Oreste Borgatti, Doppio omicidio Copyright© 2014 Edizioni del Faro Gruppo Editoriale Tangram Srl Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizionidelfaro.it –
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Prima edizione: dicembre 2014
ISBN 978-88-6537-368-2 (Print) ISBN 978-88-6537-901-1 (ePub) ISBN 978-88-6537-902-8 (mobi)
In copertina: Mani, foto di Edio Bison
Si ringrazia Idra Music Saronno
Il presente racconto è opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, situazione, nomi o persone è da ritenersi del tutto casuale. O forse non del tutto…
L’autore ringrazia tutti quelli che, a titolo diverso, hanno reso possibile questo.
I cd con le canzoni di Dina Nasi, alle quali si fa riferimento in questo libro, sono disponibili contattando
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Capitolo 1
Well I’ve heard them call my name And it sounds so unreal Good traditions of love and hate Good traditions must be saved
One… Two… and One Two Three Four…
“E qualche volta ricordarsi che la pausa dopo il primo ritornello è di due quarti? Dai, mi fai veramente incazzare… e sì che suoni la batteria!” Dee come al solito è il più agguerrito e non risparmia critiche a nulla e nessuno. Iniziando preferibilmente con il batterista. “Ma sentilo il signorino… e tu, usare un effetto diverso con quel distorsore? Mi sembra una friggitrice del pesce?!” Anche Train non sa stare zitto e così tutte le tensioni accumulate nelle lunghe ore di prove, trovano naturale sfogo nel post concerto. Voice e Ciano annuiscono, in realtà senza far capire con chi dei due litiganti sono d’accordo: li ammiro, sono veramente due abili diplomatici. L’unico che continua a veleggiare nella sua dimensione parallela, sordo a quelle che sembrano essere sterili beghe di portineria e lontano dal benché minimo
coinvolgimento è, come al solito, Dark. Dark tutto d’un pezzo, che senza di lui ogni serata sarebbe una vera catastrofe, sia da un punto di vista musicale che tecnico. “Il basso – signori – è il cuore pulsante di una rock band! Armonia, melodia e ritmo in una nota… sublime sensazione!” Quante volte l’ho sentito ripetere questo ritornello, senza sosta e senza ripensamenti, al punto che ha quasi convinto tutti! “E adesso, la nostra miss come al solito si dilegua, perché lei è troppo tenera per sporcare le sue belle manine con gli strumenti da smontare!… Va là che se non fossi mia amica te lo direi io cosa potresti fare adesso!” Eccoli alla carica, con il loro maschilismo che manifestano in considerazioni e battute rivolte a me che nella band sono l’unica presenza femminile, tastierista e autrice della maggior parte dei nostri brani, ma, anche quella che nei momenti del lavoro da roadies, ritorna a essere semplicemente la donna, quella con la D maiuscola, quella che certa letteratura narra non esser capace neppure di far benzina da sola… ma sì… li lascio sproloquiare tra loro, mentre espongono quelle convinzioni così radicate che so non cambieranno mai e intanto faccio quel che so fare meglio: pubbliche relazioni con i fans e gestori dei locali. D’altra parte qualcuno dovrà pur farle, dico io, mentre mi allontano, confermando così le loro certezze. “Mi scusi signorina, perdoni l’ardire e non vorrei assolutamente importunarla ma, mi sto chiedendo, le canzoni che avete suonato questa sera le avete composte veramente voi? Cioè, sono proprio tutte vostre?” Mi giro e vedo un tipo che se non avesse parlato credo non avrei mai notato, uno di quegli uomini tappezzeria apparentemente senza età e senza storia che compaiono e scompaiono senza lasciare traccia. “Eh sì che le nostre canzoni sono tutte nostre, altrimenti non sarebbero nostre, non credi?” rispondo un po’ sarcastica e un tantino scocciata. “Certo signorina, non sono completamente ottuso, cosa crede? A volte alcune frasi vengono dette solo per interagire o come vien più comunemente detto, per
rompere il ghiaccio. Permetta che mi presenti: io mi chiamo Manlio Rognoni e stasera vi ho ascoltato molto attentamente. Potrei cogliere l’occasione per offrirle da bere?” Si avvicina e mi tende una morbida mano bianca latte da stringere. “Ma sì dai… un gin tonic a quest’ora mi aiuta con la buona notte. Allora, cosa dicevi della nostra musica?” Mentre gli rispondo lo guardo meglio: penso che la prima impressione forse non è stata così indovinata. Mi conosco e so che a volte sono un po’ precipitosa nelle mie valutazioni. Mi accorgo dell’errore in un secondo momento, e non sempre in tempo utile per tornare sui miei i. Il tipo è senz’altro fuori posto in questo locale frequentato per lo più da un gruppo di motociclisti cloni di qualche film americano di seconda categoria e da giovanotti a tutto interessati fuorché alla musica, ma dietro quell’espressione vagamente retrò, le sue parole e il tono di voce lasciano intuire un personaggio di ben altro spessore. Indossa un completo a piccoli scacchi marroncini e panna, e intravedo anche la catena di un orologio da taschino che sbuca dal panciotto tinta unita. Il farfallino intonato alla mise completa quell’immagine che definirei molto, ma molto british: un piccolo ritratto alla Oscar Wilde. Sorrido intanto che lo studio. “Ecco il suo gin tonic signorina” la sua voce mi riporta al presente, distogliendo il pensiero da quelle divagazioni. “Le chiedevo delle canzoni che avete presentato questa sera perché mi sembra che possano ambire a ben altri palcoscenici”. Oddio, e senti come si esprime – sembra veramente uscito da qualche romanzo vittoriano – continuo a pensare tra me e me. Forbito e di charme, senza dubbio, ma c’è qualcosa in lui che mi infastidisce, e non saprei dire cosa, così a pelle. “Senti signor Manlio o come ti chiami, non sono abituata al signorina e soprattutto mi piacerebbe capire cosa mi stai dicendo!” reagisco con quel mio solito stile che molte volte si rivela inopportuno.
“Signorina” insiste lui “la sua musica è senz’altro meglio del suo carattere! Sto semplicemente facendo degli apprezzamenti sulla qualità di quello che ho ascoltato questa sera. Credevo di esser stato chiaro! Ma forse io non mi spiego bene oppure lei crede che io possa essere uno dei soliti corteggiatori da bar che flirtano inventando qualsiasi scusa per raggiungere il loro scopo…” “Basta, ok basta” lo interrompo “ho capito, non ci stai provando e ti piace la nostra musica. Sono veramente contenta ma si è fatto tardi. Devo aiutare gli altri a sistemare gli strumenti e poi voglio andare a casa… ci sentiamo un’altra volta bello… stasera può bastare così”. Detto fatto torno dalla band che mi reclama a gran voce lasciando il nostro estimatore senza parole. “Ti sei fatta pagare?” mi chiede Dee. “Ma figurati… la conosci. Sarà stata a spettegolare con qualcuno e dei soldi si è dimenticata perché lei tanto vive d’aria. Lei sogna chissà cosa, ma di money nada” aggiunge tentando di essere spiritoso Train. “Adesso vado, adesso vado” taglio corto, intanto che mi allontano sbuffando. Il padrone del locale – che conosciamo da tempo visto che suoniamo sul suo palco come se fossimo a casa nostra – è veloce e preciso… talmente veloce a pagare che se ti distrai un momento i soldi manco li vedi. “Oh Dina” mi chiede “Ho visto che hai fatto colpo sul dandy. È ancora lì al banco che ti aspetta…” “Ma piantala dai… piuttosto sai chi è?” “No, mai visto, ma se vuoi chiedo. Non dirmi che ti piace!” “Ma fammi il piacere… ci vediamo il mese prossimo che abbiamo un paio di canzoni nuove da presentare. Ciao bello!” lo saluto intanto che controllo il compenso della serata. “Ciao sexy, ti aspetto!” Sexy?… ti aspetto?… lo incenerisco con lo sguardo e lui subito si corregge “Vi
aspetto volevo dire…” Mentre mi avvio verso l’uscita ecco che l’omino vintage si piazza davanti e, puntando l’indice in modo poco elegante, senza altro aggiungere dice: “La canzone In my bones… quelle parole… I can feel bells ringing… io so cosa sono le campane… io so che quando suonano risvegliano la voce… io so… io lo so…” Mi fissa con quegli occhietti miopi nascosti dietro occhiali dalla montatura rotonda e se ne va, lasciandomi immobile e perplessa. Ha ascoltato sul serio la mia canzone? Mah, forse sono stanca e lui ha recitato qualche verso che si ricordava così tanto per far colpo… anche se in realtà le parole sono proprio quelle che ho scritto e cantato.
Capitolo 2
A broken mirror shows a face With a smile full of mistakes Empty pages filled up with dreams Where are the notes we used to sing?
Il risveglio è sempre lento: non sono una di quelle persone attive e reattive da subito, ma per fortuna oggi inizio a lavorare un po’ tardi, alle 11, e questo mi garantisce un certo margine di ripresa. Perché, anch’io come altri, dopo avere soddisfatto il mio buon Mister Hyde di sera, ho un terribile Dottor Jekyll che, inflessibile, mi aspetta di giorno: mi piacerebbe che fosse il contrario ma quel che vorrei non sempre può essere quel che in realtà è. Mi alzo, lentamente mi dirigo verso il bagno e ammiro il mio viso riflesso. Dio, come mi manca lo specchio fatato, quello della più bella del reame, che nella fiabe ti dice che sei sempre al top eccetera eccetera… Scuoto la testa e intanto che provvedo al restauro di rito, ripenso al tipo della sera precedente e alle sue parole. Ma ha veramente ascoltato la canzone? Sembrerebbe innegabile, visto che se ne ricordava qualche parte. E quel “Io so… io lo so” delle campane in testa: ma cosa ne sa lui delle mie campane?
Mah… meglio che io mi muova e anche alla svelta. “Oh là Dina, anche stamane di corsa eh… non proprio come la tua squadra” la voce allegra di Alex mi ricorda che devo veramente sbrigarmi, ma al suo caffè non ci posso rinunciare. E il suo bar è proprio sotto casa. “Cosa ci vuoi fare Alex, lo sai che è sempre così: più tardi inizio e più in ritardo sono” gli rispondo meccanicamente cercando di ignorare l’allusione alla mia squadra che quest’anno è messa proprio male. “Oh bellina… che tu fai finta di nulla, ma che tu sai che ti dico… squadra di cadaveri a strisce la tua” rincara il toscano. Lo odio. Calcisticamente parlando, lo odio. Salgo in macchina e pregodiocheparta… et voilà… partita! Sono anni che mi riprometto di cambiarla visto che ormai sembra uscita da quei video in bianco e nero memorabilia di tempi andati, ma, mese dopo mese anno dopo anno, va a finire che i pochi soldi che risparmio li investo in strumenti musicali e la vettura rimane sempre la stessa. Guardo nello specchietto retrovisore e credo di intravedere qualcuno fermo all’angolo del marciapiedi che mi fissa. Mi giro… no nessuno… devo essermi sbagliata. Eppure… “Buongiorno signorina! Sempre elegante lei! E si è sistemata i capelli! Ma come trova anche il tempo per andare dalla parrucchiera! Oh, sapesse come la invidio! Così giovane, così bella” Kalashnikov, la segretaria che parla come fosse una mitragliatrice, non mi lascia neppure varcare la soglia che già mi investe di tutto e di più. “Guardi signorina, deve firmare l’avviso per presa visione e dovrebbe gentilmente confermarmi la sostituzione della Signora Maffei che come certamente si ricorderà ha chiesto un permesso per motivi familiari” manco respira la mitragliatrice.
“Sa signorina, sembrano gravi motivi familiari” aggiunge enfatizzando le ultime parole. Non la sopporto lei e tutti i suoi signorina e tutte le firme che chiede sempre a mo’ di questua! Anche se è sempre gentile e direi pure affettuosa a modo suo. Del soprannome che le ho dato ovviamente non sa nulla: credo ci potrebbe rimanere male. Sorrido con fare complice intanto che firmo. Entro in sala insegnanti e così completo la mia trasformazione in Dottor Jekyll. Rocker di notte e prof di musica di giorno… Non che mi spiaccia, anzi: l’aver centinaia di adolescenti aggrappati al cervello tutti i giorni con i loro come quando dove perché mi permette di non sentire il peso del quotidiano. Apro il cassetto alla ricerca dei registri. Ma ecco che arriva lei, quella di italiano da evitare a tutti i costi… sembrerebbe che… sì, mi punta… ce l’ha con me. “Collega” esordisce in perfetto professorese. “I tuoi ragazzi oggi mi han fatto proprio ammattire!” I miei ragazzi? Ci risiamo: è come nelle discussioni in famiglia… se il figlio ha sbagliato è figlio tuo eccetera eccetera. “Non studiano e non stanno neanche ad ascoltarmi! E sì che io parlo per il loro bene! Guarda, sono proprio scostumati! Fai tu qualcosa, che a te danno retta!” guaisce incalzandomi imperterrita. Hyde da dentro mi implora di mollarle un cazzotto proprio lì, sulla bocca… e sa dio se non lo farei… ma Jekyll mi blocca sul più bello e mi sento dire: “Tranquilla, ci penso io! Vai a bere un caffè e cerca di riprenderti”. Prendo il registro e la chitarra incrocio lo sguardo di Cesare, l’insegnante d’inglese che, comodamente seduto, si è goduto la scenetta.
“Anche oggi il volpino è in forma eh” mi dice ridendo. “Lascia stare dai che altrimenti dico quel che penso e non sarei carina per niente! Tu piuttosto, cosa fai qui?” “Ora buca. Correggo un po’. Ma se vuoi uscire con me, smetto subito!” Cesare è simpatico, c’è un certo feeling, capisce anche di musica il che non guasta ma – per dirlo in modo carino – ha l’alito sempre un po’ pesante e quando si fa troppo vicino mi sento come il Titanic affondato dall’iceberg! Manteniamo le distanze baby. “Signorina le ricordo che ha quella sostituzione e che la camla è già suonata”. La voce di Kalashnikov mi investe e obbligandomi a iniziare la mattinata. Curioso: anche lei con le campane che suonano…
Capitolo 3
Holy men they preach from chairs Suggesting words of wisdom there Good traditions of love and hate Good traditions must be saved
“Certo è che l’altra sera avete suonato proprio male!” Rivedersi e venire accolti con una frase del genere detta da Voice che, come suggerisce il soprannome, canta e non suona, significa dare Fiato alle Trombe del Giudizio. “Ha parlato il verbo! Colui che tutto sa e tutto saprebbe sistemare!” ribatte Dee, intanto che allarga le braccia assumendo quasi una posa profetica. Non li sopporto più. “Belli, che ne dite di suonare un pochino?” intervengo tentando disperatamente di stemperare l’inevitabile. “Ho l’abbozzo di una nuova canzone che mi piacerebbe provare insieme. Eddai…” Mission impossible. Gli animi anche stasera sono già caldi, bollenti direi. Troppo testosterone nell’aria. Incurante di loro, accendo le tastiere e inizio a suonare, sperando che qualcuno della band segua l’esempio.
“Dimmi che accordi usi che non mi sembra male”. Ciano, chitarra solista, quello della band che non capisci mai se è presente solo fisicamente mentre la sua mente vaga altrove, ha abboccato immediatamente. Dark, come al solito senza parole e grandi proclami, trasforma il duo in un trio e lascia gli altri tre a crogiolarsi nel Paradiso Perduto dei Musicisti Litigiosi. “Bella… sì funziona. Hai anche delle parole di senso compiuto da cantare o posso sbizzarrirmi a piacere?” Un altro pesce all’amo. Teo the Voice sembra interessato. E così un po’ alla volta, la band si ricompatta dando un senso alla mia idea. Potere della musica. Nell’ora successiva la nuova canzone prende forma, si modifica e cresce fino a essere ascoltabile. Il testo di Voice mi piace. Oltre ad avere un bel timbro, usa anche un inglese fluido e corretto… la fortuna di avere la mamma americana… “Avrei in mente un titolo… Dream. Cosa vi sembra?” azzardo. “Sì, proprio bello… ma dai Dina… scontatissimo! Ce ne saranno almeno mille con un titolo così! Anche se suona bene! Se poi riusciamo a unire a dream un aggettivo, che so magico gotico erotico, vedi tu cosa suona meglio, beh allora direi che il gioco è fatto!” Apprezzamenti della band: ci stanno e mi piacciono. “ami da bere va”. Train è sempre il più assetato, sarà forse che per dissetare un fisico di quasi due metri per più di cento chili occorre una damigiana di birra e non la solita bottiglietta. “Chi era il tappetto che ti parlava dopo il concerto? Dillo, dillo a papà tuo…!” domanda mentre apre l’ennesima bottiglia. “Non lo so, o meglio, è arrivato all’improvviso e si è presentato dicendo di essere un nostro attento ascoltatore. Mi ha anche detto il nome… uno di quelli poco usati… tipo… sai quei nomi che non senti mai se non – forse – negli sceneggiati di una volta” rispondo.
“Dina, sei riuscita a rimorchiare uno come si deve e non ti ricordi il nome! Pensa un po’, forse ha anche i soldi! Uno ricco è quel che ti ci vuole! Oh band, la Dina si sistema! La Dina si sistema! La Dina si sistema!” ripete ballando come fosse uno sciamano che fa la danza della pioggia. Tutti ridono, me compresa. È vero che a volte sembrano dei bambinoni mai cresciuti ma, comunque, mi piacciono. Sono entrata in questa band ormai qualche anno fa e – dopo i classici inizi della serie chi ci prova con la tipa che non si sa mai magari ci sta, subito trasformati in un ah no lascia, stare che anche se non sembra quella è tosta – dicevo, ora sono anch’io parte del gruppo e le prese in giro sono distribuite tra tutti senza distinzione di religione età o provenienza… Beh, sul fatto che io sia donna, qualche presa in giro in esclusiva rimane sempre. “Giuro non lo ricordo… era un nome con la M… tipo Manrico… boh, giuro che non mi ricordo ma – e voi qui non ci crederete – mi ha ripetuto le parole di In my bones. Cioè, roba da matti! Train, tu le avrai sentite migliaia di volte e quasi non le sai ancora! E invece quello, un ascolto solo e me le ha ripetute, perlomeno una parte!” mi infervoro. “Vuoi dire che al Revolution c’è gente che ascolta? Gente che ci ascolta? E non dico i soliti amici che ci seguono ovunque andiamo, ma addirittura un fan nuovo, un piccolino tutto stiloso che sembra uscito da un cartone animato!” “Va là Dina… sei tu che vorresti trovare chi capisce qualcosa di quello che scrivi… e le cose te le immagini… illusa!” interviene Dee colorando le sue parole con quella punta di invidia che spesso gli capita di utilizzare. E così, tra risate, battute e qualche birra la serata in studio di registrazione si conclude e ancora ridendo ci si saluta. “Oh Dina fai la brava a scuola! Pensa a noi che eravamo più scemi dei tuoi alunni e trattali bene! Niente brutti voti, eh prof” mi grida Dark dal finestrino abbassato della sua macchina facendomi l’occhiolino. Guido e ripenso alla serata. La notte è calda e di quell’appiccicoso tipico della stagione.
Pensieri si rincorrono nella testa. Le strade sono deserte e la città è buia… mmhh non male… belle parole… ci potrei scrivere una canzone… Un’auto silenziosa nella notte scura… sì sì, una canzone… Asfalto nero pioggia di velluto e correre andare e non fermarsi mai… mi sa che la scrivo. Che fortuna… un posto libero proprio sotto casa… così non devo neanche camminare un po’. Parcheggio, scendo, chiudo la portiera e mi avvio verso casa cercando le chiavi del portone per non perder tempo quando: “Scusi signorina…” Cazzo, mi si gela il sangue nelle vene e un lungo brivido mi scende lungo la schiena. Sul serio.
Capitolo 4
Time elapses killin’ slow ‘cause my baby has to go No more stairways up to the sky No more tears are left to cry
Il Dottor Rebetti è piuttosto perplesso. Ormai si occupa di casi del genere da una dozzina d’anni, ma la scena che si materializza davanti ai suoi occhi gli sembra veramente esagerata. “Ma qui sembra che abbiano infilato questa donna in una centrifuga e lasciato che il tutto si sparpagliasse in giro!” ripete Astolfi palesemente disgustato. Il corpo adagiato sul pavimento della stanza in una posa innaturale, quasi fosse un burattino a cui hanno tagliato i fili, è solamente un ricordo di quello che senza dubbio doveva esser stato fino a qualche ora prima. Una persona con sogni amori, ansie, paure, felicità e tristezze. Una persona viva. “Allora” domanda Rebetti “c’è qualcuno in grado di fare un veloce riassunto di quel che è successo, o perlomeno di quel che si pensa possa essere successo?” “C’è poco da dire signor commissario: abbiamo ricevuto una chiamata al pronto intervento effettuata dalla signora che risiede nella abitazione attigua a questa. La vicina, tale signora Missiroli, si lamentava dei continui latrati del cane provenienti dall’appartamento accanto. La signora in questione, dopo aver ripetutamente suonato il camlo, non avendo ricevuto risposta alcuna, si è
insospettita ed ha pensato di chiamarci”. Spiega Astolfi cercando tra gli appunti del suo taccuino. E, visto che nessuno lo interrompe o chiede altro, continua: “Giunti sul posto, i colleghi, dopo aver bussato ed essersi identificati, hanno pensato di forzare la porta dell’appartamento che, già a un primo sommario esame, è risultata solamente chiusa con la maniglia e non a chiave. Entrati, il cane della vittima, animale che risponde al nome di Toby, come da targhetta identificativa al collare, era legato con il guinzaglio a un mobile dell’ingresso e ha accolto i colleghi scodinzolando. Percorso il corridoio che conduce alla sala, hanno trovato la vittima, che si presume possa essere tale Skophje Sokolova, come risulta dai documenti rinvenuti nella borsa accanto al corpo. Credo si potrà esser più precisi dopo l’autopsia e la necessaria identificazione”. Conclude Astolfi cercando di darsi un contegno. Tutti i presenti, nonostante lavorino nella Squadra Criminale da tempo, sembrano nauseati dallo spettacolo al quale sono costretti ad assistere. Le pareti della sala, un tempo rivestite da carta da parati giallina decorata con piccoli motivi floreali intonati, hanno ora ghirigori rossi tracciati con il sangue della vittima. Schizzi di sangue sono su mobili, lampade, divano e poltrone e sembrano essercene anche sulle pareti interne dell’acquario, dove alcuni pesciolini ignari continuano a nuotare. Il corpo è sdraiato a terra, seminudo, il viso sfigurato non mostra più alcun tratto distintivo di quel che era fino a qualche ora prima. Occhi naso bocca labbra e denti sono spariti, forse asportati, forse semplicemente frantumati e resi poltiglia. Gambe e braccia sembrerebbero essere state spezzate in più punti. Il tutto evidenzia una ferocia inaudita, quasi fosse l’opera di una creatura uscita da un qualche film di fantascienza. Non opera di una persona.
Questo vedono i presenti. Questo pensano i presenti. Rebetti si mangiucchia l’unghia dell’indice mentre riflette. Una tale violenza è sicuramente opera di uno psicopatico. Nei sui pensieri non dà nomi scientifici alla devianza dell’assassino. O degli assassini. O dell’assassina. A quello ci penseranno i vari psicoanalisti specializzati in un secondo momento. Lui deve trovare chi, dopo aver analizzato il come e il quando. “Intanto che non sono ancora troppo vecchio e scazzato, un caso del genere lo voglio proprio risolvere” pensa tra sé e sé. Rebetti decide di uscire dall’appartamento lasciando che vengano fatti i sopralluoghi, rilevate eventuali impronte e catalogato tutto quello che può rivelarsi utile all’indagine. Lui è ancora un poliziotto alla vecchia maniera, quasi un personaggio da romanzo: osserva, deduci, confronta, risolvi. Lascia che siano Astolfi e la squadra, tutti più giovani e tecnicamente informati su quelle che lui definisce – mai ad alta voce però – diavolerie da laboratorio, a proseguire il lavoro. Rebetti preferisce il contatto visivo. Gli occhi non mentono mai, perlomeno così ama credere. Si accende una sigaretta. Il medico gli ha ripetuto più di una volta di smettere di fumare, ma lui non ci prova neppure. Anzi, non ci pensa nemmeno. “Buongiorno signora. Sono il dottor Rebetti, incaricato delle indagini su quanto accaduto nell’appartamento di fronte al suo. Lei signora dovrebbe essere la vicina che ci ha chiamato e, pertanto, vorrei farle qualche domanda, ovviamente se non sono di troppo disturbo in questo momento”. Il suo approccio con le persone è sempre molto cordiale e affabile, riuscendo a trattarle con una sorta di rispetto nei modi e nelle parole che lo rendono subito gradevole e benaccetto. “Ma prego! Si accomodi pure! Ma che bell’uomo che è lei! Gradisce un caffè?
Un tè? So che in servizio non si può bere, ma per caso, gradisce un liquorino? Ho un nocino che fanno i miei parenti in Umbria che…” La vicina, la signora Missiroli, donna di una certa età, sembra essere galvanizzata dalla situazione. Non ha visto la scena. Lei. Rebetti entra nell’appartamento della signora mentre, con un sorriso e molto tatto, rifiuta l’offerta. Le informazioni, condite da tante chiacchiere e supposizioni tipiche di chi sembra non avere più interessi propri da vivere, delineano un quadro tutto da verificare che comunque lascia supporre che la vittima vivesse la propria quotidianità a un ritmo vorticoso, sia come frequentazioni che come orari. “Scusi l’intromissione Dottore, ma noi qui avremmo finito” la voce di Astolfi lo riporta fuori dalla trama da soap opera intrecciata dalla vicina. “Se crede, potremmo mettere i sigilli alla porta dell’appartamento e ritornare in questura” continua meccanicamente, seguendo la prassi delle indagini. Intanto che la squadra intera lascia il palazzo, Rebetti si guarda in giro. Tra qualche ora il buio della notte scomparirà gradualmente lasciando che i tenui colori del risveglio invadano la mattina. Lasciando che gli incubi notturni invadano i sogni della mattina.
Capitolo 5
Now I’ve heard them Blame my name Another Lord is newly born Another one is lost and gone
Quella voce. “Mi scusi signorina…” Anche senza girarmi per guardare, so chi è. L’ometto del Revolution. Ma qui, sotto casa mia, a quest’ora? A quest’ora e sotto casa mia? Eh no, bello mio, forse non ci siamo capiti. O forse – temo – sono io che non ti ho capito. “Che cazzo vuoi?” abbaio – più per farmi forza che per vera rabbia – intanto che frugo nella borsa alla ricerca di quello spray anti aggressione che ovviamente non trovo. “Mi perdoni signorina, non era mia intenzione spaventarla!” L’ometto tenta di rassicurarmi. “So che presentarmi così all’improvviso e a quest’ora della notte potrebbe trarla
in inganno sulle mie reali intenzioni: tutto quel che vorrei da lei è poterle parlare. Anche solo per pochi minuti. È troppo importante, lei non sa…” Con l’adrenalina a mille continuo a recitare la mia parte: “E tu per parlarmi, salti fuori nel bel mezzo della notte? Ma vai aff…” “No signorina, la prego, non sia volgare. Un bel visino come il suo non può abbruttirsi con simili espressioni” mi interrompe usando il suo frasario datato. Mi blocco, lo guardo, lo squadro e, senza sapere realmente perché, forse per il suo modo di parlare, stabilisco che il tipo non è pericoloso. Le mie solite decisioni affrettate, quelle che poi tante volte si rivelano completamente inesatte. Certo, non pericoloso. Ma di sicuro è bello fuori: non è da tutti aspettare qualcuno che conosci appena appena alle due di notte, in mezzo alla strada, con il rischio di prenderle di brutto, visto che il tuo fisico è pressoché ridicolo. Oddio, non che il mio sia proprio da lottatrice, del resto. Comunque sia, decido di ascoltarlo. “Ok mister, cos’hai da dire. Ma non impiegarci tutta la notte eh, che è già tardi e io sono un pochino sfatta” mi guarda perplesso. “Sfatta… stanca, a pezzi. Capito?” Annuisce. “Signorina, le sue canzoni, quella canzone in particolare, come le ho già detto, lo hanno risvegliato”. Ahia, mi sembrava di saperlo, questo è bello fuori. Maledette le mie decisioni affrettate… “Signorina, adesso lei mi deve aiutare a fermarlo o sarà troppo tardi. Forse è già troppo tardi”. Sì sì… adesso mi parlerà di qualche setta o di qualche maledizione o di chissà
cosa si inventa ancora. “Dai mister” tento di calmarlo. “Non dire così che mi metti in ansia! Chi ho risvegliato? Chi vuoi che possa ascoltare le mie canzoni? O meglio, chi vuoi che tra tutte le mie canzoni abbia ascoltato In my bones, l’abbia capita a modo suo e – vuoi farmi credere – si sia fatto addirittura influenzare? E poi, troppo tardi per che cosa? Per favore, fai il bravo…” Mi guarda e non parla più. Una sola, lunga occhiata che vorrebbe comunicarmi chissà cosa, uno sguardo intenso, di quelli che senza parole ti trasportano in mondi paralleli nemmeno mai immaginati, tanto cupi da trasformare calde notti in gelidi incubi, tanto profondi da toglierti il respiro e non restituirtelo più. Mi guarda e non parla più. Sembriamo una musica alla quale han cancellato tutte le note, lasciando solo le pause. Ci guardiamo in silenzio. Forse pentito di essersi spinto troppo in là, l’omino, com’era il suo nome? Manlio… qualcosa di simile, abbozza un saluto. Mi lascia con un’ultima, sibillina frase: “Signorina, a un certo punto della sua canzone lei cantava Knights and wizards in my soul, a dancer on the moon… Bene, allora decida chi vuole essere: un cavaliere un mago o la ballerina sulla luna. Ma lo decida: l’aspetto domani. Non importa dove e quando. Lei decida ed sarò io a trovarla. E, se riesce… che sia una buonanotte”. Ed è così che Manlio Rognoni, di professione turba sogni, esce di scena. Ed è così che io rimango ferma nella notte, con le chiavi del portone in una mano e lo spray antiaggressione nell’altra, senza parole, ma con tante domande nella testa. Tante domande che, già lo so, mi terranno sveglia per buona parte della notte e che, so anche questo, non troveranno risposta. Perlomeno fino a quando non deciderò di sentire la storia che l’ometto del Revolution ha da raccontarmi.
Io e le mie decisioni affrettate. Io e le mie decisioni sbagliate. Salgo le scale e noto che al secondo piano qualcuno ha messo degli strani pezzi di carta adesiva alla porta dell’appartamento di Skophje. Chissà cosa sono. Biglietti adesivi di un qualche amante respinto… domande e considerazioni che byo al volo. Nessuna festa stasera a casa sua, penso. Non sarà neppure in casa: troppo silenzio. Peccato. Beh, almeno quella stronza della Missiroli non avrà di che lamentarsi. Anche perché, a questo punto, sonno svanito, mi sarei fermata per quattro chiacchiere e un gin tonic. I gin tonic di Skophje sono mitici. Credo che il Revolution debba parte della sua fama a lei: sempre sorridente e abile a preparare qualsiasi tipo di cocktail. Quelli che non conosce se li inventa. E gli avvoltoi che le svolazzano intorno sono ugualmente attratti dalla sua bellezza e dalla sua abilità. …dalla Russia con furore… Intanto che raggiungo casa mia – al terzo piano, proprio sopra l’appartamento di Skophje – ripenso alla casualità della vita. Due donne sole, entrambe straniere nella nuova città, entrambe restie a conoscenze e amicizie superficiali, entrambe con la ione per la musica – io pianista convertita al rock per amore, lei flautista convertita al pub per necessità, che si trovano in un momento di una vita sempre di corsa nello stesso posto, pronte a prendersi una pausa dalla frenesia, riuscendo a unire quell’attimo del loro cammino in un abbraccio sincero.
Beh, quelle eravamo io e Skophje. Le due anime perdute che nuotano nella stessa vasca dei pesci. Quante notti ate insieme, ognuna ad ascoltare affascinata i racconti dell’altra, ognuna a ridere delle storie dell’altra, ognuna a crescere con l’altra. E tutto questo, perso nel vortice di un uragano. Ma questo, ancora non lo sapevo.
Capitolo 6
Now her shadow haunts my soul Life fulfilled with broken dreams Half a page of scribbled lines But words are still frozen on my mind
Ha ato una notte agitata. Non gli capita spesso di avere per le mani un caso del genere, una situazione che non fatica a definire complessa e questo lo ha tenuto sveglio più del dovuto. Il commissario Angelo Rebetti è rimasto a letto, rigirandosi di qua e di là senza mai addormentarsi veramente, attento a non fare troppo rumore per non svegliare l’anziana madre che vive con lui. Ha resistito finché ha potuto, poi, quasi sconfitto, ha ceduto e si è alzato. Silenzioso e quasi furtivo è uscito di casa fermandosi solamente ad ammirare la porta d’ingresso del palazzo dove vive. Nonostante l’abbia vista centinaia, forse migliaia di volte, ne rimane sempre affascinato: il disegno inciso nel pesante legno di mogano letteralmente lo rapisce e spesso si trova a sognare di essere lui stesso l’abile artista che ha avuto quella pazienza e capacità. Si incammina verso la questura pensando a come i sogni siano sempre diversi dalla realtà. La sua scrivania è – come al solito – il regno del caos, anche se quel disordine logico gli permette di orientarsi e trovare quel che cerca in un attimo. Rebetti sa che la mattina produrrà pochi risultati, visto che l’intera squadra ha lavorato sino a tardi e che l’iter burocratico da espletare coinvolgerà i presenti lasciandoli poi sfiniti e bisognosi di una pausa.
Cerca sigarette e fiammiferi, ma nel momento in cui se ne sta accendendo una ricorda le norme sul fumo e – maledicendo tutto e tutti – esce dal Commissariato. “Astolfi perché non vieni con me che ti offro un caffè?” domanda al collega distogliendolo dal lavoro. “Ma certo Dottore: mi sento già stanco al solo pensiero di tutto quel che devo ancora fare! Accetto volentieri” risponde l’altro con una prontezza che rivela la poca voglia di redigere e completare gli inevitabili verbali. I due escono e, come spesso accade in situazioni simili, fermi davanti al distributore automatico, parlando fanno il punto della situazione. “Cosa ne pensa Dottore? Stanotte sembrava di essere entrati in un film horror ma di quelli proprio esagerati… sa come li chiamano… uno splatter!” “Vero, ma non dobbiamo dimenticare che non si tratta di un film, Astolfi. Qui abbiamo a che fare con qualcuno di assolutamente reale. E, in quanto reale, da fermare al più presto, nel caso che poi ci possa prender gusto”. “Ma Dottore, mi dica, cosa le ha detto la vicina? Così a occhio e croce mi sembra una di quelle pettegole ben informate…” “Eh sì, proprio così: l’opinione della signora è che la vittima fosse una ragazza riservata, forse un po’ chiassosa, ha aggiunto, con gente in casa a diversi orari. Un andirivieni che le sembrava equivoco, lasciando intendere che la ragazza potesse essere addirittura una – cito testuale – poco di buono anche se, ha aggiunto subito, lei non ha le prove”. “E certo, poi era pure straniera e sappiamo come si faccia alla svelta a far due più due uguale a cinque!” Rebetti sorride: ogni tanto Astolfi – sempre così ligio e impettito – si lascia andare a espressioni che tradiscono una certa verve interiore. Intanto che mescola lo zucchero al caffè, Rebetti aggiunge: “La signora diceva che la vittima – e qui diamo per scontato che di lei si tratti – era comunque benvoluta da tutti nel palazzo: si trattava di una di quelle persone che pur non dando molta confidenza agli altri inquilini era sempre cordiale nei rapporti di
buon vicinato. Risulta che i due appartamenti situati al primo piano siano affittati rispettivamente al gestore del bar sotto casa e a una coppia gay che al momento è in vacanza, mentre quelli al terzo piano siano occupati da un avvocato che esercita in Svizzera e pertanto è quasi sempre assente e da una signorina insegnante di musica. Sempre stando al racconto della vicina, e che inevitabilmente sarà compito tuo verificare, sembra che la vittima fosse molto amica della professoressa che abita al piano di sopra. Signorina che ieri sera non era a casa perché, sempre secondo le informazioni della Missiroli, suona in un gruppo musicale che, di conseguenza, la porta a esibirsi in concerti serali. Signorina che oggi direi di andare a trovare per farci una chiacchierata”. Sorseggia il suo caffè mentre guarda il collega che sembra voler intervenire. Lo blocca e prosegue: “Sì Astolfi, so cosa vorresti dire, ma saranno solo le classiche quattro chiacchiere informali. E, aggiungo, meglio a casa sua che qui: lo sai che la gente tende a innervosirsi quando la convochiamo! E che, quando si innervosisce, non dice mai tutto quello che potrebbe dire” conclude Rebetti rientrando nel suo ufficio, intanto che lascia Astolfi rassegnato ad affrontare la mattinata. Pensieri diversi affollano la mente di Rebetti. Il modus operandi dell’assassino è estremamente cruento: accanirsi sul volto della vittima con quella ferocia o deriva da un raptus momentaneo o – teme – possa nascere da malesseri profondi e nascosti. Il che lo renderebbe di più difficile comprensione e catalogazione. Un raptus lascia intravedere una situazione più consueta: una discussione degenerata in omicidio o una tentata violenza con resistenza da parte della vittima sarebbero spiegazioni forse ancora plausibili. Ma il piacere che nasce dalla ferocia sarebbe ben diverso. Un salto nel buio dell’inconscio. Rebetti ripensa ai manuali studiati, agli stage e ai corsi di approfondimento e di aggiornamento che obbligatoriamente era stato costretto a frequentare. Tutti momenti mal digeriti poiché ritenuti perdite di tempo. Ne ricorda, però, uno in particolare, qualcosa sulla psicologia animale dell’essere umano.
Il relatore sosteneva che nella nostra società regole e consuetudini – nell’arco della storia – hanno modificato profondamente la reazione istintiva dell’essere umano generando una sorta di uniformità comportamentale che lo spinge ad agire seguendo quanto stabilito da norme e convenzioni codificate. Proseguiva parlando poi di quella che lui stesso definiva “compressione caratteriale”, cioè quel rifiuto di norme e convenzioni che produce una degenerazione del comportamento. Segnali di questa degenerazione vengono evidenziati da esplosioni di violenza, manifestazioni borderline quotidiane che i media illustrano ed enfatizzano e che il pubblico sembra apprezzare sempre di più. Comportamenti che però – aggiungeva – rientrano tuttavia nella logica di devianza dal modello prestabilito. Ma che in alcuni casi, e solo in alcuni casi, generano autentici drammi, tali da essere ritenuti compiuti da veri mostri. Gesti così spaventosi da sfuggire a qualsiasi controllo, a qualsiasi catalogazione. Rebetti sbuffa. Ripensare a quei seminari lo infastidisce anche se – conviene – saranno ricordi da approfondire, soprattutto nell’eventualità che possano rivelarsi di qualche aiuto. Richiama subito Astolfi, forse per allontanare quei pensieri. “La vicina mi ha parlato di un uomo grande e grosso che è stato visto aggirarsi sul pianerottolo al secondo piano. Non si sa se possa essere in qualche modo collegato all’accaduto, ma tu comunque fai in modo di verificare chi era e perché era lì. E, intanto che ci sei, vedi anche di rintracciarlo: sembra lo stereotipo del colpevole e proprio per questo non bisogna trascurare nulla. Anche se mi sembra tutto troppo facile”. Rebetti congeda Astolfi con un sorriso e un inequivocabile gesto della mano.
Capitolo 7
Don’t call my name ‘cause I’m gone You’ve lost my name Now I’m gone
“Oh là Dina! E che te tu non dici punto di questa notte? Eh sì che era amica tua!” “Alex, sei più scemo del solito oggi… chi era amica mia? Si può sapere cosa stai blaterando?” “Oh Maremma bella, ma te tu non sai ancora nulla, povera bimba”. Alex si morde le labbra, ma ormai è troppo tardi e continua: “L’amica tua, la Skophje, ieri sera c’è stato un macello su a casa sua… non so bene di preciso, ma è per certo che l han uccisa!” Quelle ultime parole mi entrano dentro le orecchie esplodendomi in testa con un fragore che mi stende. Skophje uccisa? Skophje morta? Ma cosa cazzo sta dicendo questo? Ma cosa cazzo mi sta dicendo… Crollo su una sedia quasi fossi un pugile nel suo angolo frastornato dai troppi pugni presi.
Mi manca il respiro e vorrei gridare. La mattina mi ha aggredito in un modo spaventoso. In breve Alex e i pochi clienti mi mettono al corrente di quel che sembra essere accaduto la sera precedente. I racconti si intrecciano, le parole si accavallano. Perdo il filo del susseguirsi degli avvenimenti: l’arrivo della polizia, il suono delle sirene dell’ambulanza, l’andirivieni degli investigatori. Tutto mi sembra un’onda indistinta di suoni e rumori. Istintivamente mi giro e guardo fuori: sul marciapiedi vedo la Missiroli intenta a farsi intervistare dalla cronista di una qualche emittente televisiva. Quella vecchia di sicuro sa tutto e quel che non sa lo aggiungerà di sua iniziativa. Il suo quarto d’ora di celebrità ha finalmente inizio. “Prendi questo Dina. È un po’ forte, ma tanto te tu non devi andare a scuola oggi. Suvvia bevi, che ti fa bene”. Alex è premuroso. Si atteggia sempre da fratello maggiore e ora che si rode per avermi dato la notizia – quella notizia – così, senza tanti giri di parole, le sue attenzioni aumentano proporzionalmente a quanto si sente in colpa. Bevo e mi scuoto un po’. Proprio quel pomeriggio saremmo dovute andare insieme a fare un po’ di shopping: terapia d’urto diceva lei. Spendere qualche soldo in modo sconsiderato giocando ai ricchi, senza chiedersi assolutamente nulla, senza darsi nessun perché. Solo così, per il gusto di farlo. E poi ci saremmo sdraiate sul letto a guardare la televisione, mangiucchiando e bevendo, in perfetto stile Pretty Woman… e poi un po’ ubriache – e tra le due io molto di più che l’alcool non lo reggo tanto bene e lei molto di meno che chissà a casa sua cosa era abituata a bere – saremmo uscite per iniziare quel atempo che chiamavamo Caccia Grossa, cioè vediamo chi riesco a conquistare questa sera e che, come al solito, avrebbe avuto una indiscussa vincitrice. Lei. La mia cara amica Skophje.
Lei, quella strana ragazza che si lasciava dietro una scia di felicità e tristezza, ma che la magia che emanava rendeva unica. Parlo di lei al ato. È il ato che già vive dentro il mio presente. Dust in the wind… polvere nel vento. All we are is dust in the wind. Mi alzo, mi sistemo i capelli per darmi quel contegno che non ho, penso di uscire, forse un po’ d’aria fresca mi farà bene. Ci ripenso, lì fuori ci son le televisioni, il caos delle interviste di chi non conosce e vorrebbe sapere chiedendo a chi non sa e vorrebbe mostrare… oddio cosa faccio, mi sento in trappola, mi manca l’aria o forse è solo una sensazione… dottor Spock dove sei con il teletrasporto? “Mi scusi signorina” qualcuno mi parla. Ce l’ha con me. Ancora: “Mi scusi signorina…” sta diventando un vizio. Non so chi possa essere. Lo guardo. Avevo già capito che non era lui: l’ometto del Revolution ha un altro timbro di voce, più squillante e in un certo modo più fastidioso. Questo è un tipo distinto, ben vestito, sicuramente a modo. Fanculo, un giornalista. “Vai via!” sibilo con il tono più gelido che riesco a trovare intanto che inforco gli occhiali da sole anche se di sole nel bar non ce n’è. “Sono il Dottor Rebetti, signorina e seguo le indagini sul caso Sokolova”. Ecco, mancava il Maigret di turno penso intanto che il tipo mi mostra un tesserino che non degno neanche di uno sguardo. “Vorrei farle qualche domanda, se non le è di disturbo e ovviamente non qui, ma
dove preferisce. Mi dicono che fosse molto amica della vittima e credo potrebbe aiutarmi con qualche informazione più intima e dettagliata: carattere, abitudini, conoscenze, cose di questo tipo. Una chiacchierata informale” continua imperterrito. E sorride pure. La vittima? Si chiama Skophje, ha un nome perdio! Non ora ti prego, fa che sparisca. Parlare con un poliziotto, adesso, proprio no, non sono nelle condizioni di farlo. Mi fa male la testa, ho un attacco di chenesocosa, ma qualcosa ce l’ho di sicuro. E se non ce l’ho ancora, mi verrà di sicuro. Mollami dottor Rebetti. Tutti… mollatemi. E invece no. Jekyll dentro di me si affretta a essere accomodante e sento la mia voce accettare l’invito. Usciamo. Non so come mai, ma lo seguo come un cagnolino segue il suo padrone. Sono troppo frastornata per impormi come solitamente tendo a fare. Sento le campane nella mia testa. Sento i rintocchi. Sono veramente ko. Il marciapiedi è libero, giornalisti e curiosi si sono allontanati, forse alla ricerca di qualcosa di diverso. Il commissario mi guarda con aria interrogativa. Capisco che è in cerca di una sorta di complicità che lo autorizzi a farmi poi le domande che crede, lasciandomi pensare di essere stata io ad aver fatto le scelte. “Vuole salire da me?” chiedo con un tono accomodante. Sinceramente non mi sono mai sentita a mio agio con gli uomini in divisa: non
che mi abbiano mai fatto qualcosa ma, così a pelle, ho sempre preferito sapere che ci sono – servono, sicuramente servono – ma io da una parte e loro da un’altra. E adesso ne ho invitato uno a casa. A farmi domande – chiacchierata informale come dice lui – a interrogarmi – come penso io. Il suono del cellulare del commissario mi distoglie dai pensieri. Sento quel “Sono io. Dimmi pure” seguito dai mugugni di assenso con tanto di mimica facciale che accompagnano l’ascolto di qualche notizia e dal conseguente, inevitabile “Mi scusi signorina ma devo proprio andare perché la mia presenza, in questo momento, è necessaria altrove. Telefonate sempre inopportune ma, cosa vuol farci, sa benissimo com’è. Vorrà dire che le mie domande gliele farò un’altra volta. Le lascio il mio biglietto da visita così che possa contattarmi. Se preferisce anche in questura, sempre che il posto non la metta in soggezione” sfoggia un sorriso amichevole. Come il copione impone. Mi sento salvata in calcio d’angolo. E invece ricomincia a parlare: “La signorina Sokolova era proprio amica sua vero? Prima di andare, mi tolga una curiosità. Non mi guardi spaventata, è solo la più classica delle domande che un poliziotto possa fare e cioè…” Prende fiato e prosegue “non è che, negli ultimi tempi la sua amica le sia sembrata, come posso dire, un po’ strana? Preoccupazioni, confidenze, qualcosa”. “Non direi signor commissario” rispondo di getto e aggiungo “siamo molto amiche, oddio eravamo molto amiche e l’ultima volta che l’ho vista è stata l’altra sera al pub dove lavorava. Un abbraccio e poche parole però, perché più tardi avrei dovuto suonare lì con la mia band e stavamo già montando il tutto, mentre lei, che aveva terminato il suo turno di lavoro dietro il bancone, se ne stava andando in fretta. Forse un appuntamento, ma non saprei dire con precisione”. Sento la mia voce tremolante e gli occhi si inumidiscono un po’.
“Bene bene, allora signorina a presto. Approfondiremo la nostra conoscenza nei prossimi giorni, anzi credo che domani dovrà proprio trovare un attimo per rispondere alle mie domande: son convinto che lei possa essere di grande aiuto per capire più a fondo la vita della sua amica”. Saluto e, intanto che lo guardo allontanarsi con quella camminata flemmatica tipica di chi sta riflettendo, riprofondo nei miei pensieri. Non posso non pensare al tipo del Revolution. Skophje lavorava lì, il tipetto era lì e diceva qualcosa a proposito delle parole della canzone che abbiamo suonato, parole che hanno risvegliato… chi… cosa… Oddio… Skophje abitava proprio sotto casa mia! Mi massaggio gli occhi già stanchi con le mani aperte, quasi tentassi di scacciare quel pensiero improvviso. Un vero flash nella testa. E se tutto fosse collegato? Tutto collegato sì… ma tutto cosa? Devo parlare con il tipo del Revolution? Devo parlare del tipo del Revolution con il commissario? Dentro mi sale una vera angoscia. Non so cosa pensare, non so cosa fare, non so. Non so. Come vorrei fosse un libro: girare la pagina, leggere un nuovo capitolo e fare sparire i personaggi che non ti piacciono.
Capitolo 8
Lie to me lie to me Baby say You’re mine again tonight Lie to me lie to me Lie tonight again it’s just a dream
Il rombo del motore della sua moto gli piace. Ha sempre amato quel rumore sordo, caldo, che lo fa vibrare dentro, che lo fa sentire potente quasi gli trasferisse la forza dei suoi cavalli. Si fa cullare dalla voce intanto che canticchia una melodia infantile. Guida lentamente, senza fretta, senza meta. La rossa non c’è più, e non ci sarà più – almeno per gli altri – pensa sorridendo. Lui ha tenuto un suo ricordino tutto per sé. Certo, non tutto è andato esattamente come lo aveva immaginato. L’averla trovata così l’ha obbligato a modificare il suo piano originario, anche se, dopo quel primo momento di sorpresa, ha trovato come sfogare la sua rabbia. E così, il ricordo della sera precedente lo riscalda, il rivivere quelle immagini in una sorta di slow motion gli permette di gustare e riassaporare la notte appena ata. Si sente comunque un dio. Esattamente questo: essere il potere, l’assoluto potere che può creare e
distruggere, avendo la totale certezza di disporre degli altri a suo piacimento. Essere giudice e carnefice, destino e sentenza. Un dio. Il dio. Sicut in coelo et in terra… ripete ridendo sguaiatamente sotto il casco… nessun freno e nessun limite. La moto sembra assecondare i suoi pensieri: lo segue docile nei movimenti, si piega nelle curve come fosse tutt’uno con lui, prende velocità appena la manopola del gas viene sollecitata, e con la stessa prontezza decelera appena sfiora il freno. Compagna inarrivabile. Il pianificare quello che sarà lo eccita. È tanto che non si sente così. Non ricorda nemmeno più quanto tempo sia ato dall’ultima volta: di sicuro anni e aveva quasi dimenticato la sensazione di onnipotenza che si prova – che lui prova – in situazioni simili. Adesso che quella musicista gli ha riaperto la strada… oh che sia benedetta! La sua canzone – tutto sommato – non la ricorda completamente, ma la parte centrale, con quella melodia lenta accompagnata dal pianoforte, gli ha dato la scossa che aspettava, gli ha riproposto scenari sopiti e mai dimenticati, lo ha riportato nel suo film. Il film dove lui è regista e protagonista. Qualsiasi cosa possa dire o aver detto Manlio. Manlio. Ecco, il solo pensiero di Manlio già rovina tutto. Manlio. Quel mezzo uomo con troppo cervello: sempre a farsi domande, sempre a chiedersi cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Sempre a riprenderlo, sempre a cercare di prevenire. Sempre sempre sempre. Non come lui che dentro sa. Non come lui che dentro ha certezze e bisogni da soddisfare.
Non come lui: due persone proprio diverse anche se – in fondo – così simili. Fai soffrire il prossimo tuo come nessuno si è mai sognato di far soffrire te. Quel canzonare un precetto che era certo di aver sentito da piccolo gli era sempre piaciuto, al punto da diventare una sorta di parola d’ordine chiave del suo agire, dove tutto era consentito, senza alcun limite o preclusione. Un gran gioco, nato così, quasi per caso. Ricorda di essersi svegliato quella notte, sudato, con la certezza che qualcuno gli avesse appena parlato, raccontandogli del gioco. Il Gioco… così quella voce l’aveva chiamato. Semplice nella sua linearità, con poche regole da rispettare, anzi dove tutto sommato c’era una regola sola: far soffrire, il più a lungo e profondamente. Una sorta di partita a scacchi vivente, dove lui avrebbe impersonato un Re libero nei movimenti. Ma non avrebbe dovuto mai essere messo sotto scacco, altrimenti il Gioco sarebbe terminato. Si era riaddormentato tranquillo e, al risveglio, già sapeva che avrebbe svolto il compito assegnatogli dalla voce con dedizione assoluta. Lui non voleva deludere nessuno. Così si era messo all’opera. Da piccolo si era dovuto accontentare di iniziare con qualche animaletto: d’altra parte non è che si potesse trovare di meglio. Quando il gatto dei vicini era sparito tutti avevano pensato che se ne fosse andato seguendo chissà quale istinto amoroso o quant’altro. Lui però sapeva che non era stato l’amore a far sparire il gatto: con chiodi nelle zampe l’aveva crocefisso prima di massacrarlo con il pestacarne sottratto da un cassetto e disossarlo con un coltello da cucina. Povera Henrietta… se avesse saputo che i suoi amati attrezzi erano stati usati in quel modo forse non li avrebbe più utilizzati per preparare quei cibi di cui andava così fiera… e nonostante il pensiero di Manlio, un sorriso increspa la sua bocca. Dolci ricordi, piacevoli ricordi!
E la voce – di notte, nel chiuso della sua camera e nella tranquillità del suo lettino – lo applaudiva, lo incitava, lo elogiava facendolo sentire unico! E, di volta in volta, alzava l’obiettivo da raggiungere, fino a presentargli la necessità di uccidere. E allora che dire di Silvia? La cuginetta era stato il primo vero salto di qualità. Silvia rimembri ancor… no, no non rimembri più nulla povero mucchietto d’ossa… tutti in casa erano rimasti scioccati quando la piccolina – caduta dalle scale – si era letteralmente rotta l’osso del collo. Caduta dalle scale? Le aveva preso la testolina tra le mani, quasi volesse accarezzarle i lunghi capelli, l’aveva stretta e con un movimento rapido e secco le aveva rotto il collo per poi farla precipitare dalle scale simulando un incidente. Mentre giocavano… beh in realtà il gioco era solo il suo. Non c’è che dire, aveva superato se stesso e la voce – quasi teneramente nel suo bisbigliare – lo aveva definitivamente elevato al ruolo di divinità. Ma era stato in quel momento che Manlio aveva incominciato a guardarlo con occhi accusatori. Mai una parola, però. Si era sempre limitato a osservarlo fisso, quasi cercasse di entrargli dentro la testa, come se volesse leggere i suoi pensieri per poi poterlo accusare apertamente. Manlio, il fratello maggiore che maggiore era solo per quei tre anni scritti sulla carta d’identità, ma che per tutto il resto sembrava essere quello più piccolo. Mingherlino, tanto pallido al punto che, dopo un mese di sole e mare, manco sembrava si fosse mosso da casa. Quotidianamente con un libro in mano o con addirittura più libri che riusciva a leggere simultaneamente, con occhiali da miope con lenti tanto spesse che gli avevano regalato il soprannome di ‘Pocaluce’ tra i compagni di scuola, e che lo rendevano ancora più insicuro nei suoi già traballanti rapporti con il resto del mondo. Ma tanto intelligente, oh sì, tanto intelligente e osservatore, al punto di essere stato l’unico a rendersi conto del gioco che il fratellino aveva inscenato e che, senza timori e ripensamenti, continuava a giocare in un crescendo senza limiti e senza fine.
Ricorda quando Manlio l’aveva affrontato apertamente: con un taccuino in mano lo accusava aggiungendo quei particolari che erano sfuggiti agli altri, ma non a lui. La sua reazione era stata immediata e feroce. Manlio sanguinava dal naso e aveva un sopracciglio spaccato per i due fulminei pugni che gli aveva rifilato. E – una volta a terra – l’aveva colpito con alcuni calci ben assestati che l’avevano lasciato immobile e senza fiato. “Tu prova a farne una parola a chiunque” gli aveva detto intanto che stracciava il taccuino “caro il mio topolino, e vedrai che non ti accorgerai nemmeno di quello che ti capiterà. Non te ne accorgerai perché sarò talmente rapido che non avrai tempo di reagire. Oh, ma mi sentirai, eccome se mi sentirai! Sarà così doloroso da farti pregare di morire subito. E non credere che sputtanarmi davanti agli altri ti dia un qualche vantaggio o protezione”. Per sottolineare il concetto gli aveva affibbiato un altro paio di ceffoni mentre lo sollevava da terra. Era suo fratello, maledizione, ma non avrebbe esitato un attimo a farlo sparire se questo gli fosse servito. Anche se quel bastardo sarebbe riuscito a far girare tutti gli avvenimenti a suo favore.
Capitolo 9
Another Lord is newly born Another one is lost and gone Another one to give their love
Il pomeriggio arriva quasi del tutto inaspettato e mi coglie veramente impreparata quasi fosse un ospite che non si è annunciato. Gli avvenimenti della mattina mi hanno lasciata molto confusa e ho ato le ore ripensando a tutto quello che so, riflettendo su tutto quello che non so e che vorrei sapere e facendo congetture sul chi come cosa quando. E soprattutto perché. Ho una riunione a scuola, uno di quei momenti impareggiabili di confronto sull’attività didattica che – almeno a me – non servono un granché. Ma ci devo andare: voglia o non voglia, mi aspettano e un salto lo devo fare. Mi preparo ed esco. Scendo le scale e mi fermo un momento al piano di sotto. Osservo la porta dell’appartamento di Skophje e capisco il senso di quei nastri adesivi: sono sigilli. La sua casa è diventata luogo di un crimine, la sua casa può raccontare una terribile storia con tutti quei particolari che io non vorrei proprio conoscere. Fisso quei sigilli e vorrei non sapere cosa significano. Li continuo a guardare e gli occhi si riempiono di lacrime. Dovrei parlare con quel commissario: non posso certo tenere tutto dentro, i
pensieri che ho forse è meglio condividerli con lui. Lui saprà riordinarli e dar loro un senso, se un senso devono avere, altrimenti li cancellerà dalla mente e tutti sapremo che le mie sono solo paranoie post trauma. Mi o il dorso della mano sugli occhi per asciugare le lacrime e riprendere la mia strada. “Oh signorina cara, che tragedia, che tragedia!” la Missiroli salta fuori dalla porta della sua abitazione. Mi stava aspettando, sa sempre i miei orari, e mi punta decisa. Prima che io abbia il tempo di abbozzare una qualsiasi reazione continua a parlare, prendendomi le mani: “Ma guardi che occhi ha! Lei ha pianto cara, si vede, si è sciolto il trucco. Sa, io non lo uso più, cosa vuole che le dica, alla mia età, ma lei, così giovane e bella, su su cara, si dia una sistematina. Gradisce una tazza di tè o qualcosa di più forte intanto?” Il cliché della Missiroli è standard – impicciarsi di tutto e di tutti con una velocità da top gun – offrendo nel frattempo qualsiasi cosa per metterti a tuo agio. E quel qualsiasi cosa, soprattutto se alcolico, mette anche lei a suo agio. Sono in anticipo e, pur sapendo che potrei risalire a casa, la seguo: non ho voglia di rimanere da sola e anche una vecchia impicciona è meglio di niente. Entrare nel suo salotto è come entrare in un film d’epoca con le dive del muto. C’è di tutto e di più: dal manichino da sarta con addosso un abitino di lamé che credo in altri tempi fosse veramente di gran moda a innumerevoli fotografie in bianco e nero di attori e attrici, alcune addirittura con dedica e firma, da quadri e stampe a tendaggi che definire demodé si farebbe loro un complimento. Ma quello che colpisce veramente è una statua che troneggia in un angolo – e sa dio come la vorrei – di uno di quei pellerossa di legno ad altezza naturale con in mano una scatola di sigari di pubblicità che salta fuori da chissà dove. “Le piace l’indiano eh signorina?” Evidentemente non devo aver nascosto molto bene il mio stupore “Sa, è un ricordo del mio povero marito – che il Signore l’abbia in gloria – che arriva da chissà dove. Negli ultimi anni della sua vita, a volte, invece di farsi pagare per il suo lavoro di consulenza, accettava di quegli obbrobri che credeva potessero avere chissà quale valore. Guardi, guardi anche quel quadro signorina: me lo dica lei, lei che è una professoressa, se non è una bruttura. Io glielo dicevo sempre, ma lui niente, testone d’un uomo… portava a
casa di tutto, e adesso che non c’è più mica posso buttarli via, sa, sono dei ricordi…” continua infervorandosi. Intanto che mi indica il bagno per sistemare il trucco, decide di riempire due bicchierini di quel liquore, la sento dire, preparato da un suo parente in Umbria, e – sempre senza darmi il tempo di reagire in un qualsiasi modo – riprende a parlare di quello che, evidentemente, le preme maggiormente. “Una vera tragedia, dia retta a me signorina! Su su beva un sorso che la riscalda un po’” aggiunge sorridendo complice. “Lo dicevo anche al commissario. Ah, il commissario, che uomo affascinante, lo ha già conosciuto vero? Sì che l’ha conosciuto, l’ho vista dalla finestra che si affaccia sulla strada che le stava parlando stamani sul marciapiede. Beh dicevo, l’ho detto anche a lui che la sua amica, ogni tanto, aveva delle… come posso dire… frequentazioni un po’ ambigue. Non che fe chissà cosa, e lei che era tanto intima lo può confermare, ma insomma, sa, questo è un palazzo di un certo decoro, siamo tutte brave persone e alcune facce di amici suoi non erano – diciamo così – tanto raccomandabili. Lei mi capisce vero? Ma, per fortuna sua e nostra, non si trattava solo di facce equivoche. Pensi che a volte credo di averla vista accompagnarsi a un signore distinto che giurerei poter essere addirittura l’avvocato. Pensi lei, signorina!” conclude finendo il suo liquore. Cara vecchia Missiroli… cara vecchia baldracca di una Missiroli ti vorrei dire, ma l’educazione perbenista lasciatami in eredità dai miei genitori ha ancora la meglio e mi limito a un’espressione del viso neutra, quasi stessi riflettendo sulle perle di saggezza che ho appena ascoltato. “Proprio l’altro pomeriggio l’ho vista prima con un signore tanto a modo, piccolino e con degli occhiali spessi che pensavo potesse essere addirittura uno scrittore o un regista cinematografico, e poi invece, verso sera, con un omone grande e grosso, anche di bell’aspetto oserei dire, ma con due occhi da cattivo. Sa, io l’ho anche salutato intanto che aspettava sul pianerottolo, ma lui niente, non mi ha neanche degnata di un cenno di cortesia. Occhi cattivi, l’ho detto anche al commissario. Frequentazioni equivoche, lei mi capisce… e poi… era anche straniera…” La interrompo forse un po’ bruscamente, ma ho veramente esaurito il bonus di buone maniere, e con la scusa della riunione a scuola, la saluto, ringrazio e me ne vado.
Scendo le scale e intanto ripenso a quello che ho appena sentito. Chissà perché, ma la descrizione di una delle due persone mi ricorda tanto Manlio: signore così perbene per la vecchia strega, omino tappezzeria insignificante per me, ma tutto sommato, due immagini seppur alquanto diverse, certamente sovrapponibili. L’altro – al contrario – non mi dice proprio nulla: conosco qualche flirt di Skophje, uomini da touch and go, forse questo era uno di cui non mi aveva mai parlato. Forse, era il motivo per cui se ne era andata di fretta dal locale la sera precedente. Altri pensieri, altre perplessità, altre congetture. Ma comunque, se fosse stato Manlio – come penso – cosa ci faceva lì? Un colpo di clacson di qualcuno mi avvisa che sto guidando e mi riporta alla realtà. Arrivo a scuola con colpevole ritardo e abbozzo un sorriso intanto che fingo una entrata trafelata, quasi mi fosse capitato chissà cosa. L’importante – ho imparato – è fingere, cosa non è dato a sapere, ma fingere comunque, quello sì… Mi catapulto in un altro mondo: i toni delle voci son già sopra le righe visto che la riunione riguarda la compilazione di tabelle che dovrebbero riflettere i risultati e i comportamenti degli alunni e ognuno – per avvalorare le proprie convinzioni – urla. I miei pensieri mi tengono ai margini della discussione anche se ogni tanto sento un “collega, tu che ne dici “che mi ricorda dove sono. Mi sforzo e, seppure a sprazzi, collaboro, tentando di arrivare incolume alla conclusione del match. Il rito si ripete per tutte tre le classi di quel pomeriggio e alla fine sono veramente esausta: la mia amica è appena stata uccisa e io faccio finta di niente con tutti perché qui – al massimo – sono collega. Mi alzo, saluto e mi fermo alla macchina del caffè. Sono subito raggiunta da Cesare, quello di inglese, che mi chiede se ho qualche problema: sai ti ho vista un po’ assente oggi, non sei la solita Dina che sono abituato a conoscere e via di questo o.
Vorrei dirgli qualche cosa, raccontargli che sì, è vero, non sono la solita Dina, spiegargli anche come mai oggi non sono quella di sempre, ma non ho ancora deciso se confidarmi con lui. Caro ragazzo, ma tengo ancora un po’ le distanze. In effetti sono solo collega perché – tutto sommato – lo voglio io: difficilmente racconto i fatti miei in questo posto e, di conseguenza, scelgo di stare un po’ appartata. Lo guardo e, con il sorriso di circostanza stampato in faccia, invento una scusa banale, lo saluto e me ne vado. Esco in cortile, mi dirigo verso la mia macchina che come al solito è parcheggiata male, e intanto che salgo noto, appena al di là del cancello, una moto di grossa cilindrata, nera e cromata, un vero mostro, uno di quei bolidi che vedo spesso parcheggiati fuori dal Revolution. Bell’esemplare penso, se non fossi così magra forse ne potrei guidare una anch’io. Credo che sia in grado di regalarti una sensazione di libertà, quella sensazione che adesso, in questo preciso momento, vorrei provare anch’io. E invece ho questo senso di oppressione dentro che mi toglie l’aria, quasi fi fatica a respirare. Correre andare e non fermarsi mai… le parole dell’altra sera mi ritornano in mente. Dovrei proprio scriverci una canzone… Metto in moto, esco dal parcheggio e continuo a pensare. Devo decidere qualcosa, non posso lasciar are ancora del tempo senza sapere cosa fare, devo assolutamente decidere prima di esplodere. Guido nel traffico, nello specchietto retrovisore, vedo la moto. Mi segue? Ma va, dai oggi sono proprio paranoica. Però, visto che ormai sono proiettata nel mio videogame, curvo a destra e subito prendo la prima a sinistra, un cambio di direzione così, tanto per vedere se sono pedinata, come ho visto fare migliaia di volte nei film polizieschi alla tele e al cinema. Riguardo nello specchietto, la moto non c’è, ovvio dico ad alta voce, mi rilasso un po’ e guido più tranquilla. Dovrò andare al funerale di Skophje. Dovrò?… No, voglio andarci… la mia unica amica. E improvvisamente, non so perché, penso a Toby, il suo cane, quello che
abbaiando ha fatto scoprire il tutto. Dove sarà finito? In canile? Lo tratteranno bene? Povera bestia, forse, a parte l’assassino, è l’unico che ha visto la morte della sua padrona. Forse è l’unico che sa. Senz’altro è l’unico che sa. Lo doveri tenere io? No dai, non se ne parla, tra la scuola e la band non sono mai a casa. Mi spiace, non se ne parla. E allora, perché non la Missiroli, bella idea! Lei è sempre a casa, un po’ di compagnia le farebbe bene. Non è neanche tanto grosso. E sorrido pensando alla vecchia trascinata per le vie del quartiere da un Toby assatanato modello cartone animato. Intanto decido cosa farò… prima Manlio e poi il commissario. Sempre che non sia una delle mie decisioni affrettate. Dai, deciso, una volta per tutte, prima Manlio e poi il commissario. E chi vedo sul marciapiedi sotto casa? Anticipata, e questa volta sul serio.
Capitolo 10
Now I’m gonna leave my dreams Packed down in Heartbroken Hotel Tell me Lord again tonight I can’t find a place to hide
Manlio Rognoni è lì fermo che mi aspetta. Ovvio che aspetti me, sono l’unica persona che conosce nel palazzo. O forse no. La Missiroli ha descritto un simil Manlio. Mah… Con quella sua aria un po’ saccente e un po’ spaesata incomincia a parlare appena crede io sia abbastanza vicina da poterlo sentire senza che lui debba per forza alzare il volume della voce. “Buonasera signorina, piacere di rivederla. Speravo di poterla trovare, sa, ormai la sto aspettando da qualche minuto” esordisce con la sua voce monotona. E, senza cambiare registro, prosegue. “Credo che anche lei sia arrivata alla inevitabile conclusione che noi due dovremmo, anzi, che noi due dobbiamo parlare. Gli avvenimenti delle ultime ore hanno velocizzato una situazione che all’inizio, in apparenza, sembrava essere ancora statica e in attesa di sviluppi. Sviluppi che – purtroppo – non si sono fatti attendere. Dove crede possiamo parlare? Ho una storia da raccontarle”. Sospende le ultime parole come un attore consumato, dandomi l’impressione che aspetti una mia risposta affermativa. “Senti Manlio” rispondo portandomi le mani congiunte davanti alla bocca in un
gesto che sa tanto di resa “non so cosa tu debba e voglia dirmi ma sono arrivata alla conclusione che forse è proprio il caso che io ti ascolti. Casa mia o casa tua sono fuori discussione, non so quanto possa fidarmi di te e, pertanto, rimanere sola in un luogo chiuso noi due, non se ne parla proprio. Cosa dici del bar qui all’angolo? A quest’ora ci sono solo i vecchietti che giocano a carte e credo proprio che abbiano ben altro per la testa che dare retta a noi. Allora, ti va?” Mi guarda con quei due occhietti miopi nascosti dietro le spesse lenti. Annuisce in silenzio. Entriamo e ci sediamo a un tavolo leggermente appartato. Come al solito mi siedo in modo da poter guardare chi entra. È una vecchia abitudine ereditata da mio padre che aveva questa fissazione e, sinceramente, non so come mai visto che era la persona più solare del mondo, senza niente da nascondere ad alcuno e senza nessuno da temere. Lo ricordo quando ridendo diceva sempre, quasi fosse una battuta di uno dei suoi film preferiti: “Mai dare le spalle al nemico, ricorda bambina mia, mai dare le spalle al nemico”. Dopo i convenevoli di rito con Alex che sa sempre essere un bel mix di impiccione e di invisibile, ordiniamo qualcosa da bere. Manlio sembra aspetti un mio segnale. Invece, all’improvviso e senza prendere più fiato, incomincia il suo racconto: “La storia che le racconterò inizia da quando ero piccolo. Deve sapere che io non sono figlio unico e forse è proprio per questo che sono nati quelli che potrei definire i miei problemi”. Oh santa pace, adesso mi racconta la trama di incompreso o di qualche film strappalacrime del genere… Manliomanliomanlio… e poi tutti quei signorina non li sopporto, mi rendono veramente isterica. Vede e legge i miei pensieri che come al solito non sono tanto brava a nascondere e, forse per tranquillizzarmi, aggiunge subito: “Non si preoccupi che non le racconterò tutto per filo e per segno, ma qualche aggiunta e qualche premessa le devo pur fare per permetterle di inquadrare meglio tutta la situazione. Le stavo dicendo… – si interrompe con quella che ho capito essere una sua pausa a effetto per poi continuare a parlare fissandomi negli occhi – Mi permette di chiamarla per nome? Sa, ormai siamo conoscenti…”
Ovviamente accetto. Gli chiedo – con il mio più classico tono sgarbato – di proseguire e di velocizzare il racconto, visto che oggi di gente che parla a raffica senza dirmi nulla ne ho già ascoltata fin troppa. “Le dicevo, Dina, io non sono figlio unico. Quando avevo tre anni, per la precisione quasi quattro, è nato un fratello che ha portato – ma questo non lo potevo ancora sapere – cambiamenti nel mio status. Non le parlo delle solite gelosie, quelle forse non ci sono neppure state, ma la sua presenza ha sovvertito in poco tempo quello che nelle famiglie è il naturale evolversi degli eventi. Ed è stato così, quasi fossimo due personaggi di un feuilleton. Mentre io rimanevo – diciamo così – estremamente gracile e negli anni a seguire privilegiavo uno sviluppo più interiore, fatto di letture e conoscenze dei più svariati argomenti, mio fratello cresceva a dismisura nella prestanza fisica anche se non altrettanto in quella intellettuale, al punto che lo potrei definire il Mister Hyde di me stesso. Non so, cara Dina, se riesce a capire pienamente il senso di quello che le sto dicendo, ma io mi trovavo a vivere una sorta di situazione che non avrei mai potuto nemmeno immaginare. Eravamo proprio come una moneta con le classiche due facce. Uno pensava, l’altro agiva. Situazione per certi versi imbarazzante, ma per altri – come non tardai a scoprire – veramente unica”. Si ferma – altra pausa a effetto ne son certa – e beve un piccolo sorso della bibita che ha ordinato. Lo guardo con più attenzione, come forse non avevo ancora fatto nei nostri precedenti incontri, e rimango in qualche modo affascinata dalla sua espressione che ora si è fatta più intrigante, probabilmente anche per effetto delle parole che hanno incominciato a interessarmi veramente. Due figli così diversi l’uno dall’altro però non mi sembrano una gran novità: per quel che ne so io, e anche per esperienza personale, tutti i fratelli sono diversi tra loro per indole crescita e scelte. Per fortuna riprende il racconto, distogliendomi dai miei soliti labirinti mentali. “Ho intuito che in lui ci fosse qualcosa di diverso quando, fin da piccolo, ha mostrato una certa, perdoni l’espressione, animosità verso i suoi simili. Lo osservavo nei giochi con coetanei o bambini addirittura più grandi e lo scoprivo di una violenza fisica del tutto istintiva, senza mediazioni di sorta, senza ripensamenti o pentimenti, quasi fosse il tratto dominante del suo carattere. Nel tempo ho visto come sparivano piccoli animali, domestici e non, ho assistito alla sua escalation di follie senza però nulla rivelare ad alcuno e ovviamente
senza mai intervenire. A un certo momento c’è stato quello che potrei catalogare come avvenimento topico, e cioè il suo primo omicidio. Vedo dai suoi occhi che questa rivelazione l’ha colta di sorpresa ma, si tranquillizzi, non è stato niente di eclatante, anzi si tratta di un episodio nella sua dinamica abilmente occultato alla vista di tutti, ma che non è sfuggito a me. Forse solo perché io lo tenevo sotto osservazione ormai da tempo. Sa cara Dina, i termini sotto osservazione le dovrebbero puntualizzare quello che ormai – ne ero certo – era diventato il mio ruolo. Ero il custode dei suoi segreti, ed esserne a conoscenza, mi autorizzava ad affrontarlo. E così feci”. Ascolto Manlio con interesse e sicuramente pensierosa. Da quel che ho capito mi sta dicendo che esiste una specie di killer grande e grosso che agisce indisturbato e soprattutto incontrollato. “Se le cose stanno così, primo, perché le dici a me, secondo, perché non sei ancora andato alla polizia e – ultimo, ma non da ultimo – terzo, vuoi dirmi che cosa c’entra con la morte di Skophje? Perché – se così dovesse essere – a questo punto ci vado io alla polizia” concludo il suo discorso. “E no, mia cara, fosse tutto così lineare come dice lei, probabilmente l’avrei già fatto io. Vede, sono anni ormai che mio fratello è una specie di King Kong dall’aspetto forse pauroso, ma inoffensivo, completamente sotto controllo. Per cui la sua idea che possa essere lui l’assassino della sua amica, per quanto suggestiva, è del tutto infondata”. E, anche se questa volta non ne avrebbe bisogno, inserisce un’altra pausa a effetto concludendo: “Deve sapere che l’altra sera era in casa, con me: di conseguenza non può essere stato lui, non può essere lui il colpevole. Perlomeno non questa volta, sicuramente non con la sua amica. Quel che non ha ancora capito, cara la mia signorina musicista, che qui l’unica che corre dei pericoli è lei. Lei ha tolto il controllo, lei sarà la preda”. Oh là là, che coup de théatre mio caro Manlio! Adesso mi vuoi far credere che sono io in pericolo? Mi sa che ho veramente trovato un altro fuori di testa, sembra che io li attiri come carta moschicida. Un fratello che prima è il suo Hyde e poi è un King Kong docile… ma vai via Manlio… sparisci che ho altro a cui pensare. Invece di esaudire il mio silenzioso desiderio, Manlio Rognoni, non solo non si
volatilizza, ma aggiunge in un modo che suona molto ambiguo: “Signorina, dia retta a me. Eviti di entrare in un gioco troppo grande per lei. Grande e complicato”. Sento il sangue circolare più velocemente, chiaro segnale che sto perdendo il controllo. La mia risposta è molto simile al sibilo di un serpente pronto ad attaccare: “Forse non ci siamo capiti bene. Io, sarei io che dovrei evitare di entrare in un gioco? Nel gioco tuo e di tuo fratello? Manlio, ficcatelo bene in testa e poi non cercarmi mai più. Io non voglio giocare a niente e con nessuno. Con te, con tuo fratello, con nessuno!” Concludo scadendo le ultime parole. Restiamo a fissarci in silenzio.
Capitolo 11
Please don’t turn off lights tonight I’m a little bit scared Tell me a story seldom told Something I can dream about
Stupido. Stupidi tutti e due. Li guarda e pensa a come dovrà agire. Lui le sta parlando, lui le sta raccontando i suoi segreti. Ne è certo. E la sta definitivamente condannando. Stupido stupido stupido, mezzo uomo con mezzo cervello. La rabbia sale lenta, sorda, implacabile. Sente la voce nelle ossa, la sente forte, quasi fosse un’esplosione nella testa, la sente reclamare il suo compenso. È tornato a essere quello che era sempre stato. I trucchi di Manlio non hanno più il potere di bloccarlo come era riuscito a fare da ormai troppi anni. Lei e la sua canzone. Stupida stupida stupida donna.
L’aveva risvegliata. E la voce ora era tornata padrona nella sua testa, la voce governava le sue scelte indirizzando le sue azioni. Il mosaico si era ricomposto, ogni pezzo era tornato a incastrarsi alla perfezione nel puzzle della sua mente. E lui decide, così, all’improvviso. Loro stanno parlando e, se conosce il mezzo uomo, sa che ne avranno per un bel pezzo. Sorride, ha deciso, così, all’improvviso. Lascia la moto dopo averla parcheggiata poco lontano, dove anche Manlio non la potrebbe vedere, e si dirige verso l’abitazione della donna. Poche decine di metri. Lui cammina sicuro, indifferente a quanto lo circonda. Deve solo are davanti alla vetrina: lei è seduta in modo tale che lo potrebbe vedere, ma non lo conosce e se anche dovesse vederlo non saprebbe chi è. Sarebbe solo un viso nella folla. L’omino è girato di spalle e sta gesticolando. Stupido istrione, attore di second’ordine, rotea le braccia come un burattino, attira l’attenzione della donna narrando le sue imprese. Stupido stupido stupido, vive di luce riflessa. Entra nel portone, sorride al pensiero che sia sempre aperto nonostante il cartello che esplicitamente chiede ai condomini di chiuderlo per motivi di sicurezza, sale le scale come fosse padrone del mondo e della situazione. Solo al secondo piano rallenta impercettibilmente intanto che si sincera che la vecchia della sera precedente non stia spiando come invece aveva già fatto. Soddisfatto, riprende a salire la rampa di scale con più lena, il o reso ancora più sicuro dalla sensazione di onnipotenza che cresce attimo dopo attimo e si ferma solo davanti alla porta. Quello è il terzo piano, è davanti alla porta della donna. Una porta non presenta problemi particolari: si tratta di una di quelle standard e lui non deve quasi neppure forzare la serratura.
Entrare è il classico gioco da ragazzi. Sa di essere solo in quella casa e si muove agile come un felino nonostante la corporatura massiccia. Si inumidisce le labbra con la lingua intanto che, con occhi vigili e allenati, ispeziona i locali. Deve toccare meno oggetti possibili e, comunque, ripulire ogni cosa scrupolosamente, meticolosamente. A meno che non voglia prendere qualche souvenir, come spesso gli capita. Entra nella camera da letto della donna e nota con disappunto il disordine che vi regna. Non può suonare così bene e cantare con tanta ione ed essere nello stesso tempo caotica e trascurata. Sa che la perfezione si raggiunge faticosamente, o dopo o, perseguita in ogni singolo momento del proprio vivere, quasi fosse una formula matematica da applicare con costanza e dedizione. Il flusso dei suoi pensieri lo porta a decidere, così, all’improvviso. Lui ama improvvisare, come un virtuoso in grado di suonare melodie sempre diverse seguendo progressioni armoniche già stabilite. Lui le insegnerà qualche regola del gioco e lei dovrà imparare. Oh sì, eccome se la imparerà, ripete tra sé sogghignando. Entra nel bagno della donna: anche qui caos di trucchi sparsi in giro e asciugamani stropicciati abbandonati in un angolo. Quel che vede non gli piace, quella donna lo mette a disagio, non c’è logica in lei. Afferra lo stick di un rossetto e così, d’impulso, disegna due minuscole ossa incrociate sullo specchio sopra al lavabo. Il simbolo dei pirati. Le ossa della sua canzone. E lei vedrà, sicuramente lei vedrà. E allora si chiederà, in un crescendo di terrore, ma come, ma quando, ma chi. E così anche lei sarà nel gioco. Lei sarà il gioco. Ritorna in sala e si ferma davanti al suo pianoforte. Guarda affascinato gli spartiti sul pianoforte. Ne vorrebbe prendere uno, ma si trattiene, limitandosi a leggere le parole scritte sotto pentagrammi pieni di note.
Non conosce bene la musica, ma sa che quegli stupidi pallini sono simboli di un linguaggio che ti porta in un’altra dimensione. Lui usa altri strumenti per uscire dalla realtà. Tra tutte quelle carte con pentagrammi scarabocchiati vede, quasi fosse un messaggio rivolto a lui solo, la canzone che ha ascoltato quella sera. In my bones, il titolo è proprio quello: la canzone che lo ha riportato in vita. Sfiora lo spartito con le grosse dita, quasi titubante accarezza il foglio. A dancer on the moon… Un lampo nella mente. La donna è così disordinata che di certo non si accorgerà di niente. Una tra un mazzo di musiche, penserà di averla persa. Decide, così, e cambia il suo piano. Improvvisa ancora una volta: afferra il foglio con la canzone, torna in bagno e cancella lo scarabocchio dallo specchio. La canzone sarà il suo souvenir. Quella canzone che lei ha scritto in realtà è sua. Decide, così, e in un attimo ha già stabilito come dovrà essere il gioco questa volta. Aspetterà la sua ballerina semplicemente seduto sulla poltrona del suo salotto. Lei entrerà e lui si presenterà, a modo suo ovviamente. L’idea lo galvanizza, sente già la famigliare adrenalina scorrere nel corpo procurandogli un’eccitazione che entro breve verrà soddisfatta. Già pregusta il momento, riesce a vedere lo stupore sul viso della donna che si tramuterà in panico e poi in terrore. Il suono stridulo del citofono lo fa sobbalzare. Chi può essere, si chiede contrariato. Si dirige verso il videocitofono e, nel piccolo monitor, appare la sagoma di un uomo che aspetta pazientemente una risposta. Guarda meglio e vede che si tratta di quel poliziotto, quello che sembrava essere a capo del gruppo investigativo. L’ha visto uscire con gli altri intanto che si aggirava
mischiandosi ai curiosi attirati dal suono delle sirene la sera precedente. Quel poliziotto. Lì adesso. No, non ci voleva. Sa che il portone è aperto e che l’uomo potrebbe anche decidere di salire senza aspettare risposta. Esce, richiude la porta facendo attenzione a pulire velocemente la maniglia, e scende le scale. Sembra aver perso in parte la sicurezza che aveva pochi minuti prima. Si ferma. Se quel poliziotto dovesse decidere di salire si troverebbero faccia a faccia e questo lui proprio non lo vuole. Perlomeno non ora e non qui. Torna indietro e sale di un altro piano, si dirige verso il sottotetto dove pensa di poter trovare un nascondiglio. Si ferma e rimane in ascolto. Non teme il poliziotto, lui non teme nessuno. Semplicemente non vuole trovarselo davanti prima di aver concluso il gioco. E allora aspetta, immobile e silenzioso: è abituato a essere un predatore e sa che il tempo è sempre un prezioso alleato.
Capitolo 12
Sometimes I scream baby Lost in the night But friends are there And you know where to share a lie
Interrompo Manlio. Questa sera vado a suonare: un altro locale improbabile, altre persone che sembrano ascoltarti e che in realtà quasi mai lo fanno. Ma, a dispetto di tutto e di tutti, sono quelli gli unici momenti che mi fanno sentire veramente realizzata. Vedo che ci rimane male, si era lasciato trasportare dal ritmo delle sue parole e sento che vive veramente il suo racconto. Forse avrebbe voluto ancora replicare, ma non gliene do tempo. Per adesso non ho ancora capito bene. Il quadro della situazione non mi è ancora chiaro. Più tardi ci ripenserò. Non so se rivedrò quello strano ometto che racconta storie strane, che mi coinvolge e poi mi allontana. Stasera voglio suonare, stasera voglio dimenticare del tutto queste ultime brutte giornate e nulla è meglio di un po’ di musica rock suonata ad alto volume. Mi alzo, saluto quasi fossi una brava ragazzina educata – perché a volte sono capace di esserlo – e me ne vado. Mentre esco le sue ultime parole risuonano ancora nelle mie orecchie, sovrapponendosi a tutto:
Lei ha tolto il controllo, lei sarà la preda… eviti di entrare in un gioco grande e complicato… Bene, ok Manlio, se volevi trovar il modo di spaventarmi, beh diciamo che ci sei riuscito: negli anni ho imparato a fronteggiare, all’occorrenza anche neutralizzare quelli che potrei definire i corteggiatori più focosi e rompiballe, ma non mi è mai capitato di avere tra i piedi uno squilibrato che, nella migliore delle prospettive, vorrebbe rendermi protagonista della sua personale tonnara. Sono veramente impreparata a una simile eventualità, come uno dei ragazzini che non ha studiato la lezione. Intanto che ingrano la prima e parto, trovo quella che al momento sembra la soluzione migliore: ne parlerò con i ragazzi della band. Tutto sommato, sono uomini e i miei preferiti sono anche ben piazzati, e vuoi che non siano in grado di guardarmi le spalle. Ecco, li ho già promossi sul campo elevandoli al ruolo di body guards, il che basta a farmi sorridere e a tranquillizzarmi. Li raggiungo nel parcheggio dello studio di registrazione che è praticamente la mia seconda casa, visto il tempo che ci o, e li trovo già belli carichi e – come al solito – litigiosi. Ah, la mia band! Neanche se avessi dovuto inventarli avrei potuto immaginare un assortimento così eterogeneo: veri personaggi ai confini della realtà, che ogni tanto lasciano la loro dimensione per invadere quella degli altri. Ma gli voglio bene, in fin dei conti sono quella famiglia che non ho in questa città lontana e che fatico a sentire mia. “Eccoti qua” esordisce Dark che vedo – con soddisfazione infinita – avere già caricato anche le mie tastiere. “Arrivare un po’ prima no eh… Vabbè dai, diamoci una mossa e andiamo, Dee arriva al locale dopo e per conto suo”. Salgo sulla sua macchina che è molto più confortevole e spaziosa della mia e – tutti in fila indiana – ci muoviamo per il concerto. Sa che il fumo mi dà un po’ fastidio, come capita a tanti ex fumatori e allora fa finta di accendersi una sigaretta, così, solo per provocare la mia reazione. Lui è fatto così: scherzoso e meticoloso, al punto di sembrare un rompiscatole. Ma, tra i musicisti della band, è quello con cui vado più d’accordo. Siamo piuttosto simili, e alcuni aspetti del nostro carattere sembrano coincidere. E allora gli parlo, con spontaneità.
“Te lo ricordi il piccoletto del Revolution, quello che Train diceva che avrei sposato? Beh, è un paio di giorni che me lo trovo tra i piedi e oggi abbiamo fatto una chiacchierata. O meglio, lui ha parlato e io ho ascoltato”. Il sorrisino malizioso che – come da copione – si stampa sulla sua faccia mi fa aggiungere: “Dai, non far lo scemo, mi ha detto che c’è uno che potrebbe essere pericoloso”. “Pericoloso per chi?” chiede cambiando subito espressione. “Come pericoloso per chi… pericoloso per me no?” “Ah, per te, e perché, se si può sapere”. “Mah, il piccoletto dice che è suo fratello e che non ci sta tanto con la testa e che si è gasato con In my bones e che adesso ce l’ha con me, perché… bene bene non te lo so dire, ma lui ne è proprio convinto. E, sinceramente, mi ha messo un po’ di paura. Sembra una roba alla Dario Argento, capisci?” racconto tutto di un fiato. Non so se mi ha ascoltato visto che sembra tutto preso dalla guida e dalle indicazioni del navigatore e mi chiedo se ho parlato per niente. “Senti Dina, in tutta onestà e così sui due piedi, non so cosa dirti. Se credi al suo discorsetto vai alla polizia e fai una denuncia per minacce o qualcosa del genere, altrimenti lascia stare. Ma a te, sembra ti pigliasse per il culo o che fosse in qualche modo sincero?” chiede di botto dimostrando che in realtà non si è perso neanche una parola. “Oh santo cielo, non lo so. Però mi ha spaventata. E, già che ci siamo, una cosa che ho deciso è che tra te e Train stasera mi farete da guardie del corpo così io sono più tranquilla e riesco a suonare rilassata!” butto fuori tutto d’un fiato. “Allora, fammi capire, mi stai dicendo che c’è un ‘Ignazio’ qualsiasi che ti vuol fare secca solo perché sembrerebbe avere trovato l’ispirazione in In my bones? È così?” Annuisco in silenzio. Scuote la testa e continua: “Ricordi Dina, è da quando hai scritto quella canzone
e poi hai tradotto il testo che ti ripeto che è un po’ inquietante: hai scritto che sente le campane che gli rimbombano nella testa e lo spingono al suo delirio. Ma tu no, testona di una donna” e cambia il timbro di voce imitandomi “ma figurati se ascoltano le parole, chi vuoi che le capisca. Allora, sai che ti dico… ben ti sta se dalla finzione sei ata alla realtà!” conclude riprendendo il suo tono abituale e canticchiando quest’ultima frase, come se fosse un motivetto. E intanto ride. Vorrei fare la risentita, ma tutta la situazione sembra un tantino irreale e allora rido anch’io. Averla raccontata ad alta voce ha avuto il potere di sdrammatizzarla. Poi il discorso, inevitabilmente, scivola su Skophje e sulla sua morte. Amica mia, amica sua, amica di tutta la band. E per quel che conta, decidiamo di dedicarle il concerto di stasera. Parlare un po’ con qualcuno di reale, con qualcuno che condivide interessi e ioni, si rivela terapeutico: tutta la tensione accumulata via via si stempera nei ricordi e negli aneddoti. Ho sempre sospettato che Dark avesse avuto una storia veloce veloce con Skophje e – al momento – penso di chiedergli conferma ma poi ci ripenso e decido di rimanere nel dubbio: fa più telenovela. D’altra parte nessuno dei due ne ha mai fatto parola, quindi – e a maggior ragione adesso – lasciamo tutto com’è. Arriviamo al locale: è la prima volta che andiamo a suonare lì. L’ingresso è di quelli stile western, con tanto di porte modello saloon, quelle che oscillano avanti e indietro. Dark scende dall’auto e, rivolgendosi a Train, domanda: “Senti un po’ testa di melone… che posto è questo? Aspettano noi o Tex Willer? Non sarà un altro dei tuoi locali pacco?” Train si limita ad alzare il dito medio. Entriamo. L’arredamento all’interno prosegue sulla falsa riga del ritrovo per cow boy: tavolacci con sedie e panche incise da anni di scritte fatte con chiavi e coltellini raccontano di amori iniziati nel tempo e che il tempo ha cancellato. Alle pareti specchi e poster Old America hanno il potere di farti credere di essere nel Montana o giù di lì. Manca solo il toro meccanico per giocare al rodeo. Una
cameriera ci accoglie sorridendo e, alla nostra spiegazione di chi siamo, ci mostra il palco, solo dopo aver radiografato i belli della band e lanciato un paio di occhiate interessate a Voice e Dee, che nel frattempo si è unito alla band. Poi, forse, sceglierà. Noto con piacere che il palco ha quelle dimensioni che definisco umane: una band di sei musicisti che suonano in spazi piccoli è una cosa che odio, ma i gestori dei locali preferiscono sistemare due tre tavoli in più a discapito del nostro comfort. Quante volte ho sognato di mettere uno dei proprietari di fianco a un piatto della batteria soprattutto se suonato da un energumeno come Train e vedere le crepe che si aprono nelle sue orecchie a ogni colpo! Invece stasera sembra che si starà comodi: spazio per tutti – movimenti da front man del cantante compresi – la batteria è già montata e mi sembra che l’impianto sia buono, anche se aspetto la sentenza di Dark che, come tutti sappiamo, ne capisce più del resto del gruppo. Si scaricano gli strumenti e, dopo avere sistemato le tastiere a sinistra di Train e cioè il più lontano possibile da quel piatto che odio, me ne vado al bancone e chiedo un gin tonic tanto per carburare un po’. In realtà difficilmente prima di una esibizione live mangio o bevo: sono sempre un po’ tesa, sento l’adrenalina del concerto che mi chiude lo stomaco e, con rigore maniacale, rio mentalmente le mie parti, faccio esercizi di riscaldamento per le dita, riguardo i testi da cantare, insomma mi ‘imparanoio’ un po’. Ma poi – come se fosse il fischio iniziale dell’arbitro a una partita – appena Train batte quattro e si incomincia con la prima canzone, ho veramente tutto sotto controllo e, se il fonico di palco non sbaglia il dosaggio dei volumi e riesco a sentire bene tutta la band, mi diverto veramente tanto: sensazione stupenda quando ascolto basso o chitarra che rifiniscono con spunti nuovi qualche aggio provato e riprovato in studio aggiungendo quella magia che solo suonare davanti a un pubblico può regalare. Intanto che sorseggio e cazzeggio sento una mano che mi sfiora delicatamente una spalla. Mi giro già prevenuta e, con grande sorpresa, mi trovo davanti Alex. “Oh ciao bimba” mi dice sorridendo, “questa sera non avevo punto voglia di star a casa e allora mi son detto, beh andiamo a sentire la Dina coi suoi amici”. Conclude mentre continua a sorridere. “Ciao Alex, non pensavo proprio di vederti al concerto di stasera. Non gioca mica la tua squadra in coppa Italia?” rispondo tentando di sfotterlo. Ma sfottere
un toscano è impresa impossibile, almeno per me. E infatti scateno una serie di considerazioni di carattere calcistico che coinvolgono la mia squadra, la mia mamma e la Maremma in generale e che non mi lasciano scampo. Arriva il resto della band che mi trascina in una discussione, sempre quella, senza speranza di soluzione, sulla scelta della scaletta delle canzoni da suonare. In realtà a me non frega proprio nulla, lascio a loro queste decisioni, tanto ognuno la vede a modo suo e difficilmente cede. Anche qui – un po’ alla volta – mi estraneo. Serata perfetta: gente ce n’è a sufficienza, tanti addirittura li conosco di vista perché, quasi fossero degli ultras, ormai ci seguono nei diversi locali dove suoniamo; alcuni di questi poi conoscono quasi tutte le parole di un paio delle nostre canzoni che cantano con noi. Roba da sentirsi la ‘E Street Band’! Iniziamo. Siamo belli carichi, non c’è che dire e il volume degli strumenti conferma che sarà una serata tosta. Le canzoni si susseguono creando feeling con il pubblico. Bel locale, penso intanto che guardo le facce della gente, E chi vedo seduto tranquillamente a un tavolo, che mi fissa con quella sua aria da uomo vissuto che gli ha sempre dato un fascino irresistibile? Gallo. Gallo, lì stasera, seduto davanti a noi. Gallo che era partito alla ricerca del Sacro Graal, come amava ripetere ammantando le sue scelte di vita di un sentore quasi mistico. Gallo l’incredibile, Gallo il grande amore. Gallo. Brutto bastardo, cosa ci fai lì? E, proprio nel momento dell’introduzione di piano di una canzone, lo vedo che si alza e si dirige verso il palco. Sale sicuro, chiede e prende il microfono dalle mani di un esterrefatto Voice e, con una semplicità tutta sua, mi guarda comunicando al pubblico che ringrazia i Blamed per l’opportunità che gli concedono quella sera e che canterà una canzone accompagnato – parole sue –
dalle magiche dita della pianista. Il solito ruffiano, la solita carogna. Io so già che canzone vuole, non ha bisogno di chiedere. Era uno dei nostri cavalli di battaglia al tempo del duo: la versione originale di Lie to me, che avevamo scritto insieme qualche anno prima e che adesso – con le dovute modifiche – fa parte del repertorio della band. Gallo non ha mai suonato il suo strumento particolarmente bene: l’utilizzo della chitarra è sempre stato un po’ confuso, quasi gli servisse esclusivamente per sostenere la voce. Ma la voce era ed è qualcosa di veramente unico: grande estensione, grande capacità di modulare e interpretare creando quei colori che rapiscono l’ascoltatore oltre a una grande facilità di comunicazione che gli ha sempre permesso di ottenere – sul palco e fuori – successo e ammiratori. O, per essere più precisa, successo e ammiratrici. Intanto che i ricordi si affollano nella testa, le mie dita scivolano quasi automaticamente sulla tastiera del piano, l’accarezzano e la percuotono in sintonia con le parole che lui canta, fino a che, nel ritornello, le nostre voci si intrecciano ancora una volta come tante altre volte e, in quel momento, sento che la magia non è mai svanita. “Dedichiamo questa canzone, in questa versione un po’ più intimista rispetto a quella che la band vi propone, alla nostra cara Skophje, amica tragicamente scomparsa e che ha lasciato un vuoto nelle nostre vite”. Gallo sussurra a quello che sa essere ormai il suo pubblico, mentre, con un gesto teatrale, unisce le mani a mo’ di preghiera. Lo conosco da tanto, troppo tempo e ancora, purtroppo, non ho imparato a capire quando e quanto possa essere sincero. Gallo, brutto bastardo, cosa ci fai qui? Come è salito, scende dal palco mentre il suo pubblico lo applaude calorosamente. Riprendiamo a suonare e io, intanto, guardo i suoi movimenti: ha immediatamente preso confidenza con l’ambiente e con la gente che già lo
circonda dandogli pacche sulla spalla e parlandogli fitto. Contraccambia gesti e parole, anche se, lo so, sta pensando ad altro. L’entrata a effetto, la voce come strumento magico e la conseguente uscita di scena trionfale lo hanno già gratificato: Narciso è stato nutrito anche questa volta e lascia il campo da vincitore. Caro Gallo, sempre il solito, il suo viaggio alla ricerca di se stesso non mi sembra lo abbia modificato un granché. Finiamo di suonare e lo avvicino. Ci squadriamo in silenzio, come due animali che si stanno studiando in attesa di decidere se azzannarsi o scodinzolare: son ati circa due anni dall’ultima volta che ci siamo visti, proprio prima della sua partenza. “Oh, che entusiasmo! Dai vieni qui e abbracciami come si deve” rompe il ghiaccio con quel sorriso di chi sa come si fa. Rimango ancora un po’ sulla difensiva ma tanto so che l’ha già vinta lui. Lo abbraccio e chiedo: “Quando sei arrivato? Avresti anche potuto farti sentire qualche volta bastardo che non sei altro”. Questa volta sono io a non lasciargli tempo di rispondere, gli mollo un ceffone che lo colpisce sulla guancia sinistra con un effetto sonoro da film. Accusa il colpo, non dice nulla e continua a sorridere. Come sono scontata, di certo si aspettava una mia reazione eclatante e non ho fatto altro che confermare le sue certezze. Dark e Train assistono gongolanti alla scena: so che non hanno mai avuto grande simpatia per Gallo e i miei racconti su come lui sia partito così all’improvviso, lasciandomi senza parole, sola e ferita – come hanno avuto poi modo di ripetere in più di una occasione – non ha fatto altro che aumentare il loro risentimento nei suoi confronti. “Sono arrivato ieri e – giuro tesoro – ti avrei chiamata, ma son ato dal bar di Alex che mi ha raccontato quello che è accaduto a Skophje e ho pensato fosse meglio non disturbarti. Alex mi ha detto che avresti suonato qui e allora l’ho trascinato a sentirti. E, a proposito, non male il tuo nuovo gruppo, anche se il nome non l’ho mica capito tanto bene” conclude con quella sua risatina che sento dentro con un brivido, ancora mi piace. So che non aggiungerà null’altro: forse in un futuro, se riterrà opportuno e ci sarà l’occasione, mi racconterà di questi due anni ati chissà dove. D’altronde
il suo credo si può riassumere in un qualcosa che suona come… mai guardare indietro che altrimenti non vedi dove vai… Lo fisso, sbuffo perché avevo pianificato nella mia mente un discorso completamente diverso da fare nel momento del nostro incontro, discorso solo immaginato e che adesso so che non farò, ricambio il sorriso senza che io debba neppure sforzarmi, viene proprio spontaneo, e taglio corto: “Beh dai, sono contenta di rivederti. Lo sai che nei miei peregrinaggi mentali ho immaginato questo momento almeno un milione di volte e sai anche che avrei voluto trattarti in modo completamente diverso ma… fanculo Gallo, sono proprio felice che tu sia qui, giuro. Oggi. E per il futuro si vedrà. Hai già dove dormire? E, se non è chiedere troppo, per quanto ti fermerai questa volta?” Di tutto quello che ho detto, la risposta a quest’ultima domanda è, al momento, l’unica cosa che mi preme sul serio sapere. “Quien sabe baby… sempre le tue domande pressanti da pianificatrice. Ricordi cara quando cantavamo Take it easy? Bene, è quello che dobbiamo fare, prendercela comoda. E comunque per adesso sto da Alex poi si vedrà. Tanto lui di spazio ne ha a sufficienza e io sono un tipo silenzioso e poco invadente”. E conclude: “Poi magari una certa mia amica mi riprende a casa sua…” Ancora fanculo presuntuoso di un Gallo.
Capitolo 13
Knights and Wizards in my soul A dancer on the moon Just don’t say I’ve killed again Now I’m lost in the deep blue
“Dottore buongiorno! Dormito bene? Caffè già preso?” Astolfi investe l’arrivo di Rebetti con una serie di convenevoli che danno l’idea di essere solo preamboli a comunicazioni ben più importanti e complesse. La sua espressione d’altra parte lascia trasparire una certa soddisfazione, soddisfazione che non vede l’ora di poter comunicare. “Buongiorno Astolfi. Sì, tutto bene, ti ringrazio e ho già fatto colazione, anche se un altro caffè non si rifiuta mai, soprattutto all’inizio della giornata. Dai, dimmi tutto, ti vedo come un fiume in piena”. Rebetti si toglie la giacca, l’appende all’attaccapanni con un gesto meccanico, frutto di anni di ripetitività, si accomoda dietro alla scrivania sprofondando nella sua poltrona ormai logora e si appresta ad ascoltare la relazione che Astolfi ha già provveduto a trascrivere e raccogliere in un fascicolo che fa bella mostra di sé nel contenitore trasparente sistemato proprio di fronte a Rebetti. I due si conoscono ormai da tempo e, pur diversi per età, formazione e modus operandi, sanno di poter contare l’uno sull’altro, quasi consapevoli di completarsi a vicenda. Astolfi, con il suo metodo matematico, reso scientifico dall’utilizzo – quasi maniacale – delle moderne tecnologie, ha portato una ventata di novità negli uffici della Squadra Operativa e ha contribuito a rendere un po’ più aggiornato l’approccio investigativo di Rebetti, che – da parte sua – riesce a smussare la pedanteria di Astolfi con il suo incedere flemmatico, efficace, anche se un tantino naif.
“Allora Dottore, sparo?” Rebetti lo guarda e scuote la testa. Astolfi così preciso e con quelle espressioni da film poliziesco degli anni settanta lo fa sorridere. “Dai, ti ascolto”. “Allora, andiamo per ordine. Ho controllato tutti i vicini della signorina Sokolova e, fondamentalmente, non è emerso nulla di strano. La coppia gay del primo piano è effettivamente in vacanza alle isole Maldive: una sorta di luna di miele dopo una riappacificazione in seguito a un brutto litigio. I due sono titolari di tre negozi di abbigliamento in centro città e di un quarto negozio situato nel centro commerciale nella zona dell’ospedale. Recentemente sembra che uno dei due abbia avuto uno sbandata per un cliente giovane e aitante con conseguenti scenate di gelosia da parte del compagno. Mi immagino la scena, signor dottore…” Astolfi blocca qualsiasi altro tentativo di commento leggendo il monito nello sguardo di Rebetti. Si affretta pertanto a proseguire: “Sono partiti settimana scorsa e rientreranno sabato prossimo, come può vedere dai dati raccolti ed evidenziati nel fascicolo che le ho preparato e lasciato sulla scrivania, proprio lì davanti a lei” conclude riprendendo il suo tono professionale. Rebetti sfoglia l’incartamento e nel frattempo lo invita a proseguire. “L’affittuario dell’altro appartamento situato al primo piano è tale Alex Baroni, il gestore del Bar Maremma ubicato proprio al pianterreno del medesimo stabile, che lei ha già avuto modo di conoscere, perlomeno di vista. Dalle informazioni che abbiamo raccolto si tratta di un personaggio con un ato un po’ burrascoso, come risulta a pagina quattro del fascicolo. Si tratta di peccati veniali commessi in gioventù, quali detenzione e uso di modica quantità di sostanze stupefacenti, danneggiamento di cosa pubblica e violenza privata, in seguito a scontri tra ultrà appartenenti a diverse tifoserie calcistiche. Il tutto lo ha portato a una condanna di tre anni in istituto penitenziario, pena sospesa con la condizionale. Come si può sempre vedere a pagina cinque”. Astolfi si ferma per prendere un attimo di pausa e Rebetti ne approfitta per gratificarlo un po’. Sa che le ricerche, nonostante la sua abilità informatica e le consultazioni delle banche dati, lo hanno assorbito per un bel po’ di tempo.
“Dai Astolfi, continua. Mi sembra che tu abbia fatto proprio un bel lavoro” lo lusinga. “Allora, le dicevo Dottore” prosegue con nuova lena Astolfi “sembrerebbe che dopo quei trascorsi giovanili il signor Baroni si sia dato una regolata, trasferendosi qui in città e prendendo in gestione il bar, in seguito denominato Bar Maremma, forse in omaggio ai luoghi d’origine, per poi proseguire l’attività commerciale con discreti risultati, almeno stando alle dichiarazioni dei redditi degli ultimi anni. Al secondo piano, oltre all’abitazione della vittima, c’è l’appartamento di proprietà della signora Missiroli, che lei Dottore ha già avuto modo di conoscere di persona. La signora risulta essere vedova da tredici anni e non sembra avere interessi particolari né tanto meno problemi economici: infatti il marito, oltre alla pensione, le ha lasciato alcune quote societarie che sembrano rendere ancora bene e diversi titoli di stato che le permettono una esistenza direi più che agiata. Non risulta che l’unico figlio risieda in città, anche se stiamo tutt’ora procedendo alla verifica delle informazioni in nostro possesso”. Rebetti sa che i dati da verificare verranno completati e catalogati nel giro di qualche ora: Astolfi sa dirigere la squadra con quel puntiglio e quel rigore tipico dei ricercatori di laboratorio. “Al terzo e ultimo piano” Astolfi continua il rendiconto con un ritmo sincopato e cadenzato “risiedono l’avvocato Quattrini e, se non rischio di sembrare un comico dozzinale in vena di facili battute, direi che nome mai fu più azzeccato per un avvocato!” Astolfi ride, felice di aver potuto finalmente recitare quella battuta che senza dubbio si è studiato e ripetuto per tutto il tempo in cui ha cercato, incrociato, verificato dati. Rebetti lo guarda con quello sguardo tipico che un padre riserva a un figlio quando non spende parole di commento, ma che lascia trasparire affetto e ammirazione. Non ricorda più quando era giovane e si domanda – spesso – se mai fosse stato come lui, entusiasta e preciso. “Bella battuta, va, te lo concedo” taglia corto Rebetti, distogliendosi da quei pensieri “ma continua che il tempo stringe, e noi non abbiamo ancora nessuna idea in merito all’omicidio”. “Aspetti Dottore, mi lasci finire. E scusi se mi son preso la licenza di questa battuta. Vedrò di non ripetere l’errore”. Astolfi si mostra pentito della
digressione e riprende. “Allora, le dicevo Dottore che l’avvocato Quattrini è molto stimato in città, in quanto risulta essere il legale di fiducia di alcune società ben conosciute e di alcuni nomi in vista nel jet set nazionale, come ho dettagliatamente elencato a pagina sette del fascicolo. L’avvocato risulta essere all’estero e più precisamente in Svizzera, in quanto sta seguendo l’acquisizione di terreni per una delle società che rappresenta. Il Quattrini ha anche uno studio di rappresentanza a Lugano, dove, a intervalli regolari, si reca. Non risulta essere sposato, il che lo rende appetibile…” Astolfi non finisce la frase: sa che l’ultima considerazione è del tutto personale e non rientra nelle osservazioni che Rebetti di solito vuole ascoltare. Si morde la lingua e velocemente sposta il discorso sull’ultimo inquilino della palazzina, sperando che il capo non abbia notato la gaffe, visto che sembra assorto nella consultazione del fascicolo. “Nell’appartamento di fronte a quello dell’avvocato e proprio sopra a quello della Sokolova abita la signorina Dina Nasi, altra inquilina che lei ha già avuto modo di conoscere, anche senza essere riuscito a interrogarla come avrebbe voluto fare”. Rebetti abbassa gli occhiali che indossa per leggere e guarda Astolfi con aria interrogativa. “Cosa vorresti dire?” “Oh nulla, nulla Dottore. Solo che lei, se ben ricorda, mi ha aveva prospettato la necessità di parlare con la Nasi, ma poi non lo ha ancora fatto. Tutto qui, nessuna critica”. si affretta a precisare Astolfi. Rebetti in realtà sa che la prassi suggerita dalla consuetudine avrebbe previsto di convocare la Nasi in ufficio per porle le domande di rito, ma lui, quando la situazione gli sembra permetterlo, preferisce recarsi di persona da chi deve, forse per dare l’impressione di un approccio informale. “Va bene, continua Astolfi. Sai, a volte sei proprio insopportabile con la tua fissazione per le regole. Un po’ di elasticità, santi numi, non guasterebbe! Soprattutto alla tua età”.
L’altro tace e prosegue come se nulla fosse accaduto. “La signorina Nasi insegna musica presso la scuola media Verdi e suona in un gruppo musicale insieme ad altri musicisti dei quali sto verificando le generalità. Sa com’è, dottore, credo sia meglio non trascurare nulla: la prassi…” affonda deciso Astolfi e questa volta è Rebetti che fa finta di nulla. “Anche la Nasi risulta essersi trasferita in città da qualche anno, più precisamente quattro anni fa, e da allora ha sempre abitato nell’attuale residenza. So che ha studiato pianoforte e si è diplomata piuttosto giovane in strumento, ma che, al contrario di quello che ci si sarebbe aspettato, ha preferito dedicarsi ad altro genere di musica, trascurando quella classica. Da qui la sua frequentazione di gruppi rock più o meno di successo. Sempre dalle informazioni in nostro possesso sembra che la Nasi fosse molto amica della Sokolova, come lei Dottore avrà modo di appurare non appena lo riterrà opportuno” conclude Astolfi che continua a punzecchiare il collega. Non ricevendo alcun commento prosegue: “E ora veniamo alla vittima, Skophje Andreevna Sokolova. Nata a Mosca nel 1981 si era trasferita in Italia da appena tre anni e lavorava come barista in un locale chiamato Revolution, una sorta di music pub, dove era stimata da colleghi e clienti, perché, pur senza dare troppa confidenza a nessuno, era sempre gentile e sorridente. Stiamo aspettando notizie dall’Interpol riguardo i suoi trascorsi in Russia, che al momento non risultano di facile valutazione. Il proprietario del locale, tale Ferini Riccardo, dice che la Sokolova si era rivelata abilissima nel preparare cocktails ed era stata spostata dietro al bancone invece che impiegata ai tavoli. Anche il Ferini conferma l’amicizia tra la Nasi e la vittima. La Nasi era spesso a suonare nel locale del Ferini”. Rebetti interviene intanto che Astolfi prende una pausa nell’esposizione. “Ottimo lavoro, ma sei stato qui tutta la notte? Guarda che nessuno ti paga gli straordinari, lo sai…” “Quando mi apiono, le ore volano via in un attimo e tanto io a casa non ho nessuno che mi aspetta”. Il tono di Astolfi non ammette repliche. “Il Ferini aggiunge che l’aspetto fisico della Sokolova fosse veramente notevole, quasi da fotomodella, il che attirava gli ammiratori più svariati. Ed ecco l’ultima notizia, Dottore. L’ultima, ma forse quella che ci può mettere sulla buona strada…” Il sorriso speranzoso di Astolfi contagia di impercettibile entusiasmo anche Rebetti. Che abbia trovato una pista da seguire, si chiede il
commissario e fissa Astolfi invitandolo con lo sguardo a proseguire. “Proprio il pomeriggio dell’omicidio un uomo dal fisico imponente, con nessun accento particolare, il che farebbe pensare a un italiano, ha, cito le parole del Ferini, leggermente importunato la Sokolova tentando in più di una occasione un approccio verbale con la vittima, riuscendovi solo dopo alcuni tentativi andati a vuoto. Il Ferini non sa cosa il tipo le abbia detto, ma, nel momento che quest’ultimo afferrava la Sokolova per un polso era intervenuto: al suo avvicinarsi il molestatore si allontanava bofonchiando qualche parola poco comprensibile. La ragazza ringraziava il Ferini minimizzando l’accaduto e il contrattempo sembrava esser finito lì. Tuttavia, sempre secondo la deposizione, la Sokolova sembrava abbastanza turbata, anche se la naturale riservatezza della vittima rendeva di difficile decifrazione i suoi stati d’animo”. Rebetti ripensa alle parole scambiate con la Missiroli: un omone sul pianerottolo, nessuna parola, lo sguardo cattivo. Potrebbe trattarsi della stessa persona, dovrebbe trattarsi della stessa persona, spera. Lo sguardo d’intesa tra i due viene sottolineato dalle parole di Rebetti: “Veramente un gran lavoro Astolfi. Direi di procedere all’identificazione di questo personaggio”.
Capitolo 14
We all believe The wrong is right We’ve taken blood fom hearts Just to survive
Villa Angst si erge imponente nel parco recintato quasi fosse un luogo impenetrabile e magico. È sempre stato un posto misterioso, occultato a tutti e frequentato solo dai pochi eletti ammessi in quell’area, per lo più familiari e amici intimi. Frequentazioni che sono andate via via scomparendo con il are degli anni. L’abitazione mostra i segni del susseguirsi delle stagioni, come se fosse la mitica balena bianca che nel ventre nasconde segreti inenarrabili. La fitta vegetazione avvolge la casa in un reticolato che la rende ancor più inaccessibile: le mura hanno perso il colore brillante che le aveva contraddistinte nel ato, il viale che dal cancello di pesante ferro battuto conduce all’ingresso è pieno di foglie secche e rami sparsi qua e là e la siepe, visibilmente trascurata, cresce rigogliosa e selvaggia; tutti segnali che denotano lo scarso interesse degli abitanti per quel tipo di manutenzione. Ma Villa Angst conserva intatto quel fascino di abitazione nobile che solo il tempo può donare: l’imponente ingresso ricorda, con un gusto del tutto particolare, le abitazioni padronali costruite nelle piantagioni del sud degli Stati Uniti e, una volta entrati, la maestosità del salone racconta uno sfarzo ormai sbiadito, fatto di pavimenti di marmo pregiato ricoperti di tappeti che mostrano tutta l’età che hanno e di una enorme, doppia scalinata che conduce al piano superiore, dove sono situate le stanze. Manlio Rognoni cammina nervosamente verso la grande porta finestra che dal
salone conduce alla veranda sul giardino posteriore. Misura i i, uno dopo l’altro, avanti e indietro. Non riuscire a controllare l’evolversi degli avvenimenti lo mette in agitazione. Lui, così calmo e riflessivo, lui che ama prevedere tutte le mosse di chiunque lo circondi, quasi vivesse in una perenne partita a scacchi contro il resto dell’umanità, in questi ultimi giorni ha dovuto sconvolgere il ritmo cadenzato della sua esistenza, quel ritmo che lui predilige e che gli è così congeniale. Suo fratello ha mostrato nuovamente i segni di quello squilibrio che, ormai da anni, lui era riuscito a indirizzare verso un sorta di controllata fobia, resa praticamente innocua dagli stratagemmi che aveva escogitato. Le periodiche avventure che gli lasciava vivere erano appunto quelle eccezioni che gli concedeva. Nulla di più. Ma la pianista, con la sua canzone, aveva profondamente mutato gli instabili equilibri mentali di Jacopo, rigettandolo nell’atavico delirio. Ed era talmente stupida da non aver capito neppure la reale portata di quello che sarebbe potuto accadere. Stupida e presuntuosa: lui ha cercato in tutti i modi di avvertirla, spiegandole quello che sta accadendo, ma lei no, lei preferisce andare a suonare, addirittura protesta, senza capire che dovrebbe ascoltare le sue parole una volta per tutte. Ascoltare, comprenderne il significato e accettare il suo dictat. Anche se, tutto sommato, la musicista potrebbe essere solo un problema collaterale. La trasformerebbe in un gentile omaggio della mente pensante al fratello. Manlio è talmente assorbito dai suoi pensieri che non si accorge del rombo di una moto che entra sul viale facendo schizzare ghiaia ovunque. Anche se avesse sentito il rumore non si sarebbe preoccupato più di tanto: sa come affrontare Jacopo, negli anni ha affinato una tecnica di persuasione che, solitamente, riesce a neutralizzare i suoi attacchi. E a moderare i suoi deliri. Solitamente. “Ehi, fratellino, cosa stai facendo?” La voce lo coglie alla sprovvista e lo fa trasalire, anche se solo per un attimo e in modo talmente impercettibile da non
permettere a chicchessia di accorgersene. “Nulla di importante, come qualche volta mi capita. Stavo pensando di prendere un tè in veranda e, se ti fa piacere, gradirei la tua compagnia. Potremmo parlare un po’, è tanto che non troviamo un attimo per noi due” propone Manlio con voce suadente. “Un tè a quest’ora?” Il timbro della voce di Jacopo è, al contrario, sgarbato e sgradevole. “Il piccolo lord crede di essere in Inghilterra e beve il tè. Dai piccolino che ti faccio compagnia, voglio proprio sentire cosa ti inventi questa volta. O forse hai solamente bisogno del fratellone” conclude modificando leggermente il tono in una palese presa in giro dei modi e del lessico di Manlio. Jacopo sovrasta il fratello di almeno due spanne e di circa cinquanta chili, distribuiti su di un fisico addestrato da ore di palestra e scolpito dall’uso costante di attrezzi e bilancieri. Il che lo rende, se solo volesse e quando vuole, estremamente pericoloso, per chiunque entri nel suo raggio d’azione. I due si incamminano verso la veranda dove un tavolo da esterno è già stato approntato per il tè pomeridiano. La governante, sola presenza femminile e unica dipendente nell’immensa casa, ha già provveduto a preparare l’occorrente per due, forse immaginando che i fratelli avrebbero trovato un momento di confronto o, più semplicemente, conoscendone le abitudini in modo approfondito. Anche se cerca di sminuire il valore del rito del tè pomeridiano, Jacopo in realtà ama questa consuetudine, che riporta entrambi a momenti ati più felici. Momenti nei quali la casa, nonostante le apparenze, sembrava vivesse e regalasse serenità agli occupanti. Poi l’incidente aveva cambiato tutto, radicalmente e profondamente. Quello che Manlio si ostina chiamare l’incidente, altro non era stato che la conclusiva prova di forza di Jacopo, manovra tesa a dimostrare che la voce non poteva essere elusa: la voce comandava e Jacopo eseguiva. Certo, Jacopo era
talmente abile e fantasioso nel mettere in opera i suggerimenti della voce che difficilmente si poteva credere che non provasse una sorta di piacere e di compiacimento nel completare il disegno appena abbozzato nella sua mente. Si era infatti superato nell’escogitare un piano tanto semplice da sembrare, ancora oggi nei pensieri di Manlio, elementare. Tenendo conto delle scarse nozioni teoriche che Jacopo possedeva, il manomettere ad arte i freni della Range Rover dei genitori aveva altresì rivelato una innata abilità pratica fino a quel momento impensabile. Non solo aveva sabotato il tubo dell’olio dei freni, ma era riuscito a farlo sembrare un guasto dovuto all’usura. Anche agli occhi dei tecnici che avevano esaminato i resti della vettura. Impressionante, ma soprattutto impensabile per un bambino di undici anni. Ed era così che i fratelli si erano ritrovati improvvisamente orfani ed eredi dell’impero Rognoni, che, in attesa del raggiungimento della maggiore età dei due con conseguente pieno utilizzo, era prosperato grazie a un amministratore e tutore particolarmente oculato e lungimirante nella gestione del patrimonio. “Gradisci anche un biscotto?” L’approccio di Manlio è cauto e tenta di ammansire il fratello con offerte di pace, quasi come facevano da bambini. Un grugnito non chiarisce se il biscotto è accettato o meno. “Ultimamente ti ho visto, diciamo, un po’ nervoso. Almeno mi sembra”. Dopo il preambolo, l’affondo: a questo punto Manlio decide di sferrare un attacco verbale improvviso, quasi tentando la mossa del barbiere in apertura di gioco, con il palese intento di chiudere l’avversario in un angolo e andare subito a scacco matto. “Non avrei mai dovuto portarti al concerto di quella band il mese scorso. Non è musica che fa per te e ho chiaramente visto l’effetto che quella ragazza ti ha fatto. E le parole della sua canzone hanno completato l’opera”. Jacopo guarda il fratello di sottecchi senza proferire parola alcuna. “Sai cosa ti sto dicendo, non fare finta di nulla! Non vorrai ricominciare ancora con la storia della voce, vero? Lo sai, lo sai che sono io che interpreto la voce, lo sai che la voce esiste solo perché io lo voglio! Stupido bestione che non sei altro, non posso sempre are il mio tempo a proteggerti e a rimediare alle idiozie
che combini!” Manlio è visibilmente alterato e il suo aplomb è del tutto sparito, lasciando spazio a uno sfogo emotivo che investe e travolge Jacopo, sorprendendolo. La mano con la tazza di tè trema visibilmente, le orecchie sono diventate rosse e un leggero sudore gli fa scivolare leggermente gli occhiali dal naso: un’immagine tutto sommato buffa e infatti Jacopo, ato l’iniziale stupore, ride sguaiatamente mentre, puntando i pugni chiusi sul tavolo, gonfia i muscoli delle braccia quasi fossero una minaccia. “Tu rimedi alle mie idiozie?” lo incalza. “Ma quali idiozie, stupido omuncolo che non sei altro! Credi che io sia completamente scemo, non è vero? Sei tu, sei tu che ti sei sempre nascosto dietro di me, il fratello grosso tutta forza e niente cervello sempre pronto all’uso, il gorilla che alla fin fine ha fatto sì che tutto quel che ora abbiamo fosse nostro, che tutto quello che vedi qui intorno fosse tuo!” continua con voce tagliente. La reazione verbale di Jacopo è inaspettata. Sembra che abbia anche imparato a parlare correttamente e che sia in grado di articolare un pensiero di senso compiuto, pensa Manlio intanto che prende tempo valutando la situazione. È ormai chiaro che il trucco di fargli credere – come gli aveva abilmente suggerito – che la voce fosse solo una estensione della sua mente un po’ particolare e che il vero e unico destinatario nonché interprete dei messaggi non fosse lui ma Manlio stesso, è un gioco che non regge più. Infatti, dopo il primo incidente, quello che lui sapeva essere in realtà l’omicidio della cuginetta, si era reso conto dell’inaspettato potenziale che il fratello gli offriva. Aveva dato vita così a una sorta di ipnosi notturna attraverso la quale suggeriva e indirizzava i compiti che quella che entrambi chiamavano la voce proponeva. E le parole della voce diventavano sempre più incomprensibili: infatti i messaggi creati ad arte dallo stesso Manlio erano proposti, con disarmante abilità, al fratello durante sonni profondi indotti da un mix di farmaci che lui stesso, inizialmente, aveva preparato. Jacopo il braccio e Manlio la mente. Come gli piace questa definizione!
Jacopo non reagisce solo a parole e il successivo scatto riporta il fratello alla realtà, distogliendolo dai suoi pensieri. Lo schianto secco del tavolino, spezzato alla base dalle potenti braccia di Jacopo, con il conseguente rovesciamento a terra di tutto ciò che fino a un attimo prima faceva bella mostra sulla candida tovaglia, induce Manlio a elaborare una sorta di difesa immediata, difesa che già sa nulla potrà contro la furia cieca del fratello. Lo deve calmare, deve trovare la formula magica che blocchi la sua ira indirizzandola verso un diverso obiettivo. “Sai che ho parlato con quella musicista? Sì, proprio quella che canta la canzone che ti piace e che odi così tanto”. Le parole di Manlio hanno – o perlomeno sembrano avere – l’effetto di prendere in contropiede Jacopo calmandolo per un attimo, prima che sia troppo tardi per una qualsiasi altra forma di difesa. “Lo so, lo so, stupido omuncolo! Ti ho visto seduto al bar sotto casa sua, con lei di fronte che ti ascoltava: e tu senz’altro le stavi raccontando di me!” Così gridando Jacopo afferra il fratello per il collo sollevandolo da terra come fosse una piuma. Altro che contropiede… Manlio riparte all’attacco prima di soccombere. “Ti avevo visto, cosa credi? Ed è vero che le stavo parlando di te. Quello che non sai è che l’ho incuriosita al punto che adesso è lei che vuole conoscere te! Non dovrai faticare neanche un po’, te l’ho cotta per benino! Non dovrai affatto faticare”. La voce di Manlio sembra più che altro un rantolo, quasi una supplica. Attende la reazione. Frazioni di secondo che sembrano l’eternità. E intanto che spera, prega. Buon Dio fa che funzioni, fa che si calmi. Mai, dopo quel primo e unico attacco della loro infanzia, Jacopo si era rivoltato così violentemente verso il fratello.
E all’improvviso Manlio quasi non ci crede. Jacopo si calma, la presa si allenta e negli occhi spiritati compare un lampo di curiosità. Agganciato. Lascia le spalle, ormai doloranti, del fratello, quasi posandolo delicatamente su una poltrona miracolosamente rimasta al suo posto durante il tourbillon appena concluso e, senza parlare, si mette in attesa, fissandolo muto, aspettando di sapere come si conclude il racconto del fratello. Il racconto di quella che sa essere la Voce.
Capitolo 15
Fozen faces outside my window Staring eyes around Hands once I had used to pray Now they have just killed someone
I due uomini gli bloccano le braccia in una morsa dalla quale ben difficilmente riuscirà a liberarsi. Dimitri lancia rapide occhiate in giro sperando che il sopraggiungere di qualcuno, non importa chi, gli dia l’opportunità di divincolarsi distraendo anche solo per poco i due. Il pugno lo colpisce allo stomaco lasciandolo per un attimo senza fiato. Il terzo uomo, in piedi di fronte a lui, lo fissa con sguardo vuoto, la bocca increspata da un leggero sorriso e, velocemente, con un altro colpo proprio sul naso lo stordisce definitivamente. Nello stesso momento sente distintamente, seppur sembrerebbe provenire da lontano, una voce che si rivolge a lui in una lingua dal suono così familiare quasi da spaventarlo. “Allora caro Dimitri, non hai ancora capito che qui nessuno è più disposto ad aspettare? La tua sorellina giurava di non sapere nulla, ma tu sai come sono le donne… non si sa mai quando dicono la verità e quando no… e questi tre non hanno le mani leggere, come ben sai. Avrebbe dovuto essere più convincente!” Un altro colpo lo raggiunge proprio sulla bocca, facendolo sanguinare. Sente con la lingua che l’incisivo non è più al suo posto e sa che se non trova una scappatoia al più presto quello sarà solo l’inizio. Tentare di andare a casa della sorella, nella speranza di trovare il sacchetto che tutti stanno cercando, non è stata di certo una buona idea. Avrebbe dovuto
rimanere nascosto ancora per un paio di giorni, aspettando che la situazione si normalizzasse, ma la fretta e la paura a volte sono cattive consigliere. E allora si era imbattuto nel gruppetto che, pazientemente, lo stava aspettando seduto tranquillamente a bordo del grosso Suv nero, parcheggiato in modo da tenere sotto controllo tutta la via. Ritrovarsi immobilizzato contro un muro era stato uno sviluppo talmente fulmineo e imprevisto da avergli impedito qualsiasi reazione. Senza dubbio si era messo nel classico cul de sac. “Su su giovane amico, non hai proprio nulla da dirmi?” continua a domandare imperterrito il quarto uomo alle spalle dei tre che evidentemente sono bassa manovalanza: picchiano e non parlano. Come al solito, prima di una qualsiasi risposta, un altro colpo, questa volta portato con qualche oggetto creato apposta per far male, lo colpisce sul polso e il rumore che produce non lascia pensare ad altro di diverso. Spezzato. Neanche il tempo di emettere un urlo, un gemito di qualsiasi intensità, che la bocca di Dimitri viene sigillata da una mano guantata, una mano che appartiene a chi sa cosa fare in situazioni del genere. Nonostante il dolore veramente lancinante, Dimitri riesce a essere fiducioso: se avessero voluto concludere il lavoro non si sarebbero di certo fermati per strada, con il rischio che l’arrivo di qualcuno potesse interrompere la festa. L’avrebbero sicuramente portato altrove, in un posto più appartato, dove, certi di non essere disturbati, avrebbero ottenuto quello che volevano. Una storia, ma che sia credibile. Deve pensare velocemente, ma la tecnica dei tre, attori consumati nello spettacolo del dolore, non gli lascia il tempo necessario per riflettere: loro sanno che così facendo le informazioni ottenute saranno molto vicine alla verità. Porta la mente altrove Dimitri, lascia a loro il corpo, ma porta la mente altrove, e pensa… pensa… veloce… più veloce… Il disperato tentativo, quasi miracolosamente, sembra funzionare. “Basta, basta” li supplica con voce piagnucolosa, “basta, vi dirò tutto, ma smettetela!”. La presa dei due non si allenta, ma i colpi smettono. Al quarto uomo basta un impercettibile gesto per fermare i tre.
“Aspetto. Cosa hai da dirmi?” La voce calma è sempre distaccata, quasi conoscesse con certezza e in anticipo lo sviluppo dei fatti. “I diamanti, quelli che voi cercate, li ho io. Sì, li ho io”. Il gruppetto rimane leggermente disorientato all’affermazione del giovane, che sapevano avrebbe ceduto, ma non subito, e per di più rivelando di avere con sé il sacchetto. E allora cosa sei venuto qui a fare, si starà chiedendo senz’altro quello che del gruppo sembra essere l’unico che parla. Forse anche l’unico che pensa. “Li abbiamo presi appena prima che voi arrivaste a casa di mia sorella, che, brutti stronzi, veramente non sapeva nulla di nulla!” Un ceffone lo colpisce sulla bocca già dolorante e blocca il flusso delle sue parole. Dimitri si accorge che i due lo hanno liberato dalla stretta: ha un polso probabilmente rotto e verosimilmente non riuscirebbe a fare neppure un o senza essere bloccato. Si tiene l’avambraccio sinistro quasi volesse diminuire il dolore ma un altro colpo, questa volta alla bocca dello stomaco, gli ricorda che deve proseguire con il racconto che sta improvvisando. Fa che ci credano, fa che ci credano. Sa che non potrebbe resistere a un altro trattamento dei tre professionisti, che sotto la guida del quarto sembrano essere perfettamente a loro agio nella parte. Spera veramente che non siano tanto furbi. Non ha mai amato gli ucraini. “Con me è salito in casa anche il tipo del bar e adesso li ha lui. È lui che regge tutto il gioco. Lui ha contattato l’avvocato e poi siete arrivati voi. Io speravo di guadagnare un po’ di soldi. Tutto qui. E lei non ne sapeva assolutamente nulla! È morta per niente, maledetti!” Brillante idea… idea del cazzo in realtà. Per questi sarà un gioco andare dal tipo e scoprire che anche lui non ne sa nulla. O meglio che non sa nulla di dove possano essere i diamanti. Dove avrà messo quel dannatissimo sacchetto Skophje? Aspetta e in quell’attimo spera che gli diano un momento di tregua.
“Ehi voi lì sotto, cosa state facendo?” La voce stridula di una donna grida da una finestra che si affaccia sulla strada. Tutti si voltano guardando verso l’alto e tutti vedono una anziana signora con già in mano il telefono che continua a starnazzare. “Vi ho visti, vi ho visti. Chiamo la polizia, subito! Lasciate in pace quel ragazzo, brutti mostri che non siete altro!” Bloccati da una curiosa. Che il suo Dio la benedica signora. I quattro si guardano e, veloci come sono arrivati, spariscono in un attimo lasciandolo pesto e dolorante sul marciapiedi sotto casa della signora Missiroli. Pesto, dolorante ma ancora vivo.
Capitolo 16
And when we turn our heads and play a funeral drum we say ain’t better days in our lives
Rebetti si massaggia pensieroso il mento, con quel gesto tipico di quando è soprappensiero: le ultime notizie che Astolfi ha solertemente consegnato lo lasciano veramente perplesso. “Dunque, ricapitolando signor ispettore, dal referto redatto dal medico dell’obitorio, dottor Paggini, risulta che le ferite e gli abusi rilevati sul corpo della Sokolova, che a prima vista sembravano essere la causa evidente dell’omicidio, siano stati in realtà inferti post mortem”. Anche Astolfi, pur sintetico e professionale nell’esposizione di quanto emerge dalla cartella clinica che continua a rigirare nelle mani, forse nella segreta speranza che qualche particolare trascurato a una prima disamina emerga e renda il tutto di più facile comprensione, ha un tono di voce che denota l’incertezza sulla dinamica degli avvenimenti. “Senti Astolfi” interviene l’ispettore. “A questo punto credo sia evidente che dobbiamo rivedere tutto il quadro e risistemare i tasselli di questo maledetto puzzle in un ordine diverso da quanto finora fatto. Al momento è certo che la strada che abbiamo intrapreso sia frutto di apparenze e congetture. Dunque dunque, stando a quanto ora in nostro possesso, direi che siamo in presenza di un’aggressione conclusa con la morte della vittima causata… vediamo… presumibilmente da lesioni interne all’altezza dello sterno, portate da uno o più colpi inferti con un oggetto all’apparenza di forma cilindrica… arresto cardiaco? Mah… non è ancora specificato in questa prima analisi”.
Astolfi in questo momento non è di grande aiuto. Si limita a fissare l’ispettore con una certa attenzione, anche se il suo pensiero principale è rivolto al resto delle lacerazioni che hanno sfigurato il volto della ragazza. Uno scempio che, ormai senza ombra di dubbio, è opera di qualcuno che si è accanito sul corpo già senza vita. “Certo Astolfi”. Rebetti sembra leggere nella mente e nei pensieri del collega. “Se così fosse, cioè, se dopo il decesso, l’assassino si fosse accanito così brutalmente con l’evidente intento di sfigurare il viso della signorina, beh, se così fosse, questa è un’altra domanda alla quale dovremo dare risposta: perché questa furia? Incomprensibile, soprattutto valutando che le fratture alle braccia, stando al parere del dottor Paggini, sembrerebbero procurate con una sorta di metodo, raccapricciante e violento, ma pur sempre metodo. Radio e ulna spezzate con un colpo secco, dita della mano destra slogate e con evidenti segni di bruciature, ed entrambe le braccia hanno subito lo stesso processo, quasi fosse un rituale di una qualche setta o che altro non so!” I due si fissano, sperando di trovare l’uno nell’altro la formula magica che possa essere di aiuto nel fare luce sull’evidente buio in cui si trovano. “E se, mi scusi dottore, ma vorrei dire, e se le fratture in realtà fossero la prima parte di un disegno messo in atto allo scopo di torturare la donna che so, con la speranza che potesse rivelare qualcosa, tipo una confessione strappata con la forza e che tutto il resto – scempio del viso e restanti fratture – fosse frutto della delusione di non aver ottenuto quel che si voleva… cosa ne pensa capo?” Astolfi si lancia nella descrizione di uno scenario immaginario che però, al momento, potrebbe sembrare plausibile. Rebetti lo guarda e annuisce intanto che riflette su quanto appena ascoltato. Entrambi sono immobili, silenziosi. Ognuno segue il flusso dei suoi pensieri lasciandoli liberi di associarsi in immagini e percorsi da dover poi dimostrare, ma che potrebbero essere l’inizio della risoluzione: Astolfi, sempre razionale, cerca di numerare tutti gli indizi correlandoli in modo tale che la sua supposizione prenda un indirizzo rigoroso, mentre Rebetti si limita a vagliare l’ipotesi del collega, ipotesi che, senza una ragione precisa, gli sembra poter essere la chiave per aprire la porta giusta. Un omicidio in due puntate… proprio così. L’idea di Astolfi gli piace sempre di
più. La porta di casa con la serratura senza segni di effrazione, suggerisce che l’assassino conoscesse la vittima o che avesse ideato uno stratagemma plausibile per entrare. Il portone d’ingresso, al contrario, non aiuta in questa direzione, visto che sembra essere sempre aperto direttamente sulla strada, permettendo così a chiunque un facile accesso. E il cane legato al mobile dell’ingresso… forse che la Sokolova fosse appena rientrata dal giro con l’animale e sorpresa sul pianerottolo… Ancora troppe domande senza risposte. Rebetti decide di fare un ulteriore sopralluogo a casa della vittima. L’inconfondibile rumore della stampante che si mette in moto e inizia a sfornare un foglio dopo l’altro, con quella lentezza tipica di una attrezzatura obsoleta, ma unica e funzionante in un commissariato, lo distrae un attimo e in quell’attimo riesce a leggere di sfuggita l’intestazione del primo foglio. Inconfondibile e, nonostante il suo inglese non sia poi così fluente, tanto gli basta per capirne la provenienza: gli uffici dell’Interpol. Altro materiale sul quale riflettere e fare confronti, pensano all’unisono i due anche se Astolfi sa già che toccherà a lui la mole più pesante del lavoro. “Astolfi” Rebetti blandisce il collega con quel suo mix di gentilezza e fermezza. “Per fortuna che il tuo inglese non è così scolastico come il mio che si ferma al classico dov’è la penna? La penna è sul tavolo!” prosegue tentando anche di alleggerire il tutto con una battuta che è più nello stile dell’altro, mentre gli porge sorridendo i tre fogli stampati di fresco con la comunicazione, neanche tanto nascosta. “Occupatene tu!” “Mi darai i risultati appena non avrai concluso la traduzione. E non usare quel tuo traduttore sul computer come quella volta della ricetta del dolce inglese che ti ha dato tutte le quantità confondendole con i costi: ti ricordi poi che schifo è venuto fuori! Immaginati se qui dovessi fare lo stesso, andremmo ad arrestare quello sbagliato!” conclude. Nel frattempo indossa la giacca e si dirige verso la porta dell’ufficio, con l’evidente intenzione di andarsene. Esce e si ricorda di non avere comunicato le sue decisioni. Beh se dovessero aver bisogno mi chiameranno al cellulare, pensa intanto che apre la portiera dell’auto e sale. Non gli piace guidare, ma l’abitazione è abbastanza distante e ha deciso di non
perdere tempo camminando. Sorride al pensiero del contrassegno di servizio che posizionerà sul cruscotto nel momento in cui non troverà parcheggio. La mattina si preannuncia lunga e complessa. Spera di trovarla a casa e, nel caso contrario, vedrà di trovare altre fonti d’informazione.
Capitolo 17
And I can feel it Deep into my bones Voices screaming Up into my brain
Mi risveglio con la bocca un po’ impastata e secca. Ieri sera devo aver bevuto più di quello che posso sopportare e adesso lo sento. Mi alzo, qualche breve esercizio del collo per credere di rimettermi in forma e mi dirigo verso la cucina dove apro il frigorifero in cerca della bottiglia della minerale. Mi basta prenderla in mano per avvertire subito una sensazione piacevole e – come faccio sempre – mentalmente ringrazio chi ha inventato l’acqua fredda. Non so come farei a ripartire ogni mattina se non bevessi, è veramente uno dei piaceri più intensi che io possa provare, indipendentemente da cosa uno abbia fatto la sera precedente. Bene, sono sveglia. Preparo il caffè e intanto che aspetto ripenso un po’ agli ultimi giorni. Io decido sempre affrettatamente, questo è vero, però poi ritorno sulle mie scelte e vedo di dare una spiegazione al mio agire e di trovare correttivi o – più raramente – di congratularmi con me stessa per quanto fatto, anche se succede raramente: sono veramente critica nei miei confronti. Non me ne lascio are mezza. C’è poco da fare, son fatta così. Ritmo vorticoso, non c’è che dire: tra chi muore e chi vive, tra chi sparisce e chi ritorna, tra chi racconta e chi invece non dice niente, ehi ragazzi… veramente un bel tourbillon di emozioni. Credo di essere una persona abbastanza determinata ma – in questo momento – in realtà so di essere solamente molto provata.
Oggi invece, è uno di quei rari momenti in cui mi do la pacca sulla spalla da sola, e quasi mi congratulo con me stessa: Skophje, Gallo e Alex, Manlio e il bestione, la band, la scuola… …di tutto un po’ e un po’ di tutti… …the show must go on… …e faccio parte dello show… Anzi… io sono lo show! Ah, certo, mi sono scordata della Missiroli e di quel commissario… Ecco, ora lo spettacolo è veramente al completo. E io chi sono? Chi interpreto? Il cavaliere… il mago… quelli son già dentro di me… non mi resta che la ballerina sulla luna… Oh cielo, ma io non ho mai imparato a ballare. Ricordo la nonna che, quando ero piccola, all’età di cinque sei anni, mi aveva iscritto a un corso di danza e addirittura mi aveva comprato un tutù rosa, con il gonnellino di tulle e tanto di calzamaglia dello stesso colore. Il tutto era durato lo spazio di poche lezioni, evidentemente non ero nata per quello. Ricordi che mi riempiono di nostalgia. Come vorrei che lei fosse ancora qui: qualche consiglio con la sua voce pacata e calda me lo avrebbe dato di sicuro e so che mi avrebbe fatto bene. Pensieri, o meglio frammenti di pensieri che alla velocità della luce – ma quale sarà poi la velocità della luce io non lo so – mi attraversano la mente, come fossero schegge impazzite che non riesco a fermare, spero solo mi aprano il terzo occhio mentale dandomi la luce della rivelazione… Forse ho bevuto realmente troppo ieri sera, e a questo punto spero di aver suonato bene, ma non mi ricordo, mi sembra di non sapere nulla adesso, l’ho detto che sono molto provata, qua sbarello, mi devo fermare… Stop Dina stop.
Il caffè è pronto, sento il borbottio della caffettiera che mi richiama all’ordine, suggerendomi di riprendere possesso delle mie – cosiddette – facoltà mentali. Chiudo gli occhi e provo a riorganizzare il flusso dei pensieri: devo incominciare a riflettere partendo dalla prima domanda e, solo dopo essermi data una risposta, anche incompleta, are alla seconda e così via. Sì, mi sembra la strada migliore. Quella da percorrere. Mi sento sollevata e in questo momento pronta ad affrontare tutto e tutti. Suona il citofono. Lo guardo perplessa: a quest’ora? Tanto per dare un tocco di rosa al risveglio, spero in un mazzo di fiori consegnato a domicilio da un ammiratore segreto… ma tanto so che non sarà così. Forse è meglio così, visto i momenti che sto ando. Guardo nel monitor… oh e chi abbiamo a quest’ora del mattino… il commissario! Ladies and gentlemen la forza dell’ordine! Altroché fiori. Rispondo. “Buongiorno. Sì, sono sveglia e no, non disturba. Prego, salga. Si, terzo piano”. Che donnina eh… altra pacca sulla spalla… giusto in tempo per il caffè. Sono questi i momenti che in cui realizzo che non avrò mai successo come rocker. Sono troppo educata, sono troppo perbenino. Nonostante le apparenze, salta fuori quel carattere dolce che odio, ma è lì, che aspetta tranquillo e che – al momento buono – bang! colpisce. Rocker? Ma fammi il piacere va! Oh, suona il camlo! Sculetto tanto che mi dirigo quasi danzando in punta di piedi verso l’uscio per
accogliere il visitatore… dio come sono scema… o dal delirio alla soap opera in uno schiocco di dita… ma quando son così, tutto sommato, mi piaccio… ritrovo quella grinta che amo in me. Dai Dina, giochiamo un po’ con… “Ma buongiorno signor commissario. Qual buon vento la porta qui a quest’ora? Dormito poco e male? Oppure, semplicemente, ha sentito il profumo di caffè appena fatto e – come nei cartoni animati – ne ha seguito la scia?” Chissà se son esagerata, machissenefrega mi dico. Lo guardo sfoggiando un sorriso radioso e aspetto. “No signorina” mi risponde imibile. “Dormito più che bene e, in tutta onestà, il caffè l’ho già bevuto. Se insiste ne prenderò un altro, come vede sono anche cortese”. Starà giocando anche lui mi chiedo, e se lo fa, oggi sarà un bel match! Entra e si guarda in giro. Vedo che osserva interessato il pianoforte che – ovviamente – attira l’immediata attenzione di chiunque entri in casa mia: si tratta di un gran bello strumento, un pianoforte a mezza coda e, oltre al suono, che però va valutato solo in un secondo momento e da chi lo riesce a capire, il legno lucido e lo spettacolare caos che regna sul leggio lo rendono accattivante fin dal primo sguardo. Anche con me è stato così, amore a prima vista. Mi ricordo il giorno in cui ci siamo conosciuti in un laboratorio artigiano, dove una intera dinastia – nonno figlio e nipoti – sistemavano e rivendevano strumenti diciamo così, un po’ provati dall’usura e dall’incuria, riportandoli a nuova, splendida vita. E io, ragazzina di belle speranze, me ne ero follemente innamorata. Ricordo anche che il primo brano che ho suonato era tratto dai Quadri a una Esposizione di Mussorgskij, Il Vecchio Castello, composizione che in quel periodo mi sembrava veramente il non plus ultra della musica. Anche ora il mio pianoforte, pur muto, ma così imponente, affascina il poliziotto. Beh, forse forse gli piace la musica… dai Dina… è pur sempre una divisa… non allargarti subito.
Il piano sembra avere esaurito il suo charme e il commissario si accomoda sulla poltrona – quella di pelle bianca che era di mio padre e che ora è la mia preferita – e, dopo aver accavallato le gambe, come fa chi si mette comodo, mi guarda con un’aria interrogativa. “Non si era parlato di un caffè?” rompe gli indugi. “Sì, se n’era parlato, mi sembra. Un attimo che chiedo agli addetti ai fornelli” ironizzo. Già non mi piaceva prima, così a pelle, meno ancora mi piace adesso, così a udito. Vado in cucina, ne verso un po’ in una tazza scegliendo quella sbeccata e senza manico… forse si scotta un po’… la porto su un vassoio minuscolo e la lascio sul tavolino di fronte alla poltrona congedandomi per un attimo. “Vado a cambiarmi, non aspettavo visite. Un momento solo e sono da lei”. Requisito del poliziotto moderno è sapere le lingue straniere e scelgo la t-shirt nera con la scritta gialla “Kill your local cop” che raramente indosso, ma che in questa occasione mi sembra appropriata, così, tanto per ristabilire le distanze. Kilt giallo e nero e anfibi lucidi neri completano un look barriera invalicabile, così, sempre tanto per sottolineare le distanze. Mi guardo allo specchio. Sono pronta per rispondere alle sue domande. Un interrogatorio in piena regola. No, ancora un attimo, un po’ di nero sugli occhi non guasta… tanto quello sta bevendo e può aspettare. Rebetti infatti aspetta e, intanto che sorseggia il suo caffè – ne ha provati di migliori, forse anche quello della macchinetta in questura è meglio pensa. Osserva la sala della musicista, per farsi un’idea del personaggio, nella speranza di limare eventuali distanze tra loro. Sa che l’ordine e il disordine di un ambiente suggeriscono molto più di quel che possa sembrare sulle abitudini e sulla personalità dell’occupante: tutto appare moderatamente pulito, forse un po’ di polvere di troppo sulle mensole della libreria, il vecchio tappeto persiano non necessita di pulizia immediata, e anche il parquet datato sembra vivere un’eterna
giovinezza. Il caos vero regna sul leggio del pianoforte: si è sempre chiesto quale potesse essere il rapporto del musicista con il proprio strumento e ora che lo può misurare visivamente rimane un po’ perplesso. Odio e amore? Anche la giovane donna lo lascia perplesso: sa di essere piuttosto bravo e soprattutto veloce nel definire la personalità di chi avvicina, o comunque in grado di interagire subito fin dal primo approccio, ma questa Dina Nasi non è così facilmente leggibile, sembra essere proprio come quel leggio che sta osservando ora. “Eccomi qua, monsieur le commisaire”. Mi ripresento sfoggiando, oltre alla maglietta provocatoria, anche il mio se. Mi guarda, anzi, mi squadra da capo a piedi, senza dire nulla. “Allora, mi dica pure. Credo di essere sufficientemente sveglia per ascoltare le sue domande e, spero, per fornirle risposte adeguate” incalzo. “Bene signorina, solo qualche delucidazione che, come ho già avuto modo di accennarle, spero mi possa aiutare a meglio inquadrare la signorina Sokolova. Ma si accomodi pure”. Ma si accomodi pure, io, in casa mia? Ma senti questo… “Dalle notizie in nostro possesso risulta che la sua amica fosse residente in Italia da ormai tre anni, sappiamo dove lavorava e, ovviamente, dove viveva. Ma non sono queste le notizie specifiche che vado cercando. Piuttosto, lei credo potrebbe raccontarmi qualche cosa di più personale: amicizie, inimicizie, fidanzati, pretendenti, vizi e ioni, cose di questo genere insomma”. Rimane in attesa a sua volta. “Sembra un’interrogazione… bene, vediamo un po’ cosa le posso dire. Skophje è… era… una ragazza piena di vita e di sorprese. Lavorava al Revolution come barista, ma questo lo sa già, com’è che ha detto… cerca altre specifiche lei… beh, questo forse non lo sa, ma suonava il flauto traverso in modo sublime. Si era diplomata a Mosca e chi ha studiato lì non è certo l’ultimo arrivato. Lavorava al pub in attesa di tempi migliori, ma entrare a far parte di un’orchestra non è poi
così semplice. E allora si era adattata. Stavamo pensando di dar vita a un duo, e in realtà avevamo già deciso alcuni dei brani da suonare, ma il tempo sembrava non bastare mai. Tra un impegno e l’altro ci si riusciva a distrarre sempre un bel po’. E poi le nostre storie musicali così diverse non aiutavano di certo la realizzazione del nostro progetto”. Pausa di riflessione stile Manlio per osservare eventuali reazioni del commissario, reazioni che assolutamente non colgo. Proseguo: “Vede commissario, non sempre chi come Skophje ha studiato con dedizione e risultati eccellenti un repertorio classico riesce, o forse più appropriatamente vuole, contaminare il suo mondo musicale con esecuzione di brani diciamo più frivoli. E chi come me si è lasciato contaminare ormai da tempo immemore, non sempre riesce a rientrare nel rigore richiesto dalla classica. Da qui la nostra distonia: non so se mi sono spiegata, ma questo è quanto. Ma al di là di queste considerazioni, lei forse vorrebbe che io parlassi d’altro, per esempio dei suoi amori? Dunque, corteggiatori tanti, fidanzati nessuno: Skophje era un vero spirito libero e non amava legarsi troppo a qualcuno in particolare. Forse qualche ammiratore era un po’ insistente, ma lei ha sempre saputo districarsi ad arte. E in modo talmente leggiadro da riuscire a non ferire mai nessuno, né con parole fuori posto né tanto meno con modi bruschi”. “Cosa mi dice del fratello?” interviene. Il fratello? Ma che fratello? Vede dalla mia espressione di avermi colto impreparata e io, altrettanto sinceramente, proseguo: “Ma di che fratello sta parlando? Mai saputo che Skophje avesse un fratello! Ma dove, qui?” sono io a fare le domande adesso. “Dimitri Andreevic Sokolov, arrivato l’ultima volta, vediamo, stando al visto d’ingresso, giovedì scorso e attualmente senza recapito conosciuto. Pensavo che lei, in quanto amica, potesse essere d’aiuto” Dimitri? Cazzo, mai sentito. Ho sempre pensato che quella donna fosse una miniera di sorprese: vero anche
che mai ci eravamo raccontate dei famigliari, e forse ero io che davo per scontato che non ce ne fossero, visto che non se ne parlava. E adesso scopro che ha un fratello, addirittura qui, ma chi l’ha mai visto? “Commissario, è vero che eravamo amiche, ma io di questo fratello non ho mai sentito parlare. E, a questo punto, chissà di quanto altro non so nulla”. Mi fermo, decisa a mettere un punto fermo alla discussione. Discussione che, abilmente, riprende lui. Mi sento un pugile stretto all’angolo. E devo uscirne al più presto. “Dalle informazioni in nostro possesso, sembra che il Sokolov non fosse proprio quel che si definisce uno stinco di santo: niente di clamoroso, trascorsi che non le sto a elencare. Ma nei suoi file c’è un buco di quasi due anni: una volta rilasciato dopo aver scontato una pena detentiva di modesta entità, sembra sparire nel nulla. Salvo ricomparire qui solo qualche giorno prima dell’omicidio della sorella. Circostanza alquanto strana, mi viene da considerare”. “Consideri un po’ quel che vuole, ma io non ne so nulla di nulla. Dovrei aggiungere anche il classico mi spiace: vorrei essere d’aiuto, ma non posso proprio”. Intanto che parlo penso a Manlio e a quello che mi ha detto. Forse è l’occasione buona per coinvolgere il commissario e liberarmi del peso delle supposizioni, lasciando a lui gli elementi del gioco. Credo che legga nei miei occhi – occhi troppo chiari per nascondere i pensieri – che qualcosa mi a nella mente e sembra rimanere in attesa. La scoperta dell’esistenza di un fratello sconosciuto è la goccia che fa traboccare un fiume in piena di parole che mi escono come se fossero senza argini: lo rendo partecipe delle ultime mie giornate e di quanto appreso, tanto che, nel giro di qualche minuto, il Dottor Rebetti diventa ufficialmente depositario dei miei stress in quanto mio confidente principe. Con tanti saluti a tutti, mi congedo dagli incubi, regalandoli in confezione lusso al caro commissario. Che ne faccia quel che vuole.
A me basta riavere la mia vita.
Capitolo 18
No flowers in our gun We are death machines A flying bullet Don’t let Don’t let no mother sing
“Oh che tu mi dici, dormito bene questa notte? Eh bello, non sei più abituato a una casa per benino, lenzuola linde e colazione inclusa!” Alex accoglie l’amico al suo ingresso nella cucina dell’appartamento allargando le braccia in un abbraccio simulato. Sembra essere felice di ospitarlo e lo dimostra in ogni momento: attenzioni che Gallo accetta di buon grado. Non vede perché non dovrebbe, lui ama essere coccolato e accudito, nonostante sia uno spirito libero, come non manca di sottolineare in ogni occasione. “Grande Alex, fratello mio! Avere amici così sinceri è quello che mi permette di essere sempre rilassato e positivo. Grazie ancora fratellino!” Gallo modula la sua bella voce impostata quasi dovesse registrare una canzone. “Anche se” continua con un sorrisino “spero sempre di trasferirmi a casa di Dina nei prossimi giorni. Mi sembra che quel feeling tra noi non sia per niente sparito”. “Caro mio, te tu la sai lunga… con quell’aria da innocentino tutto sorrisini e quel faccino tutto bellino… va là che lo sai che la Dina ti cade ai piedi un’altra volta!”
L’aria scherzosa tra i due prosegue come un gioco intanto che finiscono la colazione. Alex lascia l’amico ancora in cucina ben sapendo che non avrà nulla da fare per tutta la giornata, se non prepararsi con tutta la calma del mondo per poi comparire, verso l’ora dell’aperitivo, al bar sotto casa. Bar che lui si appresta ad aprire, scendendo l’unica rampa di scale che divide l’appartamento dal locale, tra esattamente un minuto, un minuto e mezzo al massimo. Alex chiude la porta dietro sé con un gesto meccanico, gesto che ripete da anni ormai, tutte le mattine, feste comprese. Ma oggi è più pensieroso del solito. E non si tratta dei soliti problemi di spese o tasse. L’omicidio di Skophje, ancora irrisolto per la polizia, ha per lui un nome ben preciso. E, ne è sicuro, non tarderanno ad arrivare anche da lui. Sbuffa o forse solamente sospira intanto che scende le scale. Mettersi in affari con quella gente è stata senz’altro una gran cazzata, ma lei ha saputo essere così convincente, tutto sembrava così facile, e lei era stata abile a insistere con la promessa che una volta soltanto sarebbe bastata per sistemarsi per sempre. E lei era convinta che quell’avvocato così per bene fosse anche estremamente affidabile. Ci aveva flirtato un po’ e lui aveva organizzato il tutto con il quattrocchi. Poi era comparso Dimitri, così dal nulla e il tutto così facile si era trasformato in un tutto così complicato. Era comparsa quella gente e, soprattutto quello più piccolo, sembravano aspettarlo. Se solo sapesse dove erano finiti i diamanti avrebbe potuto giocarsela diversamente, pensa ancora intanto che supera il portone che dà sulla strada. Ha già in mano le chiavi della serranda del bar, pronto per aprire la serratura e alzare la saracinesca, in un gesto ripetuto e ripetitivo che non richiede attenzione particolare. Ma, tanto che gira le spalle alla strada e si china per afferrare la maniglia, non si accorge degli uomini che – silenziosamente – sono dietro a lui. Sente solo il colpo sulla testa e poi più nulla. Il buio lo avvolge e il silenzio diventa il suo unico compagno. Braccia forti lo sollevano e lo caricano nel bagagliaio di un’auto che aspetta già pronta. Nessuno sembra assistere alla scena, che si svolge con una rapidità inaudita e che altrettanto velocemente si conclude.
Gli uomini salgono sul grosso automezzo nero che parte con un leggero rombo del motore. Non notano la moto, altrettanto grossa, altrettanto nera e cromata, che riparte nello stesso momento, nella loro stessa direzione. Alla guida un uomo possente nel suo giubbotto di pelle sta sorridendo sotto il casco e gli occhiali scuri. Jacopo Rognoni, testimone dell’accaduto, decide di seguire il SUV nero. Jacopo Rognoni pregusta la scena. Nella sua mente ha già chiaro quel che sarà e quel che il suo compito deve essere. L’uomo del bar conosce la musicista. Come la donna del Revolution. Ma già una volta è arrivato tardi. Questa volta no. Questa volta ha tutto il tempo per preparare lo spettacolo. Sa che non sarà facile. Gli uomini sono quattro e così a occhio e croce almeno tre di loro sembrano addestrati al combattimento. Probabilmente sono anche armati. Anche lui è addestrato al combattimento ed è armato. Il fucile ancorato lungo il fianco sinistro della moto, quasi fosse un winchester nella sella del cavallo, gli dà una certa tranquillità. Comunque sa che il fattore sorpresa sarà determinante. Deve solo decidere come e quando agire. Prepara il piano d’attacco nella sua mente e si augura che la meta non sia troppo vicina, così da poter predisporre il tutto nei minimi particolari. Azione veloce e improvvisa. È l’unica strategia vincente. Colpire per primo e colpire forte. Lui vuole l’uomo del bar per se. Si tiene a una certa distanza, per evitare di essere notato, anche se il traffico della mattina lo aiuta nel suo restare anonimo. La velocità è tale da permettergli di rimanere concentrato sul da farsi senza sprecare attenzioni alla guida. Si dirigono verso la zona industriale. La conosce molto bene: si è aggirato in quei posti innumerevoli volte, affascinato dalla desolazione e dall’incuria che vi regnano.
Quando nota che il SUV si sta dirigendo verso un fabbricato quasi completamente sfitto, a parte un’officina di trafilati d’alluminio che però a quell’ora non è ancora aperta, e un magazzino di stoccaggio merci che ha l’ingresso sull’altro lato del cortile, Jacopo capisce quale sarà la meta degli uomini e decide di girare in senso opposto con la certezza di poterli anticipare. C’è una specie di porticato che si apre su un ingresso chiuso da una pesante porta di ferro colorata di giallo. Sa che dietro il porticato un corridoio abbastanza largo per portare materiale ma, nello stesso momento, abbastanza scomodo perché ha una curva a gomito, gli permetterebbe l’attacco a sorpresa che aveva programmato. Gli basta arrivare un paio di minuti prima. Ha ispezionato quell’area decine di volte, alla ricerca di un luogo appartato per i suoi giochi, luogo che al momento non ha ancora trovato. Ma conosce il posto. Arriva e parcheggia la moto dietro un pila di sacchi di cemento e di imballaggi abbandonati. Li nessuno la vedrà. Si dirige verso il porticato, entra nel corridoio a gomito e aspetta. Immagina che qualcuno potrebbe uscire alle sue spalle e la sua attenzione si moltiplica. Il rumore del motore annuncia l’arrivo dell’allegra combriccola. Li sente scendere e li sente parlare una lingua che conosce vagamente. L’ha rimossa dai suoi ricordi come una parte di sé che non gli appartiene più. E non gli importa capire le parole, gli basta sapere quante voci ci sono e quanto vicini gli uomini siano tra loro. Ma non tutti parlano. Conta tre voci, probabilmente il quarto sta ancora chiudendo il SUV. Forse è quello più magro. Rumori inequivocabili suggeriscono che stanno trascinando il barista. Nel momento dell’attacco deve fare attenzione a non fargli troppo male. Perlomeno non adesso. Se lo vuole tenere per dopo, nel caso. Sono vicini, sempre più vicini, proprio dietro l’angolo. Ed ecco che, come appare la sagoma dell’uomo che ha entrambe le braccia occupate a sorreggere quello svenuto, Jacopo parte come una furia: il calcio appena sopra la rotula con il conseguente rumore d’ossa spezzate mette fuori combattimento il primo avversario che, cadendo trascina con se il barista esanime. Il secondo uomo non ha neppure il tempo di capire cosa stia succedendo che viene colpito dal calcio del fucile in pieno volto, con un colpo che lo fa sanguinare copiosamente dalla
ferita che si apre tra fronte e guancia, impedendogli di vedere cosa in realtà stia accadendo. La sorpresa fa il resto e i due sono immediatamente a terra, uno immobilizzato e l’altro semi svenuto. Il terzo ha però il tempo di abbozzare una reazione e, mentre estrae la sua arma, colpisce Jacopo con la canna della pistola sulla mano sinistra che impugna il fucile. Mentre sta per sparare l’uomo viene però raggiunto da un pugno che lo centra sulla tempia con la potenza di una martellata e crolla in ginocchio, frastornato. Si sente il tonfo sordo di un colpo sparato con il silenziatore e Jacopo avverte una fitta alla spalla destra che lo fa barcollare per il dolore. Intanto che si gira vede il quarto uomo – quello più magro – che, con la pistola ancora fumante in mano, cerca di raggiungere il SUV. Quell’uomo gli ricorda qualcuno, è convinto di averlo già visto, ma non sa né quando né dove. Si gira e raccoglie il fucile. Il terzo uomo si è già rialzato e sta raggiungendo quello più magro. Jacopo digrigna i denti intanto che prende la mira con il fucile ma, impedito nei movimenti dalla ferita, sbaglia il colpo e i due balzano sull’automezzo partendo con grande stridore di pneumatici. Il tutto dura solo pochi istanti. Ah, se lo stupido mezzo uomo lo vedesse adesso… Finisce l’opera non risparmiando nessuno degli avversari a terra. Trascina i loro corpi malconci fino all’imboccatura dell’enorme cisterna abbandonata. Tutto si è svolto troppo in fretta però. Gli manca il divertimento. Ma per quello ci sarà il barista. Poi lo caricherà sulla moto, fissandoselo sulla schiena quasi fosse uno zaino. Getta prima un corpo e poi l’altro nel pozzo. Dopo il tonfo li sente annaspare nella poca acqua. Gemono e si lamentano mentre lui ride. Apre due, tre sacchi di cemento a presa rapida e ne sparge il contenuto in quella che è diventata, per loro, una tomba inviolabile. E introvabile: li non a mai nessuno. Gli altri sono fuggiti, ma non se ne preoccupa: sicuramente hanno capito che contro di lui c’è ben poco da fare e decide di lasciarli andare. Nel caso si dovessero ripresentare, lo troveranno pronto ad accoglierli. E quella volta non scapperanno. Li ha già mancati due volte, e lui non crede nel proverbio che recita non c’è due senza tre!
Ripensa all’uomo che, ormai ne è sicuro, ha avuto modo di conoscere. Ma non se ne cura più di tanto. Ride felice e, veramente soddisfatto, si avvia verso Villa Angst. La darsena lo sta già aspettando.
Capitolo 19
Fairy tales in my world Lost and far from home On my way to free my soul On my way with no return
Dimitri cammina avanti e indietro sul marciapiede di fronte al Bar Maremma che, per quanto ne sa lui, dovrebbe essere aperto ormai da almeno un’ora. È arrivato all’ora stabilita e sa che Alex, per abitudine, è puntuale. Prima di avvicinarsi ha controllato più volte che il SUV nero non fosse nelle vicinanze e, una volta certo, si è avvicinato facendo comunque attenzione. L’esperienza della sera prima l’ha reso molto cauto: non sempre si può confidare su colpi di fortuna e salvarsi. Incomincia a pensare che qualche cosa possa essere andato storto e ne ha la conferma quando vede che l’amico di Alex, quel musicista che è arrivato a casa sua da appena un paio di giorni, esce dal portone e si ferma pensieroso davanti alla saracinesca abbassata e ancora chiusa del bar. I due non si conoscono ma crede che presto avranno qualche buon motivo per frequentarsi. Vede l’uomo prendere il telefonino, comporre un numero e, dopo pochi istanti di attesa, lo sente parlare. “Ciao bella, dormito bene?” le parole sono nitidamente ascoltabili anche dalla distanza a cui si trova. “Senti, ma tu sei ancora a casa?” l’uomo parla e gesticola, quasi volesse comunicare con i movimenti le sue sensazioni e sottolineare l’importanza delle sue domande.
“Senti un po’” prosegue senza sembrare lasciar rispondere l’interlocutore. “Alex, tu l’hai visto?” Pausa. “No no, niente, è che è sceso da almeno un’ora e il bar è ancora chiuso. Volevo portargli il cellulare che ha lasciato in cucina, ma sembra svanito. Allora mi son detto, forse forse invece che scendere è salito dalla Dina e, sai com’è, si sono distratti un po’ e il tempo vola via…” Dimitri capisce, dalla reazione dell’uomo, che la risposta deve essere stata immediata e piuttosto secca: lo vede allargare le braccia, come se stesse scusandosi, dire un paio di no no incerti, sbuffare leggermente e riattaccare. L’uomo si gira all’improvviso e gli sguardi dei due si incrociano: Dimitri è troppo vicino per simulare di essere appena arrivato e non aver ascoltato nulla. Tant’è che l’uomo gli sorride e, quasi giustificandosi, lo coinvolge immediatamente. “Ah le donne, vecchio mio… non puoi fare una battutina che loro subito se la prendono come se tu avessi detto chissà cosa… Ma dimmi un po’ piuttosto, tu non hai visto il tipo del bar? Avrebbe dovuto aprire da un pezzo, ma niente. Qua è ancora tutto chiuso”. L’altro fa un gesto come dire non so. “Sono appena arrivato e, sinceramente, non so nulla. In verità avrei dovuto vedere Alex per una nostra questione ma, come vedi, non ce n’è traccia”. Gallo si gratta la testa, lo guarda fisso e aggiunge: “Un appuntamento? Non ne sapevo niente. Beh, ciao, io sono Gallo e al momento abito su da lui. Tu?” “Dimitri”. “Dimitri… e di dove sei che mi sembra tu abbia un accento e un nome dell’est…” “Russia”. “Russia? Lontanino da casa eh? Russia e… non è che sei di tante parole amico mio”.
“Poche parole con chi si conosce poco, si dice dalle mie parti. E comunque, non siamo amici e non son fatti tuoi”. Sembra voler concludere la conversazione. Guarda Gallo e, invece, aggiunge: “Conoscevi mia sorella. Abitava nella palazzina. Secondo piano”. “Tua sorella? Cazzo, sarai mica il fratello di Skophje?” L’occhiata tra i due basta a confermare quello che, comunque, appare chiaro. “Brutta storia eh… mi spiace per lei, le volevo bene. Bella tipa, giuro. Amica della mia ragazza, beh della mia ex ragazza. Quella al telefono un attimo fa. Mai saputo di te, però” continua Gallo, come sempre piuttosto diretto. “Non c’è molto altro da sapere e, se lei non te l’ha mai detto, avrà avuto i suoi motivi, non ti sembra? Fatto sta che io son qui, lei è morta e Alex non si è presentato al nostro appuntamento”. Dimitri sa che non può ancora dire tutto a quest’uomo. Però dovrà trovare il modo di farlo, prima che la situazione precipiti ulteriormente. Intanto che i due si studiano, una voce alle loro spalle risuona nella strada. “Gallo, brutto idiota”. Lo aggredisco senza tanti giri di parole. “Cosa vuol dire ci siamo distratti un po’…” continuo come uno schiacciasassi. “Oh dai Dina, piantala… sei sempre esagerata. Lo dicevo adesso adesso al fratello di Skophje che tendi a incazzarti per niente. La mia bambina permalosa!” Mi blocco di colpo. Il fratello di Skophje. Quello che non sapevo neanche esistesse fino a stamattina, cioè fino a un momento prima di vederlo lì, bello bello sul marciapiede e che ovviamente parla con Gallo, che, altrettanto ovviamente, già ha avuto modo di conoscere. Lo guardo: alto come Skophje, beh forse un po’ di più, stessa bocca e stessi occhi, e, oddio non ci credo, anche il piccolo neo sulla guancia sinistra. Ma quello che è veramente impressionante, sono le mani. Sembrano proprio le sue: quelle mani con le dita affusolate che, con leggerezza, volavano sui tasti del
flauto, rivivono in lui. Mi perdo nei ricordi… quanta nostalgia… Ritorno al presente, ripresa dalla voce di Gallo che, come al telefono, mi chiede qualcosa di Alex. No, non so dov’è, come faccio a saperlo io, te l’ho già detto. E non ha mai avuto modo di distrarsi con me, sia ben chiaro! “Allora deve essergli successo qualcosa!” Arriviamo tutti alla medesima conclusione, insieme, nello stesso momento. Dai, mica ci si può perdere scendendo un piano di scale. Considerazione più che ovvia. Li guardo e mi accorgo che del terzetto devo essere io la più logica. Il che è tutto dire. Provo a fare il punto della situazione, accorgendomi di ricominciare con le mie menate, quelle che credevo di avere regalato al commissario poco prima. Tutto collegato? Ahia, tutto cosa? E poi il fratello non è di grande aiuto, non dice nulla, si limita a osservare la scena zitto zitto, quasi fosse un ospite capitato lì per sbaglio. “Tu, si proprio tu, fratello di Skophje, ce l’hai un nome o no?” Fingo – e non so perché – di non saperlo e continuo: “Come mai sei qui? Conosci Alex? C’è qualche altra cosa che noi dovremmo sapere? Sai com’è… tua sorella è morta, Alex è sparito… dire una qualche parola no eh, non ti sembra il caso? Eccomi all’attacco. Probabilmente troppe domande tutte insieme, ma meglio spararle subito che così, forse, qualche cosa mi racconta. Tergiversa un momento, sembra raccogliere le idee e, finalmente, si sgela.
“Credo sia tutto legato ai diamanti” dice con un filo di voce Dimitri e ci suggerisce un possibile scenario e apre uno spiraglio nella sua maschera impenetrabile. I diamanti? Saliamo in casa mia. E qui ci racconta una storia che sembra uscita da un film di spionaggio. Uno di quei film che non ho mai amato vedere perché, già dalla seconda scena, non ci capisco nulla. Mi distraggo troppo e perdo il filo. Ma questa era la loro vita. Questa è la sua vita. Ho il sospetto che da questo momento diventi anche la mia vita.
Capitolo 20
A Mickey Mouse tune Echoes through someone tears I still take blood from hearts Just to have fun
I due si guardano come se aspettassero ancora qualche suggerimento l’uno dall’altro. È Rebetti, rispettando i ruoli dettati dalla gerarchia, a prendere l’iniziativa. “Forza, rifacciamo il punto della situazione. E vediamo di non tralasciare nulla questa volta”. Lui è abituato a pensare da solo, gli piace dare forma ai suoi pensieri nel silenzio del suo studio o semplicemente eggiando senza meta apparente nei sentieri del parco. Ma questa situazione sembra proporre sviluppi inaspettati: quello che, fino a un attimo prima era certo, all’improvviso, perde consistenza, e si sgonfia come un palloncino delle giostre. A questo punto, crede che la mente analitica di Astolfi possa essere d’aiuto, anche se già sa che il suo ruolo sarà quello del grillo parlante. Le decisioni saranno le sue. “Allora dottore, quel che abbiamo appurato, sia con l’avallo della scientifica che del medico legale, è il nome della vittima, e la certezza che l’omicidio si sia svolto in due momenti diversi, o, come dico io, che sia addirittura un doppio omicidio con un corpo solo”.
Astolfi si infervora ed espone fatti, mischiandoli a opinioni personali, senza fermarsi. Rebetti lo lascia fare e ascolta. “I tempi sono estremamente ravvicinati, quasi che l’assassino abbia ucciso la Sokolova in un primo momento e poi, quasi non soddisfatto o per qualche altro strano motivo, l’abbia uccisa ancora, una seconda volta. Mi perdoni signor commissario, so che suona stupido detto così, ma è esattamente quello che emerge confrontando tutti i dati in nostro possesso”. Il mugugno di Rebetti incoraggia l’altro a proseguire la sua dissertazione. “Le tracce di sangue sulle pareti dell’abitazione della vittima confermano come non si tratti di schizzi fuoriusciti a causa della pressione sanguigna, piuttosto che il corpo sia stato, mi scusi ancora dottore, ma non saprei come meglio esprimere il concetto, dicevo che il corpo sia stato centrifugato, insomma come fatto roteare in qualche modo dall’assassino. O dagli assassini, visto che per ottenere un risultato simile, propenderei per due o più persone”. “Mancano i segno di lotta”. “Mi scusi dottore, non ho capito bene”. “Dicevo, mancano segni che facciano pensare a una difesa, seppur disperata, della Sokolova”. “Vero dottore. Il che ci suggerisce che… cosa ci suggerisce secondo lei?” “Oh dai Astolfi, ci suggerisce che lei non… non si sia…” “Difesa!” conclude seguendo l’imbeccata Astolfi. “Per cui, optiamo per il fatto che lei conoscesse gli assassini” azzarda Astolfi. “O forse che sia stata colta di sorpresa al momento del suo rientro” prosegue Rebetti. È uno di quei momenti in cui i due sembrano essere la classica coppia da avanspettacolo, uno la spalla dell’altro, a suggerirsi battute, a completarsi l’un
l’altro frasi e conclusioni. Ma si trovano a meraviglia e proseguono istintivamente, quasi fossero tanto affiatati da riuscire anche a improvvisare. Astolfi annuisce all’ultima affermazione. Si blocca e domanda di getto: “E qui ritorna in gioco il bestione. Un tipo grande e grosso avrebbe potuto fare tutto da solo. La vicina sostiene che fosse lì in giro, magari l’ha aspettata e poi… zac… colpita e affondata!” Riecco la solita battuta da film anni settanta. Rebetti, rassegnato, lascia correre, “Astolfi, è tassativamente indispensabile riuscire a rintracciare quell’uomo: ormai sappiamo il suo nome, sappiamo per certo, collegando le varie testimonianze, che potrebbe essere sempre lo stesso personaggio che prima appare sul pianerottolo della vittima, che poi la importuna al Revolution, no, nell’ordine inverso, che prima la importuna e poi appare sul pianerottolo e, comunque, che adesso potrebbe prendere di mira la professoressa. E invece non si trova da nessuna parte. Sembra l’uomo invisibile! E sì che è grande e grosso!” è il turno di Rebetti concludere con quella che vuole essere una battuta. “Dottore, l’indirizzo che appare in anagrafica come residenza dello Jacopo Rognoni, e da noi controllato, non è altro che quello di un appartamento adibito a studio medico chiuso ormai da anni. E io penso che il Rognoni fosse stato in cura in quella struttura per talmente tanto tempo da prendervi la residenza. Stiamo cercando l’intestatario della clinica che, anche questo, non si trova. Dottore Igor Vishnjakov, sparito in concomitanza con la cessazione dell’attività. Per quel che si sa, potrebbe essere anche già defunto. D’altronde, come i documenti confermano, aveva più di settant’anni quando decise di ritirarsi: oggi dovrebbe averne circa novanta. Stiamo ancora cercando. Commissario, se posso dire la mia, qua sembra che a uno a uno, tutti quelli che appuriamo possano essere in qualche modo coinvolti nel caso, o non si trovano più o sembrano non esserci mai stati. Tutte le volte che seguiamo una pista, ci ritroviamo in un vicolo cieco!” Le parole di Astolfi tradiscono un certo sconforto: abituato com’è a elencare e catalogare ogni più piccolo indizio, trova frustrante ritrovarsi sempre allo stesso punto, senza nulla di certo in mano. Rebetti, al contrario, è sempre silenzioso. Chi lo conosce sa che sta elaborando le
informazioni in suo possesso. Forse entro breve presenterà ad Astolfi una teoria, più o meno plausibile, ma senz’altro più convincente. Deve ancora unire qualche puntino per ottenere il disegno. “Il fratello, Manlio Rognoni, si trovava a casa e la governante dice che era partito per un breve viaggio di affari e che ritornerà senz’altro nei prossimi giorni. A domande sull’altro fratello, Jacopo, l’espressione si è fatta di sasso e non è stata in grado di riferire nulla. Non lo vede da molto tempo. Perlomeno così sostiene”. “Ma Astolfi, cosa ti dice il tuo istinto? Avrai pure un istinto, quel sesto senso che ti accende qualche spia nella testa! E invece no, nulla di nulla…” Rebetti guarda l’altro sconsolato. “Dottore, ho messo sotto controllo la villa e al momento nessuno è entrato o uscito. E questi sono fatti, non sesti sensi o altro!” si difende Astolfi, sottolineando le parole con un tono poco amichevole. “E poi, signor commissario, ma l’ha vista la villa? Quella sì che sarebbe la location perfetta per un film di vampiri o di assatanati. Io e il collega siamo entrati dal viale di accesso, che già è da paura, la vecchia che ci ha aperto avrebbe potuto recitare nella famiglia Addams, del padrone di casa nessuna traccia, ma torna presto dice quella… Chissà che tipo deve essere per abitare lì. Ci manca solo che suoni l’organo come gli scienziati pazzi dei film e siamo a posto!” L’esplosione spontanea di Astolfi sembra liberare commenti troppo a lungo nascosti dietro la facciata dell’informatico Nerd. “Allora sei umano, Astolfi! E io che credevo tu fossi caduto sul nostro pianeta da una galassia parallela! Santi numi, meno male, Astolfi, meno male!” Rebetti è rincuorato da quello sfogo: vede il collega in una prospettiva diversa, più simile a lui. E ne è felice. “Quello che a oggi risulta incomprensibile, caro Astolfi, è proprio quello che tu hai definito, forse in modo inappropriato ma certamente calzante, un doppio omicidio su un corpo solo. Vedi, credo che quando saremo in grado di dare una
spiegazione a questo, avremo le risposte anche alle altre domande. Ma qual è il senso di uccidere per poi uccidere ancora la stessa vittima?” Rebetti si ferma a metà della frase. Un lampo nella mente. Il suo sesto senso? Guarda Astolfi e sorride. Lo vorrebbe abbracciare.
Capitolo 21
Voices screaming Up into my brain I can feel it Deep into my bones
“Sappiate che quel che vi racconterò non verrà mai confermato da nessun altro tranne me. È una di quelle storie che purtroppo, nella mia patria, sono state molto più comuni di quello che voi qui non avreste mai potuto credere”. Dimitri si è seduto comodamente sulla mia poltrona preferita, lasciando a me e Gallo il divano posizionato di fronte. Siamo andati a casa mia e, dopo qualche istante di titubanza, ha convenuto che fosse più saggio metterci al corrente di quello che secondo lui ci avrebbe aiutato a capire quanto era accaduto negli ultimi giorni. “Tutto inizia in Russia negli anni precedenti la caduta del Muro di Berlino e la conseguente politica di trasparenza, come venne chiamata”. un leggero tremore nella sua voce mi lascia intuire quanto possa ancora soffrire. Lo guardo e rivedo in lui la sorella. E questo basta per darmi la forza di ascoltare: credevo di essermi liberata una volta per tutte dagli incubi spiattellandoli al commissario e invece questa sensazione, ho già capito, finirà nei prossimi minuti. Gallo, più impaziente di me, si alza e, guardandoci, commenta: “Dai biondino, datti una mossa, e salta la lezione di storia moderna che io son
qui per capire che fine ha fatto Alex”. Si è sfogato e si siede. E poi si rialza, va in cucina, prende una birra e si risiede: il solito nevrastenico. Dimitri insegue i suoi ricordi e non sembra averlo ascoltato. “Mio padre, nostro padre”, si corregge, “era professore di storia all’Università di Mosca. Ruolo che lo rendeva immediatamente visibile e molto ascoltato, soprattutto dai suoi studenti. Era un uomo affascinante che esponeva i suoi pensieri e le sue teorie senza curarsi troppo degli effetti che questo avrebbe potuto produrre. E infatti, in quegli anni, era costantemente verificato per quelle sue affermazioni che, spesso o forse sempre, non erano in sintonia con la linea del Partito. I controlli, in università, per strada e anche in casa, si susseguivano direi quotidianamente. Skophje e io eravamo poco più che bambini e non avevamo ben capito la gravità della situazione. Soprattutto lei era tenuta all’oscuro di tutto e proseguiva con tenacia e soddisfazione i suoi studi di musica, mentre io tentavo di emulare mio padre, dedicandomi allo studio di quei libri che tanta soddisfazione sembravano procurargli. Comunque, per rendere questo racconto un po’ più veloce e arrivare a quello che sembra maggiormente interessarvi, vi dirò che una mattina nostro padre fu invitato nella sede centrale della nostra Istituzione di Sicurezza Nazionale, credo che la traduzione sia appropriata, per rispondere a una serie di domande e da quel giorno sparì. Letteralmente, sparì nel nulla”. Si ferma. Nessuna pausa a effetto Manlio style questa volta. Ci guarda, forse per sincerarsi di esser stato chiaro. “Sto parlando di quello che tutti conoscevano come KGB. Ne avrete sentito parlare anche voi, vero?” aggiunge in un secondo momento. E certo che ne abbiamo sentito parlare: dai, non siamo grandi studiosi, ma qualche cosa la sappiamo anche noi due. Gallo non dà segni di vita: sguardo vacuo, espressione assente, braccia incrociate. Una sfinge. Tipico suo. Chissà se ha ascoltato o alla seconda frase ha iniziato a divagare, riallineando poi il tutto a modo suo dando un significato completamente diverso a ciò che ha sentito.
“Cazzo Dimitri. Questa sì che è una storia” intervengo io, rapita dalle sue parole. “E Skophje? E tu? Cosa avete fatto?” domando. “Cosa abbiamo fatto? Nulla, semplicemente nulla. Vedi Dina, quello che per te può essere reazione normale, per noi non era neppure lontanamente immaginabile. Papà sparito, e ricorda che non eravamo i soli in quella situazione. Alla sera ci guardavamo, io e mia sorella e, prima di addormentarci, sognavamo di rivederlo al nostro risveglio, quasi che quella speranza potesse porre fine all’incubo. Mai una richiesta, una considerazione, né in casa, tanto meno fuori. Anche la mamma soffriva in silenzio, ma neppure una parola. Mai. Bisognava solo aspettare. Capisci, aspettare, aspettare e sperare”. Improvvisamente la maglietta nera con la scritta gialla sembra assumere tutto un altro significato. Mi scrollo i pensieri di dosso e aspetto. Anch’io senza una parola: senz’altro chiedere, aspetto. Gallo, fino a quel momento di pietra, ci sveglia dall’ime. “Bella storia, mandala a qualche rivista americana che ci sguazzano dentro e ti pagano pure, ma… cazzo c’entra il mio amico toscano? Me l’han fatto sparire anche lui?” Beh, questa volta non ha neanche tutti i torti, convengo tra me e me. “Ancora un attimo di pazienza, ci sto arrivando”. Respira a fondo e continua. “Aspettare sì, ma intanto dovevamo pure vivere. Mia sorella, con una dedizione encomiabile, concluse gli studi di musica e, come ben sapete, si diplomò in flauto, per poi iscriversi al corso di direzione d’orchestra, riuscendo a essere ammessa. Grande donna Skophje: mai un cedimento, un pianto, una lamentela. Credo riversasse tutte le emozioni nella musica. Alcune sue esecuzioni, come il Concerto in Re di Mozart o la sua interpretazione della Danza dei Flauti dello Schiaccianoci, furono recensite come… uniche e da brividi, se ben ricordo le parole della critica”. Gli occhi tradiscono l’emozione del ricordo e la breve pausa della voce ne sottolinea l’intensità. Mai saputo che avesse un fratello, e invece guarda come erano uniti. Gran donna
Skophje, proprio così. “È stato il periodo in cui ci siamo un po’ persi di vista. Io riversavo le mie emozioni contrastanti nella vodka e nelle donne. Quasi cercassi di annientarmi. Quasi cercassi di trovare quale era il limite che mai avrei potuto oltreare. E sono così arrivato a conoscere delle persone, giuste o sbagliate che fossero non saprei dire, e da lì ho dato un’ulteriore accelerata alla mia vita. Son diventato un corriere: trasportavo, diciamo, di tutto attraverso tutta l’Unione e poi attraverso tutta l’ex Unione. Mi ero creato un giro sufficientemente regolare e ci vivevo bene, anzi, anche più di bene. Addirittura, per eludere i controlli, utilizzavo collaboratori del tutto ignari del ruolo che avevo loro affidato. Mi ricordo due ragazzi americani sulla transiberiana, ma… ma questa è un’altra storia. Ragazzi, ero veramente un grande” sorride indulgente verso se stesso. Altri tipi di emozioni nei ricordi, lo vedo bene. “Il quadro che vi sto delineando credo sia abbastanza chiaro. Ma arriviamo a noi”. Anche Gallo adesso è nella storia: si è lasciato attirare dalle parole di Dimitri. Un vero pusher di emozioni e storie. Mi chiedo cosa trasportasse in realtà. Immagino non lo saprò mai. Dimitri è un gran narratore, ma noto come abbia l’abitudine di sorvolare su alcuni particolari che a me, invece, sembrano interessanti. “Quel giorno, come ormai tante altre volte, ero sulla linea che da Mosca porta a Vladivostok: mi ero già lavorato le mie nuove aiutanti, due studentesse universitarie che tornavano a casa per le vacanze e – tra una vodka e l’altra – avevo infilato qualche matriosca nella borsa di quella che mi sembrava essere la più sprovveduta, quando alla stazione di Tayshet, mischiato tra la folla degli ambulanti, ho visto una persona che non ho riconosciuto ma che sembrava avere dei tratti familiari. Non so se è stato l’istinto, scendere e cercarlo nella confusione è stato tutt’uno. Come se avvertisse un pericolo, l’uomo si stava allontanando e, anche di spalle, aveva un modo di camminare che mi ricordava qualcuno: era più lento di me, avanti con gli anni, di un’età indefinibile sotto i vestiti pesanti e il colbacco lercio, ma che sapevo di conoscere.
Appena arrivato alle sue spalle gli gridai una frase che, da qualche angolo segreto e dimenticato della mia memoria, era arrivata alla mia bocca: “Per aspera ad astra”. Si ferma e ci guarda speranzoso, ma le nostre espressioni non lasciano dubbi: pur ammaliati dal racconto non abbiamo capito le sue parole. Diciamo che il latino non è il mio forte e Gallo credo che non sappia neppure della sua esistenza. Dimitri allora si affretta a precisare: “La traduzione credo suoni tipo che le stelle si raggiungono ando attraverso le difficoltà. Era il motto preferito di mio padre. Lo ripeteva sempre in casa, alle sue lezioni, ai convegni. Quasi fosse il suo marchio di fabbrica”. “L’uomo si gira ed era tuo padre!” conclude Gallo, dandosi una manata sulla coscia, quasi per complimentarsi con se stesso. “Beh, non proprio così, ma ci sei andato vicino. Era invece l’assistente di mio padre già ai tempi dell’università. Amico tanto intimo da aver ato numerose serate in casa nostra a discutere con lui e a ridere con noi ragazzini, al punto di avermi immediatamente riconosciuto affacciato al finestrino del treno e di aver tentato di sparire. Ma la frase gli aveva dato la certezza che anch’io l’avessi riconosciuto”. Rimaniamo così, zitti e pensierosi, tutti con le stesse immagini negli occhi: chi le ha vissute è riuscito a renderle reali anche a chi le ha semplicemente ascoltate, e così, tra me confermo la mia prima impressione, che questa volta si è rivelata corretta: è veramente un pusher di storie ed emozioni. Dimitri prosegue raccontando come il successivo, immediato e breve incontro con il padre abbia in parte ricostruito anni perduti ma, con mio grande disappunto, sorvola sul perché si trovasse lì e sul come mai non fosse più tornato a Mosca. Capisco che dobbiamo avvicinarci ad Alex e alla sua sparizione, ma così è come se mi fossi persa una puntata dello sceneggiato. Taccio e mi riprometto di farmi chiarire questi particolari in un secondo momento. “Amici, tutto era così perfetto che per un momento, un momento solo però, ho creduto di poter resettare anni interi. Ma, e ogni storia, pur bella che sia, ha almeno un ma, nell’eccitazione del momento mi ero semplicemente scordato delle mie ignare complici, che, insieme alla Transiberiana, erano ripartite con tutto il mio carico nella borsa. Voi non potete capire: non è come nei vostri film
che il protagonista prende un taxi e insegue il treno fino alla fermata successiva, sistemando le cose. Nessun taxi, nessuna prossima fermata se non dopo centinaia di chilometri. Mi ero perso tutto. Dalla tua espressione mi pare di capire Dina che vorresti sapere cosa avevo perso: diamanti ed eroina. Tanti diamanti e tanta eroina. Proprio come capita nei vostri film, non si scherza con quei datori di lavoro. Quel tipo di attività non ammette errori. Si paga, normalmente con la vita. Tua e di chi ti sta intorno”. Oh cielo, e io che credevo di avere una vita al limite, rocker di notte eccetera eccetera. Qui siamo in un’altra categoria di casini. Qui siamo nella serie A dei casini, anzi nella Champion’s League dei casini. Volendo, ci sarebbe da scrivere non una canzone, ma un album intero. “Fatta la frittata – si dice così vero? Dovevo trovare una scappatoia praticamente subito”. Dimitri riprende a raccontare, riportandomi al presente. “Tempo di riflessione poco, ma sufficientemente lungo. Mi aspettavano a Vladivostok e solo all’arrivo si sarebbero accorti che ero sparito, vale a dire solo dopo una giornata abbondante di viaggio, neve permettendo. Con un po’ di fortuna avrei preso il treno che tornava a Mosca e lì sarei stato in grado di escogitare qualche cosa”. La breve pausa che segue ci permette di riordinare le idee. O meglio, mi permette, visto che Gallo ne approfitta solo per prendere un’altra birra. “Con un po’ di quella fortuna… che non ho avuto. Sul treno avevo due – diciamo così – angeli custodi che a loro volta mi seguivano. Il valore del trasporto ne giustificava la presenza, ma io ancora non lo sapevo. Immediatamente pedinato, hanno visto la scena e pur senza capire cosa stesse accadendo, sono intervenuti con la grazia tipica di quelle persone: prima sparare e poi, forse e in un secondo momento, chiedere. Il padre che avevo riabbracciato solo da pochi minuti era a terra, colpito da un proiettile alla testa e uno al torace. Il suo amico rantolava nel sangue e, in tutto quel caos, io ero riuscito ancora una volta a dileguarmi. Ma scappare nella tundra non è comunque semplice, figuratevi senza una minima attrezzatura. Così li ho aspettati, correndo e
riuscendo a farli distanziare tra loro, utilizzando quella tattica presa a prestito dai libri di storia di mio padre. Divide et impera, gli Orazi e i Curiazi… validi insegnamenti…” sorride, rendendosi conto che questa volta abbiamo capito e colto la conclusione del racconto. Non mi sarei proprio aspettata una mattinata così densa di situazioni, emozioni e racconti. Lentamente tutta la confusione degli ultimi giorni stava assumendo un nuovo aspetto; mi sembrava addirittura che elementi e fatti, a prima vista slegati tra loro, fossero in realtà uniti da un doppio filo, tale da renderli unica parte di un gigantesco affresco. In realtà ancora non sapevo come Alex fosse entrato in tutto questo. E, visto che ci era entrato, ancora non sapevo dove fosse sparito. Perlomeno potevo immaginare qualche spiegazione sul mondo che Skophje mi aveva sempre taciuto. Speravo l’avesse fatto solo per non mettermi in una qualche situazione di pericolo.
Capitolo 22
But when I turn my head And play a funeral drum I say ain’t better days in my life Ain’t better days in our lives
“Signore, ho detto loro esattamente quello che mi aveva chiesto di riferire, anche se ho l’impressione che quello dei due che faceva domande non mi abbia creduto fino in fondo. O perlomeno, così mi è sembrato”. Henrietta Gottlieb finisce di apparecchiare la tavola, come è sua abitudine. “Sei la persona più affidabile del mondo e senza di te qui dentro sarebbe veramente tutto insopportabile”. Lui le prende le mani con un gesto affettuoso. “Non a giorno che io non ti ringrazi per tutto ciò che fai, e non è mai abbastanza. Ma adesso che sembra essere tornato fuori controllo dobbiamo stare ancora più attenti, non possiamo permetterci il benché minimo errore di valutazione. Altrimenti lo perderemo. E questa volta credo che non sarò più in grado di riportarlo indietro sano e salvo. Henrietta, dobbiamo proteggerlo, siamo noi la sua famiglia, tu e io, comunque e sempre, tu e io”. Manlio Rognoni è abile con le parole, e riesce – adesso come nel ato – a coinvolgere la vecchia governante nelle sue ambigue strategie. Henrietta era in servizio a Villa Angst già prima che Manlio ed Jacopo nascessero ed è stata lei, dopo quello che ancora chiama il terribile incidente, a preoccuparsi e occuparsi dei ragazzi; il tempo trascorso con loro ha contribuito a cementare ulteriormente questa unione.
La donna è sempre stata vigile e attenta: i due signorini, lo vedeva bene, crescevano troppo velocemente e, nonostante tutti i suoi sforzi, non era riuscita a essere presente come avrebbe voluto. Manlio, così deboluccio e solitario, le ispirava tenerezza e protezione, mentre Jacopo era da tenere a freno per le sue continue esplosioni che credeva essere frutto di una semplice esuberanza fisica. Mai aveva sospettato che quello che ai suoi occhi sembrava essere solamente qualche piccolo problema legato alla crescita dei due, in realtà nascondesse attitudini completamente e spaventosamente diverse. “Certo signore, credo di aver afferrato il problema. Vedo che il signor Jacopo sembra essere tornato quello dei tempi ati e io mi sento ormai troppo vecchia per riuscire a controllarne i movimenti”. La donna è sinceramente preoccupata e combattuta: non sa se può azzardare dei suggerimenti. Il signor Manlio è sempre stato molto permaloso e lei non vuole urtare la sua suscettibilità con parole inopportune. “Sai cosa penso, Henrietta” la interrompe Manlio “dovrei preparare un po’ di quel mix chimico che nel ato ha dato dei risultati – come potrei dire – interessanti”. Il suo ragionamento sembra essere rivolto soprattutto a se stesso: infatti è ben consapevole di come la formula originaria da lui ideata in gioventù sia stata perfezionata e resa vincente dalle aggiunte tutt’altro che trascurabili apportate dal dottor Vishnjakov che però era ritornato in Russia ormai da tempo e che, dopo essersi definitivamente stabilito a San Pietroburgo, era deceduto nel breve giro di pochi anni. Un bel problema, continua a rimuginare tra sé intanto che assaggia la pietanza preparata e appena servita in tavola dalla governante. Manlio Rognoni odia non riuscire ad avere tutto sotto controllo. Il viaggio in Svizzera per firmare alcune carte presso lo studio del legale di famiglia ha avuto l’esito sperato, ma questo non lo rende tranquillo. Quell’auto parcheggiata proprio fuori dal cancello d’entrata non ha fatto altro che confermare quello che temeva: la polizia sa qualcosa di Jacopo, e il suo arrivo a Villa Angst ne è la logica conseguenza. Il pensiero che possa arrivare al fratello prima di lui lo rende inquieto. Appena si accingerà a imboccare il viale d’ingresso con la sua stupida moto gli agenti lo bloccheranno e quel tonto alla fine dirà tutto, certamente anche quello che non
avranno in animo di chiedergli. Quel che lo rende pensieroso però è il non sapere ciò che la polizia già conosce. Non si limita più a sbuffare: rigira tra le mani le posate giocherellando con il cibo, il ritmico e incessante picchiettare del piede sul pavimento tradisce il suo stato d’animo. Non sa dove il fratello sia finito e si aspettava di trovarlo a casa al suo ritorno. “Ciao mezzo uomo!” La voce di Jacopo, improvvisa e forte come il rumore di uno sparo, lo fa sobbalzare dalla sedia, distogliendolo immediatamente dai suoi pensieri. “Tu? Ma come…” Le parole di Manlio sembrano essere un balbettio. “Ma dai piccoletto, credevi che non conoscessi il aggio della fontana? Oh Manlio, non sei l’unico che osserva in questa casa!” Jacopo Rognoni è visibilmente soddisfatto: essere riuscito a sorprendere il fratello in quel modo lo riempie di gioia. Non capita spesso di stupire il cervellone della famiglia. Manlio riprende il controllo di se stesso e replica: “Il aggio della fontana? Ma…” si interrompe scrutando il fratello. “Sinceramente mai e poi mai avrei pensato che tu ne fossi a conoscenza. E, soprattutto, che tu fossi in grado di utilizzarlo in modo appropriato” aggiunge veramente perplesso. Entrambi si riferiscono a quella vecchia nicchia nascosta nel giardino della villa, proprio dietro alla grande fontana di pietra. Non sanno chi l’abbia ideata e realizzata, ma entrambi sanno che conduce a un aggio che porta fuori dal parco e che, attraverso una galleria umida e scarsamente illuminata, esce nel boschetto dell’immenso hotel costruito lì accanto, consentendo una facile via di fuga – o di accesso – agli utilizzatori. Manlio ha sempre pensato che suo padre, se non addirittura qualche antenato, l’avesse fatto costruire in accordo con i proprietari di quell’hotel ormai abbandonato da decenni. “Bene, vuol dire che alla fine sappiamo di avere qualche cosa in comune. Il aggio segreto, quello che credevo fosse solo mio, oggi scopro che anche tu
lo utilizzi. Beh… complimenti”. Il tono della voce di Manlio cambia improvvisamente, diventando leggermente stizzito mentre prosegue. “Lo ammetto Jacopo: mi hai sorpreso. E questo significa che, tutto sommato, non ti conosco così bene come pensavo”. Blandirlo con qualche elogio potrebbe rivelarsi utile, forse nell’immediato futuro, pensa fissando dritto negli occhi il fratello, quasi a comunicargli la sua – momentanea – ammirazione. “Bello bello bello vederti così! Mi capita sai, di tanto in tanto, di fare qualche giretto lì fuori nel mondo mentre tu dormi e utilizzare il tunnel segreto vi impedisce di sentire il rumore del cancello che si apre”. Jacopo ride: sembra un bambino che, dopo aver sorpreso l’ascoltatore, vive la situazione di gloria ricamando il racconto con l’aggiunta di quei particolari che forse farebbe bene a tenere per sé. Manlio lo guarda e si convince che il bestione, una volta a contatto con la polizia, riuscirebbe a raccontare veramente di tutto, con dovizia di particolari e aggiunte. Bisogna fermarlo. Si deve procurare i farmaci anche senza le necessarie ricette. O forse… o forse… Un ulteriore sviluppo si fa strada nella sua mente. “Bene Jacopo, devo prendere atto di questo tuo inaspettato cambiamento: non più solo un bizzarro giocatore ma anche – mi sembra di capire – un brillante stratega. Immagino tu abbia notato l’automobile parcheggiata fuori dal cancello di entrata. La polizia è stata qui e ti sta cercando. Ma questo tu lo sai sicuramente”. Manlio prova una nuova strada: in mancanza di alternative la via dell’adulazione gli sembra la più appropriata. “Certo che li ho visti, perché credi che io stia usando il aggio? Mezzo uomo, saresti tu quello intelligente?” L’atteggiamento di Jacopo lo autorizza a credere che il fratello si stia divorando anche l’amo insieme all’esca. “Quegli uomini fuori mi hanno rallentato parecchio e ho dovuto cambiare ancora
una volta il mio piano” prosegue imperterrito l’altro”. Se non fossero della polizia li avrei già fatti sparire, insieme alla loro macchina!” conclude con un fischio, quasi simulasse una magia. “Ascoltami attentamente Jacopo. E per favore smettila di chiamarmi mezzo uomo: lo sai che mi innervosisce parecchio”. La voce di Manlio rimane calma e monocorde nonostante la tensione del momento. “Dobbiamo rimanere uniti, ancora una volta. Questa situazione mi sembra ben più complessa di quelle che abbiamo vissuto e risolto in ato. E io, purtroppo, non ho ancora chiaro quello che stia realmente accadendo. Jacopo, non devi dirmi proprio nulla di quello che hai fatto durante questi ultimi due giorni?” Il ritmo delle parole prende un ritmo più veloce mentre formula questa ultima domanda: “Sai che sono stato via per affari – affari della famiglia tengo a precisare, affari che riguardano tutt’e due – e non ti ho seguito nelle tue decisioni e, da quel che mi accenni, dei cambiamenti che hai apportato in itinere”. Conclude e si ferma fissando il fratello che non gli sembra più così determinato come invece si atteggiava a essere fino a un momento prima. “Ho fatto un casino Manlio, anzi ho fatto ben più di un casino” racconta d’un fiato. “E tutto per quella donna che suona! Quella stronza di una musicista! Non avrei dovuto andare là quella sera! Tu non puoi saperlo fratellino ma quella canzone sembrava proprio mia. La voglio per me… lei e la canzone… un gioco solo ancora. Ti giuro, l’ultimo!” Jacopo si siede su di una poltrona sistemata lungo una parete della sala da pranzo, improvvisamente silenzioso. Dargli l’impressione di essere stato lui a condurre la rappresentazione sembra aver già prodotto i primi risultati, pensa Manlio intanto che valuta le parole dell’altro. “Va bene, sarà tua. Il tuo premio finale. Ma adesso credo che dovrei essere messo al corrente di questi casini di cui stai parlando” sbuffa e, in un soffio, aggiunge “non è che, così per caso, hai già ucciso qualcuno?” Si avvicina al fratello che, ancora seduto, sembra quasi di altezza normale. Manlio chiude gli occhi e resta in attesa.
Spera solo che la risposta non sia un numero, e se proprio dovesse essere un numero, perlomeno che non sia troppo alto. Ed è così che Manlio Rognoni conosce, uno dopo l’altro, la fine di due o più stranieri, quella del barista e i raid in casa della russa del secondo piano e poi in quella della musicista al piano superiore. Nonché gli incontri ravvicinati con la vicina delle ragazze e con il commissario, quest’ultimo incontro fortunatamente solo sfiorato in verità. Manlio, che solitamente si esprime con termini forbiti, alla fine del racconto non riesce a sintetizzare le sue considerazioni in altro modo. “Cazzo, Jacopo! Questi sì che sono problemi! Non fai altro che combinare pasticci! Cosa credi, che io abbia una bacchetta magica che con un tocco sprizza scintille e risolve tutto alla velocità di uno schiocco di dita?” Si alza di scatto e si aggira per la sala da pranzo con un o che tradisce il turbinio di pensieri che si agitano nella sua testa. Si ferma e, intanto che fissa il fratello agitando l’indice sotto il suo mento, lo aggredisce verbalmente. “Ho sempre pensato a te, al punto che siamo diventati una cosa sola! Non ti ho mai abbandonato, ti sono sempre stato vicino e adesso, basta che ti perda di vista per un attimo che guarda cosa mi combini!” Jacopo, che fino a quel momento sembra essere il colpevole accusato giustamente dall’altro ha una repentina reazione. Afferra il fratello e, lentamente ma inesorabilmente, stringe l’enorme mano intorno alla gola del malcapitato. Gli parla con una voce suadente, quasi fosse una ninna nanna. Scandisce tutte le parole, come se volesse sottolineare l’importanza di quella che ha l’aria di essere una rivelazione. “Eh no caro il mio mezzo uomo… ricorda che sono io quello che ti ha sempre risolto i casini, tutte le volte e più di una volta. Tu mi hai usato, mi hai convinto di essere la mente e invece quello era il ruolo che ti sei ritagliato su misura. Hai lasciato a me il compito del braccio. Fino a ieri… solo fino a ieri…” Jacopo lascia la presa e Manlio cade a terra tossendo, quasi senza fiato. Sembrerebbe che i ruoli si siano invertiti.
“Piuttosto piccoletto, adesso che abbiamo chiarito le gerarchie, ascolta la mia proposta. Credo che con qualche piccolo aggiustamento, campo nel quale sei maestro, potremmo ritrovarci entrambi soddisfatti”. Ora è Jacopo che blandisce il fratello, solleticando il suo ego. Sicuramente i ruoli si sono invertiti…
Capitolo 23
Riding through the wind now Devil’s by my side Ol’ Route 66 Is the road I ride
“Certo signor commissario, tutto è plausibile, però io questa cosa qui non la capisco proprio. Un doppio omicidio? Non ha senso, anche se la sua teoria potrebbe essere corretta”. Astolfi, da buon giocatore di squadra, non contraddice il suo superiore. Non si permette mai di farlo, al massimo propone qualche osservazione divergente dall’opinione del commissario, ma sempre e solo se ata da qualche dato scientifico. “Dai Astolfi, non mi sembra così complicato! Ne convengo, forse un tantino complessa come teoria, ma tutto sommato, quale enunciazione durante la prima presentazione risulta comprensibile agli ascoltatori? Se così fosse, le formule di Einstein risulterebbero logiche anche a noi umani, no?” Rebetti si infervora e sottolinea le sue deduzioni ammantandole di esempi che – in realtà – sono poco pertinenti. “Ascolta bene, Giorgio…” Mai lo aveva chiamato per nome. Astolfi lo guarda esterrefatto. Non pensava che il dottore conoscesse il suo nome di battesimo. Si sente lusingato. E maggiormente predisposto a riascoltare il tutto.
“Un doppio omicidio!” prosegue il commissario. “Immaginati la scena. La Sokolova viene uccisa in un primo momento in modo diciamo accidentale, e questo lo si può dedurre dalle ferite e dal tipo di mutilazioni sul corpo che, anche a detta del Paggini, ci inducono a ipotizzare una sorta di tortura. Poi, in un secondo momento, la Sokolova viene, consentimi il termine improprio ma che ti illustra meglio il mio pensiero, riuccisa, sì, intendo proprio uccisa una seconda volta. E questo spiegherebbe il sangue sulle pareti e sui mobili, addirittura nell’acquario! Immagina che sia stata fatta roteare e buttata per terra con violenza. Ecco il perché degli schizzi”. Rebetti si interrompe e scruta Astolfi. La reazione di quest’ultimo non sembra essere quella di uno del tutto d’accordo. Rebetti capisce che deve aggiungere particolari più oggettivi alla sua ipotesi in modo da convincere l’altro. Eppure lo scenario che – già chiaro nella sua mente – sta delineando al collega gli sembra essere del tutto logico. Vero, mancano ancora troppi perché, mancano i chi, ma perlomeno il come sta prendendo forma. Anzi, Rebetti ne è più che certo, ha già preso forma. La direzione, lo sente, è quella giusta. Intuizione da sbirro, pensa. Sa che l’altro non ne ha e – probabilmente – mai ne avrà. Scuote la testa seguendo il suo pensiero. “Va bene commissario, ammettiamo che questo sia quello che in effetti è accaduto. Ma perché? Cioè, un qualche cosa tipo ‘opsss ho menato la Sokolova e mi è morta e adesso che sono incazzato nero butto in giro il corpo per sfogarmi?’ Ma dai dottore, non ha senso!” Astolfi si rende conto di essersi lasciato andare a un commento non proprio accettabile, ma il comportamento del commissario lo rende un po’ nervoso. Lui e le sue teorie astruse. Dai, un doppio omicidio. Uno che ammazza e riammazza la stessa persona. Ma dai… Astolfi è sorpreso. Si meraviglia di se stesso. Ha avuto una intuizione da sbirro.
Proprio come ama ripetere Rebetti. “E se, mi scusi dottore, pensavo, e se gli omicidi fossero opera di due persone diverse?” Lascia la frase in sospeso, quasi vergognandosi di tanto ardire. Trattiene il fiato aspettando la reazione dell’altro. Reazione che non si fa attendere e si materializza in un abbraccio. Prima mi chiama per nome e adesso mi abbraccia pure pensa Astolfi, allibito e immobile. Il commissario lascia il collega, forse rendendosi conto del suo gesto, peraltro sincero e spontaneo, ma poco professionale. Si muove per l’ufficio con i lenti e silenziosi, riflettendo sulle parole del collega. Un doppio omicidio commesso da due assassini diversi. Due persone diverse in due tempi diversi. Due persone diverse, due tempi diversi, due motivazioni diverse. E bravo Astolfi! Due colpi di genio uno dopo l’altro. Lo guarda e gli sorride: “Mi sa che sei riuscito a sistemare qualche altro tassello nel nostro puzzle. Non una sola pista da seguire, ma ben due… Direi che siamo in movimento, caro il mio Giorgio!” “Direi proprio di sì, Angelo”. Il commissario si gira di scatto e fissa Astolfi negli occhi. Oggi anni di atteggiamenti formali si sono sgretolati sotto i colpi di un assassino, anzi di due assassini ancora senza nome. Sembra che ci voglia un omicidio particolarmente cruento per rendere i rapporti tra loro più veri e amichevoli.
Nella cittadina dove entrambi lavorano da anni i crimini commessi sono stati sempre più ordinari, e mai – per fortuna – hanno richiesto questo tipo di indagini e coinvolgimento. I classici controlli sul lungolago, gli interventi di routine per risse e vagabondaggi vari, il mantenimento dell’ordine pubblico durante le partite di calcio della domenica, diminuito d’intensità con le progressive retrocessioni in serie minori della locale squadra, i pattugliamenti del centro storico, il dirimere liti familiari e bloccare lo smercio di piccole quantità di droghe: tutto è sempre rientrato in quel tipo di quotidianità che fa capo al locale comando di polizia. Rebetti definiva la sua professione una conduzione familiare di attività marginali. Fino a oggi, perlomeno. “Dobbiamo collegare i due momenti. È indispensabile, d’ora in poi, lavorare pensando a due moventi diversi. Praticamente abbiamo da svolgere due indagini parallele che dovranno confluire sulla figura di Skophje Sokolova”. Rebetti ha riacquistato il suo naturale aplomb. “Utilizzando una terminologia mutuata dalla geometria, commissario, sarebbe più appropriato dire due indagini convergenti. Quelle parallele, purtroppo, non si incontrano mai”. Anche Astolfi sembra essere tornato il nerd pedante e precisino. Si guardano entrambi e – all’unisono – scoppiano a ridere. “Dai commissario, le offro un caffè. Così, tanto per festeggiare. Sì, lo so che non c’è tanto da festeggiare, siamo solo all’inizio, ma almeno un inizio l’abbiamo trovato”. Vedere i due che escono dallo studio del commissario insieme emanando un’aria di complicità inusuale, lascia tutti a bocca aperta. Ma nessuno interviene. Lì fuori tutto è rimasto come prima.
Capitolo 24
Holy men sneer from chairs people’s blind and they’re still there good traditions never change good traditions are safe
Il racconto di Dimitri sembra bloccarsi sul più bello, quasi che una pausa pubblicitaria lo avesse interrotto ad arte. Tutti rimangono zitti e pensierosi, come avvolti in una bolla magica. “Sì, bella storia. Veramente. Dimitri, sei un gran figlio di puttana! Ti spaccherei la faccia… ringrazia che hai già un braccio ridotto male”. Gallo – come d’abitudine – è il primo a spezzare quel silenzio irreale. E come d’abitudine si alza e si serve un’altra birra, chiedendo con lo sguardo e un cenno della testa se qualcuno ne vuole. Sempre di poche parole il Gallo, ma perlomeno quelle poche che usa sono dirette e arrivano al punto senza tante perdite di tempo. “Cazzocazzocazzo, ma ti rendi conto che allora sei stato tu a uccidere tua sorella? Ok, non l’avrai fatto materialmente, ma hai scatenato un giro di deliri inimmaginabile! E hai tirato dentro anche Alex. Che chissà dov’è adesso”. Si risiede quasi sfinito. Nonostante l’apparenza da duro Gallo è una persona sensibile. “Vero, amici. Adesso credo che anche voi siate in quello che chiami delirio, credo proprio di sì”. Dimitri, con un rigore tipicamente russo, ci suggerisce questa nuova possibilità.
“E no, cari miei, cazzo a questo punto lo dico io”. Mi ripiglio e mi separo dal coro. “Io non ci sto a fare da bersaglio umano alla mafia russa o a quel cavolo che vuoi che sia. Già ho un bestione che si aggira dalle mie parti con l’evidente intento di farmi fuori e adesso arriva il fratellino di Skopje che bello bello mi coinvolge in un’altra storia da incubo. Sinceramente, mi sono rotta tutto il rompibile, anzi, me le avete veramente frantumate!” So che il timbro della mia voce si altera man mano che le parole escono di bocca, ma non me ne frega proprio niente. Dimitri mi guarda con evidente imbarazzo. Lo conosco veramente poco e da poco tempo ma non mi sembra poi così tanto un duro in grado di fregare quelli di Vladivostok – o forse erano di Mosca non ricordo – facendo sparire un sacchetto pieno di diamanti, il tutto dopo averne eliminati un paio nelle steppe natie ed essere fuggito per mezza Europa. Non so se credere a tutto questo racconto. E, per come la vedo io, in questa storia mancano ancora dei pezzi sui quali ha bellamente sorvolato. Questo suo modo di tacere su più di un aspetto mi fa ripensare anche al mio rapporto con sua sorella. Quella che io credevo fosse una sorta di naturale riservatezza dovuta al suo carattere, e che la spingeva a byare momenti del suo ato, adesso al contrario mi sembra come se in realtà non si fosse mai completamente fidata di me, insomma che non sia stata poi quella grande amica che credevo di aver trovato. Anche se il dubbio che lo potesse avere fatto di proposito, nel tentativo di proteggermi da quella situazione che alla fine l’ha comunque uccisa, rimane forte dentro di me. Una vera amica. Mah, me lo auguro. Il suono del cellulare mi riporta al presente. Guardo il display e vedo che è Dark. Mi ero scordata degli amici.
Di quelli vivi, perlomeno. “Ciao, tutto bene?” rispondo dopo qualche squillo. “Certo, tutto bene. Sei tu che sembri essere sparita. L’altra sera mi hai raccontato del tipo che ti perseguita e poi… pufff… volatilizzata. Sicura che non ci siano problemi?” Caro vecchio Dark, sempre presente. Prendo un po’ di tempo cercando quelle parole che mi sembra siano le più adatte a rassicurarlo senza in realtà dire nulla. L’ho già coinvolto a sufficienza raccontandogli la storia e chiedendogli di farmi da body guard, ma adesso non vorrei trascinarlo in un casino ancora più grande e del quale ignoro la portata. “Dai, lo sai come sono…” improvviso un’idiozia che perlomeno suoni plausibile. “È che sono rimasta indietro con le cose di scuola, sai registri, voti e via di questo o, e allora ho preso un po’ di tempo per sistemare il tutto. E il tempo è volato via”. Chissà se ci crede. Quando mai sono rimasta indietro con l’aspetto burocratico della mia vita… proprio io… ma dai. “Ho capito, non farla tanto lunga. Hai altro per la testa. Mi sa che ti stai divertendo con Gallo eh… guarda che non sono geloso bambina! Ma non inventar cazzate con me! L’importante è che tu stia bene. Ci sentiamo quando vuoi. Ricorda che domani sera dobbiamo registrare. Non far tardi”. Senza nemmeno darmi il tempo di replicare riattacca. Gran personaggio Dark. Esiste, ed è amico mio, amico vero. Scema io a tentare un bluff con lui. Guardo Dimitri e Gallo perduti nei loro ragionamenti. “Dai Dimitri, finisci un po’ quel che hai incominciato” lo incalzo.
“E taglia pure tutti i particolari che vuoi, ma arriva al punto. Cioè, fammi conoscere ieri per capire l’oggi”. Lo guardo e sorrido incoraggiante. Tanto, quando sarà il momento, mi farò raccontare tutto quello che ha tralasciato adesso. E che ora gli permetto di trascurare solo perché mi interessa più il risultato di tutto il resto. Anche se ho dentro una curiosità enorme che deve essere soddisfatta. Perché suo padre era là e non ha mai trovato il modo di tornare a Mosca? Cosa si sono detti? Quelle due con la merce che ha perso, che fine han fatto? Quante domande si fanno strada nella mia testa… si sovrappongono e si rincorrono. Sempre tante e senza risposte. “Conoscevo i movimenti dei miei amici, gli orari, i percorsi e praticamente tutti gli altri corrieri. Quei due lasciati, diciamo così, sul campo di battaglia non rappresentavano un problema immediato. Dovevo solo fare in modo che fosse possibile recuperare il mio carico. E grazie a uno dei miei colleghi, che era già sul treno successivo e che stava facendo il mio stesso percorso, non fu difficile. A lui la gloria e a me la polvere. Mi ero bruciato e sapevo, conoscendoli, che non si sarebbero limitati alla felicità di non avere perso nulla, festeggiando con vodka e ragazze in una dacia. Io ero già condannato, come esempio per tutti. E il loro risarcimento sarebbe stata Skophje. L’ avrebbero fatta sparire e sistemata in una casa chiusa. Era l’unica rimasta della mia famiglia e, particolare non da poco, era molto, molto attraente. Si sarebbero ripagati alla grande”. Un sorriso stanco increspa le labbra di Dimitri. Credo che lo scenario appena dipinto sia stato per lui una quotidianità ben conosciuta. “Beh, non avendo assolutamente nulla da perdere, decisi di rapinare uno dei corrieri dei diamanti diretti ad Amsterdam. Ero a conoscenza dei dettagli del trasporto e me la sarei sbrigata da solo. Come ho puntualmente fatto e concluso a Brema. Graziosa cittadina nel nord della Germania, con più di un’area ristoro ben attrezzata”. Il sorriso che compare adesso non è più quello stanco di prima: intuisco come i
ricordi siano indubbiamente più adrenalinici. “Avevo i diamanti e contavo di sistemarmi per il resto della mia vita. Avrei raggiunto Skophje in Italia, e, forse insieme forse no, avremmo potuto ricominciare una nuova vita. Avevo già i documenti che ci avrebbero regalato un ato e un presente ben diversi. Cittadini canadesi… noi già abituati al freddo ci saremmo adeguati alla perfezione alla nuova destinazione. Skophje era qui da anni ormai e farla sparire sarebbe stato veramente semplice”. Dimitri ci racconta tutto d’un fiato quello che, a parole, mi sembrava essere un piano perfetto. “Ancora non capisco cosa c’entra Alex”. Gallo rientra a piedi uniti nella storia. E non ha tutti i torti. “Vero, Alex… ci sto arrivando. Purtroppo”. Dimitri sospira, lasciando intuire che qualcosa non è andato come sperato. Anche se non dovesse dilungarsi in particolari, so già che il risultato non mi piacerà un granché. “Contavo di piazzare i diamanti a uno dei contatti di Amsterdam, ma i miei soci hanno provveduto a fare terra bruciata, così che nessuno di quelli da me interpellati ha voluto – o potuto – comprare nulla. Mi son ritrovato a girovagare in Olanda in attesa di un contatto. E sentivo che loro si stavano avvicinando ogni giorno di più”. Dimitri delinea uno scenario piuttosto chiaro. Un lupo solitario braccato e senza apparente via di fuga. “Nel frattempo mia sorella, che avevo già messo al corrente di tutta la situazione, mi dice che un suo conoscente, raggiunto tramite il vostro amico Alex appunto, avrebbe potuto a sua volta mettermi in contatto con qualcuno, qui in Italia, interessato alla merce in mio possesso”. Gallo mi guarda perplesso. Ricambio lo sguardo: Alex il barista che conosce trafficanti di diamanti? Beh, sembra così irreale. Ma entrambi restiamo muti lasciando che Dimitri completi il racconto. “Un complesso giro di conoscenti che a loro volta mi avrebbero introdotto in
altri ambienti… tutto troppo complicato per i miei gusti, ma non avevo di certo altre possibilità e dunque… mi sono adeguato. Ancora oggi non so con chi Alex in realtà fosse in contatto, perché al primo appuntamento ho riconosciuto uno dei suoi fantomatici compratori: nient’altro che Boris, proprio uno di quelli che mi stavano cercando. L’ho visto in lontananza e mi son ben guardato dallo scendere dal taxi, anzi sono proprio sparito il prima possibile. Evidentemente il suo contatto italiano ci aveva venduto ai russi o in qualche altro modo, e non saprei dire quale, loro si erano messi di mezzo. Proprio un bell’affare aveva organizzato il vostro amico: così, in un solo colpo, avevano trovato me, Skophje e quello stupido barista”. Un sorriso forzato si intravede sulle labbra di Dimitri. Altro tipo di ricordi ancora. “Ok, ci sono. Loro hanno ucciso tua sorella e rapito Alex… perché non trovano questi cazzo di diamanti”. ancora un intervento a piedi uniti di Gallo che – credo – abbia ben inquadrato la situazione. “Ma le pietre preziose, a questo punto, chi le ha?” chiedo io, che forse ho perso qualche aggancio nella storia di Dimitri. “Avrebbe dovuto averli Skophje. Era lei la cassaforte, dunque, di sicuro li aveva lei. Ma adesso, non so bene dove cercarli. Quegli animali l’hanno uccisa nel tentativo di farla parlare. E certamente lei è morta prima di avere detto loro qualche cosa, dal momento che loro sono ancora in giro”. “Così adesso è il turno di Alex… oh dio del cielo… avvisiamo la polizia, quell’ispettore che è appena stato qui saprà cosa fare!” tento di imporre il mio pensiero. Non me ne frega nulla se Dimitri avrà dei problemi. Anzi, non me ne frega nulla di Dimitri. Adesso so chi ha ucciso la mia amica. Adesso so chi potrebbe fare lo stesso con Alex. E, sicuramente, non intendo starmene con le braccia conserte ad aspettare.
Che risolva il tutto quel commissario. Rebetti ha detto di chiamarsi.
Capitolo 25
I wanna breath the flame now While moving back to east Just like a demon son I’m flying with broken wings
“Dottore, lo faccio entrare o preferisce che aspetti un po’?” Rebetti guarda il piantone. Non ha mai condiviso quel modo di fare che prevede di lasciare aspettare per un tempo indefinito chiunque arrivi in commissariato. Ogni volta si ripete che dovrebbe far assumere un comportamento diverso, più pratico e immediato, ma poi, quasi rassegnandosi a quella consuetudine, lascia perdere. “Certo, Esposito, fai are. Gentilmente, mi raccomando”. Dopo qualche istante sente bussare alla porta e il visitatore viene fatto entrare. “Buongiorno signor commissario. Mi permetta di presentarmi. Come le avranno certamente già annunciato sono arrivato appena ho potuto. Mi è stato riferito che mi ha cercato”. Manlio Rognoni tende la mano al commissario Rebetti che, alzandosi prontamente, la stringe vigorosamente. Manlio avverte una leggera fitta alla mano destra: evidentemente la stretta da vero uomo fa parte di quel gioco che immediatamente sembra essere scattato tra i due. Per la serie ti faccio vedere io chi è più forte, il commissario si è subito
presentato. Manlio sorride tra sé e sé: forse il poliziotto crede di spaventarlo con questi trucchetti dozzinali, ma dimostra soltanto di non aver ancora ben chiaro con chi sta per relazionarsi. “Prego, si accomodi pure”. Rebetti è gentile e affabile. “Si tratta semplicemente di alcune informazioni” prosegue “Informazioni che riguardano per lo più suo fratello Jacopo”. Manlio Rognoni è perfettamente consapevole del motivo che l’ha condotto lì oggi. Jacopo non a inosservato. Si tratta solo di scoprire che carte ha in mano il suo avversario. “Prego commissario, mi dica. Immagino di essere in grado di soddisfare qualsiasi sua richiesta”. L’attacco dell’altro non si fa attendere. “Dov’è suo fratello? Sembrerebbe essere sparito senza lasciare tracce dietro di sé”. “In verità, signor commissario, per potere compiutamente rispondere a questa domanda, credo dovremo consultare il mio legale, Dottor Quattrini, che segue gli interessi della mia famiglia ormai da tempo immemore, pregandolo di intervenire. L’avvocato le saprà senz’altro illustrare le complesse problematiche connesse a mio fratello Jacopo visto che, come probabilmente già saprà, presenta alcuni problemi di salute che lo rendono, diciamo così, un po’ imprevedibile e, pertanto, non completamente affidabile, perlomeno da un punto di vista economico. Tanto da avere avuto il suo tutore nella persona dell’avvocato stesso”. Manlio Rognoni sembra parare la stoccata di Rebetti con una certa prontezza. Anzi, si direbbe abbia già contrattaccato. Quattrini… Quattrini… Rebetti si chiede dove possa aver già sentito quel nome mentre rovista tra alcune carte sistemate sulla scrivania, con il palese intento di prendere tempo.
Bussano alla porta e, dopo esser stato invitato a entrare, Astolfi diventa il terzo personaggio in scena. Tutto orchestrato da poveri dilettanti, pensa Manlio, che continua a sorridere cortesemente. Basta che non giochino a quello buono e a quello cattivo. Quel pensiero non fa altro che renderlo ancora più sicuro. “Permetta che le presenti il mio collega Astolfi, che segue questo caso con me”. Anche Rebetti sorride cortesemente. “Non capisco bene, signor commissario. Un caso? Lei sta seguendo un caso che riguarda mio fratello? Oh, ma se così fosse, credo dovrei essere messo al corrente di qualche elemento che potrebbe chiarirmi il ruolo di Jacopo, e, ribadisco, sicuramente avvisare al più presto il dottor Quattrini”. Rebetti socchiude gli occhi e si rende conto di aver fatto una mossa avventata. Lui l’aveva messa sul machismo partendo dalla stretta di mano e confidando nel potere intimidatorio del commissariato. L’altro invece, sembra preferire una sorta di partita a scacchi. Rebetti capisce che dovrà fare molta attenzione: ogni singola parola avrà un peso specifico determinante. “Il dottor Quattrini? Il dottor Daniele Quattrini, l’avvocato?” Astolfi interviene spontaneamente nel match. “Commissario, ma è quello che abita nella palazzina della Sokolova, ricorda? Quello che non abbiamo ancora potuto interrogare”. È ora il turno di Rebetti sorridere. Ecco perché quel nome gli suona familiare: avvocato Quattrini e Dina Nasi al terzo piano. Assist del tutto insperato. E bravo Astolfi. “Veramente Signor Rognoni, non è che suo fratello sia coinvolto in un caso vero e proprio. Semplicemente sembra si stesse aggirando nei pressi dell’abitazione della vittima di un omicidio sul quale stiamo indagando. Da qui il nostro interesse nei suoi confronti”. Manlio rimane imibile e imperturbabile. Era già al corrente di come Jacopo
si fosse introdotto nella casa e che era stato avvistato sul pianerottolo dalla vicina anziana. “Aggirando nei pressi dell’abitazione di una vittima di un vostro caso? Beh, come sento i luoghi coincidono e può essere che sia stato lì. Ma mi sembra anche che una spiegazione plausibile ve la siate data da soli. Una visita al Quattrini: ogni tanto Jacopo, in mia assenza, si reca dall’avvocato per l’argent de poche necessario alle sue piccole spese. Come vi ho detto prima, la sua malattia è per alcuni aspetti invalidante e non gli consente un accesso diretto ai conti correnti della famiglia”. I due proseguono nella loro personale sfida dialettica nella quale Manlio, al momento, crede di essere in vantaggio. “Eventualità che mi sembra, come ha appena sottolineato, del tutto plausibile, ma che attendo venga confermata dal dottor Quattrini”. È la volta di Rebetti a contrattaccare. “Bene, questo allora sembra possa essere facilmente risolto e, in tutta onestà, credo che a questo punto lei potrebbe anche andare. Mi ha detto quello che mi interessava sapere”. Rebetti si alza, quasi volesse salutare e congedare l’altro. “Ah, mi perdoni, solo un’ultima precisazione” si affretta ad aggiungere, mentre tende la mano per stringerla. “Sa com’è, a volte con tutte queste domande, va a finire che ne tralascio qualcuna. Così per inciso, vorrei che lei mi spiegasse più dettagliatamente la natura dei suoi incontri con la signorina Nasi. Incontri che sembrerebbero avere suo fratello come soggetto, addirittura autore e protagonista di una macchinazione complessa ai danni della Nasi stessa”. L’affondo di Rebetti ha tutta l’aria di essere risolutivo. Risolutivo e, si augura, vincente. Quella troia. Quella troia gli ha già parlato. Gli ha raccontato tutto. Questo non ci voleva. Manlio rimane – per la prima volta – senza parole. L’ha fatto prima che Jacopo potesse risolvere tutto, come avevano concordato. O forse no. Chissà se si è già messo in azione.
Cerca un fazzoletto di carta nella tasca esterna della giacca, solo per avere un minimo di tempo per riflettere. Un leggero sudore sulla fronte tradisce la sua tensione. Se partita a scacchi deve essere, è arrivato il momento di sacrificare qualche pezzo. Meglio un pedone. Ma, se fosse necessario, anche uno dei pezzi pregiati. Ma chi, Jacopo stesso? No, il bestione è stupido, non perde occasione di dargliene conferma, ma è suo fratello. Non se ne parla. Beh, quell’altro poliziotto si è lasciato sfuggire di non avere ancora visto il Quattrini, il quale di conseguenza non ha né confermato né tanto meno smentito nulla. Manlio capisce che deve prendere tempo ma senza usare l’avvocato come scusa. Meglio la musicista. Certo, la musicista. Le donne esagerano sempre, lo sanno tutti. Anzi, le donne sanno raccontare qualsiasi tipo di fandonia con un’abilità unica. Lo fanno perché hanno sempre qualche loro intimo e inconfessabile piano da realizzare. O, semplicemente, una vendetta da mettere in atto. E amano ingigantire quel che sanno o quel che credono di sapere. Gli sembra una buona intuizione. Ma sa che è un azzardo. Deve stare attento: il poliziotto è più furbo di quel che aveva pensato.
E allora gli deve regalar qualcosa. Manlio decide cosa sacrificare. Decide chi sacrificare. Jacopo non gradirà affatto: gliel’aveva promessa. Ci penserà in seguito. “Ah sicuro, la signorina Nasi. Personaggio ambiguo, deve convenirne con me, signor commissario”. Manlio Rognoni improvvisa un nuovo scenario, dimostrando ancora una volta la sua camaleontica abilità nel modificare gli elementi a suo piacere.
Capitolo 26
Don’t call my name ‘cause I’m gone You’ve lost my words now I’m gone
“Allora, siamo d’accordo e andiamo dal commissario?” Non aspetto le loro conferme, cenni d’assenso o applausi: tutti sappiamo che è l’unica soluzione. Nessuno di noi è felice di doversi rivolgere a loro, vorremmo poter risolvere la situazione da soli. Probabilmente Dimitri potrebbe essere l’unico del trio con qualche chance di sopravvivenza, anche se io, tutto sommato, non ci credo troppo. Infatti, più ci penso e più rimango dell’idea che sia un po’ imbranato, nonostante si dipinga come una specie di eroe invincibile, raccontandoci di imprese in terre lontane. E comunque possa essere, né io né Gallo abbiamo la cattiveria necessaria per fronteggiare tutti gli avversari. Quegli avversari. “Ok, ma almeno prima di andare, non è che proviamo a trovare i diamanti?” Gallo dice la sua, che, come qualche altra volta gli capita, non è del tutto insensata. “Dai su gente, andiamo dagli sbirri e raccontiamo una storia che sembra la trama di un film di spionaggio e loro ci guardano e belli belli credono a tutto solo perché noi siamo affascinanti… ma fatemi il piacere, per dirla come la Dina!” Fin qui il suo ragionamento non fa una piega. “Io credo che debbano essere per forza in casa di Skophje” sembra azzardare – o forse no – Dimitri. Non capisco se me racconta tutta, e, soprattutto, se me la racconta tutta giusta. Chissà perché, ma ho questa sensazione.
Scendiamo, facendo attenzione a non farci sentire dalla Missiroli. Rompere i sigilli richiede solo qualche istante e ci troviamo all’interno dell’appartamento di Skophje in men che non si dica. L’aria è pesante, quasi irrespirabile, proprio come ci si aspetta debba essere quando un locale rimane chiuso per più tempo. E senz’altro i liquidi e le polveri usate per i rilevamenti della polizia hanno contribuito a lasciare quell’odore acre che immediatamente si respira entrando. Mi guardo in giro e, nonostante sia entrata nella casa di Skophje innumerevoli altre volte, oggi mi sento un po’ spaesata, quasi fosse un luogo sconosciuto. Tanti, troppi ricordi lo rendono in realtà familiare e amato, ma sento la sua mancanza e tutto mi sembra estraneo. Percorriamo il breve corridoio che dall’ingresso porta alla sala e lì ci fermiamo, muti, immobili. Trattengo il fiato: le tracce – ancora completamente visibili – di quanto accaduto non lasciano nulla alla fantasia e quello che ancora non sapevo e neppure avevo voluto immaginare mi si presenta davanti agli occhi con la potenza devastante della realtà. La sagoma del corpo, solo evidenziata da linee tratteggiate sul pavimento, mi racconta degli ultimi istanti della sua vita e il disegno sul pavimento mi sembra fatto da un bambino o da Picasso: mi chiedo come potesse avere un braccio in quella posizione e la gamba invece essere così spostata rispetto al tronco. Rabbrividisco. Inizia a mancarmi l’aria. Segnali colorati posti qua e là a indicare e numerare – penso – indizi, e tutte quelle macchie scure sui muri… guardo meglio… cazzo, non solo sui muri, sono ovunque… credo che siano schizzi del suo sangue, oddio mi sento male, ma cosa è successo qui? Cosa le hanno fatto? Devo veramente farmi forza, devo trovare una forza dentro di me, devo continuamente ricordare perché sono lì, perché siamo lì, dobbiamo trovare – sempre che ci siano – quei maledetti diamanti. E poi andare dal commissario. Guardo con aria interrogativa i miei due alleati e mi sembra di leggere nei loro occhi e nei loro movimenti rallentati il mio stesso sbigottimento. Decidiamo di dividerci e di cercare ognuno in una stanza.
Io vado in camera da letto. Anche qui i segnali del aggio della polizia sono piuttosto evidenti. Hanno perquisito e frugato senza – ovviamente – rimettere in ordine. Le loro priorità erano diverse. Spero abbiano capito qualche cosa. Mi guardo in giro e mi chiedo io cosa avrei fatto se avessi avuto dei diamanti da nascondere. In un vaso… mah… mi sembra scontato… ci provo comunque… nada… Nel beauty case dei trucchi… scontato anche questo ma meglio vedere un po’… figurati… niente anche lì… Nel tubetto del dentifricio… l’ho letto o visto in qualche film… so che è una idiozia ma almeno questa idea ha il potere di farmi sorridere per un attimo pensando a quanto sono scema… ma, ovviamente, anche qui niente… Mi fermo e ci penso su un po’… dei diamanti… dove li metterei io?… ma tra i gioielli!… così se uno ci guarda dentro magari gli sembrano falsi… Sì Dina, va bene essere scema ma qui sei patetica… Mi blocco di colpo… ma certo!… tra i gioielli! Non del tutto scema… forse. Ritorno in sala e trovo Dimitri impegnato nella sua ricerca mentre sento che Gallo sta armeggiando in cucina… ovviamente in cucina… sbuffo immaginandolo frugare nel frigorifero. Cerco con gli occhi il flauto di Skophje, quello che – a ragione -ritengo poter essere il suo gioiello più prezioso. Ricordo quando mi aveva raccontato come il suo insegnante a Mosca glielo avesse regalato – diceva lei ridendo – in un impeto d’amore. Era veramente affezionata al suo flauto, con una preziosa imboccatura d’oro che rendeva il suo timbro caldo e unico. Vedo la custodia appoggiata su un ripiano della credenza, in bella vista. L’entusiasmo derivato dalla certezza della bontà della mia intuizione si spegne in un attimo: è sempre stata lì e tutti quelli che son ati in casa sua vuoi che non
l’abbiano perlomeno aperta, fosse stato solo per curiosare? Guardo i miei compagni che si sono avvicinati e trattengo il fiato mentre afferro l’involucro nero: faccio scattare le molle delle due chiusure e apro. Il flauto è lì, smontato nelle sue tre parti e adagiato negli scomparti, immobile, quasi fosse in attesa di quel momento. Lo guardo e con una certa circospezione prendo tra le mani la preziosa imboccatura. La giro e la capovolgo sperando di veder uscire quello che tutti cerchiamo. Niente. Prendo allora l’ultimo pezzo del tubo, quello più piccolo, ma anche qui il risultato è il medesimo. Niente ancora. Sollevo con una certa frenesia il restante pezzo del corpo dello strumento, quello più lungo. Lo agito e lo capovolgo ottenendo lo stesso risultato di prima. Sconsolata guardo gli altri due. “Beh, ci ho provato…” dico intanto che ripongo le tre parti. Mi accorgo che lo scovolino per pulire lo strumento non è infilato nel tubo più lungo e, ripetendo un gesto che avevo visto fare a Skophje più e più volte, tento di metterlo al suo posto. Non entra. Riprovo e trovo resistenza. Strano penso, a lei riusciva con un gesto meccanico. Riprovo ancora… niente da fare… giro il tubo, guardo dentro e vedo, fissato con del nastro adesivo, quello che sembra essere un sacchetto un po’ appiattito. I diamanti. Trattengo un grido di gioia e abbraccio Dimitri che è il più vicino a me. Possiamo andare dalla polizia. Adesso abbiamo una vera storia da raccontare.
Capitolo 27
And now I’m on the stage honey I’m shaking like a leaf I’m showing all ’em people I’ve got some brand new tricks
Sa che sono dentro. Li ha visti intanto che scendevano le scale e, quasi fossero dei ladri, rompevano i sigilli sulla porta. Lui è interessato solo alla musicista. Degli altri due non sa bene cosa farsene. Lei è il premio concordato e non ha nessuna intenzione di farsela scappare un’altra volta. Però Manlio è stato chiaro e irremovibile: nessuna altra vittima. Sbuffa e aspetta che i tre escano. Fermo e silenzioso li attende sulle scale tra un piano e l’altro. Non vuole rischiare che la vecchia lo sorprenda ancora. Quella donna sembra avere il potere di essere ovunque, quasi avesse un sesto senso che l’avverte di qualsiasi cosa accada o possa solo accadere negli immediati suoi paraggi. Ha già fantasticato su come farla sparire ma sa che non è proprio possibile. Fosse per lui risolverebbe tutto così: assalto, demolizione e conseguente sparizione dell’avversario. Ricorda quando aveva gettato il corpo di quell’austriaco conosciuto sulla montagna nel lago, dove ogni tanto andava ad ammirare il paesaggio e le ragazze. Più le ragazze che il paesaggio, a dir la verità. La teleferica che conduceva all’osservatorio era sempre stata un buon mezzo per fantasticare e – a volte – pianificare il gioco con discrezione assoluta. Ma quel turista era stato troppo invadente con la conseguenza – inevitabile – di essere
stato nominato preda della giornata in un attimo. Lo aveva attirato a Villa Angst con la promessa di uno scorcio di paesaggio incantevole, ammirato da uno dei parchi più antichi di tutta la città e, una volta arrivati, il gioco era stato appunto assalto, eliminazione e sparizione dell’uomo. Non era stato un momento particolarmente divertente: l’altro non aveva praticamente opposto resistenza e il divertimento era stato più che altro mascherare il tutto da incidente. Jacopo era veramente abile. Gli bastavano pochi accorgimenti per far sembrare incidenti quegli omicidi che, di tanto in tanto, aveva commesso. Aveva caricato il turista sulla barca – un motoscafo come tanti che stava tranquillamente ormeggiato nella darsena di Villa Angst – e, dopo avergli riempito i polmoni con acqua del lago, l’aveva trasportato di notte nei pressi del lido dove l’aveva lasciato scivolare dolcemente nelle fredde e nere acque dando l’impressione che il malcapitato fosse annegato, come poi puntualmente stabilì il referto che chiuse l’indagine seguente. Sa che – incredibilmente – l’unica volta in cui ha veramente perso la testa è stato proprio a casa della russa amica della musicista. Il trovarla morta e non poter divertirsi come avrebbe voluto l’ha sconvolto al punto da sbatacchiare e picchiare quel povero corpo già privo di vita con una tale cattiveria e ferocia da – quasi – sorprendere se stesso. Oggi però non vuole commettere errori. Non può commettere errori. Manlio è stato chiaro. E, anche se odia dare ragione al mezzo uomo, sa che oggi non potrà prendere iniziative diverse da quelle già prestabilite. La donna e basta. La donna è la sua donna. Sente un fremito dentro, una scossa lungo la schiena. Decide di scendere e aspettarla fuori. Può essere che gli altri due non vadano via con lei. Meglio aspettare e valutare i movimenti in un secondo momento.
Certo è che son dentro da tempo ormai. Sbuffa e guarda l’ora… son dentro ormai da più di mezz’ora… cosa stanno facendo? si domanda tormentandosi le enormi mani. “Dai Dina, muoviti! Dove hai parcheggiato la macchina ieri sera” la voce di Gallo lo avvisa che i tre sono usciti dalla casa di Skophje. “Non lo so Gallo, non mi ricordo!” Rispondo e sbuffo. Che palle non avere il box, ogni sera trovare un parcheggio è come vincere alle slot machine: ci vuole veramente culo. E quella stronza della Missiroli che non ha l’auto non mi affitta il suo, lei che ovviamente ne ha uno. Vuoto. Vuoto e sfitto. Vabbè… mi guardo in giro e non la vedo. Sarà nell’altra via. Di solito è meno intasata ed è più facile trovare un buco. Lo dico a Gallo e a Dimitri. Santo Dio, le chiavi. Nella frenesia della giornata ho lasciato le chiavi dell’auto a casa. “Ehi voi due… cercate la macchina. Intanto io risalgo in casa a prendere le chiavi. Le ho lasciate sulla mensola all’ingresso. Credo”. Aggiungo mentre mi giro e mi dirigo verso il portone. Jacopo osserva tutta la scena. Sa di avere un’opportunità grandiosa: la musicista rimane da sola, la musicista è già da sola. Quei due si sono allontanati. Lui sa dov’è la macchina. L’ha vista sia alla mattina che al pomeriggio. Parcheggiata sempre nello stesso posto. Jacopo sa che sarà una giornata faticosa la sua. E sembra non essere ancora finita. Anzi, gli sembra appena iniziata. Poche altre volte si è sentito così felice. La sua ballerina sulla luna.
La sua ballerina sulla luna. Sua… sua… solo sua… Jacopo è in preda a una euforia che aveva seppellito ormai da tempo, ma che è prepotentemente uscita dal nascondiglio in cui era stata relegata: quella sensazione di onnipotenza che solo recentemente ha ritrovato, lo riporta indietro nel tempo, quando il gioco era la sua vita stessa. Se solo potesse raccontare a qualcuno dei giorni ati. Scaccia quel pensiero e quella frenesia e si concentra sul presente. Non ha molto tempo per agire. Loro potrebbero tornare indietro, e lo faranno non appena capiranno di aver preso la direzione sbagliata. La segue e in un attimo la raggiunge proprio quando lei sta salendo la prima rampa di scale. Cammino e valuto cosa raccontare al commissario. Ma più che stabilire cosa, forse è meglio scegliere come raccontare. E se poi non ci credesse? Beh, noi abbiamo i diamanti da esibire come scalpo di guerra. Sono così presa dai miei ragionamenti che la voce alle mie spalle, del tutto inaspettata, mi fa trasalire. Non conosco quella voce. “Ciao, ballerina. É finalmente arrivato il momento di conoscerci” si presenta. Ballerina?… Cazzo… credo di avere capito… Mi giro di scatto con la certezza che quell’incontro non sarà proprio dei migliori. Mi trovo davanti un energumeno di almeno cento chili, che mi guarda con quello sguardo tipico che credo un predatore abbia proprio l’attimo prima di sferrare l’attacco.
Il fratello di Manlio… non ci credo… non adesso. “No no no… non farti venire strane idee… non pensarci nemmeno!” Mi dice intuendo che – da stupida – avrei potuto tentare qualche cosa… cosa non so… ma rimanere li ferma è da scemi… Lo guardo e provo: “Ah sì, tuo fratello mi ha parlato di te”. Cerco di rimanere calma. “Dice che sei un nostro fan. Della band in cui suono intendo”. Se continuo a parlare perdiamo tempo e magari Gallo e Dimitri tornano a cercarmi… magari… Lui evidentemente è di un’altra idea e mi afferra per il polso – dio che male – e mi trascina verso di lui. Non riesco neanche a muovere un muscolo: quando si dice letteralmente bloccata dalla paura… beh… quello… Adesso sono a qualche centimetro dal suo corpo – in confronto a lui son troppo piccola e gli arrivo a malapena al mento – e mi ansima addosso “Bene ballerina… non hai nessun cavaliere che ti protegga e nessun mago che possa fare incantesimi per te… credo che tu debba seguirmi… subito e senza fare storie. Sai che potrei obbligarti a farlo. E ti farebbe male. Tanto tanto male”. Intanto la presa al polso diventa, se possibile, ancora più ferrea e dolorosa. Fa che non me lo spezzi… lo seguo ovviamente… Sa dove andare e, appena usciti dal portone, si dirige dalla parte opposta rispetto a dove sono il cavaliere e il mago… cavaliere e mago, avrei meritato di meglio invece che quei due… e, senza neppure dare l’impressione di costringermi, mi porta non so dove… Vedo la mia macchina… bene… lui sa anche dove l’ho parcheggiata. Se non fosse una situazione da delirio, con un bestione squilibrato che crede io sia la sua ballerina… ma poi ballerina cosa? non ho mai ballato io, nella canzone è solo una immagine poetica… e chissà che altro incubo ha in mente… beh, se così non fosse ci sarebbe da ridere… si cazzo proprio una di quelle risate isteriche da film, quando la paura prende il sopravvento e tu sei felice di essere solamente una spettatrice seduta comodamente sulla poltrona, magari anche con del pop
corn caldo… Arriviamo alla macchina e mi fa salire al posto di guida. Lui si siede di dietro. Certo, così facendo mi tiene sotto controllo e io… io devo pensare a qualcosa… subito però… Partiamo. Ci immettiamo nel traffico di questo tardo pomeriggio quasi estivo, mi da due indicazioni… vai dritta… certo brutto scemo, dove vuoi che vada, non ci sono altre strade allo stop mi fermo e, nel ripartire, faccio sì che la macchina si spenga. Tanto per perdere un po’ di tempo. Non so cosa fare. Dark!? Dark e Train sulla macchina di fronte a me dall’altra parte della strada!?… vengono verso di noi… facendo finta di niente li abbaglio con i fari, mi vedranno di sicuro… come cazzo è… tre lunghi tre brevi tre lunghi… o è il contrario… com’è quel cazzo di s. o. s. con l’alfabeto morse? Con tutti i film di James Bond che han visto capiranno al volo… e guardatemi brutti idioti… Un ceffone sulla nuca mi riporta alla realtà. La bestia dietro a me grugnisce e mi prende per il collo… me lo spezza. “Non fare la scema, brutta troietta. Ti ho detto di non pensarci neanche”. Le sue parole sembrano un sibilo tagliente nelle mie orecchie. Ha visto che armeggiavo con la levetta dei fari. Però non ha visto Dark e Train. Non li conosce neanche. Li avrà visti sul palco a suonare, non può ricordarseli. Lui ha occhi solo per me… Riparto, lentamente per non dare nell’occhio, faccio esattamente come mi dice lui. Dio dio di… fa che mi abbiano visto, fa che mi seguano… che facciano qualcosa. Ci dirigiamo a nord, sulla strada provinciale che costeggia il lago. L’ho percorsa
centinaia di volte, mi piace guidare su quelle curve tortuose che sembrano essere un serpente che si snoda e che non ti permette di vedere cosa c’è al di là… ma oggi è una strada nemica, non so dove mi porta, ma so per certo dove lui mi conduce. Arriviamo davanti al cancello di quel vecchio hotel abbandonato… qui?… mi porta qui?… e chi mi trova più… Obbedisco e mi fermo sulla piazzola. Non c’è nessuno in giro, neanche qualche coppietta romantica che eggia mano nella mano. No, nessuno. Lui mi prende per mano… lui mi afferra la mano… da lontano potremmo sembrare noi la coppietta romantica… beh, l’orco e la bambina… Mi trascina in un cespuglio e ci ritroviamo nel giardino dall’hotel. Anche questo sembra abbandonato. Mi guarda e sorride. Una luce nei suoi occhi mi mette i brividi. Capisco che siamo arrivati al capolinea.
Capitolo 28
Good traditions of love an’hate Good traditions must be saved
“Dovrei convenirne anch’io?” mi dice, ma non riesco a seguire il suo ragionamento. Forse sarebbe il caso che io venissi messo a conoscenza di qualche particolare in più. Non ne conviene?” Le ultime parole del commissario hanno un inequivocabile tono sarcastico. Manlio Rognoni non può fare a meno di notarlo. Sta tergiversando. Anche una tattica difensiva improvvisata deve avere comunque un minimo di base solida sulla quale fondarsi. “Signor commissario, mi sorprende che lei, così attento ai particolari, non abbia avuto modo di considerare la figura della signorina Nasi. Personaggio che, a mio modesto parere ovviamente e senza alcuna presunzione di verità assoluta, non esito a definire perlomeno ambiguo”. Manlio inserisce una delle sue pause a effetto, sempre utilizza ad arte, con l’intento di scegliere con cura le parole. “Stiamo parlando di una musicista senza dubbio di modesta caratura, tant’è vero che la sua occupazione principale risulta essere quella dell’insegnante. Ho avuto modo di ascoltare la band con la quale si esibisce ed, in tutta onestà, credo che definirla di secondo o terzo ordine non sia fuori luogo”. Si interrompe dando modo al commissario di intervenire. Cosa che prontamente si verifica.
“Posso anche essere d’accordo con lei, o potrei anche dissentire completamente, ma non capisco cosa questo c’entri con la signorina Nasi e la sua presunta ambiguità”. Ecco che ricomincia la partita a scacchi. “Quell’aspetto ambiguo del carattere della signorina che sto sottolineando, si riferisce proprio al suo essere una personalità in qualche modo sdoppiata. Se potessi utilizzare come esempio un’immagine tratta dalla letteratura, la paragonerei a un dottor Jekyll in conflitto con…” “… il suo mister Hyde…” Conclude trionfante Astolfi che, a quanto pare, non si sta perdendo una sola battuta di quello scambio ravvicinato tra i due. Manlio Rognoni si gira verso quest’ultimo, con uno sguardo carico di risentimento. Non ama essere interrotto, tanto meno da una figura di contorno. “Certo, proprio come dice il suo collega” riprende tentando di rimanere calmo. “Questo suo essere duplice ha portato la Nasi ad avvicinarmi con una scusa dopo una sua esibizione in un locale equivoco, tentando di coinvolgermi in un suo delirio – mi scusi, ma non ho altre parole per definirlo diversamente – che, o dopo o ho scoperto avere come protagonista niente meno che mio fratello Jacopo. Fratello che in realtà risulta essere ammiratore della band della Nasi. Innocuo e fervente fan. Azzardo, probabilmente l’unico fan. Non credo neppure tanto esagitato, forse un po’ ingombrante. Quello stesso fratello che lei, commissario, adesso sta tentando di rendere oggetto di verifiche e soggetto di macchinazioni, su evidente invito della Nasi stessa”. Manlio Rognoni conclude la sua – estemporanea – dissertazione sulla figura di Dina Nasi. Ripensa a quanto appena raccontato e gli sembra del tutto plausibile. Sì, scarichiamo tutto su quella troia. Rebetti rimane in silenzio.
Sicuramente anche lui sta riflettendo su quanto appena ascoltato. Tutto può essere il contrario di tutto. Questa deve essere la strategia del Rognoni. Sta per replicare, quando viene interrotto dallo squillo del telefono sulla scrivania. “Sì, sono io. Chi? Certo, certo, amela subito”. Con il palmo della mano copre il microfono della cornetta e, sfoggiando un sorriso enigmatico, si scusa con i presenti ma si tratta di lavoro e non si può certo rinviare. “Buongiorno signora. No, stia tranquilla, lei non disturba mai. Mi dica pure”. Rimane in ascolto. “Notizie che riguardano la professoressa Nasi? Ma certamente, mi racconti”. Questa ultima frase è scandita e sottolineata da uno sguardo glaciale rivolto a Manlio Rognoni. E adesso cosa c’è ancora? La domanda che Manlio rivolge – retoricamente – a se stesso è la medesima che rimbalza nella mente di Astolfi. Entrambi sanno che non tarderanno a scoprirlo. I pochi – interminabili – momenti che intercorrono tra l’inizio e la conclusione della telefonata, sottolineati solo da grugniti d’assenso e alcuni appunti che il commissario annota su un foglietto, non fan altro che aumentare la tensione che sembra farsi via via più consistente. Ognuno vive il momento con manifestazioni esteriori diverse. Rebetti rimane imperscrutabile, forte del fatto che – comunque – è l’unico a sapere la reale portata della telefonata. Astolfi finge un disinteresse profondo, quasi imbarazzato per essere lì in quel
momento. Manlio Rognoni elabora decine di diverse possibilità ma nessuna lo lascia per niente tranquillo. L’unghia del pollice che ritmicamente sembra limare quella dell’indice ne è un chiaro segnale. “Certo signora. Mi è stata d’aiuto. Stia certa, manderò subito un’auto per effettuare i dovuti controlli”. Rebetti chiude la comunicazione e, con un cenno del capo, autorizza Astolfi a procedere nel controllo appena confermato telefonicamente, consegnandogli il foglietto appena scribacchiato. “Perdoni questa breve pausa, ma, come lei ben può immaginare, signor Rognoni, ci sono situazioni che richiedono un vaglio immediato da parte mia. Ma mi stava dicendo… continui pure…” L’invito, pur cortese, suona veramente perentorio. Manlio Rognoni riprende a descrivere lo scenario alternativo che stava inventando. “Bene, dottor Rebetti, credo di averle illustrato gli elementi che al momento sono in mio possesso. Elementi che sembrerebbero gettare una luce nuova – si dice così vero nello slang poliziesco – dicevo una luce nuova e ben differente su quanto lei stava presentandomi”. Pausa e affondo. “La signorina Nasi è sicuramente una mitomane che tenta di perseguire qualche suo losco disegno alle spalle di quel poveraccio di mio fratello!” Così dicendo Manlio decide di perseverare nel suo nuovo disegno, incurante di quello che avrebbe potuto appena aver saputo il commissario riguardo la musicista. Anzi, al telefono ha detto la professoressa… certamente cose che non c’entrano. Rebetti sprofonda nella poltrona. Sembra cercare una posizione ancora più confortevole e nel contempo si massaggia il mento con quel suo gesto tipico di quando è concentrato.
Le parole gli escono fulminee dalla bocca, quasi fossero prodotte da un coltello a scatto. “Tutto può essere come dice. Mi spieghi allora come mai una persona che corrisponde in tutto e per tutto alla descrizione di suo fratello è stato visto non meno di mezz’ora fa accompagnarsi alla signorina Nasi con modi – cito le parole della nostra testimone – intimidatori. Sembrava la costringesse a seguirlo. E, se riesce, provi a rispondermi senza usare quel suo linguaggio forbito e inconcludente”. sorride, rimanendo in attesa. “Via commissario, cosa vuole che le dica? La sua testimone… chissà cosa avrà visto… chi avrà visto… Jacopo è simile a decine di altre persone…” La replica di Manlio è – questa volta – inconcludente. E poco forbita. “Anche questo è vero, ma la signora Missiroli ha già avuto modo di imbattersi in suo fratello e risulta essere una testimone molto attendibile. Signor Rognoni, o decide di raccontarmi la verità, quella con tutte le lettere maiuscole, o – temo – suo fratello e lei sarete presto accusati di sequestro di persona, e spero di limitare le accuse a questa imputazione!” Lo scatto dalla sedia del commissario lascia Manlio Rognoni senza parole, visibilmente scosso dall’imprevista piega degli avvenimenti.
Capitolo 29
I feel so lonely baby And find no place to go I’m looking for a crossroad Trying to sell my soul
“Forse la Dina intendeva dall’altra parte. Va bene non trovare parcheggio vicino a casa, ma se camminiamo ancora un po’ arriviamo fin dentro al lago. Io qui la sua macchina non la vedo proprio”. Gallo guarda Dimitri che, a quelle parole, si ferma. Entrambi esplorano il resto della strada con lo sguardo e si convincono di avere preso la direzione sbagliata. Come una mossa del gioco dell’oca, ritornano al punto di partenza e li si imbattono in Train e Dark. “Ola hombre, cosa fate da queste parti?” li saluta Gallo sorridendo. “Siamo ati a vedere se va tutto bene” risponde Dark a nome dei due. “Beh, si direi che tutto va bene” interviene Dimitri. Nessuno sembra averlo sentito, quasi non avesse detto nulla. “Dove stava andando la Dina?” chiede Train. “Come dove sta andando? È salita in casa a prendere le chiavi della macchina, saran due minuti fa”. Gallo risponde guardandoli con aria interrogativa.
“Un cazzo. L’abbiamo incrociata in macchina che se ne stava andando proprio adesso. E non sembrava sola”. Train incomincia a spazientirsi. “Ve lo giuro, è salita in casa a prendere le chiavi della macchina che aveva dimenticato sul mobile all’ingresso”. La voce di Gallo perde il bel timbro impostato. Dimitri assiste alla scena non sapendo cosa dire: muto e trasparente. Intanto tocca il sacchetto con i diamanti che conserva gelosamente nella tasca destra dei pantaloni, quasi a sincerarsi che non se ne siano andati insieme alla donna. Muto, trasparente ma non scemo, pensa tra sé e sé. “Ho sentito Dina oggi al telefono e non mi è sembrata del tutto tranquilla. Ho chiamato Train e abbiamo deciso di are a dare un’occhiata. Tanto ci saremmo dovuti vedere tra un po’ in studio per le registrazioni”. Dark, come sempre, si spiega in modo conciso e chiaro. “Cosa vuoi dire con quel non era da sola in macchina?” Gallo chiede con un fil di voce. Immagina che possa essere successo qualche cosa di terribile a quella che – in qualche modo – ritiene essere ancora la sua donna. “A me così è sembrato. L’abbiamo notata perché ci ha abbagliato un po’ quasi a salutarci. Ed è stato lì che ho intravisto qualcuno seduto dietro a lei. Nello stesso istante che siamo arrivati ti ho visto sul marciapiede che ti dirigevi da questa parte e allora ci siamo fermati. That’s all folks. Tu non hai niente da dirci? E, per inciso, questo qua chi è?” Dark e Train indicano simultaneamente Dimitri che ricambia lo sguardo imbarazzato. “Lui, ma lui non è nessuno, cioè… lui è il fratello di Skophje. Dimitri, loro sono Train e Dark e suonano insieme a Dina”. Gallo conclude la presentazione in un attimo, congedando nello stesso momento quello che sembra essere un corpo estraneo alla situazione. Attimo di ime, subito sbriciolato da Train che, come un mediano di mischia in una partita di rugby, si butta nel dialogo con foga:
“A me quello in macchina sembrava bello grosso, quasi quasi più grosso di me. Chi è? Dai Gallo, non farmi girare le palle e racconta tutto subito. Cosa sta succedendo?” “Come bello grosso? Bello grosso come? Dai ragazzi, non scherzate! Allora Dina è in mano al bestione che la perseguita! Cosa volete sapere di più ancora?” Gallo riprende padronanza di sé e della situazione. Tutti si guardano quasi smarriti, delusi di non avere capito subito. “Cazzo, altroché abbagliarci per salutarci! Era un s. o. s. in morse! L’ha fatto alla sua maniera, cioè sbagliando, ma era quello! Dai ragazzi, tre flash lunghi e corti… la Dina ha bisogno di noi!” Train fa tesoro di quanto imparato dai personaggi delle spy stories che ama e spiega l’accaduto agli altri. “Ok, prendiamo la macchina e seguiamola. Non ha tanto vantaggio su di noi e con quella carretta che guida non può essersi smaterializzata nel nulla. Dai andiamo!” Gallo sembra dirigere le operazioni del gruppo con abilità inaspettata. “Anzi no” si corregge “Tu Dimitri vai alla Polizia e fai quello che abbiamo progettato di fare insieme. Dai, muoviti. Prendi un taxi così non perdi tempo. Cerca quel commissario con cui voleva parlare la Dina e spiegagli tutto. Muoviti! Dai, vai!” Gallo ora dà anche ordini. “A voi due spiego tutto in macchina! Andalè, andalè”. Batte le mani per sottolineare le ultime parole e conclude il suo momento da colonnello. Il gruppo si divide, attenendosi alle indicazioni ricevute. I tre salgono sull’auto di Dark e si lanciano alla ricerca di Dina e aggressore, mentre Dimitri ferma un taxi, vi sale e immediatamente riparte. Quello che i tre amici non sanno e non possono sapere è che Dimitri dà al conducente dell’auto un indirizzo completamente diverso. Non si sta dirigendo al commissariato.
Evidentemente ha altro per la testa. “Ma guarda questo coglione! Ma come guidi, pezzo di scemo!” Gli improperi del tassista sottolineano con un frasario colorito ma tipico di chiunque guidi nel traffico cittadino la manovra avventata di un enorme SUV nero. Dimitri, seduto nel sedile posteriore, purtroppo ha capito. Il sorriso beffardo sul suo viso, tipico di chi crede di aver già vinto, si spegne non appena ha la certezza che la sua intuizione si stia avverando. Maledice tutto e tutti intanto che cerca di aprire la portiera. I due uomini scendono dall’auto dopo averla messa di traverso in modo da impedire all’altra qualsiasi movimento – movimento che il conducente non ha la minima intenzione di compiere, allibito e spaventato com’è – e con un’azione fulminea raggiungono la portiera semi aperta da Dimitri, impedendogli la fuga. Il più grosso dei due afferra l’uomo per il bavero della giacca e lo estrae dall’abitacolo con una facilità estrema. Conclude l’azione colpendolo con un gancio sinistro che ha l’effetto di tramortirlo. L’altro, quello più piccolo, osserva compiaciuto la scena e, intanto che trascinano la vittima all’interno del SUV, sorride. Sorride e spara due colpi all’indirizzo del conducente del taxi con lo scopo di intimorirlo ulteriormente: il malcapitato si rannicchia più che può, congiungendo le mani come se stesse pregando. “Ci si rivede, vecchio mio! Credo tu abbia qualcosa per me”. Sono le sue parole mentre fruga nelle tasche di Dimitri. Trovare quello che cerca è solo una formalità. Lo caricano in macchina e spariscono, veloci come sono arrivati. Dimitri sa che questa volta non avrà un’altra opportunità di fuga, con o senza diamanti poco importa. Un ceffone, che vorrebbe suonare come una pacca amichevole, lo colpisce in pieno volto mentre viene messo al corrente degli imminenti sviluppi.
“Caro Dimitri, questa volta ci hai proprio fatto penare. Hai veramente messo alla prova tutta la mia pazienza e abilità. Trovare te e quello che mi hai portato via è stato veramente complicato. Ma, come vedi, tutto si conclude inevitabilmente come entrambi sapevamo che sarebbe stato”. Le parole dell’uomo più piccolo sono amichevoli, anche se Dimitri sa benissimo come il loro significato sia ambiguo. “Abbiamo pensato” l’uomo continua “di farti fare un bel viaggio fino a Semey. Ricordi Semey, vero? Lì c’è qualcuno che ti aspetta. Che ti aspetta da tempo e che finalmente ti avrà. Per sempre”. La risata dei due non riesce a coprire il grido disperato di Dimitri. Ha capito quale sarà il suo destino. Semey, cittadina del Kazakistan, fu teatro di innumerevoli esperimenti nucleari ai tempi dell’ex Unione Sovietica. I risultati, tragici con il are degli anni, sono stati l’abbandono della zona da parte di tutti quelli che hanno potuto farlo e il conseguente impoverimento dell’area. Ma gli aspetti più sconvolgenti sono stati senza dubbio i casi di malformazioni e mutazioni genetiche, dovute alle radiazioni, che si sono moltiplicati, fino a rendere la città un vero e proprio teatro dell’incubo. Dimitri sa che la sorella maggiore di Vladimir, l’uomo al quale appartengono i diamanti, ora abita lì. C’è nata e cresciuta, e dirige i traffici del fratello in quella zona. Lui ha avuto modo di conoscerla anni prima, durante una festa a Mosca. Di lei ricorda soprattutto una grossa escrescenza carnosa tra naso e occhio, che le era valso il soprannome – mai pronunciato ad alta voce ovviamente – di T. Rex. Nella sua mente Dimitri l’aveva sbeffeggiata ripetutamente e resa personaggio di una sua immaginaria saga del terrore. La trovava veramente disgustosa. Lei però si era invaghita di lui e aveva tentato in tutti i modi di creare i presupposti per una relazione. A quei tempi Dimitri era molto popolare nel mondo che frequentava e, di certo, non erano le ragazze che gli mancavano. Ljuba, così si chiamava la donna, non aveva chances per far sì che lui potesse essere anche minimamente interessato a lei. E così, ferita nell’orgoglio da quel netto rifiuto, ci aveva comunque provato in tutti i modi, con lusinghe e minacce, chiedendo anche l’intervento del fratello. Niente aveva però potuto contro la testardaggine del ragazzo, che godeva
comunque di un certo prestigio in quanto elemento chiave nello sviluppo dei vari traffici. E per questo pressoché intoccabile. Ma adesso la situazione si era profondamente modificata. La punizione di Dimitri non sarebbe stata la morte, come lui aveva sempre pensato, ma il diventare una sorta di regalo per la donna che ne avrebbe disposto a piacere. Dimitri chiude gli occhi e il sudore scende dalle sue tempie fino al colletto della camicia. Una bara di cristallo la sua, senza via di fuga né di cambiamento. I due continuano a ridere sempre più sguaiatamente man mano che la disperazione cresce in Dimitri.
Capitolo 30
Just like a demon son I’m flying with broken wings The concrete jungle fella hails my sound tonight
Il cellulare di Rebetti interrompe quello che sembra essere un momento di idillio tra i due. Infatti si stanno fissando negli occhi, entrambi tesi come due innamorati al primo appuntamento, ma comunque determinati a non fare nessun altro o falso. Dopo avere dato le opportune istruzioni ad Astolfi, il commissario ha lasciato Manlio Rognoni in attesa nel suo ufficio, uscendo dopo aver inventato una banale scusa. La più banale che gli sia venuta in mente, solo per permettere all’altro di capire quanto fosse solo uno stratagemma per allontanarsi. Quasi avesse da fare senza volere essere visto. Lui ha bisogno di prendere fiato. Deve valutare gli ultimi sviluppi, con l’intento poi di attaccare sperando nel colpo risolutore. Sa però che questa pausa darà all’altro l’opportunità di riordinare le idee per non dover inventare altri scenari. Al suo rientro Rebetti, senza proferire parola, si accomoda sulla sua poltrona,
sorridendo quasi amichevolmente al Rognoni. Il gioco degli sguardi è rincominciato. Leggermente infastidito il commissario guarda il display illuminato del telefono, e pensa ancora una volta a come quella orribile suoneria debba essere modificata. Operazione che rimanda sempre, in attesa di cambiare il suo vecchio cellulare con uno più recente, sicuramente polifonico, come quello che vede usare con perizia da Astolfi. Appunto, Astolfi. È lui che chiama. Che sia già a casa della Nasi? In un attimo decide di rispondere lì, nel suo ufficio, in modo che Manlio Rognoni possa ascoltare tutto, o perlomeno quelle che saranno le sue parole. Potrebbe tornare a suo vantaggio. “Sono io. Dimmi pure”. In silenzio ascolta per pochi attimi quello che gli viene detto, poi improvvisa, sperando che Astolfi lo assecondi. Ma anche se non dovesse farlo – cosa più che probabile conoscendo la sua pedanteria – non sarà un problema. Manlio Rognoni non può sentirlo. “Come la Nasi non si trova? La Missiroli conferma di avere visto lo Jacopo Rognoni portarla via?” Nel silenzio dovuto alla risposta scruta Manlio. Si sta mordicchiando il labbro inferiore: buon segno. “Un pugno? L’ha colpita con un pugno? Sotto casa sua?” L’occhiata al Rognoni diventa – se possibile – ancora più gelida. Spera di vedere una breccia nelle certezze del suo avversario. Manlio Rognoni si morde ancora il labbro inferiore. Nessun altro segno di cedimento. “Lo state seguendo… si dirige verso la loro villa, quella con il nome tedesco? Bravi, non perdetelo di vista e, appena possibile, intervenite… Certo Astolfi, se dovesse opporre resistenza… usate pure la forza”.
Le ultime parole sono sottolineate abilmente da un tono di voce abbastanza profondo, quasi volessero risultare ancora più teatrali. Scruta e vede l’altro impallidire. Forse il suo bluff sta funzionando… “Non dica idiozie, commissario!” è il turno di Manlio di esplodere come un fuoco d’artificio. “Come pensa sia possibile usare la forza con uno che non è sospettato di nulla? Dico di nulla. E mi ascolti bene: sono io adesso a scandire le parole e lanciarle occhiate gelide! Crede di avere a che fare con uno dei suoi ubriachi del sabato sera che fanno confusione fuori da qualche discoteca? Per chi mi ha preso? Non le dico il classico lei non sa chi sono, ma, semplicemente e altrettanto efficacemente, lei non sa con chi ha a che fare. Il mio avvocato sta arrivando direttamente dalla Svizzera: l’ho chiamato quando lei si è assentato inventando quella pessima scusa. Credo che ci saranno denunce e querele per parecchi dei personaggi di questa finzione teatrale che state orchestrando alle spalle di mio fratello”. Il tornado Manlio Rognoni si abbatte con furia sul malcapitato Dottor Rebetti che, stupefatto, rimane senza parole. E sembra che l’altro non abbia ancora finito. Altroché mordersi il labbro perché in difficoltà. “Io credo che da parte vostra, sua e dei suoi testimoni, ci sia una scelta che definirei classista nei nostri confronti. Comodo, troppo comodo credere di avere un colpevole con le sembianze del ricco rampollo di famiglia un po’ svitato. Lo stereotipo del persecutore. E dare retta alle elucubrazioni di una musicista fallita. Non le sembra vero di poter sfruttare quella tapina! Commissario, mi meraviglio di lei!” Tornado e uragano, un Rognoni che travolge tutto e tutti. Rebetti assiste silenzioso e – almeno apparentemente – impotente alla requisitoria del suo avversario.
Avversario che conclude il suo attacco frontale puntando l’indice: “Commissario, o lei ritira tutte le accuse nei confronti di mio fratello oppure, e parlo seriamente, io darò mandato al mio legale affinché il buon nome della famiglia Rognoni venga tutelato in tutti i modi consentiti dalla legge. Jacopo ha dei seri problemi mentali ma mai avrebbe potuto essere il colpevole di quanto ventilato, né tanto meno uccidere quella donna russa!” Manlio Rognoni si è lasciato trasportare dalla sua stessa foga. Manlio Rognoni si rende immediatamente conto della portata della sua ultima affermazione. Un leggero e quasi impercettibile sudore imperla la sua fronte. Riprende a mordicchiare il labbro inferiore. Il Dottor Angelo Rebetti, commissario del locale comando di Polizia, sorride. Sorride e inspira profondamente. Anche lui si è reso immediatamente conto della portata dell’ultima affermazione. Forse il tornado non era così terribile. Uccidere quella donna russa? Nessuno ne ha mai parlato. Sinceramente, non ci aveva nemmeno pensato. Per ora la partita a scacchi tra i due sembra terminata.
Capitolo 31
My soul doesn’t worth A dime I’m gonna roll my dice I just wanna be on time
Devo farlo al più presto. Anzi, avrei dovuto farlo prima. Sicuramente prima ancora. Sono stata proprio scema… addirittura pensare che quei due avrebbero capito i miei segnali morse con i fari… sbagliati o giusti che fossero. Ahia, mi fa male al braccio! “E mollami! Dove vuoi che vada, brutto bestione!” Sento la mia voce che risuona quasi innaturale nella folta vegetazione che ci circonda. Ma soprattutto che ci divide dal mondo. Ride. Se solo avessi qualche oggetto in mano ti farei ridere io, enorme cazzone! “Se ti lascio andare, non è che tu tenti di scappare, vero? Tanto lo sai che ti riprendo in un attimo, ballerina!” Jacopo parla e ride. È felice, il suo sogno si sta materializzando in un tardo pomeriggio quasi estivo. Proprio come Manlio gli ha promesso. Il mezzo uomo anche questa volta ha mantenuto la parola.
Jacopo ripensa agli ultimi giorni e si pente di non avere seguito le indicazioni del fratello: quasi quasi facendo di testa sua si perdeva la musicista. Sembra riflettere e, quasi inconsciamente, lascia la presa sul polso di Dina come per esaudire sua richiesta. Deficiente di un gorilla, ancora un po’ e il polso me lo spezzi. Adesso… vai Dina… adesso o… mai più! Con uno scatto mi allontano di quei due tre metri che mi permettono di raccogliere il ramo che ho adocchiato. Colpisco Jacopo più forte che posso, lo centro proprio sulla tempia e vedo che barcolla come se fosse un pugile prima del ko. Non aspetto di vedere se cade o si riprende. Incomincio a correre, non so dove andare, mi sembra tutto uguale lì intorno. Non c’è nessun sentiero da seguire, potrei essere in una foresta dell’Amazzonia, non nel boschetto appena dietro casa! Sento che bestemmia forte e capisco dal rumore dei suoi i che si sta avvicinando. Corre anche lui e credo non ci metterà molto a riprendermi: è alto almeno venti centimetri più di me, allenato, forte e soprattutto imbestialito. È proprio dietro di me, vicino, troppo vicino… ho il suo respiro addosso… mi blocco e roteo su me stessa colpendolo con il palmo della mano – non l’ho fatto apposta, mi è venuto così – proprio sul naso. Vedo un fiotto di sangue che gli cola sulle labbra intanto che si mette le mani al volto. L’ho sorpreso, e capisco di dover sfruttare questo momento. Si è scoperto e colpisco, colpisco ancora più forte con un calcio portato dalla paura e dalla disperazione. Sento il piede che affonda proprio sotto la cintura. Se l’ho colpito nelle palle forse cede, almeno per un momento. Riprendo a correre.
Non mi sembra di averlo dietro, adesso. Ma sento la sua voce che scandisce chiaramente quelle poche parole: “Vuoi giocare ballerina? E allora giochiamo! E che tu sia pronta o no, io arrivo! E vedrai come ci divertiamo non appena ti trovo!” Non aspetto di vedere se mantiene quel che dice: ho capito che non scherza, in realtà non ha mai scherzato lui. Sono io che ho sottovalutato Manlio e tutto quello che mi ha detto. Avvertimenti che ora mi cadono addosso con tutta la forza devastante della situazione. Sì sì, tutte belle considerazioni che fatte adesso non mi aiutano di certo. Dai Dina, tira fuori una delle tue decisioni affrettate… Smetto di correre con la speranza di ridurre anche tutti i rumori che – in realtà – continuo a fare. Muoversi in un giardino abbandonato, con sterpi, rami secchi, foglie e tutto quel che anche se non si vede c’è e produce una serie di scricchiolii terribili amplificati dallo stress del momento, mi proietta in un vero incubo. Beh, nell’incubo ci sono da un bel pezzo a dire la verità. Non sento più il bestione… forse si è fermato anche lui ad ascoltare… piano piano Dina, anzi, fai conto di dover suonare un pianissimo. E qui vorrei essere la ballerina sulla luna, fluttuare e – magicamente – sparire nel nulla. I soliti sogni a occhi aperti. Intanto che sto con le orecchie tese, pronta a cogliere anche il più piccolo segnale di pericolo, mi sembra di vedere una nicchia riparata e seminascosta da una siepe. Forse quello potrebbe essere un buon nascondiglio. Se solo ci arrivo, poi mando qualche messaggio con il telefonino… il telefonino, mi si chiude lo stomaco… il telefonino è rimasto in macchina! Ricordo di averlo appoggiato nel vano porta oggetti, con la speranza di riuscire a utilizzarlo in qualche modo. Speranza e basta, visto che proprio l’ho dimenticato. In lontananza sento una sirena di un antifurto che continua a suonare.
Poi smette, poi ricomincia. Smette ancora. Spero che attiri tutta la polizia della zona, e che così riescano a vedere la mia macchina parcheggiata, e che la riconoscano perché i miei amici han già denunciato la mia scomparsa, e che… che rumore è stato? Un brivido parte da sotto i capelli e giù giù arriva fino alla schiena. Mi giro e vedo più spostato a sinistra rispetto a dove sono rintanata la sagoma di Jacopo Rognoni che mi cerca. Sta guardando dall’altra parte. Non mi ha ancora vista. Devo riuscire a raggiungere la nicchia. Mi sposto, lentamente e facendo tutta l’attenzione possibile, e arrivo alla nicchia. Entro. In realtà non è proprio una nicchia, mi sembra si tratti di una grotta. Un aggio? Anzi no, una specie di tunnel. L’istinto mi dice di uscire, e lo farei se non vedessi il mio incubo arrivare proprio verso di me. Dai Dina, vai e spera che sia la strada giusta. Jacopo Rognoni è intento a osservare le tracce che la musicista lascia sul percorso che compie. Sicuramente non è molto abile a muoversi in quella vegetazione. Anzi si direbbe che sia proprio fuori posto. Facile camminare sull’asfalto e rimanere sotto la luce dei riflettori eh, bella signorina? Jacopo segue i segni: l’erba calpestata è un indicatore inequivocabile del suo aggio e quel ramo spezzato suggerisce il suo stato d’animo. Ha paura, tanta paura e non si cura di coprire le tracce. Stupida. Stupida e presto sua.
Intanto che la segue realizza che lei sta andando proprio nella direzione del aggio segreto, del suo aggio. Se solo dovesse entrarci gli risparmierebbe un bel po’ di fatica. Va da sola dove lui l’avrebbe portata. Si sente il padrone del mondo. È entrata lì, ne è certo. Ne è certo e felice. Ormai è sua.
Capitolo 32
Don’t you know How many times I’ve been waiting in the back door yard Shooting and staring at the moon
“Dai, vai verso il lago. Stava andando di là. Poi vediamo di capire che strada è meglio seguire”. Train consiglia il percorso come se avesse preso in mano la situazione. Privilegi del più vecchio ama pensare. E si comporta di conseguenza. Dark non parla, si limita a guidare. Gallo è seduto dietro, affacciato tra i due sedili anteriori, come fanno i bambini quando non vogliono perdere nulla di quello che succede. Dopo poche centinaia di metri Dark, sempre pensieroso e taciturno, accosta e ferma l’auto in doppia fila. Le quattro frecce lampeggianti sembrano garantirgli una certa tranquillità. Gli altri due lo guadano con aria interrogativa. Dark sta riflettendo, questo è evidente. Quello che i suoi amici non sanno – e ovviamente si stanno chiedendo – è su cosa stia riflettendo. Nessuno parla. “Train, in una delle tue serate da deficiente”, Dark spezza quell’innaturale silenzio “sai quando fai il papà di tutti e ci martelli con consigli e suggerimenti… beh, in una di quelle serate, non avevi praticamente obbligato la Dina a scaricare quell’app sul suo telefonino per poterla rintracciare sempre se
ce ne fosse stato bisogno? Ti ricordi?” la domanda resta sospesa a mezz’aria. “Sì sì vero, era una roba tipo find the phone o una cosa del genere. Certo, l’ha istallata subito quella sera, dopo che le ho rotto le scatole con la storia che è la più piccolina della band e che se si fosse persa… oh dai, per farla breve l’aveva scaricata, ma solo per farmi contento, non che le servisse”. La risposta di Train sembra galvanizzare il gruppo. “E tu ovviamente ti sei associato al suo telefono, no? E allora cercala dai, cosa aspetti’ Ti deve dire tutto lui, cazzo”. Gallo non si smentisce mai. Train cerca nelle tasche del suo giubbotto e, soddisfatto, estrae il cellulare, mostrandolo come se si trattasse del Sacro Graal. Cerca, preme tasti, sbuffa, e alla fine sembra raggiungere il risultato sperato. “Beccata! È ferma sulla strada del lago, proprio… aspetta che vedo di capire meglio dove, beh intanto tu vai, no?” Dark mette in moto mentre Train con l’aiuto di Gallo cerca di stabilire dove la loro amica possa essere. “Oh gente, è ferma fuori dall’hotel Regina Vittoria, quello chiuso e abbandonato da così tanto tempo, io non ero ancora nato!” la battuta di Train vorrebbe stemperare la tensione. L’auto viaggia spedita. Tra qualche minuto i tre saranno all’hotel. Potranno aiutare Dina Nasi. Ognuno di loro pensa a quello che sarà e a quello che può già essere accaduto: sempre scenari diversi anche se tutti temono il peggio. Train sembra essere sopraffatto dai sensi di colpa: il non aver immediatamente decifrato il messaggio morse dei fari di Dina, senza dubbio rivolto a lui, il grande esperto di James Bond, quello che tutto sa su spie e losche trame, è un peso che lo sta divorando. Ha paura che quel suo errore possa rivelarsi determinante e teme di arrivare troppo tardi. Dark riflette, conserva quella calma e logica che sempre sembra avere. A volte in realtà il suo aplomb è più apparente che reale e chi lo conosce sa come riesca a
mascherare alla grande i suoi sentimenti più profondi. La sua preoccupazione maggiore è rivolta ai tempi: il rapitore ha parecchi minuti di vantaggio e spera che questi non siano sufficienti per fargli concludere quel che ha in mente. Dina tutto sommato è una che sotto sotto riesce a sorprendere, magari si inventa qualche cosa per fargli perdere tempo e permettere a loro di arrivare. Il pensiero di Gallo invece è rivolto ai diamanti che ha lasciato nelle mani di Dimitri. Non lo conosce così bene da fidarsi completamente di lui. Chissà se è veramente andato alla polizia come avevano convenuto… “Cazzo, ha lasciato morire la sorella, cosa vuoi che gli freghi della nostra Dina!” Quelle parole hanno l’effetto di un’esplosione e rimbombano all’interno dell’auto. Il suo è un grido disperato, che distoglie gli altri due dai loro labirinti mentali. Dark e Train non hanno bisogno di chiedere. Intuiscono immediatamente come l’altro sappia qualcosa che lo porta a quella conclusione. “Dimitri, quel bastardo si è tenuto i diamanti che abbiamo trovato a casa di Skophje. Ne sono sicuro! Che idiota che sono… fidarmi così di lui! Magari mi sbaglio, ma scommetterei che non è nemmeno andato alla polizia. Datemi retta, quello è già sparito, ve lo dico io. E il Gallo non sbaglia mai!” Lo scenario che ha appena dipinto non fa altro che rendere la situazione ancora più tesa. “Train, telefona in questura, fai il numero alla svelta. Chiedi di quel commissario che segue le indagini. Dai, datti una mossa”. “Si, ma noi andiamo comunque alla macchina di Dina. Su su, muoversi. Il tempo a nostra disposizione è già scaduto”. Il veloce conciliabolo tra i tre si conclude velocemente così come è incominciato. Train al telefono, dopo un’iniziale confusione e caotiche spiegazioni, sembra riuscire a contattare qualcuno che li possa aiutare, o perlomeno così pare agli altri. Dark guida veloce ed è Gallo il primo a vedere l’auto di Dina nel parcheggio. Si fermano e scendono.
L’auto è vuota. All’interno, in bella mostra nel vano porta oggetti, il telefonino della ragazza sembra guardarli, muto e ora di poco aiuto. “Cazzo, l’ha lasciato in macchina!” Train ad alta voce interpreta il pensiero di tutti. “E adesso dove andiamo?” è il turno di Gallo a dar voce ai dubbi collettivi. “Il cancello è chiuso da quella catena enorme e il lucchetto non è stato forzato”. Dark rimane, in tutte le situazioni, il più razionale e osservatore. “Saranno entrati da qualche altra parte, per forza. Guardiamoci in giro, ci deve essere un qualche altro accesso” conclude. Il pesante cancello è fissato sui due lati a colonne marmoree che terminano con un leone in cima, classico fregio piuttosto scontato ma evidentemente in uso e moda ai tempi della costruzione dell’hotel. Ai lati delle colonne si snoda una recinzione che prosegue in entrambe le direzioni con un muretto piuttosto basso sormontato da una cancellata di ferro costruita a rombi intrecciati. Dei fiori in ferro battuto, dal vago aspetto di gigli fiorentini, sono saldati ai vertici delle losanghe: alcuni interi e altri rotti qua e là mostrano gli evidenti segni dell’incuria e del are del tempo. Dietro al muro una fitta e alta siepe nasconde agli occhi dei anti e dei curiosi quello che – senza dubbio – doveva essere un immenso e curatissimo giardino. “Oh, per me qui non c’è nessun aggio. Saranno entrati da qualche altra parte. Sempre che siano entrati”. Train è il più impaziente e il meno meticoloso nella ricerca. Dark che sta esaminando la recinzione dalla parte opposta sembra essere d’accordo con l’amico quando: “Hey voi due… guardate qua! Venite, dai, son qui in fondo”. Gallo al contrario sembra avere trovato qualcosa. Infatti, verso la fine del muretto, quasi in prossimità della curva che permette alla recinzione di fiancheggiare il lago, la cancellata è stata completamente divelta, e l’unica delimitazione sembra essere rimasta la siepe.
I tre si guardano e, senza dire nulla, spostano i rami ed entrano. Il giardino che si apre davanti a loro è un vero labirinto dove piante sterpi e arbusti rendono il cammino difficoltoso. Sembra di entrare in uno di quei parchi botanici che fan bella mostra di sé in alcune ville che si affacciano lungo il lago, alcune aperte al pubblico, altre ancora invece rigorosamente private e, pertanto, inaccessibili. Certamente l’incuria e l’abbandono la fanno da padroni, ma la maestosità del luogo rende omaggio al nome un tempo scelto per l’Hotel – Regina Vittoria – che si rivela senza dubbio appropriato. “Bene, fino a qui ci siamo. E adesso, cosa facciamo?” “Semplice, li cerchiamo. Il primo che li trova fa fuori il bestione e recupera la Dina”. Train è il più agguerrito. Forse il fisico gli consente questi pensieri. Gallo e Dark non sembrano essere tanto convinti. “Non so se è meglio stare insieme o dividerci”. si fa portavoce delle perplessità dei due Dark. “Io non so dare grandi consigli”, è il turno di Gallo, “non mi sono mai trovato in una situazione del genere, ma direi di stare tutti uniti. Comunque. Sapete com’è, l’unione fa la forza. Io non sono neanche un po’ tranquillo al pensiero di trovarmi da solo di fronte a quello là!” “Anch’io sono dell’idea di stare insieme, almeno fino all’arrivo della polizia. Che arriva, vero Train?” domanda Dark. Train annuisce senza dire nulla. La mascella più pronunciata e serrata è segno evidente della sua tensione e concentrazione. Sembra pronto alla lotta. Forse lo spera anche. I tre si muovono circospetti rimanendo abbastanza vicini tra loro per non correre il rischio di venir aggrediti singolarmente.
Scrutano tutt’intorno nella speranza di trovare qualche traccia che indichi loro la direzione. Erba calpestata e quel ramo… “Ehi gente, qui c’è del sangue! Cazzo. Mica che sia quello della Dina! Forse l’ha colpita con questo!” Train prende in mano un pezzo di legno e lo mostra agli altri. “Ma va che non è il suo sangue! Dai, ci sarebbe anche lei se l’avesse già fatta fuori” Dark ispeziona il prato non trovando altro. “Di là… guardate… rami spezzati Forse è scappata… non ci capisco niente! Vorrei essere un boy scout!” Gallo è il più mogio dei tre. Evidentemente fuori luogo, non sanno bene da che parte andare e come interpretare quel che vedono.
Capitolo 33
We’ve been talking When not dreaming Trying to scratch the sky We’ve been deep inside Corners of our lives
“Sì Astolfi stiamo arrivando”. Il commissario è calmo e deciso nella sua comunicazione. “Tu precedimi a Villa Angst con gli effettivi che hai portato con te e aspettami lì fuori. Credo che arriveremo subito dopo di voi”. Rebetti chiude la comunicazione e squadra Manlio Rognoni. L’ultima frase sembra avere cambiato tutta la prospettiva della situazione e il commissario intende approfittarne. “Allora si fa come convenuto. Non è che ha già cambiato idea vero?” La risposta di Manlio non si fa attendere, anche se il tono della voce lascia intravedere una certa perplessità. “Certo che no, commissario. Ormai è deciso. Le consentirò l’accesso a Villa Angst solo per poterle dimostrare che le sue supposizioni sono completamente errate e prive del benché minimo fondamento. Perché, ricordi e ne faccia tesoro, non sempre quel che sembrerebbe essere la concatenazione degli avvenimenti è quello che in realtà è avvenuto. Ma non dimentichi che dobbiamo are prima
allo studio dell’avvocato Quattrini. Questa è una necessità. Esigo che lui sia presente”. Lui e le sue citazioni filosofeggianti: se solo arriviamo e becco il fratello con la musicista, sai dove glieli infilo tutti quei paroloni, pensa Rebetti trattenendo a stento la replica che ha già sulla punta della lingua. Escono con un fare amichevole che potrebbe ingannare chiunque dei presenti. Due abili giocatori che non smettono mai di confrontarsi e di continuare l’interminabile partita. “Ovviamente, dottor Rebetti, io vi seguo con la mia automobile. Credo sia alquanto sconveniente poter essere visto a bordo di una delle vostre auto. Lei senz’altro capisce quello che voglio dire” conclude ammiccando il Rognoni, mentre apre la portiera di una lussuosa Jaguar color verde e dagli impeccabili interni di pelle beige chiaro. Rebetti annuisce: sa che non andrà altrove, per lo meno non con un’auto che sarebbe riconoscibilissima ovunque. Un vero stereotipo dell’arricchito, un ulteriore particolare della figura dell’avversario che continua, frammento dopo frammento, a delinearsi nel suo pensiero. Partono e l’auto del commissario apre quella che sembrerebbe essere una processione. Seguendo un copione consolidato, abilmente incastrano la vettura di Manlio Rognoni tra le due auto di servizio, con evidente soddisfazione di quest’ultimo, che si aspettava una mossa del genere. Infatti, posizionati così, gli hanno impedito qualsiasi tentativo di fuga, senza però preoccuparsi di salire in auto con lui. In quel modo entrambi gli equipaggi non possono vedere attraverso i vetri oscurati i movimenti di Manlio Rognoni. Lui impiega parte del tempo del tragitto per effettuare una telefonata. O forse più di una. Anche se lo vedessero, non potrebbero intervenire.
Sarebbe comunque troppo tardi. “Buongiorno signorina. Mi i l’avvocato. Immediatamente. Sono Manlio Rognoni”. Il breve conciliabolo che segue tra i due non è altro che la richiesta – che in realtà sembra più un ordine – di lasciare lo studio nel minor tempo possibile per recarsi – con comodo però – alla villa per monitorare l’evolversi della situazione, della quale viene messo brevemente e parzialmente al corrente. Riattacca e subito compone un altro numero che, al secondo squillo, risponde con una voce inequivocabile: “Sì…” “Ciao, sono io. Vai a Villa Angst. Certo, adesso e prima di tutti noi. a dal parco dell’hotel. Sì, tutti, tranne mio fratello ovviamente. Gli altri non mi servono. Ma muoviti”. Riattacca. Adesso può prepararsi alla sceneggiata presso lo studio del Quattrini. Perdita di tempo che permetterà lo svolgersi del suo piano. Così pensa. Così spera. In realtà è convinto dell’efficacia del suo piano. Altre mosse di una partita in continua evoluzione. Dopo pochi minuti arrivano e si fermano sotto lo studio dell’Avvocato Quattrini. Rebetti non può fare a meno di considerare come la palazzina, nell’arco di pochi giorni, si sia rivelata epicentro di una serie di situazioni che, partendo da un comune denominatore, si sono poi sviluppate in direzioni diverse, ma tutte con una serie di attori comuni. Con lo sguardo segue il Rognoni che scende dall’auto e si avvia verso il citofono. Autorizza Esposito a seguirlo con discrezione. Il commissario Rebetti sta valutando tutti gli elementi a sua disposizione.
Ormai si è fatto un’idea precisa di quello che potrebbe essere accaduto. Astolfi gli ha dato un input importante, anzi determinante, e lui ne è ben consapevole. L’idea dei due omicidi su una sola vittima lo convince, permettendogli di far collimare molti indizi rilevati dalla scientifica. Quello che non è ancora chiaro nella sua mente è il movente. Se il fratello grosso e squilibrato – il pazzo, come lo definisce nei suoi puzzle mentali – può essere artefice di uno dei due omicidi, spinto dalle sue malattie mentali e dai suoi rebus irrisolti, resta ancora da appurare chi sia il responsabile dell’altro e perché lo abbia commesso. E la concatenazione degli avvenimenti non è per niente chiara, perlomeno non ancora. Sembrerebbe evidente che il pazzo sia arrivato dopo e per cui sia il secondo omicida. Presumibilmente avrebbe voluto trovare la Sokolova viva – probabilmente perché amica della pianista o perché eletta a vittima sacrificale in base a quale labirinto non è ancora dato a sapersi – e la sua furia si è manifestata in tutta la sua illogicità nel momento in cui, invece, la trova… Due colpi sul vetro del finestrino lo distolgono dai suoi ragionamenti e lo riportano bruscamente al presente. “Dimmi Esposito, cosa c’è?” “Mi scusi Dottore, ma quello dice che l’avvocato non è in studio e che bisogna attenderlo”. “Come non è in studio? Qui va a finire che perdiamo tempo. Troppo tempo. E, mai come oggi, il tempo è prezioso”. Rebetti scende dall’auto tentando di conservare il suo self control anche se la voglia di usare un altro frasario sottolineando le parole con un comportamento meno civile è quasi incontrollabile in lui. Quasi, per fortuna. Cammina spedito e raggiunge Manlio Rognoni che sembra aspettarlo. Sfoggia un sorrisino divertito che conferma all’ispettore come la loro partita non sia per nulla terminata. Sapeva che l’avvocato non ci sarebbe stato. Anzi, probabilmente ha fatto in modo che non ci fosse. L’avrà avvisato durante il tragitto. Sicuramente l’ha
avvisato. Rebetti si tormenta l’unghia del pollice e si rende conto di essere caduto nella trappola orchestrata dal Rognoni. Certo commissario, può entrare a Villa Angst con i suoi uomini, non ho niente da nascondere io, però che ci sia il mio avvocato. Le parole di Manlio Rognoni in commissariato gli rimbalzano nelle orecchie. Altroché un agnellino… un lupo… e bastardo per giunta! Noi qui a perder tempo e chissà là cosa succede. Rebetti si allontana per non dare all’avversario ulteriori vantaggi. Afferra il telefono: “Cazzo, dai rispondi! E quanto ci metti!” La sua calma riflessiva sembra essersi volatilizzata. Cammina avanti e indietro come il prigioniero in una cella. “Oh Astolfi, alla buon’ora! Sì sono io! E chi vuoi che usi il mio telefono? Sempre a fare domande idiote tu! Ascoltami bene. Noi non arriveremo tanto presto perché… oh il perché è troppo lungo da spiegare adesso. Ma tu sei lì e puoi agire anche senza me e gli altri”. Astolfi viene investito da una cascata di parole. “Siete in quattro, no? Bene, dividetevi e andate due all’ingresso della villa, facendo in modo di farvi aprire…” “Scusi dottore, come farci aprire?” Astolfi si è ripreso dallo stupore di quella che gli sembra essere un’aggressione verbale e replica prontamente. “Non aveva detto appena poco fa di aspettarla qui senza fare nulla?” Dio, quant’è pedante! Rebetti sembra friggere intanto che si ferma. L’asfalto è come lava bollente sotto i suoi piedi. “Bene Giorgio Astolfi, taci e ascolta”.
“Sì, signor commissario!” “Ho detto taci! Taci e ascolta. E fammi parlare, per Giove Padre!” come questa esclamazione gli sia uscita, non lo sa proprio. Quasi ne rimane sorpreso lui stesso. “Due all’ingresso e vedete di farvi aprire dalla governante. Quella è sempre in casa, vi ha già visto e forse vi lascia entrare, perlomeno in giardino. Occhi aperti, mi raccomando”. “Ja ja, der kommissar!” “Ma che cazzo dici? Sono serio, anzi più che serio! Der kommissar??” Rebetti crede di esplodere. “Scusi, sono sempre poco tempista nelle mie esternazioni. Come non detto, signor commissario”. Astolfi capisce di aver osato troppo in un momento sbagliato. Sbagliatissimo. “Gli altri due, mandali intorno alla recinzione per controllare che non ci sia un qualche aggio che non abbiamo mai visto”. “Intorno, come se fossero una ronda?” “Astolfi, oggi sei, sei… Sì, proprio come una ronda”. “Lo consideri già fatto, dottore. Posso sapere perché, o non è il momento adatto anche per questo?” La metamorfosi di Astolfi è inaspettata: il tono che usa suona però leggermente sarcastico, quasi che il suo fosse un tentativo di recuperare. “Oggi hai proprio deciso di mandarmi fuori dalla grazia di dio! Credo che il Rognoni, quello grosso che non si trova mai…” “Jacopo Rognoni, per l’esattezza, signor commissario”. Lo interrompe implacabile Astolfi. Rebetti decide di soprassedere e continua.
“Bravo, proprio lui. Jacopo Rognoni. Non è possibile che sia sparito così, nel nulla. Credo che sia dentro, e non ho la minima idea da dove possa essere ato. Ma se c’è, e scommetto che c’è, ricorda che ha con sé la musicista…” “Certo, la musicista, la signorina…” riprova Astolfi. “La signorina Dina Nasi. Lei, lei, lei! Quante altre musiciste implicate in questa storia conosci Astolfi? E non dirmi la Sokolova che quella è già morta. Dai, Astolfi, datti una mossa. Non ti chiedo se è tutto chiaro, perché lo deve essere per forza. È arrivato il momento di agire. Mi raccomando, non perdere tempo. E soprattutto, non fare cazzate!” Rebetti chiude la comunicazione. Sbuffa, quasi sfinito dal quella breve telefonata. Guarda Manlio Rognoni, che ricambia lo sguardo. “Bene, il suo avvocato risulta irreperibile e noi non abbiamo più tempo da perdere. A questo punto, caro signor Rognoni, non mi resta altro da fare che recarmi alla sua Villa. Con lei o senza di lei poco importa. Anzi, per dirla con un linguaggio più immediato, non me ne frega nulla: lei potrà poi agire come meglio crede, denunce o esposti compresi”. Sono le parole di un Rebetti piuttosto scocciato che non aspetta la replica dell’altro. “Anzi, le dirò di più. O viene con noi e sulla sua auto ci saranno anche un paio dei miei uomini o, se preferisce restare e attendere il suo avvocato, faccia pure. Vorrà dire che i miei due uomini aspetteranno qui con lei. E con questo la saluto”. Rebetti si dirige verso la sua auto con o risoluto. Prima di salire, si gira e rivolge le ultime parole al Rognoni. “In un secondo momento, valuteremo se denunciarla per intralcio alle indagini. O addirittura per complicità in un caso di omicidio”. Manlio Rognoni, fermo e imibile, sa di non aver nulla da temere.
Capitolo 34
And you know I still need you baby So just don’t go away Say you belong to me honey Swear it will last through the times
“E adesso dove sono finita?” Mi guardo in giro un po’ persa. Non vedo più il bestione, e questo indubbiamente è un buon segno. In realtà non vedo neppure dove sto andando. Un o dopo l’altro seguo l’unico percorso possibile e mi muovo lungo un cunicolo buio, freddo e maleodorante. Vado avanti. Forse lui non ha visto che sono entrata. Forse non sa neppure dell’esistenza di questo aggio. Forse esco dall’altra parte e trovo gente. Forse forse forse… troppi forse per me. Vorrei certezze, almeno una. Non ne ho.
Sono sola e devo farcela da sola. Inutile sperare nell’arrivo del principe azzurro con spada e cavallo che possa tirarmi fuori da queste sabbie mobili. La ballerina se la deve cavare da sola. Sono entrata in questo tunnel, nessuno mi ci ha costretto, e, se l’avessi visto fare da qualcun altro, avrei detto bella cazzata, ma chi c’è? Un rumore improvviso dietro di me… ma non vedo niente… vai Dina, via più veloce della luce… Scorgo qualcosa in fondo. Sono vicina all’uscita. Ma quel rumore… fa che non sia lui! Cammino veloce, terreno e visibilità permettendo, attenta manco ci fossero le indicazioni da rispettare in caso di nebbia – uno dei miei pensieri scemi, di quelli che mi arrivano così, all’improvviso e io proprio non ci posso fare nulla, anzi a volte questi flash nella testa mi piacciono e mi aiutano; sfortunatamente non in questo momento – ancora uno sforzo e raggiungo l’uscita. Esco. Continuo a guardarmi in giro. Credo di aver perso il senso dell’orientamento: evidentemente sono tornata indietro, mi sembra tutto uguale a quel che c’era prima di entrare. Poi capisco: un altro giardino. Ma quanti ce ne sono in riva al lago? Mai visti. Pensavo ce ne fosse qualcuno, tipo quelli che si vedono ogni tanto sulle riviste o nei siti pubblicitari, ma non uno in fila all’altro. C’è una casa in fondo, una casa che sembra… abitata? Mah, potrebbe anche essere disabitata. Non ci sono segni di vita, sembrerebbe. Ma che mi frega della casa. Dai Dina, trova il cancello ed esci.
Ancora un rumore alle mie spalle. Mi giro di scatto ma non vedo nessuno. Non lo vedo, ma so che è lui. Potrei arrampicarmi su di un albero e nascondermi tra i rami. Arriverà qualche aiuto, prima o poi. Quel salice lì in riva allo stagno… però, che giardino… anche lo stagno… appunto i miei pensieri scemi… Beh, sicuramente lì mi ci potrei nascondere. Intanto che mi guardo in giro per decidere quale possa essere il percorso migliore da seguire, vedo in fondo al giardino quella che mi sembra una rimessa per barche. Ecco il rifugio. E potrebbe rivelarsi anche una via di fuga. Sempre che ci arrivo. Forse sarebbe più logico andare verso la casa, sperando di trovare aiuto. Non so perché, ma opto per la rimessa, e un altro rumore fa sì che io affretti la mia decisione. Fare quei rumori improvvisi lo diverte veramente molto. E lei si spaventa. Veramente molto. Jacopo Rognoni sta giocando. Sembra che tutto vada per il verso giusto. La sua ballerina non è proprio abituata a danzare nel bosco. Sorride ancora più convinto: l’immagine di lei che annaspa spaventata lo sta
eccitando. Certo, ogni tanto quella ha delle reazioni inaspettate, pensa mentre si massaggia il naso. Forse è un po’ gonfio ma il sangue si è fermato ed è ormai secco. Non fa tanto male, ma questo gli ricorda che comunque non deve mai distrarsi. Sembra una sprovveduta, ma può riservare sempre qualche sorpresa. Come tutte le donne del resto. È entrata nel suo giardino adesso. La deve solo spingere dove vuole lui. Ancora qualche rumore provocato ad arte per far sì che la sua preda raggiunga il retro della casa, dove troverà la porta dello scantinato solo accostata, in modo da sembrare del tutto casuale. Quasi un invito a entrare e cercare rifugio. La segue con lo sguardo. Jacopo Rognoni ha un moto di stizza quando si accorge che lei ha preso un’altra direzione. La rimessa delle barche? Sta andando proprio da quella parte. Appunto, le donne riservano sempre delle sorprese. Cosa crede, di potersene andare facilmente, come se dovesse fare una nuotata al lido? Ma il suo pensiero è rivolto a quello che lei potrebbe trovare nella rimessa. O meglio, a chi potrebbe trovare nella rimessa. D’altra parte, non aveva ancora finito il lavoro. Mai lasciare le cose in sospeso, gli ha sempre raccomandato Manlio. Quel mezzo uomo ogni tanto ha ragione, ultimamente ha sempre ragione.
Jacopo tenta di giustificarsi con se stesso, ripercorrendo i momenti frenetici che l’hanno obbligato a posticipare alcune mosse. Scuse forse buone per il fratello, ma lui sa che in realtà l’unico vero motivo è stato il voler prolungare il gioco il più a lungo possibile. Rimedierà anche a questo, ne è certo. Si concentra sulla sua musicista. Raccoglie un sasso e lo lancia davanti a Dina, con l’intenzione di farle cambiare strada, spaventandola con un altro rumore, improvviso, proprio tra lei e la sua destinazione. Oh per dio, un altro rumore. Mi fermo, guardo in giro e, come al solito non vedo nessuno. Incomincio a pensare che quei rumori siano fatti apposta dal bestione. Forse vuole spaventarmi ancora di più. Brutto scemo, non ne hai proprio bisogno. O forse… forse vuole che io non vada da qualche parte e tenta di indirizzarmi altrove. Se è così, grande grosso e proprio scemo. Dai Dina, dio solo sa in quanti stupidi ti sei imbattuta per i quali il cervello era un optional non compreso nella dotazione standard… e questo… Spero proprio che il mio inseguitore sia essere uno di questi. Dunque, non vuole che io vada verso l’imbarcadero… perché? Un motoscafo! Certamente, senz’altro è così. Devo arrivarci, poi sarò praticamente salva. Ma lui continua a vedermi mentre io non lo vedo mai. Dina, qui devi escogitare qualcosa. Adesso.
Capitolo 35
I see through your lies When trying to break my heart We change the mood we’re in Just to face the night
“Hey gente, mi sembra che là ci sia qualcuno!” Gallo è il primo a notare dei movimenti fuori dalla recinzione e all’interno del parcheggio. “Andiamo a vedere, ma occhio a non fare rumore. Ormai qui è il caso di non fidarsi di niente e di nessuno. Finché non sappiamo se sono amici o meno, rimaniamo defilati”. Train continua ad avere il comando. Dark lo guarda di traverso ma non dice nulla, anche se palesemente non gli piace questa suddivisione dei ruoli. Come suggerito, si avvicinano alla siepe di recinzione, facendo attenzione a non farsi notare. All’esterno i due uomini che scendono da un grosso SUV nero si guardano in giro, dando l’impressione di non sapere bene da che parte andare. All’improvviso il più piccolo dei due si dirige con fare risoluto verso l’entrata nascosta dalla siepe, la stessa – e unica – che i tre avevano trovato e utilizzato poco prima. Evidentemente conoscono quel aggio nella siepe, e probabilmente non è la prima volta che ci entrano. Gallo guarda interrogativamente gli altri e Dark, forte del suo ruolo, scuote la testa. Il messaggio è chiaro: taci.
Per un attimo i nuovi arrivati spariscono alla vista, per ricomparire subito dopo nel giardino. Entrambi hanno in mano una grossa pistola e, da come la maneggiano, danno l’impressione di sapere molto bene come utilizzarla. Dark, appoggia il dito indice in verticale davanti alle labbra. Train – proprio come fanno i bambini – utilizza indice e pollice per simulare la pistola, e contemporaneamente agita avanti e indietro le dita dell’altra mano, unite a becco d’uccello, mimando le domande che tutti si stanno facendo: chi sono? E – soprattutto – cosa dobbiamo fare? Appena gli uomini armati si allontanano e sembrano eclissarsi nel grande giardino, i tre si rianimano e i commenti escono come un fiume in piena, anche se il tono utilizzato è logicamente sommesso. “Cazzo, ma avete visto? E quelli chi sono?” Gallo parte risoluto. “E che ne so io! Non ho capito neppure se sono amici o nemici. Per quel che so potrebbero essere la polizia che, tra l’altro, ormai dovrebbe arrivare” suggerisce Train. “A me tanto poliziotti non sembrano. Non so chi abitualmente frequenti questo giardino, ma quelli non mi piacciono, tutto sembrano fuorché campeggiatori”. Conclude Dark con un sorrisino ironico. “Belli, qui dobbiamo stabilire subito se sono amici o no. Stanno cercando la Dina o il suo rapitore? O forse entrambi? E, così per inciso, se li cercano, come fanno a sapere che sono qui?” Domande a raffica di Gallo, che a dispetto del personaggio avventuroso che ama dipingere di se stesso, sembra essere il più stressato del gruppetto. “Non so, non so proprio. È vero, se son qui un motivo ci dovrà pur essere. Dobbiamo capire chi cercano. E nel caso… affrontarli?” Anche Train sembra essere titubante. “Sentite un po’, ormai la polizia dovrebbe essere qui. Io esco nel parcheggio e, appena arrivano, spiego la situazione e indirizzo gli agenti verso il aggio nella siepe. Cosa ne dite?”
“Sei proprio un pezzo di… un pezzo di ginocchio, Gallo! Intanto che tu ti defili, noi due belli belli seguiamo i pistoleri e Magilla Gorilla nel boschetto e vediamo di nascosto l’effetto che fa. Grande piano il tuo, Gallo, complimenti!” Dark è veramente spazientito. Train guarda i due che son sul punto di litigare, scuote la testa e decide il da farsi. “Ok, adesso piantatela voi due. Gallo, fai come hai detto che, tanto, in due o in tre non cambia nulla. Stai pure fuori a controllare quel che vuoi che qui sei proprio inutile. E vedi di non distrarti intanto che aspetti”. Con queste parole congeda l’amico. Fa un cenno con la testa a Dark e i due si allontanano lentamente confabulando tra loro. Gallo non se lo fa dire due volte e, senza perdere tempo, raggiunge siepe, uscita e parcheggio in un attimo. Appena fuori si guarda in giro, sincerandosi che non ci sia nessun altro intorno: nota solo l’auto nera e si incammina verso l’entrata del piazzale. Aspetterà lì l’arrivo della polizia. a di fianco al SUV dei nuovi arrivati e, nonostante i vetri oscurati dell’automezzo, la curiosità vince e guarda all’interno. Vedere Dimitri accasciato sul sedile posteriore è una sorpresa veramente inaspettata. Svanito l’attimo di stupore, tenta di aprire la porta. Chiusa, ovviamente. Estrae qualcosa dalla tasca interna del giubbetto e, con un’abilità inaspettata per chi nella vita è cantante e chitarrista, forza con pochi e sicuri movimenti la serratura, neutralizzando contemporaneamente la sirena dell’allarme. Il sedile posteriore accoglie un Dimitri privo di conoscenza. I segni sul suo volto spiegano cosa è accaduto.
Prende l’amico per le spalle, sollevandolo dalla posizione in cui si trova, e lo rianima. “Cosa ci fai qui? E chi sono quelli? Hai chiamato la polizia?” Senza aspettare neppure un secondo, Gallo lo investe con una sequela di domande, una dopo l’altra, senza dar modo all’altro di rispondere. “No, non ho chiamato la polizia. Mi hanno trovato e preso prima che lo potessi fare” conferma Dimitri, che, mentre blocca le braccia dell’amico, quasi volesse fermare il flusso di domande, subito aggiunge: “e se mi dai il tempo di riprendermi, posso anche provare a spiegarti quello che è successo. Ma per prima cosa, andrei via velocemente, molto velocemente…” conclude mentre si tocca il viso tumefatto. “Andare via, ma senza dimenticare quei piccoli bambini, che spero siano qui ad aspettarmi da qualche parte”. Scende e risale sul sedile anteriore. Si siede e, febbrilmente, cerca quello che Gallo non ha ancora ben capito cosa possa essere. Il vano portaoggetti nel cruscotto è chiuso a chiave ma Dimitri non si fa molti problemi a rompere il tutto alzando una gamba e colpendo con furia con il tacco della scarpa. Pochi colpi e, con uno schianto secco, il vano si apre mostrando al suo interno il sacchetto con i diamanti. Dimitri lo afferra con espressione veramente soddisfatta e agguanta anche una pistola a tamburo. “Hai capito cosa cercavo? E questa” aggiunge mostrando l’arma a un esterrefatto Gallo “questa la prendo come assicurazione. Nel caso dovessero tornare e trovarci qui”. La risata liberatoria che accompagna queste ultime parole viene smorzata da una voce che, con tono di chi è abituato a comandare, ordina: “Fermi tutti, identificatevi. Polizia!” I due si girano di scatto e si trovano davanti i due poliziotti mandati a perlustrare la zona da Astolfi. Evidentemente, nella concitazione del momento, non si sono accorti del loro arrivo. Quel che segue è talmente fulmineo che quasi tutti i presenti si ritrovano
coinvolti in una serie di avvenimenti del tutto inaspettati. Tutti, tranne Dimitri che parte di scatto e colpisce alla carotide il primo dei due agenti con il taglio della mano sinistra impedendogli di respirare per qualche istante. Mentre questo si accascia quasi privo di sensi, l’altro, ancora immobile e sorpreso, viene raggiunto da un colpo in pieno volto con il calcio del revolver che Dimitri impugna tenendolo per la canna. Il naso del poveretto sembra rompersi con un rumore secco, per nulla tranquillizzante. L’identificazione richiesta non è stata senza dubbio quella sperata. Dimitri prende dalla tasca della giacca del primo un paio di manette e, con mossa esperta, lo affranca al secondo mettendoli schiena contro schiena. “Adesso tocca a te!” Strizza l’occhiolino a Gallo che non è ancora riuscito a capire nulla. Lo colpisce, non troppo forte in verità, con un pugno sulla bocca, che immediatamente si mette a sanguinare. “È solo per lo spettacolo. Così non potranno mai dire che eri d’accordo con me!” sussurra all’amico indolenzito. Gallo ammutolito guarda fisso Dimitri che continua a spiegare sottovoce: “Io credo proprio che sparirò in un attimo. Dai, non guardarmi così. Tu non hai neppure idea di cosa mi sarebbe capitato una volta tornato in Russia: il gulag sarebbe stato meglio, e questo ti dovrebbe bastare. Racconta quel che vuoi ai due sbirri, ma ricorda che meno racconti, meno possibilità ci sono che tu ti contraddica” suggerisce con fare esperto. Con movimenti degni di un ballerino del teatro Bolshoi, afferra il sacchetto di diamanti e mette in moto il SUV nero collegando i due fili dell’accensione posti sotto il volante. Prima di partire, si avvicina a Gallo e lo colpisce con un altro pugno al naso: “Così, tanto per rendere il tutto più credibile!” E, mentre gli mette in mano un piccolo diamante, si gira e riparte velocemente, sparendo nella luce tremula del tardo pomeriggio.
“Non c’è che dire” pensa Gallo mentre si massaggia bocca e naso “una vera uscita di scena da professionista”. La piccola pietra preziosa sembra aver attenuato il dolore. Appena l’auto svanisce sul lungo lago, guarda i due poliziotti che si sono ormai ripresi dall’inaspettato assalto. Gallo, sputacchiando sangue dalla bocca nel tentativo di esagerare le conseguenze del pugno ricevuto, si avvicina ai due e cerca le chiavi delle manette nella tasca della giacca del primo. “Lei non si muova!” Sono le prime parole rivolte a Gallo dall’agente appena liberato. “E certo che non mi muovo. Dove vuole che vada? Quel tipo ci ha conciato per le feste tutti e tre!” Gallo cerca di accumunarsi ai due nella sventura. “Chi è il suo amico?” interviene quello con il naso gonfio e probabilmente rotto. “Amico mio? Ma che amico mio. Io manco lo conosco, beh, un po’ lo conosco, ma non è amico mio. Questo di sicuro. Piuttosto, dentro al giardino ci sono i miei due amici, quelli veri, inseguiti dai proprietari di quel SUV nero che se ne è appena andato. E i due del SUV hanno delle belle pistole. Vedete voi chi conviene inseguire. Qui, signori miei, siamo in un bel casino. Io, voi, loro, tutti insomma”. L’agente che ha ricevuto il colpo alla carotide prende il telefono e chiama. “Astolfi? Sono Benvenuti. Siamo stati aggrediti da due persone. Sì, sì stiamo bene, forse De Rosa ha il naso rotto, ma sta in piedi. Tranquillo, tutto ok. Uno dei due aggressori è fuggito ma siamo riusciti a fermare l’altro. Dice che all’interno del giardino dell’hotel disabitato ci sono altre quattro persone non meglio identificate, e almeno due di queste sembrerebbero essere in possesso di armi. Dunque, armate e pericolose. Sì, questo lo tratteniamo qui. Aspettiamo che arrivi qualche collega a dare man forte”. Alcuni secondi di silenzio, dove evidentemente sta ascoltando e conclude: “Va bene Astolfi. Appena sai, comunicaci le decisioni di Rebetti. Noi non ci muoviamo”.
Riattacca e guarda Gallo. “Tu, intanto, credo abbia un bel po’ di cose da spiegarci”.
Capitolo 36
So what you say my one When everything breaks words Rules are made to change The road you’re on again
La rimessa delle barche è il mio obiettivo. Ho trovato. Vuole che io vada verso la casa? Bene, lo accontento e vado proprio da quella parte. Devo tentare di vedere dov’è lui, però. Mi fermo e studio il percorso. La villa è in fondo a questa parte del parco e non mi sembra ci sia qualche sentiero particolare da seguire. Qui è tutto trascurato, nessuno si preoccupa di mantenere il giardino nelle condizioni che meriterebbe. Sembra addirittura disabitato, a questo punto forse anche la casa lo è. Centomila supposizioni e ripensamenti si affollano nella mia mente. Se mi addentro in questa boscaglia lui mi potrebbe aggredire, o forse no, il suo piano potrebbe essere quello di spingermi in quella direzione e poi aggredirmi una volta in casa o comunque nelle immediate vicinanze.
Si, è senz’altro così, mi sembra più logico. Mi convinco. Allora, per prima cosa devo raggiungere lo stagno e nascondermi tra i rami del salice. Poi, devo fare rumore per convincerlo che sono andata verso la villa, aspettare che mi abbia superato, e solo a quel punto, tornare indietro, verso la darsena. Nei miei pensieri sembra un bel piano. Potrebbe anche funzionare. Ci ripenso: è un bel piano e deve funzionare. Chissà dov’è il bestione. Questa incognita mi spaventa un po’. Farà anche lui qualche errore. Lo fanno sempre tutti. Chissà com’era il bestione a scuola, no no ferma i soliti pensieri inutili. Concentrati. Inspiro a fondo, per raccogliere tutta l’energia che mi serve e via… go Dina go… Lui la guarda perplesso. Lei si è fermata, è nella stessa posizione ormai da qualche minuto. Si chiede a cosa stia pensando. Ecco che finalmente si muove. Ma… ma non va verso il lago… quella stupida ci ha ripensato. Sta andando verso la casa. Proprio come nei suoi piani. Il rumore dei sassi che ha tirato l’ha convinta a desistere dai suoi propositi.
Sorride soddisfatto. La segue con lo sguardo, ma non deve permetterle di allontanarsi troppo. Potrebbe perderla di vista, la vegetazione è folta e lei potrebbe anche trovare un nascondiglio. Un nascondiglio, ma chi, la ballerina? Il sorriso diventa una risata. Si distrae un attimo e guarda la casa dove il suo gioco con lei si concluderà. Immagina quei momenti e il respiro si accorcia. Pregusta l’epilogo tanto sognato. All’improvviso la risata si smorza, il sorriso svanisce. Lei è sparita. Un attimo prima era davanti a lui, e adesso è scomparsa. Impossibile. Lo stagno deve averla obbligata a girare in tondo per superarlo. E li non ci sono nascondigli. Deve essere già arrivata alla villa. Veloce la ballerina. Maledetta ballerina, non ti vedo più. Cammina incurante del rumore che inevitabilmente produce. Spezza rami secchi e sposta siepi e cespugli. Pensa a lei, da qualche parte davanti a lui, e anche se non la vede sa che c’è. Questa certezza lo inebria, rendendolo meno attento di quanto dovrebbe essere. Arriva al bordo dello stagno e vi gira intorno, lo sguardo fisso alla villa, che si avvicina o dopo o. Sa che è andata da quella parte, e questa convinzione lo fa muovere quasi come un automa, senza farlo riflettere. Non nota quella macchia di colore giallo sotto le fronde del salice.
Un colore che stona completamente nel verde delle foglie. Cazzo, arriva. Mi schiaccio ancora di più contro il fusto dell’albero sotto il quale mi sono rintanata. Ho in mano della terra: gliela getterò negli occhi nel caso mi abbia vista e arrivi qui. Forse poi avrò qualche secondo di vantaggio. Mi sembra che vada avanti: forse non mi ha vista. Ecco, vai brutto animale, vai, ancora uno, due, tre i… vai! Mi ha superato. Non mi ha visto. Il bestione non mi ha visto e se ne va verso la casa. Dio, fai che non si giri. Questo è il momento. Rapida e silenziosa, sparisci nel nulla e vai verso la rimessa sul lago. Ora. Mi muovo come ho visto fare in un sacco di telefilm con i guerriglieri che sembrano essere parte della vegetazione circostante, silenziosi e rapidi, pressoché invisibili. Loro, io proprio non so se ci sto riuscendo. Lo spero. Ogni tanto mi giro per controllare se mi sta seguendo, ma non lo vedo. Credo che sia andata verso la villa. Ti ho fregato, grande grosso e coglione che non sei altro. Vorrei complimentarmi con me stessa, ma so che è ancora troppo presto.
Siamo solo alla fine del primo tempo e la partita è ancora lunga. Purtroppo. Ma adesso, forse, ho un piccolo vantaggio. Mi ha perso di vista. Non mi controlla più così da vicino. Sono euforica. Nonostante la situazione complicata mi sento quasi invincibile. Supero lo stagno e ritorno verso la rimessa delle barche: li troverò quello che mi serve per lasciare questo posto e fuggire lontano da lui. Mi giro continuamente intanto che mi avvicino al grosso capanno: non lo vedo, sembra proprio sparito, ma so che tornerà non appena si renderà conto di aver inseguito nessuno. Tornerà veramente incazzato. Scaccio questi pensieri dalla testa e mi concentro sul da farsi. Arrivo davanti alla porta di legno del capanno. Abbasso la maniglia… aperta… mi sento ancora un po’euforica. Entro. Mi trovo su una grande piattaforma di cemento piena di attrezzi, funi e reti. Tipico scenario da rimessa delle barche. Mi guardo in giro e noto subito, ormeggiata all’estremità di un piccolo pontile di legno, un’imbarcazione che dovrebbe essere proprio quello che sto cercando. Faccio pochi i in quella direzione quando, con la coda dell’occhio, intravvedo qualche cosa di strano che attira la mia attenzione. Non capisco cosa sia, sembra una… scultura?… beh, se lo fosse sarebbe decisamente fuori luogo. Una scultura in mezzo a gomene remi e vecchi salvagente… mi fermo e guardo meglio. Guardo meglio e sento le gambe che mi cedono, così all’improvviso.
L’euforia che fino a un attimo prima mi sosteneva lascia spazio al raccapriccio, vero, profondo. Alex? Oddio, è proprio lui. Lentamente riesco a mettere a fuoco i particolari di quella che, a prima vista, mi era sembrata una statua grottesca. Il mio amico è appeso su di una specie di croce e, quasi un martire di quelle raffigurazioni religiose che mi hanno sempre turbato perché illustrano la sofferenza con dovizia di particolari, sembrerebbe avere degli spilloni conficcati qua e là nel corpo. Il sangue colato dalle ferite rende il tutto tanto veritiero quanto orribile. Mi faccio forza e mi avvicino un po’ di più. Guardo Alex che sembra dormire in una posa innaturale. Le braccia aperte e legate a un palo orizzontale lo sostengono quasi aspettasse qualcuno da abbracciare. La testa è reclinata sul torace, abbandonata in modo da sembrare staccata dal resto del corpo e il sangue… dio quanto sangue… ma… ma… gli manca un orecchio. Mi metto le mani davanti alla bocca, cercando di soffocare quel grido disumano che vorrebbe uscire dal profondo del mio corpo. Bestione figliodiputtana… anche Alex… ma cosa c’entra Alex con i tuoi deliri? Neanche il tempo di farmi questa domanda che uno dei miei pensieri improvvisi mi travolge. E se dovesse aver pensato a lui come a uno dei personaggi della canzone? Io la ballerina e lui chi dei due, il mago o il cavaliere? Oh Alex, povero amico mio. Sono ferma davanti a lui, inebetita e incerta sul da farsi.
Noto appeso sopra la sua croce un foglio. Bastardo, cosa ci hai scritto… guardo meglio, mi sembra di riconoscere quella scrittura… ma… è la mia! In my bones, quella è la copia che stava sul leggio del mio pianoforte. Sei entrato in casa mia già un’altra volta, ancora prima di prendermi, e hai rubato il manoscritto della canzone. Inspiro forte, quasi a farmi scoppiare i polmoni. Quel che so adesso è che lotterò, oh certo che lo farò, puoi esserne certo Jacopo Rognoni. Non mi avrai tanto facilmente. La ballerina? Questo è quello che credi tu.
Capitolo 37
I can hear bells ringing I can feel them bang inside So deep into my head Every day and nights along
“Si può sapere cosa sta succedendo, Astolfi?” Rebetti lo investe con parole dal tono perentorio. “Signor Commissario, le ho già detto tutto prima per telefono e ripeto ancora perché uno di fronte all’altro sicuramente riusciamo a capirci meglio. Dunque, come da sue istruzioni telefoniche, ho mandato due colleghi a ispezionare il lato ovest della cancellata. Sono arrivati nel parcheggio del vecchio hotel appena qui dietro. Una volta sul posto, De Rosa e Benvenuti sono stati aggrediti da due persone non ancora identificate: mentre una è riuscita a scappare, impossessandosi di un mezzo lì parcheggiato, l’altra è stata fermata e trattenuta dai colleghi stessi. Che sono ancora in attesa di ulteriori sue istruzioni”. Astolfi guarda il commissario con l’evidente speranza di essere stato esaustivo nella spiegazione. “Lasciamoli aspettare lì ancora per un po’. Mi sembra di aver capito che non hanno subito lesioni gravi, dunque che piantonino il parcheggio e trattengano la persona che hanno fermato. E che proseguano nelle identificazioni di rito”. Rebetti sbuffa leggermente mentre comunica il da farsi ad Astolfi. Tutti questi imprevisti, sommati a quella che sembra essere la tattica attuata dal Rognoni, visibilmente rivolta a fargli perdere ulteriore tempo, lo stanno innervosendo più di quanto lasci a vedere.
Gestire velocemente e senza sbagli tutte queste persone senza avere ancora il quadro preciso dell’evolversi della situazione, lo mette in ansia. Emozioni che rivela accentuando i movimenti leggermente nevrotici della mano: indice e pollice si sfregano ritmicamente manifestando il suo stato d’animo. Astolfi, che ormai conosce il suo superiore più di quanto potrebbe sembrare, coglie questi segnali e, senza altri indugi, interviene con la convinzione di poter essere d’aiuto a quello che, ormai, considera anche un amico. “Bene signor commissario”. La sua voce suona calma e risoluta. “Direi che a questo punto dovremmo continuare ad agire secondo il suo piano originario: entriamo nella villa e vediamo un po’ chi sono i personaggi coinvolti in questa partita. Anche perché De Rosa e Benvenuti hanno confermato che l’auto della professoressa è nel parcheggio dell’hotel. Dunque, lei dovrebbe essere dentro. Se qui o dove, non si sa ancora”. Così dicendo e senza indugi, Astolfi suona il camlo cementato all’interno della colonna destra del cancello d’ingresso dell’abitazione. Tutti i presenti rimangono zitti, in attesa dell’eventuale risposta. La voce di donna che si materializza dopo qualche istante, pur preventivata, sembra quasi coglierli di sorpresa. “Sì, chi è?” La domanda è posta dalla domestica di casa Rognoni. “Buongiorno signora. È la polizia. Per favore, apra. Subito”. La replica di Astolfi segue la procedura. “Come se non ci avesse visto” aggiunge con un sorriso malizioso indicando la telecamera del video citofono. Il cigolio quasi sinistro del pesante cancello che, dopo pochi istanti, lentamente comincia ad aprirsi, lascia intravedere quello che una volta era senza dubbio un viale d’accesso molto curato e ben tenuto, ma che oggi mostra evidenti segni di incuria, quasi fosse abbandonato. Astolfi precede il gruppetto camminando: tutti si guardano in giro, meravigliati
dall’imponenza del giardino, che rivela la sua grandezza in una esplosione di vegetazione maestosa e rigogliosa. Rebetti riprende il controllo della situazione e, con o deciso, sopravanza tutti e si dirige risoluto verso Villa Angst: pensa che sia arrivato il momento di mettere fine a quella catena di eventi che, comunque, gli sembrano ancora slegati tra loro. È certo, però, che all’interno di quella villa, finalmente, troverà le risposte che cerca. Comunica a un agente di fermarsi nei pressi del cancello e di avvertirlo non appena arriverà l’auto del Rognoni con l’avvocato. Gli altri lo seguono in ordine sparso, quasi fossero un commando in un film d’azione. Si guardano in giro titubanti, senza sapere in realtà chi o cosa cercare. Arrivati dinnanzi alla scalinata che conduce all’ingresso della villa, la figura di Henrietta Gottlieb che si staglia in cima ai gradini, immobile, quasi fosse il guardiano della sacralità del luogo, ha il potere di bloccarli. Osservano la donna muti e increduli: Astolfi riesce a interrompere quello che sembra essere un incantesimo, sfoderando a sorpresa una delle sue battute fuori luogo: “Commissario, se adesso quella si mettesse a cantare un blues, sai che effetto, quasi una scena da Via col vento…” Gli occhi di Rebetti fulminano il malcapitato, che, fedele a un copione ormai consolidato, ritorna sui suoi i e allarga le braccia con le mani in alto, in segno di resa e di scusa. “Il padrone non è in casa. Ma, se posso esservi utile, signori della Polizia, non avete altro da fare che chiedere”. La governante, con voce gentile e decisa, si premura di informare gli agenti che si girano verso il loro superiore, in attesa delle sue decisioni. Rebetti, consapevole del suo ruolo, rivolge poche concise parole alla donna: “Il signor Manlio Rognoni ci sta raggiungendo con il suo avvocato dottor Quattrini. Probabilmente lei è già stata informata del nostro arrivo e, immagino, autorizzata
a fornirci tutta la collaborazione di cui potremmo avere bisogno. Mi corregga se sbaglio”. Henrietta Gottlieb rimane imibile e silenziosa, assumendo un comportamento che consente al commissario di proseguire. “Vorrei che i miei uomini ispezionassero l’interno e l’esterno dell’abitazione. Intendo, per maggior chiarezza, che due agenti possano entrare in casa mentre altri due rimangono nel giardino. Crediamo infatti che il fratello di Manlio Rognoni sia in questo momento da qualche parte nel perimetro delimitato dalla cancellata di Villa Angst. E che, purtroppo aggiungo, non sia solo. Sono stato sufficientemente chiaro, signora?” Il viso dell’anziana governante rimane imibile, quasi fosse scolpito nel sasso. Un breve cenno del capo lascia intendere al commissario che le sue parole sono state seguite e comprese e, nello stesso tempo, concede il permesso ai funzionari di proseguire nelle ricerche. Rebetti decide di entrare in casa, mentre incarica Astolfi di aggirarsi per il giardino. Entrambi non agiscono da soli: sanno che potrebbero trovare delle sorprese e vogliono essere preparati. Si separano e, con un gesto meccanico, controllano che la pistola di ordinanza sia a posto, anche se si augurano di non doverla usare. Le azioni di polizia alle quali sono abituati – per fortuna – non hanno mai contemplato l’uso di armi e la loro familiarità con proiettili e bersagli è limitata alle periodiche esercitazioni al poligono di tiro. Si rendono conto che però oggi la situazione potrebbe essere diversa. Si muovono con circospezione, osservando sempre tutto quello che hanno intorno con molta attenzione. Rebetti fa cenno all’agente che lo segue di stargli vicino e, una volta sorata la governante che non si è mossa di nemmeno un centimetro, entrano nel maestoso salone di Villa Angst.
Il luogo e, soprattutto, l’arredamento li proietta in un’altra epoca, dove sfarzo e lusso erano appannaggio di pochi eletti. Non manca proprio nulla: sopra di loro troneggia un lampadario in cristallo con braccia dalle quali scendono cascate di piccoli vetri lavorati, simili a diamanti luccicanti, mentre al centro della stanza un grazioso tavolo intagliato a mano di un evidente notevole valore funge da divisorio. Infatti su entrambi i lati, una scalinata simmetrica di stile liberty conduce al piano superiore e, anche se il velluto rosso che ricopre i gradini mostra qua e là i segni del tempo, l’immagine che fornisce ai due è veramente spettacolare. Al di là del tavolo ovale si apre un altro ambiente che sembra concludersi, incastonato in una serie di porte finestra che formano una sorta di figura geometrica, su di una terrazza esterna. Capiscono immediatamente che le ricerche saranno ben più complesse di quanto preventivato e si fermano per decidere quali siano gli spostamenti migliori da effettuare. “Anzalone, direi di incominciare dal piano superiore. Se chi cerchiamo è qui a pian terreno non potrà uscire visto che Astolfi e Cercini sono nel giardino. Dunque, animo e saliamo la scalinata. Se il Rognoni grosso è qui, quello non è come il fratello. Il piccolo è abile a parlare, mentre questo sembra più orientato a uccidere. Ripeto, occhio e zitti”. Rebetti sottolinea la tensione del momento slacciando la sicura della fondina ascellare che indossa sotto la giacca ed estraendo la sua Beretta. Stringe nervosamente il calcio della pistola, subito imitato da Anzalone. Rebetti lo guarda e capisce di dovere istillare fiducia e sicurezza al ragazzo. Non si può permettere di avere al seguito un giovanotto impaurito. “Dai Anzalone, datti una calmata. E soprattutto non fare coglionate con quella pistola. Anzi, dammi retta e mettila via così sono più tranquillo. Non vorrei che tu per caso inciami e ti partisse un colpo. Ci manca solo quello”. Lo guarda e gli sorride. Insieme salgono le scale. Nel giardino, Astolfi sembra a suo agio nello svolgere il compito assegnatogli. Cercini lo coadiuva in modo esemplare, seguendolo come un’ombra, senza parlare e con tutti i sensi all’erta. Decidono di girare intorno alla casa, dirigendosi sul retro, dove c’è la veranda
che si apre sul grande parco. Si muovono attenti, con gli occhi che roteano intorno alla ricerca di… Si blocca, la bocca spalancata per la sorpresa. Li vede e non capisce: chi cazzo sono questi? Uno è un poliziotto, per forza, ha la divisa. L’altro non lo sa, sarà un suo collega. E sono lì nel suo giardino. Jacopo Rognoni scivola dietro a un grande cespuglio di rododendro. Ansima forte per la sorpresa. Riacquista tutta la calma di cui ha bisogno e riflette. La musicista non è lì, altrimenti sarebbe con loro. Questi sono arrivati da soli, sicuramente li avrà fatti entrare Henrietta. Forse stanno cercando lui, o forse sono lì per lei. O forse stanno cercando entrambi. E comunque lei non è lì. Il capanno delle barche. Improvvisamene capisce e freme. Non si può muovere, non ancora. E sicuramente non li può eliminare, troppo complicato, e poi ce ne potrebbero essere altri. Ma quella troia di sicuro è andata alla darsena. E, altrettanto sicuramente avrà trovato quell’altro appeso come un burattino. Nonostante la situazione, sorride al pensiero: altroché il suo cavaliere. Cazzo, omuncolo, uno volta che ho bisogno di te non ci sei: Jacopo si scopre a invocare mentalmente la presenza del fratello. Lui sì che saprebbe risolvere tutto questo casino. Quei due stanno andando proprio dove lui avrebbe voluto portare la ballerina. Beh, entreranno nella porta accostata, gireranno un po’ nelle cantine e non troveranno nulla.
Dopo forse, non subito. Il primo comandamento è fare sparire ballerina e cavaliere. Subito. Deve muoversi e andare verso il capanno sul lago. Lei è là che lo aspetta. Ed è là che lui finirà il suo gioco. Così anche Manlio poi sarà contento di lui. Aspetta che i poliziotti si allontanino quel tanto da permettergli di spostarsi ed, inconsapevolmente, quasi seguendo uno strano scherzo del destino, ripercorre gli stessi movimenti appena fatti da Dina Nasi. Ritorna allo stagno, si defila sotto il salice e, facendo bene attenzione a muoversi con la massima cautela, si avvia verso il capanno.
Capitolo 38
And the echo keeps strike It’s so deep into my bones And my brain itself’s a shell Pulsing cracking at every stroke
“Io e te siamo proprio due grandi fessi, grandi e tu anche grosso”. Dark guarda l’amico. “Ci aggiriamo per questo labirinto di giardino senza sapere bene cosa dover fare, con quei due armati che non mi piacciono affatto” prosegue mentre si guarda in giro un po’ preoccupato. Anche Train, nonostante faccia finta di nulla, non è per niente tranquillo. “Cazzo, hai ragione Dark! Gallo bello bello s’è eclissato e non so se mai troverà aiuto. Senti socio, qui conviene fare da soli. Mi ricordo la scena di un film dove…” “Ma che scena di un film! Dai Train, non fare il tamarindo!” Dark interrompe subito l’amico. “E lasciami parlare, no? E poi, scusa, cos’è ‘sto tamarindo? Oh, ne inventi sempre una nuova tu. Beh, stavo dicendo che in quel film, mi pare uno di Rambo, lui era inseguito e disarmato e allora…” “E allora vedeva di andarsene affan… sai dove Train…” le schermaglie tra i due non accennano a finire.
“Vabbè, allora fai tu che sai sempre tutto. Che palle che sei, non ti va bene proprio niente di quello che dico. Anzi, dopo mezza parola già mi aggredisci. Mai una critica costruttiva”. Train lancia all’amico uno sguardo torvo e si chiude in quel mutismo tipico di chi si sente offeso e aspetta che sia l’altro a fare la prima mossa. “Oh, se ho detto qualcosa di sbagliato, scusa. Ma non so perché te la prendi così tanto. Dai, abbiamo problemi veri qui e non possiamo giocare a fare i bambini permalosi”. Dark risolve subito l’incomprensione. Le voci nel giardino li riportano al centro del problema. “Che cazzo di lingua parlano quei due? Non capisco una parola. Mi sembra di sentire le interviste di Sheva dei bei tempi” “Train, tu come lingua straniera sai solo il dialetto, cosa vuoi capire… e io cosa ne so, direi che è russo o roba di quelle parti. Piuttosto, vediamo di non farci beccare”. Dark e Train si mimetizzano – se possibile – ancora di più con la vegetazione che li circonda, sperando di rendersi invisibili agli occhi di quelli che ormai per loro sono diventati i russi. Li osservano intenti a cercare qualcuno o qualcosa, anche se sembra che non abbiano fretta né che ci mettano un grande impegno. Si stanno dirigendo però verso di loro e i due amici si guardano l’uno con l’altro cercando di capire cosa sia meglio fare. Prima che i russi siano troppo vicini, Train decide in solitudine e in completa autonomia di are all’azione. Palleggia tra le mani il grosso sasso che da qualche minuto si porta appresso – che non si sa mai aveva detto – e, non appena sicuro di non sbagliare il tiro, lo lancia con tutta la forza che riesce a mettere nel suo braccio contro uno dei due. Il lancio sembra essere perfetto, tanto da colpire quello più grosso proprio sulla fronte, facendolo stramazzare a terra con un grido di dolore. “Sei proprio un cretino! Dai scappiamo adesso!” Dark commenta così il gesto dell’amico. Si gira e inizia a correre tra gli alberi.
Quello più piccolo dei due si riprende subito dalla sorpresa e spara uno, due colpi nella direzione da dove pensa sia stata lanciata la pietra. Rumori dei colpi dell’arma che sono parzialmente coperti dal aggio di un piccolo idrovolante che si accinge a decollare da un hangar sul lago non troppo distante. “Ci mancava anche l’aereo! Maledetto te e le tue idee del…” “Cazzo Dark, aiutami. Il bastardo mi ha colpito”. “Spari, quelli erano spari. Ve l’ho detto che il problema non è da questa parte del cancello e che comunque non sono io”. Gallo guarda gli agenti che l’hanno preso in custodia. “Due spari, erano due spari… e i miei amici lì dentro sono inseguiti dai due di quel SUV nero che se n’è appena andato. Dovete fare qualcosa, dai datevi una mossa!” Afferra il braccio del poliziotto più vicino, con l’evidente intenzione di velocizzare il loro l’intervento. Quello che invece ottiene è un pugno nello stomaco. “Tu stai fermo e non provare ad aggredirci, se non vuoi peggiorare la tua posizione. E poi, che spari, si può sapere di che spari stai parlando? Io non ho sentito nulla. Tu Benvenuti, hai sentito qualcosa?” “Beh, in verità a me è sembrato di avere sentito qualcosa. Direi che il ragazzo ha ragione. O meglio, il ragazzo potrebbe avere ragione” si corregge guardando il collega che lo fissa con sguardo interrogativo. “Senti Benvenuti, io non so cosa tu abbia sentito, ma ci è stato detto di mettere in stato di fermo il ragazzo e di piantonare il parcheggio. Dunque, non ci si muove. E, a meno che non sia il commissario a ordinare di farlo, qui siamo e qui restiamo. Capito?” “Dai belli, su, non fate i sordi!” Gallo interviene nella discussione dei due agenti. “Io ho sentito gli spari, lui ha sentito gli spari, tu non hai sentito o fai finta di non
avere sentito solo perché è ato quel cavolo di aeroplanino, ma comunque siamo due a uno, e lì dentro i miei amici non sono armati mentre gli altri sì. Se poi li uccidono, come la mettiamo, ordini o non ordini?” “De Rosa, il ragionamento del ragazzo non fa una piega. Ascolta me, noi entriamo, diamo un’occhiata in giro e ritorniamo qui al parcheggio, ma se invece, per caso lì dentro sta succedendo il finimondo e noi ce ne stiamo qui buoni, senza intervenire… poi son rogne, lo sai anche tu. E rogne belle grosse” Benvenuti guarda il collega in attesa di una risposta. “Se entriamo, di questo cosa ne facciamo?” De Rosa indica Gallo che, con la sua solita disinvoltura, previene la risposta dell’altro agente. “Tranquilli, io di qui non mi muovo. Sto buono buono e vi aspetto. Anzi, se poi dovesse arrivare qualche altro poliziotto vostro collega, spiego tutto io. Insomma, voi entrate e non preoccupatevi di me e di quello che succede qui fuori. Ripeto per l’ennesima volta, i problemi sono lì dentro. Fidatevi…” conclude con il suo sorriso accattivante e facendo l’occhiolino ai due che lo fissano increduli. “E se noi invece ti ammanettassimo al cancello, così per essere sicuri di ritrovarti quando usciamo?” Benvenuti, al contrario di quel che sembrava essere, e cioè il più malleabile dei due, afferra Gallo per il braccio e lo ammanetta al cancello dell’hotel. “Ah, se vuoi, ti faccio anche il sorrisino e ti strizzo l’occhio. Son capace, cosa credi? Su De Rosa, diamoci una mossa. E tu non muoverti”. conclude, guardando Gallo con sorriso e occhiolino inclusi. Si avviano verso quel aggio nella siepe, che ormai sembra essere un accesso di pubblico dominio, ed entrano nel giardino. Appena dentro si muovono con cautela e, dopo qualche o, vedono, a terra, un uomo. “De Rosa, l’hai visto?” si informa Benvenuti. “Certo che l’ho visto, è lì sdraiato per terra. Credi sia morto?” La risposta è immediata. “E che ne so. Senti, io vado a controllare. Tu tieni
d’occhio tutto il movimento mi raccomando”. “Va bene. Guarda se è armato e poi controlla se è vivo o morto. Capito Benvenuti? Fallo in quest’ordine, mi raccomando”. Si guardano e un silenzio irreale cala tra i due. Benvenuti fa quei due i che lo separano dalla figura a terra e, senza coprire la visuale al collega, controlla se vi sia o meno un’arma. Trova una pistola e l’allontana quanto basta con un calcio. Guarda il collega che annuisce approvando la scelta e incoraggiandolo a proseguire. Benvenuti si china sul corpo dell’uomo che sembra addormentato e nota la profonda ferita sulla fronte di quest’ultimo. Il sasso che l’ha colpito è lì di fianco e illustra l’accaduto senza avere bisogno di spiegare nulla. “De Rosa, io per non sapere né leggere né scrivere, lo ammanetto. Poi cerchiamo di capire chi è e cosa ci fa qui”. Il collega annuisce e così l’uomo, che intanto sembra si stia lentamente riprendendo, si ritrova immobilizzato con le braccia dietro alla schiena. De Rosa raccoglie l’arma, la rigira tra le mani e la guarda affascinato: non gli capita spesso di vedere una pistola del genere, anzi, in realtà, non ne ha mai vista una, se non sulle riviste specializzate, e l’averla finalmente tra le mani gli da quel brivido tipico che si prova a scartare un dono inaspettato la notte di Natale. Una Tokarev TT 33 è senza dubbio un po’ datata, ma il fascino che emana è unico: momenti storici dell’Unione Sovietica sono sottolineati da quell’arma già in uso all’Armata Rossa. La sua Beretta d’ordinanza, che pur ama alla follia, gli fa quasi l’effetto di un giocattolo. L’uomo a terra faticosamente tenta di rialzarsi ma le braccia dietro alla schiena e i postumi della botta in testa fanno sì che i movimenti risultino farraginosi. Appena riesce a mettersi seduto, guarda gli agenti con una espressione tra l’incredulo e il meravigliato che sembra sottolineare come non abbia avuto ancora modo di capire quello che gli sta succedendo. “Signore, siamo agenti della Polizia di Stato. Le comunico che attualmente si
trova ammanettato in quanto l’abbiamo trovata in possesso di un’arma e in una situazione tale da richiedere il nostro intervento. Capisce quanto le ho appena comunicato?” Benvenuti guarda l’uomo che non mostra alcun segno di reazione alle parole appena pronunciate. “Signore, ha preso una brutta botta in testa. Credo che le convenga rimanere sdraiato in attesa dei soccorsi che non tarderanno ad arrivare”. anche l’intervento di De Rosa sembra cadere nel nulla. “Ma questo, c’è o ci fa?” chiede sottovoce al collega Benvenuti e, senza aspettare la risposta, si picchietta la tempia con l’indice mimando le sue conclusioni. De Rosa scuote la testa: “Credo che questo tizio sia russo o di quelle parti”. “Come fai a dirlo, non ha detto neppure mezza parola” replica Benvenuti. “La sua pistola, questa pistola” e la mostra al collega “Viene dalla Russia. È un mito. Roba vecchia, poco precisa ma veramente affidabile, non si inceppa praticamente mai. E i report dell’Interpol la indicano come arma utilizzata per lo più dalla mafia russa. Quindi…” I rumori che arrivano da qualche parte nella vegetazione intorno interrompono la conversazione e ricordano loro come il ragazzo fermato nel parcheggio sostenesse che gli uomini armati fossero in due. De Rosa fa un cenno a Benvenuti e insieme si dirigono verso l’interno del giardino, facendo però attenzione a non stare vicini per non diventare un bersaglio troppo facile. Lo sparo è improvviso. Benvenuti cade a terra con un lamento sordo e una chiazza di sangue si allarga sulla camicia d’ordinanza. De Rosa tenta di capire da dove sia partito il colpo intanto che si china sul collega. “Accidenti Benve ti hanno beccato eh… dove?” “Alla spalla, credo. Vai che non è niente. Di striscio, vai dai cazzo”. Le sue parole lo rassicurano.
De Rosa si rialza e subito un secondo sparo risuona nel giardino. Si piega su se stesso, bloccandosi in una posa innaturale, quasi fosse genuflesso solo su una gamba. L’altra è lunga e distesa, priva di movimenti. “Cristo Santo, han preso anche me! Non riesco a muovermi. Benve, mi sa che siamo nella merda”. Le ultime parole di De Rosa accompagnano la comparsa dell’altro uomo armato, più piccolo di quello appena ammanettato. L’espressione degli occhi sembra però più cattiva. Anche l’arma che impugna sembra essere molto più moderna. Moderna ed efficace. Con un sorriso si avvicina ai due agenti e, mentre prende la mira con l’evidente intento di concludere quanto appena iniziato, si rivolge a loro con frasi incomprensibili. Russo. Benvenuti e De Rosa capiscono però il senso del discorso: saranno le ultime parole che sentiranno, questo è evidente a dispetto della lingua sconosciuta. Il rumore di un ramo secco spezzato alle sue spalle fa girare l’uomo che però non è tanto veloce da evitare Dark che, quasi fosse l’angelo della misericordia, lo colpisce sulla tempia e su tutta l’area parietale destra con una bastonata vibrata con quella forza che solo la paura ti dà. Ma che risulta devastante. L’uomo cade a terra lasciandosi sfuggire di mano la pistola. “Sensazione incredibile, salvare due sbirri… tranquilli, io sono dei buoni”.
Capitolo 39
I can hear bells ringing I can feel them bang inside They are deep into my bones And they won’t leave me alone
Il commissario fissa Anzalone con aria interrogativa, come se chiedesse conferma di quello che entrambi hanno appena sentito. Il rumore degli spari è inconfondibile, anche se è attenuato dalla distanza e dalla folta vegetazione che ne impedisce una diffusione lineare. Rebetti si gira e, seguito dal giovane agente, scende la scalinata che aveva appena percorso. Si ritrovano nel salone. La governante è rimasta dove l’avevano lasciata, immobile e silenziosa. Rebetti si avvia verso il giardino. I colpi provenivano da lì. Spera che il bersaglio non siano stati i suoi agenti. Nel giardino anche Astolfi e Cercini si sono bloccati, con le orecchie tese, aspettando di sentire altri spari e di decidere cosa fare. Nulla. Dio mio, non ci credo. Stanno sparando! Mi guardo in giro ma ovviamente da dentro il capanno nel quale mi sono infilata non si vede nulla di quello che accade là fuori. Rifletti Dina rifletti… se fossero colpi amici e il bestione fosse disteso nella classica pozza di sangue… no, no, mi fermo subito, troppo bello per essere vero… dai Dina, non crederlo neppure per un attimo.
Comunque, là fuori qualcuno ha sparato. E se invece lui stesse arrivando,… preparati Dina, quando spalancherà la porta della rimessa, lo farà solo per concludere quello che ha in mente. Di sicuro. Riguardo il mio amico immobile sulla sua croce e decido che prima devo pensare a difendermi da quella bestia. Fare compagnia ad Alex su di un altro altare grottesco non sarebbe d’aiuto a nessuno, men che meno a me. Cerco nel capanno: possibile che tra tutti questi attrezzi e pezzi di cosa non saprei, non ci sia qualche oggetto che possa servirmi? Un’arma – anche del tutto impropria – ma funzionale alla difesa. Frugo ovunque in preda a una vera frenesia. E non mi frega nulla di fare rumore. Lo sa di certo che sono qui. Bene, allora che sappia anche che lo sto aspettando. Sente gli spari. Nel suo giardino non era mai successo nulla del genere. Troppa gente in giro. Jacopo Rognoni intuisce che tutto gli potrebbe sfuggire di mano. Quei due poliziotti che erano andati sul retro della villa, stanno ritornando. E lui non si può muovere. Il salice che sembrava essere un ottimo nascondiglio si è trasformato in sabbie mobili. Si sente in trappola. Deve aspettare che si allontanino. Astolfi e Cercini ritornano sui loro i, rinunciando a oltreare la porta accostata che avevano appena individuato e che aveva attirato la loro attenzione. Arrivati all’ingresso della villa si ritrovano faccia a faccia con l’ispettore e Anzalone. “Tutto bene?” La domanda di Astolfi sembra inutile, ma almeno il conto degli agenti torna. Tutti e quattro sono presenti e incolumi.
“Andiamo a controllare e stiamo attenti che la situazione è senz’altro più complessa di quanto si possa pensare. Non stiamo vicinissimi, ma non allontaniamoci neppure”. le direttive di Rebetti sono chiare e concise. “Certo dottore. L’unione fa la forza… Ok ok, sto zitto”. Astolfi interviene e subito ammutolisce, senza aspettare la solita occhiata del superiore. L’improvviso rumore delle ruote di un’automobile sulla ghiaia del viale d’ingresso indirizzano la loro attenzione verso la Jaguar verde che sta entrando, subito seguita dall’auto di servizio che le fa da scorta. Manlio Rognoni scende accompagnato dal suo legale. Il suo solito sorrisetto fa bella mostra su un viso che – nonostante gli avvenimenti della giornata – sembra essere rilassato. Rebetti sente che qualcosa di dentro gli sta velocemente crescendo: ormai crede di odiarlo. Lui, di solito sereno e comato, si scopre come quelle persone che – a parole – non ha mai sopportato, istintivo e sanguigno. La partita a scacchi con quell’ometto lo sta logorando più di quanto non avesse mai pensato fosse possibile. “Oh commissario, trovato qualcosa di utile alle sue indagini? Ma prima, permette che le presenti il dottor Quattrini, avvocato della famiglia Rognoni ormai da tempo immemore”. Manlio Rognoni introduce così la figura del legale della dinastia. Rebetti prova la stessa repulsione anche per lui, pur senza conoscerlo. Questa volta decide di abbandonare gli scacchi e giocare con la sciabola. “Piacere, avvocato. Finalmente faccio la sua conoscenza. Sembra che lei sia una sorta di Primula Rossa”. Tende la mano al nuovo venuto intanto che, rivolgendosi al Rognoni, prosegue: “Credo sia meglio per voi due rimanere qui. È molto più sicuro. Sembra che il suo giardino si sia trasformato in una sorta di poligono di tiro”. Non riesce quasi a finire la frase che altri due spari, quasi fossero stati orchestrati alla perfezione e con una tempistica impressionante, risuonano nell’aria.
Manlio Rognoni rimane silenzioso e apparentemente distaccato. “Forza, muoversi! Ormai non è un caso, qui è il far west!” Rebetti sembra agitato e continua: “Esposito, resta qui con il signor Rognoni e l’avvocato. Che non vadano in giro. Anzi, entrate in casa, dove c’è anche la domestica. Porta anche quell’altro con te, come si chiama, vabbè dai, lui” e indica l’altro agente di scorta. I due, velocemente, eseguono gli ordini e scompaiono all’interno dell’abitazione. Jacopo Rognoni capisce di doversi muovere. L’arrivo dell’auto di Manlio lo agita più di quanto non sia mai successo. Deve agire. Non può deludere il fratello. La voce gli esplode forte nella testa, più simile a un grido bestiale che a un sussurro ovattato e insistente. Jacopo Rognoni parte. Si stacca dal salice, velocemente percorre la distanza che lo separa dal capanno. Gli uomini parlano tra loro, non lo vedranno. Manlio, l’avvocato, il capo dei poliziotti, tutti gli altri poliziotti… La sua ballerina lo reclama. Lei lo aspetta nel capanno. Ancora spari. Non capisco cosa stia succedendo là fuori. Ho trovato un ferro che, a occhio e croce, mi ricorda tanto una mazza da golf. Un po’ poco per difendermi, ma almeno ho qualcosa tra le mani. Mi sposto alla ricerca di un nascondiglio che individuo appena sopra il pontile che conduce alla barca ormeggiata. Credo sia il ricovero di una canoa: se riesco a tirarmi su dovrei starci anche comoda. Oddio, per quanto comoda sia questa
situazione… i miei soliti pensieri cretini. Lo schianto della porta alle mie spalle mi fa letteralmente saltare per aria dalla paura. Sento il sangue scorrere veloce nelle vene e un formicolio nelle braccia e nelle gambe mi dà l’impressione di essere sul punto di esplodere. Il ferro che avrei voluto utilizzare in mia difesa mi è caduto per terra. Reazione istintiva di puro terrore. Non mi giro. Sento la sua voce. “La mia ballerina. Da quanto aspettavo questo momento!” Adesso mi giro. Lo guardo e indietreggio istintivamente, senza sapere dove andare. Mi sembra ancora più grosso. E cattivo. E brutto. Quel sorriso e quello sguardo… Mi chino leggermente e annaspo alla ricerca del mio ferro da golf. Lo trovo. Mi sembra di aver meno paura: potere di un’arma. Lui mi guarda e non si muove. Lo sento che respira forte, ansima. Dai cazzo bestione, avvicinati e facciamola finita. Non ho altra via di fuga che quel pontile. Ma è breve, cosa faccio, mi tuffo nel lago? Si muove. Arriva. Mi metto in una posizione che credo sia da combattimento. Non ho mai combattuto un granché… da ragazzina le lotte con i maschi in cortile… lotte…
se vogliamo chiamarle così. Non ci credo. Sto per morire e la mia testa mi manda ricordi e considerazioni del tutto fuori luogo. Ma – almeno adesso – potrebbero essere utili. Mio fratello diceva “mai stare piantata di fronte all’avversario, Dina, mettiti sempre di traverso. Offriti come bersaglio più ridotto”. Certo. Mi piazzo sulle gambe pronta allo scontro. Si avvicina, lento, inesorabile. Prevengo il suo attacco, o almeno ci provo. Il ferro alto sopra la mia spalla è pronto a colpire. E colpisco, più forte che posso, un colpo, due colpi. Il primo lo raggiunge sulla testa e vedo un attimo di sconcerto nei suoi occhi. Blocca il secondo con il braccio sinistro e credo che non senta neanche un po’ di dolore. E attacca. Mi attacca. Un ceffone, di quelli portati con il dorso della mano, mi raggiunge sulla guancia sinistra e mi fa cadere per terra. Sento del sangue che mi esce dalla bocca. Figliodiputtana. Sono a terra, intontita ed – ovviamente – ancora una volta disarmata. Provo a rialzarmi e, appena sono a carponi, il bastardo mi colpisce con una pedata nello stomaco. Cado e tossisco. Mi manca il respiro. Sento le sue mani addosso. Mi solleva. Una mano – mi sembra enorme – mi stringe il collo. Mi solleva, ancora, i miei piedi non toccano per terra. Mi strangola. Muovo le gambe come se fossi una marionetta. “Ma come balli bene, ballerina. Ti piace questa danza?” Sento la sua voce. Altroché marionetta, questo crede ancora che io sia la sua ballerina.
Ballo si, ma la danza della morte. Sento che sto cedendo, e provo, disperatamente, a colpirlo nelle palle. Un colpo ben assestato procura danni notevoli. Con il ginocchio lo colpisco all’altezza dell’inguine e sento che molla la presa. È il suo turno di rantolare. Mi lascia andare anche se, comunque, mi sbarra la strada. Lo colpisco con un pugno sul mento… dio che male… mi sarò rotta la mano… questo sembra di cemento… non finisco il pensiero che il suo pugno sullo zigomo mi tramortisce. Cado a terra, mi metto le mani in faccia e mi rannicchio aspettando il resto dei colpi. So che è finita. La ballerina sulla luna, no la ballerina è a terra. Non colpisce. Riapro gli occhi e lo vedo sopra di me con un coltello in mano. Un coltello? Una mannaia. Dina, sei arrivata alla fine della strada. Morire in un capanno per le barche in riva al lago più bello, senza avere concluso niente nella vita, senza neanche essere riuscita a capire il perché di questa assurda storia. Senza aver vendicato la mia amica Skophje… Skophje… se c’è una vita dopo questa vita, mi sa che la sto raggiungendo. Ci vediamo presto, tra un momento. Si è chinato e con la gambe mi immobilizza le braccia. Mi prende i capelli, li tira indietro, che cazzo fa? Mi divincolo, ci provo ma lui è troppo per me, Train dove sei? Avvicina la lama all’attaccatura dei capelli alla fronte… lo scalpo… cazzo, lo scalpo… capisco cosa ha in mente il bastardo. Devo prendere tempo. Dai Dina, parlagli un po’. Magari ti dà tregua. Diventa tu la voce nella sua testa. Questo non è uno dei miei pensieri cretini.
Potrebbe essere invece una grande intuizione. Fallo Dina, ora. “Astolfi, dobbiamo girare intorno a quello stagno. Ma restiamo vicini”. “Certo dottore, io continuo a guardarmi in giro con attenzione, ma non vedo niente di sospetto”. “Beh, i colpi li abbiamo sentiti e qualcuno sarà pur stato a sparare. Dio del cielo Astolfi, chiama quelli nel parcheggio. Me n’ero completamente scordato!” Tutti si fermano in prossimità dello stagno. Ispezionano silenziosamente i dintorni, sincerandosi che non vi sia nessuno nascosto. Astolfi chiama sul cellulare. Lascia che la suoneria squilli… una, due, tre volte… guarda preoccupato Rebetti ma, al quarto trillo, una voce risponde. Sembra stanca e trascina un po’ le parole. “Pronto, sono Benvenuti. Ascolta Astolfi, siamo stati aggrediti e…” “Hanno sparato a voi? Oh cazzo, e De Rosa?” lo interrompe il collega, troppo preoccupato per lasciarlo parlare. “Tranquillo, non siamo messi tanto bene ma ce la siamo cavata. Qui ci sono i due pistoleri inoffensivi e impacchettati. Non sono italiani, crediamo che siano russi. Comunque, sarebbe il caso di chiamare un’ambulanza” conclude Benvenuti. Astolfi mette al corrente il commissario degli ultimi sviluppi. Rebetti strappa il telefono di mano all’altro e interviene personalmente nella conversazione: “Benvenuti, sono Rebetti. Sì, sì, lasciami parlare. Hai detto due russi? Ne sei certo? E la professoressa, la musicista intendo, è anche lei lì con voi?” “No dottore, nessuna traccia della musicista. Quei due crediamo che siano russi perché parlano una lingua che non si capisce proprio. In effetti potrebbe essere anche altro, che ne so tipo bulgaro o slovacco o un’altra lingua di quelle zone lì.
Di certo non sono si o inglesi”. Benvenuti si interrompe per riprendere quasi immediatamente: “Ah, commissario. Qui con noi ci sono anche due musicisti che suonano con la donna. Sì sì, stanno bene, tranquillo dottore, anzi, sono stati loro a darci una mano con i russi. Beh, più che una mano sola, direi tutte due e anche un braccio. Dottore… ci han salvato il culo, per dirla in parole povere” conclude con un sospiro. “Bene così Benvenuti. Poi mi chiarirete tutta la dinamica, ma adesso dobbiamo trovare la musicista. I suoi amici hanno qualche idea di dove possa essere? Dai, fammi parlare con uno dei due che facciamo prima”. Un attimo di confusione ovattata, dove il telefono a di mano con una breve spiegazione e Rebetti sente una nuova voce: “Buongiorno signor commissario. Dica pure”. Dark sembra quasi timido di fronte all’autorità. “Buongiorno a lei. Poi ci presenteremo meglio. Per adesso mi basta sapere quello che può dirmi sulla sua amica. Se riesce a essere preciso e succinto, lo apprezzerei molto”. Preciso e succinto? Son nato preciso e succinto, pensa Dark prima di rispondere. “Dunque commissario, mi ascolti bene. Dina è stata rapita e condotta qui, in questo parco abbandonato. Noi siamo nel giardino dell’hotel Regina Vittoria e le dico che lei è qui in quanto la sua auto si trova parcheggiata nel piazzale antistante. Mi segue? Di sicuro, visto che lei è il capo. Allora dicevo, dovrebbe essere stata qui. Essere stata, tempo ato, perché, a mia sensazione, adesso non c’è più. Io e Train, il mio batterista, abbiamo girato questo parco in lungo e in largo e ho trovato due pistoleri e i suoi due uomini. Ma Dina e chi l’ha rapita non ci sono. Ne sono certo”. Si ferma, riprende fiato e conclude: “Sono altrettanto certo che non può essere ritornata nel parcheggio. L’avrebbero vista i suoi uomini o Gallo che era di guardia là fuori. Sì, ho detto Gallo. È una persona, non un pollo. Boh, non lo so, si chiama così, o perlomeno lo chiamano
così. Scusi, ma se mi interrompe in continuazione, come faccio io a essere preciso e succinto come mi ha chiesto?” Così dicendo strizza l’occhio a Benvenuti che sta seguendo interessato la conversazione telefonica. Un altro che fa l’occhiolino… deve essere una moda dei musicisti, pensa Benvenuti, intanto che scuote la testa. “Grazie per la precisione. Dica ai colleghi che l’ambulanza sta per arrivare, insieme a un’altra pattuglia. Non muovetevi”. Rebetti riattacca. Dark guarda poliziotti e pistoleri con una espressione divertita. “Oh bella gente, il vostro capo ha detto di non muoverci. Spiritoso il tipo, preciso come un dito infilato nel… naso, per essere eleganti”. Ride da solo alla sua battuta. Sa che non è un granché, ma gli serve per scaricare la tensione. “Signori, le informazioni raccolte or ora suggeriscono che la signorina Nasi sia in questo parco, alle prese con Jacopo Rognoni che, credo, abbia l’intenzione di eliminarla. Non sappiamo di che tipo di arma sia in possesso il rapitore, dunque… massima attenzione e occhi ovunque. Sono stato chiaro?” I presenti, con un cenno del capo, confermano di avere ascoltato le parole dell’ispettore e di averne compreso il significato. La voce che si ascolta distintamente, però, non viene dal gruppetto. “Dottore, mi permette una parola?” L’avvocato Quattrini, inseguito da un trafelato Esposito che a gesti tenta di scusarsi, si rivolge a Rebetti. Senza aspettare risposta continua: “Mi scusi l’intromissione. So che aveva esplicitamente richiesto che non ci muovessimo dall’interno di Villa Angst, ma credo sia opportuno metterla al corrente di alcune situazioni prima che prenda decisioni che potrebbero, poi, rivelarsi affrettate”. “Ormai è qui. Dica pure ma sia veloce. Astolfi, procedete come ho detto”.
Intanto che gli agenti si allontanano esplorando gli immediati dintorni, l’avvocato, con un gesto amichevole, prende sottobraccio Rebetti nel palese tentativo di instaurare una sorta di complicità. “È necessario, assolutamente necessario, che lei conosca lo status dei miei assistiti. Brevemente, ricordi che dopo l’incidente che coinvolse i genitori dei signori Manlio e Jacopo Rognoni, assunse la legale tutela nonché esercitò patria potestà il dottore Kishnjakov, unico parente in vita. Il cognome non la tragga in inganno: la madre dei due ragazzi era di origini russe”. “Avvocato, non mi annoi adesso con questa Dallas dell’est! Lo vede che siamo nel bel mezzo di una complessa operazione di polizia!” lo interrompe uno spazientito Rebetti. “Un attimo di attenzione ancora, dottore. Eviterò al momento di tediarla con questi risvolti che lei, forse un po’ rudemente, tratteggia come fosse una squallida soap opera. Sappia che i signori Manlio Rognoni e Jacopo Rognoni sono attualmente cittadini russi, nonché agenti diplomatici dell’Ambasciata Russa in Italia e, pertanto, godono entrambi di quello status comunemente conosciuto come immunità diplomatica. Questo le dovrebbe dar modo di valutare la posizione dei miei assistiti in tutt’altra prospettiva. Credo di essere stato sufficientemente veloce e, soprattutto, esaustivo. Rimango ovviamente a sua disposizione per qualsiasi ulteriore delucidazione”. Le ultime parole lasciano Rebetti letteralmente esterrefatto: la bocca semi aperta e la salivazione quasi inesistente sottolineano le implicazioni che si fanno strada nella mente del commissario.
Capitolo 40
Just don’t say I’ve killed again Now I’m lost In the Deep Blue
“Fermo, fermo! Cosa fai, dai Jacopo, aspetta”. Mi guarda e sorride. Non gli frega nulla delle mie parole. Il coltello mi sembra sempre più vicino. Riprovo: “Non si tratta così una ballerina! Jacopo, cosa ti ha insegnato la mamma!” I miei soliti pensieri cretini. Non so cosa mi sia venuto in mente, ma ai bambini che disubbidiscono si dice sempre così… a me lo dicevano sempre, fino alla nausea. Un lampo nei suoi occhi. La lama sembra bloccarsi a mezza altezza. Lo rifaccio. Faccio la mamma… tanto più di così non si incazza… “Su Jacopo, lascia andare il coltello. Lo sai che la mamma non vuole. Ci si fa male con il coltello. Mettilo giù”. Aspetto.
È ancora lì fermo, incerto sul da farsi. Almeno così mi sembra. Posa il coltello. Tiro un sospiro di sollievo. Mi colpisce con un altro ceffone… dio che botta… non è servito a nulla… altro che mamma. Mi parla, con una voce che, improvvisamente, sembra quella di un bambino. “Tu non sei la mia mamma. Lei non c’è più. Io l’ho uccisa. E anche il papà. Loro hanno rotto la mia ballerina mentre litigavano. La mia ballerina, quella che danzava sulla luna sempre fino a che non la ricaricavo. E poi, danzava ancora, e ancora e…” Si ferma ed estrae dalla tasca dei pantaloni quello che sembra essere un meccanismo di un carillon. Lo guarda, rapito e, quasi con dolcezza, lo carica. Si sente una melodia che fatico a riconoscere, forse qualche motivo popolare dell’est. Sì, direi dalla progressione che potrebbe essere… Cazzo, qualche nota mi ricorda la parte centrale di In my Bones! Non ci credo, ma è proprio così. La canticchio mentalmente… beh, non sarò certo denunciata per plagio, ma una breve successione di quattro, forse cinque note un po’ la ricorda. Mi parte un telefilm nella testa, con una trama che prova a spiegarmi tutto l’incubo che sto vivendo in questi ultimi giorni. La mia musica… e le parole… non come diceva Manlio… I can feel bells ringing… non sono le campane che hanno risvegliato la voce nella testa del bestione. Lui ha sentito prima la musica e forse le parole non le ha capite neppure tutte… la ballerina… ecco cosa c’entra! Sembro non interessargli più, ma comunque non si schioda dal mio petto e le braccia ormai sono quasi atrofizzate. E ogni tanto mi molla anche un ceffone, così, tanto per ristabilire le gerarchie.
Rimane fermo ad ascoltare il suo carillon, con chissà che incubi nella testa. Certo è che di fantasia malata ne ha da vendere. Non so cosa fare. Veramente. Si ridesta dal suo sogno. Si alza e mi solleva prendendomi per la maglietta. Un altro ceffone – e non ce n’era proprio bisogno – e mi butta in un angolo come fossi un giocattolo abbandonato in soffitta. Non reagisco. Non ci riesco. Chi dice che nel momento del bisogno tiri fuori forze inaspettate da dentro? Beh, chi lo dice non hai mai preso un manrovescio e due ceffoni da questo. Afferra il coltello e si piazza davanti a me. Canticchia una qualche melodia del cazzo che conosce solo lui… ah no… è sempre quella del carillon. È fermo sulle gambe e dondola a destra e a sinistra, sembra aspettare… L’assalto finale. Capisco che adesso è veramente finita. Sono a terra intontita e una serie di pensieri vola a velocità vorticosa nella mia mente, brevi flash, folgoranti immagini, dolcissimi ricordi ed enormi rimpianti. Questo, lo so, è il preludio alla fine. Lui continua a cantare con la bocca chiusa, sembra più un verso indistinto che una musica: mai avrei pensato a una simile colonna sonora per la mia morte. Non voglio morire adesso, non voglio morire così. Non ho ancora terminato la mia sinfonia. Ho iniziato a comporla sei anni fa e
sono solo al secondo movimento. E il primo non mi convince del tutto. Non ho ancora trovato l’amore della mia vita, quello che nei libri ha la A maiuscola… stasera avrei dovuto registrare con la band… Dark… Train… tutti, dove siete… Non posso morire adesso, non ho salutato nessuno… Arriva. Striscio all’indietro, seduta e spingendomi con le gambe. Sento delle assi dietro alla schiena. Sono arrivata al muro, non mi muovo più. E lui, intanto che mugola la sua canzoncina, avanza, avanza e avanza ancora. Scalcio e, con gli anfibi neri, quelli con la suola con gli inserti in acciaio che avevo comperato a Londra anni fa per avere il giusto look punk, colpisco. Lo raggiungo alla fine della tibia, proprio sotto la rotula. Barcolla, ondeggia, sembra un gigante di argilla che… Cade. Cade davanti a me e il mugolar la canzone si trasforma in un sordo lamento di dolore. Annaspa, si sforza di raggiungermi, mi prende un piede e tira, mi tira verso di lui. Sono esausta. Con uno sforzo si mette carponi, il coltello gli lampeggia tra le dita, alza il braccio pronto a colpire. “Perché non te la prendi con qualcuno grosso come te, pezzo di ginocchio?” Quelle parole, quella voce… Vedo un corpo che letteralmente vola sopra il bestione inginocchiato e lo trascina
via da me. Sento colpi, gemiti soffocati, assi che si spezzano, e la voce di Dark che grida: “Eh checazzo, Train, muoviti che questo mi distrugge!” Lo vedo arrivare trascinando un po’ la gamba – proprio adesso un attacco di sciatica penso io, sapendo che periodicamente ne soffre, no no solo un altro pensiero idiota dei miei – mi sembra che abbia in mano un bastone, non saprei dire. E vedo distintamente che colpisce Jacopo Rognoni con tutta la sua forza facendogli mollare la presa intorno alla gola di Dark, che tossisce convulsamente. Jacopo Rognoni annaspa, le braccia girano vorticosamente nell’aria, senza trovare nessun appiglio. Si dondola per un interminabile attimo sul bordo del pontile fino a quando, e credo che Train gli dia un ulteriore aiuto, non cade nelle acque scure del lago, sparendo ai nostri occhi con una velocità impensabile, quasi fosse un sacco di cemento che sprofonda senza riemergere. “Sono arrivati i nostri, eh bambina mia” le parole di Train si mescolano ad altre urla e grida e ordini. Qui sembra che sia arrivata anche la cavalleria, sorrido intanto che mi tocco con la punta delle dita il viso dolorante. Anzi, sono tutta dolorante. Astolfi, Anzalone e Cercini fanno irruzione nel capanno, sbraitando come ossessi e agitando le armi. “Fermi tutti, che nessuno si muova!” A queste parole guardo i miei amici e insieme incominciamo a ridere, senza riuscire a fermarci. Sembriamo essere tutti e tre tornati bambini, quando nelle situazioni più impossibili e improbabili incominciavi a ridere per un motivo veramente stupido e, nonostante i genitori ti fulminassero con gli occhi, tu non potevi smettere, letteralmente non eri in grado di smettere. E più ti rendevi conto che la situazione avrebbe richiesto tutta la tua serietà, più ridevi, fino alle lacrime, fino ad avere i crampi alla pancia. Senza fermarti anche quando un ceffone ti raggiungeva improvviso, lasciandoti la guancia o il collo rosso. Gli agenti rimangono esterrefatti davanti a noi tre che ridiamo, ridiamo, ridiamo. Il più giovane di loro sembrerebbe lasciarsi contagiare dalla nostra ilarità incontrollabile ma viene subito fulminato dallo sguardo degli altri due.
“Tutti, smettetela di ridere! Basta, è un ordine!” Astolfi con queste parole che vorrebbero riprendere il controllo della situazione, al contrario scatena ancora di più la nostra ilarità. Train a terra si contorce come se fosse stato morsicato dalla classica tarantola: non solo ride, ma addirittura ulula e fa versi strani. Dark si dà pacche sulla coscia, nel tentativo di recuperare quel contegno che non ha. Tutti viviamo il momento come una vera liberazione, la fine di quei giorni frenetici e da incubo. Ci blocchiamo simultaneamente solo quando vediamo il nostro amico Alex appeso alla sua croce di dolore: immagine che ci riporta immediatamente nel mondo reale. Il commissario Rebetti ci trova zitti e provati. “Dov’è Jacopo Rognoni” chiede subito, senza in realtà rivolgersi a nessuno di preciso. “Nel lago, si è beccato una bastonata in testa. È sprofondato e non l’abbiamo più visto riemergere”. Rispondo nel tentativo di mettere veramente fine a quell’incubo. Altre voci e persone ci raggiungono nel capanno: medici e infermieri prendono il controllo della situazione, dispensando ai feriti le prime, necessarie cure. Ammutoliscono solo quando vedono Alex. “Astolfi, controllate subito sotto il pontile e le sponde nelle immediate vicinanze. Se il Rognoni dovesse essere riemerso qui o altrove, voglio saperlo. Adesso. Prendi tutti gli uomini che vuoi, ma sbrigati. Fate un bel lavoro, mi raccomando. Non trascurare nulla, ci siamo intesi?” Il cenno di assenso conferma a Rebetti di essere stato chiaro. Vedo il commissario che mi si avvicina. Mi osserva con un’aria quasi paterna, gli devo sembrare proprio patetica, lì seduta in un angolo da sola, in attesa di essere medicata. “Come va, signorina?” Lo guardo e in quel momento mi sento vuota. Sono lì, vedo tutto il movimento intorno a me, assisto impotente al recupero di Alex, che dicono esser ancora vivo, ma tutto mi scivola addosso. Come se non mi appartenesse. Come se io non appartenessi a quel luogo, a quei momenti.
“Come vuole che vada commissario… sono arrivata a un niente dall’essere uccisa, addirittura avevo già ripercorsa tutta la vita ata e invece sono ancora qui. Dai, tutto sommato solo qualche dolore, ma nulla che non i con un paio di gin tonic e una notte di sonno. Diciamo che sto bene. Vorrei tornare a casa, se e quando posso. Guardi commissario, se sono di disturbo, la mia macchina è nel parcheggio del Regina Vittoria, la prendo e me ne vado” azzardo con aria interrogativa e speranzosa. Sorride indulgente, capisco che la prassi richiederebbe ben altro, per lo meno la mia presenza. E invece il poliziotto riesce a sorprendermi un po’: “Va bene signorina, credo però che prima la debbano portare in ospedale per le medicazioni e gli accertamenti. Poi, se dovessero dimetterla, la faccio scortare a casa e le lascio due uomini di guardia per la notte, perlomeno finché non troviamo Jacopo Rognoni, vivo o morto che sia. Sa, per la sua sicurezza. Ci vediamo al Comando domattina; credo sia una proposta ragionevole. Non ha avuto certamente una giornata facile”. Si congeda con un breve cenno del capo. Lo vedo rivolgersi a due agenti in divisa, dando senz’altro le necessarie disposizioni. Si allontana pensieroso. Intuisco come ci siano ancora molti aspetti da risolvere. Vedo che Gallo arriva tranquillo e rilassato, quasi fosse un semplice turista. Quel suo modo di fare mi dà un po’ fastidio. Lui è così: se sto bene io, stan bene tutti. E se qualcuno, così per caso, non dovesse stare bene, beh, che si fotta. Narciso uber alles. Si dirige proprio verso di me e lo vorrei evitare. Tanto so che sarà il solito Gallo: apparentemente interessato e partecipe, intimamente al di sopra di tutto e tutti. Mi lancia una rapida occhiata e si ferma a parlare con due agenti. Bisogna riconoscerglielo però: ha un sesto senso nel captare le impressioni della gente. Avrà senz’altro letto nel mio sguardo o anche solo in un impercettibile movimento della mia mano, bocca, corpo lo sa solo lui, che non lo voglio tra i piedi, ed ecco che trova, con una abilità veramente unica, una deviazione per neanche venirti vicino. Sarebbe un fantastico trasformista, un vero elemento da circo. La voce di Train mi coglie alla sprovvista: è lì, sdraiato su di una lettiga che
viene trasportato verso l’ospedale. “Hey principessa, tutto ok? Dillo a papà tuo”. Il mio debole sorriso non lo convince più di tanto e allora continua: “Batteria e basso se ne vanno in ospedale, han bisogno di noi per una jam session tra flebo e cateteri. Sai che sballo, eh Dina. Ascoltami bene, appena ci hanno sistemato andiamo tutti a bere una birra. Ti va? Sì, so cosa vorresti dire, io una damigiana di birra e tu il tuo solito gin tonic. Fai la brava che ci vediamo dopo! E tranquilla, avviso io gli altri che stasera non si va a registrare” conclude agitando una mano e viene fatto salire sull’ambulanza, sulla quale vedo che Dark sta già aspettando. Bene, loro due sono a posto, Gallo non è stato neppure sfiorato dal tutto. Chi sta peggio è senz’altro Alex. Non ho volutamente guardato quando lo liberavano dal suo supplizio, ma posso immaginare come sia conciato. Gran bastardo quello Jacopo. Mente completamente malata, del tutto scentrata. E chissà dov’è finito. Spero sia annegato, il maledetto. Da quel poco che ho sentito, le ricerche non hanno avuto riscontri positivi. Sembra essersi volatilizzato. Arriveranno i sommozzatori, mi è sembrato che dicessero. Ma non mi frega proprio nulla. Niente di niente. In lontananza vedo il commissario discutere animatamente con Manlio Rognoni e quell’avvocato che abita nella mia palazzina. Bella coppia quei due, mi sembrano il gatto e la volpe di Pinocchio. Ripenso a Manlio: mi aveva avvisato che il fratello non era del tutto a posto, senza mai essere del tutto chiaro. Non lo capisco, un po’ lo aiuta e un po’ lo lascia fare. Rapporto tra fratelli, immagino. Sarà, ma anche quest’altro non deve essere del tutto a posto con la testa. Una mano leggera mi accarezza la spalla. Mi giro di scatto e vedo una dottoressa che mi guarda con dolcezza: “Andiamo signorina. È arrivato il suo turno. Ancora qualche momento di pazienza in ospedale e poi, salvo complicazioni che però al momento mi sembra di poter escludere, la dimettiamo e potrà tornarsene a casa. Un ultimo sforzo ancora”. Mi affido a lei come se fosse un qualche personaggio biblico, di quelli che addirittura sfiorano la santità. Sono esausta, vorrei sparire. Lei mi sorregge intanto che saliamo su di una ambulanza.
Capitolo 41
Ladies and gentlemen The DEEP BLUE
“Signorina non si preoccupi. Staremo qui fuori tutta la notte. Il dottor Rebetti ci ha dato queste istruzioni. Pertanto, lei dorma tranquilla che domani la porteremo noi in commissariato: una deposizione veloce, e poi potrà finalmente dimenticare questa brutta storia. Tu, aspetta qui intanto che accompagno la signorina di sopra”. L’agente lascia il collega in macchina e mi sorride intanto che entriamo nel portone che dà sulla strada. Ricambio il suo sorriso senza null’altro aggiungere. Le visite in ospedale sono state rapide e, come aveva correttamente ipotizzato la dottoressa, non ho nulla. Qualche ecchimosi e botte ovunque, un paio di quei punti dati con il nastro sul sopracciglio, ma non si preoccupi signorina, non le resterà alcun segno sul suo bel visino, mi ha detto la dottoressa. Gran bella persona quella donna: giovane e partecipe al punto giusto. Si è instaurato un certo feeling tra di noi, al punto di farle dire, mentre mi sistemava, che avrebbe bevuto volentieri qualcosa insieme, se solo avesse terminato il turno in quel momento. Ci siamo ripromesse di farlo non appena possibile. Con quei pensieri nella testa salgo stancamente le scale, un o dopo l’altro, un gradino dopo l’altro. Mi sento a pezzi come mai mi è capitato prima. o sul pianerottolo di Skophje e della Missiroli. Nessuno. La mia amica mi manca, la vecchia curiosona neanche un po’. Ma sapere che c’è, stasera mi dà una specie di conforto. Salgo, sempre più lentamente, un altro piano. Finalmente sono davanti a casa mia. Cerco le chiavi di casa, frugo ovunque, ma non le ho. No no no, cazzo.
“Signorina, se sta cercando le chiavi di casa sua, le abbiamo recuperate noi nella sua automobile, intanto che stavamo perlustrando il parcheggio. La sua macchina era aperta e il mazzo era lì in bella vista sul sedile anteriore. Mi sono permesso di… beh, eccole qua”. L’agente che mi scorta mi porge le chiavi che stavo disperatamente cercando. Lo guardo e gli sorrido. Giuro, lo potrei anche baciare da quanto sono contenta. Scaccio il pensiero. Infilo le chiavi nella serratura e… la porta è aperta. Non l’avevo chiusa. Evidentemente nella concitazione del momento non l’avevo fatto. Il poliziotto mi guarda interrogativamente. “Aperta? Forse l’ho lasciata solo accostata, sa ero alle prese con quel tipo là. Non ricordo bene” rispondo alla sua tacita domanda. “Non corriamo rischi, signorina. Se permette, entro io per primo. Solo per sincerarmi che tutto sia a posto”. Mi scosta e si intrufola nella porta. Lo seguo. A me sembra tutto a posto, ma lui vuole esserne certo e ispeziona l’appartamento con cura. Sarà addestrato, penso. E lo spero anche. Si convince che tutto sia in ordine e si congeda, improvvisando addirittura un saluto militare, di quelli con la mano sotto la visiera del cappello. Cappello che non ha in testa. Ha il potere di farmi ridere però. Lo guardo meglio: giovane sembra giovane, un po’ impacciato e goffo, beh, sembra impacciato e goffo al punto giusto. Un bel faccino, tutto a posto e con un bel contegno: il genero ideale per mia mamma, insomma. Come il pensiero si affaccia nella mia mente contorta, lo blocco e lo scaccio. A tutto c’è un limite, Dina. “Lei suona allora”. dice osservando il pianoforte. “Te l’hanno suggerito o ci sei arrivato da solo?” lo freddo con una delle mie solite uscite. Da zitella inacidita, direbbe mia madre che si riaffaccia nei pensieri. “Mi scusi signorina, non volevo proprio essere…”
“Scusa tu, dai. A volte sono un po’ irruente e oggi è stata una giornata bella tosta. Sorry”. Lo blocco e gli sorrido. Amichevolmente. “Tu non bevi in servizio eh? Dovrei avere delle birre in frigo. Io la prendo. Te ne porto una e poi vedi tu”. Mi giro e mi dirigo in cucina. Accendo la luce, apro lo sportello e prendo due birre. Sono le ultime. Il aggio di Gallo si nota subito. Sento un gemito alle mie spalle. Mi giro di scatto e vedo l’agente a terra. Un fiotto di sangue esce, credo, dal suo torace e sta allagando il mio pavimento. Dio Santo Onnipotente. Quel coltello l’ho già visto. Lui è lì. Rimango impietrita. Mi sorride. E no, che cazzo, ancora, no no, non esiste proprio. Ricomincia con il suo cantilenante: “Ciao baller…” Gli spezzo la parola in bocca. Letteralmente gli spezzo la bocca e sicuramente anche qualche dente: la bottiglia che ho nella mano destra lo centra proprio in pieno viso. Una bella bottiglia di vetro spesso, di quelle usate dagli hooligans nelle loro risse, perché più resistenti delle altre. Flash di ricordi di racconti di Gallo, dalla veridicità mai appurata ma immagazzinati nella memoria. Lui rimane sconcertato e ferito, io reagisco a una velocità impensabile per me: spezzo l’altra bottiglia tenendola per il collo, come ho visto fare in un sacco di
film, e lo colpisco forte con il moncherino che mi ritrovo in mano. Il sangue esce dalla gola lacerata a fiotti, credo di avergli reciso una qualche vena, anzi, un’aorta visto che di lì dovrebbe are la giugulare. Si comprime la ferita con quelle sue mani enormi che avrebbe utilizzato per farmi a pezzi, e allora non ho grandi rimpianti: il tutto si svolge a una velocità allucinante, non ho neanche tempo di capire bene cosa stia succedendo. Quel che so è che non mi farà del male. Mai più. Questa volta ti ho prevenuto, brutto bastardo. Game over Jacopo Rognoni.
Capitolo 42
Lascio la macchina al secondo piano del parcheggio vicino al Tribunale. Ho deciso di fare una camminata prima di arrivare – per l’ennesima volta in questi giorni – in Questura. Sono ati ormai quindici giorni da quel sabato di sangue e lentamente mi sto riprendendo. Non sono le botte e la ferita al sopracciglio a fare male, perché di quelle veramente non me ne frega nulla. La devastazione che ho dentro mi rende una vittima ancora convalescente: ripeto come una cantilena, quasi fosse un mantra purificante che non avrei proprio potuto fare altro, che dovevo uccidere Jacopo Rognoni, che veramente non avevo altra alternativa. Ma le mie mani, mani che ho sempre amato quasi fossero la parte più sacra di tutto il mio corpo, non sono state addestrate per questo. Hanno accarezzato e percosso i tasti del mio pianoforte lasciando uscire tutta me stessa e sono state le messaggere della mia gioia e della mia tristezza, del mio odio e del mio amore. Ma usarle per uccidere, beh questo è veramente tutt’altra cosa. Mi fa soffrire, e non importa sapere che gli amici mi sono sempre vicini, fornendomi tutte le ragioni e le spiegazioni di questo mondo, e non aiuta neppure essere diventata per gli uomini della band – Train in testa – una specie di terminator invincibile. Io non ci riesco. Io sto ancora, veramente male. Carla, la dottoressa del Pronto Soccorso che mi ha medicato e con la quale sono uscita a bere qualche volta, mi assicura che il tempo aiuta, che questo diffuso malessere erà. Sarà anche come dice lei, ma per adesso sono uno straccio. Cammino con o meccanico, so dove andare, un piede dopo l’altro e tra breve sarò arrivata al Commissariato, ma la testa va da tutt’altra parte.
Go Dina Go… once again. “Buongiorno signorina. Si accomodi pure. Come sta?” Le domande che mi fanno sono sempre le solite. “Bene commissario, bene. E starò senz’altro meglio quando il tutto sarà finito e io non la vedrò più. Per lo meno per lungo tempo, spero”. Mi stampo un sorriso finto in faccia e aspetto che continui. “Guardi, le vengo incontro ed esaudirò il suo desiderio: credo che la sua deposizione sia finalmente completa, redatta e firmata. Il che la autorizza a uscire da quella porta e, presumibilmente, a non fare ritorno. Il caso, come già anticipatole, verrà archiviato in tempi brevi, tempi addirittura incredibilmente brevi per lo standard del nostro Paese” aggiunge quasi spiritoso. Si alza e mi tende la mano. La stringo. La mia mano rimane nella sua e io non mi muovo. “Commissario, posso chiederle alcuni chiarimenti?” “Provi, e vediamo se sono risposte che io posso darle”. “Che fine ha fatto Manlio Rognoni? Da quel giorno è sparito e chi l’ha più visto…” chiedo, mentre penso come questa sia solo la prima di un centinaio di domande che si stanno affollando nella mia mente. “Manlio Rognoni, il signor Manlio Rognoni…” Rebetti respira profondamente. “Dunque, il signor Rognoni è cittadino russo ed è impiegato all’Ambasciata del suo Paese in Italia. Il che, come sottolineato fino alla nausea dal suo legale, lo tutela, se mi a il termine, fino all’inverosimile. Fermo restando che, comunque, non abbiamo potuto formulare accuse specifiche nei suoi confronti, in quanto non ha mai commesso alcun atto contrario alla legge. Perlomeno, questo è quanto risulta sino a oggi. Per cui, al momento, il signore in questione, dopo aver provveduto ai funerali del fratello, della cui morte lei è ancora indagata, si è trasferito in Svizzera, a Lugano, dove crediamo stia preparando un memoriale in cui continuerà a raccontare la sua verità. Se poi invece vuole il mio
parere, del tutto soggettivo e fuori dai denti, la invito a bere un caffè o quello che preferisce lontani da queste mura e allora sì che le racconterò una bella storia”. Ohlala, il coniglio dal cilindro! Ovviamente accetto. È una bella giornata di sole e il clima invoglia a camminare un po’. Il dottor Rebetti propone di arrivare fino al bar in fondo al lungo lago, locale che comunque non dista più di una decina di minuti a piedi. Camminiamo in silenzio, e, a vederci dall’esterno, sembriamo una di quelle coppie che non hanno più niente da dirsi e che vanno avanti per inerzia. Lui, che è più alto di me, cammina con o spedito e sta leggermente più avanti, forse proprio per non dare a nessuno l’impressione di essere uno della coppia. “Commissario, ma lei vive di solo lavoro?” La domanda mi esce spontanea, senza averla preparata, anche se ormai è da tanto che affiora nella mia mente. “Sa com’è “aggiungo “lei sembrerebbe sapere tante cose su di me e invece io non so niente di lei. E un po’ mi dà fastidio, lo devo ammettere”. Mi guarda con una espressione tra il divertito e il sorpreso, una lunga occhiata senza dire nulla. Facciamo ancora qualche o in silenzio. Forse non avrei dovuto, dopotutto quasi non so neppure come si chiama di nome… appunto, la storia del nome… altra domanda… oggi è il giorno… “E, intanto che ci sono, mi chiedevo, com’è che vi chiamate sempre per cognome e mai per nome? Per esempio, lei lavora con Astolfi da anni, o perlomeno così credo, e continuate con questa storia del lei e del cognome. Io lavoro con persone che quasi non so che cognome abbiano, uso il nome, fa più intimo. Voi al contrario, lo fate per mantenere la separazione dei ruoli, le gerarchie?” Vorrei mordermi la lingua ma ormai l’ho detto.
“Santi numi signorina, oggi vuole proprio giocare alla professoressa! Le dirò, usiamo il cognome invece del nome, proprio per evitare di entrare in quella sorta di intimità che potrebbe arrivare al punto di farci soffrire più del dovuto. Si ricordi signorina che il nostro lavoro contempla quell’eventualità definita decesso per cause di servizio. Purtroppo, sappiamo benissimo che si può verificare la possibilità di agire in situazioni ad alto rischio, dove la nostra stessa vita è realmente in pericolo. L’uso del cognome mi permette, nel caso, di soffrire un po’ di meno. So che le suonerà stupido, ma è una sorta di difesa. Spero riesca a capire quello che sto dicendo, al di là delle parole che sto usando”. Le sue labbra disegnano un sorriso amaro, quasi triste. Il suo discorso stringato ed essenziale mi apre prospettive talmente particolari che mai la mia immaginazione, pur abituata a grandi voli mentali, avrebbe raggiunto. Bella persona il commissario, mi ritrovo a pensare. Ricambio il sorriso e annuisco con la testa. Sì, credo di avere afferrato il suo messaggio, al di là delle parole. Ancora in silenzio per qualche altro o ed ecco che riattacca: “E no, non vivo di solo lavoro. Se vuole sapere se ho moglie figli nipoti e annessi e connessi le devo dire che no, non ne ho. Solo una mamma piuttosto anziana, ma ancora in gamba. Sono uno scapolo ormai datato, o, per usare un’espressione un po’ più moderna, sono single. Le dirò che in gioventù ho avuto anch’io il grande amore, una collega della Polizia. Addirittura pensavamo di sposarci. Poi un giorno, non credo che lei possa ricordare la notizia, ma le assicuro che fece scalpore e la stampa e i notiziari vi indugiarono a lungo, uscì per un normale servizio di pattuglia, quando si imbatterono, lei e il collega, in un tentato furto alla sede periferica di una banca. Inutile dirle che nella convulsa sparatoria che seguì lei venne raggiunta da un colpo proprio vicino al cuore e morì sul colpo”. Si accende una sigaretta. “Mai chiamato più nessuno per nome sul lavoro, né tanto meno mi sono più innamorato”. Inspira dalla sua sigaretta e osserva la mia reazione “Su, su, cambi espressione signorina. È ato tanto, tanto tempo. E lei sa che il tempo aiuta a rimarginare ferite”. Proprio come dice Carla, la dottoressa.
Dà un’altra profonda boccata: se riuscisse, credo la consumerebbe fino al filtro in un solo tiro. ato tanto tempo, ma fa ancora male mi sembra. Arriviamo al bar. Non c’è praticamente nessuno e ci sediamo a un tavolino appartato, proprio in riva al lago. Lo scenario è incantevole: le sagome delle montagne danno l’idea di rincorrersi tra loro fino a incorniciare la linea delle sponde in modo tale da far apparire il tutto come opera di fantasia. Il cielo azzurro e terso sembra specchiarsi nelle acque più scure del lago, conferendo una tonalità più tenue al verde salmastro. Vivo in un posto magico, non c’è che dire. Ordiniamo da bere. Classico caffè macchiato io, una grappa barricata lui. A quest’ora, però… credo di aver riportato a galla ricordi non ancora del tutto sopiti. Altra manciata di momenti di silenzio, dove ognuno di noi perde lo sguardo e i pensieri nel paesaggio che ci avvolge. Il rumore del vassoio portato dall’inserviente ci distoglie dalle nostre fantasie. Strappo la bustina di zucchero e mescolo il caffè. Lui sorseggia la sua grappa. Sta zitto e io non voglio dare l’impressione di pressarlo: credo di avere già fatto abbastanza danni poco prima con le mie domande. Si accende un’altra sigaretta… quanto fuma penso tra me… e finalmente incomincia a parlare. “Allora, le ho promesso una storia e la sua storia avrà”. E dai commissario, ne ho proprio bisogno… toglimi questa brutta sensazione da amaro in bocca. “Ricordi però che, insieme a fatti, date e momenti oggettivi, dimostrabili con tabulati e relazioni, mi permetterò di divagare un po’, aggiungendo pareri del tutto personali e, di conseguenza, sicuramente opinabili” premette.
“Dunque, la famiglia Rognoni appare la prima volta nella cronaca locale nel momento in cui una giovane cugina di secondo grado dei due fratelli, tale Silvia Ratti, parente da parte del ramo Rognoni, rotola dalle scale di Villa Angst mentre sta giocando con il cugino e muore sul colpo. Spina dorsale spezzata all’altezza della seconda vertebra cervicale. Un bel colpo, aggiungo io. Non è stata eseguita alcuna autopsia, in quanto le cause del decesso furono attribuite, senza alcuna ombra di dubbio, alla caduta in questione. ano un paio di anni durante i quali, grazie alle indagini e ricostruzioni di Astolfi o, se preferisce, di Giorgio” e mi sorride complice “non emerge nulla di eclatante sulla famiglia Rognoni, se non le notizie relative all’andamento dell’impero desunte dal giornale ‘Il sole 24 ore’ che, come certamente saprà, si occupa di economia. Quello che chiamo Impero Rognoni, oggi come allora, diversifica i suoi interessi, partecipazioni e società, in praticamente tutti i campi del panorama di investimenti internazionali. Non la tedio con dati e resoconti, le basti sapere che il vecchio Rognoni, dottor Cavaliere della Repubblica Anselmo Rognoni, aveva tessuto una rete di interessi come un abile ragno, rivelandosi, parimenti, una specie di Re Mida: tutto ciò che toccava, si trasformava in oro”. Conosco la leggenda. Rebetti si ferma, ordina un’altra grappa e si accende l’ennesima sigaretta. Ricomincia il suo racconto. “Era uno dei pochi investitori internazionali, se non forse l’unico, ad avere interessi nell’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, anticipando di fatto l’apertura di quei mercati resa possibile solo dall’avvento della Glasnost. Voglio dire, ben prima di Mc Donald, a Mosca, c’era Anselmo Rognoni”. Ride. Ha apprezzato la sua battuta. Io seguo affascinata il suo resoconto. Sinceramente, conosco la Russia per i suoi musicisti e per i suoi scrittori, i miei grandi amori di gioventù. So poco di politica e pressoché nulla di economia. Ma mi piace quel che racconta e come lo racconta. Il commissario si guarda in giro. Non appena il cameriere porta la grappa che ha ordinato, prende tra le mani il bicchiere e ne ammira il contenuto. I riflessi del liquido ambrato sembrano distoglierlo dalla Dinasty Rognoni. Accenno un leggero colpo di tosse, lui torna tra noi mortali e continua. “Impaziente la nostra musicista. Vuol dire che questo breve excursus la sta intrigando. E la posso capire: man mano che il puzzle si andava completando, io
stesso ne rimanevo affascinato. Dunque, mentre Anselmo Rognoni costruiva e rafforzava senza sosta il suo impero, i suoi ragazzi crescevano tra scuole svizzere e rifugi dorati. La mamma, Elena Vishnjakova, cittadina russa di buona, anzi direi ottima famiglia, contribuiva a rafforzare la loro personalità con un rigore tipico della sua terra. La presenza abbastanza costante del fratello di lei, dottor Igor Vishnjakov, e della governante Henrietta Gottlieb permetteva agli abitanti di Villa Angst di condurre un’esistenza appartata da tutto e tutti. Dopo la caduta del Muro di Berlino, simbolo di un retaggio marxista ormai tramontato, si rese necessario, nell’ormai frazionato Soviet, un vero e proprio ribaltone. Nel frattempo i fratelli Rognoni rimangono orfani di entrambi i genitori in seguito a uno spaventoso incidente automobilistico. Aggiungo che anche in questo caso nessun tipo di autopsia fu eseguita: ci fu solo una blanda investigazione da parte dei tecnici delle Compagnie Assicurative coinvolte che portò alla conclusione di come si trattasse di un banale incidente. Nessun complotto o addirittura omicidio, come in un primo tempo fu ventilato, solo un banale incidente. I fratelli Rognoni, da quel momento, diventano unici eredi di tutto il patrimonio di famiglia: beni, attività, partecipazioni, quote societarie, insomma di tutto. Il tutore dei due fanciulli risulta essere, e a mio parere solo nominalmente, l’avvocato Quattrini, legale che lei ha avuto il piacere di conoscere di persona. Ed è in questi momenti che scatta quello che, a mio parere, sembrerebbe essere un piano ben congegnato”. Si ferma, sorseggia la sua grappa, schiocca la lingua quasi a volere dimostrare la bontà della sua scelta, mi guarda e aggiunge: “Mi segue, signorina?” Seguo, seguo, anche se, per adesso, non ci ho capito molto. Sembrerebbe la storia di due ragazzi molto ricchi ma un po’ sfigati dal punto di vista affettivo. Solo questo. “Credo di non avere perso neppure una parola e aspetto che lei finisca il suo racconto prima di dare un giudizio. Anzi, aggiungo, forse sarà meglio che io rifletta un po’ alla fine della storia. Soprattutto adesso che sta per svelarmi il loro piano. Anche se, non dimentichi, che Jacopo nel capanno sul lago ha ammesso con me di esser stato lui a uccidere i genitori. Si, lo so, me l’hanno ripetuto un mucchio di volte, la mia sola parola non conta, soprattutto in mancanza di prove,
che non ci sono mai state e, che sicuramente non ci saranno”. A questo punto ordino una birra perché siamo arrivati all’ora dell’aperitivo. “Capisco la sua frustrazione signorina ma, come ho avuto modo di dirle in altre occasioni, i Rognoni sono off limits per noi. In tutta onestà, io le credo e non ho dubbi sulla bontà della sua versione. Che però tale rimane: la sua versione di quei momenti. Neppure i suoi due amici hanno sentito nulla del vostro discorso”. Lo guardo e lui ricambia con un sorriso intanto che allarga le braccia quasi in segno di resa. Annuisco e taccio. In momenti come questo rimpiango un po’ di aver smesso di fumare: in realtà vado fiera della mia decisione e della perseveranza che riesco ad avere, ormai sono tre anni che non ne accendo una, ma di dentro rimane quel sottile pensiero che ogni tanto ricompare. Soprattutto in occasioni come questa, dove vorresti stemperare la tensione delle parole e con un fumatore di fronte, tanto accanito da accendersi una sigaretta dopo l’altra, risulta tutto più complicato. Prosegue. “Lo zio Igor esercita un’attività medica in uno studio privato, il che gli consente di rimanere costantemente a Villa Angst fino alla maggiore età di Manlio, per riuscire a fargli prendere l’esclusiva cittadinanza russa e conferirgli un ruolo di spicco nel Corpo Diplomatico del suo Paese. Al compimento del ventesimo anno d’età, Manlio era un giovanissimo agente diplomatico. Dopo avere realizzato tutto questo, quasi magicamente lo zio sparì. Sparire, e intendo proprio sparire: nessuna notizia, nemmeno il più piccolo accenno, il suo nome e la sua persona vengono letteralmente inghiottiti nel nulla. Le uniche notizie in nostro possesso lo collocano a San Pietroburgo dove ci dicono essere deceduto. Cause naturali o altro, non ci è dato sapere”. Altra pausa per finire la grappa. Continua senza fumare null’altro, come invece mi sarei aspettata. Mi legge nei pensieri. “Sono rigoroso, signorina. Alla mattina mi fermo, sempre e comunque, alla quinta sigaretta. Non sgarro mai. Aspetto la prima del pomeriggio. Una specie di rito, per far finta di controllarmi. Beh, le dicevo che, dopo la sparizione dello
zio, Manlio Rognoni assume in toto le redini delle attività di famiglia. Si reca più volte a Mosca e da lì intraprende viaggi praticamente ovunque: quella che fu l’Unione Sovietica sembra non avere segreti per il giovane Manlio che, ben presto, dimostra di possedere una stoffa e un temperamento in tutto e per tutto degni del padre. Il fratello minore, quello che lei signorina ha avuto modo di conoscere molto da vicino, rimane per lo più in Italia e sembra condurre una vita appartata, quasi anonima. Qualche breve viaggio in Russia con il fratello, qualche viaggio nel Nord Europa, per lo più Scandinavia e Olanda, ma poco altro. Non abbiamo notizie certe, anche se Astolfi ha trovato tracce di un – chiamiamolo così – incidente scolastico dove lo Jacopo Rognoni sembrerebbe risultare coinvolto. Durante una festa organizzata per festeggiare la maturità scolastica presso l’abitazione di amici, un compagno, tale Federico Riini, è vittima di un tragico incidente che lo rende infermo per il resto della vita. Qui le versioni discordano: si stabilì che il Riini si ruppe la spina dorsale eseguendo un tuffo in piscina ma esiste una prima versione, rilasciata dalla signorina – cito a memoria in quanto non ricordo perfettamente – Patrizia Reboletti, altra maturanda e pertanto festeggiata, secondo la quale Jacopo Rognoni, dopo un beve alterco, colpì il Riini alla schiena causandogli la frattura in questione. La deposizione, raccolta subito dopo l’incidente, fu ritrattata in un secondo momento dalla Reboletti, e, soprattutto, mai confermata dallo stesso Riini, che continuò a sostenere la versione dell’incidente”. Mi guarda con una specie di smorfia e continua: “Il Riini oggi abita in Svizzera, nei pressi di Ginevra, e conduce un’esistenza apparentemente agiata, anche se su sedia a rotelle. Patrizia Reboletti è sparita un paio d’anni dopo in Romania, durante un tour organizzato e chiamato ‘Alla ricerca delle radici del Conte Vlaad’. Qui, le uniche ricerche vere, condotte sia dalla Polizia locale che dall’Interpol, non hanno mai, e sottolineo mai, dato alcun tipo di risultato”. Tocca a me guardarlo e chiedere: “Cioè, mi sta dicendo che Jacopo ha massacrato un compagno e poi, chissà come, ha fatto sparire la ragazza? Beh, e i genitori dei due? Muti?” “Mi sono posto la stessa domanda e, come lei, sono ancora senza risposta. Le due famiglie coinvolte sembrano avere accettato, perlomeno apparentemente, la successione degli eventi così come sono stati evidenziati nei fascicoli e nelle indagini svolte. Ed è qui che credo, a livello di supposizione personale badi bene, di vedere la mano di Manlio Rognoni. Non so ancora ipotizzare come, ma sono convinto che il Rognoni avesse ormai a disposizione una tale rete di
intermediari – se così posso definirli – sui quali poteva fare completo affidamento per risolvere qualsiasi tipo di problema. Orbene, Jacopo Rognoni è, era vista la sua fine, uno psicopatico gestibile dal fratello grazie anche a qualche semplice farmaco che, complice lo status di agente diplomatico, non era difficile reperire. E non dimentichiamo come il caro zio risultasse essere stato attivo collaboratore della Polizia Segreta Sovietica in tempi dove l’uso di sostanze psicotrope, sperimentali e non, abbondava. Ovviamente si tratta di materiale top secret, per cui la maggior parte delle informazioni in mio possesso risulta essere sempre frammentario o addirittura mancante, ma certo è che il dottor Igor Vishnjakov abbia fatto parte di un pool di scienziati attivi nella ricerca e sviluppo di sostanze psichedeliche, soprattutto nel campo degli anestetici dissociativi, quali il P e, sicuramente più pertinente al nostro caso, la ketamina”. A queste parole la mia espressione deve sembrargli veramente sconcertata. Insomma, il commissario mi ha trascinata in una storia dai mille imprevedibili risvolti, dove tutto sembra essere chiaro solo fino a risultare – improvvisamente – esattamente l’opposto di quel che mi sembrava. Lui sorride indulgente e continua: “Signorina, a entrambi mancano le necessarie competenze medico scientifiche e, pertanto il mio lessico potrebbe sicuramente non essere del tutto ortodosso, ma questi farmaci risultano essere indicati nel controllo dei disturbi dello spettro bipolare. Suvvia, non mi guardi così! In altre parole, sono quelli un tempo indicati come crisi maniaco depressive. Adesso sono stato un po’ più chiaro eh…” Sorride e mi prende una mano, quasi a rassicurarmi. “Ma fino a che punto le ricerche dello zio si siano spinte, purtroppo non ci è dato a sapere, anche se, certamente, hanno raggiunto risultati tali da permettere un fattivo controllo di Jacopo Rognoni. Per tanto, abbiamo” e sottolinea contando con le dita “un fratello manager, uno zio chimico e un giovane e aitante farabutto psicolabile da gestire: un bel quadretto, non c’è che dire”. Un bel ritratto di famiglia sì, sono d’accordo con lui. Soprattutto se penso alla mia di famiglia, dove tutto scivolava via nel silenzio, quasi si nuotasse nel mare liscio come l’olio… Ho finito la mia birra e sono indecisa se prenderne un’altra. Quasi quasi, se lui beve ancora lo seguo. Mal comune eccetera eccetera… Non prende nulla, non
accende nessun’altra sigaretta, ma prosegue imperterrito. Ormai ha preso un bel ritmo. “In tutto questo frenetico sviluppo, Manlio Rognoni si dimostra ancora più abile del padre. Riesce a intrecciare affari, rapporti e scambi con la emergente mafia russa fino a – e questo mi pare certo – diventarne membro effettivo, anche di un certo livello. Il tutto documentato da file dell’Interpol che, con molta prontezza, sono stati resi completamente accessibili”. Si mette le mani giunte davanti al viso in un gesto che ormai ho imparato a conoscere. Sembra riordinare le idee. “Vorrei solo sapere come Manlio riuscisse a indirizzare le azioni del fratello. Vede signorina, le sue connection con la mafia sono ampiamente documentate, pur non esistendo elementi tali da autorizzare un intervento di Polizia nel suo Paese né tanto meno qui… Foto con personaggi compromettenti durante qualche festa certificano le sue frequentazioni ma nulla più, le registrazioni contenenti frasi sospette suggeriscono possibili scenari, ma Manlio Rognoni è sempre stato il più abile di tutti, tanto da condurre chiunque avesse seguito i suoi movimenti nel classico vicolo cieco. Perlomeno fino a oggi, non ha ancora commesso il benché minimo o falso. E – pur a malincuore – confesso di ammirare questa sua abilità nel coprire anche la più piccola traccia che avrebbe potuto lasciare dietro di sé: un vero giocatore di scacchi professionista. Ripeto, tutto questo sarebbe anche plausibile, come se si trattasse di un gioco ancora aperto. Quello che mi manda fuori giri e che non potrò mai comprendere appieno è la strategia attuata con il fratello. Accertato che lo controllasse attraverso la chimica, quello che mi arrovella è non sapere come riuscisse a indirizzarlo nel suo operare. Almeno fino a che è entrata in scena lei con la sua canzone, Jacopo era il burattino di Manlio”. Già, la mia canzone. In my bones… non l’ho più suonata da quel giorno, neppure a casa da sola. Non ci riesco. Mi piace ancora ma per adesso nada. Il solo pensare che quelle note e parole abbiano contribuito a un delirio sfociato in morti mi angoscia. Ferite ancora aperte. In effetti, piacerebbe anche a me saperne di più sul rapporto tra i due fratelli.
Manlio è un viscido ambiguo, quello che all’inizio è venuto da me tutto carino e a modino, presentandosi come una sorta di amico che avrebbe voluto salvarmi dal fratello matto e che poi invece scopro essere proprio lui quello che orchestrava il tutto. Mi sa che il matto vero è lui. Come si dice il braccio e la mente. La voce del commissario mi ricorda che il suo racconto non è ancora terminato: “Forse l’ho stancata signorina, la vedo un po’ distratta. Se preferisce smetto e continuiamo un altro giorno”. prosegue con tono accondiscendente. “Credo che la narrazione di questa storia sia abbastanza monotona. E lei reagisce come i suoi ragazzi a scuola durante una spiegazione… divaga un po’con la sua mente”. Conclude sorridendomi. “No no, in verità questa storia mi intriga molto. È solo che in alcuni momenti le sue parole mi danno modo di riflettere su alcune sfumature che mi erano completamente sfuggite. Ecco perché le posso sembrare distratta o stanca. Tutto qui” gli rispondo spontaneamente. E le parole mi escono come un torrente che corre a valle. “Vede dottor Rebetti, tutti questi avvenimenti mi hanno risucchiato in una specie di vortice al quale, per indole e predisposizione, non sono assolutamente abituata. Io vivo delle mie certezze, forse non condivisibili da tutti, ma mi permettono di essere intimamente soddisfatta. Musica da suonare e musica da insegnare. Il tutto scandito da un andamento sincopato regolare, senza molte variazioni ritmiche”. Lo guardo per vedere se segue le mie metafore musicali. Ha le sue solite mani giunte davanti al viso. Boh, sembrerebbe interessato… continuo. “Commissario, in questo momento potrei paragonare la mia vita al Bolero di Ravel”. Lo guardo. Annuisce. Continuo: “Mi sembra lei conosca questa composizione e allora può anche capire cosa le sto dicendo. Scrivere canzoni mi permette di are da un intimo pianissimo a un fortissimo che esplode nell’aria e viceversa, giocando con crescendi e diminuendi di tale intensità emotiva che mi fa sentire frastornata e
appagata nel contempo. Lasciare che i colori che ho dentro di me riescano a riversarsi nelle mie musiche e nelle mie parole, rendendole vive, mi permette di sentirmi veramente realizzata. Ed è questo il variare ritmico della mia vita. L’unico che posso avere, l’unico che voglio avere. Questo ultimo periodo invece mi ha investito come fosse un brano di free jazz, senza le regole armoniche e melodiche che conosco, con il risultato di frantumare il mio universo”. Mi fermo. Vorrei una sigaretta. Cosa mi è venuto in mente di raccontare tutto questo a un perfetto estraneo, a un poliziotto per di più… brava Dina, bella scelta. Ma ormai è fatta. Lo fisso. Rimane silenzioso. In questa piacevole mattina primaverile io e il commissario ci siamo raccontati frammenti di vita che mai prima si erano sciolti al tiepido calore. Forse non siamo così differenti. Vestiamo divise diverse, usiamo frasari diversi e conduciamo esistenze diverse, ma, nonostante tutto ciò, quel che ci aspettiamo dalla vita potrebbe essere più simile di quel che potrebbe sembrare. Sempre in silenzio ci apprestiamo ad andarcene. Lui si avvia alla cassa e, alzando una mano, mi fa capire che intende pagare il conto. Lascio fare e aspetto che torni. Camminiamo. Entrambi riflettiamo su quanto detto, su quanto ascoltato. Il suo racconto mi ha chiarito alcuni punti che non avevo compreso o che semplicemente mi erano del tutto sfuggiti. Rimane ancora irrisolto l’interrogativo sul vero ruolo di Manlio in tutta questa storia. Manlio Rognoni cittadino russo ora residente temporaneamente in Svizzera.
Vorrei farti una visita un giorno di questi, comparirti davanti come hai fatto tu, all’improvviso, e chiederti alcune cose. Chissà se ti apriresti un po’ con me, smettendo di giocare a scacchi. Rimarresti intoccabile, comunque. L’idea mi piace ma tengo questi pensieri per me, so che il commissario non approverebbe. Ovviamente. Arriviamo e ci guardiamo, ancora muti. Nessuno dei due ha detto nulla, nemmeno una parola. Entrambi persi nei nostri pensieri. La stretta di mano – formale – non lascia intuire che solo un attimo prima ci siamo sfiorati le anime aprendoci l’uno all’altra. “Ci vediamo signorina…” “Non ci conti troppo, dottor Rebetti. o e chiudo”. L’occhiata che segue – quella sì – lascia intravedere una sorta di complicità e vicinanza. Dai Dina, è tempo di tornare a scuola. La malattia scade domani. E stasera si va a suonare.
Capitolo 43
Arrivo nel nostro studio di registrazione un po’ più tardi rispetto a quanto io sia abituata a fare e trovo Dark e Train già all’opera. Beh, uno è solo presente, seduto e non sta facendo nulla. Invece Dark, meticoloso ed essenziale nel suo ruolo di fonico e tecnico, sta controllando che i livelli dei volumi delle ultime parti siano ottimali e modifica quelli delle tastiere che – evidentemente – gli sembrano un po’ troppo bassi. Alza la testa quando si accorge della mia presenza e, senza neppure salutare, ferma il tutto e isola le due chitarre. So che quel sorrisino che lentamente gli si disegna sulle labbra ha un solo significato: cerca in me una alleata e una complice per demolire quello che – visibilmente – non lo soddisfa. Scuoto il capo. Siamo entrambi di poche parole: purtroppo quello che stiamo ascoltando non ha bisogno di commenti. Le nostre orecchie sanguinano. Train sta bevendo la prima birra della serata comodamente seduto sul divanetto di pelle rossa che, insieme a quattro poltroncine sempre dello stesso colore, abbiamo sistemato in un angolo dello studio. Alcuni tappeti indiani, forse un po’ troppo logori e polverosi, da lui stesso portati lì nel tempo, danno un carattere intimo, quasi casalingo, a quell’angolo che tutti sfruttiamo volentieri. In questo ultimo mese abbiamo perso parte di quel rigore che ci ha sempre contraddistinto nelle prove. Temporeggiamo un po’, rimasticando gli ultimi brani senza peraltro apportare modifiche significative a quelle canzoni che – invece – necessiterebbero di ben altri sviluppi. Tutto comprensibile: i due ragazzoni e la ragazzina sono stati convalescenti per qualche giorno e ora che abbiamo smaltito botte e ferite so che recupereremo il tempo perduto. Non che ci sia alcuna fretta, i nostri dischi sono autoprodotti e il
canale ufficiale di vendita sono i nostri concerti: se ti piace quel che stai ascoltando, puoi anche comprare il cd. Semplice. Train, che è il più vecchio di tutti, ha l’entusiasmo di un ragazzino, sta facendo preparare delle magliette con il logo della band da qualche suo conoscente, per incrementare le vendite dice. Io sono convinta che essenzialmente la voglia indossare lui. Aspetto impaziente di vedere il risultato. “Ohi Dina, com’è?” Tra un sorso e l’altro Train fa finta di preoccuparsi, assumendo il ruolo del vecchio saggio. È una parte che gli piace, tutti lo sappiamo e lo assecondiamo. “Bene, direi bene. Oddio, potrebbe andare meglio, ma mai lamentarsi. Siam qua. Direi che basta. Dammi una birra dai…” gli sorrido. Li guardo ancora. E vorrei abbracciarli tutt’e due. Grandi, grandi amici. Ma mi devo trattenere: ci siamo già stretti calorosamente l’un l’altro in ospedale e poi ancora fuori, una volta dimessi. E l’abbiamo fatto con tutti quelli che conosciamo, nell’impeto anche con gli sconosciuti. Felici di esserci ancora, felici di essere sopravvissuti. Ma li conosco, non si può esagerare con queste manifestazioni d’affetto. Fanno piacere ma, nel loro mondo di uomini, non bisogna eccedere. Troppe smancerie. Una pacca sulla spalla, quella sì, ci sta, anche più di una, ma basta così. Li guardo e una lacrimuccia scende. La asciugo subito, che non mi vedano, altrimenti sai che battute… Dark si alza dal suo posto di regia, si accende una sigaretta anche se in studio, per tacita convenzione, non si fuma. Capisco che deve dire qualcosa. Si aggira un po’, sembra la classica anima in pena, strano, di solito è diretto, molto diretto. “Voi due” si rivolge a Train e a me. Ovvio, siamo gli unici in studio. “Direi che è arrivato il momento di archiviare questa storia una volta per tutte”.
Ci guarda intensamente e prosegue: “Intanto che siamo qui solo noi tre, ci guardiamo nelle palle degli occhi, e, prima che arrivino gli altri Scaramacai, se ci si deve dire ancora qualcosa, lo facciamo adesso ma poi, una volta per tutte, direi basta. Basta con il clan Rognoni, basta con i due pistoleri mafiosi che, così per inciso li hanno già rispediti alla loro terra natia, basta con commissari e poliziotti e, questo lo dico a te Dina, basta anche con Gallo. Non fa per te, non sono affari miei ma lo sai anche tu, e se tu fossi sincera con te stessa, lo ammetteresti. Punto e a capo”. Apre una birra e beve un lungo sorso. Sapevo che doveva dirci qualcosa. A me in particolare. Train annuisce, bocca chiusa, mascella serrata e mento proteso in avanti sintetizzano il suo stato d’animo. È d’accordo, anzi: “Ne avete già parlato voi due eh?” scuoto la testa e sorrido. Train annuisce in silenzio. “Bene, va bene, seppelliamo questa storia una volta per tutte. Alex sta meglio, oggi non sono andata a trovarlo ma Gallo, che abita da lui e nella mia stessa palazzina e tiene aperto il bar e per cui mi capita di vederlo”. Fisso Dark negli occhi e scandisco per bene tutte le parole, per meglio sottolineare il concetto. “Mi ha detto che i miglioramenti sono costanti e che probabilmente lo dimetteranno tra due o tre giorni. Ho visto anche la vecchia Missiroli, quella che abita nel piano sotto al mio: in un impeto di buonismo, ha adottato il cane di Skophje facendomi promettere che ogni tanto lo porterò in giro io. Sono contenta di saperlo in una casa e non in canile. Oggi ho parlato con il dottor Rebetti e abbiamo chiarito alcune cose, tutti i feriti si stanno riprendendo, dunque… un bel brindisi e… facciamo un po’ di rock!” Alziamo le bottigliette al cielo e le svuotiamo in un paio di lunghi sorsi. Sorridiamo come se veramente avessimo seppellito l’ascia di guerra per ritornare alla nostra normalità.
Dentro di me so però che devo risolvere ancora una piccola cosa. Ormai ho deciso e lo farò senza non dire nulla a nessuno: non sarebbero in sintonia con me. Tutti indistintamente, ognuno avrebbe da ridire, da precisare, da vietare. Ma, se voglio veramente archiviare questa storia, devo vedere Manlio Rognoni. Io e lui da soli. Poi, e solo allora – credo – sarà veramente finita. Sentiamo un po’ di confusione nell’atrio: il resto della band è finalmente arrivato, distogliendoci dall’ime del momento. Entrano tutti e tre contemporaneamente. Suoniamo? Domanda idiota, certo che suoniamo. Siamo qui apposta.
Capitolo 44
“Buonasera signorina”. Ecco che ci risiamo. Riesce sempre a prendermi alla sprovvista e non importa che io me lo aspetti o meno. Arriva silenzioso ed esordisce con quel suo signorina che proprio non mi piace. Lo sa e, appena può, lo ripete al punto che ormai io credo faccia apposta, quasi fosse il suo marchio di fabbrica. Mi giro e me lo trovo davanti, elegante e sorridente come non mai. Sono ate più di due settimane da quel tardo pomeriggio trascorso nel parco della sua villa. Non ci siamo più visti né sentiti… oddio, se la penso in questi termini, mi dipingo come fossi la donna abbandonata che ricorda l’ultimo momento vissuto insieme al suo amore sparito nel nulla. Ah, se solo la mia testa ogni tanto smettesse di sparare raffiche di pensieri senza senso, allora forse, ma solo forse, mi sentirei un po’ più normale. “Buonasera a lei, signor Manlio. La vedo in forma, nonostante l’esilio forzato”. Provo a essere ironica. Non sembra cogliere la sfumatura nella voce. “Esilio forzato? Signorina, il mio non è un esilio e anche se lo fosse, sarebbe senza alcun dubbio dorato”. mi sorride indulgente “Ho avuto il suo messaggio dal mio avvocato e, nonostante lui mi abbia caldamente consigliato di rifiutare la sua richiesta, ho pensato che una rimpatriata con lei non sarebbe stata per nulla
spiacevole”. Rimpatriata? Ma cosa crede questo… “Ringrazi il dottor Quattrini da parte mia per l’interessamento mostrato. Vede Manlio, in realtà non so se questo possa definirsi un incontro tra vecchi amici, ma se l’idea la conforta in qualche modo, le erò il termine rimpatriata”. Sorrido a mia volta. “Bene, dopo avere esaurito i convenevoli di rito, direi di sederci un momento, signorina, in modo che io possa ascoltare cosa ha da dirmi”. Mi fa cenno di accomodarci a un tavolo che sembra già predisposto per un tè all’inglese. Il luogo che ha scelto per il nostro appuntamento è in un hotel in centro a Lugano. Locale di indubbia classe e all’altezza della famiglia Rognoni: atmosfera ovattata, colori tenui e musica diffusa dal vago sapore new age colorano di artificiale la situazione. Mi sembra di giocare fuori casa, forse è proprio così, anche se più che altro mi sembra di essere in un luogo ai confini della realtà. Un cameriere silenzioso e praticamente invisibile compare dal nulla, anche lui impettito al punto da sembrarmi ingessato, e, con un sorriso del tutto fasullo che gli increspa leggermente le labbra, propone un leggero buffet, intonato all’ora e al posto. Manlio Rognoni annuisce, gratificandolo di una risposta cortese e, direi, minimalista, mentre io, più per sfida al luogo che per reale voglia, chiedo un gin tonic, vedendo un immediato balenio di disapprovazione nei suoi occhi. Manlio, da consumato padrone di casa che conosce alla perfezione l’arte del galateo, scosta leggermente la mia sedia, permettendomi di accomodarmi con più facilità. Si siede a sua volta e restiamo per pochi, interminabili istanti, a fissarci. “Allora, eccoci qua”. So che tocca a me parlare, ho chiesto io di vederlo e allora, come da copione, faccio il primo o.
“Vedi Manlio” ritorno al tu, troppa formalità non fa parte del mio repertorio “ci sono cose che vorrei sapere e tu sei l’unico che può soddisfare la mia curiosità”. Mi ascolta attentamente, anche se credo abbia già idea di quel che vorrei sapere. “Prego Dina, continui pure”. Prima che io possa iniziare a parlare, ricompare l’ingessato con quel che a suo dire è tutto il necessaire per il leggero buffet e – per fortuna – con il mio gin tonic. Vorrei sgridarlo per il servizio, che non prevede il cocktail già miscelato come invece mi viene servito, ma sorvolo. Basta ricambiare l’occhiata di disapprovazione, che lui coglie immediatamente. Manlio mi guarda, invitandomi a proseguire con un impercettibile gesto della mano, intanto che sorseggia il suo Black Russia, forse non indicato per l’ora, ma perfetto per il suo status. So di vivere una situazione veramente paradossale: parleremo di matti e di omicidi, di feriti e di morti in un ambiente talmente irreale da quasi nausearmi. Come siamo finti, come sono finta. “Facciamo così Manlio: io ti dico quel che ho capito o, perlomeno quel che credo di sapere e avere collegato, e tu mi interrompi se sbaglio o se lascio dei puntini di sospensione. Ovviamente, sempre e solo nel caso tu voglia aggiungere o modificare qualche cosa. Che ne dici, ti sembra una buona idea?” “Si può fare”. Inizio quello che è il mio racconto. Ci ho pensato talmente tante volte che ormai mi sembra tutto logico e perfetto, ma so come la mia mente sia abituata a voli extra mondo e il tutto potrebbe rivelarsi solo uno dei miei soliti giochi mentali. “Jacopo, tuo fratello. Vorrei incominciare da lui, visto che lui ha dato il via a questo incubo”. Annuisce, e non capisco se per essere d’accordo sull’iniziare con il fratello o per l’incubo. “Tutto quello che ti dico io lo do per certo, un po’ per quello che so, un po’ ancora per quello che ormai tutti sanno e, l’ultimo un po’, per quello che penso
io, avendo avuto la sfortuna di ascoltare più volte te e – soprattutto – lui”. Ho deciso di parlare senza giri di parole. Non sono tanto abile in questo e, ispirandomi a Dark, preferisco essere diretta. Mi sono ripetuta il tutto più volte e credo ormai di sapere unire tutti i puntini alla perfezione, un po’ come si deve fare per ottenere un disegno a prima vista nascosto nel giochino sui periodici di enigmistica. “Jacopo ha ascoltato la mia canzone al Revolution e credo di poter dire con sicurezza che è stata la penultima volta che abbiamo suonato lì. Ci ho pensato molto, forse troppo, e mi sono convinta di averlo visto ben prima che si manifestasse poi in tutto il suo splendore. Quella stessa settimana infatti abbiamo suonato al Western Country Buckett e lui era ancora tra il pubblico. Quasi invisibile, ma solo quasi. Ho ripensato a lui e so che i suoi occhi non mi hanno abbandonato per un attimo, li sentivo fissi su di me, e credo di avere incrociato il suo sguardo un paio di volte, anche se, di questo, non posso esserne certa: le luci del palco ingannano un po’. Tutto ciò ben prima che intervenisse fisicamente, come poi ha fatto. La terza e ultima volta è stato ancora al Revolution, proprio la sera in cui Skophje è stata uccisa. Jacopo voleva da lei delle informazioni che non ha ottenuto tanto da spingerlo, in un secondo momento, a raggiungerla a casa sua con l’intento di porle le stesse domande, sicuramente calcando la mano per ottenere risposte. Cosa volesse chiederle non lo so e credo che – purtroppo – non lo sappia neppure tu che pur sei suo fratello. Qualcosa su di me immagino, ma è solo fantasia questa. Mi sono detto che forse nel suo delirio lei avrebbe potuto essere il mago della canzone, la presenza magica del testo. Il problema è che l’ha trovata morta e si è accanito sul suo corpo, facendo lo scempio che tutti conosciamo. Credo sia quello il momento in cui ha perso letteralmente la testa”. Manlio resta in silenzio, assorto nei suoi pensieri. Spero stia ascoltando. Approfitta della mia pausa per intervenire: “Per adesso non mi ha detto nulla che non sia già emerso nelle indagini condotte dal Dottor Rebetti e dal suo staff. Cosa vuole chiedermi, suvvia, me lo dica senza altri indugi. E non stia a raccontare una storia ormai chiara a tutti. Il mio povero fratello è impazzito quando la sua canzone gli ha fatto riaffiorare ricordi dei nostri genitori che credevamo fossero ormai sopiti nei più profondi recessi della sua mente. Questo l’ha portato a personificare lei e i suoi amici coinvolti nella storia della ballerina e del mago o del cavaliere che fosse. La sua amica barista
evidentemente si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Capita più spesso di quanto lei possa credere”. Conclude. Sì, mi stava ascoltando, pronto a replicare alla prima occasione. Però ti ho preso all’amo. Alle donne, spesso, basta pungolare l’amor proprio maschile apparendo un pochino pedanti per farli abboccare. E ora vediamo se riesco a concludere come ho ipotizzato di poter fare. “Un attimo solo Manlio. Quel che mi preme sottolineare adesso è il fatto che Skophje fosse già morta. Certo, anche questa è storia appurata. I russi cercavano i gioielli che il fratello della mia amica, Dimitri, aveva loro sottratto e, nell’intento di estorcere informazioni, si sono spinti un po’ troppo in là, uccidendola. Gli stessi uomini che abbiamo ritrovato nel tuo giardino, o meglio, nel parco dell’Hotel abbandonato che confina con il tuo giardino. Gli stessi personaggi che, come accertato, erano alle tue dipendenze in qualità di Security. E, io aggiungo in totale libertà, tuoi tirapiedi in quanto la vera testa pensante di tutta l’organizzazione sei tu, caro Manlio”. Ovviamente non fa una piega. Ma me l’aspettavo. Uno che riesce a mettere sotto scacco tutti, polizia compresa, ha un bel pelo, e anche lungo e folto. “Questa è una notizia da scoop internazionale signorina. Ovviamente avrà le prove che avallano le sue affermazioni, perlomeno credo”. Mi scruta con quegli occhietti miopi da dietro le lenti dei suoi occhiali che adesso mi sembrano del tutto fuori luogo. Montatura d’oro e tonda… meglio su John Lennon, caro Manlio. Tu non c’entri nulla. “Certo che non ho le prove, altrimenti qui ci sarebbe il commissario e non io. Commissario che comunque non potrebbe farti nulla, come ben sappiamo. Vedi Manlio, io credo che tu abbia usato Jacopo in più di una occasione per i tuoi scopi e, in cambio, lui abbia potuto esercitare la sua pazzia controllata da te entro i confini che tu avevi stabilito per lui. Mi chiedo se tutti quei viaggi in Russia fossero solo per rispolverare un po’ l’idioma locale o – piuttosto – per portare a
termine qualche lavoretto, per la sua e tua gioia. Domande senza risposta, a meno che l’Interpol…” Sospendo la frase strizzandogli l’occhio. So che non equivocherà. “Ti è sfuggito quando mi ha incontrato ed è stato in quel momento che tu non hai capito che il tutto si incentrava sulla ballerina meccanica che lui possedeva da bambino. Ricordi quella che i tuoi genitori hanno inavvertitamente frantumato durante un loro diverbio? Jacopo ancora conservava il carillon in tasca, doveva proprio essere ammaliato da quella melodia di poche note. Le avrà ascoltate centinaia, forse migliaia di volte. E tu, tu ne hai perso il controllo, realizzando pienamente il suo cambiamento solo quando lui ha catturato Alex, di fatto liberandolo dai tuoi uomini. E forse ti sarebbe ancora andata bene, tutto si sarebbe potuto sistemare, ma, oh accidenti Manlio, c’è sempre un ma: Jacopo non ha fatto in tempo a ucciderlo, maledizione! Povero Alex, torturato a sangue da quello psicopatico di tuo fratello ma – incredibilmente – ancora vivo. Mi sembra tu abbia leggermente sgranato gli occhi, Manlio. Ti stai chiedendo come io sappia queste cose e di quante altre ancora io sia al corrente? Come lo so? Manlio Manlio, Alex lentamente riprende conoscenza e i ricordi incominciano a riaffacciarsi nella sua testa, ancora un po’ confusa ma che sembra ripartire. Giusto ieri sono andata a trovarlo e mi ha raccontato di come si sia messo in contatto con te tramite l’avvocato che abita nella nostra palazzina. Un po’ sprovveduto quel Quattrini, non trovi Manlio, vecchio amico mio. Pensa che il tuo avvocato aveva avuto una storiella di poco conto con Skophje e si era vantato con lei delle sue conoscenze e dei suoi clienti. Gli uomini, sempre così bambinoni, non trovi Manlio? Cosa si fa per una sottana… Pensa che è stato proprio lui a suggerire ai due il tuo nome. Ah, questa rimpatriata incomincia a piacermi, a te no?” Bevo e trovo che questo gin tonic made in Suisse non è malaccio, anzi mi sembra abbia quel leggero gusto di… rivincita? Manlio Rognoni riflette. Non hai tanto da riflettere. Sai che comunque niente e nessuno potrà effettivamente coinvolgerti a livello penale in questi sviluppi. Il tuo status ti tutela, e quanto ti tutela. Ma che questa musicante da quattro soldi ti stia lentamente spogliando della tua aureola, forse questo ti dà fastidio: infatti non sembri apprezzare le mie parole fino in fondo, l’espressione si è leggermente modificata e il sorrisino di auto
compiacimento si sta stemperando su due labbra sottili strettamente serrate. Anche il tè sembra avere cambiato sapore. Non lo sorseggi con la stessa disinvoltura di qualche momento fa. “Dai Manlio, ammettilo” continuo assaporando il momento. “Il Quattrini ti dice che un suo conoscente ha per le mani una partita di diamanti tali da far sembrare i gioielli della Corona dei Reali d’Inghilterra roba da mercatini, aggiungendo come il tutto sembri gestito da una russa che tu, dopo due semplici controlli, scopri avere lo stesso cognome di quel corriere che in madrepatria ha smarrito – guarda caso – un mucchietto di diamanti e, così ricordo di avere sentito, una partita di eroina. Corriere che potrebbe poi aver assalito qualcuno a Brema. Brema… ti ricorda qualche cosa questo nome di città? Credo proprio di sì. E ora, ti propongono diamanti in tutto e per tutto simili a quelli spariti. Sviluppi che suonano incredibili, non è vero Manlio? E allora cosa si fa? Ma si manda Jacopo a giocare un po’ con la donna, lui si divertirà un po’ e tu avrai quello che cerchi. Bel programmino che si smonta quando il bestione ascolta In my bones. Una canzone, Manlio caro, manda all’aria il tuo piano che sembrava poter essere perfetto. Roba da non credere. Il fratellone non collabora più e tu non sai cosa fare. Forse non ti rispetta più, addirittura avrà cambiato il suo approccio con il mondo esterno. Alex ricorda, ancora un po’ confusamente ripeto, di alcuni spari appena prima che Jacopo lo caricasse sulla sua moto. Forse avrà fatto fuori qualche tuo uomo che arrivava dalla Russia, mah, chi lo sa? Ah, se solo Alex ricordasse dove è stato liberato – beh diciamo così – da Jacopo. Potrebbe essere che la polizia trovi qualche corpo, amici tuoi probabilmente. Ma queste sono solo fantasie, caro e vecchio amico mio. Vecchio… effettivamente mi sembri un po’ invecchiato in questa ultima mezz’ora, chissà come mai mi chiedo. Suvvia Manlio, tu non hai nulla da temere. I tuoi affari non crolleranno per questo, no?” Finisco il mio gin tonic. Raramente ne ho assaggiato uno migliore. Soprattutto in compagnia di un uomo insignificante come questo. So che questo non mi porterà nessuna vittoria reale, se il mio racconto corrispondesse alla verità, o perlomeno fosse simile alla successione dei fatti, io sarei contenta ma nulla di più. Manlio resterebbe impunito e la mia amica non resusciterebbe di certo. Ma almeno avrei l’intima soddisfazione di vedere quel suo musetto perbenino atteggiarsi in una smorfia amara e questo- in parte – mi ripagherebbe del dolore provato e vissuto. Anche lui ha subito perdite – considerevoli – senza riuscire a
dar scacco matto a nessuno. Jacopo e i suoi diamanti non ci saranno più. Comunque vada per lui. Si alza. Lentamente si sistema il nodo della cravatta, non che ne abbia bisogno, credo sia un gesto per coprire un certo nervosismo. Mi guarda e sibila: “Ottima ricostruzione per una misera impiegata statale. Peccato che sia senza ombra di prove. Addio signorina. A mai più rivederci”. “Manlio, non fare il bambino permaloso. Forse ci rivedremo, un giorno. Pensa se qualche sviluppo portasse a delle prove e se – così per caso – gli investigatori riuscissero a farti revocare quello status dell’Ambasciata… oh là là mon cher ami”. Sorrido intanto che si rifugia nel suo castello dorato. Addio Manlio Rognoni, o forse – semplicemente – arrivederci. Domani si torna a scuola. Giusto in tempo per gli esami.