviglia. Lui aveva l’occhio clinico. Ma era meglio non pensarci. Sara se la tirava troppo.

Partì a razzo. Accese la radio per sentire i commenti sulle ultime fasi dei Mondiali, ma c’era un barboso notiziario.

Non si ha ancora una stima dei danni alla catena dei magazzini Standa. Secondo un esponente del governo gli attentatori intendevano lanciare un’intimidazione per bloccare il rinnovamento. Maroni denuncia il clima da guerra civile e teme un complotto di vasta portata. Voci isolate interpretano gli episodi come un avvertimento al destinatario, per ricordargli impegni presi e non mantenuti. Il significato sembra voler dire: “Siamo qui e possiamo anche fare peggio, non ti abbiamo mandato a Roma per scaldare le poltrone!”.

Ivan cambiò canale.

8–13 luglio 1994 Versilia, Palermo, Roma

L’errore peggiore è pensare che quello che conta più di tutto in una partita sia vincere. Niente affatto. Quello che conta è la gloria. È giocare con stile, con bellezza, è andare in campo e travolgere l’avversario, non aspettare che sia l’avversario a farsi avanti e così morire di noia.

Robert Dennis

22.

Davide nascose la mitraglietta. Ripristinò la linea telefonica. Pulì la camera dove aveva dormito Flavi. Controllò se qualcuno aveva violato il laboratorio e richiuse a doppia mandata la porta blindata.

C’era ansia febbrile nelle azioni di Davide. Rabbia repressa. Per ultimo sostò nel patio. Aveva bisogno d’aria. Gli sembrò di riprendere possesso della vita. Era tornato a inspirare la brezza marina. L’acquazzone aveva purificato l’atmosfera. Gli era sempre piaciuto trascorrere lì la mattina, con lo sguardo fisso sulle onde. Ma niente era più come prima. Niente lo sarebbe più stato.

Lucy uscì sul patio. Poche ore di sonno e molta confusione nella testa. I vestiti gualciti. Rughe attorno agli occhi. Era invecchiata di colpo. Il sole la abbacinò. Strizzò gli occhi per proteggersi dalla luce accecante.

«Io e te dovremmo parlare».

Si erano ignorati dalla sera prima. Dal momento in cui la polizia era andata via e lei era tornata in casa, i ruoli di carceriera e prigioniero erano stati travalicati. A quel punto le azioni si erano spinte troppo oltre.

Davide fissava la distesa d’acqua inondata di riflessi dorati, come se il corpo della donna fosse invisibile. Un clima di sospensione aleggiava intorno. Il confronto era inevitabile. Lucy gli si piazzò davanti.

«Perché non mi hai denunciato?».

Lui ruppe il silenzio per farle male, per colpirla direttamente allo stomaco. «Mi facevi pena. Ti ho coperta solo per quello».

Lei lo implorò: «Aiutami».

«Mi hai sequestrato, hai minacciato di uccidermi, e ora vieni a chiedermi aiuto? Hai una bella faccia tosta».

«Adesso sono sola. Non c’è nessuno che mi dice che cosa devo fare. Non devo rendere conto a un pazzo».

«Non ti è bastato quello che ho fatto? Non ho detto niente alla polizia».

«Anch’io ho fatto qualcosa per te. Te lo sei scordato? Ho ammazzato un uomo».

Davide la evitò. Tornò in salone. Avrebbe voluto troncare lì la discussione. Lei lo seguiva, supplicante.

«Starò qui ancora per una settimana. Il tempo che le acque si calmino. Ti chiedo solo questo. Poi me ne andrò».

«Scordatelo. Te ne vai adesso!».

«Sei tanto stupido da dire no a una barca di soldi? Possiamo metterci d’accordo. Potresti diventare ricco».

«Non so a chi hai rubato quelle cose, ma le rivorrà indietro».

«Posso offrirti un terzo. Hai idea di quanto sia?».

«I soldi non mi interessano».

«La metà della refurtiva?».

«Io non sono un tuo complice. Non ne voglio sapere niente, né di te né della droga e dei diamanti né di chi ti dà la caccia».

Lucy aveva la bocca asciutta. L’emicrania la stava devastando. Afferrò la pistola sul comodino con la forza della disperazione. La puntò verso Davide.

«Peggio per te».

«Avanti. Sparami».

«Non mi costringere».

Davide sostenne il suo sguardo. La sfidò, con strafottenza.

Lei improvvisamente sentì la stanchezza abbattersi sul suo corpo. Brividi caldi la infiammarono. Si chiese perché, alla vista della pistola, Davide non tremasse come una foglia. Abbassò l’arma, esausta. «E va bene. Hai vinto tu».

Ormai la situazione era cambiata. Lei non sarebbe riuscita a uccidere il suo salvatore. Lasciò cadere la pistola ai suoi piedi, come un indumento.

«Comunque non farti venire strane idee. L’ho scaricata, mentre tu dormivi».

Lucy scosse il capo. Non si aspettava una simile bassezza. Adesso era completamente alla sua mercé. I due si fronteggiarono. Occhi negli occhi. Nessuno si fidava dell’altro.

«Voglio che lasci questa casa», la minacciò Davide.

Lo squillo scosse entrambi. Era la prima irruzione dell’universo esterno, dopo la visita della polizia. Il telefono suonò, di nuovo, ancora più forte.

Davide fissava la cornetta. Lucy fissava Davide. La segreteria telefonica partì al quarto squillo. “Lasciate un messaggio, non sono in casa”.

Davide, sono Michele. Preparati ad una bella uscita. Indovina chi è venuto a trovarci? Il grande Leo. Richiamaci. Ciao.

Mentre il nastro si riavvolgeva, Lucy intuiva l’irresolutezza di Davide dietro il piglio spavaldo. Sapeva di esercitare una forte attrazione sugli uomini. E Davide non ne era immune.

Giocò la sua ultima carta. L’aveva giocata tante volte, in vita sua. Non si fece scrupolo di ricorrervi anche questa volta. Lui restò di sasso.

«Sono disposta a tutto».

Lei aprì la bocca in un sorriso demoniaco. Lui deglutì. Avvampò, imbarazzato. Lo stupore si mischiò all’eccitazione. Vide la T-shirt che cadeva a terra. «Che fai?».

Aveva dei seni sodi. Capezzoli duri come chiodi. La migliore offerta possibile.

«L’ho capito, sai? Da come mi guardi. È questo che vuoi».

Davide si sforzò di staccare gli occhi da quel corpo. Caldo, sensuale, voluttuoso. Si schiarì la gola. «Rivestiti».

Lucy terminò di sbottonare i pantaloni. Indossava slip neri, aderenti come una seconda pelle sulle natiche.

«Rivestiti!».

Lei si avvicinò. Lui la respinse. Le loro mani si toccarono. Poi lui la spintonò, brutale.

«Hai capito male. Io non sono quel genere di persona».

Lucy riprese da terra la T-shirt, in silenzio.

«Ti do tempo fino a stasera. Poi te ne vai. Ti garantisco che non sporgerò denuncia e nessuno saprà che sei stata qui. Di più non posso fare».

«È la tua ultima parola?».

Davide non rispose. Infilò il corridoio e aprì la porta.

«Dove vai? Dove...?», protestò lei alterata. Poi vide Davide uscire e oltreare

le sterpaglie nel giardino. La sua figura si perse nel viale davanti al mare.

23.

Si era pentita dell’offerta che aveva fatto di se stessa. Ma non si sentiva umiliata. Nessun uomo l’aveva respinta. Questo non faceva che aumentare la considerazione che nutriva per Davide. Aveva capito di provare qualcosa per lui. Qualcosa che non riusciva a definire. Non avrebbe rovinato tutto. Davide era una persona interessante. Faceva sogni a occhi aperti. Lo vedeva tornare con un sorriso radioso e due biglietti per il Sud America. Sarebbe andata ovunque con lui. In qualsiasi posto del mondo, dove non ci sarebbero stati Marziano, la mafia e la polizia.

Le vennero in mente tutte le volte in cui negli ultimi giorni lei era stata da sola con Davide. C’erano stati poesia nei loro sguardi e desiderio nei loro gesti? Oppure era la sua immaginazione a elevare la loro totale reclusione a un livello più alto e metaforico?

I minuti scorrevano lenti. Temeva che sarebbe stata smentita dai fatti. Temeva che le sue illusioni sarebbero state spezzate dai lampeggianti e dalle sirene della polizia. Davide l’avrebbe tradita? Controllava il monitor, mentre sentiva crescere la sua ossessione. Dei rumori le fecero accapponare la pelle. Gli sbirri? Scostò le tende. Il terrore nella mente. Un piano di fuga. Presto: doveva elaborare un piano di fuga. Dalla strada arrivavano delle grida. Il suo cuore impazzì. Divenne cianotica. Si ricordò di non avere caricato la pistola. Controllò di nuovo il monitor. Nessuno davanti al portone. Tornò alla finestra. Adesso li vedeva bene. E tornò a respirare.

Tre gatti. Uno più grande, col pelo arruffato e il muso contratto dalla tensione, si lanciava nello scontro. Emetteva guaiti sinistri, poi un cupo brontolio. Lo sfidante rispondeva. Nascosta nell’ombra, una gatta osservava il duello. Per

nulla impressionata.

Lucy si allontanò dalla finestra tirando un sospiro di sollievo. Doveva rilassarsi. La tensione le impediva di concentrarsi. Non si sarebbe lasciata paralizzare dalla paura. Non avrebbe aspettato lì la sua fine. Trovò un’alternativa. Vide che l’auto era rimasta parcheggiata in giardino e cercò le chiavi della BMW. Sul fondo di un cassetto scorse delle chiavi lunghe e pesanti. Erano nascoste sotto una pila di magliette. Appartenevano al laboratorio.

Lucy rifletté. Decise di darci un’occhiata. Aprì la porta blindata. Cosa nascondeva di tanto importante?

La stanza puzzava di stantio. Su una postazione, un computer e altre diavolerie tecnologiche. Il porta-ritratto con la foto di una donna. Lei non era male. Mora, aspetto mediterraneo. Scaffali pieni di nastri, rullini, telecamere, apparecchi di cui ignorava l’uso. A terra una pila di scatoloni. Ne afferrò uno e lo aprì. Dentro c’erano penne, radiosveglie, multiprese, lampade da scrivania.

Nel rimettere a posto il contenuto le cadde una cartellina. La raccolse. Sotto la carta polverosa, al tatto sentiva dei fogli. La tentazione era forte. Vide di che si trattava. Una lettera. I suoi occhi saltarono da una riga all’altra.

Caro Davide

mi congratulo per il lavoro svolto. Non deve essere stato facile piazzare le telecamere nei luoghi di incontro dell’organizzazione criminale. I filmati ci torneranno preziosi. Ora devi spostare l’attenzione sulla sorella di un magistrato. Il pm, Alberto Colaianni, è già oggetto di sorveglianza da parte di

colleghi della tua divisione, in quanto 1) è titolare di inchieste che coinvolgono i rapporti tra cosche mafiose, imprenditori e amministratori locali e, nonostante sia stata rafforzata la sua vigilanza, si ritiene ad alto rischio; 2) ha sviluppato atteggiamenti di completa autonomia, è polemico nei confronti dell’attuale governo ed è depositario di informazioni perniciose per la sopravvivenza della Repubblica.

Abbiamo ragione di ritenere che la sorveglianza di Ada Colaianni sia strategica al fine di stabilire falle del dispositivo di sicurezza attorno all’obiettivo sensibile, segnalare possibili piani criminosi e valutare la lealtà del soggetto e la sua possibilità di attingere materiale riservato. Non prendere iniziative fino al mio rientro a Palermo. Non sottovalutare la missione. Ho raccolto da fonte attendibile la notizia dell’acquisto di tritolo proveniente dall’ex Iugoslavia da impiegare in un attentato.

Sergio Rizzo

Lucy controllò la data. Febbraio 1992. Mise via la lettera. Stentava a crederci. Davide era stato un agente segreto. Aveva svolto attività di spionaggio. Doveva penetrare il suo lato oscuro o rispettarlo? Vinse la curiosità. Avrebbe sfidato la collera dell’uomo. Prese un gran respiro, come un’archeologa al cospetto di un tesoro, e svuotò sul tavolo quello che conteneva la busta. Trattenne la sorpresa.

Una fede in platino, sottile e bombata, adagiata su un cuscinetto di pizzo. Incise le iniziali “D” e “T”. Un’ecografia ostetrica relativa a Teresa Calò. Scrutò l’immagine del feto, la testa e gli arti che si stagliavano nel liquido in cui erano immersi. I fatti si erano svolti a Palermo in un periodo abbastanza ristretto. La data sull’esame ostetrico era del maggio 1992. Quella impressa sulla fede era agosto 1992. Lucy cercava di recuperare fili del ato. Anello nuziale e gravidanza. Sperava di trovare una visione d’insieme. Ma le sfuggiva il senso di quei documenti. Volse l’attenzione all’ultimo foglio della cartellina. Lo esaminò con cura. Le mani le tremavano, come scosse da un fremito. Un’altra lettera.

Caro Davide, l’agente di polizia Teresa Calò è risultata in “stato interessante”. Al dolore per la sua morte, si aggiunge quello per la perdita del bambino che aspettava.

Non ho parole per esprimerti la mia vicinanza. Ma dal giorno dell’attentato, ho notato che non sei più lo stesso. E certo non ti biasimo. Ancora non è stata formalizzata una posizione della Divisione nei tuoi confronti. Non me ne vorrai se ho autorizzato dei controlli medici. Gli esiti hanno certificato il ricorso all’uso di droghe nel tentativo di vincere la depressione. Ho disposto che fossi ricoverato al centro di disintossicazione. Per la considerazione che ho di te e l’affetto che mi lega a tuo padre, ho occultato ogni prova della tua deriva. Sono fiducioso che tu possa superare il momento difficile. Sono convinto altresì che sia doveroso importi un’aspettativa e la ripresa del servizio solo in seguito ad accurate visite psicologiche.

Lucy rilesse quattro volte la lettera. Adesso il quadro era nitido e le tessere del mosaico si incastravano. Tutto si era fatto chiaro. Intuì il motivo per cui l’Uomo dei Sogni si era costruito con le sue stesse mani quella prigione dorata.

Un rumore la scosse. Stavolta non era un gatto in amore. Sentì il cancelletto del giardino richiudersi. Tese le orecchie. Non voleva essere sorpresa con le mani nella marmellata. Mise tutto a posto. Piazzò il mobile raccoglitore davanti alla cassaforte, com’era prima. Si affrettò a chiudere la porta e lasciò le chiavi al loro posto.

Uscì dal laboratorio appena in tempo per vedersi di fronte Davide. Sguardo sospettoso e ostinato. Poi un sibilo: «È buio. Facciamolo. Adesso».

Lucy non capiva a cosa si riferisse. Notò che aveva le scarpe bagnate e l’aria sconvolta. Poi intuì di che cosa parlava. Erano vicini a stringere un patto, e già questo era un successo. Una prima tappa verso la salvezza.

Non disse una parola su ciò che aveva visto nel laboratorio. Non disse nulla sulle rivelazioni. Aveva provato dolore quando non era riuscita ad afferrare la personalità di Davide. Lo aveva idealizzato. Aveva fantasticato sul suo ato. Aveva distorto molti lati del suo carattere. Adesso era venuta a conoscenza delle sue drammatiche esperienze e si era resa conto che non avrebbe potuto dire di conoscerlo. Tante cose di lui le sfuggivano, e forse le sarebbero sempre sfuggite, ritirandosi nell’ombra.

24.

Sergio Rizzo entrò nel Comando Compagnia Oltrarno, salutato dai carabinieri, mentre l’aria si riempiva di note musicali provenienti dal Castello dell’Acciaiolo. La caserma sorgeva a ovest del tracciato dell’autostrada del Sole e a sud della collina di Scandicci, dove si teneva uno spettacolo teatrale. Il magistrato fiorentino con cui Rizzo aveva appuntamento si chiamava Nicola Mondani, era vecchio e malato, ma non aveva perso la brillantezza negli occhi.

Lo attendeva su una sedia a rotelle all’interno della caserma. Conduceva una vita da recluso, dopo che gli era stato recapitato un proiettile e aveva ricevuto minacce telefoniche.

Il primo capitolo dell’Operazione Reset sarebbe stato la sua testimonianza. Occorreva individuare le prove dell’esistenza di una struttura segreta che si ergeva sopra la Cupola.

«Se non mi fa fuori la mafia, mi ucciderà il processo degenerativo delle cellule», disse Mondani che, per essere conciato in quel modo, appariva di buon umore. Si era occupato per primo della strage dei Georgofili e aveva tracciato una soluzione di continuità nei quintali di tritolo seminati per l’Italia. «Mi sono stupito che qualcuno sia ancora interessato a sentire la voce di questo paralitico, evidentemente non tutti i vertici delle istituzioni sono sordi ai richiami della coscienza».

«Il mio obiettivo è capire se nelle stragi mafiose del ato c’è stato l’intervento di apparati deviati e di alti livelli militari, e se l’ordine di far esplodere le bombe

nel ’92 è partito da Palermo o da Milano».

«Si è rivolto alla persona giusta. Trame criminali e poteri oscuri sono stati il mio pane quotidiano fino a due mesi fa, quando mi sono arreso alla malattia. Adesso sono in questo bunker in attesa di qualche miglioramento nella salute. Ho una memoria perfetta, ricordo tutto – sembrava parlasse di un millennio fa –. La vera svolta nelle indagini è arrivata grazie a un collaboratore di giustizia. Vincenzo Di Pasqua».

Rizzo conosceva le carte dell’inchiesta. La maggior parte degli episodi raccontati da Di Pasqua erano un sentito dire. Da andarci coi piedi di piombo. Eppure rinforzavano le supposizioni di chi vedeva nella guerriglia armata una matrice esterna ai capi mafiosi. Di Pasqua era a conoscenza di segreti pesanti perché fino al suo arresto era stato l’ombra del boss Marcello Santachiara. Lo aveva accompagnato ovunque, anche nei summit. Santachiara gli aveva riferito di fatti e persone. Rizzo finse di esserne all’oscuro.

«Di Pasqua non è quello che si è suicidato in carcere?».

«Per legarsi alla finestra con le stringhe di una scarpa ci sarebbe voluto un acrobata, e Di Pasqua non ha lavorato in un circo».

«Si sentiva depresso? Qualcosa che potesse giustificare quel gesto?».

«Non avrebbe mai fatto una cosa simile. Era solo un uomo inquieto. O, più semplicemente, un uomo».

«Pregiudicato per associazione a delinquere, possesso di esplosivi e detenzione di stupefacenti».

«Era uno della vecchia mafia. Non si riconosceva nei nuovi sistemi. Una volta mi disse che lui era stato l’inizio della fine. Firenze era stata qualcosa di diverso. L’eliminazione di innocenti, la distruzione di opere d’arte e l’intimidazione ai politici erano un cambio di strategia. Stavano dichiarando guerra all’Italia».

«Perché Di Pasqua parlava solo con lei?».

«Sapeva che io non mi sarei fatto comprare. A Palermo non aveva aperto bocca, ma lontano dalla Sicilia si sentiva più al sicuro».

Il magistrato portò la sedia a rotelle davanti a una montagna di verbali. «Voleva chiudere col ato, sperava che il suo esempio sarebbe stato d’aiuto. All’inizio della collaborazione, ha omesso di dire molte cose in relazione a un personaggio politico di livello nazionale. Non ha rivelato del suo ruolo perché era una persona che gli faceva paura. E così aveva parlato dei semplici picciotti. Poi fu portato a rivedere le sue posizioni. Cosa Nostra era diventata una macchina di morte e di tragedia, e Di Pasqua come affiliato non ci vedeva nulla al di fuori di delitti, bombe e ricatti. Per questo aveva riportato a me ciò che aveva omesso».

«Ha mai sentito parlare dell’Anello?», domandò Rizzo.

Il magistrato scosse il capo. Rizzo si sentì più sollevato.

«Prendono nomi diversi, ma sono sempre le stesse cose. – continuò Mondani – Consorterie, cricche, associazioni segrete, intrecci di interessi».

Rizzo capiva al volo Mondani.

«Non vogliono che si arrivi a un livello più alto. In teoria, tutti sono d’accordo nel dire che Cosa Nostra ha accresciuto il suo potere mediante collusioni e favori istituzionali, ma quando giudici tenaci come lei provano a dimostrarlo sul piano giudiziario, diventa un complotto per distruggere gli avversari. L’affidabilità dei collaboratori di giustizia e l’azione dei magistrati sono ritenute legittime finché affrontano i quadri bassi delle gerarchie criminali». La mano di Mondani tambureggiava nervosa sulla sedia. I suoi occhi piccoli e svegli tentavano di interpretare il volto di Rizzo. Il funzionario dell’Intelligence gli carezzò la mano, in segno di gratitudine per ciò che aveva fatto e di cui nessun cittadino sarebbe stato informato. Poi prese un verbale che Mondani gli porse e lo lesse con attenzione.

Procura di Stato – Testimonianza resa da Vincenzo Di Pasqua

I rapporti tra il Professore e la nostra organizzazione erano buoni. Non so se il Professore era un uomo di Cosa Nostra, ma partecipava a riunioni importanti in provincia di Messina. Agli inizi degli anni Novanta c’era una strategia contro lo Stato che prevedeva di mettere delle bombe in giro per l’Italia. Ricordo bene che il Professore era presente a una riunione nel ’92 nella quale c’erano esponenti dei clan catanesi e della cosca Bonomi. Si discuteva di portare avanti un partito nuovo per fare delle cose e aggiustarne altre come il 41 bis. Bisognava anche screditare i pentiti e proprio a questo doveva servire il partito nuovo. Poi abbandonammo tutto, quando venne fuori che c’era un progetto politico solido, esterno, che cercava il nostro consenso. L’attentato a Colaianni e le stragi del ’93 sono stati pianificati a un tavolo al quale sedeva anche il Professore. Le sue rassicurazioni ci convinsero. «Ora dovete stare calmi, basta clamore. Ci vuole

tranquillità», aveva detto. Santachiara mi riferì che i nostri capi avevano trovato il loro uomo, un imprenditore milanese con un mucchio di soldi, e le indicazioni del clan Bonomi erano state di votare per la parte politica del Professore, che si sarebbe presentato al collegio di Bagheria-Belmonte. Ma c’era anche qualcuno che dissentiva nella nostra organizzazione. Il capomandamento di Caltanissetta mi confessò che alcuni signori di Milano avevano dato cinquecento milioni ai vertici di Cosa Nostra per mettere le bombe, e questi signori avevano consigliato di sparare per parlare, di fare la guerra per fare la pace. Mi disse che i veri reggenti erano incensurati dei piani alti, perché noi non avevamo un reggente, ma un pupo.

Dopo la lettura, Rizzo infilò il materiale processuale in una comoda 24ore e si trattenne ancora un poco a parlare con Mondani. Era nato tra i due un rapporto di rispetto reciproco e cordiale amicizia.

A malincuore, Rizzo uscì dalla caserma e prenotò un volo per Palermo.

25.

Mentre la Mercedes blindata attraversava la Cristoforo Colombo, Salvatore cancellò dalla mente l’immagine del bosniaco scannato come un capretto. Allo zio aveva riferito di un incontro col Professore fissato da Aragona. La merce rubata gli interessava sempre meno. Era alla politica nazionale che si doveva lavorare. Altrimenti Cosa Nostra non andava lontano.

Vituzzo era un pessimo autista. Zigzagava nervoso e inchiodò la Mercedes al semaforo. Salvatore sussultò e si aggrappò al bracciolo per non scivolare sul sedile. Cominciava a pensare che lo fe apposta.

Era troppo emozionato per arrabbiarsi. Voleva entrare negli ambienti del potere e quel giorno avrebbe conosciuto la persona giusta. Il sostenitore degli interessi del suo clan in Lombardia, l’uomo che aveva previsto il crollo della DC e lavorato per colmare il vuoto, il regista della vittoria politica più schiacciante della storia repubblicana. Aragona gli aveva fatto sapere che le trattative con lo Stato erano in corso. Il governo avrebbe varato un primo decreto. Il Professore stava esaminando leggi a loro favorevoli. Non c’era bisogno di rivelare i contenuti del dischetto. Le minacce erano da archiviare. Ai palazzi alti si erano sentiti stringere le chiappe a ogni Standa che saltava. Il Professore era stato avvisato: camminava su una polveriera. E aveva ceduto su tutta la linea, calando le braghe. A Salvatore sarebbe spettato il compito di vigilare sugli accordi. Don Tonio si fidava solo del suo sangue.

Vituzzo non dormiva sonni tranquilli al pensiero che gli assassini del nipote circolavano liberamente. Avrebbe voluto concentrarsi sulla vendetta. Tutto il resto era una perdita di tempo. Disse che tra qualche minuto sarebbero giunti a destinazione. Guidava da fare schifo: accelerava all’improvviso, frenava di

botto, ripartiva.

Salvatore finse di non cogliere i suoi mugugni. Scese dalla Mercedes e mostrò l’invito al nerboruto uomo della sicurezza. La sala della Fondazione Studi su Federico II ospitava politici, intellettuali, storici, bibliofili, impresari e dirigenti pubblicitari. Il tema del convegno era il puer Apuliae e il Regno di Sicilia.

Il dottor Aragona lo salutò da lontano con sufficienza. L’arrivo di Salvatore lo infastidiva. Era segno di una mancanza di credito da parte di Don Tonio.

Salvatore trovò posto sotto al cartello che recava scritto l’argomento della tavola rotonda: “Tradizione e modernità dello Stupor Mundi”. Alzò gli occhi verso il palco, dove il Professore si lamentava delle persecuzioni giudiziarie e del giustizialismo delle sinistre. Quell’uomo trasudava carisma. Aveva occhi magnetici. Incantava la platea. Era lanciato in una perorazione del disegno politico a venire, da portare avanti senza il braccio violento delle Procure, ma con un’anima popolare legata alla Trinacria.

Il pubblico applaudì. L’uditorio era formato per intero da siciliani. Salvatore riconobbe parlamentari e volti noti dell’imprenditoria meridionale.

Il Professore si sistemò gli occhiali e smorzò i toni. Amava chiudere i discorsi con un aneddoto leggero. «Ieri ho ricevuto un avviso a comparire come persona informata dei fatti e i carabinieri hanno perquisito il mio studio a Milano». Un mormorio di indignazione accolse le sue parole. Il Professore non sembrava per niente preoccupato. Continuò: «Una vera fortuna. Hanno messo in ordine tutte le mie carte. Stamattina avevo bisogno di una certa cartellina, li ho chiamati e ho chiesto al brigadiere di turno se aveva quel tale documento. Lui me l’ha inviato subito. Vedete che le perquisizioni servono».

Le risate e gli applausi accompagnarono il Professore che scese dal palco. Il personale portò carrelli con dolci rigorosamente palermitani. Alla vista del Professore, Salvatore si fece avanti tra la folla che si alzava dalle sedie. Compagni di corrente scortavano l’onorevole. Il Professore li ricambiava con cenni veloci e curvava le spalle, come a dire “non vedete quanti devo salutare”.

Aragona bisbigliò qualcosa all’orecchio del Professore. Indicò Salvatore e aggiunse a voce alta, cerimonioso: «Questa è la persona di cui ti avevo parlato».

Il Professore abbracciò Salvatore. Frugò il viso del giovane, a sondarne gli umori. «Con me siete in buone mani», esordì dritto al cuore della faccenda.

Salvatore cercò di darsi importanza. «Mio zio vi manda i suoi saluti».

«Ho un ottimo ricordo di lui. Mi dispiace che queste infauste leggi lo tengano lontano dalle nostre terre».

Il Professore non poteva ignorare che la tempesta giudiziaria presto si sarebbe abbattuta su di lui. Non sottovalutava il debito contratto con Cosa Nostra. Non dimenticava il tritolo che aveva sepolto Colaianni sotto un cumulo di asfalto, i favori ricevuti in campagna elettorale e la promessa che, una volta entrato in Parlamento, avrebbe tagliato il sequestro dei beni e modificato la legge sui pentiti. Vedeva il presente meglio dei suoi miopi sodali. Le bombe alla Standa non erano stati segnali di debolezza, ma la prova del vigore di una mafia tornata a reclamare il suo spazio. «Stiamo facendo il possibile», disse paternamente.

«I nostri comuni amici si aspettano di più da voi».

Il Professore curvò le spalle, sotto il peso della responsabilità. «Non hanno bisogno di alzare la voce. Ora c’è chi li ascolta».

«Si ricorda i nostri favori, vero? I capitali elargiti da generosi finanziatori, rappresentano, come dire, il peccato originale di buona parte della classe dirigente di questo paese».

«Ha ragione. Sono stati un indiscutibile vantaggio, per me, per molti miei amici e anche per la lobby che rappresento».

«Ma non è giusto sbandierare al vento ciò che è stato – aggiunse con tono allusivo –. È opportuno che non si sappiano i nomi di chi abbiamo aiutato, né che tanta gente a Milano si è sporcata le mani con persone poco raccomandabili. Però voi dovete venirci incontro».

«Tenete presente che non decido da solo. Quell’organo preistorico che è la Camera dei Deputati è composta da seicento trenta persone. E poi ci sono trecento quindici senatori. Non bastava una camera, i costituzionalisti ne hanno messe due. Sperperi della democrazia – sospirò il Professore irritato –. E l’opinione pubblica? Dove la mettiamo? Adesso si sono riscoperti tutti a favore del giustizialismo e non fanno che gridare contro i politici e gli imprenditori ladroni. Io non posso garantire che erà la legge...».

Poi si corresse, sfoderò un sorriso ambiguo e disse, di punto in bianco: «...Ma se vinciamo con la Nigeria, siamo a cavallo!».

«Prego?».

Il Professore prese Salvatore a braccetto e, accompagnato da Aragona, si fermò in un punto dove nessuno li poteva sentire. «Il calcio può stabilire una concordanza tra i progetti di suo zio e i nostri. Il calcio distoglie l’attenzione dalla vita politica e dai problemi reali. È un eccellente diversivo. Esattamente come nella Roma antica: panem et circenses».

«I Mondiali saranno utili alla nostra causa?».

«Una partita di calcio è seguita da venticinque milioni di persone, con l’ottanta per cento dello share. La prossima sfida dell’Italia sarà il maggiore evento televisivo dalla nascita dell’auditel. Questo vuol dire, in pratica, avere a disposizione il più potente sonnifero di massa».

Il dottor Aragona, Salvatore Bonomi e il Professore parlarono per un’ora. Di decreti legge, di giustizia, di finanze, e anche di Arrigo Sacchi. E s’intesero alla perfezione. Salvatore avrebbe voluto trattenersi, ma Vituzzo ò a prenderlo prima del previsto. Salì sulla Mercedes e guardò con disprezzo il gregario.

Il caldo era opprimente nell’abitacolo. Salvatore aveva giocato a fare l’esponente di un moderno sodalizio finanziario. Il ritorno alla realtà fu segnato dal fiato maleodorante di Vituzzo. Il macellaio aveva una voce gelida.

«Con la politica si va all’acqua senza ’a quartana. Ora si torna in pista. Ci sbattiamo ’u cudiddazzu ai cumpari di quel cretinu che sparò a Carmelo».

26.

Davide girò il timone verso il largo e diede gas. Il motoscafo acquistò velocità ed entrò in planata. Diede un’occhiata alla carta nautica, per maggiore sicurezza, ma ricordava bene dove si trovava la fossa. C’era andato a pescare con Michele un mese prima e aveva memorizzato le coordinate nel computer dell’ecoscandaglio.

Lucy era seduta accanto a lui, con i capelli al vento e i piedi sopra il cadavere di Flavi. Lo avevano avvolto in diversi strati di cellophane e in una serie di coperte e teli per nasconderlo alla vista. L’idea di avere a che fare con un morto non li rendeva euforici, ma dovevano sbarazzarsene prima che qualcuno ficcasse di nuovo il naso in casa.

Lucy alzò la voce per superare il rumore assordante del motore. «Chi ci dice che domani il corpo non sarà ripescato?».

«Nel posto dove stiamo andando ci sono correnti molto forti che scorrono verticali alla costa. Se il vento ci assiste, finirà in mare aperto. E nessuno ne sentirà più parlare».

«E se il vento non ci assiste?».

«Un uomo si è avventurato sugli scogli, ha perso l’equilibrio e ha battuto la testa. È caduto in mare ed è morto annegato. Fine della storia».

«Un pregiudicato con un foro in testa? A me qualche dubbio verrebbe».

«Il foro di entrata è sottile. I medici potrebbero non notarlo, se recuperano il corpo in pessime condizioni».

Lucy avvertiva una punta di disprezzo ogni volta che lui parlava. Davide alternava repulsione e simpatia, parole respingenti e sguardi pietosi, e la sua estrema volubilità la turbava. O era Lucy che vedeva offese dove non ce n’erano? O forse Davide provava qualcosa per lei e si odiava per questo? Era un modo per punirla, per il fatto che era riuscita a farlo innamorare?

Il legno della barca gemette e un’onda colpì lo scafo di traverso. Davide fece una virata e tornò indietro. All’orizzonte c’erano due battelli.

«Chi sono?», gli chiese Lucy.

«Pescatori di bolentino. Dilettanti che pescano a casaccio. Il fondale è troppo profondo per le loro esche».

«Non se ne andranno?».

«Temo di no. E noi non possiamo rischiare».

Costretto a cambiare i suoi piani, Davide diresse l’imbarcazione verso sud. Una maschera di estraneità celava la sua insofferenza. Il mare era una superficie immensa che poteva disorientare qualsiasi natante, ma Davide aveva deciso senza esitazione dove andare. L’ecoscandaglio gli indicava un avvallamento. Spense il motore e si guardò intorno. Non c’era nessuno a miglia di distanza. Era il momento di fare quello che erano venuti a fare.

Lucy afferrò il corpo per i piedi e lui per la testa. Lo scaraventarono in acqua e poi si affacciarono dal motoscafo, per constatare come il cadavere scendeva giù e sprofondava lentamente negli abissi.

Al rientro Davide sembrava diverso. Aveva una cefalea a grappolo. Nelle orecchie gli riecheggiava il tonfo del corpo nel mare e i sensi di colpa lo stordivano. Aveva stretto un patto con un’assassina. Nessuno dei due voleva guai. Avevano fatto sparire Flavi, ma sembrava che la presenza di quell’uomo aleggiasse ancora tra loro. Davide si chiedeva il motivo di tanta assurdità. Si doveva sdebitare con Lucy? Voleva evitare complicazioni con la polizia? O l’aveva aiutata perché era votato a fare la crocerossina, il difensore dei deboli? No, tutte ragioni che non stavano in piedi. C’era sotto qualcosa di più grande, che la sua coscienza faticava ad ammettere.

Dopo aver portato il motoscafo nel posto barca, Davide e Lucy tornarono in auto senza scambiare una parola. Lui parcheggiò la Bmw davanti alla villa. Lucy scese in silenzio e lo precedette in casa, come se volesse sbrigarsi a seppellire tutto nella memoria. Lui era ancora provato. Si appoggiò allo sportello della Bmw per non cadere. Aveva mutato bruscamente il suo intero sistema di vita. Era ato da un estremo all’altro troppo velocemente per non ledere il suo stesso equilibrio mentale. Attribuì tutte le responsabilità a Lucy. I suoi nervi non resistevano alla tensione e, acutizzati, puntavano i loro aculei nel cervello spronandolo a pensieri confusi. Esitò a entrare.

Lucy aveva la luce in salone. Lui sostò nel giardino e socchiuse le

palpebre stanche. Tutto sarebbe stato inghiottito nel nulla: il sequestro, la violenza, il sangue. Cancellati i segni tangibili. Ma le immagini restavano impresse nella retina. L’esplosione. Le cervella di Flavi. Il corpo rigido. Il sacco sballottato dalle onde. Il corpo che increspa l’acqua e va a fondo.

La luce del salone si spense. L’emicrania scemò: da giganteschi tsunami a onde anomale. Si incamminò verso la porta, quando sentì voci a lui familiari.

«Davide! Davide!».

Era così sorpreso che non accennò a reazione. «Ciao», mormorò alle due ombre. Non aveva sentito la Jeep avvicinarsi tanto era immerso nei pensieri. D’istinto rivolse lo sguardo alla villa. L’edificio era avvolto nel silenzio. Nessun segno di vita.

«Ti ho lasciato un messaggio in segreteria. Non hai richiamato», disse Michele. La sua calvizie era compensata da baffi sottili. I maligni dicevano, dai tempi del liceo, che Leo lo portava dietro per risaltare di più con le ragazze.

«Scusami, non sto molto bene».

«Hai visto che sono venuto? – disse Leo sorridendo – Sono di parola».

Leo e Michele si avvicinarono. Davide aveva le gambe molli e sperava che non si accorgessero della presenza di Lucy in casa.

Leo gli fece un sorriso strafottente. «Tu adesso vieni con noi a cena».

Davide sentiva ancora addosso l’odore del cadavere. «Non me la sento», provò a insistere. Non voleva lasciare a Lucy campo libero.

Leo lo prese per il collo. «Stasera vieni con noi a vedere la mia barca. L’ho lasciata a un chilometro dalla costa».

Davide non poteva dirgli di no. Era rassegnato. «Almeno posso andare al bagno?».

«Solo se fai presto! – Michele sorrise – Dai, ti aspettiamo».

Lasciò gli amici nel giardino e rientrò spedito. Si lavò il viso, si diresse in salone e lanciò un’occhiata di odio a Lucy. Le parlò a bassa voce. «Io vado a cena fuori. Quando torno non ti voglio più vedere».

Lucy era accucciata sul divano. Sapeva che il suo tempo era scaduto. «Vuoi che vado via?».

«Niente discussioni. Al mio ritorno la casa deve essere vuota».

27.

L’oscurità avvolgeva i folti castagneti, le colline e le aspre montagne che svettavano sulla costa. I fari della Jeep correvano troppo veloci per illuminare le buche. La scorciatoia li faceva sobbalzare a ogni curva.

Leo rideva mentre stappava le prime Corona. Aveva una borsa termica piena di birre. Davide non diceva una parola. Il mal di testa si era attestato su valori standard. Lasciarono l’auto al molo e, tra una birra e l’altra, presero il motoscafo di Davide. Quello con cui aveva appena portato il cadavere.

Un paio di miglia sotto vento e raggiunsero la Freedom ormeggiata a un gavitello. Tirarono le cime al marinaio e legarono i due scafi.

Leo mostrò orgoglioso la sua barca. Michele dichiarò tutta la sua ammirazione per il venti metri. Davide fece un elenco mentale delle ultime cazzate. Leo sognava di andarsene dall’Italia e aggiungeva mille dettagli sulla navigazione da affrontare. Parlava delle bellezze naturali di Madeira. Davide fingeva interesse.

Dopo mezz’ora, c’era già un cimitero di bottiglie vuote. Un cd suonava Mano Negra e tutto sembrava pacificato dal rumore delle onde. I ritmi punk e sudamericani di Casa Babylon. Davide pensava alle sue imputazioni: favoreggiamento, possesso di stupefacenti, detenzione di armi. Occultamento di cadavere.

Leo spostò il monologo sui ricordi di scuola. «Vi ricordate la bionda della Prima B? Voi vi vergognavate a parlarci. E alla fine me la sono scopata io. Beh, in realtà era innamorata di Davide. Però è venuta a letto con me».

Michele infilò una scorza di limone nella ennesima bottiglia. «Non poteva essere innamorata di me?».

Davide ingurgitò la Corona. Ripetè a se stesso che per l’occultamento di cadavere c’era la reclusione fino a tre anni.

«Tu non avevi speranze. Ringrazia il cielo che hai trovato moglie in questo buco. Altrimenti non ti si prendeva nessuno», sogghignò Leo.

Michele si ò la mano sulla fronte sudata. «Sei proprio un amico».

«Io non capisco come fa Sara a stare con te», seguitò Leo.

Un avvisatore acustico li interruppe. Leo balzò come un felino sullo specchio di poppa e fu inondato di luce. Il suono di una tromba scosse i nervi di tutti. Michele si affacciò e mise le mani a visiera per poter vedere dentro il fascio luminoso. La barca beccheggiava nonostante la completa assenza di vento.

Il rollio procurò l’ennesimo capogiro a Davide. Fu l’ultimo a salire in poppa e restò a bocca aperta. Gli sembrava l’astronave di un altro pianeta. I fari di navigazione lo accecarono. L’astronave era incredibilmente silenziosa. L’astronave stava per entrare in rotta di collisione con la Freedom. Era

un’imbarcazione di quaranta metri illuminata a giorno, con una carena appuntita come un missile.

Leo urlò: «Papà! Che cavolo fai?».

Il quaranta metri cozzò contro il parabordi. Sul ponte un uomo abbronzato sui sessantacinque. Capelli brizzolati, maglia di cachemire che cadeva morbida sulle spalle, camicia a stampa animalier che si apriva sul ventre da bevitore. L’uomo si teneva a stento in piedi. Franco Abeti. Per tutti: il Barracuda. Da muratore figlio di contadini a costruttore di villini a immobiliarista con entrature nei salotti buoni di Roma e Milano il o era stato breve per lui.

«Lo sapevo che ti trovavo qui», disse il Barracuda. Lanciò la cima a Leo e diede l’ordine all’equipaggio di calare l’ancora. «Dai! Salite a bordo!».

Davide e Michele lo salutarono con un cenno della mano. Leo era indispettito per l’intrusione. «Come mai da queste parti?».

Il Barracuda alzò la voce per farsi sentire. L’incoscienza del viveur a un o dalle manette. «Pago un capitale per tenere questa barca a marcire nel porto. Avevo voglia di farmi un giro anch’io».

Leo odiava la baldanza del padre. Tangentopoli stava diventando la sua ossessione. Aveva sentito dire di un’imminente perquisizione, di un’accusa di corruzione e dell’eventualità di un ordine di arresto per Franco. Avrebbe preferito che il padre preparasse la sua difesa, invece di ballare e bere champagne come un eggero del Titanic, prima che un enorme iceberg – chiamato magistratura – tagliasse di netto lo scafo e lo fe inabissare.

«Volevate perdervi la partita? Ma guarda quanto siete cresciuti, voi due?! Porca troia, mi sembrate froci voialtri!».

I tre salirono mezzi stonati sull’imbarcazione che era alta come una casa. Persero l’equilibrio. Strinsero la mano scivolosa del Barracuda.

Davide notò lo sguardo contrariato di Leo. Percorse a testa bassa il pavimento in mogano. Franco Abeti non viaggiava mai solo: avrebbe dovuto ricordarselo. Il Barracuda aveva bisogno di consensi.

Sottocoperta, si schiuse ai suoi occhi un altro universo. Un paio di investitori del mattone, un giornalista del “Corriere della Sera”, due gorilla palestrati, una soubrette di Bulli e Pupe, imprenditori fiorentini nel business del wine resort, politici dei due maggiori schieramenti, un generale dei Carabinieri, un banchiere milanese, aspiranti attrici, quattordicenni vamp di Non è la Rai e un coreografo gay che faceva gli onori di casa dietro il mobile bar servendo cocktail a ballerine sudamericane di Buona domenica.

Il Barracuda evitò le presentazioni, si piazzò davanti al televisore e fece “sssh”. La partita della nazionale catturava tutto il suo interesse. Alla bordata di Dino Baggio, che aveva inchiodato Zubizarreta dopo venticinque minuti di gioco, aveva risposto il trequartista dell’Atletico Madrid Caminero.

Italia-Spagna: 1-1.

Il Barracuda bestemmiò, scivolò nel divano circondato dalle bellezze carioca e

invitò gli amici del figlio a seguire la partita.

Ancora una volta Davide avrebbe voluto essere da un’altra parte. Sedette al tavolo della rosa dei venti e afferrò un martini. L’alcool non lo aiutava a rimuovere il cumulo di errori che lo avevano trascinato fino a quel punto.

Provò a immaginare Lucy, i suoi occhi che si perdevano verso il bianco dei flutti e le luci delle imbarcazioni al largo. Una pistola scarica, pietre preziose e chili di eroina il suo bagaglio. Lei che misurava il pavimento a piccoli i e divorava la pellicina attorno alle unghie. Doveva prendere una decisione. Restare in quel rifugio o affrontare l’ignoto? Da una parte la casa sul mare, dall’altra l’oscurità della notte. Tensione alle stelle. La pelle viva spolpata. Restare al calduccio. O fuggire via...

Davide interruppe le sue fantasie. Si chiese se avrebbe trovato Lucy al ritorno.

L’Italia aveva vinto con un goal di rapina. Il Barracuda, al settimo cielo, lodava Baggio. Aveva esagerato con i drink e diceva che il Divin Codino era nato nel paese della sua prima moglie e magari se l’era scopata.

Davide ascoltava distratto i discorsi dei presenti. Naturalmente teneva banco l’argomento della bufera giudiziaria.

«Perché non entri in politica? – chiese il generale dei carabinieri al Barracuda – Con le conoscenze che hai, non ti sarebbe difficile».

«Detesto questo paese. Dovrei fingere di amarlo. Ma si vedrebbe che è una recita. Voglio essere sincero. Non me ne frega niente dei bilanci dello Stato, della sanità, dei servizi per i cittadini, della cultura. Io voglio solo vivere qualche altro anno, e continuare a fare i miei affari. Da libero imprenditore».

«Eppure sembra l’unico modo per togliersi dai guai. Guarda Berlusconi, è stato costretto a lasciare le sue aziende e scendere in campo. Ormai c’è un clima di terrore. Alla fine i poveracci accusati da questi magistrati massimalisti finiscono per confessare anche le cose che non hanno fatto. Sai a quanti miei amici è successo».

Intervenne il cardinale. «Il più delle volte, invece, questo è il modo per inguaiarsi. Ha ragione il nostro Franco Abeti. La sincerità, ci vuole».

«Già, Eminenza. Ma come la mette se la prendono e la sbattono in cella, e poi cominciano a dire che deve confessare qualche concussione? Ah, non è bello stare dietro le sbarre... E io ho una paura fottuta».

Davide non capiva perché un imprenditore sull’orlo della rovina, che non era mai andato allo stadio e regalava i biglietti della Fiorentina al suo autista, d’improvviso fosse diventato un patito di Sacchi. Sentiva delle fitte allo stomaco. Con il mare piatto aveva l’impressione di annaspare. Le parole lo stordivano con la violenza di schiaffi.

Il Barracuda prese a braccetto il generale.

«Non ci finirai in carcere, stai sicuro. Così come è certo che la Toscana Calcestruzzi uscirà a testa alta da qualsiasi indagine. E io non avrò bisogno di

scendere in campo e non farò un giorno di galera».

«Chi te le dà tutte queste sicurezze, Franco?».

«Quello che sto per dire tenetevelo per voi. Ma persone bene informate mi hanno riferito che il nuovo governo non ci lascerà soli».

«Chi te l’ha detto? I soliti massoni? O il tuo caro amico, il Professore?».

«Persone bene informate».

«E che faranno i nostri politici, scusa?».

«Stanno ricevendo pressioni da tutte le parti. Sono troppi quelli che rischiano».

«Finalmente hanno capito che siamo tutti sulla stessa barca».

«Ma esattamente che faranno?».

«Ci daranno una mano robusta. Con una legge. Una legge che è in dirittura d’arrivo. E poi seguirà un giro di vite contro questa magistratura del cazzo. Oh, mi scusi, Eminenza».

Il Barracuda spifferò tutto all’orecchio dell’amico, che sorrise.

«Il momento è favorevole. Ci stanno i Mondiali, e si sa come sono fatti gli italiani. Tutti concentrati davanti al televisore, a seguire le partite come pecoroni».

«Quindi... tocca tifare Baggio?».

Il generale temeva che non avesse capito bene. Il Barracuda assentì sorridente. In quel momento Paloma buttò le braccia al collo del Barracuda. Una brasiliana annoiata dalle chiacchiere. I suoi occhi incendiarono l’ambiente. Il suo corpo mulatto irradiava una scossa magnetica su chiunque ci posasse sopra lo sguardo. Leo non ne fu immune. Contemplò per un attimo quell’incarnazione di oscuri desideri. Poi lanciò l’ennesimo sguardo di disprezzo verso il padre.

«Non hai un briciolo di ritegno?».

«Che c’è?», fece il Barracuda, mentre la brasiliana gli solleticava il collo.

«Faresti meglio a riflettere sul tuo futuro. Io al tuo posto non sarei tanto spensierato».

«È lei che mi toglie i brutti pensieri, e mi fa stare bene».

C’era una differenza di età di vent’anni. Paloma smise di fargli il solletico sulla nuca. Leo la fulminò con gli occhi. Ricordava di avere visto la giovane tra le braccia del padre in un paio di occasioni. Aveva un senso di ributto per la trascuratezza paterna. La misura era colma. La storia degli avvisi di garanzia a lui stava togliendo il sonno, e Franco se ne infischiava. La sguaiataggine di Paloma fece il resto. Leo fu vinto dal disgusto. Scosse la testa. Fece segno a Davide e Michele di salire sul ponte.

«Ma voi ci credete a ’sta roba? Mio padre pensa di avere sempre tutto sotto controllo – offrì le birre agli amici, prima di lasciare la dinette –, di sapere in anticipo i decreti del governo, e poi puntualmente viene smentito».

Michele ghignò. «Avessi anch’io una ragazza come quella al mio fianco, me ne infischierei di tutto».

«Che c’entra la ragazza, adesso?».

«È un altro buon motivo per non seguirti nel tuo viaggio. Dove hai detto che saresti voluto andare con lui?».

«Dove andrò. Alle isole Madeira. Ho già organizzato tutto».

Davide intervenne per raffreddare la disputa.

«Io starei tranquillo. Tuo padre non è un ingenuo. E, a giudicare da chi si circonda, sembra che abbia notizie di prima mano».

L’eco della festa si smorzò sotto il firmamento limpido. Michele uscì dalla coperta. «Basta che poi la legge non faccia la fine del decreto Conso».

«E cos’è questo decreto?».

Michele assunse arie da compagno di sinistra. «Giovanni Conso, no? L’ultimo ministro della giustizia della Prima Repubblica. Voleva depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e mi pare che avesse previsto anche il patteggiamento per i reati di corruzione».

«E che ne è stato poi?».

«La gente si è incazzata, la procura di Milano è insorta, e il ministro ha minacciato di dimettersi se ava il decreto che lui stesso aveva firmato. Una cosa un po’ surreale».

Davide ricordava i giornali sfogliati al centro di disintossicazione. Titoli come “Furto a Di Pietro” e “Hanno seppellito Mani Pulite”. Lo assalì il senso di nausea. Non voleva essere testimone della solita diatriba. Aveva l’impressione che Michele difendesse Mani Pulite solo per far incazzare Leo. Non voleva partecipare alla discussione. «Per me si è fatto tardi».

«Io resto – disse Michele –. A casa non trovo nessuno. Mia moglie fa il turno di

notte. Poi mi faccio dare un aggio fino a terra da qualche debosciato».

«Ti accompagno io, Michele. Non c’è problema. Basta che poi Sara non fa una scenata di gelosia perché sei rientrato tardi. Ma questo è l’ultimo dei problemi, perché Sara non può che essere contenta delle tue assenze».

Davide sbandava. Si sentiva peggio di un Giuda. Attraversò la Freedom senza capire le parole degli amici che continuavano a insultarsi. Leo lo aiutò a non cadere in acqua. Davide avrebbe voluto liberarsi la coscienza.

«Michele...?».

Gli occhi dell’amico lo fissarono interrogativi.

«Che c’è? Perché mi guardi così?».

Avrebbe voluto dirgli: “Mi sono portato a letto tua moglie. Sono un bastardo”. Invece si voltò verso di lui e tergiversò. «Un giorno di questi vengo a trovarti in ospedale».

«Va bene. Ti aspetto».

Provò repellenza verso se stesso. Salì sul motoscafo senza girarsi. Aveva esagerato con l’alcol. Gli ci vollero cinque minuti buoni per far partire il motore.

«Sicuro che ce la fai?», chiese Leo.

«Tutto a posto. Salutami tuo padre. E non preoccuparti. Se la caverà».

Michele fece un sorrisetto. «Beh, non è che sia messo troppo bene».

«Non ha niente da nascondere», puntualizzò Leo.

«Andiamo. Chi arriva al suo livello uno scheletro nell’armadio ce l’ha».

«Parli per invidia. Tu te ne intendi di scheletri, visto che sezioni cadaveri. Sai che bello...».

«Non te la prendere. Ho capito che il discorso ti innervosisce».

«No, tu stai insinuando che mio padre faccia cose sporche».

«Mi sono stancato di subire le tue offese. Per tua informazione, io non sono un fallito. Sono il responsabile di un reparto di medicina legale...».

Il motore era al minimo dei giri, ma Davide non si decideva a partire. Cresceva

in lui l’insofferenza, verso gli amici e verso se stesso. L’effetto delle birre si faceva sentire. Fu assalito da un odio irrazionale. Infine sbottò: «Basta! Fatela finita! È da quando vi conosco che non fate che attaccarvi!».

Se l’era presa con una parte di sé. Con l’assoluta indifferenza che lo aveva accompagnato per anni, come se fosse unicamente colpa di Sara e del corteggiamento la sua capitolazione in una camera d’albergo.

«Siete rimasti uguali a quindici anni fa. Uguali! Adesso sono io che mi sono rotto di sentire queste stronzate! Stronzate! Sempre stronzate!».

Diede gas. L’imbarcazione sussultò. Il rumore del 35 HP coprì le loro parole. Le figure degli amici sempre più lontane. I volti bloccati in un irreale stupore.

28.

Davide era a un miglio dallo yacht del Barracuda e vedeva intorno una coltre tetra. Il mal di testa ricominciò, aumentava a ogni onda. Torme di pensieri concentrici lo attaccavano. Un ronzio confuso di suoni e una miscela altalenante di immagini: i litigi di Leo e Michele, le intercettazioni ascoltate, il boato di una bomba, l’eroina iniettata, il gemito prolungato di un’amante, la pistolettata di Lucy. Chiodi nella mente come puntelli dolorosi.

Un bruciore acido lo colse alla milza. Aveva la nausea.

Luci da terra. Si avvicinava alla costa. Un puntino all’orizzonte. La villa dove aveva trascorso le estati col padre.

Il silenzio spettrale. Il contrappunto del 35 cavalli. Lo scafo rientrò nella baia. Spense il motore. Buttò l’ancora. Sentì le budella torcersi. Gli mancavano i consigli del padre. A quel punto, se fosse stato ancora vivo, gli avrebbe domandato cosa fare, e lui gli avrebbe indicato la via.

ò una mano sulla faccia. Sudava. Il mondo gli appariva alla rovescia: la rena sovrastava il cielo, l’acqua galleggiava sul motoscafo, la casa paterna poggiava sul tetto. L’architettura del suo sepolcro.

Scese e si bagnò le scarpe. Guadagnò la riva. Il tragitto più lungo del solito. Le ginocchia molli. Inalò l’aria. La sabbia umida, fredda. Un brivido. Tutto fatto

male. Tutto sbagliato. C’era qualcosa che lo tratteneva, che formava un velo tra lui e gli altri, una barriera dietro cui si riparava e lo spingeva a bieche menzogne.

Vomitò la cena. Scariche all’addome. Fetore. Con la moglie di Michele aveva toccato il fondo. Aveva cercato un conforto impossibile. Aveva svuotato di senso un’amicizia ventennale. Calpestava i sentimenti senza ritegno.

Evitò di guardare le tracce di vomito. Si rialzò in piedi. Spolverò il vestito e proseguì. Una luce era ancora accesa. Si chiese cosa avrebbe trovato all’interno della casa.

Aveva bevuto tre litri di birra per eludere la domanda. Si convinse che non doveva avere pietà. L’avrebbe costretta a prendere la prima corriera e avrebbe classificato l’interesse per Lucy come una crisi eggera dovuta all’ubriacatura. Un attacco di solitudine, il desiderio di rompere le abitudini.

La striscia di terra che lo separava dalla porta gli apparve infinita. Esitò. Il vento lo aiutò a smaltire la sbornia. Indugiò con la mano sul pomello della porta. Scoprì che per tutta la sera non aveva fatto che nutrire una speranza. Solo allora si rivelò in tutta la sua inconsistenza lo scenario del futuro. Senza Lucy, avrebbe continuato ad abitare una casa vuota e a guardare le onde con lo sguardo assente. Improvvisamente, le lacrime salirono agli occhi.

Entrò in casa senza fare rumore. Le scarpe lasciavano una scia di acqua e sabbia. Asciugò il viso e mise a fuoco la scena. Trovò Lucy seduta davanti alle sue lettere segrete, con gli occhi chiusi, immersa nel sonno. Era crollata esausta. Sul tavolo c’era il suo intero ato. Le reliquie delle sue colpe.

Lui distolse lo sguardo dalle carte. Lei schiuse gli occhi dolci e assonnati. Un ciuffo di capelli le cadde sulla fronte. Lui vide flettersi le cicatrici sulla sua schiena. Segni indelebili. Immaginò la causa di quelle cicatrici. Erano la firma di Marziano. Superò l’ultimo baluardo della ragione e prendendola in braccio gli sembrò di non avere scelta. Lei era entrata nel suo sangue.

La trasportò nella camera e la adagiò sul letto. La rabbia si sciolse al contatto col corpo caldo e il respiro pesante di un angelo. Lei si riprese dal torpore. Gli sorrise. Sfiorò con la mano l’altra metà del letto.

Un invito dotato di una grazia soprannaturale. Come a indicare quale era il suo posto nell’universo. Davide cancellò dalla mente chi era Lucy e cosa aveva fatto. Le finì accanto senza neppure spogliarsi. Lei lo aspettava. Spalancò gli occhi. Non di un celeste normale. Di un azzurro ai limiti dell’umano.

Lei aprì le cosce metalliche. Il tatuaggio della chiave dell’Universo incorniciava la schiena arcuata guastata dai marchi del ato. Le sue braccia lo avvilupparono come tentacoli di un polpo. Ancora un attimo, un lampo nella mente, il pensiero che quella donna deteneva il più grosso carico di stupefacenti che avesse mai visto. Le loro bocche si unirono. Mentre l’alcol tornava a tormentargli lo stomaco con fitte lancinanti e lo faceva bruciare come se avesse la febbre, lei schioccò la lingua contro la sua e gli sbottonò la patta.

Lucy si mise sopra di lui e dondolò con un movimento naturale. E Davide si perse, si abbandonò totalmente a quel ritmo, e dimenticò tutto, non sentì più niente se non una spirale di fuoco che lo avvolse dalla testa ai piedi.

Quella notte fecero l’amore per la prima volta.

29.

Lucy sentiva dentro di sé un’energia spasmodica, che faticava a contenere. Let’s twist again. Uscì sul patio a piedi scalzi e respirò l’aria salubre del mare. Il sole delle otto si stampigliò sul suo volto come una carezza di fuoco. Il mondo le si stendeva innanzi, nella sua ricchezza, e appariva tanto bello da non riuscire a comprenderlo tutto.

Per la prima volta in vita sua non aveva dovuto sedurre qualcuno. Per la prima volta non vedeva un maschio come un protettore, ma come un uomo. Non s’erano detti una parola. Non avevano avuto bisogno di spiegazioni. Lei gli aveva sussurrato una preghiera: «Non mi fare male». Poi aveva trovato spazio accanto al corpo di Davide, come se lo conoscesse da sempre, come se quel gesto fosse naturale, e aveva cercato di non pensare alla refurtiva.

Nella casa regnava una pace sonnolenta. Era sveglia da diverse ore. O forse non aveva mai preso sonno nella notte incendiata da folli propositi. I tralicci di edera e i gerani in fiore spandevano un odore incantevole. Aprì i polmoni. Non si sarebbe persa una briciola di ossigeno della giornata. I riflessi del sole erano sparsi nel mare come pagliuzze rare. Ebbe un’impressione di leggerezza. Una disposizione di animo euforica, a cancellare i pestaggi, le umiliazioni, la violenza, il sangue. Aveva patito troppo perché tutto ciò non fosse vero. Perché non meritasse un po’ di felicità nella sua esistenza disgraziata. Come per una partita truccata, i dadi del destino erano caduti sul tavolo mettendole a disposizione una straordinaria fortuna. Un colpo senza divisioni. Eroina e diamanti. Tanti soldi da comprarsi mezzo stato dell’Indiana.

Aveva una voglia improvvisa di uscire. Un giorno perfetto per ricominciare da capo. Pensava a tutto questo, quando la forza e la bellezza di Davide la

investirono come un’ondata. Lui si affacciò sbadigliando. Aveva addosso un paio di slip. La strinse. I raggi di sole vibravano a vampate, come vetro liquefatto. I due s’abbracciarono, ancora, e poi di nuovo, quasi a proteggersi dalla violenta deflagrazione del mattino.

«Facciamo colazione?», chiese lei, come se fosse la mattina qualsiasi di una coppia qualsiasi. Senza percepire il paradosso della situazione.

Lui annuì. Aveva sete. Il bruciore allo stomaco tollerabile. Il dopo-sbornia era meno pesante del previsto. Lo squillo del telefono cancellò il calore domestico. I nervi di Lucy si acuirono al suono che fendeva l’aria come lo strappo in una tenda. La segreteria telefonica si azionò e Davide non mosse un muscolo. Lasciò che il nastro ripetesse il messaggio “non sono in casa” e registrasse la voce dell’interlocutore.

«Ho una buona notizia per te, Davide. Proverò a richiamarti dopo».

Davide restò imibile, come se non avesse ascoltato le parole del superiore. Il funzionario dell’Intelligence Sergio Rizzo.

Lucy rifiatò. Il loro fragile equilibrio poteva franare in ogni istante. Ma almeno per ora si sarebbe goduta quel tenero rapporto, illudendosi che sarebbe durato chissà per quanto anche fuori da quella prigione dorata.

Lucy aveva voglia di parlare. In fondo non sapevano nulla l’una dell’altro. Desiderava farsi conoscere e fece cadere la maschera dalla sua faccia. Era come vedere un’altra persona. Una trasformazione repentina.

Raccontò di sé e di come viveva nella provincia americana. Da piccola soffriva. Il padre, un camionista ubriacone, picchiava la madre. Era stato il primo uomo ad averle reso la vita difficile. Alla morte dei genitori si era trasferita a San Diego, dove il prozio le aveva insegnato i trucchi del borseggio. Anche il vegliardo morì: infarto. Lei si ritrovò per la seconda volta sola. Grazie all’interessamento di un dottore e al conseguimento del diploma di infermiera, cominciò a lavorare in un ospedale della città. Il dottore non era un filantropo. Anzi, era uno sporcaccione. La ricattò, minacciando di dichiarare nullo il diploma. Lei era stufa. Un agente di modelle era ricoverato nel centro medico. Lei aveva guarito quel paziente. Lui l’aveva portata via dagli Stati Uniti. A Milano aveva avuto sfortuna. Era finita nel mercato delle vacche. Un’inflazione di perfezione estetica e uomini sbagliati. La scorciatoia per pagare l’affitto: i locali a luci rosse. Lap dancer. Marziano l’aveva notata mentre si spogliava attorno a un palo. L’aveva salvata da un destino di prostituta. Costituirono una società: fifty fifty. Obiettivo: inculare l’imprenditoria del Nord-Est. Ma intanto era Lucy a farsi inculare. Non era un’attività nobile. Non era una società rispettabile. Persino Marziano la considerava disonorevole. Marziano era un bandito al crepuscolo. Sentiva i riflessi allentarsi sotto il peso degli anni. Il corpo di Lucy forniva e-partout per ville, uffici e capannoni blindati. Il trucco: far innamorare con pose da fatalona vecchi industriali e rampolli del calzaturiero, entrare nelle loro vite e raccogliere segreti nei nidi di morbidi letti. Lucy faceva da cavallo di Troia. Era dolce. Fingeva di godere. Ascoltava smargiassate. Origliava dagli amanti. Assumeva informazioni sugli edifici e sulla sicurezza. Faceva i calchi delle chiavi. Stendeva una piantina dei posti da svaligiare e scopriva le combinazioni delle casseforti. La notte entrava in scena lui. Marziano era tendenzialmente un solitario. Lavorava meglio. Prelevava i salari degli impiegati, i preziosi di famiglia o la cassa aziendale. Non c’era mai stato bisogno della pistola. Lucy spariva dalla vita delle vittime qualche settimana dopo, per non lasciare sospetti. Il motivo della crisi: troppa differenza di età, mi trascuri troppo, i suoceri non mi hanno accettato, stronzate simili. Tre o quattro colpi al massimo, in un anno.

Lucy raccontò dei furti a Verona e dintorni, di come Marziano avesse scontato un anno in carcere per pene residue, della ripresa della loro attività. Non disse nulla della notte di cui portava addosso le cicatrici.

Davide intuiva che lei aveva taciuto parte della storia, che lo aveva tenuto all’oscuro di qualcosa. Qualcosa che restava nell’aria e aleggiava nel suo sguardo smarrito. Davide aveva visto le sue cicatrici. Davide sapeva.

Lucy nella testa riviveva la scena in cui Marziano uccideva il suo amante. Allora la pistola aveva sparato e i colpi erano stati fragorosi. Ogni esplosione le era rimbombata nelle orecchie. Pensava di aver rimosso il ato, ma riaffiorava nei momenti più impensati, e lei non poteva farci nulla quando per strane associazioni di idee tornava a quei fatti. Conservava nitido ogni istante di quella sera: il sangue che si allarga nella terra umida, il corpo di Sebastiano che si contorce come un burattino a cui tagliano i fili, le grida scomposte di chi non capisce perché meritare quella fine.

La memoria non è divertente. Col are del tempo i suoi trucchi diventano sempre più prevedibili. Eppure con lei funzionavano sempre. Marziano! Aveva paura di lui... Aveva sperimentato quanto poteva essere crudele la sua vendetta. Ne portava impressi sulla pelle i segni.

«C’è qualcosa che non ti ho detto», annunciò Lucy sedendosi sul letto.

Davide vide le sue cicatrici arcuarsi in ghirigori di pelle e si preparò a ricevere la confessione di una donna maltrattata.

«Sebastiano Venato era un giovane imprenditore, figlio del presidente di un importante gruppo industriale – esordì lei –. Aveva trent’anni. Voleva godersi la vita. Io lo aveva agganciato per conto di Marziano. Volevamo ripetere il solito trucco: arrivare alla cassaforte della fabbrica. Lo andavo a trovare sul posto di lavoro. Mi ero guardata intorno. Avevo studiato l’azienda e scoperto dove

tenevano gli stipendi dei dipendenti. Lo frequentavo e, quasi senza accorgermene, me ne sono innamorata».

«Continua» disse Davide, scosso da un improvviso attacco di gelosia.

«Il colpo fruttò un bel gruzzolo. Lui aveva capito che io ero stata la basista, ma non aveva le prove. Contattò la polizia e fissò un appuntamento con me. Aveva dei microfoni addosso. Cercava di provocarmi, ma io non mi sono scoperta. L’ho lasciato dicendogli che non potevo sopportare i suoi sospetti. Marziano gliel’aveva giurata. Appena la polizia mollò le indagini, perché non aveva niente contro di noi, mi ordinò di dargli appuntamento fuori Verona, in campagna, e lì lo ha ammazzato. Ha nascosto il cadavere così bene che i genitori ancora lo cercano».

Lucy lo abbracciò. Sembrava stesse meglio dopo il suo lungo racconto.

«E queste cicatrici?».

«Marziano volle punirmi perché mi ero innamorata e per poco non mi facevo incastrare. Diceva che ero un’ingenua, che una persona normale non si sarebbe mai innamorata di me».

«Beh, adesso la società è sciolta. Non farai più questo tipo di lavori».

Sentiva con i polpastrelli i segni delle cicatrici. Doveva essere stata una cinta, oppure una frusta, a ridurle la schiena a quel modo. Cresceva in Davide un odio

profondo verso quell’uomo che pure non aveva mai visto, ma che prima di lui aveva conquistato Lucy con la gentilezza e la violenza allo stesso tempo.

La ragazza rabbrividì. Si riscosse dalla ferocia del ricordo.

Poi venne il turno di Davide. Provò per la prima volta il desiderio di mettersi a nudo e di raccontare le sue pene. Di parlare della Colpa. La parte migliore di sé emergeva pigramente dalle macerie di dure esperienze che l’avevano inabissata. Avvertì un calore interno rilassare i muscoli. E si liberò della pressione che lo aveva sempre bloccato, come un fiume in piena che rompe gli argini. Andarono avanti per ore, a parlare. I loro erano i su gusci di uovo.

La conversazione tra loro era sommessa, appena sussurrata. Un misto di finzione e spontaneità, di ritrosia e menzogna, nel reciproco scoprirsi l’uno davanti all’altro, nella presentazione di sé e nella confessione del proprio ato. Nessuno dei due era consapevole di dove sarebbe arrivato. Fino a che punto si sarebbe spinto il gioco.

30.

La linea bianca della strada scorreva rapida. Lucy aprì il finestrino e lasciò che il vento le scompigliasse i capelli. Davide guidava silenzioso. Il grigio dell’asfalto si srotolava uguale a se stesso. L’oscurità era attraversata da una foschia indistinta. Gli parve di scorgere una luce dietro la sua auto. Una lucina fioca. Rallentò. Forse era solo un’impressione. Si fermò sul ciglio della strada e Lucy afferrò la pistola. Trattennero il fiato. Quando all’uscita della curva videro che il motorino che andava dritto, tirarono un sospiro di sollievo.

«Prosegue», disse Lucy. Alla guida del ciclomotore c’era una persona che indossava una giacca fuori stagione e aveva la testa coperta da un berretto. «Va per i fatti suoi».

«Falso allarme», replicò Davide. Ripartì. Forse stava diventando paranoico. Deviò sul lungomare di Massa. I loro nervi si distesero. Un rettangolo rosa si disegnava nel cielo.

Davide guardò Lucy con tenerezza. Gli ò in mente, come un riflesso condizionato, il ricordo di Teresa. Il volto della poliziotta fu eclissato dal sorriso di Lucy. L’amore era arrivato, e lui l’aveva saputo riconoscere. Cosa importava se in un gioco di specchi aveva sostituito l’immagine di Teresa con quella di Lucy? Non avrebbe saputo spiegare a nessuno come aveva fatto a superare il lutto. Era successo e basta. La formazione dei sentimenti è più banale di quello che si crede. Un bel giorno la memoria cancella le pene e il pensiero si focalizza su un’altra donna. Sorrise, pensando che il suo istinto di protezione lo trascinava a difendere una criminale e lo portava a camminare verso pericolose tenebre.

Oltrearono una via deserta, costellata da insegne di Armani, Versace, Lacoste, Dolce&Gabbana e Calvin Klein. Sei, sette ragazzi attraversavano la strada. Davide inchiodò. I ragazzi non sembravano essersi accorti dell’auto. Scherzavano tra loro e parlavano delle avventure estive.

Lucy sembrava distante anni luce da quei giovani viziati e superficiali. Forse era cresciuta troppo in fretta. Li guardò ridere con una punta di invidia. Tutte le boutique di cui era disseminato il lungomare avevano la saracinesca abbassata. Nel paese non girava anima viva.

Davide fermò l’auto davanti a un’edicola notturna e acquistò i quotidiani. Lucy inalò l’ossigeno della notte come un farmaco per polmoni malati e consultò i giornali, avida di informazioni. Via una pagina dopo l’altra, alla ricerca di notizie fresche. Restò delusa.

«Non ci sono articoli sulla rapina. Sul mafioso steso in albergo non c’è scritto niente. E neppure su Marziano e il Rosso».

Davide stentava a capire. Controllò il giornale e scosse il capo. Si rimise alla guida lasciandosi alle spalle l’edicola. L’auto si immerse nella notte.

«Qualcosa non quadra. Forse lo fanno apposta. Forse oscurano tutto. Sei tu l’esperto. Che ne dici?», domandò lei.

«Gli inquirenti non arrivano a questo grado di intelligenza».

«Allora nessuno mi cerca. Non sanno neppure che sono coinvolta in quella rapina! Non è fantastico! Sono una persona libera!».

«Placa l’entusiasmo. Non sappiamo che cosa ha in mano la polizia».

Mentre procedevano lentamente verso casa, Davide vide una smagliatura nel volto di Lucy. La dolcezza dei suoi lineamenti svaporò. Vide le cicatrici muoversi in sintonia col resto del corpo.

«Perché non ci disfiamo della droga?», obiettò candidamente lui.

«Vale una fortuna».

«Non voglio avere a che fare con la droga. So che significa, per esperienza personale, iniettarsi quel veleno nelle vene. La cosa più ragionevole è bruciarla: evitare che rovini altre vite».

Lucy si voltò. «Guardami. Ho patito troppo. Non voglio rinunciarci».

«Questo non cambia la mia opinione. La droga resta merda».

Lucy inspirò l’aria frizzante della sera. Insofferente. «Facciamo un patto. La droga la bruciamo, la distruggiamo, ci facciamo quello che vuoi tu. Ma i diamanti ce li teniamo: solo quelli».

Lui capitolò e ripeté meccanicamente tra sé, come a convincersi del patto: «Prendiamo solo le pietre».

Lucy l’aveva spuntata. Aveva rinunciato a malincuore alla droga, ma aveva segnato un punto a proprio favore.

Quando i due rientrarono, scorsero un’ombra che si allontanava dalla villa. Davide notò che qualcosa non andava. Il led dell’allarme era spento. Si precipitò dentro casa. «Qualcuno è entrato».

Lucy corse verso il nascondiglio, ma non trovò la sacca. «Ci hanno fregato».

Guardarono per la milionesima volta il posto vuoto sotto al letto.

«Tutto quello che avevamo. Il nostro futuro!».

«Hai idea di chi possa essere stato?».

«Se fossero stati i mafiosi, sarebbero rimasti per farci la pelle... No, non possono essere stati loro».

«E il motorino? Ti ricordi che avevamo l’impressione di essere seguiti?».

Lucy era terrea in volto. Ogni volta che toccava il cielo con un dito, c’era sempre qualcosa che la riportava drammaticamente sulla terra. Non poteva mai godersi un istante di felicità.

«Le telecamere. Abbiamo le registrazioni».

Seguito da Lucy, Davide entrò nel laboratorio. Inserì i nastri nel videoregistratore, le mani che gli tremavano.

Lucy seguiva con lo sguardo palpitante tutte le operazioni. Il portone della casa inquadrato dalla telecamera. Davide mandò avanti il videoregistratore. Il portone qualche ora dopo. Il nastro era finito. Inserì il nastro successivo. Sudore freddo. L’immagine sgranata di una donna che forza una finestra. L’immagine della donna che trasporta via la sacca.

Davide fu scosso da un fremito. Non immaginava che sarebbe potuta accadere una cosa simile. Saettò gli occhi verso il monitor. Mise il fermo immagine. Vide da vicino le rughe di espressione agli angoli della sua bocca e la smorfia impercettibile di un sorriso.

Lucy riconobbe il viso immortalato nel video. «Ma questa non è...?».

«Sì, è lei» assentì Davide. I pixel del volto danzavano grottescamente. I contorni del volto rimbalzavano nella stanza del laboratorio.

31.

Vituzzo Lo Presti era seduto sulla panchina. Muoveva gli occhi come un radar. Non aveva placato il desiderio di sangue. Lo sbirro con cui aveva appuntamento gli avrebbe dato le imbeccate giuste. Forse aveva già identificato gli autori della rapina al Royal. Lo sbirro doveva venire al parco della Caffarella all’una di notte. Era in ritardo, e questo lo innervosiva.

Accanto a lui, Salvatore Bonomi indossava una giacca giallo canarino e una camicia bianca. Un’eleganza chiassosa che faceva a pugni con la cornice del posto. Il parco di periferia era infestato da siringhe e cartacce. A quell’ora i suoi unici frequentatori erano tossici e balordi. Salvatore era seccato. Tornare a occuparsi del furto significava perdere tempo, quando il Professore gli aveva dato tutte le garanzie. Il dischetto e il ricatto si profilavano inutili. La vendetta più che mai. Diede un’occhiata all’orologio. Lo sbirro non si vedeva. Le lancette correvano veloci: le due del mattino.

Vituzzo aveva in mano un bicchiere over size di coca cola. Aspettava che il ghiaccio si sciogliesse. Voleva fare conversazione. «Ti ha detto Don Tonio cosa conteneva il dischetto? Che c’era di tanto importante?».

«Quale dischetto?».

«Quello che stava con l’eroina e i diamanti».

«Ah, sì, quello che tu avresti dovuto prendere in consegna. Beh, conteneva informazioni vitali sul Professore e sui suoi amichetti».

«Tuo zio non si fida dell’Anello. Vuole avere un vantaggio su di loro».

«Io dico che è un gioco pericoloso. Gli incendi alle Standa potevano bastare per metterli sotto pressione. Erano un messaggio chiaro. Ricattare l’Anello significa mettersi contro persone potenti, che possono farcela pagare».

«Tuo zio è una mente. Tuo zio sa quello che è giusto fare e preferisce tenere tutti sulla corda, piuttosto che aspettare i loro favori».

Salvatore ne aveva le palle piene. Suo zio, suo zio. Sempre lui. Era così ingombrante avere un parente al vertice della Commissione? Don Tonio lo trattava come un ragazzino e gli faceva perdere tempo in questioni insignificanti. Quando poteva pranzare con un pezzo grosso della politica e sistemare gli affari del clan... evitando di ascoltare il fiume in piena di Vituzzo!

«L’ispettore Pallante è sul nostro libro paga. Ci aiuterà a trovare i bastardi. Ha sistemato lui le cose al Royal dopo la sparatoria. Ci ha messo una pezza sopra».

Vituzzo interpretò lo sguardo di insofferenza di Salvatore come segno di malumore per lo sbirro. «Non temere. È uno fidato. Ci lavoriamo insieme da un bel po’. Lo abbiamo adottato da quando era un semplice agente a Palermo».

Dopo un’altra buona mezz’ora di attesa, un trentacinquenne di corporatura

leggera e con l’aria da attore di soap-opera si avvicinò alla panchina. Ufficialmente Pallante indagava sulla sparatoria al Royal. In pratica era il poliziotto più ricco della città. Si sedette con tutta calma e mostrò una cartellina con effetto teatrale. «La lista dei clienti dell’albergo. La vera lista. Perché quella che ho dato al pm l’ho ritoccata personalmente».

Vituzzo ragionò ad alta voce. «È possibile che due di loro siano andati via con l’auto di un cliente? Forse andavano verso il garage quando io ero impegnato a sparare alle altre merde».

«Non lo so. Però non sono stati denunciati furti».

«Se la sono bevuta la storia?».

«L’arma di tuo nipote l’ho fatta sparire. Il magistrato era troppo impegnato a vomitare».

«Stomaco debole?».

«È una donna. Siamo fortunati». L’ispettore sorrise, con ghigno compiaciuto. «Ma la parte più rognosa è stata rimuovere i bossoli. Ancora non ci ha capito niente la Scientifica».

Vituzzo dava segni di nervosismo. Triturò con la mano il bicchiere di coca cola. La questione per lui era molto personale. Faticava a pronunciare persino il nome. «Come hai giustificato la presenza di... Carmelo?».

«Ho reso malleabile il personale dell’albergo, elargendo pezzi da mille. Così ho ottenuto diverse dichiarazioni secondo cui la vittima era un amico di Mfekete ed era venuto a trovarlo in albergo, quando qualcuno lo ha seccato».

Vituzzo finì la sua sistematica distruzione del bicchiere. «Mio fratello vuole giusti-zi-a».

L’ispettore trattenne a stento una risata sentendo invocare giustizia dal Macellaio. Strana pretesa per uno del suo stampo. «Me ne sto occupando».

«Non è saltato fuori niente di interessante? Ho fretta».

«Non andranno lontani. Don Tonio può dormire sonni tranquilli».

«Quello che non dorme sono io. Doveva essere un lavoretto come tanti. E ora non ce la faccio a guardare in faccia mio fratello. Cosa gli racconto?».

«Io ho fatto i salti mortali. Per fortuna la vittima era incensurata».

Vituzzo ringhiò. «Richiamalo “vittima” e...».

Salvatore sbuffò. «Arriviamo al sodo. Sai dirci qualcosa in più sul covo? Perché

i nostri rapinatori non sono andati lì dopo il colpo?».

«Avranno pensato che era rischioso».

«Hai chiesto i tabulati delle chiamate in uscita e in entrata?».

«Domani ve li porto».

L’ispettore aprì la cartellina con evidente soddisfazione, come se l’attacco del mafioso non lo avesse neppure scalfito.

«I documenti rilasciati in albergo erano chiaramente fasulli. E questo lo sapete bene. Ma le impronte digitali parlano chiaro».

Vituzzo gli strappò di mano la cartellina e consultò le scartoffie.

«Ho fatto io i rilevamenti – seguitò Pallante – Un mio collega li ha comparati con la banca dati e nell’Afis ha trovato i riscontri. Corrispondenza del cento per cento con le impronte. I ladri erano tutti schedati».

Vituzzo andò rapidamente agli esami dattiloscopici e alle foto segnaletiche.

Marziano Albo, 59 anni, 182 cm, occhi marroni, capelli neri; Roberto Flavi, 40

anni, 176 cm, occhi neri, capelli neri; Lucy Johnson, 28 anni, 164 cm, occhi azzurri, capelli biondi. Il quarto faceva da palo. Non aveva lasciato impronte nella camera, ma nella vettura di cui si era servita la banda. Giacinto Iesi, 34 anni, 184 cm, occhi chiari, capelli rossi.

«Si può stare sicuri col tuo collega?», domandò Vituzzo.

L’ispettore annuì. Salvatore non trovò di meglio da fare che alzarsi dalla panchina. Le cose stavano andando per le lunghe. Il poliziotto si rivolse a lui credendolo più ragionevole. «Sono ato allo scantinato e ancora sto male al pensiero di come avete ridotto quel poveraccio».

«Non voleva darci l’indirizzo», ringhiò Vituzzo.

L’ispettore si diede arie da Serpico. «Non mi sembra che vi sia servito».

Vituzzo si irrigidì. «Per ora stai andando bene. Continua a fare il tuo lavoro e porteremo i tuoi saluti a Don Tonio. Ti aspettiamo domattina».

L’ispettore distribuì un’occhiata muta, come a dire “senza rancore”. La cartellina ò dalle mani di Vituzzo a quelle di Salvatore, che diede uno sguardo alle segnaletiche. L’americana era fotogenica. Un bel bocconcino.

32.

Davide aveva preferito lasciare Lucy a casa. La sua presenza gli dava una forza che non sospettava di possedere. Si sentiva rinato, come se si fosse immerso in un lavacro rigenerante. Le avrebbe dimostrato il suo valore recuperando i diamanti. Forse aveva idea del luogo dove era stata nascosta la refurtiva. Si fermò a cento metri dal lago di Porta, un’oasi naturale del WWF.

Prese un piede di porco e un coltellino a scatto. Scese dalla vettura nascondendo gli arnesi sotto la giacca estiva. Si incamminò con un’andatura spedita verso il casale. Aveva parcheggiato lontano per non destare sospetti. Notò un motorino coperto. Sollevò il telo. Lo riconobbe subito. Il mezzo con cui era stato pedinato. Non c’era altra spiegazione. Era stato tenuto sotto controllo e appena s’era allontanato da casa avevano portato via droga e diamanti. Contemplò il rudere. Il paesaggio sembrava essersi fermato a un decennio prima. Si addentrò nell’aia, a forma di u aperta verso i campi. Originariamente lo spazio tra la casa colonica e la stalla. L’edificio di pietra e mattoni aveva un tetto a padiglione dominato da una colombaia in pessimo stato. Davide controllò porte e finestre. Trovò un serramento chiuso male. Infilò nella fessura il piede di porco. Esercitò una leggera pressione e la aprì.

Richiuse la finestra e cercò di orientarsi nello stanzone tetro. Il casale era un investimento di Michele. Lo aveva acquistato dopo il matrimonio. Avrebbe voluto farlo diventare la “casa di campagna”. Ma la ristrutturazione era rimasta un pio desiderio. C’erano una cucina con un vecchio forno a legna in disuso, un salone spazioso con le mura annerite, una camera padronale e un letto a baldacchino roso dai tarli. Mentre frugava tra i vecchi mobili, riandò con la mente all’accaduto. Lo scenario era nitido. Michele covava vendetta e aveva intuito che Sara lo tradiva. Sara a sua volta aveva capito che Davide le nascondeva qualcosa. Lo aveva seguito e scoperto la refurtiva. Non era più una questione di orgoglio, ma di soldi. Sara aveva rivelato al marito la grande

opportunità. I due avevano sancito la pace e si erano alleati.

Davide calzò i guanti. Rovistò nei cassetti. Controllò dietro i mobili. Staccò i quadri. Tastò ogni mattone del pavimento, per vedere se esisteva un doppio fondo. La refurtiva era nascosta nel posto più banale: sotto al caminetto, attaccata col nastro adesivo. Si caricò la borsa su una spalla. Controllò se l’aia era vuota. Sarebbe uscito dalla porta principale. Tutto facile. Si domandò da quanto tempo Michele era geloso. Si chiese se non avesse nutrito verso di lui l’invidia che nutriva per Leo, nella consapevolezza di essere un fallito.

Un rumore di pneumatici lo fece arrestare. Bloccò la mano sulla maniglia. Tornò indietro col cuore in gola. Due voci distinte gli arrivarono alle orecchie. Non sapeva dove acquattarsi. Scelse la cucina. Si chinò dietro una poltrona country. Sollevò gli occhi verso la finestra. Da quella prospettiva poteva vedere una volante della polizia parcheggiata fuori. Strinse forte nella mano il piede di porco: sarebbe stata un’arma efficace. Restò nell’ombra senza fiatare. Rumore della porta e scarpe chiodate sul cotto non lo scossero.

Sara e Ivan arono nel salone e non si accorsero di lui. Il poliziotto che faceva sempre il duro era stranamente euforico. Davide aspettava il momento buono per dileguarsi. Udì mozziconi di frasi. Avvertì le vibrazioni erotiche nell’aria. Sentì i vestiti che cadevano per terra. Poi i due tornarono in cucina.

«Lascia stare!», gridava lei.

Ivan era deciso: «Mi sono accorto che hai un debole per quel Davide».

«A che pensi, adesso?».

«L’ho capito dalla prima volta, quando siamo andati da lui».

«E se anche fosse?».

«Non mi piace come lo guardi. È chiaro che tra voi c’è una relazione».

Davide si sporse quel tanto che bastava. Dalla sua angolazione vedeva le natiche di Sara che aderivano al corpo di Ivan, si strofinavano al suo ventre e si ritraevano provocandone l’eccitazione. Le loro voci erano diventate un sussurro flebile. «Non mi dire che sei geloso?».

«La cosa che mi dà fastidio è che te lo sei portato a letto».

«Non ti preoccupare. Tu non temi confronti. Te l’avranno già detto che sei uno stallone. Non ho mai trovato qualcuno che mi fa godere come te. Prima di conoscerti pensavo che gli uomini non esistessero più».

«Davvero?».

«Andiamo di là. Abbiamo perso troppo tempo».

Davide scorse Sara che portava Ivan nella camera da letto. Uscì dal suo

nascondiglio in punta di piedi, con la sacca sulle spalle. Si diresse verso l’ingresso trattenendo il respiro, mentre le urla di Sara risuonavano per la casa.

33.

Il caldo era opprimente. Seduta sul divano, Lucy indossava un paio di slip. Compresse le tempie per non farle scoppiare. Colse il proprio riflesso nello specchio. La sua sagoma le sembrò volgare. Le parve assurdo che molti uomini perdessero tempo a farle la corte e la ritenessero bella. Forse non lo era mai stata, bella. Aveva un senso di nausea per se stessa. Era impaziente.

Prese a misurare il salone a lunghi i. Le zanzare la bombardavano. Smaniava perché Davide non tornava. Schiacciò un insetto che le ronzava intorno. Quando la porta si aprì, corse verso l’ingresso. Davide si sciolse in un sorriso e lei lo abbracciò, in preda a una gioia incontenibile.

«Hai recuperato la sacca?».

«Ho fatto di meglio. Ho nascosto la droga e i diamanti in una cassetta di sicurezza».

«Sei stato grande!», urlò Lucy.

Lui frenò l’entusiasmo. «Michele e Sara sono due dilettanti. Quelli che hai derubato invece fanno sul serio. Non facciamoci illusioni. E prepariamoci al peggio».

«Il peggio?».

«Possono capitare degli imprevisti, in questo genere di cose».

Davide restò a guardare Lucy e si ritenne fortunato. No, non avrebbe fatto la fine di Michele. Non sarebbe rimasto in quel luogo sperduto a fare un lavoro che non gli piaceva sopportando le corna della moglie. Lucy le offriva un futuro diverso e avrebbe difeso il suo amore con le unghie e con i denti. Ormai non pensava più a Teresa e non faceva più brutti sogni. Adesso era l’insipida esistenza di prima che lo atterriva.

«Se vogliamo salvarci dobbiamo capire con chi abbiamo a che fare. Raccontami per filo e per segno com’è andata».

Occorreva pensare in termini logici. Dare un ordine. Mettere a fuoco la dinamica del furto e scoprire a chi apparteneva la refurtiva.

Lucy ripeté ad alta voce come erano andati i fatti. Non aveva mai voluto sapere i particolari del colpo. Era Marziano che se ne occupava. Uno specialista bosniaco della contraffazione aveva provveduto ai documenti. Un covo li attendeva dopo la rapina. Tutto facile in teoria.

Davide pretese di soffermarsi su ogni dettaglio. Mano a mano che il racconto proseguiva, si faceva più preoccupato. Capiva in che razza di situazione si era cacciato.

«Te l’ho detto. Marziano sapeva che quel nero trafficava in droga. E lo abbiamo spiato. Aveva una società di import export a via Veneto».

«Come si chiama la società?».

«Voc Service. Eravamo alle calcagna di quel Mfekete da quando è sbarcato a Roma. I suoi uffici sembravano di lusso. Lui non si faceva mancare nulla. L’abbiamo seguito. Non avevamo ancora capito dove nascondeva la droga e abbiamo aspettato il momento giusto per chiederglielo».

«E il dischetto?».

«Mfekete si era incontrato con una persona. Forse il dischetto gliel’ha portato quello».

«Descrivimi la persona».

«Giovane, alto, biondo».

«Possiamo restringere il campo a un decimo della popolazione italiana».

«È finito l’interrogatorio?».

«Non ancora».

Davide accese il computer nel laboratorio e stampò le segnaletiche di alcuni pregiudicati. Tutti più o meno simili alla descrizione dell’uomo col fucile. Poi mostrò le foto a Lucy. A una ad una. La ragazza spalancò i suoi occhi di un azzurro scintillante, indicando la foto di Vito Lo Presti.

«È questo l’uomo che ti ha sparato?», fece Davide quasi incredulo. Era come se il ato opprimente prendesse corpo improvvisamente davanti a lui e gli sbarrasse la strada.

Lucy annuì e guardò Davide negli occhi, intuendo il suo terrore. «Lo conosci, vero?».

Davide non rispose. Nella riffa del destino era uscito il numero sfortunato. Lucy non aveva derubato un mafioso qualsiasi. Aveva derubato il suo peggior nemico.

Una serie di flash gli illuminarono la mente.

1 luglio 1992: Davide prende in mano il caso Colaianni. Un detenuto gli rivela che la mente dell’attentato è Tonio Bonomi e Vito Lo Presti è il braccio armato. Il detenuto non vuole mettere a verbale. Ha paura delle conseguenze.

21 luglio 1992: Viene trovato il confidente, appena scarcerato, con la lingua tagliata. Davide sospetta che Lo Presti abbia fatto il lavoretto.

Aveva occultato una rete di microspie in tutti i posti frequentati dal mafioso: un casolare di campagna, una masseria, l’abitazione della parente incensurata, un bar in cui si giocava a biliardo. Sapeva che Lo Presti ispezionava lampadari, spine e interruttori con dei rilevatori. Le sue contromisure: piazzare cimici lontane da segnali di rilevazione. Aveva trascorso le giornate con le cuffie alle orecchie aspettando Lo Presti. Ma Candida lo aveva beccato con la droga. Un grammo. Per uso personale, per poter dormire, si era giustificato. Era successo un pandemonio. Rizzo gli aveva evitato la sospensione. Davide era stato “caldamente invitato” a ritirarsi. E aveva lasciato un cumulo di intercettazioni sotto la polvere.

34.

Salvatore Bonomi si stava radendo. La televisione in camera gli faceva compagnia. Oltre ai Mondiali, la notizia del giorno era l’avvicinarsi dell’anniversario della morte di Colaianni. Le immagini di repertorio mostrarono Teresa Calò e gli altri uomini della scorta con le carni stracciate, la strada aperta dal tritolo, un giornalista che con la voce strozzata dice “sono morti tutti”. La sfilata delle autorità che hanno incolpato di protagonismo il giudice mentre era vivo e che da morto lo santificano. La sorella di Colaianni che non si è costituita parte civile al processo.

Salvatore Bonomi spense il televisore. Indossava un costume da bagno a righe e le ciabatte del Ritz. Era di pessimo umore. La sua camera era comunicante con quella di Vituzzo. Lo fece entrare.

Vituzzo lo squadrò da cima a piedi. Fece un sorrisetto e gli diede un’occhiata divertita. «Dove vai con quel costume da frocetto?».

Salvatore assunse un’aria greve. Cominciava a odiare Vituzzo. «Il dischetto non ha più utilità, il Professore ha ceduto. Allora dimmi per quale cazzo di motivo mi hai svegliato alle sette del mattino? Per dare la caccia ai ladri?».

Vituzzo si leccò le labbra, preparandosi a impartire la sua lezione. «Hanno ucciso Carmelo e vanno puniti. Si sono macchiati di una colpa grave, hanno fatto un affronto a me e a tuo zio. E poi, scusa, ma chi te lo dice che il Professore manterrà le promesse?».

«Gli conviene stare ai patti».

«Finora non l’ha fatto. Non si è mai rivelato affidabile e, prima o poi, andrà messo alle strette. Non ti montare la testa, perché hai parlato con lui e ti ha dato un po’ di importanza».

Salvatore si diede un’aria autorevole. «Per me qui stiamo solo sprecando energie. Bisogna avere fiducia nella nazionale e vedrai che le cose si sistemeranno anche per noi».

«Che c’entra il calcio adesso? Prova a ragionare. Qual è la nostra convenienza, se l’Anello non fa niente per noi?».

Salvatore aveva ricevuto dal Professore quella patente di dignità che molti nella sua famiglia non gli avevano mai accordato. Ecco perché difendeva la posizione dell’onorevole. «Il Professore ha faticato come un mulo. Ma è stato isolato dal suo stesso partito. È fuori discussione che appoggerà la nostra causa. Non lavora solo per noi, lui è uno di noi».

«Se veramente è stato battezzato, l’ha fatto per la carriera. E ora ha dimostrato di non contare una minchia».

«Bisogna accettare l’idea che Cosa Nostra non è più quella di Buscetta e Calderone, o quella di Riina. C’è stata una rivoluzione culturale. Io non ho neppure la cittadinanza italiana. La nostra organizzazione è ramificata in tutto il mondo e ha tante teste. Ma la cosa che ci unisce, il cemento comune, è il

business. Tutti vogliamo diventare ricchi. Anche il Professore. Non è un peccato».

Il toc toc alla porta li fece girare entrambi. Pallante comparve con la sua aria da furbetto. «Disturbo?».

Salvatore e Vituzzo si scambiarono un’occhiata, come a dire di archiviare la discussione.

«Hai portato i tabulati telefonici?».

L’ispettore tirò fuori i fogli. «Forse vi aiuteranno a risalire alla stronzetta che ha chiamato la topaia».

Salvatore si morse le labbra. Un lavoro da sbirro. Scorrere le note della questura e osservare i tabulati del covo.

Vituzzo incrociò i dati con gli indirizzi dei clienti dell’albergo. Indicò il listato delle chiamate. «La telefonata è partita da una cabina vicino Massa Carrara».

«Qualcuno al Royal ha a che vedere con quella zona?».

Salvatore trovò la coincidenza singolare. «Un tizio che occupava una camera al terzo piano abita a Cinquale».

«Chi è?».

Salvatore controllò: «Davide Bazzichi».

Il volto di Pallante si aprì in un sorriso. «Lo conosco».

«Cioè?».

«Mi ricordo di lui. E mi ricordo anche di una certa Teresa».

Salvatore aveva gli occhi sbarrati. «Teresa? E chi è?».

«Te lo racconto mentre andiamo – disse Pallante tirandogli i pantaloni perfettamente ripiegati sul letto –. Dobbiamo farci parecchi chilometri».

13–17 luglio 1994 Viareggio, Palermo, Milano, Roma

In tutte le esistenze, si nota una data alla quale il destino si biforca, o verso una catastrofe o verso il successo.

François de La Rochefoucauld

35.

Quando Davide si alzò dal divano, Lucy dormiva ancora. Preferì non svegliarla. Le scoccò un’occhiata tenera, quasi paterna, e poi uscì. Ogni cosa era tornata a occupare uno spazio congruo. Il ricordo lasciato dal padre, l’ufficiale più decorato nei Servizi, non gli suscitava più invidia, perché con quel mondo Davide non avrebbe avuto nulla a che spartire se non nella misura in cui sarebbe servito ai suoi fini. Ora aveva qualcuno di cui preoccuparsi. Era a Lucy che doveva badare, alla sua sicurezza, alla sua fuga.

Salì in auto e guidò spedito. Aprì il finestrino e si godette la frescura. S’era alzato il maestrale. Aveva il solito cerchio alla testa. La Bmw andava in planata come un aeroplano sulla striscia d’asfalto. Buttò uno sguardo sugli stabilimenti vuoti. Effetti del pre-partita. Italia e Brasile in finale. Ventiquattro anni dopo la gara di Città del Messico persa per 4-1.

Per le strade c’era il deserto. Come se tutta la gente si fosse ritirata in preghiera per Sacchi. Attendevano il fischio d’inizio. Il rettangolo azzurro del mare suggeriva un’impressione di cattiveria. Il vento sferzava gli ombrelloni e alzava la sabbia negli occhi. Per raggiungere Viareggio ci mise un quarto d’ora. Affondò il piede sull’acceleratore.

Nel porto c’era via vai, a dispetto della giornata. Sapeva che l’avrebbe trovato lì. Le precauzioni non erano mai troppe. Si voltò indietro e non notò niente di sospetto. Non dormiva da ore. Non c’era stato verso. Troppo caldo. Troppe cose che giravano per la testa. Ripensò a Lucy che piangeva. Alla crisi di nervi che aveva avuto durante il telegiornale. La scoperta che Fran Delisabic era morto aveva mandato in pezzi il suo sistema nervoso. Lui le aveva ribadito: «Io ti salverò». Lei gli aveva risposto grazie con gli occhi.

Nel canale Burlamacca c’era risacca. Molti diportisti approfittavano per dedicarsi alla manutenzione. La Freedom era ancorato in Darsena Italia. Leo aveva fatto il tagliando completo all’entrobordo: filtro del carburante, cambio olio, controllo del circuito di raffreddamento. Stava applicando l’antiossidante sui contatti elettrici. Pulizia straordinaria in vista del lungo viaggio. Era un maniaco della perfezione. Invitò Davide a salire. Si pulì le mani e si sedette sulla comoda cuscineria bianca. «Con Michele ci siamo chiariti, eh».

«Non è di questo che volevo parlarti», rispose Davide togliendosi le scarpe. Guardò la tuga e il pozzetto lucidati. Prese tempo. Cercò le parole. «Hai ancora in mente di andare a quelle isole? Quelle di cui mi hai sempre parlato?».

«Certamente. Ho in mente di vedere i boschi di Laurisilva, di giocare nel Casino di Funchal, di farmi a piedi i nove chilometri di sabbia dorata di Porto Santo e fare pesca d’altura nell’Atlantico».

«Bene. Si parte domani, allora. E ci sarà un altro eggero».

Disse a Leo quello che doveva dirgli. Rivelò ogni dettaglio. Voleva che l’amico fosse a conoscenza della situazione. Raccontò di droga e diamanti. Raccontò della rapina alla mafia. Chiarì ciò che lui avrebbe rischiato portando Lucy sulla barca. Concluse: «Non ho capito se la polizia sta indagando su di lei. Comunque le procurerò dei documenti falsi».

Leo emise un fischio. «Ti sei messo in un bel casino».

«Ci sei anche tu. Non puoi tirarti indietro».

«Non mi sembra una buona idea far salire mio padre sulla stessa barca di una latitante».

«Lucy avrà un aporto regolare e una nuova identità».

«Mi chiedi molto».

«Una volta non ti spaventava nulla».

Leo ebbe un lampo sornione nel volto e alzò le braccia in segno di sfida. «Infatti. È andata. Vi imbarcherò».

«Tuo padre ha ancora quell’autista che traffica in pietre preziose?».

«Puoi starne sicuro. Non lo cambierà mai. Mi preoccupi quando fai quella faccia. A che stai pensando?».

«Voglio mettermi in contatto con lui. Vendeva e acquistava diamanti, se ben ricordo. Beh, adesso ha l’occasione della sua vita».

«No. Santo cielo. Non ha un giro così grosso».

«Troverà gli acquirenti. Un saldo di fine stagione: venti carati per un prezzo stracciato».

Leo capitolò. L’adrenalina già scorreva nelle sue vene. «Questo è il suo numero. Se vuoi un consiglio, non parlare al telefono di queste cose».

«Non sono così ingenuo».

Leo posò una mano sulla sua spalla. Lo stava attraversando un dubbio. «Verrai anche tu, insieme a questa misteriosa ragazza?».

Davide si sistemò i capelli mossi dal vento. Sorrise in controluce. «Non mi perderei Atlantide per niente al mondo».

«Dev’essere in gamba, lei, per farti perdere la testa».

«Ho provato a resisterle. Ma ha vinto».

«Alle sei si parte. Portate poche cose. Lo sai come sono fatte le donne».

«Non c’è problema. Lei è senza bagaglio».

Mentre tornava all’auto, Davide si sorprese a ridere. Guardò il cielo cupo. Era felice. Doveva tenersi ancorato alle vetture in sosta, per non volare via. Era davanti alla svolta più imprevedibile della sua vita. Una manciata di ore per architettare il suo dorato esilio.

Sentì una leggera pressione sulla schiena. Una frase all’orecchio. «Non ti voltare».

La canna di una pistola. Cazzo cazzo. Non ora. Non quando si era deciso a darci un taglio. Una fitta alla nuca. Una vampata. Cazzo cazzo cazzo. Non potevano fargli questo. Non quando era a un o dall’Eden.

36.

Lo ficcarono dentro un furgone. Il sedile lo avvolse. La vista si annebbiò. Li aveva sottovalutati. Pensava di avere tempo. Invece no...

Il più giovane aveva modi gentili. Gli scoprì le maniche della camicia e gli piantò una siringa nel braccio. Una sensazione di calore. Una sensazione che conosceva bene. Il secondo portava scarpe lucide e aveva un’aria familiare.

Un barlume di risolutezza. Alzò la testa. Il terzo era ben piantato e aveva gli occhi feroci. Una persona già vista, almeno in segnaletica. Stentava a credere che potesse essere vero. Non era uno spirito. Era una persona in carne e ossa, quello che gli dava un buffetto e chiudeva il portello del furgone, augurandogli un dolce sonno.

Sentì il corpo perdere peso. L’eroina lo stava attraversando. Gli parve che tante braccia invisibili lo deponessero in una bara. Il formicolio lo contagiò dai piedi alla testa. La vista si sfaldò. La mente vacillava. Le gambe persero vigore e rifiutarono di muoversi. Le braccia erano elementi estranei.

Tornò vigile. Solo per un attimo. Qualcuno gli frugava le tasche della giacca. Gli stava sfilando la chiave della BMW. «Prendo la sua auto», disse Lo Presti.

La voce gli arrivò attutita. I suoni si distorcevano. Prima che il retro del furgone diventasse una nave e l’asfalto un mare, ripensò al suo ato.

I ricordi di una Sicilia infuocata dal sole spianarono la strada nei frammenti che la sua mente godeva a deformare.

Lo Presti... Bonomi... Una vera maledizione...

Davide aveva perso Teresa. Aveva smarrito la sua identità. Si era nascosto nel buco del culo del mondo. E ciononostante loro erano venuti a prenderlo. Ancora loro.

Aveva sentito parlare di Bonomi per la prima volta nell’86, durante il maxiprocesso. Poi Don Tonio si era inventato una carriera di imprenditore all’estero. Era risultato completamente estraneo all’attentato del ’92. Fino a quella conversazione intercettata. Davide la sapeva a memoria. L’aveva ascoltata e riascoltata. Due professionisti della Palermo bene, ritenuti vicini alla cosca Bonomi, fornirono la loro versione della morte di Colaianni.

«L’attentato non è stato farina del sacco nostro».

«Che vuoi dire?».

«L’Anello ha dato un appoggio logistico. Almeno è quanto si sente dire in giro».

«Pensavo che l’Anello fosse solo una leggenda, una favola metropolitana».

«Esiste, e so per certo che ha voluto chiudere i conti con Colaianni».

L’Anello... Bonomi...

Davide fu risucchiato da un vortice. Sprofondò in una voragine che si era creata nella mente. La droga scese nelle vene e si sciolse nel sangue. Si ritrovò invischiato in una rete collosa di sciroppo. Perse ogni riferimento spaziale. Una fitta, e poi la sensazione definitiva di pace.

37.

L’Operazione Reset continuava. Al parcheggio dell’aeroporto di Punta Raisi, un autista prese in consegna Rizzo in una confortevole Saab dai vetri oscurati. Il funzionario dell’Intelligence non si era neppure cambiato di abito, per la fretta di arrivare a destinazione. Portava con sé la consueta 24ore di pelle, dove erano custodite le carte del giudice Mondani. Aprì il frigorifero e prese una bottiglia. Bagnò le labbra con l’acqua e tirò fuori dalla borsa i fascicoli ereditati dal magistrato. Da quando li aveva ricevuti non stava nella pelle. Mancava qualche collegamento, ma il quadro autorizzava a saltare alle logiche conclusioni. Rilesse il primo dei fascicoli. Una relazione stringata su alcune vecchie conoscenze.

Informativa n. 46 – Servizio centrale operativo Polizia di Stato

BONOMI Antonio è da ritenersi soggetto di preminenza nell’organizzazione denominata Cosa Nostra in quanto assicura il coordinamento tra le cosche presenti negli Stati Uniti e in Venezuela, il clan della famiglia Bonomi in Sud Africa e alcune famiglie di rilievo che vivono in Italia, e ne ispira le strategie complessive, partendo dalla individuazione di referenti affidabili in politica e imprenditoria.

L’inchiesta coordinata dal dottor COLAIANNI Alberto in marzo 1989 indicava l’esistenza di un direttivo del clan Bonomi che dall’estero dettava i disegni finanziari del gruppo, mentre i sottolivelli si occupavano della vendita della droga. Tale sistema di compartimentazione limita i pericoli di infiltrazione e la fuga di notizie, in quanto nessun anello conosce il responsabile di quello che lo precede. Restano ignoti i canali di acquisto della droga, in quanto dal 1989 a oggi nessun inquirente è arrivato al sequestro di un carico. I Bonomi si servono di contatti che permettono lo spostamento di enormi quantitativi di eroina lungo

rotte ignote.

In riferimento al dottor ARAGONA Vincenzo, si ritiene che il suddetto sia personaggio di rilievo nel contesto mafioso, in virtù del legame con vertici politici ed economici, e condizioni l’attività di appalti e servizi di pulizia che hanno luogo nel territorio lombardo.

Nel quadro indagatorio sopra indicato, LO PRESTI Vito svolgerebbe un ruolo di copertura nella cosca e manterrebbe contatti operativi con vertici di Cosa Nostra. Nel 1970 Lo Presti è stato sottoposto a misura cautelativa per favoreggiamento nei confronti di BONOMI Antonio, ricercato dalla procura di Caltanissetta. Lo Presti avrebbe offerto ospitalità al latitante e gli avrebbe garantito viveri e i. Questo episodio acclara l’esistenza di un vincolo di sudditanza del Lo Presti nei confronti del Bonomi. (Si specifica che in seguito il Bonomi Antonio avrebbe lasciato il paese.) Il quadro probatorio che emerge ci consente di ritenere Lo Presti affiliato all’organizzazione mafiosa. Alla fine degli anni Ottanta Lo Presti ha compiuto una veloce ascesa grazie alla sua ferocia e fedeltà al capo clan. È ritenuto un soggetto di estrema pericolosità. Nell’ambiente mafioso è soprannominato il Macellaio per l’uso del coltello con finalità omicidiarie. Gli sono stati attribuiti nove omicidi, ma non si è mai riuscito a dimostrarne la colpevolezza in sede giudiziaria.

Lo Presti è stato tratto in arresto in data 2 dicembre 1990 per il reato di estorsione. Sono stati intercettati i colloqui con i familiari presso il carcere dell’Ucciardone. Il primo di essi viene intercettato il 3 gennaio 1990 e vi prende parte la sorella LO PRESTI Assunta. Si tratta di una conversazione di rilievo, riportata in esteso (cfr. allegato 2). Appare di valore interpretativo l’odio manifestato da Lo Presti verso il magistrato che ha firmato il suo mandato di custodia, Colaianni Alberto. Sulla base dei colloqui si comprende come il Colaianni fosse percepito negativamente dalla cosca Bonomi e avesse prodotto perdite al patrimonio mafioso. Il 17 marzo 1991 Lo Presti viene rilasciato per vizio di forma e, dopo la scarcerazione, si rende irreperibile.

Su disposizione del Gip, in data 7 giugno 1991, sono stati requisiti immobili intestati a Lo Presti e vi sono stati trovati tre chili di droga. I carabinieri del Reparto Operativo di Caltanissetta hanno sequestrato un’agenda dove, accanto all’indicazione dei clienti del gruppo, c’era un numero di telefono corrispondente a un ufficio di import/export in Sud Africa, tale Voc Service.

In data 22 gennaio 1993 Lo Presti è stato individuato in località Geraci Siculo e posto in stato di fermo. L’informativa n. 76 del SISDE (in allegato) indica il suo coinvolgimento nell’esecuzione dell’attentato a Colaianni, ritenendo sulla base di conversazioni telefoniche intercettate nel settembre 1992 che Lo Presti abbia agito su ordine di Tonio Bonomi. D’altronde, l’ostilità di Bonomi verso Colaianni fornisce un valido movente. Nell’aprile 1993 Lo Presti è stato rilasciato in assenza di indizi probanti. Non sono stati trovati elementi di collegamento con l’accusa e le indagini sono state archiviate.

L’operazione Grande Piovra di quattro mesi prima era stata un flop. Il pm Mondani aveva chiesto rinvii a giudizio per Lo Presti, Aragona e Bonomi, ma non c’erano stati riscontri. Tutti assolti. Il muro dell’omertà si era rivelato impenetrabile. La SCO aveva le mani legate. Il giudice Mondani avrebbe voluto riaprire le indagini. Avrebbe voluto sguinzagliare i suoi mastini e continuare l’opera di Colaianni. Ma era imminente il suo trasferimento alla procura d’Aosta. E come se non bastasse le sue condizioni di salute si erano aggravate.

Rizzo si disse che così andava il mondo. Povero Mondani! Aveva ricostruito gli intrecci tra Cosa Nostra e il mondo dei colletti bianchi e pescato nel torbido di fogne mai drenate. E lo Stato stava per presentargli il conto.

Rizzo mise via le carte di Mondani dentro la cartellina che radunava tutta la documentazione di carattere riservato. Aspettava di trovare altre conferme. Ma ogni cosa si intrecciava e portava al suo seguito, incastrandosi a perfezione.

Ordinò i fatti: Colaianni indaga su Professore&Bonomi / summit mafioso, decisione di Bonomi di votare per una nuova forza politica / autobomba a Palermo contro Colaianni, scoppi a Firenze e in altre città d’Italia / lamentele di Cosa Nostra verso l’Anello / attentati alle Standa.

Gli eventi si concatenavano e fornivano un senso compiuto al caos che aleggiava nelle inchieste delle varie procure. Rizzo chiuse la 24ore di pelle e si preparò a scendere dall’auto. Aveva un appuntamento con il comandante della stazione dei carabinieri di Falsomiele e non voleva tardare.

Il militare era delle vecchia scuola. Aveva qualcosa da dire su Bonomi e il Professore. Avrebbe fornito l’ultima prova, inconfutabile, sull’Anello. L’Operazione Reset aveva priorità assoluta.

Rizzo si fece lasciare nella piazza del quartiere dove c’era lo scheletro di un centro commerciale in via di costruzione, con gli edifici avvolti nella polvere. Desiderava camminare. Si fermò davanti a una nicchia votiva e fece il segno della croce. La Madonna col Bambino sembrava giudicarlo con i suoi occhi di alabastro. Rammentava l’operazione di Candida in quel rione difficile. Il tenente tre anni prima aveva finto di essere un finanziatore del progetto del centro commerciale. Aveva fatto arrestare i mafiosi che pilotavano gli appalti. Aveva fatto sigillare i cantieri. Pubblicarono un bando di concorso pulito, ma nessuna ditta si era fatta viva per paura di una ritorsione.

Il maresciallo lo accolse con gentilezza. Aveva preferito incontrarlo in maniera informale. L’appartamento dove viveva era piccolo, ma dignitoso.

Il maresciallo era un fissato. Era stato un collaboratore di Colaianni alla fine

degli anni Ottanta e l’aveva mitizzato. Attribuiva la sua morte a un piano destabilizzante. Le sue esternazioni erano state giudicate le parole di un visionario. Rizzo intendeva capire se la sua fosse pazzia oppure lucidità in un mondo di pazzi. A cinquant’anni il maresciallo viveva solo per il lavoro. Di natali assai umili, si era rammaricato di non avere ricevuta un’adeguata istruzione. Nel tempo libero, leggeva saggi storiografici, testi di filosofia e giurisprudenza. Rizzo entrò nella stanza buona, con la scrivania di mogano e la poltrona di pelle bianca. Il maresciallo aveva letto più libri di quanti ne possedesse la sua intera squadra, a eccezione di Davide.

«Grazie di essersi scomodato, con tutti i suoi impegni», disse il carabiniere.

«Mi sto occupando di temi criminali che sono cari anche a lei».

«Lo può dire forte. Io da quando è morto Colaianni non mi sono dato pace. Vede, la ricostruzione che ho fatto della vicenda è piuttosto semplice. C’è una prima lettura, la più ovvia. Seminando il terrore e colpendo una figura simbolica, i boss volevano scalzare di sella i vecchi referenti per favorire l’ascesa dei nuovi, che avrebbero garantito condizioni giudiziarie e carcerarie più favorevoli. Una seconda lettura, più profonda è che un piano del genere non può appartenere ai mafiosi, ma viene da una mente superiore. Dietro la rabbia di Cosa Nostra c’è qualcuno che li muove come burattini e trasforma i loro piani di morte in disegni strategici, grazie a utili pedine».

Rizzo apprezzava l’eloquio forbito del maresciallo. Pensò che quell’uomo basso e col naso a virgola era sprecato in una stazione di periferia. Era un segugio motivato e intelligente. Ma Rizzo aveva poco tempo e si costrinse a puntare al nocciolo della questione.

«E secondo lei chi era il burattinaio?».

Il maresciallo nascose il volto dietro la biblioteca, prima di fare la sparata. «Un politico molto conosciuto, di grande rilevanza. Il Professore».

Rizzo non fece una piega. «Continui».

«Io non lo considero un omicidio su commissione, ma una convergenza tra gli interessi criminali di Bonomi e gli interessi eversivi del Professore. Colaianni stava in mezzo. È stato ucciso per agevolare la creazione dei contatti e condizionare gli assetti istituzionali. È stato l’inizio di una campagna di aggressione. L’attacco al vecchio potere si è fermato quando è nato un nuovo potere. Mi rendo conto della gravità delle mie asserzioni. E ne ho parlato anche col giudice che si è occupato di Antonio Bonomi».

«Mondani. E cosa le ha risposto?».

«La sua opinione era che il progetto terroristico intendeva creare strutture alternative. Ma non è riuscito a dimostrare il suo teorema, figuriamoci a individuare gli ideatori del progetto».

«Tutte ipotesi affascinanti. Ma possono essere dimostrate?».

«Qui sta il bello», disse trionfale il maresciallo. Aprì un cassetto e mostrò una vhs. «Questa videocassetta è stata trovata nello scantinato di una procura. È una storia curiosa. C’era stato un allagamento. Mi hanno chiamato. L’addetto ai corpi del reato ha trovato la videocassetta nelle condutture e siccome era un mio vecchio amico ha pensato di farmela avere».

Rizzo cominciò a spazientirsi. «Venga al dunque. Cosa contiene la videocassetta?».

«Materiale della SCO, che teneva sotto osservazione una masseria. Sembra una riunione tra amici nella campagna di Palermo. Alcune auto sono parcheggiate nel giardino della masseria, ma non si vede chi scende dalle macchine. Dalle targhe sono riuscito a risalire ai loro utilizzatori. Quel giorno, e parliamo del febbraio del ’92, c’era un ufficiale della Brigata Folgore, sfigurato da una bomba nella base di Incirlik, in Iraq. Poi c’era un imprenditore siciliano, Aragona, che per quanto ho appurato è vicino alla cosca Bonomi. E infine un’auto che appartiene al Viminale e che era in uso al Professore».

38.

Salvatore gli iniettò l’ennesima dose di eroina e vide Davide schiantarsi sul sedile. «Ecco qui. Così la fai finita di lamentarti».

Un’espressione beata di stordimento si dipinse sul volto di Davide.

Salvatore controllò il prigioniero e sorrise verso Pallante. Lo zio sarebbe stato fiero di loro. Era stata una botta di culo avvistare la Bmw sulla litoranea e seguire Bazzichi fino al porto di Viareggio. Pallante aveva fatto centro. Se la banda era davvero nascosta in Versilia, sarebbero stati loro a prendersi il merito.

Davide era sdraiato nella parte posteriore del furgone, in preda alle allucinazioni. Madido di sudore, batteva i piedi. L’avevano drogato per renderlo più malleabile e prolungare il loro divertimento.

«Finalmente ci rivediamo. – gli disse Pallante. – Buono, eh. Non ti muovere troppo».

Salvatore si allontanò dal furgone con una Marlboro in bocca. «È tutto tuo. Con un’altra dose ti racconta anche la sua posizione preferita».

Il poliziotto non rise. Spense il cellulare che aveva acquistato con le prime bustarelle. Salì nel retro del furgone. Mise le spalle di Davide a contatto con la

lamiera. Gli diede qualche schiaffo. Iniziò a condurre il suo interrogatorio. Aveva diverse domande da porgli. Del tipo “hai aperto il file del dischetto?”, “lavori per l’Anello?” o “perché copri Marziano Albo?”. Impiegò una ventina di minuti per capire che Salvatore aveva esagerato con i dosaggi. Davide era quasi catatonico e faticava a tenere aperti gli occhi.

Salvatore aspettava fuori dal furgone che lo sbirro finisse il lavoro. Appena si aprì la portiera, buttò la sigaretta a terra. «Che ti ha detto?».

L’ispettore lo scrutò infastidito. Non era stata una grande idea drogarlo. Omise di rispondere e mosse gli occhi in direzione della strada. «Vituzzo?».

«È andato a verificare se tiene nascosta in casa il resto della banda».

«Ci sta mettendo troppo».

«Dovrebbe tornare da un momento all’altro. Dava solo un’occhiata».

Pallante si era irrigidito. Dall’ex fidanzato di Teresa non avrebbe cavato nulla, per ora. Salvatore si sentiva sotto il fuoco del suo sguardo.

«Dici che è successo qualcosa?».

Pallante non lo degnò di una risposta. Si affrettò a raggiungere una berlina e partì

a razzo verso Cinquale.

Salvatore restò al centro della strada polverosa. Il vento gli sferzava il volto. Fumò un’altra sigaretta e disse “bah”. Non era il caso di fare il permaloso.

Salì sul furgone. Pensò di approfittare della droga. Desistette. Meglio mantenersi professionali. Sintonizzò l’autoradio sulle frequenze della partita. Davide era caduto in un sonno profondo. Lo sguardo di Salvatore tornò sulla polverina. Lo speaker parlava di un assedio dell’Italia alla porta bulgara. Un Albertini stratosferico guidava la nazionale: aveva colpito un palo da venticinque metri e impegnato Mihailov con un pallonetto.

Salvatore cominciava ad annoiarsi. Guardò il panetto e lo mise in tasca. Sarebbe tornato buono per dopo. Dalla telecronaca apprese che c’era una rimessa di Donadoni. Palla a Roberto Baggio, che saltava Yankov e metteva la palla alla sinistra di Mikhailov, con un tocco vellutato.

Tastò la droga nella tasca. Vituzzo tardava a tornare. Il tempo ava. Non succedeva niente.

Albertini lanciava Baggio, che chiudeva i conti con un preciso rasoterra.

Salvatore si guardò intorno. Bazzichi russava. Il pacchetto delle sigarette era vuoto. Il caldo si fece asfissiante. Com’è che Vituzzo non tornava? La voce di Pizzul iniziava a irritarlo. Un rigore trasformato da Stoičkov aveva riaperto la partita. Baggio era uscito per una contrattura e Berti veniva consumato dai crampi. Il aggio di una tifosa attirò la sua attenzione. I colori della bandiera italiana verniciati sul suo corpo, urlava cose incomprensibili su Baggio. Strizzò

gli occhi e inquadrò la tifosa. Ringraziò Dio che la partita fosse finita. Tambureggiò le dita sul cruscotto. Controllò l’uomo che dormiva. Diede un’occhiata all’orologio. Il suo uomo era immerso in un sonno ristoratore. Gli diede un’ultima occhiata e si decise. Tirò fuori la droga dalla tasca. Giusto un dito. Quanto bastava per ingannare l’attesa.

Sniffò la polverina e reclinò il capo. Adesso sì che era ok. Si abbandonò alla stanchezza. Sollevò il mento e alzò gli occhi beati. All’improvviso sentì una stretta al collo. Le dita affondarono nella gola come tenaglie. Si lasciò vincere dalla presa. Cristo! Non solo Davide non dormiva, ma aveva atteso il momento giusto per scagliarglisi contro. Salvatore vide le stelle.

Cadde sul sedile e, quando si risollevò, non sapeva quanto tempo fosse trascorso. Non voleva crederci. Controllò il retro del mezzo. Vuoto. Assurdo. La sua respirazione era tornata regolare, ma il collo gli faceva male.

Fece qualche o da ubriaco. A destra: un tripudio di bandiere tricolori e cori per Sacchi. A sinistra: una dozzina di tifosi che gridavano “Italia, Italia”. Sudava copiosamente. Non si capacitava della reazione del prigioniero. Aveva commesso una minchiata. Un’enorme minchiata. L’effetto della droga era svanito. Malediceva la sua sufficienza. Malediceva la sua avventatezza. Malediceva Davide. Si mise alla guida del furgone. Lasciò la pistola sul sedile del eggero. Pronta all’uso. La coprì con una rivista. Non poteva essere andato lontano. Doveva riprenderlo. Immaginò le conseguenze. Pensò alla reazione di Don Tonio. Pregò la Madonna. Invocò il Signore. Al secondo giro dell’isolato diceva il rosario. Si fermò a un crocevia senza sapere che direzione prendere. Il traffico stava diventando convulso. Centinaia di persone si riversavano per le strade a festeggiare per la squadra dell’Italia.

Il sudore gli appiccicò le mani al volante e bagnava il sedile. Era completamente in tilt. Aveva gli occhi su ogni budello di quella fottuta cittadina balneare. Non si accorse che davanti a lui c’era una volante della polizia. Inchiodò. La tamponò.

Tremò come una foglia. Imprecò. La pistola era sparita dal sedile. Gli era scivolata sul tappetino?

Si tuffò a cercare l’arma. Il sudore seguitava a colare e lui era entrato in panico. Le sue mani erano scivolose e la pistola sembrava una saponetta.

Quando uno sbirro dal fisico da body builder scese a controllare, Salvatore alzò gli occhi imploranti sulla sua divisa. Notò che una collega del Terminator era scesa dall’auto per verificare i danni. Tutto gli sfrecciò veloce nella testa. Il pensiero di aver fatto una seconda enorme minchiata. Lo sguardo allibito dello sbirro dai capelli a spazzola. La pistola che gli spuntò tra le mani. La ginocchiata che ricevette in pieno mento. La pistola che cadde di nuovo sul tappetino.

I tremiti di paura lo scuotevano. Gli arrivarono attutite le parole dello sbirro.

«Sara! Vieni a vedere cosa abbiamo qui!».

Il sangue gli colava dalla bocca. Annaspò. Riaprì gli occhi e vide davanti a sé i poliziotti che lo studiavano a bocca aperta. Non trovò di meglio da fare che sorridere. «Non c’è problema per l’incidente. Il furgone è assicurato».

39.

Al suo risveglio Lucy non aveva trovato nessuno. Si tagliò i capelli e fece uno shampoo colorante. Si specchiò per vedere come stava con la pettinatura a paggetto e la frangia sulla fronte. La nuova capigliatura le donava e avrebbe reso più difficile un riconoscimento. L’entusiasmo la stava contagiando. Si era data per anni alla vita temeraria, ma ora avrebbe rinunciato volentieri al rischio. Voleva solo un po’ di tranquillità. Tutto quello che desiderava era una spiaggia da condividere con qualcuno. Un luogo sperduto e incantato, che la sua immaginazione aveva rubato dal cartellone pubblicitario di una crema abbronzante. Era come arrivare alla fine dell’arcobaleno. Il posto dei sogni. Lucy aveva proiettato sul cartellone la sua immagine e quella di Davide. Loro che nuotavano, si riposavano su un atollo e facevano l’amore sott’acqua. Sweet dreams. Fare penitenza. Essere perdonata. Scomparire, il più in fretta possibile.

Quando sarebbe tornato Davide? L’attesa era snervante. Si affacciava alla finestra ogni dieci minuti. Quando sentì il rumore degli pneumatici sulla ghiaia corse fuori. Vide sulla strada la Bmw avvicinarsi a un’andatura lenta. Molto lenta. Le gomme della vettura rimbalzavano sui sassi del viale d’accesso.

La distanza e un leggero riflesso sul parabrezza le impedivano di scorgere il guidatore. La vettura avanzò. Appena entrò nella sua visuale, Lucy impallidì.

Cominciò a correre, senza voltarsi.

Vituzzo voleva solo dare un’occhiata. Il sangue gli salì alla testa quando riconobbe l’americana piazzata sul viale. Affondò sull’acceleratore. La Beddra

Matri lo aveva baciato in fronte. Davanti a lui c’era la donna della rapina! Un’occasione simile non si sarebbe presentata di nuovo.

Lei correva verso la strada cercando scampo. Le gambe della puttana erano là davanti. Vituzzo portò il motore fuori giri. Il rombo si fece assordante. L’americana era alla sua portata. L’avrebbe triturata e ci sarebbe ato sopra. Lucy era a cinque metri... quattro metri... tre metri...

Gli sembrava di poterla toccare. Annusava la sua paura. Accelerò. Calcolò in pochi secondi il tempo d’impatto. La Bmw rasentò il marciapiede.

Lucy ansimava. Aveva i muscoli indolenziti. Il fiatone e il batticuore. Tre milioni di ghiandole sudoripare in escrezione totale. La mente ribolliva e non aveva percezione del corpo. Sentiva solo centotrenta cavalli che sfiammavano e le stavano alle costole. Le gambe avanzavano incerte. Rientrando in casa si sarebbe rinchiusa in una trappola. Aveva cercato la salvezza verso il centro del paese. Non aveva altra via di fuga. La strada davanti a lei si ridusse a un imbuto e lei si voltò. La vettura era lanciata come un proiettile.

Non aveva scampo, stretta tra un muro di mattoni e il muso rombante della Bmw. Aspettava solo il momento in cui sarebbe stata schiacciata come un lombrico. Si augurò che Davide avesse avuto una morte più veloce della sua. Il muro di mattoni era troppo alto. Si fermò. Non ce la faceva più. Le palpitazioni le arrivavano in gola. La milza stava per cedere.

Quando sarebbe giunto il colpo di grazia? L’impatto sarebbe stato mortale. L’auto puntava dritta nella sua direzione. Poi cambiò traiettoria, deviò verso un cassonetto dell’immondizia e lo speronò.

Piena di stupore Lucy fissò la vettura distrutta. L’Uomo col Fucile aveva perso il controllo dell’auto. Il suo capo era reclinato sul volante. Ma c’era qualcosa che non le tornava. Sulla fronte c’era il foro di un proiettile.

Alle sue spalle comparvero Marziano e il Rosso. Il gigante dai capelli rossi aveva la pistola ancora fumante. «Contenta di vederci?», la gelò Marziano.

Lucy li accolse con un sorriso tirato. Marziano la abbracciò con una presa di acciaio, da cui si sarebbe voluta staccare. Gli faceva male. La soffocava.

Il Rosso mise fretta ai due. «Andiamo! Potrebbero arrivare gli sbirri da un momento all’altro».

«Sto solo abbracciando la mia fidanzata. Che non vedo da parecchi giorni».

Il Rosso era nervoso. Guardava con insistenza verso l’auto. Marziano si allontanò da Lucy. Le saettò uno sguardo cattivo, come a dirle “facciamo i conti dopo”. Si diresse verso la Bmw. Scostò il corpo di Vituzzo. Diede un’occhiata all’abitacolo. Prese il fucile del mafioso.

«È morto?», domandò il Rosso impaziente.

«Sì. E anche tu».

Marziano si voltò e fece fuoco. Centrò il compagno al petto. Ricaricò il fucile. Non c’era bisogno di sprecare un altro proiettile. Il Rosso era finito a terra in un lago di sangue.

Lucy era inorridita. Guardò Marziano che stringeva in mano il fucile. A quel punto non sapeva che aspettarsi. Aveva voglia di piangere. Aveva dimenticato la crudeltà di quell’uomo.

La pozza di sangue si allargava sull’asfalto. Lucy si accorse di tremare. Abbassò gli occhi. Evitò lo sguardo duro di Marziano. Il bandito famoso da Portogruaro a Chioggia, il rapinatore, l’ex direttore di bordelli, bische e cambisti di Venezia, il criminale che aveva conquistato la stima di Faccia d’Angelo, disse solo: «Filiamo via».

La filosofia di Marziano era improntata al pragmatismo. Meglio spartire in pochi. Così il Rosso era stato eliminato. La notizia che Flavi lo aveva preceduto all’inferno lo riempì di gioia. Un altro in meno nella divisione dei pani.

Marziano fece salire Lucy su un camper malmesso e partì. La Bmw divenne un puntino sullo specchietto retrovisore. Lui voleva condividere il suo buonumore con Lucy. E soprattutto aggiornarla sugli sviluppi. Dopo la sparatoria all’albergo, il mafioso si era ritirato non appena aveva udito le sirene della polizia. Il Rosso aveva visto la Bmw lasciare il parcheggio e si era annotato la targa. Avevano rubato un camper e dormito in una pineta. Avevano controllato alla Motorizzazione Civile, risalendo all’indirizzo di Davide Bazzichi. Un gioco da ragazzi. Erano arrivati sul posto al momento opportuno. Un secondo in meno, e le gambe di Lucy sarebbero state tranciate da un’auto in corsa.

Lei disse un timido «c’è mancato poco». Aveva ancora la sudarella.

Marziano guidava piano senza dare nell’occhio. Era un felino che giocava con la preda. Lucy cercava di interpretare il suo silenzio. Il Fiat Ducato era abbastanza spazioso e aveva un frigorifero ben fornito. Lei prese una bottiglietta di acqua. Si accomodò nella dinette e cercò di riprendersi dalle ultime emozioni. Aveva la nausea. Mandò giù l’acqua. Sentì il liquido galleggiare nell’intestino e bruciarle dentro come aceto.

Sul volto di Marziano comparve una luce sinistra. Non aveva ancora affrontato l’argomento “fuga dal Royal”. I suoi occhi non promettevano nulla di buono, quando smisero di controllare la strada e si posarono su Lucy. «Dov’è la droga?», sibilò.

Lucy aveva lo stomaco contratto. I suoi sentimenti erano contrastanti. Per lei Marziano era stato un padre. Un tiranno. Un angelo protettore e al tempo stesso un demone. Immagini opposte e complementari.

Marziano mise la freccia e accostò, restando a motore . Raggiunse Lucy e le poggiò una mano sulla spalla. «Non ti serbo rancore, per quello che è successo. C’è stata una sparatoria. E hai creduto di fare la scelta migliore. È vero, né tu né quel demente vi siete preoccupati del sottoscritto. Ma in questi casi si pensa in modo elementare. Il primo obiettivo è sopravvivere».

Lucy avvertì una fiammata. Stava battendo i denti.

«Vorrei lasciare alle spalle il ato. Dimentichiamo tutto. Dove hai nascosto la droga? Avrai capito da che parte ti conviene stare. È arrivato il momento di collaborare con paparino».

Lucy aveva bisogno di calore umano. Liberò le sue energie nervose e lo abbracciò. Master and Servant. Era il suo gesto di riconoscenza. Il suo modo di sfogare l’ansia che fino a quel momento aveva represso.

Marziano le ò una mano tra le scapole. «Sono tornato. Non fare così. Adesso ci sono io a badare a te».

40.

Oltre un tunnel intravedeva una luce. Emerse dal buio dei sensi. I primi volti che vide furono quelli di Leo e Michele. Circondati da un’aureola. Sembravano angeli. Attorno dottori e infermieri. Si era risvegliato nella stanza di un ospedale.

Michele fece lasciare la stanza al personale medico. Davide si domandò se il suo amico e la moglie avessero scoperto di essere stati giocati. Dall’espressione che Michele aveva pensò che non sospettava ancora nulla. Probabilmente non aveva controllato il nascondiglio, persuaso che la refurtiva fosse al sicuro nel casolare.

«Che hai combinato?», gli chiese Leo. Lo fissava con l’aria di chi avesse visto un morto. Non riusciva a capacitarsi. Non ce lo vedeva Davide che si bucava dopo la folgorazione della sua vita. Non era il tipo da prendere un solenne impegno di partire e poi infilarsi una siringa nelle vene.

Stordito, Davide scrutava gli amici come marziani. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso dall’incontro con i mafiosi. Ricordava Vito Lo Presti, gli interni incandescenti del furgone e le voci che gli ponevano domande. Ricordava un tipo con un cellulare in mano. Due, forse tre persone. Un uomo con un profumo forte, una fragranza di muschio e lavanda, che gli alitava addosso. Non quel genere di profumi che possono permettersi i mafiosi. Roba costosa, di classe. Un flash partì nella mente. A un certo punto aveva finto di addormentarsi e assalito l’unico occupante del furgone. Aveva camminato come uno zombie per via Venti Settembre tappezzata dalle bandiere e incendiata dai fuochi artificiali. Si era aggrappato alle forze che gli restavano facendosi largo tra i tifosi. Era entrato in un bar dicendo il nome dell’ospedale in cui lavorava Michele, prima di svenire.

La mente corse a Lucy. L’aveva lasciata sola. Immaginava che qualcuno avesse provveduto a lei. Provvedere significava una cosa sola. Un filo di voce: «Da quanto tempo sono qui?».

«Diverse ore».

Davide trasalì. Aveva una fitta lancinante alla testa, la gola secca e il respiro affannato, come se avesse fatto una maratona di cento chilometri.

Michele fece segno al dottore di turno che si sarebbe occupato lui del paziente. Anche se stava al reparto di anatomo-patologia, Michele lavorava in quella struttura da molti anni e tutti lo rispettavano. Davide ebbe conferma che Michele era all’oscuro della sua visita al casolare. Manteneva nei suoi confronti un atteggiamento sussiegoso, di chi non vuole far uscire niente. Non aveva nessuna convenienza ad accendere i riflettori su Davide. «Devi riposarti».

Lui si sentiva debole. Alzò il mento verso Leo. Voleva dirgli qualcosa. Cercò di muoversi, per non farsi sentire da Michele. Una fitta alla nuca gli consigliò di restare fermo. Leo si fece vicino.

«Dobbiamo recuperare Lucy e partire», gli sussurrò Davide.

«Non affaticarti», rispose Leo.

Michele lo guardò con aria di rimprovero. Incombeva su di lui e anche la voce era modificata. Aveva assunto un tono tagliente. «Ci sei ricaduto. Pensavo che

avessi superato questa fase. Non ti è servito a niente il centro di recupero?».

«No. Non è come credi».

«E allora com’è? Quando ti hanno portato qui avevi le palpitazioni e le pupille dilatate». Gli prese il braccio. I fori della siringa erano bene evidenziati. Lasciò ciondolare la mano dal letto. Con i segni del vizio. «Non potevi farne a meno?».

«Me ne voglio andare. Adesso sto bene».

«Tu non vai da nessuna parte. Ti terrò sotto osservazione. E niente stronzate. Il primario del reparto mi deve un paio di favori. Non pubblicizzerà la cosa. Ufficialmente sei ricoverato per una tachicardia parossistica».

In quel momento, alle sue spalle, Sara e Ivan si affacciarono nella stanza. La divisa pulita. Impettiti. Freschi di doccia. Gli occhi da lupi.

Michele si voltò verso di loro. «Vi lasciamo soli».

Sara fece un cenno al marito. Michele restituì un saluto freddo. Quando era in servizio lei non voleva da lui gesti intimi. Non che a casa si abbandonassero a chissà quali effusioni. Davide studiò i lineamenti di Sara. Non vi colse alcuna reazione. Poteva stare tranquillo. Se avesse scoperto la mancanza della refurtiva, si sarebbe trasformata in una furia.

Ivan rivolse a Davide un’occhiata di scandaglio. Andava per le spicce. Era lì per un motivo preciso. «Come stai?».

Davide alzò le spalle. Aveva davanti il volto duro di Ivan. «Il cuore fa strani scherzi».

Ivan lo squadrò per incutere soggezione. Poi parlò cercando di suscitare un effetto intimidatorio. «La notte ci ha portato molto lavoro. Due cadaveri ancora caldi sono una rarità per un paese tranquillo come il nostro».

Davide restò calmo e scrutò Ivan innervosendolo, come a chiedergli “e allora?”. Sara si rivolse a Davide come se fosse un normalissimo paziente dell’ospedale a cui sono accadute cose spiacevoli. Gli spiegò la situazione. «Ieri sera abbiamo trovato la tua auto vicino a via dei Cardani. Al volante c’era un mafioso, Vito Lo Presti, con un proiettile in testa. E sull’asfalto c’era un altro morto, Giacinto Iesi, detto il Rosso».

Al nome di Lo Presti Davide sentì una fitta trafiggergli la testa. Stentava a capirci qualcosa. Non aveva gli elementi completi del quadro. Forse c’era una speranza che Lucy fosse scampata. Improvvisò: «Non ho avuto il tempo di denunciare il furto perché mi sono sentito male. Avete recuperato l’auto?».

Ivan intervenne. Era indispettito dal tono falsamente cortese. Puzzava di bugia. Il suo cervello faticava con i dilemmi, ma sentiva aria di imbroglio lontano un chilometro. «Dove ti sei sentito male? E a che ora?».

«Non avevo con me l’orologio. Mi trovavo a via Venti Settembre. Sono entrato in un bar. E quelli hanno chiamato l’ambulanza».

Sara assunse un atteggiamento cordiale. «Tu non c’entri niente con questo mafioso. L’auto ti è stata rubata, vero?».

«Ovvio».

Ivan insisteva. «E come mai il ladro dell’auto girava vicino casa tua e stava inseguendo una ragazza?».

La cosa suonava interessante. Davide cominciava a uscire dalla nebbia. «Quale ragazza, scusate?».

«Una signora anziana dice di aver assistito alla scena. La Bmw correva dietro una donna che scappava a piedi. A un certo punto sono intervenute due persone armate a salvare la donna, sparando al guidatore».

«Tutto questo è terribile».

«Sei sicuro di non avere mai visto Vito Lo Presti?».

Scosse energicamente la testa. Il ricordo del mafioso era preciso nella sua mente. Non aveva fatto in tempo a chiedergli di Colaianni, perché aveva lasciato prima i Servizi. Ora il Macellaio riposava in pace, con i suoi segreti.

«E Giacinto Iesi? È sospettato di aver fatto parte di una banda, capeggiata da un certo Marziano Albo. Ne hai mai sentito parlare?».

Un altro no. La fronte corrugata. Gli occhi imperturbabili. Il cervello elaborava le possibili ricostruzioni. L’ipotesi numero uno: Lucy lo stava aspettando. Aveva visto Vituzzo arrivare con la sua auto. Era scappata. Vituzzo la stava inseguendo quando erano spuntati i due complici. Il loro intervento era stato provvidenziale.

Ivan lo fissava, sfidandolo. «La nostra testimone sostiene che la donna in fuga proveniva da casa sua».

«Si sbaglia. Io vivo da solo».

Sara scoccò un’occhiataccia a Ivan. «Una supposizione. La testimone ha ottantasei anni. Le sue parole andranno vagliate attentamente».

Ivan riteneva il racconto evasivo. Non digerì le menzogne. Mise il petto in fuori. «Signor Bazzichi, di che natura è stato il suo malore?».

«L’ho detto. Un banale disturbo cardiaco».

Ivan continuò con le domande cattive. Tentava di far cadere in contraddizione Davide, di condurlo a un errore. Rammentava tutto del giorno precedente. Il fermo di un uomo in stato confusionale che aveva una pistola. Due corpi senza vita trovati vicino l’auto di Davide. Troppi fatti inspiegabili per una cittadina dove non succede mai niente. Fatti accaduti tutti insieme, che potevano avere

relazioni tra loro.

Sara ne aveva abbastanza del collega. «Va bene. Per ora è tutto. Lasciamolo riposare».

Ivan schiumò rabbia. Forse intravedeva nel caso la possibilità di segnalarsi ai superiori. «Comunque non finisce qui», disse prima di andarsene, in segno di avvertimento. Poi seguì Sara nel corridoio.

Davide tirò un sospiro di sollievo. Sara lo stava proteggendo per tornaconto personale. Rifletté su quanta rabbia avrebbe provocato in lei la scoperta di essere stata fregata. Poi la paura per Lucy prese il sopravvento. Cosa Nostra non scherzava. Lo Presti aveva agito per conto di Don Tonio. Era l’uomo che utilizzava per risolvere problemi di questo tipo. Ma aveva fatto cilecca. I suoi compari circolavano per la Versilia? Avrebbero fatto in tempo a lasciare il paese?

Quando mise a fuoco il quadro degli eventi, pensò che dietro la morte di Lo Presti c’era lo zampino di Marziano. Ebbe un brivido pensando a Lucy in compagnia del suo ex protettore.

41.

La campagna sfilava davanti ai loro occhi come un tappeto srotolato a velocità supersonica. Il camper puntava verso Chianciano. Marziano si fece tenere il volante da Lucy.

«Come cazzo è stato possibile? Dove sarebbe la droga?».

Il rumore del motore copriva le sue urla. Marziano si mise alla guida e frenò di scatto con uno stridore di pneumatici.

Lucy perse l’equilibrio e cadde. Marziano lasciò il volante e le fu sopra. Lo schiaffo la prese alla sprovvista. Il pugno la fece ruzzolare contro la dinette. Lucy si portò una mano al volto arrossato e con l’altra si protesse dalla furia di Marziano. «Non mi picchiare», lo pregò.

Marziano si era trasfigurato. Non gli importava di avere il camper sul ciglio della strada e di poter richiamare l’attenzione. Era fuori di sé. «Perché non hai vigilato sulla refurtiva?».

«Davide l’ha nascosta in una cassetta di sicurezza, ma non so quale».

«Davide?».

«Sì... l’ostaggio», disse lei, atteggiando le labbra a preghiera.

«Ho capito. Ci risiamo».

Marziano diede una manata contro la porta del bagno, sfondando la lamina. Uno strano demone si era impadronito di lui. Qualsiasi cosa dicesse Lucy accresceva la sua rabbia. Si sfilò la cinta e picchiò Lucy fino a lasciarle i segni.

«Ti sei innamorata, vero? – le urlò –. Non capisci niente quando ti innamori. Sei un’ingenua! Nessuno starebbe mai con una come te. Mettitelo in testa! Sei una troia! Ti ho presa che eri una nullità, eccitavi camionisti e impiegati falliti, e io ti ho dato un futuro. Questa è la ricompensa».

Lucy era scivolata ai piedi di Marziano. La schiena le bruciava. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Se avesse potuto, sarebbe scomparsa. Non osava disobbedire a Marziano. Sperò che qualcuno intervenisse. Ma non chiamò aiuto. Cercò solo di rialzarsi. Era stata colta da una specie di paralisi. Il suo problema era sempre stato l’indecisione, la mancanza di coraggio che annullava ogni desiderio. L’apatia era il suo marchio distintivo, come il colore azzurro degli occhi.

Marziano tacque, mentre spiava un’auto che si era fermata al fianco del camper. Un signore tondo e rubizzo si sporse dal finestrino e chiese se serviva aiuto. Aveva sentito delle urla.

Marziano si affacciò dal camper. Disse che stavano discutendo di problemi

personali. Se l’uomo non voleva grane doveva filare via. Il signore tondo e rubizzo si spaventò e tirò dritto.

Lucy si sistemò i capelli. Era lacrime e sudore. Avrebbe obbedito al suo padrone per l’ennesima volta, sarebbe tornata a essere la sua schiava, se Marziano non avesse pronunciato quelle parole. Se non l’avesse umiliata nel profondo ricordando le ferite che portava addosso e versandoci sopra del sale.

«Ora noi due ci togliamo di mezzo. E tra un paio di giorni torniamo indietro. Ammazzerò anche lui. Come l’altro. Puoi starne sicura».

Marziano aveva capito che doveva calmarsi. Tornò al volante. Avrebbe cercato un posto tranquillo dove fermarsi. Ma il suo sguardo sembrava dicesse che non era finita là. L’acquiescenza di Lucy accresceva la sua ira, perché la mancanza di reazione non gli permetteva di trovare uno sfogo.

Durante il tragitto la mente di Lucy si chiuse a riccio. Non sentiva le sozzure che Marziano sibilava nei suoi confronti. Gli epiteti di puttana e vigliacca le scivolarono addosso. Raccoglieva le sue forze in un silenzio bellicoso. Aveva un solo obiettivo nella mente: liberarsi del suo incubo. Fotografò la situazione. Si alzò dal sedile e raggiunse il cucinino con le gambe che tremavano. Si aggrappò a un pensile per non cadere. Aprì il rubinetto, versò dell’acqua nel bicchiere e finse di bere. Prese una padella dall’acquaio. La nascose dietro la schiena. E aspettò.

Marziano era sfibrato dalla sua stessa collera. Vide una piazzola di sosta vicino a un campo di girasoli e parcheggiò il camper sotto l’ombra di un pioppo. Era arrivato il momento della tregua. Per evitare rischi, decise di dare una copertura diversa al mezzo. Aveva costruito una targa nuova, tagliando a metà due targhe rubate e incollandole insieme. A Lucy scoccò uno sguardo rancoroso, prima di

scendere gli scalini.

Lei teneva stretta tra le mani la padella. Calcolò a quale distanza vibrare il colpo. Aveva una sola possibilità: o lo stendeva subito, o era morta. Misurò mentalmente la lunghezza del manico e la gittata del colpo. La testa di Marziano era alla sua portata mentre scendeva dal camper. Lo prese sulla nuca.

Marziano cadde da un’altezza di mezzo metro e si afflosciò su se stesso. Giaceva a testa in giù in mezzo alla polvere. Il sangue zampillava come la sorgente della fonte artesiana che la madre portava Lucy a vedere nella campagna di Pacific City. Nel camper c’erano una pala e due metri di plastica. Se ne servì. Era diventata un’esperta nel campo dell’occultamento. I morti non le facevano più impressione. Avvolse il cadavere nella plastica e l’afferrò per le gambe. Lo trascinò per una ventina di metri, lasciando che il corpo urtasse contro le asperità del terreno.

Il rimorso era una pianta che germoglia nella coscienza. Non si toglie dalla testa il ato. Marziano era stato per anni il suo uomo. L’aveva aiutata a rimettersi in carreggiata. Le aveva fatto fare un bel gruzzolo. Non si era accorto della sua volontà di riscatto. Non aveva fiutato il pericolo. Aveva offerto la sua nuca come bersaglio. Il rimorso era durato lo spazio di un minuto, lasciando il posto a un senso di liberazione. Lucy si sentiva come una strega che, attraverso un incantesimo, rompe una catena di eventi maledetti.

Scavò un metro di buca e seppellì il cadavere sotto il campo di girasoli, lontano dalla strada e dal centro abitato. Good-by. La maglia le si era appiccicata addosso, imbrattata di sangue e sudore. Crollò, esausta. La terra si tinse di rosso. Inghiottì le catene di un rapporto sbagliato.

Il suo amore era stato simile a quello di una scimmia per il domatore. Quale

speranza spinge a seguire un balordo simile? Che genere di disperazione porta a scopare sconosciuti aspettando che il complice li derubi? Si asciugò il sudore dalla faccia. Buttò un’occhiata sadica al mucchietto di ossa e carne. Sorrise, vedendo che Marziano non emergeva dalla buca.

Quando mezz’ora dopo comparve a piedi nella piazza di un paese vicino, Lucy si era fatta una doccia nel bagno del camper e cambiata di abito.

Ciononostante era tutta sudata. Mentre camminava, rifletteva sul modo di tornare indietro con i mezzi pubblici. Al centro della piazza c’era il capolinea di una corriera che l’avrebbe riportata a Cinquale. Sempre se Davide fosse rimasto in vita. Vide l’insegna di un bar con la scritta “Da Gino” marchiata con un pennarello e qualche tavolo fuori dove gli anziani giocavano a carte. Decise di bere qualcosa e darsi una nuova sistemata.

«A che ora a il prossimo pullman?», domandò al proprietario del bar.

Al suo ingresso nel locale, gli sguardi degli avventori erano stati calamitati dalle sue natiche. La sua schiena, bagnata da sudore acido, venne attraversata da sguardi rapaci. Un ventilatore mulinava aria facendo cigolare pale antidiluviane, come se un elicottero fosse sul punto di atterrare sulla testa.

Il barista, un tipo segaligno con baffi spioventi, fece un sorriso beffardo. «Tra un’ora, signorina».

«Mi dia un bicchiere d’acqua. Gelata».

Il barista ò uno strofinaccio sul bancone e vi depositò sopra il bicchiere colmo d’acqua. «Lei non è di qui», disse, tanto per attaccare bottone.

«Vengo da lontano», rispose Lucy dissetandosi come se avesse appena attraversato il deserto.

Dall’angolo di un tavolo si alzò un giovane. Emerse dal cono d’ombra. Possente e atletico. Indossava una divisa da poliziotto ma non era di quelle parti. Si vedeva che veniva dalla città.

«Se volete, vi accompagno io. Devo fare la stessa strada».

La voce risuonò nell’ambiente con un’eco sinistra. Lucy non si era accorta dello sbirro. Per un attimo si sentì come se le avessero perforato il cuore con un gancio di metallo. «Non importa. Prenderò la corriera», si affrettò a dire.

«Insisto. Vi do io un aggio. Ho l’auto di servizio parcheggiata fuori».

L’uniforme diceva che era un poliziotto, ma quella strana espressione sul volto contraddiceva la cordialità delle sue parole. Il sorriso era quello di un rapace davanti alla sua preda.

L’ispettore Pallante cedette il o a Lucy e l’accompagnò fuori dal bar.

42.

Il tempo in ospedale sembrava non are mai. A Davide venivano in mente istantanee di Lucy che faceva l’amore con lui e il suo corpo sudato e scintillante. Lo stomaco gli si stringeva e le fantasie romantiche si sgretolavano. Ormai aveva realizzato che poteva dire addio ai suoi sogni.

La noia era interrotta solo dal aggio degli infermieri. Il tempo era un processo mentale che faceva rivivere particolari oziosi di ciò che era stato. Davide si fece portare una pila di giornali. Tra le pagine della cronaca cercò notizie sugli ultimi accadimenti. Lo colpì la fotografia di un cercatore di funghi, che sorrideva davanti all’obiettivo. Aveva trovato un cadavere vicino alla strada per Chiusi. Il corpo apparteneva ad un criminale di piccolo cabotaggio, con diversi precedenti penali, Marziano Albo. Secondo la ricostruzione giornalistica, qualcuno lo aveva colpito alla testa con un oggetto contundente.

A Davide mancò il respiro e le mani gli tremarono. Riconobbe in quell’orribile fatto di cronaca una mano femminile. L’opera di Lucy. Quel lurido protettore aveva avuto la fine che meritava! Mentre leggeva i dettagli dello scempio, un’espressione raggiante si dipinse sul suo volto. Si scoprì sollevato dall’apprendere che Marziano era morto. Poi da una sorgente misteriosa sorse un grido di allarme. Perché Lucy non era tornata indietro? I pensieri vagavano alla ricerca disperata di un filo logico. Lucy si era liberata di Marziano. Qualcuno l’aveva trattenuta? L’ipotesi peggiore era che Cosa Nostra l’avesse ostacolata. Una vibrazione profonda attraversò Davide. Si attorcigliava, sibilava, si avventava sulla mente. L’ombra di Lucy lo percorreva come una nube. Che svaporò lasciando una sensazione dolorosa.

L’unica emozione del resto della giornata fu la visita di Sergio Rizzo. La faccia

del funzionario dei Servizi era indecifrabile.

Reduce dalla trasferta siciliana, Rizzo bevve un caffè e attese che gli infermieri lasciassero il vassoio del pranzo. Poi, una volta solo nella stanza, esaminò gli occhi di Davide e gli aprì le palpebre. «Quanta te ne sei fatta, figliolo?».

Davide non rispose. Mandò giù un po’ di pasta e lasciò il resto nel piatto.

Rizzo spostò il carrello. Adesso tradiva la delusione. «Non mentire con me. Che sta succedendo? Ho appena dato il mio assenso al tuo reintegro, e scopro che ti sei fatto di nuovo».

A lui non poteva raccontare cazzate. Cercò il sistema per indorare la pillola.

«Un grosso sbaglio. Che può costarti caro».

«Che significa?», replicò Davide.

«Non posso mandarti allo sbaraglio. Avrei voluto fidarmi di te!», urlò Rizzo. Pieno di rabbia, picchiò la mano contro il muro. Le nocche portarono via un pezzo di intonaco. Era fuori di sé. «Che figura ci faccio? Prima mi adopero per riaverti, poi ti trovo in questo stato!».

Davide attese che Rizzo si desse una calmata. Non gli importava di quel che

pensava. Non gli importava del reintegro. Gli interessava solo rivedere Lucy e sentire lo stantuffo di una siringa sul braccio. L’amore. L’eroina.

Stettero diversi minuti a guardarsi, senza parlare. Lo sguardo di Rizzo contro il suo. «Ti ho chiamato a casa. Volevo darti la notizia. Le prove psicologiche erano andate bene. Finalmente potevi tornare con noi!».

Davide ruppe il silenzio. Capì che Rizzo si era sfogato. «Non dirmi che sei venuto solo perché non mi trovavi al telefono? Cosa ci fai in Versilia?».

Rizzo non fece menzione dell’Operazione Reset. Si schiarì la voce. «Sto seguendo l’indagine sull’attentato a Colaianni. Avrei dovuto interrogare Vito Lo Presti per alcuni chiarimenti. Ancora non capisco che cosa preparava qui quel bastardo e perché è stato ucciso. E soprattutto per quale motivo stava dentro la tua macchina. Mi aspetto una spiegazione esauriente».

«Devo chiederti un favore. Non dire a nessuno quello che sto per raccontarti. Tu sei l’unico di cui mi fido».

Dietro l’aspetto da scorbutico, Rizzo asseriva la sua primitiva bontà. Davide riferì tutto ciò che era successo. L’assurda concatenazione dei fatti. La rapina al Royal. Il legame tra Mfekete e Lo Presti. I mafiosi che lo avevano sequestrato e gli avevano inoculato la droga. Concluse con voce atona che il commercio di eroina e diamanti era un affare esclusivo del clan Bonomi e per il SISDE poteva essere un bel colpo sventare il business di Cosa Nostra.

«E la ragazza? Che fine ha fatto?».

«Non ne ho idea. Come posso saperlo se sono chiuso qui dentro?».

«L’eroina ti sarebbe stata iniettata da loro?».

«Lo so che sembra tutto pazzesco. Ma è andata così».

Il funzionario del SISDE iniziò a eggiare attorno al letto. Rimuginava. Scuoteva il capo imbestialito. Ripensava all’Operazione Reset e alle mille incombenze che lo attendevano. Si fermò davanti al braccio di Davide attaccato a una flebo. «Non so perché, ma ti credo».

I suoi occhi erano punte accecanti di un raggio laser. «Alla prossima stronzata sei fuori. Quando ti rimetteranno dall’ospedale stenderai un rapporto sulla Voc Service. Starai a Roma e lascerai che siano i tuoi colleghi ad agire. Preferisco che tu stia sotto osservazione nella sede centrale. Che ne dici?».

«Sono d’accordo», disse Davide con poca convinzione.

«Tutta la squadra non vede l’ora di riabbracciarti», mormorò il funzionario.

Rizzo aveva la faccia di un sacerdote che dà l’assoluzione dei peccati a un assassino. «Un’ultima cosa. Il frutto della rapina, dove si trova? Potrebbe essere utile per l’inchiesta».

«Ce l’ha la ragazza», mentì lui.

«Trovata lei, veniamo a capo della faccenda».

Davide salutò Rizzo come se si sentisse in colpa. Gli era nuovamente debitore. Non era la prima volta che gli dava ampia copertura. E lui lo aveva ripagato raccontandogli mezze verità. Ma era preoccupato per avere tirato in ballo Lucy. Era stato costretto a menzionarla e l’aveva coinvolta.

Nelle ore successive la camera dell’ospedale divenne la sua stanza delle torture. Davide fissava il bianco della parete rendendosi conto di soffrire più di quanto si sarebbe aspettato. L’astinenza era un’ossessione. Erano bastate due dosi per fargli tornare l’acquolina in bocca. Sentiva mordergli dentro Henry.

Henry chiedeva un pasto e limava gli artigli. Gli bussò sulle spalle. Davide resisteva. Si alzò dal lettino. Doveva giocare d’anticipo. Indossò i vestiti con cui era entrato. Non aveva di che bucarsi. Pensò di attingere alle risorse dell’ospedale. Nessuno nel corridoio. Cercò con lo sguardo il cartello SERT.

Si infilò in una stanza. Crampi allo stomaco. Era divorato dall’ansia. Trovò le chiavi dell’armadietto. Lo saccheggiò. Sbavava. Desiderava il suo anestetico. Prese le fiale di metadone e filò via con le provviste. Il metadone era un patetico succedaneo. Se ne rifornì lo stesso.

Scese di due piani infilando le fiale nella tasca. Cercò di rimanere lucido. Era a Lucy che doveva pensare. «Dove sei, amore mio?», si ripeteva ad alta voce. Finì

nel seminterrato. Almeno avrebbe guadagnato l’uscita secondaria. L’ospedale lo conosceva. Era andato a trovare tante volte Michele. Ed era lì che era morto suo padre, distrutto da una curva presa male. Si appiattì contro una porta. Aspettò che assero due persone in camice bianco. Scartò un’infermiera grassa che trascinava su una barella il corpo del Rosso, sgusciò senza farsi vedere in un dedalo di corridoi e corse fino all’unità di Citologia Diagnostica. Si nascose dietro un carrello.

La porta del reparto di Medicina Legale non era chiusa a chiave. Si affacciò dentro. Puzza di segatura e belletto da obitorio. Si trovò al cospetto di Vito Lo Presti. A quell’uomo aveva attribuito tutti i mali del mondo. Compresa la sua insonnia. Dal giorno dell’attentato era andato a letto ogni sera con l’obiettivo di prenderlo. Se l’era visto sfuggire quando l’avevano rinchiuso in una clinica. Con un notevole ritardo, era giunto davanti al più sanguinario killer della mala. Sul tavolo settorio c’era il suo cadavere. Gli diede un’occhiata. Non era uno spettacolo edificante. Soffocò il conato di vomito.

Sul corpo aveva già lavorato la sega vibrante di Michele. La calotta cranica rimossa. Visibili i tagli lineari. Un’immagine ridicola: il cervello aperto, l’addome grassoccio, gli occhi inespressivi, il membro calato. Era quello il capomandamento che metteva tanta paura?

Sentì dei i alle spalle. La stanza offriva pochi nascondigli. Lo scaffale che conteneva l’enterotomo l’avrebbe lasciato scoperto. Si sistemò dietro un lettino. Si inginocchiò sul pavimento. Le forze si affievolirono. Vide Michele che entrava.

«È appena arrivato un terzo cadavere – disse una donna – Non c’è pace».

«Morte violenta?», chiese Michele.

«Da stabilire. Non ho mai visto tanti morti!».

«Dovremo fare gli straordinari, a quanto pare».

Davide si compulsò. Sentiva in una tasca le fiale di metadone. Fece appello al suo autocontrollo. Da quella posizione, il morto era irriconoscibile.

L’infermiera forense sollevò un lembo del lenzuolo. Michele scosse il capo. Non amava il suo lavoro. Era stufo di esaminare frammenti di tessuti, strisci vaginali e prelievi spediti dal chirurgo. Non ne poteva più di vedere sfilare cadaveri puzzolenti come oggetti di ricerca. «I primi due sono stati identificati. Vito Lo Presti e Giacinto Iesi». ò a occuparsi del terzo morto. «Su quest’altro che abbiamo?».

L’infermiera tirò fuori la cartella clinica. Michele conservò un tono professionale. «Il corpo è stato rinvenuto da un peschereccio».

«Assenza delle vescicole iridescenti, funghi tipici degli annegati. Rilevati segni esterni della permanenza del corpo in acqua: la pelle si presenta macerata e raggrinzita, con chiazze bluastre. Le cause del decesso sono sconosciute».

«Facciamo un’analisi più approfondita. Esaminiamo un frustolo di tessuto».

Davide si sporse per vedere i piedi e la faccia del morto. Aveva il corpo gonfio

come quello di un rospo. Non provò senso di pietà.

Quando il dottore e l’infermiera spostarono il cadavere di Flavi nella sala autoptica, uscì allo scoperto. Sentì gli strumenti da taglio sezionare l’encefalo. Rumore di ossa che si spezzavano. Uno sferragliare simile a quello di cesoie da cucina. Varcò la camera mortuaria. Fece mente locale.

Un lunghissimo corridoio, illuminato da un neon intermittente. L’uscita di sicurezza gli apparve come alla fine di un labirinto.

43.

La riforma della giustizia avrebbe fatto scarcerare manager e politici corrotti. Di Pietro lesse in diretta un comunicato in cui chiedeva di essere assegnato ad altri incarichi. L’opinione pubblica insorse. Il popolo dei fax inviò il proprio dissenso.

Il Barracuda sottovalutava il pool di Mani Pulite e se ne fregava delle proteste popolari. «È solo l’inizio. Fanno sul serio. Vogliono sistemare questo paese. Daranno un colpo di spugna. Azzereranno tutto».

La conversazione aveva luogo nella sala colloqui di un penitenziario. Un ambiente con pareti giallognole e una sola finestra rettangolare attraversata da sbarre. Due tavoli, quattro sedie, e un agente di polizia penitenziaria dalla faccia da ragazzino davanti a una porta metallica.

A un tavolo distante pochi metri c’era un avvocato con un altro detenuto. Leo sentiva le loro voci, come se ci fosse una fastidiosa eco. Alzò gli occhi verso l’agente sulla soglia, poi guardò le sbarre alla finestra da cui filtravano sottili lame di luce. Non riusciva a credere che tutto fosse reale, che il padre fosse precipitato dal superattico dei Parioli alla casa circondariale di Pisa e adesso andava illustrando la grande svolta in corso nel paese.

«I politici parlano, e intanto tu stai qui dentro», disse Leo amaro.

«Finiranno anche loro in carcere, se non faranno qualcosa. E questo qualcosa è

un decreto e leggi e leggine più dettagliate alla vigilia dei Mondiali, mentre i cuori degli italiani batteranno per la loro nazionale».

Leo trascinò la sedia producendo un rumore sinistro. La suola della scarpa gli si era appiccicata al pavimento sporco. Non voleva farsi udire dall’agente.

«Siamo sicuri che con questo decreto sarai fuori?».

«Otterrò i domiciliari e mi trasferirò a casa. Poi voglio dare una festa. Qualcosa di spettacolare. Un party mai visto. Dimostrerò che non ho paura dei riflettori».

«Non è una buona idea sfidare l’opinione pubblica. Dovevi darmi retta e andartene. Perché sollevare un polverone?».

Franco aveva recuperato il suo ottimismo. «Combatterò alla luce del sole. Non ho niente da nascondere. Sarebbe stato facile dire “questo paese non mi merita” e scappare. Ma tutto sommato non mi dispiace affrontare i guai giudiziari. La nostra classe politica ha compreso che il cancro di questa nazione è la magistratura militante».

Anche nel chiuso di un penitenziario, Leo intravedeva nel padre il suo tratto caratteristico. L’intensità con cui desiderava qualcosa gli faceva perdere di vista i fatti concreti e lo faceva apparire come un ingenuo. Ma erano tali la sua convinzione, il suo egoismo, la sua ambizione, che arrivavano a modificare la percezione della realtà e lui stesso finiva per credere alle proprie bugie.

«Oddio, non ricominciare. Non attaccare la solita solfa. Più ti mostri aggressivo con i giudici, più s’incazzano e vogliono fartela pagare».

«Anche i magistrati più eversivi devono sottostare alle regole del vivere civile. Devono fare i conti con la legge. Certo, verrà il tempo in cui metteranno a frutto la loro popolarità. Adesso hanno rifiutato un posto al ministero dell’Interno e a quello della Giustizia. Ma quando erà la tempesta, non resisteranno alle sirene del potere. Vedrai che fonderanno un loro partito».

«Lasciamo perdere il futuro. Pensiamo al presente. Io voglio sapere se hai corrotto oppure no la guardia di finanza».

«Questo è un dettaglio. La parte trascurabile della faccenda. Anche se ti dicessi che non ho dato nessuna mazzetta, ci crederesti? Hai mai visto un uomo che tradisce la moglie e ammette il tradimento?».

«Per me è importante saperlo. Non per la stampa, o per l’opinione pubblica. Per me».

«La pura verità?».

«Sì».

«In Italia c’è un sistema di tacite regole. Dentro questo sistema c’è il capitalismo. Ma non i singoli capitalisti. Il capitalismo intero. Io ho seguito le regole condivise dall’imprenditoria. Altrimenti i miei cantieri avrebbero chiuso.

Non è corruzione. Nessuno può essere così falso da negare che si tratti di un sistema, o di dire che bisogna vedere gli altri fare affari. Questo decreto elaborato dal governo, ringraziamo il cielo, rappresenta un’operazione di realismo, sposta in là i parametri che fino a ieri stabilivano che cos’era l’imprenditoria onesta, e chiarisce i confini esatti tra il malaffare e un sistema drogato ma laborioso. Io non ho mai costruito palazzi con la sabbia. Non ho mai dato fregature. Non ho truffato la povera gente. Ho avuto rapporti con governi criminali. Ci vorrebbe una legge contro l’associazione a delinquere di stampo parlamentare. È inutile perseguitare gli onesti lavoratori e chi ha cercato di accaparrarsi un appalto».

L’agente fece segno che il colloquio era terminato. Indicò l’orologio. Leo si alzò e la testa gli girava vorticosamente. Forse avrebbe preferito una menzogna. L’amarezza gli trapanava il cervello. Abbracciò il padre e se ne staccò con le lacrime agli occhi. «Riguardati».

Si voltò per non vedere le manette scattare ai polsi del padre. Imboccò il corridoio scortato da un agente. Sentì le urla dei prigionieri, i i marziali delle guardie, le porte delle celle che si chiudevano nei padiglioni inferiori.

All’uscita del carcere, notò la presenza di Paloma. La compagna del padre. aveva gli occhi color nocciola velati di malinconia.

La vista della brasiliana gli tolse il respiro. Il cervello si svuotò e il cuore gli si gonfiò di rimpianto. Paloma lo guardò come se lo conoscesse, ma non riusciva a ricordare chi fosse. Toccò a Leo rompere il ghiaccio.

«Ci siamo visti sulla barca, la sera della partita».

Paloma cercò rifugio tra le sue braccia. I suoi seni morbidi premettero sul petto. Il corpo olivastro aderì al suo. Lo sfregamento produsse una corrente erotica. Ma sembrava che fosse solo Leo ad accorgersene, perché Paloma appariva indifferente.

«Non mi muovo di qui finché non me lo fanno vedere – lei si soffiò il naso –. Non lo abbandono! Voglio restargli vicino».

Leo non nascose la sua meraviglia. Non si aspettava di vedere tanto attaccamento al padre da parte di quella svampita brasiliana. «Non sapevo che c’era qualcosa di così profondo tra di voi», ammise con candore.

«Ci dovevamo sposare. Franco voleva dirtelo la sera della partita. Ma non ha avuto il coraggio. Ora però resteremo uniti. Come una famiglia».

Leo aveva voglia di ridere. Quella ragazza faceva parte di un harem. Era una delle tante con cui il padre si divertiva. L’avrebbe mollata senza dirle nulla, se un giudice non fosse andato a caccia di gloria. Lei ignorava il cinismo del Barracuda, o forse fingeva di ignorarlo. Si illudeva di avere lasciato un segno indelebile su di lui. Parlava della ione senza conoscerla.

Leo lasciò a Paloma il suo numero. Disse che Franco sarebbe stato scarcerato a breve. Le diede un bacio sulla guancia mentre sentiva il desiderio crescere dentro di lui. Si morse le labbra al pensiero che Paloma – quel monumento di carne – aveva giaciuto col padre. Soffocò le sue emozioni. Mentì anche a se stesso. Si disse che l’amore-a-prima-vista era una cazzata. Si disse che lui era il tipo che non si affeziona mai. Ne avrebbe trovate quante gliene pareva come Paloma. Ma allora perché aveva una fitta al cuore? Era qualcosa che poteva definirsi gelosia?

44.

Davide respirò a fondo. Il mondo esterno aveva colori irreali. Colori forti, di un’intensità accecante. Davanti all’ospedale riconobbe una berlina di grossa cilindrata e due persone dal fare sospetto. Abbassò la testa dietro un’auto in sosta e camminò ginocchioni. Sparì dietro un angolo senza farsi vedere.

Non se n’erano accorti. Ma che diavolo ci facevano quei due? Possibile che Bonomi gli avesse messo alle calcagna altri killer? Cosa speravano di trovare?

Evitò le vie più trafficate e si diresse a piedi verso casa. Camminava con un’andatura sostenuta, ma non correva. Non voleva destare sospetti. Arrivò alla strada dove erano ancora visibili i segni degli pneumatici e i vetri infranti della sua Bmw. La Scientifica era al lavoro. I poliziotti tenevano lontani i curiosi. I nastri bicolori indicavano la scena del crimine. Macchie di sangue sull’asfalto. Un operatore inquadrava le lamiere dell’auto. Qualche giornalista scribacchiava sul block-notes.

Superò il capannello di persone che circondava la vettura. Avanzò verso la sua abitazione con la speranza di trovare Lucy. Stava per attraversare la strada, ma si arrestò. Cambiò direzione e puntò verso il mare. Con la coda dell’occhio vide la berlina. Due energumeni a bordo. Avevano l’aria di aspettare il suo ritorno. Tirò verso la marina. Uno dei due scese dall’auto e scrutò l’orizzonte. Ormai erano lontani. Davide si affrettò a tagliare per la spiaggia. Teneva gli occhi bassi e si sforzava di ostentare tranquillità.

Si fermò a un crocevia deserto. Aveva paura. Sarebbero arrivati nuovi killer fino

alla sua eliminazione. Seguitavano a spuntare da ogni angolo, come in un film di zombie. Vito Lo Presti era morto stecchito. Ma tutti i anti erano potenziali nemici. Non aveva fiato. Non voleva pensare alla sua condanna. Vuotò la prima fiala di metadone. Un sapore strano nella bocca. Si calmò. Inghiottì altro metadone. Dominò i suoi impulsi. Pensò che, se Lucy era viva, poteva aspettarlo al porto di Viareggio.

Salì su una corriera e reprimendo il fastidio per il suo stesso fetore raggiunse la banchina dove la Freedom era attraccata. Di Lucy non c’era traccia. Invece gli uomini di Bonomi eggiavano per la darsena con occhiali da sole specchiati. Il loro aspetto strideva col contesto marinaresco.

Davide era terrorizzato. Si sentiva in trappola. Voleva difendersi, ma non sapeva da che parte sarebbe arrivata la minaccia. Immaginò di essere osservato da cento occhi, spiato da mille orecchi. Aveva soltanto voglia di chiedere scusa. Gli sembrava che l’intera costa della Versilia fosse diventata un luogo freddo e inospitale, un mondo che non gli apparteneva. Si era messo contro un’organizzazione criminale ben ramificata. L’avrebbero raggiunto ovunque. Loro non perdonavano.

Camminò senza direzione. Era così sconvolto che non riusciva a riorganizzare le idee. Lo sorreggeva l’istinto di sopravvivenza. Lucy era sparita nel nulla. Aveva un brutto presentimento. Senza rendersi conto di quello che stava facendo, telefonò a Leo da una cabina. Era il suo unico alleato. Gli dette un appuntamento per quella sera.

Si fermò a un’edicola e acquistò tre quotidiani. Doveva capire che cosa era successo mentre si trovava in ospedale. Sedette al tavolo di un bar, ordinò un caffè e sfogliò la cronaca nera. Adesso era rinsavito. Andava meglio. Aveva ricollegato le sinapsi. Ma non era ancora pronto per la verità.

Quando si alzò a pagare, volse lo sguardo al televisore e la notizia lo colpì con l’irruenza di un maremoto. Il telegiornale si era soffermato sulle ultime notizie. L’Italia in semifinale col Brasile. La detenzione di Franco Abeti. Il decreto sulla giustizia votato alla camera. L’anniversario dell’attentato a Colaianni che si avvicinava. A un certo punto inquadrature del Tevere e della pista ciclabile. Una notizia di cronaca nera. Parlava del ritrovamento di un cadavere. Davide sbiancò in volto. «Può alzare, scusi?».

Il primo piano di Matteo Ganci, una vecchia foto stinta, gli penetrò nella testa come un coltello. La cassiera sbuffando prese il telecomando. Le parole del giornalista allacciavano rimandi per un significato più profondo.

È stato identificato il cadavere trovato sul greto del fiume vicino al ponte Duca D’Aosta. Si tratta di Matteo Ganci. Il 4 luglio scorso era uscito con la sua bicicletta per fare un po’ di attività sportiva. Gli uomini della scientifica stanno eseguendo le prime verifiche per fare luce sul ritrovamento del corpo in stato di decomposizione. Da giorni il fratello e i conoscenti lo avevano cercato in quella zona. La scoperta l’hanno fatta dei turisti. L’uomo aveva una corda al collo. Presumibilmente si è suicidato. Ganci stava per finire su “Chi l’ha visto”. Parenti e amici avevano interessato Rai Tre per ottenere il loro aiuto. L’uomo era conosciuto per il suo carattere amabile e socievole. Nessuno sa spiegarsi le cause del suo gesto.

Davide ripensò al collega e alla sua strana presenza vicino alla casa palermitana di Ada Colaianni. Ganci era stato uno dei primi a piombare sul luogo dell’attentato, tra fumo, calcinacci e pezzi di uomini. Ebbe un’illuminazione. Ganci era alto e biondo. Corrispondeva alla descrizione che Lucy aveva fatto dell’uomo col dischetto. Poteva essere stato lui a incontrare Mfekete a Roma. Bastava analizzare i fatti. Vederli dalla giusta prospettiva. Poteva essere andata così: un membro dell’Intelligence vende alla mafia qualche segreto e viene ammazzato.

45.

Illuminato da una fiaccola, Leo scrutava l’arredamento in stile messicano. Aspettava Davide al Tequila Club. Un locale all’aperto di quattromila metri quadri. Al bancone sfornavano chili con carne, tortillas e tacos. Ma lui non era in vena di mangiare. Aveva il volto segnato e gli occhi pesti per la mancanza di riposo. Nonostante le sventure che si erano abbattute sulla sua famiglia, non avrebbe mai negato il suo aiuto a Davide.

Quando lo vide arrivare Leo abbozzò una smorfia. «Mi vuoi spiegare che succede! Prima vuoi tagliare la corda, poi ti ritrovo in crisi di astinenza, e adesso scappi dall’ospedale».

Davide era sconvolto. Ordinò al banco un panino al prosciutto. Rifiutò le specialità della casa e la salsa più piccante del mondo che la cameriera reclamizzava come fatta per lingue che resistono ad alte temperature. Poi addentò il panino. Aveva saltato il pranzo.

«C’è sempre qualcuno davanti casa mia?», chiese a Leo che aveva opportunamente spedito a controllare la situazione.

«Due persone. Ben piazzate. Non li ho potuti vedere in faccia».

Una cameriera ava per i tavoli offrendo bicchieri di tequila. Sul maxischermo vicino al balcone scorrevano le immagini dei goal dell’Italia.

Leo riprese a parlare: «Chi sono?».

Davide conosceva la riluttanza della mafia ad agire in territori lontani dalla loro sfera. Trovò strano che i siciliani giocassero fuori casa. Bonomi teneva molto a droga e diamanti, se stava impiegando i suoi soldati senza appoggi esterni. Oppure teneva a quel misterioso dischetto. «Meno sai, meglio è».

Leo aspettò che una cameriera si allontanasse. Fece un respiro profondo. «Michele è incazzato. Ha fatto di tutto per insabbiare i tuoi movimenti in ospedale».

«È fuori di sé perché ha scoperto che sono stato più furbo di lui».

Per un attimo immaginò di andare al bagno e spararsi nelle vene qualsiasi cosa. Henry bussava alla sua spalla. Solo un attimo.

«Mi ascolti?».

«Sto cercando di restare lucido. Per ora».

«Hai portato quello che ti ho chiesto?».

Leo tirò fuori il rotolo di banconote. «La macchina è nel parcheggio e ho prenotato l’aereo che volevi tu. – lo fissò perplesso – Ora che farai?».

Davide prese i soldi e li mise nel portafogli. Non c’era bisogno di contare. «Come al solito mi togli dai casini. Ma la tua curiosità dovrà aspettare. Devi avere fiducia. Me la sono sempre cavata».

«D’accordo, ma non sei mai andato in giro in questo stato».

«Questa volta è diverso».

Leo assentì. Gli ò le chiavi dell’auto. Davide notò l’aria avvilita dell’amico. Smise di pensare solo a se stesso e riconobbe nei tratti di Leo un’espressione di preoccupazione. «Ho saputo di Franco. Mi dispiace».

Leo si incupì. Non aveva assorbito il colpo. «Ero ato a prenderlo a casa sua. Avevo faticato tanto per convincerlo a partire. Era tutto pronto... quando sono arrivate tre gazzelle dei carabinieri».

Davide gli mise una mano sulla spalla. «La partenza è solo rimandata. Per lui, ma anche per me e per Lucy».

«Non hai idea di dove sia lei?».

«È introvabile. Forse è stata rapita».

«E i diamanti? Sei intenzionato a venderli?».

«Ho bisogno del tuo autista. Non l’ho ancora contattato».

«Potrai vederlo di persona. Si troverà a Roma il prossimo giovedì. Mio padre farà una festa, appena scarcerato. Sarà l’occasione migliore per prendere i soldi».

Davide disse a Leo che era un vero amico. Lo rincuorò aggiungendo che il padre sarebbe tornato in sella. Quanto a lui, doveva solo capire che razza di fine aveva fatto Lucy. Si alzò e lo abbracciò.

Lasciò il locale e salì nella vettura. Una Fiesta con la scritta “Toscana Calcestruzzo” sulla fiancata. Frotte di giovani avevano parcheggiato a pettine vicino alla sua vettura. Nessuno faceva caso a lui. Voleva ordinare le idee. Frugò nelle tasche ed estrasse il flacone rubato all’ospedale. Tirò fuori il metadone. Lo fissò per un lungo minuto.

Gli faceva male pensare a Lucy. Solo lei aveva senso. L’idea di perderla lo atterriva. Gli venne la pelle d’oca. L’avrebbe salvata. Avrebbe impedito che Cosa Nostra portasse a termine la vendetta. Con Teresa aveva fallito, come uomo e come agente. Le aveva detto che non voleva un bambino e aveva lasciato che i mafiosi la fero saltare in aria. Adesso aveva un’opportunità per rifarsi. Si sarebbe preso la sua rivincita. Non avrebbe permesso che quello che c’era stato tra due persone venisse cancellato. Avrebbe impedito che stracciassero anche le carni di Lucy. No. Con lei sarebbe stato diverso. Perché adesso era stanco di osservare il mondo come uno spettatore. Sarebbe ato al contrattacco.

Cinquale aveva un aeroclub per amatori e aspiranti piloti. Due piste di cento metri su un prato spelacchiato. Davide decollò alle cinque del pomeriggio. Era l’unico eggero del Cessna 172. Non poteva mentire a se stesso. In un angolo del suo cervello c’era il dubbio che ci fosse un legame tra fatti lontani nel tempo. L’attentato a Colaianni. La rapina al Royal. Vito Lo Presti era l’unico anello di congiunzione, ma era diventato concime organico.

Lui aveva un conto in sospeso. Ripensò a Rizzo. Il funzionario non era convinto dell’estraneità di Bonomi e Lo Presti. Qual era il quadro dei fatti che si era formato il superiore? Un quadro diverso da quello emerso ufficialmente? Gli occhi di Rizzo tradivano la menzogna. Seguiva una pista personale. E il sesto senso diceva a Davide che le bombe del ’92 avevano a che fare con un mistero che si annidava nel SISDE.

Il cielo era pulito. Faceva trenta gradi dentro il trabiccolo. Un vento caldo soffiava da terra. Gli alberghi e le piscine della Versilia occhieggiavano sotto. Velocità di crociera: 120 nodi. L’aereo sorvolava la Maremma. Appena socchiuse gli occhi Davide si addormentò. Gli sembrò di avere dormito pochi secondi. Riaprì gli occhi piegandosi verso la finestrella.

L’aereo scese di quota.

Aveva ritirato i diamanti e il dischetto dalla cassetta di sicurezza. Si era fatto forza. Il suo ambiente naturale erano i centri di osservazione, il lavoro di testa. L’idea di uno scontro lo spaventava. Doveva prepararsi. D’ora in avanti ci sarebbe stata azione pura e lui non si sarebbe lasciato sorprendere. Avrebbe proposto un compromesso: Lucy in cambio della loro merce.

Dall’alto Roma appariva come una gigantesca costruzione di cartone dove le case erano scatole di marzapane. Le aree industriali e gli spazi verdi, circondati dal blu del mare, erano attraversati dal grigio del fiume. Un inferno in miniatura. L’aereo atterrò morbidamente sulla pista dell’Urbe.

46.

«Il crollo dell’Unione Sovietica ci ha colti alla sprovvista. Dobbiamo affrontare una nuova realtà che richiederà criteri operativi diversi».

Sergio Rizzo aveva preparato un discorso d’effetto. La fiera dell’attrezzatura di sorveglianza e spionaggio a Milano era un’occasione per vedere i rappresentanti del governo. Aveva preso il primo volo quando le pressioni si erano fatte insostenibili. C’era chi voleva un rendiconto dell’Operazione Reset. Non poteva scantonare. I suoi occhi non perdevano di vista la 24ore in cui erano i nastri di Davide e del maresciallo di Falsomiele oltre alle preziose carte del giudice Mondani.

«I Servizi occidentali sono di fronte all’assenza di un nemico. La scomparsa di una minaccia li ha lasciati a girarsi i pollici. Nessuno pensava che il modello della perestrojka sarebbe entrato in crisi così velocemente».

Il pubblico applaudì. Rizzo fece una pausa e proseguì. «Molti Servizi non hanno trovato la loro nuova identità. Ma è ora di mutare approccio e guardare a frontiere più ampie. Ora il grande nemico è diventato il network della droga. I nuovi obiettivi sono gli spacciatori che operano a livello planetario. La loro attività si allarga a dimensioni che debordano dai confini di un servizio di sicurezza. L’approccio al problema del traffico di stupefacenti deve essere globalizzato. Solo così si potrà sconfiggere questo avversario che non ha confini e che non ha volto».

Un lungo applauso accompagnò Rizzo mentre scendeva dal palco. Aveva

pronunciato una specie di testamento spirituale. Un commovente discorso d’addio. Aveva sparso al vento nobili parole. Non era adatto ai cerimoniali. Ma non si era potuto sottrarre all’invito istituzionale. Sempre così: quando serviva qualcuno da esibire, mandavano lui con le sue medaglie e il glorioso ato.

Tra pochi mesi sarebbe entrato in età pensionabile. Non aveva fatto ancora richiesta. Dai piani alti avevano sollecitato la sua domanda di pensionamento. Lo stavano scaricando. Lui aveva preso tempo. Era un bel salto are da un ufficio di difesa strategica ad accompagnare i nipoti a scuola e organizzare barbecue nella villa al mare. Non si sentiva così vecchio da fare il nonno a tempo pieno. Non era un rottame. Aveva in testa decine di informative e raccolto prove sul coinvolgimento del clan Bonomi nelle stragi e nei roghi ai magazzini Standa. Aveva parlato col comitato per la sicurezza pubblica. Aveva spremuto i confidenti. Aveva ricostruito i movimenti di Lo Presti per l’Italia. Aveva tracciato collegamenti tra gli attentati ai magazzini e altri fatti criminali. Collegamenti sensazionali. Se il contenuto della sua 24ore fosse stato dato in pasto ai giornalisti, avrebbe prodotto una devastazione maggiore della strage di Bologna. Avrebbe destato più scandalo dei Fondi Riservati di Scalfaro.

Le hostess lo scortarono verso gli stand. Rizzo raccolse lo sfogo di un collega dei servizi per l’accusa di cospirazione politica piombata sulla testa dell’ex direttore dell’Ufficio Affari Riservati. Salutò funzionari della Cia. Chiacchierò della nazionale, del Brasile e dell’afa di luglio. Tirò avanti verso la parte tecnologica delle fiera. Distinse la paccottiglia da James Bond dall’attrezzatura utile per il mestiere di spia. Vide una futuristica camera-penna con fotocamera. Schivò i colleghi ansiosi di esibire prototipi di spy-pen recorder.

Era distratto e annoiato. Rimaneggiava la 24ore come se custodisse una bomba. Quelle esibizioni erano pagliacciate. Si augurò che non gli portassero via tanto tempo. L’Operazione Reset aveva precedenza assoluta. Avrebbe lasciato Milano al più presto. Troppe castagne sul fuoco. La scoperta del cadavere di Ganci e la storia del furto al Royal lo turbavano. C’era da sbrogliare la matassa di Davide. La situazione del pupillo lo preoccupava. Un affare di cui occuparsi al rientro.

Non poteva lasciarlo solo. Ricordava all’ospedale i suoi occhi bisognosi d’aiuto. Conosceva i limiti di Davide e ne intuiva la fragilità. Aveva paura che fosse vicino a raggiungere il suo punto di rottura. Fino a dove sarebbe arrivato?

Si allontanò per tirare il fiato, senza notare l’ingresso del Professore.

«C’è la delegazione del sottosegretario», gli sussurrò all’orecchio una hostess.

La ragazza indicò uno stuolo di persone che contornavano l’onorevole.

Rizzo scoccò uno sguardo al deputato. I loro occhi si incrociarono.

47.

Davide varcò la soglia del Condominio. Calpestare il pavimento a mosaico sui cui era iscritto il motto Per aspera ad veritatem e ricevere il tesserino dei Servizi non gli fu indifferente. L’emozione lo sopraffaceva.

La segretaria era una cariatide. Quando sorrideva mostrava una dentatura annerita dalle sigarette. «Che piacere riaverla tra noi, ingegnere Bazzichi!».

«Prima o poi sarei dovuto tornare».

La presenza della segretaria, vecchia amica del padre, alleggerì il momento. «Sono lieta che tutto si sia risolto al meglio – la segretaria si chinò verso di lui sussurrando –. Qualche malalingua cominciava a dire che lei si era rimbecillito».

«Immagino che mi avrà difeso strenuamente».

La segretaria si irrigidì. «La stanno aspettando ai piani superiori».

«Il dottor Rizzo?».

«Si è trattenuto a Milano. Nel frattempo, la invita a redigere delle note sul caso

della Versilia. Rizzo ha detto che lei avrebbe capito».

Davide non riuscì a mascherare la delusione. L’assenza di Rizzo era un problema. Contava sul suo appoggio. Voleva dire che avrebbe proceduto da solo, come un equilibrista che cammina su un filo senza rete di protezione.

La mummia lo accompagnò fino al secondo accesso, dove la security sostava ai tornelli. Al Condominio non era cambiato niente. Spirava aria di indignazione. In molti si lagnavano. Dicevano che erano uno strumento essenziale del paese. La legge non era sufficiente a coprirli. Venivano invocate «autonomia» e «riservatezza» come se i partiti al governo potessero metterli al riparo dalle inchieste della magistratura.

«Il cataclisma che segue ogni elezione politica. Il Nuovo fa epurazioni ed esige vittime sacrificali», minimizzò la segretaria.

Davide tagliò corto e varcò la porta di accesso. Fece un saluto cortese alla segretaria. Non perdere di vista l’obiettivo, si disse. Non dimenticare Lucy. Non dimenticare i diamanti e il dischetto. Non dimenticare l’isola dei sogni. Decise di procedere come se Lucy fosse con lui. Avrebbe preparato il terreno per la fuga. Si sforzava di non vedere la realtà. Si illudeva che Lucy potesse tornare indietro, ma non era un futuro così lungo da pianificare.

Mostrò il tesserino alla security. Volò nei sotterranei. Seguì la procedura. Compilò la domanda all’ispettorato per la produzione di documenti di copertura. Motivò la richiesta per fini istituzionali. Portò l’autorizzazione al reparto direzione strategica. Domandò all’esperto delle contraffazioni ben sei documenti. Due copie diverse per aporto, una carta d’identità e una patente. Gli diede sei foto di sé e le foto scattate a Lucy.

«Mi servirà una settimana per i documenti», storse il naso l’esperto.

«Ti do al massimo due giorni».

Quello si strinse nelle spalle. Abbronzato. Di mezza età. Ne aveva viste di tutti i colori durante la carriera. Non si scomponeva davanti a nulla.

«Non ce la posso fare».

«Massima urgenza».

«Cercherò di fare il possibile. Ma c’è un tempo tecnico...».

«... Tra due giorni o a prenderli. Voglio un lavoro pulito. Documenti a prova di ogni controllo».

«Se il Mossad ferma qualcuno con i miei documenti, lo rilascia con tanto di scuse. Le mie sono opere d’arte. Contraffazioni totali».

L’esperto si dilungò sulla mole di lavoro che lo attendeva. Trentadue pagine di aporto rilegate e cucite in copertina cartonata. Ogni paese aveva il suo colore specifico: rosa per l’Italia, verde per gli Usa. Doveva incollare le foto alla

carta. Ottenere una riproduzione perfetta. E poi c’erano le filigrane e gli sfondi di sicurezza. Avrebbe utilizzato timbri umidi e secchi e solo inchiostri originali. E, dulcis in fundo: visti fittizi per non attirare l’attenzione. I aporti che uscivano da quel reparto venivano catalogati nel port Book e registrati ufficialmente. Non erano polvere negli occhi. Non erano documenti per confondere un albergatore distratto. Superavano i controlli più severi e permettevano di rifarsi una vita in ogni dove del mondo, alla luce del sole, senza entrare in clandestinità.

Davide fece i suoi complimenti all’artista. Contemplò la sua foto e quella di Lucy con le nuove generalità. Poi si diresse all’ala C della palazzina. Una parte di sé voleva troncare col ato. Un’altra parte non si era accontentata delle inchieste giudiziarie seguite alla morte di Colaianni. Non si era arreso. Cercava di inquadrare i movimenti di Lo Presti in un contesto più ampio, di collegare i punti nebulosi di un tracciato sconosciuto. Intanto riava il racconto di Lucy, per trovare la falla. In testa aveva pezzi confusi del quadro: Mfekete arriva da Città del Capo, incontra Ganci e riceve dall’agente il dischetto. Lo Presti e il nipote si fanno vedere in albergo per ritirare il pacco. Incastrando tra loro le tessere, l’immagine finale seguitava a sfuggirgli. Ciampino e la Voc Service erano gli ultimi posti dove era stato Mfekete, prima del sushi bar. La banda di Marziano aveva pedinato l’imprenditore sudafricano. Era normale che fe la spola tra la dogana e gli uffici, perché stava seguendo le pratiche burocratiche di trasferimento di alcune merci.

La sezione informatica era costituita da una serie di cubicoli ciascuno con un computer e terminava in una sala dalla porta a vetri. Davide si fermò in uno dei cubicoli. Accese il pc. Inserì il numero identificativo. Il computer era pronto a rispondere. Si inserì nello smisurato database. Un pozzo senza fine in cui cercare. Fece un controllo sui mafiosi. Il veicolo davanti casa risultava di proprietà di Giovanni Franciosa. Nullatenente di Riesi, in provincia di Caltanissetta. Scartabellò centinaia di foto. I picciotti erano Carmelo Aiello e Gaspare Di Natale, uomini d’onore di un clan avversario dei Corleonesi. Rifletté. Disegnò nella mente uno scenario: Bonomi fa fortuna in Sud Africa. Da lì si allea con le famiglie Aiello e Di Natale e stringe un accordo di cartello con i fuoriusciti per togliere di mezzo i Corleonesi.

Stampò il materiale relativo a Bonomi e Lo Presti. Fotografie, verbali, inchieste, rapporti delle autorità, indagini riservate. Si rinverdì la memoria. I suoi occhi vagavano tra la montagna di dati. Cercò tutto lo scibile sulla Voc Service. Società operante a Città del Capo, con sedi in Italia. L’amministratore delegato era una testa di legno. Interrogò il terminale sul movimento merci alla dogana aeroportuale. Mandò in stampa le scartoffie giudiziarie sulle inchieste relative all’omicidio di Fran. Consultò la documentazione di prima mano. Spulciò le scartoffie. La pista legata alle cosche italo-americane non portava a niente. Una linea rossa univa la Voc Service all’organizzazione mafiosa. Gli occhi di Davide erano stanchi. Esaminò la richiesta della Voc Service di far entrare le merci in Italia dal 1990. Si soffermò su un nome. Trasalì. Rilesse il nome che figurava in calce ai permessi. La licenza di esportazione rilasciata dall’ufficio competente del ministero degli Esteri aveva la firma di Matteo Ganci. Il Sud Africa non era un paese a rischio. I controlli erano meno capillari. Ganci aveva dato il nulla osta dal 1989 al 1992. Poi qualcosa era cambiato. Prima di quella data un’autorizzazione dei servizi permetteva di saltare il protocollo della sicurezza da Città del Capo a Trapani.

Fotocopiò le scartoffie. Le avrebbe allegate al verbale e avrebbe riassunto le ultime rilevanze sui fatti. Ne avrebbe discusso solo con Rizzo e gli avrebbe chiesto aiuto per ritrovare Lucy. Sentiva la testa che gli girava. Non si sentiva più al sicuro in quell’ufficio. Forse nei servizi c’erano altre mele marce, oltre a Ganci. Forse il dischetto avrebbe fornito la risposta alle sue domande.

Aveva bisogno dei programmi antidecriptazione del cervellone. Solo così avrebbe potuto scoprire il contenuto. Si trasferì nel corridoio. Si fermò davanti a una porta di sicurezza. Digitò il codice sulla tastiera di accesso, si mise davanti al cervellone ed iniziò a interrogarlo. Poi ebbe un fremito. Riconobbe il tenente Candida tra le persone che entravano nella sala. Si voltò dall’altra parte e diede un colpo di tosse. Interrupe l’interrogazione all’elaboratore, fece sparire il dischetto e si alzò dando le spalle al tenente. Candida era chino su una tastiera e concentrato su uno schermo. Per fortuna non lo aveva notato. Era un fatto insolito vederlo al reparto di informatica: il tenente stava al pc come un

calciatore sta a un circolo di cultura. Candida era stato tiratore scelto dell’Arma e aveva fatto parte del Gruppo d’Intervento Speciale, ma non era in grado neppure di accendere un computer. Un tecnico lo stava seguendo.

Davide uscì dalla sala mantenendo lo sguardo basso. Sentì i i di qualcuno nel corridoio. Strinse la valigia piena di scartoffie e abbandonò l’aria furtiva. Sarebbe stato più prudente tornare quando quel reparto era meno frequentato. All’apparizione della segretaria si slogò la mascella con un sorriso. La matusalemme era indispettita. Gli domandò perché stava facendo aspettare i suoi colleghi per la riunione. Invocò maggiore disciplina e rispetto delle regole e lo accompagnò nell’ascensore digrignando i denti anneriti dal tabacco.

Mentre saliva in ascensore, Davide si guardò allo specchio. Aveva l’aria di un drogato. Si sistemò i capelli. Eliminò le tossine prodotte dal lavorio cerebrale. Per un attimo pensò a come sarebbe potuta essere la sua vita se avesse rimosso Lucy. Che ne sarebbe stato di lui se fosse tornato il vecchio Davide? Se avesse cacciato i fantasmi? Cominciò a osservare se stesso da un’altra dimensione. Uscì dall’ascensore con la mente e vide con chiarezza la sua vita all’Intelligence da un luogo lontano, lesse il suo ato e un ipotetico futuro come un dio estraneo che guarda dal vetro di un acquario. Come aveva fatto a are tanti anni a spiare, fabbricare prove, fotografare, filmare e censurare ogni emozione? Perché si era rinchiuso in uno spettrale eremo, come un vivo che si seppellisce in una tomba? Non voleva tornare nella sua villa-bunker. Non voleva lavorare ai servizi. Non voleva che i colleghi lo compatissero come un rottame. Non voleva rimettere gli occhi davanti a un monitor e foderare le orecchie con una cuffia. La freddezza con cui aveva eseguito gli ordini gli fece provare repulsione per se stesso. Aveva spiato dal buco della serratura finanzieri disonesti e bancarottieri, familiari di imprenditori e killer, e si era sentito sicuro dietro una robusta parete di cristallo. Il compiacimento di violare l’intimità degli altri... Queste scene uscivano, tutte insieme, come i fatali malanni contenuti nel vaso di Pandora. Disprezzava ciò che aveva fatto e la parte del suo animo che aveva provato gusto nel farlo. Non avrebbe più occultato una cimice o una telecamera. Non sarebbe più stato uno zombie. Non sarebbe più stato uno spettatore. Aveva chiuso col lavoro sporco.

La porta dell’ascensore si aprì con un soffio metallico. Il suo ingresso al terzo piano non ò inosservato. Tutti smisero di fare quello che stavano facendo. Restarono a occhi sgranati mentre Davide attraversava il corridoio. Assistenti, archivisti, funzionari. Non sapevano come accoglierlo. Era sempre stato un estraneo, anche quando lavorava con loro. Poi si fissarono, uno con l’altro, e applaudirono. Era il primo giorno di lavoro dopo la sospensione. Gli tributarono un lungo omaggio.

Davide era imbarazzato. Abbozzò un sorriso. Attese qualche secondo che terminasse l’applauso e scoccò un’occhiata riconoscente. Non pensava che il suo rientro sarebbe stato salutato in modo tanto caloroso. Avrebbe preferito essere invisibile, ma gli fece piacere. In fondo quel posto era assai diverso dall’immagine dei servizi deviati. Per il novanta per cento i suoi colleghi erano impiegati imboscati oppure laureati in competizione per il potere. Le donne tendevano a vedere la carriera in termini di trame e orditi, gli uomini per scale e gerarchie. Avevano scambiato il SISDE per un parcheggio ministeriale e non si spiegavano come Ganci potesse essersi tolto la vita con una valigia piena di soldi in casa. Appena Davide uscì dalla sala, tutti ripresero a parlare di Ganci. Il principale argomento di conversazione era il suicidio dell’agente. La notizia aveva destato una tragica impressione.

In un angolo della sua mente sapeva che tra loro poteva annidarsi un traditore al servizio di Bonomi. Informò il funzionario più alto in grado che doveva stendere un verbale commissionato da Rizzo. Detto questo, sparì nella sua anonima stanza. Chiuse le tapparelle e si mise seduto. Telefonò a Leo e confermò la sua presenza alla festa del padre. Era implicito che avrebbe venduto i diamanti. Non avrebbe rinunciato a soldi contanti. Poi si massaggiò le tempie e prese il viso tra le mani. Davanti ai documenti che aveva riversato sul tavolo, c’erano così tante cose che si scontravano nella mente che nulla gli era chiaro all’infuori che Lucy fosse ancora irreperibile. L’immaginazione evocava picciotti che violentavano la ragazza e la scioglievano nell’acido. Scrollò di dosso questi pensieri. Si augurò che fossero solo fantasie. Cercò di riportare la mente a ciò che era accaduto. Doveva riflettere. Per far tornare indietro Lucy dal buco nero che l’aveva inghiottita, fece appello a tutta la sua concentrazione. C’era qualcosa che gli sfuggiva. Rifece il suo percorso all’inverso, dal suo ultimo saluto a Lucy al

colloquio con Leo al porto, al sopraggiungere dei mafiosi, al suo rapimento. Tutto tornò a fuoco come in una sorta di esplosione. L’immagine di un giovane poliziotto dall’aria familiare, con in mano un cellulare, emerse dalla nebbia e si fece distinta. Un telefonino! Come aveva fatto a non pensarci prima? Si rese conto di avere una traccia. Era la sua ultima speranza.

48.

In armeria si fece consegnare un apparecchio di bonifica ambientale e chiese un consiglio su una pistola dall’alto potere offensivo. L’armiere non aveva dubbi: Smith & Wesson 337. Roba da intenditori. Telaio chiuso con tamburo basculante. Niente munizioni commerciali. Ricariche assemblate con inneschi Schwarzkopf Rnfb. L’armiere aveva visto Davide una sola volta al poligono e ricordava una scena patetica in cui tutti i suoi colpi erano finiti sul nero. Gli diede la pistola e non fece domande.

Davide si diresse al parcheggio e compilò le ennesime scartoffie. Il parco mezzi era ben fornito e comprendeva auto di ogni tipo. Ma la sua scelta cadde su una Panda. Dava meno nell’occhio. L’utilitaria aveva rinforzi di rango: una parziale blindatura, vetri antisfondamento, paratia in policarbonato e sfere in lega di alluminio nascoste nel serbatoio per prevenire le esplosioni.

Uscì dal Condominio e s’incolonnò alla fila di auto dirette verso il centro storico. Diede un’occhiata alla valigia sul sedile e tornò a scrutare lo specchietto. Il traffico della capitale giocava a suo vantaggio: avrebbe individuato subito un’eventuale coda. All’altezza del Circo Massimo fece una deviazione e infilò la Panda tra due auto. Lasciò l’auto nel parcheggio e controllò se qualcuno l’aveva seguito. Poi si diresse verso l’area dei taxi. Sentiva il caldo friggere l’asfalto. Si slacciò i bottoni della camicia. Aveva il tempo contato. Ogni minuto era una possibilità in meno di rivedere Lucy. Non credeva in Dio. Ma alzò gli occhi al cielo e pregò che lei fosse ancora viva.

Salì sul taxi come un automa. La vettura camminava a o d’uomo. A piazza della Repubblica c’era un ingorgo di macchine e i gas di scarico formavano una nube indistinta.

«I romani rimangono tutti in città a luglio. E dove dovrebbero andare?» disse il conducente del taxi, alzando le spalle.

Davide non aveva voglia di parlare. Cercò di non piombare in quella specie di apatia che lo aveva sempre contraddistinto. Stringeva forte tra le mani la valigia, dove aveva messo le carte, l’apparecchiatura di bonifica e la pistola.

Il taxista era loquace e curioso. «Oggi c’è una manifestazione contro il decreto che farà uscire dalle carceri Poggiolini e compagnia bella. Non so come la pensa, ma per me sono tutti uguali. Rubano tutti. E continueranno a farlo».

Davide capiva che il clima politico stava cambiando. Ma era rimasto lontano dalla scena per afferrare la portata di quello stravolgimento. «Fermi qui – disse indifferente –. Farò l’ultimo tratto a piedi».

Pagò e scese dal taxi. Tagliò per via del Corso evitando il corteo dei manifestanti, l’ennesimo sit-in indetto dal Partito Democratico della Sinistra. Su un palco era issata una bandiera che rappresentava una quercia con ai piedi i simboli di stella, falce e martello e, ancora più piccola, la scritta PCI. La parola d’ordine era: difendere Tangentopoli. Gli esponenti della sinistra pretendevano che il ministro della Giustizia tornasse sui suoi i e si rimangiasse le proprie parole. Lo status di “partito antisistema” dava ai Democratici la patente per criticare la corruzione. Davide non aveva mai avuto simpatia per i rossi. Anzi, li trovava patetici quando si ergevano a moralisti. E poi il decreto sulla giustizia non era nell’ordine delle sue principali preoccupazioni. Non adesso almeno.

Si fermò davanti a uno stabile di colore giallo acido. Là dentro c’era la sua ultima possibilità. Nel centro di ascolto della Telecom lavorava l’unica persona

in grado di risalire dalla traccia di un cellulare al suo possessore. Poteva darsi che avrebbe fatto un buco nell’acqua, ma valeva la pena tentare. Mostrò il tesserino nuovo di zecca agli uomini di guardia.

La centrale di ascolto era controllata da un complesso sistema di telecamere. La porta a vetri si aprì al suo aggio. Davide si qualificò come agente del SISDE e si fece portare all’agenzia di intercettazioni. Pochi sapevano che la telefonia era basata sull’uso di celle, e che le onde radio emanate dagli apparecchi si agganciavano a una stazione radio. Ancora in meno sapevano che, nel caso in cui un cellulare restava spento, lasciava un segnale della sua presenza. Per questo chi aveva sequestrato Davide poteva essere individuato.

Ad attenderlo vicino alle postazioni dove gli operatori scaricavano i dati c’era Virginia Sepe. Una settentrionale dall’aria severa e squarci di dolcezza, ex vicequestore della Polizia di Stato e ora dirigente della sicurezza Telecom.

«Benvenuto nel club», disse lei sorridendo e movendosi verso l’amico. La vita non le aveva concesso molto: due separazioni e un figlio morto per overdose.

«Voglio sapere quanti cellulari erano in funzione a Cinquale il 26 luglio, tra le dodici e le diciotto», esordì lui.

«Non ci vediamo da un anno e mi commissioni subito una ricerca. Una volta si usavano frasi come “buongiorno, buonasera, come va?”».

Davide provava un grande affetto per Virginia, ma non era il momento giusto per dimostrarlo. «Puoi farmi questa ricerca subito?».

«Calma. Adesso controllo. Non dovrebbero essercene molti di apparecchi...».

I Servizi segreti avevano le porte aperte. Ragioni di Stato. Il Grande Orecchio consentiva di vagliare per conto del Governo una massa infinita di telefonate fisse e mobili, via Voip, fax, e per sms, senza chiedere autorizzazione alla magistratura. Virginia Sepe era la maga dell’elettronica. Aveva però il torto di sentirsi sola e di parlare molto quando vedeva qualcuno. «Se i criminali comprassero più telefonini, ci renderebbero la vita più facile. Per questo i boss mafiosi ricorrono a pizzini e messaggeri, sanno che la tecnologia è facilmente decifrabile... E non sbagliano... Ecco qui... nella zona abbiamo tre apparecchi di telefonia radio-mobile. Due ETACS e un NMTS».

«Puoi identificare i proprietari e risalire ai loro tabulati?».

«Certamente».

Virginia si spostò con un’agilità insospettabile davanti a un’altra postazione. Digitò le informazioni su alcuni tasti e attese la risposta. Per un attimo si fermò e si fece seria. Il suo viso era simile a quello di una mamma apprensiva. «In che guaio ti sei cacciato? Perché ti interessa tanto?».

«Non posso dirtelo. Ma è per una buona causa. Sta’ tranquilla».

Davide aveva assunto un tono brusco. Il centro della sua attenzione rimaneva lo schermo luminoso del pc.

«Lo faccio in nome dei vecchi tempi. Rimpiango ancora tuo padre e a volte mi chiedo perché tra me e lui non abbia mai funzionato».

«Ti sarei grato se saltassi la fase dei rimpianti e venissi al punto».

La donna sospirò. Le nuove generazioni, aggressive e sfrontate, non le aveva mai capite. Non era stata capace di comprendere il figlio e per questo lo aveva perso. Indicò lo schermo del computer con un gesto rassegnato. «Un apparecchio appartiene a un imprenditore di Brescia, un altro è intestato a una compagnia mineraria russa... e il terzo...». Virginia si sorprese. Controllò di nuovo, quasi incredula. «È in dotazione al commissariato Trevi di Roma».

Davide pensò di avere fatto centro. Escluse i primi due. Era lui il suo uomo. Quello da cui era stato interrogato mentre era sotto l’effetto della droga. Metodi da poliziotto, senza dubbio. Le scarpe lucide coordinate con la divisa. I contorni dei lineamenti, poi, gli ricordavano qualcuno del ato. Ma chi? Alla memoria sfuggivano particolari più precisi.

«È possibile sapere dove si trova adesso questo apparecchio?», chiese Davide, come se avesse il sedere in fiamme.

«Ci vuole tempo. Quando il telefono si allontana troppo da una stazione radio, il sistema ricerca automaticamente la cella più vicina. Il processo di localizzazione si basa sulla possibilità di conoscere la distanza di un terminale dalla stazione radio con la quale l’apparecchio è connesso. Poi possiamo stringere il cerchio. Ripetendo in sequenza l’operazione, ed effettuando triangolazioni matematiche, stimiamo la posizione sul territorio».

Davide era su di giri. Cominciava a pensare che non tutto era perduto. Intravedeva un indizio su cui lavorare. Avrebbe voluto dare a Virginia un bacio sulla fronte. Era la migliore in questo genere di cose!

«È questione di vita e di morte. Non posso dirti di più. Per qualsiasi cosa, mi troverai all’hotel Royal».

«Farò quello che posso. Ma tu stai attento... e salutami Sergio, se lo vedi», gridò Virginia. L’altro si era già avviato verso la porta. Virginia scosse il capo. Sempre irriconoscenti questi giovani!

49.

Gavinana era stata colpita dall’alluvione del ’66, quando l’acqua era arrivata a un’altezza di sei metri. Franco Abeti aveva costruito nuove palazzine, buttato giù quelle pericolanti e espanso il quartiere fino a raggiungere il borgo di Ponte a Ema a sud e la collina di Santa Margherita a ovest. Esempio negativo di speculazione e degrado, via Illuminati era, a dispetto del nome, molto buia. Un unico lampione gettava la luce sui moderni agglomerati che la Toscana Calcestruzzi, società monopolista, aveva eretto in fretta e furia, contro quelle malelingue che rappresentavano Firenze come una vecchia signora che si protegge dai cambiamenti inceppandoli in continuazione. Al centro di via Illuminati, al civico ventidue, sorgeva la sede fiorentina della Voc Service. Nel seminterrato, c’era un viavai insolito per quell’ora.

Lucy non sapeva dove era stata condotta. Ricordava solo l’ispettore di polizia che l’aveva costretta a salire sulla sua auto e le aveva tamponato la bocca con del cloroformio. Si era risvegliata in un ufficio dalla moquette immacolata e senza nessun mobile. Il più pingue dei sequestratori l’aveva portata nel magazzino, senza rinunciare a darle qualche tastata. Un giovane elegante le aveva tolto la benda. Non aveva modi da mafiosi, o almeno non quelli che si sarebbe aspettata. Gesti silenziosi, privi di nervosismo. Il giovane elegante si muoveva con studiata lentezza. Lei non era riuscita a capire quello che diceva al ciccione.

Il magazzino era buio. Due fessure splendevano nell’oscurità. Un’ombra si stagliava minacciosa. Era l’ombra di un animale che la guardava in silenzio. Gli occhi aguzzi della belva brillavano. Lucy provò a fare un o verso la porta. I due punti luminosi si diressero con velocità supersonica contro di lei.

Si ritrovò l’animale che poggiava artigli di ferro sulle sue spalle e ringhiava

come a dire “non ti muovere”. Il diavolo nero aveva la testa eretta, lo sguardo vigile, il portamento di una maestosa possanza.

Lucy arretrò spaventata. Distingueva meglio le forme del cane e le sue fauci spalancate. Restò immobile. Come il molossoide pretendeva. Il pit bull le aveva dato una straordinaria dimostrazione di forza e di sicurezza.

Lucy desiderò che quell’incubo terminasse con un battito di palpebre. Ma quando chiuse e riaprì gli occhi il pit bull era ancora lì a farle la guardia. Desiderò che niente di ciò fosse vero e che Davide apparisse per portarla via nell’isola dei loro sogni.

La porta si aprì. Dietro non c’era Davide, ma la continuazione dell’incubo. Un grassone dai capelli ricci e il volto paffuto si affacciò nella stanza con un’espressione seccata. Il pit bull ringhiò verso il cono di luce e serrò gli occhi in attesa di capire chi fosse. «Il cane è proprio necessario?», blaterò il ciccione.

Una voce alla sue spalle. Il poliziotto: «È del mostro. Tienilo buono».

Il grassone aveva una tuta attillata che premeva sul pancione. Dalla cintola usciva fuori una pistola, che sfiorò con le mani senza smettere di controllare il cane. «Se apre un’altra volta le mascelle io questo lo stendo».

Lucy fu presa per le ascelle e portata fuori di peso. Non fece resistenza. Da una parte era contenta di allontanarsi dalla belva, dall’altra non si aspettava niente di buono dal ciccione che la trascinava come un sacco di grano.

Solo adesso vide meglio le altre persone che si erano aggiunte allo sbirro. Il giovane elegante aveva i lineamenti dolci e l’aspetto curato. Le sorrise.

Lei non se ne compiacque. Capiva che, nonostante l’aria abbattuta, faceva ancora presa sull’altro sesso.

«Senti come abbaia questo schifoso», si lamentò il grassone. La stazza gli impediva di essere agile. Fece in tempo a richiudere la stanza. I latrati del cane erano spaventosi. Il poliziotto inserì il caricatore nell’automatica.

«Dove sono le nostre cose? – chiese Pallante – Te lo domando una volta sola. Dov’è il dischetto e tutto il resto?».

Lucy scosse il capo, come a dire che non avrebbe parlato.

Il ciccione le vibrò uno schiaffo con il palmo della mano aperta. Lucy cadde a terra. Salvatore ripeté la domanda con voce calma. «Le ha nascoste il tuo fidanzatino?», aggiunse. Lucy scosse di nuovo il capo.

«Sei una bella ragazza. Non vorrai mica che ti roviniamo la faccia?».

Lucy finalmente aprì bocca: «Non so dove sono».

Salvatore guardò Pallante e poi lei. «Confermi che la tua dolce metà le ha

nascoste?».

Lucy si morse le labbra. Si era tradita da sola. Il ciccione le diede un secondo schiaffo. Lei si accasciò a terra. Sentiva pulsare la testa come se stesse per scoppiare. A quel punto il grassone la tirò su come un fuscello e cominciò a picchiarla selvaggiamente. Pallante assisteva allo spettacolo amareggiato.

«Mi ripugnano questi metodi – chiosò il poliziotto sospirando –, ma quando manca la collaborazione sono necessari».

Il grassone offrì a Lucy una tregua. «Dov’è quello che ci hai rubato?».

Lucy gli sputò in faccia. Il grassone si pulì il viso e ricominciò il trattamento.

Pallante fece cenno al grassone di finirla. Porse una bottiglia di acqua a Lucy. La ragazza istintivamente si riparò con la mano. «Non voglio farti del male. Davide non ti ha detto nulla per non farti correre rischi e ha fatto bene».

Lucy bevve. Le labbra gonfie avvamparono. Aveva il volto tumido. I fianchi le dolevano. Non ce la faceva a muovere il braccio. Versò l’acqua sulle ferite.

Salvatore si teneva in disparte. Aveva assistito imperturbabile al pestaggio. Giocava a fare il duro. Pensava che quella notte si sarebbe deciso tutto. Era scritto nelle stelle. Lui si era fatto una notte in gattabuia e si sarebbe preso la sua rivincita su Davide. Per fortuna un avvocato aveva sistemato le cose e lo aveva fatto uscire alla velocità della luce.

Suonarono al camlo e arrivò un quarto uomo. Una lunga cicatrice gli deturpava la parte sinistra del viso. Era quello che chiamavano il mostro. L’uomo fece uscire il pit bull dalla stanza, gli accarezzò il muso, gli infilò una muola e lo legò a una catena dalle maglie larghe. Il grassone fissava sdegnato il cane, come se fosse un suo nemico personale.

Pallante strinse la mano dell’uomo, con ammirazione. «Finalmente ci conosciamo, grand’uomo», gli disse.

«A dopo le presentazioni».

«Ho sentito parlare di te: missione Airone in Kurdistan, e operazione Tempesta in Sicilia. Zako come Palermo», continuò Pallante.

«Sono stato chiamato dal signor Bonomi per recuperare il dischetto», replicò gelido il mercenario.

«Mi dispiace che ti sia scomodato per un dilettante».

«Il dilettante vi sta dando filo da torcere».

«Il file non può essere aperto – intervenne Salvatore –. Ganci aveva dotato il sistema di una chiave di accesso».

«L’informatica è il campo di Bazzichi», disse il mostro. Sembrava non nutrire la minima considerazione per Salvatore.

Gli uomini nella stanza confabularono, finché quello dal viso guasto prese in mano un cellulare. Compose un numero. Attese di avere la linea, poi scandì forte e chiaro: «Abbiamo la ragazza. Se ci restituisci il dischetto, la lasciamo andare. Mi pare uno scambio equo».

Il mostro attese la risposta dall’altra parte. Poi gelò il suo interlocutore. «Non sei nelle condizioni di dettare regole. Ti aspettiamo stanotte al primo ponte dopo l’uscita per la tangenziale. E non fare lo stupido. Niente scherzi. Pensa alla ragazza».

50.

Davide rimase col cellulare in mano. Un’ondata di rabbia gli salì alla testa.

«Fatemi parlare con lei. Fatemi sentire la sua voce».

Dall’altra parte della linea avevano riattaccato. Il rumore del ricevitore fu simile a una palata di terra sopra una bara. Come facevano ad avere il suo cellulare? Dove tenevano rinchiusa Lucy? Lui aveva cercato di intimorirli. Ma stava bluffando. Aveva paura e lottava contro il pianto che premeva sugli occhi. Sapeva che i mafiosi non avrebbero rispettato i patti. Sentì l’angoscia soffocarlo. Ogni progetto era andato in pezzi. Una voce gli tambureggiava nella testa e diceva che Lucy sarebbe morta, come Teresa. Si ribellò a quella voce. Avrebbe riportato Lucy indietro. Avrebbe rotto con un’intera esistenza di autocontrollo. Doveva giocare fino in fondo le sue carte. Aveva tempo prima dell’appuntamento e il dischetto era in suo possesso.

La facciata dell’hotel Royal era illuminata da un’insegna al neon. Davanti alle porte scorrevoli il personale in livrea dava il benarrivato. L’albergo, con i comfort e la sua ubicazione strategica, era l’alloggio preferito dal SISDE.

Davide lasciò alla receptionist i documenti. Gli spettava una camera singola per una settimana. Anche se non sarebbe arrivato alla fine della settimana.

Si appollaiò su un trespolo al piano bar. Doveva aspettare che il Condominio si

svuotasse per tornare ai sotterranei e aprire il file. Aveva il cervello in fiamme. Vedeva ovunque nemici. La situazione richiedeva lucidità. Si chiese se non soffrisse di un delirio di persecuzione. Il secondo martini lo aiutò a rimuovere l’ansia. L’alcool lo scaldò. Sentì una vampata per tutto il corpo e cominciò a sudare. In compenso una piacevole nebbiolina era scesa sui sensi e aveva alleggerito la tensione. Il maxischermo restituiva un’antologia delle migliori giocate di Roberto Baggio durante i Mondiali.

Alla vigilia della finale, era Baggio l’uomo simbolo. «Quando sei in una squadra, quando vivi in un ambiente, “quella” è la tua maglia. E cerchi sempre e comunque di onorarla», diceva il campione in una intervista.

Davide ricordò il suo soggiorno al Royal di qualche settimana prima. Il giorno in cui Lucy aveva messo piede nell’albergo, lui era seduto con Leo su quel divanetto e stava per portarsi a letto la moglie di Michele. Era un uomo derelitto. Forse era già morto. Nello spazio di poco tempo era completamente cambiato e chiedeva solo di salvare Lucy, per togliere il disturbo. Lei aveva rivoluzionato la sua esistenza. Ora lui doveva salvarla. Si domandò cosa stesse facendo, se i suoi rapitori le avevano fatto del male. Pagò il conto e scese dal trespolo. Gli veniva da piangere mentre entrava nell’ascensore.

Al terzo piano avevano tolto da poco i sigilli. Dalle scale erano sparite le macchie di sangue. Davide si informò dal responsabile del piano su che cosa era successo dopo la sparatoria. Dell’indagine si era occupato il commissariato Trevi e l’aveva conclusa con un’archiviazione.

Davide schiuse la porta della camera desideroso di riposare. Era il momento di trovare un po’ di requie, prima della battaglia finale. Il Condominio gli aveva prenotato la camera numero ottantasei. La solita copertura: il nome fittizio di una società di informatica. Un lusso asettico e profumato.

Cercò di dormire. Ma i muscoli erano tesi come una corda di violino. Avrebbe voluto stendersi, ma il volto di Lucy gli turbinava davanti. Controllò l’orologio. Aspettò che il tempo scorresse come una patina collosa. Aprì la sacchetta che conteneva le pietre preziose e le esaminò. Poi depose i diamanti nella custodia. Qualcuno diceva che i gioielli fossero frammenti di stelle, ma non valevano nulla in confronto a Lucy. Mancavano tre ore all’appuntamento. Recuperò le forze e scacciò i cedimenti.

Quando entrò nella palazzina dei Servizi, il parcheggio era vuoto e gli uffici erano all’oscuro. L’adrenalina era alle stelle. Mostrò il tesserino alla Security. Le luci al neon illuminavano il corridoio vuoto. Prese l’ascensore in un silenzio spettrale. Al piano sotterraneo utilizzò un posacenere a colonna per ostruire la porta dell’ascensore. Accelerò il o, evitando l’occhio delle telecamere. Fece scorrere il badge e aprì la porta del dipartimento di informatica Era certo che il tenente Candida fosse coinvolto. Forse era complice di Ganci e si faceva stipendiare da Bonomi.

La fila dei cubicoli era deserta. Trasse un lungo respiro, entrò nella sala. Accese il computer più potente della palazzina. Inserì il dischetto nell’elaboratore. La curiosità lo divorava. Utilizzò un programma di decriptaggio. Accesso negato.

Fece diverse prove con i programmi elaborati dai migliori sistemisti italiani. La veniva calcolata con lunghi procedimenti alfanumerici. La zona segreta della memoria era chiusa, protetta da un programma-cancello che si chiamava pretty good privacy. Il sistema rispondeva “failed” a ogni tentativo.

All’ennesimo fallimento si arrese. Correva il rischio di distruggere il contenuto dei file. Il “cancello” si apriva con un unico mazzo di chiavi: un codice conosciuto dal suo estensore e dal sistema che lo aveva prodotto. Ricorse al programma che aveva in dotazione l’FBI. Era stato spedito a Roma dagli uffici di Quantico. Attese dieci minuti, mentre sullo schermo comparivano numeri e lettere. Gli esperti dell’FBI avevano costretto le multinazionali produttrici di

software, come Microsoft, a rivelare i codici sorgenti “per motivi di sicurezza nazionale”. Ufficialmente le aziende produttrici avevano dichiarato che l’inviolabilità dei sistemi era il loro valore aggiunto e se fosse emerso che erano penetrabili sarebbe stata la loro fine commerciale. Sotto banco collaborarono e fornirono gli algoritmi su cui si basavano i codici sorgenti. Da cui veniva fuori quello specialissimo mazzo di chiavi per varcare il cancello.

L’immagine sullo schermo si bloccò. Il programma del Bureau bucò il pretty good privacy. Apriti Sesamo. Il file comparve come per magia.

Davide digitò l’esecuzione della stampa e cominciò a dare un’occhiata alla documentazione. Gli bastò poco tempo per capire che il file era una minaccia per il potere politico ed economico del paese. Rappresentava la fogna a cielo aperto delle istituzioni.

18 luglio–3 agosto 1994 Roma, Versilia, Trapani

Si deve rivelare metà del segreto per tener nascosto il resto.

Ph. Dormer Stanhope IV, conte di Chesterfield

51.

La sera in cui negli spogliatoi del Rose Bowl Giuseppe Baresi si preparava a tornare in campo, dopo l’intervento al menisco, a distanza di migliaia di chilometri, a Roma, il Barracuda si era recato nel suo ufficio in via del Pellegrino e aveva convocato i suoi avvocati. La procura gli aveva notificato un avviso di garanzia.

Leo aveva insistito per essere presente. Voleva rendersi conto delle nuove accuse piombate sul padre dopo la scarcerazione, anche se lo staff legale aveva contrastato con decisione le tesi propugnate dal pm toscano, ribattezzato il Di Pietro di Lucca. Ma era solo l’inizio, e sollevato il coperchio sarebbero venute fuori grane di tutti i tipi dal pentolone dei lavori pubblici. Leo si trovava nella sala riunione della Toscana Calcestruzzo, società che si occupava di edilizia e movimento terra, e mordeva il labbro per l’irritazione. Il padre si era fatto pallido, come se il sangue stesse defluendo. Il magistrato, inflessibile e ben documentato, asseriva che Franco aveva finanziato un ministro socialista per ottenere lavori di ristrutturazione del porto di Civitavecchia, e questo costituiva un reato. Franco opponeva una protesta sdegnata che suonava offensiva per il magistrato. Leo credeva che le cose si stessero mettendo male.

Quando il magistrato e i carabinieri se ne andarono, il Barracuda aveva smarrito tutta la sua sicurezza. La sua linea di difesa gli suonava incomprensibile. «Io non ho commesso nessun reato», seguitava a ripetere.

«Papà, lascia parlare i tuoi avvocati!», intervenne Leo.

«Signor Abeti, in questo caso non ci saranno provvedimenti di custodia cautelare. Non ha nulla da temere».

Le orbite di Franco si erano fatte più profonde e le membra illanguidivano in un biancore sepolcrale. «Avevate detto così anche prima, e mi sono fatto diversi giorni di carcere!», ribatté. Cercò di alzarsi e fare forza puntando la mano sulla scrivania, ma cadde dalla sedia, stramazzando a terra. Leo, spaventato, capì che si trattava di un infarto e chiamò subito il dottore.

Un’ora dopo, arrivò Paloma. Leo abbracciò la brasiliana e, per la seconda volta in pochi giorni, ricevette sul petto le sue calde lacrime. Il medico stava visitando Franco nella stanza adiacente e non voleva nessuno tra i piedi.

«Come è successo?», domandò Paloma apprensiva.

«Il cuore non ha retto alle emozioni della giornata».

Leo tacque senza sapere che dire, nell’immobilità della stanza. Accarezzò i capelli della mulatta. Paloma si districò dall’abbraccio e restò muta, gli occhi che brillavano nel viso olivastro. Guardava prima Leo e poi la porta chiusa dietro la quale c’era Franco. Si fissarono imbarazzati.

I minuti scorrevano nell’attesa del responso medico. A loro toccava sempre di vedersi in orribili circostanze, quando parlare era inutile. Tra i due corse un flusso di rimpianti. Gli sguardi saettarono una corrente di possibilità. O forse era solo l’immaginazione di Leo a fargli percepire un magnetismo che li univa. Paloma diede un colpo di tosse e accavallò le gambe tornite. Poi sentì l’eco di una risata. Forzata e vuota, proveniente dalla camera attigua. La voce del dottore

si perse in un mormorio asciutto.

Leo alzò le spalle, per dire che non sapeva cosa stava succedendo. Paloma si precipitò dentro e sgranò gli occhi.

Sdraiato sul letto, con una flebo al braccio, il Barracuda sorrideva sornione come un personaggio delle fiabe. «Mi davate per spacciato?».

«Mi hai fatto prendere tanta paura», disse Paloma tuffandosi tra le braccia di Franco.

Il dottore si congedò dopo aver rassicurato Leo sulle condizioni del padre e prescritto una sfilza di medicinali. Franco sembrava aver recuperato la sua tempra e il buonumore. «Niente di grave. Un malore eggero. Avrei bisogno di un controllo, di un check-up. Andrò da un cardiologo negli Stati Uniti a fare il tagliando, come una macchina dopo tanti chilometri».

«Ci penserò io ad annullare gli inviti alla festa», disse Leo risoluto.

«Niente affatto. La festa si farà. Io sto bene, e non vedo l’ora di far divertire la mia Paloma e dimostrare al mondo che le traversie legali non mi hanno intaccato».

«Papà, non mi sembra una buona idea. Che c’è da festeggiare? Un secondo avviso di garanzia e un principio di infarto!?».

«Ma sono libero, Leo. Libero! E ho voglia di stupire. Durante la detenzione ho avuto tempo per riflettere, e mi sono reso conto che la vita è breve e io non sono ancora arrivato ai traguardi che mi ero prefissato».

Leo distolse lo sguardo da Paloma, che si strofinava su Franco come una gattina in calore. L’atteggiamento della brasiliana lo stava irritando. In quel momento arrivò alle sue spalle l’autista.

«Oh, Luciano, meno male che sei arrivato. Accompagna mio figlio ai Parioli e dedicati alle ultime incombenze. Io voglio restare solo con Paloma».

Luciano era un uomo pragmatico, un simpatico maneggione che arrotondava il magro stipendio con traffici di ogni sorta e vantava amicizie nel sottobosco criminale e imprenditoriale. «Commendatore, ci pensiamo noi».

Luciano uscì dalla stanza, seguito da un nervoso Leo. Non gli diede il tempo di smaltire la rabbia. «Il tuo amico verrà alla festa?», sussurrò. La questione lo interessava più della salute del padrone.

«Sì, me l’ha confermato».

«Io mi sto dando da fare per racimolare una bella somma, mi sto esponendo con gente che conta. Spero di non fare figure di merda».

«Porterà i diamanti, Luciano, stai tranquillo».

Luciano coprì l’ascensore con la sua mole imponente. Già pregustava i guadagni che sarebbero entrati con l’acquisto delle pietre.

52.

Nei sotterranei della palazzina del SISDE, Davide sfogliava incredulo le carte che aveva stampato. Leggerle era come ricevere acqua gelida in piena faccia. Il contenuto del dischetto era il diario di Alberto Colaianni. I riferimenti del testo non lasciavano spazio a dubbi.

Il diario del giudice era stato cercato invano. Era diventato un oggetto misterioso, su cui si era esercitata la fantasia dei teorici della cospirazione. Un oggetto della cui esistenza in molti avevano iniziato a dubitare. Le ricerche erano cadute nell’oblio, dopo che i pubblici ministeri per quel furto avevano chiesto per tre volte l’archiviazione del procedimento “contro ignoti”.

Era descritta in maniera minuziosa l’ultima inchiesta della procura palermitana. Si facevano i nomi dei magistrati sul libro paga di Cosa Nostra. I giudici che davano una mano a Bonomi e quelli che aiutavano Riina. Si menzionavano funzionari dello Stato stipendiati dai clan. Colaianni aveva individuato conti off shore e transazioni opache.

I notabili della DC, del PSI e del PCI, i tangentocrati che vigilavano sull’equità delle ripartizioni, detentori del potere governativo impegolati in attività finanziarie in contrasto con gli interessi dello Stato, segretari particolari di qualificati uomini di potere compiacenti e collusi con faccendieri e bancarottieri, assessori, sindaci, dirigenti di sezioni politiche, ministri e presidenti di regioni in odore di mafia. E poi procuratori generali, procuratori della Repubblica, magistrati di Corte d’Appello e di Tribunale, una schiera di giornalisti, docenti universitari, medici, liberi professionisti, geometri, impresari e magnati della finanza.

Davide aveva la nausea. Si domandò come si era potuti scendere così in basso. Leggendo il diario di Colaianni non poteva chiudere gli occhi e guardare il marcio che veniva verniciato come nuovo. Buoni comprati dai cattivi. Istituzioni snaturate e rovesciate di senso. La corruzione diventata sistema.

Seguitò a sfogliare. A pagina ventiquattro i rapporti tra mafia e imprenditoria. All’epoca in cui Colaianni aveva aperto il suo fascicolo, il Professore era un noto manager nell’edilizia e nella distribuzione alimentare nonché il Presidente di una squadra di calcio locale.

Tutto era cominciato con le prime estorsioni. Il Professore voleva pagare il pizzo ed entrare in affari con i suoi protettori. Aveva chiesto favori a Cosa Nostra. Voleva gestire il denaro pubblico. Appalti di lavori e controllo sui mercati alimentari. Aveva garantito alte percentuali di profitto ai soci occulti. Mandava picciotti a riscuotere crediti dai debitori. I finanziamenti da istituti di credito siciliani li aveva ottenuti grazie alla parola di uomini d’onore. Le cosche di Palermo, Messina e Caltanissetta si fidavano del Professore. Che diventò il loro consulente legale e mediatore economico. Il Professore si specializzò in riciclaggio di denaro e rifugi fiscali. Prestidigitazione finanziaria di immensi capitali.

Colaianni aveva raccolto le confessioni dei rappresentanti della vecchia e nuova mafia. Aveva persuaso i pentiti storici a parlare. I collaboratori di giustizia vuotavano il sacco, senza mettere a verbale. Colaianni aveva incrociato la mole di informazioni con le competenze dei suoi collaboratori. Era entrato nelle banche, nei conti correnti internazionali, nel meccanismo degli appalti, nei settori industriali, utilizzando intercettazioni e operando in modo autonomo. Aveva ricostruito il percorso di imprenditori “chiacchierati”, le frequentazioni pericolose, i picciotti assunti nelle aziende, l’articolazione delle imprese, i bilanci societari, i canali di comunicazione tra capitali leciti e illeciti, i rapporti tessuti come ragnatele.

Era arrivato dove nessuno era mai giunto. Aveva raccolto prove della collusione tra la mafia e l’economia nazionale. Era arrivato a Milano.

Le lobby affaristiche del Nord avevano ricevuto ingenti somme di denaro da Cosa Nostra e si erano riunite attorno a un cartello segreto.

Davide trovò tutto fedelmente appuntato, nero su bianco. Lo stomaco gli era diventato di pietra. Veleni e immondizia della peggiore specie. Mano a mano che leggeva, cresceva il senso di repulsione per il paese in cui viveva. Una nota del diario, a pagina cinquanta, forniva l’epigrafe del suo autore. Colaianni aveva scoperto l’esistenza dell’Anello. Un’organizzazione in cui anche Davide si era imbattuto. Una misteriosa entità, tra favola e realtà.

L’Anello è una confraternita di tipo iniziatico caratterizzata dal segreto rituale. Apparentemente lo scopo è perfezionare l’individuo, ma in realtà la sua unica finalità è accrescere le proprie ricchezze aiutandosi l’un con l’altro nell’ambito delle rispettive disponibilità. I suoi affiliati condividono ideali di superiorità amorale e la credenza nella forza del gruppo e sono arrivati a costituire una rete clandestina, talvolta con il coinvolgimento in operazioni illegali. Ne fanno parte militari, professionisti, banchieri, prelati, imprenditori, mediatori finanziari, un tempo anche mafiosi di rango. Sospetto che l’Anello sia nato nel Dopoguerra con l’appoggio della Cia ed abbia avuto compito di ostacolare le sinistre e condizionare il sistema politico senza sovvertirlo. Oggi è costituito da una loggia più snella, che ha perso il rigido impianto gerarchico e ha sedi a Milano, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Trapani e una succursale a Berna. Sotto il paravento di antichi riti, domina la vita economica del paese e rappresenta un potente deterrente contro l’evoluzione civile, la voglia di trasformazione e progresso. Spesso ha impiegato la criminalità organizzata e ha diretto il consenso elettorale verso chi controllava le risorse locali, scendendo a patti con forze politiche trasversali.

L’ultima pagina del diario recava il colpo di grazia. Venti ore prima del grande botto che avrebbe squassato un’intera via di Palermo, Colaianni vergava a caldo. Era reduce da un incontro segreto tenuto al Viminale. La riunione sapeva di trabocchetto. Alte cariche dello Stato avevano rivelato al giudice delle minacce ricevute dalla mafia contro sindaci, ministri, personaggi dello spettacolo, ma anche contro gente comune, caserme di carabinieri, luoghi pubblici. Finora erano state minacce. Sarebbero presto diventati fatti di cronaca, cronaca nera. Occorreva sporcarsi le mani. Condurre una trattativa. Acquietare gli stragisti. Cosa Nostra voleva che il giudice si trasferisse a Roma e non mettesse piede in Sicilia. Era possibile accontentarli? I superiori di Colaianni chiesero un gesto distensivo come quello di starsene buono a Roma, rinunciando a scendere in Sicilia. Il magistrato aveva rifiutato e fatto saltare il banco. Aveva rivelato le sue scoperte e messo in chiaro che non sarebbe sceso a patti né con l’Anello né tanto meno con Cosa Nostra. Aveva minacciato di far conoscere al mondo intero dell’esistenza di una centrale occulta di potere. Aveva lasciato il ministero così agitato che al suo ritorno in auto si era due sigarette, una dopo l’altra, e le aveva messe in bocca contemporaneamente.

Davide collegò gli eventi e trasse le sue conclusioni. Colaianni era arrivato a una zona grigia, che faceva da cerniera tra Cosa Nostra e i piani alti. Aveva detto no ai potenti. Voleva far pubblicare la lista degli appartenenti all’Anello. Ecco perché era morto.

Davide sapeva di essere seduto su una polveriera. Era qualcosa cento, mille volte più grande di lui.

Infilò il dischetto nella valigia, mentre riandava costruendo nella testa gli accadimenti. Finalmente ogni tessera trovava il suo posto. Provò la sua teoria ripetendola mentalmente.

Mfekete parte dal Sud Africa e arriva negli uffici della Voc Service. Incontra Ganci e riceve il dischetto. Quanto valeva il diario di Colaianni sul mercato? Per quale cifra Ganci lo aveva ceduto? Questo lo ignorava. Andò avanti con la ricostruzione. Bonomi firma un assegno in bianco per uno strumento di ricatto così potente. Mfekete termina la transazione. Poi torna alla dogana, prende la droga e i diamanti stipati nei container e li nasconde nell’auto.

Davide uscì dal reparto col cuore che gli balzava nel petto. Mise da parte il posacenere a colonna che bloccava l’ascensore. Quando sentì il rumore di una porta che si schiudeva, non fece in tempo a infilarsi nell’ascensore. Cercò di nascondersi. Dall’oscurità uscì fuori il volto del tenente Candida. Sguardo freddo, muscoli all’erta, profilo scultoreo che si stagliava nel corridoio.

Davide balzò indietro per non farsi vedere. Uno scatto istintivo. Urtò l’impianto di estinzione e provocò la caduta dell’idrante.

Candida si diresse verso la sorgente del rumore. Davide fuggì imboccando la scala antincendio. Candida estrasse la pistola e si gettò al suo inseguimento.

Davide si ritrovò in un dedalo di corridoi. Percorse una decina di metri senza voltarsi. Tastò nella tasca la sua Smith & Wesson. In uno scontro a fuoco sarebbe uscito con le ossa rotte. Avrebbe preferito non usarla.

Si fermò in un cubicolo. Si attaccò alla parete sperando che Candida fe un altro tragitto. Si appiattì sotto una scrivania. Aveva l’udito fine. Sentiva il rumore dei suoi i e il suo respiro perfettamente regolare.

Candida giocava al gatto col topo. Il confronto era impari. Un esperto di difesa

personale, di tecniche di disarmo e guardia del corpo, un professionista del tiro rapido, contro un ingegnere informatico che non aveva nessuna esperienza militare.

«Davide sei tu? Dove ti nascondi?».

Le parole risuonarono nell’ambiente. Davide alzò la testa dalla scrivania come se fosse stato punto da una scarica elettrica. Frugò sul tavolo. Nel portapenne, un tagliacarte. Lo strinse fino a sanguinare. Adesso Candida era vicino. Molto vicino.

«Voglio solo parlare con te...».

Schizzò fuori dal nascondiglio. A tu per tu con Candida.

Novanta chili di muscoli. Pettorali. Testa. Faccia. La mandibola di Davide scricchiolò nell’urto. Agitò il tagliacarte. Mulinò l’arma nell’aria ma non trovò il suo avversario. Gli centrò il cranio col palmo della mano.

Candida lasciò cadere la sua bifilare. Era intontito. Il colpo che d’istinto il tenente portò era fiacco, ma per Davide ebbe la forza d’urto di un caterpillar.

Incassò e si costrinse a non mollare il taglia carta. Si diede uno slancio e lo trafisse. Doveva essere la scapola, o la clavicola. Il tenente lo guardò per la prima volta in faccia, con occhi attoniti, e cadde. Davide si sorprese per la sua freddezza d’esecuzione. Stava imparando in fretta. Raccolse la pistola del

tenente e scappò lasciando Candida steso sul pavimento.

Dopo qualche minuto, il tenente si era già rialzato. Con una smorfia di dolore estrasse il tagliacarte dalla propria schiena sanguinante.

53.

L’orologio diceva che entro due ore Davide sarebbe dovuto essere nei dintorni di Pisa. Per uscire dalla città prese strade secondarie divorando chilometri. Sull’autostrada Roma-Firenze la lancetta del tachimetro restò fissa a cento. Il motore dava l’impressione di essere vicino a squagliarsi. La vista si annebbiava. Il volante era diventato un terminale del suo corpo. Le mosche picchiavano sul parabrezza. A ogni curva i diamanti frusciavano accarezzandosi tra loro nel sacchetto.

Davide controllò i tremori. Aveva freddo, come se avesse immerso il cervello in una caraffa di acqua ghiacciata. Perché aveva avuto tanta paura di Candida? Era un uomo di Bonomi o era effetto della sua paranoia? Comunque sia, la cosa più prudente era mettere più chilometri possibile tra lui e Candida e recarsi all’incontro con i mafiosi. La consapevolezza dell’importanza del dischetto non migliorava la situazione. Avrebbe dovuto barattare la salvezza di Lucy con un segreto. Il diario di Colaianni.

Stava diventando isterico. Tutta la sofferenza accumulata lo fece crollare di schianto. Solo allora cominciò a piangere. Lunghi singhiozzi gli mozzavano il respiro. L’immagine del cadavere di Colaianni lo tormentava.

Si fermò in una piazzola di sosta facendo fischiare gli pneumatici. Spense il motore, stravolto. Restò con le mani sul volante, poi scese dalla vettura.

La eggiata sotto le stelle non portò benefici. Si sentiva sprofondare in una palude di stanchezza. La mente gli chiedeva di sfuggire alla realtà. Non voleva

fare i conti con l’Anello, Bonomi, Colaianni e Teresa. Spettri sulla sua strada. Non era un’esperienza nuova. Aveva già provato quella sensazione dopo l’attentato. Era stato assalito dal desiderio di scomparire, di non esistere più.

Henry si risvegliò in lui come un bambino capriccioso. La testa iniziò a ciondolare. Oh no, non ora... D’improvviso aveva la tremarella. Una fitta. Cadde a terra. Gli sembrava che il corpo fosse percorso da un esercito di formiche. Si rialzò, in preda all’astinenza. Afferrò la fiala di metadone. Rischiò di farla cadere. Ne ingurgitò il contenuto. Decise che doveva reagire e si asciugò gli occhi. Chiamò a raccolta le sue forze.

Risalì in auto, controllando l’orologio. Era una cosa stupida farsi massacrare, ma l’avrebbe fatto. Una cosa stupida ed eroica. Armò la Smith & Wesson. Contemplò la semiautomatica di Candida. Inserì i proiettili. Montò il caricatore e tirò il carrello. Era giunto al redde rationem. Solo contro tutti.

Lo squillo del cellulare lo fece trasalire. Sul display apparve il nome di Virginia. Buffo!, si era dimenticato di lei.

«Ti interessa ancora quell’informazione?», esordì la donna al telefono.

Davide ebbe un fremito nervoso. «Dimmi», disse, placando la sua emozione. Poteva immaginare Virginia alla sua postazione, con le cuffie alle orecchie e l’analisi delle celle telefoniche.

«Ho controllato l’ubicazione di quell’utenza, e...».

«Risparmiami i dettagli tecnici...».

«Beh, si dà il caso che quel cellulare nelle ultime ore non si è mosso da Gavinana».

«Non puoi essere più precisa».

«Mi dispiace, posso solo dirti il raggio di azione dell’apparecchio. Si è collegato a una cella telefonica a metà strada tra Pistoia e l’Abetone. Non sono in grado di restringere la localizzazione».

«Grazie lo stesso», mormorò Davide. Riattaccato, pensò che era vicino a piazzare il colpo vincente. Il suo volto si illuminò. Quel dato gli aveva ricordato qualcosa. Incrociandolo con un’altra informazione in suo possesso si sarebbe rivelato decisivo. Tra le scartoffie sulla Voc Service, aveva letto che la società di Bonomi aveva nelle sue disponibilità un bilocale dalle parti di Gavinana.

Allungò la mano sul sedile posteriore. Afferrò la cartella dei documenti e ne sparse il contenuto sulle ginocchia. Lesse per l’ennesima volta le scartoffie. Bingo. Si accese una lampadina. In via Illuminati c’era una delle sedi legali. Il posto perfetto per un interrogatorio in stile Bonomi. Era quello il carcere di Lucy!

Si immise sull’autostrada e schiacciò il pedale a tavoletta. Mancavano pochi minuti alle ventidue quando imboccò la deviazione per Pisa. Il sudore gli imperlava la fronte. Quella sera era ancora lunga. Forse non sarebbe finita mai.

54.

Lucy vedeva nero. Studiava le persone. Erano tutti armati. Avevano uno sguardo feroce. Non avrebbero mai rispettato un patto. Davide era stato ingenuo per dichiararsi disponibile a uno scambio.

Salvatore fece l’occhiolino all’uomo dal volto deforme. «Vacci piano con la ragazza. Deve conservarsi intera per la prossima mezz’ora».

Il grassone afferrò Lucy per i capelli. «Sentito signorina, siamo merce pregiata».

«Non mi fare male», protestò lei.

«Oddio che paura».

Salvatore distolse lo sguardo. «Prepariamoci a una degna accoglienza».

L’ispettore Pallante sollevò il telefono e avvisò qualcuno dall’altra parte della linea. Si sarebbero appostati almeno quattro cecchini sul luogo dell’appuntamento. Per non correre rischi.

Ora toccava a lui portare la ragazza sul posto. Aveva tutto il tempo per

organizzare la trappola.

Lucy fu scortata all’esterno. Una scalinata di ferro conduceva a un giardino. Sullo sfondo le colline grigie e un paese addormentato tra le montagne. A quell’ora della notte la temperatura si era abbassata. Lucy avvertì l’umidità entrarle nelle ossa e il vento soffiare sulle escoriazioni. Era ipersensibile. Annusava la disfatta. Pallante e Salvatore camminavano ai suoi lati.

L’ispettore salì sulla sua auto facendo posto al pitbull. Gli altri montarono sulla seconda vettura, una Golf verde smeraldo. Il grassone stava per mettere in moto quando un fascio di luce lo accecò.

Qualcosa gli fu addosso con tale velocità da non lasciare il tempo a una reazione. Bum! Una vettura lo aveva investito in pieno. Un frontale devastante.

Il ciccione finì con la testa sul tappetino. Nel contraccolpo Salvatore e l’uomo dal volto deformato sbatterono contro lo schienale. Anche Lucy fu scossa dall’urto. Un alone di luce inondò a giorno le silhouette nella Golf. Sembrava il proiettore di un teatro che illumina un palcoscenico.

Davide scese dall’auto ammaccata che aveva usato come testa di ariete. In mano una pistola, puntata dritta contro gli occupanti della Golf.

Salvatore non fiatò. Davide bussò al vetro dei finestrini con la pistola.

«Scende solo lei», ordinò con tono freddo.

Lucy smontò frastornata. In lei la sorpresa lasciò il posto alla gioia. Davide continuava a minacciare i mafiosi.

L’ispettore Pallante scese dalla seconda auto. «Che vuoi fare? Non essere ridicolo».

Davide fece un o in avanti e sollevò la pistola. Fu investito da una folata di profumo forte e muschiato. Inconfondibile. Il profumo dell’uomo che lo aveva torchiato nel furgone. La sorpresa durò qualche secondo. In un istante sfilò nella sua mente una reminescenza. Quel poliziotto, in Sicilia, era un agente di scorta. Pallante. «Io ti conosco», sussurrò Davide a mezza bocca.

L’ispettore guadagnò tempo mentre le sue dita sfioravano la semiautomatica di riserva nascosta dietro la schiena. «Ottima memoria. Sono l’agente che quel giorno ha chiesto a Teresa di essere sostituito».

«Ti eri dato malato, perché sapevi quello che sarebbe successo».

«Chiamiamola preveggenza».

Lucy valutava la situazione. Si riparò dietro Davide, mentre gli altri, a bordo dell’auto, si erano trasformati in statue di sale.

Pallante parlò con irritante insolenza. «Questa è un’operazione per la sicurezza

nazionale. Il dischetto è di importanza vitale per la difesa del paese. Quel paese che tu rappresenti, come me».

Davide agitava la pistola e la muoveva da Pallante alla seconda auto. Controllò con lo sguardo il gruppo criminale. Nello spazio di un respiro Pallante estrasse l’arma.

Davide mirò al corpo grosso. Un colpo a distanza ravvicinata. Uno solo.

Una fontana di sangue nero sgorgò dal petto dell’ispettore. Lucy emise una sorta di grido di guerra. Per la prima volta da quando era precipitato in quella folle avventura, Davide sentì scendere su di lui una strana calma. Quasi sovrumana. «Se ancora non vi è bastato ne ho anche per voi».

L’uomo dal volto deforme lo sfidò. «Perderai. E lo sai anche tu».

Lucy entrò svelta nell’auto. Davide tardò a seguirla. Scrutava uno a uno i volti degli uomini. Manovali del crimine. La sua mano si strinse attorno all’impugnatura della pistola. Nel luglio del ’92 aveva fatto cattiva guardia a Teresa e a un giudice onesto. Aveva permesso che una 127 imbottita di tritolo fosse collocata nel punto migliore. Adesso era faccia a faccia con gli stessi portatori di morte. Tra gli attentatori, uno, Lo Presti, se n’era già andato, e non per mano sua. Un altro, Pallante, aveva estinto il suo debito per sempre.

In quella strada male illuminata, il ciccione, Salvatore e l’uomo dal volto deformato stavano valutando la sua sveltezza nello sparare. Aspettavano tutti una sua disattenzione. Lo fissavano come pistoleri del Far West.

A un movimento dell’uomo, Davide reagì in maniera sproporzionata. Aprì la bocca di fuoco e scaricò due anni di rabbia e dolore, e tutti i colpi che aveva nel caricatore. Le carni furono bucate dai proiettili. I finestrini delle auto esplosero. Un parabrezza si polverizzò. Gli pneumatici si afflosciarono. La scocca e le lamiere delle macchine si strapparono come cartone.

Dopo aver fatto fuoco, Davide salì a bordo della vettura. Lucy partì a razzo. Lui dal lunotto posteriore teneva d’occhio la scena. Il silenzio e il buio tornarono alle sue spalle, mentre la Panda correva sulla strada. Era diventato un assassino. Avrebbe avuto tutto il tempo per pensarci. L’adrenalina gli scorreva nelle vene come un fiume impetuoso. La pistola scottava nella mano. La sparatoria gli aveva dato un’eccitazione che non conosceva. Un sottile compiacimento che lo atterriva: il piacere della rivincita.

«Tutto bene?», domandò a Lucy.

«Adesso sì».

«Ero appostato qui vicino quando ti ho vista uscire».

«Come hai fatto a scoprire questo posto?».

«È una storia lunga».

Aveva voglia di toccare Lucy, di baciarla. Per un attimo perse la nozione di quello che aveva attorno – dolore, morte, sofferenza, inganno, ingiustizia – e si trasferì con Lucy nel mare di Madeira. Le onde che lo cullavano. Poi tornò in sé. L’eccitazione scomparve e rinviò il momento degli abbracci.

«È solo qualche graffio», sussurrò lei. Aveva notato che Davide guardava i suoi lividi. «I diamanti?».

«Li venderemo stasera».

Lucy ritrovò il sorriso. Si massaggiò le labbra tumefatte. «Lo sai che prima mi hai spaventata. Avevi certi occhi, quando tenevi in mano quella pistola...».

Davide non rispose. Avrebbe voluto urlare, invece baciò le labbra contuse di Lucy. La sua donna.

55.

La terrazza di casa Abeti era fresca e profumata. Svettava sui Parioli regalando un panorama incantevole a quell’ora. Le luci si accendevano in lontananza come un presepe incorniciato dal verde. Il Barracuda si godeva la vista di Roma in compagnia di amici e nemici. Unitamente accorsi per festeggiare la sua scarcerazione.

Stravolto, Davide parcheggiò l’auto tra una lussuosa berlina e una appariscente coupé. Aveva controllato che nessuno lo seguisse. Alzò gli occhi verso l’imponente terrazza del superattico.

«È qui che ti aspetta?», chiese Lucy. Si era fermata a darsi una sistemata, per non dare troppo nell’occhio, ma aveva ancora l’aria sbattuta.

Davide annuì. Si rese conto che la ragazza tremava. La paranoia era ripresa e possedeva ogni movimento dei suoi muscoli.

I due scesero dall’auto e si guardarono intorno. Quando una comitiva di persone li superò, Davide portò istintivamente una mano alla tasca. La Smith & Wesson era lì. Bagnò il calcio dell’arma col sudore della mano.

Volti noti, di showgirl, presentatori, calciatori, attori televisivi, mischiati a prostitute slave e minorenni cocainomani correvano a grappoli verso il cancello. La musica arrivava smorzata. A mano a mano che Lucy e Davide si

avvicinavano, cresceva in loro il richiamo del pericolo. Dovevano rischiare. Una grossa somma e un alloggio alle isole Madeira rappresentavano l’unica uscita di sicurezza al termine di un percorso infernale.

Davide camminava al centro della strada. Un trucco che Rizzo gli aveva insegnato: allontanarsi dal muro e dalle auto in sosta, perché sarebbe stato più facile, in caso di un agguato, evitare le pallottole. Percorse l’asfalto, tastando la pistola per darsi sicurezza. Lucy gli indicò i gorilla che stazionavano davanti all’ingresso. Dall’occhiata che gli uomini della sicurezza sferrarono capirono che non dovevano essere molto presentabili. Bastò che Davide rilasciasse i nominativi contenuti nell’elenco degli invitati perché li fero are.

All’interno del superattico la musica spaccava i timpani. Nel salone un’orchestra eseguiva un pezzo in vetta alle classifiche. I vip avevano bevuto molto. Qualche coppia ballava The Summer is magic come se fosse un lento. Duecento decibel sparati da casse gigantesche. Intensità sopra la soglia del dolore. Davide cercava Leo con lo sguardo. Metteva a fuoco ogni faccia. Conoscendo l’amico, non sarebbe stato difficile trovarlo dietro un cespuglio con una cameriera. Dal repertorio Playahitty l’orchestra ò al pop di La Bouche. Sweet Dreams a trecento decibel. Tutte le escort in pista. Giucas Casella in un numero con Pamela Petrarolo. Un matto che tira il salmone affumicato addosso agli amici. Le uniche ragazze in pantaloni, due lesbiche. Un’orgia che si consuma tra la folla indifferente. Un ottantenne impegnato con due trans.

Lucy sentiva le orecchie che le fischiavano. Davide dovette ripeterle tre volte di aspettarlo vicino alla piscina. Lui sarebbe andato a cercare Leo. Si mischiò alla folla. Non voleva stare in mezzo alla gente. Sentiva che il calore umano non riusciva a raggiungerlo. Era estraneo alle falsità di un ambiente che non sapeva divertirsi. Venne preso dal disgusto. Afferrò un calice da un vassoio e si sforzò di sembrare a suo agio. Un gruppo di ubriache gli fecero cadere il bicchiere. I vetri calpestati dagli invitati. Nessuno si accorse di niente.

Salì le scale che portavano alla terrazza. Grande quanto un campo da tennis, ospitava un maxischermo su cui era proiettata la diretta di Italia-Brasile. Alcuni spettatori trattenevano il fiato seguendo le ultime fasi della partita, altri avano con disinteresse davanti al cartellone proiettando lunghe ombre.

Davide vide l’immagine sgranata di Sacchi che incitava i suoi giocatori. Poi sentì qualcuno che gli toccava la spalla e si voltò.

«Hai un aspetto che fa schifo», gli disse Leo. Indossava un completo estivo che cadeva perfettamente sul corpo abbronzato e muscoloso. Aveva un sorriso pieno di charme su cui brillavano denti luminosi.

«Luciano?».

«Ti aspetta nel bagno con i soldi. Tu hai portato le pietre?».

«Non sono venuto qui per godermi i festeggiamenti».

«Pensavo ti volessi unire a me...».

«Non vedo l’ora di cambiare latitudini».

«A proposito, queste sono le chiavi del mio villino alle Madeira. Io non potrò venire. Goditi il soggiorno al posto mio».

«Non ho parole».

«Ecco, non dire niente che è meglio. La parte del sentimentale ti viene male... E dai retta a me, tieniti da conto la tua ragazza. Merita qualcosa di più di quello che le può offrire questo paese».

«E tu che farai?».

«Non sai la novità? Mezz’ora fa ho deciso che siederò al consiglio di amministrazione della Toscana Calcestruzzi e prenderò il posto di mio padre».

«Stai scherzando? Tu che ti metti a fare il manager?».

«Mai stato più serio. Venderò le barche e metterò la testa a posto. Sono stanco di fare il ribelle. È giunta l’ora di dedicarsi agli affari di famiglia».

Davide notò che Leo aveva una faccia strana e guardava in continuazione verso una brasiliana che aveva visto nello yacht del padre. Anche la brasiliana restituiva uno sguardo birichino a Leo, mentre sedeva accanto al Barracuda.

Non ci stava capendo granché, ma aveva afferrato che non avrebbe mai più rivisto il Leo che conosceva. Abbracciò l’amico con intensità e gli sussurrò buona fortuna. Poi si diresse senza indugiare verso una rampa che conduceva a un sotterraneo. L’alloggio dei domestici.

In fondo al budello c’era la porticina di un bagno. Dietro la porta lo attendeva l’autista di Franco Abeti. Era un uomo di grossa stazza con una barba ispida e occhi svegli. Aveva una valigia di pelle. La mise sopra il lavandino e la aprì, senza preamboli.

«Questo è quello che sono riuscito a mettere insieme in così poco tempo».

Davide contò le mazzette da centomila soddisfatto.

L’uomo chiuse la valigia con uno sguardo diffidente. «Ora voglio vedere la merce. Leo mi ha parlato di pietre pure. Non faccio beneficenza».

Davide estrasse dalla tasca un sacchetto e lo aprì. I preziosi emanavano una luce color pesca che si rifletteva su ogni faccia del padiglione. Quando l’uomo esaminò i diamanti, la loro superficie diventò verde, e poi rossa, e poi di nuovo verde. Sembrava che i diamanti potessero coprire l’intero spettro dei colori

«Che ne pensi?».

«Uuh... – mormorò Luciano –. La fine del mondo. I miei finanziatori saranno contenti».

Tutto durò pochi minuti. In breve l’uomo concluse la trattativa, richiuse il sacchetto ed era già fuori dai bagni.

Davide restò a contare i soldi. Erano cento milioni. Nello spazio di così poco tempo la sua vita si era trasformata. Aveva recuperato Lucy, aveva ucciso un poliziotto e un secondo uomo, aveva detto addio al suo migliore amico e ora era pronto a volare a Madeira con la sua nuova ragazza. Sapeva che i diamanti valevano più dei cento milioni, ma non aveva alternative. Tirò il fiato, stava per uscire dal bagno quando un corpo solido si sferrò contro di lui. Rotolò a terra insieme al suo assalitore e imprecò contro il destino.

Adesso che aveva l’amore e i mezzi necessari per una latitanza dorata, un altro ostacolo si frapponeva ai suoi progetti. Mise a fuoco la persona con cui lottava con accanimento ferino sul pavimento del bagno. Era una donna.

Lei gli stava prendendo con forza il braccio ed esercitava una leva per spezzarglielo. Sara!

Davide lanciò un urlo di sofferenza, mentre Sara eseguiva una mossa di judo. Si curvò, ignorò il dolore, diede uno scatto di reni e si liberò di lei. Si avvitò su se stesso riportandosi in posizione di superiorità. Adesso lei era spalle sul pavimento gocciolante. Lui le fu sopra e premette il ginocchio sul suo braccio. Estrasse la pistola. Lei si divincolò come una biscia spedendo a terra la Smith & Wesson. Per fortuna l’arma aveva il percussore bloccato.

Davide agitò le mani a casaccio come un pugile suonato. Un pugno colpì Sara. L’acciaio della pistola scintillava sotto la lampada alogena, a poca distanza. Davide lasciò per un attimo la presa su Sara. Allungò la mano verso la pistola.

Fu preceduto di un soffio. Michele gli sferrò un calcio in piena faccia, facendogli volare via un dente. L’amico aveva il fiatone ed uno sguardo indemoniato.

«Alzati, stronzo».

Davide obbedì. Cercò di prendere tempo. «Michele non peggiorare la tua situazione. Siamo a una festa con più di cinquecento persone».

Sara si teneva il braccio indolenzito. Gli afferrò la testa, gliela mise nel water e tirò la catena.

«Guarda cos’ho trovato. Questa è piena di soldi», disse Michele alla moglie, portando la valigia.

«Possiamo avere molto di più». Sara congelò il marito con lo sguardo. Poi si rivolse a Davide, il cui collo teneva stretto in una morsa. «Dove hai messo i diamanti?», sbraitò.

«Li ho appena venduti. È tutto quello che hanno fruttato».

Michele gli sferrò un pugno in piena faccia.

Davide si leccò il sangue dal labbro. «Mi ero dimenticato che Leo aveva invitato anche voi due... È così che saluti gli amici?».

Michele era furioso. Sembrava che la parola “amici” avesse innescato una molla nella sua testa. «Risparmiami il discorso sull’amicizia. Non tu, che hai fottuto

mia moglie – si voltò verso Sara –. Perché voi due siete andati a letto, vero?».

Sara e Michele avevano ritrovato la loro unità di coppia, fondando un precario equilibrio sulla rapacità e la scalata sociale. Davide era in ginocchio davanti a loro, con la testa bagnata e le gambe molli. Avrebbe voluto alzarsi. Non voleva ritrovarsi nel bel mezzo di un litigio coniugale mentre si andava assottigliando la distanza che lo separava da Cosa Nostra. Trovava tutto incredibilmente ridicolo. Fissò l’uomo che era stato il suo compagno di liceo.

«Ti interessa ancora sapere se mi sono scopato Sara?».

Michele annuì. Voleva un chiarimento definitivo.

«Hai ragione: sono stato uno stronzo. Ho sbagliato. Lei si è fatta avanti, e io ho ceduto».

Michele si girò verso Sara. La voce era diventata commiserevole. «Hai visto? Lo sapevo. Sono un magnifico cornuto! Tu l’hai sempre negato!».

«Non è il momento. Quando saremo a casa ti spiegherò tutto. Ora questo pezzo di merda deve restituirci le cose che ci ha portato via!».

«Hai fatto tutto per... invidia?», protestò Davide.

«Non continuerò a prendermi cura del prossimo e a sezionare cadaveri per uno stipendio da fame. È arrivato il momento di pensare al sottoscritto. Anche Michele Franciosa ha diritto alla sua felicità».

«Santa miseria! Non devi raccontargli le tue motivazioni! – Sara gli scoccò un’occhiata di rimprovero –. È davvero tutto quello che hai ricavato?».

«È un bel gruzzolo. Prendetevi questa valigia e sparite».

Michele si infiammò. Strinse il pugno e picchiò sul bersaglio grosso, come un invasato. Adesso aveva cambiato idea. «Tu non dai ordini a nessuno!».

Michele guardò la mano, diventata bluastra, e represse il dolore. Sara era tornato a guardarlo come un inetto. Michele caricò. Colpì di nuovo, prendendo il muro e una parte della testa di Davide. Urlò, rischiando di farsi sentire all’esterno. «Io mi fidavo di te!».

«Abbassa la voce!», tentò di calmarlo la moglie.

Davide fece per rialzarsi. Tastò le mattonelle umide. Un vespaio gli ronzava nel cervello. Si appoggiò al water per non cadere. Ridacchiò, sentendo il sapore dolciastro del sangue. Voleva far perdere il controllo a Michele. Era l’unica speranza per uscirne vivo. «Lo sai come mi sono ripreso i diamanti?».

«Come?».

«Mi sono introdotto nel tuo casolare. E lì chi ti ho trovato?».

Stavolta fu Sara ad abbattersi come una furia contro Davide. Michele guardò allibito la moglie, che fino a un secondo prima cercava di calmarlo, precipitarsi addosso a Davide. Aveva gli occhi trasformati in caverne profonde e sferrava calci a vuoto. Il bagno era diventato troppo piccolo per loro tre.

«Cosa è successo, scusa?», domandò Michele che non ci stava capendo nulla.

Davide approfittò del momento in cui Sara riprendeva fiato. «Non l’hai capito che mi ha rimpiazzato col collega? Sei un cornuto, un patetico cornuto».

«Ivan?... No... Non posso crederci».

«Era per farlo stare zitto. Altrimenti ci avrebbe creato dei guai!».

«Insomma ti sei sacrificata. Quante scopate è costato il suo silenzio?».

«Guarda che aveva intuito che gli stavo nascondendo qualcosa».

«Sei una troia!».

Davide si leccò le ferite. Guardò con tristezza le parvenze di marito e moglie. Poi sentì il rumore di una porta che sbatteva e la musica che si affievoliva. Alzò la testa dal water pulendosi il viso e vide Lucy comparire con la pistola nelle mani. In un baleno la situazione si capovolse.

«Mi dispiace interrompere il quadretto familiare, ma noi abbiamo fretta».

Davide fu svelto a prendere la valigia piena di soldi. Sotto la minaccia dell’arma, Lucy fece entrare i due nel ripostiglio e chiuse a chiave.

Davide si allontanò in fretta senza degnarli di uno sguardo. Non sapeva se provare più pena o rabbia per loro.

Lasciarono la festa mentre nel maxischermo la partita dei Mondiali finiva ai rigori. Romario, il bomber carioca, sistemava la sfera tra i ciuffi di erba. Molti avventori si fermarono con un drink in mano e il fiato sospeso nella speranza che Pagliuca parasse in tuffo plastico.

Italia-Brasile: 0-1. L’imprecazione degli spettatori ne diede l’annuncio. Pagliuca aveva studiato i movimenti di Romario e si era tuffato, ma la sfera era partita come una pallottola di cuoio e si era infilata nella rete. Sotto di un goal.

«Stasera vi dovete divertire! Io sono tornato un uomo libero, e finalmente un governo amico sta facendo una legge giusta!», urlava Franco Abeti, accompagnato dal suo dottore personale. Era lì per controllare che il cuore funzionasse bene. Paloma rideva divertita e salutava Leo da lontano.

Il Professore arrivò da Montecitorio. Uno stuolo di segretarie, assistenti e portaborse lo seguiva con aria ferale. La folla si fece largo. Il Barracuda fece segno a Paloma e al dottore di lasciarlo solo.

«Ti faccio portare qualcosa da mangiare. Avrai una fame da lupo».

«Mi è ato l’appetito», sospirò il Professore, sedendogli accanto, mentre il maxischermo regalava le immagini dei rigori tirati dall’Italia e dal Brasile.

I due si davano del tu da quando il Professore era direttore della Sicilcassa di Caltanissetta e Franco Abeti chiedeva il credito per le sue imprese nella zona. La loro amicizia era continuata nel corso degli anni con la consulenza legale del Professore che evitò ad Abeti la bancarotta fraudolenta in un momento di crisi di liquidità. «Perché ’sta faccia? Non mi tenere sulla corda».

Il Professore emise un singulto da animale ferito. «Se l’Italia non supera il turno, avremo tutta l’attenzione della gente. Il decreto rischia di essere abrogato alla Camera».

«Ma scusa, e la maggioranza?».

«Non si aspettavano una rivolta. Una rivolta popolare. La Lega scassa la minchia, dicendo che i tangentisti devono andare in carcere. AN ha sposato la linea di un MSI pregovernativo. D’altronde che ti vuoi aspettare? Fino a pochi mesi fa i fascisti erano per la pena di morte. Si sono spaventati della reazione. I loro elettori vogliono punizioni esemplari. E così i miei esimi colleghi fanno finta di non sapere e minacciano di buttare al cesso il decreto. Un teatrino deplorevole. Sono schifato da questa politica».

Franco cominciò a seguire la partita con una nuova energia. Concentrò tutta la sua attenzione sul maxischermo. Si morse il labbro. Sapeva che per i brasiliani tutto era in vendita, a eccezione di una finale dei Mondiali.

«Dai che vinciamo, porca puttana», mormorò Franco.

Gli azzurri stavano per calciare l’ultimo rigore a disposizione per agguantare il Brasile. Baggio sistemò la palla sul dischetto e prese la rincorsa. Diede uno sguardo al portiere. Tirò di piatto.

Trenta centimetri sopra la traversa. Il Brasile gioì. Le immagini dei giocatori italiani in lacrime fecero il giro del mondo, mentre i brasiliani dedicarono il loro trionfo ad Ayrton Senna.

56.

Si fermarono a un bar aperto di notte, frequentato da una fauna equivoca. Avevano bisogno di scuotersi di dosso la stanchezza. Sedettero a un tavolo barando sui loro stessi pensieri. Si trattava di una reazione ritardata. Dopo l’iniziale euforia, nonostante avessero cento milioni in una valigia e le chiavi di una fantastica casa non si dissero nulla. Una consapevolezza si stava facendo strada. Erano salvi. Ma fino a quando?

Avevano capito che la Grande Storia scorre sotterranea. Le vere battaglie che agitano il Palazzo si combattono con sotterfugi, ricatti, compromessi, accordi con la malavita, desideri espressi da un potente che ano per i fatti. Insondabili movimenti, vibrazioni non intaccano la superficie. Avevano il diario di Colaianni. Sapevano dell’Anello. Avevano visto in faccia gli uomini di Bonomi. Avevano fatto crepare un ispettore di polizia.

Erano compromessi. Dannati. Giunti al termine del loro cammino.

Non erano più due persone che si amavano. Erano diventati due obiettivi. Fecero lo sforzo di immaginarsi alle isole Madeira. Avrebbero soggiornato in una casa coloniale al centro della città di Funchal. Si aggrapparono al sogno. Videro mentalmente quello che sarebbe successo. Avrebbero trascorso la mattina a prendere il sole in spiaggia. Chiedendo di essere dimenticati. Ogni tanto avrebbero sfogliato i quotidiani sorridendo amari.

Il cameriere interruppe il loro film mentale. «Cosa vi porto?».

I due si svegliarono dal loro sogno a occhi aperti. Ordinarono un caffè terminando un silenzio che durava ore. «Devo andare a prendere i nostri documenti contraffatti», disse Davide.

Lucy annuì. Aprì la valigia sotto il tavolo e ricontrollò i soldi. Cento milioni. Davide scolò il caffè e si alzò. Aveva le movenze di un pugile suonato.

I battiti cardiaci gli tornarono regolari quando entrò nel Condominio. Ritirò i aporti. Erano già pronti. Perfetti.

La segretaria scivolò alle sue spalle in silenzio. «A cosa le serve cambiare identità?».

Davide mise i documenti di Lucy sotto i suoi. «Ne ho già parlato col dottor Rizzo», esclamò lui.

La segretaria aveva un’aria affranta. Non si era truccata quella mattina, e questo accentuava i segni dell’età. «Rizzo sarà a Roma in mattinata. Ha convocato un appuntamento con lei nel pomeriggio, alle sedici».

«Non mancherò», farfugliò Davide. Il capitano era la sola persona che poteva sbrogliare la matassa. Ma non disponeva di molto tempo, perché la macchina di Cosa Nostra si sarebbe organizzata in fretta per colpirlo.

La segretaria deglutì triste. Sembrava che stesse aspettando una parola di Davide. Lo fissò e poi parlò con la voce strozzata. «Non ha saputo quello che è successo?».

«No».

«Il tenente Candida...», sibilò lei.

Davide ebbe un brivido. Aveva ferito il tenente la sera prima. Forse era stato denunciato per aggressione.

La segretaria constatò che Davide non ne sapeva niente e andò avanti.

«È morto un’ora fa, in un incidente stradale. Un’auto lo ha falciato. Stava rientrando a casa, dai suoi figli».

«Rincasava... alle sette del mattino?».

«L’intera squadra è al lutto. Abbiamo perso uno dei colleghi più valorosi».

«Non le sembra strano che siano morti due colleghi, in pochi giorni?», si lasciò sfuggire Davide.

«Cosa intende dire?».

«Niente... ».

Davide sospirò, mettendo via i aporti. Poi si volse verso la segretaria. «Non sapevo che Candida avesse dei figli».

«Uno di quattro e l’altro di sei anni», spiegò addolorata la donna.

Spaventato dall’ecatombe inarrestabile, Davide raggiunse Lucy alla stazione Termini e le affidò il compito di acquistare i biglietti aerei, con il nome falso del aporto.

Roma-Madeira. Il primo volo disponibile. Solo andata.

Avrebbe venduto cara la pelle. Si era risolto a procedere in modo irrituale. La sua garanzia di sopravvivenza era minacciare di far uscire il diario. Chiamare in causa un notaio. Una persona estranea al suo ambiente: un civile. Con i rischi che questa scelta avrebbe comportato. Rizzo non avrebbe compreso. Ma stavolta voleva fare a modo suo.

57.

Dopo essere uscito dallo studio notarile, Davide rivolse a Lucy uno sguardo fiducioso. Salì in macchina emozionato. Pregava in cuor suo che nessuno l’avesse seguito. Mancavano tre ore alla partenza. Ogni gesto si caricava di una tensione schiacciante.Guidò in silenzio fino all’Aventino. La sua ultima tappa.

«Non ci metterò molto», disse a Lucy.

«Che devi fare?», gli chiese lei.

«È un appuntamento a cui vado... con un ritardo di due anni».

Una lunga esitazione davanti al citofono. Suonò. Flussi di adrenalina lo attraversavano come scosse elettriche di decine di milliampere. Aprì le narici e schiuse il diaframma come se dovesse nutrire per l’ultima volta ogni cellula nervosa del corpo, disse chi era al citofono ed entrò.

L’appartamento era di solennità borghese. Tappeti persiani, credenze in legno scuro, argenteria d’epoca, mobili coloniali, tutto di gusto raffinato.

Davide attese che la domestica filippina chiamasse la padrona di casa.

«Si accomodi. La signora arriva subito».

«Preferisco restare in piedi, grazie».

Osservò le foto che costellavano le pareti. Raffiguravano tutte Alberto Colaianni. A ventidue anni il giorno della laurea. In gita alle isole Lipari, quando poteva andare in vacanza senza scorta. Alla presentazione del libro di un mafiologo. Insieme alla sorella al suo concorso di uditore.

Il corridoio era ancora vuoto. Davide osservò meglio il ritratto del giudice che sorrideva orgoglioso. Picchiettava le dita su un mobile del Nepal. Stava facendo la cosa giusta? Si tranquillizzò. Chi meglio di quella donna? Chi altro se non lei?

Ada Colaianni lo accolse con uno sguardo sospettoso. Una figura snella e spigolosa, con occhi fieri, nerissimi.

«Salve. A cosa devo questa visita?».

Le mostrò il tesserino del Sisde sotto un sorriso conciliante. «Ho lavorato in Sicilia negli anni in cui suo fratello era nella Procura. Mi sono imbattuto recentemente in un’indagine sulla mafia. Mi chiedevo se non poteva aiutarmi».

Ada lesse il cognome sul tesserino e cercò di fare mente locale. «Bazzichi. Non mi sembra di avere mai sentito il suo nome».

«Lavoravo nell’ombra. Sono – si corresse –, ero un tecnico delle intercettazioni».

Ada stava cercando di inquadrarlo. D’istinto il visitatore probabilmente le piaceva. Altrimenti l’avrebbe fatto scaraventare a pedate fuori di casa.

«Insomma spiava».

Davide era stanco della parte che altri gli avevano assegnato. Si trovava in quella casa per rinnegare il vecchio copione e inaugurare una vita senza coperture. «Spiavo anche lei quel giorno. Sapevo che c’era stata una richiesta formale di tenere sgombro il piazzale davanti casa sua, ma quella richiesta non era stata presa in considerazione. Io ero appostato a cento metri dal suo appartamento. Altri colleghi avevano una base lì vicino. Ma nessuno ha visto parcheggiare la macchina imbottita di tritolo. Un agente della scorta, Pallante, ha saputo della visita di Colaianni e ha venduto l’informazione. Quando è saltata l’autobomba, è scoppiato il caos. Ma non è stato allora che è stata rubata l’agenda elettronica di suo fratello. Il furto è avvenuto poco dopo, compiuto da un mio collega. È stata un’operazione concertata, compiuta da professionisti».

La donna prese tempo. Ricollegò la faccenda dello spionaggio ai consigli di Alberto di tenere le tapparelle chiuse alle finestre, come se qualcuno da fuori potesse vederli. Decise che quell’uomo era attendibile. «Perché mi sta raccontando queste cose? Quella era un’altra epoca. Adesso non interessa a nessuno. Si è aperta una nuova era. Viviamo in un’altra Italia. La nazione ha cambiato pelle. È lontanissima da quegli anni. E Alberto è stato dimenticato da tutti. Ecco perché oggi ho deciso di non andare alla sua commemorazione. Per non sentire parole false e stringere le mani di tanti traditori».

«Io non ho dimenticato Colaianni. Un giudice coraggioso e trasparente. Sono qui

per dirle questo. Come me, molti lo ricordano ancora».

Ada studiò i suoi occhi sinceri. Sapeva che l’esercizio della legge era come la tela di un ragno: le mosche grosse la sfondavano, e solo le piccole restavano impigliate. «Lei sembra bene informato sulla strage. E ho l’impressione che voglia dirmi qualcosa di più».

«Voglio essere franco. Non posso dirle nient’altro perché metterebbe a repentaglio la sua incolumità. E se le succedesse qualcosa mi sentirei responsabile».

«Mi sono trasferita a Roma perché non ce la facevo a vivere nella città dove mio fratello ha trovato una morte tanto orribile. Di certo non per paura di fare la sua fine. Dopo che Alberto è scomparso ho ricevuto minacce, intimidazioni, lettere anonime, ma non mi sono spaventata. Ho tenuto convegni, conferenze, rilasciato interviste, partecipato a manifestazioni antimafia. Ho sempre detto ad alta voce quello che pensavo, che l’uccisione di Alberto è stata decisa a tavolino per impedirgli di accusare la classe dirigente di rapporti con le cosche».

«La scongiuro di tacere, di non andare avanti con le sue denunce. Lei non immagina cosa si nasconda dietro questa vicenda. E io non voglio che muoia come suo fratello».

«Può stare tranquillo. Non mi temono così tanto. Si limitano ad avvertimenti. Per me le alte sfere non sprecherebbero un grammo di tritolo. I tempi sono cambiati, gliel’ho detto. Adesso i metodi sono più raffinati. Basta semplicemente che i telegiornali parlino di altro, che le mie parole non arrivino sul video o, nella peggiore delle ipotesi, che una mia intervista finisca tagliata al momento giusto, per dare spazio alla pubblicità. Democrazia, la chiamano».

«Voglio evitare un suo coinvolgimento diretto. Le basti sapere che sono entrato in possesso del diario di Alberto. Ci sono appunti e note. Nomi, fatti, conti bancari. Riferimenti a una struttura occulta che domina la vita nazionale. Con queste carte si metterebbe in ginocchio il paese, ma ci si può fare anche molto male. Per questo non posso consegnarle. Però la avviso. Se mi dovesse succedere qualcosa, la prima persona che riceverà il diario sarà lei. Successivamente, le testate “La Stampa”, “Corriere della Sera”, “Il Messaggero” e “l’Unità”. Ho dato incarico a un notaio di eseguire le mie volontà».

Il volto di Ada si illuminò. arono diversi secondi perché si riprendesse dalla sorpresa. L’unica parola che riuscì a farfugliare fu un sommesso “grazie”. La sua mano calda gli accarezzò la guancia. «Stia attento», aggiunse.

Davide stava per congedarsi, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Indicò una foto alla parete come avesse visto un fantasma. Prima non l’aveva notata.

«Questi... questi – balbettò – chi sono?».

Ada prese la fotografia. Ritraeva Alberto e, sullo sfondo, tre uomini che sorridevano con fare intimo. Indicò il più anziano. Una figura alta e snella, in borghese.

«Lui accompagnava spesso Alberto. Perché?».

«Conosce le altre persone? L’uomo col volto deforme, e l’altro, quello che lo abbraccia, Matteo Ganci?», domandò Davide turbato.

Ada seguitava a non capire. «No. Dovrei?».

La fotografia immortalava Ganci e l’uomo dal volto deforme in compagnia di una figura che Davide ben conosceva. Per lui l’impatto con quell’immagine ebbe la forza di un tir lanciato a folle velocità.

58.

Il Boeing 767 atterrò all’aeroporto di Fiumicino alle nove in punto. Rizzo era tra i eggeri del volo Milano-Roma. Si liberò della cintura e sgranchì i piedi.

Si massaggiò le gambe, mentre il bimotore frenava sulla pista. I sedili della business class erano spaziosi. Ciononostante, quando si alzò avvertì una pigra stanchezza nelle membra.

L’Operazione Reset, coperta da segreto di Stato, lo aveva fiaccato. Nella 24ore, dove prima c’erano le carte compromettenti, adesso c’era un giocattolo acquistato per il nipote. Un pupazzo di gomma, dentro una scatola decorata con illustrazioni di Dragon Ball. Il nipote andava matto per Goku, il protagonista del cartone. Lui non approvava. I cartoni sono strisce di mondi capaci di penetrare nella mente bombardandola con immagini di distruzione, aveva provato ad argomentare in tono apocalittico. Ma non aveva voce in capitolo sull’educazione del bimbo, lo vedeva talmente poco che si accontentava di viziarlo portandogli costosi regali da ogni parte del mondo.

Scendendo dalla scaletta dell’aereo gli si andavano annunciando fastidiosi doloretti agli arti. “Non sono più tanto giovane”, si disse mentre prendeva la scala mobile. Negli ultimi giorni aveva scarpinato avanti e indietro. Aveva messo insieme un dossier sulla morte di Colaianni, l’ascesa del Professore, l’esistenza dell’Anello, le minacce della mafia. Aveva raccolto tutte le testimonianze e le informative possibili su Bonomi. Aveva raccomandato il massimo riserbo a chi gli aveva dato il materiale. Aveva garantito a rispettabili cittadini, zelanti funzionari dello Stato e onesti ufficiali delle forze dell’ordine che avrebbe informato il Viminale. Aveva costituito faldoni voluminosi e poi, con tutta quella carta, ci aveva fatto un bel falò.

Era rimasto a guardare le carte prendere fuoco e si era gustato il piccolo incendio ridendo di gusto insieme al Professore, il committente di quella raccolta di documenti. Ripensò alla fiducia incrollabile mostrata dal giudice Mondani. Ripensò all’ingenuità del maresciallo di Palermo. Il carabiniere si era augurato che la videocassetta finisse nelle mani giuste e il gruppo operativo fosse dotato di maggiori mezzi.

«Se lei parlasse con qualcuno a Roma – si era raccomandato – potrei avere tre uomini in più, un computer, una stampante, il terminale investigativo e radiotrasmittenti. Con maggiori mezzi conseguirei risultati importanti».

Non sapeva che presto sarebbe rimasto solo. Sarebbe stato redarguito dal superiore e costretto ad abbandonare l’indagine. La sua videocassetta e i suoi rapporti erano finiti in un cassonetto e la carriera del maresciallo stava appesa a un filo. Il suo caso sarebbe stato archiviato, su ferma insistenza del Professore.

Rizzo strinse il bavero della giacca. I segni incipienti della vecchiaia si facevano sentire. Cercò la sua auto nel parcheggio dell’aeroporto mentre trasportava il leggero bagaglio. Il senso di pesantezza sarebbe stato cancellato dalla soddisfazione di raggiungere l’obiettivo. Adesso che aveva tolto dalla circolazione elementi sui confratelli, restava il gran finale. Risolvere il pasticcio combinato da Davide. La morte di Pallante, certo, non semplificava il compito.

Trovò l’auto. Premette il telecomando dell’allarme. Quando aprì la portiera, due braccia lo scaraventarono nel sedile.

«Sono in anticipo?», domandò Davide. Al suo fianco c’era Lucy.

Salirono entrambi in auto. Davide al lato guida. Lucy di dietro, con una semiautomatica che puntò sulla nuca di Rizzo. «Stai fermo», gli sussurrò la ragazza. La voce tremava per l’angoscia. Forse erano le conseguenze del trattamento subito dai mafiosi.

Rizzo sorrise al suo pupillo. «Davide! Cos’è questa accoglienza?».

«Non prendermi per il culo. So tutto».

«In merito a cosa?».

«Due anni fa hai avvicinato un uomo dal volto deforme, un militare, e l’hai scritturato. Anche lui aveva la sua parte, per l’attentato a Palermo».

Davide si aspettava una reazione di Rizzo. Non vide stupore nei suoi occhi. Semplicemente rassegnazione e imbarazzo.

«Conoscevo quell’uomo, all’epoca dei fatti. Ma che significa?».

Era l’uomo sulle cui gambe da piccolo aveva giocato. Davide preferiva ricordarlo con meno segreti e con meno rughe, al fianco del padre. «Non sono così stupido come credi. Mi hai sottovalutato. Quanto ti ha dato l’Anello per far saltare in aria Colaianni? Perché sei stato tu il regista dell’operazione, vero? Quanto ti hanno pagato per uccidere cinque innocenti?».

«Non sono io che ho premuto il bottone».

Davide era profondamente deluso da quell’uomo verso cui aveva avuto una forma di soggezione e di cui adesso vedeva demolita la sua falsata immagine. Ma c’era qualcosa che gli sfuggiva e che andava assumendo un aspetto diverso. Trasformare un amico di famiglia in un demonio significava spiegare il suo ato in termini nuovi. Anticipò Sergio traendo le sue conclusioni. «Colaianni aveva scoperto la struttura dell’Anello. Sapeva che la loggia era scesa a patti con Cosa Nostra. Colletti bianchi e mafiosi stavano architettando un attacco frontale allo Stato per far crollare la Prima Repubblica. Per questo hai aiutato i mafiosi a uccidere Colaianni. Il giudice conosceva la lista degli iscritti e li avrebbe incriminati. Avrebbe intralciato i loro piani stragisti».

«Cerca di capire. Non si può dire di no all’Anello. È un onore farne parte. È semplicemente una società di mutuo soccorso, non ha fini cospirativi. Ma è formata da quelli che mandano avanti questo paese. Ho fatto sparire le tracce che avrebbero compromesso la loro reputazione. Sono persone rispettabili, che siedono nei consigli di amministrazione e nei posti chiave di industrie e istituzioni. Ho fatto quello che i principi dell’affiliazione mi imponevano. Ci sono ragioni che vanno al di là della morale, che rendono necessario collaborare con la mafia per salvaguardare i segreti vitali di uno Stato».

«Hai eseguito gli ordini di questi macellai. Hai avvertito Vito Lo Presti del percorso di Colaianni, che sarebbe andato a fare visita alla sorella, e forse gli hai anche procurato l’esplosivo. Poi hai mandato Ganci a recuperare il diario di Colaianni. E questa la chiami “società di mutuo soccorso”?».

Rizzo non rispose. Lui non aveva mai lavorato per Bonomi e per questo si autoassolveva. Lui era un anello di una catena più vasta, la rotella di un ingranaggio.

Davide riprese fiato. «Quell’uomo dal volto deforme, chi è?».

«Un mercenario, in vendita al miglior offerente. Fu ingaggiato da Cosa Nostra per la preparazione dell’attentato».

«E ora ha avuto il compito di riprendere il dischetto. È un volgare sicario. Ma non credo che sopravviverà con tre pallettoni in corpo».

Rizzo era pietrificato. Deglutì. «Non complicare la situazione. Mi rincresce. Non saremmo dovuti arrivare a questo».

«Io mi sono fidato, Sergio. Ho creduto in te».

«Apri gli occhi. Fanno tutti così. Arrotondano. Approfittano della posizione. Senza la copertura di una lobby non vai da nessuna parte. Anche tuo padre aveva le sue buone entrate. Non essere ingenuo».

«Mio padre è sempre stato una persona onesta».

«Era un affiliato. Ti stupiresti di sapere le cose che ha fatto, con quali soldi ha pagato la tua istruzione e le tue vacanze. Tu non eri della sua pasta. Lui se n’era accorto. O forse non voleva che ti sporcassi le mani. E mi ha fatto promettere che non ti avrei inserito nei quadri dell’Anello. Ho solo mantenuto fede alla promessa fatta ad un vecchio amico sul punto di morte».

Rizzo si aspettava una reazione istintiva. Quello che lo colpì fu lo sguardo di fermezza di Davide. Era cambiato. Non era lo sguardo che conosceva. Gli leggeva dentro qualcosa di oscuro e minaccioso. Intuiva che non si sarebbe fermato davanti a nulla.

«Inizia a raccontarmi il dopo. Parla», sibilò Davide. Strappò dalla mano di Lucy la pistola e premette la canna sulla testa dell’uomo.

Rizzo sapeva che chi ha ucciso due volte può farlo una terza con ancora meno scrupoli. Si decise a confessare. «Bonomi aveva compreso che volevamo sbarazzarci di lui e, dopo le bombe, non eravamo disposti a rispettare i patti. Voleva un’arma di ricatto. Ha corrotto Ganci chiedendogli il dischetto».

Rizzo fece una pausa, studiando la pistola che lo minacciava. Davide concluse: «Ganci l’ha rivenduto a Bonomi. Ma l’avete eliminato prima che fuggisse coi soldi. Il cerchio si è chiuso. E io e Lucy vi abbiamo fatto un favore, sottraendo il dischetto ai mafiosi».

«Bonomi ci sarà rimasto male nel perdere il suo strumento di pressione».

«E Candida? Che c’entrava? Perché vi siete liberati di lui?».

«Candida stava indagando sul diario da troppo tempo. Voleva vederci chiaro e per questo è stato eliminato».

Davide avrebbe voluto battere le mani al suo maestro. C’era caduto in pieno. Era stato una pedina, si era fatto ingannare tutto quel tempo, non aveva mai sospettato nulla. Aveva creduto che Candida fosse contro di lui, e invece era dalla sua parte. Che idiota! Poi si era tenuto il diario di Colaianni, facendo il gioco dell’Anello. «Io ti ammiravo, pensavo chissà quale coraggio avessi avuto ad arrestare tanti latitanti della mafia! Ma tu seguivi i fini dell’Anello».

«È una guerra tra bande. Dopo che il muro di Berlino è crollato, tutto si è ridotto a questo: una guerra tra fazioni, nell’anarchia generale. Non è più una crociata contro i comunisti, ma una guerra di corporazioni. I Servizi sono una parte dell’ingranaggio. Cosa pensavi, che avremmo permesso che un pugno di mafiosi ricattasse la nostra classe dirigente?».

Rizzo pensava a una soluzione alternativa all’omicidio, ma non gliene veniva in mente nessuna. Il suo figlioccio doveva crepare. La sua fine era stata decretata da un pezzo. Aveva cercato di rimandarla, aveva pregato il Professore di risparmiarlo. Col suo atteggiamento Davide non sarebbe andato lontano.

«C’è ancora una cosa che non mi torna: la droga. Mi hai indotto tu all’assuefazione?».

«Te l’ho somministrata ogni giorno, mischiandola al cibo, senza che te ne accorgessi. E poi sei crollato entrando in astinenza». Gli occhi del funzionario erano lucidi. Mostravano un barlume di umanità. «Quando stavi dietro a Lo Presti, temevano che saresti arrivato alla verità. Mi avevano chiesto di toglierti di mezzo. Nessuno doveva sapere che tanta gente influente aveva finanziato la stagione delle bombe. Io suggerii un metodo meno cruento. Per risparmiarti la vita. Dissi ai membri della loggia che saresti potuto servire all’organizzazione. Un tossicodipendente è un elemento ricattabile e si può manipolare. Non avevo in mente un piano. Al tuo rientro avrei escogitato qualcosa. Volevo troppo bene a tuo padre per farti del male».

Lucy fece segno a Davide che il tempo era scaduto. Lui parlò con voce atona. «Prima che i tuoi padroni si facciano venire strane idee, sappi che se mi dovesse succedere qualcosa il contenuto del dischetto sarebbe reso noto».

«Se i giornali pubblicano il diario, succede il finimondo».

«È la mia assicurazione sulla vita».

«Stiamo entrando in conflitto, e di brutto. Questa è la mia ultima operazione. Poi sarò fuori. Devo chiudere la faccenda. Voglio godermi gli anni che mi restano, con una bella pensione».

«Te li godrai. Se lasci andare me e Lucy, noi non apriremo bocca con nessuno sull’Anello, sul diario e su tutto il resto».

«Come faccio a fidarmi? E se non rispetti l’accordo?».

«La mia parola è tutto quello che hai. Mi conosci, la manterrò».

Tre ore dopo Lucy era seduta nella sala d’attesa dell’aeroporto mentre un rigagnolo di sudore le scendeva dalla fronte. Si era cucita il sacchetto delle banconote nella giacca interna. I suoi occhi di ghiaccio scrutavano la folla che si accalcava agli imbarchi, temendo che da un momento all’altro spuntasse un mafioso o un agente dei Servizi. Sudava per la paura. Non era dispiaciuta di

lasciare l’Italia e non avrebbe versato una lacrima alla sua partenza. Quel paese non era il suo. Milano le aveva riservato amare delusioni. Verona le aveva insegnato la crudeltà. La provincia toscana le aveva impartito una buona dose di violenza e Roma terribili consapevolezze.

Per Davide era diverso. Tornò verso di lei porgendole il aporto. Adesso erano Susan Rush e sco Serzi. C’era da aspettare qualche minuto, il volo tardava. Si sedette accanto a lei e l’abbracciò.

Come tutte le persone che sedevano nella sala d’attesa, per un indefinibile automatismo Davide alzò gli occhi verso il televisore che pendeva da un braccio metallico. Le immagini lo catturarono. Lo spot della Barilla. Le gambe di Raffaella Carrà. La pubblicità del Mulino Bianco. E poi il telegiornale. La notizia di apertura: il Professore si era recato a Palermo, sul luogo dell’attentato, a portare il suo cordoglio. Era andato alla commemorazione della strage a rendere onore a un martire.

Davide ripensò alle parole di Ada Colaianni. Lo sguardo perso, sfiorò la spalla di Lucy. «Forse non ci ammazzeranno», mormorò triste.

Lucy giudicava immotivata la sua fiducia. Che voleva dire? Il contenuto del dischetto sarebbe stato la loro assicurazione sulla vita?

Davide aveva altro per la testa. Aveva dato la sua parola di uomo rassegnato. Si era comprato la libertà al prezzo del suo silenzio. C’era in lui un sentimento di repulsione per il padre e di odio per Rizzo, per il Professore, per quelli che erano scesi a patti con Cosa Nostra. Forse non era migliore di loro. Aveva accettato la ritirata senza l’onore delle armi. Ma almeno era vivo.

Indicò le numerose cariche istituzionali inquadrate dalla telecamera del tg. La sfilata di avvoltoi terminò e dietro di loro ricomparve il Professore. Era pronto a rilasciare un’intervista e una selva di teleobiettivi lo circondò. Denunciò l’assenza delle istituzioni e l’imbarbarimento della società. Si auspicò che cessasse l’occultamento della verità e che le nuove generazioni non dimenticassero quei tragici eventi del 1992.

Davide vide il Professore deporre una corona di fiori ed ebbe il voltastomaco. Poi sentì chiamare il volo Roma-Madeira e si riprese. Si alzò, mezzo stordito. Quando uscì dal gate, aveva la sensazione di avere camminato da sempre con una benda sugli occhi e di vedere per la prima volta la luce. Accecante, sconosciuta, portatrice di uno strano formicolio sulle pupille.

Sedette al posto che gli era stato assegnato e allacciò la cintura. Il comandante augurò ai eggeri un buon viaggio.

Titoli di coda

“Cosa nostra sta rinnovando il sogno di diventare padrona di un’ala dell’Italia. In tutto questo è aiutata dalla massoneria”, ha raccontato un pentito di mafia.

È stato questo il punto di partenza del mio romanzo. Mi sono chiesto: e se la mafia a partire dal ’92 avesse messo a segno i propri attentati d’accordo con una parte dello Stato?

Naturalmente la storia che avete letto è totalmente immaginaria e i suoi personaggi non sono mai esistiti. Ma per Ellroy «se hai abbastanza palle per dire posso riscrivere la storia come mi pare e piace, forse allora puoi farla franca». Cioè se intrecci vicende reali con la fantasia romanzesca, allora hai creato un racconto che rilegge il ato sotto una nuova luce e soprattutto non annoia i lettori.

La versione del romanzo che avete letto è aggiornata e rimaneggiata, nel contenuto e nello stile, rispetto al testo che vinse nel 2010 il premio Alberto Tedeschi. Ringrazio Marco Rosati per la fiducia che ha riposto in me e per la sua paziente opera di editing.

Chiunque volesse mettersi in contatto con l’autore può farlo attraverso il blog “colpidiscena”.

goWare <e-book> team

goWare è una startup costituita da autori, editor, redattori e sviluppatori che condividono la visione sul futuro delle nuove tecnologie e la ione per l’editoria. Raccogliere, selezionare e organizzare i contenuti allo scopo di renderli a portata di touch è la sfida quotidiana di goWare come casa editrice digitale. Operativamente goWare è costituita da due team: goWare team, che si occupa di concepire e sviluppare applicazioni per iPhone e iPad e goWare <e-book> team, specializzato in editoria digitale, creazione di ebook, consulenza e formazione in campo editoriale. Il goWare team è composto da Roberto Avanzi, Elisa Baglioni, Mariarosa Brizzi, Stefano Cipriani, Valeria Filippi, Mirella Francalanci, Patrizia Ghilardi, sco Guerri, Mario Mancini, Alessio Orlando, Lorenzo Puliti, Maria Concetta Ranieri.

Manifesto di goWare

Il contenuto in digitale è un’altra cosa

Pensiamo che i contenuti digitali siano differenti da quelli distribuiti attraverso i media tradizionali, diversi nel formato, nel design, nel pubblico che li fruisce. Lavoriamo per valorizzare questa diversità, curando nel dettaglio la realizzazione di ebook ed enhanced book pensati per un’esperienza di lettura autenticamente digitale.

“Sur the print experience”

Non c’è bisogno di tradurlo, le parole del team iBooks della Apple suonano come l’11° comandamento. La chiave è la generosità. Ci sono tanti piccoligrandi accorgimenti per migliorare la lettura dell’ebook. Per esempio non c’è più il vincolo della foliazione, si può essere generosi con l’interlinea, gli spazi, le paragrafature, i colori: la costipazione è finita, coloriamo le parole e arieggiamo la pagina! È il vero trionfo della volontà sulla necessità.

Abbasso il piombo!

Gli ebook di goWare sono progettati e realizzati per vivere in un ecosistema

digitale. Ci ispiriamo a Wikipedia: la lettura digitale ha bisogno di link per farci spaziare da un contesto a un altro. È inoltre sincopata: la cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo, viva il link. La partecipazione distratta non ci spaventa.

Il valore di un ebook non sta solo nel contenuto ma nella relazione

All’interno di un ecosistema digitale, il valore economico di un libro non sta più soltanto nella quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, quanto nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e i media sociali; lavoriamo su questa relazione in modo che diventi il veicolo per costruire il rapporto economico.

Siamo nomadi

Sia i nativi che gli immigrati digitali non sono per niente stanziali, sono nomadi, si spostano continuamente da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. I nostri contenuti sono pensati per spostarsi con loro.

Dillo subito, e con una narrazione possibilmente visuale

Curati, interessanti e veloci da leggere, gli ebook di goWare vanno al sodo e non contemplano solo il testo: la narrazione visuale e quella musicale sono parte integrante della progettazione.

Dove stiamo andando?

«Where we going man? I don’t know, but we gotta go» scrive Jack Kerouac in On the road. Il team di goWare ha sempre in mente queste parole da cui ha tratto anche parte del suo nome. Innumerevoli sono le incognite che gravano sul presente e sul futuro dell’editoria digitale: nessuno sa bene dove approderemo, per ora occorre andare e occorre sperimentare.

Salve, lettore globale

I nostri ebook sono rivolti ai lettori italiani esigenti che pensano globalmente, convinti che siamo tutti parte di un medesimo insieme economico, culturale se non ancora linguistico: il mondo. La rivoluzione digitale significa prima di tutto questo. Tutte le opinioni sono un patrimonio, meglio se differenti, ancor meglio se fuori dal coro.

Detto altrimenti...

... cioè con le parole della poetessa inglese Ruth Padel Di’ addio al potrebbe-esser-stato [...] vai perché sei vivo, perché stai morendo o sei, forse, già morto Vai perché devi.

goWare narrativa – Pesci Rossi

Dimmi la verità di Adam Rossi

Il Play è stato assassinato di Andrea Bertozzi

Le libertà di uno stronzo di Vincenzo Cappella

Non posso ospitare di Ernesto Giacomino

Ragione e pentimento di Sandra Faè

Boundless di Gianlorenzo Casini

Il Puzzle di Dio di Laura Costantini e Loredana Falcone

La scrittura del Dio di Tiziano Gabrieli

Carretera. Quattordici storie strada facendo di Maria Rosaria Pugliese

Ogni cosa al suo posto di Samuel Giorgi

Inter-Napoli. Delitto a Milano di Chiara del Vaglio

Voglio scrivere per Vanity Fair di Enna Travet

Il male relativo di Stefano Caso

Fantabestie di Emiliano Corrieri

Come uccidere la propria mamma, vecchia di Lucio Scarpone

L’armonia dell’acero di Vincenzo Cariello

Eroi esauriti di Davide Lisino

Vitamore Vitamorte di Danilo Angioletti

Il pallonaro di L.R. Carrino

Intrigo in Vaticano di Rosa Alberoni

Ladri di stelle di Marco Innocenti

Stoneman. L’uomo di pietra. Lo strano caso di Epis Epstein di Gordon Bloom

Altri ebook di goWare

e-mood | Stati d’animo del libro

e-mood - Numero 6 di AA.VV.

e-mood - Numero 5 di AA.VV.

mood - Numero 4 di AA.VV.

mood - Numero 3 di AA.VV.

mood - Numero 2 di AA.VV.

mood - Numero 1 di AA.VV.

mood - Numero 0 di AA.VV.

Istantanee | Oltre l’attualità

Ucraina, anatomia di un terremoto: Come la fragile politica estera dell'Unione Europea ha scatenato la Russia di Putin, svegliato Obama e la Nato e rafforzato il ruolo della Cina di Sergio Cantone e Orietta Moscatelli

Sonia Gandhi. L’italiana più potente del mondo di Manfredi Scannagatta

5 stelle lusso. #vinciamopoi di Manuele Testai

Marine Le Pen & Co. Populismi e neopopulismi in Europa di Guido Bolaffi e Giuseppe Terranova

Il seduttore. Matteo Renzi, da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi di Simona Poli e Massimo Vanni

Storybook. I primi dieci anni di Facebook di Lorenzo Mannella

Mao e me. Cento italiani in Cina (appresso a un ministro) di Ennio Greco

Le opposizioni russe. Pussy Riot, Khodorkovsky, Navalny, Guriev, Roizman. Tutti contro Putin di goWare <e-book> team

L’inverno di Monti di Giulio Sapelli

Nella crisi del capitalismo, dall’Italia al mondo di Giulio Sapelli

Declino. Dalla decadenza all’economia morale di Giulio Sapelli

Amen! Un grido inascoltato sulla crisi italiana di Giulio Sapelli

Chi comanda in Italia di Giulio Sapelli

Germania copia & incolla di Stefano Casertano

Narcomessico di Veronica Ronchi

Tragedia. Viaggio nella Grecia del default di Germano Maifreda

Piratenpartei. La crisi dei partiti tradizionali e la sfida della democrazia diretta di Ubaldo Villani-Lubelli

Mittelstand. L’arma segreta dei tedeschi di Danilo Zatta

Commons e comunità di Giulio Sapelli, Lorenzo Coccoli, Elinor Ostrom e altri

Gaza 2012: la battaglia d’Israele di Stefano Casertano

Election rain di Luigi Vergallo, Alessandra Vitali

L’elogio dei cretini. Brevi note sulla sconfitta dell’intelligenza di Kaiser

Soldi per niente? Tutte le forme di finanziamento dei partiti politici di Gaetano Farina

Brasile: la grande transizione. Dal boom economico ai grandi eventi sportivi di Eliano Rossi

Librai si salvi chi può di Andrea Lattanzi

Germania copia & incolla 2. Lavorare alla tedesca: riforme del lavoro e successo mondiale di Stefano Casertano, Laura Lucchini

Scacchiera africana. Cina e USA: strategie a confronto di Silvio Favari

Altro che primavere. Arabia, un mondo senza ordine di Giulio Sapelli

Benvenuti a Grillolandia. Come sarebbe l’Italia se Grillo e il Movimento 5 stelle avessero il 100% di Stefano Rizzato e Eliano Rossi

Matrimoni omosessuali. La marcia verso l’uguaglianza di Andrea Mollica e Caterina Varenna

L’arte di vincere. Il piccolo libro delle grandi strategie di Giovanni Scarpa

Cucina mania. Dire, fare, mangiare: dal vecchio testamento a oggi di sca Gissi

Enigma #merkel. In europa il potere è donna: Angela Merkel di Ubaldo VillaniLubelli

Tutta un’altra notizia. Spunti e strumenti per il giornalismo del domani di Valerio Bassan

La questione catalana. Independència? di Angelo Attanasio e Claudia Cucchiarato

La tesina di maturità. Istruzioni last minute scritte da chi sta dall’altra parte di Donatella Purger

Economia e Finanza | Tempi moderni

Antiriciclaggio: la necessità di legalità nel sistema finanziario di Gerardo Coppola

Banche & Vanghe di Davide M. De Crescenzi, Daniele Corsini

Vanghe & Banche di Davide M. De Crescenzi, Daniele Corsini

Il debito pubblico come non ve l’hanno mai raccontato di Bruno Amoroso

La magia della finanza tra demoni e angeli di Filippo Cavazzuti

Banche d’azzardo a cura di Alberto Zoratti

Europa: c’eravamo tanto amati. Il film della crisi europea nella crisi globale di Giovanni Ferri

Sviluppo e necessità di Sergio Carrà

In gara con le macchine. La tecnologia aiuta il lavoro? di Erik Bryonjolffson e Andrew McAfee

Les misérables. L’imprenditoria in Europa di Dario Andriolo, Riccardo Osti, Stefano Cipriani, Luke Johnson

Dialoghi sull’apocalisse | E altri cataclismi

Italia. Se la Merkel è Carlo V. Dalla resa di Milano al sacco di Roma. 1494-1527 e 1992-2013. Moro e Cuccia, Serenissima e Berlusconi, Clemente VII e Napolitano e altri parallelismi di Giulio Sapelli e Lodovico Festa

L’Italia che si uccide di Giulio Sapelli e Lodovico Festa

I cento giorni di Hollande di Giulio Sapelli e Lodovico Festa

Obama, l’America e il partito moderno di Giulio Sapelli e Lodovico Festa

goProf | Testi per professionisti

Le complicanze nella chirurgia urologica. Diagnosi terapia e prevenzione di Pier sco Bassi e Emilio Sacco

Un bosone per tutti | Il racconto della scienza

Bon Voyager. Andata senza ritorno: le missioni spaziali oltre l’universo conosciuto di Silvia Pedicelli

Atti della riunione preparatoria europea del terzo congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica – “Dal corpo dei malati al cuore della politica” di Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica

Lo zen del bosone di Higgs di Guido Cossu

un bosone da ginevra di Silvia Pedicelli, Pietro Cornelio

Pop corn | Corti di cinema

Family Life. La famiglia si racconta a cura di Daniela Previtali

Il quadro che visse due volte di Rossella Farinotti

Jacopo Caneva’s Tim Burton di Jacopo Caneva

Cinema & videogame. I bit che non ti ho detto di Fabio Secchi Frau, Andrea Spiga

Il decimo clandestino: Lina Wertmüller’s tribute to Giovannino Guareschi di Alan R. Perry

Jacopo Caneva’s Miyazaki. Hayao Miyazaki e lo studio Ghibli: un vento che scuote l’anime di Jacopo Caneva

Sulle orme della storia | Il presente a ritroso

Il potere in Italia di Giulio Sapelli

IlSapelli. Blog di una crisi 2004-2014 di Giulio Sapelli

L’attualità di Marx di Giulio Sapelli

I luoghi del delitto. Una mappa del giallo italiano contemporaneo di Barbara Pezzotti

Pasolini. Visioni e profezie tra presente e futuro a cura di Antonella Pierangeli

Tempi di scuola e tempi di vita di Dario Ragazzini

Scuola di confine di Elisa Gori

Deindustrializzazione. Una nuova era? di Luigi Vergallo

Costa concordia. Un caso di crisis communication di Maria Elena Gaglianese

Lo sguardo urbano di alì dagli occhi azzurri di Manuela Raganati

Bestseller italiani. Mezzo secolo di libri di successo (1900-1945) di Michele Giocondi

Digitalissimo | Nuovi media e tecnologie

Equilibri digitali. Le tecnologie per la trasparenza, gli spazi pubblici sul web e le battaglie libertarie degli attivisti digitali di Alberto Stornelli

Te la do io Wikipedia. Wikipediano in 60 minuti di sco Bini

Bitcoin. L’altra faccia della moneta di Giulia Arangüena, Simone Caroli, Luca

Nicoli, Massimiliano Rizzati e sco Chiari

Media digitali? Ci siamo! di goWare <e-book> team

E-publishing & ebook di goWare <e-book> team

Epub a layout fisso di Elizabeth Castro

Da InDesign 6 all’epub e Kindle di Elizabeth Castro con goWare <e-book> team

Read aloud epub per iBooks di Elizabeth Castro

Troglodata. Il futuro di internet visto dalle nostre caverne di Lorenzo Mannella

Audio e video nell’epub di Elizabeth Castro

Fair play | Sport & co.

Il Giro un giorno prima. Sulle strade del Giro del 150° dell’Unità d’Italia in cerca di ciò che i campioni non vedono di Alberto Fiorin

Il caso Ayrton Senna. Tutta la verità sul processo di Nicola Santoro

I nuovi padroni del calcio. Come gas e petrolio, oligarchi e sceicchi controllano l’economia e la finanza del gioco più bello di Alessandro Oliva

Ciclismo & doping. Armstrong: così fan tutti di Aldo Bernacchi

Tutti pazzi per Mario. Il fenomeno balotelli di Federico Bertone, Roberto Beccantini e Guido Bolaffi

Palloni bucati. Il flop del calcio italiano di Stefano Righi

Juve30 di Stefano Barbetta

Juventus. Il processo farsa di Mario Pasta e Mario Sironi

Una ione da 10. Dieci anni di Fiorentina con della valle, dalla C2 alla Champions di Enzo Susini

Juve 31. La Juventus di Agnelli-Conte vince il campionato di serie a e conquista il 31mo scudetto di campione d’Italia di Isidoro Trovato

Fiorentina come nel ’56. Il primo scudetto non si scorda mai di Raffaello Paloscia

Sulle strade del Mondiale di Ciclismo. Storia, curiosità e percorsi del Campionato del Mondo di Ciclismo dagli anni venti a Toscana 2013 di Enrico Pace, Angela T. Massucco, Emiliano Bacci

Mind the Step! | Viaggiare con intelligenza

Giappone di Paul Norbury

Turchia di Charlotte Mherson

Cina di Kathy Flower

Brasile di Anna Maria Scarparo

Marocco di Jillian York

Messico di Guy Mavor

Sudafrica di David Holt-Biddle

Argentina di Moira Pulino

Australia di Barry Penney

Italy di Charles Abbott

Tavola rotonda | Fiction tra amici

L’immobiliarista. Assassinio a Porto Cervo di Antonio Larcos

La pranoterapia: realtà vincente. Nelle mie mani la vita... di Sergio Freggia

La spada di Toledo di Roberto Stefanelli

L’ovale di Cassini di Maria Laura Platania

@mare – il profumo del gelsomino notturno di sca Cani

Ciuschidda di Maria Laura Platania

Libero di amare di Sergio Freggia

Zero negativo di Sirio Pucci

L’ultimo desiderio di Giulio di Elena Quintilia Tori Rubiano

Un uomo di nessuno di Sergio Freggia

Schegge nel vento di Luisella Grondona e Nicoletta Torre

Immaginàti | Ebook illustrati per iPad

Il Paese della farina e altre novelle di Simona Sardi

Ecco la cicogna di I.M.B. & Elio Cossu

Nella Firenze del Rinascimento con Leonardo di Renzo Rossi

Un viaggio nell’universo di Franco Pacini & Lara Albanese

Nella Londra dell’Ottocento con Dickens di Renzo Rossi & Alessandro Baldanzi

Nella Parigi del re sole con Molière di Renzo Rossi & Alessandro Baldanzi

Nella Venezia del Settecento con Goldoni di Renzo Rossi & Alessandro Baldanzi

Le nonne testi di Simona Sardi – illustrazioni di Rita Cardelli

Poesia | M’illumino di bit

Poems & profs di Flora Gelli

La lingua bastarda. 67 poesie di Lorenzomonfreg

Cassate | Divertimenti estremi

Cinquanta rasature di micia di E.L. Pussicat, Charles Trawn e Al Limite

AppebooK | Oltre l’ebook

Lessico medico di Pietro Benigno e Pietro Li Voti

Il Vangelo dello Spirito Santo in Giovanni Paolo II. Mille pensieri per il cuore dell’uomo di Salvatore Martinez

Meme | Collana di filosofia

La bellezza in Oriente. Introduzione all’estetica orientale di Roberto Terrosi

Per un reddito di cittadinanza. Perché dare soldi a Homer Simpson e ad altri fannulloni. di Corrado del Bò ed Emanuele Murra

Razionalità digitale. La fine dell’agire comunicativo. di Byung-Chul Han e Alessandro Grassi

Machiavellismo e ragion di Stato. La fortuna di Niccolò Machiavelli e de Il principe di Michel Senellart, a cura di Lorenzo Coccoli

Dignità animale. Profili e problemi di tutela giuridica nel diritto e nella

giurisprudenza di Tatiana Guarnier

Commons/beni comuni. Il dibattito internazionale a cura di Lorenzo Coccoli

Zampe come gambe. La questione dei diritti degli animali di Leonardo Caffo

Sentieri selvaggi | Il cinema è un’invenzione del futuro

Mirna. Diario di un film di Corso Salani

Wes Anderson. Moonrise cinema a cura di Pietro Masciullo

Sul dialogo. Prontuario per scrittori di cinema e di teatro, narrativa e televisione di Demetrio Salvi

Mario Bava il rosso segno dell’illusione a cura di Davide Di Giorgio

Dario Argento: l’amore e l’orrore a cura di Giacomo Calzoni

Cool Pop | In parole povere

Meglio un uovo oggi... I proverbi di Sardegna e Sicilia a cura di goWare <ebook> team

Meglio un uovo oggi... I proverbi di Umbria, Marche, Molise, Abruzzo e Lazio a cura di goWare <e-book> team

Meglio un uovo oggi... I proverbi della Campania a cura di goWare <e-book> team

Meglio un uovo oggi... I proverbi di Piemonte, Valle d'Aosta, Lombardia e Liguria a cura di goWare <e-book> team

Meglio un uovo oggi... I proverbi dell’Emilia Romagna a cura di goWare <ebook> team

Meglio un uovo oggi... I proverbi di Veneto, Friuli Venezia Giulia e TrentinoAlto Adige a cura di goWare <e-book> team

Meglio un uovo oggi... I proverbi di Puglia, Calabria e Basilicata a cura di goWare <e-book> team

Pamphlet | Per farla breve

Scenari scozzesi. Voci pro e contro l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito di sco Cancellato

La Repubblica di Machiavelli – Da Monti a Renzi. L’ultimo scorcio della Seconda Repubblica di Andrea Apollonio

Confessioni di un venditore di povertà. Solidarietà e aiuti umanitari ai tempi della crisi di sco Petrone

Per sempre il nostro numero 10 di Laura Montanari

Vomitando il Novecento di Edoardo Pisani

Agosto 2013. Niente sarà più come prima di Giulio Sapelli

Gutenberg il geek di Jeff Jarvis

Aria Nova | Blowin’ in the wind

Uno contro tutti. La sfida del Movimento 5 stelle (m5s) di Carlo Baccetti

Pills | Piccoli libri per stare meglio

Obesità. Conoscere, prevenire e combattere il sovrappeso e le sue malattie di Enrico Roccato, Roberta Carli, Maria Giannotti e Stefano Lucarelli

Curare con i numeri. La statistica in medicina, saper prescrivere sulla base dei dati di David Coletta

Si fa presto a dire insetto. La nuova era del cibo. Sulle nostre tavole qualcosa di nuovo seppur antico di Marco Ceriani

Tweet106 | Cum grano salis

106 tweet sull’ottimismo. Vivere meglio e migliorarsi a cura di Davide Da Dalt

106 tweet sull’ottimismo. L’umorismo come dieta dello spirito a cura di Davide Da Dalt

106 tweet sull’ottimismo. Il tempo che a a cura di Davide Da Dalt

106 tweet sull’ottimismo. Superare le preoccupazioni a cura di Davide Da Dalt

106 tweet sull’ottimismo. La saggezza di vivere a cura di Davide Da Dalt

L’ha detto un italiano di Guido Di Santo

106 tweet sul cioccolato di goWare <ebook> team

106 tweet da Mad Men ... La parola ai persuasori occulti di goWare <ebook> team

106 tweet sui cani ... Dalle celebrità di goWare <ebook> team

106 tweet sui gatti ... Dalle celebrità di goWare <ebook> team

106 tweet sul caffè ... Dalle celebrità di goWare <ebook> team

Noi animali | Un pianeta di uguali

L’avvento della filosofia antispecista. Ribaltamento del capitalismo e storie affini di Andrea Romeo

Schizofrenie mediatiche. Mucche felici e pazze nell’era del capitale di Andrea Romeo

La rete e la diffusione della cultura antispecista di Andrea Romeo e Ivonne Citarella

Lupus in fabula, vacca in mensa. La teriosfera di Andrea Romeo

Animal ludens. I giochi, gli uomini, gli animali di Andrea Romeo

Il terrore di Arthur Machen

Io & Asia. Storia di un cane che non voleva vivere di Luigi Polverini

Un’arte per l’altro. L’animale nella filosofia e nell’arte di Leonardo Caffo e Valentina Sonzogni

Compagni di viaggio. Dai diritti dell’uomo ai diritti dell’animale di Stefano Cagno

Guide d’autore | In viaggio con Cicerone

i notturni e inquieti sguardi. Viaggio per le vie e l’arte di Bologna di Maurizio Catassi

World zapping. Racconti di viaggio di Roberta Melchiorre e Fabio Bertino

Pisa raccontata da Diego Casali. Con uno scritto di Marco Malvaldi di Diego Casali

Stravaganze romane. Guida alla Roma da visitare senza orario né biglietto di Rinaldo Gennari

goWare ti regala

Stai parlando con me? 100 battute da film indimenticabili a cura di Stefano Cipriani

Discorsi sull’Europa. Dal manifesto di Ventotene al Trattato di Lisbona e alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo di Ubaldo Villani-Lubelli

106 master tweet dai grandi pensatori sulla cultura, l’esistenza, la politica, il pensiero e la società... debitamente commentati di Francisco Barros

Amori gratta e vinci di Eliselle

106 tweet da Nelson Mandela. Sulla libertà, l’uguaglianza, la leadership... liberamente rielaborati a cura di goWare <e-book> team

106 tweet da Steve Jobs sulla visione, il metodo, l’ambizione ... Liberamente rielaborati di goWare <e-book> team

I 10 brani da ascoltare almeno una volta nella vita di Jacopo Caneva

Meglio un uovo oggi... I proverbi della Toscana a cura di goWare <e-book> team

W l’Italia - le Costituzioni italiane di goWare <e-book> team

Mezzogiorno di fuoco. Duello all’ultimo spot di Oscar Bartoli