Credence Fondazione (un Thriller Di Fantascienza): Credence (italiano), #1 33645d

CREDENCE un romanzo di fantascienza di Marco Guarda

Copyright 2012 by Marco Guarda

http://www.worldofcredence.com

Il libro è un’opera di fiction. Qualsiasi nome, carattere, luogo o fatto sono prodotti dell’immaginazione dello scrittore o sono stati usati in modo fittizio e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi riferimento a persone, viventi o decedute, eventi reali, situazioni od organizzazioni è puramente casuale.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo romanzo può essere usata o riprodotta in alcuna maniera senza previo consenso scritto da parte dell’autore.

Agosto 2012

INDICE

Copertina Retro Nota di copyright CREDENCE Altre opere di Marco Guarda

1. La Morte di uno Scienziato

2. Trumaine

3. Noah Benedict

4. Il Persuasore

5. Il Naufragio dell’Hibiscus

6. La Camera dei Believers

7. Il Feed Vuoto

8. Faith

9. James John Boyd

10. La Scheda Mancante

11. Un Sogno Ricorrente

12. Il Segreto di Svensson

13. La Meteor ’55

14. Maia

15. Una Strana Proposta

16. Sconfitta

17. La Rimonta

18. L’Agognata Ricompensa

19. Ripensamenti

20. Fuga per la Salvezza

21. Lo Spazioporto Tuttimondi

22. Troy Gromer

23. La Trappola

24. Ritorno a Casa

Per quelli che credono, non c’è bisogno di prove. Per quelli che non credono, nessuna prova è possibile.

LA MORTE DI UNO SCIENZIATO

Ogni cosa era immersa in una delicata tonalità di blu indaco. Né troppo scura, né troppo chiara, fondeva la giusta quantità di blu e viola, producendo quella particolare frequenza dello spettro visibile che rilassa la mente fino alla soglia della trance.

Fitte alghe intrecciate crescevano da un fondale lussureggiante, assomigliando a una tranquilla foresta sottomarina. Anche se non si muovevano molto al momento, erano una vista suggestiva e rilassante.

Una parete di roccia smunta si alzava dal fondale, non liscia e arrotondata, ma scabra, incavata e ricoperta di fori; come se l’oceano, scultore impulsivo, ci avesse lavorato su talmente a lungo da avere completamente dimenticato il suo disegno originario.

Secondo la medesima imperscrutabile volontà, da ogni recesso nella roccia spuntava un singolo, tozzo ramo. Sporgevano come antiche lance spezzate, mezzo sepolte in qualche sperduto terrapieno, all’indomani di una immensa, infausta battaglia dei tempi andati.

Due caverne gemelle si aprivano in mezzo alla roccia, ai piedi di una sporgenza rotonda e bulbosa. I loro ingressi bui portavano giù fin dentro al sasso; per quanto non era dato di sapere, poiché erano intasate di alghe che impedivano ogni ulteriore indagine.

Al di sopra della sporgenza, si apriva una spaccatura frastagliata, dalla quale fuoriusciva una formazione di corallo cremisi che traboccava come lava su parte della roccia, dando alla composizione il tocco di colore che le mancava.

Ma era in cima alla rupe dove attendeva la scoperta più meravigliosa. Era un anemone di colore bianco, screziato di venature rosse, al centro del quale brillava un piccolo gioiello: una perla nera.

Si poteva obiettare che per quanto in lungo e in largo si cercasse, non si trovava la minima traccia di pesci intorno alla roccia, tra le alghe, o nel corallo; non c’era nessun pesce pagliaccio, nessun riccio pungente, nemmeno la diffidente lampreda che facilmente si annida in tali profondità—assolutamente nulla.

Ripensandoci, c’era qualcosa di strano in tutta l’intera scena, come se non fosse proprio ciò che sembrava...

Ad un tratto, il tranquillo, suggestivo fondo dell’oceano si rivelò per quel che era: l’orribile scena di un brutale omicidio.

Un vecchio canuto ma ancora gagliardo di circa ottant’anni giaceva composto su un tappeto blu a pelo lungo, in una pozza del suo stesso sangue. La sua bocca era aperta in un grido silenzioso e i suoi occhi vitrei fissavano un mondo che non poteva più vedere.

La perla nera era la pupilla del suo occhio; la spaccatura nella roccia, la ferita attraverso cui la sua vita era stata succhiata via; la superficie scabra, la sua faccia, e i rami tozzi, la sua barba smunta e non fatta. Le caverne gemelle erano le sue narici e la sporgenza bulbosa, il suo naso. Il fondale marino era il tappeto

a pelo lungo dove aveva sanguinato fino alla morte.

La stanza dove tutto era successo era un soggiorno, un soggiorno futuristico che non aveva alcuna finestra. Non c’erano lampade visibili né faretti. L’illuminazione sembrava diffondersi dall’intero soffitto piuttosto che da un singolo punto, ed aveva la stessa luminosità naturale della luce del mattino.

Le pareti erano dipinte di blu indaco chiaro. Ogni altra cosa nella stanza—dal tappeto a pelo lungo, alla coppia di poltrone, al divano, al tavolo di plastica, ai pochi scaffali appesi alle pareti—era di una tonalità più scura o più chiara dello stesso colore.

Nell’angolo, un fiore blu e oblungo stava in cima a un lungo stelo blu che si ergeva da un lungo vaso blu.

L’ambiente aveva una qualità tutta sua; era fatto per la mente piuttosto che per il corpo. La vaga sensazione di freddezza che la stanza dava all’osservatore ci mise un attimo a sparire; presto, tutto ciò che rimase fu una sensazione gradevole di pace e atemporalità.

A pochi i di distanza dall’uomo, giaceva un altro corpo; una donna sottile, forse sulla settantina, che mostrava la schiena, quasi a nascondere la ferita crudele che l’aveva uccisa. Negli spasmi della morte, aveva allungato il braccio verso suo marito, toccandolo con le dita in un ultimo tentativo di dare o ricevere conforto.

Pretendeva d’essere una scena familiare, dopotutto.

L’immobilità fotografica della scena fu rotta improvvisamente da un fischio acuto; in qualche modo attutito e distante all’inizio, crebbe d’intensità, diventando un urlo assordante.

La stridente punta di diamante di un trapano ad alta velocità bucò il muro più lontano, tracciando il contorno di una porta, soffiando dentro sbuffi di polvere di cemento che aleggiarono nella stanza blu come seme di corallo.

Con il lamento ferale di un invisibile pistone sotto sforzo ed un frastuono aspro e raschiante, la sezione a forma di porta fu divelta dal muro. Si schiantò contro il pavimento con un suono sordo, alzando una nuvola di detriti, permettendo alla più abbacinante lama di luce d’inondare l’interno del bunker.

TRUMAINE

Era un mattino luminoso, echeggiante di onde che si infrangevano e delle grida temerarie dei gabbiani. Un oceano ora calmo spingeva a riva il bottino di una notte di furia: alghe, rami e conchiglie.

Un’armata di uccelli marini affamati—aironi, pivieri, trampolieri, una coppia di pellicani, una squadra di eri arruffati e pure un solitario pettirosso— pattugliavano la spiaggia, rovistando nel ciarpame in cerca dell’inaspettata prelibatezza da becchettare: un granchiolino nascosto, una sardina spiaggiata, se erano fortunati.

Occasionali case di villeggiatura e bungalow chiusi per la stagione fredda punteggiavano il lido, sembrando fantasmi che guardassero verso il mare. La maggior parte di essi erano costruzioni prefabbricate in plasti-cemento, fornite di componenti standard.

Ognuna aveva i suoi pannelli fotovoltaici integrati; il suo portico con il suo tavolato di plastica avvizzita; il suo vialetto eternamente sepolto dalla sabbia; la sua collezione di malerbe cresciute troppo e poi avvizzite che continuavano a piegarsi secondo la brezza di turno a soffiare; il suo steccato sbiadito ugualmente divelto e corroso dal sale; la sua linda cassetta postale bianca e rovinata montata in cima a un paletto.

Le case ed i bungalow sembravano economici e lo erano, ma sarebbero andati bene lo stesso per un paio di settimane di vacanza ad aprile, un paio di mesi in estate e una manciata di fine settimana durante l’anno.

I Kayak, i windsurf a vela rigida e le piccole, filanti barche a vela che erano state tirate a secco vicino alle case assomigliavano a smisurati ossi di seppia in disordine...

Un veicolo solitario correva lungo la strada costiera che dominava la spiaggia deserta ed i bungalow, ronzando dolcemente; era un campione di ergonomica bianco e affusolato, completamente compatibile con ciò che era rimasto dell’ambiente.

I suoi paraurti non erano niente più che un segno guizzante nell’elegante involucro di plastometallo; il lucido parabrezza si era evoluto in una grande cupola avvolgente che univa il cofano anteriore e posteriore in un unico arco aggraziato. Aveva ancora le ruote, naturalmente; erano retratte sotto alla carrozzeria come le zampe di un gattone appisolato.

Una sporgenza a forma di prua alla fine del cofano culminava in una grande lampada alogena, cosicché il veicolo più moderno che la tecnologia poteva creare assomigliava moltissimo ad un’automobile costruita all’inizio di due secoli prima, nei ruggenti anni ’40.

L’auto filò via con un ronzio confortevole, alzando il ghiaino nella sua scia mentre andava. Proseguì, rimpicciolendo in distanza, svoltando in una lingua di terra, diretta verso una casa isolata alla fine di essa.

Come se fosse stato schiacciato un interruttore, il ronzio si spense all’improvviso e la macchina planò in un cortile decrepito, ingolfato dalla sabbia accumulata dal vento e infestato di sterpi.

Si fermò in silenzio vicino a un pickup ammaccato e a tre altri veicoli, tutti elettrici: un’anonima berlina marrone—una delle milioni che uno poteva trovare in ogni strada di ogni città, a ogni ora del giorno e della notte; un furgone compatto di color crema, dal retro del quale un ragazzo coi capelli rossi e la faccia con le fossette si leccava le dita e rideva in un largo cartellone pubblicitario; una macchina della polizia bianca il cui anteriore e posteriore neri erano talmente rastremati in basso da sembrare un aspirapolvere.

La portiera dell’auto che aveva appena parcheggiato si aprì e ne scese un uomo.

Indossava scarpe bianche immacolate e un vestito in Syntex che gli fasciava il corpo con naturalezza, calzando come un vestito di sartoria, al tatto più caldo della lana vergine e più costoso della seta a vederlo.

Ma l’uomo non era né un banchiere, né un venditore...

Christian Trumaine aveva trentasei anni, era due centimetri sotto al metro e ottanta e di costituzione prestante senza essere goffo. Era abbronzato ed in forma, con spessi capelli corvini che avevano appena iniziato ad ingrigirsi sopra la mascella.

Scrutò intorno con occhi acuti e penetranti ai quali non sfuggiva nulla. Guardò le macchine parcheggiate, la sabbia, la casa; i suoi occhi si posarono infine sull’oceano eternamente ribollente che si vedeva oltre.

Come un vecchio marinaio, respirò l’aria salmastra, tenendosela dentro... e, per

un brevissimo momento, anche l’oceano lo guardò—si rifletté nelle sue iridi, sciabordando.

Trumaine si scosse. S’incamminò lungo il vialetto fiancheggiato da rosmarino impolverato e cespugli di salvia che lo portò all’ingresso dell’edificio.

La casa sedeva seminascosta dietro a un’alta siepe, spinta indietro nel lotto, sembrando così solitaria e ritirata che più non si poteva. Era tonda come un cilindro e tarchiata come un ceppo, ricoperta da un tetto obliquo coperto, all’antica, di tegole d’argilla. L’intonaco agli angoli della casa pareva recente ed intatto; ciò significava che era stata costruita da poco—il sale era devastante sulle finiture da queste parti.

La casa assomigliava ad una fortezza ed in parte lo era; da fuori, si poteva vedere solo un’apertura, la porta d’ingresso—era un edificio progettato per tenere lontani gli intrusi.

Se era vero che le case erano un po’ come i loro proprietari, pensò Trumaine, quella che viveva qui era gente difficile, estremamente riservata e doveva apprezzare la privacy sopra ogni cosa, relazioni incluse. Anche gli amici intimi, se ne avevano, erano accolti con scarso entusiasmo là dentro.

Trumaine giunse alla porta d’ingresso. Guardò giù al camlo dove, su una minuscola targa d’ottone, si leggeva un nome solitario: JARVA.

Sotto alla placca, quattro cartoni autosigillanti di latte erano allineati contro il muro come soldatini. Da ognuno di loro, il ragazzo rosso con la faccia con le fossette visto sul retro del furgone rideva allegramente.

Trumaine suonò il camlo e, immediatamente, un giovane poliziotto che non aveva mai visto prima gli aprì la porta.

“Firrell?” chiese Trumaine.

“E’ giù nel bunker,” disse il novellino, eccitato. “E’ meglio che ti muovi, sta già interrogando i testimoni.”

Il poliziotto lo fissò con un sorriso inebetito stampato in faccia. Trumaine pensò che il ragazzo doveva essere nella polizia da non più di un paio di mesi; era entusiasta ed eccitato come un cucciolo, desideroso di fare del suo meglio, felice di servire e tutto. Era un sorriso cordiale e bonario che veniva dal cuore e Trumaine lo apprezzò come avrebbe fatto ogni rispettabile essere umano al mondo, ma sapeva che non sarebbe durato.

Ben presto, il ragazzo avrebbe imparato tutto sui foschi recessi della mente e sulle cose orribili che la gente tende a farsi. Al sorriso non sarebbero piaciute affatto; presto, sarebbe sbiadito e sarebbe ritornato nel pozzo delle buone intenzioni dal quale era salito.

Il fervente entusiasmo si sarebbe trasformato in freddezza e disincanto. Alla fine, il ragazzo sarebbe diventato un uomo che avrebbe odiato il suo lavoro, la gente con cui lavorava, e il muschio infestante che era la razza umana.

Ma era ancora giovane, pensò Trumaine, e nella gioventù era riposta la più flebile speranza—che nel palpito di tempo che ci vuole perché un ragazzo

diventi un uomo, anche il mondo sarebbe cambiato in qualcosa di meglio.

Trumaine fece un cenno colla testa al novellino, poi lo oltreò ed entrò nel bunker.

Nonostante il fatto che non ci fossero finestre, l’illuminazione era eccellente e perfettamente tarata. Neon a luce calda, come pure lampade alogene e faretti a led, erano disposti in modo talmente magistrale che uno non aveva mai la sensazione di trovarsi al chiuso.

La luce cadeva in maniera così appropriata, che anche il fin troppo piccolo salone d’ingresso sembrava adeguatamente ampio.

Un tavolo antico e una coppia di sedie abbinate erano appoggiate contro il muro più lontano. Non c’era nient’altro nella stanza, tranne che la porta di un ascensore, incluso un pannello di controllo d’ottone lucido, ed un corridoio sulla sinistra, che portava giù in un’ampia spirale al piano successivo.

Trumaine studiò la porta dell’ascensore e il suo pannello ottonato, quindi girò sui tacchi e s’incamminò lungo il corridoio a spirale.

Le scarpe pulite di Trumaine batterono contro la resina lucida della spirale digradante, suonando come i battiti misurati ed inesorabili d’un orologio a pendolo. Camminò senza fretta, ma con determinazione.

Era stato chiamato per qualcosa che sapeva già che si sarebbe trasformata in

lunghe, noiose ore di congetture e infiniti mal di testa, e lui non aveva nessuna intenzione di anticipare quel momento. Ogni caso era unico e lui aveva bisogno di essere distaccato, con la mente fresca e vigile.

Solo quando la mente era in quel particolare stato sarebbe stata in grado di ricomporre i dettagli più insignificanti in un indizio significativo, spesso inaspettato e possibilmente decisivo.

Trumaine fece un respiro profondo, proprio come fanno i tuffatori di scogliera prima di gettarsi nelle ribollenti acque sottostanti. Non poteva saperlo allora, ma era esattamente ciò che stava per fare: tuffarsi in un mondo oscuro che lo avrebbe cambiato per sempre.

La eggiata a spirale finì in un secondo salone, esattamente un piano al di sotto della hall d’ingresso. La saracinesca di metallo che avrebbe dovuto aprirsi e portare all’interno del mastio del bunker sembrava la grande porta d’un caveau, ed era ancora chiusa. Il metallo vivo brillava da un paio di tagli netti e profondi appena sopra la serratura, dove gli strumenti temprati dei guastatori l’avevano scalfita, in un primo futile tentativo di forzare la porta.

C’erano tre uomini nel salone: Il capitano Grant Firrell era un pezzo d’uomo sui quarantacinque, largo e tarchiato. Un po’ sovrappeso, non mai completamente a suo agio nel suo vestito d’ordinanza, aveva un distintivo blu appuntato sul bavero della giacca che continuava a balenare ogni volta che respirava.

Strabuzzò gli occhi forte mentre scribacchiava veloce nel blocco elettronico che aveva in mano, poi guardò da sotto le sue folte sopracciglia e osservò l’uomo che stava in piedi davanti a lui.

“Ne è assolutamente certo?” chiese Firrell.

“Ho lavorato presso la Security Systems per dieci anni, signore. Conosco questi giocattoli come il palmo della mia mano,” disse l’uomo.

Era appena sotto i quaranta, indossava una camicia e dei pantaloni noiosi, d’un blu stinto, e si aggrappava a una ventiquattrore di metallo proprio come avrebbe fatto un naufrago con il suo salvagente. Continuava a lanciare occhiate nervose intorno a lui, come se desiderasse andarsene alla svelta.

“Gliel’ho appena detto, signore. Il bunker è rimasto chiuso per novantasei ore filate. Sono sicuro,” aggiunse con un tono perentorio.

Firrell si lisciò il mento. Rilesse la deposizione che aveva registrato nel blocco, quindi scrollò la testa e sbottò deluso.

Non era la persona più intelligente del pianeta, e lo sapeva, ma era cocciuto e aveva imparato che quella era la dote perfetta per il lavoro che faceva. Risolvere un caso d’omicidio era una cosa fin troppo complicata; ma se avevi la pazienza di continuare a esaminare i fatti, qualcosa di conclusivo saltava fuori per forza, presto o tardi. Quando lo avesse fatto, Firrell sarebbe stato lì a raccogliere quel pezzetto.

Il credo di Firrell si era sempre dimostrato valido—beh, almeno fino a stamattina. Poiché tutte le informazioni che aveva raccolto fino a quel punto non portavano ad un bel niente. Come se gli indizi strani, scarsi e senza senso non fossero già un problema, le parole del tecnico avevano incartato il tutto in un grosso pacco regalo che aveva scritto “impossibile” sul biglietto. Se c’erano

trame o indizi nascosti, lui non riusciva a vederli. Se qualcuno stava cercando di fare il furbo con lui, non sapeva dire chi fosse. Ma c’era una cosa di cui era dannatamente sicuro: quel caso sarebbe stato una maledetta gatta da pelare.

Firrell roteò gli occhi e li fece ricadere su una sedia nell’angolo, dove un tizio cicciotto sui venticinque sedeva, indossando una divisa crema e un grembiule bianco, da cui lo stesso pel di carota spensierato con le fossette sulle guance già visto sul retro del furgone e sui cartoni del latte fuori dalla porta d’ingresso, rideva.

Era stato il lattaio a chiamare per primo la polizia, dopo essersi reso conto che nessuno aveva ritirato la sua consegna del sabato.

Firrell rilesse la deposizione del tecnico per la terza volta, come se potesse cambiare o avere più senso, ma non lo fece. Sarebbe stato un giorno molto, molto lungo, pensò. Un giorno buono per sbattere la testa contro il muro, per vedere se ne usciva qualcosa di utile.

Sospirò sconsolatamente...

Poi, all’udire dei i che si avvicinavano, aguzzò gli orecchi, girò la testa e scorse un uomo in un completo bianco. Firrell sembrò decisamente sollevato nel vedere il detective emergere dal corridoio a spirale.

“Trumaine!” esclamò. “Era ora che arrivassi!”

Fece cenno al tecnico e al lattaio di aspettare, quindi precedette Trumaine attraverso l’apertura che era stata scavata nel muro.

Era a circa due metri dalla serranda blindata del bunker dove i guastatori avevano trovato un buon punto per fare il buco. I bordi della breccia a forma di porta erano rozzi e frastagliati; le teste delle barre d’acciaio annegate nel cemento brillavano come bottoni d’argento là dove il trapano li aveva tranciati di netto. Nella breccia, oltre una nevicata di pulviscolo danzante, si poteva intravedere un soggiorno blu.

Misero piede in un mondo preciso e silente che non gli apparteneva. Abbassarono la voce in rispetto per i morti, quindi continuarono ad esplorare il bunker.

“Credevo d’essere in ferie,” disse Trumaine, acido.

“Lo so, lo so. Tornerai a quel che rimane delle tue vacanze non appena questa cosa finisce,” disse Firrell.

“Dove sono tutti gli altri tuoi ragazzi?”

“Ah, vuoi fammi respirare, Chris? I ragazzi sono bravi e tutto, solo che a volte non ci arrivano,” ammise.

“Sono lusingato che pensi sempre a me, Grant. Quand’è che mi chiedi se usciamo insieme?” brontolò Trumaine, amaro.

Firrell roteò gli occhi. Meglio cambiare argomento.

“Come sta Shanna?” chiese.

“Non l’ho più sentita.”

“Mi avevi promesso che l’avresti chiamata,” gli ricordò Firrell.

“Non l’ho fatto e basta. Dovrei sentirmi in colpa? Perché non è così,” replicò Trumaine, torvo.

“Va bene, va bene—lascia perdere... Concentriamoci su questo casino, eh?”

Anche se il bunker aveva un’insolita pianta circolare, non era altro che l’ennesimo appartamento senza pretese, un posto lindo e ordinato per gente che aveva pochissime necessità.

Un corridoio andava dalla saracinesca blindata dritto fin nel salotto tondo al centro dell’appartamento. Le altre poche stanze si aprivano a ventaglio intorno ad esso come gli occhioni sulla coda di un pavone: una cucinetta, una camera matrimoniale, un bagno e un piccolo studio. Sistemare i mobili doveva essere stato un bel problema, pensò Trumaine, visto che le uniche due pareti dritte di ogni stanza convergevano verso il centro dell’appartamento. Ad ogni modo, i proprietari c’erano riusciti con poco sforzo ed un buon risultato.

“Il bunker si trova sei metri sotto all’oceano,” continuò Firrell. “Le pareti sono di cemento armato resistente alla salsedine, larghe settanta centimetri.” Si fermò e batté contro uno spesso muro divisorio, producendo un suono sordo. “Ci crederesti? Come se le pareti di cemento non offrissero sufficiente protezione, il matto le ha fatte rivestire di piombo. Il mio bisnonno aveva qualcosa del genere, quando tutti se la facevano sotto per paura delle guerre atomiche. Ma oggigiorno? Di cosa ci si potrebbe preoccupare?”

“Che ne dici della privacy?” pontificò Trumaine.

“Beh, è proprio vero...”

Firrell puntò il suo grosso pollice verso le varie stanze mentre le oltreavano. “Puoi vedere da te che il bunker è stato progettato per sembrare una casa vera. C’è una cucina, una dispensa, un bagno, una camera matrimoniale... e il soggiorno, naturalmente.”

Entrarono nella prima stanza sulla destra. Nella cucina, il tavolo, le sedie, tutto ciò che conteneva, era allineato e disposto con cura secondo una posizione preordinata. Trumaine aprì il cassetto del piano di lavoro: le posate erano impilate ordinatamente con la stessa precisione maniacale.

Dopo pranzo, gli Jarva non mettevano solo le sedie sotto al tavolo, i piatti nella credenza e l’argenteria nel cassetto dove doveva stare, come facevano tutti; loro avrebbero incasellato ogni singolo oggetto in qualche astratta regione della mente etichettata “cucina.”

Sotto a quell’etichetta principale, si sarebbero trovate altre etichette, con su scritto “centrotavola,” “tovaglia,” “tovaglioli,” “sottobicchieri,” “fruttiera” e così via, a cui erano assegnate precise coordinate spaziali. Se gli Jarva avessero vissuto in un’altra casa, avrebbero disposto tutte quelle cose nella medesima relazione spaziale che avevano qui. Certa gente nasceva a quel modo, pensò Trumaine. La loro mente era tanto potente, indagatrice e inutilmente pedante quanto l’unità di calcolo di un computer centrale. Non poteva dire se fosse un dono oppure una maledizione; di certo era il marchio del genio.

“Sono laggiù,” disse Firrell con un tragico sospiro.

Samuel Diggs era già al lavoro. Era un omone con una faccia larga e paciosa e occhietti minuscoli. Il suo corpo poteva sembrare lento, ma le sue dita di sicuro non lo erano. Nonostante fossero grosse come salsicce, si muovevano intorno ai cadaveri con la velocità di un esperto dattilografo: spingendo, tirando, strizzando, scuotendo e sentendo.

Si allungarono verso un termometro all’infrarosso e lo puntarono alle varie parti del corpo, attendendo pazientemente che lo strumento si stabilizzasse. Quando diede il suo responso, le dita lo annotarono in un blocco elettronico vicino a loro.

Diggs si sfregò le sopracciglia, poi guardò su verso Trumaine e Firrell, che erano appena entrati.

“Ecco. Non è un gran bel modo di crepare?” chiese Firrell, indicando i due cadaveri distesi sul pavimento davanti a lui.

“Tru? Pensavo fossi in ferie!” esclamò Diggs.

“Sì, anche io,” disse Trumaine, con un tono piatto. Guardò la coppia morta e chiese, “Quando è successo?”

“Una buona stima? Tra dodici e venti ore fa,” disse Diggs, dopo che i cespugli che erano le sue sopracciglia si furono consultati l’un l’altro.

“Chi li ha scoperti?”

“Il lattaio,” disse Firrell, “visto che nessuno aveva ritirato la sua ultima consegna. Il caveau era chiuso quando siamo arrivati. Il tecnico della sicurezza ha provato a inserire nella serratura un vecchio codice, ma non ha funzionato. I guastatori ci hanno messo quasi due ore a sfondare il muro di cemento.”

Trumaine sospirò, poi si guardò intorno; raccolse una targa di bronzo che stava su un tavolino. Diceva: AD AARMO R. JARVA, IN RICONOSCIMENTO DEL PREMIO NOBEL PER L’ANNO 2175 IN FISICA NEUROBIOLOGICA PER LA SCOPERTA DELLA STAMINALE PISTOCENTRICA TALAMICA UMANA.

“E’ quel Jarva?” domandò.

“Sì, proprio lui. L’unico e il solo,” disse Firrell. “Jarva lo scienziato e il pioniere. Eminente studioso della mente e padre della teoria dell’epoca moderna sui viaggi spaziali. Senza di lui, staremmo ancora scavando la luna per l’Elio-3. E quella laggiù è—voglio dire era—la sua devota moglie.”

Trumaine poteva capire ora perché Firrell era sulle spine quando lo aveva chiamato, pregandolo di raggiungerlo. Aveva sentito qualcosa a proposito di Jarva, naturalmente, ma era il tipo di informazione che veniva ata con le notizie del telegiornale. Com’era mai possibile che qualcuno potesse uccidere un tale uomo? Jarva non era un uomo qualunque, era un patrimonio per l’umanità, un genio e una risorsa.

Trumaine scosse la testa, incapace di comprendere.

“Nessun parente?” chiese.

“Nessuno,” disse Firrell. “Per quel che ne sappiamo, la persona più vicina a essere un parente è... beh, il lattaio.”

“Il lattaio,” gemette Trumaine.

“Secondo lui, erano una coppia molto schiva,” disse Firrell. “Non che fossero antipatici o niente, solo che gli piaceva così. Gli avevano detto di lasciare i cartoni del latte fuori, esattamente alle sette di mattina, ogni giorno, eccetto la domenica. Non era nemmeno tenuto a suonare il camlo. La moglie di Jarva avrebbe ritirato il latte più tardi. Mi ha detto che ha visto il marito solo una volta, dopo che una tempesta di sabbia aveva spazzato sia i bungalow che il bunker, seppellendogli il vialetto. Gli erano sembrati talmente inermi che si era sentito in obbligo di dargli una mano, così aveva spalato la sabbia per loro. Almeno, questo è ciò che il lattaio sostiene. Ora i fatti: il lattaio ha fatto la sua ultima consegna sabato; era un cartone doppio anche per domenica. Stamattina, quando ha fatto il suo solito giro, si è accorto che i cartoni non erano stati toccati. Ha pensato che anche a una vecchia coppia di gufi solitari come gli Jarva poteva

capitare di ammalarsi, di tanto in tanto. Forse avevano bisogno d’aiuto, così ha suonato alla porta; ha suonato e suonato, ma nessuno gli ha aperto. Temendo il peggio, alla fine si è rivolto a noi.”

“Mi sembra abbastanza semplice,” disse Trumaine. “L’assassino aveva solo bisogno di aspettare che la moglie di Jarva aprisse la porta per prendere il latte. Potrebbe averla costretta a rientrare, minacciandola di ferirla o di ucciderla, se non avesse aperto la porta del mastio del bunker. Ma lei potrebbe anche avere lasciato aperta la porta blindata, uscendo. Qualcosa del genere non richiederebbe tanti piani—anche un vagabondo avrebbe potuto farlo. Le coppie vecchie e diffidenti tendono a gestire da sé i propri soldi; forse pensava che tenessero qui anche i loro risparmi. Diciamo che non voleva fargli del male, ma loro gli hanno resistito, le cose gli sono sfuggite di mano e li ha uccisi.” Trumaine alzò le spalle, per lui era andata così.

“Vorrei che fosse così semplice, Tru.”

“Che vuoi dire?”

“Ho appena interrogato il tizio che ha venduto agli Jarva l’impianto di sicurezza. La serratura della porta blindata è connessa ad un sistema di sicurezza centrale separato. Se qualcuno apre la saracinesca blindata anche di un solo millimetro, un segnale viene trasmesso alla stazione centrale e registrato nei loro computer.” Firrell sospirò. “Nessuno ha aperto la porta del caveau nelle ultime novantasei ore...”

“Ma questo è impossibile,” sbottò Trumaine.

“E’ esattamente quello che ho detto io all’inizio,” disse Firrell. “Ma il tecnico è sicuro. Il bunker era chiuso mentre Jarva e sua moglie venivano uccisi.”

“L’omicida deve avere manomesso il timer,” ribatté Trumaine.

“Ci ho pensato anche io. Indovina un po’? Il computer dice che il timer non è stato toccato.”

“Grant, nessuno può are attraverso un muro di cemento spesso più di mezzo metro,” disse Trumaine.

“Beh, apparentemente qualcuno l’ha fatto...”

Trumaine gemette, quando la sua attenzione fu attratta da un mobile rotondo che si era appena mosso: era la schiena d’un uomo inginocchiato sul pavimento, intento a cercare qualcosa—si alzò e si stirò, mostrando il suo volto.

Edward Boyle era magro e fin troppo basso, ma aveva occhi grandi e un naso lungo e storto che faceva pari col resto.

Era rimasto piegato in avanti, occupato a are il suo scanner portatile, alla ricerca di impronte digitali, fin da quando Trumaine e Firrell erano entrati nella stanza, ecco perché Trumaine non l’aveva visto.

“Cosa hanno usato come arma?” chiese Trumaine.

Boyle non disse nulla; andò verso un paio di borse nere aperte contro il muro più lontano. Tirò fuori una busta di plastica che conteneva qualcosa di scuro e pesante—lo portò a Trumaine perché lo prendesse.

Dentro la busta c’era l’oggetto più strano che avesse mai visto. Era un pupazzo insanguinato di Pinocchio, fatto di ferro fuso, alto cinquanta centimetri, dipinto con colori vivaci—rosso cremisi, verde, legno pallido e nero. Ghignava maligno da sotto il suo cappello a cono.

“Hanno usato questo?”

“Un’arma davvero fuori dal comune, non è così?” disse Boyle con un leggero sibilo. “Era sul pavimento, vicino ai cadaveri. E’ un giocattolo molto vecchio e molto solido del secolo scorso che farebbe la sua porca figura in un museo. Non ha niente a che vedere coi biomateriali di cui sono fatti i giocattoli d’oggi—è di metallo, è un affare dannatamente pesante.”

Boyle prese il giocattolo dalle mani di Trumaine, strinse le dita intorno alle gambe della bambola e la brandì come un’arma—il corpo sottile e il lungo naso affilato ne facevano una mazza chiodata terribilmente efficace.

“Ha preso la donna sul lato della testa; deve essere morta quasi istantaneamente,” spiegò Boyle. “E’ caduta sulla ferita, ecco perché c’è poco sangue, i suoi vestiti l’hanno assorbito. Il marito ora: è stato colpito cinque volte nello stomaco e una in testa, ma questo non l’ha ucciso. Il vecchio era coriaceo, o forse il killer si stava stancando. Ad ogni buon conto, ha lasciato Jarva sul tappeto, dove ha sanguinato fino alla morte.”

“L’assassino si è stancato?” chiese Trumaine.

“Ho menato fendenti in giro con questo coso per un paio di minuti,” disse Boyle. “Quando ho finito, ero senza fiato. Oh, quel naso penetra nella carne abbastanza facilmente, è vero; ma poi è complicato da tirare fuori, s’impiglia dappertutto— nelle ossa, nella carne e anche nei vestiti. Devi strapparlo via da tutto quello per estrarlo, prima di potere colpire ancora. Ci vuole un bello sforzo, Trumaine, credimi. Aggiungi una per quanto debole resistenza da parte delle vittime e avrai una buona idea del perché l’omicida si sia stancato,” concluse Boyle.

“Perché avrebbero dovuto usare quello?” chiese Trumaine. “Ci sono un sacco di coltelli in cucina, e penso di avere visto anche una mannaia. E’ strano, che senso ha usare qualcosa di così ingombrante?”

“Dimmelo tu, detective.” Boyle consegnò il pupazzo a Trumaine, raccolse il suo scanner e tornò al lavoro.

Trumaine studiò il pupazzo tra le sue mani. C’era qualcosa di sconcertante in esso—il suo ghigno da giullare, i suoi colori sgargianti, il suo piglio antico, ogni cosa si scontrava con i delicati toni blu della stanza, come se il pupazzo fosse fuori posto qui.

Si guardò intorno, cercando di trovare un posto alla bambola, ma non riuscì a trovarne nessuno—era come se il pupazzo fosse apparso dal nulla.

“Hai trovato nient’altro?” chiese Trumaine.

“Qui è pulito come uno specchio,” disse Boyle.

“Nessuna traccia di DNA estraneo? Impronte? Niente di niente?” insistette Trumaine.

Boyle si strofinò il naso. “Solo le loro.”

Trumaine si chinò vicino al cadavere di Jarva. Lo ispezionò, sperando di trovare anche il più piccolo indizio che gli dicesse qualcosa sull’omicida—ma non trovò niente.

Qualche o più in là, Diggs stava scrivendo le sue deduzioni mediche nel suo blocco elettronico, quando gli fu negato l’accesso con una nota bassa. Diggs scosse la testa deluso e riprovò; ricevette un’altra nota bassa.

“Dannazione!” esclamò.

“Che succede?” chiese Trumaine.

“Sto rilasciando il certificato di morte della donna,” spiegò Diggs, “ma il computer continua a ripetere che è morta cinque anni fa.”

“Come diavolo è mai possibile?”

“Chiaramente, si tratta di un inserimento errato,” disse Diggs. “Qualche volta, capita. Gli inserimenti sono numerici; tu digiti un numero sbagliato e cancelli dal sistema qualcuno che è ancora vivo e vegeto. Però sono sorpreso che in cinque anni non abbia mai avuto problemi con la previdenza sociale. Dovrò accedere al computer centrale, trovare l’inserimento errato e cancellarlo. Quello che mi scoccia di più è che non posso farlo da qua, dovrò andare alla sede del computer principale personalmente—posso dire addio al pranzo, maledette macchine.”

Trumaine sospirò. Questo caso era già abbastanza incasinato senza i capricci del sistema.

Firrell, che aveva girato in tondo come una bestia in gabbia per gli ultimi dieci minuti, si voltò verso di lui.

“Allora, che ne pensi?”

“Che io sia dannato se c’è qualcosa che abbia il minimo senso,” disse Trumaine. “Nessuno ha aperto il bunker, hanno usato un’arma ingombrante quando potevano prendere un coltello, e poi abbiamo un pupazzo che sembra venire dal nulla. E’ un gran casino, Grant, se qua dentro c’è sul serio un indizio da scoprire, io sono la fatina dei denti.”

“Coraggio,” lo pungolò Firrell, “sono sicuro che un’intuizione ce l’hai.”

Trumaine rise. “Un’intuizione?”

“Un sentore. Un sospetto. Un’idea. Qualsiasi cosa andrà bene,” lo pregò Firrell.

“Penserai che sono pazzo...”

“Tu dimmelo lo stesso,” insistette Firrell.

Trumaine fissò il suo capitano.

“Per quel che ne so, c’è un solo posto al mondo dove se ne fregano dei muri...” disse.

NOAH BENEDICT

L’auto di Trumaine sfrecciò lungo la litoranea, emettendo il solito ronzio sommesso.

Stavolta, era accompagnata da una miriade di suoni simili: acuti brusii, bassi borbottii, leggeri bisbigli, sibili e fischi. Riempivano l’aria, ronzando come uno sciame di calabroni all’attacco.

Venivano dai motori delle moto, dei monoveicoli, dei monoveicoli decapottabili, delle sportive aperte, delle berline, dei furgoni, degli autobus, dei pickup, degli autoarticolati e pure dell’occasionale bisarca e betoniera che affollavano ordinatamente l’autostrada nell’ora di punta del mezzodì.

Sotto la sella o il cofano di ognuno di quei veicoli, un motore piccolo, sicuro ed affidabile girava senza sosta, nutrendosi insaziabilmente dell’elettricità fornita da un basso e largo pacco di batterie a ricarica rapida, completamente intercambiabili, che trovavano posto dentro al pianale del veicolo.

Trumaine continuò a guidare coi pendolari, diretto verso il gigantesco ammasso di prismi alti e bianchi che si vedevano in distanza, che erano la Città.

Lucida, pulita ed amichevole, efficiente al cento per cento, autocosciente, autopulente ed ecosostenibile che più non si poteva, la Città splendeva luminosa sopra l’orizzonte; le dita lunghe ed affusolate che erano i suoi edifici si allargavano verso il sole come una mano cordialmente aperta.

Completamente rimodellata intorno e sopra a ciò che restava delle reliquie vecchie di duecento anni e più della metropoli della prima epoca moderna, la Città non era cambiata molto negli ultimi vent’anni; dopo che aveva smesso di salire, si era allargata e si era ingrassata proprio come fa la gente irrequieta quando si sistema.

Qua e là, di tanto in tanto, venivano eseguite solo manutenzioni minori, principalmente aggiornamenti tecnologici e migliorie per risparmiare energia.

Trumaine guardò i prismi torreggianti mentre venivano presi nel bagliore del sole e luccicavano come cristalli di quarzo.

Per la seconda volta quel mese, si chiese se non avrebbe fatto meglio a trasferirsi in un bel monolocale asettico. Aveva visto la zona residenziale assegnata agli scapoli; era carina ed allegra. Dopotutto, pensò, che cosa era rimasto della vita a cui era abituato? Una casa fredda e vuota, un mazzo di foto e memorie sbiadite... Trumaine mise la freccia, quindi svoltò a destra; scomparve giù per un’altra corsia, seguito da una fetta considerevole di traffico. Proseguì dritto, dando le spalle ad un largo edificio rivestito di lamiera che sorgeva sulla costa, a circa dieci chilometri dalla Città.

Con un rombo ed un lampo di luce accecante, un oggetto a forma di sigaro balzò fuori dallo spazioporto, diretto verso gli strati più alti dell’atmosfera, tracciando nella sua scia un arco netto di vapore—si dissolse lentamente in una foschia mentre la nave si restrinse fino a diventare un punto bianco, arrivando nello spazio.

Trumaine fermò l’auto davanti ad un ampio cancello sorvegliato da una garitta di

cemento. Il tentativo di farne un oggetto slanciato di design era fallito miseramente e tutto ciò a cui assomigliava ora era la testa fuori misura di un ratto. La garitta sporgeva da un’imponente recinzione ininterrotta d’acciaio, alta tre metri e mezzo, che proseguiva e girava intorno per quasi tre chilometri.

La testa topesca di un giovane portiere sbucò dalla finestra della guardiola con uno sguardo interrogativo. Indossava un’uniforme grigio smorto e un cappello da fattorino che toccò con le dita in saluto.

“Come posso aiutarla, signore?” chiese il ragazzo.

“Sono Trumaine, devo parlare con il responsabile.”

“Sono sicuro che allude al signor Benedict, signore, ma lui è sempre molto occupato...” Il portiere sospirò. “Ce l’ha un appuntamento?”

Trumaine scosse la testa. Con una smorfia seccata, il ragazzo recuperò un blocco elettronico.

“Temo, allora, che dovrà compilare questo. E’ per il lasciaare dei visitatori.”

Offrì il blocco a Trumaine, ma lui non lo prese—gli mise invece il suo distintivo blu sotto al naso.

“Vedo che ha già un lasciaare,” disse il ragazzo, con un ghigno. “Il signor

Benedict sarà contento di vederla—detective Trumaine,” aggiunse, dopo che ebbe controllato il distintivo.

Fece segno al detective di procedere con un cenno del polso, e Trumaine oltreò il cancello.

Guidò a o d’uomo, seguendo le indicazioni per il parcheggio dei visitatori, dove trovò un posto in mezzo a due lucenti monoveicoli.

Spense il motore e scese dalla macchina; si guardò intorno, poi alzò lo sguardo.

Trumaine strizzò gli occhi nel vedere le imponenti lastre grigie che erano le pareti dell’edificio che era venuto a vedere. Più di trecento metri lunga e larga, e alta oltre trenta metri, l’enorme costruzione si ergeva sopra una bassa base di vetro, dove si trovava l’entrata. Era difficile non accorgersi delle gigantesche lettere che erano appese al di sopra di essa, formando un’unica parola: CREDENCE.

“Credence è una corporazione federale che sostiene il terraforming degli esopianeti. Non siamo coloni. Non siamo marine spaziali. Ciononostante, offriamo loro un’eccezionale opportunità: viaggiare attraverso l’universo in tempo reale...”

Era la voce calma e profonda di un formidabile uomo di cinquant’anni. Noah Benedict indossava un completo bianco che gli cadeva perfettamente sulle sue larghe spalle e una cravatta che si accompagnava ai suoi occhi grigio ghiaccio.

Stava in piedi in mezzo ad un corridoio bianco immacolato, largo abbastanza perché quattro persone ci camminassero affiancate. Lunghe finestre a nastro si aprivano su entrambi i lati del corridoio dietro di lui, ma non si vedeva niente di quel che c’era oltre, dal momento che Benedict stava in mezzo.

Guardò innanzi a lui, verso un gruppo di giovani uomini e donne in piedi, tutti intenti ad ascoltarlo.

Erano una combriccola assortita. Dai vestiti che indossavano alle diverse acconciature che sfoggiavano, era chiaro che non venivano solo dalla Città, ma pure dai paesi circonvicini.

Sebbene così diversi l’uno dall’altro, erano qui per la stessa ragione che motivava così tanta gente in giro per il mondo: fare domanda per un posto di lavoro ben retribuito.

A dire il vero, questo non era ancora il colloquio. Quello sarebbe venuto più tardi; questo era soltanto il discorso introduttivo di Benedict.

Piegò le labbra nel sorriso eternamente affabile d’un santo, fece un respiro lento e profondo, e continuò a parlare col piglio naturale di un esperto oratore.

“Le fondamenta di Credence non sono grandi macchine divoratrici di corrente. Le fondamenta di Credence giacciono nelle sconvolgenti intuizioni di un uomo: ‘Quando un numero sufficientemente grande di individui credono che qualcosa sta per accadere, accadrà.’ E’ il più semplice e popolare enunciato del primo teorema di Jarva, naturalmente,” disse.

Si accorse che molti candidati avevano aggrottato le sopracciglia alle sue parole, così fece una pausa.

Ecco un gruppo difficile, pensò.

Era sicuro che la maggior parte dei candidati aveva ricevuto solo un’istruzione sommaria e che non avevano alcuna idea di quello che stava dicendo. Non poteva certo dare la colpa a loro. Mentre un’istruzione elevata e un cervello sveglio avrebbero aiutato a lanciare una carriera nella maggior parte dei posti di lavoro, l’abilità che trasformava gli individui in Believers di prima classe non aveva nulla a che fare né con la conoscenza, né con una mente discriminante.

Al contrario, i migliori Believers di Credence erano spesso gente che non riusciva a far di conto, o che non sapeva spiccicare due parole di fila.

Essere un Believer era una qualità innata. Poteva essere migliorata, naturalmente, ma non poteva essere creata o impiantata dal nulla. Di solito, solo cinque o sei candidati su un centinaio sarebbero stati abbastanza bravi da are il colloquio preliminare.

Benedict sospirò. Faceva meglio a pensare a un esempio che meglio illustrasse il modo in cui Credence funzionava.

“Quanti comuni credenti ci vogliono per spostare un’astronave da 190.000 tonnellate dall’altra parte dell’universo?” chiese. Aspettò una risposta che non venne, così continuò.

“A seconda dell’intensità del credo, direi da uno e mezzo a due milioni di credenti,” disse.

“Quanti Believers di Credence selezionati con cura e addestrati ci vogliono per fare la stessa cosa?” Di nuovo, fece una pausa, poi, con malcelato orgoglio, “Solo cinquecento...”

Benedict si spostò da una parte, facendo cenno ai candidati di sbirciare attraverso una delle lunghe finestre a nastro la cui vista aveva ostruito.

Gli astanti sfilarono in religioso silenzio oltre Benedict e si allargarono lungo la finestra. Mentre guardavano oltre, un’espressione meravigliata si dipinse sulle loro facce.

Circa cento metri lunga e larga, e trenta metri alta, la camera dei Believers sembrava un gigantesco e oscuro antro senza fondo. Pannelli fonoassorbenti di colore nero rivestivano sia le pareti dritte che il soffitto ricurvo, avvolgendo la camera in un silenzio surreale.

Nella camera, cinquecento Believers addormentati, uomini e donne, indossavano completi bianchi immacolati e fluttuavano su snelle poltrone di design.

Le poltrone stavano a circa un metro e mezzo l’una dall’altra, formando una fitta orditura che si librava senza peso per tutta l’estensione della camera.

Non tutti i posti nell’orditura erano occupati; qua e là, si vedevano degli spazi neri che sembravano dei punti saltati nella trama di un tessuto.

Le poltrone non erano ferme, ma continuavano a spostarsi lentamente, come fanno le foglie cadute in uno stagno.

Bracci affusolati emergevano dal fondo buio della camera, sorreggendo le poltrone ed i loro occupanti, muovendoli in giro in sincronia con l’imprevedibile marea.

Ai Believers non sembrava importare molto di essere sospesi sopra ad un baratro profondo più di trenta metri—lo stato di trance in cui erano caduti non era che un pacifico oblio.

“Vi presento i nostri Believers,” disse Benedict. “Galleggiano con grazia nel loro ambiente naturale: la camera dei Believers. Attraverso il feed che gli viene somministrato, essi ricevono tutte le informazioni di cui hanno bisogno per spedire ogni astronave e ciò che contiene in totale rispetto dell’orario intergalattico.”

Benedict sorrise serafico, sbirciò nella camera pure lui, poi continuò a parlare.

“Attraverso lo studio della meraviglia che è il talamo umano e il gruppo di teorie che vanno sotto il nome di Pistocentrismo, sarete introdotti ai segreti del nostro mestiere. Ma non crediate. Solo pochi privilegiati riusciranno a padroneggiare ciò che serve per spedire ogni giorno in tutta sicurezza e in perfetto orario veicoli spaziali, il loro equipaggio e tutti i beni che trasportano fino alla loro destinazione: il Main Belief.”

Benedict fece una lunga e significativa pausa. Era essenziale che capissero per bene.

“Il Main Belief è l’unica forza di Credence, il motore nascosto che muove tutte le parti,” disse. “Senza di lui, nemmeno l’ago del test ruoterebbe. Per costruire questa forza così incredibile, tutti i credo che originano da ogni singolo Believer devono essere raccolti e sincronizzati. Ciò può essere fatto, naturalmente, ma è un lavoro lungo e faticoso. La maggior parte del tempo che iamo qui a Credence è dedicato ad addestrare nel migliore dei modi i nostri apprendisti cosicché potranno, un giorno, accedere alla camera e dare il loro contributo ai loro compagni di privilegio.”

Benedict fece cenno ai candidati di spostarsi verso una seconda finestra dall’altra parte del corridoio. Il gruppo si mosse, obbediente.

“Ecco i nostri apprendisti Believers,” disse.

Venti apprendisti Believers, uomini e donne che indossavano completi arancio, sedevano su delle sedie universitarie. Si bevevano ogni singola parola del loro istruttore, di tanto in tanto prendendo appunti nei blocchi elettronici al loro fianco.

L’istruttore, un uomo robusto sui sessanta, che sfoggiava capelli d’argento e un taglio militare, eggiava intorno ad un tavolo affusolato che saliva dal pavimento, appoggiandosi su un lato solo.

Agitò una bacchetta lunga un metro verso un largo schermo appeso alla parete, dove statistiche, grafici e tavole anatomiche del cervello umano continuavano ad avvicendarsi.

Le pareti laterali e posteriore dell’aula erano rivestite di monitor che mostravano mappe della Via Lattea e di almeno altre venti galassie. Un notevole numero di essi presentavano anche un centinaio di diverse navi spaziali, sotto forma di sagome nere contro uno sfondo bianco.

Assomigliavano moltissimo alle immagini delle navi nemiche che gli antichi comandanti dell’Air Force facevano vedere ai loro piloti nelle riunioni prima degli attacchi aerei, durante la seconda guerra mondiale.

Alcune astronavi erano lunghe e rastremate come sommergibili, altre erano massicce come petroliere, altre ancora tozze come arene, oppure raffinate ed eleganti come navi da crociera. Ma ce n’erano pure alcune che erano piccole come case.

Benedict condusse i candidati ad una terza finestra.

Dentro un’altra sala, una dozzina di Believers in prova che indossavano completi gialli, galleggiavano nelle loro poltrone d’addestramento, a circa un metro dal pavimento lucido. Stavolta, gli onnipresenti monitor mostravano immagini di strane, rigogliose ed imponenti esopiante, tra le quali una bizzarra palma spinata risaltava cospicuamente.

Un secondo istruttore osservò il pannello a forma di ventaglio che aveva in mano, controllando i livelli di sincronia dei fluttuanti Believers in prova.

Sebbene un paio di punti sfarfallassero a caso sopra e sotto alla gaussiana verde fosforescente che rappresentava il livello di sincronia, il resto di essi si adagiava su di essa con lodevole precisione.

“Prima che i nostri Believers in prova possano cimentarsi con le astronavi più grandi,” continuò Benedict, “sono tenuti a testare le loro capacità su oggetti più piccoli.”

Mostrò ai candidati un’ultima, stretta finestra.

Oltre uno spesso vetro blindato, si apriva una sala bianca immacolata e vuota, delle dimensioni di un grande hangar—eccetto che per la finestra a fessura che si vedeva in alto, ogni centimetro di essa era stato rivestito di larghe piastrelle quadrate di ceramica.

Per un circa minuto, non accadde nulla.

Poi, di colpo, un’increspatura si propagò nell’aria, come un’onda di calore che si espandesse rapidamente. Incredibilmente, una delle esopiante spinate viste nella sala d’addestramento si materializzò dal nulla.

Contorta e puntuta, era alta più di sei metri; le sue radici private del terreno che le sostenevano, l’esopianta si schiantò fragorosamente sul pavimento ceramico, spargendo ovunque zolle di terreno alieno.

La pianta giacque lì dov’era caduta quando, all’improvviso, qualcosa cadde dalla

sua chioma...

Rotolò fin sopra le piastrelle lisce del pavimento, assomigliando a una melanzana rotonda. Ma non era un frutto—si srotolò, rivelando gli occhi sorpresi di una piccola creatura aliena di colore blu scuro che sembrava una salamandra squamata.

C’era qualcosa d’inquietante nel modo in cui le due branchie ai lati della sua testa si aprivano e chiudevano freneticamente, nel tentativo di filtrare o respirare qualcosa che chiaramente non era aria. In pochi attimi, cominciò a contorcersi e ad agitarsi inerme, soffocando inesorabilmente...

Finché non notò la finestra in alto, da dove gli sconcertati candidati stavano guardando. Lottando per sopravvivere, la creatura diede fondo alle sue ultime energie—artigliando le pareti dell’hangar, si arrampicò disperatamente verso l’alto.

Con grande orrore degli astanti, la creatura strisciò fino ad arrivare alla finestra del corridoio; si trascinò intorno al telaio come uno scarafaggio intrappolato in un vaso, cercando una via d’uscita—ma non ne trovò.

Ormai alla fine delle sue risorse e non sapendo più che cosa fare, l’unica cosa a cui la creatura riuscì a pensare fu di sbattere la testa contro il vetro spesso. Ci provò di nuovo, più forte stavolta, e quasi svenne.

Incapace di comprendere che cosa fosse quel posto, chiedendosi dove fosse finito il mondo accogliente che era casa sua, l’alieno stordito guardò torvo gli umani.

A poco a poco, le branchie smisero di pompare e non si mossero più—la creatura era morta con gli occhi aperti.

Come se la vista penosa avesse attivato un bottone nascosto nel circuito della sala dei test, le fiamme avvamparono dal soffitto, inondando l’hangar di sotto, distruggendo misericordiosamente sia l’esopianta che la creatura aliena.

Benedict osservò gli scioccati candidati. Poteva quasi percepire le molte domande senza risposta che affollavano le loro menti. L’orribile morte della salamandra squamata era stata un errore imprevisto? O era invece la deliberata dimostrazione dell’immenso potere che si nascondeva dietro a Credence?

“Questo test richiedeva che i Believers in prova trasportassero solo la Palma Arcturiana, non i piccoli insetti che vivono su di essa,” disse Benedict. “Temo che dovranno riprovarci.”

Preoccupato più per la scarsa prestazione dei suoi Believers che per la morte della creatura, sospirò.

“Le persone che dipendono da Credence e dai suoi servizi dipendono prima di tutto dalla totale dedizione e devozione dei Believers,” disse. “E’ responsabilità dei Believers, dei loro istruttori, ed anche mia, che non venga commesso nessun errore nella produzione del Main Belief. Come vi ho detto, è un lavoro lungo e faticoso, ma essere un Believer non è un lavoro comune. Più che una missione— è una vocazione. Non dimenticatelo mai.”

Nessuno disse niente. I candidati erano ancora troppo scossi da quanto avevano appena visto.

Benedict si chiese chi tra di loro sarebbe diventato un Believer. Negli ultimi cinque anni, aveva visto almeno diecimila candidati e pensava di avere ormai sviluppato un occhio clinico per riconoscerli—non era nulla di scientifico, naturalmente, e si rendeva conto di quanto fosse una cosa insignificante e sciocca. Ad ogni buon conto, il suo lavoro non permetteva molte distrazioni o divertimenti, così ci provò.

Ce n’erano tre che sembravano molto promettenti.

Il primo era un giovanotto rubicondo di circa venticinque anni, con i capelli biondi, il naso dritto, gli zigomi larghi e le spalle forti. Anche se cercava di essere disinvolto, non riusciva a nascondere del tutto la muscolatura da mezzadro che guizzava sotto la camicia Syntex che indossava, progettata per sembrare un jeans ruvido.

Benedict era sicuro che dietro l’espressione quasi tonta del giovane c’era un cervello svelto e indagatore. Era certo che l’uomo lo aveva ascoltato molto attentamente e che aveva capito ogni singola parola di ciò che aveva detto—era senz’altro un buon candidato.

Apparentemente, c’era un altro che non s’era perso una parola del discorso introduttivo di Benedict. Era una donna magra e pallida di circa vent’anni, che aveva lunghi capelli rossi, un naso a punta e il mento piccolo. I suoi freddi occhi di smeraldo continuavano a guardarsi intorno, non perdendosi nulla di ciò che vedevano—un altro soggetto interessante.

Il terzo candidato era ancora una giovane donna, coi capelli corvini raccolti in lunghe trecce avvolte in una crocchia in cima alla testa. Aveva opali neri al posto degli occhi, il corpo flessibile d’un atleta e labbra aggraziate e carnose. Non aveva mai smesso di prendere appunti nel suo blocco elettronico per tutta la durata del monologo di Benedict, eccetto che per una sola volta, quando le fiamme avevano avvolto la sala dei test.

Ecco un altro soggetto interessante, pensò Benedict; non era stato solo il suo fiuto per i Believers ad averlo convinto—c’era qualcos’altro...

Quando i tre candidati avevano assistito alla morte accidentale della creatura aliena—la piccola, inerme salamandra squamata—tutti e tre si erano girati e avevano guardato Benedict dritto negli occhi. Lo ritenevano responsabile di quello che era accaduto.

Non era un cattivo segno, no davvero. Al contrario: un buon Believer doveva considerare la vita al di sopra di ogni cosa; più in gran conto teneva la vita, più focalizzato sarebbe stato il suo credo, più bassa sarebbe stata la possibilità che commettesse errori nella creazione del Main Belief.

Benedict permise alle sue labbra d’incurvarsi in un piccolo sorriso compiaciuto. Sì, quei tre avrebbero fatto molta strada come Believers...

Si scosse dalle sue considerazioni personali, allungando il braccio verso una donna con la faccia severa, sulla quarantina, in un lungo camice bianco da laboratorio, che era apparsa all’improvviso alla sua destra.

“La signorina Matthews continuerà da qui,” disse Benedict. “Vi guiderà lei

attraverso i prossimi i. Buona fortuna a tutti voi—e benvenuti a Credence...”

Si spostò di lato, permettendo a Matthews di venire avanti e di prendersi carico dei candidati.

“Sono Stephanie Matthews,” disse la donna con un tono di voce squillante e sbrigativo. “Sono la responsabile della selezione preliminare dei candidati. Se avete domande su come scegliamo i nostri Believers o su come vengono assegnati i punteggi in ogni fase del colloquio, fatemelo sapere. Valuteremo ora la vostra attitudine primaria al credere. Seguitemi, prego.”

Matthews condusse via i candidati, finché sparirono in una delle tante stanze di Credence.

Nel corridoio ora vuoto rimase solo Benedict—e Trumaine, che prima non s’era visto...

IL PERSUASORE

Benedict non si ricordava di avere appuntamenti oggi, e non era certo da lui dimenticarsi qualcosa—studiò Trumaine con un vago cipiglio.

“Lei non è qui per iscriversi, vero?” Non era una domanda, era un’affermazione.

“Detective investigatore Trumaine,” disse Trumaine mostrando il suo distintivo blu.

Benedict scoccò un’occhiata veloce al tesserino di plastica, poi guardò su di nuovo e sorrise appena.

“Sono Noah Benedict, presidente del consiglio di amministrazione e principale responsabile dell’istituto federale che è Credence. Come posso esserle d’aiuto, detective?”

“Stamattina, Aarmo Jarva è stato trovato morto nella sua casa-fortezza,” disse Trumaine. “Era nel telegiornale dell’una.”

“Così ho sentito. E’ una grave perdita sia per la comunità scientifica che per l’umanità.”

“Per caso conosceva il professor Jarva, signor Benedict?”

“Devo ammettere che lo conoscevo assai bene. Per un breve periodo nel ato, ebbe accesso a Credence. Gli era consentito raccogliere dati su tutto ciò che voleva, compresi i nostri Believers. Fu una relazione professionale proficua ed ispiratrice, senza dubbio. Era un uomo squisito da conoscere—almeno, lo fu per me. Mi dispiace che sia morto...”

Trumaine, incuriosito da quella risposta, si chiese se non potesse essere già sulla pista giusta.

“Quando l’ha visto per l’ultima volta?” chiese.

“Non di recente, temo,” disse Benedict.

“Quanto tempo fa è stato, mesi? Settimane?” lo spronò Trumaine.

“Credo che il professor Jarva abbia lasciato Credence più di cinque anni fa. Non deve essere stato più tardi di allora.”

“Cinque anni sono un sacco di tempo,” brontolò Trumaine, poi proseguì. “Come avrà pure sentito, le circostanze in cui Jarva e sua moglie sono stati uccisi sono a dire poco strane. Sono stati uccisi in un ambiente chiuso al quale, apparentemente, nessuno aveva accesso—il bunker di Jarva. Per quanto bizzarro possa sembrare, l’omicida ha trovato il modo di entrare nel bunker sigillato, uccidere la moglie di Jarva, lasciare Jarva sanguinare fino alla morte, e poi

sparire nel nulla...”

“Non vedo come posso aiutarla, detective,” pontificò Benedict.

“Glielo ripeterò per chiarezza: quando gli Jarva venivano assassinati, la porta blindata del mastio del bunker era chiusa,” disse Trumaine.

Di nuovo, Benedict sembrò non capire.

“Non è esattamente questo ciò che fate qui? Voglio dire—spostare cose e persone tra luoghi diversi, nonostante il vuoto o altri oggetti che potrebbero trovarsi in mezzo?”

“Sta forse suggerendo che l’assassino di Jarva si è fatto trasportare dentro e fuori dalla scena del delitto, come una grossa astronave?” Benedict non gli rise in faccia, ma poco ci mancò. Esalò solo un garbato sospiro d’incredulità.

Trumaine studiò gli occhi di Benedict per un momento, poi andò alla finestra da cui si potevano vedere i Believers che fluttuavano.

“Mi dica, signor Benedict. Non c’è alcun modo di cambiare il feed prima che sia somministrato?”

“Chiaramente, lei non ha la minima idea di che cosa sia il feed,” disse Benedict. “Ciò che chiamiamo ‘feed’ è una lunghissima lista di informazioni estremamente

dettagliate. Il feed include la lista di astronavi che viaggeranno in un dato giorno; le loro destinazioni; gli orari di partenza e di arrivo; i nomi dei civili che dovranno viaggiare—in caso di trasporto eggeri; la lista dettagliata del numero, tipo e qualità dei beni viaggianti—in caso di trasporto merci. Il feed è redatto ogni giorno negli uffici dell’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti. L’imponente quantità di informazioni è quindi assemblata in un grosso file. Ne vengono pubblicate cinque copie, ognuna criptata secondo i più alti standard di sicurezza. Le copie vengono quindi chiuse a chiave all’interno di cinque diverse cassette di sicurezza, ognuna col suo codice di accesso. Tutte le cassette vengono consegnate in modo sicuro all’Agenzia Federale, dove sono nuovamente verificate e poi rilasciate. Una copia d’archivio ritorna all’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti. Una copia d’archivio è trattenuta presso l’Agenzia Federale. Un’altra copia d’archivio è spedita al computer principale. Le ultime due copie sono infine consegnate a Credence e caricate nei nostri computer. I computer lavorano per conto loro—nessuno vi ha accesso.”

Benedict fece una lunga pausa, lasciando alle sue parole il tempo di penetrare. Trumaine poteva anche essere il poliziotto più intelligente del paese, ma certi procedimenti erano davvero complicati.

“Come può vedere da sé, ci sono semplicemente troppi controlli ridondanti in tutte le varie fasi del processo per pensare anche lontanamente che un cambiamento del feed sia possibile. No, non credo sia questo ciò che è accaduto...”

Trumaine serrò la mascella. “D’accordo,” disse. “Non c’è nessun altro modo in cui l’omicida avrebbe potuto modificare il feed dopo la somministrazione, ma prima che il Main Belief fosse creato?”

Benedict ci pensò su per un momento.

“Non vedo come avrebbe potuto farlo,” disse. “Il feed è immesso nelle menti dei Believers in modo sicuro attraverso una trasmittente incorporata nei poggiatesta delle loro poltrone. L’assassino avrebbe dovuto manomettere più della metà dei computer delle poltrone—un evento decisamente improbabile.”

“Come mai? Perché più della metà delle poltrone?” chiese Trumaine.

“Perché il Main Belief si attiva quando più della metà dei Believers sono sincronizzati, cioè quando credono esattamente la stessa cosa. Ma è solo quando più dell’ottantacinque percento dei Believers totali sono correttamente allineati che il Main Belief diventa efficace. Al di sotto di quella soglia, anche se il Main Belief è stabilito, non succede nulla; nessuna nave spaziale si muoverà, nemmeno di un millimetro,” spiegò Benedict.

“Beh,” disse Trumaine, pensieroso. “Un uomo pesa solamente una piccola frazione del tonnellaggio complessivo di un’astronave. L’omicida potrebbe aver avuto bisogno di modificare molti meno poggiatesta computerizzati per farsi trasportare nel bunker di Jarva ed ucciderlo.”

Benedict annuì, Trumaine non aveva tutti i torti. “Eppure, le poltrone sono controllate,” disse. “Uno non potrebbe mai accedervi senza essere scoperto. Ho paura che anche questo sia fuori discussione.”

“L’omicida potrebbe avere convertito i Believers al di fuori di Credence...” buttò lì Trumaine.

“Sebbene questo sia possibile in linea teorica, non è fattibile nella realtà. Ci pensi, detective. Diciamo che il peso medio di un uomo adulto è, quanto, ottanta chili al massimo? Lo stesso, l’assassino avrebbe dovuto avvicinare più di quaranta Believers. Non credenti qualsiasi, badi bene, ma Believers di Credence. Avrebbe dovuto convincerli che, ad una data ora, sarebbe stato nel bunker di Jarva, e poi che si sarebbe trovato altrove, diciamo mezz’ora più tardi. Voglio dire, convincerli in una maniera così totale che gli avrebbero creduto. Di nuovo, temo che non sia questo ciò che è avvenuto. Un conto è somministrare il feed durante uno stato di trance specificamente progettato per sfruttare la sospensione dell’incredulità del soggetto. Un altro conto è farlo quando il soggetto è completamente sveglio, quando tutte le barriere che la mente logica dispone tra noi ed il mondo esterno sono al loro posto e funzionanti. No, credo proprio che non avrebbe potuto farlo.”

Trumaine sospirò. C’era qualcosa nel profondo di lui che continuava a ripetergli che l’omicida era riuscito a usare Credence per i suoi terribili scopi.

“Sono sicuro che stiamo tralasciando qualcosa,” disse. “Non c’è nient’altro a cui penserebbe? Non si limiti a ciò che pensa sia possibile, l’omicida potrebbe essere un o davanti a noi.”

Benedict si accarezzò il mento e camminò in tondo mentre ponderava la questione. In qualche modo, sembrava avere perso parte della sua baldanza e della sua fiducia di sé. Il pensiero che, a sua insaputa, qualcosa d’illegale potesse svolgersi sotto la facciata linda come un cristallo di Credence, lo inquietava.

Si fermò davanti alla finestra che dava sulla camera e guardò i Believers che galleggiavano pacificamente, ignari dei problemi che affliggevano il mondo. Dopo un momento di silenzio, si voltò.

“Potrebbe esserci un’altra possibilità, ma essa sfida a tal punto le mie convinzioni, che sono riluttante anche a considerarla.”

“Sono tutto orecchi,” lo incoraggiò Trumaine. “Vada avanti.”

“E’ tutto altamente ipotetico, mi creda, non c’è nessuna prova che un siffatto individuo esista.”

“Sono abituato a sentire le ipotesi più strane. Di chi sta parlando?”

Benedict rigirò la parola in bocca come se avesse un gusto cattivo, quasi incapace di pronunciarla. Dovette fare un bello sforzo per tirarsela fuori.

“Sto parlando di un... telepate.”

“Un telepate?”

La parola risuonò negli orecchi di Trumaine come una nota stonata. Scosse la testa confuso, come se quella parola non avesse alcun senso.

“Ripeto, è una mera ipotesi,” disse Benedict. “Ma supponiamo, per amor di logica, che l’assassino sia anche un telepate. Potrebbe agire come un persuasore mentale, penetrando le menti dei Believers a tal punto da essere al corrente di ciò che li compiace. Potrebbe facilmente elaborare od interferire nel flusso delle loro memorie, impiantando elementi parassiti nei loro ricordi più piacevoli. Ciò che è

più importante, potrebbe farlo senza preoccuparsi della complessità del feed e dei blocchi della mente vigile. Uno ad uno, potrebbe convertire tutti i Believers di cui ha bisogno, fino a raggiungere la massa critica richiesta per ottenere un credo parassita. Se tutto fosse fatto nel modo più opportuno, ritengo che il credo parassita si sovrapporrebbe al Main Belief, senza interferire.”

Trumaine rimuginò le parole di Benedict.

“Ma così il persuasore ci metterebbe un sacco di tempo solo per convertire un singolo individuo,” disse. “E per quanto riguarda tutti gli altri Believers di cui ha bisogno? Ci impiegherebbe mesi, se non degli anni per convertirli tutti.”

“Se è bravo, penso che gli basterebbero solo pochi mesi,” disse Benedict.

“Se lei ha ragione, questo significa che l’assassino ha pianificato accuratamente la morte di Jarva.”

“Ha qualche prova che non sia andata così?”

Trumaine non disse niente. Per quello che lo riguardava, gli sarebbe andata bene qualsiasi prova.

“D’accordo. Supponiamo che il nostro omicida non sia solo uno scaltro telepate, ma che sia pure un persuasore mentale. Diciamo che abbia ucciso Jarva per ragioni che non comprendiamo ancora e che abbia pianificato attentamente l’intera cosa, scegliendo in anticipo sia il luogo che il momento per uccidere.

Non sarebbe tutto più facile se fosse un Believer anche lui?”

Dal silenzio che seguì, fu chiaro che la semplice ipotesi di Trumaine era il peggiore incubo di Benedict: se il persuasore si nascondeva tra i suoi Believers, sarebbe stata la fine di Credence.

“Lo sarebbe di certo...” disse un Benedict impietrito.

“Allora mi dica, cosa farebbe per trovarlo?”

Benedict s’inumidì le labbra. Ci aveva messo solo un momento per tornare ai suoi modi confidenti. Tutto ad un tratto, sembrava un cacciatore di trofei a cui fosse stata appena offerta la guida di una spedizione alla ricerca di una specie favolosa.

“Che magnifica sfida sarebbe per la mente,” disse. “Temo che le consuete tecniche investigative si dimostrerebbero inutili in questo caso. Prenda per esempio l’interrogatorio diretto: come potrebbe lei mai sapere se il Believer a cui sta facendo le domande stia veramente dicendo la verità o non stia invece— come persuasore—prevedendo le sue risposte, a seconda di ciò che legge nella sua mente? Seguire i sospetti? Sarebbe ridicolo, lei correrebbe dietro al persuasore all’infinito. No, non è questa la strada da seguire... Bisogna che lei pensi fuori dal seminato.”

“Che cosa vuole dire?” chiese Trumaine.

“Dal momento che è il persuasore colui che possiede le chiavi della sua mente, la sua unica possibilità di catturarlo sarebbe di lasciarlo entrare nella sua testa.”

“Perché mai dovrebbe fare una cosa simile?”

“Per curiosità, sono sicuro. La curiosità può essere un pungolo tremendo, detective. Il persuasore potrebbe volere vedere da sé chi è il segugio che lo insegue. Se lei è veramente bravo come tutti dicono. Se lei ha davvero la stoffa per prenderlo. Potrebbe volere confrontarsi con lei...”

“Non c’è molto per me su cui lavorare, non crede?” disse Trumaine.

“Al contrario, c’è molto che lei può fare,” insistette Benedict. “Gli lasci fare la prima mossa. Esponga la sua mente; lo lasci entrare. Gli lasci dare una bella occhiata ai suoi ricordi, lo renda familiare al modo in cui lei pensa—a ciò che la fa fremere dentro. C’è una buona possibilità che, una volta che il persuasore è entrato nella sua mente, riveli la sua in turno. Senza che lui lo sappia, alcuni dettagli potrebbero scivolare dalla mente del persuasore nella sua, detective. Il suo lavoro sarebbe quello di mettere insieme quei pezzi, come in un grande puzzle, finché non avrà ottenuto un profilo sufficientemente dettagliato—quello sarà il momento di tirare su le reti.”

Trumaine era titubante. “E usare la mia mente come esca?”

“Temo di sì...”

“Nella camera?”

Benedict curvò le labbra in un ghigno. “Dove altro?”

Trumaine non disse nulla, ma l’idea non gli piaceva affatto. Gli suonava tutto troppo strano. Così lontano da ciò che gli era stato insegnato in tutti gli anni che aveva trascorso nella polizia. Così lontano dalle basi della sua professione che erano i fatti chiari e semplici. I fatti non ti tradiranno mai, era solito dirgli Firrell. Segui sempre la realtà, non le ricostruzioni fantastiche che hanno la più remota possibilità di essere la verità.

Quello che Benedict gli aveva appena proposto era l’esatto opposto: buttare alle ortiche quel poco senso che la realtà dei fatti offriva nel caso degli Jarva. Smettere le vesti consunte del tradizionale e superato detective che insisteva ad utilizzare tecniche troppo convenzionali che non portavano da nessuna parte.

Trumaine doveva fare un salto generazionale, e c’era bisogno di forgiare strumenti nuovi se voleva orientarsi nel regno oscuro ed irrazionale che era la mente inconscia.

Se il telepate esisteva davvero e se la teoria di Benedict era giusta, quello che lo aspettava sarebbe stato molto più complicato di ciò a cui era abituato, pensò Trumaine. Sarebbe stato un gran salto nel buio—sarebbe stato un atto di fede. Naturalmente, Benedict aveva le sue ragioni per volere il telepate fuori da Credence. Ragioni professionali e ragioni personali. Era responsabile di Credence; se il telepate era in grado di produrre un credo parassita, era facile immaginare il potere che aveva a sua disposizione e la quantità di danni che poteva fare.

D’altra parte, Trumaine aveva la netta sensazione che dietro l’apparente cordialità e comprensione che Benedict elargiva così liberalmente ai suoi colleghi umani, c’era qualcos’altro. Oltre la voce misurata, il sorriso mieloso e l’eccessiva fiducia di sé, aveva intravisto qualcosa di verde, freddo e viscido. Era il serpente attorcigliato dell’arroganza; il peccato di un uomo che considerava sé stesso un individuo unico—uno su un milione. Benedict era un re e Credence era il suo regno.

Trumaine sospettava che ciò che Benedict temeva di più non fosse tanto un attacco a Credence, quanto al suo mondo personale, al suo sistema perfettamente controllato e indicizzato.

Aveva già visto uomini del genere in vita sua, erano individui che sarebbero stati disposti a qualsiasi cosa pur di difendere la bestia nera che era il potere.

“Cosa succede se il persuasore mi entra nel cervello e io non me ne accorgo?” chiese.

“E’ un rischio che lei deve correre,” disse Benedict con un tono consolatorio ma paternalistico che precludeva ogni ulteriore dibattito.

“Temo che non ci sia nessun altro modo...”

IL NAUFRAGIO DELL’HIBISCUS

Trumaine guidò lungo la strada a sei corsie che univa la Città Orientale con la Occidentale. Dritta come una freccia, scorreva giù nel profondo del “Canyon,” una gola stretta e depressa formata dalle pareti senza fine dei grattacieli allineati su entrambi i suoi lati.

Aveva quel nome perché gli edifici erano semplicemente troppo alti perché la luce solare potesse raggiungere il terreno, tranne nell’ora in cui il sole era vicino al suo zenit. Solo allora una sottile striscia di luce avrebbe osato spazzare il fondo del burrone; in quel momento, le file di alberi perfettamente potate che segnavano il confine tra il marciapiedi e la strada brillavano come smeraldo, e le capotte lucide dei veicoli intrappolati nel traffico sembravano un fiume che scendeva attraverso una foresta incastonata tra mura di calcare.

Era appena dopopranzo e la luce del sole non aveva ancora cominciato a ritirarsi. I ristoranti e i bar tra i filari di alberi avevano ancora clienti. Li si poteva intravedere dalla strada, mentre sedevano ai tondi e troppo piccoli tavolini da caffè, affrettandosi a consumare il loro pranzo. Potevano contare ancora su altri venti minuti di luce piena, prima che le ombre si allungassero, cacciando i raggi solari lungo le pareti che sovrastavano il Canyon.

Ma mezzodì non era l’unico momento in cui gli alberi potevano vedere la luce, rammentò Trumaine. Due volte all’anno, a marzo e a settembre—durante i due equinozi—il percorso del sole si sarebbe allineato con il Canyon e la luce avrebbe inondato ogni cosa per l’intero giorno—uno spettacolo indimenticabile.

Aveva incontrato Starshanna per la prima volta al tramonto dell’equinozio di

primavera, quando ancora lei lavorava nei bar per arrotondare. Era uscita dal Sangreal nello stesso momento in cui il sole morente aveva trasformato il Canyon in uno specchio d’oro. Fuori era tiepido e lei indossava solo un paio di pantaloncini corti e una maglietta. Per un attimo, quando era entrata nel bagliore ambrato, gli era sembrata una dea dei tempi andati.

Trumaine sospirò da dietro il volante dell’auto. Per la seconda volta quel giorno, pensò che forse avrebbe fatto meglio a trasferirsi in Città. Aveva visto la zona assegnata agli scapoli; era allegra e carina.

Trumaine guidò fino ad un imponente edificio che si ergeva sul lato nord del Canyon. Era tutto bianco, eccetto che per la base, che era rivestita di vetro dello stesso colore del distintivo di ordinanza degli ufficiali di polizia: blu.

La stazione di polizia aveva un ampio fronte che dava su una piazza lunga e piatta circondata da alberi ornamentali e panchine. Trumaine mise la freccia, poi svoltò giù per la rampa che si apriva sul lato corto della piazza, dove un cartello diceva: RISERVATO AL DIPARTIMENTO DI POLIZIA.

Una rampa a spirale scendeva giù attraverso i molti livelli del parcheggio del dipartimento; guidando a o d’uomo, Trumaine si infilò nel primo.

Al primo livello si trovavano tutti i tipi di veicoli della polizia. Non solo gli scooter urbani e le gazzelle che pattugliavano le strade ogni giorno e notte, ma anche i più pesanti cellulari e i veicoli per uso speciale, come i carroattrezzi e i camion montacarichi. In un angolo dimenticato, si poteva intravedere anche un ingombrante ariete blindato sepolto dalla polvere.

Un mare di cavi elettrici serpeggiava da sotto il cofano di quasi tutti i veicoli, infilandosi nelle innumerevoli prese di corrente che coprivano i muri di ogni livello del parcheggio, ricaricando le loro batterie.

Trumaine parcheggiò nella sezione riservata alle auto civetta. Scese dalla macchina, poi raggiunse il cofano anteriore, dal quale estrasse un grosso cavo. Lo srotolò e anche lui si collegò alla rete elettrica. Attese finché l’indicatore led nella presa diventò verde, poi se ne andò verso gli ascensori.

Mentre l’ascensore saliva in silenzio, Trumaine alzò la testa e guardò su, verso il vetro sabbiato sul soffitto, da cui si diffondeva una fredda luce di servizio.

Viveva in un’epoca decente, pensò. Crimini come stupri, rapimenti e omicidi erano ora abbastanza rari. L’accesso diffuso alla ricchezza aveva contribuito a rendere la gente più felice. Senza dubbio una fitta rete di telecamere a circuito chiuso come pure le immagini ad alta risoluzione fornite dal satellite in tempo reale avevano aiutato. Le organizzazioni criminali avevano abbandonato la strada per il mondo più sofisticato e spietato della finanza dove, sostenendo questa o quella fazione politica, si sarebbero garantite immunità eterna. Questo valeva per i criminali di alto bordo, naturalmente.

Ciò che succedeva nelle case della gente era un altro paio di maniche; non si poteva mai dire cosa accadesse dietro il sacro velo della domesticità. Era nei loro appartamenti isolati dove gli uomini e le donne efficienti e gentili si sarebbero tolti la maschera che indossavano nel mondo esterno e sarebbero tornati ad essere loro stessi. Tra le mura domestiche sarebbe nato il rancore; dall’invidia, dalla mancanza di rispetto, dalle speranze infrante e dall’amore tradito. Nutrito dalla rabbia, il rancore sarebbe cresciuto, diventando un fuoco violento che avrebbe distrutto ogni cosa.

Dal suo inizio, l’uomo aveva camminato per lunghi e faticosi sentieri, era diventato saggio ed un tecnico provetto. Eppure, il benessere, la conoscenza e le buone maniere non avevano scacciato l’animale dentro di lui. Per nulla remissivo e mai domo, era sempre pronto ad alzare la sua orrida testa e a balzare dall’oscurità dove si annidava per attaccare e divorare la mente ragionevole—era la bestia della natura umana.

La porta dell’ascensore si aprì e Trumaine entrò nella silenziosa hall degli uffici del dipartimento. Era ordinata e pulita come ogni ufficio dovrebbe essere. Il sergente di giornata sedeva dietro alla sua scrivania, lavorando al computer, quando alzò gli occhi sorpreso.

“Tru? Credevo fossi in ferie!” disse.

“Sì, anch’io,” replicò Trumaine, piatto.

Il confuso sergente si grattò la cima della testa mentre il detective ò oltre.

Trumaine giunse nella saletta alla fine del corridoio, da entrambi i lati del quale si aprivano una dozzina di porte. La saletta conteneva qualche sedia e una felce meravigliosa che sembrava troppo perfetta per essere vera. Solo una porta dava sulla sala d’attesa e la sua targhetta d’ottone diceva: T. GRANT FIRRELL.

Trumaine si fermò davanti alla porta e bussò.

“Avanti!” disse una voce da dentro.

Aprì la porta ed entrò.

“Un cosa?!”

Firrell aveva quasi urlato quando aveva sentito la parola. Aveva alzato gli occhi dal foglio che stava leggendo in quel momento e, scioccato, aveva fissato Trumaine.

L’ufficio di Firrell era di media grandezza, uno dei pochi nel piano con una finestra vera e una vista reale da cui entrava vera luce solare. Arredato parcamente, tutto ciò che c’era di personale—premi alla carriera, menzioni, encomi e qualche foto strategica che ritraeva Firrell con la gente che contava qualcosa nella polizia—era stato confinato in un angolo solitario.

L’unico piacere che il capitano si era concesso era la macchinetta del caffè che stava dietro di lui insieme a un distributore d’acqua.

Firrell agguantò freneticamente un bicchiere d’acqua e lo tracannò, asciugandosi la bocca sulla manica della giacca del vestito. Solo allora osò alzare gli occhi verso Trumaine una seconda volta.

“Un cosa?!” ripeté, accertandosi di non avere capito male.

“Un telepate, Grant,” disse Trumaine, paziente.

Adesso era seduto su una sedia di design, davanti a Firrell. Una tazzina fumante di caffè ancora intatto era appoggiata sulla sua parte di tavolo.

Il capitano alzò gli occhi al cielo e brontolò.

“Di tutte le cose bizzarre che ho sentito in tutta la mia vita questa è di gran lunga la più strana, giuro,” sbottò. “Un telepate. E tu dici che è stato Benedict a suggerirlo?”

“All’inizio, non voleva sentire ragioni,” spiegò Trumaine. “Secondo Benedict, Credence non aveva niente a che vedere con l’omicidio di Jarva—non era semplicemente possibile. Il feed, il modo in cui il sistema funziona, il modo in cui i dati vengono maneggiati, tutto era infallibile ed impenetrabile, ed io avevo torto marcio a sospettare di loro.”

Allungò la mano verso il caffè e ne bevve un sorso prima che diventasse troppo freddo. Non era male, paragonato al caffè servito dai distributori automatici; lo stesso, non riusciva a levarsi dalla lingua quel vago retrogusto di gomma bruciata.

“Ho dovuto insistere un bel po’,” riprese Trumaine, “prima che Benedict ammettesse che solo una persona speciale con doti speciali avrebbe potuto farlo —un telepate. Secondo Benedict, un telepate potrebbe avere dirottato i Believers e avergli fatto fare tutto quello che voleva, incluso spedirlo dentro e fuori dal bunker degli Jarva. Ci ha messo dentro un sacco di ‘se’ e di ‘ma,’ ma penso che la minaccia che aveva in mente fosse fin troppo reale. Penso che abbia una fifa maledetta di avere un telepate che scorrazza libero nella sua Credence.”

“Beh, non posso biasimarlo,” disse Firrell. “Ma io ancora non capisco—la telepatia è davvero possibile?”

Trumaine alzò le spalle.

Credence utilizza le menti dei Believers per spedire navi spaziali in posti che le tecnologie obsolete non si sognerebbero mai. Più di mezzo milione di individui viaggiano nello spazio usando i servizi di Credence. Secondo te gli frega qualcosa di come questo avviene? Si spaccano la testa per capire come funziona? No. E noi? Neppure. Ci accontentiamo di usare la tecnologia che abbiamo a disposizione, è tutto ciò che ci importa. Se ti avessi parlato di Credence prima che Jarva fe le sue scoperte, mi avresti riso in faccia. Cosa faremmo ora senza Credence?”

Bevve un altro sorso del suo caffè ormai freddo.

“Cosa ne sappiamo veramente del nostro cervello? Quanto conosciamo delle nostre capacità? Molto poco. Fino a ieri, i telepati esistevano solo nei romanzi di fantascienza. Qual è la prossima stramberia che ci aspetta? Io non lo so, nessuno lo sa. Basta che teniamo gli occhi aperti e, quando arriverà, prepariamoci ad usarla...”

Trumaine finì il suo caffè con un brivido disgustato, poi osservò le varie espressioni che lottavano sul volto di Firrell: incredulità, irritazione, dubbio.

Non vinse nessuna di esse—i lineamenti di Firrell si erano distesi in una cauta

accettazione.

“Okay,” disse. “La mia mente è aperta come una bella ostrica servita. A Credence c’è un telepate—come lo prendiamo?”

Stavolta fu Trumaine a rabbuiarsi; erano arrivati al punto più complicato del problema.

“Benedict pensa che dovrei entrare nella camera e offrire la mia mente al persuasore come esca. Ma funzionerà solo se lui mi entra nella testa; se io mi accorgo che lui è entrato; se riesco ad identificarlo da quello che ha fatto quando era dentro.”

“La mia mente molto aperta mi dice che stiamo camminando sul ghiaccio fino qui, Tru,” disse Firrell.

“Sì, è un maledetto mucchio di ‘se.’”

Firrell sbuffò, poi diventò improvvisamente serio e Trumaine seppe che c’erano brutte notizie. Il capitano raccolse una cartellina dalla sua destra e la spinse dall’altra parte del tavolo.

“Dai un’occhiata a questo, è arrivato un’ora fa. Lo manda l’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti.”

Trumaine si mise a spulciare il documento.

“Hanno perso contatto con l’Hibiscus,” spiegò Firrell, “un cargo da 350.000 tonnellate di stazza, in rotta per Alfa Centauri—insieme a 4.500 coloni, l’equipaggio, e macchine e materiali destinati alla terraformazione per un valore di sette miliardi.”

“Cristo...”

“L’AST ha fatto girare nei suoi super-computer una simulazione a grande scala. Le previsioni convergono verso una sola ipotesi: l’anomalia non è nel sistema— l’anomalia è umana.”

Firrell fece una lunga pausa.

“Hanno gli occhi puntati su Credence, Chris. Secondo loro, l’anomalia che ha fatto naufragare l’Hibiscus ha avuto luogo circa nello stesso momento in cui sia Jarva che sua moglie venivano uccisi. Per quanto incredibile possa sembrare, la teoria di una talpa all’interno di Credence concorderebbe con le conclusioni dell’AST.”

Firrell osservò l’espressione preoccupata sul volto di Trumaine. “Prego solo Dio che questa non sia un’altra Minnie Maru...” disse con un sussurro.

Con grande sorpresa del capitano, Trumaine sbatté la cartellina sul tavolo.

“Hanno perso una nave? Adesso la competenza è dei federali, io sono fuori. E questo vale anche per l’omicidio di Jarva. Se le due cose sono collegate, va tutto in una grossa scatola sotto a un bel fiocco—con i nostri miglior auguri ai federali...”

Firrell sbottò divertito, poi spinse in avanti il foglio che stava leggendo quando Trumaine era entrato nell’ufficio.

“Queste sono notizie fresche che ci mandano i nostri amici federali. Dicono che hanno fatto un controllo incrociato del feed consegnato ieri a Credence con la copia d’archivio all’AST. I feed combaciano. Quello di Credence non è stato manomesso. Per una volta, i federali sono d’accordo con le conclusioni dell’AST. Quello che è successo all’Hibiscus ha avuto origine a Credence dopo che il feed è stato somministrato—”

“Non me ne frega niente, io sono fuori.”

“Hanno concluso che, siccome la causa di tutti i nostri problemi è un uomo, tutto quello che serve per prenderlo è un cacciatore. E indovina un po’? I federali credono che sia tu il miglior cacciatore sul campo—ti hanno appena autorizzato a lavorare per conto loro.”

Trumaine balzò in piedi, spingendo via rabbiosamente la sedia da sotto di lui.

“Ma non capisci?” sbottò. “Stiamo cercando un fantasma! Se l’omicida è un telepate, non abbiamo la minima possibilità di prenderlo! I federali lo sanno fin troppo bene, ecco perché vogliono me! Non perché io sia bravo o altro—sono tutte stronzate. Vogliono me solo perché stavo già investigando sul caso Jarva.

Sarò il loro capro espiatorio! E’ su di me che getteranno la colpa quando non prenderò il telepate! E lo faranno, Grant, credimi. Perché io non lo prenderò, quel bastardo—nessuno lo prenderà.”

“Si fidano di te, Chris, come mi fido io,” disse Firrell incurvando le labbra in un sorriso amichevole.

“Si fiderebbero di chiunque pur di salvarsi il culo!”

“Ci guadagnerai qualcosa anche tu...”

“Non ho bisogno di un’altra caffettiera, Grant.”

Firrell rise. “Non si tratta di una caffettiera.”

“Non ho bisogno di promozioni.”

“Non è nemmeno una promozione. Non sono riuscito a farglielo mettere per iscritto, ma mi hanno dato la loro parola d’onore: se catturi l’assassino... intercederanno presso l’ambasciata per farti avere la cittadinanza Aquariana di prima classe.”

Lo sguardo torvo svanì dal volto di Trumaine: “Ripeti un po’...”

“Prendi quella dannata talpa e potrai tornare su Aquaria, Chris. Potrai tornare da lei.”

Gli occhi amichevoli e pazienti di Firrell fissarono Trumaine e lui seppe che il suo capitano aveva solo buone intenzioni.

Perché Firrell era unico. Era uno dei pochi rimasti di una razza di poliziotti ormai estinta che aveva le sue radici nei secoli ati. Nascevano rudi e spavaldi, a volte erano violenti e irresponsabili, ma avevano qualcosa che al resto delle giovani leve della polizia che si comportavano come efficienti robot senz’anima mancava: erano in grado di capire i sentimenti della gente che lavorava per loro, dalla tensione causata dalla pressione, alla frustrazione di uscire a mani vuote da un caso. Sotto la scorza indurita di Firrell, c’era un uomo per cui parole come “lealtà” avevano ancora un significato.

“Davvero lo farebbero?” chiese Trumaine.

“Gli ho detto che altrimenti avresti rifiutato il caso. Gli ho spiegato che dovevo darti qualcosa in cambio, qualcosa che t’importasse davvero—hanno accettato. Avrai la tua cittadinanza non appena avrai scovato l’assassino.”

Ci fu un lungo silenzio. Trumaine era combattuto. Anche se si fidava ciecamente di Firrell, non faceva molto affidamento sulle promesse dei federali.

“Devo pensarci su, Grant...”

“Lo sapevo che avresti accettato!”

“Hei, non ho detto questo, ho solo—”

Il telefono sul tavolo di Firrell trillò all’improvviso, interrompendo Trumaine. Il capitano alzò il ricevitore.

“Firrell.”

Ascoltò in silenzio. Ma più ascoltava, più le sue sopracciglia si aggrottavano. Trumaine poteva capire da sé che ciò poteva solo significare ulteriori cattive notizie, e levò gli occhi al cielo per la frustrazione. Poteva solo sperare che quella telefonata non avesse nulla a che fare con l’omicidio degli Jarva e con gli sviluppi di Credence.

Firrell riattaccò con un fischio basso.

“Chi era?”

“L’AST,” disse Firrell, cupo.

“Dimmi che hanno trovato la nave.”

“Ti piacerebbe... Macché. Questa è un’altra tegola sulle nostre teste. L’AST ha appena sospeso tutti i voli intergalattici per paura di perdere un’altra nave. Questo significa che, senza consegne, tutti gli avamposti nella galassia che hanno già esaurito le loro scorte d’acqua non saranno riforniti,” disse Firrell.

Trumaine imprecò. Poteva ben immaginare il resto.

“Cominceranno a morire fra tre giorni...” disse.

LA CAMERA DEI BELIEVERS

Scarpe da uomo, bianche e lucide, calpestavano un corridoio di resina bianca immacolata, battendo in modo regolare contro di essa. Un secondo paio le seguì a ruota, sempre scarpe da uomo, sempre bianche. Si unirono al trepestio, diventando un rimbombo.

Mentre le scarpe procedevano, un terzo paio prese la stessa andatura; sempre bianche, queste erano più piccole, scollate e poggiavano su tacchi snelli—erano scarpe da donna. Il rimbombo divenne presto un rullo di tamburo.

Trumaine, Benedict e Matthews camminavano affiancati lungo un ampio corridoio alla fine del quale si poteva intravedere la camera dei Believers.

Sebbene Benedict non avesse perso nulla del suo brio, c’erano un paio di rughe sulla sua faccia di cui Trumaine non s’era accorto prima.

“Sono certo che saprà degli ultimi drammatici sviluppi della faccenda, detective. Mi spiace ammettere che abbiamo perso una nave. Non ho scuse per ciò che è successo e mi prenderò tutta la responsabilità, naturalmente. Qualcosa che non potevamo prevedere è accaduto nella camera dei Believers.”

“Come ha potuto l’Hibiscus andare fuori rotta?” domandò Trumaine.

“La mia ipotesi è valida quanto la sua. Temo che il credo parassita creato dal persuasore abbia interferito con il Main Belief, provocando un’increspatura che ha spostato la nave.”

Benedict si fermò di colpo e guardò Trumaine dritto negli occhi.

“Spero che lei comprenda quanto pericoloso sia quest’uomo e quanto sia importante che lei lo prenda.”

“Me ne rendo perfettamente conto...”

Benedict aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma poi ci ripensò.

Proseguirono, avvicinandosi a un cancello in distanza che pareva una barriera della metropolitana.

Tornelli elettronici sibilavano piano, lasciando entrare e uscire di continuo i Believers dalla camera. La maggior parte di quelli che avevano appena finito il turno trascinavano i piedi stancamente, strizzavano gli occhi e sbadigliavano, degnandosi a malapena di mandare un cenno di saluto ai loro colleghi.

Al contrario, i Believers che entravano nella camera sembravano contenti, ordinati ed efficienti che più non si poteva, e dispensavano sorrisi a destra e a manca.

L’avvicendamento era ininterrotto, con i nuovi Believers che rimpiazzavano costantemente quelli che se ne andavano in un ordinato andirivieni.

Ogni volta che un Believer entrava o usciva dalla barriera, un largo tabellone elettronico appeso sopra ai tornelli aggiornava il numero di Believers rimasti nella camera. Il tabellone faceva anche da orologio. Proprio ora, mostrava due numeri: 493 e 22:15.

Il gruppo con Trumaine arrivò alla barriera, dove si fermò.

Una guardia lasciò la sua garitta sulla destra e andò verso di loro. Eccetto che per il cinturone che portava sopra alla giacca del vestito, che conteneva anche una grossa pistola elettrica, sembrava un altro Believer. Chinò la testa solo davanti a Benedict.

“Gli fornisca un lasciaare,” disse Benedict, indicando Trumaine. “Una settimana basterà.”

“Sì, signore,” rispose la guardia, prontamente.

L’uomo estrasse dal cinturone quella che sembrava una spillatrice stilizzata, poi rovistò in un’altra delle tasche del suo cinturone e recuperò due dischi di metallo delle dimensioni di un bottone.

“Questo è il suo lasciaare temporaneo,” disse la guardia.

Si avvicinò a Trumaine, gli mise uno dei dischi nel taschino della giacca, poi infilò il secondo nel risvolto, alla stessa altezza del primo. La guardia lo tenne in posizione per un istante mentre la spillatrice si attivò con un leggero bip. I due dischi si agganciarono con un clic attraverso la stoffa del vestito, proprio come una placchetta antitaccheggio.

“Fatto,” disse la guardia. “La trasmittente funziona in combinazione con lo scanner facciale integrato nel tornello. Se si cambia la giacca, o se la perde, ritorni da me e le darò un rimpiazzo.”

La guardia si spostò di lato, facendo segno a Trumaine di provare il tornello. Non appena il detective fu davanti alla barriera, un flash gli illuminò la faccia, facendogli la foto.

Solo allora la porta del tornello si aprì con un sibilo. Si chiuse in silenzio dietro di lui appena l’oltreò.

Trumaine emerse dai tornelli e si ritrovò nella galleria che dava sulla camera dei Believers.

Si sviluppava su tre livelli digradanti che si curvavano verso l’interno come i gradini giganti di un anfiteatro; una fila interminabile di posti d’attracco per le poltrone si snodava lungo il bordo esterno di ogni livello, dietro a un parapetto di vetro che impediva ai Believers di cadere nel baratro della camera.

Ogni tanto, i Believers che arrivavano dai tornelli raggiungevano la poltrona che gli era stata assegnata. Non appena si sedevano e poggiavano la testa su di essa, la poltrona si attivava, richiamando dall’abisso lunghi steli d’acciaio. Salivano

dal baratro sottostante la camera come delle gambe nodose e allungate di ragni enormi che uscissero dalle loro ragnatele.

Uno ad uno, i bracci affusolati si agganciavano alla scocca delle poltrone, sollevandole e trasportandole nella camera, bilanciandole sulle loro estremità come avrebbe fatto un cameriere con un vassoio.

Gli steli portavano le poltrone in una posizione preordinata nella trama formata dalle poltrone che già fluttuavano nella camera.

Nella stessa maniera, quando un Believer aveva terminato il suo turno, la sua poltrona sarebbe stata ritirata automaticamente dalla camera e, di nuovo, deposta con matematica precisione nello stesso livello e posto d’attracco da cui era stata originariamente raccolta. Una volta che la poltrona fosse stata assicurata alla sua culla, gli steli si sarebbero staccati e avrebbero agganciato un altro Believer, oppure sarebbero scesi in silenzio sul fondo della camera.

Gli occupanti delle poltrone appena attraccate rinvenivano lentamente, sedendosi. Poi, quando erano del tutto svegli, si alzavano e si dirigevano verso il cancello d’uscita.

Trumaine non riusciva a staccare gli occhi da tutto questo, impressionato sia dalla semplicità che dalla precisione del meccanismo che era la camera dei Believers. Soprattutto, era colpito dal modo in cui sia gli steli che le poltrone si muovevano e danzavano intorno con apparente facilità, senza mai ammassarsi od ostacolarsi l’un l’altro. Eccetto che per i leggeri schiocchi che gli steli emettevano quando prendevano o riponevano le poltrone—che gli ricordavano antiquate macchine da scrivere all’opera—ogni cosa avveniva nel più assoluto silenzio.

La guardia della galleria ritornò alle sue solite mansioni, mentre Benedict e Matthews entrarono nella galleria da una porta di servizio e si unirono a Trumaine nella contemplazione della camera.

Trumaine indicò l’angolo più lontano della camera, dove un gruppo di circa dodici Believers si librava in formazione quadrata, due metri al di sopra dei loro colleghi—era la prima volta che li vedeva.

“E quelli chi sono?” chiese.

“Sono i nostri migliori Believers,” disse Benedict. “Stanno cercando di captare qualsiasi segnale che L’Hibiscus potrebbe trasmettere. Sfortunatamente, dal momento che l’AST ha sospeso i voli, gli viene ora somministrato un feed vuoto. Senza il o del vero feed, temo che ci sia ben poca speranza che ci riescano—beh, almeno ci stanno provando...”

Si rivolse a Matthews. “Possiamo andare?”

“Certamente,” disse lei. “Da questa parte.”

Matthews fece strada, conducendoli al primo livello della galleria, quello che sporgeva di più nella camera.

Oltrearono le molte culle vuote delle poltrone che erano già nella camera. Numeri progressivi erano assegnati sia alle poltrone che alle loro culle;

scintillavano vivaci dalla resina bianca del pavimento, dove erano stati dipinti in un blu contrastante.

Si fermarono al numero 144, una della dozzina o giù di lì di poltrone ancora agganciate al primo livello.

“Ecco la nostra poltrona standard,” disse Matthews, indicando la poltrona con il palmo della mano.

“Riceverà il feed attraverso la trasmittente integrata nel poggiatesta. Come il signor Benedict le ha appena spiegato, dal momento che l’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti ha sospeso tutti i voli, ora i Believers ricevono un feed vuoto.”

Un feed vuoto?” chiese Trumaine.

“Esatto,” disse Benedict. “Eccetto che per il segnale di trance, nessuna informazione di altro tipo verrà inviata nella sua mente. Sarà da solo coi suoi ricordi.”

“Questo mi esporrà al persuasore?”

“Consciamente, non si avvicinerà a lui più di così...”

“Prego, si stenda,” lo esortò Matthews.

Trumaine le scoccò un’occhiata preoccupata, poi si sedette. Affondò il dito nell’imbottitura della poltrona come se stesse testando un materasso—era caldo e confortevole al tatto come un letto in cui qualcuno avesse appena dormito.

Mentre si sdraiava, la poltrona prese vita con un ronzio. In pochi istanti, un lungo braccio emerse dall’abisso sotto la camera. Trumaine non se n’era accorto prima a causa della distanza, ma da vicino si vedeva bene l’occhio della telecamera a guida laser montata in cima allo stelo. A ripensarci pareva più un mostruoso serpente monocolo che stava per morderlo, piuttosto che la gamba nodosa d’un ragno.

Fu una visione fugace. Poi il serpente si tuffò sotto alla poltrona e, con uno schiocco, ne afferrò la scocca; con una sferzata, la sollevò a livello dei fianchi di Matthews, dove galleggiò mollemente.

La donna sfiorò il blocco nelle sue mani, inviando una trasmissione radio al computer nella poltrona. Lo schermo integrato nel poggiatesta si accese, diventando verde smeraldo.

Matthews guardò Benedict con un cenno, “E’ pronto.”

“Bene,” disse Benedict, rivolgendosi a Trumaine.

“La trance è uno stato surreale. Alcuni istanti dopo che lei avrà posato il capo al poggiatesta della poltrona, la trasmittente contenuta all’interno invierà al suo cervello un segnale a bassa frequenza. All’inizio la farà rilassare, poi, dopo

qualche momento, lei si assopirà. Affonderà velocemente attraverso tutti gli stadi del sonno, finché non entrerà nella fase cosiddetta REM. Sarà allora che inizierà a sognare.”

“Da cosa potrò capire se il persuasore è entrato nella mia mente?”

“Da piccoli dettagli—oggetti fuori posto, parole discordanti, ricordi che non combaciano. Osservi ciò che sogna, permetta ai dettagli di fare presa nella sua mente. Trovi ciò che le appartiene davvero, isoli ciò che non è suo. Tutto può tradire la presenza del persuasore.”

La poltrona sobbalzò leggermente, costringendo Trumaine a guardare preoccupato Matthews.

“La poltrona si sta ancora assestando,” lo rassicurò.

“Non mi legate? Voglio dire... è un bel salto fino in fondo alla camera.”

Matthews incurvò l’angolo delle labbra in qualcosa che poteva essere un vago sorriso.

“Il circuito integrato è molto sensibile,” disse. “La poltrona asseconderà ogni movimento del suo corpo. Le prometto che non cadrà.”

“Vorrei essere così fiducioso,” si lamentò Trumaine.

“Non c’è niente di cui preoccuparsi, detective. Davvero. Sarà come addormentarsi,” disse Benedict. “Alla fine del turno standard di otto ore, verrà richiamato in questa stessa posizione nel livello.”

Fece un cenno a Matthews, che toccò il suo blocco un’ultima volta. Con grande sgomento di Trumaine, la poltrona si alzò e scivolò via; oltre il punto dove si trovavano Benedict e Matthews; oltre il parapetto di vetro della galleria—finché planò nella camera come un motoscafo diretto verso il mare aperto.

Il volto di Trumaine diventò verde all’improvviso. Stava combattendo contro qualcosa che non aveva mai ammesso apertamente, nemmeno a sé stesso: la sua paura delle altezze.

La poltrona si lasciò trasportare nella marea di poltrone che sembravano sempre sul punto di scontrarsi, giungendo in una posizione preordinata nella trama.

Mentre Trumaine ritirava la testa, sforzandosi di non guardare di sotto, il bagliore smeraldo che irradiava dal poggiatesta della poltrona cominciò a pulsare. I movimenti della poltrona divennero più lenti e più dolci.

Alla fine, gli occhi di Trumaine si chio...

IL FEED VUOTO

Ogni cosa era avvolta in un biancore accecante.

A poco a poco, il bagliore si dissolse, rivelando gli interni avvolti nella penombra di una casa di medie dimensioni. Anche se gli scuri delle portefinestre erano accostati, lo stesso, una sottile lama di luce mattutina si intrufolava dentro attraverso i vetri del portoncino d’ingresso. Era quanto bastava per scacciare le ombre, lasciando intravedere quello che la casa conteneva.

La casa si sviluppava su di un unico livello. Lo spazio si articolava intorno alla differenza di livello che c’era tra il soggiorno più basso, sulla destra, e la cucina rialzata con l’angolo cottura, sulla sinistra.

L’entrata principale dava su un ampio salotto arredato con un divano bianco, un tavolino di vetro ed un tappeto etnico a pelo raso intessuto nei colori delle terre. Poco più in là, un paio di poltrone guardavano un caminetto elegante e moderno ricavato nel muro.

Sul lato lontano del salotto, una seconda porta dava sulle stanze rimanenti: una camera matrimoniale, una per gli ospiti, un paio di bagni e la lavanderia.

Sopra una rampa di pochi gradini, c’era la cucina—con un tavolo quadrato, quattro sedie e un portafrutta di ceramica—e, dalla parte opposta, l’angolo cottura.

Larghe tavole di legno d’olivo sbiancato facevano da pavimento in salotto, sembrando calde e confortevoli, mentre il pavimento della cucina era di semplici piastrelle di ceramica.

Un foglio di plastica ricopriva parte del soggiorno. Una scala di alluminio era appoggiata nell’angolo più lontano, insieme a un trabattello, qualche secchio di idropittura, pennelli usati di ogni tipo, un rullo da pittore e rotoli di nastro di carta. Era chiaro che la casa era appena uscita da un recente ammodernamento, e l’odore aspro dell’idropittura era ancora nell’aria.

La casa era silenziosa e immobile. Solo le particelle di polvere intrappolate nel fascio di luce che entrava dal portoncino d’ingresso aleggiavano pigramente nell’aria, indecise se continuare a fluttuare o, infine, cedere alla gravità.

Anche fuori sembrava tranquillo.

Poi, ad un tratto, una voce spensierata e briosa risuonò appena oltre la soglia. Una seconda voce, più profonda, le rispose. Due ombre fugaci danzarono nello specchio della porta, poi una chiave tintinnò, scivolò nella toppa e, con un’ultima risata, la porta si aprì.

Un giovane Trumaine e una donna bellissima entrarono nella casa.

Trumaine sembrava allegro e sorrideva molto più della sua controparte più anziana.

La donna aveva capelli chiari, lunghi e ribelli. Un riflesso di luce ramata doveva esserci rimasto intrappolato—splendeva ogni volta che lei muoveva la testa. Aveva il naso dritto e labbra piene eternamente incurvate in un sorriso; un sorriso caldo, genuino, amichevole e spensierato.

Non si poteva dire nulla dei suoi occhi, dal momento che era impegnata a tenerli chiusi.

“Non vedo un bel niente!” disse scherzosamente. “Lo sai, è così che succedono gli incidenti. Mi sento che cadrò da un momento all’altro, sbatterò la faccia e mi romperò il naso. Sanguinerò sulla tua pittura fresca e così dovrai cominciare daccapo!”

Trumaine si girò e la guardò sorpreso. “Pittura? Chi ti ha mai detto della pittura?”

“Il mio naso, stupido.”

Trumaine annusò l’aria, rendendosi conto che se ne sentiva ancora l’odore. Lei rise e lui alzò le spalle.

La prese per mano e la condusse verso il tavolo della cucina, dove posarono le borse che avevano con sé.

“Posso aprirli ora?”

“Non ancora, Shanna...”

Beninteso, il suo nome per intero era Starshanna Andrews, ma Trumaine era solito chiamarla in tutti i modi che il suo nome permetteva: “Shanna,” “Hanna,” “Star,” o anche “Starsha.” Ultimamente pensava che “Hanna” fosse un nome troppo comune, mentre “Star” o “Starsha” suonavano un po’ strani e fin troppo spaziali, così aveva deciso per “Shanna.”

“Gradino,” l’avvisò mentre la guidava giù per la rampetta di scale fin nel soggiorno.

“Ferma lì,” le ordinò, e Starshanna lanciò un sonoro latrato. Trumaine roteò gli occhi—ecco cosa vuol dire avere per fidanzata una matta, pensò.

Raggiunse le portefinestre e le spalancò. Come se una diga avesse appena ceduto, la luce eruppe, inondando gli interni della casa d’un bianco accecante. La luce era così intensa che anche Starshanna, da dietro le palpebre chiuse, dovette strizzare gli occhi.

“Posso aprirli, adesso?”

“Non ancora, aspetta un momento...”

Trumaine si affrettò per il salotto, raccogliendo svelto l’occasionale straccio o carabattola che aveva lasciato in giro, ficcando tutto nel caminetto spento. Si pulì

le mani sui pantaloni, poi, di nuovo, prese Starshanna per mano e la guidò verso il centro della stanza. La fece ruotare, cosicché avrebbe guardato la casa dalla direzione più favorevole.

“Adesso?” supplicò lei.

“Adesso,” concesse Trumaine.

Schermando la luce con il palmo della mano, Starshanna aprì gli occhi...

Erano occhi intelligenti del colore dell’ambra, dolci ma pure svegli e indagatori, che alludevano al mondo complesso che giaceva dietro ad essi.

Non era stato il corpo sodo di Starshanna, i suoi seni torniti, o i suoi fianchi tondi a conquistare Trumaine quando l’aveva vista per la prima volta. Erano stati i suoi occhi e il suo sorriso, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per potere continuare a guardarli.

Starshanna ci mise un po’ ad abituarsi alla luce.

“Allora?” chiese Trumaine, teso.

Non l’avrebbe mai ammesso, ma era preoccupato per la reazione di Starshanna. E se la casa non le piaceva? Aveva speso un anno intero a rimodernarla. Avrebbe trovato la forza di lasciare perdere tutto, si chiese, se non le fosse piaciuta? Non

era tanto per i soldi, o per il tempo che c’era voluto per sistemarla—si era goduto tutto il noioso, meticoloso lavorio. Non era quello; era tutto il cuore e l’anima che ci aveva messo, e di questo non era sicuro di potere disfarsi.

Trumaine guardò Starshanna con trepidazione, ma lei ancora non disse nulla, così lui rimase lì a fissarla come un idiota. Lei gironzolò per il soggiorno, intorno al divano, vicino al camino, ispezionando da vicino tutto ciò che vedeva. A Trumaine venne il sospetto che lei non stesse solamente esplorando la casa— lo stava stuzzicando.

“Allora?” chiese, ormai in ansia.

Ma tutto ciò che lei fece fu di ridacchiare e visitare in punta di piedi il resto della casa. Trumaine non ne poté più. Alzò gli occhi al cielo, gettò le braccia per aria e crollò sul divano con un sospiro affranto.

Starshanna ritornò cinque minuti più tardi.

“Allora?!” disse solo.

Lei aspettò ancora un po’, sempre giocando con lui. Poi gli occhi le luccicarono e si mise a ridere allegra.

“La casa è fantastica... L’adoro!”

Trumaine parve rincuorarsi. Mentre si rimetteva in piedi brontolando, Starshanna gli gettò le braccia al collo e lo premiò con un lungo ed eloquente bacio. Lui la sollevò da terra e la fece girare, guardandola negli occhi.

“Hei, le sorprese non sono ancora finite...”

La posò, poi la condusse con sé attraverso le portefinestre ed entrambi uscirono.

Emersero da una casa al mare che guardava un tratto di riva sabbiosa, oltre cui l’oceano sciabordava pacifico e i gabbiani roteavano pigri.

L’ampio patio aveva lastre di pietra del deserto per pavimento—di colore argento, giallo e grigio, con venature ruggine. Un tavolino sbiadito, un ombrellone malconcio e un paio di sedie sdraio nuove di zecca arredavano uno degli angoli della casa. Il confine tra il patio e la spiaggia e, sul lato opposto, il vialetto di accesso, fioriva di magnifici esemplari di Euphorbia Trigona, di cactus barilotto e del deserto, di basse felci e di piante di Yucca in vaso.

“E quella cos’è? Una vasca?” chiese Starshanna, dirigendosi verso quella che sembrava una piscina lunga e stretta che costeggiava l’intero patio.

“Non esattamente—è un canale. Gira intorno alla casa e poi ritorna dritto nell’oceano. Il precedente proprietario era un patito dell’acqua.”

Starshanna aggrottò le sopracciglia nell’udire uno strano fischio modulato. Si voltò quando lo sentì di nuovo, più vicino stavolta.

“Hei, riconosco quel fischio!”

Incuriosita, si sporse oltre il bordo del canale e, in pochi attimi, una forma grigio scuro scivolò nell’acqua, avvicinandosi velocemente al punto dov’era lei.

Il muso tondo di un tursiope spuntò dall’acqua, a pochi centimetri dai piedi di Starshanna, nuotando e sguazzando placidamente.

“E’ un delfino!” strillò entusiasta. “Vieni qui, tu!”

Si inginocchiò, allungando la mano nell’acqua—il delfino le si avvicinò, schioccando eccitato; senza alcun timore, posò il mento sulla mano di Starshanna e si lasciò accarezzare.

“Sua madre è morta sulla spiaggia,” disse Trumaine. “Buon per lui che il vecchio proprietario lo ha trovato. Ha allevato il delfino tutto da solo. Di tanto in tanto, gli offro qualche sgombretto, ma lo faccio più per compagnia—lui sa bene come catturare i pesci...”

Rimasero lì per un po’, contemplando il cetaceo, poi Starshanna si alzò, voltandosi verso Trumaine.

“Adoro la casa. Adoro il canale. Amo il delfino—” Si alzò sulle punte dei piedi e baciò Trumaine.

“E amo te, Chris Trumaine...”

Lui aprì le braccia, pronto a stringerla, aspettandosi altri baci, ma Starshanna girò sui tacchi e, con gran sorpresa di Trumaine, cominciò a spogliarsi. Si liberò delle scarpe, della maglietta e dei jeans in Syntex. Indossando solo gli slip, si tuffò in acqua e nuotò via col delfino.

Trumaine alzò gli occhi con un gemito, poi si mise a raccogliere i vestiti abbandonati di Starshanna...

Era il primo pomeriggio nella casa.

Sul fornello spento c’erano un paio di pentole usate di recente; nel secchiaio, una pila di piatti aspettavano di essere lavati, insieme a forchette e coltelli; sul tavolo, due calici vuoti e quel che restava di una bottiglia di vino raccoglievano la polvere.

Nel soggiorno, il foglio di plastica era ancora al suo posto, ma la scala di alluminio, il trabattello, i secchi di colore e i pennelli sporchi erano stati spostati contro il muro opposto, come se fosse stato appena dato qualche ritocco dell’ultimo minuto.

La stanza sembrava deserta. Sarebbe stata anche silenziosa, se degli strani suoni sommessi e ripetuti non ne avesse turbato la quiete.

I suoni divennero più forti e ritmati, finché fu chiaro che erano i gemiti di piacere di due amanti intenti a fare all’amore. I lamenti, che sembravano provenire da dietro al divano, continuarono per un bel pezzo, finché culminarono e poi non ce ne furono più.

Una Starshanna col volto arrossato rotolò via da un Trumaine accaldato, giacendo accanto a lui sul pavimento d’ulivo. Rimasero a fissare un punto nel soffitto, riprendendo fiato, senza dire nulla.

Fu Starshanna la prima a parlare.

“Sai, mi hanno poi offerto quel lavoro,” disse.

“Grandioso. Non è una proposta che si riceve tutti i giorni. Hai accettato?”

“Non lo so, Aquaria non è proprio dietro l’angolo...”

“Ma tu muori dalla voglia di andarci.”

“Sarebbe l’opportunità di una vita...”

“Allora che aspetti? Firma subito, prima che cambino idea e diano il lavoro a qualcun altro che non gliene importa niente di quello che fa.”

“Sei d’accordo sul serio, Tru? Starò via la maggior parte del tempo. Ci vedremo molto meno spesso—ci ritroveremo soltanto durante le vacanze...”

“Mi farò dare la cittadinanza Aquariana di prima classe,” promise Trumaine. “E poi sarò sempre con te.”

Sorrise. Era felice perché aveva il mondo nelle sue mani; il pensiero che qualcuno o qualcosa potesse portarglielo via era la cosa più lontana dalla sua mente.

“Vieni qui, tu,” disse Starshanna. Di nuovo, si mise a cavalcioni di lui e lo baciò ripetutamente. Poi si fermò e guardò dritto negli occhi di Trumaine.

“La vita è un sogno meraviglioso...” disse.

Ad un tratto, come in una fotografia sovraesposta, tutto diventò bianco.

Il bagliore si dissolse, rivelando un grande salone.

Il pavimento era fatto di lastre di marmo del colore dell’acquamarina screziato di vene zaffiro—sembrava una distesa infinita di ghiaccio blu. Le pareti erano alte e spesse, rivestite di lastre di alabastro blu che brillava della luce intrappolata dentro la superficie traslucida.

Il soffitto era una videoparete ruotata, che mostrava di continuo immagini delle

creature e delle piante eccezionalmente rigogliose di un pianeta oceanico.

Al centro della sala, una riproduzione olografica di un grande pianeta blu ruotava lentamente: Aquaria.

Aquaria era il nome comune di Aquaria XVII, che si trovava nell’anonima galassia a spirale conosciuta col codice NGC-4414. Tre gradi a nord della stella γ nella costellazione della Chioma di Berenice e lontano sessantadue milioni di anni luce dalla Terra, era il diciassettesimo pianeta adatto alla vita umana che era stato scoperto dopo che la colonizzazione su larga scala dell’universo era iniziata.

Anche se era catalogato come pianeta oceanico, includeva una cresta di roccia lunga e sottile che si era sollevata dalle profondità dell’oceano. Meridian Island si sviluppava nella direzione generale nord-sud per più di sedicimila chilometri. Larga circa trecentoventi chilometri nel suo punto più ampio, era coronata da una catena frastagliata di montagne che difficilmente salivano oltre i tremila metri.

Mentre eserciti di biologi erano stati inviati sull’isola per studiare la fauna locale, fu subito chiaro che le spiagge di sabbia fine, il clima temperato con una temperatura costante di ventiquattro gradi, l’assenza d’inquinamento e la forza limitata delle rare tempeste che colpivano l’entroterra, facevano di Meridian Island un gran bel posto per viverci.

A poco a poco, con gli scienziati era arrivata la gente piena di soldi che aveva deciso che la Terra era un articolo talmente vecchio da essere diventato ormai fuori moda. Aquaria era il nuovo trend da seguire. Aquaria era il nuovo Eldorado.

Accanto alle tre città fondatrici di Aquariana, Thalassos e New Greenwich, altre ne sorsero, spesso illegalmente, costruite senza pianificazione e in totale assenza di politiche di controllo dell’inquinamento. Fu allora che le grosse compagnie minerarie iniziarono a trivellare dappertutto, in cerca del rinomato “Aquarian White,” un diamante così puro e perfetto che poteva essere venduto dappertutto per cifre straordinarie.

Due anni più tardi, il primo bambino nacque su Aquaria. Vent’anni dopo, i nativi Aquariani erano cresciuti fino al considerevole numero di diecimila. Furono loro —che si consideravano i veri guardiani dell’integrità ambientale del pianeta—a rendersi conto per primi che i rifiuti tossici e lo sfruttamento selvaggio dei minerali stavano distruggendo Meridian Island e contaminando Aquaria.

Temendo che Aquaria avrebbe presto seguito il destino della Terra, i nativi Aquariani fondarono un partito per la salvaguardia del pianeta. Chiesero all’amministrazione Aquariana un voto vincolante per fermare l’immigrazione prima, e per stabilire poi delle regole rigide per bloccare la produzione di rifiuti e obbligare le compagnie a pulire sia la terra che avevano inquinato che l’acqua che avevano sporcato.

Stranamente, c’era molta più gente che aveva a cuore la sorte del pianeta blu di quanto le corporazioni pensassero e il voto ò con larga maggioranza.

Le corporazioni minerarie più grosse chio—era più conveniente lasciare il pianeta che aderire alle direttive Aquariane—ma molte compagnie decisero di spostarsi nell’affare sempre più remunerativo degli operatori turistici. “Costoso come una crociera Aquariana” era diventata presto una similitudine abbastanza azzeccata. All’inizio non sembrava, ma gente da tutti i pianeti colonizzati era disposta a pagare profumatamente per un’occhiata o, ancora meglio, per un incontro ravvicinato con uno dei molti giganteschi e bizzarri abitanti marini di

Aquaria.

arono gli anni. Ormai tutti gli Aquariani erano diventati ferventi ambientalisti che credevano nella sacralità e unicità del loro bel pianeta.

Le politiche migratorie Aquariane erano ora forse le più restrittive dell’intero universo. Solo individui selezionati che avrebbero rappresentato una risorsa per Aquaria avrebbero ricevuto la sua cittadinanza.

Il resto poteva richiedere un visto settimanale.

Trumaine oltreò le file di eleganti sedie blu scuro, dallo schienale alto, che erano allineate su entrambi i lati della sala, giungendo davanti a un custode alto e altero che indossava un vestito color verde acquamarina. I due conferirono brevemente, poi l’uomo indirizzò Trumaine verso uno degli sportelli sulla parete più lontana, sopra ai quali un cartello diceva: Visti e Richieste di Cittadinanza.

Con un sospiro rassegnato, Trumaine si mise in coda ad una lunga fila di richiedenti.

Solo ora che Starshanna se n’era andata per davvero aveva capito quanto gli mancava. Anche se poteva vederla ogni volta che voleva richiamandola sul largo monitor che aveva installato in salotto a quello scopo, non era la stessa cosa che averla intorno; profumata, calda e viva tra le sue braccia. Ciò che lo preoccupava di più era il fatto che non se n’era andata da un anno, o da un mese—se n’era andata da appena una settimana.

Trumaine guardò l’orologio appeso alla parete. La lancetta dei secondi si muoveva più lenta di una lumaca assonnata, mentre quella dei minuti non sembrava muoversi affatto. Quando infine lo fece, Trumaine pensò che fosse trascorsa un’ora.

Non sapeva esattamente quante ore erano ate da quando era entrato nell’ambasciata, ma quando l’uomo davanti a lui ebbe finito, Trumaine fu sollevato oltremodo e avanzò volentieri.

L’impiegato dietro al bancone era un perfetto esemplare di ciò che un nativo Aquariano era: alto, forte, con le spalle larghe e i fianchi stretti come solo i nuotatori provetti hanno. Indossava un vestito di sartoria di colore argento chiaro intessuto di fili azzurri che, a seconda del modo in cui la luce cadeva su di essi, virava dall’argento al blu.

Teneva la punta delle dita unite in una sorta di posa meditativa assente. Alzò lo sguardo, rivelando occhi indagatori blu scuro, e sorrise vagamente.

“Posso aiutarla?” chiese con una nota arrogante.

Trumaine gli consegnò la cartellina che aveva in mano. L’impiegato la prese e guardò la prima pagina.

“Posso chiederle come mai lei intende diventare Aquariano?” chiese, squadrando Trumaine.

“Per via di mia moglie. Vive e lavora su Aquaria come biologa marina, ma il fatto che io l’abbia sposata non ha fatto di me un Aquariano.”

“Proprio così. Le nostre politiche migratorie sono molto ristrette. Come lo sono le nostre risorse, signor Trumaine. Valutiamo con cura ogni singola richiesta che riceviamo, prima di elargire un’altra cittadinanza.”

L’impiegato controllò il modulo.

“Leggo qui che lei guadagna abbastanza poco; non mi sembra inoltre che lei possa contare su un gran patrimonio, per sostenersi. Che lavoro penserebbe di fare, se le accordassimo la cittadinanza Aquariana?”

“Sono un detective investigatore. Pensavo che, magari, potrei entrare nella polizia Aquariana...”

“Ne dubito,” rispose l’impiegato con un sorriso che la sapeva lunga. “Abbiamo pochissima richiesta di poliziotti stranieri. Siamo orgogliosi di prevenire il crimine e ogni comportamento illegale.”

Archiviò la pratica di Trumaine velocemente.

“Ritorni il mese prossimo, signor Trumaine. Le faremo sapere.” Di nuovo, unì la punta delle dita in un vago atteggiamento meditativo.

“Il prossimo!” chiamò.

Trumaine gemette deluso.

Non appena girò sui tacchi, in procinto di lasciare l’ambasciata, ogni cosa fu inghiottita da un biancore abbacinante...

FAITH

Trumaine aprì gli occhi.

Sedette e si ò la mano sul viso, cercando di capire dove si trovasse. Si guardò intorno e si rese conto di essere ritornato al primo livello della galleria.

Alzò gli occhi e vide che Benedict e Matthews erano in piedi vicino alla sua poltrona, che aspettavano pazientemente che rinvenisse. Matthews stringeva il suo inseparabile blocco tra le mani; di tanto in tanto, batteva un comando o scriveva una nota su di esso.

“Tutto qui? Quello era il feed vuoto?” chiese.

Benedict annuì gravemente.

“Lei è rimasto nella camera precisamente per otto ore—mi dica, che cosa ha visto?”

“Frammenti... della mia vita...”

“Provenivano da uno specifico periodo di tempo? Si ricorda quale?”

“E’ stato tanto tempo fa. Penso che siano ati circa... tredici anni? Dev’essere così. Quando io e mia moglie ci trasferimmo per la prima volta nella casa sulla spiaggia. Devo avere sognato immagini di allora.”

“E’ tutto quello che ha visto? La sua vecchia casa?”

“La casa... Starshanna... l’impiegato all’ambasciata Aquariana. E’ tutto ciò che ricordo...”

“L’ambasciata Aquariana? Non capisco,” disse Benedict, aggrottando le sopracciglia.

“Ci andavo spesso per richiedere i visti settimanali necessari per potere visitare mia moglie,” spiegò Trumaine. “Lei lavora su Aquaria. Ho fatto domanda per avere la cittadinanza Aquariana, ma non me l’hanno mai data. E’ solo un sogno dell’ambasciata, non c’è niente di strano a riguardo—è solo l’ambasciata come me la ricordo.”

“Non ha visto niente di bizzarro nel suo sogno? Niente di fuori dal comune?”

“Temo di no...”

“Ci pensi su. Niente? Niente del tutto?”

Trumaine scosse la testa e si sfregò la fronte.

“Ogni cosa è come dovrebbe essere...”

“Molto bene,” disse Benedict. “Non si sforzi troppo per adesso, detective, è il suo primo tentativo, dopotutto. E’ importante che si abitui al feed, prima.”

“Ci metteremo una vita...”protestò Trumaine.

“Ho paura che sia la nostra unica alternativa...”

Trumaine uscì dai tornelli e diede un’occhiata al grande tabellone appeso sopra di lui, che ora segnava: 501 e 6:30, poi guardò verso la garitta d’ingresso, dove una seconda guardia aveva sostituito quella che gli aveva appiccicato la trasmittente.

Tornò indietro, arrivando a un bivio nel corridoio. Un cicaleccio sommesso e l’odore vago di caffè veniva dalla sua sinistra. Non riuscì a trattenersi dall’inalarne l’aroma, quando il suo stomaco emise un brontolio sordo—era affamato.

Senza pensarci due volte, Trumaine s’incamminò lungo la diramazione del corridoio.

Il brusio crebbe d’intensità mentre si avvicinava, finché fu chiaro che era il

ciarlare piacevole e rilassato di gente che faceva colazione assieme.

La mensa di Credence era lunga e alta, abbastanza ampia per alloggiare almeno duecento Believers. Come gran parte delle sale di Credence, anche questa non aveva finestre.

Le lampade installate dietro al soffitto opalescente fornivano l’illuminazione richiesta, così che la mensa era eternamente immersa nella luce delicata e soffusa di un lieto mattino.

Believers, Believers in prova e apprendisti Believers, indossando completi rispettivamente bianchi, gialli e arancioni, mangiavano pacifici, scambiando qualche parola col vicino di sedia.

Trumaine prese un vassoio vuoto da una pila vicina e lo depose sulla lunga rotaia che costeggiava i banconi automatizzati del self-service. Ogni tanto, si fermava a prendere uno dei molti pacchetti sigillati in bella vista. Non fece molto caso a quello che stava raccogliendo. Era più interessato al modo preciso ed efficiente con cui ogni bancone sostituiva immediatamente qualsiasi pacchetto che lui avesse preso con uno identico, cancellando subito la scelta che lui aveva appena fatto—come se lui non fosse mai stato lì.

Quella era una cosa delle macchine che lo mandava su tutte le furie: trattavano gli individui come materiale da elaborare. Per le macchine, gli individui erano più che eguali—erano numeri; da spingere, da spazzare o da impilare il più velocemente possibile.

Trumaine era certo che in un futuro non molto lontano, sarebbero state inventate

macchine personali, con il solo scopo di servire e assistere gli individui dal momento che nascevano al momento che morivano; prendendosi cura scrupolosa e fanatica di loro per tutta la vita, pulendo e rassettando al loro aggio, a tal punto che nemmeno la più piccola traccia di essi sarebbe rimasta dopo che se ne fossero andati. E questa era una cosa molto triste, pensò Trumaine, perché nessuno sarebbe stato ricordato.

Fece scivolare il vassoio col cibo verso lo scanner della cassa, che emise un allegro bip, rilevando automaticamente il contenuto del vassoio. Avrebbe inviato due flussi di dati: uno che si aggiungeva alla lista virtuale dei rifornimenti da ordinare, l’altro che si sommava al conto elettronico che sarebbe stato addebitato alla sezione amministrativa di Credence alla fine del mese.

Trumaine non era nemmeno tenuto a mostrare la sua carta di credito; il trasmettitore nel taschino della sua giacca aveva già fatto tutto per lui. Sbottando, si rese conto che in molto meno tempo di quanto ci aveva messo lui per pensarci, la macchina aveva fatto tutto senza il minimo errore o anomalia.

Dannati computer, pensò.

Trumaine sollevò il vassoio, poi si diresse verso la sala da pranzo, cercando un posto libero.

Oltreò un tavolo occupato da un giovanotto coi capelli biondi e i muscoli rigonfi, una ragazza rossa col naso a punta e il mento piccolo, e una bella e atletica ragazza con le trecce in una crocchia e opali neri al posto degli occhi. Sedevano uno di fronte all’altro, apparentemente intenti a rompere il ghiaccio e a fare conoscenza.

Trumaine non poteva certo saperlo, ma l’occhio di Benedict aveva visto giusto: quelli erano i tre candidati che lui aveva individuato il giorno prima. Avevano superato sia il colloquio che i test preliminari e ora sfoggiavano i completi arancio da apprendisti Believers che si erano appena guadagnati.

Trumaine ò oltre senza badarli quando, ad un tratto—qualcuno si scontrò con lui...

Era una donna giovane e allegra di circa venticinque anni, che indossava la divisa bianca immacolata di un Believer. Il vassoio che stava trasportando si piegò, spargendo le razioni che conteneva per tutto il pavimento. Entrambi si tuffarono a raccoglierle—e si scontrarono una seconda volta.

“Mi dispiace, non ti ho vista—” si scusò Trumaine.

“No, è tutta colpa mia,” disse la donna. “Dovrei fare attenzione a dove sto andando invece di guardare l’etichetta del cartone del latte.”

Annasparono intorno nel maldestro tentativo di riprendersi ognuno le proprie confezioni. La ragazza indicò un cubo bianco che stava ai piedi di Trumaine.

Lo raccolse per lei.

“Cosa c’è che non va nel tuo latte?”

“Dice sempre intero, ma sono sicura che è tutto scremato,” cinguettò la donna.

“Ma le ragazze non bevono solamente latte scremato?” chiese lui, scherzando.

“Hei, dammi qua. A me piace intero.”

Trumaine le ò il cartone del latte e si alzarono. Si fissarono per un momento, poi, con un sorriso, la donna gli offrì la mano.

“Faith Alveraz.”

“Trumaine,” disse lui, stringendogliela.

Perlustrò con gli occhi la sala da pranzo, in cerca di un tavolo vuoto, ma non ne vide nessuno.

“E’ pieno come un uovo.”

Senza pensarci due volte, Faith annuì in direzione di uno degli angoli della sala.

“Laggiù,” disse.

Fece strada verso forse l’unico tavolo libero dell’intera mensa e Trumaine si domandò come mai non l’avesse visto prima.

Si sedettero. Faith scartò rapidamente la sua colazione e cominciò a mangiare affamata. Trumaine, ancora scosso dall’esperienza nella camera, la guardò trangugiare il latte e uno yogurt.

“Perché non mangi?” chiese lei, allo stesso tempo cercando di ficcarsi tra i denti una foglia d’insalata.

Trumaine alzò le spalle, aprì una scatoletta di plastica che conteneva qualcosa che forse era budino e lo rimestò con la forchetta. Non lo tentava affatto.

“Tu devi essere un nuovo Believer,” disse Faith, dopo avere ingoiato un’intera porzione di verdura.

“Perché dici?” chiese Trumaine con un’espressione disgustata—alla fine aveva assaggiato il budino.

“Sembri essere uscito fresco fresco dalla camera.”

“Come mai? Cosa sembro?”

“Beh, hai la faccia verde...”

Faith studiò interessata l’abito bianco di Trumaine.

“E quello sarebbe il nuovo modello?” chiese, un po’ delusa. “Di sicuro i sarti non si sono sprecati, stavolta—sembra un vestito comprato ai grandi magazzini.”

“L’ho comprato ai grandi magazzini, questo è il mio vestito—non sono un Believer, sono un investigatore.”

Gli occhi di Faith si allargarono all’istante. Si sporse in avanti con aria cospiratrice, abbassando la voce.

“Sei tu quello di cui tutti parlano!? Sei qui per prendere l’assassino di Aarmo— del professor Jarva, voglio dire?”

“Sì, se sono abbastanza fortunato.”

“Gesù! Sono curiosa. Dimmi, sono un sospetto?”

Trumaine sbottò, ma dovette ammettere che lei era divertente; la sua spigliata allegria lo aveva già conquistato.

“Non lo so—beh—non ancora, almeno,” le confidò.

“Vuoi sapere qualcosa su Jarva?” chiese Faith con un tono misterioso.

“No, dimmi, sono tutto orecchi.”

Faith lanciò un’occhiata guardinga a destra e a sinistra, facendo attenzione che nessuno la stesse ascoltando, poi allungò il collo verso Trumaine.

“Lo sai, tutti lo considerano come il fondatore di Credence, dal momento che la teoria l’ha elaborata lui. Beh, ti dirò una cosa: Credence è tutto tranne quello che Jarva voleva che fosse,” disse.

“Conoscevi il professore così bene?”

“Quando uno legge tutto quello che Jarva ha scritto, comincia a capire come la pensa, in un certo modo. Ho letto tutti i suoi libri—è tutto lì. Lui voleva che Credence fosse la pietra angolare di un nuovo Paradiso Terrestre, non una stupida ditta di trasporti! Jarva ha sviluppato il Pistocentrismo per cambiare il mondo!”

Di nuovo, si guardò sopra la spalla, cercando ascoltatori indesiderati.

“E’ la regola della legge federale,” spiegò Trumaine. “Credence può essere usata solamente per i viaggi intergalattici e per le comunicazioni a lunga distanza. Immagina cosa potrebbero fare i Believers se le loro capacità fossero senza controllo.”

“E’ proprio questo il punto!” disse Faith, infervorandosi. “Ma il problema non sono i Believers, il problema è la legge—è troppo restrittiva! Ma non capisci? Credence è una tecnologia straordinaria e noi non dobbiamo avere timore di usarla! Siamo sull’orlo di un cambiamento epocale. Il mondo così come lo conosciamo non sarà più lo stesso. Se solo ci fosse data la possibilità, potremmo rimodellarlo come era all’inizio!”

Faith aveva il fiato corto ora e il volto arrossato per l’eccitazione.

“Vuoi dire tutto bello verde e fiorito?” la stuzzicò Trumaine. “Senza traffico? Mi piacerebbe davvero.”

“Voglio dire... senza malvagità,” disse lei, con un tono serissimo. “Forse dovremmo infrangere la legge,” aggiunse tra i denti.

Trumaine era colpito dall’ardore di Faith. Gli ricordava i giovani attivisti che combattevano con tutte le loro forze per una causa cruciale, quando il mondo era semplicemente troppo complicato o troppo ostinato per ascoltarli. Emise un lungo sospiro.

“Io sono la legge,” le disse con una voce piatta. “Non puoi infrangerla. Se infrangi la legge, io ti arresto.”

Faith sbuffò e scivolò indietro nella sedia; controllò l’orologio nello smalto per le unghie, che diceva 06:55.

“Devo andare. Ci vediamo, detective. E ripensa a quello che ti ho detto.”

“Lo farò,” promise Trumaine con un sorriso consolatore che lei ignorò deliberatamente.

La fissò mentre si districava tra i tavoli affollati, andandosene dalla mensa.

Dopo colazione, Trumaine era ritornato nella camera dei Believers. Se c’era la minima possibilità di prendere il persuasore, aveva bisogno di rimanere nel feed vuoto il più a lungo che poteva.

Ancora una volta, giunse alla poltrona numero 144. Fu un po’ sorpreso di trovarla ancora nella sua culla. Benedict o Matthews dovevano avergliela assegnata; sarebbe stata pronta all’uso ogni volta che ne avesse avuto bisogno.

Prima di stendersi, Trumaine osservò i Believers nella camera, poi scrutò in distanza—i Believers scelti fluttuavano in formazione quadrata, concentrati come sempre a captare il minimo segnale che potesse venire dall’Hibiscus naufragata.

Trumaine sedette sulla poltrona e cercò di rilassarsi, preparandosi ad entrare nella trance... Con sua grande meraviglia, non riuscì a cancellare dalla mente la voce apionata di Faith e i suoi occhi penetranti. Poteva ancora sentire il fuoco della ione e dell’eccitazione che le bruciava dentro.

Ecco cosa voleva dire essere giovani e non ancora disincantati e cinici com’era lui su come andava il mondo, pensò. Era stato anche lui come Faith, un tempo molto lontano. Quando era pieno di speranza e desideroso di cambiare il mondo; molto prima che il mondo gli avesse fatto vedere che non ci si poteva misurare con lui. Aveva imparato a sue spese che il mondo era un rivale troppo forte— vinceva sempre lui. La realtà sui sogni, il disincanto sulla speranza, la malattia sulla salute, l’età sulla gioventù, la morte sulla vita. Era nel DNA di tutte le cose —anche della razza umana: era qualcosa che non si poteva cambiare. Trumaine non aveva bisogno di altri confronti, ne aveva avuti abbastanza.

Sospirò e poi si distese...

Cosa abbastanza strana, la poltrona non si attivò. Nessuno stelo serpentino si alzò dall’abisso della camera per raccoglierlo.

Sollevò la testa, poi la fece ricadere, stavolta un po’ più forte. Forse il poggiatesta non era così sensibile come doveva essere? Ma non accadde nulla, nemmeno allora—la poltrona era come morta.

“Detective Trumaine?” chiamò una voce familiare.

Sedette nuovamente e vide una Matthews trafelata.

“Credo che la poltrona non funzioni,” le disse.

“Sono stata io a disattivare la sua poltrona,” gli spiegò. “Il capitano Firrell ha

appena telefonato. Vuole vederla al più presto possibile...”

“E’ successo qualcosa?”

“Temo di sì,” disse Matthews, spostando un ciuffo di capelli dal volto. “Uno dei nostri Believers è appena stato trovato morto nel suo appartamento...”

Un’espressione sconcertata apparve sul viso di Trumaine mentre prendeva la nota di Matthews.

“Si tratta di James John Boyd,” gli disse.

Sulla nota c’era scritto: SUNSHINE AVENUE 1537, APT. 342.

JAMES JOHN BOYD

Sunshine Avenue era retaggio della ata era moderna.

Si trovava in quel poco che rimaneva della vecchia città che era sopravvissuta al Rinnovamento. I suoi pochi decrepiti edifici in sfacelo spuntavano come denti rotti contro il profilo della Città—non c’era posto per loro nei piani urbanistici che l’amministrazione aveva progettato. Fin troppo presto, sarebbero stati abbattuti e dimenticati una volta per tutte.

Non c’era niente di più economico di Sunshine Avenue, dal momento che aveva poche delle comodità a cui l’uomo moderno si è abituato—una connessione wireless veloce e una Jacuzzi pulita e funzionante.

Era il posto ideale per gli studenti, per gli anziani con un reddito basso che si rifiutavano di iscriversi ai programmi comunali per l’assegnazione alle case di riposo, e per i rinnegati della Città che avevano perso tutto e avevano bisogno di un rifugio per leccarsi le ferite, prima di rimettersi di nuovo in sella.

Ma Sunshine Avenue era anche qualcos’altro. Dal momento che aveva il più basso monitoraggio stradale dell’intera città, era anche il posto perfetto per i piccoli malviventi, gli spacciatori e i contraffattori di chip per farci i loro affari illegali. Era un mercato scaltro che non dava nell’occhio e che fioriva e si animava nelle ore quiete della notte, mentre il giorno era fatto per studiare, riaversi dagli eccessi della precedente notte di sbandamento, o solamente per nascondersi.

Ecco perché quel mattino Trumaine guidò lungo una strada quasi deserta.

Accostò al marciapiedi e parcheggiò dietro un’auto della polizia e alla stessa berlina marrone che aveva già visto il giorno prima nel cortile degli Jarva—era l’auto di Boyle. Scese dall’auto elettrica e guardò verso l’alto, all’edificio torreggiante che lo sovrastava.

Sebbene il numero 1537 non fosse l’albergo più fatiscente dell’intera via, era sicuramente il più eccentrico e non c’era alcun dubbio che avesse visto i suoi giorni di gloria.

Era un campione di Art-Déco ornato oltremodo e appesantito da stucchi esagerati. Per finestre aveva enormi vetrate istoriate, assemblate con motivi floreali bizzarramente esotici. Un’imponente scalinata di marmo verde scuro con una doppia ringhiera centrale d’ottone conduceva al capolavoro di maestria di ferro battuto e ottone che era l’ingresso, sopra al quale un’immensa lastra di rame diceva: THE RAMPART.

Ogni cosa narrava con eloquenza di un’era gaudente e spensierata, quando il principale atempo della gente ricca sfondata era lambiccarsi il cervello per trovare il modo più vistoso e veloce di liberarsi dei propri soldi.

Trumaine balzò in cima ai pochi gradini che lo separavano dall’antica porta girevole ed entrò.

Il salone era se possibile più chiassoso e molto più pretenzioso di quanto l’ingresso non avesse presagito.

Pannelli di mogano ricoprivano le pareti fino all’altezza di un metro e trenta circa, dove una stecca sagomata d’ottone segnava il limite col velluto vinaccia che c’era oltre ad essa. Il velluto saliva ad incontrare un ampio affresco floreale dipinto contro uno sfondo panna chiaro nei toni più scuri del verde, dell’arancio e del giallo, che correva tutto intorno al salone e al corridoio, inclusi la scalinata principale e gli ascensori.

Circa una ventina di sedie e qualche divano—tutti rivestiti di velluto a fiori, tutti macchiati, lisi e coperti di polvere—erano sparsi in giro per la sala, insieme ad una dozzina di tavolinetti da caffè crepati e ad un egual numero di felci morenti.

Trumaine annusò l’odore rancido di chiuso che aleggiava nel salone—quel posto sarebbe stato la morte di un paio di colleghi del dipartimento che erano allergici agli acari della polvere.

Un vecchio in uniforme stava in piedi dietro al bancone della reception, sembrando fatto dello stesso velluto frusto delle poltrone.

Mentre Trumaine gli si avvicinava, l’uomo alzò pigramente gli occhi dal blocco elettronico che stava di fronte a lui sul bancone, dove si rincorrevano foto piccanti di donnine sexy poco vestite. Non pareva dargli fastidio che qualcun altro desse una sbirciata alle sue letture frivole.

“Vuoi una camera,” gli chiese con una voce lenta e roca, “o sei anche tu della polizia?”

Trumaine non disse nulla. Fece solo balenare il suo distintivo.

“Un altro sbirro, eh? Cavolo, sembra che stiano tenendo una conferenza là dentro—era meglio se ti portavi la sedia.”

L’uomo ghignò alla sua stessa arguzia, poi indicò gli ascensori alla sua sinistra.

“Stanza tre-quattro-due,” disse. “Sarebbe il terzo piano, il corridoio a destra.”

Trumaine annuì in ringraziamento e proseguì.

Come una tartaruga centenaria, il vecchio sporse il suo collo avvizzito dal bancone, guardando il detective, accertandosi che stesse seguendo le sue istruzioni.

La porta d’ottone dell’ascensore più vicino si aprì con un din e Trumaine scomparve al suo interno.

Il vecchio scosse la testa, si schiarì la gola con un suono orribile, e poi si rimise a leggere.

Trumaine emerse dall’ascensore in un corridoio avvolto nella penombra.

Il pavimento di legno era ricoperto da spesse corsie rosso scuro e le pareti erano rivestite di pannelli dello stesso mogano del salone. Solo il velluto sui muri era diverso—era di un verdone scuro invece che color vinaccia. Qua e là, lampade spente d’ottone marcavano il corridoio a intervalli regolari. Una coppia di poltrone di pelle facevano la guardia all’ascensore, insieme a un tavolino ovale completo di piantana all’antica col paraluce verde.

Trumaine prese a destra e procedette verso la fine del corridoio. Davanti a una grande finestra drappeggiata con pesanti tende di velluto, pure verdi, si apriva la porta dell’appartamento 342.

Due persone stavano in piedi davanti alla porta: una donna anziana e un poliziotto.

La donna indossava un grembiule per le pulizie e un solo guanto di gomma; l’altro giaceva sopra ad un carrello vicino che conteneva materiale detergente. Se lo era tolto per prendere un fazzoletto lurido con il quale si asciugava occasionalmente le lacrime che continuavano a salirle agli occhi. Quando i singhiozzi fossero diventati incontrollabili, avrebbe ficcato il naso sempre nello stesso straccio e avrebbe strombazzato forte.

Il poliziotto non era altri che il novellino diligente e volenteroso che Trumaine aveva incontrato per la prima volta dagli Jarva. Il sorriso era scomparso dalla sua faccia ed era stato rimpiazzato dalla mestizia. Esalava sospiri appropriati di condoglianza in unisono coi singhiozzi della donna, nell’inutile tentativo di consolarla.

Andarono avanti per un bel pezzo, singhiozzando e sospirando, provando differenti variazioni di ritmo e profondità, come due flautisti che solfeggiassero.

“Firrell?” chiese Trumaine.

Il poliziotto alzò gli occhi sconsolato e guardò la porta dietro di lui.

“E’ dentro,” si lamentò. “Sono tutti dentro.”

Il poliziotto si tolse di mezzo.

Con grande sconcerto di Trumaine, prese la mano guantata della vecchia signora nella sua e la strinse, afflitto. Trumaine levò gli occhi al cielo e scosse la testa. Beh, pensò, almeno aveva smesso di sorridere come un’idiota.

L’appartamento era piccolo ma pulito. La porta d’ingresso dava su di un’unica stanza che faceva da entrata, da soggiorno, da studio, e pure da sala da pranzo. Nell’angolo, c’era una cucinetta.

Un’unica porta si apriva nel muro di destra, verso una cameretta ed un bagno.

Il salotto pareva una biblioteca, affollato com’era di scaffali pieni di veri libri antichi di ogni dimensione e spessore; altri libri erano impilati sopra a una scrivania spinta contro il muro di sinistra. L’unica sedia che arredava la stanza, quella della scrivania, era stata spostata al centro dell’appartamento. L’uomo che era vissuto qui si era issato sopra a quella sedia, prima di scalciarla via da sotto di sé—ora pendeva mollemente da una grossa lampada nel soffitto. Un cavo elettrico era avvolto intorno al suo collo talmente stretto che lo aveva spezzato.

Trumaine restò a guardare mentre Boyle, che era salito su una scala pieghevole della polizia, esaminava il corpo e i vestiti del deceduto in cerca d’impronte digitali e di qualsiasi materiale estraneo che poteva esservi rimasto impigliato, scattando ogni tanto una foto ad alta risoluzione.

Dopo un po’, Boyle si girò verso Firrell e Diggs, che attendevano ai suoi piedi.

“Possiamo tirarlo giù, adesso.”

Afferrarono il cadavere per le gambe.

Boyle recuperò un coltellino a serramanico dalla sua tasca, estrasse la lama e con essa tagliò il cavo. Non appena il corpo fu liberato, lo calarono, posandolo sul pavimento di legno.

Diggs si piegò sul morto, studiando la zona intorno al collo. Poi gli controllò i polsi e le unghie. Gli guardò perfino in bocca—esaminandogli la lingua.

Un tempo alto e prestante, James John Boyd indossava ancora la divisa e le scarpe bianche immacolate dei Believers di Credence.

“Ecco le spoglie mortali di James John Boyd,” disse Firrell. “Apparentemente, faceva una vita tranquilla. Aveva pochi interessi e nessun amico—”

Fece un cenno intorno a lui.

“Ma aveva un sacco di libri vecchi che starebbero bene in un museo delle antichità e che magari valgono pure un po’ di soldi. Quello che più ci importa, è uno dei Believers di Benedict.”

Trumaine non disse niente, continuò solo a guardare la stanza.

“Ho controllato con Benedict,” disse Firrell. “Boyd ha finito il suo turno ieri sera sul tardi, all’incirca quando tu sei entrato nella camera—scommetto che è rimasto appeso per tutta la notte.”

“Di meno,” s’intromise Diggs, leggendo la temperatura dal termometro a infrarossi che aveva in mano. “C’è ancora del calore residuo; probabilmente è morto quattro o cinque ore fa, direi un paio d’ore prima dell’alba.”

“Deve essere morto senza far rumore,” disse Firrell. “I vicini giurano di non avere sentito niente. Lo ha trovato la donna delle pulizie, stamattina presto. E’ rimasta sconvolta nel vederlo in quello stato. Ha detto che era il miglior affittuario dell’intero palazzo; sempre gentile, non si lamentava mai di niente, pagava sempre l’affitto il giorno prima che scadesse. Non riesce a credere che si sia ucciso.”

“Beh, è tutto vostro...” disse Diggs, dopo avere scribacchiato le sue deduzioni nel suo blocco e avere rilasciato il certificato di morte di Boyd. “Per me si è suicidato.”

Trumaine si chinò sul cadavere. La faccia pallida di Boyd era come scolpita nella roccia, ora. I suoi occhi sporgevano un po’ da sotto le palpebre chiuse e le sue labbra erano di colore azzurro, ma neanche sua madre se ne sarebbe accorta— eccetto che per il livido sottile e nero che aveva ora per collana, poteva anche essersi appena addormentato.

Trumaine gli frugò le tasche del vestito, ma non trovò nulla.

“Non ha lasciato nessuna nota? Niente?” chiese.

“Niente,” disse Firrell. “Ma non abbiamo ancora controllato i suoi libri.”

Trumaine gemette.

Forse Boyd non aveva lasciato niente di scritto per davvero. Eppure, di solito i suicidi lasciavano un indizio sul perché l’avevano fatta finita. Che fosse il loro testamento, una scusa tardiva, un ultimo addio, una tirata risentita contro i mali del mondo; anche solo per dire, “Non dimenticatevi di pagare le fatture,” una nota la lasciavano.

“Forse si è accorto che eri sulle sue tracce,” suggerì Firrell. “Si è sentito in trappola e ha dato di matto. E se fosse lui la talpa che stiamo cercando?”

Trumaine si accarezzò il mento, alzando gli occhi dalla faccia immobile di Boyd. “E se non è lui?”

Firrell alzò le spalle.

Era lo stesso appartamento e lo stesso giorno, solo più tardi nel pomeriggio. Il corpo di Jimmy Boyd era stato rimosso. Firrell, Diggs, Boyle, il novellino sensibile e la signora in lacrime se n’erano andati.

Era rimasto solo Trumaine.

Aveva già ispezionato e accatastato in pile ordinate tutti i libri che aveva trovato nella stanza—non c’era niente lì. Ora doveva solamente controllare i libri che rimanevano sulla scrivania di Boyd.

Nella penombra che ristagnava oltre una piccola lampada nell’angolo, si potevano intravedere i titoli più disparati. Era la collezione immensa e casuale di qualsiasi tomo su cui Boyd era riuscito a mettere le mani durante la sua vita: dai libri stinti per ragazzi, all’opera omnia di Shakespeare, a Lorentz, a Dostoevsky, a Dante, incluso un considerevole numero di Bibbie ingiallite e impolverate.

Tirandola per il dorso, Trumaine recuperò dallo scaffale una Bibbia larga e pesante quando, ad un tratto, gli scivolò dalle dita, cadendo violentemente sulla scrivania.

Si aprì a una dozzina di pagine circa dalla copertina, su di una ricca e meravigliosa illustrazione tardo-medievale di due pagine, nel primo capitolo del Libro della Genesi.

Ritraeva il Paradiso Terrestre. Era chiaro che l’autore si era preso qualche licenza poetica di troppo, poiché al centro del giardino, dove cresceva l’albero proibito, si vedevano non solo Adamo, Eva e i vari animali che li accompagnavano, ma anche una folla di giovani e vecchi che non avrebbero dovuto essere lì. Prendevano tutti parte ad un’allegra e spensierata danza di primavera intorno all’albero, che era improvvisamente diventato un albero della vita.

Trumaine, affascinato dai dettagli minuziosi della squisita illustrazione, non riusciva a distogliere gli occhi...

Il tempo era volato; adesso era quasi sera.

Trumaine prese un ultimo tomo dalla sua sinistra, lo ispezionò, poi lo mise sulla pila di libri alla sua destra. Allungò la mano verso lo scaffale appeso al muro davanti a lui e afferrò l’unico libro di plastica che c’era. Lo aprì, rivelando un recente annuario universitario: conteneva le molte foto dei diplomati della Facoltà di Biologia Marina, alla City University.

Il dito indice di Trumaine scorse le molte facce sorridenti degli studenti, soffermandosi sui lineamenti familiari di un Jimmy Boyd più giovane e sorridente. Trumaine studiò il volto e il sorriso sul volto. Qualcosa non tornava, pensò—quella non era la faccia di un omicida. Non era nemmeno il sorriso di un suicida.

Tutto era possibile, naturalmente. Individui miti spinti al limite sarebbero diventati assassini spietati, le difficoltà avrebbero cambiato una persona, e l’invidia ed il rancore avrebbero fatto il resto. Eppure...

Trumaine chiuse l’annuario con una smorfia, lo mise sulla pila alla sua destra, poi spostò la mano verso il cassetto della scrivania. Lo aprì e lo frugò, recuperando un blocco vuoto e quella che pareva una grande scheda perforata.

La tenne controluce, rigirandola, poi la ripose con uno sbadiglio.

Trumaine era ancora su una sedia, solo che stavolta, si trovava in un ufficio moderno e luminoso. Sul tavolo lucido, una tazza fumante di caffè aspettava di essere sorseggiata, mentre presentazioni di plastica e tabelle su pellicola avevano sostituito i libri di Boyd.

Trumaine era ritornato a Credence ed aveva chiesto a Benedict di accedere al database dei Believers.

“Qualsiasi cosa, per aiutarla,” gli aveva risposto.

Il database conteneva tutte le informazioni personali che riguardavano i Believers, inclusi tutti i test e i relativi punteggi che avevano ottenuto fin da quando erano entrati a Credence.

Matthews era stata così gentile da rimanere oltre l’orario di lavoro per aiutarlo a districarsi dalla montagna di dati. Gli aveva spiegato pazientemente i punti della teoria di Jarva su cui non era sicuro, cosicché aveva ora un’idea molto più chiara del modo in cui avrebbero dovuto funzionare le cose nella mente di un Believer.

Eppure, c’erano ancora molte domande a cui nemmeno Matthews poté

rispondere. C’era forse una qualche relazione tra l’essere un Believer ed essere un telepate? Poteva la telepatia nascere dalla mente di un Believer eccezionale? Se i Believers più dotati avevano maggiori possibilità di diventare telepati, era forse possibile restringere la lista dei sospetti di Trumaine ad un gruppo più ridotto di Believers?

Matthews entrò nella stanza spingendo un carrello che conteneva altre cartelle e documenti. Li posò sul tavolo, scuotendo Trumaine dai suoi pensieri.

“Queste sono le cartelle del quinto e del sesto anno,” disse. “Naturalmente, i nostri archivi contengono tutti i trentadue anni di attività di Credence.”

Trumaine guardò il monte di plastica e carta che si ergeva davanti a lui e gemette, poi tornò a studiare la tabella che aveva in mano.

“Mi stavo chiedendo...”

“Cosa?” chiese Matthews, prontamente.

Trumaine puntò il dito alla linea rossa di un grafico—la linea era posizionata verso il basso.

“Questa è la tabella del credo di Boyd.”

“Sì?”

“Il suo credo non era un po’ basso? Voglio dire, ci sono un sacco di tabelle le cui linee di credo si trovano nel mezzo, oppure arrivano in cima al grafico.”

“Lei ha ragione,” spiegò Matthews. “Jimmy Boyd aveva un basso livello di credo. Ma era perfettamente nei limiti richiesti per accedere alla camera.”

Trumaine si accarezzò il mento, meditabondo.

“Se è lui il persuasore che cerchiamo, non dovrebbe possedere un credo più alto? Sto tirando a indovinare, ma se il suo cervello era così sviluppato da renderlo un telepate, il suo talamo non avrebbe dovuto essere altrettanto evoluto, e quindi pure le sue staminali Pistocentriche?”

“Suppongo di sì,” disse Matthews, “ma non sono una neurobiologa.”

“Se la mia teoria fosse corretta, potrei concentrarmi solo sui Believers più potenti...”

Matthews annuì. “Penso di sì. Ma non si dimentichi che un terzo dei nostri Believers ottiene il massimo dei punti nel test, detective. Sarebbero pur sempre —centosessantasette possibili sospetti...”

Aveva ragione lei, era un vicolo cieco.

Trumaine sospirò e lasciò cadere la tabella che stava leggendo. Inaspettatamente, questa colpì una vicina pila di schede perforate, rovesciandola. Una di esse finì su una delle relazioni scritte della tabella ed i suoi buchi si sovrapposero ad alcune delle parole.

Folgorato, Trumaine si raddrizzò di colpo. Agguantò la scheda perforata e la fece scivolare sopra la relazione: attraverso le perforazioni, poteva ottenere diverse combinazioni di parole singole.

I suoi occhi si spalancarono mentre si rendeva conto che i fori della scheda perforata potevano essere usati come un primitivo sistema di codifica.

Poteva forse la grande scheda perforata che si trovava sul fondo del cassetto della scrivania di Jimmy Boyd essere usata per uno scopo simile? Dopotutto, c’era una miriade di libri nell’appartamento che potevano essere usati come sorgente. E se i buchi della scheda perforata di Boyd avessero combaciato con le parole di una delle migliaia di pagine che aveva scorso quel pomeriggio, formando un qualche messaggio segreto?

“Figlio di puttana!” sbottò.

L’occhiata di disapprovazione che Matthews gli scoccò si trasformò in sorpresa non appena Trumaine spinse indietro la sedia, saltò su e corse via dall’ufficio senza una parola di spiegazione.

LA SCHEDA MANCANTE

Trumaine guidò di nuovo verso Sunshine Avenue.

Era tardi nella notte ed era stanco, ma doveva arrivare nell’appartamento di Jimmy Boyd prima che qualcun altro potesse mettere le mani sulla scheda. Se la sua intuizione era sbagliata, la scheda sarebbe stata ancora sul fondo del cassetto e lui avrebbe corso per niente. Ma se aveva ragione, la scheda perforata era un indizio e una prova, e qualcuno avrebbe potuto farla sparire. Se Boyd si era davvero suicidato e se era stato veramente lui ad uccidere entrambi gli Jarva, allora c’era una buona possibilità che la scheda fosse ancora al Rampart.

Trumaine sbadigliò di nuovo. Scosse la testa e cercò di stare sveglio concentrandosi su ciò che accadeva sul marciapiedi.

Finalmente, la folla schiva del giorno si era riversata fuori dagli edifici cadenti e dai seminterrati ammuffiti per godersi una boccata d’aria fresca e una fetta di qualsiasi dolce la notte portasse. Tutti loro bramavano qualcosa. Che fosse sazietà, oblio o piacere, si sarebbero accalcati volentieri intorno a coloro che li offrivano al prezzo più basso.

Ristoranti economici, bettole sporche e baracchini di panini. I venditori emaciati e fumati a tutte le ore, che vendevano canapa per rilassare i sensi. Gli avvoltoi ipervigili vestiti impeccabilmente che spacciavano droga sintetica sovrapprezzo per farsi un giro fuori dal mondo. Le puttane stanche e stagionate che lo facevano per campare e le ragazze diffidenti che lo facevano per arrotondare.

Stanotte, tutto e di più poteva essere comprato e assaporato a Sunshine Avenue...

Trumaine continuò a guidare; era quasi arrivato.

Parcheggiò davanti al Rampart.

Mentre scendeva dall’auto, una donna giovane e vivace di forse vent’anni gli mise gli occhi addosso.

Indossava scarpe eleganti coi tacchi alti e un abitino nero tagliato da Dio in persona, ma non aveva bisogno di nulla di ciò per fare colpo. Perché aveva due cose che le davano un bel vantaggio sulla concorrenza, semmai ne avesse avuta: era giovane ed era fresca come una rosa. Trumaine studiò i lunghi capelli biondo platino di lei: era chiaro che non erano i suoi—i suoi capelli veri si nascondevano sotto la parrucca, erano corti, di un colore più naturale, castano o nero, ed appartenevano a una diligente studentessa universitaria.

“Ti va di fare un giro?” chiese la ragazza con una voce piccola e tremante che aveva paura sia della grandezza della notte che dell’oscurità.

“Stanotte no, piccola.”

La ragazza gemette, delusa.

“Dovresti tenere il naso lontano dalla strada, bambola. La notte sembra

grandiosa e amica, ma può mordere forte. Sei disposta a correre il rischio? Se morde, può prendersi un bel pezzo di te. E’ meglio che te ne torni a casa, e che metti il naso in un bel libro di scienze.”

Trumaine non voleva essere villano, certo. Era più per fare un po’ di conversazione, un piccolo timido tentativo di attizzare un po’ di calore umano. Ma ebbe l’effetto opposto sulla ragazza, che alzò gli occhi e sbuffò. La vocetta diventò piccata in un attimo.

“Vattene, paparino,” disse. “Questo è un ufficio per appuntamenti. Se non ne vuoi uno, allora stai solo ingombrando l’ufficio.”

I suoi fieri occhi neri lo fissarono.

Trumaine ghignò, ma si sentì ferito. “Non fai prigionieri stanotte, eh?”

Lei non disse niente.

“Stammi bene,” le disse infine.

Girò sui tacchi con lo sguardo torvo, poi saltò su per la scalinata di marmo del Rampart ed entrò.

Il salone non era più vuoto.

Il vecchio impiegato della reception che Trumaine aveva visto quella mattina era di nuovo di turno. Stava registrando una coppia di clienti per un paio d’ore: un pingue uomo d’affari di mezza età che aveva da tempo ceduto il suo corpo snello e in forma per una borsa di soldi, e una donna rotonda che era con lui. Non era più giovanissima. Mentre s’incollava al suo uomo, il bordo dietro della gonna le salì così in alto che raggiunse le stelle. Quello e un ampio petto compensavano la sua mancanza di bellezza.

Un terzo uomo, più giovane, sedeva in una delle poltrone di velluto fiorito e pieno di acari della polvere della sala. Aveva un mazzo di fiori sulle ginocchia e continuava a lanciare occhiate al grosso orologio d’ottone appeso al muro laterale. Non ci voleva un genio per capire che aveva il cuore infranto. Romeo avrebbe aspettato un’altra ora prima di rendersi conto che lei non sarebbe venuta. Aveva preferito restare a casa, coi genitori o col suo noioso marito. Non era così eccitante né così polveroso come essere al Rampart, ma almeno era sicuro. Se Romeo era abbastanza furbo, avrebbe dato i fiori al decrepito portiere —sarebbe stato un gesto carino—e avrebbe chiesto un appuntamento all’angelo solitario con la parrucca biondo platino che aspettava fuori. Lei avrebbe affogato i suoi dispiaceri e lo avrebbe fatto sentire al settimo cielo per un po’, e lui avrebbe dimenticato la donna che non venne. Forse per il resto della sua vita.

Ma Romeo non sembrava così sveglio.

Trumaine sporse le labbra in fuori. Non voleva annoiare il vecchio portiere con domande pignole, così andò dritto verso gli ascensori.

Emerse una volta ancora nel velluto verde sbiadito del corridoio. Le lampade sul muro erano accese ora, ma facevano talmente poca luce che il corridoio era sempre nella penombra. Qualcosa volteggiava vicino alle lampade, dove la luce era più forte, ma non erano falene—solo fiocchi più larghi di polvere.

Trumaine voltò a destra, finché arrivò alla soglia dell’appartamento 342. Le tende della grande finestra alla fine del corridoio erano scostate. Un flebile raggio di luna bagnava la porta, proiettando un’ombra netta nell’angolo dove c’era la maniglia. Trumaine ci mise un po’ a rendersi conto che il sigillo della polizia era stato rimosso e che la porta era socchiusa.

Improvvisamente vigile, infilò la mano dentro alla giacca, estraendo dal fodero sottobraccio una pistola elettrica d’ordinanza ad alto potenziale.

Tenendola puntata davanti a sé, spinse la porta e scivolò nell’appartamento.

Trumaine non accese la luce; i suoi occhi si erano ormai abituati alla semioscurità. I raggi di luna penetravano nell’appartamento abbastanza che poteva intravedere i mobili e muoversi intorno a loro.

Il salotto era silenzioso e immobile. I libri giacevano esattamente nella stessa posizione in cui li aveva lasciati. Anche la sedia della scrivania era al suo posto.

Senza mai perdere di vista la porta della camera, si spinse fino al cucinino. Guardò sotto al tavolo, poi sondò l’oscuro buco sottostante con la punta della scarpa—non si nascondeva nessuno lì. Se qualcuno era ancora nell’appartamento, doveva essere nella stanza accanto.

Trumaine strinse il calcio della pistola elettrica e si avviò verso la camera da letto. La porta era aperta; era aperta anche quando se n’era andato. Mosse rapido la testa dentro e fuori dalla stanza. Lo rifece, guardando nella direzione opposta,

ma non vide nessuno. Sempre più teso, entrò nella camera. Chinandosi a fianco del letto, diede un’occhiata fugace sotto ad esso—non c’era niente lì, tranne strati di vecchia polvere. Provò la porta dell’armadio, ma era chiusa da fuori; non c’era modo che qualcuno potesse essersi nascosto dentro.

Si girò verso l’unico posto che non aveva ancora controllato, il bagno. Seguì la sua pistola elettrica, entrando nella stanza.

Era piccola e anonima; una vasca da bagno con la tendina tirata occupava la parete lontana. Trumaine trattenne il fiato mentre avanzò. Mandando giù forte, allungò la mano... e scostò la tendina.

L’appartamento era vuoto.

Con un sospiro, Trumaine ritornò in soggiorno. Stavolta accese la luce e chiuse la porta d’ingresso. Si diresse verso la scrivania che conteneva i libri di Boyd e si lasciò cadere sulla sedia. Si accarezzò il mento e pensò intensamente.

C’era solo una risposta al perché il sigillo della polizia era stato tagliato e la porta forzata. Trumaine sapeva già che, insieme all’intruso, un’altra cosa mancava dall’appartamento.

Appoggiò la pistola elettrica sulla scrivania, poi aprì il cassetto, rivelando il blocco vuoto che c’era dentro. Lo spinse via, cercando la scheda perforata—ma era sparita...

“Maledizione!” imprecò tra i denti.

La scheda era un indizio e lui era stato così stupido da lasciarselo sfuggire tra le dita. Quella scheda era veramente parte di un codice? Chi l’aveva usata, Jimmy Boyd? Chi altri? Perché avevano bisogno di un codice? Qual era il messaggio segreto che veniva trasmesso? Che cosa stava combinando Jimmy Boyd e perché si era ucciso, se davvero si era ucciso?

Mentre Trumaine cercava di trovare risposta alle molte domande che gli turbinavano per la testa, accadde qualcosa di inconcepibile: qualcuno sgusciò fuori dalla camera da letto...

Con i lineamenti nascosti nel buio, l’intruso strisciò lungo il muro alle spalle dell’ignaro detective, cercando di raggiungere la porta d’ingresso. Una mano guantata si chiuse sulla maniglia, girandola piano, in assoluto silenzio.

In qualche modo percependo il movimento, Trumaine si girò di scatto e intravide l’ombra fugace.

“Ehi, tu!” gridò.

Agguantò la pistola che aveva posato sulla scrivania, voltandosi e puntandola verso l’intruso, ma nel poco tempo che ci mise per farlo, l’ombra era scomparsa.

Con un’imprecazione, Trumaine l’inseguì fuori dall’appartamento.

Si fiondò giù per il corridoio, quando vide l’ombra prendere a sinistra, diretta verso gli ascensori.

Dove diavolo si era nascosto? Aveva guardato dappertutto, tranne che nell’armadio chiuso; ma anche se l’intruso fosse stato là dentro, certamente non avrebbe potuto uscire senza fare un qualche rumore che Trumaine avrebbe sentito. Come mai non era successo?

A meno che la sua preda fosse un telepate così potente che poteva manipolare la mente di Trumaine a tal punto da non fargli vedere cose che esistevano e da non fargli sentire rumori reali. Se davvero poteva fare questo, allora aveva un vantaggio abissale sul detective.

Trumaine corse fin dietro l’angolo, arrivando agli ascensori, ma erano entrambi in movimento—nessuna porta si aprì quando schiacciò il pulsante di chiamata.

Imprecò nuovamente, quando udì lo schiocco metallico di una molla di ritorno e vide con la coda dell’occhio la porta della scala d’emergenza chiudersi.

Si scagliò contro di essa e si ritrovò a fissare la tromba vuota delle scale. Ascoltò il vago trepestio di i affrettati, finché non scorse una mano guizzare verso la ringhiera per sostenersi.

Puntò la pistola.

“Polizia! Resta dove sei!” urlò. “Sei in arresto per furto di prove e per violazione

di un’area sigillata!”

Ma questo non sortì alcun effetto sull’intruso, che continuò a fuggire.

“Non muoverti, ho detto! Sennò sparo!”

I i non si fermarono.

Con un gemito, Trumaine si lanciò giù per le scale.

Sudato e rosso in viso, si trovò nel parcheggio mezzo vuoto del Rampart.

L’intruso non si vedeva da nessuna parte.

Trumaine si buttò per terra, veloce e silenzioso, guardando sotto ai veicoli, in mezzo alla distesa di pneumatici, cercando di individuare un paio di gambe che corressero o qualsiasi altra cosa che si muovesse.

Quando udì la portiera di un’auto sbattere, saltò in piedi. Tenendosi basso, corse in direzione del rumore, districandosi tra i veicoli parcheggiati, emergendo dietro ad una delle auto. Gli scivolò intorno, finché non fu giusto dietro allo sportello del conducente.

“Non muoverti, figlio di puttana!” urlò, puntando allo stesso tempo la pistola verso l’autista nascosto.

Con uno squittio terrorizzato, una vecchia signora coi capelli bianchi e vaporosi guardò in su. Nessuna parola le uscì dalle labbra, alzò solamente le mani tremanti.

Trumaine abbassò la pistola con una smorfia e fece segno alla signora che poteva andare. La donna, ancora incapace di parlare per lo shock, annuì appena col capo. Posò le dita malferme sulla leva del cambio e poi, accelerando piano, uscì dal garage a o d’uomo.

Trumaine sospirò. Aguzzò di nuovo gli orecchi, concentrandosi su ogni più piccolo rumore che potesse rivelare la posizione dell’intruso. All’inizio non sentì nulla, poi la sua attenzione fu attratta dal ronzio acuto ma attutito di un motore elettrico in folle.

Si voltò incuriosito, cercando di capire quale auto nella prossima fila di veicoli fosse. Si spostò lungo le auto parcheggiate, ascoltando il sibilo.

Una ad una, le controllò tutte—non era nessuna.

Con gran sorpresa di Trumaine, il ronzio si era ora spostato... c’erano talmente tanti pilastri e muri nel parcheggio, che i suoni potevano rimbalzare facilmente contro di essi, ingannando l’orecchio.

Ora il ronzio sembrava provenire da un’altra fila di veicoli. Doveva essere così... lo era di sicuro.

Trumaine iniziò a camminare nella nuova direzione, ascoltando ogni macchina che ava. Ne rimanevano solo cinque. Quattro, ora—

Ad un tratto, l’ultima auto della fila balzò in avanti con uno stridore di gomme. Il suo autista, nascosto dietro gli abbaglianti accesi, accelerò intorno alla corsia.

I capelli si rizzarono sulla nuca di Trumaine. Tagliò attraverso la doppia fila di auto parcheggiate, spuntando nel bel mezzo della corsia successiva; prese posizione e puntò la pistola verso l’auto che stava arrivando tutta sbandata.

Se il furfante pensava che una pistola elettrica non fosse una vera pistola, aveva fatto male i suoi conti. La pistola elettrica d’ordinanza aveva due modalità: PISTOLA STORDITRICE e PISTOLA ELETTRICA. Mentre la modalità storditrice non serviva granché contro un’automobile, il proiettile ad ago che sarebbe stato sparato in modalità pistola elettrica era garantito per perforare fino a tre centimetri di cemento e non aveva certo problemi a penetrare la maggior parte dei parabrezza sul mercato.

Trumaine aspettò che l’autista fermasse l’auto e che finalmente si arrendesse, ma non lo fece. Il motore elettrico ronzò fino a diventare un fischio assordante mentre le gomme stridettero in protesta, spingendo l’auto in avanti.

Allora è così, pensò Trumaine—e sparò...

Il solenoide avvolto all’interno del tamburo si attivò in silenzio. La pistola balzò indietro nelle mani di Trumaine mentre uno spesso ago d’acciaio lucente fu risucchiato nella canna dal caricatore e propulso ad alta velocità fuori dalla bocca da fuoco, verso il veicolo che caricava.

Il ghigno che aveva incurvato le labbra di Trumaine durò un brevissimo momento. Qualcosa che non aveva mai visto in vita sua era appena accaduto...

Nello stesso momento in cui lui aveva premuto il grilletto, il furfante aveva sterzato via dal proiettile—il dardo elettrico ò a un millimetro dall’auto e continuò a filare, conficcandosi con uno sbuffo di polvere nel muro più lontano.

La macchina proseguì la sua corsa... centrando in pieno Trumaine.

Fu grazie al basso paraurti del veicolo s’egli fu solo raccolto sul cofano e lanciato in aria come un fuscello.

Quasi al rallentatore, volteggiò sopra la macchina, sembrando un saltimbanco con le braccia e le gambe aperte che stesse eseguendo il suo esercizio più difficile, e si accartocciò contro il pilastro più vicino.

Rotolò per terra, mentre un dolore lancinante gli esplodeva in tutto il corpo come fuochi d’artificio, poi, con un ultimo sguardo all’auto che fuggiva, svenne.

UN SOGNO RICORRENTE

Trumaine sedeva su una barella.

Era ancora nel parcheggio sotterraneo del Rampart e non c’era alcun segno dell’auto che lo aveva investito. Non ricordava l’arrivo dell’ambulanza e non aveva idea di chi l’avesse chiamata. Tutto ciò che sapeva era che un giovane medico gli stava davanti, tamponandogli coscienziosamente la fronte con una garza bagnata che puzzava di antibatterico. Oltre il medico, si poteva vedere l’autista dell’ambulanza, che parlava alla radio.

Il dottore gettò la pezza insanguinata e tirò fuori una larga benda con cui avvolse la fronte di Trumaine.

“E solo una commozione minore,” disse. “Dagli un paio di giorni e tornerai come nuovo.”

Frugò nella sua valigetta, recuperando un flacone di pillole che ò al detective.

“Se ti fa male, prendine una. Potrebbe causare sonnolenza, quindi stai attento a non guidare dopo.”

Il dottore sorrise e ripose le sue cose. Tornò verso l’ambulanza, dove incominciò

a riempire alcuni formulari elettronici.

Trumaine guardò le pillole che aveva in mano; forse avrebbe dovuto prenderne una, la testa gli faceva già male. Ma poi pensò che poteva peggiorare, così si mise le pillole in tasca.

Si alzò in piedi, e le sue gambe parvero di gelatina.

Si girò a guardare un’auto della polizia che prima non aveva visto. Dentro ad essa, Firrell e la ragazza con la parrucca biondo platino che lo aveva chiamato “paparino” sul marciapiedi, stavano parlando. Non ci misero molto a finire. Quando lo fecero, scesero dalla macchina e si avvicinarono a Trumaine.

La ragazza lo squadrò e gli fece l’occhiolino.

“Hei, paparino, non sei morto allora,” disse a cuor leggero. Poi diventò subito seria e, con un sospiro preoccupato, aggiunse: “Mi hai fatto prendere una bella fifa... credevo che lo fossi.”

“Il dottore dice che è solo una commozione.”

“Non sembrava così quando ti ho trovato, giuro. Avevi la faccia tutta coperta di sangue.”

All’improvviso, la ragazza si perse nei pensieri.

“Ho sempre paura che qualcosa di simile possa capitare anche a me...”

“Mi dispiace per te che sarò ancora in giro a elargire i miei buoni consigli.”

Trumaine ghignò. Il solo sentire la voce della ragazza gli aveva alleviato di parecchio il mal di testa.

Lo guardò dritto negli occhi.

“E’ economia che studio, non scienze, per quello.”

Per un momento tacque e parve un angelo—l’angelo custode personale di Trumaine.

“E’ meglio che me ne torni a casa ora, stamattina ho un esame,” disse.

Si alzò in punta di piedi e lo baciò sulla guancia.

“Grazie per aver vegliato su di me,” le disse.

“Ah, non parlarne nemmeno, paparino.”

Detto questo, se ne andò alla spicciola.

Trumaine la osservò salire su per la rampa di uscita del parcheggio, finché scomparve.

Firrell fece un o avanti. Si capiva dagli occhi piccoli, la barba lunga e il vestito stropicciato che non doveva avere dormito granché stanotte.

“Mi spiace di averti tenuto alzato così tardi, Grant.”

“Sono le cinque di mattina,” pontificò Firrell, “non è tardi—casomai è presto.”

Fece un debole tentativo di sorridere.

Trumaine si rese conto con una punta di rammarico che l’intera faccenda di Credence non era pesante solo per lui; lo era almeno altrettanto per il suo capitano.

Anche se Firrell aveva sviluppato una dura scorza in tutti gli anni che aveva servito nella polizia, le lunghe ore di veglia ate nel cuore della notte avrebbero piegato anche il più forte. Firrell era un lottatore coraggioso, devoto al perseguimento della giustizia e di sicuro non si risparmiava. Mentre lo guardava, Trumaine pregò Dio che concedesse ad entrambi di archiviare questo caso tra quelli risolti.

“Ti dispiacerebbe spiegarmi che diavolo ci facevi quaggiù?” chiese Firrell.

Inavvertitamente, Trumaine si toccò con le dita la benda intorno alla fronte, ed un dolore lancinante gli attraversò il cranio. Imprecò.

“Ero nell’ufficio di Matthews,” brontolò. “Mi stavo rompendo la testa su modelli di credo, livelli di credo, e tabelle e relazioni di test dei Believers. Cercavo un qualche indizio, quando è successo qualcosa che mi ha lasciato senza parole. Una catasta di schede perforate—sai, quei foglietti di plastica pieni di buchi, che si infilano nel computer? Pare che li usino ancora, dopotutto. Beh, un pacchetto di quelle schede è caduto sopra ad uno dei rapporti che stavo leggendo. Attraverso i fori, potevo leggere alcune delle parole nella relazione, come se formassero una specie di messaggio scombinato. Mi segui?”

Firrell stava facendo del suo meglio.

“E’ allora che mi sono accorto che la scheda che avevo trovato nel cassetto della scrivania di Jimmy Boyd avrebbe potuto essere usata per lo stesso scopo.”

Firrell aggrottò le sopracciglia, non del tutto certo di avere capito.

“Si tratta di crittografia elementare. Il codice è fornito da una data pagina di un dato libro—un libro qualsiasi, scegli tu. Devi solo trovare e segnare le parole che formano il tuo messaggio—così come vengono nella pagina—saltando le parole che non c’entrano. In questo modo otterrai un certo numero di parole sistemate a caso nella pagina. Se fai dei buchi in un foglio bianco, corrispondenti alle parole,

e lo mandi a una seconda persona, avrà solo bisogno di avere lo stesso libro e di conoscere il numero della pagina per leggere il tuo messaggio!”

Firrell aggrottò le sopracciglia ancor di più mentre cercava di capirci qualcosa.

“La scheda perforata non avrebbe alcun significato per tutti gli altri,” disse.

“Esatto! La scheda non significa niente senza il libro e la pagina. E’ un modo semplice ma molto efficace di mandare e ricevere messaggi codificati.”

All’improvviso, un dolore forte gli attraversò la testa. Fece una pausa, cercando di concentrarsi.

“Ero tornato indietro perché cercavo questa scheda che era nel cassetto della scrivania di Boyd. Prima, non ci avevo fatto caso, ma ora sono certo che sia una qualche chiave di codifica che Boyd usava per mandare informazioni a qualcun altro. Per dire cosa, non lo so. Era un indizio importante ed ora è sparito, Grant, qualcuno l’ha preso. Lui era in camera con me; l’ho appena intravisto quando è scappato: un metro e sessantacinque, corporatura media, medio-piccola. Accidenti se correva; l’ho inseguito dall’appartamento fin giù per tutte le scale di emergenza, finché non siamo arrivati qua. E’ salito sulla sua auto e stava per andarsene, così gli ho sbarrato la strada, puntandogli la pistola contro. Beh, non ci crederai—nel momento esatto che ho sparato, ha sterzato via dal proiettile.”

Trumaine scosse la testa incredulo. “Sapeva quando avrei sparato. Sono sicuro che era lui...”

“La talpa?” chiese Firrell.

Trumaine annuì.

“Non sono più tanto sicuro che Boyd si sia ucciso...”

Le sopracciglia di Firrell non si raddrizzarono; non stavano andando da nessuna parte col caso. Aveva davvero sperato che Boyd fosse coinvolto; ma ora sembrava che fosse anche lui una vittima.

“Setacceremo di nuovo l’appartamento, se serve.”

“E’ andata, Grant.”

“Che cos’è davvero tutto questo? Voglio dire, che cosa c’entra Boyd con l’omicidio degli Jarva? Come c’entra tutto questo con Credence?”

“Ch’io sia dannato se lo so,” disse Trumaine, amaro.

“Non c’è dubbio che qualche o in avanti lo abbiamo fatto,” disse Firrell. “Credence non è il regno pacifico che Benedict vuole che il mondo creda. Ma ci stiamo avvicinando, me lo sento. Continua a lavorarci, Tru, e vedrai che lo inchioderemo.”

“Se non m’inchioda lui prima...” gemette Trumaine.

La testa gli faceva di nuovo male.

Incominciava a temere le capacità del persuasore. Il fatto che poteva non solo leggere il contenuto della sua mente, ma anche prevedere quali sarebbero state le sue mosse, dava all’assassino un vantaggio abissale.

“Nessuna notizia dell’Hibiscus?”

Firrell scosse la testa. “Ancora niente, la stanno ancora cercando.”

Squadrò Trumaine da capo a piedi.

“Sembri da far schifo, Chris... Perché non ti prendi qualche ora di permesso? Vai a casa, riposati un po’.”

Trumaine annuì stancamente; non era una cattiva idea.

La prima fredda luce del giorno lambiva l’orizzonte. Sotto ad esso pendeva l’oceano, grigio e piatto come un olio. I pochi pescherecci solitari che erano fuori sembravano tante anatre stordite che nuotavano in cerchio. Anche se non avevano ancora tirato su le reti, erano già assediati da stormi di gabbiani che gridavano affamati, in cerca di una colazione gratuita.

Un’auto elettrica filava lungo la litoranea deserta, ingrandendosi rapidamente mentre il suo motore girava veloce.

Trumaine, pallido e stanco, sedeva dietro al volante.

La sua testa stava pulsando, ma non riusciva a smettere di pensare. Non riusciva a smettere di sentirsi un idiota per essere stato fregato due volte di fila: prima con la scheda perforata, e poi quando aveva affrontato il persuasore.

Stava forse diventando vecchio tutto d’un colpo? Stava perdendo la mano? O era qualcos’altro? Se il caso era totalmente fuori da ogni mappa conosciuta, allora aveva bisogno di sviluppare una nuova serie di abilità. E avrebbe fatto meglio a farlo alla svelta, se non voleva finire come Jimmy Boyd e gli Jarva prima di lui. Aveva bisogno di pensare in modo diverso, questo non era il solito caso d’omicidio—non erano quelle le esatte parole di Benedict? Forse la sapeva una cosa o due sui telepati, dopotutto.

Trumaine sospettava che ci fosse qualcosa di grosso dietro la morte degli Jarva. Sfortunatamente, non aveva la più pallida idea di che cosa fosse. Come mai Boyd usava messaggi cifrati? Era forse complice nell’omicidio dello scienziato? Se, come sembrava, l’intruso era il telepate a cui stavano dando la caccia, avrebbe forse potuto usare le sue capacità per indurre Boyd ad uccidersi? E ancora, perché avrebbe dovuto farlo? Per metterli fuori strada? O per incolpare Boyd?

Il tumulto di pensieri gli premeva in testa e lui sentì che stava per scoppiargli da un momento all’altro.

Svoltò a destra e si allontanò dalla litoranea lungo una strada secondaria che presto si raggrinzì fino a diventare un sentiero nella sabbia. Vibrando e sobbalzando, l’auto giunse ad una sbiadita casa sulla spiaggia invasa da cespugli di salvia, rosmarino ed erbacce disseccate.

Da questo lato del viottolo non pareva niente di più che un vecchio bungalow. L’intonaco era ingiallito, si era crepato in molti punti ed era spellato negli angoli; il tetto aveva bisogno di una seria sistemata ed il peso della sabbia che si era accumulata contro la recinzione l’aveva piegata all’indietro.

La “casa” che Trumaine intendeva vendere per un appartamento da scapolo in Città era tutta qui.

Lasciò l’auto e si avvicinò a un cancelletto di rete mangiato dal sale, dove un pezzo di fil di ferro ritorto faceva da lucchetto. Lo disfece. Il cancelletto cigolò forte mentre ruotava sui cardini arrugginiti. Lo oltreò, poi di nuovo attorcigliò il ferro intorno al cancello, con cura, come se non fosse una casa di vacanza fatiscente quella che stava rinchiudendo, ma una dimora principesca.

Lo era per lui.

Perché, nonostante ciò che di sfortunato era accaduto in quella casa, per un breve momento della sua vita, lì era stato felice. Quel tempo era da lungo andato e tutto ciò che gli restavano erano i ricordi. E i ricordi, aveva scoperto, potevano essere duri a morire.

Raggiunse un portoncino finestrato segnato dalle intemperie, si pulì le scarpe come se avesse camminato nel fango alto per tutto il giorno, poi schiuse la porta e finalmente entrò.

Anche se gli scuri delle portefinestre erano aperti, la pallida luce del giorno faticava ad entrare.

La casa che Starshanna amava aveva perso molto del suo lustro; ora era silente e sepolta dalla polvere. Tredici anni erano ati da quando lei ci aveva messo piede per la prima volta, quando aveva aperto gli occhi e l’aveva guardata strabiliata.

Non poteva dimenticare com’erano andate le cose...

Sei mesi più tardi, le avevano dato il tanto agognato lavoro su Aquaria e lei si era trasferita là. Avevano continuato a vedersi, naturalmente. Come promesso, facevano a turno per farsi visita.

Ogni volta che andava lui, Trumaine doveva recarsi personalmente all’ambasciata Aquariana e richiedere un visto temporaneo, poiché non gli avevano mai dato la cittadinanza che aveva così diligentemente richiesto.

Trumaine raggiunse la cucinetta ed estrasse le pillole che gli aveva dato il dottore. Erano piccole, lisce e bianche nel palmo della sua mano; ne prese una e la mandò giù con l’acqua del bicchiere più pulito che poté trovare.

Poi andò verso il tavolo e allungò la mano verso la fruttiera—i pochi frutti che conteneva erano quasi tutti marciti. Trumaine raccolse l’unica mela ancora commestibile, la pulì sui pantaloni e la morse.

Il morso rivelò un vermicello giallastro; si divincolò freneticamente dal suo rifugio violato. Anche se lo disgustava un po’, Trumaine trovò la cosa divertente —dopotutto, pensò, in casa c’era ancora un inquilino soddisfatto...

Stringendo la mela e il verme che c’era dentro, si diresse in salotto, aprì la portafinestra e uscì fuori sul patio.

Scrutò in distanza, la spiaggia e l’oceano ribollente oltre ad essa. Poi, in un improvviso impeto di rabbia, scagliò la mela—si alzò alta in un arco aggraziato, diventando un puntino prima di ricadere lontano dalla vista nei cespugli spinosi che infestavano la spiaggia.

Trumaine trascinò i piedi fin sul bordo del canale. Non c’era traccia del delfino che era solito sguazzarci. Starshanna se l’era portato via con lei, quando s’era trasferita una volta per tutte, l’anno prima; quando aveva capito che la loro storia era finita. Il cetaceo gli riportava indietro i ricordi più dolorosi, così non aveva obbiettato quando lei glielo aveva proposto.

Anche l’acqua contenuta nel canale era scomparsa; l’avevano sostituita la sabbia onnipresente e le sterpaglie portate dal vento autunnale.

Trumaine si girò, cercando qualcosa. Era un secchio di metallo vecchio e schiacciato che giaceva in un angolo dimenticato del patio. Lo raccolse e lo esaminò, poi lo gettò nel canale—colpì il fondo di cemento con un suono sordo

che gli ricordò una campana a morto.

Il suono stridente risuonò dolorosamente nella sua testa. Tenendosela tra le mani, barcollò verso l’unica sdraio consumata che era sopravvissuta al sole torrido e al sale, e crollò su di essa.

Mentre il sole finalmente si levò sull’orizzonte, Trumaine chiuse gli occhi e cadde tra le braccia confortevoli del sonno lungamente agognato...

Il sogno venne veloce, silenzioso e misericordioso come il filo di una lama tagliente. Decapitò il sole nascente e lo sostituì con una grande luna appesa e con l’oscurità.

L’astro splendeva luminoso in cielo, proiettando un fascio di luce sopra una sconfinata distesa d’acqua ribollente e scura, mostrando un nuotatore solitario che remava piano ma regolarmente verso riva.

Fu un giovane Trumaine in forma smagliante quello che emerse da un frangente alto tre metri, cadendo esausto sulla sabbia.

Giacque lì, bagnato fradicio, riprendendo fiato, strizzandosi l’acqua dagli orecchi e dal naso.

Dopo un bel po’, si rimise in piedi. Raccolse un vicino asciugamano e cominciò ad asciugarsi. Quando ebbe finito, si buttò l’asciugamano sulle spalle muscolose e attraversò la spiaggia, diretto verso una casa isolata che si vedeva in distanza.

Stanotte, la casa di Trumaine sfoggiava i fiori e le piante lussureggianti che prosperano solamente nella calda, tarda estate.

Ciotole piene d’acqua che contenevano candele galleggianti marcavano sia il patio che il viottolo verso la casa, creando un’atmosferica esotica e surreale.

Il tavolo da pranzo era stato spostato dalla cucinetta fin fuori. Conteneva una vasta selezione di frutta fresca e portate fredde, come pure un paio di bottiglie stappate di vino e qualche calice che scintillava al chiaro di luna come cristallo.

Trumaine venne su dalla spiaggia, arrivando al patio—si avvicinò al tavolo.

Indeciso su cosa assaggiare per primo, afferrò una mela; era tonda e perfetta. La morse, gustandola; era fresca e pura, dolce ma anche salata—aveva il gusto della vita...

Affondò i denti un’altra volta, quando si accorse che qualcuno lo stava osservando dalla veranda.

Sapeva già chi era. Riconosceva quel corpo flessibile e sottile, e quelle delicate spalle ossute anche nell’ombra. Vestita succintamente, Starshanna si appoggiava all’uscio della portafinestra, il corpo che risplendeva nel tremolio delle candele, come se fosse ricoperto da una qualche essenza oleosa.

“Com’è l’oceano stanotte?” gli chiese, languida.

La sua voce aveva il suono rilassante ma ossessivo dei marosi.

“Maledettamente freddo,” disse Trumaine.

Stette a un centimetro da lei, inalando il suo profumo. “Non dovevi essere di ritorno fino alla prossima settimana,” le sussurrò.

“E’ una sorpresa. Non ti piacciono le sorprese?”

I suoi occhi brillarono nell’oscurità. Trumaine non poté trattenersi dal lasciare scivolare il suo sguardo sul corpo di Starshanna, desiderando tutto di lei. Le sue gambe salde e tornite, i suoi fianchi in forma, i seni piccoli e sodi da nuotatrice, le labbra umide e piene.

Inghiottì forte. “Vado matto per le sorprese...”

Si avvicinò a lei più che poté senza toccarla, annusandole il collo. Poi le morse piano il lobo dell’orecchio, tirandoglielo.

Lei rabbrividì appena, emettendo un debole gemito.

Allungò le mani verso le cosce di lei, poi provò a baciarla, ma lei si tirò indietro, giocando con lui. Provò una volta ancora. Di nuovo, lei si scostò.

Leggermente sconcertato dal comportamento di Starshanna, Trumaine si fermò.

Divertita ed eccitata, fu lei ora ad avvicinarsi. Prima lo baciò velocemente, poi con più ione. Più lo baciava, più la ione aumentava. Si bramavano e si cercavano l’un l’altra, le dita affamate che stringevano la carne come artigli...

Starshanna prese la mano indagatrice di Trumaine e la guidò giù, verso il ventre di lei. Il respiro di lei divenne sempre più affannoso, finché boccheggiò. Quando non ne poté più, slanciò la testa all’indietro verso la luna ed emise un gemito di piacere lungo, lento e profondo.

Quando rinvenne, baciò Trumaine. Gli prese la mano e la sfiorò con le labbra, poi lo trascinò con sé verso la spiaggia silenziosa.

Caddero sulla sabbia.

Starshanna si piegò sopra Trumaine, ma lui la spinse di lato e si mise a cavalcioni di lei. Cercò freneticamente il corpo di lei tra i suoi vestiti. Lei annaspò con lui, aiutandolo a liberarla dai vestiti, ma si invischiarono in essi ancora di più. Divenne una lotta furiosa finché, all’improvviso, furono nudi. Solo allora si concessero un momento di respiro.

Quando si strinsero ancora, i loro movimenti furono di nuovo dolci, lenti ed aggraziati. Cominciarono a muoversi all’unisono, prendendo il piacere l’uno dall’altra come i morsi da un frutto maturo...

A qualche metro di distanza, l’oceano spumeggiante flagellava la riva, dimentico di quei due corpi solitari intenti a fare all’amore.

Un oceano ora piatto brillava alla prima luce del dì.

Trumaine e Starshanna erano ancora sulla spiaggia. Sedevano su una coperta, avevano di nuovo i vestiti addosso ed erano circondati dai vassoi vuoti, dai bicchieri e dal vino che si erano portati dal patio.

Guardarono l’alba pacificamente abbracciati.

Il sole si alzò lento e pesante, portando una leggera brezza che soffiò fredda attraverso i loro corpi e li fece rabbrividire.

Il corpo di Starshanna era caldo tra le braccia di Trumaine e sotto le sue dita; era confortevole e vivo.

Fu allora che si era reso conto per la prima volta che non avrebbe mai potuto vivere senza di lei. Fu allora che Starshanna si era girata sorridendo e, come se avesse potuto leggergli il pensiero, aveva detto:

“Chris. Voglio un bambino...”

Trumaine aprì gli occhi.

Era ancora sulla sdraio segnata dalle intemperie, sul patio. Era mezzodì e poteva sentire il calore del sole su di lui. Si scosse e si sedette, sentendosi meglio. Tutto ciò che era rimasto del mal di testa era un vago pulsare alle tempie. Aveva la lingua sgradevolmente impastata e la bocca riarsa; dovevano essere gli effetti collaterali delle pillole che il dottore gli aveva dato, pensò.

Diede un’occhiata intorno a lui. Eccetto che per l’uomo che stava in piedi fuori dalla portafinestra, guardando verso di lui, non era cambiato nulla.

Trumaine non sapeva dire per quanto tempo Firrell fosse rimasto lì, ma poteva anche essere un bel pezzo.

Firrell camminò verso di lui. Di tanto in tanto lanciava occhiate deluse a ciò che era rimasto della casa, e Trumaine non poté fare a meno di notarlo.

“Cosa c’è?” chiese.

“Niente...” disse Firrell con un’innocente alzata di spalle.

“So cosa stai pensando. La casa è un casino; è sporca, il tetto è da riparare e i muri hanno un disperato bisogno di essere ritinteggiati. Non è così?”

“Beh, già che ci sei, perché non ci metti anche una bella spalata? Dagli un altro

anno e sarai sepolto dalla sabbia. E poi, perché non butti via quella sdraio crepata su cui sei seduto? Compratene una nuova, la plastica sarà economica, ma almeno è eterna.”

Trumaine osservò la sdraio sbiadita su cui sedeva. Non era rimasto molto dello strato di colore originario; qua e là, solo poche e ostinate scaglie di vernice aderivano ancora al legno tarlato che si vedeva sotto.

“Nient’altro?”

“La piscina è vuota. Non nuoti più?”

Trumaine scosse la testa. Ne aveva abbastanza dell’acqua. Si ricordava di un tempo in cui non poteva farne a meno, quando respirare l’odore salmastro dell’oceano gli mandava un brivido salutare giù per la schiena. Ora non più.

“Chiedi ai ragazzi,” suggerì Firrell. “Sono sicuro che sarebbero più che felici di darti una mano.”

Tirò fuori qualcosa di voluminoso dalla tasca.

“Ti sei dimenticato questo,” disse, andoglielo.

Trumaine prese l’involto e lo disfece, trovando la sua pistola elettrica. La raccolse e l’ispezionò. A parte un recente graffio nel calcio, sembrava a posto.

La tenne in mano per un momento, sentendone il peso, poi la ripose nel suo fodero sotto al braccio.

I due rimasero in silenzio per un po’.

Firrell calciò un sassolino.

“Stai bene, Chris? I colpi in testa possono essere insidiosi.”

“Sto bene, Grant...”

“Hai pensato?” chiese Firrell con una notevole dose di aspettativa.

“Ho sognato...”

“Di lei?”

“Ogni volta che chiudo gli occhi—lei è in ogni posto che guardo...”

Firrell aveva bisogno di sapere se c’era qualcosa che impediva a Trumaine di concentrarsi sul caso. Forse essere franco ed amichevole con lui avrebbe aiutato...

“Da quanto tempo è che non la senti?”

Trumaine fece un gesto vago con la mano.

“Quattro mesi?”

“Perché non la chiami? Sono sicuro che ti farebbe un sacco di bene parlare con lei.”

“Per dirle cosa? E’ stata chiara a riguardo, non tornerà indietro—per me è abbastanza.”

“Perché le hai lasciato prendere il delfino? Se non altro ti faceva compagnia.”

Trumaine non rispose.

Firrell serrò la mascella, poi, cercando di essere più naturale che poteva, gli chiese, “L’ami ancora?”

“Credo di sì...”

“Ma non vuoi chiamarla, maledizione!” esplose Firrell. “Sei il più cocciuto pezzo d’asino che abbia mai incontrato in tutta la mia vita! Preferisci giacere qui, divincolandoti tra i ricordi dolorosi e la disperazione, piuttosto che fare una dannata telefonata! Tu—tu—”

Firrell alzò le braccia per aria con un’espressione sconfitta e se ne andò infuriato verso la casa.

Trumaine si stiracchiò la schiena indolenzita.

“Che mi dici dell’analisi post mortem di Boyd? Era forse drogato?”

“No, non lo era!” ringhiò Firrell. Poi, dopo essersi sbollito un po’, “Non ha fatto uso di nessuna droga negli ultimi sei mesi. Se vuoi saperlo, dubito che abbia mai provato nulla di più forte di una sigaretta leggera.”

“Una malattia improvvisa che potrebbe averlo spinto a suicidarsi?”

Firrell scosse la testa. “Quando Boyd è morto, tutti i parametri del sangue erano nella norma; era sano come un pesce. La ragione per cui si è ucciso—se si è ucciso—si trova da un’altra parte. Avevo pensato di chiedere spiegazioni ai suoi parenti, ma vivono sugli esopianeti—sfortunatamente, siccome Credence non funziona, non funzionano nemmeno le comunicazioni a lunga distanza.”

“Nessuna novità sul veicolo pirata?”

“Ho paura che le telecamere del parcheggio abbiano ripreso solo il modello dell’auto—una Meteor ’55. E’ una reliquia di veicolo ibrido, brutto come il demonio, ma abbastanza affidabile. Ce ne sono ancora un mucchio che ronzano per le strade.”

“Possiamo controllarli tutti?”

“Cosa credi che abbia fatto per tutta la mattina? Circa dieci anni fa, quando il veicolo uscì sul mercato per la prima volta, il bianco perlato era una vera mania. Il computer ha sputato fuori una lista di duecentoquaranta auto —solo nella Città, bada bene. Nessun veicolo è intestato a un Believer, nessun veicolo appartiene neppure a un parente di un Believer. E’ quello che chiameresti un bell’aiuto da parte del database principale, eh?”

“Nient’altro?”

“Riguardo alla scheda perforata, abbiamo rivoltato l’appartamento. Avevi ragione tu, è andata... Il tempo sta ando, Tru. Che cosa facciamo adesso?”

Trumaine era grato che il mal di testa fosse sparito e che poteva di nuovo pensare chiaramente. Doveva tornare a Credence, nella camera dei Believers il più presto possibile, naturalmente. Come aveva detto Benedict, doveva restare vicino al persuasore. Ma lui voleva anche seguire ogni traccia, per quanto flebile, che potesse gettare luce sulla morte di Boyd. Jimmy, con la sua scheda perforata scomparsa, era un pezzo chiave nel puzzle che era l’omicidio di Aarmo Jarva—se solo fosse riuscito a collegare Boyd con Jarva...

“Jimmy Boyd teneva il suo annuario universitario con i suoi libri preziosi,”

disse. “Credo che significasse qualcosa per lui, ma cosa?”

“Forse era un tipo sentimentale?” buttò lì Firrell.

“Non lo so ancora, ma lo scoprirò.”

Trumaine si alzò in piedi e sentì che le gambe erano di nuovo forti. Fece qualche o verso la casa.

“Dove stai andando?”

“Beh, alla City University,” disse Trumaine.

IL SEGRETO DI SVENSSON

Trumaine si sentiva decisamente meglio.

La testa non gli doleva quanto aveva temuto e, dopo che si fu tolto il bendaggio ingombrante dalla fronte e che aveva guardato all’altro sé stesso nello specchio, pensò che non era ancora da buttare.

Aveva mangiato un pranzo veloce e poi aveva chiamato l’università. Aveva chiesto alla segretaria amministrativa dove poteva trovare informazioni su uno dei diplomati, un certo James John Boyd. Lei gli disse che doveva consultare la sezione nella biblioteca universitaria dedicata agli studenti diplomati.

Le aveva spiegato che era un detective, l’annuario ce l’aveva già e che no, non era per un articolo sul giornale; Boyd si era ucciso la notte precedente e poteva essere coinvolto in un omicidio. Aveva bisogno di parlare con qualcuno che si ricordasse di lui.

La segretaria lo aveva messo in attesa. Dopo un bel pezzo, quando Trumaine cominciò a pensare che si fosse dimenticata della telefonata, gli rispose di nuovo. Gli disse che c’era davvero qualcuno che si ricordava di Boyd e che sarebbe stato felice di incontrarlo.

Gli disse il nome di cui avrebbe dovuto chiedere e sì, sarebbe stato disponibile nel pomeriggio.

Fu carina e gentile come dovrebbe essere tutta la gente che parla al telefono.

L’università era a sud della Città, nella cintura verde che conteneva la maggior parte degli edifici culturali: il Museo d’Arte e Storia, il Teatro e la Biblioteca Comunale, tutte le scuole superiori così come tutte le facoltà universitarie.

L’edificio dell’università era una costruzione bassa e moderna rivestita di fogli di titanio che salivano in onde convolute e terminavano con uno svolazzo disordinato.

Millantato come il più squisito esempio di architettura neo-moderna, sembrava moltissimo una torta schiacciata che fosse stata spruzzata di vernice d’alluminio. Non era solo il vezzo d’un architetto ombroso; come una vecchia auto che aveva bisogno di copriruota nuovi di zecca per essere venduta, anche la cultura aveva bisogno di un’apparenza vistosa per attrarre i finanziamenti privati di cui viveva.

Trumaine guidò fin dentro al parcheggio contiguo al piazzale dell’università.

Era pieno di veicoli degli studenti: un sacco di bici elettriche, un numero considerevole di motocicli e una manciata di monoveicoli. Stavano tutti davanti ai sottili alberi elettrici che gli avrebbero fornito l’energia necessaria per ricaricarli.

Anche Trumaine lasciò la macchina sotto uno di quegli alberi. ò la sua carta di identificazione in una fessura nella plastica bianca del tronco, e due led diventarono verdi; il primo per informarlo che la sua carta era stata accettata, il

secondo per segnalargli che l’auto era stata rilevata ed era allineata correttamente con il circuito di ricarica.

Era ora che la polizia adottasse il nuovo sistema ad induzione, pensò, era semplice e pulito.

Girò sui tacchi e s’incamminò verso il piazzale dell’università.

Un flusso costante di studenti in completi azzurro chiaro entravano e uscivano dall’ingresso vetrato dell’edificio. Alcuni di loro si accalcavano intorno alla vetrina della bacheca e sussurravano eccitati per i risultati di un esame; altri sedevano sulle panchine disposte intorno all’entrata, controllando nei loro blocchi nozioni mezzo digerite, oppure aspettando la prossima lezione; altri ancora oziavano semplicemente nell’erba, riscaldandosi al sole.

Trumaine entrò nell’atrio della facoltà.

Sbirciò giù per i corridoi e nella maggior parte delle aule che ava, sperando di scoprire le reali fattezze del suo angelo custode—la ragazza con la parrucca biondo platino. Ne aveva viste almeno due che le assomigliavano abbastanza. Ma, si chiese, anche se lei lo avesse riconosciuto, gli si sarebbe rivelata? Forse no. Probabilmente, la ragazza che dava appuntamenti di notte in cambio di denaro e la studentessa diligente che durante il giorno teneva il naso nei libri elettronici non si conoscevano affatto. Una sarebbe andata a letto quando l’altra si sarebbe svegliata, entrambe ignare l’una dell’altra.

Con un gusto amaro in bocca, Trumaine salì su per un’ampia scalinata, arrivando al terzo piano.

Una dozzina di porte si aprivano da entrambi i lati di un lungo e silenzioso corridoio; quelle dei molti uffici e studioli dei vari professori che al momento avevano un posto d’insegnante.

Trumaine proseguì, leggendo i nomi sulle porte mentre le oltreava, ma nessuno corrispondeva a quello che la segretaria gli aveva detto.

Arrivò ad uno slargo dove erano stati sistemati un tavolino da caffè e qualche sedia. Solo una porta dava sulla saletta e la sua targhetta d’ottone diceva: LARS SVENSSON - RETTORE.

Era quello il nome.

Trumaine bussò sul legno lucido.

“Avanti!” disse una voce bassa e potente.

Trumaine si ritrovò in un ufficio ampio e silenzioso completamente rivestito di legno di cedro rosso. Capì che era legno vero per via dell’odore vagamente aspro che c’era nell’aria. Era un profumo da meditare, un profumo che faceva diventare le lunghe e noiose ore di lavoro un semplice lavoretto a maglia.

Incisioni e riproduzioni ad acquerello di vascelli dei tempi andati ricoprivano le pareti. Anche il modellino in scala di un’antica goletta, con tutti i suoi mille fronzoli perfettamente intagliati, trovava posto su un treppiedi nell’angolo.

Un uomo alto, sui sessantacinque, sedeva con le dita intrecciate dietro a un tavolo molto vecchio ma molto solido, di quercia.

Lars Svensson aveva capelli bianchi come la neve, pettinati all’indietro, e una lunga barba dello stesso colore. Anche se non indossava la giacca blu coi bottoni dorati e il tricorno che gli ufficiali della Reale Marina Svedese erano soliti portare nel mille e ottocento, sembrava lo stesso il capitano di un veliero.

Lars Svensson aveva occhi saldi e penetranti del colore del ghiaccio che erano talmente profondi che un sasso ci avrebbe messo una settimana a caderci in fondo. Occhi che studiarono Trumaine molto attentamente mentre si avvicinava al tavolo e presentava il suo distintivo.

“Detective Trumaine,” annunciò.

Senza battere ciglio, Svensson gli fece cenno di sedersi sulla poltrona più vicina.

“Si sieda,” comandò.

Era una poltrona solida con lo schienale e i braccioli alti quella in cui Trumaine si sedette; crepitò in modo confortevole sotto il suo peso, cedendo talmente poco che pensò dovesse essere vera e dura pelle.

Svensson continuò a fissarlo, poi, dopo quelle che sembrarono delle ore, parlò.

“Se non mi sbaglio, lei sta investigando su uno dei nostri laureati. La mia segretaria mi ha detto che è morto... E’ davvero così?”

“Apparentemente, si è impiccato.”

“Non ne è certo?”

“Potrebbe essere omicidio. Stiamo verificando.”

Per un po’, Svensson tirò dentro aria. Lentamente e in modo regolare, come una gigantesca balena che fosse salita in superficie dopo una lunga immersione.

“Suppongo siano questi ciò che sta cercando.”

Puntò il palmo della mano verso due registri universitari che giacevano aperti davanti a lui. Li ruotò affinché il detective li leggesse.

Trumaine si chinò ed esaminò una lunga lista di nomi e numeri. Tra tanti, s’intravedeva quello di JAMES JOHN BOYD. Una stella gli era stata disegnata accanto.

“Quella stella per cosa sta?”

“La stella viene data in premio solamente ai nostri migliori diplomati. Troverà una copia del premio nel libro dei conferimenti, naturalmente, alla sua sinistra.”

Svensson indicò il secondo registro.

Al centro di una pagina fitta di svolazzi e fiocchi, c’era il nome di Boyd, scritto in maiuscole rosse. Sotto di esso, due righe nere dicevano: Per i servigi offerti nel nome imperituro della scienza. Ed: Assistente del professore emerito Aarmo R. Jarva.

“Boyd era l’assistente di Jarva?” chiese Trumaine, incredulo.

“Lo fu solo per sei mesi. Non molti si ricorderanno di lui, dal momento che Jimmy era un uomo schivo. Anche quella nota è lì su mia precisa richiesta.”

Trumaine aggrottò le sopracciglia. “Perché?”

Svensson intrecciò le dita.

“C’è una ragione se non ho lasciato che la segretaria la spedisse alla biblioteca universitaria. La ragione è che volevo parlare con lei, detective.”

Trumaine sedette indietro nella sedia, ascoltando.

“Conoscevo Jarva,” continuò Svensson. “Mi spiace che sia morto; non meritava di finire così. Sua moglie non se lo meritava di sicuro.”

Fece una lunga pausa, come se stesse misurando le parole che stava per dire.

“Scienza. Illuminismo. Progresso. Emancipazione. Dietro questi nomi altisonanti si nasconde un mondo viscido fatto di meschine gelosie per una cattedra e di arrivismo a tutti i costi; un mondo infettato dalla folle ed eterna ricerca di fondi. Non è un bello spettacolo, non è edificante. Nondimeno, questo mondo esiste e, mi vergogno ad ammetterlo, anch’io ne faccio parte.”

Ancora, Svensson fece un respiro lento e profondo.

“Devo molto ad Aarmo. E’ grazie a burocrati come me se lui non ha potuto terminare i suoi ultimi studi.”

“I suoi ultimi studi?” chiese Trumaine, stupito.

Svensson sorrise amaramente.

“Proprio così, ci furono degli ultimi studi. Jarva non era uno scienziato da quattro soldi che ricercava quello per cui era pagato e che smetteva di farlo quando i soldi finivano. Lui era un genio, un libero pensatore. E i suoi ultimi studi sarebbero stati tanto rivoluzionari quanto lo fu il Pistocentrismo, se non di più.”

Lo sguardo di Svensson si perse in ricordi non mai dimenticati che ancora lo tormentavano.

“Lei sarà al corrente che, cinque anni fa, Jarva aveva interrotto i suoi studi sui viaggi spaziali. Nessuno conosce la ragione dietro a una così drastica decisione; nondimeno, egli cambiò il suo campo di ricerca in modo alquanto radicale. Pochi sapranno, come io so, che Jarva si è sempre interessato di biologia marina. La vita acquatica lo affascinava. Non so fino a che punto la fauna Aquariana le sia familiare, detective, basti dire che è florida. Aquaria è un pianeta incorrotto. Il novantanove percento della fauna vive sott’acqua. E’ un mondo eccezionalmente bello e selvaggio... Ebbene, cinque anni fa, Jarva chiese ed ottenne dall’università un periodo di licenza per studiare i cetacei Aquariani— un’incredibile possibilità, per uno scienziato come lui. Lei si starà chiedendo quale sia lo scopo di questa lunga storia—ci sto arrivando. Jarva non era interessato ad un pesce qualsiasi; cercava e studiava il più grande di tutti: il Leviatano Aquariano. Eh, dovrei avere un’immagine della bestia, da qualche parte...”

Svensson frugò in un mucchio di libri che stavano sullo scaffale dietro di lui e prese un largo atlante di anatomia. Ne sfogliò le pagine e quando trovò quello che stava cercando, ficcò il libro sotto al naso di Trumaine perché lo vedesse.

“Eccolo qua...”

Svensson piantò il dito su qualcosa che non aveva la minima somiglianza con nessuno dei pesci terrestri. Secondo il piccolo profilo d’un subacqueo che era stato disegnato nell’angolo della pagina come raffronto dimensionale, la “bestia” come lui l’aveva chiamata, doveva essere lunga più di cento metri. La sua pelle bluastra e raggrinzita era divisa in segmenti come quella di un gigantesco lombrico; la sua testa non era niente di più che una verruca tonda con al centro

un buco frastagliato che poteva essere la bocca, mentre l’altra sua estremità era una pinna orizzontale larga e piatta.

Svensson notò il disgusto sul volto di Trumaine.

“Convengo con lei che non sia proprio una bellezza, ma non tutte le creature contano sulla mera apparenza come mezzo per accoppiarsi. Vede, il leviatano è cieco. E nonostante il fatto che manchi anche di tutti gli organi che i mammiferi terrestri usano per comunicare—una laringe, una lingua e dei denti—è nondimeno in grado di trasmettere segnali ai suoi simili.”

“E come fa?”

“La sua è un’eccellente domanda, ed è esattamente questo che Jarva si è chiesto. Quando la risposta gli è balenata nella mente, dev’essere stata come una doccia fredda.”

Ad un tratto, anche Trumaine capì.

“Sono telepati...”

Svensson annuì e sorrise deliziato.

“Devo dire che sono colpito, detective.”

“E’ questo ciò che Jarva e Boyd stavano studiando? La telepatia?”

“Esattamente. James Boyd aveva accompagnato Jarva nel suo viaggio su Aquaria per aiutarlo a scoprire questa incredibile informazione.”

“E come mai non lo sa nessuno?”

“Ancora una volta, lei è sulla pista giusta, detective. Come è mai possibile che una scoperta così devastante non sia mai stata divulgata prima?”

Svensson fece un’altra lunga pausa.

“Cinque anni fa, Jarva era sull’orlo di una seconda epocale scoperta. Che cosa accadde invece? Glielo dirò io: i fondi gli furono revocati, il suo permesso fu fatto a pezzi e gli fu proibito per sempre di mettere ancora piede su Aquaria.”

“Non capisco...”

“Vede, ci sono due ragioni per cui la ricerca viene soppressa. Primo, la ricerca è inutile. Secondo, la materia sotto analisi è troppo pericolosa.”

“Ma Jarva aveva vinto il Premio Nobel,” protestò Trumaine. “Era uno scienziato di prima categoria. Senza i suoi studi sulla mente umana, Credence non

esisterebbe. Saremmo stati confinati sulla Terra ancora per secoli. Perché, allora?”

“La risposta è molto semplice. La ricerca che Jarva stava conducendo era troppo pericolosa. Non si può negare che anche il Pistocentrismo, senza un’adeguata direzione, avrebbe potuto essere la fine dell’umanità. Fu l’Autorità Federale a chiedermi di non divulgare ciò che Jarva aveva appena scoperto e di denunciare tutti coloro che avessero tentato di renderlo pubblico.”

“Ma... come potevano sapere di Jarva?”

Svensson sospirò sconsolatamente.

“Perché gliel’ho detto io.”

“Lei?”

“Io, il paladino di Jarva e suo amico intimo, l’ho tradito. Io ho avvisato l’Autorità riguardo ai pericoli di ciò che Jarva andava scoprendo. Sì, sono stato io a mettere fine prematuramente alla sfolgorante carriera di scienziato di Jarva.”

“Perché mi sta dicendo tutto questo?”

“Perché sono in debito con lui. Se dovessi, rifarei tutto daccapo, naturalmente. Nondimeno, io dovrei promuovere la conoscenza, non ostacolarla o nasconderla.

Sento di avere fallito nel mio proposito. Le sto dicendo tutto ciò nella speranza che questa informazione, che è e deve rimanere confidenziale, possa spingerla più vicino non solo a scoprire chi ha ammazzato un grande scienziato e un buon amico, ma possibilmente per gettare un po’ di luce anche sulle circostanze in cui un laureato troppo schivo che faceva di nome James John Boyd si sia ucciso...”

Trumaine attraversò l’atrio della facoltà, diretto verso le cabine dei video messaggi che fiancheggiavano la parete più distante.

Entrò in uno di essi.

Era un cubicolo insonorizzato di vetro smerigliato che includeva un monitor piatto, uno sgabello di design avvitato al pavimento, e uno slot per le carte di credito. Mentre Trumaine inseriva la sua, il largo schermo d’ossidiana appeso al muro davanti a lui prese vita, emettendo un bagliore traslucido bianco perla.

“Chiamata per il dipartimento di polizia, capitano Grant Firrell,” richiese Trumaine.

Il monitor lampeggiò la sua risposta: CHIAMATA INVIATA.

Dopo alcuni secondi, la faccia larga di Firrell apparve sul monitor.

“Trumaine. Qualche buona notizia?”

“Boyd conosceva Jarva. Cinque anni fa, erano entrambi su Aquaria. Indovina un po’ su cosa stavano lavorando?”

Firrell scrollò le spalle. “Dimmelo tu.”

“Stavano studiando la telepatia in alcuni pesci Aquariani. Non appena l’Autorità Federale è venuta a saperlo, sia i fondi che i permessi gli furono cancellati.”

“E perché mai?”

“Ricerche potenzialmente pericolose. Me lo ha detto un tale Lars Svensson, rettore del Dipartimento di Biologia Marina alla City University. Se Jarva avesse scoperto che gli umani sono in grado di comunicare telepaticamente, puoi ben immaginare i pericoli che ne sarebbero derivati—pensa solo ai problemi legati alla sicurezza.”

“Beh, mi sembra che, alla fine, da qualche parte stiamo andando,” disse Firrell, prendendo un biglietto dalla sua scrivania.

“Anch’io ho notizie per te. Potremmo avere trovato la macchina che stavamo cercando. Una videocamera stradale amatoriale illegale installata giusto fuori dal parcheggio dell’albergo ha ripreso la targa della Meteor ’55. Abbiamo controllato—appartiene a un certo Steven Goldmar, 5657 Riviera Avenue. Se ti muovi, troverai Eddie là.”

“Sono già per strada,” disse Trumaine.

LA METEOR ’55

Il sole sedeva basso nel cielo del tardo pomeriggio, spargendo sull’oceano sottostante una miriade di collane d’oro che nessuno avrebbe comprato.

Trumaine guidò nella marea calante dei pendolari; solo quando la Città cominciò a scomparire dietro di lui, segnalò e svoltò.

L’auto civetta giunse ad una strada secondaria che lo portò a una delle molte aree suburbane chiamate “Riviera.” Anche se si affacciava sull’oceano come le altre Riviera, questa era appena fuori città. Meno turistica delle sue omonime controparti, era fornita di buoni servizi, incluse scuole e biblioteche, ed aveva anche una sua propria amministrazione.

Era il posto perfetto per quelli che avevano entrate medie, medio alte ed avevano bisogno di essere vicini alla Città senza gli svantaggi del rumore, del traffico e della brutta abitudine dei grattacieli di fare ombra.

Il numero 5657 doveva essere tra le case un centinaio di metri più avanti, pensò Trumaine e, presto, poté intravedere la forma e il colore familiare della berlina marrone che apparteneva a Eddie Boyle, il perito giudiziario.

Accostò e parcheggiò dietro alla berlina.

Scese dall’auto e salì la leggera rampa che lo portò sotto al portico di una casa singola a due piani che si affacciava sull’oceano. Come tutte le case da questo lato della strada, aveva un accesso privato e diretto alla spiaggia.

La numero 5657 e le vicine colleghe non erano case prefabbricate; solo vecchi edifici con pannelli di legno dipinti di bianco per pareti e un tetto a doppia falda coperto di scandole. Anche se Trumaine non lo vedeva da dove si trovava lui, sapeva che, nascosto da qualche parte, c’era l’eternamente indispensabile circuito fotovoltaico che alimentava la casa.

Sotto il porticato del numero 5657 era parcheggiata la famigerata Meteor ’55...

Trumaine si avvicinò e studiò la parte anteriore dell’auto: c’era un leggero incavo nel cofano o era solo uno scherzo della luce? Non ne era sicuro. Camminò intorno al veicolo, sbirciando attraverso i finestrini in cerca di un indizio qualsiasi, ma non c’era niente di speciale da vedere dentro la macchina— eccetto Boyle.

Stava ando pazientemente lo scanner che aveva in mano nel recesso sotto al sedile dell’autista. Quando ebbe finito, scese dalla macchina e salutò Trumaine con un cenno.

“Trovato niente di interessante?”

Boyle piegò la testa di lato; era sia un sì che un no, o non era nessuno dei due.

“Capelli, principalmente. Credo di aver tirato su anche un paio di peli rossi di gatto. Un bel po’ di tracce di DNA da are al setaccio, ad ogni modo.”

Trumaine s’incamminò verso l’entrata della casa e suonò il camlo, ma non venne nessuno ad aprire.

“Inutile suonare,” disse Boyle. “Gireranno le isole greche per il resto del mese. La macchina è rimasta parcheggiata qua sotto per più di una settimana ormai. Chiunque avrebbe potuto prenderla.”

“Come fai a sapere che i Goldmar staranno via per tutto il mese?”

“Beh, me lo ha detto il vicino.”

Trumaine serrò la mascella, meditando, finché qualcos’altro attirò la sua attenzione—dalla soglia della prossima casa, qualcuno stava agitando la mano verso di lui, facendogli cenno di raggiungerlo.

Incuriosito, schermandosi gli occhi dalla luce diretta del sole morente, uscì dal portico.

“Qualcuno sta facendo dei segni...”

Anche Boyle guardò.

“Ah, è il vicino che mi ha detto dei Goldmar.”

Trumaine si rese conto con stupore che era Faith.

Ci aveva messo meno di un minuto ad arrivare alla casa di Faith. Lei gli aprì la porta, accogliendolo con un gran sorriso e la sua solita dose d’entusiasmo.

“Sembra proprio che tu mi abbia scovata, detective—mi arrendo,” disse, alzando le mani sopra la testa.

“Oppure potresti entrare ad assaggiare il mio caffè speciale.”

Con una risata argentina, si scostò per lasciare are Trumaine ed entrarono entrambi.

La casa era piccola e semplice, con gli interni chiari arredati vivacemente con pittoreschi mobili etnici. Un soggiorno, una cucina e una scala che portava alle camere al piano superiore era tutto ciò che si poteva vedere dal pianterreno.

Una corsia indiana a pelo raso messa di traverso nella sala andava avanti e indietro tra una coppia di maschere africane che si fronteggiavano dalle pareti opposte, sembrando due guardiani silenti.

La maschera alla sinistra di Trumaine era scavata da un ceppo d’ebano ed era lucida e brillante. L’altra, più rozza e primitiva, era dipinta di grigio ed aveva il mento a punta, il naso ricurvo e la fronte affusolata. Capelli o qualcosa che assomigliava a capelli era stato infilato nei forellini in cima alla testa, intorno al mento come barba, e da entrambi i lati della faccia—come basettoni, pensò Trumaine.

Entrambe le maschere avevano buchi al posto degli occhi—gli diedero la bizzarra e inquietante sensazione che lo stessero osservando da dietro le orbite vuote.

La maschera d’ebano faceva la guardia a un grosso baule di vimini. Sempre alla sinistra di Trumaine, si trovavano un divanetto e una poltrona. Dall’altra parte della stanza, un paio di scaffali appesi al muro reggevano una sfilza di custodie di plastica trasparente che contenevano dischi digitali. Negli angoli più lontani, verso la cucina, due tavolini traboccavano di ninnoli luccicanti e cianfrusaglie.

“Non è molto, ma mi basta,” disse Faith.

Aveva atteso in silenzio che Trumaine studiasse il piano terra.

“Al contrario, è caldo e personale—mi piace.”

“Siediti. Sarò di ritorno tra un minuto col tuo caffè.”

Faith scomparve in cucina dove, da dietro il vetro trasparente di una porta, si

potevano vedere l’oceano e l’orizzonte che andava scurendosi.

Trumaine approfittò del tempo per ficcare il naso in giro. Si avvicinò al tavolino delle cianfrusaglie. Fece scivolare le dita su di loro, arrivando a delle scatoline incrostate di conchigliette. Le aprì; alcune erano vuote, altre erano piene di robaccia: economici orecchini di pasta, collanine di peltro e braccialetti d’ottone.

Alzò la testa e fissò il soffitto.

“Avrai sentito della morte di Jimmy Boyd!” disse.

“Che disgrazia!” sbraitò Faith dalla cucina.

“Lo conoscevi?”

“Credo di averlo visto un paio di volte... ma non ho mai avuto l’occasione di conoscerlo di persona!”

“Dov’eri la notte scorsa?” buttò lì Trumaine.

Una Faith perplessa fece capolino dalla cucina.

“Ero di turno nella camera dei Believers, come al solito. Puoi controllare.

Perché?”

“Non hai preso la macchina dei tuoi vicini?”

“Perché avrei dovuto? Ho il mio monoveicolo...”

Le studiò gli occhi, cercando di capire se gli stesse mentendo—con suo rammarico, non ci riuscì. Anche se Faith sembrava così sveglia, socievole ed estroversa, Trumaine aveva la netta sensazione che potesse ritirarsi rapidamente e chiudersi in sé stessa come un porcospino, alzando una barriera invisibile tra lei ed il mondo, come se indossasse una di quelle misteriose maschere africane che gli davano i brividi.

All’improvviso, si sentì il fischio inconfondibile di un’antica caffettiera.

“Il caffè è pronto!” disse Faith.

Si affrettò a tornare in cucina, lasciando Trumaine ad esplorare il resto della casa.

Si avvicinò agli scaffali sulla destra, prendendo nota mentalmente dei titoli sulle custodie. La maggior parte erano edizioni digitali dei libri di Jarva:

Pistocentrismo; Il Talamo Dischiuso; Il Gradino Evolutivo; Il Cervello Fusiforme: Studi Pionieristici della Scienza Cognitiva; Il Pensiero Elevato;

Comportamento Pubblico e Risposta Sociale.

Trumaine attraversò il salotto, avvicinandosi al baule che stava sotto alla maschera d’ebano. Si chinò, toccandone il coperchio. Stava per aprirlo—quando un breve grido e uno schianto provenienti dalla cucina lo interruppero.

Si precipitò nella stanza vicina, dove trovò Faith che raccoglieva i cocci di una tazzina da caffè.

“Tutto a posto?”

“Scusa, mi è scivolata dalle dita. Questi giorni sono proprio tesa...”

“Perché mai dovresti esserlo?”

“E’ per tutto quello che sta succedendo a Credence, mi sta esaurendo. C’è un assassino in libertà. Ha ammazzato Jarva e sua moglie e sono sicura che ha ucciso anche Boyd—non riesco a fare a meno di chiedermi chi sarà il prossimo...”

“Non ho mai detto che qualcuno abbia ucciso Boyd.”

Lo guardò con la disperazione negli occhi.

“Credi davvero che si sia suicidato?”

“Pendeva dal soffitto; stiamo archiviando il caso come suicidio.”

“Non hai pensato invece che l’assassino potrebbe avere costretto Boyd ad impiccarsi?”

“Non c’è alcuna prova. Per quel che ne sappiamo, Boyd può essere davvero l’omicida che cerchiamo.”

“Boyd non avrebbe fatto male a una mosca!” sbottò Faith dalla sua posizione china, poi tornò a raccogliere i frammenti rimasti sul pavimento.

Si alzò in piedi, buttò i cocci nel cestino, si lavò e si asciugò le mani, poi, di nuovo, guardò Trumaine.

“E se l’assassino fosse a caccia di Believers? E se—e se io fossi la prossima?”

Represse un singhiozzo e Trumaine la prese per le spalle, cercando di consolarla.

“Perché mai dovresti essere la prossima?”

“E’ solo una strana sensazione di cui non riesco a liberarmi... E’ vero che

l’assassino è un telepate?”

“Chi te lo ha detto?”

“I Believers non parlano d’altro in mensa. E’ per questo che sei sempre nella camera? Per vedere se lui si fa vivo?”

Trumaine la lasciò. “Sì. L’idea è quella.”

“Ed è già venuto a farti visita?”

“Non ancora,” ammise.

“Pensi davvero che in quel modo lo prenderai?”

“Non sono un telepate, non ho la minima idea di che cosa si provi ad entrare nella mente di un’altra persona. Non ho idea di come faccia il telepate ad indurre la gente a credere a quello che vuole che credano. Ma devo servirmi di tutto ciò che ho a disposizione.”

All’improvviso, Faith si ricordò del caffè.

Prese un’altra tazzina e la posò sul piattino orfano della tazza caduta. Versò in

entrambe un fiotto nero e bollente di caffè, mise le tazze su un vassoio d’argento e portò il tutto in soggiorno.

Trumaine la seguì, lasciandosi cadere sulla poltrona più distante dalle maschere africane. Prese la tazza che Faith gli offriva, poi aspettò che lei si sedesse.

I due si studiarono per un lungo momento mentre sorseggiavano le loro bevande.

Il caffè era forte, caldo ed intossicante. Era buono mentre scendeva nella gola di Trumaine, diffondendosi nel suo stomaco con una tiepida incandescenza.

“Fai un gran caffè.”

Tacquero ancora, entrambi persi nei loro pensieri.

“Vivi qui da sola? Senza amici? Senza un ragazzo?” chiese Trumaine.

“Sono uno spirito libero,” disse Faith, alzando le spalle. “E tu? Non hai una moglie, da qualche parte?”

“E’ su Aquaria.”

“Perché? Voglio dire—non è tua moglie?”

“Non andavamo più molto d’accordo ultimamente, così abbiamo fatto una pausa di riflessione. Ritornerò quando sarò cittadino Aquariano a tutti gli effetti...”

“Non ti piace qui?”

Trumaine non rispose. Si chiese se una sola memoria dolorosa poteva cancellare tredici anni di cose felici. Decise che poteva.

“Che cos’ha di strano la macchina del mio vicino?”

“Qualcuno ha preso quell’auto per rubare qualcosa dall’appartamento di Boyd. Ero lì con lui, l’ho inseguito fin nel garage dell’albergo e quasi lo inchiodavo. Gli ho sparato, ma l’ho mancato e lui mi ha messo sotto.”

Di nuovo, studiò Faith, cercando qualsiasi indizio che lei gli stesse mentendo, che lei sapesse ben più di quanto desse ad intendere quando era con lui—che lei gli stesse nascondendo delle cose...

Ma non ne trovò nessuno.

Si alzò in piedi. “E’ meglio che me ne vada ora,” disse. “Grazie ancora per il caffè...”

Si diresse verso la porta quando, d’un tratto, si girò.

“Spero che lei non stia pensando di lasciare la città, signorina Alveraz,” disse.

“Così sono un sospetto, dopotutto.”

“Solo, non andartene prima che il caso sia risolto.”

“Non pensavo di farlo...”

“Bene. Non ho niente contro di te, ma seguire ogni traccia fa parte del mio lavoro. Spero che tu capisca.”

“Certo...”

Trumaine aprì la porta ed uscì.

Faith lo salutò con la mano mentre lui saliva in macchina, l’avviò e, con un’ultima occhiata verso di lei, s’infilò nel traffico.

Trumaine era di nuovo sulla litoranea. Il sole era infine tramontato e la sera pareva tranquilla. Mentre continuava a guidare, cercò di mettere un po’ d’ordine alle molte domande senza risposta che gli affollavano la mente. Tutto girava

intorno agli ultimi studi di Jarva—la telepatia. Era possibile che Jarva e Boyd fossero stati ammazzati a causa di questo? A cosa stava lavorando Jarva quando fu ucciso? Era ancora in contatto con Boyd? Come mai Boyd lavorava a Credence? Trumaine non lo sapeva.

Anche se non aveva trovato risposta a nessuna di quelle domande, intuiva lo stesso che il campo di ricerca si stava finalmente concentrando su qualcosa di specifico. Non sembrava ancora niente di definito, ma almeno stava assumendo una forma più regolare.

Quello che doveva fare ora era tornare a Credence e continuare a cercare il persuasore nella camera dei Believers—aveva perso fin troppo tempo a trastullarsi con il caso Boyd.

MAIA

Trumaine s’incamminò lungo il corridoio che conduceva alla camera dei Believers.

La maggior parte di quelli che incontrò sulla sua strada continuavano a scoccare occhiate oblique nella sua direzione. Tra gli sguardi innocui e curiosi, c’erano anche quelli più duri ed indagatori. Erano spesso seguiti da mormorii di disapprovazione che cessavano immediatamente se lui si voltava.

I Believers sapevano ormai chi era e che cosa ci faceva nella camera. Mentre quasi tutti gli sorridevano apertamente in riconoscimento di ciò che stava facendo, qualcuno lo guardava sdegnato, come se il suo lavoro nella camera sminuisse il vero spirito di Credence. Per quei pochi, catturare un’omicida era una cosa di scarsa importanza e non potevano credere che non ci fosse già riuscito.

Finalmente, arrivò ai tornelli e sfilò dentro.

Come al solito, i Believers fluttuavano pacifici nelle loro poltrone. Trumaine guardò in distanza, ai Believers scelti che stavano fluttuando in formazione quadrata, ma dai loro lineamenti rilassati era chiaro che non avevano ancora trovato l’Hibiscus naufragata.

Oltreò le molte culle vuote del primo livello, finché non arrivò ad una poltrona isolata marcata col numero 144.

Non appena si stese su di essa, la spia del poggiatesta diventò verde. Uno degli steli monocoli e serpentini che sostenevano le poltrone emerse dal baratro sotto la camera. Con un clangore attutito ed un sibilo, si accoppiò alla scocca della poltrona di Trumaine, la raccolse e se la portò via, nella camera.

Gli occhi di Trumaine si chio subito...

Di nuovo, si ritrovò circondato da un biancore abbacinante dove tutto era silenzioso ed intatto.

A poco a poco, il bagliore virò ad una delicata tonalità di blu. Sottili raggi di luce cadevano dall’alto, sembrando lunghe dita diafane; non erano ferme, ma continuavano a vibrare e a scintillare. Non era aria ciò con cui giocavano—era acqua...

Con uno sbuffo di fumo cremisi, un pallido involto venne improvvisamente rilasciato nell’acqua; si girò pigramente su sé stesso rivelando... una neonata.

Gli occhi ancora chiusi, quasi ignara di essere in un elemento diverso dal grembo di sua madre, galleggiò intorno arricciata come un gambero, i suoi lineamenti rotondi ostinatamente concentrati a dormire.

Un paio di mani scesero tra pareti arrotondate della vasca per il parto e raccolsero la bimba, sollevandola e portandola in superficie.

Fu solo quando la piccola emerse dall’acqua, che aprì gli occhi.

Arrabbiata per essere stata svegliata più di qualsiasi altra cosa, esalò il suo primo vagito, respirando l’aria che l’avrebbe sostenuta per il resto della sua vita.

Le mani consegnarono la bambina ad una Starshanna raggiante e ad un esausto Trumaine. Non appena sua madre l’ebbe tra le braccia, lei smise di piangere all’istante e si rimise a dormire.

Starshanna sorrise ad un Trumaine più sollevato.

Il desiderio di lei era stato esaudito; si sentiva appagata, felice e completa— come Trumaine. Il fin troppo lungo travaglio di Starshanna aveva esaurito anche lui, ma quando la bambina era infine nata, il nodo dentro di lui si era dissolto, sostituito da qualcosa di piacevole e caldo—doveva essere felicità, pensò.

Ora che poteva vedere sua figlia coi suoi occhi e non attraverso le immagini surreali fornite dall’ecografo, capì che c’era molta più semplicità e naturalezza nel portare a termine una gravidanza di quanto avesse mai pensato. Adesso che la bambina era nata, gli sembrava tutto facile e non poteva credere di essersi preoccupato così tanto. Anche quella nascita travagliata non era altro che la necessaria evoluzione da uno stato precedente che si era compiuto. In qualche modo, era stato parte di tutto questo; si sentiva strano, ma si sentiva bene.

Trumaine guardò la bimba dormire, comoda tra le braccia di sua madre.

“Abbiamo già campionato il DNA della bambina. Mi servirà anche il suo nome, per la pratica.” disse una voce automatica e monotona dietro di lui.

Si girò e vide l’infermiera Aquariana, un animale freddo ma perfettamente efficiente. Si era avvicinata a lui così piano che non l’aveva sentita arrivare.

“La chiameremo... Maia,” le disse Starshanna dolcemente, dopo che ebbe guardato Trumaine per conferma e che lui aveva annuito.

“Molto bene. Maia sia,” confermò l’infermiera.

Scrisse rapida nel suo blocco con dei leggeri bip, poi si rivolse a Trumaine.

“Mi prendo la libertà di ricordarle che domani il suo visto temporaneo scadrà. Molti dei nostri visitatori semplicemente si scordano di andarsene, e sono così interdetti per sempre dal ritornare. Veda di partire per tempo.”

L’infermiera attese come una macchina solerte una risposta che non arrivò mai.

Trumaine aveva occhi solo per Maia.

Starshanna ricevette una licenza per maternità di dieci mesi, così erano tornati sulla Terra. Anche se lei aveva portato avanti la gravidanza su Aquaria, aveva sempre pensato che Maia avrebbe dovuto vivere i suoi primi anni sulla Terra. Era il pianeta originario, là dove l’avventura della colonizzazione spaziale era

iniziata, dopotutto. Come Aquaria e i nuovi pianeti rappresentavano il futuro dell’umanità, la Terra testimoniava ciò che di buono e di edificante il ato era stato. Starshanna e Trumaine avevano convenuto che la cosa più giusta per Maia sarebbe stata imparare più che poteva sulla Terra, prima di trasferirsi su Aquaria. Naturalmente, una volta che fosse cresciuta, stava a lei decidere cosa fare; starsene su Aquaria, ritornare sulla Terra, oppure visitare uno dei nuovi esopianeti verso cui l’umanità si stava espandendo.

La casa non era mai stata più lieta e vivace.

Maia, felice di essere viva, era bramosa di esplorare il mondo intorno a lei. La curiosità e l’entusiasmo genuino con cui studiava anche il minimo fenomeno contagiavano entrambi i suoi genitori.

Dieci mesi arono in un batter d’occhio. Maia cresceva veloce e in modo regolare. Nei momenti in cui si sentiva più sicura di sé, osava alzarsi sulle gambe malferme e allungarsi verso gli oggetti che altrimenti non avrebbe raggiunto; ma era a gattoni che compiva il grosso delle sue esplorazioni. Gironzolava per casa e sul patio, arrivando fino al parapetto che suo padre aveva costruito intorno al canale per assicurarsi che lei non ci finisse dentro.

Maia, che aveva da tempo intuito la presenza di un’altra creatura nella casa, ascoltava attenta gli strani schiocchi e i fischi che risuonavano nel patio; ci aveva messo poco a capire dove poteva trovare il delfino. Trumaine e Starshanna la sorprendevano spesso attaccata al parapetto, sbirciando attraverso le fessure, cercando di intravederlo, contemplandolo, chiedendosi cosa fosse mai quella grossa cosa grigia che sguazzava.

Infine, glielo avevano fatto vedere.

Era la prima estate di Maia. Fuori faceva caldo, così Trumaine aveva levato il parapetto ed aveva raggiunto Starshanna e il delfino nell’acqua fresca del canale.

Ora che la barriera era improvvisamente sparita, Maia era riluttante ad avanzare oltre quel punto. Era attratta dal nuovo mondo, sentendo che la chiamava, ma anche se vedeva il suo papà e la sua mamma nell’acqua, lo stesso non riusciva a decidersi e a buttarsi dentro anche lei.

Continuava a gattonare in tondo, ispezionando nervosa il canale, lanciando caute occhiate all’elemento poco solido che era tenuta a sperimentare. Poi la sua attenzione si spostava alla forma scura che guizzava sotto la superficie blu. Lo seguiva con gli occhi intenti, poi, di tanto in tanto, quando vedeva emergere il muso affusolato del delfino, apriva la bocca meravigliata e lanciava strilli deliziati a cui il delfino rispondeva nel suo proprio linguaggio—una serie di fischi modulati.

Il delfino era sempre stato conscio della presenza di Maia, il suo istinto gli aveva detto fin dall’inizio che lei doveva essere un cucciolo di umano. Faceva capolino fuori dall’acqua, avvicinandosi a quella cosetta su quattro gambe che gattonava in giro sul bordo del canale e poi, quando era a mezzo metro da lei, la studiava a sua volta.

Con grande sorpresa di Trumaine e Starshanna, Maia si era seduta. Battendo le mani al delfino, gli gorgogliò. Di nuovo, il delfino aveva schioccato e fischiato, rispondendo a ciascuno dei suoni che Maia emetteva.

Starshanna e Trumaine galleggiavano nell’acqua, osservando la scena da lontano con un’espressione tra lo stupito e il divertito dipinta sui loro volti.

Durante un secondo tentativo di provare il mondo blu di cui il delfino era padrone, Maia si era avvicinata al bordo del canale—ma non aveva ancora il coraggio di saltare oltre quei pochi centimetri che la separavano dall’acqua.

Fu solo quando Starshanna ebbe nuotato fin davanti a lei, battendo le mani ed allungando le braccia verso di lei, che Maia aveva trattenuto il respiro ed era finalmente balzata in acqua.

Risultò che era una nuotatrice nata.

Tutti i bambini alla sua età dovevano esserlo, pensò Trumaine. Anche se le serviva un appoggio per restare a galla e nonostante il fatto che non tenesse mai la bocca chiusa, lo stesso—probabilmente grazie a qualche istinto primordiale— riusciva a chiudere la gola quando l’acqua le entrava in bocca.

Sempre ansiosa di esplorare, non chiudeva mai gli occhi quand’era sott’acqua.

Il delfino le nuotava intorno lentamente, senza mai sbattere la coda o fare movimenti bruschi che potevano spaventarla. La studiava solo, mentre lei cercava di orientarsi nell’elemento che la circondava.

Cosa strana, Maia non era minimamente intimorita dal delfino e in poche settimane loro due avevano sviluppato una stabile amicizia. Quando Maia non era nell’acqua, si cercavano l’un l’altra, attardandosi vicino al parapetto, sbirciando con nostalgia attraverso i paletti della recinzione.

Solo quando avevano la possibilità di essere insieme un’altra volta, nell’acqua, sarebbero stati ancora felici.

Trumaine ricordava quanto rapidamente Maia stava crescendo. Aveva imparato a nuotare molto presto; dai suoi primi tentativi, quando agitava le gambe e le braccia in movimenti affannosi e scomposti, aveva imparato a coordinare i suoi arti, nuotando e pagaiando in modo più efficace.

Mentre le sue membra si allungavano, diventando più forti, aveva iniziato a inseguire il delfino; dapprima goffamente, poi con più energia e determinazione.

Il suo amico grigio non la lasciava mai indietro; al contrario, l’avrebbe aspettata finché non si fosse avvicinata abbastanza. Solo allora avrebbe proseguito, mettendo tra di loro qualche metro in più, come per testarla—e Maia faceva diligentemente ogni sforzo per seguirlo.

A otto anni, il corpo magro di Maia tagliava l’acqua con sorprendente agilità e velocità.

Fu un giorno a quell’età che lei aveva dato un nome al delfino—dal momento che tutti gli animali da compagnia dovevano assolutamente averne uno—come gli disse. Mentre Trumaine non poteva immaginare nessun altro al mondo che avesse un delfino come animale da compagnia, trovò che il nome che aveva scelto per lui era abbastanza indovinato: era “Artù,” il re ardito di un regno magico.

Starshanna andava e veniva da Aquaria più spesso che poteva, specialmente nei fine settimana, il più delle volte spendendo metà del suo stipendio di biologa per acquistare i biglietti della Neptune—la navetta Aquariana. Non era da lei oziare o essere pigra sul lavoro, ma ora avrebbe trovato ogni scusa per rimanere sulla Terra qualche giorno in più, cosicché loro tre potevano stare insieme il più possibile.

Fu più o meno a quell’epoca che Maia prese la decisione che avrebbe cambiato per sempre la sua vita.

Accadde un pomeriggio, dopo che Starshanna se n’era andata. Come al solito, Maia si era issata fuori dall’acqua, sgambettando verso suo padre, che stava arrivando con un secchio pieno di sgombretti. Nutrire il delfino era diventato una specie di rituale affettivo tra padre e figlia. Certo, il delfino non aveva bisogno di essere nutrito, lui andava e veniva dall’oceano come più gli piaceva, e poteva trovare là il cibo di cui aveva bisogno, ma avrebbe accettato volentieri un pasto gratuito, e Maia trovava la cosa affascinante.

Semplicemente, si era girata verso suo padre.

“Quando sono in acqua, non importa quanto svelta io nuoti, non riesco mai a raggiungere Artù! Perché, papà?”

Era solo la domanda innocente di una bambina, una delle milioni che tanti ragazzi e ragazze della sua età fanno, e Trumaine non ci fece molto caso. Dopotutto, quante domande come quella riceveva un padre da una ragazzina sveglia e vulcanica come Maia? Così le aveva risposto come meglio aveva potuto.

“Perché madre natura lo ho reso adatto per il mare. Al posto delle tue braccia e delle tue gambe, gli ha dato delle pinne e una coda poderosa.”

“Sarà sempre più veloce di me?”

“Credo di sì. Ma tu puoi sempre cercare di superarlo, no?” disse, senza scoraggiarla.

Gli sembrava una risposta perfettamente innocua da darle; non pensava affatto alle conseguenze devastanti che quelle poche parole avrebbero avuto sulla mente esuberante di Maia.

“Sì. Un giorno, lo batterò!” esclamò con cocciuta determinazione.

Trumaine non sapeva allora che lei aveva appena preso la più tremenda decisione della sua vita. Non immaginava allora le infinite volte che si sarebbe maledetto per non averle detto la semplice verità: il delfino apparteneva ad un mondo di cui lei non aveva la minima idea; lui era fuori dalla sua portata, fuori dalla portata di qualsiasi essere umano, perché era un nuotatore provetto progettato per vivere in acqua.

Maia compì dodici anni. Era negli anni in cui cominciava a rendersi conto pienamente di sé stessa, di ciò che le piaceva e di ciò che invece odiava.

Trumaine sapeva che l’ora in cui lei avrebbe scelto se restare con lui o tornare da sua madre si avvicinava rapidamente, e sentiva che non poteva farci nulla.

Maia aveva sempre condiviso l’amore di Starshanna per l’acqua ed era affascinata dal suo lavoro.

Si rammentò la conversazione che aveva avuto con lei esattamente a quel proposito.

Trumaine era in spiaggia, che si abbronzava al sole basso di fine estate. Come al solito, le onde che si frangevano avevano un effetto lenitivo su di lui; anche le grida stridule dei gabbiani che volavano in tondo erano una nota di cui non riusciva a fare a meno.

Da dove stava lui poteva intravedere, appena oltre la spiaggia, la pinna dorsale di Artù fendere l’acqua con poco rumore e, qualche metro dietro di lui, un paio di braccia sottili che emergevano e ricadevano nell’acqua instancabilmente, inseguendolo.

Maia alzava la testa fuori dall’acqua salata regolarmente, ansimando per respirare, poi la tuffava ancora, sforzandosi di tenere il o del delfino.

C’era qualcosa di primordiale ed oscuro nella determinazione di Maia nel cercare di superare il cetaceo che Trumaine non aveva ancora compreso. Non era più l’assurda convinzione di una ragazzina; era cresciuta oltre il punto di ciò che poteva essere provato o confutato, ben oltre le dimensioni o la forza dei contendenti. La lotta aveva raggiunto un livello senza precedenti ed era diventata la sfida segreta e millenaria dell’uomo all’ordine naturale.

Dal punto dov’era Trumaine, non sembrava niente di ciò; non vedeva ancora il pericolo che cresceva davanti ai suoi occhi. Per lui, non era che un’altra giornata pigra alla fine di una lunga e calda estate.

Guardò in là: Maia e il delfino stavano ora entrando nel canale. A poco a poco, giunsero all’altezza di dove si trovava lui, e seppe che era ora di rientrare. In un’ora avrebbero cenato e, prima ancora, avrebbero dato da mangiare al delfino.

Così si alzò, raccolse l’asciugamano da sotto di sé, e poi trottò lungo l’argine del canale, precedendoli al patio.

Trumaine uscì dalla portafinestra tenendo il secchio degli sgombretti. Lo posò in un angolo, poi si avvicinò ad una delle sdraio, dove Maia aveva negligentemente lasciato cadere l’accappatoio. Lo raccolse, poi si diresse verso la scaletta di ferro che aveva comprato per rendere più facile a Maia l’uscita dal canale.

Il delfino e la ragazzina erano finalmente arrivati.

Tremando per la stanchezza, guardando in su con un sorriso, Maia si issò fuori dall’acqua, prendendo l’accappatoio che le veniva offerto. Trumaine non riusciva ad abituarsi alla velocità con cui cresceva; era fiorita all’improvviso in un’adolescente radiosa, sebbene ossuta, ed era più adorabile che mai. Si avvolse nell’accappatoio, strizzando l’acqua dal naso esattamente come faceva suo padre.

“Pensi ancora di batterlo?” le chiese, stuzzicandola.

Maia non disse nulla. Lo fissò solamente da sotto le sue sopracciglia aggrottate, come fanno gli adolescenti quando sono arrabbiati, ma non osano dire quel che gli a per la mente—o non gl’importa.

Raggiunse la sdraio più vicina e crollò su di essa, cercando di prendere l’ultimo sole.

Trumaine strizzò l’occhio al delfino in modo che Maia lo vedesse. “Non ce lo vuole dire,” disse.

Il delfino trillò e fece un giro in tondo solo per compiacerlo, ritornando ancora ai suoi piedi; aveva altre cose per la mente—magari un bel pesce?

Trumaine recuperò il secchio e lanciò gli sgombretti al delfino, che li trangugiò uno ad uno, avidamente.

Quando ebbe finito, si sciacquò le mani nel canale, poi si lasciò cadere sulla seconda sdraio, vicino a Maia. Aveva cercato di badare ai fatti suoi per un po’, poi si era girato verso di lei e, con una voce indifferente, le aveva chiesto, “E Aquaria sarebbe meglio di qui? Davvero? Non ci credo.”

Maia girò la testa, strizzando gli occhi per tenere fuori la luce dorata che arrivava orizzontalmente.

“Oh, papà, perché continui a chiedermelo, se la risposta è sempre la stessa?”

“Sei sicura che non cambierai idea?”

“Ti sembra che mamma l’abbia fatto?”

Sperava che questa non fosse un’altra discussione fatta di domande, era qualcosa a cui Maia giocava un po’ troppo spesso ultimamente.

“Tu non sei Starshanna,” disse, esasperato.

“Mi piace qui,” disse lei, piano. “La casa. Artù. E’ tutto bellissimo. Ma Aquaria è un altro pianeta. E’... beh, fico: laggiù, i mammiferi marini sono così grandi da fare sembrare piccole anche le nostre balenottere azzurre. Aquaria non è assolutamente come la Terra; è giovane e selvaggia. Sai, la mamma e i suoi colleghi ci hanno messo due anni interi per classificare meno dell’uno percento dell’intera fauna oceanica. Figurati, ha bisogno di tutto l’aiuto che può ricevere.”

“Così te ne vuoi andare.”

Di nuovo, lei sospirò e girò la testa.

“Non prendertela così male, papà, tornerò presto—entro sei mesi al massimo, te lo prometto. Non ti accorgerai nemmeno che me ne sono andata!”

“Cristo, sei mesi alla tua età? Quando tornerai non ti riconoscerò nemmeno.”

“Perché non vieni tu, allora?”

“Sono stato all’ambasciata Aquariana. Non è che la cittadinanza di prima classe la regalino proprio, eh?”

Trumaine saltò su con lo sguardo torvo e rientrò in casa.

Quella fu l’ultima volta che avevano discusso della partenza di Maia—lei non aveva cambiato idea, se ne sarebbe andata.

Essendo nata su Aquaria, lei aveva diritto alla cittadinanza Aquariana; non avrebbe avuto nessun tipo di problema né ad andare su Aquaria né a tornare sulla Terra tutte le volte che voleva.

Trumaine sapeva che stava prendendo tutto questo nel modo sbagliato. Anche se era felice per sua figlia e comprendeva perfettamente la sua decisione, lo stesso, si sentiva confuso. Lo sapeva che sarebbe accaduto, prima o dopo, l’aveva anche aiutata a impacchettare le cose più ingombranti che avrebbe portato con sé. Ma mentre l’ora della partenza di Maia si avvicinava, si rendeva conto che non era assolutamente preparato. Voleva vederla, voleva averla intorno a sé ancora un po’. Non chiedeva un mese, gli bastava una settimana, e ora si sarebbe accontentato anche di un solo giorno.

Non era solamente il fatto che sarebbe rimasto da solo—era abituato alla solitudine—erano l’allegria, la follia, la spensieratezza, la sorpresa costante e il colore che circondavano Maia.

Poteva sempre andare a trovare lei e sua madre per un breve periodo, sì, ma non sarebbe stata la stessa cosa che trasferirsi su Aquaria. Era quello il suo sogno— ma per realizzarlo avrebbe avuto bisogno di una stramaledetta cittadinanza.

Il peggio capitò il giorno seguente. Non fu né rapido né improvviso.

Quando l’acqua era calda abbastanza, Maia andava spesso a nuotare un paio di volte al giorno—nella tarda mattinata e nel pomeriggio. Ogni volta che lo faceva, il delfino andava con lei.

Trumaine non aveva mai obbiettato, lei era uscita così tante volte... di cosa avrebbe dovuto preoccuparsi?

Non fu mai del tutto sicuro di quel che accadde nell’ora successiva. Ricostruì i fatti più tardi, quando fu di nuovo capace di una qualche razionalizzazione.

Maia si era tuffata nel canale ed aveva nuotato lungo la riva, inseguendo Artù. Ma quando giunsero nel tratto di mare davanti alla spiaggia, all’improvviso il delfino era scivolato via ed era scomparso. Forse qualche minaccia l’aveva distratto, o forse aveva sentito un gruppo di delfini—non si seppe mai.

Maia si chiese cosa gli fosse capitato; se ne avesse avuto abbastanza di lei, se avesse trovato la compagnia di una femmina, o se avesse avuto un malore. Temendo di averlo perso per sempre, lo cercò sempre più al largo.

Di tanto in tanto, smetteva di nuotare e alzava la testa fuori dall’acqua, chiamando il delfino. Ma lui non rispondeva; non si vedeva il suo muso affusolato sbucare all’improvviso dalla superficie dell’acqua, come era solito fare...

A poco a poco, Maia aveva cominciato a stancarsi, ma non si era ancora resa conto che si era inoltrata troppo nell’oceano. Il tempo stava cambiando velocemente—come spesso accadeva alla fine dell’estate, i venti più freddi guadagnavano la zona d’alta pressione.

In pochi minuti, l’oceano era diventato rotto e mosso—aveva incominciato a crescere. Maia faceva sempre più fatica a restare a galla. Andò sotto un paio di volte, ma tornò su facilmente—era una nuotatrice provetta, dopotutto.

Guardò a destra e a sinistra, sperando di scorgere la familiare pinna dorsale di Artù, ma non la vide.

Arrivò un’onda lunga e blu, che la prese e la portò giù con sé. Ma lei era ancora forte; si divincolò dalle sue dita gelide, emergendo dall’altra parte, tossendo e sputando l’acqua che aveva ingoiato.

Si era guardata intorno ancora una volta e si era accorta con orrore di essere andata troppo oltre: la spiaggia non era che una linea vaga in lontananza.

Agitata, cominciò a nuotare verso riva...

Fu allora che giunsero i cavalloni verde scuro, galoppando veloci, incalzandola. Si moltiplicarono e, all’improvviso, furono le schiene ingombranti di un branco di megattere che giocavano a rincorrersi.

Raggiunsero Maia.

Giocarono con lei un gioco troppo duro; alzandola, sommergendola, tenendola sotto, stremandola a tal punto che poteva a malapena alzare le braccia.

Un cavallone gigantesco l’avvolse in una montagna d’acqua nera e spumeggiante. Maia sgomitò convulsa, cercando di uscire da sotto di essa, ma ogni volta che ci riusciva, un’altra onda prendeva il posto della precedente, continuando il gioco fatale.

Le sue mani e i suoi piedi sbattevano violentemente, spingendo via l’acqua onnipresente, cercando di arrivare alla superficie... ma i suoi sforzi erano inutili. Con gli occhi spalancati per il terrore, e in gola il gusto amaro del sale e della sconfitta, urlò, ma dalla sua bocca uscirono solo bolle.

L’acqua la risucchiò implacabilmente finché, con un ultimo spasmo, Maia svenne... Quando, alla fine, l’oceano la lasciò andare, lei non si muoveva più. Il suo corpo galleggiò mollemente verso la superficie.

Fu solo quando Trumaine aveva udito gli schiocchi eccitati del delfino che si era reso conto che qualcosa non andava. Era uscito di casa, avvicinandosi al bordo del canale, e vide che Artù era solo. Si accorse troppo tardi che l’oceano si era ingrossato.

“Dov’è Maia?” chiese al delfino.

Artù nuotò in cerchi, senza capire, ritornando ogni volta ai piedi di Trumaine.

“Maia è sparita!” urlò. “Dov’è Maia? Trovala! Trova Maia!”

Additò l’oceano e, improvvisamente, il delfino parve comprendere; ruotò su sé stesso e nuotò via più veloce che poté. Trumaine gli corse dietro lungo l’argine del canale finché arrivò sulla riva, ma non c’era nulla che lui potesse fare, tranne che guardare e aspettare.

Intravedeva la pinna dorsale del delfino che si spostava intorno, cercando. Vicina all’inizio, poi sempre più lontana, fendendo le onde come argento vivo. La pinna di Artù si rimpicciolì, diventando la punta di uno spillo, e poi sparì. Per un lunghissimo tempo Trumaine fu bloccato dalla paura, imprecando e maledicendosi per non avere mai comprato una barca a motore.

Gli sembrarono ore intere, ma non erano trascorsi che un paio di minuti.

Quando Artù emerse nuovamente, c’era qualcosa sul suo muso. Nuotava rapido, alzando nervosamente la testa, cercando di tenere il fagotto sollevato dall’acqua, ritornando verso il canale.

Trumaine lo seguì, finché non furono nel patio.

S’inginocchiò, allungando le braccia verso il basso, recuperando il corpo molle di Maia—era fredda, aveva la pelle blu, e non si muoveva. La stese sulle pietre del patio, girandola su un fianco per permettere all’acqua che le riempiva i polmoni di uscire, poi la mise supina e cercò di rianimarla.

Trumaine non seppe mai per quanto tempo aveva tentato di farle riprendere conoscenza, pompandole il petto, massaggiandole regolarmente le spalle, cercando sempre sulla sua faccia il segno che era ancora viva.

Un’ora più tardi, quando aveva smesso, non sentiva più le braccia. Le avrebbe sentite più tardi, e per il resto della settimana successiva, quando credette che i suoi muscoli fossero stati appesi ai ganci per la carne.

Faceva freddo e una pioggia leggera e gelida aveva cominciato a cadere sopra tutte le cose. Trumaine si sentiva stordito, perso e confuso. In pochi attimi, la giornata piacevole e colorata si era trasformata in una livida cortina di ferro, e tutta la sua gloria si era ridotta a dolore e disperazione—Maia era morta. L’oceano che era la sua vita gliel’aveva presa.

Trumaine guardò su, verso il cielo, cercando una risposta, quando il mondo intorno a lui prese a girare sempre più vorticosamente...

UNA STRANA PROPOSTA

Trumaine aprì gli occhi di scatto.

Era di nuovo al sicuro nella camera dei Believers e stava ansimando. Si ò la mano sulla fronte e vide che era madida di sudore.

Non si ricordava quante volte quell’orribile incubo lo aveva tormentato nel sonno ma, stavolta, era stato così vivido da sembrare reale.

Si guardò le braccia. Anche adesso le sentiva pesanti sotto il tessuto leggero del vestito in Syntex, e i suoi muscoli erano esausti, come se li avesse usati davvero.

Il corpo di Maia gli era sembrato pesante come il piombo tra le sue braccia. Quelle membra fredde e senza vita non erano fatte della carne di carta dei sogni —avevano avuto la consistenza della carne vera. Aveva sentito il vento freddo che soffiava dall’oceano, le gocce gelide di pioggia che lo avevano scalfito, ed aveva assaggiato il sale del proprio sudore...

Trumaine mandò giù forte. Si sedette e si massaggiò le tempie, cercando di dimenticare il sogno.

Intorno a lui, i Believers fluttuavano pacifici, badando agli affari loro; il gruppo di Believers che cercavano l’Hibiscus erano ancora nel loro angolo, segno che

non l’avevano ancora trovata...

Concentrarsi su qualcos’altro non funzionò—non riusciva ancora a levarsi Maia dalla testa.

Aveva pensato spesso a quel giorno e si era chiesto—se le avesse proibito di uscire, se l’avesse seguita, sarebbe forse ancora viva? L’idea che probabilmente lo sarebbe stata, lo faceva impazzire.

Trumaine si maledì una volta di più per non essersi reso conto prima della follia che stava crescendo sotto i suoi occhi. C’era così tanto che avrebbe potuto fare per fermarla...

Lanciò un’occhiata verso i cancelli della galleria e vide un uomo in un completo bianco avvicinarsi, sedendosi sulla poltrona vicino alla sua. Conosceva quell’uomo; non era uno dei Believers.

Benedict guardò verso di lui, studiandolo.

“Ha scoperto qualcosa, detective?”

Trumaine scosse la testa. “Ancora niente.”

Benedict annuì tristemente. Quando parlò, la sua voce suonò meno fredda del solito e più informale, perfino amichevole.

“Mi sono preso la libertà di parlare con il suo capitano,” disse. “Mi pare di capire che il capitano Firrell sia un suo buon amico.”

Trumaine si chiese a cosa stesse mirando Benedict.

“Grant e mio padre hanno lavorato insieme. Questo gli fa credere di essere in obbligo anche verso suo figlio.”

“Mi ha detto che lei ha perduto la sua beneamata figlia in uno sfortunato incidente e, forse a causa di ciò, anche l’affetto della donna che un tempo amava.”

Trumaine sentì il sangue andargli alla testa—Firrell non aveva alcun diritto di raccontare a Benedict la sua vita privata.

“Perché non l’ha chiesto a me? Glielo avrei detto io stesso.”

“Ne dubito, detective. Ci sono cose che non confidiamo nemmeno a noi stessi— cose di cui abbiamo paura, cose che ci fanno male. No, lei non mi avrebbe mai parlato spontaneamente di Maia. Ho dovuto chiedere al suo capitano.”

“Immagino che questo cambi tutto, ora che lo sa.”

“Non sono un ficcanaso. Gliel’ho chiesto per una buona ragione.”

“Faccio fatica ad immaginarmela.”

“Ho bisogno di sapere se stiamo facendo qualche progresso nella ricerca del persuasore. Il tempo che lei trascorre nella camera può essere sprecato se lei si concentra troppo su fatti personali. E’ mio dovere sapere se ci sono elementi che potrebbero... offuscare il suo giudizio.”

“Non mi sto concentrando su nulla di personale, quei sogni mi vengono da sé, non posso farci niente.”

“Se lei è troppo coinvolto nel suo ato, potrebbe perdere di vista—”

“Non sto perdendo di vista proprio un bel niente!” esplose Trumaine. “Sto solo facendo quello che lei mi ha detto! Sto attento a tutto ciò che potrebbe essere leggermente diverso da come io me lo ricordo, sto attento a ogni singola parola che viene detta. Il problema è, che tutto è come dovrebbe essere. E’ esattamente così che quelle dannate cose sono andate, quelle sono esattamente le parole che ci siamo detti l’un l’altro, nello stesso modo in cui ce le siamo dette. Non c’è niente di strano, non c’è niente di sbagliato—è tutto come dovrebbe essere.”

Trumaine guardò lontano, perso nei pensieri.

“Non ho mai sognato così chiaramente... L’oceano, la pioggia sferzante, i baci di Starshanna, il corpo esanime di Maia... mi è sembrato tutto così reale.”

“La percezione intensificata dipende dal feed a cui lei è esposto,” spiegò Benedict. “Come le ho detto, ci vuole un po’ di tempo per abituarsi.”

Emise un lungo sospiro.

“Le dispiacerebbe descrivermi ciò che vede quando è nel feed?”

“Sogno di mia figlia... di mia moglie. Sono episodi delle nostre vite; di quando m’innamorai per la prima volta di Starshanna, della nascita di Maia, della sua ossessione nell’inseguire il delfino. Della sua morte...”

“Un’esperienza dolorosa,” commentò Benedict.

“Che continua a ripetersi. Che sia colpa del feed?”

“Non credo. E’ chiaro che, dopo tutti questi anni, la perdita di sua figlia la perseguita ancora. In qualche modo, lei non riesce ad accettare quello che è successo. Il suo subconscio continua a rivivere quel terribile momento affinché lei lo cambi ma, anche se le immagini di quell’evento sono nella sua mente, sono solo ricordi eggeri, ombre. Perché quell’evento appartiene veramente solo al ato—non c’è niente che lei possa fare per cambiarlo.”

Trumaine annuì stancamente.

“Non commetta l’errore di credere di essere l’unico ad essere stato toccato dalla morte, detective—la morte non è un privilegio. Anch’io ho perduto persone care, come pure il suo capitano—e ciascuno di noi. E’ nella nostra natura di esseri mortali. La medicina e la tecnologia non possono fermare il tempo—nasciamo, invecchiamo, moriamo. E’ semplice; le potrà sembrare cinico, ma la vita è fatta per questo...”

“Per morire?” lo schernì Trumaine.

“Al contrario—per vivere. Per vivere in modo tale per cui, quando siamo vicini alla fine, non siamo lasciati soli con i rimpianti o i lamenti, ma con la piena consapevolezza dei seppur pochi traguardi che abbiamo così faticosamente raggiunto nella nostra vita. Sono sicuro che la vita di sua figlia, per quanto corta, è stata piena e felice.”

“Aveva solo dodici anni...”

“Nondimeno, per quanto dura possa essere con noi, la vita va avanti.”

“Avrei dovuto fermarla...”

“Non c’è nessun altro che popola i suoi sogni, oltre ai suoi cari?”

“C’è un’infermiera Aquariana e l’impiegato dell’am-basciata Aquariana.”

“E’ certo che siano ciò che pretendono di essere?”

“Ne sono certo...”

Trumaine scosse la testa. “Mi dispiace. Forse la sua teoria sulla curiosità non si applica in questo caso.”

Benedict sospirò. “Tutto è possibile, naturalmente.”

“Che cosa facciamo adesso?”

“Ci atteniamo al piano originario,” disse Benedict, con un tono piatto. “Continuiamo a setacciare il feed finché non scoviamo il persuasore.”

“Ci ho provato, e ne sono uscito a mani vuote!” saltò su Trumaine. “Non è servito a niente e non c’è più tempo, Benedict! Perché continuare?”

Additò i Believers che cercavano l’Hibiscus.

“Li guardi, è da quasi tre giorni che ci provano! E che cosa hanno trovato? Niente! L’Hibiscus è andata! Sono tutti morti, ecco perché i suoi Believers non la trovano! Perché insistere?”

“Perché non c’è alternativa,” disse Benedict, con una quieta determinazione.

“Non posso obbligarla a credere che prenderemo il persuasore in meno di ventiquattrore, naturalmente. Ma se non lo fermiamo, i viaggi intergalattici non saranno più sicuri. La gente comincerà a temere possibili attacchi—sarà la fine di Credence. Non posso permetterlo. Non mi piace come suona, ma io sono responsabile di fronte all’intera umanità, detective...”

Fece una lunga pausa.

“Mi aiuti. Mi aiuti a trovare il persuasore che si nasconde a Credence,” lo pregò.

Mentre Trumaine oltreava i tornelli, guardò il tabellone appeso sopra ad essi, e lesse: 501 e 05:55.

Si sentiva vecchio, spossato e senza speranza. Aveva subito bisogno d’una tazza di caffè, così diresse i suoi i verso sinistra, entrando nella mensa di Credence.

La mensa era quasi vuota a quell’ora. I pochi Believers che si vedevano in giro erano allungati sulle loro sedie—continuavano a sbadigliare, lottando per non fare ciondolare le loro teste nella loro colazione.

Trumaine si avvicinò ad una grande credenza immersa nei raggi ultravioletti e prese una tazza bianca e sterile. La riempì con un fiotto di caffè nero, caldo e fumante. Anche se il suo odore non aveva nulla a che fare con l’aroma forte che

aveva inalato da Faith, sarebbe andato bene lo stesso.

Andava bene tutto, stamattina.

Senza rendersene conto, si diresse verso lo stesso tavolo che Faith gli aveva mostrato il giorno prima.

Sedette, stringendo la tazza con entrambe le mani, godendosi quel poco di calore che la ceramica rilasciava. Sorseggiò il caffè, sentendolo scendere nello stomaco, a poco a poco, assaporandone ogni momento.

Giacere nella camera aveva risvegliato qualcosa sepolto profondamente dentro di lui; ricordi che credeva dimenticati, ma che in realtà non lo avevano mai abbandonato; ricordi che covavano solo pochi centimetri sotto i molti strati della sua limitata consapevolezza.

Trumaine estrasse il suo lucido portafogli di plastica autosigillante e recuperò qualcosa che non aveva più guardato da molto tempo—era la foto tridimensionale lunga sette centimetri e larga cinque di una ragazzina. Il sorriso radioso e spensierato di Maia splendeva sulla sua faccia abbronzata. Aveva quasi undici anni allora, i suoi capelli castani erano più chiari del solito—per via che il sole estivo li aveva schiariti—ma i suoi occhi erano sempre gli stessi. Avevano quel tocco di follia e di imprevedibilità che avevano non solo le persone giovani e briose come Maia, ma anche quelle più grandi, da cui ci si aspettava una maggiore freddezza e autocontrollo, come sua madre.

Quella foto era rimasta nella sua tasca per due anni di fila. La sfiorò col pollice, seguendo il contorno della guancia di Maia, come se la stesse accarezzando—

Quando, ad un tratto, un’ombra balenò davanti a lui—il movimento era stato talmente repentino che aveva quasi fatto un salto.

Sollevò gli occhi... ma era solo Faith.

Si era talmente assorto nella foto di Maia che si era dimenticato di ciò che stava succedendo intorno a lui.

“Ti spiace se mi siedo?” gli chiese.

La guardò negli occhi e, per un attimo, pensò che fossero più lucidi del solito, ed arrossati, come se avesse pianto da poco. Era solo un’impressione? Trumaine non ne era sicuro.

“Per nulla,” le disse.

Fece un cenno a Faith verso la sedia dall’altro lato del tavolo e lei si accomodò.

“Stai entrando o stai uscendo?” le chiese.

“Sono appena uscita. A volte, penso che farei prima a trasferirmi a Credence e vivere il resto della mia vita qui... Hai qualche buona notizia?”

Trumaine scosse la testa. “Non ancora.”

Girò la foto sottosopra, in modo che Faith non la vedesse, e tornò a bere il suo caffè.

“Chi è, tua figlia?” gli domandò.

Trumaine annuì; non erano poi molte le cose che riusciva a nasconderle, dopotutto. Rimise la foto dritta e la ruotò perché lei la guardasse.

“E’ Maia,” le disse.

“Era molto giovane.”

“Era?” le chiese, meravigliato.

“E’ morta, non è vero?”

Trumaine sembrò colpito. “Come lo sai?”

“La gente non fissa le fotografie come fai tu,” disse Faith con una nota amara

nella voce.

“E l’hai dedotto solo da quello?”

“Certo...”

Trumaine giocò con l’angolo della foto, poi la rigirò e la studiò.

“E’ morta inseguendo un sogno di ragazzina,” disse, tenendo gli occhi fissi sull’immagine.

Ci fu un lungo silenzio imbarazzato, poi Faith posò la mano su quella di Trumaine. Il detective guardò la piccola mano di lei, poi guardò Faith e sorrise a metà. Il tocco voleva confortarlo e forse anche offrirgli una tardiva condoglianza. Le era grato per questo ma, lo stesso, tolse la mano.

“Se Credence fosse ciò che Jarva avrebbe voluto, Maia sarebbe potuta tornare in vita ancora una volta...” disse Faith con un sussurro, cercando gli occhi sfuggenti di Trumaine.

“Non ha molto senso parlare di questo adesso, dal momento che Jarva è stato assassinato, non credi?”

“No, forse no... Ma se lui fosse ancora vivo, gli avresti lasciato provare a riportare Maia in vita?”

“Non c’è ragione di vivere nel ato.”

“Magari c’è un significato.”

“Quando hai imparato la lezione, il ato è meglio lasciarselo dietro e dimenticarlo una volta per tutte.”

“E’ per questo che continui a guardare quella foto? Per dimenticarla?” saltò su Faith.

Trumaine ci pensò su per un po’, ma alla fine non disse niente—non aveva risposte da darle.

Trumaine aveva lasciato Faith in mensa.

Aveva raggiunto l’atrio di Credence ed era entrato in una delle molte cabine per i video messaggi che lo delimitavano.

Strisciò la sua carta di credito nella fessura apposita ed il monitor di ossidiana appeso al muro s’illuminò, diventando di un bianco perlaceo.

“Chiamata per il capitano Firrell, dipartimento di polizia della Città,” disse.

Il monitor lampeggiò due parole: CHIAMATA INOLTRATA.

Dopo qualche istante, la faccia larga e assonnata di Firrell entrò nella visuale.

“Trumaine,” disse con uno sbadiglio.

“Spero di non averti buttato giù dal letto, Grant, ma ho pensato che ormai dovresti avere i risultati di laboratorio sulla macchina dei Goldmar.”

“Certo che ce l’ho,” disse Firrell, aprendo la bocca in un altro sbadiglio. “Le tracce di DNA che Boyle ha trovato nella Meteor ’55 appartengono ai Goldmar e al loro gatto. Boyle ha confrontato i suoi campioni con quelli che gli hanno spedito da Santorini—coincidono.”

“Nient’altro?” chiese Trumaine, sperando in qualcosa di più.

“Niente. I Goldmar non hanno un garage, ecco perché lasciano sempre la macchina sotto il portico. Non si prendono nemmeno la briga di chiuderla a chiave—è un vecchio pezzo di ferraglia, hanno detto. Non pensavano mai che qualcuno l’avrebbe presa.”

“E della loro vicina, quell’Alveraz, che cosa hanno detto? Credo che la conoscano.”

“La conoscono anche troppo. ‘E’ una ragazza così cara’—sono le loro esatte parole. Secondo loro, Alveraz non avrebbe mai preso in prestito la loro auto senza il loro consenso. O hanno ragione, o lei li ha imbambolati per bene.”

Trumaine scosse la testa e imprecò; era l’ennesimo buco nell’acqua.

“E tu, che mi racconti?” chiese Firrell, sollecito.

Trumaine brontolò, ancora arrabbiato con lui.

“Io e Benedict abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Sono felice di sapere che ti piace tenerlo ben informato dei miei affari,” disse con una smorfia.

A Firrell non piacque troppo l’osservazione.

“Diamine, ce l’hai con me per questo? Quanto ci resta prima che chiudano Credence per sempre, una ventina di ore? Non stiamo andando da nessuna parte, Chris. Lo sai perché mi hai trovato già in piedi? Non sei stato tu a buttarmi giù dal letto, è stata l’AST. Adesso mi chiamano ogni due ore; giorno, notte—è lo stesso per loro. Hanno chiamato mezz’ora fa. Indovina un po’? Hanno minacciato di dare il mio numero personale a tutti quelli che hanno parenti sull’Hibiscus se non scopriamo qualcosa subito. Non ti dico altro!”

Respirò profondamente per abbassare la pressione.

“Mi dispiace maledettamente di avere parlato di Maia con Benedict, Chris. Sono amico tuo e tutto, ma farò tutto quello che posso per aiutare te o lui a prendere la dannata talpa.” Annuì tra sé e sé—ecco, glielo aveva detto infine. Firrell sembrava amareggiato e lo era.

“Va bene, Grant. Va bene...”

“Che farai ora?”

“Che cosa vuoi che faccia, seguirò l’infallibile piano di Benedict. Tornerò di nuovo nella camera, e poi ci andrò di nuovo, e poi ancora. Non so cosa diavolo pensa che scoprirò, ma lo farò—tornerò nella camera.”

“Almeno tu puoi dormire,” disse Firrell con un ultimo sbadiglio.

Trumaine gemette e lo disconnesse. Fissò il monitor mentre l’immagine si dissolse in un nero ossidiana.

Trumaine marciò verso i tornelli con una sorta di profonda repulsione. Non sapeva come sarebbe stato sperimentare il feed vero, non voleva saperlo e probabilmente non l’avrebbe mai saputo. Ma c’era una cosa che sapeva benissimo: entrare ed uscire dal feed vuoto lo stava facendo impazzire—odiava ogni istante che ava nella camera e se si fosse reso conto prima che prendere il persuasore significava scavare nel profondo del suo ato sepolto e dimenticato, non avrebbe mai accettato l’offerta di Firrell.

Mentre procedeva, guardò i tornelli aprirsi con un sibilo inquietante ogni volta che si avvicinava un Believer—pensò che sembravano le fauci spalancate dell’Ade.

Trumaine si chiese cosa lo aspettava stavolta; quale punto del suo ato il feed gli avrebbe rivelato, quale ferita faticosamente sanata si sarebbe riaperta e avrebbe sanguinato di nuovo...

Mentre stava in piedi davanti alla lastra di plastica che era la porta del tornello, questa scivolò di lato. Gli richiese una buona dose di volontà oltrearla... Ancora pochi i, e fu dall’altra parte.

“Credevo si averla appena vista uscire, detective,” disse una voce beffarda alla sua destra.

Era la guardia della galleria, naturalmente. Si era avvicinato a Trumaine di lato, facendogli l’occhiolino.

“Caronte, vecchio amico mio,” disse il detective.

Ma l’uomo non capì.

Trumaine se la svignò col ghigno della guardia in tasca.

Giunse infine alla sua poltrona, la temuta numero 144. Sarebbe sempre stata lì ad

aspettarlo—che pensiero confortante.

Sedette. Poi, con una smorfia, si stese.

Il serpente monocolo di metallo nero si levò dall’abisso della camera e addentò la carne d’alluminio della poltrona, sollevandola. La trascinò indietro, verso l’oscurità da dov’era emerso, e Trumaine cavalcò con lui.

SCONFITTA

La camera da letto era immersa nel silenzio, inondata dalla luce che entrava dagli scuri socchiusi della portafinestra.

Nel letto c’era un uomo che dormiva. Sul mento e sulle sue guance smunte gli cresceva la barba di una settimana, e i suoi capelli erano unti e in disordine. Indumenti usati—pantaloni, calzini e un paio di camicie—giacevano sparpagliati tra un cassettone e il pavimento di legno.

i felpati risuonarono nella stanza—la mano di una donna toccò la spalla dell’uomo, svegliandolo.

Trumaine strofinò il sonno dagli occhi con il palmo della mano, poi fece un cenno a Starshanna.

“Lo vuoi un po’ di caffè?” chiese lei.

Senza dire nulla, prese la tazza che lei gli offriva e ne bevve un po’, perso nei suoi pensieri.

Lei gli si sedette accanto, studiandolo per un po’.

“Sempre quel sogno?”

Trumaine annuì.

“Smettila di torturarti, Chris. Non è stata colpa tua,” gli disse in un sussurro.

Come se Trumaine avesse appena sentito la voce familiare di qualcuno che un tempo conosceva, guardò su da dietro il muro che aveva alzato contro il mondo.

“No?” chiese.

“No...”

Trumaine emise un suono rauco che poteva essere sia una risata soffocata che di scherno e torse le labbra in un sorriso sbilenco e amareggiato.

“Sono un poliziotto, dovrei avere un senso del pericolo sviluppato. Come ho fatto a non capire? Avrei dovuto proibirle di andare, non era la giornata per andare a nuotare.”

Starshanna sospirò. Per la milionesima volta quel mese, ricominciò daccapo.

“Maia ha preso da entrambi—era cocciuta e un po’ pazza. Pensi che ti avrebbe

ascoltato? Non l’avrebbe fatto.”

“Avrei dovuto prosciugare il canale e riempirlo di terra.” Trumaine stava parlando con sé stesso più che con Starshanna.

“Avrebbe scovato un altro modo per uscire e andare dietro al delfino.”

Starshanna mise la sua mano sopra al braccio di Trumaine, come se il contatto fisico potesse colmare la voragine che si era improvvisamente aperta tra di loro.

“E allora avrei dovuto ammazzarlo. Permettere a quella bestia di rimanere qui è stata la peggior idea che io abbia mai avuto.”

Starshanna sorrise tristemente. Sapeva che non diceva sul serio, sapeva che lui amava il delfino e ciò che rappresentava almeno quanto Maia.

“Era nata per l’acqua—era la sua vita. Non avresti mai potuto levargliela, sarebbe stato come ucciderla.”

Trumaine si prese la testa tra le mani, come se non volesse ascoltare le parole di Starshanna.

“Sapeva bene quando era rischioso; ha deciso lo stesso di spingersi oltre quel limite. Non è quello che tutti, ad un certo punto nella loro vita, fanno? Provare a vedere se possono fare un o un po’ più lungo? Per vedere se ci riescono?”

“Per amor di Dio, Shanna... era solo una bambina!”

“E’ sempre stata precoce. Forse è stata l’acqua in cui nuotava che l’ha resa così, o stare con Artù, non lo so. Ma devi accettarlo—è stato solo un orribile incidente.”

Ci fu un momento di silenzio.

Trumaine scosse la testa tra le mani. Di nuovo, Starshanna allungò la mano verso di lui, cercando di confortarlo, ma stavolta Trumaine reagì al tocco come se la mano di lei lo avesse morso—si alzò in piedi sbuffando e lasciò la camera.

Lei lo guardò andarsene, addolorata e angosciata.

Starshanna aveva ascoltato scioccata le orribili notizie della morte di Maia. Dapprima, non poteva crederci, poi, dopo un bel po’, si era detta che Maia era come qualsiasi altra ragazzina, che non era immune alla morte—e gli incidenti potevano capitare.

Aveva preso la successiva navetta diretta verso la Terra e si era unita a Trumaine nei riti funebri. Era rimasta per un paio di mesi. All’inizio, la morte di Maia sembrava averli avvicinati, poi, a poco a poco, un muro aveva cominciato ad alzarsi tra di loro e non aveva mai più smesso. Presto, Trumaine non riconobbe più sua moglie. Ai suoi occhi, si era trasformata dalla donna che amava in un altro oggetto da trovare per casa, come una sedia, il letto, gli scuri delle portefinestre.

Lei non lo aveva mai considerato responsabile per quello che era successo, non gli aveva mai dato la colpa nemmeno una volta; sapeva che era stato uno sfortunato incidente. Poteva capitare a chiunque; solo che, stavolta, il destino aveva scelto loro.

Mentre Starshanna, dopo un periodo perfettamente comprensibile di afflizione, era più propensa ad accettare la morte di Maia ed eventualmente ad andare avanti, Trumaine non ci riusciva.

Continuava a rimuginarci sopra con la mente, pensando e ripensando a quel giorno maledetto. La sua mente razionale poteva solo pensare alle cose che avrebbe dovuto fare, ma che non aveva fatto, per salvare sua figlia. Continuava a bersagliarlo con le sue accuse: se fosse stato più vigile, se avesse badato a lei con più attenzione... se fosse stato davvero il padre che Maia meritava.

Trumaine credeva di essere arrivato ad un punto della sua vita dove non c’era posto per il caso; tutto poteva essere pianificato e deciso anzitempo, e la realtà si sarebbe adeguata docilmente.

Scoprire che aveva sempre avuto torto lo feriva nel profondo e non riusciva a farsene una ragione.

Dalla sedia a sdraio nel patio dove sedeva, cercando di rifuggire l’amore e il perdono di Starshanna, i suoi pensieri presero il volo una volta ancora. Non poteva scordare quante volte lui e Starshanna avevano fantasticato su quello che Maia sarebbe diventata, una volta adulta. Beh, adulta non lo diventò mai.

“La vita è un sogno meraviglioso.” Non era questo ciò che Starshanna era solita ripetergli?

Si chiese che ne era stato di quel sogno.

Era sempre la camera da letto. Ancora più vestiti si erano ammucchiati sul cassettone, sul letto e sul pavimento—erano tutti di Trumaine.

Quando Starshanna aveva cominciato a raccoglierli, cercando di rassettare la stanza, lui le aveva urlato contro, fermandola e proibendole di toccarli ancora. Non aveva bisogno dell’ordine, le aveva detto; l’ordine era stato il credo malriposto di un’intera vita, l’ordine lo aveva tradito—non avrebbe più avuto bisogno di dipendere dall’ordine d’ora in avanti...

Sul letto ora c’era una valigia di design aperta.

Ci finì dentro una camicia da donna, seguita da un maglione, da un paio di pantaloni e da un vestito—

Starshanna si asciugò le lacrime che le cadevano dagli occhi, mentre riponeva le sue cose.

Trumaine fece capolino da dietro la porta e si appoggiò contro lo stipite, dolorosamente conscio che qualcosa tra loro si era infine rotto.

“Te ne vai già? Credevo avessi un’altra settimana.”

“Che cosa resto a fare?”

“Guarda, mi spiace... Io—”

Lei si girò di colpo, con gli occhi arrossati. “No. Me ne vado,” disse.

Lui si raddrizzò. “E’ tutto finito, allora?”

Lei si fermò per un momento, affondando i suoi occhi in quelli di Trumaine.

“Dipende da te. Ti amo ancora ma, adesso, non c’è posto dentro di te per nient’altro che non sia pena, dolore e rimpianto—non hai più posto per me, Chris.”

Soffocò i singhiozzi che le salivano in gola e riprese a fare i bagagli.

“Che cosa devo fare, Star?”

“Scorda il ato, Chris. Vivi il presente, dimentica le tue colpe. Dimmi che lo farai e io tornerò indietro, te lo prometto.”

Quella era un’ultima possibilità che lei gli stava offrendo; se solo si fosse scusato, se solo avesse ammesso che era stato uno sciocco. Non era colpa sua, era stato un incidente...

Invece non disse nulla.

Starshanna annuì—era così, dunque. Si fece forza, poi raccolse i suoi bagagli, lo baciò sulla guancia e scivolò fuori dalla stanza.

Trumaine ascoltò i suoi i mentre attraversava il soggiorno, mentre apriva la porta d’ingresso e la sbatté dietro di sé. Ascoltò il ronzio improvviso di un motore elettrico che si avviava e girava veloce, portando via Starshanna dalla casa.

Se n’era andata. Così.

Impietrito, incapace di razionalizzare tutto ciò che stava succedendo, trascinò i piedi fino al letto e si stese...

Trumaine aprì gli occhi e osservò lo stelo serpentino che aveva appena depositato lui e la poltrona numero 144 nella sua culla sparire silenziosamente oltre il parapetto, tuffandosi nell’abisso da cui era stato evocato.

Per un po’, non si mosse; guardò solo in lontananza, senza pensare... quando una voce elettronica ovattata che proveniva dal poggiatesta della poltrona lo sollecitò

ad alzarsi.

“Tutti i Believers che hanno terminato il loro turno di lavoro devono lasciare la poltrona libera non appena sono tornati in galleria,” ripeté la voce.

Ma Trumaine non la badò e continuò a guardare lontano.

Alla fine, si sedette—

E si trovò a guardare negli occhi neri di Faith: lo stava fissando dalla poltrona vicina.

Non dissero nulla per un po’.

“Sembri esausto,” disse lei, infine. “Vuoi del caffè?”

Trumaine scosse la testa. Negli ultimi due giorni aveva bevuto abbastanza caffè da fargli un buco nello stomaco largo quanto il fondo della camera.

“Ma tu non vai mai a casa?” le chiese.

“Ci andrò, tra qualche minuto.”

“Hai fatto il doppio turno anche stanotte?”

“Sono appena smontata,” disse, dando un’occhiata veloce al suo orologio nello smalto per le unghie.

Trumaine la studiò.

“Dimmi, che cosa vedi quando sei nella camera? Quando ti somministrano il feed vuoto?”

Faith alzò le sopracciglia e i suoi occhi le si illuminarono subito.

“Penserai che sono pazza,” disse.

“Non siamo tutti pazzi, in un modo o nell’altro?”

Lo guardò divertita. “Mi prometti che non lo dirai a nessuno, e che non riderai?”

“Lo prometto.”

“Vado a pesca con la nonna,” confidò Faith con una risata.

“E’ tutto quello che fate? Ve ne andate a pesca?”

“Beh, peschiamo e parliamo... Non prendiamo molti pesci, ma parliamo un sacco.”

“Tua nonna è ancora viva?”

“E’ morta quando ero piccola. Le volevo bene, era sempre gentile con me; è stata lei che mi ha insegnato per la prima volta come infilzare il verme sull’amo. Che cosa orribile da spiegare a una ragazzina, eh?” Faith ghignò.

“E di cosa parlate?”

“Di tutto...”

“Di Jarva?”

“Certo.”

“Non hai mai la sensazione che ciò che vedi o che senti nel feed non ti appartenga? Come se ci fosse qualcun altro con te—non fisicamente, ma come una specie di presenza?”

“E’ così che il telepate dovrebbe comportarsi?”

“Qualcosa del genere, sì.”

Faith aggrottò le sopracciglia mentre sondava le sue memorie del feed, ma alla fine scosse la testa.

Trumaine si accarezzò il mento e si perse nei pensieri. Guardò nell’angolo dove i Believers scelti fluttuavano, cercando l’Hibiscus.

“Quanto tempo è ato dall’ultima volta che hai visto tua moglie?” gli chiese.

“Quattro mesi?”

“Sogni spesso di lei?”

Trumaine annuì.

“L’ami ancora?”

Trumaine sospirò stancamente. “Credo che dovrei, ma ormai non lo so più...”

“Ti manca?”

“Certo che mi manca, ma lei non tornerà indietro.”

Si voltò e guardò negli occhi profondi di Faith.

“Non sei da solo a questo mondo,” gli disse.

Lo baciò piano sulla guancia, poi gli tese la mano perché la prendesse.

“Vieni...”

“Dove?”

Era ancora il cuore della notte. Il cielo era senza luna e l’oceano era in subbuglio come se avesse mangiato pesante. Qua e là, per brevi istanti, la risacca che si frangeva mandava strani bagliori fosforescenti.

L’auto di Trumaine ronzava lungo la litoranea deserta e silente, coi fari che fendevano la notte come sciabole—sembrava un battello di salvataggio disperso in alto mare che stesse per essere sommerso a ogni minuto dai flutti rabbiosi.

Faith sedeva sul sedile del eggero, scrutando la notte senza dire una parola, solo lanciando occhiate occasionali all’oceano soprannaturale.

Trumaine guidò oltre la casa dei Goldmar, arrivando a casa di Faith, dove parcheggiò.

Lei scese per prima—la brezza sostenuta la colpì, gettandole i capelli in faccia. Girò intorno al cofano, aprendo la portiera di Trumaine, aspettando che anche lui scendesse. Quando lo fece, lo condusse su per il vialetto verso casa sua.

Faith inciampò su una lastra smossa, e i due si aggrapparono l’uno all’altra per non cadere.

Fu allora che le loro dita sentirono il calore del corpo dell’altro, che era vivo e bramoso sotto la seta sintetica dei loro completi neutri.

Trumaine annusò il profumo esotico di Faith e fu improvvisamente inebriato dalla sua fisicità come se fosse un vino inaspettatamente forte. Di nuovo, la brezza soffiò forte verso di loro e si ritrovarono nelle braccia dell’altro.

Faith si districò da Trumaine, frugandosi addosso, finché non trovò la tessera che apriva la porta.

Le tremavano le dita dall’eccitazione; annasparono con la scheda mentre Trumaine le si avvicinava da dietro, afferrandola per i fianchi.

Con un sonoro bip, la serratura scattò.

Faith si voltò verso Trumaine e lo tirò dentro, chiudendo la porta dietro di sé.

Fece per posare la tessera sullo scaffale, ma la lasciò troppo presto ed essa svolazzò per terra senza rumore.

Le mani di Trumaine presero Faith e si baciarono.

Le dita di lui scivolarono verso i bottoni della giacca di lei. Uno ad uno, li sbottonò.

Senza mai smettere di baciarla, le tolse la giacca, poi si levò la sua: gli indumenti in Syntex caddero ai loro piedi con un soffice fruscio.

Trumaine mosse le dita verso i bottoni della camicetta di Faith, per disfarli, ma dovette fermarsi e prendere fiato—anche lei aveva il fiato corto adesso.

“Andiamo in spiaggia...” gli disse, prendendolo per mano.

Inciampando nei mobili, si diressero verso la porta posteriore della cucina. Faith armeggiò con la maniglia della porta, aprendola infine, rivelando la spiaggia e l’oceano spumeggiante oltre ad essa.

Scalciarono via le scarpe e corsero verso la spiaggia finché, tenendosi l’uno all’altra, finalmente caddero esausti nella sabbia.

Trumaine si chinò su Faith, baciandole la bocca e il collo, allungando la mano fin dentro la sua camicetta.

Con uno scatto dei fianchi, lei lo spinse nella sabbia, chinandosi sopra di lui a sua volta. Si mise a cavalcioni di lui esattamente come faceva Starshanna, poi gli sbottonò la camicia e la gettò al vento, rivelando il suo torso ampio e muscoloso.

Cominciò a baciarlo, salendo verso la bocca di lui.

Dapprima, Trumaine le restituì ogni suo bacio, poi, a poco a poco, rallentò e smise.

Anche Faith si fermò, chiedendosi che cosa avesse, ma lui non la baciò più.

Sospirò delusa, poi sedette sulla sabbia, accanto a lui, ributtando indietro i riccioli dei capelli che il vento le gettava in faccia.

“Mi dispiace,” disse Trumaine, con un’espressione rammaricata e contrita. “E’ solo—beh, penso di essere ancora innamorato di Starshanna...”

Strinse Faith tra le braccia e la cullò dolcemente mentre la prima luce del giorno rischiarava l’orizzonte. Rimasero seduti così finché si levò il sole, avvolgendoli

in un bagliore del colore del rame fuso.

“Posso capirti...” sussurrò Faith.

“La vita è uno schifo...”

“No. La vita è un sogno meraviglioso...”

La casa era fredda e buia quando rientrarono. Senza una parola, Faith baciò Trumaine sulla guancia, salì su per le scale, ed entrò in camera sua.

Lui la fissò finché scomparve oltre il pianerottolo, poi attraversò il soggiorno e recuperò la sua giacca, pronto ad andarsene.

Si diresse verso l’ingresso, quando all’improvviso la sua attenzione fu attratta dal baule in vimini che stava sotto la maschera africana fatta d’ebano. Con la mente febbrile, controllò il pianerottolo, assicurandosi che Faith se ne fosse andata per davvero, poi si avvicinò al baule, chinandosi davanti ad esso.

Strofinando i pollici contro la punta delle dita, allungò nervosamente la mano verso il coperchio, in procinto di aprirlo.

Cominciò a sollevarlo...

Ma poi si fermò—per qualche ragione, non riusciva a farlo.

Ritrasse le dita e scosse la testa.

Poi, con lo sguardo torvo, si alzò e lasciò la casa.

Trumaine guidò per tutto il viaggio di ritorno fino a Credence.

Il portiere topesco al cancello lo salutò con un gran sbadiglio, facendogli segno di are. Parcheggiò l’auto e s’incamminò verso l’entrata dell’edificio.

Era ben conscio che quello era l’ultimo giorno che Firrell gli aveva dato per risolvere il caso; non sapeva cosa avrebbe stretto in mano quella sera—la lungamente agognata cittadinanza Aquariana, o l’ordine di trasferimento ad un lavoro di minor concetto—ma lo avrebbe saputo fin troppo presto.

Mentre fluttuava via nella sua poltrona, entrando nella camera dei Believers, Trumaine si chiese che cosa avrebbe sognato adesso. Sarebbe stata ancora Starshanna? O forse Maia? Chi altri?

Prima di entrare nella trance, lanciò un’ultima occhiata in lontananza: i Believers che stavano cercando l’Hibiscus non l’avevano ancora trovata.

Poi tutto si dissolse in un bagliore accecante...

Non era la casa, stavolta, né il patio, la spiaggia, l’oceano, e nemmeno Aquaria.

Trumaine si ritrovò alla fine di una lunga coda di persone, tutti in attesa del loro turno di arrivare davanti a uno sportello.

Dietro lo sportello sedeva la figura rilassata e familiare di un uomo di bell’aspetto con le spalle larghe da nuotatore. Trumaine lo conosceva molto bene, dal momento che aveva ato lunghe ore a fare quella stessa fila ogni volta che aveva dovuto richiedere un permesso per Aquaria. Di nuovo, guardò l’impiegato mentre parlava con il primo della fila, ogni tanto incurvando le labbra in quel sorriso beffardo che Trumaine tanto odiava.

Sbuffando, guardò l’orologio appeso al muro.

Quando finalmente giunse il suo turno, era ata più di un’ora.

Come al solito, l’impiegato lo riconobbe.

“Signor Trumaine, che piacere rivederla,” disse con un sorriso risaputo. “Come posso aiutarla?”

Trumaine, che era rimasto a bollire fin da quando aveva messo piede nell’ambasciata, esplose.

“Come se ci fossero altre ragioni per cui vengo qui ogni settimana a vedere la tua faccia boriosa!” urlò. “Che cosa ne hai fatto della mia stramaledetta richiesta di cittadinanza?”

“Non c’è bisogno di alterarsi, signor Trumaine,” disse l’impiegato, improvvisamente preoccupato dal numero di occhiate che il suo sportello stava attirando.

“Le assicuro che tutto ciò che faccio è strettamente secondo il regolamento.”

“E allora? Che fine ha fatto la mia domanda?”

L’impiegato premette alcuni bottoni sulla tastiera del suo computer—come se non lo sapesse già...

“Mi spiace,” disse. “Ma—”

“Ma cosa! Mi tocca aspettare per delle ore ed è tutto qui quello che hai da dirmi?”

“Temo di sì,” si scusò l’impiegato, incurvando le labbra nel ghigno che Trumaine non sopportava.

“Me la volete dare questa cittadinanza!” Trumaine sbatté i palmi delle mani sul tavolo, infuriandosi.

“Come osa!” esclamò l’impiegato.

Trumaine non riuscì più a trattenersi—agguantò l’impiegato per il bavero della giacca con entrambe le mani e lo tirò fuori dallo sportello di forza. In qualche modo, l’impiegato riuscì a girarsi sul bancone e a cadere in piedi. Ormai tutti gli astanti, inclusi tutti gli altri impiegati e un paio di segretari dell’ambasciata, avevano smesso di fare quello che stavano facendo e li fissavano apertamente.

“Che cosa sta facendo?” si lamentò l’imbarazzato Aquariano. “Mi lasci andare!”

“Figlio di puttana d’un persuasore!” urlò Trumaine. “Forse non sono stato abbastanza chiaro—ho bisogno di quelle carte! Mi servono per tornare da mia moglie e da mia figlia! Non lo capisci?”

Trumaine schiaffeggiò l’attonito impiegato.

“Non lo capisci?”

Trumaine stava per affibbiargli un altro paio di sberle quando, inaspettatamente, l’Aquariano reagì, rifilandogli una bella ginocchiata nello stomaco. Mentre l’impiegato si ergeva in tutta la sua altezza, fu chiaro che sotto al suo bel vestito da sartoria non aveva solo muscoli sviluppati; era anche in forma smagliante.

“Bastardo d’un Aquariano...”

Furibondo, Trumaine cercò di dare un pugno all’impiegato, ma lui parò e gli mollò un dritto in piena faccia.

“Stia attento a ciò che dice, detective! Sono fiero di essere nato su Aquaria, e lei non ha alcun diritto di insultarmi!”

Trumaine osservò il sangue che gli gocciolava dal naso sul davanti della giacca. Con un ruggito, si gettò verso l’impiegato, prendendolo per il collo e cercando di strozzarlo, ma l’impiegato gli diede una gomitata, forzandolo a lasciare la presa.

“Cosa devo fare per avere quel pezzo di carta?” sibilò Trumaine, tenendosi il fianco dolente. “Pagare te? Pagare qualcun altro? Leccare i piedi a qualcuno?”

“Non è questo il modo in cui lavoriamo, signor Trumaine,” rispose l’impiegato, inorridito all’idea. “Come le ho detto, le nostre politiche immigratorie sono assai severe. Aquaria è un pianeta nuovo e non possiamo accettare tutti. E lei, signor Trumaine, semplicemente non ha i titoli necessari...”

Trumaine, fuori di sé dalla rabbia, caricò il braccio, intenzionato a sferrare un altro pugno all’Aquariano... ma l’impiegato fu più veloce e, con un potente gancio, lo colpì duramente allo stomaco. Il detective andò giù sulle ginocchia tenendosi la pancia per il dolore e boccheggiando.

Come se un’altra pratica fosse stata appena evasa ed archiviata in modo soddisfacente, l’impiegato si lisciò il completo sgualcito, riprese la sua fredda compostezza, poi si girò verso i presenti e col suo solito ghigno domandò:

“Chi è il prossimo?”

LA RIMONTA

Il tempo era scaduto.

I tre giorni che Firrell aveva dato a Trumaine per trovare il persuasore erano finiti, con l’unico risultato che l’Hibiscus era tuttora dispersa e che l’assassino di Jarva era ancora libero.

Le cose non potevano andare peggio di così.

Trumaine stava in piedi appresso al parapetto della galleria, guardando giù verso il mare dei Believers che fluttuavano davanti a lui, conscio che l’omicida era lì in quello stesso momento—addormentato, sognando sogni che irridevano tutti gli investigatori incapaci di questo mondo.

Non riusciva a smettere di pensare che Benedict poteva sbagliarsi e che forse lui avrebbe dovuto utilizzare meglio il tempo che aveva trascorso nella camera.

Aveva considerato ogni possibile traccia ed indizio: lastricavano un’autostrada che portava sempre infallibilmente a Credence. Sfortunatamente per lui, quella strada si fermava davanti al cancello presidiato dal portiere topesco col suo ridicolo cappello da fattorino.

Chi era il Believer la cui mente era talmente sviluppata da farne un telepate? Chi

aveva convinto un numero sufficientemente grande di Believers a credere che l’omicida sarebbe prima entrato nel bunker, e poi che non ci sarebbe più stato, a tal punto che era realmente accaduto? Per quale motivo Jarva stava studiando la telepatia?

Trumaine si lambiccò il cervello in cerca di qualsiasi pezzetto di informazione che potesse essergli sfuggito, di qualsiasi cosa che potesse aiutarlo ad avvicinarsi al persuasore, ma non trovò nulla—aveva fallito.

Che cosa sarebbe accaduto ora? L’AST avrebbe davvero chiuso Credence per sempre, pur sapendo che così tanta gente dipendeva dai suoi servizi? Il fallimento di Trumaine sarebbe davvero stato la fine di Credence?

Scrutò in distanza, al gruppo di Believers scelti che fluttuavano in formazione quadrata cercando l’Hibiscus, poi volse il capo alla sua destra.

Quel giorno era stato consentito l’accesso alla galleria a una persona che conosceva molto bene. Era un uomo testardo che, quando gli assegnavano un caso, non mollava mai finché non lo risolveva. Da quando era in carica lui una soluzione soddisfacente era sempre stata trovata—eccetto che questa volta.

Firrell continuava a guardare nella camera, di tanto in tanto scuotendo la testa deluso.

“Niente,” disse, senza staccare gli occhi dalle poltrone ondeggianti. “Non abbiamo niente e abbiamo esaurito il tempo a nostra disposizione.”

Si girò—aveva la faccia triste e tirata. “Devo fare rapporto ai federali. Mi dispiace, Chris.”

“Guardali bene,” disse Trumaine, “ronfano pacifici come neonati; quel bastardo sta fluttuando davanti ai miei occhi, proprio adesso, ma non riesco a scovarlo.”

Strinse il parapetto così forte che gli si sbiancarono le nocche delle dita.

“E’ finita. Sono sicuro che quella cittadinanza ti sarebbe servita.”

Firrell fissò Trumaine negli occhi per un lungo momento. Era tutto lì: il rimpianto, la speranza infranta, la comione per un vecchio amico e la vergogna per non avere scovato l’omicida attraverso Trumaine.

Firrell aveva sempre pensato che anche se i federali avevano rinunciato al caso, ciò non significava che il caso fosse davvero impossibile—non voleva dire che loro due erano destinati a fallire. Aveva accettato il caso, ed era suo dovere trovare l’omicida e consegnarlo alla giustizia. Firrell sentiva la responsabilità del fallimento pesare su di lui come un macigno, schiacciandolo.

Scosse la testa sconsolatamente.

“Ci vediamo alla centrale.”

Se ne andò mesto mesto, finché si perse nel flusso dei Believers che si davano il

turno.

“Dannato persuasore!” esclamò Trumaine.

I federali lo avevano combinato proprio per bene, pensò. Con la promessa della cittadinanza Aquariana di prima classe lo avevano attirato come un branco di sgombri ed ora era in trappola.

Per l’ennesima volta, riò con la mente tutto quello che era accaduto in quei tre giorni.

Secondo Benedict, il telepate aveva avuto tutto quel tempo a sua disposizione per fargli visita. Eccetto che per il delfino, Trumaine aveva sognato solamente quattro persone. Era certo che il persuasore non poteva essere Maia, dal momento che ciò che lei aveva fatto e ciò che gli aveva detto era suonato troppo vero ed immediato per venire da altri che lei.

Il persuasore non poteva essere nemmeno Starshanna; non una singola parola, non una sua movenza, nemmeno un capello di lei si era mosso in modo diverso da come avrebbe dovuto.

Se il telepate non aveva assunto le loro identità, chi rimaneva?

Aveva sognato l’infermiera Aquariana—cosa poteva dire di lei? Non era proprio un personaggio principale, le era stato dato un ruolo per così dire secondario. Non aveva mai detto molto e dopo che Maia era nata, non l’aveva più sognata.

Come poteva essere lei il telepate?

Restava l’impiegato Aquariano. Trumaine pensò che se il telepate si era fatto vivo nel feed, doveva avere assunto la forma di quell’odioso individuo. Aveva sospettato di lui fin dalla prima volta che lo aveva sognato—e se fosse proprio lui il personaggio che il persuasore aveva scelto d’impersonare?

Si rammentò le parole dell’impiegato Aquariano e le ripeté con la voce della sua mente, cercando di trovare qualche indizio nascosto che potesse rivelare chi fosse nel mondo reale, ma non trovò nulla.

Emise un lungo sospiro, poi si spostò verso un vicino binocolo elettronico. Benedict lo aveva fatto installare per lui il giorno prima, dopo che era stato da Faith per la prima volta. Benedict gli aveva detto che si trattava d’un credo psicanalitico largamente condiviso; guardare le facce della gente poteva aiutarci a ricordare dettagli di loro che non rammentiamo consciamente. Trumaine aveva sbottato, ma ora che non aveva niente da perdere, si chinò e ci guardò dentro.

La lente mise a fuoco ogni singolo volto dei Believers che fluttuavano nella camera—uno ad uno, li sbirciò tutti, come se potesse individuare il persuasore solo dai suoi lineamenti. La lente continuò ad oscillare a destra e a sinistra, in alto e in basso, finché non si soffermò sulla poltrona dove giaceva Faith.

Sembrava bella ed in pace con se stessa, persa in un sogno di cui Trumaine non avrebbe mai fatto parte...

Mentre la studiava, si rese conto di quanto gli ricordasse Starshanna. Entrambe erano spumeggianti di vita, ognuna un po’ pazza a modo suo, entrambe

orgogliose ed inflessibili a ogni compromesso che le avrebbe sminuite—

D’un tratto, si perse nel flusso di ricordi ati e recenti di Faith e Starshanna...

Era tornato nel soggiorno della casa sulla spiaggia, la prima volta che l’aveva mostrata a Starshanna.

La casa era silenziosa, eccetto che per i gemiti di piacere che provenivano da dietro al divano.

Una Starshanna rossa in viso e senza fiato scivolò via da sopra Trumaine e fissò il soffitto.

“Sai, mi hanno poi offerto quel lavoro,” disse.

“Grandioso. Non è una proposta che si riceve tutti i giorni. Hai accettato?”

“Non lo so, Aquaria non è proprio dietro l’angolo...”

“Ma tu muori dalla voglia di andarci.”

“Sarebbe l’opportunità di una vita...”

“Allora che aspetti? Firma subito, prima che cambino idea e diano il lavoro a qualcun altro che non gliene importa niente di quello che fa.”

“Sei d’accordo sul serio, Tru? Starò via la maggior parte del tempo. Ci vedremo molto meno spesso—ci ritroveremo soltanto durante le vacanze...”

“Mi farò dare la cittadinanza Aquariana di prima classe,” promise Trumaine. “E poi sarò sempre con te.”

“Vieni qui, tu,” disse Starshanna, rimettendosi a cavalcioni di lui. Cominciò a baciarlo, poi si fermò di colpo e lo guardò dritto negli occhi.”

“La vita è un sogno meraviglioso...” disse.

Un’altra scena emerse dalla memoria recente di Trumaine. Era un ricordo della mensa di Credence, quando lui era seduto al tavolo nell’angolo con la foto di Maia davanti a lui. Faith lo stava osservando dalla sedia di fronte, aspettando che rispondesse alla sua ultima domanda.

“Non c’è ragione di vivere nel ato,” disse lui.

“Magari c’è un significato.”

“Quando hai imparato la lezione, il ato è meglio lasciarlo indietro e dimenticarselo una volta per tutte.”

“E’ per questo che continui a guardare quella foto? Per dimenticarla?” chiese Faith.

Una terza scena apparve davanti agli occhi di Trumaine. Questa era una memoria della notte precedente e non era nulla che aveva visto o sentito nel feed; quella scena era stata reale, e si era svolta sulla spiaggia retrostante la casa di Faith.

Sedevano sulla sabbia. Il vento scompigliava i capelli di Faith e lei continuava a tirarseli via dalla faccia delusa. Anche se si era quasi aspettata che Trumaine non avrebbe fatto l’amore con lei, lo stesso, il suo rifiuto l’aveva ferita.

Era stato solo in quel momento che lui si era reso conto che la sua fedeltà verso Starshanna era più forte di qualsiasi altra cosa.

“Mi dispiace,” si scusò. “E’ solo—beh, credo di essere ancora innamorato di Starshanna...”

“Posso capirti...” disse Faith con la voce piccola.

Trumaine fece una smorfia. “La vita è uno schifo...”

Fu allora che Faith aveva girato la testa e aveva detto le parole.

Erano le stesse parole che miliardi di persone in giro per l’universo usavano nelle loro conversazioni ogni santo giorno, ma non appena lei le pronunciò, non furono più solo parole, perché diventarono le chiavi di un mondo completamente diverso—quello di Trumaine.

E le parole furono:

“La vita è un sogno meraviglioso...”

Trumaine si riebbe con una scossa, conscio ad un tratto della cosa più elementare che era sfuggita sia a lui che a Benedict—che il telepate avrebbe potuto avvicinarlo nella vita reale.

“Cristo—Faith è il persuasore!” gridò.

Di colpo girò sui tacchi e corse verso i tornelli, lasciando la galleria.

Un Benedict incredulo e stupefatto scriveva al computer, cercando il profilo di Faith.

Quando Trumaine gli aveva detto che aveva scoperto chi era il persuasore, Benedict aveva sorriso deliziato, ma quando aveva sentito chi era, il ghigno era svanito, rimpiazzato dal dubbio.

“Lei sta accusando uno dei nostri migliori Believers,” disse. “La signorina Alveraz è con noi da quasi sette anni ormai. Mi chiedo se sia veramente lei il telepate che cerchiamo, detective—mi spiacerebbe perderla.”

“Sono sicuro che è entrata nei miei sogni! E sono certo che ha assunto l’identità di Starshanna! Mentre mi ripeto nella testa le parole che Faith mi ha detto quando eravamo in spiaggia, il modo in cui le ha dette, è chiaro che non erano le sue, ma quelle di Starshanna. E l’unico posto dove Faith avrebbe potuto sentirle era nei miei sogni! Lei è entrata nei miei sogni, Benedict, è la verità! C’è veramente un telepate a Credence—ed è lei, è sempre stata lei! Se solo me ne fossi reso conto prima...”

“Se lei è davvero il persuasore che stiamo cercando, avremo bisogno di solide prove per arrestarla. Con tutto il dovuto rispetto, non penso che la sua parola sarà sufficiente, detective.”

“Troverò quella prova anche se dovessi costringerla a darmela.”

Trumaine si alzò, pronto ad andarsene.

“Dove sta andando?” chiese Benedict.

“Beh, ad interrogarla...”

Trumaine ritornò alla galleria, cercando Faith, quando si rese conto che la sua poltrona era nella sua culla e che lei non si trovava da nessuna parte.

Chiese informazioni alla guardia della galleria sull’ultimo turno di Faith; lui controllò nel suo computer e gli disse che lei aveva finito mezz’ora prima—se non era in mensa, era di sicuro a casa.

Trumaine setacciò la mensa, ma lei non era neppure lì—doveva essere tornata a casa.

Ritornò al parcheggio e montò in macchina, ma quando provò a farla partire, non accadde nulla. Provò di nuovo—niente. Infine, un debole messaggio brillò sul cruscotto, dicendo: GUASTO DELLA BATTERIA - SOSTITUIRE LA BATTERIA.

“Maledizione!” sbraitò Trumaine.

L’ultima cosa di cui aveva bisogno ora era avere la macchina rotta. Prese il cellulare.

“Detective Trumaine, 4415. Questa è una richiesta di assistenza meccanica.”

Non appena la sua chiamata fu inoltrata, buttò giù il telefono, incrociò le braccia arrabbiato e crollò sul paraurti anteriore dell’auto civetta.

Venti minuti più tardi, la batteria era stata finalmente sostituita. Trumaine guardò il grosso carroattrezzi che l’officina del dipartimento di polizia gli aveva mandato mentre faceva retromarcia, carico del piatto ma ingombrante pacco di

batterie guaste, gli ò davanti un’altra volta, poi guidò su per la strada principale, scomparendo dalla vista.

Saltò nella sua auto e l’accese. Il veicolo sgommò via, infilandosi nel traffico.

Trumaine guidò oltre il portico dei Goldmar, sotto il quale la Meteor ’55 si ricopriva di polvere, e parcheggiò alla fine del vialetto della casa di Faith.

Si affrettò verso l’edificio e suonò il camlo. Nessuno gli rispose, così suonò una seconda volta—stavolta, la serratura della porta scattò.

Era un salotto deserto quello in cui mise piede.

Chiedendosi dove diavolo lei fosse finita, d’un tratto sentì la sua voce dal bagno in cima alle scale.

“Sono in doccia!” gridò. “Perché intanto non ti siedi? Dammi un minuto, arrivo subito!”

Trumaine brontolò per l’impazienza. Ancora una volta studiò la stanza; ancora una volta, la sua attenzione fu attratta dal baule in vimini sotto la maschera africana d’ebano.

Si avvicinò, chinandosi davanti ad esso.

Allungò la mano, incerto se dovesse aprirlo... Al diavolo le buone maniere, disse con sé stesso—lei gli aveva mentito.

Aprì il coperchio.

Il baule conteneva varie cianfrusaglie: una vecchia trapunta di patchwork, una racchetta da tennis rotta, una vecchia padella, foto incorniciate che non avevano trovato posto dove essere appese su nessuno dei muri, ed alcuni giocattoli fuori moda.

Fu uno di quelli che lo lasciò impietrito; era un pupazzo di Pinocchio alto cinquanta centimetri, di ferro fuso, che ghignava malignamente da dietro la linea nera e ricurva che aveva per bocca.

Lo raccolse, soppesandolo tra le mani—era molto pesante. Guardò quell’aguzzo naso a punta—sarebbe stato una mazza chiodata terribilmente efficace.

Aveva già visto il suo gemello; era sulla scena di un omicidio—era stata l’arma che aveva ucciso un famoso neuroscienziato. La domanda si formò rapida e chiara nella testa di Trumaine: cosa ci faceva una copia perfetta del giocattolo che aveva ucciso Jarva nel baule pieno di cianfrusaglie di Faith...?

“Eccomi qua,” disse una voce dietro di lui.

Faith era entrata nella stanza. Era scalza, indossava un paio di jeans in Syntex

sotto un maglione a righe e reggeva un asciugamano intorno alla testa.

Notò il pupazzo tra le mani di Trumaine.

“Vedo che hai scovato il vecchio giocattolo di mia nonna,” disse allegra. “E’ vecchio, ma ormai mi ci sono affezionata. Non riuscirei mai a liberarmene.”

Trumaine era colpito dal totale controllo che aveva su sé stessa. Anche se lei sapeva quello che lui aveva appena scoperto—perché lei era una telepate—lo stesso, faceva finta di non saperlo.

Il solo pensare a tutte le volte che lei si era comportata così, mentendogli, fingendo di essere innocente, lo faceva impazzire.

La sua voce diventò dura e fredda in pochi secondi; era il ringhio inflessibile e spietato che riservava ai criminali incalliti.

“Che cos’è questo?!” ruggì.

Faith fu scioccata dai suoi modi—faceva meglio ad abituarsi, non avrebbe ricevuto nient’altro da lui d’ora in avanti.

“E’ un qualche feticcio così profondamente radicato nel tuo subconscio che non hai potuto fare a meno di replicarlo nel feed parassita, quando stavi progettando di uccidere Jarva?” le chiese.

“Di che cosa stai parlando?”

Faith sembrava davvero confusa—come riusciva a fingere bene!

Trumaine si alzò in piedi e si diresse verso di lei con il pupazzo in mano. Glielo ficcò sotto al naso.

“Il tuo piano avrebbe funzionato alla perfezione, se non ti fossi lasciata dietro una copia di questo,” sibilò.

“Io—io non capisco...”

Non l’aveva mai sentita balbettare prima. Qualcuno avrebbe dovuto darle un premio—oppure una sberla.

“Smettila di mentirmi!” esplose. “Se sei innocente, se non sei una telepate, come ha fatto questo a finire nel bunker di Jarva?”

“Io—Io non ne ho idea...”

“Non lo sai, eh?”

Trumaine le arrivò a un centimetro, pressandola.

“Allora te lo dirò io! Ce l’ha messo il tuo subconscio! Questa cosa è sfuggita dalla tua mente! Questo giocattolo non appartiene a Jarva, ma a te!”

“Ma—non l’ho ucciso io!” strillò lei.

Abbassò le mani, scordandosi dell’asciugamano che stava tenendo—le scivolò via dalla testa e si accartocciò sul pavimento. Rimase così, rossa in viso e angosciata, coi capelli bagnati che le ricadevano sulle spalle.

Avrebbe potuto baciarla—invece continuò.

“Benedict aveva ragione! Sei entrata nella mia testa per pura curiosità! Perché non potevi farne a meno, dovevi dare un’occhiata alla mia mente! Era così semplice, ero a portata di mano, perché non provare? Perché non guardare? Cosa poteva mai nascondersi nella testa intricata di questo piccolo detective presuntuoso, che non aveva alcun diritto di stare coi Believers di Credence, e che non aveva la minima idea di cose più grandi di lui?”

Con gli occhi spalancati per lo smarrimento, Faith scosse la testa. Trumaine le guardò le mani—stavano tremando. Fece un o verso di lei, e lei indietreggiò verso il muro dove era appesa la maschera bordata di peluria.

“Non è così?” le chiese, inseguendola.

“No...” disse Faith in un sussurro.

“NON E’ COSI’!?”

“NOOO!”

Al grido di Faith, l’intero mondo di Trumaine si trasformò nella fredda lama di un coltello. Ogni cosa che guardava—le maschere africane sul muro, la corsia indiana sul pavimento, le poltrone, i ninnoli che stavano sui tavolini d’angolo— ogni cosa fendeva la sua mente come se fosse un’arma dalle molte lame.

Trumaine si afferrò la testa, il volto contorto in un dolore lancinante, e ricadde sulle ginocchia.

“AAARGH...!!!” continuò ad urlare, ma non riusciva a sentirsi.

Faith si spostò vicino alla maschera africana coi peli e per un po’ entrambe guardarono giù verso di lui. Fece un o avanti con lo sguardo folle e trionfante, poi gli girò intorno senza mai togliergli gli occhi di dosso.

“Vuoi la verità, detective Christian Trumaine? Te la dirò io la verità!” gridò con la voce di una strega.

“Hai ragione, ero curiosa. Ho guardato nella tua mente, è vero. E ho visto tutto... Ho visto l’incantevole Starshanna dai capelli d’oro. Ero lì con te quando la

povera Maia è morta e tu hai provato a rianimarla. Ho sentito la tua disperazione e ho provato pena per lei, Tru! Ho pianto con te! Mi dispiace che sia morta, mi dispiace che sia morta così. Farei di tutto per riportarla indietro, ma non posso... proprio non posso...”

“AAARGH...!!!” il dolore dentro Trumaine era atroce—le parole di Faith lo straziavano come dei ganci per la carne.

Lei allungò la mano, accarezzandogli la testa che lui dimenava... e ad un tratto fu di nuovo Faith.

“Non riesci a capire?” disse piano. “Tutto ciò che ho fatto è stato confortarti...”

Nonostante il dolore che lei condivideva a causa dei suoi poteri, sembrava davvero comionevole e premurosa. Lo guardò amorevolmente e le lacrime presero a caderle dagli occhi.

Per un breve momento, il dolore diminuì nella mente di Trumaine...

Era l’occasione che stava aspettando. Esplose all’improvviso, in avanti e verso l’alto, piantando la testa nello stomaco di Faith, spingendola e sbattendola contro il muro, così forte che anche la maschera traballò, quasi staccandosi dal chiodo che la teneva.

Faith emise un suono soffocato; stupita e senza fiato si tenne la pancia, la sua presa mentale infine infranta.

Un Trumaine dolorante si rimise in piedi, asciugandosi la saliva dalla bocca sulla manica del completo.

“Spero d’essere stato all’altezza delle tue aspettative sessuali...” le disse. “Ti dichiaro in arresto per l’omicidio di Aarmo e Raili Jarva.”

La colpì con un manrovescio, mandandola lunga distesa sul pavimento.

L’AGOGNATA RICOMPENSA

Il cielo era coperto.

Faceva freddo e cadeva una pioggia sottile ed insistente. Attraverso la cortina grigia della pioggia, si poteva scorgere un uomo inginocchiato sulle pietre del patio di una casa sulla spiaggia.

Era chino sul corpo minuscolo e senza vita di una ragazzina, con le braccia che premevano disperate il suo petto, cercando di farla rinvenire, ma lei non reagì a nessuno degli stimoli.

Trumaine continuò a comprimere il torace di Maia per quelle che sembrarono delle ore interminabili; ignorando la pioggia sferzante, il freddo, ed il delfino grigio e dolente che continuava a girare in tondo nel canale a pochi i da loro, come un vecchio disco rotto dei tempi andati.

Poi, all’improvviso... Trumaine si fermò.

Guardò su verso il cielo, afflitto e angosciato, ma stavolta non c’era orrore nei suoi occhi. Oltre l’impotenza e la disperazione, un senso di faticosa accettazione si era infine fatto strada dentro di lui.

La pioggia che era le lacrime che non aveva più dentro di sé, lavava via il sudore

dal suo corpo. Alzò le dita, toccando la spalla di Maia in una lunga carezza, poi la baciò sulla fronte—come se le stesse augurando la buona notte.

Trumaine si alzò in piedi.

S’incamminò verso la casa, entrando in soggiorno.

Prese il suo cellulare e compose un numero.

“Sono Trumaine... devo denunciare l’affogamento accidentale di una persona. Sì —è mia figlia...”

Si voltò a guardare il cadavere di Maia attraverso i vetri della portafinestra—se ne stava là dov’era, come una foglia caduta o un ramo spezzato dal vento. Se non fosse stato per il tamburellare infinito della pioggia, avrebbe anche potuto essere una foto in bianco e nero.

“Sì. Sono sicuro,” disse. “E’ morta...”

Trumaine riattaccò.

Esausto, trascinò i piedi nella camera da letto vuota e si stese sul letto.

Chiuse gli occhi con un lungo sospiro...

Era la stessa camera da letto.

La pioggia aveva smesso di cadere; ora un bel sole splendeva attraverso la finestra. Trumaine era ancora a letto, non era più bagnato fradicio e indossava una camicia pulita e sbottonata.

La foto di Maia era stata momentaneamente tolta dal suo portafogli autosigillante: ora stava sul comodino, insieme al portafogli e ad un’antica sveglia che segnava le 11:59.

Non appena la lancetta dei minuti arrivò sul dodici, la sveglia cominciò a suonare.

Trumaine aprì gli occhi, allungando la mano per spegnerla. Sedette con uno sbadiglio, strofinandosi la faccia col palmo della mano. Raccolse la foto. La fissò per un po’, poi la ripose nel portafogli e si infilò il portafogli in tasca.

Uscì dalla camera indossando il solito completo bianco di ordinanza, ma la giacca era sbottonata e la camicia sotto non era infilata nei pantaloni. Ora che si era sbarbato in modo decente, sembrava l’uomo più rilassato al mondo.

Depose la valigia che stava portando vicino all’ingresso, poi, mentre stava per tornarsene in camera, il camlo suonò.

Trumaine aprì la porta ed incrociò lo sguardo amichevole di un uomo largo e sorridente; Firrell gli fece un cenno di saluto con la testa, ed entrò.

Si guardò intorno, ricordando le cose familiari su cui i suoi occhi si posavano.

“E’ una vita che non vengo qua,” disse.

“Sì. E’ una vita...”

Ci fu una lunga pausa significativa.

Dopo che Trumaine lo aveva chiamato, dicendogli che aveva preso il persuasore, Firrell aveva mandato un’auto per prendere sia Faith che il pupazzo.

Per tutto il tempo che i poliziotti ci avevano messo ad arrivare, lei era rimasta seduta nella poltrona del salotto senza dire una parola. Era furiosa e ferita per il modo in cui Trumaine l’aveva trattata. Beh, che cosa si aspettava—dei fiori?

Il pupazzo che Trumaine aveva trovato nel baule sotto la maschera d’ebano era la prova che lei era coinvolta nell’omicidio di Jarva e di sua moglie. Come il tutto era accaduto era ancora oggetto di indagine, dal momento che Faith non stava cooperando affatto.

L’unica cosa che continuava a ripetere era che non li aveva ammazzati lei. Lo stesso, non si poteva negare che fosse coinvolta nel caso.

Quando infine i poliziotti l’avevano portata via, lei aveva guardato Trumaine negli occhi, in cerca di pietà, ma lui l’aveva squadrata in modo duro e inflessibile.

Quando erano tornati al dipartimento, Firrell era stato contento come una pasqua che non avrebbe perso il suo lavoro, dopotutto. Si era congratulato con Trumaine per avere risolto il caso e voleva sapere come aveva fatto.

Trumaine gli aveva spiegato che Faith gli aveva letto la mente fin dalla prima volta che l’aveva incontrata, alla mensa di Credence. Forse inconsciamente, aveva usato una delle frasi che Starshanna aveva pronunciato nel feed. Di nuovo inconsciamente—oppure solo per stuzzicarlo—Faith aveva ripetuto la stessa frase quando erano andati in spiaggia; quella era la dimostrazione che era lei il persuasore che stavano cercando.

Ma per inchiodarla sul serio, Trumaine aveva avuto bisogno di una prova tangibile; qualcosa che potesse collegarla oltre ogni ragionevole dubbio al doppio omicidio degli Jarva—la prova era il pupazzo di Faith.

Infatti era perfettamente ragionevole pensare che, nei momenti in cui lei stava convincendo i Believers a garantirle l’accesso al bunker di Jarva, alcuni frammenti delle sue più care memorie fossero migrati nelle loro menti. Il pupazzo era uno di quei frammenti, ed era in quel modo che era arrivato nel bunker.

Per quanto riguardava il fatto che lei l’aveva usato come arma, o Faith non si era resa conto che quello era il suo vecchio giocattolo, cosa decisamente strana, oppure—e questa era un’idea che gli era venuta in mente nelle ultime ore—lei

aveva un complice che aveva ucciso gli Jarva su suo ordine.

Quello che aveva ancora bisogno di essere spiegato era perché erano stati ammazzati; come aveva fatto Faith a progettare ogni cosa; e chi l’aveva aiutata.

Le risposte a tutto ciò sarebbero venute dai futuri interrogatori, gli aveva detto Firrell, ma ci avrebbe pensato lui. Anche se Faith era decisa a non parlare, due settimane in gattabuia l’avrebbero ammorbidita.

Firrell aveva quindi comunicato le buone notizie sia ai federali che all’AST. Nel giro di qualche ora avevano sbloccato Credence, ed ora che il feed reale veniva di nuovo amministrato ai Believers, i voli intergalattici venivano predisposti per la partenza.

Le prime navi a partire sarebbero stati i mercantili carichi dei rifornimenti d’acqua per gli avamposti.

Firrell tirò fuori di tasca una tessera di plastica gialla e la consegnò a Trumaine.

“Questa è per te,” disse.

Trumaine rigirò la tessera. Sotto la sua foto c’era scritto: CHRISTIAN TRUMAINE - AQUARIANO - PRIMA CLASSE.

Era sopraffatto.

Non era da federali rimangiarsi la parola, ma intercedere per una cittadinanza era qualcosa che avrebbe avuto bisogno del benestare di talmente tanti uffici che poteva anche impantanarsi a un certo punto.

Guardò su verso Firrell, il suo vecchio amico; c’era così tanto che avrebbe dovuto dirgli, così tanto per cui doveva ringraziarlo—forse troppo.

“Grazie a te,” disse solamente.

“No. Grazie a te,” rispose Firrell. “Hai fatto un buon lavoro, sta tornando tutto alla normalità. Gli avamposti più lontani nella galassia stanno ricevendo i loro viveri. Mezz’ora fa, l’AST ha ricevuto una trasmissione dall’Hibiscus. Stavano finendo dentro a Canis Major—ora sono sani e salvi a destinazione.”

Firrell ghignò, poi si rese conto che c’era qualcosa che non andava in Trumaine. Riusciva ad indovinare che c’erano ancora delle domande senza risposta che gli frullavano per la testa.

“Non mi sembri tanto contento. Cos’hai?”

“Non sappiamo ancora perché Alveraz abbia ucciso Jarva. Non sappiamo chi abbia rubato la scheda perforata e a che cosa servisse. Inoltre, non sappiamo nemmeno se qualcuno l’abbia aiutata.”

Firrell sorrise. “Ci sono abbastanza prove per inchiodarla, credimi, è tutto ciò

che importa. Non preoccuparti, parlerà. E quando lo farà, cattureremo anche i suoi complici. Hai fatto la tua parte, Tru, adesso lascia che noi facciamo la nostra.”

“Certo...” convenne Trumaine.

Firrell diede un’occhiata alla valigia accanto a Trumaine.

“Vedo che hai deciso...”

“Torno da lei. Non c’è rimasto molto qui, per me.”

Trumaine recuperò il suo distintivo blu da detective e lo offrì a Firrell, ma lui non lo prese.

“Tientelo,” disse il capitano. “Un piccolo ricordo del tempo che abbiamo ato a lavorare insieme.”

Anche se Firrell era felice che Trumaine sarebbe finalmente tornato da Starshanna, era anche triste perché sarebbe stato privato di un vecchio allievo.

“Ti ricorderai di salutare Starsha da parte mia?”

“Lo farò certamente.”

Per un po’ Firrell non si mosse, come se non riuscisse a rassegnarsi al fatto che non ci sarebbe stato più nessuno in quella casa ad aprirgli la porta.

Mandò giù forte.

“Buona fortuna su Aquaria,” disse.

Con un pizzico di rimpianto, Firrell fece dietrofront e chiuse la porta dietro di sé mentre se ne andava.

Trumaine era uscito sul patio. Questo era il suo addio alla casa e voleva ricordarsela più che poteva.

Questa era la casa in cui lui e Starshanna avevano vissuto, la casa in cui si erano amati. La casa dove il frutto del loro amore era cresciuto e fiorito come un bellissimo fiore, prima che fosse troppo presto—non riuscì a completare la frase...

Tra pochi istanti si sarebbe lasciato dietro tutto ciò.

Studiò l’oceano turbolento, come se potesse sondare i suoi impenetrabili segreti... e, come già una volta, l’oceano lo guardò, sciabordando nelle sue iridi...

Trumaine gettò un’occhiata nel canale vuoto, al secchio ammaccato e dimenticato che c’era dentro, poi spostò gli occhi sulla sdraio solitaria e consumata sulla quale Maia s’era un tempo distesa.

Prima che un altro flusso di dolorosi ricordi lo sommergesse, voltò la schiena al suo ato e se ne andò.

Il taxi ronzava lungo la litoranea.

Trumaine aveva lasciato l’auto assegnata a lui nel garage del dipartimento, aveva rinunciato all’offerta di Firrell di accompagnarlo e aveva chiamato un taxi.

L’autista era un ragazzo imbronciato con un pazzo taglio di capelli, ma non parve importagli molto che Trumaine non fosse in vena di parlare. Sembrò andare bene ad entrambi che il seppur breve viaggio verso lo spazioporto dovesse svolgersi nel più totale silenzio.

Trumaine aveva guardato dal finestrino per tutto il tempo. Per la prima volta in vita sua, ebbe la sensazione che tutto ciò che osservava—i veicoli nel traffico, gli edifici, la Città in distanza—fosse diventato vecchio all’improvviso. Il fatto che se ne andava per sempre lo stava estraniando da questo mondo. Tutto cominciò a sembrargli un po’ fragile, un po’ finto, come se fosse stata la sua attenzione per le cose del mondo in cui era vissuto fino a quel momento a renderlo reale. E ora che non gli importava più, il mondo aveva cominciato a vacillare come un’illusione, prima di svanire per sempre.

Quando furono vicini alla Città, il taxi abbandonò la litoranea e si diresse verso il brillante complesso di metallo che sorgeva in distanza che era lo spazioporto.

La struttura di metallo dello spazioporto cittadino si avvolgeva intorno alle rampe di lancio in una vaga forma a ferro di cavallo che si apriva verso l’oceano. Era in quella direzione che tutte le astronavi partivano regolarmente, inondando la baia di lancio con le forme bizzarre, cangianti e diafane che i fumi di scarico prendevano mentre salivano in aria.

In sostanza, ogni pezzo di ferraglia stagna con un razzo attaccato sotto era in grado di coprire le lunghe distanze e buono pure per le rotte galattiche. Mentre la maggior parte dei mercantili sembravano esattamente questo—enormi ed orribili scatole di ferro accoppiate a vecchi cilindri di combustibile che terminavano nei caratteristici postbruciatori a forma di cono—i veicoli utilizzati per trasportare i civili erano del tutto diversi.

A seconda della classe del velivolo—che non era più determinato dalla sua stazza, ma dalla qualità del servizio offerto a bordo—si poteva trovare una varietà di astronavi: le corvette lente ed ingombranti dell’era precedente a Credence, non più usate se non per rifornire sperdute stazioni terraformanti su pianeti dimenticati; i più sottili charter intrasistema; le navette che portavano i pendolari giornalieri avanti e indietro tra i principali pianeti commerciali della rete galattica; le ultra filanti “corsare” possedute dalle grandi corporazioni; e le navi maestose destinate ai politici e ai corpi diplomatici.

Comunque, c’era una nave che non assomigliava a nessuna delle precedenti; una nave che apparteneva a una classe a sé, mai superata da nessun altro veicolo spaziale sia per velocità che per bellezza—faceva la rotta per Aquaria ed il suo nome era Neptune.

Progettata per essere la miglior nave di sempre, con un occhio attento a rappresentare l’unicità di Aquaria, la Neptune era famosa per i suoi molti ponti di lusso, i suoi tre ricchi ristoranti—ognuno che serviva specialità ultramondane a seconda del mese dell’anno in cui uno viaggiava—e l’eccellente servizio che il suo equipaggio offriva. La Neptune non era certo economica; un po’ come i vecchi transatlantici che erano soliti navigare e affondare in giro per il mondo un paio di secoli prima, viaggiare a bordo della Neptune era sia costoso che esclusivo, e Trumaine e Starshanna avevano speso considerevoli somme dei loro stipendi duramente sudati per prenotarsi un posto su quella superba nave.

Mentre il taxi si avvicinava allo spazioporto, la Neptune si mostrò da lontano; il suo corpo sottile e affusolato protrudeva dalle rampe di lancio come un dito d’argento e porpora.

Lo scafo era rivestito con il ritrovato tecnologico più moderno; uno stranissimo materiale che continuava a cambiare e ad ondeggiare sotto la luce del sole, come se fosse fatto d’acqua.

Fu una visione sognante e fugace.

Presto, il taxi s’infilò sotto alle giravolte della struttura dello spazioporto, nascondendola alla vista.

Trumaine mise la valigia sul rilevatore dei bagagli.

Una lama di luce verde balenò per un attimo, analizzandone il contenuto, poi la valigia scivolò sotto ad un rullo che le attaccò una targhetta di accettazione.

Un nastro trasportatore prese vita, ingoiando la valigia; l’avrebbe portata attraverso le infinite budella dello spazioporto, riponendola infine in un immenso deposito bagagli centralizzato. Solo quando il suo proprietario avesse comprato un biglietto per qualsiasi destinazione nell’universo, la valigia sarebbe stata di nuovo raccolta e indirizzata alla rampa di lancio appropriata, per l’imbarco.

Con un ding argentino, la macchina rilasciò una ricevuta da utilizzare per recuperare la valigia da una macchina simile nello spazioporto di destinazione.

Trumaine si mise in tasca la ricevuta, poi s’incamminò lungo la hall gremita dello spazioporto.

Era una vista abbastanza impressionante: più di trenta metri alta e larga, girava intorno alla baia di lancio in un ampio semicerchio, abbracciando i molti giganti di metallo che attendevano di essere scagliati oltre l’atmosfera fin nello spazio.

Fu proprio in quel momento che un goffo mercantile con un patchwork di metallo per scafo decollò; rombò come il tuono mentre i suoi razzi inondarono di vapore lo spazioporto, spingendo la nave oltre la portata delle dita bramose della gravità.

La nube luminosa dei gas di scarico si attardò nella baia di lancio, girando pigramente su sé stessa, dissolvendosi a poco a poco, rivelando un’altra nave...

Il velo diafano cadde dalla Neptune nello stesso modo in cui una stola di visone bianco come la neve sarebbe scivolata dalle spalle di una magnifica diva...

finché fu nuda, e fu altera, fiera e bellissima.

Trumaine raggiunse la sala d’imbarco assegnata alle partenze per Aquaria che, contrariamente al resto dei cancelli d’imbarco, si trovava al livello superiore.

Esclusiva e costosa quanto lo era la Neptune, la sala sfoggiava l’ultimo grido in fatto di design. Dalle sedie, ai tavolini, alle lampade, alle pareti divisorie; ogni cosa era liscia, elegante ed aveva quella particolare finitura traslucida che faceva sembrare gli oggetti fatti d’acqua.

Al momento, solo un alto uomo d’affari sedeva nella sala d’attesa, indossando un completo doppiopetto e leggendo il quotidiano elettronico che aveva in mano. Guardò su verso Trumaine con lo sguardo annoiato, poi si rimise a leggere.

Trumaine si avvicinò ad un ampio bancone. L’ufficiale d’imbarco dietro ad esso era elegantissimo nella sua linda uniforme di sartoria; diede un’occhiata a Trumaine e lo riconobbe per tutte le volte che si era precedentemente imbarcato.

“Buondì,” disse l’ufficiale, con un tono decisamente più amichevole del suo compatriota all’ambasciata.

“Dove desidera andare?” chiese.

“Aquariana,” disse Trumaine.

Aquariana era la capitale di Aquaria. La casa di Starshanna si trovava a circa otto chilometri da essa, sulla costa occidentale della lunga isola che tagliava il pianeta da nord a sud, il cui nome era Meridian Island.

“Un biglietto di andata e ritorno per una settimana, come al solito?” chiese l’ufficiale. “Avrò bisogno di vedere il suo visto, signore.”

L’ufficiale aveva una memoria eccellente. Se non l’avesse avuta, probabilmente non sarebbe stato scelto per quel lavoro. Gli Aquariani avevano un debole per l’ostentazione; appartenevano a un pianeta nuovo e fiorente e sentivano il bisogno di dimostrare al resto dell’universo che potevano non solo gestirlo, ma che potevano anche farlo meglio di chiunque altro. Era un atteggiamento che aveva fatto infuriare spesso Trumaine in ato, ma ormai si era quasi abituato.

“Un biglietto di sola andata,” disse a chiara voce.

Non era facile cogliere in fallo un Aquariano, ma quando succedeva, Trumaine saliva al settimo cielo.

L’Aquariano sorrise pazientemente, come se avesse a che fare con un bambino poco attento.

“A causa delle restrizioni migratorie Aquariane, temo che i portatori di visto non siano autorizzati a richiedere biglietti di sola andata, signore.”

Trumaine non disse nulla, si frugò solamente nella tasca del vestito, recuperando

la tessera gialla che Firrell gli aveva dato. La sbatté sul bancone dell’ufficiale come se fosse un poker d’assi.

Dovette lottare duramente per mantenere la faccia imibile e non danzare intorno all’attonito ufficiale, mostrandogli la lingua e urlandogli contro epiteti.

Si guardarono in faccia per un bel pezzo, giocando a chi faceva la miglior faccia di marmo ed il premio era il proprio vano orgoglio—finì quando la faccia altera dell’ufficiale cadde all’improvviso. Nel tempo che ci mise per raccogliere la tessera, verificarla al computer e rendersi conto che era davvero genuina, la sua faccia era diventata pallidissima.

“Io—Io non potevo immaginare—Mi dispiace—”

S’inchinò con deferenza, poi pigiò alcuni tasti sulla sua consolle, finché un biglietto dorato fu emesso rapidamente da una fessura laterale.

“I suoi documenti sono in ordine, signore. Ecco il suo biglietto di sola andata per Aquariana d’Aquaria. La ISS Neptune decollerà tra dieci minuti esatti; se volesse essere così gentile da procedere all’imbarco, la sua assistente di volo sarà più che lieta di mostrarle il suo posto. Buona permanenza sul nostro bellissimo pianeta, signore.”

Lo disse tutto d’un fiato.

Con un vago sorriso, l’ufficiale fece cenno a Trumaine di proseguire e continuò a

guardarlo stupito, finché non se ne fu andato.

Il corridoio era un ponte levatoio di vetro che si allungava intorno alla Neptune, sembrando fatto di ghiaccio fine. Mentre Trumaine camminava lungo di esso, la navetta s’ingrandì a tal punto che poteva quasi toccarla. Era tanto vicina quanto lo era il suo sogno ad essere esaudito, pensò. Poche ore ancora e sarebbe stato con Starshanna per sempre.

Il suo ò diventò più veloce. Voleva marciare. Voleva correre a stringere la mano dell’ufficiale di volo e invitarlo a pranzo e lasciarlo parlare per ore della sua beneamata Aquaria...

Invece, rallentò e si fermò. Che cosa c’era che non andava adesso, si chiese Trumaine. Ora che il suo desiderio era stato esaudito, perché si fermava?

Si voltò a guardare l’ingresso del corridoio d’imbarco e vide entrare una vecchia coppia canuta; procedevano talmente piano che una lumaca sarebbe arrivata alla navetta prima di loro.

Si scansò di lato e aspettò che assero.

L’anziana signora e il suo vecchio marito allungarono le loro mani tremolanti verso l’altro; quando le unirono, il tremito si stabilizzò e scomparve—insieme, erano più forti.

Mentre procedevano verso il portello della Neptune, annuirono e gli sorrisero

cordialmente.

I piedi di Trumaine non si mossero nemmeno allora—erano diventati pesanti come il piombo. C’era qualcos’altro che si muoveva, girando più veloce di un motore elettrico sovraccarico—era il suo cervello.

I pensieri cominciarono a rincorrersi nella testa di Trumaine; non erano a proposito di Aquaria, o di Starshanna, o di Maia, o di tutti gli impiegati Aquariani nell’universo che si facevano beffe di lui. Erano a proposito del caso che aveva appena brillantemente risolto.

Guardò la coppia raggiungere il portello, dove furono accolti da una donna in uniforme...

All’improvviso, una voce gli risuonò nella testa.

Era la voce di Faith, e gli stava ripetendo le parole che gli aveva detto quando si erano incontrati per la prima volta nella mensa di Credence.

“Jarva ha sviluppato il Pistocentrismo per cambiare il mondo! Se solo ci fosse data la possibilità, potremmo rimodellarlo come era all’inizio!”

“Vuoi dire tutto bello verde e fiorito? Senza traffico? Mi piacerebbe davvero,” rispose un’altra voce—era quella di Trumaine.

“Voglio dire... senza malvagità...”

Il cervello di Trumaine continuò a girare, quando un’immagine chiara si formò nella sua mente, sostituendo la vista dell’imponente Neptune: era un’illustrazione che aveva visto in un vecchio libro, un’antica Bibbia che Jimmy Boyd teneva sulla scrivania, che ritraeva l’albero proibito al centro del Paradiso Terrestre.

L’artista si era preso qualche licenza di troppo, poiché aveva dipinto non solo Adamo ed Eva, ma anche una folla di giovani e vecchi; prendevano tutti parte ad un’allegra danza di primavera intorno all’albero, celebrandolo; finché non fu più un albero proibito—perché era diventato un rigoglioso albero della vita...

Ma c’era una terza memoria che aspettava di essere richiamata. Il cervello di Trumaine ci aveva rimuginato su fin dal primo momento che l’aveva registrata, senza averla mai digerita. Era un ricordo che non aveva avuto alcun significato fino ad ora quando, messo nel giusto contesto, fece un mondo di differenza.

La memoria era un frammento del brevissimo scambio di parole che Trumaine e Samuel Diggs, il medico legale, avevano avuto nel bunker di Jarva.

Trumaine era chino sul cadavere di Jarva e lo stava studiando; qualche o più in là, Diggs stava scrivendo nel suo blocco elettronico, ma quello gli negò l’accesso con una nota bassa. Ci riprovò, ma ottenne un’altra nota bassa.

“Dannazione!” esclamò.

“Che succede?” chiese Trumaine.

“Sto rilasciando il certificato di morte della donna,” spiegò Diggs, “ma il computer continua a ripetere che è morta cinque anni fa...”

Quando Trumaine aveva udito questo, aveva scosso la testa ed aveva pensato, come tutti in quella stanza avevano fatto, che non era possibile che Raili fosse morta due volte—si trattava solo di una registrazione errata. Ma ora che ne sapeva di più sul caso, non ne era più tanto sicuro.

Perché, all’improvviso, un altro scenario stava prendendo forma davanti ai suoi occhi; una visione talmente folle e così lontana da qualsiasi pensiero concepibile e legge fisica da suonare impossibile.

Dovette scansare i blocchi impervi della sua mente razionale per immaginare il più tremendo credo che un Believer di Credence potesse credere. Il solo pensiero di quell’unico e assoluto credo gli faceva tremare le gambe, gli faceva morire le parole nella gola riarsa e gli copriva la fronte di gocce di sudore...

Se quello che Trumaine stava pensando aveva la minima possibilità di essere vero, Faith non avrebbe mai ucciso Jarva, perché erano entrambi complici nel piano più straordinario che l’uomo avesse mai potuto concepire.

Se Faith non aveva ucciso Jarva, allora era detenuta ingiustamente. Fu quel pensiero che scosse Trumaine dalle sue fantasticherie.

Si ritrovò ancora una volta nel corridoio d’imbarco della Neptune. La navetta Aquariana si ergeva di fronte a lui in tutta la sua maestosa bellezza, incantandolo come una sirena tentatrice.

Guardò la giovane donna che stava in piedi a fianco del portello dell’astronave, aspettando che lui salisse. Pochi metri ancora lo separavano dal suo sogno; pochi metri ancora e lui e Starshanna si sarebbero riuniti per sempre...

I suoi piedi cominciarono a camminare di nuovo. Fecero un o. Un altro. Poi un altro. Trumaine cominciò a trottare. Il trotto diventò una corsa. Stava correndo nella direzione sbagliata, pensò ad un tratto—perché si stava allontanando dalla Neptune...

RIPENSAMENTI

Trumaine era ritornato nella hall dello spazioporto.

Aveva bisogno di saperne di più sulla morte di Raili Jarva. Non aveva mai dubitato nemmeno per una volta che il certificato di morte vecchio di cinque anni che le era stato rilasciato potesse essere valido; che non fosse, come Diggs aveva detto, una delle incongruenze del database che occasionalmente infestavano il sistema. Non era mai stato un problema, così non aveva più ricontrollato. Ma ora che più pezzi del puzzle che era il caso Jarva erano andati a posto, non ne era più tanto sicuro. E se a Raili fosse stato veramente rilasciato un precedente certificato di morte? E se fosse davvero... morta due volte?

Trumaine si avvicinò alle cabine video che fiancheggiavano la hall dello spazioporto, entrando in una di esse. ò la sua carta di identificazione nel combinatore del monitor e lo schermo si attivò.

“Chiamata per Samuel Diggs,” disse.

Dopo un attimo, la faccia larga del medico legale apparve sul monitor. Dalle sue sopracciglia sudate e arruffate, sembrava che fosse stato sorpreso nel bel mezzo di qualcosa. Diggs si strofinò il braccio contro la fronte, asciugandosela, rivelando una mano guantata sporca di terra, che stringeva un paio di cesoie.

“Come stanno le tue begonie?” chiese Trumaine.

“Oh, sei tu, Trumaine. Ho sentito che hai risolto il caso, congratulazioni!”

“Ho una domanda da farti.”

“Certo. Spara.”

“Ti ricordi ancora l’anomalia nel sistema, secondo cui Raili Jarva era morta da cinque anni?”

“Certo che me la ricordo; che cosa vuoi sapere?”

“Mi dicesti che le era stato rilasciato per sbaglio un certificato di morte. Sapresti dirmi chi lo firmò?”

“Dovrei controllare,” disse Diggs, asciugandosi di nuovo la fronte. “Più tardi?”

“E’ importante. Puoi farlo adesso?”

“Va bene... Ci metto solo un minuto.”

Una begonia blu dentro a un vaso ondeggiò brevemente dentro e fuori dal

monitor mentre Diggs la alzava e la toglieva di mezzo. Poi lui sparì per un paio di minuti, lasciando Trumaine a contemplare una meravigliosa serra popolata da un centinaio di differenti varietà di begonie, orchidee e rose—

Un improvviso rombo assordante spostò la sua attenzione dallo schermo di fronte a lui alla gigantesca vetrata dello spazioporto retrostante.

Con un’esplosione di vapore, lo scafo argento e porpora della Neptune si alzò, decollando. La maestosa astronave bucò le nuvole mentre saliva in cielo, rimpicciolendosi rapidamente fino a diventare un punto di luce abbagliante, lasciando la Terra per le profondità dello spazio.

Non poté fare a meno di imprecare tra i denti.

“Eccomi,” disse una voce dallo schermo fiorito.

Non era da Diggs fare le cose in fretta—la sua faccia era tutta rossa e sfoggiava un ulteriore striscio di terra. Si era tolto i guanti e ora le sue dita grassocce stringevano il suo familiare blocco elettronico.

Lo consultò a lungo.

“Il vecchio certificato di morte fu firmato dal mio predecessore Adam Peterson, che ora è in pensione. Siccome la copia non era valida, l’ho cancellata.”

“Qual era la causa di morte nel vecchio rapporto?”

Diggs sfogliò il suo blocco.

“‘Sfondamento delle ossa anteriori del cranio.’ E’ una lesione frequente negli incidenti frontali, ma qui non dice come sia successo... Perché—”

Diggs non riuscì a finire; lui e le sue begonie svanirono in un secondo.

Trumaine inserì di nuovo la sua carta di credito.

“Chiamata per Adam Peterson.”

Subito, le miniature di vari Peterson comparvero sullo schermo, insieme alle loro professioni. Col dito indice, Trumaine toccò il collegamento che diceva: MEDICO LEGALE - RITIRATO.

Il monitor lampeggiò: CHIAMATA INOLTRATA.

Stavolta apparve un’enorme sala bianca immacolata inondata di luce—era la tranquilla zona di meditazione di una grande stazione termale.

Qua e là, per lo più anziani sedevano su dei bassi materassini, silenziosamente

concentrati ad usare i loro diaframmi per fare esercizi di respirazione. Oltre loro, ata una finestra a tutta altezza che circondava la sala, si vedevano circa una cinquantina di altri uomini e donne attempati, che indossavano tute da ginnastica bianche. Seguivano i movimenti del loro istruttore, piegandosi e alzandosi e flettendo le braccia e allungandole e ripiegandole, e poi ancora girando e poi ancora chinandosi, esercitando senza fine i loro fragili corpi, sembrando delle canne che si piegassero docilmente al vento...

Quella visione di pace assoluta e comunione ebbe un effetto ipnotico su Trumaine—poco si mancò che fe un salto quando la faccia magra e sorridente di Peterson apparve sullo schermo.

Aveva forse più di ottant’anni e le sue labbra erano leggermente incurvate nel sorriso benevolo che i vecchi spesso hanno sui loro volti.

“Adam Peterson? Il Peterson che lavorava per il dipartimento di polizia?” chiese Trumaine.

Il vecchio fece un cenno di assenso con la testa.

“Sono io,” disse.

“Sono il detective Trumaine e sto investigando sulla morte di Aarmo Jarva, lo scienziato. Penso che ne avrà sentito parlare.”

“Ne ho sentito parlare,” disse l’uomo con un fil di voce. “Come posso aiutarla,

giovanotto?”

“Ho bisogno che lei ricordi qualcosa per me. E’ accaduto un po’ di tempo fa— cinque anni fa, quando lei ha firmato il certificato di morte della moglie di Jarva, Raili. Se ne rammenta?”

Si chiese se il vecchio l’avesse sentito, dal momento che se ne stette dov’era, come se si fosse incantato; non sbatté nemmeno le palpebre.

Stava per rifargli la stessa domanda, quando Peterson parlò.

“Sto diventando vecchio,” disse. “Molto vecchio. Devo affrontare i molti disturbi della mia età, e temo che l’amnesia sia uno di loro. Le diranno che essere in grado di dimenticare è la benedizione più grande—beh, io le dico che è una vera maledizione.”

Non disse nulla per un po’, poi scosse la testa.

“Non rammento la donna, ma se lei dice che ho emesso il documento, sarà certamente così.”

Incurvò le labbra in un piccolo sorriso smarrito.

“Deve pur ricordare qualcosa. Ci ripensi, fu un incidente, forse un incidente d’auto. La donna sbatté la testa e morì.”

Peterson strizzò gli occhi, cercando con tutto sé stesso di scovare il più debole ricordo. ò circa un minuto, quando un barlume di memoria gli illuminò le profondità degli occhi.

“Mi sembra di ricordare qualcosa... fu un incidente d’auto. La macchina deve avere sbandato, uscendo di strada, schiantandosi contro la barriera di cemento...”

Il barlume si spense negli occhi di Peterson.

“Mi ricordo l’incidente—temo di non ricordarmi della donna.”

“Non può esserselo dimenticato!” sbottò Trumaine.

“Mi dispiace, l’aiuterei volentieri giovanotto, ma l’amnesia sta avendo la meglio sul mio cervello...”

A disagio, Peterson spostò il peso del corpo da un piede all’altro, come se stare alzato lo stancasse.

“La prego, ci provi ancora,” lo implorò Trumaine. “Un’innocente potrebbe essere stata accusata ingiustamente di avere ucciso gli Jarva—quell’unica sua memoria potrebbe salvarla!”

Di nuovo, Peterson scosse la testa e alzò le spalle, poi, dopo un momento, chiese semplicemente:

“Perché non chiede a Benedict? Sono certo che lui se lo ricorda...”

Gli venne fuori così, senza lambiccarsi il cervello, senza pensarci. Come se le memorie dentro di lui non fossero davvero scomparse, ma rinchiuse dentro a un baule fessurato, e tutto ciò che lui poteva intravedere fossero solo parti di esse, come frammenti sconnessi.

Trumaine spalancò gli occhi per la sorpresa.

“Vuol dire Benedict? Noah Benedict? Il supervisore di Credence? E che cosa c’entra lui con tutto questo?”

Peterson aggrottò le sopracciglia, sporse le labbra, poi piegò la testa come un automa in cortocircuito.

“Non fu lui il primo ad arrivare sulla scena dell’incidente...?”

“Benedict era là? Vuole dire che lui vide veramente Raili morta o morente? E lei li ha visti entrambi sulla scena dell’incidente? E’ questo che mi sta dicendo?” gli domandò Trumaine. “Se lei li ha visti entrambi, come fa a ricordarsi di Benedict ma non di Raili Jarva?”

Ma il barlume non ritornò più negli occhi di Peterson. La crepa che si era aperta brevemente dentro di lui, trapelando quel pezzetto d’informazione, s’era di nuovo saldata. Il sorriso benevolo riapparve sul suo volto e lui fu ancora il simpatico vecchio con l’amnesia.

“Sono tante domande interessanti, giovanotto,” disse. “Ma temo di non avere le risposte...”

Trumaine corse fuori dall’entrata dello spazioporto, ignaro che la sua valigia era nella pancia della Neptune e che stava filando ben oltre quarantamila chilometri orari verso il punto d’incontro dove i Believers di Credence l’avrebbero raccolta e, senza il minimo scossone, l’avrebbero depositata in tutta sicurezza in un altro punto nell’universo, in una galassia così distante che anche i più potenti telescopi avrebbero faticato a scorgere.

Chiamò un taxi; uno di essi scivolò giù rapidamente dall’area di parcheggio e costeggiò il bordo del marciapiedi, fermandosi esattamente davanti a lui.

Trumaine saltò su, sedendosi di dietro.

“Dove si va?” chiese il conducente.

“Alla prigione civica, presto!”

Il taxi sgommò via, ronzò verso l’uscita dello spazioporto e si perse nel traffico in meno di un minuto.

La prigione civica era un moderno prisma di vetro traslucido. Le sue pareti lucenti erano ricoperte da sottili strati di cristalli liquidi che, quando il più flebile campo elettrico li avesse attraversati, si sarebbero allineati tra di loro come le stecche di una veneziana.

Aumentando o diminuendo la potenza del campo, le stecche avrebbero ruotato, intercettando la luce solare e lasciando are solo la quantità esatta di luce che era richiesta nei vari ambienti, chiudendo le tapparelle a mezzodì e lasciandole aperte la mattina presto, o quando il cielo era nuvoloso. Sensori luminosi cambiavano automaticamente l’angolo delle stecche, cosicché ogni stanza nell’edificio avrebbe ricevuto la stessa quantità di luce per tutta la giornata.

Quando il sole tramontava e scendeva la sera, accadeva il contrario, e la prigione sarebbe diventata un brillante dito di luce.

La prigione civica non era a quel modo solo per il capriccio dell’architetto che l’aveva progettata; voleva essere sia incitamento che ammonimento per tutti, civili e reclusi. Per i criminali, perché vedessero da dentro ciò che essi avevano perduto—la libertà e il diritto dell’uomo giusto. Per l’uomo giusto perché la guardasse da fuori—per vedere cosa c’era in serbo per lui e per tutti coloro che avessero osato sfidare la legge.

Il taxi si fermò di fronte ai gradini lucidi dell’entrata della prigione.

Trumaine fece scivolare la sua carta di credito nella fessura integrata nel sedile posteriore, poi, con un cenno all’autista, uscì.

Il conducente lo osservò attraverso il parabrezza, mentre saliva le scale ed infine scomparve nella prigione, e poi se ne andò anche lui.

Il distintivo blu di Trumaine brillava vivacemente tra le sue mani; insieme alla carta di identificazione personale, era stato garanzia sufficiente per il sergente di giornata per farlo entrare nella prigione. Inoltre, non c’erano speciali restrizioni sul prigioniero che il detective voleva vedere, così l’ufficiale non fece alcuna obiezione alla sua richiesta—pigiò un tasto nella consolle sulla sua scrivania, chiamando la guardia che lo avrebbe condotto alla cella numero 5422.

La cella di detenzione di Faith era al quinto piano. Mentre l’ascensore saliva attraverso i livelli del carcere, Trumaine poteva vedere i molti cubicoli e i detenuti che li occupavano.

Non assomigliavano per niente ai loro equivalenti affollati, umidi e sporchi dei secoli ati; era una vita che la legge aveva stabilito che ogni cubicolo poteva ospitare un solo detenuto. I cubicoli erano campioni di pulizia ed efficienza, e nella maggior parte dei casi sembravano più piccoli ambienti da meditazione che meri mezzi di coercizione. Infatti, molti dei detenuti sedevano al centro delle loro stanze con le gambe incrociate e i palmi sulle ginocchia aperti verso l’alto, nella posizione yoga del “Loto,” analizzando sé stessi, ripensando a ciò che era stata la loro vita prima della prigionia, meditando su tutte le malvagità che avevano commesso, cercando se possibile di cambiare e di redimersi.

Mentre l’ascensore saliva, Trumaine vide che la guardia che lo accompagnava non portava nessuna arma. Non era necessario; nel caso improbabile che un detenuto avesse cercato di fuggire, i divisori di vetro che formavano il blocco del livello potevano essere manovrati al tocco di un bottone, sigillando intere aree come compartimenti stagni, impedendo ogni evasione.

L’ascensore arrivò al quinto piano e si fermò con una lieve scossa ed un sibilo. Mentre la porta si apriva, la guardia precedette Trumaine alla reception del livello, dove si trovava un’altra guardia, sembrando più un moderno portiere d’albergo che un secondino.

Le due guardie conferirono per un momento, poi la seconda schiacciò un pulsante sulla sua consolle, ed un’altra serie di porte di cristallo scivolò via davanti a Trumaine, lasciandolo are.

La guardia disarmata lo condusse lungo il labirinto che era il livello, spostandosi lungo l’apparentemente infinita serie di cubicoli di vetro. Arrivarono infine a un bivio nel corridoio, dove un largo numero viola pendeva dal muro, leggendo: 54. Sotto il numero della sezione, due numerini indicavano le sottosezioni che si sarebbero trovate lungo quel braccio: da 00 a 50.

La guardia fece cenno a Trumaine di proseguire. Lui lo avrebbe aspettato lì.

Trumaine continuò a camminare, tenendo d’occhio mentre li oltreava i numeri delle sottosezioni che marcavano i cubicoli.

Alla fine, sul lato sinistro del corridoio, apparve il numero 22. Oltre il divisorio trasparente, una giovane donna sedeva su uno sgabello, dando la schiena al mondo, non facendo nient’altro che guardare assente, oltre la finestra del cubicolo, l’orizzonte lontano.

Trumaine bussò sulla lastra, ma Faith non sembrò sentire, o non volle.

Si spostò verso l’altoparlante integrato nella parete divisoria e ci parlò dentro.

“Ho bisogno di parlarti,” disse piano.

Doveva ammettere che era stato un po’ duro con lei, di recente—non senza ragione ovviamente. Ma ora che sapeva che lei poteva essere innocente, si sentiva in colpa per come l’aveva trattata.

Di nuovo, Faith non diede segno di avere sentito; continuò semplicemente a guardare lontano.

“Faith...”

“Va’ via,” gli disse, con un sussurro amareggiato.

Trumaine la studiò. Mentre nelle prigioni moderne i detenuti non erano più minacciati, maltrattati o picchiati, lo stesso, la privazione improvvisa della libertà poteva provocare un severo shock.

Da dov’era lui, Trumaine non riusciva a vedere se lei avesse qualcosa che non andava—probabilmente lo odiava per averla sbattuta lì dentro.

Trumaine sospirò. Parlò ancora nell’altoparlante, rivolgendosi alla schiena di Faith, tentando di placarla.

“Il primo certificato di morte di Raili Jarva non fu emesso per errore, vero?”

Faith non si mosse, né disse nulla.

Trumaine continuò a parlare alla parete e, ad un tratto, fu sorpreso dalle sue stesse parole.

“Perché Raili Jarva è veramente morta due volte...”

Stavolta, le spalle di Faith tremarono leggermente.

“Non è così?”

Faith girò la testa; i suoi occhi erano gonfi e arrossati da un lungo pianto—lo inchiodarono col peso squassante dell’ingiustizia subita. Non erano solo occhi accusatori; erano gli occhi angosciati e disperati di qualcuno che si era sentito tradito nel profondo del proprio cuore.

“Non voglio parlarne,” disse, e ancora volse il capo.

“Mi dicesti che Jarva voleva che Credence fosse la pietra angolare di un nuovo Paradiso Terrestre,” riprese Trumaine, ora sapendo che almeno lei lo stava ascoltando. “Ma qual era l’unica cosa che era possibile nel Paradiso Terrestre e

che è stata perduta in questo mondo, oltre al fatto che Adamo ed Eva potevano vedere il loro Creatore?”

Faith era taciturna.

“Erano immortali! Se non avessero mangiato della mela, sarebbero vissuti per sempre, perché alla morte non era concesso di entrare nel Paradiso Terrestre!”

Gli occhi di Faith erano fissi sull’orizzonte.

“NON E’ COSI’?!”

Le spalle di lei sussultarono di nuovo.

“Vuoi marcire qui dentro?! E’ questo ciò che vuoi? Allora è meglio che parli! Che cosa aveva in mente Jarva, di riportare in vita la gente? Me lo vuoi dire?”

“Non mi fido di te...”

Trumaine alzò gli occhi e sbottò. Parlare con Faith era come parlare con Maia quando era convinta che qualcosa era in un certo modo ma invece non lo era; quello che lo faceva infuriare di più era che Faith non aveva più dodici anni, maledizione! Guardò con rabbia la parete di cristallo che si ergeva tra di loro— ad un tratto avrebbe voluto sradicarla e scagliarla via, prendere Faith e darle una bella sberla in faccia.

Invece serrò la mascella e brontolò, poi sospirò, poi si strofinò la faccia e... cambiò approccio.

“Io sono dalla tua parte! Se anche tu sei una vittima, devo saperlo!”

Trumaine appoggiò la fronte contro la superficie di vetro—ebbe un effetto rinfrescante e calmante su di lui. Quando gli venne l’idea, si sentì la persona più stupida al mondo per non averci pensato prima.

Si batté la fronte col palmo della mano e l’appoggiò contro il divisorio di vetro.

“C’è un modo infallibile perché tu sappia se sto mentendo, non è così? Perché tu puoi vedere da te quello che c’è dentro la mia testa!”

Faith si girò, chiaramente attratta dall’idea, ma era ancora indecisa.

“Mi hai odiata per essere entrata nella tua mente. Ci ho pensato su molto... E avevi ragione, non ho alcun diritto di fare questo alla gente... è una cosa orribile...”

“Ma te lo sto chiedendo io!” sbottò Trumaine.

“Sei davvero sicuro...?”

Sentiva che gli stava per venire un infarto.

Ma poi Faith si alzò e gli si avvicinò. Lo guardò nel profondo degli occhi, poi chiuse i suoi per un breve momento e anche lei posò la fronte contro il divisorio di vetro.

Rimasero in quella posizione per un po’ di tempo.

Quando Faith guardò su di nuovo, era sollevata.

“Sto dicendo la verità?” chiese Trumaine.

“Sì, la stai dicendo...”

All’improvviso Faith si perse nei pensieri mentre i ricordi di cose da lungo tempo andate presero vita e irruppero nella sua mente.

“Cinque anni fa, ero un Believer in prova. Allora, Jarva e Benedict erano in buoni rapporti, Jarva era benvenuto a Credence e gli era consentito accedere alla camera per studiare il feed e i Believers. Una notte piovosa Raili, che stava venendo a prendere Jarva, ebbe un incidente d’auto. Era la vecchia auto di Jarva —non aveva nessuno dei sistemi di sicurezza che le auto di oggi hanno. Uscì di strada e si schiantò contro un muretto. Quando Benedict lasciò Credence, circa mezz’ora dopo, stava guidando lungo la stessa strada e vide l’auto. Sapendo che era lo stesso modello che Raili guidava, si preoccupò che potesse esserle capitato

qualcosa di brutto. Così accostò e corse a vedere se poteva essere d’aiuto. Quando si rese conto che c’era Raili nella macchina, fece di tutto per salvarla, ma lei aveva battuto forte la testa contro il parabrezza, era incosciente ed aveva già perso molto sangue. Benedict compresse la ferita come meglio poté, poi chiamò l’ambulanza, ma era ormai troppo tardi per salvarla...”

Faith alzò gli occhi.

“Fu allora che il primo certificato di morte fu rilasciato,” disse Trumaine. “Fu Peterson a firmarlo!”

Faith fece sì con la testa.

“Ma tu non eri là, come fai a sapere tutto questo?” le chiese.

“Lo lessi più tardi nella mente di Benedict.”

“E poi che accadde?”

“Vedi, Aarmo era abituato ad avere Raili intorno, era un’ispirazione costante per lui e lo aiutava nel suo lavoro. Non avrebbe mai potuto stare senza di lei.”

“Jarva deve avere pensato che se riusciva ad usare i poteri di Credence, poteva provare a riportarla in vita,” ragionò Trumaine, “ma ciò significava infrangere la legge...”

“Jarva lo propose a Benedict, il suo vecchio amico, ma lui si rifiutò—era illegale e tanto bastava. Jarva aveva sottovalutato la lealtà di Benedict a Credence e alla legge federale. Si scontrarono. Si urlarono dietro. Alla fine, Benedict proibì a Jarva di mettere ancora piede a Credence. Jarva se ne andò. Pochi mesi più tardi, gli fu offerto un lavoro su Aquaria e Jimmy Boyd partì con lui. Fu studiando il Leviatano Aquariano che scoprirono qualcosa che Jarva riteneva impossibile...”

“Scoprirono che nonostante i Leviatani non abbiano nessuno dei soliti organi che le creature viventi usano per comunicare, nondimeno si capivano tra di loro— perché erano telepati,” disse Trumaine, agitato. “Con la prova che la telepatia era possibile, Jarva dev’essersi chiesto se anche il cervello umano fosse capace di un mezzo di comunicazione così straordinario.”

“Jarva aveva ancora i dati che aveva raccolto nella camera dei Believers,” continuò Faith. “Egli riteneva che oltre un certo livello di credo, un Believer aveva altissime probabilità di diventare un telepate.”

“Aspetta un minuto, uno diventa un telepate?”

“Vedi, la telepatia, come tutte le abilità umane, ha bisogno di esercizio per svilupparsi.”

Trumaine, fuori di sé per la meraviglia, fischiò.

“Jarva aveva visto il tuo curriculum di Believer,” disse. “E ti contattò.”

“Mi disse che avevo un credo senza precedenti. Mi chiese di aiutarlo a creare un feed parassita all’interno di Credence. Inoltre, dovevo tenermi tutto per me, altrimenti Benedict ci avrebbe denunciati.”

“Tu accettasti e, all’insaputa di Benedict, Raili fu riportata in vita. Ma dovevate anche assicurarvi che nessun testimone dell’incidente parlasse. Il vecchio Peterson pensa di avere l’amnesia, ma la verità è che la sua memoria è stata manomessa—sei stata tu.”

Faith annuì.

“Avete fatto la stessa cosa con Benedict?”

“Certo. Perché?”

“Qui c’è qualcosa di strano...”

“Che cosa vuoi dire?”

“La prima volta che sono venuto a Credence, in cerca di indizi, fu Benedict a suggerirmi la presenza di un telepate. Perché mai avrebbe fatto una cosa del genere se era all’oscuro di quello che tu e Jarva avevate fatto?”

“Non ne ho idea.”

Trumaine guardò su verso Faith, rendendosi conto di qualcosa che lo fece impazzire dalla rabbia.

“Perché lo sapeva! E se fosse proprio Benedict il mandante dell’omicidio di Jarva?”

“Ma Benedict non entra mai nella camera,” protestò Faith. “Lui non è un Believer, ho visto i risultati del suo test, come potrebbe mai convertire i Believers?”

Improvvisamente, la risposta irruppe nella mente di Trumaine come una doccia fredda.

“Deve avere trovato—”

“Un altro telepate!” esclamò Faith.

“Cristo, questo è pazzesco—ci sono sempre stati due telepati a Credence!”

Trumaine gemette, maledicendosi per essere caduto nella trappola di Benedict come un idiota; tutto ciò che Benedict gli aveva detto fin da quando aveva messo piede a Credence era parte di un grande piano tessuto intorno a lui per incastrare il telepate di Jarva—Faith.

“Chi sarà mai l’altro telepate?” si domandò. “Come lo scoverò adesso?”

Il suo cervello girò da matti. C’era voluto un sacco di tempo solo per scoprire Faith, e lui ci era riuscito solo perché lei era stata “curiosa” di lui, perché lei gli era entrata nella mente di sua volontà. Se Benedict aveva istruito il suo telepate di stare alla larga da Trumaine, non c’era la minima possibilità che lui lo individuasse.

Trumaine si lambiccò il cervello cercando una soluzione, ma non ne trovò nessuna. Poteva sì usare Faith come testimone e provare ad accusare Benedict dell’omicidio di entrambi gli Jarva, ma la parola di lei sarebbe stata sufficiente ad inchiodarlo?

Trumaine la guardò: stava in piedi a qualche centimetro dal divisorio di vetro, smarrita che più non si poteva, aspettando che lui escogitasse il piano che l’avrebbe salvata e messo Benedict al suo posto.

Dannazione, pensò, anche se era lui lo sbirro, anche se era tenuto a trovare idee brillanti, era in panne. Sospirò, poi si tirò il mento e si strofinò la faccia, senza avere la più pallida idea di ciò che avrebbe fatto ora...

La cosa più ovvia del mondo lo colpì con la forza di un pugno e si sentì la persona più stupida che avesse mai calpestato il pianeta per non averci pensato prima.

Si voltò verso la fine del corridoio.

“Guardia! GUARDIA!” gridò.

Poi si rigirò a guardare Faith.

“Tu vieni con me...” disse.

FUGA PER LA SALVEZZA

Firrell non aveva detto nulla quando Trumaine lo aveva chiamato, dicendogli che non solo non era a bordo della Neptune, ma che era ancora sul pianeta, alla prigione civica. Gemette quando sentì la ragione per cui Trumaine non era su Aquaria. E quasi cadde dalla sedia quando gli fu detto che il caso, ben lontano dall’essere risolto, era più intricato che mai.

Trumaine ci aveva messo un po’ di tempo a spiegare al suo capitano quello che aveva scoperto, e perché non avrebbe mai trovato il movente di Faith per uccidere Jarva—non ne aveva nessuno. Non lo aveva ucciso lei, l’aveva fatto qualcun altro, qualcuno che aveva avuto una lite con Jarva a proposito dell’uso illegale dei poteri di Credence—quel qualcuno era Benedict.

Ma Trumaine non poteva arrestarlo così su due piedi; Benedict infatti poteva ancora contare sull’aiuto di un secondo telepate—il suo persuasore personale, e nessuno tranne lui sapeva chi fosse.

Dovevano tendergli una trappola, e l’unico modo per prendere un telepate era di usarne un altro. Era quella l’idea che era balenata nella mente di Trumaine in prigione, ecco perché dovevano rilasciare Faith. Trumaine l’avrebbe condotta nella camera e le avrebbe fatto leggere le menti di tutti i Believer, finché lei non avesse individuato il persuasore di Benedict.

Firrell ci aveva pensato su per un intero minuto, poi aveva emesso un lungo fischio. Infine aveva convenuto che il piano avrebbe anche potuto funzionare.

Ci mise quasi tre ore ad andare alla Corte Civica e a convincere il giudice che aveva spedito Faith dietro le sbarre che doveva invece rilasciarla. Il giudice non obbiettò, ma fu molto chiaro su un punto: se si fossero sbagliati, le loro teste sarebbero cadute. Se Faith fosse fuggita, Firrell poteva dire addio alla sua promettente carriera nella polizia e Trumaine non avrebbe più avuto bisogno della sua cittadinanza nuova di zecca, perché sarebbe andato in prigione al suo posto.

Erano disposti ad accettare i rischi insieme con la sfida? Benissimo. Faith era stata rilasciata sulla parola dieci minuti dopo. Era sotto la diretta responsabilità di Trumaine ora; se scappava—erano stati avvisati.

Firrell aveva fatto in modo che Trumaine ricevesse la sua vecchia auto civetta subito fuori dalla prigione, ed era stato così gentile da includere anche la sua pistola elettrica. Probabilmente non l’avrebbe usata—era più una precauzione. Trumaine si ò la bretella del fodero intorno alla spalla, si mise la giacca, poi fece scivolare la pistola nel suo fodero ed attese Faith vicino all’auto.

Alla fine, lei uscì dall’edificio di cristallo prendendo una lunga e profonda boccata d’aria. Anche se non era ancora libera, il solo essere fuori le stava già facendo bene. Si sentiva quasi felice ora; il suo sorriso e la sua allegria le stavano lentamente ritornando. Osservò Trumaine e seppe all’istante che cosa lo preoccupava. Anche se lei poteva conoscere tutte le risposte alle sue domande solo concentrandosi sui pensieri di lui, era ancora scossa dalla litigata che avevano avuto a casa sua. Temeva di farlo arrabbiare ancora, così decise di ricorrere alle parole invece che ai suoi poteri. Anche se le parole erano un mezzo di comunicazione più lento e antiquato, erano comunque un modo sufficientemente adeguato per esprimere i propri pensieri.

“Pensi che lo prenderemo?” gli chiese.

“Sarà meglio. Se non lo facciamo, tu tornerai nella tua bella gabbia di vetro e io sarò lo zimbello del dipartimento per il resto della mia vita.”

“Perché mai doveva importartene qualcosa? Avevi la tua cittadinanza. Tutti gli altri erano contenti di quello che avevi scoperto: i federali, l’Amministrazione per la Sicurezza dei Trasporti, il tuo capitano. Allora... perché?”

Trumaine girò intorno all’auto, poi guardò Faith e aprì la bocca per risponderle, quando si rese conto dal sorriso compiaciuto che le increspava le labbra che non ne aveva bisogno—lei lo sapeva già. Scosse la testa e sospirò, sentendosi così stupido che più non si poteva.

“Monta in macchina,” le disse.

L’auto sfrecciava via lungo la litoranea, zigzagando pericolosamente nel traffico, ricevendo una salva di colpi di clacson dagli irati automobilisti che superava.

Trumaine stava guidando indietro verso Credence più velocemente che poteva. Il suo cervello stava ancora girando, cercando di sistemare più pezzi possibile del gran puzzle che era il caso Jarva, prima di confrontarsi con Benedict.

C’era un motivo, pensò, se l’AST aveva smesso di consegnare il feed a Credence; era la paura di perdere altre astronavi come l’Hibiscus. Ma come mai la nave era naufragata? Trumaine aveva fatto quella stessa domanda a Benedict e lui gli aveva risposto che il feed parassita creato dal persuasore doveva avere causato un’increspatura che aveva mandato la nave fuori rotta. Benedict non aveva ragione di mentirgli su questo e forse era proprio ciò che era davvero accaduto.

Il persuasore di Benedict era responsabile del naufragio dell’Hibiscus; se lui era ancora a Credence—e non c’era motivo di credere che non lo fosse—c’era ancora la possibilità che quello che era successo all’Hibiscus potesse capitare ad un’altra nave.

Trumaine sapeva che si stava prendendo dei grossi rischi a non informare l’AST di ciò che sapeva, ma se lo avesse fatto, Benedict si sarebbe allertato e avrebbe ordinato al suo persuasore di scappare.

Più veloce era Trumaine, minore era la possibilità che il persuasore leggesse la sua mente—o quella di Faith—e sapesse tutto di loro e, di nuovo, fuggisse.

Sbatté la sua mano sul clacson e la tenne lì mentre sorava un paio di veicoli più lenti, i cui autisti trovarono opportuno salutarlo allo stesso modo.

Faith, che non era abituata a questo tipo di guida, si aggrappò alla maniglia del lato eggeri, cercando allo stesso tempo di coprirsi entrambi gli orecchi con la mano libera. Ogni tanto, osava alzare gli occhi verso la strada per rendersi conto con un gemito nauseato che il pericolo era ben lontano dall’essere ato.

“Pensi che sia ancora a Credence?” gli chiese con la voce scossa.

“Dove altro? Nascondersi tra i Believers di Credence è la copertura perfetta per lui.”

“E se non c’è?”

“Lo aspetteremo—tornerà.”

“Qual è il tuo piano?”

Trumaine la guardò per un momento e ghignò.

“Tu sei il mio piano. D’ora in poi sarai tu i miei occhi e i miei orecchi—non posso trovare il persuasore senza il tuo aiuto. E’ per questo che ho bisogno che tu espanda la tua mente e che tu sia vigile—dobbiamo scovarlo. Cerca indizi nelle menti di tutti; vedi se contengono ricordi del bunker di Jarva, dell’omicidio, o dell’omicida. Ma dobbiamo essere cauti; se Benedict si accorge che siamo tornati a Credence, potrebbe dirlo al persuasore e lui scapperebbe.”

All’improvviso, un rumore distante crebbe dietro l’auto—era il ruggito assordante e inquietante di un motore poderoso che non aveva niente di elettrico —ma nessuno di loro ci fece caso al momento.

Faith cercò di rilassarsi; chiuse gli occhi ed espirò lentamente, espandendo la sua mente.

“Sei già sulle sue tracce? Percepisci qualcosa?” le chiese, allo stesso tempo sterzando violentemente per sorare un pickup carico di quelli che sembravano fusti di petrolio.

Faith, che diventava più pallida ad ogni sterzata, continuò coraggiosamente a tenere gli occhi chiusi.

“Si chiama yoga... sto cercando di comprimere il mio diaframma...” sussurrò, con la faccia verde.

“Questo ti aiuta a concentrarti sul persuasore?”

“Mi aiuta a non vomitare... ma non funziona...”

Trumaine sbottò. Guidò diritto per un po’ poi, di nuovo, il ruggito inconfondibile di quello che poteva essere solo un obsoleto motore a scoppio scosse l’auto. Stavolta era sembrato vicinissimo. Il ruggito aumentò d’intensità, saturando l’aria e scuotendogli i timpani. Lo stesso, non se ne curarono. Fu solo quando la tromba baritona di un camion risuonò a tutto volume, giusto dietro all’auto, che saltarono dai sedili.

Faith si raddrizzò di scatto, scordandosi il mal d’auto, cercando di vedere attraverso il lunotto.

“OH, MIO DIO!” strillò.

“Cosa?!”

Guardò nello specchio retrovisore—e lo vide...

Era il più grosso veicolo che Trumaine avesse mai visto in vita sua—era un mostro. Era un antiquato camion a rimorchio a diciotto ruote, massiccio ed ingombrante, sotto il cui cofano rombava un motore turbo-compresso a sei cilindri in linea ad iniezione diretta, capace di erogare fino a seicento cavalli di potenza.

Qualsiasi cosa questo volesse dire, vederlo divorare senza pietà la strada sotto le ruote gemellate provocava una strana sensazione d’impotenza.

I veicoli equipaggiati con motori a combustione interna erano stati ritirati dalla circolazione circa un secolo prima. Quei pochi che ancora giravano per le strade si potevano contare sulle dita di una mano, avevano bisogno di una speciale autorizzazione per viaggiare ed erano usati principalmente negli spettacoli d’epoca, o per scopi pubblicitari.

Quel mostro sembrava un edificio orizzontale che qualche mente squilibrata avesse fornito di ruote, e doveva pesare altrettanto. Aveva più di duecento anni ed era stato probabilmente rubato da qualche museo dei trasporti. Quella cosa sarebbe dovuta cadere a pezzi, con le sue parti scassate, ricoperte di polvere ed arrugginite; a malapena in grado di accendersi, non avrebbe proprio dovuto muoversi.

Disgraziatamente, sia l’urlo assordante del potente motore, che la salda colonna di fumo che i tubi di scappamento sopra alla cabina sputavano dicevano altrimenti—era ben vivo e scalciava da matti.

Qualche pazzo aveva ato interminabili ore a rimettere in sesto quel dinosauro, vestigia della vecchia era industriale. Con cura infinita, lo aveva

smontato fin nelle sue parti più piccole; aveva pazientemente ricercato e sostituito le parti rotte e le parti inutilizzabili perché si erano consumate. Di nuovo, aveva rimesso tutto insieme, montando e saldando, stringendo i dadi con la forza richiesta, registrando cinghie e pulegge, sostituendo gli obsoleti copertoni di gomma con quelli più nuovi e durevoli fatti di polimeri sintetici, e pulendo i loro cerchioni cromati. Finché un giorno, come già un tempo, era tornato in vita con un rombo come un gigante scavezzacollo.

Qualcuno aveva rubato quel capolavoro di maestria dimenticata di vite e bullone e lo aveva rimesso nel suo ambiente.

Perché? La domanda sorse nella testa di Trumaine; non dovette attendere molto per conoscere la risposta.

Il clacson del camion strombazzava a tutto spiano mentre sbandava giù per la litoranea, facendosi strada nel traffico sbattendo contro gli altri veicoli come se fossero tappi di bottiglia, facendoli girare come trottole l’uno contro l’altro e addosso alla barriera di cemento.

Quando il mostro si fu liberato di loro, sterzò di nuovo sulla strada, accelerando, dirigendosi verso l’auto di Trumaine...

Ingoiava la strada come uno squalo famelico che cercasse qualsiasi cosa su cui potesse affondare i denti per saziare la sua fame.

Una Faith terrorizzata guardò su verso Trumaine e parlò per entrambi.

“Quella cosa cerca noi!” squittì.

Trumaine accelerò nella vicina corsia, ma era piena di pendolari, così dovette rallentare di nuovo.

“Chi è? E’ lui?”

“Non lo so!” protestò Faith.

“Cerca nella sua mente! Scopri chi è!”

Faith chiuse gli occhi, cercando di concentrarsi, quando l’auto sobbalzò in avanti e loro con lei—il tir li aveva raggiunti. Il suo paraurti alto un metro scintillò sinistro, sembrando un gigantesco maglio mentre colpì l’auto con un rumore di ferraglia, spingendola contro il retro del veicolo che la precedeva—un furgone.

Il tir speronò l’auto civetta una terza volta.

Stavolta Trumaine vide un’apertura sulla sinistra e si buttò dentro, sorando il furgone. L’auto si fiondò in avanti, momentaneamente sfuggendo al tir che l’inseguiva, ma il furgone, che non aveva spazio per fare manovra, era segnato.

Il camion lo investì, mandandolo fuori controllo; il furgone si schiantò contro il guardrail di cemento e rimbalzò di nuovo sulla strada, sotto le ruote massicce del camion che lo stritolarono senza pietà.

Il tir sussultò e tremò mentre investiva il mucchio di plastica e metallo che era il furgone, rimettendosi all’inseguimento con una nuvola di polvere e rottami.

Quasi nulla rimase del furgone—solo la sua cellula di sicurezza contorta. Si spaccò in due, lasciando uscire un vecchio disorientato e malfermo. Tentò per ben due volte di rimettersi in piedi, ma le sue gambe tremavano così tanto che si lasciò cadere sconsolato sull’asfalto.

Trumaine teneva gli occhi sulla strada, sforzandosi di non guardare indietro al tir inseguitore.

“ALLORA!?” chiese.

Faith era rimasta con gli occhi chiusi e le dita posate sulle tempie, cercando con tutta sé stessa di scoprire chi fosse al volante del camion, ma la sua testa continuava a ciondolare ad ogni scossa e sterzata dell’auto, così riaprì gli occhi.

“Non riesco a concentrarmi così—ATTENTO!”

Trumaine girò il volante, evitando di scontrarsi con la fiancata del camion, che nel frattempo aveva guadagnato terreno, arrivandogli di lato.

“Figlio di puttana!” esclamò.

Trumaine zigzagò nel traffico, mettendo più auto che poteva tra lui e il camion, ma il soverchiante tir si spinse in avanti, spazzando gli altri veicoli dalla strada, costringendo l’auto civetta a spostarsi verso la barriera di cemento... Il muretto si avvicinava velocemente, sembrando un nastro continuo di carta vetrata grossa che li avrebbe presto ridotti in polvere.

Il camion e l’auto elettrica filarono via fianco a fianco con un angolo d’impatto con la barriera. Trumaine pestò sull’acceleratore, ma sapeva già che non sarebbe mai riuscito a superare il lunghissimo tir.

“Ci ucciderà!” strillò Faith dal suo sedile nel vedere che la barriera stava marciando stabilmente verso di loro, sbarrandogli ogni via di fuga.

Rimanevano solo pochi centimetri da entrambi i lati dell’auto, prima che colpisse qualcosa: a destra c’era il cemento raschiante, a sinistra il muro maciullante di gomma sintetica che era le ruote del camion.

Uno sconcertato Trumaine guardò a destra e a sinistra, poi pestò sui freni, bloccando le gomme—stridettero e protestarono, arrestando il veicolo più leggero appena prima che lo fe il camion.

Il tir filò via come un proiettile, oltreando l’auto civetta e schiantandosi contro il muro di cemento come un treno merci—si alzò come un frangente, quasi saltando la barriera, e poi ricadde sulla strada.

Trumaine e Faith continuarono a osservare stupiti, guidando intorno al rottame devastato che era la motrice del tir...

Poi, incredibilmente, il camion immobile tossì, sputacchiò e ritornò in vita.

Coi suoi paraurti contorti, il parabrezza spaccato e perdendo viti a ogni centimetro che faceva, la motrice divelta si trascinò lungo la barriera di cemento come uno squalo spiaggiato, finché le ruote anteriori non artigliarono l’asfalto. Con un lamento orribile, un salto e un brivido di metallo, il tir si rimise all’inseguimento.

Trumaine si rese conto che l’incubo stava per ricominciare ed accelerò verso la linea di mezzeria, sconfinando pericolosamente nella corsia opposta, dove ora il traffico sembrava essere diminuito.

Un autobus che sopraggiungeva lo costrinse a tornare nel suo lato di strada, permettendo al tir dilaniato di ridurre la distanza.

Trumaine si voltò verso una Faith impaurita, cercando di rassicurarla.

“Non temere,” le disse. “Quel catorcio preistorico non può battere la tecnologia elettrica. Ce lo fumeremo come niente—vedrai!”

Non appena il bus fu ato, Trumaine si ributtò nella corsia opposta. Mentre pestava sul variatore elettronico di velocità, il motore elettrico dell’auto ronzò fino a diventare un ululato rassicurante, fiondando il veicolo in avanti.

Un ghigno sostituì il cipiglio sul suo volto mentre il camion cominciò a perdere

terreno e a rimpicciolirsi dietro di loro.

“Visto? Che ti avevo detto—”

Non riuscì nemmeno a finire la frase, che l’auto perse velocità all’improvviso. Un incredulo Trumaine lesse il messaggio che aveva iniziato a lampeggiare sul quadro di comando: GUASTO DELLA BATTERIA - SOSTITUIRE LA BATTERIA.

Con gli occhi fuori dalle orbite, guardò una Faith sdegnata, poi il messaggio, poi di nuovo lei—non era colpa sua!

“Maledetta macchina!” imprecò, piantando i pugni nel volante.

Trumaine guardò nello specchietto retrovisore, dove il camion aveva ripreso ad ingrandirsi; suonò la sua tromba in segno di sfida mentre si avvicinava sempre di più, finché—con grande sgomento di Trumaine—fu ancora a ridosso del paraurti dell’auto. Non si sarebbe mai liberato di quell’orribile cosa? Guardò impotente il tir che accelerava, tamponando l’auto.

“Cristo!”

“Attento!” urlò Faith, additando un secondo camion che sopraggiungeva sulla corsia opposta.

Nella sua cabina, l’assonnato conducente rinvenne di colpo nel vedere l’auto civetta e, oltre, il tir scassato invadere la sua corsia. Si attaccò disperato sia al clacson che ai freni e cominciò a pregare.

Trumaine non riusciva a staccare gli occhi dal parabrezza, oltre il quale il rimorchio del secondo camion aveva cominciato a sbandare di traverso per la corsia, spazzando la strada, puntando verso di lui.

Trumaine frenò di brutto, ritornando nel suo lato di strada, sterzando e sbattendo contro i veicoli più lenti che ancora l’affollavano.

Con uno stridore di gomma bruciata, il rimorchio in arrivo ò a pochi centimetri dall’auto civetta, e continuò a correre...

Sia il rimorchio fuori controllo che il camion che li inseguiva si schiantarono frontalmente in un’immensa esplosione di ferro e plastica, spargendo rottami sulle molte corsie della litoranea.

Per qualche momento, tutto fu quieto sulla statale.

Gli enormi telai contorti dei due autotreni si ergevano dall’asfalto come gli scheletri di due giganti carbonizzati che si fossero stretti in un’ultima lotta, fatale ad entrambi.

I frammenti ancora fumanti dei due camion punteggiavano l’area circostante, alzando colonne vorticose di fumo che parevano pire funebri.

I veicoli che erano stati risparmiati dall’incidente si stringevano in un cerchio attorno a ciò che restava dei tir, con i loro conducenti e eggeri scioccati che stavano a guardare increduli e sbigottiti...

Poi, d’un tratto, la portiera del lato conducente della motrice capovolta del primo tir fu spinta via da dentro.

L’autista omicida, la sua faccia nascosta, emerse dal groviglio di metallo e si calò per terra. Schivando i detriti fumanti, strisciò fino ad un veicolo abbandonato il cui conducente s’era messo in salvo, ci salì sopra e se la filò con uno stridore di gomme.

La testa di Trumaine era appoggiata sul tessuto sgonfio di un airbag esploso; rinvenne piano, districandosi da altri airbag. Annaspò in mezzo a loro, cercando Faith, finché non la trovò—anche lei era nascosta sotto la coperta argentata formata dagli airbag appiattiti che erano scoppiati dal suo lato dell’auto.

“Stai bene?” le chiese.

Ancora tremante, Faith fece di sì con la testa.

Trumaine agguantò il suo cellulare, si accertò che funzionasse ancora, poi scelse GRANT FIRRELL dalla rubrica e compose il numero.

“Grant? Sono Trumaine. Ascoltami attentamente. Non so i guai che dovrai

are per ottenere quello che ti chiederò, ma ne ho assolutamente bisogno—”

Nella sua garitta, il portiere restò a bocca aperta per la meraviglia da sotto il suo cappello da fattorino nel vedere la macchina ammaccata e sferragliante di Trumaine avvicinarsi al cancello di Credence. Si alzò il berretto e si grattò il cocuzzolo della testa, prima di rendersi conto che avrebbe dovuto invece premere il pulsante di apertura del cancello.

L’auto civetta procedette a balzi, entrando nel parcheggio, cercando di raggiungere un posto dove avrebbe infine potuto riposare i suoi pezzi cadenti.

Trumaine scese dall’auto e trottò intorno ad essa, aiutando Faith con la sua porta incastrata. Con un ultimo calcio e un cigolio sinistro, finalmente si aprì. Mentre lei usciva dalla macchina, Trumaine le additò una seconda auto danneggiata parcheggiata nella fila successiva.

Era la stessa auto che il conducente omicida aveva rubato dopo l’incidente del tir.

Era a Credence anche lui.

Avevano perso l’elemento della sorpresa, pensò Trumaine. Se l’autista omicida ed il persuasore di Benedict erano la stessa persona, il loro piano era già stato scoperto e Benedict sapeva tutto.

Guardò Faith.

“C’è solo una cosa che possiamo fare ora,” le disse. “Prendere il persuasore prima che Benedict chiami Firrell, chiedendogli spiegazioni del perché tu sia stata rilasciata; prima che chieda di aprire un’inchiesta formale sia presso l’AST che l’Autorità Federale contro di noi. Ci resta pochissimo tempo...”

Prese Faith per mano ed entrambi balzarono su per i gradini d’ingresso di Credence.

Nessuno li fermò finché non arrivarono alla barriera della galleria. Solo la guardia ai tornelli obbiettò; disse loro che non erano autorizzati ad entrare nella camera e che non poteva farli are.

Tutto ciò che Trumaine dovette fare fu mostrargli la sua pistola elettrica. Non aveva tempo per lunghe spiegazioni, gli disse. La guardia stava impedendo ad un pubblico ufficiale di compiere il suo dovere, e se non si faceva da parte immediatamente, Trumaine lo avrebbe stordito—non sarebbe stato piacevole.

Finalmente, la guardia aveva ceduto e gli aveva aperto la porta di servizio. L’unico intento in cui era davvero riuscito era di avergli fatto perdere un sacco di tempo prezioso.

Una volta nella galleria, corsero verso un paio di poltrone libere.

“Spero che tu riesca a focalizzare la mente qui,” disse Trumaine. “Se non riesci a rintracciarmi nel feed, siamo fregati. Giusto?”

Faith fece di sì con la testa.

“C’è un’ultima cosa...” disse lei.

“Cosa?”

“Quello in cui stiamo per entrare è il vero feed—sarai esposto a molte più informazioni. Spero che tu—”

“Non darti pena per me,” disse Trumaine, tagliando corto. “Mi ci abituerò— andiamo e basta.”

Mentre si stese sulla poltrona più vicina, l’oramai familiare stelo monocolo emerse dalle profondità della camera dei Believers, agganciando e sollevando la sua poltrona. La trasmittente integrata nel poggiatesta si mise a lampeggiare e Trumaine cadde nella trance in pochi istanti.

Faith lo guardò lasciare la galleria e galleggiare via verso la camera, poi si sedette e si stese pure lei. Un secondo, identico stelo si alzò dall’abisso della camera, si accoppiò con la sua poltrona e portò via anche lei.

Mentre lei se ne andava, la guardia della galleria fece un o in avanti con un ghigno malvagio. Schiacciò un tasto sulla sua radio da polso, se la portò alle labbra e ci parlò dentro.

“Signor Benedict? Sono Richards, signore, le sto facendo rapporto dalla galleria. Il detective Trumaine è appena entrato nel feed con la signorina Alveraz...”

LO SPAZIOPORTO TUTTIMONDI

Trumaine si rese conto immediatamente che c’era qualcosa che non andava nel posto in cui aveva aperto gli occhi—sembrava molto una scala di emergenza, ma non l’aveva mai vista prima. Guardò verso l’alto; la luce filtrava giù da una piccola apertura quadrata, un buon quindici metri sopra di lui, raggiungendolo.

Si aggrappò al corrimano e prese a salire. Salì e salì. Balzò così rapidamente su per le scale che quasi non si accorse della solitaria doppia porta che si apriva in un angolo. Tornò indietro, allungò la mano verso la maniglia e la tirò. La porta si aprì senza sforzo—una luce brillante lo avvolse, accecandolo, impedendogli di vedere quello che c’era oltre l’apertura.

I suoi occhi ci misero un po’ ad abituarsi alla luce. Quando lo fecero, la più straordinaria visione vibrò e balenò davanti a lui, diventando reale a poco a poco.

Era l’ampia galleria di uno spazioporto. Non uno spazioporto qualsiasi; questo era talmente enorme da essere cinquanta volte ogni spazioporto che Trumaine avesse mai visto, come se tutti gli spazioporti del mondo fossero stati assemblati insieme, fianco a fianco, in un mostruoso edificio colossale.

Mezzo milione di persone si accalcavano nella hall principale, imbarcandosi o scendendo dalle venti o più astronavi allineate su entrambi i lati di essa come se fossero dei cavalli di razza al cancelletto di partenza.

La visione era così mozzafiato e travolgente che Trumaine dovette aggrapparsi al parapetto per reggersi. Non trovando le parole che descrivessero quello che vedeva, continuò semplicemente a fissare dal suo punto dominante la vastità di quello spazio...

Trumaine si affrettò lungo la hall, districandosi tra la folla indifferente. Continuò a guardarsi intorno, ancora incapace di capire che cosa fosse quel posto. Arrivò col fiatone ad un ufficio informazioni elefantino, dove un impiegato su più di venti lo notò.

“Come posso aiutarla, signore?” chiese gentilmente.

Trumaine si accarezzò la mascella e gemette.

Voleva ridere e gridare. Voleva battere i pugni sul bancone e schiaffeggiarsi, perché Benedict aveva già vinto e lui, il piccolo poliziotto inerme col suo piccolo cervello arrogante, aveva perso. Non c’era alcun modo che lui potesse trovare il persuasore di Benedict in quella folla—né in un mese, né in un anno intero.

Allontanò l’impiegato ed appoggiò i gomiti sul bancone, incredulo e sentendosi la testa leggera.

Forse avrebbe fatto meglio a sedersi...

Poi, d’un tratto, una voce argentina risuonò dietro di lui, chiamandolo. Poteva sbagliarsi, ma pensò di avere già sentito quella voce—apparteneva a una giovane

donna di cui si era sognato, tanto tempo fa.

“Chris! Grazie a Dio, sei qui!” disse la voce.

Trumaine volse il capo lentamente e vide la donna che aveva sognato avvicinarsi al trotto. Aveva il volto arrossato ed era senza fiato; il gigantesco spazioporto era troppo anche per lei, ma non c’era nulla di cui preoccuparsi, pensò Trumaine— era tutto nella sua testa.

“Che diamine è questo posto?” le chiese.

“Beh, è il vero feed,” replicò la giovane donna con lo stesso tono pratico che uno avrebbe usato per dire che due più due fa quattro.

“E... tu lavori qua dentro?”

“Benvenuto nello spazioporto Tuttimondi—è così che succede,” disse lei con un cenno.

Trumaine la fissò. “Che succede cosa?”

Faith additò alcuni dei anti.

“Non te li ricordi? Devi pure averli visti in mensa—sono Believers. Non tutti lo sono, ovviamente. Quello che vedi qui è il feed somministrato come lo vedono i Believers.”

Indicò intorno a lei.

“Il feed è un’immensa proiezione, Trumaine. Tutti i eggeri che vedi qui, si trovano anche in tutti gli spazioporti reali dell’universo, proprio ora! Lo stesso vale per le astronavi—sono tutte reali. Decolleranno secondo i loro orari, portando con sé i loro eggeri. I Believers lo vedono accadere qui qualche momento prima che accada nella realtà. Proprio nell’attimo in cui credono che stia accadendo, succede anche nella realtà! Capisci ora? E’ così che il miracolo di Jarva del Pistocentrismo funziona!”

La testa di Trumaine stava girando.

“Non avrei mai pensato che sarebbe stato così grande... Non lo prenderemo mai...”

“No, l’ho trovato!”

“Cosa?! E dove?”

“Vieni!”

Faith prese Trumaine per mano e lo trascinò con sé; corsero e sgomitarono in mezzo alla folla.

“E’ laggiù,” disse Faith, facendo strada. “Ora posso capire perché non mi sono mai accorta prima che fosse lui—è così... insospettabile.”

“Gli sei entrata nella mente?”

Faith scosse la testa. “Non si sono riuscita.”

“E come fai a sapere che è lui, se non gli hai letto la mente?” protestò Trumaine.

“Proprio per questo! Non capisci? E’ l’unico individuo nella cui testa non sono riuscita ad entrare—ecco perché l’ho trovato così presto!”

“Non puoi leggergli la mente? Come mai?”

“Non lo so. Forse indossa uno schermo?”

“Uno schermo...?”

Le domande che avevano bisogno di una risposta cominciarono ad accatastarsi nel cervello di Trumaine più velocemente di quanto lui riuscisse a contarle.

Giunsero davanti ad un gruppo di almeno venti, tra eggeri, guardie e addetti dello spazioporto.

“Chi è?” chiese.

Faith puntò il dito. “E’ quello là, quello col—”

“Quello col—” ripeté Trumaine.

Ma Faith non gli rispose.

Girò la testa verso di lei, cercando di capire perché avesse smesso di parlare tutto ad un tratto. Per un istante, la vide; si stava guardando le mani con un’aria interrogativa—perché gli stava succedendo una cosa stranissima: avevano cominciato a guizzare e a vibrare, come se si vedessero da dietro un’onda di calore...

Scomparve così, lasciando Trumaine a fissare l’andirivieni degli anonimi eggeri.

Faith sbatté le palpebre, cercando di capire dove fosse finita; ci mise qualche secondo a rendersi conto che era ritornata nella camera dei Believers.

Guardò l’orologio—erano trascorsi appena quindici minuti da quando era entrata nel feed. Che cosa era accaduto? Come mai era tornata indietro? Dov’era Trumaine? Trovò la risposta a tutte le sue domande quando alzò gli occhi.

Benedict, Matthews e la guardia della galleria stavano in un cerchio intorno a lei, guardandola storto.

“Signorina Alveraz,” disse Benedict. “Lei non ha alcun diritto di stare qui. La prego, venga via.”

Allungò la mano per aiutarla a scendere dalla poltrona, ma lei non la prese. Sentendosi ancora frastornata per essere stata svegliata troppo presto dalla trance, barcollò in piedi. Guardò alla sua destra e vide con sollievo che la culla della poltrona accanto alla sua era vuota—Trumaine almeno era ancora nel feed.

Si domandò se fosse riuscito a scorgere l’uomo che gli aveva indicato. Rammentò l’espressione perplessa sulla sua faccia quando si era girato verso di lei; forse non l’aveva sentita quando lei gli aveva detto il nome del persuasore di Benedict, forse era svanita prima che lui avesse potuto sentirla...

Benedict si voltò verso Matthews con un cenno.

“Riporti indietro anche lui.”

Faith pensò più velocemente che poteva; e se lui non l’avesse sentita? In quel caso, aveva bisogno di più tempo per trovare il telepate; magari sarebbero stati

sufficienti ancora pochi minuti. Ma chi gli avrebbe fornito il tempo prezioso che gli serviva? C’era solo una persona su cui lui poteva contare ora, ed era lei. Ma che cosa mai poteva fare lei?”

Più tardi, Faith si ricordò di quello che era avvenuto successivamente come qualcosa di confuso, dovuto più all’improvvisazione che al calcolo...

“No! Non potete farlo, ancora!” gridò a Matthews, che stava per premere invio sul suo blocco di controllo, richiamando Trumaine dalla camera.

Approfittò della momentanea distrazione di Matthews per saltarle addosso. Le due lottarono per il blocco, finché Faith non lo strappò via furiosamente dalle dita di Matthews e lo scagliò oltre il parapetto della galleria, fin nella camera— girò pigramente come un boomerang, planando nell’aria per un po’, poi perse lo slancio e cadde nell’abisso della camera.

Benedict alzò gli occhi al cielo e sbottò.

“Non sia ridicola, signorina Alveraz. Che cosa pensa di fare adesso?”

Fece un cenno alla guardia, che estrasse la sua pistola e la puntò verso di lei.

Veloci come delle saette, le unghie affilate di Faith balenarono pericolosamente nell’aria, stringendosi intorno alla gola di Matthews in una presa ineluttabile.

Usandola come scudo, Faith la trascinò verso il bordo della galleria, a pochi centimetri dal baratro della camera.

“Che nessuno si muova, o saltiamo!” li avvertì.

La guardia sollevò la sua pistola, in procinto di spararle, ma Faith si sporse all’indietro contro il parapetto, sbilanciandosi verso l’esterno, minacciando di finire di sotto con Matthews al seguito.

“DICO DAVVERO!” urlò Faith, guardando Benedict dritto negli occhi—e lui seppe che lei l’avrebbe fatto.

Sbuffò, incapace di cavarsi dall’irritante stallo.

A qualche o di distanza, la guardia si era bloccata. Solo i suoi occhi si muovevano, spostandosi senza sosta da Benedict a Faith, incerti su cosa fare...

Trumaine era ancora dove Faith lo aveva lasciato.

Dal momento che non aveva idea di chi nel gruppo di persone davanti a lui fosse il persuasore, aveva estratto la sua pistola elettrica e li stava tenendo sotto tiro da allora.

“Che nessuno si muova!” aveva gridato. “Uno di voi è coinvolto nell’assassinio di Aarmo Jarva, lo scienziato, ed io scoprirò chi è!”

All’inizio, il gruppo aveva ubbidito docilmente—si erano fermati e si erano girati; coloro che portavano dei bagagli li posarono per terra. Si erano scambiati l’un l’altro nervose occhiate sospettose, temendo che l’omicida fosse il loro vicino e che avrebbe potuto tentare qualcosa di estremo ora che era stato messo alle strette.

Ma quando videro che Trumaine non arrestava nessuno, avevano cominciato a dubitare di lui. Presto, avevano iniziato a sospettare che non avesse la minima idea di chi fosse l’assassino. Ed ora erano quasi certi che l’omicida doveva essere solamente nella sua testa.

Si stavano annoiando e irritando. Chi credeva di essere quel matto che si spacciava per un poliziotto? La maggior parte di loro andava di fretta; o il loro volo sarebbe decollato in pochi minuti, oppure avevano impegni improrogabili da mantenere.

Quando Faith aveva parlato del persuasore, aveva usato pronomi maschili—il telepate era un uomo.

Trumaine continuò a scrutare ogni singolo volto degli uomini nel gruppo...

Ce n’erano forse sei, i cui occhi avevano scintillato pieni di genuina sorpresa quando avevano udito la parola “assassino.” Avevano sussurrato tra di loro preoccupati, lanciando occhiate di traverso al resto del gruppo, cercando di capire da sé chi fosse il criminale.

Erano i primi che aveva scartato.

Dei quattro che restavano, tre avevano roteato gli occhi ed avevano imprecato, increduli—non gliene fregava niente se c’era un’omicida in libertà, purché non fossero arrivati in ritardo.

Trumaine poteva capire la fretta, ma non l’odio che traspariva da dietro quegli sguardi indagatori, e anche se sarebbe stato felice di metterli tutti nella sua lista di sospetti, la sua attenzione si concentrò su due di loro.

Il primo candidato era un giovanotto perfettamente sbarbato che indossava un rigido colletto bianco ed un completo blu chiaro. Era il favorito di Trumaine solo perché era in forma smagliante. Sembrava che potesse resistere con facilità a degli sforzi prolungati, ed era abbastanza forte da guidare un antiquato tir lungo la statale, mandare una ventina di auto fuori strada, distruggere il camion nel tentativo, sopravvivere alla collisione successiva, ed avere ancora la forza di rifarsi tutta la strada indietro fino a Credence.

Sembrava di certo il tipo.

Non altrettanto alto quanto lo era l’impiegato, il secondo sospetto era largo almeno il doppio di lui. Era un robusto uomo d’affari che sfoggiava delle folte sopracciglia e che aveva un taglio di traverso sulla faccia al posto della bocca. Paragonata a lui, la valigetta ventiquattrore che teneva in mano sembrava il giocattolo di una bambola. Ma né il completo di seta perfettamente stirato né le sue maniere gentili riuscivano a nascondere il fatto che, dentro di lui, dietro quegli occhi apparentemente miti, si celava qualcosa di selvaggio. Era il tipo d’uomo che poteva prendere uno e sbatterlo contro il muro se solo lo avesse guardato storto—era un uomo pericoloso ed era senza dubbio un buon sospetto.

Trumaine avrebbe potuto discutere con sé stesso per dei secoli su chi fosse il persuasore, non avrebbe mai cambiato il fatto che non sapeva ancora chi era. Per di più, questo era il feed; di certo non poteva arrestarli tutti e interrogarli con calma in una stanza. Doveva trovare un altro modo per distinguere il persuasore dagli altri e doveva trovarlo subito.

Il gruppo si stava innervosendo.

“Ehi, sono in ritardo per il mio volo, amico! Devi davvero trattenerci tutti? Non ho tutto il giorno a disposizione,” disse l’impiegato in forma, dopo che ebbe sbirciato il suo orologio da polso.

“Non può mica arrestarci tutti, no?” chiese il robusto uomo d’affari, con un’occhiataccia.

“Col cavolo che lo può fare,” disse l’impiegato.

“Restate tutti dove siete!” minacciò Trumaine.

“E allora!” disse un vecchio eggero esasperato che non era sulla lista di Trumaine.

“Questo è un comportamento inaccettabile. Le farò rapporto. Mi dica qual è il suo numero!” disse un altro.

“Guardi, il mio volo parte tra cinque minuti esatti,” insistette l’impiegato. “Se lo perdo, chi mi comprerà un altro biglietto? Lei? Non credo proprio.”

“Io vado,” decise il tarchiato uomo d’affari.

Con una scrollata di spalle che avrebbe scosso una collina, si girò e si allontanò.

“Ancora un o e la stordisco!” gridò Trumaine.

“Beh, credo che dovrà stordirci tutti, allora” disse l’anziano eggero.

Anche lui provò a fare un o—così fecero gli altri.

Trumaine puntò la pistola elettrica ad ognuno di loro, ma lo ignorarono. Il gruppo cominciò a dividersi.

Trumaine, non sapendo chi avrebbe dovuto seguire, continuò a spianare la sua pistola, impotente.

Il gruppo se n’era quasi tutto andato ormai.

Trumaine pensò intensamente, accarezzandosi il mento e imprecando.

Poi, in qualche modo, la sua attenzione fu attratta da uno nel gruppo che non aveva considerato.

Si trattava di un uomo che indossava un vestito bianco; anche se gli cresceva un po’ di barba sul mento e sulle guance, non c’era nulla di straordinario in lui, nulla di strano, né di bizzarro—aveva una corporatura media, un’altezza media, e una faccia comune che uno faceva presto a dimenticare.

Soprattutto, era l’unico nel gruppo che non lo aveva mai guardato, nemmeno per una volta, da quando li aveva fermati.

Trumaine lo studiò mentre si avvicinava ad uno dei cancelli d’imbarco, mettendosi in coda con pochi altri eggeri. Quando l’ultimo di loro se ne fu andato, l’uomo fece un o avanti e l’ufficiale d’imbarco si rivolse verso di lui.

Ignorando il detective, l’uomo estrasse dalla tasca un biglietto color argento e lo ò all’ufficiale, che lo vidimò, riconsegnandoli una carta d’imbarco dello stesso colore.

L’uomo fece un cenno di ringraziamento con la testa, poi procedette verso il cancello d’imbarco.

In pochi minuti, se ne sarebbe andato...

“Ehi, tu!” lo richiamò Trumaine.

L’uomo parve non sentire—non si fermò...

Ma dovette farlo quando Trumaine gli balzò davanti, mettendogli la pistola elettrica sotto al naso.

“Ehi, amico, vuoi aspettare un minuto?”

Trumaine prese la carta d’imbarco dalle mani dell’uomo e la osservò. Sotto la destinazione—un avamposto dimenticato da Dio nel sistema PEGASI II—si leggeva un nome: TROY GROMER.

TROY GROMER

Gromer sorrise goffamente mentre attendeva con pazienza che Trumaine gli controllasse i documenti.

“C’è forse qualcosa che non va con la mia carta d’imbarco?” chiese soavemente.

Sembrava che stesse ascoltando qualcosa: un piccolo amplificatore era inserito nel suo orecchio destro, dal quale partiva un sottile cavetto ritorto che arrivava in mezzo alla sua schiena.

“Che cos’è quello?” chiese Trumaine, incuriosito.

Allungò la mano, in procinto di tirare il filo, quando Gromer si voltò di scatto. Un ghigno ferale aveva preso il posto del sorriso gentile, e c’era un grosso pugno dove prima c’era stata la sua mano.

Colpì Trumaine sul naso talmente forte che lui vacillò. Gromer gli sferrò un calcio e lo spinse sul pavimento, poi si scagliò verso il cancello.

Tentò di oltrearlo, cercando di raggiungere la salvezza della navetta che si ergeva oltre ad esso, ma l’ufficiale d’imbarco se ne accorse—schiacciò un tasto nella sua consolle, sigillando il cancello.

Gromer piantò i pugni sulla lastra di metallo mentre si chiudeva, ma fu tutto inutile. Con una furia omicida, tornò verso l’ufficiale, ma quando vide che Trumaine si stava riavendo, annaspando per recuperare la sua pistola elettrica, ci ripensò, e si mise a correre.

Trumaine si asciugò il sangue dal naso, allo stesso tempo puntando la pistola, ma nel tempo che ci mise a farlo, Gromer era già salito su per una scalinata piena di gente che conduceva alla galleria superiore.

“Dannazione!” esclamò—non aveva il tiro libero.

Si issò in piedi e si buttò all’inseguimento.

Gromer spinse un paio di eggeri fuori dai piedi, arrivando in galleria. Procedette a spintoni, saltando trolley, sedie e tavoli, schivando furiosamente eggeri e astanti. Ogni tanto lanciava un’occhiata dietro di sé e ghignava maligno—Trumaine non si vedeva da nessuna parte.

Il bieco ghigno non restò sulle sue labbra a lungo; morì quando vide il detective emergere da un’altra rampa di scale, davanti a lui, con la pistola in pugno.

“Ti dichiaro in arresto per sospetto omicidio,” disse Trumaine, avvicinandosi lentamente.

Il suo naso, che ormai aveva smesso di gocciolare sul davanti del vestito, aveva

iniziato a gonfiarsi.

Gromer capì di essere in trappola con un grugnito deluso; strisciò fino al parapetto della galleria, e poi si guardò indietro.

“Dove credi di andare?!” gli urlò Trumaine.

Gromer agguantò il parapetto, leccandosi le labbra, incerto sul da farsi...

Trumaine scoprì i denti—non era mai stato così vicino a prendere il persuasore e non aveva alcuna intenzione di lasciarselo scappare; un milione di domande avrebbero infine avuto risposta.

Le gambe di Gromer vacillarono sotto di lui, e Trumaine seppe esattamente che cosa si provava a cercare una via d’uscita quando non ce n’era nessuna.

Si mosse verso di lui quando, con sua grande sorpresa, Gromer fece un respiro profondo e... saltò.

“NOOO!” gridò Trumaine.

Raggiunse il parapetto, sporgendosi—vide Gromer precipitare per almeno quindici metri. Si aspettò di vedergli la testa esplodere contro il pavimento ad ogni istante ora—

Ma quando Gromer colpì il pavimento, non accadde nulla alla sua testa... perché egli svanì completamente.

“Ma che diavolo—”

Trumaine ci mise un po’ a rendersi conto di che ne era stato di Gromer.

“Maledizione, questo non è reale!” ruggì.

E saltò a sua volta...

Trumaine si svegliò nel mare dei Believers.

Il dolore sulla sua faccia era scomparso, il suo naso aveva di nuovo le sue solite dimensioni, e il davanti del suo vestito non era mai stato così immacolato. Solo la testa gli girava un po’, ma doveva dipendere dal fatto che si era risvegliato dal feed all’improvviso, pensò.

Si guardò intorno, ai Believers che galleggiavano nelle loro poltrone, ignari dei problemi del mondo.

Dov’era finito Gromer? Trumaine studiò i Believers nella camera finché, con la coda dell’occhio, scorse un leggero movimento—uno dei Believers si era

svegliato e si stava ora sedendo sulla sua poltrona.

Era proprio Gromer.

Come se avesse percepito i pensieri di Trumaine nella sua mente, Gromer volse il capo e incrociò lo sguardo di ghiaccio del detective—i due si fissarono per un lungo momento, studiando l’avversario.

Il Gromer reale non era meno agile della sua controparte nel feed, poiché con una mossa rapida e fluida, si alzò in piedi e balzò dalla sua poltrona—atterrò su quella accanto con la precisione di un gatto poi, di nuovo, utilizzando la seconda poltrona come un trampolino, fece un altro salto, cercando di raggiungere la galleria prima del detective.

Anche Trumaine si alzò sulla poltrona ondeggiante, cavalcandola come aveva fatto Gromer—come se fosse una tavola da surf. Studiò il dondolio della prossima poltrona, sincronizzando il salto, sapendo che sarebbe finito nell’abisso della camera se l’avesse mancata...

Saltò.

Per un istante, i suoi piedi restarono sospesi sopra al nero baratro, poi atterrarono esattamente sulla poltrona vicina.

La poltrona si mosse sotto di lui, bilanciando il peso aggiunto, forzandolo a compensare ulteriormente con le ginocchia e le anche per non cadere. Guardò il

Believer che giaceva tra i suoi piedi—non parve fare caso al nuovo viaggiatore e continuò a russare forte.

Trumaine saltò di nuovo, e di nuovo. Cominciava a trovarci un dritto ora, inseguendo Gromer in una folle gara di balzi. Ma muoversi più velocemente aveva un grosso inconveniente che lui non aveva considerato—era la spinta aggiuntiva. Adesso, ogni volta che i suoi piedi colpivano una poltrona, questa sobbalzava con violenza cercando di controbilanciare lo spostamento, rischiando di mandare nel baratro il suo Believer. Inoltre, mantenere l’equilibrio stava diventando via via più difficile per lui; a volte l’imbottitura sintetica della poltrona diventava scivolosa sotto le sue scarpe, e più di una volta era finito sull’arto di un Believer.

Continuò a saltare lo stesso—Gromer era vicino.

Trumaine balzò di nuovo.

All’inizio il suo piede trovò appoggio sulla poltrona—ma poi scivolò. Sarebbe precipitato se non avesse allungato le dita, afferrando il bordo della poltrona. Si tenne, lottando contro la morte, sudando sette camicie, prendendo fiato e felice di essere ancora vivo.

Poi boccheggiò—l’ignaro Believer che giaceva sulla poltrona ora sbilanciata, una giovane donna, cominciò a scivolare verso di lui. Le gambe già le penzolavano nel vuoto e il resto di lei le avrebbe presto seguite.

Gemendo, si allungò verso di lei e l’agguantò per i fianchi—

Sforzandosi di non perdere la presa sulla poltrona, la scavalcò con una gamba, mettendosi a cavalcioni. Sentendo il sudore correre giù per il collo per lo sforzo, infine issò la donna sulla poltrona. Controllò che stesse bene—ma lei non si era mai svegliata dalla trance.

Si rimise in piedi facendo attenzione—e ripartì.

Trumaine stava raggiungendo il fuggitivo; con un gran balzo, si appese alla stessa poltrona dove Gromer era appena arrivato, impedendogli di saltare ancora.

Il peso fu troppo per la poltrona, già occupata da un Believer massiccio— cominciò a scuotersi furiosamente, cercando di scrollarseli di dosso tutti e tre.

In un attimo, Trumaine e Gromer si ritrovarono appesi da entrambi i lati della poltrona.

Gromer si rese conto con orrore che le sue mani sudate stavano gradualmente perdendo la presa—guardò in su, disperato.

“Aiuto...” gracchiò.

Trumaine fece oscillare il proprio corpo, cercando di girare intorno alla poltrona e di afferrare il braccio di Gromer, nel contempo tenendo d’occhio il Believer massiccio, accertandosi che non scivolasse giù dalla poltrona pure lui.

Riuscì ad afferrare il polso di Gromer, ma poi le dita gli scivolarono e dondolò indietro. Ci provò ancora, allungando la mano, ma lo mancò. Oscillò una volta ancora poi, proprio quando entrambe le mani di Gromer mollarono, lo agguantò per il polso.

Il peso di Gromer era tutto sul braccio di Trumaine ora, ed il detective non poteva sollevarlo—Gromer doveva issarsi sulla poltrona da solo.

Gromer annaspò con la mano libera verso il bordo di metallo della poltrona, ma era oltre la sua portata. Ci provò di nuovo, quasi ce la fece, ma poi le sue dita persero la presa. Stanco e demoralizzato, guardò inorridito mentre il nodo che era le loro mani prese a disfarsi ed, infine, si sciolse.

Gromer precipitò con un urlo breve ed indecente che terminò con un suono sordo e poi nel silenzio.

Trumaine lanciò un’occhiata di sotto, scrutando il pavimento della camera, poi distolse lo sguardo.

Gromer era morto.

Trumaine si issò sulla poltrona.

Con una gran falcata, si spostò sulla poltrona di ritorno di un Believer che si stava risvegliando, che lo portò verso la galleria.

Quando scese dalla poltrona e mise piede sul pavimento solido della galleria, era esausto—di sicuro il salto della poltrona non faceva per lui.

Si raddrizzò la cravatta e la giacca, si buttò i capelli indietro, poi s’incamminò verso il gruppo sotto scacco che includeva Benedict, Matthews, Faith e la guardia della galleria.

“E’ morto,” disse cupamente a Faith.

Lasciò andare Matthews senza dire una parola.

Matthews tossì e si massaggio la gola dove Faith l’aveva stretta poi, senza guardarsi indietro, si ritirò mestamente oltre la guardia e dietro a Benedict.

Trumaine e Faith si scambiarono un’occhiata; sembrava stanca e nauseata. Lui aveva fallito e lei sarebbe ritornata in prigione, in attesa della sentenza che l’avrebbe condannata per la vita.

“Mi dispiace...” fu tutto quello che riuscì a dirle.

Faith non disse nulla, lasciò solo che la guardia la portasse via.

Trumaine si chinò sul corpo maciullato di Gromer.

Era sceso lungo la scaletta di servizio finché non aveva raggiunto il pavimento della camera. Visti da sotto, gli steli metallici che portavano in giro le poltrone assomigliavano alle leve fuori misura dei tasti di un’antichissima e gigantesca macchina da scrivere—guizzavano dentro e fuori dal loro nero alloggiamento, ticchettando e schioccando senza sosta.

Un faretto illuminava il pavimento della camera: da vicino, non era lindo e liscio come sembrava dall’alto, ma irregolare e coperto dalle chiazze di grasso e dalle gocce d’olio cadute dagli snodi degli steli.

Gromer giaceva prono nello sporco; le sue membra spuntavano fuori da sotto di lui con un’angolatura bizzarra, come se fosse un pupazzo rotto—nell’impatto, la sua faccia si era fusa con il pavimento in una melassa appiccicosa.

Trumaine si avvicinò ancora di più.

Qualcosa spuntava dall’orecchio destro di Gromer; allungò la mano e raccolse il piccolo amplificatore che Gromer aveva indossato anche nel feed.

Srotolò il cavetto che c’era attaccato, arrivando ad un congegno a forma di scatola appeso dietro la cintura di Gromer—lo studiò meravigliato.

L’unico testimone che poteva inchiodare Benedict era morto. Anche se Faith avesse potuto leggere la mente di Benedict, non avrebbe avuto molto peso in un eventuale processo—era la sua parola contro quella di Benedict. Oltretutto, Faith aveva solo Trumaine dalla sua parte, mentre Benedict poteva contare su una

lunga lista di membri influenti, sia dell’AST che dell’Autorità Federale—non avrebbe mai funzionato.

Frugò il cadavere, recuperando una carta d’identità e il biglietto argentato che Gromer aveva mostrato all’ufficiale d’imbarco, nel feed. Trumaine rilesse il nome di Gromer e la sua destinazione; si chiese se lui non si stesse tirando fuori dal gioco attraverso il feed. Era forse possibile che se abbastanza Believers lo avessero visto imbarcarsi per Pegasi II potesse essere spedito laggiù direttamente dal feed, svanendo sia dalla camera che da Credence senza lasciare traccia?

Si accarezzo il mento e sbottò—secondo quello che aveva imparato in quei pochi giorni, poteva.

Trumaine udì dei i che si avvicinavano. Alzò lo sguardo e vide un uomo uscire dall’ombra, entrando nella pozza di luce proiettata dal faretto.

Era Benedict.

“Troy Gromer ci mancherà,” disse. “Era un Believer eccellente.”

I due si fronteggiarono in un gelido silenzio e Benedict seppe dallo sguardo velenoso di Trumaine quello che doveva pensare di lui.

“Lei ed il suo complice avete ucciso gli Jarva,” disse Trumaine. “Non posso provarlo, ma sono certo che l’avete fatto. Lei ed il suo complice avete ammazzato anche Jimmy Boyd. Ed ora, dal momento che Gromer è morto, Faith

si beccherà l’ergastolo. Se solo mi fossi accorto prima che c’erano due persuasori...”

L’ultima frase era indirizzata più a sé stesso che a Benedict.

Benedict arricciò le labbra in un ghigno odioso e studiò Trumaine come se fosse una strana creatura.

“Gromer un telepate? Non sia ridicolo. Se lo fosse stato, avrei scoperto la signorina Alveraz senza il suo aiuto, detective.”

Trumaine si alzò stringendo i pugni. “Lei ha sempre saputo di Faith. Gromer le ha raccontato di lei fin dall’inizio. Mi avete usato per incastrarla per l’omicidio degli Jarva, un crimine che lei non ha mai commesso.”

“Ma davvero,” pontificò Benedict, facendo balenare il suo sorriso da squalo.

“Lei sapeva che Jarva aveva trovato il modo di usare Credence per il suo proposito—riportare Raili in vita. Lui e Faith avevano deciso di lavorare insieme a quello scopo, con grande spregio di tutte le leggi federali. Raili fu fatta rivivere ma, in qualche modo, lei se ne accorse; la vide, forse. Questo la fece diventare furioso. Lei doveva punire Jarva per la sua arroganza—ecco perché l’ha ucciso! Ma lei doveva anche porre fine all’abominio che era Raili—ecco perché ha ucciso pure lei!”

Trumaine mostrò il cavetto sgualcito di Gromer.

“Gromer indossava questo. Scommetto che non se lo toglieva mai di dosso, non è vero?”

Benedict scosse la testa e alzò le spalle, come se non sapesse di che cosa Trumaine stesse parlando.

“Oh, lei sa bene cos’è questo—è uno schermo. Ecco perché Faith non è riuscita ad entrare nella testa di Gromer; in qualche modo, questo glielo impediva. E’ stata lei a rendersi conto per prima che doveva indossarne uno, dal momento che non riusciva a leggergli la mente. Beh, lo ha scoperto lo stesso: questo affare funziona abbastanza bene nell’anonimia di una folla, quando i volti non significano nulla. Funziona ancora bene nella camera; ma dopo un po’, quando uno si abitua a vedere sempre le stesse facce, comincia a ricordarsele. Faith si rammentava della faccia di Gromer, ma non riusciva a leggere la mente che c’era dietro ad essa. Come poteva essere?”

Trumaine fece una pausa significativa.

“Ne indossa forse uno anche lei? Magari un modello più sofisticato, che si può mettere in tasca?”

Benedict non disse nulla, ma non faceva nessuna differenza—Trumaine sapeva che era così.

Gli mostrò il biglietto argentato per Pegasi II.

“E che mi dice di questo? Gromer era ad un o dall’andarsene direttamente dal feed, no? Ancora pochi minuti e sarebbe sparito per sempre; nessuno avrebbe mai saputo della sua esistenza.”

Benedict esalò un sospiro lungo e stanco.

“E’ una storia ingegnosa quella che ha immaginato, detective.” Voltò la testa e guardò il corpo maciullato di Gromer. “Tu che ne dici, Troy? Credi che il nostro detective abbia ragione?” Di nuovo, si girò verso Trumaine. “Peccato,” disse con una voce lamentosa e beffarda. “Non sembra che possa dire molto ora...”

Trumaine serrò la mascella rabbiosamente; pareva che fosse sul punto di colpire Benedict sul naso ad ogni momento, ma ciò che fece fu solo maledirlo tra i denti.

Benedict ghignò con cattiveria, godendosi la vittoria—perché aveva vinto...

Poi accadde qualcosa di molto strano, ed il sorriso sulla faccia di Benedict fu sostituito dallo stupore.

All’improvviso, una vibrazione cominciò a scuotere le sue mani, come se non fossero reali, ma viste attraverso una trasmissione dalla cattiva ricezione— sfrigolarono e crepitarono mentre le alzava davanti ai suoi occhi increduli...

La meraviglia di Benedict raggiunse un nuovo picco quando si rese conto che il tremito si stava allargando, salendogli su per le braccia e giù verso lo stomaco.

In pochi istanti, si estese alle sue spalle e ai suoi fianchi e, presto, avrebbe ingoiato pure la sua testa.

“No!” fu il commento inorridito di Benedict.

Poi, come se si fosse appena ricordato che Trumaine era ancora lì davanti a lui, lo guardò...

La stessa cosa stava capitando anche al detective—pure lui aveva cominciato a balenare e a svanire.

“Cosa diamine sta—”

Prima che Trumaine potesse finire la sua domanda, sia lui che Benedict sparirono dal fondo della camera dei Believers.

LA TRAPPOLA

Benedict e Trumaine si trovavano nella stessa posizione che occupavano sul fondo della camera, solo che ora indossavano delle tute spaziali dorate.

Un sole nudo e cocente stava basso sull’orizzonte, spazzando un paesaggio livido popolato di rocce rosse e polvere. Gli oceani e i fiumi che una volta avevano qui fluito erano da tempo evaporati; non era rimasto nemmeno l’immenso arabesco intricato dei loro letti disseccati—era stato cancellato dalle migliaia di crateri che i meteoriti avevano scolpito nella superficie per oltre un miliardo di anni.

Niente viveva qui. Le condizioni del pianeta erano troppo estreme perché potesse crescerci qualcosa eccetto, forse, per qualche batterio dimenticato che giaceva ibernato al riparo del fresco relativo dei poli.

Qua e là, solo l’occhio esperto sarebbe riuscito a distinguere le rocce dai gusci arrugginiti delle macchine che l’umanità aveva spedito dalla Terra nell’unico tentativo, fallito, di scavare il pianeta, più di cinquant’anni prima.

Una superficie ricca di Elio-3 e le immense vene di ferro e magnesio che giacevano sotto di essa in attesa di essere sfruttate, erano una prospettiva di guadagno talmente buona che le corporazioni avevano finanziato l’intero programma. Il primo che avesse messo piede sul pianeta avrebbe deciso il prezzo di mercato per i gas ed i metalli estratti, ed il resto del mondo lo avrebbe semplicemente pagato. Tutto considerato, era un investimento molto promettente.

Scavatrici automatiche furono progettate, costruite e spedite sui poli del pianeta nella lunga notte che lo avvolgeva.

Le scavatrici dovevano mietere nel fresco relativo dell’ombra, per poi spedire indietro i materiali raffinati attraverso lo spazio. Per un po’, tutto andò secondo i piani, finché una tempesta magnetica di proporzioni epiche aveva tagliato tutte le comunicazioni, lasciando le scavatrici nelle piane dimenticate dove erano state mandate a lavorare. Quando, un paio di mesi più tardi, il sole bruciante era sorto, tutto si era trasformato in un crogiolo—incluse le scavatrici. Mentre l’acciaio di cui erano fatte era stato progettato per resistere alle temperature più estreme, i circuiti che conteneva non lo erano—si erano fusi ed arrostiti in un attimo. Col are del tempo, le macchine si erano arrugginite e spessi strati di polvere le avevano ricoperte—ora sembravano uguali alle rocce che le circondavano.

Questa fu la fine delle macchine, ma che ne sarebbe stato dell’uomo?

Non c’era alcun modo che una persona potesse sopravvivere al calore estremo del giorno, o al freddo gelido della notte del pianeta. Anche le speciali tute isotermiche avrebbero offerto ben poca protezione. Essere ancora vivi dopo venti minuti di esposizione alla luce solare diretta a mezzodì sarebbe stata senza dubbio una generosa concessione.

Il sole proiettava il suo insopportabile fascio di luce e calore contro i visori degli elmetti schermati che sia Trumaine che Benedict indossavano.

Nessuno di loro due si era mosso; erano ancora fuori di sé dalla sorpresa, troppo scioccati e inorriditi per reagire o per dire alcunché.

Solo dopo un po’, si scossero.

“Non può essere...” disse Benedict.

Trumaine udì la voce nel suo casco—gli diede un colpetto col voluminoso guanto che gli avvolgeva la mano, rendendosi conto che le tute erano connesse via radio.

“Dove siamo finiti?”

Benedict non disse nulla, esplose solamente in una sonora risata inquietante. Andò avanti per un pezzo.

“La finisca!”

Benedict non parve udire Trumaine, o non stava ascoltando; continuò a sbellicarsi dalle risa.

I minuti avano piano ed il calore aumentava costantemente all’interno delle loro tute. Fu questo che ricondusse Benedict alla ragione—ed all’inevitabile conclusione che sarebbero morti molto presto.

Si volse verso Trumaine con un ghigno.

“Non lo riconosce?” gli chiese, facendo un cenno a tutto ciò che stava intorno a lui. “Non le hanno fatto vedere le foto, quando era a scuola? Peccato che in tutti questi anni nessuno lo abbia colonizzato per noi—benvenuto su Mercurio, detective! Il sole è ancora basso, ma si alzerà—fin troppo presto, ho paura. Non sono un esperto mercuriano, ma direi che ci resta ancora una manciata di minuti prima che ci uccida...”

Fu sopraffatto dalla tragica ilarità di tutto ciò; di nuovo, le risate sgorgarono da dentro di lui—ma stavolta si trasformarono in una tosse convulsa.

“Che cosa ha fatto?!” esclamò Trumaine.

Benedict fece un o, poi un altro, avvicinandosi a lui. Gli diede una pacca consolatoria sulla spalla.

“Io non ho fatto nulla—ha fatto tutto la sua amica...”

“La mia amica? Ma di chi sta parlando?”

“Ma non capisce, pezzo d’idiota?” sbottò Benedict.

“Quella piccola troia ci ha spedito quassù! A morire! Siamo spacciati!”

Per la terza volta, le risa salirono in gola a Benedict; quando parlò di nuovo la sua voce era un roco rantolo.

“Dio solo sa se non ho provato a fermarla! Ci ho provato con tutto me stesso! Ma ha vinto lei!”

Guardò il sole rovente, come se si fosse perso nei pensieri, poi si voltò verso Trumaine.

“Con il suo aiuto! Non poteva semplicemente prendere quella fottuta cittadinanza Aquariana e lasciare il pianeta una volta per tutte? No, non poteva! Lei doveva condurre un’investigazione imparziale!”

Ghignò beffardo. Poi, con una nota amara, disse, “La sua dedizione ci ha ammazzati entrambi...”

Trumaine si chiese se Benedict avesse ragione. Poteva forse essere che la povera ed innocente Faith, la Faith amichevole e gentile, la stessa Faith così bramosa di aiutare Jarva nel nobile intento di riportare Raili in vita, avesse architettato la loro prematura dipartita? Che lei avesse davvero cospirato contro di loro per tutto il tempo? Che avesse usato i poteri illimitati degli ignari Believers per mandarli a morire su un pianeta morto, liberandosi in una sola mossa dei due più grossi ostacoli sulla sua strada?

Trumaine non poteva crederci. Allora, che cosa stava succedendo?

“Lei con il suo complice avete ucciso Jarva.” disse. “Jarva aveva il suo persuasore, ma anche lei ne aveva uno—era Gromer. E’ lui che ha interferito col Main Belief, ed è lui che ha mandato l’Hibiscus fuori rotta, non è cosi?”

Benedict, ancora furioso con Faith, non disse nulla.

“Ma Gromer non stava agendo di testa sua. Lui stava solo ubbidendo... ai suoi... ordini...”

Le ultime parole di Trumaine gli erano uscite con uno sforzo notevole. Ci mise solo un attimo a capire che c’era qualcosa che non andava col suo respiro.

“Non riesco... a respirare...”

Benedict scosse la testa frastornata e si lasciò cadere su una roccia—anche a lui mancava l’aria.

“Gliel’ho detto... Ci moriremo... quassù...”

Trumaine barcollò verso un altro masso e ricadde su di esso; rimasero così per un po’, guardandosi l’un l’altro, riprendendo fiato.

“E’ stato Gromer a provocare l’onda che ha mandato l’Hibiscus fuori rotta... Non è cosi? Avrebbe potuto ucciderli tutti, Benedict—uomini... donne... bambini...”

Con sua grande sorpresa, un minuscolo sospiro venne dalla tuta di Benedict. Che fosse rammarico? Trumaine non ne era sicuro—continuò.

“Lei, l’unica persona responsabile di tutti loro, l’uomo a cui sia l’AST che l’Autorità Federale avevano affidato tutte quelle vite... Lei, proprio la persona che avrebbe dovuto vigilare sul loro viaggio, rendendolo il più sicuro possibile, li ha quasi uccisi... Lei ha fallito il suo scopo, Benedict...”

I minuti arono in assoluto silenzio. Trumaine pensò che, dopotutto, Benedict non avrebbe mai ammesso un dannato niente—era finita. Aveva sparato la sua ultima cartuccia e aveva mancato il bersaglio—nulla avrebbe mai scalfito la personalità monolitica e impenetrabile di Benedict. Scosse il capo davanti alla sconfitta e guardò il sole che stava sorgendo rapidamente.

Fu un’attesa lunga e penosa—l’attesa della morte...

Poi, inaspettatamente, una voce ruppe il silenzio: era una voce piena di rammarico, di amarezza e, forse, di vergogna—era la voce di Benedict.

“Gromer non era sufficientemente addestrato per quel lavoro, era ancora troppo goffo. Fu lui a provocare l’increspatura. Non appena mi dissero che l’Hibiscus era naufragata, ne fui sconvolto; ero sopraffatto, non sapevo cosa fare. Ho pensato che, forse, avrei dovuto raccontare tutto all’Autorità Federale, perché la colpa non fu davvero di Gromer—come lei ha molto ben detto, è stata mia. Ma l’ho fatto per una buona ragione, mi creda—l’ho fatto per salvaguardare Credence...”

Trumaine non credeva ai propri orecchi, Benedict aveva ceduto infine. Si voltò piano, sapendo che aveva appena scoperto il punto debole di Benedict: era la stessa cosa che lo rendeva così forte—era la responsabilità.

La responsabilità lo faceva eccellere con orgoglio, dandogli la forza di combattere strenuamente per i suoi principi—l’ordine dell’Autorità Federale. Allo stesso tempo, il peso della responsabilità per i milioni di anime che Credence trasportava ogni giorno in giro per l’universo, era diventato insopportabile.

Era la responsabilità per la perdita dell’Hibiscus che in quei tre giorni aveva minato la fiducia di sé e la baldanza di Benedict, così duramente e talmente nel profondo che, alla fine, lui si era spezzato.

“Perché ha ucciso Jimmy Boyd?” chiese Trumaine.

Benedict sospirò. “Ci udì per caso... Gromer e me. Gromer pensò che sarebbe stato meglio se non ci fossero stati testimoni—è entrato nella mente di Boyd e lo ha costretto ad impiccarsi...”

“E il cablaggio sul corpo di Gromer? Era uno schermo. Ne indossa uno anche lei?”

Trumaine sbottò al cenno di Benedict. Altre domande turbinavano nella mente del detective, in attesa di una risposta, ma stavolta non aveva bisogno di farle— Benedict era come una diga rotta.

“Me la fece vedere di proposito... Jarva mi invitò nel suo bunker e mi mostrò Raili. Era riuscito nel suo piano—lei era viva e stava bene. Sapevamo entrambi che nel tempo che ci avrei messo per denunciarlo, lui l’avrebbe nascosta di nuovo. Non stava sfidando solamente la legge dell’Autorità Federale—stava sfidando me...”

“Lei sapeva che doveva avere usato un telepate, così lei si è trovato il suo: Gromer. Non fu troppo complicato dopotutto, Jarva aveva condiviso con lei le sue scoperte quando gli era consentito di entrare a Credence. Lei doveva punirlo, doveva farne un esempio, ma doveva farlo in modo tale che fosse il telepate di Jarva a prendersi tutta la colpa. Lei ha sempre saputo di Faith, è stato Gromer a dirglielo. E’ stato lei ad ordinargli di duplicare il pupazzo di Faith cosicché tutti gli indizi portassero a lei. E fu sempre Gromer, ubbidendole, che ha cercato di ammazzare Faith e me sull’interstatale.”

Benedict annuì ad ognuna delle affermazioni di Trumaine, poi guardò lontano, al disco splendente del sole.

Dentro ad esso, lingue di fuoco alte centinaia di migliaia di chilometri danzavano selvaggiamente, vibrando e fiammeggiando, scagliandosi l’una contro l’altra come immensi draghi che combattessero; si consumavano e rinascevano, divampando eternamente—come fenici. Era uno spettacolo soverchiante ed elettrizzante, preludio e monito di ciò che il lungo giorno mercuriano sarebbe stato.

“Ha fatto un buon lavoro, detective,” disse Benedict. “Si merita quella cittadinanza, peccato che non vivrà abbastanza per godersela.”

Succhiando le ultime sacche d’aria intrappolata nelle loro tute, i due si studiarono in assoluto silenzio; sarebbero morti in un paio di minuti ora, e lo

sapevano entrambi—

“Lei si sbaglia...”

Le parole erano uscite dalla bocca di Trumaine. Erano suonate casuali e irrilevanti come un commento sul tempo, ma erano solide ed ineluttabili come le barre d’acciaio di una gabbia che si fosse appena chiusa intorno ad una scaltra preda.

Benedict era stordito; mentre i secondi avano, il suo cervello girava velocissimo, cercando di provare che Trumaine mentiva—ma non ci riuscì.

Conscio della trappola in cui era caduto, Benedict balzò in piedi e, usando le sue ultime forze, fuggì.

Trumaine non perse tempo e lo inseguì con un gemito affaticato—era la gara goffa e surreale tra due vecchi ottuagenari dispersi in una terra aliena e sconfinata.

Benedict corse verso una cresta, prima nascosta, che terminava repentinamente in un vertiginoso salto: la parete di roccia scendeva per circa tre chilometri, prima di incontrare un massiccio zoccolo di basalto sepolto dalla polvere. Benedict si erse sul bordo del cratere per un momento, valutando cos’era meglio per lui. Si guardò sopra la spalla verso Trumaine, che lo avrebbe presto raggiunto... e si buttò di sotto.

“NOOO!” urlò Trumaine mentre Benedict cadeva.

Trumaine saltò subito dopo di lui, prendendo la rincorsa, afferrandolo a mezz’aria. Avvinghiati l’uno all’altro, caddero nel baratro quasi senza fondo.

Il sole infine si levò, scacciando le ombre dove Trumaine e Benedict— precipitando—si nascondevano, bruciando ogni cosa dietro di loro. Più in alto il sole saliva in cielo, più velocemente le ombre si ritiravano, scivolando via da intorno a loro—finché, presto, anche l’ultimo dito di oscurità che li proteggeva dal calore rovente svanì, lasciandoli esposti alla luce del giorno.

Con lo sguardo inorridito, Trumaine e Benedict si accorsero che le loro tute si stavano rapidamente surriscaldando; le videro fumare—presto sarebbero bruciati dentro ad esse.

Benedict guardò Trumaine attraverso il visore del suo casco. “Lei è stato un degno avversario, detective,” concesse.

“Fottiti, vecchio bastardo! Non morirò certo con te!” gridò Trumaine, furioso. Poi scrutò il cielo mercuriano e urlò forte:

“MATTHEWS!? RIESCE A SENTIRMI? E’ MEGLIO CHE CI RIPORTI INDIETRO ORA! NON CI SI SVEGLIA DA QUESTO SALTO!”

Benedict ghignò nel vedere il fondo dell’abisso avvicinarsi a velocità pazzesca. Non era una grande consolazione, ma almeno il suo degno avversario sarebbe

morto con lui.

“MATTHEWS! DOVE DIAVOLO SEI? M-A-A-A-T-T-H-E-E-E-W-S-S-S!”

Gli occhi di Trumaine si dilatarono nel vedere che la sua tuta sfrigolante aveva cominciato a raggrinzirsi e a spaccarsi; anche il suo casco si stava fessurando ora —poteva sentire l’ultima aria sibilare attraverso di esso...

Stavolta era davvero la fine—

Un secondo prima che colpissero il fondo di basalto del cratere e fossero ridotti in poltiglia... svanirono.

Entrambi i loro corpi aggrovigliati guizzarono e si materializzarono in un biancore misterioso. Le tute spaziali che erano state lucide e dorate non più di un quarto d’ora prima, erano ora opache ed annerite; fumavano dai molti buchi e strappi che il calore estremo aveva provocato, attraverso i quali si potevano intravedere gli strati alternati di materiale riflettente e di tessuto isolante carbonizzato che ancora ardevano.

Trumaine e Benedict non osarono muoversi; se ne rimasero semplicemente lì, godendosi il conforto del nuovo ambiente—perché era fresco e conteneva aria.

Non appena gli occhi di Trumaine si furono abituati alla luce, capì che erano tornati a Credence. Infatti quella doveva essere l’immensa sala dei test dove aveva visto i Believers in prova evocare la grande palma spinata con la sua

sfortunata salamandra squamata.

Un movimento sotto di lui gli rammentò che era ancora steso di traverso sopra a Benedict—si stava dimenando sotto al corpo del detective, cercando di districarsi.

Trumaine rotolò di lato ed entrambi giacquero supini; per un po’ aspirarono lunghe boccate d’aria rinvigorenti, poi, quando ne ebbero abbastanza, fecero il tentativo di sedersi—

E si ritrovarono a guardare dentro alle bocche da fuoco di cinque pistole elettriche ad alto potenziale impugnate dallo stesso numero di guardie armate. Altre quattro li agguantarono sbrigativamente sotto le braccia e li tirarono su dal pavimento.

Le guardie lavorarono alacremente alle chiusure autosigillanti dei loro caschi, togliendoglieli.

Trumaine, rosso in volto e coperto di sudore, strizzò gli occhi e sorrise, felice di essere ancora vivo. Lanciò un’occhiata a Benedict, il cui capo venne liberato proprio allora—anche lui grondava di sudore, ma non sembrava altrettanto contento.

In poco tempo, ciò che rimase della sua tuta fu rimosso; le guardie estrassero un Benedict trafelato ed esausto, e lo condussero via senza una parola.

Anche Trumaine fu aiutato ad uscire dagli stivali e dai pantaloni ingombranti della sua tuta spaziale.

Quando alzò gli occhi, incontrò il sorriso di Firrell. Matthews gli stava di fianco, stringendo tra le mani il suo inseparabile blocco.

“Avete la sua confessione?” le chiese Trumaine.

Matthews lo premiò con un vago cenno d’assenso.

“Abbiamo tutto!” disse Firrell allegramente, calando la sua manona sulle spalle di Trumaine.

“Spero che questa storia sia davvero finita ora, Tru. Non credo che i miei nervi potrebbero reggere ancora.”

Emise un borbottio di scusa.

“Mi spiace se siamo arrivati così tardi, ma i federali ci hanno messo una vita ad autorizzare Mercurio.”

Trumaine non si lamentò di nulla—la sua faccia si era bloccata in una smorfia compiaciuta.

Come al solito, la mensa era piena di commensali che mangiavano e ciarlavano beatamente.

Trumaine sedeva ad un tavolo, dal lato opposto di Firrell, bevendo l’acqua da un bicchiere, reidratandosi. Aveva appena ripetuto per la centesima volta quello che era successo dal momento in cui lui e Benedict avevano lasciato il fondo della camera, fino al momento in cui si erano ritrovati nella sala dei test. Sfortunatamente per Benedict, aveva capito troppo tardi che non era stata Faith a spedirli su Mercurio, ma uno speciale feed rilasciato dall’AST, in accordo con l’Autorità Federale, secondo la personale richiesta di Trumaine attraverso il suo incredulo capitano.

“Gesù. E’ la storia più strampalata che abbia mai sentito in vita mia,” disse Firrell.

“Si, lo è davvero,” ammise Trumaine.

Sembrava tutto semplice adesso che ogni cosa si era risolta.

Gromer aveva convinto i Believers nel feed a spedire Benedict nel bunker di Jarva, dove aveva ucciso sia Aarmo che Raili, poi Benedict era stato riportato a Credence. Quando Trumaine era arrivato a Credence per la prima volta, era stato Benedict a suggerirgli del persuasore; anche se gli aveva detto che la considerava solo una remota possibilità, faceva tutto parte del suo piano per incastrare Faith.

Poiché, a quel punto, lui sapeva già di lei; aveva solo bisogno che Trumaine l’arrestasse per un crimine che non aveva commesso—a meno che riportare in

vita Raili Jarva non fosse considerato un reato.

Grazie a Dio, adesso era tutto finito.

Trumaine sorseggiò ancora un po’ d’acqua. La fece scivolare sulla lingua come se fosse un vino d’annata—aveva un gusto dolce e fresco e si sentì di berne un barile.

Trumaine guardò sopra la spalla di Firrell ed intravide Faith in lontananza. Era seduta al suo solito tavolo nell’angolo—persa in mezzo ai Believers che pranzavano, parlando con qualcuno che non si vedeva.

“Che ne sarà di Faith?”

“Sarà rilasciata, naturalmente,” disse Firrell. “Ma è una telepate, temo che non potrà più lavorare a Credence. E sarà meglio che tenga la bocca chiusa sulle sue capacità, se vorrà trovarsi un altro lavoro.”

“Glielo dirò.”

Si alzarono.

“Hai fatto un ottimo lavoro,” disse Firrell. “Non dimenticarti di salutarmi Starsha...”

“Non lo dimenticherò.”

“Forse lavoreremo ancora insieme, un giorno.”

“Forse.”

Trumaine allungò il braccio e si strinsero la mano.

Con un cenno di saluto, Firrell se ne andò. Arrancò intorno ai tavoli con qualche difficoltà, finché non uscì dalla mensa.

Era un buon capitano, pensò Trumaine.

“Che ti ha detto?” chiese una voce, all’improvviso.

Era quella di Faith, ovviamente.

Si girò verso di lei—ora che le sue preoccupazioni erano svanite, sembrava allegra ed accomodante come il primo giorno che l’aveva incontrata.

“Allora?” gli chiese.

“Non lo sai già?”

“Perché non me lo dici con le tue parole?”

Trumaine fece un respiro profondo.

“Adesso che tutti sanno che sei una telepate, non ti lasceranno mai più entrare nella camera; sei troppo pericolosa.”

“Beh, non m’importa,” disse Faith, alzando le spalle.

“Davvero? E che cosa farai ora?”

“Mi troverò un altro lavoro.”

I due si guardarono negli occhi. Trumaine non la temeva più; sapeva bene che lei poteva sbirciargli dentro e conoscere tutto ciò che c’era da sapere su di lui. All’inizio, gli era parso strano e sgradevole, ma ora che si era abituato, pensava di poterlo accettare.

“Hai preso tu la scheda perforata dall’appartamento di Jimmy Boyd, non è così?”

“Era l’unico modo sicuro che avevamo per parlare con Jarva senza che Benedict lo sapesse,” spiegò Faith.

“Ed eri sempre tu, nella Meteor ’55.”

Faith sporse le labbra come una ragazzina ed annuì, rammaricandosi di quello che aveva fatto.

“Mi dispiace. Allora non sapevo ancora di chi potevo fidarmi.”

“Cristo, mi sono quasi rotto il collo contro quel pilastro.”

Inconsciamente, Trumaine si portò la mano alla fronte, accarezzandosi il punto dove aveva sbattuto.

Faith sorrise tristemente.

“Sarà meglio che vada ora,” disse Trumaine.

Lei gli si avvicinò, si alzò in punta di piedi e lo baciò sulla guancia.

“Grazie,” gli disse.

Trumaine non aveva bisogno di essere un telepate per sapere le molte cose non dette che c’erano dietro a quel piccolo segno d’affetto. Forse, pensò, se lui e Starshanna non si fossero—ma non poté finire la frase; non sarebbe mai accaduto e ne erano entrambi consci.

Con un ultimo cenno, Trumaine si voltò.

Faith si morse le labbra e sospirò a vederlo partire.

Tre Believers in prova erano seduti al tavolo nell’angolo. Erano intenti a pranzare ed indossavano il caratteristico completo giallo che rappresentava le loro capacità.

Il fiuto di Benedict aveva indovinato a proposito di loro. Infatti, erano gli stessi tre candidati che aveva individuato solo pochi giorni prima, quando aveva incontrato Trumaine per la prima volta—erano il muscoloso giovanotto di campagna coi capelli biondi, la giovane donna col nasino ed il mento a punta, e la bella atleta con gli occhi neri come opali.

Dal momento che avevano ricevuto punteggi senza precedenti nel test del credo, erano stati promossi ad apprendisti Believers quello stesso giorno; altri due giorni erano quanto ci avevano messo per ottenere eccellenti risultati nelle selezioni per diventare Believers in prova.

Avevano ato il test finale quella stessa mattina, così ora potevano indossare l’abito giallo dei Believers in prova. Se avessero continuato a lavorare così bene, in un altro mese o due avrebbero indossato la divisa bianca immacolata dei Believers a tutti gli effetti, e sarebbero stati infine ammessi nella camera.

Faith li osservò dal tavolo di Trumaine: erano tutti e tre concentrati sul vassoio di cibo che stava davanti a loro—

Ma non appena le ciglia lunghe e nere di Faith sbatterono, essi girarono le loro teste all’unisono, e guardarono dritto nella sua direzione...

Perché erano tutti e tre telepati.

Avevano appena risposto alla chiamata mentale di Faith—i loro occhi penetranti la scrutarono, vigili all’improvviso, chiedendosi come mai lei li avesse evocati. Faith batté le palpebre una seconda volta, ed i tre telepati si rilassarono immediatamente.

Faith attraversò la mensa, raggiungendo il loro tavolo, dove sedette, tranquillamente unendosi e confondendosi tra di loro come se fossero degli amici speciali.

La donna atletica e la ragazza coi capelli rossi le scoccarono un’occhiata saputa, poi si guardarono l’un l’altra e risero—essere a conoscenza dei suoi sentimenti verso Trumaine le rendeva euforiche.

Il giovanotto biondo e muscoloso la guardò da dietro i suoi occhi blu e le sorrise in modo rassicurante.

“Abbiamo notizie per te dal professor Jarva,” disse.

Non aveva mosso le labbra per dirlo.

Le parole erano venute dalla sua mente.

RITORNO A CASA

La navetta extragalattica decollò con un rombo assordante.

Si alzò lentamente ma costantemente sopra alla densa e turbinante nuvola di vapore emessa dai suoi razzi, salendo nell’atmosfera. Tracciò un arco bianco e perfetto contro il blu del cielo come se fosse la punta di un immenso, invisibile como fissato sull’orizzonte.

Nella hall dello spazioporto c’era il solito trambusto.

C’era gente che andava e gente che veniva, gente che si vedeva due volte in un anno intero, e gente che sedeva fianco a fianco ogni giorno—gente che, nonostante fe e condividesse le stesse cose, non sapeva assolutamente nulla dell’altro.

Le loro facce si somigliavano tutte; non erano belle e non erano brutte—erano solo facce. Facce che non dicevano nulla dei mondi che giacevano oltre ad esse, facce che si muovevano senza posa avanti e indietro.

Trumaine stava in piedi in mezzo alla folla, fermo come uno scoglio in mezzo al mare ribollente, contemplando le facce che gli vorticavano intorno.

Alle facce non importava che lui le osservasse; di tanto in tanto, guardavano in

su e lo fissavano, così, senza mostrare nessuna emozione—poi tornavano ad essere solo facce nella folla.

Faith gli aveva detto che la telepatia era una capacità innata; giaceva sopita sul fondo della mente umana, ma un adeguato esercizio avrebbe risvegliato quell’abilità in ognuno di noi. Trumaine si domandò se ce l’avesse anche lui dentro di sé e, per un momento, si sforzò con tutto sé stesso di espandere i suoi sensi oltre i loro limiti fisici, raggiungendo le menti che stavano dietro alle facce —per vedere se poteva intravedere qualcosa di quei mondi sconosciuti...

Si concentrò sugli occhi color nocciola di una ragazza che si affrettava nella sua direzione e provò ad entrarle nella mente—ma tutto ciò che ottenne fu un leggero mal di testa.

Trumaine la guardò mentre gli ò vicino senza accorgersi di lui e sparì in mezzo alla folla.

Sogghignò. Dopotutto, era felice di non essere un telepate; non lo sarebbe mai stato, e gli sembrò giusto. Tutti avevano diritto alla propria intimità, ai loro sogni, alle loro speranze, ai loro ricordi—erano quelle le gemme inestimabili che rendevano la gente quello che erano veramente, e non era affar suo conoscerle.

Di nuovo, Trumaine osservò la folla...

Come se fosse un saggio maestro Zen che avesse appena raggiunto un ulteriore livello di conoscenza, annuì lentamente e sorrise.

Infine si scosse dalle sue considerazioni e si avviò verso le cabine video che occupavano il lato della hall.

Trumaine entrò in uno dei cubicoli.

Era pulito ed assolutamente efficiente—lo erano sempre—ma quella mattina, sembrava stranamente desolato ed ostile.

La larga finestra di ossidiana che era il monitor dei video messaggi torreggiava sopra di lui come la bocca aperta di un qualche misterioso dio ctonio che stesse per dare il suo terribile responso—un verdetto che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.

Mandò giù forte, poi mise la mano sul pannello alla sua destra, sfiorandolo con le dita—era talmente freddo che dovette lottare contro l’impulso di toglierle.

Le fauci spalancate presero vita e l’oscurità di ossidiana divenne di un bianco perlaceo: il aggio si stava aprendo.

Trumaine sapeva che doveva pronunciare le parole, ma era preoccupato delle conseguenze. E se lei non lo avesse voluto con sé? E se lei avesse ricominciato una nuova vita con qualcun altro? Che diritto aveva lui di interferire con tutto ciò?

“Chiamata video per Starshanna Andrews,” disse infine. “Dipartimento di Biologia Marina. NGC-4414, Chioma di Berenice, Aquaria.”

Due parole fluttuarono in silenzio sulla superficie lattiginosa del monitor: CHIAMATA INVIATA.

Ci volle un po’ di tempo perché gli interni blu chiaro di una casa spaziosa apparissero sullo schermo.

Ecco, è fatta, pensò.

Non c’era modo di tornare indietro ora, il temuto aggio era aperto.

Un ciuffo di capelli ramati apparve sullo schermo; erano lunghi e fluenti e terminavano in riccioli ribelli—erano i capelli di una donna. Ma lei non stava ancora guardando nella telecamera, stava piuttosto cercando qualcosa che era momentaneamente fuori dalla sua portata.

“Chi è...? Che ora è...?” chiese con un tono sognante.

“Starsha...” sussurrò Trumaine.

La donna smise di cercare all’istante. Si scostò i capelli dalla faccia, rivelando un paio di occhi color dell’ambra e una fronte levigata... Starshanna guardò in su.

“Chris? Sei tu?”

C’era una dolcezza particolare nella sua voce che Trumaine non ricordava; era calda e ricca, e gli andava dritto al cervello.

Per di più, lei era incantevole.

“Ti ho svegliata,” si scusò Trumaine.

“Dovevo comunque alzarmi tra mezz’ora.”

“Come va?”

“Come al solito. E tu?”

Trumaine esitò—era ora o mai più.

“Mi hanno dato la cittadinanza che ho cercato di ottenere per tutti questi anni, Star,” disse.

Starshanna, sopraffatta dalla notizia, emise un grido di sorpresa. Si mise la mano davanti alla bocca, felice e confusa allo stesso tempo—non se lo aspettava proprio più.

“Sto venendo da te...”

“Chris. Dici sul serio?”

“Dico sul serio, Star... Sto facendo sul serio.”

Poi, improvvisamente, tutta la gioia e l’affabilità di lei svanirono, rimpiazzati da qualcosa di duro, inflessibile e spietato.

I suoi occhi scavarono in quelli di Trumaine.

C’erano certo molti modi per conoscere la verità su di una persona oltre la telepatia, dopotutto, pensò.

“Dimmi, allora,” gli chiese. “Che cos’è che tu credi?”

Trumaine ebbe la spiacevole sensazione che non fosse più Starshanna che parlava, ma una sfinge indecifrabile, un demone senza compromessi affamato di verità, che lo avrebbe divorato se avesse mentito.

Tornò indietro con la mente alle dolorose memorie di Maia, rammentando tutto ciò che era accaduto negli ultimi dieci mesi... Stavolta, non riuscì a sentirsi in colpa. No, non si sarebbe mai più biasimato, perché si era finalmente rassegnato

all’unica evidenza.

“E’ stato un incidente, Star, non è stato altro che un maledetto incidente...”

“Dillo ancora,” ordinò l’imperscrutabile sfinge.

“Non è stata colpa mia,” ripeté Trumaine. “Non è stata colpa di nessuno, Star—è capitato e basta...”

La sfinge lo studiò per un lunghissimo momento, soppesando le parole che aveva appena pronunciato su una bilancia mistica di verità e menzogna, pronta a dare il suo responso...

“Non posso vivere senza di te, Star,” supplicò Trumaine.

Ma la sfinge non poteva essere corrotta, non c’erano parole in questo mondo che potevano farlo.

La sfinge ci mise ancora un attimo per accertare la verità... I piatti della bilancia tintinnarono ed, infine, il mostro emise il suo verdetto. Ma la sfinge non avrebbe elargito premi per avere detto la verità—la verità non aveva bisogno di ricompense.

Il mostro indagatore prese il volo nel battito d’ali che erano le palpebre di Starshanna, lasciando solamente i suoi occhi ambrati—era di nuovo la donna che

Trumaine amava.

Starshanna guardò su verso di lui e sorrise.

“Ritorna da me, allora,” disse. “Ritorna a casa...”

La macchina dei biglietti dentro al bancone ronzò e ticchettò.

Alla fine, sputò fuori una strisciolina di plastica che sembrava un intricatissimo ricamo. Sul suo dorso, una parola splendeva come l’oro: AQUARIA.

Un pollice ed un indice si chio sul biglietto, staccandolo e consegnandolo cerimoniosamente nel palmo del viaggiatore che aspettava davanti al bancone— era Trumaine.

“L’ultima volta che lei è stato qui, ho dovuto compilare un sacco di pratiche e documenti per recuperare il suo bagaglio, signor Trumaine. Mi spiacerebbe davvero doverlo rifare daccapo,” disse l’ufficiale d’imbarco, preoccupato. “Spero che non ci saranno ripensamenti stavolta.”

“Nessun ripensamento,” promise Trumaine. “Me ne vado per davvero.”

“Lo spero con tutto il cuore,” disse l’ufficiale.

Riconsegnò a Trumaine la sua carta di credito, insieme al suo tesserino di identificazione, poi lo invitò verso il corridoio alle sue spalle.

Osservò Trumaine andarsene con la coda dell’occhio, finché non scomparve giù per il corridoio.

Solo allora osò scordarsi della flemma imibile per cui gli Aquariani erano così famosi e fece quello che aveva in mente.

Più agile di una scimmia, scavalcò il bancone e corse verso il portello del corridoio—lo chiuse con forza, poi girò violentemente la maniglia, sigillando il corridoio una volta per tutte, assicurandosi che il terrestre non sarebbe più tornato a tormentarlo.

Una bellezza dagli occhi verdi aveva accolto Trumaine dall’altra parte del corridoio.

Aveva braccia e gambe tornite dello stesso colore dell’alabastro lucido, ed i suoi capelli erano di un colore indefinito; a seconda dell’angolo con cui la luce cadeva su di loro, cambiavano dall’argento vivo, al blu chiaro, al bianco perla, assomigliando moltissimo ad acqua di mare che turbinasse.

La bellezza produsse il suo sorriso standard: un garbato esempio di efficienza che includeva pure una discreta dose di freddezza. Trumaine si chiese se non fosse lì per prevenire qualsiasi idea sbagliata che quelle gambe fantastiche potevano risvegliare nelle menti dei eggeri.

Quando l’assistente di volo vide il biglietto nelle mani di Trumaine, il suo sorriso standard si allargò notevolmente, al punto da rivelare l’avorio perfetto dei suoi denti, ed il suo tono diventò decisamente più affabile.

“Benvenuto a bordo della Neptune, signore,” disse con una tranquilla voce argentina che sgorgava allegra come l’acqua di un ruscello. “Se vuol essere così gentile da seguirmi, le mostrerò il suo posto.”

Senza davvero attendere una risposta, lo precedette all’interno dell’astronave.

Era stato altre volte sulla Neptune, naturalmente. Aveva viaggiato in classe economica, dal momento che non poteva permettersi niente di meglio. I suoi compagni di viaggio erano stati massicci coloni sovrappeso, le loro mogli rotonde ed i loro figli rubicondi—avrebbero fatto fatica ad entrare nelle poltrone troppo piccole, allo stesso tempo ciarlando ininterrottamente coi loro vicini, mentre accigliati assistenti di volo spingevano i loro carrelli di servizio, consegnando bevande sigillate e mattoni di cibo precotto—gli stessi pasti standard che venivano serviti a bordo della maggioranza delle astronavi.

Come aveva sempre fatto, Trumaine ignorò la scalinata che portava in classe business ed andò dritto in economica. Solo allora si accorse che le gambe d’alabastro non lo avevano seguito.

Perplesso, ritornò alla scalinata.

“Da questa parte prego, signore,” disse la sirena dai capelli blu.

“Credevo di avere pagato per un posto in classe economica,” protestò Trumaine.

“I cittadini di prima classe viaggiano sempre in business,” gli rispose con un tono piatto e conclusivo.

Il tiepido sorriso riapparve brevemente sulle sue labbra, come fa il sole nelle giornate uggiose di Marzo.

“Da questa parte,” disse.

Le poltrone in classe business erano larghe e comode almeno il doppio che in classe economica; erano talmente distanziate, che un adulto poteva allungarsi quasi completamente prima di toccare la fila successiva. Trumaine si accorse che non c’erano posti in corridoio qui, solo posti vicino al finestrino.

La bellezza dagli occhi verdi lo condusse ad un angolo elegantissimo decorato con una rosa blu in un lungo bicchiere blu.

“Eccoci qui,” disse.

“Se ha bisogno di qualcosa durante il volo, non esiti ad usare il suo cicalino.”

Indicò con le dita il “cicalino”—niente più di un lucido bottone d’ottone nel bracciolo della poltrona.

Trumaine sbirciò le gambe d’alabastro mentre ritornavano al portello principale della Neptune, poi si allentò la cravatta, il colletto della camicia e, con un ultimo sospiro, si lasciò cadere sulla sua poltrona.

Guardò fuori dal finestrino, alla sconfinata distesa dell’oceano che giaceva oltre ad esso, poi chiuse gli occhi e si addormentò in pochi istanti.

Lo spazio, un po’ come l’oceano, era sconfinato. Come l’oceano, era scuro, freddo ed ostile, ed i corpi celesti che punteggiavano la sua vacuità non erano altro che minuscole isole dimenticate.

La Terra splendeva luminosa contro l’oscurità che era lo spazio, assomigliando all’occhio blu e profondo di un nostalgico amante.

Un oggetto lucido si staccò dalle nubi, scintillando controluce—era un’astronave in partenza.

Spinta in alto dai suoi potenti razzi sibilanti, la montagna di metallo ascese, rifuggendo a malapena la gravità, giungendo nell’immensità dello spazio.

Lo scafo della Neptune continuò a crescere—presto, tutti i suoi oblò furono visibili, anche quello dietro al quale giaceva, pacificamente addormentato, Trumaine. Nonostante il frastuono dei razzi, la nave lo cullava in un silenzio confortevole ed ovattato.

L’astronave continuò a salire finché, ad un tratto, svanì come in un miraggio ingannevole, lasciando dietro di sé la distesa di spazio terrestre e l’ignaro calderone che girava lentamente che era la Terra.

Punti di luce sfavillanti punteggiavano l’oscurità—crebbero di dimensione e d’intensità, diventando dei fari pulsanti.

Giganti gassosi fuori scala, pianeti e planetoidi rotolarono in vista, popolando la fredda e sperduta vacuità, rivelando la bizzarra visione di un sistema solare alieno che ruotava intorno al suo sole.

L’esplorazione della livida asperità fu ripagata una volta per tutte quando, inaspettatamente, apparve un pianeta blu.

Il gemello della Terra era due volte più grande e più luminoso ed, eccetto che per una sottile striscia di terra che si stendeva lungo uno dei suoi meridiani, era completamente coperto d’acqua. Ruotava lentamente, mostrando il suo lato illuminato—un giorno glorioso ammantato di vapori.

Un centinaio di chilometri sopra Aquaria, la diafana immagine della Neptune prese forma e diventò solida in un attimo; procedette a tutta velocità, scendendo verso il pianeta.

I suoi razzi inondarono ogni cosa con la loro scia, finché tutto diventò un bagliore di luce accecante.

Forme vaghe emersero dal candore di un mattino luminoso, rivelando una moderna casa di villeggiatura ad alta tecnologia, sormontata da un tetto obliquo coperto da pannelli fotovoltaici.

Un canale pieno di acqua sciabordante racchiudeva sia la casa che un ampio patio pavimentato con lastre di pietra d’un blu sfumato, sopra il quale trovavano posto un paio di sedie sdraio di design ed un tavolo.

Un uomo abbronzato sedeva al tavolo, facendo colazione—non appena la luce diminuì, fu chiaro che era Trumaine.

Una leggera barba brizzolata gli cresceva sul mento ed i suoi capelli erano più lunghi del solito, e resi stopposi dal sale. Aveva messo su un po’ di peso, giusto quel tocco di salutare rotondità che gli si addiceva, e sembrava così rilassato che più non si poteva.

Era perso nell’oblio perfetto del caffè nero e denso contenuto in una tazzina fumante che stava di fronte a lui. Ne annusò l’aroma inebriante, poi ne bevve un sorso lungo, profondo ed appagante. Mentre poggiò la tazzina sul suo piattino, questa emise un tintinnio argentino che risuonò esattamente come il camlo d’un bancone.

Come se fosse stata chiamata, una donna uscì dalla casa, portando un vassoio pieno di frittelle Aquariane. Le posò sul tavolo, guardando verso Trumaine.

Anche lei era abbronzata, ed i suoi capelli si erano un po’ schiariti al sole della lunga estate Aquariana, diventando del colore del miele—Starshanna sembrava raggiante e lo era.

Trumaine guardò verso di lei, nelle misteriose profondità dei suoi occhi...

Eppure, se questo era il paradiso, gli mancava ancora qualcosa; un tocco di un colore diverso dal blu predominante di Aquaria, una nota vivace che potesse spezzare la piacevole monotonia del mattino di una lunga vacanza.

Starshanna stava per sedersi, quando uno squillo dalla porta d’ingresso la interruppe. Tornò in casa. Quando uscì di nuovo, aveva una busta di plastica in mano.

“Che antiquati—una lettera!” disse divertita.

“Una lettera?”

“E’ per te...”

Starshanna consegnò la busta ad un meravigliato Trumaine. L’aprì, recuperando un foglio di plastica coperto da una scrittura fitta e fluente.

La lesse aggrottando le sopracciglia.

Ciao, Trumaine. Sono io, Faith. E’ probabile che non avremo più molte possibilità di rivederci, così volevo dirti che non ti dimenticherò. C’era

un’ultima cosa che dovevo fare. Non so se sia la cosa giusta, dal momento che tu mi hai detto che il ato è meglio lasciarselo dietro. Ma speravo che, in qualche modo, il ato che tu credevi morto, non fosse del tutto scomparso. Non nel tuo cuore, almeno.

Trumaine rigirò il foglio di plastica, ma non c’era scritto nient’altro.

“Che cos’è?” chiese Starshanna.

“Saluti. Da un amico...”

Le sopracciglia di Trumaine rimasero aggrottate; non riusciva proprio a capire quella lettera—qual era il significato delle parole di Faith?

Posò il foglio, scuotendo la testa.

Stava per allungare di nuovo la mano verso il caffè quando, all’improvviso, risuonò un fischio modulato.

Starshanna e Trumaine, incuriositi, si alzarono lentamente. Si avvicinarono al bordo del canale, guardando giù verso il delfino, che prima non s’era visto.

Artù nuotava in cerchi, eccitato, facendo capolino fuori dall’acqua e schioccando forte.

“Che succede adesso?” chiese Starshanna al delfino.

Trumaine scrutò l’acqua in profondità, cercando di capire perché Artù si comportasse a quel modo.

Dapprima, non vide nulla.

Poi, dopo un po’, scorse una forma scura che emergeva rapidamente. Si tirò indietro mentre qualcosa ruppe la superficie con uno schizzo.

Senza fiato, guardando su con un sorriso al caldo sole Aquariano, Maia si issò fuori dall’acqua.

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