ZARZUELA
romanzo per ragazzi
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Elena Miceli
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Copyright © 2010 by Giuseppe Meligrana Editore ISBN 9788895031897
All rights riserved – Tutti i diritti riservati
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In cielo squillarono le trombe, gli aedi suonarono sulla cetra e la musica fu tra gli uomini
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INDICE
Presentazione
1. Perché i maghi non esistono più
2. A Gappaluppe
3. Gangirotto testa quadra
4. Farinottocapocotto
5. La gheta e la ganta
6. I coccodrilli di Verdirone
7. I coronidi
8. E magia significò meraviglia e stupore
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Presentazione
Il romanzo è una cannonata o forse una spacconata come avevano l’abitudine di farne i protagonisti, abitanti della Coronide. È innegabile che sia una bella fantasia, una fantasia creativa e senza limiti, a cominciare dai personaggi che vengono menzionati nel corso della narrazione; personaggi dai nomi del tutto nuovi e suggestivi, località misteriose che, nella loro originalità, fanno pensare a nuovi mondi, del tutto fantastici, in cui le cose del mondo reale e le novità vi fanno capolino quasi occasionalmente e naturalmente. Così la musica e il cinema arrivano sulla scena dopo un lungo avvicendarsi di eventi che potrebbero dirsi banali, se non fossero accompagnati da avventure di ogni genere tra personaggi e località mai dette e mai conosciute. Tutte le vicende hanno un susseguirsi di racconto semplice e senza artefici; incoraggiano la lettura del romanzo, che si presenta pieno di eventi nuovi e suggestivi.
Stefano Brucculeri
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- capitolo primo Perché i maghi non esistono più
1. La coda biforcuta del gattiponio I maghi non esistono. Non sono mai esistiti. Ma un vecchio guomenide raccontava di aver visto Serasmone su un cavallo alato gareggiare col vento e perdersi tra le nuvole all’orizzonte. Tutti sapevano che Serasmone era il re di Fiaccavento: un cocuzzolo che faceva parte della Coronide. Dicevano che il suo castello era tanto grande da occupare tutta la parte centrale del cocuzzolo e che a lui ubbidivano maghi, maghetti e magoni. Ormai vecchio, Serasmone non faceva più tanta paura. Ma si diceva di Mattia, delle sue prodezze, delle sue spacconate estrose e inaspettate. Qualcuno raccontava di aver visto Mattia cavalcare solitario e volare nei cieli guomenidi quando tutti dormivano. Lo videro con testa da cavolfiore e lunghi baffi intrecciati. Nessuno poteva pensare di farglieli portare più corti. Soleva dire: «Sono il segno della mia razza e l’espressione della mia potenza di mago». Sebbene fosse molto giovane, tutti gli ubbidivano perché si diceva già che sarebbe stato il futuro re di Fiaccavento. Prepotente e bizzarro, Mattia cresceva con dentro tutta l’energia che gli veniva dall’essere mago. C’era in lui un desiderio smisurato, misto a curiosità, di usare la bacchetta magica che nonno Serasmone teneva appesa nella sala del trono, chiusa in una scatola di àtraci tenuti insieme da bucate di nivelle a mazzi. Capriolava davanti a Serasmone quando se ne stava solo, seduto sul trono; per tenerlo allegro - diceva - in realtà per osservare, senza essere sospettato, quella scatola e capire come fare ad aprirla. Non ò molto tempo e volle tentare. Lo fece in un pomeriggio di grande calura quando, durante la siesta, tutto taceva:
nonno Serasmone dormiva, la tata russava e le sentinelle lasciavano cadere i lunghi capelli sugli occhi perché nessuno si accorgesse che si arrendevano al caldo e al sonno. La sala del trono era deserta e Mattia poté lavorare indisturbato. Accatastò ogni sorta di sbadigli: laboriosi e misteriosi; sbadigli che Serasmone teneva in perfetto ordine nei numerosi scaffali. Capì subito che quella catasta di sbadigli più o meno fragili, specie quelli misteriosi che provenivano dai nullafacenti, non avrebbe retto il suo peso. Allora chiamò in suo aiuto Figafino perché più piccolo e ultimo arrivato della serie dei magoncelli. La nascita di Figafino aveva fatto chiasso nel paese della Coronide e Serasmone temeva che aspirasse al trono, pur sapendo che Mattia avrebbe avuto diritto alla primogenitura. Perché il nonnone aveva già stabilito chi dovesse essere il suo successore e non ammetteva discussioni e neanche tentennamenti. Voleva che la tradizione di Fiaccavento continuasse nel tempo. La tradizione era quella delle imprese fantasiose e clamorose; della bacchetta magica usata da un mago che la sapesse lunga e che per nessun motivo si arrendesse nel compiere le sue spacconate. Quando Mattia lo chiamò, Figafino lasciò il dormitorio, attraversò il cortile e camminò per i viali del giardino, dove gli alberi giganteschi ospitavano anche quaccole e criceti. Lo raggiunse facilmente perché la sua tata russava alla grossa. Tutte le tate a Fiaccavento dormivano a lungo e tutte respiravano come un mantice e russavano forte, tanto da fare pensare che cento turbini messi insieme stavano arrivando dal paese dei guomenidi, il più vicino dopo la vallata. Figafino approfittò di quei momenti. Aveva sentito il richiamo di Mattia e non perse tempo. Desiderò di volare, ma non volò: i maghi non avevano le ali. I maghi potevano imitare il volo usando la bacchetta magica. La bacchetta era quella di nonno Serasmone. Era una e una sola. Quando, più tardi, sarebbe diventato troppo vecchio, l’avrebbe data al nipotone maghettone più bravo. Lo stuolo dei nipoti, che crescevano, si chiedeva che cosa significasse, per
Serasmone, essere bravo. Tutti sapevano leggere, scrivere e far di conti. Tutti erano astuti e pronti d’intelligenza. Tutti avevano una tata che insegnava loro a comportarsi in maniera degna della razza fiaccaventese. Mattia, che aveva testa a cavolfiore, era il primo della lunga lista; ma nessuno era da meno: Barilotto aveva le orecchie come quelle degli elefanti; Silacorto aveva un corno al posto del naso; Anguifallo sapeva appiattirsi e strisciare come un serpentello; Figafino era bravo nel girare la testa in tondo. La tata Margottona diceva: «Sa girare la testa in tondo perché l’ho portato al casinò quando era appena nato; guardando la roulette che girava, l’ha fatto per la prima volta». Margottona se ne gloriava. Era sicura che Serasmone, contento di queste prodezze, le avrebbe dato il permesso di dormire più a lungo: visto che Figafino era così pronto d’intelligenza, non era necessario stargli dietro così tanto. I due non persero tempo. Figafino ebbe assegnato il suo compito che era quello di arrampicarsi sui numerosi sbadigli, aprire lo scrigno assicurato da una chiusura di àtraci rinforzati e consegnare la bacchetta magica a chi, prepotente, sembrava così tanto sicuro di sé. - «Cosa ne farai?» - chiese Figafino nella sua quasi ingenuità. - «Comanderò!» - rispose Mattia con quella espressione di canagliesca furbizia che gli era congeniale - «Farò vedere a tutti le mie capacità di mago e tutti sapranno quanto varrà il futuro re di Fiaccavento». Figafino, quasi intimidito, lo guardò perplesso. Ma poi, preso dal gioco e dal piacere di trasgredire, imboccò quella scala particolare, che lo aiutava a girare la testa forza tre, e disse: - «Comanda! Comanda Mattia. Anch’io desideravo farlo. Tu mi hai solamente preceduto». Preso da una felicità nuova, salì su ogni sbadiglio che Mattia aveva saputo accatastare, mettendo in cima i più leggeri: quelli dei magoncelli, che Serasmone amava osservare con particolare attenzione; li riteneva più interessanti nella prospettiva futura della vita fiaccaventese.
Figafino seppe muoversi e, tra una scivolata e l’altra, raggiunse e aprì lo scrigno così tanto prezioso agli occhi di Serasmone e di Fiaccavento tutta. Quello che Figafino non sapeva e che Mattia ignorava era che il nonno proteggeva la bacchetta magica, da chi avesse osato toccarla senza il suo permesso, col gattiponio. Avvenne quello che non si aspettavano. Ebbero appena il tempo di guardarsi soddisfatti. Poi Figafino diventò un grosso gattiponio e una lunga coda biforcuta svettò come un vessillo. Scappò. Trovò la strada tra le gambe incrociate e aggrovigliate delle sentinelle che ancora dormivano rotolate per terra e sbuffanti per il caldo di quella torrida giornata estiva. Figafino ebbe quella sensazione inebriante di libertà e face salti di gioia. Forse perché erano solo salti che poteva fare, visto che i gattiponio hanno un solo piede. Dopo qualche difficoltà trovò la strada giusta che l’avrebbe portato nel bosco, oltre il quale avrebbe raggiunto facilmente la città grande dei guomenidi, quella di cui tanto si parlava a Fiaccavento. Intanto aveva dovuto imparare a camminare saltellando. Non poteva fare altro se voleva arrivare lontano e conoscere quei luoghi, senza aspettare il tempo giusto per le sue spacconate e il permesso del nonnone capoccione. Si trovò a dover decidere se scendere subito a valle o restare a gironzolare nel bosco, dove avrebbe avuto l’opportunità di fare nuove e interessanti conoscenze. Intanto la sua lunga coda bianca si dimostrò un grosso inconveniente, capì subito che poteva essere notata da lontano, anche dal più distratto mago girellone. Soprattutto capì che i suoi movimenti erano frenati e limitati, perché la coda rimaneva impigliata tra i cespugli delle giganastre, dagli aghi grossi e pungenti. Quello che, in un primo momento, lo aveva inorgoglito adesso lo avviliva. E c’era ancora qualcosa che lo infastidiva: era la sua testa piatta e tanto grossa da non trovare spazio, tra i rami intricati del bosco.
La cosa lo stancava maledettamente e Figafino gattiponio cominciava già a temere che i suoi sogni di libertà se ne andassero in fumo. Si riposò in un incavo che credette sicuro e adatto a quel riposo a cui anelava, dopo la sua pazza e strana corsa per allontanarsi dal castello; ma aveva scelto, senza accorgersene, una tana di cordacola, dove una mamma, che temette per i suoi cuccioli, lo scacciò in malo modo. Allora salì su un albero, che aveva creduto possibile. Sull’albero vi trovò uno stracone che, si era fatto grosso tanto più grosso, riuscendo a scacciarlo dopo avergli mordicchiato e spelacchiato quella coda che tuttavia continuava ad essere il suo orgoglio. «Non toccare la mia coda, brutto stracone!» - andava gridando - «Rispetta in me il grande Serasmone». Ebbe fame e sete. Grossi funghi dalla capocchia lussureggiante gli si offrivano. Non erano di suo gusto. Avrebbe desiderato acciuffare qualche gallero, ma ormai nel bosco avevano dato l’allarme e quella popolazione aveva trovato rifugio. Vide, invece una lunga fila di segantini e segantuzze che camminavano impettite e sicure, come se lo sdegnassero. Uno stuolo di famichelle volavano indisturbate; numerosi gareffi si premuravano di indicargli una strada e l’altra: le loro voci si accavallavano. Uno dei gareffi, petulante, gli si posò sulla testa, che sembrava crescesse tutte le volte che si trovava in difficoltà. Gli disse, quasi un ordine: - «Vai a rendere omaggio al nostro re che re non è». - «Chi è dunque il vostro re?» - chiese Figafino gattiponio incuriosito. - «È il violinista che comanda, ma non comanda». Rimase perplesso Figafino e chiese: - «Che significa violinista? Conducimi da lui». Camminarono percorrendo stradine strette e assolate. Erano così strette, quelle stradine, da dover camminare saltellando su un solo piede.
E Figafino contento e sorpreso: «Ecco una strada fatta per i gattiponio». Attraversarono fiumi e ruscelli. Figafino riuscì a non farsi bagnare la coda dai numerosi zampilli e a non farsela aggomitolare dai tanti vortici. Ascoltò cicale che frinivano e che furono capaci di fare girare la testa a trottola anche al gattiponio. Il tempo ava e il castello del violinista, che comandava senza comandare, sembrava lontano. Si accorse che il gareffo non c’era più. Forse quel gareffo presuntuoso e petulante aveva voluto scherzare, ma lui gliela poteva fare are facilmente quella voglia! Si propose di continuare a camminare, perché un maghetto doveva pur farcela senza essere guidato da un gareffo. E poi era anche un gattiponio e che gattiponio! Si mosse guardingo e attento. Un essere bifronte gli venne incontro. Gli parlò con le sue bocche che si aprivano in contemporanea. Sembrava molto seccato. Figafino non conosceva quella lingua e si dovette accontentare solo di guardarlo e di ascoltare quel vociare che si accavallava e arrivava alle sue orecchie come rumore di acqua, che scorre tra scogli. Lo vide che si allontanava. Sperò che il comandante, che non comandava, parlasse con una sola bocca. Avanzava, ma niente più salti di gioia, niente più quel suo andare baldanzoso del primo momento. Il sole, che batteva accecante, lo vide su una spiaggia dove cavallette tiravano carri carichi di conchiglie. Domandò. Volle sapere. Qualcuno gli disse che erano doni per il loro re che re non era. I segantini raccoglievano le conchiglie sulla spiaggia. Le cavallette caricavano. - «Brava gente» - sbottò Figafino - «mi dite cosa se ne fa un re di tante conchiglie?».
Le cavallette frinirono e non risposero. I segantini non vollero interrompere il loro lavoro. Un segantone con la testa rossa che sembrava comandare gli rispose visibilmente infastidito: - «Costruisce strumenti per un’orchestra. La sua è l’orchestra più numerosa e più famosa del mondo». - «Cos’è un’orchestra?» - chiese Figafino. Ma il segantone non rispose. Figafino seguì, con curiosità, l’incredibile lavoro fatto con incredibile precisione fino a quando non ne ebbe abbastanza. Allora si arrampicò su un albero leggero e fronzuto. Rosse chebiche e gialle torchielle lo invitavano a saziare la sua fame. Ma le torchielle, avevano buccia spinosa e poté solo guardarle con desiderio e ingordigia, mentre uno sbuffo di vento rendeva la sua coda grifosa. Un secondo sbuffo, a refolo, lo trovò aggrappato ad un albero che non era leggero e fronzuto, ma irto e spinoso. La testa non gli girava più a trottola: adesso gli doleva forte. «Forse me la sono rotta» - si disse. Se la volle toccare. Cadde. Cercò l’umore lacrimoso di testa. Non c’era neanche quello. Si accorse di essere in un posto che conosceva: alberi giganteschi, siepi spinose, ramarri e cavicelli. Allora decise che si poteva anche riposare. E si addormentò...
2. I campanacci di Bisesta E Mattia? Mattia, con la bacchetta in mano, volle subito comandare. Comandò ai granchi e alle lucertole, quelle piccole e quelle meno piccole, grandi e grosse che mai ci fossero nel giardino del castello, di venire fuori. Per un attimo le quacquare si fermarono a guardare; si fermarono pure i gareffi striduloni e i cavalli alati, che volavano leggeri; guardarono sorpresi anche quelli
posati sui bastioni del castello, dove nidificavano aquile e criceti. Tutti facevano parte della grande famiglia fiaccaventese: volavano insieme e, per magia, arrivavano fino al sole. Ubbidirono i granchi e le lucertole e in cento si trovarono sulla gonna di tata Bisesta. Tuttavia non si svegliò. Non si accorse della presenza di Mattia né della bacchetta magica nelle sue mani né delle lucertole, che frugavano tra le pieghe della sua gonna. Ma quando un lucertolone arrivò fra i suoi capelli, un rumore assordante di campanacci fece sussultare i maghi che riposavano e quelli che erano in ritiro: quello era il tempo dedicato alle bravate che venivano assegnate, come compito, ai maghi più giovani e a quelli che avevano bisogno di aggiungere prodezze a prodezze. Bisesta aveva capelli grossi come corda. Ogni capello aveva un campanaccio, somigliante a quello che i pastori legano attorno al collo dei caproni: tutti insieme fecero un fracasso tale da superare quel russare. Il gran donnone smise di ondeggiare. Si svegliò. Si guardò intorno incredula e sorpresa. Poi capì e, gridando, fece salti tanto alti da toccare i merli delle torri del castello. Finì su Mattia che rimase avvolto da quella gonna piena di granchi. Mattia era un mago, anche se non ancora cresciuto, ma non fu capace di liberarsene perché non aveva voluto mai leggere e imparare come si fe. Si leggeva nei libri che Bisesta gli indicava e gli apriva, ma che lui, immancabilmente, chiudeva: preferiva i cavalli alati. Si faceva portare lontano. Sorvolava il regno della Coronide e si spingeva nei cieli dei guomenidi. I granchi, con le loro chele, lo pizzicarono tanto da fargli gonfiare il sedere, che diventò grosso quanto uno dei cocuzzoli di cui era formato il regno della Coronide. Serasmone, come sempre, gli venne in aiuto. Pure Bisesta fu aiutata per volere di Serasmone; ma Mattia, ebbe anche le sue sventole che, questa volta, trovarono più spazio. Venne rinchiuso nelle prigioni del castello per tre lunghi giorni e mangiò
cadecchio senza pane con succo di lammoffi senza zucchero.
3. Colla sulla bacchetta magica Nessuno si accorse di quello che era capitato a Figafino. Solo il nonno e Mattia erano al corrente. Mentre Mattia se ne stette zitto, Serasmone lo cercò. Mandò i maghi giovani e capaci a perlustrare le strade e il bosco. Alcuni arrivarono a valle e arono le notti a sorvegliare i aggi facili e meno facili; a snidare le volpi; ad ascoltare il richiamo delle civette e dei gufi. Sfrondarono canneti e nuotarono nei fiumi dove le anse più larghe invitavano ai tuffi. Rifecero la salita del monte perlustrando le siepi e facendo le fumigate, che potevano servire a snidare. Fecero tutto questo, ma tornarono senza gattiponio. Allora Serasmone decise di lasciare che Figafino fe la sua esperienza. Volle che fosse lui a stabilire di tornare quando si sarebbe stancato di una vita errabonda; quando avrebbe desiderato la sua casa, il suo dormitorio, la sua tata dormigliona. Lo avrebbe lasciato in pace per qualche tempo. Poi, se necessario, avrebbe usato la bacchetta magica per farlo tornare, con un ordine perentorio il cui risultato era senza dubbi. Ma arono, numerosi, i giorni. Quando Serasmone pensò che Figafino si potesse trovare in difficoltà, decise che era tempo di usare la sua bacchetta. Se la fece portare da mago Bacchettone che aveva questo compito. La tenne alta. Pronunciò la formula, a cui egli aveva dato un suo personale contenuto e attese. Attese ancora, ma nessun bagliore indicava che la bacchetta stesse funzionando.
Allora per la sorpresa sgranò gli occhi da cui sprizzarono cavicchi e segantini, che si aggrovigliarono tra le gambe dei maghi. Maghi, maghetti e magoni, per sfuggirli, saltellavano e giravano come trottole. Era la prima volta che capitava una cosa simile. La sua bacchetta magica aveva sempre funzionato. La sua formula era stata sempre efficace. Era sicuro di non averla sbagliata: non era ancora tanto vecchio da sbagliare. La volle ripetere. Chiamò Magistrone, il mago sapiente, e quello gli confermò che ogni parola era esatta. Allora che cosa stava succedendo? Perché la sua bacchetta non funzionava più? Glielo disse Forgiglione, che sapeva usare il mantice e la mazza. La bacchetta era stata incollata. Dunque si era rotta. Era successo quando Mattia, per la fretta di impossessarsene, l’aveva afferrata e quasi strappata dalle mani di Figafino. Aveva appena fatto in tempo a chiamare i granchi e le lucertole che la bacchetta, sfuggitagli di mano, era andata in frantumi. Mattia ne aveva raccolto i numerosi pezzi e, poiché ancora Bisesta dormiva e gli altri maghi erano sempre in ritiro, li aveva incollati .Era riuscito a ingannare anche Bacchettone, l’unico dei maghi che gironzolava solitario sul cocuzzolo. Quando Forgiglione mostrò a Serasmone le macchie della colla che Mattia non aveva saputo togliere, accadde qualcosa che nel regno della Coronide non era mai accaduto: nonno Serasmone, il gran mago che vantava numerose prodezze di gioventù, quello che vinceva i puledri e superava nella corsa le giraffe, quel mago si addormentò. «Oh…! Oh…! Oh…!» - fecero i maghi, tutti. Ma poi bisognò darsi da fare. Mai nessuno nel regno della Coronide era caduto a
terra addormentato. Non conoscevano le malattie: erano cose dei guomenidi, che da sempre le sapevano anche curare. I maghi non si ammalavano. I maghi potevano invecchiare, soffrire il dolore, lamentarsi, gridare, inveire; ma non ammalarsi come i guomenidi. Per questo motivo nella Coronide non esistevano i medici. Ottenevano di lenire il dolore con la bacchetta magica. Ogni cocuzzolo aveva la sua. La custodiva e la faceva funzionare il re, il più bravo dei maghi, che in gioventù aveva saputo compiere prodezze, rimaste famose nella storia del loro paese. Quando avevano fatto la graduatoria, Serasmone era risultato al primo posto, superando i maghi Cetrinato e Volpicone che pure avevano fatto spacconate, mai più dimenticate neanche dai guomenidi. Di medici, nella Coronide, non ne avevano mai avuto bisogno; ma questa volta Magistrone sentenziò: - «Qui ci vuole un medico». - «Dove lo troviamo?» - chiese Guainotto, pensoso e preoccupato come gli altri. - «È urgente» - continuò Magistrone - «o il nostro amato Serasmone resterà per sempre addormentato». - «Facciamogli bere la tarchianella sferruzzata e si sveglierà» - suggerì Tronalotto, che conosceva le erbe. Ma la decisione fu presa: qualcuno doveva andare nel paese dei guomenidi per un medico. Un medico specialista o un medico della Mutua non si sarebbe rifiutato di arrivare sul cocuzzolo di Fiaccavento.
4. Il piccolo medico bianco Scelsero Ficcherotto che era giovane, aitante, quasi bello. Non aveva corna né
sonagli. Aveva solo una lunga barba ben composta e baffi intrecciati che faceva girare intorno al collo come una collana. Aveva pure ai piedi ramponi lunghi e grossi, che poteva coprire con gli stivali e che lo avrebbero aiutato a percorrere, accorciando, la strada che avrebbe dovuto fare nel più breve tempo possibile. Ficcherotto partì. Volentieri camminò superando fratte e precipizi. Per lui, aiutato dai ramponi, era facile superare i i pericolosi. In quel caso si toglieva gli stivali e camminava a piedi nudi. Camminò giorni e giorni senza mai stancarsi e senza mai fermarsi. Si fermava solo se s’imbatteva in un ruscello, meglio se fiume. Lo faceva per bagnarsi i piedi perché i ramponi, camminando, si consumavano; si rigeneravano al contatto dell’acqua, diventavano più forti e non era raro che ne spuntassero di nuovi. Nella terra dei guomenidi, si fermò nel primo centro abitato. Per le sue personali facoltà magiche si sentì fresco e riposato. Si accorse che la barba e i baffi erano diventati biondi. Gli stivali ai piedi si erano ristretti, come di normale misura. Sembrava uno straniero spavaldo arrivato in città per osservare e conoscere. Ma non era così. A Ficcherotto interessava trovare un medico. La cosa fu difficile perché nella Guomenide arrivò in piena notte. Una luna alta nel cielo illuminava le case e le strade; ma ogni porta era chiusa. I portoni erano serrati e le saracinesche dei negozi abbassate: difendevano dai male intenzionati la merce. Ficcherotto lo sapeva perché aveva sempre studiato e le cose le sapeva tutte. Sapeva pure che per trovare un medico si doveva fermare dove c’era un segno di croce con bracci uguali. Mago Colatutto gli aveva detto che la croce doveva essere rossa, ma Ficcherotto sapeva che anche se non era rossa poteva indicare il posto dove chiedere.
Un androne portava sulla vetrata quel segno. Entrò. Chiese urgentemente di un medico. Il medico che venne era tutto bianco. Ficcherotto non si meravigliò: anche questo sapeva. Disse: «Il mio capo sta male. Ha bisogno della vostra esperienza, del vostro aiuto». Poi si avviò. Il medico lo seguì. Diceva Ficcherotto: «È vicino. C’è poco da camminare». Era per non farlo scoraggiare perché sapeva quanto i guomenidi fossero fragili. Dopo aver camminato per il resto della notte, il piccolo medico bianco mostrò segni di stanchezza. Ficcherotto senza dire parola se lo caricò sulle spalle. Allora camminò velocemente perché poté superare, come faceva sempre, i fossati e le siepi basse o alte che fossero. Quando si fermava per bagnarsi i piedi, poteva sentire le parole del piccolo medico che ripeteva: «Dove mi porti? Ma dove mi porti?». Il mago non rispondeva e tutto finiva lì. Successe che a mano a mano la barba e i baffi di Ficcherotto ridiventassero neri. Quando il piccolo medico si accorse di questi cambiamenti, capì come stavano le cose e disse: - «Sei un mago. Mi stai portando nella Coronide. Dimmi chi ha bisogno della mia medicina». Ficcherotto non lo ingannò più e tutto gli disse: - «È Serasmone il mio malato». Il medico tacque. Aveva sentito parlare di Serasmone e lo sapeva capace di qualsiasi cosa nei
confronti di un guomenide che si fosse rifiutato; anche di trasformarlo in un cavallo alato che avrebbe poi cavalcato senza sella. Allora fece finta di non avere paura e disse: - «Andiamo. Corri. La salute di Serasmone mi interessa e interessa tutti i guomenidi». Così ripeteva e caracollava come un sacco mezzo vuoto sulle spalle del mago. Arrivarono dopo giorni di cammino fatto, attraverso scorciatoie, dai ramponi di Ficcherotto. Trovarono i maghi in assemblea. Tutti guardarono il piccolo guomenide depositato, anzi, caduto dalle spalle di Ficcherotto, che disse: «Ecco il medico, signori maghi e colleghi. Ecco colui che farà svegliare il nostro Capo». Serasmone aveva continuato a dormire sotto una grossa pianta di cactus. Nessuno aveva osato toccarlo per portarlo in una delle sale del castello; per questo fu facile al medico non perdere tempo. Si avvicinò a Serasmone. Gli tastò il polso. Gli posò la mano sulla fronte. Con una mazza gli diede un colpo sul ginocchio e Serasmone, con un balzo improvviso, diede un calcio a Mattia che gli stava vicino; lo colpì nel culone che era rimasto grosso anche dopo aver mangiato cadecchio senza pane e bevuto succo di lammoffi senza zucchero per tre lunghi giorni. A questo punto il medico sentenziò: «È svenuto. Ci vogliono le medicine!» rivolgendosi a Cherrafatto, il più anziano. E aggiunse: «Mandale a prendere o Serasmone non si sveglierà». Toccò a Ficcherotto tornare indietro, raggiungere il paese dei guomenidi, chiedere le medicine e tornare. Per fare tutto questo ci voleva un tempo lungo quanto ne era ato per cercare il medico e portarlo da Serasmone. Ficcherotto non si sgomentò.
Prima di partire per la seconda volta diede un’occhiata a Mattia che ancora si teneva il sedere e disse: «Con te ce la vedremo quando tornerò».
5. Ghignasce e coccodrilli Mattia non diede importanza a quelle minacce. Si fece una risata e l’eco arrivò a Molitutto, il cocuzzolo più vicino a Fiaccavento. Presuntuoso e arrogante ebbe la certezza che Ficcherotto non lo potesse toccare né castigare in alcun modo: il castigo poteva venirgli solo da Serasmone e le sventole solo da Bisesta. Si ricordò però che il nonnone non si era ancora svegliato e che la bacchetta magica continuava a non funzionare. Il sonno di Serasmone non era come quello di maga Bisesta né come quello delle altre tate che avevano il permesso di dormire per recuperare dopo avere insegnato ai piccoli maghi. Per Serasmone si aspettavano le medicine e per la bacchetta si aspettava che Forgiglione fe il lavoro nella sua fucina; ancora stava studiando la cosa: stava cercando come arrivare a riprodurre una bacchetta che funzionasse, esattamente, come quella che si era rotta. Mattia capì che rimanere a Fiaccavento sarebbe stato pericoloso per lui. Decise allora di dare ascolto ai suoi ciuffi da cavolfiore e sorvegliò il sonno di Bisesta. Capì che l’unica salvezza poteva essere quella di allontanarsi da Fiaccavento fino a quando tutto non fosse tornato come prima: il nonno sveglio e la bacchetta rifatta e funzionante. Calzò gli stivali nuovi. Si mise una berretta a cinque punte con visiera e decise di andarsene prima che qualcuno gliela fe pagare. Perché tutti sapevano che era sua la colpa di quanto era accaduto: la scomparsa di Figafino e lo svenimento di Serasmone. Vero è che nessuno di loro sapeva cosa significasse svenimento; tuttavia avevano capito che, se Forgiglione non fosse riuscito nell’impresa di rifare una bacchetta, magica come prima, avrebbero perduto la loro forza di maghi. Avevano capito che, superato lo svenimento, Serasmone - senza bacchetta - sarebbe diventato un guomenide. Tutti avrebbero dovuto affrontare le malattie e combatterle sarebbe stato l’impegno della loro vita. Lo aveva detto Magistrone che non si faceva
troppe illusioni. Mattia che aveva capito tutto questo partì. Si convinse che doveva andarsene lontano. Su un altro cocuzzolo della Coronide. Non si sarebbe fermato a Molitutto e neanche a Cunelotto; si sarebbe spinto fino a Cutrinello dove, una volta, era andato col nonnone e con la tata a visitare e a conoscere il fratellone di Serasmone. Mattia si ricordava che li avevano accolti con festa e che aveva ricevuto tanti regali. Dallo zione Bisernino aveva avuto pure un arco con frecce che scoccavano quando i gareffi avano dove diceva lui. Lo zione gli aveva fatto promettere che sarebbe tornato presto. Eccolo accontentato, adesso che lui aveva bisogno di essere ospitato. Non pensava lontanamente di raccontare le vicende di Fiaccavento. Poteva solo dire: «Ti porto i saluti del tuo fratellone Serasmone, che ti prega di volermi tenere con te un po’ di giorni». Pensava che potessero bastare solo pochi giorni e non desiderò altro. Scese quasi di corsa dal cocuzzolo di Fiaccavento facendo ondeggiare le spaziose punte della sua berretta. Fu facile arrivare a valle, ma risalire per Molitutto non fu altrettanto facile. Mattia non aveva ai piedi le ali e neanche gli arpioni di Ficcherotto: si poteva vantare solo del cavolfiore, che gli dava una certa imponenza. Soprattutto non aveva più l’energia di mago, persa per la bacchetta rotta e per il sonno di Serasmone. In quel periodo tutti i maghi di Fiaccavento ebbero giorni che dissero lunghi e che ricordarono poi sempre: si sentivano come un pallone bucato. Mattia arrivò sul cocuzzolo di Molitutto che era già notte. Tutti dormivano, anche le sentinelle. Le vide accoccolate che tenevano l’arco accanto, ma senza frecce e senza lance. Il rumore dei suoi stivali non li svegliò.
Mattia fu contento di non aver visto nessuno e più ancora di non essere stato visto. A Molitutto non voleva fermarsi e neanche perdere del tempo, che sentiva prezioso. La sua meta era Cutrinello, dallo zione Bisernino. «È lontano» - diceva - «ma ce la farò». Ridiscese dopo avere attraversato le vie del centro, così come doveva fare. Scese di corsa. Si sarebbe riposato a valle, prima dell’altra salita che lo avrebbe portato a Cunelotto perché, per arrivare a Cutrinello bisognava salire e scendere, attraversando i centri abitati dei cocuzzoli, che si trovavano in mezzo. Quasi cocuzzoli messi in fila. Non esisteva un sentiero a valle che potesse fare arrivare, chi ne avesse avuto bisogno, sul cocuzzolo più lontano. Mattia non sapeva il perché, né se lo chiese. In fondo alla valle si fermò. Si sentiva molto stanco e non seppe darsi una spiegazione. Cercò un posto nascosto agli occhi di qualche mago viandante, che poteva essere sceso da Molitutto. Lo trovò dietro un cespo di pittare, che avevano spine lunghe e robuste. Si punse. Non era mai successo. Cercò un nascondiglio dietro un muro diroccato. Era una zona guomenide. Qualcuno aveva lasciato un canestro, ma non volle dare importanza. Si riposò. Quando i raggi del sole arrivarono in quel posto appartato della valle era già tardi. Venne un guomenide a recuperare il suo cesto. Si spaventò. Brandì un bastone e rincorse Mattia credendo di aver visto un animale raro, sconosciuto allo stuolo degli scienziati e degli studiosi guomenidi. Mattia si salvò dalle randellate dandosela a gambe, ma poi dovette rallentare il o perché la nuova salita, quella di Cunelotto, era ripida e insidiosa. La strada, oltre a condurre su uno dei cocuzzoli più alti, era interrotta da
numerosi fiumi, dove vivevano e prolificavano coccodrilli di ogni dimensione. Di ogni colore. Di ogni razza. Vecchi, con fauci enormi. Giovani e giovincelli, che ancora non avevano imparato a spalancarle bene. Non sentendosi protetto da nonno Serasmone, Mattia si vide in pericolo. Sostò per riordinare le sue idee da cavolfiore. Capì che non poteva avere altra protezione o difesa se non dai suoi stivali, che erano nuovi e rinforzati da Forgiglione con ganci in ferro battuto. Sperò che fossero resistenti ai morsi dei coccodrilli. Cercò dove i coccodrilli più piccoli erano insieme a giocare di coda. ò e disse che era stato fortunato, la prima e la seconda volta; ma il terzo fiume era il più largo e dovette sostare più a lungo prima di trovare l’asilo nido dei coccodrilli. Non si accorse che tra i più piccoli c’era chi li guidava e li proteggeva dai pericoli. Poiché Mattia poteva essere un pericolo, gli si avventò contro. Mattia stava facendo la sua esperienza e stava imparando a capire che cosa significasse vivere senza possedere la forza della magia: il coccodrillo, che lo aveva azzannato, era rimasto agganciato a uno dei rinforzi dei suoi stivali e dovettero lavorare insieme, prima che Mattia se ne potesse andare per la sua strada. Arrivò in cima a Cunelotto con una pioggia battente. L’ultimo fiume da attraversare era in piena. L’acqua tracimava e portava lontano i coccodrilli, che vagavano per i campi. Lo vide in panne un avvoltoio, che nidificava su una delle alte torri del castello di Cunelotto e gli andò in aiuto. Lo agganciò dal cavolfiore e lo scaraventò nello spiazzo dicendo: «Non piangere, piccolo mago. Impara quanto gli avvoltoi siano utili e gentili». Mattia si appiattì a terra, come una salamandra. Non volle, però, inveire o protestare perché nessuno doveva sentirlo. Nessuno doveva sapere di quel suo aggio sul cocuzzolo di Cunelotto.
Non si ricordava di avere mai incontrato re Verrinello, ma sapeva che, se lo zione avesse appurato della sua presenza, lo avrebbe trattenuto a lungo: era famoso per l’insistenza e per il senso profondo della parentela e dell’ospitalità. La sua meta era Cutrinello perché si ricordava di quanto lo zione Bisernino fosse stato affabile e generoso con lui. C’era poi l’acqua torrenziale che lo aveva ridotto male. Non avendo il suo cavolfiore a posto, si disse che era impresentabile. Così volle giustificare a se stesso la sua decisione di non farsi vedere da nessuno. Le sue preoccupazioni erano comunque inutili; non sapeva che quello era il tempo della ghignasce e che la furia tempestosa e l’acqua torrenziale tenevano tutti chiusi nei dormitori. Ridiscese, incontrando le stesse difficoltà e affrontando gli stessi pericoli. Si sentiva preso da un turbine, che non aveva mai conosciuto, e aggomitolato da un flusso di peripatetici venti ghignascioti, che stiravano i ciuffi del suo cavolfiore, ma poi li lasciavano cadere di colpo e si univano ai baffi, che non intendevano stare intrecciati. Resistette a forti tentazioni di gridare e di chiedere aiuto, pentito di non essere rimasto da Verrinello e di non avere chiesto ospitalità. Nell’ultimo tratto si lasciò andare e rotolò spinto dall’acqua che tuttavia risaliva dalla valle, come un fiume in piena all’incontrario. Dubitò di poter fare, con le sole sue forze, l’ultima salita che lo avrebbe portato a Cutrinello. Il ragazzo mago pianse. Tra i singhiozzi chiamò Bisesta e chiamò Serasmone. Nessuno rispose. Capì che a Fiaccavento le cose non erano ancora cambiate. Quanti giorni erano ati? Mattia non lo sapeva, non li aveva più contati. Sapeva solo che ne erano ati tanti. Glielo diceva quella sua stanchezza pesante, infinita come quella dei guomenidi - così diceva Bisesta - che non avevano mai avuto la bacchetta magica.
Aspettò rassegnato che la ghignasce finisse; che il suo cavolfiore riprendesse vivezza; che riuscisse a intrecciare di nuovo i suoi baffi. Si accorse che si erano allungati e che i ciuffi stentavano a essere contenuti dalle cinque punte della sua berretta con visiera, ormai sbiadita e molle. Riprese il suo viaggio. Si avviò per la salita che doveva essere l’ultima, confortato da un cielo sereno, in cui vedeva roteare cavalli alati, aquile e avvoltoi. Aveva quasi dimenticato la baraonda di Cunelotto: gli sarebbe servita solo per raccontare a Figafino, quando si sarebbe vantato delle sue imprese e dei pericoli affrontati. Si lasciò prendere da questi pensieri vanagloriosi e non si accorse che un avvoltoio, forse quello stesso che lo aveva sottratto alla ferocia dei coccodrilli, si era calato su di lui e lo aveva agganciato tirandolo su e roteando come se volesse chiedergli: «Dove vuoi andare?» Mattia credette di riconoscerlo e gli gridò: «A Cutrinello! A Cutrinello! Dallo zione Bisernino! Dallo zione Bisernino!». Il rapace lo lasciò cadere sulla gradinata del castello, dove, sembrava, ci fosse un gran da fare: gente che entrava, gente che usciva. Gente attenta a quello che faceva. E nessuno si accorse di niente. Mattia batté con la testa, ma non sentì che poco dolore perché i suoi ciuffi funzionarono da respingenti. Rotolò. Si fermò quando fu nello spiazzo. Si diede una rassettata, raddrizzando la sua berretta; batté più volte i piedi per rimuovere la polvere dagli stivali e credette di essere pronto per risalire la scalinata.
6. A cutrinello Il castello di Cutrinello era il più bello e il più grande di tutta la Coronide. Lo aveva reso ancora più bello re Bisernino che possedeva un innato istinto di organizzatore.
Mattia si ricordava di aver visto cose fantastiche e particolari. Ricordava che i cavalli, pur essendo alati, gareggiavano trottando o galoppando in un maneggio che solo a Cutrinello si poteva trovare. Ricordava i campi, dove si susseguivano le gare; le sale da studio dove la gioventù cutrinellese si riuniva e si aggiornava sperimentando. Ricordava l’S.G.48 unico in tutta la Coronide, paragonabile solo a quello dei guomenidi. Alla sentinella che gli sbarrò il o disse: «Da Bisernino. Voglio vedere lo zione». Si sparse la voce che era arrivato da Fiaccavento. Fu subito introdotto nella sala dove Bisernino lo attendeva. Lo zione lo abbracciò. Gli accarezzò i baffi e sorrise quando notò che si erano così tanto allungati da poterli intrecciare. «Benvenuto nipotone» - gli disse - «resterai con me quanti giorni vorrai e quanti te ne permetterà il mio fratellone». Poi aggiunse: «Adesso lo voglio sentire. Lo saluteremo insieme». Fece un cenno e il mago addetto gli portò, su un cuscino di funacciòli, la bacchetta magica. Tentò di comunicare con Fiaccavento. Ripeté la cosa più volte senza risultati. Niente più funzionava a Fiaccavento, ma questo Bisernino non lo sapeva. Credette che una tempesta di vento impedisse la comunicazione tra i cocuzzoli. Decise di aspettare. Mattia non l’aveva pensata tutta e bene la cosa e temette che le bugie sarebbero state presto scoperte. Ebbe paura del peggio, che sarebbe venuto dall’ira di Bisernino se avesse saputo dello svenimento di Serasmone e del rischio che correva il suo fratellone di diventare un guomenide qualsiasi. Tutte queste cose Bisernino non le sapeva ancora e gli fece festa. Chiamò i magoncelli perché gli fero compagnia e tutti si diedero da fare per rendergli gradito il soggiorno. Fece imbandire la tavola come per le feste e mangiarono
prelibatezze: carote al citrino e corbezzoli raspati. L’indomani ci fu l’S.G.48 e vi parteciparono tutti. A Cavatappi arrivarono a gruppi. Mattia ebbe il posto d’onore, vicino a Bisernino. Volpinetto, Gangirotto testa quadra, Gavicotto e altri si disposero attorno e furono sempre pronti ad applaudire. Qualcosa ava a velocità inaudita. Mattia, che aveva perso le sue facoltà di mago - ma nessuno lo sapeva - non capiva cosa fosse né di che si trattasse. Si univa agli altri quando battevano le mani e se tutti facevano «Oh… Oh…», anche lui faceva «Oh… Oh… Oh…», e il suo era più lungo perché temeva di dire poco. A volte c’erano attimi di silenzio; ma poi riprendevano. avano. Volavano. Riavano. Tornavano. Il tutto in un nuvolone di polvere che avvolgeva, che si posava su ogni cosa e sulle tute fosforescenti dei concorrenti. Una pioggia frizzante, che sbottò da un otre, gli fece capire che stavano festeggiando. Gridavano tutti: «Machella, machella». Gridò anche lui. La sera, dopo cena, Gangirotto testa quadra, organizzò una partita a scacchi . Dimostrò tutta la sua bravura di magoncello attento e studioso, mettendo in difficoltà Mattia, che si era sempre rifiutato di seguire il consiglio di Serasmone: aveva preferito i cavalli, si era inebriato di aria e di luce, ma di stare fermo e attento non se ne doveva parlare. Adesso, con Gangirotto, aveva fatto la sua bella figuraccia, sopportando di sentire a ripetizione: «Scacco matto!». Mattia si sentiva davvero matto. Capì che quello non era il posto per lui perché nessuno poteva perdonargli la tanta sua ignoranza. Elencava a se stesso le mortificazioni che, in continuazione, subiva e lo affliggeva il pensiero che quello era un elenco che si sarebbe allungato, perché erano tante le cose che ignorava o che conosceva solo in parte.
7. Le lumache di Portovicino
Ficcherotto era tornato sul cocuzzolo per nulla affaticato. Difficoltà, strane per i guomenidi, gli avevano fatto perdere del tempo prezioso: nessuno sapeva leggere quello che era stato scritto con la penna di mago Magistrone. Accadeva che nel mondo dei guomenidi, a volte, su quei fogli non si leggesse. Chiamarono un esperto. Arrivò chi si interessava di raggi X per esaminare e studiare quello scritto. Ficcherotto seppe di quella possibilità, che gli sembrò ingegnosa: l’avrebbe raccontato ai maghi, colleghi di Fiaccavento, e avrebbe fatto bella figura. Solo quando il medico, specialista radiologo, tornò con la sua lettura trascritta, poté avere le medicine. Ficcherotto quasi non ci credeva, volle ringraziarlo e salutarlo. Gli strinse la mano, ma non seppe mai che gli lasciò un tremito, che dovettero poi curare con impacchi di camomilla, canna pestata e mezzo gotto di vino bollito. Non seppe neanche che le monete, lasciate per pagare le medicine, rotolando sulla strada, si dispersero tra i piedi dei anti. Da tutte queste cose capirono che era un mago. Non si erano accorti prima perché i suoi capelli, con barba e baffi, erano sempre biondi e Ficcherotto era quasi bello. Proposero di farlo inseguire da una guardia boschiva; ma quando la guardia lo raggiunse non lo riconobbe più, perché Ficcherotto era tornato ad essere il mago con la sua folta barba e i suoi lunghi baffi neri. Così Ficcherotto aveva potuto consegnare le medicine al piccolo medico bianco, che le selezionò secondo un suo ordine: «Prima questa… Poi questa… Poi questa altra… E poi questa ancora… E poi… E poi…». Per finire con quella a cui si doveva ricorrere, solo, se Serasmone si fosse rifiutato di aprire gli occhi e di alzarsi. Temeva che, dopo tanti giorni, avesse capito che, tutto sommato, valeva la pena continuare a starsene a dormire sotto il cactus.
Non fu così. Serasmone si svegliò. Allargò le braccia e fece un girotondo. Capì che lo aveva svegliato il piccolo medico bianco guomenide e lo abbracciò. Non perse tempo e chiese della sua bacchetta magica; ma la bacchetta non era pronta. Mago Forgiglione ci stava lavorando. Allora Serasmone si adirò e dai suoi occhi vennero fuori i segantini che erano rimasti. Ci fu un corri, corri; un arrampicarsi sui baìba, gli alberi più alti, e aspettare che i segantini scomparissero tra le siepi e le gaitte spinose del giardino. E il piccolo medico bianco? Anche lui evitò che fosse raggiunto dai segantini perché Ficcherotto se lo caricò ancora sulle spalle e con lui salì in cima al cactus più grosso, che non era quello dove aveva dormito nonno Serasmone. Fu così che il grande mago si dovette rassegnare a restare senza bacchetta magica fino a quando Forgiglione non gliene fece una nuova, frutto della sua intelligente manualità. Forgiglione era famoso per la sua bravura. La sua fama andava oltre Fiaccavento e arrivava sugli altri cocuzzoli, anche su quello più lontano di Cutrinello, dove il progresso non conosceva limiti. Ficcherotto ebbe il compito di riportare il piccolo medico bianco guomenide nella sua terra, nel suo paese, che sapeva ormai chiamare col nome di Portovicino. Non avevano più bisogno di lui. Ogni altro suo intervento o medicamento sarebbe stato inutile, forse dannoso alla loro natura di mago. Lo capirono tutti. Lo caricarono sulle spalle di Ficcherotto, che si preparò, ancora una volta, a togliersi gli stivali. Il piccolo medico dovette portarsi dietro un cesto pieno, traboccante, di lumache: lo aveva avuto da Serasmone, per le sue prestazioni mediche. Di quelle lumache ne mangiarono tutti a Portovicino, perché erano magiche e si
riproducevano a migliaia, in continuazione, in tutte le stagioni. La gente accorreva e chiedeva. In particolare chiedevano quelli che in casa avevano poco. Fu così che Portovicino raggiunse una certa serenità economica. Venivano da lontano a chiedere le lumache di Serasmone e il piccolo medico ne distribuì a piene mani, anche perché rischiava di vedersi la casa invasa: avveniva che, ando il tempo, diventassero sempre più grosse. A Portovicino, le lumache furono, da quel momento, l’alimento principale. Per questo nella piazza del paese sorse un monumento che rappresentava una enorme festuca di grano con abbarbicate numerose lumache. A memoria perenne.
8. Stranezze sul cocuzzolo di Fiaccavento I giorni che arono, senza che la bacchetta magica funzionasse, furono caratterizzati da disagi e stranezze. Tra le cose più evidenti: i cavalli non volavano, erano come stanchi e non rispondevano alle chiamate dei cavalieri. Serasmone non si arrabbiava più. Non comandava più perché sapeva che era inutile. Se ne stava chiuso nel suo castello e non voleva vedere nessuno. Riceveva solo Magistrone, che gli portava le notizie riguardanti il lavoro di Forgiglione. Mago Forgiglione non riusciva più neanche a dormire. Lavorava notte e giorno. Si fermava ore e ore per cercare, nella sua mente di forgiaro, la soluzione del problema. Doveva scoprire il mistero che rendeva la bacchetta, magica a tutti gli effetti. Sperava di arrivarci, osservando e studiando quella che, anche se incollata, gli avrebbe permesso di farne un’altra uguale. Tra le stranezze succedeva che le aquile e gli avvoltoi si nutrissero anche di quacquare e di famichelle. Nel cielo di Fiaccavento dominavano gli uccelli rapaci che, tuttavia, avevano ripulito il giardino e gli stradoni da cavicchi e segantini. Per queste novità, i maghi se ne stavano inoperosi e annoiati. Si erano accorti
che avevano perduto la loro forza caratteristica, di cui si erano sempre vantati. Nessuno di loro scese più a valle. Né Fricollone andò più a caccia: percottelle e gareffi volavano senza avere paura dei cacciatori. Né mago Mirtilampo andò più nel bosco a raccogliere corbezzoli. Successe che molti incominciarono a soffrire la fame. Niente cacciagione. Niente fragole e mirtilli. Niente funghi. Avvenne che lo stomaco di numerosi maghi diventasse come un sacco vuoto; specie quello di Bisesta, che continuava a girare e a cercare di scoprire dove si fosse nascosto Mattia: nessuno lo aveva visto scendere a valle e risalire per Molitutto. Bisesta pensò che si era nascosto per la paura che il suo appetito diventasse fame e che la sua rabbia si sfogasse con le sventole. Margottona, invece, poteva fare lunghi sonni, visto che non aveva tra i piedi Figafino e che Serasmone, chiuso nelle sue stanze, non chiedeva di nessuno. Erano tutti pronti, quando i cuochi Culatello e Cannellotto battevano col mestolo sui coperchi di rame per far sapere che la pappa era pronta. Accorrevano, mentre si chiedevano quali stranezze avrebbero mangiato, visto che di prelibatezze non se ne poteva parlare. Arrivò il giorno in cui mago Forgiglione vide venire fuori, dalla fornace, la bacchetta come la voleva lui. Non credette all’evidenza. Diceva tra sé che forse la vista non lo stava aiutando; che forse la sua testa non stava ragionando bene perché da notti e notti non aveva più dormito; che forse il materiale usato non era quello che doveva essere; che forse il chiaro dell’alba di quel giorno non era abbastanza chiaro; che forse per tutte queste cose, ancora una volta, il suo impegno di forgiaro non era bastato. Quello era un lavoro impegnativo e difficile. Occorreva tanta bravura per rifare la bacchetta di Serasmone. Si narrava, tra la gente della Coronide, che il trisavolo del trisavolo di Serasmone l’avesse ricevuta durante una tempesta di vento dal Cacciavolo Trisavolato. Da quella volta era sempre stata conservata con cura estrema da chi
la usava. Un tempo, chi la poteva usare, doveva avere, sin dalla nascita, un segno particolare, che poteva essere una saetta stampata sulla schiena o una coda che non cresceva e che se ne stava nascosta nei calzoni. Sennonché, ad un certo momento, questi segni particolari non ci furono più. Da allora le difficoltà del re, nella scelta del suo successore, furono enormi. La scelta avveniva tra la nipoteria. Ma a volte si allargava. Si pensava alla bravura, alle capacità magiche individuali, al carattere e alla personalità forte necessaria a chi avrebbe dovuto comandare e farsi ubbidire. Da quel momento ogni mago si impegnò a farsi vedere capace di prodezze. Si allontanavano da Fiaccavento, come cavalieri erranti, e andavano in cerca di avventure. Tornavano coi loro trofei, che appendevano nel dormitorio, e se ne gloriavano. Quando poi venivano scelti, perché primi in graduatoria, i trofei accumulati venivano esposti nel salone più grande del castello perché tutti sapessero delle loro spacconate. Anche quelli di Serasmone erano stati messi in fila. E lui li ava in rassegna, soffermandosi, perché aveva bisogno di rinfrescarsi la memoria: quelli erano eventi gloriosi che pretendevano ubbidienza e devozione da maghi, maghetti e magoni.
9. Nella fucina di Forgiglione Quel giorno Magistrone si affacciò nella fucina, come di consueto. Trovò Forgiglione incredulo davanti a quella bacchetta che, sfavillando, dimostrava di essere magica. Gli disse Forgiglione: - «Potrai dire al nostro re che sono stato bravo: la bacchetta nuova è magica, più magica che mai». Non fu necessario che Magistrone si avvicinasse perché da lontano la vide
brillare e scoppiettare come una girandola. Disse: - «Vado». In meno che non si dica arrivò davanti a Serasmone, che aspettava seduto sul trono. Si teneva la testa con le mani perché se la sentiva girare. Anche quella volta aveva creduto in una risposta negativa, come era avvenuto da quando il piccolo medico bianco lo aveva svegliato. Gli disse Magistrone: «Alza la testa, o grande Serasmone, perché avrai la tua bacchetta e sarai potente come prima». Incredulo e sorpreso, Serasmone sollevò la testa, si alzò dal trono e lo videro ergersi alto, tanto più alto di prima. Arrivò Forgiglione col suo carico prezioso e lo depositò ai piedi del trono, sotto gli occhi sfavillanti di Serasmone. Il grande mago la volle mettere al suo posto: nella scatola di àtraci tenuti insieme da bucate di nivelle a mazzi con chiusura rinforzata. Volle controllare che tutto fosse come prima. E tutto fu come prima. Allora Serasmone uscì dal castello e si fece vedere in tutta la sua grandezza e in tutta la sua dignità di autorevole capo. Ogni cosa era tornata al suo posto: i cavalli battevano con forza le loro ali cercando cavalieri; le famichelle tornavano nei loro nidi sulle alte torri senza aver paura delle aquile e degli avvoltoi; i maghi, ridiventati coraggiosi, non ebbero più paura né dei segantini né dei cavicchi. Per festeggiare, Serasmone volle che nel giardino del castello sorgessero fontane e spuntassero zampilli. In quelle acque nidificarono lisofiri e crebbero iris rossi, che abbellirono il cocuzzolo e allietarono i magoncelli di Fiaccavento. Ogni magoncello cercò il suo cavallo e tutti volarono ancora alto gareggiando; solo i cavalli di Mattia e di Figafino aspettavano impazienti il ritorno dei loro cavalieri. Per Figafino la cosa fu facile. Il gattiponio era solo ferito e bastò che si
accorgessero di lui perché lo riportassero a Fiaccavento. Credeva di aver fatto chilometri, di aver visto gente strana, di avere mangiato anche chi sa che, ma non era successo niente di tutto questo: era solo rimasto impigliato nel cespuglio spinoso di barrane. Lo aveva trovato mago Raspatutto quando poté recuperare, come tutti gli altri maghi, la sua energia magica. Raspatutto lo raccolse e capì che Figafino gattiponio aveva pianto. Serasmone aveva già preparato gli intrugli a cui aveva aggiunto le frattaglie scapoliate e vi tuffò subito, senza perdere ancora tempo, quella coda biforcuta di Figafino, che era il segno della sua potenza di mago. Ripeté la formula magica, quella dei momenti solenni, e il gattiponio ridiventò Figafino. Fu consegnato a Margottona che, questa volta, fu felice di interrompere il suo russare: aveva già preparato le sventole per quella bravata, fatta prima del tempo stabilito dal magone capoccione.
10. E Mattia salutò Lodoletta Anche Mattia a Cutrinello aveva avvertito l’energia che tornava. Per giorni e giorni aveva notato quella sua inferiorità che lo portava a non capire facilmente quello che gli altri facevano, specialmente se a fare erano i magoncelli più giovani, i quali dimostravano in ogni occasione la loro bravura. A Cutrinello erano tutti bravi, tutti studiavano e imparavano volentieri. Si ritrovavano nelle numerose sale dove sperimentavano. Ma c’era pure chi ascoltava la parola dotta dei professoroni o chi si fermava nelle sale di lettura a filosofare. Non mancavano le palestre, gli stadi e il circuito da fare invidia ai paesi più progrediti. Questi erano i posti dove Bisernino esigeva che il suo popolo dimostrasse il grado di educazione raggiunto. Mattia sentiva tutta la sua inferiorità. Lo meravigliava il fatto che i magoncelli non fossero obbligati a studiare; quello che facevano, lo facevano perché lo
volevano. Pensò che lo respirassero nell’aria. Si domandava spesso: «Che aria sarà mai questa di Cutrinello? Forse conviene starsene lontani. Se continuerò a respirarla, anch’io diventerò come i cutrinellesi e dovrò are la vita studiando». Tuttavia qualcosa lo spingeva a fermarsi in quelle sale; ad accorrere con gli altri negli stadi o nei campi dove le racchette gli facevano rotare la testa a ritmo costante, anche contro la sua volontà: era per seguire una palla, piccolissima palla. In fondo non ne valeva la pena; ma così facevano tutti: tac, tac… E poi: tac, tac… Per delle ore. Quando finivano diceva a se stesso: «Mattia, Mattia! Ti stai facendo prendere da queste pochezze; stai diventando ridicolo». Poi aggiungeva per rincuorarsi: «Torna sul cocuzzolo della tua Fiaccavento, i tuoi cavalli alati ti aspettano». Infatti i suoi cavalli lo aspettavano. Mattia sentiva quel richiamo, ma non sapeva come rispondere. L’unico mezzo era la bacchetta magica di Bisernino; ma solo lui la poteva toccare… Quella volta non aveva funzionato. E adesso…? Decise di seguire l’andazzo delle cose, così come venivano. Un giorno accadde che le tifoserie si azzuffassero. Ci furono randellate e teste rotte. Una fu la sua. Non perché fosse chiaro quello che voleva, ma perché, trovandosi in mezzo, gridò e menò le mani, visto che da un pezzo era costretto a controllarsi per non essere espulso da Cutrinello: avveniva che Bisernino allontanasse chi provocava disordini. Mattia si ritrovò col suo cavolfiore bendato e protetto da un cappellaccio a punte doppie: dieci e non cinque come lo portava lui. La guarigione avveniva lenta. Chiuso nel suo dormitorio Mattia si tormentava chiedendosi: «Perché lo zione
non mi fa guarire?». Un solo sfiorare la bacchetta magica poteva risolvere la cosa; da questo capì che Bisernino lo voleva castigare. «Tutto si paga» - diceva il nonnone a Gavicotto e a Volpinetto che gli chiedevano di perdonarlo. La cosa durò fino a quando Gangirotto, che aveva la testa quadrata, non trovò il mezzo per ottenere la fine di quegli arresti domiciliari e quindi la guarigione. Organizzò una gara di nuoto. Fu una gara doppia in una piscina doppia: doppia la distanza; doppie le vasche; doppio il numero dei gareggianti. Bisernino amava le gare e le assecondava. Adesso aveva davanti Gangirotto, il suo prediletto, che gli chiedeva di permettere a Mattia di gareggiare. Fu solo un momento. Bisernino chiese la sua bacchetta magica e la cosa avvenne: finirono gli arresti domiciliari di Mattia e guarì il suo cavolfiore. Anche Bisernino la teneva appesa nel mezzo del salone, quello del trono, come facevano gli altri fratelloni; solo che aveva trovato una nuova formula e la scatola era fatta di benzofocoide con doppia chiusura di nairana. In piscina Mattia poté nuotare con gli altri, ma fu ultimo in graduatoria. Non perché non avesse nuotato, ma perché non conoscendo le regole non le aveva rispettate. Che vergogna per Mattia! Se la sentiva salire dalla punta dei piedi fino all’ultimo ciuffo di cavolfiore che diventò rosso di fuoco, e fu un rossore che si portò dietro tra la folla di maghi e maghetti; in presenza di Bisernino; a tavola con gli altri; a letto, la notte, con se stesso solo e tormentato. Bisernino non lo degnava più, girava la testa disgustato da tanta ignoranza e si chiedeva come mai Serasmone lo avesse scelto come suo successore. Mattia non aveva mai vinto una gara, una partita; non aveva mai fatto canestro o rete; non riusciva a capire la formula S.G.48, che a Cutrinello si correva a turno, tutti i giorni.
«Che fare?» - si chiese Mattia. E pensò che la soluzione migliore poteva essere quella di mettersi a studiare. Avrebbe chiesto al nonnone il permesso di studiare a Cutrinello. L’idea gli piacque: si sarebbe liberato della maga Bisesta e avrebbe studiato con Gangirotto, l’amico del cuore, che lo aiutava a uscirne quando si metteva nei guai. Intanto bisognava tornare da Serasmone, a Fiaccavento. Il viaggio lo sgomentava. Il ricordo dei coccodrilli lo induceva a rimandare. Tuttavia bisognava decidersi. Lo accompagnò Gangirotto dallo zione che lo salutò volentieri. Questa volta non gli fece regali. Senza averne le prove, Bisernino aveva capito che qualcosa non andava: forse era lì per punizione, visto che il fratellone non aveva ancora chiesto di lui. Gli disse solo: «Salutami il tuo nonnone e fai buon viaggio». Non aggiunse altro e non volle toccare la bacchetta magica, con la quale avrebbe potuto farlo arrivare sul cocuzzolo di Fiaccavento in un battibaleno. Lo lasciò andare solo e senza alcuna difesa contro i coccodrilli di Cunelotto. Mattia lasciò Cutrinello in un momento in cui la maggior parte dei maghi e maghetti era in piazza per una rappresentazione. C’era, a farsi ascoltare, un comico che teneva desta l’attenzione: recitava filastrocche intervallando la satira, che non era satira politica perché nessuno osava parlare male di Bisernino e tanto meno metterlo in ridicolo: era una satira che coinvolgeva gli sportivi e suscitava ilarità. Mattia pensò che fosse il momento adatto; non voleva essere visto mentre lasciava Cutrinello. Ormai lo conoscevano tutti. Molti si erano accorti del suo comportamento senza regole. Molti altri parlavano, meravigliati, della sua ignoranza. Tuttavia quel giorno arrivò ai margini del bosco che non era solo. C’erano con lui gli amici più cari, quelli che gli erano stati vicini nei momenti più difficili. C’erano, con Gangirotto, anche Argonetto, Volpinetto, Gavicotto e, tra le ragazze, Uvafredda, Gattamatta e Lodoletta.
Lodoletta era rimasta appartata perché triste. Ci aveva fatto un pensierino: lo riteneva un avversario ideale per vincere le partite a tennis. Adesso, che lo vedeva andare via, si sentiva sconfitta e amareggiata. Mattia li salutò abbracciandoli. Gangirotto disse: «Torna presto. Ti aspetto». «Ti aspetto» - ripeté Lodoletta salutandolo ancora con la mano. Il bosco non era esteso, era solo un anello intorno al cocuzzolo, un specie di fortificazione a cui Bisernino teneva molto. Mattia non ebbe problemi fino a valle; temeva la salita e la discesa di Cunelotto. Su quella strada avrebbe dovuto fare i conti con i fiumi infestati dai coccodrilli. Non si era mai chiesto perché il re di Cunelotto, non avesse fatto niente per liberarsene; ma tante erano le cose che non si chiedeva e tante le situazioni che aveva sempre accettato ivamente, anche la ghignasce, che aveva dovuto affrontare e di cui gli era rimasto un ricordo terrificante. I suoi stivali lo preoccupavano. Il cuoio, ormai logoro, era diventato debole; restava il rinforzo in ferro, ma non poteva essere più una difesa. Considerò la cosa con apprensione e serietà e per la prima volta studiò, divise, moltiplicò. Decise che doveva lavorare di ingegneria e metterci un pizzico di fantasia. Trasse da un grosso albero un pezzo di corteccia e la legò sugli stivali, usando rami giovani, flessibili. Pensò che sarebbe stato un riparo in più. Si avviò e salì lento e guardingo. Scelse, scartando, l’asilo nido dei coccodrilli e fu prudente anche in quel punto. In cima restò nascosto dietro un castagno selvatico, che cresceva a cespuglio e aspettò la notte per attraversare il centro del cocuzzolo. Non c’era la ghignasce e non si chiese il perché. Capì che se fosse ridisceso a valle senza inconvenienti poteva dirsi salvo. Il resto del viaggio l’avrebbe visto stanco e affaticato, ma senza ferite. Il che significava che, non avendo bisogno di aiuto, poteva aspettare il buio e infilarsi quatto, quatto nel suo letto come sperava avesse fatto un certo gattiponio di sua
conoscenza. Non andò precisamente così. Mattia aveva sottovalutato Serasmone che, in tutte le sue decisioni e manifestazioni, non si faceva superare da nessuno: aveva ordinato che i campanacci dei capelli di Bisesta rumoreggiassero a qualsiasi ora del giorno o della notte, se fosse tornato. Fu così che Mattia non poté aspettare il buio nascosto e in silenzio. Si udì un fracasso che non era fracasso, a cui si unirono le voci dei maghi, delle maghe e delle tate che dicevano gridando: «È tornato, è tornato!». Perché tutti sapevano del rumoreggiare dei campani. Dalle case e dai dormitori vennero fuori anche i maghetti e i magoncelli; ci fu una baraonda tale che a Mattia fu anche facile scomparire e finire nel suo dormitorio mentre tutti lo cercavano per le strade. Dicevano: «Dove si è nascosto? Forse non è ancora arrivato. Lo hanno già messo in castigo. Io lo voglio vedere sventolare. Vedrai che Serasmone lo perdonerà». Non sapevano che ad aspettarlo o a cercarlo sarebbe ata tutta la notte. Solo l’indomani Mattia ebbe le sventole, elevate a potenza, che già bollivano nelle mani di Bisesta. Lo chio nella prigione e masticò cadecchio senza pane e bevve succo di lammoffi senza zucchero, fino a quando nonno Serasmone non fu disponibile a sentirlo parlare e a sapere dove avesse ato tutto quel tempo, senza il suo permesso.
* * *
- capitolo secondo -
A Gappaluppe
1. Galline da spennare e leprotti da scuoiare A Fiaccavento decisero di aprire un processo. L’Assemblea dei notabili si riunì alle calendule festaiole. Il tempo ridiventato sereno e i giorni più lunghi permisero la presenza dei maghi più vecchi, anche di quelli che, in pieno inverno, non lasciavano il dormitorio. Alla destra di Serasmone sedette mago Cherrafatto, il più anziano; alla sinistra Magistrone, il più sapiente. A lui Serasmone si rivolgeva quando non capiva bene come stavano le cose. Capitava spesso, perché il grande mago era diventato famoso per le sue spacconate, ma non per la sua preparazione e conoscenza delle cose del mondo. Su quel cocuzzolo la Giustizia veniva amministrata come la voleva lui, come se la sentiva dentro: senza regole. E la imponeva a tutti. Adesso avrebbe dovuto ascoltare il racconto di Mattia e, prima di giudicare, sapere che tutto corrispondesse a verità. Ascoltare la voce della difesa che poi era quella di Mattia stesso; ascoltare la voce del popolo: maghi, maghetti e magoni, ma anche la voce delle tate. Questo fu il punto più difficile perché Bisesta lo accusò senza pietà. Mattia fu condannato. Nessuno si sorprese quando la sua tata lo abbracciò piangendo. «Pagherai le tue birbonate» - tuonò Serasmone. «È giusto che le colpe siano espiate» - sentenziò con voce cavernosa mago Magistrone. E Maccaglione serio disse: «Andrai presso i guomenidi. Compirai imprese e spacconate che ti faranno degno di essere un fiaccaventese». «Le imprese devono essere numerose, almeno tronicinque e millantario» - stabilì mago Fliccheflò filosofo, della compagnia dei peripatetici.
Chiamarono Rondinotto e Colatutto, anche loro peripatetici che la sapevano lunga, per stabilire la natura delle imprese. Intanto Mattia doveva partire subito e si poteva avvalere delle sue facoltà di mago solo se avesse avuto la necessità di fare sparire il suo cavolfiore o la treccia dei suoi baffi. Questo, e niente più. Significava che doveva affrontare disagi e superarli con le sole sue forze e non con quelle che gli potevano venire dall’essere un fiaccaventese, tanto meno dall’essere designato al trono. Stabilirono che le prime imprese, o spacconate che fossero, dovevano riguardare guerre, battaglie, duelli. Mattia avrebbe dovuto dimostrare di saperle compiere, in un botto solo, e tali che superassero le aspettative. Era notorio che i maghi compissero le loro spacconate presso i guomenidi. Mattia arrivò tra i guomenidi dopo aver fatto strade e stradine; valicato monti e superato dighe; mangiato erbe e rubato galline. Le galline le spennava alla svelta, lo sapeva fare bene, lo aveva visto fare a mago Culatello nella cucina di Serasmone. Sapeva anche scuoiare lepri, leprotti e agnelli; arrostiva allo spiedo maialini. Faceva le sue scorribande quando si presentavano le occasioni, anche se non sentiva fame. Insaccava e conservava per quando attraversava posti con sola erba o posti dove, ad andar bene, c’erano solo rane. Le rane erano troppo piccole e non facevano punteggio per la sua qualifica di mago, impresario di imprese gloriose. Cercò la guerra. Subito non seppe dove cercarla. Capì che doveva arrivare in un centro popoloso, dove i guomenidi trafficavano indaffarati e soprattutto parlavano, anche se non sempre per la verità. Ma c’erano pure dei momenti in cui discutevano e spesso menavano le mani. Gli capitò di vederli andare per le strade della città con lunghi striscioni e chiedere qualcosa a gran voce. - «Cosa chiedete?» - domandò Mattia, una di quelle volte.
- «Chiedo quello che chiedono gli altri» - gli fu risposto. - «E gli altri che cosa chiedono?». - «Cosa vuoi che sappia, non si capisce bene quando gridano così. Grida anche tu e lo capirai». Mattia gridò, ma nella sua lingua. L’unica cosa che poteva dire era: «Machella, machella», che significava «Evviva, evviva». Pensò che così gridando non poteva sbagliare. ato il tempo, cominciò a saper parlare, anche se poco, la lingua guomenide; e un giorno volle dimostrare a se stesso che stava diventando bravo. In mezzo a una folla che gridava minacciosa gridò anche lui e disse: «Evviva! Evviva!». Ma gli altri gridavano: «Abbasso! Abbasso!». Gli cadde addosso una gragnola di pugni. Mattia non se l’aspettava e non seppe difendersi. La forza fiaccaventese con cui faceva scomparire i ciuffi e i baffi, in quel momento, gli venne meno: quei pugni gliel’avevano azzerato. Lentamente Mattia riprese la sua figura di mago con baffi intrecciati e testa fiorita. Nascose i baffi col bavero del giubbotto, ma i ciuffi diventarono rosso fuoco. Quelli che avevano menato le mani dissero che gli avevano spaccata la testa e che già sgorgava l’umore lacrimoso. Allora scapparono e, prima che arrivassero i poliziotti, intorno a Mattia ci fu il vuoto. Superato il primo momento di confusione, Mattia riuscì a scrollarsi e a recuperare, anche se lentamente, la sua fiaccaventeria. Quando arrivarono i poliziotti, con la loro sirena nevrotizzante, la sua testa era guardabile. Lo misero ugualmente sull’ambulanza e lo spedirono al Pronto Soccorso dell’Ospedale più vicino. Mattia non fece paura perché, durante il tragitto, i baffi ridiventarono normali e la testa mostrava solo i segni dei pugni ricevuti; niente più c’era in lui, che potesse fare pensare a un mago.
Lo affidarono alle cure di un piccolo medico bianco che, sembrava, non avesse niente da fare. Seppe poi che ancora stava imparando e capì perché fosse disponibile. Gli altri, quelli che già sapevano e avevano imparato bene, erano sempre impegnati e tanto presi dal loro lavoro che, per essere ascoltati, ci voleva una richiesta particolare in carta da bollo. Mattia non la fece perché non sapeva scrivere in guomenide. Dissero che era uno straniero, ma nessuno seppe da quale paese provenisse né che lingua parlasse. Chiamarono uno che se ne intendeva. Neanche quello capì niente. Decisero di fasciargli la testa e, prima di dimetterlo, di scrivere sulla cartella clinica: apolide. Mattia tornò tra la gente con bende e fasciature; trovò che poteva anche fargli comodo non preoccuparsi di nascondere per qualche tempo il suo cavolfiore. Si rimise in giro. Cercò ancora di capire dove mai fero la guerra: non poteva dimenticarsi del suo compito perché sentiva sempre la presenza di Serasmone, quasi il respiro di un mastino, che lo inseguiva da vicino. Quando riuscì a farsi capire, la risposta alla sua domanda fu: «Lontano; ma non tanto quanto puoi credere». - «Dove ?» - chiese ancora. - «Nella zona delle fucine ardenti e dei pozzi fumanti». - «Come si arriva?». - «Attraversa il mare e chiedi del rosso e del nero». Capì che si doveva imbarcare e cercò una nave in partenza. La trovò. Si confuse tra i eggeri e salì. Solo quando la nave prese il largo Mattia uscì dal suo nascondiglio perché era un clandestino: era salito senza biglietto. La questione dei soldi gli rendeva la vita difficile.
Sul cocuzzolo di Fiaccavento i soldi non avevano motivo di esserci, perché bastava la loro energia di mago per ottenere. Le monete erano solo per le necessità che facevano capo ai guomenidi ed erano sempre magiche. Spesso, saltellando e rotolando, se ne tornavano a Fiaccavento. Chi le riceveva se le vedeva saltare dalle tasche ed era quasi impossibile recuperarle. Solo Serasmone poteva ordinare che si fermassero. Mattia non ne ebbe neanche di quelle. Nonno Serasmone gliele negò: anche questo faceva parte della punizione. Dovette girare per i paesi guomenidi senza avere un soldo in tasca. Si trovò spesso in difficoltà. Poteva solo mangiare perché spennava galline; il resto lo poteva avere con sotterfugi. Con un sotterfugio era riuscito a salire sulla nave. S’inebriò di aria e di vento. Poi chiese della guerra. - «Niente guerra, niente paura» - gli risposero - «questa nave va in terra di pace». Mattia decise di tornare indietro. Capì che l’unico modo era quello di buttarsi a nuoto. Guardò. Misurò le distanze e si buttò. Mise in moto le sue forze magiche e nuotò. Qualcuno lo vide e gridò: «Un uomo in mareeeeeee!». Lo raggiunse una scialuppa. Lo videro che si tuffava per fare perdere le sue tracce, ma i guomenidi, che sanno sempre quello che vogliono, calarono un palombaro e lo riportarono sulla nave. Gli fasciarono ancora una volta la testa, perché temettero di averlo ferito con un colpo di remo: in quel momento difficile Mattia non ce l’aveva fatta a fare sparire i suoi ciuffi.
2. Violini, flauti e flicorni Dopo giorni e giorni di serena navigazione fecero la prima tappa.
La nave attraccò a Gappaluppe. Per tutto quel tempo Mattia aveva fatto il turista. Si confuse tra gli ospiti della nave e fece quello che facevano gli altri: sedette a tavola e mangiò con loro; li vide nuotare in piscina e guazzò anche lui. Li vide giocare a scacchi, a dama, a baccarà, ma non si avvicinò; li vide leggere e non si fermò; li vide ballare, ma poté solo guardarli con desiderio e rammarico; ascoltò un’orchestra suonare e da lì non si allontanò più. Si lasciò prendere e soggiogare totalmente da violini, flauti, flicorni, bassi e da quella bacchetta che, in mano a un guomenide, operava come la bacchetta di nonno Serasmone. Accorgersi della batteria poi fu una cosa che non dimenticò per tutta la vita. Si sentì coinvolto da quel ritmo che gli penetrò dentro e non se ne andò più. Stette vicino e si sentì come se fosse riuscito a toccare una nuvola eggera e curiosa, ferma a guardare un Mattia capace di commuoversi fino alle lacrime. Volle suonarla e un guomenide accondiscendente gli sorrise. Suonò la batteria con tutta la sua energia di mago e la suonò bene. Fu possibile ripetere e lo fece perché ormai si sentiva stregato da quei tamburi e da quei piatti particolari, ma che, in fondo, sempre piatti erano. Mattia non aveva mai sentito parlare di musica né di strumenti musicali; neanche a Cutrinello dove si vantavano di conoscere e di sapere fare tutto. Aveva capito che era un privilegio dei guomenidi saper costruire strumenti e farli funzionare anche tutti insieme. Andava chiedendosi quale magia avesse mai quella bacchetta. Perché aveva fatto il turista, adesso conosceva trombe, tromboni e trombette; flauti e flicorni; violini e violoncelli. Il pianoforte lo entusiasmava, ma la batteria diventò lo scopo della sua giornata di turista. Averla suonata gli diede una carica strana, come strane gli sembravano tutte le cose che vedeva per la prima volta.
Quando, arrivati a Guappaluppe, dovette scendere Mattia pianse. Se nonno Serasmone lo avesse visto piangere avrebbe detto: «Birba di un Mattia! Come potrai, un giorno, comandare a Fiaccavento? Un mago non piange; quelli che piangono per un nonnulla sono i guomenidi; loro fanno parte di una razza debole che noi consideriamo inferiore». E maga Bisesta avrebbe riso con le sue mascelle aperte e grintose, come sempre quando si preparava a punirlo. Gli altri maghi, maghetti e magoni si sarebbero chiesti il perché e, non riuscendo a capire quel suo pianto, lo avrebbero messo alla berlina. Questo sarebbe avvenuto a Fiaccavento, ma la cosa poteva anche allargarsi in tutta la Coronide: l’avrebbe saputo lo zione Bisernino e avrebbe vietato a Gangirotto testa quadra, di vederlo. Questo Mattia non l’avrebbe sopportato perché Gangirotto era l’amico del cuore.
3. Tamburi, piatti e tamburelli Gappaluppe era una città che si vedeva dove incominciava, ma non dove finiva. Le case gli sembravano enormi sigari che, di sera, si accendevano. Mattia credette di essere arrivato in un paese dove regnava la confusione: carri e carrette senza cavalli minacciavano la sua incolumità; teste dentro un casco che comandavano; gente che camminava come chi arriva primo per una festa di cuccagna; luci e insegne che sorprendevano per la fantasia: e la testa se la sentiva girare. In quei casi stentava a dominare il suo cavolfiore. Spesso era costretto a nascondere la treccia dei suoi baffi alzando il bavero del giubbotto. A Gappaluppe cercò una batteria. Doveva scoprire dove i guomenidi la suonassero e come fare perché la potesse suonasse anche lui. Per le strade dove c’era gente e gente, non se ne vedeva; nei negozi, grandi quanto uno dei suoi cocuzzoli e dove tutto sembrava immerso in una babilonia,
non se ne vedeva; su per le scale, che salivano senza bacchetta magica e sembrava portassero al settimo cielo, non se ne vedeva; nelle giostre a carosello, dove i guomenidi imitavano i loro cavalli alati, non se ne vedeva; sotto i ponti, dove dormiva con pochi barbuti come lui, non se ne vedeva; negli stadi, dove andava quando voleva dare sfogo alla sua delusione, non se ne vedeva. Senza fermarsi andava domandandosi: «Dove andrò ancora? A chi chiederò?». Ogni tanto si ricordava che doveva chiedere dove fero la guerra. Sapeva che senza spacconate non poteva tornare dal nonno né essere perdonato; ma nessuno dei notabili aveva detto che doveva fare presto e sbrigarsi. Poiché la cosa non era urgente cercò la batteria. Chiese ai anti frettolosi: «La batteria?». Chiese a chi sembrava disposto ad ascoltarlo: «La batteria?». I più scrollavano le spalle. Altri, senza fermarsi, rispondevano: «Non so». Capitò che ci fu chi lo condusse nella cucina di un ristorante e gli fece vedere pentole, pentolini e pentoloni. Lo confortò aver visto tanti coperchi, ma Mattia si sentì stanco e avvilito. Non cedette. Continuò a chiedere dubitando che il guomenide musicista, sulla nave, avesse voluto prendersi giuoco di lui. Vide la batteria, che cercava, in un locale alla moda dove entrava gente elegante con vestiti nuovi e scarpe lucide. Tentò di entrare anche lui, ma un guomenide con lustrini gli sbarrò il o. «Niente barboni» - disse. E lo spinse sulla strada. Mattia capì che doveva usare la sua energia di mago e cercare un sotterfugio per entrare. Arrivò senza essere visto dove c’era la batteria, ma il guomenide che la suonava, non gli permise di toccarla. Gli disse: - «Vattela a comprare». - «Ci vogliono i soldi. Chi me li dà?». - «Lavora come fanno tutti» - si sentì rispondere.
Ancora una volta i soldi furono per Mattia un ostacolo insormontabile. Allora si fermò ai semafori e pulì i vetri delle macchine; svuotò i cassonetti dei rifiuti, quelli piccoli; ripulì le scalinate delle chiese; lucidò vetrine; lavò piatti nelle cucine dei ristoranti dove, per tener desto il ricordo della batteria, lucidò pentole dicendosi: «Che strano modo di parlare hanno i guomenidi: con la stessa parola chiamano pentole e strumenti musicali». Comprò una batteria con tamburi e piatti. E la suonò. Se la portò sotto i ponti e la suonò. Se la portò nei luoghi solitari, lontani dalla città e la suonò. Una volta che tentò di suonarla tra la gente un guomenide, con bottoni e testa nel casco, lo allontanò. Tornò sotto i ponti, dove i barboni facevano capannello. Ormai sempre e ovunque Mattia suonava la sua batteria. Faceva solo quello. Non dormiva neanche la notte per vigilare che nessuno gliela rubasse. Nella solitudine della notte qualche volta si ricordava della sua condanna e delle spacconate. Stranamente si accorse che quella era diventata una cosa marginale nella sua vita. Non credeva più importante neanche l’eredità di nonno Serasmone, né la successione al trono: aveva solo per lui pensieri di gratitudine per averlo mandato tra i guomenidi.
4. La rinnovata forza della bacchetta Sul cocuzzolo di Fiaccavento non sapevano tutto questo e continuavano a chiedersi: «Come mai Mattia ancora non torna?» Nessuno dubitava che di guerre nel paese dei guomenidi se ne fero a iosa. Le occasioni per Mattia non potevano mancare: bombe, attentati e lingue di fuoco che non si spengono facilmente; carri armati con mitraglie e mitragliette; navi, siluri e bombarde. Il rumore dei soldati in marcia arrivava anche a
Fiaccavento. Tutti ne erano al corrente e nessuno era disposto a perdonare il ritardo di Mattia. Allora Serasmone decise di fare funzionare la sua bacchetta nuova, che funzionò così tanto bene da raggiungere Mattia e da coinvolgerlo. Mattia avvertì il richiamo del nonno, che gli ordinava di tornare e si sentì confuso e amareggiato. Sapeva che era inutile resistere al suo ordine, ma volle tentare. Pensò che, per contrastare quella forza, poteva essergli utile agganciarsi e legarsi a uno dei pilastri del ponte; aspettare e lasciare che si esaurissero i vari momenti funzionanti della rinnovata energia di Serasmone e della sua bacchetta. Ma accadde qualcosa che non si aspettava: quella forza si portò via la sua batteria e per recuperarla le corse dietro. Saltò fiumi e torrenti; superò siepi spinose; si fece largo tra la gente nelle città affollate; superò boschi rimanendo impigliato tra rami; si ferì sbattendo contro un muro senza dare importanza. Si sentì estremamente stanco. E disperò. Quando riuscì ad afferrarla e a impossessarsene ancora, quasi non ci credette; ma era accaduto quello che si aspettava: si trovò nel bosco che circondava Fiaccavento. Lo salutarono gli alberi fronzuti, che lasciarono liberi gufi e civette; ondeggiarono, come spinti da refolo, i folti cespugli giganti; lo salutarono, volteggiando nel cielo, i cavalli alati; si affacciarono, dalle siepi, cavicchi e segantini. Arrivò un donnone affaticato e rumoroso, che ebbe un moto di sorpresa nel vedere Mattia che si teneva stretta, caricata sulle spalle, la sua batteria. Anche quando fu davanti a Serasmone, Mattia non l’abbandonò. Il nonnone lo guardò e, prima ancora di conoscere il perché di quel ritardo, volle sapere cosa fosse quell’aggeggio che portava sulle spalle e che utilità avesse per Fiaccavento e per i maghi tutti. Poi sentenziò: «Non serve. La puoi buttare».
Gli chiese delle sue spacconate e dei trofei accumulati. Mattia gli presentò ancora una volta la sua batteria dicendo: «Ecco la mia conquista, o grande Serasmone. Non pensare di farmela abbandonare. Io non la lascerò più». Allora Serasmone capì che Mattia non sarebbe stato il suo successore. Restò silenzioso e abbassò il capo. Si chiuse in se stesso e non volle più parlarne: aveva bisogno di riflettere. Dopo un lungo meditare, comunicò ai notabili, riuniti in consesso, che avrebbe dovuto scegliere un altro successore. Ordinò di bandire un concorso. Si disse subito che Mattia non avrebbe partecipato perché la cosa non lo interessava e perché non trovava più il tempo di pensare a una simile eventualità. Ormai il suo tempo lo ava suonando la batteria. Serasmone lo considerò un traditore degno di ogni disprezzo; ma maghi, maghetti e magoni ascoltarono i suoi virtuosismi. Ogni maghetto volle suonare e molti lo fecero con bravura. Addirittura ci fu chi volle andare tra i guomenidi per le spacconate personali, ma poi tornò con lo strumento musicale a lui più congeniale.
5. L’estinguersi della dinastia regnante In quei giorni Figafino si ammalò di una strana malattia - almeno così dicevano e nonno Serasmone volle che fosse interpellato un medico guomenide. Figafino continuava a dire: «Sarò un re che non è re!» - e poi - «Sarò un violinista che comanda, ma non comanda». Quel modo di comportarsi, serioso e incomprensibile, preoccupò Serasmone. E poiché parlava di re e di comandare sperò che Figafino potesse essere il suo successore.
Fu ancora Ficcherotto ad accompagnarlo dal piccolo medico bianco. Il suo rientro, dalla terra dei guomenidi, diede a Serasmone la certezza che il suo regno non poteva che finire. In tutta Fiaccavento si udirono grancasse e fanfare: festeggiavano l’evento più clamoroso della loro evoluzione: Figafino era tornato con un pianoforte a coda. Ed era una coda tanto lunga da dover collocare lo strumento in una sala appositamente costruita. Quella fu un’impresa che i maghi raccontarono ai figli e ai figli dei loro figli. Tutti capirono che Figafino aveva da sempre pensato di dirigere un’orchestra e creduto che a Fiaccavento sarebbe diventato il più bravo. Più tardi, quando la sua fama varcò i confini, fu detto il re dei musicisti e fu considerato la mente musicale più sublime del suo tempo. Presto ebbero pure una banda. Allora con trombe, tromboni e tamburi tutti suonarono. Nella banda Mattia suonò la grancassa. Nessuno ebbe più il tempo di pensare alla successione. Fu così che i fiaccaventesi videro estinguersi la dinastia regnante. Quelli che, dopo Serasmone, ebbero la sua bacchetta furono i direttori di orchestra o di banda, secondo come soffiava il vento su quel cocuzzolo. Più tardi capirono che la loro energia, quella magica, si andava perdendo; ma nessuno si rammaricò, nessuno pianse per questo. Ormai la bacchetta veniva solo usata nei concerti e nelle esercitazioni per i liberi arrangiamenti. Sulla vetta di Fiaccavento squillarono le trombe. Questo accadde su quel cocuzzolo, che era uno dei cocuzzoli della Coronide. Mattia e gli altri non vollero sapere né chiedere cosa accadde sugli altri cocuzzoli.
Lo appurarono più tardi. Forse da noi che lo raccontammo.
* * *
- capitolo terzo Gangirotto testa quadra
1. La missione di Gangirotto I maghi di Fiaccavento stavano diventando guomenidi. La loro natura si evolveva lentamente, senza scossoni, senza grossi traumi, se si esclude il tormento di Serasmone che gli veniva dalla certezza di essere lui il capostipite di una nuova razza. Ormai non si potevano più vantare di spacconate né di quelle tante gloriose imprese di cui si erano sempre vantati. Serasmone aveva dovuto rassegnarsi a una bacchetta magica che non rispondeva più ai suoi comandi, né alla sua volontà; a una bacchetta che stava assumendo caratteristiche diverse, anche se nuove e interessanti, come dicevano i peripatetici. I primi che si accorsero di quelle novità furono i cutrinellesi. Gli squilli di tromba furono uditi particolarmente da Molitutto; ma i molituttesi conducevano una vita quasi iva, senza interessi particolari e senza l’energia progressista, che avevano a Cutrinello e che coinvolgeva la popolazione tutta: maschi e femmine, giovani e vecchi. Questo lo voleva e lo aveva sempre voluto Bisernino, ultimo della numerosa famiglia di Supremo, re di Coronide. Supremo aveva voluto che i suoi figli avessero ciascuno un cocuzzolo su cui comandare e sentirsi liberi di decidere quale impostazione dare alla vita dei propri sudditi. A Bisernino era toccato il cocuzzolo di Cutrinello, che era il più lontano, ma era anche il più grande e quello più adatto alle innovazioni, di cui Bisernino stesso andava orgoglioso. Su quel cocuzzolo la sua nipoteria era cresciuta allegra, spensierata, ma anche operosa e attiva.
Gangirotto era quello che gli somigliava di più - diceva lui - e a Gangirotto sperava di affidare la successione al trono di Cutrinello. Gangirotto testa quadra, quella volta, aveva accolto Mattia con grande affetto per quel filo di parentela, ma anche perché aveva capito che in Mattia c’era qualcosa che sfuggiva agli altri. Quando sentiva fare commenti sulla sua ignoranza diceva: «Mattia diventerà bravo». Oppure, sentenziando con spirito profetico: «Un giorno Mattia farà grandi cose». Era ato del tempo da quando Mattia aveva lasciato Cutrinello. Non si era fatto più vedere e neanche sentire. Gangirotto aveva capito che qualche cosa di molto importante stava facendo, ma non volle approfittare delle sue capacità di mago per sapere di che si trattasse. Capì che doveva aspettare e aspettò fino a quando Bisernino non lo chiamò per dirgli della sua preoccupazione e del suo desiderio che qualcuno andasse a vedere da vicino come stavano le cose. Bisernino aveva raggiunto il suo fratellone con la bacchetta magica, più volte, e sempre lo aveva trovato triste, senza voglia di parlare e tanto meno di chiacchierare, come spesso faceva, sulle vicende di Fiaccavento. Serasmone era solito dirgli delle sue imprese nei luoghi lontani della guomenide, delle sue cavalcate spericolate e fantastiche: riusciva a sfidare anche il sole e a roteare intorno alla luna quando era tonda perché piena. A Serasmone non interessava conoscere e sapere, gli bastava solo fare. Né si chiedeva cosa significasse quello che faceva. Tutto lo rendeva orgoglioso e non mancava di mettere al corrente i suoi fratelloni quando da Cunelotto, da Molitutto o da Cutrinello lo raggiungevano con la bacchetta magica; oppure quando era lui a farlo. Ma arrivò il momento in cui non volle più parlarne né cavalcare. Solo che non diceva perché non lo fe, né parlava di quel rullio continuo che veniva dalla batteria di Mattia: da quel ritmo incessante cercava riposo. Di questa grande tristezza di Serasmone, parlò Bisernino a Gangirotto, concludendo col dire che temeva per il fratellone. Non nascose il timore che la tristezza gli potesse venire dalle malefatte di Mattia. Gangirotto si sentì toccato dalle parole che riguardavano Mattia, ma riuscì a capire dove Bisernino voleva arrivare col suo parlare e si offrì deciso e sicuro: «Andrò a Fiaccavento e resterò con loro tanti giorni quanti ne saranno necessari
per capire i motivi di una così tanto grande tristezza» - disse. Partì senza problemi perché c’era, con la sua, la volontà di Bisernino e tutta l’energia che ai maghi veniva da una bacchetta magica perfettamente funzionante. Lo accompagnò fino a valle l’allegra brigata di magoncelli, ridendo e scherzando. Non mancarono le birbonate che Volpinetto era solito fare a Uvafredda, smorfiosa e coccolona. Lo salutarono a lungo anche da lontano col loro caratteristico saluto di «Machella! Machella!».
2. A Cunelotto con Verdirone Gangirotto fece facilmente la salita di Cunelotto, dove furono i coccodrilli ad avere paura di quella energia di mago, che agiva in ogni sua azione o movimento che fosse. Non avendo nessun motivo di non farsi vedere , si fermò e incontrò i magoncelli e lo zione Verrinello, che li governava. Dovette resistere alla tentazione di un loro invito a restare qualche giorno in più perché tenere all’amicizia e alla parentela era una caratteristica di Verricello. Vinse in Gangirotto la serietà della sua missione e la necessità di mandare a Bisernino la sua prima missiva aerea, con la quale sperava di tranquillizzarlo. Tuttavia ò la notte a Cunelotto dove lo interessava il rapporto che i cunelottesi avevano con i coccodrilli. Raccontavano che, in tempi lontani, uno dei maghi, che vivevano sul cocuzzolo di Cunelotto, aveva assunto, per errore, la sagoma di coccodrillo e che per il capriccio del capo, che era allora Farinottocapocotto, non ne era più uscito. Fu così che tutti i suoi discendenti nacquero coccodrilli e popolarono il fiume, che si sdoppiò in più corsi con acque tempestose. Da quelle acque, Farinottocapocotto non li aveva potuto più allontanare. Quando si ribellavano - avveniva almeno ogni quarto di luna - diventavano cattivi: significava che era il momento di vendicarsi di quel non potere partecipare alla vita della comunità cunelottese. Allora stormivano le fronde e si agitavano cavicchi e segantini, preoccupati di diventare oggetto della razzia che, in quei giorni, facevano i coccodrilli.
Gangirotto ascoltava questi racconti direttamente dalla voce di magoncello Calitone, il quale era già sulla strada di esperto ghignascioto, e dagli altri, che si riunivano a fargli festa e a cercare di ottenere che prolungasse la sua permanenza. Altra cosa che attirava l’attenzione di Gangirotto e suscitava il suo interesse era l’apparire improvviso di quella forza turbinosa, che si ripeteva e coincideva, sistematicamente, col giorno della protesta dei coccodrilli: su quel cocuzzolo nuvole nere e pesanti portate dal vento tempestoso si liberavano della loro pesantezza, rovesciando acqua a più non posso. L’acqua, enormemente esagerata, li costringeva a chiudersi nei dormitori e aspettare che la ghignasce esaurisse la sua energia strozzante, contro la quale neanche la bacchetta magica di Verrinello poteva fare qualcosa. Gangirotto avrebbe voluto vedere e vivere da vicino, almeno una volta, la ghignasce. Tutto faceva parte di quel suo desiderio di conoscere e di sapere che lo distingueva anche dai suoi coetanei cutrinellesi. Ma questo significava doversi attardare e rimandare la conclusione della sua missione. Partì augurandosi che la ghignasce arrivasse mentre lui era ancora a percorrere la discesa che da Cunelotto portava a valle. L ultimo coccodrillo, che incontrò, lo salutò. Colloquiarono a lungo. Seppe che era il coccodrillo Verdirone, l’unico ad avere le fauci un poco più piccole che gli permettevano di comunicare con i maghi. Gangirotto si accorse che, capire il loro linguaggio, non era poi una cosa tanto difficile. Tuttavia non aveva mai pensato che fosse possibile e che potesse accadere. In seguito capì che era stata anche la sua ione per lo studio e la sua volontà di conoscere che lo aveva potato a capire quel modo, quanto mai strano, di esprimersi. Verdirone gli raccontò di Mattia, delle difficoltà e dei pericoli a cui era andato incontro, della necessità che aveva avuto di essere aiutato in un momento in cui l’aiuto era impossibile, perché la ghignasce non perdona l’intromissione: quello era il tempo della loro protesta, ma Mattia non lo sapeva.
«Le conseguenze del capriccio di Farinottocapocotto» - concluse Verdirone - «le subiscono ancora quelli che vivono su questo cocuzzolo. Tutti i maghi cunelottesi devono fare i conti con la ghignasce e con noi coccodrilli per andare a compiere le loro bravate». Gangirotto proseguì il suo cammino a valle, in solitudine, preso da pensieri che lo portavano a compiangere il destino di quei maghi e dei loro discendenti, poiché quella specie di maledizione, che loro chiamavano vendetta ghignasciota, si abbatteva su tutti quelli che nascevano a Cunelotto, destinati a are la loro vita sotto il torchio dei coccodrilli, sudditi speciali di Verrinello, particolarmente pericolosi.
3. Nella terra del silenzio dove fioriva la gaitiana Salire e scendere dai vari cocuzzoli non era cosa difficile; solo che i cocuzzoli erano molto alti e la necessità di attraversare i centri abitati era una cosa che non si poteva eliminare. Diceva a se stesso Gangirotto testa quadra, che da grande avrebbe ideata e fatta fare una strada che percorresse, a valle e in lunghezza, tutto il regno della Coronide. Avrebbe fatto in modo che si arrivasse sul cocuzzolo più lontano camminando senza salire e scendere. Si chiedeva come mai le teste gloriose dei re, che si erano succeduti, non l’avessero pensata e poi attuata. Riconsiderava le capacità di Bisernino e gli sembrava impossibile che non avesse posto in atto quello che, certamente, aveva pensato. «Perché» - diceva a se stesso - «chi ha saputo organizzare e attuare l’S.G.48, sarà stato anche capace di pensare una strada che collegasse, a valle, i cocuzzoli del regno della Coronide». Appurò più tardi, da Serasmone, che quello era stato il volere del bisavolo trisavolato per evitare che i cocuzzoli fossero uguali tra loro. Avrebbero così avuto impronta e impostazione diversa. A Molitutto si dovette fermare un giorno in più per la necessità che ebbe di farsi aggiustare gli stivali, consumati e rotti in punta per gli acrobatici saltivolta sul
percorso di Culinello. A Molitutto governava Parisotto con le sue centocinque mogli. In quella terra fioriva la gaitiana, erba soporifera, e Parisotto ne aveva ordinato la raccolta annuale. Tutti ne consumavano e tutti si interessavano alla conservazione: la essiccavano per la maggior parte, ma facevano anche la salagione. Nessuno pensava a coltivare altro. C’era chi ne consumava troppo e quelli dormivano anche di giorno. Anche Parisotto ne consumava abbondantemente, ma le sue centocinque mogli lo tenevano sveglio perché spesso si accapigliavano tra loro: il suo compito era quello di fare tornare il sereno, frenando le più litigiose. Il re di Molitutto aveva il suo bel da fare, ma niente più lo poteva indurre a cambiare vita. Gangirotto dovette aspettare a lungo prima di potere essere ricevuto e più ancora per avere il permesso di farsi riparare gli stivali. A Parisotto non interessava niente e nessuno. Anche se non dormiva, di giorno era in una continua sonnolenza. Godeva che i suoi sudditi fossero sonnolenti, come lui, perché quello era l’unico mezzo per non essere disturbato. Di gaitiana si alimentavano anche le aquile e i cavalli alati che, non volando, avevano perso l’uso delle ali. Ovunque potevano trovare i fiori soporiferi, perché l’erba cresceva e prosperava nel silenzio: il continuo stroncare i rami aiutava la fioritura. «Che strano cocuzzolo è quello dello zione Parisotto!» - diceva Gangirotto - «Si sente solo la voce delle scapigliate mogli che si disputano la preferenza». Poi capì perché, pur essendo il cocuzzolo più vicino a Fiaccavento, non avevano dato importanza agli squilli di tromba che, tutte le mattine al sorgere del sole, arrivavano e tentavano di rompere quel silenzio pesante, quasi misterioso, che avvolgeva la loro vita inutile. In linea d’aria le distanze si accorciano. Spesso si annullano. I molituttesi
avrebbero dovuto chiedersi cosa significava quel suono, anche senza preoccuparsi di porre in atto quello che non potevano attuare. Ma a nessuno la cosa era sembrata interessante: beati nella loro sonnolenza, godevano e cercavano solo dove appoggiarsi per dormire. Parisotto diede poca retta a Gangirotto. Gli chiese solo perché fosse venuto e che cosa volesse. Poi gli diede il permesso di farsi aggiustare gli stivali e lo lasciò, dicendo che aveva molto da fare. I maghi e i magoncelli non lo degnarono di un saluto: ebbero paura che qualche novità potesse turbare il loro ritmo di vita dolce e soporoso. Scendere da Molitutto per Gangirotto fu come volare. Respirò più sereno a valle dove lo attendeva una gradita sorpresa: quella di incontrare Fricollone che, facendo scuotere canne e mazzelle, scovava la selvaggina. Risalirono assieme il sentiero di Fiaccavento, lentamente, parlando di tante cose che a Gangirotto ridiedero serenità. A loro si unì Mirtilampo che era di ritorno col suo carico di funghi e di fragole. Ne offrì. Ne mangiarono insieme e Gangirotto si preparò a quello che i due maghi, che maghi non si sentivano più, gli avevano appena accennato. Superato il bosco furono presi e coinvolti da un ritmo che ora si allungava, ora si allargava, ora tornava e batteva nuovo e penetrante. Si trovarono a ondeggiare la testa e a camminare, seguendo quel suono che sembrava venisse da lontano, a volte da vicino o da dietro una pianta grande e grossa quanto un albero di bacobina. Si guardarono negli occhi sorridendo, Fricollone e Mirtilampo; Gangirotto non seppe spiegarsi quello che sentiva. «È musica» - gli disse Fricollone. E Gangirotto si chiese come mai a Cutrinello di musica non se ne parlasse. Non ne aveva mai parlato neanche Bisernino, che di scorribande ne aveva fatte
durante la sua vita movimentata. Avanzavano, percorrendo strade e viali. Da ogni casa, da ogni dormitorio una musica varia e coinvolgente arrivava e si perdeva nell’aria, dove le aquile rallentavano il volo, coinvolti dal ritmo. Anche i cavalli alati battevano le ali, adeguandosi, senza invitare i cavalieri a cavalcarli perché non desideravano allontanarsi da quel cocuzzolo, da dove l’armonia saliva alto e si perdeva lontano, toccando le nuvole ferme ad ascoltare. Nello spiazzo del castello si fermarono. Fricollone e Mirtilampo salutarono Gangirotto: si allontanarono per raggiungere le cucine e depositare il carico di cacciagione e la cesta colma di corbezzoli e funghi. Gangirotto avanzò lentamente, preso da un ritmo travolgente, che subito non poté definire. Seppe che a piano terra, in una delle grandi sale del castello, c’era Mattia con la sua batteria che ritmava da quando il sole, ancora lontano, aveva fatto schiarire il cielo. Alla sentinella fece un semplice cenno e disse una semplice frase: «Dallo zione Serasmone». La sentinella, che aveva capelli annodati, ma baffi senza trecce, lo fece are con un inchino. Aveva capito che era un forestiero da trattare come persona appartenente alla dinastia regnante.
4. Gangirotto e Serasmone Gangirotto ò e camminò come avvolto da una nuvola musicale. Si trovò davanti a Serasmone che, come sempre nei suoi momenti difficili, si teneva la testa con le mani perché le contrarietà gliela facevano girare a trottola, come la testa di Figafino ancora magoncello. Quando gli fu davanti, Serasmone sollevò gli occhi. Lo riconobbe. Si alzò e lo
abbracciò commosso. Ascoltò il perché di quella visita inaspettata e pacatamente parlò: «La mia dinastia è finita. Tutti i nipoti capaci a succedermi sono ubriachi di musica. Di governare non vogliono sentirne parlare. Mattia suona continuamente; di quel suono riempie la testa di tutti: la sua e la mia in particolare. Figafino a le sue giornate seduto al pianoforte; vive solo per la tastiera: compone e fa gli arrangiamenti. Barilotto suona il flicorno; é bella la sua musica, ma l’idea di governare il paese non lo sfiora. Silvanetto ha il suo violino. Anguitello il basso. E Corone, che porta il nome del nostro grande antenato, quello, su cui si fermavano le nostre ultime speranze, sta crescendo abbracciato a un contrabbasso. Col contrabbasso a le sue giornate e si rifiuta, come fanno gli altri, anche di concorrere al trono. Potrai dire al mio fratellone Bisernino che i maghi, sul cocuzzolo di Fiaccavento, stanno scomparendo con la dinastia di Serasmone. Sappi che si ribellano ai baffi intrecciati; che rifiutano le occasioni per le bravate; che non sanno più cosa farne dei cavalli alati, le cui ali si stanno lentamente atrofizzando nel non uso. Nessuno più li cavalca. Anche la loro è una razza in estinzione. È finito tra i fiaccaventesi il desiderio della bacchetta magica e quella volontà euforica di fare pinzillacchere. Rifiutano la possibilità, che hanno sempre avuto, di potersi muovere magicamente sui fiumi, sui mari, sulle siepi spinose, sulle cime degli alberi più alti, sui torrioni e sui mafioni. A nessuno fa paura perdere queste qualità che sono state la nostra caratteristica, il nostro orgoglio e il nostro vanto. Potrai dire a Bisernino che anche io non mi sento più tanto mago perché non ho più voglia di usare la bacchetta magica. Ho quasi finito di essere il mago dei maghi, il cavaliere ardito e sicuro che spaziava nei cieli dei guomenidi, salendo sulla luna, sfiorando il sole e appendendosi a un suo raggio. Ho finito» - disse e pianse. Grosse lacrime caddero dai suoi occhi e si fermarono sui suoi baffi, che portava solo a manubrio, dove brillarono come gemme; e Gangirotto capì che quelle lacrime erano la più grande ricchezza di Serasmone. Cercò Mattia. Fu facile seguire il suono dei suoi tamburi attraverso sale e corridoi. Lo trovò davanti a una batteria che era stata arricchita dallo stesso Mattia di altri tamburi e di altri piatti ancora più grandi, ancora più piccoli.
Mattia suonava e non si accorse di Gangirotto che era entrato silenzioso, preso da quel ritmo, ma anche confuso: non aveva mai visto uno strumento musicale, né aveva mai sentito parlare e dire che nel mondo esistesse qualcosa di magico come la musica, capace di dare pienezza, serenità, gioia intensa e la sensazione di un mondo diverso dove poter vivere intensamente. Si avvicinò piano e lasciò che si esaurisse lentamente quel momento di sane vertigini che Mattia sapeva ormai realizzare. Quando Mattia, esausto, tornò dalla sua inebriata fantasia e si accorse di Gangirotto, lasciò il suo sgabello, come trono, e gli andò vicino. Lo abbracciò.
Non dissero niente. Si guardarono negli occhi e fu come un lungo raccontarsi. A tavola, più tardi, parlarono di tante cose. Mattia lo mise al corrente della sua esperienza nel mondo dei guomenidi dove, per un semplice caso anzi per un errore, aveva avuto modo di ascoltare un’orchestra e la batteria che l’aveva stregato col suo ritmo. Gli disse del suo rientro avventuroso, quando dovette resistere e lottare contro la forza della bacchetta magica di nonno Serasmone e, non ultima cosa, della bacchetta ormai destinata a fare un’altra funzione: quella di dirigere una delle più grandi orchestre, che si andava formando sul cocuzzolo di Fiaccavento. Ogni mago, che non era più mago, aveva il suo strumento suonato magistralmente mentre ancora agiva quella energia, che già si stava esaurendo. Di questo si era accorto anche Gangirotto, ma come tutti i fiaccaventesi neanche lui dava importanza: a nulla serviva la magia se non dava, assieme alle altre cose, anche la musica. Volle provare a suonare. Scelse un violino perché i violini erano i più numerosi. Fu Sicarana che gli offrì il suo convinta che, da parte di Gangirotto, le sarebbe stata riservata qualche attenzione in più. Non ebbe difficoltà, anzi fu tanto bravo da potersi unire agli altri nell’orchestra, occupando il posto di primo violino. I giorni avano. Gangirotto aveva quasi dimenticato quello che era lo scopo della sua visita a Serasmone. Ma il pensiero tornava quando si chiedeva come organizzare a Cutrinello un’orchestra e una banda, completando la vita su quel cocuzzolo, che portava il primato in ogni altra cosa. «Non in tutto» - diceva a se tesso - «se manca la cosa più bella, quella che dà colore alla vita e il piacere di viverla». arono giorni e giorni prima che Gangirotto si ricordasse del dovere, che aveva, di tornare da Bisernino e riferire. Aveva capito la tristezza di Serasmone e l’impossibilità di rimuoverne la causa. Ormai la vita a Fiaccavento non poteva più cambiare.
Certo Serasmone stava assistendo alla fine di un’epoca e all’inizio di un’altra in cui ogni abitante di quel cocuzzolo diventava guomenide. Non avrebbe mai voluto che questo avvenisse con lui; ormai era costretto a cedere e ad assistere all’evolversi della bacchetta, che continuavano a chiamare magica, ma che per lui magica non era più. Aveva provato ad offrirla ad Angilotto che dirigeva l’orchestra, ma ebbe un grosso rifiuto: era ugualmente magica quella che usava lui perché capace di mettere d’accordo numerosi strumenti, suonati da chi ormai viveva per la musica. Vista la splendida fioritura di numerosi compositori e di altrettanto numerosi maestri esecutori, Martinetto aveva aperto una fabbrica di carta da musica. La fabbrica era sorta accanto al liutaio Policanto che sfornava strumenti a corda di ogni genere, con quella perfezione richiesta dai musicisti, orgogliosi di essere detti tali. Tutto era perfettamente organizzato. Tutto dava a Serasmone la certezza che non si sarebbe più potuto tornare indietro, perché il popolo fiaccaventese era ormai diventato un popolo di guomenidi. Diceva spesso Serasmone: «Se la dovranno vedere con tutti i problemi dei guomenidi: malattie, pestilenze, guerre, terrorismo e disastri naturali. Li hanno voluti, ebbene che se li tengano!».
5. Gangirotto e la “Fellinese” Gangirotto era riuscito a cogliere il senso di quel dramma e capiva anche che, a portare la musica a Cutrinello, significava accettare e fare accettare di diventare guomenidi. Se in un primo momento questo pensiero non lo preoccupò considerando le larghe vedute di Bisernino, più tardi, la responsabilità, che sarebbe caduta su di lui, lo lasciò perplesso: senza la sua decisione di portare la musica a Cutrinello tutto questo poteva essere evitato. Restava a lungo pensoso e tormentato da questi pensieri. Lo distoglievano Rapacotta e Sicarana che arrivavano sotto la finestra del suo dormitorio. Lo invitavano ad andare con loro a suonare perché la “Fellinese” diventava
stupenda se c’era l’assolo del suo violino. Fece così are lunghi mesi; ma si dovette decidere. Partì all’alba dopo una notte insonne e dopo averlo detto solo a Mattia, il quale lo salutò col cuore in gola e facendosi promettere che sarebbe tornato non appena, a Cutrinello, avrebbe formato la prima orchestra o anche la prima fanfara. Intanto che si portasse un violino, dono di Acquafredda. Glielo mise a tracolla, appoggiato sulla schiena, nel momento in cui iniziava la discesa, quasi approfittando di quel momento di commozione per il distacco, che lasciò presto spazio a quella perplessità che lo accompagnò lungo tutta la via. «Torna da me col tuo strumento preferito!» - gli aveva detto Mattia. E in un altro momento scherzoso: «Torna con la tua prima fanfara». Ma poi: «Torna con l’orchestra per gareggiare con le nostre esecuzioni più belle». Questo si andava ripetendo Gangirotto, quasi un conforto, lungo la strada che gli sembrò più pesante e più lunga. Mattia gli aveva regalato anche gli stivali nuovi rinforzati da Forgiglione, che ormai batteva sull’incudine a ritmo di musica: gli sarebbero serviti per affrontare i coccodrilli di Cunelotto, se fosse arrivato con la ghignasce e se avesse avuto bisogno di difendersi dai morsi feroci. Come era capitato a lui. Da queste e da tante altre cose, Gangirotto capì che la vita dei fiaccaventesi era improntata all’altruismo e alla cortesia e che nessun segno aveva lasciato la razza dei maghi nei loro comportamenti. Stava scomparendo anche ogni segno esteriore che caratterizzava maghi, maghetti e magoni. La testa di Figafino non girava più come una trottola; gli speroni di Ficcherotto si andavano ridimensionando nel momento in cui faceva squillare le trombe. La cosa che più aveva affascinato Gangirotto era di aver trovato il cavolfiore di Mattia totalmente trasformato in lunghi ricci che gli cadevano sulle spalle e che
egli scuoteva al ritmo delle sue bacchette, canagliesche come lui - diceva Serasmone - perché erano in concorrenza sleale con la sua bacchetta magica. Avevano pure dimenticato come si faceva a intrecciare i baffi, che furono i primi a scomparire. Dicevano: «I baffi lunghi appesantiscono e intralciano i movimenti che devono assecondare l’uso di ogni strumento». Li aveva tagliati Mattia seguito a ruota da Ficcherotto a cui si erano aggiunti Pulidrello, Mirtilampo, Maccaglione, Forgiglione e Poggionetto; lo avevano fatto insieme i due fratelli Guainotto e Tronalotto; tra i più anziani Cherrafatto e Colatutto; si erano aggiunti i cuochi Salsiccione, Culatello e Cannellone che ne avevano capito l’utilità in cucina; lo aveva fatto Magistrone nella sua prosopopea di sapiente; non mancarono i peripatetici, osservatori arguti e aperti alle novità. A tutti si era unito Serasmone, che non se li era fatti radere totalmente: aveva voluto lasciare il segno di quella che era stata la sua grandezza, quasi un ricordo come petalo secco tra le pagine di un libro. I suoi furono gli ultimi baffi particolari sul cocuzzolo di Fiaccavento. Il segno di una razza in estinzione. Dopo di lui non si parlò più di maghi, ma di guomenidi abitanti del villaggio sul cocuzzolo di Fiaccavento. Gangirotto dava un senso alle sue osservazioni e riflessioni mano a mano che si avvicinava a Cutrinello. Non aveva desiderato di imbattersi nella ghignasce né si era fermato ad osservare la vita vuota di Parisotto e dei suoi molituttesi. Non gli importava più sapere né darsi una spiegazione. Tutto era diventato di poca importanza di fronte alla decisione che stava per prendere e alla responsabilità, che se ne assumeva, della vita dei cutrinellesi tutti. Anche della vita di Bisernino, il quale avrebbe visto chiudersi la grande epoca dei maghi; come stava già avvenendo a Serasmone.
6. E tutti gridarono: <
> Gangirotto arrivò a Cutrinello un po’ confuso, anche atterrito dalle sue
conclusioni. Avrebbe dovuto dire a Bisernino: «Basta! Hai finito di essere un re mago. Dovrai rinunciare alla magia della tua bacchetta e accettare che altre bacchette si facciano ubbidire: quelle che Serasmone chiama canagliesche, pur avendole accettate». Infatti, anche se con momenti di tristezza, Serasmone aveva accettato la cosa perché aveva permesso il formarsi di un’orchestra e mandato tra i guomenidi Figafino - diceva - per farlo curare e guarire. Ma poi era tornato col pianoforte. Se il grande mago avesse voluto far continuare la tradizione e assicurare ai suoi discendenti quella potenza spesso cattiva, ma pur sempre potenza, si sarebbe potuto opporre: usando la bacchetta poteva annullare, nei fiaccaventesi, ogni volontà di accogliere le novità. In realtà Serasmone aveva un fondo di bontà e le sue scorribande, tra i guomenidi, lo avevano molto avvicinato a quella vita che diceva difficile, ma piena di soddisfazioni: i loro studi e i relativi risultati lo affascinavano. Li ammirava e li apprezzava perché anche loro erano capaci di girare intorno alla luna senza possedere una bacchetta magica. A Gangirotto testa quadra, non era sfuggito quel senso di apertura che la vita di Serasmone aveva imboccato. Per Bisernino la cosa poteva essere più facile. Sul cocuzzolo di Cutrinello si conduceva, ormai da anni, una vita molto vicina a quella dei guomenidi. Questo pensiero lo confortava, ma non dimenticava che, adesso, la magia si sarebbe manifestata solo nella creatività del suono e nel mettere assieme centinaia di strumenti, capaci di dare ai maghi quello che non avevano mai avuto: la gioia serena della vita con quella musica, che i guomenidi avevano certamente avuto in dono da un Re, superiore a tutti i re di cui aveva sentito parlare. Su questo si fermava il pensiero di Gangirotto e credette che fosse quanto poteva bastare per essere ascoltato da Bisernino. Arrivò mentre c’era l’S.G.48. Tutti erano andati a vedere o a partecipare. C’erano solo i cuochi indaffarati e preoccupati di fare trovare pronto. Preparavano fiaschetta al forno e lagnacche ai nidi, molto gradite e facili a farsi.
Dell’arrivo di Gangirotto si accorse Fabiolona, che era andata nell’orto a prendere il timo e l’iris con cui usava aromatizzare il vino per Bisernino, ma anche il luppolo e l’eucalipto per quelli che gareggiavano. Alle sue esclamazioni di gioia, Crostatone e Gambinetto lasciarono padelle e cucchiaioni per andargli incontro. Lo festeggiarono. Ci furono anche per lui bicchieroni di menta e anice che cancellarono ogni segno di affaticamento se non di stanchezza, che si potesse notare sul suo viso. Si accorsero del suo violino. Ascoltarono. Furono i primi ad essere conquistati dalla musica; con loro anche gli sguatteri e gli aiutanti cuochi che fossero. Suonarono sui coperchi coi mestoli e, battendo su pentole di diversa dimensione, fecero ritmo. Gangirotto capì che a Cutrinello la fanfara si era già formata, anche se mancavano le trombe e i tromboni. Non la smisero fino a quando non arrivarono dall’S.G.48. E fino a quando qualcuno non reclamò anche le minusaglie allo zafferano. Bisernino ascoltò con una certa curiosità quello che succedeva in cucina. Sorrise. Pensò che i cuochi festeggiassero i vincitori e volle dare ascolto solo ai “machella” che da ogni parte si alzavano, unendosi agli altri gridi di spensieratezza sportiva. Ma quando si accorse di Gangirotto assunse una espressione di domanda. Il nipote prediletto gli si presentò con in mano il violino e gliel’offrì come dono che gli veniva dalla terra dove il suo fratellone Serasmone viveva con i suoi sudditi. Bisernino accettò il dono e cercò di capire cosa fosse. Gangirotto lo suonò, eseguendo quello che era diventato il suo cavallo di battaglia: la “Fellinese”; un brano che esigeva l’assolo nel contesto di una sinfonia che, a Fiaccavento, solevano suonare, tutti i giorni, come pezzo forte.
Bisernino ascoltò. Poi volle prendere in mano lo strumento e lo volle suonare. Certamente per quella energia magica, ma forse perché doveva accadere, Bisernino suonò ripetendo la “Fellinese”. Bisernino sapeva già suonare. Quando seppe, da Gangirotto, quello che era successo a Serasmone rimase pensoso e preoccupato. Si pose subito il dilemma: accettare di accogliere la musica dei guomenidi, divulgarla, assecondare che ogni tipo di strumento arrivasse a Cutrinello; oppure conservare e difendere il potere della loro bacchetta e le mille possibilità di un popolo che si sentiva già grande e potente, capace di fare in un niente quello che i guomenidi potevano avere dopo anni di studio e di ricerca? Ma si chiese ancora: «A questo punto possiamo fare a meno di quelle nuove sensazioni che dà la musica?». Riunì l’assemblea dei notabili. Volle che prendessero parte i magoncelli tutti, specie i candidati alla successione. Volle che il popolo ascoltasse quello che avrebbero detto perché ognuno si rendesse conto delle eventuali decisioni. In Bisernino c’era quel senso democratico, che lo aveva aiutato a governare e a raggiungere quel progresso, di cui i cutrinellesi andavano così tanto orgogliosi. Tra il sì e il no; tra il pro e il contro arono lunghi giorni in assemblea e ogni altra cosa fu trascurata. Fermo l’S.G. 48. Fermo e chiuso l’ippodromo. Chiusi i campi dove una qualsiasi palla o sfera di cuoio o di altro dominava da regina. Chiuse le sale dove ricerca e sperimentazione facevano invidia a qualsiasi guomenide. Solo in cucina si lavorava quel tanto che si rendeva necessario; ma i cuochi facevano pure i turni. La conclusione di lunghe discussioni fu un solo grido: «Musica!». Musica alla maniera dei guomenidi. Strumenti musicali alla maniera dei guomenidi: dall’arpa al flicorno; dalla tromba al violino; dalla grancassa ai piatti; dai pifferi alle campane. Vita difficile dei guomenidi, ma con l’animo pieno della loro musica. Gridarono tutti: «Urrà! Urrà!».
Quando l’assemblea fu dichiarata chiusa, Bisernino pianse. Gangirotto disse che quelle erano lacrime di felicità. Ricordò le lacrime di Serasmone e capì che anche quelle di Bisernino erano lacrime preziose. Ebbero il loro da fare. Alcuni partirono per la terra dei guomenidi autorizzati a comprare strumenti musicali, i più vari; altri, e furono i più numerosi, si diressero sul cocuzzolo di Fiaccavento per imparare e per avere, dal liutaio Policanto, quanti più strumenti possibile. Da Mattia e da Figafino ebbero lezioni di composizione e di arrangiamenti. Martinetto lavorò giorno e notte perché, a Cutrinello, avessero carta da musica quanto più pensassero necessaria. ò poco e Cutrinello ebbe la sua prima orchestra sinfonica, che trovò posto in una delle numerose sale. Ebbe una banda, che suonò in piazza tutte le sere. Ebbe la fanfara, che percorreva, in tutte le ore del giorno, le strade e le stradine del cocuzzolo di Cutrinello portandosi dietro un lungo codazzo di magoncelli, che magoncelli non erano più. A differenza di quanto era accaduto a Fiaccavento, Volpinetto, Cavicotto e Gangirotto accettarono di comandare l’orchestra con quella bacchetta che Bisernino chiamava sempre magica. Perché non litigassero tra loro Bisernino stabilì che la usassero a turno: se la scambiavano a fine stagione; fino a quando il nonnone non mise in atto le sue ultime energie di mago e, con la sua personalissima “fataspatarenta”, triplicò la bacchetta contesa. La parola magica usata da Bisernino era il frutto di lunghi studi fatti a Cutrinello da filosofi, scienziati e letterati insieme. Avevano scoperto la parola con la quale Anapìas e Anphinomos erano riusciti a fermare il fuoco del loro vulcano e a salvare gli anziani genitori: era una parola che esprimeva amore, generosità, altruismo ed eroismo. Filosofi e letterati la consegnarono a Bisernino che seppe farne buon uso. Anche per lui “fataspatarenta” significò amore ed altruismo. Le tre bacchette furono perfettamente uguali l’una all’altra e ognuno ebbe la sua.
I tre nipotoni di Bisernino, i tre prediletti, diventarono famosi. Poiché ci fu il suo assenso ogni traccia esterna che caratterizzava l’essere mago scomparve in un tempo molto breve. Sempre per volontà di Bisernino ogni altra attività fu mantenuta. Cutrinello tenne ancora il primato culturale. Si disse, nel mondo dei guomenidi, che la città di Cutrinello offriva ai giovani la possibilità di una educazione completa. Fu così che le famiglie più facoltose mandarono i loro rampolli a conseguire una laurea o un diploma, che permettesse loro di compiere grandi cose; addirittura anche di governare. A Cutrinello ogni attività continuò con ritmo uguale a quello che c’era prima. Avevano sempre avuto voglia di fare bene il loro lavoro e ciascuno mantenne la sua prerogativa, continuando la specializzazione spontaneamente scelta. Adesso si aggiungeva la musica e il saper suonare gli strumenti. Molti lo fecero con perfezione professionale, molti altri con carattere dilettantistico, ma sempre a un livello tale da permettere ad ognuno di poter suonare nell’orchestra o nella banda o nella fanfara o - ed erano i prescelti - le campane piccole e grandi arrivate a Cutrinello e istallate su alti torrioni da cui mandavano la loro voce. Da allora la tromba, tutte le mattine, dava il via alla operosa giornata dei Cutrinellesi. Chi suonava la tromba era Maicollone il numero uno della S.G.48.
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- capitolo quarto Farinottocapocotto
1. Maicollone , Gensianello e le loro trombe Sul cocuzzolo di Cunelotto la cosa fu più difficile e la trasformazione dei maghi in guomenidi, che poi sempre abitarono quei luoghi, volle tempi più lunghi. La colpa fu dei coccodrilli. A Cunelotto stettero ad ascoltare gli squilli che Maicollone faceva riecheggiare al sorgere del sole. Senza sapere il perché cedettero alla tentazione di chiedere cosa significasse quel suono, che dava il movimento anche alla loro giornata. Quello che i cunelottesi facevano aveva sempre carattere di difesa, di prevenzione e, come punto di partenza e di arrivo: la ghignasce. Tuttavia, si ritrovavano, a gruppi, sullo spuntone di roccia che significava l’affaccio nella vallata, da dove si poteva anche vedere un gruppo di case di Cutrinello e perfino uno scorcio del castello di Bisernino. Dal torrione più alto partivano le note di uno squillo limpido, che andava lontano, dopo essere arrivato nel più remoto angolo di Cutrinello e sullo spuntone di Cunelotto. Dall’altro lato del castello, allo squillo di Maicollone subentrava quello di Genzianello con le modulazioni sapienti, quasi un dialogo fra i due fino a quando non si esauriva quel dire che ormai tutti capivano. Da questa voce furono affascinati i cunelottesi. Quando allo squillo delle trombe si aggiunse anche il suono delle campane, re Verrinello decise di mandare a Cutrinello una Commissione perché si rendessero conto di quelle novità, da cui si sentivano affascinati. Verrinello voleva che vedessero da vicino le campane: quelle piccole e ciarliere, che sembravano raccontare chi sa che cosa, ma anche quelle dal suono solenne e fascinoso. Nessuno aveva detto: «Portiamo quel suono anche qui da noi!» - ma tutti lo avevano pensato e sperato. Per attuare la missione stabilirono un tempo lontano dalla ghignasce. Quelli che ne fecero parte furono scelti da Verrinello in persona e tutti insieme scesero a valle guardinghi e paurosi.
2. Ghignasce e coccodrilli I coccodrilli stavano vivendo il loro momento di tranquillità e li lasciarono are guardandoli con una certa curiosità, unita al loro bisogno e infinito desiderio di partecipare a quella vita negata. Tutti i coccodrilli conoscevano la loro storia. La sentivano appena nati dal più anziano, che inculcava l’odio contro la razza dei maghi, a cui anticamente appartenevano e che adesso guardavano con invidia e nello stesso tempo disprezzo. Lo stesso disprezzo i cunelottesi lo nutrivano per i coccodrilli, che infestavano le pendici del loro bel cocuzzolo. Li dicevano sgraziati, voraci, pericolosi e inutili. Il coccodrillo Verdirone faceva da portavoce, anche nel tempo delle proteste, per quelle fauci meno grandi, che gli permettevano di farsi capire. Quel giorno avvicinò mago Ferinato, ultimo del gruppo e riuscì a farsi dire quale compito avesse la lunga comitiva, che si snodava silenziosa e, con stivaloni, attraversava i fiumi. Verdirone ascoltò con interesse, così sembrò in un primo momento, ma poi si fece una risata e sghignazzò: «Poveri illusi. Dovrete fare prima i conti con noi, maghi reietti. Continueremo a chiedere e a far valere i nostri diritti. Un giorno riusciremo a liberarci da quella maledizione che ci tiene prigionieri in un corpo che fa paura agli stessi maghi». Il lungo brontolare di Verdirone e le sue minacce non furono ascoltate da tutti quelli che facevano parte della spedizione. Ebbe modo di udirle solo mago Ferinato che lo guardò bieco come se volesse dirgli: «Ce la verdemo!». Verrinello aveva scelto i membri della commissione tenendo presente le capacità singole di prontezza e di astuzia, ma anche di preparazione e conoscenza. In tutti c’era il desiderio e la speranza di porre fine alla ghignasce con qualsiasi mezzo.
Comandava la comitiva mago Citri che era spavaldo e ardito; lo seguivano Panci, Blocco, Aito e Stampi, che avevano accanto i rispettivi aiutanti e consiglieri: Cilo, Notturnino, Nottecola e Rottocela. Nottecola era il più bravo ad affrontare i fiumi. Aveva studiato il loro percorso, che si snodava in maniera complicata in più punti, rappresentando un pericolo costante e un attentato alla loro incolumità. Nessuno mai era morto per la ghignasce né per i morsi dei coccodrilli - erano pur maghi - ma tutti quelli che, per errore, ci capitavano dovevano lottare per vincere e non era raro il caso che i meno prudenti ricevessero morsi e morsi da dover rinunciare per giorni e giorni alla loro consueta attività: era la loro maledizione quella di dover subire ed essere arrimazzati dalla ghignasce. Mago Nottecola aveva sperato di poter cambiare, con l’aiuto di altri studiosi, il corso dei fiumi, specie dell’ultimo, il più pericoloso e il più difficile. I fiumi, che normalmente fanno scorrere le loro acque dall’alto in basso, su per il monte di Cunelotto scorrevano in senso contrario: partendo dal basso e girando intorno; sicché i pericoli, che ogni fiume presentava, erano uguali in ogni punto o angolo del cocuzzolo. Mago Nottecola era andato anche tra i guomenidi per avere la possibilità di allargare le sue conoscenze in materia, ma era sempre tornato senza avere risolto il problema. L’ingegneria idraulica, presso i guomenidi, non aveva avuto necessità di correggere il corso di un fiume, per loro, inesistente: vedere scorrere i fiumi da sotto in su, come avveniva sulla montagna di Cunelotto, era impossibile per quella legge di gravità che è parte integrante della vita stessa. Gli studiosi guomenidi non si erano mai posti un simile problema. Il percorso dei fiumi di Cunelotto era l’effetto di una maledizione, che aveva capovolto i termini, inventando nuovi pericoli. Ogni o accidentato metteva in difficoltà i maghi di Cunelotto e chiunque si fosse avventurato durante la ghignasce: l’acqua dei fiumi arrivava fin sopra lo spiazzo del castello, invadeva le case meno protette e travolgeva distruggendo ogni cosa. Era il momento in cui i coccodrilli vagavano per strade e stradoni, costringendo i cunelottesi nei dormitori fino a quando tutto non tornava normale.
Mago Rottocela, invece, era colui che studiava i coccodrilli nella loro razza, nei loro comportamenti e soprattutto cercava di sapere che cosa il re antenato Farinottocapocotto - avesse sbagliato perché mago Ferrauto non potesse essere più liberato dall’essere coccodrillo e, con lui, tutti i suoi discendenti. Mai nessuno aveva potuto toccare la bacchetta magica senza essere punito. Anche quella volta Farinottocapocotto aveva creduto di difendere questa sua prerogativa di possesso trasformando quel mago imprudente in uccellaccio; ma, cosa strana e non voluta, quella volta l’uccellaccio aveva ceduto il posto a un coccodrillo. Accadde che il mago magone, re Farinottocapocotto, dimenticasse la filastrocca che era la formula magica di cui andava tanto orgoglioso. La formula magica era del tutto personale perché inventata dal capoccione di turno. Farinottocapocotto, prepotente e dispettoso, aveva voluto che nessuno la conoscesse. Fu così che, avendo la testa completamente fusa da una terribile cotta , non fu più capace di ripeterla né poté avere aiuto dai maghi che formavano la sua corte. La cosa continuò anche dopo avere ottenuto di sposare la bella maga Blondinotta che, però, non fu capace di fargli recuperare la testa che aveva perso. Farinottocapocotto non aveva voluto neanche chiedersi perché fosse avvenuto quell’errore; godette di potersi adirare contro Ferrauto. Lo definì arrogante e si rifiutò di trattarlo con i soliti intrugli di serpenti. Agli intrugli avrebbe dovuto aggiungere altre sostanze magoinventate, visto che la cosa era quanto mai difficile per avere sbagliato quello che, solo lui, sapeva e conosceva. Si rifiutò di fare i tentativi di obbligo, necessari a ridargli figura e consistenza di mago, e lo lasciò vagare per i campi. Mago Ferrauto vagò e trovò rifugio nell’acqua dell’unico fiume che scendeva dall’unica sorgente del cocuzzolo di Cunelotto. Poiché il desiderio di mago Ferrauto era quello di tornare ad avere la sua forma primitiva, tentò di farcela da solo. Gli fu impossibile, ma ottenne, dal magico potere che gli apparteneva, di farsi
portare in cima dallo stesso fiume che, da quel momento, incominciò a scorrere dal basso verso l’alto. Mago Ferrauto si adirò. Diventò feroce contro quelli che erano della sua stessa razza. Poi si rassegnò a vedere nascere i suoi figli coccodrilli come lui. Ma ottenne di potere tramandare anche l’odio che nutriva contro Farinottocapocotto e i cunelottesi. Quel re, spaccone e ignorante, non poteva sapere a quale destino sarebbe andato incontro assieme a tutti i suoi sudditi. Quando lo seppe era troppo tardi perché la mano della vendetta era già in azione. Il primo a pagarne l’errore fu lui, perché assistette impotente alla prima ghignasce, durante la quale nessuna forza, neanche latente, della sua bacchetta magica poté agire. Si sdoppiò il fiume. Ne sgorgò un terzo e tutti e tre furono tortuosi e insidiosi. Li videro scorrere all’incontrario; li videro popolarsi di coccodrilli che nacquero di ogni dimensione, di ogni forma, con fauci enormi, con fauci meno enormi; astuti e furbi da fare dispetti e tendere insidie ai maghi di Cunelotto, che si rifiutavano di considerarli maghi come loro. A memoria di quanto era avvenuto scolpirono sul frontespizio del castello una filastrocca, che non era quella di Farinottocapocotto perché quella non se la ricordò più; ma ne scolpirono una che potesse ricordare l’errore che, da quel momento, pagarono tutti dai più vecchi ai più giovani, dai più capaci ai meno capaci. “Gulantulavenelanta”: così suonava la filastrocca e la ripetevano quando volevano intendersi o accennare alla sorte difficile toccata a tutti i cunelottesi. Cilo e Notturnino, che facevano parte della commissione come esperti, erano i maghi tenuti in considerazione per la loro capacità di colloquiare e di capire il ‘dire’ elegante e raffinato, che avrebbero ascoltato a Cutrinello. Affiancava il capo della missione, mago Citrino, che aveva il compito di omaggiare re Bisernino da parte del fratellone Verrinello. Gli altri maghi: Panci, Blocco, Aito e Stampi avevano il compito di dare man forte alla spedizione.
Arrivarono nascondendo i segni della tensione accumulata nella discesa di Cunelotto e riuscirono a farsi vedere sereni e riposati. Tutti, nel paese della Coronide, sapevano, ma nessuno conosceva il loro vero dramma, se non chi fosse incappato nella ghignasce. I maghi ricevevano l’ordine preciso di non parlarne e, tanto meno, di lamentarsi con chi non fosse di Cunelotto e, quindi, non avesse la capacità di capire. Era un ordine che era venuto da Farinottocapocotto perché il re, che fu in seguito definito basardo, sperò che nessuno sapesse e quindi disapprovasse quello che aveva fatto. Quello stesso ordine venne tramandato da re a re e sempre rispettato da maghi, maghetti e magoni.
3. Le campane di Cutrinello Bisernino li accolse con la sua proverbiale cordialità: erano i benvenuti; qualsiasi cosa li avesse spinti a quella visita insolita. Ne capi a volo il motivo. Li guidò accompagnato da Felicetto, cerimoniere, attraverso le sale da concerto. Fece loro vedere ogni strumento che fosse grande o piccolo, a tromba o a corda. Di ognuno ne fece sentire quel suono limpido, la cui leggerezza riesce ad arrivare dentro e toccare le corde più intime dell’individuo, che egli considerava il più perfetto e il più nobile strumento musicale che ci fosse. Davanti ai pennoni, sui quali si potevano vedere le campane, si fermarono a lungo. Le sentirono suonare e ascoltarono, commossi, quel suono pieno e grave, allegro e petulante. Ne vollero conoscere la storia e Bisernino raccontò: «Le campane furono fatte, come gli altri strumenti musicali, dai guomenidi, geniali e creativi in ogni loro realizzazione. Anche in questo raggiunsero una perfezione invidiabile. Le fecero sin da quando la loro civiltà era appena agli inizi.
Accadde quando Prometeo, un vecchio guomenide, trovò un pezzo di roccia che, sfregata con se stessa, sprigionò scintille capaci di dare fuoco al suo giaciglio di erba secca. La chiamò pietra focaia e si accorse di avere trovato come ottenere una cosa paurosa e stupenda: il fuoco. Quando ne capirono l’utilità tutti esultarono. Nella loro grande generosità ne vollero fare partecipi gli altri guomenidi, che vivevano lontano. Cercarono un mezzo per poterlo comunicare al più presto. Pensarono di forgiare qualcosa che producesse un suono ampio e lungo: una campana. Portarono la prima campana in cima a un alto monte e la suonarono. Ci furono lunghi rintocchi di chiamata. Li udirono da ogni dove in lontananza e tutti cedettero a quel suono coinvolgente, che riusciva a scuoterli e a fare arrivare nell’intimo sensazioni di domande e di risposte. Accorsero. Si recarono a vedere e a sapere. Ascoltarono la novità. Altre campane forgiarono ancora i guomenidi chiamati e chiamarono gli altri, chiudendo così gli anelli di una catena, che si completò quando tutti seppero della pietra focaia, di Prometeo, che l’aveva trovata e sperimentata. Tutti la usarono con lo stato d’animo di una conquista. Così, imboccarono la via del progresso salendo quel primo gradino costituito dalla scoperta del fuoco. Non sempre e non tutto funzionò come si vorrebbe: il fuoco utile si dimostrò altrettanto pericoloso. Lo stesso Prometeo, ardito e sicuro, ebbe la sfortuna di ustionarsi. I guomenidi non conoscevano ancora le medicine e Prometeo, ustionato, restò per tutta la vita fuori, all’aperto, in cerca di quella frescura che lo potesse ristorare. Si tuffava nei fiumi; se ne stava sotto la pioggia notte e giorno, quando cadeva. Era l’unico conforto alle scottature, che gli coprivano il corpo. Tutte le sere saliva sul cocuzzolo del monte e suonava la campana, che gli ricordava quella sua scoperta, provvidenziale anche se occasionale; poi si stendeva sulla roccia a prendere il fresco della notte e a guardare il cielo. Morì molto tempo dopo. Per una intera vita si era chiesto il perché di quella sua sofferenza continua e infinita. Solo da vecchio, diventato filosofo, credette di essersi dato una risposta quando diceva, ripetendo, come un suo intercalare: «Sotto a chi tocca. E non ti
sentire eroe: il tuo è solo un dovere». Rimasero in silenzio. A lungo. Non lo dissero, ma ognuno di loro, proiettandosi nel futuro, si sentì eroe. «Le nostre campane» - continuò Bisernino - «furono fatte da Forgiglione a Fiaccavento, ma anche noi siamo in grado di farle con la stessa precisione e sonorità». Aveva ripreso voce. Con uno sforzo aveva cancellato quel poco di orgoglio, che traspariva dalle sue parole e che avrebbe offuscato la sua grande opera innovativa di civilizzazione. Nel pomeriggio Gangirotto li coinvolse con un concerto e Volpinetto fece esibire in piazza la sua banda durante tutta la serata. L’indomani si svegliarono con gli squilli di tromba e videro e udirono una fanfara di ottoni che ava per le strade, mettendo allegria negli animi. Avevano notato che nessun segno esteriore era rimasto, che potesse fare classificare i cittadini di Cutrinello come maghi. Di questo ne parlarono a lungo con Bisernino, il quale fece loro capire il vero significato di quella scelta: fu una scelta che li portò a essere come i guomenidi, che da sempre popolavano il mondo. Nessun guomenide avrebbe più avuto paura di loro, maghi; nessuno più li avrebbe sfuggiti. Avrebbero collaborato a che il mondo tutto andasse avanti, senza chiedersi dove andasse. Bisernino parlò pure di Serasmone e di Fiaccavento tutta. Rinunziare ad essere maghi era stata una decisione doppiamente difficile, per loro, perché primi a farlo. Erano riusciti a capirne la validità, anche considerando i lati negativi, rappresentati dai problemi numerosi e vari dei guomenidi. Problemi che sarebbero stati anche di quella nuova razza, che era la loro. «Saremo bravi» - disse Bisernino - «e ci impegneremo ad aiutarli, se dovesse essere necessario. Insieme cancelleremo sulla faccia della Terra i soprusi causa
di fame, pestilenze e guerre».
4. Musica o magia? I cunelottesi tornarono da re Verrinello con l’animo pieno di speranza, ma con la testa confusa dalle tante idee che si accavallavano; con i pro e i contro di ogni eventuale decisione, ma soprattutto col loro grande problema di sempre: i coccodrilli. Adesso più che mai si rendeva necessario liberare Cunelotto da quei mostri e allontanare per sempre la ghignasce. Questi pensieri si mescolavano e si isolavano, rotavano, girando con gli altri pensieri. Si fermavano sulla necessità di accogliere musica e strumenti musicali nella loro terra. Ormai tutto questo significava civiltà e progresso. Avevano capito la necessità di una evoluzione della loro razza, anche se alla parola evoluzione si sostituiva con una certa insistenza la parola estinzione. Non fu difficile farlo capire a Verrinello. Ai baffi intrecciati, alla barba voluminosa e ad alcuni segni particolari, personali, ci avrebbero rinunziato quasi tutti volentieri; ma rinunziare alle facoltà magiche diventava un discorso più importante. Non ebbero la possibilità di fermarsi a lungo a pensare neanche su questo argomento che, molti di loro, consideravano di una importanza enorme, perché le loro decisioni dovevano essere prese nei momenti liberi e lontani dal tempo della ghignasce. Stabilirono pertanto di inviare un gruppo di studiosi tra i guomenidi, perché approfondissero l’argomento e si arrivasse ad una conclusione definitiva. Rottocela capeggiò il gruppo assieme a Nottecola; con loro partirono Panci, Blocco, Aito, Stampo, Cilo e Notturnino. Si unì, a valle, il gruppo di Cutrinello capeggiato dal professore Vaporoso, che ebbe accanto i suoi assistenti e altri nomi famosi dell’Università di Cutrinello: Marconetto e Golatutto.
Così tanto numerosi non potevano sfuggire all’attenzione astuta di Verdirone, che restò pensoso e preoccupato. Ne fece partecipi tutti gli altri coccodrilli che si posero subito in una posizione di difesa, anche se alcuni vollero sperare che si arrivasse a una soluzione positiva, che permettesse loro una vita come quella che si conduceva nei paesi della Coronide. Per i cutrinellesi non ci furono problemi quando si dovettero unire ai guomenidi nei congressi o seguire gruppi di studi su argomenti scientifici. Gli altri, quelli che ancora erano maghi, usarono le loro capacità magiche e tutti insieme lavorarono con un solo scopo. Andarono nelle più lontane città del mondo, famose e rinomate come centro di studi e di ricerca. Non perdettero nessuna riunione o assemblea che fosse, dove avevano l’opportunità di ascoltare, ma soprattutto di proporre eventuale soluzione al loro problema. Nessuno degli scienziati guomenidi seppe però dire come ridare sagoma di mago ai coccodrilli. Presso i guomenidi la magia era praticata per gioco; non aveva ufficialità e quando Rottocela o Vaporoso parlarono di pratiche speciali e particolari ne ebbero, come risposta, un sorriso di compatimento. Per i guomenidi, magia significava giochi ottici e baraonde di corde o di foulards, oppure significava giostrare con le carte da gioco e far finta di indovinarle; ma niente di più. Fare diventare un guomenide coccodrillo oppure un coccodrillo guomenide era solo un pensiero assurdo. La delusione non cancellò, in loro, il pensiero e la necessità di dover trovare una soluzione al problema. Qualcosa ruotò nella mente di Rottocela che decise di tornare a Cunelotto e tentare un’altra via. Con Verrinello a capo, arono giornate e nottate a commentare le varie proposte che tutti avevano la libertà di fare. Sempre chiusi nel castello, nelle sale ovattate, se ne stavano al riparo dalla ghignasce in agguato e ancora al riparo dalle orecchie indiscrete di Verdirone.
Sarà stata la stanchezza o la necessità di arrivare a una conclusione che il professore Vaporoso, con i suoi assistenti, volle che Maicollone e Genzianello arrivassero a Cunelotto con le loro trombe e dessero il via a quel programma che fu giudicato il migliore.
5. La fine della ghignasce Tutti i maghi di Cunelotto si dichiararono disponibili a partire, affrontando i relativi pericoli ghignascioti e tornare con uno strumento musicale. Gli strumenti - che dovevano comprare dai guomenidi o quelli che avrebbero avuto da Policanto o da Cerinetto, liutaio di Cutrinello - dovevano essere, in gran parte, grancasse, batterie, tamburi e tamburelli, piatti, acciarini, marranzani e soprattutto campane. Campane grandi e piccole, di ogni altezza, di ogni larghezza, che dessero un suono continuo e lungo. Tali, nel numero, da bordare le strade e le stradine di Cunelotto; ma anche e soprattutto da bordare, come argini, i fiumi: quasi un impedire di lasciare quelle acque ai coccodrilli che, esasperati dalla costrizione e dal suono assordante, avrebbero cercato un posto lontano dove poter vivere la loro vita; senza invidiare la vita dei maghi, coi quali non avevano più nulla in comune da moltissimi anni. I cunelottesi se ne uscirono alla spicciolata senza dare troppo nell’occhio per via di Verdirone furbo e sempre attento. Tornarono dopo qualche tempo con gli strumenti necessari e numerosi. Sempre giostrando tra coccodrilli e ghignasce, li poterono suonare tutti insieme dopo averli sapientemente posizionati. Il fracasso fu tale che i coccodrilli, senza poter dire parola, si ritirarono e si nascosero nelle acque tempestose dei fiumi, pensando che sarebbe ato presto quel frastuono assordante. Quella specie di baraonda non finiva né doveva finire nel programma dei cunelottesi e dei cutrinellesi.
Per tutto quel periodo a Cutrinello non si badò ad altro. Furono solo impegnati a fondere il bronzo per le campane e a dare il turno ai cunelottesi nel suonarle. Tutti suonarono grancasse o campane che fossero. Durò a lungo quello stato di cose. Nessuno aveva sperato che si potesse risolvere presto. Solo Verrinello e Bisernino riuscivano a contare i giorni; gli altri si sentivano storditi dalla musica che non era musica, ma frastuono, così come lo avevano voluto. Si accorsero che i coccodrilli non facevano vedere neanche più la punta della coda, che se ne stavano rintanati e confortati dal fondo melmoso. Non facendosi più vedere neanche la ghignasce irrompeva, lasciando che i suonatori suonassero ininterrottamente. Quando Rottocela e Vaporoso, i due professori che guidavano l’impresa, considerarono queste cose, capirono che dovevano insistere e continuare su quella strada che si stava dimostrando essere quella giusta. arono giorni? Mesi? Anni? Nessuno lo seppe e nessuno lo chiese. Se lo tennero segreto Verrinello e Bisernino i quali capirono che, nella vita, conta solo il risultato e non il tempo impiegato ad ottenerlo. Ci fu un giorno in cui videro le acque dei fiumi ritirarsi. E videro i ciottoli e il fango dei fiumi che andava lentamente asciugandosi. L’unico fiume rimasto riprese a scorrere normalmente, come prima della maledizione e le sue acque scesero a valle senza fare paura. Senza provocare la ghignasce. A Cunelotto la vita rientrò presto nella normalità. Si diedero subito a rinnovare e a ristrutturare le case e gli edifici. Abbellirono la città. Crearono attrazioni di vario genere e, sull’esempio di Cutrinello, sorsero campi da gioco e sale da studio; ma soprattutto sale da concerto e piazze dove si
esibivano le bande. A ricordo della terribile ghignasce fecero sorgere fantastici giuochi d’acqua che diventarono la principale attrazione del luogo. Molti rimasero convinti di essere stati liberati, dalla maledizione, dal suono delle campane e per questo Verrinello fece sorgere due torri gemelle, nel centro della piazza principale, su cui furono installate due enormi campane di bronzo. Quel suono arrivò lontano, a Fiaccavento, e avvolse e riempì anche il cocuzzolo di Molitutto. Cunelotto diventò una zona turistica raffinata ed elegante, dove si recarono vacanzieri di tutto il mondo guomenide, i quali godettero dell’ospitalità di Verrinello, il Re che amava vivere tra la gente. Sul frontespizio del suo castello si continuò a leggere “Gulantulavenelanta”, ma nessuno dei turisti seppe mai, dai cunelottesi, il significato di quelle parole, che facevano parte delle loro vicende storiche: continuavano a volere il divieto di parlarne. Vaporoso, Rottocela e Nottecola ebbero un solo compito: quello di scoprire come la cosa fosse avvenuta e dove fossero andati i coccodrilli di Cunelotto. Non fu facile neanche per gli scienziati della Coronide tutta. Ebbero bisogno dell’aiuto dello speleologo guomenide Rottetempo, il quale aveva esplorato caverne e caverne, in luoghi vicini e in luoghi lontani. Rottetempo indicò, disegnò e fece vedere il aggio sotterraneo che i coccodrilli, impazziti, potevano aver percorso, per andare lontano da quel frastuono. Poiché desiderosi di trovare pace, avevano, certamente, scelto di fermarsi nelle acque profonde e tranquille di uno dei più grandi fiumi dell’Africa: il Nilo.
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- capitolo quinto La gheta e la ganta
1. Parisotto e la gaitiana Quel frastuono, sulle falde e sul cocuzzolo di Cunelotto, non servì solo ad allontanare i coccodrilli, ma anche a svegliare i maghi sonnolenti di Molitutto. Nessuno di loro poté capire subito quello che stava avvenendo; solo che maghi, maghetti e magoni furono spinti a uscire all’aria aperta , dove la frescura ristorava le loro menti non più abituate a vivere una giornata operosa. Qualcuno, sentendosi disturbato tentava di dire: «Dormite, gente, dormite. Non date retta al frastuono che arriva da lontano». E qualche altro: «Non rinunziate al vostro dolce far nulla, ve ne pentirete!». Dai raggi del sole che riscaldavano quella cima di monte, dove la vegetazione spontanea faceva pensare ad un angolo del mondo in cui vivere non significava lavorare, loro capivano che era un altro giorno. Allora i più lasciavano il letto, diventato giaciglio, ma solo per buttarsi in un angolo e poter dire: «Ancora sto vivendo». Saziare la poca fame era cosa facile, perché la gaitiana era a portata di mano ed era l’unica cosa che desiderassero. L’aveva scoperta re Parisotto quando ancora nessuno sapeva che poteva essere consumata anche cruda e che poteva rappresentare un cibo che alimentava con poco. Da quel momento nessuno più aveva lavorato, nessuno più si era voluto recare tra i guomenidi per compiere le spacconate e tornare con i trofei che significavano bravura, competizione e desiderio di candidarsi come capoccione di turno. Nessuno dei magoncelli, che venivano su rachitici e sparuti in viso, ci teneva ad occupare il posto di comando del proprio paese e porsi alla guida. Quando Parisotto capì che era inutile pensare alla successione e che non poteva scegliere perché nessuno dei magoncelli di Molitutto ne era all’altezza, si turbò profondamente e a lungo meditò, recitando anche il mea culpa. Si convinse che
non era facile badare e accontentare centocinque donne che lo tormentavano con le loro pretese assurde. Allora volle restare chiuso a meditare e lo fece per un periodo di tempo abbastanza lungo, durante il quale il privarsi della gaitiana lo portò a capire tante cose. Accettò solo la compagnia di Gavinetta, la ventiduesima delle mogli che si offrì ad ascoltare i suoi soliloqui in silenzio. Gavinetta aveva dimostrato di capire il suo turbamento rendendosi conto del pericolo che correvano. «Portami con te, Parisotto, io ti aiuterò. Insieme troveremo la strada per uscirne e ridare al nostro regno, la nostra bella terra, lo splendore di prima» - così gli diceva nei momenti in cui la tristezza e le preoccupazioni soverchiavano . La volle con sé Parisotto. La chiamò e se la tenne vicina: «Aiutami ,Gavinetta» le diceva - «aiutami a fare di tante mie donne un mezzo che salva e non un danno». Fu il momento più proficuo della sua vita, perché quella sua volontà e quelle sue riflessioni lo fecero arrivare ad una conclusione. La cosa non fu facile, perché anche lui aveva bisogno di liberarsi dalla sua sonnolenza. Capì solo più tardi che le centocinque mogli avrebbero salvato con la sua anche la vita dei molituttesi. Infatti, quelli che andavano in piazza ad ascoltare e a farsi prendere da quel ritmo, furono principalmente le centocinque mogli di Parisotto. Mancava Gavinetta, assidua nel suo compito di consigliera, ma nessuno si accorgeva. Uscivano alla spicciolata o a gruppi. Si sparpagliavano per le vie. Si affacciavano agli spuntoni a guardare oltre la valle e a ricevere l’aria, ricca di suoni, che partivano da Cunelotto e arrivavano a Molitutto, attutiti dalla distanza e resi più percepibili da orecchie abituate al silenzio.
Quella musica compì un primo miracolo, perché non ebbero più tempo di litigare per il posto che, a tavola, significava preferenza, né guardarono con invidia il vestito più bello o il colore del fiocco che tutte portavano tra i capelli. Si attardavano sugli spuntoni e lasciavano fare. Da lì non si muovevano. Spesso, anche se chiamate più volte, si rifiutavano di allontanarsi. Per questo, Parisotto, non più tanto impegnato a mettere pace, sentì che l’energia gli tornava. Allora volle che i sudditi gli fossero vicini nella sua opera di governo, che lentamente riprendeva. Pretese che si svegliassero anche loro. «Al lavoro, al lavoro!» - faceva gridare tutte le mattine dal suo banditore. E il banditore girava per le strade e le stradine, svegliando, esortando i più molli e sonnolenti a muoversi, a guardarsi intorno e rendersi utili. La sua mente riacquistava la capacità di pensare, intanto che le numerose mogli lo lasciavano tranquillo, mentre che erano prese da quella musica che, tuttavia, ancora definivano assordante. Ci fu anche chi scoprì che altra musica, ugualmente travolgente, arrivava sullo spuntone che guardava Fiaccavento. Allora si recarono anche da quel lato. Trovarono più spazio e altra possibilità di stare lontane tra loro; trovarono meno occasioni per guardarsi in cagnesco e accapigliarsi. «Sentite ?» - si dicevano vociando - «A Fiaccavento! A Fiaccavento!» - e accorrevano. In seguito Parisotto restò sempre grato ai Cunelottesi e ai Fiaccaventesi perché, in quel lasso di tempo, si accorse e considerò le conseguenze della gaitiana. Volle porre rimedio. Ce la mise tutta e, quando le sue idee si fecero più chiare, incoraggiò altre coltivazioni e ordinò, in maniera drastica, che la gaitiana venisse usata solo da chi, sofferente, avesse necessità di dormire.
Non tutti ubbidirono subito, ma incominciarono a mettere ordine nella loro vita. Intanto i suoni, che arrivavano da Cunelotto, li distraevano dal consueto impegno, attraendoli e soggiogandoli, anche se con uno stordimento che impediva loro il ragionamento. Quella che arrivava da Fiaccavento era una musica che induceva giovani e giovincelli a ballare. Seguivano quel ritmo senza rendersene conto: ed erano goffi e molli. Poiché la grazia non può andare d’accordo con il sonno, essere sgraziati era normale. Tuttavia avano le serate tentando di fare quello che sentivano di poter fare, senza però averne i mezzi. A farlo erano soprattutto le mogli di Parisotto. C’era in loro, latente, quella grazia, innata nella donna, che si raffina e si perfeziona con il desiderio di apparire e di suscitare ammirazione. Tutto diventò più leggero ed ogni cosa fu fatta all’insegna del sorriso e della lusinga. Tutti le vollero imitare. Al sorgere del sole lasciavano i dormitori e andavano sugli spuntoni ad ascoltare le trombe squillare. Non tardarono a capirne il significato e a mettere anche le parole a quel suono modulato. Era Gambalunga, la ventisettesima delle mogli, che si dedicava a verseggiare. Pare che dicessero: «Svegliatevi e danzate; questa è l’ora di darsi da fare. Chi non canta e chi non danza non riempie la sua panza». Così avvenne che i molituttesi poterono scoprire e capire che anche il lavoro, specie quello nuovo accettato a denti stretti, poteva essere piacevole se fatto a suon di musica o ritmando e creando nello stesso tempo. Tutto questo era avvenuto senza che nessuno se ne accorgesse e senza imposizioni. Lo notò Parisotto e credette che fosse arrivato il momento di prendere una decisione.
Convocò il Consiglio. Stentò ad ottenere la presenza dei notabili, che notabili non si sentivano più. Erano ati anni ed anni da che il Consiglio non si riuniva, un po’ per la loro vita sonnolenta, un po’ perché Parisotto era distratto e coinvolto dalle centocinque mogli che non si limitavano a litigare per il primo posto a tavola o per il letto più bello; c’era chi chiedeva regali; chi voleva giocare e pretendeva la sua compagnia o la sua presenza; chi non voleva sentirlo russare; chi non sopportava che tenesse i baffi a collana perché li considerava ingombranti e fastidiosi; chi, addirittura, voleva usare la bacchetta magica, non sapendo che anche Parisotto ne aveva dimenticato la formula. Anche lui aveva la sua formula particolare. La sua natura arrendevole lo aveva portato a depositarla nella mente di mago Torrefatto che custodiva la bacchetta; ma Torrefatto era diventato vecchio, non se la ricordava più. Parisotto ò nottate insonni per potere impostare un’altra filastrocca che fosse formula magica; ma, dalla sua mente logorata, riuscì solo ad avere qualcosa che fu vuota e inefficiente. Tentò di usarla. I risultati furono deludenti, ma fu per un tempo brevissimo perché le cose cambiarono inaspettatamente. Verrinello, Bisernino e Mattia, autorizzato da Serasmone a rappresentarlo, arrivarono insieme a Molitutto. Bisernino aveva convocato i fratelloni per portarli a considerare quella situazione, che si era venuta a creare sul cocuzzolo di Molitutto e attorno a Parisotto. Il quale non dava segni di un energico comando, tanto meno segni di un comando innovativo. «Ascoltate» - aveva detto - «il nostro Parisotto è minacciato di morte dalla gaitiana. Con lui tutti i molituttesi periranno. Quel sonno coinvolge la popolazione tutta e non è escluso che i forti refoli non portino il seme della gaitiana anche da noi, avvelenando le belle terre dei nostri cocuzzoli. È dunque necessario intervenire e cercare di modificare le cose». Avevano stabilito che anche i molituttesi si dovessero evolvere, rinunziando alle facoltà magiche e a ogni forma esteriore del loro essere mago.
Bisernino si era preparato a fare un lungo discorso, ato da Verrinello e, particolarmente, da Mattia che avrebbe portato tutta la sua ione, ormai consolidata da lunghe lotte, per la musica. Niente di tutto questo fu necessario. Non trovarono ostacoli, perché erano già in riunione e si discuteva sull’accogliere quella musica che sentivano da lontano: avevano capito che non potevano più farne a meno. La decisione l’avevano già presa quando si sparse la voce che i re dei cocuzzoli accanto stavano arrivando e non avevano un lungo seguito, né c’era un codazzo di gente come di consueto: erano partiti protetti dall’anonimato perché desiderosi solo di raggiungere lo scopo prefisso. Parisotto seppe dell’arrivo dei fratelloni. Si commosse e pianse perché il suo fisico, diventato debole, era incapace di reagire alla più piccola emozione. Non li vedeva da anni; tuttavia non rimase sorpreso; quasi se l’aspettava. Non persero tempo e l’argomento fu affrontato con decisione. Bisernino, Verrinello e Mattia si dissero disponibili a fornire quanti più strumenti musicali possibile perché a Molitutto non mancasse niente: dalle campane alla batteria, ando per i violini, i violoncelli e contrabbassi; trombe, tromboni e flicorni con clarini e clarinetti.
2. La gheta e la ganta Vennero a Molitutto i maestri concertisti, perché insegnassero a quelli che avevano dormito per una vita. La cosa non fu semplice, ma tutti ebbero una grande volontà di aiutare e di fare. Prime fra tutti le centocinque mogli di Parisotto, che non ebbero più il tempo di pensare ad altro. Mano a mano che ne avevano la possibilità, scelsero lo strumento a loro congeniale e formarono un’orchestra, tutta al femminile, che superò in bravura l’orchestra diretta da Mattia, a Fiaccavento, e quella diretta da Gangirotto, a Cutrinello. La diresse Gattamelata, l’ottava moglie di Parisotto, che suonava il flicorno. Gareggiò con Sensonetta, la dodicesima, che nessuno poté mai superare in
bravura nel suonare il violino. Più tardi la loro fama si allargò in tutto il resto del mondo guomenide. Rianella, la quinta moglie, sottile ed elegante seppe ballare sulla punta dei piedi. Diventò tanto brava da mettere su una scuola dove arrivarono e furono accolti i giovani che si sentivano leggeri ed erano desiderosi di volare come libellule. Cottonetta, la trentesima, bella e vaporosa, insegnò il liscio e vennero da lei a imparare quelli che amavano la polka e la mazurka. Marifù, la settantesima, dallo sguardo birichino e accattivante, insegnò la rumba e la samba. Candemì, la novantanovesima, intelligente e superba, inventò e insegnò due balli che conquistarono il mondo: la gheta e la ganta. Così Molitutto diventò famosa per la numerose scuole che abbracciarono ogni genere di ballo: dal girotondo alla sarabanda. Vanessina, la prima moglie, che Parisotto diceva perigliosa e raffinata, inventò un ballo a cui potevano partecipare, coinvolgendo col girotondo caratteristico e innovativo, un numero notevole di coppie: lo chiamò quadriglia e quadriglia continuarono a chiamarlo i guomenidi, che lo ballarono per chiudere i grandi balli nelle corti principesche e anche qualsiasi altra serata di ballo ata in allegria. Ci furono liutai e liutai; ma la specialità di Molitutto fu rappresentata dalle fisarmoniche che Gamellone seppe fare con una perfezione assoluta e una sonorità ineguagliabile; aprì una scuola e vennero apprendisti per imparare. Da tutto il mondo arrivarono gli amatori a comprare quelle fisarmoniche, che furono dette fisarmoniche Molitutto. Questo avvenne quando ogni forma esteriore di mago era già scomparsa tra i molituttesi e quando anche loro fecero parte di quella nuova razza di guomenidi, che abitarono l’antico regno della Coronide. La storia dei maghi la conobbero, tramandata da padre in figlio, solo gli abitanti dell’antico regno.
Solo loro capirono cosa significasse il monumento che, a memoria magoide, sorgeva nella piazza centrale di Fiaccavento, su cui si leggeva: “A Mattia che fece grande la sua terra”. Lo stesso monumento gli antichi abitanti fecero sorgere nelle piazze centrali di Molitutto, di Cunelotto e di Cutrinello. I guomenidi non seppero mai chi fosse quel Mattia e cosa avesse fatto per rimanere nella storia di quella gente e di quelle che furono tra le più famose città del mondo.
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- capitolo sesto I coccodrilli di Verdirone
1. Verso le acque tranquille di un nuovo fiume E i coccodrilli? Per saperne di più raggiungemmo Rottocela, che si era recato in Egitto per completare i suoi studi sui coccodrilli di Cunelotto, con una intervista a Verdirone. Era riuscito a incontrarlo solo dopo lunghi mesi di paziente attesa, perché Verdirone pensava di dover continuare a mantenere un suo contegnoso disprezzo nei confronti dei cunelottesi. Cedette quando seppe che Rottocela stava scrivendo un libro sulla loro vita e sulle ingiustizie di cui erano stati oggetto. Solo allora raccontò. Gli dimostrò gratitudine per quel lavoro di ricerca, ma non seppe nascondere l’invidia che lo dominava per quell’essere ormai guomenide di Rottocela e di tutti gli altri. Tra i guomenidi, non si vedeva più circolare gente con baffi intrecciati e portati a collana, né barbe sospette che potessero fare pensare a qualche mago che si fosse rifiutato di accettare di diventare guomenide. Del resto nessuno conosceva la loro storia; sapevano solo che il tempo dei maghi che volteggiavano fra le stelle o che carambolavano legati a un raggio di sole, era finito. Chi diceva di essere mago, lo diceva perché pensava che la parola potesse fare paura a qualcuno e potesse dare, a chi la pronunciava, autorevolezza e dignità assieme a un alone di mistero; anche se, a conti fatti, si riconosceva poca cosa, visto che era solo un povero guomenide fantasioso, il quale aveva imparato a maneggiare le carte da giuoco in maniera sorprendente, tanto da riuscire a infinocchiare i più semplici: quei sempliciotti restavano a bocca aperta davanti a un giuoco di destrezza, fatto con cordicelle o con fazzoletti colorati, che rappresentavano il bagaglio dell’essere mago. Se i maghi erano scomparsi non erano scomparsi i coccodrilli. Dal non essere scomparsi veniva il loro orgoglio. Essere una razza a sé li rendeva orgogliosi. Verdirone non riusciva a nascondere quel nuovo sentimento, che non aveva mai trovato posto prima; anche perché sentiva di essere lui la guida di quella tribù destinata a continuarne le tradizioni.
Raccontavano la loro storia ai più giovani perché conservassero la memoria di Cunelotto e delle acque tempestose; del grande desiderio di vivere come gli altri maghi che, tuttavia, non era stato sufficiente perché si liberassero dalla sagoma di predatori pericolosi. Né volevano dimenticarsi dell’altezzosa arroganza di Farinottocapocotto. Anche delle campane si dovevano ricordare e sapere degli altri strumenti: grancasse, tamburi e tamburelli; marranzani, piatti e iacovelli perché solo allora Verdirone aveva riunito l’assemblea di tutti quelli che erano capaci di intendere e di volere. Ormai bisognava fare qualcosa perché la confusione e lo stordimento che regnava in mezzo a loro, era tale da non permettere nessun tentativo di protesta. Quando Verdirone li riunì per stabilire il da farsi, erano tutti esausti: grandi e piccoli, giovani e vecchi. Per i vecchi bisognò insistere perché fossero presenti e aiutassero a prendere una decisione: avevano dimostrato il loro rifiuto, infilando la testa nella melma e nel fango. Furono portati a uscirne con colpi di coda e spintoni di ganasce. Costretti, anche loro furono presenti. «Andiamo via» - diceva Verdirone , dimostrando quanto fosse saggio «cerchiamo un posto tutto per noi. A nulla ci servirà vivere rifiutati dalla nostra stessa gente. La nostra lotta é senza risultati se ancora non possiamo compiere la benché minima spacconata o avere un qualsiasi contatto con i guomenidi. Saremo costretti a rinunciare ai segantini, ma il mondo è ricco di tante altre cose. Poiché la nostra natura è di essere predatori, prederemo». A conclusione del suo lungo parlare, Verdirone ebbe l’approvazione della maggior parte dei coccodrilli, dei più giovani particolarmente, i quali erano portati a pensare che, girare il mondo per cercare un posto adatto alla loro natura famelica, poteva essere anche divertente. Ma Gattomartello aveva già fatto la sua scelta: «Resterò nel letto del mio fiume, quello che mi ha visto nascere, quello che ha visto nascere i miei avi e il nostro capostipite mago Ferrauto». Così disse e volle sprofondare nel fango del suo fiume, che sembrò accoglierlo accarezzandolo con l’onda vorticosa dei suoi sussulti. Verdirone pensò che non poteva cedere e insistette dicendo: «Come potrai
sopportare questo frastuono? Come riuscirai ad evitarlo? Sei vecchio, Gattomartello, e non potrai restare solo o con quelli che hanno la tua stessa età». «Ecco» - rispose Gattomartello - «farò così» - e si rituffò nel fango dopo avere spalancato le fauci e guardato con atto di sfida tutti i presenti. Il suo corpo rozzo e squamoso era quasi scomparso, si vedeva la sola coda che ondeggiava con una certa eleganza e maestosità, sembrava continuasse a dire: «Io resto qua». Tutti guardavano con aria interrogativa e quasi preoccupati. Quella coda ad un tratto si fermò e stette immobile: sembrava un albero il cui tronco era rimasto senza chioma. Molti non capirono, alcuni temettero e pensarono alla sua fine. Poi Gattomartello sprofondò lentamente come se avesse trovato un punto in cui il fango poteva essere come le sabbie mobili. Qualcuno pianse, ma non erano lacrime credibili. Non ò molto e il fango melmoso si mise a ribollire, poi ci furono dei soffioni che, arrivando oltre l’acqua tormentosa del fiume, lo fecero riemergere con salti per nulla appesantiti dalla sua età né dalla sua mole. Si contenne Gattomartello e, sbuffando e schizzando acqua dalle sue larghe fauci, raccontò di avere trovato un aggio segreto, di cui nessuno si era mai accorto. Volle essere sicuro di quello che stava dicendo a tutta la compagnia, pensando a quello che, tutti insieme, avrebbero stabilito di fare. Tornò, rifacendo il tuffo con Verdirone. Non si sbagliava. Quello era uno stretto cunicolo che li avrebbe portati lontano. Non sapevano dove, ma certamente lontano da quel frastuono che le loro orecchie non sopportavano più. Partirono. Non ebbero bisogno di dire altro. Partirono tutti. Anche quelli che in un primo momento si erano rifiutati. Si misero in colonna. Seguirono Verdirone e Gattomartello che si era agganciato alla sua coda.
Verdirone andava deciso. In testa a tutti. Voleva dimostrare che si era assunta la responsabilità di quello che faceva. Camminarono per giorni e giorni. Superarono stretti cunicoli alle cui pareti rocciose alcuni, i più grossi, lasciavano brandelli della loro pelle squamosa. Sostarono pure, per dare la possibilità ai più giovani di riposare. Imposero la sete e la fame ai più famelici: quello era un cunicolo secco, dove né acqua né erba si vedeva. E neanche segantini. Il coccodrillo Varressiano pianse per tutto il tempo. Chiudeva la lunga fila e per questo nessuno se ne accorse: sarebbe stato, comunque, inutile perché nessuno lo avrebbe consolato. Poi, arrivò il momento in cui Verdirone, con un lungo fischio, comunicò, anche a quelli della retroguardia, che davanti a lui c’erano le acque quiete e profonde di un fiume; che era tanto grande da non potere scorgere la sponda opposta: sarebbero stati loro un popolo nuovo, arrivato dove, sembrava, non vivesse nessuno.
2. Il Nilo azzurro e le naiadi Finalmente acque quiete. Non avevano mai creduto che potessero esistere acque così calme: erano nati e cresciuti tra una ghignasce e l’altra. Nessuno dei coccodrilli aveva avuto l’opportunità di andare a fare le scorribande; nessuno di loro aveva sentito dire che i fiumi, nel mondo guomenide, fossero numerosi e tanto meno che ci fossero abitatori, che sulle acque conducevano la loro vita. Pertanto, al primo apparire di particolari creature che, leggere, svolazzavano, i coccodrilli ebbero l’ordine, dal loro capo, di scomparire e tutti si tuffarono e si fermarono sul fondo del fiume: dovevano riflettere e decidere il da farsi. Il loro istinto di predatori li portava a credere che, quelle creature, fossero segantini particolari, adatti alle loro razzie e, i meno esperti e meno riflessivi,
furono pronti ad aggredire. Ma l’ordine era venuto da Verdirone ed era stato secco, deciso e perentorio. Si agitarono le acque e strariparono come se, a monte, un gigante si fosse divertito a gettare nel fiume cocuzzoli di montagna. I coccodrilli avevano creduto di essere i soli abitatori dei fiumi: sulla montagna di Cunelotto i fiumi tempestosi erano stati il loro regno indiscusso. Nessuno dei maghi aveva mai pensato di usare quelle acque nate dalla disperazione di Ferrauto e, per questo, assoluto padrone assieme ai suoi discendenti. Sapere che c’erano degli altri esseri che abitavano i fiumi era stata una cosa che i più non accettavano e avevano pianto lacrime: tutte quelle che non avevano versato durante la loro vita di proteste ghignasciote. «Conservatevi le vostre lacrime» - diceva, con un tono di chi la sa lunga, Verdirone - «forse non sapete che hanno un valore grandissimo. Le vostre sono lacrime di coccodrillo. Sono lacrime preziose. Non lo dimenticate!». Lacrime o non lacrime, erano partiti con nel cuore un dolore che pesava come una pietra. Solo alcuni dei più giovani si erano allontanati cantando senza chiedersi se giusto o sbagliato fosse lasciare la terra dei propri avi. Erano partiti come chi parte in cerca di avventure e di nuove sensazioni: sapevano che avrebbero conosciuto il mondo dei guomenidi da sempre negato ai coccodrilli. Ma quando videro, sulle acque del fiume, volteggiare candide fanciulle, capirono che non si trattava di segantini e che avrebbero dovuto decidersi a cercare un posto più lontano o a considerarle tali nella loro prelibatezza: la loro esperienza li induceva a evitare la coabitazione. Cercavano la solitudine; ma dovettero constatare che avrebbero dovuto accettare una nuova amara delusione: il fiume era abitato. Chi sa da quanto tempo. Forse da sempre. Rimasero a lungo pensierosi e preoccupati . Poi affiorò la loro natura irruente e prepotente di sempre e la decisione fu presa: sarebbero rimasti lì. Tutti. Solo qualche testa calda poteva sconfinare e arrivare in altri luoghi e in altre acque, ma se voleva poteva anche pentirsi e tornare. Perché il pentimento era una cosa tutta vecchia, che apparteneva alla loro razza. E di questo se ne vantavano.
Ma chi erano le creature svolazzanti che vivevano su quelle acque? Avevano scelto quel posto perché le acque avevano il colore del cielo? Oppure da sempre quel luogo era stato loro assegnato da un destino particolarmente bello e positivo? La risposta se l’aspettavano da Verdirone, che si vantava di sapere tutto. Ma quella volta la risposta non veniva, né poteva venire: le sue parole restavano tra le mascelle, dove gorgogliavano come fossero rigurgitate. ando il tempo e non potendo restare nascosti con la testa sotto uno spesso strato di fango, i più giovani, perché meno resistenti all’insonnia, ebbero la necessità di riaffiorare e cercare una riva paludosa, dove dormire e riposare. Lo fecero in silenzio, senza troppo rumore. Senza farsi notare anche se desideravano fermarsi a guardare quelle creature che, con veli vaporosi, svolazzavano sotto il sole. Guardarono fino a quando Chiarrattone, che comandava la spedizione, con cenni degli occhi, aprendoli e chiudendoli tante volte, non li allontanò con grande cautela. Ci fu chi, tra i più spericolati, incurante dei divieti, sperò di riempirsi lo stomaco e di sgranocchiare qualche cosa che poteva anche essere una sorprendente prelibatezza. Ma fu solamente una speranza perché dovettero cedere al divieto assoluto di toccarle. Fame o non fame, fauci o non fauci, voglia di sapere o non, quelle erano creature particolari che avano la loro vita in allegria.
3. Fiocconovo e Dorella Da quando Nereo e Dori decisero di mettere su famiglia, le cose erano andate così: «Chiediamo a colui che ha in mano la saetta e guida, col suo sì e col suo no, la volontà degli Dei e quella dei guomenidi, che ci mandi numerosi figli» disse Nereo. Dori abbassò la testa e assentì, ma volle aggiungere ancora: «Che vivano a lungo e in allegria. L’allegria li renderà felici e saranno felici tutti quelli che li avvicineranno: la dimostreranno con canti e danze». Colui che aveva il fulmine in mano e comandava, li volle accontentare; ma
«Poiché» - diceva- «la felicità non può essere piena e completa» volle che qualcosa mancasse a Nereo e a Dori. Allora sentenziò e, scagliando il suo fulmine disse: «Avrete figli, ma solo fanciulle destinate a restare nubili. Vivranno sui fiumi. Nei mari e sulle rocce. Saranno belle come le vorrai tu, Nereo. Saranno allegre come le vorrai tu, Dori». Nacquero numerose e rallegrarono la terra. Furono dolci creature, disponibili e generose: amore dei naviganti, compagne di solitari viandanti e di pensosi abitatori di boschi. Furono soprattutto presenti sulle acque dolci dei fiumi, dove i loro veli si stendevano e si confondevano con le acque tranquille. Molte, tra le naiadi, scelsero di vivere sul Nilo perché le acque erano azzurre come il cielo. Molte altre, scelsero altri fiumi, altrettanto belli e fascinosi. Sempre in luoghi solitari, dove il loro canto veniva ascoltato solo da chi amava sentirlo. Si univano alle ninfe, nella danza, e accorrevano le driadi e le oreadi. Ma a un certo momento del tempo che fluisce come l’acqua, i coccodrilli di Verdirone si stanziarono in quel fiume, che sembrò loro il fiume più bello del mondo. «Come possiamo evitare che finiscano nelle nostre fauci?» - continuava a chiedersi Verdirone, anche con una certa preoccupazione. Sapevano che ogni figurina di quelle sarebbe stato un solo boccone, senza far lavorare le ganasce. Nessuno però osava avvicinarsi. Occhieggiavano, cercando il momento di andare sulla sponda senza essere visti. Fu il coccodrillo Melagone che, quella volta, si impose e li chiamò, costringendoli a starsene lontani. Ma il giovane coccodrillo Fiocconovo riuscì a scomparire dietro un’ansa e lì restò, senza farsi notare. Poiché Melagone era intento a rimproverare i più prepotenti, non si accorse di Fiocconovo, che poté rimanere a guardare indisturbato una naiade, una sola, che si era attardata, senza rispondere a Dori che le chiamava: quella sera Dori aveva nel cuore un presagio che la rendeva triste. Era Dorella, la naiade più irrequieta, che si era fermata smarrita a guardare la
luna: sembrava avesse una espressione strana, mentre non era ancora piena. Dorella aveva sentito un certo fruscio e la sua curiosità stuzzicava il suo desiderio di conoscere e di vedere. Attese. Sciorinò i suoi capelli al vento e li prese ancora a ciocche per intrecciarli assieme ad un raggio che la luna, mano a mano, le porgeva come volesse legarla a sé. Quella luna che poi, con complicità, si coprì il viso con una nuvola vagabonda, quando si accorse che Dorella incominciava a soffrire di quel male d’amore, come una qualsiasi guomenide. Così riuscì a coprirla agli occhi di Dori, che la cercava. Quando la nuvola si stancò di stare ferma e volle riprendere il suo vagabondare, Dorella poté guardare. E il suo sguardo fu colmo di domande e di desiderio. Fiocconovo era venuto fuori cauto e silenzioso. La vide assorta che intrecciava lentamente le sue chiome e provò un sussulto che lo portò, con un balzo, in avanti e al cospetto di Dorella. Smise, Dorella, il suo intrecciare e non seppe dire se, così tozzo e sgraziato, Fiocconovo le avesse messo paura. Si guardarono a lungo. Poi Fiocconovo credette di poter dire qualcosa e aprì gli occhi tante volte e tante volte li richiuse. Si accorse che Dorella non rispondeva con lo stesso linguaggio, allora aprì le fauci per parlare. Voleva farsi capire. Le voleva dire tutta la sua sorpresa, la sua meraviglia. Ma le sue mascelle aperte impaurirono Dorella che, coprendosi col velo, scomparve agli occhi di Fiocconovo. Fiocconovo tornò, triste, nell’angolo remoto di palude, che i coccodrilli avevano scelto per stare rintanati e non farsi vedere, ancora, da nessuno. Quella sera la cosa finì così. Ma non finì alla stessa maniera, quando Dorella non ebbe più paura e lo incoraggiò a uscire dalle acque e restare sulla riva, in sua compagnia. Venne pure il momento in cui fu Dorella a immergersi e a nuotare con Fiocconovo. Facevano piano ed erano attenti che nessuno dei coccodrilli se ne
accorgesse. Aspettavano che la luna, sempre complice, li aiutasse a restare soli sulla sponda del fiume o nel canneto, dove Dorella era solita sostare dopo aver danzato con le naiadi e le ninfe, che venivano numerose.
4. La lunga pioggia La tribù dei coccodrilli si era trasferita in un’ansa paludosa e melmosa, dove solo zanzare ronzavano. Lo avevano fatto tutti in blocco in un giorno di pioggia fitta e scrosciante, quando nessuno si avvicina alle sponde del fiume. Quella volta, non si avvicinarono neanche quelle fanciulle che sembravano, in maniera evidente, non appartenere alla razza guomenide. Si spostarono a scaglioni, i coccodrilli, sperando di non dare troppo nell’occhio a un eventuale coraggioso guomenide e non si accorsero di Fiocconovo, che era rimasto nel canneto della Porta Nuova. Fiocconovo strisciò solitario e restò immobile fino a quando l’ultimo dei coccodrilli non ebbe raggiunto il capo, che così aveva stabilito. Quella volta, inutilmente aspettò Dorella, che non venne sul fiume né nel canneto. Pioveva forte. «Forse, i suoi veli bagnati le impediscono di svolazzare leggera» - pensava. Non sapeva, però, che Dorella poteva solo guardare da lontano e che si era accorta che lui l’aspettava, fermo, sotto la pioggia, da cui non si sentiva minimamente scalfito; guardava là dove, la sera, la vedeva arrivare e fermarsi a danzare. Quando, finite le danze, tutte se ne andavano, era lei che si fermava e andava nel canneto a cercarlo. Allora lo guardava negli occhi, dalla palpebra spessa, e in quel chiudere e aprire lei leggeva tutta la sua contentezza. Avevano ato ore stupende a guardare la luna che, sorridendo, ammiccava. Si raccontavano.
Fiocconovo le diceva della sua meraviglia e della sua sorpresa, che si rinnovava tutte le volte che la vedeva nella misura di quando l’aveva vista la prima volta. Le raccontava delle sue avventure e di come era arrivato in quel fiume che, ora, significava tutto il desiderio e l’aspirazione della loro razza. Dorella gli diceva della sua grande tristezza. Gli diceva quanto superficiale e fittizia fosse quella sua allegria, con la quale si manifestava agli altri. Ma lei si sentiva un vuoto dentro, che non avrebbe mai potuto colmare: amava senza il permesso di amare, perché così aveva stabilito, per loro, colui che teneva in mano la saetta. Ed ora sapeva che poteva solo guardare Fiocconovo e parlargli di nascosto. Lei era nata con un destino che le permetteva solo di svolazzare, durante la sua lunga vita. Aveva avuto, assieme alle sue sorelle, il dono della longevità e della leggiadria, ma le era negato innamorarsi e amare. Tuttavia aveva un cuore grande, che pulsava. Dori e Nereo avevano chiesto per loro l’allegria, ma non il dono dell’amore ricambiato. Non avevano dato importanza alla cosa o, forse, avevano pensato e desiderato che mai nessuno fe parte del loro affetto e della loro gioia. Aveva pianto in silenzio, una sera, Dorella, quando la luna, guardandola da lontano, le aveva fatto capire che lei poteva, finalmente, amare e piangere. La pioggia durò a lungo. arono giorni in cui batteva incessante, senza che Fiocconovo potesse vedere arrivare Dorella. Le acque si gonfiarono e lo scroscio rovinoso riempiva l’aria. Tutta intorno la terra ricevette l’acqua limacciosa del fiume. E quando Fiocconovo provò a camminare, capì che qualcosa stava accadendo. E vide i segantini che tornavano ad abbeverarsi, senza paura, ma Dorella non tornava. Era accaduto che Nereo sentisse piangere Dorella; che sentisse il suo lamento. Subito pensò che fosse la luna ad ascoltare le sue parole; ma quando si accorse di Fiocconovo, trasalì e si disperò: quello era un mostro e la sua Dorella era la creatura più dolce della terra. Nessuno dei guomenidi poteva osare di alzare gli occhi su di lei o sulle altre sue sorelle; e Nereo aveva visto che quello non era
neanche un guomenide. Come poteva essere accaduto questo? Se lo chiedeva con un nodo in gola, che gli procurava un singulto, alto e ripetuto, echeggiante lontano, nel cielo carico di nuvole dense. «È un lungo tuonare» - dicevano i guomenidi - «che prepara la pioggia». E fu così. Perché quando lo sentì Dori e volle sapere cosa lo tormentasse, piansero insieme, piansero a lungo. E il loro pianto si rovesciò sulla terra. E i guomenidi dissero: «Piove!». Dori e Nereo sapevano che il loro pianto era sempre considerato un dono dai guomenidi: la pioggia dissetava piante ed animali. E poiché il loro dolore procurava gioia ad altri, pur nella assurda logica della vita, piansero senza freno. Piansero. Piansero troppo perché non fossero ascoltati e non avessero il permesso di parlare e di chiedere: «O tu, che tieni in mano il fulmine» - pregò Dori - «se non puoi dare altra felicità alle mie figlie, rendile insensibili. Rendi il loro cuore indifferente con i guomenidi e con i loro mostri. Solo così saranno tutte per me e per il loro padre Nereo». Saettò il fuoco colui che lo teneva in mano, ascoltò e assentì. Da quel momento nessuna più, di quelle dolci creature, s’innamorò. Ninfe, naiadi, driadi e oreadi diventarono di marmo. Restarono nei giardini, nelle ville, nelle fontane: statue, come nobile ornamento. Restarono belle, come lo erano prima; leggiadre nel loro biancore, in quei luoghi dove i guomenidi si potevano fermare a guardarle, a sognare, a innamorarsi di quelle creature fredde e insensibili, così come le aveva volute Dori, così come le aveva volute Nero. Non poterono vivere più come prima. Rinunziarono alle loro danze e non tornarono sul fiume che aveva acque colore del cielo: il Nilo Azzurro. Fiocconovo aspettò nel canneto tutta la vita. Aspettò che Dorella tornasse; ma non poteva sapere, e nessuno seppe mai. Solo le canne unirono le loro lacrime alle sue, che non furono di coccodrillo perché Fiocconovo aveva saputo innamorarsi e amare.
Non lasciò quel posto neanche quando si convinse che avrebbe aspettato invano. Neanche quando tutta la sua tribù piano, piano si impadronì di quelle acque da cui si era allontanata, spinta da una rara forma di altruismo e generosità. Nel Nilo trovarono il loro spazio i coccodrilli, che vissero lì poi sempre. Molti, tra i più intraprendenti, emigrarono e sorsero nuove colonie, in altri fiumi, dove la razza si modificò, adattandosi all’ambiente. Ma il loro amore fu sempre il Nilo. Nessuno seppe mai da dove fossero venuti, né quale fosse la loro storia. Conoscendola, qualcuno potrebbe anche amarli. Rottocela spinto da nuovi sentimenti nei loro confronti, ce la volle raccontare.
* * *
- capitolo settimo I coronidi
1. Rottocela e lo studio sulla Coronide Perché studioso, Rottocela, da sempre, aveva fatto ricerche sull’antica storia della Coronide. Desideroso di conoscere e di sapere, aveva ato lunghi giorni a leggere, a sfogliare libri e manoscritti, che gli antichi maghi avevano lasciato perché i posteri sapessero. La facilità con cui affrontava gli studi gli aveva permesso di conoscere il coronide antico e anche di parlarlo. Si era perfettamente impadronito di quella lingua, che nessuno ormai più ricordava. Aveva anche aperto un corso di studi per guidare i giovani desiderosi di progredire e di approfondire le notizie che riguardavano quei tempi, le cui vicende venivano narrate con l’aureola della leggenda. A conclusione dei suoi lunghi studi, come suggello a tanta fatica, Rottocela scrisse e pubblicò un grosso volume ricco di notizie e di illustrazioni, che avrebbe fatto epoca nel mondo della cultura. Per scrivere il libro usò la sua lingua: il coronide moderno. Nessuno dei guomenidi era in grado di leggerlo e tanto meno di capirci qualcosa. Quando, più tardi, Cilo e Notturnino, sempre più capaci di colloquiare e di intendere il dire elegante, si decisero a tradurlo in lingua guomenide, la storia del regno della Coronide fu letta e conosciuta anche da quelli che fino a quel momento ne avevano ignorata l’esistenza. Andò a ruba, quel libro, e furono poche le copie che rimasero per i meno attenti. Tuttavia qualcuno riuscì a leggerlo e coinvolto da quelle vicende ce le raccontò.
2. Magonuovo e la cannonata
Era il tempo dei castelli di carta e delle teste incollate sulle spalle con mollica di pane e resina di pino. Sapevano tutti, per diretta esperienza, che senza resina, la mollica del pane, anche se lavorata abbondantemente, non bastava. Usata da sola, causava un dondolio strano della testa che li costringeva ad un riposo forzato: da sempre, i maghi della Coronide, erano dediti alle imprese gloriose, alle spacconate, alle fantasiose giravolte nei cieli dei guomenidi. Significava la loro vita di maghi nati e vissuti in una terra dove erano arrivati e dove erano cresciuti nel numero come grano di spelta. Nessuno si risparmiava, anzi, tutti desideravano di poterle fare, le spacconate, anche perché farle significava avere la testa a posto, ferma sulle spalle anche quando era tenuta su con quella resina la cui raccolta costava lavoro ai grandi e ai meno grandi, e preoccupazione nuova quando venivano al mondo. Averla ben salda era un segno di nobiltà e nessuno osava contraddire un mago che teneva dritta la sua, anche se maghetto non ancora cresciuto. Comandava Re Magonuovo, il re che era arrivato nella Coronide senza che lui neanche lo sapesse; era stato lanciato con un cannone dalla terra dei Tiani dove i suoi antenati vivevano da secoli e dove suo padre, re Focavecchia, governava già da numerosi anni. Magonuovo aspettava il suo turno, che tardava a venire. La sua natura desiderosa di novità lo induceva a sollecitare Focavecchia, che non intendeva lasciare il trono. Un giorno, vista l’insistenza di Magonuovo, Focavecchia decise di mandandolo lontano, molto lontano, tanto da non vederlo e sentirlo più. Lo mise, dunque, in un cannone e lo lanciò senza sapere dove sarebbe arrivato. In quella terra avrebbe potuto condurre la sua vita e comandare così come desiderava; crearsi i suoi sudditi e costituire un regno nuovo a cui avrebbe anche potuto dare il suo nome. Era sicuro che non gli avrebbe più dato fastidio perché, non avendo visto la strada percorsa col cannone, non l’avrebbe più saputa trovare per un eventuale ritorno.
Magonuovo arrivò in questo posto sconosciuto, che poi era la Coronide, con la testa rotta. Gli andava su e giù. Non poteva guardare né a destra né a sinistra. Poteva solo guardare i suoi piedi e, finalmente, accorgersi che gli mancava un dito. Con un dito dei piedi in meno e con la testa rotta, nacquero poi tutti i suoi figli e quelli della sua razza. Era stata la botta tremenda del lancio che gliela aveva rotta o il capitombolo che aveva fatto, atterrando? Se lo chiese più volte. Mai poté avere una risposta sicura. Cercò qualcuno che lo aiutasse. Nessuno rispose alle sue grida di dolore né quando volle chiamare Focavecchia con grida più alte, sperando che si potesse fare sentire e ricevere aiuto. Attese a lungo. Poi si rassegnò. Quello che ormai lo impegnava era trovare come fermare il dondolio della testa, che non gli permetteva di guardarsi attorno e sapere, conoscere quei luoghi che gli sembravano abitati solo da cavicchi e segantini. Fu una guainessa che si fece avanti e si offrì di incollare quella testa che ciondolava come il battaglio di una camla. Gliela incollò con mollica di pane a cui aggiunse le gocce di un umore resinoso che colava dai pini nelle foreste della Coronide. L’operazione bisognava ripeterla tutti i giorni non reggendo, la colla, ai vari movimenti del capo. E Magonuovo lo fece fino alla fine della sua vita, che fu lunga. Con la testa da incollare, nacquero i suoi figli, i quali ebbero, come la guainessa, gobba e piedi forcuti. Fu, però, una caratteristica che si andò perdendo nel tempo, quando, con interventi sapienti, riuscirono a raddrizzare le schiene e a togliere la forca ai piedi. Solo che di tanto in tanto ritornavano quei segni, che si ripresentavano con variazioni diverse: se la schiena si incurvava ci poteva anche essere una coda o anche una semplice saetta, incisa sulla parte alta del deretano. E i piedi potevano anche avere i ramponi o piccole ali assieme alle forche. Magonuovo diede il nome ai suoi discendenti. Quelli che dopo di lui popolarono
quelle terre furono detti maghinuovi. La seconda parte del nome che, a un certo momento della loro vita, perdette interesse, scomparve piano, piano. Così vennero detti solamente maghi. La Coronide si popolò e i maghi, superando l’ostacolo della testa incollata, poterono andare tra i guomenidi istituendo e continuando quella loro tradizione, detta delle spacconate. I segni particolari furono utili quando si dovette pensare alla successione al trono.
3. Il ramo novello di Zalanastra Aveva, Magonuovo, nelle vene il sangue prepotente del padre che, unito a quello, velenoso, della guainessa, diede origine a una nuova generazione che continuò, poi sempre, con quella dei maghi che popolarono i numerosi cocuzzoli della Coronide. Quella data ben precisa scaturita dall’incrocio dei circoli polari con le bicipiti fronzute dei cerchioni, segna l’inizio della loro razza, che ebbe barbe voluminose e baffi incrociati e filettati, da potere intrecciare e portare girati intorno al collo. Subito i baffi furono pure usati come fune nei momenti delle necessità: succedeva quando i maghi viandanti non avevano ancora la bacchetta magica, ma solo quella energia di cui erano tutti, per loro natura, dotati. Fu re Colavento, che trovò il modo di raccogliere l’energia che gli scoppiava dentro. Egli capì che quella energia poteva arla ad un qualcosa e metterla da parte per usarla quando la necessità lo avrebbe richiesto. Scelse una zalanastra selvatica che allungava i suoi rami all’infinito e vi salì per cogliere il ramo novello che sarebbe spuntato sotto i suoi occhi. Lo prese e ne fece la prima bacchetta magica con la quale comandò e ottenne le cose più impensabili. Poiché Colavento era dotato di particolare intelligenza capì presto molte cose e aiutato da Cojotesaputo, suo consigliere privato, poté dare al regno della Coronide un nuovo assetto.
Finirono i castelli di carta e si videro in ogni dove colonnati superbi e lussureggianti angoli con fantasiose fontane. Ognuno ebbe la sua casa con dormitorio e il paese ebbe strade e stradelle da poter percorrere a piedi o a cavallo. Con un colpo di bacchetta magica, i cavalli ebbero le ali e da quel momento tutti cavalcarono volando. Poterono, facilmente, esplorare le terre confinanti e programmarne anche il possesso. Tutto questo sembra poca cosa se si considera quello che Colavento ottenne toccando, con la bacchetta magica, la testa dei suoi numerosi figli, la sua e quella dei suoi sudditi fedeli e sottomessi. Recitando con solennità una inventata filastrocca, perfettamente indovinata, ottenne che la testa non dondolasse più. Non ebbero più bisogno di colla. Mollica di pane e resina servirono per fare altro. Poiché la cosa avvenne in un momento in cui la brezza marina soffiava pesante e insistente, vollero che quella brezza fosse detta vento dal nome di chi li aveva salvati. Anche se fu solo vento senza Cola, l’avvenimento fu ricordato nei tempi avvenire assieme al genio inventivo e terribilmente magico del suo artefice. Così fu che gli abitanti del regno della Coronide diventarono maghi, non solo di nome, ma anche di fatto. Rottocela trovò un manoscritto della prima filastrocca magica con la quale Colavento operò in tutta la sua vita. La trascrisse in coronide moderno. In lingua guomenide così diceva: «Pirinda nella finda, venanta e vigoré io sono il vostro re». La filastrocca fu tutta sua, perché chi gli successe al trono dovette reinventarla, dando una sua impronta personale che avesse anche una nuova forza: si erano accorti che dire «Pirinda nella finda» non funzionava più. Da questo capirono che ogni nuovo re aveva bisogno di una nuova formula, che fosse tutta sua. Né poteva fare il re chi non ne era capace.
Così avvenne poi sempre fino a quando i maghi ebbero bisogno della bacchetta magica. Solo quando arrivò l’era di Mattia, non ne ebbero più bisogno. Da allora la bacchetta ebbe un’altra funzione: servì a mettere di accordo centinaia di strumenti, suonati in armonia e compiutezza, diretti da una mente, genio musicale, che fu detto direttore di orchestra.
4.Scorrerie e invasioni magoidi In seguito il nuovo regno fu caratterizzato da numerose guerre che i coronidi vollero fare agli abitanti dei cocuzzoli vicini. Da subito, gli abitanti di quelle terre si dovettero difendere dai numerosi assalti prepotenti della nuova gente .Le loro lotte furono lunghe e numerose , ma anche inutili perché i coronidi riuscirono a impadronirsene e per questo usarono anche l’astuzia. Le prime scorrerie furono guidate dal re Ronzolino che si era stancato di vivere una vita monotona anche se intervallata dalle numerose spacconate che gli avevano permesso di succedere al trono. Ma Ronzolino era un re particolare che amava riempire i tempi vuoti. Con la sua presenza carismatica trascinava la popolazione dei maghi nelle sue imprese, che furono di stampo nuovo e che ebbero l’impronta della conquista. Le terre da battere e da esplorare erano aspre e impervie anche per la gente che aveva il nome di maghi e che era dotata da natura di quella energia che li rendeva particolari nell’arroganza, nella prepotenza e nella cattiveria. Si gloriavano di questo e pensavano che fossero virtù da sbandierare e da fare conoscere, specie nella terra dei guomenidi dove, da sempre, vivevano quelli che di bacchetta magica non ne avevano neanche sentito parlare. Un altro condottiero fu re Canmastino. La storia lo ricorda perché fu il primo a circondarsi di maghi saputi e di maghi guerrieri, a cui diede ascolto, tenendo in gran conto i suggerimenti che da loro gli arrivavano.
Seguendo il suo esempio anche re Volatutto ebbe i suoi consiglieri, che non si limitarono ad affiancarlo durante le guerre da lui condotte: gli furono accanto anche in tempi di pace. Da quel primo esempio, nel regno della Coronide si ebbe sempre un re che scelse i suoi collaboratori e consiglieri. Li sceglievano tra i più bravi e meritevoli, tra i più valorosi ed anche tra i più prepotenti. Ci furono nomi, come Goliaferro e Gattofuso, che restarono nella storia e che furono ricordati nel tempo. L’ultima guerra, quella che chiuse definitivamente il ciclo delle invasioni magoidi, avvenne sotto il regno di Supremo. Si potrebbe dire che Supremo arrivando al comando trovò le popolazioni vicine già fiaccate dalle numerose scorrerie subite e che tutto gli fu più facile. Nessuno gli può, però, negare un certo intuito guerriero particolare e una capacità strategica che i suoi predecessori non avevano avuto. Dichiarò guerra agli Ziiti, la popolazione che viveva sul suo cocuzzolo, quando capì che i suoi guerrieri erano pronti e perfettamente armati di lance e di randelli. Lo fece improvvisamente, quando meno il nemico se lo aspettava. «Siate coraggiosi, o miei guerrieri» - diceva a gran voce - «la ricompensa che vi spetta sarà grande e più grande ancora sarà l’onore che avrete combattendo per il regno della Coronide. Sappiate che ognuno di voi potrà scegliere di abitare sul cocuzzolo che adesso possiamo guardare solo da lontano. Potrete fare parte di un nuovo regno e poiché i cocuzzoli che conquisteremo saranno tanti, ecco che voi potrete anche scegliervi il re con cui andare e a cui ubbidire. Siatene degni perché quello che vi aspetta è qualcosa di eccezionale e raro». Erano parole che infervoravano i guerrieri incolonnati e portavano alle stelle il loro entusiasmo. Con la testa abbassata come una catapulta , combattevano non solo con le lance e con i randelli ma anche catapultando sassi e con i sassi loro stessi. Li guidava Supremo precedendoli sul più bel cavallo alato che la Coronide avesse mai visto. Solo che volare non sempre gli serviva perché il popolo degli
Ziiti combatteva seguendo una strategia diversa: i loro cavalli non avevano le ali; combatteva in una situazione di disparità: gli Ziiti non erano maghi. In guerra e comunque sempre, accanto a Supremo cavalcava Catiagone, che era l’erede designato al trono. Ancora giovinetto, era il guerriero più coraggioso e più bello di tutta la razza dei coronidi. Aveva, eccezionalmente, capelli e barba biondi, come nessuno mai tra i maghi, che vissero in quelle terre. Sovrastava tutti con la sua altezza e la sua chioma brillava sotto il sole come un vessillo. A lui guardavano i maghi guerrieri in marcia e da lui ricevevano coraggio e resistenza alle fatiche. Come se non bastasse re Supremo, con la sua parola magica, infondeva certezze.
5.Supremo a Gottafino: Romilda Catiagone era nato quando Supremo, assunte le sembianze di un guomenide, si era recato a Gottafino, dove si diceva di una splendida fanciulla che aveva le sembianze di una Dea. Era la figlia del re e, a Gottafino, la dicevano di una bellezza rara, tanto da considerarla e tenerla come cosa preziosa, nascosta agli occhi di chi la desiderava anche non avendola mai vista. Supremo non disse bugie e si presentò re del potente regno della Coronide col suo seguito. Aveva assunto le sembianze del principe azzurro e principi furono pure quelli del suo seguito, perfettamente adeguato all’occasione. Ingannò con la bellezza, particolarmente con la sua. Innamorato di Romilda, la bellissima, rimase a Gottafino lungo tempo. Tornò nella Coronide solo quando poté condurre con sé il bimbo nato dal suo amore per Romilda.
Lo chiamò Catiagone e volle che fosse lui il suo successore al trono. Perché bello, il nuovo re avrebbe generato una nuova razza di maghi sempre più belli, sempre più aitanti, sempre più coraggiosi. Così come Supremo aveva desiderato. Catiagone crebbe bello come la madre, ma anche astuto come il padre. Ebbe fratelli che furono: Serasmone, Verrinello, Parisotto e Bisernino. Per volere di Supremo, tutti i suoi figli combatterono al suo fianco, perché ciascuno potesse avere il suo regno e la possibilità di esprimere le proprie capacità organizzative. Poiché la guerra contro gli Ziiti durava ormai da qualche anno, i coronidi credettero giunto il momento di trovare come arrivare ad una conclusione. Tra i guerrieri si notava ormai qualche segno di stanchezza: le catapulte non funzionavano più tanto bene. Allora Catiagone escogitò uno stratagemma che, tuttavia, non gli risultava nuovo. Aiutato dalla bacchetta magica, arrivò nel campo nemico quando la luna, coinvolgendo con la sua luce d’argento, faceva perdere il senso della realtà. Lo dissero venuto dal cielo. Lo accolse il re Ziito e lo venerò. Gli furono offerti sacrifici. E sull’altare, fatto di robuste gaite, furono sacrificati, in suo onore, cento segantini. I segantini sacrificati servirono ad arricchire la mensa, a cui sedettero pure cento maggiorenti Ziiti, confusi da tanto onore. Bevvero e mangiarono a lungo. Fu un pranzo che durò cento giorni, perché il numero cento era quello dei sacrifici agli dei. Poi incominciò a mancare il vino nelle otri. Ma ormai la loro ubriachezza era arrivata a un grado tale che non fu necessario andare oltre. Catiagone ottenne facilmente la resa dell’esercito da un comandante che era in preda ai fumi dell’alcol.
Fu fatto un patto di sangue: Ziito e Catiagone si scambiarono il dito medio della mano sinistra. Se lo incollarono, secondo la loro esperienza, con la resina del pino gigante che si ergeva, simbolo della loro forza, nel cortile più grande del palazzo reale. Così fu che Supremo si impadronì della terra degli Ziiti annettendola al suo regno. Poiché Ziito era il re più forte e più agguerrito, gli altri non opposero resistenza e nel giro di poco tempo riuscì ad impadronirsi degli altri cocuzzoli che erano quelli di Fiaccavento, di Molitutto, di Cunelotto e di Cutrinello. I popoli assoggettati seppero più tardi che i conquistatori erano maghi. Lo capirono quando, stando a loro vicini, poterono ricevere, assimilandola, l’energia che li caratterizzò. Videro i loro figli nascere maghi, orgogliosi di essere tali e di potere usufruire della bacchetta magica: i coronidi avrebbero, in poco tempo, cancellato nome e tradizioni ziite. A lungo gli ziiti ricordarono e raccontarono quanto grave fosse stato l’errore commesso e quanto ingannevole fosse stata la presenza di quello che avevano creduto un Dio. Subito, piansero amaramente. Niente poteva giustificare la loro resa. Trovarono conforto nel riconoscere a Supremo il merito di aver creato un regno grande e forte di cui andarono orgogliosi. Furono liberi di scegliere il re a cui ubbidire, quando Supremo scaraventò, sui cocuzzoli conquistati, i suoi figli. Trattenne con sé solo il giovane Catiagone che sarebbe stato il suo successore. Sul cocuzzolo più lontano arrivò Bisernino, perché più leggero, lanciato da quella furia a cui era impossibile opporsi. Quando re Supremo li scaraventò col suo schiccimbocci, ordinò loro che mai avrebbero fatta una strada, tanto meno ponti che unissero i vari cocuzzoli, perché non dovevano interferire sugli atteggiamenti o decisioni, che ognuno di loro pensava giuste per il proprio paese e per la vita che sceglievano di condurre.
Furono liberi di volere e di decidere. Così Parisotto si circondò di centocinque mogli e scelse di permettere il consumo della gaitiana. Verrinello subì i coccodrilli e la ghignasce. Serasmone volle sempre cavalcare e fu il mago peripatetico più famoso di tutta la Coronide. Bisernino portò avanti l’ordine e la cultura, godendo di quella ricchezza spirituale che la cultura può dare. Nessuno invidiò l’altro fratello e tutti accettarono la difficoltà di potersi rivedere e visitare.
6. Catiagone sognatore Dalla grande evoluzione operata per mezzo della musica su ogni cocuzzolo, era rimasto escluso il cocuzzolo centrale della Coronide. Re Supremo, continuava a governare con la sua rigida prepotenza: aveva voluto l’isolamento, un isolamento ovattato e sognatore. Qualcosa si andava, però, movendo e maturando nella mente docile ma fervida di Catiagone. I suoni che si alzavano e si fondevano nell’aria, venivano ascoltati dal suo orecchio e assimilati dal suo io che era rimasto sognatore. Sognava senza farne partecipe il suo padre padrone, ormai indurito e reso dalla solitudine ancora più irremovibile e puntiglioso nelle sue decisioni. Era un airone cinerino che arrivava e gli narrava le novità, che lo lasciavano pensoso. Restava a lungo a intrecciare i suoi baffi o a sfoltire il suo imponente barbone. Si attardava ascoltando e desiderando qualcosa che in lui si allargava sempre di più. La mattina all’alba si allontanava dal castello, andava con frecce e lance, ingannando le sentinelle e re Supremo.
Tutti pensavano ad una ione tardiva per la caccia, anche se tornando non si poteva vantare di aver fatto vittime: il suo carniere era sempre vuoto e non sembrava gli importasse nulla. Si allontanava pensoso fino a quando non sentiva venire da lontano il primo squillo di tromba a cui ne seguiva un altro e poi un altro ancora. Erano squilli che gli arrivavano dentro e che riusciva a trattenere fino a quando non si stabiliva il contatto con l’airone cenerino, il cui linguaggio egli conosceva ormai bene. Il loro discorso era lungo perché a lungo parlavano di quella musica che arrivava da lontano e che ascoltavano in silenzio, desiderosi che neanche il fruscio delle foglie potesse alterare le note, che approdavano sulla punta estrema del regno della Coronide. «Ascolta» - gli diceva l’airone - «questo è il suono del flicorno, suonato da un solitario mago nostalgico». «Che cosa è un flicorno?» - chiedeva triste Catiagone, quasi mortificato dalla sua ignoranza. Poi tentava di ottenere lo stesso suono col corno ritorto di un bisonte. Ma non era quello che voleva. ava giorni in cui la nostalgia soverchiava. Si accentuava la sua tristezza. Sicché, quando rami intrecciati di castagni stilettati gli impedirono di ascoltare le trombe mattutine dei cocuzzoli del regno, Catiagone si decise e chiese il permesso di andare lontano a conoscere Romilda, mai vista, mai conosciuta, solo pensata: chiese di andare a Gottafino. Partì subito Catiagone e non pensò ad altro. Non pensò neanche a mascherare il suo barbone né i suoi lunghi baffi. Erano biondi, ma dicevano ugualmente della sua razza. Cavalcò Sogàpe, il suo cavallo bianco che aveva ali grandi quanto le vele che i guomenidi alzavano sui bastimenti, quelli con i quali osavano sfidare gli Oceani. Non pronunciò la filastrocca che Supremo gli aveva insegnata, perché amava sempre poter misurare le sue forze. Volò a briglia sciolta e quelle briglie fatte di trenetti e bolle preziose, brillarono
al sole che Catiagone raggiunse subito, fendendo un banco di nuvole dense. Il suo viaggio durò numerosi giorni. Quanti non se lo chiese. Lasciò che l’aria e il sole gli entrassero dentro e lo preparassero a quello a cui aveva sempre pensato durante la sua giovinezza, colma solo di spacconate magoidi. Catiagone si sentiva mago solo a metà. Si fermò alla reggia di Gottafino, solo quando, roteando e roteando capì che poteva bastare. Alcune guardie, che calzavano stivaloni di cuoio sonante, lo fermarono. «Nessun barbone può attraversare il giardino del castello» - dissero e gli sbarrarono la strada incrociando le loro lance. Lo credettero un impostore. Catiagone capì il perché. Ma non volle usare la sua energia di mago, perché, in cuor suo non l’aveva mai accettata. Quella volta degli Ziiti ne era stato costretto. C’era stato un motivo che andava oltre gli interessi personali: si sentiva quasi giustificato. Adesso capiva che aveva bisogno di usarla ancora, se voleva essere ricevuto dalla madre Romilda. Le avrebbe chiesto di raggiungere, con lui, Supremo nella Coronide; ma prima, di aiutarlo a possedere un flicorno che avrebbe portato con sé. Solo quello. Niente averi. Perché nella Coronide la sola ricchezza era costituita dalle loro qualità, buone o malefiche che fossero.
7. Catiagone a Gottafino: il cinema Catiagone aspettò prima di prendere una decisione. Vagò tra i guomenidi pensoso e disattento. Non si accorgeva che molti lo guardavano con insistenza per quella sua collana fatta di baffi intrecciati; qualcuno lo mostrava a dito. Accadde che un anziano guomenide gli rivolgesse la parola .Volle sapere di lui e gli chiese di lavorare in un film: «Ho bisogno di te» - gli disse - «sto realizzando il mio capolavoro e tu mi sembri l’uomo adatto a fare figura e controfigura». Poi vedendo Catiagone titubante aggiunse: «Avrai un lauto compenso e
diventerai famoso. Dimmi chi sei». Catiagone gli disse tutta la verità. Ma il guomenide, regista, non credette a quello che sentiva e pensò che essere un mago fosse una sua invenzione; che invenzione fosse pure essere lui il futuro re della Coronide: non aveva mai sentito di un regno che si chiamasse Coronide. Catiagone non capì cosa fosse un film, ma la cosa lo divertì. Non ebbe bisogno di farsi tagliare la barba e i baffi, perché lo vollero così nel suo personaggio. Il tempo che ò in compagnia dei guomenidi, gli permise di rendersi conto di tante cose. Conobbe la povertà e la ricchezza, anche quella sfrenata che dura poco; conobbe il lavoro pesante che fiacca i reni e annulla la volontà; conobbe la serenità dell’amicizia e la solidarietà di chi, pur appartenendo a un’altra razza, riusciva a stargli vicino e a sentire che anche il suo era un cuore gentile. «Forse è questa la vita che voglio» - si disse. Pensò che non sarebbe più tornato nella Coronide. Re Supremo avrebbe scelto un altro come suo successore anche se con molta tristezza. Riconosceva però che sarebbe stata una cosa troppo pesante e che mai nessuno lo avrebbe potuto perdonare. E poi c’era Romilda. «Che fare?» - si chiedeva. Tornare con lei nella Coronide significava avere vicina, finalmente, chi da sempre mancava. Ci ripensò. Stette lontano da Gottafino fino a quando, finito il film, non si decise di farsi radere la barba e i baffi per potersi presentare a Romilda ed essere accettato. Arrivò a Gottafino in un giorno di festa. Nessuno lo notò per le strade dove i guomenidi avano numerosi. Alcuni vestiti a festa con scarpe lucide, altri in costume pronti a esibirsi in una grande piazza dove avevano disegnato ghirigori e issato banderuole. Catiagone non ci badò molto, sorrise guardando e andò dritto alla reggia. Chiese di Romilda. Da anni Romilda sognava e aspettava che il suo principe azzurro si ricordasse di una dolcissima che aveva conosciuta e amata.
Non aveva mai saputo che quel principe azzurro fosse un mago, lo credette preso dalle sue imprese di guerra, come le aveva detto, da doversene stare lontano per tanti anni. Sarebbe tornato da lei ricco di imprese gloriose e lei lo avrebbe perdonato. Un valletto condusse Catiagone nella sala dove Romilda sedeva. Un levriero appoggiava il muso sulle sue ginocchia e una dama ravviava i nastri della cuffia che portava in testa, riordinandoli secondo i colori: era un modo semplice e stravagante insieme di are il tempo. Quando si accorse di Catiagone, il respiro le si fermò e si videro pulsare solo le sue vene sul collo bianco. E quando finalmente, poté parlare gli chiese: - «Chi sei. Cosa vuoi?». - «Sono venuto per portarti via. Ti condurrò da mio padre, nella Coronide, dove sarai la sua regina». Furono brevi e lesti i preparativi per la partenza. Il tempo che fecero are fu quello necessario ad avere una macchina da presa, una machina di proiezione e quanto poteva essere utile perché sulla Coronide si fe del cinema. Cavalcarono insieme Sogàpe ed insieme volarono per raggiungere il regno solitario e forte, chiuso nella sua grandezza e nel suo isolamento. La sorpresa di Supremo fu grandissima. Quando gli dissero che Catiagone stava arrivando con Romilda, la sua dolcissima, ebbe un solo pensiero: quello di cancellare con la sua filastrocca magica, barba e baffi che ormai erano diventati così lunghi da rischiare di restare soffocato. I festeggiamenti furono tanti e durarono a lungo. Da quel momento Supremo non ebbe più le parvenze di mago e volle che i suoi sudditi tutti rinunziassero a quanto era stato, da sempre, il loro orgoglio. Catiagone fece del cinema e fu molto bravo. Tutti si accorsero che i suoi baffi e la sua barba non crescevano più come prima.
Il perché lo capirono più tardi: quella parte di mago che c’era sempre stata in lui era rimasta tra le nuvole quando, con Sogàpe era arrivato a impadronirsi di un raggio di sole. Ma il cinema che faceva senza musica non poteva essere bello, come lo voleva lui. Allora invitò i musicisti delle terre vicine perché, anche a Coronide, potessero godere della musica come godevano sugli altri cocuzzoli. E anche lì la musica fu magia. Poiché quella era la volontà di Catiagone, Supremo accettò la musica pur sapendo che avrebbe comportato numerose rinunzie. Anche diventare guomenidi con tutti i loro lati negativi. La musica ebbe il sopravvento. Si fornirono di strumenti. A poco, a poco tutti i coronidi suonarono. Si formarono le orchestre e le bande. Furono bravi tanto da poter gareggiare con quelli dei cocuzzoli vicini. Catiagone suonò il flicorno, ma volle essere lui a mandare il primo squillo di tromba, che riecheggiò nelle valli e raggiunse Cutrinello, ando per Fiaccavento, per Molitutto e per Cunelotto. Da tutti ebbe una risposta plaudente e gli squilli si fo nell’aria, formandone uno solo. Dopo di lui, gli araldi che suonarono la tromba mattutina si alternarono, considerandolo un grande onore. Non fecero sorgere il monumento a Mattia come era avvenuto a Fiaccavento, a Molitutto, a Cutrinello e a Cunelotto perché la storia di Mattia arrivò, a Coronide, avvolta da un velo di leggenda. In compenso un grande telone fu sistemato nella piazza principale e tutti poterono guardare quello che veniva proiettato, in continuazione, notte e giorno. Da quel momento sul cocuzzolo della Coronide vissero di favole. Tutti si cimentarono e ne inventarono. Tutti, giovani e vecchi; uomini e donne riempirono la loro testa di fantasticherie e di fragili invenzioni. Si accorsero che la natura guomenide, che andavano assumendo, viveva di
fantasie, di sogni, a volte, irrealizzabili e deludenti. Tuttavia ormai la loro vita si svolgeva in piazza, davanti al telone su cui proiettavano vicende di vita non vera. Il resto della giornata si perdeva in commenti e critiche. Coronide diventò la città del cinema per eccellenza, la città dei sogni. Arrivarci per fare l’attore, significava avere toccato la vetta e restare, nella storia del cinema, come stelle nel firmamento. Da allora i films che circolarono nelle sale dei guomenidi portarono, in prima pagina, una corona fronzuta a dimostrarne la provenienza. Guardando le diverse illustrazioni del libro di Rottocela, si può capire come Romilda e Supremo abbiano ato insieme gli ultimi anni della loro vita in serenità. A Coronide accettarono di diventare guomenidi anche perché Romilda non avrebbe mai accettato di trasformarsi in una maga. E Romilda fu la regina amata dai suoi nuovi sudditi. Per la prima volta nella storia, fu detta regina chi poteva aprire e chiudere, anche senza chiavi, il cuore di un re. Così scomparvero gli ultimi segni di quella che fu una grande razza e una grande vita. Forse un giorno qualcuno, riconoscendo il valore della memoria, proporrà di intitolare, nella Coronide, una via, almeno una via, a Rottocela.
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- capitolo ottavo E magia significò meraviglia e stupore
1. Così scomparve la razza dei maghi Il libro di Rottocela fu letto dagli studiosi. Fece il giro del mondo perché fu letto anche da coloro che, pur non essendo studiosi, si sentivano presi dalla figura di Catiagone che, da quelle pagine, veniva fuori misterioso e affascinante. Perché quando Rottocela, nel suo libro, parla di Catiagone, la sua voce si vela di mistero. Parla di un artista, che aveva manifestato il suo talento, non solo nel campo della cinematografia, ma anche nella poesia, nella pittura e nella scultura: campi diversi, mai contrastanti tra loro. Da Rottocela sappiamo che Supremo fu l’ultimo re del regno della Coronide, così come Serasmone del cocuzzolo di Fiaccavento, Parisotto di Molitutto, Verricello di Cunelotto e Bisernino di Cutrinello. Rinunciare alle capacità magiche, per Supremo non era stata una cosa traumatica. Nulla poteva più turbarlo, neanche il non essere mago, visto che era finita la sua solitudine e il tempo in cui nessuno riusciva a colmare il vuoto che sentiva nella nostalgia di Romilda dolcissima, che aveva amata. Nessuno sapeva il perché di quel silenzio e di quel non desiderare di fare una attività innovativa che potesse cambiare il solito tran tran delle loro giornate. C’era chi chiedeva il permesso, sempre accordato, di andare tra i guomenidi per le spacconate. Ma forse perché sapevano già che il trono sarebbe stato di Catiagone, le loro imprese perdevano di competitività. Tuttavia non mancavano quelli che lo facevano per pura ione di avventura o per il desiderio di dimostrare a se stessi le capacità di cui natura li aveva dotati. Con i coronidi si completò la trasformazione in guomenidi di tutti gli esseri viventi e non ci furono più differenze. Scomparsa la cattiveria, che li aveva sempre caratterizzati, dicevano, con un nuovo orgoglio, che erano tutti cittadini di una stessa terra, che avrebbero lavorato insieme a farla bella e che insieme avrebbero guardato avanti. Certamente all’orizzonte per tentare di aprire un varco e arrivare lontano: avrebbero così saziato il loro desiderio di conquista. Perché le conquiste erano le spacconate dei guomenidi.
«Le conquiste sono la nostra vita» - solevano dire i guomenidi; così come i maghi avevano sempre detto: «Sono le spacconate che ci fanno grandi».
2. La città della vita presentata con fantasia L’ultima parte del libro di Rottocela contiene la storia ricca e tormentata di Catiagone. Catiagone si era sentito mago solo a metà. A suo tempo, aveva aiutato Supremo a conquistare e ad assoggettare gli Ziiti. Ma l’altra metà, che lo completava, anelava a diventare pienamente un guomenide e a vivere di arte: anelava al sapere, che dà il piacere di vivere e di amare. La sua bellezza fu un mezzo per ammorbidire le anime più aspre, la sua vivacità lo aiutò a conquistarsi la successione al trono senza temere concorrenti, visto che si diventava re non solo per eredità, ma anche e soprattutto per le capacità spacconatorie e magiche. L’impresa contro gli Ziiti, era stata considerata più che una spacconata. Infatti egli aveva già legato, indissolubilmente, il suo nome alla conquista della terra degli Ziiti e alla sottomissione di quel popolo al volere di re Supremo. Il caso lo portò a conoscere quella nuova arte che i guomenidi chiamavano cinematografia. Ne fu affascinato. Perché dotato di intelligenza superba, era riuscito a toccare le vette in un campo dove solo in pochi ce la facevano a capire qualcosa. Fu per merito suo che il mestiere di regista diventò il mestiere a cui approdarono quelli che seppero dare al mondo guomenide i films più belli; i films che restarono nella storia come momenti di conquiste e tappe raggiunte. Successivamente, la trasformazione dei maghi della Coronide in guomenidi gli permise di muoversi facilmente in quelle terre dove fare del cinema era diventata parte della vita stessa. Il merito più grande di Catiagone - così scrive Rottocela - fu quello di aver creato, nel regno della Coronide, una città che lui diceva della vita presentata
con fantasia. In questa città furono ricreate le scene necessarie a quel mondo fantastico che la natura non poteva offrire; luoghi e situazioni del mondo antico che si voleva raccontare ai giovani, i quali avrebbero riscoperto la bellezza del ato subendo quel fascino, che sulle nuove generazioni sempre agisce con prepotenza. La città della vita presentata con fantasia andò ingrandendosi e arricchendosi tanto da diventare unica e da non temere la concorrenza delle altre città simili che, a mano a mano, andarono sorgendo nelle varie parti del mondo guomenide. La sua città del cinema fu detta Catiagonide. In un secondo momento, dissero solo Catiagonide quando vollero parlare di cinema, di attori, di registi, di produttori e di tutti quelli che esplicavano la loro attività in quel campo. Tutto questo, però, non bastò a Catiagone. «Completeremo i nostri films con la musica» - diceva, ripetendolo a Rattinello, che era il suo collaboratore. Mandò un banditore sui cocuzzoli vicini e chiamò a Coronide orchestranti e suonatori; giazzisti e cantanti dalla voce conturbante, riuscendo a ricreare quella atmosfera magica che avevano saputo già creare sugli altri cocuzzoli. Questa volta la parola magia significò meraviglia e stupore assieme alle intime vibrazioni che ciascuno avvertiva. Per molti anni la produzione più copiosa di films usci da Catiagonide, perché fu la più accettata e la più richiesta, essendo ogni immagine accompagnata da un sapiente commento musicale. Fu merito del giovane Catiagone aver capito che fare un film significava circondarsi di collaboratori, che furono poi: l’operatore, lo sceneggiatore, il costumista, il truccatore, a cui si aggiungono gli attori: ultimi, anche se sembra un controsenso. Catiagone impostò una impalcatura meravigliosa, che presto però consegnò ad altri.
Certamente si può dire consegnò perché nel momento più bello e remunerativo della sua carriera cadde in una profonda crisi che lo catapultò lontano dal suo ambiente e lontano anche da Coronide, che lo aveva visto crescere e farsi grande, ma che aveva visto anche i suoi momenti di sconforto. Quello che successe a Catiagone, Rottocela ce lo racconta solo in parte.
3. Catiagone poeta solitario Rottocela scrive solo che era riuscito ad avere un diario, in cui Catiagone aveva annotato i momenti più importanti della sua vita. Non volle tradurre quel diario in coronide moderno. Non lo volle consegnare ai suoi lettori. Temette di violare i segreti di un’anima che aveva trovato, nella arte, la pienezza della sua vita e quell’amicizia che non lo avrebbe mai tradito. Rottocela aveva capito tutto questo e si volle fermare .Si limitò a dire solo della volontà che Catiagone ebbe sempre di conoscere, di sapere e di quella forza che lo spinse, un giorno, a partire. Ormai il regno della Coronide scompariva, come regno, annullandosi lentamente nell’importanza che andava assumendo Catiagonide, la città che presenta la vita con fantasia. La sua partenza - così racconta Rottocela - avvenne in una notte rigida d’inverno. Col mantello ruotato sulle spalle e un cappello a falde larghe calato sugli occhi, Catiagone montò Sogàpe. E via. Tutto gli sembrò come quel giorno che per la prima volta aveva lasciato la Coronide, solo che Sogàpe questa volta non aveva più le ali. La cosa era facilmente immaginabile visto che, finita la magia, anche le ali dei cavalli erano scomparse. A questo, che era ormai un dato di fatto, Catiagone si era abituato. «Questa volta non volerai, Sogàpe» - gli disse - «ma mi porterai ugualmente là dove io voglio arrivare».
Non era stato difficile per i maghi, diventati guomenidi, cavalcare e galoppare, superando ostacoli degni del miglior cavaliere. Né si può pensare che Catiagone avesse delle difficoltà. Si allontanò senza spronare, come se volesse ascoltare gli ultimi momenti di riflessione, che potevano anche indurlo a desistere da quel proposito, che tuttavia maturava da tempo. Solo al sorgere del sole, inebriato di luce e di aria, spronò Sogàpe e via per i campi liberi, libero anche lui di guardare l’orizzonte e di mirare lontano, oltre una nuvola che, leggera, si muoveva portandosi dietro, con Sogàpe, il suo desiderio di vita. «Via, via» - gridava - «lontano, lontano. Portami lontano» - continuava a dire spronandolo - «tocchiamo altre vette. Fermati solo quando potrai dire: ma poi c’è il mare». Aveva lavorato e voleva ancora lavorare nel campo della cinematografia, che continuava ad essere il suo entusiasmo e il suo amore, ma avvertiva dentro una forza prepotente, che lo spingeva e lo portava a desiderare altre mete. Pensò che avrebbe cavalcato fino a toccare le acque dell’Oceano. Poi avrebbe certo fermato il suo vagabondare. Vagò senza fretta; ma era il sole che lo spronava e il vento turbinoso che lo aggomitolava nel suo mantello e gli dava la sensazione chiara di quel suo nuovo stato d’animo, che egli aveva percepito, ma non capito. E Sogàpe andava a briglia sciolta, conducendolo lontano là dove sapeva che doveva arrivare. Perché , pur avendo perduto le ali, conservava ancora le sue capacità intrise di antica magia, che gli permettevano di capire i desideri di Catiagone. Non poteva diventare un guomenide, ma quelle capacità che gli erano rimaste, gli permettevano di fare quello che istintivamente capiva di dover fare. Avvenne una sera luminosa di autunno, quando i colori marcati sembrano riati da un pennello invisibile; quando il sole, a conclusione delle ore luminose, lascia spazio ad una luna timida e silenziosa, quasi indecisa se affacciarsi e coinvolgere; quando il vento non gonfia le sue gote, anelando al riposo; quando ogni essere si ferma, quasi trattenendo il respiro e niente rompe quell’equilibrio, che solo a volte si presenta e che, per questo, dicono raro. Fu
allora che Catiagone ascoltò. Riuscì a capire quello che, ancora bambino, credeva fosse solo il desiderio di non vivere più in solitudine; o, da giovane, che fosse il suo rifiuto di essere sempre il più bravo degli altri. Adesso in quel sentire Catiagone si era scoperto poeta. L’accolse un capanno. Erano canne intrecciate. Chi l’aveva fatto era un solitario, come lui. Da lì poté guardare il mare nella sua grande serenità. Ma quando spumeggiava, allora ascoltava. Aveva capito questo e aspettava che l’Oceano raccontasse. Né fame né sete lo distoglievano. Né sole né luna lo distraevano. Né vento né pioggia lo fiaccavano se il mare parlava. Capì che su quella roccia nessuno sarebbe andato a cercarlo e che finalmente avrebbe potuto dare ascolto e dipanare quei grovigli di pensieri, che si affacciavano alla sua mente e tormentavano il suo spirito. Fu così che Catiagone abbandonò il capanno solo quando ebbe finto la sua grande opera letteraria. Tornò nella Coronide. Nella città che presenta la vita con fantasia occupò il suo posto. Nessuno mai poteva pensare di non accoglierlo con festa ed entusiasmo. Tutti lessero il poema di Catiagone e fu, tra i guomenidi, considerato il poema del cielo e della terra, il poema degli esseri viventi e anche il poema del loro progresso e della loro civiltà. Lo chiamarono: ZARZUELA. Si potrebbe pensare che Catiagone avesse raggiunto la sua serenità con la soddisfazione. Ma c’era ancora - così racconta Rottocela - qualcosa a cui egli anelava. Catiagone ò il tempo della sua maturità a creare capolavori di arte scultorea.
Lo fece col marmo della sua Coronide, dopo avere scoperto che quel cocuzzolo era una miniera di marmi pregiati. Affascinato dal candore o dalle venature ora prepotenti, ora meno, arricchì la sua terra di capolavori artistici. La sua opera più grandiosa fu la statua equestre di re Supremo, che volle nello spiazzo davanti al castello. Ancora oggi si può ammirare quella statua, che ci dice della storia di quella gente: maghi diventati guomenidi; ma soprattutto ci dice di Catiagone: l’artista che seppe essere grande nella cinematografia, nella poesia e nella scultura. Arti diverse da sembrare contrastanti; ma appunto per questo capaci di far capire come l’arte sia una sola e come un artista possa abbracciarne tutte le forme. Anche perché - a detta di Rottocela - Catiagone ò la sua vecchiaia dipingendo e creando capolavori, il cui soggetto spaziava dal mito a momenti della vita quotidiana. Quella era un’arte che non lo affaticava molto e se la permise anche da vecchio, fino a quando non salutò, convinto che sarebbe ancora tornato. «Non so» - diceva - «quando tornerò; ma tornerò. Allora vivrò solo di arte: unico mezzo per esprimere l’Amore».
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