Roberto Provana
Una scuola parallela
Battitore libero
Titolo originale: "Una scuola parallela" © 2014 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea aprile 2013 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-317-5 I edizione e-book agosto 2014 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-525-4 www.giovaneholden.it
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UUID: 9788863965254
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Indice capitoli
Prefazione I L’altro - Dietro la nostra maschera ufficiale uno straniero sa e forse ci osserva II La macchina del tempo - Dentro le scatole cinesi della memoria III Una scuola parallela - I corsari del sapere IV Lectio magistralis - Quando al libero pensiero spuntano le ali V Il monom - La coltivazione dell’inconscio VI Dopo Cartesio - Oltre la mente e il pensiero VII Point Break - Il folle volo VIII La scintilla della dea - Alla fine, tutto è perfetto Postfazione L'Autore
Al professore Piero Carelli, per l’attenzione gentile e profonda che mi ha sempre dimostrato.
Il tempo è un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco. Jorge Louis Borges
Prefazione
È un libro curioso Una scuola parallela, di Roberto Provana. La formula narrativa è semplice: è la storia di quattro anni di liceo, con i suoi eventi scolastici ed extrascolastici e i suoi personaggi (studenti e professori). Siamo agli inizi degli anni Settanta e la vita della scuola italiana è sconvolta e movimentata dalla contestazione che nelle pagine di Provana conosce una trascrizione cronachistica straordinariamente dal vivo, partecipe, ma anche distaccata: credo di non esagerare dicendo che, chi non conosce quella storia (penso in particolare ai giovani di oggi) dovrebbe leggere il libro di Provana per capirla dall’interno, senza formule ideologiche e senza schemi precostituiti. Anche la cultura di quegli anni, con i suoi miti e le sue figure di riferimento, è affrescata dal libro con grande vivacità. Ma a latere della storia scolastica e politica si svolge una misteriosa storia parallela. È la storia di una educazione altra, alternativa, iniziatica, vissuta da ragazzi di quel liceo con straordinaria e coraggiosa serietà. Tutto ruota intorno al personaggio di Did, di cui l’Io narrante del libro si costituisce come storico e mentore, un discepolo, un alter ego. E attraverso la narrazione entriamo così in contatto con una vicenda che ha dell’incredibile: è la storia di un ragazzo di paese strano e solitario che sin dalla fine degli anni Sessanta, anni nei quali quasi nessuno sapeva di esoterismo, yoga e Oriente, avviò una ricerca personale strabiliante. Alcune tappe e alcuni exploit di tale ricerca vengono vivacemente raccontate nel libro. Lo stesso avviene per alcune delle tante letture e suggestioni culturali che nutrirono e animarono quella ricerca e che danno voce, nel testo, a spunti dialogici e di pensiero affascinanti. Chi qui scrive e un po’ conobbe quella vicenda, non può non essere colpito dal constatare come ciò che vent’anni dopo sarebbe diventato facile moda consumistica per costosi week-end esoterici, nella vita di Did fu solitaria sperimentazione quotidiana, orgoglioso lavoro indefesso su di sé, avventura e rischio. Potremmo dire che il libro è anche una storia di iniziazione; leggerlo può iniziare il lettore a uno sguardo diverso sul mondo e risvegliare in lui la curiosità per il mistero, suscitando uno sguardo mentale che un po’ si sottragga alla omologazione di questi ultimi anni di storia della scuola e della società italiane.
Prof. Secondo Giacobbi Docente presso la Scuola di Psicoterapia Clinica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano
I
L’altro - Dietro la nostra maschera ufficiale uno straniero sa e forse ci osserva
Quante scuole esistono? Si può, durante l’adolescenza, frequentare una scuola invisibile e proibita, dove accadono fatti che la ragione stenta a comprendere ma fanno esultare l’anima? Vi sono segreti che la scuola ignora e non è in grado di insegnare? Qual è la vera conoscenza? È possibile osservare le manifestazioni della psiche, entrare nei suoi oscuri labirinti e uscirne indenni o diversi, mutati? All’inizio di questa storia non sapevo rispondere a queste domande che mi inquietavano. Così questo racconto inizia con un punto interrogativo.
“E tu da dove vieni, dalla luna?” Il cielo, terso come non mai, invitava a chiedersi che senso avesse are la giornata chiusi in una fredda e anonima aula scolastica. “Vai al diavolo!” rispose la voce alla domanda del compagno, seduto al banco alla sua destra. Seconda liceo scientifico: la risposta era il biglietto da visita di Did, il bocciato finito lì, nella sezione B, a ripetere l’anno. Did era il nuovo marchio di battesimo che si era guadagnato con le disastrose performance in lingua inglese dell’anno prima. “Did!”; “Did!” gli gridava la professoressa. Si dimenticava sempre, sbagliando, nella costruzione grammaticale delle espressioni anglosassoni, il ato dell’onnipresente verbo to do. Quel richiamo era diventato la sua nuova identità, tanto che nemmeno gli altri insegnanti lo chiamavano più con il suo vero nome. Per tutti era Did e nessuno ricordava il suo nome di battesimo. Filippo Bosiani rimase secco nel sentirsi rispondere da Did, di andare al diavolo.
La sua intenzione era innocente: mettere a suo agio il nuovo ospite. Essere respinti significava essere emarginati o compatiti. La nostra era una classe abbastanza democratica e non avevo dubbi sulla buona fede di Filippo, anche se l’incazzatura di un bocciato era comprensibile. Eccoci di fronte a un irascibile frustrato che avrà difficoltà a inserirsi nella vita della seconda B, pensai. Il suo profilo asciutto e longilineo, ascetico, trasmetteva un senso di inquietudine rarefatta, un’atmosfera internamente aristocratica e fredda, lontana. Non aveva l’aspetto bonario e pasciuto della maggior parte dei figli della buona borghesia cittadina. Fin dai primi giorni notai che si muoveva raramente dalla sua postazione, come per occultare una qualche difficoltà a spaziare nel perimetro di un’aula che non sentiva affatto sua. Il banco era una trincea nella quale sembrava condannato a scontare una quotidianità scolastica fatta di noia mortale, alla quale reagiva con una forma di catatonia posturale che sfiorava la paralisi. La sua andatura lenta e pensosa, rivelava una indole austera e rassegnata. Durante gli intervalli, mentre il resto della classe si precipitava a sgranchirsi le gambe e a stirarsi i muscoli, lui rimaneva bloccato, serrato tra la sedia e la pila di libri che sul piano di un banco progettato per dei nani gli chiudevano le lunghe gambe e braccia in una morsa impietosa. Pareva affetto da una strana forma di sonnambulismo. Non dava affatto l’impressione di essere lì con la testa, ma altrove, da un’altra parte, in un luogo che non sapevo ancora dire, nel quale nessuno era mai stato. Mi suggeriva l’idea di un naufrago capitato lì per caso e che aveva perso tutto e quindi non aveva più nulla da salvare. Eppure dai suoi silenzi e dalle sue rare parole, ridotte a un livello di pura sopravvivenza relazionale, trapelava qualcosa di non totalmente vinto, domato.
Ottobre era un bel mese per ricominciare a vivere. Dopo la pausa estiva il ritorno sui banchi di scuola creava una situazione di apparente uguaglianza sociale che le vacanze avevano contribuito a cancellare.
Se la scuola era pubblica, le vacanze rimanevano tenacemente private. I ricchi ammazzavano il tempo tra una seconda casa e l’altra, alternando sapientemente i sollazzi del mare alle ricreazioni della montagna, esplorando i villaggi esclusivi degli anni Sessanta. Ma le abbronzature estive guadagnate in provincia erano più tenaci e alla lunga era il sole nostrano preso nei campi o sulle rive dei canali a vincere le fragili tintarelle agostane dei figli e delle figlie di papà. All’inizio del nuovo anno la piccola comunità scolastica della seconda B si portava dentro gli umori dell’estate. Così era fatale, soprattutto per i parassiti, saltare sul treno trainato da qualche locomotiva umana capace di stimolare lo studio o di renderlo almeno più facile. La più potente di queste locomotive didattiche si chiamava Carla: dolce, materna, disponibile, non aveva niente della secchiona altezzosa che teneva a bada i poveri cristi per distinguersi e svettare, in tutta la sua gloria, sulle miserie scolastiche altrui. Traduceva per tutti i concetti astratti della matematica e del latino in appunti ordinati, giudiziosi, commestibili anche per cervelli come i nostri che trovavano coriacee perfino le lezioni di disegno. I suoi quaderni erano più ricercati dei Bignami. Riuscire a entrare alla sua corte, far parte del suo gruppo di lavoro dove lei sgobbava e gli altri si facevano trainare, era un gran colpo di culo. “Vado da Carla,” era un lasciaare per garantirsi ripetizioni gratis e il facile consenso da parte dei genitori per are il pomeriggio fuori casa. I più diffidenti si limitavano a fare una telefonata di controllo per sapere se il figlio o la figlia stavano proprio lì a studiare da Carla, che a volte assicurava anche una efficace copertura in caso di assenze ingiustificate dai compiti pomeridiani. Il più delle volte trovarsi a studiare era un alibi stupefacente per vagabondare qua e là nel limbo delle aspirazioni adolescenziali, ma Carla era una garanzia: ti inchiodava al testo da tradurre o alla equazione da risolvere e se non riuscivi a starle dietro, era peggio per te. Se invece si reggeva il ritmo della locomotiva, si imparava insieme, senza dover più sacrificare altro tempo allo studio. Studiare da soli infatti era una pesante condanna mentre apprendere e riare con altri era meno gravoso e persino divertente. Alle 15.30 di un giorno fatidico, alla metà di ottobre di quell’anno 1969, l’anno della conquista della luna, da Carla si celebrava in pompa magna il primo incontro degli scansafatiche più incalliti della classe. C’erano Alberto Biondi, figlio di un noto agente immobiliare cittadino; Claudio Campari, destinato a
ereditare la farmacia di famiglia; Lella Pastori, che si comportava da gran figlia di giudice qual era, e Livio Tatti, di famiglia operaia, che sognava di diventare architetto. Si presentò anche Did che solitamente dopo le lezioni mattutine ritornava a casa in bicicletta, in un paese che distava cinque chilometri. Quel giorno, imprevedibilmente, era rimasto a vagabondare nelle vie del centro. Prima di suonare il camlo aveva camminato per un’ora su e giù per via Mazzini, la strada principale della città. Non aveva guardato i negozi ultra cari che vi si affacciavano, né abbordato ragazzine o mangiato gelati che si vantavano d’essere i migliori della Lombardia. Era preso dall’idea di provare a ipnotizzare il primo che gli capitasse a tiro. Invitato da Carla, non aveva nascosto la sua orgogliosa timidezza, nonostante i tentativi della nostra più amabile compagna di mettere tutti gli ospiti a loro agio. Carla ci rifornì di tutto punto: penne a sfera che reclamizzavano banche locali e block notes con lo stemma del Vescovo. Inoltre aveva preparato la merenda delle cinque a base di biscotti vari, aranciata, cedrata e chinotto. Il programma del pomeriggio prevedeva quel rio generale che la Dragoni, una prof. spiritata e umorale in piena menopausa, aveva appioppato senza tanti complimenti. Seccata perché il mite Giorgio Zuccardi, figlio del panettiere, un suo pupillo dell’anno precedente, non aveva saputo ricordare alla prima lezione la regola di Cramer, se n’era uscita con una delle sue vendicative improvvisazioni: revisione generale delle definizioni e delle regole del primo anno! La regola di Cramer era una delle formule risolutive di un sistema algebrico. Apparteneva al programma della prima liceo, ma Giorgio non aveva trovato alcuna traccia della definizione, nei meandri della sua memoria scolastica infiacchita da una estate piena di svaghi voluttuosi. Offesa dall’oblio negligente dello studente, la prof. aveva voluto testare l’efficienza di Carla che non si era lasciata sorprendere e aveva subito risposto: “Nella soluzione di un sistema di due equazioni di primo grado a due incognite, ridotto in forma normale, il valore di ciascuna incognita è espresso da una frazione, avente per denominatore il determinante da esso ottenuto sostituendo alla colonna dei coefficienti della incognita considerata quella fornita dai termini noti”. Anche se per il resto della classe la definizione fosse arabo e per me Cramer al massimo poteva ricordare il nome di un direttore d’orchestra, la regola era stata
espressa in forma impeccabile, ma non bastò a quietare la professoressa Dragoni che anzi sembrò ancor più irritata. Risultato: reimparare a memoria tutte le regole e le definizioni precedenti, a cominciare da quelle di monomi, binomi, polinomi, espressione algebrica e così via. I partecipanti al rio generale arrivarono alla spicciolata. L’appartamento era situato in una palazzina moderna che si affacciava sul Bar Verdi e un grande giardino pubblico che divideva l’area delle palazzine dal liceo. Sporgendosi un po’ oltre il terrazzino dell’appartamento, attraverso gli alberi quasi si poteva scorgere l’edificio scolastico in tutta la sua imponenza. Si studiava nel soggiorno. Fui il primo ad arrivare, mentre Did arrivò penultimo e, dopo essersi seduto accanto alla finestra ci guardò con una calma surreale. Il suo sguardo si fece tenebroso, i pettegolezzi cessarono e in una atmosfera pervasa da un vago ma oscuro presagio, pronunciò lentamente queste parole: “L’ultimo che arriva lo addormento, lo ipnotizzo!” Carla, sopraffatta da una proposta così imprevedibile, tacque. L’ultimo ad arrivare, con un’aria di inconsapevole sufficienza che avrebbe presto pagato, fu Livio Tatti. Si faceva chiamare Tatus. Appena Tatus mise piede in soggiorno, Did sussurrò: “Siediti…” Poi chiese a Carla di abbassare tutte le persiane e chiudere le imposte per creare una atmosfera suggestiva. Il resto del gruppo si era disposto a semicerchio intorno ai due per poter osservare da vicino lo svolgersi dell’esperimento che assunse le sembianze di un teatro di ombre. Inaspettatamente, dalla porta della stanza si affacciò il padre di Carla. “Che state combinando?” domandò sorpreso. Ci fu un attimo di imbarazzo da parte di Carla e di noi tutti. Did esclamò: “Ci sta raccontando una storia!”, indicando Tatus che aveva le spalle girate verso l’intruso. Il messaggio era: Ci lasci fare e vada per la sua
strada! Aveva avuto pane per i suoi denti. La preoccupazione dell’uomo si placò all’istante. Fece un cenno di assenso con la testa, chiuse la porta e se ne andò confuso. Dopo alcuni istanti, dalla gola di Did uscì una voce che in seguito avrei imparato a conoscere bene. Era imperiosa, e al tempo stesso morbida e dolce. Sentii un brivido freddo lungo la colonna vertebrale. Quel timbro sembrava così profondo da riuscire a toccarci in profondità, evocando stati d’animo sconosciuti. Era un invito suadente e irresistibile a lasciarsi andare. La voce intonò un ritornello cantilenante: “Ascoltami… sei stanco, hai sonno… il tuo corpo è pesante, i tuoi occhi si chiudono, finalmente ti puoi riposare e rilassare totalmente, fino in fondo… fino in fondo”. Sembrava di assistere a una battaglia misteriosa. Nella penombra distinsi la faccia di Tatus che si contraeva in smorfie mai viste. Intanto la voce di Did, come una marea silenziosa seguitava a sommergere ogni sua resistenza. Il tono mutava in progressione, volume e ritmo, evocando sensazioni, sentimenti e pensieri che diventavano anche i miei. Feci uno sforzo per riuscire a rimanere fedele al mio ruolo di osservatore e a non precipitare nella spirale di quel vortice magico. A dieci minuti dall’inizio della seduta, l’affondo ipnotico era quasi compiuto: Tatus giaceva con il capo all’indietro, vinto da un irresistibile sopore. Non deglutiva quasi più, gli occhi ormai chiusi erano pesanti serrande metalliche e al tocco le palpebre si presentavano insensibili. Notai il mignolo della mano destra di Tatus fremere impercettibilmente, prima di cedere definitivamente alla cantilena ipnotica di Did, che si diffondeva nella stanza come il sibilo di un serpente. Ancora non sapevo che il ritmo soave di quella canzone apparentemente innocua, mi avrebbe cambiato la vita e segnato irrimediabilmente l’adolescenza. Lo spettacolo si prolungò ancora qualche minuto finché le parole di quella nenia greve non ci avvolsero in un incantesimo. “I tuoi occhi ora son chiusi e si apriranno solo quando te lo dirò…”
La trance scavava un solco nelle pieghe stesse del corpo e della psiche di Tatus. Mai prima di allora avevo considerato il potere della voce e delle parole. Non c’era grammatica o letteratura che potesse esprimere il fascino di quella seduzione. La progressione inesorabile di quel processo suggestivo mi ricordava il Bolero di Ravel, ma anziché assistere a un incalzante aumento di intensità, il ritmo si stemperava in una marcia indefinibile, appena sussurrata. Did aveva suggerito i segnali inequivocabili dell’abbandono psicofisico: “Ascolta… ora il tuo corpo è addormentato, tutti i muscoli sono stanchi, non ti vuoi svegliare, lo farai solo quando te lo dirò”. Tatus ebbe un ultimo sussulto, un estremo tentativo di resistenza per cercare di scuotersi da quell’invadente torpore delle membra e della mente. La deglutizione ritornò per un attimo a farsi semicosciente, poi meccanica e regolare, governata da un automatismo riflesso, finché si spense del tutto…“Senti solo il suono della mia voce, nessun altro suono o disturbo ti potrà svegliare…”La suggestione avanzava con la cadenza di una antica ninna nanna. Infine arrivò l’ordine definitivo: “Tu dormi, tu dormi, tu dormi…” Alberto aveva gli occhi spalancati sul volto di Tatus trasformato in maschera di Morfeo. Lella teneva la bocca aperta. Claudio esibiva un’aria catatonica e assorta. Carla era ammutolita. Stupefatto, io osservavo immobile e lottavo per rimanere lucido. I silenzi e le pause rendevano irresistibile la suspense. Pensai che se avessi potuto narrare con quella voce il racconto più noioso, avrei potuto incantare i miei compagni, per cui invidiai a Did il talento che aveva avuto in dono. Ma l’idea di cadere nel gorgo di quell’incantesimo e la paura di perdere la mia consapevolezza, mi ridestarono. Sentii più intensamente il brivido freddo che avevo avvertito poco prima. Per testare la profondità della trance, Did suggerì al soggetto che il suo braccio destro non avrebbe potuto opporre alcuna resistenza mentre si alzava verso l’alto: “Ascoltami… il tuo braccio è leggero, sempre più leggero… è un palloncino che si alza, si alza verso l’alto… ecco, sale, sale, sale!… sale sempre più verso l’alto, non puoi fermarlo, è trascinato dal vento e dalla sua leggerezza… è leggero, leggero come una piuma”. L’arto destro si alzò lentamente dal bracciolo della sedia sulla quale Tatus era sprofondato in un così strano letargo. Continuò ad alzarsi fino a quando il polso
si trovò all’altezza della fronte. A questo punto Did invertì l’ordine: “Ora ascolta bene… il tuo braccio destro è diventato pesante… pesante… pesante… ossa e muscoli sono pesanti come macigni e il tuo braccio cade, scivola verso il basso, non lo puoi fermare… è troppo pesante!” Il braccio cadde sbattendo sul bracciolo, ma Tatus parve insensibile al colpo che aveva rimediato. Did proseguì: “Ora potrai parlare con me senza svegliarti… risponderai alle mie domande senza svegliarti… i tuoi occhi rimarranno chiusi, non potrai riaprirli… sono ancora troppo pesanti… ma potrai rispondere alle mie domande… promettilo… rispondimi con un cenno del tuo capo… dimmi di sì con la testa…” Il capo di Tatus si chinò in avanti in una specie di inchino. “Ora raccontami perché sei arrivato in ritardo…” Il suo sorriso si distese in una espressione beata: “Sono stato con Elisa,” accennò vagamente. “Racconta, racconta…” fu la richiesta corale. Ma non fece una piega finché Did non rinforzò il comando: “Racconta, racconta…” “Sono stato con Elisa e ho fatto tardi…” ammise compiaciuto. Pensai che doveva essere bello rivivere certi momenti, liberi dai sensi di colpa e dagli obblighi che abbiamo introiettato per poter essere accettati nel mondo degli adulti. “Lei non ci vuole venire con me stasera…non so più come prenderla, io credo di piacerle ma non so come convincerla. Forse sono stato troppo timido…” Did gli ingiunse di continuare. “Ci siamo incontrati un’ora fa, qui fuori, al solito angolo dei giardini pubblici, abbiamo parlato di noi… poi non ho più guardato l’orologio… ho fatto una corsa per essere puntuale…”
“Non sei stato puntuale,” sbottò acidamente una voce. Un altro suggerì a Did di chiedere cosa aveva combinato con la sua ragazza. Tatus non sentiva le nostre voci e per lui Did era l’unico interlocutore possibile. “Cosa hai combinato con Elisa…?” ripeté divertito il nostro improvvisato ipnotizzatore. “Le ho toccato le tette…!”confessò estasiato il nostro compagno, finché non ci accorgemmo che Tatus, nell’arricchire la sua cronaca di nuovi particolari, non stava semplicemente ricordando, ma piuttosto rivivendo con straordinaria intensità i momenti appena ati con Elisa. A un certo punto notammo un rigonfiamento repentino sotto i pantaloni, all’altezza del pube. “Adesso gli si rompono i bottoni dei pantaloni…!” gridò uno di noi. L’atmosfera si fece boccaccesca… “Vai avanti, vai avanti…” incitò a sorpresa Lella. Ma Did non voleva che l’esperimento si trasformasse in un fenomeno ridanciano e insulso. “Ora basta!” ordinò. “Elisa non è più con te, dimenticala… Tra poco ti sveglierai e ti sentirai bene e rilassato. Ora conto fino a dieci e al dieci aprirai gli occhi, sveglio e riposato…” Così accadde, senza che Tatus riuscisse a ricordare il benché minimo particolare dell’esperienza. Quel giorno nessuno di noi riuscì più a studiare, nemmeno Carla. Rimanemmo a mangiare biscotti, a bere aranciate e chinotti fino alle sette, commentando lo spettacolo. Mentre tornavo a casa, feci alcune considerazioni: Come era riuscito Did a indurre la trance, in base a quale facoltà?
Nessuno di noi, a seguito all’ordine impartito, poteva più comunicare con il nostro compagno; come faceva il cervello del soggetto a escludere dalla coscienza la percezione dei suoni? La realtà evocata da Tatus era veramente quella che egli riviveva? Potevamo escludere dalla nostra percezione soggettiva i fenomeni oggettivi? Siamo ciechi e sordi a suoni e immagini che i nostri sensi non sono stati istruiti a captare? Anche noi, senza saperlo, siamo ipnotizzati, addormentati? Il nostro amico era veramente in trance o si trattava di una burla magistrale messa in atto per compiacere, sebbene inconsapevolmente, una sua vena esibizionistica o le aspettative di Did?
Il pomeriggio del 26 ottobre era una bella giornata di sole. Quattro compagni della seconda B si erano dati appuntamento nello studio - una grande mansarda - di uno dei pittori più importanti della città. Dagli abbaini si poteva vedere gran parte della campagna circostante. C’eravamo io, Did, Alberto e Tatus. Ce ne stavamo per conto nostro, mentre in un angolo il figlio del pittore e il suo amico Angelo, entrambi ventenni, fingevano di studiare confabulando di donne. La luce fioca che entrava dall’alto cadeva sul parquet e sui tessuti damascati di poltrone, divanetti, poltroncine e sofà, cuscini giganti sui quali ci si poteva sdraiare all’orientale per fumare il narghilè o sorseggiare il tè. Più che un laboratorio di pittura o ritiro per lo studio, quel rifugio era perfetto per incontri clandestini perché a ogni angolo si poteva ricavare una alcova. Avevamo appena aperto i libri quando Did si alzò dalla sedia e si rivolse a me, bisbigliando: “Vorrei fare un esperimento…” “Quale esperimento?” “Un esperimento di memoria…” rispose. Io e Alberto lo tempestammo di domande alle quali reagì guardandoci negli
occhi: “Non saprete niente se non provate… chi si presta?” Tatus fu lesto nel rispondere: “Proviamo… son io la cavia, che devo fare?” Pensammo tutti che in fondo a Tatus non dispiaceva essere di nuovo al centro dell’attenzione. “Tu proprio niente, tocca a me addormentarti…” Did mi disse di andare in un angolo della mansarda a scrivere un elenco di trenta sostantivi. In due minuti, sul mio quaderno scrissi in bell’ordine una serie di parole a caso:
nuvola ruota scarpa fiore gemello radicchio borsa treno orologio maschera
anguilla biciclet
Quando tornai al tavolo, Did disse a Tatus di ascoltare con attenzione l’elenco che io avrei letto una sola volta. Quando ebbi finito, chiese alla cavia di ripetere le parole che ricordava, possibilmente in sequenza. L’esito fu disastroso. Le parole ricordate furono otto su trenta e in quest’ordine: ruota, nuvola, scarpa, treno, scoiattolo, lattuga, maschera, banca. Dopo banca disse perfino una parola che non c’era nell’elenco: fumo. “Che c’entra fumo?” sorrisi divertito. Una voce si staccò dal gruppo e sparò la sua cazzata: “Perché non arrosto?” Tatus aveva dimostrato quel che tutti già sapevano: aveva la memoria più corta dei suoi capelli rasati e quindi non ci si poteva aspettare di più dalle sue prestazioni mnemoniche. “Bene,” mi chiese Did, che non aveva voglia di scherzare, “hai scritto tutte le parole che Tatus ha cercato di ricordare?” L’avevo fatto. Con un sorriso di approvazione ci comunicò allora che si poteva cominciare. Intimò di non fiatare e invitò Tatus ad accomodarsi su un divano. Spense la luce affinché rimanesse solo quella proveniente dagli abbaini, si avvicinò a Tatus e guardando in un punto indefinito oltre il suo capo, sussurrò, secondo il copione che gli avevo sentito recitare a casa di Carla: “Ascolta…. ascolta il suono della mia voce, il timbro delle mie parole…” Quando Tatus chiuse gli occhi, noi tutti avevamo lo sguardo fisso sul volto del nostro compagno che si stava rilassando. I muscoli del suo viso si sgonfiarono in uno stato di abbandono totale, le palpebre si chio dolcemente come petali sensibili all’arrivo della notte, la sua espressione divenne placida, assorta. Dopo alcuni minuti, in una atmosfera crepuscolare fu emesso l’ordine: “Dormi, dormi profondamente…” Did ripeté ora dormi, e si mise a spiare ogni micro contrazione cutanea che
traspariva dal volto di Tatus. Non fu necessario rinforzare l’invito a chiudere gli occhi: Tatus l’aveva già fatto spontaneamente. Affinché li tenesse chiusi per tutto il tempo necessario, Did rinforzò la trance con una suggestione mirata: “I tuoi occhi si sono chiusi e lo rimarranno fino a che ti dirò di riaprirli… sono pesanti, troppo pesanti, sono come due grandi botole che si son chiuse silenziosamente sopra di te, e ora te ne potrai stare tranquillo qui all’ombra, al riparo dalla luce… sono così pesanti che se anche tu volessi, ora non riusciresti a riaprirli, sono troppo pesanti! Ecco, prova: tu cerchi di sollevare le tue palpebre ma non ci riesci! Tu credi di riuscire ad aprire ancora i tuoi occhi ma non è possibile perché sono stanchi e pesanti, lasciali riposare… totalmente, completamente, completamente addormentato… dormi, tu dormi, tu dormi…” Venne il momento della domanda diretta, che serviva a confermare l’avvenuta trance: “Ascolta… confermami con un cenno del capo se sei profondamente addormentato…” Sussurròancora: “Potrai rispondermi senza svegliarti, potrai parlare senza essere disturbato da niente, promettilo! Dimmi di sì… senza svegliarti… promettilo!” Dalle labbra di Tatus uscì un lieve sì che tutti udirono, a cui seguì un’ulteriore istruzione di Did: “Ora, sempre senza svegliarti, potrai parlare con me e provare a ripetere l’intero elenco che hai sentito poco fa, parola per parola…” Ci furono alcune contrazioni alla gola, piccoli spasmi che anticiparono una serie di faticose deglutizioni, finché Tatus con sempre maggiore fluidità pronunciò senza esitazioni la sequenza dei termini che aveva udito prima della trance: “Nuvola, ruota, scarpa, fiore, gemello, radicchio, borsa, treno, orologio, maschera, anguilla… bicicletta, fiume, scoiattolo, cavallo, pomodoro, orecchino, nave…” A questo punto il figlio del pittore e il suo amico Angelo si avvicinarono increduli a Tatus che riprese fiato e finì la serie dei nomi in un ordine impeccabile, senza esitazioni: “…aria, banca, lampada, film, penna, freccia, pila, lattuga, riccio, calza, colibrì, asciugamano”. Did non pareva affatto sorpreso, ma sorrise soddisfatto verso di me che, in
qualità di “notaio”, stavo controllando, sbalordito dalla performance, la sequenza delle parole. Alle mie spalle Angelo esclamò: “Ripetile di nuovo!” Tatus non si mosse, sordo all’invito. Did fulminò l’invadente con un’occhiata e chiese a Tatus se avesse udito qualcosa. “No,” rispose calmo. “Ora ripeti nuovamente in ordine l’elenco…” lo invitò Did. Mentre tutti scrutavano le parole sul foglio come se fosse la pagina di un messale, l’elenco fu ripetuto. Non contento della doppia dimostrazione ottenuta o forse proprio per questo, Did chiese: “Cosa c’è dopo orologio?” “Maschera!” “E prima di orecchino?” “Pomodoro.” “Prima di lattuga?” “Pila.” “Dopo calza?” “Colibrì!” Si andò avanti così per altri dieci minuti buoni. Era chiaro che Tatus, in quello stato, aveva memorizzato benissimo l’elenco. “Prima di corsaro?” “Niente.” Fu l’ultima verifica. Did ringraziò Tatus e gli disse che avrebbe potuto addormentarsi e ritornare in quello stato istantaneamente, non appena avesse udito da lui in persona e solo da
lui la parola fattish. Ottenuta questa promessa, contò fino a dieci e lo svegliò: Tatus non ricordava nulla di quello che aveva fatto e si mostrò scettico al racconto di noi testimoni. Al risveglio pensò che gli stessimo raccontando un sacco di frottole per prenderlo in giro. Ma Did non era interessato a quello che Tatus pensava da sveglio.
Dopo ogni esperimento, Did fuggiva trascinato dalle sue elucubrazioni. Quando potevo cercavo di stargli a ruota, ma filava come un ossesso sulla sua bicicletta scassata, ed era difficile tenergli testa: mi sembrava di non avere abbastanza fiato per correre così veloce. In quell’occasione lo rincorsi con accanimento e gli gridai di fermarsi al bar che si trovava a metà strada tra la città e il suo paese. Gli manifestai il mio stupore, ma disse che l’operazione importante di quella giornata non era la dimostrazione della memoria… Era invece l’ordine di addormentarsi ogniqualvolta egli avrebbe pronunciato intenzionalmente, in presenza di Tatus, la parola fattish. “Perché proprio fattish?” osai chiedere. “Perché è una parola senza senso, che non si usa nel linguaggio comune, ci ho pensato questa notte… difficilmente qualcuno la potrà mai pronunciare, è come un apriti sesamo, un abracadabra… servirà solo per spalancare la porta della mente di Tatus e la potrò aprire solo io,” spiegò soddisfatto. “Perché solo tu?” “Perché questa parola è associata alla mia voce e sono io il responsabile di quel che accade… hai visto cosa stava succedendo a casa di Carla? A momenti ci trovavamo a rivivere lo spettacolo dell’incontro di Tatus con la sua Elisa! Gli altri considerano l’ipnosi come un mezzo per divertirsi, per me, invece, è uno strumento per conoscere: c’è una bella differenza…” “Did, quello che fai è pericoloso?” “Non lo so, se non provo come faccio a sapere se lo è? Quest’estate mi è già capitato di usare un’altra parola per addormentare all’istante un altro soggetto, con la tecnica della suggestione post-ipnotica… così si chiama questo sistema. Gli avevo detto, prima di svegliarlo, che si sarebbe addormentato ogni volta che
avrebbe sentito la parola albicocca, ma avevo dimenticato di aggiungere all’istruzione che doveva funzionare solo quando sarei stato io a pronunciarla, così è capitato che si è addormentato dal fruttivendolo appena il garzone ha chiesto a questo ragazzo se voleva assaggiare un’albicocca… È rimasto in piedi a dormire come un cavallo per circa due ore e poi si è svegliato spontaneamente senza ricordare nulla… per fortuna niente e nessuno poteva immaginare che fosse colpa mia. I genitori sono stati chiamati d’urgenza e si sono spaventati, l’hanno portato da un medico che ora lo sta curando per qualcosa che non ha. La zia l’ha voluto far esaminare anche da un esorcista. Da allora inserisco nel comando post-ipnotico una parola inventata, estranea al vocabolario, proprio per evitare pericoli uso un termine senza significato da associare alla mia voce.” “Ma cos’è questa suggestione post-ipnotica?” chiesi incuriosito. “È il prolungamento del potere, un modo per estendere l’influenza dell’ipnotizzatore oltre la trance. È un comando che funziona come una bomba a orologeria… la prossima volta, se si presenterà l’occasione, faremo una prova. L’ordine è molto importante perché mi permette di saltare la fase lunga e faticosa di preparazione, addormentare qualcuno non è sempre facile, ci vuole molta pazienza, quando si arriva alla trance profonda, a volte si è già stanchi. Invece con la parola magica, il sonno diventa immediato perché viene riconosciuta a livello profondo. È come un interruttore istantaneo che provoca la trance. Così c’è più tempo per gestire l’esperimento che segue.” “Perché l’altro obbedisce?” “Perché riconosce una volontà più forte della sua, perché non è consapevole di quello che sta accadendo o semplicemente perché si fida dell’ipnotizzatore e accetta di essere guidato in una dimensione ignota a entrambi. L’altro diventa complice di un’avventura nella quale ognuno dei due recita un ruolo: l’ipnotizzatore guida, l’ipnotizzato è guidato…” Did finì di bere l’aranciata amara che gli avevo offerto per riuscire a trattenerlo. Mentre saltava di nuovo sulla bicicletta, aggiunse: “Ma forse a volte accade il contrario, i ruoli si capovolgono…” “Come?” riuscii a gridare. “Non lo so!” mi rispose da lontano senza girarsi, con una voce potente, piena di segreto entusiasmo.
L’indomani i testimoni dell’accaduto, nonostante le raccomandazioni di non divulgare gli esperimenti ai quattro venti, non riuscirono a trattenere l’evento e portarono alla seconda B la buona novella della memoria perfetta che Tatus non sapeva di avere. Per ringraziarmi dell’aranciata amara, Did mi portò a scuola una piccola cassetta di melagrane e ciuffi di salvia e menta, che aveva nascosto sotto il banco al posto dei libri. ai la mattina inebriato dall’aroma delle erbe che ben conoscevo e apprezzavo perché anch’io venivo da un paese, e conoscevo i profumi degli orti e dei frutteti. Invece i nasi dei professori e l’olfatto dei nostri compagni di città, non si accorsero di nulla. Insensibili alle cose raffinate, lo erano anche alle realtà più vitali e terrene, naturali, che noi invece percepivamo. Come se i loro sensi non fossero avvezzi a percepire l’essenza, il fluido che scorreva sotto la crosta anonima e prevedibile del vissuto scolastico scandito da lezioni, interrogazioni e programmi che sedavano e narcotizzavano la curiosità. Tuttavia la possibilità di riuscire a ricordare perfettamente senza sforzo generò un certo fermento nella classe perché le applicazioni scolastiche dell’esperimento ipnotico furono intuite al volo. La domanda ricorrente era: “Si può, con l’ipnosi, studiare senza fatica?” Stranamente Did reagì male a questo interesse opportunistico e si fece più scontroso. Invece le mie domande del giorno prima gli erano piaciute. Capii che, nella sua solitudine, aveva bisogno di uno specchio attraverso il quale guardarsi, di un interlocutore con il quale confrontarsi, e io mi ero candidato a esserlo. Un sabato pomeriggio Did mi chiamò per andare con Lella e Tatus a fare un giro in città. Ci invitò a sostare davanti alle vetrine dei negozi più lussuosi. Persone di tutte le età fluttuavano nella via, si muovevano agilmente tra un negozio e l’altro commentando i prezzi, soprattutto dei costosi capi di abbigliamento alla moda. Cittadini e gruppi di individui provenienti dai paesi circostanti si incontravano e si riversavano nella strada dal pomeriggio al tramonto, guizzanti come pesci in un acquario. Facevano shopping, entravano in questo o quel bar e cazzeggiavano. Era il rito settimanale della “vasca”.
“Fare una vasca” significava andare avanti-indietro, alla maniera di un nuotatore in una piscina. Si andava su e giù per l’asse principale che da Porta Garibaldi, situata a sud, raggiungeva a nord Porta Ombriano lungo via Mazzini e via XX Settembre. Percorremmo molte vasche, attirati da gelaterie, empori e dalle varie mercanzie che sembravano uscire dai pori della città per essere toccate, desiderate, acquistate. La vasca era il salotto buono cittadino e il centro sembrava una elegante e magniloquente boutique delle vanità. Lella aveva il compito di fotografare le vetrine più in vista e prendere appunti. Solo il lunedì seguente avrei scoperto che si trattava di un vero e proprio esperimento on the road. Ci ritrovammo da Carla a testare quanto, delle esperienze pomeridiane, Tatus sarebbe stato in grado di ricordare. La nostra cavia cadde immediatamente in una trance profonda appena Did pronunciò la parola chiave: fattish! Quindi gli sussurrò: “Ascolta la mia voce, le mie parole… ascolta, cerca di ricordare tutto quello che i tuoi occhi hanno visto, quanto costava il paio di jeans Carrera che era esposto da Riccardi? Come era vestita la commessa della boutique Cantagallo? Come ti ha salutato Giuseppe quando ti ha visto in via Mazzini? Cosa ti ha detto Giulia quando si è fermata a parlarti? Che ora segnava l’orologio di piazza Duomo, quando l’hai guardato?… Descrivimi i gioielli esposti nella vetrina della gioielleria May… ” E così via. Lella segnava le risposte per poi verificare se coincidevano con i suoi appunti e con le foto delle vetrine, con la documentazione raccolta nel corso del sopralluogo che aveva preceduto l’esperimento. Si trattava di controllare se Tatus, nel percorrere via Mazzini e via XX Settembre, pur non essendo stato istruito a farlo e quindi senza essere motivato preventivamente a prestare un’attenzione particolare, era in grado di ricordare quello che aveva visto, vissuto e percepito. Verificammo insieme l’esattezza dei ricordi: corrispondevano alle note e al quadro d’insieme di Lella. Certamente il soggetto non sarebbe stato in grado di descrivere così a fondo quei dettagli, se richiesto di farlo appena dopo la
eggiata, a mente fresca. Però bastava ipnotizzarlo per far emergere una massa di ricordi molto particolareggiati, anche se questi venivano estratti nel corso di una seduta lontana rispetto agli eventi da rievocare. Infatti le sue esperienze visive, auditive, sensoriali, erano pronte a riapparire per essere rivissute in tutta la loro potenza anche dopo alcuni giorni. Ancora insoddisfatto dai primi riscontri, Did organizzò un esperimento più audace. Programmò Tatus a camminare in pubblico da ipnotizzato, fingendo tuttavia di essere sveglio. Nessuno doveva accorgersi che l’obiettivo dell’esperimento era quello di memorizzare la realtà che sarebbe stata registrata nel corso della vasca. Io e Lella seguivamo a distanza, annotando tutto. Did e Tatus gironzolavano bellamente nel centro storico senza che nessuno sospettasse della prova in corso. Andavano a zonzo per raccogliere esperienze da ricordare nel dettaglio, per riuscire a superare la paura di metterci la faccia e per far la figura dei pezzenti. Entravano in un bar, leggevano i giornali e poi ne uscivamo senza aver ordinato un bel niente. Chiedevano ai commessi delle boutique che si aprivano su via Mazzini, se per caso non fossero disposti a comprare gli abiti usati e di mediocre qualità che si portavano addosso o a scambiarli con quelli esposti in vetrina. I titolari non sapevano se cacciarli in malo modo, infuriarsi o compatirli. In un negozio di scarpe provarono quattordici modelli e chiesero il prezzo di ogni paio, ma si lamentarono che era tutto troppo caro. Non comprarono nulla e lasciarono il commesso desolato. Did si divertiva a trasgredire i comportamenti sociali abituali, ma da sveglio Tatus non sarebbe mai stato capace di osare tanto. Come da istruzioni, rispondeva invece ai saluti dei anti senza svegliarsi da quello stato di veglia mascherata, di teatro insospettabile. Solo una certa lentezza nei movimenti e uno sguardo più assente del solito potevano rivelare il suo stato sonnambolico. Tra le
persone che incontravamo alcune esibivano un o svelto, pigro o ciondolante, altre erano ferme impalate, ipnotizzate dalle vetrine. Tra queste cominciavo a riconoscere una galleria multiforme di sguardi, una serie variegata di atteggiamenti, di espressioni che parevano più sonnolente e addormentate di quelle di Tatus. Il quale dopo circa dieci giorni venne riaddormentato per “scaricare” i dati memorizzati nel corso della prova. L’esito fu eclatante: la ricchezza dei particolari descritti superava l’estensione e l’accuratezza degli appunti miei e di Lella. Tornammo alla carica con Did: una simile capacità mnemonica doveva essere applicata a scuola! Lui sembrò cedere alla pressione e cominciò a programmare altri esperimenti per verificare dove si sarebbe potuti arrivare con il potenziamento della memoria. Nello studio del pittore si organizzarono altri test con parole senza senso, con elenchi interminabili di numeri, sigle, targhe. Quando entrava in trance, Tatus sembrava possedere la memoria infallibile di un calcolatore elettronico. Nonostante queste dimostrazioni, qualcuno insinuò che le serie di dati venissero preventivamente concordate per ottenere l’effetto sorpresa e quindi non si trattava di ipnosi, ma di una recita ben riuscita, di un bluff. Amareggiato ma risoluto, Did accettò la sfida e alzò il tiro delle dimostrazioni: ò dalle prove psicologiche a quelle fisiche, corporee. Escogitò una dimostrazione che non si poteva fingere. Appena ottenuta la trance, ordinò a Tatus: “Ora il tuo braccio destro, dalla spalla alla mano, dall’avambraccio alle dita, è completamente insensibile a qualsiasi sensazione e dolore, tu non sentirai nulla…” Cominciò con un pizzicotto sul braccio: nessuna reazione. Poi un altro e un altro ancora: Tatus mostrava di non sentire alcunché. Did invitò anche i presenti a fare la stessa cosa: in un minuto Tatus si riempì di chiazze rossastre su tutto il braccio e l’avambraccio, fino alla spalla e al polso. Nessuna reazione ai solenni pizzicotti che, in condizioni normali, sarebbero stati insopportabili. Infine Did chiese a un testimone di accendere una sigaretta. Pensai volesse provare a fumare, invece dopo aver tirato una boccata e attizzato le braci di
tabacco all’estremità, sotto gli occhi esterrefatti di noi tutti la ò sull’area che era stata desensibilizzata, a contatto vivo con la pelle. Fece questo trattamento con quattro sigarette, ognuna delle quali venne spenta letteralmente sul braccio e avambraccio di Tatus, resi magicamente insensibili al dolore. Alla fine della seduta Tatus si risvegliò perfettamente tranquillo e ignaro della sua portentosa dimostrazione. Andò a lavarsi dalle tracce di cenere e peli bruciati che gli ricoprivano il braccio destro e tornò tra noi: sulla pelle, a parte alcuni arrossamenti che scomparvero in breve tempo, non si notavano segni evidenti di ustioni.
Nel corso di questa prima fase delle nostre ricerche pensavo all’ipnosi come a una riserva di possibilità che, se sviluppate, avrebbero potuto ridurre drasticamente le fatiche dello studio tradizionale. Soprattutto mediante il potenziamento della memoria iva, automatica, utilizzata nei normali processi di apprendimento. In questo modo si sarebbe potuto risparmiare tempo prezioso impiegandolo a vantaggio di temi e obiettivi più coinvolgenti e affascinanti dello studio scolastico. Cercavamo la soluzione alla nostra incapacità di concentrarci sui programmi imposti dalla scuola. Did non era molto propenso a trasferire nei processi di apprendimento le potenzialità che stavamo evocando con l’ipnosi, ma era sensibile alle sfide. La sua indifferenza alle motivazioni comuni rendeva però difficile il suo coinvolgimento. Proprio questo suo distacco dalle emozioni suscitate dagli esperimenti generava un’oscura sicurezza e conferiva al gruppo di collaboratori e testimoni una sensazione di fiducia. La sua freddezza operativa era più tranquillizzante di una calda partecipazione emotiva. Chi si fiderebbe di un chirurgo troppo partecipe, al quale per esempio tremi la mano? Quando Did vestiva i panni dell’ipnotizzatore diventava un esecutore sicuro di sé e la sua voce trasmetteva una carica rassicurante. Durante le sedute non era il solo a cambiare. Il suo vero interlocutore non era il
compagno che conoscevamo, ma un “Altro”, il suo “Doppio”, la sua parte inconsapevole, inconscia. La trance, per manifestarsi, doveva dribblare l’identità e la consapevolezza ordinaria facendo affiorare un io estraneo sia all’operatore che al soggetto. Al termine della seduta la separazione tra conscio e inconscio non permetteva alle memorie profonde di risalire o di essere accettate dall’io di superficie. Quindi i soggetti rimanevano totalmente inconsapevoli di quello che avevano detto, udito e agito durante il tempo della trance. Pensavo che probabilmente la memoria, con opportune tecniche e una potente suggestione ipnotica, avrebbe potuto essere trasferita alla realtà cosciente, ma questo comportava uno sforzo ulteriore. Did riteneva più utile risparmiare queste energie a favore dell’efficacia della performance. Inoltre mi sembrava che egli percepisse il pericolo di un confine troppo labile tra i due mondi della veglia e del sonno, come se un eventuale contatto avesse potuto sovvertirli generando una contaminazione di dati ed esperienze potenzialmente dirompenti. Conscio e inconscio erano due facce della stessa medaglia ed evocare il negativo del proprio sé era sempre una manovra delicata. Noi intuivamo la complessità di questa dualità inscritta nel termine stesso della parola indivi-duo ovvero duplice, doppio. L’ipnosi rompeva un muro divisorio, apriva una falla tra la dimensione di superficie e quella nascosta, creava un corridoio che poteva favorire una interazione tra queste due entità, ma forse con esiti imprevedibili.
A Natale accadde un fatto irreparabile. Il primo di una lunga serie di incidenti che avrebbero cambiato il modo di affrontare le nostre avventate e primitive esplorazioni. Nel bel mezzo del pranzo, surriscaldato dall’atmosfera della festa, da qualche bicchiere di troppo oppure eccitato dalla presenza di tutti i familiari e parenti (comprese due sue lontane cugine), Tatus aveva pensato bene di accendersi una sigaretta dietro l’altra, nella pausa dedicata all’insalata e al sorbetto di limone.
Dopo due boccate di fumo si strusciò la brace prima sulle mani, poi sul viso, ridendo a crepapelle della sua invulnerabilità al dolore. Per tenere il mozzicone ogni tanto aspirava voluttuosamente, per poi spegnerlo direttamente sulla sua pelle. Infine s’era messo a danzare intorno al tavolo dei commensali come un satiro. Inebetiti e costernati da questa esibizione, i parenti avevano chiamato d’urgenza il pronto soccorso. Era arrivata l’autoambulanza. I sanitari dell’ospedale, dopo essere riusciti a immobilizzarlo e avergli somministrato un calmante, avevano potuto constatare solo leggere abrasioni. Le bruciature superficiali furono prontamente riassorbite il giorno di Santo Stefano, che si portò via anche i postumi di quella strana sbornia. Tatus venne dimesso fresco come una rosa, senza altre conseguenze. L’unica traccia di quel lontano episodio è una persistente tendenza alla ilarità che ogni tanto ancora lo prende e che è innescata da fatti banali, battute insipide, associazioni ingiustificate, come se qualcosa in lui fosse diventato estremamente sensibile a uno humour di stampo anglosassone, un po’ delirante, surreale. A parte questo, il suo comportamento in generale si normalizzò. I parenti conservarono a lungo la memoria di quel pranzo di Natale stravagante, segnato dall’autoambulanza che a sirene spiegate se ne andava verso l’ospedale con il suo carico di sghignazzi appena sedati, e da una sala piena di fumo dove perfino il panettone, il mascarpone e i lessi con mostarda erano intrisi da un odore di pelle bruciacchiata. Appena seppe quel che era accaduto, Did si allarmò e intervenne con un “comando” installato durante una frettolosa seduta, subito dopo le vacanze natalizie. Non poteva tollerare che un soggetto si prendesse la licenza di fare tutto da solo, rendendosi insensibile al dolore e dimostrando un’incombustibilità organica senza alcun controllo esterno. Ancor più intollerabile era trasformare queste capacità in una forma di avanspettacolo. I casi di momentanea incombustibilità corporea si trovavano nella letteratura scientifica ed erano citati anche nella Bibbia, oltre che da Strabone e Plinio il
Vecchio, i quali tuttavia non spiegavano perché le persone che manifestavano questa qualità erano ritenute care al dio Apollo. Il ricorso al fenomeno dell’analgesia ipnotica per spiegare l’accaduto avrebbe chiamato in causa le responsabilità di Did, se Tatus avesse parlato. Ma non parlò. Il nuovo comando post-ipnotico venne formulato specificatamente per proibire questo gioco e altre possibili deviazioni ed esibizioni delle facoltà che l’ipnosi, non strettamente vigilata, evidentemente permetteva. Io e Did temevamo però che la lampada fosse stata in qualche modo violata, e il genio capriccioso che essa conteneva, ormai fuoriuscito, difficilmente sarebbe rientrato nei ranghi in modo obbediente e disciplinato. “Forse ho esagerato… Tatus è difficile da controllare,” dovette ammettere un giorno Did. Intuii che stava pensando di trovare un altro soggetto perché cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una nuova preda. La sua tecnica di induzione ipnotica non includeva affatto la fascinazione dello sguardo, come tanta letteratura pseudoscientifica e popolare ama tramandare insieme alla classica formula suggestiva a me gli occhi. Lo strumento di fascinazione di Did era la voce, la parola, tuttavia nei suoi occhi trovavo più di un motivo d’inquietudine. Nel tempo, con una certa apprensione, avrei cominciato a temere quello sguardo.
Eravamo così presi dalle nostre singolari vicissitudini, che la scuola e il mondo che ribolliva intorno a noi ci sfiorava appena. L’ipnosi ci aveva spalancato uno scenario più intrigante e misterioso di quello reale. Il ’69 si era appena concluso e la novità più significativa del nuovo trimestre ce l’aveva portata una professoressa che aveva gestito la nostra classe solo per due ore, in occasione di una supplenza imprevista. Insegnava letteratura italiana e latina, ma lo faceva in un modo molto diverso rispetto allo stile paludato del nostro docente abituale.
Due ore con la professoressa Martisoli erano state più memorabili di tutte quelle trascorse fino a quel momento con qualsiasi altro insegnante. Ci parlava con un linguaggio semplice e vero, chiamandoci per nome, dandoci del tu ma esigendo attenzione. Ogni sua affermazione ci toccava nell’animo perché non insegnava la letteratura, insegnava la vita e ci stimolava a manifestare tutto quello che sentivamo e pensavamo, in piena libertà. Per la prima volta avevamo diritto di parola: la scuola era anche “nostra” e avevamo il dovere di parteciparvi attivamente, da protagonisti. Altri professori invece si comportavano come cecchini dell’intelligenza: appena si accorgevano che qualcosa si muoveva nella testa degli alunni, ecco che sparavano per stroncare quel po’ di indipendenza che ancora poteva nascere spontanea nel far west scolastico, dove occorreva ritirarsi in una propria riserva indiana per riuscire a sopravvivere. L’irripetibile lezione della nuova insegnante di italiano e latino destò i nostri fremiti, ci trasmise le tensioni che si stavano addensando nell’aria. Era l’annunciatrice del vento della contestazione che spirava sul mondo e sulla nostra città, fin dentro le aule scolastiche. Per noi, rimaneva un personaggio misterioso. Aveva fatto della sua intransigenza morale la sua bandiera, rifiutando raccomandazioni, appoggi e connivenze con il potere costituito corrotto. Solo pochi intimi conoscevano il suo immenso amore per Cristo - un amore vivissimo anche nei momenti di maggiore scontro con la chiesa ufficiale - e sapevano delle sue estasi, delle sue veglie consumate nel silenzio della notte, di fronte al crocefisso, delle ore che spesso dedicava alla preghiera nelle chiesette lontane dai rumori della folla. Più nota era la sua lunga militanza nell’Azione Cattolica che l’aveva portata a trascorrere otto anni in Vaticano in qualità di redattrice del giornale dei Maestri Cattolici. Anni in cui ebbe contatti diretti con Pio XII, e nei quali visse il travaglio del cambiamento con Giovanni XXIII, un papa che provò a spezzare l’apparato che lo teneva sotto controllo. Eppure proprio a Roma era maturato il suo dissenso, prima della svolta conciliare. Un dissenso radicale che si alimentò più tardi di letture fondamentali quali Esperienze Pastorali e Lettera a una professoressa di don Milani.
Con un curriculum scolastico prestigioso, che comprendeva esperienze didattiche eccezionali, aperte alla contemporaneità e allo studio di Marcuse, Brecht, Fromm, senza volerlo, per il semplice fatto di essere coerente con se stessa e di non accettare compromessi, la Martisoli era diventata un’icona per la nascente rivolta studentesca cittadina. Tuttavia le sue radici profondamente umanistiche e cristiane le impedivano di tuffarsi nell’ideologia e nella pratica della rivoluzione. Attenta ma anche diffidente nei confronti della sinistra, la sua azione si ispirava più al Vangelo che a Marx. La sua denuncia delle ingiustizie della società borghese nasceva dalla constatazione e dal rifiuto di una violenza e ingiustizia che contraddicevano le leggi divine, per cui la condanna del fariseismo e del perbenismo ipocriti della piccola e media borghesia cittadina era un atto dovuto. Su queste convinzioni si sviluppò appunto la contestazione dei cattolici del dissenso. In una delle tante infuocate assemblee studentesche di inizio 1969, la professoressa Martisoli alla fine del suo intervento, in faccia al Preside, con un tono rispettoso ma deciso, affermò con dignità un principio che surriscaldò ancora di più gli animi: “Di fronte alla scelta tra l’obbedienza alla regola della scuola e l’obbedienza alla mia coscienza, scelgo la mia coscienza”. Intendeva dire che non avrebbe più obbedito al Preside se questi avesse abusato della sua autorità per imporre scelte scolastiche che erano, a suo giudizio, antidemocratiche. Il Preside dichiarò di voler denunciare la professoressa che rifiutava così palesemente di ubbidire alla gerarchia che egli rappresentava. Ne nacque un conflitto insanabile che durò diversi anni, divise l’opinione pubblica della città e fiaccò l’una e l’altra delle parti in gioco. Per tutti gli studenti fu una doccia fredda. L’epopea iniziata nel ’68 era arrivata anche in provincia e ne stava scuotendo le fondamenta.
II
La macchina del tempo - Dentro le scatole cinesi della memoria
Hypnos, figlio di Nix-la notte e di Thanatos-la morte, è la personificazione mitologica del sonno. Nell’era moderna il termine ipnosi va attribuito al doctor Braid il quale, intorno al 1840, osservando gli spettacoli di un certo La Fontaine, si accorse che, diversamente da quanto pregiudizialmente pensava, non vi era alcuna frode nella fenomenologia a quel tempo denominata magnetica. Utilizzando come cavie la moglie, il suo assistente e un cameriere, Braid scoprì che l’induzione ipnotica si poteva ottenere attraverso la fissazione di un determinato oggetto per un certo tempo: “…lo sguardo fisso e prolungato, paralizzando i centri nervosi degli occhi e dei nervi, altera l’equilibrio del sistema nervoso e produce questo fenomeno”. Ma la sua opera Neuro-hypnology nella quale ricondusse l’ipnosi, spogliandola dai suoi contenuti misteriosi, a un semplice processo neurologico, cadde nel vuoto insieme ai suoi articoli presentati alla British Medical Association. Ancora non conosciamo la fonte del potere persuasivo, suggestivo: perché alcuni individui lo possiedono come un talento innato, anche senza studi preparatori o attitudini professionali, e altri invece lo subiscono? Gli orientamenti principali di questa antica disciplina, sono evidenti soprattutto in due ambiti: quello dello spettacolo e quello clinico-terapeutico. Il primo a, nell’epoca attuale, per la spettacolarizzazione mediatica della fenomenologia ipnotica: suggestione, catalessi, performance sorprendenti di resistenza al dolore, capacità imitative ecc. Alcuni ipnotizzatori hanno dato prova della potenza della suggestione nel corso di trasmissioni televisive, meravigliando le folle con la riproduzione di effetti ipnotici su larga scala. Nello stesso tempo, però, hanno soddisfatto solo la curiosità superficiale delle masse con esperimenti pubblici che nulla hanno di magico o sorprendente. Anzi, grazie a una regia a buon mercato, la serietà viene sacrificata sull’altare dell’audience. Questi intrattenimenti televisivi rappresentano la versione mass-mediatica degli spettacoli da fiera, vicini alla ciarlataneria, la prestidigitazione e l’imbonimento delle telepromozioni. Per reazione, altre persone dichiarano di non credere all’ipnosi. Eppure tra questi individui, molti sono influenzati dalla fascinazione mediatica, manipolati o teleipnotizzati a loro insaputa. Sono soprattutto i teledipendenti a credere di poter
esprimere un’opinione su tutto, anche rispetto a temi assolutamente estranei alla loro esperienza. Dormendo, si può anche sognare di essere svegli, ma riuscire a svegliarsi è un’altra cosa. Diverso è l’atteggiamento scientifico-galileiano che non nega pregiudizialmente un fenomeno, soprattutto se non lo si conosce, ma ricerca invece prove oggettive della sua esistenza. In questo senso il credulone e lo scettico sono parenti: entrambi antepongono la loro limitata visione del mondo alla realtà. Il primo è troppo generoso verso aspettative tutte da dimostrare, il secondo è incapace di un cambiamento di prospettiva e degli schemi mentali con i quali cerca di comprendere la complessità di fenomeni più grandi della sua immaginazione. L’altro ambito di riconoscimento popolare dell’ipnosi è quello clinicoterapeutico, reso famoso in Occidente dagli studi di Sigmund Freud. Freud fu uno degli studenti di Charcot, un padre dell’ipnosi moderna. Nel 1885 egli giunse in Francia all’Ospedale Salpetrière, dove Charchot operava, con una borsa di studio che gli avrebbe permesso di seguire gli insegnamenti del più grande studioso di nevrosi del mondo. Per un certo periodo Freud utilizzò l’ipnosi con i suoi pazienti, nell’intento di riportare alla luce il problematico universo represso, nascosto nella psiche dei nevrotici. Improvvisamente, tuttavia, abbandonò questo metodo. Perché? In primo luogo perché riusciva a ipnotizzare solo alcuni pazienti, inducendo nella maggioranza di essi solo una trance molto leggera. In secondo luogo perché osservò che le suggestioni post-ipnotiche presentavano una durata molto limitata: le suggestioni venivano cancellate in poco tempo senza lasciare traccia alcuna, risultando quindi nulle ai fini terapeutici. Inoltre, Freud riteneva che quella suggestione post-ipnotica fosse una violazione dell’intimità del paziente e temeva il problema del transfert, già presentatosi all’amico e collega Breuer. Cosa sarebbe successo se in piena trance ipnotica una paziente avesse improvvisamente dichiarato il suo amore per lo schivo Freud? Dunque il medico viennese decise di sostituire l’ipnosi con il metodo delle libere associazioni, pur considerando la suggestione ipnotica come la base sulla quale erigere la sua teoria psicoanalitica. Il progressivo consolidamento di questa disciplina, considerata da molti studiosi ideale per l’esplorazione della mente umana, caà il declino dell’ipnosi in campo psicologico, così come la
scoperta degli anestetici la supererà quale strumento nella lotta contro il dolore e nella pratica clinica. Attualmente l’ipnoterapia sopravvive presso associazioni specializzate di medici e psicologi che la utilizzano come strumento integrativo o alternativo nel trattamento psicoterapeutico. Oppure è ammessa in casi particolari, per esempio nell’anestesia operatoria e nella pratica del “parto indolore”, soprattutto con pazienti allergici ai farmaci anestetici. Per Did, Freud era però soprattutto un grande scrittore. Aveva fondato una letteratura psicologica, ma era “poco operativo” perché, pur essendo stato ispirato dalla osservazione della fenomenologia ipnotica, non dimostrò mai di essere in possesso di un vero talento ipno-suggestivo. Il padre della psicoanalisi sapeva quanto il processo di induzione ipnotica fosse faticoso. Se si operava risparmiando le proprie energie, si ottenevano trance superficiali. Per questo anche gli effetti della suggestione post-ipnotica risultavano poco duraturi ed efficaci. Did faceva l’esempio della scrittura sulla sabbia: alla prima onda del mare viene cancellata, non rimane “memoria”, ma se la si scolpisce sulla roccia, l’informazione risulta permanente perché gli strati inconsci garantiscono una maggiore durata dell’input che è stato inscritto nella psiche profonda del soggetto. Dunque Did preferiva l’impostazione di Braid, il quale affermava semplicemente: “Dovremmo riservare il termine ipnotismo unicamente ai soggetti che cadono effettivamente in un sonno profondo e, al risveglio, dimenticano tutto quello che è successo durante la terapia… quando questo non si verifica, si può solo parlare di addormentamento o di illusione”. Fedele a questa definizione di ipnotismo, Did considerava ipnotica solo la seduta nella quale il soggetto dimostrava effettivamente di non ricordare nulla, dopo aver dato prova, nella trance, di fenomeni di analgesia che non erano imitabili in stato di veglia, di ordinaria suggestione o di superficiale sonnambulismo. Rispettando questi rigorosi criteri di validità, noi perseguivamo tuttavia una via diversa dalle due generalmente praticate: quella dell’ipnosi-spettacolo (che ritenevamo una forma di umiliante esibizionismo) e quella dell’ipnoterapia (che non eravamo in grado di praticare). La nostra terza via consisteva nell’utilizzare l’ipnosi come strumento di studio e di applicazione delle potenzialità umane, sia psichiche che fisiologiche.
La memoria era il primo campo di investigazione. A intervalli irregolari, io e Lella ci illudevamo di riuscire a convincere Did a utilizzare l’ipnosi per consolidare il rendimento scolastico degli studenti, ma lui ci snobbava e perfino disprezzava l’applicazione delle capacità ipno-suggestive nella scuola. Perché? Probabilmente, a causa della sua bocciatura e della conseguente umiliazione subita, si sentiva estraneo alla competizione accademica, per cui focalizzava i suoi interessi al di fuori dell’ambito scolastico. Era così disamorato dal liceo, che non sembrava nemmeno uno studente, uno di noi. Trasmetteva l’idea di un vulcano appena sopito. Era un adolescente con uno sguardo da veggente, pronto ad animarsi e a produrre lava incandescente, ma in modo silente, senza ceneri e lapilli. Attraversava fasi creative grazie alle quali sapeva accendere l’interesse di noi tutti, per are poi a una fase pratica e infine esaurirsi dopo le prime conquiste. Viveva cicli di euforia e di apparente inerzia, abitato ora da un impulso dionisiaco, solare, ora dalla più profonda oscurità saturnina e lunare, nella quale entravano in gestazione pensieri solitari e melanconici, a volte perfino minacciosi e luciferini. A tratti avevo l’impressione di avere a che fare con un animale preistorico possente ma lento, quasi immobile, dal sangue freddo, altre volte con un pesce d’oro imprendibile che guizzava velocissimo in un mare di idee iridescenti. Nei momenti di esplosione creativa era difficile contenerne il dinamismo poiché manifestava una carica soggiogante: tutte le idee, i progetti, le illusioni e gli obiettivi parevano misteriosamente a portata di mano e il suo entusiasmo era contagioso. Io mi ero guadagnato la sua amicizia grazie al fatto che, come lui, provenivo da un paese di campagna e quindi avevo radici nella cultura contadina, estranea ai valori della città. Tuttavia il mio carattere era molto diverso dal suo, che era teso in permanenza tra gli estremi dell’oscura solitudine e quello della gioiosa immaginazione. Io respiravo in un limbo di consapevole mediocrità, per cui potevo offrire alle sue escursioni mentali e umorali un punto fermo. Garantivo un confronto non problematico, non conflittuale: sapevo ascoltare. Con il tempo avrei sviluppato ulteriormente questa capacità che mi permetteva
di osservare gli eventi con un certo distacco. Mi proponevo di scrivere un diario di bordo per documentare le avventure di quell’insolito viaggio. Per Did ero un alter ego non competitivo: a scuola me la cavavo, sì, ma solo quel tanto da non preoccupare i genitori e gli insegnanti, e senza suscitare nei compagni troppe invidie a causa di prestazioni scolastiche superlative. Mentre lui si distingueva per i suoi voti disastrosi, soprattutto in matematica, io sapevo are inosservato. Non ero un leader e nemmeno un buon gregario, ma ero capace di adattarmi a qualsiasi circostanza. Non possedevo il carisma di una forte personalità ma nemmeno apparivo ivo. Talvolta mi sentivo a disagio per il fatto di non riuscire a impormi in pubblico, per via della mia proverbiale timidezza. Solo ora, dopo tanto tempo, mi sono fatto una ragione di questo aspetto non competitivo della mia natura. Non lo percepisco più quale connotato negativo, ma come fattore di opportunità relazionale. Pur non patendo la scuola come la pativa Did, sentivo però che mancava davvero qualcosa a noi studenti. Non solo sul piano dei contenuti che molti di noi ritenevano inutili, contestabili, ma anche sul piano del metodo, della tecnica didattica, dell’insegnamento. Non ci veniva insegnato come ottimizzare il rendimento mnemonico e “come studiare”, abilità che la scuola ci avrebbe dovuto trasmettere sin dalle elementari. Ci veniva imposto solamente “cosa studiare”. Sarebbe stato fondamentale invece “imparare a imparare”. Did condivideva con me questo credo, ma si chiamava fuori dal problema sostenendo che non toccava certo a lui sopperire a tale fatale carenza di metodologia didattica. In realtà le questioni che ci frullavano per la testa, con l’arrivo della primavera di quel secondo anno di liceo, nascevano da una curiosità autentica per i fenomeni ai quali avevamo avuto la ventura di assistere, e andavano oltre l’aspetto indubbiamente spettacolare della esibizione di capacità mnemotecniche Le domande che ci assillavano erano davvero molte. Ci chiedevamo: cos’è la memoria?
C’è un limite alla possibilità di conservare e rievocare i ricordi? Può esistere la coscienza di sé, l’autoconsapevolezza, la percezione della propria identità, senza la memoria? La memoria è conoscenza o solo informazione? Fino a che punto ci si può spingere a ricordare i dati percepiti? Con l’ipnosi si possono evocare ricordi ati? Se sì, fino a quali limiti temporali? Tutte le memorie inconsce possono essere trasferite sul piano cosciente? Se questo fosse possibile, con quali tecniche o metodologie e con quali effetti? L’io è una somma di esperienze individuali o un’entità che trascende la memoria e quindi la somma delle esperienze? Per cercare di rispondere a queste questioni, era necessario progettare altri esperimenti. Ma per indurre la trance servivano nuovi soggetti. Suggerii a Did che non poteva limitarsi alle possibilità offerte dalla classe o dal liceo, anzi occorreva far spaziare lo sguardo, il suo sguardo, sopra un territorio più vasto. Avrebbe dovuto mettersi a frequentare i circoli giovanili della città. Lì, in mezzo a decine e decine di personaggi di tutti i tipi, sarebbe stato più facile trovare nuove cavie. I luoghi pubblici più frequentati erano anche circoli politicamente caratterizzati: in alcuni si respirava un clima vicino alla sinistra, alla contestazione. Ora, la nostra era la classica cittadina di provincia, simile a una bella addormentata nel bosco, un luogo dove una delle cose più serie era il nome del fiume che l’attraversava: il Serio. In questo ambiente orgogliosamente provinciale prosperavano altri circoli che raggruppavano i sostenitori e simpatizzanti della destra. Schierarsi, partecipare al dibattito e alla lotta politico-culturale e generazionale di quegli anni,era anche un modo per sentirsi al centro del mondo, per iniziare a guardare al di là dei ristretti confini domestici, oltre la siepe. Dall’America erano arrivate le avvisaglie della controcultura, le notizie dei primi scontri con la polizia nel campus universitario di Berkeley, l’onda dei movimenti e delle manifestazioni di massa, il femminismo, i cortei studenteschi e tanta, tanta nuova
musica. Qualcosa stava cambiando sotto la pelle del mondo, non solo per noi adolescenti pronti a far valere il desiderio di novità, di maggiore giustizia sociale, il diritto allo studio e il cambiamento dei costumi sostenuto dalle nostre esuberanti concentrazioni ormonali. Non era necessario esibire una bandiera, mostrare una insegna, per essere riconosciuti. Gli stereotipi comportamentali dei gruppi giovanili, i volantini sottobraccio, i jeans e l’eskimo, il look con il quale si dichiarava l’appartenenza alla propria tribù, gli slogan e un linguaggio più diretto, on the road, diventavano segnali immediati di identificazione. La ribellione sessantottina sarebbe presto diventata per molti il rituale di iniziazione alla vita politica e sociale, e avrebbe assunto molte facce. Era il teatro ove si misuravano i futuri equilibri e si formavano i leader degli anni a venire. I capi della destra e della sinistra erano invidiati soprattutto perché vantavano un maggior successo con le donne. Dovevano in ogni occasione mostrare di avere le palle. I più mosci erano quelli del centro, i democristiani, l’onnipresente partito dei moderati, la maggioranza silenziosa che aveva paura dei cambiamenti non autorizzati dallo Stato e dalla Chiesa. Uno di questi, Gianni Pizzarri, esibiva in ogni circostanza la sua faccia sorridente e piaciona, una espressione accomodante che non tradiva un’ombra di inquietudine e rappresentava la politica della conservazione, anticipando un desiderio di restaurazione prima ancora che si aprisse la strada di una possibile rivoluzione. Ma anche lui aveva dovuto fare buon viso ai tentativi del Preside del liceo scientifico di tamponare la spinta degli studenti con alcune concessioni. Come l’approvazione di alcune libere iniziative chiamate giornate di controcultura, grazie alle quali erano stati organizzati dei seminari auto-gestiti presieduti da docenti che dialogavano liberamente con gli studenti. Gli uni e gli altri sembravano essersi sgravati da un peso invisibile. Io e Did, insieme ad altri compagni, fluttuavamo da un seminario all’altro, a ubriacarci di un sapere che la scuola aveva sempre tenuto fuori dalle sue aule. Insegnanti qualificati che venivano da città vicine e lontane, portati dal soffio del cambiamento, offrivano la loro conoscenza senza imporre alcuna fede, senza proporsi come missionari di alcuna ideologia.
Si respirava un’aria di primavera perenne che profumava le pagine dei libri, ridipingeva i banchi, ridava significato alle parole e apriva varchi nelle pareti. L’aria frizzava di vitalità, i visi erano distesi e gioiosi, l’apprendimento non condizionato da voti ed esami si moltiplicava di esperienza in esperienza, generando nuove domande e appetiti esistenziali. I temi dibattuti toccavano aree di interesse comune e l’attualità: la sessualità e il marxismo, il teatro e l’arte, la psicologia e i sentimenti, i giovani e la società. L’abolizione temporanea della competizione scolastica liberava energie e attitudini che altrimenti non sarebbero emersi. L’attenzione rimaneva elevata come non lo era mai stata, superando la marcia vorticosa delle ore. Alla poesia si attribuiva un nuovo diritto di cittadinanza. I momenti significativi erano molto frequenti, come quando una compagna, la Peppa, leggendo delle poesie di Cesare Pavese durante una assemblea, aveva fatto vibrare la platea di emozioni intensissime. Ogni lezione sembrava aprire la possibilità di una rivelazione fatale, che avrebbe illuminato la nostra esistenza per i decenni futuri. Durante una lezione di psicologia, ricevetti la mia illuminazione. Un professore venuto da chissà dove ci invitò a osservare il nostro comportamento in mezzo a quel flusso di situazioni, di tensioni e di avvenimenti. Ci disse che non dovevamo dimenticare noi stessi nell’esperienza del mondo esterno. Da quel momento la mia vita cambiò perché capii che si poteva affrontare qualsiasi cosa con l’atteggiamento dell’osservatore, di colui che vive i fenomeni essendo consapevole di se stesso. Si poteva cercare di rimanere centrati nella propria coscienza e partecipare a tutto, senza perdersi nei sentimenti, nei pensieri, nelle azioni.
Nonostante il piccolo gruppo di ricerca che si stava costituendo intorno a Did vivesse una sua vita autonoma, indifferente alle vicende che nel mondo e nella scuola si succedevano con sempre maggiore turbolenza e intensità, non fu
possibile rimanere al riparo dalla carica eversiva e dalla voglia di cambiamento che montava negli animi. D’improvviso, nella nostra classe si concentrò lo spirito della contestazione studentesca. Un giorno del nuovo anno 1970, il prete-preside-cappellano militare monsignor Bonara, pedagogista e scrittore, calò in aula improvvisamente durante una lezione di latino. Disse poche parole sdegnate il cui senso sfuggì a tutti noi, ordinando a un nostro compagno, Alessandro Appiani, di lasciare la scuola. Lo sospese seduta stante dalle lezioni per quindici giorni, indicandogli platealmente la porta. La classe rimase paralizzata e muta. Alessandro si alzò in silenzio, prese i libri e uscì senza dire una parola. Era esplosa la contestazione al liceo scientifico e il nostro compagno aveva la miccia, guadagnandosi la nostra stima e una gloria perenne per aver dimostrato di avere carattere e un’indole così forte da combattente solitario. Cos’era successo? Qualche giorno prima Alessandro - uno dei più brillanti studenti della seconda B, con 10 in latino - proprio durante un compito in classe, invece di tradurre il brano di Cicerone assegnato, aveva svolto un tema che contestava l’utilità della lingua dei nostri padri. Aveva puntato il dito contro una scuola che “sviluppa solo la memoria, che non forma e crea una personalità egoistica e individualistica”. Un gesto provocatorio, una clamorosa insubordinazione. Il nostro professor Tarasca, accortosi solo a casa durante la correzione dei compiti, di quell’inusitata forma di protesta, era corso dal preside per denunciare l’accaduto ed era scattata l’espulsione, prevista dalla legge. Monsignor Bonara non aspettava altro. Aveva sempre consigliato agli insegnanti di essere spietati con gli studenti ed era il simbolo di una chiesa che condannava i suicidi e i comunisti, le donne ribelli e i preti-operai, estromettendo dalle sue fila tutti coloro che non si prostravano alla sua autorità. La sospensione accese un incendio che alimentò la protesta. Già scossa dal caso Martisoli, la città visse un
altro periodo di tensioni furibonde. Lo scontro era anche apertamente generazionale. Il movimento studentesco organizzò sit-in, manifestazioni e assemblee per difendere il diritto degli studenti a esprimere il proprio pensiero e per far rientrare il provvedimento punitivo. La professoressa Martisoli prese le difese del ragazzo. La stampa, soprattutto quella cattolica, la attaccò duramente. In questo bailamme, confesso di essermi scoperto più interessato alle dinamiche in gioco, ai meccanismi di azione-reazione emotiva e di strategia politica che ai contenuti specifici del contendere. In fondo, era un grande spettacolo al quale mi capitava di assistere. Con una disinvoltura che ancora oggi mi appare sconcertante, impermeabile alle turbolenze collettive, pur di garantirsi la continuità degli esperimenti, Did si mise a frequentare contemporaneamente l’una e l’altra delle parti in gioco, stabilendo relazioni di amicizia con rivoluzionari e conservatori. Un atteggiamento che avrebbe adottato a lungo, fino al punto di iscriversi più tardi a partiti politicamente antitetici. Si trattava, secondo lui, di una necessaria “strategia di infiltrazione”, che a volte coincideva con una disarmante ingenuità. Come quando, ormai all’università, propose al segretario cittadino del partito di Democrazia Proletaria di costituire un “gruppo di ricerca sulle potenzialità umane”. La giustificazione era la seguente: il potere della politica si fonda sulla conoscenza dei processi di sensibilizzazione e comunicazione collettiva, quindi senza la conoscenza dei meccanismi che producono il consenso come si può fare lotta o attività sociale? In base a questa visione, nessuna analisi o ideologia poteva prescindere dalla conoscenza dei meccanismi di creazione del consenso, del quale in ogni caso ci sarebbe stato bisogno, soprattutto se si era animati da buoni propositi. D’altra parte eravamo a conoscenza che in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, a opera rispettivamente del KGB e della CIA, si studiavano appunto le potenzialità umane per valutarne la possibile applicazione nella guerra fredda: facoltà di telecinesi, medianiche, di preveggenza, di condizionamento a distanza, ipnosuggestione… abilità relegate in discipline inusuali, confinanti con l’occultismo e che tuttavia secondo alcune fonti potevano riservare delle utili sorprese, oltre che rappresentare un esercizio di ricerca raffinata, se svolta in assenza di pregiudizi e con un sano approccio scientifico. Nella biblioteca comunale avevamo scoperto i documenti prodotti dal
concittadino prof. Ferdinando Cazzamali, scienziato e neurologo, co-fondatore della Società Italiana di Metapsichica. Nella prima parte del novecento aveva indagato il fenomeno della comunicazione telepatica, che secondo i suoi esperimenti risultava riconducibile a una radiazione elettromagnetica. Il neurologo Cazzamali era in contatto con i migliori ricercatori del settore, russi e americani, ma la sua mole di ricerche era stata del tutto dimenticata. I suoi concittadini ignoravano completamente il frutto del suo lavoro, attratti da preoccupazioni più terra terra. A furia di accontentarsi di un pensiero limitato alle esigenze strettamente materiali e delle risposte fideistiche della religione, nessuno coltivava più la ricerca scientifica per le dimensioni sconosciute della psiche. Tuttavia, sebbene nella biblioteca comunale e sulle bancarelle delle fiere del libro locali e non, circolassero alcuni titoli relativi agli esperimenti di questa reietta e misteriosa “scienza di frontiera” coltivata al di là dell’Atlantico e oltre la “cortina di ferro”, i comunisti di casa nostra non sembravano affatto interessati a ipnosi e parapsicologia, psicometria, psico-analgesia, bilocazioni. I circoli di sinistra non rappresentavano un buon terreno di caccia, probabilmente perché le persone che esibivano una fede prevalentemente laicista e materialista, erano refrattarie a tutto ciò che richiamava anche solo vagamente qualcosa di spiritualista, come potevano apparire l’occultismo e i fenomeni medianici che pericolosamente avrebbero potuto suffragare una concezione metafisica dell’esistenza. Eppure escludere la ricerca metafisica non significava solo eliminare un’area di indagine, ma impoverire l’esercizio concettuale dell’astrazione. L’atteggiamento materialista è basato sulla primitiva forma di conoscenza che hanno i bambini i quali scoprono il mondo solo tramite i messaggi decodificati dallo sviluppo parziale dei loro cinque sensi. È la convalida materialista delle proprie esperienze senza la fatica di dover immaginare un “altrove” e doversi relazionare con una ben più complessa realtà, esprimendo uno sforzo intuitivo che presuppone profondità di pensiero e ricerca continua. Immaginare altre forme di realtà e di percezione richiede non la fede, ma l’impegno di quelle facoltà superiori che istintivamente sono definite spirituali e che neurologicamente non sono individuabili in una precisa zona del cervello, essendo piuttosto il riflesso creativo di ciò che sta alla base della coscienza di esistere. Uno sviluppo cognitivo capace di misurarsi anche con le dimensioni più astratte del pensiero, può generare proficue ricadute sul piano della elaborazione logica e del potere di attuazione delle idee.
Per lo più, negli ambienti di sinistra, nella migliore delle ipotesi l’ipnosi e i fenomeni parapsicologici venivano considerati alla stregua di una forma residuale e biasimevole di spiritismo, di nevrosi, di sciamanesimo irrazionale. Tutte manifestazioni che occorreva bandire da una moderna visione illuministica, ignorando che la ragione si esercita e si rafforza proprio accettando il confronto con “l’ignoto”, senza rimuoverlo a priori. Confondendo i fenomeni psicologici misteriosi con l’occultismo di maniera, veniva rimossa ogni esperienza che si poneva al di fuori della dottrina razionalista, bollando il corpus di queste pratiche come una specie di fede pseudoreligiosa e quindi oppio dei popoli. Questa condanna, che spesso si traduceva in solenne indifferenza o altisonante sufficienza intellettuale, equivaleva a quella della chiesa che metteva all’Indice i libri contenenti dottrine proibite. Nelle confraternite della buona borghesia, frequentate da personaggi appartenenti alle famiglie aristocratiche della città, era invece più facile riscontrare un certo interesse per i fenomeni psichici, secondo una linea di tendenza che si ispirava ai cultori dello spiritismo di matrice ottocentesca. Mondi dell’aldilà, sopravvivenza dell’anima, fede nelle possibilità inespresse dell’individuo inteso come valore assoluto, esperienze straordinarie tramandate dai testimoni delle vite dei grandi mistici e dei grandi medium: erano tutti argomenti non estranei ai circoli conservatori che vantavano una lunga tradizione di riunioni spiritiche. Chi riusciva a entrare in tali circoli partecipando a eventi rituali ormai rari, poteva respirare le atmosfere suggestive evocate da prestigiosi palazzi e dimore secolari di famiglie un tempo appartenenti alla nobiltà. Le ombre, gli stucchi, le grandi scale deserte, le decorazioni, gli affreschi, i simboli araldici, gli immensi saloni che si affacciavano su antichi giardini e le oscure stratificazioni architettoniche della storia avevano lasciato segni evidenti della complessità dei fenomeni e suggerivano implicitamente una visione scenografica della realtà, una percezione tridimensionale, multiforme, capace di molteplici livelli di lettura. Superando il pregiudizio che riteneva questi ambienti pericolosamente conservatori, Did riuscì a entrare in contatto con alcuni elementi che professavano interesse per il controverso mondo dello spiritismo, stringendo
relazioni amichevoli con coetanei, figli dell’aristocrazia cittadina o appartenenti alla loro discreta e orgogliosa enclave. In realtà per Did lo spiritismo non rivestiva un interesse prioritario, egli intendeva trovare un nuovo soggetto con il quale esplorare le aree nascoste della memoria profonda. Durante una delle nostre frequenti incursioni in biblioteca, ci capitò di leggere un articolo che descriveva come era stato possibile nel corso di alcuni esperimenti ipnotici effettuati negli Stati Uniti, far rievocare al soggetto coinvolto la memoria di una “vita precedente”. Ruth Simmons, una giovane signora americana di Pueblo che si prestava come medium ipnotico per diletto, improvvisamente, durante una seduta affermò di avere già vissuto una volta. Nella vita precedente sarebbe stata Bridey Murphy, un’irlandese che abitò a Cork e a Belfast dal 1798 al 1864. Pur non avendo mai avuto alcun contatto dimostrabile con l’Irlanda, Ruth Simmons fornì molti dettagli e particolari che gli esperti considerarono, in un primo tempo, falsi e che invece, dopo un’accurata ricerca storica sull’Irlanda del XVIII e XIX secolo si rivelarono esatti. Per Ruth Simmons i ricordi di Bridey Murphy affioravano esclusivamente sotto ipnosi, quindi solo nella trance ipnotica sembravano poter emergere le informazioni sepolte negli strati più profondi della coscienza. Era inevitabile che la divulgazione dell’esito sorprendente di questi esperimenti creasse molto scalpore. L’eco delle conferme aveva subito fatto pensare alla teoria della reincarnazione, così era accaduto che alcuni squilibrati si eranosuicidati dichiarando nei loro ultimi messaggi, di aver deciso l’insano gesto per ritornare temporaneamente nell’aldilà e poter così riscoprire le loro esistenze ate. Alla divulgazione degli esperimenti fu attribuita in gran parte la responsabilità di quegli strani “suicidi dettati dalla curiosità” che rischiavano di moltiplicarsi, scatenando un gioco mortale, suscitando nei soggetti deboli, mitomani o iper-suggestionabili morbose aspettative e un pericoloso, devastante fenomeno imitatorio, tipico esempio delle patologie sociali indotte dai mezzi di comunicazione. A seguito di questi eventi, la polizia vietò ai media di continuare a trasmettere notizie relative a esperimenti del genere. Si sosteneva giustamente che gli individui interessati all’occulto potevano ben trovare anche nell’“aldiquà” pane per i loro denti, visto che i misteri di questo mondo non erano meno numerosi e
oscuri. Noi non avevamo alcun interesse a divulgare i risultati delle nostre acerbe ricerche, ma la scoperta dell’articolo ci aveva galvanizzati e fremevamo in attesa di poter verificare l’esistenza di una memoria prenatale. Frequentando i circoli dell’aristocrazia cittadina, Did ebbe la fortuna di incontrare presto il soggetto adatto. Si chiamava Dario, ma tutti lo chiamavano Darby. Studiava per diventare geometra ed era chiaramente schierato a destra. Darby aveva saputo per vie traverse che Did “sapeva ipnotizzare” e si era consegnato nelle sue mani, offrendosi come cavia per gli esperimenti. Aveva posto una sola condizione: Did si sarebbe impegnato a fare di lui, grazie all’ipnosi, un grande batterista. Spudoratamente, senza avere alcuna certezza sulla possibilità concreta di ottenere un tale risultato, Did promise che l’avrebbe fatto. D’altra parte egliattribuiva all’inconscio delle facoltà che sconfinavano nella parapsicologia. Insieme a letture serie come i manuali e le monografie scientifiche pubblicate da Zanichelli, Did si nutriva di letture esoteriche, saggi di psicologia, testi divulgativi che incoraggiavano una fede troppo facile nell’onnipotenza della suggestione. Dal caos delle sue letture, da questa commistione tra realtà e fantasia, traeva idee inconcepibili. Veniva a scuola con un carico impressionante di libri, come se frequentasse una scuola “altra”, alternativa alla nostra. Alcuni li prendeva in prestito dalle biblioteche comunali alle quali, per avere più titoli contemporaneamente, si presentava con nomi differenti e false generalità. Nello stesso tempo investiva i suoi risparmi in volumi che non sarebbero mai stati accettati in nessun programma scolastico. In quel periodo il rapido turnover dei titoli strani, per i quali usava come segnalibri delle foglie di alloro, comprendeva un menù molto diversificato: Perché non sono cristiano di Bertrand Russell, il Dizionario filosofico di Voltaire, il manuale Come si costruisce un telescopio, L’epopea di Gilgamesh, L’imitazione di Cristo e Le macchie solari, Non è Terrestre di Peter Kolosimo, diversi numeri della edizione italiana di Scientific American, le biografie di Martin Luther King e di Albert Einstein, Il Libro Tibetano dei Morti e La Macchina del Tempo di George Herbert Wells. Quest’ultimo libro influenzò molto l’orientamento dei nostri esperimenti.
Did camuffava i “suoi” libri con la copertina dei testi scolastici, per poterli leggere più tranquillamente, senza suscitare speciali attenzioni da parte dei professori che certo non avrebbero gradito l’irruzione di queste letture improprie nelle loro lezioni. Quando scovava un’opera che riteneva particolarmente appetibile, mi tentava mettendomi in mano il testo, sussurrando: “Assaggia questo”. I libri interessanti erano alimento da assaporare o divorare, tanto apparivano dotati di un loro proprio sapore e sapere, un aroma che esalava dalla mescolanza degli inchiostri e delle pagine. Il senso delle parole, la forma delle idee e il significato del linguaggio si impastavano con la struttura della carta e la lettura diventava uno specchio per le visioni della mente. Sfiorando i fogli, i polpastrelli percepivano sensazioni tattili e odorose capaci di nutrire un determinato gusto intellettuale. Nonostante questa caotica varietà di interessi, Did, estraneo a qualsiasi forma di interesse musicale, era però stato spiazzato dalla condizione imposta da Darby. La pretesa di accelerare l’apprendimento musicale e la qualità delle sue esibizioni alla batteria gli sembrava senza senso, ma non aveva scelta. Mi chiese di aiutarlo nella preparazione di questa nuova serie di incursioni nel mondo dell’inconscio. Insieme cercammo di documentarci e, almeno in parte, di condividere questo interesse con Darby. La musica era infatti un “”, un collante straordinario per le diverse correnti giovanili: una forma di esperienza sovra-ideologica che veniva condivisa, anche se in modi diversi, sia dai gruppi di destra che di sinistra. A ogni pubblicazione di un nuovo long playing di qualche complesso musicale o di un cantautore, si formava subito un club di adepti. Se l’originale e stakanovista gruppo di studio che si incontrava regolarmente a casa di Carla sembrava ignorare le novità discografiche, gran parte dei gruppi studenteschi cittadini si formavano anche in virtù delle preferenze musicali suggerite dalle correnti culturali e dai movimenti giovanili d’oltremanica e d’oltreoceano. Era così che le canzoni dei Beatles, degli Who, diventavano colonne sonore capaci di riempire interi pomeriggi di emozioni, confronti, discussioni. Nei salotti della piccola e media borghesia si trascorrevano le ore in un clima di sonnacchiosa gozzoviglia, scimmiottando la sorniona pigrizia degli intellettuali.
Questa era solo una delle grandi differenze che divideva gli operai delle fabbriche dalla popolazione studentesca, anche se spesso si trovavano fianco a fianco nei primi cortei di protesa. Per l’élite intellettuale, artisti come Morandi, Bobby Solo, Mina, Patty Pravo, Zanicchi e in generale tutta la musica melodica popolare italiana, erano anticaglie. Sanremo era out, mentre la musica rock che arrivava dall’estero era in. Ascoltare musica italiana non era proprio figo. Inoltre, se si voleva avere successo con le donne era necessario disporre di un ottimo impianto stereo e di una raccolta discografica aggiornata che comprendesse almeno autori del rango di Bob Dylan, Joan Baez, Donovan, Eric Clapton, ma andavano molto bene anche i King Crimson, i Grateful Dead, i Genesis, Neil Young, Crosby, Stills e Nash. Per fare sesso occorreva saper creare l’atmosfera giusta e la musica favoriva le prime esperienze affettive e sessuali. Al cantautore Lucio Battisti, snobbato per la sua musica troppo sentimentalpopolare, si preferiva decisamente Fabrizio de Andrè, che - più anticonformista e sensibile alle trasformazioni sociali - sfornava canzoni di denuncia senza rinunciare a una vena intimistica che gli faceva scrivere e cantare autentiche poesie. I giovani progressisti, anche i più indottrinati, avevano nelle orecchie le sue parole ispirate, le musiche di Woodstock, piuttosto che i testi politici di Marx, Engels e Mao. I maîtres à penser non erano i filosofi, ma i cantautori. I più esigenti facevano a gara per importare nuovi stili che venivano dall’estero, diventando emissari delle nuove mode culturali che germinavano una sull’altra. Alcuni usavano il loro gusto musicale come una bandiera. Massimo Rimboldi, ad esempio, un leader del movimento studentesco cittadino, con la sua vena esibizionistica, durante le manifestazioni di piazza con una mano brandiva il microfono per arringare la folla e con l’altra teneva l’ultimo album di qualche cantautore d’élite, Leonard Cohen o Cat Stevens, quasi fossero vessilli di una fede non scritta su alcun manifesto ma vissuta profondamente e che si condensava in due parole: “Musica e Rivoluzione”. Alcuni autori godevano di un successo trasversale che contagiava giovani di destra e di sinistra, nei quali in molti casi si potevano notare delle affinità
elettive. Tra i più disimpegnati politicamente, la musica di Jimi Hendrix - un misto di blues, psichedelica e rock - faceva furore, ma non mancavano notevoli eccezioni. Simon e Garfunkel, Phil Collins, David Bowie e altri, illuminavano frotte di seguaci che sciamavano da un salotto all’altro per formare momentanei alveari che inseguivano l’idolo del momento quasi fosse un’imprendibile ape regina. Non si trattava solo di musica ascoltata, ma di musica suonata. Non c’era circolo, gruppo giovanile che non fosse riuscito a creare un complesso nel quale ognuno recitava la sua parte: chi suonava la chitarra armonica o il basso, chi il flauto, le tastiere… chi si sforzava di cantare. Chitarristi e batteristi erano i più ricercati e Darby, che aveva un debole per il batterista dei Beatles Ringo Starr, sognava di suonare brani memorabili per la sua band: i Four Cats. I Four Cats si esercitavano ogni pomeriggio per un paio d’ore, escluse le domeniche e le feste comandate, in un grande salone del prestigioso Palazzo Marazzi dove un tempo venivano tenute le carrozze a cavallo. Il salone non era utilizzabile per gli esperimenti. Era affittato contemporaneamente a diversi gruppi per cui non si poteva disporre della privacy necessaria. Un aiuto venne da un comune amico, Costante Di Nunzio, che vantava favolose ascendenze aristocratiche. Ci mise a disposizione una villa che era l’unico immobile superstite di uno sterminato patrimonio immobiliare, accumulato nei secoli e dilapidato in pochi decenni. Il problema principale era sempre quello di riuscire a trovare un luogo tranquillo, al riparo da presenze indesiderate e chiacchierone, nel quale poter lavorare in santa pace e gestire la seduta senza distrazioni. Almeno nella prima sessione le condizioni esterne erano importanti per indurre lo stato ipnotico profondo e inserire il comando della parola-chiave grazie alla quale, in seguito, sarebbe stato possibile ottenere all’istante la trance. Dalla seconda sessione in poi, ogni luogo, anche il più rumoroso, poteva andare bene perché le percezioni del soggetto erano ormai guidate a comando. La villa di Costante Di Nunzio, il batterista di riserva dei Four Cats, era un luogo ideale: silenzioso e discreto, ai margini del giardino pubblico Campo di Marte. Alla prima seduta la trance, probabilmente favorita dalla forte motivazione del soggetto volontario, fu indotta facilmente e rapidamente. Quando ebbe conferma
dello stato ipnotico, Did installò subito il comando post-ipnotico associato a una : Seltaeb. Era il nome - al contrario - del complesso musicale che Darby adorava più di ogni altro. Le suggestioni si focalizzarono subito verso l’obiettivo reclamato dal soggetto: “D’ora in avanti, quando ti metterai a suonare un nuovo pezzo musicale ascoltato anche una sola volta, ricorderai ogni suono, ogni nota e potrai rievocare la musica a piacere… la sentirai con una speciale risonanza, come se tutti i suoni e gli strumenti vibrassero nel tuo orecchio, nel tuo corpo… in particolare i suoni della tua batteria…” Poi i comandi divennero più precisi. L’induzione del modellamento comportamentale andava di pari o con le possibilità espressive che si affinavano via via nel corso delle sedute: “Il coordinamento tra le tue mani, il tuo udito, i tuoi piedi… sono un tutt’uno… percepirai distintamente il peso delle bacchette, il rapporto con il suono prodotto dai piatti… la tua muscolatura, i tuoi tendini, le tue mani riusciranno a sostenere il ritmo che vorrai esprimere, senza fatica, sarai rilassato e veloce…” Così aumentava via via la consapevolezza corporea di muscoli, articolazioni e nervi per connetterli in un efficiente circuito neuromuscolare integrato, in una più fluida macchina esecutiva. Le suggestioni non potevano certo creare in Darby l’orecchio assoluto o farne d’incanto un mitico batterista, ma cercavano di spingere al massimo le latenti potenzialità percettive ed espressive del suo senso musicale e della sua ancora grezza motricità: “Ti concentrerai sulla musica e i pezzi che vorrai suonare, cercando di eseguirli al meglio delle tue possibilità che miglioreranno ogni giorno… farai esercizio per affinare le tue capacità, con slancio ed entusiasmo, avrai il coordinamento di un grande batterista…” I risultati non tardarono a manifestarsi fin dalla prima sessione post-ipnotica, dopo la quale i Four Cats si incontrarono per provare e allenarsi a padroneggiare il loro scarno repertorio. L’esibizione di Darby parve subito straordinaria: gli altri componenti del complesso rimasero con le mani ferme a mezz’aria quando lo sentirono lanciarsi sulla batteria con una furia controllata, senza una sbavatura tonale, al tempo con la partitura, concentrato al massimo. In seguito divenne capace di armonizzarsi meglio con il ritmo dei compagni, imparò a entrare al momento giusto e a sostenere con i suoi piatti, i suoi tamburi, gran parte della colonna sonora eseguita in équipe, e a volte era capace di assoli stupefacenti. Si scoprì in grado di suonare composizioni estemporanee che sembravano scaturire
da una febbre del corpo, da un impulso primordiale finalmente liberato attraverso la batteria divenuta quasi un prolungamento dei suoi arti. Anche se la batteria sembrava cadere a pezzi, Darby sapeva come estrarre i ritmi giusti da quell’ammasso di ferraglia. Man mano che si spargeva la voce di queste esibizioni portentose, l’ex rimessa di carrozze del palazzo Marazzi si affollava di curiosi, di ascoltatori estasiati. L’ego di Dario gongolava, ma Did era irrequieto: anche se il risultato era andato oltre le aspettative, rimaneva ossessionato dalla memoria prenatale. Dopo qualche settimana Did ritenne di aver soddisfatto abbastanza il desiderio del soggetto di diventare un fuoriclasse della batteria, ma Darby, ormai esaltato dagli evidenti progressi, chiedeva con insistenza nuove portentose facoltà da esibire davanti ai suoi fan. Stanco di queste richieste, Did attuò una procedura singolare: eliminare dal soggetto la motivazione originale. Voleva essere libero di agire senza vincoli e quindi, in pratica, rimosse l’interesse a diventare un emulo di Ringo Starr. Fu un salto operativo e concettuale di grande portata. Io rimasi stupito. Da una parte constatavo con una certa apprensione che Did non si faceva scrupoli nell’estinguere un desiderio personale, dall’altra mi rendevo conto che se era possibile attuare la riformulazione o cancellazione di un forte impulso autogratificante, eventualmente sostituendolo con un altro, si aprivano orizzonti inquietanti nel campo delle tecniche persuasive e di manipolazione della psiche. Un conto era agire sulle potenzialità mnestiche e neuromuscolari, stimolare le funzioni cognitive, oppure esaltare le attività senso-motorie, corporee. Altra cosa era invece intervenire nella sfera affettiva, motivazionale, emotiva del soggetto. Mi chiedevo se avanzando in quel percorso, sarebbe stato possibile generare ioni, desideri… innamoramenti. In una seduta che doveva segnare il superamento di questo confine proibito, Did attuò la progettata manipolazione motivazionale. Ottenuta la trance, la sua voce sibilò queste parole: “Non ti interessa più suonare la batteria… la venderai, proverai piacere nel ricordare le tue esibizioni o ad ascoltare la musica di altri complessi musicali… e ogni pomeriggio sarai disponibile per le sedute di ipnosi, ogni volta che te lo chiederò… promettilo…” Insistette più volte, finché due giorni dopo, nonostante l’opposizione costernata dei suoi compagni, Darby
vendette la sua batteria per quattro soldi e la musica divenne per lui qualcosa da ascoltare tranquillamente nel suo salotto. Pensai allora che Did non era tanto immorale, quanto profondamente amorale, visto che non si era nemmeno posto il problema della liceità di quella rimozione. Avvertii un pericolo indefinibile e cominciai a nutrire nei confronti del mio compagno ipnotista una paura impalpabile. Tuttavia non riuscivo ad allontanarmi dal vortice dei suoi esperimenti. La riprogrammazione praticata da Did dimostrava che l’automatismo innestato dalla suggestione post-ipnotica non funzionava solo a livello di memoria e nella sfera fisiologica, ma nel campo emozionale. Did riteneva che le performance di Dario alla batteria appartenessero a una “vita non vissuta”, quella che ognuno di noi ci portiamo dentro ma che siamo incapaci di esprimere per mille motivi, tra i quali l’incredulità, il timore, il condizionamento. Si giustificava affermando che l’esperimento che aveva progettato valeva ben più di una batteria. Mi scontrai animatamente con lui quando affermò in modo sarcastico che si poteva vivere benissimo anche senza musica, ma non privati della conoscenza, del sapere. “Sapere che cosa?” gli urlai, polemico. “Quello che sei, quello che possiedi dentro, le tue facoltà naturali, non quelle che puoi fabbricare con una tecnica psicologica come l’ipnosi per scimmiottare qualche Ringo e sentirti qualcuno…” Alludendo ai talenti sconosciuti, destinati a marcire da qualche parte o sepolti sotto terra, in qualche palude dell’io, disse con aria rassegnata che probabilmente quasi tutti i nostri compagni avrebbero vissuto senza sospettare un bel nulla delle loro potenzialità nascoste, senza riuscire dunque a farle pienamente sbocciare. Gran parte della popolazione scolastica viveva da addormentata credendosi sveglia. Anche le persone ipnotizzate avrebbero rimosso negli anni quelle esperienze, come ferite da rimarginare al più presto con una vita abitudinaria, perfettamente conforme ai dettami del buon senso comune, ai pii desideri di un’esistenza narcotizzata dalla televisione e dagli hobby, dai dogmi religiosi o politici e ideologici, da un conto in banca e da una discreta posizione sociale. Avrebbero potuto essere farfalle ma Did temeva sarebbero rimasti bruchi, anziché crisalidi in divenire. Questo messaggio di allerta era rivolto soprattutto a me, ma ammise che riguardava anche lui.
Meditando su quel che saremmo potuti diventare, arrivò il giorno della agognata regressione totale. Io, Costante, la sua ragazza Lara, Lella, Darby e Did ci trovammo nel salotto elegante della palazzina liberty che richiamava le atmosfere ottocentesche delle sedute spiritiche delle sorelle Fox, di Allan Kardec e di madame Blavatsky, rispettivamente le pasionarie dell’occultismo, il padre dello spiritismo e la fondatrice dell’antroposofia. Nell’udire Seltaeb, Darby andò in trance istantaneamente adattando il suo corpo alla sagoma della poltrona rivestita di pizzo rosso e orlata con un panno turchese ai braccioli. Did si protese verso il soggetto per cogliere il più debole segnale mimico, come un gatto che acuisce i suoi sensi fino alla punta delle sue vibrisse, pronto a scattare sulla preda, a intercettare qualsiasi movimento insolito. Il suo tono di voce era affabile e rassicurante: “Bene… ora entrerai in un sonno ancora più profondo… in questo momento, dalla tua nascita sono trascorsi circa quindici anni, ma tutto quello che abbiamo vissuto è registrato in noi, come su un nastro magnetico. Ora cercheremo di ripercorrere insieme, a ritroso, il filo di queste memorie depositate nel tuo corpo e nella tua mente…” In tal modo, quello che veniva evocato non era il semplice ricordo di un evento più o meno lontano nel tempo: il soggetto si preparava a rivivere integralmente le esperienze di periodi precisi della sua vita. “Ecco, ora hai appena compiuto otto anni, è il giorno del tuo compleanno…” La richiesta successiva mi suonò inaspettata. Non fu, come mi attendevo: “Racconta quello che ti ricordi a proposito del tuo compleanno…”, ma invece: “Sono le ore 12.00 del giorno 7 febbraio dell’anno 1961, cosa sta accadendo intorno a te?” In un regno dominato dalle parole era essenziale essere rigorosi, trovare gli esempi adatti, le formule linguistiche ed evocative efficaci; per questo Did progettava di notte gli esperimenti e il testo delle suggestioni, come se si trattasse del canovaccio di qualche opera teatrale o cinematografica. L’espressione cosa sta accadendo intorno a te proiettava immediatamente il soggetto nella situazione da rivivere. Did non chiedeva di raccontare il ato, ma di ritornarci. Reagendo a queste sollecitazioni, Darby cercò di muovere le
labbra, ma non ci riuscì. Allora Did lo spronò con una suggestione supplementare: “Ascolta, ora puoi parlare liberamente, in modo tranquillo… oltre alla mia sentirai la tua voce, io e i presenti non riveleremo a nessuno i tuoi ricordi personali. Parla pure, puoi sciogliere la tua lingua, le tue labbra e respirare normalmente, deglutire, articolare i suoni con chiarezza, come quando parli di solito… mentre rivivrai in tutti i particolari i momenti trascorsi della tua vita…” Il soggetto iniziò a parlare in modo fluido: “Sono da mia zia… e sono in ritardo. Mia madre mi sta aspettando, ma voglio prima vedere il regalo di Elisabetta… finalmente mi consegna una busta con dei soldi; mio cugino è con me, ringrazio la zia e scappo via di corsa… io e mio cugino ci fermiamo in strada a controllare quanto c’è nella busta… sono cinquantamila lire…” Did chiese alcuni dettagli e venimmo a conoscenza di molti segreti: gli insospettabili amanti della zia, le scommesse sulla sua verginità, i piccoli furti della nipote, il nonno che aveva sperperato una mezza fortuna giocando alle corse dei cavalli. Nella sua confessione constatammo la totale assenza di reticenza, ma non rivelammo mai a nessuno i vizi privati e le pubbliche virtù della sua famiglia, che Darby da sveglio proteggeva come un cavaliere crociato del Santo Sepolcro. Nel ricordare il mondo della prima giovinezza e infanzia, anno dopo anno, Darby tornava a emozionarsi, ad avere paura, a piangere o a ridere come un protagonista ancora presente sulla scena madre, dentro lo spettacolo che stava descrivendo. Nel corso della trance egli regredì, nell’intervallo di circa trenta minuti, fino alla soglia dei sette anni. A questa età l’operatore lo invitò a scrivere un breve dettato: Darby lo fece con una grafia incerta, lenta e infantile come quella di un bambino che stava imparando a scrivere. Io presi il foglio con l’intenzione di esaminarlo in un secondo tempo. All’improvviso avvertimmo qualcuno entrare nella villa e udimmo delle voci. La madre di Costante, che rientrava inaspettatamente con alcune amiche, ci sorprese nel salotto del piano terra, nel bel mezzo della seduta. Did fece appena in tempo a svegliare bruscamente Darby, ma la madre di Costante ci vide nella penombra mentre stavamo confabulando come dei carbonari ed ebbe l’impressione che
nascondessimo chissà quali malefatte. L’atmosfera era violata, l’esperimento compromesso… Abbandonammo il salotto, farfugliando improbabili scuse. Fu una ritirata disastrosa. Did ci spronò a trovare subito un altro rifugio. Nel frattempo cercammo di appurare la veridicità di alcuni episodi e verificare se la scrittura prodotta da Darby in stato di trance corrispondeva alla sua in età scolare. Dovevamo rintracciare i suoi quaderni per confrontare quella grafia elementare. La seconda B era una armata Brancaleone costituita da venti maschi e otto femmine. Tre file di doppi banchi stipati in un’aula grande quanto un monolocale senza bagno. Posta su un inutile piedistallo di legno, troneggiava la cattedra. Aperta sul davanti faceva intravedere i movimenti inconsci, i pruriti sotto il girovita dei docenti, soprattutto gli accavallamenti delle giovani professoresse che tentavano di proteggersi come potevano dagli sguardi indiscreti di noi maschi in piena effervescenza puberale. La prima doppia fila, addossata alla finestra, era la più fortunata perché poteva far spaziare lo sguardo fuori dalla grande vetrata che dava su una strada alberata. Quella al centro era la più sacrificata, stretta com’era dalle due ali di banchi che la fiancheggiavano. La terza fila, a destra, si appoggiava letteralmente alla parete che iniziava a ridosso della porta d’ingresso, dalla quale entravano i professori all’inizio delle lezioni. Da come entravano da quella porta si capiva chi erano, come avevano ato la notte, qual era l’umore della giornata, cosa pensavano di loro stessi, della scuola e della vita in generale. Tarasca, il nostro professore di letteratura italiana e latina aveva un incedere modesto e timoroso, ma orgoglioso del suo ruolo. Non era certo un modello di intraprendenza e innovazione didattica, ma almeno cercava di onorare l’impegno assunto dal suo rango. Nei giorni pari si presentava con un completo azzurro scuro, rigato, mentre nei giorni dispari ne esibiva uno grigio, con la camicia bianca, il collo inamidato e polsini in evidenza. Il fazzolettino colorato che fuoriusciva dal taschino della giacca stirata alla perfezione rivelava una punta di narcisismo. Si portava appresso due paia di occhiali: uno con montatura marrone
e uno nero vergato da sottili linee dorate, molto eleganti. Due anche le penne: una stilografica che estraeva dalla borsa solo per segnare gli assenti sul registro di classe, e una Mont Blanc argentata per gli appunti usuali, le note, le sottolineature. Appena entrato in aula si dirigeva a o svelto sul podio. Si sedeva dopo aver guardato per bene la superficie della sedia. A volte la spolverava con un fazzoletto. Poi apparecchiava il piano della cattedra: registro a destra, libri a sinistra, occhiali in basso, penna in alto e al centro un camlino da usare per richiamare l’attenzione e imporre la disciplina senza alzare troppo la voce. Sembrava un chierico che predisponeva l’altare per la liturgia: piazzava il libro sacro di testo nel mezzo, si metteva gli occhiali e guardava i suoi “fedeli” come un prete pronto a dire messa. Univa le ginocchia formando un triangolo equilatero costituito agli estremi dalle punte divergenti delle scarpe e il vertice dal punto di contatto tra le ginocchia. Raramente si avventurava fuori dalla cattedra. Erano pochi gli insegnanti che si prendevano la briga di gironzolare tra i banchi, se non era giorno di compito in classe, a vedere come se la ava la ciurma. Non lasciavano volentieri il posto di comando del vascello dal quale sorvegliare mozzi e marinai con lunghe occhiate, scrutando i segni di un possibile ammutinamento. Alcune ribellioni, come quella di Did, erano segrete, non dichiarate. Quando saltuariamente camminava tra i banchi, il prof. Tarasca pareva un tranquillo ufficiale di marina ben disposto a ispezionare lo spazio sottocoperta e a impartire ammaestramenti, ordini, nozioni: “Per la prossima volta studiate da pagina otto a pagina venticinque, comprese le note bibliografiche”; “Traducete… leggete… cercate il significato di questo e di quello… andate in biblioteca… studiate…” Noi mostravamo di prenderlo sul serio, serravamo i ranghi, facevamo sparire dalla superficie del banco libri, riviste e oggetti compromettenti. Ci mettevamo composti e stavamo zitti giusto il tempo necessario perché fe dietro front e ritornasse a prua del nostro immaginario vascello che però, durante le sue lezioni, rimaneva ormeggiato sempre nello stesso porto, senza prendere mai il largo, senza conoscere mai le onde e permetterci di tuffare lo sguardo negli abissi. Non sentivamo la brezza della curiosità, nessun brivido d’avventura, i venti non gonfiavano le vele per andare lontano con la mente. Per questo, quando il professor Tarasca si girava, guardavamo la sua sagoma con sofferta indifferenza e lanciavamo occhiate rassegnate e distratte.
Buona parte della classe tuttavia lo apprezzava proprio per la prevedibile ovvietà e l’aurea mediocritas del suo insegnamento. La sua didattica, metodica e priva di sorprese, rafforzava il senso di sicurezza nel mondo, nelle cose. Per farlo contento durante le interrogazioni, noi ci eravamo abituati a inserire nelle nostre risposte alcune espressioni che egli usava spesso. Allora, nel sentire dalla voce dello studente una sua frase tipica, s’illuminava in viso come un bambino felice. Per conquistare i suoi favori, in fondo, bastava poco: arrangiarsi un po’ con il latino e ripetere nei componimenti di italiano le sue idee letterarie ed esistenziali. Era sufficiente riuscire a terminare un tema con la citazione di qualche autore classico. La famosa frase della Commedia: “Fatti non foste a viver come bruti, ma a seguir virtute e canoscenza”posta alla fine di un tema, anche se vago o pieno di considerazioni insignificanti,era sufficiente per farci ottenere un voto discreto. Sui valori espressi da Dante eravamo tutti d’accordo. Tuttavia non era possibile dialogare con lui apertamente e formulare le domande che ci animavano: “Di quale conoscenza si trattava?”; “Quanto occorre essere disposti a rischiare, per seguire questa conoscenza?” Un muro invalicabile separava le nostre curiosità dal suo vissuto che ci sembrava perbenista e libresco, non tormentato dalle ansie che la stessa letteratura - se non ridotta a mero esercizio grammaticale - invece spronava a vivere sulla propria pelle. Io e Did, insieme ad altri compagni, onoravamo una Conoscenza con la C maiuscola che occorreva ricercare senza paura e timidezze. Per noi le domande “Chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo?” non erano retoriche, ma essenziali, più importanti e pratiche di quelle del mondo adulto nel quale ci apprestavamo, grazie alla scuola, a entrare: “Quanto conti in società?”; “Come posso divertirmi nella vita?”; “Quanti soldi hai?”; “Come posso acquisire potere?” Per alcuni di noi la visione della vita era ancora innocente, ma questa consapevole ingenuità non giustificava l’abolizione del nostro credo segreto, del significato con il quale intendevamo arricchire la nostra esistenza: conoscenza sì,
ma anche ione e avventura. Per altri contava la sicurezza, una professione sicura; per gli idealisti l’affermazione della giustizia, per pochissimi, infine, la virtute: un comportamento individuale e sociale non solo retto e utile ma anche auto-gratificante. Gli esperimenti di ipnosi rappresentavano così l’alternativa alla noiosa bonaccia scolastica, ma la difficoltà di trovare un luogo nel quale organizzare sedute sempre più galeotte, ci aveva reso degli sperimentatori itineranti e clandestini. Eravamo costretti a cambiare sede continuamente perché qualche adulto finiva sempre per sorprenderci inaspettatamente nel corso di una trance e, nonostante ogni nostro tentativo di spiegazione, ci dava lo sfratto. Avevamo tentato di riprendere la seduta di regressione a casa dello stesso Darby, ma la sorella che avrebbe dovuto starsene lontana era rientrata a casa per fare una telefonata a un’amica, sorprendendoci al buio, in camera, con il fratello che parlava e si muoveva come un bimbo di cinque anni - a tanto eravamo arrivati - e questo aveva scatenato in lei paure e sospetti atroci. Ci sembrava di dover subire, sul più bello, una specie di coitus interruptus, che dolorosamente impediva il soddisfacimento di un impulso originale, la consumazione di un legittimo piacere troppo a lungo ricercato: portare la memoria del soggetto oltre la sua esperienza storica, il suo vissuto biologico, superando il limite della sua nascita.
Dopo alcune settimane di tentativi infruttuosi, il problema fu temporaneamente risolto da un’idea coraggiosa dello stesso Darby. Essendo iscritto alla Giovane Italia, ci propose di utilizzare la sede cittadina del Movimento Sociale Italiano. Con la scusa di doversi incontrare con dei simpatizzanti, ottenne da un amico, segretario della associazione giovanile del partito della destra nazionalista, le chiavi della sede ufficiale del movimento. La sede del MSI si trovava a metà di via Corsini, a lato della chiesa parrocchiale di San Giacomo. Era una via modesta, popolare, ma piuttosto tranquilla. I locali del partito trasudavano un’umidità che sembrava esalare da muffe ataviche e comunicavano un’atmosfera di improbabile cospirazione. Vi erano solo piccole
finestre, due pertugi che s’affacciavano sulla strada. Facendo di necessità virtù, considerammo che al buio avremmo potuto lavorare meglio. Non ci trovavamo più in un’elegante palazzina liberty, ma indubbiamente potevamo godere dell’isolamento necessario, anche perché Darby, per non dare comunque nell’occhio e non avere ospiti indesiderati, decise di tenere spente le luci chiudendoci dentro tutti quanti: lui, io, Did, Lella e Costante con Lara. Questi ultimi appartenevano al filone“aristocratico” della destra, che si nutriva della filosofia di Julius Evola, propugnatore di un fascismo elitario, di una visione classista della società che però si vantava di rispecchiare i valori dell’antica nobiltà, richiamandosi implicitamente e forzosamente al pensiero politico di Platone, al “governo dei pochi e dei migliori”. Ma così come Evola non aveva avuto molto seguito presso le file degli intellettuali che erano al servizio del fascismo ai tempi del Duce - e a maggior ragione anche in epoca repubblicana - così gli esponenti cittadini della destra che si ispiravano alla sua ideologia erano considerati un po’ fuori di testa dagli stessi camerati che invece professavano un neofascismo populista, pseudo-socialista e nazionalista. In questo covo della destra, Did riprese a intonare la sua suggestiva nenia cantilenante per catturare l’attenzione del soggetto con le sue armi migliori: il timbro e il tono della voce. Dopo preliminari più lunghi del solito, pronunciò la parola chiave e Darby raggiunse subito la trance. Fu ripetuto il processo regressivo fino al momento in cui il secondo esperimento era stato interrotto. Poi i comandi ipnotici assunsero un’accelerazione imprevista. Il conto alla rovescia arrivò a superare il limite dei primi anni di vita e ruppe il muro della memoria della primissima infanzia, mentre le suggestioni impartite diventavano via via più veloci: “Ora ascolta bene: continueremo ancora a ritornare indietro nel tempo, ancora, ancora, ancora, sempre più lontano… ora hai quattro anni e rivedi intorno a te le persone di allora, rivivi i sentimenti e le vicende di quando eri piccolo, molto piccolo, ancora più piccolo… fino all’età di tre anni, sei un bambino di tre, di due, di un anno… ora hai un anno di vita… un anno, il tuo primo anno di vita… i tuoi occhi sono chiusi, il tuo respiro calmo e tranquillo ma potrai rispondere alle domande che ti farò, sei calmo e tranquillo, continuiamo a ritornare indietro neltempo, a rivivere i primi momenti della tua esistenza… Ora rivedi la tua nascita, stai uscendo dal grembo di tua madre e rimani calmo e tranquillo, mentre la tua memoria continua a ricordare, a
viaggiare a ritroso per ritrovare ogni sensazione, ogni traccia del tempo perduto, ora sei ancora nel grembo di tua madre e hai le sensazioni che può avere un feto, ancora più indietro nel tempo, ancora oltre, al di là, fin dove è possibile per te ricordare, prima ancora, ancora prima”. Did non voleva dire prima della nascita, perché riteneva che avrebbe condizionato troppo la risposta del soggetto, qualunque fosse stata. Darby sembrava rapito nel gorgo di una vertiginosa discesa alle radici della sua esistenza. Non aveva più sussurrato una parola, ma il susseguirsi delle sue espressioni mimiche esprimevano le fasi di una rincorsa delle età lontane, lungo il filo ancestrale della sua memoria individuale. Le ultime parole ancora prima erano state sussurrate per invitare il soggetto a indovinare qualcosa che poteva risiedere al di là della sua venuta al mondo e del suo concepimento. Io mi trovavo per davvero ad assistere a un countdown all’interno della Macchina del Tempo. Stavo ragionando intorno a queste questioni, scosso da una grande incertezza, quando Darby sembrò uscire dalla sua silenziosa condizione sfoderando all’improvviso una voce che non era affatto la sua. “Chi siete?” disse distintamente in se, mentre rivolgeva uno sguardo straniero su di noi. Darby sembrava aver cambiato pelle: di colpo, manifestava con garbo e naturalezza i tratti gestuali di un aristocratico del XVIII secolo. Rimanemmo sbalorditi dall’apparizione di quella entità e ci sentimmo inadeguati al cospetto della imprevedibile identità esibita dal nostro compagno. Dov’era finito il nostro amico Darby? Continuava a parlare nella lingua d’oltralpe con un accento smaccatamente lezioso, ma non eravamo più in grado di comprenderlo. Costante, che alle medie aveva masticato un po’ di se, fu l’unico che provò a capirlo. Perfino Did era esterrefatto. Dopo una lunga pausa di smarrimento, chiese timidamente: “E tu chi sei, da dove vieni?” Il soggetto non intese il senso della domanda, ma esclamò, impettito, questa volta in italiano, ma sempre con uno smaccato accento alla se: “Sono il marchese Guy de la Roche, non mi avete riconosciuto? Chi siete voi, piuttosto!”
tuonò la voce istrionica, con un’intonazione che esprimeva un carattere pomposo e tronfio. A questo punto, riavutosi parzialmente dalla sorpresa, Did gli chiese di nuovo chi fosse, da dove venisse e quanti anni avesse. La voce di Did non riusciva a essere elegante e aristocratica come quella del suo interlocutore, che invece di rispondere, gridò: “Chiamate la mia carrozza!” Sembrava rivolgersi a dei servitori o attendenti. Poiché l’ordine non fu eseguito, il sedicente marchese si indispettì ancora di più. Infine, dopo vari tentativi di stabilire un dialogo, esclamò: “Andate al diavolo, se non chiamate la mia carrozza non vi dirò un bel niente!” Temendo di aver perso il controllo sul soggetto, gli impartì l’ordine di svegliarsi. Si alzò in piedi, puntò il dito verso Darby e urlò: “Ora svegliati!” Darby si irrigidì per qualche secondo, poi portò le mani agli occhi, come per proteggersi da una luce improvvisa. Did continuò a incalzarlo con altri ordini: “Ascolta bene Darby, ora svegliati, tornerai quello di sempre e questa esperienza finirà, tornerai a parlare normalmente e a comportarti normalmente… svegliati, ora svegliati, svegliati completamente!” Darby allontanò le mani dal viso e aprì gli occhi come fosse la prima volta. “Eccomi…” disse, appena risvegliato. Tranquillo e sereno, non ricordava nulla dell’esperienza vissuta. Noi tutti, invece, avevamo appena tirato un sospiro di sollievo. L’indomani, nonostante le raccomandazioni di tacere l’esito di quell’esperimento, si era sparsa la voce che Darby era la reincarnazione di un marchese di Francia. Non sapevamo chi fosse la talpa. Non Did, non io che m’ero cucito la bocca e cominciavo ad apprezzare il sottile piacere di secretare le “scoperte” ed esperienze esclusive, anche se di tutt’altro stampo rispetto a quelle sessuoaffettive che a quella età fannosentire un po’ esaltati. Non lo stesso Darby che, al risveglio, aveva chiesto cosa fosse successo e, incredulo, aveva dichiarato di non aver mai studiato il se nemmeno per scherzo.
Nei giorni successivi alcuni nostri compagni chiesero durante il primo intervallo della mattinata, tra l’ora di matematica e quella di fisica, di essere ipnotizzati per scoprire le loro vite precedenti e identità parallele. Ritagliandomi al volo la funzione di segretario, inaugurai allora una rubrica che con un po’ di cinismo intitolai “Cavie”. Cominciai ad annotarvi nomi, numeri di telefono, orari disponibili, richieste particolari, motivazioni ecc. Rimasi seccato quando Did liquidò le mie puntigliose annotazioni con un’alzata di spalle e uno sfogo inaspettato: “Esibizionisti! Che m’importa di conoscere le vite precedenti degli altri? A che ci serve?” Sembrava aver già superato l’interesse per la memoria prenatale. Mi disse che gli interessava relativamente scoprire chi poteva essere stato Tizio, Caio o Sempronio. Avrebbe voluto conoscere non chi si era stati, ma chi si poteva diventare: “Se anche fossi stato un faraone d’Egitto, a che servirebbe saperlo, ora? Mi interessa il futuro, non il ato remoto”. Tuttavia ero certo che se gli avessi trovato delle nuove cavie, non avrebbe resistito alla tentazione di usare nuovamente la regressione ipnotica come una vera e propria macchina del tempo. Intanto anche Lella, che aveva giurato di non aver fiatato, colpita dall’eco delle recenti imprese, voleva esserci utile e si era offerta per il ruolo di procacciatrice di soggetti. In breve potemmo disporre della preziosa collaborazione di compagni come Luca, Giorgio, Fabio, Elio, Guido e Fernando. Tutti nostri coetanei, studenti del liceo scientifico. Lella si era rivelata sorprendente in questo suo nuovo compito di conquistatrice. Come riusciva a convincere i ragazzi affinché si gettassero senza condizioni nelle grinfie di Did? Pensai che Lella, forse come tutte le donne, possedesse qualche arma segreta che noi maschi non conoscevamo. Vestiva quasi sempre con pantaloni e camicetta, ed esibiva un fisico tanto sottile da far pensare a una anoressica, mentre invece mangiava di gusto. La consideravamo molto femminile per via del suo tratto più tipico, almeno per me che ne ammiravo la vivace intelligenza: la sua innata curiosità intellettuale che la spingeva sempre, se si trovava in un contesto
stimolante, a porre questioni orientate alla ricerca di una possibile soluzione. Ero invidioso della sua mente brillante, capace di fare domande che aprivano ogni volta scenari nuovi e facevano intravedere nuovi mondi e possibilità. Le domande consuete in genere iniziano con: “Chi è stato?”; “Come mai?”; “Perché?” Quelle di Lella invece iniziavano in un altro modo: “E se provassimo a?”; “Nessuno ha mai immaginato di affrontare il problema da quest’altra prospettiva?”; “Non sarebbe possibile?”. Era una delle rare ragazze con le quali ci sentivamo a nostro agio e che dichiarava apertamente di trovarsi meglio con i maschi perché “le donne usano la loro intelligenza per farsi domande pettegole”. Divenne a poco a poco la nostra musa ispiratrice. Affettivamente equidistante da noi tutti, recitava la parte di una sorella maggiore e la sua presenza ci introduceva ai misteri dell’animo femminile senza le ansie da prestazione che dominano in genere gli adolescenti. Attratta dalla personalità di Did e dalla sua facoltà ipnotica, ne era anche sconcertata. Sapeva circuire così bene i ragazzi, che riuscì spesso, nei momenti di difficoltà di approvvigionamento, a servirci i malcapitati su un piatto d’argento. Questa abilità nel procurare le cavie era provvidenziale perché non avevamo molto tempo per cacciare le nostre prede. Infatti il bene più prezioso che si possa rubare, non è l’oro, ma il tempo. E noi in seconda liceo scientifico eravamo diventati dei ladri. Ladri del tempo. Non avevamo scelta: per esplorare le dimensioni psichiche dovevamo sacrificare il tempo della scuola a quello della ricerca. Poiché il tempo non si può moltiplicare, avevamo imparato a sottrarre ore alla scuola ordinaria per re-impiegarlo e re-investirlo in una scuola “altra”, clandestina. Rubare del tempo era un’attività difficile. Per prima cosa occorreva fare in modo che gli altri, soprattutto i genitori, ma anche coetanei e insegnanti, non se ne accorgessero. Un vero ladro non si fa mai scoprire per cui il nostro primo obiettivo era quello di non lasciarci prendere con le mani nel sacco. Rubare il tempo era cosa ben diversa dal perdere tempo. Appena potevamo, sostituivamo un’attività ordinaria con una straordinaria.
Ci riunivamo portandoci appresso cartelle, appunti, libri, block notes, quaderni, dispense… che avevano la funzione di specchietti per le allodole. Appena raccolte informazioni sufficienti, non per assicurarsi un bel voto ma, con un po’ di fortuna, almeno la sufficienza, scattava il furto, la magia che trasformava i nostri pomeriggi in viaggi straordinari, senza bisogno di droghe o di spinelli. Assistere a una trance ipnotica era come partecipare a una cerimonia. Il cerimoniere di questo rito magico era sempre Did. All’esperimento di regressione con Darby ne seguirono molti altri, con soggetti differenti. I risultati di queste esperienze, anziché placare la curiosità, la aizzavano. Mi chiedevo se potesse esistere in noi uno speciale testimone silenzioso in grado di osservare lo spettacolo della vita e rivestire di volta in volta, attraversando nascite e trai, identità differenti. Era davvero possibile, in uno spazio-tempo sempre mutevole, riuscire a far sopravvivere un elemento unificante, un’inalterata memoria di sé attraverso una serie infinita di esperienze terrestri? Per queste indagini sulla pre-esistenza Did aveva scelto accuratamente soggetti che, almeno a livello cosciente, non manifestavano alcun interesse per una loro ipotetica vita precedente. Così avevamo assistito a sedute nelle quali i nostri coetanei ci stupivano con le loro trasformazioni e imprevedibili manifestazioni di “identità nascoste”. Avevamo evocato una galleria di personaggi affascinanti, ai quali era difficile resistere. In alcuni casi non eravamo riusciti a comprendere nemmeno la lingua nella quale ci parlavano. Sembrava che all’interno di ogni memoria, di ogni vita, si nascondesse un’altra memoria più profonda, un’esistenza dentro ogni altra esistenza, in un gioco continuo di scatole cinesi nelle quali era davvero facile perdere l’orientamento. Tutto questo mi aveva reso incline ad accettare l’ipotesi della reincarnazione, ma un giorno Did minò la mia fede, perché di questo si trattava, con una serie di considerazioni ineccepibili alle quali non avevo pensato. Confidandomi le sue riflessioni mi disse che i fenomeni portentosi ai quali avevamo assistito, non rappresentavano la dimostrazione della metempsicosi, anche se non la inficiavano: “L’inconscio è un grande illusionista, potrebbe mettere in bocca ai nostri soggetti brani di lingue straniere ascoltati casualmente in un viaggio, o alla
radio, per confezionare un personaggio di fantasia modellato dalle aspettative inconsce del soggetto o dell’ipnotizzatore stesso”. In altre parole, le memorie esibite nel contesto di una trance potevano essere state assimilate nel corso della vita dell’individuo e rielaborate o rese disponibili attraverso la sollecitazione ipnotica. “E i gesti, il comportamento?” provai a sfidarlo. “Anche certi comportamenti, espressioni mimiche e gesti, possono essere ricreati dalla fantasia oppure rappresentano personalità secondarie, parallele.” Did attribuiva molta importanza alla tendenza dei soggetti - riscontrata in più di un’occasione - ad assecondare i desiderata dell’operatore. “Se chiedi a un soggetto di raccontarti la sua vita precedente, ti risponderà creando ad arte una risposta che può apparire, in quella situazione, tra le più plausibili, ma è la stessa domanda che determina la risposta, spingendo in un vicolo cieco l’ipnotizzato, per questo occorre far rivivere il ato senza suggerirlo implicitamente.” Tuttavia, perché questa memoria dall’origine inesplicabile (o fervida immaginazione) non emergeva nella vita ordinaria, non riusciva a esprimersi? Quali forze pullulavano sotto la superficie della nostra vita apparente? Il tentativo di rispondere a queste domande occupò gran parte del terzo trimestre del nostro secondo anno di liceo scientifico. Quasi tutte le sedute avvenivano presso la sede della sezione del Movimento Sociale Italiano, fino al momento in cui alcune indiscrezioni non arrivarono all’orecchio del segretario. Costui, un insegnante di educazione fisica di mezza età, non era un lettore di Julius Evola, e aveva quindi una visione della realtà niente affatto metafisica o aristocratica. Quasi tutti gli insegnanti di ginnastica appartenevano per tradizione al Movimento Sociale. Per avere il primo insegnante democristiano avremmo dovuto attendere la quinta liceo, con l’arrivo del prof. Nestore Vanni. Dunque, quando il segretario venne a sapere che nella sede del partito, invece di
riunioni politiche si tenevano clandestine sedute parapsicologiche, vietò qualsiasi tipo di incontro e ci trovammo di nuovo esiliati e senza un rifugio.
III
Una scuola parallela - I corsari del sapere
Mentre Did aveva trascorso il suo secondo anno da ripetente snobbando la scuola, io a fine giugno avevo cercato di carpire il segreto del suo potere. Avrei sacrificato volentieri le mie vacanze estive, pur di imparare anch’io a ipnotizzare. Dopo averlo assillato con estenuanti richieste, Did mi aveva ato il manuale Come ipnotizzare in 10 settimane, dove avevo trovato esercizi di fascinazione per trasformare lo sguardo in uno strumento di suggestione. Si trattava di un depistaggio? Il punto di forza di Did non era lo sguardo, ma la voce. Fin dalle prime battute cercava di indirizzare l’attenzione del soggetto sulla sua timbrica particolare: “Concentrati sulla mia voce, ascolta con attenzione il suono delle mie parole… ” Usando la voce come un laccio incantatorio per catturare le sue prede, provocava il rilassamento preliminare che preparava alla sonnolenza. Non considerava altre tecniche. Per lui l’importante era ottenere la prima trance e installare nella mente del soggetto il comando post-ipnotico con una parola in codice. Quando cercai di apprendere altre tecniche dalla sua pur primitiva esperienza, mi disse semplicemente che egli voleva indurre la trance. Al di là della metodologia induttiva applicata, egli intendeva semplicemente esercitare un’influenza suggestiva. In pratica, faceva uso della volontà. La disponibilità del soggetto era un importante fattore facilitatore, ma non era indispensabile se l’operatore era determinato. La tecnica era uno strumento di questa volontà che nasceva dal profondo. Era la spinta verso questo obiettivo che modellava la voce, i gesti, lo sguardo. Pensai che per un timido, la voce doveva essere lo strumento ideale. La voce vibrava e crepitava come un fuoco che lambiva la coscienza, quando esprimeva questa volontà di suggestione. Si intuiva che l’imprinting sonoro era indipendente dal significato delle parole e agiva per virtù propria. Pertanto nel corso dell’estate mi esercitai a rendere la mia voce uno strumento fedele delle emozioni che intendevo trasmettere.Per riuscire a connotare emotivamente un testo indipendentemente dal suo contenuto, mi divertivo ad ascoltare la mia voce al registratore mentre leggevo barzellette molto spinte come se fossero noiose didascalie di un brano di letteratura latina. Lo scopo era
di neutralizzare il senso ironico stimolato dalla storia, mediante una intonazione assolutamente amorfa. Altre volte mi esercitavo a recitare annunci funebri che trovavo sui giornali locali come se fossero freddure. In questi casi si trattava di comunicare un irresistibile impulso umoristico là dove il testo suggeriva il suo contrario: il dolore, il senso della perdita, la mestizia. Per creare l’atmosfera adatta all’innesco dell’induzione ipnotica era necessario modellare la voce, renderla flessibile, suadente. Giorno per giorno, imparai a plasmare il suono delle mie parole cercando di riprodurre la calda atmosfera che Did sapeva creare nelle situazioni meno favorevoli. Mi entusiasmavano queste esperienze di modellamento vocale, ma per tutto il mese di luglio e agosto fui tormentato da un sogno ricorrente. Camminavo sopra un’immensa distesa ghiacciata e d’improvviso si alzava un vento impetuoso. Le folate sollevavano la neve, mentre il ghiaccio diventava liscio e trasparente come vetro. A ogni o potevo vedere sotto di me fluttuare in quell’abisso grandi creature marine, altre minute e colorate, ombre mostruose, gigantesche forme arborescenti e sagome di organismi appartenenti a specie ignote che risalivano da fondali inaccessibili e che probabilmente appartenevano a epoche remote. Anche i miei pensieri diurni erano attirati verso il basso, al centro della terra, da una speciale forza magnetica. L’esplorazione dei fondali dell’inconscio avrebbe potuto riservare orribili sorprese, ma il tuffo nell’ignoto rimaneva irresistibile. Per questo le performance mnemotecniche, le esibizioni di Darby e delle altre cavie che avevo osservato nel corso delle regressioni ipnotiche, anziché dissuadermi dal proposito di gettare l’amo nell’oceano misterioso, stimolavano in me nuove curiosità e non vedevo l’ora di ricominciare grazie a Did un nuovo anno di esperimenti. L’attività scolastica ed extrascolastica favoriva incontri, relazioni, occasioni di crescita e di confronti che nella mia solitudine estiva non potevo certo sperare di riprodurre. Era la prima volta che smaniavo in attesa della ripresa delle lezioni. Qualcosa era cambiato nella mia visione del mondo. Era come se si fosse rotta
una grande diga che tratteneva i tesori sommersi della memoria. Nessuna cosa era perduta perché rimaneva viva dentro di noi! Erano vivi i ricordi dei visi, delle persone, le loro voci si rincorrevano ancora nei meandri del mio inconscio come in quello altrui. Gli strati geologici della mente conservavano gelosamente le informazioni di un ato paleo-psichico inimmaginabile e tali giacimenti potevano tornare a splendere simili alle vestigia gloriose di una atavica civiltà sepolta. La possibilità di sbrigliare la memoria suggeriva fantasie galoppanti, ma sentivo anche l’acuta necessità di razionalizzare le esperienze vissute, circoscriverle all’interno di un sistema di riferimento logico che tuttavia mi sfuggiva. Mi venivano alla mente domande bizzarre: era possibile evolvere verso una forma di autocoscienza permanente e disincarnata? Il pensiero era il prodotto del cervello o il cervello, grazie al linguaggio, era semplicemente lo strumento per esprimerlo? Una “pura coscienza” poteva incarnarsi nell’organismo di un individuo, prendere possesso di un altro corpo senza necessariamente are attraverso la fase di una nuova nascita, come invece prevedeva l’ipotesi della reincarnazione? A settembre contavo di condividere con Did almeno una di queste domande, ma lo trovai disinteressato a questi temi e ai miei tentativi di fuggire in un mondo ove la consapevolezza poteva esistere in uno spazio incorporeo. Dopo i voli pindarici suggeriti dalle esperienze evocate dalle “vite precedenti”, forse per recuperare la presa sulla realtà, lo trovai orientato ad approfondire gli studi del fenomeno mnemonico, ma da una prospettiva nuova. Anche se la memoria rimaneva al centro dei suoi interessi, egli espandeva le sue energie e dilatava la sua attenzione in un mare magnum di letture disordinate e, almeno dal mio punto di vista, molto dispersive. Aveva inaugurato il nuovo anno portandosi in classe una serie di testi molto diversi: Come si coltivano i cristalli, Il Vangelo secondo Charlie Brown, Vita di San Giuseppe da Copertino, Segreti dei Nuraghi, Esperimenti di magnetismo, La vita segreta delle piante, Tecniche di impollinazione, La Tauromachia, L’arte della mummificazione, Entomologia pratica, Tecniche di memoria e lettura rapida… Quest’ultimo lo interessava particolarmente: lo lesse e rilesse più volte.
Un sereno pomeriggio di metà ottobre, dopo una mattinata funestata dal primo compito in classe di matematica dal risultato disastroso, Did mi chiese di scrivere trenta nomi di oggetti. Gli recitai l’elenco due volte e, senza alcun espediente ipnotistico, lui fu in grado di ripetere la sequenza perfettamente, anche al contrario, saltando da un nome all’altro. Gli chiesi subito il trucco nascosto nella sua mirabolante prestazione. Come era possibile, senza ipnosi, eguagliare le performance dei soggetti in trance? Ardevo dal desiderio di conoscere il segreto di Did. “Ho imparato una tecnica…” mi disse ridendo, soddisfatto dell’effetto sorpresa che mi si leggeva negli occhi. Mi illustrò il sistema in dieci minuti, scrivendomi un elenco di dieci parole: televisore, automobile, cane, melo, lago, materassi, scarpe, barba, racchetta, moglie. Spiegò che per ricordare bene le parole occorreva cercare di vedere l’elenco come se fosse un filmato, perché la memoria funziona per immagini, associazioni, emozioni. Si trattava quindi - concluse - di rendere grottesche le immagini visualizzate e il gioco era fatto perché “la memoria non sa distinguere un ricordo reale da una vivida fantasia”. “Ascoltami…” mi intimò il mio istruttore mentre cercavo di afferrare l’essenza della tecnica, “seguimi nella follia di questo racconto, cerca di immaginarlo con la massima precisione…” Ci trovavamo a un tavolo della latteria di via Matteotti, il rifugio degli studenti che marinavano la scuola. Intorno si levava il profumo di cioccolata calda e panna montata che seduceva le scolaresche di ogni ordine e grado, dalle magistrali al liceo, dalle medie inferiori alle professionali. “Immagina di essere al cinema, si spengono le luci e sullo schermo appare il tuo televisore… dal posto ove sei seduto allunghi il tuo braccio che diventa elastico e accendi il video, sullo schermo appare una bellissima automobile, scegli tu il modello che preferisci… l’automobile corre per la città facendo fuggire i pedoni e investendo bidoni della spazzatura che volano per aria perché chi sta guidando è veramente un disgraziato, lo guardi ed è un autentico cane, infatti
avvicinandoti vedi che alla guida c’è un setter che con il muso e le zampe anteriori tiene il volante e con la coda cambia le marce…” Si fermò un attimo per riprendersi da questa corsa dell’immaginazione che mi faceva davvero ridere. Non badò alle mie risate e mi chiese: “Riesci a vedere tutto quello che ti racconto? Riesci a vedere il cane che guida?” “Sì!” risposi divertito. “A una curva il cane esce di strada, sbatte contro un albero, esce dalla portiera e gli cade in testa una grande mela perché l’albero è un melo; il cane si avvicina all’albero, lo annusa e come tutti i cani alza una zampa e ne fa tanta, ma tanta che diventa prima un rigagnolo e poi un lago… un bel lago di montagna che però un giorno sommerge un paese e coglie di sorpresa gli abitanti nel sonno i quali continuano a dormire sui loro materassi che sono galleggianti, gonfiabili; tutto il lago è puntellato dai colori di questi materassi! Su uno di questi materassi c’è un signore che, avvicinandosi alla riva, si infila le scarpe che hanno la stessa forma del suo viso, come se fossero una doppia maschera; su queste scarpemaschera spunta una fluente barba che si allunga, si allunga istantaneamente fino a raggiungere un vicino campo da tennis dove si impiglia al volo con una racchetta che è tenuta in mano da una giocatrice gigante; chi è questa giocatrice? È sua moglie, infatti è ancora vestita da sposa…” A questo punto, mi incalzò con una serie di domande. “Sei al cinema, si spengono le luci, cosa vedi?” “Il mio televisore!” risposi sorpreso della mia stessa prontezza. “Accendi il televisore con il tuo braccio allungabile e cosa appare?” “Una automobile… Isotta-Fraschini.” La vedevo bene, come in una diapositiva proiettata sullo schermo della mia immaginazione. “Chi la sta guidando?” “Un cane!” Mi venne alla mente automaticamente. “Dove va a sbattere?”
“Addosso a un melo…” sussurrai con naturalezza. “Cosa forma alzando la sua zampa?” “Un lago!” “Cosa galleggia sul lago?” “Tanti materassi.” Ormai avevo capito il gioco e la magia della rievocazione dell’elenco… “Cosa si infila il signore che da uno di questi materassi giunge a riva?” “Le scarpe!” “Cosa spunta dalle scarpe?” “Una barba fluente!” L’avevo immaginata tutta bianca e capace di avvinghiarsi come nella scena di un cartone animato. “Cosa prende al volo?” “Una racchetta!” “Chi la tiene?” “Sua moglie…” conclusi felice. Quello che Did voleva, non era più solamente eccitare le facoltà mnemotecniche durante la trance o attraverso la suggestione post-ipnotica. Voleva installare nella psiche un processo immaginativo in grado di sollecitare nel soggetto una facoltà mnemonica eccezionale e permanente. Did voleva verificare se era possibile far apprendere a un soggetto sotto ipnosi la stessa procedura mnemotecnica che mi aveva illustrato. Questa abilità indotta a livello inconscio equivaleva a una operazione di psicochirurgia: si trattava di impiantare nei tessuti e circuiti psichici un
comportamento nuovo ovvero la capacità di associare in modo suggestivo, originale, fantastico, la parola di un elenco a un’altra, generando un film introspettivo, una sequenza di immagini indimenticabili. Did prefigurava un futuro nel quale sarebbe stato possibile andare da un ipnotista specializzato per farsi impiantare un innesto mnemotecnico, così come oggi si inserisce un software per programmare le prestazioni di un computer. In questo modo si sarebbe potuto ricordare a piacere qualsiasi cosa e quindi studiare senza fatica attraverso l’accelerazione di una facoltà naturale. L’apprendimento sarebbe stato in gran parte facilitato senza l’ausilio di farmaci, succedanei chimici o interventi di natura neurologica. Il cervello poteva essere allenato a superare i suoi limiti cognitivi.
A fine ottobre, grazie a Lella, Did riuscì a trovare due nuovi soggetti ai quali, dopo alcune sedute di prova, impiantò la tecnica di visualizzazione. Lo fece con queste istruzioni, che vennero assimilate dalle cavie in condizioni di profonda trance: “Assocerai le parole di un elenco, o le parole chiave che rappresentano il concetto base di una frase, un periodo, una pagina di testo, seguendo questo sistema: prima tradurrai la parola in una immagine fedele corrispondente, poi questa immagine la visualizzerai grande, assurda, in movimento, infine la assocerai sempre in modo assurdo alla parola/concetto successiva, come se fosse parte di una serie, di una sequenza infinita di immagini/concetti legati tra loro indissolubilmente…” Nel corso della seduta veniva trasmessa quindi una vera e propria procedura comportamentale immaginativa. L’installazione prevedeva l’illustrazione di un esempio pratico fino alla verifica dell’effettiva comprensione da parte del soggetto ipnotizzato del processo di apprendimento inconscio. L’ultimo ordine riguardava la segretezza dell’addestramento… “Farai tutto questo senza che nessuno se ne accorga, senza che tu stesso ti renda conto coscientemente della tecnica applicata e senza avvertire alcuno sforzo.” Dopo settimane di prove, ripetizioni di elenchi e di interi testi, i nostri due compagni riuscirono a produrre in trance risultati straordinari.
Nel frattempo anche le nostre performance, con l’uso consapevole della tecnica e quindi senza rinforzi o innesti ipnotici, arrivarono fino a cento, duecento, trecento termini ripetuti in successione. Avevamo scoperto che era solo una questione di allenamento: si trattava di praticare con costanza una semplice ginnastica dell’immaginazione. Did aveva addirittura trasformato questa abilità che non aveva nulla di magico ed esoterico, in una specie di spettacolo redditizio. Per un certo tempo frequentò diversi locali pubblici della città e dei paesi limitrofi. Io mi ero adattato a fargli da “spalla” e insieme avevamo imparato a recitare la nostra parte, come due pìcari incalliti, privi di pietà per l’ingenuità umana. Io dovevo recitare il ruolo dell’incredulo e sfidare Did, tra i tavoli di un bar sempre diverso, a ricordare in fila almeno cento parole. Scommettevo una cifra di almeno cinquantamila lire e non ci dovevano essere errori nella ripetizione. La gente, se incontrava un tipo che affermava di poter ricordare un elenco così lungo dopo averlo ascoltato una volta sola, accettava la sfida, pensando a un facile guadagno. Gli increduli, unendosi a me, entravano nel gioco scommettendo quello che si trovavano in tasca. Ma Did non sbagliava: era allenato perfettamente e la sua tecnica funzionava a meraviglia. Mostrava agli scommettitori i biglietti da cinquantamila lire che era disposto a pagare per ogni giocatore, nel caso di un solo errore nell’elenco. Nel corso della ripetizione si fermava, fingendo addirittura delle incertezze, per rendere la sfida carica di pathos. A volte accadeva che i giocatori pretendessero il bis, sospettando una truffa ai loro danni. Allora Did sciorinava, al contrario, le parole che loro stessi avevano scritto e controllato. Sui loro visi, inebetiti dallo scetticismo sulle possibilità della mente, leggevamo le reazioni stupefatte di persone che si erano adattate a vivere, probabilmente, al di sotto dello 0,5% delle loro possibilità. Alla fine io fingevo di perdere le mie cinquantamila lire, ma lontani dal bar, al riparo da sguardi indiscreti ci dividevamo il nostro malloppo in contanti, esentasse. In genere si trattava di colpi tra le duecento e le trecentomila, a parte un caso speciale in cui una massa di increduloni - come ormai chiamavamo le nostre vittime - lasciò sul tavolo seicentocinquantamila lire in una sola serata di
scommesse. Il nostro bottino aveva destinazioni diverse: io mettevo da parte i soldi per comprarmi un motorino, mentre lui - fedele alla bicicletta - investiva tutto in libri. Era un’attività che suscitava anche qualche invidia.
Carlo, una delle due cavie sottoposte all’operazione ipno-tecnica, aveva accettato di lasciarsi ipnotizzare sperando di acquisire una superiore facilità e velocità nell’apprendimento scolastico. Era costante nei risultati e avrebbe potuto competere con noi, ma pigro com’era non ci pensava proprio a esibirsi in pubblico e a rischiare i suoi soldi. Si stava tutto il pomeriggio a casa di Lella. Il mio compito era quello di registrare, con la mia voce, le lezioni e i capitoli da studiare sui testi di biologia, latino, fisica, eccetera. Per Carlo era stata pensata una ipno-suggestione personalizzata, adeguata alla sua richiesta di apprendere senza sforzo. Prestava le energie migliori alla sua vera ione: il ping-pong. Did gli aveva dato istruzioni affinché potesse imparare senza interrompere il gioco, con l’ausilio di un registratore: “Ascoltando le registrazioni, la tua mente imparerà i contenuti che ti verranno trasmessi, come a lezione… potrai continuare a giocare a ping-pong mentre parte del tuo cervello registrerà i dati, le informazioni, la voce che ascolterai… potrai giocare normalmente, rispondere alle nostre domande, essere perfettamente sveglio e nello stesso tempo mandare a memoria, senza fatica, le lezioni che ogni giorno tu vorrai apprendere…” A Carlo bastava sentire una sola volta i capitoli registrati per poterli ripetere perfettamente, in una esibizione di memoria che pareva non avere limitazioni, almeno per quanto riguardava l’assimilazione puramente meccanica delle nozioni. Ma non era questo che voleva e di cui si accontentava la scuola? Se infatti la domanda era nozionistica, come la classificazione dei platelminti, la definizione del PH, la data di nascita di Garibaldi, il numero degli elefanti di Annibale, tutto filava liscio: la risposta automatica era assicurata e con essa un bel voto. Se però l’insegnante chiedeva le ragioni che avevano indotto Annibale a temporeggiare, evitando - con un errore fatale - di assediare e conquistare Roma al momento più opportuno, dopo la battaglia di Capua, la questione si faceva più complessa. Soprattutto se queste ragioni storiche non erano state
illustrate dall’insegnante e quindi richiedevano un approfondimento e una riflessione ulteriori. Se la domanda era articolata e la risposta esigeva un ragionamento specifico, l’esito positivo non era affatto scontato. L’interesse di Luigi, il secondo soggetto con l’impianto mnemotecnico, era orientato invece a vivere di rendita con le scommesse: sognava di emulare i profitti del suo maestro, ma non riuscì a diventare un concorrente di Did. Non ce la faceva proprio, da sveglio, a ricordare per intero un elenco di cento parole. Non era mai perfetto: a volte usava sinonimi, faceva slittare un termine di due o tre posizioni rispetto all’ordine dell’elenco, manifestava qualche difficoltà con i termini astratti che non riusciva con efficacia a convertire in immagini aderenti e calzanti. Quando operava in trance non c’erano problemi, la ripetizione dell’elenco o del testo risultava corretta sia con l’innesto della tecnica sia senza, anche se con la tecnica - paradossalmente - il tempo impiegato aumentava. Se veniva programmato a ricordare da sveglio senza usare alcun metodo, non riusciva comunque a superare le trenta, quaranta parole recitate esattamente in fila. Queste differenze mi permisero di fare nuove osservazioni e di abbozzare alcune ipotesi:
l’ipnosi non era una panacea universale, permetteva un potenziamento delle proprie facoltà ma solo all’interno di un ambito genetico e socioculturale, per cui le differenze tra i singoli rimanevano; il metodo potenziava dei talenti, però non li uniformava nemmeno quando si cercava di innalzarli ugualmente verso l’alto; l’installazione ipnotica e l’uso successivo della tecnica, comportava un rallentamento del processo mnemonico perché implicava una fase di assemblaggio immaginativo, un intervallo di tempo necessario a creare la sequenza di immagini; se le immagini create non erano precise, ovvero non identificavano esattamente il termine o il concetto da ricordare, il risultato non poteva essere soddisfacente.
Did condivideva queste mie considerazioni, ma sembrava attratto da un filone diverso, come un segugio che fiuta una nuova pista, una traccia che io non riuscivo ancora a vedere. La domanda principale che Did si poneva era questa: “Perché l’abilità di Luigi non si trasferisce pienamente sul piano cosciente?” Luigi, da sveglio, non otteneva la performance perché la sua immaginazione non era abbastanza potente da creare immagini sufficientemente assurde o vivaci da stamparsi nel suo film interiore? Era un problema di resa mnemonica o di capacità immaginativa? La condizione principale per il funzionamento della tecnica, secondo Did era il buon funzionamento della facoltà immaginativa, della fantasia. Senza fantasia… niente memoria! Did sosteneva che, se questo era il problema, avrebbe dovuto agire con l’ipnosi per rinvigorire e potenziare l’immaginazione di Luigi, prima di impegnarne le energie inconsce nell’uso di una tecnica mnemonica che richiedeva la capacità di uscire dagli schemi, di “pensare per assurdo”. Non si poteva dare per scontato che i soggetti possedessero una esuberante fantasia, come la tecnica di visualizzazione richiedeva. D’altra parte io e Did avevamo anche osservato che Luigi, in stato ipnotico, con o senza tecnica era invece perfettamente in grado di ricordare un elenco al primo colpo. Per verificare che la sequenza immaginativa venisse effettivamente creata, dopo aver assistito alla esibizione di una performance impeccabile effettuata in trance, Did gliene chiese ragione e si fece illustrare da Luigi tutte le associazioni che aveva saputo “creare” nello stato ipnotico. In questo caso le associazioni si erano rivelate assolutamente efficaci. Tuttavia non sapevamo se questo risultato era causato da una memoria inconscia più efficiente, oppure se la prestazione superiore si realizzasse per la scomparsa delle resistenze che a livello cosciente frenavano la sua fantasia, ingrediente necessario alla creazione del fantasmatico filmato mnemotecnico. Quando Luigi venne ipnotizzato per “vedere dietro le quinte del suo stesso pensiero”, la qualità dei percorsi associativi messi in atto per ricordare elenchi di
parole con la tecnica di memorizzazione, rivelò una immaginazione che ci sembrò eccezionale: una qualità sorprendente per noi tutti che pensavamo di conoscerlo. Da sveglio probabilmente egli aveva avuto difficoltà ad applicare la tecnica semplicemente perché la sua sfera conscia non era in possesso di una vasta capacità visionaria. A livello inconscio, invece, appena sollecitata, la sua creatività diventava vigorosa ed era quindi in grado di produrre associazioni grottesche, assurde e perfino, in alcuni casi, illustrate con fulminei schizzi di penna. Did tuttavia non si fidava nemmeno di questa “prova”. Disse che non era una dimostrazione del fatto che la tecnica immaginativa impiantata a livello inconscio funzionasse a dovere. Al momento di illustrare la sequenza associativa - non l’elenco in sé, ma le associazioni che collegavano le parole dell’elenco, il filmato - forse Luigi l’aveva semplicemente esibita e creata all’istante. Non potevamo avere una risposta certa alle nostre curiosità, ma l’ultimo test che avevamo avuto della esuberante e insospettata fantasia inconscia di Luigi, era forse più importante dei risultati mnemotecnici. Infatti la sua prestazione dimostrava che l’inconscio non solo poteva rendere di più a livello mnemonico, ma anche a livello creativo. La scoperta era questa: l’inconscio non era semplicemente un deposito inerte di memorie, ma una miniera di immaginazione viva, un campo fertile che poteva essere coltivato per creare pensieri inediti, idee e “associazioni” di elevata qualità. Una parte di me non era affatto contenta di questa “scoperta”: proprio nel momento in cui stavamo mettendo le mani sui segreti della memoria, sulla possibilità di uno studio facile e automatizzato, l’emergere di questo nuovo filone di ricerche allontanava definitivamente l’interesse di Did da una possibile applicazione scolastica, lo deviava verso un tema affascinante ma indefinito, vago, che non prometteva niente di buono perché a scuola non si era valutati per le proprie facoltà creative. Attirato dal nuovo indirizzo di indagine, Did abbandonò al loro destino Carlo, Luigi e tutti coloro che erano in attesa di una soluzione miracolistica per le loro miserabili pagelle. Gli entusiasmi degli altri non lo gratificavano, così come non lo intenerivano le loro suppliche opportuniste. Mi disse semplicemente che la memoria non lo interessava più perché “la creatività è una funzione più elevata”.
Da allora cominciammo a pensare all’ipnosi come a uno strumento che si poteva utilizzare per indagare non solo la memoria, ma la genesi delle idee. L’ipotesi era che così come le reazioni chimiche hanno bisogno di un catalizzatore, di un enzima, anche i processi psicologici potevano essere stimolati e accelerati da un input inconscio profondo, ovvero da una mobilizzazione delle riserve e delle risorse della mente. Essendo la memoria inconscia incommensurabilmente più ampia di quella cosciente, la possibilità di associare informazioni in modo innovativo per trovare la soluzione di un problema aumentava in modo esponenziale e quindi meritava di essere esplorata. Non si trattava solo di rintracciare delle schede all’interno di un casellario immenso, ma di utilizzare tutti i dati accessibili per configurarli in modo da trovare nessi e associazioni combinatorie nuove, inedite, originali. Se si ha a disposizione un dado, le combinazioni possibili che si possono avere nel gioco sono sei, perché un cubo ha sei lati, sei possibilità. Se possiedo due dadi ne avrò trentasei, e così via: più dadi, ovvero più dati ho a disposizione, più associazioni potrò generare. L’immensità dei dati registrati nella memoria inconscia promette una possibilità combinatoria molto estesa. Pur non contraddicendo la verità secondo la quale non vi è nulla di nuovo sotto il sole, potevamo - senza pretendere di creare cose nuove - andare alla ricerca di nuovi modi per associare cose vecchie. Questo non valeva solo per le cose, i prodotti, gli oggetti, ma anche per le idee: non nascevano idee nuove, ma associazioni nuove tra idee e concetti preesistenti. La potenzialità sconosciuta della fenomenologia creativa sembrava dipendere in ultima analisi dalla ricchezza della memoria resa dinamica e che, simile a un fertilissimo humus, poteva rendere feconda la coltivazione di nuove ideazioni e progettualità. Fu perciò un grande balzo in avanti, che riorientò il nostro interesse, determinò un nuovo slancio operativo, generò l’idea di considerare l’ipnosi non solo come strumento per accedere ai file inconsci della mente - compresi quelli secretati dalla coscienza ordinaria, contenenti tutte le esperienze, le lezioni udite, le pagine lette, le informazioni ascoltate e ripetute, trasmesse, trascritte, rielaborate, acquisite, come sforzo cosciente o inconsapevolmente - ma anche quale catalizzatore per sostenere i processi cognitivi del pensiero… quindi non solo memoria, ma anche fantasia, creatività.
L’intuizione più esaltante fu questa: elaborando considerazioni e formulando ipotesi, venivano alla mente idee per nuovi esperimenti dai quali nascevano altre informazioni da verificare nella realtà, quindi nuove ipotesi via via più pertinenti, all’interno di un circuito magico auto-sussistente nel quale la conoscenza si generava di continuo, come lo zampillio dell’acqua che sgorga da una sorgente perenne. L’avvio del terzo anno fu segnato da un’altra novità. Nella nostra classe c’era un altro studente respinto. Si chiamava Lario ed era stato compagno di banco di Did in prima e seconda. Ora si ritrovavano dopo un solo anno di separazione. Anche il nuovo arrivato non sembrava affatto contento di esser ripetente. Il primo giorno aveva cercato di tenere alla larga tutti quanti, eccetto Did. Portava scritto sulla fronte la domanda: “E tu che cazzo vuoi?” Quando Filippo Bosiani provò a metterlo a suo agio, gli rispose malamente proprio con queste parole: “E tu che cazzo vuoi?” Dopo una settimana Lario rivelò la sua vera anima, bonaria e tranquilla. Niente affatto competitiva. Sognava di riuscire a trovare un buon posto in Comune. Un impiego in amministrazione comunale gli avrebbe garantito lunghe pause caffè e pomeriggi liberi per dedicarsi alla sua ione: la pesca. Fino a metà novembre visse immerso in una condizione di depressione comatosa dalla quale non intendeva svegliarsi. Non amava lo studio e tantomeno la vita scolastica, ma non era uno stupido. A poco a poco con Did nacque una intesa speciale per via del destino comune. Cominciò a dare segni di risveglio manifestando una arguzia sorniona, una indolente ironia che riuscì a far breccia nell’animo di Did, il quale gli rivelò di essersi scoperto ipnotizzatore. Lario, che si faceva chiamare Larry, temeva la noia più della peste. Non si lasciò scappare l’occasione: l’ipnosi era una buona scusa per disertare i compiti e lo studio pomeridiano. Did però non cercava osservatori. Disse che io potevo bastare (meno male, pensai) e chiese a Lario di offrirsi come cavia. Egli accettò.
A inizio dicembre Did lo sottopose a una veloce iniziazione, riuscendo a indurre la trance, fissare una per l’ipnosi immediata e ottenendo le performance mnemoniche che già erano state sperimentate nel corso dell’anno precedente. Lavorando con lui, Did si rese conto di avere a disposizione un soggetto eccellente. Dietro quella patina di apparente inconsistenza, di lazzaronite acuta, in Lario vibrava una grande sensibilità e un sottile acume. La sua filosofia era questa: vivi e lascia vivere, non irritare gli insegnanti ma ispira loro pietà, fingi di studiare ma non provarci nemmeno, tanto c’è Carla. Non tenere occupato il cervello con la sbobba scolastica, prima o dopo ci butteranno fuori tutti. Did lo allenò, prima in trance e poi da sveglio e bendato, ad ascoltare il timbro dei suoi colpi di tosse, mormorii e altri segnali di comando: un codice sonoro e gestuale che egli avrebbe dovuto riconoscere in aula e che gli avrebbe permesso di ricevere ordini direttamente da lui ma all’insaputa di tutti, e quindi di ricorrere a strategie di suggestione per entrare in trance e affrontare meglio, con una insospettata memoria da urlo, le interrogazioni improvvise. L’occasione per fare il primo test non tardò a presentarsi. Un mercoledì mattina la professoressa di matematica chiamò Lario alla lavagna. Lui si alzò dal banco e si trascinò accanto alla cattedra preparandosi a fare scena muta. Difatti oppose alle domande un mutismo distaccato, come Gesù davanti al Gran Sacerdote del Sinedrio. Non tentò nemmeno di arrampicarsi sugli specchi, tanto appariva in ascolto di altre voci, preso nel gorgo di inestricabili pensieri e meditazioni. L’insegnante attese qualche istante, visibilmente indispettita, infine gli concesse un’ultima chance: illustrare il concetto di logaritmo e fornire almeno due esempi. Sul viso del nostro compagno si stampò l’espressione di estraneità che tutti gli riconoscevano. Lo sguardo trasmetteva un senso di spaesamento totale. Era così profonda quella espressione che, se fosse stata consapevole, avrebbe potuto diventare perfino una forma d’arte. Poi Larry guardò verso Did che rizzò il capo, serrò il pugno con la mano destra e inviò i segnali concordati per trasmettere l’ordine in codice: “…entra in trance, ora! rispondi con tutte le tue facoltà, le tue memorie…”
La professoressa notò lo sguardo di Lario verso Did, aggrottò le ciglia ma egli non fiatò, anzi sigillò le labbra come un bambino che rifiuta la pappa, poi diresse pigramente lo sguardo verso la finestra. Quando gli occhi dell’insegnante tornarono repentinamente su Lario dopo aver perlustrato l’intera aula con lo sguardo di un caporale maggiore che temeva di essere preso per il culo dai suoi soldatini, fece appena in tempo a vederlo mentre si ava le mani sul volto. Dopo aver chiuso gli occhi, li riaprì con uno sguardo diverso. Lario osò fissarla come non aveva mai fatto e, con una voce greve, rispose in modo impeccabile. Illustrò per filo e per segno, con le stesse parole che aveva udito dall’insegnante qualche settimana prima, il concetto di logaritmo, corredandolo con calcoli ed esempi a profusione. La professoressa, presa in contropiede, rimase basita e fece cadere la penna stilografica che teneva in mano. Carla si precipitò a raccoglierla e la pose sulla cattedra. Incredula, la Dragoni rifece la stessa domanda. Lario, distaccato e lontano, rispose nuovamente come se leggesse dalle pagine di un libro stampato. Infine, senza dire una parola, l’insegnante lo licenziò con un gesto furtivo e scrisse sette sul registro delle interrogazioni. Indifferente, Lario tornò al suo posto accompagnato da un sommesso e ammirato mormorio della classe. Era la prima sufficienza in matematica della sua carriera liceale. Superare un’interrogazione infatti, era ben più difficile che copiare qualche soluzione in un compito in classe. Mentre le interrogazioni continuavano, Did fece volteggiare discretamente una penna in modo curioso, lentamente, come per scrivere una lettera sulla superficie del banco. Era il segnale convenuto per pilotare il risveglio di Lario al termine della sua prestazione. Questi ò di nuovo le mani sul suo volto e li riaprì. Scosse leggermente la testa, sotto l’impulso di un brivido impercettibile. Era sveglio e sussurrò a Did: “Cosa è successo, come è andata?”
“Tutto okay, sei stato grande…” gli bisbigliò Did con calore. Il pomeriggio, entusiasta per il risultato ottenuto, invece di dedicarlo al rio di definizioni, formule e teoremi, Did lo consacrò a rinforzare subito il comando: “Puoi usare queste facoltà in mia presenza anche a scuola… concorderemo i segnali per farti entrare in trance e uscirne, quando ti trasmetterò l’ordine rimarrai nella tua posizione, in piedi o seduto, e in pochi istanti potrai ricordare quel che ti serve per rispondere alle domande, continuerai a ricordare tutto quello che i professori spiegheranno durante le lezioni e ripetere alla perfezione le loro parole, adattandole alla situazione, promettilo”. Al termine della seduta aggiunse con enfasi: “Tu non ricorderai nulla, al risveglio…” Did continuava a pensare che ricordare l’esperienza connettendo così fortemente la memoria conscia con quella inconscia, avrebbe potuto ridurre la profondità dell’ipnosi, creare tra le due sfere delle possibili perturbazioni o interazioni imprevedibili. Perciò proseguì nella correzione del tiro, perfezionando le istruzioni: “Quando verrai interrogato cercherai di fingere così bene, che nessuno se ne accorgerà… non dovrai are la mano sugli occhi oppure lo farai solo con la tua immaginazione. Entrerai in trance appena sentirai un mio colpo di tosse ripetuto per tre volte; subito dopo mi soffierò il naso; quando mi guarderai lo farai con discrezione, senza puntarmi gli occhi addosso. Uscirai dalla trance quando tornerai al banco e ti sveglierai completamente solo se mi vedrai toccare tre volte di seguito il lobo del mio orecchio destro”.
L’occasione per testare l’efficacia delle ultime istruzioni si presentò dopo circa una settimana. Lario fu chiamato alla cattedra per essere interrogato in latino. Davanti a un brano di Tacito, esibì una traduzione che aveva preventivamente memorizzato. Did lo aveva obbligato a registrare tutti i brani dell’antologia latina, con relativa versione italiana preparata da Carla. Dopo qualche giorno, lo addestrò a usare la trance anche durante un compito in classe. Un giovedì qualunque, all’inizio della prima ora di italiano, i temi da svolgere
erano appena stati assegnati. Il professor Tarasca aveva dato la consegna del silenzio. Did e Lario si scambiarono uno sguardo d’intesa. Poi il primo fece il gesto concordato. Alla vista del segnale Lario abbassò gli occhi e la testa di scatto, posò la penna sul foglio di protocollo come uno scolaretto diligente e guardò davanti a sé. La mimica del viso assunse una espressione vitrea, impersonale. Si ò il palmo delle mani sugli occhi, come per nascondersi dal mondo circostante, rilassarsi e prepararsi a superare un guado che scrutava dentro di sé. Contò mentalmente fino a dieci. Scostò le mani, riaprì gli occhi svegliandosi da un lieve sonno, aggiustò il foglio, prese in mano la penna e cominciò a scrivere senza fermarsi. In un batter d’occhio, il tema era finito. Per non creare sospetti, seguendo le istruzioni di Did, non lo consegnò subito. Rimase seduto con il foglio in mano senza più intervenire sul testo maleggendolo, stiracchiandolo, girandolo e rigirandolo per circa un’ora e mezza. Se ne separò alla fine, mescolandolo alla ridda di fogli che precipitosamente venivano consegnati all’insegnante un attimo prima del termine della lezione. Questo stratagemma venne adottato più volte. I risultati si rivelarono buoni, ma non uniformi. Se il tema chiedeva di sviluppare un argomento che era stato ampiamente illustrato durante le lezioni, il voto era ottimo, perché il soggetto attingeva il materiale da elaborare assemblando informazioni e memorie immagazzinate meccanicamente nel suo database inconscio. In altri casi, pur ottenendo un giudizio che andava al di là delle aspettative, l’eccellenza non veniva raggiunta. La capacità mnemonica non garantiva un miglioramento significativo della qualità riflessiva, soprattutto nelle composizioni che richiedevano uno sforzo puramente cognitivo. Le suggestioni post-ipnotiche con obiettivi autodidattici che determinavano le performance di natura scolastica non miglioravano necessariamente la maturità intellettuale dei beneficiati. Semplicemente li trasformava in super efficienti “registratori meccanici” del testo o delle informazioni che erano stati istruiti a
immagazzinare e a ripetere al momento opportuno. La memoria evocata non aumentava l’intelligenza, ma rendeva disponibile all’intelligenza i dati necessari per affrontare le prove. Specie se le istruzioni ipnotiche si riferivano appunto alla memoria e non a prestazioni mentali “superiori”. La conoscenza di una formula facilitava la ricerca della soluzione, ma non necessariamente la qualità del ragionamento implicato. Lario non si ricordava di nulla e non si poneva troppe domande. In fondo gli bastava ottenere un voto discreto. Il “come” questo si realizzasse non gli importava. Did era il mago che gli permetteva di raggiungere dei risultati accettabili senza scervellarsi nello studio. Il loro sodalizio, una simbiosi ispirata dal reciproco interesse, durò fino alla fine del liceo con soddisfazione reciproca.
Mentre io ero impegnato con Did in prima linea a seguire gli sviluppi di una ricerca che appariva stravagante, mi arrabattavo come tutti a cercare di tenere almeno a livello di sufficienza il mio profitto scolastico. Non potevo contare, come Lario, sulle risorse del mio inconscio. Gli altri studenti, ignari delle ipnosi che si svolgevano sotto i loro occhi, cercavano di sfruttare ogni occasione per agguantare un buon risultato. Nonostante le differenze sociali, culturali, ideologiche, la classe si compattava quando si profilava il rischio di un brutto voto, quando si materializzava la paura di un compito in classe particolarmente difficile, soprattutto di latino o di matematica. Nasceva così una solidarietà trasversale, una rete di relazioni di convenienza che risultavano provvidenziali e che si consolidavano attraverso una collaudata strategia di copiatura. Per rimanere a galla era sufficiente esibire una discreta infarinatura generale, assecondare l’insegnante durante le interrogazioni e ricevere la soffiata giusta, se si era in difficoltà durante i compiti. Un suggerimento al momento opportuno, un confronto sul significato della traduzione o l’utilizzo di una formula potevano salvare, oltre alla faccia, un trimestre o un’intera annata scolastica. Per questo era stata organizzata una rete efficiente di mutuo soccorso. La salvezza arrivava quasi sempre dai bigliettini: tutti i mini foglietti di carta che contenevano le
informazioni necessarie per superare una difficoltà partivano dalla postazione di Carla e arrivavano in fondo alla prima fila, nelle mani di Lucio Manzi. Stefano Sensi era destinato al ruolo di “distrattore”. Dopo aver ricopiato i suggerimenti essenziali su un biglietto mignon, la Carla era pronta a “are”. Si alzava a buttare della carta nel cestino vicino alla lavagna e Stefano entrava in azione: appena ricevuto il segnale, alzava la mano chiedendo di uscire in bagno. Faceva cadere la penna, un libro, oppure tossiva per richiamare l’attenzione del docente. Apionato di calcio, aveva il senso del gioco, della squadra, del coordinamento tattico, del team. Era un attimo. Appena sufficiente per distrarre l’insegnante. Tanto bastava affinché Carla asse il bigliettino a Fabrizia che a sua volta, dopo un breve intervallo lo faceva scivolare lungo la parete che correva sotto la finestra, di mano in mano, da Teresa a Concetta, da Paolo ad Alessandro, fino a Lucio. Da Lucio i bigliettini superavano lo spazio fra la prima e la seconda fila di banchi. Spesso contenevano suggerimenti per l’una e l’altra fila ovvero per le due distinte versioni dei compiti di matematica o latino. Al primo compito di matematica, tuttavia, quando arrivarono al banco di Did, le preziose trascrizioni di Carla si bloccarono. Did non li voleva are: diceva che era umiliante. Così toccava a Lario e poi a me riceverli e, dopo averli debitamente letti o copiati, ridistribuirli con generosità al resto della classe. A volte bastava uno sguardo per ricavare dalla scrittura in miniatura di Carla l’impostazione di una soluzione, il testo di una formula provvidenziale. In poco più di venti minuti i messaggi cartacei arrivavano nelle mani di Massimo, che dalla sua postazione in fondo alla seconda fila godeva di una visione generale dei movimenti di noi tutti e degli sguardi dell’insegnante di turno, per cui il suo controllo panoramico l’aveva trasformato nel più grande battitore libero della seconda B. Dalla sua posizione defilata, opposta alla cattedra, riusciva a far arrivare rapidamente i messaggi alle estremità dell’aula, controllando in modo particolare la situazione della terza fila dei doppi banchi alla sua destra, dove aveva come “atori” o assistenti particolari Ennio Grandi e Fulvio Gironi. Massimo era sempre impaziente e bisbigliava in un modo che tutti sentissero le sue richieste di aiuto, quasi fossero i sussurri di un naufrago allo stremo delle
forze. Giocava la sua partita di retrovia contando soprattutto sulla complicità di Lucio, Giovanni Butera - detto Nanni - che era il suo fiancheggiatore all’ala destra della classe, e delle donne, in particolare Teresa e Gianna. Nanni, un ragazzone alto e robusto, si comportava da gran simpaticone, con la disinvoltura tipica di chi sapeva d’esser quel che era: figlio di un alto funzionario del Partito Socialista in ascesa, lo chiamavamo il senatore. Invece Lucio Manzi s’era messo a ridosso della finestra non solo per meglio intercettare i pezzi di carta che scivolavano lungo il muro, ma perché un giovane aristocratico della città, il Conte Torno, apionato di automobilismo sportivo e corridore di rally, era uno dei migliori clienti della grandeofficina che sia affacciava davanti al liceo. Dal garage, spesso si vedevano uscire auto sportive di gran lusso, prototipi in assetto da corsa, macchine che si potevano ammirare sulle riviste specializzate. Una vera manna per Lucio che ci moriva sopra e che probabilmente aveva spostato la sua libido dalle gambe di Gianna che gli stava poco più innanzi, ai motori: due cose che avevano in comune il fatto che non le poteva avere. Metodico, preciso, con le idee chiare, aveva il destino segnato: sarebbe diventato ingegnere, apionato com’era di meccanica e automobili. Lucio divideva il banco con Guglielmo Strata che aveva il fisico di un atleta e il profilo che assomigliava a un busto di Giulio Cesare da giovane. Un profilo che pareva essere stato scolpito se non da Fidia in persona, almeno da un suo emulo. Il mondo delle sue conquiste, anziché in vasti spazi geografici, si estendeva però nel ben più misterioso e variegato universo femminile. Le donne avevano un ruolo di primo piano nell’assistenza ai compagni in difficoltà. Carla e Teresa, che occupavano la prima linea della doppia fila, addossata alla parete, in pratica guardavano la lavagna, in eterno castigo. Poi c’erano Erminia, Concetta, Fulvia e Lucia. Per noi maschi però le distrazioni maggiori provenivano dal banco della seconda fila dove era incastrato il profilo di Gianna.Con le sue vertiginose minigonne e la sua aria spavalda, era la ragazza più appariscente, dotata di maggior sex-appeal. Sembrava frequentare un’altra aula, tanto da sembrarci totalmente estranea perché aveva scelto rigorosamente di coltivare i suoi amori in altre sezioni e classi sociali, snobbandoci con smaccata noncuranza.
I non detti erano le parole non pronunciate ma solo pensate, indicibili, le verità non affermate apertamente, sottaciute ma rivelate dai comportamenti. Io e Did ci confrontavamo per individuare i non detti di compagni, insegnanti, genitori e persone che vivevano attorno a noi. I non detti di Gianna, colti da noi maschi, erano i seguenti: “Sono una gran figa, non lo vedi?”; “Cerco uomini leader, se non lo sei… aria!” Si distingueva, oltre che per la prontezza di spirito nel ribattere alle critiche e per le cosce perennemente al vento, anche per il fatto che a ogni innamoramento iniziava un lavoro a uncinetto, direttamente in classe, seduta al suo banco. Nessun docente osava interrompere quella inveterata abitudine di lavorare a maglia durante le lezioni. Men che meno insegnanti timorati di Dio come il professor Tarasca. Soprattutto da quando, un giorno, frugando inopinatamente nell’antologia dell’alunna per indicare una lettura estemporanea, fece cadere accidentalmente un preservativo usato a mo’ di segnalibro. Da allora imparò a stare alla larga dal banco di Gianna, dai suoi libri, dalla sua sacca e dalle sue gambe, come un esorcista posto in fuga da un demonio troppo temibile per essere fronteggiato con i soli buoni propositi e pie credenze. Ad esempio, quella di pensare al metodo Ogino-Knaus quale unico sistema lecito per la regolazione delle nascite. Credenza che aveva avuto il suo merito indiscutibile: quello di non funzionare affatto, garantendo così all’Italia cattolica del dopoguerra un rapido aumento demografico. Per assicurarsi la sua principale attività quotidiana, Gianna teneva un paio di gomitoli dentro una sacca di tela che portava a tracolla, appesa alla spalla destra come uno zaino di fortuna. I libri, stretti da un elastico insieme al diario, li portava dall’altro lato, sottobraccio. Non erano altro che un impiccio temporaneo dal quale liberarsi al più presto. Nella sacca trovava posto un intero bazar: un accendino, un pacchetto di Muratti, una stecca di cioccolato, una cintura di riserva, un orologio da polso, due pannolini di emergenza, tre confezioni di fazzoletti di carta, un paio di occhiali scuri anti UV, un diario segreto, penne, matite, un set di pronto intervento estetico completo di rossetto, collirio e una aspirina, un fermacapelli, una crema per le mani.
Al contrario di Penelope che prorogava il compimento della sua opera in attesa di Ulisse, Gianna per tutta la durata del liceo coltivò relazioni che si sarebbero concluse prima che i lavori a maglia destinati ai suoi amori potessero essere terminati. A eccezione di uno solo: un gilet color amaranto cucito con dedizione per la sua più intensa fiamma, Corti Faustino. Fu il suo unico innamoramento duraturo, ma - il destino è spesso imprevedibile - anche quello non corrisposto. Pertanto, Gianna avrebbe continuato a sferruzzare in classe per Faustino fino alla quinta liceo, preparando un corredo che sarebbe rimasto nei suoi cassetti per sempre. Non tutte le ragazze, però, seppero superare i loro inevitabili fallimenti affettivi con sufficiente grazia. Teresa, prostrata da un amore non corrisposto per un ragazzo della sezione A che aveva scambiato per un novello Adone, aspirante architetto ma anche precoce rubacuori privo di complessi, non si sarebbe più riavuta dalla sua cocente e crudele disillusione amorosa. Gianna seppe invece dribblare la sua débâcle affettiva con il proposito di non innamorarsi mai più di uomini che non fossero decisamente ricchi, seguendo una linea di condotta di grande successo e adottata da quasi tutte le belle o almeno appariscenti ragazze dell’epoca. Costoro, invece dei leader troppo acculturati, alla fine preferirono - con un più sano pragmatismo - frequentare o sposare ineluttabilmente dei borghesi molto benestanti. Alla fine della contestazione, grazie al loro istinto seduttivo, furono tra le poche a superare la rigida legge delle caste che si mantenne anche dopo l’università. Gran parte dei matrimoni continuavano a svolgersi fra persone appartenenti alle stesse categorie sociali, senza tante trasgressioni e migrazioni trasversali.
Intanto, proseguendo gli esperimenti di ipnosi e aumentando l’esigenza di razionalizzarli, incominciammo - prima impercettibilmente poi in modo sempre più manifesto - a impegnarci di più nelle attività extrascolastiche che in quelle propriamente scolastiche. Ci sentivamo sempre più estranei alla scuola ordinaria. Frequentavamo una scuola diversa dove noi eravamo allo stesso tempo gli insegnanti e gli alunni, senza iscrizioni, senza testi-guida o docenti, senza programmi. Era uno spazio-tempo molto differente da quello occupato dalle lezioni consuete.
Eppure la nostra scuola si stava configurando come un habitat psicologico e comportamentale lineare, rigoroso. Era complementare ed equidistante dall’altra scuola ordinaria, perché dotata di uguale dignità. Si trattava di una vera e propria scuola parallela. La scuola pubblica era una nave-scuola, ed eravamo certamente parte del suo equipaggio. Alle lezioni sul ponte, diurne, sembravamo addormentati semplicemente perché, di notte, frequentavamo altri insegnamenti che ci costringevano a rimanere svegli. La nostra scuola alternativa era piratesca, corsara, rasentava l’insubordinazione, tuttavia la nostra resistenza non era mai palese ma piuttosto silenziosa. Ignota al comandante e agli ufficiali della nave. Il nostro obiettivo non era quello di sostituirci alle autorità o di contestarne il ruolo, ma di guardare oltre i compiti quotidiani affidati perché ci attraevano altri orizzonti. Eravamo presi in un vortice del quale ignoravamo i rischi. Percepivamo che i pericoli nascosti nelle esperienze psichiche che stavamo affrontando, esigevano molta attenzione e consapevolezza. Avevamo disertato la disciplina scolastica per scoprire che le regole erano un elemento indispensabile anche nella nuova dimensione di autoapprendimento alla quale ci stavamo faticosamente aprendo. Non si trattava più di una fuga. Certo, prima eravamo evasi, ma poi avevamo toccato quella dimensione così sfuggente, complessa. Non era più un’attività para-scolastica. Al contrario, eravamo entrati nell’orbita di una scuola alternativa che richiedeva dedizione, applicazione. In questa dimensione la disciplina non era imposta da altri, ma piuttosto accettata come una libera scelta. Quando da soli si attraversa un quartiere o un territorio affascinante ma pericoloso, non c’è bisogno di obbedire ad alcun ordine esterno o imposto da regole, per rimanere in allerta. Si è spontaneamente vigili, in ascolto. In questa nuova dimensione era possibile “giocare” con le forze psichiche e, appena si perdeva attenzione, si usciva automaticamente dal processo creativo e si riattraversava la linea che separava il mondo dell’apprendimento spontaneo da quello dell’apprendimento forzato. Due scuole infatti sono come due linee parallele: il loro sapere e i loro metodi sono così diversi che non si incontreranno mai, nemmeno all’infinito.
Due linee possono essere al contempo due vettori: sono frecce. Rappresentano un percorso predeterminato, hanno una direzione e indicano un obiettivo differente. Nella nostra visione i vettori paralleli indicavano una direzione contraria, opposta. La prima, riconosciuta socialmente, orientata all’acquisizione delle conoscenze ordinarie per assicurare le modalità e le regole di vita comuni agli esseri umani, correva verso il basso: verso una conoscenza depotenziata, frammentata e alterata rispetto alla sua fonte originaria e adattata alle condizioni temporali e culturali nelle quali si vive. Ricreata secondo le mode, le esigenze del momento storico, dell’area socio-geografica, economico-politica. Questa conoscenza si esprime mediante il linguaggio consueto e la mentalità dominante. È un processo riduttivo e comporta una contrazione della memoria, dell’energia e del potere d’azione. In questo tipo di scuola, che si può definire l’istituzionalizzazione dell’oblio, il sapere viene erogato dall’esterno. L’individuo non deve fare nulla per ricercarlo: è già pronto, confezionato, e rappresenta il ato, la storia del conosciuto. Tutto deve essere imparato ex novo perché il bambino è concepito come una tabula rasa sulla quale scrivere ogni cosa. Nella seconda scuola la situazione è rovesciata: il sapere non è altro che una forma di ricordo, quindi viene privilegiata la memoria della propria differenza e identità. Nella scuola alternativa il vettore mira verso l’alto, rappresenta il tentativo di ricondurre se stessi a una unità sostanziale con la propria origine e con il tutto, poiché del tutto si percepisce e “si ricorda”, si percepisce la profonda unità. Scuola è un termine femminile e femminile dev’essere la capacità di accogliere, attraverso una forma di gestazione psichica e intellettuale, tale sapere simbolico costituito da analogie, similitudini, visioni olistiche. Il sapere maschile invece si impone, classifica, analizza, specializza, quantifica, struttura i materiali della conoscenza secondo un ordine gerarchico. La scuola delle donne apre all’intuizione, quella degli uomini addestra alla competizione sociale.
Nella scuola parallela l’io dell’alunno è stimolato a uscire dagli angusti limiti del suo mondo psicologico troppo domestico per cercare un contatto con il suo daimon, con le forze sopra-individuali, sovra-mondane, che lo trascendono. La guida di questa scuola segreta è interiore, quindi la conoscenza che si esperimenta scaturisce dal sé dell’alunno. Non è rivelata da altri, da maestri da seguire e dei quali ripetere i dogmi, i riti o il pensiero, adattandovisi. Se la prima scuola è costruita sulle parole, sulla grammatica, sulla scrittura, questa seconda è fondata su un’altra modalità cognitiva: sul silenzio, poiché solo il silenzio apre alla rivelazione del pensiero segreto. Il peccato originale della scuola tradizionale è di pretendere di educare alla parola senza are dal suo grembo, che è il silenzio. Così facendo la parola non è più il frutto di una auto-rivelazione, ma alienazione: le parole diventano sostituti della realtà, frammenti destinati ad assemblare costruzioni linguistiche sterili e significati grammaticali “morti”. Ma imparare le definizioni umane del reale non corrisponde alla realtà. Le parole non sono le cose che vogliono significare, indicare. Il silenzio è la base, il terreno, lo spazio e la condizione indispensabile affinché possano manifestarsi le differenti “rivelazioni”. Per questo ogni essere è diverso, anche se la maggior parte degli individui vuole essere eguale agli altri. Perfino quando cercano di darsi un’identità autonoma, le persone lo fanno nello stesso modo, con finti comportamenti anticonformisti che diventano costumi di massa. L’individuo comune è così ansioso di far parte del gruppo, che tradisce la sua natura. Invece la vita, la verità biologica si esprime nella diversità, nella libertà individuale rappresentata dalla differenziazione. Ma la scuola ordinaria, pubblica o privata che sia, generalmente sopprime le differenze, perché la singolarità è sovversiva. È una fabbrica di uguali. Nel programma di studio comune è inscritta la trappola melliflua e maligna del voto-premio, della gratificazione.
Se ti comporti bene, avrai il tuo zuccherino: una zolletta che può creare dipendenza e diventare una droga il cui livello nel sangue può determinare le oscillazioni dell’umore, la qualità delle emozioni, degli impulsi, il livello di autostima. Consapevoli di aver attraversato forse un confine proibito, invece di rimanere fedeli alla legittima istituzione per la quale la società, gli insegnanti, le autorità e i nostri genitori offrivano i loro sacrifici e le loro speranze, avevamo timore non di continuare ad attraversare l’ideale spazio vuoto, la terra di mezzo che separava una linea parallela dall’altra, un sapere dall’altro, una forma mentis dall’altra. Piuttosto, avevamo paura di quello che saremmo diventati se non fossimo riusciti a mantenere fede alla nostra vocazione di ricercatori corsari, ribelli. Temevamo, a causa delle forze contrarie e dei venti impetuosi che avremmo dovuto affrontare, di soccombere a un futuro destino di quieto vivere, di sonnolenza e torpore esistenziale, rinnegando così lo spirito di avventura, la ione per la conoscenza e in definitiva sconfiggendo noi stessi. Davvero eravamo venuti al mondo per diventare dei professionisti dalla faccia triste, dall’aria frustrata e insoddisfatta come quella dei padri e delle madri che accompagnando i figli a scuola o incontrandosi per le strade della città, si lamentavano dei parenti, degli amici, del tempo, delle tasse e del governo che avevano contribuito con il loro voto e i loro comportamenti, ogni volta, a eleggere e perpetuare? No, eravamo venuti al mondo per vivere, essere, conoscere… Non volevamo diventare dei consumatori dall’espressione superficiale, ebete e piaciona. Avevamo orrore di quello che avrebbe potuto accaderci… continuare a studiare, laurearsi, lavorare, fare carriera, mangiare, bere, amare, respirare e generare figli da addormentati. Così avremmo vissuto da morti credendoci vivi. Per molti studenti era in agguato un terribile destino, quello di una vita futura narcotizzata dalla sicurezza e dall’assenza di imprevedibilità. Circa metà della classe aveva infatti una vita già segnata: i figli dei farmacisti sarebbero diventati gestori della farmacia di famiglia; i figli dei medici avrebbero ereditato lo studio e la clientela del padre o della madre; i figli degli avvocati, avvocati; i figli degli architetti, architetti; i figli dei maestri, insegnanti, eventualmente di grado superiore, eccetera.
Anche se l’altra metà poteva godere di una maggiore mobilità sociale, quasi tutti potevano comunque contare su un’eredità non solo patrimoniale, ma di conoscenze, di relazioni, di referenze che avrebbero facilitato in qualsiasi caso l’inserimento professionale. La continuità di queste diverse forme di “capitale” avrebbe garantito il possesso dei valori economici, culturali e sociali che tali beni, immateriali ma determinanti, rappresentavano e assicuravano. Un minor numero di famiglie invece stava investendo nella scolarizzazione per fare il salto ed entrare a pieno diritto in un ceto sociale più elevato: figli di agricoltori, di piccoli artigiani, di operai, di insegnanti, riponevano le loro speranze in una prospettiva di maggior benessere. Una scuola democratica, non classista, poteva permettere questo salto attraverso l’accesso all’università e alle professioni che promettevano maggiore remunerazione e prestigio. Anche le donne potevano aspirare a una più alta classe di reddito, per cui una scuola aperta era il segno di questa grande flessibilità sociale, la possibilità di scalare anche da parte dei ceti più bassi le classi medie e medie-superiori. Tutti criticavano la borghesia ma desideravano farne parte. Essendo questo l’obiettivo con il quale le famiglie avevano iscritto i loro figli, ci appariva chiaro che la scuola che frequentavamo non aveva né l’interesse, né la capacità, né gli strumenti per valutare e sviluppare la nostra evoluzione psichica in termini di talenti “intangibili”, di potenzialità esistenziali. Il nutrimento vero poteva venire solo dall’energia interiore, emozionale, che certi insegnanti possedevano in virtù di una loro auto-motivazione individuale. Se si cresceva comunque, era perché ci si trovava appunto in una fase di crescita. La scuola ordinaria determinava una narcosi dei propri compiti evolutivi, perché invece di squadernare l’infinito alle nostre anime, incoraggiava l’assunzione di una forma mentis pronta per essere accettata dal mondo adulto conservatore. La domanda non era quanto la scuola fosse in grado di dare, ma quanto tempo ed energia la scuola sottraesse ad altre esperienze più fondamentali. I genitori che si vantavano dell’intelligenza dei loro figli, non desideravano
affatto che il loro pensiero diventasse troppo ardito, al punto da sfidare le regole e il senso comune. Ne sarebbe nato un conflitto insanabile. Per evitarlo, pur continuando a coltivare interessi “eretici”, per noi era necessario tacere le domande inquietanti, evitare i comportamenti che potevano apparire troppo eversivi. Nella scuola parallela si imparava a nascondere, per esigenze di sopravvivenza, la propria appartenenza a un cosmo diverso, costituito da valori sconosciuti agli abitanti del mondo ordinario. Ogni anno gli insegnanti che il destino ci assegnava, formavano delle costellazioni archetipiche costituite da varie strutture caratteriali, da un imprevedibile mix di competenze e personalità variamente assortite. Accadeva di assistere all’emergere, da una costellazione, di una stella polare: un docente particolarmente brillante che sapeva accendere intorno a sé altri fuochi, altri interessi, altre stelle. La prima sorpresa del terzo anno arrivò come un pacco-regalo dal capoluogo della Regione e conteneva un reduce dei primissimi moti della contestazione: l’insegnante di storia e filosofia. Arrivava con il treno alla stazione che si trovava a duecento metri dal liceo, e subito ritirava il collo come una tartaruga lesta a proteggere la testa nella sua corazza, per covare i pensieri che nascevano nei venerabili meandri delle sue lungimiranti meningi. Nei mesi invernali accentuava questa tendenza autoprotettiva tirandosi su il bavero del cappotto. Da settembre ad aprile portava un cappello Borsalino che, insieme ai capi classici che indossava, gli conferiva un’aura di sobria eleganza aristocratica. Pareva un esule che esibiva un portamento di grande dignità, e ci trattava tutti con un pizzico di provocatorio snobismo. Per Giancarlo Maiorino, che veniva dal Berchet di Milano dove si era distinto per aver sostenuto le ragioni degli studenti, noi eravamo degli inguaribili provinciali. Quando iniziava a spiegare si inabissava sulla sedia e diventava immobile come una statuaria: le uniche parti mobili del corpo erano le mani, che sembravano disegnare nel vuoto strane volute e mulinelli nel tentativo di avvolgere e impastare l’aria. Ogni tanto si schiariva la voce, si sollevava, emergeva dalla cattedra innalzando quel suo sguardo di vispa testuggine e
chiedeva una caramella per ammorbidire la voce roca. Gianna, che era capace di pendere dalle sue labbra per due ore filate e andare in estasi ogni volta che lui la guardava, si metteva al banco alla sua destra e appena lo sentiva fare mmmh, mmmh! o tossicchiare, si lanciava verso di lui con le classiche mentine che il professore prediligeva, anche se a volte non disdegnava le caramelle mou. Uomo di mezza età, intellettuale colto e maturo, dotato di glamour, capace di ironia e autoironia, serio senza essere serioso, rideva delle sue debolezze, come quella di sbirciare senza falsi pudori nelle scollature delle ragazze. Illustrando i percorsi del pensiero filosofico, li tracciava davanti a sé come sopra una mappa invisibile. Questa sua modalità espressiva mi pareva una sorta di mistica e simbolica panificazione, giacché sembrava far lievitare e levitare la sostanza delle idee. Il pensiero possedeva dunque una sua estensione, una profondità, una dimensione spaziale tridimensionale. Quasi che la filosofia si potesse insegnare solo scolpendone i tratti, segnando l’aria attraverso le mani per plasmare una scultura invisibile. Gli itinerari e i percorsi della mente rivelavano attraverso le sue lezioni una natura viva, materica, plastica, rappresentabile visivamente. Per effetto di quei ghirigori spaziali ricchi di simbolismo, noi eravamo indotti a sviluppare nuovi organi prensili atti a catturare e metabolizzare la portentosa sostanza-pensiero. Egli era il sacerdote dispensatore del nutriente e fragrante alimento per l’intelletto, simile a un pane appena estratto dal forno e quindi capace di emanare un profumo irresistibile. La filosofia non era un affare esclusivo della mente, ma riguardava il naso, i sensi, il corpo. Purtroppo ci mancava la dimensione peripatetica, itinerante, dei primi filosofi che discutevano e dialogavano camminando, movendosi nello spazio articolando muscoli, esercitando tendini, respirando, ossigenando neuroni, immergendosi nella natura ispiratrice di un pensiero ancora in grado di svilupparsi a tutti i livelli: scientifico, speculativo, poetico, prima delle divisioni, delle specializzazioni, dei contrasti tra religione e scienza, filosofia e tecnica, mito e osservazione. Certo, non era facile per noi, inscatolati in quei banchi scolastici che causavano il rachitismo fisico e psichico e ci impedivano di pensare in grande, riuscire a seguire il professor Maiorino nel suo dialettico e sfolgorante dispiegamento concettuale e linguistico. Un elemento fondante del suo fascino era la rauca soavità che nascondeva a
fatica la fragranza del suo pensiero. Un aroma che nasceva da un rivolo di fede laica mista a un alito di autentica poesia. Le sue parole si condensavano nell’atmosfera della classe formando nuvole gonfie di contenuti che, sebbene invisibili, frusciavano e galleggiavano nell’aria, grandi come l’America e altri continenti ancora sconosciuti, interdetti a chi aveva preferito restringere la sua anima agli scarni e miserevoli, pietosi confini del suo momentaneo profitto scolastico. Sicché, a ogni sua lezione, a noi suoi aspiranti discepoli pareva di toccare il cielo con un dito. Nello stesso tempo, il mondo delle idee di Platone e dell’intera filosofia diventava accessibile, afferrabile, maneggiabile come le nubi che, nel nostro vissuto visionario, apparivano ad altezza di soffitto della nostra aula. Sembrava difatti che egli, prima di venire a far lezione, avesse fatto colazione con Democrito in persona, che all’ora del caffè si vedesse tutti i giorni con Platone e che, una volta ripreso il treno per Milano, avrebbe dialogato con Parmenide, che a cena fosse atteso ansiosamente da Epicuro e Lucrezio, i suoi pensatori preferiti. Quando la classe veniva così assorbita dalla affabilità della sua dialettica da rimanere attonita, schioccava le dita per richiamarci a una forma più viva di attenzione. Oppure, usava questa frustata sonora per chiedere un surplus di concentrazione, per prepararci a un salto concettuale imminente e additando la vertiginosa altezza della vetta ancora inaccessibile dell’Olimpo. Did si era messo a leggere quasi tutti i libri che il Maiorino citava nel corso delle sue scorribande meditabonde attraverso i sentieri della storia e dell’umana riflessione. Appena l’insegnante si sedeva alla cattedra, Did si precipitava a chiedergli lumi su alcuni i oscuri di questo o quel testo, per esempio del Capitale, del Manifesto, o di qualche commento critico alle opere di Platone, di Spinoza, di Kant, Hegel, Francis Bacon ed Erasmo da Rotterdam. Sebbene il terzo anno prevedesse un programma di storia della filosofia limitato ai primi filosofi greci, egli attraversava tutte le epoche e spaziava da un pensatore all’altro con grande libertà e padronanza, trattando temi astratti e problematiche storiche con una concretezza e attualità che ci parevano ispirate da un solido e asciutto pragmatismo. Lo stimolo a ragionare in termini puramente logici, astratti, poteva mettere le ali a una inclinazione metafisica, ma lo studio delle dinamiche storiche ed
economiche che il marxismo educava a non trascurare, rivelava un’azione moderatrice, equilibrante per riuscire a coltivare una visione più aderente alla realtà. Non per questo io e Did ci convertimmo mai alla dottrina politica del marxismoleninismo o al materialismo storico. Al contrario, rimanevamo ancorati a una concezione metafisica perché per noi le idee erano le spie dell’infinito, il mondo la proiezione di un sovra-mondo e la natura il corpo di uno spirito trascendente. Le idee erano concrete quanto il processo che portava alla loro materializzazione e incarnazione. Il mondo platonico delle idee esisteva veramente, così com’era augurabile un “governo dei migliori”, secondo la più genuina concezione aristocratica. Ciò non significava affatto disprezzare la democrazia, che era il contesto storico del nostro presente nel quale occorreva imparare a muoversi, accettando la sfida della formula politica che il destino ci obbligava ad affrontare o cambiare. Il rischio implicito nel principio di un governo da parte di una élite illuminata, non giustificava naturalmente le varie forme di dittatura presenti sulla terra. D’altra parte neppure l’ideale troppo spesso tradito della democrazia permetteva di tollerare un appiattimento degli esseri umani verso il basso. Troppo spesso il culto delle istituzioni cosiddette democratiche incoraggiava un dilagante populismo che invece di realizzare un’equa ridistribuzione della ricchezza, delle risorse e delle opportunità, livellava e umiliava l’eccellenza individuale a favore di un egualitarismo di massa. In definitiva, La Repubblica di Platone non era meno importante del Capitale di Carl Marx e, pur non costituendo l’unica soluzione a tutti i problemi, l’economia poteva pure avere un suo posto all’interno della meccanica storica, nello sviluppo del destino dei popoli e degli individui, senza però escludere visioni più ampie e onnicomprensive. In questa ridda di riferimenti e interpretazioni, era impossibile etichettare il professor Maiorino, identificarlo all’interno di uno schieramento, di una corrente filosofica, poiché sembrava praticare un sincretismo, un approccio eclettico per il quale la ricerca era un valore in se stesso e il dubbio sistematico era sacro come la fede.
A volte ci chiedevamo quanto egli avrebbe potuto trovare gratificante la sua attività nella nostra scuola, soprattutto dopo che - grazie a confidenze di corridoio - avevamo saputo che era stato spedito in provincia a seguito di un provvedimento punitivo. A Milano c’era l’epicentro del Movimento Studentesco, delle manifestazioni di protesta di vario genere: scioperi, manifestazioni organizzate insieme agli operai, dibattiti, cortei che erano sfociati in veri e propri scontri con la polizia. Maiorino aveva aderito alle istanze portate avanti dagli studenti per cambiare almeno in parte la scuola e la società, ed era stato allontanato dall’epicentro della “rivolta”. Ora, la pratica repressiva di allontanare gli elementi ritenuti pericolosi, di spostarli da un luogo all’altro per neutralizzarli e dividerli, è una strategia demenziale, perché non fa che propagare le metastasi - stimolanti e salutari - del male che si vorrebbe estirpare. Il nostro professore di filosofia era consapevole del suo ruolo di untore e propagatore moderato delle nuove aspirazioni provenienti dal mondo studentesco milanese. Rimanevano nella classe alcune frange ostili alla sua persona, alla sua filosofia, all’idea che egli rappresentava: la cultura, l’intelligenza che osa, accetta il dibattito, il valore del pensiero, l’esercizio del confronto, l’umile ma anche gloriosa solitudine del filosofo, del laico che ricerca la verità, la possibilità di dare dignità all’esistenza anche in assenza di una verità assoluta. Dai nostri compagni più allineati con i valori borghesi, soprattutto da parte degli assidui lettori della Gazzetta dello Sport e di Tex Willer, si sentiva spesso ripetere questo ritornello: “La filosofia è quella cosa per la quale e con la quale il mondo rimane tale e quale”. Il pregiudizio secondo cui la filosofia non era altro che un ozioso quanto inutile esercizio teorico, serviva in realtà a mascherare da parte di alcuni studenti la loro diffidenza verso una ricerca libera da preconcetti. Non a caso i più conservatori prediligevano materie dogmatiche, presupposti ben sicuri, fissi come le stelle del firmamento tolemaico. La filosofia era snobbata da coloro che potevano vantare bei voti in matematica, rivelando la paura della complessità, una forma di impotenza ad affrontare i contenuti di natura umanistica che avrebbero dovuto
almeno in parte integrare le conoscenze della scienza e della tecnica. Ma così come i professori di materie tra loro differenti e complementari non si incontravano e non dialogavano per integrare i loro programmi, così questi due atteggiamenti - pro e contro la filosofia - dividevano in due gruppi incomunicabili gli studenti, i quali in generale, incoraggiati dall’organizzazione scolastica verso un orientamento opportunistico, investivano le loro migliori energie nelle materie tecniche considerate prioritarie, non in quelle più “formatrici”. La priorità non era la cultura, ma il possesso e l’acquisizione degli strumenti matematici per “manipolare” la realtà, in funzione delle applicazioni tecnologiche nelle future professioni. C’era la convinzione quasi unanime, sostenuta silenziosamente anche dai genitori, che Architettura, Ingegneria, Medicina, eccetera… ovvero le professioni serie, classiche, non avessero affatto bisogno della filosofia, ma di solide basi fisico-matematiche: le materie fondamentali di ogni liceo scientifico che si rispetti. Tuttavia la filosofia ci appariva quale metodologia logica, sistema per pensare, superiore strumento ordinatore per impostare il ragionamento, indispensabile anche alle applicazioni tecnico-scientifiche che ne risultavano quindi dipendenti e subordinate. In una scuola così opportunistica accadeva fra l’altro che le letture extrascolastiche languissero e, se proprio venivano coltivate, dovevano essere finalizzate, direttamente o indirettamente, al profitto scolastico. Molti studenti non sentivano il bisogno di leggere altro che lo stretto necessario per agguantare un voto discreto. Tutto il resto, era superfluo. Se ci fosse stata una materia dedicata alla “curiosità intellettuale”, il loro voto sarebbe stato zero. Le lettrici più avide erano le nostre compagne. C’era chi, a quindici anni, aveva saccheggiato gran parte dei classici della letteratura e affrontato testi impegnativi che ne avevano consolidato precocemente l’intelligenza e la maturità. Ma tra i maschi eravamo in pochi a cercare, attraverso i libri, di vivere altre vite. Alcuni affidavano lo sviluppo del loro sé a letture di carattere politico, altri solo alla musica, oppure alle riviste sportive. Altri ancora, al di fuori dell’ambito
scolastico, leggevano solo i fumetti di improbabili eroi, conservandone gelosamente i numeri. Did invece trovava l’esercizio del pensiero filosofico particolarmente stimolante. Anche se il professor Maiorino da un certo punto di vista appariva un escluso, il suo brillante stoicismo incoraggiava a perseguire, indipendentemente dal consenso o dal riconoscimento pubblico, insospettabili piaceri esistenziali. Nonostante la filosofia fosse quindi considerata una cenerentola e il professore milanese fosse stato subito oggetto di una presa di distanza da parte dei circoli della destra e dei moderati della comunità liceale, egli si prese una rivincita con i fiocchi a febbraio dello stesso anno, mentre la febbre della contestazione si espandeva vittoriosa. Un manipolo di giovani, scalzando la guida sonnacchiosa delle tradizionali associazioni, aveva preso in mano i nuovi orientamenti della cultura locale. Con iniziative incalzanti animavano la città, sensibilizzavano le persone, si esponevano, ci mettevano la faccia organizzando al Cinema Politeama Cremonesi le “Giornate di controcultura”. Con la compagnia Teatro Zero si trasformavano in autori, attori, registi, scenografi che si ispiravano alla realtà vissuta tra i banchi di scuola e mettevano in versi, traducevano in opere, in spettacolo, le contraddizioni della società. Tutta la città era invitata ad abbandonare i modelli basati sulla paura e le false credenze, a trovare lo spazio per esperienze di maggiore gioia, creatività e autoespressione. Nel vedere le istanze della controcultura radicarsi in provincia, Maiorino gongolava. Il suo prestigio personale salì alle stelle quando - durante uno spettacolo itinerante di Dario Fo, patrocinato dalla compagnia teatrale costituita dagli studenti - fu visto accompagnarsi a una bionda dalle curve stratosferiche: una donna di gran classe, con un’anatomia alla Marylin Monroe e che in città non si era mai vista. Ancora oggi, molti ricordano con entusiasmo non la performance del futuro premio Nobel, ma la misteriosa e avvenente accompagnatrice del professor Maiorino. Fu la dimostrazione pubblica che la filosofia e la cultura non erano attività sterili ma richiedevano anzi una mentalità volitiva e potevano conferire un fascino e un atteggiamento virile al quale le belle donne non riuscivano a
rimanere insensibili. Pertanto, i benefici di quell’insegnante in esilio che aveva portato una ventata metropolitana nella nostra angusta e asfittica quotidianità, almeno per noi che ci nutrivamo di nuovi stimoli, furono una vera manna dal cielo. Inoltre il professor Maiorino ci fece capire che esisteva una differenza sostanziale tra i professori che insegnavano con il minimo sforzo, in attesa del 27 del mese - giorno dello stipendio - e quelli che, animati da una vocazione che andava oltre la portata della loro influenza individuale, vivevano quel che comunicavano e quindi potevano permettersi di trasferire, in modo contagioso, i loro valori alle giovani generazioni.
IV
Lectio magistralis - Quando al libero pensiero spuntano le ali
L’ipnosi è sempre stata trattata con sospetto, diffidenza, considerata persino dall’opinione comune e in particolare dalla Chiesa come strumento demoniaco per il controllo delle coscienze. Eppure l’esempio più esaltante di ipnosi, di addormentamento, di sonno proficuo e fecondo, lo troviamo nelle pagine della Bibbia, fin dalle prime battute. Prima di trarre fuori la donna, l’essere femminino, dall’uomo, Dio fece scendere su Adamo - probabilmente un perfetto ermafrodita - un sonno profondo, una sorta di anestesia pre-chirurgica e, nel corso di quel sonno indotto, al “primo uomo” fu tolta “una costola”. Did sosteneva che era questo il motivo per cui le donne sono più sveglie degli uomini: la divinità si era dimenticata di risvegliare Adamo, che era rimasto così addormentato in eterno, mentre Eva era nata sveglia e non aveva subìto alcun trattamento anestetizzante. Ecco spiegata la ragione della spiccata intuizione femminile. L’uomo cerca invece nella creazione intellettuale quell’esperienza sostitutiva del parto che nella donna è geneticamente prevista.
Ma allora era difficile rivendicare per le nostre indagini uno status di ricerca scientifica, riconosciuto dall’istituzione scolastica. Il nostro preside don Bonara sognava piuttosto di fare del liceo un piccolo feudo privilegiato per la formazione cattolica delle giovani generazioni, destinate a diventare le classi dirigenti del futuro. Gran parte del corpo insegnante, a partire dal suo vice, lo ossequiava, lo temeva e lo assecondava. Il vicepreside, professore di educazione artistica, era una palla di lardo che durante le lezioni di disegno urlava “baluba!” agli studenti e in aula fumava una sigaretta dopo l’altra. Aveva la mano destra ingiallita dalla nicotina, che però sapeva usare per disegnare con un tratto guizzante e deciso. Preside e vicepreside occupavano il nuovo edificio del liceo cittadino come se fosse una loro proprietà. Alle pareti dell’Ufficio di Presidenza erano appesi grandi quadri con citazioni
dalle opere di Dante e di Quasimodo aventi come soggetto “La Carità”. In una tela stavano scritte le parole di Leonardo sul volo degli uccelli: “Dal monte … (Ciceri) piglierà il volo il famoso uccello ch’empirà il mondo di sua gran fama”. Tutte le opere erano caratterizzate da colori scuri, con uno sfondo di ombre ed ectoplasmi, specchio di una concezione fantasmatica della scienza e della conoscenza. Don Bonara, ex-cappellano militare che godeva i favori dell’influente Cardinale Siri di Genova, aveva l’abitudine di piazzarsi, alle ore 8.00, sul gradino più alto della scalinata. Da quel punto strategico osservava uno a uno gli studenti in entrata, come un comandante di fregata costretto a navigare in acque infide e profonde. Ci guardava compiaciuto dal suo ponte di comando. Noi eravamo dei mozzi che sfilavano sotto il suo sguardo perspicace, capace di distinguere dei potenziali ammutinati del Bounty. Io, Did e altri ci sentivamo in realtà dei carcerati che, dopo essere stati in semilibertà nell’intervallo fra una giornata di lezioni e l’altra, purtroppo tornavano regolarmente alla loro cella. Con un monsignore che si vantava dei suoi trascorsi militari, l’ora di religione cattolica obbligatoria, la pressione e il controllo esercitati sugli insegnanti più progressisti, cattolici o laici che fossero, il liceo scientifico Leonardo da Vinci ci sembrava una succursale del seminario diocesano piuttosto che una scuola capace di educare dei liberi pensatori alle concezioni scientifiche e sociali che si “annusavano” nell’aria e che avremmo desiderato respirare a pieni polmoni, lontano dalle nebbie e dalle muffe ideologiche che invece ricoprivano come un intonaco invisibile le pareti delle aule. L’intero edificio ci sembrava un immenso museo dove proliferavano i virus letali di un morbo contagioso: quello di una mentalità bigotta e sub-provinciale, piccolo-borghese, piccolo-mentale, asfissiante e ipocrita. Pomposa come l’unica lezione che il preside aveva cercato di impartire alla nostra classe: una lectio magistralis, senza domande e senza risposte, senza contradditorio e dialogo con gli studenti. Tuttavia, anche se prevedibile nella forma, a tratti i contenuti mi parvero stranamente interessanti e scoprii che potevo immergermi nella descrizione dell’affresco di Raffaello La Scuola di Atene, con Platone e Aristotele al centro dell’opera. Erano le figure rappresentative di due differenti
indirizzi filosofici: la prima slanciata verso l’alto, indicava il trascendente mondo delle idee, la seconda ben piantata per terra era la metafora di un razionalismo sistematico e pragmatico. Mi sembrò di capire, per contrasto, che il prof. Maiorino cercasse invece di insegnarci la filosofia intesa quale metodo di pensiero, con un approccio maieutico, mentre il preside e i professori più “all’antica” ci trasmettevano solo la storia della filosofia seguendo alla lettera i programmi. Secondo il nostro don Bonara era pressoché impossibile, per noi studenti, accedere alla filosofia senza are dalla storia della filosofia. Non eravamo ancora soggetti in possesso della “licenza di pensare”. I non detti più significativi del preside, erano i seguenti:
avete avuto un gran culo a essere capitati qui, nella scuola d’élite della città; siatene degni e orgogliosi; studiate e basta, non azzardatevi a creare problemi nella mia scuola; non contestate, non fate politica in questo tempio dell’istruzione, perché altrimenti vi distruggo; sono preside e prete, autorità civile, religiosa e morale; sono pedagogista; sono stato cappellano militare, conosco la storia, ho fatto la storia, mi dovete un gran rispetto!
Ma già nel corso dei primi mesi dell’anno, quell’agognato e preteso rispetto s’era incrinato. Le inquietudini scoppiate in aperta contestazione si mescolavano a episodi goliardici. Uno studente dall’aria perennemente insoddisfatta, aveva scritto la parola merda su un grande cartello che poi aveva calato con una corda alle finestre del piano sottostante la sua classe, a portata di vista degli alunni della prima A. Un altro appariva all’improvviso correndo per i corridoi innalzando il camice nero del bidello sospeso a uno spazzolone gigante, come fosse un vessillo
fantasma, mentre faceva il verso del gallo cedrone. Proteggeva la sua identità con una maschera da carnevale e si eclissava nascondendosi nei bagni, riuscendo per un po’ a farla franca. Il primo se l’era cavata con una sospensione di due giorni, l’altro con un ammonimento formale e la minaccia di un bel sette in condotta. Anche la nostra classe aveva fatto la sua parte. Prendevamo di mira soprattutto le lezioni del prof. Gilberti, insegnante di chimica e biologia, che teneva sempre in mano i suoi occhiali agitandoli come un arnese ammazzamosche. Il non detto del prof. Gilberti era semplice: la biologia è la materia più interessante perché è la più vicina alla realtà, è lo studio della vita, il resto è astrazione. Nelle sue lezioni però la realtà ci appariva “fissata” con il colorante artificiale che si usava per irrigidire un campione vitale tra i vetrini di un microscopio. Il suo sguardo cercava avidamente una vittima alla quale incollare il suo sguardo da sanguisuga gentile e dalla quale risucchiare tuttal’attenzione possibile. Ma più saltava da un banco all’altro, più le sue vittime si schermivano, si ritraevano. La ragione era chiara: nessuno amava avere addosso per cinquanta minuti lo sguardo fisso del professore e le gocce di saliva che dalla sua bocca schizzavano da tutte le parti. Lanciava occhiate spiritate, da falco impazzito, e si impalava lì davanti al malcapitato di turno senza lasciare scampo. Lo rendeva però simpatico la straordinaria capacità di entusiasmarsi nella descrizione di un microrganismo, di un artropodo, di un gasteropodo o delle squame microscopiche dei lepidotteri. Aveva una vera ione per l’ornitorinco e l’echidna, appartenenti ai monotremi, dai quali discendevano i mammiferi che si riproducevano deponendo le uova. Lo spirito della biologia a cui si richiamava nascondeva qualcosa di arcaico. Il prof. Gilberti non parlava delle trasformazioni vitali, dei dinamismi biochimici. Nella sua dottrina biologica le specie pareva che esistessero solo per essere incasellate in qualche austero schema genealogico o faraonico impianto ordinativo: sembravano impagliate, esangui, mummificate nello sforzo di classificazione. La vita era una cosa statica senza possibilità di mutamento. Mentre per noi adolescenti il mondo era una continua sorpresa e cambiava repentinamente, le complesse classificazioni dei fenomeni naturali previste dalla concezione di Linneo mortificavano in tabelle e definizioni esoteriche l’imprevedibilità della vita, pietrificandola anziché farla fluire, liberarla, rivelarla
nel dinamismo della stessa molecola del DNA della quale il Gilberti sembrava perfino ignorare l’esistenza. Una sola volta nell’intero arco della formazione liceale ci portò nel pur fornito laboratorio di chimica. Per questi e altri oscuri motivi finì per diventare uno dei bersagli prediletti dai mascalzoni della classe che inventarono degli scherzi su misura. Il trattamento riservato ai professori variava in base a quello che essi rappresentavano. Non dipendeva affatto dalle materie insegnate, ma dal loro comportamento nei confronti degli studenti. Percepivamo distintamente un atteggiamento di ostilità, indifferenza o interesse, a prescindere dalle loro capacità didattiche e dalla loro conoscenza della materia. Erano presenti tutte le combinazioni possibili: un professore molto competente ma ostile, uno indifferente ma dotato di capacità didattiche che tuttavia non metteva a disposizione degli studenti se non era stimolato dalla stessa classe, quello incompetente sul piano culturale e didattico ma interessato a sviluppare una relazione con la classe, eccetera. Alla professoressa di letteratura inglese chiedevamo perché mai si dovesse parlare italiano nel corso delle sue lezioni. Avevamo l’impressione che lei fingesse di insegnare e quindi a nostra volta fingevamo di studiare. Ma questo lassismo improduttivo faceva comodo anche a noi, e finivamo per deriderla apertamente anche nel corso delle sue lezioni, senza però mai scrivere il suo nome nella lista nera. Ignoravamo che avremmo avuto più danni dalla sua inettitudine e accondiscendenza, che da altri professori che ci apparivano sì ostili ma erano però esigenti e competenti. Io, Did e i pochi altri che saltuariamente avevano avuto la possibilità di osservare le performance mnemoniche in ipnosi, eravamo sempre stupiti nel constatare come, in un luogo dove si richiedeva l’esercizio delle facoltà mentali, fosse proprio il funzionamento della mente ad essere escluso dallo studio. Eppure la cultura italiana aveva avuto una grande tradizione mnemotecnica, con esponenti del calibro di Pico della Mirandola e Giordano Bruno.
Dov’era finito quel sapere? Perché in Italia, diversamente da altri paesi europei, bastava avere una laurea in tasca per poter pretendere di saper insegnare? Conoscere una materia non significa saperla trasmettere, illustrare, comunicare. I docenti generalmente non pensano che il loro primo compito dovrebbe essere quello di motivare allo studio della loro materia. Per fortuna vi sono anche notevoli eccezioni. Insegnanti capaci, che sono tali non grazie al sistema scolastico, ma nonostante l’andazzo imperante che tende a livellare verso il basso le prestazioni didattiche. Questa élite di docenti ha costruito la sua professionalità attraverso un investimento personale, un aggiornamento volontario, e iniziative spesso osteggiate da colleghi scansafatiche. Almeno questo era quello che riuscivamo a percepire. D’altra parte, la grande massa del corpo studentesco usava come alibi questa impreparazione del corpo insegnante per poterlo contestare, insieme ai programmi, esigendo uno studio facile e non selettivo. La selezione che pretendevamo si operasse nei confronti dei professori, non eravamo pronti ad accettarla nei nostri confronti. Però una cosa era chiara: i pochi professori che avevano qualcosa da dire lo potevano fare anche indipendentemente dalla materia che insegnavano. Erano coloro che portavano in dote nel loro insegnamento, la loro personalità, comunicando e testimoniando i valori nei quali credevano, arricchendo così la nostra gamma di modelli comportamentali incarnati dal mondo degli adulti. I modelli esistenziali e relazionali che si potevano prendere a prestito erano molteplici e provenivano da docenti e coetanei. In una classe si forma una serie di relazioni, di trame invisibili e inconsapevoli che vanno oltre i rapporti formali. Si instaura una rete di rapporti inconsci non solo tra le persone ma tra ogni singola persona e il gruppo, la classe stessa. Vivere per alcuni anni, per più ore al giorno, in uno spazio fisico comune, soggetti alle medesime esperienze, crea in ogni caso un legame particolare. Determina una sorta di imprinting culturale e comportamentale il cui influsso orienta gli individui ben al di là della loro consapevolezza. Il gruppo era perciò un territorio di osservazione e sperimentazione delle leggi che regolano i rapporti umani, il vissuto interpersonale.
A quell’età non eravamo molto consapevoli delle nostre differenze sociali. Alcuni di noi sentivano la responsabilità dei loro studi e manifestavano l’orgoglio di frequentare una scuola elitaria. In altri emergeva la consapevolezza di dover soddisfare prevalentemente, anziché le proprie, le aspettative dei genitori che attraverso il successo scolastico dei figli si illudevano di placare le loro ansie. La famiglia si interponeva tra gli interessi e i valori della scuola, quelli degli studenti e quelli della società. Una prova lampante della estrema difficoltà a conciliare queste diverse istanze era il fatto che in quasi tutte le famiglie borghesi gli stessi genitori guardavano con molto sospetto al ruolo di alcuni professori, soprattutto se particolarmente attivi e capaci, indipendenti. Il loro stipendio non era esaltante, ma in quel ruolo potevano influenzare i loro figli spostando l’interesse dalla carriera, dall’agognato riscatto o prestigio sociale, di successo economico, verso altre mete ove la priorità era data dalla qualità delle idee, dalla ricerca di una maggiore giustizia collettiva, da forme di partecipazione e condivisione del sapere, delle informazioni, delle decisioni. Bastava poco per essere definiti cattivi maestri, istigatori dell’odio di classe. I docenti meno allineati erano visti come potenziali dirottatori delle energie adolescenziali verso obiettivi pericolosi, anche quando sottolineavano le esigenze degne di una società aperta e più evoluta, capace di coniugare le domande di sicurezza e di garanzie sociali con il riconoscimento dei meriti del singolo, dell’iniziativa privata, della libera e leale competizione. Cometutti, anche noi cercavamo di resistere e di esistere all’interno di questo spazio abitato da forze e tensioni più grandi di noi. Ogni gruppo si protegge istintivamente da contenuti che percepisce troppo estranei, o sente minacciosi nei confronti del proprio patrimonio riconosciuto di valori. Noi eravamo impigliati nelle reti che pescavano nei bassifondi del pensiero comune e si stratificavano lentamente anche nelle migliori comunità. Ma volevamo cercare di volare alto, anche a rischio di fare la fine di Icaro. Volevamo vivere o almeno soccombere con onore. Per elevarci, dovevamo distaccarci dal livello medio della tribù. Occorreva alzarsi dalla nube caliginosa delle nevrosi scolastiche, dal tran tran quotidiano
con le sue preoccupazioni per le inezie terra terra, dei compiti in classe, delle interrogazioni, delle lezioni. La conoscenza vera non era tutta quella serie di atti procedurali, normativi; non era l’amministrazione del sapere, l’organizzazione impiegatizia della produzione culturale. A volte temevamo di essere arrivati al limite, alla linea di confine fra il mondo autentico e quello artificiale costruito dalla società, che ci separava da noi stessi, dalla natura. Cosa potevamo fare allora? Molte cose: lottare contro i mulini a vento, assumersi la responsabilità di perseverare nei propri convincimenti, rimanere inguaribili idealisti, diventare aggressivi, scoprirsi masochisti oppure obbedire formalmente continuando però a covare, nel profondo, le proprie idee. Noi avevamo scelto quest’ultimo orientamento. Per questo non era facile estorcere a Did delle confessioni, ma quando capitava di starlo a sentire mentre fantasticava intorno alle sue elucubrazioni, si acquisiva un indiscutibile titolo di merito. Quando però si apriva bocca, occorreva essere alla sua altezza e fare domande intriganti. I suoi non detti erano:
se non dici cose interessanti, fuori dal senso comune, non mi interessi; guardiamo in quale direzione vanno tutti, così possiamo andare nella direzione contraria; non sprechiamo il nostro tempo seguendo la massa.
Nella sezione B la pensavano quasi tutti come noi. Io personalmente non avevo parametri di confronto, ma Did sì: affermava che la sezione B era più democratica della sezione A, costituita dai figli dell’alta borghesia cittadina. La A, la B, la C sembravano corrispondere a una gerarchia sociale precisa: i figli dei giudici, dei grandi imprenditori, dei notai, degli industriali, degli immobiliaristi, delle élite culturali della città si trovavano in
sezione A. Nella B stazionava la piccola e media borghesia, mentre nella C si trovavano soprattutto coloro che abitavano nei paesi circonvicini. I leader della A infatti se la tiravano un po’ troppo: tra loro c’era chi era stato educato da una tutrice inglese, chi ava le estati imparando lingue straniere in giro per il mondo, figli e figlie di papà che arrivavano al mattino accompagnati dagli autisti di famiglia in eleganti berline. L’interesse per il sesso era invece, naturalmente, un denominatore comune, interclassista. Quando parlavamo di donne era più naturale, tra ragazzi, rivelare le nostre preferenze e tenere una classifica aggiornata che comprendesse le compagne più sexy del liceo, dalla sezione A alla C. Did non si pronunciava e adottava un’espressione enigmatica, impenetrabile. Era difficile distrarlo dalle sue ricerche. Sottile come un’acciuga e snodato come un saltimbanco, era sempre sfuggente. Possedeva l’indole di uno stambecco: sembrava potersi arrampicare per sentieri scoscesi per potersi nutrire di erbe amare, e scalare dirupi per gettare lo sguardo negli abissi. Senza paura delle vertigini, era dotato di un’agilità nervosa che attingeva energia da una segreta invidia per le aquile Per quanto riguardava il vissuto familiare, i nostri destini erano ben diversi: la mia famiglia mi faceva sentire il fiato sul collo negli studi, controllando l’esito di interrogazioni, compiti in classe, eccetera. Non era la Gestapo, ma era impossibile bigiare e non pagarne le conseguenze, fare il furbo, barare al gioco. Una situazione che per Did sarebbe stata insostenibile. Alla fine della seconda liceo, a seguito della bocciatura, il padre era andato dal preside a chiedere se per caso suo figlio non fosse un idiota e se davvero valesse la pena fargli ripetere l’anno per continuare gli studi. Il preside l’aveva rassicurato e nello stesso tempo inquietato: “Non è un idiota, ma se la minestra non gli viene servita come desidera, non la mangia; è difficile che possa riuscire in matematica, se non la studia… ma non la studierà se non incontrerà qualcuno capace di renderla interessante…” Evidentemente al padre bastò la rassicurazione del preside che suo figlio non era uno stupido, per iscriverlo di nuovo al liceo, dopodiché lo abbandonò al suo destino scolastico senza più curarsi di lui e senza consultare mai più un
insegnante. Di questo abbandono Did era grato, perché solo grazie alla disillusione dei genitori poteva godere di un elevato grado di libertà. La scuola in ogni caso non poteva essere mediatrice tra noi e la famiglia e nemmeno tra noi e le nostre più profonde aspirazioni. Noi non potevamo esplorare il mondo, crocefissi come eravamo allo spazio angusto del banco scolastico. Eppure ci sentivamo viaggiatori, aspiravamo a diventare Ulisse. Al contrario di Odisseo non avevamo come meta Itaca, non avevamo un fine da raggiungere, eravamo in cerca di qualcosa di ignoto. Il nostro destino era quello di rimanere soli, ma da Did imparai che questa non è una condanna o una punizione, né un peccato o una sofferenza, piuttosto un privilegio. Vi era più dignità nella solitudine che nella forzata appartenenza a un gruppo sociale, un’associazione, o nell’adeguarsi, per paura dell’isolamento, a regole estranee ai propri valori più profondi.
Per chi arrivava a scuola in bicicletta dal circondario, snobbando il bus, il treno e il comodo aggio in automobile di parenti e genitori, i pensieri mattutini erano pieni di straordinario vigore. Anche nelle giornate di nebbia. Quando di primo mattino si pedala per alcuni chilometri nelle brume, riuscendo ad attraversare anche con le mani in tasca strade percorse dal traffico e incroci senza semafori, ci si sveglia per forza e si arriva a destinazione in uno stato di freschezza e lucidità totale, soprattutto d’inverno. Si avverte che la distanza geografica è sempre minore di quella culturale, grazie alla quale però il paese rimane un luogo speciale, se si considera che vi sono meno luci artificiali rispetto alla città e la notte si possono vedere con più fortuna le stelle. Nei quartieri cittadini le luminarie delle vie, delle case, dei negozi, non diffondono la luce ma nascondono quella naturale trasformando il paesaggio in qualcosa di artificiale, senza più il conforto della volta celeste. Questa era, secondo Did, una delle cause della depressione sofferta dagli abitanti della città. Le altre due erano le seguenti: il sottile disprezzo che i cittadini nutrivano per il dialetto e il fatto che in città si avano ore davanti alla TV a
guardare spettacoli idioti invece di ascoltare i vecchi. In paese almeno si poteva andare a giocare nei campi e alla sera era perfino consentito entrare all’osteria per veder giocare gli anziani alla briscola. Il paese era organizzato intorno a una trinità consolidata: il prete, il medico, il sindaco. La città era un organismo molto più complesso, con organi ben differenziati: le scuole erano “il cervello”; l’ospedale, che depurava e filtrava, era “il rene”; le banche erano “lo stomaco” e si mangiavano tutto; le imprese industriali corrispondevano ai “muscoli”, quelle artigiane ai “tendini” o al “tessuto connettivo”. La città era il regno nel quale si stava affermando una nuova borghesia, fatta non solo di avvocati, notai, giudici, commercialisti, insegnanti, medici, farmacisti, ma anche di idraulici, falegnami, mobilieri, faccendieri, imprenditori edili, commercianti, negozianti che invece di produrre cultura facevano soldi, accumulavano ricchezza e la investivano. Una ricchezza con la quale pensavano di comprarsi tutto o quasi: la riduzione delle tasse grazie a un buon fiscalista, la salvezza dell’anima grazie alle donazioni a favore della parrocchia, la rispettabilità con l’iscrizione al Rotary Club, l’accesso alla intellighenzia locale con il finanziamento di iniziative editoriali. Come il gran pasticcere Menciso, uno dei più rappresentativi appartenenti alla stirpe dei nuovi ricchi. Nel primo dopoguerra si formavano dinastie di gelatieri, di pizzaioli venuti dal sud che a poco a poco, zitti zitti, lavorando sodo e giocando con soldi veri a una specie di “monopoli” reale, si erano comprati prima il loro appartamento, poi il condominio per il loro clan, infine la casa accanto, un pezzo di via, un pezzo di piazza, un pezzo di città. Gente mai vista con in mano un libro, ma molto abile nel giocare alla “compravendita” delle proprietà e alla lotteria degli affari urbani. La matematica era la materia più vicina alla dimensione quantitativa, alla visione razionale e contabile, di rendicontazione professionale ed esistenziale. Consapevole di tutto questo, la professoressa Dragoni -”titolare della cattedra di matematica”- era orgogliosa dei suoi incontestabili non detti:
la mia materia è la più importante; se non la studiate saranno guai; se la studiate andremo d’accordo e io vi proteggerò dalle insidie di tutte le altre materie; lo so che sono un po’ lunatica, ma cercate di capirmi, assecondate il mio umore e
non contradditemi!
Il conflitto di Did con questi non detti, rimaneva insanabile. Prima di un compito in classe di matematica, era facile coglierlo del tutto impreparato. Sapeva già come sarebbe andata a finire, visto che invece di studiare aveva dedicato il suo tempo ad altro. Eppure Did possedeva la tranquilla beatitudine degli incoscienti. La sua media in scienze matematiche era quattro. Quando gliene chiedevo ragione, mi diceva che non era ostile alla matematica in sé, ma piuttosto alla modalità con la quale veniva insegnata. Un giorno mi confessò che non s’era più interessato alla matematica da quando la professoressa si era mostrata seccata dalla esibizione di una dimostrazione - una delle tante possibili - del Teorema di Pitagora. Era una dimostrazione diversa da quella fornita a lezione e dai libri di testo, ma l’aveva escogitata lui ed era corretta. Did era attratto dai percorsi della logica che convalidavano i postulati. Quali erano i fondamenti sui quali si basavano le verità matematiche? Perché 1=1? Perché 1+2=3? Se non si poteva ragionare sulle premesse e quindi sulla struttura della razionalità e sui suoi limiti, il calcolo si riduceva a una banale applicazione, il ragionamento algebrico e numerico a una serie di operazioni prevedibili. Anche una macchina avrebbe potuto arrivarci. Did si rendeva conto che, dato un postulato, era essenziale applicare la regola opportuna per ottenere una sequenza di calcoli corretti. Ma poiché considerava l’applicazione delle regole meno interessante del processo metodologico che stabiliva le regole stesse, non riuscì mai a considerare importante il procedimento che portava al risultato atteso. In questo io e Did eravamo molto diversi. Io ero interessato all’applicazione per il risultato, lui era affascinato dai fondamenti logici astratti. Non mi attiravano i presupposti della logica. Alla scuola io chiedevo di darmi gli strumenti per usare delle cifre, mentre le riflessioni di Did ruotavano intorno alla natura delle idee, al fondamento dei numeri e al potere del linguaggio, argomenti per me troppo
lontani dalla realtà.
In ogni caso, prima di un compito in classe la paura ci spingeva ad abbandonare qualsiasi altra attività per far fronte all’emergenza. Le prove di latino spesso impensierivano più di quelle di matematica. In questi casi il ristretto gruppo di Carla si allargava e ci si ritrovava in seduta plenaria a casa di Guglielmo, che aveva un salotto grande quanto una piazza d’armi. Era un porto di mare: lo frequentavano studenti di altre classi e di ogni estrazione sociale, aderenti al movimento studentesco oppure no, iscritti a partiti e senza tessera, impegnati e lazzaroni. Guglielmo, per restare fedele al suo credo comunista, prestava la sua Vespa a chiunque ne avesse bisogno. Un memorabile lunedì, una certa Cinzia, durante una delle frequenti pause pomeridiane, alla vigilia di un compito di latino, lanciò l’idea di essere ipnotizzata per provare a indovinare il testo che il professor Tarasca avrebbe scelto per la traduzione. Era un’ipotesi pazzesca, ma anche suggestiva: anziché prepararci su molti brani e autori possibili, avremmo potuto prenderne di mira uno solo. Le possibilità di andare a colpo sicuro erano quasi nulle, ma perché non provarci? Avremmo almeno reso più interessante quel noiosissimo pomeriggio. Carla si dichiarò disponibile a tradurre per tutti il testo che sarebbe stato indicato come probabile. Did era presente e fece un primo fatale errore: accettò. Una ventina di persone si assiepò intorno alla poltrona sulla quale Cinzia si era subito sprofondata. Did le stava addosso. Iniziò a indurre un certo stato di rilassamento preliminare. Cinzia era una ragazza molto carina e probabilmente questo provocò il secondo errore: dopo aver impartito l’ordine di dormire, Did non si sincerò della profondità della trance testando prima l’effettiva resistenza al dolore. Probabilmente non voleva are come un carnefice infliggendo alla ragazza il consueto test con la puntura di spillo. Ebbi l’impressione che la ragazza non fosse profondamente addormentata, ma nessuno dubitava del suo desiderio di esserci utile pronosticando il titolo del brano dell’imminente compito in classe.
Dopo i consueti preliminari Did ingiunse a Cinzia, che pareva aver raggiunto un parziale addormentamento ipnotico, di provare a “vedere” quel che sarebbe accaduto il mattino seguente nella nostra aula. Cinzia balbettò qualche parola. Tutti noi pendevamo dalle sue labbra. A occhi chiusi e con una voce flebile, Did le cavò quel che poté, e con l’orecchio teso tutti udirono la descrizione della sua visione: il professor Tarasca sarebbe entrato puntualmente in aula alle 8.30, vestito con un completo blu e ci avrebbe assegnato il brano che narrava la storia di Deucalione e Pirra, tratto dal quindicesimo libro delle Metamorfosi di Ovidio che si trovava nella Antologia Agmina et Carmina. Carla ò la notte a tradurlo per tutti. Il mattino seguente, il primo ad arrivare in aula, come sempre, era stato Lucio. ava le serate del lunedì davanti alla televisione, a vedere la serie completa dell’epopea del West raccontata dai registi americani. Stravedeva per il generale Custer, il regista John Ford e i film di Cary Grant. Un’America che i compagni del movimento, oltre che imperialista, consideravano superata. Commentava sempre quel che aveva visto solo dopo aver copiato da Carla le traduzioni dei compiti di latino che la nostra compagna gli ava ogni volta che lui lo pretendeva. Per assecondare i suoi capricci, Carla arrivava in genere intorno alle otto. Ma quel martedì, essendoci compito in classe, Lucio per la prima volta copiò una traduzione in italiano prima ancora di aver ricevuto il testo latino originale dal docente. Non voleva correre il rischio di perdere un bel voto nel caso in cui la profezia di Cinzia si fosse avverata. Quando entrò l’insegnante, fu evidente che qualcosa, nell’esperimento di predizione, era andato storto: Cinzia aveva “visto” il professore vestito di blu e invece quella mattina si presentava con un completo marrone. Il blu gli donava molto di più e quel marrone imprevisto proprio non ci voleva. Aveva subodorato qualche trama ai suoi danni, al punto da cambiare all’ultimo momento il brano del compito? Le versioni assegnate furono addirittura due: Cicerone a una fila e Properzio a un’altra. Did alzò le mani, per scusarsi di quel fallimento. Carla riuscì a tradurre in tempo l’imprevisto brano di Cicerone e a arlo ai compagni della sua fila che se la cavarono.
Per gli altri i risultati furono disastrosi e dal quel momento Did fu tenuto alla larga. Nonostante l’esito dell’esperimento, egli però non sembrava deluso. Al contrario, era stranamente vivace e su di giri. Gliene chiesi ragione. Mi rispose: “Più grande è il disastro, più importante è quello che possiamo imparare…” “In che senso?” “Possibile che tu non capisca?” mi sgridò. Quando voleva, riusciva a farmi sentire un imbecille. “Anche se l’evento atteso non si verifica o non si raggiunge il risultato sperato e previsto, si impara sempre qualcosa… soprattutto da un fallimento…” Proseguì, provocando ancora una volta il mio sconcerto: “Da un certo punto di vista, l’esperimento è riuscito perfettamente anzi, è avvenuto qualcosa di più significativo di una predizione…” “Cosa è accaduto?” “Non te ne sei accorto?” Confessai di aver notato nulla di particolare. “Senza applicare alcuna tecnica, quasi tutti sono stati delusi nella loro aspettativa.” “E questo cosa significa?” “Che erano ben disposti a credere o almeno a sperare che l’ipotesi della predizione si realizzasse. Benché assolutamente improbabile, essi hanno investito una certa parte della loro energia emotiva nell’attesa di un evento che razionalmente ritenevano impossibile…” “E con questo?”
“Con questo possiamo concludere che pur non essendo stati ipnotizzati attraverso una induzione collettiva, hanno subìto un condizionamento. Chissà cosa accadrebbe,” aggiunse, con una punta di cinismo, “se più persone contemporaneamente venissero sottoposte a suggestioni continue, destinate a rinforzare le loro aspettative e desideri… pensa alle applicazioni nella politica, negli affari, nel marketing.” In sostanza, avevo capito che:
era più facile portare le persone a credere che un certo evento si sarebbe verificato se esso corrispondeva ai loro desideri; la presenza di un ampio pubblico nel corso di una seduta di induzione ipnotica, era un’occasione imperdibile per valutarne le reazioni; essa rappresentava una sorta di situazione-test per selezionare e conoscere più a fondo le persone, il loro livello individuale di suggestionabilità, fantasia e scetticismo.
Per fortuna Did non si fece prendere facilmente dalla tentazione di usare l’ipnosi in attività di manipolazione collettiva. Come speravo, ritornammo a sperimentare solo in un gruppo costituito da pochi intimi e in gran segreto. Ma da quel giorno, il test dello spillo diventò, senza alcuna eccezione, una pratica regolare. L’ora di religione era considerata un momento di ricreazione. Gli insegnanti che si avvicendavano alla cattedra cimentandosi nell’arduo compito di promuovere la dottrina cattolica nel liceo, avevano generalmente la stessa aria svagata e l’atteggiamento di sufficienza di molti impiegati delle poste. Don Clerici, il prete che ci era stato assegnato in prima, pareva essere stato, a suo tempo, il fiduciario di qualche Sommo Sacerdote. Mentre si perdeva nelle disquisizioni teologiche che cercava di impartirci, il viso perfettamente ovale e la pelle papiracea solcata da fitte rughe lo facevano sembrare un corpo in corso di mummificazione. Le sue lezioni erano la prosecuzione del catechismo domenicale che eravamo tutti obbligati a frequentare.
All’inizio nessuno aveva avuto il coraggio di interagire in modo critico con un simile rappresentante della casta sacerdotale. Il non detto di don Clerici era il seguente: la cristianità è l’apice della civiltà occidentale, che è a sua volta la vetta delle civiltà e della cultura mondiale di tutti i tempi. Questa e altre idee molto più taroccate che ci venivano ammannite durante i suoi sermoni, suscitavano in gran parte della nostra generazione una malcelata ostilità. Ci chiedevamo che ci faceva un prete in un liceo scientifico intitolato a Leonardo da Vinci, in un luogo che avrebbe dovuto essere il tempio non della fede, ma del sacro dubbio, della Scienza e Coscienza, ovvero della conoscenza, della ricerca. Non poteva forse esistere la coscienza indipendentemente dalla religione? Si giustificava la presenza della religione con il fatto che nel percorso educativo la morale era importante. Ma si trattava di una morale religiosa, non di un’etica laica. Eravamo dunque soggetti non a un’ora di religione, ma a una lezione di propaganda della religione cattolica. Se si fosse trattato di cultura religiosa avremmo potuto approfondire diverse fedi religiose, sia cristiane (protestante, ortodossa, eccetera) che non cristiane (musulmana, induista, buddista, ebraica, eccetera). Sarebbestato eticamente corretto non avere come unico riferimento la visione parziale di una confessione particolare, anche se profondamente radicata nelle nostre tradizioni storiche e culturali, ma poter apprendere soprattutto le voci che mai avevamo potuto udire, i rappresentanti del culto delle altre rivelazioni. Il fatto che solo la religione cattolica godesse del privilegio di essere inclusa nel programma di studio obbligatorio, era la chiara dimostrazione che si trattava di una Religione di Stato, nel migliore dei casi affettuosamente imposta. In seconda liceo, quando questi pensieri cominciarono a serpeggiare non più clandestinamente tra le fila delle matricole e dei giovani studenti, la Provvidenza ci fece dono di un altromissionario della fede: don Bargaglio, un prete con la mascella da coccodrillo, un funzionario in ascesa nella ingessata gerarchia della comunità ecclesiastica locale. Don Bargaglio già aveva cercato, prima dell’arrivo del prof. Maiorino, di
metterci in guardia dal “libero pensiero” tentando una sorta di vaccinazione dottrinale preventiva. Fallì miseramente. Aveva preso possesso della sua cattedra ammantandosi di un alone di retorico orgoglio che lo aveva reso subito antipatico. I suoi non detti erano i seguenti:
se non volete credere nella dottrina cattolica, non vi salverete l’anima e sarà tanto peggio per voi; so che non mi potete sopportare e siete refrattari all’istituzione religiosa, ma sono qui a ricordarvi che la Chiesa c’è e non intende lasciare il campo a una generazione irrispettosa e ribelle come la vostra, anzi continuerà a occupare tutti gli spazi sociali possibili.
Don Bargaglio riuscì a trasformare l’indifferenza di Did per le questioni scolastiche in sorda inimicizia, vietandogli di uscire dalla classe insieme a Lucia: la compagna di classe per la quale aveva perso la testa a causa della bellezza del suo sorriso e che a parer suo nascondeva una vitalità profonda. Una volta avevano alzato la mano contemporaneamente chiedendo il permesso di uscire per andare in bagno, senza alcuna malizia. Quella ce la mise il prete: “Uomo e donna no, non possono uscire insieme durante le mie lezioni”. La stupidità di quel divieto suscitò una sonora risata da parte di tutti e per solidarietà quel giorno nessuno uscì più per andare in bagno. A Guglielmo venne in mente un singolare atto di protesta. Tutti gli alunni liceali avrebbero contenuto l’urina nelle loro vesciche a tempo indeterminato come forma di resistenza iva all’autorità scolastica, ma lo sciopero delle vesciche non decollò mai perché iniziarono discussioni sull’opportunità di procurare alla popolazione studentesca una sofferenza che poteva trasformarsi, per gli incontinenti, in un danno biologico. Stefano osservò che il prete non aveva vietato affatto l’uso dei bagni: se fossero stati due individui dello stesso sesso egli avrebbe concesso il permesso. La proibizione scattava solo per due alunni di sesso diverso. Alla fine, Alessandro risolse la questione da leader affermando: “È don Bargaglio che ha dei problemi
con il sesso, perché dovremmo pagare noi? Lasciamolo alle sue nevrosi e concediamoci l’uso dei bagni tutte le volte che ci serviranno…” Stefano aveva insistito poi per un’ulteriore alternativa: “Rispondiamo a questa separazione dei sessi con una promiscuità totale; dichiariamo che uomini e donne possono servirsi reciprocamente dei bagni destinati all’uno e all’altro sesso”. Ma le donne, che non volevano correre il rischio di trovarsi ragazzi nei loro bagni, respinsero la proposta prima ancora che ci fosse il tempo di considerarla. L’unica volta che Did chiese il permesso di uscire, sicuramente una scusa per parlare più liberamente con Lucia nei corridoi, fu in quell’occasione. Anche in seguito, per tutta la durata del liceo, nessuno vide mai Did servirsi dei bagni, diversamente dai molti che sembravano soffrire di un’incontinenza compulsiva. Il bagno era anche un luogo di scambio per messaggi e bigliettini da nascondere e ritirare durante i rari permessi concessi nel corso dei compiti in classe. Ma la spina più dolorosa piantata nel fianco di don Bargaglio era la compagna di banco di Lucia: Fulvia. Diversamente dal suo predecessore, incapace di uscire dal territorio teologico dove si sentiva a suo agio, egli preferiva affrontare questioni legate alla dottrina morale e sociale della chiesa: l’inconciliabilità tra fede e marxismo, l’inaccettabilità del divorzio, la negazione del matrimonio per i preti, eccetera. Su questi temi non faceva altro che ripetere le posizioni ufficiali della Chiesa, in uno sforzo disperato di difesa a oltranza delle posizioni dottrinali alle quali tutta la società, perfino i non credenti, avrebbero dovuto uniformarsi. Ma Fulvia, grande lettrice di saggi e nostra Rassegna Stampa Alternativa, prendeva nota delle affermazioni del prete e poi lo attaccava senza tregua con una logica implacabile. Don Bargaglio si trincerava dietro l’autorità delle Scritture. Più Fulvia citava l’Espresso, il Corriere della Sera e Pasolini, più lui citava la Bibbia. Perfino la sparuta fazione clericale non si opponeva a una simile tenzone dialettica, perché animava ed elevava il clima, rendeva effervescente l’atmosfera. Dal fondo della classe arrivavano a don Bargaglio domande pericolose come le bordate di un vascello di pirati all’arrembaggio. Fulvia fiaccava l’ostinata difesa del prete che si attaccava come poteva ai documenti e ai canoni ecclesiastici, alle questioni di
opportunità morale. La nostra compagna ribatteva colpo su colpo, con date e informazioni così precise che don Bargaglio faceva la figura di un improvvisato azzeccagarbugli. Si metteva istintivamente al riparo trincerandosi dietro la cattedra, seduto sulla sedia come su una poltrona gestatoria dalla quale lanciava ammonimenti ispirati da un’incomprensibile autorità. A volte rimaneva immobile, in piedi, bloccato, prima di inabissarsi lentamente come il Titanic, colpito e affondato mentre borbottava una risposta incerta. Avesse ammesso almeno una sola delle sconfitte dell’istituzione ecclesiastica, una sola delle contraddizioni dottrinali che ci parevano evidenti e che Fulvia rivelava spietatamente con il suo acume, girando il coltello nella ferita, il prete e la religione che rappresentava avrebbero guadagnato in autorevolezza, invece di perdere completamente sia la faccia che l’autorità. Quando il prete si chiudeva a riccio e non le dava soddisfazione, Fulvia cercava di rispondere alle sue stesse intriganti domande che gli aveva posto: “Perché nel Credo ufficiale, della Chiesa cattolica, manca la parola amore? Se ci fossero state donne al Concilio di Nicea, il Credo sarebbe stato diverso, sono stati gli uomini a inventare la religione cristiana non le donne… e si vede!” La questione del celibato obbligatorio per i preti cattolici - una delle grandi problematiche che infiammavano allora l’opinione pubblica - aveva occupato parecchie lezioni. Il matrimonio era stato vietato ai sacerdoti cattolici solo per ragioni di ordine teologico, come sosteneva don Bargaglio, o anche di ordine economico, ovvero per non disperdere il patrimonio della chiesa? In caso di matrimonio la ricchezza delle parrocchie, amministrata dai parroci e dai curati, avrebbe corso infatti il rischio di disperdersi o di andare in eredità alla loro moglie, ai figli, ai parenti. Un rischio che il diritto ecclesiastico, nel corso della sua affermazione durante i secoli, non poteva certo contemplare. Anche sulla questione relativa alla Chiesa e i poveri, don Bargaglio faceva orecchio da mercante. Fulvia non chiedeva: “Perché la Chiesa non è maggiormente a favore dei poveri?”, ma piuttosto: “Perché la chiesa non è essa stessa povera?” Il prete fingeva di non capire: avrebbe dovuto accettare l’idea di donare ai bisognosi le cospicue proprietà immobiliari amministrate dalla curia. Con l’alibi di aiutare i diseredati, pur di recitare un ruolo dominante sulla scena della storia, la Chiesa
aveva scelto di essere ricca e potente, anziché seguire essa stessa il Vangelo e usare la potenza della verità. Invece di praticare la povertà, la predicava dai suoi innumerevoli pulpiti. Una religione così, che non chiedeva molti sacrifici per assicurare il paradiso, era perfetta. La fede vissuta sul serio, con i preti operai, la teologia della liberazione, i cattolici del dissenso, faceva più paura dell’ateismo. Don Bargaglio incarnava la paranoia di una chiesa quasi onnipotente, ma il fatto che si comportasse come una vittima del mondo che cambiava, ci faceva ridere. Non sapeva riconoscere le diverse forme con le quali la spiritualità si esprimeva anche nella contemporaneità. Non coglieva la componente mistica e l’anelito di libertà espressi dalla musica degli Hare Krisna, dei Jethro Tull, di Jim Morrison, di George Harrison. Non aveva mai ascoltato Stairway to Heaven, il quarto disco dei Led Zeppelin, una delle canzoni più significative della musica rock e che da sola celebrava la spiritualità più di tanti libri di catechismo. A causa della loro incolmabile distanza, Fulvia e don Bargaglio si esaurirono fino allo sfinimento totale. Quando Did cominciò a prendere la parola, la contestazione dell’ideologia religiosa acquistò un altro carattere. Le ragioni della sua ostilità nei confronti del clero non erano solo politiche e sociali, ma anche teologiche. Molti elementi della classe erano irrequieti per il ruolo dominante del clero in tanti aspetti della vita pubblica. L’inizio dell’anno scolastico veniva celebrato ufficialmente con una Santa Messa alla quale si consigliava caldamente di partecipare. Fin dal giorno del battesimo, in diversi momenti dell’esistenza la Chiesa cattolica romana, ritenendo le nostre anime di sua proprietà, cercava di trattenerci nella sua orbita. Sperava di riattivare i sensi di colpa che ci erano stati inculcati, ci obbligava alla comunione, alla cresima, alla messa nelle feste comandate, ai corsi prematrimoniali, al matrimonio, al battesimo dei figli e infine alla morte con l’ultimo sacramento, l’estrema unzione e il funerale. Per salvarsi da quel pericoloso triangolo delle Bermude costituito dalla chiesa, dalla scuola e dalla famiglia, Did aveva cercato risposte alternative e anch’io avevo preso a misurarmi con visioni del mondo differenti da quelle ate dal convento.
Dopo il ciclo delle domande nate da obiezioni di ordine storico e sociale, derivate a loro volta dalla conoscenza del pensiero di Marx o Freud, le questioni poste da Did si allontanarono dai massimi sistemi del momento. Chiedeva: “Perché la Chiesa si autoproclama universale, quando la Terra è solo un granello di sabbia nell’universo? Al massimo può definirsi terrestre…” Don Bargaglio reagiva sempre più stizzito a quella che ormai definiva “una forma di insolenza intellettuale”. Un giorno, seccato, lo rimproverò con queste parole: “Ma chi ti credi di essere?” Did rispose: “Non credo di essere, so di essere”. Le armi del prete erano spuntate. Dopo la scoperta delle “altre rivelazioni”, in particolare quella di Krisna, con la lettura della Baghavad Gita e di alcuni testi introduttivi al buddismo, noi non criticavamo la religione ufficiale da posizioni marxiste - come i simpatizzanti della sinistra - e nemmeno da posizioni “libertarie” che sognavano di portare nel mondo nuove conquiste sociali e una liberazione dei costumi, anche sessuali. La nostra critica, mia e di Did, era di ordine spirituale. Quel poco che avevamo capito del messaggio di Buddha e di Krisna ci appariva più profondo e liberatorio del pensiero di Marx e di Freud. La liberazione dall’imperialismo e la liberazione sessuale, se anche si fossero attuate, non sarebbero bastate a cambiare veramente le cose. Il buddhismo e l’induismo, invece, proponevano una disciplina etica ma anche psicofisica, invitavano a una scoperta delle proprie potenzialità individuali attraverso un processo di auto-conoscenza e la pratica di una “gnosi” capace di portare a nuove percezioni e nuovi piani di consapevolezza. La dottrina cattolica invece propugnava un’adesione che non includeva un vero e proprio sistema di discipline e tecniche psico-fisiche. Con il Vangelo, dalle gerarchie venivano trasmessi precetti, dogmi, comportamenti morali che non incidevano sulla sostanza materiale, percettiva, biologica e mentale del nostro essere. Si trattava di una spiritualità imposta dall’alto e regolata da autorità esterne alla nostra anima. Gli unici “esercizi spirituali” ai quali avevamo avuto accesso li avevamo subìti alcuni anni prima, da ragazzini, quando il curato ci aveva invitato a meditare intorno ai misteri della ione e della Morte di Gesù Cristo, rinchiusi per una giornata nella cappella della sede cittadina delle Ancelle
del Sacro Cuore. Venivamo allora esortati a separare lo spirito dal corpo, a concentrarci, a meditare e contemplare, senza avere prima esercitato la capacità di concentrazione, meditazione e contemplazione. Le religioni istituzionali si comportavano come se l’orizzonte di Dio si esaurisse nel loro credo, mentre invece perfino nel rigore della ricerca di un ateo, potevano benissimo coesistere sincerità e coraggio intellettuale, a volte più profondi di una acritica adesione fideistica. E d’altra parte una visione laica della vita non significava, come certa propaganda clericale proclamava, l’assenza di un orientamento etico. Al contrario, l’assenza di Dio costringeva a ricercare regole condivisibili datutti, che senza la necessità di un rigido indottrinamento, potevano richiamare valori comuni capaci di orientare verso una libera, costruttiva convivenza collettiva e una sana esistenza individuale. Noi sognavamo una società multiconfessionale, nella quale la ricerca spirituale potesse essere veramente libera e incoraggiata. Occorreva “liberalizzare” la fede e permettere a tutti non solo di confrontarsi con tutte le religioni, ma di garantire anche a chi non professava alcun credo, uguali diritti, pari opportunità e pieno rispetto. Il primo compito evolutivo di un essere umano era quello di ricercare la conoscenza, la verità. Un altro punto cruciale era il dogma della unicità divina di Cristo. Per noi le incarnazioni del divino erano anche Krisna e Buddha, così come probabilmente altre figure vissute nella remota antichità. Cristo non era il divino in assoluto, ma un divino, non la Rivelazione ma una delle rivelazioni possibili. Prima di lui, c’erano state altre manifestazioni e incarnazioni, così come altre avrebbero potuto manifestarsi in futuro, nel divenire della storia umana. Le diverse religioni erano il tentativo di interpretare l’eterno in forme e qualità differenti, adattate al tempo e alle culture, ma operanti sempre all’interno di un continuo e indivisibile processo di svelamento del divino. Con l’evoluzione umana, evolveva anche l’idea del trascendente che l’essere umano si costruiva o era capace di accogliere, concepire. Questo era in aperta contraddizione con la visione della dottrina cattolica che al massimo poteva aspirare a un ecumenismo allargato alle varie confessioni cristiane, senza poter riconoscere alle altre fedi la stessa dignità che proclamava e pretendeva per se stessa. Un ecumenismo parziale, sempre fallito. L’assolutismo dogmatico e l’incapacità ecumenica della Religione di Stato nella quale eravamo stati cresciuti, ci rendevano diffidenti.Se tutte le religioni fossero
state così assolute, si sarebbe generato un conflitto tra le religioni stesse, come del resto era avvenuto nella storia, soprattutto tra le fedi che si ritenevano le uniche depositarie della verità ultima. Non solo: queste tensioni avrebbero potuto generare un conflitto interiore nello stesso ricercatore che sarebbe venuto a contatto con le diverse visioni e pratiche di vita proposte dai diversi percorsi spirituali. Did aveva risolto il conflitto vedendo in essi le diverse espressioni della verità, una e molteplice nello stesso tempo, simile alle innumerevoli sfaccettature di un diamante. Il cuore delle varie fedi conteneva le rivelazioni di una medesima super coscienza eterna e onnisciente. Questa super coscienza divina però non poteva essere oggetto di fede, ma solo di esplorazione. Occorreva tenere presente che i testi tramandati dalla dottrina ufficiale della Chiesa erano il risultato di epurazioni, manipolazioni, della eliminazione di vangeli apocrifi a seguito di lotte cruente che avevano segnato fin dagli inizi la storia del cristianesimo. Sapevamo, per esempio, che secondo l’interpretazione protestante Cristo aveva fondato la sua chiesa non su Pietro ma sulla Confessione di fede. Quello che caratterizzava la figura di Pietro nel racconto di Matteo era proprio il Pietro con le sue contraddizioni. In questo senso era il discepolo che ci rappresentava meglio perché ciascuno di noi vive nel conflitto tra quello che dice e quello che fa, tra le sue convinzioni e le sue azioni effettive. Per i cristiani protestanti il testo evangelico di Matteo andava interpretato in altro modo: “Proprio sulla tua umanità contraddittoria, sulla tua cristianità, io fonderò la mia chiesa… tu sei un peccatore perdonato, un perduto ritrovato, la chiesa è questa… la chiesa che io fonderò è la comunità dei peccatori perdonati, dei perduti ritrovati, la pietra su cui edificherò la mia chiesa non sei tu e non è neppure la tua fede, ma è il mio perdono e la mia grazia”. La chiesa edificata su Pietro non voleva dire, dunque, costruita su Pietro stesso come voleva farci intendere l’ortodossia cattolica, ma edificata sul perdono di Pietro.
La critica nei confronti dell’impianto dottrinale, catechistico-clericale, era anche di ordine più generale, non era solo di ordine etico, ma estetico. Le dottrine potevano stare nella vita, ma la vita non poteva essere contenuta in alcuna dottrina. La bellezza dell’infinito non poteva essere sacrificata ad alcun sistema di precetti morali o di comportamenti codificati.
Così i dogmi apparivano come segni di uno spirito morto, di uno schema artificiale, di un impianto teologico ove tutto è già accaduto, stabilito, colonizzato dall’opportunismo teologico che nasce dalla paura della morte. Ci sembrava che le grandi credenze e architetture dottrinali si comportassero come vampiri: sottraevano vitalità al pensiero e alla ricerca, soffocando nella culla qualsiasi tentativo dialettico, di dubitare di tutto, di sperimentare e saggiare ogni cosa prima ancora di credere, oppure di credere e nello stesso tempo dubitare. Potevano coesistere fede e dubbio? L’unica fede onesta era quella che non spegneva le istanze della ragione, ma ponendosi a confronto con essa, evitava il conforto di facili verità prefabbricate che suggerivano una visione del mondo rassicurante e domestica. Tutte le istituzioni sociali, che pure avevano una loro ragion d’essere nello stabilire le regole necessarie di convivenza e tolleranza, spesso assegnavano dei limiti angusti al pensiero e all’azione umana. Ma se vi è un limite, non c’è infinito. Noi prendevamo coscienza poco a poco, con sgomento e paura, di non essere all’altezza di questa intima esigenza di infinito. Per conoscere occorre essere disposti a sacrificare il successo, il consenso o il riconoscimento pubblico vivendo fino in fondo anche il fallimento delle proprie idee e valori. Ci rendevamo conto che la rivoluzione che avremmo voluto imporre al mondo non eravamo pronti ad attuarla nemmeno nelle nostre piccole vite. Il nostro accanimento contro le istituzioni era forse dettato dalla nostra incapacità a cambiare? Se fossimo stati decisi a superare veramente i nostri limiti, avremmo saputo rinunciare alle comodità di un’esistenza vissuta all’interno dei canoni sociali, comportamentali ed economici. Era evidente che l’istituzione religiosa offrendosi come unica mediatrice di salvezza e risposta assolutoria, tendeva a giustificare una certa ignavia e una indubbia viltà nei confronti di ricerche che miravano allo sviluppo delle potenzialità latenti nell’essere umano. Ma l’ignavia consisteva anche nel pensare di attuare una rivoluzione sociale senza essere disposti a mettere in discussione se stessi.
D’altra parte molti, affermando che la dottrina e la pratica farisaica non corrispondevano al Vangelo, decretavano non solo l’inutilità della fede e delle religioni, ma anche dello spirito religioso in sé, dell’impulso trascendente e in definitiva delle aspirazioni spirituali. Invece, proprio perché i preti non attuavano la Buona Novella, il Vangelo era “sacro” poiché si trattava di “altra cosa” rispetto alla norma religiosa e alla Chiesa intesa come istituzione. Non era colpa di Cristo se la Chiesa ne aveva tradito il messaggio. Perciò non si poteva liquidare il suo annuncio (e la sua eventuale natura divina) con l’incapacità umana di coltivare un genuino impulso religioso e la fedeltà allo spirito della sua rivelazione. Ma nell’ora di religione, oltre al Vangelo di Gesù Cristo, circolava anche un altro “libretto”. Era fatale in una classe dove, nella prima lezione di storia del terzo anno, il nostro professore - ancora supplente - ci aveva invitato a sottolineare, a proposito della politica di Giulio Cesare, la parola imperialismo. Il libretto clandestino era quello di Mao Tse Tung: il vangelo delle guardie rosse comuniste che conteneva la sacra immagine del Grande Timoniere, il quale pure aveva dimostrato dei meriti nel riuscire a pilotare la nuova Cina fuori dalle acque limacciose di una paurosa arretratezza feudale. Nonostante le contraddizioni e gli eccessi della sua politica, Mao era riuscito a ridare slancio e dignità al suo popolo. Dopo i fasti imperiali millenari, per secoli al centro del Mondo per primato economico, culturale, tecnologico e civile, il popolo cinese era decaduto. Preda degli appetiti dell’occidente, era stato sottomesso alla schiavitù dalle nascenti potenze industriali europee, e fiaccato soprattutto dalla guerra dell’oppio. Era talmente venerabile quella immagine di Mao, da essere protetta in tutte le edizioni popolari da un foglio di carta velina: un ricercatezza tipografica che non si trovava nemmeno nelle edizioni tascabili del Vangelo cristiano. Io e Did avevamo letto il libretto rosso, che i nostri compagni del movimento studentesco esaltavano, ma ci eravamo fatti un’altra idea della rivoluzione culturale cinese. Nonostante la storia contemporanea non fosse affatto una materia scolastica, io e Did eravamo a conoscenza dei suoi preoccupanti sviluppi e dei massacri censurati in Occidente dalla propaganda di sinistra. Avevamo
avuto notizia della progressiva e violenta occupazione cinese del Tibet, della fuga del Dalai Lama, delle altre astute manovre della politica imperialista del nuovo comunismo maoista. Le rare notizie dell’occupazione del Tibet mi provocarono allora la stessa sofferenza dell’invasione americana del Vietnam. “Se proponessimo ai compagni di organizzare una manifestazione contro l’occupazione cinese del Tibet, ci riderebbero in faccia…” osservava Did. I “comunisti” maoisti si dimostravano della stessa stoffa dei colonizzatori occidentali tanto odiati e vituperati, additati a tutto il mondo come i nemici da combattere. Cambiavano le definizioni, ma la sostanza prevaricatrice della sopraffazione e della violenza rimaneva la stessa. Non ci incantavano quindi le celebrazioni di Mao, né la politica di grande potenza e di egemonia della Cina che si stava affermando in tutta l’Asia e nel mondo intero. Per noi il Tibet, che avevamo iniziato a conoscere attraverso i racconti di Alexandra David-Neel, le opere dell’orientalista Tucci e altri documenti, articoli, traduzioni, era un luogo mitico e simbolico, culla di quella cultura spirituale che includeva importanti tecniche psicofisiche di sviluppo personale, di buddhismo tantrico e discipline di grande interesse etnico e antropologico, religioso, metafisico. La religione non era dunque, in se stessa, oppio dei popoli, ma al contrario poteva essere un elemento di risveglio della coscienza, delle potenzialità naturali e spirituali dell’uomo, anche se la sua degenerazione - teocratica, moralistica e istituzionale - poteva narcotizzare la volontà dell’individuo e di interi popoli, come infatti era accaduto, stava accadendo e sarebbe ancora avvenuto nella storia. Refrattari a entrare nei ranghi dell’istituzione, ma anche estranei ai dogmi dell’ideologia comunista, io, Did e pochi altri, eravamo discepoli senza guru, viaggiatori senza patrie. La tensione adolescenziale presente nei gruppi di sinistra, dimostrando una maggiore sensibilità collettiva, era più attratta dal sociale. Alcuni si sentivano più a loro agio all’interno di un clan. Per altri gli incontri, le manifestazioni, erano l’occasione per cominciare a mettere alla prova le loro capacità di leadership, di relazione, di comunicazione. E il loro esibizionismo, naturale a
quell’età. Si trattava di comportamenti che anticipavano futuri ruoli di responsabilità e di rappresentanza.
Finalmente, alla fine del terzo anno, avevamo compreso in tutto il suo oscuro splendore la lectio magistralis del Preside. La lectio magistralis non era che un’introduzione al pensiero non detto che era alla base della concezione filosofica “scolastica” di tutta la nostra tradizione culturale, umanistica e scientifica. Questo pensiero identificava in Cristo, nella rivelazione cristiana, il Logos della filosofia greca. Gli insegnamenti, le verità, le suggestioni culturali dell’ora di religione presentavano, dal punto di vista della casta sacerdotale cattolica, il cristianesimo come il principio ordinatore del mondo, sintesi tra Ragione e Fede. Invece l’identità tra Logos e Verbo cristiano a me appariva solo un fatto di fede, non un’evidenza della ragione. Il Verbo cristiano, anche se ai nostri docenti di religione faceva comodo pensarlo e farlo credere, non era un Logos, non poteva essere un assoluto. L’impossibilità di criticare la fede e la pratica religiosa, di innovarla, costringeva a insegnare e concepire la scienza come se si trattasse di un altro genere di fede, espressione di un pensiero statico e acritico, delimitato da identici ipse dixit. Lo scienziato poteva rischiare di diventare un superstizioso ignorante, quando rinunciava al sacro dubbio e fideisticamente negava i fenomeni o i risultati che erano in contrasto con il suo schema mentale, i suoi postulati. Il dogma religioso poneva le basi per una visione che faceva della scienza un insieme di dogmi altrettanto inconfutabili, anziché di nuove concezioni e possibili realizzazioni. “Tutto è già stato annunciato, la rivelazione è già avvenuta: una volta per tutte e per sempre, nella storia umana…!” aveva affermato con forza durante un’omelia domenicale il segretario del vescovo don Ghidelli, in una sonnolenta messa vespertina, quasi in risposta ai miei dubbi, alle mie domande, ai miei pensieri. Era un’affermazione speculare, sul piano dottrinale, alla risposta che Did aveva ricevuto quando aveva chiesto timidamente alla nostra professoressa di matematica se era possibile inventare nuovi teoremi, oltre a quelli già noti. La sua tesi che Tutto è già stato dimostrato, e che le leggi fondamentali sono chiare
e inconfutabili non ci lasciava molto spazio per fantasticare e cercare nuove forme di sperimentazione o speculazione astratta. L’unica via di scampo era la tecnica. Essa diventava il tentativo della mente di liberarsi dai dogmi scientifici, di agire al di fuori delle “certezze” che la imprigionavano. Un orientamento che nella scuola non esisteva, anzi vi si respirava una specie di pregiudizio antitecnologico. Il “bravo studente” era quello che imparava meglio il risaputo. La letteratura era un semplice esercizio grammaticale. Non ci si esercitava a scrivere nuovi racconti, ma a commentare quelli altrui. Nella scuola, la sostanza delle cose, la loro essenza, era dimenticata, come nella religione.
Non tutti reagirono a questa desolazione con forme di controcultura o con l’elaborazione di nuove concezioni del mondo e nuovi comportamenti. Molti studenti si lasciarono andare alla deriva. Insieme alla musica rock fecero la loro apparizione le prime sigarette di hashish e marijuana, i primi spinelli. Io e Did eravamo attirati dalla conquista di una maggiore consapevolezza, non dallo sballo e dalle droghe leggere che cominciavano a circolare in quegli anni. Ci sembrarono subito autodistruttive e condizionanti, quindi estremamente pericolose. Il loro consumo era agevolato dal proibizionismo, perché provarle era considerato un segno di ribellione. Did aveva portato in classe i libri di Timothy Leary, il profeta delle esperienze psichedeliche e di Albert Hoffman, lo scopritore del LSD. Me li aveva ati e ne avevo letto alcuni capitoli. Eravamo interessati ad alcune forme di esperienze psichiche, ma pensavamo che si potessero raggiungere anche senza l’uso delle droghe. Risultato: per tutto il liceo, e in futuro, riuscimmo a non fumare nemmeno uno spinello. Senza fare alcuna fatica e senza sentirci, per questo, dei conservatori reazionari. La ribellione, pensavamo, consisteva in ben altro che finanziare la mafia e la microcriminalità. Non sapevamo ancora quanto la droga avrebbe potuto nuocere, spazzando via idee, progetti, persone, fiaccando una intera generazione.Talmente ribelle, che a stento l’autorità scolastica riusciva a tenerla
a bada e a reprimerla, colpendo soprattutto i suoi “fiancheggiatori”, come la professoressa Martisoli che rimaneva ancora pericolosamente in prima linea a fianco degli studenti. Dietro le quinte continuava ad aggravarsi come una ferita insanabile che nessuno cercava di curare, il conflitto del preside con la professoressa. A fine agosto del ’71 il preside comunicò che, sentito il parere della seconda sezione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, avrebbe inflitto la censura all’insegnante disobbediente e l’avrebbe allontanata dal liceo. A questa comunicazione seguirono una petizione, numerose mobilitazioni, la raccolta di quattromila firme tra cui quelle di seicento operai della vicina fabbrica Olivetti e il coinvolgimento unanime di forze politiche progressiste e sindacali che auspicavano un ripensamento. Un disgraziato collega, di fronte all’ispettore che su richiesta del preside era stato inviato dal Provveditore per sanzionare la docente incriminata, aveva asserito il falso affermando di averla sentita parlare di politica con gli studenti nel corridoio. L’insegnante a casa pianse. Successe solo una volta. Il giorno dopo, quando le fu recapitata la notifica dell’ordine di trasferimento, prese in mano il documento e lo stracciò senza versare una lacrima. Il preside aveva una concezione così personalistica del suo ruolo, che non riusciva a staccare il suo “io” dalla funzione pubblica che rivestiva. Invece di disinnescare il detonatore della protesta, viveva tutte le iniziative non ispirate dalla sua autorità come attacchi personali. Sembrava non riuscisse a percepirsi e quindi a esistere, al di fuori del suo incarico. Come quegli uomini invisibili che in alcuni film di fantascienza, quando si tolgono la maschera che usano per dare forma alla loro identità, diventano nulla, così il Preside, senza il suo titolo, senza il suo ruolo, spariva in un vuoto impersonale. Era convinto di essere quello che faceva, non una persona indipendente dal ruolo recitato nella vita. Chi non è “persona”, sostituisce la sua identità con il ruolo sociale e professionale che è chiamato a rivestire o che si è scelto. Se il ruolo è socialmente prestigioso, se ne sente gratificato e in questo modo lega inevitabilmente se stesso al destino del compito istituzionale… ma le persone non sono quello che fanno. Se invece si è “persona”, con una coscienza individuale autonoma, si può entrare in conflitto con il proprio ruolo. Quando ci si annulla e ci si riduce a essere
soltanto una maschera, una comparsa sulla scena, allora il ruolo sociale può soffocare fino a uccidere la persona.
V
Il monom - La coltivazione dell’inconscio
Nelle scuole rabbiniche non ci sono esami. Il piacere dello studio non è rovinato dalla sciagurata invenzione dell’esame e dalle famigerate interrogazioni che spingono a una insana competizione o a forme di opportunismo fine a se stesso. Sono gli alunni a interrogare gli insegnanti, perché una vera scuola è basata sulla capacità di formulare le domande. In una condizione ideale, l’anima infantile impara a balbettare i suoi alfabeti e a superare, crescendo, l’elementare grammatica del suo intelletto. Il nostro sogno era quello di frequentare un luogo capace di imitare l’arte della natura. Volevamo studiare attraverso simboli viventi la logica dell’infinito, ma eravamo impreparati a navigare con le nostre minuscole canoe sopra le onde dell’ignoto. Sequestrati in aule incapaci di illuminare, sentivamo la nostalgia di un sapere indefinibile, irraggiungibile quanto ineffabile. La nostra malinconia era più profonda di quella che il nostro insegnante di letteratura italiana e latina riuscisse a indovinare, quando leggeva con asciutta indifferenza pensatori e poeti pagani, come Lucrezio, che sentivamo vicini alla nostra sensibilità più del Vangelo. Lo studio scolastico dei classici creava sempre un muro divisorio fra noi e i testi. Soffocato dal timore delle interrogazioni improvvise, dalla mancanza di pathos, dalla tortuosità dei commenti a piè di pagina, dall’erudita complessità delle ipotesi interpretative, dalle elucubrazioni semantiche, il pensiero dell’autore rimaneva inaccessibile. Ma noi ci sentivamo esploratori destinati a viaggiare più lontano dei confini tracciati dai professori sulla lavagna della nostra mente. Nessuno era però disposto a credere ai nostri viaggi avventurosi. Ci consolavamo pensando al destino dei grandi viaggiatori. Quando Marco Polo raccontò la Cina agli occidentali, provocò uno shock culturale. I suoi lettori e concittadini restarono abbagliati. Il mondo che aveva visto Marco Polo era troppo vasto, così diverso dalla realtà occidentale conosciuta da sembrare inverosimile e procurare per molto tempo a chi lo raccontava l’ingiusta fama di essere un cacciaballe.
Pur senza visitare il Celeste Impero o scoprire le Indie, si possono esplorare spazi immateriali cercando di tratteggiarne i contorni in geografie invisibili, descrivere esperienze straordinarie del mondo psichico e subire lo stesso ostracismo. Se qualcuno è interessato e ne ha le capacità, può tentare di ripetere gli esperimenti qui descritti per verificarne l’efficacia e in questo caso la fede non c’entra, conta la testimonianza. Ho cercato dunque di essere oggettivo nella descrizione dei fenomeni ai quali ho assistito. Ma mi rendo conto che, se ci si occupa di temi inconsueti, si sarà inevitabilmente giudicati degli individui dalla mente strampalata, visionaria e commercialmente improduttiva. In genere si raccomanda un uso moderato della curiosità, per non rischiare di uscire dal quadro rassicurante del “buon senso comune”. In una scuola seria è molto importante l’iniziativa personale, mentre solitamente nella vecchia scuola ci si nasconde dietro il paravento di un pensiero preformulato, senza rischiare alcunché. Ma rifugiarsi nel credo di un’istituzione scuola, chiesa, stato - è un sollievo illusorio, poiché non mette al riparo dall’ignoranza e non garantisce neppure una maggiore fortuna, una divina benevolenza e ispirazione nella ricerca della verità. Per resistere a questa seduzione ideologica dove tutto è già pronto per essere consumato, una specie di sedativo esistenziale generato dall’ansia del nulla, era necessario imparare questa lezione: lo zuccherino elargito per aderire al pensiero della maggioranza può essere pericoloso almeno quanto il veleno. Occorreva imparare a non dipendere dalla gratificazione esterna, dai plausi, dagli incoraggiamenti. Una ricerca che necessita di “sostegni affettivi”, morali e che si ferma in assenza di consensi, è monca. È schiava di un controllo esterno. Bisognava essere fedeli alla propria volontà di conoscenza senza attendersi premi e riconoscimenti, ma senza cadere nella trappola del vittimismo, evitando di crogiolarsi nei miasmi dell’incomprensione. Le difficoltà temprano lo spirito. Anche nelle migliori condizioni, ci sono dei “blocchi” che limitano l’intelligenza, dei recinti che ci chiudono all’interno di una gabbia costruita sopra il castello di carta delle convenzioni.
Incapace di accendere il fuoco sacro e di alimentarlo, quindi di comunicarlo a sua volta, la scuola ci proponeva un unico modello di esistenza, fra i tanti possibili. Le famiglie, invece di educare all’indipendenza intellettuale e comportamentale, erano complici di questa visione restrittiva e angusta. Per molti gruppi familiari scoprire di avere un figlio pensante poteva essere una disgrazia; pensare sì, si poteva, ma non troppo. Mi pareva di averne capito il perché:
la società è indifferente alla ricerca della conoscenza pura, è più sensibile al saper fare; il figlio deve realizzare le proiezioni, i desiderata dei genitori; lo studente è tenuto ad assolvere all’impegno di dare lustro al buon nome della famiglia.
Di conseguenza, gran parte dei genitori pretendevano l’osservanza o almeno il rispetto formale dei comportamenti morali e sociali consolidati, compresa l’adesione ai precetti religiosi. In realtà esigevano la sottomissione dei loro figli al conformismo e all’ipocrisia, l’annullamento del loro vero essere. Da qui nasceva il malessere della nostra condizione. Riferendosi alla nostra generazione, Did sosteneva che “metà è un mondo di disperati, l’altra metà è così superficiale da non riuscire nemmeno a esserlo”. “Qui in questa scuola stiamo perdendo tempo…” ripeteva, quando la noia delle lezioni diventava mortale. Seguivamo certo con interesse le vicende che agitavano il mondo e quello della scuola, anche se la nostra era la rivoluzione delle acque chete: non gridata, non manifestata, orientata a cambiare qualcosa che riguardava noi stessi. Nel nostro ruolo di osservatori distaccati, partecipavamo a eventi teatrali,
manifestazioni di protesta, scioperi bianchi, discussioni, scontri tra opposte fazioni. Le occasioni di arricchimento personale non mancavano. Sotto la pressione di un cambiamento epocale, molte risorse culturali del territorio erano messe a disposizione del pubblico attraverso incontri, dibattiti, conferenze, cineforum. Ma cominciavamo anche a essere stanchi degli argomenti triti e ritriti dibattuti nelle assemblee, di essere cortocircuitati dalle estenuanti discussioni intorno a Freud, Marx, Marcuse, Mao e alle vicende di personaggi del calibro di Régis Debray: la personificazione dell’intellettuale che era disposto a fare il guerrigliero accanto a Che Guevara. Io cercavo di seguire Did nella sua fuga dai modelli conservatori e rivoluzionari, cercando altre strade. Mi facevo prestare i suoi libri che nel nuovo anno, dopo l’imprinting del professor Maiorino, soddisfacevano i miei interessi di natura filosofica, e facevano respirare la mia mente fuori dalle angustie dei programmi: mi tuffavo nelle Confessioni di Sant’Agostino, ma anche nelle misteriose Enneiadi di Plotino, nei testi di astronomia di James Jeans, nel Gesù Cristo di Renan, in alcune opere di Goethe e di Voltaire. Il nostro spirito si rispecchiava nei valori e nell’approccio esistenziale che di volta in volta incontravamo nel corso delle letture. A volte desideravamo vivere pericolosamente incarnando la figura del Faust, del gaudente Don Giovanni, oppure percepivamo tutta la fragilità della condizione umana suggerita della metafora della canna al vento di Pascal, per are alla ratio analitica suggerita dal Candide, e così via, percorrendo nel breve tempo delle nostre letture intere epoche della storia e della ragione. Come esiste la memoria filogenetica della specie che permette al feto di rivivere velocemente nel grembo materno, prima della nascita, le fasi evolutive della vita terrestre, così può innescarsi una sorta di filogenesi intellettuale grazie alla quale anche a livello cognitivo l’essere umano attraversa le stratificazioni culturali precedenti, prima di riuscire ad acquisire una sua posizione originale. Uno sforzo che, in alcuni casi, può sembrare titanico, ma che in realtà segue a livello mentale le stesse leggi della biologia: per andare avanti occorre prima aver assimilato le idee e le esperienze di quelli che ci hanno preceduto e dei quali siamo eredi. Nel corpo come nel pensiero. Senza la conservazione della memoria biologica e culturale, la loro conseguente integrazione e infine superamento a favore di una concezione più ampia e onnicomprensiva della realtà, non c’è futuro.
Nella palpabile effervescenza di quel periodo ci sembrava di percepire la coscienza collettiva della massa studentesca come un corpo unico, mosso da sue proprie leggi, aspirazioni e ideali. Anche la nostra classe era simile a una eggregora dotata di un suo proprio spirito o manas all’interno del quale stavamo racchiusi come ostriche nel mare, insieme a una moltitudine di altre presenze e forze. C’era pure un manas del corpo insegnante, dei professori. Gli studenti più sensibili e progressisti dimostravano rispetto e amicizia solo a chi esprimeva le medesime inquietudini. Una ristretta cerchia di insegnanti soffriva insieme agli studenti della mancanza del diritto allo studio, dei programmi vetusti, della didattica eccessivamente mnemonica, dell’impianto gerarchico dell’istituzione, della burocrazia accentratrice, elementi che rendevano la scuola pubblica statica e lontana dalle esigenze di una società in tumultuosa trasformazione. All’inizio del quarto anno era arrivato il nuovo professore di storia e filosofia, che aveva ricevuto la difficile eredità di Maiorino, il quale dopo la sua temporanea trasferta punitiva era ritornato a Milano, città che per noi provinciali era il centro del mondo. Se il Maiorino ci aveva fatto dono di un modo di pensare capace di mettere in relazione storia del pensiero filosofico, approccio scientifico e poesia, con il professor Pietro Corelli l’insegnamento della storia e filosofia era unito alla ione politica e civile. Sembrava uno di noi, un nostro fratello maggiore, a parte la barba fluente e lo sguardo lucido del giovane intellettuale conscio della forza rivoluzionaria delle nuove istanze culturali di cui era portatore. La voce era secca e precisa, eppure apionata. La sua indole avrebbe potuto essere quella di un eremita incapace di lasciare il mondo o di un profeta laico, di un gesuita ribelle, di un rivoluzionario mistico. Non aveva la capacità affabulatoria del professor Maiorino, ma incantava lo stesso in virtù di un particolare carisma personale. Non disegnava i percorsi dell’intelletto nell’aria con i movimenti delle mani, però annunciava le verità dei filosofi con uno slancio che coinvolgeva tutto il corpo. Era sempre itinerante, in movimento tra i banchi, mai seduto alla cattedra o isolato dagli studenti, piuttosto sempre in mezzo a loro.
Esigente e non minaccioso, partecipava alle assemblee con slancio, dibattendo temi scottanti. Possedeva una capacità dialettica che lo rendeva allo stesso tempo mite e travolgente. Grazie a lui il pensiero filosofico si tingeva dei colori della responsabilità sociale, alla quale, specialmente io e Did, ci sentivamo assolutamente estranei. Non sapevamo che i percorsi della ragione potessero ospitare il rigore dell’impegno politico. La ione civile del professor Corelli rendeva sacrosanta la battaglia per una scuola più giusta e una società più aperta, democratica e ispirata forse ai valori di un umanesimo socialista, di un marxismo dal volto umano. Non proclamava la sua appartenenza ad alcuna fede o ideologia, per cui non sapevamo come inquadrarlo. Per alcuni aspetti sembrava vicino alle posizioni dei cattolici progressisti, per altri pareva mutuare dalle posizioni marxiste e laiche un approccio pragmatico alla realtà. Propugnatore di un’etica equidistante dai vari modelli esistenziali e filosofici, era per noi l’esempio di un adulto coerente che sapeva affrontare la contemporaneità con dignità e senza timidezze. In un’occasione, nel bel mezzo di un’assemblea, davanti a centinaia di studenti che gremivano lo storico cinema Cremonesi, aveva proposto l’occupazione del liceo. Il nostro nuovo professore di storia e filosofia non proveniva, come molti altri insegnanti, da una famiglia borghese o piccolo borghese, ma da una famiglia operaia, per cui il suo legame con il mondo dei lavoratori e i loro valori era molto forte. Tuttavia imparammo ad apprezzarlo anche per i contenuti squisitamente filosofici che illustrava nelle sue entusiasmanti lezioni, durante le quali chiedeva il contributo e la partecipazione diretta degli studenti, in una logica di responsabilità collettiva e di libera ricerca, di confronto aperto. Prima di approdare al liceo aveva insegnato alle Magistrali e si era laureato a Milano, allievo tra gli altri del professor Emanuele Severino. Si diceva che Severino fosse stato allontanato dalla Cattedra di Filosofia dell’Università Cattolica di Milano per le sue posizioni filosofiche ritenute
inconciliabili con la dottrina cattolica. Essendo stato suo allievo, Pietro Corelli era in odore di eresia e guardato con sospetto dai genitori più conservatori e dalla gerarchia ecclesiastica. Il preside monsignore ne controllava a vista i comportamenti, pronto a sanzionarlo al minimo sgarro. Come con Maiorino, Did ebbe con Corelli un feeling immediato, che andò oltre le mie aspettative. Did si confrontava con Maiorino direttamente, mentre la classe assisteva distratta alle sue lezioni. Corelli invece adottò una strategia che svegliò e prese in contropiede noi tutti. Faceva parlare chiunque avesse avuto qualcosa da dire, liberò le nostre menti accettando domande, anche le più provocatorie. Non voleva che imparassimo supinamente, non intendeva trasformarci in docili ripetitori di idee altrui. Ci spronava a pensare con la nostra testa. Nel corso di una lezione, quando Did sparò una serie di domande imprevedibili, il professore lo invitò a salire in cattedra e a spiegare il suo pensiero alla classe in modo più esauriente. Superato il prevedibile imbarazzo, a Did non pareva vero di poter spiegare le sue ragioni da una così autorevole posizione. Corelli aveva sparigliato le carte, cambiato le regole, dimostrando che si poteva imparare da chiunque avesse voluto fornire esempi di ragionamento autonomo. Si doveva rispettare lo spirito di indagine e la curiosità. Ognuno di noi era maestro quando si poneva delle questioni, dei perché, anche se non conosceva le risposte. Questo gioco divenne così frequente che Did sedette sempre più spesso in cattedra. Da studente reietto, fuorigioco, stava diventando un esempio. Il risultato fu che con me si mise a fare lo sputasentenze.In realtà trovavo molto seccante questa particolare visibilità che Corelli gli aveva concesso. Mi ci volle molto ad ammettere che morivo d’invidia. Il mio era rimasto un pensiero silenzioso e segreto, muto, che non avevo saputo esprimere nei miei temi molto modesti, mentre Did oltre alla proprietà di linguaggio e alle idee, sapeva far uso di quello strumento suadente che era la sua voce, al cui confronto la mia, quando tentavo di articolare timidamente qualcosa di sensato, pareva lo strepito di
un’anatra in fuga, il gracchiare tremulo di una rana in calore o una grattugia difettosa. Ormai il mio compagno si sentiva a proprio agio durante le lezioni di filosofia, assiso in cattedra, come a casa propria. Quando voleva fare lo stronzo, faceva parlare tutti quanti e poi alzava la mano per dire la sua, quasi per tirare le fila della discussione, delle varie ipotesi, per liquidare le opinioni che riteneva improprie e affermare, in quel crogiuolo di diatribe, scontri, differenze, un’idea originale e solitaria. Aspettava che si fe silenzio assoluto nell’aula, prima di aprir bocca, così si creava una suspense speciale e le sue parole si caricavano di un’intrinseca forza suggestiva. Il legame con il professor Corelli si rafforzò man mano che approfondivamo la sua conoscenza.Avevamo scoperto che aveva pubblicato un libro dal titolo: Creazione dal Nulla? Did aveva cercato di leggerlo senza capirlo a fondo. Per me fu lo stesso. Il Nulla era un tema ricorrente nel pensiero di Severino. Il filosofo Severino, come tanti razionalisti tra cui spicca Spinoza, di impostazione euclidea (posti determinati postulati evidenti, ne conseguono risultati altrettanto evidenti), con una mentalità matematica, è stato abbagliato da un postulato: l’essere, proprio perché è, non è non essere. Proprio perché non può essere non essere, non può nascere e non può morire. La conseguenza: l’essere è eterno, immutabile, al di fuori del tempo. Questa è l’intuizione di Parmenide, ma Severino fa un o ulteriore: proprio perché ogni cosa è eterna, immutabile, al di fuori del tempo, tutto è divino. Il nascere e il morire sono solo un entrare e un uscire dall’apparire. Di conseguenza, chi crede nella mortalità delle cose, è un pazzo. Ma le parole essere e non essere non sono parole convenzionali inventate dai mortali? Le riflessioni che nascevano da questa filosofia risuonavano in noi come un’eco profonda, alla quale attingere alla ricerca di una verità superiore.
Intanto Corelli ci prospettava il valore del pensiero inteso come logica, logos dell’intelletto. La filosofia non era un’opinione ma costituiva la matrice della conoscenza, la radice della capacità critica, un rigore metodologico superiore alle stesse scienze umanistiche e alle discipline scientifiche e tecniche. La scienza era specializzazione, quindi separazione. Come tutte le discipline tecniche, era fondata sul visibile. Ancora non sapevamo quanto, misteriosamente, queste idee avrebbero avuto un peso nel segnare i nostri sforzi maldestri, seguendo un orientamento che Corelli il quale aveva reintegrato il senso del silenzio e dell’invisibile nella scuola riuscì a rendere stranamente familiare: cercare di essere uomini e nello stesso tempo saper osare per superare se stessi all’infinito.
A Did e a me interessavano questi temi, ma la maggioranza della classe sentiva una maggiore affinità con i docenti che adottavano un pragmatico opportunismo didattico. Uno di questi, per i quali la scuola era un territorio di caccia, era il professore di educazione fisica. Aveva una cinquantina d’anni e si chiamava Maniero. Arrivava regolarmente in palestra - un casermone in stile fascista adiacente al liceo - con almeno venti minuti di ritardo. Che fosse il primo a non prendere sul serio la sua stessa materia lo si capiva dall’abbigliamento con il quale si presentava. Sempre vestito con giacca e cravatta, elegante e sbrigativo, sicuro di sé, impomatato come un pinguino pronto per una serata di gala. Apparteneva alla vecchia guardia del corpo insegnante. Attivista del Movimento Sociale Italiano nel vicino capoluogo, considerava la sua attività scolastica un’imperdibile opportunità per ottenere dallo Stato, di lì a qualche anno, la rendita della pensione. Svolgeva molte attività: possedeva piantagioni di pioppi a Stradella, in riva al Po; era editore specializzato in libri scolastici; presidente di un Consorzio che gestiva corsi di preparazione para-professionali; socio onorario di Federazioni sportive, e così via. Si presentava in palestra con un pacco di corrispondenza che aveva appena ritirato dai suoi uffici e apriva nervosamente lettere, plichi, pacchi,
dando contemporaneamente ordini agli studenti in attesa, schierati davanti alla sua scrivania piazzata proprio al centro di uno spazio immenso. Circondato da attrezzi ginnici di tutti i tipi, non ne utilizzava nemmeno uno, ma in compenso la sua voce echeggiava nel casermone come il grido altisonante di un sergente che istruiva un plotone di coscritti svogliati. Si trattava dei classici at-tentiii, ri-poso!, fianco destr!, fianco sinistr! che poi avremmo riascoltato nel corso della futuro servizio militare. Il professore Maniero dava un’occhiata sfuggente alla esecuzione degli ordini, ma il suo interesse era rivolto alla massa di incartamenti che s’era portato appresso. Dopo circa cinque minuti di paa-sso! e dietro front!, che ci rompevano le palle, faceva finalmente rompere le righe, chiedendo a quale gioco volevamo giocare. Inevitabilmente la maggioranza invocava il gioco del pallone e allora, iniziata la partita, il professore se la svignava alla guida di una delle sue autovetture fuoriserie. Così l’ora di ginnastica diventava un incontro di calcio. Per questa sua generosa concessione era molto apprezzato dagli studenti, che si assoggettavano ben volentieri a quei cinque minuti di avanti marsch! Il calcio era il suo asso nella manica e faceva are in secondo piano tutto quello che avrebbe potuto fare, l’impegno che avrebbe e avremmo dovuto mettere nell’esercizio di una disciplina fondamentale. Trasformava invece invariabilmente l’ora di educazione fisica in un atempo di evasione totale. La sua presenza nell’organico degli insegnanti, più simbolica che reale, era motivata dalla necessità di tenere un piede nel mondo della scuola. Conoscenze e contatti erano indispensabili per riuscire a promuovere i libri scolastici della sua piccola casa editrice. Invece di essere i suoi esigenti clienti, noi studenti eravamo le sue complici e inconsapevoli vittime. Grazie al suo opportunismo lazzarone, non avremmo mai maturato un corretto rapporto con la nostra corporeità mediante esercizi fisici strutturati. La scuola di stampo tradizionale, erede dell’antica romanità alla quale a parole il Maniero si richiamava, trascurava di impartirci una delle leggi fondamentali per una sana costituzione psicofisica, applicata appunto nel mondo latino: Mens sana in corpore sano.
La nostra presenza a lezione era certificata solo dall’appello iniziale. Una volta esaurita questa formalità, si poteva giocare a pallone o andare a zonzo per la città, mentre i nostri genitori ci credevano affidati alla cure di un insegnante. Abbandonandoci a noi stessi, la scuola si screditava da sola. Così alcuni giocavano, altri bighellonavano, altri ancora avevano tempo per riflettere e pensare. Quando si ritornava in classe, il più delle volte ci attendeva una estenuante quanto prevedibile lezione di letteratura italiana e latina. Dopo due anni di convivenza, sapevamo cosa voleva il professor Tarasca, che ci aveva abituati a un pensiero scontato. E Did, dopo due anni di tregua reciproca, aveva cominciato a stuzzicarlo attraverso i compiti in classe con riflessioni inconsuete e una prosa che a malapena gli facevano raggiungere la sufficienza. A inizio anno Did si giocò i suoi favori terminando un tema - l’ennesimo che chiedeva di commentare versi della Divina Commedia - con evidente sarcasmo: “Come volevasi dimostrare, nonostante il grande poeta affermi che siamo nati per seguire virtute e canoscenza, l’uomo (e anche la donna) è sempre rimasto uguale a se stesso, quindi, poiché non ha imparato quasi nulla dagli errori del ato, la nostra specie si può considerare raramente consapevole e piuttosto primitiva”. Con queste provocazioni Did voleva esibire il suo rifiuto della concezione di un essere umano salvato dall’umanesimo cristiano e da un Dio buono e provvidenziale. Un giorno la classe scoprì il vero tallone d’Achille del nostro augusto professore. Non era la sudditanza servile nei confronti del preside, l’assenza di domande e inquietudini, la prevedibile retorica della sua didattica, il bonario paternalismo con il quale trattava noi tutti. No. C’era di peggio: eccessivamente ammiccante nei confronti dei più bei ragazzi del liceo, da tempo Tarasca cercava di adescare Guglielmo, il bello della classe. Da sotto il piano della cattedra lo si intravedeva tenere le ginocchia unite e i piedi larghi alla maniera delle donne e di Andreotti quando volevano celare, rispettivamente, le loro parti intime e le loro ambiguità. Le donne però portavano gonne troppo corte per pretendere di are inosservate, mentre il più longevo uomo di governo del dopoguerra nascondeva troppi segreti da poterli nascondere proprio tutti nello scafandro della sua proverbiale rigidità posturale. A casa il nostro professore faceva la calza e comunque la sua ione per i bei ragazzi non sembrava affatto pericolosa. Di fatto, quando eggiava tra i
banchi lasciando alle spalle lo spazio fortificato della cattedra, era sempre appiccicato al suo adone Guglielmo, che sfiorava a ogni occasione con un tocco lieve, casuale e eggero.
Io e Did cercavamo di non essere troppo turbati da una scuola che ci svelava via via i suoi altarini. Il fulcro della nostra attenzione rimaneva focalizzato sui nostri esperimenti. Il quarto anno, dopo le riflessioni estive dense di letture inusuali e la stesura di fitte bozze di appunti, Did si presentò a scuola con un piano sistematico di azione. Il programma della nostra scuola parallela prevedeva di impiegare l’ipnosi per esaltare al massimo non la memoria o le ricerche parapsicologiche, ma la creatività. Nella mente di Did, fortemente condizionata da una visione contadina dell’esistenza, l’inconscio equivaleva a un grande latifondo, che raramente veniva coltivato. La parte cosciente si accontentava di raccogliere legna da ardere, ma non conosceva le miracolose erbe spontanee, le potenzialità del sottobosco e delle foreste. Così ogni induzione ipnotica corrispondeva a una vera e propria inseminazione, a un’opera di coltivazione mentale. L’ipnosi era una metodologia utilizzabile per fecondare la mente con input mentali ed emozionali. La mente si poteva arare e fertilizzare con semi di idee, oppure caricare come una molla. La si poteva tendere come un arco teso, affinché scoccasse i suoi pensieri, resi simili a dardi infuocati. Did mi spiegò che non intendeva fissarsi su un progetto particolare, ma voleva riprodurre le fasi stesse del processo ideativo. Anche oggi, a distanza di quarant’anni, ritengo che il punto più interessante di quelle lontane ricerche sia stato il tentativo di sperimentare un metodo per stimolare le potenzialità inventive, focalizzando le energie del ricercatore attraverso una mobilitazione delle sue memorie, della sua capacità di concentrazione e della sua facoltà creativa.
Ho impiegato anni a rendermi conto della vera posta in gioco di quegli esperimenti. Non si era a caccia di una scoperta definita, di un’idea specifica, ma di una modalità che poteva generare le idee stesse. Non si trattava semplicemente di inventare qualcosa, elaborare un contenuto originale, di trovare, produrre o scoprire una perla, ma di mettere le mani sul processo che poteva portare la mente a generare o accelerare qualunque processo ideativo, a coltivare negli sconfinati territori della psiche tutte le perle che si riusciva a immaginare. Nel compiere quelle esperienze creative, volevamo rimanere consapevoli, spiare il processo formativo della concezione ideativa, osservare le dinamiche dello sviluppo delle idee. Il metodo ipno-stimolatore si prefigurava quindi come un moltiplicatore delle possibilità cognitive. Invece di creare semplicemente qualcosa, si trattava di scoprire come accrescere la qualità e la riproducibilità della elaborazione creativa. Questa possibilità poteva essere applicata con successo in ambito letterario, nel quale si potevano forse ottenere risultati eclatanti, anche se influenzati dalla diversa ricchezza culturale e linguistica di ciascun soggetto. Era evidente che se la mente era padrona dei dati inerenti un determinato tema, la metodologia poteva essere sperimentata anche in ambito scientifico e tecnologico, dove la ricaduta commerciale e strategica delle idee poteva essere più facilmente apprezzata rispetto al settore umanistico, filosofico o speculativo. In quel periodo fui molto colpito dalla lettura del libro A scuola dallo stregone, di Carlos Castaneda, nel quale venivano presentate alcune esperienze psichiche straordinarie causate dal peyote. La diffusione della marijuana nei circoli hippy locali, la deriva psichedelica di alcuni grandi gruppi rock e di altri pensatori della beat generation mi fecero considerare l’uso delle droghe leggere una esperienza utile allo sviluppo della creatività artistica. Procurarsi uno spinello era impresa sempre più facile. Per essere accettati in alcuni gruppi, la condivisione di una simile esperienza equivaleva a un rito di iniziazione. Provai a parlarne con Did, il quale però ebbe una reazione molto dura e inaspettata: “Puoi fumare finché vuoi,” mi disse, “puoi anche are alla coca o all’eroina… non me ne frega niente, fai come ti pare però sappi che se ti droghi
non ti voglio più tra i piedi, ho bisogno di gente lucida intorno a me, non di zombie”. Quando gli chiesi timidamente ragione della sua reazione, rincarò la dose: “Quei fifoni di drogati vogliono fare la rivoluzione sparandosi del veleno nel cervello, tanto vale spararsi un colpo in testa, no, grazie! Se proprio devo combattere o morire, voglio essere sveglio, lo vedresti un Apache che invece di fare il guerriero si uccide per la paura del combattimento, senza nemmeno provare a lottare?” Per qualche tempo non tornai più sull’argomento. Avevo toccato un suo punto critico, e pensai che Did fosse dominato dalla necessità di un eccessivo autocontrollo. Qualche giorno dopo mi spiegò che non gli interessava sperimentare nuove percezioni agendo sul cervello in modo artificiale, senza rispettare alcuna disciplina. Mi disse che noi dovevamo ricercare sì nuove conoscenze, esperienze e percezioni, ma attraverso uno sforzo volontario, un aumento della consapevolezza che non doveva escludere il saper stare nel mondo. Dovevamo conservare le radici nella profondità della terra e proiettare la testa oltre le nuvole non mediante un’evasione nell’irrazionale, ma con un piede nel mondo e uno nell’ignoto. Lasciata definitivamente alle spalle la tentazione della droga, Did mi coinvolse subito nella preparazione di una vera e propria strategia di sviluppo della creatività, utilizzando soggetti dedicati. Si trattava di soggetti appositamente preparati e destinati esclusivamente a un settore specifico di indagine, con esperimenti mirati. Le energie di un soggetto dedicato venivano stimolate per esplorare un filone definito e circoscritto di ricerca. Non mi pentii della rinuncia alle tentazioni psichedeliche, quando mi accorsi della vastità delle esperienze in corso, dell’arcipelago di progetti e della varietà di ipnosi mirate che presto, di settimana in settimana, catturarono nuovamente il mio interesse. Con l’aiuto di Lella avevamo moltiplicato i nostri sforzi per reclutare nuove cavie, e io mi trovai così a gestire una mole impressionante di lavoro e di nuovi
soggetti. Ogni risorsa dedicata era classificata sulla base della sua specializzazione operativa. Incubator era il termine utilizzato per indicare un soggetto nel quale veniva inseminato un contenuto-pensiero a sua stessa insaputa. In pratica la sua parte inconscia lavorava gratis, senza nemmeno immaginarlo, intorno a un tema che poteva variare di volta in volta. L’Insider era un soggetto impiegato per esplorare uno specifico argomento. Diversamente dall’Incubator, l’Insider era coinvolto emotivamente a livello cosciente. Did sosteneva che si poteva trapiantare una pulsione emotiva anche in attività puramente astratte. Associare una “pulsione del piacere” a un contenuto mentale, permetteva allo sforzo cognitivo di essere alimentato da una grande riserva di energia emozionale. Sia nel caso dell’Incubator che in quello dell’Insider, il processo di inseminazione cognitiva, di transfert ideativo, veniva avviato con ordini asciutti, freddi. La tipologia degli Insider venne presto arricchita dalle sottospecie dei Memnor e dei Morpheor. Il Memnor era destinatoad approfondire le ricerche nel campo della memoria, sia per ottimizzare i processi con i quali venivano programmate le prestazioni mnemotecniche, sia per esplorare i limiti della facoltà mnemonica in sé, esaltando le performance di archiviazione e recupero delle informazioni che continuavano a essere uno dei nostri filoni di ricerca. Il Morpheor era un individuospecificatamente addestrato a svolgere attività psichiche nello stato di sonno. Il suo campo d’azione era la sfera onirica. A questo primo manipolo di operatori specializzati si aggiunsero le figure dell’Actioner e dell’Interceptor.
L’ Actioner era addestrato a ricevere specifici comandi da realizzare nello stato di veglia, in situazioni ordinarie, generalmente in contesti e luoghi pubblici. Agli Actioner non si richiedevano prestazioni mentali, ma piuttosto comportamentali, ovvero azioni, prestazioni concrete di carattere relazionale. L’Interceptor aveva la funzione di “intercettore”. In pratica doveva are almeno un pomeriggio della settimana in biblioteca a reperire informazioni relative a questo o a quel tema, per il quale veniva istruito - in trance - a sviluppare interesse. Poiché né io né Did avevamo il tempo di seguire tutto il percorso delle conoscenze e d’altra parte avevamo bisogno di possedere informazioni “strategiche”, designavamo alcuni soggetti a cercare dati utili e interessanti. Gli intercettori erano dei veri e propri “cacciatori di informazioni”. In alcuni casi erano stati istruiti a setacciare tutti gli indirizzi dei centri di ricerca che operavano nel campo delle “scienze alternative”. Così avevamo scoperto l’esistenza, a Londra, di un Centro di Ricerche Psichiche del quale potevamo divenire soci e aprirci a un confronto per via epistolare. Oppure si trattava di censire articoli particolari pubblicati nelle riviste consultabili in emeroteca, trascrivendo i recapiti di ipnologi e ricercatori stranieri. Gli Interceptor consultavano bibliografie specializzate, reperivano studi di professionisti competenti in problematiche desuete, facoltà universitarie europee o statunitensi dove si insegnavano materie vicine ai nostri interessi, come i metodi di persuasione e le tecniche di colloquio adottate dalla polizia per ottenere la collaborazione dei criminali, e così via. Il Connector, cheera una variante dell’Actioner, era in grado di interpretare ordini segnalati con codici esclusivamente gestuali, prima di mettere in atto un determinato comportamento precedentemente concordato a livello inconscio. I Connector eseguivano i comandi silenziosi che venivano loro impartiti, esibendosi anche al bar, per strada o nell’aula scolastica.
Per descrivere queste nuove esperienze e riuscire a oggettivare la loro particolare fenomenologia, Did sviluppò un linguaggio speciale. Le parole erano le piattaforme concettuali sulle quali costruire le nuove architetture cognitive. Il linguaggio non era solo una espressione delle idee, ma il loro nutrimento. Un soggetto che portava in sé un programma era gravido, incinto… Chi era in
attesa di essere inseminato da una idea o progetto, era un verginello. Chi aveva già scaricato il frutto della sua concezione ideativa almeno una volta… aveva già partorito. Queste espressioni costituivano un codice analogico per secretare i contenuti e la natura della nostra attività, ma servivano anche a definire la complessità tematica che germogliava nell’inconscio, nei latifondi mentali dei nostri compagni. Una volta alla settimana Did riscuoteva gli elaborati dai soggetti dedicati, con la regolarità di un esattore, rinforzava l’impianto motivazionale per rifocalizzare l’obiettivo e affidava, se era il caso, nuovi compiti. Non era importante solo l’elaborato in sé, la sua intrinseca qualità, ma la messa a punto della tecnica, dei percorsi induttivi che aumentavano la probabilità di ottenere idee nuove, di ricavare un prodotto concettualmente superiore. In quel periodo l’impero invisibile di Did raggiunse la massima espansione. Gli sarebbe bastata una parola, la pronuncia della segreta, esclusiva e prestabilita, per entrare nella psiche di una vasta cerchia di coetanei, di colture mentali viventi. Poteva rifornirsi di soggetti dalla nostra quarta B alla prima c dalla terza b alla seconda a del liceo scientifico. Ma aveva esteso la sua influenza e il suo controllo anche alla seconda D e alla quinta A. Senza contare le conquiste nel contiguo liceo classico Alessandro Racchetti, dove signoreggiavano i rampolli dell’alta borghesia, quella che aveva preferito l’investimento umanistico a quello tecnico-scientifico. Did vi si era infiltrato sinuosamente come un’ombra e aveva espugnato la resistenza della élite studentesca che preferiva il greco e il latino all’algebra e alla matematica. In questa ecumene altolocata si preparava a manipolare alcune delle menti più brillanti riconvertendo, a forza di suggestioni e comandi, i loro stessi gusti culturali umanistici per farne dei matematici in erba, anziché dei letterati e dei filosofi, dei brillanti traduttori di lettere morte. Did li aveva battezzati Invenior, perché la loro attività creativa era focalizzata su invenzioni puramente astratte. Memore dell’eureka (ho trovato), del siracusano Archimede, cercava di stimolare in queste giovani menti la ione per la geometria e la scienza dei numeri. Did non disprezzava affatto la matematica, ma il modo di insegnarla. Sosteneva che al liceo scientificonon si spendeva un secondo a spiegare a cosa potevano
servire concretamente le operazioni che eravamo costretti a fare. D’altra parte non si attribuiva sufficiente dignità noumenica ai numeri, li si trattava solo come strumenti insignificanti per arrivare a un risultato e non per quello che erano veramente: simboli di entità metafisiche. Did trasferì dunque questa attrazione per i numeri ad alcuni studenti del classico. Lavorò soprattutto con un certo Elio, con il quale condivideva la ione per gli aquiloni. A Elio impose di deviare la sua ione dal greco alla matematica e lo istruì affinché leggesse diversi testi di storia dell’algebra e della geometria. Le formule di integrali, logaritmi ed equazioni differenziali apparvero dopo alcune settimane dalla prima induzione ipnotica, sulle mura del quartiere dove Elio abitava. Ossessionato dai risultati di espressioni algebriche complesse, egli talvolta scendeva in strada di notte e con dei gessetti colorati scriveva i suoi ghirigori, con cifre elevate all’ennesima potenza. Le operazioni che gli frullavano per la testa non potevano essere ospitate tutte nel suo cervello, per cui usava le pareti degli edifici pubblici come un’estensione fisica del suo spazio mentale, esercitandosi ad espandere e visualizzare le sue fantasticherie logiche.
Per recuperare il materiale che chiamava il frutto del pensiero, il risultato della coltivazione, Did sperimentò diverse modalità. Due, in particolare:
il recupero del frutto elaborato al termine di ogni seduta; prima di ogni risveglio, al soggetto veniva comandato di illustrare in forma scritta o parlata i contenuti, i file da scaricare; i rapporti verbali venivano registrati con un normale registratore audio, mentre gli scritti finivano in dossier nei quali confluivano via via altre relazioni, riflessioni; in genere questa operazione era del tutto automatica, e solo gli Insider esprimevano sorpresa all’autorivelazione che li aspettava al risveglio, quando si stupivano alla lettura dei loro lavori o all’ascolto delle proprie elaborazioni inconsce; ideazione irrefrenabile; poiché l’attività di gestione dei temi inseminati risultava sempre più impegnativa, Did istruì gran parte degli Incubator e dei Morpheor a provvedere autonomamente alla stesura dei rapporti; venivano addestrati a redigerli in forma compulsiva, da svegli, nei momenti di relativa tranquillità (di
notte, o nel tempo libero dagli impegni scolastici); ogni soggetto provvedeva da sé a consegnare direttamente a Did l’elaborato che spesso conteneva disegni, diagrammi, mappe esplicative.
Per assicurare la puntualità del recupero, nella suggestione ipnotica venne inserito un timer, ovvero una scadenza temporale entro la quale il soggetto doveva stilare e consegnare il rapporto. I risultati più eclatanti furono raggiunti grazie ai Morpheor. L’ideazione di questa figura, del Morpheor, era stata preceduta da una lunga gestazione. Did era convinto che esistessero grandi spazi di innovazione ideativa anche nei soggetti che non possedevano specifiche informazioni tecnologiche. La quantità dei dati tecnici favoriva, ma non garantiva, la qualità dell’idea concepita. Consideravamo l’ipnosi come uno strumento per stimolare la produzione di idee, perché avevamo constatato l’esistenza di una memoria più ampia a livello profondo. Se la creatività era un risultato dei processi associativi, l’accesso a una più grande massa di dati equivaleva a maggiori ricombinazioni possibili. Le idee potevano essere considerate quali associazioni nuove di dati preesistenti. Ma a parità di informazioni disponibili, esisteva la possibilità di associarle in una gamma capace di esprimere diversi e più elevati livelli qualitativi di intelligenza e creatività? La creatività era condizionata (e se lo era, quanto?) dalla memoria o poteva essere misurata indipendentemente da questa? Una persona con poche informazioni, ma in grado di rielaborarle in modo originale, poteva superare un individuo con più dati ma meno creativo? La creazione era una facoltà della parte conscia della mente oppure era una potenzialità dell’inconscio? Se l’inconscio ha una parte importante nel processo creativo, sono implicati i
sogni? Dove vanno i sogni sognati e non ricordati? Dove sono incisi? Con l’ipnosi sono recuperabili, insieme a ispirazioni sotterranee che non si sono mai affacciate alla coscienza? E soprattutto, perché esistevano testimonianze così numerose che documentavano la possibilità di inventare e creare nel sogno? A queste domande avevamo cercato di trovare risposte in libri non proprio rigorosi ma che suggerivano epiche possibilità di sconfinamento dalla realtà comune. Ne Il Mattino dei maghi di Pauwels e Bergier, un libro che avevamo studiato meglio di qualsiasi testo scolastico, si suggeriva la tesi che il sogno fosse di per sé alla base del processo creativo. Le casistiche dimostravano inequivocabilmente che innumerevoli inventori e artisti avevano trovato in sogno la chiave ispiratrice delle loro idee e dei loro capolavori. Nel 1865 il chimico tedesco Friedrich August Kekulé vide in sogno degli atomi danzanti che si torcevano con un movimento simile a quello di un serpente. Uno dei serpenti si mordeva la coda e aveva la forma di un anello. Riflettendo meglio su queste immagini, Kekulé riconobbe improvvisamente ciò che stava cercando da tempo: la forma esagonale della molecola del benzolo! Tutta la chimica organica e quella di sintesi devono la loro esistenza a quel sogno. In modo analogo Elias Howe trovò la soluzione al suo problema: durante un incubo veniva inseguito e minacciato da alcune lance. Già nel sogno si era accorto che le lance avevano delle fessure verticali. Svegliatosi ebbe un’idea semplice e geniale: la cruna dell’ago. È così che nacque la macchina da cucire. Questo esempio dimostrava la possibilità di arrivare a nuove invenzioni ispirandosi a esigenze domestiche, quotidiane, ragionando in modo originale intorno a oggetti di uso comune. Anche senza essere scienziati, potevamo guardare alle cose con occhi nuovi e trarne brevetti di oggetti pratici e utili.
Tutto quello che ci circondava e che noi usavamo, poteva essere trasformato, perfezionato: una penna, uno specchio, la carta, uno strumento musicale, il pedale della bicicletta, la lampadina, un bicchiere, una sedia, un abito, un occhiale. Ci sentivamo spronati a reinventare il mondo, svelando la creatività dell’inconscio! Il grande filosofo e matematico Bertrand Russell ammetteva apertamente di essere riuscito a risolvere molti dei suoi difficili problemi con l’aiuto dei suoi sogni. Altre soluzioni offerte dai sogni si riferivano alla struttura del sistema periodico degli elementi (Dimitri Mendeleyev), alla classificazione dei fossili (lo zoologo Agassiz), alla decifrazione di geroglifici babilonesi (Herman Hilprecht), alla costituzione dell’atomo (il fisico Niels Bohr) e alla produzione di grandi quantità di insulina (Sir Frederick Banting). Anche il fisiologo Otto Loewi formulò in sogno un esperimento con cui riuscì a dimostrare che la trasmissione degli impulsi nervosi poggiava sia su processi elettrici che chimici. Accanto ai sogni degli scienziati esisteva una serie infinita di esperienze che avevano ispirato gli artisti. Ingmar Bergman, Carlos Saura e Federico Fellini dichiaravano l’origine onirica delle immagini dei loro film. Salvador Dalì aveva fatto del sogno una fonte essenziale per la sua pittura visionaria. In campo letterario è emblematico il racconto del Doctor Jekyll e Mister Hyde: la trasformazione dell’uno nell’altro era stata infatti precedentemente sognata dallo scrittore Robert Louis Stevenson. Anche Paul McCartney confessava di avere udito la melodia di Yesterday in un sogno, e di aver fatto fatica al risveglio a convincersi che quella canzone fosse ancora sconosciuta. Brahms scrisse: “Davanti al mio occhio spirituale non riconosco solo alcuni temi, ma anche la forma corretta nella quale si trovano, la loro armonia e orchestrazione. Battuta dopo battuta si delinea l’intera opera… devo trovarmi in uno stato di semi-trance per raggiungere questi risultati”. Goethe, Tchaikovsky, Mozart,Wagner, Beethoven, Richard Strauss, il compositore Giuseppe Tartini e il matematico Johann Karl Friederich Gauss, raccontavano di aver ricevuto le loro migliori idee in stato di dormiveglia o durante un sogno.
Tutto questo dimostrava che - sebbene pochi riuscissero a ricordarli - i sogni potevano essere la via maestra per accedere alle riserve sorprendenti dei talenti personali e delle facoltà creative sepolte dentro noi stessi. Grazie all’ipnosi che conduceva direttamente ai regni dell’inconscio, sognavamo di riuscire a far splendere in tutto il loro fulgore questi tesori nascosti nelle miniere della nostra mente. Per quanto mi riguardava, non avevo avuto particolari ispirazioni di natura onirica. Preoccupato per le espressioni di primo e secondo grado, per me ostiche, non solo nei compiti in classe ma anche nei normali compiti a casa, temevo sempre di non riuscire a risolverle. La notte venivo tormentato dalle equazioni più coriacee che si presentavano alla mia coscienza trasformando ogni sogno in un esame, un esercizio denso di concetti matematici, regole, sequenze meccaniche di processi algebrici nei quali mi perdevo. Non essendo in grado di ricordare le soluzioni al risveglio, permaneva però la traccia mnestica di una immensa attività sub-liminare, una laboriosa e imponente attività semi-consapevole che non sapevo bene come mettere a frutto. Perciò, quando Did mi parlò della figura del Morpheor, destinata a colonizzare il sogno, sfruttare la creatività onirica per trovare nuove idee e soluzioni, ne fui entusiasta. Si trattava di usare la trance ipnotica non per far emergere l’attività creativa nella veglia, ma per impiantarla al centro della sfera onirica e sfruttarne così le ricchezze. La colonizzazione del sogno divenne quindi la nuova ossessione di Did. Cercava di creare un Morpheor programmandone l’attività inconscia con suggestioni ad hoc: “Da questa notte ai tutte le tue memorie per concentrarti… questa abilità sarà invisibile e non cambierà le tue normali abitudini; la tua attenzione quotidiana non sarà alterata, anzi sarai più calmo e tranquillo, controllato e sereno; ti concentrerai nel sogno su questo tema… ricorderai tutto ciò che hai imparato su questo argomento con l’ascolto, lo studio, i libri e i film… L’obiettivo è: risolvere questo problema… pertanto ti impegnerai nella ricerca di una o più soluzioni”. In altre occasioni le istruzioni contenevano riferimenti più espliciti al riorientamento onirico desiderato: “Cercherai di elaborare una soluzione efficace
per questo problema… cambierai i tuoi sogni… le tue facoltà mentali saranno operanti anche quando sarai completamente addormentato; il tuo sonno non sarà disturbato, al risveglio ti sentirai riposato e pronto per affrontare normalmente gli impegni quotidiani; quando ti sarà possibile, lontano da curiosi e persone indiscrete, scriverai le tue riflessioni e conclusioni in un rapporto che consegnerai a me soltanto, entro il…”
Ormai le sedute si svolgevano in forma del tutto clandestina, qui e là, dove capitava, spesso in luoghi di fortuna, perfino equivoci. La potenza della suggestione post-ipnotica permetteva di indurre la trance all’istante, per cui quando non si riusciva a rimediare nemmeno un tetto sopra la testa ci si recava in un angolo isolato dei giardini pubblici o appena fuori città, in campagna. La figura di Did era circondata da un alone di diffidenza generale. Avere a che fare con lui era considerato pericoloso come camminare sugli scorpioni. Nemmeno la proverbiale curiosità femminile riusciva a vincere la paura, del resto molto ragionevole, di abbandonarsi nelle mani di uno stregone in erba. Trovare cavie di sesso femminile non era quindi cosa facile, perché convincere una ragazza a farsi ipnotizzare era un’impresa disperata. Anche la collaudata abilità di Lella sembrava inefficace quando andava a caccia di cavie di sesso femminile. Io ero stato incaricato più volte di reclutare dei soggetti femmina dei quali sarebbe stato davvero interessante studiare le produzioni ideative, ma ero del tutto inadatto a fare conquiste nell’altra metà del cielo. Si trattava di un mondo che per me era del tutto sconosciuto. Le coetanee erano irraggiungibili, molto più mature di noi maschi. I nostri primi approcci erano del tutto inadeguati e perfino patetici. Il sesso, del quale si parlava tanto, rimaneva per molti studenti un tabù. Ed era normale che lo fosse perché nessuno aveva mai osato spiegarci come erano fatte e “funzionavano” le donne. Per i primi approcci ci si affidava alle intuizioni. Perciò fummo presi in contropiede quando la nostra compagna Lucia, forse più curiosa, più coraggiosa o incosciente delle altre, accettò di farsi ipnotizzare. Did provò più volte a indurre la trance, ma non vi riuscì. Fu uno smacco: aveva a sua disposizione un soggetto femminile molto promettente e non otteneva la minima risposta suggestiva.
Al contrario, sembrava che Lucia, pur dichiarando di volersi abbandonare, rimanesse sempre stranamente all’erta, perfettamente cosciente di quel che accadeva attorno a lei, anche se a occhi chiusi. Cercai di capire il motivo di questa impotenza improvvisa di Did. Pensai fosse disturbato dai sentimenti che provava per la ragazza, senza tuttavia volerli ammettere. La sua voce vibrava tremolando un po’, il suo sguardo anziché ritirarsi nella consueta dimensione aliena e fredda, sembrava vagare intorno alle forme del suo corpo. Era distratto. Il suo potere suggestivo era certo depotenziato dall’elemento femminile che gli si parava davanti per cui, dopo disperati tentativi di ottenere con tutti i mezzi a sua disposizione la trance della donna, dovette arrendersi. Lucia ne fu un po’ delusa, ma ne ricavò anche un senso di vittoria, di invincibile e intima inviolabilità. Did invece diventò intrattabile per un bel po’. Lo vidi meditabondo e imperscrutabile. Per un certo tempo sospese gli incontri con i Morpheor e gli Insider, affidando a me il recupero delle relazioni e l’archiviazione dei progetti in corso. Oggi ritengo che forze opposte quali la potenza suggestiva, sublimazione di quella libidica, e l’impulso sessuale, incontrandosi si annullassero a vicenda. Temevo che l’esperienza di incontro con la forza femminile, che in fondo evocava aspetti profondi del proprio vissuto affettivo e sessuale, gli avesse procurato un black-out, un corto circuito paralizzante. La donna rimandava all’ipnotizzatore la sua stessa immagine ed energia. Come in uno specchio, l’effetto suggestivo rimbalzava e ritornava all’esecutore che ne rimaneva abbagliato e confuso. Se l’ipnotenza, termine con il quale indico la potenza suggestiva della fascinazione ipnotica, scaturisce da una pulsione libidica, Did si era trovato davanti alla libido stessa, a una presenza che evocava la forza sessuale vera e propria. Era inutile mimare un processo seduttivo in forma psicologica, una “penetrazione” psichica nei confronti di un elemento del sesso opposto, perché questo elemento evocava la libido nella sua forma originale. La libido sessuale non poteva essere incantata da un suo modello imitativo, da
una metafora o rappresentazione teatrale. L’energia che stava alla base della libido possedeva un “voltaggio” energetico che non poteva essere vinto e superato da una sua rappresentazione simbolica. Allora, però, non eravamo ben coscienti delle implicazioni di queste forze, di tali interazioni, del rapporto tra forza psichica e sessualità. Io cercai di osservare più attentamente la fenomenologia relazionale-sessuale. Scoprii altre cose interessanti. Mi accorsi per esempio, che quando le sedute ipnotiche si facevano molto frequenti con un Interceptor, un Connector o uno qualsiasi dei soggetti con i quali operavamo, se questi avevano una compagna, presto nasceva una sottile ostilità. Le donne non gradivano il fatto che i loro ragazzi parteciero a esperimenti che non riuscivano a comprendere, o semplicemente si lasciassero manipolare da un estraneo con il quale condividevano segreti, dai quali si sentivano escluse. Sentivo che le ragazze percepivano la partecipazione dei loro uomini a quelle esperienze come una sorta di pericolo, una minaccia alla loro seduzione. Questo si traduceva in definitiva in una speciale forma di competizione e gelosia, quasi avvertissero oscuramente la sottrazione di energia libidica al loro rapporto. Il fatto che queste turbolenze rimanessero nascoste, non aiutava certo l’organizzazione degli esperimenti. Per assicurarsi la continuità delle esperienze e dei risultati, era necessario gestire oltre ai soggetti anche le loro compagne sempre più diffidenti e insofferenti. I ragazzi nascondevano il più possibile la natura del loro coinvolgimento nelle pratiche ipnotiche di Did, ma questo creava ulteriori timori, paure, contrasti. Qualche soggetto arrivò a mentire pur di occultare gli appuntamenti previsti dal suo percorso creativo. Alcune donne sospettarono incontri clandestini. Altre, venute a sapere per vie traverse della partecipazione dei loro ragazzi alle sedute, avevano lanciato degli aut aut: io o gli esperimenti. Come Did, ero sconcertato dalla piega imprevedibile che stavano prendendo le cose. Mi resi conto che la mia idea di donna era viziata da una concezione ideale, non realistica. Il mio archetipo femminile incoraggiava la conoscenza, la ispirava anziché impedirla.
Eva aveva sedotto Adamo per arrivare alla conoscenza del bene e del male, e questo aveva fatto di Adamo un uomo. Un angelo decaduto in cerca di un nuovo destino, senza più paradiso terrestre, solo, ma con la dignità della creatura che accetta l’errore, il dubbio e la tentazione per divenire altro da se stesso, per interrogarsi. In una scuola che difendeva l’immobilismo e la continuità conservatrice, ogni mutamento evolutivo era del resto un’alterazione. Mangiare la mela era peccato. Cosa sarebbe diventato Adamo se non avesse avuto la curiosità di sapere, se non avesse sfidato se stesso e il suo Dio? Un pantofolaio che limita l’esercizio della conoscenza alla lettura di libri scritti da altri, servitore di fedi proclamate al di fuori di lui, schiavo di credenze facili e rassicuranti, consumatore di ideologie e abitudini imposte dalla mentalità dominante e da regimi costruiti con la sua complicità. La mia visione idealista includeva l’icona della donna angelicata della tradizione umanistica cattolica: la Madonna, la donna obbediente e sottomessa alle virtù della dottrina; oppure la Beatrice dantesca che grazie alla nobiltà dell’amore infuso nel cuore dell’uomo, lo innalzava ai regni celesti, fino a Dio. Ma quale donna era più donna? Qual era l’essenza della natura femminile? Eva, Madonna o Beatrice? La donna che istiga alla conoscenza o che salva? Mi chiedevo se questi diversi aspetti del femminino si potessero conciliare. Evidentemente, io e Did portavano dentro noi stessi, grazie alla curiosità che ci animava, molti più caratteri femminili di quelli che eravamo disposti ad ammettere. Di colpo, molte ragazze ci apparvero assai poco femmine proprio perché negavano l’impulso alla conoscenza, non solo in se stesse, ma anche in coloro che le circondavano.
Desideravano dei compagni, futuri mariti, che fossero tutto casa e chiesa, tutto lavoro e famiglia oppure carriera e vita domestica. I loro uomini ideali non erano degli Ulisse, se si facevano condizionare al punto da rinunciare alla dimensione esplorativa dell’esistenza. Nei confronti di queste maghe Circe che trasformavano i loro uomini in domestici maggiordomi, in agnellini obbedienti, avevamo le armi spuntate. Per correre ai ripari e rendere meno inquietante la sua presenza, Did si sforzò di apparire un poco più normale, meno inquietante. Aveva imparato qualche barzelletta da raccontare, per stemperare la tensione nelle situazioni critiche, ma sbagliava sempre il tempo delle battute a effetto. I suoi tentativi di normalizzarsi, assumere comportamenti conformisti, lo rendevano ancora più strano e goffo. Dunque avevamo provato inutilmente a convincere le ragazze di concederci “in usufrutto” non il cuore, ma almeno le menti dei loro beneamati. Gran parte delle loro compagne si distinguevano per un’insondabile mutismo; sembrava che molti dei nostri soggetti avessero scelto delle donne incapaci di spiccicare parola negli incontri fissati per confrontarci su queste questioni. Sapevamo invece che in privato la loro loquacità era incontenibile. Il loro veto rischiava così di provocare lo sfilacciamento delle relazioni con i soggetti imbastite da me, da Did e da Lella. Iniziarono le prime defezioni e in poco tempo rimasero ben pochi soggetti. In seguito a questa diaspora Did concentrò la sua attenzione soltanto su quegli elementi che erano riusciti a tenere a bada le paure delle loro donne, o fortunatamente erano single. La preparazione delle performance creative durò i primi mesi del nuovo anno. Le istruzioni consistevano nel comando post-ipnotico di proseguire una composizione letteraria con lo stesso stile dell’autore, antico o moderno che fosse. In questo gioco, un certo Marco che fino a qual momento si era distinto solo nelle parole crociate senza manifestare alcuna propensione alla letteratura, si
rivelò di gran lunga il migliore: riusciva egregiamente - almeno secondo il nostro modesto parere - a imitare i componimenti poetici di autori come Petrarca, Dante, Leopardi, Gozzano, Cecco Angiolieri… con una maestria che a molti di noi parve straordinaria. Nel corso di una memorabile lettura scolastica, mentre il professore di italiano e latino era distratto da una lunga conversazione con il bidello che era entrato nella seconda D, Marco aveva iniziato a recitare poesie del Petrarca, e aveva continuato a declamare versi inventati in trance. Il professore non avvertì alcuna differenza nel aggio dal testo autentico a quello inventato di sana pianta dal nostro eroe. Solo noi, Marco e pochi altri sapevamo che si trattava di artefatti inediti. I compagni, divertiti dalla recitazione di poesie che non si trovavano nel libro di testo, pensarono che si trattasse di un gioco di parole. Esaltato da queste dimostrazioni, Marco chiese a Did di “giocare” anche con il latino. Nel corso di alcune sedute Marco subì una serie di riprogrammazioni tanto potenti quanto efficaci, che gli permisero di ricordare da sveglio qualsiasi testo letto in latino. Poteva citare Orazio e Virgilio, Plinio e Giovenale, Cicerone e Lucrezio, Catone ed Epicuro, Cesare e Marziale. Sapeva ripetere a memoria le poesie di Catullo e le favole di Fedro. Nessuno dei suoi stupiti spettatori, compresi i professori, poteva supporre che quel prodigio mnemonico e linguistico fosse generato dall’ipnosi. Marco si guardava bene dal rendere pubblico il suo segreto. Insoddisfatto, pretese sempre di più. Volle che Did lo rendesse capace di pensare e scrivere in latino il suo pensiero, anche al contrario. Did vagheggiò allora l’idea di dare corpo a una creatura chiamata Polimen, dotata di uncoordinamento cognitivo che gli permettesse di fare più cose con la stessa mente: parlare in latino e scrivere in inglese contemporaneamente, come se possedesse due cervelli distinti in grado di manifestare in simultanea due abilità differenti. Un vero prestigiatore della psiche. Did provò a installare il comando: “Penserai e scriverai anche in lingua latina,
rispettando la grammatica…” Ma nessuno si curò di verificare se la nuova applicazione funzionasse a dovere. Bisognava essere dei latinisti per poterlo constatare. Certamente questo ordine perfezionò le prestazioni del soggetto nei compiti in classe, nelle traduzioni dall’italiano e dal latino. Nemmeno uno studente del classico poteva uguagliare Marco. Il latino divenne per lui una seconda lingua madre, anche se - quando parlava rovesciando le parole, recitandole al contrario - sembrava uno studente impazzito. “Divertente ma inutile,” aveva sentenziato Did, un giorno. Capii che voleva rimettere Marco in carreggiata. Senza avvisarlo, con una sola seduta ipnotica reimpostò arbitrariamente le sue motivazioni, come aveva già fatto in ato. In pratica rimosse dalla sua psiche l’interesse per il latino e lo spostò sull’opera di Poe, il suo autore preferito. Se avesse potuto o avesse creduto nella spiritismo, avrebbe sicuramente cercato di evocare il grande scrittore per permettere al suo genio letterario disincarnato di esprimersi ancora, anche attraverso Marco. Dopo qualche tempo Did riuscì a ottenere da Marco quel che voleva: dei brevi racconti nello stile di Edgar Allan Poe. In una occasione Did lo istruì a continuare il racconto La cassa oblunga, aggiungendo alcune pagine - e ulteriore suspense - alla trama della narrazione originale. Molte di queste creazioni, come i lavori precedenti degli Insider, degli Incubator e dei Morpheor, Did li archiviava regolarmente senza prevedere una loro diffusione pubblica. Giustificava questa scelta con il fatto che l’elaborato letterario era semplicemente il sottoprodotto, la parte visibile dell’attività creativa. Non contava l’opera, ma il riassetto neuronale ed esistenziale che l’opera aveva determinato nel creatore. “Anche se un libro sparisce,” sentenziava, “rimane il livello di consapevolezza che attraverso la sua scrittura è stato raggiunto dall’autore, nella sua memoria permane la traccia dell’esperienza emotiva e cerebrale, un tracciato che si rifletterà nella espressione delle sue abilità future.”
I bravi studenti prendono dei bei voti, imparano gli argomenti delle varie materie scolastiche, quelli cattivi ne scoprono e inventano di nuove. Come potevo definire la stimolazione della creatività alla quale stavo assistendo? Concentrando l’attenzione, perfezionando le istruzioni, orientando, motivando, mettendo insieme le precedenti abilità suggestive e le esperienze, Did raggiunse livelli realizzativi impensabili. Lavorando con un soggetto dotato di una discreta capacità grafica, lo trasformò in un artista dotato di personalità multiple. Si chiamava Guido. Aveva risposto agli stimoli con grande slancio. Era stato costretto a frequentare il liceo scientifico da una famiglia interessata, come quasi tutte le altre, a un investimento più sicuro di una incerta carriera artistica, sacrificando il figlio sull’altare delle proprie paure e dei propri orizzonti culturali borghesi. Guido covava intatto al suo interno un fervore artistico che probabilmente, se Did non lo avesse aiutato a liberarsi, sarebbe rimasto sepolto in eterno, come il Genio imprigionato nella lampada di Aladino. Grazie all’ipnosi, la sua creatività era letteralmente esplosa. Assistendo a queste manifestazioni di esuberanza creativa e multidirezionale, io mi chiedevose la psiche si potesse moltiplicare all’infinito. Did chiamò Monom questa specie di creatura polimorfa, questo insieme di identità molteplici coesistenti all’interno di un unico individuo. Un “Golem della mente” che secondo lui avrebbe potuto esprimersi al di là di ogni aspettativa. Un individuo così lontano dalle ristrettezze e dalle miserie mentali e comportamentali dell’uomo comune, da apparire un “mostro”, un Golem appunto: un essere che non apparteneva all’umanità ordinaria ma poteva venire alla luce solo ad opera dei maghi. Nonostante questa liberazione di talenti che riusciva a dispensare intorno a sé, Did viveva prigioniero di una situazione scolastica penosa e precaria. Si lamentava: “Non voglio creare un Monom, voglio diventare un Monom!” Io vedevo le potenzialità positive che sapeva evocare dal nulla, mentre lui a volte
si faceva catturare dal lato osceno, dal niente, dalla voragine oscura presente in ognuno di noi. In alcuni compagni che Did definiva “incapaci di ri-creazione”, la voragine era assente e si riduceva a una tenebra poco profonda: “Una pozzanghera,” diceva, “non il vortice nero dell’infinito”. Quando rideva di se stesso senza ritegno, riusciva a farlo così bene che pareva spingesse una molla nascosta tra la mandibola e la mascella. Miripeteva che osservare le proprie contraddizioni, gli abissi propri e altrui, la natura della propria stupidità, era una cosa davvero intelligente, che lasciava sempre sconcertati. Pativa la scuola come una malattia, ma allo stesso tempo aveva imparato a incassare i suoi 2, i suoi 3, i suoi 4, con una classe invidiabile, con imperturbabilità e un distacco aristocratico. Esclamava: “Ho preso un brutto voto, e allora? Non è il voto della vita, non è una condanna per il futuro, hanno dato un voto a qualcuno che non conoscono, a una parte di me lazzarona e con questo? Io non sono solo quella parte lazzarona”. Paradossalmente, questa reazione trasformava ogni brutto voto in una occasione per esaltare la sua immagine. Dopo un compito fallimentare, invece di rimediare aumentando il suo impegno scolastico, reagiva tuffandosi ancor più nei suoi interessi alternativi. Era capace di are il pomeriggio andando a funghi, a far volare aquiloni. Certi giorni si perdeva in lunghe peregrinazioni in bicicletta per la campagna, seguendo il percorso dei canali irrigui, il volo degli uccelli o il tracciato invisibile delle nuvole. Altrimenti, ammazzava il tempo a registrare i tentativi di trasformare il suo fischio in ritmi sonori e tipologie timbriche, classificandone l’effetto melodico. Finché non scoprì un uso più interessante del registratore. Aveva letto un articolo che illustrava la psicofonia: un filone di ricerca iniziato dal romanziere e filosofo lettone Konstantin Raudive. Negli anni Sessanta, Raudive con Friedrich Jurgenson si era occupato di questa branca della parapsicologia che consiste in uno studio sperimentale, il più rigoroso possibile, delle comunicazioni con l’aldilà attraverso mezzi elettronici quali il registratore, la radio e altri strumenti atti a captare voci e messaggi psichici. Questo genere di esperimenti venne denominato da alcuni studiosi e tecnici della radio e della
televisione, dal linguista e teologo cattolico Francois Brune e dal fisico svizzero Alex Schneider, transcomunicazione strumentale. Mentre Jurgenson riteneva si trattasse di voci di traati, il Raudive propendeva per l’ipotesi degli universi paralleli, per cui le voci erano interpretate come la eco dei campi energetici dei defunti, un riverbero sonoro che proveniva da piani di esistenza multidimensionali. Secondo Brune, che si era formato alla Sorbona di Parigi: “L’oscurantismo scientifico non ha niente da invidiare all’oscurantismo religioso… è noto che la Chiesa nutre la più grande diffidenza nei confronti di questo tipo di fenomeni, è vero che insegna l’immortalità dell’anima, ma non accetta che la si possa vivere e che si possa entrare in comunicazione con essa”. Did non era interessato al dibattito che ne era nato tra scienziati, sperimentatori, teologi. Com’era nel suo stile, adottò un atteggiamento pragmatico, sperimentale. Il Raudive, apionato cultore del canto degli uccelli, si era accorto casualmente della presenza di voci aliene nei nastri che registrava. Si trattava di voci che aveva amplificato; alcune sussurravano parole dal senso compiuto, altre in una forma incomprensibile ma comunque suggestiva. Did provò a fare lo stesso. Con un registratore sostò in varie zone della campagna, rimanendo immobile e silenzioso per ore, cercando di catturare qualche soffio di questa eco ultrafonica. Per due settimane, riascoltando i nastri, tutti vergini prima dell’uso, non udimmo nulla di particolare. avamo i pomeriggi ad ascoltare il brusio indistinto del silenzio, mettendo il volume del registratore al massimo e tendendo l’orecchio con tutte le nostre forze. Se avessimo raccontato agli amici e ai genitori che invece di studiare sciupavamo così le nostre ore, ci avrebbero rinchiuso in manicomio. Un giorno, ascoltando uno degli ultimi nastri che Did mi aveva affidato, ebbi un sobbalzo. Il silenzio venne interrotto da un flebile suono vocale. Amplificai il suono e lo riascoltai molte volte. Non capivo il senso delle parole che sembravano appartenere a una lingua sconosciuta, lontana nel tempo e nello spazio. Era una voce femminile molto
dolce, perfino tenera, ma possedeva una qualità che mi fece gelare il sangue. L’intonazione era quella di un’invocazione accorata, quasi una richiesta di aiuto che vinceva le nostre diffidenze e toccava il cuore. Riprodurre con strumenti artificiali quell’effetto sonoro era impossibile. Anche Did rimase sconcertato, ma l’ipotesi che ne ricavò mi sorprese ancora di più: mi disse che forse eravamo noi, il nostro inconscio, a incidere sul nastro quel suono strano. Secondo lui quella era la voce della nostra anima, un’entità molteplice capace di servirsi di mezzi sofisticati, indiretti, e di leggi fisiche sconosciute per destarci, già qui sulla terra, ancora incarnati in un corpo fisico, alla nostra eternità, alla nostra magnificenza, a un’esistenza ultraterrena e consapevolezza multidimensionale. “Non abbiamo invocato nessun defunto,” mi disse, “il registratore ci ha trasmesso l’eco profonda di quello che siamo, la natura e il silenzio hanno fatto da specchio all’inudibile.” Io avrei voluto continuare a fare ricerche in questo campo che trovavo affascinante, ma il poco tempo a disposizione per aprire un altro fronte di indagine non me lo permise. Anche Did si stancò di are il pomeriggio immobile nei campi. L’ipotesi degli universi paralleli non lo inquietava affatto. Da quella esperienza ricavammo la sensazione di non essere affatto soli in questo mondo, e nemmeno nell’altro. Forse la sopravvivenza post-mortem, così come quella dell’esistenza pre-natale, non era una pia illusione. Cominciavo a chiedermi se davvero non fossimo circondati da presenze che i nostri sensi non riuscivano a percepire. Queste presenze venivano generate dal nostro inconscio, dalla nostra anima, o appartenevano a mondi estranei? Questo era il problema. Il contesto culturale e sociale nel quale vivevamo, non incoraggiava certamente l’esplorazione di queste dimensioni. Il pensiero scientifico che avrebbe dovuto rispecchiare lo spirito leonardesco e galileiano, era infatti costretto a convivere con un indesiderato ma incombente
“convitato di pietra”. Dopo la scuola e la famiglia, era la dottrina cattolica l’onnipresente autorità che cercava di modellare il comportamento delle future generazioni. L’ideologia della religione organizzata, attraverso il braccio secolare dell’istituzione ecclesiastica, estendeva come una piovra i suoi tentacoli nella politica, nella scuola, nella cultura. L’intreccio tra potere religioso, media e potere economico ci appariva così inestricabile che riuscire a trovarvi delle verità era come cercare delle bacche commestibili in un terreno divorato e soffocato dai rovi. Per entrare dentro quell’ammasso formidabile di interessi incrociati, dogmi, censure, convenienze e connivenze, norme scritte e non scritte, non era sufficiente l’innocenza, la purezza di intenti. Serviva anche l’astuzia. “Semplici come colombe, ma astuti come serpenti” ammoniva saggiamente il Vangelo. Altrimenti la fine predestinata era quella di diventare degli inguaribili e ingenui Don Chisciotte che lottavano inutilmente contro i mulini a vento. Molti, fagocitati dal covo di serpi con le quali avevano imparato a convivere, erano diventati tanto serpenti da perdere la loro natura originaria di colombe. Per questo non ammiravamo il clero che aveva una rendita assicurata, ma i preti lavoratori, quelli sposati, l’eroico vescovo dell’America latina don Elder Camara, gli apostoli della teologia della liberazione: questi non sarebbero mai saliti all’onore degli altari, nessun papa li avrebbe mai proclamati beati, ma per noi erano più santi delle gerarchie vaticane. Pur sentendoci legati ai valori profondi del cristianesimo, ci sentivamo però anche intimamente pagani. Onoravamo il politeismo degli antichi. In una civiltà che sognavamo politeista, multiculturale, perché questa poliedricità non poteva essere riconosciuta, accettata anche sul piano delle concezioni religiose? Ancora oggi mi domando: “Perché le differenze dovrebbero mettere in crisi i credenti, invece di arricchirne lo spirito?” Did mi chiedeva: “Pensi che Gesù Cristo si arrabbierebbe se mi inchinassi, per pura devozione, davanti a Buddha, a Krisna, a Maometto?” Da allora ho imparato a non attribuire l’esclusiva della Spiritualità a una religione, a una fede. Anche la ricerca apionata della verità è infatti un atto sacro, un sacrificio per la conoscenza. È una forma di sacramento. Per Marx la religione è l’oppio dei popoli, ma è anche l’oppio della vera
spiritualità quando si pretende unica e si erge a struttura dogmatica, quando si fa istituzione violenta e vuole imporre con la forza, politica o mediatica, la sua dottrina. Tutte le religioni in questo senso si assomigliano. Quello che temono veramente non è l’ateismo, ma una visione spirituale fluida e libera, che non ha bisogno di apparati e intermediari per esistere. Animato da queste convinzioni, commisi un’ingenuità imperdonabile: in tutta sincerità, parlai di queste idee con il prete, il curato del mio paese. Mi confermò che la ricerca al di fuori della dottrina cattolica era assolutamente pericolosa, che il rischio era quello di porsi fuori dalla Chiesa. Ma queste idee, e lo stesso dubbio, erano pericolosi per chi? La dottrina della Chiesa cattolica non contemplava la libertà della ricerca spirituale? Perché sacrificarla sul nascere? Don Valerani, con i suoi risolini di sufficienza nei confronti delle ricerche psichiche ed esoteriche, mi esortava a non abbandonare la strada maestra. Il fatto che la conoscenza fosse rischiosa era una vecchia idea del fondamentalismo cattolico che nelle parrocchie e nelle chiese non riusciva ancora a morire. Per quanto poi riguardava una delle tesi favorite del curato, che i miracoli dimostrassero la verità del cattolicesimo, dissentivo apertamente. I miracoli erano testimoniati anche in altre culture e contesti religiosi, quindi non potevano essere invocati come prove assolute di una fede esclusiva. Inoltre la carità, per essere praticata, non necessitava di un particolare o dottrinale o gerarchico che anzi appesantiva l’essenza del cristianesimo espressa dal comandamento dell’amore. D’altra parte, sebbene non appartenessi a nessuna chiesa, mi sembrava scorretto escludere una “coscienza divina” dalla mia personale visione del mondo semplicemente perché il termine dio era stato abusato, perché in suo nome erano stati compiuti massacri e ingiustizie da parte di “seguaci” criminali di questa o quella dottrina. Che c’entrava Dio in tutto questo?
Questa identificazione della divinità con la dottrina e la morale di coloro che pretendevano di rappresentarla sulla terra, era assolutamente arbitraria, quindi era assurdo rinunciare a un’ipotesi di esistenza del divino a causa di questa pretesa. Perché mai avremmo dovuto escludere la possibilità di un rapporto con un “ente superiore” dal nostro orizzonte esistenziale? Perché un orientamento verso il divino avrebbe dovuto sacrificare la giustizia, la conoscenza o il riconoscimento dell’importanza storica dell’economia come affermava il fideismo marxista? Mi sembrava una posizione settaria e stupida: eliminare la metafisica, il divino, per le nefandezze della religione istituzionalizzata. Anche i marxisti erano vittime di un pregiudizio anti-teologico. A un marxistaleninista si chiedeva di abbandonare il punto di vista metafisico e idealista o empirista per abbracciare il materialismo e la dialettica. Il metafisico, infatti, non mette in rapporto dialettico la teoria con la pratica. Un metafisico, ad esempio, insegna la matematica pura, mentre un materialista parte dalle cose concrete, dalle cause reali e dimostra che la matematica è uno strumento nato dalla necessità di conoscere e misurare il mondo per trasformarlo secondo i bisogni dell’uomo. Insegna la teoria dimostrando come nasca da esigenze pratiche. La rinuncia alla speculazione intellettuale e alla libertà di ricerca propagandata dai cultori del materialismo storico era però speculare all’opportunismo capitalistico delle imprese. I comunisti e i capitalisti intendevano la ricerca solo come applicazione, mentre invece le nuove grandi scoperte nascevano in genere dalla ricerca pura, la tecnica dalla conoscenza astratta, e viceversa. Escludendo la metafisica, la speculazione filosofica, l’astrazione e in definitiva l’immaginazione, i marxisti appiattivano la realtà riconducendola a mera apparenza materiale. Nei paesi del comunismo reale perfino l’arte doveva essere al servizio del partito. Ma i marxisti non erano nemmeno dei veri materialisti: essi credevano solo alla materia percepita dai loro sensi. In questo modo essi riconoscevano come “materia” solo ciò che veniva percepito dagli organi di senso, ponendo questa limitata percezione umana al centro della loro concezione esistenziale.
Invece io e Did credevamo a tutte le forme di materia: solida, liquida, gassosa, elettromagnetica e plasmatica. I cinque stati della materia-energia. Quindi non escludevamo a priori quelle forme che non potevano essere percepite direttamente o misurate dagli strumenti. Tutto era materia per noi “veri materialisti”, mentre i marxisti credevano solo alla materia “visibile”. Per noi lo spirito era anche materia e tutta la materia rappresentava forze spirituali invisibili. La coscienza si trasformava in energia e l’energia in fenomeni fisici di diversa entità. Non si poteva scindere il piano spirituale da quello materiale. Un altro motivo, meno intellettualistico, ma istintivo che ci faceva diffidare dell’ideologia religiosa di casa nostra, era il pregiudizio sessuofobico. Per noi adolescenti uno dei motivi principali grazie ai quali la pratica religiosa aveva cessato di esercitare un certo fascino, era il conflitto irrisolto tra la morale cattolica e le esigenze della sessualità. In città le occasioni per esprimere le proprie pulsioni e farne esperienza erano frequenti, ma per me come per tanti altri che arrivavano dai paesi circonvicini, da una realtà che nel primo dopoguerra era prevalentemente rurale, occorreva superare una serie di inibizioni molto più forti. Non si poteva trovare di meglio che una comunità contadina timorata di Dio, per studiare le patologie del sesso indotte dai preti. Infatti se qualcosa di piacevole e fortemente desiderato viene proibito, diventa una ossessione. Fulvia, vicina allo spirito del femminismo, sosteneva che: “I preti temono il sesso perché odiano la vita e sono affascinati dalla morte, sono malati perché incapaci di eros. Cristo è stato crocefisso da Cesare e dai complici di Barabba, ma il cristianesimo ha a sua volta crocefisso l’Eros, ci ha tolto altri dèi: Venere, Diana, Dioniso, Apollo”. Diceva che dalla nostra società l’eros era stato bandito, ucciso da un cristianesimo che aveva assassinato la bellezza e il desiderio, confinando il sesso in una forma di dovere procreativo, negando alla coppia il diritto al piacere fine a se stesso, alla sperimentazione di sé nell’esperienza sessuale. I preti, che ci apparivano i lugubri cerimonieri di un culto funereo lontano anni luce dalle originali premesse evangeliche, distribuivano a piene mani a destra e a manca il senso di colpa. Plenipotenziari di Dio sulla terra, erano capaci di
devitalizzare anche un impulso così naturale come quello sessuale al punto da farlo apparire peccaminoso e accettabile solo all’interno del matrimonio religioso e a fini esclusivamente procreativi. Il piacere era un tabù e i diritti civili dovevano essere sottomessi alla censura delle loro credenze e nevrosi. Un tabù che per fortuna veniva a poco a poco infranto dalle nuove mode cittadine, dalla partecipazione dei giovani al mondo dello spettacolo, della musica, dell’arte, da comportamenti femminili più disinvolti, liberi e consapevoli. Nel quarto anno, finalmente furono rigettati i grembiuli che servivano a differenziare i maschi dalle femmine, Quei ridicoli grembiuli neri dal colletto bianco che indossavamo fin dalle elementari, come una divisa usata per irreggimentare, in un delirio di volontà repressiva da collegio ottocentesco, sia i corpi che le menti. L’abbandono dei grembiulini scolastici da parte delle ragazze, non fu una “rivoluzione” di poco conto. Le nostre compagne cessarono di apparirci umili collegiali. Erano diventate donne e le forme che si muovevano sotto quegli abiti si stavano facendo decisamente interessanti.
La nostra “Fabbrica di Creatività” entrò in crisi definitivamente quando perfino gli Interceptor, della cui attività avevamo usufruito senza riserve, cessarono di essere disponibili per altri esperimenti, catturati dalle loro compagne in compiti ordinari, preludio al ruolo casalingo al quale avrebbero dovuto adeguarsi dopo il matrimonio. Cercavamo conforto nella biblioteca comunale, consultando opere che nessuno leggeva. Il glorioso periodo delle ricerche dedicate alla creatività era finito e tutto languiva in attesa di un nuovo inizio. I programmi scolastici non ci aiutavano a sentirci più vivi. Perfino i classici preferiti erano sviliti dalla deformazione didattica. Li trovavamo spogliati dalla carica eversiva che possedevano. Ci piaceva dunque are il tempo, oltre che in biblioteca, nelle librerie o davanti alle edicole alla ricerca degli autori sconosciuti, delle opere inclassificabili, dei generi assenti dalle pagine dei giornali. Un titolo o un autore estranei all’industria culturale e pubblicitaria, erano senza dubbio più intriganti di tanti altri.
Ho sempre pensato che la “letteratura” facilmente recuperabile, accessibile, sia molto spesso, con qualche significativa eccezione, un prodotto della propaganda, uno spaccio di false verità vendute a buon mercato. La mia ricerca di libri rispondeva, invece, all’esigenza dettata dalle domande: “C’è qualcuno, in questo mondo, che sa veramente come stanno le cose?”;“C’è qualcosa di importante che devo conoscere e che non so?”. Più la rivelazione era importante, più (forse) doveva essere nascosta, in quanto la conoscenza era potere e il potere non si esibisce sulle bancarelle delle fiere o sugli scaffali di un supermercato, né è materia di insegnamento pubblico. A volte cadevamo preda di facili trappole, come allocchi, eravamo vittime di meccanismi di autoillusione. I libri che promettevano molto finivano con l’esercitare su di noi un’irresistibile attrazione. In questi casi potevamo osservare il funzionamento della trappola seduttiva, il meccanismo della menzogna, dell’inganno e della condiscendenza, alla quale molto spesso il lettore mostra il fianco.
Eppure le pepite non si trovano che mescolate a sabbia e pietre, mentre il loto cresce avendo le sue radici nel fango. Nella letteratura clandestina, esoterica e tecnica di frontiera, si trovavano spunti inediti, rivelazioni inusuali. Un ricercatore isolato che abbia lavorato tutta la vita, con povertà di mezzi, a un determinato argomento scientifico o letterario, spesso ha più cose da rivelare di un professore universitario. Chi possiede i mezzi per fare ricerca e non si cura della carriera, avrà molto più tempo da dedicare al suo aggiornamento, agli esperimenti pratici e alla elaborazione di idee e progetti, anziché attardarsi in faccende di ordine burocratico o politico. I consumatori di letteratura alternativa lo sanno bene e da questo punto di vista sono molto più seri e apionati di quelli che fanno dei loro interessi scientifici solo delle occasioni per acquisire meriti e riconoscimenti istituzionali. Queste idee-pepite d’altra parte non sono immediatamente riconoscibili, essendo ricoperte da strati di oblio e terriccio. Vanno pertanto raffinate, lucidate, lavorate a fondo affinché possano essere valorizzate in tutto il loro intimo e segreto lucore. La ricerca di nuovi filoni aurei comporta un lavoro umile e paziente. Se vi sono
stagioni nel corso delle quali la mente crea e fornisce generosamente intuizioni e materiali su cui riflettere, si sperimentano anche periodi in cui il pensiero “tace”. È l’inverno della mente, il suo necessario riposo. Consultando le riviste di magia e i cataloghi dell’occulto, ammiravamo la fascinazione messa in atto dai pubblicitari, le promesse «squillate» dalle copertine dei libri in vetrina, la seduzione grafica capace di indurre all’acquisto di sogni impossibili, l’invito a indulgere ai deliri di onnipotenza. Filtri d’amore e pendoli magici, carte, tarocchi e croci della fortuna a volte si trovavano a fianco di testi di consultazione e guide per futuri iniziati. Tutto il vaso di Pandora della parapsicologia, della metapsichica e delle arti divinatorie si spalancava davanti a noi, disorientandoci ma invitandoci nello stesso tempo a trovare una bussola per non perderci nel vasto labirinto della letteratura occultistica. Attraverso quello spaesamento ci sembrava di poter sperimentare la realtà dell’infinito e un timido assaggio dell’estasi. Tutte le giovani generazioni e gli esseri umani cercano, anche nelle azioni più contraddittorie, l’espansione della loro coscienza e la gioia. Led Zeppelin, Rolling Stones, King Crimson, Jethro Tull, Santana, Frank Zappa, James Taylor, Carole King, Joni Mitchell, Crosby Still Nash and Young erano solo alcuni dei nomi che avevano inciso la grandiosa colonna sonora dei primi anni Settanta. I miti di Woodstock e della West Coast avevano dato la scossa a milioni di giovani in tutto il mondo e aperto degli spiragli nel modo di sentire, di relazionare, di vivere. Ma erano estasi che venivano da fuori, dall’ascolto delle canzoni nei salotti studenteschi o cantate insieme agli slogan ribelli durante i cortei e dal consumo purtroppo frequente delle droghe sempre più pesanti che cominciavano a invadere le città e i paesi mietendo le prime vittime, stroncando lo slancio rivoluzionario e riducendolo a un intimismo autodistruttivo che si annullava nelle spire di una fuga rinunciataria e letale. Molti coetanei che si erano abituati a fumare, quasi di colpo non riuscirono più a procurarsi marijuana e hashish. La multinazionale mafiosa si organizzò per cogliere l’attimo, affilò gli artigli e, in assenza di droghe leggere - una carenza
strategica - propose anche nel nostro territorio l’uso di cocaina ed eroina, iniziando al loro consumo centinaia di ragazzi e ragazze. La nostra fuga dalla droga, invece, era incoraggiata dalla sperimentazione di altre sensazioni. Vi erano almeno altri tre modi di raggiungere l’estasi. Il primo si chiamava rompere l’uovo. Significava cambiare abitudini e stile di vita. Un po’ come uscire all’aria aperta, in uno spazio più vasto, attraverso la rottura di schemi comportamentali, ritornando a respirare a pieni polmoni. La sensazione era di poter erompere come un seme che spacca le zolle per affacciarsi alla luce, o come un pulcino che frantuma finalmente il guscio per conquistare la sua indipendenza, lasciando alle spalle la sua precedente esistenza protetta in un uovo senza nome. Ogni esperienza di questo genere prevedeva uno sforzo piacevole di rinnovamento e cambiamento. Generava una piccola mutazione e trasformazione ben percepibile sul piano emotivo e della libertà d’azione, accompagnandosi a un benessere psicofisico accentuato. Il secondo era innescato dalla scoperta di un nuovo filone di interessi, e si chiamava lo sguardo oltre… Era come allargare lo sguardo sopra un nuovo panorama, o riuscire a pescare un pesce gigantesco, intravedere una nuova America. Equivaleva a contemplare con gli occhi della mente un luogo dove non si era mai stati prima, violando un territorio vergine, penetrare una realtà aliena liberando nuove possibilità. La terza estasi generava un grande senso di pienezza. Si realizzava quando ci si sentiva traboccare di novità, in un gran fermento di progetti che sovrastavano per grandezza e bellezza la nostra piccolezza. Voleva dire essere gravidi di stimoli ideali, incinti di intuizioni da sviluppare. La mente, fecondata da nuove idee, produceva una sensazione di promettente euforia. Era l’estasi più dolce. Si presentava quando si era sfiorati dalla grazia. Ci dava i brividi, illudendoci di poter partecipare anche noi, poveri infanti, alla gloria della creazione.
VI
Dopo Cartesio - Oltre la mente e il pensiero
Gli adolescenti avvertono dentro di sé una segreta e speciale energia che lotta per esprimersi, ma non sempre l’esito di questa lotta grandiosa ha successo. Il mondo adulto, le convenzioni sociali, l’indottrinamento scolastico ne ostacolano spesso l’esito positivo. Psicologi, educatori e sociologi definiscono l’adolescenza un’età critica e delicata. È invece una delle età più forti: un periodo nel quale si inizia a misurare se stessi con il mondo, senza riserve, con coraggio. Nell’adolescenza il lato segreto dell’esistenza continua a esercitare una certa influenza perché in questa età si operano, coscientemente o no, scelte definitive e metamorfosi essenziali, segnate in qualche modo dal proprio destino. Se questa dimensione misteriosa e parallela non viene alimentata o mantenuta attiva, cade nell’oblio, muore. Le regole sociali tendono a respingere i contenuti paralleli, per separarsene e mettersi al riparo dall’inquietudine che possono generare. A un certo punto della vita ci poniamo quelle domande - fondamentali ma insolubili - alle quali nessuna scuola riesce a rispondere, oppure cerca di soddisfare proponendo surrogati di conoscenza e diversivi ideologici, trucchi di natura intellettuale. Le domande classiche - chi sono?; da dove vengo?; dove vado? - non potevano trovare soddisfazione nelle aule scolastiche. Ne eravamo consci. Sentivamo che avremmo potuto fare tutto, essere tutto, arrivare a tutto e nello stesso tempo sperimentavamo fisicamente il senso della nostra fragilità. La scoperta dell’energia libidica ci riempiva di speranza perché ci sentivamo attraversati da una fonte inesauribile di forza propulsiva che però non sapevamo gestire. Questa spinta primordiale poteva sfociare in rivolta, in ribellione narcisistica, in una fuga dalle responsabilità o nella iva accettazione delle regole sociali inventate dagli adulti. Nel nostro caso l’energia psichica veniva liberata nella ricerca verso l’ignoto: serviva come “benzina” per sostenere l’attenzione e la concentrazione. Gli esperimenti tuttavia non consumavano più tensione emotiva di quella che a loro volta producevano, così la libido generava altra libido, all’interno di un circuito che si autoalimentava e si ricreava incessantemente.
L’interesse verso esplorazioni sempre più raffinate e rivelatrici era il motore dell’intero sistema. Come tutti gli adolescenti noi vivevamo la nostra età di mezzo come un momento in cui si desidera e ci si attende una iniziazione: alla verità, alla natura, al mondo, a se stessi. Ma poiché la società era incapace di rivelazioni, non rimaneva che la possibilità dell’auto-iniziazione. La scuola non poteva essere maestra perché premiava la norma e umiliava quella forma di intelligenza che Did chiamava istinto esistenziale. Non poteva iniziarci la Chiesa con la sua pesante e pomposa autorità, perché massificava i desideri dell’anima e forniva risposte preconfezionate con lo scopo di formare un “gregge” mansueto. La famiglia inibiva scelte coraggiose, era priva di liberalità, di anticonformismo e di humour: i figli erano un investimento, per cui il percorso di scolarizzazione era percepito più essenziale e irrinunciabile della sacralità, pur formalmente riverita, della stessa dottrina religiosa. Ma cosa era più importante? Prepararci a un futuro già organizzato, al successo? L’idea del successo scolastico e sociale come misura del proprio valore non era molto attraente. Quali adulti diventare e perché? Il mondo adulto ci sembrava un mondo senza luce, con molto buon senso ma grigio, spoglio. La scuola era l’ingresso in questo mondo crepuscolare dove il principio di realtà non apriva la mente, ma la segregava. A furia di non pensare al mistero dell’esistenza, alla morte, all’aldilà, gli adulti che conoscevamo avevano smesso di preoccuparsi dell’essere, di vivere le emozioni essenziali. Si erano trasformati in uomini “tutto fare”, si erano spenti. Avevano smesso di cercare. La società ci presenta ideologie, atee o religiose, pronte a sostituirsi alla ricerca individuale, che è ben più faticosa di qualsiasi credo importato dal mondo esterno. Pur possedendo meno contenuti culturali ed esperienza, l’adolescente è più sincero e interessante della persona “matura”. Nell’età di mezzo che guida il
aggio dal mondo infantile a quello della maturità, se si è fortunati si pensa alle questioni insolubili, a chi si è, alla ricerca della propria identità. Poi si comincia a fare questo e quello e le domande irrinunciabili finiscono in uno spazio oscuro, inconoscibile. Quindi non si riflette più su se stessi, sui grandi temi. Si va a sbattere contro un muro, si prova il fallimento, il mistero insondabile della morte. Con la “maturità” si pensano cose pratiche, perché si è sperimentato che i grandi problemi non sono risolvibili. Sopravvivono pochi cercatori irriducibili, che continuano tutta la vita a occuparsi di problemi veri, di cose serie e quindi rimangono adolescenti. L’adulto che continua a farsi domande, arricchendo con l’esperienza la sua ricerca, può diventare un artista. Così alcuni tra noi cominciavano a pensare che le cose serie non erano il denaro, la posizione sociale, la carriera, eccetera. Il valore esistenziale non era decretato dal riconoscimento istituzionale o economico. Si poteva essere dei falliti sul piano personale, ma persone di successo a livello pubblico o professionale. Oppure viceversa, anche se queste due realtà - essere e apparire - non erano o non avrebbero dovuto necessariamente segnare un conflitto, rappresentare una contraddizione. Per tutte queste ragioni avevamo imparato a non dire agli altri - soprattutto agli adulti - quello che non volevano sentire. La verità era riservata esclusivamente a coloro che potevano sopportarla. La nostra scuola clandestina e parallela non si nutriva solo delle esperienze di ipnosi. L’ipnosi era una porta che ci permetteva di scoprire qualcosa che aveva a che fare con il “dio sconosciuto” che era in noi. Eravamo contagiati dalla natura del fenomeno, come dei ricercatori alle prese con materiale radioattivo senza le opportune protezioni. La natura intellettiva e sub-intellettiva dello psichismo nel quale cercavamo di muoverci reclamava, al contrario, un superiore distacco, un non-coinvolgimento del nostro comportamento mentale e personale. L’osservazione dell’attività cognitiva metteva a nudo la meccanicità del pensiero, ma poiché la logica scolastica ci aveva fatto credere, cartesiana-mente, che io penso, dunque sono, credevamo ingenuamente di poter espandere la
consapevolezza semplicemente espandendo l’attività intellettuale, creativa. Ne derivava che più penso, più sono. Questo credo però generava l’esigenza opposta, quella di essere prima ancora di pensare. La verità era il contrario: Io sono, dunque penso. Il pensiero era un fenomeno manifestato dai suoi processi, mentre l’essere, l’io sono, ci sfuggiva completamente. Paradossalmente, poiché le facoltà mentali sembravano ampliarsi proprio in uno stato di “sonno indotto”, l’automatismo cerebrale-intellettivo emergeva in tutta la sua potenzialità meccanica grazie a una riduzione dell’io sono. Infatti l’ipnosi, la trance, si produceva grazie a una contrazione della consapevolezza ordinaria, non a seguito di una sua espansione. Questo dimostrava che i processi e i contenuti dell’intelletto erano in pratica indipendenti dalla partecipazione conscia dell’individuo, erano svincolabili dall’“essere”: il pensiero poteva esistere senza “il testimone”, l’osservatore, la coscienza ordinaria. Memoria, elaborazione di dati, funzioni logiche, erano processi fondati sull’inconscio, quindi automatici: l’io sono non era necessario per la loro attivazione. Al contrario, il conscio, quando era presente poteva generare blocchi tali da inibire l’ampiezza, la vastità dei processi intellettivi automatici. Coscienza e pensiero erano due realtà diverse e relativamente autonome. L’esigenza di superare la necessità di pensare per essere e la volontà di spingere la mente oltre i livelli ordinari di auto-osservazione meccanica, ci rendeva attraente lo stato di non-pensiero, la condizione di silenzio mentale, l’astrazione sopra-intellettiva, l’esperienza della pura coscienza esistenziale. Eravamo quindi consapevoli che l’ipnosi, per le sue caratteristiche di focalizzazione ma anche di depotenziamento della consapevolezza, non poteva essere il percorso adatto per continuare a crescere, perché i miracoli del pensiero che riusciva a generare erano ottenuti operando una concentrazione riduttiva del sé. Mentre condividevo queste riflessioni con Did, speravo ardentemente che il suo interesse si orientasse in questa nuova direzione.
Temevo infatti che una ricerca esclusivamente rivolta allo sviluppo di un tecnicismo ipnotico e psicologico, avrebbe forgiato un eccentrico operatore catturato dal fascino del suo stesso virtuosismo e tentato dalla manipolazione. Inseguendo un potere individuale libero da qualsiasi controllo, sarebbe diventato uno splendido demonio o la versione umanizzata di un angelo ribelle. Il tema ontologico espresso dalle domande: si può esistere senza il pensiero?, ci può essere consapevolezza senza la mente?, introduceva una nota problematica e quindi una forma di prudente distacco dai fenomeni che fino a quel momento avevamo osservato. Stavamo esplorando la mente o la coscienza? Cosa ci interessava veramente, produrre degli speciali risultati psicologici o ampliare la nostra consapevolezza? Per fortuna queste domande scavarono nell’animo di Did, anche se i risultati non furono subito evidenti. Continuava a portare a scuola tutto quello che rigorosamente non costituiva materia di studio, saccheggiando la biblioteca cittadina di libri che non mostravano alcun grado di parentela: La tauromachia, La geologia degli Appennini, I costumi sessuali dell’antico Egitto, La grafologia, La fisica delle particelle elementari, La costruzione dei violini, La biografia del Conte Camillo Benso di Cavour, La geografia delle steppe, La vita sentimentale di Napoleone e Le gesta di fra’ Diavolo. Cercando di inseguirlo in questa corsa sconsiderata, scoprii che anche le vertigini che davano i libri, pur essendo di natura diversa da quelle provocate dalle nostre prime estasi, potevano generare una soave dipendenza. Riuscii a schivare gran parte dei titoli che mi proponeva, ma non mi fu possibile in alcun modo declinare l’invito alla lettura delle opere di Edgar Allan Poe. Uno scrittore che era vissuto nella prima parte dell’Ottocento ed era una vittima del puritanesimo, se è vero che per tutto il secolo, in America, la sua grandezza era stata confusa con la tormentata inquietudine della sua vita privata. Ma la cecità dei puritani è proverbiale, come l’ipocrisia che permea da sempre le loro menti. Mi erano già capitati tra le mani alcuni dei racconti più famosi di Poe: Il gatto nero, Hop-Frog, Il pozzo e il pendolo, La caduta della casa Usher e la sua poesia-capolavoro Il Corvo. Ne avevo ammirato la fantasia, ma non avevo mai voluto addentrarmi a fondo in quel genere di letteratura per paura di essere
catturato nel vortice di una visione troppo drammatica e inquietante, anche se ero stato ammaliato dai racconti polizieschi che Poe aveva scritto: I delitti della Rue Morgue, La lettera rubata, eccetera. Did mi fece conoscere l’ampiezza della concezione poetica, esistenziale e metafisica di Poe attraverso la lettura di racconti “minori”: Il silenzio, Una favola, L’ombra, Una parabola, Perdita di fiato, Il colloquio di Monos e Una, Conversazione tra Eiros e Charmion. In particolare, insistette affinché io leggessi due racconti nei quali Poe raccontava alcune straordinarie esperienze mesmeriche. Mi fece rileggere più volte i due racconti La rivelazione mesmerica e La verità della vicenda del signor Valdemar, affermando che erano i più interessanti sotto il profilo delle suggestioni che essi ispiravano, indicando nuovi e audaci esperimenti. Nel primo racconto l’autore, simulando di essere un ipnotizzatore che applica le tecniche di Mesmer, esprime il suo credo con queste parole: “Quali che possano essere i dubbi che si nutrono sulla base razionale del mesmerismo, i suoi fatti sorprendenti sono ora quasi universalmente ammessi. D’altra parte quelli che dubitano di questi ultimi sono dubitatori di professione, una congrega di inutili e screditati individui. Non c’è maggior perdita di tempo del voler dimostrare oggi, che un uomo per semplice esercizio della volontà, possa influenzare un suo simile al punto di ridurlo in uno stato anormale, nel quale si manifestano fenomeni molto vicini alla morte, molto più vicini di quelli di qualsiasi altra condizione normale a nostra conoscenza; che, in queste condizioni, colui che è stato influenzato, utilizza con sforzo e quindi con deboli risultati, gli organi di senso esterni, mentre avverte, con raffinata e acuta percezione e attraverso canali che si suppongono sconosciuti, cose che stanno fuori dalla portata degli organi fisici; che, le sue facoltà intellettive, inoltre, sono meravigliosamente accresciute; che la sua simpatia per la persona che ha esercitato su di lui la sua influenza è profonda; e, infine, la sua suscettibilità a tale influenza cresce in ragione diretta della frequenza con cui essa viene esercitata, mentre, nella stessa proporzione, i fenomeni particolari che ne derivano divengono più estesi e più intensi”. Segue una serie di quesiti con le risposte rivelatrici del soggetto moribondo, preventivamente mesmerizzato. Le domande riguardano l’immortalità dell’anima, la natura dello spirito, la struttura dell’universo e l’essenza dell’infinito.
Il secondo racconto, ancora più visionario e terribile, inizia con queste parole:“…Il mio interesse negli ultimi tre anni si era diretto più volte ai fenomeni di mesmerismo e, circa nove mesi fa, avevo rilevato che negli esperimenti condotti finora risultava un’inspiegabile omissione: nessuno era mai stato mesmerizzato in articulo mortis. Restava da stabilire prima se esisteva nel paziente una certa disponibilità all’influenza magnetica, se essa si conservava o veniva esaltata in tale condizione e infine se si poteva ritardare l’approssimarsi della morte con il processo ipnotico… mi guardai intorno per trovare un soggetto da sottoporre a queste particolari prove e pensai al mio amico, il signor Ernest Valdemar…”. La storia continua narrando come il protagonista riesca a ipnotizzare il moribondo signor Valdemar e a sospendere la sua morte per sette mesi, fino a un esito imprevedibile. La fascinazione che in Did suscitavano questi racconti mi allarmò. A ragione, poiché presto lo vidi struggersi e rammaricarsi del fatto di non poter mettere in atto esperimenti in articulo mortis, come quelli che Poe aveva descritto. Quale medico, ospedale, amico o famiglia si sarebbero mai affidati alle cure di uno spericolato adolescente, per ritardare la fine ineluttabile di un moribondo con mezzi indefinibili, così da interrogarlo - mentre si trovava sospeso tra la vita e la morte - sull’aldilà? Did cominciò a leggere i testi classici dello spiritismo. Ma la ricerca di un medium in grado di riprodurre gli esperimenti descritti da autori quali Allan Kardek e le sorelle Fox, fallì miseramente ed egli fu costretto ad archiviare i suoi efferati progetti. Non appagato da quel che aveva trovato nelle biblioteche e librerie della nostra città, si mise a setacciare le edicole milanesi alla ricerca di riviste dedicate alla pratica spiritica. In una di queste, un introvabile Giornale dei Misteri, lesse un articolo che illustrava le attività spiritiche del criminologo lodigiano Cesare Lombroso e una informazione che lo galvanizzò. Il Lombroso riferiva che le isteriche entravano in ipnosi quando egli si avvicinava tenendo in mano una fiala di Pentotal.
Did ebbe l’ingenuità di entrare in tutte le farmacie della zona per cercare di procurarsi - per fortuna, inutilmente - una fiala di Pentotal con il proposito nemmeno tanto nascosto di testarne l’effetto su qualche soggetto verosimilmente isterico che sperava di avvicinare. La frustrazione causata dalla penuria di isterici e medium, spinse Did a cercare conforto nelle discipline esoteriche più estreme. Cominciò a studiare testi completamente diversi dai precedenti: i libri di Rudolph Steiner, fondatore dell’antroposofia, sostituirono definitivamente i commenti a Il Capitale di Karl Marx; una serie di volumi di Yogi Ramacharaka prese il posto dei brevi saggi dedicati al pensiero di Bakunin e Trosky. La lettura dei canti ispirati dal Vedanta indiano, scalzò senza tanti complimenti opere pur interessanti suggerite dall’insegnante di storia e filosofia, come Storia degli Italiani di Giuliano Procacci, una biografia del filosofo Garaudy che propugnava un socialismo dal volto umano e le collane di cultura politica di Einaudi e Feltrinelli. Fui costretto a condividere questo nuovo orientamento. I percorsi metodologici adottati per riuscire a superare i meccanismi del pensiero, cerebrali-intellettivi, erano segnati principalmente da due filosofie: lo yoga e lo zen. Il primo percorso riservava all’intelletto un ruolo periferico ma non umiliante, all’interno di una unità psico-somatica globale. Il secondo, attraverso semplici quanto disarmanti tecniche di disorientamento dell’intelletto, riusciva a interrompere il moto inarrestabile che caratterizza l’attività mentale ordinaria. Nello zen, il black-out prodotto nel meccanismo del pensiero poteva far intravedere l’io, l’essere, in quanto è proprio la mente a nascondere, come una nuvola eggera, l’entità di cui è solo strumento e riflesso meccanico, operativo. Questi percorsi, illustrati con un linguaggio analogico, metaforico, e centrati sul riposo della parte logica del cervello, del suo emisfero razionale dominante, ci aiutavano a spaziare al di fuori dal complesso labirintico in cui, in virtù o per colpa dell’ipnosi, ci eravamo addentrati.
I contenuti, gli spazi e le suggestioni dello zen e dello yoga ci parlavano di altre mete, diverse da quelle perseguibili mediante lo studio perseverante della macchina-pensiero umana. Da quelle pagine, promanava qualcosa di grande e sublime. A volte, leggendo i testi filosofico-poetici induisti o gli aforismi delle Upanishad, percepivamo una brezza insolita, un’aria rinfrescante, rigenerante, che spirava come un soffio dello spirito oltre il muro del pensiero e della organizzazione - conscia e inconscia - dell’intelletto. In quei libri germinavano ampie riserve di essere: quello che cercavamo a compensazione dell’eccesso di intellettualità e raziocinio. Era bello are i pomeriggi in campagna, all’ombra di un grande albero, con in mano un libro rigorosamente clandestino, non scolastico e che parlava di Essere, come La via dello Zen di Alan Watts, gli Yoga Sutras di Patanjali e scoprire che non si era il corpo, non si era le emozioni, non si era la mente… Si era qualcosa che al fondo o al di sopra di tutte le esperienze possibili - sensoriali, emozionali, mentali - fungeva da silenzioso testimone, realtà, essenza indistruttibile, pura esistenza e autocoscienza: l’io sono, l’essere, grumo di coscienza inalienabile. Una presenza oltre la mente sembrava cantare inascoltata la sua canzone. Tendevamo l’udito a quella Eco, cercando di aprirci un varco nel silenzio. Rinunciando al pensiero, la mente percepiva qualcosa che stava aldilà delle contraddizioni della ragione e degli orrori dell’intelletto. Seguendo un grido solitario nella vacuità sterminata, il pensiero scompariva con i suoi idoli illusori. Udivamo solo il suono dei nostri i nei campi incolti di una radiosa solitudine, consapevoli che tutto quello che avremmo potuto vedere e provare in quelle nuove dimensioni, non interessava nessuno. Per alcune settimane Did dimenticò perfino di essere un ipnotizzatore. Tuttavia io non mi sentivo a mio agio in un mondo così impalpabile, fatto di visioni prive delle evidenze pratiche degli esperimenti. Anche se Did aveva sempre disdegnato il metodo ipnotico come propedeutico a un possibile approccio terapeutico, a me le possibili implicazioni cliniche interessavano molto. Per questo avevo cominciato, nel tentativo di capirci qualcosa, a leggere testi divulgativi di psicologia e psicoanalisi.
Immersi nelle nostre letture, ogni tanto eravamo richiamati alla realtà dai conflitti che continuavano ad agitare la scuola. Le differenti posizioni ideologiche e sociali si stavano polarizzando pericolosamente. Ormai gli studenti avevano imparato a usare la cultura, lo spettacolo e la satira come delle armi per sensibilizzare e smuovere l’opinione pubblica, sbeffeggiare i potenti e raccontare con ironia e sarcasmo quel che si svolgeva dietro le quinte dei palazzi. Erano state messe in scena delle vere e proprie pantomime nelle quali alcune figure istituzionali venivano ridotte al ruolo di odiose e patetiche caricature. Tra queste non poteva mancare il preside che, risentito per l’impudenza del movimento studentesco, era andato su tutte le furie. Ma la tigre che credeva di riuscire a cavalcare, lo sbalzò e cominciò a divorarlo. Gli cedettero i nervi. Quando si presentava uno studente a chiedergli formalmente un normale permesso per l’assemblea, prima lo buttava fuori e poi si chiudeva a chiave nel suo ufficio strepitando come un ossesso. Fingeva di esser lui la vittima, chiamava carabinieri e polizia sostenendo di essere stato sequestrato da bande di maoisti. A tratti riemergeva dalla sua paranoia e vestiva i panni del persecutore. Le sue paure e reprimende si materializzavano con improvvisi e terribili colpi di coda. Una mattina, vedendo alcuni studenti che affiggevano all’entrata un manifesto per annunciare la data di una assemblea ordinaria, si scaraventò loro addosso strappando il volantino. Anche coloro che si erano trovati a are casualmente in quel momento, vennero denunciati all’autorità di polizia con la falsa accusa di interruzione delle lezioni. Tra questi, alcuni compagni di classe. Teresa, Paolo, Giorgio, Guglielmo e altri ancora, furono rimandati a settembre in tutte le materie, e dovettero difendersi in sede processuale senza che ai genitori, sconvolti dalla reazione del preside e dai mandati di comparizione pervenuti a domicilio, venisse data una qualsiasi spiegazione. Pur essendo studenti eccellenti, furono costretti a dedicare l’estate al rio dell’intero programma scolastico e obbligati ad affrontare una Commissione esaminatrice che non era disposta a concedere nemmeno un errore nella loro preparazione didattica. Ma a Tellaro, in Liguria, dove si erano ritirati per studiare a fondo tutto quel che
c’era da sapere per non farsi bocciare, trovarono molta solidarietà. A settembre tutti superarono brillantemente la prova e furono ammessi a frequentare il quinto anno di liceo. Un giudice illuminato e moderato offrì gratuitamente alle famiglie la sua consulenza per assistere i ragazzi. La questione si trascinò per anni, fino all’assoluzione definitiva di tutte le persone ingiustamente denunciate. La “strategia della tensione”, delle intimidazioni e i tentativi falliti di dividere il movimento, aveva però scavato un solco invalicabile tra istituzione accademica e società civile.
Mano a mano che Marcuse, Che Guevara e Marx-Engels venivano sostituiti da libri di filosofia indiana e di psicoanalisi junghiana, con qualche concessione a George Orwell e a Timothy Leary, i compagni del movimento studentesco che pure noi ammiravamo per le loro doti etico-sociali e le loro capacità intellettuali, quando avano davanti ai nostri banchi nascondevano a stento una smorfia di disapprovazione. Pensavano che io e Did fossimo stati catturati dalla filosofia hippy, evasiva e rinunciataria. I loro leader condannavano apertamente ogni interesse di tipo religioso come una fuga in uno sterile intimismo. Se i capi del Movimento avessero letto la Bhagavad Gita, avrebbero scoperto in questa “bibbia dell’induismo” i principi di una filosofia conquistatrice e guerriera, niente affatto rinunciataria: quella propria degli “ariani”, i popoli che costituivano il ceppo indoeuropeo che avevano conquistato l’Arya, la regione della valle dell’Indo dalla quale avevano preso il nome. Così, nella Gita, Krishna incitava il suo scudiero ad adempiere al suo destino, prima della battaglia: “…conquista la forza, o guerriero… trionfa sui tuoi nemici… non tormentarti, combatti…” I Khashstrya, la casta dei guerrieri, praticavano lo yoga come disciplina necessaria per sostenere le imprese belliche e le ardue lotte della vita. Qualche anno prima alcuni nostri compagni avevano costituito il complesso degli Hare Krishna e poi avevano abbandonato le suggestioni della musica e della cultura indiana. Tuttavia la rivelazione di Krisna non era riconducibile a un’immagine folcloristica.
Anche Freud sembrava dare una mano a Marx nel condannare le facili evasioni della vita mistica, degne solamente di una umanità infantile. Solo al pensiero scientifico e materialista si riconosceva una dignità intrinseca e si guardava con sottile disprezzo anche alle pratiche devozionali di casa nostra, come il culto di Maria Vergine. Non era però la Madonna o la devozione verso di essa a essere reazionaria, ma l’uso che la chiesa ne faceva. Fausto Saronni, uno dei capi del movimento dotato di maggiore carisma, vedeva ogni afflato religioso come una inutile deriva, una scelta antitetica alla politica. Ma non si potevano trasferire alla politica le istanze della coscienza. Solo se si sa chi si è, ci si può dedicare completamente alla politica senza perdere se stessi. La politica non la si deve praticare per dimenticarsi, per sfuggire al principio socratico, per abdicare al compito evolutivo insito nel «conosci te stesso», ma per aggiungere all’introspezione, alla ricerca della propria identità, l’estrospezione ovvero l’osservazione di sé nelle relazione con il mondo, nell’azione. Molti compagni del movimento non facevano la rivoluzione, la recitavano, la spettacolarizzavano; gratificavano se stessi ritagliandosi un ruolo pubblico. Volevano cambiare l’habitat sociale senza mettersi in discussione. In tal modo la lotta di classe diventava l’alibi per non guardarsi dentro. L’ingiustizia presente nel mondo poteva addirittura far comodo per identificare dei nemici, dei capri espiatori sui quali scaricare i sensi di colpa generati dall’incoerenza dei comportamenti individuali. L’impegno politico, sociale e professionale, non poteva sostituire la ricerca personale della verità e della conoscenza, ma molti erano perfino orgogliosi della loro incapacità a confrontarsi con una qualsiasi istanza metafisica. Erano totalmente persi nel sociale. Per me al contrario, si può essere soggetti sociali solo se contemporaneamente all’impegno politico si conoscono le proprie forze e si plasma la propria identità. Quando la politica o l’impegno sociale diventano alibi per non osservarsi e cambiare, degenerano. In Italia il movimento della contestazione offriva una comoda sponda a coloro che rifiutavano, in nome della loro presunta superiorità ideologica, l’esercizio dell’auto-critica e dell’auto-trasformazione. La spinta interiore al cambiamento veniva così deviata e depotenziata, ridotta a semplice rivendicazione ideologica
o partitica. I risultati si fecero evidenti negli anni immediatamente successivi, con la deriva terroristica o l’occupazione da parte degli ex-sessantottini delle poltrone che prima contestavano. I leader garanti dell’ortodossia comunista continuavano a vedere in tutte le espressioni della cultura “borghese”, dei prodotti dell’economia, secondo la lettura marxista della storia. Per me e Did erano i comportamenti psicologici che generavano i comportamenti politici e le loro ideologie, ma in quegli anni si pensava esattamente il contrario. Secondo noi non era la politica a creare la filosofia, ma la psicologia a creare la politica. La politica non era altro che una forma interessante di applicazione della psicologia collettiva, della gestione del potere. L’accettazione del primato della politica, della “psicologia delle masse”, faceva are in secondo piano il fatto di non occuparsi della propria psicologia, della ricerca di se stessi. Aspirando a gestire i comportamenti collettivi, non si era costretti a fare i conti con i propri. Ma a noi tutti gli ordini politici e sociali apparivano invece come il riflesso dell’attività mentale di chi li aveva concepiti, elaborati, messi in atto. Solo una trasformazione interiore poteva migliorare l’ambiente di vita dell’uomo. Questo non significava rinunciare di punto in bianco a qualsiasi azione mondana, ma era necessario misurarsi prima con le possibilità di trasformazione di sé. Un ascetismo malsano in campo religioso, un potere non controllato nelle mani di pochi in campo politico, gli eccessi di brama e possesso a livello sociale, i dogmi scientifici, erano tutti elementi che avevano contribuito a limitare le possibilità evolutive dell’intero genere umano. Un destino al quale erano probabilmente potuti sfuggire solo pochi illuminati o veggenti, capaci di intuire che è meglio non rivelarsi troppo per non avere a che fare con la rozza intransigenza della mentalità comune, saccente e ignorante, attaccata alle sue piccolezze, ostile al cambiamento, tronfia dei suoi difetti e del suo destino mortifero, dei suoi piaceri e dei suoi dolori. Nel nostro apprendistato liceale, travolti dal vento della contestazione, ci era piaciuto sì viverne i momenti più salienti, condividerne alcuni valori, ma la nostra strada aveva preso una direzione diversa. Per affrontare il Leviatano del potere occorreva dotarsi di un sano equilibrio
emozionale, di una maggiore lucidità intellettuale, di energie più raffinate ed efficienti. La giusta strategia non era la protesta, la denuncia, lo scarico delle proprie tensioni in modo incontrollato senza alcuna preparazione “tecnica”, tattica, senza strumenti, senza mezzi. Servivano piuttosto risorse, informazioni, ma anche la capacità di far fronte ai conflitti, di coinvolgere gli altri, di studiare il processo di formazione del consenso e saggiare la leadership, di elaborare concettualmente una cultura dell’innovazione, di conoscere gli avversari. Era necessario chiedersi quale futuro volevamo costruire insieme, co-creare. Le domande che si riescono a concepire creano a poco a poco la visione del proprio divenire. Una di queste era la seguente: si poteva intraprendere un percorso evolutivo in grado di portare alla percezione dell’energia interna senza per questo assumere una visione ideologica e fideistica? Did pensava di sì, ma io non ero certo che una risposta positiva sarebbe stata pubblicamente sostenibile. Da allora, penso che l’occultismo non nasca affatto dalla volontà di occultare dei segreti. Scaturisce invece dalla necessità di sopravvivenza dei ricercatori della conoscenza che scoprono frammenti di un sapere rifiutato dal contesto sociale nel quale vivono. Se non si è ingenui o masochisti, si impara a difendere se stessi occultando tali frammenti, incomprensibili in un mondo dominato dalle convenzioni. L’abilità nell’occultamento della verità e la pratica della menzogna, oppure l’omissione di informazioni sono abilità importanti per poter salvaguardare, in determinati contesti, alcune verità e quindi la stessa libertà di movimento e di azione dei ricercatori. Alcune ipotesi non potevano essere dichiarate e proposte senza correre il rischio di esser presi per pazzi, senza provocare ostracismo, derisione o disprezzo. Era più prudente fingersi “normali” e mimetizzarsi perfettamente nell’assetto sociale, accettandolo solo formalmente. Il territorio che si spalancava davanti a noi era immenso e non sapevamo bene cosa conquistare su quel terreno inesplorato. Temevamo che, senza una guida, le nostre sconfitte sarebbero state grandi almeno quanto le nostre conquiste. Il “moltiplicatore” che avevamo scoperto per affinare e implementare le normali facoltà, non implicava necessariamente la
capacità di gestire le potenzialità nascoste. Al contrario, più queste potenzialità erano elevate, maggiormente si era esposti al rischio di non riuscire a controllare la grande tensione e responsabilità evocata da queste forze latenti.
Nel frattempo le lezioni di filosofia, attraverso nuove aperture concettuali, ci donavano nuovi brividi e nuove estasi. Corelli ci aveva parlato del “superamento all’infinito” nella filosofia di Fichte. Anche in matematica era apparsa l’espressione “tendere all’infinito”, ma l’infinito delle espressioni matematiche, ∞, così come ci era stato presentato non era che un simbolo deprivato del suo significato originale. Poco più di un numero come tanti altri. Cercavamo faticosamente di mettere insieme i pezzi di un mosaico troppo grande per le nostre piccole menti, il nostro intelletto in erba. Il mio confronto con Did era sempre serrato. Entrambi però, per ragioni ben diverse da quelle invocate dal pensiero illuministico e anti-metafisico di Bertrand Russel, non potevamo più dirci cristiani. L’essenza del Cristianesimo era “il comandamento dell’amore”, la riscoperta dell’unione originale con il tutto, quindi non avevamo nulla da spartire con il pensiero teologico-religioso del cristianesimo storico. Per diventare strumento di salvezza, la dottrina cristiana avrebbe dovuto sganciarsi dall’eredità del pensiero greco per realizzare il Voi siete dèi espresso nel Vangelo di Giovanni. Ma come? Se la Chiesa avesse creduto a questa affermazione, avrebbe dovuto ammettere, fin dai suoi esordi, che eravamo già tutti indistruttibili, già in essenza immortali. Quindi non bisognosi di salvezza, al massimo di risveglio alla consapevolezza della nostra eternità. Allora la Chiesa, l’intermediario che si reputava indispensabile per donarla questa salvezza, che ci stava a fare? Solo la mortalità dell’essere umano giustificava la presenza di una Chiesa salvatrice nel mondo. Tutto questo era molto stimolante.
L’idea di un’immortalità congenita, ben diversa dal peccato originale, non diminuiva la responsabilità individuale ma la esaltava. Compito dell’uomo era dunque di realizzare una divinità implicita nell’esistere, nell’esprimere un’eternità incarnata nel suo essere. Le tre fedi: la religione, la filosofia e la scienza, non possedevano la conoscenza e le tecniche per realizzare quel Voi siete dèi. Nemmeno aspiravano a realizzare quella verità. La religione sembrava aver esautorato dal suo corpus dottrinale gli insegnamenti esoterici, combattendo proprio le scuole e i pensatori che invece dichiaravano di dedicarsi allo sviluppo delle facoltà preternaturali, divine, dell’essere umano. La filosofia spesso appariva come un pensiero astratto, un arido esercizio dell’intelletto, non una espansione dell’esperienza sensoriale e della coscienza. La scienza escludeva tutto ciò che faceva parte del dominio della vita soggettiva, accettando solo verità oggettive secondo un metodo basato su dimostrazioni ripetibili e misurabili con i limitati strumenti a disposizione. I fenomeni reali non coincidevano più con la percezione interna e interiore, ma con la rilevazione effettuata da apparecchiature esterne. Tutte le esperienze che erano vissute soggettivamente rischiavano di non essere più “reali”. Circondati da queste tre fedi, noi non volevamo “credere”, ma sperimentare. Intanto, grazie alle nuove letture di Did, condividevo con lui l’idea che il pensiero occidentale nascesse in ultima analisi dalla speculazione: era un esercizio dell’intelletto. “Non voglio conoscere,” diceva, “la composizione dell’acqua, voglio trovare una fonte zampillante. La conoscenza teorica non può soddisfare un assetato. Che mi importa di conoscere la formula dell’acqua? Io ho sete, voglio bere. In questo deserto, vorrei sapere dove si trovano i pozzi… nella sabbia un tuareg ne sa più di uno scienziato…” Queste sue ultime riflessioni mi avevano convinto. Il pensiero orientale era generato appunto dall’esperienza e dalla disciplina della percezione, della coscienza. Lo yoga ci sembrava una strada percorribile per verificare se con un aumento della propria capacità percettiva, poteva mutare anche la nostra visione della realtà.
Questa disciplina orientale poteva essere il cannocchiale attraverso il quale vedere il “mondo nuovo”. Rifiutarsi di guardare attraverso quella lente, non rispondere a quell’invito, all’esperienza, significava comportarsi come i teocrati che si erano opposti a Galileo. Volevamo quindi raffinare la percezione per sentire “l’energia”. Abbandonando il nostro improvvisato mestiere di aratori in campi che non erano nostri, coltivatori improvvisati delle menti altrui, cercatori di tesori che altri nascondevano ignari nelle miniere delle loro psiche addormentata, desideravamo seminare finalmente sul nostro stesso terreno. Protetti dal disinteresse generale, eravamo decisi a spalancare le finestre della percezione al bagliore dei nostri astri interiori. Perfino la solitudine cessò di far male e si fece carezza. L’indifferenza che isola più dell’odio, fatta più lustra dell’oro, venne usata come uno specchio riflettente per catturare la luce che giaceva sepolta nei nostri abissi.
VII
Point Break - Il folle volo
La scuola elementare era già una prigione. La luce entrava da finestre troppo alte, irraggiungibili. Noi bambini non arrivavamo a spiare da un’altezza così considerevole il sole, gli alberi d’intorno e la campagna non ancora definitivamente stuprata dall’uomo. La civiltà di una società si vede dalla posizione delle finestre degli edifici scolastici, dalle sue aperture sul mondo. Alle medie le vetrate della scuola si affacciavano su una piazza cementificata, destinata a parcheggio. Per questo l’estate era la stagione della libertà, perché tornavamo a immergerci negli spazi aperti, senza mura e confini. Il contributo spirituale dei paesaggi naturali è sempre stato sottovalutato. Se lo studio deve essere percepito come una attività ludica e interessante, la qualità dell’ambiente nel quale si svolge l’apprendimento, è essenziale. Un ambiente artificiale crea sradicamento e dipendenza. Umilia la percezione. Per fortuna, la suggestione e gli umori dell’estate arricchivano la mente di nuove sensazioni e idee. Il periodo di vacanza tra il quarto e il quinto anno era scivolato via fin troppo tranquillo, e a settembre tornammo a scuola con un ricco bottino. Did si era ritirato come sempre nella sua campagna e io nella mia, ma entrambi non vedevamo l’ora di riprendere gli esperimenti, di rituffarci nelle attività pratiche dopo alcuni mesi di ozio. Il primo giorno di scuola del nuovo anno, Did si presentò raggiante con una vecchia 128 FIAT blu scuro, e mi annunciò la grande novità: stava già circolando con il foglio rosa provvisorio. Presto avrebbe avuto la patente e non avremmo più dovuto dipendere da nessuno per i nostri incontri. La sede degli esperimenti sarebbe diventata quell’automobile. Io avevo riflettuto soprattutto sulla possibilità di risolvere mediante la trance dei problemi complessi, anche di ordine matematico. Mi chiedevo ancora se l’intelligenza fosse il frutto di una attività meccanica oppure il risultato di un semplice processo (deduttivo o induttivo), di un automatismo cognitivo che
poteva svolgersi senza richiedere necessariamente la presenza di un io cosciente. Ci interessava la consapevolezza o l’intelligenza? Potevano coesistere e influenzarsi queste due funzioni? Un altro aspetto che aveva focalizzato la mia attenzione durante l’estate, riguardava le operazioni di ri-orientamento motivazionale che Did aveva operato in ato e in particolare la sostituzione degli originali interessi umanistici di un soggetto con le nuove attività di natura geometrico-matematica che erano state impiantate nella sua mente inconscia. Mi sembrava straordinaria la possibilità di poter utilizzare l’induzione ipnotica per cambiare non solo le prestazioni intellettive, ma anche gli schemi emozionali, i vissuti e le affinità elettive di carattere culturale. Osservando quelle esperienze avevo dovuto arrendermi: non solo le idee, i comportamenti, ma anche le emozioni potevano essere installate. La cosa mi esaltava e mi spaventava nello stesso tempo. Eravamo dunque degli automi che invece di agire, coscienti dei loro pensieri, emozioni e azioni, potevano essere agiti da forze estranee che si esprimevano in noi ma che non ci appartenevano? Mi attirava la possibilità di usare la suggestione ipnotica come un input scatenante di un processo psico-affettivo. Era come caricare una sveglia: una volta inserita la nuova motivazione, il soggetto adottava il nuovo comportamento (output) senza una sua partecipazione cosciente, ignorandone la causa. Lo razionalizzava poi come meglio poteva. Cos’era dunque l’intelligenza? Se un prodotto intelligente della mente era riproducibile in serie - come in una fabbrica - cos’era allora la consapevolezza? Vi erano vie di sviluppo della sola consapevolezza, indipendentemente dal pensiero, dall’attività cognitiva, dalle idee? Si poteva essere consci di sé senza pensare? Se l’intelligenza era misurabile in una scala progressiva da 1 a 10, qual era il nostro livello di coscienza? Come sviluppare l’una e l’altra? La qualità del pensiero incrementava la consapevolezza, e/o viceversa?
Oppure attività mentale e coscienza erano due variabili indipendenti? Nonostante il mio interesse a trovare delle risposte a queste domande, nel corso del mio apprendistato di osservatore non ho mai ceduto al desiderio di essere ipnotizzato da Did. Certo, mi sarebbe piaciuto essere condizionato per ottenere prestazioni superiori, ma, come Lella, non riuscivo a fidarmi del nostro allampanato operatore, a causa del suo atteggiamento talvolta irresponsabile. Le sue modalità relazionali mi parevano centrate su obiettivi opportunistici: le persone erano strumenti, occasioni di scoperta. Erano risorse più o meno strategiche, fonti di informazioni, punti di connessione con il mondo dell’inconscio, canali di accesso a una dimensione da colonizzare. Dalla seconda liceo Did si era servito senza troppi scrupoli dei soggetti che gli capitavano a tiro. Non soltanto aveva superato dei limiti di carattere cognitivo, ma anche di carattere etico. D’altra parte non mi propose mai di sottopormi a qualche esperimento. Nello stesso tempo sono convinto del fatto che alla base delle pulsioni inconsce di ogni ipnotizzatore, vi sia un desiderio di onnipotenza, una volontà di dominare gli altri, di esercitare un potere sul mondo attraverso la fascinazione. Penso che ogni ipnotizzatore dilettante o professionista, teatrante o terapeuta, si debba interrogare sinceramente prima di negare la presenza di questa radice pulsionale. Anche se non sempre riconoscibile, questa volontà di potenza può emergere distintamente dall’esercizio assiduo della pratica ipnotica. Leggendo alcuni libri di Freud e di Charcot, ho constatato che questi autori e primi operatori patentati occidentali, avevano sì scoperto alcuni fenomeni, ma si mantenevano ancora prudentemente sull’orlo dell’abisso vertiginoso della conoscenza. Anche loro avevano osato. Essi intervenivano nella cura dei pazienti con modalità sperimentali, procedendo per tentativi prima ancora di conoscere le reali possibilità terapeutiche delle dinamiche ipnotiche.
Se fuori dalla scuola la novità del quinto anno era la mobilità automobilistica di Did, nelle aule la sorpresa era costituita da un nuovo professore di letteratura italiana e latina. Il professor Tarasca, il cui sistema nervoso non reggeva più lo stress causato da una classe turbolenta e ribelle come la nostra, era stato affidato a un’altra sezione, più addormentata e tranquilla. Il novizio si chiamava Primo Giobbi eportava i capelli così corti che pareva un frate scano, un colto pellegrino penitente. Vestiva in modo causal, non nascondeva l’ammirazione per l’avvenenza delle ragazze e sulla copertina della sua agenda c’era una frase di Eraclito: Ciò che credi di essere, è il tuo destino. A una certa sua sobrietà comportamentale corrispondeva però una tale ricchezza linguistica e culturale, da renderlo, come insegnante, tanto affascinante quanto difficile da seguire. In un ambiente malsano e asfittico come la nostra scuola, costituiva una veraboccata d’intelligenzae d’aria fresca. La differenza fra il precedente insegnante, prevedibile e già un po’ avanti negli anni, e quest’altro molto preparato, smaliziato ma anche alla mano, semplice e generoso, democratico, colse impreparata l’intera classe. Aveva iniziato a insegnare giovanissimo e possedeva un linguaggio ricco di tutte le tensioni, i filoni culturali, le idee della sua precoce esperienza di docente. Per ragioni imprevedibili, il nuovo professore colse subito nel mutismo e nell’insofferenza indolente di Did, più di un motivo di sfida. Lo prese di mira costringendolo a ripetere brani dell’Antologia, ma il mio compagno si vendicava leggendo sempre peggio, stentatamente, in modo vomitevole, simulando afasie e difficoltà linguistiche che avrebbero richiesto severe terapie logopediche. Nel frattempo Giobbi misurava le risposte della classe al suo stile didattico. I suoi comportamenti informali ce lo rendevano vicino alla nostra sensibilità e per certi aspetti innocuo. All’inizio era riuscito a catturare una certa attenzione perfino nello studio degli scritti di Cicerone e Lucrezio presenti nell’Antologia latina della quinta. Ma la tregua iniziale durò poco. A fine settembre, mentre Giobbi stava spiegando le ragioni storico-letterarie del
successo del libro Cuore di De Amicis, la classe era particolarmente agitata e distratta. Nelle due ore successive avremmo avuto il primo compito di matematica e noi sfruttavamo la sua lezione per riare le formule. Dopo l’intervallo della prima ora, ci toccò assistere a un memorabile sfogo del professore. Il tempo della tolleranza era finito. Sbatté il registro sulla cattedra e gridò: “Cari ragazzi, sentitemi bene, se volete che io continui a venire in questa aula, dobbiamo metterci d’accordo. Voi con la vostra rumorosa distrazione e la vostra maleducata indifferenza ai contenuti che cerco onestamente di illustrarvi, pensate di avere il diritto di ignorare ciò che la scuola vi offre. Pensate che sia compito dell’insegnante riuscire a farvi studiare, con le buone o con le cattive. È così, vero? Bene, vi dico una cosa sola: peggio per voi!” In aula scese all’improvviso un silenzio gelido e imbarazzante. Riprese fiato: “Non potete rifiutare quello che non conoscete… Voi volete che io cambi pelle, che mi trasformi in un genitore cattivo, che faccia la voce grossa perché in realtà siete degli svogliati congeniti… solo con l’imposizione e la paura trovereste la forza per buttarvi nello studio. Riuscireste a studiare solo maledicendomi…!” esclamò. Continuò imperterrito: “Volete qualcuno che vi obblighi a studiare minacciandovi, ma non cadrò in questa trappola. Chi vuole studiare studi, chi è soddisfatto del suo menefreghismo non apra nemmeno i libri. Non vi umilierò certo con dei brutti voti. Vi state punendo abbastanza da soli. Se volete fare la rivoluzione da ignoranti, fate pure… Io continuerò la lezione, chi vuol essere attento, bene, chi vuol far finta di esserlo faccia finta, ma cerchi di farlo bene se non vuole che me ne accorga. La matematica studiatela a casa, questa è una lezione di letteratura. Pensate che nella vita vi basti saper ragionare con i numeri? Chi vuole disturbare la libertà degli altri sarà cacciato dall’aula senza nemmeno la soddisfazione di vedermi incazzato. Non lo punirò con un 7 in condotta, ma non gli permetterò di nuocere e di fare quello che gli pare durante le mie lezioni… è chiaro?” Nessuno osò fiatare. La classe, messa a nudo, rimase basita. Did cominciò a guardare al nuovo professore con il dovuto rispetto. Fino a metà ottobre lesse in modo fluido, come se gli si fosse sciolta la lingua.
Poi ci fu il primo tema. Una mattina il professore arrivò con i primi compiti in classe corretti; dichiarò la sua ammirazione per il lavoro di Did e si complimentò con lui. Noi tutti eravamo allibiti. Perché con il precedente professore di italiano, Did prendeva voti appena sufficienti e con questo nuovo insegnante invece si portava a casa un 10 al suo esordio? Non potevo pensare che fosse tutta farina del suo sacco. Forse Did aveva usato una nuova tecnica di seduzione o una strategia mnemonica per conquistare quell’ingenuo insegnante che non conosceva la portata della sua arte. Oppure il mio compagno era maturato nel corso dell’estate? Confesso di non aver mai compreso il motivo di questo radicale mutamento di Giobbi nei confronti di Did. Lo lasciò tranquillo per tutto l’anno, come se non avesse più voluto coinvolgerlo in attività troppo banali e quotidiane. Io continuavo a sentirmi geloso della considerazione che Corelli riservava a Did, e mi scoprivo invidioso dell’ammirazione che anche il nuovo docente mostrava adesso nei suoi confronti. Cosa aveva mai scritto nei suoi temi per guadagnarsi quel trattamento privilegiato? Did si rifiutava di farmeli leggere e questo mi feriva un po’. Rinunciai a indagare sulla questione e accettai la proposta di Did: fare il punto sulla nostra avventura. Riammo insieme il percorso degli esperimenti compiuti fino a quel momento, prima di definire l’attività dell’ultimo anno di liceo. Le applicazioni di carattere umanistico comprendevano l’uso dei potenziali creativi per giochi di memoria, ri-creazioni letterarie, approfondimenti di contenuti linguistici che però ci parevano sterili, poco strategici ai fini di un impiego futuro. Chi mai avrebbe pagato per un’opera letteraria astratta e avulsa dalla realtà? La letteratura era una materia metafisica rispetto al mondo che presto avremmo dovuto affrontare. Ci aspettava l’università e speravamo in una professione capace di garantirci una discreta autonomia economica.
Io spingevo perché Did riconvertisse il know-how relativo ai potenziali creativi, in tecniche per elaborare innovazioni pratiche. Avevo scelto il liceo scientifico, e sentivo la necessità di trasformare le idee in soluzioni a livello tecnologico, industriale. Lui invece sembrava interessato ai fenomeni fisiologici, per dimostrare in qualche modo la possibilità del corpo di utilizzare energie sconosciute, potenziali non più mentali ma fisici ed extra-fisici. Mi affidò l’arduo compito di consultare la letteratura riguardante questi temi di frontiera, variegati e nebulosi, con l’obbligo di districarmi tra questioni tanto affascinanti quanto controverse e soggette a molte ambiguità operative e interpretative. Questa ricerca mi permise di fissare nella mente alcuni punti fermi nel vasto panorama dell’occulto. A ogni studioso di occultismo è noto che l’uomo possiede diversi corpi, o veicoli per mezzo dei quali può manifestarsi su diversi piani esistenti in natura: fisico, astrale, mentale. Secondo il ricercatore esoterico, la materia fisica esiste in sette strati e ordini di densità: solido, liquido, gassoso, eterico, super-eterico, atomico, sub-atomico. Il veicolo biologico, costituito da queste particelle, si divide nettamente in un corpo denso, composto da solidi, liquidi e gas, e in un corpo eterico, o secondo corpo, composto dai quattro strati più sottili di materia fisica. Le dottrine esoteriche occidentali e quelle orientali si influenzavano a vicenda, dimostrando, al di là delle differenze linguistiche e culturali, un antico patrimonio comune di conoscenze e pratiche condivise. Nella dottrina induista, ad esempio, il doppio eterico è il Pranamayakosha, ossia veicolo di Prana (di energia). Secondo questa corrente di pensiero, ogni particella solida, liquida o gassosa del corpo fisico è circondata da un rivestimento eterico, è un perfetto duplicato della forma densa. Il corpo eterico ha due principali funzioni: quella di assorbire il prana o energia vitale e distribuirla in ogni parte del corpo biologico. Serve da intermediario, da ponte di comunicazione tra il soma e il corpo astrale o terzo corpo.
In base a queste concezioni il corpo astrale è “qualcosa” di più strutturato, spesso confuso con lo spirito vero e proprio o la realtà fantasmatica che lo rappresenta. Sarebbe dotato di mente e volontà propria ma non di tessuti percettibili, per cui non può essere ferito né ucciso. Come il corpo eterico, è un doppio e possiede la forma esatta del corpo biochimico, ma può distaccarsene anche in vita essendo composto da sostanze volatili emanate dall’organismo. I testi dell’esoterismo teosofico riferivano che un corpo astrale poteva rivelarsi attraverso brusche variazioni termiche, generando una sensazione di nebbia fredda che aleggiava nell’aria.
Per le dottrine occultistiche, le emozioni, le ioni, le sensazioni, i desideri si esprimono attraverso il veicolo astrale. Esso agisce come ponte tra il cervello fisico e la mente. A sua volta la mente agisce attraverso il corpo mentale, che in genere non è molto sviluppato. Pochi sono gli individui consapevoli della sua esistenza, per cui i suoi movimenti e impulsi sfuggono al controllo consapevole, della coscienza incarnata. Durante il sonno del corpo fisico, una persona comune vive nel suo corpo astrale embrionale un’esistenza sognante e vaga, della quale all’atto del risveglio non conserva quasi il ricordo. Nel caso di un iniziato, la vita nel corpo astrale durante il sonno è attiva, interessante e utile, e in certe condizioni il cervello fisico può conservarne la memoria. Pur ando da un piano di coscienza a un altro, la consapevolezza non si interrompe. Per ricordarsi i sogni e i movimenti sul piano astrale occorre sviluppare un legame eterico tra il corpo astrale e il corpo fisico denso. Così affermavano i sacri testi della teosofia, del buddhismo tantrico, dell’induismo, dello yoga. Tali gerarchie dei corpi o moduli della coscienza, trovavano una corrispondenza nella suddivisione che le scuole esoteriche fornivano dei vari piani di esistenza e quindi di esperienza dell’essere. Il piano materiale, del corpo denso, somatico o biochimico, è quello in cui ci troviamo, e dove si possono sperimentare gli oggetti tangibili. Il piano eterico è quello delle energie, sia elettriche che magnetiche, allo stato
libero. Quello materiale è il regno delle forze strutturate, ma non c’è un ben definito confine tra i due piani, poiché l’interazione, lo scambio di informazioni avviene di continuo. A un livello primitivo l’essere umano non è conscio di queste attività, e nemmeno delle funzioni involontarie del suo corpo. Energia Vitale ed Energia Elettrica allo stato puro si trovano alla soglia del Caos. Più si manifestano, più divengono dense e visibili. Non esiste nulla allo stato puro, né pura Energia Magnetica, né pura Energia Elettrica, ma allo stesso modo non esiste nulla in uno stato completamente materiale solido. Inoltre, la Forza Vitale o prana non segue le regole dell’universo tridimensionale che possiamo misurare con gli strumenti, perché ha leggi sue proprie. Il Piano Astrale invece contiene le matrici di ciò che è manifesto, tangibile, materiale. È il mondo delle cose in formazione. Le energie agenti su questo piano sono di una natura più sottile di quelle dei piani Eterico e Materiale. È il mondo dei desideri e delle emozioni. Le scienze occulte, con le loro ginnastiche astrali cercano di educare l’adepto a proiettare parte del suo campo energetico nell’Astrale, così da poterci viaggiare. È l’inizio del regno che i non addetti ai lavori hanno sempre chiamato magia, attribuendo a essa, nella ingenua versione popolare, un alone di superstizione, mentre invece appartiene a una superiore disciplina dei sensi, della volontà e della percezione. In questo magma di possibilità ancestrali e ultramondane, che ci sembravano così lontane e irraggiungibili, non trovavo l’indicazione che stavo cercando per alcuni esperimenti pratici che ci avrebbero permesso di constatare l’esistenza dell’energia chiamata prana o forza vitale, il primo o per la conquista progressiva di un’evoluzione cosciente dell’anima nella natura. Per la disciplina gnostica non vi era obiettivo più serio e formidabile di questo: praticare forme di ascesi orientate alla creazione di «corpi superiori», ovvero di anime dotate della capacità di esistenza nelle dimensioni più elevate. Ogni corpo superiore, non soggetto alle limitazioni mortali, nasceva da una più
rozza struttura formativa precedente. L’eterico poteva nascere dal corpo fisico; l’astrale dall’eterico; il corpo mentale dall’astrale; il corpo solare, un aggregato di pura materia plasmatica, dal mentale, fino ad arrivare ai corpi di beatitudine sperimentati dai mistici. Secondo i grandi maestri dello spirito, lo scopo della vita era appunto la creazione dei corpi superiori, la costituzione dell’anima che senza disciplina e senza evoluzione interiore sarebbe rimasta una pia consolazione, una potenzialità inespressa, un seme o fiore non sbocciato. Evolvere significava diventare consapevoli di questo processo e imparare a viverlo da protagonisti anziché da succubi, trascinati da forze cieche. L’imperativo era di elevarsi al di sopra delle leggi della natura inferiore e da quel piano riuscire a gestire coscientemente la serie di nascite, trai e trasformazioni. Un utero cosmico conteneva infinite creazioni e covava mondi intersecantesi gli uni negli altri. Questa era l’essenza del messaggio declinato in vari modi e che si incontrava nei testi occulti che noi leggevamo. A Did la forza vitale interessava particolarmente perché richiamava il fluido magnetico di Mesmer. Nel processo di induzione ipnotica e trattamento suggestivo chiamato mesmerizzazione, a questo fluido si riconosceva una funzione essenziale, anche se la sua natura rimaneva ignota. Molti negano l’esistenza di questo élan vital o etere, mai dimostrata, fra l’altro, dalla scienza ufficiale o con mezzi tecnici tradizionali. Tuttavia il Vuoto cosmico e sub-atomico che si è andato popolando di impulsi, particelle, onde e vibrazioni, richiama, nelle moderne concezioni della fisica quantistica, il quinto elemento eterico degli esoteristi e degli alchimisti. L’idea di Did era quella di inviare un esploratore in questo territorio ignoto, ovvero di attivare la psiche di un soggetto ipnotizzato e predisporlo a penetrare nei mondi alieni che venivano descritti dai classici dell’occultismo, prima di affidare noi stessi a una disciplina capace di modificare (alterare?) così la nostra percezione dei fenomeni. Finalmente, in un mercatino di fine settimana a Milano, in una bancarella di libri
usati, trovammo un manuale interessante che avrebbe accelerato il nuovo ciclo di esperimenti. Si intitolava La Ciclomanzia. Si trattava di un libro strano il cui titolo alludeva a una improbabile scienza dei Ciclopi, i quali avrebbero sviluppato poteri di visione straordinari grazie al loro occhio frontale. Conteneva alcune indicazioni pratiche che mi colpirono. L’argomento era quello dell’aura e del corpo energetico. Sapevo che l’iconografia religiosa popolare ne suggeriva l’esistenza, ad esempio attraverso l’aureola luminosa che circondava il capo dei santi raffigurati nei santini e in molte opere artistiche. Il termine aura si riferiva proprio alla sostanza luminescente di questo corpo parallelo, lo stesso che secondo la tradizione mistica rendeva possibile, per esempio, il fenomeno della bilocazione. La ciclomanzia suggeriva una serie di esercizi per sviluppare queste facoltà energetiche e attivare potenzialità preternaturali. L’aura veniva presentata come un prolungamento nebuloso che si irradia e staziona intorno al corpo e che ci accompagna ovunque: “…è invisibile all’occhio non addestrato e muta forma, taglia e colore secondo lo stato della mente e del corpo”. Alla base dei fenomeni spiritici e spirituali vi erano dunque fenomeni fisici: l’aura era un gas o un plasma, ed era composta da acqua, anidride carbonica contenuta nel sudore, calore radiante, raggi infrarossi, radiazioni e onde elettromagnetiche. “Può essere acida o alcalina secondo la particolare fisiologia del corpo e delle onde cerebrali”. L’aura era descritta come una struttura molto sensibile al controllo mentale e psichico, anche se non operava sotto il controllo della mente cosciente.
Quando tentammo di sviluppare le risorse latenti di natura psicofisica indicate dal testo, ci accorgemmo che purtroppo non ne eravamo affatto capaci. Per poter svolgere gli esercizi, che richiedevano capacità di concentrazione e visualizzazione straordinarie e quindi potevano essere eseguiti solo da persone iniziate, occorreva aver già accumulato nel proprio corpo significative quantità di energia pranica per poterla muovere, e dirigere in aree specifiche del proprio
organismo. Come in altre occasioni, provammo la sensazione di trovarci davanti a un muro invalicabile. Ci mancava la conoscenza necessaria per giungere gradualmente da una dimensione percettiva ordinaria a una straordinaria. Uno dei primi esercizi ciclomantici riguardava la possibilità di evocare e percepire il braccio astrale. Il testo recitava letteralmente: “Create una ventosa astrale un po’ più lunga del vostro braccio e ponetela contro il braccio. Restate immobili e lasciate che la ventosa attiri furiosamente a sé l’aria. Immaginatela mentre strappa il braccio astrale dal braccio fisico con la separazione fisioastrale”. Erano abilità che richiedevano, come minimo, una concentrazione eccezionale e una fede che rasentava l’autoipnosi. Did non credeva alla possibilità di attivare queste forze rimanendo in uno stato ordinario, almeno per noi che non avevamo poteri speciali. Però la facoltà immaginativa indispensabile all’esecuzione di queste operazioni magiche, forse era facilmente sviluppabile con la suggestione ipnotica che, annullando ogni controllo limitativo della ragione, avrebbe permesso di evocare nella psiche del soggetto le mappe visuali più straordinarie, come in un sogno. Era possibile ottenere effetti energetici senza un addestramento particolare? L’attivazione di queste potenzialità latenti comportava rischi? “…Benché lo stiramento non faccia soffrire il braccio astrale che non ha nervi,” avvertiva il testo, “la mente cosciente, a causa di una suggestione visiva proverà un terribile dolore, come se venisse torturato il braccio fisico”. Dato che il dolore poteva essere facilmente inibito in un soggetto ipnotizzato, l’idea di Did era di addestrarlo direttamente in stato di trance. Si trattava di verificare se attraverso l’ipnosi era possibile influenzare o gestire non più solo le prestazioni intellettive o le reazioni fisiologiche, ma anche le dimensioni extraorganiche dell’essere umano: il corpo eterico e l’astrale. L’ipotesi era che si potesse plasmare il prana, l’elemento costitutivo dell’aura o dei corpi energetici, mediante il potere plastico della volontà, con la forza della massima concentrazione raggiungibile in stato ipnotico.
Ma come dimostrare l’effettiva esistenza di questa energia sottile? Did era attirato dalla possibilità di agire direttamente sul fluido vitale, che definiva il sangue del corpo eterico. Mi confessò di non aver mai sperimentato doti o sensazioni parapsicologiche, tuttavia formulò l’ipotesi che l’ipnotizzatore forse era un individuo in possesso di una particolare forma di energia fluidica, in grado appunto di mesmerizzare ovvero energizzare i soggetti attraverso l’induzione del sonno ipnotico. Non si trattava tanto di tecniche psicologiche e capacità mentali, quanto di energie specifiche che promanavano dall’operatore. Come avremmo potuto escogitare un esperimento per verificare l’esistenza, anche in forma empirica, di tale fluido? Suggerii a Did di usare la capacità creativa di un soggetto per progettare un esperimento ad hoc. Egli fu molto colpito da questa proposta. Sulle prime non mi diede soddisfazione, ma qualche giorno dopo mi ringraziò per l’idea che gli avevo trasmesso. Ero raggiante. Disse che la mia proposta ci avrebbe permesso di fare un salto di qualità notevole nelle nostre sperimentazioni, perché si trattava di usare la creatività inconscia non per risolvere problemi, ma per progettare esperimenti volti a vagliare un’ipotesi, a dimostrare una tesi. L’ipnosi poteva essere impiegata dunque per progettare esperimenti, elaborare metodologie di indagine! Did mi disse che per questa specifica attività avremmo dovuto definire una nuova categoria di soggetti deputati specificatamente alla invenzione di “sistemi dimostrativi” alla progettazione di test: i Projectors. In definitiva, ci serviva una cavia in grado di elaborare un esperimento con il quale valutare l’esistenza di una realtà peri-corporea, dotata di una consistenza energeticamente rilevabile. Nella frenesia della ricerca non riuscimmo però a reperire un nuovo soggetto per destinarlo al ruolo specifico di Projector. Chiedemmo aiuto al compagno di banco di Did: Lario. Era l’unico elemento superstite e affidabile: pur avendo mantenuto la sua specializzazione originale di Connector, manteneva una flessibilità che gli permetteva di essere impiegato anche in altri ruoli.
Messo al corrente dell’obiettivo della trance, quello di elaborare un metodo per captare l’azione della energia vitale, egli accettò senza problemi. Nel giorno convenuto, alle ore 15.00, Did ottenne la trance immediatamente usando la di Lario. Enunciò l’obiettivo per richiamare l’attenzione della mente inconscia del soggetto: “Ti chiedo di fare appello a tutte le tue risorse intuitive e creative per progettare un esperimento che dimostri l’effetto di questa energia chiamata prana, leggerai alcuni libri che la descrivono, sono questi e tu li approfondirai rapidamente con la massima attenzione e concentrazione, ti documenterai e cercherai di elaborare un modo per verificare la sua reale esistenza con mezzi semplici e a noi accessibili”. L’inconscio di Lario si impegnò a eseguire gli ordini e chiese cinque giorni di tempo per leggere i testi e cercare una soluzione. Tra i libri che gli furono affidati per la lettura e l’assimilazione accelerata delle informazioni utili, fu inserito anche La Ciclomanzia. Cinque giorni dopo l’innesto dell’input elaborativo, Lario fu ipnotizzato per estrarre i frutti della sua attività inconscia. Ci auguravamo che fosse riuscito a elaborare un sistema, diventando così la nostra guida. In trance, ci descrisse esattamente la procedura da attuare. Era straordinariamente semplice. Avremmo dovuto strappare un foglio da un quaderno. Non uno qualsiasi, ma un foglio che era stato molto toccato: “Deve essere un foglio impregnato dalle sostanze prodotte dalla pelle, dai polpastrelli, eventualmente il primo…” Quando Did gli chiese la ragione, Lario rispose: “Alcune sostanze presenti nel sudore e quelle prodotte dalle ghiandole dell’epidermide possono impregnare, a determinate concentrazioni, la pasta di cellulosa con la quale è fatta la carta”. “E allora?” chiese Did. Lario, in trance totale, con voce tranquilla proseguì nella sua sorprendente spiegazione: “Sottoponete il braccio teso e la mano di un soggetto ipnotizzato all’azione della ventosa immaginaria, come descritto nell’esercizio del braccio astrale suggerito dal libro La Ciclomanzia. Se si riesce a visualizzare una
gigantesca ventosa davanti al braccio, sarà davvero possibile attirare fuori dal corpo parte della forza vitale, a questo punto, se si pone il foglio tra la mano tesa del soggetto e la ventosa, il flusso del prana traerà la mano e la carta, la cellulosa impregnata di sostanze fisiologiche agirà come una pellicola organica sensibile al aggio dell’energia…” “Come possiamo verificarlo?” lo pungolò ancora Did. “Appena concluso l’esperimento, scaldate il foglio, apparirà la forma di una mano energetica che ha attraversato la carta, attirata dalla ventosa immaginaria.” “Com’è possibile?” “Per il soggetto ipnotizzato, l’immagine della ventosa che aspira fortemente la sua energia dal braccio, è qualcosa di reale, attirerà la sostanza pranica abbastanza da attraversare il foglio ma questa energia prende la forma del corpo stesso, in questo caso quella della mano costretta a fuoriuscire dal perimetro organico, il foglio impregnato farà il resto, ne svelerà la presenza, poi la mano invisibile rientrerà come l’antenna di una chiocciola che si ritira nel suo guscio dopo aver esplorato lo spazio circostante.” Dalle risposte di Lario ad altrettante domande fu chiaro che era impossibile ottenere subito e facilmente un movimento telecinetico, una reazione a distanza, perché si trattava di energia impalpabile, troppo debole per produrre effetti fisici, anche se poteva sfiorare e avvolgere qualunque cosa. Ci disse anche che non era necessario scegliere un soggetto che condividesse la tesi dell’esistenza dell’energia vitale poiché il prana era una realtà effettiva di ogni essere vivente, che dovrebbe essere percepita naturalmente. Non sapevamo se queste convinzioni derivassero da quel che egli aveva letto o da una conoscenza reale. Non sapevamo nemmeno dove egli avesse trovato l’idea dell’esperimento utilizzando un foglio rivelatore. Se era farina del suo sacco, l’utilizzo del foglio associato alla metodica ciclo-mantica del braccio astrale era una trovata geniale. Avremmo avuto così una prova indiretta non solo dell’esistenza dell’energia, del secondo corpo, ma della possibilità di usare la trance per progettare esperimenti davvero originali. Non restava che provare a vedere se l’esperimento funzionava davvero. Lario aveva ammesso che c’era qualche rischio nell’intraprendere un’operazione
del genere e si era dichiarato indisponibile a fare da cavia nel tentativo di proiettare il braccio astrale. “Non già per paura…” aveva dichiarato ancora in trance… “Ma per poter osservare da sveglio l’esperimento.” Quando si svegliò non ricordava nulla. Did voleva mantenere la promessa fatta in ipnosi di farlo partecipare al test dell’energia in qualità di osservatore esterno. Per questo nuovo esperimento si riproponeva quindi il problema di trovare un altro soggetto-cavia. Gli esibizionisti non erano più interessati quando si dichiarava loro che le esperienze si svolgevano senza pubblico. Gli sfidanti impostavano il rapporto ipnotico sulla competizione con l’operatore e quindi, in genere, facevano perdere tempo. I loro sforzi erano indirizzati verso l’obiettivo di non cadere in trance, per dimostrare agli altri ma soprattutto a se stessi, di possedere una volontà più forte dell’ipnotizzatore. A volte Did era stato costretto ad operare, per necessità, anche su simili soggetti e a raccogliere la loro sfida. Il più delle volte, le loro frasi tipiche (nessuno riuscirà a ipnotizzarmi; perché non provi con me?; vediamo se sono ipnotizzabile, non so se ci riuscirai… non credo proprio!) alzavano una barriera, una difesa, spesso nutrita dalla paura, che non lasciava are nemmeno una lama sottile tra i blocchi del loro massiccio muro di resistenza inconscia. Tuttavia, nonostante la loro rigidità e ostentazione, alcuni mostravano all’atto pratico una ricettività maggiore della norma, specie quando Did faceva credere, fin dalle prime battute, che non sarebbe riuscito a ipnotizzarli. Ottenuto il riconoscimento della loro superiorità e invincibilità psicologica, in genere essi abbassavano le difese. Generalmente con questa tipologia si poteva operare adottando stratagemmi simili, ma la relazione ipnotica avrebbe risentito di questa lotta e richiesto tempi più lunghi per ottenere la trance.
A fine ottobre disperavamo di riuscire a reclutare un soggetto adatto per le esperienze con il corpo energetico, ma esiste evidentemente una provvidenza per tutti, anche per gli ipnotisti, per i temerari corsari della psiche. Lella, dando ancora una volta prova della sua capacità persuasiva, era riuscita a convincere un amico che però non se la sentiva di essere ipnotizzato in un’automobile. Per fortuna il nostro compagno Stefano s’era procurato le chiavi di un capanno per
gli attrezzi dove suo padre si recava raramente. L’incontro fu fissato davanti al prefabbricato che si trovava all’interno di un residence abitato dai funzionari dell’ENEL. Accanto alle case si innalzavano piloni elettrici e torri metalliche che fungevano da centraline ed elettrodotti. Ci trovavamo in un’area che rappresentava il cervello di smistamento dell’energia della città e del comprensorio. Eravamo in mezzo a una selva di svettanti travature d’acciaio e tutto questo contribuiva a rendere l’atmosfera molto elettrica, surriscaldata e artificiale. Io, Lario, Did e Stefano ci trovammo puntualmente alle 15.00. Buttammo in un angolo i libri di matematica e ci sedemmo sulla scaletta d’ingresso del capanno. Carlo, l’amico di Lella, era in ritardo e Did dava segni di irrequietezza. Si stiracchiava nervosamente seduto sopra un piolo della scala, senza dire una parola. Anch’io mi sentivo estraneo in un luogo che sembrava surreale, improvvisamente smarrito e nervoso. Ero perso, stanco di girovagare da un posto all’altro per cogliere da questo o quel soggetto scaraventato in stato alterato di coscienza, chissà quale rivelazione. Finalmente Carlo arrivò di corsa, trafelato. Did si tirò su come un elastico. Stefano aveva già aperto la porta e sistemato la scena dello spettacolo: una vecchia poltrona Frau, con intorno tre sedie, era destinata al soggetto. Did circondò subito Carlo come un corvo volteggiante in rapidi centri concentrici intorno alla sua preda. Esauriti i preliminari, scaricò sul soggetto tutta l’energia che aveva in corpo e lo mandò in trance velocemente. Prese uno spillo dalla scatoletta che si portava sempre in tasca e lo infilò in un punto del braccio di Carlo per testare la sua insensibilità al dolore. Voleva essere sicuro che la trance fosse profonda e che il braccio destro rispondesse perfettamente alle suggestioni. Non uscì una goccia di sangue e non vi fu alcuna reazione visibile. A quel punto Did fece sprofondare Carlo nella realtà visionaria necessaria per compiere l’esercizio ciclomantico di proiezione del braccio astrale. Gli fece
immaginare di avere davanti a sé una grande ventosa che avrebbe risucchiato e attirato fuori dal corpo, la sagoma eterica del suo braccio. Descrisse sommariamente le caratteristiche di questa energia o secondo corpo contenuto nell’organismo fisico comunemente inteso. A questo scopo usò diverse metafore per far immaginare al soggetto la realtà di questa anima interna, con lo scopo di evocarne la presenza, la sua percezione. “È come una perla in una conchiglia… è qualcosa che si muove e scorre in te come un pesce in un lago dal quale non è mai emerso.” Forse ispirato dall’atmosfera del luogo, aggiunse: “È come la corrente di un circuito elettrico… ora devi accendere l’interruttore”. “Cerca di sentire l’energia che scorre nei tuoi nervi, cerca di cogliere la più leggera sfumatura delle forze impalpabili che pulsano nei tuoi muscoli, ossa, nervi, senti la forza invisibile che li sostiene…” A un certo punto Did gli chiese se la percepiva distintamente. Carlo annuì. Non potevamo sapere, naturalmente, se quella ammissione fosse il frutto di una percezione indotta dalla suggestione, dalle aspettative dell’ipnotizzatore o se si trattasse invece di un’esperienza oggettiva. Eravamo lì proprio per cercare di verificarlo. Dopo aver evocato la percezione che avrebbe dovuto accompagnare l’esperimento vero e proprio, Did ò alle suggestioni mirate ad attivare l’immagine della ventosa. La descrisse come una gigantesca turbina con ali rotanti in senso antiorario, una specie di aspiratore potentissimo capace di risucchiare ogni cosa. Man mano che l’immagine dell’aspiratore si stampava nella mente e nell’esperienza del soggetto, il suo arto destro, secondo le istruzioni, iniziò a sollevarsi. Quando fu teso fino allo spasimo, sul volto di Carlo apparve una smorfia di dolore. I peli del braccio si rizzarono all’improvviso. “Resisti, resisti, resisti!” gli gridò Did. Carlo era completamente immerso nell’esperienza della turbina che cercava di
attirare fuori dai limiti corporei del suo braccio destro, l’ipotetica energia vitale custodita al suo interno. Praticata con una modalità così forzata e innaturale, la suggestione provocava una sensazione dolorosa. Did non si preoccupò di lenire subito quel dolore, ma ebbe l’intuizione di are la sua mano tra la ventosa immaginaria e il palmo teso di Carlo, e disse di provare una strana sensazione di “vento elettrico”, di freddo. Io e Stefano ripetemmo il gesto di Did e constatammo una particolare sensazione di aria gelida che a me diede i brividi. Un lampo guizzante di corrente ghiacciata corse lungo la mia schiena. Il sottile vento che si percepiva a pochi centimetri dalla mano di Carlo, sembrava sottrarre calore alla nostra mano. Distogliendomi da quelle sensazioni, Did mi chiese di argli il foglio che aveva strappato da uno dei miei quaderni. Era il primo foglio del quaderno di matematica, sul quale avevo annotato formule e definizioni. Me lo portavo sempre appresso dalla terza liceo. Lo consegnai a Did come se si trattasse di una reliquia, ma ero ben disposto a sacrificarlo per il test. Did lo mise tra la mano destra ancora tesa di Carlo e l’invisibile turbina che stava aspirando a più non posso. Poi mi disse di contare fino a trenta, tenendolo sospeso a mezz’aria con la punta delle dita, quindi mi ordinò di custodirlo in un libro. Dopo aver esposto il foglio impregnato di secrezioni cutanee all’azione della presunta energia vitale estrusa dalla forza visualizzata dal soggetto, Did depotenziò velocemente l’effetto suggestivo. Indusse una graduale diminuzione dell’effetto aspirante, del dolore e il ritorno del braccio destro a un normale stato percettivo. Una volta svegliato, Carlo non ricordava nulla e chiese cosa fosse accaduto. Did rispose in modo generico. Intanto Did si era impadronito del prezioso foglio. Lo sostenne con la mano sinistra, orizzontalmente. Non restava che mettere in atto le ultime indicazioni previste dall’esperimento. Con la mano destra Did estrasse dalla tasca un
accendino e riscaldò lentamente la carta avvicinando prudentemente la fiamma, rosolandola dolcemente. Improvvisamente, appena il fuoco sfiorò senza bruciarli i margini del foglio, una sottile stria marroncina serpeggiò sulla superficie cartacea, disegnando la sagoma di una mano grezza. Sembrava l’impronta della zampa del diavolo e sebbene tutti noi sperassimo nell’esito positivo del test, rimanemmo stupefatti. Nei giorni seguenti provammo a mettere altri fogli impregnati di sudore davanti alle nostre mani e a procedere nello stesso modo, senza ricorrere ad alcuna suggestione ipnotica: niente, non appariva alcun segno sulla carta. Sospettoso, Did provò a replicare il fenomeno anche con l’inchiostro simpatico a base di limone ato su carta di diverso genere, ricalcando la forma della sua mano: i risultati erano del tutto differenti dal campione ottenuto nel corso dell’esperimento. In una seduta successiva, Lario suggerì che le esercitazioni per estroflettere l’energia vitale avrebbero potuto proseguire anche nel sonno, che poteva essere utilizzato non solo per stimolare e orientare la creatività nel corso delle fasi oniriche, ma per operazioni di sviluppo energetico. Non si trattava più di agire a livello mentale, ma a livello di fisiologia occulta. Lario chiamava questi esercizi notturni che poteva eseguire durante il sonno, movimenti astrali. Sosteneva che il sonno e il sogno erano i periodi più adatti per movimentare, in modo non forzato, l’energia vitale. Nel sogno si allentava il controllo del conscio e parte dell’energia veniva messa a disposizione del doppio, che così avrebbe potuto imparare a muoversi per acquisire una maggiore mobilità e autonomia della coscienza. Tutto ruotava intorno all’esigenza della consapevolezza: se la percezione dell’energia era negata a chi non sapeva entrare in contatto con la fonte che risiedeva all’interno del proprio stesso corpo, le peculiari caratteristiche del sogno e del sonno potevano allentare le resistenze ordinarie per favorire un più stretto contatto con le proprie risorse inconsce, le quali non erano solo di natura mentale ma anche percettive, sensoriali, extra-fisiche. Si trattava di replicare l’esperimento della turbina virtuale anche durante il sonno, senza la forzatura adottata nella trance, con modalità più morbide. A poco a poco la pratica onirica dei movimenti coinvolse anche altri soggetti.
Inconsciamente avevamo sempre temuto di compiere quel salto, superare quella barriera Quanto più eravamo consapevoli di correre dei rischi, tanto più Did tradiva la sua inquietudine con comportamenti imprevedibili, irrequieti. Ci sentivamo dei corsari che, dopo le loro scorribande in acque proibite, tornando nel loro rifugio temevano di doversi trovare di fronte, un giorno, un vascello fantasma, un mostro, un Leviatanodestato dal suo sonno millenario. Le rappresentazioni terrifiche con le quali cercavamo di personificare le nostre paure, non erano dei segnali negativi poiché delimitavano il perimetro della nostra consapevolezza, oltre la quale qualcosa ci avvertiva che non era lecito andare. Quanto più ci rendevamo conto della consistenza e della natura imponderabile delle forze evocate, tanto più l’incoscienza che aveva accompagnato le prime esaltanti avventure cedeva il posto a un’istintiva percezione del pericolo. Sentivamo di andare contro qualcosa, ma non sapevamo che cosa. Riflettevo intorno al mito di Prometeo. Con le nostre ricerche tentavamo di scoprire la natura segreta delle cose, e così aumentava il nostro timore di incappare in un point break, un punto di non ritorno, una soglia ultima dalla quale, se anche lo avessimo voluto con tutte le nostre forze, sarebbe stato ben difficile tornare indietro. Mi chiedevo quando gli dèi, che avevano certamente osservato con divertito distacco o curiosità le nostre peripezie, i nostri giochi pericolosi, sarebbero intervenuti. Ci sentivamo nel mirino di qualcosa di sconosciuto. Nel corso delle sedute di routine, Did si faceva descrivere dai pochi soggetti ancora coinvolti, l’evoluzione dei movimenti notturni. Ascoltavamo il racconto dei tentativi del corpo astrale di emergere dal sonno con una autonomia superiore. Durante una trance, Lario affermò che lui e gli altri soggetti affrontavano questi sforzi di proiettare la loro esistenza consapevole in un mondo diverso dal
comune vissuto onirico, guidando in quel percorso anche i nostri corpi energetici. In pratica, essi si erano posti alla guida del gruppo di anime che condividevano le medesime aspirazioni al superamento dei limiti fisici e biologici. Questa condivisione di intenti aveva connesso le nostre strutture energetiche in una medesima struttura, un unico insieme, per cui, come Lario sosteneva… tirare un braccio da una parte, significa muovere anche tutti gli altri. Man mano che quegli strani esercizi effettuati in uno stato onirico proseguivano, cercavamo di capire le leggi di quella dimensione dai contorni così sfumati da sembrare inconcepibile. Com’era possibile che lo sforzo di uno solo tra noi, addestrato a eseguire attività di proiezione astrale, eterica, influenzasse occultamente il doppio, l’intelaiatura energetica degli altri componenti dell’eggregora? Non vi erano libri in grado di illuminarci sul sentiero che Lario aveva proposto di intraprendere, per cui eravamo tutti nelle sue mani e avevamo l’impressione di essere costretti a rimanere nelle retrovie, mentre alcuni dei nostri avanzavano faticosamente in avanscoperta all’interno di un territorio infido e insospettato. Da quando avevamo cominciato a osservare quel che accadeva nel sonno e nel sogno, registrando le sensazioni e i risultati dei movimenti di quella strana ginnastica eterica, l’attività onirica era mutata. Sembrava che qualcosa - dentro il sogno - si fosse accorto di noi, della nostra attività notturna. Noi osservavamo il fenomeno e qualcosa osservava noi. Ci sentivamo scrutati a nostra volta. A un certo punto la situazione precipitò. Un sabato mattina, alla prima lezione di fisica e matematica, Tatus - che aveva partecipato molto attivamente agli esercizi energetici - era decisamente in ansia. Si era avvicinato a Did chiedendogli di essere ipnotizzato al più presto. “Per un problema urgente,” aveva supplicato. Non era mai successo che Tatus pregasse Did di spedirlo subito in trance.
Si dovette attendere la fine della lezione di matematica e poi di latino. Alle 10.30 finalmente arrivò l’intervallo. Dopo il break, invece di presentarci alla prima delle due ore di educazione fisica, come al solito bigiammo. Dedicare le ultime due ore del sabato ai nostri esperimenti, era un’occasione troppo ghiotta per potervi rinunciare. Tatus seguì Did e poco dopo, presentata l’ennesima scusa al professore di ginnastica, li raggiunsi nei pressi del ponticello che congiungeva il piazzale delle Rimembranze al giardino comunale limitrofo al liceo. Did sistemava l’automobile sempre a due i dal ponticello in legno, in un anonimo angolo verde, per assicurarsi un parcheggio sicuro all’ombra degli alberi. Oggi in quello spazio troneggia una statua in pietra che rappresenta una figura umana stilizzata. Una specie di ameba, una sagoma umanoide trafitta da grandi buchi. Mi piace pensare che sia stata messa lì dal destino per celebrare l’evento che rimane tuttora il più pericoloso e misterioso dell’intero ciclo di esperimenti ai quali ho partecipato. Quel giorno fatidico, il 17 novembre 1972, era brutto tempo. Faceva freddo e c’era un gran vento. Did e Tatus occupavano rispettivamente la posizione di guida della FIAT 128 e il sedile a fianco. Io presi posto dietro a Did per meglio osservare le reazioni di Tatus. Did aveva già pronunciato la parola chiave e il nostro compagno stava entrando in trance. Quando aprì gli occhi, girandomi verso di lui notai uno sguardo indecifrabile. Anche il tono della sua voce non era più lo stesso. Disse che i nostri movimenti nel sogno erano stati seguiti da una entità che si chiamava Astro, la quale non gradiva il nostro tentativo di emanciparci dalla comune condizione umana. La comune condizione umana era quella di un corpo soggetto in tutto e per tutto al condizionamento dei sensi. Intraprendere la strada di uno sviluppo del corpo eterico o astrale equivaleva a forgiare un doppio che ci avrebbe consentito di evadere dal mondo abitualmente percepito, per entrare in altri regni di
esperienza. “Astro non vuole che ci si allontani così dal gregge…” dichiarò perentoriamente Tatus con una voce che sembrava provenire dall’oltretomba. Aggiunse perentorio: “Abbiamo solo una possibilità di salvezza…” Pendevamo dalle sue labbra. “Devo fare qui, ora, per tutti noi, un’operazione di distacco, devo andare in un luogo, in uno spazio dove Astro non ci possa raggiungere…” “Come?” chiese Did sempre più stranito e scuro in volto. Era abituato a tutto, ma impreparato ad affrontare un linguaggio che sembrava preso a prestito da un racconto di fantascienza. “In cosa consiste questa operazione?” “Devo scindere, almeno per alcuni istanti, il mio corpo astrale da questo fisico. Se ci riuscirò, guadagnerò l’accesso, anche per voi, in un mondo dove l’energia domina sulla materia.” Sempre più allarmato, Did lo fermò: “Un momento! Perché tutto questo?” Si rendeva conto, e io con lui, che Tatus stava prendendo in mano le redini del gioco. Chi era l’ipnotizzatore, chi l’ipnotizzato? Did cercò di riportare la seduta in un ambito già sperimentato, di riafferrare la situazione: “Fermati oppure svegliati subito, esci dalla trance! Dimentica tutto questo, sono io a gestire la tua realtà e obbedirai ai miei comandi…” Tatus reagì con un sorriso ribelle. Sfidato nel suo potere, Did gli gridò: “Non seguirò le tue istruzioni e tu non andrai da nessuna parte, non si farà nessuna operazione del distacco…” L’ipnotizzato rispose con una sonora risata la cui eco ancora mi scava nella testa. Did si rese conto con terrore crescente, dei suoi inutili tentativi di governare una macchina senza controllo e decise di assecondare temporaneamente la risoluta opposizione di Tatus, almeno per vedere dove sarebbe andato.
Tatus prese quindi i comandi e ordinò a Did di gestire la trance secondo alcune sue precise istruzioni. Disse: “Al mio segnale, quando sarò pronto,dovrai darmi esattamente in sequenza questi ordini: libera il corpo!, libera il cuore!, libera la mente!” “E cosa accadrà?” balbettò Did. “La liberazione del corpo è l’abbandono di ogni forza vitale dal corpo fisico, tu lo vedrai accasciarsi su questo sedile come un corpo morto, non ti spaventare, conta fino a dieci e poi impartiscimi l’altro ordine, libera il cuore! Così il mio cuore cesserà di battere.” Io e Did ci guardammo negli occhi e fummo presi dal panico. Non eravamo pronti a gestire un pazzo che minacciava di morire sotto i nostri occhi durante una trance ipnotica che stava sfociando nella follia. Inchiodati sui sedili di quella macchina ferma, ci sembrava di essere partiti per un viaggio senza ritorno verso una dimensione ignota. Indifferente al nostro galoppante terrore di essere coinvolti in un omicidiosuicidio inspiegabile, Tatus proseguiva a darci istruzioni precise. “Conterai anche qui dieci secondi dal secondo comando e poi mi dirai: libera la mente! In questo modo libererò dal cervello l’energia residua e anche ogni pensiero cesserà. Tutte queste fasi mi permetteranno di tuffarmi pienamente nella dimensione dell’energia.” “A cosa serve questo tuffo?” ebbi la forza di sussurrare, mentre Did era rimasto muto. “A ritornare in questa dimensione con la forza necessaria per affrontare le forze che impediscono il nostro avanzamento e i nostri esercizi notturni di potere.” “Non mi interessano gli esercizi notturni,” urlò Did furiosamente, “cessa subito questo stupido gioco, esci dalla trance! Non mi importa nulla del nostro avanzamento, torniamo umani, anzi prometto che non mi occuperò più di ipnosi e di esperimenti del genere.”
Tatus non lo degnò di alcuna risposta e proseguì imperterrito nelle sue incredibili indicazioni: “Dopo il terzo comando, conterai trenta secondi: mi basteranno per attingere energia alle fonti di riserva che ci appartengono in quella dimensione, ritornerò in possesso del mio corpo terrestre e di tutte le sue funzioni con un nuovo potenziale che potrò condividere con voi…” Riprese fiato e aggiunse, con un tono più rassicurante: “Con in corpo questo nuovo potenziale, Astro non riuscirà a fermarci, nessuno ci potrà più nuocere”. Così noi non saremmo mai più stati come prima dal punto di vista dell’organizzazione interna delle nostre configurazioni energetiche. Tentando un’estrema sortita, Did affrontò Tatus, o meglio la voce che era in lui e gli chiese qual era la sua colpa. Prese su di sé la responsabilità di aver portato la situazione fino a quel punto. Affermò che non era giusto per coloro che osavano sfidare i limiti imposti dalla natura, essere assoggettati a una prova mortale, a un rischio così alto. La voce rispose che il valore della conquista che era in gioco era appunto così elevato, che altri ricercatori, prima di noi, anche in altre forme, ne avevano accettato la sfida. Uscire dal recinto nel quale eravamo stati confinati era sì un pericolo, ma rimanere schiavi o prigionieri in una situazione esistenziale normale era ben più terribile. Una condizione di vita poteva essere sacrificata per aprirsi a un’altra, più libera ed essenziale. Non era possibile conquistare l’accesso ad altre realtà senza superare le paure oscure, senza essere disposti a pagare un alto prezzo. Did si voltò per qualche attimo a osservare il mondo fuori dai finestrini dell’automobile. Seguendone lo sguardo, scorsi l’andirivieni di persone a piedi, in bicicletta e motorizzate che giravano intorno alla piazza. Le riflessioni che fece Did ad alta voce avevano il sapore di una confessione. Parlando a se stesso, a Tatus e a me, disse che s’era sempre sentito un estraneo nel mondo, che paventava un futuro normato da leggi inflessibili nelle quali non si riconosceva. Aggiunse che molti di noi sarebbero diventati probabilmente come i loro genitori
e come loro avrebbero accettato i compromessi dell’età adulta che avevano combattuto in gioventù. Sarebbero rientrati nei ranghi sposando una delle tante ideologie opportunistiche offerte dal grande mercato delle idee preconfezionate. Avrebbero cessato di farsi domande e la loro vita avrebbe ruotato intorno a un nocciolo duro fatto di vuotezza assoluta, come una giostra senza senso, rincuorati dal fatto di aver formato una famiglia e perpetuato la specie. Sarebbero vissuti in quel piccolo mondo familiare di affetti, di piccoli o grandi capitali accumulati nelle banche, protetti dalla maschera della professionalità dietro la quale nascondere la mancanza di pietà, di sensibilità, di slancio e curiosità. Si sarebbero rallegrati per un buon affare, uno scampato pericolo, il successo di un figlio, uno scatto di carriera, o per averla fatta franca - ancora una volta - con il fisco. Avrebbero avuto tensioni e preoccupazioni, non più esistenziali, poi generazionali, culturali, sociali, ma solo di natura economica. Avrebbero pensato di poter migliorare il mondo senza cambiare una virgola di loro stessi, opponendo al nuovo una rigidità ideologica ancora più spaventosa di quella che avevano cercato di combattere da giovani. Sordi al richiamo dei propri obblighi evolutivi di far crescere il corpo che ci è dato, la mente che ci è data, le energie che - al pari dei talenti - vanno investite per essere raffinate e moltiplicate a beneficio di tutti, avrebbero aumentato la dipendenza del loro Sé dalle emozioni, dai capricci delle sensazioni, dalla schiavitù dell’intelletto. Tatus e io ascoltavamo rimanendo in silenzio, in un tempo sospeso. Poi quel gioco pericoloso che non si riusciva ad arrestare, riprese. “Fai attenzione…” ripeté Tatus più volte guardando in faccia Did, spaventato e rassegnato a un tempo. “Trascorsi questi istanti, nel corso dei quali sarò come morto dovrai darmi altri ordini, non abbiamo alternative se mi vuoi aiutare nel fare questa operazione, la tua voce e un controllo esterno mi saranno utili, altrimenti sarò costretto a fare tutto da solo e questo sarà ben più pericoloso.” Al riparo dallo sguardo di Tatus, scrissi su un block notes che mi portavo sempre appresso, un messaggio che mostrai a Did: “Chiediamo aiuto! Portiamolo subito al pronto soccorso! Se questo matto ci muore davvero nella macchina?” Imperturbabile, come se avesse potuto frugare nella nostra mente, Tatus rise di nuovo: “Non correte al pronto soccorso: non servirà a nulla, posso morire per davvero con un atto di volontà, fermando il mio cuore…”
Da allora non ho più provato, così intensamente, la sensazione di essere spiato dentro, come frugato nella testa, nei sentimenti, nell’anima. Poi, rivolto a Did, gli ordinò freddamente: “Se non interverrai come ti dirò, rimarrò per sempre in quel limbo energetico e lascerò definitivamente questo corpo e questa vita, non vi resterà che partecipare al mio funerale”. “Dimmi cosa devo fare,” sospirò Did, vinto alla fine da una forza più potente della sua. “Dopo una pausa di trenta secondi dalla prima serie di ordini, dovrai ripetermi, con lo stesso intervallo di dieci secondi uno dall’altro, questi tre comandi in perfetta successione: recupera il corpo!, recupera il cuore!, recupera la mente! In questo modo il mio spirito rientrerà nel corpo, in questa esatta successione, senza danni, sii preciso, non un secondo di più, non un secondo di meno!” Con un respiro Did sembrò aspirare tutta l’aria greve dell’abitacolo della macchina. Aprì il finestrino, fece entrare una leggera brezza insieme ai rumori delle automobili che transitavano intorno al piazzale e che ci riportarono su questa terra. Per pochi secondi che durarono una eternità ci sembrò di essere sempre stati altrove. Negli istanti successivi cercai di scuotermi dalla paralisi e presi in mano l’orologio con cronometro che portavo al polso. “Io conterò i secondi,” dissi a Did per rincuorare lui e me stesso, ostentando una sicurezza che in realtà non avevo. Facendo appello a tutte le nostre forze, ci preparammo a superare quella prova ineludibile. Tatus insistette: “Dobbiamo farlo!” Più di tutte le altre volte provammo la sensazione che non fosse Tatus a parlare, che fosse un’entità sconosciuta a condurre il gioco. L’espressione mimica era quella di un essere consapevole della gravità della situazione. Ormai Did stava parlando con qualcosa che era dentro Tatus, ma non era Tatus. Non rimaneva che andare fino in fondo e cercare la rinascita in un altro piano d’esistenza.
Al primo ordine Libera il corpo!, Tatus stramazzò sul sedile dell’automobile come un uccello abbattuto in volo da una gragnuola di proiettili. Tuttavia il respiro non si era fermato. Gli tastai il polso e constatai con sollievo che il battito era forte e regolare. Al secondo ordine, impartito esattamente a dieci secondi dal primo, si fermò il respiro. Il polso era assente. Did si buttò ad auscultare il cuore di Tatus che non dava segni di vita. Pizzicato in più punti, non reagiva. Con lo sguardo fisso al mio orologio, non avevo perso il conto dei secondi. Al mio segnale, fu scoccato il terzo ordine: Libera la mente! Tatus sembrava morto del tutto. Il distacco era completato. Did staccò con violenza lo specchietto retrovisore e, avvicinandolo alla bocca di Tatus, verificò se il nostro compagno respirava ancora. Ci sentimmo degli assassini. Ora si doveva eseguire la seconda parte dell’operazione: tentare il rientro nel corpo. Guardai il cronometro e al momento giusto Did gridò con quanta forza aveva in gola: Recupera il corpo! In uno stato che si trovava oltre la morte apparente, Tatus inspirò come un atleta che era stato costretto a rimanere in apnea per troppo tempo. Dopo un altro intervallo, al secondo ordine Recupera il cuore!, la sua schiena si drizzò sulla poltrona dove era rimasto accasciato come un peso morto dall’inizio dell’operazione. Al terzo ordine, aprì finalmente gli occhi. In pochi secondi, senza alcuna istruzione, fu completamente sveglio. Non ricordava nulla.
Lo stesso giorno, dopo pranzo, ricevetti una telefonata di Fiorenzo, un amico con il quale discutevo talvolta di temi esoterici di comune interesse. Dalla mia voce si accorse subito della mia particolare agitazione. “Cosa è successo?” mi chiese. “Hai visto il diavolo?” “Sì,” gli risposi, sorpreso dalla sua intuizione. “Ho visto il diavolo.” Ancora mi tremavano le ginocchia. Avrei voluto incontrarlo per raccontargli l’accaduto, ma un istinto di sopravvivenza sociale mi avvertiva che se avessi ceduto al desiderio di parlarne con una persona che non aveva potuto condividere direttamente esperienze di quel genere, sarei stato giudicato un folle e nella migliore delle ipotesi un esibizionista. Anche Did, per qualche tempo, sprofondato in un silenzio impenetrabile, non mi rivolse più la parola. Tutti gli esperimenti, le sedute e gli incontri furono sospesi. Invece di avvicinarci, la condivisione di quell’esperienza ci aveva allontanati e separati. Nella solitudine, io cercavo di razionalizzare l’accaduto. L’evento era stato del tutto imprevedibile e tuttavia, interrogandomi intimamente, avvertivo che era stato in qualche modo annunciato. Quando l’ipnosi si era trasformata da sperimentazione mentale in ginnastica energetica, avevamo avvertito di aver violato uno spazio proibito, oltreato il confine che fissava i limiti costituzionali dalla natura ordinaria. Anche se il nostro crimine era invisibile, indicibile, mi sentivo parte di una banda di fuorilegge alieni. Nessun insegnante avrebbe potuto darci un voto - di premio o di condanna - per la nostra impresa. Ma la trasgressione che era stata consumata, aveva il sapore di una battaglia: avevamo corso un rischio e (forse) superato la prova. Ci sentivamo meno gravati dal peso di una condizione comune. Le domande che mi tormentavano però erano molte. La prima: chi era o cosa era Astro?
Era un’energia aliena (autoconsapevole?) che aveva effettivamente intercettato i nostri movimenti, i nostri sforzi di superamento, il nostro tentativo di fuoriuscire dal giogo di una natura materiale ordinaria per sviluppare un corpo eterico/astrale nel sogno? Era un essere inorganico che poteva esistere esclusivamente nella sfera onirica, o era piuttosto il frutto della nostra immaginazione che aveva personificato le paure, le attese e messo in atto un formidabile stratagemma per costringerci attraverso una finzione scenica - a trascendere noi stessi? Si trattava di un’entità reale o rappresentava simbolicamente un’esigenza profonda della quale non eravamo consci? Astro era un’entità indipendente dalla nostra psiche? Oppure la psiche era servita da specchio per riflettere e creare questa entità? In definitiva, Astro era un’illusione, un prodotto della psiche stessa? Il nome con il quale la cosa si era presentata, possedeva un significato specifico? Astro rimandava a qualcosa di stellare, siderale, freddo e solare nello stesso tempo. Da quale piano esistenziale proveniva Astro?
Tutte queste domande rimasero senza risposte. Su di noi scese un’ombra densa, una nube oscura che offuscò per tutto il mese di novembre, dicembre e gennaio, la nostra mente e il nostro umore. Un indefinibile senso di colpa per aver violato uno spazio proibito, come inesperti Ulisse, ci seguiva ovunque. Al contrario di Odisseo, però, non ci attendeva nessuna Penelope, non eravamo alla ricerca di nessuna patria, di nessuna Itaca. Eravamo completamente persi nel gran mare dell’ignoranza. Nemmeno Did aveva una mappa del viaggio. Come Ulisse che aveva trascinato i suoi simili in un’avventura fatale, anche Did non avrebbe avuto il diritto di osare tanto mettendo in gioco la pelle degli altri, ma ormai era troppo tardi. Anche se le altre persone non erano consapevoli del rischio che si presentava, avrebbero condiviso il destino che Astro aveva imposto. I compagni di Ulisse erano strumenti nelle sue mani: egli era disposto a
proteggerli, ma non a costo di rinunciare al rischio dell’avventura, alla conoscenza. Mi sentii sacrificato sull’altare delle ambizioni di un Odisseo incosciente che ci aveva portato nell’antro di Polifemo, un ciclope che viveva negli abissi della coscienza. Anche la mitologia cristiana non mi aiutava a capire meglio. Avevamo peccato per aver osato troppo? Se quel che avevamo compiuto era peccato, era il peccato della volontà di conoscere. Per sollevarmi dal mio evidente stato di prostrazione, Did mi ripeteva che il peccato consisteva invece nel rinunciare al sapere. Lui dichiarava di esser disposto a sacrificare la sua felicità pur di raggiungere la conoscenza. Vi è una conoscenza che nasce dalla volontà di potenza, ma anche una che nasce dall’amore per la canoscenza stessa, indicata da Dante. Non sapevo quale tra queste due forze avrebbe vinto in noi. Oggi penso che non si può rinunciare alla conoscenza per paura delle conseguenze di un suo uso improprio, o per un senso di colpa che l’esercizio del potere derivato dal sapere può comportare. A poco a poco, Did riuscì ad aprirsi di nuovo al confronto. Secondo lui, quel che avevamo vissuto non era spiegabile considerando solo tecniche o meccanismi psichici. Qualcosa, fosse anche stata una parte di noi stessi, aveva osservato quello che avevamo compiuto e non ci aveva ostacolato, anzi ci aveva obbligato a superare un guado, a portare alle estreme conseguenze un percorso diventato ormai irreversibile. Did, per il quale la questione non si poneva a livello pragmatico, ma a livello ontologico, riteneva necessario dialogare con quella Forza. Si trattasse di un’entità transumana, oppure di un impulso che si era individualizzato, personalizzato. Occorreva confrontarsi con quelle resistenze per riuscire a trovare un accordo sul loro stesso piano, forse metafisico, dove gli archetipi
costituivano realtà viventi. Se Astro era un simbolo, occorreva rispondere e placarlo, soddisfarlo, con altri simboli. Anch’io continuavo a pormi questioni. L’operazione della quale eravamo stati protagonisti, era irreversibile? Era una fantasia dell’inconscio o un evento oggettivo? Si era verificata un’effettiva scissione tra i nostri corpi energetici che acquisivano così un’irreale autonomia e mobilità inter-dimensionale, rinforzando il loro processo evolutivo di individualizzazione, oppure la battaglia invisibile era da considerare solo un rito di aggio, un’esperienza priva di conseguenze? E se il fenomeno fosse stato sia simbolico che reale? Se si accedeva a determinate dimensioni esistenziali, era inevitabile incontrare sulla propria strada delle barriere naturali, dei guardiani della soglia? Did giunse a ipotizzare l’esistenza di esseri dotati di pura autocoscienza, esistenti in un piano immateriale, ma capaci di nutrirsi delle energie generate dalla consapevolezza umana: “Quando si sale sulla scala che porta verso la conquista di superiori stati d’essere, si incontrano piani esistenziali il cui accesso è precluso alla coscienza ordinaria”. La mia visione mi portava a pensare piuttosto che in definitiva tutto dipendeva dai nostri atteggiamenti. Non c’era nessuna entità, nessuno ci aveva osservati al di fuori di noi stessi; non si trattava di un superamento imposto da forze aliene ma di un processo di auto-superamento. E tuttavia mi chiedevo: qual è la radice, nella nostra psiche, di questa volontà di superamento? Da dove nasce questa “necessità”? La volontà di potenza viene a volte confusa con la volontà di conoscenza, e viceversa. Appartenevamo a una società che vedeva nella libera ricerca un pericolo gravissimo. Scuola, religione e famiglia identificavano nell’assenza di dogmi e di certezze, la causa di comportamenti libertini e relativismi antisociali. La scuola pubblica celebrava gli scopritori e i pensatori del ato ma poi costringeva a pensare alla vecchia maniera e a non uscire dal seminato. Noi invece ci sentivamo cittadini di un mondo nel quale lo spirito e la
corrispondente forma mentis non erano crocefissi dalla paura della scoperta. La volontà di potenza coincideva con la volontà di conoscenza. Nessuna delle due era da condannare.
A febbraio, io e Did trovammo in Lario - che, pur non avendo assistito direttamente alla operazione del distacco, sentivamo accomunato al nostro destino - un attento ascoltatore. Conducemmo una piccola indagine dalla quale risultò che i compagni coinvolti negli esercizi energetici durante il sonno, non avevano percepito nulla di strano dopo la straordinaria seduta di quel fatidico 17 novembre. Se i nostri corpi energetici avevano raggiunto una maggiore autonomia, non ci pareva che questa conquista si rivelasse nella vita quotidiana. Lario si offrì di essere ipnotizzato per fare da esploratore e andare a vedere cosa era successo. Did non voleva nemmeno pensarci, ma Lario gli ricordò che era grazie a lui che aveva ottenuto il foglio con impressa la mano astrale. Dopo due settimane Did cedette. Anche in quest’occasione ci trovammo a operare in automobile. Avevamo il cuore in gola. Lario entrò subito in ipnosi. Si raggomitolò su se stesso accovacciandosi sul sedile e assunse una posizione fetale, come se volesse proteggersi e prepararsi simbolicamente a una seconda nascita. In piena trance, esclamò: “Ora vattene… Astro maledetto!” Did, paralizzato, lasciò l’iniziativa al soggetto che dopo alcuni minuti riprese la posizione seduta e si svegliò da solo. Lario aveva mimato una rinascita che da sveglio non ricordava. Forse Astro era davvero una creazione dell’inconscio, una modalità con la quale la psiche, toccata nella sua formidabile sensibilità, parlava alla nostra coscienza. Non esistevano entità al di fuori di quelle che potevamo creare e immaginare. Non vi erano alieni: eravamo soli davanti all’infinito, naufraghi nel tempo e nello spazio.
Dopo l’incredibile esibizione di Lario che lottava con Astro per rinascere a nuova vita, l’ipnosi esaurì la sua carica attrattiva. Non ci sembrò più un metodo adatto per esplorare nuove dimensioni. Si era rivelato troppo rischioso da gestire e difficile da interpretare. Esistevano alternative? Un’eventuale iniziazione avrebbe potuto consolidare la percezione cosciente dell’energia, senza ricorrere in alcun modo a strumenti suggestivi? L’ipnosi permetteva l’emergere di questa possibilità senza are attraverso un percorso di sviluppo consapevole. Le potenzialità si manifestavano, ma il soggetto le subiva. C’era una disciplina attraverso la quale era possibile arrivare a una loro utilizzazione cosciente? Mentre la fine dell’anno si avvicinava a i da gigante, cercavamo di riconsiderare i fatti. In uno degli incontri più lucidi di quel periodo, io, Did e Lario ridefinimmo i punti essenziali che avevano caratterizzato l’evento sconvolgente che avevamo vissuto:
Astro si era presentato nel momento in cui avevamo cercato di superare dei limiti di natura energetica; alcune azioni invisibili venivano percepite come proibite; gli esercizi della riviviscenza mnemonica e di sviluppo creativo, precedenti ai movimenti del corpo astrale nel sogno, appartenevano a una categoria diversa rispetto a quella di natura onirico-energetica che avevano evocato la presenza di Astro; l’apparizione di Astro non era causata da un accumulo di esperienze pregresse, ma dal fatto che avevamo iniziato a lavorare sulla sostanza eterica/astrale del nostro essere; quel che sembrava proibito non era giocare con i poteri della mente; perfino l’evocazione dei ricordi di eventuali vite precedenti non era stata così pericolosa; era invece rischioso il tentativo di staccarsi dalla lenta e oscura gravità e inanità
collettiva per volare più alto, acquisendo una individualizzazione che separava in qualche modo dalla massa.
A causa della nostra curiosità e della incosciente spregiudicatezza di Did, sembravamo agnellini temerari che avevano superato il recinto di protezione dietro il quale avevano vissuto sicuri in un mondo di conoscenze limitate, di ferree abitudine acquisite. Mi immaginavo per davvero l’esistenza di un Guardiano che si era accorto dei nostri tentativi di fuga dall’oscuro inconscio collettivo e ci aveva quindi scagliato contro il suo cane pastore. Avevamo temuto di essere sbranati o di essere ricacciati indietro. Invece eravamo stati costretti a fare un salto, a operare un superamento, a giocare - in quel punto di non ritorno - il tutto per tutto per separare noi stessi dal conformismo massificante, rinascendo come entità autonome. Una forma di rinascita invisibile, con un corpo intangibile che ancora non sapevamo se, come e dove avrebbe potuto esistere.
Il liceo non era ancora finito, ma già sentivamo l’esigenza di archiviarlo, di condensare il succo della nostra esperienza scolastica. Pensavamo di aver trovato delle risposte almeno ad alcune delle domande cruciali che ci assillavano. Si poteva accettare il confronto con il mondo senza dipenderne? Sì, ci pareva un’ipotesi plausibile, anche se dovevamo riuscire a sovvertire noi stessi prima di pensare di poter sovvertire il mondo. C’era poi la questione dei talenti. L’insegnamento della parabola evangelica che invita allo sviluppo dei propri carismi intesi come doni da mettere a frutto, anche per gli altri, veniva proposto o disatteso dalla scuola pubblica? La maggioranza dei professori erano dei mummificatori certificati dei cervelli altrui. I docenti più capaci che avevano dimostrato un po’ più di vitalità, erano
considerati falliti dal sistema.In generale, erano anch’essi vittime della scuola, perché riuscivano a vedere solo i singoli mattoni delle loro materie separate, non il castello nel suo insieme. Come si poteva capire, senza studiarne la personalità, il pensiero di un autore, di un pensatore, dei quali si pretendeva di trasmettere l’insegnamento? Così si doveva studiare il pensiero, le opere e le gesta di Napoleone, Cavour, Aristotele, Manzoni, Cesare, Talete, Volta, Dante, Voltaire, senza sapere nulla della loro personalità. Per ricercare ciò che avevano veramente detto i Grandi, Did aveva dato fondo ai suoi risparmi per comprarsi un’intera collana di volumi che si intitolava appunto Cosa ha veramente detto… Aveva cominciato da Cosa ha veramente detto Maometto, era arrivato via via a Cosa ha veramente detto Einstein, Cosa ha veramente detto Buddha, eccetera. Si stagliavano nel nostro archivio ideale le figure degli insegnanti che più di altri avevano inciso sul nostro modo di essere e di pensare. Avevamo definito alcuni archetipi e spiriti guida, destinati fatalmente a diventare icone del nostro immaginario. Alcune di queste icone erano vive, immagini parlanti. Le ammiravamo ed eravamo gelosi soprattutto della loro capacità culturale di leggere la storia e i fenomeni sociali, della loro autonomia di comportamento. Dal professor Maiorino avevamo imparato la dignità intellettuale. Non era il filosofo macerato e sofferente. Dotato di uno stoicismo aristocratico che nelle avversità gli permetteva di non perdere se stesso nella babele ideologica, incarnava l’esempio di un epicureo contemporaneo. Corelli era il propugnatore di una profonda sensibilità sociale, di una ione per l’indagine scientifica, per la ricerca della verità nella concretezza dell’azione, in grado di affrontare il confronto tra la scienza e la fede, la responsabilità civile e la consapevolezza politica. Ci aveva messo in guardia dal pericolo di vivere nel principio del piacere, invitandoci a fare i conti con il principio di realtà. Giobbi rappresentava l’inquietudine giovanile che cercava di conciliare la ratio, la logica dell’introspezione con i temi e le correnti culturali che emergevano dalla letteratura, da una visione anche psicologica della storia, dell’arte e dei comportamenti sociali. La Martisoli testimoniava la coerenza religiosa ed etica, il coraggio delle proprie convinzioni pedagogiche ed esistenziali. Gli insegnanti delle materie
umanistiche finirono perciò con l’incidere inevitabilmente sulle nostre scelte e ambizioni future. Sullo sfondo rimanevano i docenti delle materie scientifiche che, modelli insignificanti e archetipi sbiaditi, non ci avevano trasmesso il pathos, la ione per la materia che insegnavano. Provavamo più ione scientifica nello studio delle materie umanistiche. Discutendo del nostro futuro, un giorno confidai a Did che pensavo, dopo il liceo, di iscrivermi alla facoltà di Filosofia. Non reagì subito, ma poi mi incalzò con una serie di domande antipatiche: “La ricerca della verità è un esclusivo appannaggio dei filosofi di professione?” “Il linguaggio della scienza, della filosofia, della religione, è in grado di tradurre la verità, ammesso che esista? Sono indispensabili questi linguaggi per comprenderla, per avvicinarvisi, per rappresentarla ed esprimerla?” “Occorre essere laureati in Filosofia per farsi domande capaci di ampliare gli orizzonti dell’esperienza?” “Perché dunque iscriversi a Filosofia? Se hai già imparato a farti domande, a che ti serve ormai? A meno che tu non sia a caccia della ricerca filosofica, della verità, ma del mestiere di filosofo, di un lavoro, di un’attività basata sull’insegnamento…” Voleva mettermi in guardia contro il rischio di una vita spesa solo a pensare. Sosteneva che il fascino dell’avventura intellettuale è rischioso, perché spesso è superiore a quello dell’esperienza reale in quanto lascia inalterate le proprie abitudini psicofisiche. Anche lui ne era tentato. Non resisteva alla tentazione di rileggere i miei appunti di filosofia trascritti dalle lezioni di Corelli e che adombravano il pensiero di Emauele Severino. “Davvero forte, questo Severino!” esclamai durante un intervallo. “Vende della roba molto buona…” aggiunsi con un gergo da consumatore di spinelli. Did ruppe senza riguardi l’incantesimo cercando di minare la mia ammirazione:
“Sì, però non basta…” “Perché non basta?” “Non sono un filosofo, può darsi che spari cazzate, però…” “Però cosa?” insistetti. Come sempre, ero curioso di conoscere la sua opinione e mi sforzai di placare la collera che mi prendeva quando Did se la tirava e faceva il prezioso, tenendo per sé il suo pensiero che però mi interessava moltissimo. Percepì la mia incazzatura e mi concesse una spiegazione. “Il pensiero di Severino si ferma a quel Voi siete dèi… okay, benissimo, e allora? Se credo di essere immortale, cosa cambia per me che vivo su questa terra, incarnato in questo corpo? Se intimamente sono Dio, se in qualità di essere umano possiedo in potenza qualcosa di divino, come posso diventarlo? Perché invece siamo soggetti alla morte, all’ignoranza e il mondo è un luogo tragico? Potrei accontentarmi di credere che siamo eterni almeno in essenza, va bene, ma se ci credo nasce un’altra fede… e io non voglio credere, invece vorrei vedere se esistono strumenti per provare, sperimentare questa verità nella materia vivente. Severino si ferma sulla soglia di questa affermazione senza sapere cosa fare per realizzare questo imperativo, si ferma lì senza un indizio, una formula per renderlo operativo…” “Perché si ferma?” lo tentai. “Perché ciò che chiamiamo filosofia è confinato nel perimetro della ricerca filosofica dell’Occidente…” “Cosa?” esclamai smarrito. “Quel Voi siete dèi è più orientale che occidentale. Le risposte non le fornisce il pensiero greco, il pensiero occidentale, almeno quello divulgato ufficialmente come tale… Severino intuisce la verità del Voi siete dèi, ma si ferma all’anticamera della conoscenza, si ferma prima di entrare nella sala del banchetto. Questo è molto frustrante. Come afferma Nietzsche è difficile credersi un dio quando il tuo stomaco ti dice che hai fame. Aspiri a realizzare la tua natura immortale, cerchi, cerchi e poi rimani fuori dalla sala del regno, il nettare
degli dèi non ti è concesso e muori prima di poterne solo aspirare il profumo. Non è stato abbastanza severo con se stesso; è stato, appunto, solo Severino. Sì, è un grande filosofo e pensatore, ha coraggio, ha pagato per le sue idee, ma non basta essere martiri per avere ragione. Lui ha evidenziato le crepe, le contraddizioni del pensiero cristiano, cattolico, e la deriva della filosofia occidentale, ma non ha indicato alternative pratiche, possibili vie d’uscita da questa ime, non ha mostrato una via alternativa, non ha sviluppato una riflessione a partire da quel Voi siete dèi. Si è fermato lì. Sarebbe bastato approfondire un poco la filosofia indiana senza preconcetti hegeliani. Severino è rimasto impigliato nella rete del pensiero occidentale nel quale continuano a dibattersi i filosofi di casa nostra. Un po’ troppo provinciali per spiccare il salto oltre i confini della cultura eurocentrica, si comportano ancora come se il pensiero europeo fosse il nucleo del pensiero filosofico planetario.” “Sparo cazzate?” mi chiese Did a bruciapelo, quando il mio sguardo un po’ stranito da affermazioni senza dubbio pretenziose, incrociò il suo che già rideva del mio spaesamento. “Non lo so…” fui costretto a confessare. “Non lo so nemmeno io,” ammise ridendo a sua volta. Allora, confesso, non capii. In questi quarant’anni, non avendo mai smesso di pensare annaspando alla ricerca della verità, ammetto però che le parole di Did mi suonano più chiare anche se non del tutto. Lo stesso Corelli, il nostro professore, ci aveva parlato del pensiero di Hegel, ma Did aveva messo il dito sulla piaga. Hegel aveva coniato alcune formule ancora insuperate per lo studio della storia, escludendo tuttavia la filosofia indiana e quella cinese dai capitoli principali del suo pensiero. Il grande Hegel considerava le conquiste raggiunte da quelle civiltà - a quel tempo quasi sconosciute - come una sorta di preludio allo svelamento della storia reale. Il pensiero occidentale è così diventato l’angelo custode del pensiero giusto, critico, senza pregiudizi. La filosofia occidentale ha conquistato questa posizione attraverso leali contatti con il pensiero scientifico e sostiene il modello scientifico e tecnologico, anche se questo può portare alla distruzione di valori essenziali. I pensatori del diciannovesimo secolo non attribuivano pari dignità alla filosofia
indiana rispetto alle altre, perché si sentivano responsabili della verità della scienza moderna. Ecco perché in Occidente, ancora oggi, lo yoga non viene considerato come una filosofia integrata che unisce mente e corpo, materia e spirito, scienza-esperienza e tecnica-coscienza, ma viene contrabbandata nella migliore delle ipotesi quale ginnastica salutista, molto utile per rimanere snelli e in forma. Oppure questa antica disciplina viene creduta il prodotto di uno sterile e ancestrale misticismo superato dalla visione scientifico-tecnologica, poco più di una filosofia esotica e suggestiva ma in fondo rinunciataria: l’anticamera di un atteggiamento che giustifica l’evasione dai compiti mondani e dalle responsabilità sociali. I suoi detrattori confondono ancora oggi l’esoterico con l’esotico e così le verità pratiche dell’occultismo rimangono perfettamente velate e incredibili. Did sosteneva che nel programma di Storia della Filosofia si sarebbe dovuto includere lo studio della Baghavad Gita-Il Canto del Beato, il testo sacro dell’induismo che narra le gesta di Krisna. ammo alcune settimane a meditare su quelle pagine. Invece di prepararci ai prossimi esami di maturità sciupavamo i pomeriggi a filosofeggiare, fino a che un giorno Did non mi diede un aut-aut: “Adesso basta pensare, è ora di sperimentare veramente…” “Non ti piace più la filosofia?” provai a saggiarlo. La risposta fu perentoria: “La filosofia occidentale rappresenta la mente intellettuale che pensa di risolvere tutto da sola in astratto e rinuncia alla verità dell’esperienza, soprattutto all’esperienza fisica, corporea, biologica…” “Cosa intendi dire?” “Se leggi bene Il Canto del Beato, ti accorgerai che, tra le righe, Krisna fornisce delle indicazioni pratiche per raggiungere il divino in se stessi…” “Come?” “Insegna delle tecniche respiratorie, anche noi, come il suo scudiero Arjuna dovremmo fare lo stesso, pensare meno e praticare di più, interrogare la materia vivente della quale siamo costituiti, fare esperienza di potenzialità latenti…”
“Tu credi nell’induismo, nello yoga?” “Non ho fede nella fede, non credo in un libro, ma esploro tutto, verifico se con il pranayama succede qualcosa, se si avverte questo diavolo di forza che lo yoga chiama Kundalini!” Gli chiesi allora cosa significava pranayama e Kundalini, ma mi rispose seccato di cercarne da solo il significato. “Ascolta…” mi annunciò finalmente qualche giorno dopo, a seguito delle mie petulanti lagnanze. “Puoi are tutta la vita a pensare e a ignorare il tuo stesso corpo come fonte di informazione e di esplorazione, non puoi far evolvere la mente lasciando fuori il mondo fisico, separando il pensiero dalla percezione, lo spirito dalla materia. Grazie all’ipnosi sei stato testimone di fatti portentosi, li hai annotati sui tuoi stramaledetti quaderni, molto bene, potrai forse farli conoscere, diventare uno scrittore, un abile scribacchino da salotto, oppure puoi tuffarti nell’esperienza…” Ero ammutolito dalla violenza con la quale mi stava attaccando. Poi mi lanciò l’ennesima sfida: “Se non vuoi lottare contro i mulini a vento o farti le seghe mentali, prova a mettere in pratica questo libro, se ne hai il coraggio…” Su un foglietto scrisse nervosamente il titolo di un libro e il nome di un autore. Avevo già letto tutti i libri di Yogi Ramacharaka che Did si portava in classe dopo aver saccheggiato la biblioteca comunale di tutti i testi di yoga dei quali era fornita, ma in quei libri francamente non avevo trovato nulla di rivoluzionario, a parte le tecniche per governare la mente. Adesso me ne proponeva un altro. Disse che non lo portava in classe per paura che gli venisse rubato. Un’eventualità talmente remota che non gli credetti. Pensai invece che doveva esserne così geloso da non riuscire a condividerlo con nessuno, nemmeno con me. Mi accontentai dei riferimenti che mi aveva concesso. Lo ordinai il giorno stesso.
Era Yoga di Ernest Wood, pubblicato dall’editore Sansoni. I contenuti di quel libro, in particolare il capitolo “Il viaggio del potere latente” attirarono la mia attenzione. Lo lessi più volte, incantato. Lo ritengo ancora oggi uno dei migliori testi di divulgazione dello yoga. Leggendolo, mi sembrò di capire il motivo per il quale Did me lo aveva proposto. C’erano i sistemi per rendere la nostra ricerca finalmente autonoma, per sperimentare la coscienza dell’energia, superando quei limiti che solo con l’ipnosi eravamo riusciti a trascendere. La rivelazione era contenuta nella descrizione delle pratiche chiamate laya-yoga, dove si affermava che: “…nell’essere umano, alla base della spina dorsale, risiede una forza latente chiamata Kundalini”. La parola Kundalini significa “avvolta a spirale”. Nella letteratura yoga la forza è anche una devi o dea, considerata la madre di tutti gli dèi, rappresentante del divino all’interno del corpo, della materia organica costitutiva dell’essere umano. Gli yogi o adepti preferiscono in genere chiamare questo potere che vitalizza tutti i centri dea piuttosto che dio in quanto credono che il lato materiale sia femminile, come la natura, e quindi ricettivo, e che il lato mentale che contiene il seme dell’idea, l’intelletto, sia mascolino. L’uomo procura il seme alla donna, che ne ha cura, lo sviluppa, produce un bambino. Questo principio divino femminile viene chiamato shakti: il potere o capacità. Questo potere-madre nel corpo, generalmente assopito per quanto riguarda il suo carattere più elevato, deve essere sollevato o destato se si vuole conoscerlo, percepirlo: allora risalirà la colonna vertebrale in un viaggio progressivo fino all’altra sua estremità, il cervello, inondandolo di luce e amrita. Termine, quest’ultimo, che indica il nettare o ambrosia degli dèi, un concetto presente anche nella cultura e letteratura classica occidentale. Si tratta quindi di una energia potenziale avvolta a spirale, sgorgante dall’interno.
Secondo Ernest Wood il risveglio di Kundalini apporta una intuizione e una visione al di là del semplice pensiero, del macchinoso e raziocinante lavorio dell’intelletto. Nel capitolo dedicato al risveglio del potere latente, veniva illustrato in sintesi il sapere accumulato dagli yogi nel corso di pratiche millenarie, per attivare Kundalini secondo una fisiologia che unificava il funzionamento della mente con quello delle sensazioni, attraverso centri e canali energetici ignorati dalla biologia ufficiale. Pur senza conoscere la struttura energetica della Kundalini, in molti altri autori e testi avevo trovato l’ipotesi che nel rapporto mente-cervello o mente-corpo, doveva pur esistere un agente intermedio nascosto che la scienza non era ancora stata in grado di individuare. Qualcosa che non riusciamo a vedere o spiegare ma che sarebbe la causa del mistero della vita organica. Ciò che gli scienziati e gli esperti del cervello non avevano scoperto doveva essere un principio tanto sottile da richiedere per la sua rivelazione degli strumenti molto sofisticati. Ora, il nostro obiettivo non era quello di dimostrarne l’esistenza: non eravamo scienziati e certamente non possedevamo gli strumenti ipersensibili che la tecnologia probabilmente doveva ancora inventare. Eravamo tuttavia motivati a praticare gli esercizi indicati dalla disciplina yoga per farne diretta esperienza nel nostro corpo. In questo testo era meglio evidenziato, rispetto alle letture precedenti, il carattere di novità dello yoga soprattutto nella concezione del termine energia. Nella letteratura freudiana questo termine lo si trova associato al concetto di libido. Nello yoga invece è inteso in senso prettamente fisico, anche se questa fisicità implica una trasformazione della coscienza. Avevamo cercato di approfondire la questione setacciando informazioni da più fonti. Per alcuni pensatori, come Joseph Campbell, l’energia psichica era qualcosa di reale, quindi una concezione molto vicina allo yoga. Ma i padri della psicologia e quasi tutti i divulgatori, a parte alcuni pensatori rimasti nell’ombra, si fermavano a un punto cruciale. Il territorio dello yoga iniziava là dove si arrestava quello della moderna psicologia che aveva costruito
un’immensa struttura teorica senza prima accertarsi in che modo la mente agisca sul corpo e viceversa. La spiegazione offerta dallo stesso Campbell aveva cercato di far luce sull’antica concezione di Kundalini fondendo la tradizione con il linguaggio psicologico e interpretando i simboli dei primi quattro centri di energia o Chakra con le opinioni espresse da Freud, Adler e Jung. Ma questi avevano dissertato sul fenomeno con abili speculazioni intellettuali senza viverlo in prima persona, cadendo in errori grossolani come l’affermazione che l’energia spirituale era meno intensa al centro basale. Invece per gli adepti era proprio lì, al “centro della radice”, in corrispondenza del glomo coccigeo del Luschka, o “ghiandola del caduceo” che essa si trovava, seppure immanifesta, al suo massimo grado di intensità potenziale. Infatti quello che gli antichi yogi intendevano quando rappresentavano in quei simboli i vari Chakra, non era la grammatica di un linguaggio onirico, simbolico, astratto, ma le rappresentazioni di un mutamento energetico ovvero gli schemi, i circuiti del prana, il cambiamento delle connessioni e del funzionamento dell’energia base che legava le attività della mente, della coscienza, al corpo e viceversa, mano a mano che la Kundalini - il Caduceo della tradizione esoterica occidentale - si sprigionava dall’osso sacro e saliva lungo la colonna. In Occidente però, non solo la Kundalini ma il concetto stesso di prana non era riconosciuto perché la misurazione scientifica dei fenomeni valeva più dell’esperienza soggettiva. Il pensiero hegeliano e filosofico dell’Occidente aveva fatto della scienza la nuova fede, per cui esisteva solo la verità dimostrabile dagli strumenti, pur limitati, costruiti dall’uomo. Nel nostro liceo scientifico quindi, anche questo nuovo indirizzo di ricerca non aveva diritto di cittadinanza. La filosofia e la scienza erano alleate per affermare la stessa cosa: il primato del fenomeno rispetto all’osservatore, anche se la fisica moderna aveva indicato attraverso il “principio di indeterminazione” una verità inconfutabile, ovvero che “un fenomeno fisico cambia in presenza dell’osservatore”. Era la coscienza, la qualità della percezione a cambiare il fenomeno, a definire il mondo, il percepito. Non viceversa. Gli esperimenti andavano fatti non su materia inerte, artefatti di materiale biologico o piccoli animali, ma sulla carne viva e sensibile dello sperimentatore stesso.
La nostra cara scienza occidentale ci condannava a negare totalmente una simile realtà, e a ignorare tutta la sperimentazione svolta nelle epoche ate. Definiva come scienza solo se stessa, e questo era il primo atto di fede. Ma era sbagliato pensare che l’empirismo fosse iniziato con la scienza moderna. Il sapere tratto da queste antiche discipline era il distillato di secoli di sperimentazioni, di uno studio empirico e di una investigazione formidabile. Era stato pagato un prezzo molto alto, in termini di vite umane, nei pericolosi esperimenti affrontati per far progredire la scienza dello yoga, per raggiungere una coscienza più ampia alterando i circuiti del prana, dell’energia e quindi la struttura sensoriale che ci fa percepire il mondo quale esso ci appare. Ora tornavano a essere prioritarie l’ascesi personale e l’evoluzione interiore, rispetto agli sforzi di cambiare la società, perché in quest’ottica tutti gli ordini politici e sociali non erano che il riflesso dell’attività mentale e del livello coscienziale di chi li aveva elaborati, adottati e… votati.
Il pensiero orientale aveva capito molto tempo prima della fisica contemporanea che la presunta oggettività del mondo dipendeva dall’osservatore, dalla percezione soggettiva. A lezione si imparavano delle formule - come le espressioni matematiche - che non rappresentavano la realtà, ma un’astrazione. Le formule non potevano sostituire la conoscenza derivata dall’esperienza diretta delle forze della natura. Nello yoga invece quello che contava era una ricerca nel corpo. Lo yoga non si accontentava di razionalizzare o di credere. Non era analisi o fede, era azione. Questo ce lo rendeva oltremodo affascinante, perciò ci tuffammo nella nuova avventura senza riserve. La chiave di queste nuove porte della percezione, che molti nostri compagni cercavano nella droga e nella musica di complessi che avevano fatto della esperienza psichedelica il loro credo, come I Doors, era la respirazione. Per sentire l’energia occorreva disciplinare il respiro e diventare consapevoli dell’aria e dell’energia misteriosa in essa contenuta: l’intangibile e imprendibile prana.
Sulla scorta del libro di Wood che descriveva il pranayama, ovvero le tecniche respiratorie da adottare per destare la percezione dell’energia vitale e attivare il risveglio della Kundalini, iniziai anch’io a praticare lo yoga. Poiché Did aveva iniziato prima di me, speravo di ricevere da lui qualche dritta. Per settimane continuai a tormentarlo: “Senti qualcosa?” “No, però continuo…” rispondeva seccato a ogni assalto della mia curiosa impazienza.
VIII
La scintilla della dea - Alla fine, tutto è perfetto
I banchi non erano cresciuti con noi, non erano cambiati insieme ai nostri pensieri, alle nostre anime. Nella seconda metà del quinto anno, affetti da rachitismo psicofisico, seduti nei banchi come delle belle statuine, eravamo costretti ad assorbire un sapere più duro delle nostre ossa. Sognavamo una scuola aperta anche dal punto di vista della struttura architettonica: un open-space ove gli alunni andavano e venivano liberamente e se decidevano di ascoltare una lezione, era perché l’insegnante con i suoi argomenti e il suo metodo aveva saputo suscitare il loro interesse. Immaginavamo una grande biblioteca nella quale fermarsi a meditare, a confrontarsi, seduti su grandi cuscini, divani orientali e sedie da regista. Un insieme di laboratori in cui sperimentare la biologia, la chimica, la fisica, la matematica; corner di scrittura e disegno presso i quali anche gli insegnanti avrebbero potuto imparare dall’intelligenza istintiva e spontanea degli studenti, in un gioco di libera creatività reciproca. Le fatiche dello studio sarebbero state ben ricompensate dalla gioia e dalla sorpresa della vera conoscenza, saremmo stati liberi di accostarci ad autori e idee, concetti ed esperienze capaci di stimolare e incoraggiare l’intelligenza, anziché castigarla e umiliarla in un percorso didattico sempre più simile a una camicia di forza. Con Did cercavo di ricreare almeno in parte questa dimensione ludica dell’apprendimento, rimanendo fluido dentro, inseguendo le nuvole come un uccello che disegnava nel cielo voli irregolari. Talvolta capitavano lezioni interessanti nel corso delle quali gli insegnanti si sforzavano di mettere un po’ di loro stessi. Un pizzico di ione faceva miracoli, perché creava l’occasione per profonde trasformazioni. Continuavano intanto le angherie del Preside, con sospensioni mirate e tese a fiaccare la resistenza degli studenti che osavano avere un ruolo attivo nelle manifestazioni e nelle assemblee. Guglielmo, esponente del Movimento, con una sospensione e un 5 in condotta comminati per ragioni politiche, rischiava la bocciatura. Corelli cercava di lenire queste ferite nel corpo vivo della scuola, trasformandola
in un cantiere educativo, in un’officina per la formazione di futuri cittadini consci dei propri diritti e doveri. Si era fatto carico, man mano che ci si avvicinava alla fine del ciclo di studi, di un’impresa impossibile. Quella di metterci davanti alle nostre responsabilità: la storia eravamo noi - diceva - il futuro dipendeva anche dalla conoscenza della storia contemporanea. Ma la classe ormai si stava perdendo. La rete di rapporti che la teneva insieme si stava sfilacciando. Si percepiva un’aria di smobilitazione, di trasloco. In vista dell’università si stavano formando nuovi gruppi in base a interessi comuni, in funzione della prossima carriera accademica. Si studiava solo quel che si pensava sarebbe stato utile per gli esami di maturità. Il resto non ci interessava. Alcune conseguenze di questo comportamento eccessivamente opportunistico furono imprevedibili. Il terzo voluminoso tomo di storia della quinta liceo iniziava con un capitolo sulla politica della Restaurazione, proseguiva con la Santa Alleanza, arrivava fino alla prima e seconda guerra mondiale ando per le Rivoluzioni liberali del Risorgimento, i moti del 1848, la Guerra di Crimea e le lotte di classe. Corelli sperava di avere il tempo di approfondire i temi della Educazione Civica e dell’Ordinamento Costituzionale dello Stato italiano, per fare di noi dei cittadini consapevoli. Aveva cercato eroicamente di farci conoscere la Costituzione Italiana, stimolando discussioni sui vari articoli, sulla loro attualità, per comunicarci lo spirito e i valori profondi del testo. Ma, da incoscienti, non eravamo pronti a seguirlo su quella strada. Stanco di parlare al vento, a persone distratte, già precocemente deluse da loro stesse e dal mondo, vittime dei progetti familiari che si opponevano a qualsiasi ideale ritenuto superfluo per la carriera, un bel giorno denunciò apertamente la nostra vigliaccheria. “Non so quanti tra voi siano figli di operai, non voglio farne una questione di classe, però dovreste sapere che siete dei privilegiati, mentre siete qui a studiare che è un diritto, ma per molte famiglie è anche un sacrificio dovreste prendervi sul serio e cercare di capire un po’ la storia invece di raccontarvi barzellette, distrarvi, atteggiarvi a rivoluzionari e scaldare i banchi senza nemmeno aprire il testo che avete sotto gli occhi… Se pensate di poterlo fare in futuro, vi sbagliate:
siete giovani, avete la vita davanti e adesso vi sembra infinita… ma non avrete più tempo di approfondire questi temi, di fare domani quello che vorreste fare oggi, vi siete riempiti la bocca con le parole di Mao, di Marx, del Che o di Freud, ma state ancora vivendo secondo il principio del piacere…” Nessuno osò replicare. Corelli tirò il fiato e proseguì con voce accorata. Tutti i suoi non detti ora venivano allo scoperto, esplicitamente dichiarati: “Sapete cosa significa? Fare quello che vi piace ignorando il mondo che vi circonda, se volete diventare adulti, svegliatevi! Dovete are dal principio del piacere al principio della realtà! Assumetevi le vostre responsabilità, se ne siete capaci! Altro che dare la colpa alla società! Ma non avete ancora capito? Siete voi la società, siete voi i cittadini e se non cominciate a esserlo ora, quando mai lo sarete? Molti vostri compagni sono già in fabbrica a lavorare per vivere: non pensate di dovervi preparare al futuro, anche per loro? Se non vi piace questa società, non credete che per cambiarla sia utile sapere come altri prima di voi hanno cercato di farlo? Non pensate sia necessario conoscere come i loro avversari siano invece riusciti molto spesso a impedirlo? Non credete di avere degli obblighi, se non verso i vostri genitori, almeno verso i vostri coetanei meno fortunati?” Eravamo tutti ammutoliti. Il professore chinò il capo sulla cattedra, lo appoggiò sulle braccia, come un ero che si ritira sotto la sua ala. Non l’avevamo mai visto così stremato, nemmeno nei giorni di maggior accanimento del preside nei suoi confronti, quando gli scaricava addosso direttive e richiami continui. In quell’istante intuimmo la delusione e la voragine di isolamento che avevamo contribuito a creare attorno a lui. L’improvviso j’accuse di Corelli, il nostro beniamino che credevamo un amico tollerante, ci spiazzò del tutto. Ci sentivamo tutti sotto tiro. Nell’aula era sceso un silenzio abissale. C’era solo una mosca e la sentimmo volare distintamente sopra le nostre teste. Ci parve che il suo fastidioso ronzio risuonasse come un bombardiere pronto a sganciare napalm per annientarci una volta per sempre. Come era accaduto qualche mese prima con Giobbi, anche in questa occasione i
professori più seri sapevano rinunciare a una facile popolarità, preferendo assumere atteggiamenti di rigore per chiamare in causa i nostri comportamenti e svelarne le contraddizioni. Entrambi avevano messo il dito nella piaga. Giobbi evidenziando il nostro scarso senso di responsabilità verso noi stessi, Corelli toccando il nervo scoperto del nostro disimpegno sociale. Ci sentivamo feriti nel nostro orgoglio. Se volevamo acquisire dignità, dovevamo prendere sul serio il tempo delle lezioni. Anche Did, lui che aveva fatto della fuga dalla scuola il suo vangelo, aveva accusato il colpo, ma invece di rispondere a questi appelli a un maggiore impegno almeno nello scorcio finale prima degli esami di maturità, cercò rifugio nel suo mondo. Per lungo tempo si tenne per sé le mappe che disegnava per immaginare altri percorsi avventurosi. Io sapevo che avrei potuto non essere accettato a bordo dei nuovi vascelli che desiderava allestire, con tutto il loro carico di idee nuove, di incoscienza, audacia, improvvisazioni e scoperte. Non mi facevo molte illusioni nemmeno sulla nostra amicizia: un testimone complice delle sue prodezze gli faceva comodo, ma sapevo che avrebbe potuto sacrificarmi alla prima occasione in cambio di informazioni o esperienze che avesse ritenuto irrinunciabili. A fine anno si era scatenato. Come se si rendesse conto dell’imminente rottura del recinto nel quale stava racchiuso insieme alle sue cavie, in preda a un rigurgito di irresponsabile curiosità, aveva ripreso in modo forsennato a progettare esperimenti. C’era una fila di nostri compagni che chiedevano di essere ipnotizzati nell’imminenza degli esami, per potenziare la memoria e rimanere tranquilli, lucidi, durante i compiti e gli orali. Alcuni volevano semplicemente ricordare tutto quello che avevano studiato, altri si sarebbero accontentati di eliminare almeno lo stress o l’ansia da prestazione che attanaglia ogni studente alla vigilia della resa dei conti. Invece di prepararsi agli esami di maturità, Did ava interi pomeriggi a potenziare la memoria degli altri. Non era solo, come sembrava, un apostolo degli studenti e del rendimento a buon mercato. Mi confessava di non resistere
all’impulso di trasformare quelle occasioni in altrettanti test. Elaborava progetti di sperimentazione ipnotica avanzata, ma eravamo purtroppo consapevoli che rispetto ai vari territori di indagine disponevamo di soggetti e di tempi limitati. Un campo di investigazione riguardava la possibilità di somministrare un farmaco senza la necessità di un o materiale. In pratica, un soggetto avrebbe assunto una prima volta un farmaco che gli avrebbe stimolato il ricordo, l’esperienza degli stimoli sensoriali - consci e inconsci - a esso associati. Si trattava di legare un quadro specifico di sensazioni a un suono, un gesto o un segnale capace di rievocarlo, scatenando, in sua presenza, la risposta fisiologica memorizzata dall’organismo con il farmaco reale. Si chiedeva: se in un soggetto memorizzo - durante la trance - l’esperienza dell’assunzione di un’aspirina e poi la associo al suono particolare di un gong, istruendo l’inconscio per rievocare le reazioni indotte dall’aspirina quando sentirà (realmente e poi virtualmente) questo stesso gong, cosa potrebbe accadere a livello fisiologico? Si trattava di estendere il concetto pavloviano dei riflessi condizionati alla memoria dei processi biochimici generati da una sostanza specifica, ma che in parte forse potevano essere richiamati dal suono/input a essa associato. L’operatore prima avrebbe fissato il file biologico, la memoria dell’esperienza, poi avrebbe creato un’icona corrispondente (immagine o sensazione) a livello inconscio profondo. Did sognava di riuscire a studiare cosa sarebbe accaduto se quell’icona fosse stata attivata a comando con l’ipnosi. Si sarebbe anche potuto usare una sostanza inerte per verificarne un possibile effetto placebo, che molto probabilmente sarebbe stato rafforzato rispetto alla pur efficace azione suggestiva ordinaria. Avrebbe voluto istruire un soggetto ipnotizzato a credere fermamente che una pillola innocua o dell’acqua fresca, possedessero veramente la qualità dell’aspirina o di un antidolorifico. Se l’effetto placebo funzionava almeno in parte in condizioni comuni, a livello individuale e di massa, l’ipnosi probabilmente avrebbe agito quale fantastico moltiplicatore. Se questo fosse accaduto, quale funzione e attività metabolica sarebbe stata implicata, quali sostanze sarebbero state prodotte dal cervello in seguito alla fede ipnotica
imposta dalla suggestione? Quale avrebbe potuto essere il meccanismo d’azione dell’effetto antidolorifico di una simile aspirina mentale? Io temevo un uso sciagurato di queste tecniche e un fallimento nella dimostrazione di queste ipotesi che mi sembravano azzardate. Egli ribadiva che un esperimento scientifico non serviva solo a dimostrare una tesi, ma anche a osservare nuove dinamiche, ad acquisire nuove informazioni, a creare un osservatorio privilegiato. Come per ogni viaggio, anche in un percorso scientifico di indagine era importante appunto il viaggiare. La meta era solo una scusa per andare da qualche parte. Did tacitava il mio oscuro senso di colpa affermando che non tutti gli inganni erano dannosi. Almeno per lui, lo studio e la creazione dell’inganno e dei suoi effetti costituivano una scienza. Ora, la scienza in sé è neutra e quindi non è positiva o negativa. Tutto dipende dall’uso. Può essere applicata come arma politica per addormentare le coscienze, ma anche per svegliarle. “Solo un esperto dell’inganno può vaccinarti contro le sue conseguenze,” sosteneva Did. Non condividevo queste tesi perché ne intuivo l’intrinseca pericolosità. Dopo aver riletto i racconti di Poe che prediligeva, mi disse che se avesse trovato un moribondo ancora in possesso di una riserva di attenzione sufficiente da renderlo ricettivo all’ipnosi, avrebbe cercato di prolungarne indefinitamente la sopravvivenza, spostando sempre più in là il suo appuntamento con la morte. Prima avrebbe agito abolendo innanzitutto il dolore, poi risvegliando tutte le sue potenzialità latenti, focalizzando le sue residue energie in un poderoso sforzo di iper-stimolazione organica, ormonale e funzionale. Fortunatamente, non trovò alcun moribondo disposto ad affidarsi alle sue attenzioni. Allora escogitò altri mirabolanti esperimenti, gran parte dei quali rimasero per fortuna sulla carta. La lettura di un paio di libri di Asimov, lo proiettò nella fantascienza. Did progettò alcune suggestioni con lo scopo di preparare i futuri astronauti a un sonno ipnotico che avrebbe permesso loro di viaggiare nello spazio in uno stato
di sospensione delle loro attività vitali. L’ipnosi sarebbe stata usata per rallentare i processi biologici di invecchiamento e degenerazione cellulare. In navi spaziali avveniristiche, gli esploratori cosmici avrebbero viaggiato ai limiti delle leggi dello spazio-tempo, percorrendo distanze siderali, svegliandosi in piena efficienza dopo anni e anni di ibernazione catalettica programmata. Un altro obiettivo di Did era quello di riuscire a spostare l’oggetto della libido, inducendo in un soggetto maschio una forte attrazione nei confronti di alcune parti del corpo femminile considerate secondarie rispetto ai caratteri sessuali più evidenti. Per avere un mio parere, mi lesse molto seriamente il testo di una serie di suggestioni ipnotiche che sarebbero servite per installare nella psiche di qualche malcapitato una irrefrenabile voluttà per i polsi, le braccia e la forma della fronte femminile. La libido sarebbe stata scatenata da canoni estetici che a me sembravano arcaici. Per fissare dei modelli di riferimento scelse alcune sculture famose tra cui Amore e Psiche, il gruppo delle tre Grazie, Ebe e la Venere di Antonio Canova. Pensava di mostrarne le immagini al soggetto in trance, affinché diventassero gli archetipi fondamentali capaci di condizionare le sue scelte in campo sessuale e affettivo. Alberto, un ragazzo ingenuo della seconda liceo classico, fu uno dei pochi a subire un tale trattamento. Venne condizionato a tal punto che la visione di un polso femminile, di braccia flessuose o di un naso regolare i cui tratti appena si avvicinavano ai canoni indicati da capolavori assoluti, lo mandava immediatamente in estasi. Un bacio sul gomito di una donna in possesso di caratteristiche evocative dell’archetipo, avrebbe dovuto generare lo stesso piacere di un bacio sulla bocca. Se fosse riuscito a sfiorare con le dita una fronte dalle linee vagamente neoclassiche o a toccare con l’indice il prototipo di un polso perfetto, la sua sensibilità genitale sarebbe stata scatenata più che da una manipolazione dei suoi organi sessuali. Pensai con timore che Did ormai usasse le sue cavie per vivere attraverso di esse le sue ossessioni. Glielo dissi. Per tranquillizzarmi, mi promise che avrebbe disattivato l’orientamento sessuo-estetico che aveva imposto con l’ipnosi, ma sapevo che non potevo contarci molto. La progettazione di esperimenti altrettanto inverosimili prese infine altre
direzioni. Did mi spiegò che avrebbe voluto continuare le sedute per “andare a vedere” al di là delle stratificazioni della memoria della vita attuale, senza fermarsi alla prima identità che sarebbe apparsa portando il soggetto a un’epoca “prima della nascita”, come era accaduto a Darby. Spingendo l’ipnosi regressiva sempre più a ritroso nel tempo, avrebbe voluto ricostruire la genealogia psichica di un individuo, riesumando le tracce della sua evoluzione di vita in vita per verificare l’ipotesi della reincarnazione. Diceva che forse ogni nostra identità ne nascondeva un’altra e poi un’altra ancora, e che il nostro io era come una serie interminabile di matrioske russe contenute una nell’altra. Si trattava di entrare ogni volta in una trance sempre più profonda. Un altro filone di possibili esperimenti fantastici riguardava la creazione di una nuova piattaforma percettiva, dalla quale sarebbe stata bandita ogni sofferenza. Cosa sarebbe successo in un individuo “istruito” a non percepire più alcun stimolo doloroso? Did progettava di reimpostare i delicati equilibri che regolano normalmente l’interazione tra la mente e l’organismo, spingendo all’estremo le possibilità permesse dall’analgesia ipnotica. Mi confidò che avrebbe voluto studiare un percorso suggestivo teso a installare in un soggetto tenuto sotto osservazione, una totale insensibilità al dolore fisico. Oppure, per non perdere l’informazione essenziale del dolore quale segnale diagnostico, si sarebbe potuto condizionare l’inconscio di un individuo a “commutare” gli stimoli dolorosi in percezioni di altra natura? Si poteva fissare una scala di intensità percettiva in modo tale che il soggetto avrebbe sentito per un dolore debole un leggero pizzicore, per un dolore forte un calore intenso nell’area interessata, per un dolore estremo un suono acuto… e così via. Attraverso un codice di segnalazione percettiva non dolorosa, il soggetto avrebbe potuto diventare così consapevole di uno stato di sofferenza senza veder diminuita la sua qualità della vita Mi sentivo sempre più prossimo a diventare uno scassinatore della psiche e nello stesso tempo ero esaltato nell’immaginare l’applicazione di queste fantascientifiche visioni alla vita quotidiana.
La prima volta che avevo visto Did spegnere una sigaretta accesa sul braccio di un soggetto, avevo pensato a una forma di sadismo, ma ora mi sembrava di scoprire che lui provava piacere nel possibile superamento di un’ineluttabile legge di natura. Il dolore serviva ad avvisare il conscio di uno stato alterato e quindi era indispensabile per la sopravvivenza. Tuttavia il tentativo di trasformarlo in segnali di pura informazione percettiva, deprivata della sensazione dolorosa, mi pareva un tentativo legittimo. Tanto più che queste forme di anestesia ipnotica lasciavano il soggetto libero dai postumi di possibili intossicazioni farmacologiche o reazioni allergiche. Non tutte le patologie però sono tempestivamente segnalate dalla sofferenza. Ragionando da perfetti sprovveduti intorno a questi temi, Did e io ci chiedevamo se si sarebbe potuto allenare l’inconscio di un soggetto a “segnalare” con sensazioni particolari, trasmesse alla coscienza, anche l’instaurarsi di alterazioni cellulari significative che potevano portare a tumori non diagnosticabili o altre malattie latenti. Chiesi a Did perché non si era investigato così a fondo nei meccanismi di generazione e abolizione del dolore. Mi rispose che probabilmente, nella nostra civiltà, il dolore veniva concepito ancora come una “necessità” non solo biologica ma culturale. Bastava pensare alla visione del dolore in seno alla religione: la sofferenza fisica veniva “giustificata” come mezzo di espiazione. Per questo la medicina conosceva poco anche i meccanismi del piacere. Era il dolore a essere “liberatorio”, non il piacere. In determinati contesti, quest’ultimo assumeva addirittura una valenza negativa che richiamava oscuri sensi di colpa. L’abolizione del dolore attraverso un’operazione di psico-chirurgia ipnotica volta a eliminarlo dall’esperienza individuale, avrebbe trovato delle resistenze talmente formidabili che ne avrebbero impedito l’applicazione. Davanti alla varietà degli innumerevoli percorsi di indagine che si potevano concepire, maturammo la convinzione di trovarci davanti a un continente che non avremmo mai avuto il tempo di esplorare in tutta la sua vastità. La sua mappa geografica era così grande che le nostre vite tutte insieme non sarebbero bastate nemmeno a tastarne i confini. Condivisi perciò con il mio compagno il sentimento di impotenza dello scopritore, conscio dell’infinità del sapere e
quindi della sua ignoranza. L’accresciuta sensazione di vertigine alimentava un’ebbrezza più acuta delle primitive estasi. Il Leopardi provava la dolcezza del suo smarrimento grazie alla contemplazione del suo immenso orizzonte poetico, mentre noi annusavamo nell’aria un sentore di ambrosia scavando nel fondo oscuro della nostra infinita piccolezza. Frustrato dall’impossibilità di soddisfare tutti questi progetti, Did non aveva cessato di coltivare comunque la particolare “via di sviluppo percettivo” indicata dallo yoga. Anch’io prudentemente cercavo di seguirlo nella sua strana ascesi. La pratica sulla quale insisteva era l’asana. Asana è una disciplina che permette, creando le condizioni affinché la coscienza non venga più attratta dal corpo, di trascendere il corpo fisico anziché esaltarlo. In un certo senso l’asana - l’insieme di alcune posizioni statiche - è la negazione del corpo così come il pranayama - il controllo della ventilazione polmonare - è la negazione del respiro. La posizione statica rispetto al movimento dinamico produce degli effetti molto interessanti. Se si rimane immobili per tanto tempo, non per pochi minuti, ma almeno per un’ora o più in una stessa posizione, allora si comprende che cosa significa asana. Significa trascendere il corpo. Si creano le condizioni per perdere i riferimenti con il proprio organismo. L’insegnante di yoga che possiede una visione non solo fisica, ma esoterica, non richiamerà sempre l’allievo a stimolare il corpo attraverso un movimento; ma lo inviterà, una volta assunta una posizione, a mantenere il corpo immobile fino a perderne coscienza. Se questo non accade, non si riesce a entrare in relazione con la struttura energetica che sostiene il bios. Se i muscoli, gli sforzi, i movimenti risvegliano sempre le sensazioni, la normale percezione corporea invade la coscienza, occultando percezioni più profonde. L’immobilità è la condizione per spegnere l’invadenza sensitiva e sensoriale superficiale che proviene dal corpo biologico, dal soma. Solo così si riesce a entrare in rapporto con la vera vocazione dell’asana, dello hatha-yoga e dello
yoga in senso lato, a coesistere su due piani, sviluppare i corpi superiori, aprire alla coscienza la percezione di altri piani di esperienza, attivare la Kundalini, entrare in contatto con il sottostante e onni-pervadente mondo dell’energia. L’immobilità diventa quindi lo strumento più efficace per entrare nella dimensione del prana. La sua applicazione però era per noi molto ardua. Ogni volta che io provavo a rimanere fermo, immobile, anche in una posizione comoda, si presentavano sensazioni fastidiosissime: pruriti intensi, scatti improvvisi dovuti ai “nervi a fior di pelle”, senso di pesantezza, sonnolenza, punti di tensione dolorosi, indefinibili fibrillazioni, eccetera. Lo stato di immobilità corporea esaltava la percezione dei micromovimenti interni, soprattutto se il respiro veniva controllato ritmicamente con le tecniche del pranayama. Anche il “dominio del respiro” richiede una posizione statica, immobile. L’immobilità assoluta del corpo è interrotta solo dal dinamismo respiratorio. È dunque necessario, se si vuole entrare in rapporto con la consapevolezza energetica, che il corpo non emetta più informazioni per la coscienza.
Trascurando il rio forsennato che in genere precede gli esami di maturità, cercavamo di sperimentare e applicare alla lettera le istruzioni contenute nei libri di yoga, in attesa di un segno, di una risposta del nostro corpo. Spesso mi chiedevo se davvero la conoscenza asse per quella via silenziosa, non intellettuale ma organica, come se la verità fosse stata sigillata nella materia. Quella forma di ricerca non solo non godeva di privilegi o di incoraggiamenti, di stimoli e plausi, ma al contrario condannava alla solitudine, fino al punto da sembrare un delitto, una fuga dalla realtà. Il riconoscimento in genere è concesso ai filosofi di professione, agli scienziati patentati, a qualche intellettuale autorizzato a presentarsi alle folle con il brevetto ufficiale di pensatore. Ma noi non potevamo dirci cercatori di nessuna verità scientifica, religiosa, filosofica, sociale. Nemmeno ci cimentavamo in conquiste speculative, astratte, come quando si risolve un’equazione, o si scopre un’equivalenza grazie alle
proprie facoltà intellettive, concettuali. Il nostro era un lavoro sul sé così profondo che, pur non raggiungendo ancora nessun risultato definitivo, suggeriva comunque l’idea di un salto epocale. Un balzo che non era della specie, ma costituiva il tentativo individuale di sopravanzare i limiti della specie. Il tentativo di un essere inerme, di un animale acculturato, di un verme civilizzato, di farsi spuntare le ali per librarsi al di sopra di se stesso. La natura non è nuova a questi eventi di discontinuità evolutiva. Quando i primati impararono a camminare nella savana rinunciando a vivere sugli alberi, conquistarono la statura eretta. Molte epoche prima, alcuni pesci ribelli si erano avventurati fuori dall’acqua cominciando a saltare oltre le onde, avventurandosi poi temerari sulla terra ferma. Le loro branchie si trasformarono in polmoni per imparare a estrarre dal nuovo elemento più leggero, l’aria, una nuova energia. Lo yoga indicava la possibilità, per l’essere umano, di trasformare il suo sistema percettivo per accedere a energie altrimenti inesplicabili, additava la possibilità di imparare a respirare prana, energia vitale, in modo consapevole. Aspiravamo a diventare esseri anfibi, capaci di vivere contemporaneamente in due mondi contigui, paralleli, occultamente intersecati tra loro ma profondamente divisi dai livelli di consapevolezza che ne caratterizzavano le reciproche leggi. Per sbucare dall’altra parte del velo, fuori dall’acqua, per incominciare a trasformare una sola pinna in un abbozzo di piume, avremmo osato tutto, rinunciato a qualsiasi altra cosa. Una strana febbre ci spingeva a tentare l’impossibile. Ora non c’era più un Astro che ci obbligava a superare una soglia. La spinta era nostra, veniva dall’interno. Seguendo scrupolosamente le istruzioni di Ernest Wood che illustrava le antiche tecniche yoga, avevamo adottato la respirazione ritmica che prevedeva l’esecuzione di tre fasi respiratorie: inspiro, trattenimento dell’aria ed espiro. Tra le varie indicazioni operative, gli antichi testi suggerivano dei tempi precisi per le tre fasi, rispettando il rapporto 1.4.2: un secondo per l’inspiro, quattro secondi per la pausa e due secondi per l’espiro.
Poi il ciclo riprendeva. I tempi si sarebbero dilatati con la pratica, l’importante era riuscire a mantenere lo stesso rapporto tra le tre fasi. Così eravamo riusciti ad arrivare a un ciclo di 12. 48. 24 secondi. Respiravamo con la tecnica delle narici alternate per venti minuti al mattino e alla sera. Tuttavia le settimane avano senza che nulla accadesse.
Un giorno Did arrivò in aula con una strana luce negli occhi. Per alcuni giorni non disse una parola, ma un sorriso mai visto prima, mi fece intuire che aveva captato una traccia singolare. “Il segreto è nella fase di trattenimento del respiro,” mi disse finalmente. “Continua, fai attenzione alle sensazioni interne ed esterne al corpo, durante la fase di ritenzione… si avverte qualcosa.” A ogni ciclo di respirazione cercavamo perciò di fare particolarmente attenzione al punto zero, alla fase intermedia nella quale, a ogni intervallo tra l’inspiro e l’espiro (e viceversa), si rimaneva in sospensione trattenendo l’aria. La pausa non doveva essere forzata e ci allenavamo a respirare con le narici alternate in modo che nella inspirazione e nella espirazione il flusso dell’aria rimanesse calmo e quasi impercettibile. La fiammella di una candela posta a due centimetri dal naso non doveva tremolare. Con l’esercizio avevamo prolungato notevolmente la fase di apnea volontaria, cercando di percepire in quello stato il minimo cenno di un segnale straordinario. Did mi confessò che le sue percezioni si stavano intensificando, ma era inutile cercare di descriverle. Se non fossi riuscito a superare la barriera che separava il corpo dal mare di energia che lo circondava, non avremmo potuto condividere alcuna esperienza del genere, poiché il linguaggio era insufficiente a rendere l’idea. Un mattino, durante la pausa di sospensione del respiro, il mio corpo fu sfiorato
da una leggera brezza. Una pressione soave filtrava in alcuni punti sensibili. La pelle avvertiva alla sua superficie un debole flusso magnetico. Sembrava di essere toccati dal tremolio di un’onda invisibile. Queste percezioni non si presentavano mai allo stesso modo, ma si affacciavano regolarmente alla coscienza a ogni pausa respiratoria. Prolungando l’apnea, si intensificavano le sensazioni energetiche. Per cercare di razionalizzare il fenomeno, ridurne l’impatto e la paura, ne annotavo minutamente le caratteristiche in un “diario delle percezioni” che mi aiutò a tenere i piedi per terra. Non volevo cadere vittima di illusioni. Solo confrontandomi con Did riuscivo ad avere la certezza di non esser pazzo: se le sensazioni erano condivisibili, allora si trattava molto probabilmente di un fenomeno oggettivo. Applicandoci alla stessa disciplina, stavamo ottenendo i medesimi risultati. Il mondo dell’energia non era una chimera: esisteva e poteva essere esplorato! Era la prima volta che avevamo accesso a un’esperienza extra-sensoriale evocata attraverso un metodo, una pratica, un sistema consapevole di sviluppo. Aveva il sapore di una vera iniziazione.
L’ultimo atto dei conflitti interni che avevano trascinato la presidenza del liceo nel gorgo di estenuanti contrapposizioni, si consumò nel marzo del ’73. La battaglia dell’ottobre ’71 per la difesa della Martisoli aveva lasciato uno strascico giudiziario. Sostenuta dal Collettivo di studenti e genitori, la professoressa aveva denunciato il Preside per un suo scritto diffamatorio comparso sulle colonne del più autorevole quotidiano locale La Provincia. Il processo rimandato più volte, venne finalmente fissato per il 14 marzo. Prima di questa data il Preside - per evitare il pubblico dibattimento - contattò l’insegnante. Si mostrò disposto a una ritrattazione ufficiale, nel caso la denuncia fosse stata ritirata. La Martisoli accettò. Il Collettivo studentesco intervenne chiedendo le dimissioni del monsignore dalla carica di Preside. Costui, privo ormai dei precedenti appoggi politici, fu costretto a capitolare. Soffiando sul
fuoco aveva reso la situazione incandescente e anche per i suoi protettori istituzionali la sua figura era diventata fonte di preoccupazione e imbarazzo. Affrontando le situazioni critiche a muso duro, le aveva esasperate. Una parte della città si schierò tuttavia con il Preside. Vittorio, uno studente che era inconsapevole portavoce delle posizioni conservatrici, andava ripetendo in ogni occasione che aveva fatto il suo dovere, non aveva avuto scelta nel condannare la professoressa ribelle, era il suo ruolo. Per noi della quinta B invece, fu vera stronzaggine, un vero e proprio accanimento generazionale. “È uno stronzo!” replicavamo seccati a ogni tentativo prematuro e ingiusto, di riabilitazione. Orfani delle guide carismatiche della protesta, la nostra voce era diventata però troppo debole. I leader della quarta e della quinta che ci avevano preceduti, i capi storici del movimento studentesco, anche se contribuivano ancora a dettare l’agenda politica delle attività a livello locale, ormai dedicavano le migliori energie al loro futuro, nelle università. La classe non provava più i sentimenti e gli entusiasmi che avevano ispirato la contestazione. Con la crisi di aggio dalle scuole superiori agli studi universitari, la famiglia, protagonista di un familismo amorale, si riprendeva in mano il destino dei figli rintuzzando ogni conquista progressista. Era così forte da distruggere la società e noi eravamo troppo sbandati per mantenere fede agli ideali di partecipazione collettiva, di allargamento dei diritti e di superamento delle caste sociali che avevamo proclamato in precedenza. Ubbidendo agli interessi familiari, ognuno pensava a se stesso esibendo un individualismo sfacciato che anticipava le prossime ondate di riflusso nel privato. Infatti nel ’73, il ’68 finì: per alcuni a causa dell’egemonia del Partito Comunista Italiano, per altri a seguito della deriva terroristica. Oggi condivido con diversi commentatori l’idea che la generazione del ’68 abbia fallito perché non ha sostituito al principio di autorità dell’Italietta bigotta, piccolo borghese, conformista, il principio di autorità e di responsabilità personale.
Per la verità, i nostri compagni impegnati nel movimento, non erano affatto contro il principio di autorità in se stesso. Ci alzavamo ogni volta che il professore entrava in aula. Ma volevamo che fe il professore, sapesse insegnare, fosse autorevole, non autoritario. Quando l’impegno e la ione erano evidenti, lo riconoscevamo per primi. Gli aspetti positivi dell’esperienza sessantottina non si possono però dimenticare. I più evidenti, ancora oggi, mi sembrano i seguenti:
i comportamenti divennero meno formali, meno ingessati; con la lotta contro l’emarginazione delle donne, venne riconosciuto il nuovo ruolo da esse assunto nella società, aboliti molti tabù sessuali, superati gli steccati di censo e di classe delle gerarchie; si avvertì l’esigenza di una maggiore libertà nel pensiero e nelle azioni; si sentiva il bisogno - e in molti casi anche il piacere - di coltivare spontaneamente una più grande generosità e solidarietà, senza il o di una fede, di un comandamento della gerarchia ecclesiastica; l’amore e la giustizia sociale non dovevano essere imperativi morali o dottrinali, ideologici, ma orientamenti naturali; libertà di ricercare forme di realizzazione sociale e spirituale alternative; si pensava davvero che l’essere umano non sarebbe stato sempre uguale a se stesso; potevamo cambiare, il cambiamento era una opzione possibile e ne eravamo i protagonisti; era lecito sperimentare diversi modelli sociali e organizzativi, ispirati dalle visioni spiritualiste orientali, dalla musica e dalla filosofia hippy che sognava una dimensione non violenta dei rapporti umani; fra le tante religioni noi potevamo scegliere; si poteva raffinare il proprio impulso poetico e coltivare il proprio spirito anche senza aderire ad alcuna professione di fede; la vita non aveva bisogno di dottrine per essere valorizzata e apprezzata; la critica al nascente mondo dei consumi e alla priorità del profitto e del potere come fine esistenziale; la ricchezza, l’accumulo del “capitale”, che prima della contestazione costituivano gli obiettivi sui quali modellare comportamenti individuali e pubblici, non erano più valori condivisi da tutti; il tentativo di are da una scuola di classe a una scuola più aperta, accessibile, da una cultura elitaria al diritto allo studio; la richiesta di una maggiore partecipazione popolare alle decisioni politiche nazionali e locali;
il desiderio di un’istituzione religiosa capace di non rinnegare il messaggio evangelico, ma di dialogare con le istanze del mondo e privilegiare i poveri, gli ultimi, orientata all’ecumenismo e aperta alla tolleranza, non più centrata sulla autocelebrazione della propria infallibilità dottrinale; c’erano infatti molte chiese, il Cristo di Che Guevara e l’Inquisizione di Torquemada alleata del dittatore cileno Pinochet, il nascente fondamentalismo cattolico di Comunione e Liberazione e i preti operai che volevano stare accanto ai lavoratori, l’apostolato dell’arcivescovo sudamericano don Helder Camara con i teologi della liberazione e - di contro - le complicità politiche dell’Opus Dei, le trame dei palazzi vaticani e la semplicità evangelica di don Milani; naturalmente noi guardavamo con favore al Concilio Vaticano II, ma eravamo molto diffidenti sulla capacità della chiesa universale e locale di tradurre in pratica i nuovi valori perché dopotutto avevamo toccato con mano, attraverso il nostro preside monsignore, quanto autoritarismo impregnava la forma mentis della casta clericale.
Ogni immagine fotografica ha però il suo negativo. Ogni realtà è duale. Gli aspetti più significativi hanno bisogno di tempo per emergere dalla coscienza e dalla memoria. In primo luogo l’incitamento marxista-leninista alla lotta di classe aveva preparato il terreno ai gruppi eversivi come le Brigate Rosse e altri che si richiamavano alla dittatura del proletariato, provocando la risposta contraria degli ambienti neofascisti, che pure avevano come loro credo la violenza. In secondo luogo la critica alla società capitalista aveva assunto la forma criminale della violenza armata; il rifiuto totale della cultura borghese finiva per condannare anche i suoi principi ispiratori proclamati dalla rivoluzione se, ovvero: Eguaglianza, Fraternità, Libertà. L’inquadramento dei leader e del movimento in nuove strutture gerarchiche, non aveva mutato sostanzialmente i rapporti delle istituzioni e della politica con il cittadino, per cui vi è stato un ricambio generazionale che non ha rappresentato un reale rinnovamento nello stile e nelle modalità di gestione del potere. L’eccessivo valore dato al fattore collettivo, ha a volte
umiliato il valore dell’intraprendenza, originalità e unicità dell’individuo. Inoltre il rifiuto pregiudiziale di tutto ciò che sapeva di metafisico, religioso, spirituale, da parte del “materialismo storico”, ha causato un appiattimento culturale e sociale che ha impoverito la germinazione di nuove idee, confronti, progetti. Infine, l’incapacità di are dal “tutto subito” alla strategia a lungo termine, dallo slogan “la fantasia al potere” al recupero della ragione per integrarla con l’intuizione creativa, ha causato brucianti delusioni e tragiche depressioni che hanno spinto alla deriva molti ex del movimento. In molti casi, per l’incapacità di sopportare un’autodisciplina e una condivisione di valori sociali super-partes, si sono generati comportamenti opposti, volti alla ricerca del piacere soggettivo, alla fuga in un mondo artificiale. Le discipline psicofisiche e la coltivazione di sé - soprattutto da parte di un militante e di un politico - dovrebbero invece integrarsi con l’impegno etico a favore della società. Invece molti militanti hanno cominciato come rivoluzionari idealisti, ma hanno finito per diventare professionisti della politica all’interno di un partito, membri di una nomenclatura solidale soprattutto con se stessa. Sono così andati a ingrossare le fila del personale impiegatizio al servizio del sistema che volevano cambiare, in ambienti spesso privilegiati, sfruttando opportunità inaccessibili a coloro che non sono mai stati iscritti a una federazione politica. Tuttavia, non eravamo consapevoli dei possibili esiti della contestazione. Personalmente avevo provato a vivere secondo diversi modelli comportamentali, ma non mi ero ritrovato in nessuno di essi. Ogni modello esistenziale sembrava possedere qualcosa di valido e specifico. Nessuna esperienza era da rifiutare in toto. Cercavo pertanto di introiettare la lezione di ogni proposta ideologica senza rimanere avvinghiato nelle spire di un “monoideismo” limitante. I nostri tentativi di riconciliare e integrare tra loro posizioni divergenti, idee opposte all’interno di una molteplice visione unitaria, costituiva un esercizio esaltante ma stancante. Eppure acuiva nella nostra psiche una forma di polarità, un dipolo psicologico, una differenza di potenziale che faceva scaturire una terza
forza, una superiore energia e capacità armonizzante. Si poteva prendere a prestito da Marx la denuncia dell’ingiustizia sociale, l’accento sull’importanza del fattore economico nella genesi degli eventi storici, le ingiustizie di classe, l’importanza del proletariato, senza per questo diventare marxisti-leninisti-stalinisti? Si poteva riconoscere ai principi liberali e all’iniziativa privata e individuale di essere una molla potente per il conseguimento del progresso e per la creazione di ricchezza, senza degenerare per questo nell’accumulo patologico del capitale? Perché chi sa produrre reddito e benessere con la sua capacità e il suo lavoro, la sua ambizione, dovrebbe essere “messo in croce” da una volontà collettivista che preferisce l’appiattimento verso il basso anziché la promozione di una sana competizione e valorizzazione dei talenti individuali? Perché Occidente e Oriente non potevano dialogare tra loro, rinunciando a ritenersi pregiudizialmente superiori l’uno all’altro? Perché la scienza voleva erigersi a nuova religione, invece di rimanere nel suo ambito specifico, senza condannare o trattare con sufficienza la fede e l’autentica aspirazione spirituale? Perché la religione voleva prendere il posto della scienza, del pensiero laico, dello Stato, nel sentenziare cosa sia vero o falso, buono o cattivo, imponendo i suoi dogmi alle coscienze individuali, anche ai non credenti, con leggi speciali? Si poteva riconoscere a Cristo di avere portato nella cultura occidentale e nella storia un’autentica “rivelazione” basata sul valore dell’amore tra esseri umani, sul sentimento della carità, della pari dignità tra “figli di Dio”? Occorreva restituire al messaggio evangelico la sua carica rivoluzionaria, che la Chiesa aveva sepolto sotto i suoi paludamenti morali e dottrinali. La sfida di Simone Veil secondo la quale si poteva essere cristiani (anche o solo?) fuori dalla Chiesa, testimoniava un’esperienza spirituale che si poneva in modo radicale contro una lobby clericale che aveva fatto della vocazione religiosa un mestiere. D’altra parte il cristianesimo non esaurisce l’orizzonte della ricerca del divino.
Non può intrappolare l’infinito. Perché, davanti a un panorama immenso, condannare gli altri ad ammirarne solo uno spicchio? Dal paganesimo ci sarebbe piaciuto mutuare una forma di adorazione istintiva e panica delle forze del divino operanti nella natura, la percezione della molteplicità delle manifestazioni degli dèi, la tensione verso una perfezione classica, armonica, anche nelle forme del corpo e dell’arte, una severa e grandiosa concezione del mondo, la ricerca di una bellezza incardinata nelle manifestazioni della vita umana e in un superiore ordine sociale. Dallo yoga e dalle discipline orientali avremmo accolto volentieri l’invito a rispondere attivamente all’appello dello spirito senza demandare tutta la responsabilità e la speranza di salvezza a una provvidenziale visione ultraterrena, a una utopia escatologica che faceva della vita organica e del corpo il fulcro di una dottrina imperniata sul senso di colpa, sul peccato, anziché sullo spirito gioioso e glorioso della creazione. Perché la coesistenza di molteplici realtà doveva per forza essere intesa come fatuo sincretismo o relativismo, e non come opportunità per disegnare i confini di una verità più alta che anziché generare conflitti, separazioni, lotte, poteva suggerire una magnifica ricchezza espressiva sul piano esistenziale, culturale? Perché invece di “questo o quello” non poteva esistere “questo e quello?” Anche se era difficile trovare una bussola in mezzo a simili correnti culturali e concezioni esistenziali contrapposte, eravamo consci che lo sforzo conciliatore, qualunque ne sarebbe stato l’esito, ci avrebbe costretti alla rinuncia di un’identità sociale precisa. Non ci sarebbe stato possibile far parte di alcuna confraternita, di alcuna lobby o partito, gruppo o tribù. Si poteva sopportare l’accusa di essere individualisti oppure opportunisti, per “prendere il meglio di ogni cosa”, senza per questo aderire necessariamente ad alcuna ideologia, a nessuna chiesa, a nessuna posizione preconcetta? Mentre mi tormentavo cercando risposte a queste domande, Did viveva sicuro avendo fatto del dubbio e dell’incertezza le sue parole d’ordine. Per lui il problema non si poneva, anzi la propria identità separata e irrepetibile individualità la si poteva trovare solo al di fuori delle definizioni di marxista, cristiano, liberale, cattolico, induista ecc.
Certo, era difficile costruirsi una propria autonoma “visione del mondo”. Come molti prendevano a prestito libri dalla biblioteca, dagli amici, e poi non li restituivano, allo stesso modo molti nostri coetanei prendevano a prestito un po’ di marxismo e diventavano marxisti, un po’ di cattolicesimo e diventavano cattolici, un po’ di rampantismo e diventavano rampanti, così via. Con il liceo finiva anche una “lunga marcia”, un nomadismo e attivismo intellettuale che avrebbe potuto non approdare ad alcun lido. Quando mi ero iscritto al liceo scientifico possedevo una visione poetica e avventurosa, fondamentalmente ingenua e quindi pura, dello spirito di ricerca. Mi illudevo che, avendo come nume ispiratore il genio leonardesco, al Liceo saremmo stati iniziati ai misteri della scienza o almeno ad alcuni di essi, alla condivisione della sua bellezza e fascino poetico. Avevo presto scoperto che non vi era poesia nel modo in cui la matematica, ma anche la fisica, la letteratura, la geografia e la geometria, venivano “trasmesse” a tutti noi. Non vi era anima in quelle lezioni, o almeno io non riuscivo a percepirla. Più ci si avvicinava agli esami di maturità, più diventava evidente che nella nostra cittàla scuola non era affatto concepita come una fabbrica culturale, ma come un aporto per una professione redditizia, nonostante gli sforzi che Corelli prodigava intorno a sé, nella società civile, per alimentare questa speranza. Il fine del liceo era quello di prepararci agli studi universitari che ci avrebbero fornito una laurea, un lasciaare per l’esercizio di una più o meno onorata e remunerata professione. Per i figli della borghesia cittadina era un percorso obbligato: i figli dei giudici sarebbero diventati giudici o avvocati, i figli dei medici medici, i figli dei farmacisti farmacisti, i figli degli imprenditori imprenditori e così via. Il loro futuro era già scritto. Quasi tutti accettavano di buon grado questo destino. Per altri la scolarizzazione continuava a rappresentare invece, a livello familiare, una vera e propria occasione di “crescita sociale”. Ma non tutti avrebbero avuto la fortuna di riuscire a scalare nuove posizioni. Lucia era destinata - a causa delle condizioni economiche non affatto rosee della sua famiglia - a interrompere la sua pur brillante carriera scolastica. Dopo tutti quegli scioperi, lotte, assemblee, ecco che il diritto allo studio continuava a
essere negato a chi non aveva la possibilità di pagarsi l’università e proseguire gli studi. Mentre nemmeno la scuola trasmetteva informazioni utili relative ai possibili sussidi, al sostegno agli studenti appartenenti alle fasce economicamente deboli, vinceva l’approccio dell’ognuno per sé, del si salvi chi può. I figli delle famiglie meno abbienti erano indifesi davanti al loro futuro, alla scelta della facoltà, alla conoscenza delle prospettive reali di impiego. Anche se non invidiavo quei poveri cristi predestinati a vivere un futuro preconfezionato all’interno di un ruolo deciso dalle loro famiglie, mi sembrava profondamente ingiusto negare gli studi a chi, più di me, meritava di andare avanti. Anche il nostro gruppo si domandava se e come organizzare il domani. Pur seguendo percorsi differenti, Did e Lario giurarono che sarebbero rimasti in contatto e avrebbero continuato gli esperimenti. Il primo era indirizzato verso una facoltà qualsiasi che gli desse la “licenza di uccidere” ovvero il permesso di ipnotizzare, il secondo avrebbe frequentato giurisprudenza per conquistare, una volta laureato, l’agognato posto in Comune. Did confessava di essere attratto dalla possibilità di conquistare, accumulare non “crediti scolastici” ma speciali “crediti evolutivi” e abilità psico-fisiche non trasformabili sul piano sociale, non riscuotibili in termini di redditività economica o immagine, ma tuttavia traducibili in capacità persuasive, intuitive, operative. Sperava di mettere l’ipnosi - o altre tecniche psicologiche acquisite in quell’ambito - al servizio non della psicoterapia, ma delle imprese desiderose di competere mediante la creatività e l’innovazione. A me sembrava una scommessa impossibile. L’ipnosi richiamava così facilmente una pseudocultura parapsicologica, risvegliava paure così ancestrali, che mi pareva difficile conquistare l’accesso al mondo aziendale e scientifico senza essere presi per maghi o fattucchieri. Confrontandomi con le aspettative di Did, mi scoprivo più incerto di lui, che invece sembrava sapere cosa attendersi, come muoversi, cosa cercare una volta fuori dal liceo. Aspirava a un’attività di ricerca intensa ma totalmente occulta, a una forma di
esistenza di basso profilo, sub-liminare, a uno scambio relazionale ridotto ai minimi termini, a una vita sociale protetta dalla indifferenza altrui. Mi chiedevo come avrebbe potuto, seguendo la via dell’anonimato, sopportare il peso di una ricerca portata avanti sulla lama di un rasoio. Did sembrava non preoccuparsene. Affermava di aver accumulato un tale patrimonio di progetti che, in caso di necessità, avrebbe potuto vivere di rendita. Mi disse che se avesse avuto la fortuna di riuscire a farsi dare un calcio in culo ed essere espulso per sempre da quella scuola, avrebbe cercato di guadagnarsi un titolo qualsiasi, così da poter esercitare senza troppi ostacoli la professione di ipnologo o ipnotista in qualche parte del mondo. Sosteneva che quello che aveva imparato nella Scuola Parallela, sarebbe bastato per garantirgli una proficua attività “mercenaria”. Diceva: “Qualche impresa illuminata sarà pur interessata a sperimentare nuovi metodi per incentivare l’elaborazione e la creazione di nuovi prodotti/servizi da proporre al mercato”. Credeva che sarebbe riuscito a sfruttare quella sua esperienza di ipnotista imberbe, a svilupparla in sistemi strutturati per favorire l’insightcreativo. A dispetto delle mie prudenti riserve, nella visione di Did si apriva nel futuro uno straordinario ventaglio di possibilità. A fine maggio, dopo mesi di tentativi e sperimentazioni sulla nostra pelle, la transizione da uno stato psicofisico di percezione ordinaria a uno più evoluto nel quale la sensibilità diviene più sottile, tale da far sentire i flussi dell’energia esterna e interna all’organismo, era finalmente avviata. Durante la fase di sospensione del respiro avvertivo le “correnti” che fluivano nel corpo, anche se non riuscivo a dirigerle. Ma Did sembrava essere andato oltre. Quando gli chiedevo se avesse percepito la misteriosa Kundalini descritta da Ernest Wood, si schermiva e rideva. Non voleva rivelare i suoi segreti. Un giorno, spazientito, lo affrontai: “Come fai a saperne sempre più di me?” “Son più vecchio di te…” rispose. Mi disse che occorreva sviluppare degli occhi felini per riuscire a vedere nel buio della notte, nella tenebra della realtà e sopportarne l’impatto senza farsi
ingannare dalle illusioni e dai giochi delle ombre. Aggiunse che bisognava possedere una “mente oscura”. “Cos’è la mente oscura?” chiesi. “È una mente molto antica impastata con la materia oscura dell’universo. La tua mente è giovane, semplice e chiara, come un vetro trasparente. Ma come il vetro, non trattiene le immagini. La mente giovane non assorbe le idee che attraversano il cervello, per cui non lo trasformano. La mente oscura invece è un buco nero che attira le immagini e le idee… può essere resa lucida come uno specchio, in modo da rielaborare e riflettere le forze che l’attraversano. Può brillare come la pietra nera che viene adorata alla Mecca…” Intanto il prof. Corelli ci aveva affidato alcune ricerche, delle piccole tesi, da portare all’esame per far colpo sulla commissione esaminatrice che si annunciava molto esigente. Did si incaricò di preparare una ricerca sulla psicoanalisi. Io fui fortunato, perché partecipai in qualità di co-relatore alla stesura del lavoro, l’unico che Did prese sul serio prima della maturità. La parte che venne presentata ufficialmente fu solo la prima, che avevo redatto personalmente perché Did ritirò la seconda parte quando si accorse di essere andato troppo in là nella sua critica alla concezione psicoanalitica della libido. Non era più una ricerca, ma una contestazione. Il nucleo della tesi di Did consisteva nell’affermare che la pulsione sessuale era un’espressione della forza vitale che si poteva percepire a livello dell’osso sacro. Freud trattava la libido come una specie di spinta primordiale, mentre invece, secondo Did, era solo la manifestazione sensibile di un qualcosa di più profondo e atavico che poteva essere percepito come energia lungo la colonna vertebrale. L’uomo comune sentiva l’espressione di quella forza attraverso il sesso, ma non la forza in sé. Infatti non la dominava ma ne era dominato. Impossibile gestirla senza essere consapevole della sua origine e “radice”. Da qui la schiavitù del desiderio e la necessità del suo superamento, ben diverso dalla condanna e dalla repressione della sessualità da parte della morale cattolica. Del pensiero freudiano ci piaceva l’affermazione che era la società a doversi adattare alle esigenze dell’individuo, non viceversa. Ma la concezione della
libido ignorava del tutto l’esperienza della Kundalini. Perfino per Gustav Jung questa era solo un simbolo: la dea-serpente, una entità fallica archetipica. Invece era una forza vera, fisicamente percepibile, a-sessuata perché inclusiva di entrambe le polarità, e che poteva essere sperimentata. Piuttosto di lavorare come gli antichi sciamani a contatto con la forza primigenia che giaceva dormiente nella materia vivente, gli psicoanalisti avevano ridotto questa energia intelligente a semplice icona, a un insieme di significati astratti e riferimenti simbolici. Ancora oggi, a più di duecentosettanta anni dalla nascita di Mesmer, fondatore dell’ipno-magnetismo, precursore dell’ipnosi moderna, e a più di centodieci da quella di uno dei più anticonformisti discepoli di Freud, Wihleim Reich, scopritore della discussa energia orgonica e ispiratore della bioenergetica psicosomatica, in determinanti ambienti si corre un certo rischio a parlare di “bioenergia”.Perciò sembrava del tutto fuori luogo inserire il concetto di bioenergia nella ricerca. Quel che Did sosteneva nella relazione, mi incoraggiava tuttavia a continuare nella pratica del pranayama. Lo tampinavo perché mi fornisse ulteriori indicazioni e consigli. Un giorno, a metà giugno, mi consigliò: “Se vuoi avvertire la Kundalini, durante la fase di sospensione del respiro rimani perfettamente immobile e concentrati sull’osso sacro, sentirai il movimento delle spire del serpente…” Mi spiegò che nel linguaggio c’era una sapienza originale che precede e supera i significati comunemente attribuiti alle parole. L’espressione tratta dalla terminologia anatomica di osso sacro, rivelava l’esistenza di una sacralità insita nelle ultime vertebre, poste alla radice, fuse insieme alla parte terminale del coccige. Per le tradizioni esoteriche l’osso sacro era la sede anatomica, lo “scrigno” del fuoco sacro. Poco prima degli esami scritti, cominciai ad avvertire alla base della colonna vertebrale una strana pressione ascendente, che a poco a poco si trasformò in una sensazione di frizione interna. Ero al settimo cielo. Confrontandomi con Did, scoprii che le sensazioni che avevo appena sperimentato erano anche le sue. Eravamo riusciti finalmente ad accendere la scintilla della dea!
Quel lucore, quella scintilla, sarebbe diventata rovo ardente, favilla lucente? Per noi la percezione di quella brace pulsante sotto la cenere della materia biologica era una conquista straordinaria. Non sapevamo se con l’aiuto dell’ancora timida fiammella saremmo riusciti a purificare noi stessi dalle debolezze, ipocrisie e miserie che ci soffocavano. Tuttavia avevamo la certezza che nessuna acquisizione sul piano mentale e concettuale, per quanto stratosferica, avrebbe potuto sostituire il valore della percezione, nel proprio stesso corpo, di quella energia che i testi classici dello yoga chiamavano “la Shakti, la dea Kundalini”. Una scoperta che doveva rimanere segreta, se non si voleva essere presi per folli. Nessuno di noi voleva finire in un ospedale sottoposto a cure psichiatriche per qualcosa che la medicina, pur avendo adottato il simbolo del caduceo, il serpente alato che ascende sopra un asse verticale, non riusciva nemmeno a concepire. Ormai avevamo fatto l’esperienza della fiamma e poco importava sapere se ci avrebbe salvati o distrutti, poiché si trattava di una conquista essenziale che coronava i nostri sforzi, la nostra temerarietà, la nostra ingenua curiosità. Nello stesso tempo infatti ci sentivamo smarriti: come alimentare quella lingua di fuoco che ardeva incerta e fluttuante dentro il nostro corpo? Sarebbe cresciuta? Divampando dentro noi stessi, avrebbe potuto travolgerci come una scia di luce, un lampo che per un attimo rischiara e sconvolge? Intanto tremolava in quei pochi istanti di ritenzione del respiro, ancora acerba, primitiva, come il primo fuoco da una mano umana. Scambiandoci giorno per giorno le nostre impressioni, vivevamo sentimenti contrastanti. Did confessava di sentirsi un Gulliver tenuto prigioniero dai lacci stretti attorno a lui da una massa di minuscoli esseri. Li guardava come ex-compagni di avventura che erano stati trasformati da qualche maga Circe in creature estranee, sonnambule. Anche noi ci sentivamo piccoli quando ci misuravamo con le grandi sfide che avevamo accettato, ma al tempo stesso grandiosi rispetto alle insignificanti questioni che si agitavano intorno a noi e ci infastidivano come le punture di
spillo o il morso di uno sciame di zanzare svolazzanti in una palude limacciosa e putrida: voti, interrogazioni, esami, professori nevrotici, procedure accademiche ci sembravano di importanza infinitesimale rispetto alla ricerca di una verità più profonda. Si trattava di fare solo le cose serie, e la conoscenza era una cosa seria. I voti non lo erano. Le convenzioni sociali nemmeno. Io cominciavo a vedere gli gnomi che ci circondavano come giganti inconsapevoli della potenza che si nascondeva anche dentro di loro. Capivo, in quell’ambiente, in quell’isolamento mitigato dalla presenza di Did, quanto la singolarità potesse essere eversiva e rivoluzionaria. La nuova percezione non ci prometteva risultati miracolistici, ma permetteva di trascendere la materia, il corpo, restando nello stesso tempo ancorati alla vita reale attraverso la connessione con la sua essenza nascosta. A essa avremmo sempre potuto attingere. Non avevamo poteri, anzi saremmo stati sottoposti a una turbolenza ancora maggiore, saremmo stati costretti a conquistare un superiore equilibrio oppure saremmo caduti.
La scoperta della Kundalini rimaneva incomunicabile. A chi rivelarla? Impossibile parlarne con i genitori, i docenti e i compagni, con qualche sacerdote, con eminenti membri della chiesa locale ai quali si attribuiva da più parti una certa familiarità con le questioni dello spirito. Did mi metteva in guardia contro il rischio di essere emarginato dalla società e mi invitava al silenzio, a secretare dentro di me le esperienze e le sensazioni, le emozioni di quella scoperta, di quel viaggio impossibile. “Non pensi che qualche illuminato professore di filosofia ci possa ascoltare, aiutare?” provai a confortarlo. Ma la sua risposta scavava un solco ancora più profondo tra noi e le possibilità di comunicare il nostro segreto: “Per sapere se esiste nella sua parte mortale, organica, una scintilla di potenzialità extra-umana, il tuo illuminato professore
dovrebbe forse pensare di meno e fare un po’ di pranayama. Quando il pensiero è molto strutturato, si erge sopra le sensazioni e la percezione della realtà, non se la sente di dividere la sua sovranità con il corpo. Se ne separa per cercare di costituirsi quale entità indipendente. Ma è un’illusione. Si pensa attraverso il corpo, si ragiona in base alla propria fisicità”. Lo ascoltavo rassegnato. Continuò: “Abbiamo scoperto che la Kundalini esiste davvero e la sentiamo muoversi nel corpo. Se rivelassimo questa scoperta nessuno ci crederebbe. Tu credi che i pensatori di professione accetterebbero di confrontarsi con questa nuova percezione? Li vedi i nostri insegnanti che si sottomettono alla disciplina yoga e iniziano a praticare umilmente le tecniche di respirazione? Non lo faranno mai. Forse tra 1154 vite o ancora più in là. Hanno un intelletto molto sviluppato che non cederà facilmente la sua conoscenza astratta alla rivelazione dell’esperienza sensoriale. Molto meglio continuare a fare i filosofi, a recitare il ruolo di insegnanti senza cambiare le proprie abitudini, il proprio vissuto organico”. “E il mondo, la politica?” lo provocai. “Qui non c’entra la lotta di classe. Lo sviluppo personale, per esempio il pranayama, è una cosa democratica, una disciplina alla quale può sottoporsi l’operaio quanto l’ingegnere, l’imprenditore e il bidello, il giudice e il poliziotto.”
Mentre si susseguivano gli esami, si era rafforzato in noi il desiderio di coltivare la nostra essenza interiore piuttosto che perseguire risultati socialmente riconosciuti. Dopo gli scritti di matematica e letteratura italiana, eravamo pronti a tracciare un bilancio complessivo della nostra esperienza liceale. Avevamo attraversato l’adolescenza, il liceo, ma eravamo rimasti ancora un po’ fanciulli. Il bambino non ha un sistema di credenze, è fluido e innocente. La sua fantasia è sfrenata: per lui tutto è possibile, quindi catalizza miracoli. Did aveva accumulato un capitale strategico di informazioni inerenti la
conoscenza di tecniche persuasive e lo sviluppo di facoltà straordinarie. Non si trattava solo di capitale cognitivo, ma esperienziale. Io ero stato testimone di un apprendistato inusuale, in me si erano risvegliate percezioni formidabili e mi chiedevo ansiosamente come avrei potuto gestirle. Per quattro anni Did mi aveva ossessionato, ma era stata un’ossessione feconda. La sua mancanza di rispetto per le mie prudenze e paure, il suo anticonformismo intellettuale, il suo intrepido tuffarsi nel mondo dell’esperienza senza vincoli fideistici e morali, mi atterrivano ma nello stesso tempo esercitavano su di me un fascino irresistibile. Egli rappresentava qualcosa che io non potevo essere. La sua temeraria irresponsabilità avrebbe potuto renderlo capace di autentiche imprese e disastri imponenti. Ma nonostante la consapevolezza di questi rischi, sapevo che lo avrei seguito ovunque. Quando insieme ai miei compagni avevo lasciato alle spalle le medie inferiori, il liceo costituiva un aggio obbligato per poter frequentare una facoltà universitaria. Presto l’accesso all’università sarebbe stato allargato ai licenziati da tutte le scuole superiori. Io avevo cercato di assimilare un minimo di informazioni necessarie per orientarmi verso una professione futura, ed ero arrivato alla conclusione che qualsiasi scuola avessi frequentato, lo sviluppo delle competenze tecnico-professionali poteva non includere affatto una crescita della coscienza personale. Si poteva studiare, prendere bei voti e forse diventare dei bravi professionisti rimanendo dei perfetti automi, dei “dormienti”. Avevo imparato che conveniva dare il massimo nelle cose in cui si crede, senza risparmio e senza paura, senza dipendere dal giudizio altrui o attendere premi, zuccherini avvelenati. Grazie a Did, avevo partecipato a una specie di training che mi aveva mostrato la realtà di questi fenomeni:
il potere dell’ipnosi a livello fisico e mentale; l’installazione di un meccanismo per automatizzare ed espandere la memoria; la stimolazione del processo ideativo; il controllo dell’attività onirica e la sua gestione a fini creativi;
l’uso dell’inconscio per ideare esperimenti; evocare e studiare nuove percezioni psicofisiche ed energetiche.
La notte prima dell’ultimo esame orale, io, Lario, Tatus e Did avevamo ato le ore stesi a terra, a testa in su a guardare il soffitto e a bere birra. A un certo punto della notte, dopo aver riato alcuni concetti generali della materia d’esame, quando ci sembrava di aver esaurito tutte le parole, tutti gli sfoghi, dato voce a tutte le paure, nel buio totale, mentre eravamo in una specie di dormiveglia Did lanciò il primo dei suoi strali: “Fanculo ai professori di matematica che te la insegnano come se si trattasse di un calcolo contabile, senza brividi concettuali e metafisici”. “Fanculo!” rispose debolmente uno di noi. Confortato da quella oscura adesione, continuò: “Fanculo a chi ti giudica per quello che sai e non per quello che sei”. “Fanculo!” rispose questa volta più di una voce. “Fanculo ai genitori che scaricano sui figli le loro nevrosi per trasformarli nelle brutte copie di quello che avrebbero voluto essere e non sono riusciti a diventare.” “Fanculo!” ripetemmo in coro. “Fanculo alle nostre compagne che la danno solo ai ricchi e ai leader esibizionisti!” “Fanculo!” “Fanculo ai preti che vogliono farti credere che la loro fede sia l’unica e assoluta verità…” “Fanculo!” “Fanculo alla religione di Stato e ai presidi monsignori cappellani militari…”
“Fanculo!” “Fanculo ai compagni che vogliono cambiare il mondo senza cambiare niente di loro stessi!” “Fanculo!” “Fanculo alla dottrina marxista, incapace di leggere la realtà oltre le dinamiche economiche e di classe della storia!” “Fanculo!” “Fanculo alle leggi fasciste ancora in vigore!” “Fanculo!” “Fanculo alle insegnanti di inglese che insegnano in italiano…” “Fanculo!” “Fanculo ai professori mestieranti che tirano avanti solo per arrivare al 27 del mese…” “Fanculo!” “Viva il presente, fanculo a quello che è stato e a quello che ci aspetta…” “Fanculo!” “Fanculo alla droga e alla mafia!” “Fanculo!” “Fanculo alle belle fighe che hanno la testa vuota come una campana!” “Fanculo!” “Fanculo a noi stessi quando abbiamo negato una gentilezza alle nostre compagne, ai nostri compagni e professori e ci siamo comportati da scorbutici e da stronzi…”
“Fanculo!”
Quando le serie dei fanculo finì, Did iniziò un’altra serie di esclamazioni: “Gloria ai professori scomodi e incompresi che, nonostante questa scuola di merda, riescono a trasmetterti la ione per quello che insegnano!” “Gloria!”lo incitammo, sempre più svegli. “Gloria agli studenti che se ne fanno un baffo, anzi due, di voti e pagelle e cercano la conoscenza senza aspettarsi nulla in cambio, ricompense e riconoscimenti del cazzo!” “Gloria!” “Gloria agli eretici che sono stati messi al rogo, a quelli sconosciuti e agli esclusi che hanno saputo resistere alla tentazione di aderire a una ideologia o a una chiesa!” “Gloria!” “Gloria a tutti quelli che preferiscono andare all’inferno piuttosto che vendere l’anima per la promessa della salvezza eterna!” “Gloria!” “Gloria alle femmine carine con molto sale in zucca!” “Gloria!” “Gloria alle donne intelligenti, sensibili e racchie!” “Gloria!” “Gloria a chi cerca onestamente di migliorare se stesso anche se non ci riesce.” “Gloria!” “Gloria a chi sa ammettere di non saper amare ma non rimane insensibile alle sofferenze altrui!”
“Gloria!” “Gloria a chi ama la natura, gli alberi, tutte le bestie e gli animali!” “Gloria!”
Qualche giorno dopo, gli esami orali si conclo in una calura soffocante. Non rimaneva che attendere l’esito finale. La tensione era alle stelle. Il compito di matematica era stato un disastro. Ecco com’era andata. I rampolli di alcune famiglie bene andavano regolarmente a ripetizione di matematica da una insegnante intraprendente. Il mercato nero delle lezioni private rappresentava per una certa categoria di professori di latino e matematica, una voce importante del loro bilancio familiare. La scuola che non riusciva a spiegarsi alla mattina, faceva pagare al pomeriggio una preparazione supplementare che non era servita però a farci superare la paura del compito di matematica, vero scoglio della maturità scientifica. Pertanto l’insegnante si era dichiarata disponibile a risolvere il compito finale della maturità in quattro e quattro otto, a patto di averne una copia in tempo utile. Così era partita in sordina una grande operazione per far uscire dal liceo il testo del compito e far rientrare in gran segreto un foglietto con il suo svolgimento. Il giorno prima dell’esame Lucio aveva sostituito il pomello dello sciacquone del bagno della palestra, dove si sarebbe svolta la prova fatidica. Il mattino seguente, irreggimentati nelle file dei banchi, i candidati riempivano la grande sala della palestra femminile. Era un edificio in stile fascista che aveva le vetrate alte come il duomo della città e le mura talmente spesse da assomigliare a quelle di una roccaforte medievale. Dieci minuti dopo la dettatura del problema, che conteneva equazioni a tre incognite, Lucio, facendo credere alla Commissione d’esame di soffrire di incontinenza alla vescica, aveva ottenuto il permesso di andare in bagno e vi si era recato con un foglietto sul quale era riuscito a trascrivere i dati del problema e lo aveva nascosto accuratamente nel pomello dello sciacquone. Subito dopo, un tizio travestito da bidello era entrato in bagno, aveva sfilato il
foglietto dal pomello ed era uscito dalla scuola per consegnarlo nelle mani della professoressa che attendeva in auto nei pressi. L’insegnante risolse il problema e scrisse il risultato ottenuto su un altro foglietto che il falso bidello risistemò nel pomello poco dopo. A quel punto uno studente andò in bagno a sua volta per ritirare la soluzione. Tornò al banco. La copiò e la distribuì con grande circospezione ai selezionati compagni che erano in attesa. Prima ancora di entrare in Università e nel mondo del lavoro, qualcuno aveva già imparato a truccare le carte e a dribblare le regole del gioco (che evidentemente non erano uguali per tutti). Io, insieme a molti altri, seppi solo dopo molti anni quel che era accaduto. Quel giorno, come tanti compagni, non riuscii a risolvere il problema. Riflettevo sui dati di partenza senza venirne a capo. Did pareva un pesce fuori dall’acqua, ma non era il solo. Intorno a me vedevo facce affrante e sguardi disperati. Il diavolo, almeno in quella occasione, ci mise però lo zampino e pareggiò i conti. I risultati copiati erano sbagliati. Nell’impostazione stessa del problema c’era un errore. Lo svolgimento frettoloso dell’insegnante non teneva conto del fatto che per risolverlo occorreva considerare una quarta incognita. L’errore non permise che i bravi studenti si distinguessero dai pessimi, e consentì a questi ultimi di salvare le penne perché a causa della fatale imprecisione nessuno era riuscito ad arrivare al risultato esatto. L’unica a non cadere in quella trappola involontaria fu Carla, che in quell’occasione diede prova definitivamente della sua superiore abilità logica. Inserendo una nuova incognita, attraverso una serie di aggi intermedi corretti, giunse alla soluzione. Agli orali se ne videro di tutti i colori. Alcuni avevano pensato di superare lo stress delle interrogazioni decisive bevendo mezz’ora prima un bicchiere di vodka ghiacciata. Altri, pur essendo agnostici, avevano pregato e si erano fatti il segno della croce.
Ogni giorno d’esame, scritto od orale che fosse, Lucio era stato obbligato dalla madre, che credeva nell’azione immediata del fosforo quale coadiuvante della memoria, a mangiare a colazione una trota intera. Temeva che il caldo squagliasse quel che il figlio aveva appreso in un anno di studio assiduo e diligente. Tatus affrontò gli esami procurandosi una trance per meglio affrontare le prove. Una nostra compagna mise in atto uno svenimento strategico alla prima domanda dell’orale di matematica. Una buona parte ripeté ai professori quel che aveva riato frettolosamente sul Bignami. Guglielmo, che fino alla fine era stato tenuto sotto pressione con la minaccia del 5 in condotta, dopo essere stato ammesso agli esami li aveva superati senza ostacoli. Did era stato pessimo nel compito di matematica, e perfino nel suo tema di italiano non aveva convinto del tutto la Commissione. Agli orali si era arrampicato sugli specchi. Travolto dalle battute finali della maturità, si dimenticò completamente della sua promessa di disattivare gli ordini installati nella psiche delle sue ultime vittime. Le conseguenze di questa sua sciagurata inaffidabilità furono imprevedibili. Pensavo che gli ordini ipnotici avrebbero perso potenza e si sarebbero dileguati con il tempo. Invece in alcuni casi l’istruzione aliena restò operativa. Le suggestioni non furono rimosse e queste cambiarono il destino delle persone, reiterando i comportamenti indotti. La sua attività quindi non era stata innocua e avrebbe lasciato altri strascichi nel tessuto e nella storia di molte vite coinvolte nella tumultuosa e oscura attività sperimentale di quegli anni. All’insaputa di insegnanti e genitori, Did aveva influenzato e in qualche caso contribuito a determinare la sorte di diversi coetanei e compagni. In barba alle famiglie e alle istituzioni, nei soggetti che avevano avuto a che fare con lui sopravvivevano dei condizionamenti di origine ipnotica. I soggetti non erano coscienti della genesi delle pulsioni che premevano per manifestarsi nella loro vita e nei loro comportamenti. Non solo avevano rimosso completamente il ricordo delle induzioni suggestive che avevano subito, ma ne
giustificavano le apparizioni manifeste e le tendenze residue mediante un processo di razionalizzazione. Marco, che aveva imparato a parlare in latino come un Cicerone, sarebbe diventato un importante funzionario di banca, ma avrebbe dedicato quasi tutto il suo tempo libero a visitare cimiteri e a collezionare opere d’arte funeraria. Forse lo sforzo del suo inconscio nel rielaborare i racconti di Poe, tra cui La cassa oblunga, aveva focalizzato il suo interesse per la tanatologia. L’input che non era mai stato disattivato si era trasformato in un’inconsapevole ossessione. Elio, il ragazzo del liceo classico “programmato” a riorientare le sue capacità ando dal latino alla matematica, fu obbligato a diventare avvocato, però continuò a coltivare una ione sfrenata per la scienza dei numeri. è diventato un esperto nel calcolo algoritmico, un cultore delle opere di Cantor, Godel e di altri studiosi di logica. Ancora oggi si infila abusivamente in qualche facoltà di Matematica per seguire almeno qualche lezione di algebra, di geometria dei solidi ed equazioni differenziali. A fine anno Alberto era finalmente riuscito a fidanzarsi con Elisa, una ragazza dalla fronte ampia, dalle braccia flessuose e dal polso talmente ben tornito che avrebbe esaltato qualsiasi bracciale. Ignaro della manipolazione subita, confessava di preferirla nuda, senza gioielli. Se ne era invaghito a tal punto da perdere letteralmente la testa. Oggi si sa per certo che l’attivazione della sua libido dipende ancora da quegli orientamenti codificati dal comando di Did. Per eccitarsi deve preventivamente sfiorare la fronte della sua Elisa, tastarle il polso, seguire una ritualità che prima della fatale suggestione post-ipnotica, gli era estranea. Tranne questi rari casi, con il tempo le tessere del mosaico erano andate a posto disegnando un panorama coerente. Alla fine tutto si era realizzato secondo le premesse date, come in una corretta equazione. Alla fine tutto era perfetto. Lario ha trovato finalmente il suo posto in comune e poi è riuscito a diventare funzionario statale nell’Ufficio delle Imposte della città.
Stefano ha messo a frutto il suo senso del gruppo e del gioco di squadra facendo della ione per il calcio la sua professione, esercitando l’attività di allenatore in squadre della Serie B e C. I figli dei cardiologi fanno i cardiologi. Alessandro, Carla e Guglielmo hanno costituito uno studio associato di architettura. L’erede del farmacista fa l’imprenditore in campo farmaceutico, Lella l’insegnante. Gli altri sono liberi professionisti e funzionari in qualche impresa pubblica o privata. Fulvia dopo la maturità è volata in Brasile e lì ha saputo inventarsi una vita lontana dai luoghi comuni, assumendosi tutte le responsabilità di una madre di famiglia. Le altre ragazze, pur avendo vissuto diverse esperienze professionali, sono impegnate attivamente nel volontariato culturale e civile. Il germe della contestazione coltivato dalle donne ha trovato in queste iniziative di grande utilità sociale il suo frutto migliore. Lucio è diventato ingegnere, possiede una collezione di migliaia di macchine in miniatura e una scuderia automobilistica che comprende, tra le altre vetture, una Alpine Renault e una Jaguar. Io svolgo l’attività di psicologo. Did fa il corsaro: scorrazza in lungo e in largo nel mondo della formazione e consulenza d’impresa, vendendo i suoi metodi, idee e progetti alle aziende che intendono investire nel capitale umano e hanno bisogno di know-how per far emergere i talenti delle persone, valorizzarne ed esaltarne le potenzialità così da far fronte alle sfide del mercato con l’innovazione ed originali strategie di marketing. Grazie al suo lavoro, riesce a finanziare autonomamente le sue ricerche. Collabora con gli astronauti in progetti di comunicazione e nella definizione di metodologie che dalle imprese spaziali possono essere tradotte in tecniche operative per le organizzazioni e le persone.
La nostra scuola parallela ha significato quindi ben più di un apprendistato professionale, di un mestiere. Secondo Did, avevamo compiuto conquiste incomunicabili. “Perché incomunicabili?” lo provocai, un giorno, mentre eravamo in attesa degli esiti della maturità. “Nessuno è seriamente interessato a queste conquiste, nessuno ci premierà per questo. A chi importerebbero le nostre scoperte? La piccolezza e la grandezza sono invisibili alla persona comune. Bisogna essere mediocri per essere capiti e accettati dalla mediocrità. Saremmo trattati come dei paria, se osassimo sfidare l’élite intellettuale cittadina e accademica, se solo rivelassimo la natura delle nostre avventure. Non aspettiamoci nulla da chi preferisce essere cullato da pie illusioni e teme l’ignoto. Nessuno ci seguirà, siamo soli.” “E allora?” “Allora solo noi possiamo riconoscere quello che siamo, pertanto dobbiamo onorare noi stessi, accettare la nostra grandezza. La nostra grandezza, anche se invisibile e misconosciuta, ci appartiene e nessuno può strapparcela. Dobbiamo essere fedeli e riconoscenti a noi stessi… è una questione di dignità. Dobbiamo essere pronti a soffrire l’emarginazione e a vivere nella nostra gloria nascosta.” “Cosa ci è rimasto dunque?” “Solo due cose… la percezione della fiamma sacra e la consapevolezza.”
Poco dopo la conclusione degli esami orali, io e Did ci presentammo davanti al liceo come due assassini che ritornavano sul luogo del delitto. Eravamo lì per conoscere i risultati della maturità. Io me la cavai con onore, un discreto 44, considerando che le medie generali erano piuttosto basse. Perfino a Carla non era stato concesso più di un 54. La commissione d’esame non aveva respinto nessuno della classe, ma non aveva certo regalato i voti.
Did lesse il suo misero 36 sessantesimi e il suo volto si distese in un sorriso di soddisfazione: era il punteggio più basso, ma sufficiente per uscire da quella scuola. Esclusa la possibilità di una corona d’alloro sulla testa, per lui un calcio in culo andava benissimo. Nel frattempo era arrivato un piccolo corteo di genitori concitati, soprattutto mamme che sembravano un corteo di pie donne che andavano speranzose a leggere dai tabelloni qualche buona novella. “Fanculo!” esclamò Did contento, girando le spalle, alzando le mani per un breve saluto e correndo verso la bicicletta che, appena appoggiata con la punta del pedale sul bordo del marciapiede, era rimasta pericolosamente in bilico. Le pie donne si guardarono sdegnate e gli lanciarono un’occhiata di disapprovazione che egli non fece in tempo a raccogliere. Era già lontano, in fondo al viale alberato che divideva il parco in due, quando la sua voce ci raggiunse: “…Adesso sì che posso incominciare a divertirmi!” Alzando lo sguardo, in quel momento vidi uno stormo di uccelli sorvolare la scuola e i giardini. Uno di essi si staccò, un altro lo seguì e si misero alla guida dello stormo. Mi ricordarono alcune immagini di creature alate che avevo ammirato in qualche enciclopedia. Forse si trattava di due falchi reali. Chissà dove stanno andando… mi sorpresi a pensare. Mi rispose una voce interna: “Non stanno andando da nessuna parte, non vanno in alcun luogo… sono liberi, sono falchi senza nido, sono creature senza meta”.
Postfazione
Dopo un adeguato numero di pagine (mettiamo alla fine del terzo capitolo), il lettore di questo singolare testo si pone di necessità una domanda: ma cos’è che sto esattamente leggendo? Dal non trascurabile numero di pagine che ha davanti, emergono infatti risposte contraddittorie: è un’opera narrativa, certo, perché è costruita su una serie di fatti più o meno avventurosi; esistono personaggi che si muovono, dialogano, contrastano fra di loro, e alla fine raggiungono una meta (di più, l’autore tratteggia anche la loro sorte futura). Tuttavia, il “romanzo” è anche molto altro: un saggio di psicologia (e qui Provana riprende alcuni spunti e alcune tecniche suggerite dal suo recente saggio Apprendimento Corsaro); una disamina (particolarmente acuta) dei difetti della scuola tradizionale e un catalogo delle doti del buon insegnate; alcune godibilissime vedute del sottobosco studentesco, e delle sue tecniche di sopravvivenza in una scuola che disumanizza e umilia; e soprattutto ampi brani, di carattere apertamente didattico e saggistico, sulle filosofie orientali, sulle religioni e sulle tecniche dello yoga. Lo sconcerto, tuttavia, si ricompone e si distende in una attesa vigile e interessata, quando ci si rende conto che i diversi elementi che compongono la struttura dell’opera non costituiscono altrettante digressioni o altrettante vie di fuga; al contrario si adattano e si armonizzano per dimostrare l’assunto principale dell’opera: e cioè la critica radicale della scuola del ato e la necessità di sostituire a essa (che si regge sopra le fragilissime basi del nozionismo, dell’opportunismo, dell’atrofia intellettuale) una scuola diversa, fondata sulla ricerca disinteressata, sulla scoperta, sull’apertura a mondi nuovi e insospettabili. La critica all’apprendimento comune (che utilizza con molta efficacia le argomentazioni della contestazione sessantottina, una stagione di cui Provana ricrea la freschezza e l’ansia di liberazione) non appare quindi fine a se stessa, ma è orientata piuttosto a preparare il terreno per impiantarvi, al suo posto, una nuova e ben più efficace esperienza di studio e di vita: il primo dei due termini non è concepibile infatti senza il secondo. Al centro di qualsiasi avventura esistenziale (e anche l’apprendimento ne fa parte) si deve sempre porre infatti la personalità individuale, la sua ricerca, il suo sviluppo verso un traguardo veramente appagante.
La salvezza insomma nasce da se stessi, dal di dentro: e in questo Provana trova un accordo fra l’originario spirito del Cristianesimo (tradito da una gerarchia e da un clero che hanno fatto dell’esperienza religiosa un mestiere) e le religioni orientali, che insegnano a ricercare oltre il sensibile, che trovano nel corpo, nei sensi, nell’esperienza fisica la chiave per andare oltre (i filosofi occidentali dovrebbero pensare di meno e sentire di più con il loro corpo, afferma a un certo momento Did, l’enigmatico protagonista del romanzo). Non è certo per caso che i personaggi principali del romanzo finiscono per sfiorare o attraversare quasi tutte le organizzazioni politiche esistenti in una caratteristica città di provincia dei tardi anni Sessanta, da tutte ricavando qualcosa e a nessuna offrendo un’adesione incondizionata. La salvezza (o la saggezza, la scoperta di sé) viene sempre da un cammino interiore, personale, non privo di ostacoli e di sofferenze, di incertezze e di dubbi (sembra spesso di intravedere sullo sfondo la tensione, ma anche l’angoscia, verso l’oltre che caratterizza l’“oltre uomo” di nietzschiana memoria, del resto esplicitamente ricordato). Ma un’altra via non esiste, come conferma puntualmente l’ultimo capitolo, un’autentica summa del romanzo, in cui praticamente tutti i nodi vengono al pettine e tutti, in qualche misura, collegati fra loro e orientati a definire il futuro che attende i giovani protagonisti. Non esclusi, sia ben chiaro, le perplessità, i dubbi, anche i momentanei cedimenti allo sconforto e alla paura della perdita di sé, che si infittiscono proprio in queste pagine finali, siglate con un sottotitolo significativo: Alla fine, tutto è perfetto. Sconcerto iniziale del lettore, si diceva, ma sconcerto che viene man mano attenuandosi, nella misura in cui gli intendimenti dell’autore diventano sempre più chiari: delineare un rito iniziatico, un’esperienza di vita più autentica e vissuta, e segnare i tratti di una scuola parallela che viene intesa come un mezzo privilegiato per accedere a questa nuova esperienza, a un’esistenza del tutto rinnovata. A lettura ultimata, si comprende, fra l’altro, perché l’autore abbia scelto di far interagire fra di loro tratti così diversi, e in apparenza inconciliabili, del vissuto umano e delle forme culturali destinate a esprimerli: perché l’ideale di vita che l’autore sogna, l’utopia a cui si dovrebbe approdare si basa non sulla separazione e sull’esclusione, ma sulla compresenza di tutte le scelte, e sulla possibilità di cogliere di ciascuna il bene, l’energia, la spinta iniziale e coinvolgente, il progetto liberatore, prima che la forza originaria venga annullata dalla pigrizia, dalla consuetudine, dalla tendenza a irrigidire e a fossilizzare (e anche in questo si coglie molto dello spirito carnevalesco del Sessantotto). È significativo che nel capitolo conclusivo, l’autore i in rassegna le principali
filosofie e religioni occidentali, i moti di rinnovamento che ne hanno caratterizzato lo spirito, dimostrando la loro conciliabilità, prima che siano ridotte a maschere di loro stesse, a mediocri caricature di quanto avevano progettato e sperato.
Causare sconcerto, provocare appartiene del resto alla forma mentis di Provana e certo sta alla base della sua operazione narrativa. Occorre tuttavia intendersi: il lettore non è vittima di quel tipo di provocazione architettata a freddo, e attuata solo per provocare in lui un interesse momentaneo, un brivido di scandalo destinato a farlo rimanere alla superficie delle cose. Lo scandalo di Provana è essenzialmente intellettuale, interiore, e rifugge come da una sconfitta il ricorso a un linguaggio violento e sopra le righe (a parte i casi in cui cerca di mimare la parlata goliardica dei giovani studenti) per affermare, anzi imporre, la sua visione delle cose. Un motivo di sconcerto può apparire, ad esempio, il tono generale del suo romanzo, e il tipo stesso della sua scrittura non sono poi tanto lontani dalle raccomandazioni che Pietro Verri poneva in principio al suo saggio contro la tortura, uno dei pamphlet più affascinanti e civilmente impegnati della letteratura italiana. Dopo aver criticato tutti gli “uomini d’ingegno e di cuore” che hanno deplorato l’uso della tortura nei processi penali partendo da principi generali e astratti, e usando un linguaggio troppo al di sopra della capacità media dei loro lettori, Verri aggiunge programmaticamente: “La verità si insinua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo lettore parte dalle idee comuni e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi a lei anzi che dall’alto annunziandola con tuoni e lampi i quali sbigottiscono per un momento indi lasciano gli uomini perfettamente nello stato di prima”. (P. Verri, Osservazioni sulla tortura, Milano, Serra e Riva, 1985, p. 3). Esattamente così procede lo scrittore: la critica appare netta, diretta, senza quartiere; eppure difficilmente il lessico ne rimane travolto e perde equilibrio e compostezza. La struttura stessa del romanzo, che allude a una lenta, faticosa, progressiva conquista, toglie ogni sospetto di superficialità e allude piuttosto a una conquista ardua, da ottenere con la costanza e il coraggio. Raramente Provana fa uso di quel linguaggio esoterico, tanto suggestivo quanto
evanescente, che risulta troppo spesso la via di fuga di pubblicazioni più orientate a suggestionare la coscienza e a intorbidire i sentimenti che a indicare con chiarezza un percorso. Molto spesso, specialmente nelle pagine iniziali, il linguaggio è fitto di appigli alle esperienze comuni, alla quotidianità; lo sfondo alle esperienze esoteriche di Did e del suo gruppo appare sempre una realtà storicamente o addirittura cronachisticamente definita. Niente a che fare con i romanzi di fantasy o le saghe con maghi alla Harry Potter. La città, il liceo scientifico, la contestazione studentesca, gli insegnanti apionati e quelli che attendono solo la fine del mese costituiscono una “quinta” teatrale assai reale, che raramente (ed è qui la suprema abilità del narratore) stride con il susseguirsi degli esperimenti “proibiti” dei giovani “apprendisti stregoni”. Proprio sulla base delle indicazioni verriane (ma, in genere, di tutta la tradizione illuministica milanese), il linguaggio si snoda chiaro, efficace proprio per la sua quotidianità, per l’incessante logorio delle sue metafore. È davvero raro riscontrare in queste pagine il gergo iniziatico di tanta parte della letteratura di magia; i riferimenti sono semmai alla filosofia, alla sociologia, all’arte. Alcuni brani (quelli destinati soprattutto a illustrare le diverse teorie esoteriche fino allo yoga, l’approdo finale) traggono anzi forza dalla loro chiarezza, da una certa progressiva ripetitività didattica, dal momento che le questioni di fondo vengono espresse e ribadite più volte, quasi ad assicurarsene la comprensione. Infine, è deliziosamente provocatoria, proprio perché radicata nel razionalismo e nello scientismo illuminista, la sfida che viene lanciata al lettore: come puoi rifiutare senza sperimentare, e come puoi sperimentare se non accetti di abbandonare, neppure per un attimo, le sicurezze intellettuali e le abitudini di vita nelle quali ti sei imbozzolito e hai cercato per anni rifugio ed equilibrio. Sullo sfondo, anche se non evocata, si disegna la situazione tante volte (ipocritamente) deplorata dei filosofi aristotelici che si rifiutano di guardare nel cannocchiale che Galileo ha approntato per loro.
Tuttavia, contenuto e provocazione intellettuale a parte, Una scuola parallela intende essere un romanzo, e ne presenta tutti i caratteri essenziali, anche se,
coerentemente, non vuole possedere la struttura classica dell’opera di narrativa regolare. Il testo possiede un protagonista, Did, e un narratore che si incarica di fermare sulla carta le imprese che questi compie e di commentarle con espressioni che appaiono a tratti entusiaste, a tratti perplesse, a volte angosciosamente incerte. Il cronista, la voce narrante (l’alter ego del protagonista, le due facce che compongono la personalità dello scrittore) si assume anche il compito di commentare a posteriori, a distanza di tanti anni, l’accaduto, e di aggiungere informazioni, di riformulare giudizi, senza mai veramente rinnegare la straordinaria esperienza di cui è stato testimone (anche se, lo ripeto, non lesina le critiche, a volte molto esplicite, a Did stesso). Questa figura, questa modalità di relazione appartengono alla cerimonia iniziatica, riformulano il rapporto che esisteva tra l’iniziando e l’iniziato; meglio ancora riattivano in un contesto diverso i legami tra lo sciamano e il suo discepolo, tra il gerofante e il giovane desideroso di sapere nei riti orfici. Ma la coppia disegnata da Did e dal narratore trova anche notevoli corrispondenze letterarie, soprattutto nei romanzi gialli di scuola inglese, e prima di tutto nella coppia costituita da Auguste Dupin e dal suo anonimo cronista: certamente il modello più vicino a quello utilizzato da Provana. In Did confluiscono tutte le stranezze, tutta la orgogliosa solitudine intellettuale, il sottile disprezzo per le convenzioni sociali che erano caratteristiche di Dupin, ma anche quell’aura di magia, l’ambigua volontà di oltreare il limite che apparivano anche in alcune pagine esoteriche di Duplice delitto alla Rue Morgue. Del resto Edgar Allan Poe, l’autore più citato nel romanzo, è il vero nume tutelare dell’opera; suggerisce personaggi, situazioni e forse il tono generale del testo: difficile per esempio non collegare uno dei momenti più drammatici dell’opera (il duello con il demone Astro condotto attraverso un amico-cavia sottoposto a ipnosi) alla Testimonianza sul caso del signor Valdemar del grande scrittore americano, in cui avviene un fatto analogo. Proprio in quanto romanzo, Una scuola parallela possiede poi una struttura narrativa regolare, per quanto l’azione sia molto più interna che esterna: allo scrittore interessa di più ciò che avviene dentro le persone che quello che fanno o dicono, pur se il decorso dei quattro anni di liceo che costituiscono il limite cronologico dell’opera è costellato insistentemente dalle domande, dai dubbi e dai continui esperimenti esoterici dei personaggi.
Un altro elemento di continuità è offerto dalla scelta di iniziare quasi sempre i capitoli con riflessioni di ordine generale, e a volte con brani di carattere didattico e informativo che preparano l’avvio dell’azione vera e propria. Non mancano, infine, pagine umoristiche e grottesche, in cui sembrano trovare spazio le frecciate crudeli e deformanti di tanti studenti all’indirizzo dei professori “carogna” responsabili della loro noia e della loro infelicità. Una trovata narrativa davvero efficace, proprio perché rafforza l’ordito ideologico del romanzo, è il lungo brano, posto nel capitolo finale, in cui i protagonisti mimano fra di loro un esame di maturità autentico (maledicendo e benedicendo, rispettivamente, quanto li ha confusi e umiliati e quanto di buono hanno imparato): uno sprazzo di autentica e sincera vitalità che si contrappone, programmaticamente, all’esame di maturità istituzionale, segnato da aridità, incomprensione e dai soliti imbrogli sottobanco. Una scuola parallela si fonda insomma sopra una vera e propria struttura narrativa, che racconta un’esperienza eccezionale, ma non trascendente, e che chiede ascolto e complicità ai lettori attraverso uno stile accattivante e una critica decisa alle Istituzioni.
Prof. Vittorio Dornetti Docente di letteratura italiana e critico letterario (www.apprendimentocorsaro.com)
L'Autore
Roberto Provana è nato il 28/12/1953 a Izano (Cremona), vive e lavora nella Svizzera Italiana. Laureato in Psicologia e specializzato in Psicoterapia Clinica, lavora in qualità di formatore del personale e di consulente nell’ambito della comunicazione e della creatività presso importanti imprese e istituzioni. Svolge attività di ricerca indipendente nel campo dell’ipnosi sperimentale. È autore di molti testi e saggi, tra cui: Apprendimento Corsaro, La Vendita Perfetta, La Mente Arcobaleno, Come una Ferrari, pubblicati da Edizioni Anteprima-Lindau, Torino. Ha collaborato attivamente alla stesura del testo pubblicato dall’astronauta italiano Ing. Paolo Nespoli: Dall’alto i problemi sembrano più piccoli (Mondadori 2010). È Direttore della Divisione Innovation della Biolife sa di Lugano.