Una Meravigliosa Leggerezza 344i6i

Enrico Violet Una meravigliosa leggerezza Lettere Animate Editore

Isbn: 978-88-6882-148-7

Copyright Lettere Animate 2014 www.lettereanimate.com

1.

Diego chiuse l’ombrello maledicendo il tempo. Il cielo aveva aperto le sue cataratte e stava rovesciando litri di pioggia da ore su Torino. Estrasse le chiavi del locale e aprì con fatica. Non ebbe il tempo di recarsi al quadro luci per accendere l’interruttore generale che sentì picchiettare piano sul portone. Con una smorfia di fastidio andò ad aprire e la figura snella e nervosa di Valentina, si stagliò nell’orizzonte piovoso. «Ti ho detto mille volte di suonare il camlo. Se bussi c’è il rischio che non ti senta!», apostrofò malamente. «Eri appena entrato!» disse lei con una lieve scrollata di spalle. «Che ci fai qui?» «Non ricordi? Non lavoro stasera» rispose guardandolo con commiserazione. «Ah già!» si voltò e la lasciò nell’ingresso, gocciolante. Valentina andò verso il guardaroba e si tolse lentamente l’impermeabile, rabbrividendo non solo per il freddo improvviso, ma anche per il distacco con cui lui la trattava da quando aveva ricominciato a fare il suo antico lavoro, nel mondo dello spettacolo. Il contratto come speaker in Rai era giunto inaspettato, una trasmissione serale dalle 21 alle 23, direttamente dagli studi di Torino, intitolata “Confidenzialmente”, durante la quale gli ascoltatori telefonavano in diretta per confidare i loro problemi sentimentali. Così come molte sue esperienze lavorative del suo ato, la trasmissione si stava rivelando un grande successo e la cosa non andava giù a Diego.

Stentava a credere che lui fosse geloso del suo lavoro, delle sue soddisfazioni. Certo, era stato lui, tanto tempo prima, a farle iniziare il mestiere di speaker radiofonica, per un certo periodo avevano anche lavorato insieme, ma mentre lei aveva raggiunto delle vette di successo notevoli, lui era rimasto sempre al palo, collezionando una serie infinita d’insuccessi, nonostante fosse in possesso d’indubbie capacità. Sicuramente, anche in questo mestiere, come in tutte le cose della vita, la componente fortuna giocava un ruolo molto importante. Erano sposati ormai da dodici lunghi anni e avevano, Aurora, figlia di una precedente unione di Valentina, ritratto in miniatura della mamma: bionda, capelli lunghi, lineamenti nordici e altezza superiore alla media. Secondo molti, avrebbe avuto un futuro come modella. Aveva da poco compiuto diciott’anni, era all’ultimo anno di liceo artistico, frequentato sempre con ottimi risultati, ed era una ragazza seria e assennata per la sua età. Era subito andata d’accordo con il patrigno, non c’era mai stato alcun tipo di conflitto e di questo ne andava particolarmente fiera. Insomma, gli ingredienti per una vita felice e serena c’erano tutti, ma Diego sembrava non accorgersene. Valentina non riusciva a capire questo lato oscuro del suo carattere, sembrava si crogiolasse nella sofferenza interiore cercando ogni giorno, quasi spasmodicamente, una qualsiasi ragione per angustiarsi. Persino l’acquisto di questo dancing, che sembrava un giusto compromesso tra le sue ormai seppellite aspirazioni artistiche e un lavoro indipendente che fosse redditizio il giusto, si era rivelato molto presto una fonte di preoccupazioni. Valentina si sedette alla cassa, mentre il personale cominciò a entrare alla spicciolata dalla porta di servizio. Il lunedì sera lei era di riposo. Il suo programma andava in onda dal martedì al sabato. E solitamente, aiutava Diego alla cassa del locale. Quando lo vide rispuntare, l’espressione del suo viso era totalmente cambiata e aveva indossato la maschera del perfetto padrone di casa. In realtà, lei sapeva benissimo che fingeva una soddisfazione che assolutamente non provava, anzi era certa che odiasse la clientela del dancing “La Serenella”.

Diego, per contro, si stava già gustando la sua vendetta personale con Valentina…il giorno dopo avrebbe visto Morena…

2.

La camera da letto con le pareti color pesca era di un ordine a dir poco maniacale. Ogni cosa pareva esattamente al suo posto. C’erano decine e decine di ninnoli, soprammobili orientali comprati in chissà quale mercatino, pupazzi di peluche delle più svariate dimensioni, distribuiti uniformemente in ogni angolo di quella stanza quasi da bambina, dove campeggiava, al centro, un gigantesco letto a baldacchino con copriletto, lenzuola e federe bianco perlato. Era l’ora che volgeva al tramonto e la luce pallida del sole che stava morendo filtrava attraverso le persiane socchiuse disegnando sulle pareti una moltitudine di ombre agitate. Al centro della parete laterale, sopra un comò bianco, faceva bella mostra di se un grande specchio. Morena adorava specchiarsi. Sempre. Comunque e ovunque. Qualsiasi cosa fe. Adorava spiarsi, soprattutto in certi momenti, perché lei adorava dominare. Dominio. Era una parola magica che l’aveva sempre affascinata, perché a lei piaceva avere il controllo, dominare le cose, le situazioni… A Morena piaceva dominare soprattutto gli uomini e non perdeva occasione per manifestare questa spiccata tendenza, come in questo caldo pomeriggio torinese di fine estate, chiusa nella sua camera da letto, giocando come il gatto con il topo, con la vittima di turno. Per lei raggiungere l’orgasmo sopra l’uomo, cavalcandolo come un’amazzone selvaggia, era la più inebriante delle sensazioni che potesse provare. Agitava la testa a ritmo con il corpo mentre i lunghi capelli biondi le coprivano completamente il volto dai lineamenti duri ma nello stesso tempo delicati, un mix di sensualità, aggressività e tenera innocenza che faceva letteralmente

impazzire gli uomini. Pochi, infatti, riuscivano a resistere al suo fascino, era indubbiamente una donna dal carisma irresistibile, dotata di grande intelligenza ed enorme capacità di adattamento alle circostanze che la vita via via le imponeva. “cazzo, ma stai venendo o no ?” chiese brusca al suo compagno che gemeva sotto di lei “sì... .quasi... . aspetta... . ” mormorò con un filo di voce Era tardi e aveva fretta, una fretta tremenda. ato l’effetto dello champagne, la sua mente era tornata stranamente lucida, una miriade d’ingarbugliati pensieri aveva preso il posto di quella flebile ione che era svanita istantaneamente nel momento stesso in cui era venuta e quello che fino a pochi istanti prima sembrava un momento di abbandono si stava trasformando inesorabilmente in una tortura. “chissà perché sono stata così debole…” continuava a pensare “fossi almeno riuscita a dirgli di no... . non sarei qui ad aspettare che…e poi, non sento più niente... . niente… niente… ” Un secondo pensiero le fece gelare il sangue: “non vorrei che gli venisse in mente di abbracciarmi dopo…magari poi vuole starmi vicino, appiccicato…no! Proprio no!” Quest’ultima immagine la fece trasalire: l’idea che quell’uomo sudato e peloso, anche un po’ soprappeso, la dovesse solo sfiorare ancora una volta, ora che il desiderio si era spento, le metteva addosso un’angoscia profonda. Succedeva sempre così quando faceva del sesso senza amore. Si alzò bruscamente dal compagno con un tale slancio che lo fece quasi cadere dal letto e si avviò nel bagno, stravolta, mentre lui era ancora in preda agli spasmi del piacere. Chiuse la porta del suo bagno rosa con due decisi giri di chiave e si diresse verso lo specchio. Aprì il rubinetto e l’acqua cominciò a scendere copiosamente mentre lei prese a osservare quel viso allucinato che quasi non riconosceva.

Cominciò a sciacquarsi la faccia con gesti sempre più nervosi, schiaffeggiandosi quasi, poi si fermò e osservò con attenzione il suo viso, il contorno degli occhi…. Ogni volta che faceva del sesso così, aveva la sensazione di invecchiare di dieci anni di colpo. Controllò scrupolosamente ogni angolo del suo viso alla ricerca di una ruga o di un qualsiasi segno che potesse evidenziare il suo stato di disagio. In una parola si sentiva sporca, sporca dentro. Aveva soltanto 25 anni , ma aveva una tremenda paura di invecchiare. Chiuse con mano tremante il rubinetto del lavandino e aprì quello della doccia, aspettò che l’acqua diventasse tiepida e s’insaponò completamente, sfregandosi con molta energia in quelle parti responsabili del suo malessere. Uscì dalla doccia e con fare quasi circospetto prese dalla mensola di fronte allo specchio il suo beauty e iniziò a truccarsi molto lentamente. Il suo sogno, neanche tanto segreto, era quello di uscire da quella porta e trovare il suo occasionale compagno già rivestito. L’idea di averlo ancora per casa la infastidiva. In ogni caso aveva deciso: lo avrebbe lasciato lì da solo. L’importante era andarsene, aveva fretta, molta fretta. Prese fiato, aprì la porta di scatto e nello stesso momento in cui lo sguardo cadde su quell’uomo nudo, addormentato, che russava copiosamente, aveva preso il vestito appeso sull’attaccapanni dell’entrata. Si fermò un attimo a osservarlo, si avvicinò, controllò che il suo respiro fosse pesante “ciao... . ” sussurrò appena. Aprì lentamente la porta d’ingresso, cercando di fare meno rumore possibile e sgattaiolò furtiva giù per la prima delle sei rampe di scale che la separavano dalla libertà.

Salì in macchina affannata, il suo cuore batteva a mille, il suo sguardo non si staccava da terra. Si girò verso la sua sinistra e porse le labbra appena dischiuse…

La lieve pressione delle labbra di Diego sulle sue le fecero provare un brivido di intensa eccitazione .Chiuse gli occhi e scivolò lentamente verso di lui che però aveva già staccato il suo viso da quel bacio che sembrava essere il prologo di una serie infinita di fuochi d’artificio e si stava accingendo a rimettere in moto la macchina. Lui la guardò con un’espressione di improvvisa severità e il tono era quello di un rimprovero: “come al solito sei in ritardo” la apostrofò con voce priva di calore “scusami” rispose lei quasi sottovoce, sentendosi in colpa. Mentre la macchina si avviava il suo sguardo cadde sulla foto della moglie di Diego, che sorrideva dal cruscotto. Una volta si usava mettere la foto in quegli orridi porta foto con la scritta “non correre”. Lui invece no, la lasciava lì, appesa di traverso, a penzoloni, come un ricordo sbiadito di un qualcosa che era sempre presente ma non lasciava più segni. Per lei ogni volta era un tuffo al cuore. Era come un ricordarle che non era libero e trovava questa mancanza di delicatezza veramente pesante, ma bastava un suo sorriso per farle are in secondo piano anche umiliazioni come quella. La foto della moglie, ritratta insieme alla figlia, le procurava fitte di rabbia che le trapanavano anima e cervello ma questa volta, il pensiero dell’amplesso di poco prima attenuò un poco quella sensazione di dolorosa tensione che le attanagliava lo stomaco. Spostò delicatamente lo specchietto retrovisore per controllare il risultato del trucco frettoloso che si era data poco prima e inorridì notando una macchia di rossetto sui denti. Si portò istintivamente un dito alla bocca ma Diego, che fino a quel momento sembrava totalmente immerso nella guida, glielo prese, sfiorandole le labbra con la mano destra, lei socchiuse gli occhi e per un attimo si lasciò andare. Poi fu un attimo, riaprì gli occhi e il sorriso di sua moglie le apparve in tutto in suo splendore nella foto davanti a lei e all’improvviso, mentre il dito medio di lui le sfiorava il labbro inferiore, venne assalita da un’improvvisa, assurda, irrefrenabile tentazione: quel dito... . così odiosamente simbolico per un uomo come lui…così invitante che… La salivazione le si era azzerata, i battiti del cuore erano così accelerati che sembravano la cassa di un brano techno a 200 bpm e mentre Diego si stava fermando a un semaforo non seppe più resistere a quella irreale e crudele

tentazione. Aprì la bocca e quando sentì il dito a contatto con i denti, la chiuse con tutte le sue forze: quello che ne seguì fu un attimo lungo una vita, sentiva quella carne calda sgretolarsi piano sotto il suo morso e un’incredibile sensazione di malvagio godimento sembrò quasi possederla completamente. Si arrestò solo quando lo sentì urlare, proprio nel momento in cui sotto i suoi denti aveva cominciato ad avvertire un sinistro scricchiolio e il sapore del sangue aveva invaso il suo palato. “ma sei matta?” le urlò Diego con la voce strozzata e le lacrime agli occhi per il gran dolore, stringendosi la mano forte sul petto. Si guardò compiaciuta nello specchietto retrovisore mentre Diego continuava a inveire. Il rosso del suo sangue aveva reso ancora più brillante il colore del suo rossetto. Sentire ancora quel sapore in bocca le stava scatenando un altro impulso irrefrenabile: senza dire una parola lo baciò con trasporto, resistendo alla sua disperata e nevrotica difesa, finché lui non cedette. Si baciarono con ione. Fermi, sul bordo di quella strada di gran aggio, che conduceva verso il centro città. Le altre macchine avano e gli occupanti guardavano con curiosità e divertimento, pensando a chissà quale dimostrazione di incontenibile ione.

Aveva mangiato svogliatamente. I discorsi di Diego non le interessavano più di tanto e una strana sensazione di noia angosciosa si era impadronita ormai della sua mente e del suo cuore. Pensava con preoccupazione agli ansiolitici che avrebbe dovuto prendere a quell’ora e che aveva dimenticato a casa. Il pensiero di casa, per associazione, le fece anche venire in mente il poco gradito ospite che probabilmente a quell’ora ancora stava dormendo nel suo (il MIO !) letto e questo le provocò un’altra fitta di angoscia, direttamente alla bocca dello stomaco. C’era ormai poco tempo ancora, lui non poteva rincasare tardi e avevano saltato il dolce per “non perdere tempo”. Quel lussuoso ristorante aveva delle camere al piano superiore, delle lussuose, squallide camere, vuote e impersonali come i sorrisi che di tanto in tanto le rivolgeva, mentre continuava a parlare di sé, incurante dell’interesse dei suoi argomenti nei confronti dell’interlocutore. Le vomitava addosso fiumi di parole, forse perché amava il suono della sua voce.

Diego si fece portare il conto, lo guardò distrattamente ed estrasse dal suo portafoglio alcune banconote che lasciò sul piattino con fare disinvolto poi si alzò di scatto. Lei rimase ancora un attimo seduta, persa in mille pensieri e con la coda dell’occhio osservò l’importo pagato: come al solito Diego aveva lasciato una mancia generosa, persino esagerata e , come al solito, ancora prima di essersi alzata, fatto un rapido conto, la mancia esagerata destinata al cameriere era finita nella sua borsetta. Odiava questa falsa generosità, tipicamente maschilista e non perdeva occasione di punirla alla sua maniera.

La camera questa volta era un po’ meno squallida, la vista della collina di Torino, della quale si poteva godere dalla terrazza, era veramente da sogno. Morena era letteralmente affascinata dai panorami, rimaneva ore intere a osservare di notte la città dall’alto, il pulsare morbido e addormentato di quell’immenso tappeto di luci, era un rapporto quasi intimo tra lei e la sua città di notte e le sembrava quasi che potesse sentire ogni più nascosto pensiero ed era anche per questo che non riusciva a capacitarsi dell’indifferenza di Diego verso qualsiasi forma di bellezza della natura o di attenzione ai sentimenti. Era un bell’uomo, sulla cinquantina, alto, brizzolato, in splendida forma fisica e con un lavoro che, secondo lei, lo realizzava e lo assorbiva completamente. Insomma, in poche parole, la classica persona “vincente” che non aveva il tempo di porsi delle domande. Cosa che invece lei faceva quotidianamente, fin dal primo risveglio mattutino quando migliaia di pensieri le affollavano puntualmente la mente, trasmettendole una sensazione di fastidiosa insofferenza verso la vita. “stasera il cielo è limpidissimo”mormorò lei con aria sognante, affacciata alla ringhiera della terrazza Lui le si avvicinò e , da dietro, le cinse i fianchi strofinandosi addosso al suo corpo “dai, vieni dentro... . ” le sussurrò piano all’orecchio “aspetta ancora un attimo” le disse lei fissando il panorama “vieni dentro”le ordinò con tono perentorio, spostando le mani sui morbidi seni e

stringendoli con vigore “è tardi, non abbiamo molto tempo” aggiunse lui sbottonandosi i pantaloni e dirigendo la mano di lei tra le sue gambe Lei lo scansò bruscamente e gli si parò di fronte guardandolo dritto negli occhi: “ma noi due dobbiamo solo scopare?” gli chiese con aria ostile “... non parliamo mai... . certe volte non so neanche cosa pensi…” Diego le sorrise e la baciò mentre la sua mano risaliva velocemente nell’incavo delle sue gambe “sai bene che non ho tempo per le romanticherie... . sono da ragazzini o da fidanzati… e noi non siamo né ragazzini… ” Improvvisamente il suo sguardo si era fatto severissimo “ne’ tantomeno fidanzati... .” Lei si divincolò nuovamente da lui, stizzita, lo fissò ancora un momento con tutto il disprezzo di cui era capace, poi, sentì girare la testa e tutto divenne confuso. Non riusciva a mettere a fuoco le immagini ed era come se osservasse un’altra lei prendere il pesante abatjour di ottone dal comodino e con tutte le sue forze colpir ripetutamente l’uomo, finché il suo viso fu ridotto a una maschera di sangue.

Tutto sembrava così normale e così irreale. Aveva ucciso un uomo. Sentiva continuamente questa frase nella sua testa. Ma le sembrava impossibile. Guardava quel corpo inanimato, immerso in una pozza di sangue, il suo stesso sangue (“Dio mio, quanto sangue c’è dentro di noi?”) e cercava di mettere a fuoco quello che era successo. Ma era come se una coltre di fumo denso le si fosse parato davanti agli occhi. Era come se la sua mente avesse eretto una barricata invisibile tra il ato, anche quello più recente e il presente. Quel presente.

Un senso di crescente stordimento la stava assalendo. All’improvviso sentì la testa pesante. Non riusciva a tenere gli occhi aperti (“cinque minuti, cinque minuti soltanto….”) e, come per un’infida magia, si addormentò pesantemente sul divano. Quando si risvegliò, circa un quarto d’ora dopo, si sentiva la testa scoppiare. Una forte nausea accompagnata da un senso di vertigine le faceva letteralmente girare la testa. Per un momento sperò di non rivederlo più. Per una frazione di secondo, un senso di sollievo accompagnò l’idea di aver fatto solo un brutto sogno. Ma quando lo sguardo cadde su quegli occhi fissi, su tutto quel sangue che si stava ormai asciugando, ebbe un nuovo conato di vomito. Si precipitò verso il bagno. Aprì il rubinetto del lavandino e cercò di vomitare, ma nonostante tutti gli sforzi non le veniva fuori nulla. Si bagnò la fronte, poi si osservò il pallido viso riflesso nello specchio. Chi era quella persona che la stava guardando? Per quanto si sforzasse non riusciva a ricordarsi di come avesse potuto ridursi in quel modo. Chiuse il rubinetto. Si asciugò il viso lentamente, cercando di portare a termine almeno un semplice ragionamento, ma la sua mente era come in “stand by.” Da un lato era come assalita dal panico, non sapeva cosa fare, dall’altro l’unico desiderio sembrava essere, a quel punto, solo quello di fuggire il più lontano possibile. Ma un pensiero la assillava: che fare di quel corpo? Lo guardò con un senso di colpa crescente e devastante. Continuava a non capacitarsi di essere riuscita a fare una cosa del genere. Continuava ad osservarlo scuotendo la testa, mentre il “comitato moralizzatore” nella sua mente aveva indetto una riunione straordinaria. Tutti i suoi principi, i desideri di gioventù., i suoi propositi morali: tutto in fumo in un solo momento e nulla che si potesse cancellare, magari fosse bastato un colpo di spugna... .(“spugna!!... .lavare….devo lavare tutto quel sangue…”) Si chinò verso quel corpo inanimato,

cercò di sollevargli la testa, poi la lasciò andare con fastidio mentre le voci dentro la sua testa avevano ormai preso il sopravvento e si stavano inseguendo l’un l’altra , trascinandola in un vortice come un mulinello che si apre all’improvviso nella calma piatta di un lago.

Diego era agonizzante mentre lei scendeva di corsa le scale di quel maledettissimo albergo.

“ti ho aspettata fino alle undici. Perché mi hai lasciata così? Chiamami domani. Ti amo. Gigi” Un biglietto scritto con calligrafia incerta campeggiava al centro del suo grande letto bianco disfatto. Lei lo lesse più volte, sorridendo, guardò l’orologio a muro che segnava le due, dopo un breve momento di riflessione fece spallucce, prese in mano il cordless e compose senza esitazioni un numero telefonico. “pronto ?!... .” Una voce assonnata di donna rispose all’altro capo del telefono. Morena dopo un attimo di esitazione abbassò la cornetta. Morena superato il momento di sorpresa, realizzata la situazione, reagì con la consueta e tempestiva eleganza che la contraddistingueva da sempre in ogni circostanza e con tutto il fiato che aveva in gola le urlò: “troia, tuo marito è un impotente, tienitelo e crepa!" riattaccò. Due lacrime le sgorgarono improvvise e cominciarono a rigarle il volto,45nb poi, all’improvviso, scoppiò in una lunga, irrefrenabile, isterica risata a cui seguì una lunga serie di singhiozzi . Carponi in camera da letto, frugò nella sua scatola segreta, che teneva sempre gelosamente custodita in un posto che cambiava in continuazione, per il terrore

che venisse trovata da qualcuno. Alla fine, trovò quello che voleva, poi andò in cucina e prese una piccola scodella. Ritornò in camera, muovendosi lentamente, come sotto l’effetto di un sedativo. Tutto ciò che vedeva era annebbiato dalle lacrime. Chiuse le tende. Sentiva il vociare ininterrotto provenire dal piano inferiore dove i vicini probabilmente stavano dando una festa, si udivano risa e urla assordanti, inframmezzate da applausi scroscianti. Si sedette sul letto. Nel silenzio ovattato della camera da letto, udiva se stessa piangere. Tirò fuori dalla scatola il liquido antisettico e ne versò un po’ nella scodella. Prese una lametta da barba e ve la immerse, poi tirò fuori i batuffoli di ovatta e una confezione di cicatrene e posò tutto sul comodino accanto alla scodella, da usare in seguito. Respirò profondamente. Dopo uno, due, tre respiri stava ancora tremando. In quel preciso momento, non riusciva ad immaginare che qualcuno potesse sentirsi più solo o totalmente privo di speranza di lei. In quegli ultimi giorni, aveva resistito. Ma ormai, pur di non continuare a combatterla, lasciò che quella sensazione angosciosa la invadesse. Era come una droga, le emozioni le sgorgavano dal cuore, facendosi strada attraverso le vene e le arterie. Poi finalmente cominciò: alzò l’ampia gonna del vestito, ripiegando la stoffa su se stessa. C’era già qualche cicatrice, un reticolo di vecchie linee bianche tra la peluria sottile, quasi invisibile, ma ancora parecchio spazio. La respirazione si fece più affannosa e le mani cominciarono a tremarle.

Raccolse la lametta, scrollando via il liquido. Quando apparve il primo taglio, col sangue che sbocciava lungo la linea: la trafittura le parve la prima sensazione fisica che avesse provato quel giorno. Alla fine, Morena aveva esattamente venti nuove linee sul polpaccio, che era gonfio, caldo e sembrava ronzare. La pelle le doleva, ma in un modo familiare, piacevole. Pulì accuratamente le ferite con l’antisettico, prima di coprire la gamba di crema. Il sangue colava ancora, formando capillari rossi sul bianco, ma lei continuava a tamponarlo dolcemente coi batuffoli di cotone. Non aveva importanza: era euforica, finalmente. Il sangue però era andato ovunque. Le aveva formato una pozza intorno alla caviglia e il pavimento liscio me era tutto impiastrato. Le gocce avevano formato cerchi e stelline e c’erano spirali sbavate dove il suo piede si era contratto. I fazzoletti di carta che aveva usato erano tutti appallottolati, rossi come papaveri e gettati qua e là. A volte, l’unico modo per lenire certe sensazioni era portarle fuori, alla luce del sole; creare qualcosa di fisico , di maneggiabile. Il polpaccio di Morena era diventato un arazzo di tutte quelle emozioni indesiderate: il disgusto di se stessa, l’odio, i rimpianti e le frustrazioni. Erano tutte lì, sotto i suoi occhi e, ora che erano visibili, poteva curarle. Fece una palla di fazzoletti di carta, pulì il sangue e mise tutto in un sacchetto di plastica.

Poco dopo era seduta sul divano con le gambe ripiegate sotto di sé a guardare la TV. La stanza si stava lentamente oscurando insieme col giorno di fuori, e la luce del televisore le sfarfallava di fronte. Morena traava lo schermo con lo sguardo, mentre le immagini le balenavano davanti; il notiziario era privo di senso, col

volume escluso. L’unico movimento che lei si concedeva era massaggiarsi una palpebra con un solo polpastrello, lisciandola, sempre nella stessa direzione, di continuo. Ogni volta che faceva un movimento più ampio, il suo corpo sussultava, come se qualcuno l’avesse riscossa improvvisamente, con violenza, da un sonno profondo. Brutto segno. Era sorprendente, in effetti: riuscire a capire le emozioni che stanno dietro le tue azioni e i tuoi stati d’animo, eppure continuare a restarne in balia. Morena sapeva per esperienza che, nel giro di pochi giorni, si sarebbe guardata indietro e si sarebbe riconosciuta a stento. Avrebbe visto un’estranea: una ragazza piccola, insignificante, raggomitolata sul divano, ridotta a incrociare le braccia e stringersi le maniche, insieme con la pelle. Alla fine, l’umore si sarebbe rasserenato e la stretta si sarebbe allentata. Ma, anche se in quel momento se ne rendeva perfettamente conto, non le era di nessun aiuto. Le sue crisi depressive erano come sprofondare nel più nero degli incubi. Nessun ricordo del mondo reale poteva aiutare Ancora con le lacrime agli occhi si diresse verso la scrivania, aprì il pc e si collegò a internet.

3.

Celeste Ardemagni rimase a fissare lo schermo piatto davanti a lei. Su internet, si trovava davvero di tutto. La pizza “fuoco calabro” arrivata dal “Pizza Express” vicino casa era ormai finita, ridotta a poco più di una scatola accartocciata macchiata di salsa di pomodoro che conteneva delle croste avanzate troppo secche. Era l’ora del dolce. Celeste sbirciò nel frigorifero, che le rispose con un vuoto sbadiglio. Mezzo litro di latte sul punto di cagliare, un quarto di mela, mezza testa di lattuga, un barattolo semivuoto di cipolline da cocktail, un calice di cristallo in via di raffreddamento e una piccola lattina di alluminio. Celeste prese la lattina. Era un Martini soda. Il dessert: il suo unico drink della giornata. Se ne beveva più d’uno, diventava goffa e meno inibita, e Celeste coltivava le proprie inibizioni e le conservava con cura. Dopo aver tolto la linguetta alla lattina, ne versò il contenuto nel calice freddo, prese una cipollina dal fondo del barattolo e la tuffò nel bicchiere. ò al setaccio la sua ampia collezione di CD finché non trovò i suoi preferiti, quindi ne sistemò cinque nel lettore multiplo. Era una sua vecchia debolezza questa del lettore cd multiplo. L’aveva acquistato parecchi anni prima, quando era ancora una novità assoluta e non aveva mai voluto separarsene, anche ora che la musica la scaricava spesso e volentieri da internet. Accompagnata dalla voce dolce e sensuale di Norah Jones che cantava “come away with me”, Celeste si sistemò nuovamente al computer con il suo drink,

godendosi il primo sorso rinfrescante. Tenendo il bicchiere nella mano destra, con la sinistra si collegò. Pochi tasti ed era nuovamente sulla Rete, procedendo a colpi di mouse verso “Facebook””. Internet era la droga che Celeste si era scelta, il suo modo di rilassarsi, la sua ricreazione, il fulcro delle sue ore libere. Mentre le immagini comparivano sullo schermo, un largo sorriso si disegnò sulle sue labbra. I suoi denti erano sani, bianchi e regolari, grazie a un buon patrimonio genetico, a una dieta ricca di calcio (faceva mettere sempre la doppia mozzarella, sulle sue pizze) e a un po’ di giudiziosa ortodontia ai tempi delle elementari. Quando sorrideva, i suoi denti scintillavano, e sembrava quasi che quella giovane donna, forte e vigorosa, avesse intenzione di staccare grossi morsi dalla vita. Ma Celeste non mordeva la vita, bensì si limitava a sfiorarla appena ai margini. Quali che fossero le paure che la intimidivano e le impedivano di mescolarsi con i suoi simili, Celeste non le aveva mai definite. Ma c’erano. Nella sua attività di analista di sistemi informatici e esperta di software nel campo della soluzione dei problemi, Celeste aveva trovato una nicchia comoda e racchiusa e vi stava dentro felicemente, come una lumaca troppo vulnerabile per uscire dal proprio guscio. Lavorava da sola, soluzione che preferiva a qualsiasi altra. Lavorava a casa, l’unico luogo in cui si sentiva veramente protetta. Non aveva problemi di politiche d’ufficio e di molestie sessuali sul lavoro di cui preoccuparsi. Come analista di metodi free-lance, non era costretta a uscire, a mescolarsi tra la folla, non era costretta a subire le strattonante, rumorosa, odorosa compagnia

degli altri, non era costretta a immergersi nel vortice della loro schiacciante sicurezza di sé che ogni tanto sembrava succhiarle il midollo dalle ossa. Celeste Ardemagni aveva trasformato la telecomunicazione in un’arte sopraffina, raggiungendo l’esterno soltanto tramite il telefono a viva voce, collegato al suo computer, il modem, il corriere che consegnava e portava via il materiale che le serviva per lavorare Se ne stava per la maggior parte del tempo rintanata nel suo piccolo appartamento nelle colline Liguri, dietro a un alto recinto di legno che teneva fuori il resto del mondo. Così si era ritirata dalla vita che praticamente tutti vivevano, abbandonando la comunità degli umani e creando al suo posto un ambiente in cui si sentiva al sicuro, una zona comoda i cui confini erano costituiti da terminali, monitor, hard disk, modem, mouse e programmi dietro ai quali poteva nascondersi e preservare il proprio anonimato. L’anonimato le dava un senso di libertà. ava ore e ore ogni giorno su Internet. Lentamente si stava trasformando in una strega del computer i cui unici amici erano gli hackers, gli strani e i monomaniaci come lei, il popolo senza volto della Rete, uomini e donne che Celeste non aveva mai incontrato e che senza dubbio non avrebbe incontrato mai. Soltanto pixel su uno schermo, dotati di sconclusionate icone di identificazione e pseudonimi a volte senza senso, come camionisti provvisti di CB. Quella era la cybergente con cui conversava, scambiava opinioni e faceva battute. Quelle erano le relazioni che si era scelta. Il che era un vero peccato perché Celeste era una ragazza davvero carina. Se soltanto si fosse data una sistematina ai capelli, che le ricadevano sugli occhi, e avesse indossato vestiti migliori delle camicie di flanella e dei jeans di cui era praticamente dipendente, sarebbe stata una ragazza molto carina. E perché no? Soltanto poco più che venticinquenne, Celeste era stata benedetta dalla natura

con una figura snella e flessuosa, una carnagione splendida e una fossetta esattamente al centro del mento che dava al suo volto una qualità del tutto particolare. Aveva folti capelli ramati leggermente ondulati e occhi abbastanza grandi da brillare su un quadro. Insomma, possedeva tutti gli ingredienti che concorrono a formare la vera bellezza…tranne uno: La sicurezza di sé. Ma Celeste non si faceva sistemare i capelli perché non riusciva a tollerare l’idea che uno sconosciuto la toccasse, che due mani estranee le fero lo shampoo e altre due mani estranee le tagliassero i capelli e glieli acconciassero, il tutto mentre qualcuno che non conosceva spettegolava con lei di argomenti banali e insopportabili. Per lo stesso motivo, non si era mai fatta la manicure né era mai andata da un’estetista. Non riusciva a tollerare il pensiero di un centro commerciale, e quindi limitava lo shopping allo stretto indispensabile e indossava i suoi vecchi vestiti fino a quando non comparivano i primi buchi. Dopotutto, la tenevano calda d’inverno, fresca d’estate e coprivano la sua nudità. Che cos’altro si può chiedere a dei vestiti? E, a parte questo, di che utilità poteva essere una figura perfetta di donna che si muoveva come se stesse camminando su un tappeto di uova fresche, leggermente incurvata in avanti come per celare a sguardi indiscreti i fianchi rotondi e il seno perfetto? Chi avrebbe mai visto quei suoi splendidi capelli e quegli occhi grandi, chi avrebbe mai sperimentato la gioia di quello splendido sorriso?

Puntare e fare click. In un attimo, Celeste fu dentro, direttamente sulla sua pagina, a leggere i messaggi lasciati sulla Rete dai suoi amici in linea con cui era abituata a conversare di notte.

“Uomocibernetico” aveva scritto: “nessuno esce più di casa, Nessuno fa sesso. La Rete è il preservativo definitivo” Celeste sorrise: la constatazione non era male, valeva la pena di sprecarci una risposta. Rapidamente, digitò il suo nome sulla rete “Rainbow” e lo fece seguire da: “Questi discorsi possono portare alla lunga all’estinzione della nostra specie” Qualcun altro si inserì nella loro conversazione: “uomotenebra”: “Tutta la mia simpatia Rainbow! Diamoci un appuntamento e procreiamo !” Celeste rise di gusto “mi dispiace” digitò “sei il migliore ma non sei il mio tipo” “mi hai spezzato il cuore” fu la risposta sullo schermo “Rainbow sono Moon”!” si inserì una utente che Celeste ben conosceva “Sono qui dimmi tutto” fu la sua risposta “Devo parlarti in privato” “No e perché? Che segreti avete voi femminucce?” scrisse “uomotenebra” “Fatti gli affari tuoi uomotenebra…Moon, ti aspetto su skype” “A tra poco allora!” fu la sua risposta. Celeste ignorò la lunga serie di commenti negativi circa la sua uscita dalla chat e si collegò con Moon. “Eccomi” “Sono nei casini, grossi casini!” “Quanto grossi?”

“Enormi…” “Capisco... .” disse Celeste picchiettandosi una biro sul mento “Ho bisogno del tuo aiuto! È successa una cosa tremenda... .” la implorò Moon “Non adesso Moon…dammi quarantotto ore, poi ci vediamo al solito posto…” “Grazie…te ne sono infinitamente grata... .” “Dovere... .” digitò Celeste poi, chiusa la comunicazione, si appoggiò allo schienale della sedia girevole e si perse nelle sue riflessioni.

4.

Il Ispettore di Polizia Luigi Lostumbo si alzò piano, con attenzione, anche quella mattina alle sei come al solito. Non doveva far rumore perché sua moglie amava dormire fino a tardi, anzi ne aveva proprio bisogno per via del suo esaurimento. Non lavorava ma era sempre esaurita. Anche perché era logorante essere moglie di un ispettore di polizia. La sua vita scorreva ogni giorno sempre uguale. Sveglia alle sei. Caffè nella penombra, in bagno, dove dopo essersi sbarbato e lavato aveva già lasciato i vestiti la sera precedente, in modo da non turbare in alcun modo il sonno leggero della moglie. E via, avanti così, da circa ventidue anni. Non era vecchio Luigi, anzi, ma i suoi 53 anni gli pesavano ora come mai. Aveva fatto un solo grande errore nella sua vita: sposare quella donna. E non aveva mai avuto il coraggio di lasciarla. Prese le chiavi della macchina e il cellulare. Si avvicinò piano alla moglie, distesa su un fianco nel letto, fece per darle un bacio ma un grugnito infastidito, accompagnato da un eloquente gesto della mano, gli fecero capire che era meglio lasciarla in pace. Si voltò verso l’uscita e , con aria dimessa, si avviò stancamente verso il garage. Mentre stava aprendo il portone, cominciò a piovere copiosamente, senza preavviso alcuno.

Il Ispettore Luigi Lo Stumbo sollevò il ricevitore per prendere la prima telefonata di quella mattina: il suo turno era cominciato da tre secondi. Quel giorno, come quasi ogni domenica, alla stazione di Polizia era praticamente solo e gli toccava rispondere anche alle telefonate. Non aveva ancora fatto in tempo a sedersi. “Stazione di polizia zona Eur , Ispettore Lo Stumbo” disse e si lasciò andare sulla sedia da scrivania che gemette sotto il suo peso. “pronto è la Polizia?” E’ quello che ho appena detto, pensò lui. Sempre la stessa cosa. Nessuno ascoltava. Dipendeva da lui, oppure da quelli che chiamavano? Di cos’è che volevano conferma? Sarebbe stato meglio rispondere semplicemente “pronto”, dal momento che la domanda sarebbe arrivata comunque. “Qui è la stazione di polizia Zona Eur” disse per essere più preciso “si tratta di un’emergenza!” disse la voce. Una donna che poteva essere giovane come di mezz’età. Lui era un disastro con le voci. Specialmente con quelle femminili. “con chi parlo?” chiese, con la penna pronta in mano “Chiamo dall’Hotel Principe, abbiamo trovato un uomo morto nella sua camera... .probabilmente assassinato... .” Lo Stumbo sgranò gli occhi e schiacciò la cornetta sul suo orecchio, c’erano molte probabilità di avere a che fare con il solito mitomane ma la donna sembrava realmente spaventata. “mi dica” si limitò a sussurrare, strizzando gli occhi come se volesse mettere a fuoco un’immagine anziché una voce

“Poco fa la cameriera, era ata come ogni mattina a rifare le camere” “La ascolto” disse lui, cercando di controllare l’emozione che stava crescendo verso di lui “Quando è entrata nella 112 ha trovato quest’uomo, riverso sul letto in un lago di sangue... .” “Mando subito una volante…Signora è ancora lì?” chiese Lo Stumbo, ancora incerto circa l’affidabilità della persona dall’altro capo del telefono “sì, ci sono” “mi vuol dire l’indirizzo? “ “Strada dei platani 2 a Pecetto” “Arriviamo subito!” Spense rabbiosamente nel posacenere la sigaretta appena accesa e iniziò a comporre un numero interno.

5.

Era una giornata fredda e grigia, il cielo carico di pioggia imminente. Le note del concerto di pianoforte n. 2 di Chopin, il cosiddetto larghetto, sgorgavano dal pianoforte copiose inseguendosi come nubi in un cielo e realizzando un mosaico magico di suoni. Daniela eseguiva a occhi chiusi, lasciandosi trasportare dalla melodia. Luca la guardava incantato, osservava le lunghe dita salire e scendere dalla scala di tasti bianchi e neri del suo Steinway & Sons, rigorosamente a coda. Aveva lavorato per anni nella musica, aveva anche prodotto dei singoli da discoteca, ma sempre affidandosi all’elettronica. In realtà, come la maggioranza dei suoi colleghi, non conosceva neppure una nota, ma si vantava di essere un musicista. Quando però, sentì suonare Daniela la prima volta, si sentì piccolo e insignificante, come un bambino che si diverte a giocare scimmiottando i grandi nei loro mestieri. E da quella prima volta, in tutte le occasioni nelle quali aveva modo di ammirarla, gli sembrava che il risultato di quella combinazione di accordi, fosse frutto di una alchimia a lui pressoché sconosciuta. Vederla poi tradurre in musica tutto quell’insieme di geroglifici scritti sugli spartiti, gli sembrava davvero una cosa ai limiti del soprannaturale. Luca attese la fine dell’esecuzione del brano, per accendere la luce nella stanza. Il pianoforte era al centro del salotto, elemento dominante in un arredamento sobrio, quasi spartano, decisamente classico con qualche concessione al modernariato. Un caminetto faceva ricordare che l’inverno era ormai alle porte e

conferiva al quadro d’insieme, un tocco antico. I riflessi del fuoco sul nero lucido della struttura davano a Luca l’impressione di essere proiettato indietro nel tempo. Gli piaceva immaginare che, da un momento all’altro, Beethoven, Chopin o Mozart in persona avrebbero potuto materializzarsi in persona per venire a constatare la grande abilità pianistica di Daniela. Si accese una sigaretta, aspirò un’ampia boccata mentre lei si accingeva all’ultimo aggio. Quando ebbe finito, come al solito, congiunse le mani e abbassò lievemente il capo, come in preghiera e stette qualche minuto in meditazione, ad occhi chiusi. «Bravissima!» sussurrò lui, timoroso quasi che la sua voce potesse in qualche modo interrompere quell’atmosfera di straordinaria e intensa poesia «Grazie!» rispose lei con un piccolo inchino. Poi rimasero qualche minuto a guardarsi, con il crepitio del fuoco nel camino in sottofondo. Ogni volta che ne ammirava l’elegante ed educata figura, quasi una madonna di altri tempi, si sorprendeva a domandarsi che cosa avesse potuto trovare lei in lui. Di che cosa si fosse innamorata al punto di sposarlo. Lui sapeva che lei rappresentava un’isola di serenità, tutto quello che non aveva mai trovato in una persona in vita sua. Gli dava una sensazione di famiglia, di casa. Gli bastava stringerla fra le sue braccia o perdersi in un suo abbraccio, lasciandosi dondolare piano, per sentirsi all’improvviso fragile e innocente come un bambino in cerca delle coccole della mamma. Le osservava il tailleur nero, la camicetta bianco candido, i due bottoncini sottomento allacciati, la mancanza totale di bracciali e anelli (compreso quello nuziale che le impediva l’uso completo della mano durante le esecuzioni), il filo di trucco appena accennato, il rossetto rosa pallido, la maniera inconfondibile di atteggiare la bocca come in un sorriso estatico, ogni volta che suonava. Le sue lunghe gambe, troppo magre come tutto il resto, le calze nere, le scarpe di vernice da bambina. Vederla in piedi era come ammirare una bambina cresciuta troppo in fretta ma quando si sedeva a quel pianoforte, era come se la sua

personalità si trasfigurasse, la musica entrava dentro di lei deformandone i lineamenti come un demone e lei ne diventava all’improvviso schiava, liberando ogni sentimento e sensazione ed era a quel punto un’altra persona, vinta la timidezza e sciolti i freni inibitori, poteva lasciarsi andare, finalmente. Luca era convinto che quelli erano i pochi momenti nei quali lei riuscisse a liberarsi di quel mantello invisibile di imposizioni e divieti che la sua rigida educazione le avevano regalato. Immaginò per un attimo di spogliarla, ma la stessa immagine del tempo che gli sarebbe occorso per toglierle tutti quei vestiti e sbottonare tutti quei bottoni, lo fece desistere. Inoltre, era perfettamente consapevole del fatto che lei odiava qualsiasi tipo di approccio al di fuori delle quattro, sicure, mura della camera da letto dove, a luce rigorosamente spenta, decideva una volta alla settimana e sempre di sabato sera, di concedersi a lui in maniera rapida e frettolosa, come a volersi togliere una fastidiosa incombenza. Insomma era la personificazione della perfezione, talmente bella e irraggiungibile che trovava perfettamente logico quel senso di impotenza sotto il profilo sessuale. Un essere così angelico ed equilibrato, che sprizzava serenità e senso di giustizia, che lo faceva sentire amato e importante, che non lo giudicava mai, che faceva un mestiere così importante e ammirato, non poteva anche essere spregiudicato e disinvolto come certe fanciulle con cui amava dilettarsi nelle più sconsiderate varianti del sesso libero. «Me ne offri una?» gli chiese con il consueto tono lieve e carezzevole. Luca le porse il pacchetto di sigarette e lei con grazia ed eleganza ne estrasse una, sporgendosi appena, verso la fiamma dell’accendino che lui le aveva prontamente porto. Aspirò anche lei una boccata, con aria visibilmente soddisfatta. «Direi che la tua esecuzione è a dir poco perfetta... .» «Perfetta... . che esagerazione… ci sono ancora molti punti da migliorare» rispose lei con la consueta umiltà.

«Quando parti per Praga?» «Giovedì pomeriggio.» «Beh, oggi è lunedì, direi che hai tutto il tempo…» Lei sorrise preoccupata. «Lo spero, sai, è una serie di concerti davvero importanti…» «Farai come al solito una gran figura» le disse lui avvicinandosi e dandole un bacio sulla nuca. Lei gli prese la mano, la strinse forte e gliela sfiorò con le labbra. La mente di Luca invece era già lontano. Pensava a Morena. Finalmente avrebbe potuto trascorrere qualche giorno con lei.

6.

I ciottoli della strada battuta crepitavano sotto i copertoni. L’ ispettore Vito Lostumbo seguiva l’auto dei colleghi. arono il bivio per Superga, e dopo una sequenza di ripidi dossi arrivarono all’entrata dell’Hotel Principe. Un uomo anziano alzò le braccia e corse incontro alle due auto. Era seguito da una donna decisamente più giovane, con il viso pallido ed emaciato. Quando l’uomo fu vicino, Lostumbo si rese conto dalla sua espressione che qualcosa di veramente orribile lo stava aspettando. Il terrore dipinto sul suo volto non poteva essere causato da un’illusione senile. La donna sembrava meno spaventata ma era visibilmente turbata. “L’abbiamo trovato nella sua camera…sembra morto!” e così dicendo fece un gesto con la mano come per invitarlo a seguirlo Entrarono nella camera 112. Un pungente odore amarognolo di vecchio e stantio colpì le narici di Lostumbo. Le pareti erano tappezzate con carta da parati dal disegno antiquato e fu costretto a socchiudere gli occhi per sforzarsi di vedere nella semioscurità. “Di che cosa si tratta? Che cosa è successo?” chiese Lostumbo “Lì!” rispose l’uomo alzando la mano in direzione del letto. Poi iniziò a piangere, mentre la donna alle sue spalle gli metteva una mano sul braccio con fare consolatorio. Lostumbo e i due poliziotti della volante si guardarono. Avvicinandosi al letto, quello che vide era peggio di quanto avesse immaginato.

Le pareti e il pavimento della camera erano coperti di sangue. Un uomo completamente nudo era disteso bocconi. Il suo viso era ridotto a una maschera informe. L’uomo respirava debolmente. “Porca puttana!” mormorò l’agente Nicotera facendo un o indietro. Lostumbo si piegò in avanti per bloccare il senso di nausea alla bocca dello stomaco. Alzò lo sguardo sull’altro agente, poi su Nicotera e vide che tutti e tre pensavano la stessa cosa. Chi aveva potuto compiere un atto così terribile? “Aspettate fuori!” disse Lostumbo alla coppia che era rimasta ferma sulla soglia. “Uscite senza toccare niente e aspettate fuori!” Lostumbo si rese conto di avere urlato. arono venti minuti prima che arrivasse l’ambulanza. Il respiro dell’uomo si era fatto sempre più debole e irregolare e Lostumbo aveva iniziato a temere che il ritardo sarebbe stato fatale. Lostumbo riconobbe l’autista dell’ambulanza. Si chiamava sco. “L’uomo è in fin di vita. Dobbiamo fare il possibile per salvarlo” “Che cosa è successo?” chiese sco “L’unica persona che può rispondere a questa domanda è lui, ammesso che sopravviva. Fate in fretta ora. Non perdiamo altro tempo” Lostumbo e gli agenti Pirovano e Nicotera rimasero immobili davanti all’albergo, finché l’ambulanza non sparì dietro a una curva. Lostumbo guardò l’orologio da polso. Mancavano due minuti alle due e mezza.

“Telefona alla centrale e da’ l’allarme generale. Nicotera, tu occupati dei nastri di delimitazione, io faccio due chiacchiere con quei due” Respirò profondamente e si accorse che il vento era aumentato di intensità. “Volete dirmi qualcosa circa quello che è successo?” L’uomo scosse il capo singhiozzando, la donna invece alzò lo sguardo sul ispettore. “La cameriera l’ha trovato così quando è andata per riordinare la camera” Un vecchio gatto era steso sul davanzale e lo osservava senza sosta. “Morde e graffia!” disse la donna La mente di Lostumbo andò per un attimo a sua moglie, che amava particolarmente i gatti “Che tipo era? Avevate avuto modo di conoscerlo?” La donna abbassò il capo, come vergognandosi “Ispettore vede…i tempi sono duri e, sa com’è, bisogna anche accettare dei compromessi.” “Che intende dire?” chiese Lostumbo togliendo rapidamente la mano dal gatto che stava cercando di graffiarlo “Mia moglie vuol dire che affittiamo le camere ad ore” intervenne il marito, con un filo di voce Lostumbo si irrigidì per la sorpresa: “Vuol dire che non era da solo in camera?” I due si scambiarono un’occhiata circospetta “Era salito con una donna, ma sinceramente io non l’ho vista uscire” disse la donna

“neanch’io... .” confermò l’uomo con un vigoroso cenno della testa Lostumbo rimase un momento perso nei suoi pensieri, poi si riscosse improvvisamente: “Manda qualcuno all’ospedale!” disse rivolto all’agente Pirovano che era dietro di lui “In caso l’uomo riprenda conoscenza voglio che qualcuno gli sia vicino per ascoltare quello che ha da dire” Pirovano annuì. Quando tornò nella hall dell’albergo, si sedette su una poltrona e invitò con un cenno la coppia a fare altrettanto. “Raccontate. Ditemi tutto quello che ricordate su quest’uomo e questa donna. Senza tralasciare nulla. Ogni particolare che vi ricordate” Marito e moglie si guardarono con aria perplessa, poi la donna si alzò di scatto. “Lo vuole un caffè, ispettore?” “Molto volentieri, grazie!” Dopo due tazze di caffè troppo lungo, si rese conto che quella coppia non aveva niente di interessante da raccontare. Finita la serie di domande, capì che nessun particolare fisico era rimasto loro nella mente. I due lo fissarono, in attesa. Lostumbo si alzò: “Mi farò vivo fra qualche giorno, nel caso vi venisse in mente qualcosa” Per un attimo pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa per rincuorare la coppia. Ma cosa poteva essere? Quale senso di sicurezza poteva offrire a due persone che avevano visto quella scena?

Quando andò via dall’albergo, il vento era ulteriormente aumentato e Lostumbo fu costretto a chinarsi in avanti per raggiungere la sua automobile. In realtà avrebbe dovuto rimanere per dare una mano ai tecnici della scientifica, ma non se la sentiva di rimanere in quel luogo più di quanto fosse necessario. I tecnici avrebbero controllato anche il più recondito angolo della scena del crimine. “Che spettacolo orribile” disse Nicotera, raggiungendolo in quel momento “E’ la stessa osservazione che abbiamo fatto tutti” disse Lostumbo “Cosa ne pensa ispettore?” chiese Nicotera preoccupato “C’era una donna con lui…è uscita da sola a quanto pare, lasciandolo lì mezzo morto... .” “magari si tratta di un litigio finito male... .” azzardò l’agente Lostumbo si tastò alla ricerca di un pacchetto di sigarette, dimentico di aver smesso di fumare da tre mesi. “Può essere qualsiasi cosa…speriamo che quell’uomo non muoia…avrebbe tante cose da dirci... .”

7.

Mentre camminava sul marciapiede con due pesanti borse della spesa, tanto cariche che la plastica le tagliava le mani, Morena ricordò la notte in cui la sua infanzia era finita. Vide mentalmente una bambina tremante che arrancava nella notte. Lei aveva quindici anni e camminava scalza nella neve, con soltanto una maglietta addosso. Con una mano si premeva quell’indumento sulla pelle, cercando di trattenere nel corpo un po’ di calore. Le lacrime le scorrevano sul volto e di tanto in tanto, il suo sguardo cadeva sulla pelle scorticata dei polsi Le case erano tutte buie. Sara non aveva idea di dove stesse andando. Sapeva soltanto che nessuno l’avrebbe aiutata, e che non poteva tornare indietro. Era terrorizzata. Dodici anni più tardi, voltò l’angolo della via di casa provando una sensazione simile. Tornare in quella casa era come tornare in una prigione. Quattro mura che rinchiudevano una solitudine angosciante.

Morena si sentiva il cuore in gola. Si guardava nello specchio dell’ascensore e si faceva rabbia: per la prima volta dopo tanto tempo, quella sera si sentiva bella. Si guardò con attenzione la bocca carnosa ben evidenziata da un rossetto rosso fuoco (“sarà mica troppo da troia? Ma poi in fondo che sono stasera?”), i grandi occhi chiari che il trucco pesante sembrava trasformare quasi in scuri, il tocco

leggero di fondo tinta che rendeva il viso di un colorito omogeneo. Era vestita elegantemente con un tailleur nero la cui gonna corta metteva in evidenza delle gambe flessuose e ben tornite. Tutto nell’insieme era elegante e armonico, come il suo incedere. Uscì dalla porta del suo palazzo, con un misto di sentimenti contrastanti che avevano appena iniziato una battaglia all’ultimo sangue nei meandri della sua anima. Aveva solo un grande desiderio: scappare. Scappare dalle sue angosce, dai suoi sensi di colpa e da quello che aveva fatto. L’indomani avrebbe visto Celeste e, con una nuova identità, avrebbe potuto ricominciare daccapo. Magari, perché no?, proprio con Luca. Questo pensiero allentò l’angoscia che fino a quel momento le aveva attanagliato il cuore. Sì, forse c’era un modo per uscirne e non importava. La sua coscienza era più importante e , in futuro, avrebbe voluto continuare a guardarsi nello specchio senza doversi vergognare. Mentre la sua mente elaborava questi pensieri, il suo corpo, in completo distacco dalle funzioni del suo cervello, aveva meccanicamente dato tutt’altri comandi: le sue mani e i suoi piedi avevano guidato una macchina e, quasi senza accorgersene, si trovava in prossimità del luogo dell’appuntamento: il Bar Ideal, un esclusivo ritrovo nella collina Torinese, a pochi i dalla collina. Fermò la sua Panda sul ciglio della strada in prossimità del posteggio di una discoteca poco distante. Il suo cuore cominciava a battere all’impazzata, la sua mente era sempre più confusa e questo stato di crescente agitazione le aveva sollecitato oltremodo la vescica, per cui aveva necessità impellente di orinare. Scese dalla macchina muovendo nervosamente le gambe e guardandosi attorno con circospezione. Si avvicinò a una siepe che delimitava un prato antistante il parcheggio della discoteca, a quell’ora ancora vuoto e, dopo essersi ancora guardata con molta attenzione intorno, si accovacciò abbassandosi le mutandine. Il senso di sollievo che derivò dall’eliminazione di quel sospirato bisogno fu immediato. Poco dopo, sentì una macchina avvicinarsi.

Era lui. Il cuore perse un battito. Luca era arrivato.

8.

Avevano attraversato la città, preso la tangenziale e arrivati ad Avigliana, cittadina posta all’inizio della Valle di Susa, caratteristica per i suoi due laghi, molto suggestivi. Ed era particolarmente affascinante anche quel ristorante con veduta panoramica sul lago grande. Erano seduti ad un tavolo d’angolo, erano lì da più di un’ora, avevano ordinato tutte le portate a partire dall’antipasto, ma in realtà, era solo un modo per allungare la serata perché la maggior parte dei piatti tornava in cucina praticamente intatto. L’emozione aveva bloccato ad entrambi l’appetito ed erano completamente presi uno dall’altra. “non hai toccato neanche il primo…” disse lei sorridendo “anche tu mi sembra…” “ a quanto pare non abbiamo molta fame…” lui la guardò rapito poi le sussurrò: “stare con te mi ha già saziato…sto molto bene con te…m piace parlare con te…” “anche a me….però non mi hai detto se sei sposato…” “no, no per carità. Sono divorziato ormai…” “uhm mi spiace. Sei stato sposato a lungo?” “circa sette anni….” “niente figli?” “no. Tu?” “io? Figurati…di solito sopportavo quelli degli altri…”

Luca sorrise: “ah già, tu sei quella che incontri solo uomini sposati…” “c’è poco da scherzare….”si avvicinò a lui con finta aria minacciosa: “bada che se scopro che anche tu lo sei, sono guai…” “tranquilla….ho già dato te l’ho detto... .” Morena sorrise osservando pensierosa il panorama dalle vetrate davanti a se. Una luna piena e luminosa si stava specchiando sulle acque del lago, mentre le luci dei locali dall’altra parte della riva davano l’idea di essere chissà dove, pur essendo a soli trenta km dal centro della città: “quindi sei solo come me?” “si e mi sento anche solo se è questo che vuoi sapere…” Lei sorrise, abbassò lo sguardo poi le vennero in mente all’improvviso tanti brutti pensieri, tutti insieme. Cominciarono a danzare nel suo cervello, frammenti di immagini di sofferenze, prese in giro, disillusioni. Promesse mai mantenute, incontri frettolosi, uomini che vedi andare via in piena notte dal tuo letto. Ebbe un brivido e una smorfia di fastidio le increspò leggermente il volto. Di questo Luca se ne accorse: “cosa stai pensando di così tremendo?” “si vede?” chiese lei scuotendosi dai suoi pensieri “direi di si…sei un libro aperto... .” “è proprio quello che non vorrei mai essere” rispose lei con fastidio Luca si asciugò la bocca con il tovagliolo, mentre l’ultimo boccone di torta alle mele, faticava a scendere: “anche con me?” chiese con una punta di delusione nella voce “senti, scusami ma ci conosciamo da troppo poco tempo”

si guardò intorno nervosa mentre Luca si sentiva sempre più confuso “non devi sentirti a disagio se ti trovi bene con qualcuno... .” “che intendi dire?” “voglio dire che se ti trovi bene in compagnia di qualcuno non vuol dire necessariamente che ti debba poi in qualche modo fregare…” “scusa ma mi riesce difficile crederlo…” “le cose non vanno mai allo stesso modo nella vita,” sentenziò Luca “le cose non vanno mai come credi…” lo corresse Morena con tono altrettanto fermo, guardandolo fisso negli occhi “hai eretto una barriera a dir poco impenetrabile tra e il resto del mondo…” “soltanto all’altezza del cuore…come vedi con te sto parlando no? Sono venuta addirittura a cena!” Luca sospirò chiudendo gli occhi. Prese fiato poi le sorrise, uno di quei sorrisi, talmente sinceri, che avevano il potere di aprire il cuore anche alla persona più cinica di questo mondo. Infatti Morena si sentì intenerire. “senti, io non ti chiedo nulla se non di stare con me…”

9.

Il primo sole del mattino filtrava dalle persiane socchiuse. Morena aprì un occhio e una sconosciuta sensazione di benessere la invase completamente. All’improvviso, accorgendosi di essere nuda tra le lenzuola, le tornarono alla mente i particolari della notte appena trascorsa. Non avrebbe mai immaginato che sarebbe finita così presto tra le braccia di quell’uomo, ma il suo modo di parlare, la sua sensibilità, il fare affabile e rassicurante avevano fatto crollare in breve tempo tutti i suoi muri di difesa. Lei aveva un disperato bisogno d’amore e aveva incontrato una persona che sembrava avere le caratteristiche giuste per alimentare questo sentimento e incanalarlo nel modo giusto. Ogni cosa insieme a lui sembrava essere sempre quella giusta al momento giusto, inoltre c’era quella strana sensazione di conoscere una persona da sempre, senza dimenticare il modo infallibile di saperle leggere nel cuore e nell’anima. Avevano parlato lungamente tutta la sera, avevano camminato per tutto il centro città fino a costeggiare le rive del Po, ripercorrendo a parole tutto il percorso di vita che li aveva portati ad essere lì quella sera, insieme uno con l’altra e sempre con quella costante e perdurante sensazione di familiarità, come due vecchi conoscenti che si raccontavano episodi di vita vissuta, consapevoli del fatto che l’interlocutore fosse perfettamente a conoscenza di tutto ciò che faceva parte del ato dell’altro. Poi, era stato inevitabile. La vicinanza, una sua carezza, le luci sul fiume, quella atmosfera così magica ed era stato il primo e indimenticabile bacio, ma senza l’esitazione tipica delle prime volte. Le loro labbra si erano sfiorate mille volte prima di socchiudersi e attaccarsi come colla a quelle dell’altro, vittime di una attrazione irresistibile. E dopo un bacio, e un abbraccio sempre più avvinghiato, un desiderio che diventava sempre più dilagante, fino al momento in cui,

invitatolo a casa, era stato perfettamente naturale trovarsi nudi su un letto, scoprendo ogni lato del rispettivo corpo. E poi, il sesso, o meglio l’amore, fare l’amore. Un mix di ione e sentimenti che rischiava di farle esplodere il cuore ad ogni bacio. Si stiracchiò pigramente cercando con la gamba l’occupante dell’altra metà del suo enorme letto matrimoniale. Non trovandolo si alzò a sedere tendendo l’orecchio (“ecco un altro che se ne va nel cuore della notte!)verso un qualsiasi rumore che potesse far trasparire la sua presenza nella casa. Si alzò con fare furtivo e cominciò a cercare nelle stanze, finché, avvicinandosi al bagno, udì un parlare soffocato dalla porta chiusa. Accostò l’orecchio e cercò di decifrare le frasi che stava pronunciando concitatamente Luca: “ti ho detto…lasciami parlare….non sono a casa perché sono da un cliente,” Non ebbe il tempo di allontanarsi che la porta si aprì di colpo cogliendola di sorpresa. Luca, anche lui nudo, rimase un momento interdetto. “scusa dovevi venire in bagno?” “con chi stavi parlando?” chiese Morena sospettosa “niente lavoro, un problema…” “uhm, mi spiace, una cosa seria?” Luca fece il giro della stanza, poi, visibilmente pensieroso, si sedette sulla poltrona, accavallando le gambe “si. Cioè no…problemi di lavoro, ti ho detto.” “ e allora?” lui la guardò sempre più pensieroso:

“allora, mi sa che devo andare…” queste parole ebbero l’effetto di una stilettata per Morena che ebbe una fitta alla bocca dello stomaco. Rimasero a lungo in silenzio, ciascuno con i propri pensieri, finché Luca, sorridendole, non la ridestò: “però, è da ieri che ci conosciamo e già non abbiamo più nulla da dirci,” scherzò cercando di mascherare una tensione che era palpabile. Morena non disse nulla, si alzò di scatto dalla poltrona sulla quale si era seduta per un attimo e tese la mano verso Luca per farsi dare il suo cellulare. Lui, dopo una breve esitazione, glielo consegnò con fare sconsolato. . Attese qualche secondo poi tutti i suoi più neri pensieri si materializzarono nella scritta: CI SONO 12 NUOVI MESSAGGI IN SEGRETERIA. Ne ascoltò uno e tanto le bastò. Morena sapeva perfettamente chi poteva averglieli lasciati. Era inutile fuggire. Anche Luca era sposato. Si diresse verso il bagno con aria rassegnata: “scusa vado un momento in bagno” chiuse la porta e, dopo neanche un attimo, le parti si erano già invertite: Morena era al telefono e adesso era Luca a cercare di sentire quello che lei .diceva . Ci fu una lunga attesa, come se lei stesse pensando o facendo qualcosa. Sentì lo scroscio dello sciacquone e ne dedusse che aveva appena fatto qualcosa. Poi silenzio. Un lungo silenzio. E finalmente la sua voce, glaciale e stentorea: “Okay, grazie. Allora alle quattro davanti al Gran Bar.” la comunicazione doveva essere terminata. Luca ebbe solo il tempo di sentirla

singhiozzare, poi si scostò dalla porta del bagno e, con il cuore a mille, ancora incerto sulla reazione che lei avrebbe potuto avere , si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona. Proprio in quell’esatto istante Morena uscì dal bagno. Il cervello di Luca era immerso in un turbinio di pensieri, Nel giro di pochi minuti, un castello di illusioni si era praticamente distrutto. La figura di amante dolce e comprensivo, nonché single, ormai era rovinata, dopo tanta fatica. Ma perché mentirle? Si sorprese a chiedersi La guardò con finta allegria, poi esclamò: “Con chi ti vedi al Gran Bar domani?” e si sentì morire per l’infelice uscita “cosa fai? Origli alle porte?” Rispose lei piccata Luca era terreo. L’imbarazzo a volte fa brutti scherzi. Non riusciva a capacitarsi di come quelle frase gli fosse uscita di bocca: “no, scusa. È che ti avevo sentito piangere. Mi ero preoccupato, mi sono avvicinato alla porta. E ho un pezzo di telefonata…tutto qui.” Morena lo fissava con le mani sui fianchi, in una posa talmente aggressiva che temeva da un momento all’altro di vedersela rovinare addosso. “non mi prendere per il culo….” Si girò con lacrime gli occhi, andò a o svelto verso la camera da letto, dove cominciò freneticamente a cercare i suoi vestiti. “mi farebbe piacere ti rivestissi anche tu” gli urlò Luca, colto di sorpresa, si guardò e si rese conto della sua nudità. “scusami…hai ragione…” Si sentiva incredibilmente impotente e senza forze. Entrò nella camera da letto, cercò praticamente ovunque i suoi vestiti e rapidamente si ricompose. Tutta questa operazione si svolse nel più assoluto silenzio. Uno di spalle all’altra.

“senti, noi dobbiamo parlare…”esclamo lui alla fine, cercando di prenderla per un braccio “fanculo bugiardo!” rispose lei divincolandosi “voglio sapere che succede” urlò lui, sentendo tutta la disperazione che gli stava opprimendo la gola, salirgli lentamente, come una gelida e invisibile mano assassina lei lo guardò con uno sguardo che voleva essere arrabbiato ma che in realtà significava inequivocabilmente richiesta d’aiuto. Una lacrima le stava rigando il volto e il colore dei suoi occhi stava assumendo un aspetto appannato. “lo so che stai pensando…” disse Luca “cosa?” “che ti ho raccontato un mucchio di balle.” “e cos’altro dovrei pensare?…” “tutto quello che ti ho raccontato ieri sera è vero…ero sincero, come avrei potuto fingere? Era una vita che non mi sentivo così bene…avevo bisogno di aprire il mio cuore, la mia mente a qualcuno…ma…” “ma c’è qualcosa che non mi hai detto…”lo interruppe lei gelidamente “no, cioè si…insomma la mia vita è un casino…” Morena andò verso la cucina e aprì la credenza dalla quale estrasse un rotolo di asciugoni multistrappo. Ne staccò uno e si soffiò rumorosamente il naso, mentre nuove lacrime avevano cominciato ad invaderle il viso. “Ho dei problemi con mia moglie, è come se non fossi più neanche sposato… non capisco più niente della mia vita….” Luca le si avvicinò, le accarezzò i capelli, invitandola tacitamente ad ascoltarlo: “credimi…sono una persona seria io... . ho dei valori…”disse con voce strozzata e gli occhi pieni di lacrime

“So solo che sei un bastardo come tutti gli altri” disse Morena scostandosi da lui bruscamente donne?” Luca ebbe un lieve mancamento. “che c’è ?” chiese Morena vedendo sbiancare all’improvviso il suo interlocutore “no no... . niente…magari un po’ d’acqua... .” e si diresse con o incerto verso il frigorifero Luca si attaccò al collo della bottiglia di minerale come fosse un nettare di vita e cominciò a bere a garganella. Si accorse di aver vuotato un’intera bottiglia di minerale in soli tre minuti. Un autentico record. Morena continuava a osservarlo con una smorfia di disprezzo dipinta sul volto: “Non voglio vederti mai più!” E proprio in quel momento, Luca svenne.

10.

Morena era perplessa. Osservava preoccupata Luca, che aveva issato sulle sue spalle e portato a peso sul letto e non sapeva cosa pensare. Gli detergeva la fronte con un fazzoletto inumidito e nel frattempo la sua mente continuava a macinare immagini. Si era illusa, aveva voluto fidarsi di lui ma per l’ennesima volta aveva dovuto buttare giù un boccone amaro. Sembrava che non esistessero più uomini liberi e disponibili, ma solo avventurieri senza un filo di rispetto, capaci solo di approfittare del suo entusiasmo.

La spiaggia era assolata. Era bellissimo restare distesi all’ombra, ammirare quel mare cristallino e bearsi della leggera brezza che si stava levando proprio in quel momento. Luca allungò la mano verso la sua destra, dove era distesa una bellissima mora che stava prendendo il sole in topless. Vederla così, distesa di spalle, le fece nascere un desiderio fortissimo. Le si avvicinò, le cinse i fianchi con le mani e le abbassò violentemente lo slip, era arrivato il momento tanto atteso! Far l’amore sulla spiaggia, una sua fantasia di gioventù che finalmente si stava per avverare. Contemplò per un istante quel posteriore nudo e si preparò a una selvaggia penetrazione... . “che cazzo stai sognando?” Una voce lo destò da quello che, in un attimo, si rivelò solo uno splendido sogno. Si voltò istintivamente verso la voce che aveva anche un volto, quello di Morena che, seduta su uno sgabello davanti al letto, lo stava fissando con aria severa.

Una vistosa erezione faceva capolino da sotto i boxer. “non so, scusa... . mi hai svegliato così all’improvviso…”farfugliò Luca imbarazzatissimo Morena continuava a guardarlo con un’aria che non faceva presagire nulla di buono. “che... . che c’è? “ chiese lui con evidente disagio Lei continuava a fissarlo senza proferire parola. “stai meglio?” chiese con un tono di voce assolutamente neutro “sì, devo essere svenuto…” “C’è che dire che sei davvero un uomo con le palle…” commentò lei con una lieve ironia “è che a volte mi capita…” rispose lui mettendosi piano a sedere sul letto e stropicciandosi gli occhi come dopo un lungo sonno Morena si alzò e si sedette vicino a lui, continuando a fissarlo torva “te lo chiedo solo una volta... .” esordì, fingendo di controllare il suo nervosismo che però traspariva da ogni poro della sua pelle “Me lo avresti detto prima o poi o intendevi continuare a prendermi per il culo fino a quando ti saresti stufato di me?” Luca la guardava stranito “ripeto la domanda: me lo avresti detto prima o poi che sei sposato?” “Non posso saperlo adesso... . così su due piedi, posso solo dirti che non volevo prenderti in giro” rispose lui cercando di prendere tempo Gli occhi di lei erano due palle di fuoco che gli stavano ustionando le retine, mentre lo fissava “Ti prego di credermi…”

Non ebbe tempo di finire la frase che un sonoro ceffone gli lasciò stampate le cinque dita della mano sulla guancia sinistra “ehi ma che fai? Sei impazzita?” esclamò lui alzandosi e massaggiandosi la guancia “ripeto la domanda…”si alzò anche lei e lo raggiunse mentre Luca cercava di andare verso l’entrata “non è il caso che tu la ripeta, ho capito benissimo e…” Fu a quel punto che Luca si sentì letteralmente sollevare da terra. Nello stesso tempo una fitta di dolore lo colpì nella zona dell’inguine, ci volle un po’ di tempo per realizzare, non senza un grande stupore, quello che gli stava succedendo: Morena l’aveva preso per le palle e l’aveva sollevato da terra! Incredibile! Era una mossa degna del miglior incontro di wrestling e si stava chiedendo dove prendesse tutta quella forza. Non era certo un marcantonio, ma comunque lui era un uomo e lei una donna… all’improvviso lei mollò la presa e lo lasciò andare pesantemente a terra. La sensazione di dolore ai testicoli stava progressivamente aumentando, al punto di togliergli il respiro. Ebbe il tempo di pensare a due soluzioni: o la fuga immediata, ma la porta d’ingresso era sbarrata dalla sua presenza oppure confessare. La seconda opzione era indubbiamente quella migliore: oltretutto aveva una gran voglia di togliersi quel peso dallo stomaco. Si rialzò lentamente, massaggiandosi le parti basse e si rimise a sedere sul bordo del letto. Morena stava aspettando. “beh…sì, te lo avrei detto.” Seguì un lungo e imbarazzato silenzio, durante il quale Luca cercava le parole giuste. “ti sto ascoltando…” lo incalzò Morena con un tono di voce sempre più minaccioso “Una volta raggiunto un certo grado di confidenza, nel momento in cui mi avessi

conosciuto fino in fondo per la persona che sono dentro…” Lei si abbassò alla sua altezza e gli sorrise sinistramente: “non so perché ma penso che la persona che sei dentro la conosco già ormai.” commentò ironicamente “e devo confessarti che non mi piace per niente!…” Luca restò un attimo ancora in silenzio, poi sospirò, prese fiato e riuscì finalmente a dire quello che aveva sullo stomaco: “Io però sento di provare qualcosa per te…” Morena si voltò, il volto trasfigurato dalla rabbia : “non ci provare, stronzo!!” “senti, se puoi evitare di usare quel termine. Io... .” “tu cosa?” lo prese per il collo scuotendolo violentemente “mi hai illuso. Mi hai fatto credere di essere diverso e guarda un po’... . ci stavi anche riuscendo… hai voluto che mi fidassi di te e, nonostante tutto, l’ho fatto… sapevi in che stato era il mio cuore, ma niente! Nonostante le mie preghiere te ne sei fregato... . hai giocato anche tu con me... . anche tu mi hai preso in giro… come tutti... . come sempre…” lo lasciò andare, scoppiando in singhiozzi Luca non sapeva più cosa dire. Era tutto successo così in fretta, soltanto poche ora prima pensava di aver toccato il cielo con un dito. Credeva che l’incontro con Morena fosse un segno del destino, un inizio di cambiamento, un chiaro segnale di svolta nella sua vita da sfigato. Invece, aveva giocato malissimo le sue carte e vederla soffrire così per colpa sua gli creava un senso di indicibile angoscia. Cercò di avvicinarsi a lei ma si scostò immediatamente appena avvertì la sua presenza.

Vedeva una figura stagliata nel suo orizzonte personale, muoversi in maniera convulsa cercando di reprimere i singhiozzi, le spalle si muovevano ritmicamente, la testa oscillava leggermente in avanti. Quando sembrava sul punto di perdere i sensi, tutto a un tratto si voltò. Le lacrime erano cessate. Come dopo una giornata di pioggia, esce un raggio di sole tra le nuvole, così il suo volto addolorato si era trasformato in un sinistro ghigno. Della persona dolce e innamorata della sera prima non era rimasto nulla. I lineamenti erano letteralmente trasfigurati. Per un attimo, gli sembrò addirittura di vederne due. Non riusciva minimamente ad immaginare quale infinito turbinio di sensazioni dovessero dibattersi dentro di lei. La vedeva solo camminare verso di lui, con quello strano sorriso sul volto, con una calma serafica, persino fuori luogo e con quell’enorme posacenere di marmo in mano che….già, cosa faceva con quell’oggetto in mano? Probabilmente lo stava mettendo a posto oppure, si sa, in certi casi si compiono gesti senza nessun senso apparente, evidentemente lo voleva spostare da qualche altra parte, ma poi lei fumava?... . Luca si stupì di quante domande riuscisse ad elaborare il suo cervello nel giro di pochi secondi o forse era una prerogativa della sua mente? Certe volte avrebbe voluto spegnere il flusso ininterrotto dei pensieri che nascevano dentro di se, fin dalle prime ore del mattino. Altre domande continuavano ad affiorare nel suo cervello, frammezzate alle immagini di lei, la sera prima, così bella, tenera, forte e indifesa nello stesso tempo, così desiderosa d’amore e così capace di amare. Rivedeva il suo sorriso, le sue labbra che si avvicinavano, gli sembrava di sentire ancora il sapore di ogni suo bacio, lo sentiva ancora vivo e presente, come una creatura invisibile che lo stesse avvolgendo in un caldo e interminabile abbraccio, con lo stesso sapore acre e denso del suo stesso sangue. Il suo stesso sangue. Il sapore del suo stesso sangue. Aveva sentito quel sapore, pensando alle sue labbra. Lo provava ora che il suo sangue stava sgorgando copioso dalla testa. Morena sorrideva trionfante. Gli occhi scintillanti come quelli di un demonio.

La sua vista cominciava ad annebbiarsi lentamente. L’unica cosa che continuava a vedere era l’immagine di quella donna che lo fissava euforica con in mano un posacenere (“Dio Mio è sporco di s….”)ed era una strana euforia, da far venire i brividi, perché quello sguardo non aveva più nulla di umano. Proprio in quel momento Luca vide esaudito il suo più grande desiderio: quello di riuscire a fermare i continui pensieri che affollavano in maniera caotica la sua mente ad ogni ora del giorno e della notte. Si fermarono all’improvviso, nello stesso istante nel quale vide Morena sollevare nuovamente il posacenere con tutte e due le mani. Poi fu il buio. E finalmente la pace.

Morena aveva ucciso di nuovo. Era una lotta senza quartiere tra la sua coscienza e una parte cinica di lei che non sospettava di avere : (“devo sbarazzarmi di questo corpo…”) (“devi andare a costituirti... ”) (“se lo faccio sparire chi sospetterebbe di me? Ufficialmente noi due non ci conosciamo….”) (“devi pagare, hai sbagliato, quindi devi pagare…”) (“si, ma come lo faccio sparire?... . un sacco nero?”) (“tua madre, se ti vedesse….) (“…lo butto dalla finestra?... . potrebbe sembrare un suicidio?... . no, attirerebbe troppa gente, qualcuno potrebbe poi vedermi uscire….”) (“e tuo padre?... .ne morirebbe!... .ah, è già morto…”) (“sono una brava persona... . una persona onesta che non farebbe male a una mosca…”) Si diresse con incosciente decisione verso la cucina, poi verso la sgabuzzino da

dove ne uscì con un grosso sacco di tela robusta. Quando fu di fronte al corpo, sospirò profondamente , poi in un impeto incontrollato di ira prese nuovamente il pesante posacenere tra le mani e affondò altri colpi sul volto dell’uomo, scoppiando in un pianto nervoso. Si bloccò in preda allo sconforto. Si osservò le mani sporche di sangue, quasi incredula di ciò che aveva fatto. Poi cominciò a riflettere su come trasportare quel corpo. Si fece coraggio e afferrò sotto le ascelle il cadavere e con non pochi sforzi riuscì a metterlo nel sacco. Si deterse dal sudore la fronte, poi aspettò che le lacrime finissero di scenderle. Prese le chiavi della macchina, aprì la porta e dopo aver preso le estremità del sacco, cominciò a trascinarlo a fatica sul pavimento.

11.

Un bigliettaio della Stazione di Settimo stava fumando una sigaretta appoggiato al muro dell’edificio della stazione. Mancavano pochi minuti alle sette del mattino. La giornata sarebbe stata molto calda. D’improvviso il bigliettaio fu distolto dai propri pensieri che, in quel momento, non erano rivolti ai biglietti che avrebbe venduto ma piuttosto al viaggio in Grecia che avrebbe fatto alcune settimane dopo. Vide una macchina arrivare. Si fermò lasciando il motore e dopo pochi istanti ne scese una figura che estrasse dal bagagliaio, con molta fatica, un sacco, che a prima vista poteva sembrare dell’immondizia, e lo issò sul bordo del container rifiuti facendolo scivolare giù. La figura si guardò rapidamente intono, non notando il bigliettaio, poi risalì sulla macchina e ripartì sgommando. Tutto era stato molto strano, come se si trattasse di qualcuno che stesse girando un film, anche se intorno non vedeva alcuna cinepresa. Il bigliettaio aveva gettato la sigaretta e si era avvicinato, incuriosito, al container. Solo quando era ormai troppo tardi, era stato colpito dal pensiero che quello che lo aspettava potesse essere qualcosa di poco piacevole. Si affacciò al container, provò a sollevare il sacco e il suo sguardo si fissò su una testa coperta di sangue. Aveva lasciato cadere il sacco come se gli avesse scottato la mano e poi era corso verso la stazione, aveva sbattuto contro delle valigie che erano state lasciate da alcuni viaggiatori trascurati che avrebbero preso il primo treno per Chivasso, era entrato nella sala scambi e aveva afferrato il telefono. L’allarme arrivò alla polizia di corso Vinzaglio quattro minuti dopo le sette. La telefonata fu ata a Pirovano che era al suo posto eccezionalmente presto quella mattina.

Quando sentì il bigliettaio parlare di una testa coperta di sangue, si era sentito raggelare. Mentre annotava una sola parola sul taccuino notò che gli tremava la mano, poi appoggiò il ricevitore. Per due volte Pirovano si sbagliò a comporre il numero, solo alla terza riuscì a mettersi in contatto con Lostumbo. Dalla voce si sentiva che il ispettore era mezzo addormentato anche se aveva negato subito di esserlo. “Hanno trovato un altro uomo con la testa fracassata” disse Pirovano Per alcuni secondi Lostumbo non era riuscito a capire cosa Pirovano volesse dire, poi capì quello che era successo. E subito si rese conto che non avrebbe mai dimenticato la sensazione che lo pervase in quel momento. ERA SUCCESSO DI NUOVO. Si sentiva come un pupazzo meccanico. Le parole balbettate da Pirovano erano come una mano che girava l’invisibile chiave sulla sua schiena, Fu strappato dal sonno e dal suo letto e da sogni che non ricordava ma potevano essere piacevoli. Si vestì in preda a un nervosismo furibondo e non fu prima di essere arrivato fuori, alla luce del sole, che si accorse di non aver allacciato le scarpe e di aver abbottonato solo i due bottoni in basso della camicia. Quando arrivò sgommando con la sua auto, per la quale proprio quel giorno avrebbe dovuto riservare la revisione, Pirovano lo stava aspettando. Alcuni poliziotti in uniforme guidati da Nicotera, stavano disponendo i nastri di delimitazione a strisce che annunciavano che il mondo era nuovamente crollato. Pirovano stava consolando un bigliettaio in lacrime battendogli imbarazzato una mano sulla spalla. Alcuni uomini in tuta blu stavano esplorando il container dei rifiuti in cui avrebbero dovuto scendere, ma che si era trasformato in un incubo. Lostumbo spalancò la portiera dell’auto e corse verso Pirovano. Non sapeva perché si fosse messo a correre. Il viso di Nicotera era bianco come un lenzuolo. Fece un cenno verso il container. Lostumbo si diresse lentamente. Prima di guardare, respirò profondamente due volte. Era peggio di quanto avesse immaginato. Per un breve attimo, ebbe l’impressione di guardare direttamente nel cervello dell’uomo morto. “Pensa ci sia un nesso con l’uomo trovato nell’albergo, ispettore?” chiese Pirovano

Lui fece un cenno affermativo con il capo, senza rispondere. “Deve essere lo stesso individuo... . ne sono convinto, anche se apparentemente potrebbero essere due morti non collegabili…eppure qualcosa mi dice che... ” Lostumbo si interruppe quando notò che al di là del nastro di delimitazione si erano già radunate molte persone. Prese Pirovano in disparte e gli chiese di farsi dare una macchina fotografica e di fotografare il più lentamente possibile, le persone radunate al di là dei nastri di delimitazione. Nel frattempo era arrivata anche la macchina di emergenza dei vigili del fuoco. L’ispettore De Feudis aveva già iniziato a dirigere i suoi uomini intorno al container. Lostumbo si avvicinò, cercando allo stesso tempo di evitare di guardare all’interno del container. Il sacco con i resti del corpo venne tirato su. Nel frattempo Lostumbo aveva parlato con il messo comunale che aveva aperto completamente il sacco e con il bigliettaio che aveva fumato una sigaretta fuori dall’edificio della stazione, sognando la Grecia. Lostumbo aveva annotato gli orari. Aveva chiesto a Nicotera di controllare se ci fosse qualsiasi cosa, un documento o altro, atta a stabilire l’identità dell’uomo. “Niente?” chiese Lostumbo sorpreso dopo un po’ di tempo “Niente” rispose Nicotera “ma naturalmente qualcosa può essere caduto nel container. Continuiamo a cercare” Lostumbo assentì con un cenno del capo. “Dobbiamo trovare il bastardo che ha fatto questo” disse all’improvviso “Al più presto possibile” aggiunse l’ispettore DeFeudis avvicinandosi a Lostumbo.

12.

Morena si sentiva confusa, emozionata e divorata da migliaia di sensi di colpa. Eppure stava quasi correndo verso quell’appuntamento. Attraversò la strada senza accorgersi del semaforo rosso e il suono del clacson di una macchina che si era inchiodata davanti a lei, evitando d’un soffio di investirla, la fece trasalire. Si scusò con un gesto e riprese a camminare velocemente verso il bar Augustus, nella centralissima Via Roma, che quel giorno era come al solito affollatissima di gente. Vedeva le vetrine attorno a se, la gente che si muoveva frenetica ma era come se stesse vivendo un sogno, non era lei che in quel momento stava andando a quell’appuntamento, era un’altra Morena, quella del mondo delle sue fantasie, dei suoi desideri più nascosti, dei sogni più segreti. Arrivò al bar con dieci minuti di anticipo. Si guardò intorno ma non le sembrò di riconoscere Celeste da nessuna parte. Tirò un sospiro di sollievo, cercò un tavolo defilato all’interno dell’elegante locale e si sedette ordinando un martini al cameriere con livrea che stava ando proprio in quel momento. Continuava a guardare nervosamente l’ora ma di Celeste nessuna traccia. Entrò una coppia, occhio e croce avranno avuto più o meno la sua età. Sembravano felici. Lui che la stringeva forte a se e lei che rideva ad occhi chiusi, l’emblema stesso della felicità, era come se gli dicesse: “guidami tu, io mi fido di te, io vivo per te”. Si sedettero al tavolo vicino e si sentì invidiosa e angosciata, con i soliti sensi di colpa che stavano sferrando quello che poteva essere l’attacco decisivo al suo io. Quando vedeva delle coppie felici la prima domanda che si faceva era: “perché loro si e io no?” La seconda era: “perché quel gran figo sta con quel cesso?” e la terza : “quanto tempo erà prima che comincino ad odiarsi e a cornificarsi?”

“ciao!” una voce calda e armoniosa la distolse da quella miriade di pensieri confusi e accavallati alzò lo sguardo verso una ragazza alta, semplice, minuta. Un filo di trucco sui grandi occhi marroni, una cascata di capelli che facevano da contorno a un viso angelico, un fisico snello e ben contenuto in un anonimo tailleur che avrebbe potuto indossare una qualsiasi impiegata del catasto e un’aria assolutamente innocente. “Come stai Morena?” le disse la ragazza porgendole la mano tesa Lei, incredula, si alzò, le strinse la mano e si lasciò pesantemente cadere sulla sedia. “Male, davvero male…” Celeste si sedette e la osservò piegando leggermente la testa di lato. “Vuoi parlarmene? “ “Ho fatto qualcosa di tremendo... ” farfugliò sorseggiando nervosamente il martini e finendolo poi con un’ampia “golata” “Tremendo, addirittura!... .non avrai mica ammazzato qualcuno, no?” le chiese con un tono canzonatorio. Le sorrise e in quel momento ebbe una reazione che la fece arrossire. Celeste continuava ad osservare Morena che era sbiancata in volto. “Cosa…cosa vuoi dirmi?... .mica hai davvero ammazzato qualcuno?” chiese con tono spaventato Morena scosse il capo e Celeste sembrò rilassarsi, appoggiandosi allo schienale della sedia, quindi fece un cenno al cameriere che si avvicinò guardandola ammirato. Indubbiamente piaceva all’istante: “un succo d’ananas per favore” disse con voce calda e carezzevole. Morena si sentì in colpa per quel martini che già le stava facendo girare la testa.

Ci fu un lungo attimo di silenzio. Poi Celeste le sorrise, le prese la mano e gliela strinse forte “Ho…ho ucciso due uomini!” sbottò Morena tutto d’un fiato guardandosi attorno con circospezione Celeste la fissava con gli occhi sbarrati mentre continuava a stringerle forte la mano. Morena avrebbe voluto sottrarsi a quella stretta, le sembrava di avere gli occhi di tutti addosso, ma non riusciva a divincolarsi, era come se, dalle sue mani, si sprigionasse una incredibile energia che le trasmetteva benessere. “non so come sia potuto succedere... ” si scusò Morena tenendo fisso lo sguardo verso il tavolino “Non voglio sapere niente!” affermò categorica Celeste togliendo la mano da quella di Morena, come se all’improvviso scottasse “scusa?” “Ho detto che non voglio sapere niente. Nel mio lavoro mi capita di sentire di tutto. Però non ho capito come posso aiutarti” Arrivò il cameriere con l’ordinazione di Celeste e Morena ne approfittò per alzare lo sguardo e osservare la naturale fermezza con cui si atteggiava, muoveva le mani, parlava. Aspettò che il bicchiere fosse sul tavolo, ringraziò con un lieve cenno del capo, poi bevve un piccolo sorso e riprese a guardarla. Le sorrise incoraggiante , con una calma e un autocontrollo che Morena giudicò a dir poco sbalorditivi. “Ho... . ho bisogno di una nuova identità…devo sparire di qui…” Celeste annuì “Capisco…” “Devi fare in modo che non possa essere rintracciata più in nessun modo. Pensi di riuscirci?’” Celeste si girò a guardarsi le spalle e le si avvicinò: “Ti costerà tanti soldi, lo sai... ... ”

Le si avvicinò ancora, era a un millimetro dalle sue labbra e le sussurrò: “Posso cercare di venirti incontro, ma non sono sola in questo genere di operazioni... ” rimasero per un istante lungo una vita a guardarsi negli occhi, poi Morena, prese meccanicamente il bicchiere di Celeste: “Posso? Mi sento la gola un po’ secca…” Celeste fece un cenno d’assenso con la mano “Non importa la cifra, ho parecchi soldi da parte... .” Morena si sentiva confusa e a disagio: “E’ un aiuto un po’particolare quello che mi chiedi, ma tu sei tu, ci conosciamo da tanto e se sei nei guai non posso che cercare di aiutarti…” disse piano Celeste, tenendo lo sguardo basso, verso il tavolino, mentre le dita disegnavano dei cerchi concentrici. “Ti prego, non giudicarmi…” la implorò Morena, mentre una lacrima le scese piano “Non fare così…ci stanno guardando” disse Celeste con tono severo Dopo un lungo momento di riflessione, Celeste alzò lo sguardo su Morena: “Dammi un paio di giorni. Ci ritroviamo qui alla stessa ora. Dovrei avere tutto per allora…” Morena le sorrise debolmente “Grazie…non so come ringraziarti, sei davvero un amica e... ” “Porta ottantamila euro!” la interruppe con tono glaciale Morena restò a fissarla, con il labbro che tremolava appena “In contanti ovviamente…” aggiunse con un perfido sorriso disegnato sulle labbra

“Va bene…” rispose Morena interdetta “E mi raccomando: prudenza! Il minimo errore e…” “Stai tranquilla!” Celeste la guardò con curiosità, prese una sigaretta da un pacchetto nella borsetta e la tenne tra le dita, riflettendo: “Posso solo sapere perché?” “Perché cosa?” “Perché hai ucciso due persone!” ribadì Celeste sfiorando la mano di Morena Morena si guardò attorno. Le sembrava che una coppia la stesse fissando, per cui esitò un momento prima di rispondere. “Sono stati incidenti... . non lo volevo davvero…è stato il raptus di un momento…avevo una tale rabbia dentro per come ero stata trattata…” esclamò Morena tutto d’un fiato. Celeste le fece cenno di parlare più piano, poi le prese entrambe le mani e gliele strinse: “Basta così…avrai avuto le tue buone ragioni... ” concluse Celeste alzando un dito per chiamare il cameriere e chiedere il conto. Poi si alzò, si chinò verso Morena, le sfiorò la guancia con le labbra e se ne andò senza dire una parola.

13.

La mattina per Morena era sempre uno dei momenti più critici della giornata. Era ormai giunta alla conclusione che non avrebbe mai più dormito con un uomo in vita sua, quello che era successo le aveva ormai rovinato irrimediabilmente la vita. Anche quel giorno non sembrava diverso da tanti altri, fece suonare lungamente la sveglia e dopo averla spenta con un movimento netto e deciso del taglio della mano, si alzò brancolando, con gli occhi chiusi e le braccia distese in avanti a mo’ di sonnambula. Era un atteggiamento che, per esperienza, le evitava improvvisi scontri con mobili e suppellettili vari della casa .Si diresse verso il bagno per espletare le principali funzioni mattutine, poi tornò verso la cucina dove mise sul fuoco una caffettiera da 3 tazze, si sedette con lo sguardo fisso sul fuoco del fornello, nell’attesa di quella bevanda che avrebbe dovuto rappresentare il toccasana per un inizio almeno accettabile di quella giornata. Si soffermò a pensare all’immagine vista nello specchio poco prima, la mattina si vedeva particolarmente brutta, ma in fondo aveva una motivazione per questo: era come se il mattino evidenziasse quello stato di perenne e pesante insoddisfazione che accompagnava la sua vita. Un tempo riusciva a colmare il suo vuoto sentimentale pensando ai bei tempi felici, sì, anni addietro era stata felice, un grande amore, Christian, un ragazzo leggermente più giovane, un amore corrisposto, una comunione ideale di spiriti e intenti o almeno così sembrava e sembrava tutto così naturale con lui dormire con lui, fare l’amore con lui, mangiare con lui, uscire e condividere tutto con lui in fondo avevano gli stessi gusti e allora perché non vivere insieme? Ed erano andati a vivere insieme, un grande monolocale che però ne soffocò presto istinti, ioni ed entusiasmi. Poi, la brutta storia dell’aborto, un figlio che lui non aveva voluto (“non mi sento ancora pronto... ”)l’inevitabile calo di ione con il conseguente inevitabile tradimento da parte di lui, ovviamente. L’aveva messo alla porta ma lui era tornato, sì era tornato, e mentre il caffè stava venendo su gli venne in mente che era sì tornato ma solo per ricordarle che quella in cui viveva era casa sua e lei

avrebbe dovuto andarsene. Ogni volta che cercava di pensare qualcosa di positivo circa il suo ato, si rendeva conto che c’era stato qualcosa di fallimentare, sempre e comunque… Si alzò stancamente dalla sedia, prese la caffettiera e versò gran parte del contenuto in un’enorme tazza, aggiunse del latte e prese, dal mobile a fianco del frigorifero una di quelle brioscine di gomma morbida dal dolce sapore plastificato che tanto pubblicizzava la tivù. Mangiando e sorseggiando il caffè, riprese a pensare. Pensava al suo presente, o meglio, alle persone che avevano tappezzato la sua strada per arrivare a questo presente fatto di niente, di vuoto esistenziale, uomini spesso egocentrici, egoisti, bugiardi, maschilisti e con un comune denominatore: essere sposati. Ultimamente ne aveva collezionati parecchi. Cercava di non pensare alla fine che avevano fatto due di questi, ma l’immagine di quei volti trasfigurati, continuava a rimanerle impressa nella retina. Quella era una di quelle mattine nelle quali si chiedeva con insistenza, senza trovare risposta, il significato della vita, della sua vita. Dove erano finiti tutti i suoi sogni? Le sue aspirazioni? Possibile che tutto fosse irrimediabilmente finito ? Le sembrava di vivere un incubo, sperava quasi di svegliarsi da un momento all’altro e riprendere la sua vita vuota come sempre, ma con almeno la speranza di poter cambiare qualcosa, magari di incontrare finalmente l’uomo giusto. Invece, niente. Tutto era rovinato. La sua vita era rovinata. Sorseggiando l’ultimo goccio di caffè, sentì un qualcosa muoversi dentro. Era rabbia. Una profonda rabbia verso se stessa e verso la sua vita che era finita su un binario morto. Il telefono la distolse dalle sue elucubrazioni mentali. Era Celeste.

14.

Celeste l’aspettava al solito tavolino del solito Bar. Stava sorseggiando un cappuccino con una aria serena, decisamente in contrasto con la situazione. Morena arrivò trafelata, le si sedette di fronte senza dire nulla e restò in attesa. Celeste alzò lo sguardo su di lei e le rivolse un sorriso distratto, poi estrasse dalla borsa una busta marrone e gliela ò. “Qui ci sono i tuoi nuovi documenti. Da oggi ti chiami Alessia Visconti, hai 26 anni e sei nata a Roma. C’è carta d’identità, patente di guida e aporto. Ho provveduto ad entrare nel sito dell’anagrafe e ho inserito questi dati. Contemporaneamente ho inserito un atto di morte a tuo nome. Ufficialmente, come Morena non esisti più…” disse queste frasi tutto d’un fiato, sottovoce, con un tono gelido e quasi spietato, poi si fermò a scrutarne le reazioni nel suo volto spaventato. Morena senza dire nulla, prese la busta e la mise nel suo zaino, dal quale estrasse poco dopo, un’altra busta rigonfia, che con velocità di un fulmine, sparì nella borsa di Celeste. “Adesso cosa devo fare’” chiese Morena con voce inquieta “Semplice: devi sparire di qui... ” “per andare dove?” “Che ne so, all’estero sicuramente…” “E che farò?” chiese quasi a se stessa, scuotendo debolmente il capo “Questo non lo so. Dipende da te. L’unica cosa che posso dirti è che io ci sono sempre. Sai come e dove trovarmi se avessi bisogno di me. Come è sempre successo anche in ato... ” “Sì, lo so…ti devo molto. Sei davvero una grande amica” sussurrò piano Morena

guardandosi circospetta attorno “Ora vai all’aeroporto, prendi il primo aereo per una destinazione il più lontano possibile... ah, dimenticavo, a prima dalla tua banca e preleva tutti i soldi che hai prima che il conto venga chiuso d’ufficio. E’ inutile che ti ricordi che da ieri sei ufficialmente morta” Morena annuì gravemente, mentre una lacrima le scendeva furtiva lungo la guancia. Celeste le diede un buffetto e si alzò. “Devo andare. Ripeto: qualsiasi cosa tu abbia ancora bisogno…io ci sono” “Non ho parole per ringraziarti…e soprattutto per ringraziarti del fatto che mi hai aiutata senza voler sapere niente circa il motivo di quello che ho fatto... ” Celeste le si avvicinò carezzandole piano i capelli “Nel mio lavoro ho a che fare tutti i giorni con delinquenti, truffatori e anche assassini. Svolgo i miei compiti senza chiedere nulla a nessuno. L’importante è che mi paghino il dovuto. Dovrei chiedere proprio a te, che sei la mia migliore amica, il perché di un tuo gesto, seppur così estremamente grave?” Il tono carezzevole e fermo di Celeste ebbe su Morena un effetto rasserenante. Celeste si chinò e la baciò sulla guancia poi le sue labbra sfiorarono delicatamente quelle di Morena. Dopo di che se ne andò senza più aggiungere nulla, sotto il suo sguardo confuso.

15.

Poco dopo le dieci si chio in sala riunioni. L’ispettore De Feudis aveva dato istruzioni severe che non fosse ata alcuna telefonata. Ma il telefono squillò prima ancora che avessero avuto il tempo di iniziare la riunione. De Feudis prese il ricevitore con furia, rispose rosso in viso e con un tono di voce minaccioso. Poi si appoggiò lentamente contro lo schienale della sedia. Lostumbo capì subito che la persona che telefonava era qualcuno molto in alto. Quando la conversazione terminò, posò il ricevitore come se fosse un fragile e inestimabile pezzo di antiquariato. “Lasciami indovinare” disse Lostumbo.” Il direttore generale della polizia di stato. O il pubblico ministero. Oppure un giornalista della televisione” “Il direttore generale” disse De Feudis. “Ha manifestato insoddisfazione e incoraggiamento nella stessa misura” “E’ il benvenuto a venire a darci una mano” disse Nicotera “Cosa ne sa lui del lavoro che svolgiamo? Nulla!... .Niente in assoluto!” Lostumbo batté alcuni colpi sul tavolo con una matita. Intuiva che avevano a disposizione poco tempo, prima di trovarsi nel mezzo di un fuoco incrociato di critiche, per pretesa incapacità e ività. Pur sapendo di non avere alcuna pista, cercò di concentrarsi per arrivare a una sintesi. “Che cosa sappiamo?” iniziò guardando i presenti seduti intorno al tavolo. Quello che vide attorno a lui fu solo una grigia e sconfortante concentrazione di sguardi sulla sua persona. Pensò che non aveva assolutamente nulla da dire. Eppure doveva cercare di dire qualcosa che li portasse fuori dalla situazione di stallo, come un gruppo compatto, con almeno la sensazione di capire qualcosa di quello che stava succedendo attorno a loro. “Possiamo escludere che l’uomo sia stato ucciso nelle vicinanze del container. In quel caso sarebbero state presenti molte tracce di sangue e tutte nello stesso

punto. Vorrei sapere perché disfarsi di un corpo proprio lì. Deve essersi reso conto che il corpo sarebbe stato scoperto al più tardi il giorno dopo. Perché ha scelto quel container? Proprio perché fosse scoperto o può esserci un’altra spiegazione?” “Magari è stato il primo posto che ha trovato, magari era nel panico e non ha riflettuto su ciò che stava facendo... ” intervenne Pirovano “Forse l’assassinio è stato compiuto non lontano da lì…... ” azzardò Nicotera “E’ stata fatta una perlustrazione accurata nel raggio di un chilometro e come ho detto prima, non sono state rilevate tracce di sangue... ” rispose Lostumbo bruscamente “E se fosse stato ucciso in un appartamento?” provò ad insistere Nicotera La sua obiezione fu accolta da un silenzio pensieroso da parte di tutti i presenti “Secondo il medico…” riprese Lostumbo, ignorando l’osservazione di Nicotera “E’ stato ucciso con un colpo tremendo da davanti. Il colpo gli ha nettamente attraversato il cranio. In altre parole ci sono molte similitudini con l’altro uomo trovato nell’albergo. Inoltre l’esito dell’esame delle impronte del DNA ha dato esito negativo. Non risulta corrispondente ad alcuna persona schedata” “Quindi è un incensurato... ” intervenne Pirovano. Lostumbo si soffermò a guardarlo con attenzione. “Sì, però una traccia, l’unica, l’abbiamo…” il suo sguardo fece una panoramica sulle facce degli uomini attorno al tavolo. “Le impronte rilevate sul portacenere sono uguali a quelle rilevate sull’abatjour dell’albergo” “Quindi si tratta della stessa persona... ” dedusse De Feudis con un’inquietudine persistente “Si, qualcuno venuto fuori dal nulla e di cui non sappiamo niente... ” ammise Lostumbo con una smorfia di amarezza “Forse uno piscopatico…” azzardò Pirovano

“Io parlerei piuttosto al femminile. Il primo uomo, quello trovato nella camera d’albergo, è stato visto dai titolari insieme a una donna, poi misteriosamente scomparsa... ” disse Lostumbo “Magari un litigio finito male…” ipotizzò De Feudis “Due volte?” chiese con una smorfia di sufficienza Lostumbo “Insomma, le impronte sono le stesse, le modalità anche simili. Dei colpi alla testa che hanno ucciso un uomo e ridotto in coma un altro. L’unica differenza sta nell’arma utilizzata: in un caso un abatjour di ottone nell’altro un posacenere di marmo…” “Ciò sta a dimostrare la non premeditazione. Questa persona non aveva intenzione di uccidere. Ha usato la prima cosa che gli è capitata tra le mani…” osservò De Feudis “Questo è vero. Ma mi riesce difficile credere nella casualità di un evento che si è ripetuto nell’arco di pochi giorni e praticamente con le stesse modalità... ” Dopo un lungo momento di silenzio, Lostumbo si alzò e andò verso il “boccione” dell’acqua. Prese un bicchierino di plastica dall’apposito contenitore, lo riempì, bevve tutto d’un fiato, poi l’accartocciò e lo buttò in un cestino. Poi si risiedette. “Se riuscissimo a scoprire qualcosa sul conto di questa donna misteriosa, saremmo senz’altro a buon punto” disse Nicotera “Il fatto è che i proprietari dell’albergo non hanno saputo descriverla. A parte l’altezza, media, e il colore dei capelli, castano chiaro, non è stata vista in faccia... ” rispose amareggiato Lostumbo “Io continuo a credere nella casualità del fatto” affermò categorico De Feudis “insomma, se qualcuno ha intenzione di uccidere una persona, non lo fa in una camera d’albergo, con il rischio di venire scoperto facilmente e soprattutto si sarebbe premunito di avere un’arma con se…” Lostumbo appoggiò il mento sulle mani strette a pugno, pensieroso. “L’omicidio del secondo invece è avvenuto a casa sua. Particolare comune tra le vittime: entrambi sposati” disse alzando lo sguardo sui colleghi

“Tanto per cominciare, inizierei a fare qualche domanda alle mogli…” disse Pirovano “Si, senz’altro, anche se dubito che ne caveremo qualcosa di utile. Questi uomini avevano certamente una vita nascosta della quale le mogli erano completamente ignare... ” “Quindi l’assassino potrebbe essere un’amante... ” aggiunse Nicotera “Questo darebbe una quadratura al cerchio. Una donna che aveva una relazione con due uomini sposati e che per qualche ragione ha voluto eliminarli…” “Motivo ionale…oppure altro?” chiese ancora Nicotera “Mi riesce difficile credere che la stessa donna avesse una relazione con tutti e due gli uomini e che volesse farli fuori entrambi…” disse Lostumbo “Potremmo trovarci di fronte a una specie di serial killer che uccide gli uomini sposati fedifraghi” osservò Nicotera con un sorriso non ricambiato da nessuno dei presenti “Tu l’hai detta come una battuta ma, anche se non credo all’ipotesi di un serial killer, è troppo presto per dirlo, tuttavia ho ragione di credere che questa donna abbia agito d’impulso, sicuramente sollecitata da qualcosa... ” “Magari un comportamento comune dei due uomini” disse Pirovano “E torniamo a quello che dicevo io: entrambi sposati e tutti e due tradivano la moglie. Magari con lei, Direi che le basi per un rancore profondo ci sono tutte. La classica frustrazione da amante di uomini sposati” ribadì Nicotera Lostumbo lo guardò incuriosito; “Dando ovviamente per scontato che sia una donna l’assassina e che sia la stessa che era nell’albergo con il primo dei due uomini…” “Mi sembra che possa considerarsi più di un indizio” affermò Nicotera “Certo che se tutte le amanti di uomini sposati dovessero manifestare così la loro insoddisfazione…” commentò scuotendo la testa De Feudis. Lostumbo accennò a un sorriso, poi si fece nuovamente serio.

“In ogni caso il fattore tempo è importante” disse “Questo omicidio è molto vicino all’altro nel tempo. Questo potrebbe anche esserci d’aiuto nelle indagini” vide attorno a sé le teste degli uomini che annuivano con forza “E poi…il legame” disse Lostumbo per concludere “quello che abbiamo è una persona, quasi certamente una donna, che deve trovare una collocazione in quel quadro totale che non abbiamo ancora. Ma è sempre lì che dobbiamo concentrare i nostri sforzi” Guardò i suoi colleghi seduti intorno al tavolo ancora una volta. “Dobbiamo considerare che potrebbe colpire di nuovo?” chiese Nicotera “Fino a quando non sappiamo di cosa si tratta, di quale sia il movente, se c’è, dobbiamo partire dal presupposto che lo farà” La riunione era finita. Tutti sapevano quello che dovevano fare. Lostumbo rimase seduto al tavolo mentre gli altri sparivano attraverso la porta. Cercò di catturare il ricordo ancora una volta. Era convinto che fosse qualcosa che aveva a che vedere con l’indagine sui due omicidi. Cercò a lungo negli oscuri meandri della memoria. Ma non trovò niente. Irritato gettò la penna contro il muro e proprio in quel momento squillò il telefono. “Lostumbo!” rispose infastidito “Sono io” sua moglie “Ti sto aspettando, sei in ritardo!” disse lei con voce adirata. Lostumbo volse lo sguardo sull’orologio a parete. Si era dimenticato che doveva accompagnare la moglie all’aeroporto dove sarebbe partita destinazione Catania, per trascorrere qualche giorno con le sue sorelle. “Arrivo subito!” disse e mise giù la cornetta con forza.

16.

Morena posteggiò l’automobile nel parcheggio a lunga permanenza e prese nota dell’ubicazione, H4, sulla sua ricevuta. Mancavano venti minuti a mezzogiorno: il suo volo doveva aver già cominciato le procedure d’imbarco. Sarebbe arrivata molto in ritardo: doveva ancora spostarsi dal parcheggio al terminal per le partenze. In preda al panico, trascinandosi dietro la valigia con le rotelle, il computer portatile, con lo zaino e la borsetta che le sbattevano ritmicamente sulla schiena, si precipitò verso l’autobus navetta, che era fermo in attesa con le porte aperte al limitare dell’area di parcheggio. Quando raggiunse il terminal, Morena poté constatare di persona che l’aeroporto era un manicomio. Centinaia di persone vagavano senza meta, furiose, eccitate, spaventate, confuse. Dov’erano le loro uscite? Come diavolo avrebbero fatto a raggiungere i loro aerei? eggeri frustrati se la prendevano con gli addetti alle prenotazioni. Il personale delle compagnie aeree, esausto, rispondeva a tono. Morena impallidì e si ritrovo improvvisamente quasi incapace di respirare. Quella era la rappresentazione del suo incubo peggiore: ovunque guardasse c’era il pandemonio, un’immensa folla di persone inferocite che si spingevano e si strattonavano. Gli schermi computerizzati degli arrivi e delle partenze, solitamente un modello di efficienza, lampeggiavano follemente informazioni contradditorie. Gli stessi voli venivano dati contemporaneamente come atterrati, in ritardo, cancellati.

Gli addetti allo scarico dei bagagli spingevano file di carrelli carichi sui piedi della gente in continuo movimento. Non poteva sopportarlo! Per un lunghissimo minuto, rimase praticamente immobile appena oltre la porta automatica, incapace di entrare nell’aerostazione, limitandosi semplicemente a osservare e ad ascoltare con lo stomaco annodato. L’addetta alla biglietteria stava cercando di rispondere a una decina di domande contemporaneamente. Dal sistema di diffusione, una voce digitalizzata continuava a ripetere: “... cancellato a causa di problemi tecnici. Speriamo di poter ovviare al più presto all’inconveniente... ” “che cosa sta succedendo?” si chiese Morena Era rimasta attaccata alla parete, incapace di muoversi, mentre osservava il caos. Poi, lentamente, con riluttanza, cominciò a farsi largo tra la folla, un centimetro alla volta, tentando di attirare l’attenzione di qualcuno in modo da poter chiedere qualche spiegazione. Ma nessuno aveva un minuto a disposizione per una ragazza timida dal volto perplesso che parlava quasi sottovoce. “non posso farcela” pensò Morena “non posso. Devo uscire da qui” Invece rimase nell’autostazione, immobile come una statua. Per quanti sforzi fe, non riusciva a trovare il coraggio di muoversi. Intorno a lei c’era troppa gente che si muoveva freneticamente, le facce contorte in maschere di rabbia. Faceva sempre più fatica a respirare.

Finalmente, intravvide due sedie libere al bancone del bar e, con il cuore colmo di gratitudine, ne occupò una, ordinando una bibita dietetica con una fettina di limone... Imprecò sottovoce e chiuse, poi, miracolosamente, con la stessa velocità con cui era iniziata, la follia era finita. D’un tratto gli schermi degli arrivi e delle partenze ripresero a funzionare, mostrando gli orari e le uscite giuste. “vi ringraziamo per la vostra pazienza” Anche l’impianto per gli annunci aveva ricominciato a funzionare, questa volta con una voce umana. “la difficoltà tecnica è stata risolta. Vi preghiamo di consultare gli orari degli arrivi e delle partenze per le corrette informazioni sul vostro volo... ” La folla smise di vagare senza meta e controllò i monitor, spostandosi quasi ordinatamente verso le uscite indicate dal computer. Riacquistando d’un colpo la capacità di respirare tranquillamente, Morena sollevò la valigia e la borsa del computer e si mise in coda alla scala mobile. Ma, prima che potesse giungere al primo gradino metallico, l’angoscia le strinse nuovamente lo stomaco, facendole provare ancora una volta l’orribile sensazione di essere in trappola. Rapidamente Morena uscì dalla coda e si diresse verso una rampa di scale deserta. Fu una salita stancante, seguita da una lunga camminata per raggiungere l’uscita, ma per Morena camminare era molto meglio che trovarsi su una scala mobile affollata. Il caos all’aeroporto aveva avuto almeno una conseguenza positiva: aveva ritardato il primo volo che aveva scelto e così, nonostante tutto, sarebbe riuscita a partire per la destinazione più lontana in programma in quel momento: le Maldive.

Prese di nuovo trolley, computer portatile, zaino e borsetta e si girò di scatto, urtando violentemente un uomo che scivolò quasi a terra. “Oh, mi scusi... . mi scusi tantissimo! Si è fatto male?” chiese lei spaventata L’uomo si rialzò a fatica, si ò le mani sulle gambe, poi alzò lo sguardo su di lei, rivolgendole un ampio sorriso. “Non è niente, non si preoccupi... ” “Se posso fare qualcosa... ” si sentì dire Morena, al colmo dell’imbarazzo “Niente... . è tutto ok, non si preoccupi... ” l’uomo la fissò con sguardo interessato, poi, proprio mentre lei si accingeva a salutarla, lui le sbarrò il o “A che ora è il suo volo?” Morena volse lo sguardo verso il tabellone partenze. “Fra due ore!” esclamò con affanno “Benissimo. Allora ha tutto il tempo di offrirmi un caffè per scusarsi” disse l’uomo con un sorriso sincero che fece venire a Morena la voglia di fidarsi istintivamente di quello sconosciuto. “Okay, vada per il caffè” “Il bar è lì” disse lui indicando alla sua destra “Mi permetta di aiutarla” aggiunse l’uomo prendendole il trolley e lo zaino “Bè, a questo punto allora presentiamoci. Io sono Alessia Visconti. Piacere” e gli tese la mano. L’uomo lasciò l’impugnatura del trolley e ricambiò la stretta di mano, guardandola dritta negli occhi. Uno sguardo che la turbò piacevolmente. “Pasquale Vito Lostumbo. Il piacere è tutto mio” rispose

17.

Entrarono nel bar dell’aeroporto. Affollatissimo come sempre. Cercarono di farsi spazio a gomitate. Arrivarono a fatica davanti al bancone. “Allora, caffè?” chiese Lostumbo, ancora incredulo di aver invitato quella ragazza. Era stata una decisione impulsiva. Improvvisa. C’era qualcosa nel suo sguardo che lo aveva attratto come una calamita. Aveva appena accompagnato la moglie all’imbarco del suo aereo. Come al solito in silenzio, senza scambiarsi una parola. Lostumbo sperava in cuor suo che il soggiorno a Catania le fe bene e magari riprendesse un po’ di vitalità. E poi…quell’incontro casuale. E dire che solo pochi istanti prima era al cellulare con l’ispettore De Feudis e l’argomento in questione non era certo uno dei più piacevoli. Anzi, per essere precisi era il motivo principale delle sua attuali angosce e preoccupazioni. “A dire il vero, avrei un po’ di fame... ” disse timidamente Morena, osservando il suo interlocutore da sotto in su, mentre il suo cuore aveva iniziato a battere furiosamente. Non sapeva il motivo di quella strana reazione. Che fossero i sintomi di un colpo di fulmine? Eppure non era certo quello il momento di lasciarsi andare ai sentimenti. Avrebbe dovuto essere lucida e sicura di sé. Ora più che mai. Invece era lì, confusa. Le sembrava di fare le cose come un automa. “Due panini per favore!” ordinò Lostumbo “Prosciutto va bene?” chiese il ragazzo al bar. Uno spilungone con piercing e tatuaggi sugli avambracci ben visibili. Lui si voltò verso Morena che annuì. “E... due bottigliette d’acqua, basta così. Quant’è?” “nove e euro e cinquanta” rispose secco il ragazzo, digitando l’importo sul registratore di cassa. Lostumbo prese il piattino con i due panini con una mano e le bottigliette d’acqua con l’altra e le fece cenno con la testa di seguirlo.

Arrivati a un tavolino d’angolo, Lostumbo posò i piatti e ne spinse uno verso Morena che si stava sedendo di fronte a lui. “Allora, dove stai andando di bello?” chiese addentando il panino “A dire il vero non sto partendo, ho appena accompagnato una persona” rispose lui deglutendo un boccone “Tu invece?” “Io sto partendo. Una vacanza…” rispose Morena evasivamente. I loro sguardi continuavano ad essere incollati uno all’altro, come se una forza magnetica rendesse impossibile distoglierli. Entrambi non riuscivano a capire da che razza di sensazioni fossero travolti. “Quanti anni hai?” chiese lei con un pizzico di curiosità mista ad emozione “Cinquantatré” Morena sbarrò gli occhi, come se lui la stesse prendendo in giro. “Daaaiii!” “Perché? Qualche problema?” “No…bè, complimenti allora…” Lui sorrise e morse il panino. Tra un morso e l’altro mise la sua mano su quella di Morena, che per un attimo fu tentata di toglierla ma poi la lasciò dov’era. Era disarmante la sua dolcezza. Morena pensò che era sempre stata attratta dai suoi coetanei, anche se poi gli uomini che l’avevano fatta più soffrire erano tutti molto più vecchi di lei. Mentre stavano parlando, lei si rese conto della forte attrazione che quell’uomo appena conosciuto le suscitava. All’improvviso, preda di un impulso irresistibile, allungò la mano sotto il tavolino e gliela mise sui pantaloni. Non capiva perché ma voleva toccarlo. Un desiderio improvviso, forte. Lui restò sorpreso per un attimo poi si alzò, le prese per mano e la guidò verso i bagni. Senza dire una parola, entrarono ansimanti dentro quello delle donne, si chio a fatica la porta alle spalle. Lei si sottrasse alla sua presa per un attimo, si staccò da lui, si inginocchiò e gli abbassò la cerniera dei pantaloni sportivi. Controllò la sua biancheria, classici boxer celesti, ben stirati. Si chiese per l’ennesima volta

se ci fosse di mezzo una moglie, tuttavia la ione del momento le cancellò subitaneamente ogni pensiero negativo. Tirò fuori da quei boxer perfetti il suo membro. Si chinò su di lui, in un attimo lo mise in bocca, tutto d’un fiato. Lo sentì ansimare, le sue mani si agitavano tra i capelli di Morena. “No... no, ti prego” quasi la invocava ma a lei non andava di ascoltarlo. In quel momento capiva solo che quello che stava facendo le piaceva, lo teneva stretto tra le sue labbra, poi nella gola. Lo sentì pulsare. Lei si mosse lentamente dandogli solo la sensazione di una leggera via d’uscita per poi catturarlo di nuovo. Le sembrava di averlo sempre avuto, ogni giorno, ogni momento, tutta la vita nella sua bocca. Il suo sapore non le era nuovo. Era suo. Le sue mani spinsero, per poi fermarsi tra i capelli. Non si muovevano più. In un momento era come se la sua vita fosse come un pezzo di carta accartocciata tra le mani. All’improvviso le sue mani premettero forte sulla testa, strinsero una ciocca di capelli fino a farle male, si dimenava come se volesse liberarsi da quella presa, ma poi la inondò del suo piacere e del suo sapore. Con la stessa presa sui suoi capelli le rialzò la testa, con la bocca cercò la sua e la invase con un bacio dolcissimo. E breve. “Devo andare. Il mio aereo sta per partire” disse lei ricomponendosi “No. Non andare” il tono di lui era fermo e risoluto “perché?” “Perché ci siamo appena conosciuti. Non puoi rimandare di qualche giorno la tua vacanza?’” Lei rimase un attimo interdetta, poi scoppiò in un riso nervoso. “Ma tu sei matto! “ Lostumbo la prese per i polsi e la strattonò, guardandola intensamente negli occhi: “Non partire. Non so cosa stia succedendo, ma sento che dobbiamo vivere questa cosa…” Seguì un lungo silenzio durante il quale continuarono a guardarsi negli occhi. “Io…io... devo proprio andare. Mi dispiace per quello che è successo, non so cosa mi è preso... ” bofonchiò lei aprendo la porta del bagno ma lui poggiando la mano aperta la richiuse. “Rimani. Solo qualche giorno” ribadì.

Morena abbassò la testa cercando di sottrarsi al potere di quello sguardo. Lui le alzò il mento con due dita. La baciò lievemente sulle labbra. “Non andare. Ti prego” la strinse a sé in un abbraccio apionato al limite della disperazione. Era come se tutta la tensione di quegli ultimi giorni fosse svanita nel momento stesso in cui aveva incrociato il suo sguardo. Non esistevano più omicidi, assassini, giornate senza fine in centrale. C’era solo lei che occupava i suoi pensieri in quel momento e non desiderava altro che quei momenti di estasi e serenità. Aveva bisogno di viverli. E con quell’abbraccio le trasmise tutta la voglia che aveva di lei. Morena rimase abbandonata tra le sue braccia, dimentica anche lei di quei tragici eventi che le avevano distrutto la vita. L’unica cosa che desiderava in quel momento era perdersi in un abbraccio. Nel suo abbraccio.

18.

Lostumbo arrivò al lavoro senza essersi fatto la barba. Non era mai successo prima. Era bastata una notte con quella donna conosciuta in una maniera così casuale per essere letteralmente travolto di una ione a dir poco insaziabile. Ciò che era successo aveva causato uno slittamento delle sue personali coordinate di tempo e spazio. Si era svegliato in ritardo, aveva ancora dato una rapida occhiata alla donna nuda sdraiata accanto a lui, addormentata e con una espressione serena sul volto, poi aveva dovuto violentare se stesso per vincere l’impulso di non andare al lavoro e restare con lei tutto il giorno a fare e rifare l’amore. Quando la porta della sala riunioni si chiuse alle otto e cinque, tutti ebbero modo di constatare lo stato di assoluta trascuratezza nel quale versava: barba lunga, capelli spettinati, abiti spiegazzati. “Facciamo il punto della situazione. Sembra ci siano degli sviluppi interessanti” disse De Feudis sbattendo una mano sul tavolo e fissando i presenti uno a uno. Nicotera si guardò attorno esitante, poi prese il suo blocchetto di appunti. “Abbiamo analizzato i cellulari dei due uomini. In entrambi appare un numero di telefono che sembra appartenere a una donna” “Bene! Allora ci siamo!” sbottò Lostumbo con una espressione di eccessiva euforia che fece girare gli astanti verso di lui “Non proprio... ” proseguì Nicotera abbassano di nuovo lo sguardo sul taccuino “Il numero risulta intestato a una certa Morena Torricelli... ” “L’avete rintracciata?” chiese prontamente Lostumbo “Il fatto è che questa persona risulta deceduta... ” Nella sala riunioni piombò un silenzio assordante.

“Quando?” chiese Lostumbo perplesso “E’ questa la cosa strana: due giorni dopo l’assassinio del secondo uomo. Il fatto è che abbiamo fatto delle ricerche approfondite. Non esiste nulla al riguardo. Non risulta da nessuna parte dove sia morta, di cosa e dove siano stati fatti i funerali. Sembra un fantasma” Nicotera si fermò esitante, cercando di valutare la reazione di Lostumbo “Come è possibile?” chiese Nicotera volse lo sguardo verso il collega Pirovano che, sentendosi chiamato in causa, arrossì. “Di questa donna non si sa nulla. A quanto pare non aveva un lavoro e non c’è traccia di lei su nessun social network... ” Lostumbo si appoggiò allo schienale della sedia pensieroso “Mi viene da pensare che questa persona sia riuscita in qualche modo a scomparire” “Non è poi così difficile. Basta conoscere un hacker e qualcuno che sappia falsificare dei documenti di identità. Se le cose stanno così, a quest’ora questa persona potrebbe essere in una lontana isola del Pacifico con una identità che non rintracceremo mai... ” osservò De Feudis scuotendo debolmente il capo. “Allora qui abbiamo a che fare con una professionista!” osservò Pirovano “Una che riesce a crearsi una nuova identità e scomparire non è certo una semplice amante frustrata... ci deve essere qualcosa sotto... ” “Qualcosa che neanche immaginiamo…” aggiunse Nicotera “Avete interrogato le mogli?” chiese Lostumbo “ Sì, erano entrambe all’oscuro di una eventuale doppia vita dei mariti. La moglie di Diego Milello è una giornalista della Rai, conduce una trasmissione radiofonica ogni mattina dagli studi di Torino. C’è anche una figlia, Aurora, appena maggiorenne, che sta terminando gli studi. L’impressione è di una coppia in crisi. Da quello che ha riferito la moglie, facevano vita separata. Ognuno

aveva la sua camera e non si parlavano molto. Continuavano a stare insieme per il bene della figlia, ma adesso ha appena compiuto diciotto anni per cui ha detto che avrebbero avviato le pratiche del divorzio a breve” Rispose Nicotera “Il marito è ancora in coma?” chiese Lostumbo “Sì e non da segni di miglioramento” affermò Nicotera con decisione “E l’altra moglie?” “Daniela Moscardelli in Berrino è una concertista... musica classica…è sempre in giro per tournee in giro per il mondo… anche loro si vedono, anzi si vedevano, molto poco... però in questo caso sembra che il loro rapporto fosse abbastanza buono, anche se la moglie ha affermato che subodorava delle storie extraconiugali del marito” rispose Pirovano “Figli?” “Nessuno. Erano sposati da sette anni ma non avevano figli. Il marito aveva una cardiomiopatia ipertrofica, una malattia ereditaria, avevano paura di mettere al mondo un figlio con lo stesso problema…inoltre ha dichiarato che non avrebbe avuto il tempo di fare la madre. Il suo lavoro la impegna moltissimo” “Cardiomiopatia che?” chiese De Feudis “La cardiomiopatia ipertrofica è una malattia che colpisce il miocardio che sarebbe il tessuto muscolare proprio del cuore, ed è caratterizzata da un ispessimento delle pareti cardiache, senza alcuna causa evidente” rispose pronto Pirovano “Lei ha studiato medicina?’” chiese De Feudis “No, mi sono semplicemente documentato…” rispose Pirovano con un sorriso fiero Lostumbo rifletteva cercando di scacciare dalla mente le immagini del corpo di quella donna che gli aveva rivoluzionato la vita. Era difficile restare concentrati.

“C’è solo una cosa da fare. Allertare la nostra unità informatica e fare una ricerca accurata su questa Morena Torricelli. Se qualcuno è riuscito a modificare i suoi dati, di sicuro, in qualche modo, ci deve essere una tracciabilità dell’operazione” affermò Lostumbo con decisione “Se si è affidata a un hacker sarà difficile risalire al PC dal quale sono stati fatti questi interventi” osservò De Feudis “E se fosse stata lei?” chiese Nicotera “Allora potrebbe voler dire che abbiamo a che fare con una vera professionista del crimine, anche se mi viene naturale pensare che si sia fatta aiutare da qualcuno…e noi... e così dicendo Lostumbo si alzò dalla sedia puntando le mani sul tavolo “dobbiamo assolutamente fare in modo di rintracciare questo qualcuno!”

19.

Lostumbo non riusciva a dormire. Era una cosa che gli succedeva abitualmente quando si ritrovava a are la notte con qualcuno che non fosse sua moglie. Ma il motivo di questa sua inquietudine era Morena. Dormire in quella casa, la sua casa. Con lei. Un’emozione particolare. Dopo l’amore, lei era scivolata rapidamente nel sicuro abbraccio di un buon sonno ristoratore. Cosa che per lui non era avvenuta e dopo essersi girato e rigirato tra le coperte, aveva deciso di alzarsi e pensare un po’ alle indagini in corso. Non aveva idea di quanto tempo fosse ato, ma rientrando nella camera da letto si accorse che lei era sveglia. . Era semi sdraiata davanti al comodino e stava scrivendo su una specie di quaderno. Ogni tanto si fermava e guardava lo schermo del pc portatile, aperto sul letto, poi ricominciava a scrivere, mentre un’espressione assorta e sorridente, le si era dipinta sul volto. La luce dello schermo le illuminava di riflesso i lineamenti ed era come guardarla in un film. La vestaglia rosa, intonata con il colore della tappezzeria e della moquette della stanza, le faceva assumere le sembianze di una grande bambola, uscita fuori chissà come direttamente da una favola, ma la coscia lunga e ben tornita che spuntava sbadatamente scoperta, le conferiva anche un’aria vagamente sensuale. Nelle pause nelle quali smetteva di scrivere, guardando il video che aveva di

fronte, appoggiava delicatamente la biro all’attaccatura delle labbra, che rimanevano appena disgiunte, in una espressione di piacevole e incantata estasi. Morena si accorse della presenza di Lostumbo. “Scusami, non riuscivo più a dormire…e poi non sapevo dov’eri... ” disse improvvisamente, chiudendo di colpo il computer “No, scusami tu” disse lui facendo per andarsene “no, dove vai? Vieni qui con me. Chiacchieriamo un po’ se vuoi” Lostumbo si guardò intorno interdetto, poi si sedette sull’orlo della poltrona di fronte a lei, a fianco del letto. Rimasero un attimo in silenzio, poi lui accennando con il mento al quaderno sul quale stava scrivendo, le chiese: “cosa scrivi di bello?” lei fece spallucce “niente, emozioni. Ricordi... ” “per questo sorridevi” lei lo fissò esagerando il suo stupore “da quanto tempo mi stavi osservando?” “non era molto, ma mi faceva piacere vederti sorridere” lei chiuse il quaderno con un sospirò, prese il telecomando e accese l’apparecchio televisivo, sintonizzandolo rapidamente su una rete musicale. Abbassò appena il volume, poi si volse verso di lui. “Mi sa che ti faccio perdere ore preziose di sonno. Poi come fai domani con il lavoro? ” Lui stava per minimizzare ma lei lo interruppe con un gesto della mano

“Tra l’altro mi hai detto pochissimo del tuo lavoro... .” “Non è importante” “la realtà è che io….mi sento persa. Mi sento così sola! Se potessi stare un po’ più con me durante il giorno... ” alzò lo sguardo verso di lui e una lacrima cominciò a scenderle sul volto Lostumbo si alzò e si sedette accanto a lei “non sei sola” Morena poggiò la testa sulla sua spalla e così rimasero per una manciata di minuti, senza proferire verbo “tu mi vuoi molto bene, vero?” gli chiese lei all’improvviso, cogliendolo di sorpresa “certo” “tanto?” “io ti ho voluto bene fin dal primo momento che t’ho vista” Lei sorridendo, si strinse ancora di più a lui : “anch’io ti voglio bene” All’improvviso i loro sguardi si incrociarono, lei nascose il viso sulla sua spalla, diventando all’improvviso timida e insicura. Lui ricambiò l’abbraccio. Sul tavolino davanti al divano c’erano i posacenere con le cicche della sera precedente, le calze di Morena, il suo reggiseno. Una sensazione di disordine diffuso, nella stanza. Lei non era abituata a fare molto in casa, però solitamente il sabato spolverava, ava l’aspirapolvere, faceva la spesa. Ma qui in casa di Lostumbo voleva solo rilassarsi e non pensare a nulla.

Lei gli tese la mano, lui la prese, le baciò il palmo liscio e profumato di sapone Si guardarono e si immaginarono come sarebbero stati insieme. Quelle immagini erano vive e imbarazzanti, appartenevano a un altro mondo che era sempre lì, vicino a loro, ma nascosto nell’altro. Si alzarono, si abbracciarono, nascosero i volti sulla spalla dell’altro. Le parole che abbiamo servono a poco, possono descrivere, raccontare e spesso tradire. Ma le immagini sono ancora più traditrici perché stupiscono e, a volte, eccitano. A volte si riesce a descrivere una sensazione, un gesto. Esattamente come i loro occhi, ora che erano abbracciati, così ravvicinati alla pelle dell’altro, riuscivano solo a incrociare un dettaglio, i pori di una zona della pelle, un’imperfezione, un piccolo neo. Se avessero chiuso gli occhi e fossero diventati ciechi, ogni contatto si sarebbe trasformato in un’onda che avrebbe potuto portarli via all’improvviso, senza che se ne potessero accorgere. E forse era proprio quello di cui avevano bisogno.

Dopo aver parlato e bevuto, si creò quel silenzio che precede di poco il bacio e tutto il resto, di colpo bisognava andare indietro con la mente. Azzerare le parole, trovarne di nuove nel linguaggio dei muti. Quel linguaggio espressivo e ingenuo, riusciva qualche volta a trasformare le persone, a dare loro un’altra natura. Una trasformazione rara, perché le donne che Lostumbo aveva incontrato nella sua vita, faticavano a lasciarsi andare, volevano sempre dare un’idea di sé soddisfacente e lui in fondo faceva altrettanto. anche la moglie non faceva eccezione. Il silenzio, il temibile silenzio, è stato definito un’interminabile viaggio nel tempo, che annulla ogni altro linguaggio, scoperta, logica, rispetto.

Sopraggiunge sempre inaspettato il bacio, dopo il silenzio, lo stesso dei ragazzi, il possesso della pelle con la mano veloce che cerca di toccare tutto il corpo insieme. La pelle calda sotto il pullover. L’emozione della prima volta che si sovrapponeva a quella di sentirsi vicino a Morena, un tremore diffuso sembrava possederlo all’improvviso. Erano così vicini. Ma all’improvviso Morena si staccò da lui con forza, si girò e andò di corsa verso il bagno, dove si chiuse a doppia mandata. Lostumbo era rimasto immobile nel centro della stanza, cercando di capire. Cosa non aveva funzionato? Eppure aveva sentito qualcosa provenire da lei ed era sicuro di non sbagliarsi. Il fatto poi che sapessero poco o nulla l’uno dell’altra, rendeva questo rapporto più vero, perché sentiva che la loro conoscenza reale era quanto di più profondo potesse esistere ma nello stesso tempo, si rendeva conto che non poteva andare avanti con quella finzione. Non era uno scapolo appetibile che avrebbe potuto vivere la sua vita con lei. E non era nemmeno un agente immobiliare, come aveva voluto farle credere, con una vita normale. Era un incasinato Poliziotto con una vita privata allo sbando. Con poco o nulla da offrirle. Fino a quel momento non aveva riflettuto abbastanza sulle conseguenze di quella storia travolgente, ma ora, a pochi giorni dal rientro della moglie, si rendeva conto che il sogno stava per dissolversi e avrebbe dovuto far ritorno alla sua triste realtà. Aspetto un quarto d’ora, poi si accostò con timore alla porta del bagno e bussò con le nocche chiuse della mano. Non ottenendo risposta, ribussò. “esco subito” sentì rispondere lei con voce soffocata “tutto bene?” chiese Lostumbo sempre più perplesso Dopo un attimo, la porta si aprì e Morena, bianchissima in volto, uscì reggendosi con fatica alla maniglia.

“non stai bene?” “no... è che…è da giorni che ho sempre un mal di stomaco…” “siediti!” fece lui premurosamente, tenendola per un braccio e scortandola verso il divano “non so cosa sia…non faccio in tempo a mangiare qualcosa... ” lasciò la frase a metà, si sprofondò a sedere con enorme fatica e appoggiò il capo allo schienale “... che lo vomito subito... ” finì la frase come se per parlare avesse avuto bisogno di tutte le energie di questo mondo si voltò a guardare Claudio con aria spaventata “non mi sento bene, proprio per niente” lui le sorrise amorevolmente “sarà lo stress, hai dovuto subire parecchie cose negli ultimi tempi” lei lo guardò con aria poco convinta “ho paura Claudio” lui le si avvicinò e la abbracciò forte. Per un po’ restarono così, vicini uno all’altro. Poi, quasi sottovoce, lei gli sussurrò una frase che ebbe il potere di gelargli il sangue nelle vene: “credo di essere incinta” “ovviamente non può essere mio, vero? Non ci sono i tempi tecnici…” provò a scherzare Lostumbo “Sai di chi è?” Morena annuì. “Una storia finita male” sussurrò.

“E…lo terresti?” chiese preoccupato Lostumbo Morena sgranò gli occhi, che si stavano riempiendo di lacrime “Ci sono tante cose che non sai di me…ma ultimamente la mia vita è stata solo sofferenza…e sono così stanca di soffrire…ho bisogno di un soffio di vita, di speranza, qualcosa per cui possa dare una svolta a tutto... ”

20.

Lostumbo entrò di volata negli uffici della Polizia postale, unità informatica. Riconobbe subito un suo collega, Luigi Acchiardi, del quale aveva da tempo massima fiducia per le sue capacità. L’uomo era, come al solito, chino davanti allo schermo del suo p.c. come se avesse paura che gli potesse scappare qualche preziosa traccia. “A che punto siamo?” chiese Lostumbo Acchiardi si girò di scatto, come sorpreso, poi riconoscendo Lostumbo gli sorrise: “E’ dura stavolta, abbiamo a che fare con dei professionisti” “Pensi di riuscire a rintracciare l’indirizzo IP? Anche se è ato del tempo?” “Devi sapere che i provider sono tenuti a tenere per un certo tempo tutti i log delle connessioni” iniziò a rispondere Acchiardi stirandosi debolmente sulla sedia girevole “Assegnandoti loro l’IP possono fare l’associazione IP + data e ora collegamento + numero di telefono o linea dedicata. Se avviene una intrusione in un server il colpevole può lasciare delle tracce che riconducano al suo IP. Ripercorrendo la strada al contrario noi abbiamo richiesto i log al provider e stiamo cercando di risalire al o ai malfattori” Lostumbo annuì osservando attentamente lo schermo, come se in mezzo a quella sequenza infinita di lettere e numeri, potesse riconoscere qualcosa. “Ovviamente gli intrusi cercano di confondere le acque in modo da non collegarsi direttamente al server da bucare ma di are per una o più altre macchine precedentemente compromesse... ” proseguì Acchiardi bevendo una sorsata d’acqua da una bottiglietta sul suo tavolo di lavoro “ In questo caso il nostro lavoro è più complicato perché dal server bucato dobbiamo analizzare a

ritroso tutti i sistemi usati nel mezzo, prima di arrivare al provider” “Ed è questo il caso, immagino... ” chiese Lostumbo accomodandosi lentamente su una sedia vicino all’informatico “Nel nostro caso la strada è più lunga ma comunque percorribile... ” disse con tono sereno l’uomo “Quindi quello che mi chiedo è: se può farlo la Polizia postale, perché non può farlo chiunque abbia abbastanza dimestichezza con gli strumenti informatici? Tra l’altro, i log dei provider sono tenuti in computer non collegati in rete?” chiese Lostumbo “Se lo facciamo noi, in quanto polizia postale, richiediamo i log ai provider. Non è che entriamo nel sistema del provider e ce li pigliamo. La rete dei provider inoltre non è una piccola lan casalinga, è grande e superprotetta. Anche se uno riuscisse ad entrare dovrebbe sapere anche dove cercare e i sistemi con i log non sono certo direttamente esposti su Internet. E poi, per che cosa una persona dovrebbe compiere autonomamente questo tipo di azione che peraltro è illegale? Per avere il nominativo di una persona? Direi che il gioco non vale la candela” “Ma infatti facevo un discorso teorico, siccome ho sempre saputo che non si può risalire ai dati personali di un utente attraverso l’IP, mi è sorto questo dubbio” “A meno che la motivazione per cui uno entri nel suo provider sia di cancellare il suo log... allora potrebbe valerla quella candela... ” Dopo questo rapido scambio di battute, i due rimasero in un silenzio assorto, contemplativo. Lo schermo davanti ad Acchiardi continuava a far comparire lettere e numeri in rapida sequenza e con altrettanta rapidità, lui digitava sulla tastiera, dando l’impressione di una grande competenza. “La cosa che temo... ” disse infine Lostumbo con un tono di voce improvvisamente preoccupato “E’ che se uno è in grado di entrare nella rete di un provider è anche in grado di non lasciare tracce sulla sua strada che possano ricondurre al suo di provider... ” Acchiardi si fermò ad osservare il volto del collega, poi scosse il capo sorridendo:

“Faccio chiarezza: noi, come Polizia postale, chiediamo al provider, anche senza autorizzazione della Procura, sia l’intestatario del contratto che il caller ID del chiamante, in modo che se il contratto è sotto falso nome, si può risalire all’esatta localizzazione della linea che era connessa in quel preciso istante... ” “Mi stai dicendo quindi che è possibile risalire a chi si è inserito nel sito dell’anagrafe per modificare quei dati, anche se è avvenuto tempo fa? E se in qualche modo ci fossero problemi di privacy?” “Non sparare cazzate con la privacy !” sbottò con una risata Acchiardi “Se un ladro commette un furto la polizia non invade certo la sua privacy se chiede il nome del ladro ad un testimone, no?” “E in questo caso il testimone sarebbe il provider?” “Esattamente. Certo, se si usano proxy anonimi il giochetto è più lungo, ma fattibile... ” Lostumbo restò di nuovo in silenzio, riflettendo “hai un’idea dei tempi che ci vorranno per arrivare a un nome?” “Celeste Ardemagni” sbottò Acchiardi con voce eccitata “Prego?” chiese Lostumbo interdetto “Celeste Ardemagni. E’ il nome che cercavi. E’ una hacker professionista. La seguiamo già da un po’, ma ogni volta fa scomparire completamente le sue tracce. Forse questa potrebbe essere la volta buona…” “Riesci a rintracciare un luogo…un indirizzo... ” chiese Lostumbo visibilmente agitato “Un indirizzo no…ma... aspetta... ” digitò ancora per qualche minuto, poi si fermò con aria trionfante: “Un luogo sì. E’ a Santo Domingo in questo momento” “Santo Domingo…” ripeté meccanicamente Lostumbo, con il cervello che stava girando a mille “Cosa pensi di fare? E’ un problema farla arrestare, lo sai. Non c’è estradizione a

Santo Domingo” “Sì, lo so…infatti stavo giusto pensando a mandare un agente sotto copertura” Acchiardi lo guardò in silenzio, poi si voltò e riprese a lavorare a computer, mentre Lostumbo lasciava il suo ufficio, senza neanche salutare, preda dei suoi pensieri.

21.

Era la bassa stagione: l’Hotel Krystal a Santo Domingo, era mezzo vuoto e la spiaggia non era affollata, esattamente come Celeste aveva sperato. Ma anche così, c’erano ancora troppi turisti perché lei potesse sentirsi perfettamente a suo agio. Si avvicinò all’ oceano, cercando la zona meno popolata della spiaggia. Qui finalmente, Celeste si permise di rilassarsi, di godersi il calore, l’oceano, la vegetazione lussureggiante, il rumore morbido e continuo della risacca, la fresca aria del mare. Lì era riuscita a trovare sia il sole che la privacy. Nei sei giorni che erano trascorsi da quando era arrivata, le uniche conversazioni che aveva tenuto erano state quelle con l’impiegato della reception quando lasciava o riprendeva la chiave della sua stanza, con la cameriera che veniva a rifarle il letto e con i baristi che percorrevano la spiaggia per prendere le ordinazioni dei clienti. ava la maggior parte del tempo in spiaggia, sdraiata su un asciugamano dell’albergo, gli occhi celati da ampi occhiali scuri. Di tanto in tanto leggeva un paio di pagine del romanzo che aveva portato con sé. Più spesso però, si limitava a sonnecchiare, godendosi il sole e la sabbia e il mare, mentre il libro, dimenticato, giaceva a faccia in giù sulla sabbia. Senza nemmeno rendersene conto , Celeste aveva costruito una fortezza attorno a sé. La sua enorme borsa da spiaggia, la custodia del computer, un pacco di riviste: quegli oggetti erano impilati attorno a lei come il parapetto merlato di un castello medievale.

Il loro messaggio era chiaro: “andate via. Preferisco restare sola”. In quel momento si sentì improvvisamente sveglia: l’ultimo sonnellino l’aveva rinfrescata del tutto. Celeste si sollevò a sedere, vagamente annoiata. Per sei lunghi giorni non aveva toccato il computer, ma adesso si sentiva dell’umore giusto per ricominciare a connettersi. .

Concentrata sul computer, non vide nemmeno il cameriere, né la persona vicino a lei che l’aveva chiamato sulla spiaggia. La prima cosa che catturò la sua attenzione fu l’ospite dell’albergo che diceva: “Un Gibson per favore!” Evidentemente il barista non aveva idea di cosa fosse un Gibson, perché l’uomo aggiunse subito: “E’ un Martini con una cipollina invece che un oliva” Soltanto a sentire la parola Martini, Celeste si rese conto di essere terribilmente assetata. Il pensiero di un Gibson ghiacciato dal gusto pungente del gin le misero addosso una voglia pazzesca di averne uno. “Può farne uno anche a me, per favore?” domandò al cameriere L’uomo sulla spiaggia le lanciò un’occhiata. Celeste, come sempre fin troppo attenta ai propri comportamenti, distolse lo sguardo. Non prima però di aver notato che l’uomo in pantaloncini neri era piuttosto giovane, probabilmente tra i trentacinque e i quaranta, di corporatura snella ma

muscolosa, capelli neri, lineamenti piacevoli, non bello ma piacevole da guardare. Si accorse che l’uomo sembrava prepararsi a lasciare la spiaggia: aveva già ripiegato il proprio asciugamano e stava mettendo nella borsa un libro e una bottiglia di acqua minerale. “Il mio lo prenderò al bar” disse al cameriere, infilando nella borsa anche la crema solare. Poi, mentre il cameriere si allontanava per trasmettere l’ordine al barista, l’uomo commentò: “Non pensavo che ci fosse ancora qualcuno che lo bevesse “ Le sue parole serbavano il tocco di un accento Siciliano. Celeste sollevò lo sguardo, leggermente sorpresa. Stava parlando proprio di lei? Evidentemente sì, ma era stato un commento innocuo, ed essere educata non le avrebbe fatto certo del male. “Anch’io” disse “Immagino di non essere poi così fuori moda, dopotutto” L’uomo si alzò in piedi e cominciò ad allontanarsi. Ma quando vide il suo computer portatile, si fermò: “Lavoro o piacere?” Celeste arrossì: si sentiva in imbarazzo all’idea di venire sorpresa ad usare il computer su una spiaggia, come un’adolescente. Premette il tasto ESC e la schermata scomparve. “C’è qualche differenza?” disse L’uomo sorrise e frugò nella borsa, estraendone un computer portatile della stessa marca e dello stesso modello di Celeste.

“Se lei è una hacker è praticamente la stessa cosa” Alla vista del piccolo computer Celeste si rilassò un poco. Ecco qualcuno che capiva. “Gran bell’hardware. E’ anche lei nel giro?” domandò con leggerezza “Conosce qualcuno che non lo sia?” ribatté lui Centro. Celeste sorrise di rimando, inconsapevole dell’immagine di bellezza che stava fornendo in quel momento. “Assolutamente no” disse scuotendo la testa “Siamo patetici o no?” l’uomo dai capelli neri scosse anch’egli la testa “Siamo su una spiaggia bellissima e tutto quello che riusciamo a pensare è... ” “C’è campo qui?” finì Celeste ed entrambi scoppiarono in una fragorosa risata. Avevano stabilito una connessione. Appartenevano alla stessa specie. Comunanza di spirito. Maniaci del computer. Lui le porse la mano: “piacere Angelo Fusco” Celeste gliela strinse, intimidita ma compiaciuta al tempo stesso “Celeste Ardemagni” “Celeste Ardemagni, metta le sue cose nella borsa. Avanti prenda il suo drink sulla veranda, insieme a me” Come poteva rifiutare? Anzi perché avrebbe dovuto rifiutare?

Si alzò in piedi, era un po’ nervosa, perfettamente consapevole di avere indosso soltanto un succinto costume da bagno. Era anche consapevole però, del suo magnetismo. Fisicamente era il suo tipo. Ad Angela non piacevano i macho, uomini la cui circonferenza del collo era più alta del loro quoziente intellettivo. Era troppo vulnerabile, troppo timida, per aprirsi con una persona conosciuta da poco. Ma soltanto un drink. Perché no? Che male poteva mai farle sedersi a bere qualcosa con un uomo attraente? Al primo drink ne seguì un secondo e poi un terzo. Quando il cameriere portò via i bicchieri vuoti e depose di fronte a loro il quarto paio di Gibson che sudavano nei bicchieri ghiacciati, Celeste non sentiva più niente. Aveva i sensi praticamente atrofizzati. Per due ore, lei e Angelo erano rimasti seduti nella fresca ombra di quella veranda di palme e di bambù, respirando la fragranza dolce e intossicante dei viticci di buganvillea in boccio sul pergolato, senza far altro che restare lì a parlare e a bere. Parlare con Angelo era uno dei piaceri più grandi che Celeste avesse mai sperimentato in vita sua. La loro conversazione spaziò su numerosi argomenti, sia seri che banali. Angelo le sembrava intelligente, simpatico e sicuro di sé. Non aveva mai incontrato nessuno che fosse tanto in sintonia con lei, nessuno che fosse in grado di tirarle fuori l’umorismo a quel modo, qualcuno la cui sensibilità la faceva sentire così a proprio agio. Si conoscevano da poco meno di due ore, eppure Celeste sentiva di conoscerlo

da una vita. O forse era il Martini a darle quella impressione? A un certo punto, Angelo si sporse sul tavolino verso Celeste, apprezzando la sua carnagione, la dolcezza dei suoi occhi grandi, l’odore dolce e solare della sua pelle. “Ti andrebbe di cenare…voglio dire con me…questa sera?” le domandò a bassa voce “Grazie ma non posso” rispose “Sei sicura?” le chiese guardandola dritta negli occhi Il suo sguardo era ipnotico e lui stesso era tanto affascinante che Celeste dovette trattenere il respiro “Sai, mi piacerebbe moltissimo, ma... ” decise di dirgli le cose come stavano: quell’uomo meritava la sua sincerità “E’ che non riesco proprio ad affrontare la sala da pranzo dell’albergo. Ho mangiato quasi sempre nella mia camera” confessò mentre un rossore le saliva alle guance. In realtà, era proprio quella sua paura delle altre persone il segreto più imbarazzante della vita di Celeste Ardemagni. “Problema risolto” disse allegramente l’uomo “C’è un certo posto su un’isoletta proprio a mezz’ora da qui. I turisti non ci vanno. Saremo soltanto io, tu e una mezza dozzina di camerieri annoiati a morte. Che ne dici?” Celeste si arrese con un sorriso “D’accordo. Andata per la cena. C’è soltanto una cosa. Se è così fuori mano da non poterci andare in macchina, come faremo ad arrivarci?”

“Lo scoprirai” promise “Adesso va a vestirti. Ci incontriamo laggiù tra un’ora” disse indicandole un punto sulla spiaggia dove un pontile di legno si allungava per qualche decina di metri nell’oceano.

Celeste si fece la doccia e si vestì in fretta, quindi si svestì di nuovo e sparpagliò sul letto tutto ciò che aveva nell’armadio e nei cassetti. Dopo aver studiato attentamente tutti i suoi pochi abiti, decise per una camicetta bianca e una gonna al ginocchio. Si tirò i capelli all’indietro, esponendo i suoi zigomi alti e la fronte ampia, le sopracciglia folte, gli occhi grandi e le labbra perfettamente disegnate, la fossetta sul mento, il naso diritto. Fissò la propria immagine riflessa nello specchio ovale, insoddisfatta. La sua insicurezza di fondo la rendeva incapace di riconoscere quanto fosse attraente in realtà. Uscì precipitosamente dalla sua camera e corse verso il pontile dove Angelo era già lì ad attenderla, i capelli neri arruffati dal vento della sera. Con la giacca di lino bianco e la camicia sbottonata era ancora più attraente di quanto Celeste ricordasse. E altrettanto bello era il lungo motoscafo d’altura ormeggiato al pontile, con la scritta “Alternative” dipinta sulla chiglia. L’imbarcazione era tanto grande da avere addirittura la sua scialuppa dotata di motore fuoribordo, attaccata a un argano a poppa. “Andremo con questo?” dice Celeste, incredula “Una gratifica della ditta” sorride Angelo Celeste non sapeva molto di imbarcazioni, ma quando salirono a bordo si guardò intorno con una sorta di timore reverenziale.

Quella barca era ovviamente il massimo della sua fascia, dotata di qualsiasi accessorio che un cabinato poteva avere. Il natante scintillava letteralmente di nuovo e di lusso, dalla chiglia affusolata al sofisticato pannello di controllo. Celeste si accorse con piacere che non erano soli: quella sera non ci sarebbe stato alcun bisogno di ciurma, con quella barca che, praticamente, poteva fare tutto da sola. La cena mantenne tutte le promesse. Il cibo era eccellente. Erano stati gli unici avventori del ristorante, che consisteva in poco più di una capanna per pescatori, con il tetto di lamiera. Rientrarono poi nell’imbarcazione e quando furono in mare aperto, prima che lui potesse dire o fare qualsiasi cosa, le labbra di lei, rosse e piene, incontrarono le sue in un bacio profondo e apionato. Angelo sgranò gli occhi per la sorpresa poi, sorprendendosi ancora di più, si ritrovò a rispondere al bacio di lei con uguale trasporto. Strinse a sé la ragazza, mentre il suo corpo reagiva al fuoco che bruciava dentro di lei Quando le mani di Celeste gli accarezzarono il torace sotto la giacca, Angelo non fece alcun tentativo per fermarla e quando lei gli sfilò l’indumento dalle spalle, lui l’aiutò, facendo scivolare le braccia fuori dalle maniche. Lanciò la giacca sul ponte. Si udì un piccolo tonfo. Il rumore di una pistola soffocato da due strati di lino. Angelo se ne accorse ma Celeste non era in grado di udire nulla se non il frastuono del suo stesso sangue che le scorreva impazzito nelle vene. Più tardi, dopo aver fatto l’amore a lungo, rimasero sdraiati l’uno accanto all’altra sui materassini del ponte, coperti da un’incerata, immobili a fissar le

stelle. I vestiti erano sparsi disordinatamente intorno a loro. Dopo quella inattesa intimità, Celeste stava sperimentando l’insicurezza e il rimorso che l’avevano tormentata per tutta la vita. Angelo Fusco indossò i pantaloni e la camicia e scese in cabina. Se c’era qualcuno che aveva bisogno di bere qualcosa era lui. Era assolutamente furioso con se stesso per essersi lasciato sfuggire di mano la situazione, per essersi spinto così lontano. Certo, Celeste era attraente e molto anche. Ma il punto non era quello. Semplicemente non poteva permettersi il lusso di lasciarsi coinvolgere, di provare qual cosa per lei. Aveva un incarico da portare a termine ed era giunto il momento di metter fine a quella faccenda. Anzi, il momento era già ato. Sul ponte, l’aria della sera si stava raffreddando sempre di più. Celeste si rivestì, ma la camicetta e la gonna, oltre ad essere decisamente leggere, erano anche leggermente umide per gli spruzzi. La giacca di lino di Angelo sembrò quasi chiamarla. Lei la prese e se la avvolse intorno alle spalle. Poi, per riscaldarsi le mani, le infilò nelle tasche.

Angelo uscì dalla cabina portando una bottiglia di vino e due calici di cristallo. Quando la vide, si fermò di colpo. Celeste era ferma sul ponte, fumando una delle sue sigarette.

In grembo aveva una pistola calibro nove. “E questa a cosa serve?” domandò tranquillamente Cercando di darsi un tono indifferente, disse a voce alta: “Un altro regalo, per la pesca agli squali. Cerca di stare attenta con quel... ” “E questo? Cosa vuol dire?” chiese ancora Celeste mostrandogli il suo tesserino di identificazione della Polizia cautamente, Angelo posò la bottiglia e i bicchieri sull’assito. Allungò casualmente una mano verso la pistola, ma la reazione istintiva di Celeste fu di serrare le dita sull’impugnatura, tenendola saldamente. Angelo sorrise. Un sorriso ampio, disarmante, che sembrava gridare: “Fidati di me, bambina... ” Celeste tolse la mano dalla pistola. Angelo la prese e poi, lentamente, fece due i indietro. “Allora... chi sei, Angelo? Cosa vuoi da me?” gli domandò Celeste, lasciando trasparire una nota di nervosismo Angelo si voltò verso di lei, la faccia contratta in una maschera di amarezza e disgusto. “Chi sono?” ringhiò “Finalmente ti abbiamo beccata. Sei in arresto per l’omicidio di due uomini oltre che per la tua attività illegale di Hacker... ” senza aggiungere nemmeno una parola, Angelo le punto addosso la pistola “E’ scarica…non mi fai certo paura con quella... ” disse lei serafica. Angelo fissò la pistola scarica per un lungo istante di stupore, quindi spostò gli occhi di ghiaccio sulla sagoma terrorizzata di Celeste.

“Dov’è il caricatore?” le domandò freddamente Quasi paralizzata dalla paura, Celeste sollevò l’oggetto metallico. Quando lui si tuffò per prenderlo, Celeste si mosse alla svelta, lanciandolo oltre il parapetto. In preda a una furia selvaggia, Angelo le si avventò contro, ma Celeste indietreggiò sul ponte, senza mai staccargli gli occhi di dosso. Aveva ancora tra le dita la sigaretta accesa. “Tu devi essere pazzo! Io non ho ucciso nessuno, non so neanche di cosa stai parlando” strillò Senza dire una parola, si buttò sopra di lei, nel tentativo di immobilizzarla, allungando le mani in cerca del collo. Cominciò a stringere le dita possenti con forza sulla trachea. Celeste cercò di divincolarsi, lottando selvaggiamente e agitando freneticamente le braccia, ma Angelo Fusco era troppo forte per lei. Sentì l’aria che le sfuggiva da polmoni, la vita che le veniva sottratta. Non riusciva più a respirare. Stava cominciando a perdere conoscenza. Tossendo e annaspando penosamente, con un ultimo, disperato movimento della mano destra spinse la punta della sigaretta accesa nell’occhio di Angelo. L’uomo lanciò un orribile grido di dolore e le tolse le mani dal collo, accecato. Celeste rotolò su un fianco, alla disperata ricerca di un’arma qualsiasi. Toccò la bottiglia di vino con la punta delle dita e ,con uno sforzo, riuscì ad afferrarla. La sollevò sopra la testa e la abbatté con forza sulla testa dell’uomo. La bottiglia si ruppe, l’uomo ondeggiò per qualche istante, poi riuscì a colpire

Celeste con un pugno che la fece scivolare a terra. Cadendo la sua testa picchiò sul boccaporto della stiva e, in un attimo, una chiazza di sangue si allargò all’altezza della nuca. Per un lungo istante Angelo Fusco rimase in piedi vicino a lei, stordito, pronto a colpire di nuovo, se necessario. Ma Celeste giaceva assolutamente immobile. A quel punto, in un impeto di disperazione, Angelo Fusco prese i piedi della donna e la fece scivolare aldilà del parapetto. Angelo Fusco si tenne saldamente al bordo laterale per non scivolare anche lui in acqua. A quel punto permise a se stesso di voltarsi a guardare per cercare Celeste. Continuò a guardare nell’acqua per vedere se fosse riemersa. Ma Celeste Ardemagni non ricomparve.

22.

La riunione della squadra investigativa si rivelò più pesante del solito. La notizia della scomparsa di Celeste Ardemagni, probabilmente persa nei meandri dell’oceano a Santo Domingo, era stata una autentica mazzata per tutti. Angelo Fusco era uno dei migliori agenti sotto copertura in circolazione. Lostumbo aveva scelto lui perché sapeva che con un personaggio ostico come Celeste Ardemagni ci voleva qualcuno che sapesse sempre come agire in ogni situazione. Ma, evidentemente, qualcosa non aveva funzionato nel modo giusto e la situazione gli era sfuggita di mano, anche se il resoconto di Fusco fece credere a tutti che si fosse trattato di un semplice incidente. E in effetti, le cose stavano praticamente così. “Mi pare evidente che quella donna fosse l’assassina dei due uomini e forse anche della donna... Morena Torricelli” esordì cupo De Feudis “Eppure, mi sembra strano…” mormorò quasi fra sé e sé Lostumbo “ Un hacker di solito si dedica soltanto ai crimini informatici. Non è mai successo prima che fosse anche un omicida... e poi continuo a credere che questa Ardemagni abbia solo fatto hackering coprendo l’identità di Morena Torricelli... e che sia lei la vera e unica assassina” “Io dico che non dobbiamo cercare di complicarci sempre la vita. Soprattutto con tutto il lavoro che c’è in questo periodo” disse De Feudis “Vuole dire che per lei il caso è chiuso?” chiese Lostumbo, non riuscendo a nascondere la sua perplessità “Caso chiuso e anche in maniera brillante. Abbiamo trovato l’assassina che purtroppo è morta anch’essa in maniera del tutto accidentale” concluse De Feudis “Ma…se avete letto bene i referti dell’autopsia la donna aveva una ferita profonda sulla testa, la qual cosa sembrerebbe incompatibile con la semplice caduta dalla barca a seguito della colluttazione avuta con Fusco” intervenne

Nicotera sfogliando dei fogli davanti a sé “Certo che abbiamo letto i referti, Nicotera!” disse glaciale De Feudis con una smorfia “La donna è caduta durante la colluttazione con Fusco. Non vorrà insinuare che l’intenzione di Fusco, uno dei nostri migliori agenti, fosse di ucciderla?” “No... non volevo dire questo…” balbettò Nicotera arrossendo. Lostumbo gli fece cenno di tacere. “Dobbiamo convocare la stampa” disse con tono poco convinto “Certo, ci penso io a organizzare il tutto, come al solito... ” disse De Feudis, ignorando l’espressione perplessa di Lostumbo.

All’una si sedettero dietro un lungo tavolo sul piccolo podio che era al fondo della sala per le conferenze. Si erano accordati per fare in modo che l’incontro con la stampa fosse il più breve possibile. La cosa più importante era cercare di evitare che si fero troppe speculazioni selvagge e senza fondamento. Per questo, avevano deciso di essere volutamente poco chiari nel rispondere alla domanda su come Celeste Ardemagni fosse morta. La stanza era piena al limite della capienza. Esattamente come Lostumbo e De Feudis avevano previsto. I quotidiani nazionali avevano deciso che la vicenda di Celeste Ardemagni era un affare importante. Lostumbo contò tre telecamere.

Dopo, quando tutto era finito e l’ultimo giornalista sparito, Lostumbo poté constatare che tutto si era svolto singolarmente bene. Avevano risposto nel modo più vago possibile, e ogni volta avevano detto che i controlli dei tecnici della scientifica ancora in corso, non permettevano di fornire molti dettagli precisi o di fare dichiarazioni certe. Alla fine, i giornalisti si erano resi conto di non avere alcuna possibilità di penetrare il muro invisibile che Lostumbo e De Feudis avevano alzato intorno a loro. Quando i giornalisti avevano lasciato la sala, Lostumbo si era convinto a lasciarsi intervistare da alcune radio locali, mentre De Feudis era davanti a una delle telecamere. Lo guardò pensando di essere contento di riuscire ad evitare, almeno per una volta, di essere ripreso. Provò ad

immaginare i titoli dei giornali del giorno dopo: sicuramente avrebbero dato risalto al presunto ruolo della defunta Celeste Ardemagni. Hacker e assassina. Era il giusto mix di crudeltà e genialità di cui tanto era ingordi i media. Verso la fine della conferenza stampa, Angelo Fusco era entrato senza essere notato ed era rimasto in fondo alla sala. Quando Lostumbo finì l’ultima intervista, si avvicinò. “Buongiorno Lostumbo” lui alzò lo sguardo verso di lui e una smorfia di disappunto si dipinse sul suo volto “Non mi aspettavo un errore del genere proprio da te. Celeste Ardemagni era una pedina chiave in questa indagine…” “Ma…era lei l’assassina, no?” chiese con stupore Fusco “Così sembra o meglio, così hanno deciso che sia…hanno voluto chiudere l’indagine, anche se per me, restano ancora troppi punti poco chiari... ” disse pensieroso Lostumbo “In fondo, ci serviva un colpevole, no? Il fatto che sia morto non cambia la sostanza dei fatti... ” obiettò Fusco accigliato “Ripeto, questo è quello che si vuole credere e far credere, ma trovo un po’ semplicistico il modo con cui si pensa di aver risolto tutto. Purtroppo l’unica persona che poteva dirci qualcosa l’hai uccisa…” “Non l’ho uccisa. E’ stato un incidente! E lo sai…” si difese con tono accorato Fusco “Voglio crederti, anzi, devo crederti” sussurrò Lostumbo stringendogli una spalla e avviandosi verso l’uscita con la testa piena di pensieri.

23.

Morena non riusciva a staccare lo sguardo da quel titolo in piena evidenza nella cronaca nazionale. Celeste Ardemagni morta? Celeste Ardemagni assassina di due uomini? La testa cominciò a ronzarle all’improvviso. Si sentiva stordita e incredula nello stesso tempo. Il timore che Celeste avesse in qualche modo pagato le sue colpe non le dava pace. Perché la polizia era andata a cercarla fino a Santo Domingo? Perché erano convinti che fosse lei l’assassina di Diego e Luca? E poi, se erano riusciti in qualche modo ad arrivare a Morena, era possibile che potessero fare altrettanto anche con lei? Le indagini erano considerate chiuse, diceva l’articolo, ma qualcosa dentro non la lasciava tranquilla. Celeste le aveva consigliato di fuggire all’estero e lei, a causa di quel flirt inaspettato, travolgente e sicuramente fuori luogo, era ancora in città. Cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, riflettendo. Poi si diresse di scatto verso la camera da letto dove, in un angolo, svettava ancora la valigia che aveva pronta da quel giorno famoso. Non c’era tempo da perdere. Era giunto il momento di far perdere definitivamente le proprie tracce. Anche se ciò voleva dire rinunciare a Lostumbo e a quell’uragano di emozioni che il suo incontro con lui aveva significato. Sentì una fitta all’altezza dello stomaco al solo pensiero. Prese il cellulare e digitò il suo numero. Dopo molti squilli, scattò la segreteria telefonica.

Lostumbo aveva appena intravisto la moglie al terminal arrivi, quando il suo cellulare squillò. Il nome Morena lampeggiava in maniera ostinata, come a ricordargli quello che era successo nei giorni precedenti. Mentre la moglie si stava facendo largo con due valigie che riusciva a portare a fatica, Lostumbo vinse la tentazione di rispondere e lasciò che scattasse la segreteria.

“Ben tornata!” le disse lui con un sorriso aperto. La moglie, Luciana, gli rispose con una smorfia e gli porse la guancia per un bacio che lui le diede con affettata rapidità. “Lascia le prendo io!” disse, facendo un cenno col mento verso le due valigie “Aspetta! Volevo salutare una coppia che ho conosciuto in questi giorni. Sono davvero simpatici, si chiamano Piero e Caterina. Devono essere rimasti indietro…” e così dicendo si voltò a guardare alle sue spalle, cercando di scorgere dei volti conosciuti, nel mezzo di quel trambusto generale. Lostumbo sbuffò, incrociò le braccia al petto e si predispose all’attesa.

Pochi minuti dopo, Morena scendeva da un taxi con la sua ingombrante valigia e faceva ingresso al terminal partenze dello stesso aeroporto. Volse lo sguardo in alto verso il tabellone indicante i voli e, presa una rapida decisione, si avviò verso la biglietteria. Si mise pazientemente in coda, mentre la sua mente era un turbinio di pensieri. Si sorprese ad osservare una giovane coppia con due bambini al seguito, ne ammirava la semplice linearità della loro vita, del loro essere. Una famiglia. Una cosa normale, di tutti i giorni, come se ne vedono a migliaia, ma per lei un qualcosa di irraggiungibile. Il sogno di una vita che non era la sua e mai avrebbe potuto esserlo. Si soffermò sui delicati lineamenti della bambina, avrà avuto non più di cinque o sei anni e su come guardasse adorante il padre, indaffaratissimo a cercare qualcosa nelle tasche e, nello stesso tempo, a tenere per mano l’altro figlio, più piccolo. Le scappò un mezzo sorriso al quale rispose d’istinto la bambina. La mamma si accorse della muta intesa tra i due e rispose anch’essa al sorriso di Morena, che si sentì avvampare, imbarazzata come una scolara colta in fallo. Girò di scatto la testa e i suoi occhi furono calamitati da una presenza familiare. Una figura inconfondibile, che le si era stampata in testa in maniera

indelebile. Per un momento pensò che la sua mente le stesse tirando qualche brutto scherzo e che le fe vedere Lostumbo ovunque, ma poi strizzò gli occhi, cercando di mettere a fuoco quell’immagine: sì, era proprio lui. Le braccia conserte, lo sguardo annoiato, due valigie ai suoi piedi e…una donna vicino a lui che, proprio in quel momento lo teneva sottobraccio. Fu in quel momento che maledisse il suo essere istintiva, il suo voler vivere le cose senza mai chiedersi dei giusti perché. Aveva perso la testa, aveva trascorso giorni interi con una persona, aveva fatto l’amore…senza sapere veramente nulla di lui. Non le era ato nemmeno per un momento nella mente di chiedergli se fosse impegnato sentimentalmente o, peggio ancora, se fosse sposato. Niente. Si era lasciata coinvolgere in una storia di sola e autentica ione, nel momento più sbagliato. Avrebbe solo dovuto pensare a lei, alla sua vita rovinata, a cercare un rimedio qualsiasi ai suoi guai. Invece si era buttata in una storia senza capo ne coda, senza riflettere. Cominciava a pensare di avere qualche squilibrio mentale. Una persona normale non si sarebbe mai comportata così. Nel mezzo di questi pensieri, i loro sguardi si incrociarono. Il suo cuore perse un battito. Lostumbo la osservava a bocca aperta. Dentro di lei si mescolavano sentimenti diversi: stupore, incredulità e rabbia, tanta rabbia. Fu proprio quest’ultima sensazione ad avere la meglio e, senza neanche accorgersene, i suoi piedi si erano messi in moto verso di lui. Non si rendeva conto di quello che stava facendo e nemmeno di ciò che aveva intenzione di fare. L’unica cosa che contava in quel momento, era andargli incontro. Quando fu a pochi i da lui, si fermò squadrandolo dall’alto in basso. Ovviamente, il suo arrivo non ò inosservato alla moglie che soffermò il suo sguardo dapprima su Morena poi sul marito, che sembrava pietrificato, letteralmente incapace di fare il benché minimo movimento. “Ciao!” disse Morena con un falso sorriso accattivante Lostumbo era come in apnea. Non riusciva a capire dove Morena volesse arrivare. “Chi è questa donna? La conosci’” chiese la moglie di Lostumbo, ma lui rimase immobile e muto “Ehi! Sto parlando con te!” urlò lei strattonandolo con vigore. Lostumbo sembrò

quasi riprendersi, mentre Morena gli si avvicinò. Quando furono a pochi centimetri di distanza, lei lo baciò delicatamente su una guancia, come fosse una vecchia amica. Quando staccò la sua bocca, si voltò verso la moglie. Questa volta era il suo turno di rimanere a bocca aperta. “Non mi vuoi presentare?” chiese con tono perfido Morena a un sempre più imbarazzato Lostumbo “Sono la moglie!” disse bruscamente lei frapponendosi con forza in mezzo ai due “La moglie! Ma che piacere!” sbottò Morena fulminandolo con un’occhiata. A Lostumbo mancò il respiro per un attimo. “E lei, sarebbe?” chiese Luciana inarcando un sopracciglio con fare sospettoso “Una collega di lavoro” mentì prontamente lei “Ah, quindi anche lei poliziotta!” rispose Luciana con tono quasi rinfrancato. Adesso fu il turno di Morena: Le si bloccò il respiro, al punto che dovette quasi boccheggiare per riprendere fiato. Una muta richiesta di spiegazioni si dipinse sul volto stupefatto di Morena, che ora stava fissano Lostumbo, sbalordita e spaventata. Nel frattempo era arrivata una coppia di mezza età che Luciana accolse con calore, ignorando apertamente la presenza di Morena, con il chiaro intento di escluderla dalla conversazione. “Eccoli, sono loro! Questo è mio marito!” disse la moglie di Lostumbo con esagerata enfasi, non senza gettare un’occhiata infastidita in direzione di Morena, che era rimasta immobile, con un vago terrore diffuso dentro di lei, che sembrava quasi averle ghiacciato il sangue. “Ah, il famoso ispettore! Sua moglie ci ha parlato così tanto di lei... ” disse l’uomo andandogli incontro e tendendo con vigore la mano a Lostumbo che non

rispose quasi alla stretta. Era rimasto inerte, il suo sguardo ancora perso negli occhi tristi e increduli di Morena, che senza dire una parola, si girò di scatto e se ne andò quasi correndo. La fuga di Morena non ò inosservata a Luciana che osservando la schiena della donna allontanarsi, si avvicinò all’orecchio di Lostumbo e gli sussurrò: “Poi mi devi spiegare!” Lui annuì facendo spallucce, come se quell’incontro per lui non fosse stato della benché minima importanza.

24.

Morena correva a perdifiato verso la biglietteria. Il suo cuore batteva all’impazzata e, in mezzo alla miriade di pensieri che si affastellavano nella sua mente, un solo concetto le stava diventando chiaro: quell’uomo era un poliziotto ed era sulle sue tracce. C’era caduta come una ragazzina. Il fatto che le avesse taciuto di essere sposato in quel momento diventava irrilevante di fronte alla prospettiva che Lostumbo sapesse tutto e magari l’avrebbe potuta arrestare da un momento all’altro. Arrivato il suo turno, fece il biglietto per il primo aereo in partenza, senza far neanche caso alla destinazione. Le sue mani tremavano in maniera incontrollabile mentre prendeva i soldi dal portafoglio che le cadde per ben due volte, sotto lo sguardo sospettoso dell’addetta e degli altri eggeri in coda. Fatto il check in si avviò di fretta verso il gate corrispondente e mentre la sua mente continuava a turbinare pensieri, una mano sulla sua spalla la fece trasalire. Era lui. “Cosa vuoi?” gli chiese con un tono scostante ma spaventato “Spiegarti” rispose semplicemente Lostumbo, con aria costernata “La tua mogliettina ti starà aspettando. Che fai qui?” chiese con un velata ironia “Senti, lo so che ci sono cose che non ti ho detto ma... io ti amo…ti amo sul serio” disse lui tutto d’un fiato, poggiandole piano una mano sul braccio. Lei lo scansò infastidita. “Perché non la facciamo finita una volta per tutte? Mi devi arrestare vero?” Lui la guardò stupito. “Certo che no. Perché dovrei ?’” rispose Lostumbo cadendo dalle nuvole. La risposta apparentemente sincera dell’uomo sembrò rassicurarla.

“Perché non mi hai detto che eri un poliziotto?” “Non è una cosa che mi piace dire” “Non è una risposta” disse lei voltandosi nervosamente “Non lo ritenevo importante. Almeno non per questo tipo di rapporto... ” “Questo tipo di rapporto? Che intendi’ Qualche scopata e via?” chiese lei con rabbia “No. E lo sai. Il nostro sentimento è vero” affermò con tono disperato Lostumbo “E sei anche sposato... ” aggiunse lei con un’amarezza che le fece scendere le prime lacrime a rigarle le guance “Te lo avrei detto…il mio matrimonio è allo sbando…” “Sapessi quante volte ho sentito questa frase…” disse lei con un sorriso triste “Ti prego... devi credermi…” disse lui cercando di accarezzarle una guancia ma lei si scostò “Vattene, per favore!” gli intimò lei “Ma... dove stai andando? E poi nelle tue condizioni…” “Il bambino non è tuo. Non è un tuo problema…” “Quando tornerai?” chiese Lostumbo speranzoso, mentre nel vocio generale, avvertì con chiarezza la voce della moglie che lo stava chiamando “Non lo so... sono così confusa…” mormorò Morena “Ma dove devi andare?” chiese Lostumbo con un tono che faceva trasparire un’ombra di sospetto e di questo lei se ne accorse e un leggero brivido le percorse la schiena “Vado da dei miei parenti a…” mentì lei sbirciando il suo biglietto “... a Roma” “E quando torni? Ho bisogno di parlarti... ” chiese lui con affanno, mentre la

moglie stava sopraggiungendo alle sue spalle con aria inferocita “Ti stiamo aspettando! Cosa fai ancora qui?” sbottò la moglie fulminando con uno sguardo Morena “Sì, scusa... dovevo dirle una cosa urgente di... ehm... lavoro” improvvisò Lostumbo, abbassando la testa imbarazzato “Bene, allora ciao!” disse Morena sbrigativamente, approfittando di quel momento di ime generale. Lostumbo vedendola allontanarsi, deglutì con fatica, poi si volse verso la moglie che continuava a fissarlo in modo inquisitorio.

24.

Tornato in centrale, Lostumbo era di umore particolarmente nero. La partenza di Morena l’aveva lasciato in uno stato di subbuglio generale, che sfociava in gesti nervosi e insofferenza a tutto e tutti. Quando entrò dirigendosi verso il suo ufficio a testa bassa, non si accorse che in sala d’attesa c’era una giovane donna che l’aspettava. Fu Nicotera a ragguagliarlo al riguardo. “Ispettore, c’è una donna che vuole parlarle” “Adesso non ho tempo!” cercò di troncare bruscamente “Ma... sta aspettando da più di due ore…” lo supplicò timidamente l’agente Lostumbo gettò una rapida occhiata alla donna, che ora lo stava fissando con un sguardo a metà tra l’incuriosito e lo speranzoso. “Okay, falla are” mormorò entrando nella sua stanza e sedendosi rapidamente su una sedia girevole che aveva conosciuto tempi migliori. Le mancava una rotella e Lostumbo doveva fare molta attenzione a muoversi. “E’ permesso?” chiese timidamente la donna sulla soglia. Lostumbo la osservò con attenzione: era di altezza media, i capelli raccolti in una lunga coda biondo scuro, gli occhi chiari, una figura elegante e discreta che metteva in risalto la sua eccessiva magrezza. “Si accomodi” disse Lostumbo indicando con la mano la sedia di fronte alla scrivania La donna si sedette lentamente. Rimase per un momento a testa bassa, in silenzio, poi alzò lo sguardo su di lui. Lostumbo non si ricordava di aver mai visto degli occhi tanto tristi.

“Cosa posso fare per lei?” chiese con il tono più accomodante di cui potesse essere in possesso in quel momento “Mi... mi chiamo Daniela. Daniela Berrino” mormorò piano la donna, al punto che Lostumbo dovette avvicinarsi per sentire meglio. “Mi dica signora Berrino…” proprio mentre pronunciava quel nome, un flash gli rischiarò la memoria. Berrino era il cognome di uno dei due uomini assassinati tempo prima. “Ecco... io venivo per questo…” e così dicendo estrasse a fatica una pagina di giornale piegata in quattro. La aprì e gliela porse. “Riguarda l’omicidio di mio marito, Luca…” Lostumbo aggrottò le sopracciglia, improvvisamente interessato Le fece un cenno del mento per invitarla a proseguire. “Io... io ho letto quello che hanno scritto sui giornali…secondo loro l’assassina di mio marito era anche la sua amante... ” “A volte i giornali devono ricamarci un po’ su, ha presente? Per vendere più copie…l’omicidio ionale tira sempre... ” “No…non è questo il fatto…forse avrei dovuto venire qui a dirvelo prima ma… avevo paura... ” disse ancora Daniela Berrino, guardandosi attorno spaventata “Dirci cosa?” chiese bruscamente Lostumbo La donna restò ancora un attimo in silenzio, prendendo fiato. “Io…conoscevo l’amante di mio marito. E le posso dire che non è assolutamente questa Celeste Ardemagni di cui parlano i giornali” Lostumbo era interdetto. La osservò con attenzione, cercando di capire dove volesse arrivare. “L’ho vista…li ho visi insieme una volta…fisicamente non è la stessa e la faccia…me la ricordo bene perché poi giorni dopo mi capitò di incontrarla in un

bar ed ebbi modo di osservarle bene il viso, chiedendomi i motivi che avevano spinto Luca a tradirmi... ” I suoi occhi si velarono di lacrime mentre Lostumbo rifletteva “E’ sicura che si trattasse della stessa donna?” “Assolutamente si, anche perché l’ho rincontrata nello stesso bar dove gli avevo visti insieme” “Posso chiederle se... si, insomma, se si è limitata a guardarla o le ha detto qualcosa?” “Le ho parlato, si... .ma non di Luca. Ho fatto finta di non essere del posto e le ho chiesto delle informazioni... lei è stata gentile e disponibile, poi abbiamo bevuto insieme qualcosa e ci siamo messe a chiacchierare del più e del meno. Al momento dei saluti mi ha detto che si chiamava Morena…non so se questo possa esserle d’aiuto... ” Lostumbo restò in silenzio pensando al nome Morena e dopo pochi secondi la collegò immediatamente alla persona che, in seguito alle ricerche fatte, risultava morta pochi giorni dopo l’omicidio di Luca Berrino. Dunque Morena e Celeste non erano la stessa persona. E quindi Celeste Ardemagni era solo e semplicemente un hacker che aveva coperto qualcuno. Cioè la misteriosa Morena, che ufficialmente risultava deceduta, e invece era sparita chissà dove. Con due omicidi sulla coscienza. “Commissario, tutto bene?” chiese timorosa Daniela Berrino osservando Lostumbo, preda dei suoi pensieri “Sono ispettore, non commissario…comunque ha altro da dirmi?” “No... volevo solo liberarmi di questo peso. Magari si possono riaprire le indagini. L’idea che l’assassina di mio marito sia ancora libera mi fa accapponare la pelle…”

“La capisco e comunque la ringrazio di essere venuta” disse Lostumbo alzandosi. La sua sedia girevole dopo essersi inclinata dalla parte della rotella mancante, cadde rumorosamente sul pavimento. Lostumbo ignorò il fracasso e tese la mano a Daniela che gliela strinse con imbarazzo. La vide andare via lentamente con il suo corpo esile e timoroso, poi ebbe come un ripensamento. Si bloccò e si girò verso Lostumbo : “Si? Deve dirmi ancora qualcosa?” chiese Lostumbo vedendola titubante ancora sulla soglia “Mi è venuta in mente una cosa, ma non so se possa servire per le indagini…” “Parli pure liberamente. Qualsiasi cosa può essere utile. Di cosa si tratta?” “Ecco…mi è venuto in mente che quel giorno che li vidi insieme, lui dopo un po’ di tempo la accompagnò verso una casetta a due piani. Lì la salutò baciandola con…ehm... molta ione. Quando se ne furono andati, mio marito in macchina e la donna in quel portone, mi avvicinai per sbirciare un eventuale nome sul citofono e vedere come si chiamasse ma non doveva essere casa sua, perché c’era solo una targa ed era di uno studio medico. Uno psichiatra se non ricordo male... ” “Si ricorda il nome di quello psichiatra?” “No, ma mi ricordo l’indirizzo” “Direi che è sufficiente” abbozzò Lostumbo con un sorriso. Salutò nuovamente la donna, poi uscì rapido dal suo ufficio e si diresse verso quello dell’ispettore capo De Feudis. Entrò di colpo, visibilmente eccitato. “Non si usa bussare?” chiese De Feudis che stava lavorando al computer “Ho ricevuto la visita di una donna... ” disse tutto d’un fiato Lostumbo, sedendosi sulla sedia di fronte alla scrivania dell’ispettore capo che smise di

digitare sulla tastiera, si tolse gli occhiali da lettura e lo guardò interessato. “Di chi si tratta?” chiese “Si chiama Daniela Berrino ed è la moglie di Luca Berrino, uno dei due uomini... ” “Assassinati da Celeste Ardemagni, si mi ricordo... ” lo interruppe De Feudis sbuffando “Le ho già detto mille volte che il caso è chiuso, ci sono tante cose di cui occuparsi e desidererei che la smettesse di pensare di... ” “Ha conosciuto l’amante di suo marito e non è Celeste Ardemagni” questa volta fu il turno di Lostumbo di interrompere De Feudis “Come fa a dirlo?” “La foto di Celeste Ardemagni era su tutti i giornali. Lei è sicura che non fosse lei l’amante del marito” “Magari quella che ha conosciuto lei era una delle tante... che ne sa?” “Io voglio credere a questa donna” “E quindi?” “Voglio riaprire l’inchiesta” “Lei è matto! E poi come vorrebbe ripartire? Da che cosa? Da che basi?” “Prima di tutto, voglio andare a far visita a questo fantomatico psichiatra. Di sicuro saprà dirmi qualcosa su questa Morena, no? Probabilmente era una sua paziente” “C’è il segreto professionale” obiettò con voce stanca De Feudis, andosi una mano sul viso segnato “ Non su una morta, pero... se è davvero morta” disse Lostumbo quasi fra sé e sé, con un mezzo sorriso dipinto sulle labbra

25.

Lostumbo rintracciò facilmente la villetta a due piani di cui le aveva parlato Daniela Berrino. Si trattava di una costruzione antica, molto imponente ed elegante. C’era solo un citofono e sul portone spiccava una targa in ottone: Luigi Rambaldi – Neuropsichiatra. Restò in attesa un momento, inspirando ed espirando come un atleta prima di una competizione importante, poi si decise a suonare. Dopo una trentina di secondi, si illuminò l’occhio indagatore di quello che scoprì trattarsi di un videocitofono. “Chi è?” rispose una asettica voce femminile “Buongiorno mi chiamo Vito Lostumbo e sono un ispettore di polizia. Avrei bisogno di fare qualche domanda al Dottor Rambaldi” “Il dottore in questo momento è molto impegnato” fu la brusca risposta “Lo immagino, ma è una questione di pochi minuti. Mi apra, la prego!” Lostumbo attesa un’altra manciata di secondi, poi un suono secco gli fece capire che il portone era stato aperto. Fece pochi scalini e si ritrovò di fronte a una porta aperta, dalla quale usciva una luce di neon. Si fece timorosamente avanti, bussò con le nocche della mano ed entrò. Sulla soglia lo bloccò una elegante assistente, molto alta, bionda con capelli vaporosi e un trucco eccessivo che la faceva sembrare fuori luogo. Lo invitò ad accomodarsi in una elegante sala d’attesa, con dipinti in cornici dorate alle pareti, un tavolo in vetro con delle vecchie riviste sopra e una pallida luce che filtrava attraverso le spesse tende.

Dopo circa un quarto d’ora d’attesa, la ragazza rientrò e gli annunciò la disponibilità del medico ad incontrarlo. Lostumbo entrò nel suo elegantissimo studio, anche qui quadri antichi in cornici di prestigio alle pareti, i muri elegantemente intonacati con un color salmone e una imponente scrivania d’epoca alla sua destra, dove era seduto un uomo di circa 50 anni, ben portati, con un camice bianco. Aveva i capelli leggermente diradati sulla fronte, gli occhi azzurro ghiaccio e le labbra molto sottili. Lo stava osservando con malcelata diffidenza. “Buongiorno, ispettor... ” disse il medico sistemandosi meglio sulla sedia e accennando appena ad alzarsi “Lostumbo, Pasquale Vito Lostumbo” “Bene ispettore Lostumbo, ho pochi minuti da dedicarle. Mi può dire il motivo della sua visita?” chiese con tono calmo e controllato “Sono qui a proposito di una sua paziente... o meglio ex…” “In che senso?” “Nel senso che risulta deceduta... ” Il medico aggrottò le sopracciglia “Di chi stiamo parlando?” “Si chiamava Morena, Morena Torricelli” Lostumbo notò un lieve irrigidimento della postura del Dott. Rambaldi “Sì, è una mia paziente. Non sapevo che…cosa le è accaduto?” chiese apparentemente sc osso “Non lo sappiamo di preciso neanche noi. Per questo sono qui. Per cercare delle informazioni. Cosa sa dirmi di lei?” Il Dottor Rambaldi volse lo sguardo verso l’enorme finestra a bovindo dietro le spalle di Lostumbo e restò un attimo sovrappensiero:

“Penso lei sappia che abbiamo un segreto professionale” “Certo, ma si tratta di un caso di estrema urgenza, altrimenti non sarei qua. Mi dica quello che si ricorda di lei come persona... ” Il dottor Rambaldi restò ancora un po’ in riflessione, appoggiando il mento sul pugno chiuso e roteando gli occhi tutt’attorno alla stanza “Morena Torricelli era una paziente bipolare, una depressa cronica, tendenza alla paranoia, soggetta ad attacchi d’ira... ” “Nel senso che potrebbe fare qualsiasi cosa quando ha uno di quegli attacchi?” chiese con ansia Lostumbo “Nel senso che se messa sotto pressione diventa imprevedibile, questo almeno è quello che ho avuto modo di constatare in anni di terapia” “Anni?” “Dieci per l’esattezza” precisò il medico con una smorfia della bocca, probabilmente un tic nervoso “Era in terapia farmacologica?” “Certamente” “Potrebbe essere più preciso sulle sue sintomatologie?” “Lei soffriva di un disturbo bipolare o maniaco-depressivo. Non è raro, sa? In media colpisce circa 1 persona su 100. E’ una malattia seria che se non trattata adeguatamente, può causare gravi sofferenze e risultare anche molto invalidante. Si tratta di un disturbo caratterizzato da gravi alterazioni dell’umore, e quindi delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti. Chi ne soffre può essere al settimo cielo in un periodo e alla disperazione in un altro senza alcuna ragione apparente, ando dal paradiso della fase maniacale o ipomaniacale all’inferno della fase depressiva anche più volte durante la vita.” “Ha detto fase maniacale?” chiese interessato Lostumbo

“ Si, era una fase che attraversava spesso quella maniacale. Deve sapere che è caratterizzata prevalentemente da umore disforico, con una sensazione di ingiustizia subita e quindi con la presenza di grande irritabilità, irascibilità e intolleranza. In questa fase possono comparire sensazioni di essere perseguitati che può diventare vera e propria convinzione delirante. Spesso queste sensazioni sono accompagnate da un comportamento aggressivo, con scarsa capacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni” “Quindi si può arrivare ad uccidere?” chiese a bruciapelo Lostumbo “Sicuramente si” rispose sicuro il dottore Mentre il medico guardava l’orologio, Lostumbo prese dalla tasca interna della sua giacca il foglio di giornale ripiegato che gli aveva lasciato Daniela Berrino. Lo aprì e lo girò verso di lui. “Era lei?” chiese, indicando la foto di Celeste Ardemagni sul giornale. Il dottor Rambaldi prese con le mani il foglio e lo osservò un istante, scuotendo la testa. “Assolutamente no! Perché? Qui c’è anche scritto un altro nome!” “Lasci perdere, è una lunga storia” disse Lostumbo riprendendo il foglio e rimettendoselo in tasca. “La ringrazio per il suo tempo” disse, alzandosi. Il dottor Rambaldi restò seduto, lo salutò con un cenno del capo e, subito si materializzò sulla porta la sua assistente che con un sorriso reso ancora più evidente dalla grande quantità di rossetto sulle labbra, lo invitò a seguirla verso l’uscita. Stava per entrare in macchina, quando il suo cellulare squillò. Era Nicotera. “Buone notizie ispettore. Diego Berardi è uscito dal coma” “Vado subito” rispose immediatamente. Accese il motore e puntò dritto all’ospedale.

26.

Lostumbo entrò nella stanza del paziente e vide che accanto al letto dell’uomo era seduta una donna. Molto bella, scura di capelli e di occhi, un incarnato di porcellana. Gli occorse qualche secondo per capire che si trattava della moglie Valentina. Lostumbo ò lo sguardo sul viso addormentato di Diego Berardi poi si girò verso Valentina e disse: “Come sta? Ho saputo che è uscito dal coma... ” Valentina annuì con un mezzo sorriso, mentre una lacrima furtiva le solcava la guancia. “Per fortuna si, grazie a Dio non ci speravo proprio più” e così dicendo strinse forte la mano del marito addormentato. “Ma ha detto qualcosa? Chiese Lostumbo non senza un pizzico d’ansia nella voce “Mi ha sussurrato delle cose. Si fa fatica a sentire.” Disse la moglie “sembrano solo parole confuse. Però mi ha riconosciuto”. Lostumbo sapeva benissimo che era importante iniziare subito a parlare di ciò che era successo. Ricordare è sempre una parte fondamentale nel processo di guarigione. Diego Berardi aveva bisogno di tempo, ma non doveva essere lasciato in pace. Il livello di sollecitazione delle domande va elevato gradualmente, in questi casi, ma c’è sempre il rischio che una persona traumatizzata possa chiudersi del tutto. Potevano volerci mesi a ricostruire a grandi linee l’accaduto, ma Lostumbo voleva assolutamente sapere. Se solo fosse riuscito ad ottenere una buona descrizione, avrebbe avuto le risposte che cercava. “Ho bisogno di parlargli non appena si sveglia” disse Lostumbo “Si tratta solo di qualche domanda, so che per lui potrebbe essere faticoso…” “Purché non lo spaventino” disse Valentina “Questo non me la sento di consentirlo…”poi lei si ammutolì quando entrò un’infermiera. La donna li salutò sottovoce e controllò il polso di Diego Berardi e l’ossigenazione del sangue. “Le sue mani sono

diventate fredde” le disse la moglie “ Gli somministrerò un antipiretico” assicurò l’infermiera “Ma gli state dando gli antibiotici, vero?” “Si, però ci vuole qualche giorno prima che comincino a fare effetto” disse la donna e sorrise tranquillizzante mentre sistemava una nuova sacca sul trespolo della fleboclisi. Diego Berardi sospirò e mormorò qualcosa fra se. Valentina si fermò di colpo e si voltò. Lostumbo si chinò in avanti per cercare di sentire. Il respiro di Berardi si fece più rapido, l’uomo batté la testa di qui e di là, bisbigliando qualcosa, aprì gli occhi e guardò in faccia Lostumbo con aria agitata. “Dovete aiutarmi. Non posso rimanere qui…lei tornerà e mi ucciderà” Valentina si avvicinò rapida e gli prese la mano, portandosela sulla guancia. “Va tutto bene, stai tranquillo, non verrà nessuno qui, sei al sicuro”. Tossì ripetutamente. Valentina gli tenne sollevata la testa e cercò di aiutarlo. Gli ripeteva parole tranquillizzanti, ma il suo sguardo lampeggiava di panico. Berardi ricadde ansimando contro il cuscino e sussurrò frasi impercettibili mentre fiotti di lacrime gli scorrevano lungo le guancie .Lostumbo capì che era meglio lasciarlo tranquillo, si alzò e uscì nel corridoio, dove cominciò a pensare a tutte le opzioni possibili poi gli sovvenne un’idea. Una carta di riserva da giocare, nel momento in cui Berardi avrebbe ripreso a parlare. Ogni suo momento di lucidità doveva essere sfruttato al meglio. Andò nel corridoio, prese il cellulare di tasca e telefonò in centrale.

27.

L’idea dell’identikit gli era balenata all’improvviso. Se la sua mente non riusciva ad elaborare frasi in senso compiuto, poteva darsi che rispondere a delle semplici domande sui particolari del volto, potesse in qualche modo essergli d’aiuto. Lostumbo ci sperava ma neanche troppo. Quando, mezz’ora dopo, vide arrivare Gilda Brunelli, disegnatrice della Polizia, cercò di nascondere un moto di preoccupazione. Gilda, come al solito, sbuffava e sembrava in imbarazzo nei suoi abiti a causa dei chili di troppo accumulati grazie ad eccessi alimentari continui. “Allora capo, se ho capito bene dovrei cercare di fare un identikit in base alle indicazioni di un uomo appena uscito dal coma” disse lei con il solito tono burbero Lostumbo annuì quasi vergognandosi della sua idea, che in quel momento gli sembrava decisamente avventata. “E’ l’unica cosa che mi è venuta in mente. Ho bisogno di sapere chi era la donna che lo ha aggredito” " Si ricordi che non è facile dare vitalità a un disegno" .Per dare a un occhio, a uno sguardo, un'intensità che si avvicina a quella originale ci vuole anche un po’ di intuizione” “Questa so che non ti manca, sei la migliore e lo sai... ” abbozzò Lostumbo “Non cerchi di arruffianarsi le mie grazie. Io sono solo qui per svolgere un lavoro e mi permetta di dirle che mi sembra un’idea un po’ folle. Bisogna tenere conto della difficoltà che un testimone può trovare nel descrivere una persona. Non è facile neanche con qualcuno che vediamo tutti i giorni, inoltre in questo caso mi sembra che la persona in questione potrebbe avere le idee parecchio confuse. Mi permetta di dirle che secondo me sta sprecando il suo tempo e...

anche il mio…” si guardò intorno sbuffando, con l’aria più che mai scocciata, aggrottando le folte sopracciglia mai depilate “Ci provi almeno, la prego!” implorò Lostumbo Lei lo guardò con aria scettica, poi decise di seguire l’ispettore nella stanza.

Dopo un’ora, Diego Berardi si svegliò. Aprì lentamente gli occhi e li strizzò alla luce. Lostumbo prese coraggio, si avvicinò al letto e assunse un tono molto serio ed autorevole: “ Ho una domanda per lei, devo chiederglielo. Lei sa chi ha tentato di ucciderla?” Diego Berardi cominciò a respirare più in fretta: “Morena…si chiama Morena…” “Questa Morena era la sua…” il suo sguardo incrociò quello di Valentina che volse la testa “... amante?” Berardi annuì a fatica. Osservò la moglie per un attimo, poi le sussurrò: “Perdonami!” “Perché ha tentato di ucciderla secondo lei?” L’uomo sospirò profondamente, poi scosse la testa. “Credo sia pazza…” disse con voce spezzata, ricominciando a respirare a fatica. “La prego, la smetta, lo sta stancando troppo!” intervenne la moglie alzandosi in piedi allarmata “Solo un’ultima cosa... ” estrasse dalla tasca interna della giacca il solito foglio di giornale e lo spiegò davanti a lui, indicando la foto di Celeste Ardemagni. “E’ questa la donna che ha tentato di ucciderla?” L’uomo prese con una mano tremante il foglio, restò a lungo in silenzio fissando la foto, poi scosse la testa.

“In questo caso, se si sente, dovrebbe rispondere a qualche semplice domanda della mia collega, in modo da poter fare un identikit di questa persona. Pensa di potercela fare?” Diego Berardi annuì ma ebbe un violento attacco di tosse, una nuvola di sangue si diffuse nella cannula, l’uomo prese faticosamente aria, tossì di nuovo poi prese ad ansimare. Nel giro di mezz’ora, con molta fatica e sotto lo sguardo sempre più apprensivo di Valentina, Gilda Brunelli riuscì a formulare tutte le domande di rito (Com'erano gli occhi? I capelli? Corti, lunghi, lisci, ricci? E ancora la descrizione del naso, della bocca, delle sopracciglia, della forma del viso) e ad effettuare la ricostruzione dell’identikit della donna. Finita l’ultima risposta, lo sguardo dell’uomo si fece stanco e appannato. “Deve riposare adesso. Basta così” intervenne con risolutezza Valentina. Gilda Brunelli la ignorò e porse il foglio disegnato a Lostumbo: “Ho fatto del mio meglio. Spero possa servire a qualcosa…” Lostumbo prese in mano l’identikit ed ebbe un sussulto al cuore. Rimase impietrito per una manciata di secondi, sotto lo sguardo incuriosito della profiler che lo riscosse con una manata sulla schiena: “Ehi ispettore, tutto bene?” Lostumbo si riscosse come dopo un lungo sonno: “Si, bene, benissimo. Sei stata brava” mormorò a fior di labbra con uno sguardo stranito “E’ forse qualcuno che conosce?” lo incalzò Gilda Brunelli squadrandolo sospettosa “Dico a lei, ispettore!” fu costretta a ripetere la donna per cercare di scuoterlo “Cosa? Ah, no... stavo solo riflettendo. Grazie Gilda lei è stata preziosissima come al solito” Piegò il foglio e lo mise in tasca. Ma il volto disegnato gli continuò a rimanere impresso nella mente per tutto il resto della giornata, perché, a meno di un suo errore di valutazione o forse per il senso di struggente malinconia che lo avvolgeva pensando ad Alessia, era quasi sicuro che il viso ritratto fosse proprio il suo.

28.

Quando tornò in centrale, il giorno dopo, incrociò subito De Feudis nel corridoio. “Allora, com’è andata con il resuscitato? Scoperto qualcosa?” chiese con una velata ironia. Fu quello il momento di cui Lostumbo ebbe la percezione che qualcosa stava cambiando. Il mondo aveva smesso di girare intorno al suo asse, aveva la netta consapevolezza di essere il solo, l’unico, a voler riaprire un caso già risolto per tutti. La situazione di imbarazzo derivante da quell’identikit nella sua tasca, così somigliante alla donna che amava, gli faceva sentire dei grossi sensi di colpa nei confronti dei colleghi, ma l’impulso di negare tutto, anche il minimo dubbio, prevalse su tutto il resto. Era il suo tributo d’amore. Finse un’aria rassegnata. Fece spallucce, poi accennò a un sorriso: “Mi sa che avevi ragione tu. Devo avere proprio preso un abbaglio” “Cosa ti ha detto?” “Niente di particolare. Faceva fatica a parlare ma ha riconosciuto la donna della foto come quella che lo ha aggredito” mentì Lostumbo “Che ti avevo detto?” disse con una fragorosa risata De Feudis “E adesso basta con questa storia. Hanno arrestato dei trafficanti di droga ieri sera, vai a interrogarli! Occhio che mi sembrano belli tosti!” Lostumbo annuì e si avviò piano verso il suo ufficio. Entrò poi si appoggiò con la schiena alla porta chiusa.

Gli tremavano le gambe. Sentiva di fare la cosa sbagliata ed era troppo tardi per tornare indietro. Prese di nuovo in mano l’identikit, lo osservò a lungo, ne seguì i contorni con la punta delle dita, poi di colpo, si diresse verso la scrivania, aprì il primo cassetto dal quale prese un accendino. Osservò ancora l’immagine ritratta, poi diede fuoco al foglio e lo buttò nel cestino vuoto. Rimase a lungo ad osservarlo, fin quando restarono solo dei minuscoli pezzetti carbonizzati. Poi si alzò e andò a fare il suo dovere.

QUATTRO MESI DOPO PATTAYA – THAILANDIA

La destinazione scelta da Morena era una città a circa 300 chilometri da Bangkok. In un primo tempo aveva pensato di aver fatto la scelta giusta: era una città sul mare di 300 mila abitanti e disponeva di qualsiasi cosa un turista potesse volere o desiderare. In pieno boom espansionistico ed edilizio, infatti ogni anno venivano costruiti nuovi alberghi. Il mare non era dei migliori anche se, la situazione al riguardo sembrava in costante miglioramento. Morena aveva ato i primi mesi cercando di rilassarsi e non pensare a nulla, godendo delle ottime spiagge presenti. Il divertimento notturno in quella città non aveva uguali al mondo: bar, night, club e discoteche si potevano trovare ad ogni angolo. In un primo momento Morena si era buttata in quella vita notturna, cercando di stordirsi il più possibile ma il suo stato di gravidanza le aveva creato degli inevitabili blocchi psicologici, per cui le avventure galanti erano state pochissime e tutte circoscritte ai primi giorni. Dopo di che aveva cominciato ad isolarsi progressivamente. La prima cosa che stupì Morena fu la progressiva deformazione del suo corpo, in più, ogni mattina si svegliava con una nausea terribile. Quel giorno, in particolare, si sentiva come se avesse mangiato due chili di pasticcini. Le facevano male tutte le ossa del corpo. Quando, in qualche modo, si riuscì a trascinare nel bagno, nello specchio osservò una copia di se stessa che quasi non aveva riconosciuto.

Da quattro lunghissimi mesi stava vivendo quella che sotto tutti gli aspetti sembrava essere l’influenza più persistente della sua vita, un malessere fisico costante, non tanto grave da costringerla a letto ma abbastanza insidioso da trasformare qualsiasi attività fisica e mentale in una tortura. Pensava che il suo malessere fisico fosse solo un sintomo psicosomatico: in realtà, non voleva avere un bambino, e dunque il suo corpo cercava in tutti i modi di rifiutarlo. Quando si trovava faccia a faccia con Luca e aveva conferma giorno dopo giorno della sua indifferenza, si sentiva perduta e senza scampo, come se avesse imboccato una strada senza ritorno. Le nausee sempre più frequenti, il senso di pesantezza al ventre, la depressione continua, erano le uniche sue compagne in una vita senza rumori e senza parole. Spesso si sorprendeva a parlare con il bambino in arrivo, confidandogli ansie, paure e speranze, nell’illusione di poter trovare finalmente un essere umano con cui confrontarsi. Morena era sola con i suoi tormenti, in quella casa presa in affitto in un posto lontano da tutti e da tutto, il figlio che aveva in grembo sarebbe cresciuto...

Morena l’avrebbe accompagnato un giorno all’asilo e poi alle elementari. La scuola con i compiti. I libri da infilare nello zaino. Il suono della camla. “su, corri, se no fai tardi... ” e poi le medie, il liceo. Ci sarebbero state altre candeline da spegnere, regali da scartare e sorrisi, giochi, ore liete e fatiche.

Rughe a solcare gli occhi di Morena non più ragazza. Ancora notti con gli occhi spalancati nel vuoto. Pensieri. Paure. Lacrime da condividere. Una mamma e una figlia. Ma il futuro non sarebbe mai arrivato. Suo figlio era malato. Dall’ecografia risultava una malformazione cardiaca grave, “cardiomiopatia ipertrofica” l’aveva definita il medico ed erano necessari dei trattamenti già sul feto. Purtroppo quel giovane dottore era stato estremamente sincero con lei, ai limiti della brutalità, non garantendogli un risultato sicuro. “Forse fossi rimasta in Italia, con medici migliori, ospedali con più mezzi... chissà... ” si era sorpresa a pensare, mentre il sangue era diventato ghiaccio nelle sue vene e un peso aveva cominciato a soffocarla all’altezza della bocca dello stomaco. Quando poi le era stato detto trattarsi di una malattia ereditaria, aveva maledetto gli uomini che avevano attraversato il suo cammino, tuttavia, con orrore, si era resa conto che probabilmente quel figlio che portava in grembo era già orfano di padre.

Morena andò in cucina. Aprì un cassetto. Prese un coltello. Rimase un tempo infinito con quell’arma in mano.

Neanche lei se ne rendeva conto.

I suoi singhiozzi arrivavano alle sue orecchie ovattati, come echi di una realtà lontana che non le apparteneva già più. “non soffrirai più... ” disse con la voce soffocata dalle lacrime che le stavano scendendo copiosamente

Morena volse il coltello verso di sé. Sul suo petto. Si sferrò sei coltellate. Si tagliò i polsi. Ma ebbe l’impressione di non riuscire a morire.

29.

Si risvegliò con una flebo attaccata al braccio, monitorata e con un senso di nausea che la invadeva completamente. Si guardò intorno con molta fatica. Il suo sguardo si posava sulle cose ma senza riuscire a metterle a fuoco. Era come una miope senza gli occhiali. Si sentiva tirare in diversi punti del suo corpo, immaginò fosse l’effetto dei punti. Dopo una manciata di minuti, le sembrò di riconoscere dapprima una voce e poi un volto familiare che stava chiamando qualcuno. Un medico o una infermiera probabilmente. Sembrava la sua voce…ma non poteva essere!... .eppure… “Morena, mi senti?” Una volta messa a fuoco la figura dell’uomo seduto al suo capezzale, Morena trasalì. Da un lato si sentiva felice, dall’altro spaventata a morte. Come aveva fatto a trovarla? Perché era lì? “Ma... sei proprio tu?” chiese lei incredula “Sì, sono io tesoro... ” le disse Lostumbo stringendole forte la mano “Ma…ma... come hai fatto a sapere dov’ero?” “Quando ti hanno ricoverata non sapevano chi chiamare, poi hanno guardato nella rubrica del tuo cellulare e hanno chiamato il numero corrispondente alla voce…ehm... .amore…” disse d’un fiato lui al colmo dell’imbarazzo “Sì, ti avevo salvato con questo nome, è vero…” ammise Morena cercando di mettersi seduta, ma le forze le mancavano “Il medico mi ha spiegato che hanno pensato fossi il tuo fidanzato ma non immaginavano che sarei arrivato dall’Italia…”

Morena scosse la testa, incredula, mentre le lacrime cominciavano a invaderle gli occhi “Sono felice di vederti” disse lei “Anch’io e non immagini quanto. Credevo di averti persa per sempre…” e così dicendo le accarezzò piano la guancia “Ma…chi è che mi ha portato qui?’” chiese, come riscuotendosi di colpo dal torpore “Una sua amica... ” disse un giovane medico, entrando in quell’istante “Piacere, sono il Dottor Giuliani, siete fortunati, io sono Italiano…” “Il piacere è tutto mio…” disse Lostumbo stringendogli la mano con vigore “Come sta?” chiese Lostumbo con un cenno della testa verso Morena “Diciamo che ha rischiato di brutto ma, come vede, adesso è fuori pericolo” Il medico annotò alcuni valori su una cartella, poi si avvicinò a Morena e le strinse affettuosamente una spalla: “ E’ tutto sotto controllo per il momento. Se ha bisogno di me per qualsiasi cosa, mi chiami pure, oggi sono di turno... ” fece un sorriso anche a Lostumbo e se ne andò. “Una mia amica... ” sembrò riflettere Morena “Ma dimmi, cosa ti saltato in mente? Aspetti un bambino! Non ci hai pensato?” chiese Lostumbo Morena scosse la testa, amareggiata. “Non puoi capire…” “Capire cosa? Alessia! Hai tentato di suicidarti! Mi hanno chiamato nel cuore della notte e io ho preso il primo volo, ho dovuto fare i salti mortali per raggiungerti. Pretendo una spiegazione, se mi permetti!” sbottò d’un fiato Lostumbo, facendosi rosso in volto

“ E tua moglie? Cosa le hai detto?” chiese d’un tratto Morena, cambiando espressione “Non c’entra niente adesso mia moglie. Sei tu che conti. Sto ancora aspettando. Allora, perché hai cercato di…” “Mio figlio è malato” lo interruppe lei con tono greve “Come malato?” “Dalle ecografie è risultato che ha una malformazione cardiaca congenita, devo curarlo già adesso che è ancora nel mio grembo ma non mi hanno dato grandi speranze…” “Mi dispiace... ” sussurrò Lostumbo

“Mi sentivo sola…non sapevo come fare…volevo farla finita e lui con me…” disse con la voce rotta dalle lacrime. “Ma esattamente di cosa si tratta? Cos’è questa malformazione’?” “Si chiama... cardiomiopatia ipertrofica…il nome non me lo posso certo dimenticare... ” disse con amarezza morena, chiudendo gli occhi e tirando un lungo sospiro. “Al giorno d’oggi si può curare tutto, dovresti tornare in Italia però, lì ci sono sicuramente strutture e medici migliori che…” Di colpo Lostumbo si interruppe. Ebbe uno dei suo soliti flash nella mente. Per un istante vide Nicotera, in una delle ultime riunioni, che stava parlando di Daniela Berrino: “Erano sposati da sette anni ma non avevano figli. Il marito aveva una cardiomiopatia ipertrofica, una malattia ereditaria, avevano paura di mettere al mondo un figlio con lo stesso problema”. Se, dopo la telefonata dall’ospedale e durante tutto il viaggio verso Pattaya, aveva cercato di scacciare dalla mente quell’identikit autoconvincendosi di aver visto male, adesso un nuovo dubbio gli si era insinuato subdolamente nella

mente. Un buon poliziotto deve sempre ricordare tutto, anche il minimo particolare. Questo insegnamento lo aveva accompagnato durante tutta la sua carriera e in quel momento maledisse una parte di sé: quella razionale, logica, che lo invitava a gran voce a smetterla di far finta di non vedere, anche se era difficile per lui, soffocare la forza dei sentimenti. E l’affetto che provava per Morena era immenso. “Ehi, cos’hai?” chiese allarmata Morena “Niente, scusa…mi era venuta in mente una cosa…sai, ho lasciato molti casi in sospeso per venire di corsa da te... ” riuscì a mentire Lostumbo, mentre dentro di sé continuava l’aspro conflitto tra ragione e sentimento. “Adesso vuoi farmi sentire in colpa... ” disse Morena con un mezzo sorriso, allungando la sua mano a stringere quella di lui “Figurati... non pensarlo nemmeno…” rispose lui ricambiando la stretta ma rimanendo come imbambolato dai suoi stessi pensieri “In questo momento l’unica cosa importante è che tu ti rimetta” aggiunse lui continuando a ignorare i segnali di allarme che arrivavano imperiosi dal suo subconscio.

30.

Lostumbo rientrò nella sua camera al Classic Inn Hotel che era già buio. Chiese la chiave della stanza 302 alla reception e, dopo aver ringraziato l’addetto con un cenno del capo, si avviò stancamente all’ascensore. Quando arrivò in camera, si sdraiò subito sul letto, preda di un mal di testa martellante e desideroso solo di non pensare. Per tutta la giornata era stato insieme a Morena, ma i dubbi incresciosi che si insinuavano nella sua mente continuavano a tormentarlo. Diceva Agatha Christie che “un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”. Per il momento gli indizi erano solo due. Poteva ancora stare tranquillo? Si chiese mordendosi nervosamente un’unghia. Insofferente cercò il frigobar, lo trovò vicino all’ingresso della stanza e dopo averlo aperto, prese tutti i mignon di alcolici che conteneva: whisky, gin, rhum, li scolò uno dietro l’altro, nella speranza che lenissero il suo stato d’animo. Era da sempre convinto fautore del fatto che i liquori fossero i migliori antidepressivi e con effetti immediati. Infatti, dopo una manciata di minuti si sentì pervadere da un senso di stordimento e leggerezza. Si lasciò di nuovo andare sul letto cercando di ignorare il battito continuo nelle sue tempie. Era consapevole che il bere lo avrebbe solo peggiorato ma in quel momento la priorità era solo calmarsi. Calmarsi e non pensare. Il suo sonno fu interrotto circa due ore dopo dallo squillo del cellulare. Aprì a fatica un occhio, allungò la mano verso il comodino e controllò sul display il chiamante. Una volta resosi conto trattarsi della moglie, ignorò la chiamata. Era ubriaco e non avrebbe saputo cosa dirle per giustificare la sua partenza improvvisa. La sua mente continuava a riproporgli l’immagine dell’identikit e il suono delle

parole di Nicotera…”. Il marito aveva una cardiomiopatia ipertrofica, una malattia ereditaria…”. A un certo punto si levò a sedere sul letto, in un bagno di sudore, preda di un senso di angoscia crescente. Gli tornarono in mente le immagini del loro primo incontro, di quel sesso frettoloso fatto in una toilette dell’aeroporto e la sua parte razionale ebbe la meglio: quella donna che conosceva con il nome di Alessia Visconti, poteva essere Morena Torricelli, quindi l’ex amante di Luca Berrino dal quale aspettava evidentemente un figlio. Il dubbio che però lo tormentava era solo uno: era una semplice coincidenza oppure poteva essere lei l’assassina. E se si, allora era anche l’assassina dell’altro uomo e tutte queste incertezze avevano, per assurdo, come risultato una sola certezza: che ci aveva visto giusto fin dal primo momento circa il fatto che Celeste Ardemagni non c’entrasse nulla con i due omicidi. Ma se era davvero lei allora conosceva anche Celeste, era grazie alla Hacker che aveva potuto far scomparire la sua vecchia identità. A un certo punto sembrò che gli scoppiasse la testa. Sapeva bene che il momento peggiore di una giornata per pensare a qualcosa è proprio la notte: ogni cosa si ingigantisce e sembra un problema insormontabile. Il fatto era che questo sembrava proprio un problema insormontabile e lo sarebbe stato anche alla luce del giorno. Si diede del cretino per aver intrapreso un viaggio del genere, mettendo a rischio il suo matrimonio, creando problemi sul lavoro e tutto per lei. Per una persona conosciuta da pochi mesi, per la quale provava una inspiegabile attrazione e della quale, si rendeva conto solo ora, conosceva ben poco. La domanda a questo punto era: come avrebbe dovuto comportarsi con lei? Da uomo innamorato o da poliziotto? Con questo dubbio a trapanargli il cervello, si riaddormentò e sprofondò in un sonno senza sogni.

31.

La mattina seguente, erano circa le otto quando il cellulare lo svegliò di nuovo: questa volta era la centrale e non poteva esimersi dal rispondere. “Lostumbo che fine ha fatto?” era la voce irritata di De Feudis a parlare “Ho avuto un’emergenza... un fatto personale…mi scusi” farfugliò lui, vagando con lo sguardo per la stanza, cercando di mettere a fuoco dove potesse essere “Problemi in famiglia? Ieri sua moglie l’ha cercata due volte” ribadì De Feudis con tono fermo “Senta…è una storia lunga, appena torno le spiego tutto... ” “Come sarebbe a dire appena torna? Qui c’è bisogno di lei, non può andarsene così senza avvisare... ” “Lo so... ha ragione…mi scusi... ” balbettò ancora Lostumbo, in preda a una agitazione crescente. “Senta, le o Nicotera che le deve parlare!” concluse sbrigativamente De Feudis Pochi istanti dopo, la voce di Nicotera al telefono sembrò quasi tranquillizzarlo “Buongiorno Ispettore, tutto bene?” “Diciamo di si Nicotera, ci vediamo presto…” “Senta, ci sono molte cose da dirle ma una su tutte…ha presente quella Daniela Berrino con cui ha parlato tempo fa? La moglie di... ” “Mi ricordo benissimo chi è. E allora?” chiese Lostumbo non senza una nota d’ansia nella voce

“Ieri è tornata e la cercava... ” “Hai saputo per che cosa?” “Mi ha detto che, buttando via le cose di suo marito, ha trovato una foto... ” “Una foto? Di chi?” “Del marito con la sua presunta amante e sa una cosa?” “Cosa?” chiese Lostumbo con il cuore in gola “Non somiglia affatto a Celeste Ardemagni” Lostumbo restò in un silenzio stupefatto per una manciata di secondi “Puoi scannerizzarla e mandarmela via mail?” “Certo, gliela invio subito. Capo, quando torna?” “Spero al più presto... ” e così dicendo troncò la telefonata e prese il suo pc portatile, lo accese e andò sulla sua casella di posta elettronica. Attese freneticamente qualche minuto, finché non arrivò la mail che aspettava. Aprì l’allegato e deglutì a fatica nel vedere quella foto. “Eccolo qui il terzo indizio!” fu l’unica cosa che riuscì a dire a se stesso in quel momento.

32.

Al suo arrivo all’ospedale, trovò ad aspettarlo il giovane medico Italiano con un’aria preoccupata. “Meno male che è arrivato!” disse andandogli incontro “Che è successo?” chiese Lostumbo allarmato, vedendo che anche due infermiere si stavano avvicinando al medico “La signora Visconti se n’è andata” “Come se n’è andata? E voi l’avete lasciare andare via così?” chiese Lostumbo mentre un moto di rabbia cominciava a stringergli la bocca dello stomaco “Ha firmato. Noi abbiamo provato in tutti i modi a farla desistere. Nelle sue condizioni aveva ancora bisogno di essere seguita ma è stata irremovibile” Lostumbo restò un momento in silenzio a riflettere, sotto lo sguardo angosciato del medico: “Che ora era quando è andata via?” Il medico gettò una rapida occhiata al suo orologio da polso “ Saranno state le otto... ” “Solo un’ora quindi…” osservò Lostumbo con aria pensierosa “Avete un suo indirizzo?” chiese d’un tratto “Non noi direttamente ma possiamo chiedere al pronto soccorso. Lì sapranno certamente dove sono andati a recuperarla…” “Perfetto! Chieda subito. Non c’è un minuto da perdere... ” disse Lostumbo Dopo pochi minuti, Lostumbo aveva preso un taxi ed era diretto a quello che,

sperava, fosse il domicilio di Morena.

33.

Trovare la sua casa non fu molto difficile. Era vicino al centro di Pattaya, praticamente in un quartiere residenziale con molte villette a schiera. Cercò il numero civico e si soffermò davanti alla porta. Non vedeva alcun citofono e anche il camlo sembrava essere inesistente. Provò a girare la manopola ma era fissa, quindi iniziò a bussare, prima lievemente, poi sempre con maggiore intensità. Nessuno venne ad aprire. Lostumbo provò a fare un giro della villa, mettendo le mani a coppa attorno al viso per cercare di vedere qualcosa al di là delle ampie vetrate. Proprio quando si trovava in prossimità del retro, sentì aprire la porta principale e si precipitò subito. Morena stava entrando con una borsa, che sembrava essere molto pesante, in mano. “Fermati! Dove vai?” le urlò lui sopraggiungendo di corsa. Morena ebbe un sussulto per lo spavento, poi la sua espressione divenne dura e quasi infastidita. “Cosa fai qui? Cosa vuoi?” chiese bruscamente “Perché te ne sei andata così? Perché scappi? Cos’è che nascondi?” chiese tutto d’un fiato “Come se tu non lo sapessi…vuoi farmi credere alla bella favolina dell’uomo innamorato che attraversa i continenti per correre al capezzale della sua amante?…” disse lei con tono acido “Ed è così, ti giuro... ” la implorò lui cercando di fermarla per un braccio. Lei si divincolò poi lo fissò torva: “Lasciami stare. Tanto non verrò mai con te!”

“Perché dici così? Tu non stai bene, hai un mucchio di punti, non puoi neanche muoverti” “Questo lo so…ma non è affar tuo” disse, cercando di sollevare la borsa, soffocando un gemito di sofferenza e portando la mano all’altezza del torace. Lostumbo le si avvicinò cercando di sorreggerla ma lei lo spinse via. Cercò ancora di riprendere la borsa in mano, ma crollò in ginocchio per il dolore. Proprio nel momento in cui la stava aiutando a rialzarsi, sentì una voce: “Tesoro, potevi aspettarmi. Lo sai che non devi fare sforzi!” Lostumbo alzò lo sguardo su una donna ferma sulla soglia. Aveva una figura snella e flessuosa, una carnagione splendida e una fossetta esattamente al centro del mento che dava al suo volto una qualità del tutto particolare, folti capelli ramati leggermente ondulati e occhi abbastanza grandi da brillare su un quadro. Era vestita con una camicia di flanella e dei jeans stracciati e lo guardava con un sorriso divertito, grazie al quale Lostumbo poté ammirare il bianco del suo sorriso perfetto. “Ehi, ma guarda chi abbiamo qui, il principe azzurro!” disse con ironia, prendendo la valigia di Morena e dandole il braccio affinché si appoggiasse a lei Lostumbo restò basito. Continuava a guardare alternativamente Morena e la donna che era appena sopraggiunta, senza riuscire a proferire parola. “Lei... lei chi è mi scusi?” si decise infine a chiederle “Non sai chi sono?... .per forza! Io dovrei essere morta…” esclamò con una sonora risata che ebbe il risultato di aumentare il senso di straniamento di Lostumbo. “Piacere, Celeste Ardemagni!” disse la donna avvicinandosi e tendendogli la mano. “... La morta, l’assassina... e poi cos’altro?” aggiunse, mentre Lostumbo restava a bocca aperta, senza restituire la stretta

“Ma…ma... lei era annegata a Santo Domingo!” riuscì appena a pronunciare Lostumbo “Questo è quello che avete creduto. Forse non eravate al corrente delle mie capacità di immersione in apnea. Vuoi sapere il mio record personale? 10 minuti e 46 secondi a 90 metri! Roba che nemmeno Maiorca o Majol….” “Quindi sei riuscita a salvarti…ma... che ci fai qui?” chiese in preda alla confusione, continuando a volgere lo sguardo verso Morena che lo stava fissando con un mezzo sorriso compiaciuto e Celeste che invece appariva assolutamente serena e tranquilla. “Sto aiutando la mia amica a uscire per l’ennesima volta dai guai…” rispose ironica “Vi dispiace se rientriamo un attimo?” aggiunse lei guardandosi attorno “Sapete com’è, non sono propriamente discorsi all’ordine del giorno…” e così dicendo lasciò la borsa e accompagnò sottobraccio Morena in casa. Lostumbo restò ancora un attimo fermo, letteralmente impietrito dall’ultimo svolgersi degli eventi. Sull’uscio, Celeste lo invitò ad entrare con un semplice gesto dell’indice. Una volta all’interno, Morena si lasciò andare su un divano con una espressione di grande sollievo, seguita da Celeste che si sedette su una poltrona invitando con un cenno della mano Lostumbo a sedersi su una specie di puff ma lui preferì restare in piedi. “Volete qualcosa da bere?’” chiese allegra Celeste come se si trovasse in mezzo a una ilare riunione tra amici. Lostumbo scosse il capo. Celeste lo fissò a lungo, poi ruppe il silenzio: “Immagino che vorrai sapere un po’ di cose... ” “Soprattutto una: chi di voi due è l’assassina?” Celeste esplose in una nuova, fragorosa risata, si alzò e si diresse verso l’armadietto dei liquori vicino a Lostumbo. Prese una bottiglia di martini e tre bicchieri, mise del ghiaccio, versò il liquore poi li porse a Lostumbo e Morena. “Lo sai che potrebbe essere pericoloso per te, sapere queste cose” disse Celeste facendosi improvvisamente seria

“Pericoloso?” “Sì, la verità potrebbe costarti molto cara…fossi in te farei finta di niente, me ne resterei con i miei dubbi e prenderei il primo aereo…” “Lo sai che questo non lo posso fare. Sono un poliziotto! E poi l’inchiesta è sia stata riaperta” bleffò Lostumbo ,mormorando a testa bassa “Inoltre voglio che tu sappia che sono sempre stato convinto della tua innocenza” aggiunse lui alzando lo sguardo verso Celeste che finì il suo martini in un batter d’occhio “E allora vedi che ti sei già risposto da solo…” disse fissandolo con intenzione negli occhi. I loro sguardi conversero istantaneamente su Morena che scoppiò a piangere. “Io…io non voglio finire in prigione…non è stata colpa mia” furono le uniche parole che le uscirono di bocca, tra un singhiozzo e l’altro. Lostumbo cominciò a sudare freddo, la vista gli si appannò all’improvviso, i contorni dei visi e delle cose attorno a lui cominciavano a diventare sfumati, le voci ovattate, sentì i muscoli irrigidirsi. Morena continuava a piangere mentre Celeste lo fissava con una strana espressione negli occhi. “Scu…scusate ma non... mi sento molto bene…” riuscì solo a dire Lostumbo cercando di alzarsi, ma appena in piedi crollò a terra e tutto divenne nero. Celeste lo osservò in silenzio, mentre Morena smise di piangere di colpo, si alzò a fatica cercando di andare a soccorrere Lostumbo, ma Celeste la blocco con il braccio. “Lascialo stare, tanto non c’è niente che puoi fare” disse lei con tono calmo Morena fissò l’amica con odio. “Cosa vuoi dire? Cosa gli hai fatto?” chiese con tutta la rabbia che aveva in corpo Celeste le si avvicinò e le prese una mano, con fare gentile.

Stava per dirle qualcosa ma la loro attenzione fu attirata da Lostumbo che, in terra, cominciava vistosamente ad essere vittima di spasmi con frequenza crescente. La schiena prese a inarcarsi continuamente. Tutto a un tratto sembrò quasi risvegliarsi ma lo sguardo era fisso così come il corpo completamente irrigidito. “L’hai avvelenato!” sbottò incredula Morena “E’ solo un sonnifero” disse semplicemente lei con un gesto della mano. “Ma…perché?” chiese Morena con le lacrime agli occhi “Ehi, sveglia ragazza! Quello voleva arrestarci…” disse scrollandola con forza Morena restò imbambolata a fissare quel corpo immobile. Aveva quasi la sensazione che Lostumbo la stesse implorando con i suoi occhi vitrei. “Dai, forza, andiamo!” disse a un tratto Celeste “Andiamo? …” “Aiutami a spostarlo di là... ” la interruppe glaciale Celeste “E... e come? “chiese perplessa Morena Celeste si diresse con incosciente decisione verso la cucina. Aveva visto che Morena possedeva una collezione di coltelli per disossare la carne. Era una sua grande ione. Ne prese un paio, li osservò con aria assorta, volgendo lo sguardo verso il corpo disteso in salotto, annuendo leggermente con il capo. Si diresse con i coltelli e una accetta verso la camera. Quando fu di fronte al corpo, sospirò profondamente e ripensò alle lezioni di suo nonno Ernesto. Era un macellaio da generazioni e quando lei, piccola, andava a trovarlo in negozio, lui non aveva altro di meglio da fare che insegnarle i segreti del taglio perfetto.

I primi tempi ascoltava con inorridito disgusto, finché un giorno d’estate, complice forse la temperatura fresca del locale, in netto contrasto con l’afa cittadina, si sorprese a scarnificare con maestria ed efficacia un quarto di bue, seguendo fedelmente le sue indicazioni. “Cosa stai facendo?” chiese inorridita Morena “Beh che ci vuole? ... è come con il quarto di bue, no?... .” Morena strillò, sembrava improvvisamente preda di una violenta crisi isterica. Celeste si fermò un momento, con l’accetta a mezz’aria, pensierosa, si volse verso Morena, che stava continuando a gridare, i pungi stretti e gli occhi chiusi. Poi gettò a terra l’accetta, con l’aria di una che aveva appena cambiato idea e, rivolgendosi a Morena con tono calmo le chiese: “Ci sono delle corde qui? Dobbiamo immobilizzarlo!” Morena andò verso lo sgabuzzino, dal quale tornò con della corda spessa e delle cinghie che abitualmente si usano per fissare i bagagli sul tetto dell’auto. “Ho solo questi... ” “Vedremo di farceli bastare. Aiutami a sollevarlo e portarlo di là in camera” Così dicendo prese il corpo inanimato di Lostumbo sotto le ascelle, mentre Morena lo prendeva per i piedi. Lo sollevarono e lo trasportarono sul letto della camera adiacente. Celeste senza dire una parola, gettò la corda a Morena e cominciò a trafficare con le cinghie all’altezza delle mani. “Legagli bene i piedi al letto. Un nodo ben stretto, mi raccomando…” Morena esitò un attimo, incrociando lo sguardo glaciale di Celeste. Quando si voltò, Morena cominciò a far are le corde sotto le caviglie di Lostumbo, ma, arrivata al momento di stringere i nodi, dopo un attimo di riflessione e, sempre controllando i movimenti di Celeste con la coda dell’occhio, decise di lasciarli molli. Non avrebbe dovuto essere difficile liberarsene. Pensò con un briciolo di speranza Morena.

34.

Celeste stava finendo di bruciare gli ultimi pezzi di carne nell’ampio camino al centro della stanza. Era completamente sudata e aveva gli occhi che le bruciavano. Un fumo acre aveva ormai invaso tutta la casa. Morena era restata immobile, lo sguardo fisso su quello che stava facendo l’amica con assoluta naturalezza. Celeste avvertiva una grande sensazione di potenza e assaporava il gusto dolce della vendetta. Morena invece si sentiva sempre più disperata e non sapeva che fare. Celeste si diresse verso il vassoio a centro tavola, dove aveva appena posto alcuni pezzi di carne appena cotti. Ne prese uno e lo poggiò su un piatto. Dopodiché si avvicinò a Morena. “Sediamoci dai…” La invitò a sedersi sul divano con un movimento appena accennato del mento. Lei eseguì meccanicamente l’ordine e lei si sedette accanto. Aspetto che si accomodasse poi strappò con le mani un primo pezzo di carne e glielo porse. “Mangia!” “Ma... sei impazzita? Ti sembra questo il momento?” “Sei debole, devi nutrirti. Ho detto mangia!” e questa volta il tono non ammetteva repliche, anche perché aveva preso in mano l’accetta, ancora insanguinata, e l’aveva alzata con fare minaccioso. Morena eseguì e addentò il boccone, sotto lo sguardo vigile e attento di Celeste che quando la vide deglutire, sorrise. “Bene, vedi che è buono?” gli disse lei con fare materno

Morena non osava replicare nulla. Lei continuò a imboccarla, finché il primo pezzo non fu finito. “Che brava bambina!... hai mangiato tutto…adesso te ne prendo un altro…” “No ti prego basta così…” provò a protestare Morena ma un’occhiata di Celeste la incenerì “Ho detto che ne mangi un altro pezzo e ne mangi un altro pezzo!” “Ma perché mi stai facendo questo?” chiese Morena con tono lacrimevole, mentre i primi conati di vomito cominciavano ad affiorare. “Ti devo ricordare che sei incinta e per giunta hai tentato di suicidarti? Ma cosa volevi fare, poi….lo sto facendo per il tuo bene. Devi metterti in forze!” Morena non si ricordava di aver mai visto un’espressione del genere sul volto di Celeste. Era come trasfigurata. Sembrava vittima di una possessione demoniaca. Non sorrideva, aveva un ghigno sadico dipinto sul volto. E soprattutto i suoi occhi la spaventavano. Per la prima volta nella sua vita aveva paura di una donna. Decise che era meglio assecondarla. Celeste si diresse verso il vassoio e con calma serafica prese un altro pezzo. Lo mise sul piatto e, sorridendo, si diresse di nuovo verso il divano da dove, nel frattempo, Morena stava cercando di alzarsi. “Siediti!” urlò lei imperiosamente “Un altro bel boccone per la mamma…” “Senti... posso parlarti?... .Cosa vuoi fare a Vito?” Celeste scoppiò in una nuova, quasi isterica risata. “Cosa c’è da ridere?” chiese Morena con tono aggressivo “Niente…è che mi diverte tantissimo vederti così impaurita…anzi…”

La guardò torva, tornata improvvisamente serissima: “... Posso dirti persino che sento l’odore…della tua paura…” “Che stai dicendo?” “Tu hai paura di me, vero?” “Cosa ti salta per la mente?! Niente affatto! Io…”mentì lei “Tu hai una fottuta paura di me….” Ripeté la frase quasi meccanicamente, lo sguardo fisso davanti a sé “Perché non sai più come posso reagire…non riesci più a prevedere il mio comportamento…e questo per te è spiazzante” “Io voglio solo sapere cosa vuoi fare adesso…sembri impazzita…” all’improvviso il tono di Morena era diventato quasi timoroso, preoccupata per la brutta piega presa dalla sua amica. “Cosa voglio fare, dici?” così dicendo prese una sigaretta dal pacchetto di Morena, che campeggiava in bella vista sul tavolo del salotto, accanto al vassoio della carne. La accese, ne aspirò lentamente una boccata di fumo con voluttà, poi proseguì calmissima : “Niente di speciale…dobbiamo rendere innocuo il tuo amichetto. Non so cos’abbia scoperto ma il fatto di averci trovato qui tutte e due non gli ha certo messo in testa idee benevole…” Morena la guardò meravigliata, mentre con la mano cercava di far deviare la nuvola di fumo che Celeste le aveva appena diretto sul viso “Quindi cosa vorresti fare adesso? Ucciderlo?” “No. Sarebbe troppo rischioso…anche se tu, potresti farlo, no?” e l’occhiata che le rivolse valse più di altre mille parole “Non è giusto quello che stai facendo” “Non ti ho chiesto un parere. Adesso basta. Ho bisogno di pensare…mi serve

silenzio” “Smettila di trattarmi così. Non sono la tua schiava!” disse Morena ritrovando all’improvviso forze ed energie. La fissò torva ancora per un attimo, sperando di incuterle timore, ma appena fatti due i, la punta del piede destro di Celeste, proprio all’altezza dello stinco, le contrastò il cammino e, senza neanche avere il tempo di rendersene conto, si ritrovò faccia a terra, cadendo come un sacco di patate, non avendo neppure l’accortezza di mettere le mani davanti. Si rialzò incredula e arrabbiata ma, mentre cercava Celeste con lo sguardo, si accorse che era scivolata velocemente alle sue spalle .Ebbe appena il tempo di focalizzare la sua nuova posizione perché dopo neanche un istante, sentì una colpo fortissimo all’altezza delle reni, che la costrinse a piegarsi in due dal dolore. Da questa nuova posizione avvertì una nuova, fortissima fitta, all’altezza del costato. Si girò nuovamente verso Celeste ma non riusciva vederla, era come un gatto che si muoveva con fulminea rapidità, sferrando calci a ripetizione. Il dolore cominciava a farsi sempre più forte e la vista si stava annebbiando. Il terrore stava togliendole il respiro. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo ma il suo sesto senso non le faceva presagire nulla di buono. Quando sentì un nuovo, violento colpo, all’altezza della nuca, non sentì più dolore. Avvertì anzi una sensazione di piacevole benessere liberatorio. Stava perdendo i sensi. Ebbe solo il tempo di riuscire finalmente a scorgere Celeste, che con ghigno satanico e sguardo trasfigurato, era in piedi davanti a lei, con aria minacciosa. Poi la nebbia sui suoi occhi divenne buio, un buio fitto che si portò via anche i suoi ultimi pensieri.

35.

Una fitta all’altezza della tempia la svegliò all’improvviso. Lostumbo pensò al solito mal di testa del risveglio. Era nel tipico stato di confusione di chi si è appena destato da un lungo sonno e ancora non si stava rendendo bene conto di dove fosse. Si girò e rigirò nel letto matrimoniale, alla disperata ricerca di qualcosa di familiare ma, all’improvviso, le balenarono i mente le ultime immagini che la sua retina aveva registrato prima che perdesse i sensi e in quello stesso momento si rese conto di essere legato al letto e imbavagliato. Gli ultimi ricordi erano quelli tipici di chi sta per vivere gli ultimi istanti della sua vita. Aveva la sicurezza che, una volta chiusi gli occhi, non avrebbe più avuto la gioia di riaprirli. Era ancora vivo. Cercò di alzarsi a sedere sul letto ma le corde che lo avvolgevano erano ben salde. Si guardò attorno con circospezione. Non udiva alcun rumore, ma la cosa non la tranquillizzava affatto, anzi.

Morena scese lentamente dal letto, poggiando prima una pianta poi l’altra dei piedi, provò un attimo la posizione eretta, temendo di subire un nuovo svenimento. Il fisico, per il momento, la sorreggeva, nonostante un dolore continuo al costato. Si alzò la maglia e rabbrividì nel vedere dei grossi lividi giallo-bluastri in prossimità dei punti che le disegnavano parte del tronco come un arabesco. Si diresse verso la porta, la aprì e scivolò in entrata, cercando di non far rumore. Tutto taceva, in una quiete strana e minacciosa.

Fece ancora due i verso il salone, poi si fermò, cercando di ascoltare ogni minimo rumore. Niente!. Ancora un o e sarebbe stata in salotto, pienamente visibile. “Eccoti qua!” la voce calma e rilassata di Celeste, la fece sussultare. Era tranquillamente sdraiata sul divano che stava sfogliando una rivista. Sembrava la persona più amabile e in pace con se stessa del mondo. Eppure si ricordava di quell’espressione folle, era ancora impressa nella sua mente. Non sembrava la stessa persona. “Finalmente ti sei svegliata... dormigliona…” si alzò a braccia tese verso di lei “Ti preparo la colazione... hai fame?” chiese ancora con fare sempre più carezzevole Morena si guardò intorno confusa “ma... ma... che ore sono?” “Sono le nove... hai dormito alla grande tutta la notte…sei proprio crollata…” disse Celeste dirigendosi verso il tavolo da pranzo, che lei si ricordava ancora apparecchiato per quella cena da incubo. Al solo pensiero le vennero dei conati di vomito. Adesso svettavano a centro tavola, una caffettiera, un bollitore per il latte, un pacco di fette biscottate e una vasetto di marmellata. “Pensavo te ne fossi andata…”disse, mentre cercava di ricordare qualcosa della sera prima, ma sulla sua mente era calata all’improvviso la nebbia più fitta.

“E perché avrei dovuto?... ”chiese Celeste con tono innocente Morena continuava a massaggiarsi il cuoio capelluto, sempre più in preda ai dolori di un lancinante mal di testa. “Siediti! Un buon caffè ti sveglierà... e mangia qualcosa…” Morena eseguì in stato catatonico, si sedette, si versò del caffè, mentre Celeste, con fare materno, le stava imburrando una fetta biscottata. “Sai ho dei ricordi confusi di ieri sera... ” biascicò Valeria guardandola stranita “non preoccuparti... capita... magari eri stanca... o magari hai bevuto un bicchiere di troppo” Morena restò ancora in silenzio per una manciata di minuti, poi all’improvviso le nebbie del suo cervello parvero dissolversi: “Ora ricordo…hai drogato Vito, l’hai legato e…dov’è adesso? Cosa gli hai fatto?…” disse tutto d’un fiato, il viso trasformato in una maschera di paura, mentre un violento rigurgito di bile le squassò lo stomaco. “Ehilà Stai tranquilla! E’ ancora nell’altra camera che dorme come un agnellino…” sbottò bonariamente Celeste versandosi del caffè in una tazza “Cosa faremo quando si sveglierà?” ribadì Morena con fermezza e così dicendo si alzò e si diresse verso il camino. “Non lo so. Ci sto pensando. Dovremmo prima parlargli e capire le sue intenzioni” “Lui mi crede tua complice…” Morena cominciava ad essere preda di un violento capogiro. Adesso si che le sembrava di essere la protagonista di un brutto incubo dal quale avrebbe voluto svegliarsi immediatamente. “Perché, non lo sei forse? O dimentichi i guai che ho ato anch’io per questa dannatissima storia ?”Celeste la abbracciò e la tenne stretta: “Piccola mia, sei stata troppo sotto stress negli ultimi tempi... ” le batté lievemente il palmo della mano sulla schiena, mentre Morena scoppiava a

piangere. “Vieni, siediti, prendi qualcosa di caldo…” e così dicendo le ò una tazza fumante. Morena esitò un attimo poi la prese con entrambe le mani, ci soffiò dentro per stemperarne il calore, poi iniziò a sorseggiare il caffè, sotto lo sguardo vigile e attento di Celeste. Celeste lasciò are qualche minuto nell’intento di far calmare Morena, poi cominciò a parlarle con voce suadente: “Sai tesoro, probabilmente non ti rendi conto di quello che hai fatto ma non ti preoccupare, con me sei al sicuro!” Morena alzò gli occhi dalla tazza scrutandola interrogativa “Quello che ho fatto io? E quello che hai fatto tu, allora?” “Io non ho fatto nient’altro che difenderti!” “Cosa?” sbottò Morena sgranando gli occhi e rimanendo quasi soffocata dall’ultimo sorso di caffè “Ma che stai dicendo? Sei impazzita?” “Capisco che quell’uomo ti abbia fatto perdere le staffe, anche lui sposato come tutti gli altri…un altro che ti voleva solo prendere in giro, ma per fortuna ci sono io qui con te…per proteggerti... ” aggiunse Celeste prendendole la mano con fare materno “Cosa vuoi farmi credere? Che io voglia la morte di Vito? Ma se io lo amo… Avrò la testa confusa ma questo riesco ancora a ricordarmelo bene” “Povera Morena!” esclamò dolcemente Celeste, con quel tono leggero che si usa per rimproverare bonariamente un bambino “La tua non c’entra niente. Stai parlando con il cuore e questo, adesso, non te lo puoi proprio permettere” “Voglio uscire da questa faccenda!” sbottò con decisione, battendo i pugni sul tavolo “Se pensi di riuscirci da sola…disse lei con un sorriso glaciale. Morena restò un attimo senza fiato.

“Cosa vuoi da me?” le venne spontaneo chiederle “Nulla! Cosa potrei volere da te?” rispose Celeste allargando le braccia stupita “Perché mi stai facendo questo? “ chiese con tono disperato “Questo cosa? Tesoro io sto solo cercando di difenderti…credi che là fuori qualcuno sarebbe disposto a comprenderti?... .” scosse la testa con vigore “Credo proprio di no, saresti processata e condannata in un batter d’occhio…anche se… dobbiamo solo sapere se quello di là è arrivato a scoprire tutto …” disse con un sussurro Celeste, prendendo il pacchetto di sigarette dalla borsa e accendendone una molto lentamente, come si trovasse nel bel mezzo di una recita. “Io... io non sono una delinquente…quelli che sono successi sono solo incidenti... ” balbettò Morena “Certo... certo…e tu sei innocente come l’aria…vallo a raccontare a un giudice” “Mi stai ricattando?’” chiese d’un tratto, tra le lacrime, Morena “Perché dovrei? Tutt’altro, io voglio che nessuna ti trovi mai…tutto quello che è successo deve rimanere solo un nostro segreto…sia quello che è successo quella notte in albergo con Diego, sia quando sei andata a casa di Luca…” D’un tratto a Morena si gelò il sangue: “Come fai a sapere dove sono avvenuti …” “Era su tutti i giornali…” la interruppe lei con aria sorpresa “Non è da tutti i giorni una che cerca di far fuori due amanti con un abatjour e un posacenere…” Celeste ridacchiò aspirando un’ampia boccata di fumo. Dopo un lungo, interminabile silenzio, durante il quale la testa di Morena aveva partorito migliaia di parole, lei si bloccò e alzò lo sguardo verso Celeste: “I giornali li ho letti anch’io…si parlava di corpi contundenti…nessun giornale ha parlato nello specifico degli oggetti che sono stati usati” disse Morena con decisione ma, nello stesso tempo, con voce rotta dall’emozione “Tu…tu…come fai a saperlo?’”

Celeste sospirò teatralmente, si alzò in piedi e fece qualche o nel salotto, fermandosi poi davanti a una finestra dove, una volta scansata la tenda con la mano, si fermò ad osservare il panorama circostante: “Tesoro, te l’ho detto…” “E smetti di chiamarmi tesoro!” Celeste la guardò perplessa “…Io sono sempre stata vicina a te... ti ho sempre protetta…cosa avresti fatto da sola con quei porci se non ci fossi stata io?” “Cosa intendi dire? Mi spiavi, forse?” “Che brutta parola, spiare! Ti ero vicino, ti sono sempre stata vicino nella tua vita e anche nei tuoi incontri …” Morena si ò una mano tra i capelli, incredula “Cosa stai cercando di dirmi? Perché avresti dovuto starmi vicino, come dici tu, da cosa mi dovevi proteggere?” “Ma dal mondo, …piccola…hai visto quanto male sono riusciti a fare quegli uomini? Se non ci fossi stata io l’avrebbero fatta franca…”rispose Celeste con lo sguardo che rimaneva fisso verso un punto lontano all’orizzonte “Ancora non riesco a capire cosa vuoi dire con la frase – se non ci fossi stata io – ma perché? Dov’eri? Come sapevi i miei spostamenti?” “Internet tesoro!” rispose con una risata Celeste, voltandosi di scatto “E per quale ragione avresti dovuto…pedinarmi? “ “Per proteggerti e…si, lo ammetto, anche per me stessa…” Morena volse gli occhi per la stanza con aria persa, mentre Celeste prese a fissarla intensamente, poi scosse la testa, le andò vicino e l’abbracciò. “Lo so che per te è stata dura ma era necessario…quei due uomini dovevano pagare per quello che ci avevano fatto”

Morena si staccò dall’abbraccio con un’espressione interrogativa dipinta sul volto. “Come sarebbe CI avevano fatto?” Celeste la guardò con tenerezza. “Diego Berardi è stato mio marito per cinque anni poi un bel giorno è sparito, il conto in comune prosciugato, la casa ipotecata senza avere più alcuna notizia di lui…ma poi, grazie a te sono riuscito a rintracciarlo…” disse Celeste con tono duro, guardando fisso il pavimento “E…e Luca?” chiese con un filo di voce Morena “Luca Berrino era un altro fallito, senza speranze ne’ futuro. Quando lo conobbi non aveva neanche i soldi per mangiare, viveva praticamente per strada. Io gli ho dato una casa, una vita, non gli ho fatto mai mancare niente e anche lui un bel giorno, ha conosciuto in un locale una certa Daniela che poi addirittura ha sposato, con tante grazie alla sottoscritta…” “Tu…li conoscevi?” “Certo…” “E io li ho…” “No ferma! A questo punto devi sapere la verità. Quando sei andata in albergo con Diego avete chiesto il servizio in camera, vero? Del vino lui e un succo d’ananas tu, se non ricordo male... ” “Tu come fai a saperlo?” chiese Morena sbigottita Celeste restò in silenzio, chiuse gli occhi come per ricordare qualcosa, poi gli riaprì e la fissò torva: “E’ bastato un po’ di propofol e ketamina nel tuo succo. Immagino che dopo un po’ hai cominciato a sentirti strana e avere strane visioni, vero? Fino al punto di non capire cosa stesse succedendo” “Si e così” ammise Morena con un filo di voce

“Quindi potresti dire lucidamente che tu hai tentato di uccidere quell’uomo?” Morena scosse la testa lentamente, come priva di energie. “Appunto!” “E... e Luca?” “Per lui è stato ancora più semplice. Eravate andati al ristorante prima di andare a casa sua, giusto?” Morena annuì e Celeste allargò le braccia come risposta. “Ma... tu come facevi ad essere dappertutto?” “Te l’ho detto: tramite la tua casella di posta e il cellulare seguivo tutti i tuoi spostamenti…non dimenticare che sono una hacker professionista…” “Quindi mi hai drogato per indurmi a uccidere’” chiese spaventata Morena “No…se devo essere proprio sincera…probabilmente nella confusione totale della tua mente, in quel momento, hai avuto quella sensazione, ma è ora che ti dica che tu non hai ucciso mai nessuno…” Morena restò sbigottita, senza parole. Dopo qualche istante di smarrimento, riprese a parlare. “Vuoi dirmi che quello che mi sembrava di aver fatto…” “In realtà non l’hai fatto tu... ” la interruppe Celeste con un sorriso assolutamente fuori luogo in quel momento “E... allora chi…” balbettò Morena Celeste non rispose. Si limitò ad alzare le sopracciglia come a dimostrare l’evidenza dei fatti. “Per quanto riguarda Lostumbo, se si fosse fatto gli affari suoi e non fosse arrivato qui, non staremmo a chiederci cosa farne” affermò categorica, riprendendo la sua abituale freddezza

“Ma allora…” “Allora ti stavi nascondendo per niente. Perché credi che ti abbia seguita fin qui? Volevo evitare che fi qualche sciocchezza sentendoti in colpa per quello che era successo. Ora è tutto ato. Dobbiamo solo pensare al nostro futuro” “Nostro? Celeste, tu mi hai rovinato la vita!” urlò Morena con tutto il fiato che aveva in corpo “Senza di me saresti ancora una sfigata senza palle che si fa prendere per il culo da uomini sposati!” “Mentre adesso cosa sarei invece?” “Una donna!” rispose fiera Celeste “Una donna che sa farsi rispettare e che come tale ha avuto le sue personali vendette” “Tu sei pazza!” esclamò Morena alzandosi di scatto e cercando di avviarsi verso la porta ma Celeste le si parò davanti. “Dove pensi di andare?” “Alla polizia…voglio confessare tutto!” urlò istericamente Morena cercando di divincolarsi “Smettila cretina!” le disse Celeste strattonandola “E cosa vorresti confessare, sentiamo? Comunque sia, sei stata mia complice” “Tu mi hai drogato!” “Ci sono prove?” chiese Celeste prontamente con un sorriso beffardo Morena restò a lungo in silenzio pensando a una risposta adeguata ma non le venne.

36.

Lo stato di torpore mentale sembrava finalmente ato. Dapprima aveva udito delle voci confuse, come se stesse ancora sognando, poi man mano, la conversazione che stava avvenendo nell’altra stanza arrivò alle sue orecchie, limpida e perfettamente comprensibile. Quella che stava ascoltando era una confessione a tutto tondo. D’improvviso Lostumbo realizzò che doveva liberarsi da quelle corde che lo tenevano imprigionato. Tenendo d’occhio la porta aperta, cominciò a cercare di far scivolare i polsi dai lacci intrecciati. Sperava nel fatto che una donna non avesse la forza necessaria per fare dei nodi con una certa forza. Continuando a muovere disperatamente le mani, si accorse che i piedi, in compenso, si muovevano agevolmente. Con una rapida manovra riuscì a districare prima il piede destro poi il sinistro e restò in vigile attesa, volgendo lo sguardo attorno, come alla ricerca di qualcosa con cui tagliare le corde ai polsi. Ma proprio in quel momento, Celeste si affacciò sulla soglia. Lui fece finta di dormire ancora, sperando che lei non notasse che si era slegato le gambe. Celeste si avvicinò per controllarlo e, dopo un rapido calcolo mentale, quando pensò di averla a portata di mano, le sferrò un calcio, con tutte le sue forze, all’altezza dello stomaco. Celeste si piegò in due dal dolore e cadde in ginocchio. Lostumbo fece ruotare il bacino e riuscì ad assestarle un nuovo calcio, questa volta all’altezza della nuca, che la fece stramazzare a terra. Quando si rese conto che Celeste aveva perso i sensi, Lostumbo cominciò a mugolare disperatamente da dietro il bavaglio. Morena corse subito in suo aiuto, liberandolo dalle cinghie che gli cingevano i

polsi. Lostumbo la guardò mentre si massaggiava violentemente i polsi: “Mi avevi legato tu i piedi, vero?” Morena annuì con largo sorriso “Lo immaginavo!” si alzò e la strinse forte a se. “Non ti preoccupare. E’ tutto finito! Ho sentito tutto prima…” Morena fece un sospiro di sollievo e si abbandonò tra le sue braccia. In quel momento squillò il suo cellulare: “Lostumbo, dove cazzo sei?” chiese la voce alterata di De Feudis “Sono in Tailandia... ” “In Tailandia??” chiese iracondo De Feudis “Sì, ma ho finalmente risolto il caso dei due uomini assassinati. Quando tornerò in Italia Vi porterò i responsabili di questa faccenda... ” disse Lostumbo mentre Morena lo fissava esterrefatta “Allora, vedi di sbrigarti. Ti aspettiamo!” rispose bruscamente e mise giù. Lostumbo si voltò verso Morena che era rimasta impietrita. “Cosa vuol dire che porterai i responsabili? Vuoi far arrestare anche me?” chiese incredula “No, cosa ti viene in mente? Ma è ovvio che anche tu avrai le tue dichiarazioni da fare e... ” si affrettò a dire lui con un tono imbarazzato “Non se ne parla proprio!” lo interruppe lei con tono arrabbiato Il viso di Lostumbo si trasformò un una maschera di ghiaccio. “Tesoro, anche tu ci sei in mezzo e non ho nessuna intenzione di …”

“Brutto bastardo!” esplose Morena “Tu... tu mio vuoi far arrestare!” ribadì con convinzione “Cosa diavolo ti viene in mente?” chiese Lostumbo fingendo stupore, ma lei continuava a fissarlo interdetta “Tu non credi a una sola parola di quello che hai sentito... tu pensi che sia stata d’accordo con lei…” disse Morena con voce rotta Lostumbo restò in silenzio guardando fisso a terra, con la coda dell’occhio gli sembrò di notare un movimento ma in quella infinitesimale frazione di secondo che gli occorse per girare lo sguardo, sentì un colpo violento in faccia. Barcollò un momento, poi ne seguì un secondo. Senza avere il tempo di dire nulla, tutto diventò buio e stramazzò a terra.

Morena restò come imbambolata a fissare il corpo inanimato di Lostumbo, poi, accorgendosi della presenza di qualcuno alle sue spalle, si voltò di scatto, i pugni serrati. “Ehi calma, che vuoi fare?” Era Celeste. “Tu... tu come hai fatto a…” “Fingere di essere svenuta non è poi così difficile... ” disse avvicinandosi al corpo di Lostumbo e spingendolo appena con la punta del piede “…E poi non mi ha fatto neanche così male…ho subito di peggio…” “Ci... voleva ... arrestare…” farfugliò Morena in preda alla confusione “Invece tu pensavi di filartela via tranquilla con il tuo poliziotto e far andare me in galera, vero?” rispose Celeste in tono asciutto “Io…non sono un’assassina!” affermò Morena con le lacrime agli occhi “Sì, può darsi…ma dovresti prima spiegarlo alla polizia…” disse Celeste

mollando un leggero calcio all’altezza dei reni di Lostumbo, esamine per terra Morena si accasciò su una sedia, le mani sugli occhi, disperata. “Cosa devo fare a questo punto?” chiese quasi fra sé e sé “Tu non so, io a questo punto, tolgo le tende…e da sola!... .visto che di te non mi posso fidare... ” “Ma no, che dici?” urlò spaventata Morena alzandosi di colpo in piedi e cercando di abbracciare Celeste che la scansò infastidita. “Lasciami stare…” Celeste si avviò verso l’uscita, poi si bloccò, come in preda a un ripensamento. Si avvicinò al corpo di Lostumbo, lo tastò nelle tasche, poi riuscì a prendere la sua pistola, che era in una fondina sotto l’ascella sinistra. Sembrò valutare il peso della pistola con una mano, poi prese la mira e sotto lo sguardo esterrefatto di Morena, sparò ripetutamente addosso a Lostumbo . Morena urlò di terrore e si gettò ai piedi del corpo crivellato di colpi, sotto il quale si stavano allargando delle macchie rossastre. “L’hai ucciso!... .” “Per forza! Mi avrebbe continuato a dare la caccia…era l’unico che sapeva... ” “Ti sbagli, ci sono anch’io!” ringhiò Morena alzandosi e avvicinandosi minacciosa In quello stesso momento, con un lieve sorriso sul volto, Celeste rialzò la pistola e la puntò verso Morena che si bloccò spaventata. Con la bocca Celeste mimò uno sparo, poi la riabbassò esplodendo in una risata sinistra. “C’è ancora un colpo per te” “Ti prego, no…” balbettò Morena mettendo le mani avanti come per proteggersi

“A meno che tu faccia una cosa per me…” Morena non rispose, mentre Celeste prese un foglio di carta e una penna, li poggiò sul tavolo e la invitò a sedersi. Dopo una lunga esitazione, Morena si sedette e prese in mano la penna. “Cosa devo scrivere?” mormorò a fior di labbra “La tua confessione!” sentenziò Celeste Morena era rimasta spiazzata ma scrisse tutto quello che le aveva dettato Celeste, cioè che si attribuiva tutti gli omicidi, Lostumbo compreso, e che il rimorso l’aveva distrutta portandola al suicidio. A questa parola Morena alzò di scatto la testa con aria terrorizzata ma subito dopo sentì esploderle il cervello e vide tutto nero. Crollò all’indietro, con un foro di proiettile all’altezza della fronte, proprio addosso al corpo di Lostumbo.

Celeste pulì accuratamente le impronte dal calcio della pistola, poi prese la lettera di Morena e la lasciò accanto al corpo senza vita dell’uomo. Si vestì e uscì di corsa. Il giorno dopo era già davanti al computer, a casa sua, a chattare con gli amici di sempre. Come se nulla fosse.