Beth E Araar, E Il Cammello Parlante 4j483m

Indice

Attraverso il deserto

Sosta nell'oasi

In viaggio verso Nord

La città scavata nella montagna

Il Paese degli Specchi dalle Figure Parlanti

Zoraya e altri imprevedibili incontri

La rivelazione

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Guido Sperandio

BETH E ARAAR, E IL CAMMELLO PARLANTE

my indie books

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Attraverso il deserto

Araar, il ragazzo sognatore

Arrivò una carovana.

Ed era sera.

Il sole scendeva lentamente, dolce, dentro la linea lontana dell’orizzonte. La sabbia dorata del deserto adesso era arrossata. Si confondeva col cielo pure infuocato, e il sole si delineava enorme.

Il buio sarebbe calato di colpo. Un attimo ancora. Solamente.

«Araar!» una voce di donna lacerò la coltre di piccoli rumori che aleggiava sul villaggio: ogni abitante infatti era intento ad accudire agli ultimi compiti della giornata prima di un’altra notte, e l’aria era intrisa dei fumi e degli odori del cibo cucinato fuori dalle case in grandi pentole di rame.

«Araar! Che il cielo ti fulmini. Figlio sconsiderato! Dove ti sei cacciato? Araaaaar!...Fatti vedere: vieni fuori!»

Il verso stridulo di un uccello rispose beffardo al grido della donna.

Seguì il belato di una capra.

L’uccello sfrecciò con un frullo d’ali.

*

La donna teneva i lunghi capelli corvini racchiusi dentro un ampio panno scuro che le avvolgeva il capo, incorniciandole il viso.

Erano capelli ribelli. Incontenibili come la rabbia che traspariva nei lineamenti contratti del suo viso. Ciocche e ricci le fuoriuscivano dal panno scuro, sul collo, sulla fronte, alle tempie. E la donna, rapida, attraversò il villaggio guardandosi in giro. Frugava con gli occhi. Lo sguardo lampeggiante.

«Araar! Disgrazia dei miei giorni!»

La donna raggiunse l’ultima casa del villaggio: abbandonata da tempo immemorabile, e diroccata, ne restava solo il contorno della base: descritto dagli avanzi di pietre e argilla. Un albero vi si era insediato e aveva eletto le rovine a propria reggia. Lui, unico inquilino. E sovrano.

Circondato da una corte ossequiente di arbusti, ai propri piedi, l’albero prosperava rigoglioso. A dispetto del clima ostile.

«Ah!... Sei qui, piccolo demonio» disse la donna.

Si era arrestata davanti a un ragazzino dai capelli folti e ricci, neri come la pece. Intricati. Una boscaglia.

*

Quando sua madre era apparsa, Araar stava appollaiato in cima all’albero. A cavallo di un ramo. Appena l’aveva vista, ne era sceso.

Era scivolato lungo il tronco, lesto come un gatto. Agile uguale. E, come un gatto, aveva toccato terra. Leggero. Sfiorandola appena con i piedi.

Adesso, fissava sua madre con due occhi grandi e intensi. Che tradivano un caratterino mica male.

«Si può sapere cosa stavi combinando? Perché non rispondevi? Parla…» lo assalì sua madre.

«Sta arrivando una carovana…» lui disse eccitato indicando in lontananza.

Non ne avano di frequente. E ogni volta per Araar era una novità. Le carovane venivano da chissà dove, e andavano in posti dai nomi di leggenda. Qualche volta, qualcuno dei carovanieri si degnava di parlare al ragazzino, e allora uscivano racconti di avventure e storie favolose. Ad Araar si accendeva la fantasia, e fremeva.

Avrebbe lasciato il villaggio volentieri e seguito quei misteriosi esseri del deserto in capo alla luna.

Perché il villaggio sembrava non appartenere al mondo.

Non accadeva talmente niente che nascere e morire erano gli unici eventi.

*

«Ma che carovana e carovana!(la madre strattonò il ragazzo). Te la do io la carovana. Datti una mossa. Su, sbrigati, cammina!»

Si erano appena avviati. Araar davanti, la madre dietro che lo sospingeva. Uno scalpiccio, dapprima accennato poi mano a mano sempre più assordante, li riscosse. Si avvicinava rapido alle loro spalle. Si voltarono.

La donna fu la prima a girarsi, e nella luce incerta del sole prossimo a sparire, si profilò il primo di una lunga fila di cammelli. Cavalli e muli trottavano al loro fianco. Li accompagnava e avvolgeva una nuvola di sabbia.

La donna afferrò la mano di Araar e affrettò il o. Raggiunta la loro casa, ne infilò rapida la porta.

L'incontro con Alkabir, il capo-carovana

Comandava la carovana un certo Alkabir che attestò uomini e animali ai bordi del villaggio, nei pressi dell’antica casa diroccata.

Lo stesso Alkabir, poi, si inoltrò tra le casupole.

Esibiva nella mano destra, bene in vista, un sacchetto di monete. Lo agitava e faceva tintinnare. Mentre nel palmo della mano sinistra gli brillava una soldo d’oro che l’uomo lanciava in aria e riacchiappava al volo.

«Gente, uscite! Siamo amici!... Amici! (gridava Alkabir). Abbiamo bisogno di tanta buona acqua fresca e di buon cibo. Ve li paghiamo profumatamente… Uscite, gente! Siamo amici!»

Era una nenia.

La cantilena ebbe il suo effetto: le porte si dischio. Una a una, lentamente. E ne fuoriuscirono dapprima gli uomini del villaggio, quindi le donne.

Si raccolsero intorno alla gigantesca sagoma di Alkabir che non smetteva di lanciare il soldo d’oro e di far tintinnare il sacchetto di monete.

Il padre di Araar si unì al capannello che si era formato intorno al capocarovana.

A distanza, il ragazzino lo seguiva tutt’occhi e orecchi.

*

La carovana era di trenta e a uomini e di un numero doppio-triplo di animali.

Trasportava incenso e spezie, cristalli di roccia rossi, azzurri e gialli dalle luminescenze (si diceva) in grado di guarire da ogni male. Dell’anima compresa. Come la malinconia.

La carovana trasportava anche scimitarre dall’impugnatura finemente cesellata, preziosi tappeti di Bukhara e broccati del Catai con perle e rubini incastonati.

Proveniva dall’India ed era diretta oltre alle dune ultime dell’orizzonte, dove il sole era ormai tramontato. E dove, dopo avere cavalcato giorni e notti, si raccontava ci fosse il mare.

*

Il mare!

Araar ne aveva sentito parlare fin da piccolo. E, ogni volta, ne era rimasto impressionato.

Si narrava infatti che il mare fosse una superficie grande quanto il deserto ma dove al posto della sabbia c’era solo acqua. Acqua che si muoveva giorno e notte, avanti e indietro, sempre, all’infinito. E ad Araar sembrava impossibile.

Non riusciva a crederlo.

Più di una volta era salito in cima all’albero dell’antica casa diroccata. E si era divertito a immaginare che la distesa di sabbia vista da lassù fosse liquida e azzurra. Con le dune che facevano da onde. Con le dune che si muovevano. Avanti e indietro. Anche loro. Sempre. All’infinito.

Socchiudeva gli occhi, Araar. Provava a immaginare.

Ma… Niente!

Non si convinceva.

“Non ci può essere al mondo tanta acqua così, e tutta in una sola volta” si diceva. “Mi prendono in giro”.

Si diceva: “È senz’altro uno di quegli sciocchi scherzi che i grandi amano fare ai ragazzi”.

*

Ad Araar non sembrò vero di cacciarsi nell’andirivieni di persone che facevano la spola: tra le casupole e i magazzini e il campo apprestato dai carovanieri per la notte.

C’era chi riempiva le otri di acqua. E chi portava grandi pani e vasi colmi di miele. E grappoli di datteri. E melograni freschi di ramo, appena colti.

Al campo accesero i fuochi, e il ragazzino non stava nella pelle.

Era una festa.

Un movimento simile non capitava tutti i giorni.

Araar non staccava gli occhi da Alkabir. Il gigante si erigeva imponente sul formicaio di persone indaffarate. Dirigeva il traffico. Impartiva ordini.

La sua voce risuonava potente.

Tanto potente che, a ogni parola, gli vibravano i peli della barbaccia folta e scura, e incolta, che gli scendeva fino a sommergergli il petto.

Dal lobo dell’orecchio sinistro di Alkabir pendeva un vistoso anello d’oro. Spiccava sotto il turbante. Brillava nella penombra della notte.

Ma ad attrarre Araar era la pesante e potente scimitarra che il gigante portava al proprio fianco.

“Chissà quante teste ha mozzato” si ripeteva il ragazzino con un brivido. Eppure ammirato. Nel contempo.

Subito dopo fantasticava: si vedeva al centro di scontri e di duelli dove lui, Araar, mulinava la potente spada.

La sua eccitazione toccò il colmo quando Alkabir, improvvisamente, abbassò gli occhi. Incrociò lo sguardo del ragazzino e tuonò: «Ehi, tu! Di chi sei figlio? Ce l’hai un padre?».

*

«Sei dunque il padre del moccioso?» disse Alkabir all’uomo.

«Già. Così ha voluto il Nostro Grande Signore Creatore di ogni cosa» l’altro rispose.

«Tuo figlio è sveglio... È un grillo.»

Il padre di Araar contraccambiò con un leggero inchino, compiaciuto.

Seguì un lungo silenzio.

I due stavano seduti di fronte, dentro la casupola.

La madre di Araar, accovacciata in un angolo, ascoltava avvolta nel suo manto nero: le scendeva dal capo ai piedi, nascondendole il viso, mentre il ragazzino le si premeva contro.

Emozionato.

Parlavano di lui.

*

Il padre aveva onorato l’ospite: si era affrettato ad offrirgli dell’arak: dell’acquavite di succo di canne da lui stesso distillata e aromatizzata. E adesso i due uomini la attingevano dalle loro ciotole di coccio.

Se la portavano alle labbra. Lentamente. Assaporavano. Soppesavano ogni sorso. In silenzio.

ò tempo prima che Alkabir riprendesse la parola.

«Mi serve un tipo lesto» disse.

Face seguire una lunga pausa.

Continuò: «Tuo figlio potrebbe servirmi per accudire i cammelli».

Altra lunga pausa.

«Sono disposto a comperartelo (concluse Alkabir). Quanti denari può costarmi?»

Il padre di Araar non rispose.

Quando il padre si decise a rompere il silenzio, disse che lui (suo figlio) non lo avrebbe ceduto nemmeno per tutto l’oro del mondo.

Alkabir fece allora la mossa di andarsene. Si alzò con aria solenne e si diresse alla porta. Ne superò la soglia. Ma appena fuori si arrestò e girò: «Non posso che darti un paio di denari. E per un moccioso come quello, credimi, sono anche troppi. È un affare. Pensaci».

Il gigante si allontanò nell’oscurità aggiungendo a voce alta: «Hai tempo fino all’alba. La carovana si muove al primo chiaro».

«Ehi, ehi! (il padre gli urlò), che fretta hai? Su, vieni. Discutiamone.»

Il gigante tornò.

Daccapo si sedette.

Mercanteggiarono a lungo. Accaniti. Il padre disse che, degli undici figli che aveva, Araar era l’ultimo nato, il prediletto.

Il gigante gli rispose che poteva tenerselo, stando così le cose. Rispose che lui, Alkabir, non aveva intenzione di spezzare il cuore di nessuno.

Il padre allora disse che undici bocche da sfamare, ahimè, erano tante e che proprio per il bene stesso del figlio prediletto poteva anche cederlo e sacrificare il proprio affetto.

«E va bene (tagliò corto Alkabir). Ti do due denari. Affare chiuso.»

«Duee… Duee… Denaaari? Venti, vorrai dire!» scattò il padre.

Alkabir rilanciò a due denari e mezzo, e la luna fuori stava sorgendo proprio in quel momento. Ebbene, quando finalmente conclo lo scambio, la luna aveva percorso l’intero arco del cielo e ormai stava tramontando.

Nove denari e trenta piastre fu il prezzo raggiunto alla fine di infiniti tira e molla.

*

Al momento di pagare, Alkabir corrispose nel palmo della mano del padre i nove pezzi d’argento. Ma arrivato alle piastre, alle monetine, si fermò a venti. Si rifiutò di scucire le ultime dieci.

Alkabir se ne andò, e invano il padre lo rincorse.

Le dieci monetine non le ebbe.

*

Araar, intanto, rifletteva su quello che improvvisamente gli stava capitando.

“Una fortuna” si disse. “Adesso me ne vado” pensò. “Stavolta il sogno mio si sta avverando.”

Provava del dispiacere per sua madre, certo, ma si giurò che sarebbe comunque ritornato. Magari potente, e pure ricco.

Allora, avrebbe portato in dono a sua madre la veste più sontuosa che principessa avesse mai indossato.

*

ò la rimanente notte sveglio. Gli occhi spalancati. Rannicchiato nella paglia del suo angolo. Di tanto in tanto, percepiva un sussulto che culminava in un singhiozzo: era il pianto sommesso e la disperazione trattenuta di sua madre.

Suo padre, al contrario, incassato il prezzo della vendita, si era steso soddisfatto nell’angolo opposto, il più lontano.

Subito era caduto in un profondo sonno.

Tsuor, il cammelliere

La carovana si avviò che il cielo a oriente sbiancava appena. La lunga fila srotolò lentamente verso la direzione opposta, verso il ponente avvolto ancora nell’oscurità.

Viaggiarono l’intera mattinata, si arrestarono soltanto quando il sole era più cocente. Salvo riprendere il cammino quando si era attenuata la calura.

Araar scoprì che il deserto non è solo di sabbia. Ma anche interrotto da larghe distese di sassi. E quando la carovana si trovava davanti a un grosso masso,

doveva deviare. Se l’ostacolo poi era una roccia, erano costretti a un lungo giro.

Poteva capitare che la sabbia fosse troppo fine per gli zoccoli dei cammelli, e allora la colonna si spostava alla ricerca di un fondo consistente. Ma c’era pure il sale: dove, un tempo, probabilmente, si stendeva il mare o un lago.

Gli animali ne soffrivano, e i cammellieri liberavano dal carico le bestie. Le aiutavano a uscire dal tratto ostile.

*

Apposta c’era una guida.

E se la guida si ammalava o moriva, come frequentemente capitava, subito i cammellieri provvedevano a scegliere fra loro un sostituto.

Con tutti quei giri c’era da perdersi e loro non potevano permetterselo. La rotta era molto più precisa di quanto un profano possa immaginare. Era una via solo apparentemente indefinita. In realtà, collaudata dai secoli, e fissata nelle stelle.

Così, dopo avere superato questo o quell’ostacolo, daccapo la carovana puntava nella direzione indicata dall’astro preso di riferimento. Ogni alba, prima che la luce del sole cancellasse quella delle stelle, gli occhi si alzavano al cielo a verificare quale sarebbe stato il loro prossimo cammino.

Da quella parte, gli uomini sapevano, avrebbero trovato un’oasi dove rifornirsi di acqua e cibo, e rifocillare loro e i cammelli.

Questa fu la prima lezione ed esperienza di Araar.

Lo apionò.

E lui imparò.

*

Alkabir aveva affiancato Araar a un uomo, un certo Tsuor. Il quale, dapprima si mostrò infastidito: considerava il ragazzino un peso. Ma poi finì con l’accettarlo. E i due diventarono amici.

La notte, quando si fermavano e accendevano i grandi fuochi, Araar si dava da fare per rendersi utile. Al contrario di quand’era a casa, al villaggio, dove era abile a schivare qualsiasi impegno, e sua madre doveva continuamente redarguirlo e spronarlo:

«Araar, ti prego, è la terza volta che ti chiedo di prendermi l’acqua al pozzo.»

«Araar, possibile che debba pensare io a tutto?»

«Araar, quando ti deciderai ad aiutarmi?»

«Araar, te ne stai lì con le mani in mano: non pensi che dovresti muoverti anche tu?»

«Araar, dovrai rendere conto a Dio della tua pigrizia. Finirai dannato tra le pene dell’inferno.»

Ma adesso non era come con sua madre, che come tutte le donne stava sempre lì a lamentarsi e a cantare i salmi. Adesso era roba da uomini, e tra uomini. E Araar considerava Tsuor un suo compagno d’avventura. Solo un poco più grande.

Tsuor a sua volta ricambiava a proprio modo. Pensava che il ragazzo poteva essere suo figlio.

*

Una notte, attorno al fuoco, Araar raccontò a Tsuor la propria storia: di come lui avesse voluto tanto andarsene dal proprio villaggio. E, qualche notte dopo, anche Tsuor raccontò la propria vita ad Araar.

«Sai dov’è il Cairo?» disse Tsuor.

«No (rispose il ragazzo). Dov’è? È lontano?»

«Oh, sì. Molto. Ma anche se non lo sai poco importa. Conta che io vivevo lì vicino, e avevo un pezzetto di terra dovevo coltivavo le mie cose. Così quella sarebbe stata la mia vita fino all’ultimo dei miei giorni se non fosse che mai si deve dire mai.»

L’uomo tacque. I suoi occhi si inumidirono. Deglutì, e lentamente riprese a raccontare, la voce rotta dalla commozione: «Un giorno, il vento risucchiò ogni cosa. Nuvole nere si abbatterono sulla terra, l’acqua del cielo si unì a quella del fiume Nilo che si gonfiò fino a straripare. E io mi sentii volare via, trascinato come un fuscello. Persi il senso di quanto stava accadendo e solo quando la furia si placò, mi resi conto di galleggiare abbracciato al tronco di una palma. Attorno a me c’era solo la desolazione: acqua sporca limacciosa.»

L’uomo indugiò. Si ò la lingua sulle labbra.

«E poi?» chiese Araar, ansioso di conoscere la fine della storia.

«L’acqua rifluiva lenta verso il mare…»

Il mare!, pensò Araar. Allora forse c’è davvero, esiste, pensò. Ma tacque. Tsuor infatti stava proseguendo il suo racconto: «Insomma (disse), è così che ho perso in un attimo tutto quello che avevo: casa, orto, moglie e figli».

Tsuor continuò: «Non avevo più ragione di restare, e mi sono lasciato andare al destino. Il destino mi aveva dimostrato ch’era lui il più forte e io mi dissi ch’era inutile resistergli. Così vagai per non so quanto. Andavo dove capitava. Fino a

che ò questa carovana e mi unii. Da quel momento non ho fatto che viaggiare.

«Proprio io (disse Tsuor), io che non mi sarei mai mosso per un’intera vita, ben contento e con la certezza che il posto dov’ero nato sarebbe stato il mio primo e ultimo al mondo.»

Araar restò zitto a meditare. Sulla differenza che correva tra lui e Tsuor. E pensò che invece lui, Araar, aveva sempre sognato l’avventura.

*

«Hai visto e imparato abbastanza» Tsuor disse ad Araar. E affidò al ragazzo il primo cammello.

L’animale appariva uguale a ogni altro, non presentava niente di speciale, e Tsuor istruì Araar. Lo mise in guardia sulla natura particolare della specie.

Spiegò che i cammelli sono il genere di animale più pacifico e mansueto di questa Terra. Hanno la pazienza di un santo. Sono capaci di ogni sacrificio e sopportano ogni angheria. Salvo, oltre a un certo punto, reagire. E allora non c’è forza che possa trattenerli. Diventano di una furia feroce. Assassina. Addirittura.

Araar ascoltò zitto mostrando grande attenzione. In realtà erano tutte cose che conosceva a menadito. Al villaggio aveva avuto modo di trattare con tante bestie in generale. Tra cui con i cammelli, appunto. E poi lui gli animali li amava.

Parlava loro come se fossero fratelli, tanto che al villaggio era diventato famoso: da essere considerato se non matto almeno strano.

Finita la lunga predica, Tsuor si avvicinò al cammello per mostrare al ragazzo come ripulirlo e strigliarlo. Ma l’animale, in realtà, costituiva la più clamorosa delle eccezioni. Infatti aveva un suo temperamento, ed era anche intelligente e dotato di memoria.

Tsuor dunque si avvicinò al cammello, e questi simulava indifferenza. Quasi non fosse neanche lì. Ma in un altro posto. Però, appena Tsuor gli arrivò a tiro, l’animale gli allungò una potente musata. Veloce. A tradimento.

Colpì l’uomo in pieno viso e Tsuor perse l’equilibrio. Volò all’indietro. Lungo disteso nella sabbia.

Stordito, cercò di rialzarsi. Davanti agli occhi vide snocciolarsi graziose coroncine di stelline.

“Che figura! Proprio Tsuor con le sue arie da grande intenditore” Araar pensò. E trattenne a fatica un risolino.

L’uomo strinse i denti. Riuscì a rimettersi in piedi. Si guardò attorno, e lo consolò l’idea che nessuno doveva averlo visto. Tranne il ragazzino, che però contava poco o niente.

Tsuor mollò un calcio rabbioso al cammello e se ne andò, insultandolo.

*

«Ti ha fatto male?» Araar si affrettò ad accarezzare il cammello.

«Beh… Certo, bene non mi ha fatto» rispose prontamente l’animale, leccandosi la ferita che il calcio gli aveva provocato.

«Oh… Mi dispiace» gli disse Araar.

Era ancora a disagio per la violenza cui gli era capitato di assistere e aggiunse: «Come mai? Perché hai colpito Tsuor in quel modo?».

«È una vecchia storia. Quel signore probabilmente non ricorda quello che mi ha fatto. Ma io sì» spiegò il cammello.

«Cosa ti ha fatto?»

«Te l’ho già detto: è una lunga storia, e adesso non mi va di raccontarla.»

«Strano… Perché Tsuor ha l’aria di essere un brav’uomo. Oltretutto, la vita non è stata certo tenera con lui, poveretto!»

«Vuoi sapere la verità?» disse il cammello.

«Qual è?» il ragazzo incuriosito.

«I tuoi simili, gli esseri umani, sono tutti uguali. Pensano solo a sfruttare e a maltrattare. Frustano e commettono crudeltà inaudite. Se ne approfittano dei più deboli. Pfui!»

«Ma io non sono così» disse Araar, l’aria contrita.

«No, tu non sei così. Lo sento e non mi sbaglio. Tu sei differente: rispetti noi animali».

Era da parecchio che conversavano ma Araar solo adesso, di colpo, se ne rese conto: «Odiug! (sobbalzò), ma tu sei un cammello dotato di parola!».

Mafuz, il cammello parlante

Araar restò con un profondo senso di disagio: considerava sia Tsuor che il cammello suoi buoni amici, e avrebbe tanto voluto che anche loro, tra loro, andassero d’accordo.

Si propose di rappacificarli, e la stessa sera in cui Tsuor si era buscata la musata,

Araar cercò l’uomo. Lo trovò. Il ragazzo prese l’argomento alla larga, chiese: «Ha un nome il mio cammello?».

«Certo, si chiama Mafuz» rispose l’uomo. Incupendosi. «Mafuz» l’uomo ripeté. A denti stretti. Gli occhi daccapo scintillanti per la rabbia.

“Mafuz” mormorò tra sé il ragazzo.

Tacque. Riprese: «È incredibile: quel cammello parla».

«Un cammello parlante? Yugh! -Tsuor lo interruppe ─. Questa è buona…. Un cammello parlante!»

Scoppiò in un fragoroso sghignazzo.

«Non mi sembra affatto il caso di sbellicarsi» Araar reagì piccato.

Stavolta, adesso, era lui ad alterarsi. Non tollerava che si dubitasse delle sue parole.

Da quando stava con la carovana, si era sempre comportato come un perfetto soldatino: zitto e disciplinato. Ma questo non toglie che anche lui, come il suo cammello, avesse un certo suo carattere.

«Perché mi prendi in giro?» Araar scattò.

«Dici cose dell’altro mondo, dài i numeri» ribatté l’altro.

«Io non do i numeri.»

«Certo che li dai… Stai delirando!» Tsuor si riscaldò.

Parola dopo parola, i toni montarono. E il battibecco - come purtroppo spesso accade - degenerò in diverbio.

Intervenne Alkabir. Che, senza prendersi la briga di approfondire, si infuriò con il ragazzo.

«Brutto moccioso impertinente!» gli disse.

Alkabir si vantava di potere uccidere un toro affrontandolo unicamente con le proprie mani. Ne aveva tutta la forza, e sollevò Araar come una paglia.

Lo scaraventò nello stazzo delle bestie.

*

«Non prendertela (Araar dolorante udì nel buio), lascia perdere. Non devi farci caso. Ho sentito e visto tutto: non sono che degli sciocchi. Sono poveri esseri umani. E niente altro. D’altra parte, così va il mondo. È sempre e soltanto il coro degli sciocchi a prevalere. E per questo, fin tanto le cose andranno in questo modo, niente di buono potrà mai accadere.»

Araar drizzò le orecchie. Si affrettò a frugare con gli occhi nell’oscurità per capire chi parlasse.

Era Mafuz.

*

Animali e ragazzini erano considerati alla stessa stregua. Come oggetti di cui servirsi. E niente altro. Come se non avessero una testa e un cuore. Come se non fossero dotati di una loro sensibilità.

Così la presa di posizione di Araar con Tsuor aveva stupito. E irritato. Era stata giudicata una ribellione. Ingiustificata. Scandalosa. E Araar era stato punito per il solo fatto di avere osato alzare la voce.

Alkabir relegò il ragazzino insieme agli animali e gli vietò, d’ora in avanti, di partecipare ai raduni intorno ai grandi fuochi della sera.

Araar fu anche caricato di lavoro allo sfinimento. Con la minaccia continua di

venire scudisciato.

*

Una notte Araar si svegliò in preda al dubbio: “Forse non è vero che Mafuz sia capace di parlare. Forse è una mia suggestione. Sono io a crederlo. Al punto di costruirmi dei discorsi. Altrimenti (si disse) non sarei il solo a sentire Mafuz e a capire quel che dice. A meno che… Non sia diventato matto, veramente”.

Le ultime parole, Araar, le aveva profferite a voce alta e: «No, non sei matto. Impara a credere in te stesso» Mafuz lo rassicurò.

*

Nessuno più rivolgeva la parola ad Araar se non per impartirgli ordini, e ingiuriarlo. Ogni pretesto era buono, e la sua vita era diventata ormai impossibile. Mentre, giorno dopo giorno, notte dopo notte, la carovana macinava sabbia su sabbia e lentamente avanzava nel deserto.

Araar ebbe tutto il tempo di pentirsi amaramente dei suoi bei sogni: della sua infinita smania d’avventura e di tutte le illusioni di cui si era nutrito al villaggio.

Arrivò a maturare l’idea di fuggire, liberarsi e tornarsene a casa.

Ripensando a sua madre gli scappò una lacrima.

Era questo lo stato d’animo di Araar, quando la carovana raggiunse finalmente un’oasi verde. Splendida, di palme e orti rigogliosi.

Sosta nell'oasi

Beth, dai grandi occhi di smeraldo

Spesso, nel loro andirivieni, le carovane si incrociavano. Ciascuna procedeva sulla propria rotta dettata dalle stelle, e gli incontri si trasformavano in utili occasioni di scambio di cose e di notizie.

C’era sempre qualcosa di cui l’altra carovana necessitava, e si avano le informazioni riguardanti le tempeste di vento e le situazioni in generale.

Davanti al fuoco, i componenti si mischiavano e si raccontavano storie antiche e nuove. Circolavano i racconti del deserto, i a-parola. Ma capitava anche di trovarsi, da un momento all’altro, improvvisamente, circondati da ombre. Specie di fantasmi.

Erano i beduini.

Neri. Misteriosi.

Non se ne sapeva nulla. Né da dove venissero o andassero. Tanto meno, si sapeva, come e dove vivevano.

I beduini arrivavano: apparivano rapidi come fulmini. In silenzio.

In silenzio daccapo scomparivano. Nell’oscurità. Bui come il buio più profondo.

Nei loro mantelli scuri che lasciavano scoperti solo gli occhi.

A volte, i beduini si fermavano. Si univano. Intorno ai grandi fuochi.

Rispondevano senza sprecare parole alle domande dei carovanieri, e li aggiornavano sulle condizioni delle rotte.

Ma c’erano volte in cui i beduini assalivano, uccidevano e derubavano.

Dipendeva dalla tribù a cui appartenevano, e se c’era qualche guerra in corso.

Mafuz fiutava la presenza dei beduini quando questi ancora erano lontani, nemmeno all’orizzonte.

*

Fu proprio Mafuz a dare l’allarme. Una notte, mentre stavano accampati in pieno deserto, allo scoperto, senza riparo alcuno.

Non sapendo se si trattasse di beduini innocui o di briganti feroci e assassini, Alkabir diede l’ordine di partire immediatamente. Nonostante il buio.

Lo scopo: arrivare al più presto a una certa oasi, dove avrebbero potuto

difendersi da eventuali scorrerie.

In realtà, i beduini tanto temuti avevano poi mutato rotta. Erano ati oltre, via lontano. Ma, buoni o cattivi che fossero, la carovana aveva forzato l’andatura. Aveva raggiunto l’oasi, e uomini e animali erano provati: stremati dall’affannosa corsa.

*

Erano approdati assetati alla fonte al centro dell’oasi.

L’acqua sgorgava fresca e pura, come un prodigio, dal cuore della sabbia. E gli uomini della carovana si erano sparpagliati attorno, tra le palme, abbandonandosi a recuperare le energie.

Ad eccezione di Araar. Cui era stato imposto di liberare dal carico i cammelli e di accudirli.

Benché spossato senza forze, Araar non aveva potuto che ubbidire.

Era sfinito. Sull’orlo di svenire. Quando vide due grandi occhi verdi. Brillavano luminosi come due smeraldi al sole.

Gli occhi spiccavano in un piccolo viso bruno dai lineamenti minuti e delicati: incorniciati da un cascata di lunghi capelli di un nero intenso.

Araar si bloccò, folgorato.

Gli occhi di smeraldo, arrivati davanti a lui, si abbassarono. Proseguirono. E Araar indugiò ad ammirare la piccola ragazza che si allontanava: l’andatura eretta e fiera. Reggeva sulla testa una grossa anfora.

La ragazza sparì, dentro una casupola di argilla.

*

La fatica gli svanì d’incanto. Si sentì rinato. Rigenerato da una forza nuova.

ò le ore seguenti a lavorare mentre lo sguardo gli scappava continuamente alla casupola, nella speranza di rivedere riapparire gli occhi di smeraldo.

Fu premiato.

La ragazza uscì, andò e riandò alla fonte. Ogni volta riempiendo un’anfora diversa. E ogni volta, ava accanto ad Araar. Ma come se lui neanche esistesse. Lei ava, lo sguardo fisso davanti a sé, altrove.

*

La sera gli uomini della carovana si riunirono attorno ai fuochi ma Araar, dopo l’incidente con Tsuor, continuava a esserne escluso. Doveva stare relegato con le bestie, così l’unico essere vivente con cui il ragazzo aveva modo di scambiare due parole era Mafuz.

Al ragazzo non sembrò vero, quella sera, di lanciarsi a parlare dei meravigliosi occhi di smeraldo. E il cammello ascoltò attentamente. Per poi concludere: «Mi sembra chiaro, ragazzo mio. Questo che tu provi si chiama amore! La piccola donna ti ha stregato».

Era una notizia di un genere insolito per Araar. Restò assorto a considerare la questione. Rimuginò. Infine disse: «E adesso cosa faccio? Come ci si comporta in questi casi?».

«Semplice (rise Mafuz). La prossima volta che la incontri le dici chiaro e tondo che lei ti entrata dentro il cuore. Glielo dici e le dai un fiore.»

Araar si grattò la testa. Imbarazzato.

Le uniche donne con cui gli era capitato di parlare erano state fino a quel momento sua madre e le vecchie del villaggio. Anzi neanche con quelle più di tanto.

Perché lui le sfuggiva e temeva. Brutte com’erano, perfide e cattive. Senza denti. Con il viso cosparso di peli irti e duri. Barba e baffi avevano. Puzzavano anche. E fosse stato sentore di animale!

La notte restò sveglio a pensare alla ragazzina.

Quando venne l’alba e già doveva provvedere ai cammelli, concluse che doveva trovare senz’altro il coraggio di parlarle.

Tra l’altro, non aveva molto tempo: la carovana sarebbe presto ripartita.

Corse verso la fonte per andarsi a rinfrescare e vi trovò la ragazzina: già bell'e sveglia, pettinata a puntino… affascinante. Neanche fosse una rosa del deserto appena sbocciata fresca in quel momento.

Araar daccapo si bloccò. Preso dall’emozione. Di tutte le stupende parole che si era preparato nel corso di un’intera notte… era restato il vuoto. Più assoluto.

Intanto lei era alle prese con due anfore. Traboccavano d’acqua. Pesanti.

«Invece di startene lì impalato, aiutami. Non vedi?» lei lo investì.

Lui provò una gioia immensa. Infinita.

Il discorso era avviato.

Ed era stata lei, la prima, a incominciare!

Araar si precipitò. Sollevò le due anfore, d’un colpo.

*

Mentre sorreggeva le anfore, Araar riuscì finalmente a spiccicare parola: «Come ti chiami?» le chiese.

Non era proprio un gran capolavoro di discorso ma almeno aveva rotto il blocco.

Lei, pronta: «Beth, e tu?»

«Araar.»

«Ma tanto cosa ci conosciamo a fare? Tra poco la carovana parte e tu te ne vai» lei gli disse.

Araar pensò, triste, ch’era vero. Ma subito, colto da chissà quale follia, esplose: «Invece no. Io resto. Sì… Ho deciso di restare».

«Mm… Ne sei sicuro? Nessuno di nessuna carovana si è mai fermato. E poi bisogna vedere se ti lasciano.»

“Già” pensò Araar mordendosi un labbro.

Non sapeva ormai più cosa dire. Aveva esaurito qualsiasi spunto di conversazione. Gli era tornato il vuoto, e l’imbarazzo. E si sentiva un gran sciocco, e si detestava.

Fu ancora una volta Beth a riavviare il discorso. Disse: «Io invece qui non ci voglio stare per niente. Lo odio questo posto. Darei non so cosa pur di andarmene».

Ne spiegò anche il motivo, raccontò la propria storia.

*

Era ancora piccola quando la città dove abitava fu assalita da certi Signori della Guerra. Gli abitanti della città avevano opposto una strenua resistenza ma erano stati sopraffatti. E i Signori della Guerra avevano mozzato la testa ai superstiti.

Beth aveva così perso i genitori, ed era stata rapita dagli assalitori e venduta a degli zingari. Questi, a loro volta, l’avevano ceduta lì in quell’oasi a una coppia di coniugi malvagi. Che l'avevano cresciuta e adesso la usavano come serva e schiava: la facevano lavorare, le centellinavano il cibo, la insultavano, umiliavano e picchiavano.

«Non ne posso più» Beth disse e scoppiò in lacrime.

«Scappiamo insieme» Araar non esitò.

«Anch’io, sai (aggiunse), anch’io sono nella tue stesse condizioni».

«Io saprei dove andare» Beth disse. «Ho un segreto» disse. Piano. Sussurrando.

Quasi fosse un segreto da nascondere anche alla brezza già rovente del mattino.

Il Talismano della Felicità

Arrivò un messaggero incappucciato. Annunciò ch’era scoppiata una guerra tra clan. Combattevano a ponente. Proprio sulla rotta che la carovana si accingeva a intraprendere.

Alkabir coprì il messaggero di domande. Infine restò zitto a tirarsi i peli della barba. Cupo e pensieroso. Doveva decidere, e non sapeva cosa.

Infatti, partire e proseguire era rischioso. D’altronde, aspettare e restare… Il tempo era prezioso.

*

«È da quando sono al mondo che sento parlare di guerre (fu il commento di Mafuz con Araar). Gli esseri umani non stanno bene fin tanto non si cacciano in un guaio. E poi allora si pentono e disperano. Così va il mondo, e non c’è rimedio.

«Io non sarò che un povero animale, però almeno mi accontento. Prendo la vita come viene, non cerco fastidi e sono vivo, e mi basta. Mangio quando ho fame e dormo quando ho sonno. E quando dovrà essere la mia ora, beh… Allora morirò.»

Mafuz aveva una sua saggezza, era un filosofo, ma Araar non lo ascoltava. Era troppo preso a pensare a Beth. Al modo di fuggire insieme.

*

L’occasione di rivederla si presentò al pozzo. Tanto per cambiare. Beth stavolta aveva molte anfore.

«Non mi hai ancora rivelato il tuo segreto» Araar la abbordò.

«Hai mai sentito parlare del Talismano della Felicità?» lei gli rispose.

«No.»

«Mio padre non faceva che decantarlo.»

«Come si fa a possederlo?» Araar andò al sodo.

«Occorre viaggiare: seguire una certa stella» disse Beth. E indicò un punto verso settentrione.

Continuò: «Raccontava mio padre che il Talismano della Felicità si trova in un paese magico dove quello che vedi e tocchi si trasforma in meraviglia. Ruscelli scorrono dovunque, limpidi e azzurri. L’acqua è abbondante e generosa, non devi faticare come qui che è preziosa. Uccellini di ogni grandezza e colore, dalle penne che sembrano dipinte, gorgheggiano note dolcissime sui rami di alberi fitti e frondosi, carichi di frutti dorati, succosi e appetitosi.»

Disse Araar: «Al mio villaggio, ho sentito parlare di qualcosa di simile. Lo chiamano Paradiso…»

«Ma quello è in cielo. Il mio invece sta qui, su questa Terra. Non devi morire per andarci.»

Era una differenza non da poco, rifletté Araar. Mentre contemplava Beth, sempre più rapito: affascinato dal contrasto dei chiari e luminosi occhi verdi con la pelle bruna, abbronzata dal sole del deserto. Gli sembrava di sentirne il profumo.

«Beeeth! Ti muovi?» una voce sgraziata di donna ruppe l’incanto.

Era la matrigna, affacciata sulla porta di casa, che le gridava da lontano.

«Non mi lascia in pace un momento!» sbuffò la ragazzina.

«Arrivooo!» urlò stizzita.

La pausa non durò molto neanche per Araar, richiamato da un cammelliere.

Il ragazzo ebbe un moto di stizza. Ma poi si disse pregustando già la fuga: “Tanto ormai la va di poco”.

*

In realtà, non era facile scappare. Da quando si era sparsa la notizia delle bande armate in movimento, Alkabir aveva predisposto una rete di vedette. La sua preziosa mercanzia e le scimitarre erano ambite, e temeva la sorpresa di un assalto e di un saccheggio.

Araar concluse che non gli restava che sperare in un colpo di fortuna. E, nell’attesa, ogni sera correva con l’occhio a settentrione.

La stella che indicava La Via (della Felicità) si accendeva poco dopo il tramonto, e Araar si attardava a rimirarla.

Diventò la sua buona stella.

Luce di ogni speranza.

*

La fortuna si presentò quando Araar meno se la aspettava. Sull’onda di un furioso vento nel cuore di una notte tempestosa. Non si sa come, divampò un incendio.

Ad annunciarlo fu il bramito di un cammello, subito seguito dall’allarme di una delle vedette di Alkabir.

Il vento soffiava, e alimentava fuoco e caos. Carovanieri e abitanti, gli occhi pieni di sabbia, vagavano impazziti nel buio rischiarato dalle fiamme.

“Adesso o mai più” si disse Araar. Corse a cercare Beth, la trovò. Un attimo dopo erano in groppa a Mafuz.

Il tempo di un lampo, il cammello fu fuori dalla mischia. Impavido, affrontò la bufera. Vinse la violenza del vento. Fu lontano.

In viaggio verso nord

Azul, la guida

La stella del nord era la loro bussola e il sole il loro orologio.

Il sole aveva compiuto il suo arco in cielo ormai tre volte, ed era arrivata la sera del terzo giorno senza che avessero incontrato anima viva.

Solo sabbia, sempre sabbia e solo sabbia.

Le provviste erano alla fine e, dei tre, Mafuz era l’unico in forma. (Il vantaggio di essere un cammello.)

Araar, assetato e in preda ai morsi della fame, taceva cupo. Beth, nel tentativo di risollevare il morale, esultò: «Siamo al sicuro ormai. Non ci hanno trovato e a questo punto mai più ci troveranno. Siamo liberi!» gridò.

In realtà, era anche lei preoccupata e, a raggelarla, l’occhio le scivolò ai piedi di un masso: uno scheletro umano giaceva compostamente seduto quasi fosse messo lì a dare il suo sinistro benvenuto.

Semisommerse nella sabbia, affioravano un paio di bisacce.

Più avanti, scorsero dei teschi sporgere da un mare d’ossa.

La carcassa di un cammello sovrastava e Beth ritrasse gli occhi. Inorridita.

Li alzò al cielo, alla disperata ricerca di un segno di vita incoraggiante: vide una coppia di avvoltoi.

*

«Qualcuno sta arrivando» bramì Mafuz.

«Dove?» scattò Araar.

«Laggiù a oriente» rispose il cammello.

Beth taceva. Non era in grado di comprendere Mafuz. Lo sentiva bramire ma non riusciva a decodificarne le parole. A differenza di Araar.

Lui capiva e poteva conversare col cammello e Araar, pieno di speranza, corse con l’occhio all’orizzonte. Ma non vide ombra di presenza alcuna. Mafuz lo rassicurò: «Aspetta e vedrai».

E difatti.

Udirono un tramestio in lontananza. Videro lampi di luce. Bagliori di torce. Una carovana si stava profilando sul contorno remoto di una duna. Araar e Beth radunarono le loro ultime forze, si lanciarono a correre. Ma la carovana viaggiava veloce e stava per scomparire nuovamente. Mafuz allora scattò. Sopravanzò i due ragazzi. Volò. Raggiunse i carovanieri. Sbarrò loro il o. Li obbligò a fermarsi.

*

Li rifocillò un uomo di nome Azul. Faceva la guida di mestiere, ed era l’unico della carovana a capire la loro lingua. Gli altri erano pellegrini che venivano da posti lontani in capo al mondo, e parlavano idiomi incomprensibili.

Erano diretti al Tempio della Sacra Pietra, e per arrivarci dovevano ancora attraversare Stati e territori: viaggiare un numero imprecisato di giorni e di notti.

Li aspettava una traversata massacrante ma così prescriveva la loro religione.

Secondo i loro comandamenti, bisognava andare al Tempio della Sacra Pietra per lo meno una volta nella vita e, tra loro, c’era chi stava affrontando il suo terzo viaggio.

Azul a forza di andare avanti e indietro, da un Paese all’altro, aveva fatto in tempo a dimenticarsi della sua prima moglie e dei primi figli. Strada facendo s’era fatto altre spose. Non ricordava nemmeno più quante. Con loro aveva messo al mondo altri figli. E anche di questi non ricordava il numero.

«Ma adesso (Azul confidò ad Araar), dovrò presto trovarmi un’altra nuova sposa. L’ultima l’ho lasciata ad Aleppo e io, da quelle parti, penso proprio che non avrò più modo di tornare.»

Araar, a sua volta, gli disse che lui con Beth ancora non era sposato. Ma che lo avrebbe fatto molto presto. Disse: «Perché io di Beth sono innamorato pazzo».

«Capita» l’altro tranquillamente gli rispose.

Se ne intendeva.

*

«Dove stavate andando? (Azul chiese). Non capita tutti i giorni di trovare dei ragazzini a so nel deserto. Siete sicuramente scappati. Da chi? Da dove?»

Pronta Beth mentì: «La nostra oasi è stata assalita dai predoni che hanno ucciso i nostri genitori. Noi siamo riusciti a salvarci».

«Ah, è così» Azul finse di credere.

In realtà, fosse vero o falso, non gliene importava. E poi Beth già stava chiedendogli notizie sul magico nord, su quello che lei ormai chiamava il Paese della Felicità.

La ragazzina lo descrisse puntigliosamente in ogni dettaglio: ripeté tutto quello che il padre, un tempo, le aveva raccontato.

Azul le rispose perplesso: «Sì, mi è capitato di attraversare posti simili su a settentrione… Però non ricordo di avere visto tali incredibili miracoli».

«Eppure, basta seguire quella stella» Beth insisté indicandola in cielo.

«Sarà come tu dici (disse Azul). Ed è lì che voi volete andare?»

«Certo» risposero in coro Beth e Araar.

Riprese Azul: «Io non ci andrei al vostro posto. E poi noi andiamo in direzione opposta. Il mio consiglio è di venire con noi. Qui attorno per molte miglia non ci sono acqua né cibo. E, da soli, rischiate di fare una brutta fine».

*

Per quella notte, Azul decise di accampare la carovana lì dov’era. Con l’intenzione di ripartire all’alba. E Beth e Araar discussero tra loro se proseguire da soli verso settentrione o unirsi ai pellegrini: almeno fin quando non avessero incontrato una carovana diretta a nord.

Beth e Araar non avevano le idee chiare.

Ora propendevano per una soluzione ora per l’altra. La paura di finire come quegli scheletri appena visti era forte. Nel contempo non volevano andare a sud quando era a nord la loro meta.

«Sentiamo cosa dice Mafuz» propose Araar e corse con l’occhio a cercarlo.

Setacciò la penombra rischiarata dalle torce. ò e riò con lo sguardo i cammelli, uno per uno, scattò stupito: «Mafuz non c’è. È scomparso».

Corse lì attorno, e chiese ai pellegrini.

Nessuno lo aveva visto né seppe dire niente.

*

Era davvero un incredibile mistero.

*

All’alba, Azul diede l’avviso: si ripartiva.

Frastornati e inquieti, Beth e Araar decisero che, a maggior ragione, adesso senza più Mafuz, non restava che unirsi alla carovana.

«Altro che trovare il Paese della Felicità! (il ragazzo non faceva che ripetere) Il problema è trovare Mafuz.»

Anche Azul sembrava esterrefatto.

D’altra parte, la carovana doveva proseguire e l’uomo disse che non poteva perdersi a indagare.

«Questi sono posti strani (disse). Il cammello sarà stato vittima di qualche sortilegio.»

«Povero Mafuz!» Araar riuscì a dire a malapena sull’orlo di scoppiare in un singhiozzo.

Non fosse stato per la figura con Beth, si sarebbe lasciato andare a piangere.

*

La carovana si stava ormai avviando e Beth già stava sul cammello di Azul. Solo Araar indugiava a terra. E l’uomo gli disse: «Allora? Cosa aspetti? Noi si va».

Il ragazzo pensò al suo cammello e: «Io resto» disse. Lo sguardo fisso. Duro.

«Resto anch’io» Beth si lanciò ad affiancarlo.

«Ne siete sicuri? Azul disse tradendo un vivo disappunto.

Indugiò. Ma era chiaro che i ragazzini avevano deciso.

«Fate come volete. Peggio per voi (l’uomo esplose contrariato). Che il Grande Spirito ve la mandi buona.»

Azul voltò loro le spalle. Andò verso il cammello in testa alla fila. E con un balzo gli fu in groppa.

La carovana si allontanò avvolta in una nuvola di sabbia.

Poco dopo della nuvola restava solo un pennacchio rossastro sul filo dell’orizzonte.

Amarcanda, la città-mercato

Restarono soli.

Due puntini neri nell’immensità accecante della distesa di sabbia che il sole aveva reso incandescente.

Altrettanto infinito era il silenzio.

Si udiva soltanto un sibilo leggero, nei momenti in cui una leggera brezza ava a lambire il dorso delle dune.

«Ho paura» disse Beth.

«Forse dovevamo dare retta ad Azul» le fece eco Araar.

Un avvoltoio si posò poco distante.

Orrido presagio.

*

Araar si avventò contro l’avvoltoio. Lo scacciò. L’avvoltoio frullò via.

Subito dopo un fruscio indistinto incise la compattezza del silenzio. Il fruscio si fece più intenso. Beth e Araar rabbrividirono: si strinsero l’una contro l’altro, sicuri che qualche orribile mostro fosse sul punto di spuntare per ghermirli.

Non avevano dubbi: doveva trattarsi senz’altro del mostro che già si era rapito Mafuz e magari lo aveva divorato.

Inorriditi, si coprirono gli occhi con le mani. Rassegnati a subire il loro tragico destino.

Ma il tempo trascorreva. E niente di terribile accadeva.

Riaprirono gli occhi finalmente, stupiti di essere ancora vivi e interi, ed esplosero in un «Ohhh!» di gioia e di meraviglia.

Mafuz stava lì, davanti.

*

Mafuz, in carne e ossa!

Beth e Araar si lanciarono ad abbracciarlo.

«Dov’eri sparito? Cosa mai ti è successo?» fu la prima di una serie di domande.

Il cammello rispose puntualmente e Araar, che era il solo essere umano al mondo in grado di capire Mafuz, tradusse fedelmente a Beth ogni parola.

Disse il cammello: «Quell’Azul non era il brav’uomo che sembrava…».

«No?» chiese Araar, stupito.

«La notte scorsa, io ero lì quando Azul si è appartato a confabulare con uno degli uomini della carovana. I due complottarono mai più immaginando che un qualsiasi cammello come me, potesse intenderli.»

«Cosa tramavano?»

«Più a sud, c’è il Regno del Signore di Hur. Importante e potente personaggio ma che usa bambini e ragazzini. Se ne serve e poi li uccide nei modi più atroci. Così Azul aveva in mente di darvi in pasto al Signore di Hur… Parlando di voi, vi ha chiamato “deliziosi bocconcini”… Pensava di ricavare un bel mucchietto di monete d’oro…»

«Ma… non era una carovana di pii e devoti pellegrini?»

«Mai fidarsi delle apparenze. Probabilmente i pii e devoti pellegrini erano gli altri. Non Azul e il complice, che mentre andavano al Tempio della Sacra Pietra,

intanto combinavano di tutto. Così va il mondo, gente!» ridacchiò il cammello, amaramente.

«Chi lo avrebbe immaginato!» disse Beth, a cui Araar aveva riferito i discorsi di Mafuz.

Mafuz aggiunse: «C’è dell’altro. Infatti Azul già mi aveva considerato roba sua, come se voi aveste cessato di esistere».

«Per questo sei fuggito, ora capisco» disse Araar.

«Certamente. E da libero, oltretutto, avrei potuto meglio escogitare il modo di salvarvi.»

«Ci è andata bene (Beth disse). Peccato che adesso avremo daccapo il problema di rimediare acqua e cibo.»

«Niente paura (Mafuz la interruppe), proprio qui vicino sorge una città, Amarcanda. L’ho scoperto girovagando durante la mia fuga.»

Si avviarono.

*

Apparvero in lontananza alte e grosse mura. Formavano un quadrato regolare dal quale sporgevano, protese verso il cielo, un paio di torri e una cupola dorata: rabberciati e sull’orlo di crollare, erano i resti dello splendore di un’antica civiltà.

Fino a quel momento, Araar e Beth non avevano incontrato ombra di essere umano ma adesso, mano a mano, file di persone sempre più frequenti si profilavano dirette alla città. Confluivano verso l’unica grande porta che si apriva nelle mura.

Beth sapeva com’era una città. Vi era nata e in parte cresciuta. A differenza di Araar. Mai uscito da un’oasi, la sua. Così il ragazzo, fin dal primo momento, alla vista delle mura, aveva spalancato gli occhi in preda alla meraviglia.

Era giorno di mercato e, superata la grande porta, lo stupore di Araar traboccò in eccitazione… Per lo spettacolo e le inimmaginabili mercanzie esposte: pappagalli parlanti e di ogni specie e scimmiotte dispettose. E cristalli di roccia, e montagne di zenzero, curcuma, semi di cumino, pistacchi e peperoncini e spezie tritate e ridotte in fine polvere dove il rosso e il giallo spiccavano accesi.

C’erano vasai e incisori di metalli, mangiatori di fuoco e incantatori di serpenti, e montanari nei loro pittoreschi caffettani: avevano percorso miglia e miglia per portare al mercato i loro polli.

Araar, davvero, non aveva mai visto tante persone in vita sua. Tutte in una volta sola. Ammassate. L’una contro l’altra. Sempre sull’orlo di pestarsi i piedi vicendevolmente.

Araar si disse che una simile esperienza bastava: lo contraccambiava di ogni peripezia e pena… Qualunque fosse l’esito, anche poco lusinghiero, di quel suo viaggio.

*

Lasciarono il mercato e si arrestarono a un pozzo. Il pozzo sorgeva al centro di un convento e alcuni monaci, dal volto affogato in una immensa barba, stavano recitando le preghiere: inginocchiati, gli occhi socchiusi, le braccia protese verso il cielo.

Mormoravano parole incomprensibili: le inanellavano l’una nell’altra fino a

comporre una nenia. Monotona. Spezzata dalle grida scomposte provenienti dalle bancarelle.

I due ragazzi si abbeverarono con foga. Generosamente. E si rinfrescarono il viso. L’acqua era fresca, pulita, trasparente. E ad Araar sembrò di non avere mai assaporato un’acqua tanto buona. Lo disse a Beth che gli rispose: «Pensa un po’ cosa mai sarà lassù a nord... Cosa mai potrà essere di bello il Paese della Felicità!».

*

Venne la sera. Calò il buio. E insieme al buio, anche il silenzio. Apparve la stella. Beth la indicò ad Araar: «Il nostro nord è lì, ci aspetta».

Tennero d’occhio la direzione segnata dall’astro, che li aiutò a districarsi nel groviglio di vie e viuzze. Varcarono le mura. Lasciarono Amarcanda alle spalle. Adocchiarono una radura e si rannicchiarono al riparo di un ciuffo di alberelli, per trascorrere la notte.

All’alba percepirono un ticchettio.

Si ripeteva regolare.

Araar e Beth, per quanto incuriositi, avevano troppo sonno per aprire gli occhi e accertare chi o cosa provocasse l’insolito rumore.

Il ticchettio si avvicinò. Poi si attutì. In lontananza.

Axor, Il Maestro

Il problema del cibo non esisteva per Mafuz. Per sopravvivere gli bastavano pochi sparuti ciuffi di licheni di cui il deserto, in fin dei conti, abbondava. Al contrario di Araar e Beth. Che non avevano un soldo e il giorno prima, praticamente, non avevano mangiato.

Beth disse che non potevano continuare in quelle condizioni, e suggerì di provare a chiedere qualcosa al convento. Araar assentì, e insieme tornarono in città.

Al convento trovarono un monaco misericordioso che diede loro una manciata di datteri. E nient’altro di particolare sarebbe accaduto se, mentre divoravano i datteri, daccapo non avessero udito il ticchettio già inteso all’alba.

Proveniva da oltre il muro di cinta, e lo strano rumore si avvicinò e allontanò.

Araar corse fuori. Ma il tempo di arrivare… Non vide che una donna con un agnello tra le braccia che belava.

Il mistero del ticchettio restava, e Araar tornò nel convento e spiegò al monaco che già la mattina lui e Beth avevano udito un inspiegabile ritmo cadenzato.

«Cosa mai può essere?» chiese Araar, e si informò se, per caso, non si trattasse di un qualche demone.

Il monaco rise: «Macchè. È un vecchio cieco che cerca la strada e picchia col bastone. Si chiama Axor (il monaco raccontò), ma tutti lo chiamano Il Maestro perché non c’è essere al mondo che conosca tante cose come lui. Non si sa da dove provenga né se ha una casa o dove. Unica cosa certa, appare di quando in quando e poi scompare».

Il monaco aggiunse: «A dire la verità, Il Maestro l’ha una casa quando viene ad Amarcanda, ed è una vecchia grande botte, fuori dalle mura, in quella che noi chiamiamo La Valle, proprio di fronte a dove sorge il sole.»

Il monaco congedò i ragazzi che lo ringraziarono per i datteri, e Araar e Beth si allontanarono alla ricerca di Mafuz.

Mafuz infatti, nel frattempo, aveva approfittato della compagnia di un gruppo di cammelli di aggio. Si era fermato a scambiare quattro chiacchiere per il piacere di parlare tra elementi della stessa specie.

*

Mafuz era poco distante dal convento e mentre lo raggiungevano, Araar disse a Beth: «Se Il Maestro conosce talmente tante cose, certamente saprà suggerirci la via migliore per arrivare al Paese della Felicità. Sentiamolo. È sempre meglio che affidarci a una stella.»

Araar disse che la stella era in cielo mentre loro due non erano uccelli in grado di volare. Loro dovevano fare i conti col deserto e tutti i generi di ostacolo che,

ahimè, ci sono quaggiù su questa terra.

Beth si dichiarò d’accordo.

Aggiunse, anzi, che moriva dalla curiosità di vedere com’era questo vecchio dalla vita così strana.

*

Era una botte gigantesca. Come a loro non era mai capitato di vedere. E giaceva coricata. Con l’apertura rivolta a oriente. Qui, all’imboccatura, stava Axor. Seduto a terra, le gambe ripiegate intrecciate.

Immobile. Solenne.

La posa di un santone immerso a meditare.

L’aspetto di un profeta.

Il viso, aperto al sole, era incorniciato da una immensa e fluente barba. Candida come i capelli. Pure lunghi. Fin sulle spalle.

Araar, vedendolo, si arrestò. Intimidito. Beth avanzò. Ma a piccoli i.

Esitando. Quasi sfiorando il suolo. Arrivata davanti al vecchio sussurrò: «Maestro…»

«Devi essere giovane, molto giovane… Una colomba…» il vecchio cieco sorrise. Le palpebre socchiuse. Le pupille spente.

Beth, incoraggiata, parlò del Paese della Felicità, e della stella. Parlò a lungo. Non risparmiò dettagli. Axor, d’altronde, taceva. Lasciava che le parole della ragazzina scorressero, come si ascolta un fiume in piena.

Infine Beth tacque. Seguì un lungo silenzio.

Si udì soltanto il fruscio dei piedi nudi nella sabbia di Araar che, preso coraggio, lentamente si avvicinava al vecchio.

*

ò parecchio tempo prima che il vecchio parlasse.

Quasi aspettasse che le parole e l’impeto di Beth decantassero: stemperati dal silenzio del deserto e nell’immensità del sole e del cielo che ne traboccava.

Soltanto dopo - quando Beth, ammansita dalla lunga attesa, si sedette - il vecchio iniziò a parlare.

«Sono vecchio, molto (disse), e l’ultima volta che ho visto il mondo è stato tanto tempo fa, ed è da allora che lo ascolto, solamente. Ma, a volte, un piccolo lieve trascurabile rumore, per chi sappia ascoltare, può valere più della visione di mille e mille immagini.»

Disse il vecchio: «È così che ho imparato… Da tutto quello che ho udito in tanti anni… Dai sussurri, dai singhiozzi e dai sospiri, dalle parole anche solo pensate e mai dette, dai minimi impercettibili rintocchi di un cuore e del cuore che in ciascuno di noi batte e che, solo se vuoi, puoi udire… Beh, è da tutto questo che ho imparato che non esiste un Paese della Felicità…».

«Impossibile!» Beth scattò.

Il vecchio la ignorò e continuò: «La Felicità è un libro».

«Non capisco» disse Beth.

«Nemmeno io» le fece eco Araar.

Ma fu come se neanche avessero parlato. Il vecchio nemmeno vi prestò attenzione.

Agitò minacciosamente il bastone e disse: «Spostatevi. La vostra ombra mi impedisce di godermi il sole».

*

Lasciarono il vecchio. I due ragazzini rimuginando, Mafuz ruminando.

Mafuz infatti era incappato nel suo colpo di fortuna: aveva azzeccato un raro banco di gustosa erba secca, assolutamente saporita, e se ne era fatta un’abbuffata. Adesso seguiva i ragazzini, pago e soddisfatto. A differenza di loro. Muti e pensierosi.

Uscirono dalla città, e fu Beth la prima a ritrovare la voglia di parlare.

Ribolliva e sentiva il bisogno di sfogarsi. Esplose: «Mi aspettavo di trovare un vecchio saggio, padrone del senso della vita e di ogni cosa, e invece ho sentito soltanto sproloqui a non finire. Vuoi vedere che il vecchio si è divertito a prenderci in giro?».

«Io… ho capito solamente che il Paese della Felicità non esiste. E che c’è di mezzo pure un libro» disse Araar.

«Già. Un libro! Pfui! Che c’entra? Figurarsi!» Beth sghignazzò.

Disse Araar: «Al mio villaggio nessuno sa leggere e di libri non ce n’è neanche a sognarli. Eppure la vita lo stesso continua, e tutti vivono benissimo».

«Il Paese della Felicità esiste, eccome!» esplose Beth.

«Ma tuo padre ti ha detto cos’è?... E poi com’è... cos'è questo Talismano?»

«Non me lo ha detto. Ma importa? L’importante è sapere che c’è… Che esiste. Tu ci credi, vero?» Beth puntò l’indice contro Araar.

«Oh certo!» disse lui.

Poteva osare esprimere dei dubbi? Di fronte a tanta decisione?

La città scavata nella montagna

La bufera nel deserto

Viaggiarono per giorni, tutto il giorno, ogni giorno. Ma la stella stava sempre lì. Come se loro non si muovessero affatto. Come se non avessero macinato miglia su miglia.

Avevano incontrato campioni di ogni genere di umanità: pellegrini diretti al Tempio della Sacra Pietra, cortei di donne avvolte in vesti variopinte che andavano al matrimonio di qualche amica o parente…

Avevano incontrato falsi profeti e veri guerrieri, cammelli e dromedari di ogni razza, mercanti e astrologi, scriba e pittori di arabeschi, indovini e streghe, e funamboli…

A tutti avevano chiesto notizie del Paese della Felicità, e tutti avevano risposto che sì, ne avevano sentito parlare. Ma nessuno sapeva dove si trovasse. Avevano risposto: «Lo sapessimo!... Non saremmo qui a correre per il mondo come disperati. Già ci vivremmo».

Beth, ogni volta, a ogni risposta, commentava: «È solo povera gente che non sa niente… Che si accontenta di vivere, e basta».

«Puah!» Beth faceva seguire alle parole una smorfia di disgusto.

*

Scoppiò una tempesta e loro si trovavano in pieno deserto, nel mezzo di una piana, senza il minimo riparo.

Il vento si alzò improvviso: violento e torrido, in un attimo sollevò nuvole di sabbia.

Accecavano, impedivano ogni visione, oscuravano il cielo. Soffiavano raffiche impetuose, e Beth e Araar dovettero accucciarsi per non volare via travolti.

Li protesse Mafuz: consumato navigatore di deserti. Valoroso veterano reduce da ogni sorta di bufera.

Anche lui si accucciò.

Si accovacciò contro il vento in modo da offrire con la sua mole un riparo. Simile a un baluardo contro la furia. E Beth e Araar vi si rannicchiarono incollati.

Gli occhi chiusi serrati, la testa tra le mani, pregarono.

*

La tempesta si esaurì. Di colpo, come era sorta. E Beth e Araar si guardarono

attorno.

La violenza del vento aveva mutato il paesaggio.

Lì dove prima si alzava una duna adesso il deserto sprofondava in un avvallamento. E viceversa. Dove c’era un avvallamento adesso si alzava una duna.

«Guarda! (disse Beth), guarda!»

«Ohhh!» mormorò Araar.

All’orizzonte, proprio a settentrione, si profilava una montagna. La bufera ne aveva rivelato l’esistenza spazzando via la foschia della calura, opaca. E la montagna appariva nitida: visibile in ogni minimo dettaglio. Quasi fosse lì vicina da toccarla.

«Ho sentore di presenza umana» disse Mafuz protendendo il muso nell’aria.

Nella montagna erano scavati templi e palazzi. Le finestre e le porte la bucavano come occhi bui. Colonne e portali erano ricavati scolpiti nella roccia. E arricchiti da decorazioni e capitelli.

Era uno spettacolo.

Un autentico sogno ad occhi aperti.

E la visione era tanto più impressionante perché tutta quell’imponenza sbucava senza alcun preavviso. Improvvisa dal niente del deserto. E inoltre, nonostante l’aspetto di una capitale, appariva senz’anima ad abitarla.

Vuota era.

E muta.

Araar e Beth restarono a lungo a contemplare. Senza fiato. Allibiti. Nel contempo trattenuti da un vago timore.

Alan Kerry, l’archeologo inglese

Non osavano avvicinarsi più di tanto. Quasi che in quei meandri oscuri potesse nascondersi un mostro. E la luce del sole mai sembrò loro tanto amica.

«Toh, abbiamo visite!» un voce d’uomo li riscosse.

«Mi chiamo Alan Kerry, e voi? Qual è il vostro pregiatissimo nome? Sono indiscreto se vi chiedo di conoscerlo?» disse l’uomo.

Aveva due occhi azzurri, capelli d’un biondo come il colore della paglia e, nonostante i suoi connotati di straniero, indossava un caffettano lungo fino ai piedi. Alla pari di un qualsiasi uomo del deserto.

L’aria allegra e amichevole…. Trentadue denti di sorriso gli riempivano il viso dalla pelle chiara, benché abbronzata.

«Come mai da queste parti? Siete in gita scolastica?» l’uomo rise. Salvo subito rivolgersi a Mafuz e salutarlo con un profondo inchino.

Mafuz, a sua volta, contraccambiò con un bramito. Compito ed educato.

Era un cammello di mondo, ci teneva alle buone maniere. All’etichetta.

Alan Kerry si divertì molto ad apprendere che Mafuz parlava, e che solo Araar era in grado di comprenderlo.

Scoppiò in un’allegra risata e disse ad Araar: «Quindi tu e il cammello conversate regolarmente... Come due vecchi amici al bar! È davvero sorprendente.»

Cacciò una mano in una tasca e ne estrasse del chewing-gum che offrì.

Araar e Beth osservarono gli stick, assoluta novità nella loro vita. Quindi fissarono perplessi gli occhi azzurri di Alan Kerry. Che li rassicurò.

Spiegò loro l’uso della gomma. Ne diede anche la dimostrazione pratica, infilandosene uno stick in bocca.

Beth e Araar conclo che tra loro e un cammello, quanto a ruminare, d’ora in avanti non ci sarebbe stata differenza.

*

Andò a finire che si fermarono senza porsi limiti di tempo. Dovevano rifarsi dei digiuni patiti e della fatica. E poi, oltre ad Alan Kerry, c’era tutta una nutrita compagnia di cui faceva parte anche Siobahr, un’indiana dell’Università di Calicut dal sari pittoresco e suggestivo.

Siobahr era molto tenera con Araar e Beth, e tutti erano molto generosi con i due ragazzi.

Lo stesso Mafuz aveva trovato il modo di ristorarsi e riposare. Perché lì tutti si servivano di jeep con le quali scorrazzavano, avanti e indietro, facendo capo a una grande città, dove si approvvigionavano.

*

Alan Kerry era inglese, e Siobahr era sua moglie. Gli altri venivano da Egitto, Israele, Palestina...

Erano archeologi.

Durante il giorno scavavano. O esploravano le gallerie che si aprivano nel cuore dei palazzi ricavati nelle rocce. E la sera, alla pari dei carovanieri, Alan Kerry e la compagnia si radunavano attorno a grandi fuochi dove, sotto le stelle, si scambiavano discorsi, frizzi e lazzi.

Una notte, attorno al fuoco, Alan Kerry spiegò ai due ragazzi: «Questa era l’antica città sacra di Kallabah. Perché una volta, tanti e tanti anni fa, qui non c’era il nudo e arido deserto, ma si stendevano terre ricche d’acqua, fertili e irrigate: dove cresceva di tutto, non occorreva neanche seminare. E il paesaggio era il più fiorito e verde che si possa immaginare. Qui, una volta, c’era il paradiso!»

«Come mai adesso c’è il deserto?» chiese Araar.

«Non è chiaro. Ci sono molte teorie in proposito. Di certo, la città sacra di Kallabah era molto importante, ma fu abbandonata nonostante per secoli avesse richiamato gli abitanti di ogni villaggio.»

A Beth non sembrò vero di chiedere se c’era un legame con il Paese della Felicità. Ma Alan Kerry non la udì, preso com’era a raccontare.

Stava narrando infatti: «Kallabah non fu mai abitata davvero. Tra i suoi edifici non è mai stata trovato nessun oggetto di normale uso quotidiano: ma solo strumenti sacri per i rituali in omaggio agli dei affinché assicurassero la pioggia, proteggessero i raccolti e tenessero lontane le avversità che minacciavano campi e abitanti.

«Nella città sacra si muovevano solo i sacerdoti, nei templi bruciavano le offerte, musiche e canti accompagnavano le processioni che sfilavano attorno alla montagna e i religiosi percorrevano le piste tracciate nel deserto a immagine degli animali-dei dispensatori di pioggia.

«Gli uomini tentavano così di controllare le forze nemiche della natura. Per secoli, ai disastri della siccità e delle alluvioni, gli agricoltori avevano opposto preghiere e sacrifici ma, alla fine, le divinità scatenarono la loro ira e un terribile terremoto lacerò la terra, squarciò i pavimenti dei templi, inclinò le colonne e ferì la montagna.

«Il mondo sembrò sgretolarsi per sempre, travolto dalle oscure forze della terra e dalla terribile alluvione che poco dopo si abbatté sulla città.

«Morte e disperazione si impadronirono di Kallabah e dei villaggi ma i sacerdoti tentarono ancora una volta di placare gli dei, ricostruirono ogni cosa, celebrarono rituali ancora più sfarzosi, offrirono doni preziosi e sacrifici come mai prima.

«Per circa un secolo sembrò che gli dei avessero ascoltato le suppliche. Ma una nuova ultima alluvione devastò l’intera area e stavolta gli abitanti, stremati, decisero di abbandonare Kallabah e di lasciare la città che gli dei avevano smesso di amare.

«Prima dell’abbandono, però, tutto fu cancellato. Ceramiche e stoffe, e oggetti furono sepolti, murati e sigillati per sempre, con lo stesso scrupolo con cui erano stati creati.

«Quella gente era stata ripudiata dagli dei e non voleva che restasse indizio o traccia del rifiuto. Nemmeno per i secoli a venire».

*

A una certa ora la compagnia si sciolse. Lasciò i fuochi. Ciascuno si ritirò nel proprio posto-letto all’interno del campeggio di tende e caravan approntato davanti alla montagna.

I fuochi si spensero. Non ne restarono che le braci. Fin tanto non si spensero anche quelle.

Il buio s’era compattato a far risaltare il biancore lunare della sabbia e la luce delle stelle che bucavano il cielo.

Araar e Beth avevano scelto di dormire sotto le stelle, a cielo aperto, accoccolati accanto a Mafuz, accucciato nel riparo offerto dal rientro di una roccia. Ma quella sera, Beth non riusciva a chiudere occhio.

Il lungo discorso di Alan Kerry le era restato scolpito nella mente, e adesso ne rimuginava ogni parola.

Le si stava insinuando il dubbio che forse il Paese della Felicità stava proprio lì dove ora si trovavano: ma era sparito da anni, ingoiato da terremoti e alluvioni.

A incrinarle ulteriormente ogni certezza contribuì Araar.

Araar, sentendo Beth che si agitava, aveva colto l’occasione per confidarsi e condividere il tarlo che lo rodeva: «Nemmeno io riesco a prendere sonno (disse). Sai, mi sa che il nostro viaggio sia finito… Che ormai noi ci siamo nel posto che tanto cercavamo. Il Paese della Felicità c’era, era qui, e non c’è più».

«Già» mormorò nel buio Beth, accorata.

Seguì un lungo silenzio, Beth riprese: «E adesso che si fa? Io di certo a casa non ci torno.»

«Nemmeno io. Però… Continueremo a stare insieme, noi due, vero?» disse Araar.

«Sì, ma adesso dove andiamo? Se qui ci tengono, restiamo?» disse Beth.

«Mi piacerebbe tanto scoprire cosa c’è nei sotterranei dei templi, dentro la montagna. Chissà quali tesori si nascondono…»

«A me fa paura solo parlarne.»

«Bene (disse Araar), vuol dire che ci andrò io… Io, solo.»

«Puah! Fai lo spaccone, ma ti voglio vedere quando sarà il momento!»

*

Il discorso sembrava esaurito. Beth, anzi, stava per assopirsi finalmente. Ma la riscosse la voce di Araar, che non aveva smesso di rimuginare.

«A pensarci bene… C’è una cosa strana» disse.

«Quale?» chiese Beth insonnolita.

«Questo non può essere il Paese della Felicità.»

«Mmm?»

«Se lo fosse stato, veramente, non ci sarebbero stati tutti quei terremoti, alluvioni e terribili catastrofi. Questo era piuttosto un inferno, altro che paradiso!».

«È vero, non tornano i conti» Beth scattò di nuovo sveglia: gli occhi le brillavano nel buio.

«Il Paese della Felicità non poteva essere questo (ribadì Araar sempre più convinto). Per forza è un altro.»

«Sono d’accordo. Il Paese della Felicità esiste, e senz’altro si trova più su, a settentrione.»

«Dobbiamo proseguire il nostro viaggio (disse Araar). Domattina si riparte».

La leggenda di Ammarassiri, il Principe Tigre

All’alba, Beth già era in piedi. Scalpitante. Come una puledra che aspetta solo che le allentino la briglia.

Araar, al contrario, avrebbe dormito: avrebbe recuperato volentieri il sonno perso a ragionare. Sbadigliava, gli occhi pesti e gonfi. Mentre Mafuz, a sua volta, seguiva Beth. Senza agitarsi, composto e inappuntabile. Alla sua maniera. Con l’abituale pacatezza.

In realtà, a lui non importava niente di nessuna Meraviglia. Aveva abbastanza esperienza della vita e del deserto per non dare ascolto a tutte le storie che vi circolavano. E poi aveva imparato che c’è sempre un meglio al mondo ma anche un peggio. E a lui, Mafuz, andava già bene quello che la vita gli ava. Poco o tanto che fosse. Gli bastava.

Lui, a differenza di qualsiasi essere umano, sapeva accontentarsi.

Intanto, nonostante il cielo ormai sbiancasse, la stella che indicava la direzione al Paese della Felicità resisteva. Luminosa, occhieggiava. E Beth alzò gli occhi verso il cielo. Guardò la stella e le sorrise. Qualsiasi ombra di dubbio in Beth s'era dissolta.

«State partendo? Dove andate?» chiese Siobahr sopraggiunta nel frattempo.

Beth si affrettò a raccontarle che lei e Araar avevano deciso di andare più su a settentrione, dove c’era il Paese della Felicità.

Siobahr annuì: «Su a nord, è veramente molto bello. Il deserto finisce e sorgono gli Altipiani, dove la natura è verde e ricca di piante, frutti e fiori. E di animali e uccelli di ogni genere. L’acqua scorre dovunque fresca e abbondante. Non devi cercarla è lei che ti viene incontro. La trovi dappertutto.

«E poi, a fare da cornice, ci sono vette che toccano il cielo… Bianche di neve, immacolate… Tu, Beth, conosci la neve? L’hai mai vista?»

Beth spalancò gli occhi: «No, che cos’è… la nnnevee?».

Siobahr glielo spiegò. E Beth si convinse che avevano ragione i suoi genitori… Che tutto quello che le avevano raccontato era vero.

Il Paese della Felicità esisteva!

Siobahr aggiunse: «Gli Altipiani sono terra di leggende. Ne circolano a iosa, e fra le più celebri vi è quella del Principe Tigre. È una storia splendida. Vale la pena di conoscerla. Si narra che un giorno, ai tempi antichi, apparve sugli Altipiani una tigre feroce, e astuta. Seminava il terrore. Dovunque ava lasciava una scia di sangue. L’imperatore, allora, reclutò i migliori cacciatori, e organizzò trappole e battute. Ma la tigre ne usciva regolarmente vincitrice.

Intervenne la divinità protettrice degli Altipiani, che ordinò all’imperatore di offrire alla tigre il proprio figlio, ultimo nato: il piccolo Ammarassiri.

Il sacrificio era necessario per propiziarsi la belva e placarla, e risparmiare così gli abitanti dei villaggi.

L’imperatore non poté che obbedire.

Era l’unico modo per salvare i suoi sudditi e quindi il suo regno. Infatti che imperatore sarebbe stato senza più sudditi su cui regnare, e a cui far pagare le tasse?

L’imperatore, dunque, abbandonò il piccolo Ammarassiri e la tigre se lo prese.

Tutti ne piansero la fine ma le stragi, però, ebbero termine.

ò del tempo, e quando ormai tutti se n’erano scordati, un giovane bello e aitante apparve dalla foresta insieme a una tigre dall’aspetto imponente. La tigre era perfettamente uguale a quella che aveva terrorizzato il regno, e tutti tornarono a fuggire, ma il giovane li fermò: «Non scappate! Sono il principe Ammarassiri e questa è la tenera madre che mi ha amorosamente nutrito e allevato».

Il principe Ammarassiri fu acclamato insieme alla tigre, e furono giorni di festa e grande serenità.

Riprese Siobahr: «Probabilmente, anche la storia del Talismano della Felicità e del Paese della Felicità è una leggenda. Perché la gente ha bisogno di storie e fiabe per fantasticare. Non solo i bambini, anche gli adulti più grandi. Tutti hanno la necessità di un sogno bello in cui credere… Un sogno che appartenga solo a loro, a ciascuno di loro… Un sogno da vivere soprattutto quando la vita si fa più ostile e dura…».

Beth ascoltò. Zitta. Sconcertata. Daccapo la faccenda che sembrava chiarita, daccapo si ingarbugliava. Il Paese della Felicità tornava dunque a essere soltanto una fantasia? Un’invenzione?

Beth protestò: «Ma il mio non è solo un bel sogno. Voi stessa lo avete detto che lassù sugli Altipiani ci sono acqua e cibo, e fiori… E la magica neve… E ogni meraviglia…»

«Oh certo, non lo nego (disse Siobahr). Ma non accadono i miracoli che tu ti aspetti. E poi ricordati: non c’è posto bello e ricco al mondo che ti possa far felice se anche tu non sei bello e ricco dentro.»

La conclusione di Siobahr suonava oscura per Beth. Suonava complicata. Astratta. E a Beth tornò in mente Axor, il vecchio cieco. Che aveva negato l’esistenza del Paese della Felicità, usando giri di frase altrettanto incomprensibili.

Beth scosse la testa: possibile che con i grandi fosse sempre così difficile capirsi?

*

Siobahr aveva da fare e se ne andò. E Beth disse ad Araar: «Sono sempre dell’idea che il Paese della Felicità esista».

Disse anche che lei indietro non tornava, in ogni caso. E che tanto valeva proseguire il viaggio più su a settentrione.

Araar, dal canto suo, era confuso.

Da un lato, era attratto dalla prospettiva di restare… Moriva dalla voglia di esplorare il mondo antico e misterioso che la montagna racchiudeva dentro quei palazzi e quei templi: Erano ricchi di vicende e di tesori, e di amuleti, nascosti da scoprire… Nel contempo, però, Araar voleva bene a Beth. E lei era decisa a proseguire, e lui non se la sentiva di lasciarla.

Araar era a un bivio.

E a Beth non sfuggì la sua irresolutezza.

Gli voltò le spalle bruscamente.

Senza profferire parola si allontanò verso Alan Kerry, che stava armeggiando a bordo di una jeep parcheggiata lì vicino.

«Dove state andando?» Beth gli chiese.

«In città (lui le rispose). Vuoi un aggio? Appena fuori dalla città c’è un piccolo aeroporto. Se sei fortunata puoi vedere qualche aereo mentre atterra o decolla. Credimi, è uno spettacolo.»

«Sì, vengo» disse Beth.

Saltò sulla jeep che si avviò sgommando.

Un attimo dopo era sparita ingoiata dal deserto.

*

Araar aveva seguito con gli occhi la partenza di Beth. Incredulo. Sorpreso dalla determinazione con cui lei lo aveva piantato. E adesso contemplava, smarrito, l’orizzonte vuoto che delimitava il deserto: lo sguardo fisso, in direzione del punto dove la jeep era svanita nella luminosità accecante.

Si riprese. E si pentì di non avere seguito Beth.

Anche perché quella era un tipino mica male: era capace di continuare il suo viaggio e di non ritornare. E, in tale caso, lui non l’avrebbe mai più vista.

D’altra parte, si disse, lui non poteva cedere… Cedere così con lei! E andarle dietro come un cucciolo… Lui aveva o no il suo orgoglio?

Poi però si disse: “Forse avrei potuto anche seguirla. E adesso non sarei qui solo, triste e abbandonato”.

Perché Araar adesso si sentiva sperduto.

Proprio come quel cucciolo che lui non era voluto apparire!

*

Si incamminò verso Mafuz.

Il cammello ingannava il tempo girellando alla ricerca di qualcosa di gustoso da ruminare.

Araar lo raggiunse e gli disse: «Beth non mi vuol bene. Altrimenti non avrebbe fatto quel che ha fatto. Mi viene da piangere a pensarci. A te lo posso dire, io di te mi fido. Sei il mio solo unico amico.»

Il cammello alzò il muso da un ciuffo di erbacce, e sempre ruminando, gli rispose: «Non è detto che Beth non ti voglia bene. E poi, se tu gliene avessi voluto come dici, l’avresti accontentata e seguita».

«Ma vale anche il contrario (Araar urlò o quasi). Se lei mi avesse voluto bene veramente, sarebbe stata lei a seguire me!»

«Ufffaaa! (le narici di Mafuz vibrarono). E se io, e se lei, e se io…! Quante storie! Tutto questo bene sciorinato al vento… Ragazzo mio, esageri. Vedi di semplificare. Già la vita è complicata… Non metterti anche tu!»

Prima Beth, adesso il cammello… Araar si sentì colpito nuovamente nell’orgoglio.

Era la seconda volta che gli capitava in poco tempo.

Era troppo.

*

In realtà, sia Beth col suo comportamento che Mafuz con le sue parole, gli stavano insegnando: impara a condurre la tua vita o sarà la vita a condurre te. E in tale ultimo caso, rischi di ritrovarti prima o poi senza via di scampo sul fondo di un abisso.

Araar lo pensò, e subito fu in groppa a Mafuz.

«Andiamo da Beth, su presto!» Araar gli disse.

Bakkar, il gendarme

La città era la più grande che lui avesse mai visto.

Era perfino più grande della città precedentemente visitata, e non solo vi crescevano migliaia di palme ma c’erano anche infiniti pozzi e fontanelle.

Tende e case si susseguivano, e sorgevano anche palazzi di cemento, alti come torri.

Per non parlare delle automobili.

Affollavano strombazzando le vie strette. E ogni volta che una si arrestava, nugoli di ragazzini le accorrevano attorno. Saltavano sul cofano. Allungavano le mani attraverso il finestrino per arrivare a suonare il clacson. «Come possiamo trovare Beth in questa confusione?» disse Araar a Mafuz.

Erano arrivati nel pieno centro della città, e c’era da perdersi, e perdere la testa.

Araar alla fine decise: «Tu, Mafuz, resti qui. Io faccio un giro e ci ritroviamo prima del tramonto».

Il ragazzo diede un colpetto affettuoso al cammello, sulla groppa, e si allontanò.

Si immerse nella folla, sgomitava per farsi strada e non soccombere, pressato da ogni lato.

Più volte, provò un tuffo al cuore alla vista di capelli lunghi e neri. Ma, ogni volta che li raggiungeva e gridava «Beth!», il volto che si girava e lo fissava, non aveva grandi occhi di smeraldo.

Araar ormai disperava. Il sole era prossimo al tramonto. E, non bastasse, il ragazzo si era anche smarrito: non ritrovava la strada per tornare da Mafuz.

Fu allora che si imbatté in una jeep. Accostata al lato di una via senza nome, stava parcheggiata con una torma di ragazzini a bordo, che vi giocavano disputandosi il volante.

Araar riconobbe la jeep di Alan Kerry.

Si lanciò, e neanche fosse la sua auto: «Via (gridò ai ragazzi), via, smammare».

I ragazzini si ribellarono. Reagirono spintonando Araar, che insisteva, e volarono pugni e calci.

Un gendarme, richiamato dalla rissa, accorse. Pescò nel mucchio. Beccò Araar. Mentre gli altri, veloci, si eclissavano.

«Adesso ti faccio vedere io» disse il gendarme.

Teneva Araar per la collottola e lo trascinava di peso. Il ragazzo cercava di liberarsi. Strattonava. Protestava. Ma più si agitava, più il gendarme stringeva la morsa.

Araar fu portato al Comando. E sbattuto in una cella buia. Puzzolente e umida.

A dargli il benvenuto: una famiglia di ratti dagli occhietti che sprizzavano scintille.

Aspettavano solo di azzannargli le caviglie.

*

Araar che parlava con gli animali, e capiva Mafuz meglio di un essere umano, tentò l’abbozzo di un discorso. Ma erano ratti sporchi, brutti e cattivi. Irriducibili nella loro ferocia e coriacei ad ogni approccio.

Alle parole preferivano i morsi, e si avventarono tanti quanti erano contro Araar. Che si buttò contro la grossa porta di ferro della cella, coprendola di colpi, all’impazzata.

Urlava: «Aiutooo!».

*

Nel frattempo…

Beth scoppiava di soddisfazione.

Aveva visto l’aeroporto. Proprio mentre un aereo decollava.

Aveva visto l’aereo alzarsi in volo, potente, col muso uguale davvero a un uccellaccio.

A Beth era mancato il fiato per l’emozione.

Mai si sarebbe immaginato di vedere un simile spettacolo.

Finora lei, gli aerei, li aveva visti lassù-lassù in alto che solcavano il cielo mentre si lasciavano dietro una scia bianca.

Gli aerei, piccoli, sparivano. E restava la scia. A testimoniare il aggio.

Ma poi, anche la scia si sgretolava in bioccoli. E svaniva. Lentamente.

E il cielo tornava del suo azzurro di sempre. Solito, compatto.

Come se niente lo avesse mai violato.

Come se niente fosse mai accaduto.

*

«Allora hai proprio deciso: vai al nord» disse Alan Kerry a Beth.

Lei annuì.

«Sei sicura di non volere restare con noi? A Kallabah?»

«Sono sicura.»

«Beh… Buona fortuna.»

Ma Allan Kerry subito aggiunse: «Comunque, da qui parte una corriera. Non credo ci sia tutti i giorni, ma so che va su a settentrione. E, a questo proposito, ti servirà avere qualche soldo…».

Alan Kerry estrasse un paio di banconote dalla tasca, e le allungò a Beth. Ma lei restò immobile a osservarle.

«Su, prendile (disse Alan Kerry). Non è il caso che tu faccia complimenti, potresti essere mia figlia. Devi pure pagarti la corriera!»

Beth esitando prese le banconote. Di malavoglia. Arrossendo. «Ve li restituirò» disse. Abbassando gli occhi.

«D’accordo. Diciamo che è soltanto un prestito… OK?» rise fragorosamente l’uomo.

Proprio in quel momento Beth sentì dei piccoli colpi sulla spalla. Si girò.

Era il muso di Mafuz, proteso a richiamare la sua attenzione.

*

Beth aveva ormai abbastanza consuetudine con il cammello per capirlo. Certo, non le riusciva di comprenderne i bramiti, come Araar. Non ne decifrava i discorsi, ma adesso non ebbe dubbi: afferrò perfettamente che Mafuz le chiedeva di seguirlo.

E Beth e Alan Kerry lo seguirono.

Arrivarono al Comando sorpresi di udire le grida di Araar, dalla cella dove stava in preda ai ratti.

L’inglese si affrettò a entrare nella palazzina e, combinazione, il primo che incrociò, fu proprio il gendarme, autore dell’arresto.

Il gendarme si chiamava Abbakar ed era un brav’uomo che aveva sedici figli da sfamare e il problema di trovare i soldi anche per la dote delle figlie. Abbakar non vedeva l’ora di sposarle perché ogni figlia che usciva di casa era una bocca in meno.

Alan Kerry estrasse rapido una ricca banconota che sventolò sotto i baffoni di

Abbakar. Gliene fece assaporare… il profumo, e solo dopo gli disse: «Il ragazzino che urla è amico mio… Fa parte della nostra spedizione…»

«Ho capito» rispose l’altro afferrando il bigliettone.

Un attimo dopo, Araar era fuori. Libero.

*

Si grattava. Furiosamente.

La breve permanenza in prigione gli aveva procurato un esercito di pulci. Adesso gli pullulavano addosso. Allegre come mai.

Lo beccavano a tutto spiano, però almeno non erano topacci. E poi Araar era felice di avere ritrovato Beth. E anche il fedele Mafuz.

«Come avete fatto a rintracciarmi?» chiese.

Mafuz glielo spiegò: aveva seguito Araar appena il ragazzino lo aveva lasciato per cercare Beth.

Il cammello, grazie alla propria altezza, godeva di una visione privilegiata,

panoramica. Poteva arrivare con l’occhio dove non arriva un normale comune essere umano. così era stato un gioco per lui seguire Araar nella folla, anche da lontano. Fino a che era scoppiata la rissa.

Aveva quindi atteso che Alan Kerry tornasse a prendersi la jeep, per dare l’allarme.

Araar tradusse il resoconto del cammello e l’inglese emise un fischio di ammirazione: «Quel Mafuz è un genio!» rise.

«Beh… OK, ragazzi!» subito aggiunse. «L’avventura si è felicemente conclusa, ed è tardi e io devo ritornare… Bye!».

L’inglese saltò sulla jeep, e sgommò via.

Zaïra, la cartomante

Erano rimasti soli, Beth e Araar.

L’uno di fronte all’altro.

E Beth fissò Araar con un sorrisetto malizioso: «Ma tu… Tu non volevi restare a scoprire i tesori dentro la montagna?».

«Yum» Araar si limitò a dire. Con una smorfia. Rabbuiato.

Mafuz avvertì che l’atmosfera stava daccapo facendosi rovente. Occorreva un diversivo, e il cammello bramì e scattò via. Si allontanò veloce.

Come aveva previsto, la manovra funzionò: distrasse i contendenti. Infatti, Beth e Araar, colti di sorpresa, tacquero stupiti: per spostare la loro attenzione su Mafuz che ormai volava.

Si lanciarono a inseguirlo, urlando a squarciagola: «Ehi, dove vai? Cosa ti ha preso? Fermati, Mafuz… Mafuuuz!»

Il cammello si arrestò soltanto quando i due inseguitori non avevano più fiato.

*

Beth e Araar, senza forze.

Era ata loro la voglia di questionare e, recuperato il cammello, si guardarono attorno.

Si resero conto di essere ingarbugliati in un dedalo di vicoli. Stretti e contorti. E inoltre si era fatto buio.

La folla che vi brulicava, d’incanto era sparita.

Era calato il silenzio: interrotto solamente dall’abbaiare di qualche cane lontano, cui un altro cane rispondeva da chissà dove.

Un’ombra, di tanto in tanto, scivolava: rasentava i muri bianchi. E subito svaniva, ingoiata nel vano scuro di una porta.

«Ho paura» disse Beth stringendosi ad Araar.

«Per che cosa?» lui le rispose. In realtà, gli tremavano le gambe.

«Potrebbero farci del male… Derubarci…»

«Derubarci?... Degli stracci che indossiamo?» rise Araar.

Beth mormorò: «Io ho un sacco di soldi.»

«Tu?»

«Sicuro», Beth estrasse le banconote ricevute dall’inglese.

Il tempo di mostrarle…

Un’ombra uscì dall’oscurità e le afferrò.

Tutto era avvenuto così rapidamente che arono parecchi istanti prima che Beth e Araar ne prendessero coscienza.

Allibiti, avviliti, si rifugiarono sotto una tettoia. Si stesero e rannicchiarono.

Mentre Mafuz andava nel deserto a fare cena.

*

Al mattino furono svegliati da un vociare. La tettoia, infatti, apparteneva a un fabbricante di rosari, e donne e ragazzini vi stavano affluendo.

Era la mano d’opera adibita a infilare i grani nelle cordicelle.

«Volete lavorare?» disse il fabbricante a Beth e ad Araar.

Araar guardò Beth e lei: «Sì» disse. Senza esitare.

Si trovarono seduti con mazzette di cordicelle e una cesta traboccante di grani. Grossi.

Lo spessore di nocciole.

*

Lavoravano. E i giorni avano. Uno dopo l’altro. Alla pari dei grani dei rosari che scivolavano tra le loro mani. E Beth, intanto, pensava sempre al Paese della felicità.

Di giorno rimuginava e la sera, prima di addormentarsi, trasferiva riflessioni e speranze ad Araar che si limitava ad ascoltare.

In realtà, lui incominciava a essere stufo di quel tran-tran: della monotonia di tutti quei grani, che si susseguivano tra le sue dita come anelli di una catena senza fine. Una catena che lo teneva lì imprigionato.

Araar sentiva la nostalgia dell’avventura, e degli orizzonti aperti del deserto. Ed era roso dalla febbre di scoprire nuove cose, nuove persone, nuovi mondi.

Una sera, dopo che Beth aveva parlato a lungo, Araar le disse: «Perché non ce ne andiamo? Cosa aspettiamo?»

«Ci serve avere altri quattrini» lei gli rispose.

Araar sbuffò.

E così arono altri giorni. Fino a che anche Beth giudicò che potevano partire. E una mattina presto salirono in groppa a Mafuz

Mafuz, ormai avvezzo, senza che nessuno gli dicesse niente, puntò in direzione della stella, a settentrione.

*

Stavano uscendo dalla città, erano in vista delle mura e della porta che vi si apriva… Beth distinse nella folla una vecchia, accovacciata dietro a un panchetto su cui bruciavano stecchetti di incenso.

La vecchia stava leggendo la mano a un pastore, il cui gregge stava poco distante.

Beth indicò la vecchia ad Araar: «Guarda… È un’indovina… Mi piacerebbe sapere il futuro che ci aspetta…».

«Non mi va quella donna (Araar scosse la testa). Ha tutta l’aria di essere una zingara, e al mio villaggio gli zingari sono temuti. Si dice che rubino i bambini…»

«Ma noi non siamo mica più bambini. E poi non vedi? Non è che una vecchia senza denti…» Beth rise.

«Appunto, può essere una strega. E le streghe sono perfide e cattive, e fanno cose strane…»

«Ma va!» Beth tornò a ridere. Saltò dalla groppa di Mafuz, e raggiunse con o deciso il banchetto della vecchia.

«Quante piastre volete per leggerci il futuro?» Beth le chiese.

«Zaïra, l’indovina, dice che due mani da leggere e due futuri da predire sono molti, e voi certamente non avete il denaro» la vecchia rispose. Parlava di sé in terza persona. Neanche fosse una regina.

«Chi vi ha detto che siamo dei poveracci senza soldi?» scattò Beth, punta nell’orgoglio.

Cacciata una mano sotto le lunghe vesti, ne cavò una manciata di monete che esibì: le traboccavano dal palmo della mano.

Era tutta la paga ricevuta nei giorni e giorni trascorsi a infilare migliaia di grani di rosario, e la vecchia diede un’occhiata distratta alle monete. Indugiò a riflettere. Infine disse: «Beh… Se le cose stanno così, vediamo cosa si può fare. Metti pure lì i soldi sul banchetto».

«Tutti?» chiese Beth, riluttante.

La vecchia sospirò: «Tu intanto appoggiali».

Sebbene di malavoglia, Beth obbedì: depose le monete. Quindi allungò la mano sinistra col palmo aperto, pronto a essere scrutato.

La vecchia socchiuse gli occhi e iniziò a mormorare una specie di preghiera: una cantilena monotona le cui parole erano in una lingua sconosciuta.

Araar ne dedusse che la vecchia era una zingara, senz’altro. Perciò biascicava in quell’idioma. Lo pensò, e la sua diffidenza aumentò insieme all’inquietudine.

Al contrario di Beth che, appena Zaïra finì l’oscura litania, si sciolse in un fiume di domande.

Investì l’indovina: chiese del Paese della felicità… Chiese dove-come-quando si sarebbe sposata con Araar… Chiese quanti figli avrebbe avuto e, di questi, quante femmine e quanti maschi… Beth chiese, chiese e chiese…

Zaïra la bloccò: «Hai pochi soldi e io di conseguenza ho poco tempo. Tu vuoi sapere troppe cose. Scegline una … Quella che stimi più importante».

Beth indugiò.

La vecchia protese le braccia al cielo.

Iniziò a descrivere larghi cerchi nell’aria con le mani, mentre daccapo riprendeva la misteriosa cantilena. Infine, con un gesto lento e solenne, impose le proprie mani sulla testa dei ragazzi.

«Ora fissatemi negli occhi» disse, il tono grave e profondo.

Furono le ultime parole che Beth e Araar udirono.

*

Si risvegliarono. Prima Araar e poi Beth.

Storditi.

Come chi esce dal deliquio di un febbrone devastante.

La testa vuota, le loro orecchie ronzavano.

E non ebbero dubbi.

La vecchia aveva compiuto una sua diavoleria.

«E adesso la strega non c’è più… È sparita» disse Araar.

«Sì, e con i nostri soldi!» disse Beth.

Era viola per la rabbia. E anche per la vergogna: si era fatta giocare. Lei, proprio lei, che si considerava una piccola volpe del deserto.

Restò assorta a meditare.

Si riscosse.

Disse: «Proseguiamo. Già abbiamo perso troppo tempo, e poco importa se siamo senza soldi. Il Grande Spirito ci aiuterà».

Amir, il mercante d’erba

Abituati a viaggiare nella sabbia infinita e senza alcun riferimento, adesso era come camminare protetti, sul velluto.

Infatti, usciti dalle mura, si trovarono a percorrere una pista di terra battuta. Comoda e larga. E trafficata. Da un viavai di vecchi camion dipinti di ogni colore e di carretti trainati da buoi e asinelli.

La via era anche affollata da viandanti. In ambedue le direzioni.

C’era gente che si recava in città e gente che invece la lasciava, per poi disperdersi nel deserto e raggiungere, ciascuno, la propria oasi.

Dopo qualche ora arrivarono a un bivio. La strada si biforcava in due tronchi. Perfettamente uguali. Uno si snodava verso oriente. L’altro a ponente.

«E adesso dove andiamo? (disse Araar). Nessuna delle due strade ci va bene. Noi dobbiamo andare a settentrione…»

«Non c’è nemmeno nessuno a cui chiedere» disse Beth.

Il viavai si era sfoltito strada facendo, e Beth e Araar stavano lì rosi dai dubbi. Forse qualcuna delle due strade sarebbe poi girata a settentrione. Poteva anche accadere. Perché le piste nel deserto corrono bizzarre. Ma come saperlo subito in tempo?

Provvidenziale, sbucò un cammello con un uomo in groppa.

Sbucò da dietro una duna, subito seguito da un secondo cammello, quindi da un

terzo, un quarto e un quinto. Gli animali erano carichi di casse, e lo sconosciuto alla vista di Beth e Araar gridò loro: «Oh… Toh! Guarda chi si vede… Due piccioncini freschi freschi… Siete in viaggio di nozze?». L’uomo rise sguaiato. Malizioso.

Beth e Araar tacquero. Sorpresi da quell’apparizione improvvisa. Mentre Mafuz, irritato, manifestava con un bramito, secco e breve, la propria antipatia per lo sconosciuto.

«Scommetto che vi siete persi. E adesso avete anche sete e fame» disse l’uomo mentre lasciava la groppa del cammello.

Beth e Araar annuirono. Sì, era proprio l’unica cosa di cui erano certi in quel momento. Avevano proprio sete e fame.

«Beh… (disse l’uomo), io l’ho un rimedio. E formidabile.»

Sorrise. L’aria complice e cameratesca di chi si atteggia a vecchio amico.

Strizzò l’occhio ad Araar: «Mi chiamo Amir, piacere di conoscervi» aggiunse. «Mi siete simpatici e potete considerarmi il vostro angelo protettore».

Mafuz bramì per la seconda volta, daccapo secco e breve. Anzi, questa volta, accompagnò il bramito con uno scalpiccio nervoso nella sabbia. E Amir tornò a ridere, sguaiato: «Il vostro cammello sembra di cattivo umore. Cos’ha? Non gli devo essere simpatico».

L’uomo, quindi, si chinò all’altezza di Araar e Beth che lo osservavano incuriositi. Sussurrò: «Ora fate come vi dico, e fame e sete vi eranno. Vi sentirete volare in un sogno… Liberi e felici, e potenti».

Amir, ciò detto, sgattaiolò verso il suo cammello, dalla cui groppa pendevano un paio di capienti bisacce. Ne aprì una e ne sfilò un oggetto che mostrò ai due ragazzi.

Questi guardavano sempre più interessati.

«Cos’è?» chiese Araar.

«Un narghilé» rispose l’uomo. «Mai visto?» chiese.

E iniziò a spiegare come funzionava.

*

Il narghilé è una pipa veramente grande, tanto da dovere essere appoggiata al suolo.

Alla base ha un recipiente che si riempie d’acqua. E da cui si dipartono due diramazioni: una rigida con un fornelletto a braci per bruciare foglie di tabacco o

erbe o droghe varie. L’altra diramazione, flessibile, finisce in un bocchino per aspirare il fumo ato attraverso l’acqua.

Amir spiegò che lui aveva un’erba particolare da bruciare e fumare. Un’erba miracolosa che nessun altro possedeva in tutto quel deserto per il raggio di miglia e miglia.

Disse: «Volete provare? Io ve lo consiglio. Caldamente. Di solito mi pagano fior di monete d’oro, ma con voi è un’altra cosa. Voi mi siete simpatici, e io l’erba ve la do gratis, questa volta…»

Mafuz bramì.

Il mercante non poteva capirlo, e il cammello ne approfittò per avvisare: «Attento, Araar. Quell’uomo è subdolo e cattivo. Si spaccia per amico ma è una serpe camuffata da colomba. Non provare l’erba, Araar. Quell’erba lavora sulla mente e alla lunga uccide. Al momento ti dà una sensazione di benessere ma proprio qui è l’inganno».

A Beth non sembrò vero di affrettarsi a chiedere: «Quell’erba cresce nel Paese della felicità?».

«Oh sì» l’uomo rispose con un sorriso altrettanto luminoso.

Beth si dilungò a parlare del Paese della felicità e l’uomo mostrò di seguire perfettamente il suo discorso, annuiva e condivideva l’entusiasmo.

Era la prima persona a dare soddisfazione a Beth, che non stava nella pelle. Finora tutti, quando lei parlava del Paese della felicità, scotevano la testa e trovavano da ridire. Se non la deridevano. Addirittura.

Beth era incuriosita: attirata dall’idea di provare il narghilé. Lo giudicava un’esperienza nuova e, come tale, eccitante. A differenza di Araar che aveva ben presente il monito di Mafuz.

Araar teneva le parole del suo cammello in grande considerazione. E in effetti l’intento di Amir era di iniziare i due ragazzini all’erba. Per asservirli. Usarli. E farne degli schiavi.

La droga, infatti, avrebbe devastato loro il cervello e annullato la loro volontà.

Così Araar investì Beth. «E smettila!» le disse. «Basta con questo narghilé. Piantiamola! Quello che ci occorre è soltanto un sorso di buona acqua e un boccone di buon pane. Il resto non ci deve interessare».

Lo disse sgarbato, in malo modo. E Beth reagì. Piccata. Feroce. Neanche le avessero pizzicato un nervo con un ferro rovente.

Sobbalzò. Inviperita, non parlò: urlò.

«Che modi sono?» disse. E infilò un discorso senza fine, tutto d’un fiato. Una parola dopo l’altra. Una più terribile dell’altra.

Araar, che non si aspettava un simile furore, dapprima guardò Beth meravigliato. Poi si domandò come lui avesse fatto a innamorarsi di una simile strega… Con quel viso così orribile, deformato com’era e contraffatto dalla rabbia.

Hor’Or, Bend’Or e Gom’Or, i gemelli strangolatori

La reazione di Araar e il battibecco con Beth avevano bloccato i piani di Amir. Ma in compenso, adesso, a rimediare, l’uomo poteva assaporare lo spettacolo dei due ragazzini che si accapigliavano tra loro.

Il diverbio gli aveva fornito un motivo inaspettato di grande godimento. Perché Amir era di una malvagità infinita. Godeva del male in ogni forma.

Male parole e male azioni erano il suo migliore pane e companatico, e lo scontro a cui gli capitava ora di assistere, gli ricordava i combattimenti all’ultimo sangue tra cani o galli: sfide di cui lui era uno spregevole apionato. (A confermare che, a volte, le vere belve non sono le belve, ma certi esseri umani.)

Amir era al colmo del godimento… Avvertì una punta acuminata premergli la gola.

La punta si era materializzata dal nulla, per incanto, neanche fosse uscita da una bacchetta magica.

Amir impiegò parecchio a superare lo sconcerto, e realizzare che si trattava di

una scimitarra.

«Sorpreso?» udì da dietro alle sue spalle.

Era una voce d’uomo, roca e profonda. Inconfondibile.

Ad Amir ben nota.

Era la voce di Hor’Or, l’ultima persona al mondo che Amir avrebbe voluto mai incontrare. E Hor’Or non era solo.

Lo accompagnavano i suoi inseparabili gemelli, Bend’Or e Gom’Or.

I tre erano tristemente famosi, come Gli Strangolatori. Perché non usavano fare prigionieri: uccidevano i malcapitati che avevano la sventura di cadere in loro mano.

I gemelli li strangolavano. Uno per uno. Collo dopo collo. Poi, a ogni vittima strappavano un dente.

I denti, così accumulati, venivano mano a mano inanellati e adesso, ormai, formavano collane che ciascuno dei tre gemelli si portava al collo. Notte e giorno. Senza separarsene.

A mo’ di trofeo.

Testimonianza di spietatezza. Motivo di gloria.

*

I gemelli erano sbucati dal deserto: sopraggiunti alla chetichella. Silenziosi. Senza fare il minimo rumore. Grazie ai loro cavallini neri come pece, e di gran razza: la più apprezzata tra la gente del deserto per intelligenza e agilità, e velocità di spostamento.

A condurre il trio era Hor’Or, la mente dei gemelli. Era lui di solito a prendere l’iniziativa ed era anche il più loquace, avvezzo a colloquiare. Così anche adesso aveva iniziato lui il discorso.

«Sorpreso?» ripeté, sghignazzando e alitando sulla faccia di Amir.

Ma Amir non rispondeva. Mica per altro: sentiva la scimitarra che premeva e avesse parlato… Si sarebbe infilzato la gola al primo movimento della glottide.

Hor’Or abbozzò una smorfia: «Toh! Ma guarda…(disse fingendosi triste e deluso). Io ti parlo e tu neanche mi rispondi. Neanche saluti i vecchi cari amici. Non sei educato, non ti pare?».

Hor’Or si girò verso i fratelli: «Lui sta zitto. Nemmeno ci saluta. Mentre noi…

Abbiamo battuto mezzo mondo per trovarlo… E adesso lui neanche ci degna. Cosa ne pensate, fratellini?»

«Che è scortese!» disse Ben d’Or.

«Molto» disse Gom’Or.

«Hai sentito, Amir? Ce n’è abbastanza perché noi ci si offenda (riprese Hor’Or, soave). A proposito, ora che ti vedo… Ricordo male o hai anche un debito con noi?»

*

I gemelli avevano lineamenti marcatamente orientali, il viso largo e squadrato, gli occhi a mandorla.

La conformazione del loro corpo si delineava tozza sulle gambe corte e arcuate. Erano di bassa statura, e il cranio completamente rasato denunciava la loro origine: erano tartari che provenivano dalle remote pianure del Tigirirjstan. Terra di cui mantenevano i costumi.

Si vantavano infatti di essere gli ultimi discendenti dell’antico Gran Khan dei Khan e, vero o no che fosse, ne perpetuavano indubbiamente la leggendaria spietatezza.

Per il resto, non essendo più di moda conquistare interi territori invadendoli con orde a cavallo, i gemelli si arricchivano con l’oppio.

Lo comperavano dai contadini, lo negoziavano all’ingrosso per poi distribuirlo e rivenderlo, e per questo usavano le carovane alle loro dipendenze.

Era così accaduto che, anni avanti, avessero scelto tra i vari corrieri proprio Amir con i suoi cammelli. Gli avevano consegnato un’ingente partita ma lui se l’era poi squagliata: convinto che, data la grandezza del deserto, nessuno lo avrebbe mai scovato.

Non gli era andata bene, evidentemente.

*

Hor’Or teneva sempre la sciabola puntata alla gola di Amir. Mentre l’altro dei gemelli, Bend’Or, ingannava il tempo pulendosi le unghie con la punta di un coltellaccio.

Si riava l’orlo di ogni unghia, meticolosamente. E, di quando in quando, sospirava: l’aria annoiata di chi si trova a eseguire sempre le stesse medesime monotone cose. Cioè mozzare teste, quella di Amir in questo caso.

Il terzo gemello, Gom’Or, invece, era concentrato a considerare la lama della propria scimitarra. La teneva impugnata e ne ava e riava il filo con l’indice dell’altra mano.

Gom’Or sembrava soddisfatto.

L’acciaio rispondeva, affilato, al tatto.

Improvvisamente, Hor’Or indicò con un cenno della testa i ragazzini, che si premevano l’una contro l’altro. Terrorizzati. Pallidi e tremanti.

«E quei due? Che ci fanno?» disse con la sua voce roca e sinistra, rivolgendosi ad Amir.

Amir sempre muto, gli occhi inespressivi, fissava davanti a sé, nel vuoto.

«Sono figli tuoi?» Hor’Or tornò a chiedere all’uomo.

«No, no» si interpose Beth. Spinta dalla forza della disperazione più che dal coraggio.

Araar, a sua volta, rianimato dalla reazione di Beth, disse: «Stavamo andando per i fatti nostri. È quell’uomo che si è fermato a parlarci…»

Hor’Or ascoltò. Rifletté.

Per Araar e Beth furono attimi infiniti.

Già si sentivano infilzati. Squartati a pezzi.

«Sparite!» udirono.

La frazione di un attimo. Erano in groppa a Mafuz, che da cammello perspicace quale era, non perse tempo.

Si lanciò al galoppo.

*

Erano ormai lontani. Ma fecero in tempo a udire l’eco delle urla disumane di Amir. Il male che gli stavano infliggendo doveva essere insostenibile. E Araar e Beth provarono un brivido.

La loro impressione fu tale che nessuno dei due osò azzardare accenno di commento.

Proseguirono.

In silenzio.

Mafuz volava, le ali alle zampe.

Il Paese degli Specchi dalle Figure Parlanti

Morgana, la Fata dei deserti

Beth e Araar non parlarono mai più dei dissapori che li avevano divisi. Come se la disputa non fosse mai avvenuta.

La terribile esperienza vissuta con i gemelli era bastata. Aveva composto ogni dissidio: cancellata ogni ombra.

Erano tornati a volersi bene.

Mentre Mafuz volava, Araar guardò Beth e pensò: “Ha proprio dei grandi begli occhi di smeraldo”.

Mafuz iniziò a rallentare. Fino ad arrestarsi. Aveva bene o male la sua età, e aveva sostenuto uno sforzo non indifferente. La lunga intensa corsa nel deserto presentava il conto. La spossatezza stava subentrando all’eccitazione della fuga. La normalità riprendeva, l’eccezionalità era finita.

I cuori avevano ripreso il ritmo dei battiti di sempre e, di pari o, però, anche fame e sete si rifacevano sentire.

«Chissà dove siamo» disse Beth.

«Dobbiamo aspettare sera per saperlo… Dobbiamo rivedere la nostra buona

stella» disse Araar.

«Temo che non ci servirà» Beth tirò un lungo sospiro.

Si guardavano attorno. Ma fin dove arrivava lo sguardo, la risposta era sempre la stessa. Vedevano sabbia, sabbia e solo sabbia.

E dune.

Che si rincorrevano. Una dopo l’altra. A non finire.

Beth stava per essere presa dalla disperazione.

E anche Araar.

Sempre più convinto che per loro, stavolta, era la fine.

Si accucciarono.

Accasciarono.

All’ombra di Mafuz.

*

Rabbioso, per sfogarsi contro il destino avverso, Araar raccattò una pietra e la lanciò. Ne seguì con gli occhi la parabola nell’aria. E sobbalzò.

Sul filo dell’orizzonte aveva intravisto qualcosa… Qualcosa che si muoveva… Indefinito… Una specie di flusso e riflusso… Sprizzava tratti argentei… Si componeva e dissolveva e ricomponeva… Induceva a pensare a una polla d’acqua che zampilla da una fonte…

Araar scattò, eccitato.

«Che c’è?» chiese Beth.

Era così stanca e abbattuta da nemmeno fare lo sforzo di guardare.

Araar cercò di risponderle… di descriverle il fenomeno. Ma faticava a trovare le parole. Era un genere di immagine troppo insolita, sfuggente.

Beth troncò: «Ho capito. È la Fata Morgana. Sarà una delle sue solite burle».

*

La Fata Morgana…. Si diceva che apparisse ai viandanti allo stremo delle forze per farsi beffe di loro.

Provocava loro visioni allettanti, fasulle, che i poveretti scambiavano per vere. E si illudevano. Mentre, in realtà, rincorrevano il vuoto di un’allucinazione.

Araar decise di muoversi e scoprire se il baluginare che vedeva, fossero veramente dolci e fresche acque. Ma Beth scosse la testa. Gli disse che non era il caso di sprecare le ultime preziose energie per qualcosa che, secondo lei, non esisteva.

Intervenne Mafuz, dall’alto della sua mole.

Stava eretto, sulle quattro zampe, le narici dilatate, il muso proteso proprio verso il punto dell’orizzonte con la misteriosa immagine.

«Sento puzza di esseri umani… E deve trattarsi anche di un forte assembramento di persone…. Non posso sbagliarmi… Il mio fiuto mi inganna raramente…»

A Mafuz, città e agglomerati urbani con la loro moltitudine di persone e la folla, e il rumore, davano ai nervi. E il tono del cammello denunciava una certa irritazione. Sebbene appena avvertibile, e solo da un orecchio e una sensibilità acuti.

Perché Mafuz era un Signore. Si esprimeva secondo le regole di un certo stile. Mafuz era contenuto. Non cadeva in eccessi verbali. In esagerazioni, epiteti o interiezioni. Evitava modi o accenti grossolani. Parlava per comunicare. Mai per stupire. E, sempre comunque, senza farsi prendere da sentimenti o emozioni.

Per Mafuz una città, qualsiasi fosse, non era un traguardo entusiasmante. A differenza di Araar. Per il quale, nella situazione in cui erano, la città rappresentava la salvezza…. Significava trovare acqua e cibo.

*

Araar si mosse.

Beth, immobile: «Vacci tu, io resto. Io sono troppo stanca, e poi è inutile».

Araar saltò in groppa a Mafuz.

Avevano percorso soltanto un breve tratto che udirono la voce di Beth: «Vengo anch’io… Aspettate!».

Tra poco sarebbe scesa la notte e a Beth erano venuti i brividi… All’idea di restare al buio, sola.

*

Non era la meravigliosa acqua di fonte che scorreva: come poteva sembrare da lontano. Ma un grande video. Sospeso nell’aria. Tra terra e cielo.

Dentro si muovevano spruzzi iridescenti e sprazzi di scintille argentate. Che animavano la scritta: "Benvenuti nella città che non c’è eppure c’è".

Seguiva un secondo video, questo ancora più enorme, dove altri effetti luminosi componevano: "Siete nel PAESE degli SPECCHI dalle FIGURE PARLANTI".

Araar e Beth, arrivati ai piedi del primo video, lasciarono la groppa di Mafuz e, saltati a terra, avanzarono lenti, allibiti.

Araar non sapeva né leggere né scrivere, e per lui quelle lettere erano soltanto seducenti figure scintillanti. Ma Beth qualcosa dell’alfabeto aveva fatto in tempo a imparare, da piccola, in famiglia.

Suo padre faceva lo scriba. Teneva un banchetto sulla via principale e chiunque avesse bisogno di una lettera, d’affari o d’amore o per altro, si rivolgeva a lui.

Gli riferiva le cose che voleva scritte, e il padre di Beth trovava le parole giuste, le discuteva e concordava con l’interessato. Infine le compitava sulla carta con un’asticciola dal pennino vecchio e spuntato, che intingeva in un boccetto di inchiostro nero e denso come il catrame sciolto-fuso.

Era così che si guadagnava da vivere… Scrivendo in cambio di un soldo per

parola. E da lui affluivano i contadini dei dintorni quando venivano in città: per petizioni, richieste e domande, e per documenti da presentare alle Autorità.

Il padre di Beth dava anche pareri di tipo legale per cui funzionava pure da avvocato. E, in questo caso, ai soldi per le parole scritte aggiungeva un supplemento pagato di solito in natura: con uova, polli, latte di capra e ambite primizie di stagione…

*

Araar guardava i video. Rapito. Bocca aperta, occhi spalancati. Tanto preso da non sentire nemmeno più fatica, fame o sete. Mentre Beth, che era riuscita a leggere le scritte, si era concentrata a rimuginare.

Solo Mafuz sembrava indenne da ogni suggestione: totalmente estraneo.

Giustamente

I video erano cose studiate da esseri umani per altri esseri umani.

Non erano roba da cammelli.

Circe, la maga del marketing

“Chissà se è proprio questo il Paese della Felicità” rimuginava Beth.

Di video, stavano scoprendo, ce n’era tutto un susseguirsi. Uno dopo l’altro, in grande quantità.

Ce n’era di grandi. E piccoli. Di ogni dimensione. E ciascuno con immagini diverse.

Emettevano pure suoni e voci. Come se dentro ci vivessero persone e situazioni vere.

Alcuni video perfino ti specchiavano. Ti vedevi dentro riflesso: protagonista di incredibili avventure. Proprio le avventure ambite da sempre.

Così volavi su un aereo in ardite picchiate se sognavi di essere un pilota. O ti vedevi tramutato in eroe potente, invincibile e immortale… O in principessa che tutti i re volevano sposare… O in diva adorata da folle di ammiratori…

Insomma, se uno aveva un sogno… Lo realizzava.

Più vero che se fosse vero.

*

Araar e Beth correvano da un video all’altro: gli occhi catturati dagli strani schermi. E non si erano accorti di essere arrivati al centro dell’incredibile metropoli. Solo allora presero coscienza della folla che li circondava.

Da ogni lato.

Erano persone di ogni genere ed età, e ciascuna aveva davanti il proprio video che rimirava in piena estasi. Nel massimo… Il più religioso dei silenzi.

Beth, impaziente, si rivolse alla prima persona a tiro.

L’uomo aveva gli occhi calamitati, fissi, su un video proporzionato alle sue dimensioni. Era un grassone, e i pollici del suo video erano praticamente uguali ai centimetri di circonferenza della sua infinita pancia. Era un… videone!

«Scusi, signore…» Beth gli disse.

L’uomo la ignorò.

Beth alzò il tono della voce, ripeté: «Scusi, signore…È questo, per caso, il famoso Paese della felicità?».

Ma era come se il grassone fosse sordo.

L’uomo guardava il suo video e sgranocchiava noccioline. Incurante dei frammenti e delle bucce che si spargeva addosso, e che accumulava nelle pieghe del pancione.

Beth, stizzita, pensò che non era un signore educato. E neanche con il senso del decoro.

*

Ritentò con un giovanotto stravaccato nella sabbia davanti a un video stavolta più ridotto.

«Scusi, signore…» Beth lo accostò.

Il giovanotto trangugiava una lattina di birra dopo l’altra. Senza mai staccare gli occhi dal suo video. E, anche stavolta, fu come se Beth parlasse a una statua di sale.

Ma Beth non si arrese.

Si rivolse a una donna… Interpellò un vecchio dalla lunga barba bianca… Infine un militare che esibiva sul petto una sfilza di decorazioni…

Dovette desistere. Rassegnarsi.

Era come se lei non esistesse. Tutti erano troppo presi dall’incanto.

Incrociò una dinamica e amabile signora dal sorriso che le traboccava incontenibile.

«Come mai… Tu, il tuo video non ce l’hai?» la signora disse a Beth.

“Finalmente qualcuno che si degna di aprir bocca!” Beth pensò.

Non le sembrava vero. Si affrettò: «Scusi, signora…».

«Su!... Non chiamarmi signora- (rise la donna). Non è il caso, dammi pure del tu e chiamami Circe… Circe è il mio nome… Sono la direttrice marketing di questo paradiso… E tu come ti chiami?»

«Beth.»

«Hai un bel nome. Bello come i tuoi occhi-belli.»

Beth, che di complimenti non ne aveva ricevuti molti in vita sua, arrossì.

Sorpresa. Imbarazzata.

Ma si riprese. Chiese: «È questo il famoso Paese della felicità?».

«Puoi dirlo, tesoro. Altrochè. Puoi dirlo. Questa è la più bella invenzione della civiltà e del progresso. È la più avanzata frontiera tecnologica e sai, tesoro? Noi siamo appena agli inizi. Vedrai tra poco.»

«Ma a me, se devo essere sincera (disse Beth), tutti qui sembrano un po’ cotti.»

Avrebbe voluto dire tocchi. La parola l’aveva già sulla punta della lingua, ma si era frenata all’ultimo momento.

«Cotti? (rise la signora). Ma no… Che dici? Sono beati e felici. Osservali… Guardali bene… Guarda la soavità che trapela dai loro visi… Il senso di benessere che emanano…»

Beth si diede un’occhiata attorno.

«Non trovi?» la direttrice marketing schiuse le labbra in un altro dei suoi sorrisi travolgenti.

«”Chiedi il tuo video, chiedi al tuo video” è il nostro slogan, la direttrice proseguì. E a te, piccola affascinante Beth, noi daremo un video che ti cambierà la vita in meraviglia. Tuffati nell’emozione, baby! Scegli la tua avventura e

vivila come non l’hai vissuta mai!»

L’amabile e dinamica signora continuò dicendo che loro erano una company multimediale e multinazionale, specializzata a produrre felicità.

E affinché tutti, proprio tutti, potessero disporne, avevano creato un sacco di agevolazioni.

Per esempio, chi non aveva soldi a sufficienza, la felicità poteva averla a rate.

«Tante piccole rate, facili e comode» la signora tenne a evidenziare.

*

Circe era dotata di un grande potere ammaliatore. Era una maga. La maga del marketing.

Col marketing lei, volendo, avrebbe saputo vendere perfino il ghiaccio agli esquimesi.

Ma c’era un neo: girava voce che lei trasformasse gli uomini in porci con l’incanto dei suoi video.

Verità o leggenda che fosse, la faccenda era inquietante. E il guaio… Sia Araar che Beth erano degli ingenui sprovveduti, troppo, per esserne al corrente.

Fortunatamente…

Rodeva Beth un tarlo.

Nonostante le rassicurazione della maga Circe, a Beth restava il dubbio che quello non fosse proprio il Paese della Felicità: il vero, autentico, originale di suo padre.

Perché lei aveva visto cose meravigliose e sorprendenti, certamente, ma non ruscelli che scorrevano limpidi e azzurri. Non c’era acqua abbondante e generosa… Né uccellini di ogni grandezza e colore, dalle penne che sembravano dipinte, e che gorgheggiavano note dolcissime sui rami di alberi fitti e frondosi, carichi di frutti dorati, succosi e appetitosi…

Lì, al posto degli alberi, c’erano distributori automatici di ogni tipo e genere da cui usciva di tutto: patatine, merendine, bibite dolciastre…

L’istinto di Beth le diceva che qualcosa non quadrava. E presa da un impulso irrefrenabile, abbandonò la maga.

Beth si scusò: «Avevo un cammello e non lo vedo più. Devo trovarlo».

E scappò via.

In effetti, Mafuz che già detestava le città in generale, a maggior ragione aveva trovato dei buoni motivi per prendere le distanze da quel tipo di universo.

Il panorama che gli era consentito di vedere, grazie alla sua altezza, gli era subito apparso di uno squallore troppo desolante.

Tutti quei corpi inerti, stesi, imbambolati….

Era la metropoli dei cadaveri viventi.

E Mafuz si era rifugiato ai bordi della città. Da dove poteva vedere il suo deserto. Che era natura che non perdona, ostile. Ma sincera, non artefatta.

*

Beth si lanciò alla ricerca di Mafuz.

Scivolava tra un video e l’altro, scavalcava un corpo dopo l’altro, attenta a non inciamparvi. Perché tutto e tutti erano ammassati e fitti: lo spazio era sfruttato, il centimetro conteso.

«Mafuuuz!» gridava Beth, suscitando brontolii e proteste dove le capitava di are.

Le urlavano di piantarla, senza per questo spostare lo sguardo dal proprio video.

«Vattene al diavolo e smettila di rompere» era il più tenero degli insulti che le indirizzavano.

Assorbita dagli eventi, Beth non si era accorta che nel frattempo Araar era scomparso.

Se ne rese di conto di colpo, e si sentì sperduta, sola, abbandonata. In preda al panico.

Le prese un groppo alla gola e abbassò gli occhi a terra, strinse forte le palpebre per impedire alle lacrime di scorrere. Le riaprì. Sussultò.

Nella sabbia aveva visto…

*

Alla fabbrica dei rosari, utilizzandone i grani, Araar aveva composto due piccoli braccialetti. Uno per sé, l’altro per Beth.

Li aveva composti identici, e a Beth aveva detto: «Io e te staremo sempre uniti come questi grani. E come questi grani anche i nostri pensieri saranno sempre uguali».

Araar aveva tinto il legno duro e profumato con un raro e prezioso minio dorato. Cosicché i grani risplendevano al polso come una costellazione di piccole stelle.

Beth, adesso, aveva scorto un braccialetto tale e quale brillare nella sabbia.

Provò un tuffo al cuore. Araar, dunque, era ato di lì e Beth si chiese: “Il braccialetto era stato perso o si era sfilato per la violenza di una lotta? Araar era stato forse assalito o rapito? Adesso dove si trovava?”.

Si buttò tra la gente gridando: «Araar!».

«Che c’è? Qualcosa non va?» la fermò Circe.

Si era materializzata dal nulla nel suo tailleur inappuntabile, col suo puntuale sorriso straripante.

Beth riferì e la maga le disse: «Lasciami guardare…».

Estrasse un minuscolo video. Il minuscolo video era dotato di minuscoli tasti che le dita, dalle unghie dipinte e ben curate della donna, digitarono.

«Toh, ecco (disse Circe indicando il display), mistero chiarito. È come immaginavo. Il tuo Araar appare registrato, e si trova vivo sano vegeto e felice alla postazione BB 586 KA. Da qua si può vedere… Sta lì… Laggiù in fondo».

Beth volò. E Araar stava effettivamente lì seduto, le gambe incrociate, davanti a un video.

Gli occhi trasognati.

Yon, il buttafuori

Era proprio stregato dal suo video: Araar non rispondeva. E Beth lo scosse.

Lui le si rivoltò contro, inviperito. Le morse anche una mano.

Lei si ritrasse, offesa.

Le montò una gran rabbia: da provare il desiderio di saltargli addosso e di picchiarlo con tutte le sue forze.

Ma infine prevalsero pietà e comprensione.

Beth si rese conto che a morderla non era stato il vero Araar che lei conosceva. Era un Araar che avevano stordito. A cui avevano rubato l’anima. E che avevano privato di ogni capacità di cognizione.

«Come ti sei ridotto!» Beth scosse la testa, addolorata.

Ed ebbe definitivamente chiaro che non poteva essere quello il Paese della Felicità che lei cercava.

*

“Non voglio fare la fine di Araar" Beth si disse. "Devo andarmene… Fuggire.”

D’altra parte, non poteva lasciare Araar in quelle condizioni. Doveva liberarlo. E lo afferrò per trascinarlo via…

Ma due mani la sollevarono di peso.

Qualcuno l’aveva assalita alle spalle. E lei si agitava. Sgambettava nell’aria. Si opponeva. Accanita.

Non vedeva in viso chi l’aveva aggredita, e urlò: «Cosa vuoi? Chi sei? Lasciami!».

«Sono Yon, il buttafuori (Beth udì). E tu, piccola, hai ato il segno. Non solo hai disturbato la quiete pubblica ma sei ata a vie di fatto.»

«Io? E tu allora?» Beth protestò.

Si ritrovò deposta fuori dalla città. Ai bordi del deserto.

«E guai a te se ti rivedo!» le disse Yon mostrandole i pugni.

«Eccomi sola, soletta. Senza Araar e senza neanche il cammello» disse Beth.

Lo disse ad alta voce. Tanto… Non c’era ombra di persona a sentirla. E tanto meno a vederla.

Poteva lasciarsi sgorgare tranquillamente tutti i grossi lacrimoni che voleva. Senza vergognarsi. E che, difatti, copiosi, le rigarono le guance.

Beth singhiozzava e piangeva, disperata. Il magone equamente diviso tra la sorte toccata a lei e quella subita da Araar.

Si raggomitolò. Avvilita. Nella sabbia.

Sembrava la sagoma di un grosso cane vagabondo bastonato.

*

La riscosse il ronzio di un motore.

Si avvicinava.

Alzò il viso. Rapida si asciugò le lacrime: ò il dorso della mano sulle guance. Mentre scrutava tra le dune.

Stava avanzando un fuori-strada. Arrivato alla sua altezza, si arrestò.

Notò tre uomini a bordo. Uno di questi si affacciò al finestrino. Aveva due folti baffi e le gridò: «Ehi, tu, ragazzina!… Tutto bene? Serve niente?».

Beth sentì l’impulso di rispondere che aveva una gran fame e ancora più sete, e un gran dolore che le rodeva il cuore.

Lo avrebbe voluto anzi urlare al mondo intero. Ma le brutte esperienze, ormai di una vita, l’avevano trattenuta. L’avevano resa diffidente. E tacque.

«Hai l’aria di una che non se la sta ando bene» gridò l’uomo dal finestrino. «Sembri piuttosto messa male… Su vieni! Dài! Sali!»

Beth rifletté: accettare o lasciare?

Avesse lasciato sarebbe morta lì dov’era, certamente.

Tanto valeva fidarsi. E rischiare.

Salì sul fuori-strada.

*

L’uomo che le aveva parlato, si chiamava Etien. Era a capo di una squadra di tecnici che cercavano petrolio. E adesso stavano rientrando alla base.

La base stava da qualche parte nel deserto. Ma Etien disse a Beth che lì vicina, sulla loro strada, c’era un’oasi, dove loro l’avrebbero sbarcata.

L’unico cibo di cui disponevano erano barrette di cioccolata. Le offrirono a Beth. Insieme all’acqua potabile che si portavano in una tanica.

Arrivarono all’oasi che era tardo pomeriggio.

«Buona fortuna, piccola» le disse Etien. «A casa, lontano, a molte miglia da qui, mi aspetta una figlia grande come te… Che il cielo ti aiuti…»

Zoraya e altri imprevedibili incontri

Il Maestro e il Libro

Beth scese dal fuori-strada e si inoltrò nell’oasi. Cercò un pozzo dove rinfrescarsi, lavarsi e bere ancora. Non dovette fare molta strada per trovarlo. Era un’oasi piccola, e le persone che incontrava, avevano un’aria bonaria e amichevole. Promettevano di essere ospitali, e Beth ne ebbe la conferma quasi subito.

Una donna che stava mungendo una capra, gliene offrì il latte.

«Non ho soldi» disse Beth abbassando il capo.

«Oh, non importa (la donna le sorrise). Hai l’aria patita e devi avere molta fame…»

Beth bevve il latte. E solo quando fu sufficientemente rifocillata, Zoraya, la donna, le chiese: «Da dove arrivi?... E dove fai conto di andare così sola? Non hai paura?».

«Boh!» Beth alzò le spalle.

Dopo tutto quello che le era accaduto, le era ata la voglia di perdersi in chiacchiere, e di parlare di sé e del Paese della felicità. Non c’era più neanche Araar, e lei ormai lasciava decidere al destino. Ogni posto per lei era buono. Le andava bene tutto, e niente la soddisfaceva nel contempo.

Zoraya le accarezzò la testa. «Anche tu devi avere la tua bella storia… Povera piccola» le disse.

«Di questi tempi la vita è dura» aggiunse la donna sospirando.

A Beth spuntarono i lucciconi. Deglutì. E strinse i denti. Per non scoppiare a singhiozzare.

Zoraya, la donna, tornò ad accarezzarle la testa e a sorriderle. «Su, vieni… (le disse dolcemente). Ho una casa fin troppo grande per me che vivo sola. C’è tanto posto… Se vuoi, puoi approfittarne».

Tanto valeva restare con la donna, Beth si disse.

Accettò.

Si mossero lentamente e, mentre camminavano, Zoraya iniziò a raccontare: «Avevo tanti figli, sani forti e belli, e che erano il mio orgoglio. Tutti me li invidiavano e io, ogni mattina quando aprivo gli occhi e me li rivedevo, ringraziavo Dio per avermeli dati… E mi sembrava di toccare il cielo da tanto mi sentivo felice. Ma un giorno…» la donna si scurì in viso e si interruppe.

Fece una lunga pausa.

Continuò: «Mi sono sposata che avevo poco più della tua età ma, ato un certo numero di anni, l’uomo che mi aveva presa, mi ha ripudiata. Se ne è andato con un’altra più giovane di me e con tutti i nostri figli…. Ha lasciato l’oasi ed è sparito senza che io li possa rivedere. E adesso sono sola e senza neanche più lacrime da piangere».

*

Beth si rendeva utile accudendo alle capre. Zoraya ne aveva molte. E Beth gliele portava a pascolare nel deserto.

Erano intelligenti. Impararono presto a seguirla e a comunicare con lei. Ma non era come tra Araar e Mafuz. Beth non capiva i discorsi che le facevano le capre. Doveva limitarsi a intuire.

A ciascuna di loro aveva dato un nome, e una mattina stava chiamando un capretto ancora piccolo. Si era smarrito e Beth si era spinta negli anfratti tra le rocce… Udì un ticchettio. E sobbalzò.

Era un cadenzare noto. Beth lo conservava bene impresso nell’orecchio. E abbandonò correndo la grotta dove si trovava.

Appena fuori, nella piana, guardò in giro: vide la sagoma curva ingobbita di un vecchio scomparire e poi riapparire da dietro un gigantesco masso.

L’uomo avanzava in direzione dell’oasi, il o incerto ma continuo e regolare.

Regolare come il battere al suolo del bastone che impugnava. E Beth riconobbe anche l’immensa e fluente barba del vecchio, candida come i capelli che gli scendevano lunghi fin sulle spalle.

Era Axor, il Maestro.

*

C’era sempre un buon motivo per farle ritornare in mente Araar e, ogni volta, i lucciconi le riapparivano ad appannarle gli occhi. Così anche ora.

La visione del vecchio le ricordò che, quando si erano incontrati ad Amarcanda, c’era anche Araar, e Beth adesso fu presa dalla commozione.

Indugiò, presa da una gran tristezza, ma poi si asciugò i lucciconi e corse incontro al vecchio.

«Maestro!» gli gridò.

Il vecchio cieco si arrestò. «Oh, sei tu… la colombella».

Parlò come se l’ultimo loro incontro risalisse ad appena il giorno prima.

«Vi ricordate ancora di me?» Beth esclamò stupita.

«Ne hai fatta di strada» il vecchio disse, guardando nel vuoto con le pupille spente.

Poi il viso del vecchio si illuminò di un sorriso malizioso: «L’hai trovato il Paese della Felicità?».

Beth non rispose.

Avrebbe dovuto ammettere che il Paese non lo aveva trovato. E che tutto le faceva ormai pensare che neanche esistesse. Ma Beth era orgogliosa. Scappò via. Piuttosto.

Corse a casa, da Zoraya, e le raccontò del Paese della Felicità. Prima non gliene aveva mai parlato, ma adesso Beth sentiva il bisogno di aprirsi e di sfogarsi.

Riferì alla donna anche del vecchio cieco e delle cose strane che il vecchio le aveva detto, ad Amarcanda.

Beth disse a Zoraya: «Di tutti quei discorsi ho capito solo che il Maestro parlava di un libro…».

La donna la interruppe: «Perché non hai chiesto al vecchio di spiegarsi meglio? Torna da lui. È il destino che te lo ha fatto nuovamente incontrare. Il deserto è

grande eppure vi siete ancora visti. È un segno della Volontà Divina, è chiaro… Mette il vecchio sulla tua strada perché ti deve rivelare qualcosa di importante».

Beth indugiava. E Zoraya dovette insistere: «Su, sbrigati! Corri dal vecchio… Cosa aspetti?».

Beth si mosse. Lasciò la casa e raggiunse il posto dove aveva visto Axor. Ma questi si era allontanato nel frattempo.

Nonostante il suo o, lento e traballante, aveva percorso un tratto non indifferente. Aveva fatto in tempo a raggiungere l’oasi, dissetarsi e andare oltre.

Beth lo sorprese al riparo di una roccia.

*

Il vecchio stava seduto, le gambe incrociate… Immerso, concentrato a tracciare segni nella sabbia, con uno stecchetto. E Beth lo guardò stupita: se il vecchio era cieco, come poteva vedere o leggere quello che scriveva?

Ma Axor aveva avvertito la sua presenza, e intuito quello che a lei ava per la testa.

«È il mio modo di ragionare (spiegò). Mi basta il gesto… Fisso i miei pensieri nella sabbia per averli scritti, chiari e ordinati, nella mente.»

Beth guardò le pupille senza espressione del vecchio, poi osservò i ghirigori che aveva tracciato, e concluse che il vecchio era troppo difficile da comprendere.

Si pentì di avere dato retta a Zoraya e stava decidendo di andarsene e di non pensare mai più a quel vecchio bizzarro e complicato, ma lui l’anticipò. Ancora una volta. «La Felicità è un libro» disse.

Il vecchio riprese a fare ghirigori nella sabbia.

Da quel momento fu come se Beth neanche esistesse.

*

Beth tornò dalla donna.

Zoraya l’accolse: «Cos’hai saputo? Il vecchio ti ha spiegato?».

«Boh!» rispose Beth e aggiunse: «Parto».

«Te ne vai?» la donna chiese, sorpresa e addolorata. «Dove?... Perché mai?» disse dopo una lunga pausa.

«Stando al Maestro, devo trovare un libro…Non so, cosa mi sembra di aver capito.»

«Che libro? Quale?»

«Non so, non ho capito, vuol dire che lo scoprirò strada facendo».

Zoraya abbassò la testa e tirò un lungo sospiro. Mormorò: «Mi mancherai… Si vede che restare sola è il mio destino».

Afferrò una manciata di sterpi e li gettò sul fuoco.

Tra poco era ora di cenare.

Khalizade, la bella principessa

Beth affrontò, inquieta, la notte. Di pari o al calare delle ombre le sue sicurezze erano svanite, incalzate da dubbi e nostalgie.

Aveva incominciato pensando ad Araar, e aveva provato una fitta, una gran tristezza, per averlo perso: abbandonato al suo destino. Ma poi era subito corsa con la mente al Maestro e si era domandata chi fosse veramente.

Il tempo di un istante, era ata a riflettere sul libro. E si era anche chiesta se era davvero il caso di partire e affrontare daccapo il deserto con i suoi pericoli e incognite.

Non ultimo, Beth provava un senso di colpa nei confronti di Zoraya.

La donna l’aveva accolta in casa come una figlia e lei, Beth, ora la ricambiava piantandola in asso.

Rannicchiata nel suo giaciglio, Beth cercava di dominare i fantasmi che sentiva crescere dentro, e al colmo della notte, non reggendo la ridda di pensieri, uscì dalla casupola di argilla.

Zoraya dormiva.

Fuori splendeva una grande luna.

*

Sembrava che il mondo si fosse fermato: congelato dalla fredda luce della luna. Non tirava alito di aria, e tutto appariva immobile: come se ogni soffio di vita si fosse spento. Definitivamente.

La luce della luna investiva Beth, e lei si soffermò a contemplare la propria ombra. L’ombra di stagliava nitida e scura nella sabbia, e Beth vi appariva

lunga… lunga… deformata.

“Come sono brutta” Beth si disse, divertita.

Alzò gli occhi al cielo.

Intorno alla grande luna si stendeva un mare infinito di stelle… Scintillavano… Capocchie di spillo lucenti… Beth adocchiò la stella più grande e brillante, e si disse che là c’erano senz’altro suo padre e sua madre.

Senz’altro la stavano guardando e Beth piano… sussurrò: «Vi porto sempre nel mio cuore, vi ricordo e vi voglio tanto bene… Aiutatemi».

Si sentiva meno agitata. La calma profusa dalla luce della luna aveva placato in parte le sue ansie, e Beth rientrò nella casupola. Si stese nel suo giaciglio, si addormentò, e fece un sogno.

Nel sogno le apparve Axor.

Il vecchio le porgeva un libro. Il libro era avvolto in un’aura incandescente e Beth, impressionata dall’alone che ricordava il fuoco di una meteora, si ritrasse.

«Non temere» le disse il vecchio. «Prendilo: è il Libro della Vita e io te lo dono. È tuo. Su, prova a leggerlo.»

Sebbene riluttante, Beth prese il libro, ne aprì la copertina, e iniziò a scandirne le parole.

Il libro emetteva una luce che le illuminava. E mano a mano Beth ava da una pagina all’altra, le pagine si tingevano di rosso: dello stesso carminio dei riflessi del sole all’alba.

Beth arrivò in fondo e, letta l’ultima parola, il libro mutò colore.

Assunse il verde brillante di un prato di montagna, fresco di pioggia, a primavera.

Il vecchio allora disse a Beth: «Ritorna alla prima pagina e leggi daccapo tutto, dall’inizio».

Lei tornò alla prima pagina e scoprì che le parole erano cambiate: il libro ora narrava un’altra storia. Più bella e avvincente della precedente.

Poi il verde si tramutò nel giallo allegro solare del grano. E così, ogni volta, Beth finiva il libro e all’ultima parola, in fondo, le pagine cambiavano colore. Anche le parole cambiavano. Come pure la storia e il contenuto.

«È un prodigio!» esclamò Beth, quando il libro aveva ato ormai i toni dell’intero arcobaleno.

Ma il vecchio nel frattempo era svanito.

Beth si svegliò.

*

Zoraya aveva visto Beth dormire e sorridere nel sonno, e non aveva avuto il cuore di svegliarla. Così, quando Beth aveva aperto gli occhi, era giorno inoltrato.

La donna le disse che adesso era tardi per partire: il sole era troppo alto e bruciava.

Beth le confidò che aveva fatto un sogno.

Lo raccontò alla donna, che disse: «Sono sempre più convinta che c’è di mezzo un disegno divino. Il Grande Spirito sceglie spesso la via dei sogni per parlarci…».

«Sarà… (Beth la interruppe). Ma a questo punto mi piacerebbe sapere chi è questo vecchio, veramente. Cos’è?... È un mago? Uno stregone?... Ci sono tante cose di lui che non mi spiego… Forse dovrei tornare da lui e capire…»

Zoraya annuì: «Anch’io lo penso. Una parola in più a volte può servire».

Aggiunse: «Ma prima mangia… Ti ho preparato delle buone cose, una sorpresa! Ti ho preparato dei dolcetti con il miele».

*

Il vecchio stava ancora al riparo della roccia, nella stessa posa del giorno avanti. Solo che adesso non tracciava ghirigori nella sabbia.

Aveva avvertito i i di Beth quando lei ancora era lontana, e appena lei gli fu accanto: «Sei tornata, colombella» le disse.

Seguì un lungo silenzio.

In realtà, Beth aveva un sacco di cose che le premevano sulla punta della lingua ma l’aria grave e severa del Maestro le incuteva sempre un certo timore. E poi, stavolta, Beth temeva anche di essere assillante e indiscreta più del solito.

Il vecchio intuì e le disse: «Sento il tuo cuore frullare come le ali di un uccellino in trappola… Liberalo e lascialo volare… Il cielo è grande…»

Beth allora prese fiato per rincuorarsi e mormorò: «Voi parlate sempre di libri… Come mai se non potete leggerli?».

Daccapo tornò a calare il silenzio. E Beth già stava pensando di avere osato troppo. Ma vide che il vecchio aveva assunto un’espressione dolce e sorrideva.

«È una lunga storia» Axor disse. «E forse è arrivato il momento che tu la sappia.»

«Ero giovane, molto giovane (iniziò Axor), e vivevo nella meravigliosa e opulenta città di Alikara, la splendida capitale di questo nostro immenso territorio. Io allora facevo lo scriba, ed ero apprezzato e famoso, tanto da essere invitato alla corte del sovrano.

«In quell’ormai lontano tempo, regnava Melchiorre, ultimo discendente dell’antica e potente dinastia degli Alabiti, e Melchiorre si era innamorato perso della stupenda principessa Khalizade.

«Ma Melchiorre aveva per consigliere personale uno sciamano che un giorno gli predisse un’orribile fine se il sovrano non fosse prontamente intervenuto.»

«Cosa gli predisse?» chiese Beth affascinata dal racconto.

«Melchiorre aveva un fratello più giovane, di nome Maribor, e lo sciamano disse al sovrano che proprio Maribor, suo fratello,. lo avrebbe tradito insieme alla bella principessa Khalizade. Insieme avrebbero ucciso Melchiorre per impossessarsi delle sue ricchezze e dell’intero regno.»

«Come faceva a saperlo lo sciamano?» chiese Beth.

«Lo aveva letto nel cielo interpretando il corso degli astri.»

«E Melchiorre?... Cosa fece?»

«Decise di eliminare sia il fratello che la principessa. Ma, mentre Maribor fece in tempo a fuggire, la bella principessa fu tradotta nella sontuosa dimora dove Melchiorre risiedeva e aveva la sua corte.

«Qui, la bella principessa Khalizade fu segregata nel padiglione riservato alle donne, nell’attesa di venire giustiziata.»

«Ooh! Khalizade morì? La uccisero?»

Continuò il vecchio: «Ma Melchiorre amava troppo la principessa…. Ne era troppo innamorato… E così escogitò uno stratagemma per averla e punirla nel contempo: le impose di raccontargli ogni sera una storia differente, con la minaccia che alla prima storia che il sovrano avesse trovato poco apionante… La mattina dopo la principessa sarebbe stata decapitata».

«Khalizade si salvò?» chiese Beth.

«Oltre che bella, era intelligente e scaltra, aveva fantasia ed era colta. Per cui non si perse d’animo. Affrontò la prova.

«Già conosceva molti libri. Ma, non bastasse, altri ne fece arrivare. Di giorno leggeva senza sosta e la sera, ogni sera, la principessa aveva la sua storia sempre pronta.»

«Allora si è salvata!» Beth batté le mani.

«Il guaio… Col are dei giorni e del tempo, Khalizade si rese conto che tutti i libri, per quanto vari e numerosi, non bastavano. Molti altri ne sarebbero occorsi se lei voleva ancora vivere a lungo.

«A complicare, Melchiorre godeva di un’ottima memoria. Non era possibile spacciargli per nuova una vecchia storia che lui avesse già sentita. Per quanto debitamente truccata, farcita e reinventata lui l’avrebbe riconosciuta, e si sarebbero scatenate le sue ire. Non era il caso di azzardare.»

«Com’è finita?» Beth chiese, impaziente.

«La principessa chiamò tutti gli scriba del palazzo tra cui me. E ci ordinò di crearle ogni giorno delle storie. La migliore, Khalizade l’avrebbe narrata la sera stessa al sovrano.»

«Anche voi avete scritto delle storie! Come facevate a inventarle?»

«Io allora usufruivo del grande bene della vista, e leggevo molto. Avevo modo di trarre molti spunti perché ogni storia nasce da un’altra precedente. È una catena che risale e incomincia alle origini della stessa umanità. È proprio questo il valore dei libri.

«Sono il miele frutto di migliaia e migliaia di cuori e di menti, molte delle quali

famose ma molte spesso anche senza nome e che mai conosceranno la gloria degli allori.»

«Quante storie raccontò la principessa?»

«Mille e una. Sì… Tutta l’intera vicenda durò mille e una notte.»

«Infatti (il vecchio riprese), la millesima e una notte accadde esattamente quello che aveva predetto lo sciamano. Un servo, giudicato fedele ma in realtà al soldo di Maribor, colse Melchiorre alle spalle, lo pugnalò e uccise. Mentre una schiera di armati irrompeva nel palazzo, immobilizzava ogni difesa ed eliminava chiunque si opponesse.

«Infatti… Maribor, fuggito a suo tempo, era ritornato clandestinamente e aveva organizzato il colpo. Dopo di che si insediò, proclamandosi sovrano.»

«E Khalizade?» chiese Beth.

«Khalizade, in realtà, era sempre stata segretamente in contatto con Maribor. E aveva anzi tramato per favorirne il ritorno e la vittoria.»

«Ancora non mi avete detto cosa vi è accaduto per perdere la vista…» disse Beth.

Il vecchio, udendolo, si ò una mano sul viso, e tacque.

Restò zitto. A lungo. Infine si riscosse. Iniziò: «Il dramma incomincia con la conquista del potere da parte di Maribor… Che sospetta di tutti, intravede intrighi e complotti dovunque, e arriva a ordinare che tutti i libri vengano bruciati».

«I libri?... Perché mai?»

«Oh! (sorrise il vecchio), Maribor non aveva torto se ci pensi.»

«Non capisco.»

«Maribor deteneva il potere, e chi ha il potere non dice mai la verità. Finge di dirla. Ma spaccia menzogne. Ed esige che i sudditi le prendano per buone e che non ragionino con la propria testa. Il tiranno usa e sbandiera la parola “Libertà” proprio mentre te la toglie.»

«I libri cosa c’entrano?»

«C’entrano. Perché ogni libro è diverso dall’altro. Ogni libro è una voce differente. E i pensieri tra libro e libro spesso sono in contrasto tra loro. Ed è proprio da questo contrasto e varietà di idee che nasce la vera libertà. Perché i libri ti obbligano a ragionare… A scegliere il pensiero migliore per te, quello che reputi il più giusto. Colui che ha il potere invece vuole che tutti pensino allo stesso modo: nel modo a lui più conveniente.»

Il vecchio indugiò e poi riprese. «Un libro può essere più potente di un potente esercito di aerei, missili e cannoni. Perché il libro ha la forza delle piccole cose, e le cose piccole hanno la meglio sulle grandi. La minuscola goccia frantuma la montagna, il dente di un sorcio sgretola la grossa trave, il pesce spada uccide la balena… A volte, basta un semplice piccolo libro con la forza delle sue idee per demolire perfino un grande impero. La Storia lo dimostra.»

*

Continuò il vecchio: «Maribor, dunque, ordinò che tutti i libri venissero bruciati. Poi, per evitare che altri nuovi scritti venissero alla luce, convocò a corte con un inganno tutti gli scriba, i filosofi e i pensatori del regno, e li fece sotterrare vivi in una fossa».

«E voi?» disse Beth

«Io avevo fiutato la trappola, non mi presentai. Anzi, con l’aiuto di un servo, Astianatte, mi affrettai a mettere in salvo tutti i volumi che potevo.»

«Come?»

«Li nascosi in un’antica torre abbandonata, che stava nelle vicinanze dei padiglioni della principessa Khalizade. Nella torre, peraltro, avevo scoperto una galleria che correva sottoterra per poi risalire e sfociare nel deserto. Era un’antica segreta via di fuga di certi Signori di un lontano tempo. E io, dopo avervi accumulato papiri, pergamene, incunaboli, tomi e volumi di ogni genere, fuggii attraverso il cunicolo. Ma al momento di sboccare nel deserto… Trovai un drappello di guardie ad aspettarmi.»

Astianatte infatti aveva tradito Axor, e al vecchio venne risparmiata la vita ma fu accecato.

Gli dissero: «Così ti erà la voglia di trafficare con i libri».

Il vecchio concluse il suo racconto: «Mi rilasciarono. Ma per me ormai un cielo era uguale all’altro, era sempre dello stesso buio. Tanto valeva… Da quel momento non ho smesso di vagare».

Beth aveva saputo dal vecchio quello che doveva sapere, e tornò alla casa di Zoraya.

Trovò la donna intenta a macinare dei chicchi di grano di Siria, e Beth espresse il desiderio di portare al Maestro qualcosa da mangiare.

«È lui che te l’ha chiesto?» domandò Zoraya.

«Oh no, sono io che mi preoccupo» Beth rispose.

Sentiva dell’affetto per il vecchio sfortunato, specialmente ora, dopo avere sentito la sua tragica storia.

La donna diede a Beth della ricotta avvolta in grandi foglie di fico. «Vai e

portagliela (disse Zoraya). È bella fresca, l’ho appena preparata».

Beth corse, attenta a non squagliare la ricotta. Rifece la strada alla grotta del vecchio, e questi prese le foglie di fico, colme, dalle mani di Beth. Scosse la testa e le sorrise. Era il cibo giusto, tenero per lui a cui erano restati pochi denti.

Il vecchio assaporò la ricotta lentamente. Infine si asciugò la bocca con le foglie di fico. Se le ò sulle labbra.

Beth si mosse per andarsene, Axor la trattenne: «Aspetta» le disse.

«Non ho il denaro per pagare il cibo che mi hai dato (le disse il vecchio), e d’altra parte non c’è denaro che possa compensare la bellezza del tuo gesto e della tua attenzione. Però io lo stesso ti voglio ricambiare…»

A fianco del vecchio, appoggiata nella sabbia, stava una sacca. Floscia. Semivuota. Il vecchio l’afferrò e frugò dentro. Ne trasse un libro che porse a Beth.

Il volume era piccolo ma spesso. Fitto di pagine. E aveva l’aria di avere vissuto molte vite.

I suoi anni se li portava impressi tutti. La pelle della copertina era logora e bisunta. E Beth, sorpresa e incuriosita, se lo girava e rigirava tra le mani.

Non osava aprirlo, infine chiese: «Che libro è? Cosa c’è scritto?».

Il vecchio iniziò a parlare ma un fragore improvviso sommerse la sua voce, e Beth non riuscì a udirne le parole.

Dei grossi elicotteri erano apparsi.

Greta Muller, la dottoressa dei bambini

Gli elicotteri calarono rombando. Atterrarono scomparendo dietro al palmeto in cui l’oasi si annidava. Beth, emozionata, lasciò il vecchio e si lanciò a correre.

Si inoltrò tra le palme. Incrociò Zoraya. Le chiese cosa stava succedendo.

La donna le rispose che erano arrivati i dottori.

«Vengono dalla capitale a vaccinare i bambini (le disse Zoraya). Tu… Sei mai stata vaccinata?»

Beth scosse la testa. Era una cosa nuova sconosciuta. «No» rispose.

«L’immaginavo. Su, andiamo» le disse Zoraya prendendola per mano.

La accompagnò verso gli elicotteri. Qui si era formata una lunga fila di bambini piccoli e grandi. E la fila faceva capo a un tavolo dietro al quale sedeva una donna bionda con un registro.

Zoraya evitò la fila e andò direttamente dalla dottoressa bionda. Le indicò Beth e disse: «Questa ragazzina è nuova del posto, e nessun dottore l’ha mai visitata».

Nonostante la riluttanza e una buona dose di paura, Beth dovette sottostare a visita medica e iniezioni. E solo dopo - solo allora - a Beth tornò in mente il libro che il vecchio le aveva dato.

Beth lo conservava riposto in una tasca dell’ampia veste, e si affrettò a ripescarlo. Era troppo curiosa di scoprire cosa conteneva.

Lo aprì, e spalancò gli occhi, allibita.

Lo sfogliò e risfogliò, incredula.

Le pagine apparivano inviolate.

Erano bianche, non ci stava scritta una parola.

*

A Beth sfuggiva il senso di quel dono. Era un punto interrogativo a cui non le riusciva di trovare una risposta, e corse alla grotta dal vecchio per averla.

Ma il vecchio non c’era. Era scomparso.

Si affannò a cercarlo. Si inoltrò per un lungo tratto nel deserto. Ne scrutò l’ampia superficie di sabbia…

Il vecchio sembrava dissolto.

*

La dottoressa Greta Muller e la sua equipe ripartivano quella stessa sera. Tornavano nella capitale, ad Alikara.

La dottoressa Greta Muller faceva parte di un’organizzazione umanitaria internazionale. E Alikara era una delle varie sedi che l’organizzazione aveva nel mondo per curare e assistere i bambini.

Beth chiese alla dottoressa di portarla con sé, e Greta Muller rise divertita: «Perché? Qui, non ti trovi bene?».

«Qui non ci sono libri» Beth le rispose.

«Tu?… Tu vuoi dei libri? Vuoi studiare?» la dottoressa sbarrò gli occhi per lo stupore.

Beth allora parlò del Maestro.

Tacque però del libro che lui le aveva dato, e si limitò a ripetere le parole dette già a Zoraya: «Devo trovare un libro…».

«Sei proprio sicura di volere venire ad Alikara?» la dottoressa disse. «Da noi c’è anche una piccola scuola, con una biblioteca e tutti i libri che puoi desiderare. Però pensaci bene prima di decidere. Perché poi devi essere disciplinata, applicarti e studiare. Non sei più libera come ora nel deserto…».

Ma Beth era determinata. E la dottoressa Muller si convinse che Beth era una ragazzina di carattere: sapeva quello che voleva, e lo voleva.

Acconsentì, si prese Beth.

Le trovò posto su un elicottero.

La rivelazione

In viaggio verso Alikara

A Beth non era mai capitato di volare, e ò buona parte del viaggio a guardare giù dal finestrino.

Vedere il deserto dall’alto non era come ritrovarsi a percorrerlo.

Il deserto ora appariva diverso. Tutta un’altra cosa. Era uno spettacolo. Un’esperienza nuova. Affascinante.

Ma il peso del libro riposto nella veste finì col richiamare l’attenzione di Beth che tornò a porsi domande.

Axor si era preso gioco di lei?

O la spiegazione stava nel sogno da lei fatto la notte precedente?...

E se quelle pagine fossero state scritte e gli anni ne avessero poi sbiadite le parole fino a renderle invisibili?

A meno che non fosse intervenuto un sortilegio, e adesso solo un alchimista avrebbe potuto riportare alla luce l’antico testo.

Beth era a conoscenza dei poteri degli alchimisti. Rammentava la fama di un certo Zoroastro che faceva scomparire e riapparire cose e persone, e trasformava il ferro in oro. Viveva in cima a una montagna, dentro una grotta, tra alambicchi e sostanze fumanti colorate. Evocava e traeva ispirazione dai demoni che, si diceva, vivono nel fuoco al centro della Terra.

*

L’elicottero atterrò ad Alikara, e tanto bastò a distrarre Beth e a farle scordare il libro.

Alikara, la capitale, infatti, era davvero una grande città. Contava una parte vecchia, storica. Ma negli ultimi anni la parte nuova si era rapidamente sviluppata con costruzioni avveniristiche, grattacieli e hotel di lusso, maestosi. Era inoltre percorsa da strade larghe a più corsie, frequentate giorno e notte, incessantemente, da sciami fitti di automobili.

La sede dell’Organizzazione umanitaria, con la scuola, stava nella parte nuova della città, in un’accogliente palazzina con un grande giardino recintato.

Stella, la piantina del deserto

Greta Muller era sempre in giro, saltava in elicottero da un’oasi all’altra: Ma, ciò nonostante, la dottoressa riusciva ugualmente a seguire Beth a cui era stato assegnato un letto in una camerata insieme ad altre ragazze.

Beth, peraltro, aveva faticato ad adattarsi al nuovo genere di vita.

I suoi giorni adesso trascorrevano chiusi tra quattro mura. E, non bastasse, il tempo ora era scandito da regole precise: a ogni ora corrispondeva un compito o un dovere.

Più volte, la sera, prima di addormentarsi, era colta dalla nostalgia per il suo deserto: così aperto, senza confini, alla pari del cielo che lo sovrastava.

Beth allora si diceva: “Forse la dottoressa aveva ragione a mettermi in guardia, forse non è questo il mio genere di vita».

Beth rimpiangeva la libertà perduta.

Per consolarsi, si era procurata una piantina del deserto, una minuscola aloe.

La conservava in un vasetto, sul comodino accanto al letto.

La minuscola aloe si diramava in cinque getti appuntiti che ricordavano la forma stilizzata di una stella.

Beth aveva dato un nome alla piantina. L’aveva chiamata «Stella». Appunto.

La curava, e le parlava.

Era una briciola di deserto, Beth l’amava.

Ma la volontà di trovare il libro era prevalsa. E Beth si era adattata, bene o male. Aveva superato novità e difficoltà.

Quel nuovo posto, anzi, finì col diventare il suo universo.

Piccolo, se misurato in metri quadri.

Ma infinito per Beth. Che, ultimate le lezioni in classe, si tuffava nella biblioteca della scuola dove leggeva tutto quello che trovava.

Il suo spirito e la sua fantasia volavano. Senza limiti di spazio e tempo. Nel ato, e nel futuro.

*

Col are dei giorni, i libri letti da Beth diventarono parecchi.

Molti l’avevano apionata. Altri meno.

In realtà, ogni libro, a modo suo, le dava qualcosa… Qualcosa come una monetina che, aggiungendosi l’una all’altra, giorno dopo giorno, arriva ad accumulare un capitale.

Alikara, l’antica eppure moderna capitale

«Voglio diventare una dottoressa brava come te» Beth ripeteva a Greta Muller. «Poi girerò anch’io nel deserto a curare i bambini, e insegnerò loro a leggere e a scrivere. E porterò loro tanti libri, colorati e divertenti.»

Greta Muller ascoltava e sorrideva, e puntualmente rispondeva: «Sei già molto brava, Beth. Hai fatto progressi, e imparato molte cose. Ce la farai, eccome! Sarai un’eccellente dottoressa».

Ma un giorno la donna disse a Beth: «Devo partire. Torno a casa, in Europa» spiegò. «I miei genitori sono anziani. Hanno bisogno di aiuto, e mia madre è anche in cattive condizioni di salute».

Fu un addio toccante.

*

La dottoressa partì e Beth, quella sera, si accucciò nel suo letto e si sciolse in lacrime.

Si sentiva daccapo sola. Perseguitata dal destino. Sfortunata.

“Tutte le persone che mi vogliono bene e che io amo… Questione di tempo io le perdo” Beth singhiozzava.

Rivedeva i loro volti. Le avano e riavano davanti. E lei ne risentiva la voce, e le parole.

A cominciare da Araar. Poi Zoraya. Il vecchio. Infine la dottoressa bionda.

*

Ripensando al vecchio, a Beth tornò in mente il libro che lui le aveva dato. E si affrettò a recuperarlo.

Lo conservava scrupolosamente custodito in un cassetto, sebbene non lo avesse più guardato da quando lei era arrivata lì, all’Organizzazione.

Durante tutto questo tempo le era bastato sapere di averlo. E al sicuro. Ma adesso provava cocente il desiderio di risentirlo tra le mani, e di toccarlo.

Rispetto agli altri volumi della biblioteca, il libro del vecchio si distingueva, era davvero differente.

Certo, i volumi della scuola erano apparentemente più attraenti. Avevano le pagine zeppe di figure e di colori. Ed emanavano un sentore di stampa fresca e di carta bianca, nitida e pulita.

Era un profumo, il loro, inconfondibile!

Eppure il tomo maleodorante e consunto del vecchio cieco aveva un suo fascino. Particolare.

Chissà che storia aveva… Chissà quali avventure aveva vissuto e superato… Chissà di quanti e quali fatti era stato protagonista e testimone...

E poi, a renderlo unico, speciale, c’erano proprio quelle pagine vuote.

Così senza traccia di immagini o parole.

Beth prese il libro, e lo aprì. E sfogliò. Mai come ora così attenta. Decisa a chiarire, e a chiarirsi.

ava pagina dopo pagina, lentamente, pronta a cogliere ogni minimo segno o indizio rivelatore di una qualche pista da approfondire.

Ma arrivò delusa all’ultima pagina, in fondo.

Il libro, che muto era, tale restava.

(Beth aveva trovato solamente la macchiolina bruna di un insetto rinsecchito malauguratamente finito schiacciato tra due pagine… Troppo poco per fornire la chiave di un mistero!)

Riponendo il libro nel cassetto, le si accese la scintilla: forse la spiegazione stava racchiusa nei papiri, pergamene, incunaboli, tomi e volumi nascosti da Axor nell’antica torre.

Oltretutto, lei aveva ormai letto tutti i libri della scuola: l’idea di scoprirne altri, e antichi pure, la eccitava.

Andare a esplorare l’antica torre però era un problema: a Beth era vietato uscire.

Escogitò un piano. E il giorno dopo si svegliò, impaziente di attuarlo.

Trascorse la mattinata sulle spine: agitata e disattenta. Fu anche ripresa dall’insegnante: «Beth! Si può sapere cosa ti ha preso, oggi?».

Finalmente, consumato il pasto in mensa, arrivò il momento: Beth, invece di andare in biblioteca, scivolò verso l’uscita.

Scoprì che il cancello sulla strada stava spalancato, e che nessuno controllava.

Beth, semplicemente, lo varcò.

Camminò parecchio. Era la parte nuova di Alikara.

Lunare, e disumana.

I grattacieli si affiancavano. Uguali. Con le loro migliaia di finestre allineate. Occhi muti, senza vita. Anonimi.

I grattacieli si alzavano a oscurare strade affollate d’auto ma vuote di persone. Unica differenza col deserto… Al posto della sabbia qui c’erano asfalto e cemento. E al posto del vento… spirava l’aria condizionata.

Beth intravide in lontananza, finalmente, la sagoma di un essere vivente che non fosse inscatolato in un’auto.

Era un gendarme.

Vigilava, annoiato e distratto, sul traffico. A un quadrivio.

Beth lo accostò. Chiese dov’era l’antica torre.

Il gendarme sembrò cadere dalle nuvole.

Beth allora citò la principessa Khalizade, e Melchiorre e Maribor. E stavolta il gendarme rise divertito.

Disse: «Ah, ma è roba lontana. Ricordo che me ne parlava sempre mio nonno, e da allora ne sono ati di anni! Io questa torre non l’ho mai vista né saprei dove trovarla.»

«Chi può saperlo?» Beth incalzò.

«Boh! Prova a chiedere nella città vecchia…»

«Da che parte si trova?»

«Devi trottare, piccola. Continua diritto, tieni sempre il sole alle spalle…»

La trovò infine la città vecchia. Preannunciata da una composizione densa di odori. Alcuni gradevoli e stuzzicanti, ma altri grevi.

Aromi di cibo, aglio e spezie si mischiavano al fetore del liquame degli scoli nelle vie anguste e strette, fogne a cielo aperto, compresse tra le alte pareti delle case costruite ancora con l’argilla, alla maniera di un tempo.

E qui sì c’era umanità.

Una folla variopinta si addensava. Formava un coro scomposto di voci e di suoni.

Gente nella strada e gente sulla porta delle case.

E a corredare ogni angolo di via, ecco mendicanti e suonatori, e venditori di merci e oggetti i più fantasiosi e improbabili…

Beth fu colpita da un incantatore di serpenti.

Un serpente se lo teneva annodato intorno al collo, mentre ne svolgeva un altro per l’intera lunghezza tra le mani.

Lo svolgeva come una matassa.

*

La parte vecchia era divisa in quartieri i cui nomi riecheggiavano i mestieri di un’epoca durata secoli.

C’era il quartiere detto tutt’ora dei Sellai, e uno degli Orafi, e un altro degli Armaioli…

Ma adesso quei mestieri erano praticamente abbandonati. E anche gli abitanti dei quartieri erano mutati.

A quelli di un tempo si era sostituita una folla di persone affluite dalle varie oasi e anche dalle nazioni confinanti o anche più lontane. Tutte persone in cerca di una vita migliore e di fortuna. O semplicemente richiamate dal desiderio di avventura e con l’illusione di facili ricchezze.

Alikara era diventata la terra promessa dalle mille luci, e sfarzosa, dove brillavano progresso e tecnologia, e il lusso si esibiva, senza limiti. Ma poi solo pochi riuscivano a entrare nel giro, e a soddisfare il loro sogno.

La maggioranza veniva respinta ai margini, non ce la faceva e finiva con il vivere di espedienti, alla giornata. Finiva a languire nei quartieri vecchi ormai popolati da diseredati che tiravano sera, giorno dopo giorno, senza neanche più un tenue bagliore di speranza.

In questo, Alikara era uguale a tante metropoli del mondo.

Royal, l’hotel di lusso

Beth, dopo essersi inoltrata, e neanche di molto, fu presa da un senso di disagio, e di paura.

Ebbe la sensazione che lì in mezzo, una ragazzina, potesse cadere vittima delle insidie che certi adulti sanno ordire.

Fu colta dal dubbio. Combattuta. Se tornare rapidamente sui suoi i o proseguire la ricerca della torre antica.

Rinunciare, d’altronde, le bruciava.

Lo aveva subito intuito anche Greta Muller che Beth non era di tempra tenera, ma cocciuta e dura.

Beth si arrestò. Vigile.

Attenta, si scrutava in giro. Pronta ad avvertire l’eventualità di un pericolo.

Inquadrò un vasaio.

Impastava argilla sulla soglia della sua bottega, sulla strada. E, alle sue spalle, si accumulavano anfore e orci. Alcuni ancora crudi e grezzi, altri colorati e finemente decorati.

Il vasaio era il superstite di un’antica arte tramandata da secoli che affondava le radici alle basi della civiltà.

Era una delle rare persone lì in mezzo che non stava a chiacchierare e a perdere tempo.

Lavorava solerte, chiaramente inseguendo un suo progetto. Muoveva le mani con maestria, e l’espressione del suo viso a Beth sembrò rassicurante.

Fiduciosa, lo avvicinò.

Rinnovò la domanda, gli chiese se sapeva per caso dove l’antica torre si trovava. L’uomo lasciò l’impasto di argilla, si asciugò il sudore dalla fronte col dorso della mano, e la fissò negli occhi.

Era evidente: non era un genere di richiesta che lui si aspettasse. Tanto meno da una ragazzina. E restò parecchio zitto, a osservarla.

«La… torre antica?» infine disse.

Beth accennò alle vicende della principessa Khalizade, ripeté quanto già riferito al gendarme, e il viso del vasaio stavolta si illuminò: «Qualcosa mi è capitato di sentire… La torre che tu dici doveva essere però nel Quartiere Reale… Non qui…»

L’uomo le suggerì di andare nella parte nuova di Alikara. Perché stava lì il Quartiere Reale.

Il vasaio disse: «È tanto vero che hanno appena costruito un hotel di lusso, grande da far paura. E lo hanno chiamato “Royal”, non caso. Vai all’hotel… Ci lavora un mio vecchio parente, e fagli il mio nome. Digli che ti mando io... Lui, vedrai, sa tutto. Lui è di quel posto, ci è nato.»

«Ma voi come vi chiamate?... Che nome devo dire?» chiese Beth.

«Athar… E il nome del mio parente è Kazar…»

Kazar, il portiere di notte

Beth ritornò sui suoi i, e ritrovò il gendarme. Stava smontando dal turno di servizio. Il gendarme sapeva dov’era l’hotel Royal, e Beth non ebbe difficoltà a raggiungerlo.

Era una costruzione imponente, con tutto il personale in divisa, e Beth vi girellò attorno. Intimidita. Non osava avvicinarsi. Lei… abbigliata com’era, alla pari dei vagabondi del deserto!

Infine si decise. Abbordò un ragazzino, in tenuta da inserviente. Trainava un carrello carico di valige, e Beth gli chiese di Kazar.

«Non c’è ancora» lui le rispose. «Monta tra un’ora. Fa il turno di notte e lo trovi appena dentro la porta, al banco della ricezione». Il ragazzino indicò l’ingresso sontuoso.

Beth si defilò dietro a un cespuglio lussureggiante e traboccante di grossi fiori bianchi profumati. E, mentre attendeva, si rese conto che la giornata stava per finire. Pensò che senz’altro all’Organizzazione la stavano cercando.

Mancava da troppo tempo perché la sua assenza non potesse essere notata.

Si disse: “Sia quel che sia… e pazienza! Vuol dire che mi puniranno”.

Non aveva idea di che genere fosse la punizione. Lei non ne aveva mai subite né alcun altro degli alunni. Erano ragazzi senza grilli per la testa, disciplinati e diligenti, e che ubbidivano. Ben felici della fortuna di essere ammessi all’Organizzazione.

A un certo punto, mentre rifletteva, Beth intravide oltre la porta la figura di un uomo di una certa età, in divisa.

I bottoni dorati lucenti… Il cappello con tanto di visiera... Aveva l’aspetto e la solennità di un generale.

Beth stavolta osò.

Superò l’ingresso con un balzo ma il generale, altrettanto rapido, la bloccò. Pronto a scacciarla. Come si allontanano gli importuni o i mendicanti.

Beth allora snocciolò le magiche parole che costituivano il suo : citò il vasaio. E l’uomo, ch’era proprio Kazar, le disse di seguirlo. Si affrettò verso una porticina. Preoccupato di togliere la piccola malvestita dalla vista della benestante clientela.

Perché Beth, in quell’ambiente, stava come uno scarafaggio dentro un piatto di minestra.

O, peggio, come un cane vagabondo in un tempio nel pieno di una solenne cerimonia.

*

La porticina corrispondeva allo stanzino delle pulizie, dove il personale riponeva scope e detersivi, carrelli e attrezzi.

Alla luce squallida di una triste e fioca lampadina, Beth assalì Kazar con una raffica di domande.

Chiese se Kazar sapeva niente dell’antica torre… Se sapeva dov’era… Se sapeva della galleria… Se sapeva dei libri nascosti… Se sapeva che qualcuno li avesse mai trovati…

Kazar rispose che ormai in tutta Alikara erano in pochi a conservare memoria dell’antica torre.

Era franata da anni in seguito a una violenta tromba d’aria e sabbia, piombata dal deserto. E della torre era restato soltanto un cumulo di pietre e di macerie.

Poco dopo, un colpo di stato aveva destituito Maribor e posto fine alla centenaria dinastia degli Alabiti. Al posto di Maribor si era insediato un generale, e il potere era finito in mano all’Esercito.

I padiglioni reali furono abbandonati e di Reale era rimasto solo il nome del Quartiere.

«Io non ero che un bambino quando tutto questo avveniva» disse Kazar. «Ma ricordo perfettamente perché nei giardini dei padiglioni reali giravano splendidi pavoni dai colori straordinari, come da allora non ne ho più visti. Io ero sempre là, fuori dal recinto, a spiarli e ammirarli…»

Continuò Kazar: «Qualche anno dopo, nel Quartiere Reale arrivarono le ruspe che lo spianarono. E alle ruspe seguirono le scavatrici e in un attimo fu tutto un cantiere, con una selva di gru parate contro il cielo….»

Il cemento colò a sommergere e cancellare ogni traccia della grandezza di secoli, e dov’erano gli avanzi della torre antica era sorto l’hotel Royal.

Kazar scosse la testa mestamente: «Era un bel posto questo, io c’ero cresciuto, ma adesso è tutto un altro mondo: completamente diverso e io non mi ci trovo. Mi sento senza radici, spaesato… Mi sento uno straniero.»

Tacque un attimo. Riprese: «Sono restato solo io dei vecchi abitanti del quartiere. Gli altri sono finiti sparpagliati ai quattro venti, chissà dove… Brutta bestia il cosiddetto progresso… Dove arriva è come lo tsunami».

«I libri nascosti nella torre… Nessuno li ha trovati?» chiese Beth.

Sogghignò Kazar: «I libri? Il cemento non guarda in faccia a niente e a nessuno. Non considera sentimenti e persone, figurarsi se tiene conto di qualche vecchio scartafaccio ammuffito.»

Beth pensò con tenerezza ad Axor, al vecchio cieco, che tanto si era dato da fare e aveva rischiato la vita per qualche vecchio scartafaccio ammuffito.

*

Era ormai buio. Beth tornò correndo all’Organizzazione.

La accompagnava il pensiero di Axor, così intenso da farle are in secondo piano la preoccupazione di essere punita al suo rientro.

In realtà, il cancello d’accesso all’Organizzazione stava lì, ancora spalancato. Come sempre. Incustodito. E a Beth bastò oltrearlo.

Tutto era tranquillo, non incontrò persona.

In un attimo fu nel suo letto.

*

La mattina dopo si svegliò, rassegnata. Sicura di essere redarguita per essersi assentata. Al contrario, nessuno le disse niente. Anzi, nemmeno si curarono di lei.

Beth ne capì presto il motivo.

Un fatto ben più importante aveva messo in subbuglio l’Organizzazione e l’intera Alikara: colonne di blindati avevano invaso il Paese.

Stavano avanzando dai settori meridionali.

La guerra era scoppiata.

Avveniva di lunedì… Un lunedì destinato a entrare nella memoria collettiva col nome di «Black Monday».

Black Monday, il Lunedì Nero

Si diffuse la notizia che le colonne blindate stavano per raggiungere il Paese degli Specchi dalle Figure Parlanti. E Beth pensò ad Araar. Inquieta.

Gli voleva sempre molto bene, e provava sempre della gratitudine per lui.

L’aveva aiutata a liberarsi dalla schiavitù in cui lei viveva quando si erano incontrati e conosciuti, e adesso Beth sentiva di dovere far qualcosa, e ricambiarlo.

Ma… come?

Beth si arrovellava. Non trovava soluzione.

Intanto al Paese degli Specchi dalle Figure Parlanti…

I carri armati erano apparsi all’unisono, nello stesso identico momento, ma soltanto nei numerosi video: compreso quello davanti al quale Araar viveva ormai perennemente istupidito.

Tutti, al Paese degli Specchi dalle Figure Parlanti, avevano creduto che si trattasse di un film: di un apionante spettacolo tra i tanti che avano nei video, incessantemente. E tutti avevano scambiato l’eco delle cannonate, che rimbombavano nel deserto, per mirabolanti effetti speciali.

Solo quando i carri armati, con i loro cannoni non virtuali ma reali, avevano fatto

poi irruzione, veramente… Solo allora la marea di spettatori si era riscossa dal suo torpore drogato.

Mafuz, vigile, aveva colto il momento.

Per giorni e giorni, Mafuz aveva trascorso il proprio tempo ai bordi. Aspettando il miracolo che risvegliasse Araar. Per caricarselo e portarlo via.

Infatti i cammelli, già si è detto quanto siano pazienti. E sappiano aspettare. Non hanno l’orologio al polso. Ma hanno il senso innato del destino.

Così… È come se sapessero che quello che deve capitare, se deve capitare, capita. Per cui è inutile agitarsi.

E difatti adesso erano arrivati i carri armati…

Era l’occasione giusta. E Mafuz, lesto, aveva raggiunto Araar: «Sali, fin che sei in tempo!».

Araar, tornato alla realtà e rinsavito dai colpi di cannone, era balzato in groppa e via!... Erano fuggiti.

«Dove si va?» Araar aveva chiesto.

«Il più lontano possibile» Mafuz gli rispose, spingendo sulle zampe con tutto il fiato di cui era capace.

Volarono fino a che una selva di grattacieli si profilò all’orizzonte.

Era Alikara.

*

Preoccupata per Araar, Beth decise infine di seguire il proprio istinto.

L’istinto le diceva di non stare con le mani in mano, ma di muoversi.

Doveva assolutamente tornare a prendere la via del deserto. E cercare di raggiungere il Paese degli Specchi dalle Figure Parlanti. Accadesse quel che accadesse.

Del resto, lì all’Organizzazione tutti erano in preda alla più viva agitazione. Ci si interrogava sugli sviluppi della guerra. L’Esercito nazionale sarebbe riuscito a fermare i carri armati? E se gli invasori avessero vinto e raggiunto la capitale Alikara, come si sarebbero comportati? Avrebbero rispettato l’Organizzazione?

Per Beth, ormai, erano discorsi che non la riguardavano. Lei se ne sarebbe andata in ogni caso. Aveva imparato la strada, era facile filarsela. E, certamente, sarebbe partita con il libro che Axor le aveva dato.

Era tutto quello che lei aveva, in fin dei conti.

Era il suo solo bene, la sua unica ricchezza.

*

Varcò il cancello e si trovò immersa nella confusione più inimmaginabile.

avano colonne di carri armati e camion carichi di soldati. Convergevano verso il lato meridionale della città per poi raggiungere il fronte. Mentre colonne di civili si affrettavano nella direzione opposta, verso nord.

C’era chi fuggiva a piedi, e chi a bordo di auto, furgoni o carretti… Carichi all’inverosimile di masserizie e oggetti i più disparati: dalle carrozzine per bambini ai televisori, alle gabbie con dentro i polli…

Ma c’era anche chi si allontanava alla spicciolata, in sella a un cavallo o sulla groppa di un asino o di un cammello. O a piedi, trascinandosi dietro una pecora o una capra.

Beth, in più di un’occasione, rischiò di essere travolta.

*

Alikara era grande. E Beth non la conosceva: ne ignorava le vie di uscita.

Vi era piombata dal cielo, a bordo di un elicottero, e non era come se vi fosse arrivata percorrendo una strada.

Si smarrì.

La gente, che incontrava, aveva la guerra per la testa e ben altro che perdere tempo prezioso a dare retta a una mocciosa ragazzina.

Beth, presa dallo sconforto, si domandò se non fosse il caso di rientrare alla sede dell’Organizzazione. Ma, si rese conto, non ne ricordava neanche più la strada.

Si sentì impotente. Avvilita.

Intravide un angolo stranamente tranquillo, con una grande palma, uscì dalla mischia, lo raggiunse.

Si accucciò ai piedi della palma solitaria.

Un paio di grosse lacrime stava rigandole le guance. Udì un bramito. Alzò gli occhi.

Mafuz le troneggiava davanti: imponente, la dominava con la propria mole.

Beth sbatté gli occhi. Convinta di sognare.

In cima alla groppa di Mafuz, campeggiava Araar.

Tutti di nuovo insieme, evviva!

Le cose da raccontarsi erano troppe, e la situazione non era delle più idilliache per starsene a chiacchierare.

Un jet ò radente.

Mafuz bramì, e scalpitò. Chiaro invito ad andarsene al più presto.

Era il solo dei tre ad avere le idee chiare, e mai cammello fu così ascoltato e ubbidito. Un attimo dopo, Beth e Araar stavano appollaiati sulla sua groppa.

Mafuz si districò dal caos e, guidato dal suo fiuto infallibile, infilò un dedalo di vie, al termine delle quali si apriva il deserto.

Vi si inoltrò.

Non gli occorreva ascoltare la radio o guardare il telegiornale per sapere dove si sparava e non andare. Subito si orientò verso la direzione più sicura.

Nel frattempo, di tanto in tanto, arrivava l’eco portato dal vento di scoppi lontani. Ma poi non si udirono più nemmeno quelli, e la pace e il silenzio del deserto, in cui ormai viaggiavano, erano tali da far pensare che nessuna guerra fosse mai esistita a questo mondo.

Era una piacevole illusione.

E poi Beth era felice di avere ritrovato Araar.

E Araar era felice di avere ritrovato Beth. Cervello e sentimenti gli erano tornati dopo il lungo stordimento provocato dai video del Paese degli Specchi.

*

Viaggiarono senza mai fermarsi l’intero giorno e anche la notte. All’alba, Mafuz propose di fermarsi, ormai erano al sicuro e potevano concedersi una tappa. Il deserto era alla fine e, dopo appena qualche miglio, iniziava una pianura di terre fertili e irrigate, dove fiumi e canali si intrecciavano: fonte di vita e prosperità per un insieme numeroso di villaggi.

Mafuz si arrestò, e Beth e Araar balzarono a terra.

Si allontanarono di qualche o per sgranchirsi, mentre il cammello adocchiava dei ciuffi secchi di sterpaglia con i quali farsi uno spuntino.

La pausa si protrasse. E Beth ne approfittò per mostrare ad Araar il libro che Axor le aveva dato. Gli disse: «Quell'Axor è proprio un tipo strano! Mi ha dato un libro come se fosse un tesoro e non c’è scritto niente. Neanche una parola».

Per Araar, che non sapeva leggere, un libro tutto bianco era un'idea entusiasmante. Disse che era il solo e unico libro che gli sarebbe piaciuto possedere.

*

Ripresero il viaggio e, come Mafuz aveva previsto, poco dopo videro profilarsi all’orizzonte il contorno verde intenso di alberi frondosi e rigogliosi. Spiccavano creando un netto contrasto con la compattezza dorata e ardente della sabbia del deserto.

«Quella è Arrabar… Chiamata anche la “Terra dei Fiumi”» annunciò Mafuz.

«Qui, alle origini dell’umanità, c’era il Paradiso Terrestre (disse Beth). Io l’ho letto, è da qui che la vita di tutti noi è iniziata.»

Beth incominciava a sentirsi dotta, aveva divorato tanti libri nella biblioteca della scuola di Alikara e adesso non le sembrava vero di potere sfoggiare la sua scienza.

Araar, piccato, tacque. Non poteva tollerare di esserle inferiore. ato l’effetto dei video, era tornato a essere orgoglioso.

*

Arrivarono alla "Terra dei Fiumi" e trovarono acqua pulita e fresca in abbondanza, e frutti prelibati di ogni genere e colore: rossi, verdi, viola e gialli... e sapore, dal dolce dolcissimo dello zucchero e del miele all’agro più agro, da legare denti e papille.

Beth e Araar se ne cibarono. Fino a sentirsi la pancia sull’orlo di scoppiare.

Sazi, si sdraiarono su una delle sponde ridenti di uno dei tanti fiumi. Lo sguardo perso a seguirne il fluire, e i disegni che l’acqua componeva e intrecciava in superficie.

Stavano per assopirsi, presi da un delizioso sonnellino… Li riscosse un vociare.

Era un gruppo di donne che, parlando e discutendo, stava ando sull’argine del fiume.

Beth e Araar le seguirono con lo sguardo.

Le donne, poco dopo, sparirono dentro l’ampia porta di una strana costruzione.

Era un tempio. E anche celebre. Perché ci stava la Sibilla.

La Sibilla leggeva il palmo delle mani, la pianta dei piedi, i fondi di caffè e il corso degli astri, e in base a quello che vedeva, interpretava, prediceva e consigliava.

Era un’indovina che però bisognava sapere… indovinare, perché si esprimeva alla sua maniera, non sempre chiaramente.

Nessuno conosceva la sua età, né le aveva visto il viso. L’indovina parlava coperta da veli che la avvolgevano dalla testa ai piedi.

Beth andò a visitarla, ansiosa di sottoporle il suo problema: cosa pensava la Sibilla del libro di Axor?

La Sibilla l'ascoltò e parlò.

Disse: «LA FELICITÀ È UNA PAGINA BIANCA».

Beth, di colpo, ebbe tutto chiaro: il Paese della Felicità non esisteva, la Felicità dipendeva da lei, Beth. La vita era un libro bianco, in cui stava a lei scriverci dentro la propria storia, pagina dopo pagina, giorno dopo giorno.

Era senz'altro questo il messaggio del vecchio saggio Axor e Beth tornò da Araar sulla riva del fiume e fu la prima cosa che gli disse.

Ormai lo scopo del loro viaggiare si era esaurito. Era chiaro che il Paese della Felicità non esisteva. Tanto valeva fermarsi nel posto a loro più gradito.

«Io qua ci sto bene e tu?» disse Beth ad Araar e lui annuì: «Anch'io».

Restarono ad Arrabar, la "Terra dei Fiumi", se non che Mafuz , ato qualche giorno, fu preso dalla nostalgia. Disse: «Non avete più bisogno di me, avete ormai visto e vissuto tutto quello che c'era da vedere e io sono nato nel deserto e nel deserto voglio tornare». Se ne andò il giorno stesso, e la prima persona di Arrabar a cui Araar confidò di avere avuto un cammello parlante... beh, quella persona rise talmente da rischiare di scoppiare.

La voce si sparse e a ridere, stavolta, si aggiunse tutta la città.

Araar diventò quello del cammello parlante, infine, per ragione di brevità, chiamarono Araar stesso cammello parlante.

Perché la gente è così: più una cosa è vera e meno ci crede.

FINE

Vienimi a trovare: guidosperandio - A presto!

...1936 Odiug!

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