Wiccan. Libro Primo 2d431r

Claudio Paganini

WICCAN

Libro Primo

www.0111edizioni.com

www.0111edizioni.com

www.quellidized.it/

www.facebook.com/groups/quellidized/

Wiccan - Libro Primo

Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-774-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com

A mio padre.

So che leggerà anche questo mio libro.

Un ringraziamento speciale a mia sorella Gabriella che si è assunta l’onere (e l’onore) di controllare e correggere il mio lavoro.

Prologo

Era un rigido inverno quello del 1680, quando mia madre Mary mise al mondo un piccolo esserino tutto rosso e paffuto che avrebbe poi chiamato Sara: io. Il

travaglio era stato lungo ed estenuante e le cattive condizioni atmosferiche non avevano di certo aiutato; la levatrice, proveniente dal villaggio vicino, arrivò appena in tempo per aiutarmi a nascere, in mezzo alle urla e al sudore di quella povera donna. Era il secondo parto che sopportava in quelle condizioni, l’ultimo dopo un aborto spontaneo avvenuto l’anno precedente che l’aveva quasi portata in punto di morte. Ma la forte fibra dei coloni aveva avuto la meglio anche questa volta e ora mi trovavo tutta sporca e piangente tra le braccia di mia madre. I figli erano la dimostrazione dell’Amore di Dio o così almeno insegnava il pastore puritano del nostro villaggio ma in quel momento, l’unica cosa che interessava a mia madre era che io ero viva e in salute, tutto il resto erano solo parole al vento.

Mio padre era alla taverna, circondato dagli amici e dai parenti più stretti, in attesa di notizie sulla mia nascita; era in ansia, visto com’era andata a finire la scorsa gravidanza, ma non lo dava a vedere, si sforzava di sembrare allegro e ottimista ma dentro di sé moriva di paura.

Contrariamente a quello che succedeva di consuetudine tra gli abitanti delle colonie, il suo era stato un vero matrimonio d’amore, sbocciato in giovane età e coltivato di nascosto fino a quando le possibilità economiche gli avevano permesso di raggiungere un accordo con i futuri suoceri. A quei tempi, lui e mia madre vivevano ancora a Salem, dove mio nonno, Abraham Baldwin, possedeva un appezzamento di terreno che coltivava durante la bella stagione mentre d’inverno cacciava animali da pelliccia insieme ai suoi figli. La sua integrità morale, unita alla disponibilità economica, gli aveva fruttato la nomina di gentiluomo nella cerchia ristretta dei puritani benestanti di Salem e questo fu fondamentale per la richiesta di matrimonio di suo figlio George con Mary Hobbs, mia futura madre.

Tutto questo era privo di significato per me che, nuda e tremante, cercavo conforto e calore sul corpo esausto di quella povera donna che mi aveva appena partorito, un esserino tutto strilli e pianti, avida di latte e di attenzioni, misero premio dopo così tante sofferenze.

La levatrice non era certo una donna delicata, anche se sapeva fare bene il suo lavoro: ricucì alla meglio con un grosso ago e del filo di seta le parti intime della sua paziente e mi lavò con l’acqua tiepida del catino di stagno posto ai piedi del letto; dopo di che mi avvolse in un panno morbido, caldo e pulito e mi affidò alle cure amorose di mia mamma. Questa, in breve, fu la storia della mia nascita, nulla di speciale nella storia di Wenham, piccolo borgo immerso nel verde dei boschi e della campagna, a poche miglia da Salem, nella contea di Essex, il 2 febbraio dell’anno del Signore 1680.

Capitolo 1

Wenham era un piccolo paesino, poco più di un villaggio, costruito su un territorio ricco di acqua e di foreste. Prima del nostro arrivo, queste terre erano occupate dagli indiani Algonchini della tribù dei Massachusett, gente pacifica dedita alla caccia, alla pesca e alla coltivazione di un nuovo tipo di cereale, il mais. Erano un popolo nomade che si spostava, a seconda delle stagioni, verso terreni dove era più facile trovare cibo. Quando, nel 1638, il ministro della chiesa di Salem Hugh Peters predicò a un gruppo di suoi concittadini, riuniti su una collina della Great Pond, la necessità di fondare nuove colonie, un gruppo di avventurieri si spinse nel territorio algonchino fino a raggiungere un loro insediamento appena abbandonato. Trovando terreno fertile pronto per la semina e abbondanza di acqua e legname, decisero di fondare proprio in quel posto la nuova comunità, chiamandola Wenham in ricordo dei loro villaggi di provenienza, nella contea di Soffolk in Inghilterra. Insieme alle case per gli abitanti, i coloni eressero la loro chiesa, terminata nell’ottobre del 1644, con John Fiske come pastore e sette famiglie come membri anziani, secondo le migliori tradizioni puritane dell’epoca.

Questa almeno era la storia che i vecchi del paese raccontavano ogni volta che potevano, arricchendola sempre di nuovi particolari a volte veramente incredibili. Erano ati poco più di quarant’anni dall’arrivo dei primi coloni ma il tenace lavoro della comunità aveva dato i suoi frutti. Altre famiglie si

erano unite nel corso degli anni tanto che, al momento della mia nascita, Wenham aveva esteso i propri confini a sud verso Wenham Lake e a nord verso Pleasand Pond; le nuove fattorie che sorgevano avevano bisogno di terreno e di acqua e quei luoghi ne erano particolarmente ricchi. Gli indiani tornarono anno dopo anno spostando i loro campi più a ovest, tra Cedar Pond e Muddy Pond; si era temuto uno scontro i primi anni quando al ritorno dai loro campi invernali avevano trovato il loro territorio occupato da forestieri che avevano costruito fattorie proprio sulle loro terre. Ringraziando il Signore, la tribù era d’indole buona e pacifica; non solo avevano accettato di spostare il loro accampamento ma avevano iniziato una sorta di commercio basato sul baratto e insegnato ai nostri contadini come si coltivavano il mais e altri cereali come il riso selvatico. Non tutti erano stati fortunati come noi a trovare vicini così disponibili e comprensivi: erano giunte notizie che in altri posti le tribù di pellirosse si erano rifiutate di cedere la loro terra e c’erano stati scontri sanguinosi che ancora perduravano. E qui, in questa vallata incantata, io e mio fratello Jonathan ammo i primi anni della nostra infanzia. La nostra casa era situata ai margini del paese, vicino alla foresta; mio padre coltivava un appezzamento di terreno vicino a Muddy Pond, terra fertile abbastanza vicino allo stagno da garantire una facile irrigazione, mentre mia mamma, oltre ad aiutarlo nei campi, preparava medicamenti e infusi con le erbe che quotidianamente raccoglieva nei boschi. Era questo l’aspetto di mia madre che più mi affascinava: era capace di girare per ore nei boschi circostanti, spingendosi a volte molto lontano, per raccogliere erbe e funghi che poi impiegava in mille modi diversi, in cucina, per curare gli animali e, a volte, anche gli uomini. Non ava giorno che qualcuno bussasse alla nostra porta per chiederle aiuto, fosse soltanto per suturare una ferita o per alleviare il dolore per un’ustione; credo che fosse la donna più benvoluta di tutta la comunità, tanto che anche il pastore, durante la funzione del sabato, aveva più volte elogiato lo spirito caritatevole e le doti cristiane di Mary Hobbs. Non era raro che mio fratello, più grande di me di tre anni, seguisse mio padre durante le battute di caccia alle anatre selvatiche mentre io e la mamma ci dedicavamo alla raccolta delle foglie e delle radici che le occorrevano. Era un’occupazione che ogni volta mi riempiva di gioia e di ammirazione verso quella donna che conosceva così tante cose; la seguivo costantemente e osservavo tutto quello che faceva tanto che, all’età di quattro anni, ero già in grado di dare il mio piccolo aiuto alla sua attività.

Come in ogni famiglia puritana che si rispetti, anche nella nostra lo studio della

Bibbia era una pratica quotidiana che ci teneva impegnati per varie ore, ma era anche l’occasione per imparare molte cose, prima fra tutte leggere e scrivere. Mio fratello era insofferente a questi insegnamenti, tutto preso dalla smania di emulare mio padre in ogni sua attività; lo seguiva ovunque, ripetendo i gesti che gli vedeva fare, chiedendo insistentemente che gli insegnasse a cacciare con l’arco e le frecce come i pellirossa. Era una tecnica che George aveva imparato dal suo amico Falco Lucente, l’algonchino con cui, fin dal nostro arrivo, aveva commerciato e di cui, inevitabilmente, era diventato amico; aveva, infatti, un’ammirazione profonda verso quel popolo nomade, tanto pacifico quanto operoso: era affascinato dalla loro libertà, dal modo semplice di concepire la vita e i suoi misteri, dalla perfetta armonia con cui avevano organizzato la loro società. Spesso, a notte fonda, quando tutti pensavano che noi piccoli dormissimo, sentivo i nostri genitori chiacchierare sottovoce proprio di quest’argomento. Quando mio padre paragonava la loro società alla nostra, un velo di tristezza calava sulla sua voce: ero sicura che, se avesse potuto, sarebbe partito con loro invece di rimanere qui a rendere conto di tutto al consiglio della chiesa.

Il suo rapporto così amichevole con “i selvaggi”, come amavano definirli i gentiluomini della nostra comunità, non era ben visto dai nostri concittadini e, spesso, ciò era stato fonte di rimprovero e di condanna, anche se limitata a battute poco gentili o a sgarbi velati: tutti avevano bisogno delle conoscenze di mia madre o della forza di mio padre ma nessuno ci avrebbe mai invitato di proposito a casa loro.

I miei genitori soffrivano di questa situazione e così pure mio fratello, preso di mira dagli scherzi degli altri ragazzi e messo da parte quando si facevano giochi di gruppo. Per fortuna non tutti erano così meschini a Wenham e così potevamo onorarci di una piccola schiera di amici cui non interessavano le dicerie e le maldicenze, persone che apprezzavano il carattere onesto e gentile della nostra famiglia e null’altro.

Anche il fatto che Mary avesse solo due figli era visto sotto una cattiva luce dai

benpensanti della comunità; poco importava che tutti sapessero che la mia nascita aveva così provato il fisico di mia madre da rendere impossibile una nuova gravidanza: abituati a famiglie molto numerose, la nostra era un’eccezione che saltava subito agli occhi e non in senso positivo. Le giornate avano una uguale all’altra, scandite dal lavoro nei campi, dalle faccende domestiche e dall’inevitabile studio delle sacre scritture; per questo l’arrivo del sabato era festeggiato come una grazia divina. In quel giorno era vietato, infatti, lavorare o commerciare, dedicando l’intera giornata al Signore; ci si riuniva in chiesa, un edificio spoglio, senza tutti quegli arredi sacri e le candele che avevo visto una volta di sfuggita in una chiesa cattolica a Gloucester, durante una visita a una delle sorelle della mamma.

Cantavamo inni, leggevamo brani della Bibbia e ascoltavamo i sermoni del nostro reverendo che ci metteva in guardia dal peccato, citando i salmi e i profeti dell’Antico Testamento esortandoci a ringraziare l’Onnipotente per la nuova terra che ci aveva donato.

Ma la parte più bella della giornata veniva subito dopo, quando avevamo il permesso di andare a giocare tutti insieme; durante la bella stagione era l’occasione per recarsi a uno degli specchi d’acqua poco distanti dal villaggio per fare il bagno, mentre gli adulti formavano gruppi che organizzavano pranzi frugali all’aria aperta. Anche quella era un’opportunità per stringere nuove amicizie o consolidare quelle vecchie ma, come sempre accade nelle piccole comunità, era anche la circostanza in cui i vari ceti sociali della collettività facevano pesare la loro diversità.

Il nostro gruppo era sempre lo stesso, composto di altre due famiglie di amici intimi: c’erano gli Sheldon con i loro cinque figli, Mark, Susan, Abigail, la mia migliore amica, Jordan e il piccolo Tom di appena quattro mesi e gli Short con i loro sei figli scalmanati, i gemelli Abram e Robert, Ann, Samuel, poco più grande di me, William e infine Nathan che muoveva i primi i da solo sull’erba, in quella calda giornata di primavera dell’anno del Signore 1686.

Capitolo 2

Le uscite nei boschi con mia madre avevano più di uno scopo: con il pretesto della raccolta, i suoi insegnamenti si estendevano, oltre che alle piante, alle radici e alle loro proprietà, anche a tutto ciò che ci circondava. Durante le lunghe perlustrazioni nei boschi e lungo gli acquitrini osservavamo gli alberi e le loro forme, le radure: perfino i luoghi dove crescevano i fiori selvatici erano oggetto di lezioni su come la Natura fosse armonia e forza, bellezza e magia. Io seguivo i suoi insegnamenti come poteva farlo una bimba di sei anni ma sentivo, in cuor mio, che mi stava preparando a qualcosa di molto più grande, più complesso, con la delicatezza e la pazienza che solo una madre poteva possedere.

Ci allontanavamo ogni volta sempre di più, alla ricerca di specie nuove, più adatte ai bisogni e alle richieste del vicinato e ogni volta osservavamo come la natura sapesse essere così perfetta, così splendente nelle sue forme. La “Grande Madre” la chiamava, mentre si chinava a recidere, con una piccola lama affilata che portava sempre con sé, lo stelo o il gambo di qualche pianta officinale e ogni volta la sentivo mormorare con un filo di voce una sorta di preghiera, un ringraziamento in una lingua che non avevo mai sentito. Ero troppo piccola per capire e mia madre reputava che fosse troppo presto per approfondire le mie conoscenze, troppo pericoloso proprio a causa della mia tenera età e del mondo che ci circondava. Una cosa però avevo imparato da sola: c’erano luoghi nella foresta o sulle rive dei laghetti che visitavamo che avevano qualcosa di strano, di impalpabile eppure di tangibile, almeno per me. Quando cominciai a percepire queste strane sensazioni non ne feci parola con nessuno, nemmeno con mia madre; avvertivo qualcosa nell’aria, nelle piante, perfino nell’acqua che mi lambiva i piedi, nulla di sgradevole, tutt’altro: una sorta di pizzicorino che mi attraversava tutta la pelle, partendo dalla nuca, e che mi riempiva di energie, di euforia senza alcun motivo. All’inizio ne ero intimorita, quasi stessi provando qualcosa di proibito, di peccaminoso, visto che nessun altro lo provava ma, con il ar del tempo, imparai a gioirne e ad apprezzare queste sensazioni, anche perché era proprio in quei luoghi che trovavamo le erbe migliori.

Fu solo al mio nono compleanno che mi decisi ad accennare la cosa alla mamma; ricordo che era sera, davanti al fuoco del camino, stavamo disponendo alcune radici su un graticcio in modo che seccassero in modo uniforme e io mi ero incantata ad ammirare le fiamme che danzavano nel focolare.

«Sara, che cos’hai? Mi sembri lontana con i pensieri… c’è qualcosa che non va?»

«No mamma, nulla. Mi ero incantata a vedere le fiammelle che danzano sul ceppo: non fanno mai lo stesso movimento e, se ti immagini di suonare una musica, sembra che danzino per te.»

Mia madre rimase colpita dalla mia ingenua spiegazione e posò immediatamente il canestro con le erbe sul tavolo, si avvicinò a me e dopo aver preso il mio viso tra le sue mani, cominciò a osservarmi con attenzione; aveva occhi splendidi, di un verde pallido, con pagliuzze dorate che scintillavano alla luce del fuoco. Non era preoccupata, solo incuriosita e, cosa che non riuscivo ancora a capire, si leggeva nel suo sguardo un’aspettativa, la speranza di scorgere qualcosa da tempo atteso.

«Mi fai vedere come fai?» mi chiese sorridendo compiaciuta; le sue labbra si erano allargate in un’espressione di gioiosa meraviglia e tutto il suo viso si era come illuminato.

«Ma, non so, mi viene naturale. Io penso a una delle musiche che suona papà con il flauto e le fiammelle si mettono a danzare, tutte insieme.»

Osservavo mia madre che scrutava dentro il camino e quasi stentavo a credere

che prendesse per buone le mie parole: ero abituata a essere derisa quando raccontavo le mie avventure con la mamma nei boschi e avevo imparato quasi subito a tenere per me tutto quello che mi succedeva, compreso questo strano fenomeno.

«È vero, ballano davvero a suon di musica» la sentii dire mentre, raggiante, si voltava verso di me.

«Domani andremo di nuovo nel bosco, verso sera magari, così ti insegnerò altre cose, cose speciali che non dovrai rivelare a nessuno, nemmeno a papà. Ora vai a dormire perché domani sarà un giorno molto intenso.»

Capii in quell’istante che mio padre era all’oscuro dei piccoli segreti che condividevo con la mamma, di tutto ciò che esulava dalla semplice pratica dei decotti e delle tisane che mia madre preparava per chi ne aveva bisogno; in quel momento compresi di far parte di un mondo diverso, fatto di sotterfugi e stratagemmi che celavano la vera natura delle cose che sapevamo, qualunque essa fosse... e ne ebbi paura.

Mi svegliai molto presto la mattina del giorno dopo; avevo dormito male durante la notte, la testa piena di pensieri e di timori: a nulla era valso il tentativo di autoconvincermi che le cose che la mamma mi avrebbe detto quel giorno potevano essere solo positive, che il sorriso sul suo volto era una prova certa che mi stava succedendo qualcosa di bello e non di orribile come temevo. Riecheggiavano ancora nelle mie orecchie le parole del reverendo che, durante il sermone del sabato, aveva esortato noi bambini a essere vigili perché «il demonio si nasconde nelle cose più comuni, dall’apparenza innocue. Vi inganna e vi tenta con le sue lusinghe.»

Mio padre e mio fratello si stavano preparando per andare a pesca; le prime luci

dell’alba avevano rischiarato da poco l’orizzonte e mia madre era intenta a preparare la colazione: sarebbero stati via tutto il giorno e, con un po’ di fortuna, avrebbero portato a casa dei bei pesci da arrostire nel camino. Li salutai sulla porta di casa con una punta d’invidia mista al timore per la giornata che mi attendeva; quel giorno avremmo fatto le faccende e sbrigato gli obblighi verso Dio con più rapidità del solito perché mia madre aveva altri progetti per me, qualcosa che avrebbe cambiato irrimediabilmente la mia vita e quella delle persone a me care. Solo che io ancora non lo sapevo.

Capitolo 3

Il bosco sembrava ancora più verde del solito ai miei occhi; ogni colore brillava con un’intensità che faceva quasi male mentre i raggi del sole del primo pomeriggio scendevano obliqui sul terreno. Avevamo preso il sentiero dietro casa, quello che dopo pochi metri girava improvvisamente e senza alcun visibile motivo verso ovest, in direzione degli stagni; lo avevamo percorso centinaia di volte, sia per andare a raccogliere erbe che per andare a fare il bagno nei caldi pomeriggi estivi. Ora, all’inizio dell’autunno, camminavamo su un tappeto di foglie multicolori che attutivano il rumore dei nostri i; la natura, in quel periodo dell’anno, regalava un paesaggio senza eguali: rosso, verde e giallo si fondevano e si mischiavano creando sfumature sempre diverse, una più bella dell’altra. Fu in quel miscuglio di colori e di sensazione di pace e tranquillità che non mi accorsi di aver abbandonato il solito percorso, inoltrandomi nel fitto della foresta. Mia madre mi seguiva, compiaciuta, senza interferire nella mia scelta del percorso, quasi si fidasse ciecamente delle mie sensazioni, del mio intuito. D’altra parte io ero così rapita da tutto quello che mi circondava da camminare senza nemmeno accorgermene, guidata da una forza che non sapevo spiegare ma che sentivo potente tutt’intorno a me: non ne ero spaventata, tutt’altro, ne ero inevitabilmente attratta e affascinata al punto di perdere completamente la cognizione del tempo e dello spazio.

Camminammo per ore, apparentemente senza meta, finché non giungemmo in una piccola radura, nel cuore del nulla; era veramente minuscola se paragonata a

quelle che si aprivano nei boschi vicino a casa, poco più grande della piazza del nostro villaggio, ma era impregnata di una forza che non avevo mai sentito, una sorta di presenza mistica, invisibile ma presente. Nessuno aveva usato l’ascia in quel luogo per creare quello spazio ma c’erano indizi che quel posto fosse frequentato, sia pure saltuariamente. Una pista piena di orme di animali usciva dal folto della foresta puntando dritto verso la fonte che zampillava dal terreno, al centro della radura; la sorgente creava un piccolo laghetto di acqua cristallina che ora scintillava al sole mentre, poco distante, un grosso cerchio di pietre indicava il posto dove i frequentatori umani avevano un falò, abbastanza distante dal sentiero degli animali in modo da non disturbare la loro via per l’abbeveraggio. C’era uno strano silenzio, rotto solo dal gorgogliare della fonte; la mia pelle vibrava, assorbendo l’energia di cui era impregnato quel luogo e tutto mi sembrava così irreale, come in un sogno; mi voltai verso mia madre per cercare spiegazioni ma quello che vidi mi lasciò senza parole: i suoi capelli, lunghi, scuri, sembravano fluttuare nell’aria, leggeri e lucenti, quasi senza peso. Aveva gli occhi chiusi e le braccia aperte e sembrava che galleggiasse nell’aria, il viso sereno, felice, quasi in estasi; la osservai in silenzio riuscendo solo a pensare che l’unica volta che l’avevo vista così era stato l’estate precedente, a Maddy Pond, quando ci eravamo lasciate galleggiare sul pelo dell’acqua immobile dello stagno, calme e rilassate, i capelli che si allargavano a raggiera dalle nostre teste, seguendo le deboli correnti del lago.

Non riuscivo a credere ai miei occhi tanto la scena appariva strana, più appropriata a un sogno che non alla realtà; non sapevo cosa fare, rapita dalla magia di quel luogo e da ciò che i miei occhi stavano guardando.

«Mamma, mamma…» la chiamai con un filo di voce, timorosa di spezzare quell’incantesimo che si era creato.

«Va tutto bene bambina mia, va tutto bene. Chiudi gli occhi e dammi le mani, come quando eri piccola e facevamo il girotondo, abbandonati alla Grande Madre che ti sta chiamando. Non la senti? Non senti la sua potenza che ti pervade e ti riempie di energia?»

Chiusi anch’io gli occhi e allungai le braccia verso di lei; le sue mani erano calde, ruvide per il lavoro dei campi ma stranamente morbide e mi trasmettevano un senso di sicurezza, di protezione. Tutt’intorno il silenzio era totale, fatta eccezione per un rumore lieve, quasi impercettibile, come un fruscio d’ali di farfalla. Non mi accorsi di staccarmi da terra, almeno non subito; mi sentivo leggera, come una piuma al vento, come una foglia che lentamente viene sollevata da un refolo d’aria autunnale e trasportata lontano. Ora la nostra pelle brillava di una luce azzurrina, fluorescente mentre ci libravamo nell’aria a un palmo da terra.

«Questa è “l’estasi della Wicca”, uno stato di profonda unione tra lo spirito magico e la Grande Madre, dea di tutte le cose. È il primo o per accedere a un mondo tutto nuovo, diverso da quello che hai conosciuto, a volte in contrasto con quello in cui hai creduto fino a ora ma molto più reale e tangibile.»

Aprii gli occhi e vidi mia madre che mi guardava con il suo splendido sorriso, felice e compiaciuta che anche sua figlia possedesse il dono, la capacità rara di percepire l’essenza profonda del creato e interagire con essa.

«Che cosa mi sta succedendo mamma? Perché mi sento così strana? Perché avverto tutte queste cose intorno a me, il pulsare della vita ai margini del bosco, lo scorrere della linfa nelle foglie degli alberi, l’energia dell’acqua della fonte che scorre nelle mie vene?»

Mi sentivo impaurita da quell’esperienza che sembrava tutto fuorché una cosa normale, come quelle possessioni del demonio lette nelle pagine del Nuovo Testamento, e il fatto di stare facendo un girotondo con mia madre a un palmo da terra non migliorava certo la situazione.

Tornammo con i piedi per terra, pervase da un’euforia e da un’intimità che raramente avevo provato così forte; ci sedemmo sul bordo della polla d’acqua sorgiva e attendemmo che l’energia defluisse nuovamente. Mi sentivo stanca, non per il lungo cammino ma per tutte le emozioni che avevo provato.

«Dove siamo?» le chiesi mentre mi specchiavo nella fonte. La mia pelle era ancora lucida ma il brillio che avevo notato prima stava rapidamente scomparendo. Il sole stava scendendo oltre la cima degli alberi e presto sarebbe diventato buio.

«Non ne ho la minima idea» mi sussurrò divertita mia madre. «Ti ho seguita per tutta la foresta cercando di mantenere il tuo o, sembravi attratta da un punto preciso nel cuore del bosco e ho faticato non poco per non perderti di vista. Abbiamo camminato per ore, cambiando più volte direzione, a volte di corsa, altre camminando adagio, come alla ricerca di una pista da seguire. Non sarà facile ritrovare la strada di casa, non oggi almeno.»

«E papà? Quando lui e Giles torneranno a casa e non ci troveranno cominceranno a preoccuparsi e a chiedersi dove siamo finite! Chiederanno aiuto ai vicini e ci verranno a cercare per tutto il bosco.»

«Non ti preoccupare, papà sapeva dove stavamo andando e il perché di questo viaggio. Non penserai mica che avrei potuto vivere la mia doppia vita di wicca senza l’aiuto e la complicità di tuo padre? Non ti sei chiesta come mai proprio oggi abbia voluto portare a pescare tuo fratello?»

Un sorriso di complicità illuminò per un attimo il suo viso e allora capii quale profondo amore legasse i miei genitori, quale comprensione e armonia fosse alla base del loro matrimonio.

«Ma anche papà è un… insomma, uno come noi?»

«Papà? Oh santo cielo, no, lui non… insomma lui è come tutti gli altri ma sa chi siamo noi e quello che rappresentiamo e, a differenza di tutti gli altri, ci accetta e ci protegge.»

Mi ero completamente sbagliata sul conto di mio padre; avevo creduto che fosse ingenuo, che non si accorgesse di quello che succedeva sotto il suo tetto, delle stranezze di sua moglie e di sua figlia. Invece era al corrente di tutto, gentile e garbato come solo un vero signore sa essere, in un’epoca in cui la cattiveria, l’invidia e il falso perbenismo erano una regola di vita consolidata. Provai un immediato slancio di affetto verso quell’uomo e, nello stesso tempo, un senso tremendo di vuoto dovuto alla sua assenza.

«Tra poco sarà buio, cominciamo a raccogliere la legna e a preparare un riparo per stanotte. Domani all’alba cercheremo di trovare la via del ritorno e con l’aiuto degli spiriti del bosco riusciremo a tornare a casa sane e salve.»

La sera ci sorprese mentre ancora stavamo preparando un riparo per la notte; avevamo preso alcune pietre dal focolare al centro della radura e le avevamo utilizzate in parte per fissare l’intelaiatura della capanna e in parte per creare un piccolo falò accanto al nostro giaciglio. Era un riparo di fortuna, buono solo per arci la notte, ma ci avrebbe protetto dal vento e dall’umidità fino al giorno dopo.

«Oh Gea, Dea madre, proteggi le tue figlie dai pericoli che si celano in questo silenzio che tormenta il corpo e l’anima, donaci il controllo degli elementi, della luce argentea che irradia e consacra a te alberi e torri e che brucia nel nostro

cuore come fiamma ardente, del fuoco che scalda e terrorizza i nemici, dell’acqua che purifica e lava le nostre colpe, della terra da cui traiamo forza e potenza e dell’aria a cui affidiamo le nostre suppliche e da cui traiamo vigore» la sentii mormorare mentre tracciava con un grosso bastone un cerchio tutt’intorno al nostro bivacco. All’interno del circolo disegnò un’enorme stella a cinque punte, ognuna delle quali sfiorava la circonferenza in altrettanti punti: la prima orientata verso la luna che faceva capolino dalle cime degli alberi, la seconda in direzione della sorgente, la terza verso il fuoco del nostro bivacco, la quarta in direzione del folto della boscaglia e la quinta dalla parte opposta della fonte, verso in centro della radura.

«Cosa stai facendo?» le chiesi curiosa.

«Non essere troppo precipitosa, abbiamo fatto tanto oggi, forse troppo. Ci sono cose che dovrai scoprire da sola, altre che ti verranno insegnate da me, altre ancora che apprenderai da persone che devi ancora conoscere: le invocazioni e i ringraziamenti alla Grande Madre sono ancora prematuri. Tutto a tempo debito tesoro mio.»

Capitolo 4

Rincasammo che era mattina già inoltrata, con il cestino pieno di erbe mediche e di radici, come se fossimo andate a raccoglierle quel giorno stesso; papà era nei campi intento a strappare le erbacce e a preparare il terreno per la semina di primavera. Giles era con lui, felice di are un’altra giornata da uomo, come amava definirle lui, saltando da un compito all’altro come un grillo nell’erba alta. Mio padre lo osservava indulgente, perdonando la poca abilità e lodando l’impegno che profondeva in ogni attività; il giorno prima era riuscito addirittura a pescare due bei pesci tutto da solo e quest’impresa lo aveva talmente inorgoglito da parlarne in continuazione per tutta la via del ritorno: era caduto esausto nel suo letto prima che la cena fosse pronta, prima che l’assenza della madre e della sorella lo insospettisse. George era preoccupato di questa

situazione, stava diventando sempre più difficile coprire le assenze di Mary, specialmente ora che anche la piccola Sara aveva cominciato a seguire le orme della madre. La colonia non era il luogo ideale per custodire i segreti, ancor meno a Wenham dove tutti si conoscevano e sapevano ogni cosa gli uni degli altri. Più di una volta aveva consigliato alla moglie di essere più prudente, di non essere così disponibile ad aiutare gli altri utilizzando le doti e le conoscenze della Sorellanza: l’invidia e l’ignoranza potevano creare gelosie che a lungo andare avrebbero portato solo guai, guai grossi.

Questo pensava mio padre quando, a mezzogiorno, arrivai vicino al grosso sicomoro dov’ero certa di trovarlo; lo capii subito dallo sguardo d’affetto misto a preoccupazione, subito distolto e indirizzato verso mio fratello, seduto poco distante. Mi sembrava quasi di percepire i loro pensieri mentre stendevo la tovaglia disponendoci sopra il pranzo che gli avevo portato. Come sempre Giles era il più semplice da capire, tutto preso dal fervore dei suoi dieci anni e dal cercare di sembrare più grande di quello che era. Mio padre era tutta un’altra cosa; solo ora scoprivo quanta complessità era celata sotto il suo sguardo benevolo, nei sui modi di fare gentili, a volte bruschi ma mai violenti: era una persona a prima vista bonaria, quasi timida, ma se lo si conosceva più a fondo, si scoprivano un altruismo e una voglia di comprendere tutto ciò che lo circondava del tutto fuori dall’usuale. L’amicizia con i nostri vicini indiani era solo uno dei tanti indizi di una mente aperta, di una volontà di conoscere ogni sfumatura di quella terra così giovane, una vivace curiosità verso tutto quello che non conosceva e un’assoluta intolleranza verso il rigido e antiquato modo di pensare dei suoi concittadini. Non potevo comprendere a fondo tutto questo, dall’alto dei miei otto anni, ma le doti di empatia che si stavano velocemente sviluppando in me mi facevano percepire cose che prima mi sarebbero sicuramente sfuggite. Avevo appreso da mia madre che lui sapeva e condivideva i suoi segreti; questo mi bastava per sentirlo, oltre che un padre, anche un amico e un alleato prezioso, in un momento della mia vita pieno di confusione e di esaltazione, di gioia per le recenti scoperte sulla mia vera natura e di paura per il rischio di essere considerata “diversa” dalle altre bambine. Mi sentivo cambiata dopo la notte ata nel bosco, più grande e più matura per gli anni che avevo e il pericolo stava proprio nel gestire quel segreto.

Mi sdraiai accanto a mio padre, la mia testa sulle sue ginocchia, lo sguardo perso a osservare quell’albero maestoso che ci sovrastava, alto, imponente; tra i fitti rami, carichi di giovani foglie, il sole faticava ad aprirsi un varco, disegnando fili d’argenti che, sottili, arrivavano fino a terra. Mi sentivo terribilmente piccola ma, allo stesso tempo, affascinata da quello spettacolo; chiusi gli occhi e concentrai tutta la mia attenzione sui rumori esterni, vicini o lontani, che facevano da sottofondo a quel magnifico pomeriggio.

Era un gioco che mi aveva insegnato mia madre molto tempo prima e, come logico, io lo avevo sempre considerato tale; facevamo a gara a scoprire l’origine dei vari suoni che si sentivano e a descrivere l’oggetto o l’animale che li aveva prodotti. Improvvisamente, capivo solo ora che era molto di più di un innocente atempo, quasi un esercizio per affinare le mie percezioni in attesa che le mie capacità si risvegliassero: chissà quanti altri giochi mi aveva insegnato per prepararmi a ciò che sarei dovuta diventare o a quello che lei sperava potessi essere un giorno.

I rumori arrivarono tutti insieme, all’improvviso; una cacofonia di suoni che si accavallavano uno sull’altro senza sosta. Misi subito ordine nella mia testa separando le vibrazioni più lontane da quelle vicine: era la prima cosa che mia aveva insegnato la mamma, mettere ordine nella mente per poter udire meglio, per poter decidere cosa ascoltare e cosa, invece, far tacere.

Lontano, quasi al limitare del bosco, gli uccellini cinguettavano allegri, felici della loro libertà e dei loro giochi; mi sembrava quasi di vederli, uno a uno, mentre saltavano da un ramo all’altro spiccando rapidi voli. Poco distante, su un alto ramo di un acero, uno scoiattolo rosso era intento a pulirsi il pelo, andosi le zampine ora sul capo, ora sulla lunga e folta coda.

Spalancai immediatamente gli occhi e tutti i rumori tornarono a mischiarsi: com’era possibile che io avessi visto lo scoiattolo? Non era uno dei suoni che stavo ascoltando né tantomeno poteva produrre un rumore che io potessi udire a

così grande distanza.

Tornai a concentrarmi su quel piccolo roditore peloso e nuovamente lo vidi tutto intento a lisciarsi la coda; la sua pelliccia era magnifica, folta e di un bel colore ramato che luccicava al sole. Lo osservai ancora per qualche istante poi, tutto a un tratto, l’animale si bloccò, alzando la testa e iniziando a fiutare l’aria: qualcosa lo aveva messo in allarme e ora era tutto intento a cercare la fonte delle sue preoccupazioni. Rimase in quella posizione, immobile e guardingo per alcuni istanti, poi velocissimo si arrampicò lungo il tronco fino a sparire completamente dalla mia vista.

Riaprii nuovamente gli occhi. Il bosco era distante dal nostro albero e non avrei mai potuto sapere se quello che avevo visto era vero o solo frutto della mia immaginazione: lo scoiattolo era fuggito perché aveva percepito qualcosa, una minaccia forse, ma nel cielo non c’era traccia di falchi ed era l’unico pericolo che mi potesse venire in mente per uno scoiattolo arrampicato su di un ramo così alto di un albero, a meno che non avesse percepito… me. Mio padre e mio fratello si erano nel frattempo addormentati per il breve sonnellino pomeridiano e io ne approfittai per radunare gli avanzi del pasto e giocare un po’ con i fiori del prato; questa esperienza così strana sarebbe stata la prima cosa che avrei raccontato alla mamma al mio ritorno, forse lei avrebbe saputo spiegarmi cosa realmente era successo quel pomeriggio. Svegliai Giles e papà e li lasciai al lavoro dei campi; io dovevo rientrare a casa per aiutare nelle faccende domestiche e studiare le sacre scritture come ogni giorno, come una normale bambina della mia età che di normale, forse, non aveva nulla.

Rientrai a casa a metà pomeriggio, persa come sempre nei miei pensieri e in tutte quelle sensazioni che da qualche tempo riempivano il mio corpo; la primavera era la stagione che preferivo in assoluto, lo sbocciare di così tanta vita e colori dopo il sonno invernale, l’aria carica di profumi, tiepida dopo tutto il freddo dei mesi prima. Ero così allegra che quando arrivai a casa l’unico pensiero era condividere tutte quelle sensazioni con mia madre.

«Mamma, mamma, sapessi cosa ho visto.» Mi bloccai immediatamente non appena mi accorsi che c’era qualcun altro nella stanza.

«Ciao Sara, come mai sei tutta sudata? Hai fatto la strada di corsa?» mi salutò mia madre cercando di darmi il tempo di riprendermi dalla sorpresa.

«Si, volevo arrivare presto perché… ho ancora da studiare la Bibbia oggi e voglio farlo finché c’è questo bel sole» le risposi senza esitazione.

«Sei veramente un tesoro, che cosa volevi raccontarmi? Cos’è che hai visto oggi di così tanto speciale?» chiese mia madre con un accenno di apprensione nella voce. Sapevo che in presenza di estranei non si doveva mai parlare di nulla ma la mamma temeva che la mia giovane età mi fe compiere qualche o falso perché ogni parola detta fuori luogo poteva essere male interpretata dalla gente comune.

«Nulla di speciale ma al campo da papà ho visto uno scoiattolino rosso che saltava da un ramo all’altro, era così carino e con una pelliccia così folta» le dissi cercando di enfatizzare la parte più tenera e dolce del racconto, proprio come avrebbe fatto una mia amichetta se avesse dovuto raccontare lo stesso episodio.

«Oh, buongiorno signora Roswell, non l’avevo vista. Come sta?» le chiesi fingendo imbarazzo per non averla salutata prima. Era la moglie del connestabile del villaggio, una donna antipatica e arcigna che non sorrideva mai. Era così fiera della sua posizione sociale derivante dalla carica pubblica del marito che trattava tutti come se fossero dei servi, persone di poco valore e poco degne di considerazione.

«Non tanto bene cara» mi rispose senza degnarmi di uno sguardo, «ho tutte le ossa che mi fanno male e sono venuta da tua madre per farmi dare uno dei suoi rimedi.»

«Mi dispiace signora Roswell, spero che la mamma riesca a farle are tutti i dolori» le risposi con tono addolorato mentre raccoglievo la Bibbia dal tavolo e sparivo velocemente dalla loro vista. Di tutti gli abitanti di Wenham quella donna era la più insopportabile in assoluto, l’ultima persona che avrei voluto trovare in casa quel giorno.

Era diventato difficile concentrarsi sulle sacre scritture dopo aver avuto un assaggio dell’energia che ci circondava, calda e pulsante come qualcosa di vivo, potente; tutto ciò in cui avevo fermamente creduto fino a qualche giorno prima ora sembrava così lontano, così diverso da quello che provavo in quel momento. Mamma mi aveva spiegato che nulla è fine a se stesso ma che tutto è parte di un disegno molto grande, infinito, dove ogni colore, ogni sfumatura ha il proprio posto e il proprio compito e tutti contribuiscono affinché il disegno diventi sempre più grande e bello. Gli uomini amano assegnare un nome a ogni cosa, per sentirle più vere, più reali ma ci sono cose, entità, che hanno molti nomi, a seconda di chi li chiama ma non per questo sono meno vere e meno reali: è per questo motivo che continuare a imparare è così importante.

Le giornate scorrevano lente e la primavera cedette il o a un’estate calda e umida, ideale per le gite fino al lago, dove noi bambini potevamo nuotare e giocare tutto il giorno.

I nostri vicini pellirossa erano tornati, accampandosi poco distante dal villaggio, a ovest di Pleasand Pond, e rapidamente avevano montato il loro accampamento. Erano arrivati molto in ritardo rispetto agli anni ati e tutti noi ce ne chiedevamo il motivo: doveva essere stato un avvenimento fuori dall’ordinario perché mai si era verificato un evento del genere. Mio padre era molto preoccupato anche perché giravano voci che alcune tribù d’indiani si fossero

ribellate all’occupazione delle loro terre e avessero dato vita a una rivolta in piena regola; temeva infatti che quelle dicerie potessero dare motivo ai meno tolleranti della comunità per iniziare ad avere atteggiamenti ostili verso i nostri amici.

L’indomani mattina, di buon’ora, George e mia madre si recarono all’accampamento; ufficialmente erano lì per barattare merci e medicamenti ma la vera ragione era raccogliere notizie di prima mano sulle rivolte indiane e sulle conseguenze che queste stavano determinando sulle relazioni già fin troppo tese tra pellerossa e coloni. Avevo insistito per poter andare con loro, eccitata all’idea di poter rivedere quelle persone straordinarie; ero stata sempre accolta con cordialità e affetto da tutti i componenti della tribù, specialmente dalla moglie del sakem e da quella dello shamano, due figure importanti in quella società tribale, due donne di una dolcezza paragonabile solo a quella di mia madre. Solo dopo una serie interminabile di suppliche e promesse, finalmente, mi diedero il permesso di seguirli, a patto che non stessi troppo in giro agli adulti e che non combinassi qualche guaio. Mio fratello Giles era impegnato per tutto il fine settimana con i suoi amici più stretti a riparare la staccionata della casa del reverendo, lavoro che gli avrebbe fruttato la gratitudine del pastore e di sua moglie, oltre a qualche soldino da portare a casa ma, cosa molto più importante, lo avrebbe tenuto fuori dai piedi per due giorni interi.

Il viaggio verso l’accampamento algonchino sembrò durare un’eternità anche perché stare seduta sul pianale traballante del nostro carro non era certamente comodo; lo avevamo riempito di attrezzi e ceste di varie forme, contenenti confetture, miele e sciroppo d’acacia, una specialità di cui i bambini pellirossa andavano matti, e non solo loro. Mio padre stava attento a evitare le buche più profonde mentre mia madre osservava la natura circostante recitando a bassa voce strane litanie. Io ero talmente contenta di essere con loro che non facevo caso a nulla, tutta presa dalla gioia di quell’avventura fuori dall’ordinario; fantasticavo di giocare con gli altri bambini ma più di tutto volevo sedere vicino alla cerchia degli anziani mentre quest’ultimi raccontavano le loro storie di caccia e di guerra: erano racconti che parlavano di luoghi lontani, di grandi guerrieri e di coraggiosi cacciatori, di paesaggi talmente belli che l’anima, contemplandoli, si innalzava fino al cielo, vicino al Grande Spirito.

Ci accorgemmo di essere ormai arrivati dalle spirali di fumo che pigramente si innalzavano subito dietro il boschetto di betulle che faceva da cornice a Pleasand Pond; gli uomini erano già al lavoro nei campi per cercare di recuperare il tempo perduto mentre i ragazzi e le squaw provvedevano alle necessità dell’insediamento. I miei genitori furono accolti con calore ma la festa che mi fecero appena scesi dal carro fu davvero incredibile; alcune bambine lasciarono le loro faccende per corrermi incontro, urlando di gioia mentre altri ragazzi, poco più grandi, si tenevano a rispettosa distanza, sorridendo e salutando ripetutamente con la mano. Erano i miei compagni di giochi di ogni estate, quando ci trovavamo in riva allo stagno per giocare e fare il bagno. Erano molto diversi dai bambini con cui giocavo al villaggio, più chiassosi e allegri, felici qualunque cosa stessero facendo, contenti di condividere quei momenti di spensieratezza con gli amici. Mi corsero incontro e mi portarono subito con loro, narrando nella loro lingua tutte le avventure che avevano vissuto; poco importava se io capivo poco o nulla di ciò che dicevano, il loro modo di raccontare era così animato, così pieno di suoni e di gesti da non lasciar dubbi. Avevo capito che c’era stato un grande raduno delle tribù, nel paese delle montagne; tantissima gente era accorsa da ogni parte perché gli anziani dovevano discutere di faccende importanti che non potevano aspettare. I giovani avevano avuto modo di rincontrare parenti e amici che non vedevano da tempo e per i bambini erano stati giorni di giochi e di avventure senza fine. Un’intera luna era trascorsa prima che le tribù tornassero ai loro luoghi estivi, un mese in cui la pianura brulicava di tende e di fuochi accesi; mai prima d’ora si era visto un simile raduno e questo era un segno di grave preoccupazione per tutti. D’altro canto, ero talmente presa da tutte quelle novità che le inquietudini le volevo lasciare volentieri ai grandi mentre, curiosa come un gatto, mi aggiravo tra le tende in cerca di Va_Shesh_Na_Bè, Bella Collina, moglie dello shamano; era una donna ancora giovane, formosa, con grandi occhi neri simili a quelli dei cerbiatti. L’ultima volta che ci eravamo viste, mi aveva raccontato tante storie di come gli animali della foresta venivano vicino alla sua tenda, di notte, per parlare con lei; storie a cui non credevo ma che mi dilettavo ad ascoltare, tanto erano ricche di particolari da sembrare vere. Non ero molto sicura, dopo quello che avevo provato nella foresta, che fossero solo storie per far star bravi i bambini ma non potevo rivelare nulla delle mie esperienze senza prima averne parlato con mia madre. La trovai nei pressi del lago, intenta a raccogliere un tipo di erba scura, molto amara, che mamma utilizzava per curare le ferite degli animali.

«Va_Shesh_Na_Bè! Va_Shesh_Na_Bè!» la chiamai a gran voce mentre le correvo incontro; lei alzò lo sguardo verso di me e un largo sorriso le illuminò il volto.

«Sara, piccola mia, che gioia rivederti: anche tua madre è qui al villaggio?»

«Sì Bella Collina, i miei genitori stanno parlando con Ite_O_Magazu, tuo marito Pioggia Sulla Faccia e con gli altri anziani della tribù. Come mai avete tardato così tanto quest’anno? Eravamo preoccupati per voi.»

«Dolce, piccola Sara, c’è stato un grande raduno della nazione dei popoli liberi ma questi sono discorsi che lasceremo volentieri ai grandi, noi torneremo al villaggio a preparare la medicina per i nostri cavalli. Il viaggio è stato lungo e faticoso anche per loro e hanno bisogno delle nostre cure per rimettersi in fretta. Tua madre ti ha insegnato come si preparano le medicine?»

«Non sono brava come lei ma l’aiuto spesso sia nella raccolta sia nella preparazione dei medicamenti e poi, dopo che siamo state nella foresta...» Mi bloccai immediatamente, spaventata di quanto stavo per rivelare. Bella Collina aveva spalancato i suoi grandi occhi languidi e mi aveva fissato per un lungo istante, profondamente: poi, come se nulla fosse accaduto, mi sorrise con affetto e, prendendomi per mano, mi accompagnò fino al centro dell’accampamento, verso la sua wigwam.

Era un’abitazione molto semplice e funzionale, fatta di pali di legno ripiegati ad arco e ricoperti con legno, corteccia e pelli, una sorta di cupola con una porta principale e un grosso foro in alto per far uscire il fumo del focolare. Quella di Bella Collina era una delle più grandi, adorna di pali esterni dipinti con colori

vivaci e arredata con soffici pellicce di animali che non avevo mai visto; una parte dell’ampia sala era riservata alle pratiche magiche di suo marito Ite-OMagazu, lo shamano della tribù: lo si capiva perché alcune pelli della parete erano, infatti, decorate con simboli e pitture raffiguranti animali e scene di caccia.

«Pioggia Sulla Faccia è un grande stregone, molto più potente di me. Lui parla direttamente con il Grande Spirito attraverso i suoi segni e usa l’energia della Grande Madre per il bene del suo popolo.»

Va_Shesh_Na_Bè parlava bene la nostra lingua ma, a volte, aveva difficoltà a trovare le parole giuste per spiegare concetti complicati: per questo pensavo di aver capito male quando mi parlava di suo marito e dei suoi poteri. L’arrivo di mia madre mi salvò dall’imbarazzo di chiedere ulteriori spiegazioni, ma il suo modo di fare mi lasciò del tutto stupita. Entrando nel wigwam, infatti, si diresse verso la donna che mi stava innanzi e, dopo averla osservata intensamente per un istante, appoggiò la fronte alla sua sorridendo.

«È una gioia rivederti Bella Collina, sorella nella Dea. Ho tantissime cose da raccontarti e tante cose da chiederti, ma più di tutto sono felice di essere qui con te.»

Rimasero a lungo in quella posizione, gli occhi socchiusi in un’espressione di gioia; ero rimasta sconcertata da quell’abbraccio così fraterno perché non sapevo che le due donne si conoscessero così bene né sapevo che tra loro ci fosse una così palese amicizia. Mi rendevo conto solo ora di non sapere quasi nulla della vita nascosta di mia madre ed ero curiosa di apprenderne al più presto tutti i segreti.

«Mary, carissima sorella, avremo tempo per scambiarci le notizie. Tua figlia è

qui e a quanto ho capito è di lei che dovremmo parlare, sono sicura che avrà tante domande da porci e noi dovremo darle molte risposte.»

Mia madre si voltò verso di me come se mi vedesse per la prima volta; le guance rosse erano rigate da lacrime di gioia mentre il sorriso si allargava ulteriormente per la mia presenza.

«Sara, scusami, non ti avevo notata tanta era l’impazienza di riabbracciare la mia amica più cara. Abbiamo tante cose di cui parlare ma prima di tutte devo presentarti a lei nella tua veste di giovane wicca. Anche lei segue Gea, la Grande Madre e, pur non appartenendo alla nostra sorellanza, ci accetta e ci considera come sue sorelle.»

«Avevo capito che tu eri una ragazza molto speciale e il tuo imbarazzo di poco fa me l’ha confermato. Non devi avere paura perché le seguaci di Gea, come la chiamate voi coloni, sono diffuse anche tra il mio popolo.»

Ero talmente confusa e frastornata da così tante novità che rimasi in silenzio a lungo; mi rendevo conto solo ora che, pur essendo sole e divise dalle altre consorelle, eravamo comunque parte di una schiera di credenti che varcava i confini della razza e della religione. Era esaltante e nello stesso tempo incredibile che io e questa giovane squaw avessimo così tanto in comune.

Fu Va_Shesh_Na_Bè che mi diede tempo di riflettere e di metabolizzare tutte quelle novità mettendosi a chiacchierare con mia madre sulle ultime vicissitudini del suo popolo e del grande raduno cui avevano partecipato.

Capitolo 5

Era un periodo di grandi cambiamenti per le tribù della nazione algonchina. L’avanzamento dei coloni nelle terre degli uomini liberi aveva creato dapprima contrasti isolati che, in alcuni casi, si erano rapidamente trasformati in vere e proprie piccole guerre. Gli inglesi da una parte e i si dall’altra fomentavano il malcontento dei propri connazionali nei confronti del popolo pellirossa ma, allo stesso tempo, cercavano di aizzare gli indiani contro i coloni dell’opposta fazione. Il consiglio dei capi tribù aveva convocato i maggiori rappresentanti di tutta la nazione indiana: per la prima volta da decenni Albenachi, Piedi Neri, Cheyenne, Moicani, Cree, Fox, Arrapaho, Delaware e le altre nazioni dei popoli liberi erano radunati tutti insieme a discutere delle sorti del popolo rosso. In quel frangente straordinario anche le seguaci della Grande Madre avevano avuto l’occasione per incontrarsi e scambiarsi notizie e ingredienti magici con cui fare pozioni e incantesimi; mentre i Sakem discutevano, la sorellanza indiana aveva rafforzato il suo legame con la Dea cercando nelle antiche profezie e nella divinazione una speranza per il futuro del loro popolo. I riti di preghiera e di supplica alla Dea erano stati celebrati quasi contemporaneamente a quelli rivolti a Manitou, il Grande Spirito, da parte degli shamani più potenti ma dopo più di un mese di consultazioni, poco o nulla si era concluso; troppe erano le divergenze di opinione e troppo diverse erano le condizioni di vita delle varie tribù. Si era deciso di temporeggiare ancora e di stringere un’alleanza tra tutte le tribù algonchine del nord est, in modo da poter aiutare i fratelli che si sarebbero trovati i difficoltà.

Va_Shesh_Na_Bè e le sue consorelle avevano concluso molto di più. I riti divinatori non lasciavano dubbi sulla sorte del popolo rosso ma, contemporaneamente, la Dea aveva manifestato loro una sorta di profezia: una giovane donna, prediletta di Gea, sarebbe stata la portatrice di pace tra le tribù del nord. L’avrebbero conosciuta come Igat_Sha, la viaggiatrice, figlia del popolo libero senza esserne parte.

Con questa speranza nel cuore, le squaw algonchine avevano cominciato a smontare gli accampamenti per far ritorno ai loro territori estivi, certe che la Grande Madre aveva in serbo per loro ancora tante sorprese.

Bella Collina aveva barattato alcune erbe che crescevano solo sulle rive di Muddy Pond per un piccolo sacchetto d’ingredienti molto particolari; lei e mia madre li avrebbero usati nel successivo sabbat per entrare in contatto direttamente con Gea.

«Sara, ora dobbiamo tornare a casa. Devo raccontarti e spiegarti tante cose prima di poter tornare a far visita a Bella Collina. Loro hanno tanto lavoro da fare per poter raccogliere provviste sufficienti per l’inverno e noi dobbiamo fare in modo che i nostri concittadini siano benevoli e tolleranti nei loro confronti. Su, vieni, saluta la nostra amica. Il viaggio di ritorno è lungo e noi abbiamo poco tempo prima che venga notte.»

Mi avvicinai alla nostra amica e l’abbracciai con calore; lei si chinò su di me e, appoggiando la sua fronte alla mia mi sussurrò: «Torna presto a trovarmi piccola sorella, ti parlerò di Gea e di come Lei parla al mio popolo.»

Le sorrisi salutandola con la mano mentre mio padre dirigeva il carro, pieno di ogni tipo di mercanzia, verso casa. Rimanemmo a lungo in silenzio mentre le prime ombre della sera cominciavano a tessere tetri disegni tutt’intorno; l’aria si era fatta più fresca e il rumore degli uccelli che tornavano al proprio nido era un piacevole sottofondo a tutti i pensieri che affollavano le nostre menti. Papà aveva avuto conferma che la situazione stava divenendo sempre più difficile e presto sarebbe scoppiata un’altra rivolta; i si non perdevano occasione di spingere i pellirossa gli uni contro gli altri e, possibilmente, tutti contro i coloni inglesi del nord est. D’altro canto, la stessa cosa facevano anche i nostri conterranei, non comprendendo che, di questo o, ci sarebbe stata una guerra terribile, senza esclusione di colpi. Mamma, dal canto suo, pur essendo molto preoccupata della situazione, era tutta presa dalle notizie riguardanti le altre wicca sparse un po’ ovunque nel vasto territorio del New England che aveva avuto dalle sorelle indiane; era l’unico modo che avevano per mantenere i contatti e scambiare notizie in un territorio che rendeva impossibile qualsiasi tipo di raduno.

Nelle settimane successive, nulla sembrò turbare la noiosa quiete di Wenham. Le notizie dall’ovest arrivavano frammentarie insieme alle carovane o ai cacciatori di pellicce e sembravano talmente lontane da non destare preoccupazioni: ognuno badava alle proprie faccende e la politica difficilmente riusciva a prevalere sulle consuetudini e sulla vita quotidiana del villaggio. Durante quella lunga estate dell’anno del Signore 1689 ci recammo spesso a fare il bagno negli stagni vicini ma, contrariamente agli anni ati, le squaw e i bambini della tribù si fecero vedere raramente; chi non era impegnato nella raccolta di cibo era a caccia oppure tesseva le stuoie o intrecciava canestri dove riporre le provviste per l’inverno. Pioggia Sulla Faccia, lo stregone dei Massachusett, aveva predetto una stagione invernale molto rigida e tutti contribuivano a raccogliere il più possibile; a volte mamma e io incontravamo Bella Collina con le sue consorelle nel folto della boscaglia e ci scambiavamo erbe e radici. Era sempre stato così, dall’alba dei tempi, ognuna imparava dalle altre i segreti per incantesimi e pozioni e a sua volta insegnava ad altre quello che aveva imparato: c’era ancora tanto da scoprire in questo nuovo mondo e molto di più da condividere, in modo che la conoscenza delle wicca non andasse perduta ma si arricchisse ogni volta di più.

L’estate volò via per far posto a un autunno piovoso e freddo; le previsioni dello shamano della tribù si stavano rivelando molto accurate e purtroppo questo avrebbe accelerato la partenza di Bella Collina e di tutti i nostri amici pellirossa. Come promesso, Va_Shesh_Na_Bè volle celebrare il penultimo sabbat dell’anno, il Samhain, con noi e con una cerchia ristretta di sorelle, proprio nella radura che avevamo trovato nella foresta.

«È un posto molto speciale» ci aveva confidato una sera, mentre eravamo riunite attorno al fuoco, davanti alla sua wigwam. «Da sempre le sorelle nella Dea celebrano lì i loro riti più importanti: è un luogo dove l’energia fluisce direttamente dai quattro elementi e permea ogni cosa. Anche i nostri stregoni la usano per i riti propiziatori e per parlare con il Grande Spirito ma mai insieme con noi, per non rubare troppa energia agli spiriti che la governano. Prima di partire, celebreremo la morte simbolica di Manitou e il dolore di Gea per la

perdita del suo amato.

Il 31 ottobre tutto era pronto. Non riuscivo a calmare l’ansia e l’eccitazione per un avvenimento così importante: era il primo sabbat cui partecipavo, l’occasione per vedere con i miei occhi tutto quello che mia madre mi aveva insegnato e raccontato e, cosa più importante, metterlo in pratica. Bella Collina si sarebbe recata alla radura la mattina di buon’ora insieme con altre due consorelle e avrebbe celebrato i riti di purificazione necessari per rendere il luogo adatto alla cerimonia della sera. Mamma aveva riconosciuto una wicca in una vecchia signora di una carovana di aggio e con la scusa di curarle una brutta tosse l’aveva invitata a casa. C’erano volute poche parole e alcuni simboli tracciati con il dito bagnato sulla superficie ruvida del tavolo per confermare la loro appartenenza alla sorellanza. Gli occhi dell’anziana signora si riempirono di lacrime mentre pronunciava le antiche formule di buon augurio che anch’io ben conoscevo, incredula di poter abbracciare una figlia di Gea in quella terra sperduta. Aveva informazioni abbastanza recenti dal vecchio continente, notizie purtroppo non buone delle consorelle rimaste a casa: l’inquisizione della chiesa cattolica aveva mandato al rogo moltissime di loro ma, cosa ancora più incredibile e atroce, anche un numero impressionante d’innocenti, donne e uomini, vittime di rancori o d’invidie o, cosa ancor più grave, di stupide superstizioni a cui la chiesa purtroppo dava ancora credito. Ormai le seguaci della Grande Madre si stavano disperdendo sempre più, raggruppate in circoli molto piccoli e ristretti o addirittura sole per sfuggire alle persecuzioni e alla morte. Anche lei era fuggita con la sua famiglia verso il nuovo mondo, verso un futuro incerto ma comunque sempre migliore di quello che poteva avere in patria. Aveva riconosciuto altre sorelle durante i mesi di viaggio ma aveva avuto timore di contattarle e loro avevano fatto lo stesso: noi eravamo le prime che avevano avuto il coraggio di abbracciarla e di farla sentire nuovamente parte della sorellanza.

«Non posso dirti che qui le cose vanno meglio. Bisogna stare sempre allerta ed essere molto prudenti ma qui la gente è semplice e di indole buona e il nostro pastore pensa di più ai bisogni dei suoi parrocchiani piuttosto che dar la caccia al Maligno o alle streghe.»

«Perché non rimani un po’ con noi? Stasera c’è…» Mi bloccai immediatamente comprendendo di avere nuovamente aperto bocca a sproposito, stavo per parlare di cose proibite con un’estranea appena conosciuta che poteva benissimo essere una spia o una persona che avrebbe potuto denunciarci alla prima occasione. Guardai preoccupata mia madre sperando di non avere fatto qualcosa di irreparabile ma il sorriso che stava comparendo sul suo viso ebbe il potere di calmarmi.

«So bene che giorno è oggi e quale ricorrenza dovremmo festeggiare, ma qui, sole, come potremmo…» mi anticipò Elizabeth, l’anziana wicca da poco ritrovata con un velo di profonda tristezza nella voce.

«È da così tanto tempo che non sento più l’abbraccio di Gea che a stento lo ricordo.» Calde lacrime le rigavano il viso mentre i suoi occhi vagavano persi nei ricordi più lontani. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di festeggiare ancora una volta un sabbat insieme alle sue sorelle e la certezza di non poterlo più fare le riempiva il cuore di una tristezza infinita.

«Elizabeth, forse stasera ci sarà la possibilità di riunirci nuovamente con la Grande Madre. Altre sorelle credono nella Dea e nella sua potenza, persone diverse da noi ma unite in un unico, antico credo. È con loro che stasera ci riuniremo a Gea.»

Vidi sorridere quella povera donna per la seconda volta in un giorno, un sorriso di speranza e di gioia che non aveva eguali; fissò prima mia madre e poi me, incerta se credere alle parole che aveva appena udito, timorosa di illudersi di poter sentire ancora una volta nella sua vita terrena il caldo abbraccio della sua Dea.

Capitolo 6

Non c’era tempo per andare a trovare Bella Collina e chiedere notizie dei preparativi, dovevamo confidare nell’esperienza e nella capacità delle nostre sorelle indiane affinché tutto fosse pronto per quella sera stessa.

«Questo Sabbat celebra la morte del Dio Maschile e il suo aggio nella “terra della giovinezza”, dove attende la rinascita dalla Dea Madre a Yule, la festa del solstizio d’inverno. Per questo è anche la ricorrenza in cui si celebrano le anime dei nostri cari che sono ati a miglior vita; come vedi molti riti comuni a varie religioni utilizzano comunque le stesse date per le stesse ricorrenze.»

Gli occhi di Elizabeth scintillavano mentre mi raccontava il significato profondo dei vari Sabbat, specialmente di quello che saremmo andati a celebrare di lì a poche ore; la sua mente si perdeva nei ricordi felici della sua vita quando, in patria, iniziava i preparativi con le consorelle della sorellanza.

«È bene, prima di iniziare il rito vero e proprio, sedersi e rilassarsi chiudendo gli occhi, rivolgendo un pensiero a coloro che abbiamo amato e che ora sono tornati nel grembo della Dea. Solo pensieri positivi però, perché visto che la loro anima si è riunita a Gea, anche se non possiamo vederli, possiamo sempre sentire la loro presenza accanto a noi, in ogni momento e in ogni luogo, ovunque noi siamo.»

Mia madre ascoltava in silenzio, presa dalle faccende domestiche, annuendo e ripetendo sottovoce le frasi che sentiva: anche a lei quelle parole suscitavano ricordi che le facevano desiderare di essere già alla radura per partecipare ai riti di purificazione. Non saremmo potute partire che a notte fonda, protette dal buio

e dalla benevolenza della Dea. Va_Shesh_Na_Bè aveva promesso che avrebbe mandato qualcuno all’inizio del bosco per guidarci fino al luogo sacro: sarebbe stato impossibile altrimenti trovare la strada nel buio della foresta. Mio padre si stava occupando di mio fratello, rassegnato al fatto di avere un ruolo così marginale ma altrettanto importante in tutta la faccenda; lui era il nostro angelo custode, quello che vegliava e proteggeva le nostre attività, sempre allerta e scrupoloso nel distogliere le attenzioni della gente del villaggio dalle nostre attività segrete. Lo amavo sopra ogni cosa e lo ammiravo per il suo coraggio e per la sua dedizione a mia madre e a me.

«In patria eravamo solite addobbare l’altare cerimoniale con frutta di stagione, mele, melograni ma anche zucche e zucchine abbellendo il tutto con fiori autunnali come crisantemi e calendule.» Elizabeth sembrava quasi in trance quando raccontava le sue esperienze ate da wicca: rimaneva come bloccata nei suoi ricordi, rivivendoli come se il tempo non fosse mai trascorso, immobile sulla sedia come una statua di sale.

«Facevamo uno straordinario oleolito con i fiori di calendula che aveva strabilianti proprietà curative e lenitive. Ma credo che queste cose le conosca bene anche tu, vero bambina mia?» La guardavo annuendo, rapita dalla vivacità di quei ricordi, partecipe, mio malgrado, della sofferenza che percepivo per il suo distacco dalle consorelle con cui aveva condiviso ogni cosa. La sua voce e l’intensità del suo racconto mi avevano trasportata nello spazio e nel tempo, nel cerchio del sabbat di tanti anni prima, spettatrice inattesa di un evento così importante.

«Ma la cosa più importante che dovevamo fare era creare su un piattino, con le nostre mani, la ruota dell’anno da collocare poi sull’altare perché questo è il simbolo per eccellenza dell’infinità del tempo.»

Le immagini fluivano lente nei miei pensieri, come un sogno a occhi aperti: le vedevo nei loro mantelli, chine sull’altare per abbellirlo e renderlo degno della

celebrazione a cui era destinato. C’era anche un calderone proprio di fronte a loro, sistemato su un treppiede, sopra un fuoco . Era un pentolone di metallo scuro, panciuto, con due piccoli maniglie tonde ai lati dove era agganciato una sorta di manico più grande, anch’esso tondeggiante. Al centro di quello strano paiolo, un pentacolo in rilievo riluceva alla tenue luce delle braci sottostanti; c’era nell’aria un odore aromatico, pungente, non sgradevole ma troppo intenso per le mie narici. Le donne presenti, una alla volta, aggiungevano erbe e altri ingredienti sconosciuti mentre la wicca più anziana, lentamente, rimescolava l’intruglio con un lungo mestolo di legno d’ulivo.

«Sara!» mi chiamò mia madre scrollandomi leggermente per un braccio.

Ebbi un sussulto, come quando ci si sveglia in piena notte da un incubo. Mi guardai intorno smarrita, stentando a riconoscere le persone e il luogo in cui mi trovavo. La nostra ospite mi guardava esterrefatta, gli occhi sgranati e le mani chiuse a pugno premute violentemente contro le labbra: era visibilmente sconvolta da qualcosa ma, eccetto noi, non c’era nessuno nella stanza che poteva aver causato quello stato d’animo.

«Mamma, che succede? Perché Elizabeth fa così?»

«Tu stai bene bambina mia? Non ricordi nulla di quello che stavi facendo poco fa?»

Ero perplessa e sconcertata e sentivo le dita gelide della paura insinuarsi nel mio petto; l’ultima cosa che ricordavo era il racconto della nostra amica, così pieno di pathos e di partecipazione da rimanerne affascinate ma poi null’altro fino all’intervento brusco di mia madre.

«Oh Grande Dea» ripeteva l’anziana wicca avvicinandosi a me. Il suo atteggiamento era radicalmente mutato dal timore più profondo alla sorpresa più genuina: allungava le mani sfiorando il mio viso, quasi avesse paura di scoprire che non ero una cosa vera. Fu mia madre che venne in mio soccorso, rivelandomi ciò che era accaduto poco prima.

«Eri tutta intenta ad ascoltare il racconto della consorella, memorie che appartenevano solo a lei e di cui tu non potevi essere a conoscenza dato che il tuo insegnamento non è ancora arrivato alle pratiche dei sabbat e alle cerimonie più complesse, per cui logico che quello che è successo abbia sorpreso anche me…»

Ora sì che ero veramente spaventata; era successo qualcosa in quella stanza che aveva spaventato due streghe adulte e di cui io non conservavo memoria, anzi, sembrava che fossi proprio io l’artefice di quell’evento così imprevisto.

«Cosa… cosa ho fatto?» chiesi con voce tremante, timorosa di avere una risposta a quella domanda così semplice ma altrettanto spaventosa.

«Hai cominciato a ripetere ciò che dicevo accorciando le pause tra una parola e l’altra finché la tua voce non si è sovrapposta alla mia, poi hai continuato tu il racconto proprio come l’avrei fatto io, con le stesse parole, descrivendo minuziosamente quello che avevamo fatto tanto tempo fa» rispose la nostra ospite in una sorta di timore reverenziale.

«Ciò che tu hai sperimentato oggi noi la chiamiamo “simbiosi mistica”, una sorta di empatia talmente profonda da far sovrapporre la propria entità spirituale a quella delle altre persone. È una pratica rara che richiede anni di esperienza e una forza interiore fuori dal comune. È rarissimo che si manifesti spontaneamente e mai con una simile intensità. Tu sei una giovane

straordinariamente dotata» bisbigliò Elizabeth, quasi avesse paura di essere ascoltata.

«Non lo faccio volontariamente, le cose accadono così, da sole, senza preavviso di alcun genere. Probabilmente se fosse successo mentre ero da sola, non lo avrei mai saputo.»

«Oppure, se fosse successo in pubblico, ora saremmo veramente nei guai» concluse, turbata, mia madre.

«Dopo quello che ho visto, vorrei poter rimanere con voi per qualche tempo, sento che sarei ancora molto utile alla formazione di questa giovane, straordinaria, piccola wicca. Nella sorellanza a cui appartenevo avevo un ruolo di educatrice delle giovani sorelle che erano in procinto di entrare nella congregazione e sono sicura che la mia opera sarebbe molto preziosa qui, specialmente ora. Mio marito potrebbe aiutare il tuo nei lavori dei campi mentre noi potremmo dedicare tutto il tempo necessario alla cura e alla formazione di questa nostra sorella nella Dea. Avrei finalmente di nuovo uno scopo a cui votare la mia vita. Oh Grande Madre, grazie.»

Gli occhi di quella povera donna erano velati di lacrime ma c’era gioia dentro di essi e speranza nel suo povero cuore come non ne aveva più provata dal giorno della sua partenza dalla madrepatria. Prese le mie mani tra le sue e le baciò in segno di devozione e gratitudine.

Fuori, il verso della civetta ci strappò dai nostri pensieri; era troppo presto perché il rapace notturno si avvicinasse tanto al villaggio, per cui dovevano essere le nostre guide indiane in attesa di scortarci al luogo promesso.

La mia casa, come molte del villaggio, aveva una piccola cantina sotterranea, in pietra, per conservare le provviste al fresco ma, a differenza delle altre, aveva una cosa molto particolare: una piccola stanzetta attigua, ben celata, dove mia madre conservava tutto quello che riguardava la sua vita segreta, dalle pozioni ai libri di magia, agli oggetti magici e ai talismani occorrenti per le pratiche esoteriche segrete. Ma non era questa la particolarità che ci sarebbe servita da lì a poco; mio padre e mio nonno, infatti, vi avevano scavato in gran segreto un tunnel che procedeva in linea retta fino all’interno di una grande quercia cava proprio al confine tra il nostro orto e il bosco: questo offriva un’uscita secondaria preziosa per quegli spostamenti che nessuno doveva vedere, come quello di stanotte appunto. Percorremmo quell’angusto cunicolo in silenzio e nel buio più totale fino a sbucare nel cuore morto del grande albero che ne custodiva il segreto; di lì un’angusta scala a pioli ci avrebbe portato alla sommità da cui ci saremmo calate con l’aiuto di un’altra fatta di robusta corda fino a raggiungere il terreno sottostante e il bosco. Il chiarore perlaceo della luna rendeva quel luogo spettrale; con cura richiudemmo la botola del aggio mimetizzandola alla perfezione con le foglie e i rami presenti nel tronco: era un compito che richiedeva tempo ma che doveva essere fatto alla perfezione perché da quello poteva dipendere il mantenimento del nostro segreto. Non fu facile raggiungere i nostri amici in attesa anche perché Elizabeth non era avvezza a simili fatiche e la sua corporatura non le permetteva di essere agile e veloce; la sua forza fisica e la sua resistenza alla fatica ci sorpresero non poco e questo compensò tutto il resto permettendoci di arrivare puntuali all’appuntamento. Non ci furono né parole né suoni, solo un rapido cenno d’intesa e tutti noi ripartimmo nel cuore della foresta verso il luogo designato per il Sabbat; il mio cuore impazziva per l’attesa e la fatica del viaggio ma non emisi un lamento né rimasi indietro nel lungo cammino notturno. Bella Collina ci stava aspettando e così pure Gea, la Grande Madre di tutte noi.

Capitolo 7

I preparativi avevano richiesto tempo perché il luogo andava purificato e reso idoneo per una celebrazione così importante. Non era solo il sabbat delle consorelle ma anche una cerimonia importante per i seguaci del grande Spirito: quella notte Manitou sarebbe morto tra le braccia della Grande Madre per poi

rinascere a primavera sancendo, con il suo sacrificio, il ciclo naturale della vita e delle stagioni.

Ite_O_Magazu aveva chiamato a raccolta i suoi fratelli shamani e in molti avevano accolto il suo appello; era raro poter festeggiare il “ciclo della vita” insieme alle figlie di Gea in un luogo tanto ricco di energia mistica. Uomini come loro, in continuo contatto con il Grande Spirito, percepivano la sua presenza divina in quel luogo e ne traevano forza e vigore; in posti come quello, così rari da essere gelosamente custoditi, si erano svolti i riti propiziatori più importanti e sempre lì si erano manifestate le visioni degli eventi futuri più attendibili. Per questo c’era grande attesa per le celebrazioni del Samhaim, in un momento così delicato per il popolo rosso, pieno di contrasti e sull’orlo di una guerra distruttiva: poteva giungere una visione, un segno che avrebbe aiutato a capire che genere di futuro attendeva il popolo Algonchino.

All’alba del giorno precedente, i giovani guerrieri erano stati mandati a preparare il luogo; avevano pulito la radura dalle sterpaglie e liberato la fonte del fango accumulatosi nel periodo delle piogge: l’acqua della sorgente doveva essere cristallina perché quello era un elemento essenziale per entrambe le congregazioni. Con il sangue di due giovani cervi era stato marcato il perimetro della radura, in modo che gli animali selvatici non si avvicinassero al luogo sacro appena purificato e, allo stesso tempo, erano stati offerti i cuori ancora pulsanti delle prede come sacrificio a entrambe le divinità; solo verso il tramonto i giovani guerrieri avevano potuto iniziare a costruire un’Inipi o camera del sudore per gli anziani shamani che sarebbero sopraggiunti la mattina successiva. C’erano criteri molto rigidi da seguire e, seppure fossero molto stanchi, erano decisi a metterli in pratica con uno scrupolo davvero zelante.

L’Inipi, infatti, era il mezzo con cui l’anima si purificava e si preparava all’incontro con il Grande Spirito, una sorta di sfida in cui ciascuno si metteva alla prova per superare la paura del soffocamento, del calore asfissiante e della morte che avrebbe trovato sulla propria strada. Tutta la struttura dell’Inipi aveva un preciso significato e doveva essere fatta a regola d’arte; la stessa capanna era

ritenuta “viva” tanto che, una volta all’interno, la si percepiva come una seconda pelle. I pali della struttura erano in salice bianco, una pianta sacra che cresceva proprio ai margini della radura, poco distante dalla sorgente e, prima di venire tagliati, era dedicato loro un offerta per il loro sacrificio. I sostegni, dodici in tutto, venivano poi intrecciati in modo da formare un quadrato, simbolo delle quattro direzioni dei venti, e rivestiti di pelli di bisonte o di orso, animali totem del popolo rosso. Anche le pietre che tenevano ferme la copertura erano intrise di significati simbolici; erano chiamate “Tunkashila” ossia nonni, a simboleggiare gli antenati che, in questo modo, continuavano a essere presenti con loro alla cerimonia.

Molto tempo prima, Pioggia sulla Faccia aveva spiegato a Bella Collina che la capanna del sudore aveva molteplici impieghi, sia in campo spirituale che corporale; come un bambino che inizia a camminare lungo il sentiero della vita, coloro che entravano nella Inipi dovevano imparare a camminare carponi in modo tale che tutti e quattro gli arti strusciassero contro la tenda. Si sarebbero seduti poi in circolo, su un letto di salvia selvatica, mentre il custode del fuoco introduceva sette pietre incandescenti, una per il Cielo, per la Terra, per le quattro direzioni dei venti e per l’Aquila chiazzata, messaggera di Wakan Tanka, sulle quali, poi, avrebbe versato pura acqua di fonte. Completamente al buio, gli uomini avrebbero intonato canti e preghiere mentre l’apertura della tenda sarebbe stata sollevata quattro volte per introdurre altra acqua; alla terza volta sarebbe stata introdotta la sacra pipa che sarebbe stata fumata da tutti i presenti. Dopo il quarto turno di preghiere rivolte al Grande Spirito, le persone avrebbero lasciato la capanna: lo strusciare verso la luce rappresentava l’uscita dalla Madre Terra che ridonava in questo modo al mondo un individuo rinato e purificato nel corpo e nello spirito.

Ite_O_Magazu e gli altri shamani arrivarono alla radura a mezzogiorno; i fuochi erano accesi e le pietre roventi attendevano di essere introdotte nell’Inipi: uno a uno entrarono e presero posto mentre Gre_Dthe_Nuzhe, Falco In Piedi per gli uomini pallidi, l’anziano del gruppo, si apprestava a essere il “Custode del fuoco” della cerimonia. Per oltre due ore l’unico rumore che si sentì fu il canto di preghiera degli occupanti della camera del sudore; neppure il suono degli uccelli disturbava la sacra purificazione, come se lo stesso Wakan Tanka fosse

presente in mezzo a loro. Qualcosa successe all’interno di quella tenda, qualcosa di inaspettato, tanto che gli occupanti, quando uscirono, sembravano estremamente provati e taciturni; furono servite bevande e cibi leggeri in attesa di ritrovare le energie necessarie per continuare i riti che si protrassero fino al tramonto: con la fine della giornata il Grande Spirito si abbandonava morente tra le braccia di Gea, in attesa di rinascere da lei insieme al risveglio della Natura. Ora toccava alle figlie della Grande Madre celebrare la Dea secondo le loro usanze per cui gli uomini si ritirarono esausti dalla radura rimanendo a debita distanza, a protezione del luogo.

Noi arrivammo a notte inoltrata, stanche, sporche ma con una gioia nel cuore che non ci faceva sentire null’altro che la voglia di cominciare; Bella Collina ci aspettava alla fonte con una bacinella di terracotta colma di acqua fresca e pulita; ci aiutò a rinfrescarci e a pulire i residui che la vegetazione intricata del bosco aveva lasciato nei nostri capelli e sui nostri vestiti. Elizabeth si presentò da sola alla consorella indiana con una semplicità e un’affettuosità che ci lasciò stupite: la gente comune era piena di pregiudizi e di diffidenza verso il “popolo libero” tanto che raramente si assisteva a qualcosa di più di un saluto formale. Le vedemmo allontanarsi parlottando sottovoce, disegnando simboli arcani nell’aria, in sintonia perfetta tra di loro e con l’ambiente che ci circondava, lasciandoci il tempo di riprendere fiato e preparare la cerimonia del Samhain seguendo le sacre regole dell’Ordine. Sapevamo dei riti che si erano tenuti durante tutto il giorno in onore del lato maschile della divinità ma non ne eravamo disturbate, tutt’altro: quel posto era intriso di energia positiva, di un aura soprannaturale che riempiva l’anima di vigore e forza.

«Era da tanto, troppo tempo che non percepivo così possente la presenza di Gea. Qui ogni cosa è impregnata della sua essenza, come se la stessa Dea camminasse in mezzo a noi. Lo senti anche tu Sara?»

Io ero distante con la mente, persa in sensazioni che non riuscivo a descrivere neanche a me stessa, avviluppata in una sorta di turbinio di emozioni che mi stordiva e mi impediva di pensare coerentemente.

«Non sono sicura di sapere che cosa sento. Tutto intorno a me sembra parlarmi in una lingua che stento a comprendere, come una folla che urla tutta insieme parole senza senso. Mi sento confusa ma stranamente felice, in pace.»

«Abbandonati a quel suono e lasciati trasportare, non cercare di capire e non opporre resistenza ma lasciati andare tra le braccia di Gea, sarà Lei a guidare i tuoi pensieri e la tua mente verso la luce e le rivelazioni che ti attendono.»

Al centro della radura, le giovani squaw avevano eretto un altare ornato di fiori e di frutta e ora attendevano, riunite, l’inizio della cerimonia. Come la luna piena raggiunse il suo apice nel cielo terso e stellato, Bella Collina invitò noi e le consorelle a formare un grande cerchio attorno all’ara cerimoniale: formavamo un gruppo di nove consorelle senza distinzione di razza o di appartenenza, unite nell’adorazione della Grande Dea e delle sue manifestazioni terrene. Con la speranza e la gioia nel cuore, demmo inizio a quel sabbat senza eguali.

Sognai, questo lo ricordo bene, un turbinio di colori e una voce calda, gentile, che mi avvolgeva come una soffice pelliccia; la luna splendeva sopra di noi relegando le ombre negli angoli più lontani della radura. Ricordavo un animale, un lupo dal mantello chiaro, quasi bianco, che mi fissava dal margine della foresta, non timido ma in attesa di qualcosa che doveva accadere. Le mie sorelle danzavano in cerchio cantando le suppliche a Gea con voci squillanti; le vedevo quasi al rallentatore mentre sinuose si muovevano a o di danza in cerchio, sempre più velocemente fino a quando la prima cominciò a librarsi in aria, a due palmi abbondanti dal suolo. Sembrava non accorgersene di non toccare più terra, tutta presa nel salmodiare i versetti della sua supplica; capivo chiaramente ogni parola, anche se la giovane squaw cantava nella sua lingua nativa.

«Aria, acqua, terra e fuoco,

elementi della Nascita Astrale io vi invoco:

venite a me! In questa cerchia appositamente creata,

dagli attacchi dei miei nemici sono riparata.

Io Ti invoco: vieni a me.

Dalle grotte e dai deserti, dalle colline e dal mare,

con la bacchetta e il pugnale,

con la coppa e il pentacolo,

io ti invoco: vieni a me!

Così voglio e così è...».

Elizabeth e mia madre danzavano l’una accanto all’altra, gli stessi i e le stesse movenze, ricordo di pratiche comuni da tempo dimenticate, anche loro preda della “estasi mistica” che accompagna queste celebrazioni; le vedevo

innalzarsi sempre più in alto, bagnate dalla luce argentata della luna, felici nell’abbraccio della Grande Madre e del suo sposo.

«Dea misericordiosa, tu che sei regina degli dei, luce della notte, creatrice di tutte le cose selvagge e libere. Madre delle donne e degli uomini, amante del Dio e protettrice di tutti i wiccan: discendi, ti prego, con il tuo raggio di potere lunare, qui nel mio cerchio» sentivo salmodiare mia madre mentre tutta la congrega si abbandonava all’energia di Gea.

Ricordo poco di quello che sognai dopo, immagini a volte nitide, a volte sfocate, la sensazione di volare leggera sulle ali di un falco e gli occhi del lupo che mi seguivano, pazienti, in attesa di qualcosa che doveva ancora venire; era come se la visione che avevo non fosse solo dettata dalla mia esperienza personale ma fosse la fusione di due culture differenti, accomunate da un’unica credenza, da un identico destino. L’ultima immagine impressa nella mia mente erano i corpi nudi selle mie sorelle adagiati sull’erba verde della radura; i loro vestiti erano ammonticchiati vicino all’altare, buttati alla rinfusa durante il rito, inutili rivestimenti che impedivano il contatto diretto con l’amore della Dea. Guardavo i loro corpi snelli, brillanti di sudore alla luce lunare, belli nelle loro forme, per nulla scandalizzata o infastidita dalla loro nudità.

“Così doveva essere e così sarebbe sempre stato” mi sorpresi a pensare mentre mi distendevo esausta vicino a mia madre. Il lupo si avvicinò a noi due e, dopo averci annusato a lungo, si sdraiò accanto a me: l’ultima immagine che vidi prima di cadere in un sonno profondo furono i suoi occhi che fissavano i miei in una sorta di muta promessa. Poi tutto divenne buio.

L’alba era già sorta quando i guerrieri tornarono alla radura; svegliarono tutte noi con una bevanda calda, aspra ma gradevole, che ci ridiede in breve tempo tutte le energie consumate.

Pioggia Sulla Faccia abbracciava Bella Collina cercando di scaldare il suo giovane corpo mentre lei lentamente si rivestiva. C’erano sorrisi e gioia nei visi di tutti, uomini e donne, ma anche una sorta di urgenza; era tardi ed entro poco il villaggio si sarebbe svegliato, iniziando le quotidiane attività mattutine: dovevamo rientrare al più presto e la strada nel bosco era ancora lunga. Ringraziai tutte, una per una, con la promessa che ci saremmo riviste presto all’accampamento; avevo tante domande che attendevano risposte ma più di tutto ero felice perché finalmente avevamo una sorellanza a cui appartenere. Avrei compiuto dieci anni entro qualche mese ma nel mio animo mi sentivo molto più grande e matura degli anni che avevo. Questo poteva essere molto pericoloso e io dovevo stare ancora più attenta a sembrare meno di quello che ero in realtà.

Capitolo 8

Dopo quella notte, il legame che si era creato tra noi e le giovani donne indiane si andò consolidando sempre più; rimaneva poco tempo prima che la tribù smontasse l’accampamento e si trasferisse a sud, verso i campi invernali, ma sfruttammo fino all’ultimo giorno per creare un legame che ci avrebbe tenute unite nonostante la distanza.

Va_Shesh_Na_Bè aveva promesso di insegnare alle sue sorelle a parlare “come l’uomo bianco” e altrettanto feci io nell’impegnarmi a imparare la lingua algonchina. Ne ero talmente affascinata da desiderare d’apprenderla con tutta me stessa; era un idioma ricco di sfumature e povero di sottintesi, perfetto per dire le cose com’erano, senza tanti giri di parole, incapace di esprimere un concetto intendendone un altro. Non sapevo ancora come avrei fatto ma sicuramente mio padre e mia madre potevano darmi una mano, almeno all’inizio.

L’ultimo giorno prima della loro partenza, molti abitanti del villaggio andarono all’accampamento per fare gli ultimi scambi; gli indiani preferivano viaggiare il più possibile leggeri e quello era il momento migliore per fare gli ultimi baratti.

Ci unimmo alla piccola carovana che lentamente lasciava Wenham con il nostro carro scoperto; avevamo carne secca, focacce e confetture oltre ad alcuni orci pieni di sciroppo d’acero, di cui sapevamo esserne ghiotti i bimbi pellirossa. Naturalmente gli affari erano la scusa per poter abbracciare per l’ultima volta in quell’anno le nostre nuove consorelle e la tristezza della loro imminente partenza era appena mitigata dalla gioia dei ricordi che condividevamo; la lunga stagione fredda era alle porte e avrei avuto tutto il tempo nei lenti e oziosi giorni invernali per imparare il più possibile nel lungo cammino del sapere di una wicca.

La tribù aveva accolto i visitatori con la solita allegria e benevolenza; mi sembrava impossibile che qualcuno potesse provare sentimenti negativi verso un popolo così cordiale e ospitale ma, purtroppo, la realtà smentiva il più delle volte le mie convinzioni. Molte wigwam esterne erano già state smontate e la tribù si era concentrata al centro dell’accampamento per accogliere i visitatori; sembrava quasi una fiera di paese come quella che avevamo visto l’anno prima a Salem, durante la consueta visita ai nonni e alle zie: ovunque c’era gente che magnificava la propria merce cercando di spuntare un prezzo migliore mentre i bambini giocavano chiassosi tutt’intorno. Riuscii a intravedere un paio di consorelle, tutte indaffarate a preparare i bagagli per il lungo viaggio che le attendeva e, per quanto cercassi, non riuscii a trovare Bella Collina; avevo preparato un dolce con le mie mani, usando miele e frutti di bosco che avevo colto di persona nel bosco dietro la nostra casa e avrei voluto tanto donarglielo per ringraziarla di tutto. Ero anche riuscita a incidere un piccolo segno che la cottura aveva parzialmente nascosto: una piccola croce con i vertici a punta di freccia, un buon augurio per il viaggio ma ora temevo di non riuscire a darglielo.

Fu lei a trovarmi mentre girovagavo senza meta in mezzo a tutta quella confusione; accettò con gratitudine il regalo contraccambiandolo con un altro che aveva fatto con le sue mani: un piccolo ovale di cuoio forato a una estremità, in modo da essere portato come un ciondolo e finemente cesellato con una punta d’osso di bisonte. Raffigurava un quadrato con all’interno un triangolo che ne conteneva un altro più piccolo, leggermente eccentrico rispetto al primo, il tutto adagiato su un tappeto di salvia selvatica dai piccoli fiorellini inconfondibili per forma e colore. Non sapevo com’era riuscita a dare la sfumatura violetta alle piante dello sfondo ma ero certa che se ci avessi avvicinato il naso, sarei riuscita

a percepire l’aroma di un campo fiorito.

«Grazie Bella Collina, è bellissimo.»

«Non devi ringraziare, è un talismano che ti proteggerà fino al nostro ritorno. Portalo sempre con te, a contatto della pelle e nessuna energia malvagia potrà farti del male. Ti stavo cercando perché qualcuno vuole parlare con te, una persona molto speciale che raramente ha contatti con qualcuno che non è del popolo rosso. È un grande onore ma anche una fonte di preoccupazione per me perché ciò che deve dirti è di estrema importanza per tutti noi.»

Non volle aggiungere altro nonostante le mie domande e mi guidò in direzione del margine del bosco, verso lo stagno di Muddy Pond. Non trovammo nessuno ad attenderci tranne un vecchio avvolto in una pelliccia di bufalo che fumava una lunga pipa con lo sguardo perso nel vuoto.

«Va' e siedigli accanto. Aspetta che sia lui a parlare e non interromperlo perché quello che ti dirà viene direttamente da Wakan Tanka, il Grande Spirito. Lui è Gre_Dthe_Nuzhe, Falco In Piedi, shamano della tribù dei Mohegan. È uno stregone molto potente che ha fatto un viaggio lunghissimo per partecipare alle celebrazioni dello Samham e ora, prima di ritornare al suo popolo, vuole parlare con te.»

Mi sentivo intimorita da quello che avevo appena sentito ma anche lusingata e incuriosita; a quanto sapevo quasi mai un anziano parlava di faccende importanti con qualcuno giovane come me, specialmente se femmina e non appartenente al suo popolo. Mi sedetti vicino a lui e attesi pazientemente di sapere il motivo di quella convocazione.

Va_Shesh_Na_Bè era lì solo come interprete e non avrebbe mai rivelato a nessuno la nostra conversazione, neppure a suo marito Pioggia Sulla Faccia: questi erano i patti per permettere anche la sua presenza. L’acqua dello stagno era quieta, lievemente increspata dal movimento lento delle ultime anatre che sguazzavano poco distante; a nord le prime nuvole grigie di pioggia transitavano verso le colline, segno che il tempo stava rapidamente cambiando. Sentivo il mormorio raschiante delle piccole onde che lambivano la spiaggetta dove eravamo seduti e il cinguettio festoso degli uccelli del bosco, suoni quasi ipnotici che mi posero in una sorta di vigile dormiveglia.

“La voce di Gea…” mi sorpresi a pensare, mentre ogni fibra del mio corpo si disponeva all’ascolto di quei suoni: in alto nei cieli, un’aquila lanciava i suoi richiami nel vento alla ricerca della propria compagna. Riuscivo a vederla fendere l’azzurro del cielo anche senza alzare lo sguardo dall’acqua, come se riuscissi a guardare, attraverso i suoi occhi, il terreno che rapido scorreva sotto di lei.

«Ti ho vista nei miei sogni» sentii risuonare nella mia mente, «mentre purificavo il mio spirito nella camera del sudore. Ti ho vista vestita di pelle di daino, più grande dei tuoi anni, lunghi capelli sciolti sulle spalle e una collana di pietre azzurre sul collo lungo, delicato. Non appartenevi più al tuo popolo e nemmeno ancora al mio, in bilico tra due mondi eternamente in lotta. Manitou mi ha parlato quel giorno, nel buio dell’Inipi e mi ha raccontato una storia. Sei pronta ad ascoltarla figlia dei lupi?»

Nulla si era mosso sulla riva di Muddy Pond ma era come se io e Falco In Piedi fossimo uno di fronte all’altro; il suo volto scavato da mille rughe era serio di una solennità che solo chi parla nelle veci del proprio Dio può avere. Voltai lo sguardo per un attimo e scorsi Bella Collina seduta dietro di me, le mani appoggiate alle mie spalle, gli occhi chiusi in un’espressione d’intensa concentrazione; nessun suono tranne la voce del vecchio shamano riusciva ad arrivare alle mie orecchie, nulla tranne il pensiero stesso del Grande Spirito.

“Oh Gea, Grande Madre, com’è possibile tutto ciò?” riuscii appena a pensare mentre la domanda si ripeteva: «Sei pronta ad ascoltare quello che ho da dirti?»

«Si, sono pronta» gli risposi senza esitazione mentre tutto si faceva buio e indistinto intorno a me. Non ero più sulle rive dello stagno ma mi sentivo galleggiare, come quando avevo provato per la prima volta l’estasi delle wicca; c’era una luce davanti a me che velocemente s’ingrandiva abbagliandomi con il suo colore bianco accecante. Sentivo l’erba sotto i miei piedi e vento sul mio viso; aprii gli occhi e vidi, sdraiato accanto a me, il lupo che mi aveva donato il suo calore la notte di Samhain: mi stava fissando, dal basso verso l’alto, anche lui in attesa di qualcosa di non ben definito. Mi sedetti al suo fianco, le gambe incrociate alla maniera indiana e attesi con lui; tutt’intorno, una sterminata prateria ondeggiava mossa da una tiepida brezza, non un suono né un movimento, a eccezione del ritmico alzarsi e abbassarsi del respiro del mio compagno e del tamburellare frenetico del mio cuore nel petto. Mi avevano sempre insegnato a temere i lupi perché, pur somigliando ai nostri cani, erano esseri spietati, creature del demonio che uccidevano indistintamente senza pietà; ora quelle parole erano senza significato per me che, pigramente, accarezzavo la morbida pelliccia del mio nuovo amico. C’era un altro animale che si era materializzato poco distante; un enorme bufalo dal mantello candido, gigantesco paragonato a noi due: ci osservava alzando fiero la testa mentre la lunga coda sferzava l’aria. Rimanemmo così per un tempo infinito, poi le cose cambiarono; lentamente il gigantesco animale mutò forma diventando un giovane pellirossa avvolto in un bianco mantello fatto con la stessa pelle dell’animale che avevamo appena visto trasformarsi. Si sedette a pochi i da noi e ci fisso con uno sguardo intenso, dolce e stranamente benevolo; il lupo aveva drizzato le orecchie e seguiva i movimenti del nuovo venuto con grande interesse, come se anche lui fosse in attesa di una qualche rivelazione. Avevo paura di chiedere a quell’uomo chi fosse e dove ci trovavamo per cui rimasi in silenzio aspettando che fosse lui a parlare per primo.

«Sai chi sono?» mi chiese con una punta d’ironia nella voce.

«Sì» gli risposi senza indugio. Non volevo dare spiegazioni su chi credevo che fosse: dopo tutto era stato lui a convocarmi, per cui era suo compito illustrare il motivo della chiamata, ma non volevo apparire sgarbata o irriverente per cui abbassai subito gli occhi. Lupo, così avevo deciso di chiamare in mio peloso amico, percepì il mio disagio e cominciò ad agitarsi irrequieto.

«Gea ha scelto bene tra le sue figlie. Il tuo spirito è forte e nello stesso tempo saldo e risoluto. Sei la prescelta ideale per il compito che ti attende; non sarà né facile, né tantomeno privo di pericoli e la ricompensa per i tuoi sforzi non sarà tua, bensì dei nostri due popoli. Ti attendono dure prove dalla vita piccola Sara ma Lei e io ti saremo sempre accanto per darti tutto l’aiuto di cui avrai bisogno anche se non sarà sufficiente a metterti al riparo dal dolore e dalla sofferenza che il destino ha in serbo per te. Preparati dunque al meglio perché il sapere dei nostri due popoli sarà fondamentale per la riuscita dell’impresa.»

Ero confusa, incerta di aver compreso a fondo le parole che avevo appena sentito; erano parole sibilline, dette senza rivelare nulla di quello che sarebbe successo in futuro, solo per prepararmi a un destino probabilmente già scritto, diverso da quello che avevo immaginato per me fino a quel momento.

«Io… non credo di aver capito quello che volevi dire, non sono sicura di essere la persona che tu cerchi. Sono una giovane wicca, una figlia della Grande Madre senza esperienza e senza alcun potere, come potrei servire a uno scopo così grande se non riesco neppure a comprenderlo?»

«C’è un tempo per ogni cosa, per accettare un pesante fardello, per imparare e per mettere in pratica gli insegnamenti. C’è pure un tempo per la sofferenza e per il dolore perché anche questo fa parte della vita e aiuta a comprendere meglio il disegno del destino. Guardami giovane figlia della Madre Terra, apri la tua mente e accetta il tuo fato.»

Ero di nuovo nella radura; gli occhi di Lupo nei miei, il suo fiato caldo che sapeva di caccia e di foresta sul mio viso gelato. Ero nuda come tutte le sorelle adagiate accanto a me e tremavo dal freddo pungente dell’alba appena sorta; Lupo cercava di scaldarmi stringendosi forte al mio corpo, donandomi il suo tepore e la sua amicizia. Mi aveva osservato a lungo dai margini del bosco, attratto dall’odore del sangue di daino e dall’energia che scaturiva da quel luogo; era ato senza difficoltà tra i cacciatori che erano di guardia alla radura, come se fosse invisibile ai loro occhi: altri predatori avevano cercato di fare altrettanto ma erano stati respinti oppure uccisi. L’istinto della caccia lo aveva abbandonato nel momento stesso in cui aveva raggiunto lo spiazzo erboso e così pure la fame e la bramosia della preda. Sentiva solo una forte attrazione per una giovane che si librava a mezz’aria, simile a un grosso uccello implume, leggera ed elegante come il volo del falco. Si sentiva parte di lei, una sensazione mai provata di affetto e desiderio di proteggerla, un’affinità che non aveva nessuna logica ma che sentiva prepotente nelle sue viscere. Nulla li avrebbe mai più separati, ne era certo e in questa convinzione si era avvicinato cercando di riscaldare quel piccolo corpo gelato.

«Lupo…» gli aveva sussurrato con un filo di voce, ormai persa nei suoi sogni esausti e il suono di quella semplice parola lo aveva colpito così nel profondo da convincerlo che, d’ora in avanti, sarebbe stato il suo nome per lei.

Poi mi vidi adulta, come mi aveva descritto Falco In Piedi, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, adornati da file di perline colorate; indossavo una soffice veste fatta con pelli di daino, calde e morbide ma, allo stesso tempo, resistenti e adatte alla vita dura della tribù. Lupo era al mio fianco e seguiva ogni mio movimento con attenzione, pronto a ricevere le carezze dei bimbi o a emettere un ringhio basso, minaccioso in caso di pericolo. Una collana di pietre azzurre scintillanti al sole adornava il mio collo, potente talismano contro le energie oscure che cercavano di ostacolare la mia missione.

«Tu sei Igat_She, la Viaggiatrice, colei che unirà i nostri popoli.» La voce calda di Wakan Tanka, il giovane guerriero della mia visione, si tramutò

all’improvviso in quella bassa, raschiante di Gre_Dthe_Nuzhe, il vecchio shamano della tribù dei Mohegan e questo bastò a strapparmi dal mio stato semincosciente facendomi tornare immediatamente alla realtà.

Bella Collina ci stava guardando preoccupata, come se temesse per la salute di entrambi; aiutò Falco In Piedi a tornare alla sua tenda e mi raggiunse subito dopo. Io non mi ero mossa, ripensando a quanto avevo appreso nella mia visione di cui ricordavo ogni parola, ogni pensiero, incapace ancora di realizzare cosa effettivamente fosse successo.

«Siete rimasti immobili uno accanto all’altra per alcuni minuti, lo sguardo fisso sull’acqua del lago. Poi un lupo ha ululato, nel cuore del bosco, un suono lungo che sembrava non avere mai fine e subito dopo lo stregone ha urlato, ti ha dato un nome nuovo per la gente del mio popolo, un nome che non avevo mai sentito ma che sicuramente si diffonderà tra la mia gente. Tu per loro non sarai più Sara del villaggio di Wenham ma Igat_She, la Viaggiatrice.»

Andai a salutare tutti prima di tornare a casa lasciando per ultimo proprio l’anziano shamano; lo trovai disteso nel suo tepee, esausto e provato dalla visione che avevamo condiviso. Cercò di mettersi seduto, segno di rispetto per me e questo mi colpì tantissimo; avrei dovuto avere io un atteggiamento ossequioso nei suoi confronti, non il contrario: lo feci sdraiare e lo coprii con le pelli più morbide e calde cercando di farlo stare più comodo possibile.

«Sono venuta a salutarti e a ringraziarti per quello che hai fatto oggi per me. Non sono ancora sicura di quello che ho visto ma so che era importante che condividessi con te questa esperienza mistica. Ti auguro un buon viaggio di ritorno alla tua tribù e una vita lunga e felice.»

Capitolo 9

Le giornate ripresero a scorrere una dopo l’altra, monotone, sempre uguali; tutto il villaggio si stava preparando ad affrontare il lungo inverno mentre a noi ragazzi venivano affidati i lavori più noiosi. Elizabeth e suo marito si erano trasferiti da noi ma mio padre aveva già preso accordi con i vicini per farsi aiutare a costruire una piccola capanna per i nuovi concittadini e sperava di vederla terminata prima dell’arrivo della prima neve. Occorsero circa due settimane per tagliare e squadrare i tronchi che avrebbero costituito l’ossatura portante della casa mentre le donne e i ragazzi più giovani spianavano il piccolo lotto di terreno che George aveva loro concesso; era bello vedere come tutti quanti si offrivano per dare una mano ai nuovi venuti, lavorando senza sosta dall’alba al tramonto.

«Riusciremo a finire la vostra nuova casa prima di Natale, ve lo assicuro» aveva promesso il connestabile del paese dal pulpito della chiesa gremita di fedeli. «Lo spirito dei Padri pellegrini è forte nei nostri cuori e aiutare un nostro fratello è un sacro dovere di ognuno di noi come il buon Dio ci ha insegnato, vero reverendo?»

Quel sabato, il pastore aveva lasciato di buon grado il compito di fare il sermone al primo cittadino e ora annuiva sorridendo alle sue parole; altre due anime si erano aggiunte al suo gregge e quello era un segnale positivo per il loro villaggio e per la sua parrocchia.

A metà dicembre cominciarono a cadere i primi fiocchi di neve; l’aria era da qualche giorno più pungente e tutti si aspettavano da un momento all’altro una copiosa nevicata ma la bontà della Grande Madre si manifestò un’altra volta permettendoci di terminare la casa di Elizabeth in tempo. Era poco più piccola della nostra, fatta con grossi tronchi di abete bianco, sagomati e incastrati tra loro in modo da formare quattro pareti compatte e robuste; l’interno era spazioso e il soppalco forniva una camera da letto grande e luminosa grazie a due finestre che si aprivano sulle pareti esposte a est e a sud. Il grosso camino in pietra, saldamente ancorato alla parete nord della casa, aveva richiesto molti giorni di

lavoro; gli uomini avevano trasportato per giorni grossi macigni provenienti dai torrenti circostanti e solo dopo aver stimato che ce n’erano abbastanza si era dato il via alla realizzazione del focolare vero e proprio. Era una costruzione imponente che partiva da qualche metro sotto la casa e s’innalzava dritta verso il cielo superando l’altezza del tetto di quasi due metri; era incredibile vederla prendere forma man mano che le persone più esperte posizionavano una a una le grosse pietre, controllando e modificando la posizione di ciascuna prima di posizionare la successiva. Mia madre, temendo che andassi anch’io a curiosare come faceva mio fratello, mi aveva relegato in cucina a cucire le tendine per i nostri vicini; era un lavoro noioso ma mi permetteva lo stesso di seguire la costruzione del camino, poiché la nostra finestra dava proprio verso la nuova casa di Elizabeth. La neve arrivò, cadendo a falde larghe e fitte, tanto da ricoprire in breve tempo tutto Wenham e il territorio circostante; i lavori erano stati ultimati appena in tempo per fare una piccola festa di benvenuto e inaugurare il grande camino appena terminato: un lungo filo di fumo scuro si era innalzato appena il fuoco, segno che il tiraggio era regolare e costante e che tutte le fatiche erano state premiate dalla perfetta riuscita dell’opera. Ora anche i nostri amici possedevano una casa degna di quel nome e finalmente avrebbero potuto pianificare il futuro con più calma e tranquillità; erano stati ben accolti e di questo dovevano ringraziare George e mia madre. In quel clima gioioso ci apprestammo a festeggiare il Natale, tra le grida dei bambini e il lavoro degli adulti che cercavano a fatica di tenere sgombre le vie della nostra piccola comunità.

Era difficile spostarsi con tutta quella neve e così, come ogni inverno, ci si radunava in chiesa oppure dai vicini per giocare, parlare del più e del meno oppure fare quei lunghi e complicati lavori di tessitura e ricamo che tanto piacevano alle persone più anziane. Il pastore aveva intensificato le lezioni sullo studio del vangelo con la scusa che noi bambini non avevamo altri compiti da svolgere mentre gli uomini, finite le loro numerose incombenze, si ritrovavano alla taverna a bere e a raccontare storie più o meno inventate. Mamma e io, aiutate da Elizabeth, avevamo cominciato a mettere ordine nella piccola stanza segreta della nostra cantina; dovevamo preparare le erbe e le radici raccolte durante l’estate e l’autunno separandole e confezionandole in modo che conservassero tutte le loro proprietà.

Gre_Dthe_Nuzhe mi aveva fatto dono di otto piccole porzioni disseccate di una pianta, un piccolo cactus aveva detto, che cresceva molto lontano da qui. Una volta ogni tre anni, alcuni shamani del popolo degli uomini s’incontravano con gli stregoni degli Huicholes in un posto segreto, a molti mesi di viaggio, per barattare ingredienti magici molto potenti tra cui queste piccole piante.

«Gli indios Huicholes li chiamano peyotes, li usano da sempre nei loro riti per varcare la soglia terrena ed entrare in contatto con le loro divinità. È una sostanza molto potente e pericolosa ma può esserti d’aiuto per entrare in contatto con la tua Dea o addirittura con Wakan Tanka. Devi usarla solo quando il tuo cammino nella conoscenza degli antichi misteri è completo, non prima.»

Mia madre non aveva mai visto una pianta simile ma dalle mie parole aveva intuito le sue proprietà; anche le wicca utilizzavano sostanze che dilatavano le percezioni e permettevano di entrare in una specie di mondo fantastico dove potevano sentire più chiaramente la presenza di Gea e comprenderne meglio il suo volere.

«È una pratica riservata alle wicca più anziane perché è molto pericolosa se eseguita da mani inesperte. Avrai modo di imparare anche queste cose ma ci sono molte altre cose che devi apprendere prima, il fatto che tu sia straordinariamente dotata non deve metterti fretta, tutt’altro. La tua preparazione d’ora in avanti sarà ancora più scrupolosa e sarà proprio Elizabeth a insegnarti tutto quello che devi sapere.»

«Perché non tu?» chiesi con una punta di delusione nella voce, quasi mi sentissi abbandonata da colei che era stata fio a quel momento la mia unica maestra.

«Lei è più preparata in questo specifico compito e non è legata sentimentalmente a te. Questo fa di lei un’insegnante migliore e più obiettiva ed è una dote

indispensabile per un buon precettore.»

Non ero molto convinta di quello che diceva mia madre, ero abituata a vederla come l’unica maestra possibile, la persona che sapeva tutto sulle erbe e la loro preparazione e ora, proprio lei, cercava di convincermi che il suo sapere non era sufficiente alla mia preparazione: in troppo poco tempo mi si era spalancato un mondo tutto nuovo, fatto di visioni e magie, di Dei che potevano assumere forma umana nei sogni per farci comprendere il loro volere, e io ne ero sopraffatta. A stento potevo credere di avere dieci anni, visto che me ne sentivo addosso molti di più e il cammino che avevo intrapreso era ancora lungo e pieno di incognite e pericoli. Ero molto sconfortata ma fu proprio Elizabeth che mi diede una ragione in più per andare avanti, un compito all’apparenza semplice ma che era la base della formazione di ogni wicca: mi prese da parte e con il suo solito modo pacato e gentile cominciò a raccontarmi le sue esperienze nella sorellanza.

«So che a te sembra un mondo magico, dove l’energia che Gea ci dona è così grande da poter fare qualsiasi cosa, ma non è proprio così. Occorre molto studio e applicazione per far sì che gli insegnamenti delle wicca nate prima di noi possano continuare a vivere e a migliorare. Non ci sono libri che tutte possono consultare proprio perché ognuna di noi possiede delle doti che la rendono unica. Solo la parte relativa alla preparazioni dei medicamenti è una pratica comune a tutte noi, proprio perché si basa su conoscenze certe delle proprietà degli elementi che usiamo. Tutto il resto viene da dentro di noi, dalla nostra unione con l’essenza stessa della Grande Madre. Poche sorelle possono utilizzare questa energia e solo alcune di noi possiedono il dono di entrare in comunione con Gea e attingere direttamente dalla sua conoscenza. Io credo che tu sia una di queste fortunate ma per esserne sicura dovrai prima diventare esperta nelle altre arti magiche, prima fra tutte quella della guarigione, perché il primo compito di una wicca è quello di seguire il desiderio della Grande Madre, misericordia verso chi soffre e aiuto per chi ne ha bisogno.»

La nostra amica era davvero brava nella sottile arte della persuasione tanto che mi aveva convinto a essere diligente e a non cercare di bruciare le tappe.

“L’impazienza e l’avventatezza allontanano dal luminoso sentiero della Dea” l’avrei sentita ripetere fino alla nausea ma in quel momento tutto quello che diceva appariva sensato ed entusiasmante per cui promisi che ce l’avrei messa tutta per imparare bene e nel modo corretto.

«Devi sapere che tutte noi possiamo imparare a usare determinati ingredienti per preparare rimedi e pozioni ma l’efficacia dipende molto dalla capacità della wicca nell’infondere nel preparato l’energia necessaria a farlo funzionare correttamente. Mi spiego meglio: tutte le mie consorelle sapevano preparare un rimedio per abbassare la febbre o curare una brutta ferita perché i principi curativi delle piante erano noti a tutte ma l’efficacia del preparato variava di molto a seconda di chi lo preparava perché occorreva “incantare” la medicina con una preghiera a Gea affinché questa acquistasse energia e potesse funzionare al meglio. È per questo motivo che ci sono vari gradi nella preparazione di un’adepta, che vanno dalla semplice guaritrice a essere una strega a tutti gli effetti.»

Ebbi un tuffo al cuore come sentii nominare il termine “strega”; spesso, durante le feste principali, il pastore ci aveva parlato delle streghe, vecchie immonde che adoravano il demonio e facevano sacrifici umani nel suo perverso nome. Esse erano la causa delle peggiori malattie, delle pestilenze e di ogni più brutta azione commessa contro Dio, o così almeno mi avevano insegnato a credere fino a ora. Io non mi sentivo cattiva, anzi: da quando avevo scoperto le mie doti mi sentivo una persona diversa, molto più vicino a Dio di prima, molto più disponibile a fare del bene ed estranea al solo pensiero di fare del male a qualcuno.

Elizabeth e mia madre si accorsero subito del mio stato d’animo e sorrisero comprensive; non era la prima volta che il concetto di strega, com’era inteso dalla Chiesa Cristiana, confondeva le menti sensibili delle nuove arrivate: chi non apparteneva alla Grande Madre dalla nascita, aveva subito un indottrinamento il più delle volte cattolico che aveva radicato profondamente nell’animo dei preconcetti del tutto sbagliati e volutamente negativi sulla magia e la stregoneria in generale.

«Noi streghe esistevamo molto prima dei cristiani, la nostra religione è antichissima e si perde nella notte dei tempi. Molte altre credenze ci hanno accettato riconoscendo le qualità del nostro lavoro ma solo i cristiani ci hanno perseguitato e messo al rogo solo perché la nostra unica colpa era di non essere devote al loro Dio. Per giustificare le loro atrocità, vennero create ad arte le storie dell’adorazione del demonio e sui sacrifici dei bambini.» Il viso di mia madre era teso mentre mi diceva tutto ciò, arrabbiato per un torto che dovevamo subire tutte noi ingiustamente. «Noi siamo persone e come tali siamo buone o cattive, prodighe verso gli altri oppure egoiste ma mai legate a nulla che provenga dal Maligno, mai!»

Improvvisamente cominciavo a capire quanto doveva essere dura vivere una doppia vita in un mondo dominato da persone rigide nel loro credo; i Puritani avevano regole inflessibili in fatto di religione anche se non arrivavano al fanatismo tipico di certi ordini ecclesiastici della chiesa cristiana: mamma era sempre stata giusta su questo punto, tutte le volte che ne avevamo parlato, cercando di trovare parole di comprensione in un mondo che, a quanto capivo solo ora, voleva solo vederci bruciate vive.

Capitolo 10

Le giornate invernali, così corte rispetto a quelle della bella stagione, non erano sufficienti per tutti i compiti che mi ero prefissata; da una parte lo studio del vangelo mi permetteva di continuare a fare parte della comunità senza destare sospetti: il difficile era apparire una dolce ragazzina timida e sprovveduta quando invece il potere della Dea cresceva in me forte e potente. Tutto il tempo che potevo sottrarre alle faccende quotidiane era impiegato nello studio delle erbe e delle loro proprietà curative; anche la sera, a lume di candela, ripetevo alla mamma o alla mia precettrice il nome, la forma e le proprietà di tutte le piante e le radici che fino a poco tempo prima aiutavo a raccogliere, ignara del loro

utilizzo e della loro preparazione. Era un compito monotono ma essenziale per il primo stadio del mio apprendimento; l’impiego di un ingrediente sbagliato nella preparazione di una pozione poteva creare gravi problemi a chi la utilizzava, addirittura fatali se le erbe utilizzate erano tossiche. La natura intorno a noi dormiva in attesa di risvegliarsi nel pieno del vigore con l’arrivo della bella stagione; anche l’energia vitale che sentivo intorno a noi sembrava essere diventata solo un brusio in sottofondo e questo mi aiutava nella concentrazione ma lasciava insoddisfatta la parte di me che bramava immergersi nella forza vitale della Grande Madre.

Quando Elizabeth reputò che fossi pronta per il o successivo, mi prese da parte e mi svelò un piccolo segreto: «Come ti ho già detto, il potere delle wicca varia da persona a persona secondo i doni di Gea per cui ognuna di noi ha bisogno di ricordare esattamente tutto quello che ha imparato o sperimentato nell’arco della propria vita. Non esistono libri che insegnano l’arte degli incantesimi o l’uso della magia proprio perché la mia esperienza può non essere efficace per te o per tua madre, e viceversa naturalmente. Ogni strega che supera il livello di guaritrice e possiede delle capacità mistiche ha bisogno di crearsi un proprio libro dove annotare tutto quello che riesce a compiere e il modo esatto per riuscirci in modo da poterlo rifare in qualunque momento, anche a distanza di anni. Questa sorta di diario si chiama grimorio ed è l’oggetto più personale che una strega possieda, e anche il più pericoloso: è un manufatto che, se trovato da persone sbagliate, potrebbe portare a essere condannata per stregoneria e bruciata sul rogo oppure potrebbe essere usato per fare del male a qualcuno. In quel caso la responsabilità sarebbe sia della maga, sia della persona malvagia che l’ha usato. Per questo motivo va custodito con estrema cura e il suo nascondiglio non va rivelato a nessuno, nemmeno alla propria madre o, in questo caso, alla propria figlia.»

Solo ora mi rendevo conto che c’erano ancora tante cose che non sapevo su mia madre, prima tra tutte l’esistenza di un libro così importante di cui ero stata tenuta all’oscuro; comprendevo l’esigenza della segretezza ma questa notizia mi rattristò: pensavo di avere la totale fiducia della mamma ma i fatti dimostravano l’esatto contrario e per questo motivo mi misi a piangere.

La mia insegnante, pur essendo sconcertata dalla mia reazione, preferì lasciarmi sfogare rimandando a dopo ulteriori spiegazioni: non era compito suo intervenire sul rapporto madre e figlia per cui preferì lasciare a Mary il compito di spiegare quale fardello poteva essere il grimorio per una strega.

«Mio dolce tesoro» esordì mia madre cercando le parole giuste per meglio farmi capire il motivo delle sue scelte, «la venuta alla luce delle tue capacità e dei tuoi doni mi ha preso un po’ alla sprovvista. Speravo che la Dea ti benedicesse ma pensavo che avrei avuto ancora del tempo prima di affrontare questo delicato argomento: eri ancora troppo piccola per portare un fardello così pesante sulle tue piccole spalle e ancora oggi, nonostante l’enorme cambiamento che il tocco di Gea ha portato in te, ho timore che possa essere ancora troppo presto per affidarti un compito simile. Ho dovuto nascondere a tutti il mio libro, anche a te perché anche il solo menzionarlo poteva metterci tutti in pericolo. Capisci bambina mia perché ho dovuto farlo?»

Le lacrime erano ricomparse nei miei occhi mentre mia madre mi spiegava le sue ragioni ma capivo che lo aveva fatto per il nostro bene, per la nostra sicurezza; probabilmente lo aveva aperto raramente in questi anni per timore che qualcuno scoprisse il suo nascondiglio ma il sollievo che leggevo sul suo viso mi faceva sentire terribilmente in colpa.

«Mi dispiace mamma, scusami se ho pensato che non volevi fidarti di me. Solo che ora mi sento così diversa che, a stento, ricordo com’ero prima che tutto questo avesse inizio: mi sembra di essere stata sempre così ma so che non è vero.»

«Non ti preoccupare piccola mia, l’importante è che ora tu comprenda bene quali responsabilità e quanti pericoli comporta essere una wicca di questi tempi. Nessuno dovrà mai sapere i nostri segreti e mai, per nessun motivo, qualcuno

dovrà trovare o leggere i nostri grimori: ne va della stessa vita nostra e dei nostri cari.»

Feci solenne giuramento che mai avrei messo in pericolo le persone cui volevo bene o una qualsiasi consorella e in nessun caso avrei arrecato sofferenze o danni alle altre persone, per nessun motivo; mi sentivo molto grande in quel momento, un’adulta in un corpo da ragazza ma ero del tutto ignara di quello che la Grande Madre aveva in serbo per me.

Il primo problema che dovetti affrontare era trovare la materia prima su cui scrivere il mio diario segreto. Mamma mi aveva spiegato che era una sorta di cronaca di viaggio nel mondo magico della stregoneria: vi avrei dovuto annotare i riti, gli incantesimi, le corrispondenze, le erbe e le pietre che avrei utilizzato oltre a tutto ciò che potevo creare come i canti, le invocazioni o le formule. Ma ciò non bastava: la seconda parte di un grimorio era costituita da un “libro specchio”, una sorta di diario personale del proprio percorso religioso, dove annotare pensieri, sensazioni, errori e successi del proprio cammino spirituale ma anche ricordi, incontri e tappe della propria vita che non si volevano dimenticare.

Ebbi modo di vedere quello di mia madre qualche settimana dopo, in un raro momento in cui eravamo sole in casa. Papà e Giles erano andati a far legna perché il rigore di quell’inverno stava consumando troppo velocemente le nostre scorte; erano partiti di buon mattino intenzionati a fare una bella catasta non troppo lontano dal villaggio in modo da poterla facilmente trasportare a casa: Alfred, il marito di Elizabeth, era andato con loro e la moglie ne aveva approfittato per fare il consueto giro del vicinato in modo da consolidare le amicizie che si era appena creata. Rimaste sole, sbrigammo le faccende domestiche il più velocemente possibile e scendemmo, senza perdere tempo, in cantina; quel giorno non ci sarebbe stata nessuna lezione in chiesa perché il pastore era a letto con la febbre, così come una parte consistente di noi ragazzi. La lanterna gettava luci e ombre ovunque in quell’ambiente buio creando immagini grottesche al nostro are; ci dirigemmo subito al nascondiglio

segreto e, fatta scorrere la parete segreta, cominciammo ad accendere le candele per farci luce. Il vano era ancora più piccolo di come me lo ricordavo, ingombro di ogni tipo di mercanzia, dai mazzi di erbe ormai perfettamente essiccate e pronte per essere ridotte in finissima polvere a ciotole piene di strani cristalli che rilucevano alla tremula luce delle candele. Alcuni vasetti colmi di un liquido scuro, semitrasparente erano sistemati su un rozzo ripiano di legno di pino, mentre altri contenenti sostanze sconosciute erano semplicemente accatastati gli uni sugli altri sul piccolo tavolo, unico mobile della stanza. C’erano poi crogiuoli, mortai e altri recipienti dalle forme strane ma nulla che potesse contenere o nascondere il libro che eravamo venuti a prendere.

«Dov’è?» chiesi con mal celata impazienza mentre i miei occhi frugavano ogni angolo della stanza. Mia madre sorrise con indulgenza, perdonando tutta quella fretta e la mancanza di acume in quella spontanea domanda.

«Quello che sto per mostrarti è il segreto più importante di una wicca, il suo sapere e la sua stessa vita sono legate a quell’oggetto. Pensi che sarei stata così avventata da lasciarlo in bella mostra, sia pure in una camera nascosta come questa?»

Abbassai subito gli occhi mentre un fuoco d’imbarazzo arrossava le mie guance. “Che stupida!” pensai mentre cercavo di evitare lo sguardo di mia madre: era logico che nessuno doveva trovare un simile tesoro, anche se fosse stato a conoscenza del fatto che si trovava proprio lì. Doveva esserci un altro vano segreto, magari una nicchia occultata in modo da essere invisibile a chiunque tranne che alla legittima padrona. Le esposi la mia teoria e lei mi sorrise compiaciuta; stavo facendo progressi nella comprensione delle potenzialità che la magia offriva anche se ero ben lontana dal comprenderla. Prese la mia mano e la appoggiò, insieme alla sua, contro la roccia della parete più vicina e senza indugio cominciò a recitare l’incantesimo.

«Oh Dea, madre da noi venerata,

e tu Terra, su cui la mia mano è posata,

svela ciò che nascondi, libera da tuo abbraccio quello che per me custodisci:

ti invoco nel nome di Gea, per cui ubbidisci!».

Sentivo, non so come, che qualcosa stava succedendo, una sorta di reazione nella dura sostanza di cui era fatta quella solida parete; mi aspettavo che questa si animasse, che diventasse la porta di uno scrigno segreto in cui era riposto il libro, ma quello che realmente successe mi lasciò senza fiato: dove prima c’era solida parete, ora c’era... semplicemente il nulla, solo un buco quadrato, profondo quanto bastava da contenere un libro spesso dalla copertina di pelle marrone, di cuoio, avvolto da uno straccio di tela grezza. La roccia su cui posavamo le mani era semplicemente scomparsa sotto le dita lasciando solo aria e una piacevole sensazione di pizzicore sui polpastrelli.

Era la prima volta che vedevo una magia vera e propria, non quelle fatte dai ciarlatani nelle fiere di paese, e ne rimasi estasiata; fissai mia madre con lo sguardo colmo di ammirazione e le labbra socchiuse in un sorriso sbalordito: ora capivo perché nessuno avrebbe mai trovato il grimorio di mia madre giacché era la stessa terra, uno dei quattro elementi fondamentali, a custodirlo. Lo presi con cura sotto lo sguardo attento di mamma e lo deposi sul tavolo; la copertina sembrava molto vecchia ma le pagine che lo costituivano erano bianche, come appena vergate, scritte con la calligrafia minuta e arrotondata di mia madre. Sul cuoio, impresso a fuoco, un pentacolo inserito in un cerchio stava a indicare che quella parte era dedicata al grimorio vero e proprio mentre sul dorso, con la stessa tecnica, un occhio aperto indicava l’inizio del libro specchio, la raccolta dei pensieri e delle esperienze della mia genitrice.

Le mani mi tremavano mentre cercavo, senza riuscirci, di sfogliare il volume; sembrava avere la consistenza della pietra in cui era custodito e, dopo alcuni tentativi, a malincuore dovetti desistere.

«Non ti ho portato qui perché tu leggessi il mio libro, bensì perché tu credessi nella sua esistenza e nell’esistenza stessa della magia. Occorre un altro incantesimo per aprirlo e uno ancora più complicato per poterlo leggere: la prudenza non è mai abbastanza in questi tempi oscuri e chiunque tentasse di accedere al suo sapere lo distruggerebbe senza poter conoscere neppure una parole del suo contenuto. Così dovrai fare tu con il tuo perché da ciò dipende il destino di tutte noi.»

Ora finalmente avevo capito; non mi sarebbe servito a nulla imparare i suoi incantesimi perché ognuna crea i propri che valgono e funzionano solo per lei: me ne diede una dimostrazione pratica appena riposto il libro e richiuso il muro.

«Sara, ti ricordi la formula che ho usato poco fa? Prova tu, ora ad aprire lo scrigno che custodisce il mio “tesoro”.»

Incoraggiata dalle parole di mia madre, posai la mia mano sulla pietra e recitai la formula concentrandomi su ogni singola parola per infondere più energia possibile; dopo le cose che ero riuscita a fare al campo dei nostri amici pellirossa, questo mi sembrava un gioco da ragazzi.

«Oh Dea, madre da noi venerata,

e tu Terra, su cui la mia mano è posata,

svela ciò che nascondi, libera da tuo abbraccio quello che per me custodisci:

ti invoco nel nome di Gea, per cui ubbidisci!»

Invocai con tutto il fervore di cui ero capace ma, con mia grande sorpresa, non successe nulla: la pietra rimase tale e a nulla valsero i miei sforzi per trasformarla in qualcosa di diverso.

«Ora capisci quello che volevo dirti? Ogni incantesimo funziona solo con la persona che l’ha creato e con nessun’altra. Per questo non esiste un grimorio che possa andare bene per tutte ma ognuna deve costruire il proprio giorno per giorno, perché il sapere che acquisisce può essere usato solo da lei.»

Ci voleva questa dimostrazione perché finalmente capissi fino in fondo le basi che regolano le arti magiche: ognuna di noi doveva trovare nella Grande Madre e dentro di sé il giusto equilibrio per poter agire sui quattro elementi, una sinergia che dava all’incantesimo un’impronta indelebile che non si poteva riprodurre. Ero talmente affascinata da questa scoperta che dimenticai perfino il motivo per cui eravamo scese lì sotto. Ci pensò mia madre a rammentarmelo con una voce falsamente di rimprovero.

«Signorina, non dimentichi nulla? Ricordati che dobbiamo sistemare le erbe prima che l’umidità e il freddo ne deteriorino le proprietà. Al lavoro e senza brontolare.»

Uscimmo dalla cantina che era da poco ato mezzogiorno, stanche e con le

mani che facevano male dal lungo pestare nel mortaio, ma felici di aver fatto tutto quel lavoro insieme e delle cose che avevamo condiviso.

Capitolo 11

Carta, serviva della carta per poter costruire il mio grimorio; non era qualcosa che si poteva trovare in abbondanza nelle case dei coloni della contea di Essex né, credo, in nessuna casa di nessun colono: il fatto che sapessimo leggere e scrivere era solo in funzione dello studio della Bibbia e delle sacre scritture. Era stato proprio il pastore della nostra chiesa a promuovere l’istruzione di base tra noi fanciulli perché «le menti ignoranti sono facile preda delle superstizioni e degli indottrinamenti del demonio. Per capire a fondo gli insegnamenti di Dio, occorre saper leggere le Sue parole e saperle riscrivere in modo da non poterle mai dimenticare» o così almeno ripeteva ogni volta il reverendo quando qualcuno si lamentava che i figli erano più utili nei campi che non in sacrestia. Questo era un bel problema perché senza la materia prima non avrei potuto rilegare un bel niente e la bella stagione era ancora troppo lontana per poter pensare di fare un viaggio sino a Salem dai parenti e da tutti quegli empori riforniti di ogni ben di Dio, compresa la carta per scrivere.

Fu proprio Dio o meglio il suo servitore nel nostro villaggio a risolvere il mio problema, proprio alla vigilia di Natale, festività quasi coincidente con Yule, il grande sabbat d’inverno. In quell’occasione, fummo “invitati” ad aiutare a sgomberare il solaio della chiesa da tutto il materiale che, nel corso degli anni, si era accumulato: mobili rotti, sedie mangiate dai topi e un numero impressionante di incartamenti buttati alla rinfusa ovunque ci fosse spazio. Alla vista di tutti quei fogli, fui l’unica a offrirsi di dividere e catalogare tutti i documenti custoditi nella soffitta e, dato che ero sempre stata la più diligente e rapida nell’imparare, mi fu affidato senza indugio quell’ingrato compito.

Iniziai di buon mattino in compagnia di Abigail, la mia migliore amica, ad ammucchiare tutti quegli incartamenti al centro della stanza; il giorno prima i

ragazzi avevano trasportato la mobilia destinata alla stufa nella legnaia della sacrestia per cui, ora, avevamo abbastanza spazio da muoverci liberamente. L’aria era fredda, pungente e il nostro respiro produceva buffe nuvole di vapore: tra poco il pastore avrebbe il camino e quindi la canna fumaria avrebbe dato un po’ di calore anche a quel tetro ambiente. Strati di polvere accumulatasi nel corso degli anni si alzavano al minimo spostamento rendendo l’aria quasi irrespirabile per cui, nostro malgrado, dovemmo aprire l’ampio lucernario; il sole, entrando dalla finestra, illuminava il pulviscolo facendolo brillare come per magia e fu proprio quell’effetto a farmi ricordare il motivo per cui ero stata così zelante nell’accettare un lavoro che nessuno aveva voluto. C’era di tutto in quella soffitta, da vecchi libri consumati dal tempo e dai parassiti alle registrazioni delle nascite e delle morti dalla fondazione del nostro villaggio a oggi, libri contabili di chissà quali attività commerciali e tanti, tantissimi fogli scritti a mano con una calligrafia minuta, a volte incerta e tremolante. Dividemmo tutto quel materiale in quattro o cinque mucchi ben distinti, dopo di che scesi in chiesa a parlare con il sacerdote; l’aria più tiepida di quegli ambienti riscaldati mi fece immediatamente tossire ma il piacere di quel calore sul viso era la cosa più bella che avevo provato quella mattina.

«Mi scusi reverendo, ma io e la mia amica Abigail abbiamo finito di dividere tutti i documenti: dovrebbe venire a vedere quali tenere e quali buttare via in modo da poter sistemare al meglio quelli importanti e bruciare gli altri.»

Avevo notato moltissimi fogli ancora candidi mentre separavo gli incartamenti e li avevo nascosti sotto la pila dei documenti che quasi sicuramente sarebbero stati destinati alla stufa, sperando in questo modo di poterli prendere senza che nessuno se ne accorgesse e senza recare danno o dispiacere al nostro pastore. Dopo un attento esame, fummo incaricate di mettere in ordine e trasportare nell’archivio della parrocchia tutti i documenti relativi alle nascite, alle morti e alla contabilità del nostro villaggio, più alcuni libri che potevano essere ancora salvati dall’azione distruttrice del tempo; il resto poteva essere bruciato, compresa la raccolta dei sermoni del vecchio pastore, sicuramente non in sintonia con il pensiero del nostro attuale rettore. Era quello che stavo aspettando da tutta la mattina; lasciai la mia amica vicino alla canna fumaria ormai calda, intenta a ordinare i documenti importanti mentre io mi assunsi l’ingrato e

faticoso compito di trasportare tutto il rimanente materiale inutile dalla soffitta fino al ripostiglio della legna dove sarebbe stato utilizzato come accenditore per la stufa: in quel modo potevo separare i fogli ancora utilizzabili e nasconderli in modo da poterli recuperare in seguito senza venir scoperta. Era pomeriggio inoltrato quando ritornammo a casa, sporche e impolverate, piene di dolori alla schiena e alle braccia per il lavoro ingrato che avevamo dovuto fare; il sole, ormai al tramonto, gettava lunghe ombre sulla neve candida mentre un gelido vento dal nord cominciava a fischiare tra i fitti rami del bosco. Salutai Abigail ringraziandola dell’aiuto che mi aveva dato e il suo sorriso mi ripagò di tutta la fatica della giornata; era una ragazza dolcissima, sempre allegra e disponibile, di un anno più grande ma sempre pronta ad accorrere in mio aiuto, sempre presente da che io mi ricordassi. Era la persona cui volevo più bene in assoluto a Wenhan, fatta eccezione naturalmente per i membri della mia famiglia.

Recuperare tutta quella carta non fu per nulla facile; impiegai più di un mese per portare tutti i fogli a casa, pochi alla volta, nascosti tra il corpo e i pesanti abiti invernali: mi ero resa disponibile per ogni tipo di lavoro da eseguire in chiesa, dalla fabbricazione delle candele di sego alla pulizia della canonica, alla lucidatura degli ottoni e dei calici per la funzione del sabato. Ogni volta, oltre ai ringraziamenti, riuscivo a portare a casa qualche foglio di carta tutto stropicciato che, con molta pazienza, rimettevo in piega ed era quello il premio più importante. Verso la fine di gennaio tutto il mio tesoro era conservato in un angolo asciutto della cantina, proprio a ridosso della base del camino, pressato tra due tavole di legno di salice, l’albero legato alla Dea, sacro a noi figlie di Gea, in modo che le pagine risultassero lisce, di facile scrittura e impregnate della benevolenza della Grande Madre.

Feci un sogno quella notte, la prima tranquilla dopo tutte le preoccupazioni che mi avevano assillato da quando avevo cominciato quel sotterfugio, forse riprovevole, ma assolutamente necessario; Lupo venne a trovarmi, candido nel suo mantello invernale, gli occhi languidi, attenti a ogni minimo rumore. Eravamo nel bosco e camminavamo vicini, calpestando la neve che scricchiolava sotto i nostri piedi. Tutto era avvolto da un silenzio innaturale, illuminato alla luce pallida della luna, diafana e senza ombre.

«Dove mi stai portando amico mio?» gli chiesi con un filo di voce, quasi avessi timore di disturbare la quiete di quel luogo. Lui alzò la testa facendo un gesto quasi impercettibile, indicando con il muso un punto indefinito, davanti a noi. Aveva ripreso a nevicare e larghi fiocchi filtravano tra i rami scendendo lentamente a terra; poco distante il bosco terminava bruscamente sulla riva di un ruscello largo e quasi privo d’acqua. Il ghiaccio aveva gelato le pozze lungo la riva rendendo pericoloso il procedere ancora in quella direzione; scendemmo su una piccola spiaggetta ingombra di legna e di detriti, probabilmente trasportati lì dall’ultima piena primaverile. Lupo si accovacciò contro un grosso ramo di quercia, fissandomi con insistenza, come se volesse che anche io mi sedessi accanto a lui.

«Che cosa ci facciamo qui? Perché ci siamo fermati all’aperto? Moriremo di freddo se non troviamo subito un riparo.»

Lui continuava a guardarmi come se non mi avesse sentito, le fauci aperte e la lingua che seguiva il ritmico movimento del suo respiro: brevi nuvolette di vapore si condensavano per poi sparire, catturate dall’aria pungente della notte. Mi accorsi nonostante tutto di non aver freddo per cui, mio malgrado, mi sedetti accanto a lui, aspettando di conoscere il motivo di quel viaggio nel bosco.

Non dovetti attendere molto; dal folto della foresta un cervo enorme sbucò come dal nulla, dirigendosi senza fretta verso il fiume: era un maschio veramente robusto, giovane e forte, con i palchi delle corna ben ramificate e acuminate. Aveva un portamento davvero maestoso ed elegante tanto che sia io che Lupo rimanemmo a guardarlo come rapiti mentre l’animale rompeva il ghiaccio della pozza con i possenti zoccoli e cominciava a bere. Non mostrava nessun timore per la nostra presenza, anzi: dopo aver abbondantemente bevuto si avvicinò con cautela al nostro bivacco, fermandosi a pochi i da noi. Ora potevo osservarlo bene, pienamente illuminato dalla luce lunare: il muso, di colore più chiaro della scura pelliccia che lo rivestiva, era abbellito da due occhi neri, profondi, dolci nonostante la possanza fisica che ci fissavano dall’alto in basso. L’istinto era

quello di alzarmi e avvicinarmi per poter accarezzare quello splendido animale ma ero quasi certa che sarebbe fuggito ancor prima di muovere un o; fu Lupo ad anticipare la mia mossa mettendosi in piedi e iniziando a scodinzolare felice. Tutto mi sarei immaginata tranne quello che i miei occhi stavano vedendo: i due animali si mossero uno incontro all’altro fino a giungere, affiancati, davanti a me. Lo stupore impediva al mio cervello di capire che cosa stava succedendo fino a quando il cervo non si tramutò in un essere umano con le sembianze del giovane guerriero che avevo incontrato nella visione di Gre_Dthe_Nuzhe, il vecchio stregone della tribù dei Mohegan.

«Salute a te Igat_She, figlia prediletta della mia sposa.»

«Salute a te Wakan Tanka, potente compagno della mia Dea.»

Un piccolo fuoco da campo si era materializzato tra noi, colorando di luce dorata la neve circostante; un dolce tepore che scaldava ancora di più il mio animo: era la seconda volta che ero al cospetto del Dio degli indiani, lo sposo della Grande Madre e, nonostante il saluto cordiale ricevuto, il mio cuore era stretto in una morsa di timore reverenziale. Non avevo idea del perché Lupo mi avesse portato lì, né di quello che mi avrebbe detto il Grande Spirito; ciò di cui ero certa era che poche persone avevano avuto l’onore e il privilegio di sedere a fianco di Manitou e credo nessuno per due volte di seguito in un lasso di tempo così breve.

«Perché sono qui?» chiesi senza alzare gli occhi da terra. Il viso di Wakan Tanka era bello, specialmente ora che un sorriso di compiacimento si stava allargando sul suo volto.

«Non devi avere timore di me, piccola strega, tu sei parte di un disegno molto ampio e importante che ti porterà a conoscere luoghi lontani e molte persone che

rimarranno legate a te, nel bene e nel male. I tempi stanno mutando in fretta e il destino degli uomini, siano essi del tuo popolo o del mio, è intrecciato con le scelte che sarai chiamata a fare in un prossimo futuro. Prepara la tua mente e il tuo spirito a ciò che ti aspetta, giovane Sara, perché le speranze della tua Dea e mie sono riposte in te. Accetta questi doni che ti aiuteranno nel difficile cammino che ti attende e utilizzali solo per lo scopo cui sono destinati: sono la dimostrazione della nostra benedizione e benevolenza nei tuoi confronti. Non deluderci Igat_She perché le conseguenze sarebbero imprevedibili…»

Qualcosa brillava nella sua mano tesa verso di me, un piccolo ciondolo in agata blu, finemente scolpito e levigato tanto da renderlo lucido e lucente; raffigurava la testa di un lupo con la pelliccia irta sul collo, come una corona di temibili lance. Gli occhi, scintillanti, erano due piccoli rubini sanguigni che gli conferivano un aspetto ancora più feroce. Ma erano le fauci aperte, irte di denti aguzzi il particolare che incuteva più timore; la bocca stretta, la mascella squadrata, spalancata in un ringhio muto dava l’impressione di ferocia e determinazione togliendo ogni dubbio a chi osservava quel monile.

«È un talismano potente, l’anima stessa del tuo amico custode. Portala sempre con te e tienila stretta in pugno ogni qualvolta sarai in pericolo o in difficoltà: Lupo accorrerà in tuo soccorso ovunque sarai, sempre.»

«Io… grazie, non so come ringraziarti, è un dono bellissimo. Non ho mai posseduto un gioiello così bello in tutta la mia vita.» Presi il monile dalle sue mani e allacciai il cordino di cuoio al collo: la pietra era calda e vibrava come se fosse viva. Ma non era l’unica sorpresa che il Grande Spirito aveva in serbo per me; dalla cintura estrasse un grosso pezzo di cuoio di bisonte, compatto e scuro ma stranamente flessibile: me lo porse con la stessa solennità con cui mi aveva dato il primo dono.

«Il bisonte è un animale sacro per la mia gente, simbolo della forza e dello spirito libero del popolo rosso. La sua pelle fascerà il tuo grimorio donandogli

energia e spiritualità.»

L’ululato di un lupo mi svegliò di soprassalto; ero confusa e in un primo momento spaesata, ero ata dalla visione alla realtà troppo in fretta e ora avevo un senso di nausea che saliva impietoso dalla bocca dello stomaco. Deglutii a fatica la saliva, cercando di schiarire la mia mente nel tentativo di ricordare ogni singola parola di Manitou. Era stata un’esperienza molto intensa, improvvisa, che mi aveva lasciato priva d’energia: le mie mani salirono verso il collo, alla ricerca di un oggetto che non avrebbe potuto mai essere dove lo cercavo, nella vana speranza che tutto quello che avevo visto non fosse stato solo un semplice sogno. C’era qualcosa appoggiato alla mia pelle, caldo e compatto, al centro del mio petto; avevo quasi timore di scoprire che non era l’oggetto che mi aspettavo di trovare per cui lo tastai con attenzione percorrendone ogni linea: la forma era inconfondibile tanto che per la gioia balzai giù dal letto, avvicinandomi alla finestra illuminata dal chiarore della luna. Il tonfo dei miei piedi sulle tavole del pavimento aveva prodotto un suono cupo che aveva quasi svegliato i miei genitori; li sentii rigirarsi sotto le coperte, emettendo brontolii d’irritazione per l’improvviso rumore; poi tornò il silenzio rotto solo dal ritmico respiro dei miei familiari.

Alzai la camicia da notte incurante del freddo della stanza e del fatto che ero davanti alla finestra; riflesso sul vetro, legato a un laccio di pelle chiara, l’amuleto riluceva alla luce lunare, splendido nella sua sinistra bellezza. Lo tenni sul palmo della mano osservando la finezza del cesello, stringendolo delicatamente in una sorta di affettuoso abbraccio. La voce di Lupo echeggiò nella foresta, limpida, vicina: un saluto che sigillava un’amicizia e una promessa che ci avrebbe legati per tutta la vita. Non era, però, l’unica sorpresa di quella notte magica: sul cuscino era adagiato il cuoio di bufalo che avrebbe rilegato il mio libro rendendolo speciale, unico nel suo genere, forte e potente come lo spirito che l’aveva creato. Ringraziai mentalmente Wakan Tanka dei regali che mi aveva fatto e tornai a letto: presto sarebbe stata l’alba e con la luce del sole ci sarebbero stati nuovi compiti da svolgere e una splendida sorpresa da far vedere e da raccontare alla mamma.

Capitolo 12

Mamma non riusciva a credere a quello che le stavo raccontando; era più propensa a spiegare il tutto come un semplice parto della mia fantasia, alimentata dalle ultime vicende e dal potere che lentamente ma costantemente stava crescendo in me. Tuttavia non riusciva a spiegarsi né il cuoio appoggiato sul tavolo, né tantomeno quello splendido monile che rigirava nervosamente tra le dita. Non aveva mai sentito parlare di un’interferenza del Dio maschile nella vita delle wicca, dedite alla venerazione esclusiva di Gea; Lui aveva già i suoi seguaci, i warlock, con cui le streghe celebravano alcuni riti comuni ma che nulla avevano a che fare con la vita e le usanze della sorellanza. Eppure l’energia mistica di cui erano impregnati quei due oggetti rendeva “le mie fantasie” talmente credibili da sciogliere ogni possibile dubbio; con riluttanza mia madre accettò le mie spiegazioni e promise che mi avrebbe aiutata nella costruzione materiale del libro anche se si vedeva fin troppo bene che il maneggiare quegli oggetti la metteva a disagio. La settimana prima del mio decimo compleanno accompagnammo mio padre fino al limitare del bosco; lui, mio fratello e alcuni vicini avevano deciso di andare a caccia di lepri e noi ne approfittammo per arrivare fino a un albero che cresceva al margine della foresta senza destar sospetti. Dopo aver aspettato che gli uomini sparissero alla nostra vista, incidemmo la sua corteccia in profondità sul lato del tronco rivolto a sud e raccogliemmo un piccolo quantitativo di linfa densa, lattiginosa.

«Questo servirà a tenere insieme le pagine del tuo libro e a rendere più salda la rilegatura. Cerchiamo di raccoglierne il più possibile perché questo è l’unico albero del suo genere che cresce da questa parti.»

Riuscimmo a metterne insieme l’equivalente di mezzo bicchiere; non era molto ma sarebbe dovuto bastare allo scopo. Il freddo pungente aveva già chiuso l’incisione e non sarebbe stato prudente aprirne una nuova. I giorni successivi furono dedicati al mio grimorio: le pagine, tagliate della giusta misura, dovevano essere cucite a piccoli gruppi e ogni gruppo a sua volta cucito insieme agli altri. Era un’impresa faticosa perché occorreva una gran forza per spingere il grosso

ago attraverso molti strati di carta facendolo penetrare alla giusta distanza e profondità: tutto era eseguito con cura, senza fretta, accompagnando ogni cucitura con formule magiche propiziatorie. Mio padre era escluso da quel rito anche se la sua forza e competenza nei lavori manuali sarebbe stata molto utile; Elizabeth si offrì di darci una mano piegando e ribattendo il cuoio per renderlo morbido ed elastico, pronto a rivestire quello che sarebbe stato il libro magico più strano che una strega avesse mai visto. Il primo giorno di febbraio, un mercoledì freddo e cupo, avevamo tutto pronto per assemblare le varie parti del grimorio: la risma di fogli, cuciti e allineati con cura, era in attesa di venire spalmata sul dorso di linfa che stava bollendo, borbottando, in un piccolo recipiente nel camino. Anche la pelle di bufalo era stata messa in piega in modo che fasciasse e aderisse perfettamente ai fogli per cui ora l’ultimo o stava per compiersi.

«Ora tocca a te, Sara. Da questo punto in poi dovrai fare tutto il resto del lavoro da sola. Cerca nel tuo animo le parole giuste per ringraziare gli Dei per i doni che ti hanno fatto e incanta questo libro in modo che diventi il tuo diario di vita, il tuo percorso spirituale e pratico nel mondo incantato della Grande Madre.»

Ero spaventata all’idea di dover terminare il lavoro tutto da sola, non tanto per la parte manuale, quanto per quella magica: non avevo mai creato un incantesimo, anche se mamma mi aveva spiegato come si faceva e il timore di sbagliare mi rendeva nervosa. Presi la risma di fogli e, con una spatola di sambuco, cominciai a impregnare il dorso di resina bollente; alcune gocce mi caddero sulle dita ma ero talmente concentrata da non sentire alcun dolore. Prima che la linfa si solidificasse, presi la pelle di bufalo e la unii con ago e filo ai fogli in modo da creare uno spesso libro compatto: distesi la colla rimanente sulla prima e sull’ultima pagina e le feci aderire perfettamente alla spessa copertina di cuoio. Per la prima volta avevo tra le mani il mio volume di arti magiche, un tomo ancora vergine, pronto per essere riempito dalla sapienza e dalle conoscenze che avrei acquisito durante l’arco di tutta la mia vita. Rimaneva ora la parte più delicata, la più difficile perché comportava un’invocazione alla mia Dea che avrebbe consacrato il grimorio o ne avrebbe compromesso irrimediabilmente la sua funzione.

«La differenza tra un grimorio e un normale libro di magia sta proprio nell’incantamento dell’oggetto stesso e nella sua capacità di rispondere alle tue esigenze di segretezza e di consultazione. Se la cerimonia va a buon fine e l’incantesimo è ben formulato, il volume non solo celerà agli altri la propria esistenza ma faciliterà la sua consultazione rendendo disponibile il suo sapere nel giusto momento del bisogno» mi aveva spiegato Elizabeth quando tutto questo era ancora un lontano progetto.

Mi lasciarono sola con i miei pensieri e le mie paure; a nulla era valsa la richiesta di aiuto o di ulteriori spiegazioni, dovevo essere in grado compiere il prodigio utilizzando esclusivamente le mie capacità o fallire nel tentativo. Tutto questo, bene o male, si sarebbe concluso tra poco. Feci un lungo respiro cercando di scacciare la tensione e i cattivi pensieri e aspettai che le parole sorgessero spontaneamente dalle mie labbra mentre la destra, istintivamente, era salita al petto e ora sfiorava nervosamente la testa di lupo.

Madre della cui magia io son pervasa,

assisti la tua figlia che qui osa

invocare Te e il Dio di cui sei sposa.

Incanta questo libro con la tua energia

fa che la sua conoscenza sia solo mia.

Con la Terra, l’Aria, l’Acqua e il Fuoco,

con questo semplice incantesimo io invoco

la presenza di Gea e del Dio cornutoi

affinché solo a me sia chiaro il suo contenuto.

Non mi ero nemmeno accorta delle parole che, fluide, uscivano sottovoce dalla mia bocca; la testa girava, leggera e confusa, mentre le frasi si formavano senza il minimo sforzo nella mia mente. Rimasi a osservare il libro, quasi ipnotizzata, con il timore di vederlo svanire da un momento all’altro ma, a parte una debole luminescenza subito scomparsa, non successe nulla.

«È fatta!» sentii esclamare Elizabeth che fino a quel momento aveva trattenuto il fiato. Anche lei aveva notato il chiarore che si era diffuso per un istante sulla copertina ruvida del libro e lo aveva interpretato come un buon auspicio. Stentavo ancora a credere di essere riuscita a formulare il mio primo incantesimo: ero a dir poco euforica e già immaginavo quanti altri avrebbero riempito il volume che tenevo stretto tra le mie mani.

«Sei stata brava, ma questo è solo l’inizio. Prima di riporre il libro in un luogo sicuro occorrono almeno altri due sortilegi, entrambi di occultamento: serviranno a rendere accessibile o meno il suo contenuto e a celare il suo nascondiglio agli occhi altrui.»

Mia madre non voleva smorzare il mio entusiasmo ma d’altronde, quest’altra prova, indispensabile in questa fase delicata, mi metteva in ansia; se avessi fallito, la sicurezza del grimorio e di tutte noi sarebbe stata compromessa. Un libro del genere non poteva essere custodito in un modo convenzionale e distruggerlo sarebbe stata una grave offesa a chi aveva contribuito alla sua realizzazione donando la pelle incantata del bufalo.

«Concentrati figlia mia, devi trovare dentro di te le parole che serviranno. Non cercarle nella tua mente ma nel tuo cuore. Lascia che l’energia della Grande madre fluisca in te, diventa un tutt’uno con l’essenza che ti circonda e formula l’incantesimo, questo è l’unico modo perché funzioni.»

Sembrava semplice a parole ma la paura di sbagliare mi stava giocando un brutto scherzo; l’euforia era ata, sostituita dall’ansia e dal timore di fallire, la concentrazione era la cosa

più difficile ed ero così assorta in quel compito quasi impossibile che non mi accorsi di tenere nella mia mano il talismano che avevo al collo: ne seguii inconsciamente le linee incise nella pietra con la punta delle dita fino a che non mi sentii rilassata e pronta. Lupo, nel cuore della foresta, fece sentire la sua voce forte e rassicurante e io mi sentii pronta. Spalancai il mio cuore e la mia mente all’energia di Gea e trovai le parole per il mio incantesimo:

Per volere del Dio, il grande Wakan Tanka

che la pagina scritta ritorni bianca,

i segreti del libro rimangano tali

in nome di Gea, a tutti i mortali.

Pentacolo e luna, mistero e magia,

ogni parola ritorni mia.

Tutto il sapere qui dentro celato,

immediatamente mi sia rivelato.

Mancava un ultimo incantesimo, quello più importante e difficile per creare un nascondiglio sicuro al libro, invisibile e inaccessibile a tutti tranne me. Non avevo la minima idea di dove costruirlo né di come fare a farlo ma al momento non c’era nessuna urgenza: il grimorio era vergine e anche se lo avessero scoperto, non vi era ancora nulla che potesse farci incolpare di stregoneria. Finalmente il mio diario personale di magia era diventato una realtà e solo tenerlo tra le mani era il coronamento di un sogno a lungo desiderato. Lo affidai alla mamma perché lo custodisse nel suo nascondiglio e distrussi tutto quello che era servito al suo confezionamento bruciando ogni cosa nel camino.

Il sonno mi prese nel mio letto mentre ancora ripensavo a quello che era successo quel giorno. Avevo ripetuto ininterrottamente gli incantesimi che avevo creato per paura di dimenticarli: sarebbero stati i primi che avrei scritto nel libro e non potevo correre il rischio di dimenticarli. Quella notte sognai Lupo;

camminavamo insieme sulla neve, illuminati dalla pallida luce della luna piena: ero scalza e in camicia da notte ma non sentivo freddo. Tutt’intorno a noi solo un pesante silenzio rotto solo dallo scricchiolio della neve sotto i nostri i. “Che pace” ricordo di avere pensato mentre godevo della compagnia del mio amico e della quiete di quel luogo: fu proprio in quell’occasione che ebbi l’idea di dove custodire il mio più grande segreto e le frasi per sigillare il nascondiglio.

Capitolo 13

Era uno splendido giovedì di sole il giorno del mio decimo compleanno. L’aria, sia pure fredda e pungente, era limpida e priva di ogni traccia di foschia. Mamma mi aveva fatto dormire un po’ di più per consentirmi di riacquistare tutte le energie perse il giorno prima. Dalla cucina saliva un profumo di biscotti allo zenzero e, ne ero certa, una bella torta stava raffreddando fuori dalla finestra. Mi alzai allegra, felice per tutte quelle piccole attenzioni che mi sarebbero state riservate quel giorno e perché, finalmente, avrei potuto cominciare a scrivere nel libro. Sbrigai le faccende domestiche più velocemente del solito e aiutai mia madre a spalare la neve che ingombrava il aggio; era un compito che avrebbe dovuto eseguire mio fratello ma, inspiegabilmente, lui e mio padre erano spariti di buon mattino e non si erano più visti.

Elizabeth arrivò a metà mattina e così pure buona parte del vicinato; ognuno portava qualcosa per me, un dolce, una stoffa ricamata, un oggetto intagliato, piccoli doni di chi non ha molto nelle mani ma tantissimo nel cuore. La mattinata volò via così, tra ringraziamenti e piccole sorprese; verso l’ora di pranzo, anche papà e Giles rincasarono, infreddoliti e affamati: tenevano nascosti dietro la schiena due oggetti, i loro regali per me, ma non ebbero la pazienza di aspettare e me li diedero subito. George aveva costruito due splendide racchette da neve con i rami di betulla che aveva tagliato durante l’estate; li aveva tenuti nell’acqua del lago per quasi una settimana, in modo che fossero flessibili e resistenti e li aveva intrecciati con le fronde del salice che cresceva sulle rive del Muddy Pond: sembravano fatti d’argento tanto candido era il legno. Papà non poteva saperlo ma la scelta dei due alberi non poteva essere migliore; entrambi, infatti, erano consacrati a Gea e quindi erano impregnati della sua energia: non mi avrebbero mai fatto affondare nella neve, questo era sicuro. Il dono di mio fratello era più misterioso, avvolto in uno straccio dall’apparenza vissuto, macchiato in più punti di un colore simile alla ruggine; lo teneva chiuso nel palmo della mano, quasi avesse vergogna a mostrarlo a tutti.

«Io non so se ti piacerà il mio regalo ma ci ho messo tutto l’inverno per farlo» balbettò cercando di non guardarmi. «Non so perché ma mi sembrava adatto… a te. Non che tu gli assomigli ma… mi sembrava adatto, ecco tutto.»

Mi porse quel fagotto tutto stropicciato quasi con noncuranza, come volesse liberarsi di quel peso mentre io sapevo bene che l’unico timore che aveva era che non mi pie. Riconobbi le macchie appena ebbi l’oggetto in mano: era sangue, il suo sangue probabilmente e quello che mi aveva regalato era stato intagliato proprio da lui, a costo di tante piccole ferite. Mi vennero le lacrime agli occhi mentre scartavo con cura il suo regalo e lo mostravo a tutti; era una piccola figurina, non più grande del pugno della mia mano, in legno scuro, forte e resistente.

«Lupo!» esclamai buttandogli le braccia al collo. Ero talmente commossa dal

suo regalo da piangere senza ritegno sulla sua spalla. Lo turbai al punto da non saper più cosa dire; accettò incredulo tutti i miei ringraziamenti mentre non riusciva a capire come un oggetto così semplice poteva rendermi così felice.

«Io glielo avevo detto che il legno di quercia non era adatto a essere intagliato a quel modo, ma lui testardo non mi ha ascoltato. Ho dovuto medicarlo tante di quelle volte che ho perso il conto» disse mio padre bonariamente mentre ammirava il lavoro del figlio. «Però devo dire che ha fatto veramente un bel lavoro, sembra quasi vero.»

Il legno di quercia, l’albero sacro degli shamani, un altro segno che entrambe le divinità erano compiaciute; nulla poteva andare meglio di così e io ero talmente felice da dimenticare per un attimo ogni altro pensiero. La giornata volò via spensierata tra giochi e divertimenti; le mie amiche più care, Abigail e Susan Sheldon rimasero anche a cena e tornarono a casa a notte inoltrata: era da tanto tempo che non avo un giorno di festa così allegro e sereno e solo quando fui distesa nel mio letto potei dedicare un pensiero al mio amico dei boschi. Accarezzai il talismano sfiorandolo appena; non volevo che Lupo pensasse che fossi in pericolo e così usai solo la punta delle dita. Sembrava quasi di sentire la sua pelliccia spessa, morbida e calda; avvicinai l’amuleto alla statuina di mio fratello, chiusi gli occhi e mi concentrai sul mio temibile custode. Lo sentii ululare alla luna mentre piano piano scivolavo nel sonno, o così almeno mi parve di sentire; un suono lungo, rassicurante, un saluto di un amico caro e fedele che mi accompagnava nel mondo dei sogni.

Le settimane seguenti furono tutte dedicate a preparare tutto ciò che mi serviva per cominciare a scrivere; mia madre aveva tenuto da parte una lunga penna alare di anatra e, dopo averne incisa la punta, me la diede tutta orgogliosa. «La mia bambina…» la sentii sussurrare sottovoce. Fu un gran lavorare anche di mortaio per polverizzare i minerali e i cristalli che sarebbero serviti come pigmento per i vari colori; era indispensabile, infatti, riprodurre più fedelmente possibile le erbe e le piante officinali in modo da non commettere errori: alcune di queste erano, infatti, molto simili tra loro ma con proprietà completamente

diverse. Il grimorio della mamma era ricco di illustrazioni colorate e io avrei dovuto fare altrettanto nel mio, o almeno ci avrei provato. Aspettai la prima notte di luna piena, quando la mia camera veniva inondata dalla chiara luce lunare, per pronunciare l’incantesimo di occultamento che avrebbe creato il nascondiglio perfetto per il mio libro. Ci avevo pensato a lungo, cercando in ogni angolo della casa un luogo a portata di mano ma allo stesso tempo nascosto alla vista di tutti; mamma probabilmente aveva fatto la stessa cosa tanti anni prima optando poi per la camera segreta del suo laboratorio. Il camino sembrava la scelta più logica ma Elizabeth me lo aveva sconsigliato: «È il primo posto dove la gente va a guardare. Noi streghe siamo accomunate erroneamente al male e quindi al fuoco per cui è logico che il primo posto dove andrebbero a cercare prove della tua connivenza con il demonio è proprio il camino.»

Non rimanevano molti altri spazi per cui mi venne un’idea talmente folle da poter essere quella giusta. Quella notte deposi il grimorio sul pavimento, vicino al letto, tracciai un cerchio, simbolo della Dea, con la cenere del camino e vi disegnai dentro un pentacolo di protezione; ora il luogo era pronto per ricevere la mia richiesta:

Legno di abete, tagliato di fresco

sotto la luna, racchiuso nel disco

chiedo a te un rifugio sicuro

per tenere lontano il male oscuro.

In nome di Gea, Madre di tutto,

voglio un riparo che non venga distrutto,

al mio comando si deve aprire

mentre agli occhi del mondo deve scomparire.

Nel nome di Wakan Tanka che ora qui invoco

apri una nicchia a prova di fuoco.

Tutto il pentacolo divenne scuro, come se la luce della luna non riuscisse più a illuminarlo; si era creata una zona d’ombra che era del tutto inspiegabile, come se il pavimento avesse ceduto, sprofondando: una piccola cavità, grande poco più del libro, si era formata dal nulla e attendeva, spalancata, di poter custodire il mio segreto. Mi alzai e corsi giù in cucina; temevo, infatti, che il mio nascondiglio fosse comunque visibile nel soffitto della stanza sotto la mia camera da letto ma, nonostante cercassi con attenzione, il soffitto non mostrava nulla di quello che invece succedeva al piano di sopra.

Ora tutto era pronto per accogliere il grimorio: un buco nel pavimento che non aveva nessun corrispettivo nel soffitto coincidente, un mistero tanto inspiegabile quanto comodo.

Legno d’abete di un bosco fecondo,

con l’acqua e il fuoco io ti comando

richiudi il sacrario, occulta il tesoro,

con l’aria e la terra io t’imploro.

Sigilla il coperchio sotto le erbacce

per gli altri si perdano pure le tracce.

Il pavimento tornò liscio com’era in precedenza; nulla poteva far pensare che poco prima, nello stesso punto, si aprisse un nascondiglio. Anche il pentacolo era sparito, inglobato a protezione di quel luogo d’occultamento; il libro ora era al sicuro e così pure noi: neppure mia madre sarebbe potuta arrivare al volume anche se, ne ero sicura, poteva comunque avvertirne la presenza.

Quella notte sognai nuovamente il bosco; ero insieme a Lupo e stavamo eggiando lungo il torrente che scorreva poco lontano dal villaggio. La neve aveva livellato le asperità arrotondando gli spigoli in una linea curva continua, dolce. Ci fermammo a riposare, assaporando i fiocchi di neve che, lentamente scendevano sui nostri visi. C’era un silenzio assoluto, irreale, come quando si cammina nella nebbia fitta; avevo quasi timore a parlare per non disturbare quell’atmosfera così tranquilla ma le parole mi uscirono dalle labbra da sole: «Amico mio, perché siamo qui? Dove mi stai portando?»

Lui si fermò per un attimo, come per cercare di capire cosa gli stavo chiedendo, poi, quasi in risposta alla mia domanda, si diresse senza esitazione verso un gruppo di salici poco distante. Lo seguii rassegnata: non potevo pretendere di avere una risposta immediata ma qualcosa mi diceva che la direzione non era stata presa a caso. Sotto uno degli alberi più grossi, proprio tra le sue fronde pendule, una figura femminile sedeva in attesa; man mano che ci avvicinavamo, i particolari diventavano sempre più nitidi tanto che, a un certo punto, fui quasi certa che si trattasse di Bella Collina. Sedeva a gambe incrociate con la schiena appoggiata al tronco e i lunghi capelli scuri le scendevano fluidi sul viso; aveva lo sguardo perso nel vuoto, come se osservasse qualcosa talmente lontano da non poter essere visto dai nostri occhi. Non era la mia amica indiana, anche se qualcosa nei suoi lineamenti la ricordava; mi sorrise appena mi vide e mi fece cenno di avvicinarmi: Lupo si accucciò poco distante e attese paziente l’esito di quell’incontro.

«Siediti Sara, qui vicino a me. Sai chi sono?»

Rimasi sconcertata dal fatto che quella donna sapesse il mio nome; era giovane, molto bella, con capelli scuri, lucidi e morbidi. La osservai a lungo cercando di ricordare se l’avessi già incontrata prima; c’era qualcosa, una sensazione di familiarità ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capire se l’avevo o meno già incontrata.

«Perdonami ma per quanto mi sforzi non riesco a rammentare» dissi impacciata mentre un calore improvviso incendiava le mie gote. Lei sorrise e continuò a guardarmi con affetto, come se quella dimostrazione di timidezza le fosse gradita.

«Eppure hai riconosciuto il mio sposo nonostante non lo avessi mai incontrato. Ti ha fatto un dono importante e la promessa che ti avrebbe protetto.»

Improvvisamente capii e caddi in ginocchio ai suoi piedi: «Grande Madre, perdonami, non mi aspettavo che avessi la bontà di rivelarti a me, l’ultima delle tue seguaci, ancora talmente limitata nella conoscenza del tuo sapere da non meritare un simile privilegio.» Ero così confusa che sentivo la testa girare, incapace di formulare il benché minimo pensiero. Gea era qui, davanti a me e stava parlando come una madre parla alla propria figlia: ero cosciente di essere profondamente addormentata nel mio letto ma questo non toglieva nulla all’importanza di quella visione.

Lei si alzò e mi venne vicina, ponendo il suo viso davanti al mio; aveva gli occhi scuri, languidi e profondi come quelli dei cerbiatti: mi guardò seria per un istante prima di svelarmi il motivo della sua presenza.

«Questi sono tempi difficili, pieni d’insidie e di malvagità. Come non può esistere luce senza ombre, il male avanza e dilaga anche tra le nostre file. La magia che impregna ogni cosa è come l’acqua di un lago: il più delle volte è calma, tranquilla, innocua ma se il vento la agita può diventare cattiva, minacciosa, a volte mortale. Ci sono persone che usano le arti magiche non per il bene ma per distruggere, esseri votati all’oscurità per scelta o soltanto per ignoranza. Non è giusto che un simile pesante fardello gravi su spalle così giovani ma la forza che sento in te è grande così come puro è il tuo cuore. Presto ci saranno cambiamenti che imporranno delle scelte molto difficili, eventi dolorosi che dovrai affrontare con coraggio sapendo che, in ogni caso, noi saremo vicini a te. Fai tesoro di ogni insegnamento e cerca di imparare il più possibile perché non c’è più molto tempo.»

Mi svegliai di soprassalto con il cuore in gola che batteva furioso; non ero più certa se quella che avevo avuto fosse stata una visione oppure un semplice incubo, ma il senso di fretta e di pericolo non mi abbandonò nemmeno dopo che mi alzai dal letto.

Capitolo 14

Dal Libro Specchio di Sara.

Ho iniziato da qualche giorno a scrivere sul grimorio; ho dovuto faticare non poco per ottenere dei pigmenti colorati per i miei disegni: non è stato facile ottenere polvere finissima dai vari minerali da unire poi al lattice del salice e ottenere così le varie tinture che mi occorrevano. I disegni delle erbe e delle piante devono essere accurati, specialmente nei colori perché molte volte le diversità sono proprio lì. Il volume di mamma è magnifico e io non sono certo alla sua altezza in quanto a disegno ma, pur occorrendomi molto più tempo, quello che ne viene fuori è “un ottimo lavoro” come ripete sempre Elizabeth. Gli impegni e la segretezza di quello che sto facendo non mi lasciano molto spazio durante la giornata ma spero, con l’arrivo della bella stagione, di trovare occasioni favorevoli per dedicarmi a questo compito. Nella parte riservata agli incantesimi ho trascritto solo quelli riguardanti la protezione e l’occultamento del libro anche se li conosco a memoria ma non vedo l’ora di sperimentarne altri; mamma è contraria, almeno fino a quando la mia conoscenza della magia non sarà maggiormente approfondita ma il senso di pericolo che mi ha suggerito la Grande Madre non mi ha abbandonato, anzi: sento incombere su di noi la mano pesante del destino e devo essere pronta per quel momento. Non ho raccontato a nessuno l’ultima visione, un po’ per paura di non essere creduta ma principalmente per non mettere ulteriormente in ansia i miei genitori. Anche loro percepiscono dei cambiamenti nell’aria ma non hanno ancora capito la portata di queste alterazioni e in che modo porteranno dei cambiamenti nella nostra vita.

15 marzo 1690. Come ogni mercoledì, da un po’ di tempo a questa parte, mio padre porta Giles nella foresta a far pratica di tiro con l’arco; è una “cosa da maschi” come ribadisce ogni volta mio fratello quando recupera la sua arma di legno di faggio dal nascondiglio nella legnaia: è un segreto che nessuno deve scoprire per cui partono all’alba e si dirigono nel cuore del bosco, lontano da occhi indiscreti. Queste “cose da indiani” non sono ben viste tra gli abitanti del villaggio, specie ora che cominciano ad arrivare, dagli stati vicini, notizie di

scontri tra pellirossa e coloni; mio padre, da uomo prudente, vuole essere preparato nel caso debba difendere la sua famiglia da chiunque la minacci: «Un buon fucile è molto meglio di cento archi ma, finita la polvere da sparo, serve solo a scavarsi la fossa» dice ogni volta. È l’occasione che io e mamma aspettiamo per fare pratica di magia, nascondendo l’arte arcana nelle normali faccende di tutti i giorni. Ho imparato così ad accendere il focolare semplicemente concentrando la mia energia sui ciocchi di legno e rilasciandola lentamente fino a che la fiamma non acquista il calore e il vigore necessari; una volta che si capisce come funziona, tutto diventa semplice, come togliere le macchie ostinate dai vestiti di Giles, un’impresa che rasenta quasi l’impossibile.

28 marzo 1690. La settimana non è iniziata bene; un cacciatore ha trovato una freccia di papà e l’ha portata in paese: nessuno è riuscito a riconoscere nel piumaggio a quale tribù possa appartenere e così c’è molta paura e apprensione. Domani nessun allenamento di tiro, almeno fino a che non si calmeranno le acque; io e mamma ne approfitteremo per cercare di rifornire le nostre scorte, c’è ancora molta neve ma alcune zone, specialmente quelle vicino agli stagni, sono sgombre. Non ho più avuto sogni premonitori, ammesso che quelli che ho avuto siano state delle vere visioni; ho dieci anni anche se me ne sento molti di più e l’immaginazione, a volte, può giocare strani scherzi, specialmente di notte.

9 aprile 1690. Oggi è la domenica di Pasqua, una festa importante per tutta Wenham, specialmente perché è tornata la bella stagione e l’aria è piacevolmente tiepida. Il pastore ha ufficialmente chiuso il periodo quaresimale, invitando tutti gli abitanti a pregare per Gesù risorto, affinché porti pace e prosperità al suo popolo; per una volta non si è parlato del male che assedia i nostri cuori ma solo della grandezza e della bontà di Dio Onnipotente. Io ho ringraziato Gea del risveglio della terra e della generosità con cui elargisce i suoi frutti mentre la mia bocca intonava inni al Signore e, stranamente, non mi sono sentita in colpa di professare una fede diversa da tutti quelli che mi stavano intorno: Dio ha molti aspetti e molti nomi, può essere maschio o femmina ma nulla cambia nella Sua Sostanza divina, o così almeno mi piaceva credere. Tra poco i nostri amici indiani avrebbero fatto ritorno; avevo tante cose da raccontare alle mie sorelle pellirossa e, sicuramente, anche loro non vedevano l’ora di narrare le loro avventure sulle pianure del sud. Non ho più sentito neanche Lupo; mamma dice

che in questa stagione i branchi sono sulle montagne in cerca di nuove compagne e quindi è normale che non lo senta più ululare alla luna, come faceva durante l’inverno: nonostante la spiegazione sono preoccupata perché potrebbe essere un cattivo presagio.

2 maggio 1690. Oggi è arrivata in città una carovana proveniente dall’ovest; era scortata da numerosi soldati, sporchi, malconci e stanchi. Quel lunedì toccavano a me e alle mie amiche le pulizie della chiesa per cui, di buon’ora, eravamo andate a sbrigare il lavoro con l’intenzione, poi, di andare a giocare al lago. Avevamo appena iniziato a spazzare il pavimento quando le grida e il vociare degli adulti ci aveva spinto a curiosare oltre la porta; la piazza del paese era invasa da carri e da cavalli mentre l’ufficiale che guidava i soldati di scorta chiamava a gran voce il connestabile del paese. Non avevamo mai visto così tante persone arrivare tutte insieme, né tanti soldati radunati in un unico posto per cui eravamo curiose di sapere che cosa stava succedendo. La voce autoritaria del pastore ci richiamò subito ai nostri doveri: «Non sta bene che delle fanciulle di buona famiglia stiano a spiare dietro i battenti della chiesa i viandanti che chiedono asilo nel nostro villaggio. Continuate il vostro lavoro e lasciate agli adulti il compito di accogliere al meglio i nostri poveri fratelli.» Tornammo alle pulizie a malincuore; non capitava quasi mai di assistere a un evento così eccezionale e noi eravamo rinchiuse in chiesa a pulire. Cercai di espandere la mia aura per capire il motivo del loro arrivo ma tutte quelle persone con i loro pensieri e le loro paure mi confo talmente da farmi desistere quasi subito da altri tentativi.

Per tutto il giorno gli uomini e le donne del villaggio si prodigarono ad assistere e a rifocillare tutta quella gente, raccogliendo frammenti di racconti sulla loro odissea attraverso i territori dell’ovest; il quadro che ne scaturiva era davvero peggiore di quello che si pensava fino a quel momento: i si, che fino a poco tempo prima si erano limitati a sobillare le popolazioni indigene contro i nostri coloni, ora avevano assoldato intere tribù scatenandole contro gli insediamenti inglesi. Dietro la promessa di armi e liquori, gli Uroni e gli Irochesi si erano alleati per attaccare le guarnigioni dei presidi di confine scatenando una guerra vera e propria. Forse gli eventi preannunciati da Gea si stavano avverando proprio sotto i miei occhi ma io non ero ancora pronta per affrontarli. C’era

inoltre un particolare che solo ora mi tornava alla mente; Bella Collina mi aveva raccontato che gli Irochesi, pur facendo parte del popolo algonchino, avevano sempre avuto un atteggiamento ribelle nei confronti del consiglio degli anziani; più di una volta le altre tribù erano dovute intervenire nelle dispute che li contrapponevano ai Moicani, fratelli di sangue del popolo di Pioggia Sulla Faccia.

15 maggio 1690. Oggi è l’ultima domenica che la carovana a nella nostra città; buona parte dei soldati è stata riassegnata ai forti di confine e molti dei coloni hanno proseguito la loro strada verso la costa e i territori più sicuri del Connecticut e del Delaware mentre altri hanno preferito le coste pescose della Nuova Scozia. Non ci sono notizie dei nostri amici indiani e, francamente, visto l’aria ostile che si respira nei confronti dei pellirossa, sono contenta che non siano ancora arrivati. Le storie che hanno raccontato i profughi dell’Ovest sono state tremende ed è comprensibile che ora l’unico sentimento che la gente prova è l’odio; è difficile in queste condizioni riuscire a non vedere in ogni nativo un nemico pericoloso ma i nostri vicini sono sempre stati gentili e cordiali e non voglio pensare che le cose possano essere diventate diverse da com’erano. Prima gli stranieri se ne andranno e prima torneremo alla nostra vita di sempre, o così almeno spero. Il grimorio si sta arricchendo di splendide illustrazioni di tutte le piante conosciute; ho aggiunto anche il peyote che mi ha donato Gre_Dthe_Nuzhe l’anno scorso e di cui sono particolarmente orgogliosa: non figura infatti in nessun altro libro e questo rende il mio ancora più speciale. Sono stata tentata più di una volta di utilizzare quella preziosa sostanza per tornare al cospetto della Dea ma i suoi effetti mi sono ancora sconosciuti e ho paura di non essere all’altezza di dosarne la quantità. La prossima volta che incontrerò Falco in Piedi gli chiederò come prepararlo per ottenere l’effetto voluto ma, nel frattempo, i piccoli cactus rimarranno al sicuro nel loro nascondiglio.

21 giugno 1690. Tra pochi giorni ci sarà Litha, il sabbat del solstizio d’estate; pur essendo una festa minore, proprio perché è il giorno di massima potenza del sole, il prevalere simbolico della luce sulle ombre della notte potrebbe essere di buon auspicio per il difficile periodo che stiamo vivendo. Alcuni concittadini, infatti, si sono ammalati di una strana forma di febbre che priva il malato di ogni energia; un medico fatto arrivare espressamente da Salem e i rimedi naturali di

mia madre sono l’unico mezzo per arginare l’espandersi dell’epidemia ma i casi sono in aumento, specie tra gli anziani e i bambini. Venerdì notte Elizabeth, mia madre e io invocheremo il grande spirito che in questo periodo dell’anno è nel pieno dell’energia affinché ci doni la forza di combattere l’oscurità e Gea perché ci indichi le sostanze più potenti per sconfiggere la malattia. Quella notte raccoglieremo l’iperico, il vischio e il sambuco, la verbena e l’artemisia oltre alla rugiada della mattina, indispensabile per preparare quegli specifici medicamenti. Non potremo accendere fuochi per paura di venir scoperte ma ho in mente uno stratagemma che ci permetterà di avere il nostro falò propiziatorio in tutta sicurezza. Spero solo che le divinità ci ascoltino e ci siano propizie; dalla notte dei salici non ho più avuto nessuna visione nonostante mi sia applicata ogni momento libero per apprendere tutti i segreti possibili dell’antica arte della magia e dell’incantamento.

Capitolo 15

La notte del 24 giugno era finalmente arrivata; essendo venerdì gli uomini, terminato il lavoro nei campi, si erano preparati a are una serata spensierata alla taverna: l’indomani era sabato, il giorno che il Signore consacrava al riposo e alla preghiera per cui ci si poteva svegliare un po’ più tardi del solito. Partimmo a notte inoltrata facendo attenzione a are inosservate; per nostra fortuna il bosco distava pochi i e, una volta inoltrate nel folto della foresta, eravamo praticamente invisibili. Una luna splendente, quasi piena, illuminava il sentiero già percorso innumerevoli volte, tanto da conoscerne ogni curva e ogni asperità; avremmo potuto percorrerlo anche nel buio più totale ma quella luce pallida semplificava molto il nostro cammino. La raccolta delle erbe fu meno semplice del previsto ma fruttò comunque un ingente bottino tanto che le gerle che ci eravamo portate ne erano piene; lo spiazzo erboso scelto per il sabbat era ben nascosto ma il pericolo di venir scoperte era molto alto: attendemmo in silenzio a lungo prima di avventurarci allo scoperto, solo dopo esserci assicurate che nessun rumore fosse fuori luogo. Qualcosa però si mosse non appena abbandonammo il riparo degli alberi e rapidamente si diresse verso di me: due occhi che brillavano al buio e una doppia fila di denti aguzzi fu l’unica cosa che potemmo osservare prima che quell’enorme animale piombasse su di me. Due grida di terrore uscirono acute dalle gole delle mie consorelle, subito soffocate

nel palmo delle mani, mentre io spalancavo le braccia accogliendo con tutto l’affetto di cui ero capace il mio più grande amico.

«Lupo!» esclamai mentre quella montagna di candido pelo mi piombava addosso trascinandomi a terra. L’enorme animale mi sovrastava con la sua mole mentre la sua ruvida lingua mi lavava completamente la faccia. Ero felicissima di rincontrarlo proprio in quell’occasione; mi erano mancati i suoi ululati notturni, la costante e discreta presenza che sentivo ovunque mi trovassi: Wakan Tanka era presente in quel luogo e nulla d’ora in avanti sarebbe potuto andare storto. Il mio selvatico custode, dopo aver abbondantemente sparso la sua saliva sul mio vestito, fece un giro intorno a mia madre e alla sua amica, paralizzate dal terrore, annusandole scrupolosamente. Poi soddisfatto si accucciò ai miei piedi: ora potevamo cominciare il nostro sabbat senza più indugi. Preparammo il luogo segnando gli alberi con piccoli pentacoli incisi nella corteccia, a nord in onore del Grande Spirito, a est per l’acqua, a sud est per il fuoco, a sud ovest in onore della terra e di Gea e infine a ovest per l’aria ma il sortilegio più importante stavo per attuarlo io.

Da una piccola sacchetta di pelle estrassi una manciata di polvere di serpentina, un minerale che si trovava in abbondanza sulla riva del Muddy Pond; mi era costata una fatica enorme ridurre quella dura pietra in polvere finissima, un po’ da usare come pigmento per i disegni ma la maggior parte da utilizzare proprio in quell’occasione. Ammucchiai un cumulo di foglie su cui deposi della legna secca e cosparsi il tutto con quella polvere azzurra; mamma e Elizabeth mi guardavano curiose, aspettando di vedere il risultato dell’invocazione che stavo per pronunciare: era chiaro che non potevamo accendere un fuoco ma, senza di esso, tutto il rito poteva risultare compromesso. Lupo si avvicinò osservando ogni mio gesto, inclinando più volte la testa come per cercare di capire che cosa stessi facendo; non usai l’acciaino per appiccare il fuoco ma la pura concentrazione dell’elemento primordiale che avevo imparato a invocare con il semplice uso del pensiero.

Polvere azzurra, elemento prezioso,

rendi invisibile a chi è curioso

il fuoco sacro che vado a creare,

fai che la sua luce io possa controllare.

In nome del Dio, sposo di Gea,

che sia visibile solo alla Dea.

Così comando sui quattro elementi

Per esser al sicuro dagli sguardi inclementi.

Sembrava non essere successo nulla; il mucchietto di foglie e rami era ancora al suo posto, spento. Lupo, però, fece un balzo indietro percependo il calore di quelle fiamme invisibili; ora anche noi percepivamo l’intensità di quelle vampe e senza perdere un istante ci liberammo dei vestiti. L’energia di Gea e del suo sposo ci avvolse come una densa coperta mentre canti di ringraziamento cominciarono a levarsi dalle nostre gole; eravamo un tutt’uno con la natura che ci circondava ed era una sensazione così inebriante da farci perdere la cognizione del tempo.

«Sara… Sara…» mi sentii chiamare mentre danzavo leggera attorno a quel fuoco apparentemente spento. Lupo si era allontanato e ora mi attendeva al margine della radura. Mamma e la sua amica continuavano la danza frenetica quasi non avessero sentito nulla e fu proprio il loro modo di fare che mi convinse che la chiamata era destinata solo a me. Raccolsi i vestiti umidi di rugiada e seguii fiduciosa il mio compagno nel bosco; non dovetti camminare molto perché, fatti alcuni metri nel folto della foresta, mi trovai davanti a uno spettacolo davvero inusuale: un cervo enorme, con le corna talmente possenti e ramificate da riuscire a stento a tenerle dritte, stava placidamente pascolando a pochi i da me. La pelliccia, folta e bruna, fremeva ogni volta che il capo si abbassava verso terra per strappare l’erba mentre nuvole di vapore uscivano dalle sue narici a ogni suo respiro. Una giovane donna dai lunghi capelli corvini sedeva cavalcioni sulla sua groppa; era anch’ella completamente nuda, con la folta chioma che le ricadeva dalle spalle sui piccoli seni acerbi: lunghe gambe slanciate e piedini piccoli e affusolati, che a stento riuscivano ad agganciare il dorso possente dell’animale. Si voltò verso di me facendo segno di avvicinarmi; non avevo paura, solo curiosità di scoprire il motivo della chiamata: avevo intuito chi fossero coloro che avevo davanti e l’atteggiamento di rispetto di Lupo confermava il mio pensiero. Lasciai cadere i vestiti umidi e mi avvicinai; mi sembrava del tutto naturale presentarmi alla mia Dea nello stesso modo in cui Lei mi accoglieva al suo cospetto: l’aria e la natura circostante erano completamente imbevute della loro energia e io me ne sentii travolta. Alzai gli occhi e vidi solo Gea seduta accanto a me che mi osservava divertita; i lunghi capelli scuri ricadevano lisci coprendo appena le sferiche forme del suo seno, poco più grande del mio mentre il resto del suo corpo, esposto alla luce della luna, riluceva di mille goccioline di umidità.

«Sei molto bella mia Signora» balbettai cercando di spezzare quel silenzio imbarazzante. «Dov’è il tuo sposo?»

«Tu sei bella, Sara. Io posso assumere qualunque sembianza a mio piacimento ma tu, la tua bellezza è genuina, fresca e dolce allo stesso tempo. Wakan Tanka è andato via con Lupo ma tornerà presto. Volevamo che tu sapessi che siamo compiaciuti dei progressi e della costanza con cui perfezioni i tuoi poteri: presto dovrai utilizzarli per aiutare coloro che ti sono cari, ovunque essi siano. I tempi

oscuri stanno arrivando prima del previsto ma noi abbiamo fiducia in te e nelle tue capacità. Non deluderci.»

Tornai alla radura senza il mio fedele amico. Mamma ed Elizabeth erano distese a terra, madide di sudore ma felici come da tanto non le vedevo. Si era fatto tardi e dovevamo assolutamente rientrare; spegnemmo le braci invisibili disperdendone i tizzoni sull’erba e ci rivestimmo: i vestiti bagnati ci diedero un brivido di gelo che ci percorse tutta la spina dorsale fino alla nuca ma non vi prestammo troppa attenzione.

“Ci manca solo che tutte e tre ci prendiamo contemporaneamente un bel raffreddore; allora sì che avremmo problemi a dare delle spiegazioni” pensai sorridendo mentre il bosco si diradava e le prime sagome delle nostre case cominciavano a sbucare dall’oscurità. Arrivammo a casa molto prima che sorgesse il sole; avevamo qualche ora di sonno prima di dover preparare la colazione ai nostri cari che beatamente russavano nei loro letti. Mettemmo della biancheria pulita, asciutta e calda e ci infilammo senza indugio sotto le coperte; pur essendo quasi estate, le notti erano ancora fredde e umide e il tepore della trapunta era così piacevole da conciliare il sonno. Nonostante ciò il sonno stentò ad arrivare; mamma mi aveva più volte raccontato che solo le wicca più anziane, quelle in cui la magia della Grande Madre scorreva più forte e potente avevano avuto il privilegio di trovarsi al Suo cospetto: era un onore che era concesso raramente e solo quando la necessità richiedeva un contatto diretto tra la Dea e le sue figlie più dotate. Io avevo incontrato Gea più volte e mai perché l’avessi invocata io; ero stata chiamata al suo cospetto tutte le volte e, cosa unica nel suo genere, avevo conosciuto di persona il suo sposo, un onore riservato a pochissimi uomini ma mai a una donna.

Ero confusa; non mi sentivo così speciale, anche se avvertivo la forza della Dea scorrere potente in me: ero una ragazza molto più adulta di quello che a prima vista si poteva pensare ma sempre e comunque troppo giovane per credere di essere la prediletta della Grande Madre. Finalmente il sonno mi portò via da tutti quei pensieri donandomi, per qualche ora, un assoluto oblio.

Capitolo 16

Dal Libro Specchio di Sara.

1 luglio 1690. Dei nostri amici indiani nemmeno l’ombra; l’anno scorso erano stati trattenuti dal consiglio degli anziani ma quest’anno temo che il motivo del loro mancato arrivo sia molto più grave. Da qualche giorno, quando penso a Bella Collina e alle altre consorelle, sento un nodo che mi stringe la gola e vengo assalita da un’ansia opprimente. Ho detto tutto alla mamma che ha cercato di tranquillizzarmi senza riuscirci: anche lei è preoccupata ma fa di tutto per nasconderlo. Avrei potuto chiedere notizie al Grande Spirito durante il sabbat di Litha ma ero così confusa da essermene completamente dimenticata. Potremmo cercare di scoprire qualcosa con un incantesimo divinatorio ma occorrono ingredienti che non crescono da queste parti e il sortilegio che bisogna creare è molto complesso e pericoloso. Non so proprio cosa fare ma non posso stare qui senza far nulla; se non arriveranno presto notizie cercherò in qualche modo di avere risposte, anche a costo di disubbidire a mia madre.

10 luglio 1690. Papà è tornato a casa di corsa oggi pomeriggio e si è chiuso in cucina con la mamma; lui dimentica quanto posso essere empatica quando voglio e questa è una di quelle volte: mi sono seduta sugli ultimi gradini della scala che porta al primo piano, ho chiuso gli occhi e ho atteso che la mia coscienza si espandesse. Non era proprio come essere lì con loro ma i frammenti dei loro pensieri e delle loro emozioni mi potevano fornire un quadro abbastanza preciso della situazione. Paura, ansia e incertezza, sensazioni che mi assalivano a ondate intrecciandosi ed espandendosi nella mia mente; le notizie erano brutte forse troppo per condividerle con un’adolescente sensibile come me ma io volevo sapere di più perché la sorte dei miei amici mi stava molto a cuore. Ho dilatato ulteriormente le mie percezioni ma non era sufficiente affinché le parole mi arrivassero nitide, poi di colpo una frase è rimbombata improvvisa nella mia mente: “guerra tra le tribù algonchine”. Mi sono ritratta spaventata; non era possibile che gli indiani si combattessero tra di loro, non dopo il grande raduno

dell’anno scorso: doveva esserci dell’altro, qualcosa che mi era sfuggito o che non avevo capito bene. Sono entrata in cucina senza bussare, quasi in segno di sfida: «Non serve chiudere la porta, non con me almeno, non se le notizie che vi state scambiando riguardano i nostri amici lontani. Che è successo?»

Mamma mi ha fulminato con uno sguardo severo; mai mi ero permessa di essere così maleducata e il fatto di essere preoccupata non era una scusante sufficiente: papà, invece, è stato più indulgente e ha capito subito che dietro a quell’atto di ribellione c’era una sincera apprensione circa la sorte della tribù nostra amica.

«Siediti Sara» mi ha detto con una voce così solenne che mi ha messo i brividi. «Le notizie sono brutte ma non so ancora quanto siano attendibili: dei soldati di ritorno dal confine hanno raccontato che si è scatenata una guerra tra gli irochesi e i moicani, non una semplice scaramuccia come spesso è accaduto in ato ma un conflitto vero e proprio che si è velocemente propagato alle tribù loro alleate, tra cui quella di Pioggia Sulla Faccia. Dicono che dietro tutto questo ci siano i si che riforniscono i loro amici indiani di fucili e alcool, una gran brutta storia.»

Non riuscivo a credere alle parole che stavo ascoltando; la vita dei miei amici era in pericolo per colpa degli interessi si nella regione: era una cosa talmente ingiusta che sono stata presa da una rabbia così violenta da farmi perdere il controllo. Il talismano che avevo al collo è diventato improvvisamente caldo e contemporaneamente il tavolo ha cominciato a sussultare, come scosso da una forza invisibile.

«Basta Sara!» La voce di mamma ha avuto l’effetto di un secchio di acqua gelata; sono rimasta a fissarla per alcuni istanti e poi sono scappata in camera a piangere. Non so cos’è successo negli istanti in cui ho perso il controllo ma ne sono rimasta anch’io spaventata. Bella Collina e le altre sorelle potrebbero aver bisogno d’aiuto e io non so cosa fare; devo escogitare qualcosa per avere notizie sicure e devo farlo da sola: mamma non mi lascerebbe rischiare per nessun

motivo al mondo.

17 luglio 1690. Oggi è lunedì e la settimana non è cominciata benissimo; molti abitanti del villaggio hanno la febbre e i dolori alle ossa; mamma e Elizabeth sono nel bosco da stamattina presto per cercare le erbe con cui fare i decotti che aiuteranno gli abitanti di Wenham a guarire. Io mi sono offerta di preparare i medicamenti con le scorte che abbiamo in cantina e questo mi permette di avere tempo e materiale per escogitare un modo per mettermi in contatto con Pioggia Sulla Faccia o un altro shamano delle tribù alleate con i Moicani: solo così potrò tranquillizzarmi sulla sorte dei miei amici. Mentre dividevo le erbe da utilizzare ho trovato in una piccola nicchia alcuni ingredienti veramente speciali: bacche di Belladonna, fiori gialli screziati di Hembane e quelli porpora della Datura, sostanze in grado di produrre allucinazioni e forse anche di favorire le divinazioni e le visioni a distanza. Domani, con la scusa di aiutarla nella preparazione delle medicine, chiederò a mia madre il suo grimorio e studierò il modo di usare questi particolari ingredienti per i miei scopi… e che la Grande Madre mi aiuti e mi protegga.

25 luglio 1690. Stanotte proverò a mettermi in contatto con Bella Collina; ho tutto quello che mi serve per preparare la pozione ma mi occorre un luogo appartato impregnato dell’energia di Gea perché la cerimonia di evocazione è complessa e richiede tempo. Chiamerò Lupo in mio aiuto e lui mi guiderà nel posto più opportuno; spero solo di esserne all’altezza perché, ora che tutto è pronto, sono assalita dai dubbi.

26 luglio 1690. Ultimo plenilunio del mese, la notte ideale per quello che ho in mente; ho prelevato dal nascondiglio segreto uno dei piccoli peyote avuti in dono da Falco In Piedi e, anche se so che è pericoloso usarlo senza conoscerne bene gli effetti, sarà l’elemento base di tutta la pozione. È notte fonda quando esco da casa stringendo l’amuleto nel palmo della mano; il mio amico mi attende fedele e mi guida nel profondo della foresta, a una piccola sorgente ai piedi di una ripida scarpata. Nulla impedisce alla violenta luce lunare di illuminare di un bianco accecante tutta la zona; l’ultimo albero dista qualche decina di metri da

noi e le rocce sono troppo ripide perché creino ombre. C’è una grossa roccia piatta alla base della sorgente, dove l’acqua picchia sulla pietra scavandola da chissà quanti secoli: si è formata una sorta di conca naturale in un piccolo anfratto che, a sua volta, crea un piccolo specchio d’acqua immobile, cristallino. Depongo tutte le mie cose e accendo il fuoco perché questo, unito all’acqua e all’energia del posto, mi aiuteranno ad avere la visione. Gli ingredienti sono già pronti, ben mischiati e polverizzati ma saranno utilizzati solo dopo che il mio spirito avrà raggiunto il giusto livello di concentrazione. Mi libero dei vestiti per meglio assorbire l’energia della mia Dea; le rocce arroventate dal sole della giornata appena trascorsa, ora scaldano l’aria con ondate di calore secco, quasi soffocante. Mi bagno con l’acqua pura della sorgente e incomincio il rito di purificazione:

Dea che tutto può e tutto vede

Padrona della terra su cui ho il piede,

con il fuoco e l’acqua della fonte,

e l’energia del luogo che ho di fronte

il destino dei miei cari devo sapere

ciò che accade in luoghi lontani devo vedere.

Donami il potere della visione,

che possa funzionare la pozione.

Per il fuoco, l’acqua e l’energia,

che la loro vista sia la mia.

Lupo mi è venuto vicino, come se volesse partecipare anche lui al rito; mi inginocchio sul bordo del piccolo specchio d’acqua e attendo di sentire la magia della Grande Madre entrare in me, dopo di che, con un lungo interminabile sorso, bevo tutto di un fiato la pozione. All’inizio mi sento bene, leggermente euforica, come se fossi convinta che tutto potesse andare solo nel verso giusto; vedo i colori più nitidi e brillanti a volte fondersi uno nell’altro creandone di nuovi, più luminosi; gli oggetti che mi circondano sembrano quasi muoversi, “respirare”, mentre i miei pensieri diventano più creativi: le soluzioni ad alcuni problemi che mi assillano diventano improvvisamente chiare, semplici, mentre dei volti cominciano ad apparire nelle limpide acque della polla sorgiva. È il momento che attendevo per completare il rituale; metto in bocca il peyote e comincio lentamente a masticarlo: è amaro e ha un gusto che ricorda la frutta ammuffita. Mi faccio coraggio e continuo a masticare ma non è ancora il momento di ingoiarne il succo; ho bisogno di più potere per squarciare il velo che mi separa da Bella Collina e la sua tribù per cui impugno il talismano con tutte le mie forze concentrando la mia aura: Lupo ulula come non ha mai fatto prima, come se le sue carni fossero dilaniate da una forza sconosciuta, e in mezzo a quel turbinio di suoni e colori io completo la mia invocazione.

Grande Spirito, Dio del vento,

tu che forgiasti l’amuleto d’argento,

tu che proteggi chi ti è fedele,

accendi la fiamma di queste candele.

Invoco il tuo aiuto per squarciare il velo,

per guarire il mio cuore riempito di gelo.

Fammi conoscere la loro sorte,

del loro destino apri le porte.

La mia voce o Wakan Tanka ti invoca e ti implora

affinché io mi ritrovi nella loro dimora.

Il succo scivola lentamente giù per la gola, aspro e amaro allo stesso tempo; la mia percezione delle cose rallenta fino quasi a fermarsi, tanto che riesco a distinguere ogni battito d’ali della mosca che vola davanti a me. Osservo i volti che si stanno formando nell’acqua e riconosco immediatamente Falco In piedi e Pioggia Sulla Faccia che fumano il calumet nel loro tepee; vorrei gridare i loro nomi ma nessun suono esce dalla mia gola: anche Lupo è immobile, silente al mio fianco. Così’ non serve a nulla; come posso sapere cosa sta succedendo se

non riesco a interagire con loro? È Gre_Dthe_Nuzhe che si accorge per primo della mia presenza; ai suoi occhi sono come una nuvola di fumo che si sta materializzando nella sua tenda ma, invece di spaventarsi, si avvicina cercando di capire cosa sta succedendo. Concentro la mia energia sulla visione e deglutisco ancora succo; ora anche Ite_O_Magazu riesce a vedermi e posa la pipa cerimoniale: anche loro probabilmente stavano fumando qualche sostanza allucinogena e questo facilita il contatto.

«Igat_She, sei tu viaggiatrice?» mi domanda incredulo. «Ma come è possibile che tu sia qui?» Falco In Piedi interviene avendo intuito quale sortilegio sta avvenendo sotto i loro occhi.

«Manitou l’ha portata qui, deve essere molto potente per aver ottenuto i favori del Grande Spirito: ti ascoltiamo viaggiatrice, domanda quello che desideri sapere.»

«Sono in pena per la sorte dei miei amici indiani, di Bella Collina e di tutta la sua tribù. Li aspettavamo a inizio estate ma nessuno è arrivato al campo estivo. Poi le notizie di una guerra tra i fratelli algonchini… che cosa sta succedendo? Come stanno le mie sorelle indiane?»

«La tua preoccupazione ti fa onore Igat_She, Wakan Tanka ha scelto bene la sua emissaria. Non devi rattristare il tuo cuore perché tutti i tuoi amici stanno bene. Gli Irochesi hanno stretto un’alleanza con gli stranieri si in cambio di fucili e dell’acqua di fuoco che uccide la mente. Il consiglio degli anziani ha espulso le tribù irochesi dalla nazione degli uomini liberi e così si sono trovati da soli a combattere contro tutti gli algonchini della regione. Siamo arrivati tardi per salvare i Moicani ma stiamo fermando questa follia con il sangue dei rinnegati. Torna pure nelle terre dei campi estivi, presto ci potremo incontrare lì.»

Il mio cuore è sollevato per le buone notizie ricevute e, dopo un breve saluto, mi preparo a tornare alla realtà senza però riuscirci; non sono più nel tepee ma nemmeno insieme a Lupo, persa in un limbo oscuro che mi risucchia via. Stringo ancora più forte il ciondolo che porto al collo ma l’ultima cosa che ricordo è il mio fedele amico che corre via più veloce del vento: poi tutto diventa nero e sento la mia anima che viene trascinata via, lontano.

Capitolo 17

Non sapevo quanto tempo fosse ato da quella notte né come avessi fatto ad arrivare sana e salva nel mio letto; facevo fatica a tenere gli occhi aperti e mi sembrava di are da un incubo all’altro senza sosta: lo stomaco mi doleva e la nausea era ormai diventata un’indesiderata compagna che non mi abbandonava un istante. Fuori il riverbero abbagliante del sole riusciva a penetrare attraverso le persiane chiuse creando lunghe scie di luce che stemperavano un po’ l’atmosfera pesante della mia stanza; stavo ancora male ma almeno ero a casa. L’ultimo ricordo confuso di quella notte era la sensazione di essere risucchiata in un baratro senza fine, incapace di opporre la benché minima resistenza nonostante tutti gli sforzi che fi: c’era qualcosa, una forza oscura, malvagia che voleva la mia energia a qualunque costo e l’avrebbe ottenuta senza l’intervento dei miei Dei protettori. Si era scatenata una vera battaglia, combattuta su un piano dell’esistenza che non riuscivo neppure a concepire, ma avevamo vinto, almeno per il momento; avevo percepito un’oscurità fredda, cattiva, talmente potente da sopraffarmi all’istante ma, nonostante tutto, ero ancora viva.

Cercai di muovermi, di chiamare la mamma per farle sapere che ero sveglia ma il semplice volere tutte queste cose mi privò delle ultime briciole di energia e ripiombai nel limbo.

Qualcosa di caldo stava scivolando nella mia gola mentre il suo profumo saturava le mie narici: brodo di pollo, il rimedio universale per ogni male. Avrei

voluto ridere di quella situazione ma avevo appena le forze per deglutire; stranamente il mio stomaco non si ribellava e accettava quel liquido senza protestare. Mi rimisero distesa e io rimasi con gli occhi chiusi ad attendere il miracolo di quella semplice pozione: un po’ di energie per ricominciare a vivere come chiunque altro.

Lo sguardo preoccupato di mia madre fu la prima cosa che vidi mentre i miei occhi, a fatica, si aprivano; dovevano essere ate diverse ore dall’ultima volta che avevo avuto un barlume di coscienza: fuori era buio e i rumori che sentivo erano quelli tipici delle notti estive. Riuscii a tenere lo sguardo vigile a lungo, questa volta e questo sembrò tranquillizzare la mamma; era visibilmente stanca, invecchiata in quel breve intervallo: le avevo fatto prendere un bello spavento e i rimproveri che sarebbero arrivati me li ero meritati tutti.

«George, George, vieni, presto, Sara è sveglia finalmente!»

Mio padre arrivò di corsa riempiendo con la sua mole tutto il vano della porta; mi osservò come se non mi vedesse da tanto tempo e fece una cosa che mi spezzò il cuore: si mise a piangere. Solo in quel momento ebbi l’esatta proporzione del dramma che avevo fatto vivere ai miei genitori per colpa della mia impazienza. Si avvicinò a me lentamente mentre grosse gocce gli rigavano il viso; s’inginocchio al mio capezzale senza distogliere un attimo lo sguardo dal mio viso, ò il suo forte braccio sotto le mie spalle e mi abbracciò con una delicatezza inusuale.

«Oh Sara, bambina mia, ho avuto tanta paura di averti persa per sempre.»

Non ebbi la forza di consolare mio padre ma mi godetti il calore del suo abbraccio come se solo quel semplice gesto potesse scaldare il mio cuore. Non fecero domande ma mi lasciarono riposare tutta la notte; sentivo i loro i sulle

scale mentre, a turno, venivano a controllare che stessi sempre bene, ora dopo ora fino al mattino. Mangiai la colazione che mi portarono con un appetito vorace, dopo di che mi misi in attesa dei loro rimproveri; loro mi lasciarono riposare ancora tutta la mattina e il pomeriggio prima di affrontare il discorso: fu mio padre che cominciò, raccontandomi quello che era successo dopo la mia fuga da casa.

«Non ci eravamo accorti della tua fuga, in questo sei stata davvero brava. È stato quello strano lupo che ogni tanto ulula sotto le tue finestre ad avvertirci, è venuto fin sotto il porticato e ha cominciato a raspare, con tutte le forze, la porta di casa. Meno male che non ha cominciato a ululare, sennò avrebbe rischiato di prendere una fucilata da parte dei nostri vicini. È riuscito a svegliarci ma ha dovuto prendere a morsi i miei pantaloni prima che capissimo che dovevamo seguirlo; ti abbiamo trovata svenuta nella pozza poco distante dalla sorgente, per fortuna con la faccia fuori dall’acqua, altrimenti saresti sicuramente annegata. C’erano strani oggetti intorno a te e una puzza terribile di vomito e urina. Tua madre ti ha pulito e ha cercato di rianimarti senza alcun risultato: non l’avevo mai vista così spaventata ma ha cercato di nasconderlo dicendomi di fare presto, di portarti a casa. Il tuo amico a quattro zampe non ti ha perso d’occhio un istante e ti ha accompagnato fino alla soglia della tua cameretta. Non avevo mai visto un animale selvatico comportarsi in quel modo verso un essere umano: ha atteso che fossi sotto le coperte, poi è saltato sul letto, ti ha annusato a lungo, ti ha leccato ed è fuggito via. Sei rimasta priva di sensi per quasi una settimana e solo negli ultimi giorni hai dato qualche segno di ripresa. Stavamo quasi per rassegnarci al peggio visto che tutti i rimedi di tua madre non erano serviti a nulla…»

«Sei stata un’incosciente!» mi sgridò mia madre sovrapponendosi al racconto di papà. Era un buon segno se aveva ritrovato la rabbia per rinfacciarmi tutti gli sbagli che avevo commesso quella volta: ora ero certa di stare meglio e di essere finalmente fuori pericolo.

«Cosa ti eri messa in testa, ragazzina? La magia non è un gioco che tu puoi usare

a tuo piacimento! Hai utilizzato ingredienti molto pericolosi e tossici in dosi così elevate da uccidere un cavallo. Che cosa volevi fare, si può sapere?»

«Mamma, papà, scusatemi ma ero talmente in pena per i nostri amici che ho cercato di sapere se stavano bene. Non pensavo che sarebbe successo tutto questo…»

«Ecco, brava, non pensavi! Hai rischiato di morire solo perché eri in pensiero per gli indiani? Ma sei uscita di senno?»

«Ora basta!» La voce di mio padre rimbombò nella stanza mettendo fine alla discussione. «Sara è ancora debole e ha bisogno di riposo: ci sarà tempo per i rimproveri e le punizioni ma ora deve stare tranquilla.» Prese per un braccio mia madre e la fece uscire dalla stanza. Poi, dopo un ultimo sorriso, chiuse la porta alle sue spalle; l’avevo combinata davvero grossa ma, stranamente, non me ne pentivo. Ora sapevo quali forze erano schierate in campo e avevo imparato la lezione più importante: non ero pronta ad affrontare l’oscurità, nemmeno con l’aiuto delle mie divinità benevole. Dovevo imparare il più possibile sulla magia e dovevo farlo in fretta: l’oscurità stava arrivando a grandi i e non doveva coglierci impreparate.

Capitolo 18

Dal Libro Specchio di Sara.

20 agosto 1690. Oggi finalmente ho avuto il permesso di uscire da casa. È stato un periodo veramente difficile, fatto di riposo e di piccoli esercizi per riprendere le forze perdute quella notte; non credevo che sarebbe stato così difficile tornare

in forma come prima. Ai vicini e agli amici che continuamente chiedevano della mia salute è stato raccontato che avevo preso una brutta forma di febbre delle paludi, che mi aveva portato quasi in punto di morte ma che ora avevo quasi del tutto superato. Essendo una malattia piuttosto comune da quelle parti, non mi avrebbe esposto alla curiosità della gente ma solo alla loro gentile comione e questo mi metteva al sicuro da domande pericolose o imbarazzanti. Dato che è sabato, mamma e papà mi hanno accompagnata in chiesa per la funzione settimanale; la mia pelle pallida contrastava terribilmente con i visi abbronzati dei miei concittadini e questo contribuiva a rafforzare l’idea di tutti che la mia malattia fosse stata veramente grave. Dopo la messa, mentre i miei amici giocavano, il pastore in persona è venuto a salutarmi impartendo addirittura una benedizione speciale a me e alla mia famiglia; Giles era scappato con i suoi compagni subito dopo la funzione e fu risparmiato dalle parole di circostanza del sacerdote. Ho parlato a lungo con mamma e Elizabeth di quello che è successo la notte della visione e sono stata d’accordo con loro nel ritenere di essere stata imprudente e sconsiderata nel tentare una magia così complessa e pericolosa; quando ho accennato loro della Grande Madre e del suo sposo, stranamente non mi hanno deriso ma si sono guardate per un attimo, scambiandosi uno sguardo d’intendimento.

«La magia è una pratica che coinvolge molti livelli della nostra esistenza, sia fisica che spirituale. È come una lanterna accesa nel buio che attrae verso la sua luce tutte le creature. Purtroppo non sempre chi ne è attratto è un essere che vive nella luce; molto spesso sono proprio le entità oscure quelle che maggiormente sentono irresistibile questa energia e tentano in tutti i modi di impossessarsene.» Elizabeth era molto seria mentre mi spiegava questi elementari fondamenti: «Io e tua madre avevamo intenzione di metterti in guardia dai pericoli dell’uso della magia un po’ più avanti ma avevamo sottovalutato la tua potenza e il tuo legame speciale con la Dea. È stata un po’ anche colpa nostra se hai affrontato l’oscurità da sola: potevi esserne risucchiata senza possibilità di uscirne viva e di questo siamo noi a doverti chiedere scusa. Appena possibile andremo a Salem, a incontrare un gruppo di warlock che si sono trasferiti dall’Inghilterra molti anni fa, costituendo proprio nel cuore dell’Essex una congrega di potenti stregoni.»

«Mamma, chi sono i Warlock?» ho chiesto, vergognandomi della mia ignoranza.

«Un warlock ha, fondamentalmente, le stesse caratteristiche e gli stessi poteri di una strega ma, non essendo legato ai riti in onore di Gea, ha molte più entità da evocare e a cui attingere potere. Li puoi paragonare agli shamani delle tribù pellirosse ma la loro magia è molto più antica e potente, a volte troppo pericolosa. Non era raro, in ato, che scendessero in battaglia a fianco dei soldati combattendo con le armi e con le arti magiche: erano temuti e rispettati ma purtroppo avevano anche la vita molto breve. Ciò che li distingue da tutti quelli che praticano la magia è che loro la posseggono dentro di sé, grazie a una capacità innata e senza la necessità di studiare per poterlo fare: un dono che si possiede alla nascita e non si può acquisire in nessun altro modo. Sotto questo aspetto, tu sei molto più simile a loro che a noi streghe ed è per questo che occorre interpellarli per poterti dare tutte le conoscenze che ti possono servire.»

Ora sì che ero veramente confusa; non bastava sapere di poter invocare sia Gea che Wakan Tanka, cosa che né mia madre, né tantomeno Elizabeth sapevano fare, c'era anche la possibilità che io avessi un dono dalla nascita che mi rendeva simile a un Warlock in gonnella. Questo andava ben oltre le mie capacità di comprensione Mi sono adeguata alla decisione delle mie sorelle e, appena possibile, andremo a cercare questi potenti stregoni.

10 settembre 1690. Ci è arrivata notizia che nonno Thomas, il padre di mia madre, si è ammalato gravemente; è l’occasione che stavamo aspettando per andare a Salem senza destare sospetti. Ultimamente molti ci guardano in modo strano, poiché gli indiani continuano a compiere scorrerie negli insediamenti di confine; è risaputa, infatti, la nostra amicizia con i pellirossa ma i nostri concittadini non capiscono la differenza tra i vari gruppi di nativi e tendono a vederli tutti come nemici, indistintamente. Questo periodo lontano da Wenham servirà anche a rasserenare i loro cuori nei nostri confronti; partiremo solo mamma e io, lasciando papà e Giles a badare al raccolto e alle altre attività di famiglia. Elizabeth ci raggiungerà in un secondo momento anche perché la priorità del viaggio è comunque la salute del nonno.

15 settembre 1690. Abbiamo sfruttato un aggio nella carovana che porta le pellicce verso la costa e siamo partite di buon’ora; papà conosceva il capo carovana e non ha avuto difficoltà ad affidarci a lui per il viaggio fino a Salem. Non vedevo l’ora di arrivare per poter riabbracciare il nonno; era da tanto tempo che non gli facevamo visita e questa non era proprio l’occasione che mi aspettavo per poterlo rivedere. Il viaggio è stato faticoso anche perché la pista era coperta da uno spesso strato di fango, colpa delle abbondanti piogge della settimana ata ma, nonostante qualche piccolo inconveniente, siamo arrivate sane e salve. La città era enorme se paragonata al nostro villaggio, piena di gente e di odori strani, il più delle volte sgradevoli. Anche mamma era frastornata da tutta quella folla e a stento riusciva a orientarsi in mezzo a quel dedalo di vie e vicoli maleodoranti; nonno Thomas abitava nella parte sud, a pochi i dalle banchine portuali di Mill Pond e, per arrivarci, abbiamo dovuto fare molta strada a piedi, cariche dei nostri bagagli. La carovana, infatti si era diretta agli approdi di Collins’ Cove, all’estremità orientale del grande porto di Salem e nessuno aveva avuto il tempo di aiutarci ad attraversare mezza città. Siamo arrivate a casa del nonno che era pomeriggio inoltrato, stanche e sporche per il viaggio poco agevole che avevamo affrontato; la governante ha riconosciuto subito me e mia madre e ci ha fatto entrare immediatamente: Thomas era al piano di sopra, ancora a letto ma la sua salute era leggermente migliorata. Ci ha raccontato che aveva cominciato a stare male ad agosto ma che sul momento non ci aveva dato peso, visto che l’età “non era più quella di un ragazzo” come soleva dire in questi casi. Poi altre persone si erano ammalate e tutti avevano temuto che qualche nave di aggio avesse portato un contagio di qualche genere. Il dottore si era prodigato a lungo nelle cure ma la salute del nonno stentava a riprendersi tanto che più di una volta si era temuto il peggio; ora le sue condizioni erano stazionarie ma era ancora molto debole e si stancava con molta facilità.

Capitolo 19

Salem fu veramente una sorpresa per me; l’ultima volta che vi ero stata ero troppo piccola per poterla ricordare ma ora, abituata agli spazi aperti e al profumo della resina degli alberi, questa città mi faceva paura. Eravamo squadrate dall’alto in basso mentre camminavamo per le strade, vestite in modo

sobrio secondo l’usanza dei villaggi dell’entroterra, nettamente in contrasto con la foggia elegante di vestiti dei cittadini e delle loro donne. Mi ero sentita a disagio dal primo momento anche perché, in questo luogo estraneo, l’aura della Dea si percepiva appena; era come se quella patina di sporco e cattivo odore soffocassero l’energia della Terra rendendola quasi impalpabile, assente.

«Guarda» sussurrava a volte mia madre, accompagnando le parole con un impercettibile segno del capo. Ci capitava di scorgere, graffiati sulle pareti delle case o nascoste nei disegni delle insegne, i simboli rituali sia delle Wicca sia dei Warlocks, segno che la magia era professata in quel luogo, anche se in modo occulto e discreto. Solo gli occhi allenati di mia madre ci permettevano di distinguere quei piccoli segni, apparentemente insignificanti, ma che per noi assumevano una così grande importanza; neanche lì eravamo sole, ma che aiuto o sostegno avremmo trovato in caso di bisogno? La casa del nonno era spaziosa, arredata con mobili di pregio che arrivavano direttamente dall’Inghilterra; la domestica ci mostrò subito la nostra stanza dove poter riposare dopo il viaggio e, mentre io curiosavo in giro, mamma andò immediatamente al capezzale di suo padre. Thomas era nel letto, sudato e ancora febbricitante nonostante la lunga convalescenza, ma riconobbe subito sua figlia e il colorito sembrò migliorare sensibilmente; non era stato contento di vederla partire per un posto sperduto come Wenham, anche se nutriva il massimo rispetto per mio padre e le sue capacità di badare a lei. Aveva gli occhi lucidi quando anche io entrai nella sua stanza ma fece di tutto per non farsene accorgere.

«Buongiorno nonno, come state? Mi dispiace tantissimo vedervi a letto malato.»

Lui mi sorrise soffocando a stendo un colpo di tosse; fece cenno si avvicinarmi e mi osservò a lungo prima di sorridermi. «Sembri tua madre quando era piccola, come due gocce d’acqua…» mi disse con un filo di voce accarezzandomi i capelli. Aveva dei brutti segni sotto gli occhi e il sibilo raschiante che si sentiva chiaramente a ogni respiro non prometteva nulla di buono.

«Sara, fai compagnia al nonno mentre io prendo delle cose nella valigia» mi esortò la mamma con una falsa allegria. Avevo capito benissimo che era molto preoccupata e anch’io avevo intuito che il miglioramento di cui aveva parlato la domestica altro non era che l’inizio dell’aggravamento finale della malattia. Per tutta la sera e il giorno successivo utilizzammo tutto quello che ci eravamo portate per migliorare le condizioni ormai critiche del nonno e solo sul finire del terzo giorno le cose sembrarono volgere a nostro favore; la febbre era scomparsa e anche il colorito della pelle era sensibilmente migliorato: se avessimo tardato qualche giorno, non avremmo potuto fare più nulla per lui e di questo ringraziai la Grande Madre per il favore che ci aveva concesso.

«Devo andare a trovare una persona» mi annunciò la mamma la mattina di buon’ora. «Siamo a corto di sostanze officinali e per guarire il nonno occorrono erbe più potenti che non crescono da queste parti: ho visto, venendo qui, alcuni posti dove potrei trovare quello che mi serve e scoprire intanto il modo di mettermi in contatto con gli stregoni di Salem affinché ti esaminino e ci dicano se possono o meno aiutarti. Stagli vicino in mia assenza e assicurati che beva molta acqua, è l’unico modo per fare uscire dal suo corpo tutte le sostanze maligne che lo stanno avvelenando.»

Rimasi con lui tutto il giorno e buona parte della sera; mia madre tornò a casa che era già buio, stanca e provata ma con un largo sorriso sulle labbra. Aveva trovato tutto quello che le serviva oltre a molte notizie interessanti sull’andamento delle guerre indiane e sulla conclave degli stregoni locali: mi avrebbero ricevuto ed esaminato non appena le condizioni di Thomas fossero state soddisfacenti. Mamma si chiuse in cucina e per tutta la notte la sentii sminuzzare, triturare, polverizzare ingredienti alternando il lavoro manuale all’enunciazione di antiche formule alchemiche e suppliche alla Dea; alla servitù era stato data la settimana libera in previsione di dover celebrare riti che non potevano essere osservati da occhi profani e quindi, senza più ostacoli, impiegammo ogni minuto che avevamo a disposizione alla cura amorosa del malato. Fu un lavoro lungo, fatto di momenti di disperazione alternati da altri carichi di speranza ma, alla fine, la bravura di mia madre e l’intercessione della Grande Madre diedero i loro frutti; nonno si stava rapidamente ristabilendo e ormai nulla faceva supporre che la guarigione non fosse dietro l'angolo. Mamma

affidò alla domestica le cure necessarie al nonno per le prossime quarantott’ore dicendole che dovevamo assentarci per dei problemi di famiglia; saremmo rientrate dopo qualche giorno, il prima possibile in ogni caso. Era arrivato il momento che temevo più in assoluto; il capo dei warlocks ci aveva mandati a chiamare e rimandare non era più possibile: ci dirigemmo verso il luogo dell’appuntamento senza bagagli, solo con i vestiti che indossavamo perché ci era stato proibito di portare qualsiasi altra cosa. Una barca ci stava aspettando su un molo isolato di Cat Cove e ci avrebbe condotto al vero luogo, dove gli stregoni si erano riuniti per noi; erano state prese tutte le misure di sicurezza per garantire la segretezza dell’incontro perché l’occasione era stata reputata troppo importante per essere vincolata dalla paura di essere scoperti.

La piccola imbarcazione, dopo aver fatto un lungo giro sotto costa, ci sbarcò su una piccola spiaggetta in un’insenatura raggiungibile solo via mare; un’alta e impervia scogliera la cingeva su tutti i lati rendendo impossibile la discesa dalla terraferma: non vi era nulla e nessuno ad attenderci, solo enormi massi franati dalla parete rocciosa e il fragore delle onde che si frangeva sugli scogli. Rimanemmo sul bagnasciuga a lungo prima di notare una figura scura che ci faceva cenni da una rupe poco al di sopra della spiaggia; avevamo avuto il primo contatto con la cerchia degli stregoni di Salem ma non sapevo ancora se questo poteva essere un bene oppure un male. La persona che aveva richiamato la nostra attenzione era il padrone dell’emporio a pochi i dalla casa del nonno, un ometto basso e tarchiato, dal viso rubicondo e gentile; aveva sempre avuto una parola cortese ogni volta che le nostre strade si incrociavano, tanto da farlo considerare una persona buona e educata. La persona che incontrammo quella mattina sembrava assomigliargli appena; vestiva un lungo saio scuro di tela grezza con un ampio cappuccio calato sulle spalle: aveva un viso serio e un’espressione severa tanto che entrambe eravamo titubanti a seguirlo.

«Fate presto, vi stanno aspettando» furono le uniche parole che pronunciò mentre accendeva le nostre torce facendoci cenno di seguirlo. C’era una specie di insenatura, una piccola grotta nascosta che scendeva ripida nella parete rocciosa: il cunicolo era stretto e tortuoso ma abbastanza breve e terminava all’improvviso, dietro una stretta curva, in un’ampia sala dall’alto soffitto avvolto dall’oscurità. Grossi bracieri di ottone ardevano ai bordi della sala

inondando le pareti e il pavimento di una debole luce dorata. Sette personaggi incappucciati erano riuniti in cerchi al centro della sala, ognuno avvolto con lo stesso saio del nostro accompagnatore.

«Mettetevi al centro del cerchio e rimanete in silenzio fino a quando il Gran Maestro non vi dirà di parlare» ci istruì il padrone dell’emporio e, senz’altro aggiungere, si unì ai suoi confratelli. C’era un silenzio assoluto, rotto solo dal gocciolare dell’acqua lungo le stalattiti della volta. Solo in quel momento notammo un grosso simbolo inciso nella dura pietra del pavimento, un doppio triangolo sovrapposto, uno con la punta volta in alto e un altro con la punta volta in basso, intersecantisi, circondati da una serpe che si morde la coda; tutt’intorno al cerchio, incisa profondamente nella pietra con lettere color cremisi, la frase “QUOD EST INFERIUS EST SICUT QUOD EST SUPERIUS” spiccava nitida nella penombra.

«Ciò che è in basso è come ciò che è in alto» sentii sussurrare mia madre. «Quello è il pentacolo di Salomone, il suggello che chiude in una morsa di acciaio tutte le nature demoniache ribelli.»

«SILENZIO!» tuonò una voce proveniente dal cerchio. «Non vi è stato ancora dato il permesso parlare. Avvicinatevi e ponetevi dentro il sigillo di Salomone se ne avete il coraggio.»

«Voglio andar via mamma, ho paura» implorai cercando di indietreggiare. Ero terrorizzata da quelle figure incappucciate e dall’energia che scaturiva da quel simbolo inciso nella roccia. Lo percepivo chiaramente, potente e sinistro, niente di paragonabile a quello che avevo provato in tutta la mia vita, nemmeno quando ero stata risucchiata nel baratro dell’oscurità: non ero preparata a una simile intensità e ne ebbi paura. Gli stregoni percepirono la mia titubanza a entrare nel cerchio e si prepararono a distruggerci nel caso ci rivelassimo come qualcosa di diverso da quello che si aspettavano; la loro magia crebbe d’intensità, alimentata dal pentacolo mentre l’aria che ci circondava si caricava di elettricità. Mia madre

mi prese per mano e mi condusse in mezzo a loro, proprio al centro della confluenza dell’energia mistica e attese il responso della congrega. Conosceva bene quel simbolo e non temeva il suo effetto su di noi ma non era certa dell’influsso che avrebbe avuto sulla magia complessa che possedevo. I nostri capelli scintillavano nella penombra, percorsi da miriadi di piccole scintille; la paura mi aveva abbandonata, travolta da un senso di potere, di onnipotenza che impregnava ogni mia fibra: ero convinta che, se avessi voluto, avrei potuto spazzare via tutte quelle figure incappucciate semplicemente desiderando di farlo. Un warlock grosso e massiccio si staccò dal gruppo venendomi incontro; teneva il palmo delle mani rivolto verso di me, come se volesse sottrarre la mia energia con la semplice imposizione delle mani. Mi raggiunse e mi osservò per un breve istante, poi afferrò la mia camicetta strappandola; il talismano che avevo al collo brillò per un istante nella luce dorata delle torce per poi tornare a nascondersi tra i brandelli di stoffa della mia blusa.

«Cos’è questo?» urlò lo stregone indignato, cercando di strapparmi dal collo l’amuleto; gli occhi del lupo brillarono di un rosso sangue, minacciosi e sinistri mentre una scarica di energia si abbatteva su quell’imprudente mago: il corpo del malcapitato fu scagliato all’indietro, contro la parete della grotta e lì rimase, inerte. Ora tutti i rimanenti confratelli stavano imponendo le loro mani, facendo confluire la loro magia contro di me e mia madre; solo uno di loro, leggermente in disparte, osservava la scena senza intervenire. Il talismano divenne caldo, poi brillante, tanto che anche l’alta volta della caverna era perfettamente visibile. C’era tantissima forza magica che stava agendo in quel luogo, convogliata dalle menti allenate dei warlock e dal mio medaglione incantato; uno a uno gli stregoni cedettero alla potenza dei miei Dei protettori fino a quando solo uno di loro rimase in piedi: quello che non aveva partecipato all’attacco.

«ORA BASTA!» tuonò la sua voce mentre allontanava i suoi confratelli dal cerchio. Anche se il cappuccio calato sul viso m’impediva di scorgerne i lineamenti, avevo l’impressione che quella strana figura mi stesse sorridendo: si avvicinò con cautela ponendosi proprio davanti a me e con movimenti volutamente lenti, si aprì la tunica sul petto. La testa di lupo che mi aveva salvato dal loro attacco era tornata normale e io ero confusa sul da farsi; lo stregone estrasse qualcosa e lo fece scivolare sul palmo della mano in modo che

io potessi vedere di che cosa si trattasse: era un amuleto molto simile al mio, in metallo scuro, quasi blu raffigurante la testa di un orso con gli occhi e le fauci spalancate in atteggiamento feroce. Rimasi quasi ipnotizzata al vedere un manufatto così simile al mio e, senza accorgermene, allungai le dita per seguirne i contorni.

«Sei tu quella che aspettavamo, perdonaci ma dovevamo essere sicuri che fossi proprio tu la prescelta, anche a costo delle nostre vite. Gli antichi testi preannunciavano l’arrivo di una persona speciale, non legata a nessuna forza ma in armonia con tutte, un catalizzatore che avrebbe portato equilibrio nel caos.»

Mia madre si teneva in disparte, osservando guardinga le mosse degli altri maghi; anche lei si era preparata in caso ci fossimo trovate in difficoltà ma, avendo visto di cosa erano capaci gli stregoni, cominciavo a dubitare che avrebbe potuto fare qualcosa di concreto per la nostra salvezza. Non sembrava, comunque, che al momento ci fosse un pericolo immediato per cui cercai di rilassarmi, sorridendo alla mamma; lei non sembrò essere d’accordo con il mio ottimismo e continuò a vegliare sulla nostra incolumità anche dopo che io e quella strana figura incappucciata ci ritirammo in una piccola grotta adiacente. Era piccola, leggermente ovale, con l’immancabile sigillo di Salomone inciso profondamente nella roccia; aveva un qualcosa d’ipnotico nella sua simmetria tanto che mi accorsi di essermi fermata a lungo a osservarlo.

«Fa quell’effetto a tutti, non ti devi preoccupare, solo gli adepti al culto della magia oscura ne hanno il terrore e indietreggiano appena lo vedono. Ha il potere di scacciare i demoni e le forze del male e chiamare in aiuto quelle del bene e della luce.»

Seguii il mio accompagnatore fino al centro della stanza, nel cuore stesso del pentacolo, vicino a un altare eroso dal tempo, fatto con una pietra stranamente chiara e traslucida, finemente levigata.

«È qui da sempre, da prima che arrivassimo noi, dai tempi in cui altri stregoni adoratori di strani dei utilizzavano queste grotte per i loro riti. La nostra congregazione ha solo aggiunto il sigillo per canalizzare l’energia naturale di questo luogo verso la luce, per scongiurare che altri maghi dediti al lato oscuro della magia potessero sfruttarne il suo potere.»

«Perché hai detto che mi aspettavi?» chiesi quasi senza rendermene conto. Percepivo l’energia che scaturiva da ogni punto della stanza molto chiaramente, limpida e profonda come un lago di montagna, e allo stesso tempo densa e opaca come il fumo nelle giornate nuvolose: ne ero attratta e confusa e sapevo che ne ero completamente pervasa. “Che luogo è mai questo, così antico da esserne sopraffatta? Percepisco l’aura di quelli che, prima di me, hanno attinto potere da questa fonte, miriadi di colori nel buio in un caleidoscopio senza fine” pensai quasi senza accorgermene, mentre il mio accompagnatore continuava a parlare. Ero come una spugna che assorbiva tutto questo e molto altro ancora, su livelli di coscienza che non avevo mai raggiunto, troppo per il fisico di un’adolescente che si era affacciata al mondo mistico da così poco tempo. L’ultima cosa che ricordai prima di crollare a terra priva di sensi furono le braccia forti di quell’uomo che cercavano di afferrarmi nella caduta e la sua voce che chiamava mia madre.

Anche quella volta sognai, com’era accaduto in ato tutte le volte che ero stata sopraffatta dalla forza degli Dei; attesi paziente che la visione mi chiarisse lo scopo della mia permanenza in quel luogo e che cosa il destino aveva in serbo per me, ma ne rimasi delusa. Non c’era calma e quiete come le altre volte ma fiamme e vento, in un turbinio di forze contrastanti; ovunque girassi lo sguardo, l’equilibrio della natura era compromesso mentre i quattro elementi fondamentali intervenivano alla distruzione di tutto e di tutti.

«Questo è il Caos, la situazione primordiale cui l’oscurità tende a ritornare. L’equilibrio delle energie generate non dovrà mai venire meno perché, se questo succedesse, nulla sarebbe risparmiato dalla distruzione, buio e tenebre per

sempre, su tutto. Altri come te hanno giocato un ruolo fondamentale al mantenimento dello stato attuale e altri verranno ancora dopo di te ma, al momento, tu sei la nostra arma migliore contro l’oscurità.»

«Chi sei?» chiesi senza che un filo di voce uscisse dalle mie labbra. Non avevo riconosciuto né la Grande Madre né il suo sposo in colui che mi stava parlando; ero alla presenza di un’entità del tutto nuova, potente al di fuori da ogni immaginazione eppure familiare, un contrasto che mi confondeva e mi rassicurava allo stesso tempo.

«Non occorre che tu sia ulteriormente confusa ma sappi che sono molte le forze in gioco, in entrambi gli schieramenti e su molti livelli di esistenza e tutti confidano nella tua volontà e determinazione. Segui gli insegnamenti dei warlocks e di tutti gli altri che incontrerai sul tuo cammino, solo così arriverai ad avere abbastanza potere e controllo per essere lo strumento della luce.»

Acqua fredda. Qualcuno stava spruzzando un liquido fresco sul mio viso per farmi riprendere conoscenza e io, a malincuore, tornai nel mio corpo, nella grotta.

Cominciava a essere una spiacevole abitudine quella di essere estraniata dal proprio corpo per essere proiettata al cospetto di una o l’altra divinità; il ritorno era la parte più difficile perché, per un attimo, la coesistenza su più piani dell’esistenza aveva il potere di confondere la mente lasciando un profondo senso di disorientamento che ogni volta diventava sempre più lungo e opprimente. Rimasi con gli occhi chiusi ancora per qualche istante; avevo un gran senso di nausea e avevo paura di offrire uno spettacolo poco dignitoso alle persone chine su di me.

«Sara, Sara ti prego apri gli occhi, torna in te, ti scongiuro…» Sentivo mamma

singhiozzare alla mia destra mentre le persone intorno cercavano di confortarla; il malessere era ancora troppo forte e non mi permetteva alcun movimento ma non potevo rimanere immobile, sorda al dolore e alla preoccupazione di mia madre.

“Oh grande Gea, aiutami a trovare la forza di aprire gli occhi e di alzarmi, non posso far soffrire così chi mi vuol bene, ti prego” pensavo mentre cercavo freneticamente di far sapere agli altri che ero tornata con loro; le mie dita cominciavano a pizzicare, avide di trovare una qualsiasi forza cui attingere mentre la mia aura sondava il pavimento e le pareti alla ricerca dell’energia che avevo sentito pulsante in ogni angolo della grotta. La trovai immediatamente, sotto di me, un fiume potente e pulsante di pura magia in cui il mio spirito s’immerse e si rigenerò.

Poi, finalmente, aprii gli occhi.

Capitolo 20

Dal libro specchio di Sara.

29 settembre 1690. Naturalmente il mio grimorio era venuto con me; avevo previsto che questo viaggio avrebbe riservato sorprese ed esperienze che non potevano non essere riportate nel libro. Ho dovuto ripetere l’incantesimo di occultamento sulla parete della nostra stanza nella casa del nonno e anche questa volta i risultati sono stati strabilianti; le conoscenze della mamma nel campo dei medicamenti stanno già dando ottimi risultati ma la salute di Thomas era talmente compromessa che ci vorrà molto tempo prima che ritorni in forze come prima. Ieri abbiamo avuto il primo contatto con il gruppo di stregoni locali ed è stata un’esperienza a metà tra l’esaltante e l’incubo peggiore della mia vita: ho appreso che esistono un numero enorme di livelli di esistenza e altrettante entità

potentissime e pronte a rivestire un ruolo in questo conflitto cosmico tra la luce e le tenebre. È una responsabilità che ancora non comprendo appieno, ma già mi terrorizza: sarò in grado di essere all’altezza delle loro aspettative? Mi sento così piccola e insignificante… perché proprio io?

30 settembre 1690. Mamma si è messa in contatto con un gruppo di wicca che opera proprio qui a Salem; ha ritrovato perfino due amiche d’infanzia, diventate adepte dopo la sua partenza per Wenham. Sono contenta che abbia qualcuno con cui condividere esperienze comuni perché il cammino che ho intrapreso mi sta portando lontano dagli insegnamenti della Grande Madre, verso orizzonti che neanche io comprendo e che sono così distanti dalla disciplina che ho imparato grazie a lei. Non sono nemmeno sicura di utilizzare correttamente il mio libro specchio; è diventato una sorta di diario ma per me è importante annotare tutto quello che mi succede perché è l’unico modo che ho per capire se quello che sto facendo è giusto oppure no. Per fortuna la mia scrittura è minuta e il volume contiene tantissimi fogli; l’abbiamo costruito in modo da poterne aggiungere altri e ho la sensazione che questo accorgimento mi sarà veramente utile, specie in un prossimo futuro. Stasera mamma mi presenterà alla cerchia delle wicca locali; si è raccomandata di evitare ogni accenno al nostro coinvolgimento con i warlocks e ai miei poteri così fuori dal comune: nessuna di loro ha mai avuto contatti diretti con Gea o con il suo sposo e questo potrebbe generare troppa curiosità su di noi e sul perché ci troviamo a Salem. Non vedo l’ora di essere accolta nel loro gruppo; ritornare alle semplici pratiche in onore della Dea sarà come vivere un attimo di quiete dopo essere stati in balia della tempesta.

1 ottobre 1690. Le notizie da casa sono rassicuranti. Papà dice di non preoccuparci di loro perché se la cavano benissimo, grazie all’aiuto di Elizabeth e di suo marito. Mio fratello Giles è diventato talmente responsabile da essere un valido aiuto nei lavori che devono essere fatti prima dell’arrivo dell’inverno e già questo assomiglia molto a un miracolo. Possiamo fermarci dal nonno fino alla sua completa guarigione o fino a che lo reputeremo necessario; questa frase volutamente sibillina ci ha fatto capire che papà è cosciente che quello che stiamo facendo qui è importante e vuole rassicurarci sul fatto che possiamo prenderci tutto il tempo di cui abbiamo bisogno. Ieri sera ho conosciuto le consorelle che abitano qui; si riuniscono in una grande casa con un cortile

interno adibito a giardino, chiuso da alte mura e invisibile all’esterno, di proprietà di una ricca vedova, la signora Margareth Barkeley. Era lei che, alla morte del marito, aveva radunato le streghe che vivevano solitarie nell’ombra creando un cerchio sotto la sua protezione. Era una donna dall’aspetto severo, quasi arcigno che diventava subito dolce e gentile appena chiusi i portoni della sua dimora a sguardi indiscreti; si era creata la reputazione di donna devota e generosa elargendo ingenti somme di denaro alla chiesa ma dura e inflessibile sulla moralità delle persone che incontrava. Aveva assunto buona parte delle sue adepte come domestiche e questo le aveva permesso di costituire un gruppo di wicca sotto il naso di tutti e senza destare alcun sospetto; ci accolse con una cordialità che ci scaldò il cuore, facendoci sentire immediatamente quasi in famiglia.

2 ottobre 1690. Oggi piove. È lunedì ed è previsto l’arrivo di una nave dall’Inghilterra; in città non si parla d’altro da giorni e, nonostante sarebbe preferibile non esporci troppo in pubblico, mamma e io abbiamo deciso di avventurarci fino al porto per vedere sbarcare i nuovi venuti. Abbiamo atteso ore prima che le bianche vele del vascello fossero visibili da terra; è stato emozionante partecipare all’agitazione di quanti erano accorsi appena si era sparsa la voce dell’imminente attracco, tutti eccitati al solo pensiero di vedere volti nuovi, di ricevere notizie da casa o da un mondo che avevano lasciato per sempre. Quelli che sbarcavano per primi non erano di certo coloni; ben vestiti e curati in ogni dettaglio, freschi e riposati come se fossero di ritorno da una scampagnata sulle verdi colline del Galles, era chiara a tutti la loro posizione sociale. C’erano ad accoglierli il meglio dell’alta società di Salem, i cittadini più ricchi e importanti con le rispettive mogli; poco importava se la pioggia e il fango rovinavano i loro bei vestiti: l’occasione era troppo importante per badare a simili dettagli. Molto dopo sono arrivati i veri eggeri, sporchi, provati dalla fatica di un lungo viaggio in condizioni a dir poco difficili; nessuno era lì ad accoglierli, solo una folla di curiosi che voleva avere notizie dalla loro patria, nient’altro. Un’ondata di paura mista a sofferenza mi aveva assalito come una folata improvvisa di vento gelido; nonostante mi aspettassi di percepire le loro sensazioni, ero rimasta sconcertata dall’intensità della paura che provavano i nuovi venuti nei nostri confronti: uomini, donne, giovani e bambini realizzavano in quel preciso momento che non sarebbero mai più tornati a casa, e questo li impauriva a morte. Sentivo nitidamente la presenza della Dea in mezzo a loro, segno che c’erano delle consorelle spaventate e incerte che andavano in qualche

modo rassicurate; mi ero portata quasi davanti alla erella di sbarco e, fingendo di giocherellare sul coperchio di un’enorme botte, avevo continuato a disegnare ripetutamente un cerchio, simbolo universale della Grande Madre. Una giovane donna dagli occhi color del mare mi si era avvicinata e, compreso il significato di quello che stavo facendo, aveva cominciato a fare impercettibili segni ad altre fanciulle rimaste indietro. Nel suo sguardo, oltre a una profonda gioia e commozione, potevo leggere il sollievo di sapere che non erano sole e abbandonate al loro destino ma che Gea era presente con le sue figlie anche in quel luogo lontano e dimenticato. “Grazie” fu l’unica cosa che riuscì a sussurrare andomi davanti prima di essere trascinata lontano dalla folla, mentre la sua aura accarezzava la mia con gratitudine.

4 ottobre 1690. Gli stregoni si alternano a insegnarmi come utilizzare le mie capacità naturali e come scoprire e potenziare quelle ancora latenti. Sto scoprendo un mondo tutto nuovo, una sorta di favola che sta diventando realtà ma tutto questo ha un prezzo; nonostante continuino a dirmi che tutto dipende dalla quantità di energia che si riesce ad accumulare, ogni seduta mi lascia come svuotata. La prima volta che ho provato a usare i miei poteri senza l’ausilio delle formule ho vomitato sul pavimento della grotta: non era proprio così che mi ero immaginata l’inizio del mio noviziato.

25 ottobre1690. La brutta stagione comincia a farsi sentire ed è difficile trovare ancora scuse per rimanere a Salem; mamma ha deciso che fra qualche settimana tornerà da papà e Giles a Wenham ma cercherà di convincere Thomas a tenermi in casa sua per poter completare il mio apprendistato. Per fortuna il nonno è quasi completamente ristabilito e potrò seguirlo nella sua convalescenza ma è un uomo molto devoto e conservatore: dovrò stare molto attenta a non fare trapelare nulla della mia seconda vita. Ieri, i warlocks mi hanno assegnato un precettore; sarà lui la mia guida ai misteri della magia e alle sue applicazioni pratiche: dalla prima volta non ho più vomitato e anche i malesseri sono del tutto scomparsi. Arthur, questo il suo nome, si dice molto sorpreso delle mie potenzialità e mi sottopone a strani esercizi per aumentare la mia capacità di immagazzinare le forze che mi circondano: a volte non capisco nemmeno cosa mi stia facendo fare ma a quanto pare funziona. Di lui so solo che discende da una dinastia di druidi celtici molto importante e che è ritenuto una persona molto potente nella cerchia

dei maghi di Salem: io posso solo dire che è la persona più taciturna e severa che conosco, anche se percepisco in lui un interesse molto forte per le mie doti e per le potenzialità future.

Capitolo 21

Eravamo nuovamente alla vigilia di Samhain, il sabbat d’autunno; tanti ricordi erano legati a questo festeggiamento e tanti visi cari tornavano alla mente, alcuni vicini, altri così lontani che a stento ne ricordavo i lineamenti. Era il momento giusto per riflettere, per guardarsi dentro alla ricerca della vera natura di se stessi e per gli addii; mamma aveva deciso di partire il giorno dopo i festeggiamenti, accompagnata fino a casa dai figli del socio in affari del nonno che avrebbero poi proseguito il viaggio verso l’Ontario e il territorio se: si stavano creando nuove prospettive commerciali in quella zona ed era necessario prendere contatto al più presto con i mercanti dei Grandi Laghi prima che lo fe qualche rivale in affari. Margareth aveva organizzato il sabbat anche in onore della mamma, per consolidare il suo legame con il loro cerchio, sgombrando l’enorme cantina della sua villa e preparandola per l’evento. Aveva disposto enormi bracieri di bronzo ai lati dello stanzone che avrebbero fornito luce e calore a tutto l’ambiente mentre al centro un altare in ebano, nero come la notte e lucido come uno specchio, attendeva di essere addobbato da tutte noi.

Arthur mi aveva concesso qualche giorno di vacanza per dedicarmi a quest’incombenza, indulgente verso una pratica che rispettava ma che considerava riduttiva per le mie capacità:

«Un giorno non lontano avrai il potere di parlare con gli Dei faccia a faccia, nutrirti della loro forza e padroneggiare nelle arti magiche soltanto con la forza della tua mente e del tuo spirito: è come se, pur sapendo accendere un fuoco semplicemente guardando la legna, tu ti ostinassi a usare ancora l’acciaino sulla paglia. Ho un profondo rispetto per le wicca tue consorelle, ma tu sei ata molto oltre nel cammino della magia» mi aveva detto prima di accondiscendere

alla mia assenza dalle sue lezioni e, stranamente, avevo avuto la netta sensazione che avesse ragione. Ma allora chi ero io? Se non ero più una wicca, in che cosa mi stavo trasformando? Ero a cavallo tra due mondi così diversi e altrettanto affascinanti ma non appartenevo a nessuno di essi, come una goccia di pioggia che non appartiene più al cielo ma nemmeno alla terra cui è destinata.

I preparativi erano già praticamente ultimati il pomeriggio del 30 ottobre ma l’altare sarebbe stato addobbato solo all’ultimo momento. Tutte le consorelle, in special modo mia madre, volevano onorare la Dea con offerte veramente speciali, fatte con le proprie mani e con un pizzico di magia, se possibile. Nonno sapeva che la notte di Ognissanti l’avremmo ata in casa della signora Barkeley, per aiutarla in una festa di beneficenza che aveva organizzato a favore dei bambini orfani di Salem; essendo un personaggio di spicco della città, non aveva avuto obiezioni, si era sentito lusingato che una persona così importante avesse chiesto aiuto proprio alle sue congiunte. La parte più impegnativa rimanevano le decorazioni per l’altare della Grande Madre; l’imponenza e il pregio dell’ara in ebano esigevano un oggetto rituale adeguato ma le esigue disponibilità di denaro che erano rimaste non ci permettevano materiali di altrettanta qualità. Raccogliemmo fiori freschi ed erbe aromatiche per dare un tocco di colore e profumo alle nostre offerte, frutta fresca per omaggiare la Dea per la sua benevolenza e un ramo di salice bianco, albero consacrato a Gea, per unire tutta la composizione. Portammo il tutto nella cantina di Margareth la sera stessa del Samhain perché era necessario comporre il tutto sull’altare della Dea affinché l’offerta avesse il giusto valore simbolico. Piegai il ramo di salice fino a fargli prendere la forma di un cerchio, simboleggiando così l’unione del nostro gruppo; all’interno la frutta rappresentava tutte le consorelle presenti mentre i fiori intrecciati intorno al legno erano l’augurio di prosperità e felicità per tutte noi. Questo chiedevamo io e mia madre alla Dea ma non era ancora sufficiente; occorreva qualcosa di speciale per rendere unica l’offerta:

Dolce Madre che tutto ascolti,

i nostri doni qui raccolti

ricevi e accogli le nostre preghiere,

proteggi tutte le nostre schiere.

Frutta e fiori sul tuo altare

l’invocazione devi ascoltare,

cerchio di legno a te gradito,

che il nostro circolo non sia mai tradito.

Il risultato fu addirittura strabiliante; il tralcio di fiori sembrò prendere vita, avviluppandosi ancora più strettamente al salice che sembrò diventare d’argento mentre la frutta riluceva dei caldi colori dell’autunno: tutt’intorno si sparse una dolce fragranza, come un prato a primavera e il profumo rimase nell’aria tutta la sera e per molti giorni ancora. Ma la cosa più straordinaria accadde senza che io me ne rendessi conto; l’invocazione che sembrava uscire dalle mie labbra non era pronunciata con la mia voce: le mie labbra erano serrate in una smorfia di concentrazione mentre le parole arrivavano nitide alla mente delle mie sorelle. Mamma, spaventata, aveva cercato di prendermi per mano ma aveva ricevuto una scossa che l’aveva quasi paralizzata. Tutte mi stavano guardando, incapaci di comprendere appieno quello che stava succedendo, mentre io, inconsapevole di quello che stava succedendo, continuavo il mio strano sortilegio. La corona di fiori e di frutti era diventata un oggetto unico, compatto e indivisibile e stava rilucendo nella penombra della stanza come se fosse illuminato dal sole; il

profumo divenne più intenso, impregnando i vestiti di tutte le presenti mentre il fuoco dei bracieri improvvisamente prese a bruciare con maggior vigore: le mie labbra si schio al volere della Dea e la sua voce risuonò limpida tra quelle tetre pareti.

«L’oscurità regna tra di voi, subdola e strisciante come una serpe velenosa, ammorba l’aria che respirate rendendovi vulnerabili alle tenebre. Maledetta sia l’anima della traditrice perché le forze maligne non entreranno in questo cerchio di mie figlie.»

Margareth, l’unica delle sorelle che aveva conosciuto la voce della Grande Madre, si era subito inginocchiata riconoscendola immediatamente e così avevano fatto le altre adepte, tranne una: Tituba, una schiava Arawak, appartenente al ministro di culto Samuel Parris. Era stato lo stesso pastore a prestare la sua serva alla nobildonna, convinto da una cospicua donazione che quest’ultima aveva fatto alla sua chiesa e dall’insofferenza dell’indiana verso i rigori della religione puritana e ora era lei che sola rimaneva in piedi davanti a Sara, in segno di sfida e disprezzo.

«Tu sei segnata dalla forza del male, ti sei lasciata plagiare dalla tentazione dell’oscurità e ora stai cercando ti trascinare con te le mie figlie: non riuscirai nel tuo intento perché io le proteggerò.»

Tituba non si era lasciata impressionare dalle parole della Dea pur riconoscendo in me la sua presenza; arrogante e presuntuosa aveva cominciato a gridarmi contro sortilegi di magia nera che, con sua grande sorpresa, non ebbero alcun effetto: il mio talismano aveva assorbito senza difficoltà la sua forza oscura e ora pulsava sul mio petto pronto al contrattacco. La mia aura fremeva assorbendo enormi quantità di energia, caricandosi oltre ogni aspettativa mentre il mio corpo rimaneva immobile, sfidando l’emissario del male a farsi avanti.

«Tu, falsa ragazzina, che cosa sei? La potenza della tua Dea non sarebbe dovuta bastare contro i miei incantesimi più potenti e invece mi guardi del tutto indifferente al mio potere. Che bestia immonda si annida nel tuo cuore di bambina? Dimmelo!»

«TACI! Non ti è permesso nemmeno parlare al mio cospetto.» La mia voce era diversa ora, più profonda, matura: ero pienamente cosciente del mio corpo e della potenza della mia magia e stavo per darne un assaggio alla spergiura.

«Hai tradito la tua fede e le tue sorelle, hai ingannato e imbrogliato chi aveva fiducia in te per portare altre anime al lato oscuro della magia: ora ne pagherai le conseguenze.»

La reazione di Tituba non si fece aspettare; anche lei aveva un talismano, un opale nero come la sua anima, ingabbiato con fili d’oro e argento, un ciondolo sinistramente bello ma altrettanto pericoloso; lo puntò nella mia direzione sussurrando parole in una lingua incomprensibile, arcana, ma qualunque fosse l’esito del suo gesto, rimase molto delusa del risultato. Agii quasi senza rendermene conto, grazie anche all’addestramento fatto con il mio precettore; aprii il palmo della mano ponendolo davanti a me, come per ripararmi dal colpo che era stato scagliato: sentii tutta l’aberrante malvagità che si celava dietro la magia perversa della schiava ed ebbi un brivido, come una goccia gelida che scorre lungo la schiena, poi assorbii anche quell’energia facendola mia. La traditrice non capì subito quello che era successo ma ora il terrore della sconfitta le sbarrava gli occhi; richiusi la mano a pugno, alzai l’indice puntandolo verso di lei. Non ci fu bisogno né d’incantesimi né di amuleti; pensai semplicemente che volevo farle del male e lei cadde tramortita al suolo.

Ritornai immediatamente in me, scioccata da quanto era stato semplice tener testa a una strega nera potente come la traditrice; avevo fatto tutto senza nemmeno pensare a quello che stavo facendo, come se fosse una reazione normale a un attacco di quel tipo: qualche mese prima sarebbe stato impossibile

anche solo resistere al suo inganno tentatore mentre adesso quel povero mucchio di stracci mi sembrava solo una figura patetica, insignificante.

«Mamma, che cosa mi è successo? Come ho fatto a fare questo?» Ero orgogliosa e spaventata allo stesso tempo perché tutto si era svolto senza sforzo apparente, senza nemmeno dover pensare il da farsi.

«Sembravi più uno stregone che una wicca, con quel modo di padroneggiare le magie usando i gesti e non le formule o i riti. Guardati in giro, qui tutte ti temono forse più di Tituba perché non comprendono la natura dei tuoi improvvisi poteri e ne hanno paura. Credo che per noi non ci sia più posto all’interno di questo cerchio e ciò mi rattrista e mi preoccupa in vista della mia prossima partenza. Riuscirai a cavartela senza il loro appoggio e protezione?»

«In me c’è Gea, ma non solo Lei. Sono la prescelta di entità potenti, forze della luce che hanno scelto me come strumento della loro lotta contro l’oscurità. Ora ne sono cosciente e mi sento onorata della loro guida. Non ho bisogno di nessuno, tranne che di chi può insegnarmi a usare i miei poteri. Sono i warlocks e non le wicca ad avere le conoscenze che mi servono ora, mi dispiace.»

«Cosa ne farete della strega?» avevo chiesto più per cortesia che per curiosità. Non mi interessava la sua sorte ma sapeva troppe cose del nostro gruppo e la sua magia nera poteva nuocere alle sorelle.

«Noi non uccidiamo, mai e per nessun motivo. Sa bene che se provasse a raccontare in giro quello che ha visto in questa casa sarebbe screditata e accusata di stregoneria dall’intero consiglio della città: distruggeremo il suo amuleto in modo da renderla meno pericolosa e la manderemo via, per sempre.»

«A questo posso pensarci io» risposi con arroganza. Misi l’opale sul palmo della mano e lo coprii con l’altra: concentrai il mio risentimento su quell’oggetto che di colpo si frantumò in polvere finissima. «Ecco fatto» risposi agli sguardi stupiti delle consorelle, disperdendo la pietra polverizzata sulla fiamma del braciere. C’era un leggero olezzo nell’aria, come odore di carne putrida, ma subito scomparve insieme a ciò che rimaneva del talismano. Andammo via senza voltarci, sicure che i loro occhi seguivano tutti i nostri movimenti: non c’era più posto per noi e l’unica cosa che provavo era dispiacere, ma solo per la mamma.

Capitolo 22

Dal libro specchio di Sara.

2 novembre 1690. Che cosa sono diventata? È la domanda che mi tormenta da quella notte; non sono più una semplice wicca, anche se fino a poco tempo fa era tutto quello che desideravo. Ho una sete e una bramosia di sapere sempre di più, di conoscere fino a che punto posso spingermi, come ampliare i miei limiti, se ce ne sono. Arthur è preoccupato di questa mia smania perché dice che è il preludio alla tentazione di esplorare anche la dottrina proibita della magia oscura. Ho paura anch’io che spingendomi sempre più avanti con il sapere, presto o tardi dovrò confrontarmi con le tenebre che, dice il mio mentore, sono presenti in tutti noi. Imparo in fretta, troppo in fretta secondo alcuni, con una rapidità pericolosa secondo altri, ma nonostante ciò, tutti continuano incessantemente a insegnarmi i segreti più profondi delle arti magiche. Mamma parte oggi pomeriggio; non vede l’ora di essere di nuovo a casa, tra le persone che conosce e con cui divide amicizia e affetto: è molto preoccupata per me ma Arthur l’ha rassicurata che presto tornerò anch’io a Wenham poiché il mio apprendistato sta volgendo al termine.

12 novembre 1690. Ho imparato tanto dai warlocks ma più di tutto ho compreso come gestire e manipolare l’energia che possiedo dentro di me. Tra qualche giorno sarò messa alla prova per vedere il grado di preparazione cui sono

arrivata e, se tutto andrà bene, parteciperò al rito di purificazione che mi farà entrare a tutti gli effetti nel clan dei maghi di Salem: è un grande onore giacché da oltre duecento anni nessuna donna è mai riuscita ad arrivare a una posizione analoga, sia nel nuovo che nel vecchio mondo. Arthur è fiero di me e di come sono riuscita in così poco tempo a imparare tecniche che altri acquisiscono in una vita di pratica; non è solo merito mio ma anche dei miei Numi protettori e questo mi riporta sempre al motivo del perché tutto questo potere sia stato consegnato a una ragazzina appena adolescente. Ho dieci anni ma è come se me ne sentissi cento sulle spalle; le ragazze della mia età giocano, scherzano e ridono, pensano al proprio futuro fondendo sogni e fantasie. Io invece so come accendere una fiamma solamente pensando di farlo, posso sollevare pesi dieci volte più grandi di me, spezzare rami e rocce con la stessa facilità con cui un’altra ragazza ricama un pezzo di stoffa; mi sto preparando a una battaglia il cui esito è incerto e ho solo dieci anni: a volte tutto questo mi pesa terribilmente, altre volte mi esalta.

20 novembre 1690. Arthur mi ha detto che questo è solo il primo o nello studio della magia; ci sono altre arti che dovrò imparare per completare il mio addestramento, attacco e difesa servono solo se il nemico ti è davanti, ma nulla possono se combatti contro esseri subdoli e malvagi come i servi dell’oscurità. La manipolazione della materia e i sortilegi divinatori sono il o successivo per cercare di anticipare le mosse del nemico ma occorrono talenti particolari che si devono possedere e che non si possono insegnare. Ci saranno altri stregoni che sonderanno le mie doti naturali per scoprire cosa potrò imparare e cosa invece non sarò mai in grado di fare. “Tutto a suo tempo perché in questo caso la fretta non si concilia con l’apprendimento”: così mi ripete da un po’ di tempo a questa parte. Mamma è arrivata sana e salva a casa e, a volte, nel cuore della notte, mi sembra quasi di vederla, seduta davanti al focolare mentre racconta a papà le nostre avventure a Salem. Domani sarò esaminata da tutto il clan; ho paura di fallire ma nello stesso tempo ho la certezza che nulla può andare storto: la mia mente, evidentemente, non sa decidere da che parte stare. L’incantesimo d’occultamento per il luogo dove tengo il grimorio è diventato talmente semplice da realizzare che quasi non ci faccio più caso; afferro direttamente il libro dal suo nascondiglio invisibile e lo ripongo con la stessa naturalezza con cui lo prenderei dallo scaffale della libreria e lui, docilmente appare e scompare a mio piacimento: anche questo mi fa capire quanti i avanti ho fatto.

21 novembre 1690. La giornata è iniziata all’alba; mentre la città lentamente si svegliava sono stata portata nuovamente alla grotta: ero bendata come sempre e sono stata condotta nel primo salone dove i sette maghi incappucciati erano nuovamente lì ad attendermi.

Capitolo 23

Faceva stranamente caldo, colpa forse dei bracieri che ardevano in ogni angolo di quell’antro oscuro; questa volta il soffitto era debolmente visibile al chiarore dei fuochi, alto, costellato da imponenti stalattiti calcaree, in un certo qual modo tetro e minaccioso. Ero lì per uno scopo ben preciso e non potevo farmi suggestionare dall’ambiente che mi circondava; li sentivo salmodiare in una lingua arcana, incomprensibile, simile più a un bisbiglio che a una litania, indifferenti alla mia presenza. Il rito durò alcuni minuti, poi mi fecero cenno di avvicinarmi, silenziosi e immobili come la prima volta; il mio talismano vibrava sulla pelle, come animato di vita propria: mi ricordava Lupo quando si preparava a scattare contro una possibile minaccia, i muscoli tesi, la mascella dischiusa in un ringhio feroce. Non avrebbero dovuto esserci pericoli per me in quel luogo ma, inspiegabilmente mi misi sulle difensive, come se sentissi incombere su di me un pericolo. Qualcuno, alla mia sinistra cercò di togliermi l’amuleto dl collo ma dovette desistere immediatamente; la sua mano era piagata, come se avesse afferrato una barra di ferro rovente a mani nude: nessuno fece un ulteriore tentativo mentre mi posizionavo al centro del sigillo di Salomone e attendevo la mossa successiva. Il cerchio si allargò fino a sfiorare le pareti della grotta; ero l’unica perfettamente illuminata mentre le altre figure si confondevano con le ombre delle pareti.

«Cosa volete da me? È questo l’esame di cui parlavate?» Le mie parole si persero nell’eco della caverna mentre un silenzio innaturale stava nuovamente calando su di noi: nessuno parlava ma sembrava che ognuno di loro sapesse cosa doveva fare e quando. Il braciere alla mia destra cominciò a emetter lingue di fuoco sempre più alte che roteavano tra loro come serpenti infuocati; guardai

attentamente uno dopo l’altro i miei esaminatori ma nulla poteva farmi capire chi era l’artefice del nuovo attacco: il fuoco s’innalzava e saettava come se fosse vivo, avvicinandosi ogni volta sempre di più a me. Chi stava facendo questo doveva essere un maestro nella padronanza degli elementi elementari e dovevo scoprirlo al più presto, prima che le lingue di fuoco incendiassero i miei vestiti. Avevo paura ma, allo stesso tempo, una strana calma innaturale stava prendendo possesso di me; fissai uno dopo l’altro quelle sinistre figure incappucciate e allungai le mani verso le fiamme: le mie dita cominciarono a danzare nell’aria, allo stesso ritmo del fuoco che mi stava minacciando, costringendolo a danzare con una cadenza diversa, più lenta, quasi ipnotica. Quando ebbi la totale attenzione di tutti i presenti, serrando violentemente il pugno, costrinsi le fiamme a seguire la scia magica di chi mi stava attaccando rivoltandogli contro la sua stessa magia; lo vidi spalancare gli occhi incredulo mentre la palla di fuoco lo avvolgeva: gli altri, ripresisi dallo stupore, spensero immediatamente il rogo ma ormai l’esito dello scontro era palese a tutti. Ne rimanevano sei ancora in piedi mentre altri accompagnavano lo sventurato mago fuori dalla grotta; non ero certa di dover subire l’attacco di tutti ma ero sicura che nessuno avrebbe risparmiato energie per favorirmi. Il secondo mago entrò in azione dopo alcuni minuti, forse spesi a elaborare una strategia migliore del suo predecessore; era chiaro che potevo manipolare le tracce residue degli incantesimi lanciati in modo subdolo per cui decise per un approccio molto più fulmineo e diretto. “Non riesco a respirare “riuscii a pensare prima che l’aria fuoriuscisse dai miei polmoni; sentivo come una mano che mi attanagliava alla gola, forte, impietosa, sempre più serrata al mio collo. Gli occhi del talismano brillarono per un istante diventando color del sangue prima che la stretta, gradatamente, si allentasse; ero finita in ginocchio, tossendo e inspirando aria come se fossi sul punto di annegare. Mi rimisi in piedi, lo sguardo beffardo diretto verso il mio nemico. «Tutto qui quello che sai fare?» lo schernii davanti a tutti. Volevo provocarlo, fargli perdere la calma i modo che si suoi attacchi fossero meno precisi, più dettati dalla collera che dalla maestria.

«Avanti, inventa qualcosa, non mi dirai che questo è il meglio che sai fare.» L’espediente funzionò a meraviglia; farsi insultare da una ragazzina davanti a tutti i suoi confratelli era l’ultima cosa che si era aspettato e per questo agì d’istinto: protese verso di me le sue mani con le dita piegate ad artiglio e bloccò il mio corpo in una morsa d’acciaio. Sentivo le mie ossa scricchiolare sotto la pressione della sua magia, fragile difesa contro quella forza spaventosa; era

furibondo contro di me e non avrebbe allentato la stretta fino a che il mio corpo non avesse ceduto. Era esattamente quello che volevo; prosciugai ogni stilla di energia dalla sua aura resistendo alla sua violenza fino a che non fu più in grado di mantenere la presa su di me, poi gliene restituii una parte, tutta insieme, scaraventandolo lontano come se fosse stato un fantoccio inerme. Lupo ardeva sul mio petto, ingordo di altro potere mentre i miei occhi puntavano il prossimo candidato. «Tu, perché non provi a vedere se sei meglio dei tuoi predecessori?» Non si fece ingannare dalla mia aria sfrontata ma uscì ugualmente dalla fila, lentamente, cauto, soppesando ogni o come se fosse una danza; io attendevo impaziente ma il suo gioco era proprio quello di innervosirmi con la sua lentezza, come una vipera che danza davanti alla sua preda prima di colpirla a morte. Mi accorsi che le sue labbra si muovevano nel momento stesso dell’attacco; rapido come una serpe allungò il braccio scagliando qualcosa verso di me: ebbi la fugace visione di una lama, un pugnale lungo e stretto, affilato e letale che scomparve quasi subito nel nulla. Il tempo sembrò fermarsi in quell’istante mentre la mia mente elaborava quello che gli occhi avevano appena visto: “occultamento” formulai mentalmente mentre stendevo il palmo della mano verso il pericolo.

«APPARI!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola. La lama era ormai a mezza strada e stava puntando dritta verso il centro del mio petto.

«BLOCCA!» Le parole uscivano da sole dalla mia bocca, come se quei comandi imperativi avessero fatto parte di me da sempre. Il pugnale si arrestò a mezz’aria a pochi metri da me, immobile, come in attesa del comando successivo; guardai negli occhi il mio antagonista leggendovi stupore e paura, poi solamente terrore mentre si voltava tentando di fuggire.

«COLPISCI!» L’ordine esplose come un boato rimbalzando di parete in parete mentre il coltello mutava la sua traiettoria tornando al suo legittimo padrone; la lama affondò nella coscia del mago fino all’elsa, fuoriuscendo dalla parte opposta di una decina di centimetri. Il colpo fu così violento da mandare lo stregone a gambe all'aria, come se improvvisamente fosse scivolato su una lastra

di ghiaccio. Non attesi che qualcun altro si fe avanti; come un fiore che sboccia, unii i palmi delle mani allargando le dita verso l’esterno e proiettai la mia energia contro il warlock che avevo di fronte. L’effetto fu spettacolare; la figura incappucciata sembrò essere stata investita da una raffica di vento improvvisa: cercò di ritrovare l’equilibrio mentre l’energia scagliata la proiettò all’indietro, contro la parete alle sue spalle, e lì rimase, priva di sensi.

«BASTA COSI’!» L’ordine proveniva da una figura che fino a quel momento si era tenuta in disparte, quasi non fe parte dell’esame; gli altri, chinando il capo in segno di rispetto, si ritirarono nell’altra sala.

«Vieni con me Sara e non temere, l’esame è finito e tu lo hai superato a pieni voti» mi disse voltandomi le spalle e precedendomi in una specie di studio arredato con un tavolo e qualche semplice sedia. Mi squadrò dal basso verso l’alto più volte, senza dire nulla, poi improvvisamente scoppiò in una fragorosa risata.

«Non c’è che dire, gli hai dato proprio una bella lezione di umiltà quest’oggi… battuti da una ragazzina, senza il minimo sforzo! Non me lo sarei perso per nulla al mondo.» L’esile figura era sconquassata dalla risata e a stento riusciva a reggersi in piedi. Poi, cercando di riprendere contegno, si sedette invitandomi a fare lo stesso; il cappuccio della tunica scivolò indietro rivelando un volto solcato da una ragnatela impressionante di piccole rughe: non lo avrei mai sospettato ma chi avevo innanzi era un vecchio molto in là con gli anni.

«Allora, bambina mia, cosa ne pensi della prova che hai appena superato?» Il suo sguardo era ironico ma attento, come se soppesasse ogni mia parola cercando di trovare in esse l’essenza della mia anima.

«Volevano uccidermi, o almeno uno di loro ci ha provato in tutti i modi» risposi

trattenendo a stento la collera; ero venuta lì aspettandomi di essere esaminata, non di dover lottare per la mia stessa vita.

«È vero» fu l’unico commento alle mie rimostranze, «ma sei sopravvissuta ed è questo che conta. Io sono Cathbad, nelle mie vene scorre l’antico sangue dei druidi celtici e sono il capo supremo di questa congregazione di maghi. Non c’era altro modo di saggiare le tue capacità se non mettendo a repentaglio la tua stessa vita. Dimmi Sara, cos’hai provato nell’impeto dello scontro?»

Ero turbata da quel semplice interrogativo; intuivo che la spiegazione dello straordinario risultato che avevo ottenuto era racchiusa in quella semplice domanda: che cosa avevo provato?

«Non saprei… All’inizio timore, poi paura quando il primo mi ha attaccata, ma subito dopo soltanto fredda determinazione. Mi sentivo distaccata dalla lotta, come se la osservassi dall’esterno, da spettatrice e non da protagonista: vedevo l’attacco e reagivo di conseguenza, con fredda determinazione e un po’ di rabbia perché non ero preparata a una simile prova.»

«Ma ti sentivi te stessa o era come se qualcun altro agisse al posto tuo?» mi chiese preoccupato, come se sospettasse l’aiuto di qualche entità esterna.

«Mi stai chiedendo se la mia Dea o qualcun altro dell’entità che mi hanno scelta ha combattuto al posto mio? In questo caso la risposta è sicuramente no, di questo sono sicura. Ero io e soltanto io, oltre al mio amuleto, naturalmente.»

Cathbad emise un sonoro respiro di sollievo e mi sorrise con quel suo viso da dolce nonnino; era visibilmente compiaciuto e non aveva timore a mostrarlo.

«Sei stata veramente brava, proprio come mi avevano preannunciato gli Dei ma sei anche un vero e proprio prodigio.» Dal mio viso doveva essersi capito che non sapevo come interpretare quell’affermazione; quell’uomo, pur essendo di una cortesia quasi eccessiva, non mi sembrava una persona che fe complimenti solo per il gusto di farli, senza contare che l’aveva affermato molto seriamente, quasi fosse una colpa piuttosto che una virtù.

«Non capisco, che cosa vuoi dire? Non sei contento che abbia appreso tutto questo in così poco tempo? Cosa c’è di sbagliato in tutto questo?» Ero tornata sulle difensive e lui se ne accorse immediatamente: tentò di abbozzare un pallido sorriso ma poi cambiò tattica.

«È inutile inventarsi che tutto sia normale. Nessuno è mai riuscito a ottenere così tanti risultati in così poco tempo: un mago avrebbe impiegato anni di duro studio e applicazione e forse, se fosse stato anche particolarmente dotato, sarebbe stato vicino al tuo livello, e ho detto vicino. D’altra parte la tua Dea non è mai stata generosa in fatto di poteri magici da elargire alle sue figlie per cui scusami se sono preoccupato di quello che vedo ma devo chiederti cosa ne pensi tu di quello che sei diventata, visto che non è mai successo prima.»

Capitolo 24

Dal libro specchio di Sara.

30 novembre1690. Cathbad è uno strano personaggio che ancora non ho compreso a fondo; è temuto e rispettato da tutti i maghi di Salem ma è anche conosciuto al di fuori della confraternita, dagli shamani del popolo rosso e addirittura dai sacerdoti guaritori dei popoli dell’estremo sud, stregoni misteriosi

che adorano Dei dalle sembianze animalesche. Mi ha raccontato che la sua discendenza è molto antica; i suoi antenati erano tutti druidi celti, dediti alla magia e allo studio dell’alchimia e dell’arte della guarigione, potenti sacerdoti degli stessi Dei che ora parlano a me del mio destino. Sa essere molto dolce quando parla con me, comprensivo e consolatore, ma si trasforma in un burbero autoritario all’interno della sua congrega: credo ci siano regole non scritte per mantenere il rispetto e il potere tra i warlocks ma a me importa poco, almeno fino a quando vengo anche io trattata con rispetto. Presto potrò tornare a casa dai miei genitori; mi è stato promesso che il nonno sarà vegliato e curato nel migliore dei modi e non ho motivo di dubitarne. La nostalgia è come qualcosa che ti divora da dentro e io non riesco a stare un giorno di più lontano da casa.

3 dicembre 1690. È deciso; prima di Natale sarò di nuovo a Wenham: devo attendere che le strade siano di nuovo praticabili dopo il freddo e la neve dei giorni scorsi ma è solo questione di qualche giorno. Mal che vada c’è pronto un aggio con la carovana di rifornimenti che partirà la prossima settimana da Salem diretta ai forti di confine. Arthur mi ha promesso che mi accompagnerà per tutto il viaggio e che forse rimarrà al mio villaggio per continuare l’addestramento e lo studio; dubito che possa addestrarmi meglio di così ma in quanto all’insegnamento ho ancora tanto da imparare, troppo. Il grimorio si arricchisce ogni giorno di nuovi incantesimi, troppo complessi per essere ricordati tutti a memoria. Bisogna descriverli dettagliatamente per poterli riprodurre e, cosa forse più importante, per annullarli in caso di bisogno. Ho anche iniziato lo studio dei metalli e dei cristalli per amplificare l’effetto della magia e per costruire amuleti; è tutto così eccitante che non mi stanco mai di studiare e applicare subito dopo quello che ho appreso: Arthur è sempre gentile e premuroso ma mi accorgo che, a volte, fa fatica a starmi dietro.

5 dicembre1690. Oggi è martedì e il mio precettore mi ha portato a conoscere una signora che abita nei pressi del porto vecchio. Non ha voluto anticiparmi nulla ma ha detto che era importante, per il mio addestramento, scoprire gli altri talenti nascosti, se ce n’erano. La casa era in un angolo appartato della darsena, dove venivano riparate le barche da pesca e i piccoli mercantili che facevano spola lungo i porti della costa, piccola a paragone dei palazzi di Salem ma decorosa e ben tenuta. Chi ci ha aperto era una signora di mezza età, dalla pelle

olivastra, più scura di quella degli indiani; ha riconosciuto subito il mio precettore ma ha guardato me con molta diffidenza.

«È lei?» ha chiesto senza tanti complimenti; mi sentivo come un oggetto in una vetrina di un bazar, guardato, analizzato senza tanti complimenti: non volevo farmi condizionare dalla prima impressione ma quella donna mi stava notevolmente antipatica.

«Si, è lei, non essere scortese e trattala con educazione, mi raccomando» le disse sorridendo, come se fossero amici da tanto tempo.

La stanza in cui mi trovavo era modestamente arredata ma, la luce che entrava dalla finestra che si affacciava sul mare le conferiva un’aria calda e accogliente. Arthur e la padrona di casa si erano seduti al tavolo di legno lucido che occupava buona parte del centro della stanza, lasciando me su una sedia d’angolo ad aspettare; non mi aveva fatto una buona impressione, come se intuissi che quella visita non era del tutto gradita e, evidentemente, mal sopportata. A tratti potevo udire qualche parole del loro chiacchiericcio soffocato e a nulla era valso il tentativo di espandere i miei sensi fino a loro. “Dev'esserci qualche magia protettiva all’interno di queste mura che mi impedisce di esercitare la mia magia “pensai mentre tentavo qualche altro piccolo trucchetto. Un’occhiata severa del mio mentore mi fece vergognare di me stessa mettendo fine a ogni tentativo di origliare; non so come ma se n’era accorto e il suo sguardo esprimeva tutto il suo disappunto per quanto stavo facendo. Quando finalmente le spiegazioni terminarono, la strana signora mi fece cenno di avvicinarmi.

«Vorrei mettere subito in chiaro alcune cose, in modo che non possano nascere equivoci in futuro: non sono assolutamente d’accordo sul fatto che tu ti trovi qui in casa mia e lo sono ancora meno sulla richiesta che mi ha fatto Cathbad di insegnarti l’antica arte della chiaroveggenza. Bisogna innanzitutto avere il dono di poter “vedere” le cose ed è una qualità che in pochi possediamo. Ci sono degli espedienti magici per ottenere un qualcosa di simile ma sono del tutto inefficaci

se la persona o l’oggetto che si vuole trovare è difeso da un sortilegio di protezione. Ammesso anche che tu sia una di quelle rare persone, sono assolutamente contraria a fornire troppo potere a una sola persona perché questa, un giorno, potrebbe usarlo per fare del male: il confine tra la luce e oscurità è una linea così sottile che a volte si fa fatica a distinguerla.» Rimasi seduta senza battere ciglio; non ero la benvenuta ma, a quanto pare, un desiderio del capo supremo degli stregoni di Salem era una presentazione più che sufficiente per vincere ogni obiezione per cui attesi con pazienza l’esito di quella strana presentazione.

«Io sono madame Louise Capeau e sono una clairvoyance.» Probabilmente la signora si aspettava una qualche reazione da parte mia ma, fino a quel momento, non avevo ancora capito chi fosse costei né quale grande potere si celasse dietro la sua maleducazione mal celata.

«Mi dispiace signora Capeau se siamo venuti fino a qui solo per crearle fastidio e disappunto, io sono Sara Baldwin, sono una wicca devota a Gea ma sono anche molto altro, o almeno così dice Cathbad, dopo avermi esaminato. Non ho chiesto io di venire da lei né tantomeno so qual è il suo dono e a cosa potrebbe servirmi. Ora io e Arthur ce ne andiamo così potrà continuare a fare quello che ha interrotto a causa nostra.» Mi sentivo insultata dall’atteggiamento di quella signora e non vedevo l’ora di andar via da quel luogo ma quello che successe subito dopo mi prese letteralmente di sorpresa; madame Louise, dopo avermi incenerito con uno sguardo carico d’ira e di disprezzo, improvvisamente si lasciò andare in una risata forte e argentina che durò per parecchi minuti. «Mamma mia che caratterino ha la signorina» singhiozzò tra le lacrime mentre a stento riusciva a dominare l’esplosione d’ilarità di poco prima. Ero rimasta di stucco dal repentino cambiamento d’umore della chiaroveggente e ora non sapevo più che cosa pensare.

«Mia cara ragazza, forse è meglio che ricominciamo daccapo. Cathbad è un caro amico da molti anni e non ti avrei mai accettata come allieva per nessun motivo se non fosse stato lui in persona a pregarmi di farlo. Mi ha raccontato con

dovizia di particolari la tua prova d’esame alla caverna e, come vedi, la mia casa è piena di amuleti che mi proteggono contro tutte le insidie della magia. Anche volendo, non avresti potuto farmi del male in nessun modo, ma potevi comunque provarci… Ma non l’hai fatto nonostante ti abbia trattato in quel modo. Sii la benvenuta Sara Baldwin e preparati a scoprire un altro aspetto della magia che ancora non conosci.»

Capitolo 25

Madame Capeau era veramente una donna eccezionale; mi aveva sottoposto a quel piccolo tranello per saggiare il mio carattere e la mia stabilità emotiva, caratteristiche indispensabili per apprendere l’arte della chiaroveggenza. Poiché all’inizio non sapevo cosa fosse, pazientemente, ha cercato di spiegarmi in che consisteva quel prezioso dono.

«La chiaroveggenza è la capacità di acquisire conoscenza di eventi, luoghi o oggetti, che possono essere lontani nel tempo e nella distanza, oppure nascosti, attraverso la percezione della loro “essenza”. È una capacità che deriva unicamente da te stessa, aiutata a volte dalla magia o da pozioni che amplificano la percezione e la tua sensibilità.»

Le sue parole mi riportarono immediatamente alla mente l’episodio in cui avevo usato le erbe allucinogene insieme al peyote per avere notizie di Bella Collina e della sua tribù ma, prudentemente, non ne feci parola con Louise.

I primi giorni d’insegnamento furono tutti dedicati a scoprire se ero in possesso del talento e in che misura, cosa non facile visto che il mio talismano a volte aumentava e a volte inibiva le mie visioni; fu necessario toglierlo dal collo e circondarlo con potenti amuleti per limitarne il suo effetto ma anche così l’impresa fu ardua. Il responso non era dei migliori ma, tutto sommato non

potevo pretendere di più; possedevo il dono, questo era certo ma era soffocato dalle altre capacità che le entità supreme avevano voluto accordarmi con il risultato che il mio talento, affinché funzionasse al meglio, doveva essere “aiutato” con qualche espediente. Dopo una settimana di esperimenti e insegnamenti, eravamo finalmente pronte a verificare le mie potenzialità; ci sedemmo entrambe al tavolo dell’ingresso, davanti a una bacinella colma di acqua cristallina, immobile e trasparente: quattro candele circondavano il recipiente dando al liquido una colorazione ramata.

«Libera la mente da ogni pensiero tranne l’immagine della persona o dell’oggetto che vuoi trovare. Respira lentamente e profondamente fino a sentirti completamente rilassata poi, sottovoce, ripeti la formula che ti ho insegnato fino a che non vedrai apparire nello specchio d’acqua che hai di fronte il soggetto della tua ricerca.»

Gweld y llygaid, llygaid dwfn

yn datgelu cyfrinachau o'r hyn y sarhad.

Gad i mi weld, beth bynnag ydyw,

bod ei weledigaeth f'un innau hefyd ii

era una litania difficile da pronunciare, quasi ipnotica, ma dopo alcune volte che veniva pronunciata, produsse i primi frutti; sentivo le pupille dilatarsi nello sforzo di vedere qualcosa che al momento non c’era, poi di colpo, il velo d’acqua sembrò incresparsi, ondeggiare, mentre le immagini cominciavano a materializzarsi sul fondo del recipiente.

«Bella Collina» sussurrai mentre il suo viso diventava nitido. Era nel suo wigwam di pelli di bufalo, coperta da una folta pelliccia, mentre un fuoco scoppiettante scaldava tutta la tenda. Suo marito Ite_O_Magtazu stava fumando il calumet, assorto nei suoi pensieri. Fuori, la copiosa nevicata impediva qualsiasi altra attività e le lunghe giornate avano al coperto, in compagnia degli amici o dei parenti più stretti. Va_Shesh_Na_Bè stava cucendo delle pelli di daino per ricavarne abiti caldi per sé e il suo sposo; era così assorta nel suo lavoro da non alzare nemmeno gli occhi dal grembo mentre Pioggia Sulla Faccia la osservava sorridendo compiaciuto. Era una visione talmente nitida e reale che istintivamente avevo allungato un braccio accarezzando i lunghi capelli della mia cara amica ma non ero preparata alla sua reazione: aveva allontanato la mia mano con un urlo di puro terrore ed era scappata tra le braccia del marito che nel frattempo si era alzato in piedi brandendo il suo lungo pugnale, guardingo. La visione s’interruppe bruscamente lasciandomi sopraffatta dallo stupore.

«Che è successo?» domandai impaurita non riuscendo a capire come avesse fatto Bella Collina a sentire la mia carezza. Louise era accanto a me ma attese che mi fossi ripresa dallo spavento prima di fornirmi una spiegazione a quanto era successo.

«Ci sono due tipi di chiaroveggenza: quella positiva o volontaria e quella negativa o involontaria. Scusami ma avrei dovuto parlartene prima di sperimentare le tue capacità. Nella prima hai la completa padronanza della visione e di quello che stai facendo, viene sviluppata attraverso una vita pura e dedita al bene e chi la esercita deve costantemente allenarsi al suo uso in modo da perfezionare la sua interazione con gli oggetti e le persone della visione. La chiaroveggenza negativa invece avviene quando la percezione mentale si materializza indipendentemente dalla tua volontà: puoi vedere ciò che ti è permesso di osservare ma non puoi in nessun modo controllare il fenomeno. Sappi che questo tipo di proiezione è pericolosa perché ti lascia totalmente indifesa di fronte alla possibilità di possessione da parte di entità oscure. In questo caso, solo il sigillo di Salomone può offrirti protezione: non ti dimenticare questo particolare se dovessi avere una visione di questo tipo.»

Per quel giorno ne avevo abbastanza di esperimenti e ammo il resto della giornata a studiare le tecniche di estraniamento e i metodi migliori per ottenere una totale concentrazione sulla visione ottenuta. Louise si rivelò una maestra efficiente e molto competente; sapeva essere severa quando serviva ma anche molto dolce e comprensiva quando commettevo errori o ero distratta. Arthur mi venne a prendere che il sole era ormai al tramonto; quelle ore erano volate via sulle ali del tempo con una velocità sbalorditiva e cosi sarebbero state anche quelle del giorno dopo.

Dal libro specchio di Sara.

7 dicembre 1690. Madame Capeau mi sta insegnando molto sul modo di avere una visione chiara a distanza; grazie a lei ho potuto vedere Bella Collina e Pioggia Sulla Faccia anche se mi dispiace di averla spaventata. Ho fatto molta pratica di concentrazione e la formula che ho usato la prima volta si è rivelata la più efficace. Mamma e papà erano seduti in cucina quando sono riuscita a raggiungerli; non è stato facile perché l’ansia di rivederli m’impediva di concentrarmi a dovere. Ero molto vicino e se avessi voluto avrei potuto sfiorare la mano di mio padre. “Sara” aveva sussurrato mia mamma cercandomi con lo sguardo in ogni angolo della stanza; avrei dovuto aspettarmelo visto i sensi acuti da strega ma non pensavo mi percepisse subito.

«Sono qui mamma, presto sarò a casa» le avevo sussurrato all’orecchio, quasi avessi paura che qualcun altro potesse sentire. “Ti stiamo aspettando con ansia…” mi aveva detto con un filo di voce, visibilmente commossa; aveva allungato una mano nella mia direzione e io, istintivamente, l’avevo stretta nella mia.

«Piccola Sara, torna presto da noi» mi aveva detto guardandomi in faccia; grosse lacrime di commozione le rigavano il viso ma era un pianto di sollievo e di gioia

quello che vedevo sul viso di mia madre, ma mi faceva lo stesso male vederla in quello stato e interruppi immediatamente il contatto.

10 dicembre 1690. Louise è strabiliata dei i avanti che ho fatto da quando ci siamo conosciuti e ha detto a Cathbad che ormai sono pronta per continuare da sola gli esercizi per migliorare le mie capacità: non sarò mai una grande chiaroveggente ma potrò usare questo potere a mio piacimento, con risultati sempre più precisi e accurati. Il viaggio verso casa si avvicina sempre di più ma prima devo tornare alla grotta un’ultima volta: spero non sia un altro esame ma sicuramente, questa volta, non mi coglieranno impreparata.

Capitolo 26

Qualcuno stava bussando ed erano appena le nove di una fredda mattina nebbiosa; il tocco era leggero, come se chi stava battendo il pugno sulla porta non volesse disturbare gli altri abitanti della casa. Sicuramente non era Arthur, il suo modo di annunciarsi era schietto e chiassoso, a volte irriverente, spesso troppo confidenziale per una persona appena conosciuta, ma si faceva perdonare grazie al modo garbato con cui era entrato nella nostra famiglia. Aprii con diffidenza un piccolo spiraglio, pronta a richiuderlo in caso il visitatore non fosse gradito. Sul pianerottolo della strada c’era una figura esile, avvolta in uno spesso mantello di lana scura, in attesa; stavo per richiudere quando sentii la sua voce invitarmi a uscire: «Sara, il maestro ti attende.»

Furono queste semplici parole a farmi capire chi era e il motivo della sua visita; il giorno della prova finale era arrivato e io dovevo seguire quello sconosciuto ovunque intendesse accompagnarmi.

«Arrivo, solo un attimo.» Il cuore mi batteva forte nel petto, mentre uno strano malessere, simile a un attacco di ansia, rallentava i miei movimenti. “Ecco, ci

siamo” pensai mentre mi allacciavo il pesante cappotto fin sotto la gola; l’uomo era nella stessa identica posizione in cui l’avevo lasciato, immobile come una statua di sale, quasi irreale tra la nebbia che stava lentamente avvolgendo ogni cosa. Mi precedette senza dire una parola e, solo dopo averlo osservato camminare, capii l’identità del mio accompagnatore: zoppicava visibilmente trattenendo a stento le smorfie di dolore che gli attanagliavano la coscia a ogni o. La lama che mi aveva scagliato contro durante la lotta nella caverna doveva essere stata intinta nel veleno; solo così si poteva spiegare perché la sua ferita stentasse tanto a guarire. Non so come fece ad accorgersi del sorriso di scherno che era apparso sulle mie labbra, ma il suo sguardo carico d’odio mi fece comprendere benissimo di essermi fatta un nemico quel giorno.

Il porto era stretto in un’atmosfera irreale; la nebbia, salita dal mare, aveva avvolto ogni cosa con una densa coperta grigia, i rumori arrivavano così attutiti che non si riusciva nemmeno a capirne la provenienza. Incontrammo pochissime persone che non ci degnarono nemmeno di uno sguardo, tutte prese nelle loro faccende, e questo aiutava la riservatezza della missione; raggiungemmo la barca e lasciammo l’ormeggio senza essere fermati da nessuno. Il tragitto fu molto più lungo di come me lo ricordavo, dovuto al fatto di dover navigare a pochi metri dalla scogliera per non perdere l’orientamento ma, nonostante tutto, riuscimmo comunque a raggiungere la spiaggia sani e salvi; la barca attese il tempo necessario per il nostro trasbordo sulla riva e riprese immediatamente il largo.

«Vieni, ti stanno aspettando» fu l’unica cosa che aggiunse il mio compagno di viaggio prima di arrampicarsi sullo stretto sentiero che portava al rifugio segreto dei warlocks. Istintivamente portai la mano al petto in cerca dell’amuleto e questo reagì al mio tocco irradiando un piacevole calore: “Proteggimi tu se mi troverò in pericolo” pensai mentre cercavo di non scivolare su quell’angusto percorso, buono solo per il transito delle capre selvatiche.

«Entra e dirigiti verso la sala illuminata senza perdere altro tempo, sei già in ritardo e al maestro non piace aspettare» mi esortò con malagrazia indicandomi un’entrata poco distante dove s’intravedeva la luce tremolante delle torce.

«Tu non vieni?» chiesi senza nascondere l’ironia celata in quella domanda. Lui mi osservò per un momento, poi con un ghigno soddisfatto che ancora illuminava il suo viso, cominciò a ridiscendere verso l’arenile. “Evidentemente no” pensai senza provare soddisfazione nella piccola schermaglia appena conclusa; attesi ancora qualche istante cercando di captare qualche suono che mi permettesse di capire quanti erano quelli che mi stavano attendendo poi, rassegnata, mi diressi verso la sala successiva. Nemmeno il trucchetto di espandere i miei sensi tutt’intorno aveva funzionato, c’erano all’opera potenti incantesimi protettivi che assicuravano ai maghi l’esclusiva dell’effetto sorpresa, per cui indugiai a lungo sulla soglia prima di entrare definitivamente nella stanza. Era una camera molto piccola, dal soffitto basso e liscio, segno probabilmente che era stata scavata direttamente nella roccia da qualcuno che voleva ricavarne una specie di santuario. Quattro bracieri d’ottone illuminavano la sala con lunghe e sottili lingue di fuoco bluastro; mi avvicinai a uno di essi per vedere che tipo di combustibile contenesse ma tutto ciò che vidi fu del liquido chiaro, incolore.

«È acqua, nel caso ti stessi chiedendo che tipo di sostanza può dare quel colore alla fiamma. Pura e semplice acqua di fonte.»

La voce proveniva da una figura celata dietro un enorme altare di pietra posto al centro della camera; non l’avevo notata prima perché le luci erano disposte in modo da illuminare pareti e soffitto, lasciando in penombra proprio l’altare e la zona immediatamente circostante.

«Buona giornata Cathbad, capo supremo di questa confraternita.» A un cenno della sua mano, un altro braciere prese ad ardere, proprio sopra la superficie liscia dell’ara, svelando ciò che prima rimaneva misteriosamente in ombra. Era nata da subito una forte empatia tra me e quel potente mago, tanto che riusciva senza sforzo a perdonare l’affettuosa irriverenza che a volte accompagnava le mie frasi, come un nonno indulgente verso la sua vivace nipotina. Stavo per avvicinarmi a lui quando un altro saluto mi prese alla sprovvista;

«Salute e pace a te Igat_She, protetta dal Grande Spirito.» Quella voce risuonava familiare alle mie orecchie ma non sapevo dare un volto al quelle parole.

«Salute e pace anche a te. Come fai a conoscere il nome che mi ha dato il popolo rosso?»

C’era un’altra figura accovacciata vicino al grande mago, seduta nella classica postura degli indiani; il suo corpo era magro, coperto da antichi tatuaggi ormai sbiaditi dal tempo: aveva un portamento fiero, come di chi ha coscienza della propria importanza e del proprio potere.

«Io ti ho dato quel nome, piccola Sara, perché così ha voluto Wakan Tanka.» «Falco In Piedi» sussurrai con un filo di voce, quasi avessi paura che la mia voce potesse annullare la sua presenza. La gioia nel vederlo fu così grande che, senza pensarci, gli corsi incontro abbracciandolo; lui ricambiò quel gesto di affetto trattenendomi tra le sue braccia a lungo, parlottando sottovoce nella sua lingua nativa.

«Oggi è un giorno importante per tutti noi, Igat_She. In questo luogo carico di magia oggi si compie la prima parte di un’antica profezia che unisce e accomuna i nostri popoli e il destino di altri ancora. Coloro che hanno creduto in te e nelle tue capacità oggi sanciranno la loro benevolenza nei tuoi confronti suggellando un patto che legherà il tuo destino al loro e a quello di tutti noi. Ho fatto molta strada, troppa per le mie stanche gambe, ma non potevo mancare a questa cerimonia anche a costo della mia stessa vita.»

«Mi stai spaventando Gre_Dthe_Nuzhe, spiegami cosa deve succedere.» Ciò che

avevo sentito mi aveva riempito il cuore di apprensione: non ero lì per un esame ma per una cerimonia così fondamentale che lo shamano più importante degli Algonchini aveva fatto un viaggio lunghissimo tra le nevi invernali per parteciparvi.

«I maghi più potenti della regione hanno avuto una visione qualche tempo fa. Le tenebre avanzano molto più velocemente del previsto: il male ha trovato dei campioni, cavalieri oscuri che ora si stanno allenando per perfezionare i poteri derivanti dalla magia nera. Quando questi saranno pronti, metteranno la terra in ginocchio consegnando tutti quanti all’oscurità. Le entità della luce non possono permettere che ciò accada e hanno fatto altrettanto: tu sei uno di quei campioni che dovrà contrastare l’avanzata del male e, se è possibile, arrestarla definitivamente. Altri come te, persone di talento e pure nell’animo, stanno affrontando il tuo stesso cammino ma, alla fine, solo pochissimi di voi saranno chiamati a decidere le sorti del bene e del male perché, per affrontare una simile battaglia, occorrono doti che vanno al di là della singola bravura, virtù che solo alcuni possiedono per intero.»

L’ansia mi aveva preso con un nodo alla gola e crampi allo stomaco; sapevo a cosa mi stavo preparando ma non avevo realizzato l’enormità del peso che la responsabilità comportava. Feci vagare lo sguardo tutt’intorno cercando di schiarirmi le idee e solo allora mi accorsi di un particolare che prima non avevo notato: le pareti della grotta non erano lisce come mi era sembrato in un primo momento, ma fittamente intarsiate da simboli e scritture eleganti, arrotondate, sconosciute.

«Che posto è questo?» chiesi, non tanto per prendere tempo, ma perché era qualcosa che m’incuriosiva molto. Alcuni simboli e scritture le avevo già viste e racchiuse nei meandri dei miei ricordi, sepolte dagli ultimi, caotici avvenimenti. «Ho già visto qualcosa del genere, durante le visioni con le entità della luce: adornavano le pareti del tempio dove risiedevano, ma scintillavano con l’intensità di mille arcobaleni.»

«L’antico popolo che ha scavato queste grotte adorava le nostre stesse divinità, pur chiamandole con nomi differenti. Da loro arrivano le profezie che ci hanno portato qui oggi, presagi che stranamente erano gli stessi tramandati tra gli shamani del popolo rosso e non solo. Tutte le predizioni parlano di un avvento del male sulla terra e di quattro cavalieri che si fronteggeranno su entrambi gli schieramenti. Ogni arte sarà lecita al fine di ottenere la vittoria e questa decreterà il destino dell’intera esistenza, ovunque. Noi crediamo che tu sia uno dei cavalieri del bene e se così fosse, è nostro compito darti tutti i mezzi per fronteggiare i pericoli che incontrerai sul tuo lungo cammino. Per questo siamo qui oggi.»

La testa mi girava, presa da quel turbinio di parole, dalla sensazione che tutto non sarebbe più stato come prima, mai più; non avevo neanche dieci anni ma il peso di tutte quelle responsabilità mi gravava sulle spalle facendomi sentire vecchia al confronto dei miei coetanei.

«Non è giusto! Perché io? Perché non posso essere come tutte le mie amiche? Non ho chiesto io di avere tutto questo potere, non lo voglio e non voglio avere tutte queste responsabilità nelle mie mani.» Caddi in ginocchio singhiozzando, presa da uno sconforto così profondo da far male; non ero pronta a un simile compito e forse non lo sarei mai stata nonostante che i miei maestri ne fossero convinti.

«Non conosco le ragioni degli Dei, Igat_She, né so perché un compito così grande sia stato affidato a una ragazza così giovane. Quello che so è che un onore più grande non c’è e il solo privilegio di poter parlare faccia a faccia con i propri Dei vale qualsiasi sacrificio. La tua Dea, la Grande Madre, ha creduto in te per prima donandoti un’anima pura su cui potesse attecchire la magia mentre il Grande spirito ti ha donato una guida fedele e un potere che va oltre quello che tu possa intuire. Anche le entità che non fanno parte del tuo credo hanno contribuito affinché tu diventassi quello che sei, in molti modi e a molti livelli. Sii orgogliosa della loro presenza in te e renditi degna dei loro doni.»

«Cosa devo fare?» chiesi con un pizzico di rassegnazione nella voce. Avevano ragione loro e io lo avevo sempre saputo, dal primo momento i cui avevo varcato la soglia della caverna: Gea e Wakan Tanka mi avevano preparato al mio destino e così pure avevano fatto gli altri Dei durante le mie visioni. Non potevo più nascondermi dietro le mie paure e il saperlo era il primo o per l’accettazione incondizionata del mio destino.

«Siamo noi che faremo qualcosa per te, Igat_She, qualcosa che aumenterà la tua resistenza agli attacchi dell’oscurità.»

Mi fecero sdraiare sull’altare; la pietra era tiepida al contatto con la pelle e questo mi stupì perché l’aria si stava raffreddando velocemente: da quella posizione potevo vedere, nitido, il sigillo di Salomone profondamente inciso nel basso soffitto, ulteriore testimonianza che nessuna entità del male avrebbe potuto interferire con la cerimonia.

«Questo luogo è stato scavato proprio qui perché è il centro di confluenze magiche molto potenti; l’ara ne è il fulcro di potere e focalizza tutta l’energia convogliandola sulla superficie dell’altare: ora ti daremo un’arma con cui combattere i servi dell’oscurità.

Una nenia lenta, ritmata cominciò a uscire dalle loro labbra; un fiume di parole appena sussurrate, arcane, incomprensibili alle mie orecchie ammaliate dall’effetto ipnotico di quella melodia: aspettavo che accadesse qualcosa ma la cantilena si ripeteva senza soste, frase dopo frase fino a che le palpebre divennero così pesanti che fui costretta a chiuderle… e sognai.

C’era il sole che splendeva sulla pianura e l’aria calda dell’estate soffiava tra i miei capelli; ero cosciente di non essere materialmente lì ma questo non toglieva nitidezza alle mie percezioni. Era come una chiaroveggenza, ma molto più ricca

di particolari, di odori, di sensazioni tattili; sentivo l’erba tenera piegarsi sotto i miei piedi scalzi mentre mi addentravo tra l’erba alta, verso una capanna poco lontana. Il rumore dei grilli era assordante ma, in mezzo a quegli stridii riuscii a cogliere un debole lamento; affrettai il o mentre un senso di angoscia mi stringeva il cuore in una morsa dolorosa: c’era un corpo poco più avanti, schiacciato a terra dal peso di un uomo dalla pelle scura, quasi nera.

Aveva la testa rasata, lucida di sudore e dalla posizione, sembrava più un animale selvatico che un uomo.

«Lasciala stare!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola; ero cosciente che era lì per fare del male alla donna che teneva impietosamente a terra ma sapevo anche che non glielo avrei permesso. Si girò lentamente, quasi infastidito da quell’arrivo imprevisto, rivelando un volto sottile, spigoloso; aveva la bocca spalancata, come se volesse morderla a morte ed erano proprio i denti la cosa più impressionante: erano lunghi e sottili, simili a quelli di un animale feroce, di un lupo famelico. Lasciò la presa sulla donna e si mise in piedi, proprio di fronte a me; sembrava un gigante al mio confronto e rise quando gli intimai di andarsene.

«Ragazzina, non ho capito se sei solo arrogante oppure troppo stupida: tu morirai oggi e poi io finirò il mio compito.» Istintivamente la mia mano si alzò verso il petto, alla ricerca della protezione del mio talismano ma, con orrore, scoprii troppo tardi di non aver nulla allacciato al collo.

«Cosa c’è ragazzina, hai paura?» mi derise quell’essere abominevole prima di scagliarsi su di me. Stava giocando al gatto con il topo, assaporando la mia paura quale fosse un nettare dolcissimo.

Fui assalita da una rabbia incontenibile, una smania di fargli del male che ottenebrò tutti i miei sensi; lui percepì il cambiamento ma era troppo preso dalla

sua sete omicida per farci caso: stesi il palmo della mia mano nella sua direzione e diedi libero sfogo alla mia rabbia.

La mia aura si schiuse come un bocciolo di rosa al sole di maggio scaricando la mia energia contro l’assassino; un simbolo, dapprima pallido, poi via via più luminoso si accese come un faro sulla fronte nera della bestia e questi urlò con tutto il fiato che aveva in gola, fino a che la sua agonia si trasformò in un rantolo e poi in un pietoso silenzio. Avevo visto materializzarsi il sigillo di Salomone sulla fronte di quella persona malvagia e mi ero compiaciuta della sua potenza distruttiva, assaporando la sua breve agonia con gioia; che differenza c’era tra me e lui se anch’io gioivo delle altrui sofferenze? Con ancora l’angoscia nel cuore andai a prestare soccorso alla malcapitata; era una vecchia signora, ferita e scossa ma ancora viva e in salute: la aiutai ad alzarsi e solo allora scoprii che era cieca. Le sue pupille, bianche come due perle, erano fisse su di me mentre le sue mani cercavano il mio viso. «Ti aspettavo, Igat_She e ti sono grata di avermi salvata da quel demone. Quando ci rincontreremo, ti dimostrerò la mia gratitudine. Io sono Valerie, Valerie Ducroix.»

«Valerie…» bisbigliai mentre lentamente tornavo cosciente. Ero ancora distesa sull’altare ma c’era silenzio intorno a me. La schiena mi faceva male ma erano le mani che mi preoccupavano di più, intorpidite e dolenti, le sentivo pulsare di un dolore sordo, costante; toccai il talismano che avevo al collo, come per sincerarmi di essere tornata effettivamente alla realtà mentre i miei due amici si facevano avanti preoccupati.

«Tutto bene?» chiese Cathbad con il sorriso sulle labbra. «Bentornata, ovunque tu sia stata.»

«Ho fatto un sogno strano, incredibile. Ho combattuto contro un demone che aveva le sembianze di un uomo dalla pelle più nera della notte solo utilizzando il palmo della mia mano e ho salvato una vecchia signora che sembrava conoscermi: ha detto che ci saremmo rincontrate.» Solo dopo aver raccontato la

mia visione mi osservai con cura il palmo della mano destra; era tutto arrossato, come se avessi cercato di togliere una pendola dal fuoco a mani nude e la cosa strana era il simbolo magico che era impresso: un serpente che si mordeva la coda circondava un pentacolo costituito da due triangoli sovrapposti, il simbolo più potente per combattere le forze del male.

«Non ti preoccupare, tra poco la pelle tornerà normale e il sigillo sarà pressoché invisibile fino a che non lo evocherai nuovamente contro i tuoi nemici. Non hai sognato Sara ma hai avuto un contatto reale con quella donna, una visione attiva che le ha salvato la vita: i vostri destini s’incroceranno di nuovo prima o poi e potrebbe rivelarsi una preziosa alleata per la riuscita della tua missione. Ora riposati fino a che non arriverà la barca che ti condurrà a casa.»

Epilogo

Dopo tutto questo tempo ato a casa del nonno, ormai era ora di tornare al nostro villaggio; mamma aveva affrontato nuovamente il viaggio per venire a prendermi e, dopo aver ato l’intera giornata in famiglia, aveva concordato che nulla più ci tratteneva a Salem se non la bellezza del luogo e gli affetti che avevamo trovato qui. Cathbat avrebbe continuato a vegliare sul nonno e su di noi con quel suo fare bonario che gli aveva fatto guadagnare la simpatia della mamma e il mio affetto sincero ma era venuto il momento di riabbracciare papà e mio fratello e di riprendere la nostra solita vita. Dopo tutte le novità e le emozioni che avevo vissuto negli ultimi mesi, dubitavo seriamente di riuscire a tornare a una vita tranquilla, a volte noiosa e monotona, tipica di Wenham, ma non c’era più nessuna scusa che potesse rinviare la partenza; domani di buon’ora avremmo affrontato il viaggio di ritorno con il cuore gonfio di tristezza ma allo stesso tempo impaziente di rivedere i nostri cari rimasti a casa.

Peccato non poter raccontare a nessuno quello che ci era successo, l’incontro con i maghi e con le streghe di Salem, i nuovi poteri che avevo acquisito grazie a persone straordinarie come Arthur, Cathbad e Madame Capeau. Direi una bugia

se non ammettessi di avere una tremenda nostalgia dei miei boschi, del contatto così profondo con la natura che mi circondava, delle visioni in cui la mia Dea e il suo sposo mi onoravano con la loro presenza e i loro consigli ma, d’altro canto, separarmi dalle consorelle conosciute qui, da Margareth, dal nonno e da tutte quelle persone con cui avevamo condiviso la nostra permanenza era una pena che mi faceva sanguinare il cuore. Il sole era già tramontato quando raggiunsi una piccola spiaggetta a Mill Pond, oltre la parte meridionale del porto; era una piccolissima insenatura circondata dalla scogliera, con una spiaggia di sabbia bianca finissima. L’avevo scoperta la settimana prima e da allora non ci ero più potuta tornare ma quell’ultima sera sentivo il bisogno impellente di rimanere un po’ da sola, per riflettere sulla mia vita e su com’era repentinamente cambiata senza che io quasi me ne accorgessi. Il luogo era silenzioso e deserto; le onde del mare, piccole e quiete, facevano un piacevole rumore raschiante quando si allungavano e si ritraevano mentre i gabbiani, in alto nel cielo, salutavano rumorosamente la fine della giornata appena trascorsa. Mamma era al corrente di dove mi trovavo e non aveva fatto obiezioni; anche lei capiva che avevo un disperato bisogno di mettere un po’ d’ordine dentro di me per riuscire meglio a comprendere il senso della mia vita e quello che avrei dovuto affrontare. L’aria era pungente ma non me ne accorgevo quasi, presa com’ero in una sorta di reminiscenza delle tappe che mi avevamo portato fin lì, piccoli cambiamenti, a volte quasi invisibili che avevano fatto di me prima una wicca e poi lo strumento degli Dei. Il lento, ritmico movimento delle onde mi stava portando lontano, sulle ali di ricordi sopiti, quasi dimenticati; rammentavo le storie che mi raccontava mia madre prima di addormentarmi, popolate di esseri dalle lunghe ali del colore dei fiori in primavera, della Grande Madre che era la vita stessa della natura, con i suoi cicli e le sue stagioni, della magia di cui era intrisa l’essenza di ogni cosa, me compresa. Ricordavo perfettamente quando cercavo di comunicare con gli animali del bosco, gli uccelli e gli scoiattoli, i pesci dello stagno e la lepre che ogni tanto riuscivo a vedere sul confine del campo di papà. Loro m’ignoravano, com’era naturale per una bimba di qualche anno appena, ma non per questo mi perdevo d’animo, cocciuta e testarda fin da piccina; stavo rivivendo la mia infanzia come in un sogno, come se cercassi una spiegazione del mio presente scrutando attentamente il mio ato. Proprio da lì emergevano i ricordi più belli ed esaltanti come la prima volta che vidi danzare le fiamme del camino al suono del canto della mia voce o quando sentii per la prima volta la presenza tangibile della mia Dea accanto a me, amorevole e comprensiva come una vera mamma, un caleidoscopio d’immagini che mi fecero sorridere di tenerezza e di nostalgia. L’aria si era fatta improvvisamente fredda e il cielo cominciava a essere trapunto di stelle luccicanti; la luna sarebbe

sorta a breve, all’orizzonte, proprio sull’acqua, illuminandola con la sua scia argentata. Sentii un braccio che mi cingeva le spalle in un abbraccio consolatore; non avevo sentito mia madre avvicinarsi, troppo presa dalle mie fantasie di quand’ero bambina, troppo concentrata sulla ricerca di un perché tutto questo fosse capitato proprio a me. Lei mi attirò tra le sue braccia, facendomi appoggiare la testa sul suo grembo, come faceva quand’ero piccola, quando la tristezza o lo sconforto prendevano il sopravvento nella mia anima di piccola strega. Quella non era mutata, nonostante gli ultimi avvenimenti, nonostante il pericolo che incombeva su tutti noi; quella sera le tenebre e l’oscurità dovevano aspettare perché in quell’abbraccio materno c’erano solo amore e Luce.

«Dobbiamo proprio partire?» le chiesi con un filo di voce, quasi sperassi in una risposta diversa da quella che già sapevo.

«Sì amore mio, dobbiamo proprio. A casa ci aspettano e non sarebbe giusto lasciarli ancora soli dopo tutto il tempo che hanno aspettato per poterci riabbracciare.»

La luce della luna che stava sorgendo gettava strane ombre sulla spiaggia tanto che, improvvisamente, mi alzai cercando di scrutare nella penombra che ci circondava; mi sembrava di aver visto una figura alle nostre spalle, una donna in piedi dietro di noi che ci tendeva le braccia, in segno di richiamo: indugiai alcuni istanti, nella vana speranza di vederla riapparire.

«Hai ragione mamma, è ora di tornare a casa» le dissi serena. I dubbi che mi avevano tormentato fino a quel momento erano scomparsi, come svaniti nel pallido chiarore lunare che ci circondava, e ora ero pronta ad affrontare il viaggio di ritorno e la nuova vita che il destino aveva in serbo per me.

i Nell’esoterismo wicca, la parte maschile della divinità era spesso raffigurata

come un enorme cervo, da qui l’appellativo di “cornuto”.

ii * Occhio che vede, occhio profondo, svela i segreti di quello che affronto. Fa che io veda, ovunque esso sia, che la sua visione sia anche la mia.

L’Autore

Claudio Paganini è nato a Genova nel 1963 e risiede a Chiavari. Di professione è guardia particolare giurata e ha la ione per la lettura e la scrittura. Ha iniziato a scrivere circa venti anni fa e oggi è alla sua quinta pubblicazione. Ha anche pubblicato numerosi racconti, tutti editi da 0111 Edizioni e disponibili in formato ebook, alcuni anche disponibili nella raccolta cartacea “11 Piccole Ombre”. Ecco i suoi romanzi precedenti:

“I Custodi del Destino” (2013, 0111 edizioni)

“11 Piccole Ombre” (2013, 0111 edizioni)

“Pandemia” (2012, 0111 edizioni)

“Quarta dimensione” (2007, Gammarò Edizioni)

Vieni a scoprire tutte le nostre promozioni settimanali. Vedrai, ti stupiremo!

Se hai un dispositivo abilitato per Internet, Clicca sul link