Indice
Copertina Frontespizio Colophon Dedica Epigrafe Cherosene 5' Progetto Ronda Io fermo @ Il rappresentante Random Diario di un uomo comune Quante volte mi vuoi L'amico Film WannaKill Nota
L'autore Consigli di lettura Lettera dell'editore
Gianluca Mercadante
Cherosene
illustrazioni di Manuela Lupis
i jackpot 14
seconda edizione: dicembre 2014
direttore editoriale: Andrea Malabaila
progetto grafico: Chiara Scavino
illustrazioni: Manuela Lupis
quarta e sinossi: Elena Di Mizio
ufficio stampa: Carlotta Borasio
correzione di bozze: Maria Vittoria Paiella
ISBN eBook 978-88-95744-95-7 ISBN Cartaceo: 978-88-95744-14-8
www.lasvegasedizioni.com
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A mio padre, per avermi insegnato a sorridere nonostante tutto. E a mio nipote Gabriel, che di sorridere merita.
Se badi bene, la maggior parte della vita ci sfugge nel fare il male, una gran parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. (Seneca)
Perché facciamo quello che facciamo? (Chuck Palahniuk)
Pentiti solo di non averlo fatto abbastanza. (Nanni Balestrini)
Cherosene
1.
Se c’è una cosa che odio è il camlo che suona quando sono appena venuto. Non che accada spesso. Anzi, è successo trenta secondi fa. Ma nemmeno per uno solo di questi trenta maledetti secondi già ati ho smesso di smadonnare, immaginando fin troppo bene chi possa essere stato: è il cinque del mese, del mese dispari, pertanto è arrivata la bolletta della luce sulle scale, di là. E quella vecchia pazza si è fatta nientemeno che il giro della città per venire a lamentarsi con me delle solite cose. Provo una certa gioia nel trovare conferma alle mie ipotesi quando scendo le scale interne e le apro il portoncino d’ingresso di un solo quarto, occupando col mio corpo seminudo lo spiraglio attraverso cui voglio annusi con chiarezza odor di palle in giostra. «Eri sotto la doccia?» chiede pure, con la faccia da “volevo disturbare, ma adesso che ho disturbato sono incapace d’improvvisare sul tema”. «Maria...» le dico, aggiustandomi in vita l’elastico dei pantaloni della tuta quanto più esageratamente mi riesca «...no, stia tranquilla. Non ero in bagno.» A buon intenditor. Poi riprendo, come non lo sapessi già: «Desidera?» «I nuovi non pagano» dice. «Io, che devo fare?» «E a me lo chiede? Lo domandi a loro.» «Sono venuta fino a qua, Pietro, tu mi conosci e lo sai. Del mio cuore e tutto. Se non pagano, i soldi li voglio da te.» «Maria, ne abbiamo già parlato.» «Insomma, Pietro!» s’infervora, la baciapile, come immagino faccia di consueto
il suo pastore, ogni benedetta mattina a messa. Se c’è una cosa che odio ancora peggio del mio camlo che suona quando sono appena venuto, sono i baciapile. La mia ex vicina di casa, Sig.ra Rivello Maria, vedova Monfalcone, di anni settantadue, convivente con tale Ferdinando Gennaro, mai capito qual è il nome e qual è il cognome, di anni sessantotto, è un’eccellente rappresentante della tipologia. Ma ci andassero tutti, e per sempre, nel paradiso che s’illudono di meritare a forza di padrenostri. «Maria!» la fermo subito, innervando di pochissimo il mio naturale registro vocale verso l’alto, il minimo indispensabile da stopparla. «Le ricordo che quello non è più il mio appartamento. L’ho venduto.» «E proprio agli zingari dovevi venderci la casa?!» grida ancora, verde in viso. «Se n’è occupata l’agenzia. In ogni caso: loro sono i vostri nuovi vicini di casa, loro vi devono dare i soldi. Ve li danno? Bene. Non ve li danno? Pace. Ma io, oltre al fatto che non c’entro più niente con voi, non voglio più saperne.» La baciapile scoppia a piangere. Giuro: non so cosa fare. Vorrei sbatterle il portone in faccia e tornare di là, ma qualcosa mi persuade a desistere. Restiamo allora lì, entrambi, offrendo a noi stessi il nostro reciproco riassunto esistenziale: un quasi quarantenne con l’uccello gocciolante in un pantalone della tuta declassato a pigiama e una signora ultrasettantenne, in lacrime, che si è fatta il centro cittadino e due mezze periferie per sei euro di corrente impagate dai nuovi proprietari del mio ex appartamento. «Saranno in trenta, lì dentro» mi dice. «Beh...» affondo. Perché non è mai una questione di persone, o di pietà: è sempre una questione di momento giusto «... in tal caso, fare la colletta sarà più facile. Buongiorno, Maria.» E adesso sì che posso sbatterglielo, il portone in faccia.
Raccolgo il pacchetto di fazzoletti sul comodino in corridoio e lo lancio nel buio
ad Anima, che lo intercetta al volo senza neppure sollevarsi dal letto, in camera. Fa quello che deve fare, poi attende un mio ordine. «Puoi rivestirti» le concedo, seduto a bordo materasso, di schiena. Alle mie spalle i suoi abiti frusciano svelti, a contatto con la pelle un po’ ruvida di lei. Intanto, conto quanti rotoli ho maturato sulla pancia: sono quattro. Un tempo, quando non avevo alcuna necessità di riprendermi dopo la prima, questi fottuti salvagente erano i miei addominali. Autocommiserarsi è un’ottima tattica per farti are la voglia di una seconda scopata. Mi volto e vedo Anima quasi sull’attenti, dall’altra parte del letto. «Fra poco devo andare» le dico. Non serve sappia altro. Si accuccia al termosifone, sopra a un cuscino che ha assunto ormai le sue forme, e ci si ammanetta.
2.
Quello stramaledetto appartamento era impossibile da vendere. L’agenzia lo annunciava così: casetta semi-indipendente su due piani, tre camere + bagno al 1° p., tavernetta + bagno piccolo al 2° p., cortiletto, garage, 158.000 €. In sei mesi ero arrivato a chiederne 90.000 e nemmeno si vendeva. L’avessi regalato, nessuno se lo sarebbe preso lo stesso – e non l’avrei biasimato: un corridoio, ecco esattamente cosa l’agenzia avrebbe dovuto pubblicizzare, per correttezza. vendesi corridoio. Uno si regola. Era un’unica navata, con dei divisori in cartongesso piazzati qua e là da un architetto strabico o dotato di parecchio sense of humor, buia, il cosiddetto ricambio d’aria fornito da due sole finestre, poste l’una al capo opposto della casa. Questo era il primo piano (che, volendo sottilizzare anche qui, bisognerebbe definire “piano nobile”, siccome il secondo piano dichiarato dall’agenzia era in realtà un seminterrato dalla struttura identica, eccetto per le sopraccitate finestre – che lì sotto non c’erano proprio – e per l’altezza, che avrebbe suscitato in un nano la sensazione di sentirsi un giocatore di basket). Semi-indipendente, d’accordo, ma con quei vicini di casa. Vivono lì da trenta e
rotti anni, io da sedici. Cristo, che gente. Dispettosa, attaccabrighe. Gente che non ti saluta e, se ti avvista, chiude il portone allo straniero in arrivo sulla strada, ovvero io, ma guai: ogni giorno cinque del mese dispari bisogna pagare luce e pulizia scale, sennò Maria la baciapile è capace di qualsiasi tortura psicologica, a partire dalla sua presenza sullo zerbino di casa tua a chiederti il dazio, con la scusa che il suo povero cuore operato più volte non reggerebbe al dispiacere di litigare con te per un affare tanto da nulla. Gente che marchia il territorio. Gente vecchia. Il rispetto dell’età è un investimento a fondo perduto. Ad ogni buon conto, checché ne pensassi o ne pensi a proposito dei vecchi, quel buco non si vendeva proprio. Un bel mattino, di turno in volante con Petri, un mio collega, incrociamo Battista a bordo del suo scalcinato camion per la raccolta del ferro vecchio. La solita prassi: lampeggiante, si accosta, e Battista ci consegna i suoi documenti. Petri li verifica in auto contattando la centrale, io gli faccio capolino nell’abitacolo e scambiamo quattro chiacchiere. «Allora, zingaro di merda...» lo apostrofo «...come va?» «Sempre bene, sbirro, cerco ferro. Ne hai, tu? Te lo carico e via.» Battista è un nostro informatore. È sloveno, stando ai documenti, ma la sua carnagione è così scura, e i suoi tratti così orientaleggianti, che potrebbe indifferentemente appartenere tanto alla Sicilia quanto all’Asia, non farebbe alcuna differenza per nessuno, tanto meno per lui. I suoi capelli arruffati sembrano un blocco di pietra lavica rotolato a caso giù da un pendio, finché non gli è finito in testa e ci si è incastonato. La sua barba è invece sottile, talmente curata che la scambieresti per una cinghia, grazie alla quale il masso può restargli arpionato sulla zucca. «Niente ferro, testa di cazzo.» Lo insulto sempre, Battista. Con gli zingari se parli a parolacce ti capisci meglio. «Ho una casa. La vuoi, una cazzo di casa?» «Una cazzo di cosa?» «Non una cosa, cristo, una casa. Hai presente? Mattoni, stucco, finestre, porte, un bel tetto sopra. La gente di solito ci abita.»
«Battista ce l’ha una casa!» «E dove? In una roulotte, ce l’hai. Novantamila ed è tua.» «No, no... Battista sta bene dove sta.» In città abbiamo un solo insediamento Rom. È gente che non crea particolari casini, di suo, e Battista ci aiuta a tenere sotto controllo la situazione. «Ottantacinque?» rilancio. Nel linguaggio zingaro, la trattativa non è mai uno scherzo. Appena la ingaggi vieni preso sul serio. Infatti, mentre Petri torna indietro dalla nostra auto di pattuglia coi documenti da restituirgli, qualcosa aleggia nello sguardo di Battista – e non si tratta del rossore agli occhi dovuto alla polvere e alla ruggine che si porta addosso. È l’anima del commerciante nomade. L’ho risvegliata sapendo che l’avrei risvegliata. Invito Petri a rientrare nel veicolo, l’avrei raggiunto a breve. Lui mi sorride di sottecchi, pensando fra sé che sto estorcendo delle informazioni allo zingaro. Il fatto che io non lo ricambi neppure con un mezzo sguardo d’intesa deve indurlo a riflettere, o più semplicemente a farsi i cazzi suoi. «Allora, Battista? Che mi dici?» Scruta la strada oltre il cruscotto del camion con un’espressione del volto assorta. Ci sta davvero pensando bene, il figlio di puttana. «Ottantacinquemila?» dice. «Ottantacinquemila» confermo. «Vieni al campo stasera. Battista non decide da solo.» «A che ora?» «Vieni quando fa buio. Quando fa buio è sera.»
L’interno della roulotte è capiente abbastanza per almeno sette persone. Lo starci
in sedici è chiaro che ne modifichi parecchio il potenziale comfort, annullato dalla famiglia di Battista al gran completo. Soltanto il padre siede per proprio conto su un divanetto addossato alla parete estrema del mezzo, e sorride, spaparanzato, il cranio pelato contro il lunotto posteriore, incredibilmente lindo. Di là da quello, il campo nomadi è del tutto inanimato. Rischiarata a malapena dai lampioni sullo stradone principale, la doppia fila di roulotte vi si estende da un lato, per un lungo tratto, come un tumore. Sembra il cartonato di un paesello fantasma da luna park degli orrori. Continuando a mostrare la propria dentatura d’oro e d’argento, nell’atto di sorridere a tutti i presenti, il papà di Battista avresti giurato fosse il re di quel mondo torbido. È a petto nudo, la sua pancia deborda di un buon giro completo al di fuori dei pantaloncini corti che indossa, i piedi scalzi. Nessuno porta scarpe, lì dentro, e un paio di bambini in braccio alle proprie madri sono nudi, i culetti candidi come mozzarelle fresche. Un attore, anche amatoriale, riuscirebbe ad assumere il controllo della propria muscolatura facciale allo scopo di simulare indifferenza, o addirittura compiaciuta partecipazione all’allegra comitiva. Io dubito di riuscire a camuffare il disgusto che mi provoca l’odore diffuso fra queste quattro lamiere maledette. Sa di cane bagnato. E terra concimata. A nulla valgono le sigarette che sto fumando a ripetizione, ma servono, bene o male, a spazzare via un po’ del sapore rancido di grasso e fritto che mi è rimasto in bocca, dopo aver accettato di malavoglia, e non senza cerimonie, un paio di salsicce delle loro. Avendole mangiate con le mani, perfino il filtro di ogni Camel sa di sporco. Sarò lì da due ore e della mia proposta nessuno ha ancora parlato. Una radio posta accanto al sedile occupato dal Re del Luna Park Fantasma non si stanca di maciullare una cassetta. «Che musica è?» chiedo a Battista, che mi siede accanto, sul linoleum appiccicaticcio. «Di cosa parla?» «È rumeno. Lui vuole sposare lei ma famiglia di lei no vuole. Allora lui piange e dice non amerò mai nessun’altra, la mia anima è solo tua, tu sei la mia anima e senza te alla mia morte in Paradiso non andrò.» Fingo di crederlo un testo significativo. Forse sto migliorando con la mimica facciale, arte nella quale il padre di Battista si rende maestro. Guardalo come ride ancora, come oscilla il capo al ritmo della canzone per un breve attimo, giusto da lasciarci intendere che è contento di quanto stiamo apprezzando la sua
musica del cazzo. Ci risulta proprietario di sei appartamenti in città, questo troglodita. Li affitta in nero, perlopiù ad albanesi, rumeni, o altri zingari come lui, e continua a vivere nel suo habitat maleodorante – e cinematografico, se ami Kusturica. «Allora facciamo cinquantamila.» pronuncia il Re, all’improvviso. Dal tono, potrebbe aver detto qualsiasi altra cosa. Resto sconcertato: davvero non so se prenderlo per il collo subito, o prima vomitargli sul pavimento le sue salsicce. «Cinquantamila?!...» dico io. «Si è detto ottantacinque, con tuo figlio. Oltre non scendo.» Il Re si concentra visibilmente su qualcosa che deve dargli molto fastidio fra l’alluce e il secondo dito del piede destro e pare che occuparsene proprio adesso, usando l’altro alluce a mo’ di zappa, lo aiuti a meditare un rilancio dell’offerta. «Tu sei poliziotto, vero?» chiede, senza distogliersi dal suo problema. Io annuisco. «E allora cosa vendi case?» aggiunge. «Prego?!» Battista mi stringe piano un braccio. Presumo sia segnale che potrei intervenire al limite più tardi, ma non ora. «Tuo lavoro non è vendere case, tuo lavoro è fare poliziotto bravo. Giusto? Tu chiedi a me di comprare casa tua. Comprare case è mio mestiere, sbirro, perciò faccio io offerta valida.» Non fa una piega. Drogato per bene, potrei prenderlo per un guru. «Offerta è...» smette di tormentarsi i piedi e si sporge verso la radio. Il suo dito indice punta alle casse, in segno di attenzione. Mi sembra sia il medesimo ritornello, ma sto perdendo la pazienza e non ho molta voglia di giocare agli indovinelli. «Che cosa vuol dire, adesso, ’sta musica?» domando infatti a Battista. «Storia di prima, amico. Parla dell’anima, di quelle robe lì.» Penso: non è che questi mi ammazzano e i cinquantamila me li mettono un tanto
a occhio, prima di seppellirmi nudo sotto una roulotte? «Mia offerta è...» ripete il Re «...cinquantamila. Più Anima.»
A un suo cenno, abbandoniamo tutti la roulotte del Re e lui, tronfio nel ruolo interpretato, ci guida al centro della doppia fila. Mentre camminiamo senza fretta lungo la main street del campo nomadi, e il vecchio porco rallenta oltre il necessario la propria andatura certo che nessuno osi superarlo, noto panni stesi che neppure la notte ormai fonda rende meno infami; stracci colorati, di vaga foggia umana, appesi su un filo, tra una roulotte e l’altra, come un rosario di miseria. E l’impressione avuta all’interno della “casa” del Re non trova conferma: la gente c’è. Se ne stanno tutti rintanati nelle proprie quattro lamiere, ben sapendo del nostro aggio, lì in mezzo. Il bastardo, il Re, aveva già deciso in quale modo condurre la trattativa con me, bisognava soltanto attendere sera, che fe buio e il pollo potesse abboccare al trucco. Arrivati alle penultime roulotte, il grassone, con mio sollievo, si decide a bussare contro una porta. Qualcuno da dentro gli apre e i due fingono di parlarsi un minuto. Chiunque ci sia, lì, sa perfettamente, e da un pezzo, cosa ci siamo venuti a fare e perché. Mi torna in mente la mattina stessa, quando io e Petri abbiamo fermato Battista con tanto di lampeggiante : era la prassi. Ed è a questa noiosa quanto obbligatoria parte della faccenda che il Re, la sua famiglia, il suo compare nella penultima roulotte di sinistra e tutto lo stramaledetto campo si stanno dedicando: alla prassi. Il tizio esce. Sembra una piaga da decubito con le gambe. Ho il sospetto che veda la luce una volta all’anno e per sbaglio. Il Re e il Piaga mi fanno cenno di entrare, ma prima che io sfiori con la punta di uno stivale il gradino d’ingresso, il Re mi mette una mano sulla spalla e scopre la bigiotteria che si è ficcato in bocca. «Ora, poliziotto, tu prova. Se contento, Anima è tua e casa è mia. Se Anima non piace e vuoi vendere casa lo stesso a me, sempre cinquantamila. Se non vuoi né Anima né cinquantamila, sbirro, allora cazzo vaffanculo, chiaro?» «Chiarissimo, grazie. Posso?» «Puoi.»
L’interno è scuro, ma non troppo. Al chiudersi della porta, le luci dei lampioni raggiungono abbastanza bene almeno le due finestrelle laterali poste verso lo stradone ed è lì, dove dovrebbe esserci il bagno, che noto la catena. Brilla al riverbero della rara luce diffusa, come un serpente addormentato. Il serpente si accorge di me, e si sveglia. In un solo istante la catena viene tirata all’interno del vano e scompare con clangore sotto la fessura della porta. Quando cerco di aprirla, mi rendo conto che è appoggiata ai vecchi cardini e basterebbe un niente per farla crollare a terra. Cercando di essere quanto più delicato possibile, per scongiurare di aggiungervi danni ulteriori, mi distraggo. Qualcuno si getta sul mio corpo. Distinguo capelli lunghi, un’impetuosa criniera di fiamme nere e un viso bambino, poi siamo a terra. E quello che succede da lì a un’ora avrebbe indotto alla pedofilia, con somma gioia, perfino Gandhi.
3.
Se c’è una cosa che odio è l’attività in Centrale. Mille volte meglio andarsene in giro con Petri, ammazzando la giornata a forza d’incancrenirsi l’un l’altro polmoni e cervello con sigarette e stronzate. In una piccola provincia come questa, dove comunque vivo da quando sono al mondo e la cosa mi sta bene, il massimo dell’azione a cui un poliziotto di volante può ambire è fermare qualcuno perché è ato col rosso, o consolare qualche povera vedova piena di soldi che ci chiama di ritorno dalla spesa e si ritrova con l’appartamento svaligiato, senza alcun segno di effrazione sulla porta blindata. Spieghiamo alla sciagurata di turno che il metodo impiegato è detto della “schedina”: i ladri inseriscono una tessera molto sottile e facilmente pieghevole nella fessura tra la chiusura della porta e l’infisso, poi fanno scattare il grilletto della serratura e penetrano all’interno, un giochino da film. Infatti la gente ce lo dice spesso: lo fanno in televisione. È invece un metodo particolarmente in auge presso rumeni e zingari. La prova del nove è chiedere alla padrona di casa se possiede gioielli in madreperla e se siano stati trafugati o meno. Nel caso in cui le perle sono rimaste al loro posto, becchiamo Battista: le perle, per gli zingari, portano sfortuna. Parte della refurtiva riusciamo così a recuperarla, sebbene diverso oro e quasi tutto il denaro spariscano nel nulla. In buona sostanza, alla vedova toccherà ricomprarsi daccapo le sue gioie.
Sento bussare alla porta dell’ufficio. Senza attendere che io dica “avanti”, entrano Filistei e Garretta. Li chiamo “Prima e Dopo la cura”, tra me e me. Filistei ha una circonferenza vita seconda solo a quella dei politici quando c’era la DC. Se non si rasasse a zero ogni giorno, la sua testa assomiglierebbe a un campo di grano dopo l’esplosione di un’atomica. Garretta è tonico, palestrato, viso e capelli in ordine, lampadato il primo, scuri i secondi. Un trentenne da presentare ai genitori. «Vi è morto il cane a tutt’è due?» dico. «Avete certe facce.» «Senti, Silas...» dice Garretta, detto il “Dopo” «...abbiamo saputo della bambina e...» «...e al Boss la cosa non appare troppo coerente» conclude il “Prima”, col suo solito sfoggio di forbitezza lessicale dei miei coglioni. Metti in bocca la parola “coerente” a un poliziotto e subito diventa una fottuta barzelletta in divisa. Se c’è una cosa che odio sono i poliziotti studiati. «Innanzitutto non è una bambina, ma una ragazza di diciannove anni, forse venti» spiego loro, cercando di restare non solo calmo, ma addirittura didascalico. «Gli zingari la tenevano legata a una catena. Era una specie di... di puttana di lusso, se rendo l’idea. Capisce l’italiano, anche se non sa parlare, e obbedisce agli ordini.» «Una donna perfetta...» chiosa il “Dopo”. «La femmina ideale» almanacca, non senza ironia, il “Prima”. «Siete proprio due stronzi perfetti e ideali. Intendo dire che non fa nient’altro dalla nascita, che è impossibile relazionarsi a lei in alcun altro modo. Le ordini cosa fare e te la scopi, punto.» «Sì, ma è una zingara. E il Boss ci raccomanda di avere rispetto per noi stessi.» «Già, Silas. È bene evitare d’infettarci con materiali impuri.» A occhi chiusi, capirei dal vocabolario chi parla e quando. «Sentite: non penso lo sia. Una zingara, voglio dire. Non ne ha i tratti. Ho il
dubbio piuttosto sia europea, niente a niente l’avranno rapita.» «Non sapevo fossi volontario nelle crocerossine» mi sfotte Filistei. «Nella mia vita faccio esattamente quello che meglio credo.» «Pacifico, Silas... ma ammetterai di dover pagare un piccolo prezzo, adesso. Per il tuo tradimento.» Alla parola “tradimento”, e conoscendo le regole interne al Gruppo cui apparteniamo io, Filistei, Garretta e un altro collega della Centrale, il cuore salta un battito. Un senso d’immobilità mi attraversa per intero. Tornato in me, una botta di calore si propaga fra i miei capelli rizzandone le radici, poi lo stesso accade per ogni singolo pelo del corpo, finché un lieve sentore di umido a contatto col legno della scrivania dove sono rimasto seduto non mi obbliga a incollarci contro le mani, onde evitare si accorgano che stanno sudando. A sopracciglia inarcate tento invece di arginare entro l’attaccatura dei capelli una cascata pronta a scorrermi sulla fronte – ed evidentemente assumo un’espressione che esorta i miei stimati colleghi qui presenti ad avanzare la proposta del Boss. «Te la sei cavata egregiamente, Silas. Il Boss ha detto Pietro è un uomo tutto d’un pezzo. Ha sbagliato, certo, ma bisogna pur essere clementi fra di noi...» dice Filistei. «Insomma, Silas... te la scavalchi con una spedizione punitiva» sentenzia infine Garretta. «Una spedizione punitiva?! Ma... ma io... oh, sapete bene che non posso, avanti! In qualsiasi caso io venga preso, o interrogato... ragazzi, nella nostra posizione possiamo fornire al Gruppo elementi organizzativi, l’azione è un’altra cosa. Siamo poliziotti!» «Stai tranquillo, sarà una eggiata di salute» mi rassicura Garretta, appollaiato col suo culo d’acciaio sul bordo della mia scrivania. «Già...» aggiunge Filistei, fermo dove sta «...una facezia. Conosci il campo, Silas, ti basterà farci un disegnino.» «Farci?!»
«Farci, esatto. Per colpa tua, Silas, ci siamo andati di mezzo anche noi. Io, te, lui e il caro Viscontin. Il quale ti mangerebbe vivo, per la cronaca» dice Garretta. «Ha detto bene Filistei: conosci il campo.» «Io non conosco un bel niente.» «Non ci provare, camerata. Il Boss sa perfettamente che hai comprato la puttanella in cambio di quel buco di casa che avevi. Sei andato là, a contrattare.» «E sa che ora abiti nella vecchia casa, lascito di tuo padre buonanima. Con la nomade.» «E sa pure quanti peli ho sulle palle, per caso?» Garretta guarda Filistei e gli muove un cenno col capo, poi scende dalla scrivania per consentire all’altro di prendere il suo posto. Proteso verso di me, flesso dalla gravità, Filistei si avvicina così tanto con la bocca al mio naso che potrebbe staccarmelo di netto con un morso senza che io me ne accorga prima di un quarto d’ora. «Ascoltami bene, amato collega e camerata... è necessario risolvere questo disdicevole incidente di percorso. Perciò, ecco come andrà a finire: noi ci troviamo nel parcheggio del palazzetto dell’hockey, alle due. Il campo è lì, a cento metri. Ma questo ti è noto. Cerca di presenziarti.»
o il pomeriggio in volante con Petri e non pronuncio una sola parola, anzi: non lo ascolto nemmeno. Ormai con la recitazione me la cavicchio, perciò, messo l’automatico all’audio, è semplice annuire, partecipe di chissà quali grandiosi eventi lui enunci, e ridere a comando, quando ride Petri, una sigaretta dopo l’altra. Fermiamo in via S. Cristoforo due ragazze giovani. Sono a bordo di una Marbella blu elettrico senza cinture di sicurezza. Mi sorprende pescare dal pacchetto una sola Camel superstite, mentre aspetto in auto i comodi del collega: Petri va letteralmente a caccia di queste occasioni, lo fa apposta per attaccare bottone. Il più delle volte ci rimedia numeri di cellulare fasulli, promettendo in premio di chiudere un occhio sulla faccenda – e ci sta.
Quello che mi fa incazzare è che non si prenda neppure la briga di convalidare i documenti. Annoiato, accendo la paglia e appoggio il braccio sul finestrino, concentrato a fissare nello specchietto laterale la brace consumarla a cerchi, alimentata da un leggero vento odoroso di umido. Dalla stradina che taglia via S. Cristoforo in due tronconi, là dietro, spunta un camion bianco. Viene verso il semaforo, che dal giallo sta ando al rosso. Vedo sfilare accanto al finestrino di guida Battista, col retro carico di ferraglia. Senz’attendere il verde, lo zingaro supera dapprima a tentoni lo stop, infine sferra al motore un’accelerata che investe la strada con uno stridore di gomme – e Petri con una nuvola di fumo nerissimo. Non ci penso due volte: o dal posto eggero al posto guida e parto. Freno di schiena a Petri e gli urlo dal finestrino: «Hai visto quel figlio di una gran troia cos’ha fatto?!» Petri esita, un fazzoletto schiacciato sulla faccia, come se dal culo di quel mezzo fosse uscita la nube di Chernobyl. «Fai così, Petri: rimani con le fermate, a quello ci penso io.» Ingrano la prima, innesco il lampeggiante, e svolto a destra. Il camion di Battista, avvolto nella sua nube cancerogena, ha appena bruciato anche il semaforo su via XX Settembre. Il massimo dell’azione qui, per un agente di volante, è inseguire un trasgressore.
4.
Le taniche di cherosene sono in tutto sette. Filistei e Garretta ne hanno quattro nel bagagliaio della loro auto e il collega Viscontin arriva a breve nel parcheggio con le altre tre, su un fiorino. «Camerata, ce lo potevi dire» lo apostrofa Garretta, appena questi ne discende. «Avresti fatto tutto un carico tu, no?»
«Sicuro!» gli risponde Viscontin, corso già ad aprire i portelloni dietro. «E tutta la fatica di caricarle me la facevo io da solo, secondo te, idiota?!» I tre scoppiano a ridere. Me ne sto leggermente in disparte, più addentro al cono d’ombra creato dalla prospettiva di un angolo molto acuto del palazzetto, riflesso a terra da un gioco dei lampioni. Vestiti di scuro, eccetto per il bianco sporco del fiorino, nessuno noterebbe la nostra presenza. «Piantala di fumare» mi intima Filistei. «Qui c’è del materiale combustibile. Non te l’ha spiegato, la mamma?» Ancora risate. Non fosse per il amontagna che ognuno di noi si è ficcato in tasca da casa, e le sette taniche di cherosene, eremmo per dei balordi a un addio al celibato. Il piano è elementare: io e Garretta corriamo lungo l’interno del campo e innaffiamo ognuno dal proprio lato le roulotte. Filistei e Viscontin si occupano di dare una mano di cherosene a testa sugli esterni. L’ultimo getta verso il campo uno zippo. «E il tuo debito è pagato» dice Viscontin, appena finiamo di metterlo al corrente sulle modalità del raid. «Tu ti rendi conto, vero?» mi chiede. Nel Gruppo l’appartenenza sociale viene rispettata anzitutto. Il Boss per primo è persona pubblica che non desidera esporsi, per tanto questa sua libertà inizialmente esclusiva ha finito col mettere in moto una serie di gerarchie interne. Chi esercita cariche politiche o pratica mestieri pubblici come il nostro, dunque, non affronta spedizioni punitive. Il braccio armato del Gruppo è perlopiù composto da gente che non ha nulla da perdere, assoldata al pari di mercenari a buon mercato soltanto qualora si decida di effettuare in concreto una dimostrazione repressiva nei confronti di un’etnia. Tutto valido, e logico, finché qualcuno della casta protetta non inciampa in un errore, allora lì le soluzioni diventano molteplici. Noi ne stiamo appunto eseguendo una. «Se qualcuno ci becca, Silas... se per caso, per purissimo caso, la cosa di stanotte andasse storta...» sibila Viscontin, facendosi a me vicino, e minaccioso, come un ratto occhialuto che spalanca i denti aguzzi nel buio «...te le svuoto io, le palline. Nessuna puttana zingara, negra, o di qualsiasi altra parte di questo fottuto mondo ti farà godere così, te lo giuro su Dio.»
«Camerati, v’invito alla tregua» interviene Filistei. «Anche a me secca l’essere qui convenuti a causa di uno solo dei presenti, ma ormai ci siamo. È bene darci da fare con solerzia.» Pura filosofia. Se c’è una cosa che odio ancora di più dei poliziotti studiati, sono i poliziotti filosofi.
«Silas, sono Petri. Ma... che stai facendo?» «Mi sono appena rovesciato la birra addosso per risponderti al telefono. Ti sei operato? Perché se non hai una figa in mezzo alle gambe ti conviene lasciarmi dove sono, potrei avermene parecchio a male.» «E dove saresti?» «A letto con tua madre. Cristo, Petri, sono in giro.» «Alle cinque del mattino?!...» «C’è gente che si alza dal letto alla stessa ora per fare jogging.» «Beh, allora corri, siamo al campo nomadi.» «E che cazzo ci fai lì?» «Sono di turno, stanotte. C’è stato un incendio al campo. Un incendio doloso.» «Saranno stati loro stessi. Non me ne stupirei, fossi in te.» «Ci abbiamo pensato. Il modus operandi fa però sospettare ci sia la mano dei nostri carissimi dimostranti neo-nazi. Hanno colpito alla stessa maniera i container dei profughi albanesi non oltre due mesi fa. Erano appena arrivati dalla Puglia, ti ricordi?» «Già. Quanti feriti e quanti morti?» «Adesso non mi viene in mente, dovrei rivedere il rapporto...» «Petri, non mi frega un cazzo dei profughi, ti sto parlando dei maledetti zingari,
sveglia!» «Nessuno. Il campo era completamente sgombro. Se ne sono andati tutti. Ne sai niente?» «Dovrei?...» «Hai fermato Battista, oggi, no?» «Non era lui, se ti riferisci al camion del semaforo. Quel diavolo andava come il vento. Ho fatto un giro su via XX Settembre e immediato circondario. Volato via. Ma non te l’ho detto? Forse eri ancora troppo allupato dalle due troiette per ricordartelo, quando sono riato...» «Credo di sì. Beh... peccato. Avrebbe potuto magari dirti qualcosa.» «A proposito di che? Che gli zingari si spostano? Li guardo, i documentari...» Petri ride stancamente alla battuta e chiude la conversazione con un saluto e tante scuse. Nella bottiglia di birra in mezzo alle mie cosce è rimasto a malapena un fondo schiumoso, accaldato come piscio. Ci butto la Camel succhiata fino al giallo e getto il tutto contro un albero del viale sulla corsia opposta. Sto rientrando da una mezza nottata raminga, sperando che nessuno dei miei colleghi di lavoro, e d’idea politica, sia nel frattempo riato sul luogo del delitto, e scopra la fuga degli zingari soltanto domattina. Già li sento. Si domanderanno chi è stata la spia, qualcuno azzarderà ipotesi. Fatto sta: io Battista non l’ho visto, oggi. E lui sa che non ha visto me. Fine della storia.
5.
Esco dall’auto con la schiena a pezzi. Avrò guidato almeno un paio d’ore abbondanti, fatta salva la breve pausa all’autogrill, per cambiarmi l’acqua e acquistare quella dannata birra che mi sono davvero rovesciato addosso, per buona metà. Stiracchiandomi, ripenso alla telefonata di Petri, e con un sorriso accompagno un breve rantolo, per la riscossa muscolare in atto. Due o tre gocce di pioggia, appuntite, mi bagnano in viso. Alzo gli occhi al cielo. La luna, coperta dall’ammassarsi delle nuvole per il temporale in arrivo, emana un bagliore ubriaco. Apro il portone di casa e salgo le tre solite rampe di scale. Girata la chiave una sola volta, la serratura scatta subito e la porta blindata si spalanca sul mio attuale appartamento. È insolito che dimentichi di chiudere con tutte le mandate. Ciononostante, pur osservate con estrema attenzione, né la serratura né la porta testimoniano una forzatura. Sfilo la pistola dalla fondina sotto alla giacca ed entro con cautela. Il silenzio è totale, la luce in strada affonda di poco nelle fenditure delle tapparelle abbassate, in ogni stanza, e ovunque proietta trattini giallognoli. Commetto l’imprudenza di chiamarla: «Anima?...» sussurro nella penombra. «Anima?!» ripeto, un po’ più forte. Nessun segnale di vita. Raggiungo allora a falcate la camera da letto, ne spingo all’interno la porta con la canna della pistola d’ordinanza e schiaccio con l’altra mano l’interruttore della luce, di lato al muro. Ho l’arma tesa, qualunque cosa si muova sono pronto a sparare. Ma qualcuno, ora non qui, ha smontato con scarsa perizia l’elemento del termosifone a cui Anima si era ammanettata quella stessa mattina e il resto ha perso acqua, allagando il parquet fin quasi al limitare del corridoio. Il cuscino di Anima è zuppo, livido come il cadavere di qualcuno morto annegato e riemerso settimane più tardi. L’elemento smontato non c’è da nessuna parte – e non c’è da nessuna parte nemmeno lei. C’è in compenso qualcosa sul letto. Non ho idea a quanto ammonti in euro il
valore dell’oro sul mercato attuale, ma a occhio e croce direi che quel mucchietto di collane e preziosi al centro del mio materasso dev’essere stimato all’incirca sui trentacinquemila. È troppo presto perché tuoni. Infatti il borbottio che a un tratto pervade la stanza non si deve al clima. Birra e sigarette hanno fatto il loro corso.
5’
A Claudio. Per il coraggio che hai dimostrato a toccare con mano, senza infettarti.
Appena lo respiri si ferma nel tuo corpo, a metà e non oltre, lo spingi fuori subito. Ma se ci riprovi, e devi farlo per forza se non vuoi soffocare, allora ecco che stavolta l’odore si fa strada un po’ più a fondo. Tu lo allontani ancora, ma ad ogni respiro il tuo naso, la tua gola, si adeguano a quel contatto stridulo, a quell’aria troppo piccante. Perfino quando ormai lo riconosci – e finalmente sai cos’è. Benzina. Non ti sei svegliata a casa tua, inizi col capirlo questo, e allora chiami in appello le singole parti del tuo corpo, una alla volta, e separi quelle strette da quelle libere. I polsi sono legati, le caviglie pure. La bocca, no. Il ventre nemmeno. E il tuo sedere sale e scende, scende e sale, quando inarchi la schiena, quando poi ti arrendi e la schianti un’altra volta contro quella che ti pare una tela dura, tirata, non accogliente. Al momento in cui aprirai gli occhi sei già preparata, lo sai che ti bruceranno, dev’essere per questo che adesso li chiudi più forte. Non durerà, lo sai. E infatti la prima immagine che vedi è quella del tuo grido. Qualcosa di scuro, poi rosso fuoco, e ancora nero, nero assoluto. Ma ci riprovi. Rosso. E ci riprovi. Nero. Finché distingui tubi molto lunghi, e larghi, proprio là, due metri sopra di te. Sono scarichi fognari. Conosci molto bene posti come questo. Abbassi lo sguardo e la tua pancia lucida insegue il respiro, corto, l’addome si contorce. E oltre, in basso, a un metro, forse due, dalle tue ginocchia tese, un cavalletto a tre gambe sostiene una telecamera – la tua telecamera – puntata verso di te. Ancora più avanti, nel buio, nel silenzio, qualcuno accende una sigaretta. Fa una
boccata molto rapida e subito si avvicina, ti mette la sigaretta fra le labbra, la lascia lì. Ne aspiri a lungo il fumo: non ti aspettavi la forza pura del tabacco di una sigaretta senza filtro, eppure quel sapore arrotondato e familiare, che i polmoni accolgono come se soltanto adesso respirassero davvero, quasi ti commuove. Vorresti non finisse mai. Peccato che una sigaretta duri appena cinque minuti, rifletti. «Fra cinque minuti morirai» ti dice lui, piano.
- 5’
Era successo l’anno prima, un misero anno prima, d’estate. Erano andati a fare campeggio in Trentino, Pietro, sua moglie Laura, e Davide. C’era un’ampia radura più in là rispetto al camping, qualcuno ci andava per fare un picnic, altri a prendere il sole, a giocare a calcio. E in effetti quando un pomeriggio dei tanti Davide ha calciato il pallone troppo forte, e si è vista la sfera schizzare dal suo piede fino al folto della boscaglia, laggiù, da un secondo all’altro, Pietro ha creduto folle recuperarla. Ormai però era partito, d’istinto, e Davide lo incitava da lontano: “corri papà, corri papà”. E papà correva, ma nel bosco di palle neppure l’ombra. Una volta tornato fuori, nella radura, Davide non c’era più. A Pietro lì per lì sembrava una scena finta, una ricostruzione dei fatti di quelle che si vedono a Chi l’ha visto?. Tutti continuavano a mangiare come se niente fosse, a prendere il sole come se niente fosse, a baciarsi come se niente fosse. Nessuno badava a Pietro, le mani a imbuto intorno alla bocca, che gridava il nome di suo figlio, del bambino che un minuto prima aveva mollato un calcio pazzesco a quel pallone, un calcio da vero cannoniere, un cannoniere di nemmeno cinque anni che dopo strilla corri papà, corri papà, vai a riprendermi la palla, papà, dài, così lo rifaccio e tu corri di nuovo, papà.
- 4’
Verso metà settembre di quello stesso anno, a Venezia, nel bel mezzo di una Festa dell’Unità, qualche baldo avventuriero di quattordici anni si è accorto di un tombino malmesso, lo ha sollevato del tutto ed è sceso nelle fognature della città insieme ai suoi amici, così, per il fascino del mistero. O per il buon vino bevuto, chissà. Si aspettavano topi giganti, forse, mondi sotterranei, labirinti, mostri. Ma invece, in quella che sembrava proprio una specie di piccola stanza, fra teorie di tunnel, fiumiciattoli nerastri e tubi protesi all’infinito, una stanza dove perfino l’olezzo delle fogne si assottigliava, tutti i topi giganti, tutti i mondi sotterranei, tutti i labirinti, tutti i mostri sarebbero stati mille volte preferibili alla vista di quella cosa verde, mezza mangiata mezza marcia, e così prossima al corpo nudo di un bambino. I ragazzi scappano all’istante, hanno fatto ben poca strada, quindi né lo spavento né l’ubriachezza impediscono loro di ritrovare il tombino da cui sono entrati. Nessuno si aspettava però i due poliziotti, lì fuori, fermi, in attesa di una testa che fe capolino per uscire.
- 3’
Snuff movies. Era la prima volta che Pietro sentiva nominare questo tipo di film. Film dove la gente muore davvero. E a Davide era andata bene, commentava la polizia. Sì, perché quando ci sono bambini di mezzo, la cosa procura qualche incentivo extra nei giri del traffico di organi. Davide, per lo meno, era intero. Maciullato dai ratti di fogna, ma intero. Avrebbero verificato tutte le piste possibili, bisognava però tenere presente che certi filmati si girano su commissione e nove su dieci il committente vive all’estero, nascosto da uno o più prestanome. Non c’era nulla di personale. Stavolta era successo a lui.
- 2’
Non avrebbe mai scommesso su quanto fosse facile alla fine. Laborioso, selettivo, lungo, ma sostanzialmente semplice. Basta digitare la parola “children” nel searching di eMule, ed ecco: sterminati elenchi di mp3 riempiono di colpo lo schermo. Musica, interi dischi che in qualche misura contengono la parola
“children”, pronti da masterizzare, nonostante lui non fosse interessato alle canzoni sui bambini, o per i bambini. De Angelis voleva vedere certe riprese. Battesimi, compleanni, feste di classe, recite di Natale. Niente. Nemmeno questo cercava. Poi, con infinita pazienza e costanza, il riquadro del media player riproduce finalmente bambini nudi. Bambini con adulti, con animali, bambini con bambini. Bambini morti.
«L’ho trovato. È lui, non ho dubbi.» «È sicuro, De Angelis?» «Certo. Il bambino del filmato è identico a quello delle foto che mi ha dato, ho fatto tutti i confronti necessari. Sinceramente non ci speravo, ma sarà ancora più lunga da questo momento, la avverto.» «Me l’ha già detto un anno fa.»
Aveva assunto subito questo De Angelis. Una persona a modo, come dire, lontana dallo stereotipo di investigatore che invece si aspettava.
«Adesso si tratta di tracciare i tabulati e... vede, il filmato potrebbe aver subìto migliaia di aggi... sarà molto complesso, se non impossibile, risalire all’origine, si tratta di...» «Si tratta di trovare la persona che era dietro quella telecamera. Non m’interessa il committente, chiaro? Voglio soltanto la persona che ha ucciso mio figlio.» «D’accordo. Farò tutto il possibile.» «Anche questo me l’ha già detto un anno fa.» «E... senta... è assurdo ma devo chiederglielo.» «Avanti, la ascolto.»
«Il filmato... vuole vederlo?»
Quando certe cose accadono a te, il mondo si dilata. Se corri tu, a inseguire una palla, a cercare tuo figlio, tutti gli altri di colpo agiscono in moviola. Come nella radura. Come in quell’istante.
«No. Si rifaccia vivo appena ha novità.»
- 1’
Se la persona di De Angelis era fuori dai cliché, di contro il suo studio era quanto di più fedele alla tradizione: una sola stanza, una porta finestra alle spalle della scrivania con le gelosie semichiuse e i vetri polverosi, attraversati da una luce ispida, troppo razionata. Qua e là, sul parquet mezzo divelto, pile su pile di scartoffie ondeggiavano al ritmo dei gorgheggi provenienti forse dal bagno. Eppure, non privo dell’aplomb tipico del nobiluomo, De Angelis offriva a Pietro la poltrona di fronte alla scrivania, per poi subito posare sul piano tre diverse fotografie in cui era ritratta la stessa donna che fuma una sigaretta, mora, sui trent’anni, capelli lunghi e ondulati, un corpo snello, di aspetto sodo.
«Si chiama Maristella Vita, è di Venezia. Gira cortometraggi che, fra l’altro, hanno suscitato un certo interesse di critica nell’underground cinematografico. Non lavora, è iscritta al dams da una vita, anche perché la sua fonte di reddito credo sia decisamente un’altra. È stata lei.» «Come la trovo?» «Durante la Festa dell’Unità a Venezia di quest’anno è prevista una sua proiezione. Manca meno di un mese. Vada là.»
La sigaretta è finita. Tre tiri, forse quattro. La persona che eggia lì attorno la riconosci appena, ma giureresti che è lui. Quell’uomo interessante venuto alla tua proiezione, tale Pietro. Quello che ti ha riempito di complimenti e ti ha invitata a bere qualcosa con lui. Hai accettato volentieri. Parlavate di cinema, in fondo, e lui si esprimeva con proprietà, sembrava molto apionato. Non puoi negare comunque che lo guardavi anche con interessi meno intellettuali. Ti piaceva il suo taglio degli occhi, e quel modo di scuotere la testa parlando, il gesto di scostarsi in continuazione un ciuffo di capelli dalla fronte. Lo hai immaginato sopra di te, impegnato a spingere, a godere, a ignorare il suo ciuffo. Finché la testa ha preso a girarti un po’ troppo per queste fantasie. Maledetto Negroni, hai pensato allora, un attimo prima di svenire. E adesso eccoti. Cosparsa di benzina, al buio, la morte in bocca, un tiro dopo l’altro. E la tua telecamera davanti a te, ancora spenta. D’altra parte, te la porti appresso sempre, come fosse una prolunga di te stessa. E tu pensi lo sia, no? Quante volte hai immaginato potesse finire così. Ti sembra quasi equo. Lui, intanto, non ha spiccicato parola tutto il tempo, non ti ha messo un solo dito addosso, ti ha soltanto osservata fumare. Anzi, più che te, pareva osservare qualcosa dentro il tuo stesso fumo, forse dentro la tua testa. In qualche modo è buffo. Ti verrebbe da ridere, ma non lo fai. Aspetti. Aspetti che lui vada dietro la telecamera. Aspetti che il led rosso si accenda. Aspetti che lui si allontani e se ne vada dove tu non sai. E tutto a questo punto si rilassa all’improvviso. Non c’è più tensione, non c’è più nessuna emozione palpabile nello spazio fra te e l’obiettivo. Adesso sei in pace. Un ultimo tiro e poi decidi. Perché puoi decidere ancora. Mentre Pietro esce sollevando il tombino e ritorna alla Festa, fra gli odori della salamella abbrustolita e le acque viziate di Venezia, puoi decidere ancora. Mentre Pietro si allontana da quel luogo e marca il o fra i tavoli e la pista per le danze, puoi decidere ancora. Mentre Pietro sfila lentamente lungo i canali e si accorge che in certi punti, magari nelle corti di qualche vecchia casa, o proprio sul pelo dell’acqua, c’è già quella nebbiolina bassa bassa, che sembra polvere mai sul punto di posarsi, mai sul punto di volare via, puoi decidere ancora.
Mentre Pietro si allontana e si lascia alle spalle gli echi di un comizio, mischiati alle fisarmoniche del liscio, alle chitarre sotto i portici e infine alla voce di una ragazza che canta canzoni americane, puoi decidere ancora. Puoi decidere ancora se sia meglio lasciare che la sigaretta cada su di te, o provare a inghiottirla. E poi sperare che, stavolta, qualcuno da sopra ti senta.
Progetto Ronda
Notte.01 La città è un muro di vento. Nessuna stradina secondaria, per quanto serrata e serpeggiante, ne è al salvo, sembra anzi che proprio lì l’aria diventi un ansito. Se affaticato, per via dell’improvviso restringimento del percorso, oppure morente, come gli ultimi rantoli di un malato, è difficile stabilirlo. Sette signori, i capelli grigi e in qualche caso rari, i baveri alti e le sciarpe svolazzanti, camminano in mezzo alla strada sgomitante e semibuia uno accanto all’altro, logorati dalla stanchezza, il bisogno addosso di ritrovare casa. L’uomo che si chiama Aristide Bonaiuti, a monte di svariati tentativi, lascia per un attimo il gruppo e s’incantuccia alla meno peggio contro un portone. È in quello spigolo, dove i cardini si conficcano nel muro dell’edificio, che dà infine fuoco alla sigaretta. Un membro, Franco Dionisi, dà di gomito al compagno, accennando col capo e una strizzata d’occhio verso Bonaiuti. Entrambi gli uomini, appena i primi sbaffi di fumo si levano dalla sua sagoma buia e all’istante vengono spazzati via, se la ridacchiano di lui. «Alla tua età dovresti buttarlo, quel veleno per topi!» lo canzona l’altro, il cui nome è Gerardo Lo Dentice. È lui il capo. Perciò, e per quanto ci scherzi sopra, può permettersi un rimprovero nei confronti di chiunque. Bonaiuti fa spallucce, mentre già recupera il o, e di rimando aspira con voluttà una boccata. Sorride di un sorriso sverso, quando la mano con la sigaretta gli ricade in basso, ed è tuttavia palese cogliere in quella sua espressione quanto poco condivida l’opinione di Dentice. O forse sorride proprio perché sta pensando che obbedire agli ordini di uno chiamato così è in sé un fatto piuttosto buffo. Pare che il soprannome, quasi fedelmente anagrafico, se lo sia guadagnato al minorile, una vita fa. Lo spavaldo ultrasessantenne alla guida della ronda era stato incarcerato per robetta di poco conto, almeno all’epoca dei fatti – e considerate soprattutto le attenuanti: famiglia numerosa e povera, padre defunto
per omicidio (ancor oggi restano ignote le cause e l’identità dell’assassino), età acerba. S’era fatto riconoscere, Dentice: dentro aveva staccato di netto l’orecchio a un tizio, un pelo più grande, che pretendeva favori particolari da lui. E tac, via tutto, con un morso. Aristide Bonaiuti avrebbe trovato molto più calzante Dracula, come nomignolo. Per quanto il Dracula che lui ricorda, interpretato al cinema da Christopher Lee, azzannava candide scollature di virginali fanciulle. Mica scemo. «Caro mio...» dice a Dentice «non si può morire senza vizi.» «Sacrosanto. Ma sono vizi come il tuo che fanno morire. Caro mio.» Bonaiuti accusa il colpo con un ghigno se possibile più opaco di prima. E scaccia il malumore con un tiro. «A mio figlio hanno asportato un polmone e mezzo non oltre sei anni fa, cristosanto» afferma poco distante l’anziano chiamato Giorgio Lipari. «Aveva quarantadue anni, all’epoca, e vi giuro che se potessi dare fuoco di persona a tutte le merdose sigarette di questo mondo, lo farei senza pensarci due volte.» «Beh, ma si è salvato, no? Adesso sta benone» riflette Dentice. «Sta come uno che respira con mezzo polmone, ecco come sta.» «Sentite...» interviene Bonaiuti, in cerca di uno spiraglio nella conversazione «non potremmo cambiare argomento?» «Per parlare di cosa?» gli chiede Dionisi, che ora gli è fianco a fianco. Lui e Dentice sembrano imporgli coi propri corpi la responsabilità di una discussione da lui stesso originata, secondo loro. «Per parlare di questo vento, magari. Le persone parlano del clima quando non hanno niente da dirsi.» «Ah, perché, noi invece avremmo di che discutere? Non è successo un bel niente, amici. Nemmeno oggi. E il turno, ormai, è quasi finito.» «Ci si scalda con un buon bicchiere della staffa tra pochi minuti, signori» proclama Dentice, con l’aria di accondiscendere l’evidente sottotesto nelle parole di Bonaiuti.
«Non mi contate» declina infatti lui. «Sono stanco, ho bisogno di rientrare.» «Pacifico» gli concede Dentice, e nel farlo cinge le spalle di Bonaiuti con un braccio e lo avvicina a sé, fregando la sua guancia non sbarbata sulla calvizie del compagno polemico, in un moto d’affetto troppo enfatizzato per apparire credibile. «Vorrà dire allora che chiamerai un taxi dal solito bar. E nell’attesa ti fai un grappino, a stomaco caldo si dorme molto meglio.» Bonaiuti rompe con malcelato imbarazzo il contatto fra loro. Di nuovo fa spallucce e senza sorridere in alcun modo porta la sigaretta alla bocca per un tiro che quasi gliela smorza fra le dita. Lancia il mozzicone indietro, e la brace danza, ubriaca, nel vento che la guida inesorabile sul catrame contro cui finirà per impattarla.
Il solito bar, al solito è chiuso. Non una notte che, percorso quell’ultimo tratto e svoltati a destra, un’anima pia abbia lasciato la serranda sollevata di qualche centimetro dallo scalino d’accesso. È necessario suonare al camlo di un portone accanto alla vetrina sull’angolo perché lo scatto della serratura permetta ai sette uomini di raggiungere il cortiletto interno, subito dopo l’androne, fatta una breve rampa la cui porticina, dirimpetto a quella delle cantine, guarda direttamente nella tipica corte delle case di una volta. Sopravvivono le balconate. Il riflesso della luna, nel cielo sgombro, illumina di una luce azzurrina le poche lenzuola stese, più qualche panno, messi ad asciugare sotto le cerate. La sola altra fonte di luminosità arriva di taglio, da sinistra, dall’ingresso posteriore del bar. Dentice spinge la porta in alluminio e vetro smerigliato e gli altri sei lo seguono all’interno. Il locale non eccelle per capienza, il bancone occupa l’intera parte centrale, portando via un buon sessanta percento dello spazio disponibile. Nelle due restanti aree laterali, sedie rovesciate sui tavolini, e macchinette, spente. «Si possono accendere?» chiede al barman Attilio Devoti, un quasi sessantenne appena pensionato, che erebbe il resto della vita attaccato a quegli aggeggi. Il ragazzo al banco, la carnagione non abbastanza olivastra da nascondere certe occhiaie dolenti, lo degna di attenzione per semplice istinto. L’arrivo provvidenziale della voce di Dentice gli frena in gola qualsiasi altro accenno a reagire.
«Certe cose, vecchio, chiedile a me» dice, senza degnare di uno sguardo Devoti, i gomiti già sul banco. «Ti ho mai detto cosa penso del gioco d’azzardo?» «Beh... no, non credo, ma...» balbetta Devoti «...scusa, questo che c’entra? Mica gioco coi soldi tuoi.» «Indubbiamente. Ma dalla mezzanotte in poi tu giochi solo se io lo voglio. E io non lo voglio. Già mi tocca sopportare la pestilenziale abitudine di questo signore qui...» E ancora stringe una mano attorno alla spalla di Bonaiuti, lì vicino. «Allora!...» aggiunge. «Un giro di grappa per tutti, ragazzo: abbiamo parecchia sete. Questo vento ci ha conciato le gole come barili di sabbia.» Bonaiuti si palpa il pomo d’Adamo: non somiglia affatto al barilotto dei Terranova. Intanto il ragazzo ha posto sul banco una fila di sette bicchierini e ci sta versando dentro la grappa. Dentice sistema una sedia per sé al tavolo più vicino, gli altri fanno altrettanto. Il barista li raggiunge poco dopo coi liquori, che subito serve loro. Sul vassoio, resta un bicchierino solitario. «Bonaiuti, che fai? Non ci raggiungi?» dice Dentice. «Bevo qui, grazie» risponde lui, dalle parti del bancone. Dentice non ha fatto in tempo a posare il proprio calice sul tavolo. Si alza con quello fra le dita e si avvicina a Bonaiuti. «Facciamo un brindisi, io e te...» dice. Posa il bicchierino accanto a quello di Bonaiuti, a bordo banco, e gli sferra un sinistro ad altezza stomaco talmente inatteso e poderoso da piegarlo a scatto. «Quando io dico che si beve tutti assieme...» gli sibila Dentice all’orecchio «...tu prendi una merda di sedia e ti metti dove io ho deciso che ti devi mettere.» Bonaiuti annuisce. Per Dentice è sufficiente.
«Da bravo, adesso. Prendi pure il mio posto.» Bonaiuti si unisce agli altri senza fiatare, il bicchiere stretto nella mano, quasi ci si volesse appoggiare per camminare meglio. Nessuno lo sta guardando.
Giorno.01 Il telefono suona già da un pezzo, ma se ne accorge solo nel momento in cui lo squillo irrompe nel sogno che stava facendo, e per fortuna, sennò l’avrebbe sentito chissà quando. Sognava di Grazia. Il fatto di sognarla, qualche volta, e di farci l’amore con l’aspetto che entrambi avevano molti anni fa, prima che la vita gliela strape via, lo considera un regalo di lei, una specie di risposta profana a una muta preghiera. Afferra il cellulare dal comodino e lo apre. La luce del display, nel buio assoluto della camera, gli procura un bruciore terribile agli occhi. Ma tanto sa benissimo chi è, perciò meglio rispondere. «Dentice, mi aspettavo un tuo rapporto. Devo portarti la colazione, per averlo, o pensi di farcela da solo entro la prossima mezz’ora?» pronuncia d’un fiato la voce, senza che lui sia riuscito a dire neppure pronto. «Dormivo, capo.» «E piantala di chiamarmi capo, cazzo. Io non sono il tuo capo, avanzo di galera, sono quello pagato per controllare che tu e i tuoi non combiniate casini.» «E quali casini dovremmo combinare? Sentiamo. Non succede mai niente.» «Succede il niente che per ora deve succedere, Dentice. Se non ti sta bene, manda in giro il tuo curriculum.» «Vaffanculo, Mongiardino.» «Così va meglio. Ti sei ripreso, vecchio, è il caso che ti dica buongiorno.» «Non darmi del vecchio. Ieri sera ne ho steso uno, dei miei, e...»
«Cos’hai fatto?!...» «Ho tirato un cazzotto a quel rompipalle di Bonaiuti. Avevo i miei motivi per farlo e l’ho fatto, sai benissimo quali sono le facoltà che in questi casi posso adottare senza... senza i tuoi maledettissimi permessi dall’alto.» «Io lo conosco il mio mestiere, Dentice, sei tu che non conosci il tuo. Io non sono l’amico a cui racconti com’è andata la serata. Io sono quello che avrebbe dovuto ricevere un tuo rapporto. Ma tu, no, avevi urgenza di farti fare prima un pompino, se ancora ti tira.» «Pensa al tuo, di uccello. O ne vuoi un pezzo? Potrei dimostrarmi generoso, me ne resterebbe a sufficienza...» «Senti, idiota: hai presente sessanta, piccoli secondi? Usali per dirmi cos’è successo, a voce, subito. Siamo già scesi a cinquantacinque.» «Il problema non è cos’è successo. Il problema è che agli uomini mancano gli stimoli.» «Cinquanta secondi, Dentice, e non ho sentito ancora un filo di trama. Devi darmi la storia.» «La storia è che Bonaiuti ne ha davvero per le palle, ma in tutta onestà non lo biasimo.» «Tu e l’onestà vivete su pianeti distanti anni luce.» «Ha parlato Biancaneve.» «Quaranta secondi.» «Dacci qualcosa da fare!... Adesso si è trattato di Bonaiuti, è stato un caso singolo... e l’avevamo previsto. È sotto stress, poteva accadere. Ma il malcontento persiste, in tutti. E se qualcun altro alza la cresta... beh, temo saranno necessarie nuove assunzioni.» «Questo è il meno. Con l’aria che tira di questi tempi, te li trovo in quattro e quattr’otto, i sostituti.»
«Ho bisogno di un gruppo compatto, Mongiardino. Conosco a memoria le schede di questi uomini, li posso gestire. Ma sono macchine. E adesso serve la benzina.» «Quale finezza. La tua metafora mi emoziona.» «Sono finiti ’sti sessanta secondi del cazzo. Il vostro elettorato vuole la ronda che voi gli avete promesso in campagna: bene, io sono in grado di mantenere per voi quella promessa. Voi, invece, cosa minchia mi date?» «I tuoi soldi. E non sono briciole, Dentice.» «Quelli vanno bene. Ma se volete che la cosa continui, bisogna dare la carne ai cani.» «Sei un poeta, oggi.» «E tu sei un figlio di puttana.» «Ottima risposta, vecchio bastardo, mi stavo preoccupando. Ammalarsi di rimorso non è sano. Ti risolvo il problema, anzi: te li risolvo tutti e due.» «Tutti e due?» «Certo. Non mi hai appena detto che vi sentite demotivati e che Bonaiuti è il caso di ritirarlo?» «No, non te l’ho appena detto, te lo stai inventando tu.» «Ah, davvero?... Ho ricordi assai diversi.» «Che cosa intendi per “ritirare” Bonaiuti?» «La stessa cosa che intendevo quando ti ho concesso un certo extra da are al vostro comune specialista di fiducia.» «Il dottor Gelardi è sul vostro libro paga, da anni luce, non mischiamo le carte. E comunque credevo si trattasse di un semplice esperimento.» «Lo è, infatti.»
«Allora potevo bastarvi io.» «Tu di te stesso te ne fotti, Dentice. Per monitorare le reazioni di un singolo sottoposto agli effetti di una situazione di stress emotivo, ci serviva un soggetto... ecco, più sensibile.» «Siamo tutti sotto stress emotivo. In questa città non c’è nulla che valga la pena di essere controllato. E voi dovreste saperlo.» «È naturale che ne siamo informati. La gente è spaventata da quanto accade altrove da qui. Lo vedono in televisione, ogni giorno. Potrebbe capitare ad ognuno di loro, ecco perché vogliono le ronde. Esperimenti su persone simili a Bonaiuti, caro il mio genio, servono a evitare che in futuro, quando il “Progetto Ronda” sarà applicato anche altrove, non vengano commesse coglionate come quella che hai fatto tu ieri sera, per esempio. Perciò ascoltami bene, merda: rallegrati ogni fine mese e vedi di tenere a bada quella testolina di cazzo che ti trascini al collo da una vita. Al resto pensiamo noi.» «E per stanotte, invece?» «C’è una sorpresina, te la dedico con tutto il cuore: troverete un pregiudicato di nostra fiducia nel parcheggio del vecchio ospedale, sarà a bordo di una Marbella color grigio metallizzato. In quanto alle tue... “facoltà”... dovresti sapere che una in particolare contempla la possibilità d’azione diretta, a scopo intimidatorio. Apprezzerei che tu ne favorisca il pieno uso a Bonaiuti.» «Ma...» «Niente “ma”. Se proprio devi, chiamami capo. Ti preferisco quando fingi di credere che esista qualcuno al di sopra di te stesso.»
Giorno.02 Non esiste nessuno al di sopra di noi stessi. Anni fa avrebbe tuttavia caldeggiato ancora uno straccio d’ipotesi alternativa, giusto per disporre di un salvagente in caso di maretta: era infatti solito aggiungere che se qualcuno esistesse sul serio, lassù, senz’altro si divertirebbe un sacco a seguire ogni nuova puntata della sitcom che da queste parti ci ostiniamo a chiamare vita. Ma superata una certa
soglia, della vita, Bonaiuti si è dovuto arrendere all’idea che c’è ben poco a cui affidarsi. Anzi: in realtà una cosa c’è. Un ritorno alle origini, lo definisce lui. C’è un camice bianco. Perché da bambini andare al parco suscitava un’istintiva gioia, mentre andare dal dottore trasmetteva sgomento? Possiamo davvero ricordarci di com’era vestita l’ostetrica, quando ci ha tirati fuori? Al dottor Gelardi, pneumologo, non sfugge la disattenzione del proprio paziente, sa leggere il linguaggio del corpo. «Signor Bonaiuti...» lo richiama. Il paziente riemerge dai propri pensieri, annuisce impercettibilmente. «Se lei si ostina a rifiutare la chemioterapia, credo sia il caso di sospendere i nostri... chiamiamoli pure i nostri incontri. Vorrei comunque suggerirle qualche collega che potrebbe aiutarla sotto il profilo psicologico. Persone assai discrete, ottimi professionisti. Spero non si offenda se mi permetto di trattare l’argomento in maniera tanto diretta, ma un minimo o in questo senso io lo accetterei.» «Ha detto la cosa giusta, dottore. Lei lo accetterebbe.» Cala il silenzio. Bonaiuti raccoglie dalla scrivania la cartelletta blu che lo riguarda e la inserisce nuovamente nella ventiquattrore, poi si alza dalla sedia, recupera il cappello e il cappotto appesi all’attaccapanni in ferro battuto sulla soglia, apre la porta ed esce dallo studio. Tutto senza pronunciare neppure una sillaba in più. Seduti nella sala d’attesa, altri aspettano il proprio turno. Vedendo quei corpi inevitabilmente mortali, quegli sguardi bassi, quelle mani strette in grembo, quei sacchetti della spesa con dentro alcune buste di vario formato, gialle e sottili, Bonaiuti pensa che il timore verso la classe medica sia qualcosa di molto, ma molto radicato nel genere umano, al punto da perdere coerenza logica. Gli stessi camici bianchi, così ostili in tenera età, col tempo acquistano nell’immaginario collettivo un’aura quasi mistica. Sono loro l’albero della conoscenza, per chi si è accorto dall’oggi al domani di possedere un organismo difettabile. È negli studi
asettici e odorosi di medicinali che si assume il frutto del discernimento, per via endovenosa. È la flebo la mela con cui il serpente ci riprova, un’ultima volta. È qui che ci si ricorda perché l’ostetrica ci abbia infuso tutta quella paura. Perché la morte serve a vivere. Promettere la vita eterna, sta dunque pensando, non è che una lungimirante contro-operazione di marketing.
Notte.02 I sette uomini scendono dal furgoncino guidato da Dentice. Il piazzale del parcheggio è deserto, se si esclude la presenza del loro mezzo e di un’unica auto, a ridosso dell’antico ospedale cittadino. È una Marbella, color grigio metallizzato. Troverete un pregiudicato di nostra fiducia nel parcheggio del vecchio ospedale. Diversi cartelli recanti il simbolo del divieto di sosta punteggiano lo sterrato. C’è un foglio, poco sotto il segnale, che riporta data e ora. Dentice immagina fin troppo facilmente quale fascia oraria interessi tale divieto. Azione diretta a scopo intimidatorio. Stasera facciamo i vigili urbani, pensa fra sé. Osserva i suoi compagni compiere precari esercizi di riscaldamento muscolare. A quest’ora sarebbero già a letto, o avrebbero speso la propria pensione in una pay tv pornografica. I più arditi, si sarebbero messi alla prova con una massaggiatrice tailandese, filippina all’anagrafe, contattata tramite un annuncio sul giornale delle inserzioni gratuite. La vecchiaia, riflette, comincia quando una scopata a pagamento incarna un cosiddetto desiderio profondo. «Allora, carissimi» dice a un tratto, più per scrollarsi di dosso quella fanghiglia di riflessioni irrilevanti. «Solito giretto di riscaldamento?» «E che altro vorresti fare, i fuochi d’artificio?» gli risponde Bonaiuti. «Anche stanotte si batterà la fiacca.» Gli altri ascoltano la protesta di Bonaiuti in silenzio, disposti a semicerchio attorno ai due contendenti. È Dentice ad avanzare verso il compagno e finta un
destro che quando raggiunge il volto dell’altro vira in un buffetto sulla guancia. «Coraggio, Aristide. Vedrai che stasera qualcosa succederà.» Franco Dionisi, intanto, fa caso ai cartelli. Controlla che ore sono, fa mente locale alla data odierna. «Quella Panda è in divieto. E anche noi lo siamo» dice. «Il furgoncino comunale può restare, ha tutti i permessi del mondo» risponde Dentice. «Ma la Marbella, non è una Panda, bisogna rimuoverla. Hai visto? Che ti dicevo?» torna a chiedere a Bonaiuti. «Controlliamo prima che non ci sia nessuno dentro» osserva lui. «La luce interna è accesa.» Dentice aguzza lo sguardo. «Già, è vero. Il fumo uccide ma non rende ciechi, eh?» Bonaiuti assume il suo solito atteggiamento neutrale alle punzecchiate di Dentice, sicuro che egli sia ignaro del suo reale stato. Forse è in contatto con un’entità aliena e maligna, Dentice, capace di mettergli in bocca ad ogni occasione le parole giuste. O forse, com’è in effetti più probabile, è solo un maledettissimo e parecchio arrogante stronzo. «Bene...» pronuncia Bonaiuti «...quand’è così, vado a dare un’occhiata.» Non ha fatto che pochi i quando la voce di Dentice lo raggiunge. «Fermati. Ci vado io.» «Ma no, non è prudente» protesta Devoti. «Seguiamo la regolare procedura. Chiamiamo la polizia.» Dentice sorride ancora. Anzi, no: se la ride proprio, e di gran gusto. I sei uomini restano a guardarlo allontanarsi. Il silenzio è una presenza così reale che i i di Dentice, sullo sterrato del piazzale, sembrano esplodere. Bonaiuti si accende una sigaretta. Ogni tre i del compagno, aspira una
boccata e subito la sputa fuori. Dentice arriva alla macchina, afferra la maniglia della portiera. Bonaiuti non saprebbe dire, da lontano, se è stato più veloce lui a spalancarla o il pugnale a trafiggerlo in gola, due, tre, quattro volte. Getta la sigaretta, e corre, e mentre si precipita, laggiù, qualcosa s’insinua nella mente di Bonaiuti. Un’intuizione, per quanto atroce e fuori luogo. E non è l’appurare che Dentice sia morto. Quello accadrà poi. Né tanto meno l’immediato sopraggiungere di una volante, che pone in arresto il giovane assassino, senza soffermarsi il tempo tecnico necessario a ricostruire le dinamiche dell’appena avvenuto delitto. Anche quello, d’altra parte, accadrà poi – se accadrà. L’intuizione che coglie Bonaiuti in contropiede, e, ironia della sorte, proprio quando è così impegnato a correre verso l’automobile, verso il corpo esanime di Gerardo Lo Dentice, è che questa cosa sia stata in qualche misura prevista. Che questo momento della loro vita è certamente stato architettato – e ne resterà convinto. Anche quando sul posto giungerà una squadra di pronto soccorso che invece di curarsi del cadavere si curerà di loro tutti. Li solleverà dall’angoscia e dall’incredulità con tè caldo e panini al prosciutto. Praticherà ad ognuno un’iniezione.
Giorno.03 L’ufficio è bianco, di un bianco sporco. Effetto dei neon a basso consumo energetico, che hanno pure la straordinaria e non preventivata capacità di ampliare difetti nello stato dei muri. Se sono raschiati male, o una pennellata troppo carica ha lasciato tracce di vernice più spesse, certe luci tendono a risaltarlo. Sembrano inventate apposta per trasmettere un senso di disagio. Di unto, anche. Bonaiuti siede al di qua della scrivania. Dall’altra parte, dalla parte giusta, un funzionario di partito sui cinquant’anni gli si rivolge con garbo stantio, di forzato
approccio. «Signor Bonaiuti, la ringrazio per aver subito risposto alla nostra chiamata e mi perdoni se vengo velocemente al dunque, ma sono certo che vorrà comprendere con quanta urgenza mi è stato imposto di concludere il nostro incontro: la sua condotta nel Progetto Ronda è da considerarsi scorretta, almeno quanto quella che ha mantenuto sul piano personale. Spero sappia bene a cosa intendo riferirmi.» «Se allude a certi disordini avvenuti fra me e il signor Lo Dentice, io...» «No, signor Bonaiuti. Ha sbagliato argomento.» «Allora non saprei dirle altro. E in ogni caso, dopo l’accaduto... beh, non è che il “Progetto Ronda” possa ancora interessarmi.» «Su questo ci troviamo d’accordo. È chiaro che, dopo l’accaduto, il servizio sarà sospeso fino a nuovo ordine. Ma lei è al corrente di quali e quanti esami psicofisici bisogna sostenere per farvi parte, non è vero?» «E non li ho forse sostenuti?» «Certamente, signor Bonaiuti. Peccato che lei... ecco, abbia dimenticato di tenerci aggiornati su alcuni sviluppi.» Il funzionario apre un cassetto della scrivania e ne estrae una cartelletta blu che sbatte a peso morto sul ripiano. Bonaiuti percepisce con disumano nitore una goccia gelata solcargli, lenta, la spina dorsale. «Quella è...» balbetta. «Questa è la sua cartelletta. In base alla quale lei dovrebbe morire tra sei mesi all’incirca.» «Voi... voi non potete ficcare il naso nelle mie...» «Lei non ha faccende personali, signor Bonaiuti, se è questo che intende. Non se lavora per conto della comunità, come stava in effetti facendo nel Progetto
Ronda. Dovevamo essere informati. Ma, lei concorderà, non abbiamo perso poi molto tempo a rimediare. E la cosa dobbiamo purtroppo ritenerla una scorrettezza da parte sua, non da parte nostra.» Bonaiuti trema dentro. Il respiro diventa un rantolo che il pudore e la dignità stentano a dissimulare. «Lo facciamo soltanto per il suo bene, signor Bonaiuti, e per il bene della comunità, s’intende.» Il funzionario si abbassa di lato e solleva il cestino dei rifiuti con una mano, in modo tale che il suo unico spettatore veda con chiarezza l’altra mano centrare il bersaglio. La cartelletta, con tutto il suo contenuto, compie un semicerchio sulla testa dell’uomo e diventa immondizia. Bonaiuti ha perso ogni espressione. Se un esperto dovesse provare ora a interpretarne la mimica facciale, lascerebbe il taccuino degli appunti in bianco. «E abbiamo fatto bene a interessarcene, signor Bonaiuti» riprende il funzionario. «Gli esami che ho appena cestinato, non appartengono a lei.» Adesso qualcosa degno di nota inizia a comparire, fra le rughe dell’anziano. Gli appunti sarebbero: stupore. Gli appunti sarebbero: meraviglia. Qualcuno bussa alla porta. Il funzionario non sembra sentirlo. «Immagino ignori che il suo specialista di fiducia, il dottor Gelardi, è stato anche lo specialista di fiducia del mai abbastanza compianto Gerardo Lo Dentice.» Gli appunti sarebbero: sgomento. «Ci arriva da solo, signor Bonaiuti?» chiede, mellifluo, il funzionario. Gli appunti sarebbero: necessità inappagabile di esplodere. Qualcuno torna a bussare. «Lei non sta morendo, signor Bonaiuti. Era Gerardo Lo Dentice ad aver contratto un tumore ai polmoni, e la cosa gli era nota. Triste destino: aveva perso la sua compagna, molti anni fa, per lo stesso motivo.»
Gli appunti sarebbero: necessità inappagabile di piangere, anche in cinese. Dall’altra parte, intanto, non demordono. «Avanti!» ordina il funzionario. Tre individui abbigliati in completo nero e maglietta bianca entrano nell’ufficio. Quello di mezzo dice: «Ci ha fatti chiamare?» «Ancora un momento» dice loro il funzionario. La sua pelata riflette con sinistra efficacia la luce dei neon. «Restate a disposizione...» aggiunge «...non ne avremo per molto.» «Esigo una spiegazione» protesta finalmente Bonaiuti. «E io gliel’accordo volentieri, caro Bonaiuti. Si è trattato di un esperimento. Un esperimento che, come abbiamo visto, ha preso pieghe inaspettate. Lei deve comprenderci: oggi come oggi è necessario arrivare primi, in tutti i campi. O si è competitivi, o è meglio evitare. Ora: lei conosce quali sono gli organismi più solidi sul mercato?» Bonaiuti non ribatte. Gli appunti sarebbero: nulla su cui riflettere. «Gli organismi più solidi sono le banche, caro Bonaiuti. E sa perché? Perché una banca è in grado di approfondire in ogni suo cliente qualsiasi dettaglio si riveli poi utile ai propri scopi. Noi non siamo una banca, ma siamo certamente un organismo e abbiamo perciò bisogno di sapere tutto su coloro che assumiamo come collaboratori esterni e inseriamo in un progetto vendibile. Mi segue?» Bonaiuti annuisce. Gli appunti sarebbero: bisogno immediato di sigaretta. «La Ronda è un progetto vendibile. Noi, in quest’area del Paese, abbiamo ricevuto l’ordine governativo di costituire un primo, modesto tentativo di Ronda,
allo scopo di studiarlo direttamente sul campo. Eliminando di o in o le possibili imperfezioni. Beh, caro Bonaiuti, ci siamo sbagliati: pensavamo che l’anello debole fosse lei, e abbiamo sfruttato le risorse in nostro possesso al fine di verificare questa sua presunta inidoneità al progetto. Invece, la vera debolezza era in realtà rappresentata dal soggetto che, secondo i nostri parametri, ci sembrava fra di voi la persona più forte.» Bonaiuti deglutisce. Gli appunti sarebbero: panico irreversibile. «Sa, è seccante commettere errori simili. Per fortuna, e vorrei sottolinearle che sono stato io a suggerirne l’aggiunta, uno dei veti relativi alla selezione delle persone da inserire nella fase sperimentale del Progetto Ronda prevede che tali persone siano sole al mondo. Nessun parente in vita, nessun collegamento diretto. Lei immagina perché?» Bonaiuti spera che le interruzioni cessino alla svelta e alla svelta si compia per lui ciò che gli uomini alle sue spalle sono venuti a fare. Gli appunti sarebbero: impazienza retroattiva. «Perché se c’è qualcuno da eliminare, a causa di un errore nostro, quel qualcuno non desidero essere io.» Il funzionario fa un cenno ai tre uomini. Una mano estranea si posa sulla spalla sinistra di Bonaiuti.
Epilogo.00 Il funzionario si chiama Guglielmo Adelante, ha cinquantadue anni ed è sposato da ventisette. Lui e la moglie non hanno figli, entrambi hanno posto la sua personale carriera politica davanti a qualsiasi altra priorità. Guglielmo Adelante ama godere del piccolo potere che gli è stato concesso, a fronte dei voti guadagnati all’ultimo turno elettorale. E facendo egli parte della maggioranza che ha stravinto a livello nazionale, possiede a suo modo una
piccola fetta della torta. Non è un vero e proprio possedere, il suo, si tratta anzi di una delega – se vogliamo usare le parole in base al reale significato che assumono nei fatti oggettivi –, ma la strada che porta al raggiungimento di poteri ancora più grandi si deve percorrere un o alla volta. E ottenere un incarico, sulla cui gestione è libero di operare a proprio piacimento, è già parecchio. Almeno: il conto in banca e i frequenti acquisti della consorte lo incoraggiano a confidare sia così. Tuttavia, rimangono alcuni aspetti che odia. Ritirare quel Bonaiuti, per esempio. O effettuare telefonate come quella che sta per fare. «Mongiardino, caro» dice. «Ti prego, non dirmi che è un piacere.» «Delegato, io...» balbetta l’altro. «Tu niente. Hai presente quanto abbiamo investito nel Progetto? Siamo in ivo. Abbiamo tagliato tutto il possibile, lo sai, ma non il tuo posto. E tu cosa fai, in cambio? Ti chiedo di effettuare un esperimento e l’esperimento si trasforma, magicamente, in tre morti.» «Tre?» «Già. Dentice è andato. A Bonaiuti ci ho appena pensato io. Perciò, Mongiardino, mettiamoci d’accordo in questo modo: vai un attimo alla finestra di casa tua, quella che dà sulla strada.» Il funzionario si domanda qualche volta per quale motivo gli tocchi sistemare da solo certe faccende un tantino delicate. Quella sera avrebbe staccato con un’ora di anticipo per accompagnare a cena la sua signora. Ha prenotato fuori città, un tavolo con vista lago sulla terrazza panoramica di un ristorante dov’è necessario bloccarlo, un dannatissimo tavolo, con svariate settimane d’anticipo. Ed è esattamente per motivi del genere che un uomo prende certe decisioni. «Scosta la tenda...» sussurra all’interlocutore. «Dovrebbe esserci un’Alfa Romeo parcheggiata lì sotto, Mongiardino caro, la vedi? È nera.» «Sì, la sto vedendo.» «Ti aspetta.»
«...» «Pronto? Non ti sento più.» «Per favore...» «Sììì?...» «Posso... ecco, riuscirò a recuperare senz’altro.» «Ne dubito. Dentice era sotto la tua tutela. Dovresti conoscere i tuoi uomini meglio di te stesso.» «Dentice sapeva del tumore, ma da come si comportava, e dai test psicologici, vedeva la cosa sotto un profilo... ecco, romantico.» «Romantico?... Mi prendi in giro? Un minimo di contegno, suvvia...» «La sua compagna morì anni fa per la stessa ragione.» «Ho letto la scheda di Gerardo Lo Dentice, imbecille, per chi mi hai preso?!... Beh, sono davvero commosso. Credi che questo cambi la tua situazione? Mongiardino, avrei fretta di uscire. Scegli: o la vettura che tanto cortesemente mi sono preoccupato di spedirti fin lì, o... l’altra soluzione.» «L’altra... soluzione? E... quale sarebbe, l’altra soluzione?...» «...» «...» «Dimmi: abiti sempre al nono piano e pesi grosso modo ottantacinque chili?»
Io fermo
È questione di minuti, di secondi, o di ore, ma prima che faccia giorno verrà. Verrà di certo. Eccetto il temporale fuori, e il mio respiro, nessun altro rumore rompe la calma nei corridoi e nelle stanze del museo degli Uffizi, non a quest’ora. Un dolore alla testa mi suggerisce che sono stato colpito alla nuca, poi qualcuno mi ha sdraiato e legato alla panca centrale, qui, nella sala della Primavera. Non a caso.
“Ho fatto del mio corpo un’opera d’arte”, mi disse all’incirca un mese prima, nel mio studio – e così dicendo prese a spogliarsi. Senza teatralità, senza danze. Si spogliava, punto, e man mano che la sua pelle si mostrava ai miei occhi, paralizzati insieme al resto della faccia in una studiata espressione di imparziale complicità, ecco apparire quei tatuaggi. Modigliani sul cuore, le ninfee di Monet sulla pancia, una tela dell’Arcimboldo sulla schiena, un girasole attorno al pube. Niente sulle natiche. Le gambe, invece, istoriate allo spasimo, se unite mostravano un unico disegno. Una conchiglia. «Lei, quindi, sarebbe la Venere. Dico bene?» dissi io. Ma quale Venere? La mano che Dio porge a Adamo nella Cappella Sistina tatuata sulla sua altrimenti lucida calotta cranica, avrebbe dovuto invitarmi a notare per direttissima che di chiome bionde, sul tizio, non c’erano proprio tracce. Il signore che mi stava di fronte, desnudo, aspirava a diventare un’opera d’arte completa. La palestra, i tatuaggi, l’incredibile raffinatezza lessicale che utilizzava nel descrivere le opere pittoriche a cui si era maggiormente ispirato per completarsi, erano insufficienti a fare di lui la Venere del Botticelli che desiderava incarnare fin da adolescente. Chiedergli se per puro caso gli fosse balenata per l’anticamera del cervello l’idea di compiere una gita a Casablanca,
viste le dimensioni del soggetto mi sembrò lì per lì alquanto rischioso. Dovevo abortire qualsiasi ironia, tanto più che il ghiaccio ormai era rotto. Ero il suo pubblico, adesso.
Meglio aprire a questo punto una breve parentesi a proposito della professione che esercito. Sulla targhetta esposta all’esterno dell’edificio dove ha sede la mia attività, si legge a chiare lettere: Ippolito Milazzo, psicanalista. Niente di più falso. I clienti che mi contattano – e che spesso arrivano nel mio studio attraverso giri intestini al normale percorso della giustizia ufficiale, giri che io stesso fatico a distinguere da un più generale marasma –, hanno maturato un’ossessione verso qualcosa: potenziali assassini, maniaci, depravati di varia specie, però mai del tutto definiti. Sono tutti aspiranti protagonisti della cronaca nera alla ricerca di un pubblico, ma?... Nutrono un terrore inaudito – e non sempre cosciente – verso le pulsioni da cui si sentono pervasi, dunque esigono di essere fermati. Questo è quanto. Io fermo. Un assassino che lascia tracce troppo evidenti, un cittadino al di sopra di ogni sospetto che dissemina prove sulla propria colpevolezza, hanno già rappresentato un pericolo per la comunità e, a modo loro, narcisisticamente, confidano che qualcun altro li inchiodi. In questi casi, ma di rado, sono intervenuto anch’io. Di norma mi occupo invece di chi si trova appena un gradino indietro rispetto a questi altri. Mi occupo di chi non ha ancora fatto, ma farà. Non sono l’unico a praticare questo tipo di lavoro – e non lo considero di certo un’efficace risposta alla criminalità, anzi: se lo faccio è perché un attestato di specializzazione in criminologia non basta da solo, almeno in Italia. E comunque, un lavoro così, se accetti di farlo, non lo fai per la morale, o per un qualche tipo di ideale giusto: di gente da arrestare sul serio in giro ce ne sarebbe tanta, ma nella maggior parte dei casi sono criminali di pochissimo conto, valgono a malapena un trafiletto nelle pagine locali su un giornale di annunci. I migliori, quelli che fanno audience, sono per i telegiornali – e vanno in onda al posto di notizie che bisogna insabbiare, o per lo meno divulgare il più tardi possibile, ordini dall’alto. Sono i mediocri quelli da fermare. Sono loro le schegge impazzite. E allora ecco
che in qualche modo, o grazie a qualcuno, si effettua uno smaltimento. Una selezione innaturale – e ottimamente retribuita – dei cattivi.
Esaurite le presentazioni, il mio lavoro diventa abbastanza simile a quello di un detective. Inseguo l’individuo, lo studio, lo osservo, nell’attesa che il mostro, sapendosi seguito, sapendosi ammirato, metta il muso fuori dalla tana.
Devo ammettere che mi aveva non poco divertito lo scoprire che il tatuato faceva il guardiano notturno agli Uffizi di Firenze. Stazionavo ormai da un mese presso il museo. Lui arrivava, si faceva un giretto dentro, e andava via. Conosceva tutti i codici necessari all’attivazione e alla disattivazione dei sistemi interni di allarme. La sua era una frequentazione del tutto libera. Legittimata. Intima, aggiungerei. Seguendo le sue azioni da punti diversi, anche se era in modo particolare dal Lungarno Armando Diaz che si scorgevano bene i suoi movimenti lungo buona parte dei corridoi attorno agli ambienti espositivi, avevo intuito che il nostro disattivava in blocco tutti gli allarmi, per avere agio di andare e venire dove più gli pareva e piaceva. Lasciava perfino pressoché aperto l’ingresso sul Piazzale, bastava spingere, poi spiarlo direttamente all’interno del museo diventava uno scherzo, un sacco di sere l’ho fatto. Del resto ero e restavo il suo osservatore privilegiato. Stava soltanto a lui decidere cosa fare ancora, di conclusivo: quando scatenare del tutto l’animale che da tempo si contorceva sotto all’arlecchino di capolavori miniato sulla sua pelle.
E ora finalmente lo saprò. Stasera è la volta buona, ne sono sicuro. Non è per via del temporale, le cui spesse colate di acqua disegnano tante sbarre liquide sui finestroni dell’edificio. Non è perché sono legato qua. Il fatto è che la Venere non c’è più. O meglio: lo squarcio nel quadro, aperto esattamente dove la musa del Botticelli prese vita, di tanto in tanto s’illumina al chiarore di un lampo, come una ferita bianca, fresca, che fra un attimo sanguinerà. D’un tratto, il mostro appare, mi sovrasta in tutta la sua massiccia statura, con un ghigno in viso che dovrebbe spaventarmi, ma per assurdo, e soprattutto adesso,
sembra invece così dolce. Al punto che lui, senza dire una sola parola, come si aspetti che io sappia già cosa fare, mi costringe con una sorta di gentile determinazione a inghiottire il pezzo di tela che ha strappato. È in questo momento che capisco quale parte gli mancava. Il mio cliente era la conchiglia. La Venere sarò io.
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Dovunque andassi ora, la pioggia mi avrebbe raggiunto. L’avrei risentita anche al riparo di case dai muri spessi, coi doppi vetri alle finestre e l’ingresso blindato, quella coi tuoni, i lampi e lo stravento. Quella croccante. Oppure quella blanda, che si posa a fiocchi sui vetri dell’auto ma li vela come di grasso se il tergicristalli la toglie. Quella annoiata. E quella senza vento e senza effetti speciali, quella che cade e basta, dritta, e addosso punge un po’. Quella severa. E ogni volta la pioggia canterà una canzone con un solo ritornello che parla direttamente a me. Mi parlerà di lei. Mi parlerà di Melissa. Mi parlerà dei miei ricordi. Forse perché l’ho incontrata una sera che pioveva. Forse perché anche quando ho cominciato a fare incontri diversi, la prima volta, pioveva.
E la prima volta c’era Myriam. Stavo scaricando musica da Internet quando incontro in chat l’unica fan dei Massive Attack che esordisce confessandomi di cantare come la vocalist di Tear Drop, specificando che gorgheggia meglio se in sinergia all’azione di una sua parte anatomica palesata nel nickname: Nirv-anal. Ci conosciamo alla Ricordi, lei era di Milano. Filiamo dritti a casa sua. Non è stato tanto male. A parte le sue rotondità eccessive e quella sua mania per la posa a novanta gradi, sulla quale non avrei obiettato più di tanto se non mi fossi ritrovato a guardare un culo che sembrava il muso di un bulldog. Ok. Il tempo di una sigaretta, poi sono uscito senza salutare. Con Orietta è stato meglio. Carina, davvero carina. Egiziana di origine, ma di padre italiano. Milanese per scelta. La sua pelle sapeva di fiori. Aveva un piercing sulla lingua da pelo e contropelo. Mentre lo facevamo, ha solo preteso che inveissi senza ritegno contro la sua virtù.
Ok. Il tempo di una sigaretta, poi sono uscito senza salutare. Quando ho chattato con Satanik (all’anagrafe Romina), in realtà non ero molto interessato. Mi spiego: con le altre due c’era stato almeno il mistero finale, ma Satanik usava la webcam perciò temevo mi asse la poesia, con lei. Appena mi ha mostrato invece cosa ci faceva, con quello strumento, mi sono detto: beh, meglio incontrarla di persona, no?, se davvero voglio che mi si usi come la periferica di un computer. Ok. Il tempo di una sigaretta, poi sono uscito senza salutare. Terry è stata subito molto esplicita, però con classe. Ci siamo intrattenuti per alcune ore coi convenevoli di rito, poi ci siamo dati la buonanotte e la promessa di un appuntamento futuro. La sera dopo, apro una sua e-mail con un indirizzo, una data, un’ora – e un allegato: si trattava di una foto, l’immagine mostrava parecchie mollette da bucato sparse su un campo bianco, forse un lenzuolo. Il poscritto, chiaramente riferito all’immagine, diceva “comprane quante ne vuoi e portale con te, quando c’incontreremo”. Se mi avessero detto che un giorno avrei usato l’aggettivo lussurioso riferito alle mollette da bucato, mi sarei rovinato scommettendo una discreta fortuna sul contrario. Ok. Il tempo di una sigaretta, poi sono uscito senza salutare. Fu solo quando toccò a Erika che mi resi conto di come fosse stato del tutto naturale giungere a una prima serie completa. Gliene volevo quasi parlare, mi ricordo, forse mosso a fidarmi di lei dal suo nick: si faceva chiamare TataMia, on line. Era un nick... ecco, materno. Volevo dirle che non è stato un caso attendere una sera di pioggia per incontrarci in un hotel. Non è stato mai un caso. Con Myriam era severa. Con Orietta annoiata. Con Romina croccante. Con Terry ancora severa. E con lei, con Erika, la pioggia ritornò annoiata. Una serie, una serie perfetta. Severa, annoiata, croccante. E poi ancora, daccapo. La prossima volta mi sarei divertito di più, lo sapevo. Quando la pioggia è croccante incontro sempre persone più interessanti del solito. Quindi mi trattenei dal rivelarle ogni dettaglio in attesa della prossima. Lei poi, TataMia, aveva ben poco di materno, già solo perché prendeva la pillola. Non è affatto un comportamento materno, a mio avviso, unire l’utero al dilettevole. Ok. Il tempo di una sigaretta, poi sono uscito senza salutare. Avevo terminato la serie numero uno.
M yriam O rietta R omina T erry E rika Cinque ragazze, di età compresa fra i venti e i trentacinque anni, tutte di Milano. Come me.
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Il battere di quella pioggia contro le persiane delle porte finestra di camera sua le suscitava l’illusione di trovarsi su un set. Immaginava la troupe all’esterno col macchinario puntato sulle serrande. Le provocava un piacevole fastidio, sentirla. Pioveva ancora, dunque. Forse, stasera lui colpirà di nuovo, pensava. Da qualche tempo non perdeva una sua mossa, un suo contatto, fosse pure un messaggio pubblicitario cestinato all’istante, o un virus. Agli ultimi attacchi ci aveva pensato lei. Dalla rete ne arrivano a frotte e non sempre è facile tenere sotto controllo la situazione nei terminali altrui, ma era importante che tutto funzionasse, sempre. Che lui potesse accedere alla rete senza problemi. E lei sapeva essere pronta. In quel mentre, ad esempio, lui non stava ancora chattando, ma aveva il pc e navigava in Internet. E lei sapeva, esattamente, da quanto. Davvero un gioiellino, quella dannatissima cimice. Tu la inserisci in una e-mail di qualsiasi tipo e appena il destinatario la apre il programma la scarica di default nella memoria senza che nessun sistema di controllo faccia in tempo a intercettare l’operazione. Appena il destinatario accende il computer e naviga in Internet, la cimice trasmette un segnale che porta a lampeggiare la relativa icona
sullo schermo del mittente. E io vado a trovarlo. Aveva scelto una nuvola, per lui. Si era ispirata al suo nick. Si fa chiamare Rain. Era stato Skip a dirle dell’assassino. Il settimo mitomane, per caso? Gli altri sei erano casi da ricovero. Eppure era stata chiara, con lui: “Mi serve un assassino, trovamelo”. Skip è un hacker tra i più funambolici. Lui non naviga, lui non sonda. Lui surfa. E, infine, sapeva che lei cercava un assassino. Era sufficiente. Ma stava perdendo fiducia in Skip – e l’avrebbe persa, se solo non fosse arrivato in tempo utile con tutte le tracce elettroniche fra l’omicida e le ragazze contattate in chat, che riconducevano senza dubbio agli articoli apparsi sui giornali di quegli ultimi mesi. Era Rain l’assassino della pioggia. Adesso conosceva particolari che nessun inquirente sognava di sospettare. Aveva decriptato tutte le tracce in chat fino a possedere ogni suo incontro on line con le ragazze uccise, testimonianze esclusive per le indagini, sufficienti a risalire a lui, nessuno le avrebbe chiesto altro. Per la polizia sarebbe uno smacco non da ridere se gli inquirenti rivelassero a mezzo stampa di essere giunti a conoscenza di certe informazioni tanto determinanti da una pirata informatica. E lei sapeva come esigere una lauta ricompensa per tacere da par suo. Ma non era questo, il punto. Il punto è che aveva trovato l’uomo che faceva per lei. E quindi non era la polizia che doveva ricattare.
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Melissa apparve sullo schermo del mio computer e nella mia vita una sera in cui
pioveva, la sera in cui i giornali soprattutto milanesi annunciavano il nuovo delitto di un serial-killer che uccide a seconda delle fasi di pioggia, anziché di luna. Melissa apparve sullo schermo del mio computer e nella mia vita una sera in cui pioveva, la sera in cui mi arrivò una e-mail da un indirizzo ignoto con un testo che ebbe la capacità di chiudermi lo stomaco a uncinetto. Diceva: “M#O#R#T#E#... Ingegnoso, sai, Rain? E tu? Come ti chiami, tu? Vita? Mi spiace, ma ho la sensazione (banale, se vuoi) che tu sia un uomo – e Vito, come nome, non è che ispiri granché. Io mi chiamo Melissa, invece. Sono di Milano e ho ventisei anni. Credo di fare al caso tuo, se vuoi ricominciare il gioco”. Sulla mia testa pesava un punto interrogativo e comico. Avevo voglia di ridere e vomitare. Mi vedevo invece dribblare le scale antincendio, tagliare il cortile in due, un elicottero della polizia sopra casa e un esercito ad ogni uscita. E non datemi del paranoico. Potrebbe capitare a chiunque. Insieme alla e-mail, questa ragazza di ventisei anni mi aveva inviato una serie di allegati di testo dove, data per data, ora per ora, erano riportate fedelmente tutte le tracce dei miei contatti in chat. Ora: da un indirizzo di posta elettronica, se si è così attrezzati come dimostrava il lavoro di ricerca effettuato da questa sconosciuta, è possibile scoprire l’identità di un utente della rete. La persona che mi aveva contattato quella sera, quindi, sapeva tutto di me. Mi osservava da tempo. E immaginavo intuisse ogni mia mossa molto prima che si realizzasse. Eppure, con in mano la soluzione di un caso del quale la polizia possedeva appena come unico elemento comune la cenere delle mie Pall Mall, questa ragazza spedisce a me, l’assassino della pioggia, tutta la documentazione sui miei stessi delitti, ironizzando con grazia sul giochetto delle iniziali. Perché? Cosa voleva da me? Melissa. Il suo indirizzo di posta elettronica. Le mie dita crude sulla tastiera. Poi, lo stesso suono strafottente mi annunciò un messaggio nuovo. Suo? “Voglio proporti uno scambio, Rain.”
Sì. Era suo. Lo scorrevo riga per riga senza esistere. Morivo appena per il tempo sufficiente a provarne tutto il dolore. E, intanto, le parole di Melissa allagavano lo schermo fino a soffocarmi. Le aveva messe tutte in colonna, ogni vocabolo sotto l’ultima sillaba del precedente. Faceva la creativa. “Quello che so di te contro quello che scopri di me.” E la pioggia cadeva, col suo scrosciare feroce mi lavava da ogni pensiero. Se fosse emerso mai qualche rimasuglio di coscienza, pronto a sputarmi in faccia brano a brano tutta l’anima che mi ero strappato da dentro, la pioggia l’avrebbe inghiottito in un battere increscioso, il suo cinico battere, sui tetti delle case, sulla mia finestra e per le strade, dove si lasciava infine percorrere in ogni direzione dalle auto, capaci di farla urlare come mille uomini morenti. Mi era rimasto un solo pensiero, un solo input, una sola missione in grado di sovrastare tanta magnificenza. Melissa doveva morire.
Y ICQ gli segnalò un contatto sullo schermo. Skip restò in attesa di risposta e appena identificò il codice e il nick di Melissa, aprì il real-audio ed entrò in comunicazione con lei. «Ciao, Skip! Hai fatto davvero un ottimo lavoro, stavolta.» «Felice di esserti stato utile, bimba. Come va?» «Devo risponderti?» «...Scusa, non volevo essere indelicato. Mi preoccupo per te.» «No, scusami tu, ti prego. Sei sempre molto carino, invece...» Invece voleva dirgli tutto. O, almeno, quello che non poteva sapere, quello che i
medici avevano detto a lei e alla Mamma appena qualche tempo prima, senza nessun filtro, così, come se anche per Melissa fosse una questione di lavoro il fatto che fra tre mesi o poco più il cancro l’avrebbe uccisa. «Skip...» «Dimmi.» Ce l’hai un antivirus contro il cancro, Skip? «No, niente. Volevo solo chiederti se puoi entrare in contatto con lui.» «Solo? Ah, figurati, una cosa da niente! Serve altro? Un requiem, per esempio.» «Ti prego, non scherzare! Puoi farlo o no?» «Melissa... cazzo, ma perché?!» «Skip...» Skip, non dire più nulla, per favore. Dimmi solo che puoi, dimmi solo che vuoi, dimmi solo che non hai paura perché io conosco la paura, so cos’è, ed è un’elica d’aria nera che gira qui, alla bocca dello stomaco, e ti fa provare ogni giorno la voglia di risentirla domani, anche se non ne puoi più, ma finché ti uccide un pezzo alla volta almeno sai di essere viva. «Skip... lo farai, vero?» «Sì.» «Lui mi sta cercando, ti sarà semplicissimo fargli sapere tutto quello che gli servirà per trovarmi. Hai capito bene, Skip?» «...» «Skip?» «Sì. Sì, Melissa. Ho capito tutto.» No, tutto, no, Skip. Ma è meglio così.
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Credevo fosse meno complesso accedere al mondo degli hacker: erano gli unici in grado di aiutarmi, ma li sapevo solidali tra loro e difficilmente avrei raccolto informazioni su Melissa senza scoprirmi troppo e mantenendo nascosta la sua identità. Cosa praticamente impossibile siccome servivano le sue esatte coordinate di rete per rintracciarla e, se fosse stata quella che sospettavo essere, Melissa era in una botte di ferro perché nessun pirata informatico avrebbe tradito una sua “sorella” del web. Nessuno, tranne questo Skip, che entrò in contatto con me attraverso informatori fidati e a differenza loro sembrava interessato più al credito concordato per ottenere l’informazione che agli ideali. E Skip seppe dimostrarsi davvero all’altezza del suo nick: veloce e anche efficiente, aggiungerei, così da portarmi in capo a pochi giorni tutto quello che mi sarebbe tornato utile per intercettare una vittima degna della conoscenza che si riserva solo ai veri nemici. Viveva da sola e aveva ereditato una discreta fortuna dai suoi genitori, morti in un incidente aereo due anni fa – Skip non si era risparmiato a fornirmi gli articoli sul disastro. Già dimostrando capacità geniali con le macchine ai tempi della scuola, Melissa aveva abbandonato gli studi per dedicarsi totalmente all’informatica, diventando poi famosa dopo essere assurta alle cronache per aver informatizzato casa sua, trasformando l’intero appartamento in una serie di periferiche controllabili da una complessa postazione costruita nella sua camera da letto. Questo perché una malattia di cui gli articoli non parlavano per volere dell’intervistata aveva costretto la giovane in un letto, così tutta la sua vita dipendeva dai computer e da un’assistente sanitaria che Melissa chiamava Mamma.
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«Melissa, è ora che tu prenda la tua pastiglia, tesoro.»
La Mamma è sempre entrata senza bussare una volta che sia una, ma c’erano abituate entrambe. Si inclinò, seduta sul bordo del letto, che raggiungeva destreggiandosi a evitare capitomboli tra i fili delle attrezzature elettroniche e quelle mediche, per porgere a Melissa il bicchiere con una mano mentre, nell’altra, schiusa a coppa, la pillola da ingerire. «Grazie, Mamma.» Questi sono gli antivirus che nessun hacker può creare. Nell’ingoiarla si rese conto di essere molto meno tesa: la gola si era rilassata al contatto estraneo e quotidiano che di solito le provocava un fastidio quasi di rigetto. Stavolta, no, invece. Non dopo aver tracciato i contatti fra Skip e Rain. Era andato tutto come previsto. E il tempo, stasera, non prometteva molto bene. «Ascoltami, Mamma...» «Sono qui, cara.» Melissa strinse tra le sue la mano tanto più rugosa e più anziana rispetto alla persona che le stava accarezzando la fronte, ravviandole un ciuffo tra i capelli castani non ancora lungo a sufficienza da intrecciarlo agli altri. Si portò quel palmo un po’ umido sulle guance e per un po’ non disse nulla. Poi le baciò le dita, a una a una, con lentezza, in un silenzio riempito da una musica che si balla da seduti. «Mamma, stasera vai, non ho bisogno d’altro. Davvero.» «Sei sicura, Meli? Non vuoi che resti a dormire qui, con te? Si prepara a piovere, non vorrei che un temporale ti spaventasse.» Sì, è vero. Stanotte pioverà, Mamma. «No, non preoccuparti. Al limite parte un corto circuito e mi trovi arrosto, domani!» La Mamma la schiaffeggiò appena più forte di una carezza, ridendo.
«Stupida!... Ci vediamo domani, tesoro.» La baciò sulla fronte, prima di alzarsi. «Mamma...» Si fermò sulla porta della camera che stava già chiudendosi alle spalle. «Sì?» E adesso cosa vuoi dirle? Vuoi dirle che le vuoi bene da impazzire, prima di quanto possa impazzire lei, domani? Vuoi dirle che la porteresti via, con te, se questo non significasse commissionare un omicidio anche per lei? Oppure vuoi piangere? Proprio ora, ora che sta andando via, ora che non ne puoi più e senti l’elica inghiottirti le parole? Sì, ingoiami ti prego. Ingoiami tutta. Ingoiami le lacrime, ingoiami il respiro, lasciamene solo il poco che mi basta per dirle... «Buonanotte, Mamma.» «Buonanotte a te, principessa. Non fare brutti sogni, mi raccomando.» Si vestì delle poche cose portate al mattino, tra cui spiccava un impermeabile chiaro che sperava di non indossare. Invece, uscendo, si accorse delle prime punture di pioggia che le schizzavano contro. Si coprì svelta e, nella fretta di raggiungere la metro, salutò appena un uomo che le domandò di non chiudere l’ingresso del palazzo, perché potesse entrarci lui. Il cielo era tutta una nube e i bagliori dei lampi sembravano vicini abbastanza per muoversi con rinnovata solerzia verso il sottoaggio. Fu attirata dalle grida di un giovane perquisito da una coppia di poliziotti che lo trattenevano contro il muro di un palazzo. Sarebbe stato il caso di fermarsi a contestarli, mal tollerava certi atteggiamenti da parte delle autorità, ma distolse lo sguardo e girò l’angolo al termine della via. Solo quando stette a fissarsi le punte delle scarpe dietro alla linea gialla di attesa si ricordò che non aveva inserito l’allarme. E mentre il treno per Famagosta frenava frustando l’aria dietro di lei, la Mamma tornò fuori dalla stazione col fiato rotto dall’ansia.
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Avevo salito le scale fino alla porta del suo appartamento. Un rilevatore termico a fibre infrarosse mi scannerizzava dall’alto, indeciso se darmi il benvenuto. Di colpo la porta emise uno scatto e si aprì dall’interno.
Y Il rilevatore segnalò a Melissa la presenza dell’uomo in attesa sul pianerottolo e lei senza dubbi gli aprì. Sorrise pensando che la Mamma, proprio stasera, si era dimenticata di attivare l’allarme collegato agli infrarossi. Se infatti la persona penetrata nell’appartamento si fosse rivelata armata e non identificata, il computer avrebbe inviato automaticamente una chiamata d’emergenza ai comandi di polizia e carabinieri. Tutto pareva procedere ben oltre i suoi propositi. Si sentiva pervasa da un torpore amico. Chiuse gli occhi e indovinò i suoi i dal suono che producevano sul parquet della sala, più lontani e vitrei lungo il pavimento della cucina, quadrati e in crescendo lungo il corridoio che dieci metri oltre terminava con la porta di camera sua, dove i i tacquero. Melissa riaprì gli occhi ed emise solo un breve sospiro. Vide la sagoma del proprio assassino come intarsiata attraverso il vetro smerigliato della porta dietro la quale Rain si gustava l’attesa che avrebbe preceduto il gesto risolutore, quello di spingere la maniglia verso il basso. La stessa attesa che si era portata via l’elica dallo stomaco di Melissa e la faceva volteggiare tra le pareti della stanza come un delicato pipistrello. Poi, l’assassino della pioggia, severo e senza effetti speciali, spaccò le attese di entrambi ed entrò. Si rese conto per la prima volta solo allora di quanto e come fosse capovolta la situazione in cui si trovava e né la pioggia, né la sorpresa di vedere Melissa con tutto il groviglio tecnologico che la circondava bastavano a raccogliere le emozioni dal suo cuore e scagliarle lontane da lì. Melissa era una ragazza di
corporatura piuttosto normale, data l’immobilità, i capelli castani raccolti in una lunga treccia svelavano un viso di bell’aspetto malgrado le sue palesi condizioni, e, tutto attorno, in un’attonita cornice elettrica, la figura della giovane hacker sembrava rifulgere, così offerta e resa, nel candore di un lenzuolo bianco tirato su, fino al collo. Rain fece ancora qualche o e si avvicinò.
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La guardavo senza ironie e con tutte le parole della mia vita pronte a deflagrare. La guardavo come se nulla prima avesse avuto un senso e come se tutto, ora, lo avesse acquistato in un attimo solo. Nell’attimo in cui mi sono trovato lì, con lei. E l’attimo dopo ho sentito la canna di una pistola premermi contro la nuca. «Non muoverti, figlio di puttana.» «Skip!» urlò Melissa, forte, come uno sparo, come lo sparo che immaginavo di non poter udire dopo essere morto. Non sapevo se rallegrarmene. Avevo creduto di capire una certa verità in un secondo, uno, e poi, due, sono rimasto a fissare la sorpresa sul corpo e sul viso di Melissa, adesso nudi tranne che dello stupore. E quindi, tre, le cose stavano in un altro modo ancora. «Non era una trappola, allora?» le chiesi. Ma mi rispose Skip: «No, non lo è. Ero qui dal pomeriggio, nascosto in casa. E sono stato io a trovarti, non Melissa. L’ho fatto per lei, l’ho fatto perché voleva morire e io lo sapevo.» «Skip, tu sapevi solo quello che ti dicevo io, non potevi sapere tutto!» «E invece sì, cazzo! Sì! Sono entrato nella banca dati degli ospedali che ti hanno curata e ho scoperto tutto così, maledizione! Non potevo sopportare l’idea di perderti... cazzo, ma nemmeno la tua follia di farti asse!»
Mi trovavo tra due innamorati. Ci mancava il lato comico. Perché non ridevo? Forse perché tra loro e me c’era comunque una pistola.
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La Mamma fece le scale due gradini alla volta e si arrestò sul pianerottolo, accigliata davanti all’uscio accostato. Lei aveva chiuso a chiave, ne era certa. Cinque giri, li ricontò tutti a mente. Ma se la porta era lì, aperta e vera, allora qualcuno doveva essere entrato in casa. Qualcuno di cui lei non sapeva. La spinse, lentamente, e sentì subito le voci. Entrò a malapena col capo: le bastò vedere due uomini dentro la stanza di Melissa per scattare all’indietro e tornare in strada. Aveva di nuovo fatto caso ai due poliziotti tornando, sempre lì col ragazzo di prima, venti metri più in là, Dio, venti metri, fa’ che ci siano ancora, fa’ che ci siano ancora, fa’ che...
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«La ami, Skip?...» Sapevo che una frase del genere non avrebbe deposto a mio favore, ma decisi di chiederglielo comunque, nella speranza di temporeggiare. Tuttavia, prima che potesse rispondere, prima che potessimo tutti insieme commuoverci e al limite cantare sulle note di Singin’ in the rain, qualcosa ci colse alla sprovvista. E non so cosa fu a permetterlo. Fatto sta che la polizia comparve dietro alle nostre colpe, dietro alle nostre rispettive innocenze malate, ma, soprattutto, dietro di noi. «Getta quella pistola, ragazzo!» urlò il più caldo. Ma il senso di prurito – o di allergia? – che provavo al contatto con l’arma sulla mia nuca non accennava a
sparire. «Skip, fa’ come ti dicono. Ti prego, Skip, fa’ come ti dicono.» Melissa lo supplicava. Un tuono fece vibrare i vetri delle porte finestra. Il più irritabile fra i due poliziotti sparò.
Il buio gronda e il mio viso si riscatta dal torpore al contatto col freddo del marmo appena toccato, sul pavimento, dove sono caduto disteso Sollevato nel vuoto mollemente assumo di nuovo una posizione eretta, con la percezione di una caduta al contrario E ritornando in piedi vedo il sangue raccogliersi dalle pareti sulle quali era schizzato e tornare nella testa infranta di Melissa Cranio e cervella ricompongono Faccia, Viso, Espressione L’espressione frastornata di Melissa l’attimo prima dell’impatto con la pallottola La pallottola che tornava dal suo viso a un punto vicino al mio orecchio sinistro Il mio orecchio sinistro oscurato da un botto imprevisto Skip nell’ultimo fremito raccolto sulla propria pistola e su un grilletto cieco che apre il fuoco nella faccia di Melissa Sento le mie gambe tornare a sorreggermi e un dolore allo stomaco smettere Il bruciore esploso nel mio corpo decresce, torna nello spazio tra la mia schiena ancora illesa e il torace di Skip devastato dalla fuoriuscita del proiettile Lo schianto nel petto di Skip Lo sparo del poliziotto tace al rovescio
Il tempo si riassume La mia vita si riavvolge e riparte.
Udivo ormai per inerzia solo grida convulse e inespresse. E la pioggia cantare una canzone con un solo ritornello che parlava direttamente a me. Mi parlava di lei. Mi parlava di Melissa. Mi parlava dei miei ricordi. Forse perché l’ho incontrata una sera che pioveva. Forse perché anche quando ho cominciato a fare incontri diversi, la prima volta, pioveva. Dovunque andassi ora, la pioggia mi avrebbe raggiunto.
Il rappresentante
Uso solo ombrelli usati. Mai avuto un ombrello mio. Del resto giravo sempre in macchina, prima, e al limite beccavo appena un po’ di pioggia solo quando ne uscivo, ma nella piccola provincia in cui abito i parcheggi abbondano e di solito è semplice trovarne uno di fronte a dove si deve andare. Così mi bastavano due salti ed ero dentro. Di nuovo all’asciutto. Facevo il rappresentante di prodotti cosmetici per una ditta americana specializzata nei trattamenti colore e nella gamma finishing, una carrellata di prodotti e prodottini destinati alla rifinitura ultima del lavoro, veri e propri i all’arte di acconciare i capelli. Schiume, gel, fiale e lacche di vario tipo. A volte confondevo persino i termini, annegato dalla varietà. Per esempio, non ho mai capito che differenza ci sia tra una lozione e una frizione. Sono sempre fiale, dopotutto. Ma non importa, adesso. Ora che non faccio più quel lavoro. Un lavoro in cui si deve vendere innanzitutto la persona. Ecco, trovavo intollerabile quanto sia determinante questo. Se piacevi, se risultavi in qualche modo seducente nei modi, avresti potuto compilare nell’ordine persino la madre stessa della parrucchiera, e fargliela pagare a peso d’oro. Te lo insegnavano ai corsi di preparazione al marketing, in azienda. Nella realtà, invece, le cose non sono mai altrettanto facili. Inoltre è un mestiere che richiede troppa dedizione e solitudine per ricavarci qualcosa in più della miseria che la ditta chiama provvigione. Ho finito col sentirmi solo. Avevo bisogno di un rapporto umano che tendesse a superare l’appagante superficialità di una frequentazione lavorativa discontinua
fra due estranei che si danno del tu e si sorridono a vicenda. Da questo è nato tutto, credo. La solitudine mi avviliva nonostante arrivassi da non molto lontano, per la verità, e come i tanti pendolari a fine settimana anch’io rientravo a casa e rivedevo i miei genitori, i miei amici, le mie fidanzate monouso. E, anche lì, il mio lavoro interveniva. Mi recitavo. Vendevo a non-estranei un estraneo. A parlargli era la persona che intendevo rimanere per tutti loro. Volevo lasciarli lontani anni luce dalla verità. Cercate di capirmi. Potevo dire a tutti “Ciao amici, sono depresso e ultimamente ammazzo le persone”? Ritengo che in qualche misura sia c’entrata l’illuminante lettura di un articolo su Focus. Diceva che per i depressi sono salutari le lunghe camminate, perché spesso vengono indotti dalle troppe paranoie all’ozio, per non puntualizzare poi sulle statistiche: quasi nessuno di loro pratica sport, e chi frequenta qualche disciplina fisica ci si dedica con lo stesso impegno di chi spinge le auto in discesa. Allora la rivista consigliava almeno le eggiate, magari serali per chi non dispone di molto tempo libero durante il giorno. Così l’ho fatto. Ho iniziato a uscire senza macchina. E fuori, quando piove, piove. Come quella sera. Ora, l’ho detto: non possedevo ombrelli e in tutta onestà pensavo che la cosa non potesse rappresentare un problema rilevante. Devo ammettere però che un simile ragionamento avrebbe fatto meno grinze se si potesse uscire nudi. Per un tempo prolungato come una eggiata sotto la pioggia, i vestiti sono decisamente da considerare con una certa serietà. E non potevo “eggiare” in auto, in assenza di altri ripari più idonei.
Allora sono uscito comunque. L’aria liquida mi ha assalito con un freddo vivo, come se mi aspettasse al varco. Poi, il miracolo: accanto al cassonetto di fronte al portone del condominio dove abito, qualcuno aveva abbandonato un ombrello. Sembrava in buone condizioni – e pure di marca, un Continental – prima che notassi le macchie rosse sulla tela bianca.
Lo apro Lo tocco Lo giro e lo rigiro e lo rigiro e lo rigiro e lo rigiro e lo rigiro Le dita macchiate Rosso dappertutto È sangue, ho pensato È sangue, cazzo Sangue su un ombrello usato
Io nel frattempo continuavo a chiamarmi sco Santi. Avevo sempre trentadue anni compiuti l’otto maggio scorso. Lavoravo come rappresentante di prodotti cosmetici per parrucchieri e soffrivo di depressione e avevo un ombrello Continental bianco aperto in mano imbrattato di sangue.
Vedo pochissimi film e nessuno d’orrore. Sono astemio, pertanto è matematicamente impossibile che soffra di delirium tremens. Quindi niente autosuggestione né allucinazioni alcoliche. Per fare due righe di conti, ho ancora ripetuto a mente la mia condizione.
Mi chiamo sco Santi
Sono in strada bagnato fradicio
Ho in mano un ombrello imbrattato di un sangue che non è il mio
E provo una sensazione strana
Devo Assolutamente Uccidere Qualcuno
Non c’era scritto su Focus, questo. Non scrivono mai tutta la verità sui giornali. Non dicono o non vogliono dire che se sei depresso e decidi di fare una eggiata sotto la pioggia potresti inciampare in un ombrello usato pieno di sangue altrui e diventare un assassino.
Sono stato da Raffaella, allora. Vi ho parlato di lei? Credo di no. Era una mia cliente. Deformazione professionale, direte. Io invece ho pensato di andare a colpo sicuro, la mia prima volta. Del resto mi chiede da una vita di are a casa sua, “per un caffè”. Suono al camlo. Mi risponde. Apre il portone. Niente ascensori, dentro. Penso a Focus e mi muovo. Salgo le scale e, intanto, conto i gradini. Ottantadue. Ottantadue e uno zerbino. Ottantadue, uno zerbino e una porta aperta. Una porta aperta e un sorriso. Un sorriso e grandi cenni con le mani. Bacinibacetti. Parole.
Televisione. Meg Ryan si commuove mentre dall’autoradio ascolta la voce sconosciuta di Tom Hanks che racconta della sua vita con il figlio dopo la morte della moglie. Poi il film finisce. Ci tocchiamo. Ci baciamo. Lo facciamo. Noi. Il film. In camera le dico chiudi gli occhi e apri la bocca. Sta lì un po’. Aspetta. E quando sente la punta dell’ombrello bianco Continental scavarle la gola è troppo tardi persino per urlare. Sì, lo so, adesso direte è lui, lo conosco, è quello sul giornale, e altre amenità del genere. Come se fosse persino divertente, essere me. Come se fosse un gioco a premi. Quanti gettoni d’oro mi dai se ora ammazzo proprio te? Mi chiamano l’Ombrellaio. È il mio nome in codice. Dicono di me che entro nelle case di giovani parrucchiere e le uccido con un ombrello che inserisco nei loro corpi dalla bocca, fino a dove posso arrivare. Poi esco e mi porto dietro un ombrello della vittima. Lo ritrovano puntualmente nel corpo della successiva. Stanno iniziando a sospettare i rappresentanti, la polizia è sulle tracce dei vari responsabili di zona per le ditte di cosmesi. Ci metteranno ancora poco per arrivare fino a me, lo saprete appena qualcuno mi fermerà con l’ombrello della mia ultima vittima, in mano, mentre piove. Sarebbe bello. Invece succederà in un altro modo. Lo so perché l’ho visto. Nella mia testa un’immagine fissa mi perseguita fin da piccolo, non mi abbandona mai. Non sono tuttavia mai riuscito a indovinare l’identità del protagonista, lo vedo sempre di schiena, e le schiene a me sembrano tutte uguali. Compresa la mia. Ecco spiegato perché non ho mai posseduto ombrelli, forse. Ma non ha più molta importanza pensarci ora, ora che le cose sono dolcemente irreversibili. Un giorno troveranno la mia visione e la contorneranno con un gesso e loro saranno tutti lì, attorno al cadavere, con le facce disturbate dall’odore di membra rilassate, nonostante la mascherina.
E scopriranno chi è, l’uomo della mia visione. E sarà chi credo io. E sarà giusto. E sarà giusto e dolcemente irreversibile morire con un ombrello nella gola. Anche se non sarà necessariamente il mio.
Random
Mi hanno sempre spaventato le persone ordinate. Gente che trova tutto al suo posto, gente che vive in appartamenti mappati dalla disposizione degli oggetti, gente che non urta mai lo spigolo di un mobile, nemmeno per caso. Mica esiste il caso, per certa gente. E, nel caso, anche quello ha un ordine. Magari caotico, ma ha un ordine. Ecco, su quest’ultimo punto sono d’accordo anch’io. Forse perché sono io, il caso. Il caso che si chiama Lucia.
C’è una scena nella mia testa. Una scena scura. Con dentro l’urlo di un uomo e un colpo. E poi ci sono io che piango. E in qualche modo so che non sto sognando.
Change my pitch up, smack my bitch up Change my pitch up, smack my bitch up Change my pitch up, smack my bitch up (Prodigy)
Ai miei vicini non piace la musica per drogati che ascolto in casa, dicono che li fa impazzire e che io dovrei avere più rispetto, dicono, dovrei tenerla più bassa, spegnerla. Io, quando bussano alla porta, io, quando loro mi spiegano tutte queste cose, io, quando i vicini parlano più forte della musica da drogati che li fa impazzire e che ascolto a manetta in casa, io, guardo sempre in basso e sto zitta,
li lascio parlare, non dico niente, tanto non li sento mica, sul momento. Me lo ricordo dopo, cos’hanno detto, i vicini. Che hanno detto della musica, e tutto. Però intanto che sono lì, che parlano, loro, io volo. Sono altrove. Mi trovo sempre in casa mia con la musica alta, da drogati, e loro che bussano forte alla porta, tirano pugni contro la mia porta, solo che poi gli apro e allora vengono dentro, a fare festa, a ballare, e volo via da lì, coi vicini che ancora mi stanno gridando in faccia della musica per drogati, invece. Sarà. A me, comunque, piace questa. E non mi faccio di niente. A parte di psicofarmaci. Ma non voglio chiamarli così. Di solito li chiamo Daniel. Li chiamo col nome del mio infermiere.
Quello che adoro di casa mia sono le ragnatele. Ne ho dappertutto. Le noto in modo particolare agli angoli del soffitto, ma ne esistono anche di molto invisibili. Sarebbero interessanti anche quelle sui lampadari, se ne avessi. Io non amo i lampadari. E nemmeno la luce, d’accordo, ma i lampadari non li sopporto proprio, sono troppo... inadatti. Tranne nelle sale da tè e da matrimonio. Lì stanno benissimo. E comunque, dicevo delle ragnatele. Non le distruggo mai. Lavo il pavimento, spolvero, ogni tanto, ma se vedo una ragnatela allora o oltre. I ragni ci mettono giorni a costruirne una, certe volte. È la loro casa. Morirei se qualcuno distruggesse casa mia.
Though you’re lost in me, you have to see, when things, ain’t right, / funny memories, won’t fill this need, when things, ain’t right / Safe mistakes, I have made, get burnt up inside my head, / fatal sees, but never believes, the love that it saved wants death... (Skunk Anansie)
Le mie mani odoravano di lui. Daniel sapeva di spezie, il che fa tanto esotico, lo so, ma secondo me è un termine un po’ vago per descrivere l’odore di un uomo. La sua pelle, quando la respiravo, pizzicava il naso, come una pietanza molto pepata. Daniel non utilizzava i profumi che si acquistano. Si lavava con un sapone alla menta - e questa, a mio avviso, era un po’ un’incongruenza... – e poi indossava ogni giorno capi freschi di bucato. Eh, già, è vero. Sapeva anche di
bucato, Daniel. Di bucato col pepe.
I want to love you but I better not touch (Don’t touch) / I want to hold you but my senses tell me to stop / I want to kiss you but I want it too much (Too much) / I want to taste you but your lips are venomous poison / You’re poison runnin’ thru my veins... (Alice Cooper)
Daniel diceva che ero pazza con la storia delle ragnatele. Solo a te poteva venire in mente una cosa del genere, mi diceva Daniel, sorridendo. Non era ancora il nome che do alle medicine, adesso. Era Daniel e basta. È sempre Daniel e basta, se ne parlo al ato. Ci siamo conosciuti circa un anno fa. Veniva a farmi certe punture che i dottori mi davano, per stare meglio, dicevano “faccia queste punture e starà meglio, signorina, vedrà”. Per me non è stato così. L’ansia di uscire di casa mi restava appiccicata addosso come un animale, quel panico prima di aprire la porta, quell’urgenza di attutire il suono del mondo col volume alto di certa musica e poi quel mio non oppormi allo stare seduta per ore davanti allo schermo nero di un televisore sempre spento, buio come il buio di casa mia, con poche luci, accese solo quando necessario, per non andare a sbattere. O quando Daniel veniva a farmi la puntura. Notavo il suo sguardo. L’ansia non spegne i sensi, li amplifica. Il sesso diventa un linguaggio non più cifrato, sui corpi, ma palese e leggibile senza nessun’ombra di dubbio. Sul corpo di Daniel il desiderio di me accalorava i suoi gesti, li rendeva soffici, anche un po’ umidi. Volevo sentire le sue dita affondarmi nella carne, avvolgerle, fargli leggere a loro volta quello che io già leggevo per mio conto, da sola, nello spazio che ancora ci separava. Poi, quello spazio si arrese, si lasciò ridurre. E le mani di Daniel, le sue dita, così ossute e levigate, corsero calme a prendere quello che i suoi occhi volevano. Mi piaceva che mi accarezzasse, che si infilasse nei tessuti, sulla pelle, nella pelle, e poi ancora più sotto, nei nervi, sentirlo attraverso i muscoli come una specie di anima dura, fino a farmelo arrivare nelle ossa, dove non mi sarei più difesa nemmeno volendo.
C’è una scena nella mia testa. Una scena scura. Con dentro l’urlo di un uomo e
un colpo. E poi ci sono io che piango. E in qualche modo so che non sto sognando.
And now I can’t be sure of anything / black is white, and cold is heat / for what I worshipped stole my love away... (Bono)
Oggi faccio pulito. Ho un sacco di roba, per fare pulito. Ho la scopa. Ho il secchio e lo straccio. Ho perfino il velo magico. Lo si avvita a uno scopettone con certi ganci in cui vanno poi infilati i lembi del velo magico e così si attira tutta la polvere dal pavimento con una semplice ata. Però a me è rimasto lo scopettone soltanto, adesso che ci penso. Comunque ho pure un bel po’ di altri prodotti per la casa. Confezioni di detersivi per piastrelle, anti-calcare, lucidanti per mobili, cera d’api e cera per pavimenti, tutte vuote. Vabbè, pazienza. Di uscire per la spesa non me la sento. Piove. Si sente un frastuono, ho praticamente una radio rotta incollata alle finestre, tanta ne viene. E poi ho male alle gambe. Anche ieri pioveva, volevo uscire, e mi è preso tutto un male alle gambe. Adesso mi stendo un po’, magari, così mi a. Sì, mi stendo e mi a, l’ho fatto pure ieri e ha funzionato. Mi stendo e guardo le ragnatele, mi a il male alle gambe se mi stendo un po’ e guardo le ragnatele. O devo prendere le medicine? Sì, devo prendere Daniel. Ancora una volta, ancora dentro, ancora dentro di me.
The drugs they say make us feel so hollow / We love in vain narcissistic and so shallow / The cops and queers to swim you have to swallow / Hate today, no love for tomorrow / (...) / There’s a lot of pretty, pretty ones / That want to get you high / But all the pretty, pretty ones / Will leave you low and blow your mind... (Marilyn Manson)
Daniel sa raccontarmi storie deliziose. Daniel mi adora. Daniel sa cercarmi. Daniel sa trovarmi. Daniel sa riconoscermi. Daniel sa cosa mi piace. Daniel sa
cosa non mi piace. Daniel sa viziarmi. Daniel sa consolarmi. Daniel sa picchiarmi. Daniel sa mancarmi.
Ancora i vicini. Oddio, non li sopporto, certi giorni. Quando ho Daniel dentro, non li sopporto, i vicini, non li sopporto con Daniel dentro, certi giorni, quando ho Daniel dentro, oddio, non li sopporto i vicini, certi giorni. Non apro. Alzo il volume e non apro.
Extreme songs that told me / They helped me down every night / I didn’t have much to say / I didn’t get above the light / I closed my eyes and closed myself / And closed my world and never opened / Up to anything / That could get me along... (Moby)
Lo chiamavo il guerriero con lo scudo, qualche volta. Daniel aveva questa specie di scudo, sempre in mano, sempre contro di me. Era uno scudo invisibile, ma io potevo vederlo e sentirlo. Ogni volta che tentavo di dare un tocco di normalità alla mia vita, e alla nostra storia, lui si parava con lo scudo e diceva che andava bene così, che era tutto normale. E quella parola, “normale”, nella bocca di Daniel nasceva già con un’inflessione di minaccia nel tono. E io, ogni volta, sentivo l’aria mancarmi, un senso di soffocamento rabbuiava tutto per un attimo. In quel nero i contorni delle cose attorno a noi non sfumavano mai del tutto e a volte si facevano più reali. Avevo voglia di aprire la bocca e di gridare, in quei momenti, di gridare fino a finire la voce per sempre. Invece spalancavo gli occhi e cercavo di riprendere il controllo del respiro, fino a ritornare nel buio che mi è più congeniale. Quello che creo senza la luce. Quello che proietto da dentro, ma non è lo stesso buio che nasce da lì. È il buio di casa mia.
Daniel un giorno voleva andarsene. Diceva che fra noi non poteva succedere nulla di buono, a lungo andare. Che senza sforzarmi nemmeno un minimo, sarei rimasta così a tempo indeterminato. Cazzo voleva dire: “così”? Cos’è di preciso
essere: “così”? E quell’espressione, quel: “tempo indeterminato”? Cosa significa tanta professionalità? Davvero vuoi andare, Daniel? Vuoi entrare e uscire da casa mia e dalla mia vita come se niente fosse? O pensi di ritornarci da infermiere? Eh, Daniel? È così che finisce un amore? Col suono delle formalità? Adesso te lo faccio sentire io, un suono, sai Daniel? C’è una scena nella mia testa. Una scena scura. Con dentro l’urlo di un uomo e un colpo. E poi ci sono io che piango. E in qualche modo so che non sto sognando. Ho un martello, da qualche parte, Daniel, ma forse possiamo arrangiarci anche con un batticarne, Daniel, eh? Che ne dici? Non fare quella faccia da bambino, Daniel. Rispondimi. La dovevi fare prima quella faccia da bambino, Daniel. Ora è tardi. Ora devi rispondermi, Daniel. Voglio almeno saperlo se vuoi sentire o no come cazzo suona davvero un amore che finisce!
It’s, oh, so quiet / It’s, oh, so still / you’re alone / and so paceful until... / you fall in love / zing boom / the sky up above / zing boom / is caving in / wow bam / you’ve never been so nuts about a guy / you wanna laugh you wanna cry / you cross your heart and hope to die / ’til it’s over and than / it’s nice and quiet / but soon again / starts another big riot... (Björk)
Non esco di casa da dieci settimane. Me ne accorgo all’improvviso, senza stupore. Ho terminato le provviste e anche le medicine stanno finendo. L’aria è fitta e il corpo di Daniel in soggiorno non sa più né di bucato, né di pepe. Forse dovrei spogliarlo, pulirlo e lavargli i vestiti. Sì, potrebbe essere una soluzione, ma non ne ho voglia. Cioè, dovrei fare un sacco di cose più urgenti, prima. Tipo sistemare la casa, comprare una saponetta alla menta, mettere in ordine. Penso istintivamente a rassettare quando il fiato rallenta, ho l’impressione che mi faccia del bene. Potrei, quasi quasi, riconsiderare certe mie posizioni a proposito delle ragnatele, in questi momenti. Solo che di roba non ne ho più, devo uscire, devo fare la spesa. Sentiamo un po’ come stanno le mie gambe. Uhm. Non c’è male. E il tempo, fuori, sembra essersi rimesso al bello. Sì. Non c’è più il rumore della pioggia. Quel crepitare continuo. Pioveva da dieci settimane. Dieci settimane con una radio rotta appena fuori dalle finestre, roba da pazzi. Ok, adesso mi vesto e vado. Ho proprio bisogno di fare la spesa, bisogna che mi nutra se
intendo assumere medicinali. Ciao Daniel, ti lascio solo, ti spiace? Terrei lo stereo , ma a te la musica per drogati che ascolto mica ti garba. Vorrei tanto mi dicessi una buona volta cosa ci trovavi di buono in me, sai Daniel? Beh, magari ne parleremo. Chiamo i vicini, che ne pensi?, facciamo un’assemblea qui, preparo stuzzichini per tutti. Farebbero volentieri due chiacchiere con te sulla questione. Ora, scusa, ma ne approfitto per uscire, prima che piova di nuovo. Darei ancora un’occhiata fuori dalla finestra del soggiorno, per sicurezza, però... sai che faccio? Faccio che oggi voglio fidarmi. Sì, oggi sarà azzurro.
Diario di un uomo comune
La ragazza corre fuori urlando. Chiudo in fretta l’uscio dello scompartimento e faccio scorrere le tendine nell’eco delle grida che lancia lei, attraverso il vagone e il ritmo irregolare delle rotaie. Penso al silenzio. Alla privacy che ho ottenuto. Di colpo, l’ingresso viene aperto da qualcuno. Il controllore. Mi fissa inebetito, gli occhi di quella ragazza sopra le sue spalle, che non osano abbassarsi troppo, o almeno non fino a dove vorrei. Tuttavia la scena nell’insieme risulta alquanto suggestiva. Me ne vengo completamente.
Lorna adora legarmi nudo al tavolo da macello. L’odore della carne equina, misto al disinfettante sparso sul marmo del tavolo, pizzica nel naso e trasmette uno stato di elettricità a tutto il mio corpo. Lorna esce dalla cella frigorifera con indosso giusto una collana e un coltello da macellaio. Inizia a praticarmi piccoli tagli di punta, prima sulle braccia, poi al torace, segnando con indubbia pignoleria la forma delle mie costole e il disegno della muscolatura addominale. Cammina più e più volte attorno al tavolo, con l’aria di ammirare la sua “opera” da tutte le prospettive possibili. Mi bacia in bocca, d’un tratto, e avverto chiaramente un brano di carne cruda, che mi spinge contro il palato con la lingua. L’attimo successivo, ce l’ho sopra; struscia il suo corpo sulle mie ferite come un rettile, ne succhia il sangue con avidità, fino ad averne la bocca impastata. Soltanto allora si decide a slegarmi, non prima.
Mi viene quasi da ridere.
Mi sveglio con un travestito nel letto. Nel mio letto. Posso osservarne il profilo. Non ricordo di averlo conosciuto, né di averci fatto insieme alcunché... eppure, riconosco fin troppo bene l’eco di una sensazione molto familiare. Una sensazione di piacere, di forte piacere. Odore di muschio. Mi alzo dal letto pianissimo (non vorrei si svegliasse, non sapendo che dire) e mi dirigo in soggiorno, dove bevo alcune sorsate di whisky a collo di bottiglia. Ritorno in camera. Il travestito è ancora lì, immobile. Reale. Lo volto in posizione prona e resto a osservare a lungo il pallore delle sue natiche, ravvivato dalla luce della luna, che a attraverso la vetrata. Poi, il nulla.
Mi ritrovo in casa con l’assoluta certezza di essere uscito. Mi convinco poi di essere sceso a buttare il sacco della spazzatura. Quando invece noto che i rifiuti sono ancora a posto, corro in bagno a vomitare. Accendo la luce della mensola sul lavandino. La mia faccia è pallida. Schizzi rossi sulla mia camicia. Con un terrore paragonabile a quello che prova chi sta cadendo in un baratro senza fondo, abbasso lo sguardo verso le mani. Sono imbrattate di sangue. Dovrei vomitare adesso, in questo preciso momento. Non succede.
Sul giornale di oggi, è riportato un articolo riguardante un travestito, trovato cadavere in un parco, la notte precedente. Dall’autopsia, pare avesse avuto rapporti poche ore prima dell’assassinio. La polizia brancola nel buio. È stato
molto bravo, l’assassino. Un lavoro perfetto: niente impronte, nessuna traccia o movente riconducibile alla propria identità. Un professionista.
Ho pianto.
Sulla 90 non si parla d’altro. I più ritengono che l’omicidio sia tutto sommato una giusta sorte, per uno di quelli là. Altri affermano che l’assassino potrebbe trovarsi benissimo in quello stesso tram, a parlare anche lui della cosa. A un certo punto, un tipo mi chiede quale fermata sarà la prossima. Gli vomito addosso la mia colazione. Lo guardo gratificato e credo di sorridergli, anche. Scendo nel silenzio generale.
La polizia ascolta il mio resoconto con un’attenzione davvero ammirevole, prima di pormi agli arresti con l’accusa di omicidio. Non ho speranze di cauzioni o altre vie di uscita, pertanto decido di rifiutare un primo incontro con l’avvocato d’ufficio. Finalmente posso starmene in santa pace, da solo, fuori dal mondo. Con il mio diario. Me l’hanno restituito quasi subito. La qual cosa credo confermi una mia supposizione: qui dentro non esiste nulla che possa compromettermi oltre, sul piano legale. Non rileggo mai cosa scrivo, dunque non immagino affatto quanto e come mi sia confidato in queste pagine. Soprattutto, se. L’unico aspetto che ho curato, spero con una certa costanza, è lo scrivere al presente indicativo. Non c’è ato se ci si impegna a vivere ogni istante senza mai considerarlo
ripetibile. Il presente priva il ato della sua letalità presunta. Lo riduce a materiale semplice. È un atteggiamento del tutto naturale, a livello umano: il cervello funziona grazie al continuum spazio-temporale, comportamenti contrari a tali leggi pongono in seria crisi il sistema. In altri termini, ricordare deprime – e deprime per natura. Ci crediamo sensibili, ma siamo solo chimica. Ad ogni modo, posso dire di pensare spesso alla mia vita e di aver adottato una teoria: è il mio sesso a dominarmi. Ma, mi chiedo: è davvero da considerarsi una forma di reato la volontà di esprimersi e di lasciare libere le proprie pulsioni? Chi può, lo fa – e se proprio devo essere onesto mi pare lo facciano un po’ tutti, a questo mondo, e tutti con la stessa idea. Sarà senz’altro il modo ad essere soggettivo, naturalmente, ma l’intenzione è sempre la medesima. Uscire. Devo ancora uscire, però. Non ce l’ho ancora fatta del tutto.
Esco.
Stavo per suicidarmi quando sono venuti a prendermi. Il vero colpevole si era consegnato e gli inquirenti non avevano nutrito alcun dubbio sull’autenticità della sua confessione. Pensavo che alla polizia bastasse trovare un colpevole. La realtà, a volte, gioca a diventare un film, di quelli senza il bollino rosso.
Ho una voglia matta di prendere un treno, uno qualsiasi. Faccio il biglietto per il primo che parte e cerco uno scompartimento tranquillo. La ragazza seduta sta tracciando le parole di un qualche anagramma sulla sua
rivista scacciapensieri. Un saluto distratto, di quelli che si fanno in treno agli sconosciuti compagni di viaggio, che casualmente incontri negli scompartimenti, ogni volta. Nessun altro lì, oltre a lei. Mi slaccio i pantaloni. Ed esco fuori.
Quante volte mi vuoi
“All these accidents that happen follow the dot coincidence makes sense only with you you don’t have to speak I feel emotional landscapes they puzzle me -- than the riddle gets solved and you push me up to this: ...state of emergency... ...how beautiful to be!...” (Björk)
Questa sera sono Salvo. Sono un impiegato normalissimo di un ufficio normalissimo con un esaurimento normalissimo. Lei mi vuole normalissimo, stasera. Quindi niente fantasie, niente personaggi stralunati. Stasera ho anch’io una moglie a casa e un bambino. Sono così. Annoiato esausto stanco triste nervoso e leggermente ivo.
Per questo Lei mi raggiunge in moto all’uscita della succursale di un’industria tessile in cui Salvo svolgerebbe lavori di tornaconto. Naturalmente, io non ci ho mai messo piede, se non all’uscita, dove la attendo con l’aria di chi aspetta da un bel po’. Sono calato nel ruolo, lo noto da come mi osserva. Il modo in cui mi guarda pervade il mio corpo, lo scuote come una febbre. Monto sulla moto. Non ci salutiamo, quasi non ci guardiamo neppure. La differenza tra Lei e me è che io non conosco la destinazione. Ma d’altra parte so che non devo preoccuparmene.
Questa sera sono Chiara. Pensavo a un nome più grintoso per il mio personaggio, ma poi ho finito col ritenerla una scelta adeguata. Mi piacciono i contrasti. A lui non l’ho detto e nemmeno gli ho rivolto la parola. Mi sono limitata a prelevarlo fuori dal posto concordato e stop. Mi ha divertito la sua faccia quando mi ha vista in moto, ma non potevo scompormi, avrei rovinato tutto. Ho scelto l’ospedale vecchio in centro. Qualche volta ci vanno i drogati. C’è ancora luce, anche se le giornate si stanno abbreviando. Quello che resta del giorno attraversa le spaccature nei muri e nel tetto di quest’ala dello stabile lasciando poco all’intuizione. Lui si sveste senza preamboli, abbandona a terra ogni abito con una fretta ansiosa, sollevando polvere pesante. Guardati. Ci hai messo un attimo, tu, così perfetto, così impiegato modello, così tu. E adesso sei carponi, gli slip calati alle ginocchia, e prima sussurri, poi implori, poi gridi “ti prego”. Chiara esce dall’angolino da cui ti osservava e ti tocca piano, con molta dolcezza. Sei duro, non teso, ma duro. Chiara se ne accorge mentre ti lecca. Eddài, non vorrai farti pregare? Apriti un po’ di più. Farà male, ma è quello che vuoi, no? Sì, è quello che vuoi. Vuoi il manico della mia frusta nel culo.
Vuoi me che ti guardo godere. Vuoi Chiara che ti ordina di andare in giro a segnare il tuo nome di stasera nella polvere con la coda che ti ho donato, Bobby. E se farai il bravo, dopo ti regalo anche un osso.
Il mio vero nome non conta più, ormai. Se ce l’ho ancora, un nome vero. Da quando è iniziato tutto? Forse tre anni fa, in vacanza. Non mi ricordo bene il quando. Mi ricordo il come. Mi ricordo Lei nella nostra camera d’albergo in Kenya, la notte prima del safari. Mi ricordo che Lei dice adesso riaprili. Si riferiva agli occhi, mi aveva ordinato di tenerli chiusi mentre si preparava. Allora vedo la sua sagoma disegnata dalla luce accesa nel bagno. Si appoggia con una spalla e il capo contro l’asse della porta: mi chiede ti piaccio, io non rispondo, la guardo e respiro forte. Il suo corpo è in ombra, eccetto il profilo, dunque la sua frontalità mi si offre totalmente in controluce. Questo non mi nasconde la parrucca bionda che ha indossato, ma solo quando mi raggiunge sul letto con due salti e mi stringe la faccia tra le ginocchia vedo bene che si è depilata. Chiede ancora ti piaccio, chiede a me come si chiama, io penso è pazza, e le dico il suo, di nome. Allora mi piscia in bocca, dice ora mi chiamo Vanessa, hai capito figlio di puttana, dice, mi chiamo Vanessa e ho voglia di scoparti a sangue. Adesso leccami, adesso che ho lo stesso gusto della tua bocca, leccami. Siamo la stessa cosa, ora. La prendo da dietro senza che mi chieda nulla, è la prima volta per Lei. Le fa male, ma io me ne frego e spingo. E più grida più vado veloce. Più corro e meno grida. Più corro e più miagola, Vanessa.
Mi ha fatta sentire una gatta, altrimenti mi sarei inventata qualcos’altro. Voglio dire, fai l’amore con la stessa persona da anni, siete sposati, e la poesia ha rincorso il mutuo e le spese condominiali. Facciamo lavori che odiamo al solo scopo di permetterci qualche stronzata al centro commerciale, la domenica pomeriggio, e intanto zero soldi in banca. Come fai a pisciare in faccia a tuo marito, cosa penserà, cosa dirà, cosa farà? Me lo chiedevo occhi negli occhi nello specchio mal illuminato del bagno, mentre mi aggiustavo la parrucca alla meno peggio. Cazzo, ma gli uomini se le fanno queste domande prima di scoparti? O pensano tutti di essere i migliori al mondo? O almeno: lui ci pensa?
No. Fino a quel giorno sono stata un dato di fatto, per lui. Si è mai accorto di quante volte mi sarei tolta da sotto? Guarda, lasciamo perdere, gli avrei detto. E invece no. Zitta. Non gli ho mai detto niente, fino a quella sera. Non ho mai preteso nulla, da lui. Preteso, poi. Ho solo orinato in un luogo non convenzionale.
Questa sera mi chiamo Riccardo. Ha voluto che parlassi con la erre moscia, così ho scelto qualcosa di complicato. Se nei nostri giochi fosse importante anche il cognome, mi sarei chiamato Ramarro. Viccavdo Vamavvo. Da denunciare i genitori per danni morali permanenti. Mi aspetta al ristorante, dove io devo arrivare in ritardo e con un mazzo di fiori senza biglietto. Il locale è appena fuori città, un posto di lusso, ogni tavolo ha attorno una teoria di séparé in seta e un cameriere discreto che ti versa il vino all’occorrenza. Al telefono Lei ha detto che stasera si chiama Elena.
Appena Riccardo entra e si siede di fronte a me sfoderando un sorriso indegno e un mazzo di fiori, Elena fa un cenno al cameriere perché versi anche a lui del Chianti. Riccardo dice appena “gvazie” quando raggiungo per prima il suo calice e gli rovescio il vino in faccia. Elena gli dice come cazzo ti permetti di arrivare così in ritardo, sei rimasto a scopare con tua moglie per tenerla buona invece di venire qui, bastardo, adesso voglio che ti fai una sega, davanti a me, e vieni in due minuti. Riccardo si adopera, ma Elena non apprezza ed evita nuovi accenni al cameriere: prende da sola l’intera bottiglia del Chianti invecchiato di sei anni e la svuota addosso all’amante ancora seduto a smanettarsi l’uccello. Mi siedo sul tavolo a cavalcioni davanti a lui immobile. Indosso una minigonna che a malapena mi copre le mutande che non ho. Gli dico non me la lavo da tre giorni. Voglio che me la lecchi tutta e dopo m’inchiodi qui, al posto del dessert. Riccardo esegue. Elena, stavolta, apprezza. Il cameriere anche.
Coi colleghi, al lavoro, era ormai difficoltosa ogni sorta di comportamento possibile. Ascoltavo i loro discorsi, pieni delle stesse frasi da talk show sulle crisi di coppia, facendo spallucce, o esponendo in risposta teorie non certo brillanti. Dentro di me, invece, li osservavo con un’altra espressione, un’espressione che di cameratesco o comprensivo non aveva niente. Li guardavo con superiorità. Noi ne siamo fuori, sentivo dire a quell’omino nel mio stomaco, noi siamo tanti e nessuno. Ma siamo vincitori. Lavoro in un’industria di rotative stampa in cui faccio finta di guadagnare lo stipendio. La mattina timbro sempre puntualissimo e ad ogni ronda del capoturno faccio in modo che mi si trovi intento a qualche operazione indispensabile. In realtà non faccio un beato cazzo di niente tutto il giorno. Chiacchiero, bevo caffè e mi faccio seghe nei cessi. Sono il re della masturbazione, arrivo a farmene più di cinque al giorno, e mi piace, non come certi miei colleghi che se ne fanno di rado una alla sera col marmocchio che strepita per entrare in bagno. Lei non lo sa che lo faccio. E va bene così. È giusto conservare almeno un segreto. Dovrebbero insegnarlo ai corsi prematrimoniali. Ogni volta che penso a lui durante il giorno mi chiedo a che numero sia arrivato. Se nemmeno la pasta lavamani a fine turno gli depura le dita da quell’odore di sperma di cui sono costretta ad accorgermi ogni volta che mi sfiora il viso, dev’essere davvero un campione. Chissà a cosa pensa. A me? No, me lo direbbe. Invece non solo me lo nasconde, si è addirittura convinto di avere un segreto. Non che me ne importi, anzi: bene che ci creda. A tutti fa comodo un segreto.
Questa sera il mio nome è Manuel. Mi fa tanto ragazzino, ma l’ha scelto Lei e io non discuto. Sono vestito di pelle perché devo fare la parte del cattivo, Lei ha voglia di violenza, dice che le ricorda la nostra nuova prima volta. La chiama così: la nostra nuova prima volta. Naturalmente, non si riferisce a quando eravamo fidanzati e lo abbiamo fatto in macchina, appena presa la patente. Se parla di noi, ne parla solo al presente e solo da questo momento della nostra vita. Dalla nostra nuova prima volta in poi. Ci penso senza rifletterci, mentre abbandono l’auto nei pressi della cascina
disabitata che abbiamo scelto insieme. È un bel pezzo a piedi, mi verrà sicuramente un affanno terribile quando dovrò ripercorrerla correndo. Quando avrò terminato il mio lavoro, Lei desidera che la lasci lì.
“I’m going hunting / I’m the hunter / I’ll bring back the goods / but I don’t know when” (Björk) Stasera il mio nome è Maria, come la Vergine. E come la Vergine sono pronta a sacrificarmi al mio Dio. L’uomo che aspetto entra e appena mi nota spegne all’istante la torcia elettrica con cui si è fatto strada. Sa già che lo riprenderò con una telecamera compatta che fino a quando mi sarà possibile fisicamente manterrò davanti al viso. Lui mi toglie gli stivaletti e i pantaloni a zampa che non si preoccupa di aprirmi in vita, così mi strattona verso l’alto e io quasi ci rimetto l’osso del collo. Non male, per essere l’inizio. Urlo, o almeno ci provo, ma lui mi tira un calcio in bocca. È il sapore del mio sangue a investire il palato con un sentore di ruggine. Credo di avere la lingua ridotta male. Lascio che continui. Sento le sue dita infilzarmi, e ne rido, perché dalla telecamera sembro un pollo a cui qualcuno sistema il ripieno. Non ridere puttana, dice lui, prima di trascinarmi per i capelli contro un muro e piantarmi un altro calcio, stavolta nello stomaco. Costretta schiena alla parete, aspetto la sua prossima mossa senza opporre alcuna resistenza, e lui solleva entrambe le mie gambe finché non arrivo a cingergli le spalle coi polpacci. Entra da dietro, spingendo e gridando, con me. È dolcissimo.
Quando entro nella cascina lui le è dentro, come previsto. Li sentivo già da fuori. Dio. Dio, non pensavo che... non pensavo che potesse farmi così male. Cazzo, che botta. Tu voli e a un certo punto... BAM! Atterri. Ti rialzi e BAM! Fa male. BAM! Una fitta. BAM! Un colpo. BAM! La sua testa rotta. BAM! Il suo cranio a terra. BAM! Il suo sangue attorno. BAM! BAM! BAM! BAM! Continuo a colpirlo. BAM! BAM! BAM! BAM! Quasi quasi mi metto a cantare.
Sono Manuel, un assassino. BAM! BAM! BAM! BAM! Ma sono buono come un bambino. BAM! BAM! BAM! BAM! Farei l’attore, ma questa è vita, BAM! BAM! BAM! BAM! la vita vera che non ha uscita. BAM! BAM! BAM! BAM!
Nel video si sentivano molti suoni. Qualche immagine all’inizio, ma molto confusa. Solo nero. E rumori. Colpi, più che altro. Quelli che infliggevo a quel bastardo con un bastone raccattato attorno. Qualche grido, ancora. Pochi rantoli. Molti respiri. Lei cinge le braccia attorno al mio collo, è in piedi dietro alla poltrona dove ogni sera siedo a guardare la tivù. Si piega su di me, e il suo viso scende piano piano dall’alto, mi bacia a fior di labbra. Dice siamo complici, ora. Io non le rispondo.
Mi chiamo Vanessa, come quella della nostra nuova prima volta, anche se non sono certo la stessa persona. Diversamente dal solito, ricordo cosa faccio nella vita, nella vita di sempre intendo dire. Sono un’agente di polizia. Ma sarà una combinazione freudiana dovuta al fatto che ho con me un paio di manette, stasera. Non so se voglio essere legata o sarà Vanessa a legare lui. Vedremo. Fra l’altro mi piace pensare che anche lei sia una poliziotta. È un’idea. Sono Vanessa e faccio la poliziotta. Sto aspettando di essere scopata da un assassino. Suona bene.
“Excuse me / but I just have to / explode / explode this body / off me / wake-up
tomorrow / brand new / a little tired / but brand new” (Björk)
Io sono Franco. E se è un nome banale, poco importa. È il mio. Mentre salgo le scale per raggiungerla al piano di sopra della nostra casa, ripenso a un po’ di cose. Ripenso a troppe cose, per la verità, e tante cose tutte insieme fanno un chiasso assurdo. Apro la porta della camera da letto con la mia testa che è diventata un vecchio televisore in bianco e nero quando fa casino perché gli stacchi l’antenna. È sul letto come una pubblicità, per niente turbata, sorda del tutto al rumore che mi trita il cervello e fa urlare l’omino al centro del mio stomaco. Mi siedo accanto a lei e la bacio. Il contatto con la sua bocca è dolce solo nel sapore. Un sapore che non aveva mai avuto, almeno fino a poche ore prima. Bacio le sue mani e annuso l’odore da sapone di Marsiglia che spesso punge nel mio naso anche quando lei si chiama in un altro modo. Così, annusandole sempre, e piano, le conduco una mano per volta alla spalliera del letto, gliele blocco entrambe con le manette. La penetro senza sfilarle il baby-doll rosso e le autoreggenti, mi preoccupo solo di scostarle appena il tanga. Ci muoviamo insieme, io e lei. Così, nella nostra stanza da letto, quella che usiamo per dormire. Ti ricordi, adesso, com’era? Provaci, dài. Ti ricordi quando stavamo per ore fronte contro fronte e parlavano soltanto i nostri occhi? Ti ricordi quando le tue dita mi guardavano? Seguivano ogni piega del mio viso, e poi lo ridisegnavano tutto, secondo una loro precisa memoria. Ti ricordi quando mi hai detto che volevi un bambino e non sapevi ancora che non saresti mai rimasta incinta? Ti ricordi? È bello vederti sorridere, un attimo prima di soffocarti col cuscino. Mi hai risposto un’ultima volta – e l’hai fatto per sempre. Perché io sono ancora qui, dentro di te, amore mio, e sono tuo davvero, adesso, capisci?, sono tuo, amore, sono tuo, sono tuo, sono tuo.
Solo e soltanto tuo. Quante volte mi vuoi.
L’amico
Con un sorriso ammira la pallida rotondità irregolare del suo cranio nudo. Quel che resta dei capelli rasati quasi a zero solletica il palmo che continuamente liscia attorno all’opera prima da lungo tempo solo desiderata. Finalmente sono lì, per terra come insetti uccisi, in un disordine di lunghezze tagliate con meticolosa attenzione, tutte alla base, il movimento rotatorio delle lame ancora caldo, ancora nell’aria. Il sorriso si allarga fino a nascondere gli occhi dietro alle gote simil-sipario verso lo sguardo riflesso da cui un ricordo sta prendendo corpo dopo una breve concatenazione d’idee nervose e al rallenty appare un’immagine di quel film di Jodorowsky, un film vecchio nel ricordo e nel tempo, bianconerizzato prima da un canale locale che dalla memoria. Ha sempre odiato le citazioni, e non solo quelle letterarie. Ma questa del film era troppo evidente, troppo vissuta. Troppo inevitabile. Si vedevano dei ragazzi e delle ragazze. La testa china. Poi entrava in campo una mano, brandiva una tosatrice, di quelle vecchie, da azionare a mano come una grossa tenaglia molleggiata. Per raderli. Era un rito di purificazione, un abbandonare metodico e (quasi) totale. Abbandonare. Abbandonare i pensieri, i peccati, le paure, le singole azioni di ogni giorno. In questo consisteva il suo desiderio. Trovare, con infinita pazienza e disciplina, il modo e il momento per una scelta così. E dopo un attimo la ruota sta girando di nuovo, forse non si è mai fermata. E ci sono i capelli a terra e il bagno da pulire e oggi è venerdì e in fondo che ore sono? e, e, e, e... carrellata di congiunzioni senza pause di troppo.
La paletta raccoglie i bruni ricci da buttare, lo straccio si bagna nel detersivo. Ancora qualche schizzo rosso ravviva il bianco del lavandino. Poi, è di nuovo tutto a posto. Tutto a posto. «Arrivo, amore!» risponde oltre la porta del bagno. «Guardami un po’...» pronuncia sornione dalla soglia spalancata, dietro la propria ombra che la luce del bagno ancora accesa proietta lungo il letto e le gambe nude di lei. Protende le braccia ed esulta: «TA - DAAAANNNN!!! Ecco il nuovo Tony, tesoro, mi sono fatto bello apposta per te. Che te ne pare, Alessia?» Alessia lo fissa, la bocca schiusa su una frase che rimane nel silenzio. «Dovrei piacerti. Mi hai sempre detto che ti piacciono i ragazzi rasati.» Sarà colpa del nuoto. Lei ci va fin da bambina, un pesce in casa propria. In piscina, tutti i ragazzi portano i capelli rasati o, comunque, molto corti. Non è per una questione di sola praticità, gli ha spiegato, ma per via degli effetti devastanti che il cloro provoca ai capelli: l’agente corrosivo li debilita fino a sfibrarli e spesso ne causa anche una caduta eccessiva. Quindi l’unica è tagliare corto, c’è poco da fare. Del resto, i capelli corti donano sia all’uomo che alla donna e poi Alessia ha sempre preferito un naziskin a un metallaro. Ora Tony ha fatto a sua volta un degno ingresso nella sfera delle potenziali preferenze di lei, con la sola differenza dei motivi. Quante volte ha dovuto sentire i tuoi racconti su questo o quel cretino di turno che andava a rasarsi i capelli per te, e tu a dirlo, quasi contenta, quasi soddisfatta nel tuo ruolo di specchietto per le allodole travestito da ragazza sedicenne. Come all’oscuro delle loro vere intenzioni, una sorta d’innocenza ti manteneva in osservata distanza dalla comprensione ultima, per sempre in attesa d’interpretare in quale lingua avrebbero dovuto chiedere asilo nella tua bocca e nel tuo seno e nella tua fica. Ancora e sempre la tua fica. Tranne Tony. Tony che è il più bravo.
Tony che ascolta. Tony che parla. Tony l’amico. L’amico e basta. Arriva il muro e oltre non si va. Ed è sempre così, non c’è verso di opporsi a una legge di natura sempre uguale, uguale e ancora uguale su ogni ragazza, una qualsiasi Alessia icona su cui l’attenzione di Tony si colori d’affetto. Ecco, sì, l’affetto. Non schizofrenie pre-masturbatorie confezionate in fotogrammi porno attaccati collaviva attorno al cervello in terremoto. L’affetto di carezze e baci e parole sussurrate tra gemiti in orecchie complici. Ma Alessia soffiava troppe volte al telefono una voglia di mani. La voglia di sudore e di buio. Lo diceva sempre, a Tony. Tony è un amico. «Un amico deve sempre essere pronto ad aiutare...» le dice, mentre sfiora le sue labbra dure con le dita. «Sei ancora sporca, amore. Non ti ho pulita abbastanza.» Dai polpastrelli dell’indice e del pollice gocciola sangue. E dire che l’aveva pulita. Lentamente. Tra le dita delle mani, sulla pancia piatta e ricamata da uno squarcio verticale come l’urlo di un tenore, e sul viso e nella bocca annegata dagli sbuffi. Lui voleva che morisse così. Con un preciso colpo nella pancia, dal basso verso l’alto. E piano piano verso il nulla, senza fretta. Desiderava concederle tutto il tempo perché potesse gustarsi il film.
Il viso della madre. Il primo giorno a scuola. Il suo corpo nell’acqua mentre nuota. La lama di un coltello. Lo spazio tra una piastrella e un’altra. Il buio e ancora il buio.
SOLO E SEMPRE BUIO.
Stop.
Immagini conosciute a filo telefonico, viste ancora anche dopo il colpo, quando dall’informe fisico contratto di Alessia la vita fuggiva a gocce senza giungere in nessun fiume verso il mare, eppure in fretta abbandonava il suo corpo percorso dagli spasimi violenti del dolore e della fine. Secondi mai durati così poco e così troppo. Ma lei non è mai stata sola, in tutto questo, non doveva temere la solitudine che Tony conosce così bene. Per questo Tony le è rimasto accanto, si è preso cura di lei, tutto il tempo e anche oltre. Tony è un amico. Tony ha pulito il sangue, ed era tanto sangue, a secchi, chi se lo sarebbe mai aspettato tutto quel sangue? Ma Tony lo ha pulito. E dopo ha atteso che ne uscisse dell’altro, per pulirne ancora. Poi Tony l’ha spogliata, l’ha distesa comoda sul letto e si è sdraiato accanto a lei. Per guardarla. Per parlarle tutta la notte. Parlarle e parlarle e ancora parlarle, mitragliere di parole e sogni per troppo tempo annegati nei silenzi e nei “non vorrei disturbare”. Ora Tony non disturba più e Alessia ascolta, muta, aperta non solo fuori ad accogliere il suo dolore che finalmente diventa pianto e parole e grida e isteria organizzata a briglia sciolta. Questo si dovrà sapere perché nessuno possa mai dire in giro che Tony l’abbia seviziata, né prima né dopo la morte. Tony non l’avrebbe mai fatto. Tony è un amico. E un amico va ascoltato, ogni tanto. Tony l’ha spiegato, questo, alla polizia, ma loro
non gli sono apparsi altrettanto persuasi. Sarà stata l’ora buona del mattino o una notte andata storta, ma aveva come l’impressione di non essere creduto. Poi, d’un tratto, sono diventati gentilissimi. Allora era bello essere ascoltati. Gli hanno ato una donna (sulla trentina dalla voce, a Tony è sempre piaciuto indovinare un’età dalla voce) e lei gli ha parlato e sembrava volesse incontrarlo e parlargli ancora. Per questo Tony le ha dato l’indirizzo. E adesso Tony deve andare. Una nuova amica lo sta aspettando.
«Tony deve andare» le dice. «Ma tu dormi ancora un po’. Ti copro, sei tutta nuda. Per fortuna, ho ancora il piumone fuori, mi ha tenuto caldo tutto l’inverno e adesso voglio che tu stia bene. Farai solo sogni belli con questo piumone addosso, vedrai. Hai ancora freddo?... Ma sei incontentabile! Vuol dire che accenderò il fuoco, ma solo perché sei tu.»
Il soffitto della stanza si annerisce presto dall’alto delle fiamme divampate sul letto in cui il crepitare di un corpo che si spacca si alza a intervalli risolvendo i silenzi. Il letto brucia e fuma, brucia e fuma e fa tossire e arrossare gli occhi. Appena spalanca la finestra, l’aria lo investe come il getto freddo di una doccia d’estate. Il naso si rilassa e gli occhi ritornano a vedere. I suoi nuovi amici sono tutti laggiù, saranno almeno una ventina. C’è anche la donna con cui ha parlato. Ha proprio sui trent’anni, genio, ed è anche carina. E sono tutti in uniforme, tutti per lui. Non è bello farli aspettare troppo, li separano ben sette piani senza ascensore. Tony allora trova il davanzale con un piede. Sale eretto e guarda sorridente la città che guarda lui. E dev’essere proprio come a teatro. Lui a braccia aperte, il fumo che da dietro sale e annerisce il cielo. Ci vorrebbe il suono di un rullante, adesso. Prima lento, un sussurro bacchettato contro il vuoto, poi più alto, più veloce, più
alto, più veloce, piùaltopiùvelocepiùaltopiùvelocepiùvelocepiùveloceeeeee... TUM! Il salto. Sospiro della folla. Signore e Signori, Tony chiude gli occhi. Buio in sala.
Il film di Jodorowsky. Le donne mai avute. La rasatura allo specchio. Il coltello e tutto il sangue. Abbandonare. Alessia che gli parla. Alessia che lo ascolta.
Alessia che lo ascolta! Alessia e il buio dentro lei. Alessia che lo ascolta! Alessia e il buio dentro lei. Alessia. Il buio. Alessia.
Il buio. Alessia. Il buio. Alessia. Il buio. Il buio. Il buio. Il buio.
Il buio e ancora il buio.
SOLO E SEMPRE BUIO.
Stop.
Film
Sono seduto alla scrivania, nello studio di casa. Ho la testa appoggiata allo scrittoio, le braccia lungo i fianchi. Sto pensando, e penso a quanto sia strano pensare al fatto che stai pensando, nel mio caso. Non perché pratichi l’unica forma di yoga lesiva alla spina dorsale. Non perché, anche fosse, dovrei avere la mente libera. Trovo strano pensare perché sono morto.
Ho conosciuto Gabriel l’estate scorsa, al mare, ero in vacanza all’isola di Brijuni, in Croazia. Ne ricordo l’odore. Sapeva di gazzosa salata. Difficile immaginarlo: era come l’aroma del caffè tutto insieme nella caffettiera, prima e dopo l’aggiunta dello zucchero. Il vento frizzava di mare. Il resto era molto meno vivace. All’attracco della motonave da Ancona mi aspettava un hotel essenziale, il gemello di una caserma per turisti. E poi c’era il silenzio, questo lo ricordo ancora meglio che il sapore dell’aria. Era l’ideale per il mio film. Stavo ricamando una scena dopo l’altra, con molta lentezza, cercando di evitare quanto più possibile traumi narrativi, al limite potevo permettermi qualche plausibile sbalzo temporale interpretabile con facilità, ma nessun’altra licenza. Gabriel mi ascoltava senza troppi entusiasmi, non si lasciava coinvolgere da me o dalla mia idea con lo stesso trasporto che dimostravo io, attratto dall’aura che la sua figura emanava a distanza ravvicinata. Ho intuito appena entrato nella hall che era lui la persona che avevo contattato, l’uomo che faceva quel mestiere. Una professione insolita – avrei obiettato in circostanze estranee –, almeno quanto i miei intenti. Aveva fin dal telefono la voce di chi sa fare le promesse giuste, di chi ti sta dicendo che può rendere reale il tuo sogno, qualunque sogno sia. Riponevo in questo ogni mia speranza. Desideravo, anzi, pretendevo che il “qualunque” fosse tale anche quando il sogno è un progetto di suicidio. Non è mica uno scherzo. Il suicidio, intendo. Credo che morire sia un’arte, se puoi scegliere almeno come. Perché il “quando” non mi sarebbe stato possibile programmarlo con esattezza, erano i patti, quella clausola che costituiva la
fregatura in un affare troppo fantastico per ardire anche alla perfezione. Funzionava così: io pago Gabriel in anticipo, lui mi studia per un periodo non stabilito, fino a quando... stop. Non c’era altro da aggiungere. E per tutta la vacanza, non ho aggiunto altro, infatti. Mi sono goduto il sole e il clima secco, le grigliate di pesce e il mare cristallino con la gioia di un bambino che saltella su un letto chiodato, il letto della camera ardente in cui mancavo solo io. Nell’attesa, perfezionavo il mio film. Ne avevo eliminato ogni scena dolorosa: il mio fallimento come avvocato, il disprezzo di mio figlio (che comunque perdono, comprendo quanto sia difficile per un quattordicenne rispettare un perdente di padre), ma soprattutto ho voluto accantonare quella sera che sono rientrato a casa e ho sentito mia moglie mentre faceva l’amore con un’altra persona. Non mi sono fermato ad ascoltare. Non mi sono avvicinato alla porta della camera da letto. Non l’ho spalancata su di loro. Ho fatto un o indietro e sono partito per Brijuni. Tanto avevo comunque combinato tutto. Gabriel mi avrebbe atteso puntuale nell’atrio dell’hotel. Ero già stufo di vivere da un pezzo, di certo non mi mancava troppo una spinta supplementare. Più volte ho pensato tuttavia di mantenere nel montato definitivo questa scena, perché sarebbe stato un piccolo tocco da maestro, quella sottile vena ansiogena in un film altrimenti dolciastro. Ma non importa. Lo spettatore del film sulla mia vita sarei stato io e basta. E a me piacciono i film leggeri. È un peccato quando scopri che in realtà non si vede niente, quando muori. Piuttosto mi sorprende rimanere immobile a congelare mentre teorizzo congetture, analizzo la mia ossessione, provo il desiderio di usare gli occhi per soddisfare curiosità post-mortem, tipo constatare quanto sangue avessi in quella che era la mia testa, ora trasformata da un proiettile in un sacchetto di patatine scoppiato, ma plausibilmente non rispondono. E pensare che ce l’avevo fatta a farlo, il mio film perfetto. Cominciava con un buio assoluto, il buio di quando non puoi vedere. Il buio di quando nasci. Sentivo solo il mio pianto e parole indistinte, troppo alte e adulte per venire decifrate da orecchie ingenue. Un idioma di solo ritmo. Poi avrei visto le mani di mia mamma, erano sempre in movimento. Quelle di mio padre invece le ricordavo composte e in uniforme quanto lui. La ruota anteriore della mia bici, che fissavo come se avessi potuto impedirle con la sola forza del pensiero di cadere insieme a me, quando ho provato a pedalare senza l’aiuto delle rotelle. Il
mio cane e la sua coda, la agitava così forte, cucciolo, qualche volta temevo lo portasse via. Il tatuaggio dello scorpione sulla spalla destra di mia moglie, una mattina che la luce filtrava dalle fenditure della tapparella abbassata e cesellava ombre nella seta bianca delle lenzuola, avviluppate mollemente al suo corpo nudo. E poi un uccellino che avevo catturato, da piccolo. Gli corsi dietro e lo presi. Non avevamo gabbiette, in casa nostra, così lo legai per una zampetta alla grata del terrazzo, con dello spago. Cinguettava, non smetteva un secondo. Poi sono arrivati quelli che ho pensato essere i suoi genitori. Volavano attorno al balcone modulandogli il richiamo, lo rivolevano con loro, era giusto che fosse con loro. Mi sentivo in colpa. L’ho liberato dallo spago e ho fatto per prenderlo, ma lui si è divincolato ed è caduto dalla parte bassa del terrazzo, dal bordo senza protezione. Ora, nella realtà non ho avuto il coraggio di guardare cosa accadesse. Ma nel mio film mi sporgevo e seguivo con lo sguardo la sua picchiata. Allora nel mio film avrebbe aperto le ali. Avrebbe planato sulle cime degli alberi, sei piani più in basso, e avrebbe risalito l’aria compiendo un perfetto semicerchio, fino alla sua famiglia. Nel mio film ce l’avrebbe fatta a vincere. Nel mio film avrebbe imparato a volare.
“Mi sono spiato illudermi e fallire abortire i figli come i sogni mi sono guardato piangere in uno specchio di neve mi sono visto che ridevo mi sono visto di spalle che partivo ti saluto dai paesi di domani
che sono visioni di anime contadine in volo per il mondo” (Fabrizio De André e Ivano Fossati)
WannaKill
Cielo gravido. Se l’ora fosse un’altra, e il traffico sparisse, forse non sarebbe impossibile udire il borbottio dell’imminente acquazzone autunnale, nella luce grigia di quest’oggi. La Volvo station wagon nero metallizzato della famiglia Adelante se lo lascia alle spalle, il traffico, quando infila il cancello d’ingresso agli studi televisivi e parcheggia nel cortile interno, presso il padiglione n. 5. Sono puntuali, mancano anzi tre minuti all’ora dell’appuntamento. La ragazza addetta al ricevimento degli ospiti, la cartelletta blu stretta al petto e il look decisamente ancora estivo, li attende all’ingresso posteriore. Si ravvia di continuo una ciocca di capelli che di starsene ferma lì, dietro l’orecchio, non ne vuol sapere. Il vento sta aumentando, del resto, e puzza di cane bagnato. «I signori Adelante?» chiede alla famiglia scesa dall’auto, che la sta raggiungendo di buon o. Il capofamiglia risponde affermativamente e subito presenta se stesso e la propria consorte. L’addetta, quindi, si sofferma sul loro ragazzino. «Tu devi essere Goffredo, vero?» gli chiede, con esagerato entusiasmo. Il ragazzino, scrutandola da capo a piedi come se avesse appena messo gli occhi sulla peggio cosa mai vista in vita sua, ribatte un seccatissimo: «Mi chiamo Jeff.» Per tutta risposta, la ragazza ridacchia come una gallina col singhiozzo. La realtà, mio piccolo coglione, è che di quali nomi abbiate tu e ’sti due idioti che hanno osato concepirti senza prima sottoporsi a un test di Q.I. non me ne importa uno stracazzo, vorrebbe dirgli. Invece, controbilanciando con la sua risata stridula e frammentaria il proprio punto di vista personale sulla situazione in essere, allunga una mano allo sbruffoncello e gli dice:
«Felice di conoscerti e di accompagnarti in quest’avventura, Jeff. Io sono Azzurra.»
I genitori di Goffredo/Jeff seguono il ragazzino e la giovane lungo il corridoio appresso al portellone posteriore del padiglione n. 5. Con la coda dell’occhio, la famigliola spia il mondo della televisione, che fino a poco prima ognuno immaginava in modo assai diverso. Nelle stanze che si conseguono lungo il corridoio al pian terreno del capannone, niente ricorda le scenografie degli studi: scrivanie, computer, impiegati, macchinette da caffè. «Ma questi che fanno?...» chiede Goffredo/Jeff . «Lavorano?!» L’addetta gli carezza il capo, facendo attenzione a non lasciare la mano incagliata nel gel che il detestabile mostriciattolo s’è rovesciato sulla chioma. «Certo, caro. C’è chi scrive il programma, chi decide le scalette... perfino chi cura i titoli che da casa vedi apparire alla fine delle trasmissioni.» «Non li leggo mai, quelli. Sono troppo veloci.» Seconda risatina al salto. «Hai ragione, sai? Eppure sono le parole più importanti di tutto lo spettacolo, è l’elenco dei nomi di tutti coloro che hanno lavorato al programma.» «Ma in televisione mica si lavora...» commenta il ragazzino. «In televisione si fanno i soldi!» conclude il padre da dietro, cercando d’inserirsi a forza nella conversazione. Azzurra li vorrebbe morti, adesso, all’istante. Trittico d’ignoranti. Che poi, ha sempre pensato, a ben guardare chiunque è potenzialmente ignorante. È l’atteggiamento. È il comportamento a fare di qualcuno qualcosa. Sono stronzate come quella che hai detto tu, da adulto e da padre, a guastare il mondo. Azzurra tira un lungo respiro e inghiotte tutto. A sorpresa, apre una porta, e fatti due i all’interno del nuovo ambiente torna ai signori Adelante.
«Le nostre strade si dividono qui» dice. «Se volete venire avanti, vi presento i genitori dell’altra concorrente.» La mamma di Goffredo/Jeff assume la classica espressione di una a cui è sfuggito un dettaglio di fondamentale importanza, ma per quanto si concentri a cercarlo la sua mente ha già resettato parecchi secondi di memoria a breve termine. La scuote il marito ed entrambi muovono qualche o all’interno della stanza, che ha un aspetto fin troppo domestico. Poste le debite eccezioni per l’arredamento scarno, e senza dubbio svedese, la sensazione che i genitori di Goffredo/Jeff ne traggono è di trovarsi nella rivisitazione del classico “salotto buono” di una volta, quello che si apriva solo agli ospiti, meglio se a Natale. Seduti sul divano, un marito e una moglie si alzano e si presentano agli Adelante. Lui, calato nella parte del padrone di casa, marca il territorio offrendosi di preparare anche a loro un drink al mobile bar, lì all’angolo. La sua signora, di rimando, agita il bicchiere in segno di massima approvazione, e ammicca al tintinnio del ghiaccio come a qualcosa di profondamente vuoto, che andrebbe subito riempito una seconda volta in compagnia dei nuovi arrivati. «Bene...» dice Azzurra «...noto con piacere che siete già molto autonomi, se parlate di bere. Vi lascio soli, dunque, buona serata.» «Cosa intende dire con “buona serata”?» protesta la mamma di Goffredo/Jeff. «Vuol forse chiuderci qui dentro mentre nostro figlio...» «Suo figlio, signora...» la rassicura Azzurra «...è ospite del programma ed è sotto la tutela dell’Emittente. Sul contratto che avete firmato, vi siete impegnati con la nostra rete a restare lontani dagli studi, nell’interesse stesso di Jeff.» «Non ricordo affatto questa clausola.» «Sarà mia cura mandarle qui una funzionaria di rete con la fotocopia del contratto. È al punto 13.» «Comunque io non erò il resto della serata con degli estranei, a guardare mio figlio da un televisore.» «Se non gradisce il monitor lcd che il nostro canale vi ha messo a disposizione per seguire la diretta, la invito a esporre il problema alla signorina che presto vi raggiungerà. Ora chiedo scusa, ma con Jeff dobbiamo affrontare la fase
preparatoria. Che ne dici, campione? Trucco, parrucco e quattro chiacchiere?» «Voglio un hamburger e una coca» dice lui. Terza risata. «Questo sì che è ragionare, Jeff! Signori, a più tardi.» «A quando?!» strilla la madre di Goffredo/Jeff. «Alla fine» risponde Azzurra, calmissima, prima di sparire nel corridoio, insieme allo stramaledetto ragazzino. Il padre chiude l’uscio e si avvia nel generale silenzio al mobile bar. Spera ci sia qualcosa di forte. Sì, di forte davvero.
«Allora, Jeff, come ti senti?» gli chiede Azzurra. Il ragazzino, la maglietta di Marilyn Manson inondata di briciole, dissimula alla meno peggio un rutto. «Il panino era buono?» ironizza lei. «Volevo un hamburger, non un panozzo normale» si lamenta Goffredo/Jeff. «Se non ti piaceva il prosciutto crudo, avresti potuto...» «Fa lo stesso, non importa.» Sopraggiunge il truccatore. Azzurra domanda se il fatto di starsene seduta lì, appoggiata alla mensola da lavoro, gli arrechi disturbo. Il truccatore scuote il capo e inizia a darsi da fare. «Jeff, dobbiamo chiarire un paio di punti, prima di andare in onda.» Il ragazzino emette un mugugno. «Sulle paure: sei certo di voler affrontare la prova che gli autori ti hanno sottoposto? Fai in tempo a rifiutare, se me lo dici ora.»
«L’ho raccontato a tutti i miei amici. Che minchia di figura ci faccio?» Azzurra rimane composta. Invece di calare verso la zucca di Goffredo/Jeff un mortale fendente con la cartelletta, traccia una ics sul questionario che dovrà consegnare agli autori. «In quanto al sogno nel cassetto, ci hai pensato bene? Qualora tu vincessi, avresti diritto a uccidere... i tuoi genitori.» «Guarda che io il programma lo vedo.» Altra ics. «Quindi sai che i nostri autori si divertono a modificare i nomi dei concorrenti.» «See, see... Com’è che si chiama l’altro?» «Giulia.» Jeff scosta malamente il truccatore, il cui corpo proteso su di lui gli avrebbe impedito di guardare in faccia l’addetta. «Cosa?! È una femmina?! Mi fate gareggiare contro una puttana di merda?!» Azzurra resta per un attimo senza parole. È davvero questione di un secondo, ma l’assale un senso di apnea tanto insopportabile, e arcano, che per dominarsi è costretta a stringere forte, con entrambe le mani, il bordo della mensola su cui è seduta. La cartelletta sbatte a terra. «Jeff...» dice la ragazza, superato lo smarrimento «...Giulia è una bambina della tua età. Certe... professioni... si esercitano magari più avanti, non credi?» Goffredo/Jeff fa spallucce. «Per me le femmine sono femmine e basta.» Azzurra pensa che invece di odiarlo, beh, dovrebbe capirlo, questo schifosissimo stronzetto coi capelli sparati e la faccia rotonda, gonfiata dal pessimo cibo che certamente il signorino fagocita ben oltre il proprio fabbisogno. Forse lo invidia perfino, a rifletterci bene. Azzurra che ha iniziato a chiamarsi Azzurra qui, al
Nord, nella vera capitale d’Italia. Ha lasciato il paese appena diciottenne e ha raggiunto il Continente. Lo chiamano così in Sicilia il resto d’Italia: Continente. Ha studiato dizione all’Unione Italiana Ciechi, che organizzava il corso gratis allo scopo d’istituire un gruppo di lettori coi quali dare vita a un’audioteca per non vedenti. Una specie di biblioteca in cd. Mai letto un libro in vita sua, ma il bisogno di lasciarsi alle spalle qualsiasi segnale del ato, compreso l’accento, le era vitale. Fa parte dell’addestramento. Bisogna rinunciare a tutto, per la Causa. Radici, personalità. E sentimenti. «Sarete Giù-Giù e Je-Jeff» annuncia al ragazzino, che intanto sembra essersi dato una mezza calmata. «Ti piace, Je-Jeff?» lo incalza. Goffredo/Jeff aggrotta le sopracciglia. Azzurra ride. A pause.
«Come si chiama il vostro diavoletto?» cicaleggia la madre dell’altra concorrente al papà di Goffredo/Jeff. Il primo Cuba Libre l’ha scolato d’un fiato, lui, ora s’è riempito il bicchiere di solo rum. Prima di rispondere, l’uomo scruta la consorte per un istante e vedendola girata verso lo schermo, a braccia conserte, ritiene l’abbia autorizzato a esprimersi. «Goffredo» dice. La donna cela un moto di sottile disappunto inarcandosi all’indietro: cerca di bere le ultime gocce di alcolico rimaste sotto al ghiaccio, con esiti deludenti. «Nome impegnativo» commenta poi. «Già» ne conviene lui. «Infatti si fa chiamare Jeff. Ci odia per averlo chiamato Goffredo, e io...» «Tu cosa?!... Tu niente» esclama la moglie, senza voltarsi. «Goffredo è un nome bellissimo. Era il nome di mio padre.» «Non intendevo offendere, signora. Lo trovo... ecco, inusuale.»
«Inusuale sarà il tuo culo» ribatte a mezza voce la madre di Goffredo/Jeff. «Come ha detto, mi scusi?» chiede l’offesa, candidamente disorientata. «Lasci perdere, signora, mia moglie è molto nervosa» interviene il padre di Goffredo/Jeff. «Immaginava che avremmo potuto assistere nostro figlio da vicino, per tutto il tempo. In effetti, dovevano avvisarci del contrario. Mica uno va in televisione un giorno sì e l’altro anche. Magari!...» La signora ridacchia e si versa dell’altro scotch. «Piuttosto...» riprende il padre di Goffredo/Jeff «...e il vostro? Come si chiama?» «Giulia» risponde. «Una femmina?!» s’inviperisce la madre di Goffredo/Jeff, stavolta guardando in faccia l’altra donna. «Sì, signora. Giulia è un nome femminile, se non sbaglio. E questa non mi risulta la prima occasione in cui il programma ospita concorrenti di sesso opposto.» La madre di Goffredo/Jeff torna a voltarsi più che mai stizzita verso lo schermo lcd. «Appena arriva quella troia mi sente» sibila.
Goffredo/Jeff e Azzurra si sono fermati al termine di un corridoio circolare, molto buio, che dovrebbe condurre il ragazzino allo studio televisivo. Dal punto in cui si trovano è impossibile scorgere la scenografia, ma il brusio della gente in sala giunge chiaro e si presta da sottofondo a voci più nette, forse più vicine, che impartiscono ordini. Un giovane uomo di corporatura snella, vestito con un paio di pantaloni scuri, larghi, e una t-shirt blu con il logo dell’Emittente, si affianca all’assistente di studio; fra loro corre un’occhiata di assenso. Il giovane uomo, in un piccolo walkie-talkie, comunica la presenza di Goffredo/Jeff all’ingresso 1. All’altro capo, gli rispondono di farlo procedere. Di nuovo, tra il giovane uomo e Azzurra avviene un breve dialogo muto. Le mani di Azzurra stringono allora entrambe le
spalle di Goffredo/Jeff. La ragazza lo invita a superare quell’ultima soglia. La prima percezione è puramente olfattiva: odore pungente, da automobile nuova. La seconda investe tutto il corpo di Goffredo/Jeff, ma in modo troppo rapido perché il ragazzino possa accorgersi che quel calore improvviso e pazzesco viene prodotto da una lunga fila di riflettori, posta su un’asse orizzontale due metri sopra di lui. Lo stanno accecando e affumicando, quei dannati fari. Gli ci vuole giusto quell’attimo, a Goffredo/Jeff, per riacquisire i normali parametri di visibilità. E quando gli occhi da roditore del fanciullo tornano al pieno delle facoltà, Goffredo/Jeff nota la ragazzina alla postazione avversaria. «Quella è l’altra?!...» chiede schifato ad Azzurra, che non l’ha abbandonato dalle quinte. «Sissignore, Jeff, lei è Giù-Giù. Qualcosa non va?» «Cazzo, e me lo chiedi? Quella se va in un ristorante a mangiare da sola le fanno lo sconto comitiva!» La ragazzina obesa implora l’appoggio morale della sua assistente, Donatella. Azzurra e Donatella si scambiano un’espressione di plateale impotenza di fronte all’arroganza di certi ragazzini e ognuna cerca di porre rimedio all’accaduto. Donatella accarezza il viso di Giù-Giù dicendole di stare tranquilla, che il concorrente di sicuro scherzava o, addirittura, mira a ferirti per poi poterti battere dopo, tesoro, perciò adesso smettila di frignare e se si sbaglia a dire ancora qualcosa tu non ascoltarlo neppure, quello zoticone, intesi? Azzurra viaggia su toni un tantino più pedagogici. «Senti, Jeff: un conto è che io ti lasci dire e fare qualsiasi cosa mentre ce ne stiamo insieme, nel camerino, a parlare del più e del meno. Un conto è offendere la concorrente. Una seconda uscita così e te ne esci tu. Dalla porta principale.» «Seee... E scommetto che mi accompagni pure fuori, già che ci sei.» «Ci puoi giurare, campione. A calci.» Goffredo/Jeff sbuffa e, non avendo di meglio da fare, guarda altrove, scruta lo spazio davanti a sé.
Il pubblico è una parete nereggiante che contorna ad anfiteatro il centro dello studio. Serrati gioco forza in quell’abbraccio freddo, i vari cameraman carrellano qualche centimetro in qua, qualche centimetro in là, a seconda delle indicazioni che ricevono in cuffia dalla regia. La piattaforma ovale sulla quale Goffredo/Jeff è in piedi, sbarrata nella parte anteriore ma aperta dietro e larga il triplo di lui, reca stampato a terra il numero 1. Lui dovrà starsene lì, gli ha spiegato Azzurra. Il ragazzino si aggrappa alle sbarre di plastica che la scenografa del programma ha disegnato allo scopo di caratterizzare visivamente le postazioni dei concorrenti e per qualche attimo fissa Giù-Giù, con rinnovato ribrezzo, poi torna a rivolgere lo sguardo là, in fondo, nella massa informe e oscura. Che, su incitazione di un addetto, applaude. «Siete stupendi! Ehi, dico sul serio: il pubblico migliore che si sia mai visto in quest’arena!» dice il tizio, dentro a un megafono. «Benvenuti a WannaKill, signore e signori. Cinque minuti e cominciamo!»
«Ecco tutto, signora.» La madre di Goffredo/Jeff dilanierebbe il viso della segretaria con le sue stesse mani, iniziando dagli assurdi occhiali che la giovane indossa, davvero troppo estroversi. Il plico di fotocopie che stringe in pugno si è ridotto a un’idea molto verosimile di come vorrebbe riplasmarle i lineamenti. «Io desidero chiarimenti in merito al comma 13, signorina. Era per questo che la stavo aspettando, gliel’hanno detto?» «Signora, mi dispiace, io, ripeto, non mi occupo degli aspetti burocratici legati ai contratti.» «Sì, ma lavora qui, no? Saprà pur dirmi per quale cristo di motivo io e mio marito dobbiamo starcene chiusi qua dentro mentre il nostro bambino è in tivù.» «Siete liberissimi di girare, nessuno vi ha sequestrati.» «Allora possiamo andare nello studio, se è così.»
«No, signora, purtroppo no.» «E per quale motivo? Avanti, mi dia lei una ragione.» «Signora, torno a dire: per queste faccende, è bene si rivolga al nostro ufficio legale. Io faccio parte del commerciale e il mio compito si riduce a consegnarle la fotocopia del contratto, su ordine della signorina Azzurra Milone.» «Beh, vada affanculo lei e la signorina Azzurra Milone! Voglio vedere mio figlio, cazzo!» «Cara, ti scongiuro...» interviene il padre di Goffredo/Jeff «...non facciamo figure.» «Ma tornatene a sbevazzare con quella deficiente!» risponde lei, stando sempre attenta a modulare la voce in modo da essere udita soltanto da lui. La deficiente nel frattempo infila la porta d’uscita della stanza e ammicca in direzione del padre di Goffredo/Jeff. L’uomo, sempre più sconsolato, si stacca dalla moglie e, lemme lemme, torna al mobile bar, deciso in apparenza a dare fondo alle riserve alcoliche gentilmente offerte dall’Emittente. S’interroga per un momento sul padre dell’altra concorrente, rimasto tutto il tempo sul divano a seguire il notiziario che precede il programma in cui i loro rispettivi figli gareggeranno. Nulla sembra avere scalfito quel tizio. A vederlo così, il cardigan grigio come la sua barba ispida e ben curata, potrebbe are per un supplemento d’arredo. Raggiunto l’angolo bar, il padre di Goffredo/Jeff opta per uno scotch. E mentre ne colma il bicchiere, estrae il tovagliolino di carta che poco prima la moglie del supplemento d’arredo, con sospettabile destrezza, gli ha infilato in una tasca del pantalone. Sopra c’è scritto: raggiungimi in bagno. Il signor Adelante sorseggia lo scotch e fa mente locale sul fatto che la donna non ha bevuto altro da quando lui e la consorte hanno messo piede in quella stanza al pian terreno del padiglione n. 5. Insieme al liquore, qualcosa percorre il suo corpo dall’interno e poi dall’esterno: lungo la spina dorsale, dalla nuca al coccige, dove si biforca e approda all’inguine, allagando di sangue i corpi cavernosi del suo pene. «Voglio fare una telefonata al mio avvocato, signorina. Mi comunichi un po’ le
sue generalità» sta intanto berciando la moglie. «Mi chiamo Verri Anna, signora, e mi secca informarla che nulla di quanto qui si è finora commesso è tacciabile di reato.» «Ah, sì, cara?... Le secca?!» «Altroché.» «Come si permette, lei, di parlarmi in questo modo?!» «Signora... cerchi di darsi una calmata. Qui nessuno sta facendo del male a nessun altro. Suo figlio è... guardi là: sta cominciando la trasmissione.» La madre di Goffredo/Jeff rivolge la propria attenzione allo schermo, anche fisicamente. La grafica della sigla sta partendo. Il boato che raggiunge lei, il marito, la segretaria e il supplemento d’arredo proviene dallo studio, amplificato di parete in parete e infine ritrasmesso dal televisore, in quella stanza, sotto forma di battimani. Centinaia di palmi tamburellano a tempo di musica. Mentre la donna resta concentrata sullo spettacolo in onda, la segretaria arretra verso l’uscio. È chiaro che sta approfittando del momento di distrazione in cui la madre di Goffredo/Jeff sembra caduta, ma qualora una data situazione non presenti alcuna alternativa, la fuga diventa una strategia tanto istintiva quanto necessaria. Ancora un o e sarebbe uscita di scena senza sbavature. Peccato non abbia guardato indietro almeno una volta, soprattutto prima di allungare la mano. Fra le dita della giovane, si è creata l’aspettativa di spingere contro la rassicurante superficie del maniglione antipanico e scappare da questa pazza isterica, che pretende chiarimenti su un contratto stipulato mesi prima. La signorina Verri Anna prevede di toccare il maniglione antipanico, insomma, non la patta di un pantalone maschile. Sotto il cui tessuto è intuibile un turgore alquanto familiare. La ragazza urla. Perfino il supplemento d’arredo ne accusa la sorpresa con un lieve inasprimento dei tratti somatici. In quanto alla madre di Goffredo/Jeff, lei assiste alla scena attonita. «Mi perdoni, signorina» dice il padre di Goffredo/Jeff alla segretaria, che fatica a riprendersi dallo shock ed è, se possibile, ancora più pallida di come natura l’ha fatta.
«Stavo per andare in bagno...» aggiunge l’uomo «...e lei non mi ha visto. L’ho spaventata, vedo, ne sono desolato.» «No, no...» risponde la giovane «...questi sono i rischi che si corrono a camminare come i gamberi.» Il padre di Goffredo/Jeff le sorride paternamente. «Stavo per uscire anch’io. Posso cederle il o?» «E dove vorresti andare?» esclama la moglie. «Guarda che qui il programma è iniziato!» «Vado in bagno, cara. Torno in un istante.» La madre di Goffredo/Jeff scrolla il capo. La signorina Verri Anna raccoglie ben volentieri la precedenza a uscire che l’uomo le accorda. Il supplemento d’arredo continua ad affondare il proprio corpo nel divano, fin quasi a mimetizzarsi col rivestimento. La sigla, intanto, finisce. Unico e ininterrotto, il boato attraversa da cima a fondo il padiglione n. 5.
«Benvenuti! Buonaserabuonaserabuonaseraaa!!!» urla il presentatore, seguito da una soubrette i cui abiti di scena, compresi di calzature e bigiotteria sparsa, vestirebbero a pennello giusto un chiwawa. Applausi. «Eccoci alla prima puntata della nuova stagione di WannaKill, Rossella...» dice il presentatore alla soubrette quasi desnuda che lo accompagna «...temevi forse di restare disoccupata, al ritorno dalle ferie?» Risate in platea. L’adamitica Rossella si spancia come se il presentatore le avesse raccontato una barzelletta. D’altra parte, sullo schermo al plasma dietro le telecamere, subito a
seguire il testo che riguarda lui, scorre la scritta Rossella ride. E Rossella, ride. «Fosse rimasta senza lavoro sul serio...» commenta a bassa voce il presentatore «...beh, non si può dire che alla ragazza manchino gli attributi per sfondare anche in altri campi, non credete?» Risate in platea. Stacco: Rossella in camera 2, panoramica dal basso verso l’alto. «Ma cos’avete capito? Maliziosi! Intendevo dire che la nostra Rossella balla come nessuno! Volete scommetterci o lo sapete già?» Il pubblico dice “Lo sappiamo giààà”. «Beh, signore e signori, io non ne sono molto convinto. Perciò, visto che abbiamo esaurito le meritate vacanze, e sotto il sole dei Caraibi non è certo a noi di WannaKill che si pensa con nostalgia, vi rinfreschiamo un pochino la memoria. Musica!» Le luci in studio cambiano. L’arena si fa semibuia e un tripudio di raggi dai colori diversi investe Rossella. Il pubblico batte le mani al ritmo della musica esplosa nello studio. Op, op, op, op, op, op. I capelli rossi della soubrette, op, volteggiano in ogni direzione, op, la ragazza abbandona le braccia, op, mentre vortica sul proprio asse, op, prima in piedi, op, infine sdraiata, op, finché il volume della musica, op, entra in dissolvenza, op, e un rapido montaggio d’immagini – totale dall’alto, piano d’ascolto del pubblico, larga inquadratura dal fondo con carrello in avanti e stacco finale sul primo piano di lei – congeda Rossella dalla prima trance del programma. Applausi. «E veniamo immediatamente a presentarvi chi apre le danze della nuova stagione di WannaKill: alla mia destra... Giù-Giùùù!!!» Applausi.
Camera 2: primo piano della ragazzina. «Allora, Giù-Giù, come ti senti? Sei pronta ad essere tu la “WannaKill” di questa sera?» Il pubblico dice “sììììì”. Applausi. «Vediamo cosa ne pensa invece l’altro concorrente, alla mia sinistra: signore e signori, amici a casa, ho il piacere di presentarvi... Je-Jeeefff!!!» Applausi. «E tu, Je-Jeff, cosa mi racconti? Sei pronto a diventare vittima di Giù-Giù?» Camera 1: primo piano di Goffredo/Jeff. «La vittima gliela faccio fare io a lei!» Applausi. Un assistente di studio alza la mano nel tipico segno della vittoria: sta avvisando il presentatore che fra venti secondi si entra in pubblicità. Lui si prende la scena. Emette un sospiro, fa perfino un’espressione terrorizzata, in omaggio all’eccezionale grinta che secondo lui i ragazzini hanno saputo sfoderare. «Che paura, accidenti. Questa sera ne vedremo delle belle, oltre alle sorprese che i nostri autori ci hanno preparato per la nuova edizione. Lasciamo per ora spazio agli sponsor, voi da casa ancoratevi al divano e restate sintonizzati su questa rete. Ci vediamo dopo la pubblicità, qui, nell’arena di... WannaKill!!!» Applausi. Nero.
Il grande orologio appeso alla parete sopra lo schermo: la madre di Goffredo/Jeff
lo guarda in alternativa alla pubblicità. Da come si tormenta le mani, il suo stato d’ansia sta superando i livelli di guardia. Una voce si leva dal divano. La donna fa quasi fatica a distinguere ancora la sagoma del padre dell’altra concorrente. Se non avesse parlato, o non fosse di per sé assurdo il fatto che un divano possa riuscirci, si sarebbe creduta sola in quella stanza. Ed è esattamente questo il problema. «Mia moglie farà presto, non si preoccupi» dice l’uomo/divano. «Le dirò: è talmente brava in certe cose che la gente poi ci resta perfino un po’ delusa.» Ora: in qualsiasi altra circostanza, le parole emesse dall’uomo/divano le sarebbero parse frutto della follia, o di una prematura demenza. E, in ogni caso, la madre di Goffredo/Jeff non saprebbe dirsi certa di averle udite, né se in un ambiente diverso avrebbero assunto minor peso. «Prego?» Il tizio pare divertito dalla momentanea quanto freudiana incomprensione dell’interlocutrice. «Avanti, non sia sciocca...» le dice. «Mi deve scusare, ma se avessi contato le volte in cui ha perso d’occhio suo figlio in televisione per controllare il tempo di suo marito, potrei stimare una media di due occhiate all’orologio ogni mezzo minuto di trasmissione.» «Cos’è lei? Un metereologo?» L’uomo/divano si alza, e se la ride, come a un’uscita fra compagni di avventura. Il o ciondolante, arriva al mobile bar e prepara due bicchieri. «Non mi conti, grazie» gli intima la madre di Goffredo/Jeff. «Ne è sicura? Un buon bicchiere non si rifiuta, soprattutto in certi momenti.» «Primo: bevo di rado. Secondo: quali momenti intenderebbe, lei?» «Beh... Mi occorre girarci attorno, prima di rispondere. Giusto il tempo di arrivare al punto. È sempre sicura di non volerne un goccetto? Questo scotch è davvero ottimo.»
La madre di Goffredo/Jeff annuisce fiaccamente. «Vedrà che ne vorrà dell’altro» le dice l’uomo/divano, porgendole il bicchiere. Per un riflesso automatico, lei resta col calice a mezz’aria e solo al tocco del bicchiere di lui si sente autorizzata a deglutire un sorso. Lui, nel frattempo, sprofonda daccapo nel divano e beve a sua volta, ma piano, con esasperata lentezza, e non riprende parola finché il retrogusto legnoso del liquore gli permane contro il palato. «Allora?» lo esorta lei. «Ecco...» dice l’uomo/divano «...vede, mia moglie... beh, ama farsi scopare da dei perfetti sconosciuti. La qual cosa, è bene lo sappia, giova enormemente al nostro rapporto.» Più intenso che mai, il boato riesplode.
«Bentornati a WannaKill!» urla il presentatore. Applausi. Nel corso dell’intermezzo pubblicitario, due manichini vestiti di tutto punto sono stati introdotti in studio. Le telecamere si dilungano nel riprenderli. Camera 1: primo piano del presentatore. «Il nostro sponsor è stato come al solito generoso. Invito tutti a provare quanto sono comodi i capi d’abbigliamento – censored –, che stasera ammiriamo in anteprima nella collezione autunno-inverno. I vestiti – censored – amano la libertà, proprio come te.» Applausi. «E parlando di libertà, anche se provvisoria, facciamo entrare i nostri idol. Che l’arena si popoli!» Dalle quinte, Rossella avanza sottobraccio a due figuri incappucciati, nel generale delirio di battimani. Le telecamere riprendono in primissimo piano, e
alternativamente, quelli che sembrano essere sacchetti di iuta, dai cui fori s’intravedono soltanto gli occhi delle facce che contengono. Stacco grafico. Appaiono in fullscreen le schede introduttive. L’idol 1 si chiama Salvatore Anselmi, di anni 32, recluso a Regina Coeli, Roma, da anni 7, capo d’imputazione: omicidio plurimo. L’idol 2 si chiama Enrico Scaglia, di anni 20, detenuto a San Vittore, Milano, da anni 3, capo d’imputazione: omissione di soccorso e omicidio di primo grado. Applausi. Si ritorna in studio. Gli idol sono accanto ai rispettivi manichini. «Mani esperte per lavori puliti, dico bene?» Il pubblico dice “sììììì”. «E per fare lavori puliti, cosa ci vuole? Ma naturalmente, un coltello – censored –!!! Rossella, armiamoci e partite!» Rossella riemerge dalle quinte danzando, il pubblico la sostiene al ritmo della musica – che, in questo caso, è il tema del programma. La soubrette consegna le armi agli idol ed esce di scena. La musica sfuma. «Bene» riprende il presentatore. «Cosa succederà adesso: abbiamo richiesto la presenza di due assassini professionisti e regolarmente condannati perché possano infierire sui manichini e, purtroppo oserei dire, sugli abiti – censored –.» Il pubblico dice “ooohhh”. «Non siate delusi! Se vi piacciono i vestiti con gli strappi, alla fine del programma possiamo metterci d’accordo...» Risate in platea. «Per ovvie ragioni di sicurezza, e nel rispetto del gioco e del pubblico in sala che vi assiste, abbiamo vietato da sempre l’uso di armi da fuoco. Ma dati i disordini
comunque accaduti nel corso della ata edizione, si è deciso di fare ricorso ad armi finte. I nostri pregiudicati, perciò, sebbene fra le mani stringano coltelli in tutto e per tutto simili alla preziosa linea – censored – della – censored –, eseguiranno il match con lame rientranti.» Applausi. «Perciò tranquilli: una bella stirata e questi capi torneranno come nuovi.» Risate in platea. «Così faranno pure i concorrenti, sempre che... abbiano buona memoria. Tu come te la cavi a tabelline, Je-Jeff?» Camera 1: primo piano di Je-Jeff. «Le tabe... che?!» Risate in platea. «Le tabelline, Je-Jeff... oh, perdonami un momento, sì?... Ecco, mi stanno comunicando dalla regia che a scuola le tabelline non si studiano più.» Risate in platea. «Studiate ancora qualcosa a memoria, Giù-Giù?» chiede il presentatore. Camera 2: primo piano di Giù-Giù. «La mia mamma mi legge le favole della buonanotte.» Il pubblico dice “ooohhh”. «Ma che tenera bimbetta, abbiamo qui! Non è che hai sbagliato programma, tesorino bello?» Risate in platea. «Sto scherzando, bambolina, non ti avrò mica offesa? Voglio solo darti un consiglio: lascia perdere le favole e non dimenticarti che se vuoi essere tu la “WannaKill” di questa sera bisogna agire senza scrupoli. D’accordo, ragazzi?»
Split screen coi ragazzini. Entrambi agitano la testa in senso affermativo. «Benone. La prima parte del nostro gioco inizia così: fra poco partirà una musica, su cui gli autori hanno inserito una voce che fornirà agli idol precisi input. E loro dovranno lavorarsi i manichini di conseguenza.» Risate in platea. «Tutti pronti?» Il pubblico dice “sììììì”. «Orecchie e occhi ben aperti... si parteee!!!» Applausi. La musica inizia. Sullo sfondo dell’arena, centrata dall’occhio di bue, Rossella dimena il proprio corpo. La steady a da lei all’azione degli idol. La voce dice: “rene sinistro”. Gli incappucciati assestano un colpo nel punto dei manichini che corrisponde all’organo enunciato dalla voce. Con un blip, il montepremi dei ragazzini, in sovrimpressione accanto al rispettivo nome, sale a 500 euro. Applausi. La voce dice: “arteria femorale”. Stacco: Rossella si flette da un lato e torna eretta, languida e lentissima. Viene ripresa dal basso, con ottica grandangolare, perciò la caviglia sbomba e il resto, dal ginocchio in su, protende all’infinito. Gli idol danno una seconda coltellata ai manichini. Il montepremi sale a 1000 euro.
Applausi. La voce dice: “polmone destro”. Terza coltellata. 1500 euro. La voce dice: “fegato”. Quarta coltellata. 2000 euro. La voce dice: “avambraccio sinistro”. Stacco: Rossella improvvisa uno sfottò alla Popeye the sailor man. Nessuno dei due aggredisce più i manichini. Il montepremi sale a 2500 euro. Stop musica. Applausi. Camera 2: piano lungo del presentatore. «Vi chiederete perché il montepremi sia salito nonostante i nostri idol abbiano risparmiato un’altra coltellata ai rispettivi manichini. Ci rispondono loro, così analizziamo l’aspetto tecnico/esecutorio: Rossella, vieni col gelato, per favore.» Rossella rientra in scena con un microfono. Si mette fra i due incappucciati, che un assistente di studio ha radunato al centro dell’arena. Camera 1: primo piano del presentatore. «Mi rivolgo al più giovane: Enrico, perché non hai colpito per la quinta volta il manichino?» Rossella solleva il microfono verso il cappuccio alla sua sinistra. Il cappuccio
risponde: «Perché non è un punto vitale.» «Esattamente, signore e signori: evitando un colpo inutile, gli idol hanno fatto guadagnare un punto in più ai concorrenti. Le piccole trappole con cui gli autori di WannaKill si divertono a complicarci la vita, facciamogli un bell’applauso!» Applausi. «E andiamo a vedere cosa succederà adesso. Come vai in anatomia, Je-Jeff?» Camera 1: primo piano di Je-Jeff. «Quella è l’unica roba che studio, a scuola» dice. Risate in platea. «Moooolto bene. E tu, Giù-Giù? Almeno l’aspetto teorico dell’educazione fisica ti è noto?» Risate in platea. Applausi. Camera 2: primo piano di Giù-Giù. «Vado bene, a scuola, io. Mi piace studiare.» «Sei davvero un tesoro, piccolina mia. Sono sempre più curioso di vedere se un coltello in mano ti dona: venite pure avanti e prendete le armi da taglio che gli idol vi consegneranno.» Giù-Giù e Je-Jeff si avvicinano al centro della scena. Gli idol consegnano loro i coltelli che hanno usato per la prova e si fanno da parte, a bordo studio. Dalle quinte, tre manovali trasportano verso il centro dell’arena un grande séparé, che pongono fra i concorrenti perché, come da regolamento, nessuno possa spiare le mosse dell’altro nel corso del confronto. Il presentatore, costretto a volgere le spalle al pubblico, si fa più in qua, in modo da restare visibile a entrambi i ragazzini. «Allora, carissimi: un solo colpo a organo o parte del corpo umano. Ogni errore
vi costerà 500 euro di montepremi. Ogni consiglio che chiederete agli idol, a vostra disposizione laggiù, ne costerà 300. Tutto chiaro?» Il pubblico dice “sììììì”. I ragazzini, anche. «E allora.... Al via!» dice il presentatore. Applausi. La musica riparte, identica a prima. Rossella ricompare a fondo studio e balla sul posto. «Abbiamo detto che è questione di memoria, ricordate?» spiega il presentatore, un po’ distante dai concorrenti. «Perciò alcuni termini li riascolteremo, ma... l’omicidio è improvvisazione, è fantasia, è gusto personale, è intelligenza. Stupiteci!» Carrellata sui concorrenti. In dissolvenza alternata, i loro primissimi piani trasudano concentrazione. La voce dice: “milza”. Je-Jeff scatta in avanti e, zac!, colpisce il manichino, tanto da farlo cadere. Applausi. Giù-Giù non ha ancora colpito. «Giù-Giù, cosa succede?» le chiede il presentatore. «Continui a fare la tenera, dolcezza?» Risate in platea. La ragazzina non muta atteggiamento. Parte il timer. Cinque secondi: quattro, tre, due, uno. Gong.
Il montepremi di Je-Jeff scende a 1500 euro. Il montepremi di Giù-Giù sale a 2500 euro. Applausi. Il ragazzino fa l’offeso, il contrariato. Due manovali, sopraggiunti nel mentre, gli hanno tirato su il manichino e a schiena bassa abbandonano l’inquadratura. «Eh, sì, Je-Jeff, ne sono desolaaaato: dovevi venire in trasmissione dopo i compiti» dice il presentatore. Risate in platea. Il presentatore intanto si avvicina all’idol di Je-Jeff. «Così, magari...» riprende «...avresti dato un’occhiata al tuo libro di anatomia. Come ti è parsa la performance del nostro Je-Jeff, Salvatore?» «Troppa fretta, innanzitutto» risponde subito l’idol; il fonico ha microfonato durante il gioco sia lui che l’altro ospite. «La velocità è importante, ma bisogna agire e riflettere contemporaneamente, se si intende uccidere senza errori. E colpire alla milza, è un errore: non è un punto vitale.» «Potrebbero però arrivare altri colpi, più decisivi...» lo incalza il presentatore. «Certo, ma bisogna tenere conto di un fattore, ovverosia: se quello è l’unico colpo a tua disposizione, per mille motivi, allora non hai ucciso. E... vorrei aggiungere un dettaglio, posso?» «Velocemente, prego.» «Je-Jeff è stato molto impetuoso, il manichino è caduto per questo. Quando ti avventi con quella rabbia in corpo verso qualcuno, Je-Jeff, è bene che un tuo braccio mantenga l’avversario in posizione eretta. Devi... ecco, devi quasi abbracciarlo, per intenderci. Anche il colpo che gli infliggi, vedrai, sarà ancora più preciso e profondo.» «Salvatore Anselmi!!!» chiosa il presentatore.
Applausi. «Fanne tesoro, Je-Jeff. I consigli degli idol, ripeto, costano al concorrente ben 300 euro di montepremi. Ma è la prima puntata, via!, possiamo chiudere un occhio. Che il gioco riprenda!» La musica, che non ha mai smesso di andare in onda, torna al volume giusto. La voce dice: “polmone sinistro”. Stacco: Rossella, mani sui fianchi, dimena le anche in una sorta di danza del ventre. La telecamera zoomma sul piercing all’ombelico. Je-Jeff colpisce il manichino, che di nuovo cade. Giù-Giù piazza una buona coltellata, ma nel punto opposto. Je-Jeff sale a 2000 euro. Giù-Giù scende a 2000 euro. «Situazione di perfetta parità, bravissimi ragazzi. Con quale mano scrivi, GiùGiù?» dice il presentatore. Risate in platea. La ragazzina solleva la mano armata. «Brava, tesoro. Più attenzione al terzo colpo, allora. Eccolo.» La voce dice: “cuore”. Je-Jeff 2500 euro. Giù-Giù 2500 euro. «E qui vi abbiamo facilitato non poco, eh? Alla vostra età, dubbi di cuore non se ne hanno...» Risate in platea.
Applausi. La voce dice: “giugulare”. Stacco: Rossella a l’indice alla gola, una volta il destro, una volta il sinistro. Je-Jeff esegue. Il manichino traballa, ma resta in piedi. Giù-Giù colpisce allo sterno. Je-Jeff 3000. Giù-Giù 2000. Applausi. La voce dice: “arteria femorale”. Je-Jeff fa un lavoro pulito. Giù-Giù resta ferma. Il timer parte coi cinque secondi massimi da regolamento. Gong. Scaduto il tempo, la musica si stoppa. Punteggio finale: 1500 euro per Giù-Giù, contro 3500 euro per Je-Jeff. «Proclamo vincitore di questa prima prova... Je-Jeff!!!» urla il presentatore. Applausi. Totale dall’alto, jingle della trasmissione, logo a centro schermo, nero. Pubblicità.
Il presentatore molla il braccio del ragazzino di peso e abbandona subito lo studio, senza degnare né i concorrenti né chiunque altri di alcuna attenzione.
Azzurra e Donatella corrono verso i rispettivi protetti. Hanno fretta: prendono per mano i concorrenti e li spostano per lo studio più o meno come i manovali, nel frattempo riapparsi, spostano manichini e séparé. Donatella conduce Giù-Giù alla sua postazione. «Sei stata bravissima, tesoro» si complimenta, non del tutto convinta che il suo tono riuscirà a infonderle serenità. «Intanto... ha vinto lui» risponde la ragazzina. «Non ti preoccupare, amore mio: fra poco dovrete affrontare la prova di coraggio. E in questo campo siamo noi donne le più forti.» «Davvero?» chiede Giù-Giù, con sincero e speranzoso interesse. Donatella le sorride appena. Azzurra, invece, dopo averlo ammirato in azione dai monitor, fatica a relazionarsi con Goffredo/Jeff. Il ragazzino la manda in corto circuito: prima le sta antipatico se solo respira, poi, quando la liberatoria tentazione di ucciderlo sta per dominarla del tutto, le ricorda il proprio padre e quasi la intenerisce. Adesso ne ha schifo. Neppure a toccarlo si osa. Gli comunica di tornare alla postazione con un cenno del capo, e la stupisce il fatto che lui obbedisca, silenzioso, come un cane ben addestrato. Perciò vederlo di nuovo lì, il cane, dietro le sbarre, per quanto siano di plastica, nell’insieme la trova un’immagine confortante. Si accorge quindi che la collega Donatella sta lasciando lo studio e, sollevata, la segue a sua volta. Laggiù, intanto, davanti al pubblico, l’addetto ulula nel megafono: «Siete stati a dir poco eccezionali! Ricordatevi che i concorrenti, il presentatore, il sottoscritto, i cameraman, gli autori e chiunque lavori qui, fino all’ultima ruota di questo meraviglioso ingranaggio... esiste grazie a voi!!!» Mani bianche fuoriescono dal nero, ondeggianti. «Straordinari, veramente straordinari!» dice l’addetto. «Addirittura la ola, mi fate!... Beh, sapete cosa vi dico? Vi adoro! Abbiate pazienza ancora venti secondi scarsi, gente, e poi fatevi risentire alla grande!!!»
Jingle della trasmissione. Applausi. Rossella riemerge dalle quinte e danza al centro dell’arena. Il pubblico batte le mani a ritmo di musica. Rossella termina il suo numero con una spaccata. Camera 3: primo piano (sorridente) di Rossella. Applausi. «Bentornati!» urla il presentatore. «Bentornatibentornatibentornati a WannaKill!!!» Applausi. «Vediamo velocemente la situazione: abbiamo Giù-Giù a 1500 euro di montepremi, contro i 3500 euro di Je-Jeff. La situazione, ragazzi miei, può ancora ribaltarsi nella prossima prova, il match del... CORAGGIO!» Applausi. Tre manovali trasportano nello studio una cabina in plexiglass di forma cilindrica, con una porticina sul davanti e una sedia di plastica al suo interno. Un cameraman zomma dentro la cabina e mette a fuoco una vespa che arranca lungo la superficie. Camera 2: primo piano di Je-Jeff. Il ragazzino è sbiancato. Camera 3: piano lungo del presentatore. «Carissimo Je-Jeff...» dice, assumendo un’aria tra il minaccioso e il divertito «...avrai intuito che la prima prova tocca a te. Ti facciamo fare il cavaliere...» Risate in platea. Camera 2: primo piano di Je-Jeff. Il ragazzino è impossibilitato a esprimere
emozioni, non sembra più neppure cogliere l’esistenza di un mondo a lui prossimo. «Abbiamo perso pressione in cabina, a quanto pare.» Risate in platea. Il presentatore sbircia sulla cartellina che ha finora trattenuto sotto l’ascella e aggiunge: «Il nostro amico spadaccino qui, tanto baldanzoso con un coltello in mano, ha la fobia delle vespe. Gli autori, che di sicuro non si sono mai dimostrati molto teneri coi concorrenti, avevano in un primissimo tempo pensato di riempire di vespe la cabina alla mia destra. Ma... attenzione: una sola vespa, per chi è affetto da una seria fobia, è anche peggio. Tu che ne pensi, Je-Jeff?» Camera 2: primo piano di Je-Jeff. Il ragazzino suda. Una goccia gli sta solcando il viso, densa e pesante. Per quanto tenti di articolare una risposta, nessun suono prende forma dalla sua bocca, se non un vano masticare d’aria. «Facciamogli coraggio con un bell’applauso, su!» Applausi. Camera 3: primo piano del presentatore. «Je-Jeff, comprendo la tua tensione, è umano provarne. Il regolamento contempla un tuo eventuale rifiuto del match, purtroppo, però, la relativa penalità sarebbe piuttosto alta. Giù-Giù diventerebbe in automatico la “WannaKill” della puntata e tu saresti eliminato per direttissima.» Il pubblico incita Je-Jeff. «A te decidere, figliolo.» Il pubblico batte le mani e scandisce il nome da battaglia del ragazzino. Camera 2: primo piano di Je-Jeff. Parte il timer: cinque, quattro, tre, due...
Je-Jeff esce dalla postazione e va verso la cabina. Applausi. Il presentatore gli cinge le spalle con un braccio. «Bravissimo, Je-Jeff, hai preso una decisione moooolto coraggiosa. Ora: Rossella ti aprirà la porticina e tu non dovrai fare nient’altro che sederti lì dentro. Per cinque minuti. Ad ogni minuto di tua permanenza all’interno della cabina, il montepremi salirà di 1000 euro. È tutto chiaro?» Je-Jeff annuisce appena. «Vogliamo sentire la tua voce, Je-Jeff. È tutto chiaro o no?» «Sì» dice il ragazzino. Applausi. Riparte il jingle della trasmissione. Saltellando, Rossella raggiunge la cabina e ne spalanca la porta. Je-Jeff entra e si siede. La soubrette richiude la porta e si allontana di corsa. Applausi. «Signori...» dice il presentatore «...evviva l’entusiasmo, ma ora il concorrente ha bisogno di concentrarsi. Sei pronto, Je-Jeff?» Je-Jeff non risponde, fissa del tutto imbambolato la vespa e quasi cessa di fiatare. Se potesse spegnere i battiti del suo stesso cuore, se riuscisse a impedire alla pelle di traspirare... Il sudore adesso è davvero copioso, una patina luccicante riveste per intero il suo viso. «Sì...» risponde, a malapena percepibile. Qualcuno dalla platea avvia un applauso spontaneo, ma subito l’istinto generale a reagire viene tacitato dall’addetto col megafono. Gli basta alzare una mano, e
poi portarsi l’indice al naso, perché il silenzio torni totale. Il presentatore dice: «Al via il tempo.» In sovrimpressione, il timer indica 05:00, 04:59, 04:58, 04:57... La regia a in rassegna lo studio a piani alternati. Mostra il piano d’ascolto del pubblico, il volto del presentatore, la vespa, Giù-Giù che osserva la scena, Rossella al trucco dietro le quinte, la vespa, le mani di Je-Jeff, un ennesimo primo piano grondante, la vespa, il presentatore a braccia conserte, gli idol fermi ai lati dell’arena, la vespa, gli occhi di Je-Jeff, ancora il pubblico, ancora le mani di Je-Jeff, ancora la vespa, ancora Rossella, ancora il presentatore, ancora Giù-Giù, ancora la vespa. Gong. Il timer, a intermittenza, indica 00:00. Il ragazzino, al suono del tempo scaduto, schizza fuori dalla cabina. Il pubblico è in delirio. Non applaude, scoppia. Il presentatore urla:
«Ottomilacinquecento euro!!!» e solleva il braccio di Je-Jeff come se lo stesse già proclamando vincitore. Camera 2: primo piano di Je-Jeff. Forse è morto, solo che non lo sa. Totale dall’alto, jingle della trasmissione, logo a centro schermo, nero. Pubblicità.
La mamma di Goffredo/Jeff è stata accompagnata dietro le quinte da Azzurra e Donatella. La donna non sembra arsela troppo bene. Ha gli occhi rossi, gonfi. Le mani lorde, qualcosa di scuro, che nel corridoio semibuio d’accesso si fatica a distinguere. La stessa sostanza è per altro presente sui vestiti della signora Adelante e imbratta l’interno di un sacchetto di plastica che tiene in mano. Azzurra preme la bocca nel fazzoletto e tenta di trattenere i conati di vomito. Donatella simula un’imibilità che il suo continuo sfarfallare con lo sguardo rivela falsa. Il giovane uomo coi pantaloni larghi e la maglietta col logo dell’Emittente si fa loro vicino, chiede ad Azzurra se tutto procede per il meglio. La ragazza si limita a guardarlo e dagli occhi le sgorga un cristallino messaggio: facciamola finita alla svelta, cristo santo, che sto per svenire. Il giovane uomo espleta la sua mansione: comunica a qualcuno che le ragazze sono lì, con la madre del concorrente, e qualcuno comunica a lui di tenerle pronte. «Ancora qualche minuto» dice il giovane uomo ad Azzurra. Qualche metro più in là, il pubblico obbedisce ai comandi.
Jingle della trasmissione. Rossella riemerge dalle quinte, danza al centro dell’arena e termina con una
capriola tripla. Camera 3: piano lungo su Rossella. Applausi. «E rieccoci in diretta, signore e signori, questa è la prima puntata della nuova stagione di WannaKill, il gioco in cui s’impara a sopravvivere» dice il presentatore. «Volete che i vostri figli muoiano per strada?» chiede, guardando in camera. Il pubblico dice “nooooo”. «Desiderate che i vostri bambini subiscano soprusi e minacce per tutta la vita soltanto perché non hanno imparato a difendersi quand’era ora?» Il pubblico dice “nooooo”. «E allora ben tornati con noi, siamo al match del coraggio e abbiamo il graaaande Je-Jeff in testa, con un montepremi di ben 8500 euro, seguito dalla dolce Giù-Giù con soli 1500 euro. Ma, come ben sappiamo, tutto è ancora in gioco, vero, Giù-Giù? Vieni qui, piccolina.» Giù-Giù abbandona la postazione e si avvicina al presentatore, seguita a breve distanza dalla steady-cam. «Hai visto quant’è stato bravo, il tuo avversario? Sarà dura battere il suo punteggio, non trovi?» La ragazzina tace. «Se vuoi ritirarti, Giù-Giù, puoi farlo adesso. Dubito che potrai risalire una china del genere, ma nulla t’impedisce di tentare. Più soldi vinci, più ne porti a casa.» «Proviamo» dice con un fil di voce Giù-Giù. «Ma sei eccezionaaaale, dolcezza, un bell’applauso a Giù-Giù! Questo sì che si chiama combattere!» Applausi.
«Allora, vediamo...» dice il presentatore, e sfoglia le pagine della sua cartellina «...eccoti qua. Beh, l’argomento è un po’ personale, bambolina. Sei sicura che io possa dire una cosa del genere alle varie migliaia di telespettatori che ci seguono da casa?» Giù-Giù fa spallucce. «D’accordo, tesoro... quand’è così... Vedete, amici ascoltatori, ci sono momenti in cui fare un mestiere come il mio diventa qualcosa di più importante che condurre un gioco a premi. Si tratta di... esternare un messaggio, trasmettere agli occhi di tutti un esempio: Giù-Giù ha problemi col cibo da quando ha subìto una violenza sessuale.» Il pubblico dice “ooohhh”. Camera 3: primissimo piano del presentatore. «Aveva aperto gli occhi da poco, Giù-Giù, e qualcuno a lei molto caro, molto vicino, le ha rubato l’innocenza.» Camera 1: primo piano di Giù-Giù. La ragazzina trattiene a stento le lacrime. Lo studio è silenzioso, la regia mostra una donna commossa. Il presentatore si piega sulle ginocchia e guarda Giù-Giù dritta in viso. «Tesoro, adesso chiamerò una persona. Non è tuo padre, sai bene che è in galera dall’epoca dei fatti, perciò stai tranquilla. Ma perché tu possa superare la prova, bisogna che questa persona venga qui, d’accordo?» La ragazzina fa sì con la testa. «Invito a entrare la mamma di Je-Jeff, la signora Adelante.» Applausi. Camera 2: primo piano di Je-Jeff. Il ragazzino è esterrefatto. La mamma di Goffredo/Jeff emerge dal backstage, da sola. Ha senz’altro l’aria di non capire affatto cosa le stia accadendo, ma la gente in sala, benché distante
dal centro dell’arena, appena realizza la natura della sostanza che imbratta la donna, manda segni d’inquietudine. Qualcuno urla, perfino, e stavolta l’addetto desiste dal ripristinare l’ordine, ipnotizzato anche lui dalla visione di quella donna inzaccherata, in palese stato di shock, che vaga a i ubriachi intorno al perimetro dello studio e sorregge un sacchetto di plastica da freezer il cui contenuto abbonda dello stesso materiale che le insozza mani, e abiti, e viso, e capelli. Soltanto il presentatore ha mantenuto intatto il sorriso.
Il giovane uomo coi pantaloni larghi attende nei pressi della cabina regia. L’oggetto della sua attesa non tarda molto ad arrivare. Il tizio, sui quarant’anni e uno slavato stile da fricchettone, cammina svelto; se il giovane uomo coi pantaloni larghi non avesse dominato le sue fantasie erotiche da quando gli ha messo gli occhi addosso, ovvero dal primo pomeriggio, avrebbe tirato dritto. Di là lo aspettano, e con parecchia sollecitudine, perciò deve muoversi. «Ehilà» lo saluta il giovane uomo. «Quanta fretta.» Il tizio si scioglie in un sorriso e sbatte le palpebre varie volte di troppo. «Scusami, sono vevamente di covsissima, devo consegnave il video.» «Che video?» «Quello coi falsi genitovi della vagazzina.» «Ah. Falsi genitori?» «Due figuvanti che intevagivano coi vevi genitovi del vagazzino idiota, li abbiamo vipvesi di nascosto, è uscita fuovi una voba che non ne hai idea.» «Davvero?...» «Te lo dico in antepvima: la finta madve di lei seduce il vevo padve del vagazzino idiota, e il cvetino natuvalmente che fa? Ci casca come un fesso. Il finto padve, intanto, scodella tutto alla madve veva del vagazzino idiota. Le vacconta che la moglie aggancia sconosciuti e che, insomma, adesso la tvoia in
calove se la sta sando col cvetino. E lei? Non ci cvedevai: vuba un coltello sul bancone del bav, li sovpvende in bagno e... zac! Lo eviva! Da movive, guavda.» Il giovane uomo non dimostra particolare coinvolgimento. Il tizio, avesse più tempo, sarebbe certo di concludere, sui bei tenebrosi esercita sempre un certo charme, ma suo malgrado deve andare, deve proprio andare. «Devo pvopvio anda...» Non fa in tempo a finire la frase. Il giovane uomo coi pantaloni larghi gli ha infilato qualcosa nella bocca. Qualcosa di duro, sì, ma di un pochino diverso dalle aspettative che il tizio maturava da qualche ora a quella parte. Il giovane uomo coi pantaloni larghi preme il grilletto e il silenziatore emette un rapido sbuffo. Il dvd che il tizio aveva in mano rotola via dal suo corpo.
«Signora Adelante, non si faccia desiderare, dove va? Le piace così tanto il nostro studio?» la canzona il presentatore. La donna non palesa alcuna reazione; si direbbe privata dell’udito – e, a vederla a so per l’arena, l’andatura ciondolante e lo sguardo vacuo, nemmeno con gli altri sensi se la cava meglio. Ogni paio d’occhi, vinta l’iniziale ritrosia, partecipa avidamente al suo muoversi. Ciò nonostante, la regia a ogni tot secondi immagini di repertorio. Primi piani, e totali, di un pubblico rilassato, se non ridanciano. «La televisione è finzione, signore e signori» almanacca il presentatore, ignaro della decisione registica «Per cui non abbiate timore a salutare la nuova ospite col più caloroso dei vostri applausi!» Trascorrono vari secondi perché i presenti reagiscano. Ma, sciolte le reticenze, la consapevolezza che il presentatore abbia ragione s’infonde nella platea come un contagio e produce un applauso moscio, che la regia audio rafforza.
«Venga qui, signora, io e Giù-Giù la stiamo aspettando. Rossella? Dai una mano alla mamma del quasi campione Je-Jeff a ritrovare la strada di casa, per favore.» Dalle quinte, Rossella rientra in scena, del tutto incapace di relativizzare il proprio imbarazzo convertendolo nel sorriso che le viene imposto di esibire. Va in onda un applauso registrato. «Allora, Giù-Giù, mentre la mamma del concorrente tuo rivale ci raggiunge con l’aiuto della nostra bravissima Rossella, ti chiedo: possiamo rivelare qual è l’oggetto della tua fobia? La signora, a quanto mi dicono, ne avrebbe un esemplare in quel sacchetto e muooore dalla voglia di... fartelo vedere.» Risate in play-back. La mamma di Goffredo/Jeff si sottrae alla pur leggera presa che Rossella stava esercitando sul suo braccio destro, allo scopo di sorreggerla; si getta a terra, in ginocchio, d’istinto abbraccia le gambe di uno degli idol lì vicino, e inizia a modulare una nenia. Dai microfoni sparsi per lo studio se ne coglie ben poco, ma una frase è chiara: la donna sta dicendo “io l’ho ucciso”. E lo ripete svariate volte, stretta alle gambe dell’uomo incappucciato, ignorando il sopraggiungere attorno a lei di altri assistenti di studio, fra i quali si riconoscono Donatella e un uomo che ha tutta l’aria di essere medico. Ad eccezione del falsetto, monocorde e ossessivo, della madre di Goffredo/Jeff, lo studio tace. Perfino la verve del presentatore implode. E non si risolleva neppure quando, attraverso l’auricolare invisibile che lo mantiene collegato alla cabina di regia, gli giunge l’ordine di fare una cosa lui, adesso, una maledetta cosa qualsiasi, chiaro?, mettici una cazzo di pezza o qui andiamo in merda. E prendi tempo, insiste la voce, che il contributo esterno non è ancora arrivato, questione di minuti. Camera 2: Je-Jeff, ripreso in primissimo piano, osserva con severa partecipazione quanto accade, ma non osa abbandonare la propria postazione. La voce all’auricolare, con rinnovata determinazione, sprona il presentatore ad agire. In fretta. Camera 3: piano lungo sul presentatore, che agisce.
«Signora, lei non ha ucciso nessuno, non possiamo permetterci di scendere a tanto, ne andrebbe della serietà del programma» dice. Risate in play-back. «Lei e il signor Adelante avete interagito con una coppia di attori. Vista la difficile situazione famigliare della concorrente, la scelta è caduta su di voi.» La steady riprende la donna abbracciata alle gambe dell’idol. Il personale dello studio che intanto si è aggiunto ai primi soccorritori se ne tiene a debita distanza. «Eravate monitorati» riprende il presentatore, da fuori campo. «Siete stati ripresi di nascosto e lasciati liberi di spingervi anche fino alle estreme conseguenze. Vedremo il tutto a minuti in un breve montato, ma posso anticiparle che è arrivata un’ambulanza. Suo marito è salvo.» Applausi registrati. «Adesso dovrebbe soltanto mostrare a questa bella bambina il contenuto del sacchetto che stringe in mano. Gliel’abbiamo lasciato tenere noi apposta, signora, occasioni del genere accadono di rado. Pensate, amici da casa: nel trambusto avvenuto in sala ospiti fra i genitori di Je-Jeff e, badate bene, i finti genitori di Giù-Giù...» Stacco: la donna si scaglia contro il presentatore. Camera 2: piano lungo. La donna corre, illuminata dalle luci principali. La sostanza di cui sono insozzate le sue vesti, le sue mani, il suo volto, il suo sacchetto, è lampante sia sangue. Il muro nero ondeggia confusamente, frana, grida. Qualcuno tenta di abbandonare il proprio posto, altri danno di stomaco. La regia stavolta li mostra, anche se solo per un attimo, appena il tempo di rientrare sull’arena mentre la madre di Je-Jeff colpisce il presentatore in faccia, col sacchetto. Camera 3: primo piano del presentatore. Il suo volto è per metà una maschera. La camicia è da buttare. Per la cravatta, nessuna speranza. Il completo gessato grigio, forse, affidato a una buona lavanderia, potrebbe salvarsi. «Non esageriamo, signora, si contenga» dice lui, come niente. «Gli autori
potrebbero aversene a male, sono stati loro a inserire qualche piccola novità, nella nuova edizione del gioco.» Camera 1: stretto sugli occhi della donna. Da fuori campo, il presentatore aggiunge: «È un gioco, questo. La mossa ora è sua. Dovrebbe soltanto mostrare il contenuto del sacchetto a Giù-Giù.» In dettaglio, la steady-cam riprende il sacchetto di plastica. «Le sembra difficile?»
Il giovane uomo entra in cabina regia e ne sonda l’ambiente. Ai rispettivi posti siedono, da sinistra verso destra, i tre autori, l’aiuto regista, il regista, il mixer video e il tecnico rvm. È quest’ultimo a degnare d’attenzione il nuovo arrivato. «Non aspettavamo mica te» esordisce, ruotando sulla poltrona quel tanto che basti «Cos’è quel cd?» Il giovane uomo si avvicina al tecnico e porge il dvd. «Si tratta del contributo esterno» risponde. «Vai alla 3» sta intanto dicendo il regista al tipo del mixer video. «E come mai hanno mandato te?» prosegue, senza voltarsi. «Tu non c’entri con la regia esterna... ok, stacca sulla steady... o sbaglio?» «Mi hanno chiesto la cortesia di pensarci io. Là sotto, in sala ospiti, pare sia successo un gran casino.» «La 2, adesso... Ma va? Ce ne siamo accorti.» A quell’uscita, per altro priva di una particolare enfasi, i tre autori soffocano male una risata. Il regista li fulmina, di traverso. Giusto perché mi pagano, vorrebbe significare quell’occhiataccia, ma il trio di trentacinquenni pettinati e vestiti in modo sostanzialmente uniforme ne fraintende l’astio, lo scambia anzi per una manifestazione non verbale di complicità, per tanto smettono di frenarsi. Le loro sghignazzate, e le conseguenti pacche sulle spalle, malgrado tutto sciolgono un po’ la tensione che da almeno un quarto d’ora è diventata piuttosto
palpabile, lì dentro. «Ok, ok, vediamo ’sta roba» taglia corto il tecnico rvm, la cui pelata erutta minuscole, infinite goccioline, rese perlacee dalle luci basse della cabina e soprattutto dall’impianto di condizionamento, tarato ancora sul Polo Nord. Il giovane uomo si allontana, di qualche o, finché con la schiena cozza contro la parete. Da quella postazione li ha tutti sotto tiro – e pregusta l’imminente arrivo del momento clou così come gli hanno insegnato: dominando il proprio respiro. Peccato che il continuo schioccar le dita del regista, ogni quando decide quale telecamera vada inserita nella diretta, lo stia un tantino innervosendo comunque. La verità è che se l’aver sfondato il cranio a quel finocchio figlio di puttana non gli fosse sembrato un aperitivo bastante, a quest’ora li avrebbe fatti secchi, uno a uno. Non a caso, durante la fase di addestramento il possessore di un carattere impulsivo è sempre oggetto di parecchi sforzi, da parte sua e dei formatori, perché acquisti la freddezza indispensabile in una futura missione. L’impulsività è un virus da mettere in quarantena, se vuoi davvero fare il cattivo. Tuttavia gli istinti sono istinti. E al giovane uomo schiacciare il grilletto piace. Un sacco. Sul monitor del tecnico rvm, intanto, appare un primo piano. La ragazza ha i capelli biondi, a caschetto, e un’aria molto familiare. «Io questa qui la conosco...» riflette a voce alta il tecnico rvm «...e non c’entra un bel fico di niente.» Stavolta, il giro sulla poltrona lo completa per bene e fissa il giovane uomo. Le gocce sulla pelata sembrano ora appartenere alla sua stessa pelle. Qualcosa di freddo, e di interno, gli attraversa la spina dorsale e si espande proprio là sopra, congelando qualsiasi forma liquida ne impacci il aggio. Purtroppo non arriva in tempo alla bocca. Non prima che il tecnico possa dire: «Questa è la Milone. Cazzo c’entra la Milone, me lo spieghi?!» Il proiettile lo raggiunge al ginocchio. Tra lo stantuffo del silenziatore, il rumore prodotto dal peso del tecnico rvm che cade a corpo morto in terra, e l’urlo di lui, tutti i presenti sobbalzano. Il seguito, avviene al ralenty. Ognuno assiste basito prima all’agonia del tecnico rvm rannicchiato, poi, per la prima, vera volta, vedono il giovane uomo. O meglio: per la prima, vera volta, vedono un’arma da
fuoco. Nella fattispecie, la pistola che impugna lui. «Ascoltatemi bene...» dice il giovane, con una voce che gli piace masticarsi in bocca e sputare fuori più piano possibile «...lo studio è sotto sequestro. Alla prima cazzata vi faccio saltare il cervello. Riprendete il vostro lavoro, subito. Tu: rimettiti in piedi.» Il tecnico rvm mugola, rannicchiato sul linoleum. Il giovane uomo lo scuote con un calcio. Il tecnico rvm emette qualcosa di simile a un vagito primordiale. «Bello, i capricci con me non reggono. Alzati e torna al tuo posto. Non so se ho voglia di starti a pregare.» Il tecnico rvm slaccia una mano tremolante dalla ferita e cerca a tentoni un appiglio qualsiasi affinché possa farci leva e obbedire all’ordine. Impresa titanica, con una pallottola nella rotula. «E voi?! Lavorate, avanti! Non vi ho detto così?!... Allora, forza.» È il regista a spingere per primo la propria poltrona verso la consolle. Da casa, l’immagine è rimasta fissa sull’ultimo totale da fondo studio che lui ha ordinato. Chissà per quanto tempo, si chiede. La legge di Murphy, pensa, sostiene che la lunghezza di un minuto dipenda da quale lato della porta di un bagno ti trovi. L’idea che un altro povero stronzo possa farsela nelle mutande quanto lui, ma per una mera questione di punti di vista, lo fa sorridere. Non più di sbieco, torna a fissare i tre autori. Hanno perso l’aria di sarsela, adesso. «The show must go on» commenta. «Andiamo con la 1.»
Camera 1: primo piano del presentatore. L’uomo si ravvia il ciuffo, nella speranza di ricomporsi. Se soltanto qualcuno gli portasse uno specchio, capirebbe quant’è inutile provarci. «Amici da casa...» dice, e per la prima volta in serata sbaglia camera «...la regia mi comunica che sono disponibili le immagini del contributo esterno. Ricordiamo però, a tutti coloro che ci stanno seguendo da pochi minuti, qual è il punteggio di gioco: Je-Jeff conduce con 8500 euro di montepremi, contro i 1500 della dolcissima Giù-Giù, qui accanto a me, pronta ad affrontare la prova del
coraggio, dico bene Giù-Giù?» La bambina è palesemente terrorizzata. Non risponde, non connette. Si regge in piedi per inerzia. Il presentatore prosegue spedito: «Prima di visionare il breve montato che gli operatori della regia esterna hanno assemblato nel corso della trasmissione, è necessario un piccolo preambolo: la signora alla mia sinistra ha commesso un reato nei nostri studi. Lei e il marito, entrambi genitori del quasi campione “WannaKill” Je-Jeff, hanno partecipato a una... ecco, a una candid un po’ particolare. A voi regia.»
Il presentatore trattiene il sorriso finché la lucina sulla telecamera non si spegne. Appena reputa possa muoversi, abbandona Giù-Giù e la madre di Je-Jeff ai rispettivi destini e cerca le quinte. Bisogna che i truccatori corrano, questa merda va tolta, almeno dalla faccia, chissenefrega di quella pazza con l’uccello del marito a mollo, vadano a fare in culo tutti quanti. Alla fin fine, se qualcuno è riuscito davvero a padroneggiare una situazione di panico assoluto, quel qualcuno, lì dentro, è stato lui. Domani dovrà discutere la cosa col suo agente. La diretta di stasera potrebbe rappresentare il trampolino di lancio per nuovi contratti, nuovi conti esteri su cui depositare cifre a più zeri. Non toccherà mai neppure la soglia del backstage. Il mega-screen là in alto, a fondo studio, lo distoglie dall’urgente proposito. Sta trasmettendo un contributo esterno assai diverso da quello programmato. Non vi sono ripresi né gli attori, né i genitori del ragazzino. Il presentatore, incapace a procedere oltre di un o, fissa l’immagine di Azzurra Milone come fosse il volto di un dio primitivo. «Il mio nome non ha alcuna importanza» dice la giovane, ripresa in primissimo piano. «Ed è altrettanto irrilevante si conosca quello del movimento cui appartengo. Siamo un buon numero di persone motivate, si sappia questo. Abbiamo sostituito secondo prassi il personale di molte delle trasmissioni che da anni seguite: siamo una comunità intestina, una legione straniera di addetti allo studio, cameraman, bassa manovalanza. Pensiamo che il palinsesto sia lo specchio della società occidentale e occidentalizzata. Nel giro di trent’anni, il
sistema televisivo ha evangelizzato i popoli alla religione del telecomando. Bisogna davvero essere ciechi per sottovalutare la semplice operazione di lobotomia collettiva su cui l’intero decadimento sistematico dell’odierna civiltà si regge. Come cittadini non assuefatti, e soprattutto come esseri senzienti, desideriamo dimostrare quanto sia necessario spegnere i televisori. E la Storia c’insegna che al conseguimento di un obiettivo tanto alto ci si approda ando per forza attraverso il sacrificio.» L’addetto col megafono è il primo fra i presenti in studio a imbracciare il mitra.
Non esiste razionalità senza senso comune e concretezza. Senza senso comune e concretezza, la razionalità è fanatismo. (Pier Paolo Pasolini)
Nota
Alcuni dei testi qui proposti hanno goduto di precedenti pubblicazioni. Desidero ringraziare quegli editori che li hanno benevolmente inclusi nelle antologie cui ho partecipato: Addictions, ElleU e Jar Edizioni. Un ringraziamento particolare a Davide Celoria per la regia di WannaKill. E per l’inossidabile amicizia. Un abbraccio ai Cinemavolta, ai Banda Putiferio, nonché a Stefano d’Emilio, Emilio Fasciani, Tony “Globster” Lioci e sco Polcini, per aver condiviso con me, in questi folli anni di produzioni libresche, parole e note, sghignazzate e malumori, serate (malpagate o nella maggior parte dei casi gratuite) e ritorni (a orari improbabili e attraverso distanze sempre scomode). Alla mia famiglia, e alla famiglia di amici che nel tempo ho visto aumentare in qualità e ridursi in quantità, tutto il mio affetto, la mia devozione e quel poco di bene che riesco a ricambiare. Ad Attilia, che ogni cosa illumina, e amplifica, e rigenera, un semplice grazie non renderebbe affatto l’idea. Provvederò in privata sede. A te, infine, che hai avuto la pazienza di arrivare fino a qua – e a te che ci sei arrivato/a subito, saltando a piè pari il prima –, un invito a bere insieme, qualora c’incontrassimo lungo gli strani percorsi che avvicinano un libro a un lettore.
Alla prossima.
G.
L’autore
Gianluca Mercadante è nato nel 1976 a Vercelli. Ha pubblicato “McLoveMenu” (Stampa Alternativa 2002), “Il Banco dei Somari” (NoReply, 2005), “Nodo al Pettine – Confessioni di un parrucchiere anarchico” (Alacràn, 2006), “Polaroid” (Las Vegas, 2008), “Il giardino nel recinto di vetro” (Birichino, 2009), “Cherosene” (Las Vegas, 2010), “Io ho visto tutto” (Milanonera, 2012), “Casinò Hormonal” (Lite Editions, 2013), “Caro scrittore in erba…” (Las Vegas, 2013), “Noi aspettiamo fuori” (Effedì, 2014). Decine di suoi racconti sono apparsi in antologie, riviste e per il Giallo Mondadori. Ha scritto di critica letteraria per “Orizzonti”, “Pulp” e “Satisfiction”.
Dello stesso autore abbiamo pubblicato
Caro scrittore in erba...
Collana: I Jolly Pagine: 140 Isbn: 978-88-95744-28-5 (Cartaceo) Isbn: 978-88-95744-75-9 (Ebook)
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Molto si dice sull’arte della scrittura, molto poco invece sul mestiere di scrittore. Su come trovare l’editore giusto e quali siano i rituali da superare nel momento in cui un editore finalmente decide di puntare sulla tua storia. Sapori e dissapori che uno scrittore in erba deve ingoiare, per sbucciarsi per benino le ginocchia nello sforzo teso a raccontare una verità, la sua, la tua. Attraverso le sue esperienze e (dis)avventure nel mondo editoriale, Gianluca Mercadante ci ricorda una semplice e onesta verità. Che un libro non si pubblica, ma si scrive.
Con la prefazione di Gianluca Morozzi.
Polaroid
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Basta davvero poco per dar sfogo al lato oscuro che giace in ognuno di noi. Una lieve scossa, per trasformare quanto di più ordinario in un’azione improvvisa e malvagia. Una scossa che colpisce e accomuna tutti: un mansueto poliziotto come un pensionato stanco, una giovane hacker come un apionato d’arte o un rappresentante di cosmesi. E nessuno ne è indenne: perché il male non è fuori, ma dentro di noi.
Lettera dell’editore
Caro lettore, intanto grazie per essere giunto fin qui. Spero davvero che tu abbia apprezzato questo libro e che ti abbia lasciato qualcosa, se l’hai già letto, o che lo apprezzerai. Sappi che il nostro lavoro è proprio questo: cercare belle storie, raccontate da persone dotate di una voce riconoscibile, che sappiano regalarti un momento di svago, generino qualche pensiero nuovo, suscitino un’emozione. Se poi riusciamo con le nostre storie a fare tutte e tre le cose insieme allora abbiamo vinto il jackpot. Però, sai, si sceglie una storia come si scelgono gli amici: dipende tutto dal carattere e dai gusti, quindi vorremmo raccontarti qualcosa di noi. Las Vegas edizioni è un nome strano per una casa editrice, vero? Andrea Malabaila, il fondatore, ha voluto chiamarla così perché Las Vegas evoca peccato, gioco d’azzardo e luci al neon, tutte cose che c’entrano poco con i libri. Ma è anche il posto in cui tutto è possibile e i sogni possono diventare realtà. Crediamo che uno dei compiti di un editore sia quello di avvicinare la gente ai libri, non di allontanarla facendole credere di non essere all’altezza. Tolleriamo tutto, ma non le torri d’avorio.
Las Vegas edizioni nasce nel 2007 e nel 2008 escono i primi tre titoli: Viva Las Vegas un’antologia a cura di Andrea Malabaila, Saxophone Street Blues di Hector Luis Belial e Il diario dei sogni di Marco Candida. Nel nostro catalogo ci sono 30 titoli e tre collane: I Jackpot, dedicata alla narrativa non di genere. Las Cerezitas, dedicata ai ragazzi dai 13 ai 19 anni.
I Jolly, dedicata a testi a metà tra narrativa e varia.
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