The Darkness Of Mind 2v63c

Scrivere è un'occupazione solitaria.

Avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza.

S. King

La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità.

C. Bukowski

Prefazione

Questo libro lo devo solo ad una persona, senza la quale non avrebbe mai visto la luce. Le parole di Stephen King, che ho voluto citare all’inizio, sono più che vere. Io, per fortuna, ho avuto chi ha creduto in me, aiutandomi e sostenendomi in ogni momento.

Quindi questo libro è per la mia Chiara. Senza di lei, non sarei nulla.

Ritorno

I

Quando la vibrazione del cellulare sul comodino riuscì infine a penetrare nel sonno della dottoressa Claire Barhan, la sveglia digitale segnava le 3.32.

Allungò il braccio senza aprire gli occhi, afferrò il telefono e lo portò all’orecchio.

«Barhan» farfugliò.

Silenzio. Ormai la chiamata era persa. Lottando contro il sonno che voleva riportarla nel suo mondo, Claire premette il tasto di sblocco del cellulare. La luce del display le ferì gli occhi socchiusi e subito voltò lo sguardo di lato, dando il tempo agli occhi di abituarsi.

Questa volta me lo mangio. Pensò mentre tornava a guardare lo schermo del telefono. Chiunque sia, me lo...

Il pensiero si bloccò quando mise a fuoco la scritta sul display. Sette chiamate perse, tutte provenienti dallo stesso numero, il suo ufficio.

Il torpore abbandonò del tutto la sua mente mentre premeva il tasto di richiamata. L’unica volta in cui era stata chiamata con tanta insistenza dall’ufficio, era stato poco più di un anno prima, un’emergenza delle peggiori,

finita nel modo peggiore.

Ascoltando ora il suono della chiamata, pregò che non si trattasse di una cosa simile.

«Claire, sei tu?» La voce era quella di Stefanie, capo infermiera e sua migliore amica.

«Cos’è successo?» chiese.

Il silenzio dall’altro capo del telefono la irritò. Non voleva essere brusca con Stefanie, le voleva un gran bene, ma la stanchezza prese il sopravvento.

«Maledizione Stef, vuoi dirmi cosa diavolo è successo?» disse alzando la voce.

«Scusa Claire» cominciò l’amica. Subito una punta di senso di colpa si fece sentire in Claire. «E’ solo che…» Un’altra esitazione, che le fece temere il peggio.

«Coraggio gioia, dimmi» disse addolcendo la voce.

«Beh, si tratta di un nuovo inserimento. Hanno portato un nuovo ospite e penso sia meglio che tu venga qui».

Claire rimase in silenzio. Non riuscì subito ad afferrare il senso delle parole della sua amica.

Inserimento? Un nuovo inserimento?

Più quelle parole giravano nella sua mente e più sentiva la rabbia crescere, fino a traboccare.

«Stai scherzando vero?» chiese tornando in un attimo al tono brusco di prima. «Sono le tre e mezza, ho staccato da neanche tre ore e tu mi chiami per un inserimento?»

Il silenzio della capo infermiera alimentò lo sconcerto e l’ira di Claire.

«Da quando in qua mi chiami per un nuovo inserimento? Che razza di scherzo è questo?» Ormai era un fiume in piena. Una parte della sua mente sapeva che l’amica sarebbe stata male per quella ramanzina, ma era una cosa tanto assurda essere chiamata in piena notte per un nuovo arrivo, che non riusciva a fermarsi.

«Ho sempre visitato i nuovi al mattino, e non ho certo intenzione di fare un’eccezione adesso. Dio mio Steff, ma cosa…»

«E’ John» sentì dire da Stefanie, e quel nome, oltre a farle perdere un battito del cuore, spense all’istante il suo furore.

«Come hai detto?» Chiese con un filo di voce. Oltre al sonno e alla rabbia, anche la saliva aveva abbandonato il suo corpo.

«E’ Johnny, Claire.» ripetè l’amica. «Il tuo Johnny».

A bordo della sua utilitaria, Claire continuava a sentire nella mente le parole dell’amica.

Il tuo Johnny.

Non poteva essere vero, sicuramente c’era un errore. Da cinque anni, ormai, Johnny era scomparso. Era assurdo pensare che fosse riapparso così, all’improvviso. Come ospite per giunta.

Si costrinse a rallentare e portare la lancetta del tachimetro sotto i settanta.

Percorrendo i dieci chilometri che da casa la portavano alla clinica psichiatrica, Claire fu assalita da un deja-vu fortissimo.

Erano ati tredici mesi dalll’ultima volta in cui percorse quella strada di notte. Quella volta a chiamarla fu Richard, il suo fidanzato, nonché operatore notturno della struttura. Uno degli ospiti era riuscito ad entrare nell’infermeria e minacciava di iniettarsi nella giugulare un mix di farmaci e detersivi. Arrivò alla clinica e parlò per quasi un’ora con il paziente, il signor Claude Bristol, schizofrenico-paranoide. Era quasi riuscita a fargli posare la siringa, quando un ritorno di fiamma di un’auto che ava vicino alla clinica, lo spaventò. In un

attimo l’ago era scomparso nel collo del signor Bristol e, con esso, il liquido contenuto nella siringa. Seguirono i minuti peggiori della vita di Claire. Prima le grida, poi le convulsioni, infine la morte. Non più di due minuti, ma a lei parve un tempo infinitamente più lungo. Non dimenticò mai la sofferenza e il dolore sul viso del suo paziente. Non dimenticò mai come Richard, che cercava di tenere il corpo dello sventurato il più fermo possibile, fu sollevato da un’ultima tremenda convulsione. Non dimenticò mai la sensazione di sconfitta e fallimento che provò in quell’occasione.

Svoltando nel viale che portava all’ingresso della clinica, ripenso a ciò che aveva provato quando aveva visto le chiamate di Stefanie. Aveva sperato con tutto il cuore che non fosse un’emergenza come quella di Bristol, e la sua speranza era stata esaudita. Non era un’emergenza, ma sarebbe potuto essere anche più devastante di ciò che accadde quella sera di tredici mesi prima.

Si fermò davanti all’imponente cancello in ferro battuto. Abbassò il finestrino, lasciando che la fresca brezza primaverile accarezzasse il suo viso. Inserì il badge nel lettore e subito udì il clangore del cancello che si apriva.

Dal cancello partiva un vialetto di ghiaia che portava al piccolo parcheggio della clinica.

Green Pine era una delle migliori cliniche psichiatriche del paese. Era un edificio piccolo, sviluppato tutto in un unico piano e interamente circondato da un prato ben curato. In ato, qualche buon tampone fan di Stephen King, ribattezzò la clinica “Miglio Verde”, come uno dei romanzi dello scrittore americano. Il perimetro del terreno della clinica, misurava infatti un miglio quasi esatto e il prato, costellato da numerosi alberi e da un bellissimo giardino con diverse specie di fiori, faceva sì che il verde fosse il colore preminente.

La dottoressa Barhan, dopo un anno di tirocinio, era subito stata assunta nella struttura. La sua preparazione, la sua dedizione al lavoro e il rapporto ottimo che riusciva ad instaurare con quasi tutti i pazienti, la fecero ben presto notare dal direttore della clinica che prima le offrì il posto di responsabile, poi, sei mesi prima, quello di vice coordinatrice. Nonostante la velocità della sua carriera, nessuno ebbe di che lamentarsi. Tutti riconoscevano il merito e l’impegno di Claire. Oltre questo, la ragazza aveva una capacità innata di essere ben voluta da tutti, dipendenti ed ospiti. Non faceva nulla per piacere agli altri, anzi, non le interessava neanche granchè piacere, ma quello era il risultato che otteneva sempre.

Quando Claire scese dalla macchina, vide Stefanie venirle incontro.

«Claire mi dispiace di averti svegliata, so quanto sei stanca ma non sapevo…»

«Va tutto bene» la interruppe, prendendole la mano. «Hai fatto bene a chiamarmi e sono io che devo chiederti scusa per come ti ho trattata».

Si guardarono per un istante e contemporaneamente si sorrisero.

Stefanie Holden arrivò alla clinica un anno prima di Claire. Avendo la stessa età, 24 anni allora, 30 ora, strinsero subito un’amicizia che, con il tempo, si rivelò essere solida come una roccia.

Claire strinse un po’ più forte la mano dell’amica, smettendo di sorridere.

«Sei sicura di quello che mi hai detto?» le chiese con voce tremante.

«Non al cento per cento» rispose «Ma la somiglianza con le foto che mi hai fatto vedere è impressionante».

Claire cercò di raccogliere tutto il coraggio che possedeva e si mise in marcia verso l’entrata. Così entrarono nella clinica, mano nella mano.

«Dov’è?» chiese mentre tirava fuori il mazzo di chiavi. La prima regola che le insegnarono durante il tirocinio era quella di chiudere sempre a chiave una porta prima di aprirne un’altra. Quella sera, nonostante avesse usato quelle chiavi migliaia di volte, non riuscì ad aprire la prima. Le mani le tremavano troppo.

Stefanie, le prese le chiavi dalle mani e aprì la porta che dava l’accesso al corridoio nord.

«E’nella sei» disse poi richiudendo la porta alle loro spalle.

Nel corridoio nord c’erano sei stanze, tre per lato. Le prime due sulla destra erano occupate rispettivamente da Ben Terringer, un 30enne affetto da un disturbo borderline della personalità; l’altra occupata da Ted Brenton, un uomo imponente di 40 anni, alto più di due metri e con un fisico che farebbe invidia ad un culturista, affetto da schizofrenia. Le altre 4 stanze erano vuote, o almeno lo erano state fino ad ora. La stanza numero sei era in fondo a sinistra, l’unica con ancora la luce accesa al suo interno.

Stefanie si fermò davanti alla porta, ma anziché aprirla, si volse verso l’amica.

«Claire, ascoltami» iniziò con il tono di voce più tranquillizzante di cui era capace. «Forse in questa stanza c’è lui, forse sono solo una stupida che si è fatta ingannare». Claire la ascoltava tentando di capire dove volesse andare a parare, ma il suo sguardo era sempre più attratto dalla feritoia della porta. «Quello che sto cercando di dirti è che non è messo bene, chiunque sia, quindi voglio che tu sia pronta».

Claire non potè fare a meno di sorridere. Stefanie aveva sempre cercato di proteggerla da tutto. Ricordava ancora il primo giro di visita che fecero insieme. Prima di aprire ogni porta, Stefanie le descriveva non solo patologia di cui era affetto il paziente, ma cercava anche di prepararla ad ogni possibile scenario che avrebbero potuto trovarsi davanti. Ed ora, nonostante Cleire fosse a tutti gli effetti il suo capo, ancora cercava di proteggerla.

Il sorriso di Claire diede all’amica conforto e coraggio.

«L’hanno portato dal Mercy Hospital, è in stato catatonico, non risponde agli stimoli» fece una pausa, guardando intensamente negli occhi Claire. «A nessuno stimolo».

Claire capiva alla perfezione cosa le stava dicendo. In quella stanza poteva esserci la persona con cui aveva ato sei anni della sua vita, l’uomo che aveva amato come non era più riuscita a fare con nessun altro, l’uomo con cui, per tante volte, nel buio della camera da letto, aveva fantasticato su figli e famiglia. E se era lui, non l’avrebbe neanche riconosciuta.

Sempre premurosa Stefanie. Le accarezzò il viso delicatamente, annuendo.

«Ho capito» le disse. «Ora aprimi».

Stefanie la guardò ancora per qualche istante, quindi si girò e aprì la porta.

«Io rimarrò qui» le disse facendosi da parte.

Claire inspirò a lungo ed entrò nella stanza. I suoi occhi si posarono subito sulla figura seduta sul letto. Le dava le spalle, come se fosse intento ad osservare il mondo fuori dalla finestra. Si sentiva le gambe pesanti e dovette fermarsi ad un metro dal letto.

Sentiva il cuore martellarle nel petto. I capelli di quell’uomo, lunghi fin sotto le spalle, li avrebbe riconosciuti ovunque.

Si fece coraggio e si portò davanti a quell’uomo. Quando vide il suo viso trattenne il fiato, il cuore ormai le faceva pulsare le tempie in modo quasi doloso.

Era lui.

«John» lo chiamò con un filo di voce. «Johnny».

L’uomo non diede segno di averla sentita. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé.

Claire si accovacciò. I loro occhi erano ora allo stesso livello.

«Johnny, mi senti?»

Nessuna reazione. I suoi occhi non la guardavano, nonostante gli fosse proprio di fronte. Guardavano oltre lei, o forse dentro di sé. Innumerevoli volte aveva visto quello stesso sguardo, uno sguardo perso in un vuoto inimmaginabile.

Claire alzò un braccio che sentiva pesare almeno un quintale. Sfiorò il viso dell’uomo, quel viso che tante volte aveva accarezzato. La piccola cicatrice sopra l’occhio destro, segno di un incidente d’infanzia. Quante volte le sue labbra si erano posate su quella virgola irregolare.

Era lui, tornato dopo cinque anni. Tornato esattamente come era scomparso, all’improvviso e senza alcuna spiegazione.

Era lui, ma allo stesso tempo non lo era. Quello che aveva davanti era solo un contenitore, un contenitore vuoto. Poteva solo sperare che il tempo e le terapie potessero far tornare il vero Johnny.

Si alzò e fece per andarsene, ma si fermò subito. Gli accarezzò i capelli e si chinò a parlargli direttamente in un orecchio.

«Ti aiuterò» sussurrò. «Farò tutto quello che posso per aiutarti, mi hai sentito?».

Non ottenne alcuna risposta, né se l’era aspettata.

Si avviò quindi verso l’uscita.

Stefanie la guardò in silenzio mentre chiudeva la porta.

I loro sguardi si incontrarono e, come succede sempre nelle amicizie vere, Stefanie capì subito cosa stava accadendo e prese l’amica dolcemente tra le braccia. Claire non oppose resistenza, si abbandonò nell’abbraccio di Stefanie nascondendo il viso sul suo petto.

Pianse. Pianse in silenzio, scossa da un singhiozzo di tanto in tanto. Pianse fino a bagnare la camicetta sotto il camice da infermiera di Stefanie. Pianse fino a finire le lacrime, e anche una volta finite, continuò a piangere ancora.

II

«Parla».

«Signore, non li abbiamo ancora trovati».

«Non possono essere spariti nel nulla. Ampliate il raggio di ricerca. Trovateli».

Nel buio dell’ufficio, l’agente Rose chiuse la comunicazione. Riempì il bicchiere di Jack Daniels quasi fino all’orlo e lo bevve i tre rapide sorsate. Con gola e stomaco in fiamme, tornò a leggere le schede degli uomini che erano fuggiti.

Dobbiamo trovarli.

Fece per prendere di nuovo la bottiglia, ma ci ripensò. Per quella sera aveva già bevuto troppo e l’alcol, da quella maledetta sera della fuga, non faceva che aumentare i pensieri e le preoccupazioni.

Devo trovarli.

Chiuse la bottiglia nell’ultimo cassetto della scrivania, insieme ai fascicoli che ormai conosceva a memoria. Prese le chiavi della macchina e uscì dall’ufficio.

Devo ucciderli.

III

Con una tazza di caffè bollente, Claire sedeva nella saletta infermieri. Era riuscita a ritrovare un minimo di calma e di contegno, ma la sua mente era un subbuglio di pensieri.

Stefanie non si era separata da lei per un attimo, continuando a guardarla e farle ogni tanto una carezza su un braccio o su una gamba.

Mai Claire aveva anche solo sperato di poter trovare un’amica come Stefanie. La loro era una di quelle rare amicizie vere, limpide, sincere. Non avevano alcun problema a confidarsi l’un l’altra qualunque cosa. Ora era felice che ci fosse stata Stefanie all’arrivo di Johnny ed era felice che fosse rimasta con lei.

Di notte la clinica era quasi sempre tranquilla e gli operatori di turno non avevano alcun problema a svolgere le loro mansioni e ritagliarsi un po’ di tempo per riposare. Quella sera, oltre Stefanie, erano di turno altri due operatori, Jack Billings, un ragazzo giovane e volenteroso entrato nella struttura da poco più di due mesi, e Harold Brewer, un veterano del mestiere. Entrambi si erano mostrati più che disponibili a spartirsi il lavoro di Stefanie.

«Domani…o meglio, oggi è il tuo giorno libero, vero?» chiese Stefanie.

Claire annuì, finendo il caffè.

«Ottimo» continuò prendendo la tazza vuota dalle mani dell’amica. Si infilò una mano in tasca, tirando fuori un blister di pillole pieno per metà. «Ecco allora cosa facciamo. Ora torni a casa, prendi un paio di queste e ti fai una dormita. Verso le undici vengo da te, ci mangiamo un boccone e tiri fuori tutti quei pensieri che ti stanno facendo andare in pappa il cervello. Ok?».

Claire osservò l’amica per qualche istante. Conosceva bene sia il tono, sia l’espressione che vedeva sul suo volto e sapeva che non avrebbe potuto dire nulla per farla desistere.

Si sforzò di sorridere e prese il blister.

«Brava ragazza. Fila ora e lascia perdere tutti i pensieri. Ci sarà tempo domani».

Le diede un bacio sulla fronte, un gesto tanto intimo e dolce che Claire sentì nuovamente le lacrime bruciare in fondo agli occhi.

«Grazie». Non aggiunse altro, non voleva piangere ancora e sapeva che anche solo una parola in più avrebbe dato il via ad un nuovo attacco.

Uscirono insieme dalla saletta e Stefanie la accompagnò all’ingresso. Solo un cenno del capo in segno di saluto e Claire si diresse verso la macchina.

Quando alle undici in punto suonò il camlo del suo appartamento, Claire si era svegliata da neanche dieci minuti. Le pillole che le aveva dato Stefanie avevano fatto il loro dovere, facendola piombare in un sonno profondo privo di sogni.

«Ancora in pigiama la nostra pigrona» scherzò Stefanie entrando.

Mentre Claire si faceva la doccia, Stefanie si mise in cucina a preparare un pranzo frugale. Un piatto di pasta e un po’ di insalata.

Consumarono il pranzo nella piccola cucina, senza parlare molto. Una volta finito, si armarono con una tazza di caffè a testa e andarono a sedersi sul divano nel salotto.

arono qualche istante in assoluto silenzio, osservando il fumo levarsi lieve dalle tazze. Poi Stefanie decise che era arrivato il momento di rompere quel silenzio.

«Allora tesoro, sei tu l’esperta, sei tu la psichiatra, quindi non devo perdere tempo nel spiegarti che è meglio tirare fuori quello che hai in testa, giusto?».

Claire sorrise. Sempre schietta e diretta la sua amica.

«Non saprei neanche da dove iniziare».

«Noi ci diciamo sempre tutto» disse Stefanie sorseggiando il caffè. «Da quando ci conosciamo ci siamo praticamente messe a nudo a vicenda. C’è sempre stato solo un argomento di cui non mi hai mai parlato volentieri: Johnny».

Udendo quel nome, Claire sentì un brivido lungo la schiena.

Quando Claire entrò nella struttura per il suo tirocinio formativo, lei e Johnny stavano ancora insieme. Stefanie l’aveva incontrato un paio di volte, senza mai scambiare molte parole. Qualche mese dopo l’inizio del tirocinio, mentre la loro amicizia si andava formando, lui sparì nel nulla. Da allora, Claire non parlò quasi mai di Johnny o della loro relazione. Stefanie sapeva solo che l’amica ne era innamorata come raramente ci si innamora e che i mesi successivi alla loro rottura furono molto duri per lei. Per rispetto, e perché ancora non erano tanto legate come ora, Stefanie non aveva mai fatto domande in proposito, temendo di essere indiscreta o di ferire l’amica. Ora però era arrivato il momento di fare tutte quelle domande che non le aveva fatto prima. Un po’ per curiosità, un po’ perché pensava che Claire ne avesse bisogno.

Prima di conoscere lei, Claire le aveva sempre detto di non avere mai avuto una vera amica, una persona con cui confidarsi. Questo voleva dire, in sostanza, che non aveva mai avuto modo di affrontare quell’episodio della sua vita, episodio che l’aveva segnata e che ancora oggi la influenzava.

Circa tre o quattro mesi dopo Claire iniziò a frequentare uno degli operatori della struttura, Richard Dowson. Era più grande di lei di 5 anni, ma la loro frequentazione si fece sempre più importante. Ora stavano insieme da poco più di 4 anni, e Stefanie sapeva che già da tempo Bill faceva pressioni per andare a vivere insieme, per costruire qualcosa di più solido. Pressioni che, però, non portavano mai a nulla. Stefanie era convinta che questa ritrosia fosse causata proprio dall’abbandono subito da parte di Johnny, ma non l’avrebbe mai detto apertamente all’amica. Se così era, ci sarebbe dovuta arrivare lei.

«Perché non cominci dall’inizio?» propose Claire. «Chi è Johnny, che persona era? Come vi siete conosciuti?».

Claire rimase in silenzio per qualche minuto. Aveva ato più di cinque anni cercando il modo di cancellare dalla sua mente e dalla sua vita Jhonny. Ora, invece, era più presente che mai. Pensare alle risposte da dare all’amica le faceva male, ma sapeva che non poteva tirarsi indietro.

«Lui era perfetto» disse infine. Gli occhi di Claire erano rivolti alla finestra, ma in quel momento non vedevano l’azzurro del cielo. In quel momento i suoi occhi erano tornati indietro nel tempo. Un sorriso colmo di tristezza si dipinse sul suo viso. «Era davvero una persona meravigliosa. Sempre pronto ad aiutare chiunque. Un buono fino in fondo».

Claire si accese una sigaretta, tirò una boccata ed esalò lentamente il fumo. Raccontò all’amica di come la calma del suo ex fosse riuscita a limare il suo carattere, spesso aggressivo ed impulsivo. Le raccontò di come fosse impossibile litigare con lui, perché lui molto semplicemente non litigava. Non alzava mai la voce e spesso si prendeva colpe che non aveva, per evitare il litigio e tornare poi sull’argomento quando sapeva che la ragazza sarebbe stata più in vena di ascoltare.

Dopo qualche minuto, tornò il silenzio.

Stefanie non disse nulla, limitandosi ad osservare il viso di Claire. Ciò che vedeva le era abbastanza chiaro, ma era ancora troppo presto per dire qualsiasi cosa. Avrebbe rispettato i tempi dell’amica.

D’un tratto Claire sorrise, guardando Stefanie direttamente.

«Vuoi sapere com’è iniziata la nostra storia?».

Prima che Stefanie rispondesse, Claire si alzò andando in camera sua. Aprì l’armadio e ne tirò fuori una scatola di scarpe, che portò con sé tornando a sedersi sul divano. Poggiò la scatola sul tavolino, accanto al posacenere e la aprì. Stefanie vide che conteneva un numero notevole di lettere, cartoline, fogli di vario colore.

Dopo che ebbe rovistato per qualche secondo, tirò fuori un fascicolo.

«Eccolo» disse porgendo i fogli all’amica.

Stefanie li prese. Erano non più di una decina di fogli, un po’ slabbrati sui lati, ma nel complesso in ottime condizioni. Sulla prima pagina, a caratteri cubitali, c’era scritto “La ragazza della scala”. Alzò lo sguardo su Claire, inarcando le sopracciglia.

«Il giorno del nostro quinto anniversario, Jhonny mi regalò quelle pagine» le disse Claire. «Vista la mia ione per la lettura, si è messo a scrivere della nostra storia. Una specie di romanzo breve».

Stefanie sgranò appena gli occhi. L’idea di scrivere una storia sull’inizio del loro amore era al tempo stesso romantica e dolcissima. Si sentiva in imbarazzo con

quei fogli in mano. Aveva voluto sapere, aveva voluto saziare la sua curiosità, ma leggere quei fogli le sembrava una vera e propria violazione dell’intimità dei due.

Forse intuendo i pensieri dell’amica, Claire le prese una mano.

«Nessuno ha mai letto quelle pagine. Ma se c’è qualcuno che mi farebbe piacere le leggesse, sei tu!». Le sorrise e Stefanie ritrovò un po’ del coraggio.

«E poi» continuò Claire «Non credo che saprei raccontarlo meglio di quelle pagine».

Stefanie annuì, si appoggiò allo schienale del divano e iniziò a leggere.

V

Questa è una storia. Una storia d’amore… forse. Se si racconta la storia della I Guerra Mondiale si può dire che quella è solo la storia di una guerra? Se si racconta la vita di Napoleone si può dire che quella è solo la storia di un uomo? Se la risposta è sì, allora questo è solo una storia d’amore.

Per me, questa è La Storia d’Amore.

1

Stavo procedendo lento nel traffico della città, a bordo della mia auto. Avvolto dal calore soporifero del riscaldamento alzato al massimo. Mi stavo dirigendo ad una cena, un raduno per la precisione. Da qualche tempo avevo cominciato a giocare ad un gioco di ruolo online. Talvolta, i partecipanti a quel gioco decidevano di fare un raduno, in cui poter vedere il vero viso di chi comandava un semplice personaggio.

Accompagnato dalle note dei Pink Floyd alla radio, non potevo fare a meno di pensare al perché avevo accettato l’invito.

Dovevo stare a casa, pensai mentre svoltavo nel vialetto che portava al parcheggio della pizzeria.

Qualche ora prima, mentre mi trovavo al pc, mi era arrivato un messaggio di un amico che mi invitava a partecipare a questo raduno. Dopo un paio di mail in cui avevo gentilmente declinato l’invito, mi son trovato non so bene come a dire di sì. Non mi sono mai piaciute queste feste, piene di tanta confusione e di tanta falsità Tuttavia, era da mesi che non uscivo più la sera e subito l’idea di una pizza in compagnia mi era sembrata buona.

Ora, nel freddo polare fuori dalla macchina, quella pizza non mi sembrava più molto allettante. Mi armai di tutto il coraggio che potevo avere ed entrai nel locale. Il cameriere che mi accolse mi indicò una scala in fondo alla sala, che scendeva in una vera e propria tavernetta, interamente prenotata per il raduno. Scesi le scale, sentendo già il disagio crescere in me.

Localizzai subito il mio amico, e mi avvicinai al tavolo. Senza neanche salutarmi, mi porse un cellulare.

“Tu che conosci le strade, dì un po’ a questi come arrivare qui” mi disse.

Presi il telefono e quando iniziai a parlare sentii la voce squillante di una ragazza.

“Ciao, sei tu il navigatore?” mi chiese ridendo.

Sorrisi mio malgrado a quella voce e spiegai la strada che dovevano fare.

Come inizio non c’è male, pensai restituendo il cellulare. Mi sedetti poi sulla

sedia, osservando la gente che via via riempiva il locale. Quando arrivò il cameriere con un vassoio di bicchieri pieni di aperitivo, mi alzai raggiungendo un gruppo di persone che conoscevo.

Non la vidi subito arrivare perché davo le spalle alla scala, ma notai un cambiamento nella sala. Il vociare confuso che fino a poco prima riempiva l’aria si affievolì gradualmente, fino a diventare un lieve mormorio. Fu allora che mi voltai, con il bicchiere in mano, alla ricerca della causa di quel cambiamento.

E la trovai.

Una ragazza stava scendendo le scale. A o lento, del tutto incurante del numero sempre crescente di occhi che la guardavano, scendeva la scala gradino dopo gradino. Io guardavo la nuova arrivata con una strana sensazione nel corpo, una stretta allo stomaco che non capivo. Rimasi così, immobile con il bicchiere in mano ormai dimenticato, osservando quella ragazza, notando che quasi tutti nella sala si erano bloccati vedendola.

Era bella, di una bellezza particolare, esotica. Alta, un corpo snello e slanciato, il viso pulito con solo un leggero velo di trucco appena accennato incorniciato da una turbolenta cascata di capelli ricci, che coprivano tutte le tonalità possibili dell’oro. Ma c’era dell’altro. Indubbiamente quella era una ragazza che non ava inosservata, la cui bellezza sicuramente faceva voltare la testa a tutti gli uomini che la incrociavano per strada. Ma non fu la sua bellezza a colpirmi, non solo. Ricordo che pensai che quella non era una ragazza come le altre, non era come nessuno che avessi mai conosciuto, maschio o femmina che fosse. Emanava una luce, una splendida luminosità che dal suo corpo si irradiava in tutto il locale.

E’ questa la sua vera bellezza, mi trovai a pensare.

Ed era proprio così. Dentro di me si era prepotentemente fatta largo la certezza che la sua bellezza fisica non fosse altro che una pallida rappresentazione esterna di una bellezza interiore ben più grande, di proporzioni inimmaginabili.

Quando arrivò all’ultimo gradino, ebbi conferma di essere al cospetto di una creatura speciale. Nel momento in cui rivolse lo sguardo alla sala e ai suoi occupanti, sorrise. Da quell’istante in poi, la mia concezione di “sorriso” cambiò radicalmente. Le labbra distese a mostrare i denti bianchi, gli zigomi alti, gli occhi leggermente socchiusi. Era un sorriso vero, che prendeva tutto il viso. Se prima potevo vedere una luce venire da lei, ora ne fui totalmente abbagliato. Posai il bicchiere senza togliere lo sguardo dal suo viso. Ho sempre pensato che le scene dei film in cui un attore faceva cadere ciò che aveva in mano per una forte emozione fosse una forzatura, costruita ad arte per aumentare il pathos della scena. Ma in quella sala, con gli occhi irresistibilmente attratti da quel sorriso, mi resi conto che quelle cose potevano davvero accadere nella realtà. Credo che la mia mano non sarebbe stata in grado di afferrare neppure l’aria che mi circondava.

Erano ati non più di dieci secondi dalla sua apparizione, ma a me sembrava ato un tempo molto più lungo. A fatica mi ridestai da quel momento di immobilità, costringendomi a voltarmi.

«Chi è quella ragazza?» chiesi al mio amico, sperando che il tono della mia voce non tradisse il tramestio interiore che provavo.

«Quella è Victory» rispose lui. Ho sempre detestato quell’aspetto dei giocatori di RPG, l’identificare la persona con il nick che utilizzava nel gioco, come se fossero la stessa cosa. Non mi importava nulla sapere il nome del suo personaggio, ma lasciai perdere, sapendo che con lui sarebbe stato fiato sprecato. In ogni caso, sapere il suo nome nel gioco mi permise di capire meglio il motivo

per cui la maggior parte dei presenti le si stava avvicinando. Il suo nome compariva spesso nel forum del gioco, era uno dei personaggi più conosciuti.

Tornai ad osservare quello che era diventato il centro della scena. Decine di persone le si paravano davanti, porgendole la mano, rubandole un bacio, e lei aveva un sorriso per tutti. Quello spettacolo mi faceva sorridere, vedere tutte quelle persone mettersi in fila per un saluto e un breve contatto. Tuttavia, mi accorsi di provare anche un senso di invidia e gelosia nei loro confronti. Potevano vederla da vicino, parlarle, toccarla, solo perché avevano la fortuna di conoscerla, fortuna che io non possedevo. Mi chiesi se anche io mi sarei comportato allo stesso modo se l’avessi conosciuta: il non saper rispondere a questa domanda mi mise addosso un certo sgomento.

Non appena tutti tornarono ai propri tavoli, anche la ragazza prese posto e la cena iniziò. Si era seduta al tavolo accanto a quello in cui sedevo io, ma il caso volle che io le dessi le spalle. Percepivo la sua presenza dietro di me e per tutta la durata della cena mi trovai diviso in due: una parte di me si malediceva per aver scelto quel posto; l’altra invece era contenta, perché sarebbe stata troppo grande la tentazione di perdermi nuovamente nella sua contemplazione.

Dopo il caffè mi alzai, con l’intenzione di andare a fumare una sigaretta. Dalla sala, un grosso portone con la maniglia antipanico conduceva ad un angusto spazio all’aperto, un antro illuminato a stento dalla luce di una lampadina, che combatteva una lotta all’ultimo sangue con la sporcizia sopra la plafoniere. Accolsi con gratitudine il freddo ed il silenzio di quel posto. Mi portai in fondo a quella specie di vicolo ed ebbi il tempo di accendere la mia sigaretta e fare un paio di tiri, quando il portone si aprì. Insieme al vociare della sala, uscirono sei ragazze, tra le quali c’era anche lei. Si disposero a semicerchio intorno a quella che il mio cervello aveva identificato come “la ragazza delle scale”. Dalla mia posizione, certo del fatto che nessuno si era accorto della mia presenza, osservai ogni loro movimento. La ragazza, al centro del cerchio e dell’attenzione, stava dicendo qualcosa a proposito di un cantante.

Abbiamo qualcosa in comune allora, pensai con un mezzo sorriso.

Le altre ragazze, in silenzio, ascoltavano ogni parola, pendendo letteralmente dalle sue labbra. Sorrisi osservando quella scena, notando come tutte, inconsciamente, accettassero la superiorità della “ragazza della scala”, come l’avessero eretta a centro del mondo in quel freddo vicolo. Era incredibile notare quanto carisma sprigionasse dal suo essere.

Nessuno ancora si era accorto di me. Celato nella penombra continuavo ad osservare quel gruppetto di persone che aveva occhi e orecchie soltanto per lei. E lei, che pareva totalmente a suo agio al centro dell’attenzione, sembrava avere occhi per tutti, sembrava parlare con tutti.

D’un tratto la ragazza prese una sigaretta dalla tasca della giacca, portandola alle labbra. Nuovamente una mano scese a tastare la tasca, alla ricerca dell’accendino, ricerca che si rivelò infruttuosa. Non appena le sue mani smisero di cercare, senza pensarci mi feci avanti, emergendo dall’oscurità, porgendole il mio accendino.

Per la prima volta i nostri occhi si incrociarono e ringraziai la coltre di sporcizia della plafoniere che limitava la luce. Lei prese l’accendino dalla mia mano e, sorridendo con la testa leggermente inclinata sulla sinistra, mi disse un semplice «Grazie».

Di nuovo quel sorriso e di nuovo la sensazione che dentro di me qualcosa si liberasse, sciogliendo ogni mio muscolo e stringendomi lo stomaco in una morsa.

Dio mio, cosa non si farebbe per quel sorriso.

Il pensiero si formulò da solo, imprimendosi a caratteri indelebili nella mia mente.

«Di nulla» risposi, cercando di sorridere a mia volta, ben conscio che qualsiasi sorriso sarebbe risultato misera e labile mistificazione in confronto al suo.

Dopo essersi accesa la sigaretta mi restituì l’accendino. Lo presi e vidi che lei non aveva ritratto il braccio, porgendomi la mano.

«Io sono Claire» si presentò.

Un’altra stretta allo stomaco, questa volta molto più intensa e profonda.

Claire.

In un attimo venni catapultato nel ato, un ato un cui ancora sognavo e in cui ancora credevo che i sogni potessero realizzarsi.

Erano solo sogni. Già, solo sogni, fantasticherie di un ragazzino troppo ingenuo e troppo romantico. Sin da quando iniziai a capire l’attrazione per l’altro sesso, avo ore ad immaginare come sarebbe stata la mia storia d’amore. Immaginavo mille ambientazioni, mille situazioni diverse. Solo un elemento rimaneva costante in tutte le mie fantasie: in ognuna di esse, la protagonista,

quella che alla fine sarebbe diventata la donna della mia vita, si chiamava Claire.

Ritornai al presente guardando la sua mano tesa verso di me.

«Jhonny, piacere» le dissi stringendo la sua nella mia. Sintetico, lapidario. Non sono mai stato uno che ama molto parlare, ma in quel momento la mia scelta fu più strategica che non un modo d’essere. Troppo grande era la paura di sentire la mia voce tremare, come già stava facendo ogni muscolo del mio corpo.

Continuava a guardarmi ed io guardavo lei, mentre percepivo lo sguardo delle altre che diveniva sempre più ostile per la mia intromissione.

Prese una boccata dalla sigaretta, dandomi l’opportunità di vedere bene la sua mano. Elegante, con dita lunghe ed affusolate.

«E nel gioco chi sei?» mi chiese.

«Takera».

Rimase un attimo in silenzio, cercando forse nella sua memoria il mio nick.

«Ah sì» disse sempre sorridendo «Takeda, ora ricordo».

«No no» feci io «con la R, Takera. Non mi confondere con quell’altro». Takeda era un giocatore pessimo, che non faceva altro che creare disordini.

Lei rise, una risata bellissima, ed io mi sentii sciogliere ulteriormente.

«Ok ok, scusa» disse tirando un’altra boccata dalla sua sigaretta «Allora credo di non aver mai giocato con te».

«Penso proprio di no» confermai.

Quanto mi sentivo stupido. Ogni volta che aprivo bocca, cinque paia di occhi si posavano su di me. Ho sempre detestato essere al centro dell’attenzione, specie in quel momento in cui avevo davanti una creatura così speciale e le parole mi venivano con il contagocce.

«Mh…» fece lei «allora prima o poi dobbiamo rimediare».

Le risposi con un sorriso e, approfittando di una domanda fattale da una delle sue amiche, tornai in fondo al vicolo, poggiai la schiena al muro finendo la sigaretta e continuando a darmi dello stupido.

Quando Claire finì la sua sigaretta, tutto il gruppo si diresse alla porta. Mentre mi giravo a guardarle andare via, lei si girò verso di me.

«Ciao ciao… Takeda» disse sorridendo e facendomi la lingua. Poi sparì dietro la

porta chiusa.

Mi ritrovai così da solo, come ero all’inizio, in quel vicolo, con una sola differenza: stavo sorridendo. E fu con il sorriso sulle labbra che rientrai a mia volta nella sala.

Il resto della serata proseguì senza altri contatti con la “la ragazza della scala”. Parlai di nulla con un numero imprecisato di persone; alla fine dei conti, si finiva sempre a parlare del gioco, argomento che mi annoiava profondamente. Poco prima della mezzanotte, decisi quindi di andare a casa, salutai i pochi che conoscevo e mi incamminai verso la scala. Proprio davanti ad essa, seduta su una sedia, c’era Claire che mi guardò. Senza accorgermene il sorriso tornò sulle mie labbra.

«Vai via?» mi chiese.

«Sì, sì. Per stasera direi che basta così». Poi, senza pensarci, mi chinai verso di lei, dandole due baci sulle guance.

Lei mi sorrise. «A presto allora».

Sempre sorridendo salii le scale e uscii dal locale. In macchina ritirai gran parte delle maledizioni che avevo rivolto al mio amico. In fondo, non fosse stato per il suo invito, non avrei mai conosciuto Claire, la ragazza delle scale, quella meravigliosa creatura dalla luce speciale.

Nella mia camera, steso al buio, ritornai con il pensiero alla serata appena trascorsa, pensando a quella ragazza così particolare, pensando al suo viso, pensando alla sua voce. Per la prima volta dopo molto tempo mi addormentai con il sorriso sulle labbra.

2

Il giorno seguente mi svegliai di buon ora, con un leggero mal di testa. Da tempo non uscivo più la sera e stavo pagando il tributo ad un’abitudine ormai persa.

Durante la colazione, un caffè macchiato a far da contorno all’aspirina, fui folgorato dalla visione degli occhi della ragazza della scala.

«Claire» mormorai alla cucina deserta non riuscendo a trattenere un sorriso. Ripercorsi con la mente la serata, la sua entrata nel locale, la nostra presentazione, il saluto finale. Mi riscossi da quel momento, a disagio. Mai mi era capitato di pensare tanto intensamente ad una persona, mai avevo sentito qualcuno entrarmi dentro in quel modo.

«Ma piantala!» ordinai a me stesso. Come potevo anche solo pensare che mi fosse entrata dentro dopo sì e no due minuti di conversazione. Era ridicolo! Eppure il suo viso tornava a farmi visita di continuo, la sua voce, incantevole, risuonava nelle mie orecchie.

A metà mattinata rinunciai a studiare, non riuscivo a trovare la giusta concentrazione e sapevo che se avessi continuato in quel modo avrei solo perso tempo e pazienza. Accesi quindi il pc, decidendo di farmi un giro per il mondo virtuale in cui viveva il mio personaggio.

Una volta effettuato l’accesso, fui accolto dall’effetto sonoro che indicava che c’era un nuovo messaggio da leggere. Aprendo la pagina dei messaggi, il cuori ebbe un sussulto.

MITTENTE: VICTORY

Rimasi qualche istante a fissare lo schermo, sicuro che ciò che vedevo fosse solo uno scherzo della mia mente. Chiusi gli occhi per un paio di secondi, ascoltando il mio cuore decelerare. Quando li riaprii, il messaggio era ancora lì ad aspettare di essere letto.

Cosa poteva avermi scritto? Perché quel messaggio?

Cavolo, ma sei davvero un idiota, pensai. Spostai il cursore del mouse sul messaggio e cliccai.

Rimasi interdetto da ciò che apparì sullo schermo. Non so bene cosa mi aspettassi di leggere in quel messaggio, ma non certo quello che avevo di fronte. Cominciai a sorridere. In tutta la pagina, c’erano scritte solo cinque parole:

«Voglio il tuo contatto MSN»

Nient’altro. Perentorio, non ammetteva alcuna replica.

Scrissi nella risposta il mio indirizzo di contatto e inviai, dopodiché avviai subito il programma MSN. Mi dissi che lo stavo facendo solo per vedere cosa avevano scritto nei loro sotto nick i partecipanti al raduno. Mentre scorrevo i vari contatti, apparse la richiesta del programma di aggiunta di un nuovo contatto. Doveva essere davanti al pc quando ho risposto al messaggio e subito mi aveva aggiunto.

Accettai la richiesta e prima che potessi controllare in quale gruppo il programma l’aveva inserita, si aprì la finestra di dialogo. Un semplice “Ciao” seguito da uno smiley sorridente.

Da quella mattina, iniziò tra di noi una lunga corrispondenza telematica. Si parlava un po’ di tutto, dei nostri studi, dei nostri interessi, dei nostri progetti. Man mano che i giorni avano, le conversazioni erano sempre più amichevoli, sempre più intime, sempre più calorose e complici. Iniziai quasi per gioco a chiamarla “Stellina”, in onore della canzone di Ligabue “Piccola stella senza cielo” e lei apprezzò molto quel nomignolo, e sempre più di frequente ci si salutava con l’emoticon che raffigurava un bacio e un abbraccio. Più ava il tempo, più leggevo le sue parole e più avevo conferma di ciò che pensai la sera che l’avevo conosciuta: Claire era davvero una ragazza eccezionale.

Oltre ad essere dotata di una grande simpatia, sempre con la battuta pronta (e non di quelle scontate, ma quelle fini ricche di ironia), era anche dotata di una notevole intelligenza e di un’altrettanto grande cultura. Affrontava in scioltezza ogni tipo di discorso, ogni argomento, senza mai dare l’impressione di trovarsi in difficoltà o parlare “per sentito dire”, me sempre padrona della discussione.

Ogni volta che potevo, mi mettevo al pc e avviavo MSN. Prima di allora lo utilizzavo solo se strettamente necessario, ora invece ne ero diventato quasi dipendente. Avviavo il programma nella speranza di vedere il suo connesso, rimanendo deluso quando non c’era e sorridendo come un bambino quando vedevo il suo nome scritto in verde.

Sì, quella ragazza mi era entrata dentro e mi prendeva ogni giorno di più.

Un giorno, durante una delle nostre conversazioni, saltò fuori che si stava organizzando un altro raduno.

«Tu ci andrai?» mi chiese.

«Non lo so. Non sono molto per queste cose… Ma se ci sei tu non posso certo mancare».

«Oh e come mai?» scrisse lei. Da tempo avevo capito quanto le pie “giocare” con le parole.

«Perché mi piacerebbe poterti rivedere». Pensai che una cosa del genere non sarei mai riuscito a dirla a voce.

«Se vengo però c’è un problema… Potrebbe venirmi voglia di essere abbracciata» il gioco continuava ed io sorrisi, pensando nel contempo che avrei fatto un’offerta a tutti gli dei esistenti per poter essere io a soddisfare quella voglia.

«Ti prometto che se ti verrà voglia di essere abbracciata, sarò più che lieto di farlo» le risposi.

I giorni seguenti, arono all’insegna dell’attesa. Finalmente avevo la possibilità di rivederla.

La sera del raduno fui il primo ad arrivare al locale. Per tutto il tempo ho continuato a pensare a Claire, alle nostre conversazioni, al fatto che finalmente l’avrei rivista.

Verso le 21 cominciarono ad arrivare le prime persone e nel giro di mezz’ora erano presenti tutti coloro che avevano aderito alla serata. Tutti tranne lei.

Mi dissi che era solo in ritardo ed entrai nel pub con gli altri. Questa volta il numero di partecipanti era molto inferiore rispetto al precedente raduno, cosa che non mi dispiacque affatto. Era una serata piacevole, ma il mio sguardo continuava ad essere irresistibilmente attratto dall’entrata del locale. Ogni volta che si apriva la porta il mio cuore aveva un sussulto di trepidazione. Erano le 22 quando cominciai a perdere le speranze. Non sarebbe venuta, non avrei potuto vedere il suo viso, non avrei sentito la sua voce. Sentivo la delusione aumentare e pesarmi come un macigno sul petto. Uscii a fumare. Il gelo e il silenzio della strada ebbero un effetto benefico.

Dopo circa mezz’ora, mentre bevevo la mia birra, Claire fece il suo ingresso nel locale. Ne fui così piacevolmente sorpreso che ringraziai il fatto che nessuno mi stesse guardando in quel momento: occhi sbarrati, sorriso a 32 denti e espressione da perfetto idiota.

Dio quanto è bella.

Ci fu nuovamente la processione dei saluti. Io ero rimasto al mio posto,

alzandomi per poterla guardare meglio. D’un tratto mi accorsi che qualcosa non andava, una piccola stonatura. La mia attenzione fu attirata da un particolare: il sorriso che mostrava a tutti non era quello che avevo visto, era un sorriso tirato, forzato, senza gran parte della lucentezza che avevo visto. Mentre formulavo questi pensieri, me la trovai davanti.

«Ciao». Il sorriso appena più ampio, più convinto. Mi diede due baci sulle guance, mi guardò ancora per qualche istante, dandomi l’impressione di volermi dire qualcosa; abbassò invece lo sguardo e andò a sedersi accanto alle sue amiche, lontano da dove ero seduto io.

Sì, qualcosa non andava. Il nervosismo era palese in lei, benché si sforzasse di non darlo a vedere. Mentre alcuni ragazzi mi parlavano, non potevo fare a meno di rivolgere lo sguardo verso di lei e un paio di volte i nostri occhi si incrociarono.

Non stava per niente andando come avevo pensato, come avevo sperato…come avevo fantasticato. Ma cosa mi era saltato in mente? Mi ero soltanto illuso, avevo frainteso le parole che ci eravamo scritti, non riconoscendo un semplice gioco, illudendomi che fossero segnali ben precisi.

Mi alzai, non potendo fare a meno di darmi nuovamente dell’idiota. Fuori dal locale mi accesi una sigaretta. Guardando il fumo fondersi con la condensa del mio respiro, sorrisi amaramente di me stesso. Avevo davvero creduto che una persona, una ragazza tanto straordinaria, potesse avere un qualche interesse per uno come me? Feci un risolino sprezzante, mentre schiacciavo quel che rimaneva della sigaretta sotto la scarpa. Rimasi per un certo tempo sul marciapiede, a guardare il cielo senza pensare a nulla, finché non sentii delle voci che si avvicinavano dall’anticamera del pub. Non ebbi difficoltà a riconoscere tra quelle voci quella di Claire. Un istante dopo, infatti, comparve sulla soglia, accompagnata dalle due amiche.

Ci guardammo per qualche secondo e vidi affiorare il sorriso sulle sue labbra, il suo vero sorriso, quello che mi aveva completamente sconvolto la prima volta che lo vidi.

«Ciao di nuovo» mi disse.

Io non risposi, limitandomi a sorriderle. Nonostante l’amarezza, la tristezza provata fino a pochi secondi prima, sorridevo, un sorriso che sentivo estraneo sulla mia bocca per quanto poco vi fosse rappresentato.

Ma come fa? Come ci riesce?

Ancora oggi non mi so spiegare quale malia nasconda il suo sorriso, so solo che mi basta guardarlo per sentire ogni cosa negativa allontanarsi da me per lasciare spazio ad un senso di serenità meravigliosa.

Si accese una sigaretta, mentre il suo corpo venne percorso da un brivido di freddo.

«Che freddino che fa» disse guardandomi.

«Sei anche senza giacca» notai io.

«Eh lo so» fece lei «però, sai com’è, qualcuno mi aveva promesso un abbraccio…». Sul suo volto si dipinse l’espressione di una bambina triste.

Sentendo quelle parole, non potei evitare al mio cuore di avere un sobbalzo. «Ah sì? Beh, una promessa va sempre rispettata» le dissi, rimanendo però fermo dov’ero.

Per un attimo scomparve la bambina, lasciando il posto ad uno sguardo severo. All’improvviso sbottò sorridendo:

«Eddai, abbracciami!»

Mi avvicinai portandomi alle sue spalle. «Solo perché sei tu» le dissi mentre la cingevo con le braccia. Subito sentii il suo corpo rilassarsi contro il mio. Non potrò mai dimenticare la dolce fragranza dei suoi capelli d’oro, né la splendida sensazione dei nostri corpi che aderivano alla perfezione. Le mie braccia la avvolgevano ando poco sotto i seni, le mani aperte sulle sue costole e la sua testa appoggiata tra il mio collo e la spalla. Ogni minimo movimento del suo corpo era accompagnato dal mio e mi dava sensazioni uniche: gioia, benessere, eccitazione, desiderio. Desiderio di tenerla stretta a me in quel modo per ore, giorni, desiderio di proteggerla dal freddo e da qualunque altra cosa con il mio abbraccio, desiderio di staccarla da me giusto il tempo per farla voltare e baciarla.

Non ho idea di quanto tempo abbiamo ato così, né di cosa successe durante quei minuti. So che lei parlava alle sue amiche, ma non so di cosa. Ero totalmente immerso nelle mille sensazioni che mi dava stringerla a me, impegnato a respirare a pieni polmoni il suo profumo, l’aria più dolce e pulita che avessi mai respirato. So solo che quando il mondo tornò a materializzarsi attorno a me, Claire aveva finito la sua sigaretta e una delle sue amiche stava

proponendo di tornare dentro.

Si girò nel mio abbraccio e mi sorrise quando ci trovammo faccia a faccia. Quando la liberai dall’abbraccio, scorsi qualcosa nei suoi occhi, forse dispiacere, forse rimpianto. O forse era solo la mia mente che voleva farmi vedere ciò che desideravo. Non so quale sia la verità, ma mi piace pensare che in quel momento anche lei stava provando quello che provavo io: un senso di mancanza e il desiderio di che il tempo si fosse fermato a qualche secondo prima, quando i nostri corpi erano a contatto e si scaldavano reciprocamente nell’abbraccio.

Eravamo rientrati da pochi minuti, quando la vidi mettersi le giacca e prepararsi per andare via. Con una fitta di tristezza al cuore, imitai gli altri alzandomi per salutarla. Lei mi baciò sulle guance, questa volta cingendomi il collo con le braccia. Quel contatto mi diede un brivido inatteso.

«A presto» mi sussurrò poco prima che il contatto delle sue braccia scomparve. Un momento dopo non c’era più, lasciando nella sala e in me un senso di vuoto che non mi era mai capitato di provare.

Decisi che anche per me era arrivato il momento di andare via, ma prima che mi fossi alzato, accadde una cosa che ancora oggi mi fa sorridere e mi fa sentire felice. Il mio cellulare vibrò avvisandomi che era arrivato un nuovo messaggio. Lessi quel messaggio più e più volte, prima seduto al tavolo, in seguito sdraiato nel buio della mia stanza.

«Stare tra le tue braccia è stato bellissimo. Grazie»

3

Il primo bacio ci fu al terzo raduno. Mi viene da sorridere a ripensare a quel giorno. Nervoso, impacciato, stupido, mi sentivo tornato all’adolescenza quando le uniche cose fatte con una ragazza erano confinate nella sfera dell’immaginazione.

Nei giorni precedenti il raduno la nostra corrispondenza telematica continuò, in modo sempre più coinvolgente. Diventavano sempre più frequenti espressioni dolci, romantiche, desideri espressi e desideri fatti capire. Scrivere con lei era diventato parte integrante delle mie giornate, una parte fondamentale se devo essere sincero. avo le mie giornate pensando a lei, anelando l’arrivo della sera in cui saremo stati insieme a parlare di noi e di tutto. Persi progressivamente interesse per le altre cose: la tv non esisteva più, il gioco non esisteva più…esisteva solo lei e la serata era dedicata interamente a lei.

Come per le volte precedenti ci trovammo a parlare del raduno in MSN e fui colto dallo sconforto più totale quando lei disse che non poteva andare perché non c’era nessuno che potesse portarla. Presi quindi il coraggio a due mani e mi offrii di andarla a prendere di persona. Subito non accettò la mia offerta, dicendo che sarebbe stato assurdo che io mi fi tutti quei chilometri, ma alla fine cedette alle mie insistenze. Quella sera pensai che ne avrei fatti anche mille di chilometri, pur di poter are una serata in sua compagnia.

La sera del raduno mi trovai quindi in macchina diretto verso casa sua e fu un viaggio davvero orribile. Il cuore non voleva saperne di smettere di pompare nel petto come un martello pneumatico, nella mente mille pensieri vorticavano furiosamente.

Cosa farò?

Cosa dirò?

E se non riesco ad aprire bocca?

E se dirò qualche cavolata?

Dopo cento chilometri di quegli interrogativi, arrivai a destinazione. Sostai davanti al citofono per qualche istante, fissando il suo cognome, cercando di trovare una parvenza di calma. Mi sentivo come un ragazzino impacciato al primo appuntamento.

Quando la vidi arrivare il mio cuore si fermò, in sospeso come tutto il mondo che mi circondava.

Mio dio quanto è bella, pensai mentre i miei battiti tornavano ad una frequenza preoccupante.

«Ciao, sei arrivato» mi disse con quel sorriso che avrebbe sciolto un ghiacciaio eterno.

«Ciao». Non so come feci a non balbettare. Temevo che sarei rimasto lì, fermo, immobile come un palo, a guardarla. Con tutte le forze di cui ero capace, mi voltai indicando la macchina a pochi metri di distanza.

Lei mi precedette ed io mi sentii morire guardandola camminare davanti a me.

Ancheggiava in modo sensuale, ma allo stesso tempo con una naturalezza tale che era uno spettacolo da vedere. Pensai che più che camminare, stava danzando verso la mia macchina. Allungai il o per superarla e le aprii la portiera.

«Ma grazie» mi disse salendo in macchina.

Per un certo periodo di tempo nessuno dei due parlò. Ero teso come una corda di violino e la salivazione rasentava lo zero. Mi trovai a chiedermi se anche lei provava le stesse cose, mentre la sentivo cantare piano la canzone dei Guns’N’Roses che usciva dagli altoparlanti. Dovevo dire qualcosa, non potevo continuare a restare prigioniero di quel mutismo.

«Che bella voce che hai». Ecco, bravo genio, una banalità peggiore proprio non avrei potuto trovarla. Ma lei si voltò verso di me, con il suo sorriso abbagliante. Aveva apprezzato il complimento per quello che era, non l’aveva scambiato per un patetico tentativo di approccio. Da quel momento la tensione nella macchina andò via via scemando e cominciammo a parlare di musica.

Eravamo in anticipo, quindi decidemmo di fermarci in un bar a prendere un aperitivo. Forse per un segno del destino o forse per una bellissima coincidenza, entrando nel locale ci accolse “L’amore conta” di Ligabue.

Per tutto il tempo, sia al bar, sia in macchina, non perdevo occasione di osservare il suo viso, distogliendo lo sguardo appena i suoi occhi incontravano i miei. Il suo profilo, quando era seduta al mio fianco in macchina, era meraviglioso, così come tutto il suo viso ora che l’avevo di fronte. Seduto davanti a lei, ebbi l’opportunità di guardare i suoi occhi, così luminosi e così pieni di magnetismo da rendere velleitario ogni tentativo di allontanarsene. In quell’occasione, notai il loro colore, marrone, un colore normalmente banale per degli occhi, ma che nei suoi non era banale affatto, con delle screziature dorate nell’iride.

C’è il rischio di perdersi in quegli occhi.

Finito l’aperitivo ci dirigemmo verso la pizzeria, la stessa del nostro primo incontro. Mi dispiaceva doverci andare, avrei dato qualunque cosa per poter stare ancora solo con lei.

Arrivati a destinazione, Claire fu letteralmente sommersa dalle braccia degli altri partecipanti, tutti ansiosi di ricevere un saluto ed un sorriso.

La cena fu piacevole… più che piacevole. Seduti l’una di fianco all’altro, si parlava e si scherzava, con lei che continuava a punzecchiarmi e a prendermi in giro sbagliando appositamente il mio nick. Alla fine della pizza, uscimmo per fumare e gli scherzi e l’ilarità ci seguirono nel freddo esterno. Era bellissima con quella finta espressione innocente mentre mi prendeva in giro.

«Vediamo se la smetti» le dissi afferrandola per i fianchi e facendole il solletico. Si divincolò ridendo e in quel momento potei apprezzare appieno lo splendore della sua risata. Si fece di nuovo sotto, con aria minacciosa che a stento riusciva a trattenere il sorriso ed io la ripresi per i fianchi.

«Non ci riprovare sai?» mi disse guardandomi fisso negli occhi.

«Altrimenti?» la sfidai.

«Tu non farlo e basta» mi disse avvicinandosi ulteriormente. I nostri corpi a

stretto contatto, i nostri visi a pochi centimetri l’uno dall’altro. Sentivo il profumo dei suoi capelli e il tepore del suo respiro sulle mie labbra.

Lei sorrise… mi sorrise ed ogni pensiero fu spazzato via, ogni cosa che mi circondava si dissolse all’istante, ogni mia inibizione fu cancellata. Mi sporsi in avanti, con l’intenzione di baciarla ma, poco prima che le nostre labbra si toccassero, lei scivolò via dal mio abbraccio ridendo.

«Eh eh eh… No, no!» mi disse agitando l’indice davanti al mio viso. Quindi si voltò e rientrò di corsa nel locale. Stava giocando, giocava con me e la cosa mi piaceva parecchio!

Rientrai e per la successiva mezz’ora restammo lontani. Lei parlava con alcune delle sue amiche ed io fui trascinato ad un tavolo diverso. Spesso i nostri sguardi si incrociarono, scambiandoci dei sorrisi.

Giunse infine il momento più temuto, quello di andare via. La festa era finita e i partecipanti cominciavano ad andarsene. Anche Claire si era alzata e si stava infilando il giaccone; avrebbe ato la notte a casa di una delle sue amiche e l’indomani sarebbe tornata a casa in treno.

Uscimmo insieme dal locale e lei si offrì di accompagnarmi fino alla macchina. Camminavamo piano e lungo il tragitto verso il parcheggio ci prendemmo per mano. Misi in moto mentre Claire si sedeva sul sedile del eggero, e andai a parcheggiare davanti al locale, dove l’amica l’attendeva nella sua macchina.

La tristezza cominciava a farsi sentire, avrei voluto che quella serata durasse di più, avrei voluto non dovermi separare da lei. La guardai e sul suo viso vidi le

stesse emozioni che stavo provando io.

«Non voglio salutarti» mi disse in un sussurro.

«Neanche io» le risposi mentre la accoglievo tra le mie braccia. Mi feci inebriare nuovamente dal suo profumo e dalla tenerezza di quel contatto. Aveva la testa appoggiata alla mia spalla ed io sentivo il suo respiro contro il collo. Con un braccio intorno alle spalle e l’altro appoggiato ad una sua gamba, la strinsi a me, pensando che quella che stavo provando era una delle sensazioni più belle che avessi mai provato.

Scostai la testa e baciai la morbida pelle della sua guancia. La sentii irrigidirsi per un attimo, quindi si rilassò di nuovo; sempre tenendo la testa appoggiata alla mia spalla, iniziò a ruotarla lentamente, in modo che ogni mio bacio fosse sempre più vicino alle sue labbra, fino ad offrirmi la sua bocca. Le mie labbra sfiorarono le sue per poi adagiarvisi completamente, combaciando alla perfezione. Dopo qualche istante, la sentii ricambiare il bacio, con dolcezza, iniziando ad accarezzarmi i capelli ed il viso. Un brivido meraviglioso mi attraversò dalla testa ai piedi. Le sue labbra si schio appena, mentre ci lasciavamo trasportare da una dolce ione. Le nostre lingue si sfiorarono, si toccarono con più decisione, si studiarono prima di lasciarsi andare ad un lento ballo nelle nostre bocche.

Assaporai il sapore del suo bacio che, unito al suo profumo, mi catapultò in una in un’altra dimensione, una realtà in cui ogni pensiero perdeva progressivamente consistenza, fino a sparire del tutto, lasciando spazio a lei e solo a lei, alla sua meravigliosa presenza.

Quando le nostre bocche si separarono, lei si appoggiò nuovamente alla mia spalla ed io notai che stava sorridendo. Il mio cuore pareva impazzito nel petto e

la strinsi più forte. Non parlammo, lasciando che il silenzio dell’abitacolo fe da sottofondo a quel momento stupendo. Dopo poco tempo, la sentii cercarmi con la bocca e la baciai di nuovo. Mai ho provato sensazioni tanto intense, tanto belle, nel baciare una ragazza, né avevo mai provato il desiderio tanto forte di continuare a baciarla ancora e ancora.

Ci costringemmo a separarci. Non avevo idea di quanto tempo era ato da quando avevo parcheggiato la macchina, ma vidi che la sua amica aveva messo in moto. Ci demmo un ultimo bacio, poi lei scese dall’auto e salì in quella dell’amica. andomi di fianco, vidi il viso di Claire incorniciato dal telaio del finestrino: mi salutò con la mano, sorridendomi in modo meraviglioso.

Tornato a casa, sentivo ancora il suo sapore nella mia bocca, un sapore dolce, colmo di ione e sentimento. Per molto tempo, quella notte, ripensai a quei baci, alle sue labbra, alla sua lingua. Il ricordo di quei pochi baci mi accompagnò per parecchie notti.

Non potevo credere che tutto quello era accaduto realmente e sentivo crescere dentro di me il desiderio sempre più forte di averla lì con me, stesa al mio fianco, per poter continuare a baciarla fino al mattino.

4

Il tempo ava e il rapporto tra me e Claire si faceva sempre più stretto ed intimo: ore ate a chattare, a scriverci SMS, a telefonarci.

Ogni volta che eravamo insieme, soli, l’aria era pervasa da una sorta di tensione, un’energia che potevo percepire in ogni mia fibra. Quando mi trovavo insieme a

lei, ogni mia preoccupazione spariva nel nulla, lasciando posto ad una sensazione che non avevo mai provato prima.

Era forse felicità?

Ne ero sconcertato, spiazzato. Mi sentivo avvolgere da una serenità che mi era del tutto aliena. In sua presenza tutto ciò che mi circondava assumeva colori nuovi, luminosi, brillanti. La mia anima, attraverso gli occhi, poteva finalmente godere della bellezza del mondo che mi circondava, il velo grigio che avevo davanti veniva sollevato, facendomi gioire dello splendore che avevo attorno. E tutto questo, solo grazie alla sua presenza.

La cosa davvero incredibile era che più stavo con lei, più quel velo faceva fatica a tornare. Era come se la sua compagnia, la sua stessa anima, fosse una cura per la mia, come se la mondasse di tutte le macchie oscure, in modo graduale ma definitivo.

Sì, lei era la mia cura che mi stava totalmente risanando.

Mi trovai sempre più spesso a sorridere, cosa che ormai accadeva di rado prima di conoscerla. Ritrovai interesse per le cose da fare, da vedere, da leggere… da vivere. Ecco, molto semplicemente, ritrovai interesse per la vita, ritrovando la forza e la voglia di vivere, di prendere in mano la mia vita e darle una direzione precisa, smettendo di farmi semplicemente trascinare dalla corrente. E la mia direzione puntava inequivocabilmente verso di lei.

Con il are del tempo aumentava anche il desiderio, desiderio di condividere con lei la mia intimità, desiderio di averla nelle mie mani, di poter sentire sotto

le mie dita la sua pelle, di poter esplorare il suo corpo fin nelle zone più intime e nascoste.

Percepivo in lei lo stesso desiderio, nel suo sguardo, che talvolta inchiodava il mio con una forza incredibile, nei suoi baci, che si facevano sempre più ionali e sensuali, nei movimenti del suo corpo, che sempre più spesso si offriva al tocco delle mie mani.

Tuttavia, resistevo a quella pulsione, a quel desiderio. Stavo vivendo un sogno del quale ancora non riuscivo a capacitarmi e temevo che, se avessi esagerato, se anche solo le mie mani si fossero fatte più “ardimentose”, tutto sarebbe stato irrimediabilmente rovinato, perso in modo definitivo.

Ma tutte queste remore furono spazzate via un giorno di settembre. Eravamo soli in casa, sdraiati sul letto davanti alla tv accesa. I baci si fecero sempre più inebrianti, l’eccitazione dei nostri corpi era tangibile. Totalmente avvolto e obnubilato da quell’atmosfera, carica di eccitazione e desiderio, iniziai a spogliarla. Timidamente le sollevai la maglia, incerto, insicuro; mi sentivo imbranato, non volevo che pensasse male di me, ma nello stesso tempo era troppo grande il desiderio di avere il suo corpo, sentire il suo corpo senza il filtro dei vestiti. Quando lei sollevò il busto per agevolarmi, capii che anche lei lo voleva e la mia insicurezza svanì in un attimo. Le tolsi la maglia, i pantaloni, quindi il reggiseno. Infine, senza mai smettere di baciarla, feci scivolare una mano lungo il suo fianco fino all’anca, dove le mie dita si infilarono sotto l’elastico delle mutandine. Esitai un istante, pensai che forse era troppo, ma Claire in quel momento sollevò il bacino in un tacito consenso e in un attimo le mutandine stavano cadendo oltre la sponda del letto. Mi separai da lei e mi sorrise, un sorriso pieno di dolcezza e di malizia. Ora c’era solo il lenzuolo a coprire il suo corpo nudo.

Mi riavvicinai, posandole delicatamente una mano sul ventre, per baciarla ancora. Ma lei mi fermò, posando una mano sul mio petto.

«Anche tu» mi disse strattonando la maglietta che avevo indosso.

Con il cuore che batteva all’impazzata, iniziai a spogliarmi, rendendomi conto di una cosa che mi sorprese e mi fece gioire allo stesso tempo: non provavo alcuna vergogna! Mi alzai dal letto e mi tolsi maglietta e pantaloni, rimanendo in boxer.

Non mi è mai piaciuto spogliarmi davanti a qualcuno, la sola idea di essere visto nudo mi metteva a profondo disagio. Ma quella sera, con indosso solo i miei boxer neri e con i suoi occhi su di me, non sentii la minima presenza di quel disagio. Volevo che mi guardasse come stava facendo, desideravo avere il suo sguardo su di me.

Senza esitazioni mi tolsi anche i boxer e rimasi così, nudo, in piedi accanto al letto a guardarla. Vidi i suoi occhi scendere, incontrare l’erezione che avevo e tornare al mio viso. Il suo sorriso si ampliò.

«Ecco, così va meglio» mi disse «Ora vieni».

Sollevò il lenzuolo formulando l’invito ed io rimasi letteralmente folgorato dalla visione più incredibile che avessi mai avuto. Per la prima volta vedevo il suo corpo completamente nudo in tutto il suo splendore. Come un automa tornai al suo fianco, senza riuscire a distogliere lo sguardo dal suo corpo perfetto.

«Dio come sei bella» sussurrai. Lei fece per tirare su il lenzuolo, ma la fermai, ne afferrai l’orlo e con un gesto deciso lo feci finire sul pavimento, scoprendola del tutto.

«Fatti guardare» le dissi.

Era meravigliosa. Sdraiata supina al mio fianco, illuminata dalla tenue luce della luna che filtrava dalla finestra, lasciai che il mio sguardo percorresse ogni centimetro del suo corpo. I suoi seni erano due piccoli, sferici e perfetti promontori sul suo petto, sormontati da capezzoli che le mie mani e la mia bocca subito anelarono con veemenza. Il suo ventre piatto si sollevava in un lieve pendio appena percettibile. I miei occhi sorvolarono il ciuffo di peli del suo pube, per andare poi a fermarsi ai lati di esso, dove la prominenza delle anche creava una sorte di magnifico avvallamento. Le sue gambe erano lunghe, snelle, slanciate, e terminavano con due dei piedi più belli che io avessi mai visto, curati, non troppo piccoli né troppo grandi, con le dita snelle e affusolate. Mentre i miei occhi cominciarono a risalire, notai la sua pelle liscia, che risplendeva nella luce lunare, decorata qui e là da piccoli nei, veri e propri gioielli.

E lei mi guardava, sempre con lo stesso sorriso sulle labbra e negli occhi. Se era a disagio, se provava una qualche vergogna, non lo diede minimamente a vedere. Forse anche a lei piaceva essere guardata, forse anche in lei c’era il desiderio di sentire l’invisibile tocco del mio sguardo sul suo corpo. Sperai che fosse così, lo sperai con tutte le mie forze perché per sempre avrei desiderato guardare il suo corpo nudo e perché Claire era fatta apposta per essere guardata e ammirata; lei era come un’opera d’arte, talmente stupenda che solo chi si dimostrava meritevole poteva ammirare.

Sì, una vera opera d’arte.

Sine cera.

Sin dai tempi di Michelangelo, gli scultori solevano utilizzare la cera sulle loro opere, laddove avevano commesso degli errori, per poi ricoprirla di polvere di marmo. In questo modo ogni errore, ogni imperfezione, veniva celata in modo magistrale. Tutte le sculture che, per la maestria del loro creatore, venivano portate a compimento senza errori, venivano appellate con l’espressione “sine cera”, senza cera.

E così era lei, senza cera, senza imperfezioni, assolutamente perfetta. Un’opera d’arte che offuscava con la sua bellezza qualsiasi altra opera esistente. In seguito, in un giorno futuro che ora custodisco nei miei ricordi, guardando il suo corpo nudo e il suo viso sorridente, pensai che i migliori scultori di tutti i tempi avessero creato una statua talmente bella e perfetta, che gli dei premiarono tanto splendore dandole vita.

Mi prese una mano, ridestandomi da quel momento di muta contemplazione, e se la posò su un seno. Mi chinai su di lei baciando le sue labbra, cercando la sua lingua, godendo nel sentire il suo capezzolo inturgidirsi sotto la mia mano.

Facemmo l’amore in quel letto. Dolcemente, a lungo.

Poi lei arrivò all’orgasmo e fu una delle cose più belle che abbia mai visto in vita mia.

La osservai e la sentii mentre l’orgasmo esplodeva nel suo corpo. Rovesciò la testa all’indietro, inarcò la schiena accogliendo il piacere che le stavo dando. Poi il suo corpo venne scosso da contrazioni e brividi di piacere, mentre gemiti meravigliosi usavano dalla sua bocca aperta. Ma la sua espressione, fu quella a colpirmi sopra ogni altra cosa. Sul suo viso coesistevano nello stesso tempo una gamma eterogenea di espressioni, di stati d’animo, che non avevo mai visto: dolcezza, tenerezza, sensualità, malizia, ione, piacere…tutto nello stesso

tempo. In quel momento vidi la sua luce, la sua bellezza, aumentare esponenzialmente fino a giungere un livello tale che mi sconvolse. Non avevo neanche mai immaginato che potesse esistere un livello di bellezza, fisica e interiore, tanto elevato. Nessun essere umano, maschio o femmina che fosse, poteva contenere tutto quello splendore. Sì, in quel momento io stavo guardando una dea!

Era l’apoteosi, la sua apoteosi, nel senso letterale del termine. Apoteosi significa letteralmente “deificazione” o “divinizzazione”, l’ascesa di un essere umano al rango divino; e in quel momento, durante il suo orgasmo, lei aveva intrapreso la sua apoteosi, divenendo una vera dea.

Baciai le sue labbra, le accarezzai il viso e, mentre si stringeva a me sorridendo, mi feci una promessa: sempre, ogni volta che ne avessi avuto occasione, le avrei regalato quel piacere, l’avrei resa una dea. Ancora oggi non credo che lei lo sappia, che abbia capito le mie vere intenzioni quando inizio ad accarezzarla e toccarla. Ogni volta che sono con lei è istantanea la comparsa del desiderio, a prescindere dal luogo o dalla situazione in cui siamo. Ma non è una questione di sesso, non solo… ciò che voglio, ogni volta, è renderla di nuovo una dea, la mia Dea.

Per la prima volta in vita mia avevo capito cosa vuol dire l’espressione “fare l’amore”.

E in quel momento compresi anche che cos’era quella strana sensazione che avvertii la sera che ci siamo visti la prima volta, quando per me lei era ancora “la ragazza della scala”: era la mia anima, che si dibatteva nell’oscurità in cui era confinata, perché aveva riconosciuto la sua.

Claire era la mia anima gemella.

5

Arrivato a questo punto, potrei apporre la parola fine a questa storia, ma c’è ancora un episodio, per me denso di significato, di cui vorrei scrivere.

La fine dell’anno si stava avvicinando e un paio di giorni prima del 31 dicembre, ricevetti un invito da parte di un mio amico, che mi chiedeva di andare insieme a Claire a festeggiare il primo dell’anno nella sua casa in montagna.

Claire in quei giorni non stava affatto bene, affetta da una brutta influenza con tanto di febbre che la costringeva a letto. Declinai quindi l’invito, decidendo di are quella festa insieme a lei, a casa sua.

Quando arrivai, potevo vedere chiari i segni della malattia sul suo viso e, dopo una cena veloce, si mise nel letto a riposare. Io mi sistemai al suo fianco, accarezzandole alternativamente capelli, braccio e schiena. In poco tempo sentii il suo respiro farsi profondo e regolare e capii che si era assopita.

Erano quasi le 23:30 quando mi resi conto di una cosa, ebbi una sorta di rivelazione che mi fece sorridere di gioia e che rese i miei occhi lucidi di commossa emozione. Mancava meno di mezz’ora all’inizio del nuovo anno ed io ero solo, al buio, in silenzio, accanto alla mia ragazza che dormiva avvolta al calore della febbre. Se qualcuno mi avesse prospettato un quadro simile per un capodanno, gli avrei sicuramente riso in faccia. Ma quella sera mi accorsi che ero esattamente dove volevo essere, che non avrei scambiato quella situazione con la più bella festa del mondo. Mentre accarezzavo la sua calda pelle e ascoltavo il suo respiro tranquillo, pensai che quello era l’unico luogo in cui avrei potuto sentire tanta felicità nel mio cuore.

Sarei rimasto anche tutta la notte ad accarezzarla, accudirla e coccolarla e sarebbe stato il più bel capodanno che avessi potuto are.

Un quarto d’ora prima della mezzanotte, la mamma di Claire venne a chiamarci, invitandoci ad andare a brindare in cucina. Lei si svegliò e sorrise. Stava meglio, la febbre era scesa e il suo viso era tornato ad essere solare. Andammo quindi in cucina e lì, con un bacio ed un brindisi, festeggiammo il nostro primo capodanno insieme.

Dopo quasi un’ora tornammo in stanza e ci mettemmo a letto. Io iniziai ad accarezzarla come avevo fatto poco prima, con l’intenzione di farla addormentare serena e farla riposare il più possibile. Ma lei si fece contro il mio corpo, mi baciò e iniziò a toccarmi e spogliarmi. In un attimo ci trovammo nudi in quel letto.

Facemmo l’amore a lungo, come non l’avevamo mai fatto. Si alternavano momenti di dolcezza infinita a momenti di impetuosa ione. Il piacere fu immenso, quello fisico e quello mentale. Più volte le sussurrai all’orecchio che l’amavo, mentre i nostri corpi sperimentavano posizioni ed emozioni stupende.

«Ti amo» mi sussurrò tra sorriso e lacrime. La strinsi a me, forte, ascoltando il veloce battito del suo cuore.

Rimanemmo a lungo stretti in quell’abbraccio.

Sì, senza ombra di dubbio, quello era stato il più bel capodanno della mia vita.

PROLOGO

In queste pagine ho cercato di raccontare come è nata la nostra storia, come è nato il mio amore per “la ragazza della scala”, nella speranza di essere riuscito a far capire perché, da tanto tempo a questa parte, mi rivolgo a lei definendola “la mia vita” e penso a lei in questi termini. Mi rendo conto che non è abbastanza, che ci vorrebbero almeno altre mille pagine per poter rendere giustizia alla sua bellezza, alla bellezza della nostra storia… ma mi rendo conto anche che sarebbe un’impresa impossibile perché non credo esistano parole degne di descrivere ciò che lei è per me e ciò che lei ha fatto per me.

Spesso mi dice che lei non ha fatto nulla.

In realtà, lei mi ha salvato. Dopo tempo ato a lasciarmi andare sempre di più, allontanandomi e allontanando chiunque, costruendo intorno a me un muro; lei è entrata nella mia vita con naturalezza, senza pretese, senza far rumore e quel muro non l’ha buttato giù di forza, ma si è sgretolato da solo a contatto con il suo splendore. Mi ha fatto tornare a sorridere, cosa che facevo sempre più di rado prima di conoscerla. Mi ha fatto tornare ad apprezzare cose che fino a poco tempo prima mi erano del tutto indifferenti. Grazie a lei ho potuto vedere e vivere cose nuove e, anche nei rari casi in cui erano cose già fatte, li vivevo con occhi nuovi, con un nuovo spirito, godendo di sensazioni che non avevo mai provato prima.

Claire mi ha fatto conoscere l’Amore, quello vero, quello per cui vale la pena vivere e morire. In ato, solo una volta ho pensato di essere innamorato. Con il senno di poi, non posso che dire che quello non era che una pessima imitazione, un sentimento che non può in alcun modo accostarsi a quello che provo ora per lei. Non ho mai desiderato stare con una persona come desidero stare con lei; non ho mai desiderato visitare il mondo con qualcuno come

desidero farlo con lei; non mai desiderato proteggere qualcuno come desidero proteggere lei da ogni cosa; non ho mai desiderato fisicamente nessuno come desidero lei, in ogni momento.

Infine, grazie a lei, ho scoperto cosa significa fare l’amore, ho sperimentato il piacere che si prova nel farlo e la purezza di cui è intriso ogni gesto. Da quando sto con lei l’ho sempre cercata, sempre desiderata, ma mai mosso solo dalla voglia fisica: il sesso e tutto ciò che gli gira attorno, non è mai stato solo fine a sé stesso, ma ogni gesto, dal più gentile al più ardito, è sempre stato mosso dal sentimento infinito che provo per lei. Con Claire potrei fare qualsiasi cosa, dal sesso più dolce e tenero a quello più travolgente e ionale; potrei fare ciò che il mondo appellerebbe come “perversione”, senza provare alcuna vergogna e senza metterci un solo grado sentimento in meno. Con lei farei tutto, desidero fare tutto e tutto sarebbe sempre e comunque l’espressione del mio amore. E sopra ogni cosa, desidero il suo piacere, desidero darle tutto il piacere che il mio amore è in grado di darle.

E con questo, sono arrivato alla fine… ancora tre cose:

Amo Claire!

Desidero Claire!

Voglio are tutta la mia vita con Claire, la mia “ragazza della scala”.

FINE

VI

Stefanie appoggiò l’ultima pagina sul tavolino, insieme alle altre. Emise un profondo sospiro. Sentiva gli occhi bruciare, commossa dalle parole che aveva appena letto.

«Wow» disse guardando Claire, che le sorrise.

Per tutto il tempo Claire era rimasta sul divano accanto all’amica, accendendo un paio di sigarette, mentre la sua mente tornava ai giorni descritti in quelle pagine.

«Era proprio innamorato perso» commentò Stefanie infine.

«Sì, lo era» anche Claire sentiva le lacrime che minacciavano di scendere, quindi si alzò e andò in cucina a prendere un bicchiere d’acqua per sé e per la sua ospite.

Stefanie ripensava ancora a tutto quello che aveva letto. Cose che pensava avrebbero potuto esistere solo in un libro. L’idea che proprio quel libro non fosse altro che al descrizione di una realtà realmente esistita la lasciava senza fiato. E confusa. Credeva di poter capire meglio la relazione tra Claire e Jhonny e la fine della stessa leggendo quelle pagine, ma ora era ancora più lontana dalla comprensione di quanto non fosse prima.

Claire tornò al divano.

«Ricapitolando» iniziò Stefanie sorseggiando l’acqua. «Avevi trovato, in pratica, la persona perfetta con cui stare. Romantico, attento, gentile, pieno di attenzioni».

Claire osservava l’amica con un accenno di sorriso. Sapeva quale sarebbe stata la prossima domanda e ne ebbe immediata conferma.

«Ma come è finita? Come è potuta finire?» chiese.

Per tutto il tempo Claire aveva temuto quella domanda, cercando di preparare una risposta decente. Non voleva mentire, ma non voleva neanche vedere biasimo negli occhi della sua migliore amica. Biasimo o addirittura disprezzo.

Alla fine decise di raccontare come erano andate realmente le cose.

«L’ho tradito» disse in tono asciutto. Una fitta di dolore le attraversò la mente vedendo gli occhi di Stefanie sgranarsi.

«Successe quando iniziai il mio tirocinio in clinica. Gli impegni miei e di Jhonny erano sempre più numerosi e avevamo sempre meno tempo per noi. E poi…» si interruppe, non sapendo bene come continuare.

Stefanie rimase in silenzio, sollecitando con un alzata di sopraccilglia l’amica.

«Non lo so» disse infine «Avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, che ci fosse qualcosa che Jhonny mi stava tenendo nascosta».

«Pensavi che avesse un’altra?»

«Sì. No.» le venne da ridere, più per la tensione che per la contraddizione comica. «L’ho pensato, ma non l’ho mai creduto possibile. Non sarebbe stato da lui». Bevve un lungo sorso d’acqua prima di continuare. «Da un po’ di tempo era diventato strano, sempre pensieroso. Jhonny è sempre stato uno di poche parole, ma in quel periodo erano proprio ridotte all’osso. Quando gli chiesi se c’era qualcosa che non andava, lui mi disse di non preoccuparmi, che appena avesse avuto le idee più chiare me ne avrebbe parlato».

Stefanie ascoltava in silenzio, formulando un pensiero che tentò subito di scacciare via.

Lui era strano, forse aveva un’altra e tu hai gli hai voluto rendere pan per focaccia.

Era un pensiero cattivo, che Claire non meritava. Cercò di mantenere un’espressione quanto più neutra possibile.

«E proprio in quel periodo conobbi Richard» riprese Claire.

A quelle parole Stefanie sentì il cuore perdere un colpo. Nella sua mente si stava

formando un disegno abbastanza chiaro dell’accaduto. Ogni parola dell’amica era un piccolo tassello che andava ad incastrarsi con tutti gli altri in modo perfetto.

«Richard era… Beh, Richard era l’esatto opposto di Jhonny. Esuberante, estroverso, sanguigno, impulsivo. Provai subito una certa attrazione per lui, ma cercai di non dargli peso».

Si accese un’altra sigaretta. Già sapeva che quella sera avrebbe avuto mal di gola, ma pensava che se non avesse fumato, avrebbe ripreso a piangere.

«Una sera ho ceduto e ho accettato il suo invito a cena. E’ stata una serata molto bella, rilassante… diversa. Alla fine della serata lo baciai». Arrossì mentre lo diceva, ma Stefanie continuò a non dire nulla. La diga era stata aperta ed ora non rimaneva che guardare l’acqua scendere lungo il letto del fiume.

«Dopo quella sera ci ritrovammo diverse volte. Si parlava, si scherzava, facevamo l’amore… e molte volte si litigava pure» Claire disse queste parole come litigare fosse uno dei ricordi più belli della sua vita. «Non mi ricordavo neanche più com’era litigare con qualcuno con cui avevi un rapporto così stretto». Si sporse sul divano verso Stefanie. «Vedi… Jhonny era la sicurezza, la calma, l’equilibrio. Richard era il caos ed era arrivato nel momento in cui avrei dato di tutto per un po’ di caos».

Stefanie credeva di capire. Annuì alle parole di Claire.

«E alla fine vi ha scoperti?» le chiese.

«Non proprio. Aveva iniziato a sospettare qualcosa e quando le sue domande si fecero più pressanti, gliel’ho detto». Claire distolse lo sguardo, volgendolo nuovamente alla finestra. Stefanie vide che stava piangendo, ma pensò che non ne fosse del tutto conscia. «Non dimenticherò mai l’espressione che vidi sul suo viso. I suoi occhi… Mio dio, i suoi occhi avevano dentro un dolore così forte che mi faceva male guardarli». Riportò lo sguardo su Stefanie, uno sguardo duro, uno sguardo arrabbiato. «Ma lo feci lo stesso. Lo guardai non mostrando alcuna emozione. E lo feci perché in quel momento mi odiavo, mi odiavo per il dolore che avevo causato all’unica persona che non lo meritava. E odiavo lui perché stava così male».

Fece una risata che suonò come il lamento di un animale in agonia. Stefanie le prese le mani e gliele strinse.

«Capisci Stef? Lo vedi che persona sono?» ora la voce era rotta dai singhiozzi, ma il volume cresceva sempre più. «L’ho tradito, gli ho fatto male e l’unica cosa alla quale sono riuscita ad aggrapparmi è stata la rabbia verso il suo dolore».

Pianse per qualche secondo. Non poteva continuare a parlare. Stefanie le accarezzava i capelli e la schiena, cercando di darle un conforto che potesse calmarla. Quando infine vide che i singhiozzi erano cessati, le chiese: «Quindi lui ha fatto una scenata e se ne è andato, giusto?».

La reazione di Claire colse Stefanie del tutto impreparata. Rise. Una risata amara, ma sincera.

«Una scenata?» chiese mentre le risa scemavano. «Quando prima ti ho detto che con Jhonny era impossibile litigare, intendevo che era proprio letteralmente

impossibile. Nonostante il dolore nei suoi occhi, lui continuò a parlarmi con un tono calmo. Mi conosceva, mi conosceva molto più di quanto chiunque mi abbia conosciuto. A volte ho pensato che Jhonny mi conoscesse più quanto io stessa fossi disposta a credere». Con le mani leggermente tremanti, prese una sigaretta dal pacchetto omai quasi vuoto. Non l’accese, tenendola semplicemente tra indice e medio.

«Cercò di parlare con me, di capire perché era successo. Parlammo per diverso tempo e ogni volta che la rabbia faceva capolino tra le mie parole, lui riusciva non so come a rintuzzarla. Alla fine mi fece una semplice domanda. Mi chiese “Tu vuoi tornare come eravamo?”. E sai cosa gli ho risposto?».

Si portò una mano agli occhi, asciugandoli. Non attese la risposta di Stefanie.

«”Non lo so”, così gli risposi. Un fottutissimo non lo so! E allora lui fece una cosa che non dimenticherò mai, una cosa che mi fece desiderare in un attimo che nulla fosse mai accaduto. Ho desiderato con tutte le mie forze di poter tornare indietro nel tempo e rifiutare quell’invito».

Posò la sigaretta sul tavolino e guardo l’amica negli occhi.

«Mi prese il viso tra le mani, mi baciò la fronte e mi disse: “Ti auguro con tutto il cuore che tu possa essere felice stellina”». Altre lacrime scivolavano ora sulle sue guance. Stefanie si ritrovò a pensare che di questo o l’amica avrebbe rischiato un brutto caso di disidratazione.

«Era quello che mi ripeteva sempre. Mi diceva sempre che voleva solo la mia felicità e che sarebbe stato anche disposto a perdermi se questo avesse

significato per me essere felice». Fece una pausa. Stefanie si accorse che, nonostante gli occhi di Claire erano fissi nei suoi, l’amica non la stava guardando. Il suo sguardo andava oltre, lontano, in quel luogo dove risiedono i ricordi, un luogo dove occhi estranei non potranno mai guardare.

«Poi andò via. Ed io pregai. Per la prima volta dopo non so quanti anni, pregai. Pregai Dio che mi fe tornare indietro. Lo pregai perché cancellasse quegli ultimi mesi. Lo pregai perché Jhonny si voltasse e tornasse a stringermi. Perché io lo amavo davvero».

VII

L’orologio sulla porta della cucina segnava le 16.15. Stefanie si alzò dal divano per andare a preparare un tè. Mentre aspettava che l’acqua iniziasse a bollire, ripensò al racconto di Claire. Ora le era finalmente chiaro come ebbe inizio la storia tra lei e Richard, ma ancora non capiva come una storia come quella con Jhonny potesse essere finita in quel modo.

Il rumore dell’acqua in ebollizione la ridestò dai suoi pensieri. Prese due bustine di tè, le mise in altrettante tazze e vi versò l’acqua bollente. Diede uno sguardo al salotto mentre le bustine diffondevano il tè nell’acqua.

Claire era ancora seduta sul divano. Un braccio abbandonato in grembo, l’altro poggiato inerte sullo schienale. Guardava fuori dalla finestra, come se costituisse una via d’uscita da quella situazione. E probabilmente era proprio così che la vedeva. In quel momento, Claire avrebbe voluto essere una di quelle tante nuvolette che c’erano in cielo, libera da tutto e da tutti.

Quando Stefanie portò le tazze in salotto, un semplice “grazie” da parte di Claire e un sorriso stentato. Le faceva male vedere la sua amica in quello stato, né mai avrebbe pensato di potercela vedere. Claire aveva fatto della forza e della determinazione, due dei suoi tratti distintivi più importanti. Non si era mai scoraggiata, né arresa di fronte a nulla. Aveva affrontato due suicidi e un numero indefinito di incidenti da quando era entrata a far parte dell’organico della clinica, ma mai aveva dato segno di debolezza. Ora, con gli occhi arrossati e il viso segnato da lacrime e dolore, gli parve di non riconoscerla. E le prove per lei non erano ancora finite, di questo Stefanie ne era certa. Cosa sarebbe accaduto se Jhonny si fosse ripreso?

Ma era un’altra la domanda che girava per la testa di Stefanie, molto più urgente e concreta. Cosa sarebbe accaduto quando Richard fosse tornato da Londra, dove stava ando, insieme alla famiglia, la sua settimana di permesso? Jhonny sarebbe anche potuto rimanere in quello stato catatonico per sempre, ma Richard tra due giorni sarebbe tornato.

Si fece forza ed espresse i suoi pensieri e la sua domanda a Claire, che reagì con un sorriso colmo di triste preoccupazione, senza dire nulla.

«Quanto sa Richar di voi due?» le chiese infine.

«Quasi tutto» rispose Claire, sospirando. «Nei mesi successivi alla rottura con Jhonny, Richard mi rimase molto vicino. Decidemmo di interrompere la nostra relazione, io ero troppo sconvolta e lui lo capì. Ma non mi abbandonò, cercò di aiutarmi in tutti i modi». Sorrise ora. «Mi aiutò addirittura a cercarlo».

Claire raccontò quindi delle settimane successive alla rottura e alla sparizione di Jhonny. Per un’intera settimana, mossa dal solo orgoglio, non si fece più sentire da Jhonny. Niente chiamate, niente messaggi. Il lunedì successivo cedette ad un momento di debolezza e gli scrisse un messaggio. Non ricevendo alcuna risposta né quel giorno, né quello successivo, fu la rabbia a prendere il sopravvento.

«Gli scrissi un messaggio lunghissimo, pieno di cattiverie e recriminazioni» disse finendo il tè.

Dopo quel messaggio ò un’altra settimana. Non riusciva a credere a tutto quel silenzio. Jhonny non era mai riuscito a lasciare un suo messaggio senza

risposta, anche quando era al lavoro ed era pieno di cose da fare, riusciva sempre a trovare il tempo per scriverle qualche parole, fosse anche solo un “ciao”. Quel silenzio prolungato iniziò ad instillare in lei una certa preoccupazione. Decise quindi di mettersi al pc e indagare. Aveva tutte le di Jhonny salvate sul suo pc, lui si era sempre fidato di lei. E lei, dal canto suo, non si era mai permessa di “spiarlo” in tutti gli anni della loro relazione. Quella fu la prima volta che lo fece. Senza esito però. Gli email erano stati disattivati, così come il profilo di facebook.

Claire non riusciva a darsi una spiegazione plausibile, così prese il telefono e, invece di inviare un messaggio, lo chiamò. La sua preoccupazione crebbe esponenzialmente sentendo una voce registrata che l’avvertiva che il numero selezionato non era più attivo. Provò allora al numero di casa, ottenendo lo stesso messaggio da una voce diversa.

Fu quello il momento in cui chiese a Richard se poteva aiutarla. Lui si mostrò subito disponibile. Per quanto caotico e impulsivo, Richard le voleva davvero bene, forse già l’amava. E mosso da questi sentimenti non negò il suo aiuto. Andarono insieme a casa di Jhonny, trovandola però chiusa e deserta. Dai vicini non ottenne alcuna informazione utile. Tutti le dissero più o meno la stessa cosa, che il signor McLoud era partito, ma non sapevano per dove né per quanto, e che aveva incaricato un’impresa di pulizie a presentarsi una volta a settimana per pulire la casa.

Decisero quindi di andare nell’ufficio in cui Jhonny lavorava come informatico. Ciò che scoprirono riempì Claire di sgomento. Jhonny aveva dato le dimissioni il giorno dopo la loro rottura e, da allora, non avevano più avuto sue notizie.

Un nulla di fatto su ogni fronte. In macchina, mentre tornavano a casa di Claire, la ragazza propose di andare alla polizia. Richard vide il profondo turbamento in lei, e con tutta la calma possibile, convinse Claire che sarebbe stata una mossa inutile. Jhonny non era un bambino, era un adulto che aveva deciso di dare un

taglio con la sua vita e cambiare aria per un po’. Per quanto tatto mise in quelle parole, Richard vide il dolore che provocarono in quella che sarebbe diventata la sua compagna.

«Chiesi anche ad un amico che aveva agganci con la polizia, se poteva provare a fare qualche ricerca. Ovviamente non lo dissi mai a Richard.» sospirò a fondo. «In ogni caso non è che ci fosse molto da dire. Dopo un paio di giorni mi disse che Jhon era sparito nel nulla, senza lasciare alcuna traccia».

Stefanie ascoltava il racconto con un misto di sgomento e incredulità. Come poteva una persona sparire così nel nulla? Doveva pur aver lasciato qualcosa dietro di sé, avrà pur usato una carta di credito da qualche parte del mondo, avrà pur affittato o comprato una casa, una macchina, una qualsiasi cosa che imponesse di dare i propri dati.

Claire lesse i pensieri dell’amica sul suo viso.

«So che sembra assurdo, ma è così. Il mio amico ha cercato praticamente ovunque, qualunque cosa, ma non è riuscito a trovare nulla». Claire gesticolava sempre mentre parlava, spesso Jhonny le diceva che sembrava accarezzasse l’aria con le dita. Ora però lasciò cadere pesantemente le braccia in grembo. «Ed ora è tornato».

Stefanie le prese una mano tra le sue. Era gelida.

«Lo hai già detto a Richard?» le chiese.

«Non so come dirglielo» le rispose Claire, abbassando lo sguardo. Si vergognava della condizione in cui era. «Tra me e Richard, i primi tempi, furono un vero disastro, ricordi?».

Stefanie ricordava molto bene. All’inizio della loro relazione “ufficiale” i due litigavano spesso. Si erano lasciati e ripresi diverse volte ed ora Stefanie aveva il sospetto che il motivo di quei litigi fosse proprio l’uomo che sedeva ora sul letto della camera numero 6.

Claire confermò il sospetto dell’amica. Era difficile cancellare più di sei anni ati con una persona. Spesso Claire si trovava in posti o in situazioni in cui già era stata con Jhonny e andava completamente in crisi. Piangeva oppure reagiva con rabbia. Per quanto Richard si sforzasse di capirla, anche lui era molto impetuoso nelle reazione e finivano sempre con il litigare. Richard le diceva che doveva superare quanto era accaduto, Claire rispondeva che non spettava a lui dirle cosa doveva o non doveva fare.

Stefanie si trovò suo mal grado a sorridere. Ecco, quella era la Claire che conosceva, orgogliosa e sicura si sé al punto di negare anche realtà che aveva davanti pur di non darla vinta ad anima viva.

«Ricordi quando ci siamo lasciati l’ultima volta?» le chiese.

Stefanie annuì. Era accaduto poco meno di quattro anni prima. Erano rimasti separati per più di tre mesi e Stefanie stessa pensò che la loro storia fosse finita definitivamente.

«Non ti ho mai raccontato il motivo, ma ora non vedo motivo per non farlo».

Si accese una sigaretta e iniziò a raccontare.

Era giugno e c’era un tempo favoloso. Richard le propose di andare a fare una gita con lei. Non volle dirle nulla, nonostante le domande pressanti della ragazza. Era una sorpresa e tale doveva rimanere. Infine lei accettò.

Claire amava scrivere. Il suo sogno nel cassetto era quello di pubblicare un libro. Nell’attesa di cimentarsi in quel progetto, scriveva i suoi pensieri e le sue storie su un blog. Richard, che leggeva sempre con grande interesse il suo blog, vide un post scritto diversi anni prima. La ragazza descriveva una sorta di pic-nic sulla collina dietro casa, al riparo di un grosso masso. Descriveva alla perfezione i cibi posati sulla coperta e di come dal cibo, complice un buon vino e il riparo della roccia, si ò al sesso. Appena lesse quella storia, Richard decise di renderla reale.

Portò Claire sulla collina e, appena ati intorno al masso, Claire vide il plaid con tutto già pronto per essere mangiato. Tramezzini, torta, frutta e, ovviamente, la bottiglia di vino, dello stesso tipo scritto da lei. Era un gesto meraviglioso quello fatto da Richard. Ma la reazione di Claire fu tanto inaspettata quanto assurda. Alla vista del plaid si irrigidì e gli occhi le si riempirono di lacrime. Richard scambiò quelle lacrime per commozione e si avvicinò alla ragazza per abbracciarla. Lei, invece, lo spinse via con forza, iniziando a piangere e gridando che voleva andarsene, che voleva tornare a casa, che era stato un perfetto idiota. Scoppiò così il litigio peggiore che avessero mai avuto e, tornati a casa, si separarono senza neanche salutarsi.

«Non l’ho mai detto a Richard, né mai lo farò credo» disse Claire «ma il motivo della mia reazione era molto semplice. Quello che scrissi sul blog non era una storia inventata, non era un desiderio che volevo realizzare. Era la descrizione del mio primo anniversario con Jhonny».

Stefanie sgranò gli occhi, mentre il fiato le si bloccava nel petto. Un gesto immensamente romantico da parte di Richard, era in realtà un errore madornale.

«In un attimo mi sono sentita trasportare all’indietro nel tempo. Quando mi voltai verso Richard mi aspettavo quasi di trovare Jhonny. E la delusione e la rabbia che provai quando invece vidi che c’era solo Richard mi ottenebrarono la mente e mi fecero crollare».

Claire abbassò nuovamente lo sguardo. Si tormentava le mani e il suo corpo era scosso da brividi.

«Come faccio ora a dirgli che Jhonny è tornato? Come faccio a dirgli che il suo incubo peggiore si è alla fine avverato?» chiese tra le lacrime.

«Incubo?» chiese Stefanie.

«Già, è così che lo definisce Richard. Più di una volta in questi anni mi ha detto che il suo incubo peggiore è vedere tornare Jhonny e guardarmi andare via con lui».

Stefanie prese l’amica di forza, la strinse forte nel suo abbraccio.

«Ora tu e Richard siete una coppia da molto tempo, le cose sono cambiate. Devi dirglielo, glielo devi. Vedrai che andrà tutto bene».

Claire non rispose, limitandosi ad annuire nell’abbraccio dell’amica.

Glielo avrebbe detto, non poteva evitarlo. Ma non era sicura quanto Stefanie che tutto sarebbe andato per il meglio.

«Come è possibile dire al proprio uomo che l’amore della tua vita è tornato?» disse piangendo contro il petto di Stephanie. «Ho amato Jhonny come non ho mai amato nessuno, neanche Richard».

«E lo ami ancora» disse Stephanie stringendola a sé.

«E lo amo ancora» confermò Claire piangendo più forte.

VIII

Il giorno seguente Claire si presentò in clinica alle otto, puntuale come sempre. Si era aspettata di trovare, come tutte le mattine, il signor Brenton pronto a salutarla, con la sua strana parlata.

Ted Brenton, ospite della clinica da oltre dieci anni, era un omone di proporzioni gigantesche, con un cervello che aveva raggiunto sì e no i 6 anni. Con un tono di voce molto basso, parlava allungando le vocali, dando così l’impressione che l’audio fosse al rallentatore.

A scapito della mole, era poco più di un bambino che non avrebbe fatto male ad una mosca. Era stato ricoverato alla clinica in seguito ad una crisi psicotica. Si trovava in un centro commerciale quando iniziò a picchiarsi la testa, gridando che qualcuno fe tacere le voci al suo interno.

Sotto l’azione di psicofarmaci, che prendeva ogni giorni, le voci si erano placate, anche se non erano del tutto sparite. C’erano giornate in cui non lo si vedeva uscire dalla sua stanza e, se ti affacciavi alla porta, lo vedevi rannicchiato sul letto a premersi forte le mani sulle orecchie. Un bambinone di oltre centocinquanta chili con grandi lacrimoni che scendevano sulle guance ispide di barba.

L’assenza di Ted non era un buon segno. E ancora peggio fu sentire la voce che si avvicinava dalla sala infermieri.

La voce era di Karl Mason, operatore notturno. Non stava simpatico a nessuno nella clinica, ma le sue conoscenze altolocate gli avevano assicurato quel posto finchè non se ne fosse stancato. Non era una persona propriamente cattiva, ma aveva il tipico atteggiamento da “simpatico a tutti costi”. Purtroppo, però, aveva un senso dell’umorismo molto particolare. Era il genere di uomo che trovava divertente farti lo sgambetto mentre avevi in mano un vassoio di bicchieri, o che pensava che le pacche amichevoli fossero quelle che lasciavano un alone arrossato sulla schiena, sul braccio o in qualsiasi parte del corpo gli venisse offerta. Come se non bastasse, non mancava mai di fare battute a sfondo sessuale ogni volta che ne aveva l’opportunità, la maggior parte squallide.

Gli ospiti della clinica gli stavano alla larga, per quanto fosse possibile. Gli altri membri lo evitavano più che potevano. Claire non avrebbe potuto fare incontro peggiore quella mattina.

Si avvicinò a Claire, sfoderando quello che riteneva essere un sorriso accattivante. «Buongiorno dottoressa, sempre più bella ogni giorno che a».

«Dopo una notte ata in bianco e un torno di 12 ore che mi aspetta, non credo proprio di esserlo, ma grazie e buongiorno a te» rispose Claire dirigendosi verso il suo ufficio.

«Uh notte in bianco. Il nostro operatore preferito è tornato prima dalla vacanza?».

Claire si ritrovò a serrare i pugni, infilandosi le unghie nei palmi. Karl Mason era sempre irritante, ma quel giorno lo trovò particolarmente odioso.

«Karl, ascoltami bene» disse ponendosi di fronte all’operatore. «Se sento uscire un’altra parola che abbia a che fare con la mia vita privata ti faccio rapporto. Se ti becco di nuovo a dare appellativi offensivi a qualche nostro ospite, ti faccio rapporto. Ed ora timbra il cartellino e levati di torno».

Entrò in ufficio e chiuse la porta. Attraverso il vetro vide la sagoma di Karl rimanere immobile per qualche istante. Sapeva che strigliate del genere avrebbero potuto causare problemi, ma non era riuscita a trattenersi.

«Bastava dirlo che aveva le sue cose» disse Karl da dietro la porta prima di allontanarsi ridendo.

Claire fu sul punto di spalancare la porta e saltargli addosso, giusto per strappagli dalla faccia quel sorriso odioso. Si trattenne, respirando a fondo e obbligandosi a distendere le mani.

Si sedette alla scrivania e guardò il quaderno delle consegne. Dovette rileggere diverse volte le stesse cose, perché la sua mente era altrove. Ogni fibra del suo essere voleva alzarsi e andare alla stanza sei. Si obbligò invece a fare il suo lavoro come sempre. Tra poco più di un’ora sarebbe arrivata Stephanie e insieme avrebbero fatto il giro visite.

IX

«Ieri sera gliel’ho detto».

Claire e Stephanie stavano camminando lungo il corridoio dell’ala est, verso la stanza del signor Brenton.

«Come ha reagito?» chiese Stephanie.

«Per un po’ è rimasto zitto, temevo che iniziasse a fare qualche scenata o qualcosa del genere» rispose Claire. «Poi mi ha chiesto come stavo io».

Stephanie sorrise. «Non l’ha presa tanto male, allora».

«Non lo so» disse Claire fermandosi davanti alla porta della stanza numero tre. «Lui mi ama e il suo primo pensiero è stato per me. Questo è molto bello. Ma non ho idea di come l’abbia presa lui».

«Dai, ora pensiamo al lavoro che dobbiamo fare» le disse Stephanie sorridendo «Domani Richard sarà qui e potrai farti un’idea più Claire».

Entrarono nella stanza e trovarono Ted sdraiato sul letto. Aveva assunto una

posizione fetale e aveva i palmi premuti contro le orecchie.

Le due si scambiarono un’occhiata. Sapevano bene cosa significava quella postura. Stephanie lasciò la porta aperta. Meglio avere una via di fuga libera.

«Ted» lo chiamò Claire.

Il gigante non diede segno di averla sentita.

«Ted» ripetè alzando un po’ la voce.

Ancora una volta nessuna reazione. Claire si avvicinò e questa volta, gli sfiorò un braccio mentre lo chiamava. Entrambe trasalirono allo scattò che fece Ted voltandosi.

«Uh sei tu dottoressa» disse l’uomo. «Non ti avevo sentito».

Si mise a sedere sul letto. Gli occhi erano arrossati, doveva aver pianto. Sul viso aveva un’espressione di stanca sofferenza.

«Come andiamo oggi, Ted?» chiese Stephanie.

L’omone si limitò a voltare la testa a destra e sinistra, come già aveva fatto

quando Claire era arrivata in clinica. Una grossa lacrima scese da un occhio.

«Sono le voci, Ted? Le senti ancora?» chiese Claire.

Lui annuì. Claire si sentì stringere il cuore in una morsa guardando il viso di Ted. Non c’era solo sofferenza, ma anche vergogna. Per quanto la gente lo ritenesse ritardato, Ted Brenton sapeva che sentire le voci era una cosa di cui vergognarsi, perché ti faceva diventare un matto agli occhi del mondo.

Claire allungò una mano, andando a prenderne una dell’uomo. Lui la strinse con delicatezza. Stephanie, a pochi i da loro, guardò con un certo sgomento come la mano dell’amica era completamente sparita in quella dell’uomo.

«Andrà tutto bene Ted» gli disse Claire. «Aumentiamo un po’ il dosaggio e vedrai che spariranno di nuovo».

Ted le rivolse uno sguardo colmo di speranza. «Sono tanto forti».

Claire annuì e scrisse sulla cartella clinica del paziente il nuovo dosaggio.

Mentre uscivano dalla stanza, l’uomo si rimise nella sua posa “anti-voci”.

Ben Terringer quella mattina era di umore ottimo. Quando entrarono nella sua stanza lo trovarono di fronte alla finestra a canticchiare una canzone che nessuna delle due conosceva. Ben era ospite della clinica da poco più di un anno. Ogni

volta che si entrava nella sua stanza, era un terno al lotto; potevi trovarci Ben, allegro, sorridente e canterino. O potevi trovarci un uomo scuro in volto, taciturno e incline ad atti di violenza. Quando fu trasferito alla Green Pine, Claire lesse la cartella clinica, come sempre faceva. La sua attenzione fu attirata da una nota scritta a mano e sottolineata due volte. Non bisognava lasciarsi trarre in inganno dalla costituzione fisica del signor Terringer. Nonostante fosse magro da rasentare l’anoressia, quando si trasformava in mister Hyde, era in grado di sviluppare una forza spaventosa.

Terminata la visita a Ben, che le saluto soffiando un bacio nella loro direzione, si avviarono verso la stanza sei.

Jhonny era sdraiato nel letto, gli occhi fissi e vuoti rivolti al soffitto.

Claire sentiva un misto di emozioni crescerle nel petto e fece appello a tutte le sue forze per tenerle a bada.

Lo misero a sedere, provando ripetutamente ad ottenere una qualsiasi reazione. Tutto fu inutile. Era come se qualcuno avesse abbassato gli interruttori di tutti i suoi sensi. Non rispondeva a stimoli sonori, visivi o tattili. Rimaneva fermo in qualunque posizione venisse messo.

Dopo una venti minuti di insuccessi, Claire decise di porre fine a quella visita. Da un lato sapeva che non c’era nulla che potesse fare nell’immediato per risolvere lo stato in cui si trovava Jhonny. Dall’altro, le faceva troppo male vederlo in quello stato e temeva di lasciarsi sopraffare da una nuova crisi di pianto.

La giornata ò lenta e noiosa. Di tanto in tanto Claire usciva dal suo ufficio per andare nella camera di Jhonny, ma ogni volta si fermava sulla soglia della porta ad osservarlo. Mattino, pomeriggio e sera, lui era sempre seduto su una sedia a rotelle, rivolto verso la finestra a guardare il nulla.

X

«E dovrei farlo io?».

Anche se aveva cercato di mascherare i suoi reali sentimenti, nel tono della voce di Richard emerse una nota di rabbia.

Era tornato la sera precedente, ma vista la tarda ora, lui e Claire avevano deciso di vedersi direttamente l’indomani mattina. Si erano salutati con un lungo abbraccio e un altrettanto lungo bacio. Claire sperò che Stephanie avesse avuto ragione, che il suo uomo era riuscito in qualche modo a prendere per il verso giusto il ritorno di Jhonny.

Ora, però, chiusi nell’ufficio di Claire, la tensione era andata via via crescendo. Richard, essendo l’unico operatore diurno maschio, aveva tra i suoi compiti quello di accompagnare gli ospiti nei bagni, sorvegliarli mentre si lavavano e aiutarli quando fosse stato necessario. Claire gli aveva appena comunicato che c’era da lavare Jhonny.

«Cazzo Claire, non puoi farmi questo» disse Richard andosi le mani tra i capelli corti.

Claire sentiva montare l’ira dentro di sé. Non voleva litigare con lui, non dopo una settimana ata lontani, ma Richard riusciva sempre ad accendere in lei il fuoco della ione, nel bene e nel male.

«Sei l’unico di turno, quindi sì, posso farti questo» gli rispose fissandolo negli occhi.

Richard si avvicinò alla scrivania, sbuffando.

«Non può aspettare? Stasera arriva Karl e lo fai fare a lui».

«Non permetterei a Karl di andare nei bagni con un paziente neanche per tenere chiusa la porta del cesso, figuriamoci lavarli» disse Claire alzandosi dalla sedia. «Quindi, o lo fai tu, o toccherà farlo a me. Ma non penso che la cosa potrebbe farti molto piacere, o sbaglio?».

Come sempre, al limite dell’arrabbiatura, Claire era in grado di scoccare frecce avvelenate che andavano dritte al bersaglio. Si pentì subito per ciò che aveva detto. Sul viso di Richard vide che lo aveva ferito. Gli si avvicinò e gli posò una mano su una guancia.

«Per favore Richie» disse addolcendo il tono.

«Ok ok, lo faccio» disse sbuffando nuovamente. Era ancora arrabbiato, ma aveva capito che non poteva tirarsi indietro. In fondo quello era il suo lavoro.

«Ma se si riprende mentre lo lavo, vieni poi tu a spiegargli perché gli sta strofinando la schiena la persona che gli ha soffiato la donna della sua vita».

Claire non sapeva se Richard avesse voluto pagarla con la stessa moneta, o se era un modo per stemperare l’atmosfera. Ma le sue parole fecero male alla ragazza, un male profondo. Guardandolo uscire dall’ufficio, si rese conto che era sul punto di gridargli contro un qualche insulto e si obbligò a voltare le spalle e fissare lo sguardo fuori dalla finestra.

Quella piccola schermaglia con Richard, fece pensare a Claire che, forse, la cosa migliore da fare, era quella di chiedere il trasferimento di Jhonny in un’altra struttura. Il suo ritorno aveva già fatto parecchi danni, in lei prima di tutto, e nel suo rapporto con Richard. Si erano rivisti da neanche un’ora e già c’era stato il primo litigio. Se Jhonny fosse rimasto, i litigi si sarebbero moltiplicati e chissà come sarebbe potuta andare a finire.

A volte, nella vita, capita che una persona ne trovi due con le quali si trova bene allo stesso modo. Ma a volte, capita che quelle due persone siano completamente incompatibili tra di loro. E’ come avere due componenti per un pc meravigliosi. Montati da soli fanno sì che il pc abbia delle prestazioni straordinarie. Montati contemporaneamente mandano in crash il sistema, bruciano il processore e, magari, fanno pure saltare l’interruttore generale della casa.

Jhonny e Richard erano così. Due persone che, ognuno a modo proprio, riuscivano a farla stare bene, a farla sentire felice. Ma questo funzionava solo se uno dei due non c’era.

Persa in questi pensieri, non sentì subito il cellulare vibrare sul legno della scrivania.

Quando lo prese e lesse il nome di Richard, le sfuggì un sorriso. Era tipico di

Richard chiamarla cinque minuti dopo una discussione per chiederle scusa e fare pace.

«Richard non è il caso di…»

«Vieni subito» la interruppe lui. Il tono che aveva usato, secco, perentorio, le fece scattare tutti i sistemi di allarme che aveva in corpo.

Chiuse la chiamata e si precipitò fuori dall’ufficio.

Che altro è successo adesso?

Pensò mentre percorreva il corridoio. Contemporaneamente un altro pensiero le si era formato nella mente. Si è ripreso.

Decise di ricacciare indietro quel pensiero. Forse per scaramanzia, forse per non rimanere delusa, ma quel pensiero doveva essere estirpato prima che riuscisse a mettere radici. Ma talvolta i pensieri sono molto veloci e le radici che mettono molto robuste.

Richard la aspettava sulla porta della stanza.

«Cos’è successo?» chiese Claire.

Richard non rispose per qualche secondo. La guardava con uno sguardo strano.

«Allora?» Claire fece per entrare, ma le mani di lui le impedirono di proseguire.

«Ti ho chiamata perché devi vedere una cosa, ma…» si interruppe distogliendo lo sguardo. «è una cosa pesante Claire».

Lei inarcò le sopracciglia. Cosa doveva vedere? Perché Richard appariva così preoccupato e quasi sconvolto?

Dopo qualche istante, lui la fece entrare, camminando al suo fianco.

Jhonny era seduto sul letto, con il viso rivolto verso di loro. Non li stava guardando, non guardava nulla in realtà. Richard doveva avere appena iniziato a spogliarlo prima di chiamarla, perché era a petto nudo.

Claire lo guardò, notando quanto il suo fisico fosse cambiato. La sensazione che aveva avuto la prima volta che lo vide, trovava ora conferma. Era molto più robusto rispetto all’ultima volta che lo aveva visto. I muscoli erano in evidenza, tonici. Era persino sparita quella pancetta su cui spesso lei lo prendeva in giro, lasciando il posto ad addominali ben definiti.

Ma perché Richard l’aveva chiamata? Di certo non per farle vedere il nuovo fisico di Jhonny. Si voltò verso di lui, chiedendogli con lo sguardo cosa, di preciso, doveva guardare.

«Fai il giro. Dietro» disse lui sottovoce.

Sempre più spaesata, Claire iniziò a fare il giro del letto. Richard la trattenne per un braccio e lei si voltò sentendo la rabbia crescere nuovamente.

«Non è un bello spettacolo» le disse lui. La trattenne finchè non fu certo che lei lo stesse prendendo sul serio.

Claire girò infine il letto. Appena i suoi occhi si posarono sulla schiena di Jhonny, per un istante la sua mente si rifiutò di accettare ciò che vedeva.

Lentamente si portò una mano alla bocca. A stento sentì le lacrime che le bruciavano negli occhi.

La schiena di Jhonny era devastata da cicatrici per quasi tutta la sua superficie. Come se un cartografo sadico avesse disegnato centinaia di strade e incroci. Alcune erano piccoli cerchi di pelle raggrinzita. Altre invece partivano da una spalla e arrivavano sino al fianco opposto.

Claire era come ipnotizzata. Era rimasta immobile a fissare quell’orrore. Si ridestò da quella trance quando i polmoni protestarono per l’assenza di aria. Alzò lo sguardo verso Richard, che le si era avvicinato. Per un momento ne vide due per la vista offuscata dalle lacrime.

Richard le posò una mano sulla spalla.

Claire tornò a guardare la schiena di Jhonny.

«Mio dio, cosa ti hanno fatto?» chiese avvicinandosi. Protese una mano verso la pelle martoriata, ma all’ultimo momento non riuscì a toccare quelle cicatrici.

«Forse ora sappiamo perché è in questo stato» le disse Richard.

Claire era troppo sconvolta e subito non comprese le parole dell’uomo. Nella sua mente continuava a ripetersi ossessivamente la stessa domanda: Cosa ti hanno fatto?

«Claire» la chiamo lui. C’era dolcezza nella sua voce e lei si chiese come aveva potuto arrabbiarsi con lui. Lo amò in quel momento, per la sua delicatezza, per la dolcezza con cui le parlava nonostante sapesse bene che in quel momento tutte le sue attenzioni erano rivolte all’unico uomo che avrebbe potuto cancellare la loro storia. Riuscì a sorridergli.

«Scusa» gli disse «Cosa stavi dicendo?».

«Dicevo che ora potresti avere un’idea del motivo del suo stato».

Il cervello di Claire si stava lentamente riprendendo dallo shock di quelle cicatrici. Le ci volle qualche secondo, ma alla fine riuscì a capire cosa intendeva Richard.

«… post traumatico» pensò ad alta voce. «Potrebbe essere».

C’era del dubbio nella sua voce. Non per l’idea di Richard, che riteneva più che probabile. Conosceva gli effetti che uno shock poteva avere sulla psiche umana e riteneva più che probabile che lo stato di Jhonny fosse causato da quello che gli avevano fatto. Quello che la lasciava perplessa era la solita domanda che le girava in testa. Cosa era successo? Chi gli aveva fatto quello? Perché?

Tutte domande che non avrebbero trovato risposta se Jhonny non si fosse ripreso. E anche in quel caso, era possibile che di risposte non ce ne sarebbero state. Solitamente, quando un dolore, uno shock è tanto importane da causare uno stato catatonico, chi riusciva a riprendersi non ricordava praticamente nulla dell’accaduto, se non dopo settimane o mesi di psicoterapia. La rimozione è un meccanismo di difesa portentoso e in alcuni soggetti diventava una barriera quasi invalicabile.

«Che cosa gli sarà successo?». Si stava rivolgendo più a se stessa che a Richard. «Deve aver avuto un incidente terribile».

«Non è stato un incidente» le disse Richard. Lei lo guardò con aria interrogativa. Richard notò che c’era dello scetticismo nel suo sguardo. Si ritrovò a pensare che era da lei. Claire non prendeva mai come dato di fatto ciò che le veniva detto, doveva sempre scavare a fondo e convincersi da sé che gli era stata detta una cosa vera o meno.

«Quelli sono segni di tortura» continuò lui, sospirando. «Vedi queste cicatrici trasversali? Sono i segni di frustate. Quelle piccole circolari, invece, sono bruciature, di sigaretta o di brace. Queste invece, così regolari, sono state fatte senza dubbio da un’arma da taglio».

Richard indicava con l’indice ogni cicatrice mentre parlava. Ad ogni sua parola, in Claire crescevano orrore e sgomento.

«Come fai a saperlo?» gli chiese. Si accorse che le tremava la voce.

«Prima di venire a lavorare qui, ho fatto volontariato in diversi dormitori. Te ne avevo parlato, no?».

Claire annuì.

«In uno di questi una sera arrivò un ragazzo somalo. Badhir.» Richard si spostò, mettendosi tra lei e la schiena nuda di Jhonny. Aveva notato come lo sguardo della ragazza ne fosse attratto e di come ogni volta si dipingeva un’espressione di dolore che gli faceva male. «Era riuscito a fuggire dalla guerra che ancora sta devastando il suo paese, ma non prima di essere stato catturato. Mi raccontò di essere stato prigioniero delle milizie per due o tre settimane. Lo avevano seviziato in ogni modo e mi fece vedere i segni di ciò che gli fecero. La sua schiena, il petto, le gambe… quasi tutto il suo corpo era coperto delle stesse cicatrici che ha Jhonny».

Claire iniziò a piangere mentre ascoltava le parole di Richard.

«La cosa che mi fece più effetto di Badhir» continuò «è che sorrideva mentre mi raccontava tutto questo. Quando gli chiesi come potesse sorridere nel ricordare momenti così terribili, lui mi disse che sorrideva perché era riuscito ad uscire dall’inferno ed era in grado di raccontarlo».

Claire sorrise malgrado le lacrime. Anche lei aveva fatto volontariato in vari posti e aveva conosciuto diversi immigrati. Clandestini, rifugiati politici, in regola, di tutti i tipi, di tutti i colori e di tutte le religioni. Sapeva bene quanto molte di quelle persone potessero dare e quanta forza riuscissero ad avere nonostante tutto quello che avevano ato.

«Ma non è possibile» disse «Jhonny non può essere stato in guerra, lui ha sempre odiato la guerra».

«Claire, io non so dove o come si sia procurato quelle cicatrici. So solo che gli sono state inferte di proposito».

Una parte di lei continuava a non ritenere possibile una cosa del genere. Non riusciva in nessun modo a figurarsi Jhonny, che si rifiutava persino di uccidere una cimice che ronzava in camera, alle prese con miliziani intenti a torturarlo. Doveva esserci un’altra spiegazione.

Quando, però, Richard si spostò e lei vide nuovamente la schiena deturpata, la sua sicurezza vacillò. Possibile che Jhonny fosse partito per uno di quei paesi in cui c’era la guerra? Magari per aiutare, sarebbe stato da lui. E potrebbe essere stato rapito da qualche gruppo di delinquenti che lo avevano ridotto in quel modo.

No, non stava in piedi come ricostruzione. Fosse partito per un altro paese, come avrebbe potuto tornare, ridotto in quelle condizioni? Non era neanche in grado di svolgere le più semplici funzioni fisiologiche, figuriamoci intraprendere un viaggio da un qualche paese lontano.

La mano di Richard sul suo braccio la ridestò da quei pensieri.

«Quando si riprenderà ne sapremo di più, inutile pensarci troppo adesso» le disse.

Se si sveglierà fu il pensiero di Claire.

«Hai ragione» disse a Richard. «E grazie».

Gli mise le braccia intorno al collo, lo baciò e posò per qualche istante la guancia sul suo petto.

«Non è facile per me, Claire» le disse mentre le accarezzava i capelli «Ma so che deve essere ancora meno facile per te e voglio fare il possibile perché questa cosa non ti mandi in crisi più del necessario».

Lei affondò nel suo abbraccio, lasciando che il suo profumo che invadesse le narici. Lo amava, non aveva alcun dubbio a riguardo. Ma anche in quel momento, stretta in quell’abbraccio, si chiese come sarebbe andata tra di loro se Jhonny non se ne fosse mai andato. E si chiese cosa ne sarebbe stato di loro se si fosse davvero risvegliato dal suo stato.

Erano pensieri che la turbavano in un modo che Richard non avrebbe mai capito. Nonostante la sua intelligenza, la sua cultura, Claire aveva sempre avuto una vita sregolata, specie nelle relazioni. Riusciva sempre a mettersi con la persona

sbagliata, tradiva senza alcun rimorso, né rimpianto. Più di una volta si era trovata in un angolo, terrorizzata, con un livido che si scuriva sul viso o un rivolo di sangue che colava dal labbro spaccato. Poi era arrivato Jhonny e con lui era arrivato l’equilibrio. Con Richard quell’equilibrio aveva traballato, soprattutto i primi tempi, ma alla fine aveva retto.

Ora che Jhonny era tornato, temeva che la sua vita fosse in procinto di un nuovo ribaltone. Tutte le certezze, tutta quella sicurezza che aveva ottenuto con Richard, lottando con tutte le sue forze, contro sé stessa in primo luogo, ora rischiavano di scomparire.

Non parlò, non disse nulla all’uomo che la stava abbracciando con tanto amore. Non lo rese partecipe delle sue paure, non gli disse delle due voci che sentiva nella testa, una che diceva che sarebbe andato tutto bene, l’altra che urlava che tutto sarebbe andato a rotoli. Non gli disse quanto male faceva sentire tutto quell’amore con il quale la avvolgeva.

Rimase nel suo abbraccio, cercando di calmarsi e di zittire quelle voci che litigavano nella sua testa.

XI

Sulla statale 57, al chilometro 24, automobilisti assonnati potevano trovare riposo al Den’s Motel. Assonnati e non schizzinosi.

Entrando nel Motel, si veniva accolti da un bancone che da tempo non si beava del contatto con uno straccio pulito. Al di là del bancone c’era Dan in persona, un ciccione mastodontico non molto più pulito del bancone su cui posava i suoi manoni. Le stanze, 10 in tutto, erano arredate con un letto, una sedia e un tavolino. Ovunque l’aria era pervasa dall’odore di muffa e di marcio.

La stanza in fondo al corridoio del secondo piano era l’unica occupata al momento. Dick Miley sedeva sulla sedia traballante davanti alla finestra. Era ormai ospite del motel da quasi due settimane. Ai piedi aveva un posacenere straripante di mozziconi di sigaretta. L’attvità principale in quelle due settimane era stata quella di fumare e guardare il pezzo di mondo dalla finestra. E aspettare.

Si portò una mano tremante sui capelli unti. Prese una Camel dal pacchetto che si andava svuotando velocemente. Quanto ancora avrebbe dovuto stare in quella bettola? Quanto tempo ancora prima di poter essere al sicuro?

Erano questi gli interrogativi che vorticavano nella mente di Dick, mentre soffiava il fumo dalle narici.

Vide un’utilitaria scura accostare davanti al motel. Come sempre accadeva

quando una macchina si fermava, il suo cuore prese a battere a più velocemente e la fronte gli si imperlò di minuscole goccioline di sudore. La mano che teneva la sigaretta si fermò a metà strada e rimase immobile.

Dopo qualche secondo, l’auto riprese la strada e si allontano. Dick tornò a respirare, accasciandosi sulla sedia. Spense la sigaretta nel posacenere, spargendo cenere sul pavimento.

Non posso andare avanti così. Un giorno o l’altro il grassone di sotto mi troverà stecchito su questa maledetta sedia.

Si coprì il viso con le mani, chiedendosi per la milionesima volta se avevano fatto la cosa giusta, se fuggire da quello che sembrava il paradiso fosse stata una buona idea. Nel puzzo di fumo e muffa, cominciava a credere di aver fatto la stronzata più grande della sua vita.

Prese un’altra sigaretta. Si accorse che era l’ultima. Accartocciò il pacchetto vuoto e lo scagliò con rabbia contro il muro. Sarebbe dovuto uscire prima del previsto. Finora si era concesso solo una uscita al giorno, la sera. Usciva dalla stanza quando il sole era ormai tramontato e percorreva a piedi il tragitto che lo portava all’All In, uno spaccio economico in cui comprare cibo e sigarette. E una bottiglia di whisky scadente di tanto in tanto.

Erano solo le tre del pomeriggio e Dick non provò neanche a convincersi che avrebbe resistito senza sigarette fino alla sera. Si alzò dalla sedia che rispose con un cigolio. Prese il portafoglio dal tavolino e ne esaminò il contenuto. Cinquantasette dollari e qualche spicciolo. Poteva andare avanti ancora per una settimana al massimo, poi avrebbe avuto bisogno di altri soldi. La stanza era pagata per altre due settimane, ma il cibo e le sigarette, purtroppo per lui, non erano gratis.

Infilò il portafoglio nella tasta posteriore dei jeans con un grugnito. Pensò a quanto la vita a volte sapeva essere una vera puttana. Aveva sul suo conto una cifra a sette zeri, ma era costretto a vivere in un cesso di motel e mangiare da scatolette.

Dan il grassone non lo degnò di uno sguardo, troppo intento a sfogliare una rivista di armi e ad esplorare le profondità di una narice.

Fuori dal motel, Dick inspirò a pieni polmoni. are ventitrè ore su ventiquattro in quella topaia ti faceva apprezzare come non mai l’aria aperta.

Si incamminò sul bordo della strada verso lo spaccio.

Ancora due giorni pensò guardando l’asfalto.

Tre al massimo. Se non mi hanno ancora trovato fra tre giorni, vuol dire che sono salvo.

Tre giorni e sarà finita, potrò tornare alla mia vita.

Lasciò che la mente lo cullasse con le immagini di ciò che avrebbe fatto con i soldi guadagnati. Soldi che gli erano stati dati dalle stesse persone che ora gli davano la caccia. Che davano la caccia a tutti loro.

Per due settimane non aveva fatto altro che vivere sul chi va là. Dormiva poco e male e la maggior parte tempo era dedicata ad ispezionare la strada in attesa di vedere veicoli sospetti. Più che un muratore, si sentiva come devono sentirsi i soldati al fronte. Nervi tesi, occhi aperti, sempre pronti a difendersi da attacchi a sorpresa e con il pensiero fisso che il prossimo o sarebbe potuto essere l’ultimo. Ora però stava iniziando a rilassarsi. Non lo avevano ancora trovato e, dalle poche telefonate che si era concesso di fare ad alcuni amici, non lo avevano neanche cercato. Forse il casino che avevano combinato li aveva davvero messi fuori gioco. Sorrise.

Troppo preso dai suoi pensieri, non si accorse subito del rumore che si stava facendo sempre più forte, più vicino. Quando finalmente il suo cervello lo registrò, si accorse che il rumore era quello del motore di una macchina alle sue spalle. Un motore che procedeva al minimo, ma che era sempre più vicino. Voltò la testa all’indietro e vide la stessa utilitaria scura che poco prima si era fermata davanti al motel. Procedeva lentamente, non più cinque o dieci chilometri all’ora.

Per un attimo Dick si sentì come un animale selvatico. Fissò i fanali spenti dell’auto per qualche secondo, poi alzò lo sguardo al parabrezza. Dentro la macchina c’erano due uomini. Non riuscì a distinguerne i lineamenti, ma non ebbe dubbio sulla loro identità.

All’improvviso scatto in avanti. Si mise a correre più veloce che poteva. Era a non più di 200 metri dallo spaccio e li fece tutti al massimo delle sue possibilità. Il cuore gli batteva nel petto ad un ritmo che sembrava più una fibrillazione che un battito. Sentì il motore dell’auto che aumentava di giri, ma non si girò a guadare. Aveva visto troppi film in cui il fuggitivo, solitamente una bella donna con grandi tette, si voltava per guardare il suo inseguitore e finiva spalmata per terra.

Raggiunse lo spaccio insieme all’auto, che si fermò facendo stridere le gomme.

Non entrò nel negozio, ma si infilò nello stretto vicolo di fianco proprio nel momento in cui sentiva le portiere dell’auto aprirsi.

L’All In era all’inizio di una zona industriale. Grandi capannoni e fabbriche che si estendevano per un raggio di una decina di chilometri quadrati, unite tra loro da una fitta ragnatela di vicoli e stradine.

Dick continuò a correre al massimo, maledicendosi per il vizio del fumo, sentendo i suoi polmoni andare a fuoco e una fitta farsi sempre più profonda e dolorosa sul fianco destro. Svoltava apparentemente a caso per le stradine, ma sapeva bene dove stava andando. Nelle sue uscite serali aveva dedicato particolare attenzione a quella zona, camminando per quei vicoli. Una sera, aveva trovato in uno di essi, un tombino divelto, coperto solo da un’asse di legno. Era quella la sua meta. Se fosse riuscito ad arrivare a quel tombino, calarsi e ricoprirlo con l’asse prima che gli inseguitori lo raggiungessero, avrebbe avuto qualche possibilità di farcela.

Dopo l’ennesima svolta, vide ciò che cercava. Era ormai a pochi i dall’asse di legno, quando udì il fragore di uno sparo alle sue spalle.

«Dick Miley, fermo» urlò il tizio che aveva appena sparato.

Dick ubbidì. Ormai il suo piano di fuga era andato alla malora. L’uomo con la pistola era ancora lontano, ma anche se fosse riuscito a spostare l’asse e calarsi nelle fogne, non sarebbe servito a nulla. Ormai lo avevano visto. Ormai lo avevano preso.

Si piegò su sé stesso nella speranza di affievolire il dolore al fianco. L’uomo gli

si avvicinò camminando lentamente. Sorrideva, tenendo la canna della pistola puntata contro Dick.

«Ci hai fatto penare bastardo» gli disse fermandosi a un paio metri da lui. «Ma alla fine ti abbiamo trovato».

Il volto dell’uomo era una maschera di trionfante cattiveria.

«Dov’è il tuo amichetto Dick?» gli chiese.

Dick non rispose. Troppo intento a pregare il suo cuore di rallentare e sperare che l’aria che inalava smettesse di essere tanto rovente.

«Avanti Dick, eravamo amici no?» il tono di voce così forzatamente bonario lo fece infuriare.

«Fottiti Mike!» gli disse con voce roca. «Non so dove sia e non te lo direi comunque».

Il volto dell’uomo armato si dipinse di un’espressione di grande tristezza. Se Dick non avesse saputo tutto quello che sapeva, l’avrebbe creduta autentica.

«Avanti dai» Mike parlò con tono affabile. Sarebbe potuto diventare un gran venditore di auto, pensò Dick. «Tanto è solo questione di tempo, lo troveremo comunque. Ma se farai risparmiare del tempo a noi, noi potremmo risparmiare a

te qualche sofferenza».

«E magari stasera andiamo a berci una birra insieme e scoparci qualche puttana in compagnia, eh?» disse Dick sorridendo. «Facciamola finita Mike. Mi avete preso, bene, bravi. Portatemi dove vi pare, ma non chiedermi nulla, perché davvero non so dove sia».

Mike iniziò a scuotere la testa da una parte all’altra, come un genitore di fronte ad una marachella fatta dal figlio.

«Dick Dick Dick… Noi non vogliamo portarti da nessuna parte». Fece un o avanti e Dick notò che nella voce di Mike era comparsa una vena di rabbia. «Grazie a te e al tuo amichetto non c’è più nulla dove ti possa riportare. Ormai è tutto andato, finito. La ricerca, il progetto, tutto!».

Dick lo guardò, non credendo ad una sola parola.

«E’ così Dick» confermò Mike leggendo l’incredulità sul suo viso. «Beh, non mi fraintendere. Ci sarà di nuovo un altro progetto in futuro, ma per quanto riguarda te e i tuoi amici non c’è più nulla. Non ne fate più parte».

«E allora cosa vuoi da me? Se non mi vuoi riportare in quel cazzo di posto, perché mi dai la caccia?»

«Vedi Dick» rispose Mike con un gran sorriso «Il dottor Keller è un perfezionista. Quando fa qualcosa deve essere tutto a posto, tutto perfetto. Se

qualcosa va storto, secondo lui, la cosa migliore da fare è cancellare tutto e ricominciare da capo».

Dick capì. Abbassò lo sguardo.

«Quindi sei qui per cancellarmi?».

Il sorriso di Mike si intensificò.

«Sei sempre stato uno dei più intelligenti» disse armando il cane della pistola.

Dick non sollevò lo sguardo. Una strana pace interiore aveva invaso le sue membra. Si ritrovò a darsi dell’idiota per aver pensato che era stato un errore fuggire. Ora era arrivato al capolinea, ma non gliel’avrebbe resa tanto facile. Chiuse gli occhi, poi li strizzo, come se stesse facendo un grande sforzo.

Mike lo guardò per qualche istante, convinto che quella posa fosse di totale resa. Ghignò con l’angolo della bocca e premette il grilletto.

Ma il grilletto non si mosse. Esercitò una pressione maggiore, ma non c’era niente da fare. Era completamente bloccato. Mike guardò stupito la pistola, poi comprese.

«Ma che nel trucchetto» gli disse «Pensi davvero di salvarti così?».

«Chissà» rispose Dick mantenendo la stesse posizione. «Senza quella non sei poi così pericoloso. Sono più grosso di te, sono più forte di te. Senza quella pistola potrebbe non essere così facile uccidermi, coglione».

«Credo però che con questa lo sia» la nuova voce alle sue spalle lo colse di sorpresa. Spalancò gli occhi. Si era completamente dimenticato che quei bastardi erano in due.

Fece per voltarsi, ma la pistola puntata alla sua testa fece fuoco, distruggendo quel cervello tanto speciale che era alla base di tutta quella storia.

Dick morì prima ancora di cadere a terra.

«Bene, ce ne hai messo di tempo» disse Mike.

«Ora ne restano tre» disse l’altro, mettendo la pistola nella fondina, sotto l’ascella. Si chinò su Dick e prese il portafoglio dalla tasca. Ne estrasse le banconote e lo fece ricadere accanto alla testa devastata dallo sparo.

«Andiamo» disse «Il capo ci aspetta».

XII

Il giorno di visita alla Green Pine era la domenica. La maggior parte delle persone penserebbe che il giorno di visita sia il più bello della settimana, ma in una clinica psichiatrica non è così. Di solito si rivela essere il giorno peggiore, specie per il personale.

Gli ospiti sono quasi sempre contenti di ricevere le visite dei propri cari, ma questo di solito li porta ad uno stato di iper eccitazione che aggrava la loro condizione. Ci sono poi quegli ospiti che non ricevono mai una visita, i dimenticati, come li chiamano gli operatori. Seppur in condizioni particolari, questi capiscono bene cosa accade la domenica e il loro umore ne risente pesantemente. E, come ovvio, tutto ciò si ripercuote sugli operatori, costretti a fare gli straordinari per tutto il giorno e per quello seguente.

Senza contare poi gli incidenti che accadevano almeno una domenica sì e una no.

Quella domenica di maggio in particolare, ci furono due avvenimenti che sconvolsero la vita della Green Pine: Ted Brenton aggredì Stephanie e Jhonny, dopo poco più di una settimana dal suo ricovero, si svegliò.

Erano circa le 15 quando Stephanie entrò nella stanza di Jhonny. Era stravolta e mancavano ancora troppe ore alla fine del turno.

Alle 10 di quella mattina i cancelli della clinica furono aperti ai visitatori. Pareva

che si fossero messi tutti d’accordo per andare a fare visita ai propri cari nella stessa domenica.

C’erano i genitori di Ben, accompagnati dalla sorella maggiore. Il marito e i due figli di Carol King, una cinquantenne con diagnosi di depressione e schizofrenia che aveva tentato il suicidio già tre volte. L’ultima volta, circa tre mesi prima, si era lanciata dalla finestra del terzo piano di un ospedale, dove era andata a fare degli esami. La caduta non l’aveva uccisa, ma la frattura alla base della colonna vertebrale l’aveva condannata alla sedia a rotelle.

Le due sorelle di Melanie Grinder erano arrivate poco dopo le 11, con il loro solito carico di dolci, caramelle e tutto ciò che più piaceva alla loro sorellina. Melanie era un caso particolare. Una donnina minuta di una dolcezza infinita, gentile, educata, convinta che dentro di lei dimorasse un demone dell’inferno. E quando il demone prendeva il sopravvento, tutto in lei cambiava. La voce, flebile e a mala pena udibile, diventava profonda e gutturale. Il linguaggio, da castigato e colto, diventava un’accozzaglia di volgarità. Quando era demone, bisognava fare molta attenzione ad avvicinarla. Un anno prima aveva quasi staccato a morsi l’orecchio di un’infermiera che, noncurante dei segnali, le aveva concesso un abbraccio.

La signora Baker, ospite della stanza numero 3 del reparto femminile, era convinta di avere dodici anni, ben sessanta in meno della sua reale età. Non aveva parenti, ma spesso veniva a trovarla una sua amica, la sua amica “speciale” come soleva definirla.

Infine, quella domenica erano anche arrivati i parenti Sandra Seller: padre, madre, tre zii e due nipoti. Sandra apparteneva alla tribù di quelli che “sentono le voci”. Ricoverata dopo aver tentato di uccidere il figlio dei vicini nella vasca da bagno di casa sua, come le aveva detto di fare Dio in persona.

Gli unici a non aver ricevuto visite erano Ted, chiuso nella sua stanza con le mani premute sulle orecchie, e Jhonny.

Quando Stephanie guardò l’uomo seduto sulla carrozzina, avvertì qualcosa, ma non riuscì a definire cosa. Sentiva che c’era qualcosa di diverso, ma la sua mente provata, come del resto il fisico, da quella giornata non riuscì a focalizzare subito cosa c’era di diverso.

Gli si portò sulla sinistra, accingendosi a misurargli la pressione. Era così intenta ad osserva l’ago dello sfigmomanometro, che non si accorse subito degli occhi che la stavano osservando. Soprappensiero, liberando il braccio del paziente, alzò lo sguardo e si ritrovò a guardarlo negli occhi.

Sobbalzò spaventata, facendo cadere tutto lo strumentario che aveva in mano. Lui le sorrise.

«Mi dispiace» le disse Jhonny, sempre sorridendo.

Stephanie sentiva il cuore batterle in gola e rimase in silenzio osservando l’uomo.

«Non era mia intenzione spaventarla» continuò Jhonny. «Potrebbe dirmi gentilmente dove mi trovo?».

Stephanie era ancora sotto shock. Aveva sentito di persone che si riprendevano da uno stato catatonico, ma mai aveva sentito di qualcuno che tornasse alla realtà

con tanta velocità e presenza.

«Ti trovi in una clinica» gli rispose. Con la salivazione azzerata le riusciva difficile parlare.

«Dove? In quale clinica sono?» le chiese lui guardandosi intorno.

«Credo sia meglio chiamare subito la dottoressa» disse Stephanie abbozzando un sorriso.

Prima che Jhonny avesse il tempo di ribattere, si voltò e uscì a o spedito dalla stanza.

Vide Claire in fondo al corridoio che stava parlando con il signor Trenton, il padre di Ted.

«Dottoressa Brahan» la chiamò.

Claire si voltò verso l’infermiera che stava ando in quel momento davanti alla stanza del gigante.

«Deve venire subito con me, c’è un pazien…» non riuscì a finire la frase. Un enorme braccio la cinse all’altezza del collo, coprendole quasi per intero il viso. Vide con chiarezza l’espressione dell’amica, are in un attimo dalla stanca cordialità al puro terrore. Le sue narici furono invase dall’odore di sudore di Ted.

«Ted no, cosa stai facendo?» gridò Claire avvicinandosi.

Ted piangeva. Sul viso aveva dipinto il dolore più assoluto.

«Mandatele via!» urlò. Il suo grido fu sentito in tutta la clinica e spinse Claire a fermarsi all’istante. Osservò la sua amica e le venne la nausea. Stephanie, per quanto fosse una donna alta, arrivava a malapena al petto dell’uomo. Le sue mani, che cercavano disperatamente di tirare via il braccio che la stava soffocando, erano ridicolamente piccole. Claire vide le lacrime di Ted andare a bagnare il viso dell’amica.

«Ted lasciala andare» gli disse.

«Dovete mandarle via» ripetè l’uomo. «Sono troppe, mi stanno uccidendo!».

Piangeva mentre parlava e più piangeva più Claire vedeva i muscoli del braccio tendersi. Doveva agire in fretta o per Stephanie sarebbe stata la fine.

«Ted ascoltami» disse all’uomo con un tono di voce più dolce possibile. «Va tutto bene. Mi senti Ted? Va tutto bene».

Ted continuava a piangere, ma la morsa del suo braccio si allentò. Stephanie riuscì a prendere due grandi boccate d’aria. Ora anche i suoi occhi lacrimavano, mentre il viso era una maschera rossa di paura.

«Non ce la faccio più» disse Ted. Il volume della sua voce era tanto alto, da essere perfettamente udibile fin nella sala ricreazione, dove gli altri pazienti e i parenti, avevano interrotto le loro discussioni. Alcuni si avvicinarono alla porta che dava sul corridoio. Richard, che era accorso al primo grido dell’uomo, cercava di tenere le persone lontane e, contemporaneamente, di guardare cosa stava accadendo.

«Sono troppe, sono troppo forti» disse Ted picchiandosi la testa con la mano libera.

«Lascia andare Stephanie, Ted» disse Claire, capendo subito a cosa si stesse riferendo l’uomo. «Ti daremo qualcosa che farà andare via tutte le voci, te lo prometto».

Ma Ted non mollò la presa. Grande e grosso com’era, avrebbe potuto spezzare il collo di Stephanie come fosse un bastoncino di legno secco. Erano in una fase di stallo. Claire non si fidava ad avvicinarglisi ulteriormente, per paura che la stretta sul collo dell’amica diventasse letale. Cercò di parlargli ancora, di tranquillizzarlo, ma vedeva che ogni parola da lei pronunciata non aveva il minimo effetto. Probabilmente non la sentiva neanche.

Girò lo sguardo verso la porta, vedendo Richard che le fece un cenno con la testa. Abbassando lo sguardo vide che impugnava una siringa, pronta ad essere usata.

Claire contraccambiò il cenno e Richard si avvicinò lentamente.

«Non venire vicino!» urlò Ted all’indirizzo di Richard. La stretta si intensificò e Stephanie divenne paonazza. Claire fece segno con una mano a Richard di fermarsi.

«Dobbiamo fare qualcosa» le sussurrò lui.

«Lo so, ma è troppo pericoloso. Dobbiamo farlo calmare prima. Se dà solo uno strattone più forte, Stephanie…» non terminò la frase. Era chiaro ad entrambi cosa sarebbe successo che Ted avesse perso completamente il controllo della sua forza.

Erano tutti così concentrati su Ted e Stephanie, che nessuno di loro si accorse dell’uomo che si stava avvicinando dall’altro lato del corridoio. Quando Claire lo vide, per un attimo credette di avere un’allucinazione.

«Johnny, ma cosa…»

Johnny la ignorò, continuando a camminare lentamente lungo il corridoio. Con una mano si reggeva al muro. Quando Ted si accorse della sua presenza, strinse più forte Stephanie, ma, dopo qualche istante, la sua presa si fece sempre più debole.

Stephanie stava tossendo, ma finalmente riusciva a respirare a pieni polmoni.

Johnny continuava ad avanzare lentamente. I suoi occhi erano fissi in quelli di Ted.

«Non voglio farle male» disse Ted guardando il nuovo arrivato.

Johnny era ormai a non più di quattro metri dal gigante. La sua espressione non cambiò, né abbassò mai lo sguardo.

«Tu chi sei?» gli chiese Ted.

Johnny non rispose. Avanzava ancora, lentamente.

«Mi puoi aiutare?». Johnny non rispose neanche a questa domanda. Si fermò davanti all’uomo e allungò una mano verso di lui, fermandola a metà strada.

«Aiutami» disse Ted piangendo e ciò che fece colse tutti di sorpresa. Liberò Stephanie da quell’abbraccio che le era quasi costato la vita e la spinse via, verso Claire. Stephanie barcollò verso l’amica, che la prese tra le braccia.

«Va tutto bene tesoro, è finita» le disse Claire mentre la abbracciava.

«Aiutami» ripetè Ted. La sua voce fece tornare l’attenzione di tutti i presenti su di lui.

Johnny alzò ancora di più la mano e andò ad accarezzare una guancia ispida di Ted. Claire vide l’espressione del gigante cambiare in modo radicale. Il viso si

distese, gli occhi si sgranarono appena, e sulle labbra apparve un sorriso, prima stentato, poi sempre più convinto, fino a mostrare il bianco dei denti. In quel momento, con quel sorriso sulle labbra, pareva davvero un bambino.

«Mi hai aiutato» disse Ted sempre sorridendo. Sorrideva anche Johnny, mentre riabbassava il braccio.

Ted si voltò verso Claire, e quello che la dottoressa vide sul suo volto era pura felicità.

«Mi ha aiutato» le disse.

Claire non potè fare a meno di sorridergli, era impossibile resistere a tutto quel candore. Vide Johnny che si girava verso di lei. I loro occhi si incontrarono.

Claire sentiva il cuore battere all’impazzata. Aveva la sensazione che il tempo si fosse fermato, che Stephanie, Richard, i pazienti, l’intera struttura fossero spariti nel nulla.

Johnny piegò la testa di lato, inarcando le sopracciglia.

«Stellina?» chiese in tono stupito.

Quel nomignolo fece perdere al cuore un paio di battiti. Quante volte l’aveva chiamata così in ato? E quanto adorava sentire quel nome detto dalla sua

voce.

Prima che potesse rispondere, anche se non aveva alcuna parola per farlo, vide gli occhi di Johnny rivoltarsi nelle orbite. Fu Ted a sorreggerlo mentre perdeva i sensi. Lo prese in braccio come fosse un bambolotto e lo portò vicino a Claire.

«Mi ha aiutato dottoressa. Io adesso aiuto lui. Lo porto nel letto. E’ molto stanco».

Claire non potè fare altro che guardare la mastodontica schiena di Ted che si allontava e spariva nella camera numero sei.

XIII

Se il primo risveglio di Johnny fu un po’ movimentato, la seconda volta che riprese i sensi non fu più piacevole.

Erano ate quasi dodici ore da quando Ted lo aveva delicatamente posato nel suo letto.

Johnny aprì gli occhi e si ritrovò immerso nel buio. Era notte fonda. Dalla finestrella della porta entrava la fioca luce del corridoio, ridotta al minimo per non disturbare il sonno degli ospiti.

Si mise a sedere sul letto, guardandosi intorno. Dovette chiudere gli occhi per qualche istante quando la testa prese a girargli. ato il capogiro, li riaprì, lasciando che lo sguardo spaziasse per la piccola stanza. L’infermiera che quel giorno era andata a misurargli la pressione gli aveva detto la verità, quella era senza dubbio la stanza di un ospedale. Ma c’era qualcosa di strano in quella stanza. Tutti gli spigoli del letto e del mobile di fronte erano ricoperti di uno spesso strato di gommapiuma. Notò, nonostante il buio, che alla finestra c’erano delle grate di ferro. La porta, poi, con quella finestrella al centro, non sembrava la tipica porta di una camera da ospedale.

Stava ancora cercando di capire dove si trovasse quando fu folgorato da un ricordo di quella giornata.

Claire.

Gli sembrava di aver visto Claire quel giorno, ma non ricordava quasi nulla di quanto era accaduto. Si sentiva debole e vuoto.

I suoi pensieri furono interrotti dalla porta che si aprì. Entrò un uomo sulla trentina. Aveva i capelli unti di un rosso accesso, carnagione molto chiara e uno strano ghigno sulla faccia.

«Oh ecco il nostro bell’addormentato finalmente sveglio» disse l’uomo.

Johnny si limitò a fissarlo senza dire nulla. Erano ati non più di dieci secondi dall’ingresso di quell’individuo nella sua stanza, ma già aveva concluso che non gli stava affatto simpatico.

«Allora Johnny-Bello, come andiamo?» gli chiese avvicinandosi al letto. Il ghigno non era ancora scomparso dal suo viso. «Non capisci un acca di quello che dico vero? Meglio così». Fece una risatina, come se avesse fatto la battuta del secolo.

Johnny ancora non parlò, ma si accorse che quell’uomo non gli stava solo antipatico. Doveva starci attento.

«I belli addormentati come te, quando si svegliano, non sono altro che inutili scimuniti. Beh, non guardarmi così, lo dice la scienza» rise di nuovo.

Karl Mason sfilò da una tasca un paio di guanti di lattice e li indossò. Dall’altra

tasca, tolse una siringa enorme, piena una sostanza semiliquida dal colore ripugnante.

«Forza ragazzo, è ora di fare pappa» gli disse arrivando a toccare il bordo del letto con le cosce.

Johnny scosse la testa.

«No»

Karl sgranò appena gli occhi, sorpreso.

«Ma dai, parli anche?» gli disse, sempre ghignando. «Bene, molto bene. Però vedi, non che tu possa capirmi, ma sai, sono le regole» disse abbassando la voce «Tu a quest’ora devi mangiare, quindi fai il bravo e apri la bocca».

Avvicinò la siringa alla bocca di Johnny, che girò la testa dall’altra parte.

«Ho detto no, grazie».

Il ghigno sparì dalla bocca di Karl, che guardava ora Johnny con un’espressione maligna.

«Senti addormentato, puoi mangiare con le buone, oppure con le cattive» sottolineò l’ultima parola. Johnny non aveva dubbi che quell’uomo non vedeva l’ora di usare le “cattive” ogni volta che ne avesse avuto occasione.

Vedendo che Johnny rimaneva voltato dall’altra parte, Karl allungò la mano libera e gli afferrò il viso, obbligandolo a girarsi.

«Allora addormentato, come lo vogliamo fare?» gli chiese.

In un attimo Johnny afferrò il braccio di Karl poco sopra il polso. Vide la sorpresa negli occhi dell’uomo. La sua presa era salda, forte. Non si aspettava che una persona in quelle condizioni potesse avere tanta forza.

Karl mollò la presa e fece per ritirare il braccio, ma Johnny non mollò la sua.

«Ti conviene lasciarmi» disse, ma il tono strabordante di tracotanza era sparito, lasciando il posto a titubanza e, forse, un po’ di timore. «Se non mi molli te la vedrai brutta addormen…» l’ultima parola finì con un gemito. Johnny aveva aumentato la stretta sul braccio facendogli male. Nonostante Karl cercasse di tirare indietro il braccio, si accorse che Johnny lo stava tirando a sé. Incontrò i suoi occhi e ciò che vide lo terrorizzò.

Gli occhi di Johnny era completamente neri, come se le sue pupille si fossero dilatate al massimo e avessero finito per cancellare completamente le iridi.

«Ora ascoltami bene» disse Johnny in tono calmo. «Se mi tocchi ancora, ti farai

male. Se mi chiami ancora addormentato o in qualche altro modo, ti farai male. So chi sei e so cosa sei».

Karl non riusciva a distogliere lo sguardo da quei buchi neri che Johnny aveva al posto degli occhi.

«Ora esci da questa stanza!» gli ordinò Johnny lasciandogli andare il braccio.

Karl indietreggiò osservandolo spaventato. Vide che gli occhi erano tornati normali e subito si diede dello stupido. Era buio e la presa di quel tipo lo aveva spaventato e fatto vedere cose che non esistevano. Tuttavia, anche per un idiota come Karl Mason era chiaro che quel tizio nel letto era forte e poteva essere pericoloso. E, cosa che più lo innervosiva, era vigile, presente. Non era come gli altri ospiti, non era svampito, non era “scimunito” come tutti gli altri. Era facile fare quello che voleva con chi, al mattino, non si sarebbe neanche ricordato di averlo visto.

Come la maggior parte dei prepotenti di questo mondo, Karl era fondamentalmente un codardo.

«Beh, se non vuoi mangiare sono fatti tuoi» gli disse dirigendosi verso la porta. «Ma non ti aspettare qualche spuntino prima del pranzo di domani. Se hai fame, ti arrangi» uscì sbattendo la porta.

Johnny si lasciò cadere sul cuscino. Stava ansimando.

Perché sono così debole? Si chiese mentre il sonno lo rapiva nuovamente.

Il mattino seguente, Johnny si svegliò con il sole sul viso che penetrava dalla finestra. Aveva solo un vago ricordo di ciò che era accaduto durante la notte. Si mise a sedere, ma ancora si sentiva estremamente debole.

Facendo leva sulle braccia, strisciò verso la testiera del letto, poggiandovi la schiena. Chiuse gli occhi.

Ci sono andato davvero vicino stavolta.

Sentiva un dolore pulsante nelle tempie. Fece una serie di respiri profondi e il dolore diminuì.

Sentì la porta della camera aprirsi, e quando aprì gli occhi vide Claire sulla soglia.

Claire rimase immobile a guardarlo. Mentre percorreva il corridoio verso la sua stanza, la sua mente era sconvolta da mille pensieri. Per anni era stata dilaniata tra il desiderio e il timore e di rivedere Johnny. Ora che lui era tornato, non sapeva cosa stava provando.

Era stata preoccupata, aveva temuto gli fosse successo qualcosa, l’aveva odiato per averla abbandonata in quel modo e aveva versato lacrime a non finire per la terribile mancanza che sentiva dentro di sé. Ora si era aggiunta la preoccupazione per le sue condizioni. Stephanie le aveva detto che, prima di

essere afferrata dal signor Brenton, stava andando da lei per dirle che Johnny si era svegliato, ma di non sapere con precisione quali fossero le sue condizioni. Si era letteralmente precipitata fuori dalla stanza per andarla a chiamare.

Mentre si avvicinava alla porta della stanza, altri due sentimenti si erano aggiunti alla lista. Una gioia immensa e una rabbia profonda.

Vedendolo in quel letto, però, la rabbia fu spazzata via. Sentiva il cuore battere all’impazzata e gli occhi bruciarle di lacrime. Non voleva piangere, non doveva.

Fece un o nella stanza e chiuse la porta alle sue spalle. Quando si voltò nuovamente, i loro occhi si incontrarono e nessuno dei due fu in grado di riabbassarli. Rimasero a fissarsi per un tempo che a Claire parve infinito.

All’improvviso Johnny piegò la testa di lato, abbonzando un sorriso.

«Ciao» le disse.

Claire sentì le gambe farsi sempre più molli. Temeva di cadere in terra da un momento all’altro. La sua voce, come il giorno precedente, le rivangava una serie di ricordi, ricordi dolorosamente felici.

Si avvicinò al letto e, ad ogni o, sentiva ogni sua difesa crollare una dopo l’altra. Giunse di fianco al letto e una lacrima scese lungo la guancia.

Johnny continuò a sorridere mentre, protendendosi in avanti, le asciugò la lacrima con il polpastrello.

Fu troppo. Scoppiò a singhiozzare, coprendosi il viso con le mani. Lui si sollevò dalla testiera e la prese dolcemente per i polsi.

Claire si tuffò su di lui. Lo strinse forte e lui strinse lei. Sentiva le sue braccia avvolgerla e fu come se quei cinque anni di lontananza non fossero mai ati.

Si separarono dopo diversi minuti, quando Claire si fu calmata. Lui le stava ancora sorridendo.

«Come ti senti?» gli chiese infine Claire.

«Bene… Debole. Cosa è successo?»

Claire aggrottò la fronte. Quella era la domanda che voleva rivolgergli da quando era stato portato nella clinica. Ed ora era lui a porla a lei.

«Sei stato portato qui circa due settimane fa» gli rispose Claire.

Claire gli raccontò di quella notte, dello stato di profonda catatonia in cui era. Gli disse che durante la sua permanenza aveva preso contatti con il medico che lo aveva preso in cura al Mercy Hospital, che le aveva raccontato che era arrivato, delirante, con una brutta ferita da taglio sul fianco. Il dottor Casey, il

medico di guardia il giorno che Johnny arrivò, le disse che continuava ad agitarsi e straparlare. Continuava a dire che doveva scappare, che se lo avrebbero trovato sarebbe stata la fine. Era stato necessario sedarlo. E, mentre si addormentava sulla lettiga, continuava a ripetere di avere esagerato, di averne usato troppo, che era arrivata la fine. Operato d’urgenza, era stato poi trasferito in terapia intensiva, dove non aveva più ripreso conoscenza. Era rimasto in coma per ventiquattro giorni e al risveglio, notando il suo stato, lo avevano portato alla Green Mile.

«Più di un mese, quindi» disse Johnny quando Claire ebbe terminato.

Claire annuì, guardandolo con curiosità. Aspettò per qualche minuto che dicesse qualcosa, ma l’uomo pareva assorto nei suoi pensieri, senza la minima intenzione di dire alcunché.

Si fece infine coraggio e fece la domanda che gli girava in testa da anni.

«Cos’è successo John?» gli chiese posandogli una mano sul braccio. «Dove sei stato tutti questi anni?».

Lui la guardò in silenzio. Aprì la bocca, ma la richiuse subito, distogliendo lo sguardo.

«Niente» le disse infine.

Claire sgranò gli occhi e sentì la rabbia di prima riaccendersi.

«Niente?» disse lei. «Niente?» aveva alzato la voce. «Sei sparito nel nulla, non ti sei più fatto sentire per più di cinque anni e mi dici niente?».

Lui non rispose. Guardava verso la finestra.

Claire aveva sempre detestato quel suo lato. Quando non voleva dirle qualcosa faceva sempre così. Rispondeva con un “niente” e guardava altrove.

La rabbia si trasformò in furia in poco tempo.

«Hai idea di cosa cazzo mi hai fatto are?»

Era furente. Aveva stretto i pugni conficcandosi le unghie nei palmi.

Johnny continuava a guardare fuori dalla finestra, silente. I suoi occhi esprimevano una grande tristezza e un dolore altrettanto grande. Claire si costrinse a calmarsi. In fondo, la persona che aveva davanti, su quel letto, era un suo paziente e doveva cercare di trattarlo come tale, per quanto difficile fosse.

In un attimo, tutta la sua furia sparì. Un ricordo le aveva appena fatto capolino nella mente. Il ricordo della sua schiena, martoriata da innumerevoli cicatrici. Forse lui non aveva idea di cosa avesse ato lei, ma quelle cicatrici le dicevano che lui doveva aver ato ben di peggio. Fece un respiro profondo e allungò una mano, poggiandogliela sulla spalla.

«Scusami» gli disse. «Non volevo aggredirti in quel modo. E’ solo che...».

«Che non pensavi che mi avresti rivisto. In queste condizioni poi» finì la frase per lei.

Claire chinò la testa e si sedette sul bordo del letto. Finalmente lui tornò a guardarla e avvertì di nuovo quel senso di brivido alla bocca dello stomaco.

«Però ci ho sperato» gli disse infine. Non riuscì a continuare a reggere il suo sguardo, così questa volta fu lei a trovare particolarmente interessante il paesaggio fuori dalla finestra.

«Mi dispiace, Claire» disse Johnny. «So che per te è difficile. Hai tutte le ragioni per avercela con me, per odiarmi». A quelle parole Claire si lasciò sfuggire un risolino amaro. Odiarlo. Non era mai stata tanto lontano dall’odiarlo, ma lo tenne per se.

«Capisco che tu voglia sapere cos’è successo» continuò «e che avrai sicuramente un migliaio di domande che ti assillano. Ma devi capire che anche per me non è facile. Dio, è tutto così assurdo». Si portò le mani al viso e le ò tra i lunghi capelli.

«Mi ritrovo in un ospedale, dopo aver perso più di un mese di vita. E proprio in questo ospedale ci lavori tu». Si interruppe per un attimo, aggrottando la fronte. «Ma tu eri…» la fronte gli si distese ora che aveva finalmente compreso. «Questo non è un ospedale, vero?».

«No» gli rispose lei «Ti trovi alla Green Pine, Johnny».

Lui sgranò gli occhi. «Sono ricoverato in una clinica psichiatrica?» domandò incredulo.

Claire annuì.

«Non esserne così sorpreso. Sei arrivato in un pronto soccorso in preda a quello che è un tipico delirio psicotico. Urlavi frasi senza senso e cercavi di aggredire chiunque fosse a portata di tiro. Sei finito in coma e al tuo risveglio eri poco più che un vegetale».

Johnny ascoltava le parole di Claire con un misto di disagio e timore. Ora capiva cos’era successo, ma come poteva spiegarlo a lei? Non era ancora il momento, non era ancora pronto per dirle tutto. Decise quindi di far scivolare la discussione lontano da sé.

«E tu lavori qui?» le chiese. «Ti hanno tenuta dopo il tirocinio?».

«Sì» gli rispose sorridendo. «Dopo la laurea mi hanno assunta. Ora sono la vice responsabile della struttura».

«Sapevo che avresti sfondato» gli disse lui, sorridendo a sua volta. Le prese una mano. «Sei sempre stata speciale, non ho mai dubitato che un giorno ce l’avresti fatta».

Lei si portò la sua mano al viso, poggiandosela su una guancia.

Era vero. In tutti gli anni che avevano ato insieme, lui le aveva sempre detto che un giorno sarebbe riuscita a fare il lavoro che desiderava. E sempre l’aveva spronata, appoggiata, aiutata a farle raggiungere quel traguardo.

Si guardarono negli occhi per qualche tempo. Il cuore di Claire aveva preso a battere più velocemente. Sentiva il contatto della mano contro la sua guancia, il calore che le trasmetteva e che pareva dilagare dal viso a tutto il resto del corpo.

Si accorse d’un tratto che si stava protendendo verso di lui e si bloccò all’istante.

Mio dio, ma cosa sto facendo?

Lasciò andare la mano di Johnny e si alzò dal letto. Le parve una buona idea mettere un po’ di distanza tra lei e lui. Funzionò, ma quanto ci era andata vicina? Per un attimo le era parso che gli ultimi anni non fossero mai esistiti. Si era ritrovata su un letto con lui, come migliaia di altre volte in ato e il suo corpo e il suo cuore la stavano per ingannare. Cosa sarebbe successo se si fosse spinta fino a baciarlo? Come avrebbe reagito lui?

E Richard?

La mente di Claire era sempre stata brava a tormentarla, e anche in quel momento, le fece vedere una veloce riproduzione di litigi, porte sbattute e

lacrime.

Doveva stare attenta, non si sarebbe più fatta trovare con la guardia abbassata.

Johnny intanto la stava guardando. Claire si chiese quanto di ciò che le attraversava la testa era riuscito ad intuire.

In ato era bravo in queste cose. Spesso riusciva a capire cosa le ava per la testa prima ancora che lo capisse lei. Era una cosa che la faceva infuriare, detestava che qualcuno potesse intuire il suo stato d’animo senza che fosse lei a permetterglielo. Dall’altro lato, però, quella era una delle caratteristiche di Johnny che le aveva sempre fatto pensare che lui era l’uomo giusto per lei.

«Mi dispiace» le disse lui tornando a guardare fuori dalla finestra. A quanto pare non aveva perso quel particolare “tocco”.

«Ora devo andare, mi aspetta una montagna di lavoro» disse lei cercando di apparire il più disinvolta possibile. «Tornerò a farti visita questa sera, prima di uscire».

«Grazie» le rispose lui, senza voltarsi a guardarla.

Claire uscì dalla stanza. Le pareva di essere in piedi su una zattera, in mezzo ad una tempesta. La testa le girava, lo stomaco era sottosopra e quel maledetto cuore le martellava le tempie.

Perché deve essere sempre così incasinata la mia vita? Si chiese mentre camminava lungo il corridoio.

Arrivata nel suo ufficiò pensò che non poteva andare peggio di così. Johnny era tornato ed era un suo paziente. Lei era sempre più confusa sui sentimenti che provava per lui e la visita di quella mattina le aveva confermato che definirsi confusa era un blando eufemismo. Stephanie era in permesso speciale fino all’inizio della settimana successiva; faceva ancora fatica a deglutire e parlare. Richard, da quando era tornato dalle sue vacanze, era sempre scuro in volto e nervoso più che mai.

Non potrebbe andare peggio di così, pensò lasciandosi cadere sulla sedia, dietro la scrivania.

Purtroppo per lei, le cose andarono peggio. Non avrebbe neanche potuto immaginare quanto.

XIV

Quando Stephanie rientrò dal permesso speciale, andò per prima cosa nella stanza di Johnny. Lo trovò seduto al tavolino, mentre mangiava un piatto di pasta della mensa.

Da quando si era “risvegliato” aveva ripreso a mangiare con regolarità, autonomamente. Di conseguenza le sue energie andavano aumentando di giorno in giorno, anche se ancora non riusciva a camminare per più di cinque minuti senza che la testa prendesse a girare. Il medico della struttura, il dottor Keyzach, non riusciva a spiegarsi questa debolezza. Dalle analisi e dalle visite non era emerso nulla di significativo.

Stephanie gli si avvicinò porgendogli la mano.

«Io sono Stephanie» si presentò.

Lui le prese la mano, stringendola delicatamente.

«Volevo solo ringraziarti per quello che hai fatto» disse la ragazza.

«Non ho fatto nulla» gli rispose lui sorridendo. «A dir la verità non mi ricordo molto di quella notte. So solo quello che mi ha raccontato Claire».

Stephanie lo osservava con attenzione. Non sapeva se stesse dicendo la verità o meno, né aveva alcun motivo per dubitare delle sue parole. Tuttavia, c’era qualcosa nel suo sorriso, nella sua espressione, che non la convinceva fino in fondo.

Johnny la guardava senza dire nulla.

Stephanie era incuriosita da quella persona. Avrebbe voluto fargli mille domande, su di lui, su Claire, su come si sentiva ora che si erano ritrovati. Ma sapeva che non poteva farlo, non sarebbe stato professionale.

Si scosse da quel momento di immobilità.

«Beh, grazie lo stesso» gli disse.

«Di nulla» rispose lui, sempre sorridendo.

Stephanie si girò e uscì dalla stanza. Johnny la guardò finchè non fu uscita, dopodichè tornò a finire la pasta rimasta nel piatto.

Si chiedeva quanto tempo ancora sarebbe dovuto rimanere in quel posto. Voleva andarsene il prima possibile.

Si alzò dal tavolino e andò alla finestra. Il verde che si apriva davanti alla struttura era brillante. Osservò alcune foglie della grande quercia di fronte planare delicatamente al suolo. Debolezza a parte, si sentiva bene. Stava riprendendo il controllo del suo corpo e della sua mente, ma sapeva che era ancora lontano dall’essere al massimo delle sue forze. Ma si sentiva bene.

E’ ato più di un mese ormai. Non mi hanno trovato. Forse non mi hanno neanche cercato.

Vide uno scoiattolo scendere agilmente lungo il tronco dell’albero e correre per il prato. Si fermò a raccogliere qualcosa da terra, forse una ghianda. Lo vide sollevarsi sulle zampe posteriori e fiutare l’aria. Poi, avendo concluso che non c’era nulla di particolarmente interessante, ripercorse il tragitto a ritroso, sparendo dalla vista nell’intrico dei rami.

Quel pomeriggio lo aspettava il primo colloquio per la valutazione psicologica. Sarebbe stata Claire a tenere il colloquio e in quell’occasione era deciso a chiederle di farlo uscire.

Nonostante si sentisse al sicuro e avesse bisogno di altro riposo, continuare a stare lì con lei gli faceva male. E ne faceva a lei, glielo leggeva in volto ogni volta che la vedeva.

Sì, andarsene sarebbe stata la cosa migliore per tutti.

«Capisco che per te sia difficile» disse Claire appoggiandosi allo schienale della sua sedia. «Ma non posso farti uscire, non finché non avremo un profilo completo della tua condizione».

Erano nell’ufficio di Claire. Johnny era seduto nella sedia davanti alla scrivania, le braccia incrociate sul petto.

«Claire, sai benissimo che non sono pazzo, questo non è il mio posto».

A Claire non erano mai piaciuti determinati appellativi. Parole come “pazzo”, “svitato”, “fuori di testa” le davano un fastidio immenso.

«Io non so un bel niente» ribattè secca. «E sono più di cinque anni che non so nulla di te. Ma il mio compito, il mio lavoro, è quello di stabilire se sei o meno in grado di essere reinserito nella società».

Johnny fece una risatina sarcastica. Guardando il viso di Claire, però, si accorse che questa era più che seria.

«Mio Dio, ma dici sul serio?».

«Johnny» disse addolcendo il tono «Io sono responsabile di ogni persona che c’è qui dentro. E sono responsabile di ogni persona che ne esce. Di te, al momento, so solo che sei arrivato in un pronto soccorso con una ferita da taglio che ha richiesto un’operazione di due ore, che eri in pieno delirio psicotico e che hai ato la prima settimana qui dentro in stato vegetativo. Se ti fi uscire ora, senza aver fatto nulla, potrei finire in seri guai».

Johnny la osservò a lungo e ciò che vide fu la determinazione che spesso aveva

visto.

«E poi» continuò la ragazza «Non saresti in grado di uscire in ogni caso per ora. Non riesci neanche a percorrere il corridoio senza che ti venga il fiatone».

«D’accordo» disse sospirando «Cosa devo fare allora per uscire di qui?».

«Collabora» gli rispose lei.

«Bene, collaboro allora» disse lui poggiando gli avambracci sulla scrivania. «Cosa devo fare?».

«Parlami» rispose Claire. «Dimmi cosa ti è successo. Perché eri in quello stato, perché sei arrivato all’ospedale ferito…» fece una pausa, come a dover raccogliere le forze, o il coraggio «come ti sei fatto tutte quelle cicatrici» aggiunse poi.

Johnny si rabbuiò all’istante, distogliendo lo sguardo e tornando a braccia conserte.

Una posa da manuale, pensò Claire. In tutti gli anni ati insieme, era sempre stato difficile cavare parole dalla bocca di Johnny. Non si stupì di vedere che, anche in quel momento, l’atteggiamento del ragazzo non era cambiato affatto.

«Cosa vuoi che ti dica?» disse lui con tono spento.

Quanto la faceva infuriare quella frase. Non l’aveva mai sopportata.

«Voglio che tu mi dica cosa cazzo è successo» proruppe senza riuscire a controllarsi. «Voglio che tu mi dica perché sei sparito nel nulla, dove sei stato, cosa hai fatto. Perché sei ricoperto di ferite? Perché sei arrivato in quello stato?».

Si interruppe. Vide che l’espressione di Johnny non era minimamente cambiata, assente, quasi imbronciata.

«Ma che diamine, possibile che tu non capisca?» continuò. «Ti ho cercato ovunque, ho parlato con tutti quelli che ti conoscevano, sono addirittura andata nel tuo ufficio. E nessuno che sapesse dirmi nulla. Mi hai lasciata da sola senza neanche una cazzo di parola. E poi ti ritrovo qui, in quello stato, coperto di cicatrici, incapace di lavarti senza quasi svenire per la fatica. E mi dici “cosa vuoi che ti dica”?». Sentiva gli occhi bruciare di lacrime, ma non permise loro di scendere.

«Eri l’unica persona importante per me» continuò, la voce sempre più alta. Ormai era un fiume in piena, incapace di fermarsi. «Tutto quello che c’era tra di noi, tutte le promesse, tutte le cose dette… Sparito tutto come se niente fosse. Mi hai fatto preoccupare, mi hai fatto stare male. Possibile che non ti interesse neanche…».

«Smettila!» le intimò lui. Non gli aveva mai sentito tanta freddezza nella voce, non quando si rivolgeva a lei.

Lo guardò con gli occhi spalancati di stupore e dolore.

Finalmente Johnny si girò nuovamente a guardarla.

«Non provare a dire a me cosa si prova ad essere lasciati come se niente fosse. Non ti azzardare ad accusare me di come sono andate le cose» le disse in tono freddo. «Tu mi hai abbandonato, tu sei andata con un altro. E’ stato a causa tua che ho preso la decisione di andarmene».

Ecco. In tutti quegli anni Claire aveva ipotizzato mille motivi per la sparizione di Johnny, alcuni credibili, altri assurdi. Ma dentro di lei c’era sempre una vocina che le diceva che la colpa era solo sua. La sua forza e il suo orgoglio le avevano sempre permesso di zittire quella vocina, prima che potesse instillare in lei il senso di colpa. Le parole di Johnny, però, quelle parole non potevano essere zittite. Erano andate a conficcare le loro lame affilate nel punto più profondo del suo essere.

Chinò il capo e una lacrima scese sulla guancia.

«Mi dispiace» gli disse.

Johnny continuava a guardarla. In quel momento si stava odiando. Non sopportava fare male alle altre persone, non l’aveva mai tollerato. Ed ora si era ritrovato a fare male proprio all’unica persona che avesse mai amato. E che ancora amava.

«Scusami» le disse poggiandole una mano sulla sua. «Non volevo dire quello. E’ solo che è difficile».

Lei alzò gli occhi arrossati. Gli strinse la mano, una stretta forte.

«Sì che è quello che volevi dire» gli disse Claire. «E’ quello che mi sarei dovuta dire anche io. Ma fa male».

Lui ricambiò la stretta della mano. Per qualche secondo rimasero in silenzio, occhi negli occhi.

Avere delle faccende in sospeso con il ato è una delle cose peggiori che possano capitare. Se si è fortunati, il ato rimane tale e viene a tormentarti solo negli incubi notturni. Ma quando il ato si riversa nel presente, o lo si affronta, o è capace di spazzare via ogni possibile futuro.

Claire e Johnny ne avevano molte di faccende in sospeso.

«Ci proverò» le disse Johnny «Proverò a raccontarti tutto. Ma ho bisogno di un po’ di tempo».

«Avrai tutto il tempo che vuoi» gli rispose lei. «E quanto ti sentirai pronto, io ci sarò».

Johnny le sorrise. Si alzarono e andarono verso la porta. Entrambi si erano

dimenticati che si stavano ancora tenendo per mano. Un gesto tanto naturale da sfuggire alla loro coscienza.

Mentre Claire lasciava la mano di Johnny, non senza una punta di rammarico, si chiese cosa li aspettava, se fossero stati in grado di risolvere tutte le loro faccende in sospeso.

XV

«Fai andare me, George».

«Va bene Mike, ma non fare casini. Devi solo portarla nel vicolo sul retro, io ti aspetterò lì. E accendi quell’affare!».

«Tranquillo» rispose Mike sorridendo «E’ solo una ragazzina, non avrò problemi». Premette un pulsante su una specie di scatoletta che teneva in mano. Il led ò da rosso a verde. Scese dall’utilitaria nera e si avviò verso l’ingresso della biblioteca.

George lo guardò dal posto di guida. Mike non era uno stupido, ma era troppo giovane e troppo impulsivo per quel lavoro. Non ci fosse stato lui, si sarebbe fatto scappare quel maledetto Dick Maley.

Lo guardò varcare la porta della biblioteca e rimase in attesa, pronto ad intervenire, quasi sicuro di doverlo fare.

La biblioteca di Ride City era piccola. Costituita da un unico, grande, stanzone nel quale erano stati posizionati numerosi scaffali di metallo ricolmi di libri, a formare diversi stretti corridoi tra di essi ed uno più grande centrale.

In fondo al corridoio centrale c’era un lungo banco di legno, dietro al quale

sedeva una giovane e bella ragazza.

Annabelle Bistrot, la bibliotecaria, aveva 25 anni ed era stata presa in prova dal comune per quel ruolo da un paio di settimane. Era una ragazza molto solare, gentile e disponibile.

Era china su un modulo appena compilato da un ragazzino, che voleva avere la sua tessera. I suoi lunghi capelli biondi andavano a sfiorare la superficie del legno.

«Molto bene Steve, ecco a te la tua tessera» disse sorridendo al ragazzino.

Guardando Steve andare via tutto soddisfatto, vide l’uomo con il lungo soprabito nero che era appena entrato. Sgranò gli occhi per la sorpresa e per il terrore.

Mike doveva aver visto il cambiamento nella sua espressione, perché le sorrise con fare sarcastico.

«Buongiorno signorira Bistrot» la salutò allegramente, una volta giunto al bancone.

Lei lo guardava, incapace di dire o fare qualcosa.

«Ti vedo bene zuccherino» continuò Mike con voce melliflua. «Sempre più bella, eh?».

«Che cosa vuoi?» gli chiese lei in tono freddo.

«Oh domanda stupida, non trovi?» ribattè lui, sempre con quel sorriso odioso sulle labbra. «Voglio che fai la brava e che mi accompagni alla porta sul retro tesoro».

Le labbra di Annabelle fremettero leggermente e le parve che il sorriso di Mike si intensificasse. Si tolse gli occhiale e guardò dritto negli occhi dell’uomo.

«Capisco. Ma non sarebbe meglio se mi lasciassi in pace e te ne andassi?» gli disse con un tono stranamente dolce. «Non sarebbe meglio per tutti se uscissi di qui e ti dimenticassi di avermi vista?».

Mike parve pensare seriamente alla proposta della ragazza.

«Mh, forse sì» le disse. Ora il sorriso era scomparso, sostituito da un’espressione pensierosa.

«Allora vai» gli disse «e dimenticami».

Lui rimase a fissarla per qualche istante, sempre con la stessa espressione sul viso. Poi, all’improvviso, scoppiò in una risata.

«Dolcezza, scusa, ma proprio non ce la facevo più» le disse continuando a ridere.

Lei aggrottò la fronte. Pareva spiazzata dalla reazione di Mike.

«Tesoro» le disse abbassando la voce, in tono confidenziale. Si mise una mano in tasca e ne tirò fuori la scatoletta con la luce verde. «Con questo aggeggino sai bene che non puoi fare nulla. Ed ora, se non ti dispiace, andiamo sul retro, o dovrò usare quest’altro aggeggino» le disse scostando un lembo della giacca per farle vedere la fondina sotto l’ascella.

Rassegnata, Annabelle girò intorno al bancone e si diresse verso una porta in fondo alla parete. Mike le camminava dietro.

Varcata la porta, entrarono in una specie di magazzino, pieno di scatoloni colmi di libri ancora da catalogare ed etichettare. In fondo al magazzino, una piccola porticina si apriva sull’esterno.

«Non ci tornerò» disse Annabelle mentre apriva la porta.

Mike rise, senza rispondere. Tirò fuori la pistola e la puntò alla schiena della ragazza.

Usciti nel vicolo dietro la biblioteca, Annabelle vide l’auto scura parcheggiata davanti e ne vide scendere George.

«La cavalleria pesante per una ragazzina?» chiese lei.

Mike le poggiò la canna della pistola tra le scapole, spingendola a proseguire verso la macchina.

Giunti alla macchina si fermarono e Mike si mise accanto a George.

«Buongiorno signorina Bistrot» la salutò George che, a differenza dell’altro, non aveva il minimo accenno di sorriso, né sulle labbra, né negli occhi.

«Hai visto George, tutto liscio come l’olio» disse Mike.

Annabelle li guardò. Vide Mike che infilava una mano in tasca, come a dover cercare qualcosa. George, invece, si limitava a fissarla.

«Non verrò da nessuna parte con voi» disse risoluta.

«Non abbiamo intenzione di portarti via» le disse George. «Vogliamo solo chiederti una cosa, dopodichè ti lasceremo qui».

Annabelle cercò di leggere sul viso di George una bugia, ma, incredibilmente, le parve che stesse dicendo la verità.

«Cosa volete sapere?» chiese.

«Dove sono gli altri?» le chiese George.

Annabelle aveva sempre nutrito un certo timore nei confronti di George. Sembrava fosse una statua, senza espressione. Parlava con lo stesso tono monotono qualunque cosa dicesse. Ma la cosa che più la intimoriva erano i suoi occhi, freddi, glaciali.

«Non lo so» rispose.

Mike scoppiò nuovamente nella sua risata stridula. «Non cercare di prenderci per il culo, zuccherino» le disse agitando la pistola.

George rimase in silenzio a fissarla.

«Sto dicendo la verità!» disse la ragazza. «Dopo quella sera ci siamo separati senza dire dove saremmo andati. Era più sicuro» le ultime parole le uscirono in un sospiro.

Era evidente che tutte le precauzioni prese non erano servite a nulla, altrimenti non sarebbe in quella situazione adesso.

«Vuoi davvero farmi credere che il grand’uomo che se la sava con te non sa dove sei e tu non sai dov’è lui?» le chiese Mike.

«Nessuno se la sava con me, pezzo di merda!» proruppe la ragazza. «E non importa di quello che credete voi, le cosa stanno…».

Non potè proseguire oltre. All’improvviso, una mano di George si alzò veloce ad afferrarla per la gola, mozzandole il fiato.

«Non mi importa se ti scopava o se avate il tempo a parlare dei massimi sistemi» le disse George, sempre con lo stesso tono. «Mi importa solo sapere dove si è nascosto».

Annabelle non riusciva più a respirare. Cercava di allentare la presa di quella mano con le sue, ma pareva fosse fatta di acciaio.

Poi la presa si allentò di quel tanto che le permise di tornare a respirare. Vide Mike dietro che se la rideva allegramente, e vide anche qualcos’altro. Aveva tirato fuori quella strana scatoletta e la luce ora era rossa.

«Davvero, non lo so» mormorò con voce roca. «Ho detto la verità».

George la fissò ancora per qualche secondo, poi la lasciò andare. Annabelle cadde sulle ginocchia, cercando di fare entrare più aria possibile nei polmoni.

«Stando così le cose, non ci resta che andarcene» disse George, fecendo un cenno con la testa a Mike.

Questi si avvicinò alla ragazza, puntandole la pistola alla testa.

«Avevi detto che mi avreste lasciato stare» gridò alla schiena di George.

L’uomo si fermò e si girò a guardarla.

«Ti ho detto che ti avremmo lasciata qui» le disse «ed è quello che faremo».

Mike armò il cane della pistola e Annabelle concentrò tutta la sua attenzione su di lui. Le era difficile guardarlo negli occhi, sembrava che il buio dentro la canna avesse una forza di attrazione irresistibile.

«Non lo fare» disse a Mike. «Ti prego, non lo fare».

Mike parve esitare.

«Avanti Mike, prima che arrivi qualcuno e ci veda» ordinò George.

Ma Mike era come impietrito. Guardava negli occhi della ragazza immobile.

«Non mi uccidere» gli disse Annabelle. «Io non ho fatto niente di male».

«Lo so» bisbigliò Mike. «Non hai fatto niente di male. Ma sono gli ordini».

«E’ lui che dovrebbe essere punito, non io» disse Annabelle indicando George. «Lui dovrebbe essere ucciso».

La mano di Mike iniziò a tremare. Sembrava che stesse realmente soppesando le parole della ragazza. All’improvviso si girò, puntando la pistola sul suo compagno.

«George, forse ha ragione» gli disse.

George si voltò. La sua espressione non cambiò neanche quando vide la pistola puntata alla sua faccia.

«Mike…» gli disse avanzando di un o. «Sei davvero un coglione!».

Con una velocità che aveva del sovrumano, George colpì il polso di Mike, facendogli cadere la pistola di mano. Poi lo colpì alla tempia con un gancio poderoso. Mike crollò a terra stordito.

Il tutto era accaduto in meno di tre secondi, cosicché Annabelle era appena riuscita a rimettersi in piedi e voltarsi verso la porta, quando il proiettile le traò il cranio. Vide pezzi di osso e materia cerebrale sulla porta della biblioteca, prima di crollare a terra.

George sollevò di peso Mike, ancora stordito e dolorante, e lo trascinò alla macchina. Una volta entrati e messo in modo, George si allontanò in tutta fretta dal vicolo.

«Mi dispiace George» farfugliò Mike «Credevo che… pensavo che… Insomma…».

George, con la stessa velocità mostrata in precedenza, lo colpì nuovamente, senza distogliere gli occhi dalla strada. Mike si accasciò sul sedile, la testa penzoloni, privo di sensi.

«Forse la prossima volta presterai più attenzione a quello che ti dico».

XVI

Con il trascorrere dei giorni, Johnny ava sempre più tempo fuori dalla sua stanza, nella sala comune. Nonostante fosse ato quasi un mese dal suo risveglio, ancora non aveva avuto il permesso per uscire con gli altri nel grande giardino che circondava la clinica. La sua debolezza era ancora grande e il medico non si era fidato a dargli il benestare per l’uscita.

Ogni volta che sedeva nella sala comune, Ted Brenton era con lui. Dal giorno dell’aggressione, Ted non aveva più mostrato la minima aggressività nei confronti degli altri. E, cosa che stupì notevolmente Claire e l’intero staff, non si era mai più lamentato delle voci. Era tornato ad essere il docile gigante che era sempre stato, ma senza il continuo piagnucolio sulle voci. Spesso chiedeva a Stephanie se poteva esserle utile, se poteva spostare o portare qualcosa per lei. Voleva farsi perdonare per quello che aveva fatto.

La mattina del 2 giugno, Johnny e Ted erano impegnati in una partita a carte, al piccolo tavolino davanti alla vetrata. Non parlavano quasi mai, cosa che non era sfuggita a Richard.

Una sera, dopo aver fatto l’amore con Claire, Richard prese coraggio e domandò di Johnny. Sapeva che era un argomento molto delicato, ma aveva bisogno di parlarne.

Claire gli raccontò dei colloqui che avevano avuto, tacendo, non senza un piccolo senso di colpa, sulle sensazioni che aveva provato in quelle occasioni.

Dopo aver ascoltato con attenzione i resoconti di Claire, Richard disse:

«Hai notato come Ted si sia affezionato a lui?».

Lui. Raramente Richard chiamava Johnny con il suo nome, neanche temesse che nominarlo lo rendesse più reale di quello che era.

«Sì» rispose Claire, accendendosi una sigaretta. «Quando gli ho chiesto perché asse così tanto tempo con Johnny, mi ha detto che lo fa perché lui l’ha aiutato. Ma se gli chiedo perché pensa che l’abbia aiutato, si limita a sorridere e non dice niente».

«Comunque è strano» commentò Richard. «A volte resto a guardarli per un po’. Non c’è una sola volta in cui li ho visti scambiarsi una parola».

E così erano adesso, ognuno con le proprie carte in mano. In totale silenzio.

«Schifosa puttana!»

Il silenzio fu rotto da Melanie Grinder. Aveva appena salutato in quel modo Stephanie, che stava uscendo dalla sua stanza. A quanto pareva, quella mattina era il demone ad aver preso il controllo.

Ted e Johnny si scambiarono un’occhiata ed entrambi sorrisero.

Mentre Stephanie si avvicinava al loro tavolo, incrociò Karl, eccezionalmente venuto per il turno diurno.

«Hey Stef» le disse con il suo odioso sorriso stampato in faccia «Non è che miss demone sa qualcosa di te che noi non sappiamo?». Le strizzò l’occhio, proseguendo per la sua strada, senza attendere una risposta.

Stephanie si trattenne dal rincorrerlo e dargli in testa la padella che aveva tra le mani.

«Buongiorno ragazzi» disse poi ai due, una volta raggiunto il tavolino. «Chi vince?».

Ted sfoderò il suo sorriso migliore. Gli piaceva quando Stephanie gli rivolgeva la parola. Le piaceva quell’infermiera, è sempre stata molto gentile con lui. Non sopportava l’idea che avrebbe potuto farle del male. Ma se gli parlava, allora forse l’aveva perdonato.

«Buongiorno infermiera Stephanie» la salutò Ted, con il suo strano modo di parlare. «Sto vincendo io» disse poi, e il suo sorriso parve aumentare ancora.

Stephanie gli sorrise di rimando. Era praticamente impossibile non sorridere quando lo faceva Ted. Rivolse poi lo sguardo a Johnny.

«Come andiamo oggi?» gli chiese.

«Meglio» rispose lui. «Ogni giorno un po’ meglio».

Stephanie lo squadrò per qualche istante, come a sincerarsi che avesse detto la verità, dopodichè porse a Ted due pastiglie colorate.

«Tieni Ted, la tua medicina».

«Devo proprio, infermiera Stephanie?» chiese lui, guardando dubbioso le pastiglie.

«Sì Ted, lo sai» gli rispose. «Ma se continuerai a stare bene come in questi giorni, forse non le dovrai prendere ancora per molto».

Nuovamente il viso di Ted si illuminò del suo grande sorriso. Prese le pastiglie e le buttò giù con un po’ d’acqua. Spalancò poi la bocca per far vedere che le aveva inghiottite realmente.

«Bravo ragazzo» le disse Stephanie, dandogli un leggera pacca sulla spalla.

Ted arrossì vistosamente, facendo sorridere sia Stephanie, sie Johnny. Tornò poi ad esaminare attentamente le sue carte, con le mani che tremavano leggermente.

«Posso fare qualcosa per te?» chiese Stephanie rivolta a Johnny.

Lui parve pensarci per un attimo.

«Beh, mi chiedevo una cosa» iniziò lui. «Sono un sorvegliato speciale?».

Stephanie aggrottò la fronte.

«Vedi» disse Johnny sorridendo «Da quando sono qui c’è quel tizio che continua a guardarmi ogni volta che ne ha l’occasione. Ma ancora non mi ha rivolto una parola».

Stephanie si girò verso il punto indicato da Johnny. Al di là del vetro che separava la sala infermieri dal quella comune, c’era Richard. Stava sorseggiando un caffè, guardando dalla loro parte.

Stephanie si sentì in grande imbarazzo.

«Beh, no» gli rispose, cercando di trovare le parole giuste. Era difficile trattare con Johnny, perché, a differenza degli altri, non aveva nessun tipo di deficit cognitivo. Se gli avesse detto una bugia, o si fosse inventata una scusa, era certa che non l’avrebbe bevuta.

«Lui è Richard, un nostro operatore» gli disse. «E lui è… beh… lui…»

«Richard?» la interruppe Johnny, piegando di lato la testa. Poi i suoi occhi si allargarono e comprese. «Oh, quel Richard».

«Sì, quel Richard» confermò Stephanie, al colmo dell’imbarazzo.

Seguì un minuto di totale silenzio. Johnny guardava Richard con sguardo intenso, che Stephanie non seppe decifrare. Poi si girò nuovamente verso di lei, abbozzando un sorriso.

«Ti ringrazio» le disse. «Non ho bisogno di altro».

Lei gli poggiò una mano sulla spalla, prima di andare verso la sala infermieri.

Alle 12 in punto fu servito il pranzo. Johnny riuscì a mangiare un po’ più del solito, incalzato da Ted seduto al suo fianco. Furono gli ultimi a rimanere seduti. Gli altri ospiti erano tornati nelle loro stanze, come da regolamento.

«Voi due» li chiamò Karl. «Credete di essere in un ristorante forse?».

Entrambi si girarono a guardarlo. Si era avvicinato al tavolo spingendo il carrello per le pulizie. Johnny aveva davanti a sé una tazzina ancora piena per metà di caffè. Karl si avvicinò e la tolse dal tavolo.

«Forza, è l’ora della nanna dei “partiti”» disse, mettendosi a ridere. Come al solito, era l’unico che trovava divertenti le sue stupide battute.

«Non aveva finito» disse Ted.

«Oh ma davvero?» chiese Karl, fingendo stupore. Guardo la tazzina che aveva in mano. «Eppure questa è vuota, lo giuro». Rovesciò quindi il caffè nel carrello e mostrò a Ted la tazzina vuota.

«Tu sei una persona cattiva» gli disse Ted, stringendo i pugni.

«Ragazzone» disse Karl, abbassando la voce. «Forse sì. O forse lo posso diventare se non alzi il tuo culo enorme dalla sedia e te ne vai nella tua stanza».

Ted fece per alzarsi, livido di rabbia. Ma Johnny gli posò una mano sul grosso avambraccio. Non lo guardava, aveva gli occhi fissi su Karl.

«Forse potresti lasciarci ancora cinque minuti in pace» disse Johnny a voce bassa.

Karl si girò verso di lui, iniziando a ridere. Ma la risata gli morì in gola non appena incrociò lo sguardo di Johnny.

«Non credo che cinque minuti siano un grande problema» continuò Johnny. «Non ti pare?».

Karl rimase a fissarlo.

«Bah, cinque minuti non mi cambiano nulla» disse con fare assente.

«Bene» disse Johnny. «E magari dovresti cominciare a pensare di cambiare lavoro. Non mi sembra il tuo posto qui. Non pensi?».

«Odio stare qui, in mezzo a tutti questi pazzi» rispose Karl, arricciando il labbro.

Johnny lo guardava serio, senza fare commenti. Lasciò andare il braccio di Ted e si sporse verso l’operatore.

«Cambia allora!» gli disse.

Karl annuì impercettibilmente e si mise a guardare fuori dalla vetrata per qualche istante. Dopo una trentina di secondi, riportò lo sguardo su Johnny.

«Non più di cinque minuti, chiaro?» disse, allontanandosi poi con il carrello.

Johnny si lasciò andare sulla sedia, emettendo un cupo sospiro.

Ted lo guardava preoccupato ma, quando Johnny alzò la mano facendo il segno dell’ok, tornò a sorridere.

Al di là del vetro della sala infermieri, Richard lo stava ancora guardando.

Il giorno successivo, quando Johnny e Ted entrarono nella sala comune, furono accolti da una strana atmosfera festosa.

Claire e Stephanie erano al centro della stanza. Stavano ridendo. Johnny le osservò per qualche istante, non mancando di notare quanto la bellezza di Claire aumentasse esponenzialmente quando rideva. Si avvicinarono a loro Richard e Tod, un infermiere con cui Johnny non aveva mai avuto a che fare. Reggevano due bicchieri di carta ciascuno, pieni di un liquido giallino che poteva essere vino o champagne.

Claire si accorse dei nuovi arrivati e rivolse loro un sorriso.

«Buongiorno» disse allegra «E questo lo è davvero».

Ted sorrise a sua volta.

«Che succede dottoressa?» chiese. «E’ il compleanno di qualcuno?».

«No Ted» rispose Claire, ridendo. «Ma a volta le buone notizie sono da festeggiare più di un compleanno».

Ted parve deluso. Probabilmente aveva già iniziato a pregustare una bella ed enorme fetta di torta.

Johnny si limitò a guardare la ragazza e inclinare la testa di lato.

«Questa mattina mi è arrivata una mail che speravo di ricevere da molto tempo» spiegò infine Claire. «Il nostro carissimo Karl Mason, preso atto che questo non era il posto più adatto a lui, ha deciso di prendersi un permesso per il resto della settimana e di dare le dimissioni».

Gli altri tre poggiarono i bicchieri su un tavolino, applaudendo.

Ted, che ancora non aveva rinunciato a trovare una torta nascosta da qualche parte, si bloccò all’istante.

«L’infermiere cattivo?» chiese. Il tono era quello di un bambino al quale hanno appena detto che sarebbe andato a Disneyland. «Non viene più?».

ò in rassegna i volti dei presenti. Quando vide che tutti annuivano, il suo sorriso si allargò e prese a girare su sé stesso ridendo. Gli altri non poterono che ridere con lui. La scena di quel gigante che girava come una trottola battendo le mani, era troppo esilarante.

Ted si fermò, barcollando un po’ per il giramento di testa. Si riavvicinò a Johnny, mollandogli una pacca sulla schiena che per poco non lo mandò gambe all’aria.

«L’avevi detto tu» gli disse Ted. «Il mio amico speciale l’aveva detto».

Johnny gli sorrise, senza dire nulla.

«Bene» disse Claire finendo il bicchiere di vino. «E’ ora di metterci al lavoro, basta con i festeggiamenti».

Gli altri la imitarono e la seguirono nell’ufficio per il breathing mattutino. Solo Richard si attardò, rimanendo ancora nella sala comune.

«Da quello che ho visto ieri, Karl ti aveva preso di mira» disse a Johnny.

I due si guardarono per qualche secondo.

«Cosa vi siete detti?» chiese infine Richard.

«Gli ho solo chiesto di farci stare un po’ di più al tavolo» rispose Johnny.

«E’ vero signore Richard» intervenne Ted. «Voleva cacciarci via. Ha anche buttato via il suo caffè». Il suo voltò si rabbuiò.

«Purtroppo, Ted» gli disse Richard «Non tutti sono brave persone. E non tutti sono tagliati per questo lavoro».

«Sì sì» annuì con vigore Ted. «E’ la stessa cosa che gli ha detto lui».

Richard riportò lo sguardo su Johnny.

«E’ questo che gli hai detto? Che non era tagliato per questo lavoro?» gli chiese.

Johnny si limitò ad annuire. Continuava a guardare Richard negli occhi, senza tradire alcuna emozione.

«Beh» proseguì Richard. «Devi essere stato davvero molto persuasivo».

A Johnny non piacque il tono della sua voce. Ma non disse nulla, limitandosi a reggere il suo sguardo inquisitore.

Quando concluse che Johnny non avrebbe detto nulla, si avviò a raggiungere i colleghi.

Devo andarmene da qui, pensò Johnny, guardandolo entrare nell’ufficio.

Durante il pranzo, il buonumore era ancora presente. Persino Melanie, che fino al giorno prima era succube del suo demone, era tornata la dolce donnina di sempre. A tutti gli ospiti che lo desideravano, fu concesso di rimanere nella sala comune anche durante le pulizie.

Johnny si sedette sulla sedia davanti alla vetrata che dava sull’esterno. Di tanto in tanto sentiva su di sé gli occhi di Richard. Ted non c’era. Era tornato nella sua stanza dopo il caffè.

«Non hai mangiato molto, oggi» disse Stephanie alle sue spalle.

Johnny si girò, sorridendole. In effetti, aveva lasciato metà della pasta e il secondo non lo aveva proprio toccato. Dallo scambio di battute che aveva avuto con Richard quella mattina, aveva continuato a pensare ad uscire di lì. Era ancora debole, faticava a camminare per lunghi tratti, ma era innegabile che stesse bene. E dovevano ammetterlo anche loro, anche Claire. Non potevano continuare a tenerlo chiuso lì.

«Non avevo molta fame» rispose.

Stephanie lo guardò inarcando le sopracciglia.

«Devi cercare di tenere la mente sgombra da certi pensieri. Hai bisogno di recuperare le forze».

Johnny si stupì delle parole dell’infermiera. Evidentemente non era bravo come pensava a nascondere i suoi pensieri. Fece un sorriso imbarazzato.

«Succede qualcosa di interessante nel mondo?» chiese indicando il giornale che Stephanie teneva sotto un braccio.

A Stephanie scappò una risatina.

«Molto abile a cambiare discorso, lo devo ammettere» gli disse. «Tieni, guarda tu stesso, io l’ho già letto» gli disse poi porgendogli il giornale.

Johnny iniziò a sfogliarlo, senza avere il minimo interesse. La crisi economica era ancora ben lungi dall’essere superata, la guerra tra Israele e Palestina sfornava un notevole numero di morti ogni giorno, gli Stati Uniti si stavano riprendendo dopo essere stati nuovamente devastati dalla forza della natura. Johnny si limitava a leggere distrattamente i titoli degli articoli. Aspettava solo che Stephanie finisse di sparecchiare la tavola, per mettere il giornale da parte.

Finalmente l’infermiera uscì dalla sala comune. Johnny era arrivato alle notizie di cronaca locale e stava per chiudere il giornale, quando il suo sguardo fu attratto da un titolo a metà della pagina. Una lieve pellicola di sudore gli imperlò la fronte, mentre il cuore prese a battergli furiosamente nel petto.

“Bibliotecaria barbaramente uccisa”.

Appoggiò il giornale sul tavolino e vi si chinò sopra a leggere l’articolo.

Il cadavere della giovane Annabelle Bistrot è stato trovato questa mattina da un giovane del posto, nel vicolo dietro la biblioteca. Annabelle era stata nominata vice responsabile della biblioteca da una settimana. Sono ancora sconosciute le cause di questo omicidio, anche se, la mancanza di contanti e delle carte di credito nel portafoglio della ragazza, fa pensare ad un tentativo di rapina finito

nel peggiore dei modi. La polizia sta indagando. Annabelle aveva 25 anni e dalle parole dei colleghi era…

Johnny smise di leggere. Si appoggiò allo schienale della sedia. I suoi occhi erano fissi sul giornale.

Non è possibile. Non può essere.

Chiuse gli occhi, cercando di calmarsi.

Quando Richard entrò nella sala, si allarmò subito. Vide Johnny cinereo in volto che tremava.

«Hey, che succede?» gli chiese andandogli vicino.

«Sto bene» disse Johnny, ma fu tradito dal tremolio della voce.

«Certo, come uno che ha appena visto un fantasma e gli è partito un embolo» disse Richard. Lo prese per un braccio e lo mise in piedi. «Riesci a camminare?».

«Sì, penso di sì» rispose Johnny.

Richard lo condusse per fuori dalla sala comune, lungo il corridoio, fino alla sua stanza. Non dissero nulla per tutto il tragitto. Aiutò Johnny a mettersi a letto e, mentre si girava per uscire dalla stanza, si sentì afferrare il braccio.

«Grazie» gli disse Johnny dal letto.

«E’ il mio lavoro» rispose Richard. Voleva che il suo tono apparisse freddo e distaccato, ma quel grazie lo aveva spiazzato. Raramente gli era capitato di ricevere ringraziamenti dagli ospiti della struttura, il più delle volte erano insulti o lamentele, quando non erano veri e propri attacchi fisici. E, ironia della sorte, il primo grazie che riceveva era da parte di una persona che per molto tempo aveva odiato e temuto. Una persona dalla quale sarebbe dovuto essere odiato, visto che, alla fine dei conti, gli aveva soffiato la donna.

«Devo chiederti un favore» disse Johnny.

Richard non rispose, limitandosi a guardarlo. Cosa mai poteva volere da lui?

«So che agli utenti non è consentito di usare computer o cellulari» continuò Johnny.

Richard notò quanta fatica faceva a parlare. Cosa diavolo aveva che non andava questo tizio?

«Ho bisogno di sapere una cosa su due persone» Johnny si tirò a sedere sul letto.

Richard rimase ancora in silenzio. In tutti gli anni di lavoro presso la clinica, aveva ricevuto le richieste più strane e bizzarre. La più assurda, che ancora riusciva a strappare risate quando la raccontava, risaliva a tre anni prima. Un uomo, appena ricoverato, gli aveva chiesto se poteva andare nella sua macchina a controllare che la famiglia di alieni che viveva nel posacenere stesse bene.

«Dick Maley» disse Johnny. «Dick Miley e Howard Rushton. Ho bisogno di sapere se c’è qualche notizia su queste due persone».

Richard aggrottò la fronte. Non era come andare a far visita ad una famiglia di alieni in un posacenere, ma come richiesta era comunque strana.

Johnny parve leggere i suoi pensieri.

«Per favore» disse. «Sono miei amici. Voglio solo essere sicuro che non gli sia successo niente».

«Cosa dovrebbe essergli successo?» chiese Richard.

«Non lo so» rispose Johnny.

«Se sono tuoi amici perché non li chiami? Il telefono della sala comune è a disposizione degli ospiti».

Johnny chinò la testa. «Non ho il loro numero» disse a bassa voce.

Richard lo guardò con diffidenza. Aveva tutta l’aria di essere preda di un nuovo attacco psicotico. Doveva informare Claire a riguardo.

«D’accordo» disse infine, assecondandolo. «Proverò a fare qualche ricerca nei siti dei giornali. Tu però, adesso, mettiti giù e cerca di riposare. Hai un aspetto da schifo».

Johnny alzò lo sguardo e vide negli occhi di Richard che non avrebbe fatto nulla. Si lasciò andare sul letto, arrendendosi. Chiuse gli occhi.

Richard rimase a guardarlo ancora per qualche istante, dopodichè uscì dalla stanza, chiudendo la porta a chiave.

Quella sera, Richard entrò nuovamente nella camera numero sei.

Johnny era rimasto chiuso nella sua stanza per tutto il giorno. Non aveva fatto cena, la mente provata da troppi pensieri gli aveva tolto completamente l’appetito. Si stupì quando vide Richard entrare con due tramezzini su un piatto.

«Tieni» gli disse porgendogli il cibo.

Johnny sentì lo stomaco brontolare alla vista dei tramezzini e iniziò a mangiare il primo dopo aver ringraziato Richard.

L’uomo si sedette sulla sedia accanto al tavolino, osservandolo mangiare. Johnny si rese conte che aveva un’aria pensierosa e preoccupata.

A metà del secondo tramezzino, Johnny non sopportò più lo sguardo fisso che lo controllava.

«Non ho intenzione di ammazzarmi con il piatto» gli disse in tono brusco. «Posso anche finire di mangiare da solo».

Richard continuava a fissarlo. Sembrava indeciso su cosa fare.

«Non è per questo» disse poi «Ho fatto le ricerche mi hai chiesto».

Johnny si lasciò sfuggire dalle mani quello che restava del tramezzino, che cadde sul piatto.

Richard rimase ancora in silenzio. Inizialmente aveva pensato che quella di Johnny fosse una delle tante richieste senza senso che facevano gli ospiti. Aveva deciso di andare da Claire a riferirle del loro breve discorso e delle condizioni di Johnny. Mentre si dirigeva all’ufficio della ragazza, però, fu colto dal dubbio. E’ vero che la sua richiesta appariva priva di fondamento, ma era indubbio che Johnny fosse l’ospite più “normale” mai entrato in clinica. Non si era messo a sbraitare, agitarsi o altro, ma aveva formulato la sua richiesta con una calma e una ragionevolezza che avevano convinto Richard a proseguire fino alla sala infermieri e mettersi al pc.

«I nomi che mi hai fatto» fece Richard «Sono davvero tuoi amici?».

Johnny annuì. Si era completamente dimenticato del piatto che aveva in grembo e dei resti del tramezzino.

«Beh» disse Richard. Si fermò, si schiarì la gola. Sembrava non riuscire a trovare le parole per continuare. «Non c’è traccia di quello che si chiama Howard Rushton. Ma riguardo quell’altro…».

Johnny si sentì gelare il sangue. Strinse la coperta nei pugni senza neanche accorgersene.

«Quel Dick Maley che mi hai detto, è morto» disse Richard. Distolse lo sguardo quando vide l’espressione di Johnny. Dolore allo stato puro. «Mi dispiace» aggiunse.

«Come?» chiese Johnny con un filo di voce. Il cuore aveva ripreso a battere ad un ritmo insopportabile. «Come è morto?».

Richard sospirò. «Hanno cercato di rapinarlo. Secondo l’articolo che ho letto, deve aver fatto resistenza e gli hanno sparato».

Johnny appoggiò la schiena alla testiera del letto, chiudendo gli occhi. Una lacrima scese solitaria su una guancia. Non era solo per il dolore della perdita dell’amico, dei due amici, contando anche Annabelle, ma le sue erano lacrime di frustrazione. Come aveva potuto pensare, proprio lui, che fosse finita? Da

quando si era risvegliato in quel letto, non aveva fatto altro che aggrapparsi alla speranza che tutto fosse finito con la loro fuga. Ora sapeva che non era così. Li stavano ancora cercando e, a quanto pare, li stavano trovando, uno dopo l’altro.

All’improvviso, un pensiero lo folgorò. Non poteva più aspettare, doveva andarsene il prima possibile. Ora non c’era in ballo solo la serenità di Claire e dell’uomo che lo stava guardando dalla sedia, ora era la loro stessa vita ad essere in pericolo. Più restava in quella clinica e più alte erano le possibilità che trovassero anche lui. E li conosceva troppo bene per sapere che chiunque si fosse messo sulla loro strada, avrebbe fatto una brutta fine.

«Devo parlare con Claire» disse.

Richard aggrottò la fronte, senza dire nulla.

«Senti» disse Johnny fissando i suoi occhi in quelli di Richard. «Io so chi sei, e certamente tu sai chi sono io».

Richard fece una smorfia a quelle parole, ma rimase in silenzio.

«Claire è l’unica che possa farmi uscire da qui» proseguì Johnny «E sarà un bene per tutti se me ne andrò il prima possibile».

«Perché?» chiese Richard.

Johnny era stremato. Più mentalmente che fisicamente, così la sua risposta arrivò carica di rabbia.

«Perché? Ho visto come mi guardi, in ogni momento. Non venirmi a dire che non sarebbe un bene per te se io sparissi».

Richard si alzò dalla sedia e si avvicinò al letto con aria minacciosa. Gli si leggeva in faccia la rabbia che provava.

«Sei davvero un bastardo!» gli disse. Nonostante il volume della sua voce fosse basso, espresse tutta l’ira e il disgusto che provava. «Già una volta sei sparito nel nulla senza degnarti di una parola. Claire ne è rimasta distrutta. Ed ora vuoi sparire di nuovo? Tanto per farla soffrire ancora un po’, giusto?».

Johnny abbassò lo sguardo. «E’ complicato…»

«Non me ne fotte un cazzo» proruppe Richard, interrompendolo. «Hai ragione, averti qui è forse la cosa peggiore che potesse accadere, almeno per me. Ma Claire… Cazzo, possibile che tu non capisca? Sei stato la persona più importante della sua vita e l’hai lasciata sola, senza dirle una sola parola. Ti importa così poco di lei?».

«Non è così!» non voleva farsi prendere dalla rabbia, ma parlare di Claire, proprio con lui, glielo rendeva quasi impossibile. «Claire era e resterà sempre la persona più importante per me! E non fui io a lasciarla, se ben ricordo. Fu lei a tradirmi e andare con un altro… O sbaglio?».

Richard parve perdere parte della furia che lo animava, sostituita da un certo imbarazzo.

«Tu non mi conosci, tu non sai niente di me» continuò Johnny. «Non sai quanto io ho sofferto, non sai che negli ultimi cinque anni ho ato ogni singolo, fottuto giorno a pensare a lei. Non accetto prediche da te, chiaro? Potessi tornare indietro stai certo che farei scelte diverse, ma non posso. L’unica cosa che posso fare adesso è proteggerla».

«Sparendo di nuovo? Ributtandola di nuovo nel baratro dal quale a fatica ne era finalmente uscita?».

Johnny non rispose. Non sapeva cosa rispondere. Doveva allontanarsi da lei, era troppo pericoloso restare ancora. Ma non poteva spiegare le sue ragioni. E una parte di lui, la più profonda e oscura, non voleva spiegare nulla a quell’uomo. Quella sua parte lo aveva ormai identificato da tempo come il responsabile di tutto. Se fosse stato al suo posto, se non fosse mai esistito, Claire non avrebbe fatto ciò che ha fatto e lui non avrebbe preso la decisione di scomparire nel nulla. Johnny sapeva bene che non era giusto prendersela con Richard per come erano andate le cose, ma non sarebbe mai riuscito a sollevarlo da tutte le colpe.

«Lei ti amava davvero» disse Richard all’improvviso. Aveva ritrovato il controllo e il tono della voce era più calmo. «E forse ancora ti ama. La conosco da tempo ormai e non ho bisogno di chiederle determinate cose per saperle. Anche se a te non frega più un cazzo di lei, potresti…».

«La amo come allora» disse Johnny. Non avrebbe voluto ammetterlo, tantomeno farlo proprio con Richard, ma le parole gli uscirono prima ancora che se ne rendesse conto.

«Allora il minimo che puoi fare è darle una spiegazione» concluse Richard.

Prese il piatto con l’avanzo di tramezzino e si voltò verso la porta. Sulla soglia si fermò, senza girarsi.

«Claire era felice prima che tornassi» disse «Era felice con me. Se sei tornato per riprendertela, sappi che forse non ti sarà tanto facile come credi».

Non attese una risposta. Chiuse la porta e si avviò lungo il corridoio.

Johnny rimase a fissare la porta chiusa, ascoltando i i di Richard che si allontanavano. Non era tornato per quello, non era neanche sua intenzione tornare. Il caso, quando ci si mette, sa essere davvero un gran bastardo.

Tuttavia, non potè reprimere il pensiero che gli si formulò in testa.

Se ne fossi così convinto, non saresti venuto a marcare il territorio.

XVII

Quando George e Mike entrarono nell’ufficio del dottor Keller, lo trovarono intendo ad infilare alcuni fascicoli nel distruggi-documenti. George non mancò di osservare il nome sulla copertina del fascicolo che stava rapidamente sparendo nel cestino: Dick Maley.

Il dottor Keller spense l’apparecchio e rivolse ai due uno sguardo interrogativo.

«Fuori due, ne restano due» disse Mike con tono allegro.

Il dottor Keller parve non apprezzare, come anche George che si girò per fulminarlo con gli occhi.

«Signore» disse George «abbiamo trovato e cancellato la signorina Bistrot. Nessun problema.».

Keller annuì, prendendo dal cassetto della grande scrivania in mogano un nuovo fascicolo.

«Ora siamo sulle tracce di Howard Rushton».

«E l’altro? E’ il testimone scomodo peggiore» chiese Keller. La sua voce era stridula, in falsetto, almeno un ottava sopra il normale. Sarebbe stata una voce buffa, non provenisse da un uomo con occhi tanto glaciali.

«Ancora non abbiamo sue notizie. Pare sia scomparso nel nulla».

«Ma non può essere scomparso, o sbaglio?».

«Nossignore» rispose George. «Ma forse è davvero rimasto ucciso la sera della fuga».

Keller lo guardò. George era un uomo immune alla paura. Era stato addestrato a dovere, ma avere quegli occhi puntati addosso lo faceva sentire inquieto.

«In questo caso, mi porterete il suo cadavere» disse Keller. Aveva usato un tono del tutto normale, come se avesse chiesto loro di prendere una marca di whyskey diversa se non avessero trovato la sua preferita.

«Lo troveremo signore» disse George.

Il dottore annuì e accese di nuovo il distruggi documento. Aprì il fascicolo targato “Annabelle Bistrot” e iniziò ad infilare un foglio alla volta nell’apparecchio.

George diede una gomitata a Mike ed entrambi uscirono.

Mentre saliva in macchina, George si chiese, non per la prima volta, se anche lui e Mike sarebbero stati considerati “testimoni scomodi”.

Cercò di allontanare quel pensiero, mentre si infilava nel traffico.

Il Racconto di Johnny

XVIII

La mattina seguente, quando Claire entrò in struttura, vide come al solito Ted che la aspettava per salutarla. Ma questa volta non era da solo. Con lui c’era Johnny.

Anche se ormai era più di un mese che lo vedeva praticamente tutti i giorni, il suo cuore non mancava mai di perdere un colpo alla sua vista. Era difficile controllarsi e non lasciar trasparire ciò che aveva dentro, ma ci riuscì anche quella mattina.

Entrò, sorrise ad entrambi e li salutò.

Ted, con il suo solito sorrisone, ricambiò il saluto. Johnny, invece, rimase serio. Non aveva un bell’aspetto, sembrava reduce da una notte insonne.

«Devo parlarti» le disse a bassa voce.

«Certo» disse Claire, titubante «Vieni con me nel mio ufficio».

Entrata in ufficio, Claire si tolse il giacchino color crema, appendendolo alla spalliera della sedia. Johnny rimase davanti alla porta, dopo averla richiusa.

Claire vide le ombre nere sotto i suoi occhi e l’espressione esausta sul suo viso.

«Che succede JJ?» chiese. Preoccupata per stato di salute di Johnny, non si era accorta di aver usato quel nomignolo, ma se ne accorse lui. Sentirle pronunciare quel soprannome, che tante volte gli aveva rivolto nei momenti più felici della loro storia, fu una staffilata al cuore.

«JJ» mormorò Johnny.

Claire arrossì, imbarazzata. I due si guardarono per qualche secondo, senza dire nulla. Ogni volta che si trovavano soli in una stanza, era percepibile una tensione quasi insopportabile. Claire, che per il suo lavoro sapeva che il contatto visivo era fondamentale, trovava sempre più difficile mantenere gli occhi su lui. Più difficile, ma anche fin troppo facile. Era proprio questo il problema. Poterlo guardare, osservare, lasciare che gli occhi scorressero sui suoi lineamenti e che si soffermassero nei suoi era una gioia inaspettata ed un dolore terribile. Talvolta lo guardava dalla sala infermieri, come faceva Richard, pensando che se non avesse smesso immediatamente, si sarebbe completamente persa. Ancora una volta, chiusa in quell’ufficio con Johnny che la guardava, si chiese perché mai doveva essere tutto così difficile.

«Devo andarmene» disse Johnny all’improvviso.

Claire si scosse dai suoi pensieri e tornò a guardarlo con gli occhi della professionista che era.

«Ne abbiamo già parlato Johnny» gli disse in tono paziente. «Potrai uscire quando ti riterrò in grado di farlo. E ti ho spiegato cosa occorre per questo, no?».

Johnny chinò la testa. Claire lo guardò con nuovo interesse. Lo conosceva abbastanza bene da capire che quell’atteggiamento poteva solo significare che era pronto a parlare.

«D’accordo» disse infine Johnny, avvicinandosi alla scrivania. «Ma ho bisogno che tu mi dia la tua parola su due cose».

Claire aggrottò la fonte. Con un gesto della mano, lo invitò a continuare.

«Nessuno, oltre te, dovrà mai venire a sapere ciò che ti dirò. Non scriverai niente, non mi registrerai, non prenderai appunti».

«Sai bene che c’è il segreto professionale» disse un po’ stizzita la ragazza.

«Seconda cosa, quando me ne sarò andato, voglio che tu distrugga ogni cosa che mi riguardi. Ogni foglio, cartella clinica, fascicolo… Qualunque cosa scritta che tu abbia su di me, dovrai eliminarla».

Claire rimase sconcertata da quella richiesta.

«Perché mi chiedi…»

«Il perché lo capirai alla fine. Ora voglio solo che tu mi dia la tua parola».

«Va bene» disse Claire.

Johnny si accorse che era ben lontana dall’essere convinta, ma non poteva fare altro se non sperare che il suo racconto cambiasse le cose. Si sedette sul divanetto al lato della scrivania, sospirando.

Claire prese il telefono, chiamò in sala infermieri dove le rispose Stephanie. Le chiese di non essere disturbata da nessuno, se non in caso di emergenza e chiese all’amica di prendere eventuali telefonate al posto suo.

Quando posò la cornetta, riportò tutta la sua attenzione si Johnny. Sentiva una strana agitazione dentro di sé. Il caso di Johnny, professionalmente parlando, era abbastanza interessante. Ma Claire sapeva che a breve avrebbe finalmente potuto dare risposta a molte delle domande che si era fatta negli ultimi cinque anni. Dove era stato? Perché era sparito? Cosa gli era successo in questi anni? Come si era procurato quelle cicatrici sulla schiena?

Vide che Johnny si stava guardando le mani, mentre faceva scrocchiare le nocche. Non potè fare a meno di sorridere. Quello era un altro atteggiamento tipico di Johnny.

Dopo un intero minuto di silenzio, finalmente lui alzò lo sguardo.

«So che ti sarà difficile credere a quello che sto per dirti» disse. «Forse non crederai ad una sola parola». Fece un sorriso amaro, tornando a guardarsi le mani.

«Di questo ce ne occuperemo dopo» disse lei in tono rassicurante. «Ascolterò tutto quello che avrai da dirmi».

Johnny la guardò, intensamente. Claire si obbligò a reggere il suo sguardo, per quanto le fosse difficile. Di nuovo quella tensione, quella sensazione di stretta allo stomaco, l’accelerazione del cuore che prese a battergli in gola e nelle tempie.

Anche lui provava le stesse sensazioni? Anche lui avrebbe voluto alzarsi da quel divano e andarla a baciare? Erano queste le domande che si stava ponendo Claire, quando Johnny iniziò il suo racconto. E man mano che lo ascoltava, tutto fu spazzato via. Domande, sensazioni, sentimenti.

«Circa un paio di mesi prima della nostra rottura, ricevetti una telefonata…».

XIX

Circa un paio di mesi prima della nostra rottura, ricevetti una telefonata. Subito pensai ad uno scherzo. Dall’altra parte della linea c’era un uomo con una voce in falsetto, che mi fece subito pensare a qualche mio collega che si stava annoiando.

«Parlo con il signor Page?».

«Sono io».

«Buongiorno signor Page, io sono il dottor Emery Keller».

Rimasi in silenzio, cercando nella memoria quel nome, senza riuscire a trovare nulla.

«La sto chiamando perché sarei interessato ad avere un colloquio di lavoro con lei».

Continuavo a pensare che fosse uno scherzo, ma non riuscivo proprio a capire chi, dei miei colleghi, potesse riuscire a fare quella voce tanto strana.

«Un colloquio? Di cosa si tratta?» chiesi.

«Mi farebbe molto piacere poter usufruire delle sue capacità. Il mio studio si trova al 358 di Private Drive, sa dov’è?».

«Certo che lo so, ma…»

«Ottimo» mi interruppe. «Se per lei va bene, le fisso un appuntamento per domani alle 16».

«Aspetti un attimo» dissi io. «Di cosa si tratta? Da chi ha avuto il mio numero?».

«Venga domani alle 16 e avrà tutte le risposte. 358, Private Drive».

La comunicazione fu interrotta. Rimasi per qualche tempo a fissare il telefono muto. Guardai il diplay e non mi stupii nel vedere che ero stato chiamato da un numero privato.

Se quello era uno scherzo, dovevo ammettere che era ben congeniato.

Il giorno dopo mi recai all’indirizzo che mi era stato dato dalla voce al telefono. Ero intenzionato a smascherare i burloni che erano dietro quella messinscena.

Il mio essere certo che quello fosse soltanto uno scherzo, subì un duro colpo quando mi avvicinai al portone del 358. Sotto il citofono c’era una targa in ottone: STUDIO MEDICO – EMERY DOTT. KELLER.

Fingere una chiamata era un conto, ma affiggere una falsa targa sul muro di un edificio mi pareva eccessivo.

Cercai il camlo relativo allo studio medico, premetti il camlo e subito il portone si aprì.

Lo studio era al terzo piano. Mentre salivo le scale mi chiesi cosa potesse volere da me, un informatico specializzato in programmazione web, un medico. E che tipo di medico era, poi? Quel Keller non era certo stato prodigo di informazioni durante la telefonata.

Varcai la soglia dello studio, trovandomi in un corridoio asettico. Le bianche pareti era ornate di alcuni anonimi cornici, con foto in bianco e nero. Ai lati del corridoio si aprivano due porte, una per lato. Quella sulla destra portava al bagno dello studio, l’altra, chiusa, recava la targhetta “Riservato”. Una terza porta era in fondo al corridoio. Mi avvicinai, notando una nuova targhetta riportante il nome del medico.

L’intero studio pareva deserto, non si sentiva alcun rumore. Non sapevo cosa fare. Bussare alla porta? Mettermi a sedere su una delle sedie disposte lungo il corridoio? O forse avrei fatto meglio a girare i tacchi e andarmene. Una strana inquietudine mi aveva preso. Non seppi spiegare il motivo, ma quel posto non mi piaceva affatto.

Stavo per voltarmi verso la porta d’ingresso, quando la voce falsettata mi chiamò da oltre la porta chiusa.

«Entri signor Page».

Entrai.

Lo studio vero e proprio non era altro che una stanza occupata per un terzo da una grande scrivania in mogano, posizionata dirimpetto alla porta. Seduto dietro quella scrivania, c’era un uomo che mi guardava. Doveva avere intorno ai cinquanta anni, i capelli a spazzola più bianchi che grigi. Nonostante fosse per la maggior parte coperto dal grande mobile, notai che doveva essere alto, forse più di me, ma decisamente esile. Dietro un paio di occhiali spessi, mi fissavano due occhi di un celeste slavato. Occhi inquietanti.

Con un accenno di sorriso, mi invitò a sedere su una delle sedie davanti alla scrivania.

Mi accomodai, lasciando che lo sguardo andasse dietro quell’uomo. Sulla parete erano affissi un numero incredibile di pergamene incorniciate. Risucii a distinguere una laurea in psicologia, una in medicina, un attestato di specializzazione in psichiatria e diversi altri attestati di specializzazioni varie.

Non è me che cerca, ma Claire pensai tornando a guardare quegli occhi di ghiaccio.

Ero decisamente a disagio. Perché mai aveva chiesto un colloquio a me, se voleva Claire?

«Si starà chiedendo il motivo di questo appuntamento» mi disse. La sua voce era davvero buffa. Mi fece venire in mente un calciatore appena centrato da una palla nelle parti basse. Ma quegli occhi, così privi di qualunque emozione, mi impedirono di ridere. Una persona con occhi del genere, era una persona dalla quale guardarsi bene.

Il dottor Keller parve intercettare i miei pensieri, perché il suo sorriso si ampliò, senza comunque riuscire a raggiungere gli occhi.

«Come ho detto al telefono» mi disse «vorrei avere l’occasione di servirmi delle sue capacità».

«Dottor Keller» dissi «Sono lusingato, davvero. Ma proprio non riesco a capire a cosa possa servirle un esperto di informatica. Non ha neanche un pc in studio».

Il sorriso di Keller si intensificò ulteriormente. Si protese sulla scrivania, guardandomi in modo che aumentò esponenzialmente il mio disagio.

«Oh ma non è a quelle capacità che mi riferivo» mi disse.

Guardai i suoi occhi, mi era quasi impossibile distogliere lo sguardo. Di che capacità sta parlando? Cosa voleva da me quell’uomo?

«Non capisco cosa…».

Mi interruppe alzando una mano.

«Lasci che le spieghi» si alzò andando alla finestra. Rimase a guardare la strada sottostante per qualche secondo. «Vede signor Page, sono anni ormai che indago i misteri del cervello umano. Posso dire di aver dedicato tutta la mia vita a questo». Tornò a guardarmi, poggiandosi al davanzale della finestra. «Il nostro cervello è l’organo più sconosciuto che esista. Sappiamo molto sulle sue funzioni, su come agisce. Ma per ogni cosa che sappiamo, ce ne sono almeno una decina che ignoriamo completamente».

Ascoltavo le sue parole, in attesa di capire dove volesse andare a parare.

«Ma non voglio tediarla con una lezione» disse «Quello che le voglio dire è che da tempo ormai ho indirizzato i miei studi verso una parte…» si interruppe per un attimo, come a cercare le parole giuste da dire «…poco tradizionale» terminò sorridendo.

Aggrottai la fronte, continuando a brancolare nel buio.

«Come lei sa, un uomo medio utilizza solo una piccola parte delle potenzialità del suo cervello. Anche la persona più geniale che esista al mondo, non va oltre il dieci per cento» si allontanò dalla finestra, tornando a sedersi dietro la scrivania.

«Ma ci sono persone in grado di utilizzarne una percentuale maggiore» disse con tono enfatico. «Sono poche, forse primi segni di evoluzione o forse dei semplici errori genetici. Ma ci sono. E sarebbero in grado di fare cose grandiose, se ben indirizzate».

Mi spostai sulla sedia, inquieto. Non sapevo se la mia intuizione fosse esatta, ma cominciai a credere che quell’uomo avesse realmente problemi con il cervello, il suo!

«E’ a questo che sto dedicando i miei studi e miei sforzi. Trovare queste persone e aiutarle a sfruttare appieno il loro potenziale».

«E lei vorrebbe che io l’aiutassi a trovare queste persone?» gli chiesi. «Pensa che abbia le capacità di aiutarla in questo?».

Il sorriso che mi rivolse mi fece rivoltare lo stomaco.

«Oh no, signor Page» mi disse. Il suo tono era quello che si usa con un bambino che ha fatto un errore banale. «Lei è una di queste persone!».

Calò il silenzio. Mi accorsi che, nonostante non fosse la cosa più educata da fare in quel momento, e forse neanche la più “sicura” di fronte a quell’uomo, iniziai a sorridere.

«Dottore, temo che si stia sbagliando» gli dissi. «Non so cosa crede di sapere su di me, ma l’assicuro…»

«Io non credo di sapere, signor Page» mi interruppe. «Io so!».

Disse quelle due parole con una tale certezza, che mi lasciò senza parole. Era come se avesse appena detto una verità assoluta. L’acqua è bagnata. Il fuoco brucia.

«Non mi stupisce che lei non ne sia consapevole» continuò. «Raramente lo siete. Ma prima di prendermi per pazzo, provi a pensare: ha mai avuto forti intuizioni? Tanto forti da decidere di assecondarle? Tanto forti da prenderle come certezze?».

Era ovvio che ne avessi avute. Tutti, nella propria vita, hanno delle intuizioni, ma non per questo sono in possesso di facoltà particolari, superiori. Stavo per aprire bocca, per dire esattamente quello che avevo pensato, ma di nuovo il dottore mi precedette.

«E quanto spesso le è successo?» mi chiese, socchiudendo appena i due pezzi di ghiaccio che aveva al posto degli occhi.

Quella domanda mi impedì di dire ciò che avevo pensato poco prima. In effetti, spesso mi facevo guidare dall’intuito. I miei stessi amici mi dissero, in più di un’occasione, che avevo un intuito fuori dal comune.

Stavo pensando ai tempi dell’università. Agli esami non ero mai stato colto in contropiede da una domanda di un docente. Anzi, la maggior parte delle volte mi aspettavo esattamente la domanda che mi veniva posta.

Ma questo non voleva dire niente. Mi piaceva studiare e mi piaceva presentarmi preparato agli esami.

Keller sorrise. Sembrava stesse leggendo sul mio viso tutti i miei pensieri.

«E ci pensi, signor Page» aggiunse con tono mellifluo. «Quante volte le è capitato che qualcuno le mentisse, senza che lei se ne accorgesse?».

Stavo per rispondere di getto “Come posso saperlo, se non me ne sono accorto?”, ma mi bloccai. Tante volte ho avuto a che fare con persone false, motivo per cui ero diventato tanto schivo e introverso. Ma tutte le volte, riuscivo a capire all’istante quando non potevo fidarmi di qualcuno.

«Dottor Keller» dissi dopo qualche istante di silenzio. «Non posso e non voglio mettere in dubbio il suo lavoro e devo ammettere che ci sa fare con le parole. Ma non credo proprio di essere diverso da tutte le altre persone di questo mondo».

Il sorriso del dottor Keller non vacillò.

«Non avevo alcuna pretesa di convincerla con questo colloquio, signor Page. Mi è sufficiente aver instillato in lei il dubbio».

Aprì un cassetto della scrivania e ne tirò fuori un foglio stampato.

«Le chiedo solo di darmi la possibilità di dimostrarle ciò che ho detto» mi disse porgendomi il foglio. «Una sola seduta, un paio d’ore al massimo. Se lei ha ragione, ci saluteremo e non sentirà più parlare di me. Se avrò ragione io, le proporrò la collaborazione che ho in mente». Battè distrattamente la punta di una matita su una parte del foglio. «Ovviamente la seduta sarà giustamente retribuita».

Guardai il punto sul quale aveva battuto la matita. “Si offre, a titolo di rimborso spese, la cifra di 3.000 euro a seduta conclusa”.

Alzai gli occhi su di lui. Dovevo avere un’espressione alquanto incredula.

«Come ovviamente è stato rimborsato per il colloquio di oggi. Può controllare il suo conto, se vuole» mi disse, voltando lo sguardo alla finestra.

Aggrottai la fronte e presi di tasca il cellulare. Toccai con un dito tremante l’icona dell’applicazione relativa alla mia banca. Inserii il mio pin personale e aspettai il caricamento della pagina. Keller era ancora immerso nella contemplazione del mondo fuori dalla finestra.

Un versamento di cinquecento euro era stato effettuato da circa mezz’ora. Quando ero arrivato allo studio.

Alzai uno sguardo colmo di stupore e diffidenza.

«Ma come…» iniziai.

Keller si girò verso di me. Solito sorriso, soliti occhi inespressivi.

«Ci sono persone influenti che credono nel mio progetto, signor Page. Le assicuro che i fondi non mi mancano».

Non sapevo cosa dire. Continuavo a guardare il dottor Keller e il foglio ancora poggiato sulla scrivania. Firmandolo avrei semplicemente accettato di sottopormi ad alcuni esami e prove, a fronte di tremila euro di compenso.

«Bene» disse Keller alzandosi «Direi che è tutto per oggi».

Mi alzai a mia volta, prendendo il foglio e lasciandomi condurre alla porta dello studio.

«Ci pensi, signor Page» mi disse porgendomi la mano. «Lunedì prossimo alle 15, con il foglio firmato, non le chiedo altro».

Gli strinsi la mano, incapace di parlare. Ero stordito da quanto era appena successo. Mentre camminavo verso la macchina, controllai nuovamente il mio conto attraverso il cellulare.

I soldi c’erano ancora.

XX

ai la settimana a ripensare a quello strano colloquio e alla proposta fattami dal dottore. Ero ancora certo che quello fosse la degna rappresentazione dello scienziato pazzo. Tuttavia, vista la mia situazione economica decisamente non rosea, tremila euro mi avrebbero fatto comodo. In fondo, avrei solo dovuto fare qualche test e qualche esame.

Il lunedì mi presentai allo studio del dottor Keller con il foglio firmato. Non ne fu stupito, era sicuro che sarei andato. Non gli importava che fossi lì solo per i soldi, per lui, come mi aveva detto, l’importante era che avessi deciso di andare.

La prima mezz’ora la ai facendo esami vari. Mi prelevò il sangue, feci l’elettroencefalogramma, elettrocardiogramma a riposo e sottosforzo.

Mentre mi ripulivo del gel, entrò nello studio una donna in camice bianco. Dedussi che era un’assistente di Keller.

Ci sedemmo ad un tavolino messo in mezzo allo studio, l’uno di fronte all’altra. Quel test, come mi disse Keller, mi avrebbe stupito.

Mi venne da ridere. Si trattava di una cosa che avevo visto in parecchi film di serie b. Il test era questo: l’assistente di Keller doveva scrivere parole a caso su alcuni foglietti bianchi. Ogni volta che scriveva una parola, doveva semplicemente guardarmi, concentrandosi e ripetendo mentalmente la parola scritta. A quel punto io dovevo prendere un foglietto dalla mia pila e scrivere la

prima parola che mi veniva in mente.

Nonostante l’ilarità minacciasse di uscir fuori, cercai di rimanere il più serio possibile. Era difficile, specie quando l’assistente mi guardava fisso negli occhi.

Al ventesimo foglietto, Keller disse che era sufficiente. L’assistente, senza dire una sola parola, si alzò e si mise in un angolo della stanza, mentre il dottore prendeva il suo posto.

Iniziammo a girare i foglietti, uno dopo l’altro. Fu una cosa sconvolgente. Ogni foglietto che giravo io, recava la stessa parola scritta su quello che voltava Keller. Non riuscivo a crederci. Ad ogni foglio, il sorriso del medico si ampliava e i suoi occhi mandavano lampi di trionfo.

Su venti parole, ne sbagliai solo una, l’ultima. Sul foglietto davanti a Keller c’era scritto “pioggia”, sul mio “cellulare”.

«E’ colpa mia» parlò per la prima volta l’assistente «Mentre scrivevo quella parola ha iniziato a vibrarmi il cellulare in tasca. Mi dispiace dottor Keller».

Keller fece un gesto con la mano, come a dire che non era nulla di importante.

«Allora, signor Page» mi disse. Stavo iniziando a detestare quel sorriso da “te l’avevo detto” che aveva stampato in faccia. «Pensa ancora che sia un vecchio pazzo?».

Avrei voluto con tutte le mie forze dire di sì, che c’era sicuramente un trucco, che mi stava prendendo per il culo. Ma non poteva essere così, ero io il mago della situazione, ero io il prestigiatore che aveva eseguito con successo il numero.

Keller mi spiegò quindi che ero un telepate, una persona in grado di percepire i pensieri degli altri. Mi disse che c’erano diverse forme di telepatia, c’era quella che ti permetteva di sentire i pensieri di chiunque, quella che ti permetteva di sentire i pensieri solo di alcune persone e quella che, oltre a ricevere, ti permetteva anche di inviare pensieri agli altri. Mi disse che al momento, non avrebbe saputo dire a quale categoria appartenessi io, ma era indubbio che avessi quella capacità.

Mi sottopose ad altri test, anche se gran parte dell’entusiasmo se ne era andato. Ormai aveva avuto la conferma che voleva; credo che gli altri test fossero più per me che per lui. Il risultato fu sbalorditivo come per il test dei foglietti.

Alla fine dell’ultimo, Keller si sedette dietro la sua scrivania e tirò fuori un foglio dal cassetto, proprio come aveva fatto la settimana prima. Mi disse che adesso poteva farmi la proposta seria, entrare ufficialmente nel suo progetto.

Più leggevo quel foglio, più aumentavano stupore e disagio. In breve, firmando, avrei accettato a are sei mesi in una struttura segreta, in collina. Non avrei potuto allontanarmi per nessun motivo, né avere contatti con l’esterno. Non avrei avuto accesso ad un cellulare o ad un pc, niente internet e niente telefoni.

Quando gli chiesi il motivo di tanta segretezza, mi disse che il suo progetto avrebbe cambiato il mondo e non poteva permettersi fughe di notizie per nessun motivo.

Quando arrivai al compenso, dovetti avvicinare il foglio agli occhi e rileggere più volte la cifra. Doveva esserci un errore, ma Keller mi assicurò che era tutto corretto. Mi venivano offerti ventimila euro per ogni mese, più cinquantamila euro alla scadenza del sesto mese, con possibilità di rinnovi.

Centosettamila euro totali, per sei mesi.

Keller mi spiegò che, come i sei mesi potevano essere rinnovati, allo stesso modo quel contratto poteva essere sciolto nel caso in cui le mie “capacità” non fossero state sufficienti per lo scopo dello studio.

In un momento come quello, in cui il lavoro non andava per niente bene, con il rischio di essere licenziato per i continui tagli al personale, mi veniva offerta una via d’uscita lastricata d’oro. Ma avrei dovuto rinunciare a tutto per quei sei mesi. Centosettamila euro, in cambio della mia libertà.

Keller mi disse che avrei potuto pensarci, ma entro due mesi a partire da quel lunedì, voleva la mia risposta definitiva.

Se la settimana prima uscii da quello studio stordito, quel lunedì ne uscii praticamente annientato.

XXI

ai l’intero mese di Maggio soprappensiero. Ovunque andassi, qualunque cosa fi, il mio pensiero era costantemente rivolto all’offerta del dottor Keller. Erano tanti soldi, una somma che non avevo mai visto in vita mia. Mi avrebbero permesso di sistemare parecchie cose. Ma c’era un altro pensiero che faceva da antagonista, che mi faceva propendere per un rifiuto. Tu, Claire. Se avessi accettato, avrei dovuto are sei mesi senza di te, senza poterti vedere, senza poterti sentire o scrivere. E senza neanche poterti dire ciò che stava accadendo.

Cercavo in tutti i modi di essere sempre lo stesso, ma so che ti sei accorta del mio cambiamento. Spesso vedevo che mi guardavi in modo strano.

Poi… beh, è successo quello che è successo. Il tuo tradimento, le tue bugie, i tuoi dubbi. Questo è stata la molla che mi ha spinto ad accettare. Senza di te, non c’era più nulla che mi impedisse di andarmene, che mi trattenesse. Quindi andai.

La sera stessa della nostra rottura, chiamai Keller al cellulare che mi aveva lasciato e gli dissi che accettavo. Il giorno dopo, con il contratto firmato, fui fatto salire su un suv e portato a quella che sarebbe stata la mia casa per i sei mesi successivi.

Era in collina, anche se non saprei dirti con esattezza dove. Dall’esterno, l’edificio appariva come la tipica baita di montagna, solo cento volte più grande. Era costituita da un seminterrato, in cui entrò il suv, dove c’erano diversi macchinari e generatori di corrente. Dal seminterrato si ava al piano terra attraverso una scala di pietra. Questo piano era diviso a metà da un lungo

corridoio, ai lati del quale si aprivano quattro porte, due per lato, ognuna con una serratura elettronica, di quelle che si aprono ando una tessera magnetica. Ogni stanza al di là delle porte era grande quanto un appartamento: la prima a destra era la sala pranzo, con un tavolo al centro e una decina di sedie, e un’enorme cucina che prendeva tutto il lato nord. Di fronte alla sala pranzo c’era la palestra, una delle più fornite che avessi mai visto. C’era ogni tipo di attrezzo, panche per i pesi, cyclette, tapis roulant, vogatori, spalliere.

Sullo stesso lato della palestra, c’era la sala relax. Un grande stanzone con scaffali pieni di libri di ogni genere, cd, dvd e ogni cosa potesse rientrare nel comune senso di relax. Ad ognuno di noi era anche stato dato un lettore ebook con il quale potevamo scaricare qualunque libro volessimo, senza alcuna limitazione.

La seconda stanza sul lato della cucina era quelle delle esercitazioni, che noi prendemmo a chiamare semplicemente “Il Laboratorio”. Questa era la stanza più strana di tutte. Le pareti, bianche, erano rinforzate e foderate d’acciaio. Sulla parete antistante la porta, c’era un gabbiotto con vetro antiproiettile, tipo quelli in cui si chiudono i medici quando fanno una TAC o una risonanza magnetica. Su ogni parete c’erano diversi macchinari di cui ignoravo completamente quale fosse la funzione. Sapevo solo che dovevano servire a misurare qualcosa, perché da ognuno di essi uscivano una quantità impressionante di fili, collegati a ventose.

Un’ultima porta si apriva poi vicino alle scale che portavano al piano superiore. Quello era l’ufficio di Keller.

Il primo piano era dove c’erano le nostre camere e quelle del personale di Keller. Dire che erano delle camere, sarebbe davvero poco. Ognuna era un piccolo appartamento, dotato di ogni confort. Tv, digitale, satellitare e via cavo, impianto stereo, lettori cd/dvd, una piccola cucina se volevi prepararti il cibo da solo e un bagno grande quattro volte quello che avevo a casa mia, con la doccia da una

parte e una vasca idromassaggio dall’altra.

Quando Keller finì di mostrarmi tutto, mi consegnò la mia chiave elettronica. Mi disse che con quella avrei avuto accesso a tutte le stanze del piano terra, ad eccezione del suo ufficio ovviamente, e alla mia camera privata. Non avrebbe aperto, però, le porte che davano all’esterno.

Mi sistemai nel mio alloggio e appena finii di svuotare le valige sentii bussare.

«Benvenuto alla casa degli strambi» mi salutò allegramente un tizio che entrò in stanza. «Dick Miley» aggiunse allungando una mano.

Gliela strinsi, presentandomi.

«Bene bene, JohnnyBello, come andiamo?» mi chiese guardandosi intorno.

«A dir il vero, non ne ho idea» gli risposi.

Dick scoppiò a ridere. Quella risata e i suoi modi esuberanti, me lo resero simpatico da subito. Aveva una decina di anni in più di me, con i capelli neri fino alle spalle e un viso che ispirava simpatia.

«Tranquillo, ti troverai alla grande qui» si sedette sul divano di fronte alla tv spenta. «A proposito, cosa sei tu?».

La domanda mi colse totalmente alla sprovvista. Aggrottai la fronte e Dick vide che non avevo capito la domanda.

«Suvvia, che tipo di stranezza hai?» mi chiese sorridendo. «Io sono un telecinetico, o qualcosa del genere. Almeno, questo è quello che mi hanno detto i cervelloni di Keller».

«Ah, beh» mi sentivo stupido a pronunciare quelle parole, ma mi feci coraggio. «Io sono un telepate… credo».

Gli occhi di Dick si dilatarono e fischiò dalle labbra.

«Uh, un pezzo grosso quindi» mi disse.

«Pezzo grosso?».

«Già già. Sono certo che Keller avrà fatto il diavolo a quattro per reclutarti».

Non risposi, ero ancora troppo frastornato da tutto ciò che stava accadendo. Cambiai discorso.

«Tu sei qui da molto?» gli chiesi.

«Da un mesetto» rispose Dick, accavallando le gambe e mettendosi più comodo sul divano. «E ti dico una cosa JB, è stato il mese migliore della mia vita!».

Non avevo mai amato i soprannomi, specie se dati da un perfetto sconosciuto, ma con Dick mi ritrovai subito in sintonia. E JB mi piaceva.

«Ho mangiato praticamente tutto quello che mi veniva in mente, mi son guardato un centinaio di film più o meno, alcuni anche… come dire… per adulti» mi fece l’occhiolino. «E ogni giorno trovo un pacchetto di sigarette e un quotidiano fuori dalla mia porta. Cosa posso volere di più?».

In effetti sembrava davvero una cosa stupenda. Forse troppo. Mi chiesi, ancora una volta, se quello non fosse tutto uno scherzo.

«Quindi, se ho capito bene, tu puoi muovere le cose con il pensiero» Buttai lì la frase con nonchalanche, lo speravo perlomeno, mentre aprivo il frigorifero. Era pieno di generi di tutti i tipi, dall’acqua alle verdure, sughi, creme, dolci e qualche birra.

«Già già» rispose Dick, accettando la lattina di birra che gli avevo portato. Mi sedetti di fianco a lui e aprii la mia.

Dick posò la sua lattina sul tavolino davanti al divano.

«Guarda» mi disse.

Lo guardai. Stava fissando la lattina sul tavolino. Lo vidi strizzare gli occhi, come in preda ad uno sforzo intenso. All’improvviso, sentii un debole rumore metallico e portai la mia attenzione sulla lattina. La linguetta dell’apertura stava tremando leggermente.

«Avanti» mormorò Dick tra i denti serrati.

arono una trentina di secondi, durante i quali la linguetta non fece che tremare. Poi di colpo si sollevò, con il tipico rumore delle lattine quando vengono aperte.

Dick si girò verso di me, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.

Io ero sconcertato. Una parte della mia mente ancora si rifiutava di credere a tutto quello e cercava di capire quale fosse il trucco. Un’altra parte, invece, era ammirata dallo spettacolo appena visto.

«Niente male eh?» disse Dick afferrando la birra e bevendone un lungo sorso.

«E’ straordinario» gli dissi.

«Keller dice che con il suo aiuto sarò in grado di fare cose più grandi che aprire una lattina o far rotolare una matita da un capo all’altro del tavolo».

Dick mi raccontò, poi, di come era venuto a conoscenza di quella capacità. Mi disse che una sera, mentre scriveva un resoconto per la sua ditta, fece muovere una penna da un capo del tavolo fin nella sua mano. Subito pensò di aver bevuto troppo, ma dopo una quindicina di prove, si convinse che non se l’era immaginato.

Ci raccontammo poi lo circostanze che ci avevano portato a conoscere Keller. Le nostre storie erano del tutto simili. Telefonata, colloquio, test e infine eravamo stati portati lì.

«Mi chiedo come abbia fatto Keller a trovarci» dissi io, buttando via le due lattine vuote.

«Non ne ho idea» mi rispose. «Ma sai una cosa JB? Sono felice che l’abbia fatto!».

ammo ancora un’ora a chiacchierare, poi scendemmo in cucina per il pranzo. A quanto pare, eravamo gli unici due ospiti della struttura, oltre al personale di servizio.

Dopo pranzo, Dick mi fece visitare il suo alloggio, che aveva notevolmente personalizzato. Alle pareti erano apparsi poster dei Pink Floyd, Led Zeppelin e una gigantografia di Angiolina Jolie.

ai il pomeriggio con lui. Parlammo, ridemmo, giocammo con la playstation che si era fatto prendere da Keller e cenammo nel suo alloggio.

Il mio primo giorno alla struttura era ato ed era stato una bella giornata. Tra me e Dick nacque una bella amicizia, che, con il tempo, si sarebbe rafforzata sempre di più.

XXII

Le prime due settimane arono senza che Keller si fe vedere. Lo vidi solo una volta, di sfuggita. Io e Dick avamo la maggior parte del tempo insieme.

Decisi di sfruttare la palestra, obbligandomi ad andarci tutti i giorni. Quelli erano gli unici momenti in cui rimanevo da solo.

«L’attività fisica non fa per me, JB» mi disse una volta Dick, accendendosi una sigaretta. Era decisamente un fumatore incallito. «Tranne quella che si fa in coppia su un letto, ovviamente».

All’inizio della terza settimana, Keller ci convocò nel suo ufficio. Ci disse che da quel giorno sarebbe iniziato il nostro addestramento. Ci presentò un paio di suoi assistenti, che ci avrebbero seguito nelle sedute quotidiane. Infine, ci disse che presto sarebbero arrivati altri ospiti.

Fu in occasione del primo addestramento che trovai risposta all’interrogativo che ci eravamo fatti io e Dick il primo giorno.

Il mio assistente era un tipo sulla trentina, di nome Emery Miller. Prima di iniziare, gli chiesi come aveva fatto Keller a trovare me e Dick.

«Oh non vi ha trovato lui» mi rispose «Sono stato io».

Rimasi a fissarlo a bocca aperta. Dovevo avere un’espressione alquanto buffa, perché Emery si mise a ridere.

«E’ questa la mia capacità» mi disse. «Sono in grado di trovare persone come noi. Se mi trovo in presenza di qualcuno con una capacità particolare, lo riconosco subito».

L’addestramento al quale mi sottopose era di una noia mortale. Non dovevo fare altro che mettere in pratica tutta una serie di esercizi di visualizzazione, mentre Emery raccoglieva dati da uno dei macchinari al quale ero collegato.

Da quando ero arrivato, non mi era più capitato di avere alcuna “intuizione”, nonostante ci avessi provato più volte. Quando parlavo con Dick, o con lo stesso Emery, cercavo di concentrarmi su di loro, per vedere se riuscivo a carpire qualcosa, una parola, un’immagine. Ma ogni volta non succedeva niente e, ogni volta, mi sentivo un perfetto idiota.

A Dick, invece, le cose andavano molto meglio. Tutta l’attività fisica che non faceva con me in palestra, gliela faceva fare il suo assistente, un donnone che doveva pesare almeno il doppio di Dick. Quello che doveva fare, era sollevare oggetti nell’aria quante più volte riusciva. Appena arrivava a dieci sollevamenti, si ava ad un oggetto più pesante. Dopo un mese, era in grado di sollevare un libro a mezz’aria una quindicina di volte consecutive.

Ero contento per Dick, vedevo la sua soddisfazione ogni volta che usciva dal Laboratorio. Per quanto riguardava me, mi sentivo frustrato. Dopo un mese non

avevo fatto altro che immaginare case, prati, montagne, oggetti, persone.

Decisi di andare a parlare con Keller, chiedergli spiegazione della mie sedute sempre uguali, sempre così inutili. Ma da lui non ebbi alcuna risposta risolutiva, si limitò a dirmi che dovevo continuare a fare ciò che Emery mi diceva e che presto avrei visto i frutti del mio lavoro.

All’inizio del secondo mese, arrivò alla Casa (così avevamo preso a chiamarla) Jennifer, una ragazza di vent’anni. Molto schiva, rimaneva di rado con me e Dick. Scoprimmo che era anche lei una psicocinetica, seguiva l’addestramento di Dick, ma mai insieme. Sembrava che Keller non volesse che parteciimo alle sedute insieme.

Io continuavo con il solito addestramento e mi ero quasi convinto a chiedere a Keller di annullare il mio contratto, quando una conversazione con Emery mi fece cambiare idea.

Eravamo all’interno del laboratorio, dovevamo ancora iniziare. Io gli indicai degli aggeggi che erano affissi agli angoli di ogni stanza. Sembravano dei piccoli ripetitori wi-fi.

«Toglimi una curiosità Eme» dissi indicandogli l’apparecchio che pulsava di luce blu «A che servono ripetitori wi-fi se nella Casa non c’è connessione ad Internet?».

Emery sorrise e per un po’ non disse nulla. Pareva indeciso se rispondermi o lasciare perdere il discorso. Alla fine decise di rispondermi.

«Quelli non servono per il wi-fi, John. Sono degli apparecchi che ha inventato Keller in persona. Emettono onde radio ad una frequenza che interferisce con le capacità di quelli… beh, di quelli come te».

Aggrottai la fronte.

«Quei cosi annullano la mia capacità?» gli chiesi.

«Esatto» Forse scambiò per disappunto la mia espressione di stupore, ma si affrettò ad aggiungere: «Non prenderla come una cosa personale, John. E’ solo che tra tutte le capacità, la telepatia è quella che conosciamo meno. Non possiamo permetterci di dare libero accesso ai nostri pensieri a chi non è in grado di controllare la sua capacità, soprattutto ai pensieri di Keller. Tiene il suo progetto talmente segreto, che anche noi, suoi collaboratori, non ne sappiamo più di voi».

Non l’avevo assolutamente presa come un offesa. Capivo molto bene che poteva essere molto spiacevole avere a che fare con una persona che poteva leggere dentro la tua testa. E così, ebbi anche risposta ad un altro interrogativo che mi stavo ponendo da tempo. Il fatto che da quando ero entrato nella Casa non avessi più avuto nessuna delle mie intuizioni, si poteva spiegare con quegli aggeggi.

Accantonai il proposito di andare da Keller e mi sottomisi, un po’ più di buon grado, al mio addestramento quotidiano.

Fortunatamente, la settimana dopo, iniziarono le prove pratiche.

Ogni giorno, veniva fatta entrata una persona nel laboratorio con me. Emery si chiudeva nel gabbiotto in fondo, osservandoci dal vetro e prendendo i suoi appunti. Nella stanza venivano spenti gli “interferitori”, mentre quello nel gabbiotto continuava a funzionare.

All’inizio, non feci altro che ripetere il test che feci nello studio di Keller durante il nostro secondo incontro. Ma subito capii il senso dell’addestramento fatto fino a quel momento. Quando ero nello studio di Keller, mi facevo realmente guidare solo dall’istinto quando scrivevo una parola. Ora, nel Laboratorio, ciò che scriveva la persona di fronte a me mi si stampava nella mente in un’immagine perfettamente nitida, come fosse una fotografia. Se quello che avevo di fronte scriveva e pensava ad una casa, io non percepivo solo la parola “casa”, ma potevo vedere chiaramente l’edificio pensato, con tanto di particolari: quanti piani aveva, il colore dei muri, quello delle ringhiere, vedevo addirittura vasi di fiori sui davanzali delle finestre.

Dopo i primi tre giorni di quel test, Emery decise di provare qualcosa di diverso. E fu così che scoprii di poter trasmettere i miei pensieri, oltre che captare quegli altri. Il meccanismo del nuovo test era il medesimo, solo che questa volta ero io quello che pensava a qualcosa, mentre la persona che mi stava di fronte doveva scriverla.

Emery prima, e poi Keller, erano rimasti estasiati da questa nuova scoperta. Dal canto mio, ero più che contento di aver fatto finalmente qualcosa di speciale. A dirla tutta, ero contento di sentirmi speciale. E, finalmente, avevo anche io qualcosa da raccontare a Dick, che prese i miei resoconti con tutto l’entusiasmo che mi ero aspettato.

Purtroppo però, quell’entusiasmo non durò molto. Alla fine del secondo mese, scoprimmo che la mia capacità aveva dei limiti non indifferenti. Non potevo

trasmettere i miei pensieri a più di una persona alla volta e potevo farlo solo se la persona in questione era fisicamente vicina. Inoltre, potevo percepire alla perfezione i pensieri delle persone che avevo di fronte, ma tutto si confondeva ai limiti dell’incomprensibilità quando tentavo di percepire i pensieri di persone che parlavano tra loro all’altro capo della stanza.

Non ebbi bisogno di leggere la sua mente, per capire quanto Keller fosse deluso da questi limiti.

Anche Dick vedeva i suoi progressi diminuire con il tempo. Era arrivato a riuscire a sollevare un tavolino di un paio di metri, ma da oltre una settimana non aveva fatto i in avanti. Sembrava che le nostre capacità, per quanto straordinarie, fossero troppo deboli.

La settimana successiva, Jennifer fu riportata a casa. Il massimo che era in grado di fare era far rotolare qualcosa sul tavolo e in due settimane non aveva fatto alcun miglioramento. Keller la rispedì da dove era venuta.

Eravamo di nuovo soli, io e Dick.

XXIII

All’inizio del quarto mese le cose non erano cambiate. Sia io, sia Dick, eravamo fermi, le nostre capacità non miglioravano. Tirava una brutta aria e Dick, una sera, disse che si aspettava di essere rimandato a casa da un momento all’altro.

L’assenza di altri ospiti non faceva che rafforzare i nostri timori. Chiesi ad Emery come mai non fosse più arrivato nessuno dopo Jennifer, e mi rispose che non erano riusciti a trovare una persona che avesse una capacità abbastanza forte. Disse che Keller era particolarmente intrattabile. Potevo capirlo. Aveva dedicato gran parte della sua vita allo studio e alla realizzazione del suo progetto, aveva ottenuto l’appoggio di persone influenti e facoltose, che sicuramente volevano avere un tornaconto. Ora però si trovava con sole due persone in possesso di capacità particolari, per giunta molto deboli.

La svolta avvenne al termine del quarto mese, la sera di Halloween.

Io, Dick, Emery, Sally, l’addestratrice del mio amico, e cinque o sei altri collaboratori, stavamo festeggiando Halloween nella sala da pranzo. La stanza era addobbata di tutto punto, con zucche, ragnatele e pistrelli che pendevano dal soffitto. Mancava solo Keller.

«Peccato che manchi il grande capo» disse Dick mentre mangiavamo il dolce «Non avrebbe neanche avuto bisogno del costume».

La battuta fu accolta da tutti con una selva di risate. A quanto pareva, anche tra i

suoi collaboratori non tirava molta simpatia per Keller.

Una volta sparecchiata la tavola, rimanemmo seduti a chiacchierare, giocare a poker, accompagnati da buona musica e ottima birra. Avevamo a disposizione due barilotti di ottima Du Demon, un po’ alta come gradazione, ma con un gusto eccellente.

Emery terminò il primo barilotto.

«Ragazzi, dobbiamo mettere la spina all’altro» disse, biascicando un po’ le parole.

Nessuno aveva voglia di alzarsi per andare a prendere il barilotto pieno, anche perché non era certo leggero, doveva pesare sulla trentina di chili.

«Ci penso io, ragazzi» disse Dick, brillo.

Si voltò verso il barilotto e strizzo gli occhi. Dopo un istante, il barilotto prese vibrare.

«Attento Dick, è troppo pesante per te!» gli disse Sally.

Ma Dick parve non sentirla. Il barilotto si alzò di un paio di centimetri dal pavimento e iniziò, molto lentamente, ad avvicinarsi al tavolo.

Emery iniziò ad applaudire, seguito dagli altri che presero a fare un tifo da stadio verso Dick. Io mi avvicinai a lui.

«Sei grande, amico» gli dissi appoggiando una mano sulla sua spalla.

Tutto accadde in un attimo. Il barilotto aumentò di velocità, alzandosi contemporaneamente. Sfrecciò sul tavolo e andò a schiantarsi contro il muro sull’altro lato. Il fracasso che fece fu assordante e la birra schizzò in ogni dove.

Calò il silenzio assoluto. Tutti stavamo guardando il barilotto accartocciato, dal quale ancora colava la birra. Lo stesso Dick stava fissando quell’ammasso informe di lamiera, con gli occhi sgranati.

«Ma che cazzo…» fu l’unica cosa che riuscì a dire.

«Come hai fatto, Dick?» gli chiese Sally.

Dick si limitò a scuotere la testa da una parte all’altra, per poi tornare a fissare il barilotto.

Sally si alzò, girò dietro il banco della cucina, e fece rotolare un terzo barilotto pieno.

«Fallo di nuovo» gli disse Sally. «E voi venite qui dietro, non mi piacerebbe vedervi ridotti in quel modo» disse indicando i resti del secondo barilotto.

Facemmo come ci era stato detto, e Dick prese a concentrarsi nuovamente. Come prima, il barilotto si alzò di pochi centimetri e prese a muoversi con una lentezza esasperante. Di colpo si riposò a terra con un torfo.

«Non ce la faccio, di più non ce la faccio» disse Dick.

Sally lo guardò intensamente.

«Certo che non ce la fai» gli disse «Finora il tuo massimo è stato un terzo del peso di quest’affare. Ma cos’è successo prima?».

Fu con quell’interrogativo che andammo ognuno nella nostra stanza. Non riuscii ad addormentarmi subito, nonostante l’alcol stesse facendo il suo lavoro nel mio cervello. Ripensavo a quel barilotto che sfrecciava sulle nostre teste e a come si era accartocciato contro il muro.

Mi addormentai mentre la mia mente mi poneva un nuovo interrogatovo.

Quali danni potrebbe fare una persona con un potere così grande?

Il giorno successivo, io e Dick fummo convocati da Keller nel suo ufficio. Voleva sapere per filo e per segno ciò che era successo la sera prima. Ci

trovammo a ripetere l’intera storia per tre volte.

Keller ascoltava in silenzio, con i suoi occhi glaciali che andavano da me a Dick.

«E quindi non sei stato tu?» chiese per l’ennesima volta Keller.

«Non lo so, quante volte ancora glielo devo dire?» Dick cominciava a spazientirsi, non a torto. Sembrava che Keller volesse trovare a tutti i costi una bugia nei nostri racconti.

«Ho fatto quello che faccio sempre nel Laboratorio» continuò Dick. «E all’improvviso quel coso è partito a tutta birra». Per un attimo Dick si lasciò prendere da un attacco di risa, per la battuta involontaria. Ma gli occhi di Keller, fissi su di lui, spensero in un attimo le sue risate.

«Cos’hai sentito?» gli chiese.

«Niente capo, davvero» rispose Dick. «E’ stato come spingere una macchina con il freno a mano tirato e all’improvviso qualcuno toglie il freno».

«E tu non stavi “pensando” al barile di birra, vero?» mi chiese Keller.

«No signore» risposi. E cosa avrei dovuto pensare, poi? Ero sì brillo, ma di certo non al punto da voler leggere i pensieri di un barilotto di birra.

Keller accese la tv che aveva in ufficio e fece partire la registrazione delle telecamere a circuito chiuso. Io e Dick osservammo la scena della sera prima, con un misto di disagio e divertimento.

Sullo schermo si vedeva, in alta definizione, il barile che iniziava a tremare, che si sollevava e iniziava il lento cammino verso il tavolo. Poi l’accelerazione improvvisa e lo schianto contro il muro.

Guardare la scena da un’altra prospettiva faceva girare la testa.

Keller mandò indietro la registrazione un numero di volte che parve infinito. Continuava a guardare e riguardare il momento in cui il barile perdeva il controllo. Vidi i suoi occhi mandare lampi le ultime volte che guardavano la scena.

«Interessante» mormorò, guardando un’ultima volta la scena. «Seguitemi».

Uscì dal suo ufficio ed entrò nel Laboratorio, dove Emery stava preparando il necessario per il mio addestramento quotidiano. Insieme ad Emery entrò nel gabbiotto di osservazione, lasciandoci in mezzo allo stanzone.

«Signor Malley, vede quei pesi nell’angolo?» chiese Keller indicando una rastrelliera sulla quale erano impilati diversi dischi di ghisa.

Dick annuì.

«Quale devo sollevare?» chiese.

«Tutti» disse Keller.

La totale assenza di inflessione nel suo tono, ci fece capire che non stava affatto scherzando. Vidi Dick che stava per aprire bocca, per dire che sicuramente non avrebbe potuto farcela, ma la richiuse. Quando Keller chiedeva una cosa, non c’erano obiezioni che potessero scalfire la sua determinazione.

Dick si concentrò sulla rastrelliera. Si udì un lieve tintinnio quando i dischi iniziarono a vibrare. Chiuse gli occhi, poi li strizzò. Lo sforzo che stava facendo era enorme. Una goccia di sudore colò dalla fronte sul lato del viso, ma la rastrelliera era ancora ben piantata in terra.

«Non ce la faccio» disse ansimando. Il tintinnio cessò e Dick si volse verso Keller. «E’ troppo per me, lo sa benissimo!».

«Di nuovo» disse Keller senza variare il tono della voce.

Dick mi guardò. Non mi era necessario leggere i suoi pensieri per sapere che stava pensando che Keller doveva essere uscito di testa. Ciononostante, Dick riprovò.

Si udì nuovamente il tintinnio, il respiro ansimante di Dick, il volto sfigurato dallo sforzo.

«Signor Page» mi chiamò Keller. «Posi una mano sulla spalla del signor Malley, per favore».

Per un attimo non mi mossi. Era una richiesta tanto assurda, che credevo di non aver capito.

«Subito, signor Page» disse Keller con una punta di impazienza.

Mi voltai verso il mio amico e feci come mi aveva detto Keller.

Nel momento in cui la mia mano toccò la spalla di Dick, la rastrelliera, con tutti i suoi pesi, si alzò veloce verso l’alto, sbatte contro il soffitto e ripiombò a terra con un fragore assordante. Alcuni dischi ancora rotolavano sul pavimento, quando Keller uscì dal gabbiotto. Era decisamente su di giri, con un sorriso trionfante stampato in faccia.

Dick stava ancora fissando il soffitto danneggiato dalla rastrelliera. Nessuno dei due riusciva a credere a quello che era appena successo.

«Ci siamo Emery, ci siamo» disse Keller.

Entrambi mi stavano guardando. Mi stavano fissando per la precisione, come fossero davanti ad un alieno.

Quel giorno scoprii di avere un’altra capacità oltre la telepatia, una capacità che mi rese il soldatino più prezioso di Keller. Ero un catalizzatore. Mi bastava entrare in contatto con altre persone dotate di capacità, per aumentare in modo esponenziale la loro forza. Dick, che non era mai riuscito a sollevare nulla di più pesante di un tavolo, grazie a me era stato in grado di sollevare una rastrelliera con circa cento chili di pesi.

Ma non ero solo in grado di aumentare le capacità degli altri. Quando venivo in contatto con un altro ospite, anche la mia capacità telepatica aumentava. Ero in grado di percepire con chiarezza i pensieri di tutti coloro che erano presenti in una stanza senza il minimo sforzo.

Da allora gli addestramenti di Dick e degli altri ospiti, non furono più singoli, presenziai ad ognuno di essi. Keller era sempre più entusiasta e prese a venire ad osservare gli addestramenti sempre più spesso.

XXIV

Nei due anni successivi, si avvicendarono diversi ospiti. La maggior parte delle volte rimanevano non più di due settimane. Nonostante il mio particolare aiuto, non riuscivano comunque a sviluppare una forza apprezzabile della loro capacità.

Io e Dick, invece, facevamo progressi. I nostri addestramenti ora non erano volti ad aumentare l’efficacia della nostra capacità, ma al suo controllo. Nel momento in cui venivamo in contatto, era difficile per Dick riuscire a spostare gli oggetti con precisione. Agli inizi, le cose su cui si concentrava, schizzavano via, andando a schiantarsi contro il muro o contro il soffitto.

Alla firma del contratto per il terzo anno, Dick era in grado di controllarsi alla perfezione, riuscendo ad impilare dischi di ghisa con una precisione quasi millimetrica. Io, invece, riuscivo a selezionare i pensieri delle persone che “ascoltavo”. Non era più un vociare confuso e continuo.

Poche settimane dopo la firma del nuovo contratto, giunse alla Casa una ragazza. A differenza di Jennifer, la psicocinetica schiva, questa era l’essenza stessa dell’esuberanza. Si chiamava Annabelle Bistrot e subito entrò nella nostra piccola cerchia. ava le serate a chiacchierare, giocare e scherzare con noi. Aveva un gran senso dell’umorismo, e c’era da tenersi la pancia in mano quando lei e Dick cominciavano a punzecchiarsi a vicenda. Era dotata di una capacità molto particolare. Era anche lei una telepatica, ma di un tipo diverso dal mio. Keller la definì una sender. Le bastava fissare negli occhi qualcuno, per instillare in quella persona dei pensieri come fossero formulati dalla persona stessa. Durante uno degli addestramenti, riuscì a far spogliare completamente un tizio, semplicemente dicendogli che era la cosa più giusta da fare.

Una sera, un paio di mesi dopo l’arrivo di Annabelle, io e Dick ci ritrovammo nel mio alloggio da soli in occasione della finale dei mondiali di calcio. Nessuno dei due era un gran tifoso e la nostra nazionale non era tra le finaliste, ma era una scusa come un’altra per are una piacevole serata in compagnia. Annabelle aveva declinato l’invito, non stava molto bene quel giorno.

Al termine della partita, Dick mi guardò per lungo tempo senza dire nulla.

«Guarda che con quei cosi accessi non sento nulla» gli dissi indicando uno degli interferitori appeso all’angolo della stanza.

«Piacerebbe a me sapere cosa ti frulla in quella testa, JB» mi disse.

«Cosa vuoi dire?» gli chiesi, sorpreso.

«Annabelle» disse, come quella sola parola fosse la spiegazione universale di tutto.

«Annabelle?» chiesi.

Dick fece un gesto di impazienza con le mani, sbuffando.

«Mio dio, JB. Va bene che sono più di due anni che siamo chiusi qua dentro, ma

non credo che tu abbia completamente dimenticato come funziona il mondo».

Vedendo la mia espressione, capì che non avevo per nulla afferrato ciò che voleva dirmi.

«E’ cotta di te, JB» mi disse.

Distolsi lo sguardo, senza rispondere.

«E’ da quando è arrivata che ti ha messo gli occhi addosso. Ed è molto bella, non puoi negarlo» aggiunse.

«Sì, è molto bella» ripetei sospirando.

«E allora che aspetti?» mi chiese, prendendo una bottiglia di birra. «Non venirmi a dire che a te non piace o che non è il tuo tipo, perché potrei prenderti a bottigliate in testa».

«Non si spreca la birra in quel modo» cercai di sorridere, senza successo. «Non è quello…».

«Già, non è quello» disse Dick, bevendo in sorso di birra. «E’ forse qualcosa che ha che fare con la ragazza della foto che ti porti sempre appresso?».

Mi voltai verso di lui con gli occhi sgranati. Dick si mise a ridere di gusto della mia espressione.

«JB, non serve leggerti nel pensiero, se lasci le tue cose in giro» mi disse, facendomi l’occhiolino. «Chi è?».

Tirai fuori dal portafoglio la foto e gliela porsi. «Si chiama Claire. E’…» mi interruppi, distogliendo lo sguardo dalla foto «Era la mia compagna».

Dick osservò la foto per qualche secondo, prima di restituirmela.

«Molto bella» mi disse.

«Sì, bella, colta, intelligente, fine» dissi. «Quasi perfetta».

«Che è successo?» mi chiese porgendomi la birra.

Bevvi un lungo sorso, dopodichè gli raccontai della nostra storia, da com’era iniziata a com’era finita. Alla fine del racconto, avevamo entrambi in mano una nuova bottiglia di birra.

«Insomma» mi disse «Era la donna della tua vita, eh?».

«Lo era» risposi.

«Cazzate!» proruppe Dick. «Lo era, lo è e lo sarà sempre. Quando incontri la persona giusta, lo sai, lo senti. In pochi hanno la fortuna di riuscire a tenersela stretta, la maggior parte fanno qualche cazzata e la perdono. Ma anche se persa, rimane l’unica».

Era raro sentire parlare Dick con tanta serietà, senza che infilasse una delle sue battute nel discorso.

«Forse hai ragione Dick» gli concessi «Ma ormai non c’è più nulla».

«Dio mio, voi giovani mi fate venire mal di testa» mi disse tracannando la birra rimasta nella sua bottiglia. «Sei chiuso qua dentro da due anni, ora c’è una ragazza che se solo avessi vent’anni di meno ci avrei provato in tutti i modi, una ragazza che si è presa una cotta notevole per te e tu la tieni a debita distanza, non le permetti di avvicinarsi più del necessario. Cazzo, cerchi di non rimanere neanche un secondo da solo con lei».

Non pensavo che Dick mi avesse osservato tanto bene. Aveva ragione, da quando Annabelle era arrivata, avevo fatto in modo di non trovarmi mai solo con lei. Avevo capito sin da subito che provava una certa attrazione per me e non potevo negare di provare la stessa cosa. Mi piaceva e in quei mesi avevo iniziato a volerle davvero bene. Non solo perché era diventata la nostra mascotte, ma perché era una ragazza alla quale difficilmente non si riusciva a voler bene.

Non volevo farla soffrire. Iniziare una storia con lei, in quel posto, avrebbe solo portato sofferenza ad entrambi. La mia testa, come il mio cuore, erano altrove.

«JB, ascoltami bene» mi disse Dick protendendosi verso di me. «So che lo stai facendo per proteggerla, ma il modo migliore per farlo è quello di essere onesto con lei. Capisci quello che ti sto dicendo?».

Lo capivo. Avrei dovuto parlarle. In fondo, noi eravamo pagati per stare in quel posto, stavamo facendo un lavoro e quella storia avrebbe potuto interferire.

«Le parlerò» dissi.

«Bravo ragazzo» mi disse Dick, con una pacca sul ginocchio. «Sei davvero un bravo ragazzo, raro».

Mi si riempirono gli occhi di lacrime. Era la prima volta che Dick mi faceva un complimento con tanta semplice serietà. Gli sorrisi e lo accompagnai alla porta.

Quella notte feci fatica a prendere sonno e quando finalmente arrivò, sognai Annabelle, Claire e Dick. Li sognai privi di vita, stesi in un mare di sangue.

Parlai con Annabelle la sera dopo. La invitai a cenare nel mio alloggio. In quel periodo, c’erano una decina di ospiti alla Casa e la maggior parte delle cene le facevo nel mio alloggio, talvolta da solo, talvolta con Dick e Anna.

Fu una cena molto piacevole e dovetti ammettere che Dick aveva ragione su tutti i fronti. Vedevo negli occhi di Annabelle ciò che provava e mi accorsi che anche io avrei potuto provare gli stessi sentimenti per quella ragazza. Era solare,

praticamente incapace di stare in silenzio per più di dieci secondi, brillante nelle sue conversazioni. E fisicamente era davvero bella, con i lunghi e lisci capelli che gli ricadevano morbidi sulle spalle, il viso perfetto quanto il corpo. Era praticamente il mio opposto come carattere, ed era il mio ideale come presenza fisica.

E’ praticamente come Claire mi ritrovai a pensare mentre facevamo tintinnare i bicchieri in un brindisi.

Fu quel pensiero a darmi il coraggio per affrontare l’argomento.

«Annabelle, ti devo dire una cosa» iniziai.

Ma lei non mi diede il tempo di continuare. Si alzò, fece il giro del tavolo, mi prese il viso tra le mani e mi baciò. Un bacio dolce, che mi riempì il corpo di brividi. Il suo sapore era buonissimo, e mi fece di nuovo pensare a Claire.

Quando le labbra si separarono, vidi che era rossa in volto, ma i suoi occhi e la sua espressione non avevano perso nulla della loro consueta determinazione.

«Non devi dirmi nulla» mi disse sorridendo. «Sarò anche giovane, ma sono pur sempre una donna e certe cose le donne le sanno».

Tornò al suo posto e finì il vino rimasto nel bicchiere.

«Allora perché questo bacio?» le chiesi.

«Perché volevo che sapessi cosa ti sta aspettando. Quando il tuo cuore e la tua mente saranno liberi, e se ancora lo vorrai, è questo che potrai avere».

In quel momento mi odiai, odiai la mia incapacità di dimenticarmi di Claire, e odiai lei stessa. Nonostante ciò che aveva fatto, nonostante ciò che avevo ato, non riuscivo a dimenticarla, non riuscivo a buttarmela dietro le spalle. Guardavo quella splendida ragazza seduta davanti a me, e sperai con tutto il cuore di riuscire sgombrare mente e cuore.

XXV

All’inizio del nuovo anno, dopo ormai tre anni e mezzo di permanenza nella Casa, Keller convocò nel suo ufficio me, Dick e Annabelle. Mentre gli altri ospiti andavano e venivano, noi tre eravamo gli unici inquilini stabili.

Avevamo preso dimestichezza con le nostre capacità, al punto da rendere sostanzialmente inutili gli addestramenti.

Entrammo nell’ufficio, stupiti per la presenza di altri due uomini che non avevamo mai visto.

«E’ arrivato il momento di are alla prossima fase del progetto» ci disse Keller nel suo buffo falsetto.

Nessuno di noi disse nulla, ancora troppo interessati alle due nuove presenze.

Keller parve accorgersi solo in quel momento dei due uomini in piedi ai suoi lati.

«Oh sì» disse «Loro sono George Rose e Mike Dean. Vi affiancheranno nel nuovo lavoro».

«Salve gente» disse quello che si chiamava Mike, abbozzando un saluto militare e mettendosi a ridere. Evidentemente aveva trovato il suo saluto molto divertente.

George, invece, si limitò ad un cenno del capo, fissandomi negli occhi.

Mike doveva avere più o meno l’età di Annabelle, forse qualche anno in più. Era sul metro e settanta, con una corporatura molto esile.

George era almeno una ventina di centimetri più alto e doveva avere almeno una trentina di chili di muscoli in più del suo collega. Per tutto il tempo era rimasto immobile, con le braccia dietro la schiena, in un portamento che sembrava decisamente quello di un militare in carriera.

«Capo, cosa sarebbe questa seconda fase?» chiese Dick, lanciando di tanto in tanto un’occhiata ai due.

«Quando vi ho proposto di venire qui, vi ho detto che era per proseguire i miei studi sulle capacità del cervello» disse Keller, appoggiandosi allo schienale della sedia. Unì i polpastrelli delle mani davanti al petto e proseguì. «Voi tre siete andati oltre le mie aspettative e ho pensato che limitarsi a studiare le vostre capacità fosse una stupida perdita».

Ci guardò con i suoi occhi celesti uno ad uno, fissandosi poi su di me.

«Avete mai pensato a quanto potreste fare con le vostre capacità?» chiese.

Rimasi in silenzio. Da tempo avevo capito che quello era l’atteggiamento più giusto da utilizzare con Keller. La stessa cosa non si poteva dire di Dick.

«Certo capo. Potremmo tirare su un bel gruzzoletto a Las Vegas» disse il mio amico.

Mike si lasciò andare ad una risata da perfetto idiota. George rimase imibile.

Keller, che doveva ormai essersi abituato alle sciocchezze di Dick, fece finta di non aver sentito.

«Persone con le vostre capacità potrebbero essere un aiuto fondamentale per gli altri. Pensate a cosa potrebbe accadere se affiancaste le forze di polizia».

Finalmente cominciai a capire dove voleva andare a parare Keller. E mi stupii nel sentirmi elettrizzato dalle sue parole.

Quello fu il mio primo errore nella Casa.

Keller ci spiegò di avere avuto l’autorizzazione a far andare alcuni di noi alla centrale di polizia vicina e provare ad aiutare nelle indagini. Saremmo stati una squadra, noi tre, affiancati da Mike e George.

Il nostro compito era semplice: utilizzare le nostre capacità per aiutare la polizia. Ovviamente, il nostro impegno era del tutto ufficioso, leggendo tra le righe significava che era segreto.

Io e Annabelle non dovevamo fare altro che partecipare agli interrogatori e dire tutto quello che l’interrogato di turno taceva. Dick, invece, sarebbe stato usato maggiormente sul capo. La sua capacità gli permetteva di aprire alla polizia porte chiuse, di aprirle letteralmente, gli permetteva di disarmare o immobilizzare eventuali malintenzionati. Con il mio aiuto, ovviamente.

Mike e George erano semplicemente di o, o almeno così ci disse Keller. Erano gli unici armati e il loro compito era quello di assicurarsi che a noi tre non accadesse nulla.

Il mio entusiasmo contagiò presto gli altri due. Nel pomeriggio ci trovammo nell’alloggio di Dick e ci perdemmo in mille fantasie su come avremmo risolto casi irrisolvibili e di quante vite avremmo salvato.

La nostra prima missione fu la settimana successiva. Uscimmo dalla casa a bordo di un’utilitaria scura. Al volante c’era George con accanto Mike. Io, Annabelle e Dick eravamo sul sedile posteriore. Per tutto il tragitto dalla Casa alla centrale di polizia, George non smise un attimo di parlare e Dick non potè fare a meno di stargli dietro.

Arrivati alla centrale, George ci disse che stavano per interrogare un sospettato di rapimento. Da due giorni, Michael Canavough, un bambino di dodici anni, era scomparso da casa. Avevano fermato un tizio che corrispondeva alla descrizione fornita da un testimone, ma questo continuava a dichiararsi innocente.

Fummo portati in uno stanzino buio, con una vetrata che dava su una stanza più spaziosa, nella quale c’era un tavolo al centro e due sedie. L’agente che ci aveva accompagnato, ci disse che il sospettato sarebbe stato presto portato nella stanza e che non avrebbe avuto modo di vederci.

Aspettammo davanti al vetro, in ansia. Annabelle aveva preso a mangiarsi le unghie, mentre Dick tamburellava le dita contro il muro, in un ritmo sempre più fastidioso. All’improvviso si accesero le luci nella stanza e fece il suo ingresso un ragazzo di non più di vent’anni. Aveva i capelli tanto lunghi quanto sporchi, occhi infossati e una carnagione che andava dal pallido al verdastro.

L’agente che lo scortava lo fece sedere su una sedia, mentre sull’altra si sedette il tenente Rogers.

Tutti e tre osservavamo la scena con occhi sgranati. Sembrava di essere al cinema, guardando il film più realistico della storia.

«Allora Jerry» disse il tenente accendendosi una sigaretta. Sentivamo la sua voce metallica, perché proveniva da due piccole casse poste ai lati della vetrata. «Non si mette bene per te. Ti hanno visto parlare con il ragazzino il giorno della sua scomparsa».

«Non è un reato parlare con qualcuno, non ho fatto niente, non avete niente contro di me, dovete lasciarmi uscire». Vomitò fuori quelle parole senza prendere fiato. Notai che gli tremavano le mani e dedussi che doveva essere in astinenza.

«Ti lasceremo andare, Jerry, a patto che tu mi dica dov’è quel ragazzino» disse

Rogers.

Io mi avvicinai al vetro, fissando quel ragazzo. Senza pensarci, allargai le braccia, andando a prendere le mani di Annabelle e Dick. In un attimo, la mia mente fu invasa dalla voce di quel tizio.

Non hanno niente. Devo solo stare calmo. Non sanno niente. Cazzo se solo avessi una dose.

«George, che cazzo hanno i suoi occhi?» chiese Mike.

«Taci» rispose perentorio George, che mi stava osservando con vivo interesse.

Quasi non mi accorsi di questo scambio di battute, come non mi accorsi di avere quattro paia di occhi che mi stavano fissando. La mia concentrazione era tutta su quel ragazzo e sui suoi pensieri.

«Dov’è Jerry? Dove hai portato quel ragazzino?» chiese il tenente Rigers.

E d’un tratto seppi dov’era il ragazzino scomparso.

Mi girai verso George, non ebbi bisogno di dire nulla, sul mio viso era scritto tutto quello che voleva sapere. Premette un pulsante sul muro e dopo pochi secondi vidi il tenente che lasciava la stanza.

Rogers entrò nello stanzino. Aveva un’aria di pura diffidenza.

«Allora?» chiese con un tono spazientito.

«Lungo la I-70, al chilometro 24, c’era una sterrata che porta in mezzo ad un boschetto. C’è una baracca di legno abbandonata. Il bambino è lì».

Rogers mi squadrò dalla testa ai piedi per lungo tempo. Si vedeva che non credeva ad una sola parola di quello che gli avevo detto, e i suoi pensieri me ne diedero conferma.

«Le sto dicendo la verità» gli dissi. «E’ ancora vivo, non gli ha fatto niente perché doveva trovarsi delle dosi. Sarebbe andato stasera per violentarlo e ucciderlo».

«Ed io dovrei credere a tutto questo, perché l’hai letto nella sua testa, giusto?» mi chiese sarcastico.

Sentivo la rabbia crescere. C’era in gioco la vita di un bambino e quell’idiota perdeva tempo.

George intervenne prima che potessi dire qualunque cosa.

«Tenente, di certo ci sarà una pattuglia nelle vicinanze della I-70. Mandi qualcuno a controllare».

Rogers si girò verso George, che lo sovrastava di una quindicina di centimetri. ò un minuto intero di silenzio.

«Non muovetevi da qui» ci ordinò il tenente mentre usciva dallo stanzino.

Aspettammo quasi venti minuti prima che il tenente tornasse. Aveva l’aria sconvolta ed era bianco in viso.

«Non so come…» si interruppe. Non riusciva a guardarmi. Non so se era per paura che gli leggessi nella testa o per vergogna per non avermi creduto. «Beh, avevi ragione, abbiamo trovato il bambino».

Dick mi mollò una pacca sulla spalla ridendo, mentre Annabelle mi stringeva la mano. Io sorrisi ad entrambi.

«Ragazzi, siete davvero straordinari. Peccato che dovremo lasciare andare quel tizio».

«Come sarebbe lasciarlo andare?» chiese Dick. Tutto l’entusiasmo era stato cancellato in un attimo. «Avete il bambino, la baracca, sapete che è stato lui».

«Già» disse Rogers alzando le spalle. «Ma non credo ci sia sulla faccia della

terra un giudice disposto ad accettare la testimonianza di tre tizi che leggono il pensiero. E altre prove contro di lui, non ne abbiamo. Il ragazzino ha detto che non ricorda chi l’ha preso, che è sempre stato mascherato».

Mi voltai verso la vetrata. Il tremore delle mani del rapitore era sempre più violento. Doveva pur esserci un modo per farlo confessare.

«Mi faccia andare da lui». Era Annabelle. «Forse possiamo fare ancora qualcosa di buono».

La guardai e lei mi sorrise.

«Brava ragazza» le disse Dick sorridendo. Ci era arrivato prima di me a quanto pareva. Annabelle poteva indurlo a parlare.

«Non se ne parla» disse Rogers. «Non posso fare entrare estranei nella camera degli interrogatori, perderei il posto se qualcuno vi vedesse».

«Allora lo faccia uscire nel corridoio» gli dissi. Vidi che il suo scetticismo era nuovamente affiorato. «Tenente Rogers, ha già avuto dimostrazione di quello che possiamo fare. Si fidi di noi».

Ci scortò fuori dallo stanzino, dicendoci di aspettare.

Dopo qualche minuto, lo vedemmo arrivare verso di noi insieme al rapitore

ammanettato.

«Chi cazzo sono questi? Voglio uscire, fatemi uscire!» gridò.

Annabelle gli si mise davanti.

«Cos’è, non siete più poliziotto buono e cattivo? Ora siete poliziotto cattivo e puttanella figa?».

George, nonostante non avesse le mie capacità, capì cosa stava per accadere e mi serrò il braccio in una morsa d’acciaio. Non fosse intervenuto, quel bastardo sarebbe stato in terra con il naso spappolato.

«Forse dovresti andare subito alla baracca» gli disse Annabelle dolcemente. «Appena esci dovresti andare subito lì a sistemare il ragazzino. Potrebbero trovarlo e lui potrebbe riconoscerti. Forse dovresti andare subito a prenderlo e farlo fuori».

Rogers la stava guardando con un misto di orrore e di incredulità.

Il rapitore rimase a guardare Annabelle con aria assente per qualche secondo. Dalla bocca leggermente aperta, uscì un rivolo di saliva.

«Sì… forse dovrei…» disse con aria sognante.

Rogers lo strattonò facendolo camminare lungo il corridoio. Pochi secondi e riprese a sbraitare che dovevano lasciarlo libero, che era una persona onesta e che loro erano tutti dei vigliacchi in divisa.

Uscimmo dalla centrale e George si avvicinò al tenente Rogers per dirgli di seguire quel tizio.

Quando tornammo alla Casa, Keller era in fibrillazione. Aveva appena ricevuto una telefonata da parte del tenente Rogers. Avevano seguito il rapitore, che li aveva portati alla baracca.

La nostra prima missione era stata un vero successo e, insieme a Dick e Annabelle, festeggiai fino a notte inoltrata, con birra, musica e risate.

Quando ci separammo, rimasi sveglio a lungo nel mio letto. Pensavo a quanto fosse stato tutto facile. Erano bastati cinque minuti per salvare un bambino e assicurare quel tizio alla giustizia. Mi ritrovai a pensare alla domanda che ci fece Keller, “Avete mai pensato a cosa potreste fare con le vostre capacità?”.

Ci stavo pensando adesso, ora che avevo qualcosa di concreto su cui basare i miei pensieri. E nell’euforia del momento, mi trovai sussurrare al buio della mia camera.

«Potremmo salvare il mondo».

XXVI

Dopo il caso del bambino rapito, fummo impiegati in diversi altri casi durante quell’anno. Spesso venivamo mandati io e Annabelle per scoprire cosa nascondeva il sospettato di turno. Ogni volta era un successo.

Durante lo svolgimento di quei casi, scoprii due cose interessanti. La prima era che George e Mike, presenti ad ogni missioni, portavano con sé un piccolo aggeggino in plastica nera. Era un “interferitore” portatile. Aveva un interruttore che, una volta premuto, accendeva una lucina verde e svolgeva le stesse funzioni di quelli appesi agli angoli delle stanze. A volte provai a leggere nella loro testa, ma era come cercare di leggere un oggetto inanimato. Non diedi molto peso a questa cosa, in fondo potevo capirli, non era una bello sapere che la persona che avevi al tuo fianco poteva leggerti come un libro aperto ogni volta che voleva.

La seconda cosa che scoprii è che più lavoravo con Annabelle e più le nostre capacità si fondevano. Me ne accorsi durante un interrogatorio. Toccai Annabelle per poter leggere un uomo accusato di omicidio. Alla fine dell’interrogatorio, vidi che Annabelle era strana, insolitamente taciturna. Quando le chiesi cosa avesse, mi disse di aver sentito i pensieri di quell’uomo. Confusi, solo qualche immagine e parola, ma li aveva sentiti. Da quel giorno, provammo sempre più spesso, all’insaputa degli altri, ad utilizzare le capacità dell’altro e dopo qualche tempo ci riuscimmo senza problemi. Ci bastava essere in contatto e lei poteva sentire i pensieri, mentre io potevo condizionare. Tenemmo questa cosa per noi, non lo dicemmo neanche a Dick.

Lo stesso Dick era elettrizzato da questa nostra nuova occupazione. Lui era l’uomo d’azione. Più volte, sempre con George e Mike accanto, aveva affiancato la polizia in missioni sul campo. Poteva aprire porte sprangate, far inciampare un

malintenzionato che si dava alla fuga, oppure chiudere i sospettati in una stanza bloccando porte e finestre. La sua capacità era forte anche senza il mio aiuto, ma quando eravamo insieme potevamo fare cose strabilianti.

Una volta, fummo chiamati per una rapina in un banco di pegni. I rapinatori avevano portato via circa cinquantamila euro, tra contanti e oggetti preziosi. Le indagini portarono a due tizi che vivevano in una casa non distante dal banco dei pegni. Quando videro arrivare le volanti della polizia, insieme alla nostra utilitaria nera, volarono in macchina dandosi alla fuga. O almeno, ci provarono. Seduti sul sedile posteriore della macchina, io e Dick ci prendemmo per mano e un attimo dopo la macchina dei malviventi era sospesa a due metri da terra, con le ruote che giravano nel vuoto e il motore che ruggiva fuori giri. Dick li tenne lassù finchè gli agenti non si disposero attorno alla macchina, quindi li fece scendere senza tanti complimenti.

«JB, avresti mai pensato di diventare un supereroe?» mi disse Dick quella sera.

«Non esageriamo, vecchio» gli risposi.

In realtà era proprio quello che pensavo. Eravamo diventati dei veri supereroi, con poteri che le persone comuni credevano esistessero sono nei film. Aiutavamo la gente, la brava gente, e mettevamo al sicuro, dietro le sbarre i cattivi. Quale bambino non ha mai desiderato di essere Superman, Batman, Capitan America? E così ci sentivamo noi, come dei bambini i cui sogni si sono finalmente realizzati.

Credo sia stato proprio quello il nostro sbaglio. D’altronde, è difficile riconoscere un’illusione, quando si vola sulle ali dell’entusiasmo.

Poco più di un anno fa, tutto cambiò. Fummo mandati tutti in una missione che si rivelò molto pericolosa. In quell’occasione, accaddero due cose. Salvai la vita a George e si sgretolò l’illusione in cui avevo vissuto fino a quel momento.

XXVII

Nell’ufficio di Claire cadde il silenzio, rotto solo dai rumori di stoviglie. Nella sala stavano preparando il tavolo per il pranzo.

Johnny guardava fuori dalla finestra, assorto nei ricordi.

Claire lo stava osservando, sforzandosi di nascondere il suo stato d’animo. Si ripeteva in continuazione che Johnny era prima di tutto un paziente, quindi ogni sentimento personale doveva essere messo da parte. E poi, quante volte le era successo di ascoltare storie assurde in quello stesso ufficio?

«Prendiamoci una pausa» gli disse alzandosi dalla sedia. «Sono due ore che parli ed ora c’è il pranzo».

Johnny la guardò con aria stupita, come se non si aspettasse di trovarla lì, come se non sapesse neanche dove si trovava.

Per forza, si è perso nella sua fantasia pensò Claire.

«Va bene» rispose infine Johnny «Ma oggi devo finire».

Claire annuì e lo accompagnò alla porta.

Fece appena in tempo a risedersi, che nell’ufficio entrò Richard.

«Tutto bene?» le chiese premuroso.

Claire lo guardò per qualche istante, poi scoppiò a piangere. Richard chiuse in fretta la porta e le si avvicinò, accarezzandole dolcemente i capelli.

«Scusami» disse singhiozzando.

«Non devi scusarti di nulla» rispose Richard. «Sapevo che avrebbe potuto farti male quello che aveva da dire».

«Non è così» disse Claire. Sapeva che Richard era rimasto in ansia per tutta la mattina, probabilmente pensando che Johnny stesse facendo di tutto per farsi perdonare e, magari, per riconquistarla. «E’ malato, Richard. E’ davvero malato».

Richard la guardò aggrottando la fronte.

«Non posso scendere nei dettagli, lo sai. Temo che Johnny sia un caso di schizofrenia paranoie grave» si interruppe soffiandosi il naso. «Mi ha raccontato delle storie assurde… allucinazioni».

Richard le prese il viso tra le mani, con i pollici le asciugò le lacrime.

«E tu speravi che non fosse così, che ci fosse un’altra spiegazione al suo comportamento» le disse.

«L’ho amato tanto, Richard, lo sai» gli disse, gioendo per il calore delle sue mani sul viso. «Vederlo in questo stato mi fa davvero male».

Richard l’abbracciò e rimasero stretti in quell’abbraccio per qualche tempo. Quando Claire si fu ricomposta, uscirono dall’ufficio e si unirono agli altri nella sala pranzo.

Alla fine del pranzo, mentre veniva servito il caffè da Richard, Johnny e Ted erano, come sempre, seduti fianco a fianco. Claire gli si avvicinò.

«Siete proprio diventati amici voi due» disse sedendosi di fronte alla coppia.

Ted fece uno dei suoi immensi sorrisoni, annuendo con il grosso testone.

Johnny sorrise distrattamente, senza dire nulla.

«E cosa fate di bello?» chiese Claire a Ted.

«Giochiamo a carte» rispose Ted, nel suo tipico modo di parlare con le parole allungate «chiacchieriamo e camminiamo su e giù per il corridoio. Dottoressa, il mio amico JB non riesce ancora tanto a camminare bene, e allora lo aiuto».

«Fai bene Ted, bisogna sempre aiutare gli altri» gli disse toccandogli una mano. Ted arrossì furiosamente e nuovamente il suo sorriso assunse dimensioni eccezionali.

«Te lo rubo solo per un attimo, va bene Ted?» disse Claire, facendo un cenno a Johnny che si alzò e girò intorno al tavolo.

Claire andò verso l’altro lato della sala pranzo con Johnny dietro.

«Ted è qui da quattro anni» disse fermandosi davanti alla finestra. «Ha fatto grandi i avanti dal primo giorno».

Johnny la ascoltava in silenzio, ma aveva la sensazione che ci fosse un tono di rabbia nella sua voce.

«Ha bisogno di un ambiente tranquillo e di non perdere il contatto con la realtà» continuò la ragazza. «Forse non lo ricordi, ma la notte dell’aggressione a Stephanie non è stato il primo episodio di violenza di Ted».

«Perché mi stai dicendo questo?».

«Perché…» si era girata di scatto verso di lui. Si rese conto di aver alzato la voce e si ricompose. «Perché non so come abbiate stretto un’amicizia tanto forte, ma raccontargli la tua storia non gli farà certo bene».

Johnny rimase in silenzio per qualche istante, poi capì. Era chiaro che Claire non credeva ad una sola parola della storia che le aveva raccontato, e temeva che Johnny turbasse gli altri ospiti con le sue fantasie.

«Non ho raccontato nulla a Ted» disse.

«E allora perché ti ha chiamato JB, come quel tuo amico?» chiese lei.

«Non ho avuto bisogno di dirglielo» rispose Johnny. «Ted l’ha preso direttamente dalla mia testa».

Claire sgranò gli occhi. Possibile che la sua psicosi fosse arrivata a livelli tanto alti?

«Vuoi dire che Ted è come te? Può leggere il pensiero?».

«Ha sempre detto di sentire le voci, no?» la incalzò Johnny.

«Certo, e si chiama schizofrenia, si chiamano allucinazioni uditive».

«Già, così è più facile» disse Johnny sospirando.

Lei continuò a guardarlo, arrabbiata e preoccupata.

«Claire, alcune persone che dicono di sentire le voci, non sono pazzi, sono solo in possesso di una capacità che non riescono a controllare. Esattamente come Ted».

Claire fece per ribattere, ma Johnny alzò una mano per fermarla.

«Lasciami parlare, poi potrai credere in ciò che vuoi».

Si sedettero nelle poltroncine di fronte alla finestra.

«Il dottor Keller definiva quelli come Ted “persone non del tutto evolute”. Sono persone che hanno sviluppato una capacità, ma che nello stesso tempo non hanno sviluppato gli strumenti per controllarla».

Johnny vide l’espressione scettica della ragazza che non mutava.

«Hai sempre il tuo lettore mp3?» le chiese.

Lei rimase stupita da quella domanda. Annuì, tirandolo fuori dalla tasca del camice.

«Bene, metti gli auricolari» le disse. Claire non fece nulla, limitandosi a guardarlo. «Avanti, fammi questo favore».

Malvolentieri, Claire fece come gli era stato detto. Johnny allungò una mano e prese l’apparecchio, premette il tasto di accensione e fece partire una canzone a caso. Alzò il volume fino a metà dell’indicatore, facendo fare a Claire una smorfia.

«Ora cerca di ascoltarmi Claire» le disse Johnny.

Ma la ragazza non aveva sentito una sola parola.

«Non ti sento» disse, alzando la voce involontariamente. «E’ troppo alto».

Johnny sorrise e spense il lettore.

«Dì quello che hai appena detto, esattamente come l’hai detto» le chiese.

Claire ripetè la frase. Come tutti fanno nel rumore, scandì bene le parole, allungando leggermente le vocali.

«Bene» disse Johnny «Ti ricorda qualcuno questo modo di parlare?».

Claire rimase interdetta. In effetti, il modo di parlare di Ted era molto simile a come aveva parlato lei.

«E’ come se Ted avesse nella testa quel lettore, sempre . Talvolta più basso, altre più alto, ma è sempre . Immagina come sarebbe la tua vita se avessi quel lettore ventiquattr’ore su ventiquattro. Immagina se fosse sintonizzato non solo su una canzone, ma su decine di stazioni radio diverse contemporaneamente. Immagina di non riuscire a spegnere quel rumore in nessun modo».

«Mi farebbe diventare pazza» disse Claire in un sussurro.

Johnny non rispose, limitandosi a sorridere. Claire conosceva bene quel sorriso, era il suo modo per dire “visto che ci sei arrivata?”.

«Ted ha una capacità molto potente, molto più della mia. Credo sia in grado di percepire i pensieri di ogni persona presente in tutta la struttura. Le voci che sente, non sono altro che i pensieri di tutti i presenti».

Claire rimase in silenzio, pensando alle parole del ragazzo. La sua attenzione fu attirata da Sandra Seller, in pendi davanti alla porta del corridoio dell’ala femminile. Era l’unica ospite, oltre a Johnny, ad essere ancora nella sala comune.

«Sandra, è ora di andare in camera» le disse Claire.

La donna la guardò. Aveva un’espressione di grande tristezza sul viso.

«Lo so, dottoressa» disse con voce flebile «Ma non posso».

«Perché non puoi Sandra?» le chiese avvicinandosi.

«Lui non vuole» disse, indicando lo spazio vuoto accanto a sé.

Claire, che aveva ormai imparato a trattare con Sandra, non si scompose. Sapeva che spesso la donna era convinta che ci fosse qualcuno con lei, una persona che le diceva cosa fare. Non era più Dio, dopo averle detto di uccidere il figlioletto non si è era più fatto sentire.

«Lo sai anche tu che Sandra ha bisogno di riposare dopo il pranzo» disse Claire, rivolgendosi allo spazio vuoto accanto alla donna. «Dai, che ne dici? La facciamo andare questa volta?».

Sandra guardò il vuoto al suo fianco, come in ascolto. Poi sorrise.

«Dice che va bene, dottoressa» le disse sorridendo e avviandosi lungo il corridoio.

Claire tornò verso Johnny, che era rimasto a guardare la scena dall’altro lato

della stanza, davanti al corridoio della sezione maschile.

«Complimenti» le disse sorridendo.

«Ormai per parlare con lei, bisogna parlare al suo amico» si fermò guardando Johnny. «Anche lei è come voi? La voce che sente…»

«Oh no…» rispose Johnny «Lei è proprio matta come un cavallo».

Forse fu la noncuranza con cui parlò Johnny, ma Claire non potè fare a meno di scoppiare in una risata incontenibile.

Johnny si fermò, guardandola asciugarsi le lacrime.

«Sono contento di vedere che anche questo non è cambiato» le disse.

«Che cosa?» chiese lei, riprendendo fiato.

«Il fatto che diventi più bella quando ridi» rispose Johnny.

Se non si fosse voltato, continuando a camminare verso la sua stanza, avrebbe visto il viso di Claire diventare ancora più rosso di quanto non fosse a causa delle risate. Mordendosi distrattamente il labbro inferiore, osservò Johnny

entrare nella sua stanza.

Un paio d’ore più tardi, mentre gli altri ospiti erano ancora tutti nelle loro stanze, Claire andò a chiamare Johnny e lo invitò nel suo ufficio. Si sedettero come al mattino, Claire alla scrivania e Johnny sul divanetto. Il racconto doveva continuare e, possibilmente, finire. Claire era dell’opinione che prima avesse tirato fuori tutte le sue fantasie, prima avrebbe potuto iniziare un percorso terapeutico efficace.

«Mi stavi dicendo che un anno fa tutto è cambiato in quel posto, giusto?» iniziò Claire.

Johnny fece vagare lo sguardo fuori dalla finestra. Stava riorganizzando i ricordi, o almeno, quelli che lui riteneva essere dei ricordi.

«Sì, tutto è cambiato» disse piano Johnny. Poi un lieve sorriso gli incurvò le labbra. «Prima però arrivò alla casa il quarto del nostro gruppetto. Howard. Era poco dopo Natale di due anni fa, faceva un freddo cane…».

XXVIII

Mancavano tre giorni al capodanno. Fuori la neve aveva ricoperto ogni cosa. Dalle finestre dei nostri alloggi si vedeva una distesa bianca che pareva infinita. Non avevamo missioni da svolgere e, anche se ne avessimo avute, non sarebbe stato per niente semplice riuscire a raggiungere la città con tutta quella neve.

Keller ed Emery mancavano ormai da una settimana. Non avevano detto a nessuno dove sarebbero andati, ma un sospetto ce l’avevo. E quel giorno, mentre eravamo nella sala comune a guardare un film, ebbi conferma del mio sospetto.

Sentimmo il rumore di un motore che arrancava avvicinandosi alla Casa. A bordo c’erano il dottor Keller, Emery e un’altra persona che non riuscimmo a distinguere.

Dopo pochi minuti, ci ritrovammo davanti un ragazzo che aveva da poco compiuto diciannove anni. Il viso pulito e spaventato si spostava nervosamente da me a Dick, evitando magistralmente il viso di Annabelle.

«Signori, vi presento Howard Rushton» disse il falsetto di Keller.

Ci furono rapide strette di mano e non mancai di notare un lieve rossore sulle guance del nuovo arrivato, quando si ritrovò faccia a faccia con Annabelle che gli sorrideva.

Keller ci disse che Howard era in possesso di una capacità straordinaria, che non vedeva l’ora di rederci partecipi. Non aggiunse altro, se non che Howard era l’elemento che rendeva la nostra squadra completa.

«Prima però» disse Emery al nuovo arrivato, porgendogli alcuni fogli «devi venire con me per firmare un po’ di carte».

«Oh avanti Emery» disse Annabelle facendosi avanti e afferrando i fogli che teneva in mano l’aiutante di Keller. «Lascia che si ambienti un attimo, non mi sembra… ahi!». Tirando i fogli dalle mani di Emery, Annabelle si era tagliata un dito.

«Porca troia che male» sbottò facendo scoppiare a ridere Dick. «Esiste qualcosa di più fottutamente doloroso di un taglio con la carta?».

Howard le si avvicinò lentamente, quasi temesse che potesse staccargli la testa come vendetta contro il foglio sanguinario.

«Posso?» le chiese porgendole una mano.

Annabelle lo guardò di sottecchi per qualche istanti, dopodichè alzò le spalle e mise la mano con il dito sanguinante su quella di Howard. Il ragazzo sorrise, arrossendo nuovamente. Scoprimmo in seguito che quello di Howard era un caso di timidezza acuta.

Rivolse gli occhi al dito che sanguinava e il sorriso piano piano scomparve dal

suo volto. Fissò la ferita per almeno trenta secondi, senza muoversi. Vidi una goccia di sangue are dal dito di Annabelle a quello di Howard, per poi stampare un punto cremisi sul pavimento.

Il silenzio fu rotto da Annabelle, che inspirò all’improvviso, come in preda ad uno spavento.

«Ma cosa…» iniziò, ma Howard la zittì alzando l’altra mano.

arono ancora trenta secondi, quando il ragazzo finalmente alzò lo sguardo e tornò a sorridere. Annabelle ritirò la mano, guardandola come se non l’avesse mai vista prima.

«Non… non è possibile» sussurrò la ragazza.

Io e Dick ci avvicinammo a guardare cosa non era possibile e rimanemmo senza fiato entrambi. Dick prese un fazzoletto dalla tasca e lo ò sul dito di Annabelle, pulendolo dal sangue. E sotto il sangue, non c’era nulla. Il taglio era scomparso, lasciando il posto solo ad una sottilissima linea lattiginosa.

Ci voltammo a guardare Howard. Indietreggiò perdendo il sorriso quando si ritrovò tre paia di occhi addosso. Credo che se la sarebbe data a gambe, ma Annabelle fu più veloce di lui e gli mise le braccia intorno al collo.

«Sei grande Howie, grazie!» gli disse stampandogli un bacio sulla guancia.

Se Annabelle non si fosse separata da lui al più presto, Keller si sarebbe dovuto trovare un nuovo “guaritore”. Il viso aveva preso una tonalità di rosso allarmante. Mi feci avanti, scostando Annabelle con la scusa di stringergli la mano. Mi complimentai con lui e lo stesso fece Dick.

Il giorno successivo, Keller ci spiegò che Howard non era un guaritore nel senso stretto, non era in grado di curare malattie, ma era in grado di accelerare la naturale riparazione di un corpo. Tagli, contusioni, fratture, tutti i tipi di traumi che normalmente impiegano mesi a guarire, Howard le guariva in pochi minuti. Con lui in squadra, eravamo invincibili.

Così almeno credevo. E lo credevano anche Annabelle e Dick. E Mike. Solo George non si faceva prendere dall’entusiasmo.

Durante i mesi successivi, Howard si rivelò utile in due casi. Una volta, mentre Dick fu urtato violentemente da un furgoncino mentre si concentrava sull’auto di due rapinatori. Finì contro un lampione, fratturandosi il braccio in tre punti. Howard si mise subito all’opera, ma non potevamo stare in mezzo alla strada a fare quello che stavamo facendo. Lo presi per un braccio per dirgli che avrebbe dovuto continuare una volta tornati alla Casa, quando sentii Dick mandare un “Ohhhh” prolungato. Nessuno di noi aveva pensato al fatto che con il mio aiuto, la guarigione era ancora più veloce. Il braccio di Dick tornò a posto in meno di cinque minuti.

La seconda volta fu un agente di Rogers ad aver bisogno di Mike. Uno spacciatore gli aveva sparato prima che potessimo fermarlo e la pallottola gli aveva attraversato la spalla. Anche in quel caso, con il mio aiuto, Howard impiegò non più di cinque minuti a rimettere a posto la spalla dell’agente.

Nel giugno di un anno fa, fummo chiamati per una missione sul campo. Si

trattava di una rapina in banca. Tre tizi erano entrati quella mattina in una filiale della Ponent Bank, prendendo in ostaggio tre dipendenti e otto clienti. Il tenente Rogers ci chiamò come ultima risorsa prima di impiegare la squadra d’assalto. In quell’occasione io e Annabelle facemmo il grosso del lavoro. Mano nella mano, davanti alla porta della banca, abbiamo parlato e indotto i rapinatori ad uscire ed arrendersi. Ciò che nessuno sapeva, è che c’era un quarto uomo della banda, che era rimasto fuori. Aspettò che tutto il trambusto si fosse calmato, e ci seguì verso la macchina, accecato dalla vendetta, come noi lo eravamo dalle nostre capacità.

Fu George ad accorgersi dell’uomo e della canna della pistola puntata alla schiena di Annabelle. Con una velocità che non avrei mai creduto possibile in un uomo della sua stazza, George diede una spallata ad Annabelle, sfoderando contemporaneamente la sua Glock. Il rapinatore, però, aveva un vantaggio abissale. Se George non avesse perso tempo a spingere Anna, forse non sarebbe accaduto nulla di tutto ciò che accadde in seguito. Ma non fu così. Prima che George potesse premere il grilletto, si udirono tre colpi. Io rimasi paralizzato, ma Dick non perse il sangue freddo. Mi strinse una spalla con la mano e in un attimo vidi il rapinatore sfrecciare contro il muro di una casa, cadendo a terra privo di sensi.

Eravamo tutti concentrati sul corpo di quel tizio, quando udimmo un tonfo sordo alle nostre spalle. Era George. Ci avvicinammo e subito capimmo che la situazione era grave. Tutti e tre i colpi erano andati a segno: due gli avevano perforato un polmone, mentre il terzo gli aveva attraversato il collo.

Annabelle e Howard erano sotto shock, pallidi in volto. Io ancora non ero riuscito a muovere un solo muscolo dall’inizio di quel casino.

Fu di nuovo Dick a prendere in mano la situazione. Si abbassò su Goerge e lo girò su un fianco, esaminandogli la schiena.

«Uno è uscito, l’altro è ancora dentro» disse «Jb.. JOHN, sveglia, vieni!».

Mi ridestai dal mio stato di paralisi e mi accovacciai di fianco al mio amico.

«E’ ridotto male, non credo che ce la farà, ma possiamo provare, ok?» mi disse.

Mi limitai ad annuire.

«Ok, prendimi per le spalle JB» mi disse. Dick poggiò le mani sul petto di George, intorno ad uno dei fori, mentre io facevo come mi aveva chiesto.

«Avanti… avanti…» mormorò. George fu scosso da un accesso di tosse, dalla bocca gli uscì un fiotto di sangue rosso .

Dopo qualche istante, vidi il proiettile fuoriuscire dal petto di George.

«Bene, tocca a te Howard» disse Dick, ma il ragazzo non si mosse. «Avanti maledizione, non gli rimane molto tempo!».

Annabelle prese la mano di Howard e insieme si avvicinarono e si abbassarono sul corpo di George.

«Inizia dal collo, dobbiamo fermare l’emoraggia» gli disse Dick.

Howard mi guardò, annuì e tornò a guardare la ferita dalla quale sgorgava una quantità surreale di sangue.

Poggiai le mani sulla schiena di Howard. Rimanemmo tutti in silenzio. Vedevamo la carne sotto il sangue muoversi, contrarsi e rilasciarsi, mentre il fiotto di sangue perdeva consistenza. Era come guardare un idraulico che stringe la guarnizione ad un tubo che perde. Quando la ferità fu rimarginata, George perse i sensi.

«Forza ragazzo, gli altri due buchi ora» gli disse Dick.

Erano ati circa cinque minuti quando Howard iniziò ad occuparsi dei fori sul torace. Cominciai a sentire un lieve senso di vertigine. Pensai che era strano, che la vista del sangue non mi aveva mai dato fastidio, che forse era dovuto ad un eccesso di adrenalina. Scossi la testa, obbligandomi a restare lucido. I minuti scorrevano e sul petto di George era rimasta solo una ferita. Nonappena Howard si concentrò sul foro di proiettile rimasto, sentii nuovamente quella sensazione di vertigine, questa volta molto più forte. Barcollai nel tentativo di mantenere l’equilibrio. Sentivo le mie forze che si andavano esaurendo progressivamente e capii che era colpa di ciò che stavo facendo. Non mi era mai capitato di dover utilizzare la mia capacità per un tempo prolungato, quella era la prima volta. In qualche modo, aumentare le capacità degli altri, toglieva forza a me.

Stavo quasi per staccarmi da Howard, sentivo che presto avrei perso i sensi anche io come George. Ma nella mia mente si disegnò un’immagine, quella di George che spingeva di lato Annabelle, prendendosi i colpi che erano destinati a lei. Annabelle era una ragazza minuta, sicuramente non sarebbe sopravvissuta. Le aveva salvato la vita e il minimo che potevo fare era ricambiare il favore.

Aumentai la presa sulla schiena di Howard e chiusi gli occhi, sperando con tutti me stesso che finisse presto.

«Ecco, ho fatto» disse Howard.

«Bravo ragazzo» gli disse Dick, assestandogli una pacca sulla spalla. Poi, prese a schiaffeggiare la faccia di George. «Hai Big G… forza gigante, apri quei fottuti occhi, avanti».

Dopo qualche secondo, George riprese conoscenza. Dick, Annabelle e perfino Howard si lasciarono andare a esclamazioni di Gioia.

George si sollevò su un gomito, guardandosi intorno intontito. Aveva perso molto sangue ed era debole, ma il suo fisico e il suo spirito erano forti e ce l’avrebbe fatta.

«Grazie» sussurrò. «Mi avete… Johnny? Cos’ha Johnny» lo sentii chiedere.

Io ero rimasto inginocchiato con gli occhi chiusi. Non riuscivo a muovermi, braccia e gambe non rispondevano agli ordini del cervello. L’unica cosa che riuscii a fare fu aprire gli occhi.

«Oh mio Dio» esclamò Dick, mentre Annabelle si lasciava sfuggire un grido.

Mi raccontarono in seguito che le mie iridi sembravano scomparse da quanto le

mie pupille erano dilatate. Le sclere erano solcate di linee rosso fuoco. Dick mi disse che si era aspettato di vedere un fumo nero uscirmi di bocca, come succedeva ai demoni del suo telefilm preferito, Supernatural. Ricordo di aver visto i miei compagni come sotto l’effetto di un potente allucinogeno, i contorni sfocati, avvolti da auree di mille colori.

Poi fu il buio.

Ripresi conoscenza nel mio alloggio alla Casa. La prima cosa che vidi, fu Dick, seduto accanto al mio letto, intento a leggere un libro di Agatha Christie..

«L’assassino è il maggiordomo» gli dissi dal letto.

Fu comico vederlo sobbalzare sulla sedia e lasciare cadere in terra il libro.

«Per la miseria JB, è questo il modo di ringraziarmi?» mi disse raccogliendo il libro. «Uno a il tempo a vegliarlo e lui gli regala un infarto e il finale dei libri. Non c’è più rispetto per i vecchi».

Gli sorrisi e lui sorrise a me.

«Ben tornato, ragazzo» mi disse, stringendomi un braccio.

Tentai di alzarmi, ma ci rinunciai subito. Mi sentivo debole come non mai e ad ogni movimento iniziava un concerto di martelli pneumatici nelle tempie.

Dick mi disse che avevo dormito per quattro giorni di fila. Keller aveva disposto che non rimanessi mai solo e che se non mi fossi svegliato entro l’indomani, mi avrebbe fatto ricoverare nell’ospedale in città.

«A quanto pare non siamo così invincibili» dissi a Dick.

«Già» fece lui, porgendomi un bicchiere con del succo d’arancia. «Devi starci attento JB. Keller dice che sarebbero bastati altri trenta secondi, forse meno, e saresti a potenziare il volo degli angeli a quest’ora».

Chiacchierammo per altri cinque minuti, poi le mie condizioni non mi diedero altra scelta che tornare a dormire.

Nei giorni successivi ricevetti visita da parte di tutti gli occupanti della Casa, compreso Keller.

Mi stavo riprendendo lentamente, troppo lentamente per i miei gusti, ma Keller mi disse che era normale. Mi disse che dovevo vedermi come una batteria, una batteria molto particolare. Potevo ricaricarmi autonomamente, ma più mi scaricavo e più ci voleva tempo per la ricarica.

«E abbiamo imparato una cosa fondamentale» mi disse durante la sua ultima visita. «Non devi mai scaricarti del tutto, o sarai spacciato».

Una settimana dopo ero in grado di alzarmi e camminare, ma Keller mi aveva

ordinato di stare a letto ancora per qualche giorno. Ne approfittai per ripensare a tutto quello che era successo. Fu così che chiesi a Dick di farmi un favore. Quella sera, con in mano una birra, Dick mi ascoltò molto attentamente.

«Mentre Howard faceva il suo, ho sentito qualcosa» gli dissi. «All’inizio ero così concentrato su me stesso, per non perdere conoscenza, che non me ne accorsi. Ma poco prima di perdere i sensi, mi sono reso conto che nella mia testa c’erano dei pensieri nuovi».

Dick si protese verso di me, appoggiando i gomiti alle ginocchia.

«E credi che fossero i pensieri di George?» mi chiese.

«Credo di sì» risposi. «Una delle pallottole deve aver danneggiato il suo interferitore portatile».

«Cos’hai sentito?». Dick, come me, trovava molto strano il fatto che George e Mike avessero sempre con sé il loro interferitore.

«Non ne sono sicuro, era tutto confuso. Lui stava morendo ed io non ero messo molto meglio»

«Ma qualcosa hai sentito, giusto? Qualcosa che ti ha preoccupato non poco».

«Sì, qualcosa ho sentito» ammisi. «Per questo mi serve che tu faccia una cosa

per me».

«Qualunque cosa, JB».

Sorrisi. Tra me e Dick si era instaurata nel tempo una fiducia totale. Credo che avrebbe fatto quello che gli chiesi anche senza alcuna spiegazione, solo perché ero io a chiederglielo.

«Quell’affare» indicai a Dick l’interferitore all’angolo del mio alloggio. «Staccagli la spina».

Ogni macchinario per bloccare le capacità dei telepati era in un angolo superiore di ogni stanza, protetto da una spessa teca di vetro infrangibile. Era impossibile riuscire a manomettere quegli aggeggi senza rompere la teca. Impossibile per tutti, tranne che per Dick.

Non mi fece domande, semplicemente si voltò verso l’angolo della stanza, chiuse gli occhi, strizzandoli leggermente, e un attimo dopo la luce blu pulsante del macchinario si spense.

«Grazie, amico» gli dissi.

«Mi raccomando, JB. Qualunque cosa scoprirai, non fare l’eroe e vieni da me, ok?».

La sera dopo ebbi l’occasione di vedere se il mio piano avrebbe funzionato. Venne a trovarmi George. Si sedette anche lui sulla sedia, di fianco al letto. Mi chiese come stavo, se il recupero procedeva e poi mi ringraziò per quello che avevo fatto. Il tutto sempre con lo stesso tono di voce, con la stessa espressione dura sul viso.

«Sono in debito con te» mi disse porgendomi la mano.

Gliela strinsi, e approfittai di quel momento per concentrarmi su di lui e sui suoi pensieri.

Niente. Non sentivo nulla. Mi sforzai il più possibile, ma era come cercare di leggere un oggetto inanimato. Poi capii. Non so da dove venisse George, né che tipo di addestramento aveva seguito, ma non si faceva mai cogliere in fallo. Prima di venire a trovarmi, doveva essersi fatto dare un nuovo interferitore portatile, giusto per non correre rischi.

Mentre le nostre mani si separavano, sentimmo bussare alla porta e Mike entrò, senza aspettare una risposta.

«Ehilà, come sta il nostro eroe» disse, mettendosi a ridere. Di nuovo mi trovai a pensare a quanto quei due fossero diversi.

Vidi George alzare leggermente gli occhi al cielo e non potei trattenere un sorriso, che Mike ovviamente prese come apprezzamento alla sua entrata in scena.

Per fortuna, o sfortuna, dipende da che punto la si guarda, Mike era diverso da George anche come preparazione e addestramento. A differenza del collega, a lui non era ato neanche per l’anticamera del cervello di portare con sé l’interferitore.

E così lessi.

Per tutto il tempo in cui rimasero nella mia stanza, scartabellai tra i pensieri di Mike, sempre più sgomento. E terrorizzato. Mi sforzavo di mantenere un’espressione normale, ma George dovette scorgere qualcosa perché mi guardò con maggiore attenzione.

«E’ ora di andare Mike» disse infine «Johnny ha bisogno di riposo».

Grazie al cielo aveva scambiato il mio cambiamento come un eccesso di stanchezza.

Quando uscirono dalla stanza, rimasi immobile nel letto. Tremavo, per lo shock di ciò che avevo scoperto, ma anche per una rabbia che sentivo crescere sempre più. Non avevo mai provato una furia simile, ne fui spaventato e, al tempo stesso, stranamente confortato.

Eravamo stati presi in giro sin dall’inizio. Non eravamo degli eroi, non combattevamo per il bene contro il male. Keller aveva fatto di noi niente più che squallidi mercenari.

Lessi nella testa di Mike che la maggior parte delle missioni che avevamo intrapreso, erano state commissionate da persone o organizzazioni che di buono non avevano niente. Ed erano state pagate profumatamente. Keller usava i soldi delle nostre missioni per finanziare la sua ricerca ma non solo. Sicuramente aveva anche altri affari in corso, ma Mike non lo sapeva, quindi non lo sapevo neanche io.

Ma la cosa che mi sconvolse di più, fu quello che succedeva a tutti coloro che erano stati allontanati dalla Casa perché in possesso di capacità troppo deboli. Il documento di riservatezza che Keller faceva firmare ad ogni candidato era solo un pro forma, un pezzo di carta che non gli dava alcuna garanzia.

Aveva un mezzo molto più efficace per tenere segreto il suo progetto. Tutti coloro che erano stati rimandanti a casa propria, erano, molto opportunamente, morti in un qualche tipo di incidente. C’è chi aveva perso il controllo della sua auto finendo contro un muro, chi era precipitato con un ascensore in avaria per decine di piani, chi era stato rapinato da ignoti furfanti, che li avevano ammazzati prima di prendersi i pochi soldi che avevano in tasca.

Delle decine di persone che avevo conosciuto alla Casa, nessuno era sopravvissuto.

Ricordai la sera in cui io e Dick parlammo della possibilità di essere rimandati a casa. A noi cosa sarebbe successo? Sarei stato investito durante il mio Jogging quotidiano? Dick sarebbe caduto in un burrone durante le eggiate in montagna che tanto amava fare?

La furia dentro di me cresceva di minuto in minuto, finchè non decisi che avrei dovuto sfogarla. E chi meglio di Keller sarebbe potuto essere l’oggetto del mio sfogo?

Entrai nel suo ufficio e lo trovai, come al solito, seduto dietro la scrivania, intento a leggere non so cosa. Alzò lo sguardo su di me e mi sorrise.

«Signor Page, vedo che si sente meglio» mi disse. Quel sorriso e la sua voce stridula non fecero altro che aumentare la mia rabbia. «Le avevo detto però…».

«Piantala!» urlai. Keller non si scompose, ma il suo sorriso si dissolse, lasciando spazio ad un’espressione che era glaciale quanto i suoi occhi. «Perché? Perché lo hai fatto?».

«Signor Page, temo di non capire…»

«Capisci alla perfezione, maledetto bastardo. So tutto!» gli dissi.

«Non so cosa crede di sapere, signor Page, ma temo che lei sia in preda ad un delirio post traumatico. Può succedere…».

Più parlava e più mi infuriavo. Avevo gli occhi incollati ai suoi e avessi avuto la capacità di Dick, credo che gli avrei staccato la testa di netto. Purtroppo, la rabbia non mi fece notare un particolare importante. Mentre parlava, Keller aveva fatto scivolare una mano sotto la scrivania. Non me ne accorsi ed ebbi di che pentirmene. Sotto la scrivania c’era un pulsante, un allarme.

«E’ finita, figlio di puttana. Dirò anche agli altri tutto quello che ho scoperto e domani ce ne andremo».

«Non credo proprio, signor Page» mi disse, tornando a sorridere. «Da qui non se ne andrà nessuno».

«E come pensa di…»

Non potei terminare la frase. Un ago penetrò alla base della mia gola. Ebbi tempo di voltarmi e vedere Emery con una siringa in mano, prima di cadere a terra privo di sensi.

Quando mi risvegliai, ero legato, prono, su un tavolo di metallo. Mi guardai intorno e non vidi altro che una sedia e muri spogli. Scoprii in seguito che ero in una stanza nel seminterrato della Casa.

«Ben svegliato, signor Page». La voce di Keller giungeva dalle mie spalle e dovetti torcere il collo per vedere il suo ghigno.

«Che cosa vuoi fare?» gli chiesi.

«Vede signor Page, lei è importante per il mio progetto e non posso permettermi di perderla».

«Non farò più niente per te e per il tuo cazzo di progetto».

«Su su» disse avvicinandosi al tavolo «Troveremo di sicuro un accordo».

Stavo per rispondere, quando un dolore bruciante alla schiena trasformò le mie parole in gemiti.

«Già già» continuò Keller «Un accordo si trova sempre!».

Di nuovo quel dolore, quel bruciore insopportabile. Urlai. Torcendo nuovamente il collo, vidi che Keller aveva in mano un piccolo cilindro di metallo, con la punta incandescente.

Sentivo le due bruciature ardere sulla mia schiena. Non avevo mai sentito un dolore simile.

Keller applicò ancora quell’aggeggio sulla mia schiena, poi ancora e ancora. Non so quante volte lo fece, ma ogni volta urlai e ogni volta sperai di perdere i sensi.

«Vede signor Page» disse poi, allontanandosi. «Ho dedicato tutta la vita al mio progetto e adesso che è realizzato, non permetterò a nessuno di rovinarmelo».

Ero troppo impegnato a lasciarmi divorare dal dolore per poter rispondere. Quando si avvicinò nuovamente, vidi che in mano aveva una frusta di cuoio, nera. Cercai di dirgli di non farlo, ma dalla bocca non uscì nulla.

La prima frustata non la sentii, il mio cervello doveva ancora essere sintonizzato sul dolore delle ustioni. Ma le successive mi portarono quasi alla pazzia. Ricordo di aver sentito i rivoli di sangue scendere lungo i fianchi e ricordo di aver pensato che era assurdo sentire il solletico del sangue nonostante il male che mi attanagliava. Sono incredibili i pensieri che può avere un cervello torturato dal dolore.

Non so quanto tempo durò, né quante frustate subii, so solo che ad un certo punto la voce di Emery interruppe quella tortura.

«Dottore, credo possa bastare, o rischia di ucciderlo».

Keller si fermò. Ci stava provando gusto il bastardo e se non ci fosse stato Emery, probabilmente avrebbe continuato fino ad ammazzarmi.

«Ora mi ascolti bene, signor Page» Keller si chinò su di me, sentivo il suo alito sul viso. «Lei continuerà a fare il suo lavoro e non dirà niente a nessuno. Come le ho detto, lei è troppo importante per rischiare di perderla, quindi a lei non verrà più torto un solo capello. Ma se vengo a sapere che ha sabotato qualche missione o che ha detto a qualcuno dei suoi amichetti quello che ha scoperto… beh, non credo che la signorina Bistrot sarebbe molto contenta di finire su questo tavolo».

Emery si avvicinò al tavolo e mi iniettò nuovamente qualcosa. Questa volta fui ben lieto di perdere i sensi e smettere di sentire tutto quel dolore.

XXIX

Rimasi nello scantinato per una ventina di giorni, finchè le ferite sono si furono rimarginate. Gli altri, nella Casa, sapevano che a causa di una ricaduta ero stato ricoverato in una clinica e che presto sarei tornato. Al mio rientro, confermai quelle bugie. Non potevo sopportare l’idea che a qualcuno di loro potessero fare quello che avevano fatto a me.

Continuai così a fare quello che avevo sempre fatto, senza mai ribellarmi, né farmi sfuggire una sola parola con i miei amici. Dick e Annabelle, che mi conoscevano da più tempo, notarono che il mio atteggiamento era cambiato, ma lo attribuirono al malessere al quale ero andato incontro.

Furono mesi terribili. Non sapevo mai se quello che andavo a fare era un bene o un male. Cercavo di non pensarci, ma era tutt’altro che facile. Iniziai a are le mie serate da solo, nel mio alloggio. Non riuscivo a reggere la parte di fronte agli altri, specie con Dick, che mi aveva sempre accordato una fiducia illimitata, che ora stavo tradendo. Cosa avrebbe pensato se avesse saputo la verità? E cosa avrebbe pensato di me?

Erano interrogativi che non mi lasciano in pace per tutte le mie giornate, ma la notte diventavano un assillo insopportabile.

E Keller mi teneva d’occhio. Doveva aver controllato il mio alloggio in lungo e in largo, perché quando tornai, vidi che il filo dell’interferitore era di nuovo al suo posto. Non potei fare a meno di sperare che non capisse mai come ero riuscito a staccarlo.

Il tutto continuò fino ad un paio di mesi fa. Portammo a termine una missione, facile per i nostri standard. Dovevamo solo liberare un uomo, rapito e tenuto prigioniero in una stanza di un motel. O almeno questo è quello che ci disse Keller. La realtà era molto diversa.

L’uomo in questione era un pazzo, con parecchi soldi e idee assurde. Non era stato rapito, ma era tenuto in custodia da agenti federali, con l’accusa di terrorismo.

I soldi gli permisero di comprare Keller e i nostri servizi. Due giorni dopo la liberazione di quel tipo, lessi su un giornale che una scuola nella città di Arlun era saltata in aria, uccidendo quarantadue persone, delle quali trentacinque erano bambini dai sei agli undici anni. Il responsabile era stato catturato dalle forze dell’ordine e mi sorrideva sprezzante dalla foto in bianco e nero che avevo davanti. Era il nostro uomo, quello che avevamo liberato.

Quella foto mi perseguitò per giorni, ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo quel sorriso, quegli occhi alienati. Era colpa nostra, questo il pensiero che continuava a girarmi in testa. Poi smisi di prendermi in giro: era colpa mia! Io sapevo quello che stava facendo Keller, ero a conoscenza dei suoi piani, sapevo qual era il suo fantomatico progetto, ma avevo deciso di stare zitto. Per paura, per proteggere i miei amici… Alla fin fine, però, rimasi zitto per codardia. E per questo più di quaranta persone erano morte.

Non potei più continuare con quella farsa, così una sera invitai Dick, Annabelle e Howard nell’alloggio di quest’ultimo. Non mi fidavo ad invitarli nel mio, Keller aveva sicuramente messo qualche congegno per controllarmi, ma pensai che non avrebbe fatto nulla nell’alloggio di Howard. In fondo era l’ultimo arrivato.

«Allora, JB, sputa il rospo» disse Dick dopo qualche minuto di silenzio totale.

Eravamo seduti al tavolo del salotto. A vederci dall’esterno pareva fossimo pronti ad una seduta spiritica.

Annabelle poggio una mano sulla mia, dando una lieve stretta. Non ce la facevo, non riuscivo a cominciare. Ero con tre amici, tre persone che negli ultimi anni avevano rappresentato tutto il mio monto. Ed ora stavo per dire loro che li avevo traditi, che avevo permesso che Keller continuasse a prenderli in giro e fare i suoi comodi. Ma, peggio ancora, stavo per portarli nella spirale di disperazione e disgusto nella quale ero caduto io. Stavo per dire loro di essere stati i responsabili della morte di tutti quei bambini…e di chissà quante altre persone ancora.

«Forza John» disse Howard «Sapevamo che avevi qualcosa che non andava».

Lo guardai, aggrottando la fronte. Subito arrossì, ma non abbassò lo sguardo.

«Da quando sei tornato dalla clinica sei cambiato, lo abbiamo notato tutti» gli altri due annuirono. «i le tue serate da solo, parli meno di quanto parlassi prima, non ti alleni più in palestra…».

Abbassai lo sguardo. Avevo voglia di piangere, dopo anni dall’ultima volta, sentivo le lacrime bruciare dentro gli occhi.

Mi alzai, dando loro le spalle. Decisi di fargli vedere cosa mi era successo realmente prima di parlare. Iniziai a sbottonarmi la camicia, la tolsi e udii l’esclamazione strozzata di Annabelle.

«Oh cazzo» la voce di Dick giunse da lontano, come se avesse parlato dopo aver ricevuto un cazzotto nello stomaco. Howard non disse nulla.

Rimasi di spalle, non volevo vedere i loro volti, avevo troppa paura di leggervi disgusto.

«Questo è il motivo per cui sono stato via» dissi. «Non in una clinica, ma nel seminterrato di questo posto maledetto».

Si alzarono dal tavolo e si avvicinarono. Le prime che sentii, furono le mani di Annabelle, che sfiorarono una delle tante cicatrici sulla mia schiena, prima di abbracciarmi. Poi giunsero anche le braccia di Dick e di Howard. Rimasi per qualche minuto così, stretto in quell’abbraccio che mi diede un conforto e una forza che non avrei mai creduto. Sentivo il respiro dei miei amici, le lacrime di Annabelle che mi bagnavano la schiena.

Li ringraziai, mi rimisi la camicia e iniziai il mio racconto. Dissi loro della sensazione che avevo avuto quando Howard stava curando George, raccontai del favore che mi fece Dick e di cosa scoprii grazie a quel favore. Raccontai loro dello scantinato e di come mi ero procurato le cicatrici. Vedevo sui loro volti rispecchiarsi la stessa indignazione e rabbia che provai io.

Finii il mio racconto con il tizio che avevamo liberato, dopodichè nella stanza regnò il silenzio più assoluto.

Nessuno di loro se la prese con me, nessuno mi accusò di averli traditi, ma tutti si sentivano oppressi dal senso di colpa per ciò che era accaduto in quella scuola. La frase “non lo sapevamo” non serviva a lenire il senso di colpa.

Concordammo che tutto sarebbe dovuto finire, che né Keller, né nessun altro, avrebbe più utilizzato le nostre capacità, per nessun motivo.

Seduti a quel tavolo, preparammo la nostra fuga e la distruzione del progetto di Keller. Pensammo che non sarebbe stato difficile, grazie alla capacità di Dick avremmo potuto facilmente distruggere la Casa e tutto ciò che conteneva, per poi dileguarci nel nulla. Purtroppo, commettemmo per l’ennesima volta lo stesso errore. Consci della nostra forza, non avevamo pensato a chi era stata la fonte della verità: Mike. Se solo ci avessimo pensato, avremmo tenuto in conto che Mike, ma soprattutto George, erano dalla parte di Keller. Loro sapevano esattamente per chi e per cosa lavoravano. Se solo lo avessimo fatto, ci saremmo accorti che il nostro piano non era poi così a prova di bomba.

La sera successiva, quando tutti si furono ritirati nei propri alloggi, Dick fece il giro della Casa, disattivando gli interferitori in ogni stanza. Solo Keller, Mike e George ne possedevano di portatili, quindi tutti gli altri, compreso Emery, potevano essere condizionati. E così fu. ando da un alloggio all’altro, io e Annabelle costringemmo tutti gli uomini di Keller a distruggere ogni documento di cui erano in possesso. Gli addestratori fecero a pezzi tutti i dati raccolti su di noi e su ogni ospite che era stato nella Casa. Ad Emery, demmo un compito leggermente diverso. Era il braccio destro di Keller, l’unico in possesso di una copia della chiave magnetica che apriva il suo studio. Il suo compito era quello di entrare nell’ufficio di Keller e fare a pezzi ogni cosa, a cominciare dal portatile che il dottore teneva sempre con sé.

Con gli interferitori fuori uso, mi fu facile inviare un messaggio a tutti gli ospiti

della Casa, a tutti quelli come noi. Non erano in molti, non più di una dozzina, e tutti si sentirono esplodere nella testa le stesse parole: “SONO JOHN, FATE COME VI DICO E ANDRA’ TUTTO BENE. ANDATE TUTTI NEL SEMINTERRATO, IN SILENZIO. ANDATE!”. A questo messaggio, allegai un immagine, una sorta di film mentale su tutto ciò che avevamo scoperto.

Noi quattro eravamo già al piano inferiore, in attesa che gli altri ci raggiungessero. Non sapevo se il mio messaggio era giunto a destinazione, né se qualcuno gli avesse dato ascolto.

Cominciai a rilassarmi quando vidi un paio degli ospiti comparire in fondo alle scale.

«Che sta succedendo?» chiese Stewart Finch, un telepate arrivato alla Casa da un paio di settimane. «E’ tutto vero, Johnny?».

Annuii, gli dissi di aspettare con noi finchè non fossero arrivati gli altri. Con mia enorme sorpresa, arrivarono tutti. Mi sintonizzai nuovamente sulle loro menti, e inviai loro altre immagini su cosa avrebbero dovuto fare. Oltre il suv nero che utilizzavamo per le missioni, c’erano altri due veicoli nella rimessa. Gli ospiti presero posto nelle due auto e, con l’aiuto di Dick, aprimmo il portellone della rimessa. Guardammo i fari delle due auto allontanarsi e quando furono fuori dalla portata dei nostri occhi, ci avvicinammo al suv.

Avevo ormai la mano sulla portiera del guidatore, quando la voce stridula e carica di rabbia di Keller mi fermò.

«Fermo, signor Page» disse.

Lo guardai, e vidi che Mike e George erano al suo fianco, pistole sfoderate e puntate verso di noi.

«Apra la portiera e uno dei suoi amici si ritroverà con un buco in testa».

Dovevamo aspettarci che Keller e i suoi due scagnozzi avrebbero tentato di fermarci. Anzi, in effetti ce lo aspettavamo, ma noi non avevamo seguito alcun addestramento tattico, motivo per il quale ci trovammo in una posizione del tutto sbagliata: io e Howard da un lato, Dick e Annabelle dall’altro, separati da un paio di metri di suv. Se solo Dick mi fosse stato vicino, sarebbe stato facile per lui disarmarli, ma senza il mio aiuto sarebbe stato in grado di disarmarne forse uno, prima che l’altro lo ammazzasse.

«Lasciaci andare Keller, è finita» gli dissi, allontanandomi di qualche o dalla macchina.

Keller doveva aver istruito a dovere quei due, perché non badarono minimamente a me, le loro pistole rimasero fisse su Dick e Annabelle.

«Nulla è finito, signor Page» disse Keller, sorridendo. «Anzi, ora che anche i tuoi amichetti sanno la verità, non sai che sollievo è per me».

«Pensi davvero che faremo ancora il tuo sporco lavoro, cazzone?» disse Dick. «O ci lasci andare, o ci uccidi. In entrambi i casi il tuo bel progetto potrai ficcartelo in quel culo rinsecchito che ti ritrovi».

Guardai Dick e vidi due cose che mi fecero provare orgoglio e profonda vergogna. Stava letteralmente ringhiando contro Keller, senza alcun timore. Era davvero pronto a morire, piuttosto che continuare a lavorare per lui.

«Oh signor Miley, esistono cose peggiori della morte, sa?» gli disse Keller. «Il signor Page ne sa qualcosa. Mi dica, Malley: è pronto a sentire le urla della sua amichetta?».

La sicurezza di Dick vacillò per un attimo. Quel bastardo sapeva che per Annabelle ognuno di noi aveva sviluppato un affetto profondo ed ora usava il nostro affetto contro di noi.

Ma Dick era uomo d’azione e lo dimostrò ancora una volta. Vidi un grosso bidone giallo, pieno a metà di gasolio, alzarsi alle spalle dei tre e avanzare lentamente. Se fosse riuscito a farlo arrivare proprio sopra di loro, li avrebbe colpiti tutti e tre in una volta sola.

Sfortunatamente, George non solo aveva dei sensi acuiti che gli permisero di accorgersi del bidone, ma aveva anche riflessi fulminei.

«ATTENTI» gridò, spintonando Keller all’indietro e spostandosi a sua volta. Il bidone calò e l’unico ad essere colpito, solo di striscio, fu Mike.

La distrazione però ci permise di agire. Mi lanciai sul cofano del suv, scivolando accanto a Dick.

«La macchina Dick» gli gridai mentre gli afferravo una gamba.

In un attimo il suv sfrecciò verso i tre, che erano indietreggiati in un angolo della rimessa. Udimmo due spari, entrambi che si infransero sulla carrozzeria del suv. Un rumore di lamiere accartocciate segnò la fine della corsa della macchina, che bloccò i tre nell’angolo. Non perdemmo tempo a controllare se li avevamo uccisi, feriti o quant’altro, ci girammo tutti e quattro verso l’uscita e prendemmo a correre con tutta la forza che avevamo in corpo.

Ad una ventina di metri dalla Casa, mi fermai.

«Dick» chiamai e il mio amico mi fu subito di fianco. «Distruggi!».

Lo afferrai per le spalle e vidi che non avevo bisogno di aggiungere altro. Dick serrò gli occhi, li strinse come in preda ad un’emicrania fortissima. Per un po’ non accadde nulla, poi iniziammo a sentire scricchiolii provenire dalla casa.

«Forza Dick, forza!» incitai il mio amico, che si portò le mani alla testa nello sforzo più grande che avesse mai fatto.

Il rumore degli scricchiolii aumentò e sentimmo alcuni tonfi arrivare dai piani superiori. Non so su cosa si fosse concentrato Dick, ma stava funzionando. Dopo un paio di minuti, udimmo un tonfo più forte e per la prima volta vedemmo vacillare l’intera struttura. Alcune tegole caddero dal tetto infrangendosi a terra in mille pezzi. Una delle grondaie si stacco dai fermi, cadendo con un clangore assordante.

La Casa stava cedendo e i rumori di macerie si accavallarono. Iniziai a sentire nuovamente le vertigini che provai quando curammo George. Dick doveva sbrigarsi, o non avrei retto ancora per molto. La fortuna ci diede una mano in quell’occasione: d’improvviso, una potente esplosione fece saltare tutte le finestre del primo piano. Doveva essere la cucina, con tutte bombole del gas. La deflagrazione diede il colpo di grazia alla struttura già compromessa, che si accasciò su un fianco come un gigante in muratura.

Mi staccai da Dick e, non fosse stato per l’intervento di Howard, sarei finito disteso a terra. Mi girava la testa come non mai e ansimavo, neanche avessi appena concluso una corsa campestre. Dick aiutò Howard a sorreggermi e insieme ci girammo per darci alla fuga.

«Ascoltatemi» dissi fermando il gruppo. «Una volta arrivati alla strada principale, ognuno andrà per la sua, senza dire niente agli altri, avete capito?».

«Pensi che ci cercheranno?» mi chiese Dick. «Lascia stare, domanda idiota. Se non sono morti là dentro, ci cercheranno di sicuro».

Mi voltai indietro per guardare la Casa, o quello che ne restava, e vidi che dall’apertura rimasta della rimessa, uscì George. Aveva del sangue che dalla fronte gli colava su una guancia, ma la sua espressione era sempre la stessa, una maschera di dura determinazione. Camminava a lunghe e lente falcate puntando la pistola davanti a sé.

«Attenti» dissi agli altri.

Accadde tutto ad una velocità micidiale. Udimmo lo sparo della pistola di George, vidi un puntino rosso comparire sul petto di Annabelle, poi ci fu una nuova esplosione. Lo spostamento d’aria ci fece cadere a terra. Sentii qualcosa che mi colpiva la schiena, ma l’adrenalina che avevo in corpo non mi fece provare il minimo dolore. Mi girai verso George, e vidi che anche lui era riverso al suolo, non si muoveva. Era molto più vicino di noi alla Casa e l’esplosione doveva avergli fatto perdere i sensi.

«No, merda!» esclamò Dick. Mi voltai verso di lui e lo vidi chinato su Annabelle. Mi avvicinai, le vertigini stavano ando e anche il respiro stava tornando alla normalità. Annabelle, invece, respirava in modo convulso, mentre il piccolo pallino rosso che le avevo visto sul petto, si era allargato ad una macchia che le copriva entrambi i seni.

«L’ha presa in pieno ad un polmone, quel figlio di puttana» disse Dick, strappando la maglia e scoprendo così il foro insanguinato del proiettile.

Non persi tempo a pensare, agii di istinto. Allungai una mano sulla spalla di Dick e l’altra su quella di Howard, che ci aveva raggiunti.

«Sapete cosa fare» dissi loro.

«No, JB» mi disse Dick «Hai visto cosa ti è successo l’altra volta. Ed ora non sei neanche in gran forma».

«Sapete cosa fare!» ripetei io.

Dick mi osservò per qualche istante e dovette capire che non avrei cambiato idea qualunque cosa avesse avuto da dirmi.

Si concentrò quindi su Annabelle e Howard fece lo stesso.

Questa volta riconobbi la sensazione che mi prese. Fu la stessa di quando avevamo salvato George, ma questa volta era iniziata molto prima. Chiusi gli occhi, con un unico pensiero in testa, quello di riuscire a salvare Annabelle prima di morire.

Sentii la voce di Howard arrivare da un luogo remoto. Diceva che ce l’avevano fatta. Mi azzardai ad aprire gli occhi, ma non cambiò nulla, non vedevo più niente. Feci in tempo a sentire Howard che diceva qualcosa a proposito degli occhi di qualcuno, forse proprio i miei, e Dick che urlava qualcosa a proposito di sangue su una schiena… poi fu il buio.

XXX

Claire era seduta dietro la scrivania, con il mento poggiato sulla mano, e l’aria assente. Da quando aveva conosciuto Johnny, quella era la prima volta che lo aveva sentito parlare per così tanto tempo.

Il sole stava ormai tramontando ed era quasi l’ora della cena, ma lei era persa nel racconto del suo ex. Gli sembrava di vedere tutta la scena. L’edificio che crollava, le esplosioni, gli spari.

Nuovamente si ritrovò a pensare quanto la mente umana potesse essere incredibile. Durante il racconto aveva osservato con molta attenzione Johnny, cercando di non lasciarsi sfuggire neanche il più piccolo messaggio non verbale che giungeva dal suo corpo. Era certa che lui credesse al cento per cento a tutta quella storia.

Dal suo canto, lei era sempre convinta che qualcosa di molto traumatico gli fosse successo, aveva le cicatrici come prova. Ma era affascinata dalla storia che la mente di quel ragazzo era riuscita a mettere in piedi.

«Il buio è durato fino alla sera in cui mi sono svegliato qui» disse Johnny, riportandola alla realtà. «Non ricordo nulla di ciò che accadde dopo la guarigione di Annabelle. Non ricordo del pronto soccorso, dell’ospedale, dei miei deliri… Il mio primo ricordo è Stephanie che entra nella mia stanza».

«Ed ora che mi hai raccontato tutto, come ti senti?» chiese Claire.

Johnny sorrise, un sorriso privo di qualsivoglia gioia.

«Claire, non ho ato il pomeriggio a raccontarti tutto per farmi analizzare, ok?» disse Johnny. «L’ho fatto perché tu capisca quanto sia importante per me e per tutti voi che io esca da qui il prima possibile».

«Pensi che quegli uomini ti stiano ancora cercando?» chiese lei. La psicosi di Johnny era talmente profonda che non le permetteva un approccio diretto. Aveva deciso di assecondarlo, cercando di portare lui stesso alla comprensione.

«Non lo penso, lo so!» disse Johnny spazientito. «Il tuo Richard, non so perché l’abbia fatto, ma mi ha aiutato, ha cercato quello che gli ho chiesto. Dick e Annabelle sono morti, siamo rimasti in due. Troveranno anche me».

Il TUO Richard. Claire si sentì prendere da un principio di rabbia sentendo quelle parole, ma la represse subito.

«Va bene, Johnny» disse lei, alzandosi. «Ti ringrazio per avermi raccontato tutto, ora almeno ho un quadro più chiaro della situazione». Girò intorno alla scrivania e si mise di fronte a Johnny.

«Come ti ho detto l’altro giorno, per farti uscire ho bisogno di constatare che non sarai un pericolo, né per te, né per gli altri. Concedimi una settimana di tempo e, se tutto andrà bene, ti farò uscire».

Johnny si alzò e si diresse verso la porta. Si voltò, guardandola negli occhi.

«Ho sempre pensato che tra di noi ci fosse qualcosa di speciale» le disse «Non solo l’amore che ci univa, ma un qualcosa di più profondo. La fiducia. Era totale, ricordi? Io mi fidavo di te e tu di me, in ogni occasione. Mi dispiace vedere che proprio questo sia cambiato».

Aprì la porta e uscì dall’ufficio. Claire rimase davanti al divanetto. Non sapeva se il dolore che sentiva era per le sue parole o per come l’aveva guardata. Nei suoi occhi aveva letto una delusione grandissima e una disperazione altrettanto grande.

La resa dei conti

XXXI

Nei due giorni successivi, Claire e Johnny non fecero altro che evitarsi a vicenda. Lei parlò con Richard e con Stephanie della situazione ed entrambi si mostrarono concordi con lei. Johnny aveva creato nella sua mente una realtà alternativa, con ricordi che credeva reali, per celare una verità che probabilmente era troppo orribile per lui.

Una delle cose che la colpì la mattina dopo il colloquio con Johnny, nonché la mattina successiva, fu il fatto che Ted non si mise davanti all’entrata per darle il buongiorno, come faceva quotidianamente ogni giorno. Non pensava che fosse stato Johnny a dirgli di comportarsi in quel modo, ma non trovava la cosa particolarmente buona in riferimento alla riabilitazione dello stesso Ted. Ora che sembrava stare meglio, che le voci erano diminuite, se non proprio scomparse, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era chiudersi in sé stesso per solidarietà con Johnny.

Il terzo giorno era il 15 del mese, il giorno della gita. Ogni mese, tutti gli ospiti che erano in grado di farlo, potevano uscire dalla clinica insieme ad un paio di operatori.

Quel giorno sarebbero andati in gita Carol, Sandra, la signora Baker e Ted. Ben, dopo una notte più agitata del solito, era stato pesantemente sedato, mentre Melanie quella mattina aveva lasciato il posto al demone che albergava dentro di lei.

Claire decise che anche Johnny avrebbe partecipato alla gita, se lo avesse voluto. Quando Richard le chiese se era sicura della sua decisione, lei disse che sarebbe

potuta essere una buona occasione per dimostrare a Johnny che si fidava ancora di lui e sarebbe stato un segnale per Ted, che forse avrebbe capito che lei non ce l’aveva con il suo amico.

«E se cerca di scappare?» le chiese Richard.

«Johnny non è ancora al massimo delle forze, lo sai anche tu. Se cercasse di scappare non faresti fatica a riprenderlo» gli rispose. Vedendo poi l’espressione preoccupata sul suo volto, aggiunse: «Stai tranquillo Richie, non lo farà. Non è da lui».

Richard annuì, anche se il dubbio permase dentro di lui.

Johnny accettò di buon grado di uscire. Come aveva predetto Claire, non gli ò neanche per la testa l’idea di scappare, pensò semplicemente che rivedere il mondo esterno dopo tutto quel tempo ato chiuso nella clinica avrebbe fatto bene al suo morale, che era arrivato a livelli troppo bassi.

Continuava a pensare ai suoi amici. Non avrebbe più visto il bel viso di Annabelle, né avrebbe più sentito le battute irriverenti di Dick. Sperò che Howard fosse riuscito a nascondersi meglio degli altri, anche se, nel suo cuore, temeva che anche lui ormai fosse sottoterra.

Stephanie accompagnò Richard nella gita e Claire rimase sola nella struttura. Alle nove in punto di quel mattino, il pulmino della clinica partì verso un paese vicino, nel quale da qualche giorno si era insediato un luna park itinerante.

I nostri ospiti vanno matti per i luna park.

Claire sorrise guardando il pulmino allontanarsi, ripensando alla battuta che aveva fatto Richard.

Guardò il pulmino finchè non ebbe svoltato in fondo al viale, dopodichè decise di mettersi al lavoro e aggiornare le cartelle dei pazienti. Voleva prima di tutto lavorare su quella di Johnny, scrivendo un breve riassunto della storia che le aveva raccontato, corredato delle impressioni che lei aveva avuto.

Aprì lo schedario e si sorprese quando non trovò la cartella. Provò nei cassetti della scrivania, senza fortuna. ò un quarto d’ora a cercare quella cartella in tutto l’ufficio, prima di ricordarsi che il giorno prima l’aveva portata a casa per parlarne con Richard.

Brava Claire, davvero molto brava! Pensò sedendosi pesantemente sulla sedia. Non poteva andare a casa a prenderla, anche se ci avesse messo poco, non poteva lasciare la clinica incustodita.

I suoi pensieri furono interrotti dal rumore di un’auto che percorreva il viale. Si affacciò alla finestra e vide un’auto scura avanzare sulla ghiaia e parcheggiare di fianco alla sua. Ne scesero due uomini, vestiti con completi scuri identici, camicia bianca e cravatta nera. Portavano entrambi degli occhiali da sole. Uno era molto più alto e massiccio dell’altro. Li vide incamminarsi verso il portone d’entrata e la stessa cosa fece lei.

Nel momento in cui suonò il citofono, Claire aprì la prima porta, trovandosi di fronte i due uomini. Erano separati da lei solo dalla rete metallica, che si apriva

grazie al badge.

«Sì?» chiese Claire.

«Lei è la dottoressa Braham?» chiese il più alto. «Claire Braham?».

«Sì, sono io» rispose Claire. «E voi chi siete?».

«Io sono l’agente Rose, lui l’agente Dean, abbiamo bisogno di farle qualche domanda» disse l’uomo avvicinando un distintivo alla fitta trama metallica. Claire guardò e le si sgranarono leggermente gli occhi leggendo la sigla F.B.I.

Cosa vuole l’FBI da me? Si chiese, mentre tirava fuori il badge e lo faceva scorrere nel lettore digitale.

Fece accomodare i due agenti nel suo ufficio.

«Cosa posso fare per voi?» chiese.

L’agente Rose prese una cartellina trasparente dalla tasca interna della giacca, la aprì e ne tirò fuori due foto, che posò sulla scrivania.

«Conosce questi due uomini?» le chiese.

La prima foto ritraeva un ragazzo che doveva avere più o meno ventiquattro o venticinque anni, capelli rossicci e una costellazione di lentiggini sul viso. Claire non aveva mai visto quel viso e stava per dirlo all’agente, quando scoprì l’altra foto. Le mancò il fiato e le sue mani tremarono. Se avesse alzato la testa in quel momento, avrebbe visto l’altro agente, quello che si chiamava Dean, che stava sorridendo.

Era una foto di Johnny.

«Dottoressa?» la richiamò Rose.

«Questo non l’ho mai visto prima» disse indicando la foto del tizio con le lentiggini «Questo invece sì… Era il mio fidanzato parecchi anni fa».

«Sa dove si può trovare in questo momento?».

«No» mentì Claire. Non sapeva il motivo per cui stesse mentendo a degli agenti federali, ma il suo istinto aveva preso il comando della sua bocca. «Sono più di cinque anni che è sparito nel nulla. Dovreste saperlo, no?».

L’agente Rose si limitò a corrugare la fronte, senza dire nulla, così Claire proseguì.

«Quando Johnny sparì, cinque anni fa, andai più volte alla polizia per avere notizie» disse «Pensavo che voi aveste accesso a queste informazioni».

Claire vide che l’agente Dean continuava a sorridere in modo strano, le sembrava si stesse prendendo gioco di lei. Si diede mentalmente della paranoica per averlo pensato e tornò ad osservare l’altro. La sua espressione non era cambiata.

«Sappiamo della sua sparizione» le disse Rose «Quello che vogliamo sapere e se l’ha visto di recente».

«Perché l’FBI lo sta cercando?» chiese Claire.

«Se non le dispiace, facciamo noi le domande, dottoressa» intervenne l’agente Dean. Anche il tono della sua voce le parve irriderla.

Rose alzò una mano, e il suo collega si zittì all’istante. A Claire parve che l’agente Dean nutrisse un notevole timore nei confronti del collega.

«Dottoressa» disse «Il signor Page è ricercato per diversi reati, compreso un duplice omicidio. E’ mentalmente instabile e molto pericoloso».

Claire sentì una morsa stringerle lo stomaco. Che Johnny fosse mentalmente instabile era una conclusione a cui era giunta anche lei, ma non riusciva proprio ad immaginarselo uccidere qualcuno.

«Agente, non vedo Johnny dalla sera in cui se ne è andato da casa mia più di cinque anni fa».

Claire notò l’agente arricciare brevemente il naso, un’espressione di rabbia da manuale. Negli anni aveva affinato la sua capacità di osservare e riconoscere quelle micro espressioni facciali. Le parve strano leggere rabbia sul volto di quell’uomo, si sarebbe aspettata di vedere delusione, frustrazione, ma non rabbia.

«E’ lei il capo, qui?» le chiese Rose.

«Pro tempore, sì» confermò Claire. «Il dottor Myran è andato fuori dal paese per qualche tempo. Finchè non c’è lui, sono io la responsabile».

«Ed è una psichiatra anche lei, giusto?».

«Certo»

«Quindi non occorre che le dica quanto possa essere pericolosa una persona nello stato del signor Page».

Claire, il cui carattere non le permetteva di sopportare che le si parlasse in quel modo, sentì una fitta d’ira nel profondo.

«Agente Rose» disse «Ho a che fare tutti i giorni con persone “mentalmente instabili”, come li chiama lei. Quindi no, non occorre che lei me lo dica».

Il collega ridanciano strabuzzo gli occhi. Claire se ne avvide, pensando che probabilmente non erano molte le persone che si azzardavano a rispondere a tono all’agente Rose.

«Tenete un registro di tutti i vostri pazienti, giusto?» chiese Rose, sempre nello stesso tono. A quanto pare, o non se l’era presa per la sua risposta, o riusciva a dissimulare molto bene ciò che gli ava per la testa. Claire propendeva per la seconda opzione.

«Ovviamente sì, ogni ospite viene registrato nel momento del ricovero e viene stilata una cartella».

«Potremmo avere un elenco delle persone attualmente ricoverate?».

Claire si appoggiò allo schienale della sedia. Riuscì a reprimere un sorriso, le pareva assurda come richiesta.

«Agente, sa bene che per una cosa come questa, ha bisogno di un mandato».

«Chiediamo solo la sua collaborazione, dottoressa» disse l’agente «Se non ha nulla da nascondere…».

«Signor Rose, non tollero certe insinuazioni» disse Claire, alzando la voce. «Da nascondere non ho nulla, ma ho da preservare la mia etica professionale. Se avete un mandato, sono più che disponibile a collaborare, in caso contrario…».

Claire lasciò la frase in sospeso. L’agente Dean si stava tormentando le mani per il nervosismo, mentre Rose rimase immobile, il volto che sembrava scolpito nella pietra.

A rompere il silenzio fu il cellulare di Claire. Guardò il display e vide il nome di Richard.

«Scusate» disse alzandosi e uscendo dall’ufficio.

«Hey bellezza, come va?» le chiese Richard.

«Tutto bene, dai» Claire decise di non dire nulla a Richard. Non voleva spiegargli il perché aveva mentito ai due agenti. Ma soprattutto temeva che Richard potesse denunciare Johnny. «A voi va tutto bene?».

Parlarono per un paio di minuti, poi Claire rientrò nell’ufficio. Appena entrata, vide che un cassetto dello schedario non era del tutto chiuso. In quel momento fu assalita da una grande paura. Fece finta di nulla, tornando a sedersi alla sua sedia.

«Capisco che lei non possa darci la lista, mi scuso per essere stato così poco professionale» le disse l’agente Rose. «E‘ importante che troviamo il suo ex fidanzato prima che possa fare del male a qualcun altro».

Si alzò, subito seguito dal collega. Tirò fuori di tasca un biglietto da visita, che porse a Claire.

«Se dovesse mettersi in contatto con lei, ci chiami» le disse.

Claire prese il biglietto da visita. C’era scritto solo un nome e un numero di cellulare, ma il suo cuore ebbe un sussulto. Il nome sul biglietto era George Rose.

Claire si alzò su gambe malferme e li accompagnò all’ingresso della clinica. Non ebbe bisogno di chiedere il nome di battesimo dell’altro, si sarebbe giocata tutto quello che aveva che era Mike, o Michael.

Guardandoli andare verso la macchina attraverso l’inferriata, ripensò al racconto di Johnny. Non aveva cambiato la sua idea, credeva ancora che quel racconto fosse il frutto della sua mente provata, ma non era tanto stupida da pensare che l’arrivo di quei due, con quei nomi, fosse solo una coincidenza.

Non credeva che Johnny fosse in grado di uccidere qualcuno, non riusciva a figurarsi una scena del genere neanche sforzandosi. Eppure era ricercato dall’FBI.

Tornò nel suo ufficio. Si sentiva stremata. E quell’agente Rose, con i suoi occhi fissi e la sua espressione di roccia, non le si toglieva dalla mente.

Johnny pericoloso. Ricercato per omicidio.

Aveva conosciuto tante persone nella sua vita, me nessuno come Johnny era più

lontano dalla possibilità di uccidere qualcuno, neanche se ci fosse stato costretto. Ma allora perché lo cercavano? E se quei due non fossero stati dell’FBI? Se i loro documenti fossero stati dei falsi?

Le riusciva altrettanto difficile credere a questa versione, perché avrebbe significato che la storia di Johnny aveva una base di verità. E se cosi fosse stato, era stata chiusa nel suo ufficio, da sola, con dei veri assassini.

Fu scossa da un violento brivido. Era mai possibile che la storia di Johnny fosse vera?

Non riusciva a darsi pace, ogni volta che prendeva la cartella di un paziente, la rimetteva a posto senza scrivere una sola parola. La sua mente la riportava in continuazione alla visita dei due agenti e al racconto di Johnny.

eggiò per la struttura, avanti e indietro, scambiando talvolta qualche parola con gli ospiti rimasti. Non vedeva l’ora che gli altri tornassero, aveva bisogno di Richard, aveva bisogno di scaricarsi e confidarsi. Sapeva che lui l’avrebbe aggredita, accusandola di aver fatto una vera e propria stronzata a mentire a degli agenti federali, ma sapeva anche che l’avrebbe sostenuta e aiutata come sempre faceva.

Quanto il furgoncino della clinica, un vecchio e malandato Ford con cambio manuale, parcheggiò sulla ghiaia davanti all’entrata del Luna Park, gli ospiti presenti erano tutti in fermento. Richard li fece scendere e li raggruppò davanti al cancello.

«Allora ragazzi, ascoltate bene» disse Richard «Siamo qui per divertirci. Niente

giostre pericolose e non esagerate con i dolci».

Dopo aver ottenuto un silenzioso consenso da parte di tutti, Richard si avviò all’interno del parco. Dietro di lui la signorina Baker teneva per mano Carol, seguite da Ted e Sandra. Un po’ discostati dal gruppo, chiudevano la fila Johnny e Stephanie. Richard si era raccomandato con quest’ultima di non perderlo mai di vista, ma fu una precauzione inutile. Anche se più taciturno del solito, Johnny non abbandonò mai il gruppo, non cercò di scappare, anzi, più di una volta aiutò gli altri a salire e scendere dalle varie giostre. E di giostre ne provarono parecchie.

Sandra volle fare ben tre giri su un trenino a forma di bruco verde, mentre la signorina Baker ne fece un paio sulla giostra panoramica. L’unico che non potè fare ciò che desiderava fu Ted. Non vedeva l’ora di poter salire sulla giostra delle catene, volgarmente chiamata “calcinculo”. Purtroppo però, la sua stazza era ben oltre il limite massimo consentito dalla giostra. Ted ci rimase molto male, ando la mezz’ora successiva chiuso in un imbronciato silenzio.

Johnny gli si avvicinò dopo un po’, posandogli una mano sulla spalla. Non gli disse nulla, almeno nulla che Richard e Stephanie poterono udire, e il solito sorriso ricomparve sul volto del gigante.

«Ted si è davvero affezionato a te» gli disse Stephanie.

Johnny si era seduto su una panchina a guardare tutti gli ospiti che giravano lentamente su una riproduzione di un carosello d’epoca. L’infermiera si sedette accanto a lui.

«Ci sai fare con loro» continuò Stephanie, indicando con un cenno della testa quelli che erano sulla giostra. «Ted ti adora, non era mai stato così bene».

«Grazie» rispose Johnny, con aria assente. «Almeno c’è qualcuno contento della mia presenza».

Stephanie lo guardò. Vedeva sul suo viso una tristezza e un dolore che le fece sciogliere il cuore.

«Johnny» gli disse con dolcezza, posandogli una mano sul braccio «Il tuo ritorno è stato uno shock, inutile negarlo. Claire ha ato anni a cercarti e sperare in un tuo ritorno e Richard… beh, Richard ha ato gli stessi anni temendolo il tuo ritorno».

Johnny sospirò, abbassando lo sguardo.

«E’ normale che Richard ti tratti in modo duro, ha paura».

«Lo so» disse Johnny.

«Guardami Johnny» gli disse Stephanie. Lui ubbidì, senza dire nulla. «Richard ama Claire, più di quanto immagini. Ma non ha paura che lei possa essere ancora innamorata di te. Quello lo sa!».

Johnny sgranò leggermente gli occhi a quelle parole.

«Avanti, Johnny» fece lei «Basta guardare come le si illuminano gli occhi quando ci sei, per capire che è ancora innamorata di te, e lo sai anche tu».

Johnny non seppe cosa rispondere. Sì, l’aveva visto e sentito anche lui, Stephanie aveva ragione.

«Non è di quello che ha paura Richard» continuò la ragazza. «Lui ha paura che Claire possa soffrire di nuovo. E non te lo nascondo, ho una grande paura anche io».

«Io non voglio…»

«Lo so» lo interruppe Stephanie «So che non vuoi e so che non volevi. E sono certa che avrai avuto i tuoi buoni motivi per fare quello che hai fatto. Ma Claire, quando tu sei sparito nel nulla, era davvero ridotta ad uno straccio. Ha sofferto come pochi soffrono nella vita e se non fosse stato per Richard non so se si sarebbe mai ripresa».

Johnny la guardò, a disagio.

«Perché mi stai dicendo questo?» le chiese.

«Perché Richard non merita il tuo risentimento» gli rispose. «So cos’è successo cinque anni fa, hanno sbagliato, Claire ha sbagliato. Ma Richard, ha ampiamente scontato la sua pena, per tutto ciò che ha fatto per Claire».

Johnny pensò alle parole di Stephanie per qualche secondo, quindi sospirò di nuovo.

«Volevo dirti solo questo» disse infine lei, alzandosi dalla panchina.

Johnny la afferrò per un braccio, costringendola a voltarsi.

«Grazie Stephanie» le disse.

Lei gli sorrise e si incamminò ad aiutare gli altri a scendere dalla giostra.

Durante tutto il tempo, Richard continuò a tenerlo d’occhio, ma era giunto alla conclusione che Claire doveva avere ragione. Johnny non sarebbe fuggito, quantomeno non quel giorno.

A metà del pomeriggio, quando la stanchezza cominciò ad affiorare sul viso e negli occhi degli ospiti, Richard decise che era il momento di tornare alla clinica. Sul vialetto che portava all’uscita, Carol fu attratta da un tizio che, con un banchetto portatile, intratteneva la gente che si fermava nel gioco delle tre camle.

«Carol, dobbiamo andare» le disse Stephanie, ma la donna non ne volle sapere, portandosi davanti al banchetto e guardando rapita la velocità con la quale quell’uomo spostava le tre camle sul morbido panno che rivestiva il tavolino.

«Avanti gente, si vince sempre» disse a gran voce l’uomo. «Vi basta trovare la pallina e il gioco è fatto».

Alzò una delle camle, mostrando una piccola pallina dorata. Mosse nuovamente le camle a grande velocità e la pallina, che prima era sotto la camla di sinistra, ora era sotto quella di centro.

«Lo sapevo, lo sapevo» strillò Carol, ridendo. «Voglio giocare, posso giocare?».

Stephanie e Richard si scambiarono un’occhiata, prima di acconsentire.

«Oh bene, abbiamo una giocatrice» disse l’uomo del banchetto, sorridendo. «Avanti bella signorina, segui la pallina e punta i tuoi soldi».

L’uomo iniziò a spostare le camle da una parta all’altra del tavolo.

«Ecco qui, bella signorina. A te la scelta, vediamo se riesci a raddoppiare i tuoi soldi» le disse quando ebbe finito.

Carol guardò con attenzione le tre camle, quindi posò la sua moneta davanti a quella di destra. L’uomo sollevò la camla e Carol strillò di gioia nel vedere che aveva trovato la pallina. Tutti applaudirono, compresi Richard e Stephanie.

«Allora, mi hai fregato» disse l’uomo tirando fuori una moneta dalla tasca della giacca e posandola accanto a quella di Caro. «Che ne dici, dolcezza, vuoi raddoppiare?».

Carol annuì subito, prima che Richard potesse dirle di smettere.

L’uomo mostrò a tutti dov’era la pallina, e prese a spostare le camle con le abili mani. Questa volta il movimento fu molto più veloce del precedente e Carol perse presto di vista la camla giusta.

Quando le mani dell’uomo si fermarono, Carol rimase a fissare le tre camle, senza sapere quale scegliere. Alla fine, quasi con le lacrime agli occhi, scelse quella di centro.

Johnny notò un piccolo guizzò sulle labbra dell’uomo, un’espressione di disappunto.

«Ma bene» disse l’uomo. Il tono della voce non era più quello giocoso di prima, per quanto si sforzasse di mantenerlo. «A quanto pare abbiamo una signorina molto fortunata, oggi». Sollevò la camla e questa volta non solo Carol si lasciò sfuggire un gridolino di giubilo, ma anche gli altri ragazzi più qualche ante che si era fermato a guardare, applaudirono e le gridarono “brava”.

L’uomo prese di tasca altre due monete e le poggiò accanto a quelle che c’erano sul tavolo.

«Che mi dici, fortunella, un ultimo giro?» le disse.

«Carol, forse è meglio andare, sei già stata abbastanza fortunata» le disse Richard, ma, come spesso accadeva, Carol non lo sentì neanche. Annuì all’uomo che, dopo aver fatto vedere la pallina, riprese il suo abile gioco.

«Questa volta non credo che riuscirai nell’intento, bella signorina» disse l’uomo mentre muoveva le camle ad una velocità ancora superiore alla precedente. «Nessuno mi ha mai battuto tre volte di fila».

I anti che si erano fermati iniziarono ad incoraggiare Carol che, rossa in viso, aveva già da tempo perso di vista la camla giusta.

Dopo quasi due minuti di silenzio assoluto, Carol prese le quattro monete che aveva in mano e le mise nuovamente davanti alla camla di centro.

L’uomo sorrise, trionfante. Allungò una mano verso la camla scelta ma la bloccò a mezz’aria.

«Aspetta». Johnny si avvicinò al tavolo, gli occhi fissi in quelli dell’uomo. «Rendiamo la cosa più interessante, che ne dici? Solleva le altre due campane».

«Mi dispiace, signore, ma non funziona così il gioco» disse sorridendo in modo beffardo. Fece nuovamente per sollevare la camla scelta da Carol, ma Johnny, con una mossa veloce, lo afferrò per un braccio.

«Ascoltami bene, pezzo di merda» disse Johnny a bassa voce. «Puoi cercare di fregare chi ti pare, non mi interessa. Se qualcuno pensa davvero di poter vincere a questi giochini è solo un idiota e merita di essere fregato. Ma non ti permetto di fregare una persona con dei problemi». L’uomo cercò di sottrarsi dalla presa di Johnny, ma la stretta era troppo forte. «Ora ti dico quello che farai. Alzerai le altre camle, ti congratulerai con Carol e le pagherai la scommessa».

«Altrimenti cosa farai?»

«Altrimenti prenderò la pallina dalla tua tasca e la mostrerò a tutti. Non credo che sarebbe una bella pubblicità per te, giusto?».

«Come… come lo sai?».

«Non sei il primo ciarlatano che incontro» disse Johnny, liberandolo finalmente dalla presa e allontanandosi di qualche o dal tavolino.

Richard gli fu subito accanto.

«Che succede?» gli chiese.

«Nulla di cui ti debba preoccupare» gli rispose Johnny. «Ho solo consigliato al brav’uomo di comportarsi come si deve».

«Bene signori, guardate bene» disse l’uomo, lanciando di tanto in tanto

occhiatine nervose verso Johnny. «La pallina sarà qui?» disse sollevando la camla di destra. Un mormorio della piccola folla, che si era formata, sottolineò l’assenza della pallina.

«Non c’è» continuò l’uomo, prendendo più sicurezza nel notare quanta gente lo stava guardando. «Allora, chissà… sarà forse qui?». Con una lentezza degna del miglior coreografo, l’uomo allungò la mano verso la camla di sinistra e la sollevò. Ci fu un attimo di silenzio, seguito da un vero e proprio boato degli spettatori. Carol prese a saltellare dalla felicità, mentre Ted e Sandra, si abbracciavano sorridendo.

«Mi hai proprio spennato, bella signorina» disse l’uomo, aggiungendo quattro monete alle altrettante di Carol. «Complimenti».

Carol prese tutte le monete con mani tremanti e le consegnò a Stephanie.

«Avete visto, signori? Si può vincere, sempre!» disse l’uomo rivolgendosi alla folla, lanciando un’ultima occhiata a Johnny.

Quando furono arrivati al furgoncino, Richard e Johnny aiutarono gli ospiti a salire, mentre Stephanie, già a bordo, controllava che si fossero agganciati per bene le cinture di sicurezza.

«Johnny aspetta» disse Richard.

Johnny, che aveva già un piede sul furgone, si voltò e raggiunse Richard.

«Non c’era nessuna pallina, vero?» gli chiese.

«No».

«Come lo sapevi?».

«Intuito» rispose Johnny.

Richard rimase deluso dalla risposta, ma non volle approfondire. Allungò una mano verso Johnny.

«Grazie, hai fatto una bella cosa per Carol» gli disse.

Johnny guardò la mano protesa di Richard per qualche secondo, quindi gliela strinse.

Salirono entrambi sul furgone e partirono alla volta della cinica, mente il sole iniziava ad accarezzare le vette delle montagne a ovest.

I giorni di gita erano una manna dal cielo per gli operatori della clinica. Da un lato, chi li accompagnava poteva godersi una giornata all’aria aperta, mentre chi rimaneva in sede si godeva il silenzio e la pace che troppo spesso mancavano; dall’altra, gli ospiti avano una giornata diversa, si divertivano e, soprattutto,

rientravano talmente stanchi da mettersi immediatamente a dormire senza fare storie.

Quella sera non fece eccezione. Quando Richard aprì il cancello di ingresso, gli ospiti si fiondarono tutti nelle rispettive camere, strisciando i piedi e sbadigliando a più non posso. Claire osservò la scena davanti alla porta del suo ufficio.

L’ultimo ad entrare fu Johnny, con accanto l’inseparabile Ted. Era l’unico della comitiva che non sorrideva e che, anziché andare in stanza, dopo aver dato una pacca sulla spalla a Ted, si andò ad accomodare sulla poltrona nella sala comune a leggere.

«Uh che giornatina» fece Richard avvicinandosi a Claire.

«E’ andato tutto bene?» chiese lei.

«Meglio di come è andata a te» le disse, osservandola con attenzione. Richard, al pari di Johnny, riusciva sempre a vedere il suo reale stato d’animo, nonostante fosse costantemente celato dal sorriso. «Che è successo?».

«Niente» disse lei, cercando di ampliare il sorriso, ma a giudicare dalla faccia di Richard, doveva aver fallito alla grande. «Sono solo un po’ stanca…».

Richard annuì piano, continuando ad osservarla. Lei sapeva bene cosa voleva dire quel gesto: “so bene che le cose non stanno così, ma so che me lo dirai solo

quando ne avrai voglia”.

«Avevi ragione su di lui» le disse poi, facendo un cenno del capo verso Johnny. «Non ha creato alcun problema, anzi… ci ha pure aiutato a non perdere di vista nessuno».

Claire guardò verso Johnny. Era girato di spalle, quindi l’unica cosa che poteva vedere erano i suoi lunghi capelli che si adagiavano morbidi sulle spalle. Ripensò alla visita dei due agenti e fu percorsa da un brivido.

«Hey» fece Richard, sfiorandole un braccio.

«Che ore sono?» chiese Claire.

«Mancano venti minuti alle otto» rispose Richard.

«Stasera vieni da me?».

«Molto volentieri. Inizio a cambiarmi, Stan del notturno è appena arrivato».

Nell’appartamento di Claire, Richard si mise ai fornelli, mentre lei si fece una doccia. Mangiarono un piatto di pasta al ragù, una specialità di Richard e andarono a letto. Fecero l’amore e fu bello, come sempre. Claire e Richard avevano un intesa sessuale quasi perfetta, ma Richard notò che quella sera c’era qualcosa di diverso.

Era diventato una sorta di rito il loro. Ogni volta che uno dei due voleva intraprendere un discorso importante, facevano l’amore e poi, nudi, nel buio della camera, iniziavano a parlare. Avevano perso il conto delle nottate in cui avevano fatto l’alba a parlare.

Richard attese, sapeva bene che con Claire non servivano incitamenti o domande. Se voleva parlare di qualcosa, l’avrebbe fatto, altrimenti niente e nessuno al mondo le avrebbe fatto aprir bocca.

La voce di Claire arrivò quando mezza sigaretta era stata fumata.

Iniziò con il raccontare la storia di Johnny, di come la sua mente avesse creato una realtà fittizia in cui possedeva poteri paranormali e nella quale altri come lui erano stati reclutati da un dottore per degli esperimenti, ed usati poi come una sorta di mercenari al servizio del miglior offerente. Gli disse come, secondo Johnny, erano comparse le cicatrici che devastavano la sua schiena e di come, insieme ad altri tre amici, era riuscito a fuggire da quella che chiamavano “la Casa”.

Claire parlò per quasi un’ora, fumando altre tre sigarette. Richard rimase in silenzio, non voleva che lei perdesse il filo del discorso.

Arrivata al momento in cui Johnny perdeva i sensi, dando così una spiegazione allo stato in cui era arrivato in clinica, Claire si zittì e si accese un’altra sigaretta.

Richard rimase in silenzio. Conosceva Claire ormai da parecchi anni e, per

quanto difficile fosse capire appieno come funzionava il suo meraviglioso cervello, riusciva facilmente a capire quando aveva ancora qualcosa da dire. Così attese paziente e la sua pazienza fu ripagata pochi minuti dopo.

Claire si decise a raccontare della visita dei due agenti. Disse a Richard delle foto che le avevano allungato sulla scrivania, di come le avevano chiesto se aveva più rivisto Johnny e del fatto che non le avevano creduto quando aveva detto loro che erano anni che non lo vedeva. Terminò raccontando di come, rientrata in ufficio, aveva visto che lo schedario era rimasto leggermente aperto e della sua sorpresa nel leggere il nome sul biglietto da visita, che gli porse.

«Quindi pensi che durante la nostra telefonata abbiano cercato il fascicolo di Johnny?» le chiese.

«Ne sono certa! Lo schedario era chiuso quando sono arrivati».

Richard prese una sigaretta dal pacchetto di Claire e l’accese. Lei vedeva il suo viso illuminato dalla brace incandescente ogni volta che tirava una boccata. Si rigirava tra le mani il biglietto da visita dell’agente Rose.

«Allora?» gli chiese lei alla fine. «Cosa pensi?».

«Che è una brutta storia» le disse Richard, esalando il fumo dell’ultima nota.

«Pensi che abbia fatto male, vero?».

«A mentire? Non lo so, tesoro…» spense la sigaretta nel posacenere e cercò di resistere alla tentazione di accenderne un’altra. «Ci sono parecchie cose che non quadrano, a cominciare da questo». Le restituì il biglietto da visita.

«Non posso certo definirmi un esperto in materia» continuò Richard «ma un paio di volte ho avuto a che fare con agenti federali e ho visto parecchi di quei biglietti. E non erano così!» si alzò dal letto per aprire la finestra e fare uscire la cappa di fumo che si era formata. «Quello mi sembra poco più di un cartoncino sul quale è stato stampato un nome e un numero di telefono. Dov’è il numero dell’ufficio? Il numero di matricola? Perché vengono a cercare un pluriomicida in due, senza neanche lo straccio di un mandato?».

Claire aveva pensato a tutte quelle cose, e la confortava il fatto che anche Richard nutrisse i suoi stessi dubbi.

«E poi» si interruppe, reinfilandosi sotto le lenzuola. «per quanto poco mi piaccia, non riesco proprio a vedermi Johnny nei panni di un assassino».

Lei gli accarezzò il viso. Sapeva alla perfezione quando gli costava parlava di Johnny, specie se era per ammettere una cosa a suo favore.

«Ma allora chi potevano essere?» gli chiese.

«Forse i due scagnozzi del tizio per cui lavorava Johnny».

Claire lo fissò a bocca aperta. Non credeva che si stesse prendendo gioco di lei,

non in una situazione tanto seria, eppure non riusciva a credere alle sue parole.

«Avanti Richard, ora non venirmi a dire che credi a tutte quelle cazzate di poteri e telepatia e…»

«Perché no?» la interruppe lui, e a Claire toccò nuovamente di rimanere a bocca aperta. «Senti Claire, sai meglio di me che il cervello umano è ancora un assoluto mistero, quindi chi lo sa… magari alcune persone possono davvero fare cose strane». Cedette all’impulso e si accese una seconda sigaretta. «Guarda quello che è successo la sera che si è svegliato, come è riuscito a tranquillizzare Brenton senza dire una parola e di come hanno poi legato. E il miglioramento che ha avuto lo stesso Brenton, come lo spieghi? Da quando c’è Johnny non si è più lamentato delle voci, non ha più dato in escandescenza…».

«Quindi credi davvero che anche Ted sia capace di leggere i pensieri della gente e che Johnny, solo toccandolo, gli ha permesso di controllare questo potere?» la voce di Claire era un misti di incredulità e sarcasmo. Ma vide l’espressione seria sul volto di Richard, e capì che lui ci credeva davvero.

«Pensa alle cose che mi hai detto di lui, Claire. Quando mi raccontavi di come lui era in grado di farti quasi sempre il regalo giusto al momento giusto, di come se ne usciva fuori con un week end al mare proprio quando avevi voglia di andare al mare. Pensa a…» distolse lo sguardo da lei, volgendolo alla finestra. «pensa a noi e a com’è andata».

Claire fece per ribattere, ma si accorse che non le veniva alcuna parola per farlo. Fece invece ciò che le aveva detto Richard, ripensò a quella sera in cui lei e Johnny avevano discusso, fino ad arrivare alla confessione del tradimento e alla rottura del loro rapporto.

«Tu stessa mi hai detto che il discorso che avete fatto quella sera l’aveva impostato per farti arrivare a dire che l’avevi tradito» continuò Richard. «e di come non ti era sembrato sorpreso quando glielo hai detto».

Era vero, quella maledetta sera Johnny aveva mostrato parecchi sentimenti, dalla rabbia alla delusione, ma non aveva mai dato a vedere la minima sorpresa per ciò che lei gli disse. Tuttavia, era impensabile che potesse essere in possesso di capacità telepatiche, la mente razionale di Claire respingeva quell’ipotesi con tutte le forze.

«Cosa devo fare?» chiese infine.

«Non lo so tesoro» le disse Richard, sospirando. «Se non credi alla sua storia, allora la cosa più giusta da fare sarebbe comporre quel numero e dire agli agenti che sai dov’è. Se invece pensi che quelli che lo stanno cercando non siano veri agenti, allora non devi fare niente. E’ certamente più al sicuro in struttura che altrove».

«E con Johnny cosa faccio?»

«Niente»

«Come niente? Dovrei continuare a non dirgli nulla?»

«Cliare, cosa credi che accadrebbe se gli dicessi che quei due sono venuti a

cercarlo?».

Era una cosa a cui Claire aveva già pensato. Se Johnny avesse saputo, avrebbe fatto di tutto per andarsene dalla clinica.

«Dio, che casino» disse Claire, abbandonandosi sul cuscino.

Richard le si avvicinò e la strinse tra le braccia. La tenne stretta finchè non si fu addormentata. Lui, invece, ò parecchio tempo a fissare il buio.

Almeno quei due non si faranno più vivi. Trovò il pensiero confortante e, alla fine, riuscì ad addormentarsi.

Nel momento in cui Claire si confidava con Richard, George e Mike erano in una stanza di motel poco distante. Dopo la visita alla dottoressa Bahran, erano rimasti appostati in una mulattiera laterale alla via che portava alla clinica. Avevano visto il pulman della struttura tornare, senza però riuscire a distinguere i volti degli occupanti. Dopo qualche tempo, avevano visto due macchine procedere in senso inverso: sulla prima riconobbero la dottoressa, mentre nella seconda c’era un uomo che non conoscevano. Seguirono le due macchine fino alla casa della dottoressa, videro i due salire i gradini della casa abbracciati e se ne andarono.

«Chiamiamo il capo» disse George dal letto su cui si era seduto.

«Per dirgli che abbiamo fatto un altro buco nell’acqua?» chiese ironico Mike.

«Non sarà per niente contento, George, lo sai…».

«Quello che non so è perché faccio ancora coppia con un imbecille».

Mike si irrigidì subito.

«Scusa… scusa George» balbettò «è solo che non aver trovato niente, di nuovo, mi sta innervosendo».

«Sei così sicuro di non aver trovato niente?».

«Abbiamo cercato in tutti gli schedari e non c’era nulla. E l’appostamento è stato inutile. Inoltre la dottoressa ha detto che…»

«La dottoressa ha mentito» lo interruppe George, con un tono di rabbia e disgusto. «Oh è stata brava, questo glielo concedo. Non credo si aspettasse una nostra visita, quindi ha dovuto prendere delle decisioni in fretta, e lo ha fatto bene».

«Pensi che sappia dov’è?» gli chiese Mike.

«Ne sono certo!» rispose George. «Siamo arrivati dal nulla a dirle che l’amore della sua vita, scomparso più di cinque anni fa, è ricercato dall’FBI per omicidio e lei non chiede assolutamente nulla. Era stupita, questo sì, ma non sorpresa».

Mike rimase in silenzio. George era senza dubbio più qualificato di lui, ma a lui sembrava che la dottoressa non sapesse davvero niente.

«ami il telefono» gli disse George.

Mike fece come gli era stato chiesto e si sedette sull’altro letto.

«L’avete trovato?» l’inconfondibile falsetto che parlò dal cellulare era pieno di impazienza.

«Forse abbiamo una pista, signore».

«La dottoressa?».

«Sì, signore. Nasconde qualcosa».

«Ne sei sicuro?».

«Devo solo averne le prove».

«Allora procuratele».

La comunicazione fu interrotta. George strinse nella mano il cellulare, facendolo scricchiolare pericolosamente. Non sopportava essere trattato in quel modo. Era ben pagato, infinitamente più di quanto non lo fosse nell’esercito, ma detestava la totale mancanza di rispetto che Keller aveva nei suoi confronti.

A dirla tutta, non sopportava che Keller non lo temesse come facevano tutti.

Spera di avere sempre i tuoi soldi, vecchio bastardo, o potrebbe venirmi voglia di insegnarti come ci si comporta con me.

Lanciò il cellulare a Mike, che lo prese al volo, e si distese sul letto. Aveva chiaro cosa c’era da fare adesso e non gli andava per niente a genio. Lui era uomo d’azione, gli appostamenti non li aveva mai sopportati. Per giunta con un compagno come Mike.

Che sia una cosa veloce, chiedo solo questo.

Chiuse gli occhi e dormì.

XXXII

Come aveva sperato George Rose, fu una cosa veloce, forse non quanto avrebbe voluto, ma in tre giorni riuscirono a trovare la prova che cercavano.

La routine era sempre la stessa. Lui e Mike si svegliavano di buon’ora e andavano ad appostarsi con la macchina nella sterrata che si separava dalla strada principale ad un chilometro dalla clinica. Aspettavano di vedere are l’auto della dottoressa Bahran, si concedevano ancora una mezz’ora di attesa, dopodichè scendevano dalla macchina e, ando attraverso il fitto degli alberi, giungevano alla recinzione della clinica sul lato sud, quello delle stanze maschili. Riparati dall’ultima fila di alberi, avano la giornata ad osservare ogni movimento, nella speranza di vedere, in una delle finestre, il viso di Johnny.

Speranza che fu appagata a metà del terzo giorno di appostamento. Era il turno di Mike, che con il binocolo in mano, ava in rassegna tutte le finestre.

«Stavolta abbiamo fatto bingo, compagno!» disse ad un tratto.

George fu in piedi in una frazione di secondo e ci mise lo stesso tempo a strappargli di mano il binocolo e portarselo agli occhi.

Mike lo guardò e vide come le labbra di George si piegarono in un ghigno. Era la stessa espressione che doveva avere una fiera affamata quando finalmente è in vista di una preda facile.

«Prendi la macchina» gli ordinò George.

Mike tirò fuori dalla borsa una fotocamera digitale professionale, alla quale agganciò uno zoom potente. George prese la macchina, inquadrò la finestra di Johnny, e iniziò a scattare.

«Finalmente sei mio» sussurrò a denti stretti.

Dopo una quindicina di scatti, riò la macchina fotografica a Mike, che la ripose nella borsa. Fissò ancora per qualche istante la sagoma dietro i vetri sprangati, in una muta promessa.

Presto ci rivedremo!

«Andiamo, il capo ha delle foto da vedere» disse infine inoltrandosi tra gli alberi, seguito da Mike.

George era elettrizzato. Finalmente l’avevano trovato. Era il più pericoloso della comitiva e sapeva che Keller non avrebbe avuto pace finchè non l’avessero trovato. Ora ce l’avevano in pugno.

L’esagitazione del momento, fece commettere un errore a George, un errore che non aveva mai commesso prima: non aveva esaminato il campo prima di andarsene.

Il suo addestratore quando era nell’esercito, gli aveva insegnato un principio che più volte gli aveva salvato la vita. Prima di iniziare una qualunque operazione, bisognava esaminare il campo in tutto e per tutto, questo era ovvio. Ciò che per molti di loro, allora reclute, non era altrettanto ovvio, era che l’importanza dell’analisi dell’ambiente prima di un’operazione era pari all’analisi dello stesso ambiente ad operazione conclusa.

Ora non era in missione per l’esercito, ed era troppo impaziente di portare a Keller quelle foto. Quindi non degnò di un solo sguardo il prato attorno alla clinica. Se l’avesse fatto, non gli sarebbe stato difficile vedere Stephanie all’angolo della recinzione che li stava osservando. Se l’avesse fatto, sicuramente la sua priorità sarebbe stata quella di fare irruzione e prendere Johnny, vivo o morto, anziché portare le prova della sua presenza a Keller.

«Claire ti devo parlare».

Claire si accorse subito dell’espressione preoccupata di Stephanie quando entrò nel suo ufficio.

«Che succede, Steff?» le chiese.

«Hai presente Charly?».

Claire annuì. Charly era un gatto randagio, ormai addomesticato. Era comparso circa tre anni prima nel prato della clinica e subito Stephanie e Claire se ne erano affezionate. Non potevano portarlo dentro la struttura così, con l’aiuto di

Richard, gli avevano costruito una piccola tana all’angolo sud-ovest della recinzione.

«Sono appena andata a dargli da mangiare e ho visto una cosa strana».

«Cosa? Non sta bene?» chiese preoccupata Claire.

«No, lui sta benissimo» la tranquillizzò Stephanie. «Ma al di là della recinzione, dalla parte del bosco, c’erano due uomini».

In Claire comincio a suonare un camlo di allarme, che divenne un urlo di sirena man mano che Stephanie parlava.

«Avevano un binocolo e una macchina fotografica e stavano guardando dentro la clinica. Ho visto che uno ha preso a cominciare a fotografare qualcosa, subito non ho capito cosa ma poi…».

«Poi cosa, Steff? Cosa stavano fotografando?».

«Appena se ne sono andati mi sono avvicinata a dov’erano loro e, da quel punto, l’unica cosa che potevano vedere erano le finestre del dormitorio dell’ala maschile».

«E c’era qualcuno alle finestre? Hanno visto qualcuno?» chiese Claire sempre più allarmata.

«L’unico che ho visto io era Johnny, dietro la finestra della sua stanza. Ma perché due uomini avrebbero dovuto fotografarlo?».

Claire si sentiva come se le avessero appena dato un pugno alla bocca dello stomaco. Era impallidita e poggiò una mano alla scrivania per sorreggersi.

«Claire tutto bene?» chiese Stephanie allarmata.

Claire non la sentì quasi. La sua mente era un vortice di pensieri che sfrecciavano veloci. Da quando aveva ricevuto la visita di quei due, non aveva fatto altro che pensare alla storia di Johnny e cercare di prendere una decisione: credergli o meno. Decisione che fino a quel momento non era ancora riuscita a prendere.

Ricordava una frase che aveva letto tempo prima, non ricordava di chi fosse, ma le venne in mente in quell’istante. “Quando devi prendere una decisione, tira una monetina. Non perché la monetina deciderà al posto tuo, ma perché nel momento che la vedrai roteare in aria, ti accorgerai in cosa stai riponendo le tue speranze e riuscirai a prendere la tua decisione”.

Nel suo caso, la monetina l’aveva appena lanciata Stephanie, raccontandole dei due uomini che stavano fotografando Johnny alla finestra. E la decisione venne da sé.

Gli credo!

Girò intorno alla scrivania, aprì un cassetto e prese due mazzi di chiavi che porse a Stephanie. Il primo era costituito da due sole chiavi e Stephanie lo conosceva bene, erano del furgoncino della clinica. L’altro, era il mazzo di chiavi di casa di Claire.

«Ascoltami bene Steff» le disse «devi fare una cosa per me, una cosa molto importante».

«Claire, ma cosa…»

«Prometto che ti spiegherò tutto, ma adesso non c’è tempo. Posso fidarmi di te?».

«Non hai bisogno di chiedermelo!» rispose Stephanie.

«Bene» disse Claire, concedendosi un sorriso. «Sposta il furgoncino all’interno della rimessa, poi vai da Johnny e portalo al furgoncino ando dalla scala interna. Digli che deve mettersi in fondo, dove ci sono i vetri oscurati. Poi portalo a casa mia e digli di aspettarmi lì».

«Ma Claire, lui non può…» iniziò Stephanie, ma si interruppe subito vedendo l’espressione di assoluta decisione sul viso dell’amica. «Va bene, lo farò. Pensi che mi ascolterà?».

«Sì. Digli che gli credo, che credo a tutto quello che mi ha detto e che stasera lo

aiuterò».

Stephanie rimase ancora qualche istante ad osservare l’amica, poi uscì dall’ufficio.

arono una ventina di minuti prima che Claire vedesse il furgoncino della clinica uscire dal cancello e allontanarsi.

Guardò l’orologio, erano le 17 ate da poco. Stephanie sarebbe stata di ritorno di lì a mezz’ora e dopo un altro paio d’ore lei avrebbe potuto staccare e andare a raggiungere Johnny a casa sua. Sempre che lui l’avesse aspettata.

Johnny non fare cazzate, ti prego. Aspettami.

Alle 20.30 di quella sera, mentre infilava la chiave nella serratura della sua porta di casa, Claire fu colta da un’improvvisa certezza: Johnny era di nuovo sparito. Rimase ferma davanti alla porta, con la chiave girava per metà nella serratura e il cuore che le galoppava in petto e in gola.

Raccolse tutte le forze e il coraggio che poteva avere e aprì.

L’accolse il buio e il silenzio che ogni sera l’accoglieva al suo ritorno.

Chiuse la porta a chiave, posò il mazzo sul tavolino accanto alla porta ed entrò nella salotto. Premette l’interruttore della luce e vide il suo salotto come era

sempre stato, deserto.

Maledizione Johnny!

Cacciò un grido, mentre il cuore perdeva parecchi colpi, quando si sentì toccare ad una spalla. Si voltò di scatto e lo vide. Johnny era lì, davanti a lei, non se n’era andato.

Prima che lui potesse scusarsi per averla spaventata, lei gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte.

Rimasero abbracciati per qualche istante. Anche se il suo corpo era più tonico e muscoloso, Claire riconobbe all’istante il suo abbraccio, quel modo di tenerla tra le braccia che riusciva ad essere contemporaneamente forte e dolcissimo.

«Cosa ti ha fatto cambiare idea?» le chiese Johnny una volta separati dal quel meraviglioso abbraccio.

Claire lo portò in cucina, dove iniziò a preparare qualcosa da mangiare e gli raccontò quanto era accaduto. Gli disse dei due agenti che si erano presentati chiedendo di lui e di un altro, gli raccontò di come si era sentita a disagio di fronte a quel Rose, e di come si era accorta dell’archivio che era stato aperto mentre lei era fuori dall’ufficio.

Concluse riportando il racconto di Stephanie.

«Quindi lo sanno» disse alla fine Johnny. «Sanno che sono qui».

«Loro sanno che sei alla clinica» lo corresse Claire. «E non hanno idea del fatto che noi sappiamo che ti hanno visto».

Johnny continuava a fissare il piatto di pasta che aveva davanti.

«Hey» lo richiamò Claire «Domani mattina ti accompagnerò in stazione, ti darò dei soldi e me ne andrò. Prenderai il treno per dove vorrai, non lo voglio sapere, e loro non sapranno mai che fine avrai fatto».

«Grazie» sussurrò lui, sorridendole.

Finirono di mangiare e si misero sul divano. Il silenzio si stava dilungando in modo esasperante per Claire. Erano anni che loro due non si trovavano più da soli nella stessa stanza e Claire sentiva tutta l’ansia e il nervosismo che provò la prima volta che questo accadde.

«Quindi puoi leggere la mente» disse Claire, cercando di buttare lì la cosa con nonchalanche.

«Già» fece Johnny.

Claire voleva fargli una domanda, una domanda alla quale Richard le aveva fatto pensare. Strinse i pugni e la tirò fuori senza starci a pensare troppo.

«E’ così che hai scoperto di me e Richard?».

Johnny alzò lo sguardo incontrando i suoi occhi. Claire vide in quegli occhi lo stesso dolore che ci vide cinque anni prima. Si pentì subito di averglielo chiesto, ma prima che potesse ritrattare, lui rispose.

«No Claire» disse «A quel tempo non avevo idea di essere in possesso di questa facoltà».

«Ma allora come…» si morse l’interno della guancia per costringersi a stare zitta.

«Come l’ho capito?» le chiese Johnny.

Claire annuì, distogliendo gli occhi da quelli di lui. Le faceva ancora troppo male vedere quel dolore.

«Penso che qualcosa c’entri la mia capacità» iniziò Johnny «Keller mi disse che nella mia vita dovevo avere avuto altri episodi di telepatia, ma che sicuramente li avevo classificati come semplice intuito». Si abbandonò sul divano chiudendo gli occhi. «In quel periodo, quando parlavamo, ogni tanto sentivo una stonatura nella mia testa. Non so come spiegarlo, ma era come se il mio cervello percepisse qualcosa di strano nelle tue parole. Un’asincronia tra ciò che mi stavi dicendo e ciò che avresti voluto, o dovuto, dirmi».

Claire iniziò a mangiarsi distrattamente le pellicine ai lati delle unghie, comportamento che metteva in atto ogni volta che era nervosa.

«Con il tempo riconobbi quelle stonature come delle semplici bugie, e mi accorsi che si presentavano sempre quando parlavamo di Richard o dei tuoi ritardi sul lavoro».

Claire tirò un po’ troppo forte una delle pellicine e sentì il sapore del suo sangue in bocca.

«Così quella sera decisi di affrontarti, cercando di fare le domande giuste per farti finalmente dire la verità».

«Perché?» chiese Claire «Perché hai fatto così? Perché non te ne sei semplicemente andato? Perché non mi hai mandato a cagare, visto che sapevi?».

«Perché non ho mai voluto perderti» rispose Johnny. Si girò a guardarla e per lei fu impossibile evitare i suoi occhi. «Sì, sapevo che mi avevi tradito, ma pensavo… speravo che quello che c’era tra di noi sarebbe stato più forte».

Claire iniziò a piangere. Una lacrima scese silenziosa sulla sua guarcia.

«Ti ho amata con tutto me stesso, come non ho mai amato nessuno e come mai amerò nessun’altra. Perderti, per me, era come morire. Ma stare con te senza darti ciò di cui avevi bisogno, sarebbe stato peggio».

«Tu mi davi tutto» rispose Claire, singhiozzando.

«Se fosse stato così, non avresti cercato nulla in Richard o in chiunque altro».

Claire non sapeva come rispondere. Anche lei lo aveva amato, e anche lei era certa che non avrebbe potuto amare nessun altro uomo come aveva amato Johnny. Neanche Richard. Era innamorata di lui, su questo non aveva dubbi, ma la totale complicità che aveva con Johnny, con Richard non era riuscita a conquistarla.

«Mi dispiace per il male che ti ho fatto, e mi dispiace per i problemi che ti ho causato. Domani sarà tutto finito, me ne andrò di nuovo, questa volta per sempre». Johnny le si avvicinò, posandole una mano sul viso e asciugando le sue lacrime. «Ma questa volta posso dirti quello che avrei voluto dire cinque anni fa. Ti amo Claire, ti amerò sempre e ti porterò sempre con me».

Lei lo guardò negli occhi, le era impossibile dire qualsiasi parola. Se avesse parlato, avrebbe certamente detto la cosa sbagliata e la peggiore che poteva dire era chiedergli di rimanere, di restare con lei, di non abbandonarla di nuovo.

Forse per il contatto con la guancia di lei, forse perché si sentiva emotivamente spinto ai limiti, ma Johnny la sentì. Un solo pensiero, uno solo che rimbombò nella sua testa, facendogli pulsare le tempie e il cuore di dolore. Sentì un urlo nella sua mente: ti amo anche io!

Spinto da quel pensiero, che aveva cancellato ogni altro, si sporse verso di lei e la baciò.

Le loro labbra si unirono, le loro lingue si cercarono. Entrambi non pensarono più a niente, solo a quel momento. Johnny si alzò, la prese in braccio e la portò nella camera da letto.

Fecero l’amore, mettendoci tutto il sentimento e la ione che avevano represso in quei cinque anni.

E come mille volte era accaduto durante la loro storia, alla fine si ritrovarono abbracciati, nudi, godendo del calore dei loro corpi e del ricordo di ciò che avevano appena fatto. Così li colse il sonno.

Guardateli ora. Guardateli molto bene. Un uomo e una donna che giacciono in un letto, entrambi sul fianco sinistro. Tra i due non c'è un singolo spazio di luce. Le piante dei piedi di lei poggiano sul dorso di quelli di lui. Le gambe, piegate quasi a 90 gradi, aderiscono alla perfezione, dagli stinchi alle cosce.

Le natiche di lei a perfetto contatto con il bacino di lui. Il ventre ed il torso di lui aderenti ai lombi e alla schiena di lei. Il braccio sinistro di lui sotto il corpo di lei l'avvolge. La mano a conca ad accogliere la perfetta rotondità del suo seno, senza malizia o concupiscenza, semplice e naturale gesto che arreca a lei sensazione di protezione. L'altro braccio ricalca quello di lei, fino al palmo appoggiato al dorso. Le dita intrecciate.

Guardate bene vi dico.

Un incastro perfetto, una unione di corpi che è unione di anime. Il sonno, i sogni

e quant'altro disturberanno quella perfezione nel corso della notte. Ma ora sono così come li vedete, uniti, perfetti.

E ditemi: esiste modo più bello di entrare nel mondo di Morfeo?

Guardateli ancora un’ultima volta, perché mai avrete altra occasione di vederli.

XXXIII

Quando Claire arrivò alla clinica, la mattina seguente, il suo viso era completamente bagnato di lacrime. Il tragitto dalla stazione alla struttura dove lavorava ormai da quattro anni, era stato un pianto silenzioso e continuo.

Come programmato, aveva lasciato Johnny alla stazione ferroviaria, senza chiedergli dove sarebbe andato.

Quella mattina era stato il silenzio a farla da padrona. Silenzio al loro risveglio, silenzio mentre si rivestivano, silenzio in macchina diretti alla stazione. Ciò che era successo quella notte era stato bellissimo e terribile allo stesso tempo.

Il modo peggiore per dirsi addio è amarsi con tutti sé stessi per un’ultima volta.

Davanti all’ingresso della stazione, si sono guardati, a lungo. Claire si ritrovò a pensare, a desiderare, che lui le chiedesse di lasciare tutto e andare via insieme. Non accadde. Ciò che accadde fu spaventosamente simile alla sera della loro rottura, cinque anni prima.

Johnny le si avvicinò e le prese il viso tra le mani. Lei chiuse gli occhi, offrendogli le labbra, anelando un ultimo bacio. Ma le labbra di lui andarono a posarsi delicate sulla fronte della ragazza.

«Sii felice, Claire» le disse, prima di voltarsi e sparire nel flusso di persone che partivano e arrivavano.

Ora che stava parcheggiando davanti all’ingresso della clinica, sentiva ancora quel lieve contatto sulla sua fronte e altre lacrime scesero sulle sue guance. Non credeva di poter avere così tante lacrime da piangere.

Dovette aspettare quasi dieci minuti, chiusa in macchina, prima di decidersi a scendere. Diede un’ultima occhiata allo specchietto retrovisore, e concluse che anche se avesse aspettato mille anni, il suo aspetto non sarebbe migliorato. Sapeva che a breve ci sarebbe stata la sveglia per gli ospiti e che questo avrebbe fatto scoprire che Johnny non c’era più. E questo, significava dover affrontare Richard.

Fece un profondo respiro e strisciò la carta magnetica, aprendo il cancello.

Dentro tutto era calmo. Erano appena le sette e un quarto, in anticipo di almeno tre quarti d’ora rispetto al suo orario abituale. Ted ci sarebbe sicuramente rimasto male per non averle potuto dare il suo buongiorno quotidiano.

Si bloccò a pochi i dal suo ufficio.

Mio Dio, Ted.

Per quanto sarebbe rimasto deluso dal mancato buongiorno, Claire non osava pensare l’effetto che avrebbe avuto su di lui la sparizione di Johnny.

Entrò nel suo ufficio, contenta di non aver incontrato ancora nessuno. Si sedette dietro la scrivania, prese dalla borsa il fascicolo di Johnny e, foglio dopo foglio, lo distrusse nel ditruggi-documenti.

Qualche minuto prima delle otto, Richard entrò nell’ufficio, chiudendosi la porta alle spalle. Rimase in piedi a guardarla. La conosceva bene, forse non quanto Johnny, ma non gli era difficile capire il suo stato d’animo. Gli occhi arrossati e l’espressione che le vide in volto, gli diedero conferma di ciò che aveva pensato pochi minuti prima, trovando la camera di Johnny deserta.

Dammi la forza di sopportare la scenata che mi farà, pregò Claire.

Ma non ci furono scenate, non ci furono accuse, non ci fu altro dolore. Ci fu solo una grande sorpresa e un senso di gratitudine come non ne aveva mai provati prima.

«Hai avuto problemi?» le chiese.

«No» rispose lei.

«Sai dov’è andato?»

«No»

«Il fascicolo?»

Claire indicò il cestino dove c’erano una moltitudine di striscioline di carta. Richard annuì.

«Hai fatto la cosa giusta» le disse e Claire non potè fare a meno di nascondersi il viso tra le mani e ricominciare a piangere.

Lui le si avvicinò, ando intorno alla scrivania, e prese ad accarezzarle la schiena.

«Stephanie mi ha detto cos’è successo ieri, di quei due tizi che lo stavano fotografando» le disse «Se l’avessi trovato ancora nella sua stanza, l’avrei portato fuori io».

Claire si asciugò gli occhi e gli rivolse un sorriso colmo di gratitudine.

«E adesso?» gli chiese.

«Adesso possiamo continuare con la nostra vita come abbiamo sempre fatto» le disse.

Claire gli prese la mano e gliela strinse forte.

Sarebbe stato difficile riprendere la vita “normale”, ma sapeva che con Richard al suo fianco ci sarebbe riuscita.

Uscirono insieme dall’ufficio e videro Ted davanti alla cancellata di ingresso. Quando la vide, si mostrò inizialmente sorpreso e contrariato, come lei aveva previsto, ma poi il suo viso si aprì del suo sorriso così bello e contagioso.

«Buongiorno dottoressa» le disse. Poi fece una cosa che non aveva mai fatto prima. Le posò una mano sulla spalla, si chinò su di lei e le parlò ad un orecchio. «Starà bene, dottoressa. Non devi essere triste».

Claire sentì le lacrime che minacciavano di uscire nuovamente. Allungò le braccia e abbracciò Ted, stringendolo con forza.

«E tu ragazzone? Tu starai bene?» gli chiese separandosi dall’abbraccio.

«Sì dottoressa» rispose, annuendo nel modo esagerato che faceva sempre sorridere tutti «Mi ha aiutato e starò bene».

Claire era frastornata. Si era aspettata una mattinata d’inferno, si era già vista nella condizione di dover contenere quel gigante che aveva di fronte, dopo una litigata con i fiocchi con Richard, invece eccola lì, con Ted che le sorrideva beato e Richard al suo fianco.

Forse stavolta è davvero finita, pensò mentre iniziava la sua giornata di lavoro.

Ed in effetti quella giornata andò davvero bene. Non ci furono incidenti, nessun ospite in preda ad una qualche crisi. Lavorò per tutto il giorno fianco a fianco con Richard e Stephanie e il pensiero di Johnny raramente le sfiorava la mente.

Si sentiva in colpa per quello che era successo la notte prima, verso Richard soprattutto, ma anche nei confronti di Stephanie, che aveva esposto ad un rischio che neanche lei sapeva quanto grande fosse.

Nessuno dei due, però, le fece pesare nulla. Non le fecero alcuna domanda, non commentarono la sparizione di Johnny. Si limitarono ad essere ciò che erano sempre stati, il suo compagno che la amava e la sua migliore amica, nonché i suoi migliori collaboratori sul lavoro.

Fu una sorpresa per lei scoprire che quel giorno aveva a disposizione un altro ottimo aiutante: Ted stette loro dietro per quasi tutto il giorno, aiutando Richard quando c’era da spostare qualcosa, accettando di buon grado di fare da portantino o semplicemente tenendo loro compagnia con il suo meraviglioso sorriso.

Con l’avvicinarsi delle 20, Claire iniziò a sentirsi sempre più agitata. Non voleva andare via dalla clinica…o meglio, non voleva tornare a casa sua. Temeva che Johnny e il suo ricordo fosse ancora troppo impresso nell’aria del suo appartamento. Così decise di fermarsi anche alla cena, insieme a tutti gli altri.

Fu una cena divertente, oltre le sue più rosee aspettative. Il centro dell’attenzione fu per la maggior parte del tempo Ted, che non smise quasi un attimo di parlare, cosa per lui del tutto insolita. Raccontò anche un paio di barzellette che, anche se già sentite, suscitarono comunque un buon numero di risate.

Al termine della cena, Claire e Stephanie si preparano ad uscire. Il turno di notte spettava a Richard, ma sapeva che non sarebbe stata una notte molto travagliata.

Claire decise di chiedere a Stephanie se le andava di andare da lei per quella notte. L’amica accettò senza fare domande, la conosceva bene e non c’era bisogno che le spiegasse il motivo di quell’invito.

Claire andò con Stephanie nella saletta infermieri, che fungeva anche anche da spogliatoio, dove quest’ultima si tolse la divisa da lavoro e indossò i vestiti “civili”. Si attardarono nella saletta per un po’, perché Stephanie insistette nel voler acconciare i capelli di Claire prima di uscire.

«Giovani, belle e in ordine» le disse, facendola sorridere.

Dalla saletta non sentirono lo scatto della cancellata metallica, né la voce di Richard che chiedeva a qualcuno cosa volesse a quell’ora.

Stavano ancora ridendo quando uscirono dalla saletta e si ritrovarono di fronte ad una scena che le paralizzò.

Richard era in mezzo alla sala comune. Aveva un ginocchio poggiato a terra e dal naso gli usciva un rivolo di sangue. Il viso era rivolto ai nuovi arrivati, che le due ragazze non avevano sentito. Erano i due che si erano presentati come agenti, entrambi con una pistola in mano puntata al viso di Richard. In mezzo a loro, più alto e più esile dei sue, c’era un terzo uomo.

Fu quest’ultimo ad accorgersi delle ragazze per primo, e rivolse loro un sorriso.

«Dottoressa Brahan, suppongo» disse l’uomo. La sua voce, come se parlasse in falsetto, fece venire i brividi a Claire. Riconobbe quell’uomo all’istante. «Chiedo venia per il disturbo, ma siamo venuti a prendere un vecchio amico».

Claire rimase immobile, senza dire nulla. Aveva paura, forse come non ne aveva mai avuta in vita sua, ma nello stesso tempo in lei era forte anche una sensazione di enorme sollievo. Non lo sapevano. Quei tre erano convinti che Johnny fosse ancora nella struttura, non si erano accorti della sua fuga.

«Dottoressa?» la richiamò Keller, con quella voce fastidiosa che fece fare una smorfia a Stephanie.

«Non so di chi stiate parlando» disse Claire, e la sua voce risuonò priva del terrore che aveva dentro.

«Oh io credo che lei sappia benissimo di chi sto parlando» disse Keller sorridendo. «Chiama lei il signor Page, o preferisce che vadano loro a prenderlo? Per me non fa differenza».

Claire spostò lo sguardo sui due, prima su Mike e poi su George. Fu a quest’ultimo che si rivolse. «Non pensavo che i federali fero irruzione in una proprietà privata, malmenando chi si trova al suo interno».

George rimase imibile, con la pistola ancora puntata al volto di Richard.

Mike, invece, si lasciò andare ad una risatina che nulla avrebbe avuto da invidiare al verso di una iena.

«Cerchiamo di non renderla più complicata di quello che è, dottoressa» le disse Keller in tono mellifluo. «Il signor Page viene con noi e tutto finisce qui, come se non ci fossimo mai incontrati».

«Johnny non è qui» disse Claire.

«Su su, non mi sembra il caso di dire bugie adesso» fece Keller, con una risatina. «Si dia il caso che ho delle foto che lo ritraggono ad una delle finestre di questa clinica».

Claire si limitò a fissarlo senza dire nulla. Vide il falso sorriso di Keller spegnersi, sostituito da un’espressione di rabbia crescente.

Nel silenzio della sala ci fu un “click” che fece balzare il cuore in gola alle due ragazze. Era George, che aveva armato il cane della sua pistola.

«Basta perdere tempo, signorina» le disse l’uomo allungando il braccio armato verso la testa di Richard. «Lo vada a prendere o il suo uomo farà una brutta fine».

«Sta dicendo la verità» proruppe Stephanie, ai limiti di una crisi di panico. «Johnny Page non c’è più. Questa mattina abbiamo trovato la sua stanza vuota. E’ scappato. Non c’è più».

Claire allungò un braccio intono alle spalle dell’amica che iniziò a piangere.

«Scappato?» chiese Keller, osservando le due donne. «E perché mai sarebbe dovuto scappare da un bel posticino come questo?».

«Forse perché i suoi uomini non sono tanto in gamba come credono» fece Richard asciugandosi il sangue dal labbro.

«Ma come ti permetti, sacco di…» iniziò Mike, alzando il braccio, pronto a colpirlo nuovamente.

«Mike!» tuonò George, e il braccio del collega si paralizzò a mezz’aria. «Cosa vuoi dire?» chiese poi a Richard.

«Beh, non mi sembra tanto difficile, scimmione» disse Richard. Claire fu percorsa da un brivido. Detestava quella parte di Richard che non gli permetteva di capire quando stava esagerando. «Se voi avete visto lui, lui potrebbe aver visto voi, no?».

George strinse gli occhi. Ripensò alla giornata precedente. Erano nascosti dietro gli alberi, sarebbe stato difficile vederli… ma impossibile? No, impossibile no. Non poteva scartare del tutto l’ipotesi che Johnny poteva averli visti mentre si allontanavano.

«Non so perché lo state cercando» continuò Richard, rimettendosi in piedi. «e

non mi raccontate la favola degli agenti federali e degli omicidi di cui è accusato, perché non me la bevo. Ma qualunque sia il motivo, se vi ha visto era logico che sarebbe scappato, no?».

Dopo qualche istante di riflessione, George si avvicinò alle due ragazze.

«Tu» disse a Stephanie «Ora mi accompagni a vedere le stanze dei vostri ospiti. Mike tieni d’occhio il grand’uomo finchè non sarò di ritorno».

Stephanie, incespicando sui propri piedi, avanzò verso la porta dell’ala maschile, strisciò la sua terresa magnetica ed entrambi sparirono per il corridoio.

«Perché lo state cercando? Cos’ha fatto?» chiese Claire a Keller.

«Vede dottoressa» iniziò Keller eggiando per la sala «Il suo caro exboyfriend mi ha creato qualche problemino, mandando all’aria un progetto che coltivavo da anni. Ed io non lascio mai in sospeso i miei problemi».

«Il suo progetto? Quello di usarlo come un mercenario ai suoi ordini?» chiese Claire. Vide un lampo d’ira illuminare il celeste degli occhi di Keller.

«Oh, vedo che avete avuto modo di parlare un pochino» disse avvicinandosi a Claire. «E cos’altro le ha detto?».

«Solo che lei è un bastardo manipolatore».

Keller scoppiò in una risata. Sentirlo ridere era anche peggio che ascoltare la sua voce stridula.

In quel momento, George e Stephanie tornarono nella sala. L’uomo fece un cenno con la testa a Keller, confermando l’assenza di Johnny.

«Hai guardato bene? In ogni stanza?»

«Sì capo» rispose George. «Ci sono solo due tizi che dormono, nient’altro».

Keller strinse i pugni, il viso gli si colorò di un rosso accesso.

«Dov’è andato?» sibilò verso Claire.

«Non lo so» rispose la ragazza.

«Dov’è andato?» urlò Keller e Stephanie sobbalzò.

«E’ la verità, non lo sappiamo» disse Richard. «Abbiamo trovato la sua stanza vuota questa mattina, non ha lasciato neanche un messaggio, niente!».

Keller cercò di ritrovare il controllo e alla fine riuscì a pensare in modo lucido. Johnny era stato in grado di progettare la fuga di massa della Casa, nonostante i controlli e i mezzi per neutralizzare la sua capacità. Per quanto potesse essere debole e solo, scappare da quella clinica non sarebbe stato un ostacolo così insormontabile. Quei due idioti se l’erano fatto scappare sotto il naso e questo lo mandava in bestia. Ma doveva stare calmo, aveva ancora bisogno di quei due, almeno finchè Johnny non fosse stato un cadavere ai suoi piedi. Poi si sarebbe occupato anche di loro.

«Bene, allora» disse infine. «Dovremo continuare a cercarlo».

«E loro capo?» gli chiese George.

«Questa sera ci sarà un tragico incidente in questa clinica. Qualcuno si è dimenticato di chiudere il gas e il fuoco distruggerà tutto e tutti» disse Keller con una tranquillità che gelo il sangue nelle vene di Claire. «Purtroppo non ci sono stati superstiti».

«Maledetto bastardo, non puoi farlo» gridò Richard, scagliandosi su Keller. Ma la sua corsa finì ancora prima di iniziare, quando il calcio della pistola di Mike calò forte sulla sua nuca. Richard stramazzò a terra, non perse i sensi, ma non fu in grado di rialzarsi.

«Perché?» disse Claire, sull’orlo della disperazione. «Non sappiamo dov’è, non sappiamo niente, perché lo fate?».

«Non sia così ingenua dottoressa» le disse Keller, con la sua calma innaturale. «Abbiamo fatto un errore, ma non per questo ne faremo altri. Non possiamo

permetterci che voi chimiate la polizia. E poi, lei sa un po’ troppe cose sul mio conto».

Claire non seppe cosa ribattere. Era totalmente paralizzata. Era finita, era tutto finito. Sarebbero morti quella sera e con loro anche tutti gli ospiti. Le venne da piangere e non trovò alcuna forza per impedire alle lacrime di scendere sul suo viso.

«Forza signor Rose, comincia pure da lei» disse Keller indicando Claire.

George le puntò la pistola contro e Claire chiuse gli occhi.

Johnny, spero che tu sia salvo. Pensò la ragazza. Che sia una cosa veloce pregò poi.

«Fermo George!» tuonò una voce.

Claire aprì gli occhi e la prima cosa che vide fu il sorriso trionfale stampato sul volto di Keller. Si girò poi verso l’entrata e lì, davanti alla cancellata aperta, c’era Johnny accanto ad un ragazzo che lei aveva già visto. Era il ragazzo sulla foto che gli aveva mostrato il finto agente federale, che stava per ucciderla.

Quando Johnny le prese il viso tra le mani, prima di baciarla sulla fronte, fu sul punto di chiederle di andare con lui. Dovette combattere quell’impulso con tutte le sue forze e riuscì a vincere quella battaglia. In fondo, cosa le stava per offrire? Una vita in fuga, dal suo lavoro, dai suoi amici, dal suo uomo… No, Claire

aveva già sofferto abbastanza e aveva fatto per lui più di quanto meritasse, non poteva farle questo. Così la baciò, le augurò di essere felice e si mescolò alla folla della stazione.

Non si voltò a guardarla, farlo avrebbe mandato all’aria la vittoria appena conquistata. Se solo avesse di nuovo incrociato i suoi occhi, non sarebbe più stato capace di andarsene. Sentiva lo sguardo di Claire sulla sua schiena, lo sentiva e gli faceva male.

Arrivò al tabellone delle partenze e guardò qual era il primo treno in partenza. Non gli interessa dove fosse diretto, l’importante era che partisse il prima possibile. Doveva attendere mezz’ora e decise di farlo direttamente al binario, su una delle scomode panchine di pietra.

Seduto sulla panchina, con la schiena appoggiata ad una colonna di marmo, osservava le persone che camminavano sempre più frenetiche da un binario all’altro, trascinando trolley rumorosi o portando delle cartelle tanto chic, quanto inutili.

Chiuse gli occhi, pensando a tutto ciò che era successo e chiedendosi quando quella storia sarebbe finita una volta per tutte. Avrebbero mai smesso di cercarlo?

Aveva sperato che fosse finita al suo risveglio, in fondo erano ati due mesi dalla fuga e non l’avevano ancora trovato. Se non avesse letto sul giornale di Annabelle, probabilmente ora sarebbe ancora nella clinica, con Claire, convinto che fosse tutto finito.

E con tutta probabilità mi sarei ritrovato una pallottola in testa entro due giorni, pensò.

Su quella panchina, si pentì dell’idea che aveva avuto la sera della fuga. Ora avrebbe voluto sapere dove si trovava Howard, avrebbe voluto raggiungerlo e dirgli che non era al sicuro, che li stavano ancora braccando. Ma non aveva alcun elemento per scoprire dove poteva trovarsi, ammesso che fosse ancora vivo. Johnny concluse che non aver trovato nulla in rete su di lui, non significava che fosse ancora vivo.

Ma se lo era, Johnny non aveva altro da fare che sperare che anche lui avesse letto le notizie dei loro amici. Se lo avesse fatto, avrebbe certamente capito chi c’era dietro quelle aggressioni.

Ripensò anche ad una cosa che gli aveva detto Claire la sera prima. “Perché non vai alla polizia e li denunci?”. Era una domanda lecita, ma Claire non sapeva quanto Keller fosse potente. Non poteva rischiare di imbattersi in uno dei tanto contatti che il dottore aveva nelle forze dell’ordine. Era stato lui stesso, in occasione di uno dei primi colloqui, a dirgli che era in contatto con “persone che contano”.

Mancavano quindici minuti alla partenza del treno, e Johnny giunse ad una conclusione… o meglio, il suo cervello accettò infine l’unica conclusione logica: tutta quella storia sarebbe finita solo se l’avessero preso, o se Keller fosse morto. Era arrivato il momento di mettere da parte ogni illusione e accettare il fatto che aveva solo due opzioni tra cui scegliere: consegnarsi o vivere in fuga per il resto della vita, quanto meno per il resto della vita di Keller.

Vide arrivare il treno al suo binario, quello stesso treno che in poco più di dieci minuti, avrebbe segnato l’inizio della sua vita da fuggitivo. Fu in quel momento

che si accorse di non aver preso in considerazione un aspetto fondamentale. Essere con Claire, nel suo appartamento, da soli, gli aveva offuscato la mente, non gli aveva permesso di ragionare in modo lucido. Ora, mentre i eggeri del suo treno che sarebbe partito a breve, iniziavano a salire, si fece la domanda che avrebbe dovuto farsi la sera prima.

Cosa succederà quando scopriranno che non sono più lì?

Si sentì le mani sudate, mentre il cuore prese a battere sempre più veloce. Si stava facendo prendere dal panico, lo sentiva crescere dentro di sé, nutrendosi della sua ragione. Si obbligò a respirare profondamente e calmarsi.

Se fossero andati alla clinica e avessero scoperto che non c’era più, avrebbero creduto che se n’era andato da solo? Che era scappato all’insaputa di tutti? Forse sì, in fondo non si erano accorti di Stephanie, quindi non sapevano che erano stati visti. Se erano certi di questo, non avrebbe senso che pensassero ad un complice nella sua fuga. Ma Claire aveva mentito a George e Mike, e ormai la sua bugia era stata scoperta. Privi di scrupoli com’erano, Johnny non osava pensare a cosa sarebbero stati capaci di fare.

Il fischio del capotreno, che intimava ai eggeri di salire a bordo, sciolse la paralisi che lo aveva attanagliato. Si voltò e percorse la pensilina fino all’inizio del binario. Non poteva andarsene, non poteva voltare le spalle a Claire e a tutti gli altri, non finchè non fosse stato certo che stavano bene. Era un rischio tornare alla clinica, lo sapeva bene, ma non poteva fare finta di niente.

Uscì dalla stazione e spaziò con lo sguardo alla ricerca di un taxy. In quel momento una mano si posò sulla sua spalla. Si immobilizzò, con un unico pensiero in testa: è finita, mi hanno trovato.

Con sua enorme sorpresa, una voce parlò direttamente nella sua mente.

Tranquillo Johnny, sono io.

Conosceva quella voce, anche se la sua mente ancora si rifiutava di crederci. Si voltò lentamente, ritrovandosi così faccia a faccia con Howard Rushton, che gli mostrava un sorriso colmo di tensione e paura.

Davanti ad un caffè, seduti al bar della stazione, Johnny e Howard parlarono degli ultimi due mesi. Johnny venne così a sapere che Howard, a differenza degli altri, non si era trovato una sistemazione stabile, ma aveva ato quei mesi vivendo come un homeless, spostandosi di città in città. Johnny non si stupì che Keller non fosse riuscito a trovarlo. Invisibile tra gli invisibili della società.

Howard disse aver letto di Annabelle solo la settimana prima e, dopo averci pensato, si era deciso ad andare da Johnny, nella speranza che fosse ancora vivo.

«Ma come hai fatto a trovarmi?» gli chiese Johnny.

«Ti ho portato io all’ospedale quella sera» gli spiegò Howard. «Poco prima di andarmene ho sentito una dottoressa che diceva che eri un candidato ideale per la Green Pine. Non mi ci volle molto per scoprire cos’era e chi c’era al suo interno».

«Claire» disse Johnny.

«Claire» confermò Howard. «Avevi parlato molto di lei e sapevo che, se mai ti fossi ripreso, saresti stato al sicuro con lei».

«Non poi così tanto» disse Johnny, che raccontò all’amico tutto ciò che era successo, fino alla sua mancata fuga sul treno per il nulla.

«Devo tornare» disse Johnny.

«E’ pericoloso, JB» rispose Howard, non mancando di suscitare un piccolo sorriso in Johnny sentendo il soprannome affibiatogli da Dick.

«Devo essere sicuro che stia bene, Howie».

«Non ho detto che non devi, ho solo detto che sarà pericoloso» ribattè Howard ingollando il bicchierino di acqua frizzante. «Per questo verrò con te».

«Non se ne parla» fece Johnny. «Ne ho già troppi sulla coscienza, non voglio avere anche te».

«Smettila di blaterare cazzate» disse Howard, sorridendo allo stupore che vide sul viso di Johnny. Il gracile, timido e introverso ragazzino che era arrivato alla Casa, aveva lasciato il posto ad un uomo sicuro di sé. «Non hai più colpe di quante ne abbiamo tutti noi. E poi, l’hai detto tu stesso. Questa storia finirà solo quando Keller ci avrà presi o sarà morto. Propenderei per la seconda, ma comincio ad essere davvero troppo stanco di vivere in questo modo. A questo

punto, voglio solo che finisca».

Johnny fu colpito dalle parole di Howard. Rispecchiavano in pieno ciò che provava lui stesso.

Se Keller non si fosse fatto vivo, sarebbero rimasti insieme in attesa di essere trovati. Se invece fosse andato alla clinica, la storia sarebbe finita, in un modo o nell’altro.

Pagarono il conto e furono di nuovo davanti all’ingresso della stazione. Presero un taxy, che li portò fino alla stradina secondaria dove si erano fermati George e Mike. Ripercorsero le orme dei due, fino a trovarsi nello stesso punto in cui George scattò le fotografie di Johnny alla finestra.

Rimasero nascosti dietro gli alberi per tutto il giorno, parlando poco, attenti ad ogni rumore ed ogni movimento.

Al calare della sera, Johnny cominciò a sentirsi più rilassato. Claire non era ancora uscita e l’unica cosa che poteva pensare è che stesse aspettando Richard per tornare a casa. Questo scatenò in lui due sentimenti opposti. Da un lato era contento che lei avesse qualcuno pronto a difenderla, dall’altro provò rabbia per non essere lui quel qualcuno.

Vide due luci accendersi in altrettante finestre dell’ala che stavano osservando. La cena doveva essere finita e Ted e Ben erano rientrati nelle loro stanze.

Forse Claire è stata abbastanza convincente pensò Johnny, in procinto di dire ad Howard che potevano andare. Ma proprio in quell’istante, sentirono il suono di un motore che procedeva sulla strada principale, diretto verso la clinica. Dopo pochi istanti, una macchina che entrambi conoscevano molto bene, svoltò nel vialetto di ingresso della clinica e andò a fermarsi davanti alla cancellata.

Videro scendere dalla macchina Mike e George, seguiti da Keller in persona.

Howard strinse il braccio di Johnny con forza.

Dobbiamo andare.

Johnny annuì, avviandosi lungo la recinzione. Giunti al cancello, guardarono verso la cancellata di ferro. Era aperta e nel piccolo androne non c’era nessuno. Johnny non capì perché li avessero fatti entrare, ma non gli ci volle molto per immaginarsi una possibile scena. In fondo, Mike e George erano entrambi armati e la cancellata di ferro non avrebbe certo fermato i proiettili.

Corsero il più in fretta possibile al margine del vialetto di ghiaia e si acquattarono sotto il finestrone che dava sulla sala comune.

Le voci che provenivano dall’interno erano troppo attutite dal doppio vetro per riuscire a distinguere cosa stavano dicendo. Si alzarono contemporaneamente, guardando all’interno.

Videro Richard disteso sul pavimento, con una mano a toccarsi la testa. Keller

aveva gli occhi fissi su Claire e stava dicendo qualcosa che Johnny non riuscì a sentire. L’unica cosa che sentì, fu un pensiero che gli inondò la mente di terrore.

Johnny, spero che tu sia salvo.

E ancora.

Che sia una cosa veloce.

Johnny partì di corsa verso l’entrata, varcò la soglia con dietro Howard e gridò.

«Fermo George!».

XXXIV

Il volto di Keller era illuminato da un’espressione di orribile trionfo. Una fiera che trova la preda con la fuga bloccata, dopo tanta fatica. I suoi occhi mandavano lampi di folle odio.

George continuava a tenere sotto tiro Claire, il volto imibile come sempre. L’indice faceva pressione sul grilletto, mentre lo sguardo era rivolto ai nuovi arrivati.

«George, non farlo» disse Johnny. «E’ me che volete, loro non c’entrano nulla».

«Signor Page» disse Keller. La sua voce era ancora più stridula per l’eccitazione, unghie contro una lavagna. «E’ stato molto gentile a farsi vivo».

Johnny avanzò di qualche o, le mani alzate. Howard era subito dietro di lui, con una mano poggiata alla sua schiena. Mentalmente Johnny aveva esortato l’amico a mantenere un contatto fisico, nascondendolo il più possibile alla vista di Keller.

«Dottor Keller, li lasci andare e finiamola qui».

«Oh la finiremo qui, signor Page» disse Keller, allargando ulteriormente il sorriso. «Ma temo di non poter lasciare andare nessuno».

Claire e Stephanie stavano aiutando Richard a mettersi seduto. Aveva del sangue che gli colava dalla nuca ferita, ma sembrava vigile. George e Mike spostavano le loro pistole seguendo i rispettivi bersagli.

«Lei mi ha creato parecchi problemi, signor Page» disse Keller. «Per risolvere un problema, a volte, è necessario cancellare tutto e ricominciare da capo».

«Loro non c’entrano nulla» ripetè Johnny.

«Non sia ridicolo» ribattè sprezzante Keller «Sa benissimo che non posso lasciare che qualcuno vada in giro a raccontare quello che è successo».

Johnny fissò Keller negli occhi e vide tutta la crudeltà e la pazzia di quell’uomo. Doveva fare qualcosa, o presto sarebbero tutti morti.

Il ghigno di Keller divenne feroce quando vide gli occhi di Johnny, le cui pupille si andavano allargando sempre più.

«Signor Page, andiamo» disse ridendo. «Sa bene che su di me non ha alcun effetto quello che sta cercando di fare». Tirò fuori dalla tasca della giacca il suo interferitore portatile. «Ricorda? Non può nulla contro questo apparecchio».

Johnny non disse nulla, limitandosi a fissare gli occhi del dottore. Calò il silenzio nella sala, un silenzio che innervosì Keller sempre più.

«D’accordo allora» fece Keller. Il sorriso era sparito dal suo volto, ora c’era solo rabbia. «Uccideteli, a cominciare da lei» disse indicando Claire.

In quel momento, un rumore giunse dal corridoio dell’ala maschile. Era come se un pesante oggetto fosse stato scagliato contro il muro.

Tutti si voltarono verso la porta che dava sul corridoio.

«Cos’è stato?» chiese Mike.

«Chi c’è là, signor Page?» chiese Keller.

Johnny rimase immobile, in silenzio.

«Signor Rose, non aveva detto che non c’era nessuno?» fece Keller.

«Sì signore» rispose Goerge. «Ho guardato in tutte le stanze e non ci sono posti in cui qualcuno possa nascondersi, né vie di entrata o uscita».

«Mi sembra ovvio che si è sbagliato» disse Keller, digrignando i denti. «Singor Dean, vada a vedere chi è».

Mike si incamminò verso la porta del corridoio.

«Mi raccomando signor Dean» gli disse Keller quando era quasi arrivato alla porta. «Chiunque sia, lo voglio morto».

Mike fece la sua stupida risatina ed aprì la porta. Il meccanismo la fece richiudere dolcemente alle sue spalle.

«Chi ha portato con sé, signor Page?» chiese Keller. Fece un sorrisetto al silenzio di Johnny. «Mi chiedo quante persone dovranno ancora morire per colpa sua».

Johnny lo ignorò, spostando gli occhi ormai completamente neri su George.

«George, lo sai che ucciderà anche te, vero?» gli disse.

George non rispose, la pistola sempre puntata alla testa di Claire.

«Quando avrai fatto lo sporco di questo lavoro, anche tu avrai un incidente» continuò Johnny. «Forse verrai rapinato come Dick, oppure avrai un incidente in macchina. Ma a breve anche tu morirai a causa di quell’uomo».

«Signor Page, sta diventando patetico adesso» disse Keller.

«Sai anche tu che sto dicendo la verità» disse Johnny, ignorando nuovamente Keller.

George non aveva bisogno che fosse Johnny a dirgli quelle cose. Da tempo il pensiero che Keller potesse fare a lui e Mike ciò che loro avevano fatto agli altri, si era fatto sempre più spazio nella sua mente. Ciò che Johnny non sapeva, e che non avrebbe potuto sapere grazie al marchingegno del dottore che aveva in tasca, era che quella sera, in quella clinica, solo lui ne sarebbe uscito vivo. Una volta uccisi gli amici di Johnny, avrebbe fatto fuori Keller e Mike e se ne sarebbe andato. Quel lavoro era finito, gli aveva fruttato parecchio in quei cinque anni. Era arrivato il momento di voltare pagina e Keller aveva ragione su un punto: non poteva permettersi di lasciare in vita qualcuno che sapeva.

Dal corridoio giunse il boato di due spari ravvicinati, seguiti da un violento tonfo.

«Bene signor Page, anche questa è fatta» disse Keller tornando a sorridere.

Con il are dei secondi, vedendo che Mike non tornava dal corridoio, il sorriso scemò dal suo volto, sostituito da un’espressione di preoccupazione.

«Mike» chiamò ad alta voce Goerge. «Mike ci sei?».

Silenzio.

«Signor Rose, la faccia finita, avanti. Abbiamo sprecato fin troppo tempo»

ordinò Keller. Ma George non si mosse. Se qualcuno era riuscito ad entrare in quell’ala, significava che c’era una via di fuga. Se avesse ucciso tutti nella sala, probabilmente il nuovo arrivato sarebbe scappato e il piano di non lasciare testimoni scomodi sarebbe sfumato nel nulla.

«George, hai sentito quello che ho detto?» gridò Keller.

«Stia zitto, imbecille» disse Goerge a bassa voce.

L’espressione di Keller, non fosse per la situazione, sarebbe stata comica. Johnny era sicuro che se Dick fosse stato presente, sarebbe scoppiato a ridere nel vedere quegli occhi celesti spalancati quanto la bocca.

«Come osi…» iniziò Keller.

«C’è qualcun altro, dottore» gli disse George. «Ed ora anche armato. Uccidere questi non farà che farlo fuggire. E lei non vuole che qualcuno possa andare a raccontare tutto in giro, vero?».

«Hai ragione» disse malvolentieri Keller. «Hey tu» disse verso la porta chiusa. «Chiunque tu sia, faresti meglio a farti vedere».

Ancora silenzio. Erano tutti concentrati sulla porta, tutti tranne Johnny che approfittò della situazione per avvicinarsi di qualche o a Keller.

«Va bene allora, se non uscirai entro dieci secondi, inizieremo ad ammazzare i tuoi amici» disse George. «Mi hai sentito?».

Anche quella minaccia non ottenne alcun risultato. George strinse la pistola che aveva in pugno.

«Come vuoi allora» disse alla porta chiusa «Cominciamo dalla bella infermierina».

Puntò la pistola su Stephanie preparandosi a fare fuoco.

TED! TED SVEGLIATI!

Nella sua stanza, Ted Brenton aprì gli occhi e si mise seduto sul letto. Chinò il capo di lato, in ascolto. Gli era parso di sentire la voce del suo amico speciale, ma nella stanza non c’era nessuno e sapeva che il suo amico speciale se ne era ormai andato.

Ted riesci a sentirmi?

Era proprio lui, ne era certo. Gli stava parlando direttamente nella sua testa, come aveva fatto diverse volte quando erano insieme. Gli mancava il suo amico speciale, gli mancavano quei pomeriggi ati davanti alla vetrata a giocare a carte con lui e fare lunghe conversazioni mute.

«Ti sento» sussurrò alla stanza vuota con un sorriso enorme sul viso.

Abbiamo bisogno di te, Ted. Ci sono delle persone molto cattive che vogliono farci del male.

Ted si alzò di scatto facendo cigolare il letto.

«Dove sono? Dove siete?» chiese, guardandosi intorno un po’ stupidamente.

Siamo nella sala comune, Ted. Riesci ad uscire dalla tua stanza?

Di notte, le stanze degli ospiti venivano chiuse a chiave e, anche se Ted aveva mostrato dei miglioramenti notevoli negli ultimi tempi, anche la sua stanza era chiusa.

«Posso provare» disse guardando la porta.

Bene, fallo Ted. Esci subito!

L’omone dal sorriso dolce e contagioso si portò contro la parete opposta alla porta. Ora sul suo viso non c’era più il sorriso, ma un’espressione di stolida determinazione. Fece un lungo respiro e partì di corsa verso la porta. Quando gli oltre centoquaranta chili di muscoli di Ted impattarono contro la porta, questa fu scardinata all’istante e sbattuta contro il muro del corridoio.

«L’ho fatto» disse Ted, sempre a bassa voce, con un vago senso di soddisfazione.

Bravo Ted! Ora devi stare attento, fai quello che ti dico.

Ted rimase sull’uscio della sua stanza in attesa di istruzioni.

Uno degli uomini cattivi sta per venire da te, Ted. Nasconditi dietro la porta di ingresso del corridoio, in fretta.

Ted, che non si era neanche preoccupato di mettersi le scarpe, corse fino alla porta, appiattendosi il più possibile contro il muro alla sinistra di essa. Dopo qualche istante, sentì la porta aprirsi. La prima cosa che vide entrare nel corridoio fu un braccio teso con una pistola in mano. Quindi vide l’uomo che prese a camminare lentamente lungo il corridoio, con gli occhi fissi sulla porta divelta. Non si era accorto di lui e Ted pensò che era una cosa buona.

Ted devi neutralizzarlo adesso. Colpiscilo, non permettergli di fare del male a nessuno.

Ted prese a camminare dietro l’uomo. Nonostante la sua mole, anche grazie ai piedi nudi, non produsse alcun rumore e quell’uomo non si accorse di lui, finchè due mani possenti non lo afferrarono da dietro per il collo, sollevandolo da terra di una ventina di centimetri.

La pistola sparò due colpi, che andarono a conficcarsi nel muro in fondo al corridoio, poi Ted ruotò il possente torace e l’uomo fu lanciato contro il muro come una bambola di pezza.

Ted si avvicinò all’uomo riverso al suolo e vide una profonda lacerazione all’altezza di una tempia, dalla quale usciva copioso il sangue. La pistola era scivolata sul linoleum del pavimento.

Ted, tutto bene?

«Sì amico mio. L’uomo cattivo non si muove più».

Bravo Ted, sei stato bravissimo.

Ted gonfiò l’enorme petto, inorgoglito da quelle parole.

Sai usare una pistola, Ted?

«Oh no, non ne ho mai presa in mano una» disse, muovendo la testa da un lato all’altro nel suo tipico gesto di diniego.

Allora lasciala dov’è, Ted. Mettiti davanti alla porta del corridoio e quando te lo dico, fai quello che hai fatto per uscire dalla tua stanza, hai capito?

«La farò saltare» disse Ted sorridendo. «Sono forte io».

Sì, lo sei amico mio. Aspetta!

Ted si mise a qualche metro di distanza dalla porta, doveva avere lo spazio giusto per la rincorsa. Rimase in attesa di sentire ancora la voce del suo amico speciale che gli desse il via, ma venne invece raggiunto da un’altra voce, non nella sua testa questa volta.

Qualcuno stava chiamando un certo Mike, ma Ted non si chiamava Mike, quindi rimase in silenzio. Un’altra voce, che gli fece venire voglia di ridere per quanto fosse strana e stridula, stava dicendo qualcosa che Ted non riuscì a capire. Poi fu di nuovo la volta della voce di prima.

«Va bene allora, se non uscirai entro dieci secondi, inizieremo ad ammazzare i tuoi amici. Mi hai sentito?».

E se quella voce stesse parlando proprio a lui? Non voleva che i suoi amici morissero. Non voleva che il suo amico speciale morisse. Fece un o verso la porta.

Ted, aspetta che ti dica io quando partire, ok?

«Aspetto» disse Ted, che aveva iniziato a sudare per la tensione.

«Come vuoi allora» disse la voce dello sconosciuto «Cominciamo dalla bella infermierina».

A quelle parole il cuore di Ted ebbe un sussulto. L’uomo cattivo stava per fare del male all’infermiera gentile e bella, non poteva permetterlo.

ADESSO TED! ADESSO!

Ma Ted era già partito prima ancora di sentire la voce del suo amico.

L’impatto fu ancora più violento di quello contro la porta della sua stanza, e quella del corridoio volò in mezzo alla sala comune, seguita da un Ted urlante e

arrabbiato.

Successe tutto in un lampo. D’altronde, è sempre così che accade quando l’azione inizia. La preparazione può durare anche mesi, ma alla fine, tutto si riduce a pochi minuti.

George stava per sparare a Stephanie quando la porta del corridoio fu letteralmente sparata via dagli stipiti. George vide un uomo dalla taglia formidabile correre dentro la sala.

Ma cosa... pensò, mentre spostava il braccio a puntare la pistola contro quel gigante.

Contemporaneamente alla porta, Johnny fece la sua mossa. I cinque anni ati nella Casa, ad allenarsi nella palestra, avevano fatto di lui un degno avversario. Nel tempo che George impiegò ad inquadrare il nuovo bersaglio, Johnny gli era addosso e gli calò un possente colpo a mani unite sul braccio che teneva al pistola. Questa finì in terra, mentre George gridava di dolore e frustrazione. Il braccio era intorpidito dal colpo ricevuto e così non riuscì a ripararsi dal pugno in pieno viso di Johnny.

Quando Johnny si lanciò contro George, Howard fece la stessa cosa contro Keller. Gli fu più facile, dal momento che Keller doveva avere almeno trenta anni in più di lui, trenta chili in meno ed era disarmato. Howard gli assestò una specie di uppercut dritto sul mento, ed il dottore cadde a terra emettendo un singolo, lungo, lamento.

Solo George era ancora della partita. Il pugno di Johnny lo aveva stordito, ma

non atterrato. Partì all’attacco, lanciandosi verso Johnny. Come un rugbista, lo placcò, finendo entrambi a terra. Johnny sentì tutta l’aria abbandonare i propri polmoni e, prima che potesse inspirarne di nuova, George gli era addosso.

Ted vide il suo amico speciale in difficoltà, si avvicinò e ghermì George per le braccia. Le mani di Ted erano due morse d’acciaio e George gridò per il dolore. Ted lo alzò dal corpo di Johnny, che stava cercando di riprendere fiato, e lo scaraventò sul tavolo, spaccandolo di netto. George era molto più robusto di Mike, ma la furia di Ted non poteva essere contrastata in alcun modo. Si sentì afferrare nuovamente e mettere in piedi, dopodichè ebbe solo il tempo di vedere l’enorme pugno di Ted che calava con una forza poderosa alla base del collo. Poi, per George, ci fu soltanto oscurità.

Ci fu un attimo di silenzio assoluto, durante il quale tutti si guardarono intorno spaesati. Johnny, sorretto da Ted, si avvicinò a Claire e Stephanie, che stavano faticosamente rimettendo in piedi Richard. Howard, a poca distanza da loro, stava fissando Keller privo di sensi ai suoi piedi.

«State tutti bene?» chiese Johnny.

«Sono stato peggio» disse Richard, mentre le due ragazze si limitarono ad annuire.

Nessuno si accorse di Mike che, barcollando ai limiti dell’equilibrio, si stava avvicinando al gruppetto. Fu Claire la prima a vederlo, ma prima che potesse dire qualunque cosa, Mike fece fuoco.

La pallottola ò accanto alla testa di Johnny, che ne sentì il sibilo. In quel

momento Mike ne vedeva almeno tre di Johnny e, fortunatamente, aveva mirato a quello sbagliato. Ted non aspettò le istruzioni di nessuno, si parò di fronte a Mike, noncurante della pistola pronta a sparare nuovamente. Prima colpì il braccio proteso, disarmandolo. La pistola scivolò sul pavimento tra i piedi di Stephanie, che si scansò con un gridolino, come se avesse visto un serpente. Poi, Ted calò il suo pugno poderoso come aveva fatto con George, ma non colpì Mike al collo, bensì in piena fronte. Mike si accasciò a terra, senza un solo lamento.

Johnny sorrise a Ted, complimentandosi con lui per l’ottimo lavoro. Howard, intanto, si era avvicinato a Richard, pronto ad usare la sua particolare capacità per guarirne le ferite. Erano tutti concentrati su Richard e non si avviderò di Keller che, silenziosamente, strisciò verso la pistola di George, la afferrò e la puntò su Johnny. Gli davano tutti le spalle, tutti tranne Richard che all’ultimo momento colse un movimento con gli occhi e capì quello che stava per succedere. Non sprecò tempo cercando di avvertire gli altri del pericolo, ma agì di puro istinto, caricando il peso sulle gambe malferme e dando una spallata a Johnny che finì a gambe levate nello stesso istante in cui la pistola di Geoge fece fuoco.

La pallottola ò nello spazio vuoto dove fino ad un secondo prima c’era Johnny e proseguì la sua corsa mortale attraversando il petto di Richard da parte a parte.

Keller urlò tutta la sua frustrazione e puntò nuovamente la pistola su Johnny, che si stava rialzando. Keller non riuscì a premere il grilletto, si udì un altro sparo e sul suo petto, all’altezza del cuore, comparve un minuscolo forellino dal quale iniziò ad uscire sangue.

In quella confusione totale, con Richard che ripiombava a terra per l’ennesima volta, probabilmente l’ultima della sua vita, Claire che gridava il suo nome e Ted che cercava di fare scudo a Johnny da tutto e da tutti, Stephanie aveva raccolto la

pistola di Mike e aveva sparato, uccidendo una volta per tutte il dottor Keller.

«Richard!» gridò ancora Claire. Stava cercando di girare il corpo del suo fidanzato, caduto a faccia in giù, ma era troppo pesante e lei troppo sconvolta. Johnny le si avvicinò e la aiutò.

Richard era ancora vigile, ma dalla bocca gli usciva un rivolo di sangue e il petto era una chiazza rossastra unica.

«Richard, Richard, Richard» Claire ripeteva ossessivamente il nome dell’uomo, che la guardava, con uno strano sorriso sulle labbra. Non riusciva a dire niente, ma Johnny sentì comunque tutto ciò che lui avrebbe voluto dirle.

L’ho salvato per te. Sii felice. Ti amo.

Erano questi i pensieri che si ripetevano nella mente dell’uomo morente, in un vortice sempre più veloce e confuso.

«Ti prego, Richard, no, nooooo» la “o” si trasformò in un lamento straziante, che dilaniò il cuore di Johnny.

Osservò Richard, che spostò gli occhi su di lui. Intercettò il suo pensiero.

Prenditene cura!

Johnny gli strinse una spalla, poi volse lo sguardo ad Howard. I due si guardarono senza dire niente per qualche secondo, poi Howard iniziò a scuotere la testa.

«Avanti Howard, vieni!» gli disse Johnny.

«No» rispose «No, Johnny, stavolta no».

«Howard, fallo!».

«E’ troppo tardi e tu sei ancora debole. Non posso, non voglio».

Johnny si rialzò e prese l’amico per le spalle.

«E’ finita Howie» gli disse «non ci saranno più inseguimenti, non ci saranno più nascondigli improvvisati, non ci sarà più l’incubo di Keller. Ma non voglio che un’altra persona debba pagare per noi, lo capisci?».

«Johnny morirai» gli disse Howard in un lamento.

Johnny si voltò a guardare Claire, che con il polpastrello del pollice stava togliendo il rivolo di sangue dalle labbra e dalla guancia di Richard.

«Forse no. E ne sarà comunque valsa la pena».

Howard distolse lo sguardo, gli occhi lucidi di pianto.

«Ti prego» disse ancora Johnny e Howard cedette.

Si mise in ginocchio accanto a Richard e protese le mani verso sul petto dell’uomo. Johnny gli si inginocchiò accanto e gli ò un braccio intorno al collo.

«Che cosa… cosa fate? Cosa…» fece Claire.

«Shh» le intimò Ted, prendendola delicatamente dalle spalle e obbligandola ad alzarsi. «Lasciali fare, dottoressa. Lo aiuta come ha aiutato me».

Claire era più confusa che mai. Accettò di buon grado l’abbraccio di Stephanie ed entrambe furono accolte tra le braccia di Ted. Rimasero così ad osservare e pregare.

Quando Richard chiuse infine gli occhi, reclinando la testa, Claire scoppiò in un pianto disperato.

arono diversi minuti, scanditi solo dai singhiozzi di Claire e dal respiro

sempre più affannato di Johnny.

«Ce la stiamo facendo» disse Howard, con tono stupito.

Johnny non parlò, rimase ad occhi chiusi, intento a non perdere i sensi. La sensazione che aveva già provato due volte, la prima con George e la seconda con Annabelle, era sempre più forte. Sentiva le forze che abbandonavano il corpo. Faceva fatica a respirare e la testa vorticava in modo insopportabile. Poteva sentire distintamente i battiti del suo cuore rallentare sempre di più.

«Ci siamo quasi, tieni duro Johnny».

Le parole di Howard gli giunsero da lontano, da un pianeta lontano e sconosciuto. Stava perdendo i sensi, se ne rendeva conto. Non si era mai soffermato su quell’espressione, “perdere i sensi”. Non aveva mai pensato a cosa potesse voler dire, fino a quel momento. Lui stava letteralmente perdendo i sensi. Sapeva che Howard stava ancora parlando, ma lo sentiva solo nella testa, le sue orecchie non percepivano alcun rumore, come il naso non sentiva più il misto di sudore, sangue e polvere da sparo che si era sparso in tutta la sala. Sapeva di avere ancora il braccio intorno al collo di Howard, ma non lo sentiva. A dire il vero, non sentiva più nessuna parte del suo corpo.

Percepì l’ultimo pensiero di Howard.

E’ fatta!

Con uno sforzo di cui non credeva di essere capace, aprì gli occhi. Tutto era confuso, sbiadito, sfocato. Lentamente voltò la testa verso l’ammasso che c’era poco distante da lui. Dovevano essere Ted, Stephanie e Claire.

«Oh mio dio, John» disse Claire sgomenta. Aveva visto i suoi occhi, due buchi neri attorniati da un mare di fuoco vermiglio.

Johnny non udì le sue parole, né le percepì nella sua testa. Ormai era andata persa anche quella, la sua straordinaria capacità era andata via per sempre.

Vide una sagoma lasciare il grosso ammasso, capì che era Claire che si stava avvicinando. Un braccio sfocato, una mano che non sentiva più, lo accarezzò sul viso.

Sorrise, e fu l’ultima cosa che Johnny fu in grado di fare.

Quando Richard rinvenne, si guardò intorno spaesato. Non capiva cosa fosse successo. Aveva un leggero mal di testa, ma per il resto si sentiva più che bene. Si sollevò su un gomito, chiedendosi come potesse riuscire a farlo con una ferita mortale quale quella che gli aveva inferto il dottore pazzo.

Vide tutte le persone presenti che gli davano le spalle e, finalmente, si rese conto del suono che lo aveva svegliato. Un pianto, un pianto straziante che conosceva molto bene.

Claire, cos’è successo.

Si rimise in piedi e si avvicinò al piccolo capannello. Nessuno ancora si accorse di lui, stavano tutti guardando qualcosa sul pavimento, tutti con le lacrime che rigavano i loro volti.

Al centro del capannello, c’era Claire, che piangeva, cullando dolcemente il corpo esanime di Johnny.

Allora era tutto vero, non se l’era immaginato. Poco prima di perdere i sensi aveva sentito qualcosa. Johnny gli aveva stretto la spalla e nella sua testa aveva sentito la sua voce, forte, autorevole.

No, tocca a te adesso prenderti cura di lei.

Entrò nel semicerchio formato dai presenti, e si accovacciò accanto a Claire, avvolgendola nel sua abbraccio.

Lo farò, Johnny. Lo farò!

Questo pensò mentre assecondava i movimenti della ragazza. Non le disse nulla, non cercò di fermarla. Per quanto doloroso potesse essere, finalmente Claire aveva modo di dire addio all’amore della sua vita. Se lo meritava e sarebbe stato su quel pavimento con lei, finchè lei avesse voluto.

EPILOGO

Cinque anni dopo le vicende della sera in cui Johnny morì, insieme al suo persecutore, Claire ottenne il posto di direttore della clinica Green Pine.

Howard Rushton, unico superstite della follia di Keller, entrò nell’organico della clinica. Non aveva un casa a cui tornare, né una persona che lo aspettasse. Chiese se poteva rimanere per un po’ nella clinica, scoprendo di avere un buon feeling con gli ospiti e, soprattutto, con Stephanie. Fu quest’ultima a spronarlo a prendere un titolo di studio che gli permettesse di entrare a pieno titolo nello staff della Green Pine. Lui e Stephanie iniziarono a frequentarsi poche settimane dopo quella sera maledetta, e andarono a convivere dopo qualche mese.

La Green Pine potè contare anche di un altro importante innesto. Ted Brenton, dopo aver ato anni immerso nella follia, che follia non era, aveva finalmente ottenuto lo status di “paziente guarito”. Tuttavia, non ne volle sapere di lasciare la struttura, mettendosi a piangere più volte davanti a Claire per poter rimanere. Fu così che Ted divenne una sorta di tuttofare nella struttura, occupandosi delle pulizie, spostamenti degli ospiti da una parte all’altra e “guardiano” durante le uscite. Era il ritratto della felicità.

Claire e Richard si sposarono sei mesi dopo quella sera e decisero di vivere nell’appartamento di Claire. Lei, il giorno del matrimonio, si presentò con un bellissimo vestito avorio, che ne esaltava la bellezza e le nascondeva abilmente il ventre pronunciato. Nessuno dei due, né alcuno di coloro che li conoscevano, avevano mai pensato che il loro fosse un matrimonio riparatore. Volevano sposarsi, esattamente come entrambi volevano un figlio.

Il giorno del parto, Richard sorprese Claire facendola commuovere e facendosi amare ancora più di quanto già lo amava, suggerendole di chiamare il bambino Johnny.

Era un bambino bellissimo e, con il are del tempo, ci si accorse che era anche molto intelligente. A tre anni, Claire lo iscrisse all’asilo e, in seguito, con il parere unanime delle maestre, gli fu consigliato di fargli iniziare la scuola primaria un anno prima.

Fu così che, all’inizio di un settembre insolitamente caldo, Claire parcheggiò l’auto davanti alla scuola primaria e spense il motore. Guardò Johnny come solo una mamma sa fare: un misto di amore, orgoglio e timore per quella nuova avventura che stava per iniziare.

Il piccolo Johnny le sorrise, si slacciò la cintura di sicurezza e si accinse a scendere.

«Aspetta tesoro» gli disse Claire.

Johnny ubbidì di buon grado, rimanendo seduto al fianco della mamma, anche se non vedeva l’ora di entrare in quell’edificio così grande e misterioso. Chissà quanti altri bambini avrebbe conosciuto e quante cose meravigliose avrebbe imparato.

«Ricordi quello che ti ho detto?» gli chiese Claire.

«Sì mamma» rispose «Devo ascoltare le maestre, devo mangiare il panino che mi hai fatto tu, senza prendere altro da nessuno».

«E se ti sentirai fuori posto?»

«Te lo dirò, mamma. Te lo prometto».

Claire lo osservò con attenzione, con il cuore colmo di amore. Era davvero il suo tesoro, il tesoro più grande e prezioso che potesse esistere.

Spero solo che gli altri bambini non ti prendano in giro, perché sei più piccolo, pensò Claire mentre si allungava a posargli un dolce bacio sulla guancia.

Johnny sorrise, si allungò verso la maniglia della portiera e scese dall’auto. Fece il giro della macchina, e Claire lo vide mettere i piedini sulle strisce pedonali e guardare da un lato all’altro della strada. Poi, parve avere un ripensamento e tornò accanto all’auto, dalla parte di Claire.

«Cosa c’è, amore? Hai paura?» gli chiese.

«No, mamma» rispose. «Volevo solo dirti che non devi preoccuparti. Gli altri bambini non mi prenderanno in giro. Sono alto io!».

Ciò detto, il piccolo Johnny si avviò sulle strisce, attraversò la strada e sparì dentro il grande cancello della scuola.

Claire rimase a fissare il cancello per qualche tempo, in attesa che il cuore decidesse di tornare ad un ritmo accettabile.

Probabilmente era solo una coincidenza, il piccolo Johnny era un bambino molto sveglio e non c’era da stupirsi se avesse intuito quale era la preoccupazione della mamma.

Fece un respiro profondo e riuscì a calmarsi. Sicuramente era andata così, non c’erano altre spiegazioni, non per lei, nessuna che volesse prendere in considerazione.

Era solo un bambino, un bambino bello, forte e sereno. Non c’era motivo per pensare che, oltre agli occhi, avesse ereditato anche quella orribile capacità dal padre.

FINE