Crescere Insieme 3c2s4b

Un’antologia di racconti in tema “Crescere”

dal concorso indetto dal blog The Bibliophile Girl

Crescere insieme

Angela Parise

Annarita Tranfici

Jessica Maccario

Luciano Valli

Prisca Turazzi

Rosalba Repaci

Sabina Di Gangi

Sarah Bernardinello

Sonia Tortora

Valentina Camarda

http://thebibliophilegirl.com/

Titolo: Crescere insieme Autori: A.A.V.V. ISBN | 9788891153777 Prima edizione digitale: 2014 © Tutti i diritti riservati all’Autore Youcanprint Self-Publishing Via Roma 73 73039 Tricase (LE) [email protected] www.youcanprint.it Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

Copertina a cura di: Consuelo Baviera

Blog e sito dell’illustratrice:

http://graphiceternal.blogspot.it/

http://graphicanet.altervista.org/

©Tutti i diritti riservati agli autori e a chi ha realizzato questa antologia.

Questa antologia è il prodotto dell’immaginazione dei vari

autori. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi.

Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale.

Prefazione

Avete appena scaricato la prima antologia del blog The Bibliophile Girl, creata in seguito a un concorso letterario a cui hanno partecipato nove autori. Innanzitutto grazie mille per averlo fatto.

Troverete nove racconti, una ballata e un decimo racconto scritto da me. Anche io amo scrivere e mi piacerebbe un giorno riuscire a pubblicare il romanzo che sto scrivendo attualmente; perciò ho colto questa bella occasione per mettermi in gioco.

Da molto tempo avevo in mente di creare uno spazio tutto mio dove poter parlare di libri, ma l'insicurezza mi ha sempre frenato; i timori di non avere costanza, di non avere buoni risultati mi hanno fatto desistere. A gennaio 2014 invece ho raccolto il coraggio e mi sono lanciata in questa nuova avventura. “Che cosa ho da perdere?”, mi sono detta. “Nulla.” è stata la risposta.

Sono ormai ati cinque mesi e sono veramente felice di aver aperto il blog. Mi ha dato modo di cimentarmi in ciò che amo fare; mi ha dato modo di conoscere splendide persone e di leggere meravigliosi libri. Certamente non sono mancati i momenti di nervoso, quelli no. Credo che il blog mi stia indirizzando verso la giusta strada, meglio di così non potrebbe andare.

Questa antologia nasce da un concorso che ho aperto sul blog a inizio maggio, durato per circa un mese. Inizialmente si trattava appunto di una sfida tra racconti aventi in comune il tema “crescita”, poi io e Jessica Maccario, una delle scrittrici partecipanti, abbiamo pensato di metterli insieme e di creare questa antologia. Ciascun autore ha interpretato a modo suo, o meglio dire con parole sue, il tema della crescita.

Al termine del concorso letterario è stata aperta una sfida grafica con l'intento di trovare la copertina perfetta per questa antologia. Volevamo una cover che rappresentasse al meglio il tema scelto. Abbiamo proposto due idee che ci sono rimaste particolarmente impresse come spunto per trarre ispirazione, lasciando comunque libera la creatività degli sfidanti. Gli illustratori e i grafici che hanno voluto mettersi in gioco sono stati: Angelo Nero, Chiara Coccorullo, Consuelo Baviera, Fabio Prestini, Fata Arwen, Elisabetta Baldan, Giovanna Profilio e Valentina Coppola. La vincitrice della sfida è stata Consuelo Baviera, che ha realizzato la bellissima cover scelta per l’antologia. Complimenti e grazie a tutti i partecipanti!

Spero che l'idea di questa antologia e i testi contenuti in essa vi piacciano.

Valentina Camarda

Nove mesi e una settimana

Angela Parise

Diario di bordo dal giorno uno al giorno X.

Quarantadue settimane. Ovvero duecentonovantaquattro giorni. Cioè nove mesi e una settimana.

Era quello il tempo in cui dovevo aspettarmi che la mia piccola pancia taglia quaranta crescesse a dismisura fino a gonfiarsi come un pallone, tendermi la pelle, deformarmi l’ombelico e poi finalmente scendere fino quasi a toccare il pavimento.

Era quello il tempo che avevo a disposizione per abituarmi all’idea che saresti venuto al mondo, che saresti stato totalmente sotto la mia responsabilità e che, qualsiasi cosa tu fossi divenuto durante la tua avventura di diventare uomo, buona parte del merito lo avrei avuto io in quanto madre, educatrice e prima maestra di vita.

Tutto sommato, la cosa mi riempiva di un certo orgoglio: eri ancora un piccolo essere di pochi millimetri e già ti immaginavo medico, architetto, musicista… sposato con figli, cane e villetta in centro: sapevo, anzi me lo sentivo, che saresti stato una brava persona, gentile e morigerata ed ero cosciente del fatto che, qualora tu fossi stato veramente così, sarebbe stato anche perché io ti sarei stata al fianco e ti avrei insegnato tutto quello che c’era da sapere su come si sta al mondo.

Se il Signore mi avesse fatto dono di un maschietto, per prima cosa gli avrei insegnato l’amore per tutte le donne. Per amore intendo quel sentimento che nasce, cresce e si sviluppa nel tempo; che è formato da tanti piccoli componenti: del rispetto che si deve alla propria compagna; della collaborazione nel momento del bisogno; di una complicità tale che basta un’occhiata per capirsi; dei momenti di tenerezza.

Se invece avessi avuto in regalo una femminuccia, ne avrei fatto una donnina con le palle quadrate: sarebbe stata una donna in grado di badare a sé stessa, a una famiglia, a una casa e a un marito che, in fondo è come un bimbo cresciuto. Avrebbe avuto l’ambizione di arrivare in alto e la capacità di posare i piedi per terra al momento opportuno.

Tuttavia, ora era il momento di pensare a tutte le cose che avrei dovuto sbrigare prima di lievitare come una pagnotta dal fornaio: al diavolo chi mi dice di non sbrigare alcun tipo di faccenda prima di arrivare al terzo mese. Questi sono fatalismi e superstizioni che non mi appartengono. Io pretendo di fare tutto con calma e di arrivare alla fine con tutto pronto e solo col pupo da mettere in culla: questo perché, se capiteranno giorni in cui Tu, piccolo essere, mi farai stare tanto male e correre tante volte in bagno, voglio potermi buttare nel letto e non pensare a nulla.

E quindi farò così. Ho deciso.

***

Sono ate alcune settimane: quest’oggi ho avuto il piacere di vederti sullo schermo dell’ecografo. Ricordo di una volta che studiando la gravidanza, la prof.

ci aveva spiegato come è fatto un embrione: ecco, ora che ti vedo, mi rendo conto che sapevo già come saresti stato. Sei carino, sembri sano e forte: le gambine stanno quasi per abbozzarsi così come la testa e due piccoli monconi che diventeranno braccia e mani. Il cuoricino va come un treno e tutto procede nella norma. La pancia ancora non è cresciuta: sembra solo un po’ gonfia, come quando si esagera nel mangiare. Perfetto.

Domani posso iniziare a fare qualche acquisto, nausea permettendo. Ultimamente mangio poco e vomito molto: è uno strano principio che ancora non ho compreso dato che io, della tua venuta al mondo mi ero accorta proprio per l’appetito.

Era capitato un giorno per caso: nonna mi aveva fatto un caffè e io anziché i soliti biscotti della merenda, le avevo chiesto un panino al prosciutto. Il sandwich era arrivato e io in dieci minuti mi ero sbranata un etto e mezzo di San Daniele e tre rosette. Allora avevo capito. Aveva capito anche nonna ma nessuna delle due aveva aperto bocca. Dopo due giorni era arrivato un gran mal di gambe e allora la cosa era stata chiara.

C’erano novità.

***

Cinque mesi di panico. Sembra di stare al circo. Siamo in prossimità della santa Pasqua e io finalmente riesco a mettermi a tavola. Ho voglia di un bel piatto di pasta, di una fettina… di cose normali alle quali sto rinunciando già da qualche settimana per via dello stomaco che dà i numeri.

Oggi mi sono sorpresa poiché dopo la doccia, guardandomi attentamente allo specchio, ho notato che inizio ad avere una forma diversa. I fianchi si ingentiliscono, la schiena si incurva leggermente e lei, la pancia, finalmente si arrotonda. Messa di profilo, ora non sembro più semplicemente una persona che ha mangiato troppo ma una donna in stato interessante.

Domattina mi leverò la curiosità di capire cosa c’è dentro di me: ho voglia di comprendere a cosa corrisponde internamente questo cambiamento che io al momento vedo solo esternamente.

Il risultato è stato questo: ora sembri un piccolo bimbo. Ci sono due gambine, due piedini, braccia, manine, un naso, una bocca, una spina dorsale. Ad esclusione dei polmoni che ancora non sono formati, ci sono anche tutti gli organi interni in formato small. Sei proprio carino: fai su e giù con le gambe con una foga che nemmeno un ciclista e, in preda a un attacco di protagonismo che hai evidentemente preso da me, ti metti in bella mostra e il medico ti vede assai chiaramente.

Sei una femminuccia.

Una miniatura di donna.

E vai con le tutine rosa, i gadget di Minnie e Peppa Pig, i nastri per capelli e tutta un’altra serie di cose più o meno utili.

***

Facendo acquisti di fondamentale importanza, tra cui una carrozzella, un lettino e un bel fasciatoio colorato, mi sono fermata a riflettere sul fatto che, da donna a donna, un giorno ci troveremo a parlare di un sacco di cose più o meno imbarazzanti: ci sarà il momento del ciclo mestruale, quello del primo fidanzato che vorrà insegnarti a baciare con la lingua; quello in cui mi chiederai di prendere la pillola e Dio solo sa a cosa starai ambendo in quel momento… Allora mi prende male. E mi tornano in mente i giorni in cui la mia mamma mi spiegava le medesime cose: a quell’età noi donne non ci imbarazziamo perché non capiamo la vera entità delle domande che stiamo ponendo. Lo comprendiamo meglio quando siamo dall’altra parte della lente e non sappiamo che pesci prendere.

Oggi facciamo l’ecografia del terzo trimestre: oramai sei grande. Sei come mi aspettavo che fossi: ora anche i polmoni sono sviluppati e tutto quello che devi fare, è prendere peso per nascere forte.

Io sembro una balena ma ho mantenuto un certo fisico: tutta pancia, avrebbe detto mia nonna. Il mio corpo non ha ceduto alle peripezie della gravidanza e sono rimasta piuttosto tonica.

Mi piaccio proprio.

***

Siamo a pochi giorni dalla fine.

Oggi tour de force di analisi: i medici mi rivolteranno come un calzino e faranno gli ultimi controlli prima del parto. Ti vedo per l’ultima volta prima di metterti

alla luce.

Sei grossa, piccola mia: è evidente che lì dentro non ci stai più. Tuttavia, per il momento non sembri dar segno di voler uscire e ne deduco che forse stai bene dove sei. E come darti torto? Hai vitto in abbondanza e un alloggio caldo e confortevole.

Quello che invece ti aspetta qui fuori è molto più incerto. Ti conviene rimanere dove sei, almeno per il momento.

Io termino il giro di analisi e, stremata, torno a casa con papà. Oramai non ce la faccio più: le gambe sono gonfie, i piedi fanno male e non posso camminare; la pancia ormai enorme, sta abbassandosi e, a livello del basso ventre (i medici lo chiamano pavimento pelvico, che termine fichissimo) ho dolori dappertutto. Sembra di avere cento milioni di aghi che tirano verso il basso. Devo stare attenta a come mi muovo perché, se faccio un movimento di troppo, rischio di fare dei danni.

A parte questo, mi sono presa una piccola soddisfazione personale: entro in casa, vado in camera ed è tutto pronto. Il tuo letto è fatto; i vestitini sono già nell’armadio; i cassetti sono pieni di cose che ti serviranno: c’è un biberon, qualche ciuccio, il termometro per la vasca, la pompetta per il naso, il cuscino per l’allattamento e decine e decine di pannolini. I miei parenti hanno mostrato un certo disappunto perché adesso nessuno sa più cosa regalarmi ma io almeno sono serena. Tutto è sotto controllo e se qualcuno vorrà farmi un presente, potrà mettere qualche euro in una busta e ovviare così al problema.

Ora che ho sistemato tutto, posso dedicarmi unicamente ai miei dolori, buttarmi nel letto ed aspettarti.

***

Un vagito indica al mondo che sei arrivata.

Sei un batuffolo di tre chili per cinquanta centimetri e sprizzi energia da tutti i pori.

Posso ritenermi soddisfatta: ho fatto un vero capolavoro.

Ora sei nata, succhi il latte materno con avidità fintanto che la natura compirà questo miracolo poi, fra qualche mese mangerai golosissime pappe con la farina di tapioca e verdurine frullate e fra qualche anno ravioli al sugo, braciole di maiale e torta al cioccolato.

E la cosa andrà in senso contrario: mentre prima la pancia cresceva fino a divenire un pallone, ora tu continuerai a crescerne al di fuori.

In questi quaranta giorni che chiamano puerperio, il mio pancione decrescerà fino a tornare com’era: tutti gli organi ritorneranno dov’erano, le gambe sgonfieranno e io tornerò delle mie dimensioni abituali.

Tu no.

Tu diventerai grande.

Oggi sei un brufolo di pochi chili e di pochi centimetri: domani arriverai a pesare molti più chili e sarai alta molti più centimetri. E andrai a scuola. E andrai a nuoto. Avrai amici, avrai conoscenti. Farai cose, occuperai il tuo tempo con hobbies, serate in compagnia, studio e lavoro.

E tutto sarà come deve essere.

***

Lo scopo della vita è esattamente questo.

Crescere. Diventare grandi. Formare persone nuove che un giorno cresceranno a loro volta e formeranno nuovi individui.

Lo ha fatto mia nonna con mia madre; mia madre con me; io con te; tu coi tuoi figli e via discorrendo. E tutte ci siamo trovate e ci troveremo a parlare da sole coi nostri pancioni che crescono e a spiegar loro il miracolo di quanto si sta compiendo.

Diventa grande serena, piccola mia.

Ti voglio bene.

Mamma.

Dedicato a Maria Grazia.

Gemma

Annarita Tranfici

Il libro di economia politica era aperto a pagina 71 da un'ora e mezza. Gemma leggeva e rileggeva da un quarto d'ora sempre lo stesso identico rigo. Voleva concentrarsi e procedere oltre ma non riusciva proprio ad afferrare neppure i concetti chiave di quel minuscolo paragrafo. Troppi pensieri la distraevano; schizzavano nella sua testa come boomerang impazziti e la forza di volontà che tentava invano di richiamare, si stava smorzando gradualmente. Non sapeva se quelle che stava ricacciando fossero lacrime causate dalla rabbia, dal dolore o da un misto dei due sentimenti. Sapeva soltanto che si sentiva angosciata, frustrata e incompresa.

Nelle ultime due settimane Gemma e il fidanzato Davide non riuscivano a comprendersi; era come fossero distanti anni luce, separati da una barriera invisibile ma spessa, entro la quale poco o nulla riusciva a penetrare. In quei momenti, Gemma avrebbe tanto desiderato poter godere della presenza e del sostegno di una madre, di una vera madre.

Gemma una madre ce l'aveva, ma durante la crescita, più e più volte, aveva desiderato essere orfana. Se lo fosse stata davvero, forse avrebbe avuto l'occasione di conoscere qualcuno che l'avrebbe amata davvero, scegliendo di dedicarle ogni pensiero ed energia, facendo di lei il perno attorno al quale far ruotare l'esistenza. Sua madre non aveva mai incarnato lo stereotipo della madre dolce e affettuosa, incline alle carezze e a ogni sorta di premura. Gemma per lei era frutto di un errore, ricordo di un ato da dimenticare, e sembrava esser destinata a dover scontare la pena al posto suo. Visto che a lei la vita aveva precluso qualsiasi possibilità di felicità, neppure quella figlia non voluta doveva rincorrerla. Visto che il vero amore le era stato negato, anche quell'essere innocente avrebbe dovuto soffrire la mancanza di qualcuno che volesse vivere

per lei.

Gemma abitava con la donna che l'aveva messa al mondo, il suo compagno e la sua sorellastra. In quella casa, anche il più semplice contatto pareva richiedere troppo sforzo. Erano tutti assenti buona parte della giornata, fisicamente almeno; col cuore e l'anima erano assenti anche da pomeriggio a sera.

Con il are degli anni, nella sua mente quella casa iniziò a essere associata sempre più spesso a una specie di piccola pensione a conduzione familiare in cui ciò che si garantiva era un letto caldo nel quale riposare per riprendersi dagli affanni della giornata e un paio di pasti per far scorta di energie. Nient'altro. Come in ogni altra locanda o albergo, le vite dei visitatori occasionali si incrociavano, senza sconvolgersi, continuando ognuna il proprio tranquillo e invariabile corso. Lì tutto aveva preso quella forma. Evidentemente le vite degli inquilini erano talmente piene e complete che non si sentiva il bisogno di aggiungervi null'altro, nessun altro tipo di relazione o scambio.

Sua madre, Ada, svolgeva un lavoro di grande responsabilità: tramandava il sapere alle nuove generazioni. Quella dell'insegnante per lei era una missione e, quelle poche volte che Gemma aveva avuto l'opportunità di assistere ad una delle sue lezioni, le era apparso chiaramente quanto quella fosse per lei molto più di una comune professione. Il fuoco della ione animava ogni suo comportamento: in quelle ore quei ragazzini un po' vivaci diventavano figli da educare, creature da accudire e a cui dedicare la giornata. Non c'era posto per nient'altro che potesse distrarla da questo bisogno primario.

Di fronte a quella cruda verità, Gemma non poteva trarre che una conclusione: probabilmente quei bambini di sei anni, con le tenerezze tipiche della loro età, erano in grado di regalare a sua madre quel calore che le mancava, quell'affetto che lei non era riuscita a farle arrivare, bloccata dal suo atteggiamento freddo e scostante. Gemma era una ragazza buona, dal cuore gentile e sensibile e non ebbe paura di ammettere a se stessa, nonostante l'enorme sofferenza che

accompagnava questa consapevolezza, che quella possibilità in fondo la rincuorava. Almeno sua madre aveva trovato una fonte di gioia e delle piccole creature a cui donare la parte migliore di se stessa.

Per Gemma fu molto difficile crescere portando sulle spalle il peso costante di quell'assenza.

Era difficile ricacciare le lacrime quando, sfogliando il calendario, notava che l'unica a non essere cerchiata era la data del suo compleanno, mentre la nascita del compagno e della sorella venivano affiancate da cuori e tenere frasi.

Era difficile sostenere lo sguardo di quella donna che a lei non avrebbe mai svelato l'anima, quando le chiedeva chi fosse suo padre e perché non avesse mai avuto la possibilità di conoscerlo.

Quando fu abbastanza grande da comprendere i risvolti non sempre idilliaci che può conoscere una relazione, le fu raccontato che il padre era scappato con un'altra donna, senza rimpianti, abbandonandola quando aveva appena un anno. Chissà, forse era perché Gemma le ricordava quell'amore che le aveva inflitto tante sofferenze, perché nel taglio e nella luce che emanavano i suoi occhi le sembrava di rivedere lo sguardo di lui, che l'aveva tenuta sempre a debita distanza, allevandola in un clima ostile, colmo d'odio e di indifferenza.

Il loro rapporto non fece che peggiorare con l'arrivo di Elisa, la figlia di Mauro, il compagno con cui era andata a convivere tre anni dopo la rottura con suo padre.

Mauro era un uomo intelligente e colto che lavorava nell'ambiente dell'alta

finanza e disponeva di un patrimonio piuttosto ingente. Dopo il matrimonio, la famiglia si era trasferita in una grande villa nel centro di Siena, un luogo dominato dal silenzio e dalla pace.

Presto il padrone di casa fece assumere dei domestici e, dopo qualche mese, fu con loro che Gemma iniziò a dormire e mangiare. Mentre il resto della famiglia viveva al secondo piano, lei condivideva la stanza con una cameriera perché, a detta di Ada, le camere al piano di sopra non erano sufficienti. In realtà la donna aveva solo trovato una scusa per tenerla lontana. Non era in grado di mostrare un briciolo di pietà o di pentimento neppure il giorno della Vigilia di Natale, quando puntualmente a Gemma non veniva fatto alcun regalo, né concesso di pranzare con loro in salotto.

Le occasioni ufficiali erano gli unici momenti in cui Ada fingeva di essere una madre amorevole e presente: durante i colloqui con gli insegnanti, alle feste delle compagne di classe, alle messe domenicali, Ada ricreava l'immagine illusoria di una famiglia perfetta, agiata, unita e appagata. Si trattava ovviamente di una finzione, di un'apparenza costruita e vuota, come il cuore di colei che col tempo Gemma non riuscì più a chiamare madre.

La situazione si compromise irreversibilmente quando la ragazza compì quattordici anni. Ada si allontanò da Siena per qualche giorno per visitare una mostra d'arte a Madrid e lasciò Gemma ed Elisa con il marito.

La sera stessa della partenza, Mauro invitò la figliastra a dormire al secondo piano assieme a loro. Felice di quell'insperato atto di gentilezza, Gemma sembrò dimenticarsi anche se solo per un momento di tutti i tormenti patiti in quegli anni e sperò di poter riconoscere un giorno, nella figura di Mauro, il padre che non aveva mai incontrato. Questa speranza morì dopo poche ore: quando la sorella andò a dormire, Mauro invitò Gemma a sedersi accanto a lui sul divano e iniziò ad accarezzarle i capelli, a sfiorarle le guance, avvolgendole un braccio attorno alla vita. Le sussurrò all'orecchio di seguirlo in camera da letto, ma la ragazza si

divincolò dalla sua stretta e scappò giù dalle scale, urlando. Quando Ada tornò, non credette a una parola del suo assurdo racconto, e decise di liberarsi di lei una volta per tutte spedendola a studiare in un collegio a Milano.

Gemma ò l’adolescenza lontano da quell'orribile villa, tornando in Toscana solo per le feste.

La ragazza crebbe abbracciando la spiacevole sensazione di perdersi ogni giorno qualcosa di importante: in una parola non detta, in un sorriso mancato, in un abbraccio negato, in un'incomprensione irrisolta, in una presenza assente, in due occhi lucidi i cui messaggi venivano ignorati. Giorni trascorsi senza alcuna gioia, che il tempo non le avrebbe più restituito.

L'unica persona che la incitò a non arrendersi e le permise di continuare a sperare nella bontà delle persone fu sua sorella, Elisa. Con il are del tempo, tra le due ragazze si venne a creare un legame speciale, un legame che non aveva bisogno di molte parole perché viveva di gesti concreti, di affetto, comprensione, contatto e tenerezza. Gemma trovò in Elisa una confidente, un'amica vera e fu solo grazie a lei che riuscì a impedire al rancore e al risentimento di indurirle il cuore.

Il suo cuore aveva troppo sofferto; gli anni della sua crescita erano stati anni cupi e malinconici e tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno negli anni a venire era un po' di semplice calore umano.

Gemma sapeva di poter contare sull'appoggio di un'alleata preziosa. Chiuse il libro, afferrò il telefono e chiamò la sorella: una eggiata al parco e una lunga chiacchierata l'avrebbero sicuramente aiutata a schiarirsi le idee e ritrovare la serenità. Correndo in motorino, Gemma non poté fare a meno di sentirsi immensamente fortunata: non avrebbe mai potuto colmare il vuoto lasciato da

sua madre, ma aveva una sorella speciale, e quel rapporto valeva più dell'oro.

In ricordo di noi due

Jessica Maccario

A mio nonno

All’epoca avevo appena compiuto tredici anni e, come tutte le tredicenni, non facevo altro che parlare di ragazzi. Non con i ragazzi, perché consideravo quelli della mia età come dei babbei senza speranza. Gli unici che meritavano la nostra attenzione, mia e delle mie tre migliorissime amiche, erano quelli di almeno diciassette anni; molti di loro erano indescrivibilmente sexy, forse per quell’aura di mistero che li avvolgeva più che per i vestiti alla moda e i capelli pieni di gel. Insomma, mai e poi mai avrei provato qualche tipo d’interesse per un ragazzo della mia età, figuriamoci per uno più piccolo. Fino a quel giorno.

Era una di quelle rare volte in cui ero a so da sola. In realtà ero con la mia cagnetta Shelley, ma di solito almeno Giada si univa a noi. Giada era quella con cui mi trovavo meglio, ma non l’avrei mai ammesso davanti a Cristina e Sara. Formavamo un quartetto splendido: eravamo tutte pazze, come possono esserlo quattro amiche impulsive e fuori di testa della nostra età. Niente ci faceva paura, a eccezione di una cosa: la morte. Era assurdo, avevo ancora molti anni di vita davanti a me, ma il pensiero di non esserci più mi metteva i brividi.

Ma torniamo a noi. Ecco, quel giorno di settembre c’era un leggerlo venticello, ma a Cuneo faceva ancora caldo. eggiavo in Viale degli Angeli, calpestando distrattamente le prime foglie cadute, e non mi accorsi del ragazzo che stava scendendo nella direzione opposta finché non si fermò a coccolare Shelley. Lo guardai un po’ scocciata mentre accarezzava la mia cagnolina di tre anni, ma quando si alzò rimasi turbata. Gli occhi celesti furono la prima cosa che vidi, ma

anche il naso leggermente storto e le sopracciglia alzate in segno di sfida mi colpirono: era incredibilmente sexy anche se non dimostrava più di quattordici anni. O forse meno. Non volevo accettare l’idea che fosse più piccolo di me.

«Ciao bellezza!»

Sorrise, divertito dalla confusione sul mio volto, e alzò di qualche centimetro il berretto bianco in segno di saluto.

«Ci conosciamo?» chiesi, incerta su cosa dire.

«Non ancora ufficialmente, ma rimediamo subito. Mi chiamo Alessandro.»

«Io sono Federica» mormorai. Non so perché, ma mi trovavo in imbarazzo e volevo liberarmi di lui senza apparire maleducata.

«Lo so. Abito a qualche palazzo di distanza dal tuo.»

La sua risposta mi spiazzò, ma mai quanto il suo sguardo: mi scrutava con attenzione, quasi con sfacciataggine. Non avevo paura di lui, ma non riuscivo neanche a considerarlo stupido come i miei compagni e ciò mi mise ancora più in crisi. Insomma, cosa voleva da me?

«Capisco.»

Non sapevo cosa dire, ma lui mi venne in aiuto. «Posso accompagnarti?»

«Io... amo camminare da sola» farfugliai. Avrei potuto accettare, ma la verità era che la sua presenza mi metteva a disagio.

Lui scosse le spalle. «Come preferisci. Allora possiamo andare a bere qualcosa al bar laggiù» indicò il locale dall’altra parte della strada e io stavolta fui sul punto di cedere. Ma, accidenti, che ci andavo a fare?

«Mi spiace, sono di fretta.»

«Davvero?» inarcò le sopracciglia, dimostrando che no, non se l’era bevuta.

Mi serviva una scusa migliore. «Io... devo ancora finire i compiti prima di cena.»

Scosse le spalle. «Beh, i compiti non possono di sicuro aspettare.»

Si stava prendendo gioco di me?

«No, proprio non possono. Allora vado...»

«Non ancora.»

Lo disse con calma e il suo tono così sicuro di sé mi mise i brividi. Ma m’infastidì anche leggermente.

«Scusa? Non ti sembra di essere un po’ sfrontato?»

«Forse!» rise e la sua risata sciolse la tensione che avevo accumulato. Era bello quando rideva, ma io non riuscivo a smettere di fissare le sue mani, con le dita lunghe e affusolate.

Il suo viso era ancora gioioso quando disse: «Ma sarei più sfrontato se adesso mi avvicinassi e ti baciassi, non credi?»

«Stai scherzando?»

Mi irrigidii e lanciai una breve occhiata a Shelley, come a dirle di tenersi pronta a fuggire. Ovviamente non mi considerò, era troppo presa a raspare le foglie.

Alessandro fece spallucce, come se non ci fosse niente di male. «Non hai mai baciato uno sconosciuto?»

«No! Perché, tu sì?»

Il solito sbruffone che si vanta di conquiste inesistenti solo per impressionarmi, pensai, ma la sua risposta mi confuse.

«Mai, ma con te non mi dispiacerebbe affatto.»

Ero terribilmente imbarazzata e non riuscivo a sostenere il suo sguardo, così chinai a terra gli occhi e pensai a come togliermi da quell’impiccio. Forse se avessi semplicemente preso Shelley in braccio e fossi scappata via, nulla sarebbe successo...

«Facciamo così: io adesso mi avvicinerò e ti bacerò... sei ancora in tempo per fermarmi.» Ma la sua mano aveva già stretto il mio braccio e la sua bocca era pericolosamente vicino al mio orecchio. Il mio cuore batteva forte come un tamburo e le gambe erano paralizzate. Fu così che baciai per la prima volta un ragazzo. Fu una sensazione strana e la mia mente continuava a ripetere “Sto baciando uno sconosciuto! Sono impazzita?”. Quando finalmente mi lasciai andare, lui mi prese il viso tra le mani e la sua lingua sfiorò le mie labbra. Ero senza fiato e mi sembrava di esplodere! Lo stavo davvero facendo. Stavo baciando un perfetto sconosciuto e mi piaceva infinitamente.

56 anni dopo...

«Ma nonna, questi dettagli potresti anche evitarli! Che schifo!» dice mio nipote Riccardo, fingendo di vomitare. Gli do uno scappellotto in testa come risposta, anche se mi sto trattenendo dal ridere.

«Oh, io invece lo trovo così romantico! Nonno, davvero hai baciato la nonna anche se non la conoscevi?» domanda Cecilia elettrizzata. Lei ha quindici anni e,

a differenza del fratello che ne ha otto, sospira d’amore praticamente ogni momento.

Alessandro alza gli occhi al cielo. «Quante volte ancora dovrò sentire questa storia? Sono ati secoli da allora!» scherza, ma lo sguardo che m’indirizza è profondo come quando ero una ragazzina. Riesce sempre a guardarmi con quegli occhi penetranti, carichi di mille promesse, anche se ormai quelle promesse sono state esaudite. Dopo quel primo bacio, non potei evitare di rivederlo, m’imbattei in lui almeno altre tre volte prima che mi decidessi ad accettare la sua richiesta. Una semplice aranciata, nulla di più. E invece...

«Dai, facciamo un brindisi a questa coppia così affiatata! Non è da tutti arrivare a festeggiare i cinquant’anni di matrimonio. Sono le nozze d’oro, giusto?»

Nostra figlia Vanessa ci abbraccia felice e i suoi occhi luccicano emozionati. Ha quarantaquattro anni ed è infermiera: è sempre stata la nostra gioia, con il suo atteggiamento così positivo e allegro. Come carattere ha preso gran parte dal papà, ma come viso mi assomiglia come una goccia d’acqua. Stessi capelli chiari, stesse fossette. Persino lo stesso mio modo di ridere.

Alzo il bicchiere per fare il brindisi, ma non bevo lo spumante. Sorseggio il mio succo e osservo questa famiglia allargata che mi ha dato tante soddisfazioni. C’è anche Paolo, il marito di Vanessa, che ormai partecipa ai nostri pranzi da almeno venti anni. Poi il mio sguardo si posa su di lui, il mio uomo. Il suo viso è più rugoso, la barba già un pochino folta, i capelli ormai ingrigiti, ma a sessantotto anni è ancora in forma. E quegli occhi celesti non hanno ancora smesso di guardarmi con amore, anche se non tutti gli anni trascorsi insieme sono stati facili da superare.

«Voglio trovare anch’io un ragazzo che mi riservi tutte le attenzioni che il nonno

riserva sempre a te!» annuncia Cecilia sognante e in cuor mio le auguro di trovarlo presto.

«Io invece no. Non voglio una femmina al mio fianco: le femmine sono stupide!» decreta Riccardo con una smorfia, come se la sola idea lo ripugnasse.

Assumo un’espressione severa e lo ammonisco con il dito alzato. «Attento a quello che dici, Ricky, o ti ritroverai solo! Tuo nonno aveva dodici anni quando ebbe il coraggio di baciarmi, non manca più molto a quell’età. Anch’io pensavo che i maschi fossero tutti senza cervello, invece mi sono dovuta ricredere su di lui» gli faccio l’occhiolino, ma mio nipote sbuffa.

«Vuoi capirlo o no che anche tu un giorno crescerai? Non resterai per sempre il moccioso che sei adesso» lo prende in giro Cecilia e lui le fa una linguaccia.

Ridiamo, ma mia nipote ha perfettamente ragione: anche lui cambierà, anche lui comincerà presto a sentire i battiti furiosi del cuore in presenza di una bella ragazza.

La mia storia con Alessandro non è stata semplice, io per prima mi vergognavo e non volevo mostrarmi in giro con quello che consideravo un ragazzino. E io, allora, cos’ero? Pensavo di essere quella più matura e credevo che avere un anno in più rispetto a lui fosse un abisso. Persino le mie amiche mi prendevano in giro, anziché appoggiare la nostra unione. Quando ho smesso di preoccuparmi del loro giudizio? Non lo so più, sto cominciando a dimenticare molti aspetti del ato.

«Nonna, stai bene?»

Gli altri hanno ripreso a chiacchierare animatamente, mentre io mi sono isolata. Sbatto le palpebre per scacciare i ricordi e vedo il viso di mia nipote. Cecilia mi guarda preoccupata e io le sorrido con calore. «Mai stata meglio, bambina mia. Ti piacerebbe custodire una cosa che per me è molto preziosa?»

Lei mi guarda senza capire, mentre io allungo la mano per sfilarmi la catenina. Me la regalò Alessandro anni fa, fu il primo regalo che mi fece. Non voglio che finisca in qualche cassetto, voglio che lo custodisca lei.

«Ma... perché?»

«Questa catenina è la dimostrazione che un amore può durare tutta la vita: ti darà il coraggio per buttarti e vivere serenamente le tue storie future. Io non ne ho più bisogno.»

Cecilia la accarezza con le dita più volte prima di infilarsela al collo. Io sospiro, con un peso che lentamente mi avvolge dentro. Vorrei tanto poterli vedere crescere tutti, diventare adulti sani e felici, ma so di chiedere troppo alla vita. Chissà, magari anche Riccardo un giorno sarà sfrontato come fu il nonno con me. Ma io, purtroppo, non sarò qui per vederlo.

Due anni dopo...

Manca poco ormai, lo sento. Il tumore mi sta portando via, anche se ho lottato per anni. Ho deciso di arrendermi, semplicemente: ha vinto lui, va bene così. Ma non mi porterà via i ricordi più belli che tengo nel cuore, quelli me li porterò

nella tomba. Non ho paura di morire, adesso che sono giunta alla fine capisco che l’unico motivo per cui continuavo a lottare era la mia famiglia. E Alessandro. Non volevo dar loro un dispiacere, ho cercato di resistere fino alla fine. Adesso però non ho più le forze per combattere. Voglio solo abbandonarmi al sonno...

Sono sdraiata sul letto, fronte a fronte con mio marito e lui è devastato. Io, in confronto, sono tranquilla. Forse perché ho avuto molto tempo per rassegnarmi e accettare l’idea che presto non ci sarò più.

«Ale...»

«Non è giusto, dannazione!»

Ha gli occhi pieni di lacrime, sembrano ancora più chiari adesso. Ancora più celesti, più belli. Ma sono tristi, terribilmente tristi. Stringo forte la sua mano calda, con il cuore che palpita sempre più lento.

«Sì che è giusto» sussurro, ma le lacrime di mio marito non accennano a fermarsi. «Siamo cresciuti insieme in questi anni, siamo diventati una cosa sola. Ci siamo divertiti, abbiamo superato i problemi anche quando pensavamo che non ce l’avremmo mai fatta. Se siamo arrivati a questo punto è perché abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. Non rimpiango nulla. Ho avuto una vita felice, anche se diversa da come l’avevo immaginata. Ho avuto te, Vanessa, i nostri adorati nipoti... cosa potrei chiedere di più?»

Lui si avvicina ancora un po’, accarezzandomi con dolcezza la guancia.

«Ho paura. La vita non sarà la stessa senza di te.»

«Hai intenzione di baciare qualche altra sconosciuta, per caso?» scherzo, con le poche forze che mi restano. Sono felice, perché ho conosciuto l’amore e ho avuto il coraggio di abbracciarlo, di non lasciarlo fuggire via.

Alessandro scuote la testa e sorride, ma i suoi occhi restano lucidi e sono miei. Tutto di lui è mio. Sarà difficile lasciarlo andare, ma non ho altra scelta. Sono sempre più debole e non ho voglia di ricominciare con le cure. Abbiamo raggiunto un traguardo importante, insieme. So che anche se non ci sarò più saremo ancora insieme in qualche modo. Sento che non mi tradirà mai, anche se vorrei augurargli di continuare a essere felice. Ma non ci riesco, non ho il coraggio di dirgli che se mai vorrà, sarà libero di avere un’altra donna. Siamo troppo legati e separarci fa male.

«Baciami ancora, mia dolce sconosciuta. Un ultimo bacio, come se fosse il primo.»

Un ultimo bacio, dolce e delicato. Un bacio che allontana, almeno per il momento, la rabbia che gli invade il cuore. Sento la sua voglia di urlare al mondo quanto è ingiusta la vita, ma davanti a me si mostra forte.

Chiudo gli occhi, mentre il dolore mi assale all’improvviso. Annaspo in cerca di aria, la sua presa si fa ancora più forte. Lui c’è, non mi lascia sola, condivide il mio dolore. Le sue labbra che tremano e i suoi occhi celesti sono l’ultima cosa che vedo prima di abbandonarmi al sonno eterno.

Barbie (ballata)

Luciano Valli

Noi creature siamo Barbie in carne e ossa

dalle crine flave, brune o sanguigne,

dal derma carnicino

e da unghie plastificate con lo smalto;

Siamo delle Barbie made in China!

Dio ci cresce, coccola, veste e riveste

castiga e poi ricompensa

con un dono a suo gradimento

come accade nella vita reale con gaudio e mestizia.

Siamo delle Barbie made in China!

Dio si diletta a giocare con le sue Barbie

come fa la tenera bimba

nella sua cameretta parata a festa di compleanno.

Siamo delle Barbie made in China!

Noi siamo il dono di un ignoto mittente

con un grato mandato di compiacerlo

nel suo progetto divino.

Guardami

Prisca Turazzi

«Guarda, guarda questa che meraviglia» sussurrò Michele con voce sognante.

Roberta si chinò sul libro aperto davanti a loro e storse le labbra. No, niente: per lei non era altro che un dannato vaso di fiori. Natura morta, certo, ma pur sempre un vaso di fiori. Michele, invece, con i suoi occhi color ebano come la pelle, riusciva ad andar oltre l'apparenza. Riusciva a vedere le emozioni.

Roberta lo invidiava. Si limitò a mormorare un: «Spettacolare.»

«Sì, le schegge di colore che produce la luce attraverso il cristallo sono davvero spettacolari.» Michele accarezzò la pagina patinata del libro fotografico e lo chiuse, rimanendo a osservare la copertina in cui troneggiava il corpo plastico di un uomo. Roberta piegò le ginocchia sollevando i piedi e si risistemò sui gomiti contro il materasso del letto.

Invidiava anche quel corpo. Così maschile. Lei non lo avrebbe mai potuto avere.

Sentì i seni premuti contro il materasso e un nodo le si strinse alla gola. Si chiese se Michele sarebbe mai riuscito a vedere anche oltre le sue curve femminili. Guardare alla sua anima imprigionata. L'anima di un uomo.

«Scusa, lo so che annoio» disse Michele con un mezzo sorriso sulle labbra piene.

«Macché, è la tua ione dopotutto.»

«Il mio segreto.» Michele sospirò. «Mi piacerebbe cominciare a fotografare le persone, ma mi vergogno troppo e i miei amici mi prenderebbero solo in giro. Con te è diverso, con te riesco a essere me stesso.»

Roberta si sentì la gola d'un tratto riarsa. Faticò a trovare le parole senza dover boccheggiare.

«Ti capisco» sussurrò, sentendo le guance scaldarsi.

Avrebbe voluto dirgli tutto, dirgli di quanto si sentiva fuori posto, nel corpo sbagliato. Raccontargli di quanto le avesse fatto schifo veder spuntare il seno e di quanto si era disperata nel realizzare di essere un umano difettoso. Trattenne quel fiume di parole e si limitò a sorridere.

Michele la guardò intensamente, prima di darle una leggera spallata scherzosa. «Perché non ti lasci fotografare tu?»

Roberta sentì un moto di ribrezzo. «Oh, no no. Non me la sento...»

«Avanti, che ti costa?»

Ripensò a tutte le foto che le sue amiche le facevano e ogni volta provava disgusto, nausea nel non riconoscersi in quelle labbra rosse, nei capelli lunghi, nelle magliette con la scollatura e nel trucco che si costringeva a mettere ogni mattina. Tutto per poter fingersi una normale ragazza, ma non era lei.

«Non ti fidi di me?» scherzò ancora Michele andosi una mano tra i ricci neri.

Roberta esitò. «A una sola condizione», le parole le uscirono graffiate come se dovesse strapparsele di gola, «dovrai rendermi un uomo.»

Michele alzò le sopracciglia, sorpreso. Roberta temette di doversi pentire di quella debolezza per il resto della vita.

Dopo qualche istante, lui tornò a sorridere. «Affare fatto.»

«Sei pronta, Roberta?»

La voce di Michele le arrivò attutita attraverso la porta della camera da letto del bilocale. Roberta continuava a fissarsi nello specchio da svariati minuti, non sapeva quanti. Il fagotto all'altezza del seno non riusciva affatto a nasconderne la forma.

La porta si socchiuse e Michele si sporse nella stanza. Lanciò un'occhiata alla sciarpa arrotolata al petto e trattenne a fatica una risata. «Vuoi che ti aiuti?

Dovrei avere una spilla...» Si avvicinò al comodino e frugò nel primo cassetto. «Ah, eccola.»

Roberta si slacciò la sciarpa e si fissò quel seno che tanto detestava. Non era imbarazzata che Michele la vedesse: a lui piacevano gli uomini. L'ennesimo motivo per cui avrebbe dato di tutto per essere un ragazzo.

Lui la raggiunse e le strinse la sciarpa attorno al torace in modo da appiattire quasi del tutto il petto. La fermò sulla schiena con la spilla, la guardò attraverso lo specchio con un sorriso. Le raccolse i capelli in una mano e sfilò una molletta dalla tasca dei pantaloni fermandole le ciocche sulla nuca.

«Dovrebbe bastare un berretto. A meno che non ti voglia tagliare i capelli» scherzò Michele aprendo un'anta dell'ampio armadio a parete.

Roberta sogghignò. Avrebbe voluto con tutto il cuore tagliarseli, ma sua madre l'avrebbe uccisa. Secondo lei i capelli corti erano una specie di eresia per una ragazza. Figurarsi un taglio alla maschiaccio.

Michele tornò alle sue spalle con un berretto grigio e glielo sistemò sulla testa in modo da lasciare un ciuffo disordinato di capelli biondi sulla fronte. Prese dal letto la camicia e il gilet e la aiutò a vestirsi. Si slacciò anche il braccialetto di cuoio porgendoglielo.

Roberta lo indossò sentendosi d'un tratto meglio, più forte e più a proprio agio.

«Di là è tutto pronto» le disse Michele. «Tu ci sei, tesoro?»

Roberta si lanciò un'occhiata allo specchio e il suo cuore batté forte per l'emozione. Si volse e, con la voce scura che aveva per anni provato a misurare, assicurò: «Certo. E, per favore, chiamami Roberto.»

Il flash lo accecava e il fumo della sigaretta gli bruciava gli occhi facendoli lacrimare. Eppure, si sentiva al settimo cielo, come se per la prima volta nella sua intera vita fosse nei panni giusti: nei propri. Era Roberto, era un uomo e si lasciava fotografare, imprimere nel negativo, come tale. Quelle immagine sarebbero rimaste per sempre, un eterno momento rubato di pace.

«Direi che basta, vediamo come sono venute.»

Roberta si riscosse, come svegliandosi da un sogno, e spense la sigaretta nel posacenere dietro di lei. Nel rialzarsi dal pavimento sentì la sciarpa scivolarle dal seno in vita e capì che il momento era finito. Era tornata il solito ragazzo intrappolato in un corpo femminile. Si alzò la camicia e si slacciò la sciarpa appoggiandola poi sullo schienale di una sedia.

Michele collegò la macchina fotografica al portatile e aspettarono che il computer riconoscesse il dispositivo.

«Sono solo foto nude, per ora. Dovrei lavorarci un po' con la grafica. Filtri, bianco e nero, cose così» disse Michele per ammazzare il silenzio dell'attesa.

Roberta sorrise con amarezza, concentrata sull'icona dell'ingresso usb che analizzava il dispositivo. Sentiva un cerchio alla testa e il respiro mozzato per la tensione. Cosa avrebbe visto in quelle fotografie? Roberto o Roberta che scimmiottava un maschio? Per un attimo pensò di chiedere di non vederle, di evitare di scoprirlo.

La speranza però era troppa. Voleva sapere.

Il computer emise un bip e si aprì la cartella dei file all'interno della macchina fotografica. Michele scorse tutti i file finché non arrivò alle ultime. Aprì la finestra di anteprima e cominciò a scorrerle.

«Accidenti, Rob! Sei fantastico, vedi?»

Roberta non rispose. Non poteva: era scoppiata in lacrime di gioia.

Crescere

Rosalba Repaci

Ciao Irene,

scusa se ti rispondo con grande ritardo, ci sono state molte novità che hanno reso la mia vita più complicata di quanto già fosse.

Nel giorno del mio compleanno ho conosciuto un uomo; ho interpretato questo incontro come un segno del destino, un regalo inaspettato, tu lo sai che dopo tutto il dolore e la paura che mi ha travolto due anni fa e ancora mi accompagna nelle mie notti insonni, riconoscere che una cosa è bella quando mi si presenta davanti, è quasi impensabile per me.

Armando, questo è il suo nome, fin da subito, mi ha spiazzato con la sua bellezza e convinta con la sua spontanea gentilezza. Riempirmi di attenzioni per strapparmi un appuntamento non è stato facile per lui che caparbiamente non ha desistito; è stato terribilmente bravo a scovare modi diversi per dimostrarmi quanto tenesse a me, e così gli ho permesso di bussare alla porta della mia anima, senza concedergli mai di entrare. Un grande o avanti per una come me, che aveva giurato di voler escludere gli uomini dalla propria vita.

La frase che mi hai urlato al telefono due anni fa, quando, dopo l’ennesimo litigio con Sergio cercavo il tuo conforto, è diventato il mio mantra che ho sempre ripetuto a me stessa per non ricadere negli stessi errori.

“Cresci Vera, non permettere a Sergio e a nessun altro di trattarti in questo modo. Chi ti picchia non ti ama, cresci Vera, cresci!”

E io ho seguito il tuo consiglio alla lettera. Sono cresciuta, mi sono rinchiusa in un isolamento affettivo che mi ha protetto, almeno fino a ora, dalle delusioni. Ho negato la mia femminilità, ho vissuto nel sospetto, non sorridevo più; poi, un giorno ho smesso di piangere.

I lividi si sono scoloriti, dal viola scuro al marrone e poi al giallo, le cicatrici dell’anima sono indelebili, ma non sanguinano più perché ho imparato a conviverci.

Armando è un uomo pacato e pragmatico, vive senza farsi tante domande; è questo l’aspetto del suo carattere così lontano dal mio che più mi ha affascinato. Stava quasi riuscendo a convincermi che la vita va vissuta così come viene, senza tanti perché; e il tempo ato insieme è stato più che piacevole.

Questi otto mesi accanto a lui sono letteralmente volati, avendo interessi comuni, trovare le occasioni per stare insieme è stato sempre molto facile. I nostri week end al mare, almeno una volta al mese, mi regalavano un appagamento a me sconosciuto che, una volta rientrata a casa mia, si trasformava, durante la notte, in una gelida sensazione di inadeguatezza.

Le giornate con lui si accavallavano alle mie notti insonni, molte domande, pur rimanendo senza risposta, continuavano a tormentarmi. Armando, con amore e comprensione, era il contrappeso che, per otto mesi, ha permesso alla nostra relazione di resistere alle mie immotivate insicurezze, fino a quando non ha deciso di chiedermi con ferma determinazione di andare a vivere con lui. Questi

suoi paletti mi hanno terribilmente spaventata, ho quindi pensato che l’unica soluzione fosse quella di chiudere la porta del mio cuore.

Dovresti essere orgogliosa di me, hai visto, sono cresciuta!

Non ho permesso a nessun altro di giocare con i miei sentimenti, di sentirsi padrone della mia anima.

Ho deciso di scriverti ora perché proprio la scorsa notte ho fatto un sogno strano.

Ero tornata bambina, ero in vacanza con i miei nonni: durante una gita sono caduta nell’acqua gelida e melmosa di un lago, mio nonno mi ha afferrata per i capelli, e mi sono ritrovata seduta sulla riva già donna adulta: un percorso di crescita irreale, ma che assomiglia molto a ciò che è accaduto nella mia realtà.

È tutto il giorno che la parola crescere mi rimbalza nella mente, si scontra con il tuo ammonimento travestito da consiglio.

Crescere significa cambiare in un’idea comune di miglioramento; quando un bambino cresce vuol dire che diventa grande, e non c’è nulla di negativo nella parola grande, tutt’altro. A una giovane donna cresce il seno, una meravigliosa sacralità che preannuncia il nutrimento a un futuro figlio.

Anche tu come mia amica hai usato questo termine perché desideravi per me un cambiamento che migliorasse la mia vita.

Crescere per continuare a vivere.

Ma ora mi chiedo: questa crescita a cosa mi è servita? Le botte di quell’infame di Sergio mi hanno fatto crescere, sono cambiata, ma questo mio cambiamento non ha un’accezione positiva; mi ha tolto la capacità di riconoscere un affetto sincero e il coraggio di rischiare, amando di nuovo.

E ora sono sola.

Crescere nel dolore porta solo solitudine.

Ho bisogno del tuo aiuto per imparare di nuovo a fidarmi degli altri, accettando il rischio che l’amore porta con sé.

Solo tu puoi aiutarmi...

Amore vero

Sabina Di Gangi

Elisa aveva deciso di andare al parco, di sedersi su una panchina e riflettere. Aspettare che la sua mente potesse decidere per sé e per il suo futuro. Attendere una risposta, poter lasciare il tormento fuori dal suo corpo, dalla sua mente e dalla sua anima per poter andare avanti con la vita. Lasciare che il tempo, col suo scorrere imperturbabile, potesse guarire la sua sofferenza, il suo atroce dolore.

Seduta lì, su una panchina di un verde ormai sbiadito dal logorio del tempo. Lì tra alberi imponenti e siepi inermi, lì dove il silenzio era agghiacciante, le nuvole rallentate dal torpore del mattino. Lì dove spesse volte aveva gioito, dove aveva riso, giocato, dove aveva assaporato i gusti decisi di una vita dolce e agra. La sua vita.

Una vita trascorsa troppo velocemente, dove il tempo, confuso dagli avvenimenti, aveva dato poco spazio a una Elisa già grande. Mentre altre si godevano la giovinezza e poi l’adolescenza, lei succube del destino aveva cercato di non curarsi dello scorrere dei giorni e dei mesi. Dando vita alla vita, a un esserino che forse non meritava. Un amore troppo grande, un amore incapace di affrontare. Di certo non lo aveva messo in conto quando proprio lì, su quella panchina sbiadita, aveva conosciuto quel ragazzo curioso e sfacciato. Ernesto.

Ernesto dai capelli ribelli, un po’ lunghi e spettinati. Dagli occhi stretti dai sorrisi, dove il marrone caldo prevaleva sul viso scarno. Dal naso appena accennato e dalle labbra carnose che Elisa paragonava a una fragola matura.

Si era avvicinato giocando, fingendo di saper già fumare, ammiccando. Come se già un filo di intesa li apparteneva le si avvicinò, sedendole accanto, come fanno i ragazzi, sulla spalliera. Lei si era voltata verso l’amica facendo un risolino, poi gli disse:

«Questa panchina è già occupata!»

«C’è abbastanza posto anche per me. Vuoi una sigaretta?» Porgendole il pacchetto di Merit quasi vuoto.

«No. Grazie, non fumo.»

Divertita e curiosa osservava i movimenti di Ernesto, le sue mani. Era il primo ragazzo che le si avvicinava al di fuori dei compagni. Al liceo si conoscevano tutti, anche solo di vista, e lui di certo non era un viso che aveva visto a scuola.

«Non ti ho mai visto…» accennò.

«No. Non sono del quartiere.»

«E che ci fai qui?»

«Sono venuto per conoscerti!» Rispose scaltro.

Elisa e l’amica diedero vita all’ennesimo risolino.

Ernesto la guardò sorridere, gli piaceva proprio. L’aveva notata al centro commerciale e si era fatto raccontare da suoi amici chi fosse. Era con le amiche, e di gran lunga era più bella delle altre. Pensava fosse timida e riservata, gli piaceva il suo corpo e il suo viso, a lui pareva una modella che spesso vedeva in televisione.

«Io mi chiamo Ernesto, tu?»

«Elisa.»

Era tutto cominciato così, ingenuamente, una parola tira l’altra, una battuta seguita da un sorriso e una risata. Una mano sul braccio, un gomito che sfiora il fianco. I capelli che gli accarezzano il viso. Un gioco col cellulare. Una canzone ascoltata tutti insieme, poi scambiarsi i numeri e dirsi ci sentiamo. Era piacevole, era eccitante, e per Elisa era tutto un sogno.

Quel sogno inverosimile era continuato a casa, sotto le coperte con i suoi continui messaggi; Ernesto raccontava stupidaggini agli occhi di un adulto, ma per Elisa erano parole cariche di dolcezza e amore. Parole che lodavano la sua bellezza, che esternavano la sua attrazione nei confronti di quella ragazza che sembrava una modella.

I giorni sfuggivano e il loro acerbo amore diveniva sempre più intenso. Elisa era vergine e mai aveva pensato a cosa fare se si fosse innamorata, e per lei Ernesto

era amore.

Le amiche le consigliavano di lasciarsi andare, ormai aveva quindici anni compiuti, era arrivato il suo momento, era cresciuta.

«In effetti» aveva risposto, «Ernesto è il mio amore, non posso che donare a lui la mia verginità, è la persona che amerò per tutta la vita!»

Già, per tutta la vita. È il mio amore.

Se le avesse sentite la madre quelle parole vomitate in quei momenti! Una madre che già aveva conosciuto l’amore, quello che ti illude di essere vero, che sembra unico e solo, che si pensa possa essere per tutta la vita. Si pensa.

Era appena arrivata l’estate, la spiaggia al tramonto era per Ernesto e Elisa il luogo giusto. Erano soli, era romantico, come si vede nei film.

Ernesto, anche lui, non aveva nessuna esperienza. Faceva il figo ma col sesso non c’entrava nulla. La accarezzava, la baciava, le scopriva il seno per toccarlo. La saliva era come un unguento magico che li drogava, e più ce n’era più erano eccitati. Nudi uno sull’altra. Erano finalmente pronti. Elisa fasciò il viso di Ernesto guardandolo negli occhi:

«Ti prego fai piano, non farmi male» sembrava lo implorasse, non tanto di non farle male ma di confermargli che stavano per fare la cosa giusta.

«Stai tranquilla, sarà bellissimo!» Rispose sicuro di sé.

Per Elisa non fu bellissimo, non subito per lo meno.

«È questo l’amore?» gli chiese con gli occhi lucidi, piena di sensi di colpa.

«Il vero amore!» esclamò Ernesto.

Ma con lo scorrere dei giorni scoprì che il dolore non era finito. Scoprì di essere rimasta incinta.

Incinta.

Aveva quindici anni, compiuti come dicevano le sue amiche, e un esserino cresceva dentro il suo corpo. Non riusciva a rendersi effettivamente conto di cosa stava per succedere. Un imprevisto. Un colpo di testa. Una stupidaggine. Cos’era successo? Perché era stata così stupida, farlo senza prendere una precauzione? Eppure ne aveva sentito parlare. Ma in quei momenti era stato tutto rimosso: la mente inebriata dalla saliva, dai baci, dal sudore, da quella sensazione strana che la faceva sentire innamorata.

A chi dirlo, a Ernesto? Alla madre? Alle amiche? Chi avrebbe potuto consigliarla al meglio? Di certo le occorreva tanto coraggio. Con un peso sul cuore, un macigno, tutto il mondo addosso, tutta la vita compressa in giorni che non riusciva a decifrare.

Era giunto il momento di raccontare tutto alla madre. Aveva lo stomaco in subbuglio, il cuore le scoppiava, le mani tremavano. La madre con gli occhi su una rivista le disse: «Dimmi, ti ascolto». Elisa impietrita le chiese di smettere di leggere perché le doveva dire qualcosa di importante.

La donna capì subito che stava per accadere qualcosa. E la ascoltò. Zitta. Immobile, con gli occhi di ghiaccio e le labbra strette dalla rabbia. Parola dopo parola: sprofondava. Il mondo si era fermato intorno a loro. I corpi come sospesi, erano sole, madre e figlia. Donne adesso. Non erano più quindici anni compiuti, a un tratto la sua responsabilità per quello che era successo e che aveva lasciato che accadesse la spinsero di un ventennio avanti. Costretta a crescere. Volente o nolente.

La madre si alzò lasciandola davanti al divano, Elisa non le rivolse lo sguardo voltandosi, sapeva che non doveva farlo, adesso doveva aspettare che fosse lei a parlare, la madre.

Fece qualche o verso la finestra che dava sulla città.

«Chi è il padre? Quel ragazzo che hai frequentato ultimamente?»

«Sì.»

«Di quanto sei, voglio dire, di quanto è il ritardo?»

«Sono all’ottava settimana.»

Silenzio.

Poi quelle parole che non avrebbe mai voluto sentire.

«Chiamo il ginecologo e vediamo di interrompere la gravidanza.»

Elisa chiuse gli occhi colmi di lacrime. Il viso rigato, bagnato dal dolore che stava provando. Si accasciò sul pavimento.

La madre sentì i singhiozzi e la precedette dicendole che non c’era alcun motivo di fare melodrammi, aveva sbagliato e adesso doveva pagare. Un giorno le sarebbe stata grata. Non le diede modo di ribattere, non le diede modo di poter anche solo pensare di non volerlo fare.

Ma quel bambino lei già lo amava.

Lo vedeva fra le sue braccia con la manina che le stringeva il dito. Sentiva una vocina che piagnucolava. Sentiva il lamento di un bimbo che non voleva morire, che non voleva essere ucciso per volontà della sua stessa nonna. Assassinato.

Elisa lanciò un grido di disperazione.

Lì sul pavimento. Sola.

La madre era già al telefono che definiva la morte del suo primo nipotino. Di già. Che fretta c’era.

Fece una corsa per raggiungerla, le strappò la cornetta dalle mani e riattaccò. Doveva almeno provarci, doveva lottare per salvarlo, doveva e voleva salvarlo. Era suo. Era solo suo, perché altri dovevano decidere sulla sua vita?

Ma la madre, irreprensibile come non mai, non le diede possibilità né di controbattere, né di lottare per il proprio figlio.

Era tutto troppo tardi.

Era stato deciso così. L’appuntamento era stato fissato, non c’era nient’altro da dire.

Elisa le si avventò dandole calci e pugni, la madre le diede un ceffone intimandola di smetterla.

L’ennesima corsa.

Fuggire da quella casa, da quella madre che non la capiva, che non poteva capire.

Una corsa a perdi fiato. Le macchine, le persone, le vetrine tutto le ava accanto sfocato.

Vedeva solo un punto di fronte a sé, un sole che non voleva più splendere, una vita che non valeva più la pena vivere.

Raggiunse la panchina esausta. Era sempre più sbiadita.

Si sfiorò la pancia. Sapeva che ancora era un puntino piccolo piccolo, ma era già una vita.

Rimase attonita per qualche minuto poi prese il cellulare, forse Ernesto poteva aiutarla, magari insieme potevano crescere il loro piccolo. Lasciare gli studi, solo finché sarebbe cresciuto un po’, Ernesto avrebbe potuto lavorare, lei avrebbe fatto la mamma. Sì, la mamma, perché no.

Bastava volerlo. Tutto era possibile, bastava crederci.

Ma Ernesto non lo voleva. Per Ernesto non era possibile. Ernesto non ci credeva.

Era sola? Come poteva fare da sola. Sola contro tutti.

Come poteva crescerlo senza neanche l’aiuto di Ernesto?

Perché tutti le si erano accaniti contro?

Sentiva il dolore invaderle la mente. Non bastava piangere. Non bastava chiudere gli occhi per dimenticare quella vita. Non bastava gridare.

Nessuno si accorgeva che aveva bisogno di aiuto, né la panchina sbiadita, né gli alberi, né le siepi inermi, né le nuvole lente. Nessuno si accorgeva che Elisa in preda alla sua prima, grande, vera sofferenza si era alzata dalla panchina per andare al fiume. Non correva più, non serviva più a nulla correre. Il o lento, le scarpe bagnate dalle sue stesse lacrime. La mano che ancora tremava accarezzava il suo batuffolino facendogli coraggio.

«Non ti preoccupare amore mio. Non ti lascio solo. Io sono la tua mamma, e la tua mamma starà per sempre con te. Staremo insieme per sempre. Ti amerò per sempre.»

La sagoma di Elisa si sfocava mentre si avvicinava al ponte, man mano si allontanava dalla vita.

Era magra, era bella. Era sensibile. Era innamorata.

«Nessuno ti vuole qui, né il tuo papà, né tanto meno la tua nonna, nessuno capisce quanto tu sia speciale, ma non preoccuparti ci sarò io a farti compagnia. Questo mondo è cattivo. Non merita il nostro amore.»

Gli ultimi singhiozzi.

Si arrampicò sul parapetto, sul punto più alto del ponte, e senza pensarci due volte si lasciò cadere. Volando: come un fiore delicato che cade giù sull’erba, come una foglia autunnale che assapora la terra.

Elisa volava via col suo amore, con l'amore della sua vita, quello vero!

Il viaggio

Sarah Bernardinello

L'alba lo colse sulla battigia, mentre guardava la distesa d'acqua che si stendeva di fronte a lui.

Era arrivato a destinazione, la sabbia candida sotto i suoi piedi nudi ne era la prova.

Era stato un viaggio lungo, irto di insidie, ma ce l'aveva fatta, nonostante i dubbi, le paure, la tentazione di rinunciare. Aveva combattuto e aveva vinto.

L'impegno assunto all'inizio era sembrato troppo grande per le sue capacità, ma aveva dato prova di rispettare gli impegni, e quel viaggio gli era servito soprattutto per guardare dentro di sé.

Lo sciamano aveva ragione, le insidie peggiori si celano nel cuore, ma non si era arreso. Di questo poteva dirsi orgoglioso.

Non aveva deluso le aspettative.

Con un sospiro si girò, dando le spalle al mare. Era il momento di tornare a casa.

***

Sei mesi prima...

«Alzati, Kyran.» La voce gelida gli ferì le orecchie. Posò le mani sul terreno duro che aveva accolto la sua guancia con una carezza crudele. Il graffio bruciava come fuoco. Si alzò, prima sulle ginocchia e poi sulle gambe tremanti. Quel giorno era finito a terra almeno una decina di volte, e il Comandante lo aveva sempre incitato a rialzarsi.

L'addestramento lo stava stremando, per l'ennesima volta si chiese perché si trovasse lì. Che male poteva aver fatto, per meritare quella tortura?

Gli tornarono alla mente le parole dure del padre. Doveva diventare un uomo, era il momento di abbandonare la gabbia dorata in cui era cresciuto.

La soluzione era stata catapultarlo nel campo di addestramento della Guardia Reale. La punizione peggiore che gli potesse capitare.

Fissò l'uomo imponente che lo sovrastava di tutta la testa.

«Sei una mammoletta,» lo rimbrottò Gaylord, il Comandante. Suo padre lo aveva affidato direttamente a quelle mani enormi che per molte ore durante il giorno lo strapazzavano, lo ferivano, lo scuotevano come fosse un pupazzo.

Quell'uomo terribile! Lui cadeva e l'altro lo esortava ad alzarsi, veniva colpito e l'altro lo derideva se mostrava dolore. Non ce l'avrebbe mai fatta a superare il periodo dell'addestramento. Non aveva la forza necessaria.

«Vattene, adesso.» La voce di Gaylord era carica di disprezzo. «Spero che domani tu sia più propenso a darti da fare, altrimenti mi vedrò costretto a rimandarti da tuo padre.» L'uomo ammiccò. «Non sono sicuro che il suo trattamento sarà meno inflessibile del mio.» Gli girò le spalle e si allontanò, ferreo soldato del Re. Uomo tutto d'un pezzo, dal coraggio senza pari. Gli uomini al suo comando gli dimostravano un rispetto che rasentava la devozione.

Per un attimo Kyran si vide con gli occhi di Gaylord: un adolescente in procinto di entrare nell'età adulta, ma molle come una donnicciola, debole come una fanciulla. Non come i compagni che con lui formavano le nuove leve su cui l'impero avrebbe dovuto contare.

Vedeva giovani della sua età formati nel fisico molto più di lui, muscoli tonici che lui non avrebbe mai avuto.

Se non si fosse impegnato, gli disse una vocina.

Quella stessa vocina assunse il tono profondo del Comandante e ribatté che sarebbe stato rimandato a casa coperto di ignominia.

Niente rispetto per lui, solo spregio.

Alzò lo sguardo verso il cielo coperto di nuvole. Stava cominciando a piovere, e lasciò che le gocce d'acqua lavassero il suo viso impolverato.

***

La notte era trascorsa in un sonno agitato, ben prima dell'alba Kyran si era ritrovato in piedi, dolorante e frastornato, ma ben deciso a proseguire.

La sera prima, le risatine di derisione che l'avevano accolto quando era entrato nella camerata lo avevano ferito molto più dell'addestramento.

Gli sguardi sprezzanti avevano invaso i suoi sogni, e al risveglio aveva preso una decisione.

Si ritrovò sul campo, avvolto dalla luce fumosa dell'alba, dando fondo alle energie rimastegli. Mentre si allenava con pesi e bastoni capì che, prima che a tutti gli altri, doveva dimostrare a se stesso che valeva.

***

Gaylord osservò il ragazzo. Niente da dire, qualcosa era successo. Era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene, man mano che i giorni avano lo vedeva irrobustirsi, rispondere ai suoi colpi cadendo o cedendo ogni volta di meno.

Sembrava che in quel giovane fosse scattata una scintilla di rivalsa.

Era persino risultato vincitore nella lotta con il migliore degli allievi. Al suo occhio esperto non era sfuggito il modo astuto con cui Kyran aveva volto a proprio favore le differenze fisiche.

Si convinse che sotto quel ciuffo ribelle che gli ornava la fronte si celasse un'intelligenza e una forza di volontà che sulle prime non aveva notato, o che il ragazzo non aveva voluto mostrare.

Determinazione: era quello che leggeva in quegli occhi scuri e ardenti.

Se ne rallegrò: se fosse stato davvero un inetto, se ne sarebbe andato da tempo. Aveva del carattere, doveva ammetterlo.

Era giunto il momento di metterli tutti alla prova. Solo così avrebbe potuto scegliere i nuovi soldati del Re, che l'avrebbero servito con l'impegno, la dedizione e... sì, anche con la vita.

***

Le parole del Comandante Gaylord aleggiavano ancora sul campo.

Kyran sbatté le palpebre. In piedi, in mezzo ai suoi compagni di addestramento, avvertiva la tensione che l'annuncio aveva creato.

Un suicidio travestito da missione. Portare un messaggio da parte del Re al villaggio di Kaden, consegnarlo allo sciamano, ritornare. Per farlo si doveva attraversare il territorio dei Galen, notoriamente nemici, rischiare la vita in imboscate che venivano spesso tese ai viaggiatori.

Eppure era la parte finale dell'addestramento, dove si doveva dimostrare coraggio e forza, intelligenza e spirito di adattamento.

Kyran si guardò attorno. Non vedeva mani alzate, non c'erano volontari.

Solo un silenzio innaturale.

Gaylord aveva chiesto una persona che si prestasse per quel viaggio, che poteva rivelarsi facilmente senza ritorno. Tuttavia aveva tenuto a sottolineare che accettare non era obbligatorio.

Si poteva aspettare ancora, finché non si fossero sentiti davvero pronti.

Serrò le mani a pugno. Negli ultimi tempi era riuscito a dimostrare di non essere tipo da arrendersi. La luce che aveva visto negli occhi scuri del Comandante glielo aveva confermato.

Non era più il figlio sciocco del nobile Waylan, bensì un ragazzo che stava diventando uomo, riconoscendo i propri doveri e le proprie responsabilità.

Il silenzio si stava protraendo, il Comandante avrebbe dato presto il “rompete le righe” senza aver trovato qualcuno così pazzo da accettare l'incarico.

“Allora io sono pazzo”, si disse Kyran, e alzò la mano.

Più tardi, nella sala ufficiali, Gaylord e i suoi uomini più fidati stavano commentando ciò che era accaduto nel campo quel pomeriggio.

«Quel ragazzo è una continua sorpresa.» Questo era il suo luogotenente, Jalen. A lui spesso chiedeva delle opinioni sugli allievi. Gaylord posò il bicchiere di vino sul tavolo e sorrise.

«Credo abbia sorpreso anche tutti gli altri, oggi, compresi quelli che noi consideravamo i migliori.» Scosse la testa. «Quando credevo che nessuno si sarebbe proposto, eccolo che si fa avanti. Mi domando se sappia quello che fa.»

«Mi sorprende che proprio tu lo dica, Gaylord,» replicò Doran. «Hai visto come ha cercato di migliorarsi, in questi ultimi tempi. Non assomiglia per niente al ragazzo che è arrivato qui all'inizio dell'addestramento. Sembra molto più consapevole di sé e di quello che gli viene chiesto.»

Il Comandante annuì. «Ho visto. E non posso fare a meno di compiacermene. Se manterrà queste premesse, diventerà un uomo davvero eccezionale.»

Li vide annuire convinti. Bevve un sorso di vino e sorrise. Adesso doveva solo

aspettare.

***

Lo sciamano attendeva sulla soglia della sua capanna. L'avevano già avvisato dell'arrivo del ragazzo. Qualche settimana prima era arrivato un messaggio del Comandante Gaylord informandolo della missione e di chi doveva compierla.

Il vecchio sorrise: il suo amico si ostinava a chiamarla così, anche se in realtà si trattava di mettere alla prova quei ragazzi che si addestravano per diventare soldati del Re. Gaylord gli aveva descritto il giovane, da quando era arrivato al campo a quando si era offerto di portare il messaggio. Un percorso in salita, giorno dopo giorno, dimostrando tuttavia un fervore che era andato aumentando.

L'anziano Seward sospirò e infilò le braccia nelle maniche. Strizzò le palpebre nel riverbero del sole e lo vide arrivare, sporco e arruffato, circondato dai guerrieri del villaggio.

Quando gli fu di fronte, il ragazzo s'inchinò e poi gli tese la busta chiusa con la ceralacca e il sigillo di Gaylord.

Seward aprì la lettera sotto lo sguardo sfinito del giovane e lesse la missiva. Poi alzò gli occhi sul messaggero e sorrise.

«Hai fatto bene, Kyran. Molto meglio del previsto.»

***

Kyran non sapeva se sentirsi sbalordito o infuriato. Era stato messo alla prova, come tutti gli altri prima di lui. I Galen erano un popolo amico, le imboscate una finta, il messaggio una semplice scusa. Tutta la “missione” si fondava semplicemente sulla capacità di chi accettava di non rinunciare nonostante i pericoli prospettati.

Ora sapeva di non aver rischiato davvero, anche se le parole di Seward avevano cercato di lenire la delusione, almeno in parte.

«Da anni questo viaggio è considerato la parte finale dell'addestramento. Non c'è gloria nel saper maneggiare le armi senza aver davvero messo in pratica gli insegnamenti.» Lo sciamano sorrise. «L'unica cosa che ti chiedo è di mantenere il segreto sulla missione. Continueremo a proporla, perché il solo fatto di accettarla rende una persona degna di rispetto.»

«È un inganno, in realtà non ho mai dovuto temere per la mia vita!» protestò Kyran.

Seward annuì. «Questo è vero, ma il coraggio che hai dimostrato non viene sminuito. Hai affrontato lo stesso i pericoli, l'ignoto: questo va tutto a tuo favore. Quanti dei tuoi compagni meglio addestrati si sono offerti?» Kyran scosse la testa e lo sciamano sorrise. «Lo vedi? Puoi chiamare la tua decisione incoscienza, ma l'hai presa e hai portato a termine quanto ti eri proposto e ti hanno chiesto. È da questo che si vede un uomo, Kyran. Puoi affrontare gli ostacoli o rinunciare a farlo. Tu non ti sei tirato indietro. Questo non è solo coraggio, ma consapevolezza di sé.» Il vecchio si alzò e gli strinse la spalla. «Il primo vincitore sei tu: hai dimostrato a te stesso di valere e, guardandoti, anche chi si affiderà a te saprà che non disattenderai le aspettative.»

Kyran lo fissò e annuì. Seward alzò la mano e gliela ò sul volto.

«Ti benedico, figliolo. Diventerai l'uomo che Gaylord si aspetta.» Si chinò su di lui. «Le insidie non si nascondono solo in un viaggio pericoloso, ragazzo. Spesso si celano nel cuore. Tienilo a mente. Dovrai combattere dubbi e paure. Tutti ne abbiamo, ma dimostriamo di essere diventati adulti quando le affrontiamo, non quando le rifuggiamo.» Sorrise. «È ora di dormire, domani ti aspetta il viaggio di ritorno.»

Kyran lo guardò uscire e sospirò. Diventare adulto... non era solo una questione di età.

Forse la missione era stata solo un artificio, ma i sentimenti che lo avevano mosso no. Era grato a Seward per quello che gli aveva detto, avrebbe fatto di quell'esperienza e di quelle parole un insegnamento da cui trarre forza.

L'indomani, prima di partire, sarebbe andato a guardare il mare, per la prima volta nella sua vita, e poi avrebbe fatto ritorno. Provava nostalgia per i compagni, ma soprattutto per il rude, forte Comandante. Non vedeva l'ora di tornare ad addestrarsi sotto la sua guida.

Si stese sul pagliericcio, sbadigliò. E si addormentò.

Lo sconosciuto

Sonia Tortora

Sono sempre stata una ragazza psicologicamente forte, ma a volte viviamo esperienze che si imprimono così a fondo nella nostra mente da tormentarci tutta la vita con rimorsi e sensi di colpa. Fu ciò che accadde quando commisi il mio primo “omicidio”.

Tutto ebbe inizio quindici anni fa, in una giornata primaverile in cui decisi di indossare la minigonna per inaugurare la bella stagione. Scelsi con cura ogni accessorio, poi soddisfatta uscii di casa per andare a scuola.

Ogni mattina percorrevo la solita strada, ma quel giorno ebbi la malaugurata idea di fermarmi davanti a una vetrina: fu allora che lo vidi. Era una figura scura, lunga e tarchiata e stava lì, immobile, a fissarmi. Voleva are inosservato, ma il riflesso del vetro rimandava un’immagine nitida e inequivocabile.

Cercai di mantenere la calma e di respirare lentamente, ma un profondo disagio mi stava assalendo. Mi rimisi in cammino provando a seminarlo. Iniziai a correre, ma a ogni superficie riflettente che incrociavo notavo che mi era sempre incollato addosso. Finalmente arrivai a scuola e tirai un sospiro di sollievo.

Non feci altro che pensare a quell’ombra oscura tutta la mattina e maledissi l’attimo in cui mi era venuta voglia di mettere la minigonna, forse era stato proprio quello ad averlo fatto uscire allo scoperto.

Quando suonò la camla di fine lezioni, telefonai a mia madre supplicandola di venire a prendermi in auto, perché avevo timore di fare la strada di ritorno a piedi.

Lei arrivò e chiese spiegazioni per l'insolita richiesta. Non appena le raccontai ciò che era accaduto si fece una grassa risata sostenendo che sicuramente ingigantivo il problema e che con poche mosse avrei potuto mettere fuori gioco lo “sconosciuto”.

Come al solito non capiva il mio disagio e banalizzava ciò che in realtà avrebbe potuto rovinarmi l’esistenza, perciò pensai a come risolvere la questione da sola: serviva un metodo efficace e che nello stesso tempo che non lasciasse tracce.

Per prima cosa cominciai a non mettere più minigonne: lui sparì, anche se sapevo che era dietro l’angolo pronto a uscire non appena avessi abbassato la guardia. Tuttavia non potevo are l'estate a coprirmi o barricarmi in casa per non attirare le sue attenzioni… quindi dovevo escogitare qualcosa di risolutivo.

Una sera, facendo la doccia, mi venne un'idea: aprii il mobiletto del bagno con le cose di mio padre e vidi un bel rasoio con la lama lucida e tagliente, lo presi in mano per sentirne il peso ed era estremamente leggero, perciò non avrei faticato molto a manovrarlo e inclinarlo secondo le esigenze del caso.

Quella sarebbe stata la soluzione ideale, poiché era rapida, indolore e facile da attuare.

Nei mesi successivi il caldo torrido era diventato insopportabile, quindi decisi che era giunto il momento di mettere in atto il mio piano omicida. Indossai una minigonna, persino più corta della precedente, infilai furtivamente il rasoio nello zaino e uscii di casa diretta a scuola.

Mi fermai di proposito davanti alla solita vetrina e guardai il riflesso: questa volta i soggetti erano due.

Stavano immobili e minacciosi a fissarmi e non se ne sarebbero andati via. Girai l’angolo e mi vennero dietro nel vicolo buio, così tirai fuori il rasoio e zic zac… con un movimento rapido e deciso li tolsi di mezzo, caddero a terra esanimi e molli, e non schizzò neanche una goccia di sangue.

Ero stata più brava del previsto: con soddisfazione gettai in un cassonetto la lama utilizzata e riposi il manico del rasoio al sicuro nello zaino.

Negli anni futuri ne seguirono altri, sempre più numerosi, ma ormai avevo trovato un rimedio sicuro ed efficace per risolvere il problema alla radice, la mia mano era sempre più ferma, il taglio netto e preciso e soprattutto stavo attenta a non lasciare in giro testimoni del mio reato.

Acquistai di nuovo sicurezza in me stessa e in seguito niente riuscì a turbarmi come quell’esperienza giovanile.

Fortuna che nel terzo millennio i sistemi barbari e arcaici per depilarsi sono stati superati dal progresso e con la ceretta è diventato tutto molto più semplice. Sono certa che se fosse stata pubblicizzata e diffusa anche quindici anni fa, la mia adolescenza non sarebbe stata così traumatica.

La scuola elementare

Valentina Camarda

L'estate era ormai terminata, lasciando posto a un settembre grigio e triste sotto diversi punti di vista. A settembre ricomincia tutto, si riprende con la solita routine con cui si va avanti durante l'anno.

Quell'anno però sarebbe stato speciale per la piccola Martina e la sua famiglia: avrebbe iniziato la scuola elementare.

La sua mamma, preoccupata dalla reazione della bimba al distacco, l'aveva preparata già da mesi a quell'evento.

«Martina, lo sai che a settembre inizierai la scuola elementare?»

«Davvero, mamma? Che cos'è?»

«È un posto dove insieme a tanti altri bimbi della tua età imparerai tante cose interessanti.»

«Che bello! E tu verrai con me?»

«Io ti accompagnerò tutti i giorni, ma non mi è permesso restare.» Vedendo il visino improvvisamente triste della sua bimba, mamma Stefania si affrettò a rassicurarla. «Ci saranno tante brave maestre che staranno con voi, non ti devi preoccupare. Le giornate voleranno e all'uscita di scuola mi troverai ad aspettarti» le disse sorridendo.

Dopo essere tornati dalle vacanze al mare, un pomeriggio nuvoloso di settembre Stefania e la piccola Martina andarono al grande supermercato della loro città; bisognava fare la spesa e, infine, comprare tutto ciò che serviva per la scuola: zainetto, quaderni, astuccio...

Fecero la spesa e per ultimo andarono nel reparto cancelleria. Appena entrata Martina iniziò a correre da una parte all'altra, in estasi per tutte quelle cose nuove che vedeva. Era un susseguirsi di “Mamma, che cos'è questa?”, “A cosa serve questo?”. Stefania era felice di vedere quella reazione. Pensando a cosa potesse servirle durante le prime settimane di scuola, comprarono un carinissimo zainetto, un astuccio coordinato, penne cancellabili, matite colorate e non, pennarelli, gomme, colle, quaderni a righe e a quadretti. “Direi che per ora può bastare. Sicuramente pian piano le daranno delle liste di altre cose che servono...” si disse Stefania.

Martina era contentissima, non vedeva l'ora che arrivasse il primo giorno di scuola per usare tutte quelle cose nuove. Stefania, al contrario, ogni giorno che ava era sempre più triste.

Quella sera dopo cena prese il telefono di casa e andò nella camera matrimoniale. Compose il numero della casa dei suoi genitori.

«Pronto?» rispose sua madre.

«Ciao, mamma, sono io.» Dalla sua voce traspariva un velo di tristezza.

«Ciao, tesoro. Come state?» chiese premurosa nonna sca.

«Stiamo tutti bene, mamma. Oggi sono stata al supermercato con Martina per fare la spesa e comprarle le cose di scuola, dovevi vedere i suoi occhi spalancati ad ammirare tutte quelle cose nuove...»

«Sei preoccupata, vero?» indovinò lei.

«Sì...» sospirò.

«Piccola mia, non devi esserlo. Martina è una bambina allegra, intelligente. Vedrai che si troverà benone.»

«E se invece non ci volesse stare? Non l'ho mai fatta andare all'asilo, non è abituata...»

«Guarda che nemmeno tu sei mai andata all'asilo, eppure non hai avuto problemi i primi giorni di scuola.»

«Sì, ok, ma...» sua madre la interruppe.

«Niente ma, vedrai che andrà tutto bene» concluse lei.

«Va bene. Tu e papà come state?» domandò Stefania.

«Noi stiamo bene, tesoro. Ora che fa meno caldo tuo padre ha ripreso la sua bicicletta e a i pomeriggi pedalando da una parte all'altra della città.»

«Sono contenta, si tiene in movimento. Mamma devo scappare, devo mettere a letto Martina. Ci vediamo domenica!» la salutò.

«Va bene, tesoro. Buonanotte, dai un bacio alla piccola.»

«Lo farò. Buonanotte a te e papà!» Stava quasi per riattaccare. «Ah, mamma?» aggiunse.

«Sì?»

«Grazie» disse.

«Non ho fatto niente. Ciao, tesoro.» Riagganciò.

Stefania tornò in salotto, dove c'erano padre e figlia sul divano, uno intento a guardare la tv e l'altra con un libro illustrato aperto in grembo.

«È tempo di fare la nanna!» annunciò.

«Mamma, papà» disse tutta intenta a sfogliare il libro, «a scuola imparerò anche a leggere?»

«Certo piccola» rispose Luca, «poi papà e mamma ti compreranno tanti bei libri. Ti piace l'idea?»

«Sììì! A me piacciono tanto i libri!» disse allegra.

«Andiamo studentessa modello, bisogna fare la nanna» le ricordò Stefania.

Martina salutò il suo papà con un bacino sulla guancia e si avviò nella sua cameretta insieme a Stefania, ancora con il libro ben stretto nelle sue manine.

Quest'ultima le rimboccò le coperte e iniziò a leggere da dove si erano interrotte la sera prima. Pian piano l'attenzione di Martina calò e ben presto fu accolta nel mondo dei sogni.

Stefania si alzò lentamente, cercando di non far rumore e raggiunta la porta se la richiuse alle spalle. Tornò da Luca e gli si accoccolò accanto.

«Sembra solo ieri che la portavamo a casa dopo il parto... e invece sono già ati sei anni. Ci pensi?» gli chiese pensierosa.

«Ci penso eccome. Ogni giorno che a la vediamo crescere. Siamo già arrivati alla prima tappa importante.»

«Sì, aspetta, vai con calma: per il matrimonio c'è ancora tempo!» lo prese in giro, intuendo i pensieri galoppanti del compagno.

Continuarono a prendersi in giro per smorzare la preoccupazione per il resto del film, dopodiché andarono a letto.

«Speriamo che si trovi bene» sussurrò Stefania una volta sotto le coperte.

Luca l'abbracciò dolcemente. «Vedrai che andrà benone, nessuno resiste alla piccola Martina» disse orgoglioso. «È la tua fotocopia in miniatura.»

I giorni successivi arono come di consueto. Ben presto arrivò domenica e si diressero come tradizione a casa dei nonni materni per il pranzo.

Luca non aveva ancora spento il motore che la piccola balzò giù dall'auto e si fiondò nelle braccia dei nonni, che li attendevano all'ingresso del giardino.

«Nonniii!»

«Ciao, piccolina!» la salutarono abbracciandola.

Si sentì abbaiare e Martina cercò con lo sguardo Yoghi, il labrador dei nonni. Appena lo vide si lanciò verso di lui. Nel frattempo nonni e genitori stavano entrando in casa. Si sentiva già un delizioso profumino aleggiare nell'aria.

«Mamma stai già cucinando? Ti dico sempre di aspettarmi, così posso darti una mano!» esclamò rassegnata Stefania.

«Bambina mia, la domenica cucina la nonna! È così da sempre!»

Nonostante i loro quasi sessant'anni, erano giovanili, in salute, ancora pieni di vita.

Il pranzo ò così come arono quelli precedenti. L'unica diversità era che l'indomani la loro bambina avrebbe avuto il primo giorno di scuola.

Gli uomini si alzarono da tavola per andare nel soggiorno a vedere le partite di calcio, mentre le tre donne di casa rimasero in cucina. Stefania stava preparando la lavastoviglie nonostante la nonna avesse cercato di dissuaderla ma lei non l'aveva ascoltata.

«Allora piccolina» disse la nonna dando una caramella a Martina che sedeva

sopra le sue gambe, «domani il primo giorno di scuola: sei contenta?»

«Sììì, nonna! Che bello!» Mamma e figlia si scambiarono uno sguardo.

«Ti ho mai raccontato del primo giorno di scuola della tua mamma?» le domandò la nonna.

«No! Racconta, racconta nonna!» la incitò la bambina.

«Devi sapere che la tua mamma da piccola ti somigliava molto. Era una bambina allegra, intelligente e sprizzava felicità da tutti i pori, proprio come te. La mattina del suo primo giorno di scuola fece fatica ad alzarsi, perché la furbetta non riuscì a dormire, non perché fosse agitata o spaventata, era troppo eccitata e contenta e continuava a sistemare le sue cosine dentro lo zainetto. Mentre raggiungevamo la scuola, non faceva che ripetermi “Dai mamma, dai!” incitandomi ad andare più veloce. Una volta davanti ai cancelli le venne un piccolo momento di timore in cui mi strinse forte forte la mano, ma quando vide dei suoi amichetti intorno alle maestre, le ò ogni paura. Ci incamminammo verso di loro e la presentai alle sue insegnanti. Poco dopo le maestre dissero a noi genitori che saremmo andati in aula e che potevamo accompagnare i bambini. Be', se non fosse stato permesso, per la tua mamma non sarebbe stato un problema; era totalmente a suo agio. Entrammo in classe e l'aiutai a scegliere un banco, posò lo zainetto sullo schienale della sedia e si mise seduta da brava bambina ad ascoltare le istruzioni delle maestre. Quando fu il momento di salutarci non pianse, non fece storie. Le diedi un bacio e le dissi che la sarei venuta a prendere alla fine della giornata. Lei ricambiò il saluto con la manina, mi guardò andare via e riportò l'attenzione sulla maestra. Io rimasi dietro il muro. Sbirciai dentro per vederla ma era più che serena. Allora tornai a casa. Sono sicura che anche per te sarà così, piccola mia. Sei grande e forte proprio come la tua mamma.»

Stefania sentì il racconto mentre si dava da fare per sistemare la cucina ma non replicò: aveva gli occhi lucidi.

Un paio di ore dopo tornarono a casa, bisognava preparare lo zaino e i documenti per l'indomani.

Dopo una breve e leggera cena e un bagnetto caldo, Stefania mise a letto Martina. Ora doveva andare a letto prima, perché d'ora in poi si sarebbe alzata presto come i grandi, le disse la mamma. Stefania temeva che non riuscisse ad addormentarsi per via dell'eccitazione, ma leggendole il solito libro, in poco tempo si addormentò.

Andò in cucina per prepararsi una camomilla e dopo averla terminata si mise a letto. Poco dopo arrivò anche Luca che cercò di tranquillizzarla come meglio poteva, benché anche lui fosse un po' preoccupato ma sopratutto emozionato. Purtroppo si sarebbe perso l'evento per via del lavoro, ma sapeva che Stefania gli avrebbe telefonato raccontandogli tutto. Si addormentarono abbracciati, con il viso di Luca immerso nei capelli di lei.

L'indomani il risveglio fu tranquillo. Mamma e figlia si prepararono con calma per una giornata importante. Durante il tragitto casa-scuola nessuna delle due disse poi molto. Cercò parcheggio e infine giunsero davanti ai cancelli di scuola. Erano ancora chiusi, mancava qualche minuto. Martina strinse la mano della mamma e alzò lo sguardo verso di lei. Stefania ricambiò la stretta e cercò di infonderle tutta la sicurezza possibile con lo sguardo. Pochi minuti dopo si sentì il suono della camla e un bidello venne ad aprire i cancelli. Uscirono fuori anche due insegnanti con dei fogli in mano e si misero a chiamare i bambini delle loro classi, una alla volta. Quando entrambe sentirono il nome di Martina, furono percorse da un piccolo brivido lungo la schiena. Si avvicinarono alla maestra che l'aveva chiamata e aspettarono che finissero di chiamare tutti i bambini. Si diressero allora in un piccolo edificio accanto a quello principale, dove Stefania sapeva che c'erano le prime classi. Martina corse subito a un banco

in prima fila e appoggiò lo zainetto sul ripiano, si sedette e ascoltò la maestra. I genitori rimasero ancora qualche minuto, infine gli fu detto che potevano andare, a breve sarebbe iniziata la lezione. Finalmente Stefania ruppe il silenzio fra loro.

«Tutto bene, Marti? La mamma deve andare ora» chiese.

«Sì, mamma!» le rispose sorridendo la sua bambina.

«Va bene, allora adesso mamma va. Vengo a prenderti alla fine delle lezioni, va bene tesoro? Non uscire dal cancello se non mi vedi» si raccomandò.

«Ok, mamma» le rispose la bambina e Stefania si abbassò per farsi dare un bacio. Si avviò verso la porta, si rigirò e la salutò con la mano. Martina ricambiò il saluto.

Una lacrima solitaria le scivolò sulla guancia mentre si allontanava lungo il corridoio, diretta all'uscita. L'asciugò velocemente col dorso della mano. Ora doveva essere lei ad abituarsi a non averla sempre intorno. La sua bambina stava crescendo.

Fine

Biografie autori

Angela Parise, classe 1982, è impiegata per necessità e scrittrice per vocazione. Al suo attivo, quattro romanzi: "Il buio e la luce" (2010); "Un biglietto di sola andata per Berlino" (2011) e "Il fatidico giorno prima" (2012) pubblicati con l'editore "La Riflessione"; "Scandinavia" uscito lo scorso dicembre ed edito per "Prospettiva Editrice".

Annarita Tranfici, 26 anni, laureata in Lingue. Nata a Napoli ma in trasferta a Londra, pronta a scoprire tutte le sue bellezze. Curiosa, sognatrice, amante dell'arte in ogni sua forma. Folle ione per la scrittura, coltiva l'ambizione di diventare una scrittrice di professione e guadagnarsi un piccolo spazio nei ricordi della gente.

Jessica Maccario è nata a Cuneo il 9 agosto 1990. Apionata alla lettura fin dalle scuole elementari e alla scrittura fin dalle scuole medie, ha scritto diversi romanzi che sono rimasti nel fatidico cassetto dei sogni finché ha deciso di pubblicare il fantasy “Insieme verso la libertà”, che è stato scelto da Bibliotheka Edizioni durante un concorso. Il fantasy apre le porte alla nuova serie de Gli Elementali, creature del bosco capaci di controllare uno dei 4 elementi della vita.

Laureata in Beni Culturali Archivistici e Librari a Torino, è da oltre un anno che valuta i manoscritti per le case editrici. Oltre alla ione per i romanzi, ha deciso di cimentarsi anche nei racconti. Il racconto di Halloween “Una notte tra le tenebre” si trova nell’antologia Halloween’s Novels; due brevi fiabe buffe sono nell’antologia del gruppo di Libri Stellari 77 fiabe buffe; il racconto di Natale in versione dark “Uno strano destino” si trova nell’antologia Christmas Fantasy Dark e un racconto di Natale intitolato “Così lontano così vicini” è sul blog de La mia Biblioteca Romantica.

Oltre a proseguire la scrittura della serie fantasy per ragazzi (altri tre libri sono in progetto per concludere la serie de Gli Elementali), si sta occupando di due romance per adulti, l’uno ambientato ad Amsterdam, l’altro in Canada.

La si può trovare anche su Facebook, su Anobii e su Mebook, tra una miriade di gruppi e blog di lettori, ma per parlare delle sue opere, fare domande o semplicemente chiacchierare, si può anche scriverle all’e-mail [email protected]

Pagina facebook dove parla dei suoi libri e di altre letture che ha amato:

https://www.facebook.com/JessicaMaccariolibri

)

Sito ufficiale:

http://jessicamaccario.wix.com/jessicamaccariobooks

Luciano Valli nasce a Roma nel 1962 e cresce nel centro storico, in un ambiente ricco di cultura.

Conseguito al Conservatorio il diploma di tromba classica, collabora con la RAI e conduce il programma per l’estero “Invito al classico”. Agli inizi degli anni novanta si trasferisce definitivamente in Olanda, paese d’origine di sua moglie,

dove nasceranno i suoi due figli. Dal 1997, anno in cui ha pubblicato, con la collaborazione di sua madre, il primo libro – una raccolta di racconti brevi – ha continuato a scrivere, senza tralasciare la musica. Con Edizioni Progetto Cultura ha pubblicato il romanzo “Lucio l’antico romano” (2004) e “La casa dei sogni sul canale” (2006).

Prisca Turazzi è nata nel 1992 a Castelmassa, in provincia di Rovigo, ed è apionata di cinema, letteratura e teatro.

Ha partecipato dapprima in alcune antologie auto-prodotte. Nel 2012 ha partecipato all’antologia 365 storie d’amore, edita da Delos Books. In seguito, il racconto “La Cura” è stato selezionato per il Terzo Almanacco di Lettere Animate Editore. Nel maggio 2014 ha partecipato con il racconto “Fear Online” all’antologia Asylum100, edita ST-Books.

Nel luglio 2013 ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Nadia Arabeschi il romanzo “Breaking Destiny”, edito ePubblica. Nell’ottobre 2013 ha esordito con il titolo “Hernest”, edito Alcheringa Edizioni. Il suo ultimo romanzo è edito Milena Edizioni con il titolo “L'amore e altri guai”, giugno 2014.

Rosalba Repaci è nata a Genova nel 1969, vive a Recco con il marito e due figli, un cane e un gatto. Ha sempre condiviso con Alessandra una professione legata al sociale e questo fatto le ha rese complici nel guardare gli altri con un’attenzione non comune. Le sue ioni sono la lettura, il cinema e la musica italiana. Il tarlo della scrittura, venuto in seguito, le ha cambiato la vita.

Sabina Di Gangi è nata nel 1977. Vive in Sicilia con il marito e i loro due figli. Nel 2001 si è diplomata in flauto traverso al Conservatorio di Palermo. Si è sempre dedicata alla lettura e alla scrittura. Nel 2011 pubblica il suo primo romanzo “Contro Satana” (Arduino Sacco Editore). Nel 2014 “Cercando di te”

(Narcissus).

Sarah Bernardinello è nata in Svizzera il 26/03/1971, vive in Veneto.

È laureata in Infermieristica nel 2003 e lavora come infermiera presso il reparto di Oncologia dell'Ospedale di Rovigo.

È una lettrice vorace fin da piccola, con un'immaginazione fervida, e comincia a scrivere da ragazzina. Nell'adolescenza ha partecipato a diversi concorsi letterari senza grandi speranze.

Racconti e romanzi incompiuti giacevano nei cassetti...

Il 2013 è stato l'anno dei primi contest e delle prime pubblicazioni:

Antologia “I Mondi del Fantasy III”, Limana Umanita/Scriptorama;

Antologia “365 Racconti di Natale”, Delos Books;

Premio Romance 2013, La signora del mare, collaborazione tra Delos Books e i Romanzi Mondadori;

Antologia “Natale e dintorni”, Alcheringa Edizioni.

2014:

Antologia “365 Racconti d'Estate”, Delos Books;

Antologia “L'amore è un'erba spontanea, non una pianta da giardino”, Alcheringa Edizioni.

Sonia Tortora è laureata in economia e commercio, da 11 anni svolge la professione di responsabile ufficio paghe presso uno studio associato di revisori contabili.

Successivamente, per ione personale, ha concluso con successo il triennio di scuola estetica ottenendo anche una qualificazione di estetista e diventando docente nella stessa scuola in diritto del lavoro, organizzazione aziendale, informatica, formazione imprenditoriale e marketing.

Scrive dal 2011 ma ha all'attivo oltre un centinaio di vincite e segnalazioni in concorsi letterari di prosa, poesia e haiku. Tra cui di recente un 1° posto al concorso per progetti ecologici “Fiori e farfalle parlanti”, un 1° posto al concorso nazionale per racconti indetto dall'associazione “Il paese che non c'è” di Bergamo, un 2° posto al concorso nazionale “Giacomo Massoli”, un 1° posto al concorso haiku nazionale “Il Giappone nel chiostro” e un 1° posto al concorso internazionale di haiku di Lendinara e moltissimi altri. Le sue opere compaiono sulle riviste Writer Magazine e Robot e in antologie edite da Delos Books, Delos Digital, Montegrappa Editore, Pragmata, Ensemble Edizioni, Edizioni della Sera, Il Basilico, V Edizioni, Aletti Editore, Bravi Autori, Giulio Perrone Editore, Biblos Edizioni, Alcheringa, Agapantos, Fusibilia Editore, Ursini Edizioni, New Press, Ciesse Edizioni, BooksIn e L'Erudita. Ha di recente

pubblicato l'ebook Dead Air con la Delos Digital, a cura di Franco Forte e Alan Altieri.

Valentina Camarda è nata a Magenta, in provincia di Milano, il 5 marzo 1992.

Sta provando a scrivere quello che potrebbe essere il suo primo libro. Un titolo lo ha già bene in mente: “Uno su centomila”. È uno dei sogni della sua vita, vedere il suo nome scritto sulla copertina di un libro.

Il 12 gennaio 2014 dopo settimane di indecisione decide di aprire il blog The Bibliophile Girl (http://thebibliophilegirl.com

)

In seguito apre anche la pagina facebook collegata al blog:

https://www.facebook.com/pages/The-Bibliophile-Girl/287787521371244

La si può inoltre trovare su Instragram, Twitter, Goodreads, Anobii, Google+.

Ben presto arrivano le prime soddisfazioni e le prime richieste di collaborazione, fino ad arrivare a case editrici come la Mondadori.

Il 19 Maggio 2014 inizia uno stage con la casa editrice online Genesis Publishing.

Il suo obbiettivo è diventare un editor e intende lavorare con ione, impegno e volontà per realizzare il suo sogno.

Il racconto breve “La scuola elementare” presente in questa antologia è la sua prima opera pubblicata.

Biografie grafici

Angelo Nero Si fa chiamare Angel, ma il suo vero nome è Angelica, ha 18 anni e frequenterà a breve la 5° superiore del Liceo Artistico in sezione Architettura.

Ha vari hobby e cerca di mantenerli tutti: le piace scrivere, infatti si sta cimentando in un Urban Fantasy, il quale si augura di poterlo finire presto e con un po’ di fortuna pubblicarlo; crea bracciali artigianali e oggettini in pyssla (visibili a questa pagina, dov’è possibile anche contattarla per le immagini: https://www.facebook.com/bigiotteria.it?ref_type=bookmark

); ma non meno importante, le piace creare immagini che rispecchino le sue fantasie, come ha fatto realizzando la copertina per questo concorso grafico. Spera di poter continuare su questa strada, facendo diventare questa ione un lavoro.

Chiara Cocorullo trentenne palermitana, vive e lavora a Catania. Apionata lettrice, si interessa di grafica editoriale. Collabora con l'agenzia di servizi editoriali "Dalla bozza al libro" (http://www.dallabozzaallibro.it/)

Consuelo Baviera nasce il 4 agosto del 1986 in un piccolo paese della Calabria.

Da sempre ha uno spiccato talento per le belle arti, per questo si iscrive al liceo artistico di Catanzaro. Nel 2006 consegue la maturità e nel 2007 svolge l’anno integrativo. Nel 2008 si iscrive all’accademia delle belle arti di Catanzaro, sezione grafica e nel marzo 2013 si laurea con ottimi risultati portando come tesina la storia della nascita dei primissimi manga fino ad arrivare a Hayao

Miyazaki, animatore giapponese contemporaneo, creatore del cartone di Heidi. Il titolo della tesina è “Il mondo di Hayao Miyazaki”, animatore che Consuelo adora tantissimo.

Nel maggio 2013 inizia la sua carriera realizzando la copertina per la raccolta di poesie “Pensieri” di Ilaria Militello. La sua bravura e la sua ione la portano a essere la migliore perché ricerca sempre la perfezione.

Grazie al suo talento ad ottobre la casa editrice David and Matthaus le propone un contratto con loro per realizzare le copertine dei loro autori.

Oltre fare la grafica Consuelo adora la musica, nella quale si cimenta di tanto in tanto come Dj, ione che le è stata tramandata da suo padre, come la ione per il pc.

Le altre ioni di Consuelo sono la lettura che la fanno distrarre e le permette di perdersi in mondi fantastici, come solo una sognatrice sa fare, ma le sue letture non si fermano solo ai libri, Consuelo adora leggere anche manga, sua altra grande ione.

Quando Consuelo non lavora a creare immagini che strabiliano, quando non legge o non fa divertire la gente con la sua musica adora rilassarsi portando a so nei boschi il suo delizioso chow chow di sei anni, Arex.

Consuelo è una ragazza semplice e umile, che svolge il suo lavoro con amore, come ormai pochi fanno. Le sue creazioni strabiliano e sono di grande effetto, ogni sua immagine è frutto di lavoro e ione che danno risultati unici e in copiabili.

Facebook:

https://www.facebook.com/ConsueloBavieraDigitalArt?fref=ts

) Sito Web:

http://graphicanet.altervista.org/

Blog:

http://graphiceternal.blogspot.it/

È la vincitrice della Sfida Grafica: la copertina dell’antologia è sua.

Elisabetta Baldan nasce a Dolo (Ve) il 26 luglio 1985. Fin da bambina sviluppa un interesse quasi ossessivo per il disegno; successivamente negli anni della sua adolescenza, soprattutto dopo aver scoperto Adobe Photoshop, abbandona gomma e matita per dedicarsi totalmente alla grafica.

Nel 2007 le viene commissionato il suo primo lavoro da parte del gruppo musicale italiano Crysalys realizzando la cover del cd “White Lotus On

Acheron’ Shores” e curando le loro foto promozionali.

Nell’aprile 2012, dopo aver trascorso degli anni a perfezionare la sua tecnica in maniera esclusivamente autodidatta, inizia una prosperosa collaborazione con l'autrice Alessandra Paoloni, per la quale realizza la copertina del libro ora fuori commercio “La Stirpe di Agortos” (Edizioni R.E.I.), curandone anche l’impaginazione e le immagini promozionali.

A novembre dello stesso anno lavora alla copertina de “La discendente di Tiepole” di Alessandra Paoloni, opera edita dalla Butterfly Edizioni. Entra così a far parte dello staff della Butterfly Edizioni, per cui continua attualmente a lavorare. Ad oggi realizza svariate cover e gadget grafici offrendo i propri servizi sia a Case Editrici sia ad autori che hanno scelto la strada dell’autopubblicazione.

Fabio Prestini nasce a Bergamo e si laurea nel 2013 in Design & Engineering presso il Politecnico di Milano.

Benchè i suoi studi lo abbiano portato ad approfondire il mondo del prodotto industriale il disegno è da sempre una sua grande ione.

La sua tecnica prediletta è penna a sfera e pantoni su carta ma si sa destreggiare niente male anche con il digitale, sempre però partendo da un disegno a mano.

Al momento le sue giornate si dividono tra il progetto di due libri illustrati per bambini e la realizzazione delle illustrazioni per il blog dei Maffunz (http://maffunz.wordpress.com/), più eventuali contest o concorsi online.

Resta comunque aperto a collaborazioni con altri artisti o individui, nell’ottica di un accrescimento personale e professionale.

Le sue ioni principali sono, dopo il disegno ovviamente, la musica ed il viaggio.

Fata Arwen ha frequentato La scuola del Fumetto di Milano, un corso di pittura a olio e uno per realizzare biglietti d'auguri e scatole in rilievo, con carta, adesivi, perline, brillantini e altro. Una specie di scrapbooking, anche senza album dei ricordi.

A luglio del 2013 si è unita al gruppo artistico delle Mystic Fairies.

Da sola, a novembre 2013, ha iniziato una collaborazione con la cartoleria GianPi di Varese per dei biglietti d'auguri.

Ha disegnato la copertina per il libro "Scandinavia" dell'autrice Angela Parise, uscito a dicembre 2013.

Ha realizzato diverse illustrazioni per il racconto "Un attimo di felicità" dell'autrice svizzera sca Orelli, stampate su libricini dalla Revemberi Art del gallerista Gian Piero Reverberi. Il tutto tratta il tema scottante della violenza sulle donne.

A gennaio 2014 ha iniziato una collaborazione con Laura di Lfimocreations per

realizzare quadri disegnati con bambole in fimo e scrap.

A maggio 2014 è uscito il libro "Rock Witch" dell'autore premio Oscar Frank Abbond, di cui ha realizzato la copertina.

Riviste, siti o blog online che l'hanno pubblicizzata sono: Pefmagazine e Il giornale di Roberto Baldini.

Blog:

http://fataarwenart.blogspot.it/

Pagina Facebook:

https://www.facebook.com/pages/Larte-di-Fata-Arwen/217072488416965? fref=ts

Giovanna Profilio nasce a Milazzo il 24 Maggio del 1989. Terminati gli studi, decide di frequentare dei Corsi Regionali che le permettono di ottenere il titolo di Operatore Informatico. Si apiona alla scrittura già all'età di dodici anni, ma solo con il tempo acquisisce le prime conoscenze editoriali e riprende la stesura di un progetto intitolato "Diario di una cacciatrice", il primo o a segnare l'inizio di una avventura come aspirante scrittrice.

Sua pagina: https://www.facebook.com/redvelvetgraphics1?ref_type=bookmark

"Ho creato questa cover concentrandomi sul titolo che racchiude in sé un significato per me molto importante. Ho pensato a quanto sia importante crescere insieme a qualcuno, avere una guida, lasciarsi accompagnare per mano lungo le strade impervie della crescita e abbandonarsi al piacevole calore che solo una figura materna sa dare. Ho immaginato una madre con la propria figlia, sedute su un soffice e colorato prato di margherite. Il prato, verde, profumato, regala un po' quel senso di spensierata e fresca gioventù. L'orizzonte, un cielo offuscato dalle nuvole, per me significa "l'incerto" della crescita per l'appunto. Spero di aver saputo trasferire le mie emozioni su questa rappresentazione grafica.

Grazie ancora per questa opportunità."

Valentina Coppola ha 26 anni e abita a Portici, in provincia di Napoli.

Studentessa di Lettere Moderne, presso l'Ateneo Federico II, ama la letteratura, in particolare quella italiana, se e tedesca e l'arte in ogni sua forma.

Una delle sue più grandi ioni è il disegno: disegnare la rilassa, la soddisfa, la rende immensamente felice. Un foglio bianco e una matita sono fedeli amici che la accompagnano dovunque.

Adora le lingue straniere, in primis l'inglese, il tedesco e il russo.

Le piacerebbe insegnare l'italiano all'estero, diventare giornalista, lavorare nel settore del turismo o far sì che la sua ione per il disegno diventi anch'essa

una professione.

Indice

Nove mesi e una settimana di Angela Parise

Gemma di Annarita Tranfici

In ricordo di noi due di Jessica Maccario

Barbie (ballata) di Luciano Valli

Guardami di Prisca Turazzi

Crescere di Rosalba Repaci

Amore vero di Sabina di Gangi

Il viaggio di Sarah Bernardinello

Lo sconosciuto di Sonia Tortora

La scuola elementare di Valentina Camarda

Biografie autori

Biografie illustratori