Good Evil - Il Bene Contro Il Male 2ve2p

Flavia Maria Macca

GOOD EVIL

Il bene contro il male

ThriLLer

GOOD EVIL Il bene contro il male

Autore: Flavia Maria Macca www.flaviamacca.it

Copyright © 2014 CIESSE Edizioni P.O. Box 51 – 35036 Montegrotto Terme (PD) [email protected] www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it

ISBN versione eBook 978-88-6660-129-6

I Edizione stampata nel mese di maggio 2014

Impostazione grafica e progetto copertina: © 2014 CIESSE Edizioni

Collana: Black & Yellow Editing a cura di: Irina Turcanu

PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

Al mio compagno di vita Roberto, con amore assoluto e infinito, per avermi ridato fiducia in me stessa, nella vita e nell’amore, per avermi reso una persona migliore e felice e a mamma e papà, con immenso affetto, per essermi vicini sempre e da sempre.

Tavola dei Contenuti (TOC)

PREMESSA CAPITOLO UNO CAPITOLO DUE CAPITOLO TRE CAPITOLO QUATTRO CAPITOLO CINQUE CAPITOLO SEI CAPITOLO SETTE CAPITOLO OTTO CAPITOLO NOVE CAPITOLO DIECI CAPITOLO UNDICI CAPITOLO DODICI CAPITOLO TREDICI CAPITOLO QUATTORDICI CAPITOLO QUINDICI CAPITOLO SEDICI CAPITOLO DICIASSETTE

CAPITOLO DICIOTTO CAPITOLO DICIANNOVE CAPITOLO VENTI CAPITOLO VENTUNO CAPITOLO VENTIDUE CAPITOLO VENTITRE CAPITOLO VENTIQUATTRO CAPITOLO VENTICINQUE CAPITOLO VENTISEI CAPITOLO VENTISETTE CAPITOLO VENTOTTO CAPITOLO VENTINOVE CAPITOLO TRENTA CAPITOLO TRENTUNO CAPITOLO TRENTADUE CAPITOLO TRENTATRE CAPITOLO TRENTAQUATTRO EPILOGO RINGRAZIAMENTI LA MASCHERA DI BELLEVILLE

PREMESSA

Simone aveva dormito poco, quella notte. Intorno alle due, aveva cominciato a scoprirsi, sentiva un caldo insopportabile. Dopo alcuni minuti, era stato costretto a coprirsi, scosso da brividi tremendi. I dolori che provava in tutto il corpo non gli davano tregua. Aveva provato a ingerire un analgesico, il quale però non aveva sortito alcun effetto. Aveva ato così tutta la notte, ora erano le otto di mattina, doveva recarsi al lavoro. Quel giorno aveva due impegni importanti, non poteva permettersi di assentarsi. Simone era una guida turistica con grande esperienza alle spalle. Aveva quarantacinque anni e svolgeva quel mestiere da vent’anni. Nella sua città, Torino, il lavoro non gli mancava di certo. I musei e i luoghi da esplorare erano tantissimi e i turisti, provenienti da tutto il mondo, seguivano con ione i suoi racconti, legati al ato e alla storia d’Italia. Quella mattina, alle dieci, aveva una visita guidata presso la Basilica di Superga, mentre la sera, alle venti e trenta, avrebbe prestato la sua opera negli storici sotterranei della città. Il tour serale durava circa tre ore, con partenza da Piazza Vittorio Veneto e prevedeva una visita a quindici metri sotto terra per esplorare le gallerie della Cittadella (museo di Pietro Micca), un rifugio antiaereo, le Regie ghiacciaie a Porta Palazzo e gli Infernotti dei palazzi barocchi della città. La città sotterranea garantiva un percorso di incredibile suggestione, Simone era entusiasta del suo attuale lavoro. Quella sera doveva accompagnare un gruppo di turisti si composto da una ventina di persone, sarebbe stato un lavoro impegnativo. A fatica, si alzò dal letto e si avviò verso il bagno, magari una doccia lo avrebbe aiutato a sentirsi meglio. La testa gli girava talmente vorticosamente che, per non cadere, dovette reggersi allo stipite della porta. Le gambe gli tremavano, ma cosa diavolo gli stava succedendo? Era da solo, a casa. La moglie Valentina era partita per il mare con le figlie Irene, di cinque anni, e Vanessa, di tre, un paio di giorni prima. Possedevano una casa a Loano, in Liguria, dove avrebbero trascorso tutto il mese di maggio, lui le avrebbe raggiunte nei giorni liberi. Appena riuscì a varcare la soglia del bagno, sentì un bisogno impellente di svuotare lo stomaco e lo fece, nella speranza di sentirsi un pochino meglio. Il periodo dell’influenza era ato, forse aveva mangiato qualcosa che gli aveva fatto male? Ritornò con la mente alla sera precedente, ricordava di aver cenato a

base di spaghetti al pomodoro e una bistecca, niente che potesse avergli fatto così male. Era esausto, le gambe non lo reggevano. Forse, l’idea di restare a casa non gli appariva più così malvagia. Non riusciva a stare in piedi, come poteva pensare di svolgere al meglio il proprio lavoro in quello stato? Decise di telefonare al suo medico di famiglia, il dottor Lamberti, forse poteva dargli qualche suggerimento o qualche delucidazione per spiegare quello strano malessere che lo tormentava da ore e che sembrava peggiorare di minuto in minuto. Inoltre, doveva avvisare la sua agenzia, in modo che avessero il tempo di trovare qualche collega libero che potesse sostituirlo per i tour di quel giorno. Uscì dal bagno per cercare il cellulare, doveva averlo lasciato sul comodino come faceva sempre quando Valentina era fuori casa con le bambine. Si sentiva sempre peggio, forse avrebbe fatto meglio a chiamare un’ambulanza. Non ebbe più il tempo di pensare a cosa fosse meglio fare. Prima di raggiungere il cellulare, con un rantolo, crollò a terra. Era sveglio, ma non riusciva più a muovere un solo muscolo del suo corpo. Provò un’orribile sensazione di soffocamento e di panico. Nessuno poteva aiutarlo, era solo e immobilizzato al suolo. Sentì il rumore della porta d’ingresso che si apriva. “Dio sia ringraziato!” pensò. “Forse Valentina è tornata a casa per qualche motivo e mi potrà aiutare.” Ben presto, però, vide sopra di sé un uomo che non conosceva. Indossava una mascherina bianca e lo scrutava con evidente interesse. Avrebbe voluto chiedergli aiuto, dirgli di chiamare subito un’ambulanza, ma non poteva parlare né muoversi. Poteva solo udire e vedere, non gli restava nessun’altra sensazione. Sentì i i di altri uomini che si avvicinavano. Due di loro, anch’essi muniti di mascherina bianca e guanti dello stesso colore, lo sollevarono da terra e lo trascinarono fuori di casa. Erano forse dei medici? Chi li aveva avvisati del suo malessere e poi, perché non parlavano? Con una sensazione di panico crescente, dopo un paio di minuti, si rese conto di essere stato rinchiuso all’interno del bagagliaio di un’auto. Ora era tutto buio, non poteva vedere niente e non sentiva più alcun rumore. Non sapeva neanche più se era vivo o morto, avrebbe dato qualsiasi cosa per urlare tutto il terrore che si stava impadronendo del suo essere. Pensò alle sue bambine, con l’assoluta consapevolezza che non le avrebbe mai più riviste.

CAPITOLO UNO

Alla “Tourist Sun” di Torino, Alessia Brunelli, direttrice quarantenne dell’agenzia, una donna dotata di grande fascino, camminava avanti e indietro nel suo ufficio. Erano le dieci ate e di Simone non aveva avuto alcuna notizia. L’avevano avvisata che il collega non si era presentato alla Basilica di Superga per il tour previsto per quella mattina. C’era qualcosa di strano, conosceva Simone da quasi vent’anni, avrebbe messo la mano sul fuoco sulla sua professionalità e correttezza. Se gli fosse successo un imprevisto, anche grave, non avrebbe mancato di avvisare l’agenzia, ne era certa. Pensò di chiamare Valentina, magari lei sapeva che fine avesse fatto il marito. Prese il suo cellulare e scorse tutta la rubrica, finché riuscì a trovare il numero che cercava. «Vale? Ciao, sono Alessia.» «Alessia! Che piacere sentirti! Come mai mi chiami a quest’ora? È successo qualcosa?» «Non so, Vale. Non vorrei spaventarti, ma stamani Simone non si è presentato al lavoro. Aveva in programma un tour con un gruppo di studenti, fissato alle dieci. Non si è visto e non ha chiamato, piuttosto strano, non trovi?» «Vuoi scherzare? Simone non mancherebbe a un appuntamento di lavoro per niente al mondo! Merda, temo che gli sia successo qualcosa! Hai provato a chiamarlo al cellulare?» «Certo, è la prima cosa che ho fatto, il telefono suona, ma lui non risponde.» «Alessia, chiama la polizia, fai in modo che vadano subito a casa mia a controllare, sono sicura che è successo qualcosa di grave. Io l’ho sentito ieri sera intorno alle ventidue, mi ha detto che si sentiva poco bene, che forse aveva un po’ d'influenza, ricordo di aver commentato che maggio non è certo il mese delle influenze e che forse era soltanto un po’ stanco. Che stupida che sono stata! Avrei dovuto consigliargli di andare a farsi dare una controllata al pronto soccorso!» «Ora non ti agitare, magari ci stiamo preoccupando per niente. Tu pensa alle

bambine, io indago e poi ti richiamo per farti sapere qualcosa, d’accordo?» «Va bene, grazie, Alessia. Mi raccomando, aspetto notizie!» La successiva mezz’ora fu molto impegnativa per Alessia. Aveva chiamato la polizia, aveva parlato con un ispettore, che senza tanti mezzi termini, le aveva detto che non poteva entrare con la forza nell’appartamento di un uomo, soltanto perché quest’ultimo non si era presentato al lavoro mezz’ora prima. Le aveva detto che, se entro quarantotto ore non avesse avuto notizie del collega, poteva sporgere regolare denuncia. Frustrata, Alessia aveva dovuto telefonare a Stefano Ubaldi, un collega che quel giorno era di riposo, per chiedergli di sostituire Simone per il tour a Superga e anche per il tour serale nella Torino sotterranea. Odiava dover chiedere un favore a Stefano. Al contrario di Simone, era un uomo scostante, dal carattere difficile e irascibile, la corteggiava inutilmente da anni e per questo lei non ci andava per niente d’accordo. Purtroppo, tutti gli altri dipendenti dell’agenzia erano impegnati, lei doveva occuparsi dell’agenzia e di Simone, non poteva essere lei stessa a condurre la visita guidata, pur essendone perfettamente in grado. Come aveva previsto, Stefano si mostrò molto seccato, con lei e anche con il povero Simone, accusandoli entrambi di scarsa professionalità. Naturalmente, alla fine fece cadere dall’alto la sua magnanimità, assicurando la sua presenza sul posto nel giro di mezz’ora, giusto per fare un piacere a lei, forse pensava di guadagnare qualche punto a suo favore. A lei questo diede molto fastidio, ma se non altro, un problema era risolto. Alessia si lasciò cadere sulla sedia, con la testa tra le mani, cercando freneticamente di capire cosa potesse essere successo a Simone. Pensò di chiamare tutti gli ospedali di Torino e provincia, magari si era davvero sentito male la sera precedente e aveva deciso di farsi controllare al pronto soccorso. Forse lo stavano visitando e non aveva modo di rispondere al cellulare. Certo, doveva essere andata proprio così. Iniziò il giro delle telefonate, purtroppo in nessun ospedale era ricoverato un uomo rispondente al nome di Simone Fermi. Sconsolata, si apprestò a chiamare Valentina, la donna era in attesa di notizie, qualcosa doveva pur dirle. Fu in quel momento che le venne in mente, come un flash, una frase che Simone aveva pronunciato la settimana precedente: «Ale, lascio un mazzo di chiavi di casa mia nel secondo cassetto della scrivania, è successo già un paio di volte di essermi chiuso la porta alle spalle dimenticandole sul tavolo della cucina e non ti dico poi la ramanzina di Valentina, che ha dovuto uscire dal lavoro per venirmi ad aprire la porta! Le

lascio dentro la scatola delle mentine, te lo dico almeno se dimenticherò dove le ho messe, me lo ricorderai tu!» Alessia aveva sorriso, la sbadataggine di Simone era nota a tutti quelli che lo conoscevano bene. Corse verso la scrivania del collega, che si trovava nel suo stesso ufficio, aprì il cassetto, trovò la scatola delle mentine, la aprì e dentro trovò il preziosissimo mazzo di chiavi. Chiamò subito Valentina, per chiederle l’autorizzazione a entrare a casa sua, la ottenne immediatamente. Ora, aveva un unico problema. Doveva trovare qualcuno che si occue dell’agenzia durante la sua assenza, quella mattina erano tutti impegnati. Ricordò che Anna, sua sorella, quel giorno era rimasta a casa dal lavoro, per accudire la figlioletta di cinque anni, affetta da rosolia e casa sua distava poche centinaia di metri dall’agenzia. La chiamò immediatamente al numero di telefono fisso. «Anna, grazie a Dio, sei a casa!» «Certo che sono a casa, dove dovrei essere? Ti sei forse dimenticata che Carlotta non sta bene e ho chiesto un paio di giorni di ferie per stare con lei?» «Certo che me lo ricordo, temevo fossi andata a fare la spesa o qualsiasi altra commissione!» «Si vede proprio che non hai figli, Ale. Non posso certo andarmene in giro e lasciarla a casa da sola!» «Certo, hai ragione, però io ho bisogno che tu venga subito in agenzia!» «Stai scherzando, non è vero? Ti ho appena detto…» «So quello che mi hai detto, Anna, ma si tratta di un’emergenza! Simone potrebbe essere in grave pericolo, ho l’assoluta necessità di andare a casa sua a controllare e non posso chiudere l’agenzia! Tu abiti a due isolati da qui, copri bene Carlotta e venite qua. Per favore, Anna, non te lo chiederei mai se non fosse importante!» «Simone? Cosa c’entra Simone?»

«Non posso spiegarti, adesso! Per favore, vesti la bambina e vieni qua subito, come sai in sala riunioni c’è il televisore, Carlotta starà benissimo, te lo giuro!» «E va bene! Riesci sempre ad averla vinta tu, è così da quando eravamo bambine!» «Sapevo di poter contare su di te! Fai presto, è importante, davvero!» Alessia approfittò dell’attesa per sbrigare alcune pratiche di lavoro. Aveva una serie di visite guidate da organizzare e aveva pochi giorni di tempo per farlo. Purtroppo quello che stava succedendo le toglieva la lucidità necessaria, così a un certo punto chiuse sconsolata il faldone che aveva aperto e lo ripose nello scaffale. Fu in quel momento che Anna fece irruzione nel suo ufficio, con Carlotta per mano. La bambina corse ad abbracciare la zia, sembrava stare benissimo. «Ma tu non eri malata?» chiese Alessia a Carlotta. «Sì, ma adesso sto molto meglio. Posso andare a guardare i cartoni animati?» «Ma certo, tesoro, ti accompagno io. Anna, siediti pure al mio posto, da qui potrai facilmente tenere d’occhio la bambina.» Quando Carlotta fu sistemata comodamente sul divano, Alessia tornò dalla sorella Anna. «Se viene qualcuno, tu devi soltanto dire che tornino domani e lo stesso farai a chi telefonerà, dirai che richiamino domani mattina. Io devo scappare, Anna.» «Aspetta un attimo! Prima devi spiegarmi che diavolo sta succedendo! Avrò diritto di saperlo, visto che mi sono fiondata fin qui con la bambina appresso non appena mi hai chiamata, no?» «Hai ragione, ma ora non ho proprio tempo. Ti spiegherò tutto al mio ritorno, te lo prometto.» «Quanto tempo starai via? E dove stai andando? Alessia! Alessia!» Alessia era già sulla porta, le sventolò una mano per salutarla e corse giù per le scale. Anna sbuffò sonoramente e si rassegnò. Se voleva sapere cosa era

successo a Simone, doveva necessariamente attendere il ritorno della sorella.

Alessia si era precipitata a bordo della sua Punto grigia, aveva messo in moto l’auto ed era partita per raggiungere l’abitazione di Simone. L’agenzia si trovava in pieno centro a Torino, Simone abitava a Nichelino, un paese nella prima cintura della città, in una piccola villetta indipendente. Le toccava attraversare tutta la città, erano le undici di mattina e il traffico era piuttosto intenso. Decise di utilizzare la tangenziale, sperava così di evitare lunghe code ai semafori. Mentalmente, si augurava che non fosse successo niente al collega, ma aveva il netto presentimento che non fosse così. E se fosse entrata in casa sua e l’avesse trovato riverso sul pavimento? Cosa avrebbe fatto? Lei era molto sensibile a questo genere di cose, avrebbe rischiato di svenire sul posto risultando di ben poco aiuto. Che stupida era stata! Non avrebbe dovuto recarsi all’appartamento di Simone da sola, avrebbe dovuto chiedere a qualcuno di accompagnarla! Già, ma a chi? Quella mattina sembrava che tutti fossero maledettamente impegnati! Accese l’autoradio, un po’ di musica le avrebbe tenuto compagnia e l’avrebbe aiutata a rilassarsi. Dopo un viaggio di circa mezz’ora che a lei sembrò durare in eterno, giunse di fronte alla villetta di Simone e Valentina. Pigiò il tasto di apertura del cancello che si aprì con un cigolio sinistro. “Accidenti”, pensò, “ci mancava solo questo rumore inquietante! Ma in che razza di guaio mi sto andando a cacciare? Io sono la direttrice di un’agenzia turistica, non sono certo adatta a fare l’investigatrice! Coraggio, Alessia, ora parcheggia l’auto, cerca di calmarti ed entra in casa. Non troverai nulla di strano, magari ieri sera Simone era da solo, ha bevuto troppo e non ha sentito la sveglia. Cerca di fermare il tremolio alle gambe e di risolvere questa faccenda!”. I propositi erano buoni, ma Alessia non riusciva a impedire al suo corpo di tremare come una foglia al vento. Fece non poca fatica a infilare la chiave nella toppa della porta d’ingresso, le cadde due volte il mazzo di chiavi dalle mani, talmente tremava. Finalmente, riuscì a entrare nell’appartamento. Il silenzio era totale, così come il buio, le persiane non erano state alzate e le luci erano tutte spente. Era stata a casa di Simone diverse volte, ricordava bene dove era posizionato l’interruttore della luce nell’ingresso e lo pigiò. La luce la investì

immediatamente e la fece sentire più a suo agio. «Simone?» urlò. «Sei in casa?» Non ottenne alcuna risposta. Sempre tremando, cominciò a ispezionare la casa. La cucina era deserta, così come la sala da pranzo e il salotto. Si avviò verso la camera da letto, anche qui non trovò nessuno. Il letto era sfatto, le pantofole dell’amico erano di fronte alla porta del bagno. Sul comodino notò un cellulare, stava per prenderlo, per controllare le chiamate effettuate e ricevute, quando si ricordò di quanto aveva appreso dai libri gialli che amava leggere e dai film polizieschi che riempivano la videoteca di casa sua. Avrebbe lasciato le impronte digitali, accidenti, le aveva già lasciate ovunque! Si rendeva conto di volare con la fantasia e di vedere misteri ovunque e non sapeva neanche se fosse successo davvero qualcosa a Simone! Entrò nel bagno e si allarmò. Il lavabo era sporco, così come il pavimento. C’era vomito ovunque, a stento riuscì a reprimere l’ondata di nausea che la investì immediatamente. Evidentemente, Simone era stato male, quella mattina. Il problema era capire dove si trovasse, adesso! Guardò ancora nella camera da letto delle bambine, era perfettamente in ordine, i letti erano intatti. Tornò in cucina e notò che anche qui era tutto al suo posto. Sapeva quanto Simone amasse il caffè, la prima cosa che faceva al mattino, appena sveglio, era proprio preparare la moka e quella mattina, evidentemente, non l’aveva fatto. Girò ancora per qualche minuto per le stanze della casa, senza notare nulla di strano. Uscì dall’abitazione e, con l’apposita chiave, aprì il garage. La Golf di Simone era regolarmente all’interno del box, la faccenda diventava sempre più misteriosa. Simone a casa non c’era, a quanto pare non si era allontanato a bordo della sua auto. Dove diavolo era finito? Era da escludere che avesse chiamato un’ambulanza per farsi accompagnare in ospedale, aveva già controllato e non risultava ricoverato da nessuna parte. A questo punto, doveva andare dai carabinieri, o alla polizia, stavolta avrebbero dovuto darle retta. Prima di tutto chiamò Valentina, per riferirle quello che aveva trovato in casa. La donna si mostrò subito molto preoccupata. «Torno immediatamente a Torino, Alessia. Non posso rimanere qui a Loano senza sapere cosa è successo a Simone. Non è da lui sparire in questo modo e, se stesse bene, avrebbe trovato la maniera di chiamarmi per non farmi preoccupare. È successo qualcosa di molto grave, a questo punto ne sono certa. È quasi ora di pranzo, preparo qualcosa da mangiare a Irene e Vanessa e poi mi metterò subito in viaggio. Nel pomeriggio sarò a Torino, lascerò le bambine da un’amica e ti raggiungerò in agenzia.»

«D’accordo, Vale. Mi raccomando, fai attenzione per strada! È un azzardo mettersi alla guida quando si è agitati come sei tu in questo momento. Sii prudente, ricordati che hai due bambine a bordo.» «Sarò prudente, stai tranquilla. Ora ti devo lasciare, voglio partire al più presto. Se ci sono novità, chiamami subito. E… Ale? Grazie per quello che hai fatto.» «Figurati, non ho fatto nulla! Ci vediamo più tardi, io chiudo tutto e torno in agenzia. Quando arriverai, decideremo cosa fare.»

CAPITOLO DUE

Non sapeva dove si trovasse, intorno a lui tutto era buio e silenzioso. Simone era in preda al terrore più profondo. Non avvertiva alcun dolore, era come se di lui fosse rimasto solo il cervello, tutto il resto non funzionava più. Aveva provato e riprovato più volte a muovere le braccia e le gambe e a parlare, ma tutti i suoi sforzi erano risultati vani. Di colpo, fu investito da un fascio di luce, qualcuno era entrato nel luogo dove si trovava e aveva la luce. Ora, finalmente, poteva vedere e sentiva delle voci. «Sembra stazionario, a quest’ora dovrebbe essersi già aggravato. Qualcosa non ha funzionato!» «Non essere sempre il solito pessimista! Probabilmente il virus ci mette più tempo di quanto avevamo previsto, ma funzionerà, vedrai.» «E se gli somministrassimo l’antivirus? Non vorrei che questo tizio ci lasciasse le penne e mandasse all’aria tutto il nostro piano!» «Rilassati, lo stiamo monitorando, se dovesse avere qualche problema ce ne accorgeremo subito. Il cuore funziona bene, come previsto. L’antivirus lo proveremo solo a tempo debito. Speriamo che funzioni, altrimenti la sacerdotessa non sarà affatto contenta. Era proprio questo qui che voleva, chissà perché!» «Non sono cazzi tuoi, limitati a fare il lavoro per il quale sei profumatamente pagato e non farti troppe domande. Adesso andiamo, il nostro amico ha bisogno di restare solo, non è vero?» disse l’uomo rivolto a Simone. «So che mi vedi e mi senti perfettamente, so anche che sei spaventato e che ti stai chiedendo che diavolo ti sta succedendo. Vorrei tanto rispondere a tutte queste domande, ma al momento non posso farlo. Riposati, presto avrai molto lavoro da fare, per noi. Tranquillo, non morirai, ci servi vivo.» Detto questo, gli uomini uscirono dalla stanza lasciando Simone solo e terrorizzato. Cercò febbrilmente di analizzare le poche informazioni che aveva recepito dai due uomini. Evidentemente, era stato rapito. Aveva contratto un

virus e quegli avevano a disposizione l’antidoto al virus stesso. Non sembrava lo volessero morto, serviva loro vivo, ma perché? Qual era il loro piano? Cosa volevano da lui? In fondo non era che una guida turistica! “Certe cose succedono solo nei libri e nei film, non nella vita reale” si diceva. Eppure tutto questo stava succedendo davvero e proprio a lui. Avrebbe voluto che anche il suo cervello smettesse di funzionare, aveva bisogno di riposare la mente, di lasciarsi andare, voleva porre fine a quel tormento senza fine. Pensò a Irene e Vanessa, le sue bambine. Questo pensiero lo aiutò a sopportare quel silenzio e quel buio che lo stavano facendo impazzire. Doveva resistere, presto avrebbe capito chi l’aveva rapito e perché.

Stefano Ubaldi, affascinante guida turistica di trentacinque anni, si trovava alla Basilica di Superga, un gioiello architettonico settecentesco, progettato da Filippo Juvarra, punto di riferimento per i turisti provenienti da tutte le regioni d’Italia e dall’estero. Quella mattina, doveva guidare un gruppo di studenti toscani che avrebbero avuto l’opportunità di visitare la cupola della basilica, le stanze dell’appartamento reale, la sala dei re e i sotterranei, dove si potevano ammirare le tombe reali dei Savoia. Quel giorno, doveva essere libero da impegni, invece non solo gli era toccato quel tour nel corso della mattinata, ma soprattutto era seccato di dover affrontare, quella sera, il tour nella Torino sotterranea con il gruppo dei si. Stefano non amava svolgere il suo lavoro nei meandri della terra, gli dava sempre un leggero senso di claustrofobia trovarsi là sotto. L’umidità gli entrava nelle ossa e provava sempre una sensazione di inspiegabile disagio. Oltretutto, avere a che fare con i turisti si non era mai semplice, erano molto esigenti, facevano un sacco di domande e Stefano non amava parlare se, seppure gli riuscisse talmente bene da sembrare quasi di madrelingua. Dentro di sé, malediva Simone per essersi volatilizzato, lasciandolo in quel guaio. Oltretutto, quella sera avrebbe dovuto cenare con Isabella, la sua nuova fiamma. Stefano e Simone non erano mai andati d’accordo. Le poche volte che era capitato loro di lavorare insieme, avevano sempre finito per litigare pesantemente. Questo dipendeva dai loro caratteri, totalmente diversi uno dall’altro. Simone era un uomo pacato e tranquillo, amava vivere in modo semplice, era corretto, leale, professionale e il tempo che non dedicava al suo

lavoro, lo dedicava alla sua famiglia. Stefano, invece, amava vivere in modo sregolato, cambiava donna come se cambiasse i calzini, amava la vita notturna e mondana, il lusso e le comodità. Soltanto professionalmente i due uomini si assomigliavano molto, erano entrambi preparatissimi e capaci nel loro lavoro. Stefano aveva effettuato studi storico-artistici presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Inoltre, era autodidatta. Amava consultare su internet tutti i siti a tema artistico, leggeva tantissimi libri storici ed era, per questi motivi, la guida turistica più preparata della Tourist Sun. Si trovava bene nell’agenzia, se non fosse stato per Alessia. Era l’unica donna che, nel corso della sua vita, aveva rifiutato di avere una relazione con lui. Per questo motivo, avrebbe potuto odiarla, invece, al contrario, il suo rifiuto la rendeva ai suoi occhi ancora più interessante e non avrebbe smesso di provarci con lei per nulla al mondo. Non l’aveva fatto neanche quando Alessia aveva frequentato altri uomini, lui non aveva mai desistito dal corteggiarla, anche a costo di essere mandato a quel paese, com’era spesso successo. La vita era davvero strana, poteva avere tutte le donne che voleva, tranne quella che gli interessava veramente.

Erano le diciassette e trenta quando Valentina raggiunse Alessia alla Tourist Sun. «Eccomi, Ale, ho fatto più in fretta possibile. Le bambine sono da una coppia di amici, le terranno a casa loro per tutto il tempo che sarà necessario, così mi potrò concentrare su Simone. Qualche novità?» «No, nessuna. Forse sarebbe il caso che andassi a casa tua, io ho avuto paura di toccare qualsiasi cosa, in fondo ero un’estranea in quell’appartamento, ma tu potresti controllare il cellulare di Simone, ispezionare la sua auto, controllare se manca qualcosa dagli armadi.» «È esattamente quello che contavo di fare, ma volevo chiederti di venire con me, non me la sento di entrare in quella casa da sola. Tu potresti liberarti subito?» «Purtroppo no. Stamattina mia sorella Anna mi ha sostituita per un paio d’ore, portandosi dietro Carlotta che non stava bene, non posso chiederle di tornare un’altra volta! Però tra mezz’ora dovrebbe rientrare Monica, magari posso chiedere a lei di rimanere fino all’ora di chiusura.» «Mi faresti un grande favore, so di averti chiesto già fin troppo oggi, ma sono veramente spaventata e preoccupata. Cosa gli sarà successo? Lo conosci bene

anche tu, non è certo tipo da sparire così senza avvisare nessuno! Intendo aspettare al massimo fino a domattina, poi se non riceverò sue notizie, andrò a denunciare la sua scomparsa alla polizia e, quanto è vero Iddio, dovranno darmi retta, dovessi fare venire giù l’intero commissariato!» «Sono d’accordo con te, la scomparsa di Simone è davvero anomala, a questo punto non ci resta che rivolgerci alle forze dell’ordine, nella speranza che si diano da fare per capire cosa gli sia successo.» Le due donne, nell’attesa di poter lasciare l’agenzia, bevvero un caffè, continuando a parlare di Simone, cercando di ricostruire tutto quello che era successo nei giorni precedenti, nella speranza di trovare una spiegazione per la sua misteriosa scomparsa.

Anna era a casa sua, seduta sul divano accanto a Carlotta. Era molto nervosa, si tormentava una ciocca di capelli e aveva le gambe che tremavano. Poco prima, in agenzia, Alessia le aveva raccontato della misteriosa scomparsa di Simone. Lei stessa si era preoccupata molto non sentendolo, quella mattina. Le telefonava sempre, quando Valentina non era a casa. Simone e Anna avevano una relazione che durava da ormai un paio d’anni, nonostante fossero entrambi sposati e avessero dei figli. La ione tra di loro era scoppiata come un incendio, nessuno dei due era stato capace di spegnere quel fuoco. Anna si sentiva in colpa per questo, nei confronti di suo marito Andrea e anche nei confronti di Valentina, tra l’altro sua ex compagna di università. Neanche Alessia era al corrente della sua relazione extra coniugale, questo perché, in fondo, Anna se ne vergognava. Andava contro a tutti i suoi principi e lo stesso valeva anche per Simone, lo sapeva perfettamente, eppure erano incapaci di reprimere quel sentimento che era nato tra di loro e che sembrava diventare, di mese in mese, sempre più forte. «Mamma! È la terza volta che te lo chiedo! Mi leggi la favola di Biancaneve?» «Oh, certo, tesoro, scusami, mi ero distratta un attimo. Certo che ti leggo la favola. Vai a prendere il libro sul tuo comodino, per piacere?» La piccola, entusiasta, corse verso la sua cameretta mentre Anna, sempre più preoccupata, sospirò e si augurò con tutto il cuore che Simone si fe vivo in qualche modo.

Alessia e Valentina erano giunte alla villetta di quest’ultima. Per prima cosa, diedero un’occhiata all’interno del garage. La Golf di Simone era sempre al suo posto, le due donne entrarono all’interno ed esaminarono il contenuto del cassettino del cruscotto, delle tasche laterali delle portiere, guardarono anche sotto i sedili. Niente. Non un indizio, non un biglietto che potesse dare loro qualche spiegazione circa la scomparsa di Simone. Quando entrarono nell’appartamento, Alessia rimase sconvolta. In bagno, non c’erano più tracce di vomito e il cellulare di Simone era sparito dal comodino. «Vale, te lo giuro! Stamattina il bagno era sporco e il cellulare di tuo marito era sul comodino, non mi posso sbagliare! Avevo persino pensato di controllare le chiamate in entrata e in uscita, come già ti ho spiegato stamane, non l’ho fatto per non lasciare impronte dappertutto e anche per non violare la privacy di Simone! Qualcuno è stato qui, non ci sono dubbi!» Valentina sembrava sconvolta dalle parole di Alessia. «Mio Dio, Alessia, ti rendi conto di quello che significa tutto questo? Qualcuno è entrato in casa mia, ha toccato le mie cose e sicuramente ha fatto del male a Simone! Dobbiamo andare alla polizia, subito! Non posso aspettare domattina, dovranno venire a fare dei controlli, ci deve pur essere qualche impronta del aggio di queste persone, giusto? Coraggio, andiamo, non c’è un minuto da perdere!»

Era sera, Stefano si trovava al Santuario della Consolata, prima tappa del tour nella Torino sotterranea. Stava narrando ai turisti la storia della chiesa e di tutte le peripezie architettoniche che aveva subito nel corso degli anni. Avrebbe condotto il gruppo nei suoi sotterranei, dove sono custoditi alcuni reperti storici. La tappa successiva sarebbe stata al Duomo, avrebbe dovuto spiegarne la nascita sulle fondamenta di tre chiese abbattute proprio per fargli spazio, li avrebbe poi condotti negli scantinati tramite il Museo Diocesano, dove si potevano osservare antiche mura e alcune parti pavimentate con mosaici originali. L’ultima tappa, sarebbe stata al rifugio antiaereo in piazza Risorgimento, risalente alla seconda guerra mondiale, un posto molto umido dove in ato centinaia di persone si erano ammassate per sfuggire ai bombardamenti. Aveva sperato per tutto il

giorno che Alessia lo chiamasse, che gli dicesse che Simone era tornato alla base e si sarebbe occupato lui di quel tour. Purtroppo la telefonata non era arrivata, lui aveva dovuto disdire il suo appuntamento con Isabella, una bionda mozzafiato con le gambe lunghe due metri con la quale usciva da un paio di settimane. Soltanto il giorno precedente aveva pensato a quella serata tutta a base di sesso e follie, non avrebbe certo pensato di trascorrerla negli umidi anfratti di Torino. Fu proprio nel rifugio antiaereo che Stefano notò, con stupore, degli strani segni impressi sui muri con un pennarello. Era da un po’ che non si occupava di quel tour, ma avrebbe giurato che quei segni non ci fossero mai stati. Alcuni turisti si gli chiesero cosa significassero quegli strani simboli. Stefano non rispose, anche se li conosceva benissimo. Erano dei simboli geomantici. Chi diavolo li aveva impressi su quei muri e perché? E, soprattutto, chi aveva potuto avere accesso a quei luoghi?

CAPITOLO TRE

Alle venti e trenta di quella sera, Valentina e Alessia erano all’interno del commissariato di polizia di Torino centro, per denunciare la scomparsa di Simone. Scelsero quel commissariato perché aveva una fama molto buona. Furono accolte da un agente, Matteo Montini, che le fece accomodare in sala d’attesa. Dopo circa quindici minuti, il commissario Roberto Fogli le accolse nel suo ufficio. Roberto era un bell’uomo, di media altezza, i lunghi capelli biondo cenere incorniciavano un viso dai lineamenti duri e dolci allo stesso tempo. Gli occhi castani erano svegli e intelligenti. «Buonasera, signore, l’agente Montini mi ha comunicato che siete qui per denunciare la scomparsa di un uomo. È corretto?» «Sì, commissario.» rispose Valentina. «Si tratta di mio marito, Simone Fermi. L’ho sentito per l’ultima volta ieri sera, intorno alle ventidue. Stamattina doveva presentarsi al lavoro, presso l’agenzia turistica gestita dalla qui presente Alessia Brunelli, ma non l’ha fatto. Da allora, non abbiamo più avuto sue notizie.» «È un po’ poco per denunciare una scomparsa, signora Fermi.» «Mi lasci finire, commissario.» Valentina raccontò a Fogli tutto quello che era successo in casa sua, il commissario sembrò molto interessato. «Se quello che mi avete raccontato corrisponde al vero, in effetti avete tutti i motivi per essere preoccupate. È vero che per le denunce di scomparsa bisogna attendere che siano trascorse quarantotto ore, ma è anche vero che quando esiste un fondato sospetto di minaccia all’incolumità dello scomparso, o sospetto di sequestro di persona, questa regola viene meno. Mi recherò personalmente a casa sua, signora Fermi, insieme a una pattuglia di agenti e alla scientifica, cominceremo a dare un’occhiata.» «Grazie, commissario! Come contate di procedere?» «Prima di tutto le chiedo di fornirmi una foto recente di suo marito, in modo da

poterla inviare alle nostre pattuglie per le prime ricerche. Poi dipende da quello che scopriremo a casa sua. Se necessario, verranno coinvolti i vigili del fuoco e la protezione civile per le ricerche sul territorio nazionale. Attraverso il prefetto, informeremo il Commissario straordinario per le persone scomparse e, se lo riterremo necessario, coinvolgeremo anche i mass media. Prima di tutto, però, dobbiamo dare un’occhiata alla sua abitazione.» Valentina estrasse dal portafoglio una fotografia di Simone che portava sempre con sé e la consegnò al poliziotto. Poi, su richiesta di Fogli, lasciò la prefettura e, insieme ad Alessia, tornò a casa, aspettando l’arrivo del commissario e dei suoi agenti. Quella, sarebbe stata una lunga notte.

La mezzanotte era scoccata da circa quindici minuti, quando Stefano fece rientro a casa. Era decisamente stanco. La giornata, invece di trascorrere in modo divertente e rilassante come aveva programmato il giorno precedente, era stata sfiancante. Si buttò subito sotto la doccia, l’acqua calda avrebbe mandato via un po’ di quella stanchezza che provava sempre dopo una visita guidata in sotterranea. La doccia durò più del necessario poi, con un asciugamano avvolto intorno alla vita, andò in cucina e aprì il frigorifero. Non mangiava nulla dall’ora di pranzo, lo stomaco cominciava a lamentarsi sonoramente. Non riusciva a togliersi dalla testa quei simboli che aveva notato sulle pareti del rifugio antiaereo. Cercò di fare mente locale: quando era stata l’ultima volta che aveva guidato un tour nella Torino sotterranea? Forse era stato a novembre dell’anno precedente, erano ati parecchi mesi, era sempre Simone a occuparsi di questo genere di cose, a lui piacevano molto i tour in sotterranea. Le scritte non c’erano a novembre, di questo era sicuro. Conosceva abbastanza bene la geomanzia, da capire che quelle scritte non erano assolutamente positive. Che avessero a che fare con la scomparsa di Simone? Aveva chiamato Alessia, circa un’ora prima, e la donna gli aveva comunicato di trovarsi a casa di Valentina e Simone insieme alla polizia. Non le aveva potuto spiegare altro, però il fatto che a poche ore dalla scomparsa la polizia fosse già intervenuta, non faceva presagire niente di buono, sapeva come funzionavano certe cose. Forse stava volando troppo con la fantasia, comunque non riusciva a scrollarsi di dosso quel senso di disagio che provava da quando era sceso nel rifugio antiaereo. Di solito, una volta tornato in superficie e soprattutto dopo una bella doccia, quella sensazione spariva, questa volta era diverso. Aveva uno strano presentimento, come se qualcosa di terribile stesse per accadere. Cercò di scacciare i brutti

pensieri e si preparò un panino con prosciutto e mozzarella. Forse era la fame a fare questi brutti scherzi. Purtroppo, neanche con lo stomaco pieno Stefano riuscì a tranquillizzarsi. Si addormentò molto tardi e a fatica e il suo sonno fu agitato e pieno di incubi terribili. Sognava uomini assatanati, vittime sacrificali, riti satanici e tanto, tanto sangue.

«Ricapitoliamo, signora Brunelli. È sicura di aver notato il cellulare del Fermi posizionato sul comodino a fianco del letto?» «Come glielo devo dire, commissario? Certo che ne sono sicura! Non sono certo una visionaria! Come le ho già spiegato altre cento volte, ho addirittura pensato di prendere in mano quel cellulare per controllare le chiamate che Simone aveva effettuato e ricevuto, poi ho pensato che fosse meglio non toccare nulla, per non inquinare le prove!» «Cosa le ha fatto pensare che questo fosse, come dire, il luogo del crimine? In fondo Fermi era “scomparso” da poche ore soltanto!» «Cosa vuole insinuare, commissario? Cosa avrei dovuto pensare, secondo lei? Conosco Simone da quasi vent’anni, non è mai successo che sia mancato dal lavoro, se non per qualche validissimo motivo e, anche in quel caso, ha sempre avvisato. E poi tutto quel vomito nel bagno…» «A proposito di questo. È sicura che si trattasse di vomito?» Alessia ebbe un gesto di stizza. Quell’uomo cominciava a innervosirla. Erano le ventitré, aveva avuto una giornata pesante, per usare un eufemismo, sognava una doccia, il suo letto e un abbondante piatto di spaghetti al pomodoro e il commissario continuava a porle le stesse domande e sembrava non credere a una sola parola di quello che lei ripeteva da ore. Respirò profondamente e cercò di calmarsi, prima di rispondere. «Commissario Fogli, come non mi ritengo una visionaria per quanto riguarda il cellulare, lo stesso posso dire anche per quanto ho visto nel bagno. Ho l’impressione che lei non creda a una sola parola di quello che le ho detto fin ora, francamente non so che farci, le ho detto tutto quello che ho visto questa mattina, senza tralasciare nulla. Sta a lei e ai suoi uomini appurare che quanto ho dichiarato corrisponde a verità. Sono sicura che, se sapete fare bene il vostro

lavoro, ci riuscirete senz’altro.» «Lo sa che lei ha proprio un bel caratterino, signora Brunelli? Sto semplicemente facendo il mio lavoro. Lei non ha neanche idea di quante menzogne noi poveri poliziotti sentiamo ogni giorno dalle persone che interroghiamo! Sembrano tutti sinceri, poi vieni a scoprire che ti hanno mentito in tutto e per tutto. Fidarsi, nel mio mestiere, è molto pericoloso.» «La mia amica è molto stanca, commissario» intervenne Valentina, «ha avuto una giornata molto pesante. Le garantisco che è una persona precisa e molto sincera. Io credo ciecamente a quanto ha dichiarato. E, soprattutto, sono d’accordo con lei sul fatto che Simone non sarebbe mai scomparso in questo modo, non l’avrebbe fatto per le sue bambine, per il suo lavoro e anche per me. Impossibile, metterei una mano sul fuoco, su questo.» «Attenta a non scottarsi, signora Fermi. Spesso le persone scomparse nascondono dei segreti inconfessabili. Comunque magari avete ragione voi, io non insinuo niente, guardo solo ai fatti.» In quel momento, un agente della scientifica chiese al commissario Fogli di potergli parlare un attimo. I due uomini si spostarono in un’altra stanza. «Hai visto che arroganza? Non solo sto collaborando con la giustizia, ma vengo anche trattata come una qualsiasi criminale. Roba da matti! Sono sicura che queste cose succedono solo in Italia. Poi dicono sempre “chiunque abbia sentito o visto qualcosa si faccia avanti”. Certo non ti invogliano a farlo, se poi vieni trattata in questo modo!» «Hai ragione, Alessia, mi dispiace davvero tanto che tu ci sia andata di mezzo. Se avessi saputo quello che sarebbe successo, non ti avrei chiesto di venire qui a casa mia, stamattina.» «Lascia perdere, l’unica cosa importante è ritrovare Simone. Per il resto sono tranquilla, ho la coscienza a posto, non ho fatto niente di male, cosa dovrei temere?» Nel frattempo, il commissario Fogli le aveva raggiunte in salotto. «Bene, sembra che lei abbia ragione. Pare che nelle ultime ore, nel bagno, sia stato fatto un certosino lavoro di pulizia, con impiego di detergenti molto

potenti. Lei usa detersivi particolari, signora Fermi?» «Uso i classici prodotti che acquisto al supermercato e, quasi mi vergogno a dirlo, ma non pulivo il bagno da almeno tre giorni. Mi trovavo al mare con le nostre bambine e dubito che Simone abbia fatto pulizia, avrebbe chiamato la signora che ogni tanto ci dà una mano a inizio settimana, come fa sempre quando io sono fuori città.» «Questo confermerebbe la testimonianza della signora Brunelli. A quanto pare, qualcuno è stato in questa casa, oggi. Chi possiede le chiavi della sua abitazione, signora?» «Soltanto mio marito e io. E un paio erano nel cassetto della scrivania dell’ufficio di Simone, quelle che ha utilizzato Alessia per entrare qui stamattina.» «Da quanto tempo quelle chiavi erano nel cassetto, signora Brunelli?» «Da circa una settimana. Simone mi aveva confidato di aver spesso dimenticato le chiavi dentro casa e, per evitare di disturbare ogni volta Valentina al lavoro per farla correre ad aprirgli la porta, aveva deciso di tenerne una copia in ufficio, per ogni evenienza.» «Lo sapevano tutti, in agenzia?» «Non lo so, a me Simone l’aveva detto, non ho idea se l’avesse riferito a qualcun altro! Perché noto sempre un tono accusatorio, in ogni sua domanda?» chiese Alessia risentita. «Come le ho detto pocanzi, faccio solo il mio lavoro. Se lei ha la coscienza pulita, non deve temere alcuna domanda.» «Certo che ho la coscienza pulita! È lei che cerca di trovare qualcosa di losco in qualsiasi cosa io dica!» «Faccio solo…» «Il mio lavoro! Ho capito, non c’è bisogno che me lo ripeta un’altra volta! Posso andare a casa, adesso? O devo ritenermi in stato di fermo?»

«D’accordo, vada pure a casa, però non lasci Torino per nessun motivo, potrei avere ancora bisogno di lei. In fondo lei è l’unica persona che siamo certi sia entrata in questa casa stamattina e che sapeva benissimo dove trovare le chiavi per entrarci. Ciò nonostante, il mio istinto mi dice che lei è in buona fede. Su, vada a casa, ho il suo numero di telefono. Sarà lieta di sapere che domattina sarà una delle prime persone che chiamerò!» Alessia era rossa per la rabbia. Quell’uomo era davvero impossibile. Salutò Valentina con un abbraccio, le raccomandò di stare tranquilla e di riposare il più possibile. Per quella notte, la polizia le avrebbe fatto compagnia, poi avrebbe dovuto considerare la possibilità di trasferirsi altrove, almeno finché non si fosse fatta chiarezza sulla scomparsa di Simone. Salutò il commissario Fogli a denti stretti, ricevendo in cambio un ampio sorriso quasi ironico che la rese ancora più nervosa. Non vedeva l’ora di mettere la parola fine a quell’orribile giornata.

CAPITOLO QUATTRO

Riccardo si guardò allo specchio. Indossava un accappatoio, era perfetto. Era bastato tingere i capelli, un tono leggermente più scuro, radersi e perdere una decina di chili. Il risultato era stupefacente. Chiunque, vedendolo, l’avrebbe riconosciuto come Simone Fermi. Era pronto per svolgere il suo delicatissimo incarico, ora veniva la parte più difficile. Aveva bisogno di tantissime informazioni, si accingeva a vivere la vita di un’altra persona e sapeva che non sarebbe stato facile. Simone aveva una moglie, due figlie e parecchi colleghi di lavoro che avrebbero notato qualsiasi atteggiamento o comportamento strano, doveva essere convincente e disinvolto. Si stava ancora guardando allo specchio, quando suonarono alla porta. Andò ad aprire e si trovò davanti Gianluca Rinaldi, il braccio destro della sacerdotessa in persona. «Accidenti!» disse entrando. «Devo dire che sei perfetto! Fino a che non sarai pronto, non dovrai mostrarti in giro, chiunque conosce Simone ti scambierebbe per lui. Allora, si comincia l’avventura?» «Ho bisogno di Simone. Come sta?» «Tra poco andremo da lui, questa notte è peggiorato, così come avevamo previsto. Il virus funziona, ancora un paio d’ore e gli verrà somministrato l’antidoto, speriamo funzioni, altrimenti il nostro piano andrà a puttane!» «Infatti non riesco a capire perché è stato deciso di utilizzare proprio lui, per sperimentare il virus. Lui ci serve per altri scopi, come cavia potevamo utilizzare chiunque.» «È stato un preciso ordine della sacerdotessa, lo sai. E sai anche che i suoi ordini non si discutono. Avrà avuto i suoi buoni motivi, non credi? Ora sbrigati a vestirti, dobbiamo organizzarci per il lavoro di stanotte e poi, se Simone si riprenderà, avrai il primo colloquio con lui. Porta il tuo computer, è necessario che tu annoti tutte le informazioni che ti erà e le dovrai assimilare tutte. Un solo errore e comprometteresti tutto il lavoro fatto.»

«Lo so, stai tranquillo, sarò perfetto, come sempre. C’è del caffè caldo, in cucina. Serviti pure, dieci minuti e sarò da te.» Riccardo si vestì rapidamente, poi infilò alla rinfusa le ultime cose nel trolley che aveva preparato la sera precedente e si apprestò a lasciare la sua casa, probabilmente per non farvi più ritorno.

Simone sentiva la presenza di qualcuno vicino a lui. Non sapeva se le luci fossero accese o spente, non vedeva niente e non sentiva che delle voci lontane e ovattate. Era certo di essere sul punto di morire, per fortuna poteva ancora pregare, chiedere perdono a Dio per tutti i peccati che aveva commesso nella sua vita. Aveva sempre avuto una gran paura della morte, come tutti quanti, ora la aspettava quasi come una liberazione. Non sapeva quanto tempo fosse ato da quando si era sentito male a casa sua e l’incubo era cominciato. Pensava a Valentina, ad Anna, ad Alessia e a tutti i colleghi dell’agenzia. Lo conoscevano bene, sapevano che non era tipo da sparire da un giorno all’altro senza più dare notizie di sé. Lo stavano sicuramente cercando, gli sarebbe piaciuto sapere dove si trovasse. Era ancora a Torino o si trovava in un’altra città? Ricordava di aver viaggiato rinchiuso all’interno del bagagliaio di un’auto, ma non era stato in grado di quantificare il tempo del viaggio. Un’ora? Due? Era difficile calcolare il trascorrere del tempo nelle sue condizioni. D’un tratto, sentì una sorta di formicolio ai piedi e alle mani. Era la prima sensazione che avvertiva da chissà quanto tempo. Cominciò anche a intravedere la luce e le voci che sentiva diventavano sempre più vicine e più nitide. «Si sta riprendendo, funziona!» esclamò Riccardo. «Perfetto. Riccardo, mi raccomando, conto su di te. So che sei in grado di fare un buon lavoro. Tra pochi minuti Simone starà benissimo, spiegagli la situazione e inizia a incamerare informazioni. Voglio che tu esca là fuori il prima possibile. Ci vediamo questa notte, voglio che siate tutti puntuali e che tutto sia pronto. Non ammetterò errori da parte di nessuno, chiaro? Ora devo andare, la sacerdotessa mi deve contattare via mail, come sempre. Vuole che la tenga aggiornata costantemente» disse Gianluca. «Sì, Gianluca» risposero in coro Riccardo, un altro uomo e una donna. Simone si stava lentamente riprendendo, riusciva a muovere le dita delle mani,

non sapeva se sentirsi sollevato o temere per quello che sarebbe successo. In che grinfie era finito? Cosa volevano da lui? Si concentrò sulle sensazioni che sentiva e cercò di non pensare, ma non riusciva a liberarsi dalla sensazione di terrore crescente che provava.

Erano le nove di mattina, Stefano era in agenzia, seduto di fronte alla scrivania di Alessia. «Come sono andati i tour di ieri?» chiese Alessia al collega. «Benissimo, direi. Cosa me lo chiedi a fare? Lo sai che quando ci sono io a fare da guida, i tour sono sempre un successo!» «Sempre presuntuoso, vedo! Comunque volevo ringraziarti per la tua disponibilità, ieri eri di riposo e sicuramente avevi fatto dei progetti per la giornata, purtroppo non sapevo a chi altro rivolgermi.» «Nessun problema, ormai è andata. Mi spiace solo per la serata, avevo un programma molto interessante, tutto avevo pensato, tranne di are tre ore sottoterra! Cambiando discorso, che mi dici di Simone? Ieri sera mi hai detto che ti trovavi a casa sua con Valentina e la polizia. Ci sono novità?» «Nessuna, purtroppo. E, comunque, non mi va di parlarne. Ieri è stata una delle giornate più terribili che io abbia mai vissuto. Ho avuto a che fare con un odioso commissario di polizia che ha fatto di tutto per mettermi a disagio e per farmi sentire in colpa, di che cosa poi, non l’ho capito. Ho solo cercato di aiutare un amico, alla fine sembrava quasi fossi io la responsabile della sua scomparsa!» «Cosa intendi dire?» «Io sapevo dove si trovava il mazzo di chiavi di casa di Simone e, ieri, sono andata a casa sua per controllare che non gli fosse successo niente. E sono sempre io che ho visto il suo cellulare sul comodino e il vomito in bagno, peccato che quando è arrivata la polizia il cellulare era sparito e il bagno era perfettamente pulito!» «Scusa, non ti seguo. Potresti spiegarmi meglio?»

Alessia, sbuffando, iniziò a raccontare a Stefano tutto quello che era successo il giorno precedente. «Accidenti, che brutta storia! Quasi mi vergogno per aver pensato che tu e Simone foste poco professionali, quando mi hai chiamato per chiedermi di sostituirlo per l’intera giornata. Sai che non ho una grande simpatia per lui, ma questo non significa che non mi dispiaccia per quello che sta succedendo. Per quel che ne so di lui, non mi sembra tipo da sparire in modo misterioso facendo preoccupare famiglia e amici.» «Infatti, è quello che abbiamo commentato tutti. Basta pensare a quanto sia legato alle figlie. Non le avrebbe mai abbandonate, ne sono sicura. Quindi, qualcosa di terribile deve essere successo, ma non ho proprio idea di che cosa possa trattarsi.» «Ale, c’è una cosa della quale vorrei parlarti. Magari è una sciocchezza, però è da ieri sera che ci penso e mi sento irrequieto. Stanotte l’ho ata in modo terribile, non ho fatto altro che avere incubi angoscianti e non è da me.» «È successo qualcosa?» «Direi di sì. Da quanto tempo non guidi un tour nei sotterranei di Torino?» «Io? Non ricordo, sarà ato un mese, più o meno. Posso controllare sull’agenda, se vuoi.» «Potresti farlo, per favore? È importante.» «D’accordo, se ci tieni…» Alessia consultò la sua agenda. L’ultimo tour da lei guidato nei sotterranei di Torino, risaliva a esattamente trentasei giorni prima. «Perfetto, grazie, Alessia. Ora, cerca di fare mente locale. Hai notato qualcosa di strano nel rifugio antiaereo?» «Nel rifugio? No, niente di particolare direi. Perché mi fai questa domanda?» «Perché io qualcosa di strano ieri sera l’ho notato. Tu sei esperta di geomanzia?»

«Geomanzia? Cosa c’entra adesso?» «Rispondi alla mia domanda, per favore.» «Esperta non direi, so che è un’arte divinatoria, che gli antichi utilizzavano per predire il futuro. Lanciavano delle pietre sulla sabbia e, i segni lasciati dalle pietre stesse, avevano dei significati ben precisi. Da qui a dire che sono un’esperta, ce ne a.» «Io invece mi ritengo un esperto, conosco il significato dei simboli e mi diletto a interpretarli.» «Ok, mi complimento con te per queste tue conoscenze. Ora, però, mi devi spiegare di cosa stiamo parlando.» «Ieri sera, sui muri del rifugio antiaereo, ho notato dei simboli geomantici sulle pareti. Erano stati tracciati con qualcosa di nero, probabilmente un pennarello. Non so dirti quanto siano recenti, sicuramente la scorsa settimana non c’erano, altrimenti Simone te ne avrebbe parlato, esattamente come sto facendo io adesso. L’ha forse fatto?» «Assolutamente no, tu sei il primo che me ne sta parlando. Cosa significavano quei simboli?» «Non lo so di preciso, ero in compagnia del gruppo di turisti si, non ho potuto soffermarmi per analizzarli a fondo e non ho potuto neanche scattare delle fotografie. Da quel poco che ho visto, però, direi che sono simboli molto negativi. Quello che mi ha maggiormente angosciato, è stato il fatto che qualcuno sia entrato nei sotterranei di Torino, quasi sicuramente senza averne l’autorizzazione. A parte le guide turistiche, i turisti e i guardiani, nessuno può accedere a quei luoghi.» «Che sia stato qualche turista?» «Impossibile, i simboli sono parecchi, ci deve essere voluto un bel po’ di tempo per tracciarli. Secondo te, dovremmo informare la polizia di questo? O il Ministero dei Beni Culturali, magari?» In quel momento, Monica bussò e entrò nell’ufficio di Alessia.

«Scusa, Ale, ma c’è un certo commissario Roberto Fogli che dice di dover urgentemente parlare con te.» Alessia alzò gli occhi al cielo, il solerte commissario non aveva perso tempo. «Fallo accomodare, Monica. Stefano, se ritieni di dover riferire questa cosa alla polizia, questo è il momento giusto per farlo.» Roberto si presentò a Stefano poi, senza essere stato invitato a farlo, si accomodò su una sedia posizionata di fronte alla scrivania di Alessia, a fianco di Stefano. «Bene, due piccioni con una fava. Signor Ubaldi, ho bisogno di interrogare anche lei, in quanto collega dello scomparso Simone Fermi.» «Sono a sua completa disposizione, commissario.» «Bene. Mi dica, da quanto conosce il signor Fermi?» «Da circa dieci anni, da quando lavoro qui, lui ha cominciato a collaborare per questa agenzia qualche anno prima di me.» «Come definirebbe i suoi rapporti con lui? Amichevoli? Conflittuali? Astiosi?» «Niente di tutto questo. Simone e io non siamo sicuramente amici, non ci frequentiamo al di fuori di questa agenzia, non ci stiamo particolarmente simpatici, avendo due caratteri completamente diversi, ma non c’è astio tra di noi, né competizione o gelosia professionale. Ognuno di noi fa la propria vita e il proprio lavoro e questo è tutto.» «Cosa c’è nel carattere di Simone che non le piace?» «Simone è un uomo troppo serio, preciso, “impostato” direi.» «Lei, invece, non è una persona seria e precisa, signor Ubaldi?» «Serio e preciso quando è il caso di esserlo sullavor per esempio. La vita privata, invece, la prendo molto meno sul serio, così come le questioni politiche o sociali. Per Simone tutto deve essere condito da regole e disciplina. Io non sono un uomo molto disciplinato, commissario.»

«Capisco. Quando ha visto Simone per l’ultima volta?» «Ci siamo incrociati qui in agenzia un paio di giorni fa. Io andavo di fretta, non mi sono fermato a scambiare neanche due parole con lui, giusto un saluto.» «Le è sembrato normale o l’ha visto preoccupato?» «Come le ho detto, commissario, l’ho visto per pochi secondi, non ho avuto modo di appurare quale fosse il suo stato d’animo. All’apparenza sembrava come tutti gli altri giorni, posso dire solo questo.» «Cosa sa della vita privata di Simone?» «Quello che sanno tutti i suoi colleghi e cioè che è sposato e ha due bambine, conosco la moglie Valentina in quanto capita spesso qui in agenzia. Questo è tutto quello che so di lui, commissario. Piuttosto, se non ha altre domande da pormi, c’è una cosa della quale vorrei parlarle, se ha un po’ di tempo da dedicarmi.» «È attinente alla scomparsa di Fermi?» «Non lo so, ma potrebbe esserlo.» «Sono tutt’orecchi, la ascolto.» Stefano raccontò al commissario Fogli quello che aveva visto la sera precedente nel rifugio sotterraneo, impresso sopra ai muri. «Molto interessante. Mi occuperò personalmente di organizzare una visita in questo rifugio sotterraneo per scattare delle fotografie. Il tempo di avere l’autorizzazione dalla Prefettura per avere accesso al luogo. Lei sarebbe disposto a venire con me? Mi diceva di essere un esperto in materia, la sua presenza potrebbe risultare utile.» «Veramente sono impegnato questa mattina, ho un tour al museo Egizio con una scolaresca di Como tra circa un’ora. Anzi, devo proprio scappare.» «Signorina Brunelli, non può sostituire il signor Ubaldi con qualcun altro? Sarebbe importante per le nostre indagini» chiese Roberto.

«Si può fare, stamattina ho diverso personale a disposizione, qualcuno riuscirò a trovarlo di sicuro. Stefano? Per te va bene?» «D’accordo, verrò volentieri commissario Fogli. Mi dica solo a che ora intende andare.» «Innanzitutto, diamoci del tu, Stefano, se non ti dispiace. Vieni con me al commissariato, il tempo di sbrigare la parte burocratica e andiamo. Con lei, signorina Brunelli, parlerò più tardi.» Quando Stefano e Roberto uscirono dal suo ufficio, Alessia ricevette una strana telefonata. Era sua sorella Anna che la pregava di are urgentemente a casa sua. Alessia si fece sostituire da Monica, prese la borsa e si precipitò fuori dall’agenzia.

CAPITOLO CINQUE

Roberto e Stefano si trovavano nel rifugio antiaereo di piazza Risorgimento. Il posto era inquietante, il silenzio era totale, i i dei due uomini rimbombavano tra le vecchie mura del rifugio. Mentre camminavano verso il punto dove Stefano aveva notato i simboli geomantici, Roberto chiese a Stefano cosa sapesse di Torino e del mistero dei suoi sotterranei. «Torino è situata sul quarantacinquesimo parallelo, ovvero esattamente sulla metà del nostro emisfero e ha sempre mantenuto la sua fama di città magica, collocata al vertice di un "triangolo bianco", insieme con Lione e Praga, ma anche di un "triangolo nero", con Londra e San Francisco. Il capoluogo piemontese sorge nel punto d’incontro di due fiumi, uno dalle caratteristiche femminili, la Dora, e uno dalle caratteristiche maschili, il Po, quindi si trova al di sopra di un importante nodo energetico, centro sacro di energie telluriche. Inoltre, la città fu centro di potere della dinastia sabauda, i cui legami con l’esoterismo sono stati più volte individuati e sottolineati. Non a caso la città divenne meta di personaggi del calibro di Paracelso, Cagliostro, Fulcanelli e il misterioso Conte di Saint-Germain, nonché di Nostradamus, che per un certo periodo fu invitato appositamente a Torino, dalla Francia, dalla regina Margherita di Valois. Torino diede inoltre i natali a Gustavo Rol, sensitivo e veggente contemporaneo, una delle figure esoteriche più discusse di questi ultimi tempi. Alla città di superficie, si sviluppa quasi parallelamente una città sotterranea, universo parallelo di gallerie, cripte, cunicoli e sepolcri, tra i quali le leggendarie Grotte Alchemiche, luogo segreto di potere situato all’incrocio di importanti linee geomantiche, che si dice si trovino da qualche parte nei sotterranei di Palazzo Madama.» «A proposito di geomanzia, cosa sai dirmi in proposito?» «La geomanzia è un’arte divinatoria antichissima che sta conoscendo una rivalutazione negli ultimi tempi. Può essere definita come l’arte di predire il futuro usando la terra. Non a caso la parola geomanzia viene dalle due parole greche “gè”, che significa terra e “manteia” che significa profezia. Nell’antichità, si interpretavano dei segni lasciati sulla sabbia o sulla terra nera in seguito al lancio di alcune zolle di terra dandole un preciso significato. I simboli

geomantici sono sedici, costituiti dalla disposizione di uno o due punti su quattro righe orizzontali. A seconda di questa disposizione si ottengono i sedici simboli geomantici ognuno con un significato preciso.» «Interessante. Quindi tu sai riconoscere e interpretare i simboli geomantici?» «È la mia specializzazione, la geomanzia non ha segreti per me. So riconoscere facilmente quei simboli e il loro significato. Quello che è complicato, è interpretare il messaggio comunicato dai simboli stessi.» Intanto, erano arrivati nel punto dove, sulle pareti, facevano bella mostra degli strani segni, che per Roberto rappresentavano dei pallini privi di qualsiasi significato. «Questo, per esempio, cosa significa?» chiese Roberto additando il primo disegno. O O O O O O

«Questo è Amissio – perdita. La sua grafica dovrebbe ricordare un essere umano che disperde le sue energie. Può avere diversi significati: una perdita economica, la dispersione psico-fisica, la perdita di dignità, di valori e di beni, involuzione del materialismo, mancanza di luce, decadimento, o anche la fine dolorosa di una situazione negativa e liberazione da situazioni oppressive.» «È comunque un simbolo negativo, mi pare di capire.» «Assolutamente sì, ma come ti ho detto, l’interpretazione è ampia.» «Che mi dici di quest’altro?» O O

O O O O «Questo è Fortuna Major, rappresenta la ricchezza, la fortuna, l’abbondanza, il potere morale, ma anche avidità, infedeltà e insoddisfazione.» «Questo?» O O O O O O O

«Questò è Rubeus, la sua grafica dovrebbe rappresentare una coppa rovesciata. È fortemente negativo, indica rabbia, temperamento sanguigno, implacabilità, potere oscuro, discipline estreme, beneficio da lutti.» Roberto incitò Stefano a continuare la spiegazione dei successivi disegni. O O O O O O O

«Questo, Tristitia, indica malinconia, depressione, segreti pesanti, rimorsi, ideali estremi, pessimismo cronico, un simbolo molto cattivo.» O

O O O O

«E quest’altro è Cauda Draconis, la sua grafica indica i piedi e potrebbe rappresentare ciò che è forte in basso. Indica corruzione, bassezza, sporcizia, bassi istinti, pornografia, pericolo, viaggio pericoloso, distruzione.» O O O O

«E, per finire, questo è Via, indica il viaggio, la direzione, lo scopo, il progresso, il cambiamento, il ricominciare. Questo è tutto quello che posso dirti, sta a te interpretare cosa possa significare in questo contesto.» «Non sono certo in grado di farlo, ma probabilmente tu sì. Saresti disposto a collaborare con noi? Ti avviso che, in caso di risposta affermativa, dovrai mantenere l’assoluto riserbo su quanto scopriremo. Saresti messo al corrente di un’indagine di polizia, diventeresti tu stesso un investigatore. Ci tengo a precisare che saresti retribuito come collaboratore esterno, non lavoreresti gratis, anche se i compensi non sono altissimi.» «Non è esattamente un tipo di lavoro al quale sono abituato, ma se vi posso essere d’aiuto, lo farò volentieri.» «Perfetto, ti ringrazio. Ora scatteremo delle fotografie, poi torneremo al commissariato. Te ne farò stampare delle copie ingrandite, le ordineremo in sequenza e il tuo compito sarà quello di cercare di decifrarne il significato.»

«Prima di tutto bisognerà capire se le scritte sono ordinate da sinistra verso destra o al contrario. Ci vorrà del tempo e, se possibile, vorrei chiedere la collaborazione di Luca Scarni, mio ex compagno di università, nonché grandissimo amico. Lui è molto più abile di me quando si tratta di dare un significato alle scritte geomantiche. È un problema per te?» «Trattandosi di un’indagine di polizia, non è opportuno coinvolgere altre persone, ma se ritieni che il suo aiuto possa essere prezioso, fammelo conoscere e vediamo quello che posso fare. Ora andiamo, non so perché ma non vedo l’ora di tornare in superficie. Questo posto mi mette i brividi.» «È esattamente la stessa sensazione che provo io e non capisco perché. Non ho mai amato i sotterranei di Torino, ma è la prima volta che provo questa sensazione di inquietudine profonda, come se mi trovassi in un luogo pervaso dal male. È difficile da spiegare, ma c’è qualcosa in questo posto che non mi piace. Sarà solo suggestione, probabilmente. Andiamo?» Roberto e Stefano si avviarono verso l’uscita del rifugio antiaereo. Due occhi avevano spiato, con estrema attenzione, ogni loro mossa.

CAPITOLO SEI

Alessia era giunta a casa di Anna. La sorella le aprì la porta, aveva gli occhi arrossati e l’aria di chi non dormiva da giorni. «Anna! Che diavolo è successo? Hai una faccia…» «Vieni, Alessia, andiamo in salotto. Carlotta stanotte ha dormito male e ora sta riposando, non vorrei che sentendoci parlare si svegli.» «Sta male? È per questo che sei così sconvolta?» «No, Carlotta sta bene, ha soltanto un po’ di febbre. Se sto così la colpa è di Simone.» «Simone? Cosa c’entra Simone?» Anna non parlava, continuava a lacrimare copiosamente e a soffiarsi rumorosamente il naso. «Insomma, mi hai fatta correre da te lasciando l’agenzia per l’ennesima volta nelle mani di Monica, ora, se non ti dispiace, invece di continuare a piangere, vuoi spiegarmi che cos’hai?» Anna si lasciò cadere sul divano, prese un lungo respiro e cominciò a parlare. «Simone e io siamo amanti da un paio di anni…» «Tu e Simone siete che cosa? Stai scherzando? Che cazzo stai dicendo?» chiese Alessia visibilmente scioccata dalla notizia appena appresa. «Lo so, non te ne avevo mai parlato. Il fatto è che mi vergogno. Sono una donna sposata e ho una figlia piccola, per non parlare di Simone, che di figlie ne ha addirittura due!» «Dio mio, Anna! Ma come avete potuto? Io non sono una puritana e capisco tutte le situazioni, ma una cosa del genere da te proprio non me la sarei mai aspettata! E da Simone ancora meno! Lui sempre così preciso, così integerrimo, di così sani principi! Non avete pensato ai vostri figli? E a Andrea e Valentina?»

«Non giudicarmi male, Ale! Lo so, è sbagliato, ma ci siamo innamorati, è stato più forte di noi!» «Andiamo, Anna! Se così fosse, da persone intelligenti e corrette, avreste dovuto prendere da parte i vostri rispettivi consorti, spiegare loro la situazione e vivere il vostro amore alla luce del sole, da persone adulte e soprattutto oneste!» «E credi che non l’abbia proposto più volte a Simone? Era lui che non voleva saperne, diceva che per me era diverso, io sono una madre e mia figlia sarebbe rimasta con me, lui le sue figlie le avrebbe perse e riteneva fossero ancora troppo piccole per lasciarle crescere senza la presenza di un padre!» «Troppo comodo il suo discorso. Si teneva l’amante e nello stesso tempo continuava a vivere la sua vita di apparente brav’uomo tutto casa e famiglia! Se solo penso alla preoccupazione di Valentina in questi giorni, avrei voglia di tirargli un pugno sul naso a quel vigliacco!» «Ora non esagerare, Simone non è come pensi tu. A volte è un po’ debole e non sa prendere una decisione importante, ma ti assicuro che è un uomo pieno di buoni sentimenti e soffre anche lui per la nostra situazione.» «Scusami, ma faccio fatica a crederci! Comunque, perché hai deciso di raccontarmi tutto questo? Ha qualcosa a che fare con la scomparsa di Simone?» «Non credo, ma ho pensato che risultando scomparso, verranno fatte delle indagini sulla sua vita privata e, probabilmente, la nostra relazione verrà a galla. Ci pensi a come la prenderà Andrea? E Carlotta? Dio mio, Ale, cosa devo fare?» «Avresti dovuto pensarci prima. Comunque, dovresti riferire tu stessa alla polizia quello che mi hai appena detto, potrebbe essere utile per le indagini.» «No! Non lo farei mai, anzi, volevo chiederti di aiutarmi a tenere nascosta questa informazione!» «Tu sei pazza! Mi stai chiedendo di mentire alla polizia, te ne rendi conto? Sei mia sorella e ti voglio bene, ma non puoi chiedermi una cosa del genere!» «Non dovrai mentire, dovrai solo aiutarmi. Se dovessero esaminare il cellulare di Simone e trovare le chiamate fatte a me o ricevute, io dichiarerò che eravamo amici, che ci conoscevamo in quanto Valentina è una mia ex compagna di scuola

e Simone è tuo collega. Mi inventerò un interesse verso la professione di guida turistica e che lui mi stava dando una mano. Tu dovrai soltanto confermare la mia versione.» «E questo, secondo te, non sarebbe mentire? Anna, non ti riconosco più. O forse, la verità è che non ti ho mai conosciuta veramente. Ora torno in agenzia, non ha più senso che io rimanga qui.» «Ale, ti prego, non tradire la mia fiducia, non ho altri che te a cui rivolgermi!» «Non dirò una parola di quello che ho appreso qui oggi, questa è l’unica promessa che posso farti. Per il resto, riflettici sopra e cerca di fare la cosa giusta. Continuare a mentire non farà che aumentare i tuoi sensi di colpa, tra l’altro più che motivati.» Alessia si avviò verso la porta di casa, non abbracciò la sorella come era solita fare, si limitò a salutarla e a chiederle di dare un bacio a Carlotta da parte sua. Quando fu per strada, sentì tutto il peso della confessione della sorella sulle spalle. Non ci avrebbe mai creduto, se non l’avesse sentito dalla sua stessa bocca. Lei e Simone amanti! È proprio vero che a volte le persone pensi di conoscerle bene, poi ti rendi conto che non è affatto così. Si avviò a piedi verso la sua agenzia. Lungo il tragitto, c’era una tabaccheria. Entrò e acquistò un pacchetto di sigarette. Aveva smesso di fumare tre anni prima, ma in quel momento sentiva il desiderio di respirare una boccata di nicotina, sperando le calmasse un po’ quell’ondata di ansia che le attanagliava lo stomaco.

Simone era completamente sveglio. Riusciva a muoversi tranquillamente, respirava normalmente, non sentiva dolore da nessuna parte. Si sentiva bene, come se non fosse successo nulla. Era seduto su un lettino bianco con le rotelle, simile alle barelle utilizzate negli ospedali per portare i pazienti nelle sale operatorie. Una luce fioca proveniva da una piccola finestrella posizionata in una delle pareti della stanza nella quale si trovava. La finestra era troppo alta, non riusciva a vedere cosa ci fosse al di fuori. In quella stanza, a parte il lettino, c’erano soltanto due sedie, un armadietto colmo di medicinali e un lavandino. Cominciò a camminare avanti e indietro in quei pochi metri quadrati, poi prese una sedia, vi salì sopra e guardò fuori dalla finestrella. La stanza si affacciava su un lungo corridoio scarsamente illuminato, vedeva solo delle porte, sembrava

non esserci anima viva. Quanto alla porta di ingresso alla stanza, aveva provato ad aprirla e si era accorto che, naturalmente, era chiusa a chiave. Ricordava chiaramente quanto era successo, soprattutto la sensazione di terrore che aveva provato, quando si era reso conto di non riuscire più a muovere nemmeno un muscolo del suo corpo. Quegli uomini avevano parlato di un virus e anche di un antidoto. Probabilmente, chissà come, l’avevano contagiato e poi l’avevano “guarito”. Era stato una sorta di cavia, grazie all’inferno che aveva ato, ora sapevano che il virus funzionava, così come l’antivirus. E ora, cosa sarebbe successo? Sicuramente non l’avrebbero rimandato a casa, dopo avergli dato una pacca sulla spalla, ringraziandolo per essersi prestato per l’esperimento! Non gli avrebbero permesso di uscire vivo da quella stanza, questo era certo. Anche se, ricordava bene, uno di loro gli aveva detto che lui doveva rimanere vivo perché aveva parecchio lavoro da svolgere. Che tipo di lavoro? Lui era un semplicissimo operatore turistico, non aveva nulla a che fare con virus, antivirus e chissà quale altra diavoleria! Mentre continuava a pensare con angoscia a quello che sarebbe stato il suo futuro, sentì un rumore di i al di là della porta e, dopo pochi istanti, la stessa si spalancò. Sentì una scossa attraversargli tutto il corpo, pensò che sarebbe rimasto ancora una volta paralizzato. Era come se si trovasse davanti a uno specchio. In mezzo alla porta, c’era un uomo identico a lui.

Luca Scarni era appena giunto al commissariato di polizia. Fu accompagnato nella stanza di Roberto, dove era presente anche Stefano. «Piacere, sono Luca Scarni» si presentò al commissario dopo aver salutato con una pacca sulle spalle l’amico Stefano. «Il piacere è tutto mio, Luca. Diamoci pure del tu, visto che dovremo lavorare insieme. Stefano mi ha detto che sei esperto nell’interpretare i messaggi dei simboli geomantici.» «Diciamo che per me è un hobby, ho studiato parecchio l’argomento e ho svolto un discreto numero di esercitazioni. Quello che posso dirti, è che Stefano e io insieme siamo veramente bravi, in questo campo.» «So che Stefano ti ha accennato al telefono quello che dovrebbe essere il vostro lavoro qui in commissariato. Che ne dici, accetti la proposta? Come ho già

spiegato al tuo amico, non c’è da guadagnarci molto, purtroppo.» «Non lo faccio per il guadagno, piuttosto lo faccio per ione. Datemi solo il tempo di organizzarmi con il mio negozio, suppongo di dover trovare qualcuno che mi sostituisca per qualche giorno.» «Gestisci un negozio?» chiese Roberto. «Sì, un negozio di antiquariato, un’altra delle mie ioni.» «Deve essere molto interessante!» «In effetti lo è. Allora, cominciamo domani?» «Per me va benissimo» rispose Stefano. «D’accordo, allora. Sto aspettando l’autorizzazione dalla prefettura per potermi avvalere della vostra collaborazione, si tratta solo di una formalità, a questo punto. Il prefetto si fida molto di me e del mio giudizio. Se io ritengo che voi due siate adatti a svolgere questo incarico, non avrà nulla da obiettare. Vi farò preparare un ufficio con due scrivanie, due computer, una stampante, due telefoni e una fotocopiatrice. Vi serve altro?» «No, penso sia sufficiente» rispose Stefano. «Io, nel frattempo, vorrei portarmi a casa una copia delle fotografie, giusto per cominciare a farmi un’idea.» «Preferisco che rimangano qui in commissariato, se non ti dispiace. Ci lavorerai domani. Ancora una cosa, Stefano. Eri al corrente del fatto che Simone tenesse un mazzo di chiavi di casa nella sua scrivania?» «No, non ne sapevo nulla, me ne ha parlato oggi Alessia.» «D’accordo, andate pure, ci vediamo domani» concluse Roberto. Stefano e Luca erano appena usciti dall’ufficio. Roberto aveva avuto una pessima impressione, appena Luca Scarni era entrato nella sua stanza. Si era trovato davanti un giovane dall’aria trasandata: capelli lunghi, barba incolta, abiti sgualciti. Poi, però, sentendolo parlare, si era ricreduto. È proprio vero che a volte l’abito non fa il monaco. E, comunque, ormai aveva deciso: Luca e Stefano si sarebbero occupati dell’indagine insieme a lui. Aveva chiesto ai suoi

uomini di effettuare delle ricerche sui due ed erano risultati puliti. A loro spettava decifrare quei simboli geomantici, a lui toccava capire chi fosse entrato in quel sotterraneo, quando e perché. E sicuramente non sarebbe stato facile.

CAPITOLO SETTE

«Potresti toglierti quell’espressione da idiota che hai dipinta sulla faccia?» «Chi cazzo sei, tu?» «Mi chiamo Riccardo» disse l’uomo tendendo a Simone una mano che lui rifiutò di stringere. Simone andò a sedersi sul lettino, sentiva le gambe molli, era sul punto di avere un crollo nervoso. Prima il malessere, poi il rapimento, la storia del virus, la prigionia e ora… anche questo! Era davvero troppo, gli sembrava di vivere un incubo senza fine. La tragedia era che non si trattava affatto di un sogno, quello che stava vivendo era spaventosamente reale. Non aveva neanche più la forza per fare domande, si accasciò sul lettino, quasi rassegnato a un tragico destino. «Mi rendo conto che nelle ultime ore ti sono accadute cose alquanto strane, non sta a me spiegarti le ragioni di quanto sta succedendo, sono qui semplicemente perché ho bisogno del tuo aiuto.» Simone cominciò a ridere istericamente. «Tu hai bisogno del mio aiuto? Ma per favore! Se qui c’è qualcuno che ha un disperato bisogno di aiuto quello sono proprio io! Ma ti rendi conto? Mi contagiate con un virus, mi rapite, mi portate a un o dalla morte, poi decidete di curarmi! Perché? Dimmi solo questo, perché?» chiese disperato Simone. «Perché ho bisogno di sostituirmi a te, di vivere la tua vita. E, per fare questo, ho bisogno di molte informazioni che tu mi dovrai fornire.» «Sostituirti a me? Tu sei pazzo, siete tutti pazzi! Non sono un personaggio importante, sono solo un operatore turistico, che interesse potresti avere nel sostituirti a me?» «Questo non tocca a me spiegartelo, lo farà il mio capo se e quando lo riterrà necessario. So che sei sposato e che hai due figlie. Comincia a parlarmi di loro.»

«Stai lontano dalle mie bambine, brutto figlio di puttana!» Simone si scagliò contro Riccardo, subito entrarono due uomini che lo immobilizzarono, lo fecero sedere a forza su una sedia e lo legarono con alcune corde. «Non sei nelle condizioni di dettare le regole, Simone. Ti conviene collaborare, se non vuoi che ti somministriamo un’altra dose di quel virus che ti ha fatto tanto soffrire. Oppure, potremmo darne una piccola dose proprio a Irene e Vanessa. Pensa a quanto soffrirebbero, quelle due povere creature! E, tanto per mettere le cose in chiaro, non sono tipo da minacciare a vuoto. Dimmi quello che voglio sapere e cerca di essere convincente, altrimenti quello che hai vissuto in queste ultime ore ti sembrerà un paradiso, in confronto all’inferno che ti farò are!» «Vai a farti fottere, pezzo di merda!» «Puoi insultarmi quanto vuoi, se la cosa ti fa sentire meglio, non mi offenderò di certo. Ora iamo alle cose serie. Parlami di Valentina. Che tipo di rapporto avete? Ho bisogno di conoscere tutte le vostre abitudini, cosa vi piace mangiare, dove andate a fare la spesa, cosa guardate in TV, se usate chiamarvi con dei nomignoli, le vostre abitudini sessuali. E, già che ci siamo, anche della tua storiella con Anna Brunelli.» «Se tu credi che io venga a raccontare a te la mia vita intima, stai sbagliando di grosso! Non ho paura di te, né dei tuoi amici. Uccidetemi pure, se volete. Non ho intenzione di collaborare con voi. Tanto sappiamo tutti e due che da qui non uscirò vivo, tanto vale che la facciamo finita subito!» Riccardo fece un cenno a uno dei due uomini presenti nella stanza. Questi, aprì l’armadietto dei medicinali, preparò una siringa e si avvicinò a Simone. «Vedo che sei un osso duro. Può darsi che tu abbia ragione, ma ricordati che c’è modo e modo di morire. Comunque, visto che non ti decidi a collaborare, faremo a modo mio. Procedi!» disse all’uomo che impugnava la siringa. L’uomo infilò l’ago nel braccio di Simone e iniettò il liquido contenuto nello stantuffo nelle vene dell’uomo. «Non è il virus, è qualcosa di molto peggio. Tra pochi secondi comincerai a provare dolori lancinanti in tutto il corpo. È una tortura tremenda, sta a te porre

fine al tormento, basta che ti decidi a rispondere alle mie domande.» arono effettivamente una manciata di secondi soltanto. Poi, Simone cominciò a urlare come non aveva mai fatto prima in vita sua.

Alessia era di nuovo seduta alla sua scrivania. Aveva tantissimo lavoro da sbrigare, ma non riusciva a concentrarsi. Prima la scomparsa di Simone, poi la rivelazione di Anna. Era davvero troppo, in sole quarantotto ore. Fino a un paio di giorni prima, pensava di essere una donna se non felice, almeno serena. Ora era in uno stato di agitazione continua, senza contare che avrebbero potuto indagarla per la scomparsa di Simone. In fondo lei sapeva delle chiavi ed era anche andata a casa di Simone per controllare che non gli fosse successo niente di grave, lasciando le sue impronte ovunque. E poi quel commissario sembrava fare di tutto per metterla in difficoltà! Senza contare la strana faccenda dei simboli geomantici. Chi li aveva impressi sui muri del rifugio antiaereo? E perché? Come avrebbe voluto vedere Simone varcare la porta del suo ufficio, almeno l’incubo sarebbe finito! Invece, aveva la sensazione che qualcosa di terribile stesse per accadere, la stessa sensazione che le aveva confidato di aver provato Stefano quando si era trovato nel rifugio sotterraneo. Era come se una minaccia incombesse su di lei, anche se non aveva motivo di provare queste sensazioni, le provava e non poteva farci niente. Sospirò e prese in mano il faldone contenente le pratiche da sbrigare. Doveva mettersi al lavoro. A Simone e a Anna avrebbe pensato più tardi.

Roberto aveva suonato alla porta di casa di Valentina. All’interno, la scientifica stava ancora lavorando alla ricerca di qualche indizio utile per le indagini. La donna, visibilmente provata, lo fece accomodare in salotto. «Commissario, ci sono novità? Qualche notizia di Simone?» «Purtroppo ancora no, signora, ci stiamo lavorando. Piuttosto, avrei bisogno che lei mi parlasse un po’ di suo marito. Ci aiuterebbe molto nelle indagini e, soprattutto, ci farebbe risparmiare un sacco di tempo.» «Cosa vuole sapere, di preciso?»

«Tutto quanto. Da quando Simone è nato, fino al giorno della sua scomparsa. La sua vita, i suoi studi, il suo lavoro, le sue conoscenze, tutto quello che le viene in mente.» «Simone è nato il sette aprile del 1968 a Vercelli, all’ospedale Sant’Andrea, dove fu abbandonato dalla donna che l’aveva partorito. Dopo pochi giorni dalla nascita, fu trasferito all’Orfanotrofio della Maddalena di Vercelli, dove è rimasto fino all’età di due anni. A maggio del 1970, fu adottato dai coniugi Fermi, una famiglia di medici di Torino. La madre adottiva era pediatra, il padre era chirurgo vascolare. Lavoravano entrambi all’ospedale Molinette di Torino.» «Parla dei genitori adottivi di Simone al ato. Non ci sono più?» «Purtroppo no. Il padre sco morì in seguito a un infarto poco dopo la nascita della nostra primogenita Irene, mentre la madre Marisa è mancata due anni fa dopo una lunga malattia.» «Capisco. So per esperienza che i figli adottivi, a un certo punto della loro vita, sentono il bisogno di conoscere le loro origini e, quindi, i genitori naturali. Simone provò a rintracciarli?» «Lo fece eccome. Per un periodo fu come un chiodo fisso per lui. Aveva bisogno di sapere e di capire. Lo conosco da quindici anni e fin da subito mi aveva parlato di questo suo desiderio, aveva provato a chiedere all’ospedale Sant’Andrea e soprattutto all’orfanotrofio dove aveva trascorso i suoi primi anni di vita. Purtroppo incontrò un muro di omertà. Nessuno gli diede alcuna informazione, gli dissero solo che la donna che lo aveva partorito era molto giovane e non era sposata e questo era il motivo per il quale l’aveva abbandonato. Cercò anche di rintracciare l’ostetrica che l’aveva aiutato a venire al mondo, ma venne a sapere che la donna perì in un incidente stradale pochi giorni dopo la sua nascita.» «Soffriva per questa situazione?» «Ne ha sofferto soprattutto dopo la nascita delle bambine. Mi diceva sempre che non avrebbe mai permesso che crescessero senza i due genitori e che se anche fosse successo qualcosa tra di noi, dovevamo restare uniti per il loro bene. Credo che il fatto di non conoscere le sue origini l’abbia fatto soffrire molto, forse più di quanto io non pensassi.»

«Potrebbe essere questo il motivo della sua scomparsa? Voglio dire, magari ha avuto una sorta di crisi di identità che l’ha indotto a compiere qualche gesto estremo?» «Ci ho pensato, ma ho scartato subito l’ipotesi. Prima di tutto per quello che le ho detto prima, l’amore per le sue figlie. Secondo, perché nonostante tutto è un uomo sereno, appagato dalla vita che conduce e dal suo lavoro.» «Che rapporto aveva con i genitori adottivi?» «Splendido, direi. Marisa e sco erano due persone straordinarie. Intelligenti, sensibili, affettuosi. Hanno dedicato la loro vita a Simone, l’hanno sempre adorato.» «E riguardo al suo lavoro, cosa mi può dire?» «Simone ama il suo lavoro, per lui è ione e divertimento. Non l’ho mai sentito lamentarsi per il fatto di dover andare a lavorare come facciamo un po’ tutti. Lui si alza la mattina per recarsi al lavoro sempre con entusiasmo. I suoi genitori avrebbero voluto che lui intraprendesse la loro stessa carriera, che studiasse medicina, per continuare la tradizione di famiglia, ma Simone fin da ragazzino aveva manifestato l’amore per l’arte, la cultura, la storia. Dopo gli studi al liceo classico, si iscrisse all’università di storia dell’arte e dello spettacolo alla Sapienza di Roma. I suoi genitori provarono a dissuaderlo, quando si resero conto che quella era la sua strada, gli affittarono un piccolo appartamento a Roma e lo mantennero agli studi. Poi, una volta terminata l’università, Simone tornò a Torino e cominciò a frequentare dei corsi specialistici per diventare guida turistica. Iniziò a lavorare nell’agenzia di Alessia Brunelli una quindicina di anni fa e, da allora, non ha più cambiato. Diceva sempre di avere trovato la sua strada. Le ripeto, ama molto il suo lavoro.» «Le parlava del suo ambiente lavorativo? Nello specifico, vorrei sapere in che rapporti è con i suoi colleghi.» «Con Alessia è sempre andato molto d’accordo, così come con Monica, Raffaella, Davide e Tommaso. Con Stefano e Mauro, invece, ha un rapporto conflittuale.» «A parte Alessia, Stefano e Monica, che ho già avuto l’opportunità di conoscere,

non ho ancora incontrato gli altri dipendenti dell’agenzia che ha menzionato, conto però di farlo al più presto. Mi diceva di un rapporto conflittuale con Stefano e con Mauro. I motivi di questa conflittualità?» «Incompatibilità caratteriale, credo. Stefano è un uomo narcisista, accentratore, esibizionista, presuntuoso e vanitoso, cambia una donna al mese, non ha rapporti sentimentali stabili, tutte caratteristiche che cozzano con gli ideali di Simone. Quanto a Mauro, l’ha sempre definito un uomo falso, viscido, opportunista, bugiardo e inaffidabile, non un bel quadro, come vede.» «Dal punto di vista finanziario, com’è la vostra situazione? Mi dispiace doverle fare questa domanda, ma è necessario e comunque dovremo controllare anche il conto corrente di Simone, è la prassi, quindi le chiedo solo qualche notizia in anteprima.» «Direi che possiamo definirci benestanti, commissario. Non tanto per quanto guadagniamo ogni mese. Simone è una guida turistica e io sono impiegata parttime in uno studio notarile, quindi non percepiamo stipendi faraonici. Però Simone ha ereditato una discreta somma di denaro dopo la morte di sua madre, comprensiva di tre appartamenti, oltre a quello che abitavano loro. Due a Torino e uno a Loano, dove andiamo sempre in vacanza con le bambine. Io sono in ferie per tutto il mese, Simone avrebbe preso il mese di giugno, per fare in modo che Irene e Vanessa potessero trascorrere due mesi di mare, soffrono entrambe di tonsilliti frequenti, lo iodio è la cura migliore.» «Quindi, siete soliti trascorrere le vacanze separati?» «Più o meno è così. Il venerdì sera, però, chi rimane a Nichelino raggiunge l’altro al mare per il fine settimana. E poi nel mese di agosto trascorriamo una settimana tutti e quattro insieme, lo scorso anno siamo andati in Egitto. E comunque per tutta l’estate, i fine settimana li trascorriamo a Loano.» «Gli hobby di Simone? Amicizie? Frequentazioni? Come trascorre il suo tempo libero?» «Di solito il tempo libero lo trascorre con le bambine. Le porta spesso al parco, al cinema, in bicicletta, oppure semplicemente gioca con loro qui a casa. Ama il cinema e la lettura, soprattutto testi storici e artistici. Per quanto riguarda le amicizie, frequentiamo spesso Alessia e la sorella Anna con il marito Andrea. Hanno una figlia, Carlotta, che ha l’età di Irene, le due bambine vanno molto

d’accordo.» «Se è un’amicizia così importante, sarà meglio che senta anche loro. Ancora una domanda, come sono i rapporti tra voi due?» «Magari non idilliaci come i primi anni di convivenza, ma piuttosto buoni, direi. Tra di noi c’è affetto, rispetto e comprensione. Simone è un uomo di cui ci si può fidare e lo stesso vale per me. Un matrimonio sereno, commissario.» «Bene, per ora direi che è tutto. La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato. Se ritiene, può riprendere le bambine da casa dei suoi amici e portarle al mare, l’importante è che mi lasci un recapito dove io la possa rintracciare in qualsiasi momento. È inutile che rimanga qui, anche perché la scientifica tornerà per altri sopralluoghi.» «In realtà preferisco rimanere qui, qualsiasi cosa dovesse succedere, preferisco essere presente. Ho già parlato con i miei amici, porteranno loro le bambine a Loano, io mi trasferirò nella casa dei miei suoceri. Le altre due case Simone ha deciso di affittarle, quella dei suoi genitori, che è stata la casa della sua infanzia, l’ha lasciata tale e quale a come è sempre stata. Le lascio l’indirizzo, quanto al numero telefonico, ha già quello del mio cellulare» concluse Valentina porgendo a Roberto un foglietto riportante l’annotazione dell’indirizzo. «Perfetto, ci sentiamo presto. Cerchi di stare tranquilla, faremo il possibile per scoprire cosa è successo a Simone.» «Grazie, commissario. Sono nelle vostre mani. Le auguro buon lavoro.» Valentina chiuse la porta al commissario e vi si appoggiò contro con la schiena. Rimase in quella posizione, pensierosa, per un paio di minuti poi andò in camera da letto a preparare i bagagli. Si sarebbe trasferita a casa dei suoceri quel giorno stesso.

CAPITOLO OTTO

Simone aveva resistito solo alla prima iniezione, i cui effetti erano durati pochi minuti. Sotto la minaccia di una seconda siringa, contenente una dose più massiccia della diavoleria che gli era stata iniettata, aveva deciso di collaborare. In fondo non era un eroe e, se era vero che doveva comunque morire, era meglio scegliere un modo meno atroce per lasciare questa terra. «Vedi, Simone? Con le buone si ottiene sempre tutto. Se la cosa ti può consolare, la tua collaborazione eviterà che io faccia del male a tua moglie e alle tue figlie e eviterà a te tante sofferenze.» «Mi prometti che non farai del mare a Irene e Vanessa?» «Non dovrei farti promesse, ma farò un’eccezione. Non accadrà loro niente di male, a patto che tu sia preciso e collaborativo.» «D’accordo, ti dirò tutto quello che vuoi sapere.» «Bene, tralascia pure di raccontarmi la tua storia, la conosco a memoria. Quello che mi interessa è sapere quello che succede tra le mura domestiche, come ti ho già spiegato prima.» Simone cominciò a parlare a fatica. Sudava copiosamente, la testa gli girava vorticosamente, aveva un senso di nausea opprimente. «Vedo che non ti senti bene e mi sembri anche poco lucido. È normale, dopo quello che ti abbiamo iniettato. Facciamo così, ti lascio riposare fino a domattina, riprenderemo il discorso quando starai meglio. Tra poco ti porteremo qualcosa da mangiare e dell’acqua. Ora stenditi e riposati. A presto, Simone.» Detto questo, i tre uomini uscirono da quella stanza dell’orrore, lasciandolo con la sola compagnia di un terrore crescente.

Roberto Fogli aveva reperito l’indirizzo di Anna Brunelli e ora si trovava di

fronte alla porta di casa sua. Suonò il camlo e venne ad aprirgli una bellissima bambina sorridente. Roberto sentì una voce urlare dal corridoio. «Carlotta! Quante volte ti devo dire di non aprire la porta? Prima si chiede chi è, poi se è il caso si apre!» La donna apparve a fianco della bambina. Una donna molto bella, nonostante avesse i lunghi capelli neri e ricci arruffati e una semplice tuta da ginnastica addosso. «Desidera?» chiese a Roberto. Il commissario mostrò il tesserino e si presentò. «Buongiorno, signora Brunelli. Posso entrare? Avrei bisogno di farle qualche domanda riguardo a Simone Fermi.» La donna arrossì vistosamente, distolse lo sguardo da quello di Roberto e si scostò dalla porta facendogli segno di entrare. «Mi scusi per il caos, commissario. Carlotta e l’ordine non vanno decisamente d’accordo!» disse lei per rompere il ghiaccio. «Non c’è problema, anzi, mi scuso per questa intrusione improvvisa. Il fatto è che sto portando avanti le indagini sulla scomparsa di Simone, ho saputo che è un amico di famiglia e ho pensato di venire a fare quattro chiacchiere con lei e, se fosse possibile, anche con suo marito. È in casa?» «No, Andrea è ancora al lavoro, non rientrerà che tra un paio d’ore. Forse, se ha piacere di parlare con tutti e due, sarà meglio rimandare l’incontro.» «No, se non le dispiace comincerei con lei, suo marito lo incontrerò in un’altra occasione. Dove lavora? Magari potrei raggiungerlo sul posto di lavoro.» «È un funzionario comunale, io oggi sono a casa perché Carlotta ha la rosolia. A proposito, spero lei sia immune alla malattia, commissario.» «Sì, credo di averla contratta da piccolo. Tornando a noi, Valentina Fermi mi ha detto che vi frequentate spesso con lei e Simone. Amici di famiglia?»

«Sì, Valentina e io ci conosciamo dai tempi dell’università, tramite la nostra amicizia, Simone è stato assunto nell’agenzia turistica di mia sorella Alessia. Abbiamo entrambe una figlia di cinque anni, le bambine vanno molto d’accordo, così spesso ci incontriamo e trascorriamo la serata insieme, così come le domeniche nel periodo invernale, quando Simone e Valentina non sono a Loano. A volte siamo anche andati a trovarli al mare, la domenica. Un’amicizia come tante, commissario.» Roberto non era uno stupido, aveva notato fin da subito l’imbarazzo della donna che sembrava peggiorare di minuto in minuto. Per esperienza, sapeva che era il momento di partire con le domande incalzanti, se quella donna aveva qualcosa da nascondere, era il momento per scoprirlo. Stava per partire con la raffica di domande, quando il suo cellulare cominciò a suonare. «Pronto?» rispose seccato. «Roberto, sono Beatrice. Scusa se ti disturbo, ma è successa una cosa piuttosto grave. Sono nella merda, qualsiasi cosa tu stia facendo, è il caso che la molli e vieni subito in commissariato.» Beatrice era ispettrice di polizia e quando il commissario e il vice commissario Marco Del Re non erano in ufficio, era lei che reggeva l’intera baracca. Roberto si allontanò da Anna, in modo da poter parlare tranquillamente al telefono. «Cazzo, Bea, invece di parlare per enigmi, vuoi spiegarmi cosa c’è di tanto urgente che non può aspettare un paio d’ore?» «Cosa c’è di urgente? C’è un cadavere fresco fresco, trovato poco fa all’interno di un cassonetto. Il cassonetto in questione si trova a pochi i dal rifugio sotterraneo del quale mi hai parlato. Il cadavere presenta delle bruciature di sigaretta sul petto, le stesse formano dei simboli, molto simili a quelli che ho visto nelle foto scattate nel rifugio. Insomma, credo sia il caso che tu venga a dare un’occhiata.» «A quando risale la morte? » «Ventiquattro, forse trentasei ore fa, così dice il referto del medico legale. Ora il corpo è in obitorio in attesa di autopsia, io ho soltanto le foto.»

«Si tratta di un uomo?» «So che pensi a Simone Fermi, ma in realtà si tratta di una donna.» «D’accordo, dammi il tempo di arrivare, poi andremo subito in obitorio, voglio dare un’occhiata al cadavere.» Roberto interruppe la comunicazione e tornò in soggiorno da Anna. «Devo andare, signora Brunelli. Riprenderemo presto la nostra chiacchierata, domattina lei è a casa?» «Sì, domani è sabato, sarò a casa e ci sarà anche Andrea.» «Perfetto, allora nel corso della giornata verrò a farvi visita, vi avviserò per tempo, non si preoccupi.» Roberto strinse la mano della donna, notò che era sudata, un altro sintomo di profonda agitazione. Salutò la piccola Carlotta e uscì dal palazzo. Salì sulla sua auto e prese la direzione del commissariato.

Stefano era al supermercato, a casa aveva trovato il frigorifero completamente vuoto così, nonostante odiasse fare la spesa, aveva dovuto cedere ai crampi allo stomaco che lo avevano assalito. Mentre camminava tra le corsie del supermercato, pensava ai simboli geomantici. Nonostante il commissario Fogli non gli avesse consentito di portare a casa una copia delle fotografie scattate nel rifugio antiaereo, le aveva ben impresse nella mente. Mentre rifletteva su questo, il cellulare suonò. «Sì?» «Stefano, sono Roberto. Stai facendo qualcosa di importante?» «Beh, dipende dai punti di vista. In realtà sto facendo la spesa al supermercato, di per sé una cosa di scarsa importanza, ma se consideri che sono a digiuno da ieri sera e che ho il frigorifero vuoto, la cosa assume una dimensione completamente diversa.»

«D’accordo, senti, te la sentiresti di venire con me in obitorio?» «Di richieste strane ne ho ricevute tante nella mia vita, ma giuro che nessuno mi aveva mai fatto una proposta del genere!» «Smettila di fare il coglione, non sto scherzando. È stato rinvenuto un cadavere, poche ore fa. Si tratta di una donna, presenta delle bruciature sul petto, le quali formano un simbolo geomantico. Te la sentiresti di darle un’occhiata?» «Nessun problema, non ho mai visto un morto ammazzato, ma c’è sempre una prima volta, giusto? Dammi il tempo di finire la spesa, posarla a casa, farmi un panino e arrivo. L’indirizzo dell’obitorio? Scusa se te lo chiedo, ma non è un luogo che frequento abitualmente!» Roberto sospirò e diede a Stefano le indicazioni per raggiungere l’obitorio.

Stefano non era mai entrato in una camera mortuaria in vita sua, nonostante questo non provò alcuna sensazione, almeno fino a quando un uomo con il camice bianco estrasse da una cella frigorifera una barella sulla quale era poggiato un corpo, coperto da un lenzuolo bianco. Stefano vide i piedi del cadavere spuntare dal lenzuolo. Intorno alla caviglia sinistra era legato un cordino, dal quale pendeva un’etichetta recante un numero composto da quattro cifre, probabilmente il numero identificativo della vittima. Fu quando l’uomo dal camice bianco tirò via il lenzuolo che Stefano provò un brivido che lo scosse da testa a piedi. La donna sembrava giovane e, a giudicare dalla corporatura e dalla folta capigliatura bionda, in vita doveva essere stata bella. Aveva gli occhi spalancati, uno sguardo terrificante, i bulbi oculari afflosciati, le labbra piegate di lato in una smorfia grottesca, la pelle completamente disidratata e di uno strano colore tra il giallo e il grigio. «Stefano, te la senti?» Alle parole di Roberto, Stefano si scosse. «Sì, certo. Non è sicuramente un bello spettacolo, ma posso farcela. Vorrei tanto non aver mangiato quel panino, poco fa.» «Se non ti senti bene, possiamo limitarci a esaminare le fotografie.»

«No, dammi solo un minuto per prendere una boccata d’aria.» Stefano uscì nel corridoio, spinse la porta antipanico che conduceva a un cotile interno alla struttura, si accese una sigaretta e la respirò a pieni polmoni. Lui amava la bellezza femminile, ne era completamente affascinato a ammaliato. Vedere quello che la morte provoca su un giovane corpo era stato devastante per lui. Aveva intravisto i segni che la donna presentava sul petto. Era bastata una rapida occhiata: Cauda Draconis. Rientrò di malavoglia all’interno della camera mortuaria. Roberto stava parlando con un uomo con il camice bianco, ma non era quello di prima. «Ah, Stefano, eccoti qua. Ti presento il dottor Antonio De Quirico, è il medico legale che si occuperà di effettuare l’autopsia sul corpo della donna. Mi stava mettendo al corrente sui risultati degli esami preliminari. Antonio, ti dispiace ripetere quello che mi hai detto finora?» «Certo, Roberto. Allora, ricapitoliamo. La donna, come vedete, è di razza bianca, età apparente tra i venticinque e i trent’anni, probabilmente proviene dall’est Europa e credo di poter affermare si tratti di una prostituta. Vedete questo tatuaggio che raffigura una testa di tigre sulla natica destra? Molti sfruttatori ricorrono al tatuaggio delle proprie prostitute come se fossero di loro proprietà e per distinguerle da quelle degli altri. Il soggetto del tatuaggio può consistere nel nome della locazione presso la quale le ragazze attirano i clienti, per esempio una via o una strada, o qualche altro idioma. Questo tatuaggio in particolare l’ho già visto in altre vittime ed erano tutte prostitute. Purtroppo nei casi precedenti non siamo riusciti a risalire allo sfruttatore ed è un peccato, avrebbe potuto essere utile alle indagini. A parte le bruciature che vedete sul petto, ben evidenti, effettuate presumibilmente con una sigaretta incandescente, ha subito una violenza sessuale brutale, come si evince dalle profonde lesioni interne, cercherò di essere più preciso quando avrò terminato l’autopsia. Le cause della morte non sono ancora in grado di stabilirle, anche se ipotizzo lo strangolamento, a giudicare dai segni violacei presenti sul collo. Oltre a questo, presenta ferite superficiali da arma da taglio su tutto il corpo, questa donna è stata brutalmente torturata, prima di essere uccisa.» Stefano sentiva un orrore terrificante crescergli dentro. È vero che era solito prendere e lasciare le donne, a volte facendole anche soffrire, ma nello stesso

tempo considerava il corpo femminile come qualcosa di sacro, amava dare piacere alle donne, era incomprensibile per lui pensare che potesse esistere una simile brutalità. «Stefano, tocca a te adesso» disse a un tratto Roberto interrompendolo dai suoi pensieri. «Che mi dici di quei segni sul petto?» O O O O O

«Questo simbolo era presente anche sui muri del rifugio antiaereo, Roberto. Si tratta di Cauda Draconis, la coda del drago, non ho alcun dubbio. Il suo giorno è giovedì, oggi è venerdì, scommetto che questa donna è stata uccisa ieri.» «Perdonami la scarsa memoria, probabilmente me l’hai già spiegato, ma quale significato può avere questo simbolo?» «È un simbolo molto negativo, uno dei più negativi nella geomanzia. Indica bassezza, sporcizia, pornografia, bassi istinti, grettezza. Se, come ha detto prima il dottor De Quirico, questa donna era una prostituta, potrebbe trattarsi di una specie di esecuzione, è stata punita per il mestiere che faceva e i peccati che commetteva ogni giorno, legati al sesso, visto come qualcosa di sporco e di vergognoso. È come se sul muro del rifugio antiaereo fosse stata tracciata la profezia, che poi si è avverata con la morte di questa donna, sul corpo della quale è stata riprodotto lo stesso simbolo.» «Caspita, qui abbiamo tra le mani qualcosa che scotta! Mi piacerebbe comprendere il ruolo di Simone Fermi in tutto questo. Il fatto che fosse quasi sempre lui a guidare le visite nella Torino sotterranea e che sia scomparso nel nulla, la comparsa di quegli strani simboli sui muri del rifugio antiaereo e ora il ritrovamento del cadavere di questa donna mi fanno pensare a qualcosa di grosso. Non sarà un’indagine facile, tu mi sarai utilissimo Stefano. Inutile ricordarti che non una parola detta oggi in questa stanza deve uscire. Mi sto

fidando di te completamente, cerca di non deludermi. Ci vediamo domattina in ufficio, ora è meglio andare, così Antonio potrà continuare tranquillamente il suo lavoro.» Roberto e Stefano salutarono il medico legale, poi si avviarono in silenzio verso le rispettive auto parcheggiate a pochi metri dall’obitorio. L’indomani sarebbe stata una giornata lunga e impegnativa, per tutti e due.

CAPITOLO NOVE

Stefano, dopo la visita all’obitorio, aveva guidato senza meta per quasi mezz’ora, poi aveva deciso di dirigersi verso il Parco Europa. Era un luogo che gli infondeva sempre un senso di pace e serenità e quel giorno ne aveva proprio bisogno. Aveva camminato a lungo all’interno del parco, fermandosi di tanto in tanto a rimirare lo splendido panorama di Torino. Si era quasi pentito di aver offerto la sua collaborazione al commissario Fogli, aveva la sensazione di essersi messo in una situazione più grande di lui. Poi, però, ripensava al corpo di quella povera ragazza e sentiva l’assoluto bisogno di aiutare le forze dell’ordine a renderle giustizia. Erano quasi le venti quando decise che era arrivato il momento di cenare. Aveva una gran fame, sognava un piatto di pasta e una bella bistecca al sangue. Decise di recarsi in un ristorantino situato nel centro città, conosceva la proprietaria, Cristina, che lui definiva un’amica di letto e spesso Stefano cenava nel suo locale. ò una gradevolissima serata, la cena era stata come sempre ottima, inoltre aveva chiacchierato a lungo e piacevolmente con l’amica. Avevano deciso di vedersi presto, a Stefano non dispiaceva affatto, a letto Cristina era fantastica. Erano le ventitré e trenta quando arrivò a casa. Parcheggiò l’auto a pochi isolati dalla via dove abitava e si avviò verso il portone. Stava per infilare la chiave nella serratura, quando fu aggredito alle spalle. Erano in tre. Due lo immobilizzarono, il terzo cominciò a colpirlo con calci e pugni. Stefano non ebbe la possibilità di reagire. Quando le ginocchia gli cedettero, lo lasciarono cadere a terra. «Non ti mettere di mezzo in faccende che non ti riguardano! Questo è solo un avvertimento, stronzo! La prossima volta non saremo altrettanto teneri!» L’uomo che aveva parlato, gli assestò un ultimo calcio all’altezza dello stomaco, che lasciò Stefano senza fiato, poi sparì insieme agli altri due nel buio della notte. Stefano non riusciva a muoversi. Perdeva sangue dal naso e dalla bocca, si augurò di non avere niente di rotto. A fatica, dopo alcuni minuti, riuscì a rimettersi in piedi. Non trovava più le chiavi di casa, ci mise parecchio a rintracciarle, a qualche metro di distanza dal luogo dell’aggressione. Stava per entrare nel portone, quando vide la signorina Grossi, un’anziana zitella che

abitava al piano terreno, uscire con il cagnolino. Subito, la donna si portò una mano alla bocca preoccupatissima e il cane, un barboncino nero, cominciò ad abbaiare rumorosamente. «Signor Ubaldi! Cosa le è successo? Lo sapevo che prima o poi qualche marito geloso le avrebbe rotto il naso! Glielo dicevo sempre, ricorda? Troppe donne in questo palazzo, la maggior parte di dubbia moralità. Deve mettere la testa a posto, ormai ha una certa età, sarebbe ora che si trovasse una brava ragazza e si sistemasse!» Neanche gli aveva chiesto se aveva bisogno di aiuto, o come si sentiva. Stefano non aveva alcuna voglia di ascoltare la voce petulante della signorina, né di sorbirsi le sue prediche. «Signorina Grossi, posso dirle una cosa?» le chiese. «Certo, mi dica.» «Vada a farsi fottere!» Detto questo, si lasciò alle spalle una scandalizzata signorina Grossi, si trascinò all’interno del portone e si avvicinò all’ascensore. Fantastico, un cartello con su scritto “GUASTO” era attaccato in bella vista sulla porta dello stesso. Imprecando e bestemmiando, Stefano si avviò verso le scale. Per fortuna abitava al secondo piano, ma nelle condizioni in cui era, anche quei pochi gradini gli sembrarono eterni. Appena varcata la soglia del suo appartamento, lanciò le chiavi sul tavolo della cucina e si buttò sul letto. Avrebbe dovuto spogliarsi, controllare le sue condizioni e infilarsi sotto la doccia, ma aveva bisogno di riposarsi un attimo. Si ricordò del cellulare, l’aveva riposto nella tasca destra dei jeans che indossava. Si augurò che non si fosse guastato durante la colluttazione. Sembrava intatto. Scorse la rubrica e cercò il numero di Roberto Fogli.

Stava sognando di trovarsi su una spiaggia esotica. Le palme si agitavano scosse dal vento, il mare era calmo e di un azzurro intenso. Una musica fastidiosa

interruppe quel fantastico sogno. Era la suoneria del cellulare. Roberto cercò a tentoni l’interruttore della lampada posizionata sul comodino, la accese e guardò l’ora. Era mezzanotte e mezza. Prese il cellulare e pigiò il tasto verde per rispondere. «Chi è?» chiese con voce assonnata. «Roberto, sono Stefano.» «Cazzo, Stefano, è piena notte, perché mi chiami a quest’ora?» «È successa una cosa, poco fa.» «Sarebbe? Che è successo? Stefano, stai bene? Hai una voce strana.» «Ho subìto un’aggressione stasera, sotto casa mia.» Roberto si sentì di colpo sveglissimo e balzò a sedere sul letto. «Aggressione?» «Sì, erano in tre, mi hanno riempito di calci e pugni, intimandomi di non immischiarmi in faccende che non mi riguardano.» «Merda… La faccenda è ancora più seria di quanto pensassi! E, dimmi, come stai?» «Diciamo che ho vissuto momenti migliori, ma mi riprenderò.» «Sei andato a farti dare un’occhiata al pronto soccorso?» «No, una bella doccia e due aspirine e sarò come nuovo, non c’è problema.» «Hai visto in faccia quei tre?» «No, indossavano un amontagna, posso solo dirti che uno dei tre, quello che ha parlato, aveva gli occhi azzurri e un accento particolare, forse tedesco.» «D’accordo, senti, chiamo subito il commissariato e faccio mandare una volante sotto casa tua, meglio essere prudenti, anzi, avrei dovuto pensarci prima. E di Luca che mi dici? Non vorrei gli avessero riservato lo stesso trattamento.»

«Non l’ho sentito, ora provo a chiamarlo.» «Per sicurezza, manderò una volante anche a casa sua. Mi spiace avervi coinvolti, non pensavo che questo caso fosse così complicato. Stefano, se decidessi di tirartene fuori, lo capirei.» «Non ci penso proprio! Anzi, ora sono ancora più determinato di prima. Quei figli di puttana la pagheranno per quello che hanno fatto a me e soprattutto a quella povera ragazza finita all’obitorio! Tranquillo Roberto, domattina sarò nel tuo ufficio alle nove, come stabilito.» «D’accordo e per prima cosa sporgerai denuncia per aggressione contro ignoti. Non serve a molto, ma è bene che tu la faccia. Cerca di riposare e, se avessi bisogno di qualcosa, non esitare a chiamarmi.» «D’accordo, a domani, Roberto.» Stefano chiamò Luca, che lo mandò a quel paese per averlo svegliato in piena notte, evidentemente a lui non erano ancora arrivati. Poi, fece una doccia, si medicò le ferite al sopracciglio destro e allo zigomo sinistro, ingurgitò due aspirine e si mise a letto. Non riusciva a prendere sonno, un po’ per i dolori che sentiva in tutto il corpo e un po’ per la visione del volto della donna vista all’obitorio, che non lo abbandonava un istante.

La stanza, con le pareti dipinte di nero, era illuminata da una serie di candele rosse e nere. Al centro della stanza, spiccava un altare adornato con un drappo scuro, sul quale erano poggiati un grosso crocifisso rovesciato, una statuetta del diavolo con un grosso fallo eretto e un teschio umano. Erano presenti una ventina di persone, uomini e donne. Quella sera, non sarebbe stata celebrata la messa nera, ma si sarebbero definiti i dettagli di un piano molto preciso. Un uomo, vestito di nero, con un manto lungo fino ai piedi e un cappuccio sulle spalle, invocò Satana, mentre i fedeli rispondevano in coro. A quel punto, entrò la sacerdotessa, il capo della setta, colei che prendeva tutte le decisioni. Aveva il volto celato da un cappuccio nero e una lunga veste dello stesso colore. «Miei cari fratelli, vi ho riuniti qui questa sera per aggiornarvi sugli ultimi

avvenimenti. Simone Fermi è nelle nostre mani, presto avremo da lui tutte le informazioni necessarie per compiere la nostra missione. Riccardo, quando avrà acquisito le nozioni necessarie, ci introdurrà senza fatica nei luoghi di nostro interesse. Purtroppo, oggi è stato ritrovato il corpo di una donna, è stata punita perché peccatrice, era una giovane prostituta. Dobbiamo mettere fine a tutto questo, i nostri nemici sono sempre in agguato e ci sfidano ogni giorno, dobbiamo farci trovare pronti. Ho il piacere di informarvi che il virus si è mostrato efficace, Luigi ha fatto un ottimo lavoro, come sempre. Qui, sull’altare, ci sono delle buste, ognuno di voi troverà quella con il suo nome e, all’interno, le istruzioni su quanto dovrà fare per me nei prossimi giorni. Ora, se non avete domande, possiamo procedere.» La sacerdotessa tirò su la lunga veste nera che indossava, si sdraiò di fronte all’altare e mostrò a tutti i presenti la sua nudità. L’uomo vestito di nero, che aveva invocato Satana, si buttò sopra di lei per un veloce rapporto sessuale, al quale ne seguirono molti altri, tra tutti i partecipanti alla riunione. La sacerdotessa, ancora sdraiata a terra, a gambe larghe, invocava Satana, chiedendogli l’esaltazione dei godimenti umani e l’inclinazione al peccato per tutti gli esseri viventi.

CAPITOLO DIECI

Erano le otto, Stefano era in ritardo. Era ancora a letto, doveva alzarsi, fare colazione, vestirsi e recarsi al commissariato. Si sentiva come se un camion gli fosse ato sopra, aveva le ossa doloranti e i muscoli indolenziti. Le due aspirine della sera precedente evidentemente non erano state sufficienti, ne avrebbe prese un altro paio prima di uscire di casa. Si alzò a fatica, andò in bagno e si guardò allo specchio. Era impresentabile, aveva l’occhio destro gonfio, le guance tumefatte e il labbro inferiore spaccato. Per fortuna, il naso era intatto. Aveva un bel naso, gli sarebbe spiaciuto che quei delinquenti glielo avessero rovinato. Avrebbe dovuto radersi, ma non gli sembrava il caso, con tutte quelle escoriazioni presenti sul viso. Era impaziente di mettersi al lavoro, ora più che mai voleva rendersi utile alle indagini, ormai era diventata una questione personale e non si sarebbe dato pace fino a quando quello strano e inquietante caso non fosse stato risolto. La temperatura era piuttosto alta. Nonostante fosse ancora maggio, a Torino si respirava già un clima estivo. Si affacciò alla finestra e vide una volante della polizia parcheggiata sotto casa sua, con a bordo due agenti. Roberto era stato di parola, gli aveva procurato due angeli custodi. Probabilmente l’avrebbero accompagnato al commissariato e, la sera, l’avrebbero riportato a casa. Bene, si sentiva più tranquillo. Nonostante fosse un uomo coraggioso e sprezzante del pericolo, non era certo un eroe, né tantomeno un poliziotto. Era un cittadino qualsiasi che si era trovato in mezzo a una situazione pericolosa, senza neanche sapere bene il perché. Sospirò, si vestì e scese di sotto, pronto per una lunga giornata di lavoro.

Simone aveva riposato poco e male, quella notte. Non era stato il malessere fisico a tenerlo sveglio, quanto il terrore che provava e che non lo abbandonava neanche per un istante. Era disperato, a soli quarantacinque anni, si rendeva conto che la sua vita stava volgendo al termine e questo lo terrorizzava e nello stesso tempo lo rendeva rabbioso. Non meritava tutto quello che gli stava succedendo, in fondo cosa aveva fatto di male nella sua vita? Pensò subito ad

Anna. Che Dio lo stesse punendo per aver tradito la moglie con la sua migliore amica? La sua relazione con Anna era splendida e terribile al tempo stesso. Quando era con lei, gli sembrava che fosse la cosa più giusta del mondo, quando erano lontani, veniva assalito dai rimorsi e dai sensi di colpa, nei confronti di Valentina e, soprattutto, nei confronti di Irene e Vanessa. Le sue bambine non meritavano un padre che tradiva spudoratamente la loro mamma. Eppure il sentimento che provava per Anna era forte, non si trattava di sesso o di un’avventura, lui amava quella donna e avrebbe voluto vivere con lei per il resto dei suoi giorni. Presto Riccardo sarebbe tornato da lui per interrogarlo e, una volta ottenute le informazioni necessarie, si sarebbe sbarazzato di lui. Era necessario che gli parlasse anche di Anna, doveva essere obbediente e preciso, altrimenti le persone che più amava al mondo avrebbero corso un rischio enorme, sapeva perfettamente di cosa erano capaci quell’uomo e i suoi compari. Era gente che non scherzava e che sicuramente non avrebbe avuto scrupoli a uccidere degli innocenti. Si alzò dal lettino, urinò nel lavandino, trangugiò un sorso d’acqua e si sedette su una sedia, in attesa che i suoi aguzzini tornassero.

Alle nove in punto, Stefano entrò nell’ufficio di Roberto. «Cazzo, ci sono andati giù pesanti! Sicuro di stare bene?» «Sto benissimo, davvero. Luca? Ancora non è arrivato?» «Ho appena sentito uno degli agenti di scorta, saranno qui tra pochi minuti. Mi dispiace davvero di avervi coinvolto in questa faccenda, in realtà non credevo fosse un caso così complicato e soprattutto non pensavo che ne sarebbe andata di mezzo la vostra incolumità. Come ti ho detto stanotte al telefono, siete entrambi liberi di tirarvi indietro, troverò un altro modo per andare avanti con le indagini.» «Non ci penso proprio, non dopo quello che è successo ieri sera. Non so quanto potrai raccontarmi riguardo alle indagini in corso, mi rendo conto di non avere il diritto di conoscere i particolari, ma ti sarei grato se mi tenessi aggiornato, per quanto possibile.» «Sia tu che Luca sarete aggiornati in modo costante, in questo momento siete a tutti gli effetti dei collaboratori del nostro commissariato. A tal proposito, ho qui pronti i vostri contratti di collaborazione. Sono a tempo determinato non

quantificabile, al momento. Percepirete un’indennità giornaliera, un rimborso spese e sarete vincolati al segreto professionale. Niente di quello di cui verrete a conoscenza deve uscire da questo commissariato, sarebbe considerato reato. Ho motivo di ritenere che siate due persone oneste e affidabili, di solito il mio istinto non sbaglia.» In quel momento, Luca entrò nell’ufficio di Roberto. Quando vide Stefano, si allarmò immediatamente. «Stefano, che cazzo hai fatto alla faccia?» «Che vuoi dire, che il mio nuovo look non ti piace?» «Ti sembra il momento di fare dell’ironia? Chi è stato? Quando è successo?» «Ieri sera sono stato aggredito da tre bravi ragazzi sotto casa mia. Per questo ti ho chiamato, temevo ti potesse essere successa la stessa cosa.» «Potevi dirmelo, invece di farti mandare a quel paese! Ecco perché stamattina ho trovato una volante con due agenti ad aspettarmi! E ora come stai?» «Sto bene, un po’ dolorante, ma bene.» «Luca, vorrei ripetere a te quello che ho detto prima a Stefano» intervenne Roberto. «Se, dopo quanto è successo ieri sera, non te la sentissi di andare avanti, non te ne farei una colpa.» «Stefano, tu intendi continuare?» «Certo, ora più che mai, con o senza di te, che questo sia chiaro.» «D’accordo, andiamo avanti. Tanto siamo sotto protezione, giusto, Roberto?» «Certo, avrete due angeli custodi che non vi perderanno di vista un solo istante. Luca, vorrei fare leggere anche a te il contratto che ho preparato per voi. Guardatelo con attenzione, se vi sta bene firmatelo in calce, se ritenete che manchi qualcosa non avete che da dirlo. Quando avremo sbrigato queste formalità, vi mostrerò il vostro ufficio e potrete cominciare a lavorare. Io non rimarrò con voi, stamattina ho intenzione di sentire i colleghi di Simone e i suoi amici. Se aveste bisogno di qualcosa, potrete rivolgervi all’agente Matteo

Montini, il suo numero telefonico interno è il quattrocentotrentasei. A proposito di telefono, se aveste bisogno di utilizzarlo, ne troverete uno nel vostro ufficio. Per ottenere la linea esterna, è sufficiente che digitiate lo zero prima del numero. È tutto chiaro?» «Chiarissimo» risposero in coro i due uomini. Lessero con attenzione il contratto, non trovarono nulla da obiettare, firmarono e furono accompagnati nel loro ufficio. Roberto li salutò, aveva fretta di continuare gli interrogatori alle persone che ruotavano intorno a Simone Fermi. Luca si accomodò alla sua scrivania, era evidentemente entusiasta. «Cazzo, non avrei mai pensato di diventare un poliziotto!» «Tu non sei un poliziotto, Luca, sei soltanto un esperto in geomanzia che sta collaborando in un’indagine di polizia, tutto qui. Quindi, togli quei piedi dalla scrivania e non montarti la testa!» «D’accordo, però ho un ufficio in un commissariato, ho il mio computer, il telefono!» «Sembri un bambino idiota che non ha mai visto niente in vita sua!» «E dai, lasciami divertire un po’, Stefano! Da quando sei diventato così serio?» «Forse da quando ho visto il cadavere martoriato di una bella ragazza all’obitorio, oppure da quando sono stato picchiato a sangue sotto casa mia!» «Aspetta, aspetta… Cos’è questa storia dell’obitorio?» Per tutta risposta, Stefano lanciò a Luca le fotografie del cadavere della ragazza, le aveva trovate sulle sua scrivania. «Oh, merda…» «Già. Ora capisci perché non ho nessuna voglia di scherzare?» «Cauda Draconis… Uno dei simboli disegnati sul muro del rifugio sotterraneo. Questo può voler dire una sola cosa, Stefano. Quei segni rappresentavano la profezia, la morte di questa ragazza rappresenta l’avverarsi della profezia

stessa.» «La stessa cosa che ho pensato io. E, se quello che pensiamo è corretto, succederanno altre cose, legate alle restanti profezie disegnate su quei muri. Dobbiamo assolutamente capire di cosa si potrebbe trattare, magari in questo modo potremo prevenire altri omicidi. Coraggio, mettiamoci al lavoro.»

Alessia era nel suo ufficio, aveva appena contattato un’agenzia interinale, era alla disperata ricerca di un paio di guide turistiche munite dell’esperienza necessaria per effettuare i tour previsti per i prossimi giorni. Simone era scomparso, Stefano stava giocando a fare il detective, lei non sapeva più come fare a mandare avanti la baracca. Era sabato, quel pomeriggio sia Simone sia Stefano avrebbero dovuto guidare un gruppo di turisti, avrebbe dovuto sostituirli lei stessa, a costo di chiudere l’agenzia al pubblico. Era piuttosto nervosa quel giorno e non solo per motivi di lavoro. Non riusciva ancora a credere a quello che Anna le aveva confidato il giorno precedente. Non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere, non da parte di sua sorella. Presto tutta la storia sarebbe venuta a galla, come l’avrebbe presa Valentina? E Andrea? E se la scomparsa di Simone fosse in qualche modo legata alla storia clandestina tra lui e Anna? Si arrovellava il cervello con mille domande, senza essere in grado di fornirsi uno straccio di risposta convincente. Il telefono sulla sua scrivania squillò. Era Monica, la informava che il commissario Roberto Fogli era appena arrivato in agenzia e desiderava parlarle. Alessia disse a Monica di farlo accomodare, la giornata peggiorava di minuto in minuto. «Salve, Alessia, come sta?» «Bene, commissario, grazie. In cosa posso esserle utile?» «Ho bisogno di parlare con tutti i suoi dipendenti, con una certa urgenza.» «Beh, commissario, qui con me in agenzia, a parte Monica, non c’è nessuno. Sono tutti impegnati nei tour turistici, oggi è sabato e hanno tutti la giornata piena. Anzi, tra poco dovrò andarmene io stessa, per coprire i turni di Simone e di Stefano. Spiacente, ma per poter parlare con i colleghi di Simone, dovrà aspettare lunedì.» «Potrei avere i loro indirizzi e i loro numeri telefonici? Cercherò di avere un

appuntamento con loro nei momenti di pausa fra un tour e l’altro. Le indagini devono proseguire, non posso aspettare lunedì.» «Come vuole, commissario.» Alessia annotò su un foglio i dati che Roberto le aveva chiesto e glielo consegnò. «Se non ha bisogno di altro, commissario, io avrei parecchio lavoro da sbrigare.» «C’è solo una cosa che vorrei chiederle e riguarda sua sorella Anna.» «Anna? Cosa c’entra mia sorella? Non lavora qui in agenzia!» «Non c’è motivo che si agiti! È vero, Anna non lavora in agenzia, ma mi risulta sia amica di Simone e della moglie Valentina. L’ho già interrogata ieri, purtroppo sono stato interrotto per un’emergenza, appena uscirò da qui andrò a casa sua per continuare l’interrogatorio e sentirò anche il marito Andrea. Quello che volevo chiederle, è se lei è al corrente del motivo per il quale sua sorella si agita tanto quando si parla di Simone Fermi.» «Beh, sono amici, probabilmente è sconvolta per la sua scomparsa, come lo siamo tutti.» «È vero, la scomparsa di Simone ha toccato tutti, eppure nemmeno la moglie Valentina sembra agitata come invece ho visto Anna. C’è qualcosa che non so e che invece dovrei sapere?» Alessia si sentì avvampare. Per quanto cercasse di mostrarsi indifferente al discorso del commissario, era certa che il rossore delle sue guance l’avesse tradita. «Ne parli con lei, commissario. Se ha qualcosa da dirle a riguardo, sarà lei stessa a farlo. Sono sua sorella, non la sua balia. Ora, se vuole scusarmi, ho veramente fretta di andare.» «Va bene, vada pure, ma sono sicuro che presto riprenderemo questo discorso. Vede, dicono che io sia bravo nel mio lavoro. E lo sa cosa fa di un poliziotto un “buon” poliziotto? L’intuito, il fiuto, le sensazioni. Difficilmente mi sbaglio e in questo momento sono certo che lei mi stia nascondendo qualcosa. Può decidere di non parlarmene, ma l’avviso: lo scoprirò comunque. Le auguro una buona

giornata.» Quando il commissario uscì, Alessia avrebbe voluto sprofondare tre metri sotto terra. Non sapeva mentire e il commissario aveva capito chiaramente che c’era qualcosa che lei stava nascondendo. Maledisse sua sorella Anna per averle fatto quella confidenza, il giorno precedente. Avrebbe preferito non sapere, almeno non sarebbe stata costretta a mentire a un poliziotto. Si sentiva stanca e frustrata, avrebbe voluto essere a casa sua, sul suo divano, si sarebbe sentita al sicuro e protetta. Invece doveva occuparsi di tre tour. Rassegnata, prese la borsa e uscì dall’agenzia.

CAPITOLO UNDICI

Stefano e Luca stavano cercando di dare un senso logico alla sequenza dei simboli geomantici riprodotti sui muri del rifugio sotterraneo. «L’ordine è questo: Amissio, Fortuna Major, Rubeus, Tristitia, Cauda Draconis e Via. L’omicidio della ragazza dovrebbe essere abbinabile al penultimo simbolo, quindi mi chiedo quale possa essere l’ordine cronologico dei simboli stessi» ragionò Luca. «Potrebbero essere ordinati in senso inverso, quindi partire da Via per giungere a Amissio» ipotizzò Stefano. «Potresti avere ragione. Pensiamoci un attimo. Via rappresenta il viaggio, la direzione, lo scopo, il progresso, l’evoluzione, il cambiamento. Come se chi ha disegnato quel simbolo, l’avesse fatto per indicare l’inizio di un cammino volto ad apportare un cambiamento radicale, qualcosa di importante. L’inizio di un viaggio per giungere a uno scopo finale, attraverso diverse tappe.» «La prima delle quali sarebbe l’eliminazione della lussuria, dei peccati carnali?» «Potrebbe essere, perché no?» «Concentriamoci sul secondo o del cammino, allora. Tristitia…» «Stefano, sai meglio di me quante interpretazioni può avere quel simbolo e anche quanto fortemente sia negativo. Può indicare malinconia, depressione, situazioni opprimenti, rimorsi, ideali estremi, pessimismo cronico. Ma nel nostro caso, cosa potrebbe significare? Ipotizziamo di essere di fronte a una specie di giustiziere. Con chi potrebbe avercela, in questo caso?» «Non lo so, Luca. Forse con i malati psichici? Con i depressi? Dovrebbe eliminare metà della popolazione mondiale, in quel caso!» «No, credo che a questo ipotetico giustiziere basti una sola vittima, un esempio direi. La prostituta contro la lussuria, magari il malato psichico per ripudiare le persone con problemi di questo genere? Oppure qualcuno che custodisce qualche

segreto scabroso ed è pieno di rimorsi?» «Sono ipotesi, certo. Non vedo però di che aiuto possiamo essere in questo caso. Cosa dovrebbe cercare la polizia? Cosa dovrebbe cercare di prevenire?» Stefano sembrava frustrato e impotente di fronte a un enigma davvero difficile da risolvere. «Proviamo ad andare avanti» propose Luca, «magari troveremo qualche collegamento utile, qualche particolare che ci illuminerà. Tieni presente che oggi è sabato e il giorno di Tristitia è proprio il sabato…» Stefano sospirò e prese in mano la terza fotografia, quella del simbolo Rubeus.

Don Pietro Salvati era chiuso nella sua stanza, nel retro della sua chiesa. Stava pregando per un paio di ragazzi che erano stati da lui il giorno precedente e che, seppur giovanissimi, avevano già dovuto vivere il peggio che la vita possa offrire. Lui cercava sempre di alleviare le sofferenze umane, era la sua missione. Sentiva che Dio l’aveva fatto venire al mondo proprio per questo. Don Pietro era molto amato dai fedeli che riempivano ogni giorno la sua chiesa. Da quando era arrivato a Torino, cinque anni prima, la sua chiesa era sempre gremita, i bambini e i ragazzi la frequentavano assiduamente, era stato capace ad avvicinarli alla fede e a Dio con una semplicità disarmante. Don Pietro aveva sessantotto anni, prima di approdare a Torino, aveva a lungo praticato l’arte dell’esorcismo. Era spesso venuto a contatto con il maligno ed era sempre riuscito a sconfiggerlo. Ogni volta che l’aveva fatto, però, aveva trascorso giorni e giorni in compagnia di un malessere violento e profondo e questo l’aveva indotto, vista la non più giovane età, ad abbandonare quel genere di pratica. Alcune persone che aveva liberato dalla presenza di Satana, ancora oggi, a distanza di anni, lo ringraziavano e lo adoravano per quanto aveva fatto per loro. Era ora di colazione, don Pietro si avvicinò al tavolino dove era solito consumare i suoi pasti. Quel giorno, la signora Lorenzi, che si occupava da sempre di cucinargli i pasti, gli aveva preparato dei biscotti al cioccolato e il solito latte macchiato. L’unico peccato che don Pietro si concedeva, era proprio quello di gola, gli piaceva mangiare e ne chiedeva perdono a Dio ogni giorno. Si sedette al tavolo e addentò il primo biscotto. Avvertì subito un forte bruciore alla bocca e alla faringe. Il cuore cominciò a battergli tumultuosamente, i muscoli di tutto il

corpo gli dolevano. Non capiva cosa gli stesse succedendo, ma sapeva di dover chiedere aiuto. A fatica, si trascinò fino alla porta della sua stanza, la aprì e uscì nel corridoio. Non riuscì a fare che pochi i, poi crollò a terra in preda a convulsioni terribili. Ben presto subentrò la paralisi. Don Pietro morì nell’arco di pochi minuti, senza essere riuscito a chiedere aiuto.

Roberto si trovava a casa di Anna e Andrea. Dopo i soliti convenevoli, era ato subito a porre loro le domande che gli interessavano. «Da quello che so, siete molto amici di Simone e Valentina e vi frequentate con regolarità, giusto?» chiese. «Sì, commissario» rispose Andrea, «Anna e io non abbiamo molti amici, ma ai pochi che abbiamo siamo molto legati. Almeno una volta alla settimana ci trovavamo per una cena, una eggiata, un gelato, a volte anche solo per trascorrere qualche ora in compagnia. Due brave persone, sono veramente sconvolto per quello che è successo a Simone. Stamattina abbiamo parlato con Valentina, quella povera donna è sconvolta, questa attesa sta diventando insopportabile! A proposito, non c’è nessuna novità?» «No, purtroppo ancora niente. Le foto di Simone sono state pubblicate su tutti i giornali di Torino e probabilmente verrà lanciato un appello televisivo a breve. Voi non avete idea di dove potrebbe essere andato Simone, nel caso si trattasse di un allontanamento volontario?» «Siamo sicuri che non lo sia, commissario» rispose Andrea. «Possiamo dire di conoscerlo piuttosto bene, non avrebbe mai fatto una cosa del genere e non ne avrebbe neanche avuto motivo. Aveva un lavoro che gli dava tantissime soddisfazioni, adorava le sue bambine, non aveva problemi economici, era un uomo sereno e appagato, perché mai avrebbe dovuto rinunciare a tutto questo? Se vuole la mia opinione, sono certo che gli sia successo qualcosa di grave.» «Lei, Anna, non ha niente da dire?» chiese Roberto. «Niente di più di quanto le ha detto Andrea. Non ho idea di cosa possa essere successo a Simone, magari potessi aiutarvi!» Oggi Anna apparve a Roberto molto più tranquilla rispetto al giorno precedente,

forse la vicinanza del marito le dava una certa sicurezza. Parlarono ancora per quasi mezz’ora, ma non emerse nessun particolare che potesse aiutare Roberto nelle sue indagini. Quando li salutò per tornare al commissariato, era piuttosto contrariato. Le indagini erano a un punto morto, sperava che Stefano e Luca avessero scoperto qualcosa di interessante che lo potesse aiutare a risolvere il mistero. Prima di tutto, doveva scoprire se la scomparsa di Simone e l’omicidio della giovane donna fossero in qualche modo collegate tra di loro. Salì a bordo della sua auto, pronto a tornare al commissariato, doveva parlare con il medico legale che aveva effettuato l’autopsia sul corpo della donna e informarsi alla scientifica per sapere se c’erano novità sul sopralluogo effettuato a casa di Simone Fermi e sull’esame dei tabulati del suo telefono cellulare.

La Cooperativa Sociale Emis era esperta in prevenzione, assistenza e reinserimento sociale di soggetti affetti da dipendenze patologiche, droga e alcool e del disagio psicologico giovanile. Era situata nel centro storico di Torino, a due i da via Garibaldi. Paolo Rivelli aveva un appuntamento presso la cooperativa, quella mattina. All’età di ventisette anni, Paolo era un uomo distrutto dalla droga, dall’alcool e dai sensi di colpa derivanti dall’omicidio dei suoi genitori, commesso dieci anni prima. All’epoca Paolo era minorenne, fu affidato ai servizi sociali, fu sottoposto a perizia psichiatrica, che ne stabilì l’incapacità di intendere e di volere. Da anni era in cura presso diverse strutture psichiatriche, ora aveva deciso di trovare un lavoro, di provare a cambiare vita. Per questo, quella mattina, voleva provare a chiedere aiuto all’Emis, nella speranza di poter cominciare un progressivo reinserimento sociale. Era di pessimo umore, si sentiva pronto a ricominciare una nuova vita, ma il senso di colpa che provava per quanto successo tanti anni prima, non l’abbandonava mai. Stava per uscire, quando suonarono alla porta di casa. «Chi è?» chiese. «Siamo della cooperativa Emis, abbiamo bisogno di parlare urgentemente con lei, signor Rivelli.» Paolo aprì la porta e si trovò di fronte tre uomini. Appena entrarono in casa, due di loro lo immobilizzarono e gli tapparono la bocca, il terzo gli piantò un ago nel

collo e gli iniettò un liquido. Paolo perse immediatamente i sensi. Uno degli uomini gli scoprì il petto, accese una sigaretta e cominciò a imprimere dei segni sulla carne del ragazzo.

«Rubeus è un altro simbolo fortemente negativo, Stefano» disse Luca. «Rappresenta la rabbia, l’incontrollabilità, il potere oscuro.» «Già, ma può anche indicare lussuria, lutto, morte violenta, emorragie, discipline estreme. Come facciamo a sapere il significato che voleva dare a questo simbolo, chi l’ha disegnato su quella parete?» «Ragioniamo un attimo. Cauda Draconis è stato associato alla prostituzione, quindi ai bassi istinti, alla pornografia, al sesso visto come atto sudicio. Questa è l’unica certezza che abbiamo. Se il nostro “giustiziere” ha deciso di ripulire il mondo dall’impurità, allora dovremmo collegare Tristitia a rimorsi pesanti, magari derivanti da gravi reati commessi e Rubeus alle discipline estreme. Non legate al sesso, però, altrimenti torniamo a Cauda Draconis.» «C’è di che venirne matti!» esclamò Stefano. «Ammesso e non concesso che riusciamo a ipotizzare a quale categoria possano appartenere le prossime vittime, come pensi che la polizia possa evitare un ipotetico prossimo omicidio? Le categorie a cui è rivolto l’assassino possono essere molteplici! E poi siamo sicuri che ci sia davvero un giustiziere e che l’omicidio della prostituta non sia casuale?» «Non credo, visti i simboli apparsi di recente su quei muri e quelli che aveva la donna uccisa sul petto! Qui non c’è nulla di casuale, piuttosto c’è un grosso enigma da risolvere e non so quanto noi possiamo essere d’aiuto! Oggi è sabato, il simbolo successivo, Tristitia, è legato a questo giorno, mentre il giorno di Rubeus è il martedì. Non ci resta che stare a vedere se entro la mezzanotte di oggi succederà qualcosa.» «Fantastico, Luca! Stiamo qui ad aspettare che ci siano altre vittime!» «Non so che dirti, Stefano, io non sono un investigatore e non lo sei nemmeno tu! Non credo che potremmo fare qualcosa di più di quanto stiamo facendo. Starà a Roberto e ai suoi collaboratori utilizzare il nostro lavoro al meglio.»

«Hai ragione, non sta a noi risolvere questo caso. Siamo stati assunti come collaboratori, non come investigatori. Rimettiamoci al lavoro, così entro stasera potremo stilare un primo rapporto su quanto abbiamo scoperto.» I due uomini si rimisero al lavoro, con la speranza di trovare le risposte giuste a tutte le domande che frullavano loro nella testa.

«Roberto, finalmente sei tornato! È da un po’ che cerco di rintracciarti al cellulare, ma risulta sempre irraggiungibile!» «Devo cambiare telefono, questo qui ormai funziona malissimo, la batteria si scarica subito, accidenti! Comunque perché mi cercavi, Matteo, che è successo?» «Due omicidi, a distanza di poche ore l’uno dall’altro.» «Nel nostro distretto?» «Uno dei due sì, è avvenuto nel centro di Torino, l’altro è avvenuto in una chiesa.» «In una chiesa?» «Sì, si tratta di un prete, un certo don Pietro Salvati.» «Vieni nel mio ufficio, così mi racconterai tutto.» Roberto e Matteo si fermarono alla macchinetta del caffè e prepararono due espressi ristretti. Erano quasi le tredici, nessuno dei due aveva pranzato e avevano bisogno di un po’ di caffeina che li mantenesse lucidi e svegli. «Allora, Matteo, raccontami tutto quello che è successo.» «Questa mattina, intorno alle sette e trenta, un sacerdote che presta la sua opera nella chiesa di San Lorenzo, in Piazza Castello, ha visto Don Pietro riverso sul pavimento, di fronte alla porta della sua stanza. L’ha subito soccorso, rendendosi immediatamente conto della gravità della situazione. Don Pietro non riusciva a respirare e una bava bianca gli usciva dalla bocca. Ha chiamato subito

un’ambulanza, il prete è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso delle Molinette, dove non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Il medico che l’ha visitato, ha avuto subito il sospetto che potesse trattarsi di una morte non naturale, così ha effettuato degli esami, dai quali è emerso che Don Pietro è morto per avvelenamento da cianuro. È stata subito allertata la questura, la quale ci ha contattato circa un’ora fa per affidarci il caso. Ho mandato una volante della scientifica sul posto, stanno effettuando tutti i rilevamenti del caso.» «Grazie, Matteo, sei stato preziosissimo come sempre. Marco dove diavolo si è cacciato?» «Te ne sei dimenticato, Roberto? La figlia di Marco si sposava stamattina, oggi non è in ufficio!» «Merda, me l’ero scordato! Dovremo fare a meno di lui, almeno per oggi. Comunque, parlami del secondo omicidio.» «Si tratta di Paolo Rivelli, un ragazzo di ventisette anni seguito dai servizi sociali, pare abbia un ato molto turbolento, ho cominciato a fare qualche ricerca e ho scoperto che una decina di anni fa ha ucciso a colpi di martello entrambi i genitori. È stato ucciso a casa sua con un’overdose di eroina, iniettata nel collo. Si è subito scartata l’ipotesi del suicidio in quanto sul petto il ragazzo aveva delle bruciature di sigaretta, che formavano un simbolo, il medico legale ha escluso che se le sia procurato da solo, visto che sono state impresse post mortem. A occhio e croce direi che sia opera dello stesso assassino della donna senza nome che si trova all’obitorio. Il medico legale che ha analizzato il corpo, ci ha mandato le prime fotografie, le ho sulla mia scrivania. Il caso ci è stato assegnato a causa del probabile collegamento con l’omicidio della donna.» «Vai a prendere le foto, svelto!» Matteo andò nel suo ufficio e tornò da Roberto dopo appena trenta secondi. In mano aveva una busta, la porse al commissario. Roberto sfogliò le fotografie con grande interesse, poi, senza perdere tempo, decise di mostrarle a Stefano e Luca, che lavoravano in un ufficio al piano superiore. Arrivò nella loro stanza e li trovò immersi nel loro lavoro.

«Salve, ragazzi, come vanno le cose?» «Procedono» rispose Stefano. «Stiamo cercando di capire di preciso cosa cercare, ma le ipotesi sono davvero tante, non è facile entrare nella mente di un criminale.» «Lo so, non dirlo a me. Vorrei che deste un’occhiata a queste fotografie» disse Roberto porgendo la busta contenente le foto del cadavere rinvenuto quella mattina. Stefano e Luca le esaminarono attentamente, poi si guardarono e in coro esclamarono: «Tristitia!» «Avete riconosciuto il simbolo, mi pare di capire. Ora, sapreste spiegarmi cosa potrebbe significare, soprattutto in collegamento con l’omicidio della donna?» «Per darti una risposta, abbiamo bisogno di conoscere la vita di questo povero ragazzo. In base a quella, forse potremmo formulare qualche ipotesi.» «Farò fare immediatamente delle ricerche, per il momento posso dirvi che questo ragazzo, circa dieci anni fa, uccise entrambi i genitori a colpi di martello. Questo è tutto quello che so, a parte che si chiamava Paolo Rivelli. Appena i ragazzi avranno finito il loro lavoro, vi farò avere un resoconto completo. Ho tra le mani anche un altro caso di omicidio, si tratta di un prete, ma sul suo corpo non sono stati trovati simboli geomantici, è morto per avvelenamento da cianuro. Indagherò anche su di lui e aspetterò i referti della scientifica che stanno esaminando il luogo dov’è stato ritrovato. A proposito di scientifica, vado a informarmi sulle ultime novità sul sopralluogo in casa di Simone Fermi e poi parlerò con il medico legale che ha effettuato l’autopsia sul corpo della giovane prostituta. Ci vediamo più tardi, buon lavoro ragazzi!» Appena il commissario lasciò il loro ufficio, Stefano e Luca esaminarono ancora più attentamente le foto del ragazzo ucciso. «Roberto ha detto che questo ragazzo aveva ucciso i genitori dieci anni fa e, come simbolo sul petto, l’assassino ha lasciato Tristitia. Questo a cosa ti fa pensare?» chiese Luca a Stefano.

«Rimorso forse? Segreti pesanti?» «Anch’io ho pensato a qualcosa del genere, ma per esserne sicuri bisognerà attendere i risultati della ricerca che Roberto effettuerà sulla vita del ragazzo. Intanto, continuiamo a formulare ipotesi, per il momento non possiamo fare altro.» Sospirando, i due uomini si rimisero al lavoro.

CAPITOLO DODICI

Roberto era a colloquio con Antonio De Quirico, il medico legale che si occupava dei casi del suo distretto. «Allora, Antonio, finita l’autopsia?» «L’ho terminata circa mezz’ora fa e tra poco comincerò quella sul corpo di Paolo Rivelli. Per quanto riguarda Don Pietro Salvati, il suo corpo è ancora all’ospedale Molinette, di una prima autopsia si occuperanno loro, ho già parlato con il collega che la effettuerà, lo conosco bene, è in gamba, mi fido ciecamente di lui, mi farà avere un resoconto completo a breve. Tornando alla prostituta, come ti avevo già accennato ieri, è stata brutalmente seviziata e violentata probabilmente con qualche oggetto appuntito. I tagli sul corpo, invece, sono stati effettuati con una lama molto sottile, forse una lametta. La morte è avvenuta per strangolamento con una corda, ho trovato dei residui di questo materiale alla base del collo. Ti confermo anche che le bruciature sono state provocate da una sigaretta incandescente, ho trovato tracce di cenere di tabacco al loro interno. La ragazza era ancora viva quando ha subito questa tortura. Novità sulla sua identità?» «Ancora niente, ma non mi stupisce. Molte prostitute dell’est sono qui in Italia clandestinamente, non sono da nessuna parte e di donne misteriosamente scomparse da quei paesi, probabilmente rapite e portate qui e buttate per strada contro la loro volontà, ce ne sono a centinaia. Sarà difficile dare un nome a quella ragazza, ma ci stiamo comunque lavorando. Ora ti lascio al tuo lavoro, ho urgenza di parlare con la scientifica. Aspetto un resoconto completo sull’autopsia, appena sarà pronto.» «Sarà sulla tua scrivania entro un paio d’ore. Aspetto ancora gli esiti di alcuni test tossicologici, poi ti farò avere il fascicolo completo.» «Grazie, Antonio, preciso e professionale come al solito! Ci sentiamo presto.» Appena lasciato l’obitorio, Roberto si recò al commissariato, al reparto scientifica. Chiese subito di parlare con Amedeo Lustri, il responsabile del

reparto. Dovette attendere per un buon quarto d’ora, prima che il collega lo raggiungesse. «Ciao, Roberto, scusa se ti ho fatto aspettare, ma qui è l’anticamera dell’inferno! Tre omicidi nel giro di ventiquattro ore, ho tutto il personale impegnato e ho chiesto al prefetto di mandarmi qualche rinforzo, non riusciamo più a stare dietro a tutto! Immagino tu sia venuto a chiedermi i primi risultati del sopralluogo a casa Fermi.» «Bingo! Sono qui proprio per questo. Allora, che mi puoi dire?» «La testimonianza della Brunelli sembra attendibile. Il bagno di quella casa è stato ripulito a fondo con prodotti chimici ad alto potere disinfettante e adatti per cancellare eventuali residui organici tipo, appunto, il vomito. Per quanto il lavoro sia stato certosino, nelle tubature della vasca da bagno, ne abbiamo trovato qualche residuo, al momento lo stiamo analizzando. Quanto al cellulare, a parte le telefonate alla moglie e all’agenzia presso la quale lavorava, c’è un numero che Simone componeva spesso, abbiamo controllato a chi appartenesse e il risultato è stato piuttosto interessante.» «Bene. E a chi appartiene?» «Appartiene a Anna Brunelli, la sorella di Alessia.» «Sono amici a quanto ci risulta, perché trovi la cosa così interessante?» «Prima di tutto perché non è normale chiamare un’amica a qualsiasi ora del giorno e mandarle messaggi in piena notte. E poi, stiamo lavorando sul testo degli sms. I primi li ho già esaminati, sono messaggi inequivocabili, Roberto. Quei due sono amanti.» Roberto rimase di sasso. Questa notizia cambiava le cose. Doveva parlare urgentemente con Anna Brunelli e anche con la sorella Alessia.

Simone si agitò subito, appena sentì la porta della sua prigione aprirsi. Sapeva di dover collaborare con Riccardo, non aveva scelta. Si augurava solo che non fe male alle sue bambine, per proteggerle avrebbe fatto qualsiasi cosa. Per quanto l’avesse già visto in altre occasioni, gli faceva sempre un certo effetto

trovarselo davanti, non c’era una semplice somiglianza tra loro due, erano praticamente identici. «Buongiorno, Simone, dormito bene?» «Una meraviglia, grazie. Come potrebbe essere altrimenti, in un hotel di lusso come questo?» «Bene, vedo che hai conservato il tuo senso dell’humor! Me ne dovrò ricordare, visto che tra poco dovrò sostituirmi a te! A questo proposito, ti ho portato degli abiti puliti, i pantaloncini e la maglietta che hai addosso mi servono, sarà meglio che me li consegni subito.» Simone avrebbe voluto ribellarsi, ma sapeva perfettamente che sarebbe stato inutile. Si tolse gli abiti che indossava e infilò i jeans e la maglietta che Riccardo gli aveva consegnato. Di colpo pensò a sé stesso chiuso dentro a una bara, con quegli abiti addosso. Avvertì un brivido di terrore attraversagli tutto il corpo. Respirò profondamente, cercando di calmarsi. «Bene, ora cominciamo con le prime domande. Partiamo dalla parte più complicata, che riguarda il tuo lavoro. Mi spieghi come si svolge?» «Se tu pensi di poter diventare una buona guida turistica come sono io nel giro di qualche ora, sbagli di grosso! Le mie conoscenze derivano da anni e anni di studi, di ricerche e di esperienza!» «Non sottovalutarmi, Simone. Anche io ho una certa esperienza nel settore, diciamo che ho solo bisogno di conoscere un po’ meglio i luoghi artistici di Torino, per il resto me la so cavare egregiamente.» Chi diavolo era quell’uomo? Perché era identico a lui, perché voleva vivere la sua vita? Cosa c’era dietro a tutto questo? Simone pensò che, prima che l’avessero ucciso, avrebbe chiesto a Riccardo di raccontargli la verità, lo percepiva come un sacrosanto diritto. Prese fiato e cominciò a parlare, mentre il suo sosia trasferiva su un PC portatile tutte le informazioni che stava recependo.

Roberto era all’interno della chiesa di San Lorenzo. La scientifica era al lavoro nella stanza di don Pietro Salvati. Il commissario parlò subito con l’ispettore a

capo del gruppo di lavoro. «Ciao, Corrado, come vanno le cose?» «Abbastanza bene, direi. Siamo a buon punto. Ho già i primi risultati degli esami ai quali abbiamo sottoposto la colazione del prete, mi hanno appena chiamato dal laboratorio.» «Quindi? Cosa mi puoi dire?» «Non ci sono più dubbi, nonostante i risultati dell’autopsia non siano ancora disponibili. Don Pietro è morto per avvelenamento da cianuro. In ogni biscotto, ne erano contenuti circa seicento milligrammi, il doppio della dose letale per l’uomo.» «Come avviene la morte?» «Il veleno impedisce il rilascio di ossigeno da parte dell’emoglobina, la frequenza cardiaca aumenta vertiginosamente per poi diminuire progressivamente. Possono essere presenti convulsioni e senso di asfissia. La morte avviene per mancanza di ossigenazione al cervello e collasso cardiovascolare.» «Chi si occupava di servirgli i pasti?» «Un paio di sacerdoti, don sco e don Romolo. Li preparava sempre la signora Lucia Lorenzi, i biscotti li aveva portati tre giorni fa, a detta dei due sacerdoti, non era la prima mattina che li consumava.» «Quindi, il veleno è stato iniettato al loro interno successivamente.» «È esattamente quello che pensiamo. Bisognerebbe capire quando e da chi.» «Certo, altrimenti sarebbe tutto troppo facile. Altri particolari interessanti?» «Direi di sì. Sotto il tavolo della colazione, attaccata con del nastro adesivo, abbiamo trovato questa.» Corrado porse a Roberto una bustina trasparente, utilizzata per conservare i reperti. Si trattava di una medaglietta, rappresentava un serpente.

«Un serpente?» «Già, tu sai cosa può significare?» «Un’idea ce l’ho. Qualche anno fa, ho seguito un’indagine che coinvolgeva una setta satanica e ho imparato diverse cose. Per esempio, so che il serpente è il simbolo più sacro che esista nel Satanismo. Rappresenta la forza della Kundalini, che si trova alla base della spina dorsale. Quando il serpente viene attivato attraverso la meditazione ed esercizi specifici, risale attraverso i sette chakra apportando intensa sensibilità, illuminazione, poteri psichici e capacità personali, oltre che il “sapere tutto”. Il cobra rigonfio che si vede in molti antichi dipinti e incisioni dell’Antico Egitto, è simbolo della coscienza espansa che consegue all’aver innalzato il serpente. Questa è la vera base del Satanismo: far risalire il serpente. Coloro che hanno successo nel risvegliare e far risalire il serpente si trovano a un livello spirituale molto più elevato e non possono più essere ingannati dal Cristianesimo e dai suoi programmi connessi.» «Merda! Vuoi dire che l’omicidio di don Pietro è legato al satanismo?» «Potrebbe essere. In questo caso, però, questo omicidio non sarebbe collegato agli altri due. Un gran mistero, che diventa più fitto di ora in ora. Sai dove posso trovare i due sacerdoti che si occupavano di don Pietro?» «Certo, sono in sacrestia, sotto choc. Ho provato a parlare con loro, ma erano troppo sconvolti. Provaci tu, magari con te saranno più loquaci.» «Lo farò subito, voi continuate a lavorare. Se ci fossero novità, chiamami al cellulare.» «D’accordo, Roberto, ci sentiamo più tardi.» Roberto cercò la sacrestia, entrò e notò, seduti su due sedie con la testa tra le mani, don Romolo e don sco. Avevano un rosario tra le mani e pregavano, probabilmente per l’anima del fratello. Gli dispiaceva interromperli in un momento così delicato, ma anche questo faceva parte del suo lavoro. Si avvicinò, pronto a scoprire il più possibile su don Pietro. «Buongiorno, mi dispiace disturbarvi. Sono il commissario Roberto Fogli, sto

indagando sull’omicidio di don Pietro.» I due sacerdoti, entrambi al di sopra dei sessant’anni, si presentarono, poi lo guardarono con sguardo angosciato e disperato. «Non riusciamo a farcene una ragione, commissario. Pietro è l’uomo più buono e più dolce che sia mai entrato in questa chiesa. Un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a fare del bene al prossimo. Glielo può confermare chiunque lo conosceva. Tutti gli volevano bene, anche i ragazzini e i bambini. Aveva avvicinato i giovani alla chiesa con una naturalezza e una facilità sorprendenti. Chiunque avesse un problema, veniva a parlarne con lui, non sempre aveva la soluzione, ma anche solo parlare con lui dava serenità e speranza ai suoi fedeli» disse don Romolo, in lacrime. «Da quanto tempo don Pietro esercitava in questa chiesa?» «Da cinque anni. Prima Pietro era residente a Verona. Oltre a essere sacerdote in una chiesa, era un famoso esorcista. Ha liberato tantissime anime dalla presenza del demonio, alcuni esorcizzati lo venivano a trovare ancora oggi, per ringraziarlo» rispose don sco. «Un esorcista, ha detto?» «Sì e anche molto bravo, come le ho detto.» «Non vi risulta che don Pietro avesse dei nemici? Qualcuno a cui aveva pestato i piedi, magari in difesa dei più deboli?» «Non ho mai sentito nessuno parlare male di lui, ne parlavano tutti con grande affetto ed enorme rispetto. Un vero servitore di Dio, come ce ne sono pochi ormai.» «Ancora una cosa. Dove venivano conservati i biscotti che don Pietro consumava a colazione?» «Li tenevamo nella nostra cucina. I suoi colleghi la stanno ispezionando» rispose sco. «Chi può accedere alle cucine?»

«Soltanto noi che abitiamo questa chiesa, ma come ha evidenziato un suo collega, la cucina è collegata con il cortile della chiesa da una porticina vecchia, chiusa da una serratura fatiscente. Infatti ci siamo accorti stamattina che è stata forzata. Non sappiamo quando sia successo, nessuno di noi ci ha fatto caso, non la utilizziamo mai, raggiungiamo la cucina sempre ando dall’interno della chiesa» rispose Romolo. «D’accordo, per ora vi ringrazio. Avrete un po’ di confusione in chiesa per le prossime ore. Dovremo vietare l’ingresso ai fedeli, almeno finché la scientifica non avrà terminato il suo lavoro.» «Commissario, domani è domenica, la chiesa sarà gremita!» si preoccupò don sco. «Per domani i vostri fedeli dovranno cambiare chiesa, oppure potete organizzare la celebrazione della messa all’esterno. Mi dispiace, ma qui si tratta di omicidio. Trovare l’assassino di don Pietro ha la priorità assoluta su tutto il resto.» «Certo, commissario, ha ragione. Faremo come dice lei, organizzeremo una cerimonia all’aperto, in onore di Pietro.» Roberto si congedò e guardò l’orologio. Erano quasi le diciotto, si rese conto di non aver avuto un attimo di pausa, quel giorno. Era decisamente stanco, i suoi quarantacinque anni ogni tanto gli ricordavano che non era più un ragazzino e che doveva dosare le sue forze. Si avviò verso la sua auto, pronto a fare ritorno in ufficio.

Matteo Montini aveva appena terminato la ricostruzione della vita di Paolo Rivelli. Come gli era stato chiesto dal commissario, portò il dossier riguardante la vittima dell’omicidio sul quale stavano indagando a Stefano e Luca. Stefano prese il fascicolo dalle mani di Matteo e cominciò a leggerne il contenuto al alta voce. «Paolo Rivelli era nato a Torino il ventisette marzo del 1985. Figlio di Laura e Rolando, entrambi operai alla Fiat di Torino, già da piccolo Paolo aveva mostrato i segnali di un profondo disagio psichico. All’età di dodici anni era già in cura presso un centro di salute mentale. All’età di quattordici anni, cominciò

ad avere problemi con la droga, dapprima hashish, poi eroina e cominciò anche a bere super alcoolici. I genitori fecero di tutto per curarlo, Paolo era il loro unico figlio e pare gli dedicassero tutte le attenzioni necessarie. Purtroppo, il tredici agosto del 2002, al rifiuto dei genitori di consegnargli i soldi che avevano nei portafogli per comprare la droga, lui reagì colpendoli con un martello alla testa. Il referto del medico legale parla di una quarantina di martellate a testa. Fu ritrovato a casa dall’anziana nonna che possedeva le chiavi dell’alloggio della figlia e che si era allarmata non ricevendo risposta alle sue telefonate. Erano ate più di ventiquattro ore dal duplice omicidio, Paolo era ancora seduto sul pavimento della cucina, a fianco dei genitori che giacevano in una pozza di sangue. Fu immediatamente affidato alle cure di una clinica psichiatrica, fu processato e dichiarato incapace di intendere e di volere al momento dei delitti. Da allora, è stato sempre seguito dal professor Giuseppe Minetti, uno psichiatra che stava cercando di reinserirlo nella società. Questa mattina aveva appuntamento presso una cooperativa che si occupa proprio di reinserimento sociale.» «Molto interessante. Secondo te, Paolo provava rimorso per i delitti commessi?» chiese Luca. «Potrebbe essere, forse sarebbe il caso di sentire il professor Minetti, lui a questa domanda saprà certamente rispondere.» «Già, ma di questo se ne occuperà Roberto. Intanto io sono sempre più convinto che la morte di Paolo Rivelli sia strettamente collegata al simbolo Tristitia. Comunque aspettiamo che torni Roberto, poi decideremo il da farsi.» Neanche l’avessero chiamato, Roberto entrò nel loro ufficio. «Ho sentito fare il mio nome. Mi cercavate?» «Oh, sì, Roberto. Matteo ci ha appena portato il fascicolo riguardante Paolo Rivelli. Stavamo dicendo che forse sarebbe il caso di sentire subito il suo psichiatra, il professor Giuseppe Minetti» rispose Stefano. Roberto lesse attentamente il fascicolo. «Certo, prenderò subito appuntamento con lui. Vedo che vi siete trasformati in abili investigatori! Avete tratto qualche conclusione?»

«Abbiamo una nostra teoria, ma prima di esportela, abbiamo bisogno di qualche conferma che ci potrà dare proprio lo psichiatra del ragazzo.» «D’accordo, farò in modo di parlargli il prima possibile. Ora, scusatemi, ma ho avuto una giornata pesante, non ho neanche pranzato ed è quasi ora di cena. Devo andare ancora a trovare un paio di persone e poi credo che andrò a casa a riposare. Vi consiglio di fare lo stesso, ci ritroveremo qui domattina alle nove. Le indagini intanto continueranno senza sosta, qui al commissariato e anche alla scientifica. Quando decidete di andare, chiamate Matteo, vi farà accompagnare da due volanti, che sosteranno sotto casa vostra tutta la notte. Non vorrei succedessero altri episodi spiacevoli. A domani, ragazzi e grazie di tutto» concluse Roberto. Stefano e Luca riordinarono i loro appunti, spensero i computer e si apprestarono a fare ritorno a casa. Erano molto stanchi anche loro, la giornata era stata lunga e impegnativa, ma sentivano di aver intrapreso la strada giusta.

CAPITOLO TREDICI

Alle diciotto e trenta, l’auto di Roberto si fermò di fronte all’agenzia di Alessia Brunelli. La lasciò parcheggiata in seconda fila ed entrò direttamente nell’ufficio di Alessia, ricordandosi a stento di bussare. «Avanti!» urlò Alessia. «Buonasera, Alessia. Sono contento di trovarla ancora in ufficio.» «Pensi come sono contenta io! È stata una giornata massacrante, le confesso che non vedo l’ora di chiudere bottega e precipitarmi a casa! Anche lei sta facendo gli straordinari, a quanto vedo. Cosa c’è di tanto urgente che l’ha portata qui a quest’ora? Ci sono novità su Simone?» «Non quelle che speravamo. Non l’abbiamo rintracciato, però in effetti una novità c’è. Novità per me, forse per lei non lo è.» Alessia lo guardava con aria interrogativa. «Non sto a girarci troppo intorno e vengo subito al sodo, visto che né lei né io abbiamo tempo da perdere. Lei era al corrente della relazione tra sua sorella Anna e Simone?» Le parole di Roberto colpirono Alessia come un pugno nello stomaco. Si sentì avvampare, sapeva di non essere in grado di mentire al commissario, se ne sarebbe sicuramente accorto. Ci avevano messo davvero poco a scoprirlo. «La sua espressione vale più di mille risposte! Ne ero certo, accidenti!» «Ne sono al corrente da ieri, commissario, quando mia sorella Anna me l’ha confessato. Ne sono rimasta sconvolta almeno quanto lei, non avevo idea che tra quei due ci fosse del tenero.» «E si è guardata bene dal parlarmene! Eppure eravamo d’accordo che qualsiasi cosa della quale lei fosse a conoscenza che potesse essere utile alle indagini, me l’avrebbe riferita!»

«Mi dispiace, davvero, ma non ho ritenuto fosse compito mio riferire un particolare così privato e intimo.» «Particolare? Sua sorella è sposata e anche Simone lo è! Non crede che, invece di un particolare, qui si tratti di un elemento di estrema importanza? La scomparsa di Simone potrebbe dipendere proprio da quello che lei chiama “particolare”!» «E va bene, ha ragione, ho sbagliato. Speravo che fosse Anna stessa a parlarle della cosa, l’ha fatto?» «No, se ne è ben guardata! Pensare che ho parlato con lei soltanto stamattina! Siamo risaliti alla relazione tra di loro attraverso gli sms che si scambiavano. Questa cosa è di una gravità estrema! Ho parlato prima con lei e ora è troppo tardi per andare a trovare sua sorella, ma sarà una delle prime cose che farò domattina. Se vuole l’avvisi, così avrà il tempo necessario per informare il marito della relazione con l’amico di famiglia. È un favore che le sto facendo, non so neanche perché lo faccio!» «La ringrazio, commissario, erò da Anna prima di andare a casa. Questa giornata non finisce davvero mai! Comunque Anna non c’entra niente con la scomparsa di Simone, a quanto mi ha detto il loro era vero amore, non era una squallida relazione di sesso e io le credo.» «Io questo non lo so e comunque non giustifica la reticenza di sua sorella e nemmeno la sua. Voglio essere chiaro con lei, signorina Brunelli. Questa volta erò sopra a quanto è successo, ma se dovesse capitare un’altra volta che lei o sua sorella mi nascondiate qualcosa, io…» «Non succederà, commissario, glielo prometto. Mi scusi ancora, non era mia intenzione ostacolare le indagini. Il fatto è che mi sono trovata di fronte a una situazione alquanto sgradevole, non volevo tradire la fiducia di mia sorella, capisce?» «Va bene, lasciamo perdere. Ci rivedremo domani, ora è meglio per tutti porre fine a questa giornata infernale. Buona serata, signorina Brunelli.» Roberto lasciò Alessia da sola in ufficio. La donna non perse altro tempo. Sistemò le ultime cose, chiuse l’ufficio e si precipitò a casa della sorella.

Erano le diciannove e trenta quando Alessia suonò alla porta di Anna. «Alessia! Che ci fai qui a quest’ora? È successo qualcosa? Notizie di Simone?» «No, nessuna notizia. Sono qui perché ho urgente bisogno di parlarti.» «Non possiamo parlare domattina? Ho appena messo la pasta nei piatti. Anzi, se vuoi unirti a noi…» «Non ho fame, grazie. E, comunque, ho bisogno di parlare con te adesso, la pasta può aspettare!» Andrea si avvicinò alla moglie, Carlotta era attaccata ai suoi pantaloncini. «Alessia, che sorpresa! Ceni con noi?» «Sì, zia, rimani qui! Mamma ha preparato la pasta con il ragù, quella che piace tanto a te!» disse la bambina. «Tesoro, mi dispiace, ma non posso restare. Sono ata soltanto per parlare un attimo con la tua mamma.» «È così urgente? La pasta si fredda!» disse Andrea. «Mi dispiace, Andrea, ma non posso proprio aspettare, altrimenti non mi sarei presentata qui a quest’ora e senza preavviso. Anna, possiamo sederci un attimo in terrazzo?» «Va bene, se è così urgente! Andrea, voi cenate, io mi scalderò la pasta più tardi. Ci pensi tu a Carlotta?» «Certo, amore» rispose Andrea perplesso. La casa di Andrea e Anna era munita di un ampio terrazzo, dove era posizionato un tavolo con quattro sedie. Anna e Alessia si accomodarono una di fronte all’altra. «Allora, cosa c’è di così urgente che non poteva aspettare fino a domani?»

«Poco fa il commissario Fogli è ato da me in agenzia. Sa tutto, Anna. Tutto di te e Simone.» Anna sbiancò e cominciò a tremare. «Gliel’hai detto tu?» «Non c’è stato bisogno che lo fi, lo sapeva già.» «Ma come cazzo ha fatto a scoprirlo così in fretta?» «Ma dove vivi, Anna? È bastato esaminare i tabulati del cellulare di Simone e leggere gli sms che vi scambiavate! A quanto pare sono inequivocabili!» «Merda! E ora che succederà?» «Domattina verrà qui a casa vostra per interrogarti. Suppongo che Andrea sarà presente, ha usato la cortesia di informarmi in modo che io avvertissi te. Devi parlare con Andrea e devi farlo questa sera stessa!» «Mio Dio, Alessia! Come faccio a confessargli una cosa del genere così su due piedi?» «Questo è un problema tuo, non mio. Mi dispiace, ma tu ti sei messa in questa situazione e tu ne devi uscire. Non credo ci siano altre alternative.» Due lacrime rigarono il viso di Anna, Alessia provò un misto di pena e di rabbia. Come diavolo aveva fatto a cacciarsi in un guaio del genere? Possibile che non avesse pensato neanche per un attimo alle conseguenze? Come l’avrebbe presa Andrea? Se non fosse riuscito a perdonarla, cosa ne sarebbe stato di Carlotta? «Mi dispiace, Anna, per te, per Andrea e soprattutto per Carlotta. Purtroppo non ci sono vie d’uscita. Devi parlare con tuo marito e devi farlo subito, non c’è più tempo.» «D’accordo, Alessia, ti ringrazio per avermi avvertita. Ora, se non ti dispiace, vado a cenare con la mia famiglia. Una sorta di ultima cena…» disse con tono amaro. «Andrea è un uomo intelligente, vedrai che capirà e saprà perdonarti» disse

Alessia senza troppa convinzione. Alessia abbracciò la sorella, salutò il cognato e la nipotina e uscì da quella casa con il cuore stretto in una morsa. Quella che aveva sempre considerato una bella famiglia felice, probabilmente si sarebbe sgretolata in un attimo. La vita era davvero uno schifo.

Appena Alessia se ne era andata, Andrea aveva subito chiesto a Anna il motivo di quella strana visita. Lei era rimasta sul vago, aveva detto che non aveva voglia di parlarne, Andrea aveva insistito per un po’ poi, rendendosi conto del disagio della moglie, aveva desistito. Anna non era riuscita a mandare giù neanche una forchettata di pasta, si sentiva persa e disperata come non le era mai successo in tutta la sua vita. Simone, l’uomo che amava con tutta se stessa, era scomparso. Ora avrebbe perso anche Andrea, al quale comunque lei voleva molto bene. Carlotta avrebbe perso la sua stabilità familiare, aveva combinato un disastro e non c’era modo di porvi rimedio. Dopo cena, era rimasta chiusa in bagno a lungo, riflettendo sul da farsi. Cercava di trovare le parole giuste per parlare con il marito, ma si rendeva conto che, in casi come quello, parole giuste non ne esistevano. E non esistevano neanche giustificazioni. Andrea era sempre stato un buon marito e un buon padre, non aveva meritato in alcun modo la sua infedeltà. Alle ventidue, quando Carlotta si fu addormentata, raggiunse Andrea in salotto. Stava guardando un film in televisione. Si avvicinò a lui, prese il telecomando e spense la TV. «Ehi, Anna! Perché hai spento? Stavo guardando il film!» «Mi dispiace, Andrea, ma ho bisogno di parlarti.» «Stasera sembra che tutti quanti abbiate una maledetta urgenza di parlare! D’accordo, ti ascolto. È qualcosa che ha a che fare con la visita di tua sorella, giusto?» «Sì, è così, anche se Alessia non c’entra nulla.» Andrea era in attesa, ma Anna non parlava. «Allora? Hai detto che devi parlarmi, perché te ne stai lì in silenzio? Incomincio

a preoccuparmi, non ti ho mai vista così tesa e agitata, deve essere successo qualcosa di grave. Avanti, non farmi stare sulle spine, dimmi che succede!» Anna aveva ato le ultime due ore cercando di formulare un discorso, aveva cercato le parole giuste, quelle che avrebbero fatto meno male a Andrea, ma ora non le ricordava più, sapeva solo di doversi togliere quel macigno che aveva sul cuore e non c’era alcun modo indolore per farlo. «Devo confessarti una cosa, Andrea. Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto! Non avrei mai pensato che potesse succedere una cosa del genere tra di noi! Non so neanche spiegarti come sia successo, ci sono cose nella vita che accadono, che ti travolgono e che non ti danno il tempo per riflettere. Cose che vanno contro i tuoi principi e il tuo modo di pensare e di vedere la vita. Ti trovi a vivere una situazione che sai perfettamente quanto sia sbagliata, ma ti accorgi di non poterne fare a meno.» «Non ti seguo… Cos’è che sarebbe successo tra di noi?» Anna si tormentava una ciocca di capelli, respirava a fatica e aveva il cuore che galoppava nel petto. «Ti ho tradito, Andrea. Ho una relazione con un altro uomo.» Andrea la guardò come se la vedesse per la prima volta. Nei suoi occhi Anna lesse un misto di stupore, rabbia, incredulità e forse anche paura. «Dimmi qualcosa, insultami, arrabbiati, ma non stare in silenzio guardandomi in quel modo!» urlò improvvisamente Anna. Andrea si alzò dal divano e cominciò a camminare avanti e indietro per il salotto. «Chi è lui? Da quanto dura?» Qui veniva la parte più difficile. Oltre al dolore per il tradimento, Anna doveva infliggergli un dolore ancora più grande, doveva confessargli di averlo tradito con il suo migliore amico. «È cominciata un paio di anni fa, non volevamo che accadesse, è stato più forte di noi. Abbiamo provato a ignorare il sentimento che provavamo, ma non ci

siamo riusciti, siamo stati deboli, me ne rendo conto solo adesso.» «Non mi hai ancora detto chi è il tuo amante» chiese con disprezzo Andrea. Anna tremava, ma ormai doveva andare fino in fondo. «Si tratta… Si tratta di… Simone.» Lui si voltò di scatto e la guardò dritta negli occhi. Questa volta nel suo sguardo Anna lesse soltanto odio. «Te la fai con il mio migliore amico? Grandioso! Ma con chi cazzo ho vissuto per tutti questi anni? Che razza di donna sei e che razza di amico è stato Simone? Come avete potuto pugnalarmi così alle spalle? Non avete pensato ai vostri figli? Chissà quante risate vi siete fatti alle mie spalle! E quando cenavamo insieme? Magari vi chiudevate in bagno a scopare tra una portata e l’altra! Che schifo. Mi fate schifo, tutti e due.» Andrea andò in camera da letto, indossò un paio di jeans e una polo azzurra. Prese le chiavi della macchina e il portafogli e si avviò verso la porta di casa. «Aspetta, Andrea, parliamone, non te ne andare così» disse lei prendendogli la mano. «Toglimi quelle mani di dosso! Non voglio avere più niente a che fare con te e farò di tutto per avere l’affidamento di Carlotta, non sei una madre degna di crescere mia figlia. Sei una lurida troia e il solo guardarti mi dà il voltastomaco!» Andrea uscì di casa sbattendo la porta. Il tonfo della porta che sbatteva fu come una pugnalata al petto, per Anna. Si accasciò sul pavimento con la consapevolezza che la sua vita, da quel giorno, non sarebbe stata più la stessa.

Riccardo aveva accumulato una gran quantità di informazioni. Aveva trascorso quasi l’intera giornata con Simone. Dal punto di vista lavorativo, si sentiva pronto per cominciare a prestare la sua opera in agenzia. L’indomani, avrebbe cominciato a indagare sulla vita privata di Simone, era giunto il momento di ricomparire, già pregustava la faccia di tutti, quando l’avrebbero visto tornare!

Quella sera, alle undici, aveva appuntamento con la sacerdotessa. Non l’aveva mai vista in volto, così come tutti gli altri membri della setta, ma era innamorato di lei, della sua voce dura e determinata, del suo corpo flessuoso, della sua spietatezza e della sua crudeltà. Spesso avevano avuto rapporti sessuali, lei era sadica e violenta e a lui piaceva. Per un po’ lei avrebbe dovuto evitare di usare la frusta su di lui, come amava fare, non doveva lasciare segni sul suo corpo. Il solo pensiero lo eccitò come solo la sacerdotessa era in grado di fare. Arrivò da lei puntuale, la trovò seduta sul divano. Non indossava altro che il suo consueto cappuccio nero, che lasciava intravedere soltanto gli occhi, il naso e la bocca. La vista del suo corpo nudo lo mise immediatamente in agitazione, si augurava che quella sera lei fosse disposta a concedersi a lui, non accadeva spesso e lui viveva per quei momenti. Nel corso delle messe e delle cerimonie alle quali lui partecipava sempre, la vedeva accoppiarsi con un numero considerevole di uomini e provava una gelosia dolorosa e un’invidia profonda. Lei non gli permetteva di possederla in quelle occasioni. «Bene, Riccardo, vedo che sei puntuale come sempre. Come vanno le cose?» «Benissimo, sacerdotessa. Simone si è convinto a collaborare, non gli ho dato scelta. Ho accumulato tantissime informazioni, ancora qualche giorno con lui e sarò pronto.» «Bada a non sbagliare, sai quanto è importante il compito che ti ho affidato, conto sul fatto che tu non mi deluda.» «Non ti deluderei mai, sacerdotessa, lo sai.» «C’è stata un’altra vittima, oggi. Ci stanno sfidando, ma noi stiamo rispondendo colpo su colpo. Non appena verremo in possesso dei luoghi che ci interessano, porteremo ovunque la parola di Satana e il mondo cambierà.» «Sarà così, sacerdotessa.» Lei si alzò dal divano, aprì un cassetto e tirò fuori delle mollette, dei falli giganteschi e delle corde. Riccardo cominciò a tremare. La sacerdotessa aveva deciso di prendersi cura di lui, quella sera. Si inginocchiò di fronte a lei, le baciò i piedi e si preparò ad affrontare un

doloroso e delizioso supplizio.

CAPITOLO QUATTORDICI

Era domenica mattina, Torino si era svegliata sotto uno splendido sole. Roberto, nonostante tutti i pensieri e le preoccupazioni derivanti dall’intricato caso che stava seguendo, aveva dormito come un sasso, evidentemente era davvero esausto. Aveva appena quarantacinque anni, tutti gli dicevano che ne dimostrava parecchi di meno, ma certo non si sentiva più come una decina di anni prima. Lavorare per dodici ore consecutive cominciava a pesargli, specie quando le giornate erano dense di interrogatori come lo era stata quella precedente. Dopo la colazione e una rapida doccia, si vestì, uscì di casa, scese le scale e si avviò verso la sua auto. Durante il tragitto da casa al commissariato, ricapitolò mentalmente quello che avrebbe dovuto fare quella mattina. Alle nove aveva appuntamento con il professor Minetti, lo psichiatra che aveva seguito per anni Paolo Rivelli. Poi, doveva interrogare Anna Brunelli, voleva sapere tutti i particolari sulla sua relazione con Simone Fermi. Successivamente, doveva fare il punto della situazione con Stefano e Luca e non doveva dimenticarsi della scientifica e dei referti delle varie autopsie sulle vittime che attendeva dal medico legale e che avrebbe dovuto esaminare. Inoltre, doveva continuare le indagini su Simone Fermi, era intenzionato a reperire informazioni sulla sua famiglia di origine, doveva interpellare l’orfanotrofio dove Simone era cresciuto e il personale dell’ospedale dove era venuto alla luce. E, per finire, doveva interrogare i colleghi di Simone. Il semaforo era rosso, Roberto poggiò la fronte sul volante. Non c’era quasi nessuno per strada a quell’ora. Era domenica, una giornata di riposo per tutti, o quasi. Ripensò al periodo in cui era stato sposato con Cinzia. Il loro matrimonio era durato soltanto cinque anni, poi lei aveva preso loro figlio Davide di tre anni ed era tornata a vivere a Roma, la sua città natale. Il loro matrimonio era finito a causa della scarsa presenza di Roberto in famiglia. Era spesso assente per motivi di lavoro, lei a Torino non aveva nessuno e si era stancata di crescere loro figlio da sola. O, più probabilmente, l’amore tra di loro era semplicemente finito. Aveva rinunciato a lottare per ottenere l’affidamento di Davide, sapeva benissimo che sarebbe stato molto meglio con la madre e con i nonni, lui non sarebbe stato in grado di dargli quello di cui aveva bisogno. Lo vedeva una volta al mese per un fine settimana e si accontentava così. Ora Davide aveva nove anni, frequentava la scuola elementare e avevano un rapporto discreto, anche se Cinzia aveva un nuovo compagno che Davide chiamava “il suo secondo papà”.

Seppure quella mattina Torino fosse quasi deserta, un clacson dietro di lui gli fece notare che il semaforo era diventato verde e, lui, distratto dai suoi pensieri, era rimasto inchiodato sull’asfalto. Partì velocemente, non prima di aver rivolto un gestaccio in direzione del frettoloso autista alle sue spalle. Arrivò al commissariato alle otto e trenta, parcheggiò l’auto e salì le scale a quattro a quattro fino al secondo piano, dove si trovava il suo ufficio. Marco lo attendeva di fronte alla porta. «Bentornato, Marco. Come stai? Come è andato il matrimonio di Rossella?» «Benissimo, Roberto. È stata una cerimonia commovente, non credevo che condurla all’altare potesse essere così emozionante! Il pranzo è stato ottimo e tutti gli invitati sono rimasti soddisfatti. Ieri sera i due piccioncini hanno preso l’aereo per Cuba, non rivedrò Rossella che tra quindici giorni. Mi mancherà la sua presenza in casa, ma saperla felice mi basta. E poi rimane sempre Amedeo, ha soltanto quindici anni, spero rimanga a casa con me e Letizia ancora a lungo!» «Sarà sicuramente così. E poi presto diventerai nonno, non sei contento?» «Ne abbiamo già parlato, sono contento che Rossella diventerà madre, ma il fatto che abbia solo ventitré anni mi spaventa. È ancora così giovane! E poi diventare nonno a cinquant’anni mi sembra troppo presto! Comunque ormai è successo e affronteremo anche questa. Per fortuna il mio neo genero ha un buon impiego e una casa di proprietà e potrà prendersi cura di Rossella e del loro bambino.» «Vedrai che andrà tutto benissimo, Rossella è giovane, è vero, ma è anche sempre stata più matura rispetto ai ragazzi della sua età. Sarà un’ottima madre. Marco, parlerei del matrimonio di ieri per tutta la mattinata se potessi, ma abbiamo un sacco di lavoro da sbrigare. Sei mancato un paio di giorni e qui è successo di tutto. Vieni nel mio ufficio che ti racconto.» Roberto raccontò a Marco tutto quello che era successo, gli omicidi, le indagini, l’arrivo di Stefano e Luca e tutto il resto. Marco ascoltò con estrema attenzione, poi si offrì di indagare su Simone Fermi. Si sarebbe recato a Vercelli quella mattina stessa, avrebbe parlato con i responsabili dell’orfanotrofio e anche con il personale ospedaliero. Roberto era sollevato, era una buona fetta di lavoro che gli veniva risparmiata.

Non appena Stefano e Luca arrivarono al commissariato, Roberto li presentò a Marco poi quest’ultimo uscì immediatamente dall’ufficio per recarsi a Vercelli. Le indagini dovevano proseguire, non c’era tempo da perdere. Alle nove in punto, l’agente Matteo Montini informò Roberto dell’arrivo del professor Giuseppe Minetti. Roberto gli chiese di farlo accomodare subito nel suo ufficio e chiese a Stefano e Luca di presenziare all’interrogatorio. «Buongiorno, professore, innanzitutto la ringrazio per aver accettato di incontrarmi, nonostante oggi sia giornata festiva.» «Nessun problema, commissario. Oggi sarò a pranzo dai suoceri, non mi sarei comunque mosso da Torino. E poi conoscevo Paolo Rivelli da dieci anni, è un dovere e un piacere per me collaborare con voi per trovare il responsabile della sua morte. In fondo era un bravo ragazzo, soltanto molto malato.» «Lei conobbe il ragazzo dopo l’omicidio dei genitori?» «Sì, fu subito affidato alle mie cure. All’epoca non lo conoscevo, ma venni in possesso dei vari fascicoli che lo riguardavano, provenienti dalle diverse strutture di sanità mentale dove il ragazzo era stato in cura. Da queste, risultava che, fin dalla tenera età, Paolo aveva sofferto di una grave psicosi, una malattia mentale che disturbava fortemente la funzionalità psichica del ragazzo nei rapporti con sé stesso e con il mondo intero. Quasi una forma di pazzia incontrollabile.» «Immagino che provarono a curarlo.» «Certo, attraverso l’ipnosi e la somministrazione di farmaci specifici. All’inizio la cura aveva prodotto qualche buon risultato, poi l’uso di droghe e di alcool e la mancata assunzione dei farmaci, avevano aggravato ulteriormente la situazione, fino ad arrivare al giorno del delitto di entrambi i genitori.» «Da quello che so, è stata la nonna del ragazzo a trovare i corpi dei due poveretti e pare che Paolo fosse seduto al loro fianco.» «Esattamente, Paolo era seduto, come pietrificato, di fianco ai corpi dei genitori. Era in grado di comprendere l’enormità del gesto che aveva commesso, soprattutto sapeva di aver ucciso le uniche due persone al mondo che gli volevano bene nonostante i problemi che aveva e questo non se lo perdonava.

Ho fatto un lungo lavoro con lui, nel corso degli anni ha avuto dei miglioramenti sorprendenti, tanto che stavamo tentando un lento reinserimento in società. Sarebbe stato un percorso ancora molto lungo e difficile, ma non è escluso che ci saremmo riusciti, ma non lo sapremo mai, ormai è troppo tardi.» «Chiedo scusa» intervenne Stefano, «posso permettermi di fare una domanda al professore?» chiese a Roberto. «Certo, Stefano. Chiedi pure quello che vuoi.» «Lei, professore, credo sia la persona al mondo che conosceva meglio Paolo. Secondo il suo parere professionale, il ragazzo provava ancora rimorso per l’omicidio dei genitori?» «Moltissimo, non si dava pace. Odiava se stesso per quello che aveva fatto. Più stava meglio psicologicamente, più i sensi di colpa lo tormentavano, tanto da spingerlo a ricorrere all’uso di alcool e droghe, per soffocare quel dolore che provava.» «Era quello che volevo sapere, grazie» rispose Stefano. «Che lei sappia» chiese ancora Roberto, «Paolo aveva degli amici? Frequentava qualcuno?» «No, commissario, Paolo era un ragazzo molto solo. Viveva in una vecchia casa in centro città, un appartamento di poco più di trenta metri quadrati, al piano terreno. Sono riuscito a farglielo assegnare dai servizi sociali, aveva l’obbligo di risiedere lì, dove veniva controllato ogni giorno. Era un ragazzo che non parlava con nessuno, era mantenuto dai servizi sociali e, per questo motivo, aveva espresso il desiderio di lavorare, diceva che era giunto il momento di provvedere da solo al suo sostentamento. Proprio per questo motivo la mattina del suo omicidio aveva appuntamento presso una cooperativa sociale.» «Lei si è fatto un’idea di chi possa aver ucciso Paolo e perché?» «Ho pensato al mondo della droga. Nessuno sa come si procurasse i soldi per acquistarla, ma so per certo che ancora recentemente Paolo faceva uso di sostanze stupefacenti. Magari si è infilato in qualche brutto giro, quello è un mondo spietato. Ho parlato spesso con lui di questo, ma nonostante la confidenza che ormai aveva con me, non riuscii mai a fargli confessare dove e

come si procurasse la droga.» «D’accordo, professore, credo che possa bastare. La ringrazio molto per la sua disponibilità e collaborazione. Se avessi ancora bisogno del suo aiuto, la chiamerò.» «Sono a sua completa disposizione, commissario.» L’uomo salutò i presenti e lasciò l’ufficio di Roberto. «Tutto torna, Roberto!» disse Stefano. «La profezia si avvera. Prima l’omicidio della prostituta, avvenuta di venerdì, il giorno di Cauda Draconis e poi l’omicidio di Paolo, un uomo roso dai rimorsi e dai sensi di colpa, questo è il significato di Tristitia e il suo giorno è proprio il sabato!» «Quindi, stando alla tua teoria, la catena di omicidi non è terminata!» «Temo di no, Roberto. Il prossimo simbolo, Rubeus, è legato al martedì, abbiamo qualche giorno a disposizione per cercare di capire chi potrebbe essere colpito.» «Fatelo, mettetevi subito al lavoro. Qualcuno di voi due è esperto di satanismo?» «Io un po’ me ne intendo» rispose Luca, «perché?» Roberto raccontò ai due uomini della medaglietta col serpente ritrovata sul luogo del delitto di Don Pietro. «Una setta satanica, di sicuro. Se poi consideri che il prete era anche un esorcista, niente di più facile che don Pietro sia stato “giustiziato”.» «E potrebbe esserci un collegamento tra i simboli geomantici e gli omicidi che ne sono derivati e quest’altro omicidio?» «Non credo, la geomanzia non ha nulla a che fare con il satanismo. Secondo me i tre omicidi non sono collegati» rispose Luca. «Ne sei certo, Luca?» si intromise Stefano. «Pensaci un attimo. Una prostituta e un ragazzo assassino pieno di rimorsi vengono eliminati. Una sorta di pulizia dal male. Dall’altra parte un prete, noto a tutti per la sua particolare bontà d’animo e

in più ex esorcista, viene fatto fuori. Una pulizia dal bene.» «Che vuoi dire, Stefano?» chiese Roberto. «Stai ipotizzando che sia in corso una specie di guerra tra il bene e il male?» «Esattamente, Roberto. Il bene contro il male. Dio contro Satana. Due sette invasate che si contendono un ruolo di supremazia.» «Non ti sembra una teoria un po’ fantasiosa?» chiese Luca. «Io non credo» rispose Roberto. «Anzi, la trovo estremamente interessante…»

CAPITOLO QUINDICI

Riccardo era ancora in estasi per la notte precedente. La sacerdotessa era stata fantastica, era ancora indolenzito in tutto il corpo, ma si sentiva carico di energia, pronto ad affrontare un’altra giornata con Simone. La sacerdotessa sarebbe stata fiera di lui e del suo lavoro e, quando tutto fosse finito, forse l’avrebbe accolto nella sua casa. Riccardo non sapeva dove abitasse, si incontravano sempre in quello che lei chiamava “il suo tempio”. Gli sarebbe piaciuto vedere il suo viso, soprattutto avrebbe voluto accarezzarlo, ma lei non glielo aveva mai consentito. Una volta aveva fatto il gesto di toglierle il cappuccio, il risultato era stato disastroso. Lei l’aveva cacciato dal suo tempio, minacciandolo di non farlo mai più entrare. Da quella volta, per tornare nelle sue grazie, aveva dovuto giurarle su Satana che non ci avrebbe mai più provato e aveva mantenuto fede alla parola data. Non poteva neanche immaginare la sua vita senza di lei, era come una droga della quale non riusciva più a fare a meno. Ormai era schiavo di quella donna e ne era fiero e felice. Faceva qualsiasi cosa lei gli chiedesse, per lei aveva rubato, aveva torturato, aveva ucciso e tutto questo con una naturalezza e un orgoglio sorprendenti. Era giunto di fronte alla porta della stanza dove era segregato Simone. La aprì, entrò e rimase a bocca aperta per la scena che si trovò davanti agli occhi.

Lucia Lorenzi si era sposata all’età di ventiquattro anni con Pasquale, operaio alla Lancia di Torino. Dalla loro unione era nato Tommaso, che aveva reso il loro matrimonio completo. Purtroppo, un incidente sul posto di lavoro si era portato via il suo Pasquale dopo soli tre anni di matrimonio. Per Lucia fu un colpo durissimo, si ritrovò, all’età di ventisette anni, vedova, senza un lavoro e con un bambino piccolo da crescere. Con i soldi che percepì dall’assicurazione, aprì una piccola sartoria, che gestiva ancora oggi, occupandosi più che altro di riparazioni. Faceva gli orli ai pantaloni, cambiava le cerniere, stringeva o allargava i capi di abbigliamento. Non si era mai risposata, dalla morte di Pasquale erano ati ormai quarant’anni, Tommaso si era sposato ed era andato a vivere a Firenze con la moglie e con i due figli. Per superare il dolore

per la morte del marito, si era rifugiata nella fede. Era cattolica convinta e praticante e da anni preparava i pasti per il parroco della chiesa di San Lorenzo. Aveva voluto bene a tutti i sacerdoti che si erano avvicendati negli anni, ma quello che aveva amato di più in assoluto, era stato proprio don Pietro. La sua morte le aveva provocato un dolore profondo, che le aveva ricordato molto quello provato per la morte di Pasquale. Come al solito, per superare quel dolore, si era rifugiata nella sua fede incrollabile in Dio. Era convinta che don Pietro fosse in paradiso e che avesse incontrato il suo Pasquale. Era sicura che sarebbero andati molto d’accordo. La polizia l’aveva interrogata, dopo l’omicidio di don Pietro, in fondo era stata lei a preparare i biscotti per la sua colazione. Per fortuna, quelli che erano stati ritrovati nella credenza della cucina erano stati analizzati e non era stata trovata traccia di veleno. Quindi, lo stesso era stato introdotto solo all’interno dei biscotti della colazione della mattina dell’omicidio. Lucia si chiedeva chi potesse aver fatto una cosa del genere. Aveva saputo da don sco e da don Romolo che la porta che dal cortile consentiva l’accesso alla cucina, era stata forzata. Qualcuno si era introdotto nella casa di Dio e aveva commesso quell’azione spregevole. Quella mattina Lucia si era alzata a fatica, si sentiva stanca. Aveva diverse riparazioni da effettuare, ma non ne aveva nessuna voglia. Il suo lavoro le era sempre piaciuto, ma in quei giorni non era nello stato d’animo adatto per occuparsi di nulla, nemmeno di se stessa. Stava consumando la colazione quando suonarono alla porta. «Chi è?» chiese avvicinandosi alla porta. «Siamo della polizia, signora Lorenzi.» La signora aprì subito la porta e si trovò davanti due giovani molto eleganti. Li fece accomodare in salotto, chiedendo loro cosa volessero ancora da lei. «Il commissario Fogli vorrebbe farle ancora qualche domanda, signora. In fondo lei era molto vicina a don Pietro, magari può rivelarci qualche particolare, all’apparenza insignificante, che può essere molto utile per le nostre indagini. Dovrebbe farci la cortesia di seguirci in commissariato, Fogli è molto occupato in questi giorni e non gli è stato possibile venire personalmente da lei.» «Adesso?»

«Sì, signora, è piuttosto urgente. Non le faremo perdere troppo tempo, il colloquio con il commissario sarà breve e poi la riporteremo a casa con la nostra auto.» «D’accordo, datemi solo il tempo di vestirmi. Cinque minuti e sarò pronta.» Lucia si avviò verso la camera da letto per vestirsi, i due uomini si guardarono e si scambiarono un sorriso spaventosamente diabolico.

Stefano e Luca erano tornati nel loro ufficio per continuare la loro indagine. Roberto era al telefono con Alessia. «Alessia, entro oggi ho assoluto bisogno di interrogare tutti i dipendenti della sua agenzia. Veda lei come organizzarsi, nei ritagli di tempo tra un tour e l’altro, li voglio qui al commissariato. Si tratta di pochi minuti, sarò il più breve possibile.» «Commissario! Oggi è domenica, sono tutti molto impegnati!» «Mi dispiace, ma non posso più rimandare. La mia non è una richiesta, è un ordine. Non mi costringa a rendere tutto formale e inviare una comunicazione di convocazione ufficiale, alla quale poi bisogna obbligatoriamente presentarsi all’ora stabilita!» «Va bene, ho capito. Entro stasera eranno tutti da lei, mi occuperò personalmente di informarli.» «Vede? Con le buone si ottiene sempre tutto! La saluto, signorina Brunelli.» «Aspetti, commissario! Volevo chiederle se ha già parlato con mia sorella Anna, stamattina.» «Non ancora, ma conto di farlo al più presto. Perché?» «Ieri sera l’ho avvisata di quanto era successo, era sconvolta. Ho provato a chiamarla stamattina, ma non risponde al cellulare. Conoscendola, penso che sia andata male con Andrea e lei non abbia voglia di parlare con nessuno, tantomeno con me.»

«Mi dispiace, non creda che il pensiero di aver rovinato una famiglia mi faccia sentire sereno, ma non potevo fare altrimenti.» «Non è stato lei a rovinare quella famiglia, commissario. Mi pesa ammetterlo, ma è stata Anna stessa a farlo. Comunque ormai è fatta, spero che le cose si possano ancora aggiustare.» «Vedrà che sarà così. A presto, Alessia.» Appena finito di parlare con la donna, Roberto prese in mano i fascicoli contenenti i referti delle autopsie sui corpi della prostituta, di Paolo Rivelli e di don Pietro. Non c’erano molte novità rispetto a quanto già sapeva. L’esame tossicologico effettuato sul sangue della prostituta aveva dato esito negativo, non era stata drogata e non aveva ingerito alcool. Per Paolo Rivelli era stata confermata la morte in seguito a overdose di eroina. Don Pietro era morto per avvelenamento da cianuro. Continuava a pensare alla teoria di Stefano di una possibile guerra tra il bene e il male e tra sette religiose. Il suo istinto gli diceva che fosse un’ipotesi sensata e questo lo spaventava a morte. Già una volta, circa sei anni prima, aveva avuto a che fare con una setta satanica e non era stata una bella esperienza. All’epoca erano venute a galla storie agghiaccianti, che non avrebbe mai più dimenticato. Come non avrebbe mai scordato la sensazione di malessere, quasi fisico, che aveva percepito quando si era trovato a ispezionare la sede di una di queste sette. Solo a pensarci, sentì un brivido percorrergli la spina dorsale. Matteo entrò nel suo ufficio, distogliendolo dai suoi pensieri. «Roberto, è arrivata Raffaella Boldi, una delle dipendenti dell’agenzia Tourist Sun.» «Bene, Alessia Brunelli non ha perso tempo! Falla entrare, Matteo.» Roberto sospirò, preparandosi a un’altra giornata densa di interrogatori.

Alle dodici, Marco era giunto alla stazione di Vercelli. La sua prima tappa

sarebbe stata all’ospedale Sant’Andrea, avrebbe parlato con il direttore, chiedendogli di reperire i documenti relativi alla nascita di Simone Fermi, avvenuta quarantacinque anni prima. Successivamente, si sarebbe recato all’Orfanotrofio della Maddalena, forse qualche anziana suora si ricordava ancora di Simone. Acquistò un paio di panini e una bottiglietta d’acqua alla stazione, consumò il suo pranzo seduto su una panchina posizionata tra un binario e l’altro, poi si incamminò alla ricerca di un taxi. Appena giunto in ospedale, presentò il suo tesserino e spiegò il motivo della sua visita. La segretaria che lo accolse, gli riferì che il direttore sanitario era in pausa pranzo e che appena fosse tornato l’avrebbe ricevuto. Fu accompagnato in un’ampia sala d’attesa, sul tavolino erano poggiate alcune riviste. Ne prese in mano una e cominciò a sfogliarla distrattamente. Non aveva ancora avuto il tempo di “digerire” il suo rientro al commissariato dopo il matrimonio della figlia, che già si trovava a dover affrontare un caso piuttosto intricato e difficile. Erano stati commessi tre omicidi, un uomo era scomparso e loro brancolavano nel buio. Erano venticinque anni che lavorava in polizia, sapeva benissimo che i giorni a venire sarebbero stati faticosi e impegnativi e sapeva anche quante persone non si sarebbero risparmiate per dare giustizia alle vittime: agenti, ispettori di polizia, il commissario, la scientifica, i medici legali. Alle tredici e trenta, finalmente un’impiegata lo informò che il direttore sanitario dell’ospedale, il professor Corbelli, era nel suo ufficio, pronto a riceverlo. Fu la stessa impiegata ad accompagnarlo, a bussare alla porta della direzione e a farlo accomodare. Il professor Corbelli era un uomo piuttosto anziano, lo accolse con gentilezza e apparente disponibilità. «Cosa posso fare per lei, commissario Del Re?» «Vice commissario, professore. Comunque sono qui per avere tutte le informazioni in vostro possesso riguardo a un uomo che nacque nel vostro ospedale il sette aprile del 1968. Il bambino fu abbandonato in ospedale dalla madre e successivamente affidato all’Orfanotrofio della Maddalena. Quello che mi interessa sapere, è se nei vostri documenti risulta il nome dei genitori del bambino, almeno quello della madre. Il suo nome attuale è Simone Fermi, ovviamente Fermi è il cognome del padre adottivo.» «Caspita, non è certo una richiesta da poco! Sono ati quarantacinque anni, si tratta di consultare l’archivio storico. Ultimamente stiamo aggiornando il nostro

sistema data base per inserire i dati di tutti i pazienti che sono transitati in questo ospedale, abbiamo un’equipe di dieci persone che ci lavorano a tempo pieno, ma so che per il momento siamo aggiornati solo a partire dal 1990 a oggi. Per soddisfare la sua richiesta occorrerà scendere nei nostri archivi e cercare mettendo mano ai vecchi registri e non sarà una cosa rapida, né tantomeno semplice.» «Ho qui con me una richiesta ufficiale da parte della prefettura» disse Marco consegnando un foglio al professore. Corbelli lesse distrattamente il foglio e lo mise da una parte. «Incaricherò subito qualcuno del personale amministrativo di effettuare questa ricerca, ma le dico fin da subito che ci vorrà tempo. Mi lasci il suo numero di cellulare, appena sarò in possesso dei documenti richiesti, la chiamerò.» «D’accordo, professore, le chiedo di dare a questa ricerca la priorità assoluta, è importantissimo per le nostre indagini.» «Posso chiederle perché vi interessa avere questa informazione?» «Posso tranquillamente risponderle, considerando che la notizia è di dominio pubblico. Simone Fermi è scomparso qualche giorno fa in circostanze piuttosto misteriose, per riuscire a capire cosa gli sia successo, abbiamo bisogno di ricostruire la sua vita partendo, appunto, dalla sua nascita.» «Oh! Mi dispiace, non ne sapevo niente, non seguo questo genere di notizie. Farò il possibile per accontentarla, commissario.» «Vice commissario… Comunque le ho annotato il mio numero di cellulare. La ringrazio, professore, aspetto la sua chiamata.» L’attesa, stando a quanto gli aveva detto Corbelli, sarebbe stata piuttosto lunga. Marco decise di recarsi, nel frattempo, all’Orfanotrofio della Maddalena, sperando di ottenere qualche informazione più immediata. Chiamò Roberto, gli riferì quanto era avvenuto all’ospedale e chiamò un taxi.

Riccardo rimase qualche istante come pietrificato davanti alla porta. Simone era

riverso per terra, in una pozza di vomito. Sembrava privo di sensi e dalla bocca gli usciva una bava bianca, mista a sangue. «Gianluca! Bruno! Venite, svelti!» urlò. Dopo pochi secondi, i due uomini lo raggiunsero. «Oh, merda!» esclamò Gianluca. «Che cazzo è successo qui?» «Bisogna chiamare subito Luigi, il medico è lui! Bruno, chiamalo subito al cellulare, digli di venire immediatamente, non c’è un minuto da perdere!» Intanto Gianluca si era avvicinato a Simone e gli stava tastando il polso. «È ancora vivo, ma il battito cardiaco è molto debole. Se questo qui crepa, la sacerdotessa ci fa secchi tutti quanti! Allora, Bruno, hai chiamato?» «Sì, arriva tra dieci minuti. Intanto ha detto di controllare se ha le vie respiratorie occluse.» «E chi lo controlla? Io le dita in gola a questo qui non ce le metto di sicuro!» rispose Gianluca. «Togliti, faccio io» intervenne Riccardo, cominciando a ispezionare la gola di Simone. «Pare non ci sia niente. Bruno, lo lasciamo qui o lo mettiamo sul lettino?» «E che cazzo ne so, io? Non sono mica un medico!» «Già, ma ci hai parlato tu con Luigi al telefono, non potevi farti spiegare bene cosa fare?» «Senti, stronzo, non permetto a nessuno di parlarmi in questo modo. Ora io ti…» «E smettetela, tutti e due!» urlò Gianluca. «Ricordatevi che in assenza della sacerdotessa, sono io che comando! Quindi finitela di fare gli idioti e levatevi dai piedi. Starò io qui ad aspettare Luigi. Coraggio, che fate lì impalati? Fuori dai coglioni, tutti e due!» Bruno e Riccardo lasciarono la stanza, guardandosi in cagnesco. Gianluca si

accomodò su una sedia. L’attesa fu breve. Come promesso, il dottor Luigi Riccio arrivò nel giro di pochi minuti. «Per fortuna stavo giusto venendo qui per visitare Simone! Che è successo?» «Questo devi dirlo tu, doc. Sei tu l’inventore del virus e dell’antivirus. Che dici, forse qualcosa non ha funzionato al meglio?» chiese Gianluca sarcastico. «Lo sapevate che era in via sperimentale, è stata la sacerdotessa a insistere per testarlo su di lui, io non ho colpa. Aiutami a portarlo nella stanza medica, ho bisogno di fargli una TAC, un’ecografia, un elettrocardiogramma e alcuni prelievi. Quando avrò l’esito degli esami, potrò dire qualcosa di preciso. A occhio e croce, ritengo che abbia di nuovo i sintomi provocati dal virus, come se lo stesso fosse rimasto latente nel suo organismo pronto a risvegliarsi, non appena l’antivirus ha terminato il suo effetto.» «Quindi l’antivirus sarebbe solo una sorta di cura temporanea?» «Qualcosa del genere, sì. Sulle cavie non avevo avuto questo inconveniente, evidentemente sull’essere umano funziona così. Comunque la mia è solo un’ipotesi, ora farò tutti gli esami necessari.» Intanto Simone era stato trasferito nella sala medica. «Hai bisogno di aiuto?» chiese Gianluca. «No, credo di potermela cavare da solo, grazie. Intanto fai ripulire la sua stanza e forniscimi un campione del vomito.» «D’accordo, doc. A più tardi.» Gianluca lasciò Luigi insieme a Simone. Il dottore era preoccupato. Per essere contagiati dal suo virus, occorreva ingerirlo, come era successo con Simone, oppure si doveva venire a contatto con una persona contagiata durante la fase di manifestazione dei sintomi, come era in quel momento Simone. Riccardo e Bruno avevano toccato l’uomo senza alcuna protezione e lo stesso aveva fatto lui stesso. Il periodo di incubazione era di cinque giorni, fino ad allora non c’era modo di sapere se qualcuno di loro fosse stato contagiato. A questo punto non sapeva neanche più se dal suo virus si potesse guarire. Possibile che avesse sbagliato qualcosa? E, in quel caso, cosa ne sarebbe stato di lui? La sacerdotessa

l’avrebbe perdonato?

CAPITOLO SEDICI

Suor Adelaide aveva il volto di una donna che aveva attraversato molte primavere e che, nella sua vita, ne aveva viste davvero tante. Era la direttrice dell’Orfanotrofio della Maddalena e fu lei a ricevere Marco. «Buongiorno, sorella, mi dispiace doverla disturbare, ma stiamo conducendo un’indagine relativa a un uomo scomparso e…» «Simone Fermi, suppongo» lo interruppe la donna. «Sì, proprio lui. Ha letto la notizia sui giornali?» «Sì, proprio questa mattina. Mi aspettavo una visita della polizia. Ho letto che sono in corso delle indagini e immaginavo che sareste partiti dall’inizio, cioè da questo orfanotrofio.» «Lei si ricorda di Simone?» «Certo che lo ricordo. Allora ero una giovane suora alle prime armi, il mio compito era quello di servire a tavola all’ora dei pasti. Ricordo bene Simone perché era il bambino più tranquillo di tutto l’orfanotrofio. Non litigava mai con nessuno, era obbediente e sempre sorridente, nonostante la vita fosse stata poco generosa con lui. Spesso i bambini abbandonati sono aggressivi, hanno una rabbia dentro che spesso diventa incontrollabile, oppure sono tristi, malinconici, quasi apatici. Simone non era niente di tutto questo, nonostante fosse ancora molto piccolo. Era il prediletto di tutte noi e anche il più coccolato. Quando i coniugi Fermi vennero qui per conoscere i bambini ospiti, puntarono subito gli occhi su di lui. Ricordo che provai un misto di tristezza e di felicità. Ero triste perché capii che Simone se ne sarebbe andato, ma ero anche felice perché sapevo che finalmente avrebbe avuto una vera famiglia. Il tempo di sbrigare le pratiche burocratiche e Simone se ne andò via, lasciando un vuoto incolmabile.» «L’ha mai più rivisto, da allora?» «Sì, i suoi genitori adottivi venivano qui una volta l’anno per portare un assegno, una donazione che avevano deciso di fare per tutta la vita al nostro orfanotrofio,

una specie di fioretto fatto a Dio, nel caso in cui fossero riusciti a ottenere un bambino in affidamento. Portavano sempre Simone con loro, era un’occasione per me e per le altre sorelle di riabbracciarlo e vederlo crescere. E poi venne qui da solo, circa sei anni fa. Venne da me per lo stesso motivo per il quale lei è qui. Voleva conoscere il nome della madre naturale e, se possibile, anche del padre.» «Lei ha potuto soddisfare la sua richiesta?» «No, prima di tutto perché non possiedo questa informazione e, anche nel caso l’avessi posseduta, sarei stata vincolata dal segreto professionale. Quando una donna abbandona un figlio, ha diritto all’anonimato, questa è la legge.» «È proprio sicura di non sapere nulla riguardo ai genitori di Simone?» «Certo che ne sono sicura! Quando un bambino arriva da noi, l’ospedale dal quale proviene ci rilascia una scheda dove è annotato il nome di battesimo del bambino, la data di nascita e la cartella clinica. L’identità della madre è sempre indicata come “sconosciuta”. Come dissi a Simone quando venne qui, credo che solo l’ospedale dove la madre ha partorito disponga di questa informazione. Lui provò anche quella strada, naturalmente trovò un muro, ma forse a voi della polizia non potranno tacere la verità.» «Così dovrebbe essere, suor Adelaide. Speravo tanto che lei potesse aiutarmi, a volte le cose si vengono a sapere anche tramite voci di paese, pettegolezzi, magari le venne all’orecchio qualche indiscrezione all’epoca dei fatti?» La donna distolse lo sguardo. Marco in quel momento fu sicuro che sapesse qualcosa. «Suor Adelaide, da quanto ho potuto capire dalle sue parole, lei voleva bene a Simone. Se sa qualcosa, la prego di riferirmela. È per il bene di Simone, lo capisce?» «Certo, lo capisco. È vero, qualche voce mi arrivò all’orecchio all’epoca, ma si tratta di pettegolezzi, le giuro su nostro Signore che non ho alcuna notizia certa, altrimenti avrei detto quello che sapevo anche a Simone, quando venne a chiedermelo!» «D’accordo, si tratta solo di pettegolezzi, ma potrebbe essermi utile se me li riferisse. Stia tranquilla, li prenderò come tali.»

«E va bene! All’epoca si diceva che Simone fosse figlio di un prete che aveva messo incinta una ragazzina di appena tredici anni, uno scandalo di dimensioni notevoli. Questo è tutto quello che so, non conosco i nomi, né i luoghi e non ho nessuna certezza che questa sia la verità. All’epoca non ero nessuno in questo orfanotrofio e la suora che ne era responsabile è morta da molti anni, se sapeva qualcosa, si è portata il segreto nella tomba. Comunque sa come vanno queste cose, la gente a volte si diverte a inventarsi delle storie, tanto per avere qualcosa di succulento di cui parlare.» «Certo, capisco perfettamente. La ringrazio di cuore per avermi raccontato quello che sa. Come le ho promesso, lo prenderò come un pettegolezzo, ma ci indagherò sopra. L’esperienza mi insegna che a volte i pettegolezzi non sono del tutto infondati.» Marco salutò la suora e uscì dall’orfanotrofio. Nel cortile della struttura, notò una ventina di bambini che giocavano a pallone. Tutti bambini senza genitori, tutti in attesa che arrivasse una famiglia pronta ad accoglierli nella loro casa. Provò una profonda tristezza per quelle creature e si augurò che trovassero al più presto due genitori che li amassero come meritavano.

Luigi aveva sottoposto Simone a diversi esami, ora non aveva più dubbi. Risultava nuovamente contagiato dal virus e, nonostante gli avesse somministrato l’antivirus, le sue condizioni non miglioravano. Era una sconfitta tremenda, per lui. Aveva lavorato per anni a quel virus, era praticamente sicuro che fosse perfetto e lo era sembrato, fino a quella mattina. Purtroppo qualcosa non aveva funzionato, ora doveva cercare di porre rimedio alla situazione. Simone respirava grazie al macchinario al quale l’aveva collegato, le sue funzioni vitali erano in peggioramento costante, l’elettroencefalogramma aveva dato esito positivo, il cervello dell’uomo funzionava, era tutto il resto che si andava deteriorando di minuto in minuto. Quanto avrebbe retto il cuore di Simone? Sapeva che la sacerdotessa lo voleva vivo, voleva essere lei e solo lei a occuparsi di lui quando sarebbe giunto il momento. Ora chi le avrebbe detto che Simone probabilmente non avrebbe superato le successive ventiquattro ore? E Riccardo come avrebbe fatto a prendere il suo posto senza destare sospetti, ora che non poteva più ricevere le informazioni necessarie da Simone? Non aveva alternative, doveva avvisare la sacerdotessa di quanto stava

accadendo e poi si sarebbe rinchiuso nel suo laboratorio, alla ricerca di una soluzione al problema.

Marco attese quasi un paio d’ore, prima che il professor Corbelli lo richiamasse. «Commissario Del Re?» Marco evitò di specificare, per l’ennesima volta, di essere vice commissario. «Sì, sono io, mi dica professor Corbelli.» «Purtroppo non ho buone notizie da darle. Circa trentacinque anni fa, un incendio distrusse gran parte del nostro archivio e la documentazione riguardante Simone Fermi probabilmente andò persa in quell’occasione. Non abbiamo più nulla che lo riguardi, non so neanche dirle chi fosse di turno il giorno in cui venne alla luce. All’epoca non esisteva un archivio informatico quindi non posso esserle di alcun aiuto.» «Veramente strano! Da quello che sappiamo, l’ostetrica che aiutò Simone a venire al mondo perì in un incidente stradale pochi giorni dopo il parto, ora vengo a sapere che la documentazione relativa alla sua nascita andò distrutta in un incendio… Lei non trova che siano delle strane coincidenze?» «Quello che credo io conta ben poco, commissario. Mi sono limitato a esporle i fatti, sta a lei trarne le giuste considerazioni.» «Certo, ha ragione, professore. La ringrazio per la collaborazione.» Marco infilò il cellulare in tasca con un gesto di stizza. Qualcuno aveva interesse a tenere ben nascosta la vera identità di Simone Fermi. Perché? Cosa c’era sotto? Fu con queste domande in testa che Marco si recò alla stazione per prendere il treno che l’avrebbe riportato a Torino.

Raffaella Boldi era una giovane guida turistica di trent’anni. Aveva l’aspetto di una ragazzina, con i jeans, una semplicissima t-shirt rossa e le scarpe da ginnastica. Roberto la fece accomodare e le chiese subito in quali rapporti fosse

con Simone Fermi. «Simone è un brav’uomo, commissario, e anche un ottimo collega. Io sono l’ultima arrivata in agenzia, spesso mi è capitato di aver bisogno di qualche dritta e qualche consiglio, Simone era sempre il primo pronto ad aiutarmi. Sono veramente sconvolta per quanto è successo, non so darmi una spiegazione.» «Lei sapeva che Simone teneva un mazzo di chiavi di casa nel cassetto della sua scrivania?» «Sì, ne ero al corrente. Ci abbiamo scherzato su, in agenzia tutti sapevamo quanto Simone fosse distratto, dimenticava sempre qualcosa. Il cellulare nel bagno, la chiavetta del caffè attaccata alla macchinetta, spesso scordava persino dove aveva parcheggiato l’auto! Ne avevamo parlato in sala riunioni pochi giorni prima della sua scomparsa, in occasione di una riunione. Erano presenti anche Monica, Davide e Mauro. Mancavano solo Stefano e Tommaso, impegnati in qualche tour e Alessia, che ne era comunque già al corrente.» «Quindi lo sapevate praticamente tutti, in agenzia.» «Sì, non era certo un segreto!» «Quando ha visto Simone per l’ultima volta?» «Il giorno prima della scomparsa, avevamo pranzato insieme al bar di fronte all’agenzia.» «Quindi avete ato un bel po’ di tempo insieme. Ha notato qualcosa di strano nel suo comportamento? » «Assolutamente no, ci ho ripensato in questi giorni, ma sono certa che Simone quel giorno era normalissimo, come tutti gli altri giorni. Non sembrava preoccupato, agitato, triste o malinconico. Era sereno e allegro come sempre. Mi ha parlato molto delle sue bambine, era fiero e orgoglioso di loro, le adora letteralmente.» «Va bene, signorina Boldi, la ringrazio per la collaborazione. Suppongo abbia parecchio lavoro da svolgere oggi, non voglio farle perdere altro tempo.» «Grazie, commissario. La prego, cerchi di capire cosa sia successo a Simone.

Siamo tutti in ansia per lui!» «Sono qui per questo, farò il possibile, signorina.» Roberto congedò Raffaella Boldi e si apprestò a interrogare Mauro Vivaldi che nel frattempo era giunto al commissariato. Non c’era davvero un attimo di tregua.

La sacerdotessa era inquieta, camminava avanti e indietro nel suo appartamento. Aveva appena ricevuto una mail da Gianluca che la avvertiva del peggioramento delle condizioni di Simone. Aveva fatto male a chiedere a Luigi di sperimentare il virus su di lui, ma non aveva saputo resistere alla tentazione di farlo soffrire. Ora però si pentiva della sua scelta, Simone le serviva vivo, era indispensabile per la riuscita del suo piano. Per fortuna, aveva anche ricevuto notizie positive, quel giorno. Due dei suoi adepti avevano portato a termine il compito loro assegnato. Lucia Lorenzi era nelle loro mani e presto sarebbe stata giustiziata. Era indispensabile rispondere colpo su colpo al nemico. Aveva assoluto bisogno di prendere possesso di quel rifugio antiaereo, doveva diventare la base della sua setta, le loro notti si dovevano consumare in quel luogo, attualmente nelle mani del nemico e per questo Simone era indispensabile. Doveva pensare a un piano di riserva, nel caso in cui Simone non ce l’avesse fatta a sopravvivere. Questo era quello che la preoccupava di meno, quello che la faceva andare su tutte le furie, era che doveva essere lei stessa a porre fine alla vita di quell’uomo, doveva essere lei e solo lei a strappargli il cuore dal petto e darlo alle fiamme. Decise di recarsi personalmente nella prigione di Simone, era rischioso, ma aveva bisogno di tenere la situazione costantemente sotto controllo. Si vestì, prese il suo cappuccio dal cassetto e uscì di casa.

Anna eggiava al parco del Valentino con Carlotta. Considerato che la bambina stava decisamente meglio, aveva pensato che un po’ di aria fresca non le avrebbe fatto male. In fondo, pur essendo maggio, il termometro segnava ventiquattro gradi, la temperatura ideale per una salutare eggiata in mezzo alla natura. La bambina, dopo diversi giorni trascorsi in casa, correva felice dall’altalena allo scivolo, era sorridente e allegra, ignara di quanto la sua vita, da quel giorno in poi, sarebbe cambiata.

Anna era triste e aveva solo voglia di piangere, ma con la bambina doveva cercare di mostrarsi serena. Sapeva che il commissario Fogli presto avrebbe preteso di parlare con lei, si aspettava di sentire squillare il suo cellulare da un momento all’altro. Aveva provato più volte a chiamare Andrea, ma il suo telefono risultava spento o, comunque, non raggiungibile. Sapeva con certezza che non l’avrebbe mai perdonata e non lo biasimava per questo. Lei, al posto suo, avrebbe fatto lo stesso. È già grave il tradimento in sé, ma con il migliore amico di tuo marito è davvero troppo, anche per una persona ragionevole e intelligente come era Andrea. Si chiedeva cosa ne sarebbe stato della sua vita, si sentiva completamente sola al mondo e non poteva neanche lasciarsi andare, aveva una bambina di cinque anni alla quale pensare. Avrebbe voluto sparire dalla faccia della terra, non aveva voglia di vedere nessuno, neanche sua sorella Alessia, ogni volta che la guardava negli occhi, vi leggeva una vena di disprezzo e una velata accusa e lei non riusciva a tollerarlo. Sapeva di aver sbagliato, non tanto per il fatto di essersi innamorata di un altro uomo, ma per non avere avuto il coraggio di affrontare la situazione fin da subito. Aveva trascinato una situazione insostenibile per ben due anni, non era giusto e se ne rendeva perfettamente conto. Se solo Simone fosse tornato! Aveva bisogno di lui, del suo sostegno, ma era sicura che gli fosse successo qualcosa di molto grave e questo non faceva che accrescere il dolore che provava dentro e che le stava togliendo la voglia di vivere. Carlotta la stava chiamando, voleva che la spingesse sull’altalena. Sospirando, si avvicinò alla figlia, le sorrise e la strinse forte a sé.

CAPITOLO DICIASSETTE

Riccardo era a colloquio con la sacerdotessa. Appena l’aveva vista, aveva avuto un’erezione, ripensando alla notte precedente. «Allora, com’è la situazione?» chiese lei con il solito tono duro e gelido. «Luigi sta facendo tutti gli esami necessari, tra poco ci dirà qualcosa.» «Cazzo, cazzo, cazzo! Non doveva succedere, mi ero raccomandata di fare in modo che Simone rimanesse vivo!» «Lo so, sacerdotessa, ma sei stata tu a insistere perché il virus fosse testato proprio su di lui!» Lo schiaffo arrivò talmente violento e inaspettato, che a Riccardo sfuggì un grido. «Stupido idiota! Non ti permettere mai più di dare giudizi su quello che decido o che faccio!» «Ti chiedo scusa, sacerdotessa, non volevo mancarti di rispetto, te lo giuro!» «Ora non ho tempo di occuparmi di te, ho cose più importanti a cui pensare. Ma questa impertinenza la pagherai cara! Ora portami da Simone, voglio vedere personalmente come sta.» Riccardo, a testa bassa, accompagnò la sacerdotessa nella stanza medica, dove Luigi si stava prendendo cura di Simone. Lei entrò e vide l’uomo steso sul lettino, attaccato ad alcuni macchinari. Luigi la vide e si precipitò verso la porta. «Sacerdotessa! Non entrare, non è prudente. Simone ha contratto nuovamente il virus e pare che l’antidoto non funzioni.» «Cosa vuoi dire? Che potrebbe essere contagioso?»

«È possibile, sì.» «In questo caso tu stesso potresti essere contagiato così come gli altri adepti.» «Certo, ma nel momento in cui non c’è la manifestazione dei sintomi non è contagioso. Io o i ragazzi non rappresentiamo un pericolo, in questo momento.» «Ne sei davvero sicuro? Così come eri sicuro che il tuo cazzo di virus funzionasse?» Luigi arrossì per la vergogna. «Mi dispiace, sacerdotessa. Ho fatto del mio meglio ed ero sicuro che tutto avrebbe funzionato alla perfezione. Non so davvero spiegarmi cosa possa essere successo!» «Sono circondata da incompetenti! Badate bene tutti quanti a non tradire la mia fiducia o sarò spietata con voi, chiaro? Comunque, che mi dici di Simone? Le sue condizioni?» «Per il momento è stabile, ma è privo di conoscenza. Se non migliora nelle prossime ore, non supererà la notte.» «Magnifico! Davvero magnifico! Riccardo, a che punto sei con le informazioni necessarie per prendere il posto di Simone?» «Dal punto di vista lavorativo tutto ok, della sua vita personale so poco o nulla.» La sacerdotessa cominciò a camminare avanti e indietro per il corridoio. Alla fine, parve aver preso una decisione e si avvicinò a Riccardo. «A questo punto c’è una sola cosa da fare. Tra un paio di giorni Simone Fermi tornerà a Torino e giustificherà la sua assenza con una perdita della memoria. Non ricorderai più le persone, né i luoghi. Farai in modo di essere ritrovato dalla polizia, mentre vaghi senza meta, sporco e affamato, con la stessa maglietta e i pantaloncini che indossava Simone la mattina della scomparsa. Luigi ti praticherà una lavanda gastrica, non devi avere niente nello stomaco e non toccherai più cibo, né ti laverai, né ti raderai fino a dopodomani. È tutto chiaro?» «Ai tuoi ordini, sacerdotessa» rispose Riccardo.

«Bene. Tu, Luigi, cerca di fare il possibile per salvare Simone. Ho bisogno di lui vivo e cosciente, è importante per me.» «Farò il possibile, sacerdotessa, te lo giuro sul grande Satana. Farò di tutto per non deluderti.» «Bene. Ora devo andare, sapete cosa fare. Ci vediamo questa sera alle ventitré al tempio.» Detto questo, la sacerdotessa si avvolse nel suo mantello nero e sparì alla destra del lungo corridoio.

Padre Nicola era disteso sul letto. All’età di settantacinque anni, cominciava a sentire la stanchezza che si impadroniva impietosamente delle sue membra, ma non poteva lasciarsi andare, non adesso. Aveva ancora tante cose importanti da fare. La notizia dell’omicidio di Don Pietro Salvati l’aveva sconvolto e sapeva che “gli altri” non si sarebbero fermati e avrebbero risposto colpo su colpo. La sacerdotessa era molto più forte e più giovane di lui, doveva sbrigarsi, altrimenti lei avrebbe avuto la meglio. Aveva pregato tutto il giorno per don Pietro e anche per Simone. Sapeva che si trovava nelle loro mani, ne era sicuro. Suonò il camlo che aveva sul comodino, per chiamare il fedele don Tiziano. «Dimmi, padre. Hai bisogno di qualcosa?» chiese il giovane prete entrando nella stanza. «Sì, Tiziano. Ho bisogno di sapere se ci sono notizie su Simone e anche se per martedì è tutto pronto.» «Certo, padre. Stiamo definendo gli ultimi dettagli, andrà tutto bene, stai tranquillo. Per quanto riguarda Simone, nessuna notizia, al momento.» «Che mi dici del rifugio antiaereo?» «La polizia ha trovato i simboli geomantici e credo li stia collegando agli omicidi della prostituta e del ragazzo, come previsto.» «Dobbiamo fare in fretta, Tiziano. Ogni giorno che a mi sento più stanco, sento di non avere più tempo…»

«Che dici, padre! Hai ancora tante cose da fare e da insegnarci. Senza di te saremmo persi!» «Non dire così!» tuonò il vecchio prete. «Quando io non ci sarò più, tu prenderai il mio posto! Ti ho cresciuto e allevato per questo, non dimenticarlo mai!» «Certo, padre, non lo dimentico, ma ho ancora bisogno della tua guida!» «E io farò in modo di non fartela mancare, ma ormai sono vecchio, stanco e malato, una volta che questa storia sarà conclusa, voglio rimettermi nelle mani di Dio e riposarmi, finalmente! Ora vai, ho bisogno di stare da solo e di pensare. Non portarmi la cena, non ho fame. Se dovessi avere qualche novità, non esitare a venirmela a riferire. Buonanotte, Tiziano.» «Buonanotte, padre, riposa bene» lo salutò il ragazzo. Appena rimasto solo, padre Nicola aprì il cassetto del suo comodino e ne estrasse una scatola di latta rossa, sulla quale era impressa la figura di un grande crocifisso. La aprì e ne estrasse delle fotografie. Ritraevano due bambini, uno biondo e l’altro bruno. Uno sorrideva, l’altro era imbronciato. Avevano entrambi dei grandi occhi neri e profondi, ma lo sguardo era completamente diverso. Esaminò a lungo le fotografie poi, con le lacrime agli occhi, le ripose dentro la scatola e poi nel cassetto del comodino. Quella sera, lo sapeva per certo, avrebbe faticato a prendere sonno. I ricordi del ato erano tornati a tormentarlo, a togliergli la pace e la serenità che tanto duramente era riuscito a conquistare. Sospirò, chiuse gli occhi e si immerse nei suoi tristi e angosciosi ricordi.

Per la prima volta in vita sua, Lucia stava pregando Dio di prenderla con sé. Erano ore che i suoi aguzzini la stavano torturando senza pietà. L’avevano picchiata, derisa, violentata e frustata. Poi, l’avevano legata a un lettino con delle cinghie. Non sapeva dove si trovasse, le avevano bendato gli occhi e questo rendeva tutto ancora più terribile, per lei. Non aveva modo di vedere quello che stava per succederle, ogni volta il dolore era arrivato inaspettato, crudele e violento. Era da un po’ che pensava di essere da sola. Aveva freddo, non aveva niente addosso e non poteva fare alcun movimento. Aveva approfittato della tregua che i suoi carcerieri le avevano concesso per pregare. Aveva capito che non sarebbe mai più tornata a casa, la sua vita sarebbe finita quel giorno. L’unica cosa che la consolava, era la consapevolezza di potersi finalmente riunire al suo

Pasquale e anche a Don Pietro. Le dispiaceva di non aver potuto salutare suo figlio e i suoi nipoti e sapeva che avrebbero sofferto per la sua morte, ma erano una famiglia unita, se ne sarebbero fatti una ragione. Quello che non capiva, era il perché le stesse succedendo tutto questo. Non aveva fatto nulla di male, nella sua vita. Al contrario, aveva sempre servito la chiesa e si era sempre prodigata per aiutare il prossimo. La sua fede incrollabile la portava a pensare che quello che le stava accadendo fosse frutto di un preciso disegno divino, che lei doveva accettare. Presto, quando la sua vita terrena sarebbe finita, avrebbe visto “la luce” e avrebbe avuto le risposte a tutte le sue domande. Dio era con lei, sentiva la sua presenza accanto al lettino a cui era legata. Di colpo sentì un calore benefico invaderle tutto il corpo e non ebbe più paura. Sorrise e in quel preciso istante, capì che presto Dio l’avrebbe accolta tra le sue braccia.

Mauro Vivaldi era seduto di fronte a Roberto, nel suo ufficio. Era un uomo di circa quarant’anni, curato ed elegante e, all’apparenza, molto sicuro di sé. «Signor Vivaldi, come ho già fatto con i suoi colleghi in precedenza, l’ho convocata qui per porle qualche domanda riguardo a Simone Fermi. Nello specifico, vorrei sapere in che rapporti eravate, cosa sa di lui e che idea si è fatto della sua scomparsa.» «Se ha già parlato con i miei colleghi, saprà sicuramente che Simone e io non legavamo molto. Ho provato più volte a imbastire un rapporto decente con lui, non dico di amicizia, ma almeno di pacifica convivenza in ufficio, ma senza risultato. Non credeva mai a quello che dicevo, mi accusava di falsità, di opportunismo e di inaffidabilità.» «E come mai pensava questo di lei? Suppongo avesse i suoi buoni motivi, di solito non ci si fa una cattiva opinione di una persona senza un motivo valido, non crede?» «Questo non lo so, dovrebbe chiederlo a Simone.» «Lo farei volentieri, se solo sapessi dove si trova. Lei non ha alcuna idea, in proposito?» «Io? E cosa vuole che ne sappia, commissario? Come le ho detto, non eravamo certo amici e nemmeno buoni colleghi. Non so nulla di lui, niente di più di

quello che sapevamo tutti. So che abita a Nichelino, che ha una moglie e due figlie. Non conosco i suoi interessi, le sue ioni, i suoi hobby, non so neanche quale sia la sua squadra del cuore! Ogni volta che provavo a parlare un po’ con lui, si allontanava con una scusa. Un uomo problematico, strano, francamente non l’ho mai capito.» «So che lei era a conoscenza del fatto che Simone tenesse un paio di chiavi di casa nel cassetto della sua scrivania. È corretto?» «Sì, ne avevo sentito parlare in sala riunioni, se non ricordo male pochi giorni prima che sparisse nel nulla. La cosa non mi stupì affatto, Simone è sbadato, lo sappiamo tutti in agenzia.» «Prima ha affermato che Simone l’accusava di falsità e opportunismo. In quali occasioni le aveva mosso queste critiche?» «Ricordo che una volta gli chiesi di occuparsi di un tour al mio posto perché dovevo accompagnare mia moglie a una visita medica. Era un tour molto impegnativo, nei sotterranei di Torino. Chiesi a lui questo favore perché sapevo che amava quel genere di tour, a differenza di tutti gli altri colleghi. Mi rispose bruscamente, dicendomi che quella della visita medica era una scusa e che semplicemente gli stavo sbolognando un lavoro a me sgradito. Mi disse che ero falso, bugiardo e anche poco professionale. Alla fine mi sostituì, ma io ci rimasi malissimo. Un’altra volta, circa sei mesi fa, arrivò in ufficio un fax dove si invitava uno degli impiegati dell’agenzia a partecipare a un corso di aggiornamento a Roma. Simone era fuori Torino per lavoro, io chiesi ad Alessia di poter partecipare a quel corso, lei mi accordò il permesso. Quando Simone rientrò in agenzia, andò su tutte le furie, mi disse che quel corso sarebbe toccato a lui, che avrei dovuto aspettare il suo rientro prima di chiedere ad Alessia di potervi partecipare. Mi disse che ero un falso opportunista e credo che non me la perdonò mai!» «E aveva ragione? Intendo dire, sarebbe toccato a lui quel corso?» «Beh, in un certo senso sì, era il più anziano in servizio in agenzia.» «Quindi, non ebbe tutti i torti a prendersela tanto con lei…» «Forse, ma sono cose che sul posto di lavoro possono succedere. Ognuno pensa a se stesso, non si tratta di opportunismo, ma soltanto di un sano antagonismo e

desiderio di migliorare la propria posizione lavorativa e fare carriera, tutto qui.» «Quindi, la presenza di Simone in agenzia era un problema per lei. In un certo senso era il più alto in grado, a quanto ne so era anche piuttosto bravo, un ostacolo alla sua carriera, insomma.» «Che intende dire, commissario? Non vorrà insinuare che io sia responsabile della scomparsa di Simone? Andiamo, un conto è non avere in simpatia un collega, un altro è farlo sparire! Non so che fine abbia fatto, glielo giuro!» «Questo lo vedremo. Un’ultima domanda: dove si trovava la mattina della scomparsa di Simone, diciamo tra le sette e le dieci?» «Ero a casa, sono uscito intorno alle dieci per un tour in programma alle undici a Venaria.» «Era da solo, in casa?» «Fino alle sette e trenta in casa c’erano mia moglie e mio figlio, poi sono usciti. Lei è andata ad accompagnare il bambino a scuola e poi si è recata al lavoro.» «Quindi per un’ora e trenta circa, non c’è nessuno che possa testimoniare la sua presenza a casa. Bene, per il momento è tutto, signor Vivaldi. Le devo chiedere di non lasciare Torino nei prossimi giorni. Fino a che l’indagine per la scomparsa di Simone non sarà conclusa, potrei avere ancora bisogno di parlare con lei.» Mauro Vivaldi uscì dall’ufficio di Roberto con le guance in fiamme, evidentemente non si aspettava un interrogatorio in piena regola. Roberto doveva sentire ancora Davide Lo Russo e Tommaso Neri, ma prima di farlo, doveva parlare con Anna Brunelli. Voleva sapere tutto circa la sua relazione con Simone Fermi.

CAPITOLO DICIOTTO

Stefano e Luca stavano lavorando da ore al simbolo geomantico di Rubeus. Erano ormai certi che la prossima vittima sarebbe stata collegata in qualche modo a quel simbolo e l’omicidio sarebbe avvenuto il martedì successivo, proprio il giorno dedicato a Rubeus. «Stefano, ricapitoliamo. Dunque, Rubeus è un simbolo fortemente negativo che indica rabbia, potere oscuro, lutto, discipline estreme, lussuria. Cerchiamo di ragionare con la mente del killer. Prima la prostituta, poi il ragazzo che uccise i genitori. Quale figura potrebbe essere legata a Rubeus?» chiese Luca. «Io mi sono fatto un’idea, Luca. Ho pensato al mondo dell’omosessualità, più precisamente mi sono venuti in mente i transessuali. Non chiedermi perché, è una sensazione. Discipline estreme, lussuria. Il sesso visto in modo ancora più scabroso rispetto al mondo della prostituzione ordinaria. So che esistono dei locali dove si pratica il sesso estremo, tra uomini e donne, ma anche tra gruppi di uomini e gruppi di donne. In questi locali ci sono transessuali bellissimi, non diresti mai che non sono delle vere donne. Luoghi ideali dove pescare la prossima vittima, non ti pare?» «Potrebbe essere una teoria plausibile, certo. Com’è che conosci così bene questi locali? Forse non dovrei neanche chiedertelo. Conoscendoti, sono sicuro che non ti sei fatto mancare qualche esperienza “forte”.» «Alcuni locali li ho frequentati, questo è vero, ma nei miei gusti sessuali non sono ricompresi uomini, né tantomeno trans. Sai bene quanto mi piacciano le donne e in quei posti ce ne sono di davvero bellissime. E smettila di ridacchiare, sono fatto così e non intendo cambiare. La vita è breve e intendo godermela fino in fondo!» «E con Alessia come va?» «Con Alessia? E come vuoi che vada? Non ne vuole sapere di me, sono sicuro che non sia affatto immune al mio fascino, probabilmente è frenata dal mio turbolento ato.»

«ato? Perché, il tuo presente non è altrettanto turbolento? Come non capirla, quella donna? È seria e probabilmente, a quarant’anni, sta cercando l’uomo della sua vita, dubito possa pensare anche solo per un istante che quell’uomo potresti essere tu!» «Grazie per l’incoraggiamento, sei davvero un amico! Comunque hai ragione e credo che lascerò definitivamente perdere quella donna. Come hai detto tu, è seria e merita qualcosa di meglio dalla vita, di uno scapestrato come me. Peccato, però, di una come lei avrei anche potuto innamorarmi e poi chissà, magari sarei anche cambiato!» «Chi, tu? È più facile che nevichi ad agosto piuttosto che tu la smetta di correre dietro a tutte le gonnelle che ti capitano a tiro! Lascia perdere, goditi la vita e non pensare più a quella donna! Coraggio, rimettiamoci al lavoro. Tra poco Roberto verrà a chiederci conto del lavoro svolto oggi e dobbiamo preparargli un bel resoconto completo.» Stefano riprese in mano i fogli dei suoi appunti per ricominciare a immergersi nel lavoro. Non poteva però fare a meno di vedere, di fronte a sé, i dolci occhi verdi di Alessia.

Anna era ancora al parco del Valentino con Carlotta, quando aveva ricevuto la temuta telefonata del commissario Fogli. Roberto le aveva chiesto un incontro urgente, lei gli aveva dato appuntamento a casa sua alle diciotto. Mancavano pochi minuti all’incontro, Anna si era fatta una rapida doccia, aveva fatto il bagnetto alla bambina, ora si apprestava a rispondere alle domande del commissario. Andrea non si era fatto sentire, nemmeno per sapere come stava Carlotta. Lei si sentiva vuota e stanca, avrebbe risposto a tutte le domande che Fogli le avrebbe posto, ormai non aveva più motivo di nascondere nulla. Roberto arrivò puntualissimo, Anna lo fece accomodare in salotto, accompagnò Carlotta in camera sua, le accese la TV e raggiunse il commissario. «Allora, Anna, come sta?» «A pezzi, commissario. Da ieri sera la mia vita è finita. Andrea se ne è andato, non so nemmeno dove. Oggi non ha chiamato, nemmeno per parlare con Carlotta. Simone è sparito, sicuramente gli è successo qualcosa di grave e forse non lo rivedrò più. Ho lo sguardo di odio e di disprezzo di mio marito impresso

nella mente. Vedo mia figlia ancora serena e felice e mi chiedo per quanto tempo potrà ancora continuare a esserlo. E tutto questo sta succedendo per colpa mia. Vorrei morire…» Roberto era arrivato a casa di Anna deciso a rimproverarla per avergli taciuto la sua relazione con Simone, ma ora che vedeva davanti a sé una donna letteralmente distrutta, decise che non era il caso di infierire e, anzi, poggiò una mano sulla spalla della donna per confortarla. «Mi dispiace, Anna, purtroppo ogni azione che si compie nella vita ha le sue conseguenze, a volte positive, a volte negative. Lei è ancora molto giovane e ha una figlia piccola alla quale pensare. Cerchi di tirarsi su e vedrà che tutto si sistemerà. Ora, se la sente di parlarmi di Simone?» «Certo, ormai non c’è più niente da nascondere, no? Questa è l’unica nota positiva di tutta la faccenda, mi sono tolta un grosso peso dal cuore. Simone e io ci conosciamo da molto tempo, da quando si è fidanzato con Valentina. All’inizio non c’è stata attrazione tra di noi, eravamo soltanto amici, com’era giusto che fosse. Fu quando cominciammo a frequentarci dopo la nascita di Carlotta e di Irene che le cose tra di noi cambiarono. Mi accorsi quasi subito che Simone mi guardava con altri occhi e probabilmente anche lui si accorse del mio interesse per lui. Per tre anni siamo riusciti a soffocare il sentimento che ormai era già nato tra di noi, poi due anni fa tutto è cominciato. Quel giorno, Valentina era a Loano con le bambine, Andrea era al lavoro, io ero a casa, reduce da una brutta influenza. Simone aveva un paio di ore libere prima di un tour e ò qui a casa mia per portarmi una bambola che Carlotta aveva dimenticato a casa sua.» «E siete finiti a letto…» «Già, credo sapessimo tutti e due che sarebbe successo, era quasi inevitabile. Subito dopo ci pentimmo per quello che avevamo fatto e provammo a stare lontani, ma fu tutto inutile, eravamo innamorati, il sentimento che ci legava era più forte di tutti i sensi di colpa che provavamo.» «Non avete mai pensato di parlare con i vostri rispettivi consorti e vivere il vostro amore alla luce del sole?» «Lo proposi diverse volte a Simone, ma lui aveva il terrore di perdere le sue bambine. Io lo capivo, sapevo quanto le amasse, ma soffrivo per la situazione che eravamo costretti a vivere. Io non potevo confessare nulla ad Andrea,

sarebbe venuto tutto a galla e avrei rovinato la vita di Simone ed era l’ultima cosa al mondo che avrei fatto, lo amo troppo.» Anna scoppiò in lacrime, Roberto pensò che forse l’aveva giudicata male. Probabilmente si era trovata in una situazione senza vie di uscita e aveva sofferto molto. E, ora, stava soffrendo ancora di più. «Si faccia coraggio, Anna. Faremo di tutto per riportare a casa Simone. A questo proposito, lei non ha nessuna idea di chi possa averlo rapito? Perché è quasi certo ormai che Simone sia stato sequestrato. Aveva dei nemici? Aveva paura di qualcosa o di qualcuno? Le ha mai confidato qualche timore?» «Assolutamente no, commissario. È questo che non mi dà pace! Chi e perché avrebbe dovuto rapire Simone? È benestante, ma non certo ricco, ha un mestiere ordinario, è una persona come ce ne sono a milioni. Perché lui? Che si sia trattato di un errore di persona?» «Purtroppo non sono in grado di rispondere a queste domande, stiamo indagando a trecentosessanta gradi per cercare di capirci qualcosa, ma le assicuro che l’indagine è molto intricata e difficile.» Roberto si trattenne ancora mezz’ora a parlare con Anna, poi tornò al commissariato. Doveva chiamare Valentina, le aveva promesso di farlo a fine giornata per comunicarle le ultime novità. Come avrebbe fatto a dirle che suo marito era l’amante di Anna Brunelli?

Marco era appena giunto al commissariato. Erano le diciannove e trenta, Roberto era nell’ufficio di Luca e Stefano, lo stavano aggiornando sulle ultime novità delle loro indagini. Entrò nella stanza dei colleghi e raccontò loro quanto aveva scoperto durante la sua visita all’ospedale e all’orfanotrofio di Vercelli. «Davvero molto strano» commentò Roberto. «L’ostetrica muore in un incidente stradale pochi giorni dopo la nascita di Simone, i documenti della sua nascita rimangono distrutti in un incendio, giravano voci circa l’identità dei genitori naturali del bambino... Ci sono tutti gli ingredienti per un gran bel giallo! Pensateci un attimo, se le indiscrezioni raccontate dalla suora dell’orfanotrofio fossero fondate, si tratterebbe di uno scandalo di enormi dimensioni! Un prete che mette incinta una ragazzina di soli tredici anni, qui parliamo di pedofilia,

ragazzi! Io penso che all’ostetrica abbiano chiuso la bocca e che l’incendio sia stato doloso. Sappiamo che nell’ambiente ecclesiastico, alcuni scandali debbano per forza di cose essere tenuti segreti. Voi direte che viaggio con la fantasia, ma io credo di essere molto vicino alla verità.» «E io sono d’accordo con te, Roby» intervenne Marco. «Probabilmente è andata proprio come hai detto tu. Il problema è capire chi fossero il prete e la ragazzina in questione! Purtroppo credo che non esista nessuno in grado di darci questa informazione, probabilmente chi sapeva è stato messo a tacere o comunque ha la bocca cucita.» «E tutta questa storia spiegherebbe anche il rapimento di Simone» intervenne Stefano. «Pensateci bene, magari Simone è venuto a conoscenza di qualche particolare relativo alle generalità dei suoi genitori naturali e si è reso necessario chiudere la bocca anche a lui, per non fare scoppiare lo scandalo. Lo so, non sono un poliziotto e forse mi sto facendo prendere troppo dall’entusiasmo, ma secondo me potrebbe essere una spiegazione plausibile.» «Tutto può essere, ma cosa collega la storia di Simone ai simboli geomantici e a tutti gli omicidi avvenuti?» chiese Marco. Roberto si mise le mani tra i capelli e si lasciò cadere sulla sedia. Erano anni che faceva il poliziotto e di indagini intricate ne aveva risolte parecchie, ma questa sembrava davvero superarle tutte. «Ragazzi, credo che per oggi abbiamo lavorato abbastanza e certi ragionamenti, ve lo dico per esperienza, è meglio farli a mente lucida e riposata. Abbiamo lavorato tutti quanti per quasi dodici ore, è arrivato il momento di andarcene a casa, domani riprenderemo da dove ci siamo interrotti. Ho ancora due colleghi di Simone da interrogare, sono ati qui in commissariato un paio di ore fa, ma ero fuori sede. Hanno lasciato detto che domattina verso le dieci saranno in agenzia, erò io a trovarli. Prima ho sentito al telefono Valentina, la moglie di Simone. Ho preferito evitare di parlare con lei della relazione di Simone con Anna Brunelli, anche di questo mi occuperò domattina. Direi che per stasera è davvero tutto.» In quel momento, Beatrice bussò alla porta ed entrò nell’ufficio trafelata. «Bea, che diavolo c’è adesso? Cos’è quella faccia?»

«Roby, mi dispiace, ma ho appena ricevuto una telefonata allarmante, ho pensato di parlartene immediatamente.» «Di che si tratta?» «Ha chiamato don sco. Dice che è da stamattina che in chiesa non hanno notizie di Lucia Lorenzi. Hanno le chiavi di casa sua, sono andati a controllare. La donna non è in casa, hanno trovato la tazza della colazione ancora sul tavolo e il letto da fare, non certo una consuetudine per la donna. Pare sia uscita di casa di tutta fretta, oppure…» «Oppure qualcuno l’ha “prelevata” da casa. Dico bene?» «Potrebbe essere, Roby. Una vicina di casa dice di averla vista uscire stamattina intorno alle nove in compagnia di due giovani eleganti e distinti. Che facciamo?» «Occupatene tu, Bea. Comincia a partire con le prime indagini, interroga la vicina e, se è in grado di fornire dei dettagli precisi, prova a elaborare un identikit dei due giovani. Fatti aiutare dagli agenti in servizio. Io non ti sarei di alcun aiuto in questo momento, sono troppo stanco e ho bisogno di riposo e lo stesso vale per Marco. Pensi di potertela cavare?» «Tranquillo, capo, me la caverò alla grande. Ho il turno di notte, avrò tutto il tempo per avviare le indagini.» «Perfetto, allora lascio la faccenda e l’intero commissariato nelle tue mani. Domattina alle otto sarò in ufficio, mi aggiornerai sulle novità e poi potrai andartene a casa. Buona serata a tutti, ragazzi, e grazie per la collaborazione.» Roberto lasciò il suo ufficio e il commissariato, aveva bisogno di stare da solo con i suoi pensieri. L’indagine alla quale stava lavorando si rivelava di ora in ora sempre più complicata e aveva bisogno di rifletterci sopra con calma. Un bel bagno caldo e rilassante l’avrebbe aiutato a cacciare via la stanchezza di una lunga giornata di lavoro e a rimettere ordine nei suoi pensieri. Poi avrebbe cenato fuori, aveva appuntamento con Daniela, una donna di trentacinque anni, separata con due figli a carico che frequentava da qualche mese. Forse aveva trovato la donna giusta, non chiedeva molto e accettava il fatto che lui, essendo poliziotto, era spesso poco presente. Si augurava con tutto se stesso che le cose con Daniela funzionassero, era solo da troppo tempo e aveva bisogno di

condividere la sua vita, le sue emozioni e le sue giornate con qualcuno. L’amore nella vita è troppo importante e lui non aveva nessuna intenzione di rinunciarci.

La sacerdotessa era pronta. La vittima sacrificale era adagiata sul lettino, di fronte all’altare. Prima della cerimonia, era ata da Luigi, per avere notizie circa le condizioni di salute di Simone. Il medico le aveva assicurato che avrebbe fatto tutto il possibile per strapparlo alla morte, stava lavorando in laboratorio da ore cercando di modificare l’antivirus per renderlo efficace. Intanto teneva Simone sotto controllo, per il momento le sue funzioni vitali erano stabili e, per quanto privo di conoscenza, era vivo e questo era già un piccolo miracolo. Lucia Lorenzi era perfettamente cosciente, pur non potendo vedere cosa c’era intorno a lei, aveva perfettamente capito dove si trovava. Il suo amore per la religione cristiana, l’aveva portata a leggere molti libri che parlavano del cristianesimo e anche del satanismo. Dalle parole che aveva udito pronunciare da un uomo, pochi minuti prima, si era resa conto di trovarsi nel bel mezzo di una messa nera che, probabilmente, si sarebbe conclusa con un sacrificio umano. Lei, ovviamente, era la vittima prescelta. Quello che stupiva Lucia, era il fatto di non provare alcuna paura. Era tranquilla e serena, sapeva che Dio era lì con lei e la teneva per mano. Conosceva la storia di molti martiri, morti tra mille sofferenze in nome di Dio e della fede, lei doveva solo fare la stessa cosa comportandosi con coraggio e dignità. Presto tutto sarebbe finito e per lei si sarebbero aperte le porte del paradiso. Sentì una mano poggiarsi sul suo petto. Era gelida e le provocava una sgradevole sensazione. La sacerdotessa ritrasse la mano dal petto di Lucia come se fosse venuta a contatto con un ferro rovente e urlò. Sentì un dolore nel petto, talmente forte da farle cedere le ginocchia. Riccardo accorse subito all’altare e aiutò la sacerdotessa a rimettersi in piedi. «Lui è qui! Lui è qui!» continuava a urlare la sacerdotessa, come impazzita. Riccardo e gli altri adepti si guardarono con aria interrogativa, non sapendo cosa fare.

«Riccardo, portami via di qui, subito! Poi occupati personalmente di quella donna, io non posso farlo. Strappale il cuore dal petto e dallo alle fiamme, giurami che farai quello che ti ho chiesto!» urlò la sacerdotessa. «Certo, sacerdotessa, farò come tu comandi.» «Bene, bravo il mio ragazzo. Ora portami subito fuori di qui, presto!» Riccardo si caricò la sacerdotessa sulle spalle e, correndo, la condusse fuori da quella stanza. La portò nel templio, la fece adagiare sul letto e le portò un bicchiere d’acqua. Lei sembrò subito riprendersi. «Che è successo prima, sacerdotessa?» «Ora non è il momento di parlarne, vai e fai immediatamente quello che ti ho chiesto, svelto!» Riccardo non aggiunse altro, sapeva che gli ordini della sacerdotessa non si discutevano. Tornò nella stanza dedicata alla messa, si avvicinò all’altare e osservò per un attimo la donna stesa sul lettino. Era sicuro che fosse sveglia e vigile, eppure non tremava, non invocava pietà e sembrava tranquillissima. Eppure era stata torturata, violentata, spaventata a morte. Perché se ne stava così tranquilla? Avrebbe voluto torturarla un po’, sentirla urlare e invocare pietà, ma la sacerdotessa era stata chiara, se avesse disobbedito a un suo ordine, lei non l’avrebbe più fatto entrare nel suo tempio. Prese il pugnale poggiato sull’altare, l’impugnatura era rappresentata da un grosso serpente. Impugnò l’arma con entrambe le mani, la sollevò in alto e poi la conficcò con tutte le sue forze nel petto di Lucia, che emise un solo debole lamento. Le lacerò il petto e le strappò il cuore. Poi, come gli era stato ordinato, lo gettò nelle fiamme del braciere appena dietro l’altare. Tutti gli adepti cominciarono a pronunciare una lunga litania, Riccardo si sentiva forte e imbattibile. Aveva fatto quello che la sacerdotessa gli aveva ordinato, presto lei l’avrebbe ricompensato come piaceva a lui. Il corpo di Lucia Lorenzi giaceva immobile sull’altare. Uno degli adepti le tolse il cappuccio che le copriva il viso e fece un o indietro, spaventato. La donna era morta con un dolcissimo sorriso sulle labbra.

CAPITOLO DICIANNOVE

Era lunedì mattina, alle sette in punto la sveglia sul comodino cominciò a suonare a ritmo sempre più intenso. Roberto cercò a tentoni il tasto per interrompere quella suoneria così fastidiosa e quasi irritante. Dalla finestra della sua camera da letto filtrava un bellissimo raggio di sole. Si voltò alla sua destra e vide Daniela dormire serenamente, neanche il suono della sveglia era stato in grado di destarla. La sera precedente avevano cenato piuttosto tardi, quando erano arrivati a casa era l’una e si erano addormentati alle tre ate. Quattro ore di sonno erano davvero poche, specialmente dopo una giornata intensa di lavoro e una altrettanto pesante che lo attendeva. Avrebbe voluto voltarsi dall’altra parte e rimettersi a dormire, ma ricordò di aver promesso a Beatrice che sarebbe arrivato in ufficio alle otto quella mattina, giusto in tempo per essere messo al corrente delle novità sul caso di Lucia Lorenzi e permetterle di andare a casa a riposare. Dopo, sarebbe andato all’agenzia Turist Sun per interrogare i due colleghi di Simone che ancora non aveva sentito. Si stiracchiò per qualche secondo, poi si alzò e si buttò sotto la doccia. Utilizzò l’acqua quasi fredda, era un modo efficace per togliere via la stanchezza e aprire la mente. Subito il suo cervello cominciò a lavorare febbrilmente. Da quello che aveva appreso la sera precedente da Stefano e Luca, l’indomani probabilmente sarebbe stato commesso un altro omicidio e la loro ipotesi era quella che la vittima avrebbe potuto essere qualcuno che faceva parte dell’ambiente della trasgressione, qualcuno che frequenta o lavora in locali dove il sesso di gruppo, il sadomasochismo e i transessuali abbondano. Quella mattina avrebbe fatto qualche ricerca per individuare tutti i locali di Torino con queste caratteristiche e avrebbe mandato qualche agente in borghese a tenerli sotto controllo. Di più non poteva fare. Oltre a indagare su tre omicidi, doveva rintracciare due persone scomparse, non si trattava certo di un’indagine facile, ne era perfettamente cosciente. Bevve velocemente un caffè, alla colazione avrebbe pensato più tardi. Diede un rapido bacio a Daniela che continuava a dormire pacifica e uscì di casa.

Luigi aveva ato tutta la notte in laboratorio. Aveva apportato alcune modifiche all’antivirus, si augurava con tutto se stesso che ora funzionasse. Era l’unica possibilità che gli restava per salvare la vita di Simone. L’uomo nella notte era peggiorato, se l’antivirus che stava per somministrargli non avesse sortito l’effetto sperato, avrebbe resistito ancora per poche ore. Si avvicinò al lettino, infilò l’ago in una vena del braccio sinistro di Simone e cominciò a pregare mentalmente Satana che lo aiutasse. Deludere la sacerdotessa era per lui inaccettabile, avrebbe dato la vita per lei, così come tutti gli adepti della loro setta, “I serpenti di Satana”. Mentre aspettava con ansia i risultati della nuova terapia, cominciò a pensare al piano della sacerdotessa, un piano al quale stavano lavorando da tanti mesi e che si avviava verso la fase finale. Tutto era iniziato qualche anno prima, quando la setta cristiana “Nel nome del Padre” era venuta a conoscenza della loro esistenza. Da allora non avevano avuto più pace, era cominciata una guerra senza esclusione di colpi. Luigi non conosceva tutti i particolari, non sapeva chi fosse a capo della setta cristiana, né che azioni avesse compiuto contro di loro. La sacerdotessa dava ai suoi adepti scarse informazioni, ma da quel poco che sapeva, aveva intuito che tra la sacerdotessa e il capo della setta cristiana c’era qualcosa di più di una rivalità a sfondo religioso. L’idea di creare un virus era stata della sacerdotessa, voleva avere in mano un’arma con la quale avrebbe seminato il terrore a Torino. La setta cristiana doveva sparire, se il loro capo non avesse accettato di sciogliere la sua setta e di lasciarli in pace, lei avrebbe provocato la morte di migliaia di innocenti, era sicura che questa minaccia sarebbe stata sufficiente per ottenere quello che voleva. Per poter utilizzare il virus, però, occorreva che funzionasse l’antidoto, altrimenti loro stessi avrebbero rischiato di esserne contagiati. E poi il chiodo fisso della sacerdotessa era il rifugio antiaereo risalente alla seconda guerra mondiale. Era il luogo di ritrovo della setta nemica, lei voleva impossessarsene a tutti i costi, doveva diventare la nuova base segreta dei Serpenti di Satana, lì avrebbe celebrato le messe nere, lì sarebbero state portate le vittime sacrificali. Per raggiungere il suo scopo, aveva deciso di rapire Simone Fermi e si era procurata, lui non sapeva come, un sosia perfetto. Grazie a Riccardo, sarebbe entrata finalmente in possesso di quel rifugio, era quasi un’ossessione per lei. Erano ati almeno dieci minuti dalla somministrazione dell’antivirus. Simone non dava alcun segno di ripresa.

Roberto, dopo un’abbondante colazione al Caffè Italia, era giunto al commissariato. Cercò subito Beatrice, era ansioso di conoscere le ultime novità. «Buongiorno, Bea, come stai? Cosa mi dici del caso Lorenzi?» «Ciao, Roby. Rispondo subito alla tua prima domanda, sono stanchissima, è stata una notte lunga e impegnativa. Per quanto riguarda la scomparsa della signora Lorenzi, ho parlato a lungo con la vicina di casa che dichiara di averla vista uscire di casa ieri mattina intorno alle nove in compagnia di due uomini. Ho provato a elaborare un identikit, ma la signora è molto anziana, ha ottantasette anni e la sua vista, per usare parole sue, “non è più quella di una volta”. Ha potuto notare che i due uomini erano piuttosto alti, ma anche questo è relativo, la signora è alta poco più di un metro e quaranta, quindi bisognerebbe capire quale sia il suo concetto di altezza. Ricorda che erano ben vestiti, uno indossava una polo rossa, l’altro una camicetta a maniche corte di colore azzurro. Pantaloni scuri tutti e due, neri o blu, la signora non ricorda.» «Giovani?» Beatrice gli rivolse uno strano sguardo. «Ho capito… Bisogna capire quale sia il metro di giudizio della testimone. Considerata la sua veneranda età, probabilmente anche avessero avuto sessant’anni, lei li avrebbe definiti giovani.» «Vedo che hai capito perfettamente il concetto!» «D’accordo. Altro?» «Ho mandato un paio di agenti a ispezionare la casa della signora Lorenzi. Tutto sembra in ordine, non ci sono segni di effrazione, né di colluttazione. In camera da letto, nel cassetto del comò, sono stati ritrovati diversi oggetti d’oro. Erano in bella vista, quindi chiunque sia stato a casa della signora ieri mattina, non ci è andato per rubarle qualcosa.» «Ho un bruttissimo presentimento, Bea. Sono quasi certo che la signora Lorenzi sia stata uccisa. Una risposta alla morte di Paolo Rivelli.» «Che intendi dire?»

«Il male contro il bene, Bea. Una prostituta viene uccisa, subito dopo abbiamo l’omicidio di don Pietro. Un assassino, Paolo Rivelli, viene ucciso. L’omicidio della pia e cristiana signora Lorenzi sarebbe la logica risposta! Sono sempre più convinto che la teoria di Stefano Ubaldi sia quella giusta. È in atto una vera e propria guerra tra il bene e il male, tra Dio e Satana.» «Ma perché? Voglio dire, capisco la rivalità religiosa, ma sotto a questa sorta di faida, ci deve essere molto di più.» «Sono d’accordo e sono certo che la chiave di tutta questa storia sia Simone Fermi e la sua scomparsa. Comunque ora vai a casa, Bea. Ci vediamo questa sera, vai a riposarti.» «Se hai bisogno di me posso rimanere ancora qualche ora. Luca è a scuola e ci resterà fino alle sedici e trenta, ho tutto il tempo per riposarmi più tardi.» «No, preferisco che tu vada a casa, ti voglio fresca e lucida per questa sera.» «Va bene, Roby, ti auguro una buona giornata. Se avessi bisogno di me, non esitare a chiamarmi.» «Grazie, Bea, lo farò.» Rimasto solo, Roberto chiamò Valentina. «Buongiorno, commissario, ci sono novità?» «Nessuna, purtroppo. Di Simone nessuna notizia, però vorrei chiederle di are qui al commissariato in tarda mattinata, avrei bisogno di parlarle.» «D’accordo, vengo anche subito, se vuole.» «No, tra poco devo uscire e non sarò di ritorno prima delle undici.» «Va bene, allora verrò verso le undici e trenta. Commissario, è successo qualcosa?» «Ne parleremo più tardi, Valentina. Ora devo proprio lasciarla, ho molte cose delle quali occuparmi.»

«D’accordo, a più tardi commissario.» In quel momento, Marco entrò nel suo ufficio. «Ciao, Roby, ho incontrato Bea nel corridoio, mi ha raccontato le ultime novità.» «Se di novità si può parlare! Siamo in un vicolo cieco, Marco. È in atto una guerra tra sette religiose che non siamo in grado di fermare. Sono certo che Simone Fermi sia la risposta a tutte le nostre domande, quello che non capisco è il ruolo che ricopre in tutta questa faccenda. Dobbiamo assolutamente scoprire qualcosa di più su di lui e sulle sue origini, è indispensabile, altrimenti le nostre indagini rimarranno a un punto morto!» «Ho fatto quello che potevo, Roby. Non so proprio più cosa e dove cercare!» «Vorrei che oggi tornassi all’ospedale Sant’Andrea. Procurati una lista del personale impiegato nel reparto di ginecologia all’epoca della nascita di Simone, è un’informazione che devono avere per forza, incendio o non incendio. Poi torna anche all’orfanotrofio della Maddalena, cerca di parlare con tutte le suore più anziane, qualcuno che sa qualcosa ci deve pur essere, porca puttana! Porta Matteo con te, in due farete prima.» «Ok, partiamo subito?» «Con il primo treno disponibile, non c’è tempo da perdere. Domani è martedì, ci sarà un altro omicidio, questo è quanto affermano Stefano e Luca e io ci credo ciecamente.» In quel momento, Bea entrò trafelata nell’ufficio del commissario. «Bea, che ci fai ancora qui? Ti avevo detto…» «Di andare a casa, lo so. Stavo per farlo, ero in guardiola pronta a timbrare il tesserino quando è arrivato questo fax.» L’ispettrice porse un foglio a Roberto che impallidì leggendolo. «Che succede?» chiese Marco. Roberto ò il foglio al collega.

«Anziana donna ritrovata cadavere dentro un sacco nero nelle vicinanze di un bidone della spazzatura in Via Garibaldi. La donna presenta evidenti segni di torture e le è stato strappato il cuore dal petto. Dalle foto segnaletiche messe a disposizione dal commissariato San Secondo di Torino, risulta che il cadavere potrebbe essere quello della scomparsa Lucia Lorenzi» lesse Marco ad alta voce. «Esattamente come avevo previsto!» disse Roberto scoraggiato. «Che facciamo?» chiese Marco. «Andiamo subito sul posto, Antonio sarà già lì per un primo esame sul corpo della vittima. A Vercelli ci andrai più tardi. Bea, a questo punto devo chiederti di rimanere qui in ufficio ancora per un po’. Cercami tutti i locali hard di Torino, quelli dove si pratica sesso estremo per intenderci. Fai una lista completa, questa sera intendo mandare un agente in ognuno di questi locali per tenere la situazione sotto controllo.» Poi, Roberto prese il telefono e chiamò Matteo. «Matteo, vieni subito nel mio ufficio.» L’agente arrivò in pochi istanti. «Vai alla Tourist Sun e interroga Davide Lo Russo e Tommaso Neri, sai benissimo cosa devi chiedere loro. Io sto andando sul luogo del ritrovamento del cadavere di Lucia Lorenzi e alle undici devo essere in ufficio per parlare con la moglie di Simone Fermi e purtroppo non posseggo ancora il dono dell’ubiquità!». «Non c’è problema, ci vado subito. Ho capito bene? La signora scomparsa è stata ritrovata?» «Sì, c’è scritto tutto in questo fax» rispose Roberto porgendo il foglio a Matteo. «Allora, Marco e io possiamo andare? È tutto chiaro?» «Certo, capo» risposero in coro Beatrice e Matteo. Senza perdere altro tempo, Roberto e Marco uscirono dal commissariato, salirono su una volante e si avviarono verso il luogo del ritrovamento del cadavere di Lucia Lorenzi.

CAPITOLO VENTI

In pochi minuti, Roberto e Marco arrivarono in Via Garibaldi, di fronte al bidone della spazzatura dove era stato ritrovato il corpo della povera signora Lorenzi. Antonio De Quirico, il medico legale, era chino di fianco al corpo della donna e lo stava esaminando. «Ciao, Antonio» lo salutò Roberto. «Come sta andando? Cosa mi puoi dire?» «Che ti posso dire? Beh, sono quasi trent’anni che faccio questo mestiere e ne ho viste davvero di tutti i colori, ma non posso evitare di provare una grande rabbia in situazioni come questa. Una povera donna anziana torturata in modo ignobile, violentata, picchiata. E, tanto per finire in bellezza, le aprono il petto e le viene strappato via il cuore! Quale bestia può compiere un’azione così ignobile?» «Non certo un timorato di Dio, Antonio. Comunque hai ragione, a certe cose non ci si abitua mai. Quando le vittime sono donne, bambini o anziani, fa ancora più rabbia, perché si tratta di persone indifese. Posso solo dirti che farò quanto in mio potere per dare giustizia a questa povera donna. Strana la sua espressione, di solito i morti ammazzati hanno tutti lo sguardo terrorizzato, la signora Lorenzi è morta con il sorriso sulle labbra.» «L’ho notato anche io ed è piuttosto strano, in effetti. Spero per lei che sia stata drogata, prima di subire tutto questo orrore! Ora la portiamo via, conto di effettuare l’autopsia e i vari esami tossicologici in giornata. Appena avrò finito, ti farò avere un resoconto completo. La scientifica rimarrà sul posto ancora per un po’, tu cosa pensi di fare? Vuoi venire ad assistere all’autopsia?» «No, rimango qui con Marco, proviamo a interrogare i residenti della zona, nella speranza che qualcuno abbia visto qualcosa, magari la persona che si è disfatta del sacco nero.» «D’accordo, allora ci sentiamo in serata per i risultati dell’autopsia.» Roberto e Marco iniziarono a suonare i camli dei residenti della zona, nella speranza di ricevere qualche informazione utile per le loro indagini.

Matteo era giunto alla Tourist Sun, per interrogare Davide Lo Russo e Tommaso Neri. Parlò a lungo con i due uomini, prima con Davide, poi con Tommaso. Purtroppo non diedero a Matteo nessuna indicazione rilevante. Entrambi erano dispiaciuti e sconcertati per la scomparsa di Simone, nessuno dei due aveva notato qualcosa di strano nel comportamento del collega nei giorni precedenti alla scomparsa e nessuno di loro aveva motivo di pensare che Simone avesse dei nemici. Era un uomo normale che conduceva una vita come tante altre. Un solo particolare attirò l’attenzione di Matteo. Sia Tommaso che Davide avevano parlato della ione di Simone per i tour guidati nella Torino sotterranea. Al contrario di tutti i suoi colleghi, che preferivano altri itinerari, Simone sembrava essere interessato e apionato proprio a quel genere di luoghi. Era un particolare emerso anche nel corso di altri interrogatori e la cosa cominciava a farsi interessante. In fondo era stato proprio in uno di questi luoghi presenti sotto la città di Torino che erano stati trovati i simboli geomantici ai quali erano già stati collegati due omicidi. Matteo si apprestò a tornare in ufficio, avrebbe parlato con Roberto di questo strano e inquietante particolare, che rendeva ancor più misteriosa la scomparsa della guida turistica.

Beatrice aveva stilato un elenco di tutti i locali hard presenti a Torino. Non erano molti, anche se sapeva benissimo che quelli che aveva indicato nella lista erano solo quelli ufficiali, in realtà ne esistevano molti di più, spesso camuffati da centri estetici. Soltanto nell’ultimo anno, ne erano stati scoperti e chiusi tre nella città di Torino. Lei, per il momento, poteva lavorare solo su quelli ufficiali. Ci sarebbero voluti una decina di agenti per poterli tenere tutti sotto controllo, diede un’occhiata al turno di quella notte e provò a stilare una specie di piano di lavoro, che avrebbe poi sottoposto all’approvazione di Roberto, non appena fosse rientrato in ufficio. Aveva appena terminato il suo lavoro, quando Roberto e Marco tornarono in commissariato. Erano le undici ate. Beatrice consegnò subito il lavoro fatto al commissario. «Ottimo lavoro, Bea. Va benissimo il piano di lavoro come l’hai preparato, penserò io a comunicare ai ragazzi dove e quando presentarsi. Tu adesso vai a casa, stavolta il mio è un ordine.»

«Non me lo farò ripetere due volte, la stanchezza comincia davvero a farsi sentire. Come è andata con Lucia Lorenzi?» «Una gran brutta storia. Quella donna ne ha ate di tutti i colori prima di morire. La cosa strana è che se ne è andata con il sorriso sulle labbra! Comunque Marco e io abbiamo interrogato tutti i residenti della zona che abbiamo trovato in casa e, naturalmente, come succede sempre in questi casi, nessuno ha visto e sentito niente. Qualcuno ha scaricato il sacco contenente il corpo della signora Lorenzi davanti al cassonetto, ma nessuno si è accorto di nulla! A volte mi redo conto di quanto la gente abbia paura a collaborare con le forze dell’ordine e questo non fa che rendere ancora più difficile il nostro lavoro.» In quel momento entrò un agente, per comunicare a Roberto l’arrivo di Valentina Grande, la moglie di Simone. «Merda! Quasi mi ero scordato di doverla incontrare! Ora dovrò comunicarle di avere un paio di corna alte quanto un grattacielo di New York! A volte odio il mio lavoro…» «Vuoi che le parli io, Roby?» chiese Marco. «No, Matteo è già rientrato dalla Turist Sun, vai a Vercelli con lui e appena avrai qualche notizia, comunicamela immediatamente. Ci vediamo stasera, mi raccomando, cerca di scoprire qualcosa.» «Farò il possibile, capo!» Roberto, dopo aver chiesto all’agente di fare accomodare Valentina nel suo ufficio, si avvicinò alla macchinetta del caffè e scelse un espresso ristretto, un po’ di caffeina gli avrebbe fatto bene, le poche ore dormite quella notte cominciavano a farsi sentire. Bevve il caffè, amaro, in un unico sorso, gettò il bicchierino nell’apposito contenitore dei rifiuti, fece un lungo respiro e si avviò verso il suo ufficio. Valentina lo stava aspettando. La donna aveva l’aria stanca, due profonde occhiaie le cerchiavano gli occhi. Avrebbe voluto darle qualche buona notizia, invece stava per infliggerle un altro duro colpo. «Buongiorno, Valentina, come sta?» la salutò Roberto.

«Non bene, commissario. La notte non riesco a riposare, non faccio che pensare a Simone e a quello che potrebbe essergli successo. È dura, mi mancano anche le mie bambine, ma preferisco che rimangano al mare con i miei amici, piuttosto che con la loro madre che non fa altro che piangere come una fontana! Comunque, commissario, mi ha detto che voleva parlarmi. Di cosa si tratta?» «Mi chiami Roberto, la prego. Quel “commissario” è troppo formale.» «D’accordo, comm… ehm… Roberto, ha qualche notizia di Simone?» «Come le ho detto al telefono, per ora non abbiamo alcuna idea di dove si trovi suo marito. Però, stiamo indagando sulla sua vita e questo ci ha portato a scoprire alcune cose interessanti.» «Per esempio?» Qui veniva la parte difficile. Roberto non aveva scelta, la donna aveva tutto il diritto di sapere quello che c’era tra suo marito e la sua amica Anna, faceva parte delle indagini e, probabilmente, presto la notizia sarebbe trapelata. Era meglio che lo sapesse da lui, piuttosto che ascoltarlo durante una trasmissione televisiva o leggerlo su qualche giornale. «Quello che ho da dirle non le farà piacere, Valentina. A volte le persone che abbiamo accanto nascondono dei segreti inconfessabili, spesso non parlano per timore delle conseguenze, a volte drammatiche. Io non voglio giustificare né condannare Simone, mi limito a metterla al corrente dei fatti, dopo di che sarà lei a trarre le sue considerazioni.» «Mi sta spaventando, Roberto. Cosa c’è di così importante nella vita di Simone che io non so?» «È inutile che io ci giri tanto intorno. Purtroppo devo informarla che suo marito, da due anni, aveva una relazione con Anna Brunelli.» Valentina cominciò a ridere a crepapelle. «Mi scusi, commissario, anzi, Roberto, ma sicuramente c’è un errore! Simone e Anna? Impossibile! Siamo amici da tantissimi anni, avete scambiato un sincero rapporto di amicizia per qualcosa di diverso! Sono sicurissima di questo!»

«Se non fossi più che sicuro non mi sarei mai permesso di darle una notizia del genere. Abbiamo le prove, centinaia di sms inequivocabili che i due si scambiavano ogni giorno e, oltre a questo, ho parlato personalmente di questa storia con Anna, ha confermato tutto.» Valentina aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata, probabilmente stentava a credere a quello che stava sentendo. «Non è possibile! Come ho potuto essere così stupida da non accorgermene? E Andrea? Lo sapeva?» «L’ha saputo l’altra sera, pare sia caduto anche lui dalle nuvole.» Valentina cominciò a ridere e a piangere insieme, Roberto non capiva se per il dolore provocato dalla notizia o per il fatto di non aver mai capito quello che stava succedendo. In ogni caso, la donna era sconvolta. «Vuole un bicchiere d’acqua?» le chiese Roberto. «No, grazie. Vorrei solo andare a casa, adesso, se non le dispiace.» «Ma certo, vada pure, magari ci sentiremo più tardi, quando si sarà calmata.» La donna uscì dalla stanza con le lacrime agli occhi e la testa bassa. Roberto si augurò che non commettesse qualche sciocchezza.

La sacerdotessa aveva trascorso una notte agitata, l’esperienza vissuta la sera prima l’aveva sconvolta. Aveva sentito la presenza di Dio in quello che era il suo tempio, la casa di Satana. Questo la allarmava e la sconvolgeva allo stesso tempo. Rapire Lucia Lorenzi non era stata una buona idea, aveva permesso al nemico di entrare nel suo regno, aveva commesso un errore imperdonabile. E poi era preoccupata per i suoi adepti, nessuno di loro aveva percepito la presenza del nemico, a parte lei. Questo voleva dire che non erano pronti, che non avevano ancora accolto Satana nelle loro anime. Tutto quello per cui aveva lavorato per anni, non aveva dato i frutti sperati. Non era stata abbastanza brava, non si era dimostrata in grado di svolgere il compito che il supremo le aveva affidato. Era in crisi profonda, ma non poteva e non doveva arrendersi. L’indomani Riccardo sarebbe tornato a Torino nelle vesti di Simone Fermi, si augurava che fosse in

grado di svolgere il suo compito al meglio. Quell’uomo era innamorato di lei e questo era un problema. Un seguace di Satana non conosce quel tipo di sentimento. Quanto a Luigi, le aveva dato prova della sua incompetenza fallendo con il virus. Gianluca era il suo braccio destro, avrebbe scommesso qualsiasi cosa sulla sua fede, ma neanche lui aveva avvertito i sintomi che lei stessa aveva avvertito alla presenza di quella donna. Aveva fretta di risolvere la faccenda con il nemico, poi avrebbe cercato altri collaboratori e questa volta sarebbe stata più attenta nella sua scelta. Non aveva tempo di pensare oltre alla sera precedente, doveva mostrarsi tranquilla come aveva sempre fatto.

Padre Nicola si era svegliato presto quella mattina. Aveva riposato poco e male, i pensieri e le preoccupazioni per quanto stava succedendo non gli lasciavano spazio per riposare la mente. Aveva saputo del rapimento di Lucia Lorenzi, la fedele perpetua della chiesa di San Lorenzo. Sapeva che la donna non sarebbe mai più tornata a casa, aveva pregato a lungo affinché la sua morte fosse rapida e indolore, anche se era certo che non fosse stato così, sapeva bene chi l’aveva rapita e perché. L’indomani avrebbe avuto un’altra vittima sulla coscienza, era necessario. Dio sapeva, era stato Lui stesso a ordinargli l’omicidio della prostituta e di Paolo Rivelli. Punizioni esemplari per tutti coloro che vivono seguendo le leggi di Satana e non quelle di Dio, un tentativo di ripulire il mondo da tutto lo schifo che ne fa parte. Per l’indomani era tutto pronto, si sarebbe occupato di tutto il fedele don Tiziano, quel ragazzo era giovane, ma aveva la stoffa per diventare, un giorno non troppo lontano, il suo sostituto. L’aveva trovato una fredda mattina d’inverno di venticinque anni prima davanti al portone del convento, all’interno di un cestino, nudo e riparato soltanto da una leggera copertina di lana. Aveva deciso di tenerlo con sé, l’aveva battezzato e gli aveva insegnato tutto quello che sapeva. Spesso il ragazzo gli aveva chiesto conto delle sue origini, lui non gli aveva nascosto nulla, gli aveva raccontato i fatti così come si erano svolti, Tiziano gli era riconoscente e non gli aveva mai manifestato il desiderio di conoscere l’identità dei suoi genitori naturali. Stava bene con colui che chiamava padre, era fedele ed era un ottimo prete. Era riuscito a procurargli un documento falso, dove risultava chiamarsi Tiziano Roncati, perché diventasse parroco della sua chiesa però, aveva bisogno di procurargli i titoli di studio necessari che non possedeva, non aveva mai frequentato una scuola. Di questo si sarebbe occupato quando la storia con le bestie contro le quali stava combattendo si sarebbe risolta. Sapeva già a chi rivolgersi, conosceva le persone giuste che gli avrebbero procurato tutto ciò che

gli occorreva.

Anna era appena arrivata alla Tourist Sun con Carlotta. Si precipitò subito nell’ufficio della sorella. «Anna! Finalmente! Ero preoccupata, come stai?» la salutò Alessia accogliendo Carlotta tra le braccia. «Ho bisogno di lasciarti la bambina per qualche ora, non ti darà alcun fastidio, basta che le accendi il televisore e non ti accorgerai neanche della sua presenza.» «Perché? Dove devi andare?» «Ho bisogno di occuparmi di alcune questioni importanti, ora non posso parlartene. Allora, te la posso lasciare?» «Certo, non c’è nessun problema per Carlotta. Sei tu che mi preoccupi.» «Io? Non darti pena per me, come avete più volte sottolineato tutti quanti, ho sbagliato e ora è giusto che paghi, no?» «Ascolta Anna, io…» «Non c’è bisogno che tu dica nulla, Ale. Occupati di Carlotta, tornerò a prenderla appena possibile.» Anna diede un bacio alla bambina, le raccomandò di comportarsi bene, salutò la sorella in modo piuttosto freddo e uscì dall’ufficio. Alessia sistemò Carlotta in sala riunioni e tornò nel suo ufficio. Era davvero preoccupata per sua sorella, non l’aveva mai vista così sciupata e triste come quella mattina. Aveva il volto stanco e l’espressione di chi alla vita non ha più niente da chiedere. Dove stava andando? Cos’erano le questioni importanti delle quali si doveva occupare? Doveva essere qualcosa di molto delicato e personale, altrimenti avrebbe portato la bambina con sé, come faceva d’abitudine. Si rendeva conto di essersi comportata malissimo con la sorella. D’accordo, pensava che avesse sbagliato, ma il suo dovere era quello di confortarla, aiutarla e magari anche capirla e lei non aveva fatto niente di tutto questo. L’aveva solo

giudicata e rimproverata, l’aveva fatta sentire una pessima persona, cosa che, sapeva per certo, non corrispondeva a verità. Quando fosse tornata a riprendersi Carlotta, le avrebbe parlato. Le avrebbe chiesto scusa e si sarebbe offerta di prendersi cura di lei e della bambina come era giusto che fe. In fondo lei era la sorella maggiore, i loro genitori non c’erano più già da qualche anno, toccava a lei occuparsi di loro. Non era riuscita a sapere come fossero andate le cose con Andrea, ma il viso di Anna diceva tutto, il cognato evidentemente l’aveva presa malissimo. Neanche l’avesse chiamato con il pensiero, Andrea entrò senza bussare nel suo ufficio. «Andrea!» «Già, proprio io. Da come mi guardi, sembra che tu abbia visto un fantasma!» «No, figurati. È che non mi aspettavo una tua visita, tutto qui» rispose Alessia buttando un occhio verso la sala riunioni. Carlotta era intenta a guardare i cartoni animati, non si era accorta dell’arrivo del padre e neanche lui sembrava aver notato la presenza della figlia. «Cosa posso fare, per te?» «Da quanto lo sapevi?» «L’ho saputo un giorno prima di te e sono rimasta allibita anche io.» «Quindi se non fosse scomparso Simone, nessuno di noi l’avrebbe mai saputo! Sono stati bravi, vero? Chi l’avrebbe detto? Anna e Simone, che schifo!» «Ora sei arrabbiato, ma se fossi in te darei a tua moglie la possibilità di spiegarsi. Magari, quando sarai più calmo, dovresti parlare con lei.» «Non ne ho nessuna intenzione. Oggi sono in ferie, vengo adesso dallo studio del mio avvocato. Ho già avviato le pratiche per la separazione. Anna riceverà una lettera a casa con la richiesta non solo di separazione, ma anche dell’affidamento di Carlotta.» «Non puoi farle questo! Togliere la madre a tua figlia sarebbe un gesto sbagliato

nei confronti della bambina, non lo capisci?» «Non voglio che Carlotta cresca con una madre priva di qualsiasi senso morale, mi appellerò a questo per ottenerne l’affidamento. La bambina con me starà benissimo e lei potrà comunque vederla, magari una volta alla settimana.» «Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Una volta alla settimana? E che tipo di rapporto credi che possa instaurarsi, tra madre e figlia?» «A Carlotta non mancherà nulla, me ne prenderò cura, non temere.» «Ripensaci, Andrea. Non fare pagare a tua figlia gli errori della madre e soprattutto non vendicarti di lei utilizzando la bambina!» «Non è quello che sto facendo, sto solo pensando al bene della piccola. Volevo solo dirtelo, così potrai cominciare ad accennarglielo e dille anche che domani voglio tenere la bambina con me.» «Perché non glielo dici tu stesso?» «Perché non ho intenzione di parlare con lei, non adesso, non me la sento. Ci vediamo, Alessia.» Detto questo, Andrea uscì dall’ufficio. Per fortuna non si era accorto di Carlotta, nel caso in cui l’avesse vista e avesse preteso di portarla via con sé, lei non avrebbe saputo come comportarsi. In che razza di guaio si era cacciata sua sorella! Avrebbe lottato per lei e con lei. Non avrebbero permesso che Andrea si portasse via la bambina.

CAPITOLO VENTUNO

Roberto era a colloquio con Stefano e Luca. I due collaboratori del commissario stavano continuando il loro lavoro legato ai simboli geomantici ritrovati impressi sui muri del rifugio antiaereo sotterraneo di Torino. Ora erano al corrente dei risultati delle prime indagini ed erano sempre più convinti che fosse in atto una vera e propria guerra tra sette rivali. Mentre il commissariato stava lavorando nella speranza di riuscire a bloccare il probabile prossimo omicidio del giorno successivo, loro stavano già lavorando sul simbolo di Fortuna Major, il successivo in ordine cronologico impresso sul muro. «Ditemi subito a che giorno è abbinato questo simbolo, tanto per sapermi regolare.» «È la domenica, quindi abbiamo tanto tempo a nostra disposizione. Il problema è che la cerchia nella quale ricercare un’ipotetica prossima vittima è troppo ampia» rispose Stefano. «Spiegati meglio, Stefano.» «Fortuna Major è un simbolo piuttosto positivo, rispetto a quelli dei quali ci siamo occupati in precedenza. Indica ricchezza, fortuna, accumulo di beni, tesori, eredità. Una sorta di successo materiale.» «Cosa che per la religione cristiana potrebbe essere considerato come peccato» considerò Roberto. «Esatto. Probabilmente l’accumulo di ricchezza viene visto come una sorta di insulto alla povertà. Luca e io siamo dell’avviso che la vittima legata a questa profezia potrebbe essere una persona molto ricca e molto in vista. Magari qualcuno che utilizza il proprio denaro per fare la bella vita, che non si interessa di beneficienza e opere di bene. Potreste cercare quante persone residenti a Torino posseggano queste caratteristiche e organizzarvi per metterle sotto protezione.» «C’è anche un altro significato che si può dare al simbolo di Fortuna Major» intervenne Luca. «Ne stavamo proprio discutendo con Stefano quando sei

arrivato. Può indicare anche avidità, infedeltà e egocentrismo. Quindi, non è da scartare l’ipotesi che possa trattarsi di una persona infedele, in questo caso sarebbe il tradimento il peccato che deve essere punito.» «E se dovessi proteggere tutti i cittadini infedeli verso i rispettivi compagni, non mi basterebbe l’intervento dell’esercito! Ho capito, siamo nella merda fino al collo.» «In effetti è così, Roberto. Tradurre il significato di quei simboli è un lavoro moderatamente semplice, capire cosa abbia in mente il folle che ha architettato tutto questo è molto più difficile. Hai considerato l’idea di consultare un criminologo?» suggerì Luca. «Ne abbiamo uno qui al commissariato, più tardi lo andrò a trovare e gli chiederò di are da voi a fare due chiacchiere. Magari tutti e tre insieme riuscirete a trovare qualche risposta in più. Ora vi lascio lavorare in pace, io devo organizzare i turni di controllo ai locali notturni per questa sera.» Roberto lasciò l’ufficio di Stefano e Luca con l’amaro in bocca. Sapeva che ci sarebbero stati altri omicidi, ma non aveva alcuna idea su come fare per riuscire a evitarli.

Anna era giunta alla Caffetteria Iorio in Via Po a Torino. Mancavano dieci minuti alle dodici, a mezzogiorno aveva appuntamento con Valentina. Quando aveva ricevuto la sua telefonata, quella mattina, aveva rischiato di cadere lunga e distesa per terra. Il tono dell’amica, o per meglio dire ex amica, non faceva presagire nulla di buono. Evidentemente era venuta a conoscenza della relazione tra lei e Simone e ora le avrebbe detto tutto quello che pensava di lei. Un altro duro colpo, un’altra persona alla quale lei voleva bene l’avrebbe giudicata, insultata, offesa. Aveva considerato la possibilità di non presentarsi all’incontro, ma aveva pensato che si sarebbe trattato solo di rimandare qualcosa di ormai inevitabile. Avrebbe affrontato anche questa, con quel poco di forza che le era rimasta. Entrò nel locale e vide Valentina già seduta a un tavolino. Aveva un aspetto terribile, era pallida e aveva due profonde occhiaie che le segnavano gli occhi. In altre circostanze, si sarebbe avvicinata al tavolino, Valentina si sarebbe alzata e l’avrebbe abbracciata, come facevano sempre. Invece, appena la vide, Valentina le rivolse uno sguardo di fuoco. Anna si avvicinò a lei, scostò la sedia

e si accomodò. «Ciao, Valentina.» Lei non rispose al saluto, si limitò a rivolgerle un sorriso amaro. «Ero quasi certa che non ti saresti presentata. A quanto ho potuto appurare nelle ultime ore, non sei una persona capace di affrontare le situazioni mettendoci la faccia.» «So cosa intendi. Avrei dovuto parlarti della mia relazione con Simone, avremmo dovuto affrontare la situazione, invece abbiamo vissuto per due anni nella clandestinità.» «Già, questo è quello che avrebbero fatto due persone corrette, cosa che evidentemente con siete, né tu, né tantomeno mio marito, se ancora posso chiamarlo così! Sai qual è la cosa che mi fa stare peggio? È il fatto che abbiate permesso che continuassimo a frequentarci tutti e quattro, come due coppie di amici qualsiasi! Come facevate a guardarvi nello specchio? Come avete potuto pugnalarci alle spalle e continuare, nonostante tutto, a comportarvi come se niente fosse? Che razza di persone siete? Con te sono arrabbiata, mi hai tradita, ferita e umiliata, ti consideravo un’amica e mi sono resa conto di quanto io mi sia sbagliata nel giudicarti. Ma quello che non tollero, è di aver vissuto per gli ultimi due anni accanto a un uomo che si prendeva gioco di me. Ora capisco tante cose, ultimamente non aveva mai voglia di fare l’amore con me, era sempre stanco, oppure aveva il mal di testa, o rimaneva davanti alla televisione fino a tardi, venendo a letto quando si accorgeva che io mi ero già addormentata. Avevo capito che c’era qualcosa che non funzionava, ma mi ero convinta che, dopo tanti anni di matrimonio, fosse normale e che presto le cose sarebbero migliorate. Ho pensato anche di non piacergli più, ho cominciato una dieta per perdere qualche chilo, ho acquistato biancheria intima seducente per piacergli di più, ho cambiato taglio di capelli, ma lui neanche se ne è accorto e adesso capisco perfettamente il perché. Ti chiederai perché ti ho chiesto questo incontro. Non ho intenzione di insultarti e nemmeno di giudicarti, quello che penso di te me lo tengo per me. Quello che vorrei capire e che vorrei chiederti, è soltanto perché. Perché l’avete fatto? Forse non sono stata una buona moglie o Andrea non è stato un buon marito per te?» «No, niente di tutto questo. Perché, mi chiedi? Non lo so, ci siamo innamorati,

abbiamo fatto di tutto per soffocare questo sentimento, ma non ci siamo riusciti. Sono cose che accadono, sono terribili e dolorose per tutti, ma a volte sono inevitabili. Io mi scuso con te per aver agito alle tue spalle, me ne vergogno tantissimo e penso di poter dire la stessa cosa di Simone. Ma non l’abbiamo fatto con l’intento di fare del male a qualcuno, è stato semplicemente inevitabile.» «Quindi vorresti farmi credere che il vostro è vero amore?» «Sì, Valentina, te lo giuro. Non abbiamo fatto tutto questo per una banale attrazione fisica, questa è l’unica spiegazione e giustificazione che posso darti.» «Simone è sparito veramente o avete architettato tutto questo per poter vivere più serenamente la vostra storia?» «Che dici, Vale? Non ho idea di dove sia Simone, darei non so cosa per sapere quello che gli è successo!» «Ho capito, anche se a questo punto mi riesce molto difficile crederti. Non solo mi fai rabbia, ma anche tanta pena. Sei una madre, il tuo comportamento non è in alcun modo giustificabile. Ora vattene, non voglio vederti mai più.» «Ascolta, Vale…» «Non voglio più ascoltarti, ti ho detto di andartene. Ti consiglio di farlo, non ho intenzione di dare spettacolo in un locale pubblico.» Anna capì che non ci sarebbe stato nulla da poter aggiungere per cancellare quel dolore che lei stessa aveva provocato. Aveva un nodo alla gola e una gran voglia di piangere. Uscì dal bar portandosi dietro una tristezza infinita.

Nel primo pomeriggio, Marco e Matteo arrivarono a Vercelli. Per il viaggio, avevano utilizzato un’auto di servizio, per evitare sprechi di tempo prezioso. Avevano parcheggiato la volante di fronte all’ospedale Sant’Andrea. Il direttore sanitario, il professor Corbelli, era stato avvisato del loro arrivo e anche del motivo della visita e aveva assicurato loro che avrebbe cominciato a preparare il documento del quale avevano bisogno. Erano ati quarantacinque anni dalla nascita di Simone Fermi, avrebbero scartato subito i nomi dell’elenco delle persone più anziane e si sarebbero concentrati su quelli più giovani, alcuni di

loro sicuramente ancora in vita. Non persero molto tempo all’interno dell’ospedale, il professor Corbelli era stato di parola e aveva preparato un elenco del personale in servizio nel suo ospedale, nel reparto di ostetricia e ginecologia, nel 1968. Purtroppo non era stato in grado di fornire loro i turni del giorno della nascita di Simone, sempre a causa dell’incendio che distrusse gli archivi molti anni prima. Furono due nomi in particolare ad attirare l’attenzione dei due poliziotti. Quello di un ginecologo, il dottor Daniele Lisi, all’epoca trentenne e quello di un’infermiera addetta al reparto di ginecologia, Giovanna Minelli, nata nel 1945, quindi sufficientemente giovane per essere ancora in vita. Tutto il resto del personale, risultava troppo avanti con gli anni. Senza perdere tempo, chiamarono il commissariato, chiedendo di effettuare una ricerca sulle due persone in questione. Avevano bisogno di sapere innanzitutto se erano ancora in vita e poi dove erano residenti. Mentre al commissariato svolgevano la loro indagine, loro si recarono all’orfanotrofio della Maddalena e furono accolti, come era successo a Marco un paio di giorni prima, da suor Adelaide. «Signor Del Re, non mi aspettavo di ricevere un’altra visita da parte sua, le ho già detto tutto quello che sapevo!» «Lo so, suor Adelaide, sono venuto per chiederle di poter parlare con qualche anziana suora che all’epoca del soggiorno di Simone si trovava in questo orfanotrofio.» «Ha sprecato il suo tempo, io sono l’unica rimasta. Sono ati quarantacinque anni, alcune sorelle si sono già riunite con Dio, altre si sono trasferite in altre strutture.» «Lei ha la possibilità di dirmi quali sorelle si sono trasferite e dove? Mi scusi se insisto, ma è importante.» Suor Adelaide alzò gli occhi al cielo, era chiaro che la presenza della polizia nella sua struttura non le era gradita, ma sapeva anche di non poter rifiutare una richiesta alle forze dell’ordine. «Seguitemi, andiamo nel mio ufficio, vedrò cosa posso fare per aiutarvi.» Nella mezz’ora successiva, l’anziana suora scartabellò all’interno di alcuni armadi dove erano contenuti degli schedari. Alla fine della sua ricerca, ricavò un

unico nome, quello di suor Maria Vicenzi, attualmente settantenne, che prestava la sua opera alla chiesa San Grisante di Crescentino, un paese distante pochi chilometri da Vercelli. Marco e Matteo ringraziarono, tornarono alla loro auto, impostarono il navigatore satellitare sull’indirizzo fornito loro da suor Adelaide e si avviarono verso la chiesa di San Grisante. Nel frattempo, avevano ricevuto dal commissariato notizie del ginecologo Daniele Lisi, risultava pensionato da dieci anni e trasferito a Novara, e di Giovanna Minelli, anche lei pensionata, che attualmente risultava residente a Torino, presso l’abitazione del figlio.

Roberto decise di occuparsi personalmente di fare visita a Giovanna Minelli, nel quartiere di Santa Rita a Torino. Suonò il camlo della sua abitazione e attese diversi minuti prima che un’anziana donna venisse ad aprirgli. «La signora Giovanna Minelli?» «Sì, sono io. Lei chi è?» chiese lei evitando di togliere la catenella che consentiva un’apertura minima della porta. Roberto mostrò il tesserino, ma la donna non sembrava intenzionata ad aprirgli la porta. «Allora, signora, posso entrare? Avrei alcune domande da porle.» «E chi mi assicura che lei sia un poliziotto? Sa quante donne sole e anziane vengono derubate da falsi impiegati dell’Enel, del gas o finti vigili urbani?» «Lo so, signora, lei ha tutte le ragioni, se vuole le consegno il mio documento così lo potrà controllare con maggiore attenzione.» La donna ritirò il tesserino di Roberto attraverso la fessura, lo esaminò, poi lo guardò ancora per un attimo, quindi chiuse la porta, tolse la catenella, riaprì e permise a Roberto di entrare. «Grazie, signora, immagino sia diventato difficile fidarsi del prossimo, ma le

assicuro che io faccio parte della categoria dei “buoni”.» «Sì, guardandola bene lei sembra proprio un bravo ragazzo. Si accomodi, prego.» Roberto fu condotto in un salotto ampio e luminoso. In quella casa tutto era in ordine, l’arredamento era di buon gusto e l’aria profumava leggermente di lavanda. «Una gran bella casa, signora.» «Non è casa mia, è di mio figlio, di mia nuora e dei miei nipoti. Io qui sono solo un’ospite, a volte penso anche indesiderato.» «Perché dice così?» «Perché sono anziana, commissario. A volte mi lamento perché i bambini fanno troppo rumore, a loro dà fastidio che io tenga il volume del televisore troppo alto, abbiamo gusti diversi in cucina, insomma, la convivenza non è facile. Purtroppo tre anni fa sono rimasta vedova e mio figlio ha insistito perché mi trasferissi a vivere con loro. Ora come ora non scarto l’idea di andarmene, il denaro per comprarmi un monolocale ce l’ho, potrei decidere per un appartamento qui vicino, in modo da avere comunque la mia famiglia vicina, ma ho bisogno della mia indipendenza. Comunque non è certo venuto qui per sentire le lamentale di una vecchia un po’ inacidita dal tempo. Come posso aiutarla?» «Lei ha lavorato all’ospedale Sant’Andrea di Vercelli, è giusto?» «Per trent’anni, certo. Ero nel reparto di ginecologia, ho visto nascere tantissimi bambini, era meraviglioso, adoravo il mio lavoro.» «Se dovessi chiederle di un parto avvenuto nel suo reparto quarantacinque anni fa, se lo ricorderebbe?» La donna sorrise. «Direi proprio di no, commissario. A meno che non mi sia rimasto impresso per qualche motivo. Per esempio ricordo il parto di un bambino che pesava soltanto cinquecento grammi. È rimasto per mesi nel nostro reparto, alla fine è riuscito a sopravvivere e a diventare un bambino come tutti gli altri. Poi ricordo i parti di

bambini malformati, quelli di bambini dal peso esagerato, certo non posso ricordarmeli tutti!» «Se ricorda le situazioni particolari, forse si ricorda di una bambina, appena tredicenne, che partorì un maschietto nel suo ospedale e lo abbandonò?» La donna cambiò espressione, divenne diffidente e sembrò di colpo molto tesa. «C’è qualcosa che la mette a disagio, signora?» «Ancora questa storia! Speravo di essermela lasciata alle spalle una volta per tutte!» «Quindi, sa perfettamente di cosa sto parlando!» «Forse. Fu un evento molto particolare, nessuno di noi sapeva chi fosse il padre del bambino, ma ricordo che la ragazzina continuava a ripetere che non c’era nessun padre, che il bambino era solo suo e lei non lo voleva. Era sola, sapevo che l’aveva accompagnata una donna, forse la madre, aveva firmato per il ricovero e poi era sparita. La ragazzina rimase in ospedale per una settimana in quanto ebbe delle complicazioni dopo il parto, beh, in tutti quei giorni nessuno venne a trovarla. Quanto ai bambini, non volle mai vederli durante il ricovero.» «I bambini ha detto?» «Certo, la ragazza partorì tre gemelli, due maschi e una femmina. Ricordo che restammo tutti allibiti, era molto gracile e la pancia non era neanche esageratamente grossa, c’era da chiedersi dove le avesse tenute ben tre creature che superavano ognuna i due chili di peso!» «Interessante! E che fine fecero i bambini?» «Questo non glielo so dire, credo che l’allora direttore sanitario ricevette delle minacce poiché ci raccomandò più volte di non fare domande e di farci gli affari nostri, in sostanza. So per certo che uno dei maschietti finì all’orfanotrofio della Maddalena, questo almeno ci fu riferito dal direttore, dell’altro maschietto e della bambina non so nulla, furono portati via qualche giorno dopo da un individuo che si presentò come assistente sociale. Si occupò di tutto il direttore sanitario, il personale dell’ospedale non seppe mai che fine fecero i due bambini, qualcuno provò a chiederne notizia, ma il direttore non parlò mai con nessuno di

questo. Almeno questo è quello che mi risulta. Ricordo che spesso mi chiesi che fine avessero fatto quei poveri bambini!» «Ricorda il nome della ragazzina?» «Soltanto il nome di battesimo, Caterina. Così almeno si faceva chiamare, non so dirle se fosse il suo vero nome o se fosse frutto della sua fantasia. Per quanto riguarda i documenti di accesso all’ospedale e all’identità della donna che accompagnò la ragazzina, nessuno di noi ebbe mai la possibilità di visionarli.» «Perché parlare di questa storia la mette a disagio?» «Perché c’era qualcosa di losco, commissario. L’ostetrica che aveva aiutato la ragazzina a partorire doveva aver scoperto qualcosa, il giorno prima che morisse misteriosamente in un incidente stradale, era visibilmente agitata e preoccupata. E poi tutti i documenti relativi al parto della ragazzina sparirono, era una cosa che sapevamo tutti nel reparto, ma nessuno di noi osò mai cercare di scoprire qualcosa in più. Una strana e brutta storia, commissario. Ancora adesso, a distanza di tanti anni, ho timore a parlarne.» «Il direttore sanitario è ancora vivo, che lei sappia?» «Non ne ho mai più saputo nulla, da quando andò in pensione, ma se considera che all’epoca dei fatti aveva quasi sessant’anni, sarà già da tempo ato a miglior vita.» «Ho capito. Stia tranquilla, signora, non le accadrà nulla di male. La ringrazio tantissimo per la sua disponibilità e per l’ospitalità. Ci ripensi riguardo alla possibilità di trasferirsi altrove. Ha ragione, a volte la convivenza non è facile, ma la solitudine è una pessima compagna. Ci pensi.» «Lo farò, commissario, grazie. Posso chiederle perché a distanza di tanti anni è venuto a informarsi su quella vecchia storia?» «Perché uno dei bambini partoriti da quella ragazzina oggi risulta una persona scomparsa. Stiamo cercando di capire cosa gli sia successo e, per farlo, abbiamo bisogno di ricostruire la sua storia, tutto qui.» La donna annuì, salutò Roberto e chiuse la porta alle sue spalle. Aveva fatto bene a parlare o avrebbe dovuto tacere, come aveva sempre fatto?

Marco e Matteo erano all’interno della chiesa di San Grisante, a Crescentino. Erano stati accolti dal parroco, gli avevano chiesto subito di suor Maria Vicenzi ed era stato chiesto loro di attendere. Dopo pochi minuti, si presentò loro un’anziana donna, il viso era segnato da lunghe e profonde rughe. «Don Luca mi ha detto che siete della polizia, cosa posso fare per voi?» «Buongiorno, sorella» salutò Marco. «Avremmo bisogno di parlare un po’ con lei e della sua esperienza presso l’orfanotrofio della Maddalena.» «Sono ati tantissimi anni e non ricordo volentieri quel periodo della mia vita. All’epoca ero ancora giovane, mi occupai dei bambini per almeno dieci anni, poi ebbi la possibilità di trasferirmi qui e non ci pensai su neanche un attimo. Una chiesa è un ambiente molto più stimolante per la mia fede. All’orfanotrofio si diventava delle bambinaie, o qualcosa del genere. Non mi piaceva quel tipo di lavoro e, appena ne ebbi l’opportunità, non me la lasciai sfuggire e me ne andai.» «Si ricorda di Simone Fermi?» «Simone? Sì, lo ricordo, era un bambino speciale, molto buono e tranquillo.» «Lo ricorda solo per questo motivo?» La suora abbassò lo sguardo e non rispose. «Le ho fatto una domanda, sarebbe così gentile da rispondermi?» la incalzò Marco. L’anziana donna sospirò, poi parve scuotersi e cominciò a parlare. «Si vociferava che Simone fosse figlio di un prete e di una ragazzina, poco più di una bambina. Io non credetti mai a quella storia, però questo era quello che si diceva.» «Perché non ci credeva?» chiese Matteo. «Non è facile per una suora accettare che un prete possa compiere un gesto così

aberrante! Approfittare di una bambina, metterla incinta e poi infischiarsene di lei e dei figli!» «Dei figli, ha detto?» La suora arrossì, probabilmente aveva detto qualcosa che non avrebbe voluto dire. «Vede, le voci che giravano all’epoca parlavano di un parto gemellare, tre bambini per la precisione. Due maschi e una femmina, credo. Ma, ribadisco, si trattava solo di chiacchiere, non abbiamo mai avuto la certezza che quelle voci fossero fondate.» Marco pensò subito al fatto che suor Adelaide le aveva nascosto questo particolare. «Capisco. Gli altri due gemelli erano all’orfanotrofio insieme a Simone?» «No, il bambino arrivò da noi da solo, fu accompagnato da un’assistente sociale, firmò tutte le pratiche, ci consegnò la cartella clinica del bambino e se ne andò. Simone aveva soltanto due settimane quando fu portato da noi. Degli altri due bambini, ammesso che esistessero veramente, non ne sapemmo mai nulla. Dopo un paio d’anni Simone fu adottato, da allora nessuno parlò mai più di quella storia. Questo è tutto quello che so, non posso fare altro per aiutarvi. Mi chiedo perché vi interessi tanto questa storia, non vorrei che stiate indagando nell’ambiente della chiesa, per tirare fuori chissà quale scandalo! Sono ati tanti anni e poi nessuno può dire se quella fosse una storia vera o se si trattasse solo di fantasie popolari.» «Niente di tutto questo, stiamo indagando sulla scomparsa di Simone, avvenuta la scorsa settimana, non ha sentito la notizia in televisione?» «No, non ne sapevo nulla. Mi dispiace per quel ragazzo.» «Un’ultima domanda, sorella. Tra le voci che giravano all’epoca, è mai venuto fuori il nome della ragazza?» «No, mi dispiace, non ho mai sentito niente al riguardo.» Marco e Matteo ringraziarono, salutarono la suora e si apprestarono a tornare a

Torino.

Roberto provò a contattare il dottor Daniele Lisi, parlò con la moglie e venne a sapere che il medico soffriva da quattro anni di morbo di Alzheimer, quindi non avrebbe potuto essere loro di alcun aiuto. Erano ormai le diciotto, aveva organizzato i turni per quella notte presso i locali a luci rosse di Torino, aspettava soltanto il rientro di Marco e Matteo per fare il punto della situazione, poi sarebbe andato a casa a riposare. Erano le diciotto quando si ritrovarono tutti nell’ufficio del commissario. Marco aveva raccontato a Roberto quanto appreso da suor Maria Vicenzi, che collimava alla perfezione con il racconto di Giovanna Minelli. «A quanto pare, Simone Fermi non è figlio unico, esistono un fratello e una sorella» riassunse Roberto. «A questo punto, quelle che suor Adelaide e suor Maria chiamano “voci e chiacchiere” potrebbero essere fondate. Pensateci un attimo: un prete mette incinta una ragazzina di soli tredici anni. La madre di quest’ultima, probabilmente per la vergogna, lascia la figlia in ospedale e se ne va. La ragazzina partorisce da sola, viene curata e rimandata a casa. Non trapela nulla circa la sua identità, anche se sono sicuro che all’epoca qualcuno conosceva la storia molto bene, ma ha deciso di tacere. La ragazzina, forse il suo nome di battesimo è Caterina, partorisce tre gemelli. Uno di questi, Simone, viene accompagnato da un’assistente sociale all’orfanotrofio della Maddalena di Vercelli. Perché solo Simone? E, soprattutto, che fine hanno fatto suo fratello e sua sorella?» «Pensi che la storia di Simone c’entri qualcosa con questa catena di delitti?» chiese Matteo. «Non lo so, quello che è certo è che tutto è cominciato con la sua sparizione e i simboli geomantici sono stati impressi in un luogo che lui era solito frequentare. A questo punto non scarterei l’ipotesi di una scomparsa volontaria, magari c’è proprio lui dietro a questa guerra tra sette religiose» ipotizzò Roberto. «Potrebbe essere, comunque ora sarebbe importante riuscire a risalire all’identità dei gemelli di Simone. Il problema è come fare!» disse Marco. «Sono d’accordo, comunque sia ci penseremo domani, è stata una giornata pesante per tutti, è meglio andarcene a casa. Tra poco Beatrice sarà qui e terrà

d’occhio il commissariato. I turni di sorveglianza ai locali a luci rosse sono pronti, Stefano e Luca sono andati a casa con la loro scorta, penso che per oggi sia davvero tutto.»

CAPITOLO VENTIDUE

L’agente Federico Solmani si trovava nel locale a luci rosse dove doveva svolgere il suo turno di sorveglianza. Il commissario gli aveva chiesto di tenere gli occhi bene aperti e di fare attenzione a qualsiasi movimento strano avesse notato. In quel caso, doveva chiamare in ufficio e chiedere rinforzi. Per non destare sospetti, aveva pagato l’ingresso come un comune cliente e ora, appoggiato a un pilastro, sorseggiando una bibita rigorosamente analcolica, stava dando un’occhiata al locale. Aveva notato una donna bellissima, un fisico mozzafiato, due gambe lunghe due metri, un viso adorabile e un seno meraviglioso. Era da un po’ che la guardava, intenta a chiacchierare con un gruppo di persone. Non riusciva, suo malgrado, a toglierle gli occhi di dosso. «Ti piace, non è vero?» sentì dire alle sue spalle. «Cosa? Chi?» «Andiamo, sono almeno venti minuti che stai fissando Denise!» Denise, così si chiamava quello schianto di ragazza. «Beh, è normale rimanere affascinati da una bellezza simile. Una delle donne più belle che io abbia mai visto!» L’uomo, un cinquantenne obeso con l’aria di chi è pieno di soldi e che la sa lunga, rise di gusto. «Donna, hai detto? Denise in realtà si chiama Giorgio e fino a pochi anni fa lavorava qui da noi al bar come cameriere! Se ti interessa, vedo cosa posso fare per combinarti un incontro con lei, sei un bel ragazzo, credo che sarà ben disposta nei tuoi confronti. Ti costerà un po’, ma ti assicuro che sarà un’esperienza indimenticabile, per te.» Federico in altre circostanze avrebbe risposto “no, grazie, non è il mio genere”, ma non doveva dimenticarsi che in quel momento era un frequentatore di un locale dove la trasgressione era la regola, non poteva certo dare quel tipo di risposta.

«Certo, sarebbe veramente uno sballo are un po’ di tempo con lei. Facciamo così, tu chiedile se è disponibile, io nel frattempo do ancora un’occhiata in giro, va bene?» «D’accordo, vedrai quante bellezze ci sono qua dentro! Però sono sicuro che tornerai da me e mi chiederai di Denise, non ho dubbi!» L’uomo si allontanò. Federico notò che aveva addosso un profumo disgustoso misto a odore di fritto e di sudore. Ora, guardando Giorgio-Denise, non la trovava neanche più così affascinante. Non aveva nulla contro i transessuali o gli omosessuali, semplicemente non era il suo genere. I gusti sessuali degli altri non lo riguardavano, ma preferiva rimanere fedele ai suoi. Distolse lo sguardo da Denise e diede un’occhiata a tutto il locale. C’era una ragazza seduta in braccio a un uomo, dai movimenti della donna, non era difficile immaginare cosa stessero facendo. Federico non era certo un puritano, ma proprio non riusciva a capire che gusto ci fosse a fare sesso in mezzo alla gente, sotto gli occhi di tutti. Una forma di esibizionismo che non comprendeva. eggiò a lungo per il locale, ricevendo proposte di ogni genere che, con estremo garbo, lui rifiutava. Tornò a rivolgere lo sguardo verso il tavolino al quale era seduta Denise. L’uomo grassoccio che gli aveva parlato poco prima stava discutendo con lei e lo stava guardando. Anche Denise lo guardò e gli sorrise. Lui rispose al sorriso, poi distolse lo sguardo e continuò il suo giro attraverso il locale. Avrebbe voluto trovarsi in ufficio alla sua scrivania, stare in quel locale lo metteva a disagio, ma era il suo lavoro e doveva adeguarsi. Si trovava davanti al bar quando Denise lo raggiunse. «Ciao, bello. Claudio mi ha detto che saresti interessato a are un po’ di tempo con me. Non faccio spesso queste cose, in questo locale mi esibisco e basta, ma quando capita un cliente carino come te, di solito faccio un’eccezione. Per te prezzo speciale, duecento euro per un’ora, ti assicuro che non te ne pentirai, so come fare impazzire un uomo e poi sarà un piacere per me, mi piaci un sacco.» Se l’avesse sentita parlare prima, si sarebbe subito reso conto che in realtà si trattava di un trans. Il tono della voce era spiccatamente maschile e, a guardarla da vicino, anche i lineamenti erano poco femminili. Doveva trovare una risposta da dare, ma non era facile. Doveva rifiutare l’offerta di Denise, senza offenderla e senza destare sospetti.

«Va bene, ma non qui e non stasera. Lasciami il tuo numero di telefono, ti chiamerò io e ci daremo un appuntamento, magari a casa mia.» «Non vado mai a casa dei clienti, non è prudente. Se vuoi, puoi stare con me soltanto qui al locale. Ho una stanza privata, staremo tranquilli, te lo assicuro.» «D’accordo ma, ti ripeto, non stasera. Sto aspettando una persona.» Denise trovò una penna sul bancone del bar, prese un tovagliolino di carta e annotò il suo numero di telefono, poi lo porse a Federico. «D’accordo, questo è il mio numero. Chiamami dopo le sedici, qui la sera faccio tardi e dormo fino alle prime ore del pomeriggio. Posso almeno sapere come ti chiami?» «Giulio, piacere» mentì lui dandole la mano. Lei non prese la mano, ma gli stampò un bacio sulla bocca. Federico si sentì avvampare. Era la prima volta in vita sua che un uomo lo baciava. Denise si allontanò sorridendogli e ancheggiando in modo esagerato. Federico sorrise tra sé e sé pensando a sua madre, se l’avesse visto in quel momento ci sarebbe rimasta secca. Un altro trans, avendolo visto insieme a Denise, gli si avvicinò. «Ciao, bellezza, ho visto che parlavi con Denise. Lasciala perdere, quella là. Scegli me, sono altrettanto brava e ti farò spendere molto meno. Anzi, con te ci vengo anche gratis!» Federico quella sera aveva scoperto di avere, probabilmente, un fascino particolare che attirava i trans. Sapeva di essere un bel ragazzo. Non era molto alto, ma aveva un fisico ben scolpito, i capelli lunghi e neri e due bellissimi occhi grandi, color nocciola, ma fino ad allora, aveva sempre e solo attirato le attenzioni femminili. «Mi dispiace, ma per stasera sono occupato. Magari un’altra volta, va bene?» Federico si stupì di come avesse imparato, in pochi minuti, a districarsi da situazioni a dir poco imbarazzanti.

Il transessuale, visibilmente deluso, si allontanò, Federico notò Denise entrare nella toilette.

Era l’una e trenta di notte. Federico avrebbe dato l’intero stipendio di un mese per poter uscire da quel locale, invece sapeva di doverci restare fino all’alba. Fino a quel momento non aveva notato niente di strano, anche se in realtà non c’era niente di normale, in quel locale. Aveva trovato una serie di stanze dove si potevano osservare coppie che facevano sesso, orge, spogliarelli, c’era addirittura una sala che proiettava film porno, il tutto funzionava inserendo un gettone che dava accesso alla stanza, gettone che andava acquistato alla cassa. Era da un po’ che non vedeva in giro Denise, era entrata alla toilette e non ne era più uscita. Forse aveva trovato qualcuno ad attenderla, la cosa non l’avrebbe stupito. Decise comunque di entrare a dare un’occhiata. Entrò e si trovò in un antibagno, notò subito due porte, una dava accesso alle toilette riservate agli uomini, l’altra era per le donne. Si trovò a chiedersi in quali delle due fosse entrata Denise, poi decise che sicuramente era entrata nel bagno femminile. Entrò e notò che c’erano tre porte, due erano aperte, la terza era chiusa, non con una chiave, c’era qualcosa che la bloccava. Si trattava di quelle porte che presentano un’ampia fessura nella parte inferiore. Sotto la porta della stanza da bagno occupata, era stato posizionato uno spesso maglione di lana nero, che non permetteva, neanche sdraiandosi a terra, di guardare all’interno. «Denise? Sei lì dentro? Sono Giulio, senti, ci ho ripensato, che ne diresti se finissimo la serata insieme?» Non ottenne risposta. «C’è nessuno, qua dentro?» Ancora silenzio. Federico ebbe uno strano presentimento. Provò ad aprire quella porta, ma senza risultato. Non ci pensò due volte. Sferrò un forte calcio, spalancò la porta e si trovò di fronte a uno spettacolo raccapricciante. Denise era seduta sulla tazza del bagno, era nuda dalla cintola in su, aveva le mani legate dietro la schiena, le gambe legate all’altezza delle caviglie e un bavaglio che le chiudeva la bocca. Un coltello conficcato all’altezza del cuore non lasciava dubbi sulle cause della morte e poi c’erano quei segni, degli strani simboli disegnati sul petto con un

pennarello nero.

Erano le due di notte quando il cellulare di Roberto cominciò a suonare. A fatica, il commissario trovò l’interruttore della lampada posizionata sul comodino, lo premette, trovò il cellulare e rispose, con voce impastata. «Pronto?» «Roberto? Sono Bea, scusa se ti ho svegliato, ma mi avevi chiesto di farlo, in caso di emergenza.» Roberto di colpo si sentì ben sveglio e scattò giù dal letto. «Fammi indovinare. Un altro omicidio?» «Purtroppo sì. Si tratta di un transessuale, un certo Giorgio Fanti, in arte Denise. Accoltellata in un cesso del locale a luci rosse dove era in servizio Federico Solmani. È stato lui stesso a trovare il cadavere e a chiamarmi. Sul petto, il trans aveva dei simboli disegnati con un pennarello nero. Federico li ha subito riconosciuti. Si tratta di Rubeus, ormai ci siamo fatti tutti quanti una cultura in merito. Federico ha parlato con la vittima fino all’una ata, quindi la morte risale a meno di un’ora fa.» «Menomale che doveva tenere gli occhi aperti, invece chiacchierava con i trans!» «Dice che tutto sembrava tranquillo, Denise era andata alla toilette, non vedendola tornare dopo circa quindici minuti, è andato a cercarla. C’era la porta di uno dei cessi chiusa, l’ha forzata, è entrato e ha trovato il cadavere. Mi ha detto che non ha potuto fare nulla per evitare l’omicidio.» «Merda, merda, merda! Ho impiegato venti agenti questa notte proprio per evitare che succedesse il peggio, ma è stato tutto inutile! Eppure avevamo capito, ci eravamo arrivati, eravamo a un o dall’interrompere questa catena di omicidi!» «Purtroppo non è andata come avevamo sperato. Che devo fare, Roberto? Ho già mandato la scientifica al locale e anche il medico legale di turno questa notte.»

«Dammi l’indirizzo del locale, vado a dare un’occhiata. Tu resta al commissariato per ogni evenienza. Quando avrò finito ti raggiungerò.» Beatrice comunicò al commissario l’indirizzo richiesto. «Però dovresti evitare di andarci e riposare, capo, ieri hai avuto una giornata massacrante, non vorrei che tu avessi un crollo!» «Quando avrò bisogno di consigli riguardo alla mia salute mi ricorderò di interpellarti, per il momento limitati a fare quello che ti ho detto. Ci vediamo più tardi.» Roberto era stato brusco con Beatrice, non era sua abitudine, ma la stanchezza cominciava a farsi prepotentemente sentire e questo lo rendeva nervoso e irritabile, senza contare che un’altra persona era morta senza che lui fosse stato in grado di fare qualcosa per impedirlo. La sera precedente era arrivato a casa esausto, aveva rimandato la doccia e la rasatura alla mattina successiva, ma ora non aveva tempo. Infilò un paio di jeans e una polo e si precipitò fuori dall’appartamento.

A poche centinaia di metri dal locale, Don Tiziano era appoggiato contro un albero. Tremava come una foglia, per la prima volta in vita sua aveva tolto la vita a un essere umano. I guanti che aveva indossato per non lasciare impronte erano sporchi di sangue, così come la maglietta e i pantaloni. L’auto che doveva prelevarlo non era ancora arrivata e, nonostante quella notte ci fossero almeno venti gradi, aveva i brividi. Sentiva che quello che aveva fatto non era giusto, impossibile che fosse stato Dio a ordinare quel delitto. Eppure questo gli aveva detto suo padre e quello che diceva lui era sempre giusto. In fondo aveva visto la depravazione pura, all’interno di quel locale. Cose che lui non aveva mai visto e che non aveva neanche mai immaginato. Un luogo di perdizione, era giusto dare un segno divino, dare una prova della disapprovazione di Dio. Un’auto si avvicinò, finalmente erano arrivati. Non vedeva l’ora di comunicare a suo padre di aver portato brillantemente a termine la sua missione. Sarebbe stato fiero di lui e questo gli bastò per scacciare via i brutti pensieri.

Il cadavere era adagiato sopra a una barella, quando Roberto arrivò. La

scientifica stava lavorando all’interno della toilette, mentre il medico legale aveva finito il suo lavoro e si apprestava a portare il cadavere di Giorgio Fanti all’obitorio per l’autopsia. Roberto raggiunse il medico e gli chiese i risultati del primo esame sul corpo della vittima. «Non c’è molto da dire, per il momento. La morte è stata provocata dal pugnale che aveva conficcato nel petto. La lama era lunga circa venti centimetri, gli ha perforato il cuore. Non presenta altri segni di violenza, a eccezione di un bernoccolo sulla nuca. Probabilmente è stato stordito con un colpo alla testa, quindi è stato legato e imbavagliato e poi ucciso. Quanto ai segni sul petto, sono stati impressi con un pennarello a inchiostro indelebile.» «L’agente Federico Solmani? Avrei bisogno di parlare con lui.» «È stato qui fino a poco fa, poi mi ha detto che usciva a prendere una boccata d’aria e a fumare una sigaretta. Non l’hai trovato all’ingresso perché probabilmente è uscito dalla porta sul retro.» «D’accordo, grazie, vado a cercarlo. Chi si occuperà dell’autopsia di questo poveretto?» «Antonio De Quirico, suppongo. È lui che si sta occupando di questo caso. Glielo farò trovare pronto sul tavolo già per domattina. Se è tutto, io me ne andrei.» «Certo, ti ringrazio per la collaborazione.» Roberto si fece indicare l’uscita secondaria e andò subito a cercare Federico. Lo trovò seduto su un muretto, con la testa tra le mani. «Ciao, Federico.» Il ragazzo alzò la testa e mostrò al commissario la sua espressione sconvolta. «Ciao, Roberto. Mi dispiace, mi dispiace tantissimo. Credevo di avere tutto sotto controllo, ero sicuro che se ci fosse stato qualche strano movimento me ne sarei accorto, invece sono stato superficiale e presuntuoso. Chiunque sia l’assassino, me l’ha fatta sotto il naso!» «Lascia perdere, in fondo un solo agente per un locale di queste dimensioni era

improbabile che potesse evitare un omicidio. Hai fatto quello che potevi. Piuttosto, che mi dici di Denise? Bea mi ha detto che hai parlato con lui, prima che venisse ucciso. O con lei, come devo dire? «Lei si sentiva una donna, quindi è giusto parlarne al femminile. Comunque sì, le ho parlato poco prima che fosse assassinata.» Federico raccontò a Roberto la conversazione avuta con la vittima. «Quindi, ti sembrava tranquilla.» «Direi proprio di sì, non era spaventata e sembrava muoversi qua dentro con estrema disinvoltura.» «Hai notato chi è entrato alla toilette nel quarto d’ora durante il quale Denise ci è rimasta?» «Non ci ho fatto caso, non avevo alcun motivo di pensare che Denise fosse il bersaglio dell’assassino, per quanto fosse una persona importante, qua dentro. Ero impegnato a controllare il locale, le varie stanze, a volte mi sono soffermato a seguire con lo sguardo alcune persone all’apparenza sospette, ho ripensato a Denise solo quando mi sono reso conto che era sparita nella toilette da tempo e non ne era più uscita, a quel punto ho deciso di andare a controllare. Piuttosto, dovresti parlare con il padrone del locale, è lui che mi ha proposto un incontro con Denise.» «Certo, dove lo posso trovare?» «Quando ho fatto sgomberare il locale, ha visto il cadavere di Denise ed è arrivata la scientifica, ha avuto un crollo nervoso e mi ha detto che andava di sopra, nella sua stanza.» «Ok, lo vado a cercare. Tu vai a casa se vuoi.» «No, vengo con te se non ti dispiace.» «Certo, andiamo.»

CAPITOLO VENTITRE

Roberto e Federico erano a colloquio con Ugo Riva, il padrone del locale dove era avvenuto l’omicidio di Denise. L’uomo sembrava aver perso tutta la baldanza dimostrata fino a un paio d’ore prima, sudava copiosamente e sembrava molto preoccupato. «Signor Riva, da quanto conosceva Giorgio Fanti?» chiese Roberto. «Denise? La conoscevo da una decina d’anni. Quando si presentò qui per chiedermi un lavoro non si era ancora operata, era un uomo a tutti gli effetti. Aveva vent’anni e lo sguardo più triste che io avessi mai visto. Mi fece tenerezza e decisi di assumerlo come cameriere. Non aveva esperienza, ma imparò in fretta. Era molto timido, ma un giorno si decise e mi raccontò la sua storia. Era andato via di casa all’età di diciotto anni, la sua era una famiglia benestante, vivevano a Roma. Il padre era direttore di banca e la madre era preside in un istituto di scuola media superiore. Non accettavano la sua diversità, il suo modo eccentrico di vestire, il suo sentirsi donna. Così alla prima occasione Denise, o Giorgio, come preferite, prese il treno e venne al nord, precisamente a Milano. Aveva conosciuto un uomo di quarant’anni che lo accolse nella sua casa. All’inizio le cose andarono bene, poi il compagno di Giorgio divenne manesco, mi raccontava che lo trattava malissimo, finché lui decise di prendere le sue cose e trasferirsi a Torino. Quando entrò nel mio locale per chiedermi un lavoro, era disperato. Non aveva amici, non aveva una casa, non aveva un soldo in tasca. Cominciò a lavorare qui e a guadagnare un po’ di soldi, però non abbastanza per realizzare il suo sogno, che era quello di trasformarsi in una donna a tutti gli effetti. Fui io a prestargli i soldi per le prime operazioni. Il seno, gli zigomi, il mento. Si lasciò crescere i capelli, cominciò a truccarsi e ad atteggiarsi come una vera e propria donna. Il risultato fu sorprendente, sotto le vesti di Giorgio, si nascondeva una splendida donna, Denise.» «Così lei decise che come cameriera era sprecata e che le avrebbe fruttato di più come attrazione di questo locale, dico bene?» chiese Roberto. «Beh, in fondo lei mi doveva tutto, era il minimo che potesse fare per me! In effetti Denise mi ha fruttato un sacco di soldi, ora che lei non c’è più e dopo la

pubblicità negativa che avrò dopo quello che è accaduto qui stanotte, ho paura che gli affari andranno male.» «Non mi sembra molto dispiaciuto per la morte di Denise, piuttosto la vedo preoccupato per le sorti del suo locale!» notò Federico. «Mi dispiace per Denise, ma io sono un uomo d’affari e ragiono come tale. Ora dovrò trovare e anche molto in fretta, qualcuno che la rimpiazzi.» «E mi dica, signor Riva, la rimpiazzerà anche a letto? Le chiedo questo perché sono sicuro che tra “il minimo che Denise potesse fare per lei” erano comprese anche prestazioni sessuali, o sbaglio?» aggiunse Federico. «Andava a letto con tutti, non vedo perché non dovesse farlo con me! Sì, me la portavo a letto, era brava, sapeva come far stare bene un uomo.» «Mi complimento con lei, signor Riva, Denise aveva un disperato bisogno di aiuto e lei l’ha usata e sfruttata fino alla fine! E neanche le dispiace per la sua morte! L’unica sua preoccupazione è con chi sostituirla, nel locale e nel suo letto!» sbottò Federico. «Lascia perdere, Federico. Non vale la pena di prendersela, finiamo il nostro interrogatorio e andiamocene da qui, l’aria in questa stanza è irrespirabile!» disse Roberto. «Signor Riva, ho saputo dal mio collega che chi entra nel suo locale non viene registrato, quindi è impossibile sapere chi fosse presente ieri sera quando Denise è stata assassinata.» «Non prendiamo i dati dei nostri clienti per motivi di privacy. Quindi no, non sono in grado di darle questa informazione.» «Ieri sera ha notato qualcosa di strano? Qualche cliente non abituale, per esempio?» «Sì, alcuni li ho notati, il suo collega per esempio. Per il resto c’erano parecchi clienti abituali e altri che non avevo mai visto.» «Nessuno in particolare ha attirato la sua attenzione?» «Soltanto un ragazzo, è arrivato verso l’una, sembrava spaesato e aveva un’espressione quasi disgustata. Ho persino pensato che fosse un poliziotto. Beh,

il poliziotto alla fine c’era davvero, ma avevo sbagliato persona.» «Saprebbe descrivere questo ragazzo?» «Era alto circa un metro e settanta, capelli neri corti, barba lunga. Indossava un paio di pantaloni neri classici e una camicia a maniche corte dello stesso colore.» «Ora che ci penso, l’ho notato anche io quel ragazzo completamente vestito di nero, anche a me sembrava spaesato. L’ho visto per pochi minuti, poi è sparito» disse Federico. «Magari è andato alla toilette, ha ucciso Denise e poi ha lasciato il locale» ipotizzò Roberto. «È possibile, purtroppo non ricordo di averlo visto uscire, lei neanche?» chiese Federico al signor Riva. «No, non ci ho fatto caso, spesso devo intrattenere i clienti o dare disposizioni al personale, non posso stare sempre attento a che entra e chi esce. Però potete chiedere a Adriana, la ragazza che accoglie i clienti e che si trova sempre davanti all’uscita del locale. Dovrebbe ancora essere di sotto, come da vostri ordini, nessuno si è mosso dal locale, da quando è stato scoperto il cadavere di Denise.» «Benissimo, andremo a interrogarla, così come tutto il resto del suo personale e i clienti. Per ora è tutto, probabilmente la contatteremo per provare a formulare un identikit di quel ragazzo.» Roberto e Federico lasciarono la stanza di quell’uomo senza dargli la mano e senza neanche salutarlo, provavano entrambi un profondo disgusto per quell’essere spregevole che aveva costruito una bella fortuna sfruttando persone deboli come Denise. Gli interrogatori proseguirono per tutta la notte. Alcuni clienti del locale e due dipendenti ricordavano bene quello strano ragazzo che sembrava essere rimasto al locale per poco tempo. Tutti i testimoni furono convocati al commissariato per l’indomani mattina. Sicuramente sarebbero riusciti a elaborare un identikit dell’unico sospettato che la polizia aveva al momento.

Riccardo era pronto. La mattina successiva avrebbe dovuto presentarsi al mondo

nelle vesti di Simone Fermi. Erano due giorni che non si lavava, che non mangiava e che non si radeva, gli ordini della sacerdotessa erano stati chiari. Uno degli adepti della setta, alle sei di quella mattina, l’avrebbe abbandonato in aperta campagna, un paio di ore di cammino e sarebbe arrivato al primo centro abitato e qualcuno l’avrebbe soccorso. Era agitato ed emozionato al tempo stesso. Finalmente la sacerdotessa avrebbe avuto quello che desiderava da tempo e lui sarebbe diventato ufficialmente il suo compagno, ne era certo. Stava camminando avanti e indietro nella sua stanza, indossava delle calzature di due misure inferiori alla sua, doveva avere le vesciche nei piedi, per dimostrare di aver camminato molto, negli ultimi giorni. Era una tortura, ma niente di quello che faceva per la sacerdotessa gli pesava. Erano le tre del mattino quando Gianluca irruppe nella sua stanza, senza neanche bussare. «Cazzo, mi hai fatto spaventare! Che ci fai in piedi a quest’ora?» «C’è stata la terza vittima, Riccardo. Un transessuale che lavorava in un locale hard a Torino. La sacerdotessa me l’ha appena comunicato. Sta andando al tempio, dobbiamo raggiungerla, vuole parlarci.» Quando giunsero al tempio, la sacerdotessa li stava già aspettando. Prima di tutto esaminò Riccardo e parve soddisfatta del risultato ottenuto. L’uomo aveva un aspetto orrendo. «Bene, Riccardo, vedo che sei pronto, tra poche ore sarà il momento per te di cominciare il tuo vero lavoro. So di potermi fidare, staremo in contatto costante, se dovessi avere bisogno di aiuto, ci saremo noi a soccorrerti. Purtroppo stanotte il nemico ha colpito ancora, a maggior ragione dobbiamo fare presto. Ho parlato con Luigi ieri sera. Simone è ancora vivo, lui sta continuando a sperimentare l’antivirus, per il momento sembra sia in grado solo di bloccare la malattia, di non farla progredire, ma non di guarirla. Spero trovi presto una soluzione, altrimenti dovrò fare a meno del virus.» «Ci riuscirà, sacerdotessa, dovesse lavorare giorno e notte per settimane, sai quanto ti sia fedele» disse Gianluca. «Speriamo che tu abbia ragione. Comunque, vi ho convocato qui per due motivi. Primo, volevo riassumere con Riccardo il nostro piano, mentre con te, Gianluca, volevo pianificare la nostra prossima mossa. Stavolta voglio qualcosa di esemplare, quel bastardo dovrà pentirsi di essersi messo contro di me!»

Né Riccardo né Gianluca conoscevano l’identità dell’uomo che la sacerdotessa odiava con tutta se stessa, dopo la punizione ricevuta la prima volta che si erano permessi di domandarglielo, non avevano più fatto alcun tentativo a riguardo. Si limitavano a eseguire i suoi ordini, senza discutere. Per loro si trattava semplicemente del “nemico” e loro combattevano contro di lui senza esclusione di colpi. Erano le cinque quando la sacerdotessa lasciò il tempio. Gianluca aveva un compito ben preciso da svolgere, mentre Riccardo era pronto a lasciare il loro rifugio e a rientrare a Torino.

Alle otto e trenta di mattina di martedì, Roberto era seduto alla sua scrivania. Era in piedi dalle due di notte, era nervoso e stanco. Il figlio di Lucia Lorenzi era in sala d’attesa. Era disperato e voleva sapere chi aveva ucciso la madre in modo così atroce e perché. Si chiedeva cosa gli avrebbe raccontato. Inoltre, quella mattina ci sarebbe stata l’autopsia sul corpo di Denise, sarebbero arrivati i testimoni che la notte precedente avevano notato quello strano ragazzo al locale a luci rosse e bisognava provare a elaborare un identikit. In servizio, insieme a lui, erano rimasti Marco e Matteo e anche Beatrice, che aveva svolto il turno di notte, era rimasta al commissariato. Erano i suoi elementi migliori, gli spiaceva obbligarli a dei turni massacranti, ma non poteva fare altrimenti. Stava cercando le parole giuste da usare con il figlio di Lucia Lorenzi, quando Beatrice irruppe nella sua stanza, senza bussare. Roberto la guardò con aria interrogativa. «Che succede adesso, Bea?» «Incredibile, Roby, non credevo alle mie orecchie quando l’ho saputo!» «Saputo che cosa? Avanti, Bea, non fare come al tuo solito che dai le notizie un pezzetto per volta, che cazzo succede?» «Simone Fermi. L’hanno ritrovato!» «Morto?» «No, questa è la notizia incredibile! È vivo e vegeto, magari un po’ malandato, ma sta bene. Ora è all’ospedale Molinette, sotto osservazione.» «Raccontami tutto!»

«Stamattina alle sette, una pattuglia di carabinieri transitava dalle parti di Pinerolo e ha notato un uomo che camminava a fatica a bordo della strada statale. Sembrava confuso e spaesato, l’hanno avvicinato e gli hanno chiesto se avesse bisogno di aiuto. L’uomo non ha risposto, chiedeva solo dove si trovasse. I carabinieri hanno capito che si trovava in stato confusionale e hanno deciso di portarlo a Torino, in questura. Dalle foto segnaletiche, Simone è stato subito riconosciuto e accompagnato all’ospedale per accertamenti. Pare abbia perso la memoria e che non ricordi neanche il suo nome!» «Sono sicuri che si tratti di lui e non di qualcuno che gli somiglia?» «Dal fax della questura sembrano certi, corrisponde anche l’abbigliamento. Che facciamo?» «Avviso subito Valentina e poi vado in ospedale, proverò a parlare con lui e vediamo cosa ne viene fuori. Bea, so di chiederti molto, ma potresti occuparti del figlio di Lucia Lorenzi?» «No, ti prego, chiedimi qualsiasi cosa ma non questo! Non saprei proprio cosa dirgli, è a pezzi dopo che ha saputo come è morta sua madre!» «D’accordo, chiederò a Matteo. Manda Marco nel mio ufficio, andrò alle Molinette insieme a lui. Tu occupati dell’identikit dell’uomo visto ieri al locale, almeno questo puoi farlo?» chiese Roberto con una nota di risentimento nella voce. «Certo, me ne occuperò personalmente. Scusa, Roberto, io…» «Lascia stare, in fondo è già tanto che tu sia ancora in servizio. Vai a chiamare Marco, per favore.» Mentre Roberto aspettava il vice commissario, chiese a Matteo di parlare con il figlio della signora Lorenzi, poi chiamò Valentina e le comunicò le ultime notizie. La donna era incredula e non sembrò troppo entusiasta. Probabilmente l’aver appreso del tradimento del marito con la sua migliore amica che durava da due anni, le aveva tolto l’entusiasmo di ritrovare il consorte. Si diedero appuntamento all’ospedale, era necessario che lei si occue del riconoscimento di Simone. Appena Marco lo raggiunse nel suo ufficio, Roberto gli spiegò la situazione, presero una volante e si avviarono verso le Molinette. Mentre attendevano l’arrivo di Valentina, andarono a parlare con il medico che

aveva visitato Simone. «Ho finito di visitare il signor Fermi pochi minuti fa. A parte la disidratazione e il denutrimento, sta abbastanza bene. I segni vitali sono tutti nella norma, così come l’elettrocardiogramma. Non presenta ferite sul corpo, soltanto tante vesciche nei piedi, come se avesse camminato molto. Oltre a questo, non conosco i gusti sessuali dell’uomo, ma presenta una dilatazione anale tale da indurmi a pensare che abbia avuto rapporti sessuali di quella natura. Oppure, potrebbe avere subìto una violenza sessuale, questo potrebbe giustificare lo stato psichico nel quale si trova. Aveva gli abiti sporchi e sgualciti e la barba incolta, quando è stato accompagnato qui. Gli abbiamo dato una ripulita, abbiamo effettuato tutti gli esami clinici, anche quelli tossicologici e ora attendiamo i risultati. Dal punto di vista clinico, non c’è nulla di rilevante, quello che ci preoccupa è il suo stato mentale. Ho provato a fargli qualche domanda circa le sue generalità, ma non è stato in grado di rispondermi. Probabilmente ha subito uno choc, più tardi verrà visitato dallo psichiatra. Se volete, vi accompagno da lui.» «Certo, dottore, grazie. Aspettiamo solo che arrivi Valentina, la moglie di Simone» rispose Roberto. L’attesa durò pochi minuti, quando la donna giunse in ospedale, si recarono subito nella camera singola nella quale Simone era stato sistemato. Valentina, appena entrò e vide l’uomo sdraiato nel letto, fece un segno affermativo a Roberto e Marco. L’aveva riconosciuto, quell’uomo era proprio suo marito, Simone Fermi. «Chi siete? Cosa volete da me?» «Calmati, Simone» gli disse il medico. «I signori sono qui per farti qualche domanda.» Valentina si avvicinò al letto e guardò il marito negli occhi. Lui non parve riconoscerla. «Simone? Mi riconosci? Sai chi sono?» L’uomo ebbe un’espressione di stupore che durò solo un secondo. «No, non so chi sei. Cosa vuoi da me?»

«Sono Valentina, tua moglie!» «Moglie? Io ho una moglie? Scusami, ma proprio non mi ricordo di te!» «E di Irene e Vanessa? Di loro ti ricordi?» «No, mi dispiace, non ricordo niente, chi sono?» Valentina aveva le lacrime agli occhi, si allontanò dal letto, si fece da parte e lasciò che il commissario si avvicinasse. «Signor Fermi, mi rendo conto che in questo momento si sente spaesato e confuso in quanto non riesce a ricordare nulla del suo ato. Però ho bisogno di farle qualche domanda. Riesce a ricordare cosa le è successo negli ultimi giorni? Ha avuto un incidente? Qualcuno le ha fatto del male?» «Non lo so, ricordo solo di aver camminato tanto. Mi sembrava di dover andare da qualche parte, ma non sapevo dove e perché. Avevo fame e la notte faceva freddo, sognavo una casa, un tetto sotto il quale ripararmi, ma non sapevo se una casa ce l’avevo e dove! È stato terribile. Mio Dio, ma che mi è successo?» disse prendendosi la testa tra le mani e cominciando a singhiozzare. Il medico presente pregò il commissario di tornare più tardi, il paziente era visibilmente scosso e aveva bisogno di riposo. Prima di uscire dalla stanza, Valentina si avvicinò al letto del marito. Sembrava volesse dirgli qualcosa, poi si limitò ad accarezzargli la nuca, per poi uscire dalla stanza a testa bassa. Roberto parlò a lungo con Valentina circa i gusti sessuali di Simone. Lei si mostrò stupita, ma non scandalizzata da quanto il medico aveva rivelato al commissario. «Conosco Simone da una vita, fino a ieri le avrei risposto che mio marito aveva gusti sessuali normalissimi, ma da quando ho appreso della sua relazione con Anna Brunelli, non saprei proprio che dirle, commissario. Magari con Anna amava praticare giochi erotici estremi, non so, provi a chiedere a lei, per quanto mi riguarda era sessualmente normale. Mi chiedo cosa devo ancora scoprire riguardo all’uomo che credevo di conoscere tanto bene!» «Proverò a chiedere anche alla Brunelli, ma non dimentichiamoci che potrebbe essere stato violentato in questi giorni, in fondo questo giustificherebbe il suo

stato di confusione mentale.» «Questo sta a voi scoprirlo. Ora, se volete scusarmi, vorrei tornare a casa.» I tre si salutarono e si avviarono verso le rispettive auto. Una nuova pista si apriva, ma solo Simone, ritrovando la memoria, avrebbe potuto aiutarli a capire meglio cosa diavolo stava succedendo.

CAPITOLO VENTIQUATTRO

Stefano e Luca, sempre più impegnati al caso delle sette rivali, restarono di sasso quando appresero della ricomparsa di Simone Fermi. «Davvero strano! La scomparsa di Simone a questo punto non avrebbe alcun senso! Dove è stato tutti questi giorni? È stato rapito? Come mai ha perso la memoria? Forse gli è stata iniettata qualche sostanza particolare che gli ha procurato una sorta di blackout nel cervello?» ipotizzò Stefano. «Tu leggi troppi romanzi, amico. Probabilmente la scomparsa di Simone non ha nulla a che vedere con tutto il resto che sta succedendo in questi giorni» rispose Luca. «Io non credo alla casualità e neanche alle coincidenze. La scomparsa di Simone è la chiave di tutta questa storia, ne sono certo. Solo che non riesco a formulare alcuna ipotesi a riguardo. Forse quei segni sui muri è stato proprio lui a imprimerli? Forse è a capo di una delle due sette? E se così fosse, perché ricomparire all’improvviso?» «Che ne so, smettila di fare l’investigatore e limitati a svolgere il compito che ti è stato affidato. Questo commissariato è pieno di ottimi poliziotti, saranno loro a dare una risposta a tutte le tue domande.» «Hai ragione, anzi, oggi ho intenzione di parlare con Roberto e chiedergli se il nostro rapporto di collaborazione si può considerare concluso. In fondo quello che potevamo fare l’abbiamo fatto, se poi avesse bisogno di qualche consiglio o altro, può sempre chiamarci.» «Che ti prende? Il nostro lavoro non è terminato e poi sembravi così interessato a questo caso! Perché ora vuoi tirartene fuori?» «Il caso mi interessa, ma non ho più una vita sociale da quando tutta questa storia è cominciata! Sono stato pestato a sangue, o qua dentro anche dieci ore al giorno, non tocco una donna da una settimana e sono costretto a viaggiare con gli agenti di scorta! E, a parte tutto questo, non mi sento più utile per le indagini.»

«Questo non è vero, è grazie a noi che sono stati organizzati i turni di sorveglianza presso i locali hard di Torino. Ok, è andata male e non sono riusciti a evitare l’omicidio di quel trans, però ci avevamo preso, avevamo indirizzato la polizia nella direzione giusta, abbiamo fatto un ottimo lavoro, secondo me!» «Può darsi, Luca. Comunque hai ragione, non è il caso di mollare proprio adesso. Continuiamo a pensare al simbolo di fortuna major, poi ci toccherà capire a cosa può essere collegato quello di amissio. Ormai ho l’impressione di poter quasi ragionare con la mente del killer, forse anche questa volta riusciremo a intuire le sue mosse.» I due uomini si rimisero al lavoro, nonostante lo scoramento e i dubbi e le domande che li assillavano.

Alessia era in ritardo, quella mattina. Aveva riposato poco e male e aveva anche dimenticato di puntare la sveglia. Il giorno precedente, quando Anna si era presentata nel suo ufficio per riprendere Carlotta, avevano parlato a lungo. La sorella le aveva raccontato del colloquio avuto con Valentina e lei, invece, le aveva riassunto i temi del suo incontro con Andrea. Anna era disperata, il solo pensiero di rischiare di perdere Carlotta la faceva impazzire. Non aveva mai visto sua sorella così triste e avrebbe tanto voluto aiutarla, ma non sapeva proprio cosa fare per lei. Sentì il suo cellulare suonare. Probabilmente era Monica dall’agenzia che si chiedeva che fine avesse fatto. «Pronto, Monica?» rispose affannata. «No, Alessia, sono Roberto.» «Roberto?» «Il commissario Fogli.» «Ah, certo, Roberto, mi scusi, non l’avevo riconosciuta, oggi sono un po’ nel pallone. Sono pesantemente in ritardo, non ho sentito la sveglia stamattina e ora devo correre!» «Certo, non le rubo molto tempo. Volevo solo informarla del ritrovamento di

Simone.» «Simone? L’avete ritrovato? Dice davvero? E come sta? Sta bene?» «È ricoverato all’ospedale Molinette, l’ho incontrato poco fa. Fisicamente direi che sta bene, l’unico problema è che non ha più memoria del suo ato, non ha riconosciuto neanche la moglie Valentina e non ricorda di avere due figlie.» «Sono felice che sia ricomparso sano e salvo! Devo subito avvisare Anna, sarà un vero sollievo per lei! Grazie, Roberto, è stato davvero gentile a chiamarmi.» «Di niente, Alessia. Le auguro una buona giornata.» Appena lasciato Roberto, Alessia chiamò subito Anna e le comunicò la notizia. «Dio mio, Alessia, che notizia meravigliosa mi hai dato! Hai detto che è ricoverato alle Molinette? Che tu sappia, può ricevere visite?» «Non ne ho idea, il commissario Fogli non me l’ha detto, ma forse non è il caso che tu vada, viste le sue condizioni.» «Non me ne frega niente delle sue condizioni! Ho bisogno di andare da lui per accertarmi che stia bene, devo farlo, Ale!» «D’accordo, fai come vuoi. Chiedi al ricevimento, ti diranno loro se Simone può ricevere visite. Tieni presente che potresti incontrare Valentina e credo che sarebbe molto imbarazzante!» «Correrò il rischio, ho bisogno di vederlo e subito. Il problema è Carlotta…» «Ho capito, portala in agenzia, starà con me, tanto ormai la bambina è abituata, a più tempo in agenzia che a casa sua!» «Grazie, Ale, sei un tesoro, non so come farei senza di te! Te la porto immediatamente!» «No, no, frena! Io sono ancora a casa, sono in ritardo stamattina e se continuo a parlare con te al telefono non arriverò mai in ufficio! Portamela tra mezz’ora, il tempo di vestirmi, prendere l’auto e arrivare in agenzia.»

«Va bene, Ale, grazie! A dopo!» Finalmente Anna era tornata quella di sempre, allegra e entusiasta. Forse, dopotutto, tra lei e Simone era vero amore. Era contenta per loro. Forse, finalmente, le cose sarebbero ritornate al loro posto.

Roberto era appena rientrato al commissariato. Beatrice era impegnata con i testimoni del locale a luci rosse per l’elaborazione dell’identikit del sospettato dell’omicidio di Denise, Matteo aveva parlato con il figlio di Lucia Lorenzi e aveva sentito il medico legale Antonio De Quirico, che gli aveva comunicato di aver iniziato l’esame autoptico sul corpo di Denise. Marco e Matteo erano ora nell’ufficio del commissario, in attesa di conoscere il programma della giornata. «Che facciamo, Roby?» chiese Marco. «Ci sediamo qui e facciamo il punto della situazione. Dobbiamo mettere ordine tra le nostre idee. Ricapitoliamo: tutta questa storia ha inizio con il presunto rapimento di Simone Fermi. Indagando sull’uomo, veniamo a sapere che fu partorito quarantacinque anni fa in un ospedale di Vercelli e poi abbandonato dalla madre. Si vocifera che insieme a lui furono partoriti anche un altro maschio e una femmina, che non sappiamo che fine abbiano fatto. Sempre da voci non confermate, sappiamo che probabilmente i tre gemelli erano figli di un’adolescente e di un prete. E qui entra in gioco l’ambiente religioso. Impressi su uno dei muri del rifugio antiaereo risalente alla seconda guerra mondiale, Stefano ha notato dei simboli geomantici. Li ha studiati insieme a Luca e hanno cercato di interpretare il significato degli stessi. Hanno quasi subito ipotizzato, in seguito al primo omicidio della prostituta e a quello di Don Pietro Salvati, che fosse in atto una sorta di guerra tra sette religiose, tra Dio e Satana. Ipotesi che ha trovato conferma con gli omicidi successivi. Mentre siamo presi dalle nostre indagini, Simone Fermi ricompare, privo della memoria e veniamo a sapere che è possibile che abbia subìto una violenza sessuale. Tutto alquanto strano, non trovate?» «In effetti è strano, ma non incomprensibile» rispose Marco. «Se Simone è stato rapito per qualche motivo particolare, legato probabilmente al suo lavoro e alla sua possibilità di accedere a luoghi come appunto il rifugio antiaereo, potrebbe essere stato costretto a dire o a fare determinate cose, magari proprio attraverso

la tortura della violenza sessuale. Una volta ottenute le informazioni che volevano, i rapitori l’hanno rilasciato. Lo choc del rapimento e delle torture subite potrebbe spiegare la perdita di memoria dell’uomo.» «Certo, potrebbe essere così, ma non escludo che Simone Fermi possa essere l’autore di quei disegni sul muro e neanche che non faccia parte di una delle due sette. Fingere una perdita di memoria potrebbe evitargli spiacevoli interrogatori da parte nostra» ipotizzò Matteo. «In questo caso, però, perché tornare?» osservò Roberto. «Secondo me dobbiamo scoprire qualcosa di più su Simone e sulle sue origini» disse Marco. «Ora sappiamo per certo che c’è gente che sa e che non vuole parlare. Dobbiamo trovare qualcuno disposto a farlo. Se fosse una sua vendetta contro il padre naturale, un prete?» «E per questo sarebbe diventato un satanista? Non avrebbe senso, le scritte geomantiche sono state la profezia di omicidi commessi contro il male, quindi dalla setta di religione cristiana. Sono gli omicidi di don Pietro e di Lucia Lorenzi da imputare alla setta satanista!» «Hai ragione, Roberto. Quindi? Che spiegazione possiamo dare a tutto quello che sta succedendo?» chiese Marco. «Magari sapessi risponderti, Marco! Aspettiamo che Beatrice finisca con l’identikit, riuscire a catturare uno degli assassini potrebbe aiutarci molto con le indagini. Intanto faccio un salto alla scientifica, spero abbiano qualche novità. Andate ragazzi, cercate ancora notizie su Simone Fermi, magari abbiamo tralasciato qualche particolare rilevante.» Marco e Matteo lasciarono l’ufficio di Stefano, che li seguì a ruota per recarsi alla scientifica.

Anna era all’ospedale Molinette di Torino. Aveva chiesto di poter vedere Simone, si era presentata come un’amica di famiglia. Le fu accordato il permesso, purché la visita fosse breve. Anna entrò nella stanza di Simone, lo trovò nel letto, stava sfogliando una rivista.

«Simone, amore mio!» urlò correndo ad abbracciarlo. Simone non ebbe la reazione che Anna aveva sperato. Non rispose all’abbraccio, la allontanò da sé e la guardò dritta negli occhi. «E tu chi sei? Mi hai chiamato “amore mio”, circa un’ora fa si è presentata un’altra donna dicendo di essere mia moglie. Si può sapere che diavolo succede?» Anna sentì subito due lacrime pizzicarle gli occhi, le avevano detto che Simone aveva perso la memoria, ma non poteva credere che non la riconoscesse. «Allora è vero, non ricordi niente?» «No, mi dispiace. Se vuoi, puoi provare a spiegarmi chi sei, magari mi torna in mente qualcosa.» Anna si avvicinò a lui e lo baciò sulla bocca. «Ecco, adesso ricordi qualcosa?» «Veramente no, dovrei?» «Io sono la donna che ami, Simone. Lo so, hai una moglie, ma sono due anni che hai una relazione con me e siamo molto innamorati.» «Forse sarebbe il caso di dire che “eravamo” innamorati. Io non ricordo neanche il tuo nome!» «Anna, mi chiamo Anna» disse lei con la voce incrinata dal pianto. «D’accordo, Anna. Mi dispiace per tutto quello che sta succedendo, vorrei tanto ricordarmi di te e soprattutto di chi sono io, purtroppo per il momento non ho alcun ricordo, non so neanche perché mi trovo qui, so che ci sono arrivato scortato da una volante dei carabinieri, sono gli unici ricordi che ho e risalgono a poche ore fa. Ora scusami, vorrei restare da solo. Sei stata gentile a are, ma non credo che al momento la tua presenza qui possa essere utile, né a me e né a te. Magari a a trovarmi tra qualche giorno, dovrei vedere uno psichiatra tra poco, spero riesca a ridarmi la mia memoria e la mia vita!»

«Va bene, spero tanto che ci riesca, non voglio perderti, specialmente adesso che sia Valentina sia Andrea, mio marito, sono al corrente della nostra relazione. Finalmente possiamo vivere felici, è quello che abbiamo sempre voluto! Tu cerca solo di riposarti e di guarire presto, vedrai che si sistemerà tutto.» Anna diede ancora un bacio sulla fronte a Simone e lasciò la stanza. Riccardo, appena rimase solo, sorrise tra sé e sé. Aveva funzionato, nessuno aveva avuto alcun dubbio sulla sua identità. Il piano della sacerdotessa stava funzionando alla perfezione, non avendo avuto il tempo di conoscere i particolari della vita privata di Simone, la soluzione della perdita di memoria si stava rivelando azzeccata. Ora era ufficialmente e a tutti gli effetti, Simone Fermi.

CAPITOLO VENTICINQUE

Roberto era appena tornato dalla scientifica. Nel bagno dove Denise era stata uccisa, era stato trovato uno scontrino di un bar situato a pochi metri dal locale. Non era sicuro che l’avesse perso l’assassino, ma stavano comunque rilevando le impronte digitali, poi qualche agente sarebbe andato in quel bar con l’identikit dello strano uomo notato la notte precedente nel locale, magari qualcuno si ricordava di lui. Stava riflettendo su questo quando Marco irruppe nel suo ufficio. «Roby, finalmente qualcosa si sta muovendo! Ho appena parlato al telefono con una certa suor Teresa Valdi, mi ha detto di avere alcune importanti informazioni su Simone Fermi. Le ho chiesto di venire subito al commissariato, mi ha risposto che è troppo anziana e stanca e preferirebbe che andassimo noi da lei. Si trova al convento Madonna delle Rose, che facciamo?» «E me lo chiedi? Ci andiamo subito!» Roberto si precipitò fuori dal suo ufficio, incaricò Matteo di tenere sotto controllo il commissariato, poi chiese a Beatrice di diffondere a tutti gli organi di stampa l’identikit dell’uomo misterioso, quindi uscì dal commissariato con Marco, aveva urgenza di parlare con suor Teresa. In meno di dieci minuti, a sirene spiegate, arrivarono al convento Madonna delle Rose. Chiesero subito alla suora che li accolse di poter parlare con Teresa. Furono fatti accomodare in una piccola stanzetta arredata con una semplice scrivania in legno, qualche sedia e un vecchio armadio anch’esso in legno, sul quale i tarli avevano fatto un lavoro sopraffino. Dopo qualche minuto, la suora li raggiunse. Camminava a fatica, era curva e molto, molto anziana. «Buongiorno» esordì. «Sono suor Teresa, voi siete della polizia?» «Sì, sono il commissario Roberto Fogli e questi è il mio vice, Marco Del Re. Il

collega che ha parlato al telefono con lei poco fa, mi ha riferito che ha delle importanti notizie da darci relative a Simone Fermi.» La donna sospirò, si accomodò a fatica sulla sedia posta dietro alla scrivania, rimase qualche secondo in silenzio quasi a voler mettere ordine ai propri pensieri, quindi cominciò a parlare. «Prima che Simone arrivasse all’orfanotrofio della Maddalena, io ero la vice direttrice. Allora avevo poco meno di quarant’anni, una grande vocazione e tanto entusiasmo per il lavoro che svolgevo nella struttura. Poi successe qualcosa che cambiò tutto.» «Si spieghi meglio» la esortò Roberto. «Vede, io credo di essere l’unica a conoscenza del segreto legato alla nascita di Simone. Non ne era al corrente nemmeno la direttrice. C’è un motivo ben preciso per questo. Io conoscevo entrambi i genitori di Simone.» Roberto e Marco si illuminarono, stavano per conoscere la storia di Simone, erano giorni che ci stavano lavorando, ora la soluzione si stava presentando loro servita su un piatto d’argento. «Ci dica, suor Teresa, la ascoltiamo.» «La madre di Simone era una ragazzina di soli tredici anni. Era mia nipote, la figlia di mia sorella Antonella, si chiamava Caterina. Fin da piccolissima aveva frequentato l’ambiente della chiesa, la nostra è sempre stata una famiglia molto religiosa e il fatto che io fossi una suora ha fatto il resto. Antonella lavorava tutto il giorno in fabbrica, così come suo marito Giorgio. Caterina era figlia unica e ava molto tempo da sola. Spesso veniva a trovarmi all’orfanotrofio, era un’occasione per lei di giocare con i bambini ospiti e nello stesso tempo era al sicuro, almeno così pensavamo. Invece, purtroppo, non è stato così.» Suor Teresa si interruppe, lacrime copiose cominciarono a rigarle il viso. «La prego, continui» la incalzò Roberto. «Sì, mi scusi, ma non è facile per me. All’epoca, all’orfanotrofio spesso venivano organizzate delle attività sportive e dei corsi di cucina e di meccanica. Il responsabile di queste attività era don Nicola Russo, al tempo aveva una

trentina d’anni e tanto entusiasmo nel seguire i nostri bambini. Veniva da noi un paio di volte alla settimana e lavorava con i bambini. Fu proprio all’orfanotrofio che conobbe Caterina. Mi accorsi subito delle strane attenzioni che le dedicava. Era sempre insieme a lei, la abbracciava, la accarezzava. Provai a parlargliene una volta, mi disse che Caterina era una bambina dolce e affettuosa e che per lui era come una figlia. Purtroppo, gli credetti e non badai più al suo strano comportamento, finché una sera, trovai Caterina in lacrime nella cucina della nostra struttura. Provai a parlare con lei, ma non mi confidò nulla, mi disse solo che non voleva mai più venire alla Maddalena. Non la vidi più per circa tre mesi, finché una mattina Antonella mi chiamò e mi chiese di andare a casa loro con urgenza. Mi precipitai da loro consapevole che qualcosa di terribile era successo. Venni a sapere che Caterina era incinta, Antonella e Giorgio dopo lunghe insistenze erano riusciti a fare confessare alla bambina chi fosse il padre e vennero a sapere che si trattava di don Nicola, pare l’avesse violentata nel giardino dell’orfanotrofio, quello stesso giorno che la trovai in lacrime in cucina. Antonella e Giorgio non credettero alla versione di Caterina, erano talmente religiosi da non poter accettare che un prete avesse compiuto un’azione così deplorevole. Avrebbero voluto fare abortire Caterina, ma era contro le leggi di Dio, così decisero che avrebbero fatto nascere il bambino e l’avrebbero poi abbandonato in ospedale. Io fui l’unica a stare vicino a Caterina. Lasciai l’orfanotrofio e mi trasferii in una casa di riposo per religiosi, dove trovai ospitalità. Portai la bambina con me e mi occupai di lei fino al giorno del parto. Quando arrivò il momento, avvisai Antonella, lei venne a prendere Caterina, la accompagnò in ospedale e la lasciò lì. Rimase ricoverata per una settimana, partorì tre gemelli, due maschi e una femmina. Uno di loro era Simone Fermi, fu portato all’orfanotrofio della Maddalena, per precisa volontà di don Nicola. Si occupò anche degli altri due bambini, ma non so dirvi cosa ne fece. Quanto a Caterina, tornò a vivere dai suoi genitori, ma la sua vita non fu più la stessa. Era sempre triste, una volta mi confidò di sentirsi un’estranea a casa sua, i genitori non riuscivano a perdonarle quello che era successo, la guardavano con disprezzo e non si fidavano più di lei. Povera bambina! Non aveva nessuna colpa di quanto era successo, eppure stava pagando soltanto lei e a caro prezzo! Io mi sentivo in colpa, ero stata io a portarla all’orfanotrofio ed ero stata sempre io a comportarmi in maniera superficiale, quando mi ero resa conto delle strane attenzioni di don Nicola! Vedevo Caterina sfiorire di giorno in giorno e non sapevo cosa fare per aiutarla. Nel frattempo mi ero trasferita ad Asti, in un altro orfanotrofio, avrei voluto portare la bambina con me, ma Antonella e Giorgio me lo impedirono.»

«Riuscì mai a parlare con don Nicola?» chiese Marco. «Certo, gli parlai subito, non appena seppi quello che era successo. Negò tutto, mi disse che non aveva toccato la bambina neanche con un dito, ma io mi accorsi subito che mentiva. Mi confessò quanto era successo soltanto quando i bambini erano già nati, mi disse che era stata una pazzia, che non aveva mai fatto una cosa del genere, che non aveva saputo resistere e che di Caterina era innamorato. Gli feci notare che era solo una bambina e che le aveva rovinato la vita, lui mi rispose che anche la sua vita era rovinata, che non si sarebbe mai perdonato per quello che aveva fatto.» «Le disse come mai decise che Simone dovesse andare all’orfanotrofio?» chiese Roberto. «Mi disse che Simone fu il primo a nascere, non chiedetemi come fe a saperlo, probabilmente aveva dei contatti con l’ospedale dove avvenne il parto. Comunque mi disse che almeno uno voleva seguirlo da vicino e, dato che in quella struttura lui era spesso presente e aveva diverse conoscenze, decise di farlo portare lì. Da quello che so, fu lui stesso a scegliere da quale famiglia dovesse essere adottato.» «Quindi, degli altri due gemelli lei non sa nulla.» «No, una volta lo chiesi a Nicola, ma non volle rispondermi.» «E Caterina? Non provò mai a ritrovare i suoi figli?» Suor Teresa si adombrò, si alzò a fatica dalla sedia, si avvicinò alla finestra, scostò la tendina e guardò fuori, verso il cielo, come se cercasse le parole giuste per rispondere alla domanda del commissario. «Caterina morì tre anni dopo il parto, aveva soltanto sedici anni. Ingerì un’intera bottiglia di acido muriatico. Una morte terribile, a coronamento di una vita sfortunata. Prego per la sua anima ogni giorno e lo farò fino a quando avrò respiro. Dalla morte di Caterina non ho più voluto avere contatti con Antonella e Giorgio, li ritenevo responsabili della morte della ragazza, non avevano fatto che colpevolizzarla fin da subito, non l’avevano ascoltata, né capita e né tantomeno aiutata. È stato un po’ come se l’avessero uccisa con le loro mani. Quanto a me, mi ritirai in questo convento, non vidi mai più don Nicola, né le altre sorelle dell’orfanotrofio della Maddalena. Non ho mai parlato con nessuno di questa

storia, so che giravano delle voci circa i genitori naturali di Simone, ma erano solo voci e decisi che tali dovevano rimanere.» «Perché oggi ha deciso di parlare?» chiese Marco. «Me l’ha chiesto Caterina. Mi è venuta in sogno questa notte e mi ha detto di aiutare suo figlio Simone. Non ho avuto esitazioni e vi ho chiamati subito. Spero che possiate ritrovarlo sano e salvo.» «L’abbiamo già ritrovato, suor Teresa. Sta bene, ma ha perso la memoria. Ora è ricoverato all’ospedale Molinette.» «Che Dio sia ringraziato! Sono felice, spero che possa guarire presto, quando si sarà ripreso, se vorrà, gli racconterò la sua storia, credo abbia diritto di sapere.» «Lo credo anch’io, suor Teresa. Per il momento la ringrazio molto per averci contattato e per essersi confidata con noi, immagino le sia costato molto» disse Roberto. «È vero, mi è costato tanto, ma prima di morire era giusto che ne parlassi.» «Un’ultima cosa. Che lei sappia, don Nicola è ancora vivo?» «Non ne ho idea, però posso darvi le sue generalità, in modo che possiate verificare.» «Le sarei molto grato, suor Teresa» rispose Roberto. La suora appuntò su un foglietto rosa il nome e cognome di don Nicola, l’anno e il luogo di nascita. Roberto e Matteo si trattennero ancora qualche minuto a parlare con suor Teresa, poi lasciarono il convento e si avviarono verso il commissariato. Dovevano urgentemente rintracciare don Nicola. Suor Teresa non confidò ai due poliziotti di aver già raccontato, molti anni prima e a un’altra persona, tutta quella squallida storia.

«Eccolo qua, Roberto!» urlò Marco entrando nell’ufficio del commissario sventolando un foglio. Nicola Russo, nato a Vercelli il ventotto giugno del 1938. All’epoca della nascita di Simone aveva circa trent’anni. Attualmente è ospite presso il Monastero di Sacro Cuore a Torino. Andiamo a trovarlo?» «Certo, ci andiamo immediatamente. Prepara la volante, avviso Matteo che stiamo uscendo e ti raggiungo.» Arrivarono al Monastero a mezzogiorno, chiesero subito di don Nicola, furono accompagnati nella sua stanza. Trovarono il prete nel letto, aveva l’aspetto sofferente, sembrava essere piuttosto malato. Si presentarono, don Nicola sembrò stupito di ricevere la visita della polizia. «Cosa posso fare per voi?» chiese con voce malferma. «Avremmo bisogno di parlare con lei di suo figlio, Simone Fermi.» L’uomo ebbe una strana reazione, prima impallidì, poi diventò rosso e cominciò a sudare. «Allora? Non ha niente da dirci?» lo incalzò Roberto. «Io sono un prete, commissario. Non mi è permesso avere figli.» «Su questo mi trova d’accordo, in effetti un prete figli non dovrebbe averne, lei invece ne ha ben tre, da quello che ci risulta.» Roberto sapeva benissimo di non avere prove concrete di quanto stava affermando, si stava basando esclusivamente sulla testimonianza di un’anziana suora, ma il suo istinto gli diceva che la donna era stata sincera e, soprattutto, che era sicura di quanto aveva dichiarato. Comunque, se il prete avesse negato, avrebbe ottenuto una richiesta ufficiale per un esame del DNA, ora Simone era tornato ed era possibile effettuare il riscontro. Sentiva che era necessario scavare a fondo nella vita di Simone e che questo li avrebbe portati alla soluzione di quel caso intricato. «Vi risulta? E posso chiederle come e da chi avete avuto questa informazione?» «Non posso rispondere alla sua domanda, però le posso dire che la fonte è

attendibile. Allora, intende negare o mi racconta la sua storia? È bene che lei sappia che mi basta chiedere l’autorizzazione al prefetto per poter effettuare un esame del DNA a lei e a Simone, tanto per toglierci tutti i dubbi!» «Da quanto mi risulta, Simone è scomparso da alcuni giorni. Seguo la TV, commissario.» «Non abbastanza, don Nicola, altrimenti saprebbe anche che Simone è ricomparso questa mattina.» «Ricomparso, ha detto? Impossibile!» «Perché è impossibile?» chiese Roberto sempre più insospettito dal comportamento dell’anziano prete. Don Nicola era in evidente imbarazzo, aveva avuto una reazione scomposta e inaudita, per uno che con Simone Fermi non aveva nulla a che fare. «Beh, mi avrebbero avvisato!» «E perché mai, se Simone non ha niente a che fare con lei?» Nicola si maledì, stava proprio diventando vecchio, non era più in grado di controllare le proprie reazioni e con la sua uscita di pochi secondi prima, aveva praticamente ammesso il suo grado di parentela con Simone. Quel segreto scomodo e vergognoso che aveva custodito per quarantacinque lunghi anni, era venuto a galla, qualcuno aveva parlato e lui era certo di chi fosse stato. Quella vecchia rincoglionita alla fine aveva ceduto e aveva spiattellato tutto, doveva immaginarselo e tapparle la bocca prima che fosse troppo tardi. Ormai non c’era più nulla che potesse fare, se non parlare e aiutare suo figlio, perché era sicuro che non fosse certo Simone a essere stato ritrovato. «D’accordo, commissario, lo ammetto. Simone è mio figlio, frutto di un grave errore che commisi tantissimi anni fa.» «Più che “grave errore” io parlerei di violenza sessuale aggravata dalla giovane età della vittima, appena tredici anni, dico bene?» «Non è come pensa, non sono un pedofilo e quello fu l’unico peccato che commisi. Caterina aveva tredici anni, è vero, ma ne dimostrava molti di più, era

una donna fatta e finita, glielo assicuro. Ho perso la testa, mi sono innamorato, avrei lasciato tutto pur di stare con lei, avrei tolto l’abito da prete, volevo sposarla e costruire una famiglia insieme. Purtroppo lei non corrispondeva il mio sentimento, anche se all’apparenza era già una donna, ragionava ancora come una bambina. Al suo rifiuto ho perso la testa e l’ho presa con la forza, è vero. È stata una reazione rabbiosa e incontrollabile, me ne pentii subito. Ho pagato a caro prezzo quel gesto, commissario. I sensi di colpa e i rimorsi non mi hanno mai abbandonato.» «Credo che sia stata Caterina a pagare, non lei. A sedici anni si è tolta la vita perché non sopportava la vergogna per quello che era successo, ma suppongo lei queste cose le sappia bene.» «Lo so e mi dispiace tantissimo.» «Non abbastanza da confessare al mondo intero quello che fece quarantacinque anni fa. Forse confessare l’avrebbe aiutata a liberarsi dai sensi di colpa e avrebbe dato un po’ di giustizia a quella povera ragazza!» «L’ho pensato tante volte e avrei voluto farlo, ma avrei messo in cattiva luce l’intera chiesa e i suoi rappresentanti, fosse stato solo per me avrei confessato subito e mi sarei preso cura dei miei figli. Parlai con un vescovo, fui minacciato e dovetti tacere, glielo giuro.» In quel momento, un ragazzo irruppe nella stanza. «Padre! Hanno ritrovato Simone!» Quando il ragazzo si rese conto che don Nicola non era solo, si scusò e, molto imbarazzato, comunicò che sarebbe ato più tardi. Roberto e Marco si guardarono a lungo, entrambi avevano notato una certa somiglianza tra la persona appena uscita e l’identikit effettuato al commissariato dello strano ragazzo notato al locale a luci rosse. Soltanto la capigliatura non corrispondeva, l’uomo visto al locale aveva i capelli neri e mossi, il ragazzo appena uscito dalla stanza era biondo. «Chi è quel ragazzo?» chiese Roberto. «È don Tiziano, un mio fedele servitore, ma non è certo di lui che siete venuti a parlare. Piuttosto vorrei chiedervi notizie di Simone.»

Roberto raccontò al prete quello che era successo, Nicola ascoltò con attenzione. Aveva un sospetto, ma ci avrebbe ragionato più tardi, quando quei due poliziotti se ne sarebbero andati. «Sappiamo che quando nacquero i bambini, lei decise di affidarne uno, Simone per la precisione, alle cure dell’orfanotrofio della Maddalena e si occupò lei stesso dell’adozione. Ora, vorrei chiederle che fine fecero i due gemelli di Simone.» «Furono portati in un altro orfanotrofio nel novarese, non conosco i loro nomi né l’identità della loro nuova famiglia, ammesso che siano stati adottati. Se volevo mantenere il segreto su quanto era successo, non potevo espormi più di tanto. Seguii la vita di Simone perché fu adottato da una famiglia che conoscevo molto bene, fui io stesso a facilitare l’adozione di mio figlio, sapevo che con loro sarebbe stato bene e ho avuto ragione. È stato amato e cresciuto nel nome di Dio, proprio quello che volevo per lui.» «Ha parlato di un orfanotrofio, sa dirmi quale con precisione?» «No, mi dispiace, seppi soltanto che sarebbero stati portati in quella zona, ma non ebbi mai notizie precise.» Don Nicola aveva la voce tremante, Roberto sapeva per esperienza che stava mentendo, solo che non sapeva perché e a proposito di cosa. Il suo sesto senso gli suggeriva che il religioso sapeva benissimo che fine avessero fatto i suoi figli, ma non voleva parlarne. Stava a lui indagare per conoscere la verità. «D’accordo, don Nicola, per ora è tutto. C’è un’ultima cosa che vorrei chiederle» disse Roberto. «Mi dica, commissario.» «Vorrei chiederle di poter parlare con don Tiziano, il giovane prete che è entrato nella sua stanza poco fa.» «E perché mai? Tiziano non sa nulla di tutta questa storia!» «Ne sono certo, ma quel ragazzo ha un volto conosciuto e avrei bisogno di porgli qualche domanda. Ha qualcosa in contrario?»

«No di certo, ma in questo momento Tiziano sarà già uscito, aveva alcune commissioni da sbrigare e non tornerà al Monastero che tra qualche ora.» Roberto ebbe di nuovo la stessa sensazione di poco prima. Don Nicola era molto agitato ed era evidente che non era per niente contento che parlassero con Tiziano. «Non c’è problema» rispose Roberto consegnando un biglietto da visita al parroco. «Gli dica di venire al commissariato appena possibile, anche nel tardo pomeriggio, mi troverà nel mio ufficio.» Don Nicola annuì, quindi congedò i due poliziotti. Quando questi uscirono, aspettò qualche minuto poi, nonostante la fatica che gli costava, si alzò dal letto e si precipitò fuori dalla sua stanza. Doveva trovare Tiziano e parlare a lungo con lui, prima che si presentasse al commissariato.

CAPITOLO VENTISEI

Simone era sveglio. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Era ancora nella stanza dove era stato rinchiuso dopo il rapimento. Non riusciva a muoversi e si rese conto di respirare grazie a un tubo che gli attraversava la trachea. La sensazione di terrore che lo accompagnava da quel maledetto giorno in cui tutto era iniziato, lo assalì immediatamente. C’era stato un momento in cui si era convinto che sarebbe morto, invece era ancora vivo, per subire chissà quale altra terribile tortura. Qualcuno entrò nella stanza. «Simone! Simone, mi senti?» Lui voltò appena il viso verso quella voce. Si ricordava di quell’uomo che aveva di fronte, se la mente non lo ingannava, doveva essere un medico. L’uomo cominciò a trafficare con alcuni strumenti, gli misurò la pressione, gli auscultò il cuore e controllò le pupille utilizzando una luce intensa che obbligò Simone a chiudere gli occhi. Dopo un’accurata visita, il medico parlò. «Ora provo a toglierti il tubo che hai in gola, dovresti essere in grado di respirare autonomamente.» La sensazione che Simone provò quando il medico gli estrasse quel tubo fu spiacevolissima. Cominciò a tossire convulsamente, tanto da temere di soffocare. Invece, dopo alcuni secondi, cominciò a respirare e notò subito il sorriso compiaciuto del dottore. «Perfetto, a quanto pare oggi va molto meglio! Riesci a muovere le braccia e le gambe?» Simone provò con tutte le sue forze, ma gli arti non volevano saperne di muoversi. «Come immaginavo… Bene, per ora accontentiamoci del fatto che tu sia sveglio e vigile, al resto penseremo dopo. Ora ti lascio da solo un momento, devo fare una telefonata.»

Luigi si precipitò nel suo studio e compose il numero riservato della sacerdotessa, aveva fretta di comunicarle le condizioni di Simone. «Beh, francamente non mi importa più delle sue condizioni di salute. Riccardo se la sta cavando benissimo anche senza il suo aiuto. Stasera Simone verrà sacrificato di fronte all’altare del tempio. Mi occuperò io stessa di strappargli il cuore dal petto e di darlo alle fiamme!» «Sacerdotessa, ti prego, non lo fare! Ho bisogno di quell’uomo per completare i miei studi sul virus. Se uccidi lui, il nostro progetto sarà irrimediabilmente fallito! Ti chiedo solo quarantotto ore, non un minuto di più.» «E va bene, in fondo due giorni non cambieranno nulla. Ma ricordati che non ti concederò altro tempo e, se fallirai, te ne riterrò personalmente responsabile e ti assicuro che la punizione che riceverai sarà d’esempio per tutti i miei adepti che mi deludono!» «D’accordo, sono pronto a ricevere la punizione che merito, ma solo se fallirò e sono sicuro che non succederà.» «Me lo auguro, soprattutto perché quando strapperò il cuore dal petto a quel figlio di puttana voglio che sia ben sveglio e lucido e che senta tutto il dolore che gli farò provare. Ora devo andare, tienimi informata.» «Certo, sacerdotessa, ti chiamerò appena avrò qualche novità.» Luigi tornò da Simone per terminare la visita accurata che aveva cominciato poco prima, poi tornò nel suo studio, aveva poco tempo e parecchi problemi da risolvere.

Don Nicola stava cercando Tiziano, quando don Paolo lo raggiunse nel corridoio. Reggeva in mano un foglio ed era palesemente agitato. «Don Nicola! Don Nicola, è successo un guaio!» «Di che guaio parli, Paolo? Per carità, oggi non è proprio giornata. Che è successo?»

«Guarda, ho stampato questo foglio da internet poco fa.» Nicola prese in mano il foglio, si trovò davanti a un foto molto somigliante a don Tiziano e impallidì. «Che significa?» chiese a don Paolo, pur avendo un atroce sospetto su quanto stava accadendo. «Questo è l’identikit elaborato dalla polizia in base alla testimonianza di diverse persone che dichiarano di aver notato quest’ uomo dall’atteggiamento sospetto la scorsa notte aggirarsi per il locale dove è avvenuto l’omicidio del transessuale. È l’identikit di Tiziano, anche se i capelli sono di colore diverso, lo riconoscerebbe chiunque! Dobbiamo impedire al ragazzo di lasciare il monastero, se qualcuno dovesse vederlo potrebbe essere la fine di tutto!» Nicola si lasciò cadere su una panca sistemata ai lati del corridoio e si prese la testa tra le mani. «Troppo tardi, Paolo. È finita…» «Cosa intendi dire?» Nicola raccontò al prete quanto era successo poco prima nella sua stanza. «Oh, santo Dio onnipotente! Cosa possiamo fare?» «È tutta colpa mia, non dovevo mandare Tiziano a svolgere quell’incarico. Non è esperto, se diversi testimoni l’hanno notato, vuol dire che ha agito in maniera goffa e la cosa non mi stupisce per niente. Dovrà andare in commissariato, sostenere l’interrogatorio e convincere la polizia che si tratta solo di una semplice somiglianza. In fondo è un prete, di solito i preti non ano le serate nei locali a luci rosse ammazzando le persone!» «Già, un prete… Ricordati che non c’è alcun documento che testimoni che Tiziano lo sia. L’unica cosa che possiede è un documento d’identità, falso per giunta! Dovrai raccontare la sua storia, confessare di avere tenuto un bambino in convento senza averne alcun diritto! Te l’avevo detto che prima o poi questa storia sarebbe stata la tua rovina! So perché l’hai fatto, hai voluto dare a quel bambino l’affetto che non avevi potuto dare ai tuoi, ma quello che hai fatto è illegale, lo capisci?»

«Illegale? Dare amore a un bambino solo al mondo tu lo chiami illegale? Sai che fine avrebbe fatto, Tiziano? Forse avrebbe trovato una famiglia disposta ad accoglierlo nella propria casa e ad amarlo, ma avrebbe anche potuto restare per anni in un orfanotrofio, o finire adottato da una famiglia arida e incapace di dargli l’affetto di cui aveva bisogno. Qui Tiziano ha avuto tutto: amore, istruzione, educazione! Non mi pentirò mai di averlo tenuto con me, quel ragazzo è la persona al mondo che amo di più e ora è arrivato il momento di dimostrarlo. Lascio tutto, Paolo. La nostra missione termina oggi, lascerò l’Italia con Tiziano, andremo in qualche posto lontano dove nessuno potrà trovarci.» «Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Sei vecchio e malato, probabilmente non sopravvivresti neanche al viaggio! E poi non pensi a Tiziano? Quando tu sarai morto, rimarrà solo al mondo!» «Meglio solo al mondo che rinchiuso in qualche fredda prigione, non sopravvivrebbe più di una settimana!» «E Simone? Hai pensato a lui? E agli altri tuoi figli?» «A Simone penserai tu, quanto agli altri due, hanno scelto la loro strada, non posso fare più nulla per loro.» «Tu adesso sei sconvolto e non riesci a ragionare con lucidità. Andiamo, ti riaccompagno nella tua stanza e ne parliamo. Ricordati che ci sono anche io implicato in questa vicenda, insieme ad altri nostri compagni. Dio ci ha dato una missione da compiere e noi dobbiamo portarla a termine, qualunque sacrificio questo comporti.» Nicola si lasciò trascinare nella sua stanza, incapace di protestare e di opporsi. Per la prima volta nella sua vita, provava un terrore profondo, aveva paura di perdere quanto gli era più caro al mondo.

Roberto e Marco erano tornati al commissariato. Sulla sua scrivania, il commissario aveva trovato il referto dell’autopsia effettuata sul corpo di Lucia Lorenzi. Il rapporto del medico legale era raccapricciante. La donna era stata torturata ferocemente e per diverse ore, nel suo sangue non c’erano tracce di sostanze stupefacenti o di alcool e questo significava che la poverina era stata cosciente per tutto il tempo. Persino il cuore le era stato estratto dal petto quando

era ancora in vita. Roberto si chiedeva come fosse possibile tanto accanimento e crudeltà verso una povera donna, anziana e indifesa. Sospirò e mise il referto autoptico nella cartellina del caso che stava seguendo. Aveva battezzato quel caso “Good-evil: il bene contro il male”. Era talmente immerso nei suoi pensieri, che neanche si accorse di Beatrice, se la trovò di fronte alla scrivania all’improvviso. «Che sguardo che hai, Roby! Sembra quasi tu abbia visto un fantasma!» «In effetti non ti ho sentita entrare. Hai bisogno di qualcosa?» «Volevo parlarti di quell’identikit che abbiamo mandato agli organi di informazione qualche ora fa. Abbiamo ricevuto alcune segnalazioni. Due, in particolare, hanno attirato la mia attenzione perché collimano alla perfezione. Anche se, devo dire, potrebbero essere inattendibili, visto che riguardano un prete!» «Un prete, hai detto? Non dirmi che il prete in questione ha a che fare con il monastero di Sacro Cuore…» «E tu come lo sai?» chiese lei stupita. Roberto le raccontò del breve incontro avuto con don Tiziano circa un’ora prima. «Proprio così! Due negozianti della zona conoscono bene Tiziano, che spesso si occupa dei piccoli acquisti per il monastero. Il grosso di quanto occorre viene ordinato e recapitato direttamente al monastero, delle piccole commissioni se ne occupa Tiziano, l’ospite più giovane della struttura. Tutti e due i testimoni parlano di un ragazzo buono, dolce e molto introverso. La loro telefonata è stata particolare, hanno chiamato per segnalare questa forte somiglianza, sottolineando però che non può trattarsi di Tiziano, troppo buono per essere un assassino. E poi il colore dei capelli non coincide.» «Questo è molto relativo, basta indossare una parrucca o utilizzare uno spray di colorante non permanente e il gioco è fatto. È possibile che Tiziano non c’entri davvero nulla con l’omicidio di Denise, ma io l’ho comunque convocato in commissariato per un interrogatorio. Dovrebbe arrivare prima di sera. Sarà l’ultima cosa della quale mi occuperò prima di andarmene a casa. Tu, a proposito, quando pensi di andarti a riposare?»

«Ho finito il turno di notte, quindi preferisco rimanere ancora un po’, così stasera sarò talmente stanca da non rischiare di are la notte in bianco come succede sempre dopo il turno notturno.» «D’accordo, fai come credi, l’importante è che domattina tu sia qui alle otto in punto, è arrivato il momento di dare una svolta a questa indagine e ho bisogno di tutti voi.» «Ci sarò, tranquillo. Nel frattempo, c’è qualcosa in particolare che posso fare?» «Pensa, Bea. Prenditi una copia del fascicolo del caso e rifletti. Da qualche parte ci deve essere qualcosa di importante che non abbiamo notato. Marco sta facendo lo stesso e lo farò anche io. Cerchiamo di riflettere e di esaminare tutto quello che abbiamo con estrema attenzione. È tutto quello che possiamo fare per adesso.» Beatrice annuì, prese il fascicolo che Roberto le stava porgendo e si avviò verso il suo ufficio. Era stanchissima, ma sapeva che non avrebbe avuto pace finché su quella cartellina non avrebbe potuto mettere l’appunto “caso risolto”.

Tiziano si trovava di fronte al portone del commissariato. Aveva parlato a lungo con Nicola e Paolo, le istruzioni erano state chiare, ora sapeva perfettamente quello che doveva fare. Sarebbe stato difficile, doveva mentire e doveva farlo in modo convincente. Sapeva che la situazione era gravissima, da lui dipendeva l’esito della loro missione, non poteva permettersi di sbagliare. Tutto avrebbe sopportato, tranne che deludere l’uomo che gli aveva dedicato tutta la sua vita. Tiziano conosceva tutta la storia di don Nicola, compresi gli errori del ato, sapeva dell’esistenza di Simone e degli altri due gemelli, un giorno avrebbe ereditato il ruolo del padre spirituale all’interno del monastero ed era giusto che sapesse tutto quello che c’era da sapere. Per indole, Tiziano era un ragazzo timido, ma non gli mancava certo la determinazione e, soprattutto, credeva in quello che faceva e non avrebbe permesso alla sua goffaggine di rovinare la vita di don Nicola e quella degli altri ospiti del monastero. Respirò profondamente, recitò rapidamente un Padre Nostro, quindi spinse il portone ed entrò all’interno del commissariato.

CAPITOLO VENTISETTE

Erano le diciotto, Roberto e Marco erano nell’ufficio del commissario e avevano di fronte Tiziano Roncati. Il ragazzo sembrava molto più tranquillo rispetto a poche ore prima. Dopo aver assolto alle formalità del caso e aver offerto un bicchiere d’acqua al ragazzo, Roberto cominciò a porre le prime domande, mentre Marco era pronto a verbalizzare tutto quanto sarebbe stato detto durante l’interrogatorio. «Prima di iniziare, volevo chiederti se posso darti del tu e chiamarti Tiziano, vista la tua giovane età.» «Certo, commissario, anzi, mi metterebbe a mio agio.» «Bene, Tiziano, ti abbiamo convocato qui perché la scorsa notte è stato commesso un omicidio in un famoso locale a luci rosse di Torino. A rimetterci la vita è stato un transessuale, Giorgio Fanti, o Denise se preferisci.» «Sì, ne ho sentito parlare, mi dispiace molto per Denise, una brutta fine davvero.» «Tu la conoscevi?» «L’ho vista una volta soltanto, non ho avuto modo di parlare con lei.» «Quindi frequentavi quel locale…» «Commissario, so benissimo il motivo per il quale sono stato convocato qui, ho visto la foto dell’identikit su internet. In effetti la scorsa notte mi trovavo in quel locale. So che la cosa potrebbe stupirvi o addirittura scandalizzarvi, in fondo io sono un prete e quello non è certo un ambiente che un uomo di chiesa dovrebbe frequentare. Era la prima volta che entravo in quel posto, spinto da una curiosità quasi ossessionante. Non ho fatto niente di male, ho solo guardato, volevo rendermi conto di quello che succedeva in un posto come quello. Vede, commissario, io sono cresciuto al monastero del Sacro Cuore, non conosco il mondo, l’universo femminile o il sesso. Sono stato cresciuto nella fede cristiana, ho studiato per diventare prete, ma avevo dei forti dubbi che quella fosse la mia

strada, avevo bisogno di capire se invece ero più adatto a vivere una vita normale, come tutti i ragazzi della mia età. Avevo il desiderio di provare a vivere delle esperienze, sono in conflitto con me stesso e ho sentito il bisogno di andare in quel locale per vedere quello che succedeva al suo interno.» «Hai detto che sei cresciuto al monastero del Sacro Cuore?» «Esattamente, fui adottato venticinque anni fa da don Nicola. È stato lui a prendersi cura di me per tutti questi anni, mi ha insegnato tutto quello che so. Quando morirà, vuole che sia io a prendere il suo posto.» «Non ci ha detto nulla in proposito quando abbiamo parlato con lui. Quindi, oltre ad avere tre figli naturali, don Nicola ne ha anche uno adottivo, tu…» «Esatto, è così.» «Tornando al discorso di prima, hai detto che saresti andato in quel locale spinto da una curiosità quasi morbosa, dico bene?» «In poche parole sì, è così.» «I testimoni che si sono accorti di te, hanno dichiarato di aver notato un atteggiamento molto sospetto da parte tua. Inoltre indossavi una parrucca o comunque ti eri tinto i capelli, perché?» «Il mio atteggiamento era sicuramente strano, commissario. In quel posto mi sentivo un pesce fuor d’acqua, mi sono pentito di esserci andato dopo pochi minuti che ero entrato. Infatti mi sono trattenuto una decina di minuti soltanto. Quando alcune ragazze mi hanno avvicinato, ho provato un profondo senso di vergogna e ho deciso di andarmene. Quanto ai capelli, avevo paura che don Nicola venisse a sapere quello che avevo fatto e ho avuto paura di deluderlo, così ho cercato di camuffarmi, in modo anche piuttosto goffo, lo ammetto. Questo è tutto, commissario. Non conosco Denise e non avevo motivo di farle del male, quella notte. Mi sono solamente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, forse è la punizione divina per aver commesso un peccato molto grave. Se don Nicola lo venisse a sapere, proverebbe un profondo senso di delusione e questo mi dispiace.» «Don Nicola è tuo padre adottivo, perché non lo chiami papà, ma sempre “don Nicola”?»

«In effetti lo chiamo padre, ma solo quando siamo soli, per rispetto al ruolo che ricopre all’interno del monastero.» «Capisco. Se non ti dispiace, ti accompagno nell’ufficio di una collega che ti rileverà le impronte digitali. È una pura formalità, stai tranquillo. Quando avrai finito, a di nuovo nel mio ufficio per firmare il verbale dell’interrogatorio di oggi. Dopo, potrai tornare al monastero.» Quando Roberto tornò nel suo ufficio, consegnò a Marco il bicchiere utilizzato dal ragazzo. «Portalo alla scientifica e fai fare un test del DNA, potrebbe esserci utile.» «Non hai creduto a una sola parola del racconto del ragazzo, vero?» «In effetti è così. Troppo tranquillo, quasi spavaldo, come se fe di tutto per convincerci che quello che stava dicendo era la verità. Chi è sincero non ha bisogno di ostentare nulla, racconta semplicemente i fatti con estrema naturalezza. C’è qualcosa che non mi convince, ma al momento non ho elementi per trattenerlo in commissariato. Ci servono delle prove. Mentre vai alla scientifica, informati sui reperti ritrovati sul luogo del delitto di Denise, se troviamo un DNA o delle impronte digitali, fare il confronto sarà un gioco da ragazzi.» «D’accordo, Roby, ci vado subito.» Roberto era convinto che Tiziano nascondesse qualcosa, di solito il suo istinto non falliva. Doveva assolutamente scoprire qualcosa di più su di lui e avrebbe cominciato l’indomani mattina, interrogando nuovamente don Nicola Russo. Stava riflettendo su quanto avrebbe dovuto fare il giorno successivo, quando Stefano e Luca entrarono nel suo ufficio. «Allora, ragazzi, che novità mi portate?» «Abbiamo studiato a lungo l’ultimo simbolo, quello di Amissio e siamo giunti alle nostre conclusioni» rispose Stefano. «Bene, sono tutt’orecchi, ditemi tutto.»

«Come ben sai, Amissio è il simbolo della perdita. La sua grafica dovrebbe ricordare un essere umano che disperde le sue energie. Naturalmente, come ogni altro simbolo geomantico, le interpretazioni possono essere molteplici. Può indicare la perdita di un amore, una perdita finanziaria, grettezza, pesantezza, perdita di dignità e di valori. Può essere interpretato come involuzione al materialismo, negligenza psico-morale, decadimento. Noi abbiamo cercato di ragionare con la mente di chi ha ordito questo piano malefico e che vorrebbe eliminare o quanto meno punire il male» spiegò Stefano. «E a quali conclusioni siete arrivati?» «Stefano e io» rispose Luca, «pensiamo che questa volta il bersaglio dell’assassino possa essere qualcuno del proprio ambiente.» «Cioè? Spiegati meglio Luca, sono le diciannove, ho una fame tremenda, sto per addormentarmi sulla sedia, cerca di usare parole semplici e comprensibili, se non ti dispiace.» «Ok, capo, ci provo. Fino ad ora, abbiamo ipotizzato l’esistenza di due sette, una di seguaci di Dio e l’altra composta da seguaci di Satana, ok? Bene, gli omicidi legati ai simboli geomantici ritrovati sul muro del rifugio antiaereo sono sicuramente stati compiuti dalla setta dei seguaci di Dio. Quindi, preti, suore, uomini di fede.» «Quindi voi pensate che la setta sia composta da religiosi e che la prossima vittima possa essere un prete o una suora?» «Esattamente» intervenne Stefano. «Noi siamo convinti che la setta sia composta da religiosi e la prossima vittima potrebbe essere un prete corrotto, materialista, potrebbe essere un pedofilo o comunque un uomo dedito a vizi particolari. Oppure una suora non proprio “vergine”, tanto per intenderci.» «Interessante, potrebbe essere una pista da seguire. E forse potrei anche circoscrivere l’ambito dei luoghi religiosi dove potrebbe essere pescata la prossima vittima. Ragazzi, siete stati preziosissimi come sempre. Quando tutta questa storia sarà finita, cercherò di convincervi a entrare in polizia, avete delle doti investigative eccezionali. Avercene di collaboratori come voi!» «Per carità, io voglio tornare alla mia vita di prima! Voglio riprendere i miei tour turistici, voglio ubriacarmi e scopare come un riccio tutte le sere per almeno un

mese!» esclamò Stefano. «E io voglio tornare al mio negozietto, mi manca da morire. Però, se avessi bisogno di altre collaborazioni in futuro, tienimi presente, in fondo mi sono divertito!» «D’accordo, ora però andatevene, le volanti di scorta vi stanno già aspettando di sotto. Ci vediamo domattina?» «In teoria il nostro lavoro sarebbe terminato, ma finché il caso non sarà risolto vorremmo continuare a venire in commissariato, magari potremmo essere di aiuto» rispose Stefano. «Certo che sarete di aiuto. Allora ci vediamo domani, ragazzi, buona serata a tutti e due.» Roberto aveva in mente il monastero del Sacro Cuore e il convento Madonna delle Rose. Aveva la sensazione che la prossima vittima avrebbe potuto essere proprio un ospite di una di quelle strutture e che don Nicola, Simone e Tiziano fossero in qualche modo coinvolti in tutta la faccenda. Spense il suo PC e si avviò verso l’ufficio di Marco. «Marco, novità dalla scientifica?» «Niente di importante, Roby, stanno ancora lavorandoci su, forse domani avremo qualche notizia in più. Stai andando a casa?» «Sì, sono sfinito. Stasera dovevo vedere Daniela, ma la chiamerò e le dirò che non se ne fa niente, non sono in grado di affrontare una serata romantica, finirei per addormentarmi sul divano, magari mentre mi bacia sul collo, facendo la figura del coglione, meglio rimandare!» «Fai come vuoi, certo che se ci tieni a quella donna, dovresti trascurarla un po’ meno. Il tuo lavoro viene sempre prima di tutto, questa è una cosa che alle donne non piace molto!» «Lo so meglio di te, ho perso una moglie per questo, ma se una donna mi vuole stare accanto mi deve prendere per quello che sono, con tutti i miei pregi e i miei difetti. Ora me ne vado, ci vediamo domani.»

Roberto lasciò il commissariato alle venti, ma per tutta la sera non fece che pensare a quel dannato caso così intrigato che lo stava facendo impazzire. Sentiva di essere vicino alla soluzione, mancavano solo gli ultimi decisivi tasselli.

Riccardo era molto nervoso. Lo psichiatra che l’aveva visitato gli aveva fatto un sacco di domande e spesso lo aveva messo in difficoltà. Era come se quell’uomo gli scavasse dentro o, peggio ancora, che leggesse i suoi pensieri. Si era trattenuto nella sua stanza per quasi due ore, lasciandolo sfinito. E, come se non bastasse, quella donna, Anna, non lo lasciava in pace, era rimasta per tutto il giorno in ospedale e appena i medici glielo consentivano entrava nella sua stanza riempiendogli la testa con il racconto della storia del loro amore. Anna era una bella donna, in altre circostanze avrebbe approfittato dell’occasione, ma non era il momento per pensare alle donne, a parte la sacerdotessa che era sempre nei suoi pensieri. «Simone, amore mio, vedrai che con l’aiuto dello psichiatra e i miei racconti, riuscirai a ricordare tutto. Sono sicura che sarà così. Stavo pensando che forse vedere le tue figlie potrebbe aiutarti, che ne dici? Se ti va chiamo Valentina e le chiedo di portarle. So che tua moglie mi odia, ma per il bene delle bambine è possibile che io riesca a convincerla. Quando ti dimetteranno ti accompagnerò all’agenzia dove lavori, rivedere tutti i tuoi colleghi potrebbe aiutarti.» Riccardo non ascoltava neanche più i discorsi di Anna, voleva solo che se ne andasse e lo lasciasse in pace. «Simone, hai sentito quello che ti ho detto?» «Ascolta, Anna, non ho niente contro di te e so che stai cercando solo di aiutarmi, ma io sono stanco, ho la testa che mi scoppia e ho tanto bisogno di riposare. Ti dispiacerebbe se ne riparlassimo domani?» «Certo, amore, scusami. Tu stai male e io non faccio che parlare! Ora me ne vado, tornerò domattina, sperando che la notte ti aiuti a ricordare qualche particolare della tua vita.» Anna si avvicinò a Riccardo e lo baciò a lungo sulla bocca. L’uomo rispose al bacio, sperando che poi la donna se ne andasse. Anna lo baciò anche sul collo,

sulla fronte e sui palmi delle mani poi lo guardò per un lungo istante negli occhi, con una strana espressione. «C’è qualcosa che non va? Perché mi guardi così?» «Niente, Simone, non ti preoccupare, sono solo in ansia per te. Ora vado, ci vediamo domattina. Riposati e fatti dare un analgesico per il mal di testa.» Anna uscì dalla stanza, il cuore le batteva forte nel petto. Si appoggiò contro il muro del corridoio per evitare di crollare al suolo. Quello che aveva appena vissuto l’aveva sconvolta. Che diavolo stava succedendo? Doveva parlare con il commissario Fogli, ma doveva aspettare l’indomani. Ora doveva andare da sua sorella Alessia a riprendere Carlotta. Quando Anna uscì dalla stanza, Riccardo si alzò dal letto, prese alcune monete che la donna le aveva lasciato nel cassetto del comodino e andò a cercare un telefono pubblico. Doveva parlare urgentemente con la sacerdotessa.

CAPITOLO VENTOTTO

Don Nicola non aveva chiuso occhio, quella notte. Si augurava con tutto il cuore che Tiziano fosse stato convincente al commissariato, altrimenti i guai erano solo cominciati, per tutti loro. La notte precedente avrebbe dovuto occuparsi dell’ultima fase del suo piano, ma aveva avuto problemi più urgenti ai quali pensare. All’omicidio del transessuale non era seguita la vendetta del nemico, probabilmente anche loro avevano qualche altro problema da affrontare. Era preoccupato per Simone, temeva che fosse già morto e, se non lo era, sicuramente non se la stava ando bene. Era sicuro che l’uomo che era stato ritrovato senza memoria non era Simone, ma suo fratello Riccardo. Nicola sapeva perfettamente la vita che conduceva suo figlio, così come sapeva che a capo della setta nemica c’era “la sacerdotessa”, sua figlia. Erano anni che combatteva contro di lei, ricordava ancora con orrore il loro incontro, avvenuto una ventina di anni prima. L’odio che aveva visto nei suoi occhi l’aveva agghiacciato, lei gli aveva giurato vendetta, assicurandogli che avrebbe coinvolto anche Riccardo. “I tuoi figli saranno il tuo incubo, saremo noi a fartela pagare per tutto il male che hai fatto a noi e a nostra madre. E pagherà anche Simone, il tuo figlio prediletto. Lui ha avuto una vita facile e felice, a differenza di noi, ma a te non importa nulla, continui a vivere la tua squallida esistenza senza curarti del dolore che hai seminato. Per non parlare di quel bastardo che ti sei preso in casa! Un trovatello, figlio di chissà chi, ma meglio lui di me e Riccardo, non è vero? Sentirai parlare di noi, questo te lo giuro su Satana, semineremo il panico in città, il tempo di organizzarmi e vedrai cosa sarò capace di fare!” gli aveva urlato in faccia. Le parole di sua figlia gli rimbombavano ancora nel cervello, lo tormentavano ogni giorno e ogni notte, nel corso degli anni aveva dovuto spesso rispondere alle provocazioni di sua figlia, fondando la sua setta, nata proprio per combattere il male. Sua figlia aveva mantenuto la parola, la sua vendetta era cominciata subito, aveva fatto delle cose orribili. Poi era arrivato quel sogno, qualche mese prima. Dio in persona gli aveva parlato, gli aveva mostrato quei simboli geomantici, gli aveva ordinato di dare un esempio a sua figlia e a tutti i seguaci del maligno. Gli aveva spiegato quello che doveva fare, chi doveva punire e come. Lui aveva messo al corrente dell’accaduto i suoi uomini più fedeli, a cominciare da Tiziano e il piano era scattato. Anche il luogo dove quei simboli dovevano essere impressi era stato scelto da Dio e quel luogo era diventato sacro, per loro. Sua figlia lo sapeva,

tanto che stava progettando di impossessarsene. Non poteva permetterlo, quel luogo era troppo importante e poi Simone lo amava tantissimo. Era riuscito a instaurare un rapporto di grande fiducia e amicizia con lui, era il suo padre spirituale. Era a lui che Simone si rivolgeva quando aveva un problema, era così da quando era bambino. I suoi genitori adottivi erano suoi grandi amici, era stato lui stesso ad affidargli Simone e loro, in cambio, gli permettevano di vederlo e di seguirlo nella sua crescita, anche se il ragazzo non aveva idea che lui fosse il suo padre naturale. Era stato Nicola a chiedere a Simone di imprimere quei simboli nel rifugio sotterraneo. Gli aveva spiegato di aver fatto un sogno e che era stato Dio a chiederglielo. Gli aveva anche chiesto le chiavi di accesso al sotterraneo e Simone non gliele aveva negate. Don Nicola non aveva aggiunto altro, Simone non sapeva niente di sette, di rivalità con il maligno, non sapeva neanche di avere un fratello e una sorella. Però aveva fatto quello che Nicola gli aveva chiesto, si fidava ciecamente di lui, era credente e questo era bastato a convincerlo a fare quello che aveva fatto. Nicola sapeva tutto di Anna, l’amante di Simone, aveva visto la disperazione negli occhi di suo figlio, tormentato e combattuto tra l’amore per le sue figlie e quello per la donna della sua vita. Aveva cercato di aiutarlo come poteva, consigliandogli vivamente di lasciare Valentina e di vivere la sua storia d’amore con Anna, una brava ragazza che a lui piaceva tanto. Erano le otto, doveva muoversi. Si alzò a fatica dal letto, si vestì velocemente e uscì dalla sua stanza. Aveva urgenza di parlare con don Paolo e con Tiziano. Probabilmente la polizia sarebbe tornata, dovevano farsi trovare pronti.

Non erano ancora le otto, Anna aveva lasciato Carlotta all’asilo e si stava dirigendo al commissariato. Doveva parlare urgentemente con il commissario, era ancora sconvolta per la scoperta del giorno precedente. Aveva ato tutta la notte a pensarci, non riusciva a capire cosa stesse succedendo, sicuramente niente di buono. Era ferma al semaforo ad aspettare con impazienza che scattasse il verde, quando una moto di grossa cilindrata la affiancò. Lei, attirata dal rombo del motore alla sua sinistra, si voltò. Vide immediatamente l’arma puntata contro di lei. Fu un attimo, una frazione di secondo appena. Schiacciò la frizione, pigiò sull’acceleratore e partì con uno stridio di gomme. Sentì il vetro del finestrino infrangersi e il sibilo di una pallottola nell’orecchio. Perse il controllo dell’auto e andò a schiantarsi con un rumore assordante di vetri rotti e lamiere contro un palo della luce. Per Anna tutto si fece buio.

Roberto era pronto per tornare al monastero di Sacro Cuore, doveva assolutamente parlare con don Nicola. Quell’uomo sapeva molto di più di quanto gli avesse dato a intendere il giorno precedente e, con le buone o con le cattive, l’avrebbe convinto a parlare. Marco entrò come un fulmine nel suo ufficio. «Roby! Ho appena ricevuto una telefonata!» «Che telefonata?» «Anna Brunelli, ha appena subito un attentato! » Roberto balzò dalla sedia con uno scatto degno di un atleta. «Cazzo, un attentato? Quando? Dove?» «A meno di due chilometri dal commissariato, in Via Sacchi, circa mezz’ora fa. Una moto di grossa cilindrata l’ha affiancata e l’uomo alla guida ha cominciato a sparare. Lei ha cercato di fuggire ed è andata a schiantarsi contro un palo.» «Come sta?» «L’ambulanza l’ha appena portata all’ospedale Mauriziano, pare sia molto grave. Una pattuglia di carabinieri è già sul posto.» «Bene, vai in ospedale, parla con i medici e cerca di capire quali sono le sue condizioni e, se è possibile, parla con lei. Magari ha visto in faccia chi le ha sparato.» «Ci vado subito, appena ho notizie ti chiamo.» «D’accordo, chiamami al cellulare, io sto per uscire. Voglio provare a parlare ancora con don Nicola, ho l’impressione che ci sia lui al centro di tutta questa faccenda. Bea è arrivata?» «Sì, l’ho incrociata poco fa nel corridoio. È arrivato anche Matteo.» «Trovali e falli venire subito nel mio ufficio, poi vai in ospedale.» Marco uscì dall’ufficio del commissario e dopo pochi minuti entrarono Beatrice

e Matteo. «Buongiorno, ragazzi, ho bisogno che andiate subito in Via Sacchi, sul luogo dell’attentato avvenuto circa mezz’ora fa ai danni di Anna Brunelli. Interrogate tutti i testimoni, a quest’ora Via Sacchi è molto trafficata, è impossibile che nessuno abbia visto niente. Voglio conoscere la marca e il modello della moto dell’attentatore e le sue caratteristiche fisiche. Probabilmente indossava un casco, ma almeno vorrei capire se era alto o basso, magro o robusto, insomma tutto quello che potete scoprire potrà esserci di aiuto.» «Andiamo subito, capo» rispose Beatrice. Rimasto solo, Roberto parlò con alcuni agenti, raccomandandosi di avvisarlo se ci fossero state novità sul caso che stavano seguendo, quindi uscì dal commissariato, salì su una volante e si apprestò a raggiungere il monastero di Sacro Cuore.

Marco era giunto all’ospedale Mauriziano. Parlò con un medico del Pronto Soccorso e venne a sapere che Anna si trovava nel reparto di radiologia per effettuare una TAC. Lo schianto della sua auto contro il palo le aveva provocato danni piuttosto seri, aveva un brutto trauma cranico e toracico e inoltre una pallottola le aveva traato la spalla sinistra da parte a parte. L’esame serviva a stabilire l’entità dei danni subiti, poi probabilmente sarebbe stata trasferita in sala operatoria. La donna non era cosciente, quindi non poteva interrogarla. Si trovava vicino alla macchinetta del caffè quando vide arrivare, correndo, Alessia Brunelli. La fermò e le raccontò quanto aveva appena appreso dal medico. «Dio mio, Anna! Ma come è potuto succedere? È una brava ragazza, avrà fatto i suoi errori, ma non meritava una cosa del genere!» disse tra i singhiozzi. Marco la abbracciò, aveva capito che la donna aveva bisogno di conforto. «Sua sorella è una donna giovane e forte, vedrà che se la caverà.» «Sapete chi è stato?» «Non ancora, stiamo indagando.»

«Posso vederla?» «Per il momento no, come le ho detto è in radiologia. Stia tranquilla, i medici si stanno prendendo cura di lei e un paio di carabinieri piantonano il reparto, non corre alcun pericolo. Lei come ha saputo dell’incidente?» «Mi hanno avvisato i vigili urbani, Anna aveva con sé i documenti e il cellulare, rintracciarmi è stato facile. Ho avvisato anche Andrea, il marito di Anna. I due, come ben saprà, sono in crisi in questo periodo, ma Andrea mi è sembrato sconvolto, dovrebbe arrivare da un momento all’altro.» «Bene, appena arriverà la lascerò con lui e andrò a parlare con i carabinieri che hanno scortato Anna in ospedale.» arono una decina di minuti, poi Andrea arrivò e corse ad abbracciare Alessia. Marco lo guardava con sospetto, sapeva quello che era successo negli ultimi giorni, quell’uomo doveva essere molto arrabbiato con la moglie, che fosse stato lui a spararle per vendicarsi del tradimento subìto? Si ripromise di interrogarlo più tardi, ora voleva parlare con i carabinieri per conoscere i dettagli sulla dinamica dell’attentato.

Roberto era giunto al monastero, era in sala d’attesa e stava aspettando don Nicola. Il prete non lo fece attendere molto, appariva ancora più stanco del giorno precedente. Lo condusse in uno studio e lo fece accomodare. «Commissario, cosa posso fare per lei?» «Voglio essere chiaro con lei, padre. Il suo racconto di ieri presenta molti punti oscuri e molte lacune. Ci sono cose che non mi ha detto e questo mi porta a pensare che abbia qualcosa da nascondere.» «A cosa si riferisce?» «Andiamo, padre! Non faccia finta di non capire! Le faccio un esempio, perché non dirmi che Tiziano è suo figlio adottivo? C’è qualcosa di male in questo?»

«Lei è venuto qui per chiedermi di Simone e degli altri miei figli, Tiziano non c’entra nulla con quella storia, non vedo perché avrei dovuto raccontarle di lui!» «E perché no? In fondo abbiamo parlato della sua vita e, a quanto pare, Tiziano ne fa parte!» «È piuttosto difficile per me parlarne. Tiziano è stato abbandonato venticinque anni fa davanti al portone del monastero. Era stato sistemato dentro a una cesta, era nudo e riparato solo da una leggera copertina. Faceva molto freddo, quella sera. Sentii bussare al portone, andai ad aprire e lo trovai lì. Lo portai dentro immediatamente, lo scaldai davanti alla stufa e gli misi alcune coperte addosso. Il bambino piangeva, probabilmente aveva fame, non sapevo come prendermi cura di lui. Avrei dovuto andare immediatamente in ospedale, consegnare il bambino e tornare al monastero, come se niente fosse successo. In effetti pensai di farlo, poi però guardai quel visino disperato e indifeso e capii che dovevo essere io a prendermi cura di lui. Chiamai un frate del monastero e gli chiesi di cercare una farmacia aperta per acquistare del latte in polvere, un biberon e dei pannolini. Per quella notte sarebbero bastati, poi l’indomani io stesso mi sarei preoccupato di procurarmi tutto il necessario. Parlai con Suor Lucia, allora responsabile dell’orfanotrofio della Maddalena e le chiesi di aiutarmi a ottenere l’affidamento del bambino. Riuscì a farmi ottenere un affidamento temporaneo, che dopo un anno si trasformò in un’adozione a tutti gli effetti. Da allora Tiziano è diventato mio figlio e ha vissuto sempre qui al monastero.» «Piuttosto strana, come adozione. Non sono un esperto in materia, ma so che è molto difficile ottenere l’affidamento di un minore.» «Non per un religioso, commissario. Nel nostro ambiente abbiamo una certa influenza, non è stato così difficile.» «Credo di aver capito, non fu un procedimento molto regolare.» «Diciamo che fui raccomandato. C’è chi lo fa per ottenere un posto di lavoro, io l’ho fatto per dare una casa, affetto e futuro a un bambino abbandonato. Non mi sento certo in colpa per questo!» «Suppongo che conservi i documenti dell’adozione.» «Certo, li tengo in cassaforte, vuole vederli?»

«Magari un’altra volta, ora c’è un argomento importante del quale voglio discutere con lei e non mi accontenterò di risposte vaghe e imprecise. Stavolta voglio la verità, ne va della vita di molte persone. Voglio sapere tutto sulla vita del fratello e della sorella di Simone.» «Le ho già spiegato che non so nulla di loro!» «È vero, questo è quello che mi ha detto, ma io non ci credo, don Nicola…» «Questo è un problema suo, le ho detto tutto quello che sapevo, non posso aggiungere altro.» Don Nicola doveva resistere a quell’interrogatorio, se gli fosse sfuggita anche solo una parola, sarebbe venuto a galla tutto, l’esistenza delle sette, gli omicidi commessi, Tiziano sarebbe finito in prigione e tutto quello che aveva fatto sarebbe stato inutile. Era preoccupato, quel poliziotto era molto intelligente e astuto, aveva capito perfettamente che c’era qualcosa di strano e aveva il terrore che trovasse il modo di scoprirlo. Era riuscito a ottenere dei falsi documenti di adozione sborsando una cifra enorme, proteggere Tiziano era diventato il suo scopo principale, ma non poteva dimenticarsi di quanto Dio gli aveva ordinato di fare e doveva anche fermare quell’indemoniata di sua figlia, era l’unico in grado di farlo. Occorreva liberarsi di quel poliziotto e poi fare in modo che non trapelasse nulla. Si fidava degli adepti della sua setta, ma non escludeva che qualcuno di loro si fe prendere dal panico e decidesse di parlare. «Commissario, se intende accusarmi di qualcosa, torni con un mandato per un interrogatorio ufficiale e io mi procurerò un avvocato. Per il momento, non ho altro da aggiungere. Anzi, se vuole scusarmi, ho diverse cose delle quali occuparmi questa mattina e mi vedo costretto a salutarla.» «Faccia come crede, don Nicola. Sono sicuro che lei sappia benissimo che fine abbiano fatto i suoi due figli e sono anche sicuro che la storia che mi ha raccontato Tiziano è falsa. È vero, mi mancano le prove, ma le assicuro che farò di tutto per procurarmele. È in atto una vera e propria guerra tra sette, tra il bene e il male e credo che lei sappia benissimo di cosa sto parlando e che faccia parte di tutto questo. La sua espressione non fa che confermarmi che ho fatto centro. Vada pure a fare le sue cose, le assicuro che presto tornerò a farle visita e, quando succederà, non avrà modo di congedarmi tanto facilmente. Mi saluti Tiziano, anche se presto avrò modo di farlo personalmente. Le auguro una buona

giornata.» Don Nicola rimase a guardare il commissario mentre usciva dalla stanza. Sapeva già molto di più di quanto avrebbe dovuto. Doveva riunire tutti i suoi adepti per discutere del problema. Doveva fare in modo che i segreti del monastero del Sacro Cuore rimanessero chiusi tra quelle mura.

CAPITOLO VENTINOVE

Anna era uscita dal reparto di radiologia. Alessia e Marco avevano parlato con i medici, vennero a sapere che le sue condizioni erano peggiorate, una costola le aveva perforato il polmone destro e la stavano portando con urgenza in sala operatoria. Il trauma cranico era meno grave del previsto, la paziente era cosciente, anche se un po’ confusa. Alessia chiese di poterla vedere per qualche minuto, prima che fosse portata in sala operatoria. I medici le diedero il consenso, Marco giurò ad Alessia che le avrebbe permesso di parlare con la sorella senza intervenire, ma sarebbe andato con lei, aveva bisogno di sapere cosa ricordava Anna dell’attentato. I due raggiunsero Anna nel corridoio di fronte alla sala operatoria, era già sistemata sopra a una barella. Aveva una mascherina di ossigeno, che scostò dalla bocca per poter riuscire a parlare. «Anna, tesoro, come ti senti?» chiese Alessia abbracciando la sorella. «Mi ha sparato, quell’uomo con il casco mi ha sparato. Sono grave, vero?» chiese con un filo di voce. «Ti stanno portando in sala operatoria, vedrai che andrà tutto bene.» «Il commissario Fogli è qui in ospedale?» «No, c’è il vice commissario, Marco Del Re.» «Fammi parlare con lui» chiese Anna visibilmente agitata. «Lo farai quando uscirai dalla sala operatoria, ora cerca di stare tranquilla, non devi affaticarti e poi mi hanno concesso solo un paio di minuti.» «Tu non capisci, Alessia, devo parlare con lui, adesso!» Marco, poco distante, aveva sentito tutto e si avvicinò alla barella. «Sono qui, Anna, vuole dirmi qualcosa? Ha forse visto chi le ha sparato?»

«No, ho visto solo un casco nero e quella pistola puntata contro di me, ma non è di questo che devo parlarle.» La voce di Anna diventava sempre più debole e il respiro più affannoso, Marco dovette avvicinarsi a pochi centimetri dal suo viso per riuscire a sentire quello che aveva da dire. «Si tratta di Simone. Quell’uomo ricoverato in ospedale non è lui!» «Cosa sta dicendo, Anna?» «Esattamente quello che ha capito. Nonostante le mie condizioni, sono perfettamente cosciente di quanto le sto dicendo. È vero, apparentemente quell’uomo è identico, ma io lo conosco bene e posso giurarle su mia figlia che quell’uomo non è Simone Fermi! Simone ha un neo sul palmo della mano destra, quell’uomo non ce l’ha. I denti sono leggermente più piccoli, le sue labbra sono diverse, appena l’ho baciato ho capito che non si trattava di lui. E poi circa un anno fa Simone ha subìto un piccolo intervento alla base del collo, per eliminare un grosso lipoma. Gli è rimasta una piccola cicatrice, poco visibile, ma io la conosco molto bene. Quell’uomo non ha nessuna cicatrice! La prego, Marco, faccia qualcosa, dovete ritrovare Simone, sono sicura che si trova in grave pericolo! La storia della perdita di memoria è falsa, inventata per nascondere la vera identità di quell’uomo.» Un medico si avvicinò e chiese a Marco di allontanarsi, la paziente doveva essere portata immediatamente in sala operatoria, era tutto pronto per l’intervento. Alessia si avvicinò per baciare la sorella e per rassicurarla, lei si voltò ancora verso Marco e lo guardò con uno sguardo di supplica che strappava il cuore. Marco le fece un cenno di assenso e le mostrò il pollice rivolto verso l’alto. In questo modo le aveva fatto una promessa e l’avrebbe mantenuta. «Cosa le ha detto? Parlava talmente piano che non sono riuscita a capire una sola parola» chiese Alessia a Marco. «Una cosa molto inquietante, ma non posso parlarne per il momento. Lei rimane qui in ospedale?» «Certo, non mi muovo da qui. Andrea tornerà tra poco, è andato a parlare con sua sorella, chiedendole se può prendersi cura di Carlotta per qualche giorno. Nonostante tutto, sembra voglia stare vicino a sua moglie.»

«Sa cosa dico spesso? Che se noi esseri umani pensassimo un po’ più spesso alla morte, saremmo senza dubbio più buoni e più comprensivi. E poi a volte le tragedie avvicinano le persone. Ora devo andare in commissariato, ci sono due carabinieri che tengono d’occhio sua sorella, darò disposizioni affinché arrivino anche un paio dei nostri agenti. Chi ha tentato di ucciderla potrebbe riprovarci, non voglio correre rischi. Se avesse bisogno di qualcosa, non esiti a contattarmi, le lascio il mio biglietto da visita. Appena Anna sarà fuori dalla sala operatoria, mi dia notizie.» «Lo farò sicuramente. Che diavolo sta succedendo? Perché qualcuno voleva mia sorella morta? La vedo preoccupato, è grave quello che le ha confidato Anna poco fa?» «Sì, lo è. Ora mi scusi, non posso rispondere alle sue domande, devo proprio andare.» Marco salutò Alessia e si precipitò fuori dall’ospedale. Doveva parlare immediatamente con Roberto.

Erano le undici e trenta, quando Marco raggiunse Roberto al commissariato. «Ah, eccoti qui, Marco. Sono incazzato nero, non sono riuscito a estorcere una sola parola a quel prete! Eppure lui è la chiave di tutto, ne sono certo.» «Ascolta, Roby…» «Lui e i suoi tre figli. Pensaci un attimo, Simone è stato rapito, quei simboli geomantici sono stati trovati impressi sui muri del suo principale luogo di lavoro. Tiziano, che veniamo a scoprire essere il figlio adottivo di don Nicola, viene notato da diversi testimoni sul luogo dell’ultimo delitto, lui stesso ammette di esserci stato, insomma, quel monastero nasconde un grosso segreto che dobbiamo svelare al più presto, visto che quell’uomo non si decide a collaborare.» «Volevo dirti che…» «Senza considerare l’attentato a Anna Brunelli. Lei era l’amante di Simone, c’è sicuramente un collegamento. O forse tu credi al caso?»

«Ecco, proprio a proposito di Anna Brunelli…» «Sono sicuro che più di una persona sappia quello che sta succedendo, divento pazzo al pensiero di non riuscire a trovare le parole giuste per convincere chi sa a parlare!» «Cazzo, Roby, c’è una cosa importante che devo dirti, continui a interrompermi!» «Scusa, Marco, te l’ho detto, sono incazzato e quando sono così perdo anche il senso delle buone maniere. Cos’è che devi dirmi?» «Ho parlato con Anna Brunelli, poco fa in ospedale.» «Fantastico, vuol dire che sta meglio! Finalmente una buona notizia!» «Ora è in sala operatoria, ha un polmone perforato da una costola, le sue condizioni sono critiche. Ho potuto parlare con lei soltanto per pochi minuti, a fatica è riuscita a raccontarmi qualcosa di veramente inquietante.» Marco riferì a Roberto, parola per parola, quanto le aveva confidato Anna. «Il gemello di Simone! Quell’uomo ricoverato in ospedale potrebbe essere l’altro figlio maschio di don Nicola! Andiamo subito alla scientifica, quando hanno ispezionato la casa dei Fermi, hanno sicuramente ricavato il DNA di Simone. Faremo un confronto con quello dell’uomo ricoverato alle Molinette e potremo verificare subito se si tratta della stessa persona oppure se si tratta di due fratelli gemelli!» I due corsero letteralmente al reparto scientifica e parlarono con Alberto, il responsabile del settore, spiegandogli la situazione. «Se si tratta di due fratelli uguali dal punto di vista fisico, siamo di fronte a gemelli monozigoti. Il DNA in questi casi non è perfettamente identico, la sequenza genetica è la stessa, ma funziona in modo diverso. A fare la differenza sono infatti i meccanismi che regolano l’attività del DNA: i cosiddetti fattori epigenetici. Questi fattori, fortemente influenzati dall’ambiente, producono piccole diversità che a volte si possono notare nell’aspetto o nel carattere dei gemelli identici. Hanno delle differenze minime, che si formano in fase embrionale, ma che non vengono riscontrate negli esami genetici standard. Per

scoprire i tratti che distinguerebbero i due gemelli servirebbero esami molto più complessi e decisamente più costosi che soltanto pochissimi laboratori in tutta Italia sono in grado di eseguire. Ci vuole un po’ di tempo, ragazzi.» «Noi non abbiamo tempo, Alberto! È possibile che non ci sia un modo per appurare che quell’uomo non sia veramente Simone Fermi?» «Ci possiamo provare, certo. Il DNA di Simone Fermi ce l’abbiamo già, procuratemi quello dell’uomo ricoverato alle Molinette e facciamo un tentativo. Magari siamo fortunati e troveremo subito qualche minima differenza. Vale la pena di tentare, senza dubbio.» «Grazie, Alberto, l’uomo ricoverato ha subìto diversi prelievi di sangue in questi giorni, farò subito una richiesta formale all’ospedale per avere il campione che ti occorre. Te lo farò recapitare il prima possibile.» «Perfetto, appena lo riceverò darò a quell’esame la priorità assoluta. Già che sei qua, volevo informarti sulle ultime novità. Le impronte rilevate sullo scontrino ritrovato nella toilette del locale a luci rosse dove Denise è stata assassinata, sono parziali, ma sono compatibili con quelle di Tiziano Roncati.» «Non so perché, ma ne ero certo. Tiziano Roncati… Marco, se Tiziano è stato regolarmente adottato da don Nicola, perché non gli ha dato il suo cognome?» «Già, perché? Forse perché non l’ha mai adottato? E, se così fosse, chi è quel ragazzo e da dove viene?» «Dobbiamo tornare al monastero e chiedere a don Nicola di mostrarci i documenti dell’adozione. E stavolta ci andrò con un mandato, così eviteremo altre perdite di tempo. Alberto, grazie di tutto, ti farò avere il campione che ti serve al più presto.» Roberto e Marco lasciarono il reparto della scientifica e tornarono nei loro uffici. Per prima cosa, dovevano ottenere un campione utile per l’esame del DNA dell’uomo ricoverato alle Molinette, poi dovevano mandare un paio di agenti all’ospedale Mauriziano per piantonare la stanza di Anna Brunelli e dovevano procurarsi un mandato di perquisizione per il Monastero del Sacro Cuore. Si misero immediatamente al lavoro.

«Sei un buono a nulla, Gianluca! Come cazzo ho fatto a fidarmi di te? Dovevi ammazzare quella donna, hai fatto fuori decine di persone nella tua vita, possibile che proprio questa volta, che era così importante, tu abbia fallito? La pagherai cara per questo, appena tutta questa storia sarà finita mi occuperò personalmente di te!» «Sacerdotessa, perdonami, ti supplico! Era pieno giorno, la via era molto trafficata, ho fatto quello che potevo! Anna Brunelli comunque è grave, non è detto che se la cavi!» Lo schiaffo partì violento e inaspettato. «Ma in che mondo vivi? Potrebbe aver parlato, l’ospedale era pieno di poliziotti! E poi c’erano il marito e la sorella, basta che abbia detto due parole e siamo fottuti tutti quanti! Sta andando tutto male. Il virus non funziona, Riccardo non se la sta cavando come speravo, il nostro piano sta fallendo miseramente e lo sai perché? Perché sono circondata da incapaci, ecco perché! Vattene, lasciami sola. Ho cose importanti delle quali occuparmi. Non permetterò a don Nicola di vincere, lo distruggerò, lui e tutti i suoi seguaci! Dovrà rimpiangere di essere nato!» Gianluca non conosceva i dettagli della vita della sacerdotessa, sapeva solo che nutriva un odio smisurato nei confronti di don Nicola. «Cosa ci fai ancora qui? Ti ho detto di toglierti dai coglioni!» Gianluca non se lo fece ripetere e lasciò il tempio. A distanza, sentì distintamente le urla quasi disumane della sacerdotessa.

Don Nicola era in riunione con tutti i suoi adepti. Aveva appena ricevuto una telefonata dal commissariato, l’avevano avvisato che nel pomeriggio il commissario Fogli sarebbe ato al Monastero per una perquisizione. I documenti falsi dell’adozione di Tiziano erano al sicuro in cassaforte. La cifra che aveva speso per averli, gli garantiva una discreta tranquillità. Non si sarebbero accorti della contraffazione. Il problema grosso era Tiziano. Il ragazzo era visibilmente agitato, camminava avanti e indietro per la stanza, sudava copiosamente e tremava.

«Tiziano, devi calmarti! Più il commissario ti vedrà agitato e più capirà che c’è qualcosa che non va! Ci sono io qui con te, lascia parlare me e vedrai che andrà tutto bene. I documenti della tua adozione sono pronti, quanto al tuo racconto dell’altra notte, non devi fare altro che confermare la tua versione iniziale. Non hanno prove, altrimenti ti avrebbero già iscritto nel registro degli indagati. In fondo eri in quel locale, così come altre centinaia di persone. Il fatto che tu sia un prete può giustificare pienamente la tua agitazione di quella sera. Tornando al nostro piano, purtroppo non ho potuto portarlo a termine, ho avuto cose ben più gravi e urgenti delle quali occuparmi, come voi tutti sapete. La polizia comincia ad avere molti sospetti su di noi, dobbiamo tenere le bocche cucite e mantenere la calma. Ho bisogno di essere sicuro che ognuno di voi mantenga fede ai nostri patti. Di quello che succede nella nostra setta non deve sapere niente nessuno, nemmeno i vostri parenti, posso stare tranquillo?» Tutti i membri della setta rassicurarono don Nicola circa la loro fedeltà alla sua persona e ai loro ideali. «La polizia potrebbe decidere di interrogare qualcuno di voi, dovete essere all’altezza del ruolo che ricoprite all’interno della setta. In nome di Dio dovete difendere la nostra causa, conto su di voi. Informatevi sulle condizioni di Anna Brunelli e tenetemi aggiornato sull’uomo ricoverato alle Molinette che dice di essere Simone Fermi. So per certo che non si tratta di lui, Anna deve averlo capito ed è diventata un pericolo da eliminare. Grazie a Dio l’attentato non è riuscito, è ancora viva e mi auguro di cuore che se la possa cavare.» La discussione tra gli uomini durò ancora diversi minuti, fin quando un prete avvisò don Nicola dell’arrivo del commissario Roberto Fogli.

CAPITOLO TRENTA

Riccardo non aveva avuto notizie di Anna Brunelli e questo poteva significare una sola cosa, la sacerdotessa si era occupata di lei. Ora era molto più tranquillo, l’indomani l’avrebbero dimesso dall’ospedale così avrebbe potuto cominciare a vivere la sua vita come Simone Fermi. Per prima cosa sarebbe tornato in agenzia e avrebbe cominciato a lavorare, negli ultimi due giorni aveva utilizzato un PC che gli aveva fornito Anna e si era documentato sulla storia di Torino e su tutti i suoi tesori architettonici. Doveva recitare la parte di un uomo che aveva perso la memoria, quindi era plausibile che studiasse per riappropriarsi di tutte le sue conoscenze in materia. Naturalmente non sarebbe tornato a casa da Valentina, ormai la donna sapeva del suo tradimento, sicuramente avrebbe accettato di buon grado che lui si sistemasse in qualche piccola pensione, almeno provvisoriamente. Rimanere troppo tempo con persone che conoscevano bene Simone lo metteva a disagio, Anna Brunelli si era accorta che qualcosa non andava, avrebbe potuto accorgersene chiunque altro. Avevano curato ogni dettaglio, purtroppo non era stato sufficiente. Per quanto la somiglianza tra lui e Simone fosse impressionante, probabilmente un occhio attento era in grado di accorgersi di qualche piccola differenza. Avrebbe avuto bisogno di più tempo da are con Simone, purtroppo non era stato possibile e ora doveva arrangiarsi come meglio poteva. Stava consultando un sito di archeologia, quando bussarono alla porta. Il vice commissario Marco Del Re entrò nella sua stanza, accompagnato da Stefano. «Buongiorno, Simone. Come si sente oggi?» «Benissimo, direi. Sto studiando, ho intenzione di tornare presto al lavoro e, nonostante io abbia perso la memoria, le mie conoscenze artistiche sono rimaste praticamente intatte. Non vedo l’ora di riappropriarmi della mia vita. Domani sarò dimesso, cercherò una pensione dove sistemarmi provvisoriamente e poi farò un salto in agenzia. Non ricordo i miei colleghi, ma sarò felice di conoscerli e di collaborare con loro.» «A proposito di colleghi, qui con me c’è Stefano Ubaldi, siete colleghi da diversi anni, il suo volto non le dice niente?»

«Veramente no, mi dispiace» rispose Riccardo dando la mano a Stefano. «Ciao, Simone, sono contento di rivederti sano e salvo. Ti ho portato una scatola di gianduiotti, non so se te lo ricordi, ma ne vai letteralmente matto!» «Sei stato davvero gentile, grazie. Se i miei colleghi sono tutti come te, mi viene ancora di più la voglia di tornare in agenzia. Suppongo che nell’ultimo periodo abbiate lavorato di più, per sostituirmi.» «Veramente in questo periodo sono stato occupato in altre faccende, comunque Alessia se l’è cavata alla grande.» «Alessia è la direttrice dell’agenzia, giusto?» «Già, la nostra “capa” come amiamo chiamarla noi tutti.» Riccardo aprì la scatola di cioccolatini, li offrì ai presenti, ne scartò uno e lo mangiò con gusto. Stefano lo osservava attentamente, quasi si aspettasse che succedesse qualcosa. Marco e Stefano si trattennero per una buona mezz’ora a parlare con Riccardo, poi si congedarono e uscirono dalla stanza dell’uomo. «Marco, quell’uomo non è Simone Fermi» disse sicuro Stefano. «Ne sei certo?» «Più che certo, poco fa ho avuto la prova che aspettavo.» «Potresti svelarmi l’arcano? Mi hai chiesto tu di venire in ospedale, dicendoti convinto di poter scoprire con certezza se l’uomo ricoverato qui è davvero Simone Fermi oppure no. Mi hai detto di avere un piano, ma ancora non mi hai spiegato cosa avevi in mente.» «Semplice, Marco. Simone Fermi è allergico alle nocciole, se mangiasse un gianduiotto si sentirebbe male nel giro di pochissimi secondi. La memoria si può perdere, un’allergia credo proprio di no.» «Accidenti, sei stato geniale! Ecco perché osservavi così attentamente

quell’uomo!» «Certo, ero pronto a chiamare subito un medico, nel caso avesse avuto qualche problema. In fondo siamo in un ospedale, non ha corso nessun rischio, se fosse successo qualcosa sarebbe bastato praticargli un’iniezione di cortisone e adrenalina e sarebbe tornato come nuovo in pochi minuti.» «Bene, ora abbiamo un elemento in più per essere certi che l’uomo ricoverato in quella stanza non è Simone Fermi, ma probabilmente il suo gemello. Ora non ci resta che scoprire dov’è Simone e perché il fratello ha preso il suo posto. Un vero rompicapo! Torniamo in commissariato, aspettiamo che Roberto torni dal monastero del Sacro Cuore e poi mettiamo insieme tutti gli elementi raccolti oggi. Con un pizzico di fortuna e tanto lavoro, sono sicuro che il caso sarà presto risolto.»

Tiziano era chiuso nella sua stanza, tremava e sudava allo stesso tempo. Aveva paura, una paura così grande da impedirgli di mangiare e di dormire. Il volto di Denise continuava a tormentarlo, lo vedeva ovunque, quando camminava per i corridoi del monastero, quando usciva per strada per le sue commissioni di ogni giorno, ogni volta che provava a chiudere gli occhi per riposare. Rivedeva tutto quel sangue, gli occhi terrorizzati di quella poveretta, ricordava il suo ultimo respiro. E poi ripensava al momento in cui, dopo l’omicidio, era uscito dal locale. Aveva cercato di mostrarsi tranquillo e indifferente, in realtà aveva il cuore che batteva a mille, le mani ancora guantate nascoste dentro alle tasche dei pantaloni neri, piene di sangue, le gambe gli tremavano come foglie al vento. Come aveva potuto togliere la vita a un essere umano? Suo padre gli aveva spiegato che era stato Dio a ordinarglielo, che era una cosa giusta e lui si era lasciato convincere. Si rese conto solo quel giorno di aver ato tutta la vita a seguire le parole del padre adottivo, senza mai metterle in discussione, senza mai disobbedire. Ora sentiva dentro di sé un grande desiderio di ribellione, non voleva essere un assassino e non voleva nemmeno essere un prete. Aveva voglia di vivere alla luce del sole, voleva conoscere altri posti, altre persone, era stanco di quella vita. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di liberarsi la coscienza da quel macigno che lo stava distruggendo. Don Nicola era in una stanza al piano inferiore con il commissario Fermi. Non si sarebbe accorto della sua assenza. Scese al piano terreno, prese la bicicletta nel cortile e si allontanò dal monastero.

Roberto stava visionando i documenti relativi all’adozione di Tiziano. Sembravano in regola, non era un esperto in materia, ma all’apparenza era tutto a posto. «Don Nicola, perché non ha dato il suo cognome a Tiziano?» «Roncati era il cognome di mia madre, morì l’anno precedente all’adozione, è stato una specie di dono alla sua memoria. In fondo io sono un prete, non trovavo giusto dare a un bambino il mio cognome.» «Come prete si è dato parecchio da fare, comunque. Quattro figli non sono pochi…» «Tiziano è un figlio adottivo, quanto agli altri tre, conosce già tutta la storia. Un errore di gioventù, ho ato tutta la vita rammaricandomi per aver commesso quel gesto, Dio mi ha perdonato, è arrivato il momento che io perdoni me stesso.» «Mi scusi un attimo» disse Roberto rispondendo al suo cellulare. «Pronto? Ah, Marco, sei tu. Dimmi…» Marco raccontò a Roberto quanto era appena successo all’ospedale Molinette. «D’accordo, Marco, ti ringrazio per avermi informato. Io sono ancora al monastero, ci vediamo più tardi al commissariato.» «Qualche novità, commissario?» chiese don Nicola. «Non credo di essere tenuto a informarla circa le novità relative alle nostre indagini, però in effetti è successa una cosa molto importante poco fa.» «Cioè?» «L’uomo ricoverato alle Molinette non è Simone Fermi, ne abbiamo praticamente la certezza. Quindi, mi viene spontaneo pensare che si tratti del gemello. Ora, mi chiedo che fine ha fatto Simone e perché il fratello ha preso il suo posto. Lei forse potrebbe aiutarmi a capire, se solo si decidesse a parlare! Mi

ha spesso detto di tenere molto a suo figlio Simone, forse è arrivato il momento di dimostrarlo. Credo si trovi in grave pericolo, potrebbe essere già morto, o forse siamo ancora in tempo per salvarlo. Mi sveli l’identità del fratello gemello, mi spieghi quello che sta succedendo, prima che sia troppo tardi!» Don Nicola era evidentemente scosso, ma non stupito per quanto aveva appreso, come se già sapesse che l’uomo che si spacciava per Simone Fermi era in realtà il fratello gemello. Se ne stava seduto su una sedia, con la testa bassa e le mani intrecciate una all’altra, tormentato da chissà quali pensieri, in silenzio. «La sua reticenza non fa che confermare i miei sospetti. Vuole sapere qual è la mia teoria? In questo monastero sono nascosti segreti scottanti, talmente grossi da non poter essere rivelati. Siamo certi dell’esistenza di due sette, una dalla parte di Dio, l’altra dalla parte di Satana. Lei è sicuramente a capo della setta “del bene” e, quindi, è il mandante degli omicidi commessi negli ultimi giorni, quelli legati a quei simboli geomantici ritrovati sui muri del rifugio antiaereo. Una punizione esemplare per i peccatori, ma Dio non ammette queste cose, Dio è buono e non si può diventare assassini a suo nome!» «Cosa ne sa lei di Dio e di quello che vuole?» urlò don Nicola. «Cosa ne sa del male che imperversa nel mondo, di quanto alcune persone possano essere malvagie, crudeli e senza cuore?» «Molto di più di quanto lei non pensi, grazie al mestiere che faccio. Ogni giorno vengo a contatto con la violenza, la crudeltà, l’ingiustizia e la sopraffazione. Ho visto bambini violentati, donne massacrate, uomini torturati con tecniche ai limiti dell’umana immaginazione, scene aberranti che ti si imprimono nel cervello al punto da non dimenticartele mai più, eppure ho sempre creduto nella giustizia umana, quella divina arriverà a tempo debito. Nessuno di noi può sostituirsi a Dio, nessuno ha il diritto di togliere la vita a un altro essere umano, nessuno può farsi giustizia da sé, tantomeno può farlo in nome di Dio! Possibile che lei non lo capisca?» «Io ascolto Dio, è lui che mi guida e che mi dice quello che devo fare. Il demonio è tra di noi, più vicino di quanto lei non pensi, qualcuno deve pur fermarlo, è quello che sto cercando di fare! È lei che non capisce, commissario! Vuole accusarmi di qualcosa? Bene, intanto si procuri le prove e poi si ricordi una cosa. Se nessuno farà qualcosa, succederanno delle cose terribili, io sono l’unico in grado di fermarla!»

«Fermarla? Di chi sta parlando?» «Se ne vada, commissario, la prego. Non si metta in mezzo a questioni più grandi di lei. Si impegni a combattere la criminalità, per questioni religiose lasci che se ne occupi chi ha i mezzi e le conoscenze per farlo!» «Quindi, per lei, ammazzare tre persone non è criminalità? Non è un reato punibile per la legge? E perché mai? Perché si trattava di una prostituta, di un assassino e di un transessuale? Persone indegne di stare al mondo? Persone che meritavano la fine che hanno fatto? Quella ragazza, prima di essere assassinata, è stata violentata e torturata atrocemente. Tutta questa crudeltà e questa violenza commessa in nome di Dio? Ma dove sta il “bene” nella sua setta?» «Lei vaneggia, non so niente degli omicidi di cui parla.» «Certo, lei segue le leggi di Dio, che non ammettono certo l’omicidio, non è così? Chi c’è a capo dell’altra setta, don Nicola? Chi è “lei”? Me lo dica, cazzo, fermi questa catena di violenza inaudita! Vuole che le mostri le foto del cadavere di Lucia Lorenzi? Quella povera donna è stata violentata, torturata per ore, alla fine il cuore le è stato strappato dal petto, mentre ancora era in vita! E che dire di don Pietro Salvati? Un uomo buono, che ha ato tutta la sua vita a fare del bene e ad aiutare gli altri, è stato avvelenato come un topo di fogna! Questo non basta a farle capire che è ora di porre fine a questa assurda guerra? Ha permesso che anche suo figlio Tiziano diventasse un assassino, ha macchiato la sua anima con il più atroce dei peccati, perché?» «Tenga Tiziano fuori da questa storia!» «E perché dovrei? Mi ci gioco un anno di stipendio, sulla sua colpevolezza! L’altra notte non si è trovato in quel locale per caso, ci è andato apposta per uccidere Denise, un altro colpo per la setta rivale! E Stefano Ubaldi? È stato lei a ordinare che fosse pestato a sangue e minacciato perché non si immischiasse in faccende che non lo riguardavano, stava studiando il vostro piano diabolico e volevate fermarlo!» «Non so di cosa stia parlando, commissario.» «Certo, lei non capisce! Le faccio una promessa, don Nicola. La prossima volta che metterò piede in questo monastero, porterò con me qualche agente e un paio di manette, che io stesso le stringerò attorno ai polsi. È questione di tempo, lei e

la sua setta avete le ore contate. Satana le sembrerà un angelo, in confronto a come le apparirò io. Avrei voluto parlare anche con Tiziano e con gli ospiti di questo monastero, ma ho capito che sarebbe tempo sprecato. Le ho dato una possibilità di aiutare Simone, lei me l’ha negata. Quanto all’altro suo figlio, mi occuperò personalmente di lui e troverò anche sua figlia, ne stia pur certo!» Roberto non aggiunse altro, uscì dalla stanza sbattendo violentemente la porta dietro di sé.

CAPITOLO TRENTUNO

Roberto, Marco, Beatrice e Matteo erano nell’ufficio del commissario. Erano presenti anche Stefano e Luca, ormai considerati parte integrante del commissariato. Roberto era molto nervoso, i suoi collaboratori se ne erano resi subito conto e badavano a non contraddirlo, sapevano che non era prudente farlo quando si trovava in quel particolare stato d’animo. «In nome di Dio! Ma vi rendete conto? Quelli torturano e ammazzano la gente in nome di Dio, siamo tornati ai tempi dell’inquisizione! Ma che cazzo di mondo di merda è, se non ci si può più fidare neanche dei preti? Dovevate vedere come era convinto di quello che diceva! Lo stronzo violenta le donne, uccide le persone, adotta un figlio per farlo diventare un assassino, ordina di asse almeno tre persone, per quello che sappiamo, e viene a fare la morale a me! Mi ha detto che io non posso capire, che lui è l’unico in grado di fermare il male, anzi, di “fermarla”. Che il capo della setta di Satana sia una donna?» «Se posso permettermi, Roby, io avrei una teoria» disse timidamente Stefano. «Le tue teorie di solito sono una benedizione del cielo, ti ascolto.» «Partiamo dall’inizio. Quarantacinque anni fa circa, don Nicola violenta una ragazzina, Caterina, che rimane incinta. La ragazza partorisce tre gemelli, due maschi e una femmina. Ovviamente non può riconoscerli, è un prete ed è già tanto che sia riuscito a cavarsela e a non essere denunciato. Credo che gli sia costato un bel po’ di soldini. Comunque, decide di seguire almeno uno dei tre gemelli e sceglie il primogenito, Simone. Si occupa personalmente del suo trasferimento all’orfanotrofio della Maddalena e fa in modo che venga adottato da una famiglia fidata, che lui conosce molto bene. Sono convinto che l’abbia frequentato nel corso degli anni, magari Simone non sapeva che si trattasse del padre naturale, ma in qualche modo deve essergli stato vicino. Degli altri due gemelli don Nicola dice di non sapere nulla e nessuno di noi crede a questa versione. Supponiamo che i gemelli rifiutati dal padre abbiano avuto un destino meno felice rispetto a quello di Simone.» «In questo caso» intervenne Roberto, «potrebbero essere cresciuti nutrendo odio

verso il padre e verso il fratello “privilegiato”.» «Esatto e sicuramente conoscono tutta la storia legata alla loro nascita. Il padre è un prete, il modo migliore per colpirlo era proprio la fede.» «Diventare il suo opposto per combatterlo?» «Già, è possibile. Simone è sparito e al suo posto compare il gemello “cattivo”. Il capo della setta pare sia una donna. Trai tu le conclusioni.» «La sorella di Simone sarebbe a capo della setta di Satana? E sta combattendo il padre?» «La mia è solo una teoria, però devi ammettere che non fa una piega.» «Hai ragione, Stefano, potrebbe quadrare tutto. Bea, rimani qui in commissariato con Matteo. Marco e io andiamo a fare due chiacchiere con il finto Simone Fermi. Stefano, sei stato prezioso come sempre. Non credere che io rinunci all’idea di convincerti a entrare nella squadra a pieno titolo, sei troppo in gamba per are la tua vita dentro ai musei!» «Ti ringrazio, Roby, ma il massimo che posso prometterti è un rapporto di collaborazione, questa non è vita per me, sono uno spirito libero, mi piace divertirmi, lo sai!» «D’accordo, ne riparleremo. Ora andiamo, si sta facendo tardi.» Stavano per uscire, quando un agente entrò annunciando la presenza di Tiziano Roncati in sala d’attesa. «Commissario, dice che vuole parlare immediatamente con lei.» «Che aspetti? Fallo entrare, Umberto, sbrigati!» Tiziano entrò dopo pochi secondi, aveva gli occhi gonfi, il viso pallido e un tremore incontrollabile che gli scuoteva tutto il corpo. «Accomodati, Tiziano» gli disse Roberto. «Che ti è successo? Hai un aspetto orribile!»

«Devo parlarle, commissario, a quattr’occhi.» «D’accordo. Ragazzi, aspettate nell’ufficio di Marco, ci vediamo dopo.» I collaboratori del commissario uscirono dalla stanza e Roberto si trovò da solo con Tiziano. «Allora, Tiziano, ora siamo soli tu e io. Di cosa volevi parlarmi?» «Io non volevo, commissario! Sono stato costretto a farlo, mio padre non è un uomo che si può contraddire, è tutta la vita che obbedisco ai suoi ordini e che, in nome di Dio, sono costretto a fare cose che non mi piacciono e alle quali non credo! Quell’uomo mi ha cresciuto, sicuramente mi vuole bene e ha fatto del suo meglio per darmi tutto l’affetto di cui avevo bisogno, ma questa non è la vita che voglio e quello che ho fatto mi disgusta e mi sta avvelenando la vita!» «Cosa, Tiziano? Cos’è che hai fatto?» «La vedo dappertutto, commissario. Ho il suo viso sempre davanti, mi sta ossessionando, farei qualsiasi cosa per scacciare la sua immagine dalla mia mente!» «Tiziano, capisco che tu sia sconvolto, ma aiutami a capire quello che stai cercando di dirmi.» «Sto parlando di Denise, commissario. L’ho uccisa io, con queste mani!» disse mostrando a Roberto due mani tremanti. «È stato don Nicola a ordinarti di farlo?» «Sì, mi ha convinto che fosse la cosa giusta, che quella donna non meritasse di vivere, era stato Dio stesso a ordinarglielo.» «Era la prima volta che facevi una cosa del genere per lui?» «Sì, era una specie di prova, per me. Doveva capire se avevo i coglioni per essere parte integrante della sua setta, “nel nome del Padre”. Evidentemente non è così.» «Perché hai deciso di venire a confessare il delitto commesso?»

«Perché qualcuno deve fermare questa guerra assurda, quante persone devono ancora morire? E in nome di chi? Di Dio? Di Satana? So che mio padre mi odierà per quello che sto facendo e sicuramente non mi perdonerà e non vorrà più vedermi, ma io avevo bisogno di farlo, quello che sta accadendo è assurdo!» «Tu cosa sai di tutta questa storia?» «Più di quanto mio padre non pensi. Nel corso degli anni mi è capitato di ascoltare alcuni stralci delle sue conversazioni con gli adepti della sua setta e non solo. L’ho anche sentito parlare con sua figlia.» «Raccontami quello che sai, forse siamo ancora in tempo per evitare altro spargimento di sangue.» «So che mio padre violentò una ragazza, tantissimi anni fa. Fu un errore, di cui si pentì subito, ma questo errore portò alla nascita di tre gemelli.» «Conosci i loro nomi?» «Soltanto quello dei due maschi, Simone e Riccardo. Di Simone sapete tutto, forse non sapete che veniva spesso al monastero, don Nicola fungeva da padre spirituale, per lui.» «Quindi non sapeva che fosse suo padre naturale?» «No, non lo sapeva, ma voleva molto bene a don Nicola. Anche a lui mio padre raccontava dei suoi sogni, nel corso dei quali Dio in persona gli ordinava di fare determinate cose. Come il sogno di quei simboli geomantici impressi sui muri del rifugio antiaereo.» «Fu Simone a imprimerli?» «Sì, su precisa richiesta di mio padre. Simone non ne capiva i motivi, ma era affascinato dai racconti di don Nicola e acconsentì, pensava che la cosa sarebbe finita lì.» «Invece pochi giorni dopo, Simone sparì improvvisamente.» «Fu rapito dalla setta della sorella, “I serpenti di Satana”.»

«Perché fu rapito?» «Per fare in modo che Riccardo potesse prendere il suo posto. I due sono praticamente identici, probabilmente l’hanno rapito per potergli carpire tutte le informazioni necessarie perché Riccardo potesse sostituirsi a lui senza destare sospetti.» «Qualcosa però deve essere andato storto, infatti Riccardo ha dovuto fingere una perdita di memoria, per poter ricomparire.» «Credo anche io che sia andata così, probabilmente Simone è morto.» «Tu sai perché Riccardo doveva prendere il posto di Simone?» «Per quel rifugio antiaereo. È la base principale della nostra setta, grazie a Simone è da alcuni anni che mio padre e i suoi adepti hanno libero accesso a quei luoghi, specie di notte. I serpenti di Satana sono venuti a saperlo e volevano quel posto, volevano farlo diventare il centro dei loro incontri e dei loro riti.» «Mi hai parlato di un incontro tra tuo padre e la figlia. Che successe, in quell’occasione?» «Fu terribile, all’epoca ero molto piccolo, non vidi in faccia la donna, ma il tono della sua voce era tagliente come la lama di un coltello e mi rimase impressa per anni. Gli disse che lo odiava, che per colpa sua aveva avuto una vita d’inferno e che l’avrebbe pagata cara. Gli disse che il mondo intero avrebbe parlato di lei e che lui avrebbe sofferto fino alle fine dei suoi giorni, che l’avrebbe colpito nei suoi affetti più cari. E, a quanto ne so, pare l’abbia fatto, ma non so come.» «Cosa intendi dire?» «Una volta ho sentito mio padre parlare con il suo uomo più fidato. È stato una decina di anni fa, gli diceva che “il male”, così chiamava la figlia, gli aveva inferto il primo durissimo colpo. Non specificò altro, ma era veramente disperato.» «Non hai idea di chi sia quella donna? È importante, Tiziano, se lo sai devi dirmelo.» «Lo farei, a questo punto non avrebbe senso tacere. Non so dove si trovi, non

conosco il suo volto e nemmeno il suo nome, mi dispiace commissario.» «E tuo padre non accetterà mai di dirmelo…» «Se lo scordi, non lo farebbe mai. Anche se, a questo punto, è finita anche per lui. Mi sento in colpa per quello che ho fatto, oggi ho permesso al male di vincere, ma dall’altra parte non c’era il bene, ammazzare le persone, anche se peccatrici, non può essere il bene.» «Sei un ragazzo molto intelligente e sensibile, Tiziano. Farò in modo che tu ottenga tutte le attenuanti possibili, in qualità di collaboratore di giustizia. Sei incensurato, riusciremo a farti ottenere una pena minima, in modo che tu possa, un giorno, vivere la tua vita. Per l’omicidio di Denise pagherà il mandante, tuo padre…» «Non è cattivo, commissario, ha solo commesso degli errori nella vita che gli hanno fatto perdere la ragione. Le ho detto tutto quello che sapevo, può mettermi le manette» disse il ragazzo porgendo i polsi a Roberto. «Non è il caso, ora ti accompagno in una stanza tranquilla dove potrai riposare. Ci sono alcuni libri e delle riviste, puoi leggere un po’, se ti va.» Roberto accompagnò Tiziano, chiese a un paio di agenti di non perderlo di vista un solo istante, aveva paura che potesse farsi del male, quindi raggiunse i colleghi nell’ufficio di Marco e raccontò loro tutto quanto gli aveva confidato Tiziano. Nessuno si sarebbe più mosso dal commissariato, quella sera. Occorreva dare un’identità alla fondatrice della setta “I serpenti di Satana”.

Don Nicola era a colloquio con il suo uomo più fidato, don Paolo. «Dove accidenti si è cacciato Tiziano?» «Non lo so, Nicola, vuoi che vada a cercarlo?» «Sì, trovalo e portalo subito da me, ho bisogno di parlargli urgentemente. Le cose stanno precipitando, sto valutando la possibilità di andare ad affrontare mia

figlia, una volta per tutte.» «Che dici, Nicola, sei impazzito? Non ne usciresti vivo!» «Non c’è più tempo, Paolo. La polizia sta arrivando alla verità, devo fare qualcosa e devo farla in fretta! È mia figlia, ma l’unico modo per porre fine a questa guerra assurda, è ucciderla io stesso, con le mie mani! La sua setta si sgretolerà come neve al sole, senza di lei crollerà tutto. Vai a cercare Tiziano, per agire ho bisogno di lui. Sono vecchio e stanco, ho bisogno che venga con me.» «Tiziano non è la persona più adatta e poi è troppo pericoloso, non potete esporvi in questo modo!» «Falla finita, Paolo, e fai quello che ti ho detto, senza discutere. Sono ancora io che comando, qui.» «D’accordo, vado a cercare Tiziano, ma sappi che non sono per niente d’accordo con te, andare nella tana del nemico equivale a un suicidio. Non pensi a noi? Al monastero? A Tiziano?» «Va’, Paolo. Portami Tiziano, se qualcosa andrà storto, sarai tu a occuparti del monastero.» Don Paolo non discusse oltre, sapeva perfettamente che sarebbe stato inutile. Nicola aprì il cassetto del suo comodino, estrasse alcune foto e alcuni documenti, strappò tutto in piccoli pezzi, li infilò in una ciotola d’acciaio e diede fuoco a tutto. Poi, prese carta e penna, doveva scrivere una lettera per lasciare scritte le sue volontà, nel caso in cui non fosse più tornato al monastero. Stava riflettendo su quanto doveva scrivere, quando Paolo entrò trafelato nella sua stanza. «Che succede, Paolo? Tiziano dov’è?» «Non lo so, l’ho cercato dappertutto. Sono andato anche in cortile, la sua bicicletta è sparita. È uscito dal monastero ed è stranissimo, non l’ha mai fatto senza avvisare!» «Io credo di sapere dove è andato! Paolo, tocca a te venire con me a stanare “il male”, su Tiziano non possiamo più fare affidamento!»

«Che vuoi dire?» «L’hai visto in questi giorni, no? Era agitato, nervoso, triste. È pentito, Paolo. Pentito per aver ucciso quel transessuale ed è andato a scaricarsi la coscienza! Tra poco la polizia sarà qui, dobbiamo sbrigarci!» «Io sono troppo vecchio per queste cose e poi è giusto che io rimanga qui ad affrontare la polizia. Verrà don Giulio con te, vado subito a chiamarlo.» «D’accordo, hai ragione. Fai presto, ogni minuto è prezioso.» Don Paolo corse fino alla stanza di don Giulio, gli spiegò la situazione, quindi raggiunsero don Nicola. Il prete era già pronto, era rammaricato di non avere avuto il tempo di scrivere la lettera, ma il tempo stringeva. Abbracciò Paolo e, insieme a Giulio, lasciò il monastero.

Roberto, Marco, Beatrice e Matteo erano pronti per recarsi al monastero del Sacro Cuore. Era giunto il momento di conoscere l’identità della figlia di don Nicola e soltanto dal padre potevano ottenere questa informazione. Due agenti erano stati inviati a piantonare la stanza di Riccardo, a lui avrebbero pensato l’indomani. Erano già partiti con due volanti, quando Roberto ricevette la chiamata di Alessia Brunelli. «Alessia, che piacere sentirla! Come sta Anna?» «È appena uscita dalla sala operatoria. Il chirurgo che ha effettuato l’intervento ha detto che è andato tutto bene, ora bisogna solo aspettare. Non riesco a capire chi abbia potuto farle questo e perché.» «Sua sorella aveva scoperto qualcosa di molto importante e hanno cercato di tapparle la bocca. Poi le spiegherò, Alessia, adesso sono nel bel mezzo di una missione molto importante e non posso trattenermi al telefono. Appena sarò libero, le prometto che le spiegherò tutto. Lei pensi solo a stare vicina a sua sorella, si risolverà tutto.» «D’accordo, Roberto, la prendo in parola, ho tutto il diritto di sapere la verità.»

«Certo, e la saprà presto. Ora mi scusi, devo proprio salutarla.» Erano giunti ormai nei pressi del Monastero, erano le venti, le prime luci della sera rendevano il paesaggio spettrale e inquietante. Furono accolti da don Paolo, che li fece accomodare nel suo ufficio, spiegando loro che don Nicola non si trovava al monastero, era dovuto uscire per un’urgenza. «Davvero strano» disse Roberto. «Don Nicola è vecchio e malato, cosa c’era di tanto urgente da portarlo a uscire a quest’ora?» «Non ne ho idea, don Nicola comanda in questo monastero, non è tenuto a dare spiegazioni riguardo alle sue azioni o ai suoi spostamenti.» «Io invece credo che sappia benissimo dove si trova don Nicola, lei è una di quelle persone incapaci di mentire e questo le fa onore. Però, vede, per noi è importante parlare con lui immediatamente. Da questo potrebbe dipendere la vita di molte persone. Sappiamo tutto, delle sette e di chi le comanda. Don Nicola è a capo della setta legata alla religione cristiana e alla persona di Dio, mentre la figlia è a capo della setta satanica della quale fa parte anche Riccardo, l’altro figlio di don Nicola…» Don Paolo sembrava sconvolto, si stava rendendo conto che la polizia sapeva ancora di più di quanto loro si aspettassero. Si alzò dalla sedia e cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro nella stanza. Era combattuto tra il senso di lealtà verso don Nicola e il desiderio di raccontare tutto a quei poliziotti, forse erano gli unici in grado di evitare che, quella notte, succedesse qualcosa di irreparabile. Sapeva che la figlia di Nicola avrebbe ucciso il padre e don Giulio, senza pietà. Quella donna era malvagia e non avrebbe esitato a strappare il cuore dal petto di suo padre. «Commissario, io sono fedele a don Nicola da circa quarant’anni. Lui si fida di me come di se stesso, ma questa volta mi trovo costretto a tradire la sua fiducia. Lo faccio per lui e per don Giulio che in questo momento si trova con lui. Che Dio mi perdoni per quello che sto per fare!» Don Paolo si prese la testa tra le mani e cominciò a piangere disperato. «Don Paolo, capisco che per lei sia molto difficile, ma per il bene di tutti è

arrivato il momento di porre fine a questa guerra assurda. Sono già morte molte persone, evitiamo che ci siano altre vittime!» «D’accordo, commissario, le dirò dove potrà trovare don Nicola.»

CAPITOLO TRENTADUE

La sacerdotessa si trovava nello studio di Luigi. «Il tuo tempo è scaduto, non mi interessa più niente del virus, l’unico desiderio che ho, è quello di strappare il cuore dal petto di quel bastardo!» «Ci sono quasi, sacerdotessa, lasciami ancora qualche ora…» «No! E questa volta non riuscirai a farmi cambiare idea. Le cose stanno precipitando, se qualcosa va storto, voglio almeno potermi vendicare di quello che si fa chiamare padre! Gli toglierò il figlio prediletto, poi toccherà a quel damerino che ha adottato e soltanto dopo mi occuperò di lui. Prepara Simone, lo voglio sull’altare tra un’ora, avvisa gli adepti, voglio che siate tutti presenti.» Luigi non poteva fare altro che obbedire agli ordini della sacerdotessa. Simone aveva mostrato qualche segno di miglioramento nelle ultime ore. Era a un o dall’ottenere l’antivirus per il quale aveva lavorato tanto, ma non c’era più tempo. Sarebbe andato da Simone, l’avrebbe sistemato sopra a una barella e l’avrebbe condotto all’altare. Gianluca si sarebbe occupato di preparare il tempio, come faceva sempre. Tra poco il cuore di Simone Fermi sarebbe stato dato alle fiamme, con grande soddisfazione della sacerdotessa. Sperava che almeno questo fosse sufficiente a placare le ire della sua padrona, ultimamente sempre nervosa e intrattabile. Sospirò, quindi si apprestò a raggiungere Simone nella sua stanza.

Don Nicola e don Giulio erano giunti al casolare. Giulio aveva con sé una pistola che sparava liquido anestetico, in più aveva un coltello e una pistola. Era stato lui a occuparsi degli omicidi precedenti, non era un principiante e sapeva il fatto suo. Don Nicola non era armato, la malattia che lo stava consumando giorno dopo giorno, non gli consentiva più di poter tenere fermamente un’arma tra le mani, per questo aveva dovuto portare Giulio con sé. Lasciarono l’auto a circa un chilometro dal casolare, quindi proseguirono a piedi. Per don Nicola la fatica fu enorme, aveva preso un paio di analgesici

prima di uscire dal monastero, nella speranza che lo aiutassero a fare quello che andava fatto. Appena giunti a ridosso del casolare, si resero conto di quante persone ci fossero al suo interno. Doveva esserci qualcosa di importante, quella sera, per essersi riuniti tutti. «Adesso che facciamo, don Nicola? Sono armato, ma non posso affrontare una ventina di persone, avrebbero facilmente la meglio su di noi!» «Non dovremo affrontarli tutti, so dove si trova la stanza della sacerdotessa. Con un po’ di fortuna, se la troviamo lì, ci occuperemo subito di lei e poi ce ne andremo così come siamo venuti. Quando troveranno il suo corpo, capiranno che per loro è finita e noi avremo vinto, finalmente! Avrei dovuto farlo tantissimi anni fa, quella donna è mia figlia, è vero, ma non merita di vivere! ami lo zaino, è ora di indossare gli abiti da cerimonia.» «Mi fa una certa impressione vestirmi da messa nera!» «Anche a me, ma è necessario, in caso di emergenza possiamo sperare di are inosservati. Avanti, preparati!» Nicola e Giulio erano pronti, girarono intorno al casolare, fino a giungere sotto alla finestra della camera della sacerdotessa. La temperatura era piuttosto alta quella sera e questa fu una fortuna per i due preti, la finestra della camera era aperta, entrare al suo interno sarebbe stato un gioco da ragazzi. «Aiutami a salire, svelto!» ordinò don Nicola. «Non può entrare lei, padre! Lasci che sia io a salire, affronterò io la sacerdotessa. Non la ucciderò, la stordirò con l’anestetico e poi la aiuterò a salire. Incroci le mani in modo da permettermi di issarmi fino alla finestra.» «Giulio, stai attento, quella donna è pericolosissima. Se sbagli una sola mossa sei finito!» «Lo so, è il demonio in persona, ma io sono sempre stato convinto che il bene sia decisamente più forte del male e alla fine vince sempre. Dio mi darà la forza necessaria, padre.» Nicola incrociò le braccia, Giulio salì. La stanza era apparentemente vuota, la luce era accesa, ma della sacerdotessa non c’era traccia.

Intanto, sotto la finestra della stanza della sacerdotessa, don Nicola pregava in silenzio. Non udiva alcun rumore provenire da sopra. Aveva dolori in tutto il corpo, issare Giulio nella stanza era stata una fatica immane, per lui. Non si accorse dell’ombra che lo stava raggiungendo da dietro, qualcuno gli premette una garza imbevuta di anestetico sulla bocca. Perse i sensi nel giro di pochi secondi.

Giulio non sapeva cosa fare, non poteva rimanere a lungo in quella stanza. Doveva comunicare con don Nicola, ma non poteva certo affacciarsi alla finestra e mettersi a conversare con lui ad alta voce. Voleva chiedergli cosa fosse meglio fare. Doveva tornare di sotto o doveva uscire dalla stanza e mettersi alla ricerca della sacerdotessa? Stava riflettendo sul da farsi, quando la sacerdotessa sbucò fuori da una delle ante dell’armadio. La sua espressione era feroce, i tratti del viso erano deformati dall’odio e dalla malvagità. Era la prima volta che Giulio la vedeva e fu terrificante. Cercò di mirarla con la pistola, ma il fattore sorpresa giocò a favore della donna che in un attimo gli fu addosso. Lo scaraventò a terra senza alcuna difficoltà e cominciò a infierire sul suo corpo con un pugnale affilato. Giulio provò a difendersi con tutte le sue forze, ma quella donna sembrava avere la forza di dieci uomini. Fu sconvolgente per Giulio rendersi conto che quelli sarebbero stati gli ultimi attimi della sua giovane vita. Aveva solo trent’anni e stava per morire per mani del demonio in persona. L’ultima sua visione fu il manico del pugnale che entrava e usciva dalla sua carne, lacerandola. Era un serpente mostruoso, il simbolo dei “serpenti di Satana”.

La squadra del commissario Fogli si stava dirigendo a tutta velocità verso Rivarolo Canavese, la destinazione era un casolare abbandonato, a pochi chilometri da Torino. Tutti loro indossavano il giubbotto antiproiettile ed erano seguiti da due volanti, con a bordo quattro agenti ciascuna. Non sapendo quello che avrebbero dovuto affrontare, Roberto aveva preferito essere prudente e agire con un numero considerevole di agenti. La tensione era alta, come sempre quando si andava verso l’ignoto. Sulla strada, a circa un chilometro dal casolare, notarono l’auto con la quale don Nicola e don Giulio avevano lasciato il monastero. Proseguirono per alcune centinaia di metri, quindi abbandonarono le volanti e proseguirono a piedi. Il

buio li avrebbe aiutati a giungere a destinazione senza essere notati. Roberto divise i suoi uomini in due squadre, una sarebbe arrivata al rifugio da destra, l’altra dalla sinistra. Lui era a capo di una delle due squadre, Marco dell’altra. «Fate piano, ragazzi. Il fattore sorpresa in queste circostanze è importantissimo. Dobbiamo muoverci, don Nicola si è cacciato in un bel guaio, spero di non arrivare troppo tardi!» disse Roberto. «Roby, non ho mai preso parte a una missione come questa» disse Beatrice. «Voglio dire, sono abituata ai criminali comuni, assassini, stupratori, ladri, mafiosi… Di sette sataniche non so nulla, un po’ mi spaventano, la figura in sé del demonio mi inquieta.» «Non hanno nulla di diverso dagli altri criminali, sono spietati questo sì, ma si tratta di arrestarli come qualsiasi altro delinquente. Poi effettueremo gli interrogatori finché non confesseranno tutti i delitti commessi. Anche tra di loro ci sono gli anelli deboli ed è da quelli che otterremo una piena confessione.» «Vedo che sei molto ottimista!» rispose Beatrice. «Io, invece, ho uno strano presentimento, non mi sento tranquilla e non è da me.» «Se non te la senti di proseguire, puoi tornare alla volante. Siamo abbastanza numerosi, non farti problemi a ritirarti, se la situazione ti mette a disagio.» «Figurati, non mi sono mai tirata indietro in quindici anni di carriera, non inizierò certo a farlo oggi a causa di un gruppo di esaltati, poi!» «Come vuoi, proseguiamo in silenzio però, siamo vicinissimi al casolare.» Il gruppo proseguì a o spedito verso il casolare. L’attenzione a non produrre il minimo rumore era massima. Videro delle luci in lontananza, erano quasi arrivati. Cosa avrebbero trovato al loro arrivo? Cosa sarebbe successo? Fu con queste domande nella testa che la squadra di Roberto Fogli giunse ai lati del casolare.

Simone si sentiva decisamente meglio, quella sera. Aveva ancora un’enorme difficoltà a muovere gli arti superiori e inferiori, ma stava cominciando ad avvertire un lieve formicolio e questo non poteva che essere un buon segno. Era

contento di questo, anche se sapeva benissimo che comunque da quel luogo non sarebbe uscito vivo. Il medico che l’aveva seguito durante i giorni della sua prigionia era accanto al suo letto. Gli sembrava preoccupato, forse era stato troppo ottimista e il suo stato di salute non era per niente migliorato. «Simone, so che puoi sentirmi. Ora ti devo portare in un posto, cerca di stare tranquillo, presto sarà tutto finito.» Le parole del medico furono come una pugnalata, per Simone. “Presto tutto sarà finito” non lasciava presagire nulla di buono. Cominciò a recitare mentalmente tutte le preghiere che conosceva, chiese a Dio di proteggere le sue bambine e Anna, la donna che amava con tutto se stesso. Pensò anche a Valentina, nonostante il loro matrimonio fosse finito da tempo, era comunque la madre delle sue creature, sarebbe stata lei a seguirle nella crescita e, per farlo, aveva bisogno di molta forza e tanta salute. Avrebbe voluto poter vedere, anche solo per un attimo, don Nicola, il suo padre spirituale, la figura più vicina a un padre che avesse mai avuto dopo la morte del suo padre adottivo. Quello che gli faceva più rabbia, era il fatto di non sapere e non capire perché gli stesse succedendo una cosa del genere. Ci doveva essere un motivo, questo era certo, ma lui non riusciva a trovarlo. Pensava sempre a quell’uomo identico a lui che aveva incontrato qualche giorno prima. Chi era? Perché voleva prendere il suo posto? Le persone che amava, si sarebbero accorte dello scambio di persona? Fu con tutte queste domande nella testa che Simone fu adagiato sopra una barella e trasportato attraverso un lungo corridoio.

Don Nicola stava riprendendo i sensi. Era nudo, provò a muoversi, ma si rese conto di essere legato e di non poterlo fare. Non sapeva dove si trovava, aveva qualcosa che gli copriva il volto, probabilmente un cappuccio. Di colpo gli tornò in mente quanto era successo nel cortile del casolare. Qualcuno lo aveva sorpreso alle spalle e gli aveva premuto una garza sulla bocca, facendogli perdere i sensi. Che ne era stato di don Giulio? Capì subito dove si trovava, nonostante non potesse vedere. L’odore della cera, prodotta dalle candele che ardevano e le litanie che sentiva in sottofondo gli fecero capire immediatamente di trovarsi nel bel mezzo di una messa nera, una di quelle cerimonie che prevedono una vittima sacrificale e non era difficile capire chi fosse in quell’occasione. Non aveva paura, piuttosto era preoccupato per quello che sarebbe successo dopo la sua morte. Che ne sarebbe stato dei suoi adepti? E di

Tiziano? Chi avrebbe combattuto il male? Senza la sua opposizione, la sacerdotessa avrebbe agito indisturbata e avrebbe continuato a seminare il male e il terrore nella città di Torino. La rabbia che provò verso se stesso fu enorme. Era stato lui stesso a cacciarsi in quel guaio e aveva trascinato nella sua follia anche il giovane don Giulio. Come aveva potuto pensare di riuscire, loro due da soli, a sconfiggere una donna forte e astuta come sua figlia? Dovevano essersi accorti subito del loro arrivo e avevano riservato loro una bella accoglienza. Sentì dei rumori provenire dalla sua destra, sembrava che qualcuno fosse stato sistemato vicino a lui. Sicuramente si trattava di don Giulio, evidentemente le vittime sacrificali, quella sera, sarebbero state due. Sperava che il ragazzo non fosse stato torturato, anche se sapeva che la loro morte non sarebbe stata indolore. Abbandonò tutti i cattivi pensieri e si concentrò nella preghiera.

CAPITOLO TRENTATRE

La sacerdotessa era pronta. Si era occupata di quel giovane prete e aveva già preparato suo padre, don Nicola, per la fase finale del suo piano. “Quel vecchio rincoglionito mi ha reso tutto più facile!” pensava. “È venuto dritto nella tana del lupo e pensava, oltretutto con quel ridicolo travestimento, di are inosservato!” Aveva indossato il suo abito da cerimonia, il volto era celato dal cappuccio. Nella stanza con l’altare, tutto era pronto. Era arrivato il grande giorno, finalmente si sarebbe liberata, in un colpo solo, del padre e del fratello. Non vedeva l’ora di strappare loro il cuore dal petto. Quella sera, finalmente avrebbero pagato per tutto il male che lei aveva dovuto subire nella vita e avrebbe vendicato sua madre. Uscì dalla sua stanza e raggiunse il locale delle cerimonie. I suoi adepti erano tutti presenti e recitavano le preghiere a Satana. Nicola e Simone erano sistemati uno di fianco all’altro, legati sopra due barelle. La sacerdotessa si avvicinò e tolse il cappuccio a entrambi. I due uomini si guardarono intorno, Nicola ebbe conferma di quanto aveva già sospettato, mentre Simone appariva frastornato. Non poteva muovere gli arti, ma la testa sì e vide subito Don Nicola accanto a sé. Improvvisamente, provò a parlare e si stupì del fatto di riuscirci, senza neanche troppa difficoltà. «Don Nicola? È come se le mie preghiere fossero state esaudite, avevo chiesto a Dio di poterla incontrare ancora una volta, non capisco cosa stia succedendo, ma so che non uscirò vivo da qui e sentivo il bisogno di parlare con lei, certo non in queste circostanze! Padre, che sta succedendo?» «Mi dispiace, Simone, non avrei mai voluto che succedesse tutto questo. È tutta colpa mia, avrei dovuto proteggerti di più, sapevo con chi avevo a che fare e ho avuto la presunzione di essere il più forte, che avere Dio dalla mia parte sarebbe stato sufficiente. Mi dispiace, ragazzo mio, cerca di essere forte e fatti accompagnare da nostro Signore nel tuo ultimo viaggio.»

«Davvero un quadretto commovente! Padre e figlio uniti anche nel momento della morte! Siete patetici, tutti e due!» urlò la sacerdotessa. Simone si voltò verso la donna che aveva parlato. Il tono di quella voce era distorto, crudele e sibilante, non sembrava neanche una voce umana. «Chi sei, tu?» «Vuoi sapere chi sono? Va bene, ti accontento. Ho piacere che tu, prima di morire, conosca finalmente tutta la tua storia. Quello che tu chiami “padre spirituale”, in realtà è tuo padre naturale.» «Cosa stai dicendo?» «La verità, a voi cristiani piace così tanto! Il qui presente Nicola Russo, quarantacinque anni fa, violentò una ragazzina di tredici anni, tua madre. Dopo nove mesi, partorì tre gemelli, tu, Riccardo e io.» «Tu sei mia sorella?» «Esattamente, e Riccardo, il tuo gemello, l’hai già conosciuto. Una somiglianza sbalorditiva, non è vero? Voi due siete gemelli monozigoti, io sono diversa da voi, fisicamente.» «Se sei mia sorella e Riccardo è mio fratello, perché mi stai facendo questo?» «Lasciami raccontare tutta la storia, questo è solo l’inizio! Quando venimmo al mondo, don Nicola fece carte false per nascondere al mondo intero il suo “peccato”. Aiutato da quella chiesa che tanto amate, ha insabbiato il tutto. Nostra madre ha vissuto la gravidanza a casa di una zia caritatevole, ha partorito da sola in ospedale a Vercelli e ha ato qualche anno subendo le continue accuse da parte dei suoi genitori, che non credevano alla storia della violenza, ma la reputavano una poco di buono. Impossibile che un prete l’avesse violentata, sicuramente era stata lei a provocarlo! All’età di sedici anni nostra madre si suicidò, sfiancata dalla pena, dalla solitudine e dalle maldicenze che in città circolavano sul suo conto. Ma torniamo a noi. Don Nicola non confessò mai la sua colpa, ma in qualche modo voleva prendersi cura di noi. Però eravamo in tre, davvero troppi, così fece una scelta, scelse te. Ti fece portare all’orfanotrofio della Maddalena e fu lui stesso a scegliere la famiglia che ti adottò, quando eri ancora molto piccolo. Fece poi in modo di frequentarti, per assicurarsi che stessi

bene e che non ti mancasse niente. Quanto a me e Riccardo, evidentemente non meritavamo lo stesso trattamento, quindi ci destinò a un orfanotrofio di Novara. Un posto orrendo, ogni giorno subivamo angherie da parte delle suore, cominciammo a odiare i preti, le suore, le preghiere, la religione cristiana e le sue stupide regole. Riccardo fu dato in affidamento alla prima famiglia all’età di otto anni, ma durò poco, il bambino era intrattabile e violento, ò in affidamento da una famiglia all’altra fino alla maggiore età. Io, invece, rimasi in orfanotrofio fino a diciotto anni, nessuno mi voleva, dicevano tutti che avevo lo sguardo cattivo e le suore non fecero niente per fare in modo che fossi adottata, si divertivano troppo a farmi oggetto delle loro angherie! La prima cosa che feci, una volta lasciato l’orfanotrofio, fu quella di ricostruire la mia storia e ci sono riuscita. Ho saputo che Riccardo era mio fratello e l’ho cercato, poi ho cercato anche nostro padre, volevo che pagasse per la vita che ha permesso che mio fratello ed io fimo! Riccardo ancora oggi non sa che sono sua sorella, pensa che io sia solo una sua ex compagna di sventure, non ho mai voluto dirglielo, è il mio amante, mi adora e farebbe qualsiasi cosa per me!» «Tu sei pazza! L’amante di tuo fratello gemello?» esclamò Simone. La sacerdotessa cominciò a ridere in modo sguaiato. «E questo non è tutto, caro Simone, le sorprese per te non finiscono qui! La parte migliore deve ancora venire, devi scoprire chi è tua sorella! Soltanto dopo aprirò il tuo petto e, con grande piacere, ti strapperò via il cuore! Voglio che tuo padre assista, poi mi prenderò cura anche di lui!» La sacerdotessa portò le mani sulla base del cappuccio, era giunto per lei il momento di mostrare al fratello la sua identità.

La squadra di Roberto aveva circondato il casolare. L’interno era completamente buio e il silenzio era totale. Eppure poco prima, in lontananza, avevano notato alcune luci accese. Che li avessero visti arrivare e fossero scappati? Marco era andato con un paio di agenti a ispezionare l’area circostante la costruzione, appena tornò, andò subito da Roberto. «Ci sono diverse auto parcheggiate qui nei paraggi, segno che il casolare non è deserto. Che facciamo?»

«Dobbiamo entrare, è possibile che si siano accorti del nostro arrivo e che rimangano all’interno al buio e in silenzio, nella speranza di vederci andare via. Prepariamoci, dobbiamo fare irruzione e dobbiamo sbrigarci, Dio solo sa cosa sta succedendo, là dentro!» Roberto diede disposizioni ai suoi uomini, chiese a Beatrice e a Federico, il giovane agente che era stato presente sul luogo dell’omicidio di Denise, di restare all’esterno e di tenere gli occhi ben aperti. Quindi, si avvicinò alla porta del casolare, insieme a Matteo. Era una porta piuttosto spessa, non sarebbe venuta giù facilmente. «Entrare sarà un bel problema, possiamo provare con il e-partout, ma dubito possa funzionare con questo genere di serratura. Non ci resta che provare a scardinarla con un colpo di pistola.» «Oppure possiamo entrare dalla finestra, ne ho vista una aperta sul lato sinistro del casolare» propose Marco. «Forse hai ragione, proviamo a are da lì. Andiamo ragazzi. Bea, Federico, mi raccomando, state attenti. Se qualcuno dovesse tentare la fuga, sapete cosa fare.» «D’accordo, Roby, vai tranquillo» rispose Beatrice. Roberto e Marco, seguiti da sei agenti, raggiunsero la finestra aperta e si issarono fino a trovarsi all’interno di una stanza. Illuminarono l’ambiente utilizzando una torcia e lo spettacolo che si presentò ai loro occhi li lasciò sconcertati. Un uomo era steso a terra, indossava un mantello con il cappuccio nero, aveva gli occhi sbarrati e il suo corpo era interamente coperto e circondato da sangue. «Porca puttana!» esclamò Roberto. Marco cercò l’interruttore della luce, lo pigiò, quindi si avvicinò al corpo, tastò subito il polso per controllare se l’uomo fosse morto, quindi guardò Roberto scuotendo la testa. «Questo qui è andato» disse.

Roberto si avvicinò al cadavere e lo guardò con attenzione. «Io lo conosco, l’ho visto al monastero del Sacro Cuore. Suppongo sia don Giulio, come ci ha detto don Paolo, era venuto qui con don Nicola. Questo vuol dire che la loro “visita” non ha sortito gli effetti sperati. Matteo, chiama il commissariato e fai mandare qui un paio di volanti di rinforzo e anche la scientifica. Coraggio, cominciamo a ispezionare questo posto, controlliamo tutte le stanze, svelti, muoviamoci!» Roberto, Matteo e gli agenti entrarono in tutte le stanze di quello strano luogo, i simboli del satanismo erano presenti ovunque. Quel luogo era inquietante e terrificante, Roberto fu felice di aver chiesto a Beatrice di rimanere fuori dal casolare, ricordando le parole che la donna le aveva detto poco prima. «Niente, Roby, non c’è nessuno. Abbiamo guardato in tutte le stanze, non c’è anima viva qua dentro» disse Marco. «Impossibile, dov’è sparito don Nicola? E il cadavere di don Giulio? Di certo non si è suicidato. Il cadavere era ancora caldo, non è morto da molto. Deve esserci per forza qualcuno, cazzo!» Roberto cominciò a girare all’interno delle varie stanze del casolare, al piano terreno e al primo piano. Diverse macchine erano parcheggiate nei dintorni, un uomo era stato da poco assassinato, era impossibile che chi occupava poco prima quel casolare si fosse volatilizzato. Si trovava all’interno della cucina quando notò una spessa tenda rossa e nera posizionata a notevole distanza dalla finestra. Si avvicinò, scostò la tenda e si accorse che celava una piccola porta. «Marco!» chiamò. Il vice commissario arrivò immediatamente, Roberto gli mostrò quello che aveva scoperto ed entrambi decisero di aprire quella porta per vedere dove conduceva. Chiamarono a sé gli agenti e, con l’aiuto del e-partout, riuscirono ad aprire la porta. C’era una scala che conduceva di sotto, scesero tutti i gradini e si trovarono in un lungo cunicolo, illuminato da alcuni ceri che ardevano ai lati del aggio.

«Cazzo, questo posto mette i brividi!» esclamò un agente. «Hai ragione, ma è normale, visto che ci troviamo in un tempio satanico. Coraggio, dobbiamo proseguire» ordinò Roberto. Gli otto uomini cominciarono a percorrere il lungo corridoio, sembrava non avesse mai fine. I loro i rimbombavano nel silenzio, rotto solo dai loro respiri sempre più affannosi. Giunsero al fondo del cunicolo e si trovarono di fronte a un’altra porta. Non era chiusa a chiave. Roberto girò la maniglia e si trovò in un locale ampio, tappezzato da ritratti di Satana e quadri raffiguranti scene di violenza estrema. In lontananza, si sentivano delle voci, recitavano una sorta di litania. «Siamo arrivati nel bel mezzo di una messa nera!» sussurrò. «Tenetevi pronti, dobbiamo intervenire!»

«Sacerdotessa! Ci sono problemi! Le telecamere hanno mostrato otto uomini armati nella stanza qui di fianco. Forse è la polizia, dobbiamo andarcene subito da qui!» urlò Gianluca. «Non prima di essermi presa cura di questi due rifiuti umani!» «Sacerdotessa, ti prego! Non c’è tempo! Forza, vieni via!» L’uomo la tirò via dall’altare, lei scalciava e urlava, avrebbe preferito essere catturata dalla polizia o morire, piuttosto che rinunciare a portare a termine la sua vendetta. A fatica, riuscì a divincolarsi dalla presa di Gianluca e lo guardò con disprezzo. «Stupido idiota, come osi agire contro la mia volontà? Ora pagherai, anche per aver fallito l’attentato ad Anna Brunelli!» Detto questo, sfilò un pugnale dalla tasca della tunica che indossava e lo conficcò nel petto di Gianluca. L’uomo crollò a terra con una strana espressione, un misto di stupore e di terrore.

La sacerdotessa scavalcò il corpo dell’uomo e, mentre i suoi adepti si dirigevano verso l’uscita secondaria del tempio, lei tornò di fronte all’altare. Impugnava ancora l’arma, che grondava sangue. Simone e Nicola la guardavano con terrore, sapevano che niente l’avrebbe fermata. Si strappò il cappuccio dal volto e rimase a guardare l’espressione di Simone. L’uomo era incredulo, cercò di parlare, ma dalla sua bocca uscì solo un’unica, terribile sillaba. «Tu?» «Già, oggi è il giorno delle sorprese, non sei contento?» La sacerdotessa alzò il pugnale, avrebbe voluto godere ancora per qualche minuto di quel momento che aspettava da una vita, ma doveva fare presto, sentiva dei i avvicinarsi rapidamente alla stanza, per sce la serratura ci avrebbero messo al massimo un minuto. Pensò di occuparsi prima di Don Nicola, era l’uomo al mondo che di più odiava, se non gli fosse rimasto tempo, preferiva essersi occupata di lui. Conficcò il pugnale nel petto di don Nicola con una forza incredibile, emettendo un grido inumano. Simone osservò la scena terrorizzato, la sacerdotessa aprì il petto del padre come se fosse stato un agnello, strappò il cuore e lo buttò in un braciere ardente. Intanto recitava delle litanie incomprensibili, aveva il volto trasfigurato ma soddisfatto, il sangue del padre, unito a quello di Gianluca, le colava giù per i polsi, Simone non poteva credere che quello che stava vivendo fosse realtà. Quando vide sua sorella avvicinarsi a lui, non provò neanche paura, anzi, si augurava che tutto finisse al più presto, non credeva che sarebbe comunque sopravvissuto a quello che aveva appreso quella sera. L’unico suo rammarico era di non potersi prendere cura delle sue bambine. La sacerdotessa era vicino a lui, aveva chiuso gli occhi, ma sentiva la sua presenza. «Apri gli occhi, bastardo! Voglio che mi guardi mentre ti conficco il pugnale nel petto!» «Ferma!» urlò una voce. La sacerdotessa si voltò e vide alcuni uomini correre verso di lei. Erano armati e

l’avrebbero raggiunta nel giro di pochissimi secondi. Alzò il braccio per sferzare la pugnalata nel petto di Simone, ma l’arma le crollò di mano, una pallottola l’aveva raggiunta alla spalla destra. Guardò Simone con uno sguardo carico di odio che l’uomo non avrebbe mai dimenticato e cominciò a correre verso un corridoio situato a destra dell’altare.

Stefano arrivò per primo nei pressi dell’altare. Don Nicola adagiato sulla barella con il petto squarciato, era una delle scene più terribili che avesse mai visto. L’uomo nell’altra barella, che riconobbe subito come Simone Fermi, sembrava terrorizzato e sotto choc. «Marco, non lasciarti sfuggire quella donna! Matteo, tu rimani qui con me, voi altri andate, vi raggiungerò subito.» Mentre Marco e gli agenti si lanciavano all’inseguimento della fuggitiva, Roberto si chinò verso Simone. «Simone, mi senti? Sono il commissario Roberto Fogli, fatti coraggio, è tutto finito. Matteo, l’agente qui di fianco a me, resterà con te e chiamerà un’ambulanza. Presto sarai in ospedale e si prenderanno cura di te.» Simone sembrava non averlo sentito, aveva lo sguardo fisso sul cadavere di don Nicola. Roberto se ne accorse e gli prese il volto tra le mani, obbligandolo a guardare in un’altra direzione. Simone sembrava voler parlare, voleva dire qualcosa, ma dalla bocca gli uscivano soltanto alcuni incomprensibili rantoli. «Parleremo quando starai meglio, ora ti lascio con Matteo, devo catturare quella psicopatica il prima possibile!» Detto questo, Roberto cominciò a correre verso il corridoio dal quale la donna era fuggita.

Beatrice e Federico erano stati avvisati del pericolo attraverso le trasmittenti. I fuggitivi stavano scappando attraverso l’uscita secondaria. Nel frattempo erano arrivati i rinforzi, altri dieci agenti erano agli ordini di Beatrice. «Dividiamoci» disse Beatrice, «sei con me e quattro rimangono qui con Federico. Muoviamoci, quegli uomini non ci devono sfuggire!» Beatrice e gli agenti cominciarono a correre verso il retro del casolare, arrivarono giusto in tempo per vedere uscire i primi fuggitivi. Intimarono agli uomini e alle donne di fermarsi, ma questi continuarono a correre, probabilmente intendevano raggiungere le proprie auto per darsi alla fuga. Beatrice diede ai suoi uomini l’ordine di aprire il fuoco, mirando alle gambe. Gran parte dei fuggitivi furono bloccati, gli agenti si affrettarono a raggiungerli per ammanettarli. Soltanto in due riuscirono a fuggire, un uomo e una donna. Fu Beatrice a bloccare l’uomo, mirando alla gamba destra, ma non si fermò per ammanettarlo, non poteva permettere alla donna di fuggire. Fu Roberto ad arrivare giusto in tempo per evitare che quell’uomo, saltellando su una sola gamba, riuscisse a raggiungere l’auto. Tutti gli uomini presenti nel casolare erano stati bloccati, erano stati sistemati contro un muro, ammanettati. Mancava solo la donna, la figlia di don Nicola e mancava Beatrice, evidentemente si era lanciata lei all’inseguimento della fuggitiva. «Marco, vieni con me, dobbiamo dare una mano a Beatrice!» I due cominciarono a correre verso la campagna, uno prese una direzione, l’altro prese quella opposta. Sapevano quanto quella donna fosse feroce, era di vitale importanza rintracciarla prima che Beatrice si cacciasse in un brutto guaio.

Beatrice c’era quasi, vedeva la donna in lontananza. La sua tunica nera spiccava alla luce dei riflettori che la polizia aveva posizionato in tutta la zona, per illuminarla. Stava quasi per raggiungerla, ancora pochi i e sarebbe stata a tiro, bastava mirare alle gambe e avrebbe avuto la meglio su di lei. Beatrice si chiedeva dove fosse diretta la donna, il luogo dove erano parcheggiate le auto lo avevano superato da un bel pezzo. Beatrice era stanca di correre, aveva poco meno di quarant’anni, sicuramente non aveva più il fiato di quando era ragazza, anche se l’attività fisica che era solita svolgere ogni volta che aveva un po’ di tempo libero, la stava aiutando a non stramazzare al suolo, con la lingua per

terra. La nera figura della sacerdotessa era sempre più vicina, Beatrice sparò il primo colpo, che andò a vuoto. Sparare in corsa non è un’attività semplice, prendere la mira diventa praticamente impossibile. Provò una seconda volta, niente, ancora un colpo a vuoto. Al terzo tentativo, Beatrice riuscì a colpire la donna alla caviglia sinistra. La donna cadde immediatamente al suolo, in pochi secondi Beatrice le fu addosso. «Fine della corsa, stronza!» urlò. «Non credo, bellezza» rispose la sacerdotessa che, con un gesto fulmineo, colpì Beatrice con il solito pugnale, direttamente alla gola. Beatrice si accasciò senza un lamento addosso alla sacerdotessa che se la scrollò di dosso, impossessandosi della sua pistola.

Roberto e Marco avevano sentito gli spari ed entrambi si erano messi a correre in direzione della loro provenienza. Arrivarono insieme, con il fiato corto. «Hai sentito anche tu gli spari?» chiese Marco. «Sì, tre per la precisione, poi solo silenzio. Ho provato a contattare Beatrice con la trasmittente, ma non mi risponde, forse non ce l’ha con sé. Hai una torcia? Nonostante i riflettori, non c’è abbastanza luce qua intorno.» Marco estrasse una torcia dalla tasca posteriore dei jeans e la ò a Roberto. Camminarono per una ventina di i e poi la videro, Beatrice era riversa a terra, in una pozza di sangue. «Cristo, Marco! È Bea!» I due si avvicinarono alla collega, per prestarle i primi soccorsi. Si resero subito conto della gravità della situazione, Beatrice aveva una bruttissima ferita al collo e perdeva molto sangue. «Bea! Bea, mi senti?» urlò Roberto.

Lei aprì gli occhi e lo guardò con intensità. «È… scappata… Roby… io… ho cercato… di fermarla… è ferita… ma aveva… un coltello…» «Non ti sforzare di parlare, Bea, ora chiamo subito un’ambulanza. Stai tranquilla, guarirai presto.» «No… Roby… il mio bambino… pensa a Luca… ti prego… promettilo…» Beatrice era una ragazza madre. Il figlio, Luca, aveva dieci anni e lei si era sempre occupata da sola di lui, da quando era nato. Aveva una ragazza che la aiutava, che pensava al bambino quando lei non poteva farlo per motivi di lavoro. «Bea, non dire così, vedrai che in ospedale si prenderanno cura di te.» «Roby… prometti…» «D’accordo, te lo prometto, va bene? Ora cerca di stare tranquilla. Marco, rimani qui con Bea, io vado a stanare quella vipera.» «D’accordo, ti mando i rinforzi, vai!» Roberto cominciò a correre. Sentiva una rabbia cieca crescergli dentro, un fuoco che gli stava rodendo il corpo e l’anima. Lo scempio visto nel tempio e l’immagine di Beatrice agonizzante lo rendevano furioso e gli mettevano le ali ai piedi. La sacerdotessa era ferita e stava perdendo sangue, lui ne seguiva le tracce come un lupo affamato quando segue la sua preda. L’avrebbe stanata, avrebbe fermato una volta per tutte quel mostro che aveva seminato tanto dolore. D’improvviso fu aggredito alle spalle, sentì un forte bruciore al fianco, capì subito di essere stato colpito da un’arma da taglio, non era la prima volta che gli succedeva. Combatté con il dolore, si voltò di scatto e si trovò di fronte la sacerdotessa in persona. Lo choc che provò lo paralizzò per un attimo. Conosceva molto bene la donna che aveva di fronte e che gli puntava una pistola al petto, era Valentina Grande, la moglie di Simone.

CAPITOLO TRENTAQUATTRO

Simone era stato caricato sull’ambulanza. Matteo era salito sul mezzo insieme a lui, non se l’era sentita di lasciarlo da solo. Quell’uomo farfugliava parole incomprensibili, era in stato di choc e, inoltre, sembrava essere semi paralizzato. Lo stavano trasportando all’ospedale Mauriziano, proprio dove era ricoverata Anna Brunelli. Matteo si rese conto di non avere più chiesto notizie circa lo stato di salute della donna, la missione di quella sera aveva assorbito tutte le sue energie e la sua concentrazione. Si augurava che Roberto e gli altri fossero riusciti a catturare l’artefice di tanto orrore e sofferenza. L’indomani anche Riccardo sarebbe stato posto in arresto, per il momento era all’ospedale Molinette, piantonato da diversi agenti. Finalmente, avrebbero potuto mettere la parola fine a uno dei casi più terribili che il loro commissariato avesse mai dovuto affrontare.

«Non è possibile!» urlò Roberto. «Sorpreso, commissario? Avresti dovuto vedere la faccia di Simone! Butta quella pistola, non ti serve più. Ti ucciderei volentieri subito, ma mi servi vivo, almeno finché non sarò riuscita a mettermi in salvo. Avere in ostaggio il commissario in persona mi aprirà tutte le strade!» «Tu sei il demonio in persona!» «Così mi lusinghi!» rispose lei con una risata agghiacciante. Roberto cercava di ragionare. Il fianco gli doleva e stava perdendo molto sangue, ma doveva rimanere lucido. Anche la sacerdotessa era ferita, a una spalla e a una caviglia, non sarebbero andati lontano. Decise di provare a parlare con lei, doveva prendere tempo in attesa che arrivassero i rinforzi. «Tutto avrei potuto immaginare, tranne che tu fossi la figlia di don Nicola!»

«Sorprendente, non è vero? L’insospettabile, la donna rispettabile e perbene. Sono stata davvero brava! Quanto mi sono divertita! Certo, la mia vita è stata un inferno, ho dovuto fingere per anni, ma ne è valsa la pena, di mio padre mi sono vendicata e anche Simone, ammesso che sopravviva, rimarrà choccato per il resto della sua vita!» «Perché hai fatto tutto questo? Vendetta? Posso capire che tu abbia voluto vendicarti di tuo padre, in fondo ti ha abbandonata e ha provocato il suicidio di tua madre, ma perché Simone?» «Perché lui era il figlio prediletto, lui ha avuto una vita felice, ha avuto tutto quello che desiderava, non era giusto!» «E così hai fatto in modo di conoscerlo e te lo sei anche sposato. E, mio Dio, ci hai fatto anche due figlie! Con tuo fratello, ti rendi conto? E le bambine? Non provi pietà o affetto neanche per loro?» «Le avrei amate, se fossero state figlie solo mie, ma sono sangue di Simone e di loro non mi importa un accidente! Eppure sono sempre stata brava, mi sono sempre mostrata una madre attenta, affettuosa e premurosa. Le bambine non hanno il minimo sospetto sulla loro madre.» «Mi fai schifo e mi fai anche pena. Una donna che va a letto con il fratello, che partorisce due figlie che odia. Sei peggio di Satana, in confronto a te persino lui impallidisce!» «Te l’ho già detto, mi lusinghi! E, comunque, se vuoi sapere proprio tutto, mi sono portata a letto anche Riccardo, l’altro mio fratello. Adora il sadomasochismo, mi sono divertita tantissimo con lui!» Quella donna era più pericolosa di quanto Roberto avesse pensato. Non era solo seguace del demonio, era una mente gravemente malata, incapace di provare qualsiasi sentimento. Gli tornarono in mente le due bambine di Simone e Valentina. Irene e Vanessa, erano piccole e indifese. Le immaginava dormire nei loro lettini mentre la madre sacrificava qualche vittima in nome di Satana. Rabbrividì. Com’era possibile che Simone non si fosse accorto mai di nulla? Immaginava che Valentina spesso si assentasse da casa per ordire il suo piano diabolico, lui come aveva fatto a non notare niente?

Doveva agire, non poteva perdere altro tempo. Se anche fossero arrivati gli agenti di rinforzo, avrebbero visto che si trovava in ostaggio e non sarebbero intervenuti. Doveva cavarsela da solo, la rabbia che provava per tutta la malvagità di quella donna gli avrebbe dato la forza necessaria. Approfittò di un momento di distrazione di Valentina, mentre era immersa nei suoi deliranti racconti e riuscì a disarmarla. Finirono entrambi a terra. Quella donna, seppure ferita, aveva una forza innaturale, inoltre la ferita al fianco gli doleva in modo insopportabile. Da buon apionato di yoga qual era, cominciò a concentrarsi sulla parte dolente del suo corpo, cercando di convincersi di non provare alcun dolore. Fu una lotta lunga e estenuante, Valentina mordeva, tirava calci, pugni, graffi. La furia cieca di quella donna lo spronò a non mollare, doveva fermare quel mostro a tutti i costi. Finalmente, dopo innumerevoli tentativi, riuscì a sferrarle un pugno fortissimo alla tempia destra. La donna perse immediatamente i sensi, Roberto ne approfittò per ammanettarla. La guardò a lungo, quasi avesse paura che, come Houdini, riuscisse a liberarsi anche delle manette. Rimase a controllarla per alcuni minuti, poi perse i sensi.

«Roberto! Roberto, svegliati!» «Marco, che è successo?» «Questo dovresti dirmelo tu, a quanto pare sei riuscito da solo a catturare quel mostro!» «Dov’è adesso?» «Al sicuro, sopra a una volante che la scorterà fino in ospedale. L’hai ridotta abbastanza male!» D’istinto, Roberto si portò una mano al fianco destro. «Tranquillo, un medico ti ha già visitato. Non è una ferita molto profonda, guarirai presto.» Roberto si rese conto di trovarsi a bordo di un’ambulanza.

«Dove cazzo mi state portando?» disse provando ad alzarsi dalla lettiga. «Ehi! Dove credi di andare? Stai giù! È vero che la ferita non è grave, ma hai comunque perso molto sangue e hai bisogno di una ricucita!» «Non posso andare in ospedale adesso, ho troppe cose da fare! Bea? Come sta?» Marco si rabbuiò e abbassò lo sguardo. «Ti ho fatto una domanda, Marco! Come sta Bea?» Marco cercava di controllarsi, ma fu inutile, due lacrime gli rigarono il viso. «No! No, non è possibile! Marco, dimmi che non è come penso!» «Mi dispiace, Roby, Bea non ce l’ha fatta. Le sono rimasto accanto fino alla fine, l’ultima cosa che mi ha detto, è stata di ricordarti la promessa che le hai fatto.» Roberto urlò tutta la sua rabbia. Beatrice era una creatura splendida, non meritava una fine così orribile. Che ne sarebbe stato di Luca? Aveva promesso alla collega che se ne sarebbe occupato, ma era in grado di farlo? Bestemmiò contro il mondo, contro la malvagità e contro le ingiustizie, finché non si lasciò andare a un pianto liberatorio.

La ferita al fianco non era grave, Roberto fu medicato e ricucito al pronto soccorso. La lama del pugnale utilizzato dalla sacerdotessa aveva mancato il fegato per pochi millimetri. Il medico che si prese cura di lui, gli consigliò di trascorrere la notte in ospedale, in osservazione. Roberto non ne volle sapere, voleva andare a casa e riposare nel suo letto, si sentiva bene fisicamente e poi l’indomani aveva parecchie cose alle quali pensare. C’erano tutti gli arrestati da interrogare, per ricostruire la dinamica di tutti gli omicidi commessi nell’ultima settimana, doveva occuparsi di stilare i verbali della missione della sera precedente e, soprattutto, doveva pensare a Luca. La ragazza che si occupava da anni di lui in assenza di Beatrice, gli aveva assicurato che, per quella notte, sarebbe rimasta con il bambino, l’indomani mattina Roberto sarebbe andato a prenderlo per accompagnarlo a scuola. Luca non sapeva ancora niente della morte della madre, sarebbe stato compito suo dirglielo, non sapeva ancora come

avrebbe fatto, dove avrebbe trovato le parole giuste, ammesso che ne esistessero. Luca aveva più o meno l’età di suo figlio Davide, la pena che provava per lui era straziante. Beatrice era una ragazza madre e non aveva mai rivelato a nessuno l’identità del padre di Luca. Avrebbe dovuto fare delle ricerche, se un padre esisteva andava contattato e messo al corrente della situazione. Inoltre c’erano i genitori di Beatrice, vivevano in Sicilia ed erano molto anziani, ma la custodia di Luca spettava comunque a loro. C’era anche un fratello che viveva in Australia, anche lui andava rintracciato e messo al corrente dell’accaduto. Roberto aveva promesso a Beatrice di prendersi cura di Luca, ma non poteva chiederne l’affidamento, c’erano parenti in vita che avevano diritti che lui non aveva, ma si sarebbe occupato di lui, sincerandosi che stesse bene e che avesse una buona sistemazione. L’avrebbe seguito per tutta la vita, non l’avrebbe mai abbandonato, di più non poteva fare. Marco era rimasto al pronto soccorso con lui, erano le tre di notte e lo stava riaccompagnando a casa. Durante il tragitto in auto, nessuno dei due sembrava aver voglia di parlare, l’orrore vissuto quella sera era impresso nelle loro menti e il dolore per la morte di Beatrice era vivo e presente tra di loro. Fu soltanto sotto casa di Roberto che Marco ruppe quel silenzio assordante. «Ascolta, Roberto, so come ti senti, ma non è stata colpa tua. Tu hai cercato di proteggere Beatrice lasciandola fuori da quel maledetto casolare. Nessuno poteva immaginare che proprio a lei sarebbe toccato lanciarsi all’inseguimento di quel demonio!» «Però è successo, cazzo! »

«Ognuno di noi ha il suo destino, evidentemente quello di Beatrice era quello di terminare la sua vita ieri sera, in un modo o nell’altro sarebbe successo, sono sicuro che sia così.» «Un bel discorso da fatalista, ma in questo momento non mi consola! Comunque è inutile parlarne, ormai indietro non si può tornare. Ci vediamo tra qualche ora in ufficio.» Roberto aprì la portiera e scese dall’auto. Marco lo richiamò.

«Roby, sicuro di stare bene? Vuoi che rimanga a farti compagnia?» «Sto bene, Marco. Vai a casa da tua moglie e tuo figlio, saranno preoccupati.» Marco restò a guardare Roberto entrare nel portone di casa. Sapeva che non sarebbe stato facile per lui superare quanto era successo, non era facile per nessuno di loro.

Alle otto della mattina successiva, Roberto andò a prelevare Luca a casa di Beatrice. La ragazza che era stata con lui tutta la notte, Sara, aveva lezione all’università e aveva fretta di andare. Anche lei era sconvolta per quanto era successo e si disse disponibile a continuare a occuparsi del bambino, se ce ne fosse stato bisogno. Roberto conosceva bene Luca, era spesso stato in commissariato, si divertiva un mondo quando sua madre lo portava in ufficio. «Giovanotto, che piacere vederti! Allora, pronto per andare a scuola?» Il bambino era triste e silenzioso, circostanza abbastanza strana, di solito era un bambino allegro e molto affettuoso. «Cosa c’è che non va, Luca?» «Questo me lo devi dire tu. Dov’è mamma?» Roberto non rispose, aveva ato tutta la notte preparandosi un discorso da fare al bambino, ora non ricordava una sola parola di quanto doveva dire e poi aveva deciso di farlo quella sera, con calma, a casa sua, non così, non in quel momento. «Ti ho fatto una domanda, perché non mi rispondi? Sono un bambino, non uno stupido. So che il mestiere di mamma è pericoloso, lo vedo in televisione quanti poliziotti muoiono. È successo anche a lei? La mamma è morta, vero?» «Ascolta, Luca…» «Mi devi solo rispondere, la mamma è morta?» urlò istericamente il bambino. «Mi dispiace, Luca. Mi dispiace davvero tanto.»

Il bambino rimase a lungo in silenzio, giocherellando con un portachiavi appeso al suo zaino. «Posso chiederti un favore?» «Tutto quello che vuoi, Luca.» «Potrei rimanere a casa da scuola, stamattina? Non me la sento di andare in classe. Puoi portarmi al commissariato con te?» «Ma certo, ricordi quella bella stanza spaziosa dove c’è un grandissimo televisore? Oggi sarà tutta per te e tutti noi ti faremo compagnia a turno, vedrai che non ti sentirai solo.» Il bambino era stranamente tranquillo. Roberto si sarebbe aspettato che urlasse, che si disperasse, che si lasciasse andare a scene di disperazione. Invece la compostezza, l’intelligenza e la forza di quel bambino lo sorpresero. La pena che provava per lui si stava trasformando in ammirazione e profondo rispetto. Luca era un bambino, è vero, ma gli stava dimostrando quanto i bambini a volte siano più saggi e più forti degli adulti. «Posso abbracciarti?» gli chiese improvvisamente Luca. «Ma certo, vieni qui.» Roberto abbracciò forte il bambino che si lasciò andare a un pianto liberatorio e lui fece lo stesso. Rimasero abbracciati per diversi minuti, piangendo per quel terribile dolore che avevano dentro.

Al commissariato di Torino centro, Roberto e i suoi collaboratori interrogarono tutti gli arrestati delle due sette rivali, “I serpenti di Satana” e “In nome del Padre”. Furono individuati tutti gli autori materiali degli omicidi commessi e le dinamiche degli omicidi stessi. I racconti furono spesso raccapriccianti, specialmente fu l’omicidio di Lucia Lorenzi a toccare gli investigatori. Il coraggio di quella donna, morta con il sorriso sulle labbra, quella strana atmosfera che i testimoni descrissero, come se Dio fosse presente in quel momento, era davvero toccante. Roberto era nel suo ufficio, davanti a sé aveva Riccardo Lupi, la sua somiglianza con Simone era decisamente impressionante.

Finalmente Riccardo aveva conosciuto la storia della sua vita ed era rimasto sconvolto dalla notizia che la “sacerdotessa” era in realtà sua sorella gemella. Lui, a modo suo, amava quella donna e si era dovuto rendere conto di essere stato usato e manovrato da lei, di avere subìto un vero e proprio lavaggio del cervello. Valentina aveva ottenuto da lui tutto quello che voleva, l’aveva convinto che Satana fosse la loro guida, che il male era giusto e che Simone, suo fratello, fosse un suo nemico, una persona malvagia che andava punita e lui le aveva creduto. Aveva chiesto a Roberto di poter parlare con Simone, aveva un profondo desiderio di conoscerlo meglio e di chiedergli perdono. Sarebbe stato Simone a decidere, quando fosse guarito, se accettare o meno di incontrare il fratello. Riccardo rivelò a Roberto che il rifugio antiaereo sarebbe dovuto diventare la base della loro setta, il luogo dove sarebbero state celebrate le loro messe e dove si sarebbero sacrificate delle vite in nome di Satana. Simone aveva libero accesso a quel luogo, Riccardo, prendendo il suo posto, sarebbe stato la chiave per impossessarsene. Quanto al virus, era un’arma che la sacerdotessa voleva usare per minacciare don Nicola, voleva che sciogliesse la sua setta e la lasciasse libera di diffondere la parola di Satana. Lui si era opposto e aveva cominciato ad avviare una catena di omicidi per far capire alla figlia che mai le avrebbe permesso di avere la meglio e che avrebbe combattuto il male per sempre. Era una storia sconcertante e incredibile, frutto di due menti malate che avevano provocato tanto dolore nella vita di tante persone. Ascoltare il racconto di Riccardo fu devastante per Roberto. Quanti innocenti avevano perso la vita! Pensava a Beatrice, la vedeva in ogni angolo del commissariato e, appena poteva, andava da Luca per sincerarsi che stesse bene, per quanto fosse possibile. Era poliziotto ormai da vent’anni, ma non ricordava di aver provato mai un dolore così grande come quel giorno.

EPILOGO

Era ato un mese, da quella terribile notte. Luigi Riccio, il medico che aveva seguito Simone durante la sua prigionia, il creatore del virus che aveva contagiato Simone e alcuni membri della setta “i serpenti di Satana” che nel frattempo si erano ammalati, stava collaborando con i medici dell’ospedale Mauriziano per rendere efficace l’antivirus in modo da ridare a Simone l’uso degli arti inferiori e superiori e permettere di curare gli altri malati, garantendosi così uno sconto della pena. Simone stava meglio, ma la mobilità degli arti era ancora molto scarsa ed era inoltre in cura presso un ottimo psichiatra che cercava di curare le gravissime e profonde ferite dell’anima. Anna Brunelli era in via di guarigione, era ancora ricoverata in ospedale e ava le sue giornate in compagnia di Simone convinta, non a torto, che la sua presenza e il suo amore avrebbero aiutato Simone a guarire. Anna aveva parlato a lungo con Andrea che, dopo la brusca reazione iniziale, aveva capito la situazione, accettava la separazione consensuale da Anna e si erano accordati per l’affidamento congiunto di Carlotta. Anna aveva promesso a Simone che si sarebbe trasferita da lui e, insieme, avrebbero cresciuto le tre bambine, attualmente affidate alle cure di Alessia Brunelli. Valentina Grande era rinchiusa in un ospedale psichiatrico di massima sicurezza e non ne sarebbe mai uscita. Era stata dichiarata totalmente insana di mente, viveva in isolamento totale, all’interno di una stanza insonorizzata. Non avrebbe più fatto del male a nessuno. Tiziano Roncati aveva ottenuto uno sconto della pena grazie alla sua collaborazione con la giustizia, al monastero di Sacro Cuore erano stati arrestati tutti i membri della setta “nel nome del Padre”, tutti incriminati per la morte di tre persone. I pochi preti estranei ai fatti erano rimasti a occuparsi del monastero. Alessia Brunelli si era offerta di badare alle figlie di Simone, aveva preso un periodo di congedo dal lavoro e faceva la “zia” a tempo pieno, occupandosi anche di Carlotta, quando Andrea era al lavoro. Stefano era rientrato in agenzia, dopo l’esperienza da investigatore che gli aveva fruttato una medaglia della quale andava piuttosto fiero e ricopriva il ruolo di vice direttore, in assenza di

Alessia. Aveva ricominciato la sua vita sregolata, fatta di notti folli e di divertimento. Eppure non rinunciava a corteggiare Alessia, se quella donna gli avesse ceduto, sarebbe stato persino disposto a cambiare vita. Anche Luca, con la sua medaglia al petto, era tornato al suo lavoro, presso il suo negozietto di antiquariato. Erano entrambi rimasti in contatto con Roberto, il quale si era assicurato che, in caso di necessità, avrebbe potuto ottenere ancora la loro preziosa collaborazione. Roberto si stava pian piano riprendendo dal dispiacere per la morte di Beatrice e, grazie al fatto di essere un poliziotto, aveva ottenuto un affidamento temporaneo di Luca, in attesa di trovare per lui una sistemazione definitiva. I servizi sociali si stavano occupando del caso. I genitori di Beatrice erano stati considerati non idonei a occuparsi del bambino, a causa dell’età avanzata e dei problemi di salute. Il fratello di Beatrice, Tommaso, viveva in Australia e, per motivi di lavoro, era impossibilitato a trasferirsi a Torino e non era certo il momento di sottoporre il bambino a un altro stress facendogli cambiare paese. Quindi, in attesa di quanto avrebbe deciso il Tribunale dei Minori, Roberto si occupava di Luca, aiutato da Sara, la ragazza che da sempre accudiva il bambino. La storia d’amore con Daniela si era conclusa, erano troppi gli ostacoli tra i due, soltanto un grande amore avrebbe potuto superarli, evidentemente il loro non era un sentimento così profondo. Quel giorno, Roberto si trovava all’ospedale Mauriziano per una visita di controllo. La ferita al fianco era guarita, aveva tolto i punti di sutura la settimana precedente, quella sarebbe stata l’ultima visita. Nel corridoio d’ingresso, incontrò Alessia Brunelli. «Roberto! Che piacere vederla! Come si sente?» «Molto meglio, Alessia, almeno fisicamente. Per il resto, ci vorrà tempo per riprendermi.» «A chi lo dice! Questa storia mi ha letteralmente sconvolta! Prima la scomparsa di Simone, poi la scoperta della relazione tra lui e mia sorella, poi l’attentato ad Anna! Senza contare la terribile storia che c’era dietro a tutto questo! Cerco di non pensarci e mi occupo delle bambine a tempo pieno, con il loro aiuto riuscirò a riprendere una vita normale, almeno così spero.» «Ce la farà, vedrà. Comunque, perché non ci diamo del tu, visto che in questo

momento sono solo Roberto Fogli e non “il commissario”?» «Volentieri, Roberto. Sono contenta di averti conosciuto, all’inizio devo ammettere che mi stavi parecchio antipatico, poi invece ho capito che sei un uomo in gamba, molto generoso e sensibile, qualità decisamente rare al giorno d’oggi.» «Beh, il sentimento è reciproco. Anche tu all’inizio mi eri poco simpatica, invece devo dire che sei una gran donna. Quello che stai facendo per quelle tre bambine ti fa onore, sono sicuro che con te staranno benissimo. Sei qui per vedere Anna?» «Sì, le bambine sono a scuola e ho pensato di venire a trovare lei e anche Simone. Quei due sono molto innamorati, spero che il sentimento che li unisce li aiuti a superare questo momento terribile.» «Ti dispiace se vengo con te? Avrei piacere di salutarli tutti e due.» «Ma certo! Saranno felici di vederti, in fondo è grazie a te se Simone è ancora vivo, sei arrivato proprio al momento giusto!» I due si incamminarono, in silenzio, verso la stanza di Simone. Bussarono ed entrarono. Anna era seduta di fianco al letto, teneva la mano a Simone e lo guardava con infinita dolcezza. «Allora, come state ragazzi?» si informò Roberto. «Fisicamente molto meglio, commissario» rispose Simone. «Pare che l’antivirus cominci a funzionare, sto riacquistando l’uso degli arti, anche se occorrerà ancora un po’ di tempo e tanta fisioterapia. Per il resto, c’è un buon psichiatra che mi sta seguendo. Dimenticare la prigionia, le torture subite, il terrore provato, sarà abbastanza facile rispetto a quanto ci vorrà per dimenticare il resto, se mai ci riuscirò. Ho vissuto per anni con un mostro, mia sorella! Sono andato a letto con lei, l’ho sposata e ho avuto due figlie da lei, senza mai capire che razza di bestia fosse. Sembrava una donna e una madre normalissima, non ho mai notato in lei atteggiamenti sospetti. Certo, spesso la sera usciva e mi lasciava le bambine, inventandosi delle serate con le amiche, io le credevo! Come ha fatto a recitare così bene e per così tanto tempo? E poi penso a Irene e Vanessa. Cosa racconterò loro, un giorno, della madre? E poi ora finalmente conosco la mia storia, le mie origini, l’identità di mia madre e di mio padre e anche questa è

stata una scoperta terribile. Sono nato in seguito a un atto di violenza, mia madre si è suicidata, mio padre non si è mai assunto le sue responsabilità, mi ha preso in giro per anni ed è anche un assassino! Potrei continuare ancora, ma non ne ho nemmeno la forza…» «Lo so, Simone, è davvero difficile da accettare, ma lei ha comunque accanto una donna splendida che la ama, ha due figlie da crescere, riuscirà a superare tutto, ne sono certo. Nessuno di noi aveva capito chi fosse veramente Valentina, non deve farsene una colpa. Anzi, deve essere fiero di quello che è oggi, una persona sana, pulita e di buoni sentimenti. Tutto si aggiusterà, ci vuole solo tempo. E lei, Anna, come si sente?» «Io sono praticamente guarita, ancora un paio di giorni e sarò dimessa. Mi trasferirò temporaneamente a casa di Alessia e ci prenderemo cura insieme delle bambine, finché Simone non si sarà rimesso. Per il resto, anche io cerco di superare tutta una serie di traumi. Il fatto di aver subìto un attentato è il meno, quello che non riesco a togliermi dalla mente è il mio ultimo incontro con Valentina. Come è stata brava a fingere! Mi ha fatta sentire talmente in colpa, ha recitato la parte dell’amica tradita e offesa con una tale naturalezza! Comunque sono d’accordo con lei, Roberto. erà, ne usciremo, con la forza del nostro amore.» Roberto si trattenne ancora qualche minuto nella stanza di Simone, poi si congedò. Il medico lo aspettava per la visita di controllo, non poteva farlo attendere. Alessia uscì in corridoio con lui. «Alessia, ti auguro ogni bene. Se ogni tanto ne avrai voglia chiamami, così facciamo due chiacchiere, che ne dici?» «Perché no? Magari potresti venire a cena da noi qualche volta, se la cosa ti fa piacere. Ti avverto, ti sembrerà di trovarti nella succursale di un asilo, dovrai scavalcare pile di giocattoli mentre cammini per le stanze, però ti assicuro che casa mia non mi è mai sembrata bella e viva come in questo periodo!» «Lo so, ricordo i primi anni di vita di mio figlio, il caos regnava sovrano in casa, ma era comunque stupendo e lo sto rivivendo adesso con Luca, il figlio di Beatrice. Come sai, mi sto occupando di lui in attesa che il Tribunale per i Minori decida quale sarà il suo futuro.» «Sì, ho saputo che ti sei offerto di prenderti cura di quel bambino e questo ti fa

onore. Povera ragazza, non posso credere che abbia perso la vita in modo così assurdo! Beh, vorrà dire che se accetterai il mio invito a cena, avremo un bambino in più a farci compagnia, ancora meglio! Ci tengo davvero, vorrei che tu venissi.» Roberto la abbracciò, d’istinto. Quella donna gli piaceva, quando era in sua compagnia si sentiva sereno e in pace con il mondo. Era una strana sensazione, che non aveva mai provato prima di allora e alla quale non era ancora in grado di dare un nome. «Verrò, te lo prometto» le sussurrò. Quindi, si avviò attraverso il lungo corridoio. Si voltò ancora una volta verso Alessia. La donna gli fece un cenno di saluto e gli sorrise. Lui ricambiò il sorriso e in quel preciso istante capì che, nonostante tutto, avrebbe potuto ancora essere felice.

F I N E

RINGRAZIAMENTI

Dopo “La maschera di Belleville”, il mio romanzo d’esordio, è stato per me naturale continuare a scrivere storie che raccontassero le vicende di vita dei personaggi del commissariato parigino, ma tra una storia e l’altra legata al commissario Claude Roche, ho voluto ambientare un romanzo a Torino, la mia città. Una città affascinante, misteriosa e piena di oscuri segreti. Così ho messo per un attimo da parte Parigi per dedicarmi a un commissariato di polizia tutto nostrano. Scrivere “Good Evil – Il bene contro il male” è stato divertente, apionante e coinvolgente. Man mano che proseguivo nella scrittura mi affezionavo ai personaggi, ad alcuni per l’alone di mistero che li circonda, ad altri per la dedizione al lavoro che svolgono, ad altri ancora per la spensieratezza, per la ione o la profonda umanità. Ne è venuto fuori il romanzo che avete appena finito di leggere (e di questo vi ringrazio immensamente!). Il risultato finale è anche merito di chi mi è stato vicino incoraggiandomi, consigliandomi, convincendomi a continuare a mettere nero su bianco tutte le storie che nascono nella mia mente. Ringrazio tutti i miei familiari e amici che hanno letto la prima stesura del romanzo, dandomi consigli sinceri e preziosi. Senza di loro questo romanzo non sarebbe mai stato pubblicato. Ringrazio Roberto, il mio compagno di vita, per avermi ridato quella fiducia in me stessa che è stata determinante per continuare la mia avventura come autrice di libri gialli. Ringrazio la casa editrice CIESSE EDIZIONI per avermi dato una seconda opportunità e per avermi accolto con gentilezza, disponibilità e professionalità, il mio editor Irina Turcanu per il prezioso lavoro svolto e, per finire, ringrazio per l’ennesima volta tutti voi che avete letto la mia storia fino alla parola “FINE”, con la speranza di avervi tenuto compagnia per qualche ora e di avervi fatto sognare con me.

Flavia

LA MASCHERA DI BELLEVILLE

Il romanzo d’esordio di Flavia Maria Macca Editore: CIESSE Edizioni Genere: Giallo/Thriller Pagine: 320 Collana: BLACK & YELLOW Mese/Anno: settembre 2012 ISBN Libro: 978-88-6660-052-7 ISBN eBook: 978-88-6660-053-4

Michelle Perrin, una studentessa universitaria di ventiquattro anni, sta correndo nel quartiere di Belleville a Parigi, cercando di sfuggire a un misterioso uomo mascherato che la sta inseguendo. Purtroppo, l’uomo la raggiunge e la rapisce. Cosa c’è dietro al rapimento di Michelle? Quale torbida storia? Il commissario Claude Roche e i due ispettori Alex Renard e Henry Rupert, si troveranno a dover districare un’imbrogliata matassa che li porterà a indagare all’interno di una grande industria farmaceutica di Parigi, la Paris Pharma e a fare i conti con una serie di omicidi seriali. Un romanzo che descrive i pericolosi percorsi e le deviazioni della mente umana, ai quali si intrecciano i sentimenti più veri: l’amore e l’amicizia.

Copyright © 2014 CIESSE Edizioni

GOOD EVIL

Il bene contro il male

di Flavia Maria Macca

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