Summer seven
Il Mondo dello Scrittore Summer Seven
Autori: Autori Vari.
Curatori: Irma Panova Maino, Andrea Leonelli, Elisabetta Bagli, Sauro Nieddu
Tutti i diritti sono riservati ai rispettivi autori
© Copyright 2014 7 giorni di Follie
ISBN: 9781311291219
Published by Il mondo dello Scrittore at Smashwords
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Immagine di copertina:
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Prefazione
Sogno di una notte di mezza estate, questo era il titolo di una famosa commedia che Shakespeare ha scritto per il teatro e nessuno è mai andato così vicino a ciò che davvero rappresenta l’estate per l’essere umano: il sogno. Ed è proprio in questa stagione che alcuni sogni, che altro non sono che la proiezione di noi stessi, sono più liberi di viaggiare lungo la nostra mente, il nostro animo, il nostro corpo. Il sogno inteso come la realizzazione di qualcosa di anelato, desiderato, proibito, di qualcosa il cui avverarsi ci sorprende e ci rende addirittura più coscienti e consapevoli di dove possiamo arrivare. Il sogno rappresenta il nostro destino che, spesso inconsapevolmente, costruiamo con le nostre mani. Il ponte che collega l’onirico con il reale, tessendo quei sottili fili che costituiscono le trame della nostra vita. In estate, la brezza marina, i ruscelli sulle montagne, la natura rigogliosa e assolata, assetata di vita ci dona gli elementi giusti per far sì che possiamo ricordare questa stagione durante il corso delle altre tre. E come scriveva Emily Dickinson: “Fai che per te io sia l’estate anche quando saran fuggiti i giorni estivi”, noi de Il Mondo dello Scrittore abbiamo deciso, tramite il nostro 7 giorni di follie, di dare vita scritta ai sogni estivi dei nostri membri, offrendo loro uno spazio in cui possano concretizzare un’arte che prende vita con le parole. Dunque se è l’estate a fare da accumulatore di energie, è il resto dell’anno a condurre le danze, portando gli autori fra le nostre pagine, spronati a dare il meglio di se stessi attraverso i temi che proponiamo loro ogni mese. Temi che riescono a stuzzicare la loro fantasia e creatività. Noi li chiamiamo affettuosamente “Portatori di Penna”, ovvero coloro che portano nel futuro un lascito per i posteri, per tutti coloro che rivivranno le nostre stesse estati e le nostre stesse emozioni trasformando i nostri sogni nei loro. Scrittori e Poeti che ereditano il testimone dal ato e lo fanno transitare in un domani che ancora vedrà le loro parole stampate in modo indelebile nel web, attraverso lo spazio offerto dal blog e, non ultimo, il nostro Summer Seven, il quale raccoglie quanto è stato prodotto da settembre 2013 a giugno 2014. L’ebook non è soltanto lo strumento digitale con il quale è stato unificato tutto il materiale presente nel blog, ma diventa la prova tangibile di quanto quei sogni siano diventati realtà per taluni e conferme per altri. Dunque non solo sogni da vivere in una lunga estate, ma una lunga estate che dura tutta la vita.
Lasciatevi trascinare dal nostro vortice di emozioni, dallo sfavillare dei colori e dall’intensità con la quale i nostri autori hanno lasciato traccia di sé fra queste pagine. Buona lettura!
Sommario Dietro la maschera La considerazione degli altri di Anna Cibotti Maschere infernali di Ramona di Ventura Aria rossa di Allie Walker Sfumature di Irma Panova Maino Occhi scuri dietro la maschera di Lila Marinelli Dietro la maschera di Sebastiano Impalà Non chiedermelo di Sabrina Grementieri Sono quel che sono di Christiana V Ballo in maschera di Allie Walker Tratto dall’incipit “Claudia” di Allie Walker Ridi pagliaccio di Allie Walker Sono ma non sono di Rossana Lozzio Ti conosco, Mascherina di Ramona di Ventura Maschere: Immersioni antiche, mistagogiche e incoscienti di Sofia Skleida E un solo pianto serba nello scrigno di Oliviero Angelo Fuina Maite (estratto dal 9º cap. di “14 Piani”) di Elisabetta Bagli Dietro la maschera di Nicoletta Berliri Cos’hai? Di Sebastiano Impalà
Oggi è già domani di Allie Walker Il falso e il vero di Ramona Di Ventura
Corde intrecciate Corde intrecciate di Sebastiano Impalà Corde, l’esordio di Allie Walker Nodi su nodi di Rossana Lozzio Destino di Lila Marinelli E’ il mio corpo che offro ai tuoi sensi (da: “Vocali in apnea”) di Oliviero Angelo Fuina La tela di Irma Panova Maino I giorni di sole di Andrea Leonelli La Dea Sirena. Il canto dei destini… Alternativi di Anna Ciraci E mi distolgo con fili d’inchiostro (da: “Cieli di carta”) di Oliviero Angelo Fuina Il cuore legato di Antonella Mattei Intrecci di Irma Panova Maino Note nella notte di Anna Cibotti All’improvviso tra di loro scese il gelo di Lila Marinelli Il legame per la vita di Rossana Lozzio Lato B di Oliviero Angelo Fuina Legami d’amore di Allie Walker
L’albero di corda di Oliviero Angelo Fuina Vite di porcellana di Ramona Di Ventura Corde sperdute di Anna Ciraci Piove di Lila Marinelli Il fiore in tasca di Lila Marinelli Un chiaro caso di suicidio di Ramona Di Ventura Corde Intrecciate di Sofia Skleida Liberatemi di Christiana V Esami di Nicoletta Berliri Matrioska di Oliviero Angelo Fuina
Il calore della notte Anche se muore una stella di Oliviero Angelo Fuina C’è sempre qualcuno che… di Anna Cibotti E’ notte di Rossana Roxie Lozzio Il 1993 seconda parte (da “Autobiografia Uno”) di Roberta Gelsomino Il Calore della notte di Irma Panova Maino Il calore della notte di Lila Marinelli Il gelo delle attese di Christiana V Immensità di Sofia Skleida L’adorazione dei pastori di Andrea Tavernati
La coperta dell’anima di Sebastiano Impalà La luna, il mare di Allie Walker La notte di Allie Walker La porta di Sabrina Grementieri Le cose della notte di Rossella Gallucci Loro, che poi siamo noi di Ramona Dandy Di Ventura Morpheus di Antonella Mattei Keiko Nel calore di Andrea Leonelli Non v’è calore nell’incertezza di Anna Ciraci Notte povera, povera notte di Nicoletta Berliri Notte sulla Senna di Pablo Cazzulani Parole di Luna di Irisfairy Ricordi frammentati di Giuliana Guzzon Self pleasure di Allie Walker Solo un’altra notte di Giuliana Guzzon Sono un vampiro di Giuliana Guzzon Una notte di Allie Walker
Ippolita: storie di donna Presunte storie di Giuliana Guzzon Quel fuoco per noi di Claudia Lo Blundo
Ferite di Guerra di Ramona Di Ventura Occhi di Luna di Ramona Di Ventura Fuoco Terra Aria Acqua di Castellani Fabrizio Stella XX di Roby Gelsomino Tratto da “Il peccato di Rennahel” di Irma Panova Maino Lettera ad un’amica – tratto da “Le confessioni di Eva” di Allie Walker Frenetiche apparenze di Sebastiano Impalà Il gorgo dei ricordi di Antonella Mattei Come Luna di Oliviero Angelo Fuina Patrizia di Anna Cibotti Gruyère, tratto da “Pitture parietali per una stanza tristemente vuota” di Nicoletta Berliri Io le vedo le donne di Andrea Leonelli Donna e bambina, per amore di Rossana Lozzio La fine di Irma Panova Maino Εnergia Universale (Inno alla natura-Donna) di Sofia Skleida
Il foglio bianco Tabula rasa di Sofia Skleida Condominio, scarafaggi e primavera di sca La Froscia Attesa di Ramona Dandy Di Ventura
Uno scrittore in crisi di Sauro Nieddu A volte, meglio qualcuna in meno di Fabrizio Castellani Imprinting di Andrea Tavernati Ci sono pagine bianche in ogni ato di Anna Ciraci Dov’è il mio spazio di Claudia Lo Blundo Anywhere di Pablo Cazzulani I ricordi che contano di Sabrina Guaragno Sudario del Giorno e della Notte di Sauro Nieddu e Giuliana Guzzon Incidente di Nicoletta Berliri Pagina 28 di Anna Cibotti Aveva i nomi in punta d’inchiostro di Oliviero Angelo Fuina Caro papà di Rossella Gallucci Direttamente dal diario delle mie prigioni di Allie Walker Quel nome! E le Sue capriole! di Paola Marchi Un bacio scarlatto di Antonella Mattei Keiko Pelle come carta di Allie Walker La penna di Sebastiano Impalà Stupido foglio di Stella JoLì Le parole che mai ti ho detto di Anna Ciraci Il mio mondo di Rossana Roxie Lozzio Più bianco di così! Di Anna Cibotti
Il bianco è peggio del destino di Allie Walker
Realtà parallele Alice che guarda la luna di Anita Rudcliff All’imbrunire di Massimo Licari Alla ricerca di Fran di Fabrizio Castellani Anywhere di Pablo Cazzulani (parte seconda) Cappio: una fine e un inizio di Sauro Nieddu Cristoforo di Annarita Petrino C’era una volta la follia di Allie Walker Deus ex machina di Claudia Lo Blundo Disconnesso di Anita Rudcliff Ero come te di Irma Panova Maino Esisto in quanto quanto di Andrea Leonelli Il bivio di Rossella Gallucci Il nulla fatto materia, impalpabilmente di Andrea Leonelli Il riflesso del mondo di Anna Ciraci L’altro (d)io di Stella JoLì L’importanza dei legami di sangue di Anita Rudcliff La realtà è ciò che si vede? Di Anna Ciraci La scelta è il mio destino di Anna Cibotti
Lo specchio delle brame di Christiana V Lucky Strike! Di Sauro Nieddu L’infinito si moltiplica di Andrea Leonelli Non sento di sca La Froscia Occhi blu di Massimo Licari Ore di silenzio di Sofia Skleida aggio tratto da I film di Melissa - serie 1: Avventure virtuali- ”E di colpo” di Roberta Gelsomino Quantanoia di Andrea Marinucci Foa Quel maledetto pomeriggio di svolta di Rossana Roxie Lozzio Roaming di Andrea Marinucci Foa Sono un leader mondiale di Allie Walker Uno e due. Una, due e più… di sca La Froscia Villa Boccaccini di Irma Panova Maino Vivo di riflesso di Allie Walker
Nascosto nei sogni Nascosto nei sogni di Annarita Petrino J. di Sabrina Guaragno Come d’ovatta di Anita Rudcliff Ho perso l’anima di Anna Ciraci
La signorina Zenobia di Claudia Lo Blundo La luna sensibile di Anna Avallone Indigestione di Andrea Marinucci Foa Il sogno di Nina di Manuela Leoni Il sogno di Max di Fabrizio Castellani La Luna dei Sogni di Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni Oltre l’orizzonte di Anna Maria Palazzi Il sogno di Andrea Masotti Vivo tra le mura di una casa, tra le crepe di un esistere insistente di Allie Walker Alter Ego di Sofia Skleida La luna. Me. La primavera di Allie Walker Amo un poeta sciocco di Allie Walker Armonici equilibri di Allie Walker Sogno ad occhi aperti di Rossana Roxie Lozzio Resta sempre qualcosa da sognare di Fabrizio Castellani Il sogno più bello di Antonella Mattei Keiko Il sogno di Massimo Licari Amore disinvolto di sca La Froscia Ballata in minore di Jill Parker L’incubo di Piero di Anna Cibotti L’ospite inatteso di Andrea Masotti
Sogno (da “Penombre”) di Andrea Leonelli Imploso in assenze interiori di Andrea Leonelli Il nulla di Irma Panova Maino I sognatori di Sebastiano Impalà Ansia di Sauro Nieddu
Ade Minosse di Annarita Petrino New gods di Fabrizio Castellani Come il padre vostro di Giuliana Guzzon Tra le creature di Ade di sca La Froscia I sogni di gloria di Caronte di Anita Rudcliff Io Persefone Tu Ade di Claudia Lo Blundo Euridice di Andrea Tavernati Il tristo dio di Barbara Risoli Desco fatale di Anna Cibotti Interpretazioni altalenanti di Anna Ciraci Ade-lirio di Andrea Marinucci Foa Ade-lizioso di Manuela Leoni Ho traghettato alla vita le anime dei morti di Angela Intruglio Lina Ade-pressione di Andrea Marinucci Foa
Prima che… Ade di Anna Cibotti Ade 15 di Andrea Marinucci Foa Underground station di Andrea Masotti Non ancora di Antonella Mattei Keiko Aspettando Persefone di Sauro Nieddu All’apparenza solo un bacio di Allie Walker Il vecchio di Massimo Licari Profumi nella notte di Allie Walker Un viaggio sulla Terra di Sauro Nieddu e sca La Froscia Ade-scamento (dedicata ad Andrea e a Seenia) di Sauro Nieddu La mia eternità di Irma Panova Maino L’Ade in me di Andrea Leonelli
Summer Dreams Pirati di Nicoletta Berliri Il sogno in una conchiglia di Daniela Cavone Un bel sogno d’estate da raccontare di Anna Ciraci Brindisi di mezzanotte di Sofia Skleida Il sussurro dei sogni di Anna Ciraci Sogno di una notte di mezz'estate di Allie Walker Voce - alla ricerca dell'anello perduto di Elisabetta Bagli
Effimera estate di Sebastiano Impalà Quasi di Oliviero Angelo Fuina La poesia nascosta di Oliviero Angelo Fuina E' estate tutto l'anno di Rossana Lozzio Note di sogno di Manuela Leoni Fall-Out di Fabrizio Castellani Proprio io ho sparato di Andrea Leonelli L'artigiano dei Sogni di Jill Parker Dietro alle palpebre chiuse di Irma Panova Maino Louis Gitanes e il Signore dei Sogni di Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni Ricorrente sogno estivo di Annarita Petrino Scherzi d’una mente arroventata di Anna Ciraci Cala dei pirati di Claudia Lo Blundo Giarletta Il colore dell'oro di Andrea Masotti La cucciolata di Caretta... e Paso di Sauro Nieddu e sca La Froscia Una macchia di colore Anna Cibotti D’Estate nasce il Sogno di Maruska Creanza La voce delle stelle di Andrea Masotti Come un'estate fa di Rossella Gallucci L’isola Misteriosa di Rossella Gallucci
Schede autore Biografia di Allie Walker Biografia di Andrea Leonelli Biografia di Andrea Marinucci Foa Biografia di Andrea Masotti Biografia di Andrea Tavernati Biografia di Angela Lina Intruglio Biografia di Anita Rudcliff Biografia di Anna Avallone Biografia di Anna Cibotti Biografia di Anna Ciraci Biografia di Anna Maria Palazzi Biografia di Annarita Petrino Biografia di Antonella Mattei Biografia di Barbara Risoli Biografia di Claudia Lo Blundo Biografia di Cristiana Verazzo Biografia di Daniela Cavone Biografia di Elisabetta Bagli Biografia di Fabrizio Castellani Biografia di sca La Froscia
Biografia di Giancarlo Ibba Biografia di Giuliana Guzzon Biografia di Irma Panova Maino Biografia di Jill Parker Biografia di Lila Marinelli Biografia di Manuela Leoni Biografia di Maruska Creanza Biografia di Massimo Licari Biografia di Nicoletta Berliri Biografia di Oliviero Angelo Fuina Biografia di Pablo Cazzulani Biografia di Paola Marchi Biografia di Ramona Dandy di Ventura Biografia di Roberta Gelsomino Biografia di Rossana Lozzio Biografia di Rossella Gallucci Biografia di Sabrina Grementieri Biografia di Sabrina Guaragno Biografia di Sauro Nieddu Biografia di Sebastiano Impalà Biografia di Sofia Skleida
Biografia di Stella JoLì
Dietro la maschera
E’ finalmente ricominciata la nostra avventura settimanale di 7 giorni di follie. L’argomento della settimana appena trascorsa è stato Dietro la maschera e ha dato, ai nostri partecipanti, l’opportunità di sbizzarrirsi in un campo tutt’altro che semplice. La maschera è stata intesa come modello abituale di comportamento per taluni, oppure come arma di difesa per altri. Una maschera che, prima o poi, tutti ci troviamo costretti ad indossare nella vita dato che, purtroppo, non è sempre facile comportarsi in modo spontaneo o naturale. Ci sono situazioni che ci impongono di essere diversi da come siamo, o più semplicemente non sempre riusciamo ad accettarci ed ecco che vengono fuori sfumature comportamentali diverse rispetto ai nostri usuali canoni. Questi concetti ci vengono egregiamente espressi nei pezzi della settimana, dalla bravissima Ramona Dandy Di Ventura, Nicoletta Berliri, Elisabetta Bagli, Sofia Skleida, Sabrina Grementieri, Oliviero Angelo Fuina, Rossana Roxie Lozzio, Irma Panova Maino, Lila Marinelli, Sebastiano Impalà, Anna Cibotti, Allie Walker e Christiana V. Come partenza è stata più che gratificante e la partecipazione numerosa dei nostri scrittori e poeti ci invoglia a proporvi sempre cose nuove e migliori. Pertanto, non mancate ai nostri prossimi appuntamenti che comprenderanno argomenti sempre nuovi e diversi, ma con lo stesso spirito di gruppo che, da sempre, ci anima.
La considerazione degli altri di Anna Cibotti
L’uomo rientrò a casa. Al peso degli abiti bagnati dalla pioggia, si aggiunse quello che si portava dentro da troppo tempo. La croce interiore quotidiana della sua consapevole nullità. La solitudine dell’uomo invisibile. La sua inettitudine e il suo aspetto dimesso, lo condannavano a un isolamento che lui stesso per primo, contribuiva a crearsi intorno. Per gli altri non esisteva e lui anelava la loro considerazione. Seduto sul letto disfatto si chiese come fare… Qualche goccia di pioggia colando dai capelli si confuse con le lacrime che non riuscì a trattenere, e rimase fermo a fissare qualcosa davanti a sé. Era lì, appesa a un chiodo che non aveva vinto la resistenza del muro rimanendo instabile, ma sufficientemente fisso a sostenerla. Era una maschera di legno scolpita ad arte. Rappresentava il viso marcato e fiero di un indiano pellerossa, solitario ospite sulla parete bianca di fronte al letto. L’uomo continuava a fissarla come ipnotizzato fino a che non la sentì diventare tutt’uno con la sua faccia. Ora i suoi piccoli occhi porcini e sfuggenti avevano un taglio deciso e uno sguardo penetrante. Il naso aquilino, la bocca e il mento volitivi dell’indiano, coprivano i suoi flaccidi lineamenti. E lui si vide allo specchio un altro uomo. L’effetto maschera lo rese più sicuro e da quella sera non camminò più ingobbito e goffo, ma assunse una fierezza di portamento che gli altri non poterono non notare. Ormai la sua faccia era quella… la sua maschera perfetta. Ma un giorno l’incubo più terribile frantumò il suo sogno. Vide nella faccia di un altro, la sua adorata maschera.
Tornò a casa disperato e si guardò allo specchio. Si rivide l’ometto di una volta, alzò lo sguardo verso la sua icona… ma al suo posto c’era rimasto solo un chiodo arrugginito. Corse fuori di casa. Cercava l’uomo che gliela aveva rubata. Pioveva a dirotto e lui sentiva delle voci confuse che lo infastidivano. Lo vide da lontano e cominciò a gridare. Lo raggiunse alle spalle. L’altro si voltò appena in tempo per essere colpito e buttato a terra. “Dammi la maschera… è mia!” Prese una pietra e gli sfondò la fronte. Farneticava e tentava di togliergli la pelle, inutilmente. Poi di colpo si fermò. Quello che vide lo riempì di orrore. Davanti a lui c’era una maschera sì… una poltiglia di carne e sangue, non la sua! Una calma improvvisa gli distese i nervi. Finalmente aveva fatto qualcosa per cui sarebbe stato considerato. Un ante accorso per soccorrere l’infelice a terra, lui non lo vide nemmeno. Vide una marea di gente, non un uomo solo, e lui in mezzo a loro con la sua bella faccia importante. Una voce cominciò a sussurrargli all’orecchio parole stridule e indistinte. “Silenzio” mormorò fra sé e sé… “Ascolta la pioggia!”
Maschere infernali di Ramona di Ventura
Venezia, XVIII secolo La preziosa gondola laccata si staccò dolcemente dal pontile e prese a fendere le scure acque del canale. Il pungente odore salmastro e la folla rumoreggiante, che affollava le calli della città, riempivano l’aria mattutina di quella particolare giornata di festa. “Allora Fiammetta, è già pronto il tuo costume per la festa di questa sera?” Una giovane fanciulla dai lineamenti delicati distolse lo sguardo dal cielo azzurro e si voltò verso la sua compagna. I lunghi capelli d’oro, raccolti in una massa di riccioli, ondeggiarono sulle sue spalle, ammantate di ricco velluto verde. Le perle che ornavano il suo costoso corpetto scintillarono, colpite dal pallido sole di marzo. “Certo, Verenia, che domande! Sarà il costume più bello di tutta la festa, vedrai. Mia madre lo ha fatto fabbricare dai migliori sarti della città.” Verenia sorrise maliziosa, gli occhi scuri come ossidiana fissi sulla giovane. “Te lo chiedo per una buona ragione, mia cara amica.” Fiammetta inarcò le eleganti sopracciglia, incuriosita. “E sarebbe?” “Qualcuno mi ha domandato come potrà riconoscerti tra la folla. Qualcuno di molto affascinante.” Gli occhi di Fiammetta brillarono come due zaffiri. Sapeva di chi stavano parlando e il suo cuore prese a battere, un piccolo tamburello impazzito. “Oh sì, hai capito bene mia cara. Proprio lui, Alfonso, il figlio del Doge. Vedessi com’era impaziente di sapere qualcosa in più! Credo che voglia approfittare della confusione per corteggiarti senza suscitare pettegolezzi velenosi.”
La fanciulla arrossì. Alfonso era fidanzato con una ricca ereditiera veneziana ma, ogni volta che incrociava Fiammetta, le lanciava sguardi ardenti e molto espliciti. In città le malelingue mormoravano già da un po’ e i suoi genitori facevano l’impossibile per evitare che i due si incontrassero anche solo di sfuggita. Quella sera, però, non avrebbero potuto riconoscerlo. Infatti, erano giorni di festa per Venezia. Aveva inizio il Carnevale e l’apertura era affidata ad una grande festa nelle piazze e nelle strade della città. Per legge era proibito mascherarsi di notte, ma la prima sera si faceva un’eccezione e i gendarmi chiudevano un occhio per ordine del Doge in persona. Dunque era l’occasione per fetta per incontrare Alfonso. Era così bello ed elegante! “Parli del diavolo…” sussurrò Verenia, alzando il viso verso il ponte di Rialto. Un gruppetto di ragazzi era appoggiato al parapetto e guardava le gondole are nel canale sottostante. Tra di essi spiccava un giovane riccamente vestito, dal portamento altero e i lineamenti finemente scolpiti. I suoi occhi verdi come il mare erano fissi su Fiammetta. La fanciulla si sentì come se le avessero un fuoco nel petto. Alfonso le rivolse un elegante cenno di saluto con la testa e un sorriso che tutto era tranne che innocente. “Avrò una maschera di pizzo bianco ornata di perle, un vestito bianco e oro e un ventaglio di piume. I miei capelli saranno intrecciati di nastri rossi e splendenti come il mio nome. Riferisciglielo Verenia.” L’amica annuì, un sorriso sardonico celato dietro il ventaglio.
L’aria fresca della sera portava la musica e le risate della festa fino al cielo stellato. Giocolieri e mangiafuoco erano appostati in ogni angolo, ogni calle era adornata di festoni di seta colorati e luminosi, petali di fiori profumati ricoprivano il suolo, emanando dolci fragranze che quasi nascondevano l’odore forte dell’acqua dei canali. Ovunque, nella meravigliosa città lagunare, maschere di ogni tipo ballavano, ridevano, spettegolavano e eggiavano, salutandosi senza riconoscersi. Mantelli di velluto ricamati frusciavano sfiorando il suolo, gonne di seta tempestate di pietre preziose scintillavano ad ogni svolazzo, copri capi di piume e lustrini fluttuavano leggeri attorno a lucide maschere di raso, di pizzo, di stoffa. Ogni maschera era diversa, ma allo stesso tempo uguale alle altre. Ogni
maschera celava il vero volto di chi la indossava e annullava l’identità di ognuno. C’erano uomini vestiti da donne e donne vestite da uomini. C’erano poveri vestiti da ricchi, giovani vestiti da vecchi, brutti vestiti da belli. C’erano buoni rintanati dietro maschere tetre e spaventose e malvagi appostati dietro maschere dolci e candide. Tutti erano tutti e tutti erano nessuno. Tutti erano ciò che non erano e non sarebbero mai stati. Per quella notte potevano fingersi diversi. Per una notte potevano fare ciò che più li spaventava o che più li attraeva. Per una notte sarebbero stati invincibili, dietro quel sottile strato di tessuto che li allontanava o li avvicinava alla realtà. Per una notte potevano essere profondamente loro stessi: ciò che non avevano il coraggio di essere senza quella maschera. Per assurdo, erano più onesti così che senza il loro travestimento. Fiammetta era stupenda con la mascherina che copriva solo i suoi occhi, mentre il ventaglio vezzoso celava il resto del suo grazioso viso. eggiava con Verenia per Piazza San Marco, procedendo a fatica, tanta era la folla. “Eccolo, Fiammetta! È lui! Quello con la maschera nera” Lo vide e il suo cuore si fermò. Era tutto vestito di nero, con un largo mantello che lo avvolgeva dolcemente. La maschera copriva la metà superiore del suo volto e il cappello dall’ampia tesa ornato di piume nascondeva la sua chioma castana. I suoi occhi, però, più verdi che mai, lo rendevano perfettamente riconoscibile. Le fece un inchino, indugiò sul suo viso un attimo di troppo, poi si voltò e si avviò tra la folla. “Forza, seguilo!” Verenia le diede un colpetto. Fiammetta esitò, poi prese coraggio. Senza perdere di vista quella macchia scura tra i mille colori dell’immensa tavolozza che era la piazza, lo seguì, mentre si immetteva in un vicolo illuminato e festoso. Ogni tanto, Alfonso si voltava per sincerarsi della sua presenza, sorrideva e proseguiva, per strade sempre più strette, meno affollate e più buie. Fiammetta non se ne accorse, tanto era presa dall’eccitazione di poter stare finalmente sola con lui. Alfonso svoltò ancora una volta e Fiammetta lo seguì. Si ritrovò in una strettoia buia e silenziosa. Le luci e i rumori della festa erano lontani e quasi inudibili. Di Alfonso nessuna traccia. La strettoia finiva con un muro e un piccolo spiazzo. Dove era finito lui? Fiammetta aveva forse sbagliato svolta? Si voltò per tornare indietro ma un corpo le si parò davanti e le sbarrò la strada.
Nonostante la luce scarsa, la giovane si accorse che non era Alfonso. Il losco figuro era, sì, vestito di nero, ma i suoi occhi non brillavano come il mare. Erano scuri, come la pece. Spaventata, Fiammetta si voltò di nuovo e fu immobilizzata da un altro uomo, anche lui di nero vestito, anche lui con una maschera sul viso. Nemmeno lui, però, era Alfonso. I suoi occhi erano freddi e chiari come ghiaccio. Basse risate le giunsero alle orecchie da ogni direzione. Alla fioca luce di una lanterna apparsa dal nulla, Fiammetta vide altre figure nere disposte in cerchio attorno a lei, ognuna con un ghigno malvagio sul volto. “Finalmente sei mia, dolce Fiammetta.” La voce suadente e calda era alle sue spalle. La giovane si voltò e li vide. Quegli occhi che tanto l’avevano fatta ardere e arrossire. Quegli occhi che le erano sembrati tanto buoni, ora rivelavano tutta la loro malvagità. Contornati dal nero della maschera, sembravano uscire dal buio nella notte, più simili a braci infernali che a stelle lucenti. Quegli occhi e gli occhi degli altri furono le uniche cose che Fiammetta riuscì a vedere da quel momento in poi. Gli uomini ammantati di nero si avventarono su di lei come corvi su una carcassa. A turno le strapparono il ricco vestito, le scarmigliarono i preziosi capelli, le violarono il candido corpo finché non fu coperto di lividi, graffi e sangue. A turno le tappavano la bocca per impedirle di urlare e chiedere aiuto. Se anche lo avesse fatto nessuno l’avrebbe udita. Erano tutti alla festa. Fiammetta era sola. Risero come satiri impazziti, grugnirono come cinghiali e la violarono senza pietà. Quando furono finalmente soddisfatti, la lasciarono nel vicolo, al buio, insanguinata e con le vesti a brandelli. La sua mascherina giaceva a terra, sporca e strappata. Fiammetta respirava a fatica, frantumata, spezzata, straziata. Lacrime calde le scendevano dagli occhi e bagnavano il selciato. Protetta dalla sua ingenuità, non avrebbe mai immaginato quanto male poteva nascondersi dietro bellezza ed eleganza. Aveva pagato a caro prezzo quella sua innocenza e ne avrebbe portato i segni per sempre. Aveva imparato che nulla è come appare, che dietro il bello c’è spesso il marcio. Se voleva sopravvivere doveva adattarsi e nascondere la fragilità e il dolore dietro una maschera di freddezza e imperturbabilità. Se voleva che nessuno si prendesse più gioco di lei, doveva essere lei a giocare d‘anticipo. Doveva prendersi ciò che voleva senza chiedere il permesso, come quei balordi avevano fatto col suo corpo. Aveva riconosciuto ognuno dei suoi carnefici e avrebbe reclamato vendetta, senza alcuna pietà. Non era più la Fiammetta innocente che era entrata in quel vicolo, ma nessuno doveva saperlo. Giurò a se stessa che nessuno avrebbe mai visto il suo vero volto. Nessuno le avrebbe mai più tolto la maschera.
Il ventaglio di piume giaceva lontano, una bianca colomba macchiata di sangue.
Aria rossa di Allie Walker
Il mattino era arrivato prima di quanto pensasse, i suoi occhi si aprirono a fatica e si persero nella luce della camera, toni caldi, tanto da smarrirsi, gettavano sangue sul pavimento e alle pareti in turbini ammalianti fino a riempire la stanza di un velo porpora. La notte era stata frenetica e gli eventi avevano preso una piega che non si aspettava ma, per quanto inaspettati, degni di attenzione. La sera prima ebbe appena il tempo di gettare i vestiti, prima di affondare in quel letto in compagnia di una donna appena conosciuta, senza la possibilità di chiudere le tende. Lei dormiva ancora, accanto a lui, il ritmo costante del suo respiro indicava che era ancora impantanata nel sonno e ne avrebbe avuto per un bel po’. Non ebbe il coraggio di svegliarla, ne aveva appena per continuare la sua strada arrancando verso la coscienza e il calore del giorno. Fece scivolare il piumino dal corpo con riluttanza e si alzò. La camera era fredda, alcuni brividi scivolarono sulla pelle, fino al membro che, come al solito, si presentava nella sua fierezza, turgido ed eretto. Rinunciò a prestargli attenzione incuriosito dalla luce che entrava dalla finestra e ovviamente, per lui, la curiosità correva sempre davanti alle sue strette necessità. Forse perché non era nel suo solito ambiente, non era la sua camera e il suo letto, o forse perché quella donna era al posto di qualcuna che poneva il suo primario interesse verso i bambini piuttosto che al sesso. Riuscì a fatica a mettere un o dietro l’altro e si piazzò con le mani appoggiato al davanzale. Guardò oltre il vetro. Rimase alla finestra per un tempo indefinito e, nonostante l’ocra dell’alba si stesse affacciando in un nuovo scenario, una figura comparve contro lo scarlatto dell’aria. Fuori da quella stanza le colline toscane erano un bagno di sangue, il casolare e le costruzioni adiacenti dipinti sanguigni, marroni e verdi sporcavano il rosso, il cielo era devastante e lei… la sua figura in un manto magnifico. Nonostante il volto nascosto da una maschera senza espressione e quel poco di chiarezza mentale dopo una serata di bagordi tra alcool e marijuana, la riconobbe, inconfondibili gli occhi che lo stavano fissando. Pensò di sentire anche la sua voce, un suono ammaliante e una melodia conosciuta, un canto che spesso aleggiava nell’aria quando era nella sua casa, una nenia al pari di una ninna nanna. Si guardò alle spalle, guardò il modo in cui la luce si fondeva con l’oro dei capelli della donna nel letto, rendendoli più caldi. Sembrava innaturale,
tutto era innaturale, anche la sua presenza in quel posto. Tornò a guardare fuori e, mentre la figura della donna si dissolveva contro il cielo di sangue, il sole si scrollò ed entrò a comandare. Tutta la tavolozza dei colori tornò alla normalità, il rosso drenato completamente dal cielo. Aveva ato gran parte della sua vita a rafforzare le sue convinzioni, esaminando le strutture e il contesto in cui si trovava, ogni volta, e faceva in modo di trovarsi sempre su una base solida e consona alla sua vita sociale, padre amorevole e marito adorabile. Stavolta, nonostante sotto i suoi piedi avesse solidi mattoni, sentì come se stesse scivolando nella sabbia erosa dal mare.
Sfumature di Irma Panova Maino
Conosco l’animo umano, lo percepisco sull’epidermide come una sottile corrente che mi sfiora la pelle, trasmettendomi gli stati emotivi che provano le persone. Sono empatica e vivo questa mia dote a volte come una maledizione, assorbendo dall’ambiente che mi circonda le energie emanate, siano esse positive o negative cedendo, a mia volta, forze così faticosamente racimolate. Non riesco nemmeno a nascondermi dalle sollecitazioni, non riesco a porre quegli scudi che mi porrebbero al riparo dalla follia e dalla cattiveria umana, riesco solo a lasciare che tutto mi attraversi, restando talvolta inerme di fronte all’intensità delle altrui emozioni. E vi sono stati dei momenti nella mia vita, probabilmente ve ne saranno ancora, in cui le percezioni hanno sommerso il mio stesso essere, facendomi vivere l’esistenza altrui quasi come se fosse stata la mia. Istanti terribili in cui due mondi sono entrati in collisione lasciandomi sfinita e spossata, totalmente depredata di quelle energie che avrebbero dovuto essere solo mie. Tuttavia un altro dono mi è spesso venuto in aiuto, una particolare predisposizione con la quale sono nata e che ho compreso solo in età adulta, ma che ora utilizzo di sovente, specialmente i quei casi in cui nulla sembra essere reale e tutto viene celato sotto strati e strati di artifici ben confezionati. Sono una superficie riflettente sopra la quale si specchiano i volti di coloro che guardano, vedendo finalmente se stessi per ciò che realmente sono. Sono la verità degli animi esposti, senza orpelli né finzioni. Sono ciò che la loro mente razionale nega di essere, tentando di nascondere le proprie bassezze e meschinità nei più remoti recessi. Sono l’essenza del loro essere veri al di là di qualsiasi apparenza, frantumando qualsiasi maschera che possa essere stata indossata per anni. Ed è proprio l’attimo in cui il volto si denuda, in cui l’anima si espone che il cuore trema. L’attimo in cui, scivolando via la maschera, l’essere umano teme di non trovare nulla se non il vuoto abissale pronto ad accoglierlo, divenendo l’ennesima sfumatura di una vita racchiusa in un refolo di vento.
Occhi scuri dietro la maschera di Lila Marinelli
Aveva gli occhi scuri, profondi. Potevi guardarli, ma rischiavi di cadere nel loro pozzo e perderti. Un pozzo senza fondo, un’attrazione incorniciata da ciglia nere. Era lui. Come non ho fatto a riconoscerlo? Ma no, aspetta un attimo. Aspetta, forse mi confondo. Forse… Sento che mi sta assalendo l’ansia. Sento che mi manca il respiro. Guardo nella tazzina del caffè, cerco di prendere la bustina di zucchero. Urto con l’avambraccio il mio vicino di banco che mi lancia un’occhiata tagliente. Mi scusi, mi scusi, desolata, non volevo, davvero mi scusi. Ma no, non può essere. Oramai è ato tanto tempo, e poi me lo ricordavo diverso. No, no, no, non può essere lui. L’ultima volta che ci siamo visti mi ha perforato con quel suo sguardo magnetico l’anima e non l’ho mai più dimenticato. Non può essere lui. Ora mi sembra diverso, mi sembra come se… come se… come se non indossasse più quella maschera. Ora, forse riconosco, forse si, ora si… riesco a vedere quello sguardo che solo una volta ho intravisto, dietro quella maschera che portava. Era uno sguardo timido. Era uno sguardo che mi aveva abbracciato con la tenerezza che solo uno sguardo innamorato sa fare, mi aveva avvolto come una coperta di lana in una mattina grigia e piovosa. Lo riconosco, ora, quello sguardo. E’ lui. Non può che essere lui.
Si. Senza maschera il suo sguardo è lo sguardo che mi era rimasto impresso nella mente, quello sguardo che mi aveva accompagnato nella notte quando per caso le nostre vite si incrociarono… Mi sta sorridendo e i nostri occhi si sono aggrappati allo stesso ricordo; è un ricordo senza maschere… ora.
Dietro la maschera di Sebastiano Impalà
Dietro la maschera ci sta un uomo sospeso al filo della sua carne.
Dietro il pensiero vive una donna, costume nero per non apparire nei luoghi occulti dell’onestà.
Nei nostri corpi ci siamo noi umidi e avvolti nei nostri amplessi di rossa lava.
Anime eccelse in estinzione, poeti vivi che navighiamo nei fiumi sacri dell’irrealtà.
Non chiedermelo di Sabrina Grementieri
Ti giuro, ci ho provato. Alzarmi la mattina, aprire gli scuri su un mondo pieno di colore e scegliere il grigio della massa. Vestire i suoi panni, portare i suoi accessori, esprimermi con le sue parole. A tratti ho avuto la sensazione di indossare quella pelle fredda e vuota, ma indispensabile per sentirmi parte di un tutto. Quando il peso della maschera mi ha schiacciata, e ho letto attraverso quelle soffocanti fessure il disprezzo nei tuoi occhi, allora ho capito. All’interno di quell’involucro io stavo morendo. Come potevi sentire il calore delle mie mani? Come potevi leggere nei miei occhi? Non erano forse fredde le mie labbra? Quella non ero io. Ti giuro, ci ho provato. Ma è bastato un battito di cuore per sgretolare quelle catene di carta velina. Quale potere ho messo nelle tue mani per credere che fossero così robuste da non potersi spezzare? Non chiedermi più di vivere una vita che non mi appartiene. Su questo palcoscenico voglio portare i miei colori, la mia esuberanza, la mia follia. Voglio ridere fino alle lacrime, e piangere il dolore di una ferita. Voglio sentire il vento tra i capelli, il sole sulla pelle, la luce accecante negli occhi. Non voglio più nascondermi. Io non mi chiederò più di indossare la maschera del gregge.
Sono quel che sono di Christiana V
Quanti abiti ho messo e smesso nella mia vita? Quanti falsi sorrisi e finte emozioni ho dovuto elargire a una platea pronta solo a giudicare per ciò che vedeva? Quanto ho sofferto nel dover affermare quel che non ero, ciò che non sentivo, solo per uniformarmi a una massa che altrimenti mi avrebbe emarginata, relegandomi ai bordi di una società che pretendeva soltanto l’apparenza e non la sostanza? Ma io sono sostanza, non apparenza, e non permetterò a nessuno di schiacciarmi affinché rientri in uno schema piatto affibbiandomi un numero che m’identificherà per tutta la vita. Quel che ero, dietro la maschera che celava a tutto il mondo le mie vere fattezze ricoprendole di finzione e falsità, era una pantomima creata ad arte per rientrare in una collocazione necessaria alla sopravvivenza. Ma non ero io. Quando ho compreso l’importanza del mio essere, ho spezzato le catene librandomi in volo sopra quei volti dall’espressione disgustata, soddisfatti di aver eliminato un concorrente senza muovere un dito. E adesso vivo per quel che sono e per quel che sento. Sicuramente non sono nessuno per il mondo, ma sono tutto per chi mi conosce o si sforza di guardarmi, almeno di sbieco…
Ballo in maschera di Allie Walker
Camille sorseggiò il suo terzo flute di spumantino brut mentre guardava Capitan Spaventa che chiacchierava amabilmente con Colombina. La ragazza ridacchiava, era chiaro che il Capitano le stava raccontando qualcosa di piccante e piacevole. Ottimo. Quella sera tutti dovevano essere allegri, e dalla riuscita della festa dipendeva la sorte di tanti bambini abbandonati. Sospirò guardandosi attorno. La grande sala era gremita, decorata come se fosse un set di un teatro della commedia dell’arte buffa. Gli organizzatori avevano fatto uno splendido lavoro; il cibo ottimo, fornito gratuitamente dal miglior catering della zona. Vino buono e spumante scorrevano a fiumi. Si apprestavano a tirare a sorte la lotteria. Ogni invitato uomo era segnato su un cartoncino e tutti dovevano partecipare con un congruo versamento a favore dell’Onlus per cui era stata organizzata la serata, in cambio un ballo con una delle donne presenti, a scelta. Camille era annoiata e a disagio per questa scelta alla “cinquanta sfumature di grigio”, e c’era qualcosa nell’aria che ancora non riusciva a captare. La sua inquietudine dipendeva anche dal peso dell’acconciatura che portava in testa, un parruccone biondo con riccioli che le cadevano sul collo e le irritavano la pelle. Imprecò contro la scelta del personaggio che le avevano assegnato, una sorta di dama veneziana, con un abito ingombrante e pesantissimo, stretta in vita da un corsetto che le sprimacciava i seni, che strabordavano pericolosamente dalla scollatura. A tratti le toglieva il fiato, tanto era stretto. Si aggiustò per l’ennesima volta le tette, grattandosi. “Sai che sei fenomenale, carissima?” Camille si voltò verso la sua collega e amica, Amanda, vestita da Lady Oscar. Era bellissima. L’abito maschile le aderiva alla perfezione e ogni volta che si muoveva, gli uomini della sala non le toglievano lo sguardo di dosso.
“Che cosa Amanda?” “Hai una calma che ti invidio. Se fossi io la candidata alla direzione dell’Onlus, correrei in giro come un’ossessa per controllare ogni cosa e chiacchierare con tutti”. “La mia non è calma, è consapevolezza. Se non mi nominano direttore questa è la volta buona che mando a fanculo tutti quanti e mi licenzio.” Amanda si avvicinò di più a Camille: “Hai visto quel tipo vestito da Pantalone? Qualcuno dovrebbe avvertirlo riguardo la calzamaglia. Dai, doveva proprio mettere così in mostra i propri attributi?” Camille si mise a ridere: “E’ pericoloso dare un ballo in maschera. Uno psichiatra avrebbe terreno fertile per dei test riguardo alla scelta dei costumi. Per quanto mi riguarda sono stata quasi obbligata e maledico quel poveretto di Malaguti che lo ha fatto apposta per guardarmi le tette.” Amanda si voltò e la guardò con occhio critico: “Beh, sicuramente ha scelto l’abito adatto per mettere in mostra quel ben di Dio che ti porti addosso.” Camille la guardò torva e la mandò al limbo. Le due erano completamente diverse, a cominciare dal carattere bizzarro e libertino della collega, ma la conosceva meglio di chiunque altro: “Ma che hai oggi? Io mi sento a disagio così in mostra.” “Sei antiquata e ridicola. Nessuno ai nostri giorni dovrebbe vivere in un mausoleo di casa e, per giunta, da sola. Cristo! Invita qualcuno, datti da fare. Non si consuma niente li sotto. Possibile che nessun uomo sia giusto per te?” Camille bevve un altro sorso di spumante. Avrebbe dovuto smettere, ma la sensazione di disagio era rimasta, aumentata anche, dopo quella breve conversazione. Forse era frustrata? Era parecchio tempo che non faceva sesso, ma i suoi ideali erano altri. Il lavoro al primo posto. Grazie alla sua professione di avvocato, aveva raggiunto ben presto i vertici dell’Onlus e si preparava ad accogliere la decisione del consiglio per la sua candidatura di direttore. Una sgomitata della collega la fece sobbalzare: “Oh, guarda quella! Non riesco a
capire chi sia.” Lo sguardo di Camille seguì il dito di Amanda e vide una Wonder Woman mezza nuda, attorniata da un capannello di ammiratori che stava cercando di ammaliare battendo le ciglia e ridendo in maniera esagerata e provocante. “Penso sia la moglie di Malaguti. Ammazza che trasformazione!” “Stai scherzando vero? Ma che caspita le è saltato in mente? Non ha praticamente lasciato nulla all’immaginazione.” La moglie di Malaguti, in ato, era sempre stata una donnina che detestava farsi notare; di feste e cene ne avevano date tante e, ogni volta si era soffermata a guardarla, aveva notato la sua timidezza e vergogna. Camille non poté fare a meno di chiedersi come ci si sentisse a lasciarsi andare in quel modo, senza badare alle conseguenze. E Malaguti, il marito, glielo aveva permesso? Anche lui candidato alla direzione, forse aveva in mente di influenzare il consiglio con quella pantomima? Lo maledisse ancora una volta. “Credo che il marito sia un gran bamboccio…”proseguì Amanda. “Scommetto quello che vuoi che quando sono nella loro casa lei sia una despota e lo comandi a bacchetta, come tutti gli uomini sposati d’altronde…” “Come hai fatto a divenire così cinica!” “Non sono cinica. Sono realista. So quello che vogliono gli uomini e sfrutto le mie possibilità.” Disse sprimacciandosi i seni, ridendo. “Credi che tutti gli uomini vogliano solo quello?” Amanda scosse la testa, buttando i lunghi capelli dietro le spalle. Lei non aveva avuto bisogno di una parrucca, aveva già una folta chioma bionda e riccioluta di natura. “No. Non tutti. Ma i migliori sono già impegnati, come i parcheggi. E poi scusa, se dovessi scegliere un uomo con cui andare a coricarmi ogni notte per il resto della mia vita, prima vorrei provarlo. Tu compreresti mai un’auto senza prima salirci sopra e sentire il rombo del motore, la spinta, gli affondi, la ripresa?”
“Su questo hai ragione, un’auto non si può modificare, a meno che non serva per le corse. Ma un uomo… il rapporto con un uomo, se non fosse perfetto, potrebbe sempre migliorare.” “Sei un’ingenua. Tu sbagli tutto. Hai mai sentito parlare di chimica? Se non c’è… non c’è.” “Amanda, per cortesia, ti voglio bene, ci conosciamo da tanto tempo. Ma ora smettila, perché dovrei scegliere un uomo con cui andare a letto?” “Ok. Adesso vado a cercare Pantalone, sotto quella calzamaglia ho scorto qualcosa di interessante… Fallo anche tu, scegline uno. Scopaci, stasera stessa!” Camille scosse la testa seguendo con lo sguardo la collega, era sicura che l’avrebbe fatto sul serio, poi si spostò da dove era e tentò di raggiungere un consigliere. La sala era gremita all’inverosimile, sembrava che tutti urlassero per farsi sentire e il livello del frastuono era altissimo. “Camille. Aspetta!” Si voltò di scatto cercando di capire chi l’avesse chiamata. Un attimo dopo, la Fata Turchina, con tanto di bacchetta magica, arrivò di corsa. “Giulia, accidenti! Sei meravigliosa.” “Grazie, anche tu.” Giulia era la segretaria del direttore uscente, che doveva lasciare la direzione per limiti di età, nonché moglie del sindaco del paese; aveva circa quarant’anni e si manteneva perfettamente, nonostante avesse avuto quattro figli, tutti vicinissimi. “Hai visto mia sorella? L’ho cercata ovunque. L’unica cosa che riesco a pensare è che sia finita in uno sgabuzzino con quel fustacchione che era con lei, o meglio… vorrei tanto lo avesse fatto.” “Non l’ho vista, ma dubito che si sia appartata da qualche parte” Giulia sospirò in maniera drammatica: “Lo so, continuo a cercare di deviarla, di convincerla a lasciarsi andare… è così maledettamente noiosa, proprio come te. Potreste avere uno stuolo di uomini ai vostri piedi, invece sembrate due suore
carmelitane dedite alla clausura. Mamma mia che spreco!” Camille scosse la testa per la seconda volta quella sera: “Ma che avete tutti stasera? Sei la seconda persona che mi consiglia di fare sesso. E’ il vestito? O forse hanno messo qualcosa nello spumante e nel vino?” Giulia batté con la bacchetta magica sulle unghie perfettamente laccate di turchino, come l’abito: “Hum. credo sia l’atmosfera. I visi nascosti dietro le maschere, il fingere di essere qualcun altro, il mistero. Sento l’aria carica di elettricità. Potrei prendere mio marito e andare a nascondermi in qualche ripostiglio. Ma tu non te ne sei accorta? Pensa sono stata tentata da quello che ho intravisto sotto la calzamaglia di Pantalone. Se fossi sicura di non essere scoperta, probabilmente ci proverei io pure con quello, non dovessi trovare mio marito…” ridacchiò “Io non sono come voi.” “Tu sei tutta matta. Io non faccio queste cose e tu non puoi.” “Ehi, non incazzarti. Ma sei così pudica? Guarda che il sesso fa stare bene… E poi non scherzavo quando parlavo dello sgabuzzino… A meno che non fosse stato il cappotto con il pelo al collo appeso alla parete che emetteva dei gemiti languidi pochi minuti fa…” “Credi davvero che fosse stata tua sorella?” “Lo spero! Significa che almeno una volta nella sua vita si è concessa l’ebbrezza di una follia.” Per la terza volta Camille scrollò la testa e la salutò continuando la sua ricerca del consigliere. Senza dire una parola con alcuno, attraversò la stanza, rischiando di travolgere un vassoio di leccornie appoggiato su un tavolo, il suo vestito era maledettamente ingombrante. La sua attenzione fu attratta da uno strano movimento su un corridoio di lato alla sala della festa. Pulcinella, tenendo per mano una Dama che non seppe riconoscere, stava aprendo una porta di uno stanzino che era adibito a spogliatoio e, dopo essersi guardato intorno per vedere se qualcuno li notasse, si infilarono dentro e chiuse la porta. Allora era vero. Giulia aveva ragione. Arrossì al pensiero di quello che stava accadendo nello stanzino, ma era anche eccitante, pericoloso, folle. Qualcosa che
lei non aveva mai fatto. E comunque non aveva mai incontrato nessuno che l’avrebbe portata in uno spogliatoio e lei non era il tipo di donna che avrebbe seguito chiunque. O meglio… c’era stato solo un uomo nella sua vita, Marco, che avrebbe seguito in capo al mondo, ma a quel tempo, giovane e inesperta, non aveva capito che per lui, lei non significava nulla, era solo un giocattolo del momento. Lo aveva capito troppo tardi. Delusa da quella breve e intensa relazione, si era, poi, tenuta alla larga dagli uomini. Diceva a se stessa che stava bene anche da sola. Guardò ancora lo spogliatoio, immersa nei propri pensieri. “Congratulazioni Camille.” Camille sobbalzò, come fosse stata colta in flagrante. Poi si tranquillizzò, sicura che nessuno potesse indovinare cosa le ava per la testa. “Credo che il consiglio abbia approvato la tua nomina. Un uccellino me lo ha cinguettato.” Camille sorrise a Maria, la direttrice di uno degli orfanotrofi di cui si occupava l’Onlus. Il suo costume da Bianca Neve le dava un aspetto diverso dal solito tailleur anonimo. “Ne sei sicura? Io ancora non so nulla. Stavo aspettando quella ridicola lotteria e mi sono defilata. Non voglio ballare con uno sconosciuto appiccicoso.” “Sicurissima, sai che conosco bene i consiglieri.” Le sorrise congratulandosi ancora. “La festa sta riuscendo bene, mi sembra. La gente è allegra e partecipa. Gli organizzatori hanno avuto una buona idea a far coincidere la raccolta fondi con la nomina del nuovo direttore. Sono sicura tu saprai fare alla perfezione il tuo lavoro… Ma, a quando un uomo al tuo fianco?” Camille le lanciò un’occhiataccia che fece cambiare subito espressione alla donna. Ne approfittò per congedarsi. “Mi scusi, mi stanno chiamando.” Invece si diresse verso la toilette, ando davanti allo spogliatoio. Udì una voce femminile, piena di desiderio. Ebbe una sorta d’invidia per quella donna che riusciva ad abbandonarsi al piacere con tanta facilità. “Eh, no. Devo far qualcosa…” pensò “E se anche io beccassi uno sconosciuto e
me lo portassi da parte per sentirmi di nuovo donna? Sarebbe solo uno sconosciuto, che male c’è?” Quando tornò nella sala, si trovò a scrutare gli invitati e si rese conto che Giulia aveva pienamente ragione. L’aria era intrisa di sensualità. Le persone si toccavano, si sfioravano e non solo per caso. Poco più in là, Tarzan e Jane si stavano baciando, alla sua destra Batman e Catwoman, si strusciavano in un ballo sensualissimo. Intenta a guardarsi in giro, scorse un uomo vestito da Arlecchino, molto alto, una maschera in viso che copriva anche il naso, sulla bocca un rosso accesso di un rossetto usato ad arte su labbra perfette, la mascella con una leggera barba incolta. Camille si soffermò a guardarlo e i loro sguardi si incrociarono per un istante che le sembrò un’infinità. Gli occhi scuri che intravide avevano un luccichio ammaliante. Lui le sorrise, poi con un cenno della mano la invitò a seguirlo. Non se lo era sognato. Si diede più volte dell’idiota e dopo svariati rimbrotti contro se stessa, lo seguì al di fuori della pista dove gli ospiti ballavano. Più si avvicinava e più diventava nervosa. Il respiro accelerò e il cuore cominciò a martellarle nel petto. Alcuni invitati la fermarono per congratularsi, ma niente e nessuno l’avrebbe trattenuta. Tutti sapevano della sua nuova posizione, probabilmente, meno lei. Ma non le interessava in quel momento, voleva conoscere quell’uomo, chi si celava lì sotto? Una flebile voce le suggeriva di fermarsi prima che fosse troppo tardi. Divisa tra la paura e la situazione intrigante, continuò a camminare, seguendolo a debita distanza. Poteva sempre fare un o indietro. E poi che paura doveva avere nello scambiare quattro chiacchiere? L’uomo non doveva avere le stesse intenzioni di Camille, visto che uscì dalla sala e si incamminò verso il corridoio che portava alle scale. Non si guardò indietro per vedere se lo seguisse e Camille si chiese il perché di tanta sicurezza. Salì le scale, dietro di lui, in silenzio. Quando lui entrò in uno degli uffici al piano di sopra, Camille rimase qualche minuto sul pianerottolo, indecisa se seguirlo o meno. Poi entrò anche lei. Non era del tutto buio e non era un elemento negativo, anzi… Inciampò in una sedia, rischiando di cadere e lui fu subito pronto a sorreggerla, abituatosi prima di lei all’oscurità della stanza. L’aspettava.
Un profondo respiro e si trovò con le labbra appoggiate a quelle dello sconosciuto. Lei emise un gemito di accettazione, ma anche di stupore. Apprezzò il sapore di vino della bocca dell’uomo che aveva approfondito il bacio infilandole la lingua in bocca. Lei aveva prontamente dischiuso la bocca, avida di lussuria. Gli accarezzò il torace e, improvvisamente audace, spinse la sua esplorazione più intimamente, al di sotto della cintura, accorgendosi che era eccitato e che lo diventava ogni minuto di più. “Non riesco a credere quello che sto facendo…” bisbigliò Camille. Lui la zittì attirandola a sé con decisione, finché i loro corpi aderirono, nonostante l’abito ingombrante di lei. Strana cosa poteva fare un bacio e una maschera, pensò Camille. Si abbandonò fra le sue braccia quando lui iniziò a tormentarle la zona dietro l’orecchio, per poi scendere lentamente verso l’incavo dei seni. Un rumore dietro la porta e lei si irrigidì, aprì la bocca per dire qualcosa, ma lui la bloccò: “Shhh” ammonendola. La baciò ancora e tutto il mondo fuori cessò di esistere. Le mani di lui armeggiarono con l’abito di lei sulla schiena e presto divenne un mucchietto ai suoi piedi. Sotto indossava solo il corsetto e un paio di slip minuscoli. Anche il corsetto divenne presto un ricordo e i seni furono subito coperti dalle mani di lui. Giocò con i capezzoli fra le dita, li mordicchiò per un tempo indefinito, li leccò ancora fino a scendere verso il ventre, soffermandosi sull’ombelico, mordicchiando la carne esposta. Il cuore di Camille batteva all’impazzata, mentre lui insinuava la mano dentro l’orlo delle mutandine. Non aveva immaginato potesse essere così coinvolta con uno sconosciuto, non era nemmeno sicura volesse arrivare fino in fondo, ma così eccitata non si sarebbe fermata per nulla al mondo. Era da tempo che non si sentiva più in quel modo e aveva creduto che solo un uomo avrebbe potuto farla sentire così: le aveva tolto il fiato, le tremavano le ginocchia e un fuoco dentro di lei cresceva impetuoso. Quell’uomo sembrava sapesse istintivamente cosa lei desiderava, cosa voleva e quello che le piaceva. Avrebbe voluto guardarlo in viso, avrebbe voluto vederlo alla luce, invece quando sentì il suo respiro caldo sullo stomaco, dimenticò ogni suo volere. Da quel momento in poi si preoccupò solo del piacere che le stava procurando
con quel semplice tocco, sembravano mani esperte, tentò di soffocare i gemiti quando raggiunse il suo primo orgasmo, solo con il tocco di quelle mani che si erano insinuate a toccare la pelle di velluto tra le sue cosce. Lui le diede il tempo di riprendersi e senza parlare, l’aiutò a distendersi sul pavimento. La baciò ancora e le lambì il corpo con la lingua, fino ad arrivare ad aprirle le cosce e intrufolarsi anche tra le pieghe delle labbra. Fu una lenta tortura che la portò di nuovo all’apice. Lui se ne accorse e smise di leccarla. Si distese sopra di lei e le spinse il cazzo fra le gambe. Si mosse contro il clitoride, continuando la dolce tortura. Di nuovo pronta per godere la penetrò e fu un amplesso furioso, entrambi avidi di arrivare alla fine. Una piacevole fine. Camille continuò a stuzzicargli le labbra, finché lo sentì mugolare. Solo allora si fermò, si ritrasse e respirò. Di colpo ebbe la consapevolezza del posto in cui si trovavano, un ufficio e fuori, al piano disotto, decine di persone che erano venute per una festa di beneficenza. Si alzarono da terra e si ricomposero senza parlare. Lei cercò di sistemarsi l’acconciatura e quando pensò di essere a posto, aprì la porta e uscì. Senza aspettare che lo sconosciuto fe altrettanto, si diresse verso la toilette sullo stesso piano. Per fortuna non c’era nessuno. Lì si guardò allo specchio e tentò di capire quello che era successo e perché lo aveva fatto. Aveva l’aspetto di una donna che aveva appena fatto sesso! Macchie di rossetto dello sconosciuto ovunque, sul collo, sulla scollatura… La parrucca era talmente arruffata che sembrava avesse messo due dita nella presa della corrente. Rise della sua immagine riflessa, divertita fino alle lacrime. Cercò di riparare ai danni del trucco con dei fazzolettini e dell’acqua. Rise ancora, felice di averlo vissuto con uno sconosciuto, forse era riuscita a sbloccarsi. Perché di quello si trattava. Un blocco verso gli uomini dopo una grossa delusione. Mentre lanciava un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa, notò che il corsetto non era del tutto allacciato sul seno, un fremito le corse lungo la schiena pensando alle mani di quell’uomo che le aveva tormentato i capezzoli. Camille uscì dal bagno in fretta e si imbatté in una Cappuccetto Rosso leggermente alticcia, che sembrava avere un disperato bisogno del bagno. Al pensiero di rivedere lo sconosciuto in giro per la sala, provò una tensione allo stomaco. Ma doveva scendere e farsi coraggio. In fondo alle scale la sua collega, Amanda: “Dove sei stata? Ti cercano tutti.
Hanno finito con la lotteria e devono dare la comunicazione del nuovo direttore. Cazzo! Ci sei riuscita, la direzione è tua!” Amanda le schioccò un bacio in fronte, abbracciandola. “Ero in bagno.” Rispose sperando che l’amica non si accorgesse del rossore affiorato alle guance, ne sentiva le vampate. “Ti sei dimenticata qualcosa…” Camille si toccò il vestito, aveva dimenticato la sottogonna? O peggio ancora, gli slip in quell’ufficio? “Caspita! Si vede?” “Si vede cosa? C’è qualcosa che non mi dici. Io mi riferivo alla maschera, non l’hai sul viso. Cosa stavi facendo in bagno? E con chi?” “Niente, mi stavo solo aggiustando questa diavolo di acconciatura, niente altro.” “Hmm, non me la racconti giusta.” “Smettila Amanda. Scusa ma adesso devo occuparmi di una questione importante, hai detto che mi stanno cercando…” “Non andrai da nessuna parte fino a che non mi dici cosa hai combinato. Forza, sputa il rospo.” Conoscendo la collega era inutile continuare a fingere fosse successo nulla: “Ero con un uomo. Ecco! L’ho detto… l’ho fatto! Contenta?” “L’hai fatto? Non stai scherzando vero?” Gli occhi dietro la maschera di Amanda si spalancarono. “Oh, Gesù! Con tutta questa gente! Qui! Tu!” Amanda emise un urletto, la gente intorno si girò a guardarle. Camille meditò se fosse il caso di scavarsi una piccola fossa e tuffarvisi dentro, moriva dalla vergogna. “Dai raccontami…” Insisté Amanda. “Vuoi smetterla di gridare e lasciarmi andare? Non vorrei finire sul giornale per
uno scandalo erotico, ma per una candidatura a direttore, per cui lasciami are e non rompere.” “Almeno dimmi… è stato bello? Lo conosco? Lo conosci? Cazzo! Sono così orgogliosa di te…” “Orgogliosa? Per essermi fatta uno sconosciuto in un ufficio. Dai finiscila. Fammi andare.” Amanda seguì Camille fino al primo scalino che portava al palchetto della band, dove era stata chiamata e continuava a torturarla. “Smettila di seguirmi Amanda. Non ti dirò altro.” La nomina a direttore dell’Onlus fu come si era aspettata. Appena tutti furono in silenzio fu presentata agli ospiti e il direttore uscente le ò le consegne con una sorta di giuramento. Una sfarzosa recita assurda di parole lette da un foglio che le avevano ato entrando sul palco. Sarebbe stato meglio un semplice discorso e un ringraziamento. Di fronte a lei tante maschere, una su tutte catturò la sua attenzione: Arlecchino. Si era tolto la maschera dal viso e le sorrideva. Lui. Sì, lui. Marco.
Tratto dall’incipit “Claudia” di Allie Walker
E’ luogo comune dire che ogni persona ha il proprio percorso di vita. Lungo questa strada si incontrano salite e discese, curve e rettilinei, non sempre è facile come vorremmo e spesso ci nascondiamo dalla cruda realtà. Tanto va avanti questa vita ed è difficile capire se vedremo mai il vero volto di chiunque.
Ridi pagliaccio di Allie Walker
Posso vedere e sentire il suono che fa un amore, due giovani che ridono gioiosamente scendendo le scale, mentre io su questi gradini siedo solo e scrivo versi che attraversano i ricordi. Lui la sta avvolgendo con il suo calore, un luogo sicuro il suo abbraccio; euforica lei nel sentirsi un fiore curato, non c’è timore nella loro discesa. Sono insieme, uniti. Ho un ricordo oscuro di questa scalinata: un giorno di pioggia e vento, molto tempo fa, quando lei, la mia donna, discese le scale e io prendevo la direzione opposta salutandola allegramente. Io, lei, noi. Due giovani amanti. Il mio sorriso, la mia allegria, si spense poco dopo, quando lo stridore di una frenata e le urla di alcuni anti, mi annunciarono che lei mi aveva lasciato. Ora vesto di colori il mio viso, mi dipingo per ricordare il mio ultimo sorriso, ma allo specchio non vedo altro che smorfie e rughe e la maschera di un pagliaccio.
Sono ma non sono di Rossana Lozzio
Le uniche maschere che indosso sono quelle, quotidiane, della donna che sono diventata per non averti mai potuto avere al mio fianco. Ognuna corrisponde ad un sentimento diverso ma a parte la tristezza, non ve n’è uno che possa essere vissuto fino in fondo. Senza di te non posso essere. Esisto ma non mi riconosco.
Ti conosco, Mascherina di Ramona di Ventura
Non è una vita facile la mia. Reclamata da tutti, presa con violenza, strappata via senza pietà, custodita gelosamente, tenuta per vergogna. Ogni giorno la stessa, ogni giorno diversa. Conosco ogni essere umano sulla terra, conosco ognuno nel profondo. Io so i dettagli, io so cosa c’è dietro. Ho visto cose inimmaginabili, banali, uniche, disgustose. Ho più esperienza e sentimenti di quanto io riesca a mostrare. Ho visto la sofferenza sui volti dei bambini abbandonati, il sangue di uomini ammazzati per vendetta. Ho raccolto lacrime di donne usate e poi gettate via, come carta straccia. Ho sentito il sole cocente e la pioggia gelida. Ho assaporato la dolcezza dell’amore, ho inghiottito fiele senza batter ciglio. Ho sentito l’odore della morte e della felicità. Ho ascoltato bugie camuffate da verità e verità travestite da bugie. Ho guardato gli altri vivere o fingere di farlo. Ho nascosto delusioni, amarezza, rabbia, imbarazzo. Ho finto felicità e allegria pur di tenere al sicuro il vero dolore provato. Ho dato ordini imperiosi, con il cuore tremante di paura. Ho mostrato falso timore, ribollendo di stizza e reprimendo il coraggio. Ho tenuto la testa alta o gli occhi a terra. Ho camminato con la schiena dritta o piegata in due dal peso dei doveri. Ho preteso che andasse tutto bene, anche quando il mondo mi crollava addosso. Ho frignato come una bambina viziata pur di attirare l’attenzione. Sono stata fragile, ma forte. Sono stata debole ma indistruttibile. Carta, stoffa, legno, metallo, pelle o carne, non importa di cosa io sia fatta. Ognuno di voi mi ha indossata. Abbinata al colore delle scarpe o completamente fuori posto, ognuno di voi mi porta sul proprio viso, a volte senza nemmeno saperlo. Fingete forse che non sia così? Ecco. Avevo ragione. Mi state indossando proprio ora. Potete mentire a chiunque, ma non a me. Io sono il vostro inganno.
Maschere: Immersioni antiche, mistagogiche e incoscienti di Sofia Skleida
Indossiamo le maschere piuttosto non per non farci riconoscere dagli altri, ma per non fare capire le emozioni, le nostre espressioni, i nostri pensieri, i nostri istinti inconsci e subconsci… In modo metaforico ci ravviamo la maschera più ornata, colorata, elaborata e splendente che pensiamo si adatti a noi, ci rappresenti, ci abbellisca, coprendo le nostre imperfezioni, le nostre debolezze, il nostro alter ego, il nostro io mistico, il nostro Super-IO morale e critico… In questo modo, pensiamo che possiamo piacere di più, diventiamo più interessanti, più seri, nascondendo le nostre ioni, le nostre debolezze… Modifichiamo in qualche modo il nostro mantello esteriore della nostra presenza per diventare credibile, meno cinici ed egoisti. Il contatto con la nostra memoria e la nostra mente, porta il nostro pensiero a cerimonie mistagogiche e antiche in cui trionfa l’uso variegato di maschere. Rivivono scenari di vecchi miti irlandesi, elementi drammaturgici medievali e rinascimentali di antichi Greci e Romani. Giappone , Africa, Egitto , Antica Roma e Antica Grecia le utilizzano in modo trionfale, creativo e molto originale. La Commedia dell’Arte si arrampica nelle profondità del Medioevo e offre tante emozioni. In questo ballo delle espressioni partecipano anche l’Arlecchino e la Colombina, con maschere semplici e nere, così come anche il poeta lirico e latino Orazio che ci avvia nell’arte della descrizione delle maschere. Nessuno è escluso da questo ciclo infinito di creazione, d’arte, della rappresentazione e dell’uso creativo della maschera. Così rivive con ione la storia, il dramma antico, l’arte della recitazione. Però, lo spettacolo della nostra vita ci chiama a chiudere il sipario in modo intenso e unico. Togliendoci le maschere per mostrare il nostro vero volto, il nostro vero IO. Ci invita a diventare partecipi, degni della nostra storia, dei nostri valori, della nostra tradizione, della nostra cultura, eroi veri e visionari della nostra vita e di rinunciare al teatro dell’assurdo…
E un solo pianto serba nello scrigno di Oliviero Angelo Fuina
M ovenze sul proscenio della vita A rtifizio a mostrar ciò che non vale S guardo disegnato a celar pudore C he il gesto di un sorriso perde peso H arem d’emozioni all’eunuco Vate E un solo pianto serba nello scrigno R iverbero di un giorno senza veli A ncora nudo e immerso nella vita.
Maite (estratto dal 9º cap. di “14 Piani”, libro inedito) di Elisabetta Bagli
Maite era una donna, con le sue esigenze e con i suoi desideri. Una sera, spinta da una voglia irrefrenabile di essere amata, se ne andò al “Kailua”, un famoso locale di Madrid dove si organizzavano incontri al buio con persone in maschera. Sapeva che non era per lei. Soprattutto sapeva che non era da lei. Ma trovò il coraggio di superare la sua morale. Prese il vestito da Cleopatra, stipato in fondo all’armadio e usato una sola volta, a sedici anni per una festa in maschera con i suoi compagni del bachillerato, e se lo provò. Notò con piacere che la sua taglia non era cambiata. Aveva il seno più abbondante che le usciva un po’ dal costume. Ma quel dettaglio insignificante non faceva altro che renderla ancora più morbida e sensuale. Si truccò gli occhi e le labbra carnose di un carminio, si sistemò l’acconciatura, una parrucca dal caschetto corvino e liscio, si ò uno spray profumato e luminoso per tutto il corpo per rendere il suo aspetto scintillante, calzò i sandali dorati con il tacco d’acciaio e si guardò allo specchio. Era perversamente splendida. Sapeva perfettamente a cosa andava incontro. Provava quasi vergogna nel sentirsi eccitata per ciò che stava facendo. Era esattamente quel che aveva sempre ripugnato. Si mise un cappotto nero lungo per sfuggire agli sguardi indiscreti dei vicini e svanì all’interno di un taxi che la portò spedita dentro la sua avventura. Aveva paura. Ma il grado di eccitazione da lei raggiunto in quel momento era talmente elevato che se ne dimenticò. Una volta nel locale, non ci mise molto a fare conoscenze maschili. Le si avvicinarono persone di ogni età e le facevano i complimenti per la sua bellezza, per il suo fascino, per la sua bocca tremendamente sexy e il suo seno prorompente nel quale avrebbero desiderato tuffarci la testa. Lei rideva e si sentiva potente. Aveva la sensazione che il mondo stesse ai suoi piedi, pronto per essere suo. Il desiderio di fare l’amore con più uomini contemporaneamente la stava assalendo. Li vedeva tutti intorno a lei, mentre la toccavano, la spogliavano, la leccavano e le succhiavano le estremità. Rinsavì per un attimo e si guardò attorno. Che ci faceva lì? Che succedeva? Era un sogno… quegli uomini… No, erano lì e le facevano la corte, ma lei non era scesa fin laggiù, non era arrivata nel baratro più profondo della sua anima, non aveva fatto nulla se non fantasticare. E, all’improvviso incrociò con gli occhi un astronauta. Questi,
dopo essersi tolto il casco, la fissò a lungo. I suoi occhi erano aquilini, pieni e profondi e da loro traspariva il desiderio intenso e folle che stava provando mentre immaginava il modo migliore di afferrare la sua preda, Cleopatra. Fu così che Maite conobbe Santiago, un ragazzo molto giovane, con il quale, prima di conoscerne il nome, si ritrovò nel bagno del locale a fare sesso, nel posto più squallido sulla faccia della terra, proprio come una donna a pagamento. Ma si lasciò andare sotto le mani di Santiago che le sfioravano la pelle delicatamente percorrendola fin giù dove, con sorpresa, l’uomo si accorse che Maite non aveva niente che gli impedisse la strada, se non un fiore palpitante e umido pronto a schiudersi e vivere. Iniziarono a ballare eccitati mentre Santi si stava aprendo la tuta sul davanti lasciandosi scoperto il petto villoso e forte, vibrante e sanguinante sotto i graffi delle unghie laccate di rosso di Cleopatra. Le lingue si cercavano negli anfratti della pelle e la vita voleva esplodere in tutta la sua bellezza. Ma una luce improvvisa li avvertì della presenza di altre persone nel bagno. Istintivamente Maite si coprì il basso ventre con le mani e il ragazzo le protesse le spalle. In quell’istante, per la prima volta da che erano entrati lì dentro, si vide nuda. Voleva fuggire. Non poteva credere che fosse proprio lei quella chiusa in un bagno di un locale di bassa lega con uno sconosciuto. Ma Santiago, che era completamente andato sotto l’effetto dei cubatas ai quali lo avevano costretto gli amici per una scommessa, ci sapeva fare. In breve riuscì a riconquistare il terreno che aveva perso in quei pochi attimi e a portarla dove lui voleva, dove lei voleva. E lei, per la prima volta in vita sua, voleva sentirsi diversa, voleva sentirsi un’altra. Lo lasciò fare e aprì il suo corpo al bell’astronauta, senza pensare a niente, senza capire niente, ebbra delle sensazioni nuove e sconosciute che quel ragazzo le stava regalando. Credeva che forse, così, toccando davvero il fondo, sarebbe riuscita a risalire più rapidamente le pareti scivolose della propria anima per ritornare a essere la Maite di un tempo, quella che le piaceva. Ma lo voleva davvero? O la nuova Maite stava prendendo il sopravvento?
Dietro la maschera di Nicoletta Berliri
In principio Giorgio aveva sofferto, poi con il trascorrere del tempo si abituò: indossare il sorriso ebete dello scemo del villaggio globale, ora, lo inorgogliva. Le angherie e le prepotenze subite in ufficio, gli sembravano un ricordo lontano. Eppure aveva iniziato a lavorare appena nove anni prima quando, uscito dall’Università con la sua Laurea in Giurisprudenza, sognava di diventare un famoso avvocato o un magistrato d’assalto. La vita, invece, lo aveva sorpreso come sempre: impiegato in una mastodontica Azienda di servizi con il compito di redigere squallide lettere di ingiunzioni di pagamento dove, l’unica abilità richiesta, consisteva nell’associare correttamente i dati anagrafici all’importo dovuto. Si era distinto anche in quello, ci voleva poco, ma ci era riuscito. Le sue lettere, infatti, erano brevi ed efficaci riuscendo ad ottenere una percentuale di successo nelle riscossioni più alta di tutti. Così, a poco a poco, aveva calamitato la malevolenza dei colleghi i cui sorrisetti acidi lo seguivano dappertutto, soprattutto quando entrava nella stanza del capo. “Ecco, lo vedi, va a lisciare il boss…” In un primo momento aveva pensato di limitarsi, di seguire le aspettative degli altri; con il tempo, però, aveva compreso che anche tale atteggiamento risultava dannoso in quanto dava adito a fantasie ardite su presunti appuntamenti tra lui e il capo ad ore tarde o peggio ancora. Infine, dopo un periodo particolarmente pesante per le vessazioni subite, si risolse ad adottare la maschera dell’idiota. I vantaggi furono subito evidenti: i malevoli si trovarono legati nel suo candore, impastoiati dal surrealismo della sua logica che lo portava a burlarsi di loro senza che questi riuscissero ad evidenziarne la cognizione degli atteggiamenti malevoli. Era convinto che anche Ionesco non avrebbe saputo fare di meglio.
Cos’hai? Di Sebastiano Impalà
Hai occhiali aridi e senza stile tu che rimugini sull’esistenza dentro una tazza di caffè.
Hai la vita fasciata alle caviglie tu che fuggi dalla strada per rintanarti dentro sogni di empie crudeltà.
Hai amici in ogni luogo tu che brami la vittoria del sapere e sconfini
in pensieri sofisticati di politica e tabù.
Hai maniglie inverniciate sulla macchina dei sogni fabbricando imperizie e voluttà.
Hai coscienza e sei già uomo tu che chiedi al mondo intero sicurezza e cecità. Ma non hai ancora niente, non pretendi che un soffio di benessere su una terra di bersagli mai centrati dove un dio ha fatto fiasco e tu cerchi solamente d’imitarlo.
Hai la vita e questo è poco!
Oggi è già domani di Allie Walker
Non sono esperta nelle questioni di cuore, men che meno nelle relazioni che vorrei costruire e portare avanti. L’ho scoperto da poco e ieri ne ho avuto la conferma. E’ triste doverlo dire. Ed è triste metterlo in mostra, ma serve a scacciare qualche fantasma che popola il mio presente. La mia esistenza è stata contaminata da idee sbagliate, ideali surreali e vecchi ricordi polverosi. Ricordi che non reggono più il loro peso, non valgono più come in ato. Significavano tanto, li cullavo crogiolandomi, masochista anche in questo, e ora mi lasciano a secco e assetata di affetto. Non è per niente divertente guardare al ato e veder morire i ricordi di una morte lenta e dolorosa. Realizzo, oggi, che i ricordi hanno appesantito e rallentato il mio processo di guarigione. Credevo nella speranza, ma ogni volta anch’essa mi dimostrava di essere non più di una promessa, un possesso che non potevo permettermi. Possedere la speranza! Non si può possedere qualcosa di impalpabile. Lo capisco ora e, nonostante tutto, continuo a sperare in un cambiamento. Ogni volta che mi protendo a “toccare” la vita degli altri, sento anche la loro disperazione, la loro solitudine, il loro desiderio di essere amati, o per lo meno essere scaldati da un affetto. Un affetto pulito, sincero, una cura da usare per scacciare la negatività. Credo che ognuno di loro, in ato, volesse riempire quel vuoto che sembrava essere pieno del caos di tutti i giorni, ma che vuoto rimaneva. Proprio come me. Oggi è già diverso, ho altre idee, forse confuse, ma ci sono. Vorrei tanto credere nel domani, forse mi offrirà un nuovo inizio di vita. E’ che basta una pillola amara da ingoiare, un altro giorno di solitudine, intenta a scacciare quei ricordi polverosi e tutto riprende come prima. A caccia delle ombre. Quello che mi fa incazzare è che questo domani non arriva mai. E’ come tirare una corda senza fine, sperando che invece una fine esista. E i pensieri corrono: oggi inizia quando apro gli occhi, quando vedo la luce e i minuti ano via, trasformandosi in ore. Questo oggi sembra essere sempre più vicino e non cambia mai nulla. E così via. Nel cuore della notte inauguro un altro
domani. Perché sembra essere venuto così tardi questo oggi, ma anche senza preavviso? E perché dimentico quello che avrei voluto oggi, sperando, e nulla è cambiato? Il domani ancora non c’è e l’oggi è già finito. E’ un circolo vizioso! E quando incontro qualcuno? Spesso sento che ognuno di loro voglia risolvere questa mia rottura, questo mio essere sempre aggressiva, questa maschera che indosso per difendere le mie stesse ossa e muscoli, uno su tutti: il cuore. Non tutti hanno capito che non mi sono “rotta”, forse un po’ persa, ma non rotta! Ho tutte le ragioni per essere spezzata, ma nel tempo ho raccolto tutti quei pezzi che hanno sconvolto il mio essere interiore che è sempre coperto e nutrito da ombre del ato. Fuori sorrido, perché sono convinta che sia più facile mostrare un sorriso piuttosto che spiegare il senso di una lacrima. Così indosso la smorfia di un sorriso sulle labbra, ma i miei occhi dicono altro e nessuno sembra accorgersene. Ho incollato alcuni pezzi del mio essere e di chi mi ha sfiorato al aggio, o di chi mi ha vissuto, ma molti altri li ho lasciati abbandonati. A che servono? Ho ricucito insieme solo quei pezzi che sento vicini, quelle amicizie di cui non potrei fare a meno, quegli affetti sinceri che con il tempo mi sono rimasti a fianco. Non è facile mettere a nudo cuore, anima, sentimenti ed emozioni, soprattutto quando si indossano tante cicatrici, tanti pezzi incollati insieme, che si stanno battendo per respirare liberi. Mi batto e sono viva, penso, non importa quanta fiducia ho perso nel domani. Mi manca ancora qualche pezzo, o solo uno. E, forse, quel domani esiste già. Forse quel domani, ieri, l’ho sentito inchiodata al muro, dove anti incuriositi sono rimasti a guardarci e a sorridere di quel bacio rubato, inaspettato, sorprendente, in totale confusione. E un sussurro, poche parole. Ancora un bacio, per sottolineare un possesso, per farmi capire… E poi con le gambe tremolanti avviarmi verso i binari. Provata, nel fisico e nella psiche, da una giornata e da un viaggio condito di speranza, quella speranza di guarire da quel male che non mi sono cercata, ma che qualcuno ha voluto “regalarmi”, son tornata a casa. Ho assaporato, nel frattempo, un’altra anima e forse un domani migliore. Forse è
quel pezzo che mi manca per completarmi? Non lo so. So solo che non voglio perdermi questo domani!
Il falso e il vero di Ramona Di Ventura
Mi chiamo Antonio, ho 48 anni e sono un medico. Da 25 anni sono sposato con Elisa, la donna che ho sempre amato. Abbiamo due figli meravigliosi, sca e Alex, entrambi studenti universitari. Ogni giorno a lavoro cerco di salvare vite umane, mi impegno ad aiutare chi è meno fortunato di me, a dare un sorriso a chi ha solo lacrime. Vengo da una famiglia benestante, ho studiato anche all’estero per qualche anno e non ho mai avuto problemi a pagare le bollette, anzi. I miei genitori mi hanno permesso di togliermi qualche sfizio da giovane e il mio lavoro ben retribuito me lo permette ancora. Adoro i miei figli e faccio il possibile per non far mancare loro nulla, compreso il mio affetto e il mio appoggio costante. Amo mia moglie e lei ama me. Sono un uomo realizzato, felice, a cui la vita ha dato molto, forse tutto. Posso dire di essere soddisfatto di ciò che ho costruito e ad un certo punto di questa mia storia…ho iniziato a mentirvi. Ho amato molto mia moglie, anche se non credo che lei abbia mai amato me. Mi ha sposato perché era incinta e la sua famiglia non le ha dato alternative. Ho scoperto che mi tradiva pochi anni dopo la nascita di sca. Non sono nemmeno sicuro che i miei figli siano davvero miei. Elisa non ha fatto nulla per nascondere le sue innumerevoli relazioni durante questi vent’anni, non si è curata molto della mia sofferenza, né degli sguardi confusi dei nostri bambini. Non dormiamo nello stesso letto né nella stessa stanza. Quando lei è in casa, faccio di tutto per avere impegni che mi tengano lontano, pur di non vederla. All’inizio non riuscivo a sopportare la sua indifferenza e ho chiesto consiglio ai miei genitori. Negli occhi di mio padre ho riconosciuto il mio stesso dolore e tutto ciò che mi è stato raccomandato è stata la pazienza e la perseveranza. Per il bene dei bambini. Ogni mattina, per anni, ho nascosto il mio dolore e la mia umiliazione dietro un sorriso sempre uguale. Ho affogato i miei dispiaceri nel lavoro, resistendo all’impulso di ubriacarmi fino a morire, perché in fondo sapevo che non ne valeva la pena. Ho tenuto duro, impegnandomi a smentire ogni minimo pettegolezzo. Elisa ha sempre recitato bene la parte della moglie amorevole in pubblico, tanto da farmi credere che c’era ancora qualche speranza per noi. Ma una volta calato il sipario, correva a cambiarsi per scappare dal suo
nuovo amante. Ho immaginato il suo corpo attraente tra le braccia di altri, uomini senza volto né nome, e ogni volta sono stato sul punto di vomitare senza ritegno. Quando mi guardo allo specchio, vedo il viso di uno sconosciuto che vive la vita di un uomo col mio stesso nome. Un uomo che si scopre spesso a desiderare di avvelenare, con qualche sostanza rubata a lavoro, quella donna che chiama moglie. Un uomo che non ha abbastanza coraggio da mandare all’aria l’immagine ben costruita di una famiglia perfetta. Un uomo che rinuncia ad essere felice per paura degli sguardi scandalizzati della gente. Mi chiamo Antonio, ho 48 anni e sono un medico. Indosso questa maschera da così tanto tempo che non ricordo più cosa ci sia sotto.
Corde intrecciate
Ed eccoci al secondo appuntamento con 7 giorni di follie. Dopo vari pareggi e avvicendamenti nei primi posti del nostro sondaggio, siamo finalmente giunti a una scelta e l’argomento preferito è risultato essere Corde intrecciate. Un tema complesso nella sua semplicità, in quanto spazia tra i più disparati settori. Corde intese come oggetto vero e proprio oppure come legami in cui ci si sente imprigionati o vincolati, o ancora si potrebbe pensare a corde mentali, processi psicologici della mente che ci tengono legati a qualcuno o a qualcosa, impedendoci di vivere senza pressioni. Tuttavia le corde, materiali o psicologiche che dir si voglia, non sempre sono negative. A volte è anche bello sentirsi legati a qualcosa che per noi è unico e speciale. Dunque, miei cari Portatori di Penna, slegate la fantasia e parlateci delle vostre… Corde intrecciate. Come sempre, saremo curiosi di leggervi e commentare i vostri pezzi. Buon lavoro e buon divertimento a tutti!
Corde intrecciate di Sebastiano Impalà
Corde intrecciate, anime senza vento sui parapendii dei nostri sogni irrealizzati.
Provo a slegare le tue mani per poterle finalmente annusare, sentirne il brivido cutaneo, baciare le tue dita di cristallo.
E mi privo di ogni libertà, sconfino nei meandri del tuo vivere in questi giorni opachi e senza senso.
Vivo così la mia solitudine selvaggia, bloccato negli affetti e nel sorriso cercando a perdifiato oggetti acuminati per rompere l’incanto.
E saremo perdutamente amanti nell’indicibile chiarore dell’aurora.
Corde, l’esordio di Allie Walker
Immobilizzata. Mi ha immobilizzata, tengo gli occhi bassi, mai su di lui. Carne stretta entro le corde bagnate e il cuore che pompa sangue, veloce. “Le lasciamo asciugare” mi ha detto sedendosi di fronte a me. E poi: “Adesso guardami. Puoi guardarmi.” Sento la vita scorrermi dentro, il suo sguardo, per niente dolce, che penetra. La sua opera d’arte nei suoi occhi: Io, le corde, i suoi nodi. Un possesso annunciato, un possesso bramato. Lui, il Maestro. Io, l’allieva all’esordio.
Un nuovo modo di vivermi, mentre le corde asciugano e stringono. Sembrano morsi, denti affilati che scavano la pelle. La mente pronta, aperta per essere stuprata. Un mondo nuovo, una vita nuova, una forma d’arte attraverso la vita. E mentre il sangue scorre a fiotti, facendosi strada tra le corde, sotto pelle, scelgo di rimanere immobile, anche nelle smorfie del viso. Non un lamento, nessun gemito mentre il dolore si spande. Il silenzio è il mio rispetto, per lui, per il Maestro che mi ha voluta fra le sue mani, in ginocchio, ai suoi piedi. Lui, che ha rimodellato la mia bellezza. Non potrei essere di più, ma anche niente di meno.
Sento solo il bisogno di servirlo e non ho altro scopo che il suo piacere. Potrei rimanere qui per sempre, sotto il suo sguardo ed entro le sue corde.
Nodi su nodi di Rossana Lozzio
Nodi su nodi, sentimenti ed emozioni attorcigliate insieme a loro che non accennano a mutare… Non si slegano ione e tenerezza quando sono tanto intime e piene di te che sei entrato in me in un pomeriggio in bianco e nero e che continui a rimanerci, stretto in ogni singolo nodo dell’infinita corda che mi lega a te. Uomo del ato, del presente e del futuro. Ed oltre.
Destino di Lila Marinelli
…intrecciati, amati e volati, sono i nostri destini, quasi sfumati, lascia che sia, lascia che la notte possa volare via, con le mani come corde di violino che si allungano e vibrano per trovare il suono del destino …lascia che sia… Perché il sia, verrà…
E’ il mio corpo che offro ai tuoi sensi (da: “Vocali in apnea”) di Oliviero Angelo Fuina
D’afrori e di corde tu mi leghi in miraggi di carne intravista e danzi sul mio fiato ridendo di un turgore che nasce implorando
L’attesa di un tuo sguardo a bagnare in languide volute che aspiri padrona dei sussulti che chiami negli abbracci di rosa e di spine
E’ il mio corpo che offro ai tuoi sensi accogliendoti in gemiti muti ti appartengo in ogni tua voglia ai tuoi piedi leccandone gocce.
La tela di Irma Panova Maino
Scivolo lungo la via dei pensieri Fra spire colorate falsamente innocue Corde che s’attorcigliano e strangolano Tesso la tela di Penelope Infinitamente Tornando al mio ieri che oscura il domani
I giorni di sole di Andrea Leonelli
Siamo vincolati dall’interazione invisibile dei rapporti di causa e effetto di casa e affetto di carceri di corde intrecciate di doveri sfilacciati dal tempo trascorso annodando i giorni già ati coi sogni a venire rinati dal colore scolato da vecchie foto che lento gocciola come il grigiore umido della nebbia in cui viviamo dalla nebbia della mente in cui custodiamo i giorni di sole
La Dea Sirena. Il canto dei destini… Alternativi di Anna Ciraci
Si è sempre sentito di storie lontane in cui l’uomo del mare ha sentito cantare L’abisso è profondo di un oscuro nascosto e non c’è dato modo d’arrivar fino a quel posto Sì celano misteri di mostri voraci oppure creature dallo sguardo fatato che incantano Carne per debole fattezza col solo fine di sviare dalla vera saggezza Li ho visti ripresi da sottomarini compaiono dal nulla senza preavviso volavano nel buio come angeli palmati e svanivano nel fondo per non essere guardati E poi una notte li ho sognati… Tessevano reti con corde intrecciate di vari colori a caso pescati disegnavano il mondo col solo istinto rilegando destini che nessuno ha scritto li uniscono come vesti fatte di piombo
nell’universo calamitato come se fosse predestinato Ma son solo pezzi di vita tessuti a caso e quando il nodo si sfalda la Sirena ricomincia da capo tessendo catene sempre più forti per unir fra loro dei nuovi mondi
E mi distolgo con fili d’inchiostro (da: “Cieli di carta”) di Oliviero Angelo Fuina
Certi pensieri hanno forza tenace fra le dita di visive emozioni - proiettate su schermo d’ipotesi stringendo metri e metri di stomaco per sollevarli, in sussulto, allo sterno.
Li assecondo ignorandone lo sguardo per non vedere orizzonti muti gesticolare un profilo mancante. E mi distolgo con fili d’inchiostro sopra il telaio della tua menzogna.
Mi bastava percepire un sospiro per inventarmi futuri di carta ma la tramontana del tuo diniego nei voli preclusi alla fantasia precipita il cuore sulla banchisa.
Il cuore legato di Antonella Mattei
Vorrei non dovere, vorrei non potere: ma devo per forza pensarci. Pensare a te. Abbiamo consumato il nostro pranzo domenicale in un modo che definirei osceno: io che giocherellavo a dama con i piselli che accompagnavano l’arrosto e tu, occhi fissi sul cellulare, digitavi messaggini a più non posso. Non masticavi neanche, ingurgitavi. Ci ho messo due ore a preparare quel maledetto arrosto, io che odio fare anche solo un tè, e tu in pochi minuti hai spazzolato tutto indifferente se fosse vitella, manzo o capra come te. Nemmeno la tazzina di caffè mi hai riportato indietro, ovviamente da lavare. Eh si che te lo avevo portato caldo fumante e nero come piace a te, il grazie, va’ beh, sarebbe stato eccessivo. Poi ovviamente sei sparito, evaporato nei meandri della nostra casa. Potrei dire dove sei e quello che stai facendo pur senza vederti, pur senza poteri paranormali . Mi asciugo le mani in uno strofinaccio e vado dritta dove so di trovare il tuo fantasma. Ecco. Ti guardo. Il fumo che aspiri dalla sigaretta, fuoriesce lento dal naso creando languide spirali che salgono verso il soffitto. Le scene del tuo telefilm preferito, tra inseguimenti , sparatorie e ridicole scazzottate, ti scorrono veloci negli occhi e disegnano un sorriso lieve sulle labbra e nello sguardo un’ombra di emozione risplende fugace. Volevamo essere come uniti come le corde di una gomena ricordi? Lo dicevi sempre: “ La sua forza sta tutta nell’unione delle funi singole, da sola sarebbe un semplice spago.” Si, và beh … Ti sono di fianco. Raggomitolata sul divano, non guardo la tv; guardo te. Mi vedi? Ti sei accorto del mio sguardo che ti scorre addosso e ti percorre sperando di incontrare, anche solo per un attimo, i tuoi occhi? Neanche durante la pausa pubblicitaria volgi lo sguardo verso me, brandisci quel telecomando come uno scudo che ci separa fisicamente. Dovrei avere la forza di alzarmi da questa cuccia calda e stritolarlo sotto i tacchi. Ma resto qui, immobile, esausta dalla fatica di chiedermi dove e quando te ne sei andato. Quando è che finisce un amore? Com’è che finisce un amore?
Violento, esplosivo, fulminante come è cominciato o lentamente, soffusamente, impercettibilmente; mentre ti rendi conto che nei suoi occhi non trovi più quella luce che li illuminava quando incontrava il tuo sguardo, che il tuo cuore non segue più quel ritmo frenetico e pungente e il fiato non diventa più corto mentre aspetti, affacciata alla finestra, che lui compaia sorridendo dietro l’angolo con i capelli spettinati dal vento profumato di primavera e lo stomaco si stringe con un dolce dolore, pregustando con ansia i suoi baci apionati. Le eggiate sul lungofiume ricoperto dalle foglie rosse d’autunno, stretti avvinghiati, mentre il vento gelido ci regalava visi arrossati e brividi che si confondevano con la ione che ci divorava; le notti di ione intense e violente o incredibilmente dolci da togliere il fiato, quando ti svegliavo alle tre di mattina perché mi sembrava di non poter vivere un minuto di più senza possedere il tuo corpo. Tutto è diventato un ricordo ormai lontano, svanito nella polvere del tempo. Quali sono le parole dell’amore perduto? L’amore perduto non ha parole. Ha silenzi infiniti, vuoti, come il senso di smarrimento che ti senti dentro e ti manda allo sbando come una piccola barca scossa da una corrente impetuosa che la trascina via verso abissi profondi, in gorghi impetuosi e oscuri. Nemmeno il timone la riporterà mai alla riva. Nemmeno mille parole servirebbero a salvare un amore finito. Ti parlo, ti parlo e tu neanche mi ascolti, non è che non mi senti, non mi ascolti proprio. Anche se mi vedessi nascondere camice impregnate di dopobarba che non ti appartengono come il loro odore che mi resta incollato addosso non ti sfiorerebbe neanche il pensiero che io sono ancora una donna. E gli altri uomini se ne accorgono. Mi sono schiarita i capelli, l’hai notato? E le scarpe rosse di vernice dal tacco dodici che indosso ormai da tre settimane? Ti piacciono molto quando le vedi in vetrina, ma su di me? Sulle mie gambe? Lo riconosco lo sguardo di un uomo quando apprezza una donna. E tu? Mi guardi ancora? Dove sei andato? Dove va l’amore che finisce? Se tu fossi qui con me. Basterebbe uno scialle caldo sulle mie spalle e le tue braccia forti attorno a me.
Quando è che hai smesso di amarmi? Da quando sono diventata invisibile e scontata come quel nostro vecchio frigo nell’angolo. Hai fatto la tua scelta di ignorarmi, mi hai legato le mani e l’anima con una corda che non si può spezzare a comando. Io ti voglio ancora, ma sono qui, col cuore legato da questo cappio che mi soffoca. Non ci sono parole per un amore perduto. Mi alzo dal divano mentre sei perso dietro i rotolamenti di una palla e le urla imbecilli di un invasato cronista sportivo che escono dalla televisione. Mi avvolgo nel mio morbido plaid non avendo altro che mi sciolga questo gelo nell’anima. Mi chiudo nella stanza da letto e comincio a scrivere su un foglio bianco commerciale, non vale nemmeno la pena di cercare una carta preziosa o raffinata. Non noti più niente oramai; mi rifiuto di cercare la mia penna stilo preferita dal tratto meraviglioso, quella di lacca rossa con le mie iniziali sopra: una biro per te sarà più che abbastanza. Quando finirai di leggere questa lettera io sarò lontana, forse meno distanza materiale ci separerà in confronto a quella non tangibile ma immensa che c’è stata fino ad ora. Forse ti renderai conto che non ero poi così prevedibile e magari sentirai anche tu quel gelo nel cuore dentro al nostro letto caldo ormai troppo grande. Dove riporrai il tuo cibo ora che il vecchio frigo ha smesso di funzionare. L’hai notato? Non c’è più in quell’angolo, è rimasta solo la polvere che disegna la sua sagoma sul pavimento. Trovo un vecchio pezzo di spago nel cassetto, è sfilacciato, come la mia anima; lo poggio sul foglio vergato. Mi rimane una sola parola per te oramai. Addio.
Intrecci di Irma Panova Maino
Impotente, inutile, sprecata. Allungo una mano nel nulla per ricongiungermi a te, sapendo bene che sentirò solo l’eco dei tuoi pianti. Vedo i nodi che strangolano la tua anima, la straziano nel silenzio di chi, pur standoti accanto, non vede e non sente il dolore che ti soffoca. Vorrei essere quella lama che spezza l’incanto, che trancia le corde avvinte intorno al tuo essere e lo lascia libero di poter spiccare nuovamente il volo. Vorrei portare i tuoi pesi, le tue sofferenze, lasciarti respirare l’aria fresca del mattino, di quell’alba che sorgerà dalle tue stesse ceneri. Ma sono proprio le ceneri che temo. Volute contorte di pensieri perversi che addentano le viscere, senza portare a niente che non sia altro dolore. Serpi avvelenate che azzannano l’anima lasciandola a brandelli e alla mercé di chiunque. Spire e spire di costrizioni che ti annegano nel tuo stesso oblio di un inutile quotidiano ed io peno con te la stessa solitudine, la stessa prostrazione. A nulla vale dire: “Ci sono ata anch’io” se non a ricordare a me stessa quanto è già avvenuto. Non voglio per te un simile tormento, non voglio vederti are attraverso le stesse insopportabili braci, ma resto con la mano sollevata nel nulla, chiedendomi quando diverrà totalmente inutile.
Note nella notte di Anna Cibotti
Un pallido raggio di luna attraversava il nero della notte lasciando una scia nebbiosa di luce che biancheggiava forme indistinte e in movimento. Gli anelli di ferro a cui erano attaccate due corde robuste ai lati di un seggiolino di legno, cigolavano stridenti al cullare di quell’altalena solitaria. La muoveva solo il vento che ne accompagnava il ritmo regolare. Avanti… indietro, ancora avanti, ancora indietro. Lenta e regolare come i i dell’ombra di un uomo proiettata nell’erba, allungata e ingigantita dalla fioca luce di un lampione. L’albero era là. Lo si vedeva appena. Una grossa corda pendeva da un ramo robusto. Un cappio con nodo scorsoio pronto per l’uso. L’uomo pensò alla fune che legava la sua barca alla pitta del molo impedendole di prendere il largo, proprio come lui. Legato dalle corde invisibili della sua sofferenza; intrecciate a un destino intriso di solitudine. “Basta poco…” pensava. “Infilare la testa e stringere il nodo… un attimo! Si avvicinò. Alzò lo sguardo verso la luna in un ultimo pensiero di vita e… Una dolce melodia interruppe il suo avanzare verso l’ultimo gesto. L’archetto accarezzava le corde di un violino, tese e vibranti, in una musica struggente d’addio. Mani invisibili suonavano per lui. Anche l’altalena e le sue corde erano immobili, adesso.
L’uomo pensò che avrebbe mollato la cima e sarebbe salito sulla barca per sentirsi libero di andare. Provò ad accompagnare la musica che sentiva con la voce in sordina, ma le sue corde vocali emisero solo un rauco brontolio. Guardò verso il cappio e sorrise. Camminò verso il solitario lampione che lo guidò verso la strada del ritorno. La luna stava scomparendo e con lei le sue corde invisibili e non. Ne avrebbe vista un’altra domani e per tante notti ancora. Appoggiò un violino immaginario sulla spalla e con l’archetto tra le dita, finse di suonare.
All’improvviso tra di loro scese il gelo di Lila Marinelli
Faceva freddo, molto freddo, quella notte in macchina di ritorno dalla cena tra amici. Della cena non rimaneva che un vago ricordo. Forse l’odore del vino, ma nemmeno quello, forse il profumo delle rose rosse all’ingresso, ma nemmeno quello, forse la luce fioca delle candele, no, nemmeno quello, rimaneva solo un filo elettrico che si era attorcigliato alle sue caviglie e la legava a questo gioco che ormai l’aveva stufata.
… La prossima volta… non mi vedi più… mai più… se per te questi giochi sono molto divertenti, per me non lo sono… Non azzardarti mai più nella tua vita di mettere in discussione la mia dignità di donna, mai più!!! Chiaro??!?! Quindi o rimetti le cose apposto e subito e lo fai tu, senza le tue varie amiche, perché come avrai capito, ho un grado di intelligenza, anche se di poco, ma comunque superiore alla media, ed essere presa in giro è una cosa che non sopporto! Non sono una che si “convince” con due post; o esci allo scoperto o rimani là, io vado avanti, comunque! La mia vita prosegue! E fallo subito se hai intenzione di farlo, perché dopo stasera io non ti aspetto più! Non ho tempo, né voglia per giocare a nascondino. Facci giocare le ochette con le corde intrecciate dei tuoi pensieri. Se devi agire trova un modo, diretto, chiaro esplicito, da uomo maturo e saggio che sa metterci la propria faccia.
Io non mendico.
Aprì la portiera della macchina con quella sua mano vellutata quasi non rispecchiava il tono fermo della sua voce, non gli sembrava vero… Se ne andò. Lui non fiatò. Non l’aveva mai vista così. Non la riconosceva più. Non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. No, non voleva che lei se ne andasse. E allora? Cosa, cosa poteva fare? L’unica cosa che doveva fare, era parlarle. Parlarle e dirle quanto per lui fosse importante lei, la sua persona, il suo carattere, la sua bellezza, il fatto che, non riuscisse a stare senza di lei che no, che non era vero che quello non era lui, che aveva fatto delle cazzate e che ne era pentito… Si. Era l’unico modo per fermarla. Sentiva, sentiva che il filo spinato, stretto ed intrecciato come una corda, attorno alle sue caviglie le faceva male. Glielo avrebbe tolto lui. Si. Lo avrebbe fatto. Ora.
Adesso. Subito. Altrimenti l’avrebbe persa, per sempre. No. Questo no.
Il legame per la vita di Rossana Lozzio
E’ chiamato cordone ombelicale, ci nasci e rappresenta il forte legame che ti unisce a colei che ti consente di venire al mondo. La donna che per circa nove mesi ha tollerato quelle tue più o meno allegre danze nel suo ventre e ha sopportato i cambiamenti del suo corpo e fastidiose nausee mattutine e molto altro ancora… solo per consentirti di vedere la luce, dopo averti dolcemente cullato dentro di sé e aver fantasticato sul futuro insieme, perché tutto cambia, quando arrivi ed è definitivo. Poi, nasci e quel cordone si spezza… dicono. Io direi, viene tagliato, perché niente sarà mai più stretto del legame che ti tiene unito a quanto di più incredibilmente bello possa esistere su questa terra, che tu ci creda o no. Il legame con questa donna, che chiamerai mamma, un termine diverso da qualsiasi altro potrai decidere di utilizzare nell’intera esistenza e che ha un suono magico. Un legame che sembrerà definitivamente spezzarsi nel momento in cui dovrà lasciare questa dimensione ed anche lei, in quel momento prezioso di allontanamento, sussurrerà la stessa parola: mamma. Vorrei poter tornare a quel mattino di tanti anni fa, quando ebbi così fretta di venire al mondo da farvi correre in tanti e tu mi consentisti di lasciare il tuo ventre per affacciarmi in questa realtà terrena che poco mi si confà e vorrei poterti dire tante delle cose che non ho fatto in tempo a rivelarti e soprattutto, vorrei poter di nuovo dipingermi sulle labbra quella parola che ti si addiceva nella sua totalità, mamma, ascoltandone il magico suono senza doverle piegare in una smorfia di dolore. Vorrei poterlo pronunciare ad alta voce e sorridere ma non mi riesce più. Sarà che più a il tempo che mi costringe a vivere nella tua assenza e più risento quel cordone ombelicale stringersi e legarmi maggiormente a te, donna incantevole che non posso più abbracciare e che nel colossale vuoto che hai lasciato, mi colmi dell’amore che non è paragonabile a niente. Perché niente è come te, non esiste corda che si intrecci nel percorso esistenziale che possa somigliare a quel cordone ombelicale che ci mantiene unite per la vita. Oltre la vita.
Lato B di Oliviero Angelo Fuina
Il buio è totale. Nella voce dell’uomo non c’è timore. Solo rimpianti. “Eccoti qui, figliolo. Tutto bene?” “Si, papi. Mi sento così sereno… Tu, invece?” “A dirti la verità, non lo so. Ecco, mi sento… Mi sento come un lato B di un vinile.” “Un lato di che cosa?!” “Di un vinile, di uno di quei vecchi dischi neri che facevamo suonare sui nostri cari giradischi quando noi, della mia generazione, eravamo ragazzi. Difficilmente, ne vedrai uno… Ma forse sarà meglio così. Adesso ci sono tutti questi nuovi i per ascoltare musica in digitale. Certo, sono perfetti, anche se secondo me così si perde… si perde l’anima gracchiante della musica…” “Si, ma… Perché parli di un lato B?” “Devi sapere che quando uscivano i 45 giri, sul lato A mettevano il brano di successo che la gente si presumeva volesse comprare e sul lato B un brano quasi sempre poco conosciuto, se non sconosciuto del tutto, anche perché poco o niente trasmesso dalla radio o in televisione. Solo che il più delle volte, alla lunga, rischiava di piacere di più proprio quest’ultimo brano, con l’ascolto nel tempo. Sai, io mi sono innamorato di molte canzoni del lato B…” “Penso di aver capito cosa intendi, papi … Ti ricordi anche qualcuno di questi lati B?” “Certo, mio caro… Dunque… La prima canzone che mi viene in mente è Due mondi di Battisti che era il lato B di Amarsi un po’ … Poi Figure di cartone delle Orme, il retro di Gioco di bimba, Ah! Sì… certo… Quante emozioni mi aveva dato Cosa si può dire di te dei Pooh, scoperta comprando il loro disco per il
successo del lato A: Pensiero.” continuò l’uomo con malcelata emozione nella voce. Se solo suo figlio fosse stato in grado di guardarlo in faccia avrebbe visto anche un mesto sorriso di chi ricorda con piacere episodi già superati dal tempo e dagli accadimenti. Dio, quanto poco tempo e quante parole ancora da dire! “Mi sarebbe piaciuto tanto poterli ascoltare almeno una volta con te, papi…” Commentò con rincrescimento il figlio. “A chi lo dici ! Ma penso avrai già capito che non sarà più possibile, no?” “Sì…” disse quasi in un sospiro, aggiungendo però subito dopo, quasi con urgenza, come per voler prolungare questo dialogo con suo padre: “E perché ti sentiresti proprio come un lato B?” “Perché di solito io venivo apprezzato alla distanza, dopo prolungate frequentazioni… Non sono mai stato da subito appariscente… Anche con la mamma è andata così, sai?… Ma per chi aveva cuore di ascoltarmi potevo rivelarmi al meglio. Sono sicuro che anche con te sarebbe andata così…” “Lo penso anch’io… Ma per me tu sei già stato da subito il mio lato A!” aggiunse accorato “Sei molto caro a dirmi questo… Ma credo che adesso sia giunto il tuo momento… Devi andare…” “Non è giusto, però! Io non voglio andarmene!… Voglio stare ancora con te!” “Ti prego, amore… E’ peggio se fai così… E’ giunto il tuo momento…Su, dai, lasciati andare senza opporre resistenza…” “Va bene…” rispose con rassegnazione “Ti voglio bene, papà…” “Anch’io, figlio mio! E continuerò a volertene per l’eternità… ma adesso vai. E’ questo il momento… Ciao, vita mia…” Quest’ultimo saluto quasi lo sussurrò ma suo figlio non avrebbe potuto comunque sentirlo: non era già più lì, con lui.
Sulla scena torna una luce accecante. Il dottore, rivolgendosi all’infermiera che gli aveva appena terso il sudore dalla fronte, le dice: “E’ andato… Non c’è più niente da fare.” “Poveretto… Morire così giovane…” risponde quasi più parlando a se stessa che all’affermazione del chirurgo. “La moglie è stata avvisata? Non l’ho vista , prima, fuori dalla Sala operatoria…” “No, non ancora… Pensi al destino: adesso è di sopra in maternità che sta partorendo il loro primo e unico figlio… Che nascerà già orfano di padre…” E con un comune senso di ingiustizia coprirono il corpo e uscirono in silenzio.
Legami d’amore di Allie Walker
Gioca con me. Prendimi, avvolgimi, tendimi, accarezzami, sfregami, stringimi. Spingimi più alto, il mio corpo in un arco: appendimi, attaccami, affiggimi, agganciami, coperto di sudore freddo: tremante, agitato, affannato, eccitato. Stretto con una corda, pronta a cantare qualunque aria e nessuna e poi… solo un piccolo tocco, E io: “Per favore…” “Danza per me…”, hai detto. E sono volata in alto più di quanto avessi mai volato. In alto come un aquilone,
ubriaca… E poi alla deriva, stretta da corde, ho ballato, vagato, librato, volteggiato, in nodi infrangibili, in legami saldi, e poi… Corde da sciogliere e seguire. Legami d’amore.
L’albero di corda di Oliviero Angelo Fuina
C’era nel mondo una corda come di quercia il suo tronco fatta di fili infiniti a unire vite indivise
Corda su bitte bagnate dentro gli approdi salati spinge corrente all’aperto flusso che muore a quel nodo
Corda che stringe sul saio croce che pesa sul petto dogma che poi si aggroviglia quando bastava l’amore
Corda su polsi segnati dentro un rubare la pelle gocce di miele non chieste
per demandare domande
Corda che spezza il respiro cappio che uccide quel pianto mentre la vita che oscilla ferma alla scelta suicida
Corda che unisce due cuori senza curare distanza tiro alla fune dei sogni vincendo un doppio risveglio
Corde su corde a intrecciarsi negli occhi d’unico specchio mai nessun capo è spezzato nell’Universo matassa.
Vite di porcellana di Ramona Di Ventura
Una bambina fruga nei bidoni della spazzatura all’angolo della strada. Indossa ciò che la sua mamma è riuscita a cucirle con la stoffa di un suo vecchio vestito. Ha i capelli biondi legati in due trecce, lunghe fino ai fianchi. La sua mamma glieli lava con acqua e aceto una volta a settimana. Le manine della bimba sono già arrossate e screpolate come quelle della sua mamma. Continuano a frugare, in cerca di qualcosa da poter usare o di un giocattolo con cui are qualche ora spensierata. La sua mamma le ha raccomandato di non prendere cibo da quei bidoni. È meglio soffrire un po’ la fame, piuttosto che ammalarsi mangiando qualcosa di avariato, le dice sempre. La piccola fruga in maniera educata, come se non volesse disturbare le decine di sacchi ammassati lì intorno. La sua mamma le ha insegnato le buone maniere, perché l’educazione sta bene ovunque, anche tra i poveri. Finalmente, in una busta nera più lucida delle altre, la bambina trova qualcosa di meraviglioso: quattro bambole di porcellana, con i visi puliti e levigati, occhi contornati di lunghe ciglia dipinte e morbidi riccioli ad incorniciare i loro visi. Hanno ancora i cappellini incollati in testa, ma i vestiti non ci sono più. Qualcuna ha i mutandoni di pizzo e i guanti di seta, la più bella ha un filo di finte perle intorno al collo, ma i vestiti, che dovevano essere davvero magnifici, sono spariti, lasciando scoperti il corpo di pezza e gli arti di porcellana di quelle creature inanimate. Alla bambina non importa molto. Le prende con sé e le porta a casa. La sua mamma non c’è, ma tornerà presto. La piccola le chiederà di aiutarla a cucire qualche vestito per loro, come hanno fatto per la bambola di stoffa grezza che tiene con sé durante la notte. Nel frattempo, la bimba adagia sul letto le sue nuove compagne di giochi e le osserva. A ben vedere, hanno i capelli un po’ scarmigliati, così decide di inventare per loro nuove acconciature. Prende la sua umile bambola. La sua mamma le ha fabbricato dei lunghi capelli con le fibre di una vecchia corda. La bambina ne taglia dei pezzi e inizia a intrecciarli con i riccioli delle belle bamboline, come la mamma fa ogni mattina coi suoi capelli. Più gli intrecci diventavano complessi, più le bambole assomigliano le une all’altra, unite da un comune destino. I resti dei bei vestiti preziosi, che avevano indossato un tempo, testimoniano la loro provenienza da un ceto più agiato. Ora però avrebbero ato il resto della vita
in una casetta spoglia e fredda, dove la ricchezza era solo un lontano ricordo. Proprio come era stato per la sua mamma, quelle bambole erano state buttate via quando ne erano arrivate di nuove, forse più ricche e più belle. Quando le acconciature sono concluse, la bambina dispone le creature in bell’ordine, accanto alla sua bambola più vecchia. In fondo, non sono poi così diverse. In fondo, sono un po’ come gli esseri umani: abbiamo tutti gli stessi problemi, gli stessi dubbi, le stesse paure, gli stessi sogni. A conti fatti, sotto i vestiti siamo tutti molto simili, intrecciati gli uni agli altri da invisibili corde, da sottili fili lucenti mossi da uno stesso burattinaio.
Corde sperdute di Anna Ciraci
S’io fossi vento potrei scavalcare i monti e ridiscendere fin sotto, dove la valle si apre al mare come fosse d’obbligo ch’egli la penetrasse fin nel profondo.
S’io fossi terra potrei esser il mondo che col suo tondo non può far altro che circondare tutto ciò che sta al suo interno allontanando tutto il resto che gli gira intorno.
S’io fossi neve mi scioglierei con un solo sguardo. Varrebbe poco il mascherar
quanto si vede, rispunterebbe in un sol istante…
A che servirebbe allora cambiar quel che già sono? Un legamento di una rete già intrecciata senza poter essere legata…
Piove di Lila Marinelli
Piove Piove sull’asfalto bagnato Piove sullo sterrato Piove sul muro di vento che hai innalzato Piove sulla corda dei tuoi pensieri intrecciati che rimangono bagnati Piove sull’asfalto. Sta piovendo…
Il fiore in tasca di Lila Marinelli
Il fiore più prezioso? La margherita caduta per terra… Tu porta la luna che le stelle le ho in tasca… Il fiore più prezioso? La tua margherita rimasta intrecciata come corda tra le tue dita…
Un chiaro caso di suicidio di Ramona Di Ventura
Buia la campagna. Buio il cielo. Buio il mare. Quella notte, il vento portava in viaggio il profumo di arance e limoni. Le foglie degli ulivi sussurravano litanie funebri sotto l’occhio vigile della luna. Tre uomini avanzavano nell’erba umida. Uno di loro camminava con o deciso, nel suo completo scuro, la brace di una sigaretta ad illuminargli le labbra. Gli altri due, più indietro, trascinavano un corpo, tenendolo sotto le ascelle. Il corpo si contorceva e mugugnava, la gola piena di lacrime e lamenti repressi a fatica dall’immensa paura. L’uomo con la sigaretta si fermò affianco ad un enorme ulivo secolare dal tronco possente e contorto, avvitato su se stesso, come se sotto la corteccia qualcuno avesse intrecciato tra loro grosse cime da ormeggio. I due uomini lasciarono andare il corpo senza alcun riguardo . Il poveretto si accasciò, il viso a terra, scosso dai singhiozzi. Continuava a mugugnare. “Pagherò, ve lo giuro! Ve lo giuro, pagherò tutto!” Nella nuvoletta di fumo che gli avvolgeva il volto, l’uomo che doveva essere il capo sogghignò. Tirò una lunga boccata e fece un cenno agli altri due. Mentre uno teneva fermo il disgraziato, l’altro gli legava mani e piedi con nodi piuttosto lenti. Il prigioniero abbandonò promesse e suppliche. Prese a piangere, conoscendo il suo destino. Con una corda più grossa prepararono un cappio e lo legarono ad un ramo basso dell’ulivo. Sapevano bene che non avrebbe ceduto. Il più grosso sollevò di peso il condannato, mentre l’altro gli sistemava la corda attorno al collo. Guardarono il capo e al suo impercettibile segno di assenso, lasciarono la presa. La corda si strinse e l’uomo si contorse quasi in silenzio. Le sue ultime lacrime gli rimasero in gola. Quando le convulsioni finirono, i due tirapiedi slegarono le mani e i piedi del giustiziato, presero una seggiola nascosta nel tronco cavo dell’albero e la piazzarono a terra, sotto il corpo penzolante. Il capo diede un’ultima occhiata alla scena, controllando che fosse tutto in ordine. Si voltò, lasciò cadere il mozzicone della sigaretta ormai finita e tornò da dove era venuto con lo stesso o deciso, i suoi due cani fedeli alle calcagna.
Il mattino seguente le forze dell’ordine arrivarono sul posto a sirene spiegate.
“Signore, a prima vista sembrerebbe un suicidio.” Il comandante osservò il viso dell’uomo che spuntava dal possente cappio. Lo conosceva molto bene. Lo conoscevano tutti in paese per le sue idee rivoluzionarie e tutti sapevano che a qualcuno non stava molto simpatico. Il comandante si guardò intorno, osservò con attenzione ogni dettaglio. Alla fine lo vide. Un mozzicone di sigaretta se ne stava tranquillo tra l’erba, a pochi metri dal cadavere. L’uomo di legge finse di non averlo notato. “Tiratelo giù. È chiaramente un caso di suicidio.”
Corde Intrecciate di Sofia Skleida
Le nostre vite legate ai cordoni ombelicali altrui al miracolo dell’esistenza, l’ombra della storia, il valore inaspettato, la gloria perduta… Le nostre corde intrecciate si collegano alle anime silenziose paurose, vittime del sogno… E il protagonista del nostro spettacolo cammina su un filo sottile e trasparente cercando di mantenere l’equilibrio tra il ato, il presente e il nostro futuro promettente…
Liberatemi di Christiana V
Era ormai buio quando Chiara, sotto una pioggerella che minacciava di diventare un temporale, attraversò il parco per ritornare a casa. Già pregustava il bollente e rinfrancante tè alla vaniglia che avrebbe bevuto accompagnato da squisiti dolcetti al burro, assieme al tepore del camino di fronte al quale si sarebbe accoccolata. Accelerò il o vogliosa di rientrare quanto prima e superò la fontana che zampillava poco distante. I tacchi affusolati picchiettavano sul vialetto di sampietrini. A parte quel rumore l’assoluto silenzio era rotto solo dalle gocce sulle foglie dei folti tigli. Tenendo ben stretto il bavero del cappotto, avanzò a testa bassa sotto un improvviso scroscio di pioggia; si sarebbe inzuppata fino al midollo e il gelo le sarebbe penetrato nelle ossa e allora nessun tè, per quanto bollente, avrebbe potuto riscaldarla. Con una mezza invettiva prese a correre senza guardare dove andava, così scivolò e cadde. Rotolando terminò la sua corsa sotto un grosso cespuglio a cui non fece caso, troppo distratta dalle ginocchia sbucciate e doloranti. Il terreno reso limaccioso dal fogliame umido e putrescente non le fornì alcun o quando provò a sollevarsi, scivolò nuovamente sui palmi delle mani inzaccherate di fanghiglia. Nuove imprecazioni seguirono le altre a ogni tentativo infruttuoso di tirarsi su.
“Cosa diamine succede? Perché non riesco ad alzarmi?” sbraitò scostando le ciocche dei lunghi capelli bruni che le coprivano il viso e, guardando in basso, le vide. Dal suolo erano comparse delle radici che le si erano avvinghiate alle gambe, si muovevano e continuavano a salire costringendola a terra. Soffocando un urlo sollevò il busto con un forte colpo di reni e la chioma restò imprigionata nel fogliame del cespuglio. Piccoli sibili, lenti rumori permearono il silenzio amplificato dall’acqua che continuava a cadere copiosa sulla sua testa.
Erano i rami sottili che, insinuandosi tra i capelli, s’inerpicavano su per le braccia, s’attorcigliarono al collo niveo e si tesero costringendola all’immobilità. Guardandosi attorno con occhi spaventati, Chiara vide che i tralci affusolati e avvinghianti di un’edera si stavano facendo strada verso il viso. Quando sentì una foglia sulla guancia, cominciò a urlare con tutto il fiato che aveva in corpo, ma l’edera avviluppante si strinse alla sua carne e continuò la sua avanzata fino a ricoprirla totalmente… soffocandola. “Uno… due… tre… Chiara apra gli occhi” Credeva di tremare come una foglia, invece era sdraiata in maniera molto rilassata sul lettino del dottor Franzini, il suo psicanalista. “Che sogno assurdo!” esclamò guardandolo con serietà. “Ero in un parco e pioveva… incessantemente.” “La pioggia rappresenta l’angoscia.” Lei lo guardò stranamente calma rispetto al sogno inquietante che aveva appena vissuto e continuò. “Scivolavo e cadevo. Poi radici e rami mi hanno legata, bloccandomi a terra. A un certo punto mi hanno soffocata.” “Mi sembra evidente che si sente costretta a vivere una vita che non la soddisfa, che la riempie d’angoscia dalla quale si sente soffocare. Dobbiamo lavorare su ogni singolo aspetto per risolvere i problemi. Ricorda? Un gradino alla volta.” “Sì… certo” mormorò Chiara alzandosi e indossando il cappotto. Che strana sensazione avvertiva, come un formicolio sotto pelle. “Dobbiamo spezzare l’intreccio intricato di queste corde che l’avviluppano.” Pensierosa tornò ad annuire al terapista e sovrappensiero aprì la porta per uscire, quando l’intorpidimento divenne molto più forte. Sbatté un piede a terra come per riattivare la circolazione sanguigna e capì di non potersi muovere: era tornata nel parco, al freddo, costretta a soffocare e legata da corde implacabilmente avviluppate, destinata a soccombere a se
stessa… oppure no?
Esami di Nicoletta Berliri
Esame: quella parola aveva il potere di terrorizzarmi. Invano avevo cercato di sostituirla con sinonimi, il potere semantico riusciva comunque a spaventarmi; il timore s’intrecciava strettamente al cuore, allo stomaco e alle viscere rendendola carne tremula. Compresi la triste realtà in tutto il suo nitore all’inizio della prima elementare quando la maestra iniziò a volermi interrogare. Madre Luciana era un donnone severo e comprensivo, uno strano miscuglio dalle sembianze burbere unite a un cuore di mamma, ciò che non aveva potuto essere. Iniziò gli esperimenti per cercare di non mettermi in difficoltà tuttavia, per quanto fe, non vi riuscì: domande dal posto, verifica di una risposta data da un compagno di classe durante l’interrogazione, compito scritto, ecc. In ogni caso, fu alle scuole superiori che realizzai quanto fosse penalizzante tale aspetto della mia personalità: lì non potevo sfuggire alla problematica che emerse prepotentemente durante gli esami di maturità. All’Università mi rassegnai ad ottenere risultati di gran lunga inferiori rispetto all’impegno profuso, nonostante me stessa, riuscii però a giungere con successo alla fine ottenendo anche una votazione finale accettabile: 105 su 110. L’esame di guida per la patente, i colloqui per ottenere un lavoro, perfino i giochi da tavolo in cui si deve fornire una risposta, tutto finiva per diventare una salita con il 45% di pendenza. Nonostante mi fossi rivolta a uno psicologo, non riuscii a riemergere dalla fossa che mi ero scavata: gli esami mi intimidivano e continuavano ad essere ostacoli insormontabili. Un brutto giorno, come avrebbero definito i più, ebbi un grave incidente automobilistico: uno scontro frontale su una strada a senso unico alternato. L’impatto fu violento, ruppi il parabrezza e finii all’ospedale in stato confusionale, fortunatamente, la durezza della testa mi salvaguardò da danni irreparabili. Quel giorno sfiorai la morte, realizzai quanto fosse labile l’esistenza umana; inaspettatamente, però, ottenni un gran risultato: adesso non ho più
timore degli esami.
Matrioska di Oliviero Angelo Fuina
“Il giorno che scoprii di essere morto, non ero ancora nato. O meglio ancora, la realtà che mi circondava si dimostrò solo una finzione scenografica.”
Ecco, questo sarebbe un ottimo inizio per un racconto idoneo a catturare da subito l’attenzione dell’”Ipotetico Lettore” a cui noi, scribacchini dallo smisurato ego e dall’inversamente proporzionale portafoglio, tutto dobbiamo ricondurre nelle intenzioni narrative. Bene. Ma dopo che occhi incuriositi e di sfida hanno bucato il nostro universo cartaceo, come fare a tenerli sulla corda dell’impaziente e curiosa aspettativa nella quale noi li abbiamo indotti? Ci vuole una storia credibile che i l’incipit ad effetto che abbiamo astutamente usato come golosa esca. E qui ci scopriamo a ragionare proprio come il nostro “Ipotetico Lettore”. Cosa siamo indotti a pensare dopo tale esordio? Ad una storia tipo “The Other” oppure ad un universo in stile “Matrix”? Ma se così fosse bisogna assolutamente scartare subito di strada perché risulterebbe sempre ardua fatica scrivere qualcosa già detta al meglio da illustri e talentuosi predecessori narrativi. Ed è qui che lo sguardo interiore si tuffa nel labirinto cerebrale e sonda inesplorati canali e gratta con frenetiche unghie per portare alla luce la giusta Idea, la più originale e spiazzante che la credulità del nostro divino lettore di riferimento sarà portato ad assimilare. Vero è che ogni scrittore, anche uno improvvisato come me, dovrebbe partire già da una storia e con la coda dell’occhio percepire già un probabile finale e, da tutto questo, partorire un inizio riconducibile al tutto a posteriori.
D’altro canto lo stimolo maggiore è invece iniziare una realtà parallela e farsi condurre, dalla stessa, verso un finale ancora sconosciuto allo scrittore stesso, quindi possibilmente…
Luca smise di scrivere e chiuse di colpo il suo quaderno per le proprie bozze narrative. Si immaginò un rumore sordo a sancire la fine dell’esistenza di quello scrittore troppo analitico. Non avrebbe funzionato. L’idea di scrivere di una persona che analizzava come far nascere una storia non gli sembrava più così brillante come quando aveva voluto seguire questo canovaccio seguendo l’estemporanea ispirazione del momento. Aveva provato, come una logica proiezione di se stesso, ad usare un “IO” narrante, così, per vedere se anche nelle considerazioni a ruota libera del suo immaginario se stesso ne sarebbe scaturita qualche buona idea. L’unica cosa che lo fece sorridere fu pensare che col suo gesto di interrompere bruscamente la storia aveva dato piena giustificazione all’incipit usato.
“Non mi convince del tutto” pensò Roberto staccando le mani dalla tastiera. L’idea di scrivere un breve racconto di uno scrittore, Luca, che scriveva di un altro scrittore, gli era sembrata più che accettabile solo qualche minuto prima. Adesso si era convinto che mancasse di quella giusta dose di suspense da indurre nell’occasionale lettore e anche della profondità stessa dei suoi personaggi, tanto da farli “empatizzare” , e rendere quindi quel finale davvero spiazzante per chi lo leggeva. Salvò comunque il tutto deciso a rivederlo più avanti. Diede un’ultima occhiata a quanto scritto e di colpo realizzò che lui stesso avrebbe potuto benissimo essere il terzo elemento di una probabile matrioska
narrativa, essendo anch’egli uno scrittore che aveva scritto di altri due scrittori. Invece di sorriderne lasciò montare un’indefinita inquietudine che aveva veste di ineluttabile presagio. “Questo come finale non è poi così malvagio” si disse Marco, esausto dalle sue acrobazie logiche per rendere ogni gradino di quella specie di matrioska credibile e riconducibile proprio al finale da lasciare in sospeso ma comprensivo di un inquietante pensiero da indurre nel lettore e cioè che ognuno di noi può essere solo l’invenzione letteraria di un nostro dio scrittore. Non del tutto convinto, Oliver archiviò il racconto ripromettendosi di aggiustarlo prima di inviarlo nella vetrina online di un sito letterario a cui era iscritto . Sì, pensò Angelo, credo che possa funzionare. Lo aggiungerò agli altri racconti brevi che prima o poi riuscirò a pubblicare. Un suono come di un frusciare di pagine intorno a sé lo fece sobbalzare… Fine?
Il calore della notte
Cari Portatori di Penna, la settimana di voto appena conclusa ha decretato come vincente il tema “Il calore della notte”. Tale argomento, proposto da uno dei nostri attivissimi partecipanti alla gara, è risultato il preferito fra tutti gli argomenti postati. Ringraziando i nostri capaci autori, sempre brillanti e propositivi e partecipi affinché le sfide si risolvano in tenzoni dai risvolti brillanti, chiediamo però, a chiunque decida di proporre un argomento per i nostri sondaggi per 7 giorni di follie, di postare anche una breve nota esplicativa che introduca il tema proposto. E adesso auguriamo a tutti buona scrittura e buon divertimento con “Il calore della notte”.
Anche se muore una stella di Oliviero Angelo Fuina
Nel siderale sguardo delle stelle già memori di assenze a congelare la tua brace riscalda l’orizzonte ancorandomi a un presente di folla
Sei quel ciocco mai domo nel camino la fiamma a ravvivare nella brezza sei l’abbraccio di un sogno ad ammantare aghi di brina dentro il cuore, sparsi
La notte si condensa sopra i vetri mentre fuori è più terso quel ricordo ma è il tuo nome che appoggio sulla pelle muore una stella illuminando il cielo
Il calore residuo del tuo astro persiste quando il tempo è già finito resta fedele nell’illuso sguardo
scalda la rotta di un viandante perso.
C’è sempre qualcuno che… di Anna Cibotti
La notte era bianca di neve e guardava il mondo col suo sguardo di ghiaccio. Si infilava nei vicoli rasentando i muri spiando attraverso le finestre illuminate cercando un modo per entrare. Cercava un po’ di calore che sciogliesse il suo gelo, ma restava fuori appoggiata ai vetri e alle case in un abbraccio inutile. La storia era quella di sempre. Vedeva e rivedeva il carosello delle umane abitudini e i suoi peggiori peccati. I fuochi fatui al cimitero, la luce fioca dei lampioni, il lampeggiare delle insegne. L’alito caldo e fumoso dei anti le regalava appena un po’ di tepore. Ma la notte cercava di più. Voleva sciogliere i suoi incubi e la paura. Un cane malandato e senza padrone le apparve all’improvviso. Il suo guaito lamentoso interruppe la quiete e un sospiro di vento gli rispose. La notte lo guardò e i suoi occhi lucenti le parlarono. Ci faremo compagnia… sono io il calore che cerchi.
E’ notte di Rossana Roxie Lozzio
E’ notte… il buio avvolge tutto nel mistero, regala tempo e silenzio, ed io, ad occhi chiusi, attendo giunga il sonno che, puntuale, non arriva. E allora, penso a te, a come potrebbe essere, immagino di rivederti in sogno e di annientare il freddo che mi abbraccia al tuo posto ma quando, finalmente, scivolo nel nulla… Il nulla, come sempre, mi attorciglia.
Il 1993 seconda parte (da “Autobiografia Uno”) di Roberta Gelsomino
Siccome già da qualche mese era nato il mio amore per l’oscurità, mi sentivo a mio agio in luoghi con penombra, e figuriamoci quando calava il sole e veniva la sera, con un cielo nero con tante stelline – come lo definivo tra me – che sembrava avvolgere tutto come una grande coperta. In quel nero io mi ci ritrovavo come un bimbo dentro la pancia della mamma. Ovviamente non bastava il naturale giro terrestre a farmi mutare sentimento, che per il massimo dei miei sforzi si struggeva di queste cose ma era fondamentalmente depresso, depresso di uno scoraggiamento per non essere stata ancora una volta presa in considerazione nei miei desideri e difficoltà, prima di bambina e ora di pre-adolescente.
Il Calore della notte di Irma Panova Maino
Lente volute di calore salgono attorcigliandosi, raccogliendo in sé stesse le verità di ogni generazione. Le fiamme lambiscono le pareti annerite dai fumi, spingendo verso l’alto le ceneri di ati dimenticati e futuri mai esistiti. Quante missive ho bruciato? Lettere d’amore, di rabbia, di pentimento e tradimento? Quanti versi conditi con lacrime e sorrisi? Quante prove ho distrutto nel mio animo infuocato? Il mio calore a volte si è tramutato in gelo e le mie fiamme non hanno potuto scaldare chi si è perso e, con la rinuncia, ha ceduto alla sconfitta più amara. Nulla ho potuto contro le afflizioni cocenti e l’inganno umano. Ognuno ha affidato al mio discernimento il lascito della propria esistenza, eliminando sogni e speranze, annullando fra le vampe la dignità e l’onore degli uomini. Le braci ardono per i cuori in fiamme ed il fuoco illumina le perle rilucenti sui corpi degli amanti. Il calore penetra nella solitudine, lasciando che sia lo spirito di chi guarda a vagare fra le spire e i tizzoni roventi, ritrovando un legame fra ciò che è stato e ciò che ancora potrà divenire. Nella notte la tenebra si disperde e addensa le ombre negli angoli più remoti, ma la menzogna ha lo stesso colore, con qualsiasi luce la s’illumini.
Il calore della notte di Lila Marinelli
Perché non esiste una scatola dove si possono sigillare le emozioni? Pensava… mentre lentamente si avvicinava verso casa. Faceva freddo. Ma lui non lo sentiva. I suoi occhi erano rimasti là, immobili nel ricordo vivo che sfiorava i suoi fianchi.
Perché non si possono incatenare le emozioni? Pensava, stringendo tra le dita il profumo del suo corpo, così sinuoso e morbido, fatto di quelle forme che sembravano disegnate con i colori del sole, che sapevano solo abbracciare e risplendere con il calore che emanavano in quella notte d’estate. Perché non si possono imbrigliare le emozioni per poi farle emergere durante le notti solitarie e fredde, che solo lei era in grado di riscaldare con quel sorriso profondo e con quegli occhi che penetravano l’anima e portavano dentro di sé il ricordo delle calde notti d’estate. Quella notte gli venne all’improvviso in mente, quando l’aveva seguita di nascosto, solo per poter vedere i suoi fianchi dondolare, come un’altalena su quei tacchi che sfioravano il lastricato. Perché non esisteva una scatola dove poter custodire le emozioni, le sue emozioni, quelle più forti; di quella volta che con la sua mano ferma le sollevò la camicetta per sentire il calore dei suoi seni; quel calore che quella notte di stelle si è confuso con il calore dell’estate appena scoppiata… Pensava, mentre o dopo o si avvicinava verso casa. Pensava a lei, a quello che… se solo avesse permesso al calore di quella notte di… Perché non esiste una scatola dove si possono sigillare le emozioni più forti,
quelle che riscaldano anche le più fredde notti d’inverno?
Il gelo delle attese di Christiana V
È buio. Michele torna in fretta a casa dall’esattoria del lotto, dove ha giocato tre numeri sulla ruota di Napoli. Apre la porta ed entra svelto in cucina, accende il televisore e lo sintonizza sul canale delle estrazioni settimanali nella speranza di vedere i suoi numeri in sequenza. Mentre la voce monotona ripete la sfilza di cifre, lui scalda un po’ di brodo del giorno precedente, lo versa in una ciotola in cui ha già predisposto dei bocconi di pane, e cena. Purtroppo nemmeno questa volta è riuscito a coronare il sogno, a provare l’ebbrezza della vincita: i suoi numeri non sono usciti. Come ogni sera, Michele esegue gli stessi movimenti: sciacqua i piatti sporchi e li ripone; spegne tutte le luci, poi le ricontrolla altre due volte, per sicurezza; chiude a chiave la porta con ben quattro mandate e si assicura di aver svolto bene ogni movimento; infine va in camera da letto. Con lo stesso metodo, Michele si spoglia e si veste di un pigiama mettendosi sotto le coperte. Sono gelide, così come le lenzuola di cotone ormai lise dagli anni trascorsi e dai troppi lavaggi subiti. Con un sospiro si volta a sinistra, verso il lato vuoto del letto, quello che occupava Grazia, che scaldava con le sue informi tenute notturne e le borse d’acqua calda perennemente bollenti, e che adesso non c’è più. Come sempre, quello è il momento più difficile della giornata, dove sente la vita per strada fatta di urla, rumori e clacson strombazzanti, mentre nella sua casa c'è solo un aberrante e insostenibile silenzio. A occhi chiusi, Michele conta fino a venti cercando di non rannicchiarsi troppo, poiché gli acciacchi derivanti dall’età avanzata gl’impediscono di chiudersi in posizione fetale e attende. Quando il tepore delle coltri avvolte attorno al suo corpo vecchio e stanco permea fin nelle sue ossa, comincia a rilassarsi e finalmente scivola nel sonno. Senza Grazia al suo fianco quello del proprio corpo è l’unico calore che ha a disposizione per superare la notte, così sospira e attende… attende… attende.
Immensità di Sofia Skleida
Apro le mie ali per coprire il cielo Sentirmi libera ad arrivare lassù… In alto… Per toccare con il dito l’universo e sentire il suo calore, il suo ardore, per darmi prospettiva sotto la luce brillante del sole che mi dà la mano e sorridendo risponde alla mia eterna perplessità: Uniamo la nostra atmosfera I nostri sogni Le nostre anime leggere dal peso della materialità… E la luna piena silenziosa Ci regala la maternità del nuovo inizio…
L’adorazione dei pastori di Andrea Tavernati
La notte dell’antivigilia cadeva sul calore e sui colori della sua quarta Adorazione. E, come era avvenuto per tutti i dipinti precedenti, tre contorni vibravano senza espressione: quelli dei pastori. Rendere tutta la loro umana ottusità e insieme la loro stupefazione consapevole, continuava ad essere un problema irrisolto, in tanti anni di lavoro. Fu preso da una strana smania: doveva uscire, andare a svagarsi da qualche parte! Ma in quel momento sentì bussare. Aprì la porta. C’era un vecchio. Grande come un Sanpietro o un marinaio antico. Richiuse, colto da una straordinaria agitazione. Il vecchio! Sì, formidabile! Si precipitò sulla tela e subito schizzò la figura del vecchio nel più vecchio pastore. Straordinario! Mai aveva fatto… All’improvviso ebbe la sensazione che qualcuno, fuori dalla finestra, lo stesse guardando: un giovane, rugoso e cotto dal lavoro, abbagliante come un fuoco oltre il ghiaccio. Il braccio del pittore volò, quasi ipnotizzato, su grumi di colore denso, in linee rapide ma perfette, per tratteggiare il secondo pastore: il giovane. Sull’ultima pennellata un’ombra gli sfiorò la mano. E la mano continuò, frenetica, ando senza pause dal secondo al terzo pastore: ritrasse quel bambino silenzioso, immobile che era comparso accanto a lui. Quando anche il pastorello fu schizzato, si fermò, preda di un improvviso spavento: “Che significa?” “Molto bello” disse il bambino “Molto. Ora guarda, sei sempre tu: la tua vecchiaia, la tua maturità. Ed io sono la tua fanciullezza. Vengo per ultimo perché ora tu ritornerai ad essere me. Tornerai bambino.”
“Com’è possibile?” “Non chiedere. Il tempo sa che fare di se stesso.” “Dimenticherò tutto?” “Tutto. Tornerai bambino.” “Anche questo?” Indicò il quadro. “Tutto.” “Non ho mai fatto qualcosa così. E’ nato con una spontaneità, una naturalezza che mi manca da anni lontanissimi e che avevo dimenticato…è come il mio essere stato bambino, un giorno. Tu sei lui, e io ero lui. Se lo perdo non sono più stato te.” Il bambino sorrise : “Non si possono vivere due misteri in una volta sola.” Il pittore vagì.
La coperta dell’anima di Sebastiano Impalà
Acre veleno nella mia gola a fiotti scendi furtivo senza cambiare rotta.
Mite pensiero nei miei occhi infondi, futile ansia mi hai trafitto l’anima.
Adesso scorgo, sotto coperte a quadri, la calda notte che imminente scende sui nostri corpi infinitamente avvolti, dentro i pensieri
abilmente uniti.
E vedo il mondo con occhiali nuovi, mi stringo a te per lasciare il segno in pochi attimi di assoluto ardore.
La luna, il mare di Allie Walker
Parole dolci, preziose E fiammeggia l’animo Su labbra incandescenti Sotto un trucco scarlatto
Una canzone sotto la luna Tesse incantesimi Che spazza chilometri Nella marea di un sogno
Baci come fuoco, come ghiaccio Risvegliano le mie parole Nel calore, nel chiarore Di una luce che balla
Una spada affilata Ha partorito pensieri Su un’isola, nel mare
Fragili parole che annegano
La notte di Allie Walker
La luna sperimenta i suoi tocchi, traccia il buio di un bordo senza fine, sfiora le acque, testa la profondità e sprofonda nel pericolo sconosciuto, è impavida. Cavalca il buio dei mari cupi, in un connubio di luce e di follia, trova la sua ragione di esistere, si flette e riflette. Tocca rami che sembrano chiamarla, circonda la chioma degli alberi, si infiltra, avvolge radici che sembrano morte, rischia il suo abbraccio e li inganna. Noi siamo il resto che tocca, con grazia innata ci sfiora una guancia, brilla tra i capelli, trova calore di vita, ama la nostra pelle e ad ogni alba manovra la morte.
La porta di Sabrina Grementieri
La notte mi affascina, mi intriga, mi spaventa. Le strade vuote ma mai silenziose, un rumore di i, un refolo di vento che trascina le foglie, una chiave che gira nella toppa e sospiri di uomini e cose nascosti nel buio. Un buio che avvolge, con le sue promesse e i suoi pericoli. Mi muovo furtiva, assorbendo con gli occhi i colori e gli odori, disegnando nella mente una realtà conosciuta ma diversa. Non ho mai voglia di rientrare, voglio vivere, assaporare, sperimentare.
Ma quando sono dietro quella porta, con te tra le braccia amore mio, la tua pelle di pesca, la boccuccia imbronciata e il capo appoggiato nell’incavo del braccio, la notte mi fa paura. Ti stringo forte, con l’unico desiderio di non allontanarmi mai da lì, immobile e indifesa di fronte a quell’oscurità che combatto girando la chiave, ma che sento incombere fuori dalle pareti, all’improvviso fragili e trasparenti. Questa contraddizione mi inquieta: attrazione e paura, inquietudine e desiderio. Non me la spiego, e non me ne libero. Guardo quella porta, con occhi confusi: sono in bilico tra due mondi.
Le cose della notte di Rossella Gallucci
È nel posarsi delle cose che si nascondono le ore mentre tutt’intorno si acquietano i colori. Come se una mano interrompesse il tempo e dentro ogni spazio chiuso si rifugiassero le assenze.
È nelle schiene delle ombre che si raccolgono i pensieri così alla rinfusa da non trovarne il senso mentre una mano calda li accarezza e fugge.
È lì che si celano al buio delle ore quando si estingue il giorno. E in un abbraccio caldo ti avvolgono e si rifugiano in te.
È lì che le cose cessano di esistere e nel respiro che si fa rauco semplicemente sono.
Loro, che poi siamo noi di Ramona Dandy Di Ventura
Un debole bagliore lunare attraverso la tapparella difettosa. Rumori indistinti, richiamo del vento. Silenzio. Profumo di schiuma, odore di donna, pulito. Respiri. Calore di corpi, fruscio di lenzuola spostate. Vapore. Carezze leggere, solletico, inesistenti pudori. Mani. Sorrisi nel buio, gemiti nel dormiveglia, a scacciar via una ata innocenza. Amore. Odore di fuoco, respiri affannosi, sussurri rochi nella stanza. Labbra. Baci di tulle. Abbracci di morbida seta. Lei non riesce a tenere gli occhi chiusi. Continua a guardare il buio, concentrata più che mai sul contatto con la sua pelle, sulla temperatura di quel corpo forte accanto al suo. Preoccupata, cerca di coprirlo con quel lenzuolo ingarbugliato, incastrato chissà come tra di loro. Un respiro più lungo degli altri, le labbra che si cercano nella notte di quella piccola stanza. Lui cade momentaneamente nell’oblio, ma un suo minimo movimento lo riporta a quell’incredibile e dolce realtà. Sono lì, soli, senza occhi indiscreti a guardarli, senza il mondo esterno a spiare. Senza limiti. Lei, che lo ama con ogni sua cellula, che venderebbe l’anima al diavolo per potergli stare così vicino giorno e notte, gli posa la mano sul petto. Lui, che la ama con ogni sua fibra, che le farebbe scudo con tutto se stesso per proteggerla e tenere intera la sua fragile anima, accarezza con dolcezza il suo seno. Il buio è più denso, come il loro respiro affrettato. Non c’è quasi nulla a separarli dall’essere un tutto. Sono vicini, non solo col corpo. Si cercano, si trovano. Si sfiorano e sussurrano, un tacito accordo. Un semplice sì, un cenno. Ed è luce. Si cercano ancora. Si trovano ancora. E si prendono. Nessuna paura, né esitazione. Lei non si pentirà mai di tutto ciò, cascasse il mondo, sarà sempre immensamente felice che sia stato lui a prendere quel pezzo di lei che non tornerà. Lei non riesce a spiegare a parole la luce che le brilla
dentro, da quando c’è lui in quella sua informe vita. Lei, che dopo tante lacrime amare, riesce a sentire la felicità palpitarle nel corpo, come le ali di un piccolo colibrì. Lui è lì, è con lei, sua e sua soltanto. Lui l’ama. Lui vuole vederle il sorriso negli occhi. Lui che non tollera di averla lontana. Lui che la fa sentire una dea. Loro due, in quella semplice stanza, che ora contiene un segreto. Loro, che hanno scoperto qualcosa insieme. Lei. Lui. Loro. Loro, che poi siamo noi. Ti amo.
Morpheus di Antonella Mattei Keiko
Il calore della notte è intenso, l’aria pesante quasi immobile, attraverso le fessure delle persiane socchiuse s’insinua la pallida luce della luna. Se apro gli occhi riesco ad intravederne i contorni: ha delle sfumature rosse, è bellissima e ammaliante ma non riesco a tenerli aperti a lungo, anche il respiro è diventato affannoso. Il letto è ormai del tutto disfatto, i lenzuoli sono andati a finire per terra o forse aggrovigliati intorno a me, chi lo sa, chi se ne importa. Le sue spalle possenti sono praticamente tutt’uno con le mie mani che esplorano il solco della colonna vertebrale; mentre lo percorro lentamente come una stradina di campagna, ogni dosso, ogni cunetta che sfioro gli provoca un brivido d’eccitazione; gli afferro la testa affondando le mani nei folti capelli biondi e lo fisso negli occhi: sono annebbiati, come quelli d’un ubriaco; ma non è l’ebbrezza dell’alcol, è la ione che lo divora. Riesco a frenarlo quel tanto che basta a mantenere il gioco ancora più intenso, respira a fondo e si rilassa leggermente: mi toglie le mani dai suoi capelli e afferra i miei, sparsi sul cuscino, le sue mani mi artigliano la nuca, costringendomi ad alzare lo sguardo. Nell’oscurità gli occhi blu dardeggiano di desiderio, con l’altra mano m’inchioda le spalle al letto e comincia a baciarmi la gola, reclino la testa all’indietro assaporando ogni singolo bacio con un lento gemito di piacere. Potrei morire adesso. Comincia a scendere lungo il collo e ancora oltre, gli poggio le mani sul petto e lo spingo un po’ indietro: voglio che il gioco continui di più, ancora e ancora. Prende una mia mano tra le sue, mi bacia il polso e la poggia sul torace fermandola sopra il suo cuore che galoppa come un cavallo selvaggio. Ci guardiamo ansimanti nell’evanescente penombra lunare, non c’è bisogno di alcuna parola, i nostri gesti e gli sguardi parlano di ione e istinto primordiale. Mentre la mia mano è ferma sul suo cuore, la spallina della mia sottoveste di seta nera comincia a scivolare lentamente: non potrei fermarla neanche se volessi , la mano che la guida è esperta e perentoria, bastano pochi secondi per ritrovarla abbandonata sul letto insieme ai suoi colleghi abiti. Sono ingorda, sono golosa, sono egoista: voglio che questo momento duri un’infinita eternità. Gli guido una mano lungo le mie gambe che fremono nervose, ma appena s’inerpica oltre la coscia gli blocco il polso inebriandolo con un bacio sul collo che sale lentamente fino alle orecchie.
I suoi gemiti mi esaltano, il potere che mi danno mi gratifica: in questo momento potrei fare di lui quello che voglio; ma in realtà è lui a tenere il gioco, in un secondo capovolge la situazione: mi a un braccio sotto la schiena attirandomi forte a sé e mi ritrovo a guardarlo dall’alto, mentre lui steso sulla schiena sorride mostrando i denti bianchissimi tra le labbra morbide, umide e voluttuose. Non è ora, non ancora; deve essere lento, deve portarci al massimo dello stordimento dei sensi. Mi allungo su di lui, mentre la sua bocca ardente percorre ogni anfratto del mio corpo e tasto nel buio, tra le lenzuola ammucchiate, tra gli abiti abbandonati, sotto al cuscino, e infine la trovo. La notte ora è fonda, la luce lunare più intensa; si morde le labbra pregustando il piacere mentre mi osserva con la sua cravatta azzurra in mano avvicinarmi al suo viso, gli bendo gli occhi: è ancora lunga la nottata, la luna tramonterà solo all’alba. Un velo di sudore leggero e lievemente profumato gli bagna la gola mentre avvicino il mio viso al suo, assaporando entrambi frementi il gioco che ci aspetta. I suoi occhi sono ora bendati, le braccia arrese aggrappate alla spalliera del letto; mi prendo tutto il tempo che voglio mentre perlustro lentamente i contorni perfetti della sua bocca. Un suono mi distoglie, sordo, rauco; eppure Zeus, il mio enorme labrador dorato si trova nella terrazza sul retro, magari intento anche lui a rimirare la luna; ma questo suono è troppo vicino, non viene dall’altra ala della casa. Sfioro i suoi capelli con la bocca e il rumore adesso è diventato un grugnito: mi distrae innervosendomi, sento sussultare il materasso e so che non sono i nostri corpi. Un respiro profondissimo, un rantolo e un colpo fortissimo sul mio naso. Mi siedo sconcertata sul letto e accendo la luce: a fianco a me, mio marito sospira e russa innocente, dorme profondamente, incosciente del colpo infertomi sul naso, provocato dal suo agitato rigirarsi nel letto nell’oblio del sonno. Gli allungo un violento calcio alle gambe che non provoca alcuna reazione se non un grugnito ancora più forte. Sospiro stremata e incredula; mi stringo nel mio pigiamone di flanella rosa con disegni di coniglietti, questa notte oscura e ammaliante è svanita. Cerco il bicchiere dell’acqua sul comodino e insieme ci mando giù due Tavor. Non è estate, non indosso la sottoveste di seta nera e non c’è nemmeno la luna. Spengo la luce, mi rannicchio in posizione fetale con una mano in bocca e l’altra sotto al cuscino. Mentre le pillole cominciano il loro effetto ipnotico e i petali dei
papaveri di Morfeo appesantiscono le mie palpebre trascinandomi nel suo universo, sfioro con la mano una striscia di stoffa e una cravatta azzurra emerge da sotto il guanciale come un serpente tentatore.
Nel calore di Andrea Leonelli
Nel freddo del tardo pomeriggio o nel gelo del mattino non mi attanaglia il brivido. Ho ancora dentro il calore delle notti trascorse e dei giorni con gli occhi a fissarsi. Quel calore che non cambia né in estate né in inverno. Il calore di una fiamma che da serenità senza bruciare. Il calore di un cuore pulsante. Il calore del non essere mai solo
Non v’è calore nell’incertezza di Anna Ciraci
Spostai la tenda della finestra della camera da letto. L’unica che guardava direttamente sulla terrazza, non l’avevo mai notato prima, puntava direttamente sull’angolo più curato con le piante più verdi e rigogliose, sembrava fatto apposta. Al centro del vetro si mostrava fiorito, come mai prima di allora, il vaso di rose rosse mentre un raggio di sole infiltrato dai condomini circostanti le illuminava come voler farle scintillare evidenziando ancor di più la loro fioritura. Chiusi all’istante le tende, per nasconderle velocemente, girandomi di scatto verso mia madre morente nel letto. Ricordai le sue parole e mi si strinse il cuore: “Non posso andare da nessuna parte, non ho ancora visto fiorire le mie rose!” Non riuscì a dirglielo. Era l’ultimo giorno di aprile. Da giorni non riusciva più a parlare o semplicemente a muoversi, oramai la bestia dentro di lei aveva preso il sopravvento su tutto, restava soltanto un involucro cosciente di ciò che l’aspettava. Morì il giorno dopo, in una mattina di sole splendente e tiepida quel tanto che basta a scaldarti l’anima, al contrario la mia raggelava, anche se avevo fatto di tutto per non farle salutare le sue belle rose fiorite. Avevo solo vent’anni. Fece la sua prima operazione cinque anni prima per un melanoma al seno, poi fu lo stomaco ad esser aperto per tentare di eliminare il Male, mesi di terapie, di pastiglie, esami. Un calvario dietro l’altro fino ad arrivare al fegato ad esser tagliuzzato… nulla, se n’è andata. E intanto il gelo persisteva, in un giugno così caldo da riuscire a scogliere l’asfalto, io ghiacciavo dentro.
In una notte piena di stelle che solcavano il cielo lasciando un alone fluorescente al loro aggio sognai. Ero tornata piccola, nella mia vecchia casa dove ho ato tutta la mia adolescenza. Percorrevo il lungo corridoio che dall’entrata accompagnava alla zona notte, guardai la mia camera ando davanti alla porta, feci in tempo a vedere il letto a castello con le mie lenzuola sempre arruffate, per poi voltarle le spalle ed entrare nella camera dei miei genitori. Mio padre non c’era, il letto era disfatto come se ci avessero dormito dentro. Il piumone dai colori tenui e rassicuranti, aveva una strana forma a spirale dalla quale spuntava solo un viso. Era mia madre. Mi avvicinai titubante al suo cospetto per darle modo di vedermi, lei mi chiamò, ed io presi coraggio: “Mamma!” Lo dissi sottovoce anche un po’ impaurita ma continuai: “Stai bene adesso?” “Si, ora sto meglio.” E mi sorrise. Mi svegliai di soprassalto senza però esser spaventata, ero solo tutta sudata. Oggi? Oggi vivo in un’altra casa, sono sposata, ho dei figli, ma la notte dormo ancora col piumone che ho preso dalla casa dei miei genitori. È il mio calore nella notte.
Notte povera, povera notte di Nicoletta Berliri
Pensare non costa nulla; fantasticare ancor meno. Al buio, rannicchiati nel letto sempre troppo freddo per dormire subito, si pensa bene. Avevo cominciato per gioco, immaginando ciò che non potevo vivere. Pranzi al lume di candela: ipercalorici, nutrienti, afrodisiaci, eccitanti. Lavori ben pagati, importanti, coinvolgenti, lindi, defatiganti public relation. Vestiti alla moda, scarpe comode da 150 € in su, l’imbarazzo di scegliere e un corpo in salute: magro da dieta e ginnastica. Avventure esotiche: viaggi in Cina o più in là. Poi il letto si faceva caldo. Il torpore mi coglieva con il resto di quei pensieri alternativi ai sogni che non si decidevano mai ad arrivare durante il sonno. Al mattino era triste aver vagato con la fantasia nei meandri del successo. Non restava niente a farmi compagnia per più di due notti. Note stonate in una vita misera dove ti rivolgono la parola solo per comandare o avere. E la voglia mi assaliva sempre imprevista: al lavoro, mangiando, al cesso. Toccavo il mio corpo morbido, forse mollo, flaccido nonostante le costole magre e il ventre troppo gonfio. Comprai una penna e scrivere fu un gioco, l’unico possibile per anestetizzare i sensi: effetto flou, torpore delle percezioni, sbornia alcolica finalizzata alla sopravvivenza. I poveri son soli o i soli poveri di spirito, forse.
Nel cilindrico mondo del bicchiere navigavo e scrivevo… e mi piaceva.
Bevo vino misto ad acqua e quasi invoco spiriti del ato.
Dove sei Archiloco, padre del tempo? Chiocciavo con voce gobba e credevo e speravo e tentavo e respinta imprecavo. Ma la notte torna sempre dolce e scura, con il letto sempre troppo freddo per dormire subito, troppo grande e vuoto per scordare il mondo. Il fegato, gonfio di bile ed alcol, ispira pensieri sordidi e maligni, sempre più complessi. Quante variabili! Equazioni con incognite. E i conti tornano, tornano sempre quando devi pagare. All’alba un cerchio alla testa e un’idea fissa: Oggi sarà peggio di ieri e meglio di domani!
Notte sulla Senna di Pablo Cazzulani
Una coppia a intirizzita, nonostante la donna indossi una pelliccia e l’uomo un cappotto di lana; dall’altra parte del fiume, tra le insegne luminose che reclamizzano profumi e auto di lusso, leggo che il termometro segna -5, ma non ho particolarmente freddo. Da anni sono abituato a convivere con queste temperature; i due non mi notano neppure, troppo presi dalla voglia di infilarsi in un bistrot e sfuggire per qualche ora a questo inverno che sembra non voler finire più. Io avanzo, spingendo a fatica tra i cumuli di neve, tutto ciò che ho: questo carrello che ho rubato da un grande centro commerciale è la mia auto di lusso dentro di cui due sacchi di iuta, laceri e consunti, sono il mio armadio. Il piccolo Lucky sta dormendoci sopra, guardiano silenzioso dei miei pochi stracci, mentre gli altri due miei piccoli tesori, Zippo e Mila, zampettano gioiosi ad un metro da me. Oggi siamo stati fortunati, abbiamo guadagnato qualche moneta su a Montmartre vendendo i nostri racconti ed i piccoli hanno potuto mangiare: non tutti i giorni capita, ma siamo sempre insieme e poi abbiamo amici su cui contare. Stiamo andando proprio da loro adesso, giù al Quai St.Michel perché è quasi mezzanotte e loro ci aspettano; sicuramente il Poeta sarà già arrivato, è sempre il primo, con il suo foulard giallo e l’immancabile mozzicone di sigaro; poi ci sarà Jean, il pittore, Philippe e Margot, che tutti conoscono come i mimi del Trocadero e poi gli altri, attori smarriti, musici erranti, scrittori, proprio come me, senza penne e senza fogli. Ognuno con la sua storia, una storia che cambia quando davanti al fuoco uno di noi prende la parola e racconta la fiaba della propria vita, narra di esistenze invisibili per il resto del mondo ma che sono il calore delle nostre notti. Non so come sono arrivato a Parigi, forse ci sono nato e questo ricordo è andato smarrito, si è perso nel tempo da quando ho deciso di essere libero, ma poco importa dove sia, conta con chi sia e questa è la mia famiglia. Spunta chissà da dove una bottiglia di vino, la fisarmonica del Bretone invade con le sue note la Senna mentre, dall’alto del Quai, ricche signore, dirette a Notre Dame, ci guardano con disprezzo… Buon Natale anche a voi, mesdames. Zippo e Lucky si raggomitolano tra le mie gambe, Mila appoggia il musetto sul mio petto. Chiudo gli occhi, una lacrima scivola fuori, mentre il mio spirito si apre a Dio.
Parole di Luna di Irisfairy
A volte il dolore è cosi grande che la vita resta sospesa. Nessuno di noi è in grado di farvi sempre fronte! Purtroppo nemmeno gli Elfi! Sono molto stanca oggi, ho vagato tutta la notte, nel suo calore, per spargere nel bosco la polvere del sogno. È un peccato essere in cosi pochi. La mente torna al ato, alle feste degli elfi intorno al fuoco, tanto, tanto tempo fa, nella notte dei tempi, quando isolati, dispersi nei boschi della terra avevamo addosso il peso della solitudine. Ma sono contenta di quello che faccio, sono contenta quando riesco a regalare un sogno. Poi… all’alba sono fuggita, sono tornata nel bosco
a guardare la vita da sopra al mio albero. Qui è più sicuro per me, è il mio mondo, la fantasia non ha bisogno d’esistere, perché ogni sogno è realtà. L’aria è cosi limpida, cosi calda in queste notti, al punto che anche i pensieri arrivano pigri. Ma non ho molto da fare qui, tutta sola. La mia condanna è il tempo, e il tempo deve are, piano. Aspetto come una lunga agonia che nel cielo si accendano le stelle, aspetto la luna, che possa far luce sulla strada che mi porta da te. Solo per restare ad osservarti. Potrei desiderare di averti accanto sempre, basterebbe pensarlo affinché, nel mio magico bosco, possa diventare realtà. Io continuo ad aspettare, aspetto che sia tu a voler venire, aspetto le notti in cui i grilli resteranno a vegliare su di noi,
Le notti in cui sogno e realtà si confonderanno al punto da non poter distinguere l’uno dall’altro. Aspetto e conto le stelle che piano s’accendono. Osservo gli uomini che corrono contro il tempo, che lo temono, e ringrazio d’essere una donna senza tempo, perché cosi, potrò restare ad aspettarti più a lungo. … tu… dormi e sogna, io resterò qui, a sentire ancora una volta il tuo profumo, a respirare il tuo respiro, a provare a credere che tutto quanto sia vero.
Ricordi frammentati di Giuliana Guzzon
Ero piccola, la sera ci si sedeva all’aperto, i grandi sulle sedie, noi bambini sullo scalino di casa e qualcuno raccontava qualcosa che assumeva subito la connotazione della fiaba. Sotto il tremolio delle stelle tutto era possibile e tutto gradevole, anche le storie di fantasmi. Dormire su un materasso fatto con le foglie delle pannocchie mi divertiva, mi giravo e rigiravo e quello scricchiolio, quell’odore di campagna che veniva su, mi dava un piacere immenso. La luce delle candele nel calore della notte rendeva tutto magico e ai miei occhi di bambina, anche le ombre che si annidavano negli angoli avevano un aspetto rassicurante, come di fate pronte ad accompagnarmi nei sogni. Di notte, quando scrivevo, sentivo rumori sopra in soffitta: una piccola mandria di topi, fantasmi irrequieti o un angelo della povertà che stringeva nel pugno le mie ore insonni, il ritmo segreto dei nomi e dei suoni. L’attesa del crepuscolo d’estate e il buio della notte in una brezza tiepida alla pelle, la pazienza di respirare piano e concentrare gli occhi, attendere le lucciole accese a una a una come un lumicino, tenerle nel palmo delle mani chiuse e sbirciare dentro, sembrava l’arco di una cattedrale illuminata… per poi lasciarle andare e seguirle fino dove arrivava lo sguardo. Il canto del cucù sul fico dietro casa la mattina presto. Non sono mai riuscita a vederne uno, lo aspettavo, con le gambe a penzoloni dal balcone, fino al soffice scatto della testa delle galline, proprio lì sotto, nell’aia. Ora sono una donna adulta, ho combattuto le mie battaglie, non mi sono mai sentita inferiore a nessuno e mi sono sempre sentita libera di dire i miei pensieri a voce alta, seppure con quell’educazione cui mio nonno teneva tanto e che, è riuscito a infilarmi sotto la pelle.
Self pleasure di Allie Walker
Chiedo a te nel buio della notte quando le mie mani sono alla deriva sul corpo e la mia mente finge che siano tue. Chiedo a te mentre la tensione cresce i muscoli si irrigidiscono e il cuore tuona. Chiedo a te con la schiena inarcata e il collo a nudo pensando sia tu a liberare il mio fuoco. Sussurro a te quando il cuore rallenta
gli occhi si chiudono mentre vado alla deriva nel sonno nei sogni.
Solo un’altra notte di Giuliana Guzzon
LEI: “La cenere del tempo bruciato insieme avvampa i miei sensi stanotte e la bocca si infiamma per i tuoi baci e le lingue alimentano fulgori bramo il tuo corpo… e lacero con unghie distratte l’armonia dei tuoi quadri scorgendone tra i colori il cuore che ne rimane…”
LUI: “La tua pelle… dove fiamme le mie labbra liete muoiono
e il calore sordo dei tuoi seni su di me… Tu abiti come la notte mentre aggiungo un’altra goccia al tuo mare”
LEI: “Non sono altro che la cenere di un sogno che dalle mie mani sfugge mentre cerco di afferrarlo. La disperazione sgorga dai miei occhi li osservi muoiono nel tuo nome…”
LUI: “Tra le tue braccia, stretto il mio sangue scorre tumultuoso e selvaggio sento la marea del desiderio
fluire libera e ardente mi perdo nei tuoi occhi ti amo e ti rimpiango sei nel mio cuore, ferita sanguinante” LEI: “Mi hai stretta nel tuo abbraccio fatale hai bevuto la mia gioia tu che sei felicità e sorriso balsamo e lacrima voglio cicatrici che mai si chiuderanno per poterti tenere in me solo un’altra notte…”
Sono un vampiro di Giuliana Guzzon
Strana è la sensazione che si prova quando si è immortali, quando sono secoli ormai che vaghi nel tempo e nei luoghi di questa terra, dando la dannazione eterna alle anime di persone che non conosci, movendoti da solo nel buio della notte. Strana è la sensazione che si prova ad essere nebbia nell’oscurità, pipistrello nei venti, lupo nei boschi; è indiscreta, accattivante, egocentrica, bella quanto la luna piena. Ricerca, pensiero, conoscenza, sono inutili illusioni quando il tempo ha perso il suo valore e mi chiedo quale sia la strada più breve per il nulla. Sono un brandello d’umanità che squarcia l’anima per la perdita del sole, ho fame, respiro l’immagine di un collo, una vena pulsante, inebriato dall’odore del sangue. Il dolore mi ha creato e la ione mi ha sconsacrato, rendendomi libero da ogni umana schiavitù, perdendomi nell’oscuro piacere di ciò che mai la luce potrà capire. Ho attraversato epoche eternamente vivo, esistendo notte dopo notte con gli occhi gelidi e il candido pallore, rendendo potere al mio risentimento; io sono diverso dalle favole cristiane. Un sensuale abbandono alla mia unica compagna: la sete. L’adrenalina su ali e zampe dà fuoco ai miei muscoli, ciò che provo è ciò che vedo, c’è sangue su queste mani, io ho bisogno di questo liquido rosso e caldo, ho scelto, sono stato scelto, ciò che era luce ha avvolto il mio ato, ora sono freddo e non respiro. o le mie zanne sulla pelle innocente, le mani, le labbra danno il ghiaccio e la strada per il ritorno è lastricata di morte, la vera morte. Osservo, osservo tutto, mi sento superiore, con i denti snudati nel grido di
vendetta e la lingua che sfiora il fascino del peccato, sì, era questa la mia scelta, animale, demone e maledetto, respiro il respiro e vivo nella fine di un bacio. Sono bestia, un essere deforme che arranca su uno spasmo morente, un cacciatore alato con le unghie adunche smaltate d’ingordigia, quando guardo il vuoto che ho dentro si espande, la mia mente si oscura e lascia posto al male. Sono la leggenda di paesi lontani, un antico cavaliere all’ombra di una croce, un Giuda molti anni dopo, un emblema sanguinario. Ho desiderio di mordere la vena che palpita la vita, un famelico istinto che mi incendia le viscere, mi sospinge sulla preda, è una pestilenza d’amore sulle labbra insaziate, dai miei morsi traspare una selvaggia fierezza e il collo diventa seta morbida. È così che accade; l’ultimo rintocco della campana suona e nulla ha più importanza, la nebbia si alza e invade, giunge la paura, l’orrore, tanto da riempire gli occhi, a nulla serve correre lontano, non c’è modo di sfuggirmi, io non ho luogo. Io sono tutte le paure, una nota stridula rifiutata dal tempo, disperso sangue anonimo tra i vivi, riposo nella coltre della mia bara dove fiorisce l’antico torpore, scelgo la mia vittima per la notte eterna e il mio cuore non sbaglia mai.
Una notte di Allie Walker
Il sole si deposita all’orizzonte e attendo il blu di un cielo punteggiato di stelle. Scherzo, chatto, sorrido alle stronzate della gente, tutto sembra essere lieto in questa serata dove nulla è dolore e grigiore. Siedo tranquilla, viaggio con le parole, descrivo un desiderio, attendo di seguire un’orma… una promessa. Una brezza leggera entra dalla finestra aperta, il miagolio dei gatti del vicino, l’abbaiare di un cane in lontananza… tutto è normale. Ascolto una canzone, poi un’altra e un’altra ancora. Una farfalla notturna entra dalla finestra, sbatte le ali, non conosce la propria fragilità. Se solo avessi saputo la mia… Una doccia prima di infilarmi sotto le coperte. L’acqua evapora, la pelle di seta, mi crogiolo nella morbidezza di un asciugamano, prolungo l’abbraccio pensando sia tu a farlo. Poi parole, ancora parole tra noi. Tutto scorre e si infiamma nelle vene, diviene calore e colora le prime ore della mia notte. E poi cado, improvvisamente, nel buio più nero di una notte senza luna, senza un suono, senza un motivo apparente. Sento sussurrare il mio demone, rifiuto di ascoltarlo, ma insiste e si gode il mio malessere. A nulla valgono le parole, le tue. Non ti ascolto più, strappo quel filo sottile che ci unisce. Rannicchiata su un fianco, afferrando il mio stomaco dolorante, cerco una ragione e non la trovo. o così la mia notte, con gli occhi sbarrati a guardare le ombre, cercando una ragione per rialzarmi. Le ore ano lente, la notte sembra non finire mai, attendo impaziente la luce del giorno e quando arriva comprendo che devo farcela da sola, il mio fardello deve essere svuotato, solo così potrò dire di aver vinto di nuovo su quel demone oscuro e prepotente.
Ippolita: storie di donna
Eccoci giunti alla prima edizione per l’anno 2014 del contest 7 giorni di follie e iniziamo con uno splendido tema intitolato Ippolita. Abbiamo preso spunto dal meraviglioso romanzo di Rita Sanna per consegnare alle vostre fantasiose Penne un argomento che tratterà storie al femminile. Composizioni riguardanti donne viste da ogni prospettiva e sotto qualsiasi luce. Donne che soffrono, che vivono tutto all’ennesima potenza, che non si abbattono e vanno avanti o quelle che muoiono per amore, quelle che sono succubi o quelle che rivendicano la loro condizione, quelle che amano in silenzio perché non possono gridare il loro amore a causa di implicazioni troppo grandi nella loro vita, quelle che hanno il coraggio di iniziare di nuovo, quelle che hanno il coraggio soprattutto di essere donne, perché per esserlo bisogna essere molto, ma molto coraggiose! Buon lavoro, dunque. Siamo certi che riuscirete a stupirci anche questa volta!
Presunte storie di Giuliana Guzzon
Sara di parole ne conosceva tante, conosceva la tecnica per gestirne il fascino. Ascoltava il suono dei pensieri per non sentirsi sola. Di gesti ne conosceva pochi, pensando potessero bastare. Viveva nella finzione di essere felice, imprigionata nei ricordi che usavano la sua voce e il suo cuore. Un giorno scelse due occhi in cui guardare, mischiando le ioni e cancellando gli umori tristi, lasciando sfogare gli impulsi. Fingeva di non averla un’anima, smaniosa di correre più veloce, pensando che poteva scegliere di non perdersi. Ma si sbagliava.
Rebecca cercava la resurrezione e nelle tenebre la certezza. Due occhi non bastavano a dare un senso a ciò che vedeva se oscuravano la ragione con fatuo ardore o immenso dolore. Scelse di non mangiare più le unghie, ma mangiava i pensieri, li divorava, trascurando i reali bisogni che un’anima potrebbe avere. Non voleva chiedere aiuto, rimanendo rilegata a quel perimetro che era la sua stanza, la sua aria conosciuta e respirava dei suoi respiri.
Sonia, rispecchiando il proprio nome, sognava. New York, Toronto, Sidney, ma anche Parigi, Berlino, Londra. Tutti posti segnati sulla sua mappa geografica, che durante gli anni di scuola aveva sempre ignorato.
Aveva scelto la libertà, l’aveva scelta prima che qualcuno potesse minacciarla. Si era imposta di realizzare i suoi sogni, di inventare il suo destino, perché a non farlo avrebbe tradito gli anni ati ad aspettarlo. Non smetteva di guardarli quei luoghi lontani, fino a plasmare immagini ordinarie in opere di perfetta armonia. E in armonia trovò nuovi occhi in cui viaggiare, perché anche senza muoversi, avrebbe camminato.
Giulia si strusciava sul soffitto sospesa nell’aria di non appartenenza al mondo. S’abbandonava al suo sguardo riflesso nello specchio vicino al letto, dicembre, un mese ancora da are intero, angoscia che le stringeva la pelle, la gettava nel mondo dal quale lei cercava di fuggire, penetrata da pugnali di inutile realtà. Presa a contare le ore prima di una nuova scia di luna pallida, cercava dolcezza con le mani sul suo corpo. Nelle lenzuola, attimi di estasi sfumata. Creatura nuda che abbandonava la pelle a momenti di piacere auto inflitto per sentirsi ancora viva, per perdersi in orgasmi solitari, amandosi.
Soledad amava l’azzurro; il mare e il cielo. Le piaceva avvicinarsi a diverse figure e se una la faceva stare male la sostituiva con un’altra. Continuava ad affascinarsi di uomini che sceglievano di non amarla, cercando di conquistarsi l’amore di chi non avrebbe voluto offrirle niente. Come sul foglio bianco dei poeti aggiungeva ali ai sogni. Raccontava il mare, il suo mare, con tutti gli odori dei suoi umori, sparsi su un lenzuolo immenso, ma non lasciava traccia in quella sabbia, che resa l’anima, non conservava la sua presenza.
Potrei continuare. Ogni vita racconta la sua storia, la fa vivere nei respiri in cui l’eterno sposa l’attimo e fa nascere il destino. Quando s’esiste tutto è famigliare. Le donne combattono, amano, si spaventano, soffrono, rinascono e lo fanno all’infinito.
Quel fuoco per noi di Claudia Lo Blundo
[…] La sera in cui mi disse di essersi innamorato di me e che intendeva sposarmi volle che cedessi alle sue offerte, voleva la prova d’amore, o meglio, se la prese, nonostante io non volessi: lo picchiavo, l’imploravo ma lui non si lasciò commuovere mentre non faceva che dirmi che ero una sciocchina, perché mi avrebbe sposata, mi avrebbe fatto vivere come una ricca signora. Tornai a casa distrutta, ora capivo che cosa aveva fatto mia madre della sua vita, e, cosa ben più grave, subito lo capì la zia e ne vide le conseguenze quando, poco dopo, fu lei a capire che ero incinta. Non mi diede il tempo di pensare a quel che si agitava nel mio corpo, mi portò da una donna che devastò non solo la vita di quella creatura che voleva venire alla luce in modo ben più diverso, ma devastò me. “Ormai sei come una vecchia ciabatta buona solo a essere buttata via o forse per essere raccolta dal più misero degli uomini”. Così mi disse la zia, e mi cacciò da casa.
[…] Il mio Sacha, è lui che mi fa lavorare, dice che se non sono carina i clienti non vengono e, se non vengono, lui, ormai lo so, mi picchia a sangue. La zia mi diceva che se fossi riuscita a prendere un diploma avrei trovato un lavoro dignitoso che mi avrebbe permesso di fare strada nella società. Si, povera zia, ne ho fatta di strada! Ogni sera eggio lungo questa via buia, segnata da lampioni che danno una luce fioca, proprio adatta per invogliare a rapporti clandestini tra uomini che si fermano e donne obbligate a offrirsi anche se per pochi soldi, nella speranza di far giungere qualcosa ad una madre o ad un figlio lontano. Forse aveva ragione la zia: il sangue non mente, sono diventata come mia madre
e, come sarà accaduto a lei, non vedo una via d’uscita a questo orrore di vita.
Talvolta mi soffermo a pensare con invidia alla povera vita della zia e al suo grosso neo peloso vicino la narice sinistra: provvidenziale!
Ferite di Guerra di Ramona Di Ventura
Il dolce profumo di pasta frolla croccante e marmellata alle more invadeva la piccola cucina. Il calore del forno aveva scaldato tutta la stanza, tanto che sembrava di stare accanto ad un caminetto, col fuoco scoppiettante, alla Vigilia di Natale. Mary Lou era però lontana anni luce da quella cucina, dal Natale e dal fuoco. La sua mente stanca volava a giorni migliori, a persone che non c’erano più, ad attimi ormai ati da tempo. Distrattamente prese un canovaccio e aprì il forno. Una ventata di calore le colpì il viso rugoso, che raccontava tutta la sua lunga vita. Mary Lou tirò fuori la crostata dorata al punto giusto, ma mentre chiudeva il forno, il suo polso colpì l’interno rovente dello sportello e un dolore acuto le strappò un’esclamazione di sorpresa e disappunto. Abbandonò la teglia sul tavolo di legno scuro ed esaminò la ferita: una sottile striscia rossa le attraversava la pelle delicata del polso. La scottatura bruciava e pulsava a tempo col suo vecchio cuore, pieno di toppe e stanco di darsi da fare per mantenerla in piedi. La donna, guardando il segno cremisi, non poté fare a meno di pensare ad un’altra scottatura che tanti anni addietro aveva occupato quello stesso posto. Gli occhi grigi si riempirono di lacrime, mentre la mente le tornava a quel terribile giorno. Erano gli anni della guerra. Mary Lou era una graziosa e fresca sposina che, appena due mesi dopo il matrimonio, aveva dovuto vedere il suo adorato giovane marito partire per andare a combattere. Le aveva giurato che sarebbe tornato. Per lei. E Mary Lou, ogni giorno, ascoltava alla radio le notizie sugli scontri, guardando fuori dalla finestra, sperando di scorgere suo marito arrivare trionfante dal vialetto, per abbracciarla e vivere con lei per sempre. Ma ogni giorno che ava non le portava indietro il suo tesoro. La mattina in cui non stava osservando il vialetto, qualcuno arrivò. Mary Lou stava preparando una crostata. Era felice. Aveva appena scoperto di essere incinta! Avrebbe fatto una sorpresa stupenda al suo Tom. Proprio mentre tirava fuori il dolce dal forno, suonarono alla porta. Lo stupore la fece sussultare e il suo polso liscio e candido colpì lo sportello rovente. Un lungo e sottile segno cremisi le si disegno sulla pelle. Mary Lou, incurante del dolore, corse ad aprire,
pronta a lanciarsi tra le braccia di suo marito, finalmente di ritorno da quell’orribile e mortifera guerra. Ma non fu Tom a vedere il suo bel viso raggiante, né il suo nasino sporco di farina, né il grembiule colorato che le copriva il vestitino di cotone azzurro cielo. Sulla soglia c’era, sì, un soldato, ma non suo marito. E a giudicare dal suo sguardo triste, quel giovane soldato non portava buone notizie. Il sorriso di Mary Lou si congelò, il suo piccolo mondo di vetro variopinto cadde a terra, in un’esplosione di frammenti taglienti. Suo marito era morto per la patria, e tutto ciò di lui che le potevano restituire erano una medaglietta e una bandiera americana. Mentre il soldato parlava a fatica di onore, coraggio e orgoglio, Mary Lou gli cadde tra le braccia, svenuta, incapace di accettare di essere rimasta sola. Quando riaprì gli occhi erano ati tanti anni, ma continuava a soffrire come quel giorno. Non aveva mai smesso di amare il suo Tom e quella scottatura bruciava più che mai, come uno squarcio nel petto, come una pallottola in testa, come anni di solitudine e sacrifici, come la perdita dell’uomo della sua vita a causa della guerra.
Occhi di Luna di Ramona Di Ventura
Ognuno di noi ha un compito da portare a termine. Selene si aggiustò meglio il niquab che le copriva tutto il volto, ad eccezione degli occhi, azzurri e luminosi come poche donne della zona potevano vantare. Teneva la testa bassa, per non rischiare che i suoi occhi la tradissero. La conoscevano in molti in quel quartiere, uno dei più pericolosi e malfamati di Medina, e la conoscevano soprattutto con l’epiteto “occhi di luna”. E ora che si trovava in missione segreta, nessuno doveva accorgersi di lei. Si muoveva velocemente per le stradine affollate e polverose, camminando vicino ai muri delle casette, cercando di non andare a sbattere contro gli altri anti. Un gruppo di bambini che correva, forse alle prese con qualche gioco, le tagliò la strada talmente all’improvviso che Selene rischiò di cadere per terra, lunga distesa. Riuscì a recuperare l’equilibrio in tempo per aggrapparsi ad un muro, graffiandosi però tutti i polpastrelli. Riprese a camminare, più velocemente. Doveva sbrigarsi se voleva davvero essere d’aiuto. Svoltò l’angolo un paio di volte e si trovò di fronte ad una casa più malandata delle altre. Non bussò alla porta principale. Si diresse sul retro e cercò il punto in cui non l’avrebbe vista nessuno. Si guardò attorno diverse volte, prima di salire su un bidone di spazzatura e scavalcare la recinzione che proteggeva il cortile. Quando fu all’interno, si spolverò il lungo e nero niquab e si diresse furtiva verso un’apertura nel muro della casetta. “Fadwa… Fadwa, sono qui.” bisbigliò, entrando cautamente nell’abitazione. La stanza era buia e l’aria calda e polverosa le seccava la gola e le faceva bruciare gli occhi. Il solito odore di stantio le invase le narici. “Fadwa!” Selene oltreò il salottino e si diresse verso la stanza da letto dove spesso Fadwa la aspettava, in seguito alla nascita della bambina. La trovava lì, a cullarla tra le braccia, cantando una nenia che profumava di riti ancestrali di un ato magico. La bambina gorgogliava, gli occhi color ambra che luccicavano come gioielli e le manine paffute che sfioravano il viso sereno della mamma. Selene poteva scorgere la felicità in quel viso, troppo spesso teso per la paura in cui Fadwa doveva vivere costantemente.
Quel giorno invece non si sentiva nessuna ninna nanna. La bambina era nella sua culla e dormiva, Fadwa rannicchiata in un angolo, si copriva il viso con le mani, immobile. “Fa’ che non sia come penso!” Selene le si avvicinò e le prese le mani nelle sue. Il volto di Fadwa era alterato da lividi scuri. Le labbra erano tumefatte e ancora lievemente sanguinanti. L’occhio destro, violaceo, era grande il doppio dell’altro. “Ti ha picchiata di nuovo.” Selene lo disse senza nessuna inflessione particolare nella voce. Ormai non si stupiva più. Il marito di Fadwa era alto e robusto, con mani enormi e piedi altrettanto. Quella povera donna subiva le sue violenze in continuazione. L’aveva picchiata anche durante la gravidanza, quando aveva scoperto che la creatura che aveva in grembo non era un maschio. Il sapore amaro della bile invase la bocca di Selene, ripensando alle confessioni di Fadwa sui comportamenti del marito. Erano ati circa sei mesi da quando era partita per l’Arabia Saudita con un’associazione umanitaria per prestare servizio come medico. E in quei sei mesi aveva visto bambini venduti al mercato, donne uccise a colpi di pietre e picchiate in mezzo alle strade. Avrebbe dovuto esserci abituata ormai. E invece non riusciva a vedere tali azioni come normale routine. “Forza, tirati su. Ce ne andiamo.” La donna la fissò impaurita e scosse il capo, con lo sguardo stralunato. Selene la prese per le spalle e la fece alzare in piedi. “Prendi le cose più necessarie, al resto penseremo noi. Stanotte ti facciamo scappare insieme ad altre donne. Sarete libere Fadwa. Libere.” La giovane donna, incapace di parlare, guardò terrorizzata verso la culla. “Porterai anche la bambina, Fadwa. Fallo per lei. Hurriya merita di avere un futuro.” Rimase a guardarla per un po’, la sua piccola dolce creatura. Poi annuì con un cenno secco e determinato.
Poco dopo stavano ripercorrendo le strade in cui Selene prima aveva camminato da sola. Le operazioni di espatrio, “le fughe”, andavano avanti da mesi e servivano a salvare la vita a molte donne e bambini che venivano maltrattati. Quella notte sarebbe toccato anche a Fadwa. Selene aveva preso a cuore il suo caso. L’aveva aiutata a mettere al mondo la sua Hurriya. Libertà. Selene faceva parte degli accompagnatori del gruppo di fuga quella sera. Aveva uno strano presentimento, come se da quella spedizione dipendesse la sua salvezza spirituale dopo la morte. Selene non sapeva se credere all’aldilà come è comunemente descritto. Sapeva solo che aveva paura, come non ne aveva mai avuta prima.
Un fucile. Un proiettile nella sua schiena. Fadwa che la fissava terrorizzata e in lacrime. “Va’, non fermarti, continua a correre!” Sentiva un forte dolore al rene sinistro, che si allargava come una ragnatela e le imprigionava tutto il corpo. Fino al cuore. La sua paura era fondata, in fondo. Qualcosa era andato storto e un gruppo armato li aveva seguiti, sparando all’impazzata. Selene, occhi di luna, aveva sacrificato la sua vita, per salvare la libertà di donne senza speranze e piene di paure. Occhi di luna aveva compiuto il suo destino, aveva adempiuto al suo compito. Libertà.
Fuoco Terra Aria Acqua di Fabrizio Castellani
“Ciao. Dormi? Parto adesso. A casa tra poco” Buffa domanda “stai dormendo”. Se rispondo sono sveglio. Se non rispondo dormo. Lei conosce la risposta e sa che sono sveglio. Aspettavo il suo sms, anche se mezzanotte è ata da un pezzo. D’abitudine vado a letto con le galline e prima del sole sto in piedi, ma quando lei non c’è diventa tutta un’altra storia. Stasera usciva con le amiche di sempre. D’Artagnan e i tre moschettieri, in gonnella e tacco alto, a so per la capitale. La chiamo. “Pensavo che dormissi” quando risponde al cellulare la sua voce ha qualcosa di musicale. Forse appena impastata. Deve aver bevuto un bicchiere di troppo. “Non preoccuparti. Ti aspetto. Sono a letto con la Munro. Ma non è come con te. Com’è andata la serata con le bimbe? Tutte a posto?” Un classico. Non riesco mai a sottrarmi alla mia natura curiosa. Ma lei ha pazienza. La sento sorridere. Proprio cosi la sento sorridere. Come se la vedessi, come se fossi là, giusto a pochi i. Sono certo che anche lei mi senta. Le donne lo sanno, lo sanno comunque per prime, canta una canzone, e credo sia vero. “Attento. Sono gelosa e potrei spezzarti le gambine. Non mi piace che stai a letto con altre. E non faccio eccezione per i premi nobel” Ride con quella risata tintinnata. Fatta con le note più alte. C’è allegria. Lei torna verso casa e io le faccio compagnia nel tragitto. Due voci che si avvicinano, attraversando questa Roma dove altri dormono tranquilli. “La serata divertente. Le ragazze stanno… insomma. Piccoli problemini. Al solito. Ci conosci a noi ragazze. Siamo inquiete ragazzacce”
Le conosco queste quattro ragazze di quarant’anni, le conosco da quando io e Iaia siamo diventati una coppia. Assieme alla relazione ho preso un pacchetto full inclusive, amiche incluse. Stanno assieme dal liceo, e sono inseparabili. Quattro donne diverse tra loro ma sempre l’una accanto all’altra. Mi hanno studiato, giudicato e approvato. Proprio così. Approvato. “Una cosa che si fa tra amiche” mi spiegò qualche mese dopo il nostro inizio la mia compagna. “Dove siete andate? Cri è venuta?” Butto là ad allungare la conversazione. Ho voglia di aspettarla e comunque non dormirei. Il letto a due piazze è grande come il Sahara stasera. Chiedo subito di Cristina perché la serata era per lei. Immagino Iaia, la vedo che sorride. Mi accontenta e racconta. “Abbiamo seguito Marta in questo locale nuovo, al Testaccio. Bello. Fanno questa cosa strana con un tabellone tipo quello della borsa. Ci sono le bevute, e il prezzo sale con gli ordini. Più ne vendono e più è caro. E viceversa. Siamo state d’incanto e preso un paio di bicchieri. Cristina era tutta in tiro e stava da Dio. È serena e tranquilla. La fase più difficile è alle spalle” Mentre Iaia parla, in testa mi a il film recente di Cristina. Una donna che è fuoco sempre . Sembra caricata a pila atomica, mai ferma, sempre presa da mille impegni. Sta uscendo fuori da una separazione, non troppo sofferta. Una di quelle storie che semplicemente finiscono perché c’è più paura a tenersi che a lasciarsi. È tornata dai suoi per un po’ di tempo. E a quarant’anni è difficile. Da quando la conosco è la seconda volta che le accade e non capisco perché. Ma non è strano che un uomo non capisca una donna. Tendono a essere complicate. Cristina non ha niente che non vada. Eppure qualcosa la spinge a trovare sempre uomini che non riescono, o non vogliono, impegnarsi più di tanto. Una calamita per i balordi. E alla lunga la coppia scoppia. Ma lei è tosta e si rialza sempre. Mi ricorda quel monologo che a sempre alla radio, Donne in rinascita. Sembra scritto per lei. “Oggi ha visto due appartamenti. E uno le è piaciuto, anche se costa caro. Ha
bisogno di lasciare casa dei suoi. Dopo tre mesi non ce la fa più.” Dal racconto di Iaia capisco che la povera Cri sia stata messa sotto torchio per gran parte della serata. La vittima di turno. “ …e allora le ho detto che prima di parlare di matrimonio, figli e tutto il resto deve essere sicura che chi gli sta accanto sia un uomo e non un ragazzino. Che poi scappa. Pure Stefy era d’accordo…” Stefania è la seria, quella con i piedi ben piantati a terra. Moglie e mamma. Una roccia. Centellina i sorrisi come se costassero cari e quando le amiche si perdono in qualche problema è sempre da Stefania che arriva il consiglio migliore su cosa fare. E ha sempre ragione. Di tutte, pur essendo una donna molto bella, è quella che mi ricorda di più un uomo. Pratica, essenziale. A tratti anche troppo dura per i miei gusti. “ …ah, non dovrei dirtelo ma Marta ha un nuovo toy-boy! Ventisei anni. Ho visto le foto su facebook. Niente male” L’aria frizzante del gruppo, a volte il ciclone. Tanto seria sul lavoro quanto viva e libertina nel sociale. Sei nuovo in città? Marta è la tua guida turistica delle notti romane. La queen of the night. Si muove solo all’ora delle streghe e conosce tutti i posti più in della capitale. Una vera Dark Lady. “Immagino che sia rimasta là” butto lì con quasi assoluta certezza. “Ovviamente” rimanda Iaia “aveva già attaccato bottone con un paio di tizi. La solita” Credo che non si fermerà mai. Ma perché dovrebbe farlo poi? Iaia dice sempre che se la vedi felice devi essere felice per lei. Io ho alcuni amici. Calcetto, una birra ogni tanto. Ma l’amicizia tra uomini è differente. Più indulgente e meno di o. Inutile ragionarci su, siamo generi diversi. Provo a interrompere il racconto “Insomma ti sei divertita? Stata bene?” “Con le ragazze sempre bene. Ma ora sono stanca. E poi non ti vedo da stamani. Troppo tempo. Non vedo l’ora di arrivare a casa. Mi aspetti?”
“Certo. Non dormo senza di te” “Cinque minuti” È di parola. Giusto pochi minuti dopo sento la porta aprirsi. Resto a letto. Il libro che non mi ha fatto compagnia continua a dormire tra le mie mani. Quando lei si appoggia allo stipite della porta di camera, sorridente e solare, mi fa ricordare la mia città e il modo in cui ci siamo conosciuti. Al mare. La mia Sirena è vento e sale, è acqua di mare. Anche con il cappotto nero di stasera. Il nostro letto non mi sembra più cosi vuoto. Lo riempie con la sua allegria. Si porta l’estate con sé. “Vado a fare la pipì e ti raggiungo nel letto. Ho urgente necessità di coccole.” Solo tre cose sono le stesse per tutte le donne. Profumano, hanno i piedi freddi, e quando le scappa potrebbero fermare un terremoto. Poi sono l’una diversa dall’altra. Come le perle, non ne trovi due uguali. E messe assieme fanno girare questo mondo. Le coccole restano nei sogni. L’ultima cosa che ricordo sono le sue spalle mentre si allontana frettolosa verso il bagno. Al suo ritorno dormivo placido e tranquillo come un bimbo. Basta il suo sguardo, saperla vicino, e dormo sereno. Al mattino, quando apro gli occhi, con i primi raggi di sole che entrano dal lucernario la trovo che dorme accanto a me. Dorme sorridendo. E allora sorrido anche io.
Stella XX di Roby Gelsomino
Di tutti gli uomini esistenti più sono io ricercatore nato chi sia da dove venga e dove vada perché vivo quale in Senso del Creato. Da tempo io indago e vivo assorto nello studio di Donna la creatura possiate capirmi miei colleghi vostra teoria non copre la misura. La stima e fratellanza che vi porto é complice sentire amicale ma i fini finora perseguiti li aggiorno al loro sguardo peculiare. Anch’io ho patito pura incomprensione vissuto donne e sofferto amore e più proficui impieghi tutti sanno di autosufficienza vi saranno; Eppure stupido indagatore perseguo la mia specializzazione.
Per quanto veritieri i vostri dati s’appellano al timore che ne abbiamo lo star insieme si preannuncia senza la libertà, reciproca violenza. Suprema Empatia considerata su base del suo corpo, dolce Culla che pur ci é alieno e pure famigliare mi sento sì nel buio d’un gran Nulla. Chiesta la mia attenuante a un gene folle alla sua debolezza o perturbanza né con una malizia mercenaria mi spiego sentir che mi rende inerme. Ne ho visto gli usi col mio telescopio ma celano le donne la paura ferite vecchie d’ere coloniali serbano in lor confine insufficiente. Protetto più da dolci mie conferme dall’esser a sé agnello solo e fermo ma telescopio impavido avvicina vidi che lei a sua volta m’esplorava. Gli occhi sgranati e di stupore
verso ogni parte del mio forte corpo si sente sola e con me vuol stare evita tocco per non farmi male. Culla i fratelli suoi l’indefinita metà d’un atomo che esplode Vita quella di piccoli che fan tenerezza e per gli adulti è stessa carezza.
Tratto da “Il peccato di Rennahel” di Irma Panova Maino
Entrò nella camera e lasciò vagare le dita sul copriletto in seta, lo stesso che era stato steso sul letto di Ren, quando era andata a svegliarlo in preda alla fame. E, sotto di esso, le stesse lenzuola, ovviamente lavate e stirate, che erano state usate per lei, lo stesso candore ricamato tono su tono che l’aveva avvolta quando aveva vagato in giro per casa, sperando di trovarlo. Si sedette sul bordo del letto e rimase a guardare la stanza, incapace di capire cosa esattamente provasse in quel momento. Sollievo? Rimpianto? Rabbia? Non riusciva a identificare l’esatto sentimento che le provocava quel tumulto interiore, ma rendersi conto che Ren aveva cercato di sentirla più vicina, trasferendosi nell’unico posto della casa in cui lei aveva lasciato un’impronta personale, faceva rinascere in lei un sentimento che aveva tentato di soffocare in ogni modo. Faceva avvampare quella fiammella che era stata messa sotto stretto controllo dal proprio inconscio per non cedere a quel germoglio di sentimento alieno. E, proprio perché era Ren, perché era lui con tutte le sue fisime e i suoi stralci educazionali che la situazione pareva ancora più assurda. Forse, se fosse stato un altro, quel tentativo di riavvicinamento non sarebbe apparso così strabiliante, così rilevatore, probabilmente avrebbe avuto altre spiegazioni logiche o semplicemente avrebbe dato l’idea di un’infatuazione momentanea. Ma non Rennahel. Siria non riusciva ad immaginarselo nei panni dell’impulsivo, dell’uomo avvezzo a seguire quasi esclusivamente dei fattori istintivi, anche considerando quel colpo di testa che lo aveva portato a soccorrerla e a portarsela a casa. Ren era molto più freddo e calcolatore di così. Tuttavia, volgendosi ancora a guardare il copriletto, non poté fare a meno di
ammettere che, con lei, Ren aveva lasciato trapelare quegli aspetti reconditi del proprio carattere che sapeva nascondere così bene. Poteva definirlo amore? Forse no. Forse non era il termine esatto. Tuttavia, lei quella notte lo aveva amato, per quei pochi attimi in cui si era lasciata andare a lui, lo aveva amato. Con tutto quello che aveva da dargli. Con tutte le lacrime che aveva versato dopo. Lo aveva amato nell’unico modo possibile, sapendo che non sarebbe esistito nessun futuro, nessuna possibilità, nessuna contrapposizione di affetti. Ed era ancora seduta su quel letto quando lo sentì rientrare.
Lettera ad un’amica – tratto da “Le confessioni di Eva” di Allie Walker
Cara Lucia, Oddio che inizio smielato e ordinario. Mi dispiace, ma non sapevo proprio come iniziare. Avrei potuto dire: Ciao, oppure chiamarti tesoro, o avrei potuto scrivere ehilà, o salve. In qualsiasi maniera avessi iniziato, sono sicura che non ti sarebbe interessato poi molto. Forse il tuo interesse crescerà leggendomi e ti chiederai perché ti scrivo proprio in questo momento. Ho pensato molto. Alla fine ho deciso che forse sarebbe stato terapeutico tirar fuori tutti i miei ricordi, disinnescando i suoi poteri una volta per tutte, anche se piuttosto terribili. Ed ho scelto te, in fondo sei la mia unica amica. Tu ieri mi hai chiesto perché mi ostino a sottomettermi agli uomini e a godere delle loro umiliazioni… Me lo hanno chiesto spesso, in molti, non mi sono mai soffermata a pensarci realmente finora e a nessuno mai ho dato una risposta, forse nemmeno a me stessa. Ma tu mi hai dato modo di pensare alla mia sessualità cosi spiccata, così multiforme e, finora, sono rimasta distaccata da quel qualcosa di brutto che adombrava il mio ato. Non voglio dire che me ne ero dimenticata del tutto, ho solo cercato di tenerlo lontano dalla mia memoria cosciente. Quando avevo nove anni, andai a giocare a casa di un’amica, non abitava lontano e in città ancora si viveva bene; poco traffico, pochi pericoli, una città a misura di tutti- Bambini ed adulti beatamente crogiolati nel quieto vivere di una cittadina di provincia, con poca criminalità e spazi a misura di famiglie. I miei genitori non avevano ancora imparato ad essere paranoici e non era affatto insolito, per una ragazzina, vagare per le strade della città in cerca dei propri spensierati divertimenti. I dettagli di quel giorno, sono sfumati, sono solo ricordi nebbiosi di una bambina
che non conosceva ancora la malizia, per fortuna, ma ricordo benissimo i contorni di quello che avvenne. Un uomo chiese il mio aiuto, per delle borse della spesa, promettendomi di pagare per il mio servizio. Lo conoscevo a malapena, lo avevo visto qualche volta al supermercato salutare mia mamma, ogni tanto si fermava a parlare con mio padre, non ricordo nemmeno il nome, e in quel momento non mi interessava saperlo. Sapevo solo che avrei fatto un favore ad un amico dei miei genitori e loro ne sarebbero stati felici e orgogliosi. Mi ricordo che quando entrai in casa sua lui chiuse subito la porta e mi spaventai un po’. Ricordo poco altro, movimenti confusi e veloci di lui e le sue mani che si muovevano frenetiche. Poi un liquido che associai al suo cazzo, che a quell’età confusi con pipì, non avendo un punto di riferimento da cui partire per comprendere. Ora, con la maggior coscienza di un’adulta, naturalmente, penso e so con certezza che doveva essere bel altro, completamente diverso da un bisogno fisiologico. Era un bisogno, invece, dettato da una mente perversa e malata. Mi ricordo anche di esser stata pagata come promesso, poche lire, una volta che ebbe finito. Come se l’innocenza di una ragazzina fosse a buon mercato e potesse essere acquistata da tutti. Forse lo fece per placare il proprio vile senso di colpa, per aver usato un volto e un corpo innocente e smaliziato… delle mani innocenti di una bambina. Me lo ricordo, ora, come un film senza una trama, indipendente dalla protagonista ed è terribile averlo sepolto per così tanto tempo. Non l’ho mai detto ad anima viva, rifiutandomi di soffermarmi sull’accaduto, chiuso a chiave in angolo dimenticato e oscuro della mia mente. Una maniera per andare avanti nella mia giovane vita, forse, o la strategia di un sopravvissuto, o forse imbrogliavo anche me stessa, guardando all’indietro. Non riesco nemmeno ora a capire, fu tutto veloce e insensato per me allora bambina. Nonostante tutto, penso che non sia per questo che sono una sottomessa, gli avvenimenti orribili succedono a tutti… La sottomissione è solo la mia natura, mentre quell’avvenimento solo un incidente a cui ripensare e da cui trarre insegnamento… una lezione orribile, ma pur sempre di crescita. Ricordo anche, che prima di quell’uomo, io ero felice, curiosa, socievole, poi
sono cambiata. Spaventata dagli uomini fino al momento in cui non ho capito il fatto, timida ed introversa mi sono nascosta agli altri, anche ai miei stessi coetanei, difendendomi inconsciamente dietro uno strato di grasso per molti anni, in modo da divenire indesiderabile. Ma poi è arrivato il momento inevitabile in cui mi sono sentita attratta ed affascinata dal sesso e dai ragazzi e di nuovo è cambiato tutto nella mia vita. Tra diete e studio, sono diventata quello che mi piaceva diventare, una bella donna intelligente e colta, con un potere in mano, che spesso ancora nascondo visto dove voglio arrivare. E sono consapevole, ora, che il tempo guarisce, che quella trappola che era dentro di me, in misura enorme ma nascosta, ora è solo un ricordo. L’orrore rimane bloccato da qualche parte, dentro di me, nella più profonda delle memorie, al sicuro. in modo che non mi colpisca ancora come un’ossessione e la bambina di allora ha trovato il modo di combattere le insicurezze. Abbiamo tutti le nostre tragedie, forse io ho incontrato la mia troppo presto, ed ho scelto di seppellirla per un tempo indefinito. Io adesso vivo, nella gioia e nell’abbondanza di sentimenti. Ti chiedo scusa, se ti ho imbarazzato con questa confessione. Spero che la nostra amicizia continui a fiorire. Adesso posso dire: CIAO, ti voglio bene. P.S.: sto bene, molto meglio di quanto tu possa pensare.
Frenetiche apparenze di Sebastiano Impalà
Nasco fiore e muoio essenza, strizzato dal tuo cuore nell’umida apparenza di sere senza senso.
Tu mi ridai sostanza, lambendo ogni torpore dai miei pensieri stanchi.
Rinasco ancor guerriero da notti illuni e sarcastiche presenze.
La terra ancor respira
col suo polmone atomico, le nostre membra ballano dopo sfrenate lotte e cerco le tue vene per render duraturi quegli attimi d’assenza.
In questo cielo terso di luci ed amarezze…
Il gorgo dei ricordi di Antonella Mattei
Strano, davvero strano. Misterioso, bizzarro e stravagante, forse inquietante. Ma soprattutto strano. Eppure ha sempre amato l’acqua, in ogni sua forma, stato e temperatura. La pioggia fresca che le inonda la faccia durante un temporale, gli impalpabili fiocchi di neve che osserva inebriata venir giù dal cielo a bocca aperta per poterli assaporare, quella tumultuosa e gelida dei fiumi, che scroscia, romba e ruggisce quando pratica e insegna rafting; persino i tiepidi aghi sottili e penetranti della doccia le procurano un piacere quasi sensuale. Era davvero strano. Si trovava in quella casa da qualche settimana e non dormiva già più dalla seconda notte. Aveva pensato fosse dovuto al lutto recente: la perdita di sua madre, che ci aveva vissuto un’intera vita, ma percepiva con una certezza non dovuta alla logica che non era quella la ragione. Roberta era andata via da casa prestissimo, a sedici anni si era trasferita in Trentino da un’amica, lasciando sua madre e il suo patrigno che, del resto, non avevano opposto alcuna resistenza. Il suo vero padre chissà in quale dimensione viveva. Tornava solo per qualche visita sporadica, mai ricambiata. Dall’alto delle sue montagne Roma era lontana anni luce, mai nostalgie o rimpianti; solo un dolore sordo nelle viscere nei momenti in cui era più indifesa. Durante il sonno più profondo, nella fase R.E.M., quando i suoi freni inibitori erano fuori uso, Roberta si agitava inconsciamente nel letto, le pupille si muovevano veloci sotto le palpebre chiuse, mormorava parole confuse e incomprensibili, la sua fronte si aggrottava. Ma lei non ne era consapevole, al risveglio rimaneva solo la sensazione indelebile di un pugno che spingeva a fondo sulla bocca dello stomaco. Anche adesso, seduta su quella sedia col cuscino dai fiori scoloriti, il gocciolare tedioso e incessante del rubinetto in cucina sembrava portarla sul punto d’impazzire. Un martello pneumatico sarebbe meno assordante di quella goccia che tornava e ritornava incessante a trapanarle la scatola cranica; stava penetrando ogni circonvoluzione cerebrale, sfinendola. Si strinse la testa tra le mani, socchiuse gli occhi di giada e si tirò indietro i
lunghi capelli ramati, unici indizi sulla genetica paterna. Erano più di venti giorni che dimorava nella casa affacciata sulla tangenziale. Il rumore del traffico era incessante, eppure quella goccia, che niente sembrava fermare, la stava portando alla follia. Aveva provato di tutto: mettere un recipiente sotto quell’emorragia trasparente, sostituire il rubinetto, che nemmeno usava più per non peggiorare la situazione. Ma quella goccia la inseguiva in ogni stanza, ogni momento, le scavava il cranio come un perforatore per craniotomia. E le provocava un’insonnia letale. Si trascinava ciabattando lungo il corridoio per prendere in bagno l’acqua per la caffettiera; a quasi quarant’anni è bella ancora come quando aveva abbandonato la sua casa. Non ci sono sue fotografie in giro, solo quelle di sua madre con il patrigno, come se lei non fosse mai esistita. La casa ormai è vuota, lui se n’è andato via da tempo e così tutte le beghe, legali e burocratiche, spettano a lei; si è presa una lunga aspettativa dal lavoro e dai suoi rombanti fiumi, deve chiudere definitivamente un capitolo. Oggi ha appuntamento con un medico; quest’assurda insonnia le rende troppo difficile portare a termine tutti i compiti, ha bisogno di dormire a tutti i costi: la goccia travalica persino i tappi di cera che s’infila con forza nelle orecchie. Il rumore del traffico si dilegua come evaporando, la televisione dei vicini diviene un sussurrio rilassante, ma quel suono ripetuto e ossessivo svicola lungo il corridoio, s’infila nel suo letto e si tuffa dritto nelle sue orecchie. E lei sta annegando in quell’iniqua massa d’acqua. Si chiede come abbia fatto Ulisse a resistere al canto ammaliante delle Sirene, lei che sta perdendo il senno per una sola stilla; è pronta a giurare che una goccia può tranquillamente scavare la pietra, almeno a giudicare da come il suo intelletto si stia sbriciolando. Ad Agosto, a Roma, l’unico medico disponibile a riceverla subito è uno psichiatra. Era molto restia: soliti retaggi culturali sui medici dei matti, ma non ha trovato davvero nessun altro, ha cercato su tutti i siti web e sembra sia l’unico specialista che non sia andato in vacanza. Che l’avrebbero mandata al reparto psichiatrico, e pure di corsa. Non conosce l’ospedale, non ricorda di averlo mai visto nella sua precedente vita romana; è vecchio, un po’ malandato, nascosto in un parco con i viali alberati che l’alto muro perimetrale non lascia presagire. Cammina nella mattinata assolata lungo sentieri deserti e sconosciuti, respira a fondo il profumo di resina che le fronde degli alberi rilasciano, ondeggiando dolcemente al vento che le smuove la gonna leggera. Cespugli di profumate rose selvatiche e api convivono in un ecosistema di assoluta perfezione, sulle antiche panchine di pietra, roventi per la canicola, le lucertole riposano vigili con gli occhi socchiusi, pronte a
scattare al minimo fruscio. Impianti idrici e fontane di pietra zampillano gorgoglianti e vivaci, producendo freschi aghi d’acqua, o fiotti più o meno leggeri. I eri e i merli sguazzano indifferenti alla donna accaldata che non dorme da settimane perché una goccia d’acqua la sta facendo impazzire. È affascinata da questo luogo inaspettato, un angolo di bosco antico e incantato nel cuore della metropoli, neanche i classici rumori della città, insonne come lei, penetrano gli alti muri di mattoni grigi percorsi da tralci odorosi di gelsomini rampicanti. La mancanza di sonno e la calura la invogliano a sdraiarsi su quell’erba verde brillante, intrisa d’iridescenti sfere d’acqua, e farsi lambire la pelle sudata dagli zampilli degli innaffiatoi, chiudere gli occhi e dimenticarsi di quella goccia. La goccia. Una fitta più forte allo stomaco. Si a il dorso della mano sulla fronte e vi scopre una patina di sudore gelido; respira profondamente l’aria calda e satura di odori e s’infila in un padiglione. L’aria condizionata sembra risvegliarla da una sorta di trance. Non ci sono altri pazienti e il medico la sta aspettando; pressappoco suo coetaneo, capelli lunghi, occhialini da uomo di cultura e barbetta incolta tipica del “contestatore”. È molto professionale, una lunga anamnesi, domande sul tipo d’insonnia; la guarda spesso, dritto negli occhi. Roberta distoglie lo sguardo osservando il parco che si estende oltre la finestra dietro la scrivania: quello sguardo le incute soggezione, sembra scavarle dentro e lei vuole solo qualche sonnifero che le impedisca di sentire quella goccia. Il medico continua con le domande, sembra voler sapere di più, si sofferma a lungo dentro i suoi occhi, poi si toglie gli occhiali e sposta l’attenzione alla sua sinistra. Immediatamente anche Roberta guarda nella medesima direzione: un piccolo lavamani immacolato e un rubinetto. Il rubinetto gocciola lentissimamente. “L’ha vista?” dire che il medico sia conciso è un eufemismo. “O forse dovrei dire: l’ha sentita?” Roberta guarda le gocce che s’inabissano nel foro dello scarico e sbatte piano le palpebre: “Io… cioè… sì. Ora la vedo, ora…” si asciuga di nuovo la fronte, come poco prima nel parco. Il medico si avvicina al piccolo lavandino e apre al massimo il rubinetto: uno scroscio di acqua schizza voluttuoso sulla ceramica bianca. “La infastidisce?” “No, no… ma non posso tollerare quella goccia, quella in casa di mia madre. Mi toglie il sonno, l’aria, mi fa star male. La prego, io voglio solo dormire!” Sembra quasi che lui non l’ascolti, chiude il rubinetto e la goccia ricomincia inesorabile
la sua agonia. Roberta batte più veloce le palpebre, il respiro cambia ritmo, il gocciolio incessante le rimbomba nella testa. Il medico è davanti a lei ma sembra non vederlo, si scuote solo quando le tocca una spalla. “Le prescrivo un blando ipnotico, in modo che possa riposare; ma vorrei che lei tornasse, per approfondire le cause della sua insonnia. Mi diceva che deve rimanere a Roma almeno un altro mese, giusto?” La sensazione di turbamento è sconcertante: come può una goccia d’acqua provocarle tanto sconvolgimento? E perché solo in questa città, e in quella casa? Accetta, suo malgrado, una serie di appuntamenti bisettimanali, esce nella caligine ormai crepuscolare, compra i farmaci e finalmente si addormenta; si abbandona a un sonno artificiale, mentre il rubinetto continua inesorabile la sua sadica tortura e lei mormora sommesse e sconnesse parole. Nessuno l’aveva avvisata che la fine di settembre è davvero incantevole a Roma; mentre cammina nel parco dell’ospedale ogni forma di vita sembra ancora più rigogliosa, come risvegliata dalla letargia estiva. I suoi problemi con l’insonnia si sono attenuati, ma solo grazie ai farmaci. Ora neanche ci entra più in cucina: la goccia sembra spiarla, seguirla, persino nel soggiorno, con la tv accesa, percepisce nettamente il suo sbeffeggiante tintinnio. Alcune volte si scopre a fissare le gocce come inebetita, perde il senso del tempo e della realtà. L’ha detto al suo medico, che non è apparso affatto stupito. Sembra leggerle nella mente, anticipa i suoi dubbi, studia ogni suo inarcarsi di sopracciglia, il fremito nervoso delle narici, le pupille che si dilatano all’udire la goccia. Sembra sapere cose che lei non riesce nemmeno a immaginare, con lui ha parlato, taciuto, mormorato e gli ha raccontato quanto odia quel suono. Non il perché. Era iniziato come un appuntamento uguale a tutti gli altri, poi il medico ha chiuso le finestre e i suoni vividi del parco sono scomparsi. Quando ha accostato le tende, il sole è diventato solo un alone nebuloso e la penombra ha invaso lo studio. Ha cominciato a parlarle con un tono profondo e monotono, ha portato la sua attenzione su quella goccia insistente: a un tratto c’era solo quella e il suo ritmo snervante. La voce era diventata come la bacchetta di un direttore d’orchestra che la guidava; i muscoli della mascella si erano ammorbiditi e la bocca appariva leggermente socchiusa, gli occhi rimanevano aperti ma quasi senza battito, le pupille ormai due punte di spillo che inquadravano la goccia come un tiratore scelto con un bersaglio umano. Si chiama fascinazione ipnotica, ma Roberta ancora non lo sapeva.
La goccia inizia sadica il suo viaggio, si stacca dal rubinetto e s’insinua avida e ingorda nelle sue pupille, attraversa il nervo ottico perforando il cervello, il rumore rimbomba come un tuono nelle orecchie, scende nella gola e poi giù, fino all’anima. E il tempo comincia a scorrere all’indietro: la sua voce assume un tono infantile e cantilenante, rivede la sua coda di cavallo rossa e scarmigliata, le sue ballerine dorate, il vestitino rosa uguale a quello della bambola che sta ricevendo un trattamento di bellezza nel lavello della cucina. Sgrida, petulante, la bambola disubbidiente che non ha voglia di farsi bella; giunge alle sue spalle una voce famigliare: il suo patrigno. Le domanda se ha bisogno d’aiuto, lei chiede una sedia per arrivare meglio al rubinetto, lui accosta la sedia e ce la issa sopra e, pochi istanti dopo, inizia un nuovo gioco crudele e doloroso che durerà per anni. E intanto la bambola galleggia roteando, e affoga lentamente con la faccia di plastica sotto quella goccia d’acqua che lei si ostina a fissare per non guardare e sentire altro. Scende dal pullman confusa con le altre persone, cerca di are inosservata, ma il piccolo paese appena fuori Roma non le concede quest’opportunità. Sono quasi tutte donne quelle che si trovano alla fermata e la stanno guardando perché è completamente estranea a quel posto: non ci è mai venuta prima. Percepisce la curiosità della gente e prova a confondersi con i visitatori, acquistando da un ambulante un misero mazzetto di fiori. Varca il cancello che la separa dalla fine della sua ricerca. Il posto è ameno, silenzioso, prati ben curati, fiori profumati, alberi alti e possenti regalano giochi d’ombra e di luce, l’acqua gorgoglia altezzosa da polle e fontanelle sparse qua e là. Le ricorda un altro momento simile, il giardino dello studio medico; inizio e fine. Il cimitero del paese è molto curato, forse un po’ troppo presuntuoso, ha visto delle lapidi che sembrano miniature della Cappella Sistina, epitaffi strappacuore e frasi rubate dai Baci Perugina. Percorre i viali alberati soffermandosi spesso tra cappelle e lapidi, cercando d’ignorare i frequentatori abituali che la scrutano. Imbocca un viale laterale, qui i cipressi sono veramente enormi. Guarda in alto, l’appuntita chioma ondeggia lievemente nella brezza autunnale, cinguettii nascosti le fanno mordere il labbro inferiore: lui non se la merita tutta quella pace, dovrebbe bruciare per l’eternità nel fuoco. In quest’angolo nascosto del cimitero c’è pochissima gente, solo due donne che puliscono, lucidano e sgranano il rosario, poi, sottobraccio, se ne vanno. È sola, ancora pochi i, gira il capo a destra e la vede. La lapide è pretenziosa, marmo bianco con preziose venature grigie e sculture bronzee applicate. Un angelo disperato, anch’esso di marmo, sembra in procinto di spiccare il volo. L’epitaffio è talmente pomposo da rasentare il ridicolo. Sua
madre ha amato quest’uomo o forse, con ipocrisia, ha nascosto i suoi peccati. Si abbassa per vedere meglio la foto e legge la data di nascita: vanità. La foto è di molto antecedente alla sua morte, ci teneva a farlo apparire al meglio, forse per celare il suo vero volto. Lo guarda con più attenzione, stenta a crederci ma lo rammenta a fatica, solo vaghi barlumi di quando le sue mani le facevano quello che lei faceva alla bambola. Peccato sia morto così, avrebbe preferito confrontarsi con un vivo, avrebbe preferito sapere prima cosa l’aveva spinta a fuggire da casa giovanissima, a non avere un rapporto di confidenza con sua madre. Ipocrisia, falsità, dolore. Un ultimo sguardo alle fontanelle gorgoglianti. Raccoglie l’acqua fresca che tanto ama nel palmo delle mani, socchiude gli occhi e si bagna il viso, reclinando indietro la testa, mentre con la lingua ferma le gocce: inizia a piovere, decine e decine di piccole molecole liquide le mondano la pelle e l’anima. Apre gli occhi gelidi; fissa la foto mentre grosse gocce limpide le colano dal mento e dai capelli, getta lontano i miseri fiori e se ne va.
Come Luna di Oliviero Angelo Fuina
Già scrivere l’inchiostro della luna magari quando il sole guarda altrove celata ai nostri occhi in superficie è poca goccia in muover di maree.
Nell’acqua intaglia gemme lacrimali quando respinge l’onda a lei protesa può ricoprir di pianto ogni scogliera può liberar fondali al nostro o;
del fuoco che ci dona non si brucia del padre lei riflette calde gesta mai in notti troppo scure ci abbandona donando l’equilibrio tra gli abbagli;
nel vento i suoi segreti lei sospira accoglie i nostri sogni in calma quiete dona silente abbraccio ad ogni amato
libera da ogni nodo le emozioni
mentre di Terra è l’utero che accoglie pur anche chi saggezza disconosce perché da un femminile, è un dato certo, anche il più maschilista ha in dono vita.
Io, d’irruente astro, uomo sono un grido di presenza ormai mi assolve tu ribadisci luce nelle notti e poi discreta ti defili amando
Ma tua è la Forza che ci tiene in piedi senza il tuo centro andremo alla deriva ancori il nostro cuore alla tua pelle e al mare della vita dai armonia.
Patrizia di Anna Cibotti
Erano tutti lì attorno alla buca scavata per accogliere nella terra umida e scura la lucida bara di legno ricoperta di fiori. Il prete recitava il rituale di sepoltura con voce cantilenante interrotta qua e là da qualche singhiozzo soffocato seguito ad arte da un colpo di tosse discreto. Gli abiti neri dei presenti alla cerimonia vestivano corpi eretti e dignitosi le cui facce pallide palesavano da sole l’interiore contrizione, stirandone i lineamenti in un’espressione dura e dolorosa. In quella atmosfera di addio, lugubre e rarefatta, c’era per contrasto, un certo caldo raccoglimento che avvolgeva la salma come scudo contro la morte. Poi la bara fu calata e tanti occhi lucidi di pianto le dissero addio. In quel momento così definitivo l’autunno regalò una sua foglia. Volteggiò nell’aria per un istante e cadde sopra il feretro coperto da altri morti; i fiori recisi intrecciati a corona. I presenti lentamente si allontanarono sparpagliandosi in varie direzioni, diretti ognuno a continuare la propria vita portandosi dietro quella scia di calore che avrebbe lasciato solo freddo e solitudine. Cominciò a piovere, ma nessuno sentì su di sé il pianto del cielo. Il cimitero era deserto e solo le lapidi rimasero come testimoni del funerale appena celebrato. Patrizia teneva la mano di Luca e la stringeva forte. Sentiva la sua sofferenza tra le dita gelate e in un sentimento d’amore infinito, fu presa da un’immensa pena. Pena per lui che aveva perso Luisa, la sua amante, e attingeva forza e calore dalla moglie fingendo d’ignorare che lei sapesse.
Carosello di false sensazioni e malintesi voluti, ma soprattutto una grande disperazione. Disperazione che Patrizia gli leggeva nei gesti e negli occhi che guardavano in terra incapaci di piangere e di guardarla. “Non devi dirmi niente…” gli disse a bassa voce. Lui capì che sapeva, che aveva sempre saputo. Ma cosa? Che Luisa era stata la sua amante o che l’aveva uccisa lui?
Gruyère, tratto da “Pitture parietali per una stanza tristemente vuota” di Nicoletta Berliri
Ho scoperto un buco nel cuore e lo vedo ingrandirsi per te. I capelli s’asciugano al sole e la mente rumore non fa.
Già ti vedo laccarti le unghie e il tuo naso s’arriccia all’insù inventando una danza aggraziata per le efelidi appena accennate.
Il cervello, squassato e scomposto, architetta pensieri d’amore, ma le mani, atterrite ed incerte, già non sanno are all’azione.
Le parole, un tempo fluenti, son bloccate dal sordo dolore. Non capisco se è ora di osare
o se è meglio annegare l’ardore.
Io le vedo le donne di Andrea Leonelli
Io le vedo le donne. Donne che ano correndo come fulmini, che fan quadrare i conti mentre riordinano stanze. Donne che si fanno belle per i loro uomini che magari nemmeno si accorgono di quanto sono belle. Di quanto si amano, spesso solo per amor loro. Di quanto piangono in silenzio senza lacrime, sorridendo. Donne che sognano. Donne che vivono un giorno dopo l’altro vivendo da donne Io le vedo le donne
Donna e bambina, per amore di Rossana Lozzio
E’ come se fossi nuda, quando ti sto di fronte… Forse, perché spogli la mia anima e in un attimo, maneggi quel segreto che nascondo solo a te e che grido al mondo. Sarà che il tempo sembra essersi fermato a quando ho preso atto che eri gioia e sofferenza, tango e walzer lento, amore ed odio, notte e giorno ma che di te avrei dovuto imparare a fare senza. E’ come se tornassi bambina, quando ti accarezzo con lo sguardo… Compio viaggi nei tuoi occhi e mi confondo, immaginando che cosa sarei diventata se fossi uscita da quell’angolo giù in fondo dove mi sono sempre andata a nascondere, per quell’odiosa idea di non essere abbastanza. E’ come se la piccola si fosse spaventata
e non riuscisse a crescere, se non quando ti sto di fronte… allora, la sento ridere, mi chiede di giocare e compie la magia di trasformarmi nella donna che volevo diventare.
La fine di Irma Panova Maino
Solchi d’ambra segnano il tempo speso in inutili sequenze di errori e macchiano la pelle con il fuoco dell’inferno. Quanto poco sarebbe bastato per evitare l’aridità di un terreno che nulla chiedeva? Gli incubi sono stati assemblati con tenacia e pazienza, divenendo reali, parte di un quotidiano che perdeva lustro e splendore a ogni sorgere di luna piena. Ed erano gemiti che sorgevano dalle tombe, aloni di spiriti domati e resi schiavi del giornaliero perdersi. Erano le urla dell’incomprensione, quelle che sostituivano i sussurri d’amore. Il lento corrompersi ha portato alla distruzione. Ho visto le mura sgretolarsi sotto l’accidia, crollando sotto quelle miserevoli accuse mosse per coprire le colpe. Ho visto svanire al sole i sogni, ricoperti dalle ombre della mancata ragione. Sono diventata niente nel giro di poco, prostrandomi all’indifferenza e rinunciando a tutto ciò per cui così duramente ho lottato. Ma ancora non è bastato. Dopo la distruzione è subentrato il silenzio. Quel silenzio fatto di ironia e sarcasmo, di cattiveria e vendetta. Me ne sono andata. Ho girato le spalle al nulla tentando di ritrovare me stessa, il mio modo di essere e di vivere. E ancora sono stata condannata per questo. L’egoismo è diventato la mia bandiera, il vessillo sotto il quale hai posto il mio operato pensando di averne diritto. Hai aperto le porte a Cerbero per venire a stanarmi, senza comprendere che elargivi fiele al cane infernale per ricompensarlo dei morsi inflitti. Sarebbe bastato poco, ma poco è ciò che è rimasto. Sarebbe bastato davvero poco, ma ho avuto bisogno di molto per comprendere il reale.
Εnergia Universale (Inno alla natura-Donna) di Sofia Skleida
La tua natura sorprende e la storia diventa leggenda che testimonia il tuo onore di vita… La tua bellezza ispira i migliori poeti e la purezza la maternità… Non smettere mai di illuminare i nostri percorsi, rispettare le scelte di vita, appagare le nostre speranze, gratificare i nostri sogni e il nostro Alter Ego… Ci sarai sempre… attraverso l’aria che respiriamo che lascia il tuo profumo… annaffiando con le lacrime le risorse assetate di madre terra, regalando il tuo sorriso puro, accompagnando i nostri momenti difficili di questo breve percorso… Grazie di esistere…
Il foglio bianco
Cari amici e Portatori di Penne magiche, vi annunciamo l’argomento vincitore di questa edizione di 7 Giorni di Follie che in questa settimana ha visto un notevole afflusso di votanti. Gli argomenti evidentemente hanno stimolato la fantasia di molti e hanno scatenato idee nelle vostre menti creative. E noi, ben felici di questo, apriamo le danze al nostro contest mensile a tema “Il foglio bianco“. Un foglio bianco in cui riversare i pensieri e i dolori che lo stesso foglio può conservare per voi o, in caso il bianco vi bloccasse, perché a volte produce questo effetto, come reagireste alla sfida candida che questo vi lancia. Qualora qualcuno degli argomenti non vincenti vi avesse particolarmente solleticato, segnalatecelo come commento in questa pagina e potremmo ripescarlo per una delle prossime edizioni! Buon divertimento e buona scrittura!
Tabula rasa di Sofia Skleida
Carta bianca il mio percorso, le mie paure, le mie ansie, i miei sentimenti Ombra bianca come una tabula rasa, come un ciclo di movimento continuo e perpetuo Bianco, come le nuvole nel cielo pulito, i pensieri innocenti di un bambino Vergine e disinteressato, come l’amore materno Cerchiamo di riempire creativamente le pagine del nostro tempo, del nostro libro Una pergamena in bianco… Anche se alcune rimangono mezzo vuote e sciatte, Sono sempre le nostre…
Condominio, scarafaggi e primavera di sca La Froscia
Ho un foglio bianco, senza vita, davanti a me. Vorrei animarlo. Ecco, qualcosa comincia a prendere forma. Vedo un condominio, degli scarafaggi, la primavera…
“È primavera? È rinascita?” chiede Amelia, all’improvviso, durante la riunione condominiale. “Be’… sì, signorina Sfumata, tutti gli alberi sono fioriti e i giardini sono verdi, non vede?” risponde infastidito il signor Arraffo, l’amministratore del palazzo di Viale Paradosso, numero 7. “Per far fronte alle nuove esigenze del palazzo la quota condominiale annuale deve essere aumentata” prosegue con tono perentorio. “E quali sarebbero le nuove esigenze?” domanda seccato il signor Mugugno, il vecchietto del bilocale al pian terreno. “Disinfestazione, lotta alla zanzara tigre e sterminio di blatte e scarafaggi” proferisce l’amministratore. “Ma è primavera, è risveglio” afferma Amelia, che occupa il monolocale frontale all’abitazione del signor Mugugno. “Lei è ancora in letargo signorina. Non sente le baggianate del caro amministratore? Come se fosse la prima disinfestazione, è una vita che facciamo la guerra a questi mostriciattoli” incalza il signor Mugugno. “E quale sarebbe l’eccezionalità di questo intervento?” echeggiano le voci dei condomini. L’amministratore non risponde subito, pensa all’ultimo modello della BerlinaMercedes, visto il giorno prima alla fiera dell’auto. Vorrebbe acquistare il
gioiellino quanto prima. Immediatamente, come strumenti accordati male, voci dissonanti si diffondono nello spazio meditativo: sono le lamentele dei condomini. Questo riporta il signor Arraffo alla questione e per arginare le rimostranze lancia il diktat. “Signori e signore, tutto cambia e anche questi obbrobriosi insetti mutano. Sono diventati molto più perniciosi. Si insinuano negli appartamenti e uccidono. Per poterli sterminare occorrono nuovi strumenti, nuove armi. Come voi sapete la tecnologia costa, i prezzi delle ditte di disinfestazione sono lievitati del 50%. E per questo motivo, la quota a da 3000 a 6000 euro!” Amelia si gira verso la finestra e guarda l’orizzonte. “Gli alberi sono fioriti, il giardino è tutto verde, chissà se è primavera pure in cielo…” Vive in una sorta di autismo da quando la leucemia le ha strappato il compagno. Senza più badare all’evanescenza di Amelia, l’amministratore continua la conferenza. “È proprio in primavera che si ha il picco dell’invasione, queste bestiacce figliano come dannati. Dobbiamo sterminarle al più presto. Oggi stesso occorrono le quote.” Il signor Mugugno, con piglio tra l’arrabbiato e lo spaventato, guarda le facce degli altri che hanno tutte, tranne quella di Amelia, la sua stessa espressione. “Se vogliamo salvare la pelle dobbiamo sborsare” dice concitato. “Sì, dobbiamo pagare, è un grosso sacrificio, ma è per la nostra incolumità” concordano tutti. “Sono molto soddisfatto dell’esito di questa riunione, siete stati ragionevoli, saggi. Andate a fare il bonifico, ora. Contatterò al più presto la ditta Baygon” conclude, con aria cinica e compiaciuta, il signor Arraffo. Già si vede al volante
della Berlina. I condomini placati si avviano verso le proprie abitazioni insieme ad Amelia, che farnetica ancora sulla primavera con una cantilena: “Ha veste verde di vento cucita da tanti fiori vivaci guarnita…”
Attesa di Ramona Dandy Di Ventura
“E adesso che cosa facciamo?” “Aspettiamo, ragazzo.” “Aspettare? Cosa vuol dire?” L’anziano Maestro lo fissò intensamente. “In questo istante siamo due scrittori e questa faccenda è il nostro foglio bianco in un momento di crisi. Siamo smaniosi di riempirlo, ma ora non sappiamo con cosa. Certamente, uno scrittore valido sa di dover lottare per trovare la soluzione al suo problema, ma sa altrettanto bene che non può accontentarsi di scrivere la prima banalità che gli a per la testa. Sa che non è obbligato a scrivere subito qualcosa pur di riempire il vuoto di quel foglio. Per questo motivo, lui aspetta. Aspetta che l’idea giusta, quella degna di essere scritta, si accenda nella sua mente e fluisca nella sua penna. Dunque anche noi siamo scrittori validi, figliolo. Per questo aspetteremo finché non sapremo cosa fare. E fino a quel momento il nostro foglio rimarrà bianco.”
Uno scrittore in crisi di Sauro Nieddu
Da dove iniziare… forse a partire dalla prima birra, quella che ho ordinato alle tre del pomeriggio, ne verrebbe fuori un romanzo. Forse è meglio che vada subito al dunque… E dunque erano le sette di sera ed ero sempre lì al bar. Le mie condizioni, come potete intuire, non erano delle migliori. Di solito non esco mai prima di aver scritto almeno qualche ora (e il motivo è semplice; dopo non ne sarei più in grado) ma quel giorno avevo deciso di fare un’eccezione. Come si sa, un’eccezione tira l’altra, sono come le ciliegie. Ora, io non sono certo Bukowski, nel senso che quando sono sbronzo non riesco a combinare niente di niente, figuriamoci mettermi a scrivere. Però ci sono le eccezioni… una volta o due per lustro capita che, per quanto sia cotto, mi vengano delle idee che devo mettere subito su carta. Queste sono in assoluto le idee migliori. Se sono riuscite a farsi strada attraverso la nebbia alcolica fino ad affiorare alla coscienza, ci sarà pure un motivo. Quella volta poi, si trattava di una doppia eccezione. Non una semplice idea, bensì l’idea di un romanzo completo. Dovevo fissarla il prima possibile. Sapevo per esperienza che in certe situazioni le idee ci mettono niente a svanire come fumo. Mi guardai attorno con gli occhi sgranati, alla disperata ricerca di foglio e penna, ma già presagivo che li avrei trovati. Da almeno due ore, seduta a un tavolino col suo immancabile bicchiere di the freddo, Lucia era intenta a fare i compiti. Lucia è la figlia del barista e siamo molto amici. Ero certo che non mi avrebbe negato il foglio che mi serviva. Però avevo una sorta di timore reverenziale a chiederlo. Non che sia timido, intendiamoci, è solo che affrontare una bambina di sette anni strafatta di the, per un quarantenne ubriaco è una questione tutt’altro che semplice. Nonostante sapessi i rischi a cui andavo incontro, presi tutto il mio coraggio, un respiro profondo, e l’affrontai: “Ciao Lucy, non è che saresti così gentile da regalarmi un foglio?” Lei mi guardò con una luce strana negli occhi. Era il momento della verità.
“ Hai voglia di giocare un po’?” Io sospirai, deglutii, distolsi lo sguardo per un attimo. “Sì, certo…” Mormorai a denti stretti. Dopo aver percorso una decina di volte il perimetro del bar saltellando a mo’ di pinguino, tra le risate dei presenti che al contrario di me, essendo appena usciti per l’aperitivo, erano freschi come rose, ebbi finalmente il mio foglio. Avevo il fiatone e grondavo sudore sotto gli abiti invernali, ma ce l’avevo fatta. Allora mi resi conto che mi serviva anche una matita. Quella mi costò dieci minuti di ciance con una gatta di plastica, piuttosto scorbutica devo dire. Dovetti anche aiutarla a far la doccia ai suoi micini altrettanto plasticosi, e a metterli a letto. Ora avevo foglio e matita. Ordinai un’altra birra e sedetti al tavolino. Ero distrutto, ma le idee continuavano a frullarmi in testa come eri impazziti, bene! Ci volle un’ora intera e un’altra bottiglia di birra per buttar giù a grandi linee la traccia del romanzo. Poi, tutto soddisfatto, ficcai il foglio nella tasca dei jeans, ordinai un’altra birra e mi accostai al bancone…
Mi svegliai con una lieve sensazione di stordimento. Quando mi alzai dal letto, la sensazione si fece piuttosto greve. Mi guardai attorno spaesato… non ricordavo nulla della sera prima. Cercai i jeans, ma non riuscivo a trovarli da nessuna parte, così optai per una tuta da ginnastica che stava in terra vicino al letto e scesi a fare colazione. Il movimento spinse un po’ di sangue su fino al cervello, allora iniziai a ricordare… i jeans me li ero levati quando ero rientrato… certo, mi ero dovuto fare la doccia dopo essere scivolato in quella pozzanghera… ma che ore erano? Ah, mezzogiorno, niente di particolarmente grave… poi ricordai di un amico che avevo incontrato la sera prima, quello che mi aveva chiesto: “Che diavolo scarabocchi su quel foglio?” e io gli avevo risposto… Un attimo! Foglio? Dov’era finito quel dannato foglio? Ma certo, dovevo averlo lasciato nella tasca dei jeans… corsi a rovistare nella cesta della roba da lavare,
fuori dal bagno. Quando scrutai l’interno vidi solo il fondo di vimini intrecciato, dei vestiti che avevo indossato la sera prima, neanche l’ombra. Un tremendo sospetto cominciò a farsi largo nella mia mente ancora ottenebrata. “Ma’”urlai “per caso sai che fine ha fatto la roba che avevo lasciato nella cesta?” “Nella cesta? La cesta stamattina era vuota… forse vuoi dire la roba che era sparsa sul pavimento del bagno!” Ebbi un moto di fastidio. Nessuno sa essere pedante quanto mia madre quando decide d’impuntarsi su qualche dettaglio stupido… “Ma sì, in terra, nella cesta… che differenza vuoi che faccia! Vuoi dirmi che fine hanno fatto quei dannati Jeans!” “Nervosetto oggi? Dove vuoi che siano, sono stesi fuori. Ho dovuto lavarli perché erano lerci.” Iniziai a tremare tutto, mi diressi lentamente verso la lavatrice. Respira, mi dicevo, respira. Vedrai che il tuo foglio sarà sul mobiletto accanto alla lavatrice, assieme agli spiccioli che avevi in tasca. Né gli spiccioli né il foglio erano là. Il mondo attorno a me iniziò a vorticare rabbiosamente. Di botto mi ritrovai fuori di casa, davanti a me il filo del bucato. Con le ginocchia molli mi accostai ai Jeans e li tastai cautamente. Erano praticamente asciutti. Mia madre doveva aver attaccato presto quella mattina. Infine trovai il coraggio di infilare la mano nella tasca, lo feci tenendo gli occhi chiusi. Il foglio era ancora umidiccio al tatto, ma sembrava in grado di reggere la delicata estrazione senza strapparsi. Quando me lo trovai in mano, socchiusi gli occhi e lo spiegai delicatamente. Il mio urlo d’angoscia echeggiò nel vicinato. Stormi di eri, tortore e storni si sollevarono dagli alberi intorno, colmi di terrore. Poi sentii le forze che mi abbandonavano, una lacrima si staccò dall’occhio poggiandosi sul foglio bianco. E dire che non avevo mai creduto alla pubblicità di quel detersivo… ma il foglio era davvero bianco, che più bianco non si può. Perfino le righe larghe da seconda elementare erano svanite nel nulla. Mi trascinai stancamente verso la mia stanza.
“Sauro! Guarda che il pranzo è pronto!” Risposi con una bestemmia e tornai a stendermi nel letto. Cercai di vuotare la mente e lasciare che i ricordi affiorassero dai fumi alcolici della serata precedente. Il romanzo non era del tutto perduto, in effetti. Ricordavo la scena iniziale, quando l’omino rosa antico, alto appena una decina di centimetri, usciva dalla sua crisalide/baccello in un remoto satellite di un piccolo mondo nei pressi di Sirio. Ricordavo anche la parte conclusiva, in cui il protagonista, trasformatosi in un terribile organismo cibernetico con tredici arti e una corazza d’oro cristallizzato, veniva sconfitto dal pitamorfide mutante nella città lunare di Mona.
Ormai da quel giorno è ato parecchio tempo. Tempo in cui non ho fatto altro che rimuginare su quella parte centrale svanita nel nulla. Benché ricordassi vagamente il tema portante del romanzo, non sono stato in grado, in nessun modo, di ricostruirne, neppure vagamente, la trama. Inutile perfino dirlo, da allora la mia mente si è come bloccata. Non riesco più a scrivere, non penso a nient’altro. Pertanto, se qualche collega fosse così gentile da darmi un piccolo consiglio, un’idea che colleghi le due scene per farne una parabola su come tutte le forme di vita dell’universo tendano a un’etica condivisa (questo era infatti il tema che avevo in mente), si sarebbe guadagnato la mia gratitudine eterna. Umilmente ringrazio ancora chi volesse aiutarmi. Uno scrittore in crisi.
A volte, meglio qualcuna in meno di Fabrizio Castellani
Diego ripose il foglio sul tavolo degli attrezzi, lasciandosi scappare una bozza di sorriso. Era soddisfatto. Aveva scritto prima, a casa. Ora, nel garage illuminato al neon, gli pareva di aver tra le mani proprio una bella lettera di addio. Un foglio, nato bianco, era adesso vergato con belle frasi ad affetto. Aveva curato gli accenti dei “né” e gli apostrofi di “un’idea”. Piazzato tra i periodi quei punti e quelle virgole, creato ad arte il pathos e il giusto climax. La sua ultima lettera era bella. Aveva raccontato l’anno trascorso sotto l’effetto del male oscuro. La depressione, il venir meno della voglia di vivere. Alcune righe rammentavano appena, quasi come a non voler dare importanza alla cosa, la causa del suo malessere. Il tradimento subito dall’ex compagna Marta, il conseguente burrascoso addio. Nella lettera la pregava di non infliggersi pena per la sua scelta estrema. Parole che l’avrebbero sollevata, pensava. Un bel paragrafo fiorito lo aveva dedicato alla famiglia, esaltando l’amore che provava per i genitori, il fratello, la piccola nipote. Si scusava per quest’anno in cui era scomparso tagliando i contatti con loro. E li esortava a comprendere che il male era stato più forte della sua volontà di ricominciare, di ricostruire per sé un’esistenza dopo la fine della relazione con Marta. Proprio una bella lettera, una pagina piena di parole ben scritte. Tolse il cellulare di tasca e lo poggiò sul foglio aperto, poi si voltò e raggiunse un piccolo sgabello. Aveva fatto spazio al centro del garage, e spostato a lato le carene della motocicletta da ristrutturare che aveva acquistato due anni prima. Un progetto sognato e poi abbandonato, come tante altre cose della sua vita fin lì. Salì quel piccolo scalino con la stessa fatica con cui si scala una montagna, prese in mano
il cappio che macabro scendeva dalla trave sul soffitto e chiuse gli occhi. Era pronto. Quasi. WE ARE THE CHAMPIONS, MY FRIENDS AND WE’LL KEEP ON… la suoneria dei Queen si mise a gridare.
“Ma porca putt…” fu il pensiero “Non basta che ti chiamano mentre guidi, o mentre sei in bagno. Neanche impiccarsi in pace! Ma ora lo lascio stancare. Vedrai che smette e poi mi stozzo. Vedrai” Ma Freddy non si stancò. E Diego cominciò a innervosirsi. Al decimo MY FRIENDS scese dallo sgabello. In tre i fu al cellulare e lo abbrancò come fosse stato la coda del diavolo. Il dito indice ò sullo schermo una, due, tre volte e quando finalmente prese la linea Diego sparò lì dentro tutta la sua rabbia “ECCOMI ECCOMI!” Solo il silenzio rispose. Guardò il display. Giorgio, suo fratello. Aveva riattaccato. Diego cercò di recuperare la calma e pensò a quanto strano fosse ricevere una chiamata da Giorgio proprio in quel momento. Non lo sentiva da mesi. Neanche il giorno del suo compleanno lo aveva degnato di un messaggio, di un augurio. Niente. Valutò se richiamarlo, poi lasciò perdere «è troppo tardi per qualsiasi cosa» pensò. Di nuovo pose il cellulare sopra al foglio e allora notò qualcosa di strano. Lo aveva riempito quasi per intero, scrivendo tutto in un bel corsivo. Ne era certo. Quasi certo. Però la pagina ora aveva diversi spazi bianchi. Mancanti. E le parole FAMIGLIA, VIVERE, RELAZIONE erano scritte in maiuscolo. Scosse la testa. “La tensione. La lucidità che manca” disse tra sé e sé. Ripose tutto sul tavolo e tornò allo sgabello. Aveva la corda del cappio tra le mani al primo BLING. “un SMS”
Al quarto BLING aveva già capito che l’universo stava complottando contro di lui. Ancora scese lo sgabello, ancora furiosamente afferrò il cellulare e guardò il display. Di nuovo Giorgio. -URGENTE CHIAMAMI-TI PREGO-SONO IN OSPEDALE-SERENA HA BISOGNO DI TE ORAIl nome della nipotina di sei anni gli addolcì la rabbia. Giorgio doveva essere disperato per chiedere di lui con questa urgenza. Forse era accaduto qualcosa. Ma perché aveva bisogno di lui? Non vedeva la piccola da mesi. Non vedeva nessuno della famiglia da mesi. Nessuno lo aveva più cercato, e lui non aveva cercato loro. Che volevano adesso? Prese tra le mani il foglio. Sempre più curiosamente altre parole mancavano, e più di metà della pagina era candidamente bianca. Parole sperdute, e periodi qua e là disposti, in maniera irregolare. Alcune parole erano in corsivo, altre in stampatello, e tanti spazi bianchi. Alcune parole erano finite in verticale. Le frasi nel migliore dei casi avevano perso armonia, nel peggiore mancavano di senso. Nessun punto, nessuna virgola. Qualche trattino. Tra tutte V-ita, oscuritA e rImorso spiccavano come scritte da un pazzo. “Sono impazzito” la conclusione di Diego. A quel punto però non era il caso di salire di nuovo lo sgabello e decise che tanto valeva andare a vedere cosa stesse accadendo alla bambina «per ammazzarsi ci sarà tempo al ritorno» Prese la giacca, si infilò in tasca il foglio e corse a prendere l’auto. “Certo che proprio in ospedale. Con il rischio che ci trovo pure Marta. Quella str… lavora lì. Sicuro che è una trappola. Quei due si sono messi d’accordo. Lei gli avrà chiesto di trovare una scusa per farmi correre là. Ma no dai. Giorgio non si presterebbe mai. E poi per cosa? E la bambina che c’entra?” questi e altri di stesso tipo furono i pensieri di Diego mentre si avvicinava a destinazione.
Lasciò l’auto nel parcheggio e si infilò al pronto soccorso. Alla reception della sala d’aspetto intercettò un’infermiera giovane e carina “Serena Bardi per favore. Ha sei anni. Dovrebbe trovarsi qui. Sono lo zio” Mentre la ragazza cercava sul terminale Diego vide avvicinarsi uno sconosciuto. Era alto, completamente calvo e decisamente sovrappeso. Riconobbe il fratello Giorgio solo quando fu a pochi i da lui. Solo gli occhi gli erano familiari. La carnagione era quella di un malato, le occhiaie profonde e scure. Un timido ricordo di quello alto, moro e muscoloso che Diego rammentava. “Ciao Diego. Sei corso subito. Grazie. Serena, c’è stato un incidente Ha perso molto sangue. Ha bisogno di aiuto. Ha un sangue particolare, raro. Come il mio, come il tuo. Ma il mio non possono usarlo. É, come dire, contaminato. Devi aiutarla tu, non sopravvivrà altrimenti. Ti prego” Diego era stordito. Non riusciva a capire. Mezz’ora prima stava per uccidersi. Adesso un uomo che sembrava la brutta copia di suo fratello lo stava pregando di salvare una bambina. Parlava di sangue contaminato, incidenti, vita e morte. E tutto questo in un posto dove correva il rischio di incontrare Marta. “Un incubo. Oppure sono morto e sono già all’inferno. E fa schifo” pensò. Trovò appena la concentrazione per mormorare “Certo. Sono qui. Quello che serve. Andrà tutto bene. Ma che è successo a Serena? E a te? Perché il tuo non va bene?” “Dopo. Ti racconterò tutto, prometto. Ma adesso ti aspettano” Lo prese sotto braccio e lo accompagnò in fretta fino ad una porta bianca. Diego non poté fare a meno di notare che il fratello sembrava sofferente ad ogni o. Zoppicava, spostandosi goffamente e con difficoltà. Non ci fu tempo a chiedere altro perché la porta si aprì e gli occhi azzurri di Marta lo accolsero. “Marta?” La vista della donna aumentò in lui la sensazione di essere vittima di uno scherzo. “Certo. Chi ti aspettavi? Lavoro qui ricordi?” la voce della donna era squillante. A Diego parve invecchiata e stanca, diversa da come la ricordava nelle notti insonni degli ultimi mesi. Sempre bella, ma forse meno di come l’avrebbe
descritta. “Ne hai messo per rispondere” continuò lei -ma siamo in tempo. Vieni- e con fare sbrigativo letteralmente lo trascinò dentro alla stanza. Lo spinse sopra una lettiga e Diego si rese conto del corpicino steso al suo fianco. Serena sembrava una bambola di porcellana addormentata. Una bambola caduta, che qualcuno aveva riparato con delicate fasciature bianche. I lunghi riccioli biondi erano stati tagliati. Il piccolo viso era pallido e sofferente sotto la maschera dell’ossigeno. Sentì la puntura dell’ago che Marta gli metteva in vena, e la sua voce che chiedeva “Hai fatto uso di droghe? Prendi medicinali? Malattie? Attento. Questa cosa ti farà dormire” “Niente. Forse troppo alcool. Prendi quello che serve” Si chiese come mai ritrovare Marta non gli avesse dato nessuna sensazione particolare. Nessuna ansia, nessun risentimento. Solo sorpresa. Fu un pensiero fugace. “Quello lo depuriamo appena estratto” arrivò alle sue orecchie. Ma era già lontano. Si addormentò. Al risveglio si sentiva intorpidito e infreddolito. Era solo nella stanza, e non avrebbe saputo dire se la notte fosse arrivata. Fece per alzarsi e il mondo prese a girare vorticosamente. “Fai piano. Ne abbiamo usato tanto” Cercò l’origine della voce e trovò Marta, in camice verde, appoggiata allo stipite della porta. “Serena, come sta Serena?” chiese lui con un filo di voce. “Sta meglio di me e di te. A quell’età si riprendono presto. Qualche giorno e tornerà a giocare. Aveva perso troppo sangue. Serviva una trasfusione urgente. Le hai salvato la vita” Diego si sentì sollevato, e Marta riprese. “Giocava a scuola, è caduta e si è tagliata in profondità. Giorgio era qui per la
terapia quando l’hanno portata. Era disperato. Voleva dare il suo sangue ma non potevamo usarlo. Allora abbiamo pensato a te. Fortuna ha voluto tu fossi vicino. Hai fatto presto ad arrivare” Alcuni pezzi mancavano ancora ma Diego iniziava finalmente a capire. “E il sangue di Giorgio non andava perché?” “La chemioterapia” rispose lei “Lo hai visto no? Non voleva dirti nulla. Per non darti altri pensieri, ha detto. Ti vuole bene. Lui sa, tutti noi sappiamo cosa hai ato. E siamo tutti dispiaciuti e preoccupati. Lui crede che te ne farai una ragione, prima o poi. E anche io credo ti serva solo tempo. Ma la vita è tua, e tu deciderai quando uscire da questo torpore. La cosa tra noi ci è sfuggita di mano. Ma è tra noi. Non ha senso mettere la testa sotto un sasso o scappare. Serve tempo per trovare un modo per stare bene. Solo tempo. E questo per noi. Tuo fratello invece è forte, e siamo ottimisti. Potrebbe farcela, ha buone chance. Le ultime analisi danno tutti gli indicatori in regressione. Serve tempo anche a lui” Diego comprese. Il mondo aveva continuato a girare anche senza la sua presenza costante. Ancora lui ne era parte, ancora c’era affetto, c’erano legami che portavano a lui. Ma aveva volontariamente scelto di mettersi a guardare. Come un’ombra, che sta inerte appesa a un corpo. Guardò Marta. Lo sguardo era più triste di come lo ricordasse. I capelli, un tempo lucenti, apparivano opachi. E qualche sottile filo argentato appariva timido. Non era la donna che aveva amato, non era quella che sognava la notte. E non era neanche quella che lo aveva tradito, quella che lo aveva abbandonato. La vita era andata avanti anche per lei. Solo lui si era fermato. “La vita scorre. E niente resta sempre lo stesso” “E a te come va?” le chiese. “Alti e bassi, lo sai come sono. Non ho pace, mai avuta” la voce le tremava un poco “Magari ti racconterò, se un giorno avrai voglia di prendere un caffè assieme. Mi farebbe piacere.” Diego sorrise, e Marta fece per lasciare la stanza. “Ah, ti è caduto quello dalla tasca” disse fermandosi e indicando un foglio
poggiato sul comodino “Mi ricordavo che tu scrivessi meglio. Sei peggiorato” sorrise a sua volta e sparì nel corridoio. Diego prese la sua pagina. Poche cose restavano scritte. Lettere casuali, maiuscole e minuscole, sparse a casaccio sulla carta bianca. Prima di lasciare l’ospedale ò a trovare il fratello e Serena. Stavano bene. La paura era ata. Dopo un abbraccio caloroso Giorgio, in lacrime, gli strappò la promessa di prendere una birra assieme. All’uscita guardò il foglio. Le lettere si erano unite e adesso si leggeva, piccolo, in alto: DA SCRIVERE. In auto, durante il ritorno, decise che la moto da troppo tempo in garage meritava un colore vivace. Si fermò per strada a comprare una vernice di un bel giallo brillante. Alla cassa, accanto al portafogli, in tasca trovò una pagina bianca.
Imprinting di Andrea Tavernati
Ci sono 99 nomi. Poi c’è il centesimo. Il centesimo è impronunciabile. L’enso, l’espressione più pura della creatività zen, non si disegna, si lascia dipingere sulla carta bianca. Si può ripetere all’infinito, non sarà mai uguale a se stesso. Dipende dal gesto, dal momento, dallo stato d’animo, dalla connessione nervosa tra la mente e il braccio che regge il pennello. Non è niente più che un cerchio nero. Può essere chiuso, oppure incompleto. Ci sono artisti che hanno ato tutta la vita a dipingere solo l’enso. Hanno scritto la loro biografia attraverso l’enso. Io amavo la carne e il sangue, amavo la penna che produce segni che hanno una logica; ma amavo anche la macchia d’inchiostro che ti lascia sulle dita la stilografica difettosa. E amavo lo spazio bianco riservato al centesimo nome, quello di dio; il vuoto al centro dell’enso; l’occhio del ciclone, ove regna la calma più perfetta, mentre intorno è il caos. Anelavo a questa forma di equilibrio. Effimero, transitorio ma perfetto. Il foglio bianco che può ancora dire tutto o che ha già detto tutto. La superficie vuota è il vero aleph, il luogo ove sono compresenti tutti i luoghi, il tempo ove sono compresenti tutti i tempi, lo spazio ove si realizzano tutti i possibili. Contempla il foglio bianco e contemplerai tutto l’universo; ascolta il suo silenzio e ascolterai tutte le musiche del mondo. Un foglio bianco senza limiti è l’ombra della mente di dio. Ma l’uomo non è capace di concepire qualcosa di illimitato. I suoi fogli bianchi hanno dei confini, e oltre questi confini c’è la realtà, ci sono le cose. Noi volevamo profanare il foglio bianco, perché solo così avrebbe perso la sua purezza e solo perdendola noi avremmo potuto riconquistarla insieme a lui. Viceversa la dimensione umana, quella dell’inchiostro che sporca le dita, e quella del foglio bianco sarebbero rimaste inconciliabili. Daniela era una compagna di corso di Stefano all’università e aveva la pelle più bianca che avessimo mai visto. All’inizio pensavamo addirittura che fosse malata, ma lei ci assicurò che il suo sistema circolatorio funzionava benissimo. Quello era il suo colore e non c’era verso di cambiarlo. Se pretendeva di abbronzarsi riusciva solo a scottarsi.
Il resto del suo aspetto si intonava perfettamente con la sua carnagione d’alabastro: esile e slanciata, aveva lunghi capelli neri, naso sottile, grandi occhi chiari e un sorriso garbato, un po’ trattenuto. Vestiva sempre in modo sobrio e poco appariscente, ma si capiva che tutto il suo corpo doveva essere naturalmente pressoché privo di peli ed avvolto nello stesso bozzolo di bianchezza che si scorgeva sul suo volto e sulle sue mani. Era il foglio bianco ideale. Dopo molti consulti e molte incertezze, dopo un lungo studio per trovare il modo migliore per farle la nostra proposta e renderla comprensibile superando il suo prevedibile stupore iniziale, ci decidemmo una buona volta a chiederle di fermarsi, dopo una lezione di diritto privato, sotto uno dei soliti portici del cortile centrale dell’università, perché avevamo qualcosa di importante da dirle. Trovato un angolino tranquillo al di là del via vai studentesco, cercammo di spiegarle che il biancore del suo corpo si prestava eccezionalmente ad un esperimento “scientifico” di grande valore e difficilmente ripetibile in assenza di circostanze altrettanto fortunate…che un’astratta superficie bianca era un’algida metafora dell’assoluto, ma, per essere davvero completa, mancava del realismo, della sanguigna carnalità della vita pulsante, della reattività dei nervi e dei muscoli sotto la liscia superficie imperturbabile…la sua pelle, il suo corpo era il luogo ove tale incompletezza era miracolosamente sanata…si trattava di superare l’eterna dicotomia tra pensiero e ione…tra progettualità ed istintività… che cosa ne sarebbe scaturito, impossibile dirlo esattamente…forse un’illuminazione superiore… forse la contemplazione di una bellezza inconcepibile…forse semplicemente un momento di felicità… Certo valeva la pena tentare e disporsi a ricevere le conseguenze del gesto con assoluta apertura mentale… con la prontezza necessaria ad accogliere una possibile rivelazione… una gioia suprema… un’esplosione… o una minima variazione, quasi impercettibile ma preziosa… Insomma, si trattava di questo: volevamo scrivere le nostre poesie sulla sua schiena… partendo dalla spalla sinistra e muovendo verso destra, proprio come su un foglio bianco… io avrei fornito i testi e Stefano avrebbe scritto, la sua calligrafia era molto migliore della mia… Avremmo usato un pennarello Stabilo a punta fine, niente di pesante, solo un aereo ghirigoro… per il colore pensavamo al verde, ma se aveva delle preferenze, non c’erano problemi… solo una cosa temporanea, non avrebbe dovuto farsi vedere da nessuno e tutto sarebbe rimasto fra noi… solo volevamo chiederle il permesso di fotografarle la
schiena, una volta finito…solamente la schiena, l’anonimato della modella era garantito…naturalmente avrebbe potuto leggere i testi, prima, e rendersi conto che non c’era niente di compromettente per la sua persona, né per la morale comune… Poi avremmo aspettato insieme le conseguenze del gesto, senza far nulla… quello di cui si diceva prima… pochi minuti, mezz’ora al massimo… quindi, se voleva, avrebbe potuto lavarsi via tutto, magari ci sarebbe voluto un po’ per far sparire la scrittura, ma neanche tanto… Mentre le raccontavamo il nostro progetto le espressioni di Daniela transitarono attraverso le fasi successive dell’attesa, della curiosità, dello stupore, dello sconcerto, della paura e infine della rabbia. Quando finalmente terminammo il nostro discorso e rimanemmo a pendere dalle sue labbra, lei ci guardò, prima l’uno e poi l’altro, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca semiaperta, invero carnosa e ben disegnata. Ci guardava come se non riuscisse a credere alle sue orecchie. Come si guardano due pazzi. Alla sua consueta bianchezza si era sostituito un violento ed inatteso rossore che per una frazione di secondo mi fece considerare se avevamo davvero riposto le nostre speranze nella persona più giusta. Ma non ebbi il tempo di formulare compiutamente questo pensiero, perché Daniela, senza pronunciare una parola, ci mollò due ben calibrati ceffoni, uno per ciascuno, rispettivamente sulla mia guancia destra e su quella sinistra di Stefano, mostrando una significativa abilità di ambidestro. Quindi si girò su se stessa e si allontanò a i lunghi ed isterici. Da allora non ci rivolse più la parola. Se ci ripenso mi sembra ancora di sentire lo schiaffo come se me lo avesse appena mollato. Non tanto per il dolore, ma per il dispiacere di fronte all’evidenza che non aveva capito e non ci avrebbe mai più dato l’occasione per fornirle un’adeguata spiegazione delle nostre intenzioni.
Ci sono pagine bianche in ogni ato di Anna Ciraci
Sguardi e mani capaci ad esaltar i sensi, ammalianti carezze e l’innocenza è persa scivolata nel compiuto universo. Son dita estranee a tracciar la sua storia ne riveston la pelle di segni plasmati.
E’ duro il risveglio in un adulto forzato si perdon frangenti d’un vissuto smezzato come esser un puzzle con parti mancati, riempiti a forza
con pezzi di carta… Ad appenderlo al muro ogni frammento si stacca.
Camminando a ritroso a volte il pezzo si trova e si ritorna finalmente padrone di tracciar quella storia…
Dov’è il mio spazio di Claudia Lo Blundo
Ohhh! Finalmente sola! Beh, vediamo se riesco a dedicarmi a me stessa, il che equivale a dire: vediamo se riesco a sedermi alla scrivania e fare quel che più mi piace, cioè scrivere! Sento una vocina interiore che mi risponde gioiosamente: Siiii! Hahaah. Allora, scrivania, eccomi! Per la verità, eccomi, dovrei dirlo al foglio bianco che sembra guardarmi implorante, in attesa, anche lui, che gli dia qualcosa: già perché tutti, in questa casa si aspettano sempre qualcosa da me! Bisogna che mi decida a scrivere una storia che da qualche giorno mi frulla per la testa di giorno e di notte. Non è nulla di nuovo, il solito triangolo dove amore e odio si mescolano: lei e poi lui con la sua lei. Detta così è addirittura patetica, ma la storia diventerà straordinaria; con ciò di cui l’arricchirò dovrebbe venirne fuori un bel racconto, me lo sento e, se sarò costante chissà, forse anche un romanzo, quello che, finalmente sarebbe accettato da un importante editore e mi renderebbe RICCAAAA. Si, in questi momenti di strettezze economiche, con figli e cane da accudire, mi ci vorrebbe un colpo di fortuna. Beh, questi sono discorsi sciocchi, meglio prendere carta e penna e iniziare C’è sempre un foglio bianco sulla mia scrivania e, accanto, la classica penna biro; per la verità c’è più di una penna perché, ad un certo punto, quella che uso non scrive più. Mmmmhhh, vedo che il mio computer mi guarda triste :lui sa che le mie attenzioni sono rivolte al foglio di carta. In effetti ho due computer: il fisso, quello classico, il mausoleo che occupa metà scrivania, del quale non riesco a fare a meno, ma che è stato soppiantato dal portatile, così docile, trasportabile, bastava inserire una penna e avevo internet anche ai giardinetti. Si, avevo perché anche lui è stato soppiantato dal mio moderno cellulare tuttofare.
E, invece eccomi con un foglio dinanzi. Tante volte ho pensato che se qualcuno mi vedesse scrivere su un foglio di carta, invece che su una pagina Word, direbbe che sono scema o, per lo meno, bizzarra. Chissà, forse sarà vero, ma il fatto è che quando devo iniziare una nuova storia, come appunto voglio fare adesso, preferisco usare il foglio di carta, non necessariamente di protocollo, quello mi sembra uno spreco: uso i classici fogli A4, ne ho una risma sempre a disposizione nel ripiano sottostante al monitor. Quando la storia mi sembra ben avviata, allora mi stanco di scrivere sul foglio, o, per la verità, mi rendo conto che diventa troppo dispersivo poi, dover copiare molto e così trasferisco il tutto sulla pagina Word; ma, all’inizio, no, perché scrivere sul foglio di carta mi ispira, mi dà la possibilità di andare avanti senza la tentazione di tornare indietro ad ogni rigo e correggere lì, sul momento, il che, se è positivo perché mi ritrovo col pezzo già corretto, in effetti mi fa perdere del tempo. E poi sul foglio di carta, nei momenti in cui penso cosa, e come scrivere, mi diverto a fare i classici ghirigori, tanto infantili dice la mia amica psicologa: ma è qualcosa più forte di me, continuo a farli, perché, forse, in fondo in fondo al mio animo, mi piaccio così: infantile! Sul foglio di carta, se nessuno mi gironzola attorno, posso andare avanti a scrivere anche per un’ora. Spesso inizio con la prospettiva di dare vita ad un racconto e poi la penna scorre in maniera autonoma e mi rendo conto che la questione proseguirà per cui, se per qualche motivo sono obbligata a staccare, cerco di segnare i punti salienti di quel che intendo concludere. Ecco, mi sembra che il foglio mi stia guardando sconsolato: come dargli torto. Ieri, quando finalmente, stavo per poggiare la penna e iniziare la storia del ménage à trois, ho dovuto piantare in asso: la solita telefonata inopportuna e poi, tutto ha preso una direzione diversa dal ritorno alla mia scrivania. Ma oggi no, oggi devo assolutamente iniziare, anche perché, a parte la seconda delusione del foglio, la mia testa scoppierà se continuerò ad almanaccare senza mettere nulla di nero su bianco, come si suol dire. Basta, ora inizio, devo solo decidere quale avvio dare all’incipit: l’incipit, è sempre il momento più drammatico. Mannaggia, continuo a rigirare la penna e non scrivo, ma si, perché se non inizio bene poi mi tocca cancellare e ricominciare da capo e questo mi da fastidio, mi piace vedere un inizio senza correzioni.
(due voci da lontano: mamma, mammina) Oddio, no, sono già tornati?! Ma perché non sono nata uomo? Nessuno mi avrebbe disturbata e allora, altro che un foglio bianco avrei potuto riempire di scrittura!
Anywhere di Pablo Cazzulani
07-02-2011 La mia auto scivola veloce sull’asfalto quasi sospesa tra la strada ed il cielo stellato, presagio di una serata speciale nella quale, alla porta del mio animo, busseranno ricordi ormai sopiti nelle pieghe del tempo. Ma il tempo non è che una percezione… ci sono attimi che vibrano in eterno… anni che scompaiono nell’istante in cui ti ritrovi ad aprire il cuore e la mente, a raccontarti, come se fosse trascorso un solo minuto dall’ultimo saluto. Non la vedo da diciotto lunghi anni e di lei ho solo il ricordo di una ragazzina con i capelli al vento mentre il mio treno scivola nell’oscurità. Da allora le Nebbie hanno ovattato il suono della sua voce e reso flebile il tocco delle sue mani; i nostri occhi hanno incontrato nuovi volti e si sono addormentati ascoltando nuove storie. Ma improvvisa e arrembante l’onda arriva, come un uragano, a scuoterti l’anima; ritrovare emozioni forse volutamente dimenticate, che affiorano inebrianti in un calice di vino, assaporarle realizzando che certe affinità elettive nascono in un attimo, perdurano nel tempo e si rianimano con un solo incontro. Entrambi sappiamo che questa sarà probabilmente la nostra sola ed unica notte, perché il nostro cuore appartiene a qualcun altro oramai, siamo consci che forse il Fato ci concederà questa unica possibilità per dirci quanto ci saremmo voluti dire; lo stesso Destino che tesse la ragnatela della nostra esistenza e che per oscure ragioni non ha voluto recidere questo singolo filo che fa di noi qualcosa di più di due semplici comparse. Lei è qui, ne sento il profumo, nel freddo di febbraio è uno zaffiro estivo che mi avvinghia e che mi fa barcollare. Ascolto la sua Storia e sento che non dovrei farne parte, ma siamo qui e ci cerchiamo. Intorno a noi sguardi e parole che indugiano cercando di carpire il segreto che ci unisce; nessuno può capire il nostro gioco. Questa notte non ci sono regole, nulla è scritto. Forse entrambi abbiamo una sola paura… non dare nulla per scontato. Ricordare… ricordare quando eravamo gli attori principali
della nostra vita, quando vivevamo ogni attimo e pensavamo a quanto quell’istante, poiché l’avevamo vissuto noi, fosse unico. E fermarsi un momento prima che gli stessi ricordi inizino a diventare dolore e solitudine; è sufficiente che i miei occhi incontrino i suoi per avvertire il candore delle sue lacrime, gemme argentee che il suo orgoglio riesce a ricacciare indietro… Siamo soli ora, ma nessuno dei due vuole rovinare la magia e l’attesa, un’attesa durata tanti piccoli istanti nei quali le nostre due vite sono sfrecciate parallele… Fino a questa notte… Questa è una nuova dimensione, è il nostro piccolo mondo. E’ Anywhere. Entrambi sappiamo che è sbagliato… ma non possiamo evitarlo… anche il Fato questa notte deve arrendersi. Il sapore delle sue labbra mi accompagna, mentre stordito, percorro al contrario la strada che mi ha portato da Lei. Siamo pagine bianche sulle quali, da domani, proveremo a scrivere insieme nuove storie…
I ricordi che contano di Sabrina Guaragno
Apro gli occhi, la vista è confusa. Tenerli aperti mi costa fatica, così li richiudo, dandola vinta al torpore. Quando mi sveglio di nuovo, la prima cosa che inquadro è un volto di donna. Le guance piene, il nasino piccolo, le labbra sottili e gli occhi tondi tondi. Mi guardano incuriositi, potrei quasi dire contenti. Sono di un bel blu cielo, anche se il volto della donna non lo è propriamente. C’è qualcosa di bello nel suo sorriso, però. Rimango a osservare i capelli color paglia secca, lunghi fino alle spalle per un po’, mentre la donna mi parla. Ma non capisco, come posso fare a dirglielo? Per qualche giorno tutto rimane così. Apro gli occhi, c’è qualcuno ad accogliere il mio sguardo. Qualche volta è di nuovo quella donna dal volto un po’ banale, qualche volta no. Mi parlano, mi danno da mangiare. Mi chiedono come sto, come mi sento. Sono in ospedale, ho avuto un incidente, sei mesi fa. Sei mesi di coma, sei mesi di niente. Mi chiedono il mio nome, anche se loro lo sanno già. Ed è solo in quel momento che mi guardo dentro, e vedo che non c’è esattamente niente. I miei ricordi iniziano dal momento in cui ho messo a fuoco il volto dell’infermiera bionda. Il resto, è nulla. Ho perso la memoria. ano i giorni, miglioro sempre di più. Ho incominciato a parlare, a mangiare da solo. A quanto mi dicono, mi chiamo Marco Rossetti. Un nome talmente anonimo che non posso credere che sia davvero il mio. Non mi ricorda niente, il mio cervello non reagisce al suo suono, anche se dovrei avere quel nome stampato dentro la mia scatola cranica, in qualche modo. Del resto, è il mio!
La mia famiglia? A quanto pare sono solo al mondo, o quasi. I miei genitori sono morti tanto tempo fa, alcuni miei zii si sono trasferiti a Londra, e non mi sono mai sposato, non ho nemmeno una fidanzata. Tutto questo me lo hanno detto gli infermieri, che hanno trovato la mia carta di identità nell’auto, il giorno dell’incidente. “E’ stato un brutto scontro, signor Rossetti. E’ un miracolo che sia vivo.” mi ha detto Giovanni, un infermiere dai capelli rossi e le lentiggini sulle guance, molto simpatico. Mi ha restituito le poche cose che avevo con me il giorno dell’impatto. Ho ato giorni a osservarle: un mazzo di chiavi, probabilmente quelle di casa, un telefonino ormai inservibile, un pacco di fazzolettini, un portafoglio con dei soldi e la mia carta di identità. Ho guardato a lungo la foto del ragazzo dai capelli e occhi scuri in quel piccolo rettangolo di carta, cercando in qualche modo di riconoscermi in esso. Ma questo è un ragazzo giovane, sui venticinque anni, felice, sicuro di sé. Possibile che io sia stato quel ragazzo, fino a pochi mesi fa? E se lo sono stato, perché non me ne ricordo? Giovanni, nel tentativo di aiutarmi, ha anche chiamato gli zii londinesi, il cui numero era probabilmente memorizzato sulla sim del cellulare distrutto. Ho parlato con loro, sono molto dispiaciuti e preoccupati per me, ma al momento sono troppo impegnati per mettersi su un aereo e venire a trovarmi. Come biasimarli? Io non glielo avrei nemmeno mai chiesto. Li ho rassicurati, fingendo di riconoscerli in qualche modo. Ma ho solo finto. Le mie giornate hanno continuato a srotolarsi così, più o meno tutte uguali. Al mattino colazione, magari in compagnia di Giovanni o dell’infermiera bionda, il cui nome mi è ancora ignoto. Visitina dal medico, un dottore alto e robusto dall’espressione autoritaria, il dottor Martinelli. Mi chiede sempre se sto iniziando a ricordare qualcosa, e mi dispiace doverlo deludere ogni volta. Si sta impegnando davvero tanto, con me. Fisioterapia, per il mio corpo che cerca di ristabilirsi e di riprendere a muoversi
come un tempo. Pranzo, qualcosa di insipido, ogni volta. Televisione, altri esami. Medicine. Cena. L’oblio della notte. Ho iniziato a frequentare uno psicologo, e il dottor Martinelli è stato d’accordo con me. Magari parlare di ciò che è successo mi aiuterà a ricordare. Magari, almeno, mi aiuterà a sfogare questa depressione che mi porto dentro, questa tristezza. Sono solo, e me ne accorgo ora, ora che non ho nemmeno i ricordi a farmi compagnia. Mi chiedo, prima di questo, prima di perdere quei ricordi… questa solitudine non mi pesava? Lo psicologo, Federico Grassi, un vecchio allampanato con grandi occhiali tondi alla Harry Potter, dopo un paio di chiacchierate, mi ha fatto un regalo. Ho strappato la carta con un pizzico di curiosità, un sentimento che mi sembrava di non provare da tanto tempo. Un quaderno nuovo. Mi ha detto di tenerlo sempre con me, di prendere appunti sulle cose che mi sembra possano avere un nesso col mio ato, di scrivere cosa mi ricordo, anche se è poco o nulla. Ho annuito, rassicurandolo. Quando poi sono tornato nella mia camera di ospedale, finalmente fuori dal reparto rianimazione, l’ho poggiato sul mio comodino, accanto al piatto della frutta e alla bottiglietta d’acqua. I miei compagni di stanza, un ragazzotto di sedici anni con una gamba ingessata e qualcos’altro di rotto e un uomo con problemi di appendicite, mi hanno coinvolto in uno di quei giochi di domande e risposte che, secondo le loro idee malsane sulla psicologia, avrebbe dovuto smuovere qualcosa nella mia testa. Ma nulla, e ogni volta che mi trovo ad osservare quel quaderno dalla copertina verde acqua, vuoto, anonimo, sento un groppo alla gola. Poi arriva l’infermiera bionda, mi misura la febbre, così, per prassi. Mi dà le mie medicine. Controlla la mia cartella e se ne va. Una sera, ho voglia proprio di farmi del male. Prendo quel quaderno, vedo
Giovanni, intento a medicare il sedicenne, guardarmi di sbieco. Faccio finta di nulla. Da qualche tempo sto meglio, e credo che tra poco mi rimanderanno a casa. Sempre che riesca a ritrovarla. E questo mi mette in ansia. Senza i miei ricordi, sono solo, perso. Apro il quaderno, fisso il primo foglio bianco. Bianco, vuoto. Come me. Come la mia memoria, spazzata via da un colpo alla testa. Tutto cancellato, la mia infanzia, il volto dei miei genitori. Ma come è possibile tutto questo? Perché, invece, ricordo come si utilizza il cucchiaio per mangiare la zuppa, o il programma che fa il sabato sera alla tv? Gli occhi mi pizzicano, e chiudo il quaderno, il foglio bianco coperto dalla sua copertina colorata. Butto via la penna, rimetto il quaderno al suo posto e mi metto a dormire. Il mattino dopo, l’infermiera bionda mi sveglia con una carezza. Apro gli occhi, e mi rendo conto che mi sta toccando la fronte per sentire se ho la febbre. Rassicurata, mi sorride. “Buongiorno signor Rossetti, mi dispiace di averla svegliata” mi dice. La vedo scrivere qualcosa sulla mia cartella. Poi esce dalla stanza silenziosamente. Il cuore mi batte a mille, per un attimo mi sento confuso. Il mio sguardo corre al quaderno verde acqua, lo prendo, lo apro. Fisso il foglio bianco… Che all’improvviso non lo è più. Adesso è pieno di flebili, anche se piacevoli ricordi. Ricordi delle belle persone che ho incontrato qui, tra le mura di questo ospedale. Ricordi di Giovanni, del dottor Martinelli, dello psicologo Federico, dei miei compagni di stanza, anche se vengono e vanno via all’ordine del giorno. Ma soprattutto, pieno dei sorrisi dell’infermiera bionda che ogni volta ha per me un gesto gentile, una carezza, una parola dolce. Mi rendo conto di averla memorizzata nella mia testa come l’incarnazione della
persona buona, della gentilezza, dell’eleganza. E anche della bellezza, perché no. La sua bellezza non è nei lineamenti un po’ anonimi, né nel corpo magro e fasciato da vesti troppo larghe ma comode, di un verde-ospedale un po’ deprimente. La sua bellezza è in quello sguardo di sincera attenzione e bontà che mi rivolge ogni mattina al mio risveglio. Come potrei mai farne a meno? Metto al suo posto il quaderno. E’ ancora vuoto, ma adesso la mia mente non lo è più come credevo. Il mio foglio bianco, si è riempito di parole. Mi alzo, un po’ malfermo. Vedo Giovanni, intento a fare un prelievo a un nuovo paziente, guardarmi con un sorriso. “Si chiama Alessandra” mi dice, ed io gli sorrido di rimando, perché il mio amico sembra avermi letto nel pensiero. Esco in corridoio, la vedo camminare con il carrello delle medicine. La raggiungo, e mi faccio coraggio. “Alessandra” la chiamo. Si volta a guardarmi, mi sorride incuriosita. “Grazie di tutto” le dico. Lei sembra un po’ confusa, sta per dire qualcosa ma la interrompo. “Posso aiutarti in qualche modo?” le chiedo, indicando il carrello. Lei scuote la testa. “Non preoccuparti, Marco.” Mi batte forte il cuore. Mi ha chiamato per nome! Lei sorride, sembra quasi aver capito cosa succede. “Torna a letto, quando avrò finito, verrò a farti compagnia per la colazione.” Le sorrido, e faccio come dice. Quando torno nella mia stanza, mi siedo sul mio letto, prendo il quaderno e la penna e incomincio a scrivere. Non credo che Federico si arrabbierà, se invece di scribacchiarlo di ricordi ati lo riempio con quelli presenti. Perché sono questi, quelli che contano.
Sudario del Giorno e della Notte di Sauro Nieddu e Giuliana Guzzon
Troppo il bianco una vertigine di purezza provocante, che l’immagine di un pozzo in negativo rivela
un abisso di dolore da sfinire i sensi e nel fissarlo confondere lo sguardo come argento che grida
espelle i possibili tormenti del suo d’intorno sensoriale ch’estingue gl’elementi
un foglio bianco lacerante di memoria una lapide d’opaco
senza forma indistinta
che dal niente arriva e nel niente ritorna
inchiostro stinto in potenza consumante ore e giorni in convulso boccheggiare
qualcosa mai scritto nel o scorticato di matita che la vita ha tracciato nutrendo la saviezza memoriale.
Esci lento verso erompi dalla mia mente sigillata dall’oscurità profonda dallo stralcio in cui m’uccidi
erompi nella luce in questo foglio bianco nel marmo desolato di notti insonni
e strappami un sorriso!
Incidente di Nicoletta Berliri
Strizzò gli occhi feriti dal chiarore abbagliante e li ridusse a una fessura tanto stretta da non riuscire a cogliere da chi fosse circondata. Non ricordava nulla. Luce, solo luce, niente altro che luce… A stento, percepì il rumore sommesso del bisbiglio di voci umane: perché parlavano così piano? Non poteva muoversi, non comandava più nulla del suo corpo eppure non provava dolore. Uno sgradevole sapore amaro le impastava la lingua. Si fece coraggio e provò ad aprire l’occhio destro. Lumeggiò per mettere a fuoco e, a poco a poco, distinse le persone chine su di lei: medici, infermieri e operatori sanitari in prima fila, parenti e conoscenti sullo sfondo. Sono grave, pensò, ma non ricordava nulla di come fosse arrivata lì. Il silenzio si fece largo dominando la scena, qualcuno chiamo sua madre vicino a lei. Gli occhi dolci e severi la scrutarono senza proferire verbo, sua madre le aveva sempre ricordato un capo tribù indiano severo e accigliato: uno strano modo di dimostrare affetto. “Non lo fare più, la ammonì, non c’è bisogno di ammazzarsi se non riesci più a scrivere: meglio un somaro vivo che un dottore morto!” Le venne da ridere eppure, per fortuna, si contenne. Come poteva spiegare loro che non aveva certo tentato il suicidio ma era rimasta intossicata dall’inchiostro che incautamente aveva trangugiato nell’ardua operazione di ricarica della penna stilografica?
Pagina 28 di Anna Cibotti
Il trillo prolungato del camlo lo fece correre alla porta d’ingresso. Infastidito e sorpreso chiese al citofono: “Chi è?”. Nessuna risposta. Fu tentato di aprire per vedere se il visitatore fosse già salito al terzo piano, il suo, e si trovasse dietro la porta, ma uno strano sentore lo trattenne. “Meglio guardare prima dalla finestra… non si sa mai! Scostò appena la tenda e diede un’occhiata in strada. Nessuno. Ritornò all’ingresso e tese l’orecchio appoggiandolo al legno della porta. Silenzio. “Strano… beh se qualcuno mi cerca si rifarà vivo!”, borbottò. Il ronzio della stampante in funzione lo fece imprecare un “accidenti… e adesso?” Entrò nello studio e si mise le mani nei capelli. Il pavimento era cosparso di fogli. In terra c’era il suo manoscritto, quello che avrebbe dovuto spedire per un concorso e che aveva appena terminato e corretto con estrema soddisfazione. Pagina 220 219 218… raccoglieva e sistemava in ordine decrescente. 31 30 29 e la 28? Continuò convinto che l’avrebbe trovata… e poi l’avrebbe inserita.
Ma era sparita nel nulla! A quel punto decise di ristamparla. Pagina 28… clic stampa. Ma la stampante non stampò nulla. Uscì solo un foglio bianco immacolato. Riprovò… niente! Rimase un attimo fermo a guardare il tutto imbambolato e incredulo. Nella pagina mancante c’erano poche righe e le lesse e rilesse sul pc quasi a voler togliere l’incantesimo solo per il fatto di guardarla.
“Il vecchio teneva tra le mani tremanti quella lettera che aveva atteso per anni. Suo figlio non sapeva però che il padre non avrebbe potuto leggerla mai. Era diventato cieco. Da quegli occhi vuoti di luce uscirono lacrime di gioia e di dolore insieme. Bagnarono le parole scritte sciogliendole tutte. Il foglio rimase nudo, bianco e bagnato. Le mani non più tremanti del vecchio si arresero e lo lasciarono cadere a terra”.
Un leggero fruscio interruppe il suo meditare. Un foglio volteggiò e cadde ai suoi piedi… leggero come un fiocco di neve. In basso a destra c’era scritto: pagina 28 Spiccava nel bianco del foglio immacolato come la firma di una lettera mai
scritta. Come quella pagina che nessuno leggerà mai.
Aveva i nomi in punta d’inchiostro di Oliviero Angelo Fuina
E chinò il capo nel giallo sfuocato d’iridescenza fioca e spinse penna sul bianco spento di un foglio trovato bucando il tempo con storie di ieri
Aveva i nomi in punta di inchiostro anche un profilo gentile di donna sapeva arredi e due quadri da osare e forse anche una frase in risposta
ma lui non c’era tra mura di carta mentre il ato attutiva le voci alzava sguardo perplesso, la storia, trovando rughe da tabula rasa
“Perché una volta”, si disse, “vivevo e con i piedi speravo gli incroci avevo il fuoco dei tanti domani
spostando gli oggi del tirare somme”
Rialzò la testa da bianca sconfitta forse anche spenta ma vergine e intonsa nemmeno quello era il giusto momento per rivedere gli amori traslati
Rimise in tasca il sorriso rubato rassicurò il personaggio più forte è sempre eterna in copione la speme e una risata d’amaro lo uccise.
Caro papà di Rossella Gallucci
Caro papà, questo mio foglio bianco, a breve, non lo sarà più. Ho lasciato tanti vuoti su questa pagina, lo so. E so anche che ormai non è più possibile rimediare. Troppe le cose in sospeso tra noi. Parole non dette, interrotte, carezze fuggiasche rimaste chiuse nei polsi. E dire che sarebbe bastato poco ad alleviare la tua sofferenza. Per pigrizia o per un assurdo pudore che a volte blocca nello stomaco il mio sentire. Ma lo stomaco non parla, borbotta soltanto. Eri stanco, papà, e non ce la facevi più a combattere. Non c’era più niente da conquistare, ti stavi spegnendo ogni giorno un po’, o meglio eri tu a spegnere la tua vita. Non volevi più vivere in quel modo. Padre, tutto quello che mi hai insegnato è qui con me, non si perde. Ma non posso tornare indietro a stringere le tue mani in quella mattina. Non posso guardarti negli occhi tristi e vedere quel minimo segno di gioia per avermi lì con te, per accompagnarti verso il tuo nuovo cammino. Non posso sentire la tua mano darmi un’ultima carezza cercando ancora di consolarmi. Non posso bagnarti la fronte o sollevarti per farti respirare. Non mi sono congedata da te. Semplicemente, non ero lì quella mattina. Sono arrivata un attimo dopo, ma ero in ritardo, come spesso è accaduto negli ultimi tempi. Ero lì, ma tu non lo hai saputo. Ho lasciato la pagina con tanti spazi vuoti. Bianchi. Questo è stato l’ultimo. E ora, anche se so che non serve più, continuo a riempirla, non voglio più lasciare questi spazi. Si potesse tornare indietro, si potessero cambiare le cose, risalirei fino alla foce, come fanno i salmoni. Perché io, papà, non credevo che te ne saresti andato così. Per me avevi ancora tanto tempo davanti a te. Credevo fossi invincibile, come
quando ero bambina, credevo che avresti riempito tu questa pagina bianca prima di andartene. E invece ora tocca a me farlo, anche se la mia penna adesso è spuntata, la grafia incerta, anche se tu non potrai più leggermi. O forse sì. Ed è per questo che ho deciso di scrivere, scrivere ogni giorno, ininterrottamente, fino a quando saprò – perché sono certa che un giorno lo saprò – che tu avrai letto le mie pagine, e solo allora comprenderò di non avere più fogli bianchi da scrivere.
Direttamente dal diario delle mie prigioni di Allie Walker Sottotitolo: Silvio Pellico mi fa un baffo.
Era una notte buia e tempestosa… Ma no! Mi apprestavo a vivere un tranquillo week end di paura… Ma no! Ero su un letto d’ospedale. Ecco, questa la verità. E che cosa può capitarti seduta su un letto d’ospedale, alle undici di sera, mentre tranquillamente stai scrivendo un capitolo del tuo ultimo romanzo? Che potrà mai succedere mentre stai riempiendo un “bianco-foglio” di word? Qualsiasi persona direbbe: nulla o quasi. La compagna di stanza sta dormendo, ronfa beatamente e io, con la lucina accesa alle mie spalle che versa ombre simpatiche sui muri, scrivo. Scrivo velocemente, le idee sembrano fluire, le parole vengono giù facili dalla testa, elaboro immagini, scenari, protagonisti, la storia. Ogni tanto guardo le luci della città, la finestra alla mia sinistra occupa tutta la parete e godo di una vista spettacolare. L’ottavo piano ha il suo porco perché, nonostante la posizione e il letto che occupo Qualche rumore proviene dal corridoio, pochi in realtà. 30 dicembre 2013, una notte che mi appare molto tranquilla. Gli infermieri sono già venuti a salutarmi, chiedendomi se ho bisogno di qualcosa. “Sto bene.” Dico. “Stasera non ho bisogno di nulla… semmai più tardi quelle goccine magiche… ma vi chiamo io.” Sorrido. Sarà l’effetto di quello gnocco fritto alla crema che mi è stato recapitato di straforo, da un’amica, con altre prelibatezze che gusterò l’indomani? Ho già l’acquolina alla bocca, sono terribilmente golosa… Non ho sonno, il ticchettare leggero della tastiera è un suono che mi eccita, e quando vedo riempirsi i fogli di word mi sento un Dio.
Oddio! Un Dio proprio no, ma sto da Dio! E poi ecco che avviene l’incredibile: vedo un’ombra scura alla finestra, una specie di grosso pipistrello che volteggia impazzito e sbatte contro i vetri. Non riesco a spostare lo sguardo da quella cosa e improvvisamente l’ombra si blocca. Accovacciato sul davanzale un uomo, o almeno credo che lo sia, completamente vestito di nero, con un mantello e una maschera in volto che gli copre solo la fronte e la forma degli occhi. Mi sorride. E’ più un ghigno distorto, ma sorride. “Ma no! Non è possibile.” Sussurro e poi afferro il telecomando per chiamare gli infermieri, senza spostare lo sguardo dalla finestra. L’uomo, che adesso vedo molto meglio, è vestito come Batman, riconosco quelle stupide orecchie a punta del copricapo e il simbolo sul petto è inconfondibile. Con il dito indice alzato mi fa un cenno, come per dirmi di non schiacciare quel pulsante rosso che ho sotto il pollice. “Non puoi inseguirmi pure qui, stupido coglione!” penso. Schiaccio il bottone e glielo mostro mentre lo faccio. Quello, si quello… Batman… smette di muovere l’indice, mi mima un manico e poi scompare. Pochi minuti e dalla porta spuntano, nell’ordine: Robin, Superman, Wonder Woman, l’Uomo Ragno, I Fantastici Quattro al completo, Catwoman, X-Men, Iron Men, Capitan America, sento blaterare la Donna Invisibile ma non la vedo e infine lui… Batman. E quello urla: “Riunione di condominiooooo.” Ma appena uscita dalla sua ugola la ultima “O” arriva l’incredibile Hulk, come al solito incazzato nero, almeno sembra e invece piagnucola: “Uffa, possibile che io debba essere sempre l’ultimo a sapere?”
(N.d.A. la foto nei giardini dell’ospedale di Modena non è al completo perché i
cretini l’hanno scattata mentre Catwoman prendeva a calci e pugni Capitan America per scegliersi la posizione e i Fantastici 4 tentavano di dividerli; ovviamente la Donna invisibile scattava, tanto non si sarebbe vista comunque)
Quel nome! E le Sue capriole! di Paola Marchi
Ecco! Sono qui in questa luce sbiadita dal vento, che mi getta ombre su questo foglio bianco che cerca invece parole. Sento il silenzio che mi bussa alla mente, e mi urla… rompimi… parla col cuore! Sento spilli come granelli di una bollente sabbia, che circumnavigano nella mia pelle e mi pizzicano continuamente le dita solleticandomi fin sulle unghie. E allora risciacquo questa mia mano in una ciotola colma di una fresca acqua che mi raffredda per un istante la mente, per poi scacciarla da questo tavolo, ora che più non serve. Ora, desidero solo quel mio pennino che freme di gioia quando lo tocco e lo amo col cuore. Mio caro pennino… dimmi ciò che vuoi che io pennelli? Uso questo inchiostro rosso. Il colore della ione… il colore di tutti i miei sospiri colmi d’amore. Traccio segni curveggianti di emozione quando imbastisco il Tuo nome come un fiore in queste pagine bianche odorose di tepore. Tu, che ora stai leggendo, vorresti sillabare… “Quel Nome” ma non lo capti, non lo intuisci e lo cerchi… sei curioso! Vuoi sapere! Vuoi conoscere quel segreto inciso nel mio piccolo cuore. Ma c’è! Si c’è! Fluttua qui, fra queste righe come un’onda spumeggiante che emerge dal mare e Ti sorride e Ti bacia le labbra e poi si rituffa con fragore nelle acque salate e dolci del mio cuore. Ed io lo disegno quel nome, lo sfioro con lo sguardo, gli soffio il mio alito perché faccia capriole su questa carta bianca e si rotoli sempre di più, fino ad adagiarsi sull’ultima riga, e sorridermi esausto ma con la gioia nel cuore. Ed ora, vario inchiostro e ti spazzolo in questa fresca pozza d’acqua di quella lontana ciotola, mio tenero pennino per farti fare un tuffo divino in questo
calamaio che sveglia di un inchiostro verde come il destino. Si! Ora… dolce e immenso Nome del mio cuore, avrai vocali e consonanti velate di quel verde che brillerà fra i contorni di quelle sillabe adagiate sorridenti in queste ultime righe. Splendente ora, quel Nome. Ti fa l’occhiolino e Ti chiede soavemente di avvicinare quel Tuo bel viso a questo foglio bianco. Lui vuole, finalmente presentarsi e rivelarsi a Te, sussurrandoti dolcemente: “Il Mio Nome è… AMORE!”
Un bacio scarlatto di Antonella Mattei Keiko
Il sangue fuoriesce gorgogliando mischiato ad iridescenti bollicine d’aria, i fiotti sono sincronizzati col tuo battito cardiaco: i suoni che emetti sono volgari, mi infastidiscono: non sai nemmeno morire con dignità, come non sei stato capace di vivere con la stessa. Ma cosa credevi eh, che non mi fossi accorta delle telefonate che facevi di nascosto nel bagno con l’acqua che scorreva a fiumi per cercare di trarmi in inganno? Pensavi forse che io fossi così stupida, così inetta da non riuscire a trovare tutti quei messaggini, centinaia forse, che ti sei scambiato con quella troia? Sai quanto mi ci è voluto per entrare nel tuo pc? Un quarto d’ora! In un piccolo quarto d’ora la tua povera, idiota moglie ha letto tutte le mail che ti sei scambiato con quella. Povero piccolo stupido uomo. Mi guardi con gli occhi rovesciati mentre l’ultimo barlume di vita ti sta abbandonando, il mio viso vi si riflette dentro mentre diventano sempre più vacui. Che tristezza, ti sei persino bagnato i pantaloni! Stavi seduto alla scrivania quando sono entrata, mi davi le spalle; eri intento a rimirare il contenuto della piccola scatolina di velluto blu: due magnifici orecchini di perle Tahiti con diamanti. Te li ho chiesti per oltre dieci anni e tu ora cosa fai? Li compri per lei? Sei più stupido di quello che pensavo. Quando ho risposto al tuo cellulare una voce distinta mi ha chiesto se poteva andar bene un tavolo d’angolo invece dello stesso che prenoti da tre anni. Ho detto di sì. Certo che va bene un altro tavolino per cena stasera, tanto non è per me. Ma non ci sarai neanche tu. Il tagliacarte a doppio filo ti ha traato la giugulare come fosse burro, senza incontrare ostacoli, come se non avessi spina dorsale. E non ne hai, piccolo, piccolo uomo. Infilo la mia mano nel taschino interno della tua giacca, sottraggo il piccolo taccuino di carta pregiata che tieni sempre con te; ne prendo un foglio candido, lo avvicino alla bocca e ci stampo bacio scarlatto. Ha il colore del tuo sangue.
Pelle come carta di Allie Walker
Traccia la mia pelle come fosse carta con la punta delle dita.
Ci sono lacrime che scendono lente e strappi sul mio petto, respiri come echi infiniti che si perdono nel vuoto.
Inchiostro macchiato sui miei seni, macchie di colore livido sul ventre, scarabocchi striati sulle calze di seta parole come schegge, lacerano, infilzate su pelle che non sanguina.
Voglio che tu mi riscriva, che tocchi la mia pelle come fosse carta, con le labbra come pennelli e macchiare le mie pagine
di parole sensate, vive e poi mordimi.
Si, mordimi con un bacio da poeta.
La penna di Sebastiano Impalà
Quel foglio candido mi apparve nei sogni sbiaditi del mattino, fra le onde ritmate del ricordo.
E fu così che lo sporcai di penna, inchiostro variopinto e senza speme.
Amai versare litri di parole, sul sentiero ardito dell’infanzia, sui polsi grigi del soffrire, sulle palpebre grinze dell’insonnia, sugli orgasmi frenetici del mondo.
Noi due insieme, soli ad elargire rime fra gli spasmi evanescenti dell’amore.
Stupido foglio di Stella JoLì
“Avanti Stella… cosa aspetti?” mi domandò beffardo. Non avevo più un pensiero, né un’idea, che potessi affidargli, come ero solita fare, per esprimere il mio stato d’animo. Di fianco ad esso giacevano, beati, una moltitudine di suoi simili, colmi di versi dedicati a colui che pensavo mi amasse. Ed il foglio, gonfio d’invidia, pretendeva senza provare alcun rispetto per il mio dolore, che la mia mente partorisse parole d’amore, semplicemente per riempire il suo ego. “Possibile che tu non capisca?” provai ad obiettare mentre, tra le mie dita tremanti, la penna osservava in silenzio . I due arnesi conoscevano entrambi il motivo della mia apatia, poiché era successo tutto in quella stanza: prima la confessione del suo deplorevole tradimento e poi il suo abbandono. Il mio uomo aveva fatto a pezzi il mio cuore in quel maledetto pomeriggio, e poi se n’era andato per sempre, lasciandomi sola. Erano stati loro gli unici testimoni della tragedia che avevo appena vissuto. Ma mentre la penna rimaneva muta, in disparte, rispettosa del mio dolore, quel foglio bianco, privo di qualsiasi forma di sentimento, aspettava, in preda al suo egoismo, una delle mie odi a quell’uomo che ormai non c’era più, a colui che aveva rappresentato la mia unica fonte di ispirazione. “Ho atteso per troppo tempo, in fondo alla pesante risma, che arrivasse il mio turno, e tu ora non mi degni neanche di uno sguardo.” Quella stupida pagina vuota continuava a vomitarmi addosso le sue pretese, incurante dell’ulteriore strazio che provocava in me. “Mi dispiace foglio, non ho più amore di cui scrivere.” gli confessai tristemente. “Stronzate! Avanti… la carta ce l’hai, la penna pure. Non serve nient’altro!” “Ti sbagli foglio” intervenne la penna “L’amore è l’unica cosa necessaria per creare un’ode. Io e te non siamo altro che suppellettili.” “Silenzio tu, stupida pen…” Sentii il bisogno di imprecare. “Vaffanculo!” urlai mentre dopo aver appallottolato quel maleducato di un foglio bianco lo gettai via, nel cestino. In fondo anche la sua strafottenza era servita a qualcosa: era grazie ad essa che avevo reagito scrollandomi di dosso la mia apatia. Afferrai la fedele penna, un nuovo foglio bianco ed attesi una nuova idea. Non avrei permesso al mio ex di fare a pezzi, oltre al mio cuore, anche la mia ione per
la scrittura…
Le parole che mai ti ho detto di Anna Ciraci
…“Così mi rituffo nelle mie fantasie, quelle più nascoste, quelle più segrete e taciute. Solo per avere uno sfogo, un’ancora dove aggrapparmi quando mi perdo, o quando l’aria rarefatta mi soffoca la gola, e non riesco più a trovare una posizione eretta per la fatica. Fuggo nelle infinite pareti del mio inconscio a ritrovare me stessa e l’equilibrio di cui ho bisogno, o meglio, durante il viaggio mi tolgo ogni senso, per ritrovare alla fine l’equilibrio”. “Ma in questo modo t’allontani…è come se vivessi in un altro mondo? È questo, quello che succede? E io? Nel frattempo cosa devo fare?”. “Restare seduto, pazientemente ad aspettare, che io svolga il mio processo, affinché tutto possa tornare, come sempre. So quanto possa essere difficile, e tremendamente sofferente. È come se tu mi avessi accanto ma a mille miglia di distanza. Esserci senza esser presente, questo ti chiedo, benché sappia già a priori quanto possa costare, ma devo, per salvaguardare me, quello che sento per te, e anche te stesso. Perché se non potessi vivere quest’introspezione, allora morirei dentro, come già è successo”. Lui rimase allibito e senza alcuna parola, arrabbiato, offeso. “Ma come si permette di dirmi di stare seduto in silenzio mentre lei vaga chissà dove, e chissà con chi, per strade a me sconosciute? E perché mai dovrei permetterle di avere dei segreti con me?” La sua mente ribolliva come acqua sul fuoco, il calore del suo viso, di colore rosso, faceva scendere rivoli di sudore per tutta la fronte, ma non riusciva parlare, aveva un nodo in gola pronto a scoppiare ma non riusciva a far esplodere le parole che aveva dentro, così tacque, girò le spalle e disse: “Basta!”
Poi riprese fiato “Non ho voglia discutere con te, di questo, non ora, sono stanco!” “Non prendere ciò che ti dico come un sopruso, tutti hanno dei momenti in cui si allontanano, anche tu lo fai, ma non per questo quello che provo viene meno”.
“Questo è il punto, ma tu cosa provi? Non basta che dici ok, o che mi accarezzi, anche a me piacerebbe sapere davvero cosa provi, per un piacere personale, per avere conferme, che tu non dai mai!”. “Ma quali conferme se per me è un’impresa perfino rispondere anch’io ad ogni tuo ti voglio bene. Non esce perché mi muore dentro, perché quando sono lì che lo sento, ogni parola sembra niente di fronte a quello che ho dentro. Tutte le espressioni conosciute non danno il vero valore a ciò che realmente sento. Io ti appartengo in tutto e sento che tu mi appartieni nello stesso modo. Ti sento in ogni cosa che faccio, mi giri intorno anche se non mi sei vicino in quel momento e lo stesso vale per me, lo so, ma come fare a tradurre in una sola frase tutto questo e dirlo? Vorrei urlartelo ogni momento, ma non riesco a farlo. Paura? Può darsi, ma pura di cosa? Sembrare vulnerabile? E per quale ragione? Conosci ogni centimetro del mio essere e riesci a leggermi a chilometri di distanza, e allora perché non posso dirti quello che sento? E quando raramente riesco a farlo, perché poi mi allontano come per difendermi, come se fossi andata troppo oltre? Troppo oltre a cosa? Ogni volta che riesco davvero a lasciarmi andare, qualcosa dentro mi ferma e mi blocca, come se davvero non potessi, e non fossi in grado di oltreare quella soglia che chissà quando mi sono chiusa alle spalle e quando vi entra uno spiraglio io mi chiudo a riccio e di là niente più esce. E ogni volta si riparte da capo, un gran lavoraccio. Come dover scardinare una porta blindata. E allora scrivo! Scrivo perché così, mi trovo sola con me stessa a vagare nel mio silenzio. A estrapolare le parole che mai ti ho detto. Il foglio bianco, che bianco non può rimanere, perché di parole ce ne sono a migliaia, e non ho bisogno di pensare. Sono già pronte, tutte nella mia testa. Automaticamente il mio foglio si riempie, come fossero copiate e incollate direttamente da me a te. Un vagone di parole che non servirebbero a niente se tu non le leggessi, sarebbero buttate al vento, se tu non le capissi. Eppure parlarne è irreale, perché a voce stonerebbero, in un qualsiasi contesto, si perderebbero. E allora scrivo, così rimangono, per leggerle e rileggerle in ogni tempo.” Tutto questo le rimbombava nella testa, ma non poteva uscire, perché la gola si chiudeva, la lingua si seccava, e la voce si strozzava, e tutto quello che le uscì in
quella sera, gelida e buia, nella cucina di quell’appartamentino, “in cima al mondo” come cantava Mina nella sua canzone (perché era all’ultimo piano di una palazzina un po’ disastrata e molto alta, ma era la loro casa, dove tutto ebbe inizio e dove tutto ogni giorno cresceva) con una voce fievole e sconsolata fu: “Ecco che te ne vai di nuovo, e io non riesco a dirti nulla!”. “Così mi trovo aggrappata alla maniglia di quella porta, e tiro, e spingo, ma niente. Niente si muove, niente si apre, tirando, con un piede su quell’ipotetico muro. Tentando in tutti i modi di spalancare e poter finalmente scoprire cosa c’è realmente dietro. Perché qualsiasi cosa ci sia, affrontarla forse riuscirebbe a darmi quel… cosa? Equilibrio? Sicurezza? Forza? O disponibilità? No, non so cosa davvero mi manchi, so solo che oltre non vado, ma non conosco il motivo o forse non lo ricordo, o non voglio ricordare.” Si accese una sigaretta, si sedette, sulla sedia, accese il televisore, e poi rimase lì, con lo sguardo perso chissà dove, con la testa fra le mani, alzandola solo per tirare per poi riabbassarla, sconfortata. Intanto continuava a pensare, vagava con la sua mente in un mare di pensieri, mischiati a ricordi ati. “E chi l’avrebbe mai detto, ritrovarmi oggi a cercare di esprimere cosa mi scoppia dentro. Io, che non ho fatto altro che vagare, apatica verso gli altri, per quasi tutta la mia vita, senza riuscire mai a fermarmi da nessuna parte, perché non era il mio posto. Miliardi di persone che conoscevo, ma nessuno che potesse entrarmi dentro, perché nessuno riusciva a farlo. Piano piano morivo dentro, come cadere in un buco nero infinito. Perché niente riusciva a farmi emozionare, palpitare, sognare, volare, piangere, ridere, e nessuno vedeva, nessuno sentiva. O forse io non lasciavo vedere né sentire, affinché qualcuno potesse davvero, darmi ciò di cui avevo bisogno. Ho smesso di scrivere, e pian piano perfino di parlare, perché nessuno era in grado di leggere cosa c’era tra le mie righe, e nessuno era capace di sentire le parole che sussurravo. Poi sei arrivato tu, quando ormai io ero immersa nelle infinite pareti dei miei silenzi, immensamente arrabbiata con tutto il mondo perché per me non esisteva, e quindi mi aveva lasciato in pace con me stessa. Ti ho visto col piccone in mano ad abbattere ogni singola parete, una alla volta con immensa forza e pazienza, ogni giorno. Ogni tanto ancora oggi mi chiedo, ma chi te lo ha fatto fare?
Tutta quella fatica…. Potevi fare come hanno fatto tutti gli altri, e invece sono rimasta guardare, mentre prendevi ogni mia singola difesa e la picconavi. Così da dentro ho cominciato a farlo anch’io. Una picconata alla volta, perché mi piaceva quando riuscivi a invadere la mia anima, e a ogni muro abbattuto era come una rivelazione per me stessa, che piano piano riuscivo a ritrovarmi, e a toccare a mani nude chi avevo davanti. Un’emozione quando spogliata di tutto riuscii finalmente ad accarezzarti con tutta me stessa e sentire il tuo mondo come era davvero. E insieme siamo riusciti a colmare quel buco in cui ero precipitata e ho cominciato a vivere, la nostra vita, come andava vissuta.” Presa dall’emozione di quei ricordi si fece forza, si alzò dalla sedia spense la sigaretta, il televisore, la luce, e andò a letto, con le mani incrociate sotto la testa e i piedi sotto le coperte, a guardare il soffitto. Lui era lì girato dalla parte opposta, abbracciato al suo cuscino. Che cosa dire? Per non rimanere così in silenzio, senza sapere realmente cosa gli stava ando per la testa, qual era il suo punto o disappunto. Perché andare a dormire arrabbiati, che poi neanche si dorme continuando a rigirarsi nel letto, senza poter prendere sonno. Non vale la pena finir la discussione, e chiudere il discorso? “Dormi?” “Come faccio a dormire, mentre tu ti giri e rigiri? No, non dormo” “Qual è il problema? Scrivo! Scrivo quello che penso, quello che sento, quello che ho dentro!” “Non puoi dirlo a me?” “Non so dirlo a voce! Ma posso lasciarlo sul foglio bianco, o con le carezze, e in ogni mio gesto, questo è tutto quello che posso, non nascondo niente , è solo… questo quello che posso!” “Ma la domanda più grande che rimane in sospeso, perché ovviamente oltre non si può andare, è se ti può bastare?”
“Non riesco a capire sei arrabbiato, deluso, sei offeso? Quale è il problema, ogni cosa che scrivo la metto sotto al tuo naso, non vado in giro a far chissà cosa, mi rintano! Mi rintano nel mio mondo e faccio ogni cosa per farti entrare, dov’è il problema?” “Non capisci è questo il punto! Perché ti devi rintanare per poi farmi entrare come uno sconosciuto? Che bisogno hai di chiuderti a riccio per poi lo stesso rendermi partecipe dei tuoi pensieri in separata sede? Non sarebbe più semplice dirmi cosa davvero ti turba e insieme risolverla, com’è sempre stato?” “No! Non lo è mai stato. Mai una volta sono riuscita davvero a dirti fino a che punto sono arrivata! Mai una volta ti ho detto davvero cosa sentivo, mai una volta sono riuscita a spiegarti cosa davvero significa per me starti accanto. Tutto quello che sono riuscita a dirti è stato e anche molto sotto voce, che io sono qui perché lo voglio, se così non fosse, già sarei altrove! Molto lontano da quello che intendevo davvero, anche se come riassunto un po’ si avvicina. E tutto quello che sta dietro a questa frase? Alla fine poco importa se comunque riesco a farti sapere tutto il resto che c’è da scoprire solo sul foglio stampato! Comunque arriva a che di dovere! Che fai ti trovi le scusanti da sola adesso, ti stai auto giustificando? Ma perché dovrei farlo? Perché continuo a giustificarmi da sola? Perché manco! Accidenti manco davvero! Come fai a vivere con una persona senza mai dirgli quanto vale davvero per te? Mille domande senza alcuna risposta e lui in tutto questo? Si rigira e di nuovo torna a dormire, o almeno ci prova!” “No che non è più semplice, non lo è per me, e non ho altre risposte da darti, ma so di peccare in questo e rimedio nell’unico modo che conosco per potermi finalmente raccontare. La mia penna ha le parole, che la mia voce non può dire, solo così riesco a colmare quel vuoto che da sempre rimane, e io lo devo colmare!” Si voltò di scatto incredulo ma a queste parole non poté fare a meno di arrendersi, ci sono dei momenti in cui non si può combattere, ma cedere, per le debolezze altrui, accettarle per quelle che sono, non puoi pretendere che una persona racconti i suoi segreti, se non riesce a farlo, come non si può pretendere che abbandoni le paure, se ancora non può affrontarle, o che si smonti
completamente e si ricostruisca da capo in una sola notte. Così cedette, cedette per amore della persona che aveva davanti. Cedette per il rispetto che mostrava verso la sua donna, cedette perché lei in quel momento era semplicemente vulnerabile ad un punto tale che non poté farne a meno. Si avvicinò a lei la prese tra le braccia, e mentre stringeva forte le sussurrò in un orecchio quanto l’amava. Poi le diede un bacio, mentre lentamente le accarezzava la schiena, dolcemente, sotto la maglietta. Lei lo strinse a se e ricambiò quel bacio con tutto l’amore che aveva dentro, senza tralasciare niente. Lui Scese appena sotto il collo, sulla curva della spalla e lì accennò un morso, molto delicato. Proseguì lungo tutta la colonna vertebrale, accarezzando i glutei rotondi e lisci come una pesca, dove ripeté quel morso, così dolce e immensamente eccitante. Accarezzandola poi ovunque, con una delicatezza mischiata a decisione e desiderio, ione e amore, come solo lui era in grado di fare. Lei ormai non capiva più niente. In estasi totale, si lasciò prendere, così avvinghiati uno all’altra, fino a quando entrambi si persero in un unico spasmo e si lasciarono cadere leggeri estasiati dall’amore intenso e potente da cui sono sempre legati, fino ad addormentarsi così abbracciati.
Il mio mondo di Rossana Roxie Lozzio
Il luogo dove scrivo di te, versando fiumi di inchiostro o tempestando senza sosta su una tastiera ma che resta immacolato, come questo maledetto sentimento che mi tiene legata al tuo mondo. Il solo mondo che sono destinata a riconoscere.
Più bianco di così! di Anna Cibotti
Più bianco di così!
Il bianco è peggio del destino di Allie Walker
Fogli bianchi, frasi iniziate, in attesa aborti spontanei da rimuovere, pallidi come cadaveri. Sono triste la mia testa è vuota e le mie parole incatenate. Come bambini insolenti, capricciosi si rifiutano di lavorare.
Realtà Parallele
Cari amici Portatori di penna, dichiariamo vincente come tema dei 7 giorni di follie di Marzo il tema “Realtà parallele”. Davvero esiste una sola realtà? Oppure avrebbero potuto essercene altre se solo… questa è la famosa teoria delle sliding doors, ovvero di quelle porte scorrevoli che si aprono su opportunità diverse, in cui la vita prende un’altra via. Forse, in una di queste, avreste potuto essere lo scrittore del momento oppure un re o un mendicante. Ogni scelta compiuta porta a delle conseguenze, ma quali sarebbero state le conseguenze di scelte diverse? Quali realtà si sarebbero materializzate se invece di prendere l’auto fossimo andati a piedi? Se invece di andare a lavorare fossimo rimasti a casa? Se invece di girare a destra avessimo svoltato a sinistra? E cosa succederebbe se si trovasse il modo di are dall’una all’altra? Amici cari, a voi e alla vostra fantasia raccontarci i mondi possibili nati dalle scelte più piccole o da quelle più importanti.
Alice che guarda la luna di Anita Rudcliff
Quando nacque, tutti si accorsero che non era come gli altri. Un parto difficile, dissero. Un lungo travaglio. Insufficienza respiratoria. Fu per questo motivo, o forse per gioco, o per esorcizzare quella paura che ci travolse, uno a uno, quando t’avemmo tra le braccia, che ti chiamammo Alice. Alice nel paese delle meraviglie. Eppure, bimba mia, quanto vorrei davvero entrare nella tua testa, per sapere, avere la certezza che davvero, lì dentro, dove a nessuno di noi è permesso entrare, tu stia veramente vivendo una meraviglia. Sarei felice, credo. Troverei la pace, quella pace che solo la sicurezza di saperti al riparo dal dolore può darmi. Avevi due anni, e guardavi la luna. Vicino a te la vita scorreva, nel suo tran tran quotidiano, i suoi alti e bassi . E tu stavi lì, la testa leggermente inclinata da un lato, a fissare un punto del vuoto, con quegli occhi che vagavano l’infinito e il nulla, e viaggiano in luoghi nascosti ove non potrò mai raggiungerti . Guardi la luna, figlia mia? Ti potrò mai afferrare in quel recondito spazio di universo di cui solo tu hai le coordinate, per riportarti al di qua di quel muro invalicabile che hai innalzato tra te e noi…? Sento che l’abisso che ci divide è incolmabile, eppure io trabocco d’amore, e lo riverso in quel vuoto che ci separa nella speranza di creare almeno per un momento un ponte tra la mia realtà e la tua. Nella tua, quella realtà parallela che mai s’incontrerà con la mia, quelle che io chiamo carezze bruciano sulla pelle come braci ardenti… un telefono che squilla diventa il rombo di un tuono che scatena i suoi decibel sulle tue delicate orecchie… la luce nel buio non è l’ancora di salvezza del pescatore che trova salvezza in un porto sicuro, ma la minaccia di due fari puntati che possono travolgerti e spezzare la tua esile vita. E così ti rifugi nei tuoi sogni, sotto un tavolo, dentro una scatola, sotto una coperta. Uno spazio piccolo, l’unico che tu possa sopportare, dove la tua paura possa trovare una dimensione più gestibile e i tuoi piccoli rituali possano farti riacquistare la calma, per ricomporre la fragile struttura del tuo essere, del tuo Dentro. Bambina sei, la mia bambina. Quando dormi torni a essere mia. Allora, solo
allora, posso accarezzarti, abbracciarti piano, dolcemente, per non turbare il tuo fragile equilibrio. Posso parlarti sussurrando, senza fare rumore e osservare i tuoi lineamenti distesi, finalmente, dopo intere giornate ate in una tensione innaturale, a nasconderti dal Fuori, come un animale braccato. Quel mondo che scorre intorno a te e tu neppure te ne accorgi. Tu, immersa nella meraviglia, che continui a guardare la tua Luna, nel tempo immobile del tuo spazio remoto.
All’imbrunire di Massimo Licari
Le sette. Era dannatamente tardi. Giulio finì di bere in fretta il caffè e mise la tazzina sporca nella lavastoviglie. Lo attendeva una giornata decisamente impegnativa e si affrettò ad uscire da casa. Prese al volo la valigetta e uscì. Si fiondò in auto e partì subito alla volta di Milano. Non appena fu sulla statale si rese conto che era uscito senza nemmeno salutare Sonia. Istintivamente prese il cellulare in mano. La sera prima lei si sentiva particolarmente stanca. Contrariamente alle sue abitudini, si era messa a letto presto e doveva aver preso sonno subito. Quella mattina era riuscito ad alzarsi prima che la sveglia rompesse il silenzio della stanza e si era mosso così lievemente da riuscire a non svegliarla. Un’impresa che gli riusciva raramente e di cui, ora, si sentiva fiero. Era piacevole fare colazione insieme, condividere le attività che li attendevano, raccontare i loro sogni. Ma per lui era anche importante prendersi cura di lei, e lasciarla dormire un po’ di più era una manifestazione di attenzione e amore. Ogni mattina era colma delle stesse emozioni che avevano condiviso quando si erano svegliati insieme la prima volta e avevano compreso quanto vuote fossero state le loro vite prima di incontrarsi. Dieci anni vissuti intensamente, gustando ogni istante che la vita gli aveva messo a disposizione. Si erano abbeverati alla fonte dell’amore, che non aveva spento il fuoco della ione, lasciando intatto lo stupore di scoprire giorno dopo giorno quanto bello
fosse avere accanto l’anima gemella. Si, perché non potevano che essere anime gemelle, separate dalla gelosia di Zeus e finalmente riunite da un fato benevolo e generoso. Con un lieve sorriso, appoggiò il cellulare sul sedile accanto al suo. L’avrebbe chiamato lei, quando si fosse alzata. Non appena arrivò in ufficio fu subito trascinato dalla corrente impetuosa delle attività che aveva appuntato in agenda, e che gli avevano riempito la pagina del giorno. Alle 11 riuscì per un istante a pensare a Sonia, mentre usciva da una riunione e si apprestava a cominciarne un’altra. Quando finalmente si liberò era abbondantemente ata l’una. Gli rimanevano giusto venti minuti per un panino, prima che la giostra riprendesse a correre. Provò a chiamare Sonia, ma la voce femminile dell’operatore telefonico lo informò che non era raggiungibile. Probabilmente era impegnata anche lei e aveva spento il cellulare. Fece altri due tentativi nel pomeriggio, con analogo risultato. Quando si mise in macchina, alla fine della giornata, riprovò a chiamare, ma c’era ancora quella voce odiosa che lo invitava a riprovare più tardi. Si inquietò un po’. Cominciò a snocciolare l’elenco delle scuse a cui tutti attingono quando tentano di non lasciarsi sopraffare dalla preoccupazione. “Forse il cellulare non funziona”. “Forse è in una zona non coperta”. “Forse l’ha dimenticato a casa spento”. E così via. Con quel vago sentore di angoscia, che ci si sforza di considerare semplice preoccupazione, e che prende la bocca dello stomaco.
Arrivò a casa dopo mezzora, venti telefonate a vuoto e lo stomaco ormai stretto in una morsa che stava cominciando a fargli mancare il fiato. Quando fu dentro casa, si trovò a tu per tu con le sue paure più profonde, costretto a vivere l’angoscia di vedere realizzato un incubo che aveva fatto di tutto per ricacciare nel profondo, illudendosi che le sue fossero solo preoccupazioni eccessive. Lei era ancora lì, nel letto ove l’aveva lasciata la mattina, vantandosi con se stesso di essere riuscito a non svegliarla. Pianse come un bambino a cui hanno sottratto il più bel gioco che gli sia stato regalato nella sua breve vita. Dissero che un infarto aveva stroncato la sua giovane vita nella notte, forse subito dopo che si era coricata. Lui visse i giorni successivi all’ombra di sé stesso. Accolse solo apparentemente i parenti di lei, i suoi parenti, gli amici, i conoscenti, i colleghi e tutta quella maledetta gente che non avrebbe voluto vedere. In realtà lui si era rifugiato in sé stesso come un bimbo che si accuccia dentro letto nel timore di scoprire a chi appartengono i rumori che ha sentito nella notte. Non era nemmeno l’ombra di ciò che era stato: si era dissolto in un miliardo di molecole che giacevano sparse su un freddo pavimento di marmo. Non l’aveva salutata, perché si era “addormentata” prima che lui si infilasse sotto le coperte. Non gli aveva ancora raccontato mille e più cose che voleva condividere con lei. Sentiva che la vita gli aveva strappato il cuore e aveva deciso di farlo a pezzi. L’idea di farla finita sorse più volte nelle settimane che seguirono il funerale, ma, abituato fin dalla giovinezza ad approcciare le cose della vita con metodo scientifico, la scartò. Non poteva sapere cosa ci fosse oltre la soglia della morte e non voleva correre rischi.
Anelava di poter riabbracciare Sonia, ma ci sarebbe riuscito se avesse posto fine alla sua vita? E se non ci fosse stato nulla ad accoglierlo dopo aver varcato quella soglia? Sarebbe stato destinato ad un’eternità senza di lei. Impossibile anche solo pensarci. E se c’erano destini diversi per i traati a seconda delle virtù accumulate in vita, come inducevano a credere le più grandi religioni? Sarebbe stato destinato ad un luogo diverso di quello in cui lei doveva trovarsi, il che era forse peggio che averla persa in questa vita. Era stato sempre affascinato dall’approccio che l’oriente aveva per la vita e il senso del vivere, e in particolare dagli insegnamenti del Buddha. L’aveva colpito un insegnamento un po’ rivoluzionario di cui aveva letto, che apparteneva ad un maestro che si era ritirato su un monte dell’India. La reincarnazione era un patrimonio di insegnamenti condiviso da moltissime religioni e filosofie, secondo cui siamo destinati a rinascere con fattezze carnali un innumerevole numero di volte, evolvendoci in forme di vita sempre più complesse al cui apice c’è quella umana. Fino a quando, grazie all’illuminazione, possiamo interrompere il ciclo della nascita, vita e morte che caratterizza ogni essere vivente. Sono necessarie innumerevoli incarnazioni prima che la nostra evoluzione ci consenta di interrompere questo processo. Ebbene, questo maestro aveva insegnato che la reincarnazione non è in realtà un processo consecutivo, nel quale torni a nascere dopo aver vissuto una precedente vita ed essere morto, ma un processo parallelo. Viviamo innumerevoli vite contemporaneamente e parallelamente, e questo consente alla nostra “anima” di evolvere. Questo insegnamento, oltretutto, sembrava essere sostenuto anche dalla scienza, in particolare dalla teoria delle stringhe. Così decise che avrebbe dedicato il resto del suo percorso alla ricerca del metodo che gli avrebbe consentito di are in un’altra dimensione, dove avrebbe ritrovato la sua Sonia.
Lasciò tutto ciò che aveva riempito la sua vita fino a quel momento: lavoro, amici, casa, parenti, e si dedicò con tutto sé stesso a questa ricerca. La scienza lo deluse dopo poco tempo. La teoria delle stringhe c’era, ma la sua dimostrazione era molto in là dall’essere possibile. E lui aveva fretta. Era nel mezzo della sua vita, ma non voleva sprecare quanto gli restava. Soprattutto, non voleva sedersi in attesa che qualcuno riuscisse a fargli fare quel salto che ormai desiderava più di ogni altra cosa. Così partì per l’India, alla ricerca del maestro. Perché un vero maestro non si limita a indicare una via che pensa di aver scorto, ma la percorre prima di parlarne ad altri. Ci vollero due anni di ricerche prima di giungere alla grotta che il maestro aveva eletto a sua dimora su quel monte. E altri dieci anni per ricevere da lui gli insegnamenti che gli avrebbero permesso di fare il salto. In tutto quel tempo, l’amore per la sua donna gli permise di resistere alla tentazione che più volte fece capolino e che gli suggeriva di lasciar perdere. Aveva davanti a sé un’evidenza che avrebbe scoraggiato chiunque altro: dei sette discepoli del maestro, nessuno era riuscito nell’intento di congiungersi con altre realtà. E anche lui, dopo aver ricevuto il sacro insegnamento, non era riuscito nell’impresa. L’insegnamento del maestro assumeva così le sembianze di un’altra teoria non dimostrata. Ma quell’amore disperato che la vita gli aveva sottratto lo induceva a non mollare. Fino a quando, un giorno, assunse la posizione del loto e si chiuse al mondo esterno, come faceva quotidianamente da oltre quindici anni. Ogni cosa intorno a sé perse pian piano consistenza.
Oggi, dopo cinque anni da quel giorno, i discepoli del maestro ricordano ancora quell’occidentale, mosso da una volontà infinita e colmo d’amore che un giorno di primavera, all’imbrunire, svanì davanti ai loro occhi.
Alla ricerca di Fran di Fabrizio Castellani
“Così buio e sono solo le undici del mattino. È strano davvero” Guardando fuori del finestrino sco decise che per quella domenica di cose strane ne aveva già avute abbastanza e tornò a fissare il vuoto di fronte a sé. La giornata era appena iniziata ed era già un disastro. Non vedeva l’ora di ritornare a casa. La sera prima, in un moto di felice follia, aveva deciso di raggiungere la sua ragazza, nonostante il fatto che per quel week end avessero stabilito di non vedersi. In teoria Ambra avrebbe dovuto studiare, e lui lavorare tutta la notte. Invece appena finito era saltato sul treno delle sei, con la voglia di svegliarla con un bacio dolce, al sapore di cornetto e cappuccino. Una pazzia da innamorato. Immaginava che avrebbero mandato al diavolo i libri, trascorso assieme la giornata, e alla fine sarebbero andati in cima alla collina, a guardare il cielo. Non era ancora arrivata la primavera, ma le serate erano già abbastanza piacevoli anche all’aperto. Con un po’ di fortuna forse avrebbero visto il aggio di quella cometa dorata di cui parlavano i giornali. La sorpresa invece l’aveva ricevuta. Una di quelle che lasciano il segno. Entrare in casa e trovarla a letto con un altro era stato un pessimo modo di iniziare la domenica. Lei lo aveva guardato con quegli occhioni azzurri, poi aveva chinato il capo, senza dire nulla. Neanche lui aveva detto niente. In effetti, niente c’era da dire. Semplicemente aveva poggiato sul comò i cornetti freschi ed era uscito, percorrendo a ritroso il cammino per la stazione ferroviaria. Adesso, seduto nel freddo scompartimento del treno che lo riportava a casa, pensava che avrebbe potuto gridare, magari spaccare qualcosa. Forse prendere a pugni quel tizio nel letto lo avrebbe fatto sentire più leggero. Ma sapeva che sarebbe stato inutile. Si sentiva svuotato. Non era la prima volta che una relazione si rompeva, forse
non sarebbe stata neanche l’ultima. Sapeva già come sarebbe andata. Avrebbe tenuto la rabbia per un po’, cercato di capire, e poi sarebbe ripartito. Stavolta però sarebbe stata una ripartenza difficile. Lei gli sarebbe mancata. Ambra era riuscita ad arrivare dove altre prima non erano riuscite. Lo aveva toccato in profondità, lo aveva incantato. Non aveva creduto molto in quella relazione all’inizio, spaventato da quella donna troppo bella e troppo allegra. Ma in poco tempo la cosa era decollata, tanto che ad un certo punto aveva iniziato a credere davvero che avrebbe funzionato. Aveva messo in conto che vivere in due città diverse prima o poi avrebbe creato delle difficoltà. Ma si aspettava di meglio. Anche da una vivace e egocentrica come Ambra. Si attendeva più coraggio, più impegno. Più cervello. Invece ora si sentiva come un uomo appena pugnalato. “Ha buttato via tutto. Stupida. E stupido io che ci credevo. Lo sapevo, sapevo com’era e mi sono fatto trascinare in questa storia” pensò con amarezza “Ma che diavolo cerca quella donna? Che diavolo voleva di più?” E ancora non metteva in conto l’orgoglio di maschio ferito, che senza dubbio nei giorni a seguire sarebbe venuto a galla. Tornò a guardare fuori. Si era fatto buio. Un buio denso, da notte fonda e senza stelle. Il treno gli sembrava un igloo. Non ricordava di aver mai viaggiato così male. L’orologio da polso marcava le undici e dieci. Ancora quasi un’ora all’arrivo. Ancora un’ora al gelo. Nel tentativo di riscaldarsi si alzò in piedi e, incuriosito, si affacciò al finestrino sul lato opposto. “Buio totale. Piena mattina e sembra mezzanotte. A malapena si vedono i binari” Cercò di ricordare se al TG avessero accennato ad un’eclissi, oppure a qualche fenomeno particolare legato alla cometa d’oro, ma non rammentò niente del genere. Accese il palmare che teneva con sé, con l’intenzione di frugare il web. “Niente, nessun segnale. Oggi dev’essere proprio il mio giorno buono” ironizzò. Si guardò intorno, sconsolato. Era l’unico essere umano a viaggiare in quello scompartimento sempre più freddo. Tornò a sedersi, scosso dai brividi.
Nuvolette di fumo uscivano dalla sua bocca ad ogni respiro. Una cappa di silenzio tutto intorno, rotta solo dal lento sferragliare del treno. E nell’aria un forte, penetrante, odore di vegetazione umida. “Sembra di stare in un bosco invece che in treno” gli ò nella testa “è tutto sempre più strano”
* * * Il dolce profumo di sottobosco entrò prepotentemente attraverso le narici dilatate. Tirò a sé le redini. Il bosco si apriva davanti a lui simile ad un vecchio muro verde pieno di crepe. Pochi i oltre lo sguardo le crepe divoravano la luce, lasciando solo stracci neri, tessuti di buio. Aveva cavalcato sin dall’alba e adesso si sentiva stanco quanto la sua cavalcatura. Anche le vesti gli sembravano più pesanti del solito. Il sentiero di fronte appariva scosceso. Troppo impervio per affrontarlo in groppa, decise che sarebbe stato più sicuro attraversarlo a piedi. Con cautela scese da cavallo. Tutt’intorno, i fusti bianchi del lecceto si mischiavano alla nebbia lattiginosa, umida eredità delle prime luci del mattino. Nel silenzio quasi assoluto Francisco Ronsisvalle, terzo duca Nero di colle d’Ossidiana, si avviò lungo il sentiero. Pensieri scuri come le ombre del bosco affollavano la sua mente. Il suo viaggio si era rivelato infruttuoso e tornava deluso verso casa. Aveva cavalcato diverse lune per attraversare i Regni di Pietra e raggiungere il Ducato d’Ambra. Su ordine del padre, Gran Duca Nero d’Ossidiana, avrebbe dovuto chiedere in sposa la figlia del Duca Giallo, e stringere così un’alleanza tra i due regni. Il Duca Giallo lo aveva ricevuto con grandi onori, in quanto figlio del buon amico Nero, ma senza tanto girarci attorno aveva frenato le sue speranze con poche parole, confermando quel che si diceva in giro. La giovane non aveva ancora intenzione di accettare alcun corteggiamento. “Temo che tu, terzo figlio del sangue Nero, a lungo abbia viaggiato ma solo aria
nei sacchi, indietro avrai portato” aveva declamato il Duca Giallo nel tipico parlare dei Regni di Pietra. “La Piccola Duchessa Gialla d’Ambra al sentir di matrimonio già s’adombra. Di sangue è mia secondogenita, non posso io voler che sia contrita. Se un dì un nobile messer farà da calamita, sia perché a lei, tal mossa, sarà gradita. E io che sono Padre e pur Reggente, con tutto il mio potere tra le dita non posso comandare Amore, ed ordinare a lei tal scelta ardita.” Francisco aveva anche provato timidamente ad insistere ma le parole del vecchio erano state lapidarie. “L’unione del matrimonio è laccio e lega il cuore. Non posso, sul sangue del mio sangue, imporre i nodi dell’amore.” Ecco qua. Tutte le speranze di Francisco erano naufragate come un piccolo vascello in una tempesta. Infrante sugli scogli della piccola duchessa. Suo padre, il Duca Nero, non sarebbe stato felice. Durante la cena il vecchio duca si era mostrato più gentile e meno ligio al protocollo di corte di quanto Francisco si aspettasse. La conversazione era stata varia, piacevole e aperta. Dopo qualche bicchiere di buona birra scura si era anche lasciato andare a qualche considerazione sulle difficoltà di essere regnante e padre al tempo. Parlando della figlia, poi, gli aveva fatto capire che difficilmente la giovane avrebbe concesso i suoi favori facilmente, neanche ad un nobile guerriero come un Ronsisvalle. Quella notte, ospite nelle camere del palazzo, Francisco aveva ponderato lungamente sulla ragazza. Non aveva mai avuto l’occasione di vederla, ma si diceva fosse molto bella e intelligente. Dai lunghi capelli ricci color dell’oro, e con pietre acquamarina incastonate agli occhi. Dedita all’arte, ma inquieta e d’indole ribelle. Troppo spesso, si diceva, persa nel piacere delle carni. Voci circolavano, raccontando di quante volte la giovane fosse fonte di imbarazzo per il vecchio padre e per la corte. Era noto però che il Duca Giallo adorava la minore delle sue figlie, e che le perdonava ogni atteggiamento non consono al protocollo. Avrebbe scelto da sola, e di certo, su questo Francisco avrebbe potuto scommettere, non un vero cavaliere.
“Chissà cosa le a per la mente, eggiando tra la neve e sotto il sole. E qual sentiero batte, per il cuore” si sorprese a pensare Francisco “Sarebbe stato bello corteggiare in fil di lama con una così ribelle dama. E magari poi far breccia in cuore, e con lei scambiare amore. Mi pare un danno, una perdita, invero, un grande errore.” In ogni caso, e su questo il vecchio regnante era stato chiaro, ogni decisione in merito al matrimonio della Piccola Duchessa sarebbe stata presa solo dopo aver compreso la natura della novella, strana, stella d’oro. La nuova stella era apparsa nei cieli oramai da diverse lune. La sua lunga coda brillante era visibile da ogni angolo dei regni, da un po’ anche nella piena luce del giorno. Di uno splendore accecante, appariva ogni giorno più vicina. Alcuni superstiziosi sostenevano che fosse portatrice di sventura. Altri, più ottimisti, invece la giudicavano segnale di buon auspicio per il Ducato d’Ambra. Francisco Ronsisvalle non era solito dar credito a dicerie di bassa lega. Per lui era semplicemente come le altre stelle, un punto in più sul panno nero del cielo. Solo più vivace delle sorelle, come lo era la duchessina. Forse la comparsa improvvisa dell’una in cielo, e la presenza dell’altra in terra, avevano qualche legame? Francisco si rese conto che non avrebbe mai risposto a questa domanda. Con la tristezza della sconfitta aveva intrapreso la strada del ritorno. Partito alle prime luci dell’alba, era presto arrivato ai margini del bosco. Era immerso nei suoi pensieri quando sentì il freddo farsi strada con violenza tra le sue vesti. Scosso da un brivido incontrollabile lasciò le redini del cavallo. Fu un attimo, uno scalciare, un nitrito, e il suo bel frisone nero prese a galoppare spaventato, allontanandosi lungo il sentiero già percorso. Francisco lo perse di vista dopo pochi istanti, come se fosse stato inghiottito dal buio. Si guardò intorno, allarmato. La notte più scura che avesse mai incontrato si faceva strada tra gli alberi. Un minaccioso rumore di catene scosse correva con il buio, facendosi sempre più vicino. Sguainò la spada. Uno strano formicolio ò dall’elsa intarsiata alla sua mano. Sentì i peli delle braccia rizzarsi, e poi, come un’onda, quella strana sensazione
salì fino alla spalla, e poi ancor più su, fino alla nuca. Una nenia monotona ruppe il silenzio. “Metallo contro metallo e canti di guerra… oscura magia su questa terra” mormorò. Oramai completamente avvolto dalle tenebre si preparò alla battaglia. * * * CARICA COMPLETATA CARICA COMPLETATA CARICA COMP… FR6C0 staccò il braccio dalla presa di carica e lo ò in modalità OPERATIVO, dando pace all’interfaccia vocale del pannello energetico. Sentì i servomotori delle articolazioni ronzare e provò un paio di volte a flettere gomito e polso. Il braccio artificiale funzionava perfettamente. Adesso tutto il suo corpo era completamente sveglio. Aveva completato la carica delle parti cibernetiche e si preparava controvoglia ad affrontare il giorno sette di sette. Con una lieve pressione sul display dell’avambraccio attivò il video a parete. “Notizie generali” pronunciò a voce alta “E caffè doppio.” Si trascinò stancamente verso il distributore della zona pranzo. Si sentiva a pezzi. Per un attimo valutò se tornare sotto le coperte, poi scartò l’idea. “Troppo vuoto” pensò. 4M3ER se ne era andata di prima mattina, dopo una notte di sesso sfrenato che aveva messo a dura prova la sua carica energetica. Pensare a quella femmina lo metteva in difficoltà. FR6C0 ne era rimasto affascinato sin dal loro primo incontro, mesi prima. Lo era anche adesso, anche se non avevano nulla più da condividere. Era un conflitto permanente.
4M3ER era un artista di secondo livello, magnificamente assemblata dentro e fuori. Un vasto database mnemonico e ampie e bellissime parti organiche. Le parti cibernetiche visibili, una mano, gli occhi, la gamba sinistra, erano armoniosamente integrate e ne esaltavano fascino e bellezza. A lui piacevano particolarmente i bulbi oculari, di un azzurro intenso. Erano stati modificati per una miglior percezione della scala cromatica, ma con un intervento di tale maestria da apparire quasi naturali. Ma quello che più apprezzava in lei stava dentro. La personalità dirompente, l’amore per la musica e l’arte in genere, la sensibilità. Tutte qualità apprezzabili. Purtroppo si portava dietro tutti i difetti seriali degli artisti. Era volubile, umorale, incostante. Tendente a disturbi della personalità di tipo egocentrico e borderline. Lui, invece, era un operativo di prima classe. Pratico, efficiente, affidabile. Meno incline alla socializzazione, più idoneo a forme di convivenza stabili. Due personalità opposte. Questo però non aveva impedito una prepotente attrazione reciproca. Da quando erano diventati coppia in progetto FR6C0 aveva ottimizzato la vita in funzione di quella di lei. Lei non aveva fatto altrettanto. Le analisi conoscitive di routine avevano confermato un dato ovvio, ma che a FR6C0 sembrava impossibile. Erano incompatibili per un’unione stabile, sincera e duratura. E se lei aveva accettato questo verdetto, riducendo i loro incontri a singoli momenti di piacere, per lui questa distanza era un paradosso permanente. Avrebbe voluto di più, avrebbe voluto poter essere complice e partecipe nella vita quotidiana della femmina, aiutarla a crescere di livello. Ma 4M3ER non era concorde, e tutto questo continuo lavoro affettivo era diventato faticoso ed inutile. Sorseggiò il suo caffè. Aveva un aroma differente dal solito. “Fogliame. Bosco Umido” pescò nel database mnemonico. Sembrava una di quelle essenze profumate che vengono aggiunte alle vasche di pulizia profonda. Quella fragranza gli rammento il suo primo incontro con 4M3ER. Lei usciva, nuda, dalla vasca di sale. Le forme sinuose nascoste nella penombra del luogo, il metallo degli innesti luccicante, la parte organica lucida e profumata. Una dea che esce dal mare.
Con un gesto della mano, come a scacciare i pensieri, FR6C0 alzò l’audio al TV. Sullo schermo il canale delle news trasmise l’immagine della cometa G07D, in transito ravvicinato con l’orbita terrestre. Da giorni era la notizia più diffusa a livello globale. Un noto fisico, del quale FR6C0 non si dette briga di ricercare il nome, ne descriveva per filo e per segno le particolarità. Distrattamente lo ascoltò citare l’orbita fortemente ellittica e il particolare tono di colore dorato, unico nel suo genere. Il fisico raccontò anche che tutte le sonde inviate per studiarne la composizione non erano riuscite a prelevare dati. Terminò il suo intervento con un sorriso complice e, come se guardasse in faccia gli spettatori, la definì un mistero. “Sì certo. Il più grande mistero dell’universo. Dopo le femmine come 4M3ER” pensò sarcastico FR6C0. Anche la cometa lo riportava a lei. Questo non era un buon segnale, giudicò. Come operativo non aveva alcun interesse nei fenomeni astrali, ma aveva seguito l’evento sotto l’impulso della femmina. 4M3ER, come tutti gli artisti, ne era affascinata. “Un avvenimento che non accadrà di nuovo se non tra circa trecento anni” gli aveva spiegato con un’allegria che a lui era parsa bella ma eccessiva “Un’opportunità unica. Qualcosa che neanche i nostri discendenti vedranno mai” e poi tante e tante altre affermazioni del genere. Non aveva parlato di nient’altro per giorni. Infine, quella mattina era partita per le montagne, per osservare il aggio in condizioni ottimali. FR6C0 aveva sperato che gli proponesse di accompagnarla. Sarebbe stato bello condividere questo momento con lei, tenerla vicina, vederla felice. Invece solo un bacio, una scia di profumo e un mare vuoto in lui. Senza dubbio adesso lei stava in compagnia di qualche altro. Sapeva da tempo di non essere l’unico maschio nella vita di 4M3ER, anche se lei affermava sempre il contrario. A FR6C0 la cosa non piaceva. Si era ripromesso di parlarne, ma aveva sempre rimandato.
Forse, pensò, era giunto il momento di mettere fine ai suoi incontri con 4M3ER, e cercare qualcuno diverso. Qualcuno migliore. Facile a dirsi. Meno lasciarsela alle spalle. “MA COSA CERCA QUELLA FEMMINA?” gridò rabbiosamente alla stanza vuota. Non riusciva a smettere di pensare a lei. Si sentiva depresso, e considerò l’opportunità di aumentare le dosi di adrenalina e antidepressivi in circolo. Improvvisamente un forte odore di erba e foglie si sparse per l’ambiente. Cercò di alzare l’avambraccio cibernetico ma era spento, come tutte le apparecchiature attorno. Stava disteso lungo il fianco, completamente morto. Un inutile pezzo di ferraglia. Dalla finestra non arrivava più la luce, e su tutto era caduto il buio più assoluto. Nel silenzio si fece strada un rumore metallico, simile a quello della monorotaia di spostamento superficiale. Terrorizzato, con la mano organica prese a battere furiosamente sul display, sperando in un barlume di luce. Finalmente un numero lampeggiò.
* * * “Tre, ne abbiamo tre in rete per questo giro.” Fran28 batté l’indice sul numero che lampeggiava sul display e alzò lo sguardo verso l’unico altro uomo presente nella Stanza dell’Accoglienza. Come sempre, guardando Fran23, ebbe l’impressione di stare di fronte ad una foto di se stesso scattata vent’anni prima. Stessi suoi occhi scuri, medesimo sorriso. Il volto che aveva di fronte, dalla parte opposta del luccicante tavolo comandi, era imberbe, e la carnagione liscia e bianca come il latte. Era un umanoide basso di statura, tarchiato e dal collo largo e corto come un vecchio disco in vinile. Per i parametri della dimensione di ventotto, ventitré si sarebbe
detto un adolescente con qualche problema di sovrappeso. Nella sua realtà, prima di esserne prelevato, Fran23 era invece un adulto assolutamente normale perfettamente inserito nel suo mondo a coefficiente evolutivo elevato, come testimoniava la tunica bianca dove spiccava in rosso il numero ventitré. Differentemente il volto di Fran28 era solcato da rughe profonde. All’apparenza appariva più vecchio della sua copia giovanile. Appena un poco più alto del compagno, sarebbe potuto facilmente are per il padre, o per il fratello maggiore. Anche lui indossava la medesima tunica bianca, come del resto ognuno dei centoquaranta Fran dell’equipaggio, ma il suo numero ventotto era colorato in azzurro, ad indicare una categoria evolutiva inferiore. “Una buona pesca. Analisi in corso” riprese allegramente “Per il momento possiamo dire di avere uno standard, un sub-standard e, udite udite, un FranHQ. Altamente evoluto, migliorato fisicamente. Un buon pesce. Ma troppo metallo, non lo mangerei. Che ne facciamo?” Ventitré mantenne lo sguardo fisso sullo schermo inserito nel tavolo, poi, dopo alcuni istanti, si decise a rispondere. “In accordo procedura base. Mantenimento in stasi. Minimo rischio shock, sempre possibile al primo giorno di reclutamento. Inizio trasmissione dati all’Arca, resto in attesa di ulteriori istruzioni.” Nel sentirlo parlare Fran28 faticava a ricordare che ventitré, nonostante l’aspetto, fosse una versione più avanzata di se stesso. Anzi, a volte era quasi certo che nell’assegnazione dei coefficienti forse l’Arca d’Ambra avesse sbagliato. Certo questo non era ovviamente possibile, ma un piccolo dubbio restava sempre sullo sfondo della mente di ventotto. “Quando sarà entrata nell’Eden e avrà toccato il loro Io profondo” e Fran23 indicò con un gesto della mano una fila di grandi contenitori cilindrici alla parete “Verremo istruiti su cosa fare e come comportarci.” “Allora tutti a nanna nell’Eden, mentre la signorina decide. Magari se siamo fortunati sarà uno di questi l’oggetto della nostra ricerca” nel pronunciare queste parole la voce di Fran28 si abbassò di un tono.
Sapeva perfettamente quanto fosse un’accortezza inutile. All’interno della nave senziente qualsiasi parola pronunciata arrivava immediatamente ai sistemi di bordo. L’Arca d’Ambra sapeva tutto quello che accadeva al suo interno. Ma lui conservava ancora le vecchie abitudini che aveva prima del prelievo. Si radeva ogni mattina, manteneva una dieta equilibrata, e quando parlava di cose importanti lo faceva con educazione, sottovoce. Questa volta il giovane rispose con prontezza. “Non so, non ho sufficienti informazioni per stabilire se stiamo effettuando una ricerca mirata.” Anche la sua voce era stridula, coerente con l’aspetto giovanile “L’Arca non ha mai spiegato la ragione del reclutamento dei Fran. Agisce per ragioni che sono sue, e sue soltanto.” “Ma ci sarà uno scopo, un motivo” replicò poco convinto il vecchio ventotto “Per cui ci diamo la briga di radunare i Fran di stessa impronta energetica, rastrellando le dimensioni. Ti sarai fatto un’idea, un’opinione.” “Certamente che ho la mia teoria. Anzi ne ho sviluppata più di una. Ma restano al livello di ipotesi. La vera motivazione di questo raggruppamento sfugge alla mia comprensione. Quando sono entrato a far parte dell’equipaggio l’Arca, come per tutti noi, mi ha fatto entrare in contatto con il suo io, ed ha toccato il mio. Nel cilindro Eden mi ha mostrato la bellezza del seguirla, e la pace del viaggiare con lei. Mi ha istruito sui miei compiti, e mostrato il cammino, ma non il motivo. Qualcosa ci collega. Qualcosa rende noi Fran degli esseri unici, in qualsiasi dimensione ci troviamo. E l’Arca d’Ambra viaggia per radunarci. Forse desidera metterci in salvo da un grande male, forse espiare una sua colpa. Non conosco la sua motivazione ma, qualsiasi essa sia, deve essere importante. Per il momento, so tutto quello che mi serve sapere.” Ventotto restò in silenzio per un paio di secondi, meditando sulle ultime parole di Fran23, dopodiché riprese il discorso. “Spero tu abbia ragione, numero ventitré. Qui il viaggio sembra lungo. Io sono a bordo da prima del tuo arrivo. E queste dimensioni parallele in cui ci muoviamo sembrano non finire mai. Vorrei solo capire dove andiamo. Ad ogni ciclo d’incrocio dimensionale iamo, preleviamo due, tre, quattro esseri dalle loro realtà e torniamo a nasconderci nel limbo. A volte mi pare un lavoro privo di senso. Io vorrei solo sapere cosa cerca la nostra Arca.”
Fran23 si limitò a sorridere in risposta. In fondo l’Arca non era un brutto posto dove vivere. Certo attorno a te trovavi sempre persone molto simili. Alcuni Fran erano così uguali da sembrare dei cloni. Altri, con alle spalle un altro percorso evolutivo, si faceva fatica a considerarli come una versione di sé proveniente da una differente dimensione. Alcuni si erano integrati particolarmente bene, altri purtroppo no, e riposavano in un bagno di realtà virtuale. Era il caso di Fran46, il cavernicolo, oppure di Fran17, lo psicopatico. Che fossero dentro o fuori dei cilindri, comunque adesso il destino comune di tutti loro era servire l’Arca d’Ambra. Erano l’equipaggio di una nave senziente, fatta d’oro e d’ambra, nella sua ricerca dei Fran. E la domanda che immancabilmente tutti si ponevano, prima poi, era la stessa: “Cosa cerca l’Arca d’Ambra? Cosa vuole dai Fran?”. “Stai tranquillo e abbi fiducia. Forse potresti chiedere di entrare qualche ora nell’Eden, per chiarirti il cammino ma… ci sarà pure un motivo per cui questa nave d’ambra si chiama Arca. Fede, questo serve, fede” Poi, cercando di cambiare argomento, continuò “Qui abbiamo terminato i nostri compiti. Propongo una sosta rilassante. Una birra?” “Certo, perché no. Sempre disponibile ad una bella birra bionda. Ti ho mai parlato della donna che frequentavo prima di unirmi a questa nave? Anche lei era bionda. Uno schianto, folle e bellissima. Si chiamava Ahm-Bree. Mi piantò dopo solo tre cicli, subito prima che l’Arca mi venisse a prendere.” I due richio la porta della sala di accoglienza alle loro spalle, e si incamminarono lungo un condotto dalle pareti dorate. Su tre mondi, uguali ma diversi, nello stesso istante tre esseri senzienti sparirono nel nulla. Una cometa giallo d’Ambra ò, e scomparve.
Anywhere (parte seconda) di Pablo Cazzulani
La strada scorre veloce, così veloce che la pioggia scivola dal parabrezza senza lasciare traccia, come lacrime troppo flebili per sopravvivere a questa notte. Premo sull’acceleratore per allontanarmi in fretta da te, perché mai come questa notte avrei voluto fermare il tempo e viverti fino a morire tra le tue braccia; nel buio sfilano i chilometri che mi riportano alla vita reale e l’odore della tua pelle si mischia con il peso dei sensi di colpa che, inevitabili, si insinuano nei nostri incontri. Era inevitabile ritrovarci dopo tutti quegli anni nei quali non siamo stati altro che un bacio in riva al mare? Avremmo potuto sfuggirci? Una volta mi hai chiesto: “Perché non mi hai aspettata?” Io ho smesso di farmi domande, so solamente che sei un’emozione che non so più gestire e che eri stupenda questa sera, sotto la pioggia, quando il tempo si è fermato nel momento in cui ci siamo presi per mano, come se in quegli istanti ti affidassi completamente a me. E’ stato solo attraversare una strada o varcare le porte del Sogno, entrare ad Anywhere, la nostra dimensione parallela nella quale siamo un’anima sola? Come in un film le nostre labbra si sono cercate, preludio ad una nuova follia. E lasciarti andare, dopo un ultimo e interminabile abbraccio, è ogni volta più difficile; chissà, dopo altri vent’anni anche questi baci non saranno altro che ricordi sfuocati e divorati dal tempo. Vorrei un giorno svegliarmi e accorgermi che ritrovarti ed amarti è stato davvero un bel sogno, solamente un sogno, niente più che un sogno…
Cappio: una fine e un inizio di Sauro Nieddu
Da quanto tempo non usciva una risata dalla mia bocca? Non avrei saputo dirlo con certezza, ricordavo una risata isterica, priva di allegria, circa tre anni prima. Contava? Non lo saprei dire. Quello che posso dire con certezza, è che la mia vita, negli ultimi dieci anni, era fatta solo di lavoro, e di stordimento dopo il lavoro. Quando ancora avevo una parvenza di vita sociale, ogni tanto qualcuno mi chiedeva perché uscissi sempre con quello zaino sulle spalle. Domanda a cui non rispondevo mai a voce. Semmai aprivo lo zaino, ne estraevo il mio bottiglione di vino e ne mandavo giù mezzo litro in un’estenuante, interminabile sorsata. Non c’era bisogno che mi spiegassi a parole. Ma parlo di molto tempo prima dell’evento che vi sto raccontando. Allora la parvenza di vita sociale era già scomparsa, mi era restato solo l’alcol, tutto l’alcol che mi riusciva di mandar giù prima di crollare come una pietra. L’alcol era il mio stordimento preferito, due litri di vino li pagavo meno di quattromila lire, ma non disdegnavo nulla che mi capitasse a tiro, fosse hashish, barbiturici, monossido di carbonio, pastiglie… niente era escluso. L’unica cosa che andava estromessa a ogni costo era la mia coscienza, il dolore insopportabile che mi rodeva. L’unico modo per eluderlo era spegnere del tutto la mia mente. E arrivò un momento in cui il dolore non fu più sostenibile, niente era più in grado di tacerlo completamente. O forse esisteva un modo… Nello sgabuzzino fuori casa le grosse travi in legno erano perfette per lo scopo, il soffitto abbastanza alto da permettermi una caduta sufficientemente lunga. Salii sulla vecchia scala a libro e feci are per tre volte la corda attorno alla trave, poi, una volta giù dalla scala, preparai il nodo scorsoio. Mi ci volle qualche tentativo prima di raggiungere il risultato voluto ma alla fine lo ottenni. Quando il cappio si fosse stretto fino alla misura del mio collo, i piedi avrebbero penzolato a una ventina di centimetri dal pavimento. Stando rannicchiato in cima alla scala, e lasciandomi cadere, il mio baricentro avrebbe avuto circa due metri per accelerare prima del brusco stop terminale. Per quanto ne sapevo di impiccagioni, un volo di quella portata sarebbe stato più che
sufficiente a rompere qualunque collo. Vigliacco da parte mia, ma avevo il terrore di morire soffocato. Sarebbe dovuta essere una morte istantanea. I miei propositi suicidi, però non erano dettati da un impulso cieco. Non avevo intenzione di suicidarmi in quel momento. La morte per me è sempre stata una cosa seria, non volevo affrontarla come una fuga disperata. Volevo che fosse un atto consapevole e meditato. Volevo affrontarla con l’animo sereno, non in preda al dolore. Tornai sulla scala, appesi il cappio a un chiodo sulla trave. Mi ripromisi di attendere un momento in cui avessi potuto affrontare la morte con la giusta prospettiva. E così ò il tempo, ò duramente, immerso in quel dolore soffocante, quell’impossibilità di affrontare la vita. L’inevitabile conclusione di quella vicenda accadde un giorno di qualche mese dopo, un sabato per la precisione, che uscii a bere qualche birra al bar. Ero alla quarta, forse alla quinta bottiglia, quando improvvisamente mi trovai circondato da vecchie conoscenze. In modo del tutto inaspettato, quel giorno ricevetti manifestazioni d’affetto di cui quasi avevo dimenticato l’esistenza. Nonostante tutto potevo ancora accogliere qualche briciola d’amore, mi sentii vivo, per un momento. Rientrai verso casa barcollante. Non posso dire che fossi felice, ma il dolore era scemato, era a un livello accettabile. Lo stato d’animo più vicino alla serenità che mi fosse capitato di provare da parecchi anni. Una volta a casa salii la vecchia scala a libro, mi portai più in alto che potevo, chiusi gli occhi e respirai a fondo. Esisteva solo l’aria che entrava e usciva dai miei polmoni. Niente più dolore, nessun problema riusciva più a toccarmi. Aprii per un attimo gli occhi a guardare verso il basso, poi li richiusi. Un altro respiro, e mi lasciai cadere. Non avvertii il brusco contraccolpo nel momento in cui la corda si tendeva, non avvertii il suo stringersi attorno al collo. Neppure il senso di caduta. Il buio che già pervadeva la mia mente si fece solo più intenso, un buio caldo, accogliente, quasi un ricordo dell’utero materno. Non so quanto tempo durò quella sensazione. Ero in un mondo in cui il tempo mancava di qualunque significato. So che a un certo punto mi sentii fluttuare, i piedi si posarono dolcemente a terra. Aprii gli occhi lentamente e la luce della lampadina mi fece lacrimare. Li asciugai con la manica, e mi guardai attorno stranito. Cos’era successo? La corda cadde dall’alto, spezzata. Presi ancora un respiro profondo. La sensazione di
vago benessere era andata. Il dolore era tornato a pulsare con forza dentro l’anima. Con noncuranza ficcai le mani in tasca a cercare il pacchetto delle sigarette, me ne accesi una e tornai verso il bar, dovevo sopire quel dolore da capo, ancora. Il giorno dopo, al risveglio, quei ricordi non avevano più importanza di del mal di testa che mi affliggeva, o del ricordo di una merda di cane pestata per strada la sera prima. Mi alzai e mi diressi d’urgenza verso il bagno. Fu solo una coincidenza che mi mise al corrente della portata di ciò che era accaduto. C’è in casa una porta di appena qualche millimetro più alta di me. Eppure quella mattina, nel arci, la mia testa ne urtò la parte superiore. Strano, mi dissi. Quando uscii dal bagno controllai meglio, mi misurai, non c’era ombra di dubbio, il mio metro e settantaquattro di altezza era diventato un metro, settantacinque centimetri e mezzo. Solo allora mi resi conto della violenza di quel contraccolpo che non avevo neppure avvertito. Tornai in bagno e mi scoprii il collo davanti allo specchio. Un’abrasione rossa fiammante segnava il collo lungo tutta la sua circonferenza, un livido violaceo, circondato da un alone giallognolo, si spandeva tutt’attorno ad essa. Andai nello sgabuzzino, la corda era ancora là in terra. La raccolsi e sedetti a fissarla su uno scanno col fondo impagliato. Sfidando la nausea, accesi una sigaretta. Com’era possibile, mi chiedevo, non aver sentito nessun dolore al collo, nessun contraccolpo. Ma con più forza mi chiedevo. Com’è possibile che la corda si sia sfilacciata in quel modo sul bordo liscio e arrotondato della trave? Com’è possibile che lo strappo che mia aveva allungato in quel modo la colonna vertebrale, non mi avesse ucciso? O forse ero morto… vidi la mia famiglia e gli amici piangere al mio funerale, mi vidi soffocare lentamente, diventare paonazzo mentre quel nodo scorsoio mi uccideva con una modalità imprevista, vidi… Soffocai un conato di vomito, gettai via la sigaretta. La corda mi scivolò dalle mani mentre mi tenevo la testa e serravo gli occhi. La mia mente fu invasa da un brulicare confuso di probabilità, vie che si diramavano all’infinito, gatti vivi e morti allo stesso tempo, particelle di luce che cambiano la loro essenza secondo come le si guarda… e ancora, lentamente, da questo caos cognitivo emerse una visione lucida e terribile; tagliente come un bisturi, ma dolorosa sulla carne
come una vecchia sega arrugginita. Mi resi conto che la mia coscienza era allo stesso tempo l’oggetto e l’osservatore di questo tragico esperimento. Per quanto fosse remota la probabilità di sopravvivere, la mia consapevolezza, avrebbe per forza continuato a esistere all’interno di quella remota possibilità. Non sono morto semplicemente perché in tutte le varianti in cui avrei potuto esserlo, la mia coscienza non esisterebbe. La mia coscienza, per potere esistere, deve obbligatoriamente trovarsi nel campo probabilistico, per quanto limitato, in cui io sono sopravvissuto. I muscoli delle braccia si tesero all’improvviso per sorreggere il peso della testa, che si era fatta come un macigno. Dunque la morte non esiste, non la nostra almeno, esiste solo quella degli altri, a caricarci di ulteriore dolore. E non c’è speranza di fuga nell’oblio. La sofferenza è eterna.
Cristoforo di Annarita Petrino
Amerigo posò la penna ottica e si stropicciò gli occhi. Quindi tornò a guardare gli appunti apparsi sulla lavagna luminosa. Il lavoro di anni era lì davanti ai suoi occhi. Uno scricchiolio alle sue spalle lo distolse dal suo lavoro. Cristoforo era in piedi nella sua nicchia. Le facoltà del suo cervello telepatico sarebbero state il risultato di tutti quegli appunti. Si alzò e andò alla finestra. Da lì poteva vedere il mare lambire pigramente la riva. Cristoforo osservò l’andamento irregolare delle orme sul bagnasciuga, alcune più lontane, altre più vicine. Ormai si muoveva a scatti; la salsedine stava bloccando le sue giunture e presto non sarebbe più stato in grado di muoversi. Doveva trovare Amerigo prima che succedesse. Sentiva che non era molto lontano. Mentre camminava guardò in direzione del mare e vide una barca all’orizzonte. Stava andando alla deriva senza controllo, perché a bordo erano tutti morti. Cristoforo pensò che fin dove arrivava lo sguardo doveva esserci acqua che poi precipitava in un’enorme cascata. Anche la barca sarebbe precipitata, ma lui non poteva farci nulla. Da lì non era in grado di controllarla perché aveva dei comandi completamente manuali. Tornò a guardare avanti e in lontananza scorse il corpo di Amerigo. Avrebbe voluto affrettare il o ma ormai non c’era più nulla che potesse fare per lui. Lo raggiunse ugualmente e sedette al suo fianco osservando il mare. Amerigo fissò gli occhi spenti del robot, consapevole del fatto che anche se sembrava disattivato in realtà stava pensando. Non ricordava esattamente come, ma ad un certo punto si era accorto della sua continua attività cerebrale. Era come se… se fantasticasse. Si chiese come sarebbe stato una volta avviato lo schema telepatico. Tornò a guardare il mare… Morto Amerigo non rimaneva più nessuno. Cristoforo, il Robot Telepatico, era l’unico essere pensante rimasto in tutto il pianeta un tempo abitato da dieci miliardi di esseri umani. Lo avevano costruito per poter entrare in contatto con le menti delle persone e per poterle aiutare a superare i loro problemi. Ma non avevano fatto bene i calcoli e quando gli avevano chiesto di farlo, lui era entrato
in contatto con le menti degli esseri umani, con tutte quante le menti insieme. Dieci miliardi di persone si erano trovate a contatto tra di loro nello stesso lungo interminabile istante, trascorso il quale si erano spente per l’incapacità di tornare ad un’esistenza individuale dopo aver sperimentato quella collettiva. Amerigo era vissuto più a lungo perché era con Cristoforo in quel momento, ma dopo essersi trascinato fino alla riva del mare anche la sua mente si era spenta. Cristoforo provò a muovere la mano destra ma non ci riuscì. La salsedine lo stava corrodendo, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che fosse stata in grado di raggiungere il suo cervello. Nel frattempo avrebbe riflettuto. Per esempio poteva darsi che non ci fosse nessuna cascata oltre quella immensa distesa d’acqua. Magari la Terra era semplicemente tonda… Amerigo guardò soddisfatto il suo lavoro. Era tutto pronto. Doveva solo… doveva solo caricare lo schema nel cervello positronico. Il suo volto si fece pensieroso quando lo sguardo gli cadde sul piccolo crocifisso in legno che pendeva proprio sopra la sua scrivania. Ricordò con affetto sua madre tanto devota, che aveva insistito affinché lui lo tenesse nel suo studio. “Quando non sai quale sia la cosa giusta da fare, fissa lo sguardo su di Lui e lo saprai”. E, in effetti, non era mai riuscito a darle torto. Si alzò e tornò alla finestra. Perché dotare un robot di un potere tanto grande, come quello di leggere nella mente degli esseri umani? No… non lo avrebbe fatto. Guardò il mare e in particolare una barca all’orizzonte.
Genere “fantascienza cristiana” Autrice di una raccolta di racconti dal titolo “You God” edita dalle Edizioni Il Papavero – Marketing d’Autore (novembre 2013)
C’era una volta la follia di Allie Walker
Apro gli occhi sulla luce. L’arrivo del mattino mi rassicura sul mio esistere “nonostante” ma sopprimo la sensibilità della coscienza e del dolore. Circondata dalle mie illusioni e dai labirinti mentali da attraversare, -che mi aspettano con pazienza intrinsecami stupisco di come io cammino inghiottita dalle porte senza chiavi. Calpesto la scacchiera della regina di cuori -impavida- e mi ruba il vorticare di un cappellaio matto che mi espelle nell’azzurro cielo. Mi trasporta un tappeto ai confini dell’infinito nel sontuoso spazio
delle mille e una notte; evaporo con i fumi del narghilè, nel benessere istantaneo di un oppiaceo. E la mente affonda tra i vortici delle acque di un lago fatato per riemergere, poi, tra le nebbie cavalcando un mostro squamoso che accarezzo e bacio. Con gli occhi bendati sul mondo, anniento ciò che sono -il mio esistere terrenoe tra le pareti dell’infinito volo solitaria dispiegando le ali sui corridoi del tempo. Invisibile agli esseri mortali mi approprio del cristallino nulla, dove tutto accade e niente invecchia nel tempo sospeso dell’incoscienza. Una colata di eternità mi lascia appesa alle nenie di un universo parallelo
dove tu mi attendi. Forse l’irrinunciabile realtà? Allungo una mano a sfiorarti, per rassicurarmi della mia esistenza, toccando e stringendo pelle spazzo via la certezza della mia follia.
Deus ex machina di Claudia Lo Blundo
Non venite a dirmi che esiste un dio di giustizia. Giustizia in questo mondo? Se vi fosse io non starei qui a lamentarmene. Non starei a piangere sui miei problemi irrisolvibili, non starei a sperare che mi si rinnovi quell’altro aspetto della mia vita, quello che, per convenienza, poiché non so definirlo altrimenti o perché non so dargli un nome, io chiamo sogno. Eppure non è un sogno, vorrei poterlo spiegare a qualcuno, ma a chi? Ho provato a farlo e, a momenti, mi prendevano per pazza visionaria, anzi una mia collega, in verità molto carinamente, anche se rideva per farmi capire che stava prendendomi in giro, mi consigliò: “Perché non scrivi le stramberie che racconti? Chissà, forse riusciresti a cambiare lavoro, anche se mi dispiacerebbe non averti più come vicina di sedia in questo maledetto call center”. No, ormai ne sono convinta: non esiste un dio di giustizia. Forse, da qualche parte di questo infinito universo, nascosto dietro qualche buco nero, di sicuro esiste un deus ex machina che ha il compito di guidare l’esistenza di ciascuna creatura e, quando gli fa comodo, le fa intravedere una vita migliore: o le fa credere di intravedere una vita…diversa! Non lo so. So che mi piacerebbe continuare a vivere quella vita! Non devo necessariamente addormentarmi e sognare! Non so come mi capiti, ma mi ritrovo proiettata in un luogo per me impossibile da calcare: sono sulla scena di un meraviglioso teatro, uno dei tanti in giro per il mondo. Credo di non sbagliare se affermo di essere stata in tutti i migliori teatri del mondo, oddio, anche in qualcuno meno importante, quelli, così chiamati, di provincia, dove però, sotto certi aspetti, il calore del pubblico che ti applaude e che vuole incontrarti, chissà perché mi gratifica molto più che non l’incontro del pubblico del grande Metropolitan di N.Y.
Cosa ci faccio in quei teatri? Ahahah. Certo, devo raccontarla tutta! In quei teatri, finalmente, canto: do la mia voce alle eroine che musicisti lirici hanno fatto vivere attraverso le parole di poeti e librettisti. Credo di avere interpretato tutte le opere e mentre canto dimentico tutto: per me esistono soltanto la scena, il mio partner di scena, la musica. In quel momento non esiste nulla attorno a me, Né ato né futuro; non ho bisogno di altro e sento che quella è la mia vera vita: interpretare, cogliere le sfumature della musica, delle parole, per farle rivivere da me mentre interpreto Tosca, Manon, La regina della notte, e tutte, tutte le eroine che al pubblico fanno conoscere quale alto grado può raggiungere l’amore, l’amore che io sto interpretando. Il pubblico adorante viene dopo, dopo che la musica è finita, dopo che il solito groppone di commozione, finalmente può invadere la mia gola per poi lasciarsi andare in un singhiozzo liberatorio Quella è la mia vita, la vita che mi fa felice! Quando ho iniziato a parlare di questo strano fenomeno qualcuno, ricordo, ha buttato là una domanda. Non mi sembrava curiosità, pensavo fosse il desiderio di capire, ma in seguito ho compreso: certe domande erano fatte per capire sino a che punto io stessi vaneggiando o credessi veramente in quel che inventavo. “Silvia, (è il mio nome) ma in quei momenti la tua famiglia, il tuo compagno, dove sono, te ne ricordi?” “Non so, non li vedo, non ci penso, ma… di sicuro c’è qualcuno che mi aspetta a casa, che domanda! Certo, avrò anche una casa e familiari che fanno parte della mia vita. Io…non li vedo, perché sono al teatro, a cantare, Ecco, è come adesso: siamo qui al lavoro, ma le nostre famiglie, la nostra casa, insomma tutto quel che ci appartiene è fuori da queste mura!” Era così naturale per me rispondere in quel modo, anzi, mi sembrava una risposta logica, ma invece nessuno mi ha mai creduto veramente. Di non essere creduta l’ho capito poco per volta, e allora ho deciso che non dovevo più parlare di questo strano fenomeno che, ancora adesso, non riesco a capire di cosa si tratti; non é un sogno, non é il trasporto della mia anima: é il trasporto di tutta me stessa, in un mondo del tutto simile al mio, o meglio in una realtà simile alla
mia. Chi non ha visto qualche volta quei telefilm alla TV dove si parla di tele trasporto, di mondo parallelo? Beh, diciamo che a me succede una cosa del genere. Allora la mia vita cambia, e sono, finalmente, felice perché è quella la vita che avrei voluto. Poi, non so come accada, all’improvviso, mi ritrovo piombata nella vita in cui adesso mi ritrovo. Una vita fatta di lavori inappagati, di desideri inappagati, (avrete capito che tipo di indirizzo avrei voluto dare alla mia vita), di amori inappagati. Già, gli amori! Ecco il motivo per cui mi ritrovo qui a raccontare. A fare un bilancio della mia vita, Ma a chi sto parlando? Non c’è nessuno di fronte a me a raccogliere il suono delle mie parole mentre esprimono il dolore, la tristezza, il rammarico che ho in cuore. Si è trattato di un sogno, ha sempre cercato di spiegarmi Marco, un sogno perché ho quel chiodo fisso in testa: fare la cantante lirica. Lo ha ripetuto anche poco fa, mentre, per l’ennesima volta, gli raccontavo in che teatro mi ero trovata a cantare. Ridendo come non aveva mai fatto, mi ha domandato quale personaggio avessi finito di interpretare. Ho risposto: Liù E lui, ironico: “Liù? E chi è?” L’ho odiato in quel momento, ho odiato la sia indifferenza, la sua ignoranza nella quale ama crogiolarsi, la sua mancanza di affetto di comprensione. Ancora una volta avevo sperato che lui potesse comprendere che quella proiezione nascondeva il mio desiderio di cantare, lui, invece, ancora una volta, ha motteggiato un acuto da soprano e, poi, mi ha lasciato senza aggiungere altro e, come fa ormai da tempo, se ne è andato, è uscito. Da tempo continuo a ripetergli che per lui questa casa è diventata solo un albergo e da tempo mi risponde, beffardo: si, grazie a te è un albergo per pazzi. Lui è uscito ed io non ho sopportato di rimanere da sola a casa. Così, perché le cose capitano sempre senza che tu ne vada in cerca, così l’ho visto. Stava
abbracciato ad una ragazza, più giovane di me, più carina di me, lei deve avergli detto qualcosa e lui, le ha dato un lungo bacio. Poi, come se fosse stato richiamato dal mio sguardo, si è girato, mi ha visto: mi è sembrato un mostro sornione perché, invece di impallidire, di venire verso me e dire quelle parole di circostanza che si usano in simili momenti, a gesti mi ha fatto capire: tu sei matta! Ha portato l’indice della mano destra alla tempia: c’era poco da capire, tutto era chiaro! Per lui la storia con me era finita. Solo in quel momento ho capito le sue assenze da casa, il suo dileggiarmi continuo. Tutto è stato chiaro! Sono tornata a casa come una furia, per ragionare, o, meglio, non volevo ragionare. Volevo fare qualcosa, una di quelle cose che si vedono nei film che la TV trasmette, o che leggo nei giornali quando vado dal parrucchiere: una donna abbandonata butta tutto per aria, taglia a pezzetti i vestiti del suo lui traditore, oppure…oppure si toglie la vita per la disperazione di essere stata abbandonata. Ecco, ho deciso: gliela farò pagare con la mia morte e sarò il suo rimorso fin quando vivrà. Ahahah, vorrei essere li quando mi scoprirà morta, vorrei vedere con che anima tornerà ad abbracciare e sbaciucchiare la sua nuova fiamma. Quando sono venuta in cucina mi chiedevo in che maniera mettere in pratica il mio pensiero. Ho aperto tutti i rubinetti della cucina a gas, ma ho subito capito che ci voleva molto tempo prima di raggiungere l’effetto desiderato. Io, invece ho fretta di chiudere questa storia. Ho deciso: dove si trova il mio coltello più grande e più affilato, quello che tengo sempre nascosto perché…non si sa mai! Eccolo con questo mi darò un bel colpo come quando canto Butterfly: farò harakiri, mi hanno detto che si dice così. Beh il coltello di scena è di plastica e la lama si ritrae, come quello che per carnevale usano i bambini travestiti da pirata. Bbbrrr, come è lunga e affilata questa lama, chissà che dolore proverò. Ma, alla fin fine mi chiedo se non sia stupido uccidersi? Per cosa, infine. Per la disperazione? Ci si dovrebbe uccidere per amore, per coprire un amore, non perché un amore ti ha abbandonato. Sono confusa, continuo a rigirare questo coltello tra le mani, nel dubbio atroce: mi uccido per amore o per disperazione? Ma che senso ha vivere oramai. Tanto vale farla finita. Ma occorre trovare il coraggio e, io, non l’ho! Sono troppo disperata, arrabbiata. E se sbaglio mira?
* * * La folla, a Pechino, è assordante. In lontananza c’è il mio principe tanto amato nel silenzio della mia condizione di schiava. Accanto a me c’è il suo vecchio padre. Cosa vuole da me questa folla? Ha visto che ho parlato con il mio amato Calaf, un amore senza speranza, lo so, anche se gliel’ho appena confessato. Ma che accade? Tutti gridano: un vocio incessante, fatto di paura ma anche di rabbia. Sono esterrefatta. Calaf mi ha pregato di occuparmi di suo padre; lo farò, gliel’ho promesso. Lo farò per amor suo, anche se lui ama la principessa gelida e senza cuore che si cela nel gran palazzo al di là di queste alte mura. La folla mi preme, ho paura! Ho paura, vorrei essere altrove, ma dove può andare una povera schiava come me. Dove potrei nascondermi per sfuggire a questa folla che stende verso di me i suoi pugni. Che strano ricordo mi viene alla mente: da piccola mi nascosi dentro un armadio intarsiato in vivaci colori che rappresentavano una parte della nostra millenaria storia cinese: uccelli, fiori, disegni intarsiati rendevano prezioso quel mobile, unico oggetto prezioso nella nostra povera casa. Nessuno doveva osare avvicinarsi o toccarlo. Invece una volta per gioco, entrai in quel mobile e mi ci chiusi dentro mentre i miei fratelli mi cercavano per gioco. Ad un tratto le pareti dell’armadio scomparvero e io mi trovai in un giardino bellissimo. Non riuscivo a credere ai miei occhi! C’erano fiori, uccelli, un laghetto: che magnifica visione, una meraviglia al confronto del modesto quartiere in cui abitavo. Quando mi accorsi di essere sola ebbi un attimo di paura, mi stropicciai gli occhi e, allora mi ritrovai di nuovo dentro l’armadio. Raccontai ai miei fratelli quel che mi era accaduto e mi dissero che ero una stupida che mi inventavo storie impossibili. Mah, in effetti, devo essere stata una tipa sempre strana. Adesso, forse, potrei provare a stropicciarmi gli occhi: forse la folla scomparirebbe e mi ritroverei nel palazzo del buon principe Calaf. Niente da fare è tutto vero. Forse sono pazza, ha ragione Marco... Ma… cosa sto dicendo e…chi è Marco? Non sono pazza. Oppure si, se sono innamorata di Calaf: innamorata di un principe, senza alcuna speranza. Ma cosa gridano questi? Vogliono conoscere il nome del mio principe? Mai! Perché questa guardia mi ha afferrata, perché ha buttato a terra il mio povero vecchio. Ora capisco Mi tortureranno pur di farmi parlare, ma io mi sento debole, sfinita dal lungo errare. Non riuscirei a resistere al carnefice che mi metterebbe sotto tortura. Calaf, perdonami se lascerò tuo padre da solo, perdonami se do la mia inutile vita di schiava per la tua, perché per amore si può anche morire Addio
principe amato, la morte diventa dolce quando è fatta per amore, e io, col mio amore ti salvo, anche se so che tu ami un‘altra.
* * * Marco aveva avuto un attimo di ripensamento: lo aveva colpito l’angoscia che aveva letto negli occhi di Silvia Era riuscito a lasciare la sua nuova fiamma ed era tornato a casa. Riversa a terra, in cucina, giaceva Silvia, vicino a lei, a terra si trovava un grosso coltello affilato che lui non aveva mai visto. Toccò la giovane pensando che fosse solo svenuta e con raccapriccio notò che era gelida. Il medico, chiamato in gran fretta non poté fare altro che costatarne la morte anche se un dubbio arrovellava il suo cervello: Continuava a domandare da quanto tempo gie li? Solo 10 minuti, continuava a rispondere Marco, forse anche meno. Ma il medico diceva che era impossibile. Nessuno poté toccare nulla. Giunse un commissario di polizia che riprese con le stesse domande già fatte dal medico e anche la risposta di Marco era sempre la stessa, Il medico gli credette solo quando uno dei negozianti vicini, un orologiaio, confermò di aver visto are Silvia, che conosceva bene, nel tempo corrispondente all’orario dato da Marco; stava rientrando a casa ed era molto, molto agitata. Solo allora il medico stese la diagnosi: decesso per infarto, accaduto all’incirca verso le 11,05. Ma, a voce, il medico diagnosticò che quella morte era avvenuta chissà quanto tempo prima: spiegò che aveva avuto modo di vedere cadaveri mummificati dal tempo, e, se avesse potuto dare credito alla propria esperienza, avrebbe detto con sicurezza che quella morte era avvenuta diversi secoli prima. Così come si trovava il corpo della povera Silvia fu adagiato sul letto e solo allora qualcuno si rese conto che indossava una stupenda vestaglia di bellissima fattura cinese. Chiuso in un dolore dal quale tuttavia cercava di prendere le distanze, solo allora Marco capì. E seppe che il senso di colpa per il rimpianto e la disperazione di Silvia, in qualunque delle sue vite lo avesse vissuto, non lo avrebbero mai più abbandonato.
Disconnesso di Anita Rudcliff
Parallelo alla vita… La vita non va mai come vorresti. La mia ha seguito un corso inaspettato, doloroso, anche se per certi versi so di potermi ritenere fortunato. Io sono ancora padrone di me stesso e della mia mente. Chi come me può ancora fare un’affermazione simile, di questi tempi? Quando ho cominciato a viaggiare, non pensavo che sarebbe diventata una droga per me, eppure così è stato. Vederla, anche solo per un istante, dormire nel suo letto, con la complicità del buio, felice, vicino a un altro uomo, o alla stessa fedele riproduzione di me stesso, ormai non mi provoca più alcuna gelosia…ho provato troppe volte a cambiare il corso degli eventi, e non ci sono mai riuscito. Ora, per amore suo, mi limito ad abbeverarmi del suo respiro mentre sogna, a catturare furtivo il suo sguardo mentre nascosto ai suoi occhi la cerco tra la folla, durante il giorno. Finché non troverò un modo sicuro, non potrò provare a invertire il corso degli eventi. Non metterò più a repentaglio la sua vita. So bene che ciò che sto facendo è illegale, vietato , ma non posso fare altrimenti. L’Organizzazione mi ha ufficialmente dichiarato “soggetto pericoloso”. Sono stato “disconnesso”. Vago in un mondo mio, parallelo alla vita. Nulla ha più senso per me, se non proteggere ciò che un tempo lontano non sono riuscito a salvare. Eppure non è sempre stato questo lo scopo della mia vita, c’era un tempo nel quale i viaggi erano permessi, un tempo nel quale ricoprivo una carica di tutto rispetto, in cui ero felice. E fu proprio allora che abbassai la guardia. La troppa felicità mi aveva accecato, non avevo capito che eravamo solo pedine di un sistema, che cercava di sfruttare le realtà parallele per il proprio tornaconto, testando i rapporti di causa-effetto che alcuni eventi avrebbero potuto innescare qualora si fossero sviluppati nella nostra perfetta realtà. E questo bastava per giustificare i milioni di morti, le realtà che noi stessi avevamo contribuito a sopprimere.
Quel giorno ci era stata segnalata una grave infrazione del codice nella realtà parallela 76, ma ne avevamo sottovalutato l’entità… Lei era lì al mio fianco, e come tanti altri nella nostra missione fu infettata. In quella realtà parallela, tanto lontana da noi, non c’era in atto nessuna guerra che potessimo fermare, o sfruttare per il nostro tornaconto. La gente stava semplicemente morendo di un male misterioso, che nessuno era riuscito ad arginare. Il codice parlava chiaro in questi casi. La morte era l’unica alternativa proponibile. Prima del nostro stesso benessere veniva la salvaguardia del nostro presente. Eravamo tutti sacrificabili. Potevamo scegliere quale morte ci sarebbe toccata, anche se non avevamo ancora manifestato la malattia. Io volli scappare, lei no. Durante i tumulti che seguirono semplicemente mi lasciò andare a inseguire il mio destino, e aspettò pazientemente il suo. Decise una morte per annegamento. Ancora non mi capacito del perché scelse una fine così dolorosa. Credo che sentisse di dover espiare una colpa, è così che l’Associazione manipola le giovani menti, come se essere stata infettata e aver messo a repentaglio la missione fosse stato il risultato di un suo errore di valutazione. Niente di più sbagliato. Era bellissima, mentre si inabissava tra le onde. Nella mia mente, lo è ancora. Io non sono stato plagiato. Io vedo la realtà per quello che è. E sono padrone di me stesso. Braccato da un mondo a un altro. Eppure vivo. Nessuno potrà mai restituirmi la vita che avrei potuto avere, ma nulla potrà impedirmi di lottare per riavere una parte di lei, anche solo per un attimo, anche se giace immobile sul fondo di un oceano.
Ero come te di Irma Panova Maino
Io ero come te. Come te vedevo il mondo sfilarmi accanto, nel silenzioso eremo del mio guscio racchiuso. Non mi serviva altro che quella finestra dalla quale i giorni scorrevano lenti, uguali nello scandire del tempo e diversi solo nelle stagioni. Come te non sentivo la necessità di vivere con altri, di parlare, camminare, ridere o piangere in compagnia. Perché avevo te. Compagna silente, anima gemella che nulla ha mai preteso e nulla ha mai desiderato, se non lo sguardo con il quale tutto veniva condiviso, attraverso la superficie lucida di uno specchio antico. Come te avevo cercato il conforto nella lettura, in quelle trame che nutrivano la mia anima e portavano gioia al mio cuore, regalandomi mondi infiniti nei quali tuffare la fantasia, lasciandola liberamente scorrere lungo i declivi del tempo. E come te sentivo il peso del mondo esterno che premeva sul mio essere gracile, cercando in tutti i modi d’imprigionarmi nelle catene delle convezioni, del farraginoso humus umano, colmo di ipocrisie e caotici desideri frustrati. Non avevo necessità di nulla che mi tenesse avvinghiata a una realtà deludente, se non tu. Tu, che dall’altra parte sentivi, così come avvertivo io, la presenza l’una dell’altra. Il tuo riflesso era il mio, la mano appoggiata allo specchio era la mia, il vuoto dei tuoi occhi catturava il mio… Ed ora, mentre io vivo nella mia realtà ormai mutilata, osservo le tendine della tua finestra muoversi nel refolo d’aria della corrente, come anime danzanti nell’oblio che rivolgono l’ultimo saluto eterno a una sedia vuota.
Esisto in quanto quanto di Andrea Leonelli
Tratto da Consumando i giorni con sguardi diversi pubblicato da Edizioni Esordienti Ebook
Sono in movimento caotico browniano mi perdo negli scontri con me stesso Urto realtà immaginifiche disperdendole una spuma probabilistica Seguo traiettorie decoerenti mi fingo luce camuffandomi da fotone sono particella vestita da onda Ho un’origine, ma non la ricordo e una destinazione ma non la conosco Colui che osserva non ha ancora né ucciso né liberato il gatto Per adesso resto implausibile ma esisto in quanto quanto
Il bivio di Rossella Gallucci
“Mi piace il modo in cui mi guarda. In verità non guarda esattamente me, ma mi piace pensare che, mentre a davanti alla porta di casa e fissa lo spioncino sul quale il mio occhio destro è attaccato come una cozza, lui stia guardando me. Il sorriso che ha sulla bocca non è che una conferma. In realtà non sono bella, mi definirei un tipo, forse un po’ anonima e grassoccia, ma molto, molto simpatica. E credo che questa simpatia venga percepita anche attraverso una porta blindata.” Alza le serrande, si stiracchia e si dirige in cucina, come ogni mattina. La casa è immersa nell’assoluto silenzio. Selene è sola, i genitori sono al lavoro e la sorella a scuola. a davanti allo specchio della sala e rimane impietrita: quella figura mastodontica senza quasi più forma umana, è lei. No, non è possibile. Forse non c’è abbastanza luce, forse sono ancora troppo assonnata. Ma non posso essere io! Come ho fatto a diventare così grassa? Qualcosa mi deve esser sfuggita di mano. Selene sa di avere gli occhi belli, azzurri come il mare, anche se il viso è tanto irregolare, largo sulle mascelle, stretto alla fronte. I pochi capelli troppo lisci e quasi sempre unti pur lavandoli tutti i giorni. È per questo che, nel suo delirio, pensa che lui si fermi a guardare lo spioncino. Crede che lui riesca a vedere attraverso la piccolissima lente il colore dei suoi occhi. La tentazione è quella di aprire all’improvviso per trovarselo di fronte, ma è in deshabillé, ha addosso la vestaglia di sua madre, le pantofole con la paperella di sua sorella Enrica, i beccucci sui capelli nel tentativo ormai senza speranza di renderli un po’ più ondulati e meno informi. Si è appena alzata dal letto, le puzza l’alito e, come se non bastasse, le è spuntato un brufolo sulla fronte. Ha la nausea per tutto quello che è riuscita a ingurgitarsi in questi ultimi giorni, ma nonostante tutto, la tentazione di aprire il frigo è più forte di lei. Si ferma un attimo a guardare il soggiorno: il divano, dove ha bivaccato la sera prima fino a notte inoltrata, con la coperta buttata lì, metà su, metà in terra; un
bicchiere sporco e la bottiglia del latte vuota sul tavolino lì davanti. Briciole dappertutto. Un senso di disfatta e di schifo le attraversa la pelle come un’onda. È sempre lei, quella. Ora si vede riflessa in quello specchio di vita inutile, sprecata per una ragazza di vent’anni. La stanza è ancora semibuia, evidentemente i genitori sono usciti molto presto per andare al lavoro e non hanno fatto in tempo nemmeno ad alzare le persiane. Tira su col naso. L’odore di chiuso e di sporco le penetra nelle narici. L’istinto è quello di continuare la sua camminata verso la cucina, aprire il frigo e ingozzarsi di qualunque cosa le capiti a tiro, come sempre. Se si trattasse di uno sport, vincerebbe la medaglia d’oro. Ma mangiare continuamente giorno e notte, non può essere considerato uno sport. Da mesi non sa più cosa voglia dire avere una sana sensazione di appetito. Il suo stomaco lavora in continuazione e non fa in tempo a svuotarsi. “Da quando mi sono ridotta in questo modo? Da quanto tempo ho perso contatto con la realtà?” Si ferma nuovamente davanti a quello specchio e, questa volta, accende la luce per guardarsi meglio. La figura che le ritorna è quella di una donna di età indefinibile, sicuramente più vecchia dei suoi vent’anni, con il viso gonfio, pieno di brufoli, le occhiaie. Il corpo un’unica chiazza di colore di stessa portata da su in giù. Non s’intravede neanche un piccolo distacco tra il tronco, la vita e le gambe, neanche una luce. Un’ombra gigantesca e informe. Questa è lei. È lei quella ragazza che solo cinque anni prima aveva vinto le gare di ginnastica artistica a scuola; la stessa che era arrivata terza al concorso di Miss Muretto nell’estate di sei anni prima. Cosa le è successo? Sembra come ato uno tsunami, come se un estraneo si sia impossessato del suo corpo. Non è lei, non può essere lei. Da quando era nata Enrica, dieci anni prima, i suoi genitori erano cambiati nei suoi confronti. All’inizio, quando lei si arrabbiava con sua sorella, loro le dicevano che lo faceva per gelosia, che doveva essere più rispettosa di una
bambina piccola. Man mano che gli anni avano si era resa conto che la sua gelosia aveva una ragione d’essere. Di lei non si occupavano più. Qualunque voto prendesse o qualunque gara vincesse, lei aveva semplicemente fatto il suo dovere. Mentre Enrica veniva incensata per ogni minima cosa. Ormai è convinta di essere stata sostituita nell’affetto dei genitori dalla sorella. Ma nonostante tutto non riesce ad odiarla. Da allora quella rabbia, quell’odio lo continua a riversare solo su di sé. Si guarda ancora una volta intorno: i segni di uno sfacelo, di una disfatta totale: gli stessi stampati sul suo corpo. Prende la bottiglia del latte e ne beve una sorsata a garganella. Poi apre la dispensa alla ricerca di dolciumi. Trova il ciambellone di sua madre, ne taglia una prima fetta e se la ingozza lì in piedi, così come si trova, senza neanche richiudere la credenza. Poi ne taglia una seconda e una terza. Alla fine si sente esausta, in tutti i sensi. È esausta del suo modo di mangiare, della sua casa, della bilancia, dello specchio che le rimanda una figura che non le piace. Si sente esausta di sua madre che continua a dirle che fa schifo, di sua sorella che è magra e bellissima. Di suo padre che non c’è mai e quando torna neanche le si avvicina. Va in bagno e rovista nei cassetti dove sa che la madre tiene i tranquillanti. Non vuole morire, vorrebbe solo dormire per un po’ e far prendere uno spavento a tutti. Con la scatola in mano torna in cucina. Poi prende un bicchiere e si avvia verso il mobile dei liquori. Apre una bottiglia di cognac e ne versa un bel po’ nel bicchiere. Si siede su quel divano sfatto e sporco. L’odore forte del liquore le dà la nausea, ma chiude gli occhi e manda giù tre, quattro pillole con una sorsata. Ha un conato, le hanno sempre fatto schifo i liquori. Ne prende un’altra manciata, non le conta neanche più, sta per mandarle giù, ma poi qualcosa la blocca. Un guizzo negli occhi, un ricordo lontano e un po’ appannato la ferma in quella strana posizione innaturale, una gamba sul bracciolo e l’altra in terra. Quell’estate al mare di cinque anni prima, una sensazione di gioia, di leggerezza. “Che bello il mare, il profumo che m’inebria i sensi, le corse sulla spiaggia, i bagni tra le onde… se solo dimagrissi un po’, potrei rimettermi in costume.” Pensa con un po’ di nostalgia. Suonano alla porta, di colpo si alza con il cuore a mille. Sbanda, poi si riprende e trascinando i piedi arriva lentamente alla porta d’ingresso. Apre lo spioncino e appoggia l’occhio destro, sempre quello. E lo vede. Sì, è proprio lui, il suo vicino. E sta suonando proprio alla sua porta, quindi è lei che cerca. Non apre, non può farsi vedere in queste condizioni, ma adesso
lui è lì. E questo è molto bello. La testa leggera, un po’ fluttuante e d’improvviso una strana calma. Non può continuare così. Le prende d’un tratto come un’energia nuova. Decide che la sua vita deve cambiare e che solo lei può farlo. Torna verso la sua camera e spalanca le finestre. Poi si dirige verso il bagno, si spoglia e si mette sotto la doccia. L’acqua bollente le scivola sulla testa, sul corpo, lavandole i pensieri, dandole un senso di sollievo. Rimane lì per una buona mezzora, strofinando il corpo vigorosamente. Esce, si asciuga e rimane davanti allo specchio a osservarsi, cercando di prendere consapevolezza di ogni piccola parte del suo corpo. Si asciuga i capelli e si trucca accuratamente. Poi cerca nell’armadio qualcosa da mettersi addosso e ancora una volta si rende conto che nessun vestito può starle bene. S’infila i soliti pantaloni neri e un maglione largo sopra. Si dirige verso la scrivania e rovista nel cassetto alla ricerca di un foglietto che aveva trovato sul parabrezza almeno un mese prima e che ha conservato. Compone il numero del centro e una voce rassicurante le risponde. Selene si fa coraggio e le chiede un appuntamento subito, perché non può aspettare neanche un giorno. La signorina, abituata a quel tipo di richieste d’aiuto, le fissa un appuntamento con la dietologa per le dieci quella mattina stessa e con la psicologa alle sedici. Ringrazia e si affretta verso la porta. Non vuole fare tardi, ha già perso troppo tempo. È certa che questa sia la strada giusta, l’unica possibile. Fuori c’è il sole e l’aria inizia a profumare di primavera.
Il nulla fatto materia, impalpabilmente di Andrea Leonelli
Persone come nebbia fili di fumo che si intersecano in spazi diversi in altrove paralleli senza corporeità senza la possibilità di completa fusione di personalità e storia perdendo i confini del sé arricchendosi della storia dell’altro. Diffusi e flebili come fili di vento come ragnatele di luce unione singole o multiple da cui derivano costrutti nuovi stati quantici inediti particellarità ancora ignote con vite talmente inconsistenti da annullarsi semplicemente
nella non essenza. Il nulla fatto materia, impalpabilmente.
Il riflesso del mondo di Anna Ciraci
Tratto dal blog Anna Ciraci
La luna risplende nell’oscuro universo. Le stelle brillano dentro l’infinito incostante del buio profondo e lontano, in un punto impreciso dell’inesauribile, si distinguono due emisferi perfettamente uguali. Tagliati in due da una linea sottile come se nel mezzo asse uno specchio sottile che offre al di sotto la parte di sopra o forse al di sopra la parte sottostante, non è chiara la dinamica dell’assoluta somiglianza fra questi mondi, fatto sta che ogni angolo del primo combacia perfettamente con l’altro, ogni monte, ogni rientranza, i frastagliamenti e persino ogni singolo albero, tutto uguale. Anche gli abitanti. Per ogni singolo cittadino esisteva un suo pari nell’altro creato. Immaginate che attrito fra i due mondi? Un giorno non definito tutti gli abitanti di entrambi i mondi s’incontrarono col proprio pari sulla linea sottile di confine. Uno di fronte all’altro per dimostrar a se stesso chi fosse il riflesso dell’altro. Miro, quello col tic all’occhio destro dell’emisfero di sopra, combatteva contro Miro, quello col tic all’occhio destro dell’emisfero di sotto. Bastio, cui mancava il dito medio della mano destra dell’emisfero di sotto si ritrovò davanti Bastio, cui mancava il dito medio della mano destra dell’emisfero di sopra. Lentigginoso dell’emisfero di sopra, chiamato così fin dai tempi della scuola tanto che nessuno ricordava più il suo nome, prendeva a pugni Lentigginoso dell’emisfero di sotto. “Il Bel Del Paese” di sotto contro “Il Bel Del Paese” di sopra… A mani nude, senza differenze combatterono uno contro l’altro, fino allo stremo. Nessuno cedeva alla stanchezza dei colpi e nessuno cadeva sconfitto. La guerra non accennava una fine.
I capi dei due mondi rimasti a guardare in disparte, fino ad allora, decisero di scendere in campo a loro volta, ma senza esclusioni di colpi. Scesero in campo con cannoni e fucili, gli archi e le frecce sempre e solo per dimostrare chi di loro era solo il riflesso dell’altro, puntarono ogni arma che fossero riusciti a inventarsi sopra la linea sottile che dava il confine a quei mondi e cominciarono il conto alla rovescia. Tutti si scostarono dalla linea sottile di confine con l’assurda idea che cancellata la linea anche il mondo riflesso svanisse con lei, rimasero lì a guardare in trepida attesa. “Dieci, nove, otto”… quando d’improvviso un solo abitante si frappose tra la linea sottile e i cannoni puntati. Era il solo unico esemplare che si fosse mai visto. Il silenzio era tombale anche il conteggio s’era fermato per cercar di sentire cosa avesse da dire: “Io non vengo né dal mondo di sotto né dal mondo di sopra. Sono nato sopra questa linea ed ho vissuto sospeso e nascosto fino ad oggi. Non ho una madre, e non ho un padre. Non ho neppure un pari su cui potermi appoggiare. Son solo al mondo! E vi assicuro che non esiste né in questo né in quel altro mondo qualcosa di peggio che esser da soli. Questo è solo uno scempio! Tornate a vivere col pensiero felice che in un altro mondo ci sia qualcuno capace di capir cosa voi siete e anziché voler esser unici, siate contenti di saper che qualcuno possa guardarvi e conoscere cosa dentro provate.”. Fu così che finì quella guerra e i due mondi si mischiarono assieme riuscendo a capir cosa mancava.
L’altro (d)io di Stella JoLì
All’inferno! È lì che finirò, ne ho la certezza. E la colpa è tutta dell’altro (d)io e di quella maledetta porta che continuo ad oltreare con deprecabile nonchalance. Pensare di smettere di farlo è mera utopia poiché il richiamo di ciò che si trova al di là è diabolicamente grande. Talmente irresistibile da farmi dimenticare per quei deplorevoli istanti tutte le cose belle che lascio momentaneamente al di qua. La ‘normalità’ della mia vita travolta da un’attrazione inconcepibile, da un ‘peccato’ impossibile da lavare. La mia anima destinata a bruciare per sempre, lontano da Colui nel quale vado dicendo in giro da anni di credere. Due esistenze parallele le mie. Una alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti: padre, marito, e fedele. Credente in un Dio al quale mi rivolsi, per mezzo di quel suo nuovo servitore, per chiedere perdono dei pochi innocenti peccati accumulati in una settimana qualunque. Fu un altro (d)io quello che invece trovai in quel confessionale. Venne messa alla prova la mia fede, fu tentata una parte di me che non sapevo di avere. Nel silenzio di quel luogo sacro varcai quella soglia, in una sorta di trance, e venni scaraventato in un mondo fatto di perdizione ed estasi, peccato e godimento, Inferno e Paradiso. E lui, con quella sua maschera da prete, che porta ai fedeli la parola di quel Dio che sposò, e che ora tradisce senza alcun timore concedendosi carnalmente all’altro (d)io. Non so spiegare dove io riesca a trovare la forza di vivere la mia vita ‘normale’ senza essere spazzato via dalle nefandezze della mia vita ‘diversa’. Né tanto meno come faccia lui a continuare a vestire quei sacri abiti. Un altro (d)io si è impadronito della mia vita e l’ha cambiata, rivoltata e gettata nella polvere. Finirò all’inferno, lo so, ma non posso cambiare il mio destino: continuerò a pregare il Dio nel quale credo, ma non posso fare a meno di varcare quella porta oltre la quale vive l’altro (d)io. Finirò all’Inferno, lo so. E con me don Stanislao…
L’importanza dei legami di sangue di Anita Rudcliff
L’ingegner Furbizia aveva sempre creduto che un uomo con un cognome così impegnativo dovesse essere sempre all’altezza del casato che rappresentava. E forse per questo, o piuttosto per il fatto che l’uomo è uomo solo se è in grado di dimostrare la sua virilità in senso stretto, o meglio, questo è il pensiero corrente di molti esseri facenti parte del genere maschile (non me ne vogliano i lettori), soprattutto di coloro che hanno abbandonato lo sviluppo delle funzioni celebrali in favore di quelli che scientificamente definiremo organi riproduttivi… Insomma, per una ragione o per l’altra, questo signore aveva avuto la brillante idea di frequentare due rispettabili fanciulle in due diverse regioni, a seconda degli impegni che il suo lavoro gli garantiva. E, siccome la virilità, se non è accompagnata da precauzioni e accortezze, spesso porta inconvenienti del peso medio alla nascita di 3 o 4 chili a seconda del sesso e del corredo genetico, il nostro signor Furbizia, colto in flagranza di reato, era stato costretto a onorare i suoi impegni con le suddette signorine: precisamente in una di queste occasioni, si discuteva col futuro suocero in modo alquanto amletico, riguardo un’utopica scelta tra la virtù di sua figlia e la virilità del futuro genero, scelta che non vide sollevare alcuna obiezione da parte di colui che inizialmente si era presentato come parte offesa, ma che di fronte all’ipotesi di una perdita degli attributi aveva tacitamente acconsentito a salvaguardare la virtù della fanciulla in questione, che chiameremo Rosa per questioni di privacy. Signorina che era subito corsa a provarsi l’abito del matrimonio di sua madre, non prima di aver negato per ben tre volte al padre di aver preso parte in modo consenziente all’amplesso che aveva portato le siffatte rotondità che ora facevano bella mostra di sé sopra quelli che una volta erano addominali. Al contrario invece, nel caso della seconda signorina, che per la cronaca chiameremo Linda, gli accordi prematrimoniali furono stipulati con una stretta di mano e un rito molto singolare: infatti genero e suocero dovettero siglare un patto di sangue con tanto di lesione della parete superficiale dell’epidermide e trasfusione di sangue sul santino di Maradona ai tempi dei mondiali dell’86.In questo caso, l’ingegner Furbizia non manifestò mai alcuna ragione che non prevedesse l’assenso e il consenso illimitato nei confronti di suocero e prole, e per questo motivo non ci fu mai alcuna discussione in merito all’unione con la
signorina Linda. Viene da sé pensare che la vita per questo pover’uomo che doveva fare la spola tra due donne, due famiglie e soprattutto due suoceri, non era affatto facile. Eppure a dispetto delle previsioni più cupe, l’ingegner Furbizia era riuscito ad intessere una serie di bugie architettate ad hoc per far fesse e contente le mogli e soddisfare pienamente il resto del parentado. Viveva dunque queste due realtà parallele con semplicità, seguendo la rigida tabella che la sua quotidianità richiedeva affinché ogni impegno trovasse il perfetto incastro durante lo scorrere della giornata. Il fatto di avere due studi da seguire in due città diverse e abbastanza lontane tra loro gli forniva tra le altre cose l’alibi perfetto per giustificare la sua poca presenza in famiglia. Quindi, una settimana si e una settimana no, era il marito esemplare di Rosa o di Linda, a seconda dei turni. Tutto filava liscio come l’olio finché un bel giorno Rosa sentì il bisogno impellente di fare una sorpresa all’ingegnere. Lui odiava le sorprese, ma lei era così devota e innamorata che almeno per il suo compleanno doveva sempre radunargli l’intera parentela (compresi zii, cugini e familiari vari fino al quarto grado) per festeggiare in modo degno il meraviglioso uomo che aveva sposato e farlo conoscere a tutti i componenti della famiglia. Fu così che, quando il Furbizia tornò a casa, trovò ad aspettarlo Linda, Rosa e tutta l’allegra combriccola con i coriandoli e le stelle filanti. Ebbene sì, Linda era una cugina acquisita di Rosa da parte della moglie dello zio del fratello del nonno di suo cugino di terzo grado, venuta apposta dal sud per fare la conoscenza di questo cugino acquisito di cui tutti le avevano tanto parlato. Certamente in tutto questo la sua buona parte di colpa l’aveva il Furbizia stesso, che, per evitare di confondere le due mogli al telefono, aveva fatto in modo di ricevere le telefonate di Rosa solo alla sera, mentre quelle di Linda le accettava solo al mattino. Se fosse stato meno preciso, meno accorto, avrebbe saputo dai vari messaggi che sua moglie (Linda) gli aveva lasciato in segreteria, che una festa a sorpresa rischiava di minare irrimediabilmente l’equilibrio che negli anni aveva affinato nel gestire questa bizzarra quanto singolare situazione. Il resto ve lo lascio immaginare, anche perché sono incline allo svenimento quando vedo, o anche solo parlo, di sangue . Quale morale contiene questa breve favola moderna? Qual è l’insegnamento che dobbiamo trarne? Forse che non si può stare con un piede in due scarpe? Forse che la bigamia è peccato mortale ed è punita da Nostro Signore? O che le bugie hanno le gambe corte?
Niente di tutto ciò, miei cari signori, c’è qualcosa di ben più importante in tutto questo: mai, e ripeto mai , sottovalutare l’albero genealogico!
La realtà è ciò che si vede? di Anna Ciraci
Per definizione la parola Realtà significa tutto ciò che esiste, eppure non sempre possiamo vederlo. Spesso ci capita di vedere qualcosa e dargli un’interpretazione che non corrisponde all’interpretazione di un’altra persona, allora delle due qual è la realtà corretta? Vorrei raccontare un piccolo aneddoto, giusto per spiegare la natura delle mie domande: Era una domenica pomeriggio, avevo sedici anni e mi trovavo in discoteca con la mia migliore amica. Non ero una grand’amante delle disco, la “musica” di quel tempo non rientrava proprio nel genere musicale che più preferivo, diciamo che ero più portata per il vecchio classico rock e non per quel “tuncha- tuncha meccanizzato e ripetuto all’infinito” lo chiamavo così giusto per render l’idea di quello che mi stava riempiendo le orecchie, ma mi ci ero trascinata di prepotenza, consentitemi la forma, solo ed esclusivamente per quel ragazzo che mi toglieva il fiato ogni volta che mi ava davanti. Incrociato il bello del momento, lo presento alla mia amica la quale mi fa un occhiolino di grande ammirazione per la scelta. Due chiacchiere sciolte, giusto per non dar proprio a vedere che strascico per lui e poi ci separiamo. Dopo circa una mezz’oretta lascio l’amica per andare “a rifarmi il trucco”, ebbene sì io in bagno ci vado da sola. Nell’uscire dal… preferirei non definirlo, vedo il suddetto e la mia amica fare movimenti sinuosi con la testa, uno appiccicato all’altra. Ora la mia amica era un po’ nascosta dalla sua altezza, però il suo maglione rosa shocking luminescente sotto le luci psichedeliche si vedeva benissimo.
Io che allora non avevo mezze misure, per la serie se stai con me allora sei degna di starmi affianco, se sei contro di me allora non esisti, mollai entrambi e me ne andai. Inutile aggiungere che non vidi più né lui né tanto meno lei. Ora torniamo indietro solo per un attimo a quel bacio maledetto, e supponiamo solo per un secondo che la porta di quel bagno fosse totalmente dalla parte opposta e che io invece di vedere i due che si baciavano scorgevo lei che gli soffiava dentro un occhio perché, nell’uscire al vento, gli era entrato qualcosa e gli dava fastidio, nel frattempo che soffiava dentro l’occhio sofferente decantava anche la meravigliosa persona che sono. Quel che è certo è che non avrei perso un’amica e magari mi sarei pure trovata il moroso, e magari oggi sarei sposata con lui, o forse sarebbe scemato in un bacio senza alcun coinvolgimento e quindi delusa sarei potuta partire per i Paesi Bassi per sposarmi la mia amica… Ci sono realtà che si vedono e quelle alternative che si potrebbero vedere se solo avessimo l’opportunità di guardarle sotto tutti i punti di vista. Alla fine qual è la realtà?
La scelta è il mio destino di Anna Cibotti
… non posso vedere lo sguardo se gli occhi sono un’orbita vuota.
La primavera faceva timidamente capolino tra gli alberi ancora nudi coprendoli di una leggera peluria verde e il prato vestito di tenere margherite faceva brillare al tiepido sole l’erba umida del primo mattino. Attraverso i vetri guardavo. All’improvviso in lontananza, intravidi un ragazzino biondo. Camminava verso la casa, lentamente e con le braccia allargate sui fianchi e le mani socchiuse quasi a tenere altre mani tra le sue. Accanto a lui due piccole figure indistinte, una per ogni lato, seguivano i suoi i come piccole ombre. Volli alzarmi dalla poltrona per avvicinarmi alla vetrata e vedere meglio, ma un peso enorme me lo impedì. Rimasi immobile a scrutare stringendo gli occhi in uno sforzo inutile. Mentre avanzava il ragazzino cresceva di statura e il suo viso cambiava. Le due bolle grigie rimanevano piccole, tanto che le sue braccia per tener loro quelle mani immaginarie, si avvicinavano sempre più al corpo nel tentativo di non lasciarsele sfuggire. Non riuscivo a muovermi, e una strana sensazione di paura mista a curiosità mi fece tremare le labbra. Il ragazzo cresceva… non era più un ragazzo. Era un uomo ormai. I suoi capelli erano più scuri e il viso aveva l’ombra della barba. Era ormai in prossimità della veranda quando lo riconobbi.
Era Lui, mio figlio. Stava davanti a me con le due forme, mobili e piccolissime in confronto a lui così alto, ormai ai suoi piedi. Sentii aprire la porta e mi girai. “Ciao mamma” Sentii la voce ma non c’era nessuno. Mi colse un brivido di freddo e guardai fuori. Il giardino era bianco, coperto di neve e da un cielo ferroso. Lo sconforto e la desolazione coprirono la mia mente e il corpo quasi a soffocarmi. Questa era la realtà di solitudine e abbandono che io stessa mi ero creata. Pensai a mio figlio che mi veniva incontro tenendo per mano quelli che avrebbero potuto essere i suoi fratelli. Fratelli mai nati. Il rimpianto consuma più del rimorso di aver fatto scelte irreversibili. E mentre lo sentivo come un macigno sul petto, provai a piangere. Di colpo mi trovai sulla spiaggia. Tre cavalli bianchi volavano nel vento facendo danzare le criniere come veli trasparenti. Il tempo di vederli e qualcuno mi afferrò di colpo e con forza. Mi ritrovai in sella stretta alla cintola da un forte abbraccio. Mio figlio mi aveva perdonata e mi portava con lui? Davanti a me gli altri due cavalli avevano in groppa due ragazzi. Ne vedevo la nuca e le gracili spalle. Avrei voluto leggere nei loro occhi la comione, ma non si voltarono mai. Guardo i binari che paralleli si perdono fino a sembrare uno solo. Ma non si toccheranno nemmeno. Staranno fianco a fianco per un tratto e si allontaneranno, ognuno per una direzione diversa.
Guardo quello che ho scelto e comincio a camminare. Da sola.
Lo specchio delle brame di Christiana V
In ognuno di noi esiste un posto speciale dove sono racchiusi tutti i sentimenti più semplici e puri, uno spazio segreto in cui raccogliamo le emozioni assimilate per ogni esperienza vissuta. Quel luogo nascosto in ogni essere umano si chiama cuore. Non è solo il muscolo che batte e ci tiene in vita. È una bolla tanto fragile quanto solida che accoglie ogni conoscenza e cresce adeguatamente per poter contenere il bagaglio di un’intera vita. Era quel cuore che Dario amava di Giada, così forte e al tempo stesso delicato, che comprendeva tutto e tutti, che donava incondizionatamente amore senza chiedere nulla in cambio. La loro era una magnifica storia fatta di affetto, stima e fiducia. Una storia che durava da anni ormai, ma sembrava appena nata. La grande tenerezza che provavano l’uno verso l’altra suscitava invidia, ma loro, da sempre avvolti nelle calde coltri dell’amore, non ne venivano mai colpiti. Una vita perfetta. Un amore perfetto. Una donna perfetta. “Dovresti smetterla.” “Non ci riesco” sussurrò Dario col sorriso sulle labbra. “Finirai per impazzire.” “È possibile” rispose continuando a fissare la loro immagine riflessa nello specchio. “Sai da quanto tempo ti stai contemplando?” Dario scosse appena il capo in segno di diniego. “No, ma non m’importa. Giada è bellissima.”
La bionda giovane dal dolce sorriso gli rispose stringendogli una mano e gli poggiò la testa sulla spalla. “Oh sì” esclamò Dario con lo sguardo fisso sulla donna al suo fianco. “Credo che potrei anche morire dalla felicità.” Chiuse gli occhi solo un istante e non li riaprì più. I macchinari che lo tenevano in vita da quando aveva subìto l’incidente stradale presero a suonare. “Pressione in calo.” “Defibrillatore, presto!” “Uno. Due. Tre. Libera… Uno. Due. Tre. Libera… Uno. Due. Tre. Libera…” Il bip senza interruzioni fece da sottofondo al medico che decretava l’orario della morte dell’uomo. “Sarai soddisfatto, immagino.” Dario guardò Giada e sorrise. “Moltissimo!” Abbracciò la sua amata e si avviarono mano nella mano. Guardando la coppia allontanarsi, lo specchio sospirò. Quanto era falsa la sua esistenza, un continuo riflesso dei desideri più reconditi degli uomini, che bramavano più di ogni altra cosa di veder realizzati i propri sogni. Grazie a loro costruiva interi mondi, donava fittizie realtà, elargiva bellezze inesistenti e creava false speranze. Anche quella volta lo specchio delle brame aveva ottemperato al suo compito, dando origine a un’altra realtà parallela. Lentamente si oscurò e attese la prossima vittima.
Lucky Strike! Di Sauro Nieddu
Claudio sedeva vicino alla porta del supermercato. Il culo poggiato sul nudo asfalto. Una donna sulla cinquantina, capelli bianchi, trasandata, si accostò all’ingresso. Claudio sfoderò il suo sorriso migliore. “Signora… qualche spicciolo, oggi non ho ancora pranzato…” “Per te non ne ho!” rispose lei brusca “Tanto lo so che voi ci comprate la droga!” “Ma no signora…” replicò Claudio cercando di non far trapelare l’ironia nel sorriso “Si figuri… se vuole, può prendermi un panino, e mi da quello invece dei soldi…” “Vediamo…” Rispose ando oltre frettolosamente. Da quando aveva perso in rapida successione lavoro e casa, per Claudio si era aperta la porta per una dimensione parallela. Ora faceva parte di quell’umanità cui prima di allora non aveva mai attribuito un volto. Vaghe figure agli angoli di strada, con la mano tesa a carpire una moneta. Ora che era ato dall’altra parte, erano gli altri a non avere più un volto, e quelli che prima erano fantasmi, erano diventati improvvisamente importanti. Erano le uniche persone importanti. Quelle con cui condividere una bottiglia di vino, la sera, e con cui accordarsi: “Se il tabacchino vicino alla stazione lo prendi tu, io mi faccio il mercato civico…”. La donna burbera uscì dal negozio, prese un incarto dalla busta e Guardando severamente Claudio, glielo porse. “E trovati un lavoro!” “Fosse facile signora nessuno ci prende a lavorare, noi poveracci… la ringrazio davvero, mi ha allietato la giornata!” Faceva quella vita da poco più di una settimana, ma si sentiva come se fosse nato
e cresciuto in strada. L’essere umano ha una notevole capacità di adattamento. C’erano stai quei primi due giorni abbastanza duri, ma aveva capito in fretta come muoversi. E ora si sentiva bene, spendeva la mattinata a tirar su un po’ di soldi – quindici, venti euro, si raccattano in un paio d’ore – e il resto del tempo era libero da pensieri ingombranti. Il suo migliore amico, Duilio, conosciuto appena cinque giorni prima, gli aveva fornito due insegnamenti importanti e a quanto pare non c’era nient’altro da sapere per vivere bene. Il primo: “Quando chiedi soldi, fallo sempre col sorriso, la gente ha ribrezzo della sofferenza”. Il secondo: “Da qualunque parte ti corichi, fai sempre in modo di avere un bello strato di cartone sotto di te”. Quella mattinata, in ogni caso risultò particolarmente proficua, trentacinque euro e due panini. Il resto della giornata era per goderseli (i soldi, i panini erano già digeriti). Claudio si avviò alla piazza dove si riunivano gli studenti, almeno quelli che preferivano stare in piazza che non studiare. Comprò qualche canna d’erba a un pusher studente con cui aveva fatto amicizia, qualche birra al negozietto all’angolo, che le teneva sempre in fresco, e ò la serata a rilassarsi e conoscere gente nuova. ò le ultime ore della serata – le più piacevoli in assoluto – in compagnia di un’universitaria alternativa che nella sua “altra vita” non se lo sarebbe filato neanche di striscio. Puzzava da far schifo, ma c’erano ragazze che non sapevano resistere al sorriso vissuto di un uomo di strada come lui. E finalmente venne l’ora del meritato riposo. Claudio si diresse con calma all’ospedale psichiatrico abbandonato in cui aveva preso dimora da qualche giorno. Un posto perfetto per chi non avesse paura dei fantasmi… asciutto e con enormi cataste di calde coperte, anch’esse abbandonate. Appena arrivato, sistemò i suoi pochi averi. Stanco, ma soddisfatto come un emiro nell’harem, si sdraiò su un cumulo di coperte infeltrite ad attendere il sonno. Gli occhi erano già chiusi da un po’, ma il sonno non aveva ancora preso il sopravvento sulla veglia, quando la stanza dove si trovava Claudio s’illuminò di una luce abbagliante. Lui aprì gli occhi, infastidito, e si trovò davanti una figura eterea che pareva composta da luce purissima, luce verde smeraldo, quasi abbagliante. Claudio si strofinò gli occhi, si chiese se per caso non stesse già sognando, poi scacciò quest’idea e si limitò a fissare la figura luminosa con gli occhi socchiusi e la bocca spalancata. “Non temere Claudio” disse la figura. Ma Claudio non era per niente spaventato.
Come avrebbe potuto impaurirsi davanti a quella forma angelica, a quella voce che suonava come l’essenza della musica? “Che diavolo…” “Claudio, non temere… non voglio farti del male, sono qui per portarti la salvezza…” Claudio pensò tra sé e sé, o almeno ci provò, dato che in realtà a causa del sonno e dello stupore lo disse ad alta voce. “Buon Dio… che sia un angelo?” “No Claudio, lascia che ti spieghi. Io sono un essere al di fuori della tua dimensione… il nostro popolo, tu lo definiresti così, si trova al di fuori del vostro multiverso, e da fuori governa le innumerevoli razze che lo popolano, attraverso l’infinito numero di probabilità che esso abbraccia. Alcuni di voi ci chiamerebbero Dei, ma ti assicuro, Claudio, non lo siamo…” Claudio, benché a quel punto si sentisse un pochino in soggezione, non riuscì a evitare che la sua domanda risuonasse spontanea. “Che vuoi da me?” “Niente…”mormorò la luce in una cascata di note armoniose “Ho solo da darti un lieto annuncio. Il nostro popolo (scusami ma nella tua lingua non esiste un modo migliore per definirlo) si è reso conto che si era creato, all’interno del vostro continuum multiplo, un piccolo squilibrio. Perciò abbiamo deciso di utilizzare il quanto di probabilità in avanzo, per indire la prima edizione della lotteria multiversale. Tu, Claudio, sei il prescelto!” Claudio sentì il cuore perdere qualche battito… in tutto l’universo, tra tutte le realtà parallele possibili… era toccato proprio a lui questo colpo di fortuna. “E qua qua quale sarebbe il premio?” Domandò in preda all’emozione. La figura di luce, in qualche modo – difficile da spiegare, dato che non aveva occhi – ammiccò. “Avrai ciò che tutti sognano, in qualunque pianeta, e in qualunque realtà: avrai
una seconda chance!” Detto questo la luce svanì, e per un attimo Claudio si trovò immerso nell’oscurità. Poi si svegliò al suono insistente della sua sveglia. Strana sensazione, quella di svegliarsi senza neppure essersi addormentati. Eppure era appunto questo che gli stava succedendo… e c’era anche un’altra sensazione, ancor più strana, che lo pervadeva completamente. Nella sua mente c’erano dei nuovi ricordi. Sapeva, per esempio, che al suo fianco dormiva Elena, la sua ex… in quella realtà non aveva mai scoperto il suo tradimento e avevano finito per sposarsi. Sapeva anche che nell’altra stanza dormivano Martina, di otto anni, e il suo fratellino Roberto, di cinque, i loro due bambini… sapeva che quel giorno, non sarebbe stato licenziato dall’ufficio, ovvio… ora aveva una famiglia da mantenere, delle RESPONSABILITÀ, per cui era escluso che reagisse agli sfottò del suo capo mandandolo a cagare come aveva fatto nell’altra vita. No, sapeva che avrebbe continuato a incassare, e la sveglia avrebbe continuato a squillare alle sei del mattino per tanti, tanti anni ancora… fino a che gli avrebbero dato una pensione da fame, e lui troppo decrepito e incapace di godersela… Si alzò dal letto silenziosamente per non svegliare Elena e si diresse verso il bagno. I sudori freddi gli imperlavano la fronte. Chissà se una bella doccia gelata avrebbe posto rimedio a quell’incubo.
L’infinito si moltiplica di Andrea Leonelli
Universi paralleli si aprono nella mia mente. Li creo coi miei sogni la mia volontà trascende il possibile. Il mio gatto è vivo, è morto ed è anche fuggito è nascosto nelle pieghe dello spazio-tempo potenziale gioca coi miei desideri come con un gomitolo fatto delle mie lacrime versate, non versate e ritenute asciugate da te, da te e da mille altre te. Nella mia mente l’infinito si moltiplica.
Non sento di sca La Froscia
Non sento le tue mani sui miei pensieri. Si sono allontanate senza saluti verso lo spazio astruso. Non sento la tua mente sul mio profumo. S’è stretta senza argomenti a materia nuova. Quant’è labile il tempo della verità contemplata.
Occhi blu di Massimo Licari
Allora, fatemi raccontare questa storia. Ultimamente mi avete bistrattato fin troppo! È vero, a volte esagero quando ho bevuto un goccio, e qualche volta ho raccontato qualche panzana. Ma questa volta la storia che voglio raccontarvi è vera, lo giuro su quanto ho di più caro: il boccale in peltro marcato Guiness. È successo tutto qualche giorno fa. Beh, forse qualche settimana fa. Ma in fondo, che importa? La vidi seduta al bar Livio. Si, quello dove ho il conto aperto. Se non avessi avuto tre birre medie nello stomaco, probabilmente non mi sarei nemmeno accorto di lei. L’alcol in corpo ha un effetto strano su di me: acuisce i sensi e stimola la curiosità. Soprattutto attenua molto la mia tendenza ad isolarmi, facendomi diventare audace e disinvolto. Lei sembrava fuori posto, con lo sguardo perso nel vuoto e una mezza tazzina di caffè abbandonata davanti a sé. Non era solo lo sguardo, ma tutto l’insieme che la rendevano sfuggente, quasi vacua. Eppure non era una brutta ragazza, tutt’altro. I lineamenti regolari, gli occhi color del cielo e le labbra rosse che ogni tanto si mordicchiava, la rendevano attraente, ma nessuno sembrava accorgersi di lei. Se ne stava lì, apparentemente disinteressata a qualsiasi cosa la circondasse. La fissai a lungo, ma lei non sembrò accorgersi del mio sguardo che si poggiava sul suo viso, che le sfiorava la pelle abbronzata, che accarezzava le sue labbra e che si soffermava sulle mani che continuava a stropicciarsi. Più la osservavo e più dovevo riconoscere che era davvero bella. Certo, c’erano già tre birre in pancia, e la quarta stava cominciando a far
compagnia alle altre. Ma l’alcol non mi ha mai tradito in fatto di ragazze. Non ricordo di essermi mai svegliato accanto a una ragazza che non mi pie almeno un po’. Ammetto, molte volte non sapevo come c’ero finito in quel posto e, soprattutto, non ricordavo cosa fosse successo la sera prima. Ma ho sempre pensato che ritrovarmi la mattina nel letto di una ragazza fosse un indizio piuttosto evidente di quello che poteva essere successo. Si, a volte penso di essermi perso alcuni pezzi della mia vita, ma questo è un altro discorso e non è di questo che voglio parlarvi. Torniamo a quella sera. Pensai che stesse aspettando qualcuno, forse il suo ragazzo. Del resto che cosa ci fa una ragazza sola in un bar di sbevazzoni alle undici di sera? Finii la quarta pinta di birra, ma nessuno si era ancora presentato al tavolino di quella che avevo ormai battezzato Occhi blu. Decisi in quel momento che non si poteva lasciar sola una ragazza così. Non è giusto. Così ordinai la quinta bionda e mi avviai, barcollando un po’, verso di lei. “Posso sedermi?” le chiesi. Lei sussultò per la richiesta inaspettata e mi fissò muta. Se avessi avuto un tasso alcolico più basso, mi sarei voltato e sarei tornato al banco, consolandomi con quanto era rimasto nel boccale. Ma, come dicevo, in quelle condizioni divento audace. Così la fissai a mia volta, come se fossimo i finalisti della gara “vediamo chi abbassa lo sguardo per primo”. Non vinse nessuno dei due, ma lei fece cenno con la mano che potevo accomodarmi, cosa che non mi feci ripetere due volte.
“Mi chiamo Daniele” le dissi allungando la mano. Lei la strinse, senza particolare vigore, ma senza nemmeno farmi pensare che mi avesse porto una mozzarella invece che una mano. Non disse nulla, ma continuò a fissarmi. “Scusami se mi sono preso questa libertà” cominciai a dire, “ma ultimamente sto cercando di essere un credente più convinto e ho pensato che avrei commesso un peccato mortale lasciando una così bella ragazza tutta sola in questo postaccio”. Dissi tutto questo in un fiato, senza nemmeno biascicare. Volevo colpirla, dare l’impressione di essere uno simpatico, capace di far ridere le ragazze. Del resto sono molte a sostenere che l’uomo ideale è quello capace di farle ridere. Ma lei continuò a fissarmi, come se avesse avuto di fronte a sé una scimmia impertinente. Sarei dovuto andar via, ma era una scommessa con me stesso e non avevo intenzione di pagare. Così, con la stessa aria di uno che ha appena imbucato tre palline nelle buche di un bigliardo, continuai. “Aspetti qualcuno?” Nessuna risposta “Posso offrirti qualcosa da bere?” Né sì né no. E così via, domande a raffica e risposte zero. Alla fine mi battei una mano sulla fronte, colpito da un’improvvisa folgorazione. “Ma capisci la mia lingua?” Fu a quel punto che lei rispose con un sommesso “Si”.
Mi commossi. Aveva finalmente risposto! A quel punto le mie chance di riuscire a rimorchiarla secondo me erano notevolmente salite. Si, vabbè, non sapevo ancora se stesse aspettando il suo ragazzo, ma insomma! Un problema alla volta. Decisi di procedere con cautela. Non si sarebbe messa a fare un discorso, certo, ma la prima parola l’aveva pronunciata. Un buon inizio. Ordinai una rossa media, giusto per darmi un po’ di tono. Poi mi ricordai di lei, che mi fissava. “Bevi qualcosa anche tu?” gli chiesi. Le scosse la testa in segno di diniego. “Sei di queste parti?” ripresi con un’aria che volevo fosse disinvolta, interessata, stai tranquilla non ti tocco. A meno che tu non voglia, ma questo non volevo trasmetterglielo: troppo presto. Insomma, assunsi quell’espressione. No, adesso non riesco a farvela vedere in pratica, avrei bisogno di qualche birra. E poi non siamo mica al bar! Leggete e smettetela di interrompere. “No” mi rispose lei. Un’altra parola! Se fossi riuscito a farle dire un altro si o no, avrei potuto raccontare al Gigi di aver fatto una bella conversazione, quindi mi impegnai. “E da dove vieni?” “Da lontano”. “Ma questo lontano, quanto è lontano?” “Non capiresti” mi disse enigmatica.
“Provaci” gli dissi. E in quel momento mi battei una mano sulla spalla. “Bravo! La stai coinvolgendo”, pensai. “Sono qui perché devo scontare la condanna”. “Qui nel bar?” dissi stupito da quella informazione. Aguzzai gli occhi in cerca delle manette, o di qualche catena che forse le serrava una caviglia. Guardai gli avventori del bar, ma non mi sembrava di aver visto un poliziotto. Poi sorrisi a me stesso, dandomi dell’idiota. Adesso c’erano sistemi per controllare i galeotti a distanza. Forse aveva qualche coso appiccicato da qualche parte di cui non mi ero accorto… “Volevo dire che sono in questa realtà per scontare una condanna” mi disse lei. “In questa realtà?” dissi con un’aria non meno stupita. Ecco, la solita fortuna che bacia i belli non mi aveva baciato, anche se penso di non essere niente male. O forse non è la fortuna che bacia i belli? Insomma, non fatemi divagare. Pensai che mi ero imbattuto in una un po’ spostata. Però era carina e la voce era sensuale. “Correrò il rischio” pensai, “avrò qualcosa da raccontare al Gigi”. “Credo di non capire” dissi. Poi per schiarirmi le idee ordinai una bionda. Piccola, però. Non volevo dare l’aria di quello che esagera un po’ nel bere. “Io non vivo in questa realtà, ma in una realtà parallela, che è molto più avanti rispetto a questo mondo. Ho fatto una cazzata e il consiglio dei nove ha deciso di condannarmi al confino in questa realtà per sei mesi”. “Realtà parallela? Consiglio dei nove? Questa è proprio spostata!” pensai. Ma
non volevo farle capire a cosa stavo pensando. Non avevo ancora perso la speranza di rimorchiarla. “Ho capito” le dissi, assumendo un’aria che volevo esprimesse: “Bambola, parli strano, ma io la so lunga. Non temere, con me vai tranquilla”. Però non ottenni il risultato sperato, perché lei si irrigidì. “Non posso parlare di questa cosa. Potrebbero allungare la mia pena e mandarmi in un luogo ancora peggiore di questo, dove hanno appena superato il medioevo” mi disse allarmata. “Con me puoi stare tranquilla” le dissi “so tenere la bocca chiusa”. E per dimostrarglielo, ordinai un’altra rossa. Media. La bocca bisogna chiuderla per bene! Lei mi fissò senza dire altro e io rispettai quel momento di silenzio. “Appena finisco questa pinta, mi spieghi bene questa storia” le dissi. A quel punto non so di preciso cosa successe, ma la vista si annebbiò un po’. Pensai che se mi fossi preso un minuto di pausa, sarei tornato in forma, pronto per il seguito della serata. “Un minuto” biascicai mentre appoggiavo la testa sul tavolo. Quando rialzai lo sguardo, Livio stava chiudendo il bar. “Vai a casa, vecchio ubriacone” mi disse. Guardai l’orologio appeso sopra il bancone che segnava le tre. Occhi blu non c’era più (bella la rima, vero?). Sono tornato al bar tutte le sere, ma non l’ho più rivista. Peccato, era proprio una ragazza carina.
Ore di silenzio di Sofia Skleida
Ho sentito i tuoi i nel silenzio mi sono turbata pensando che eri vicino a me Ho approfondito nei miei pensieri solitari ricordando … E improvvisamente di nuovo, le stesse luci contemporaneamente, quando gli strumenti musicali risuonavano dietro di me lo stesso ritmo straziante, lo stesso suono Attraverso i singhiozzi Ho sentito la tua aura, L’anima svolazzava come gli uccelli anti riempita di estasi, di emozione…
aggio tratto da I film di Melissa - serie 1: Avventure virtuali- ”E di colpo” di Roberta Gelsomino
E di colpo, un pensiero attraversò la mia mente. No non posso definirlo pensiero, era più grande, e manco era mente, era più dentro. Più giù. Più boh. Me ne stavo a leggere una rivista in gabinetto, e scusate davvero di questo ma la faccenda va raccontata del tutto. Mi sfogliavo Vanity Fair di inizi febbraio, ed ero riuscita pure a sfogliarmi Donna Moderna tanto che iniziavano a formicolarmi le gambe in quello status. C’era la luce del sole filtrata dalla veneziana, una luce bellissima che non potei ignorare banalmente perché era di uno strano rosa arancio. Evidentemente il cielo era ancora di quei colori incredibili come il giorno prima, quando lo vidi tagliato ad arco da un arcobaleno che mai avrei immaginato così spettacolare. Conclusi i bisogni e mi recai in cucina, ma nel cielo non c’era nulla e nemmeno quei colori che m’erano tanto parsi in bagno. “E se le cose che noi pensiamo illusioni siano reali? Dipende dai punti di vista e questo é noto…ma io sento col tutto il cuore che quell’arcobaleno esprime in altra forma sottile e parallela quello che siamo noi. Dev’essere una dimensione fatta di colori, tutto qui. Qui, su questa, invece siamo carbonio, ossigeno, occhi, orecchi o altro. Dev’essere così.” Una considerazione che può apparire teorica fuori di zucca e a tratti pure banale ma che in realtà mi rendeva più nitide molte cose. Considerai quello che mi legava a quella creatura conosciuta su facebook, che proprio non si rivelava oltre un certo punto ma verso cui sentivo un legame come se la conoscessi. Mi ricordai di quello che ci eravamo detti, ovvero che per quanto potesse essere delirante considerarsi amici era anche vero che questo sentivamo l’un per l’altra, e di questo eravamo convinti. Eravamo più gravi di quanto già non fossimo?
Ecco non lo sapevamo, ma proprio questo ci sembrava bello e degno di rischio. Ci piaceva giocare insomma, e non poco! Avevamo considerato anche che nella vita “reale” c’era la stessa probabilità quantistica di essere fregati o di riscontrare falsità: Io stessa avevo in ato amici che seppur per breve tempo avevo vissuto molto intensamente e che mi mollarono di netto, e per non dire di persone vicine di cui credevo di saperne tutto di tutto dopo tantissimi anni. Persone reali dunque, ma chi decideva cosa lo fosse? Ci eravamo confermati insieme che nella sicura realtà c’era frequente rischio di distanza nella stessa vicinanza, con vincoli e condizionamenti che specie lui non avrebbe incontrato qui con quelle sue vaghe sembianze e, certo considerando anche, finché rimaneva tale questo legame vissuto al computer. Non potevamo negarlo oltre al fatto che se già ancora, almeno per quanto mi riguarda, ero inesperta e a dir poco impacciata nei rapporti interpersonali, beh su questo mezzo comunicativo nuovissimo nella nostra storia evolutiva rischi su versanti differenti non mancavano comunque. E notevoli. La diversità tra virtuale e reale in merito a cosa fosse davvero conosciuto o solo riflesso di noi stessi, riempito come scatole di attese o di volti e identità, non mi risultava poi un abisso alla fine. Così considerai che oltre essere una compagnia di chiacchiere in chat forse poteva davvero qualcosa di controprovato autentico. Certo era un’idea rischiosa, matta, ma matta lo ero perciò in linea con me. Anche ben forte di precedenti esperienze, non negative o deludenti in sé ma fatto sta’ che diverse persone ora conosciute dal vivo non le ricontattai più. E’ un evento non da poco, incontrarsi fuori da qui. A me già tremano le gambe al pensiero, ve lo giuro! Sapevo per identificazione che le sembianze del nuovo amico lo rendevano libero e più espressivo, perché semplicemente non essere lo esisteva per certi versi di più. Lo sapevo bene: Ne avevo molto sofferto di questo, nella convivenza col resto del mondo. Perciò potevo capire e questo é il puntuale premio di ogni fatica esistenziale. Quell’arcobaleno dunque mi rese idea più precisa anche di quanto da par mio stavo sacrificando in nome del mio “principio di realtà”.
Potevo agire in un modo che fosse come sempre peculiarmente mio: Dunque scrivere un raccontino dedicato ad immaginato amico. Un pizzico di fiducia in più. Così, esplosi. Come un messaggio che si lancia, perché so che potrebbe prima o poi giungere appieno anche se non arrivi a destinazione dato che so anche di messaggi giunti mai andati da nessuna parte in verità. Ho detto semplicemente a questo amico, che ho ultimamente una grande voglia di abbracciarlo e coccolarlo. E’ una dimensione stranissima amici, ne converrete. Lì tutto é possibile, o almeno ciò che mi conta davvero. Gli ho chiesto di dormire con me abbracciato nel mio letto senza fare null’altro, solo poterlo sentire vicinissimo a me tutta la notte e sentirgli battere il cuore. O forse é la dimensione più vera che possa esserci. Per me, timidissima Melissa, lo é….ma sarà possibile qui? Le cose più semplici qui in questa dimensione adulta terrestre le noto dispiegarsi con estrema fatica. Giudizi, condizioni, difficoltà, possessi, fraintendimenti, riduzioni. Le mie avventure non sono affatto terminate e non mi arrendo. Debbo mettere in contatto questi mondi che solo ora ho capito non così distanti! Ad ogni modo, intanto un amico ancora deve rispondermi da laggiù…
Quantanoia di Andrea Marinucci Foa
“E’ normale, con il lavoro che fa”, gli dissi per rassicurarlo. Naturalmente il dottor Thomas Mannix non si rassicurò per niente. Forse avrei dovuto comprare un divano apposta per le sedute con i colossi della fisica quantistica: più le persone sono solide e affermate, più si agitano quando qualcosa non va per il verso giusto. “No non è normale. Niente è più normale”, balbettò in tono drammatico Mannix. Sembrava un topo spaurito: si copriva gli occhi con le mani e tremava come una foglia. Era un uomo grande e grosso, ma soprattutto era uno dei mostri sacri del suo campo, tanto che lo chiamavano il Quanto Padre. Farsi vedere in quello stato avrebbe sicuramente minato la sua immagine pubblica: mi riproposi di prescrivergli qualcosa che lo calmasse prima che uscisse dal mio studio. “D’accordo”, gli dissi, cercando di apparire pratica e sionata, di nascondere l’empatia che provavo. L’empatia va bene per quasi tutte le discipline della medicina, ma se avete a che fare con la mente è meglio che impariate subito a dissimularla: assecondare un paziente certe volte produce danni irreversibili. “Lei è un grande scienziato, quindi affrontiamo questo problema in un modo a lei familiare: cominciamo dal principio ed esaminiamo con calma quello che emerge.” Lui annuì. Talvolta basta mostrare un appiglio e i pazienti ci si aggrappano subito, come a una scialuppa di salvataggio. Purtroppo non accade spesso, ma quando succede si è già un pezzo avanti. “E’ difficile trovare il principio”, ammise Mannix. Aveva smesso di tremare e cominciava a respirare profondamente. Ottimo. “Proviamoci lo stesso” lo incoraggiai. “E sia, dottoressa” concesse. Stava riacquistando un minimo di espressività e il pallore si notava appena. Non è molto professionale, ma se avessi avuto dei superalcolici nello studio gli avrei offerto qualcosa di forte. “Io mi occupo della frontiera della fisica e sto conducendo degli studi in quella che si chiama decoerenza quantistica.”
Non mi lanciai in facili battute sulla decoerenza. Le battute sono peggio dell’empatia: i pazienti sotto shock non reagiscono bene all’umorismo, a meno che non siano loro a sdrammatizzare la situazione facendo i buffoni. “Conosco poco dell’argomento”, mentii. Bisognava ridargli sicurezza, calmarlo, e quando si ha a che fare con i professori è facile fare appello allo smisurato ego accademico di chi si ritiene un pioniere nel suo campo. “E’ forse quella teoria che parla dell’interazione tra sistemi classici e sistemi quantistici?” “Più o meno.” Fece un gesto vago con la mano, come per dire che c’era ben altro dietro quel termine. “Quanto ne sa della natura del multiverso?” Esibii un’espressione imbarazzata. “Quello che sanno tutti. Il gatto di Schroeder…” “Schrödinger”, mi corresse. Buon segno. ai al teatro: era ora di apparire un po’ più intelligente di così. Socchiusi gli occhi, lasciando are qualche istante. “In pratica, gli esiti microscopici sono indeterminati finché l’osservatore non può ficcanasare direttamente. Dato che possiamo vedere solo un risultato e che tutti gli esiti si verificano, se ne deduce che esistono universi in cui le cose sono andate diversamente. In un universo il gatto chiuso nella scatola è morto, in un altro è vivo. Quando lo scienziato la apre non vede cosa è successo alla povera bestia, scopre in quale universo si trova.” Abboccò all’amo come una trota affamata. “E’ un paradosso perché va oltre il nostro buon senso, un po’ come il moto della terra attorno al sole.” E’ un concetto semplicissimo. I nostri sensi ci dicono che il sole ruota intorno alla terra; per acquisire una prospettiva diversa abbiamo bisogno di vedere modellini in scala o disegni, di pensarci su. Nel linguaggio è sempre il sole che sorge, che tramonta, che si muove, nonostante siano ati secoli da Galileo; siamo portati a fidarci dell’ipotesi più semplice, quella suggerita dall’osservazione diretta. Si impiega un minuto a spiegarlo; lui impiegò un quarto d’ora buono ma riacquistò maggiore sicurezza e autocontrollo. “Secondo la mia interpretazione, noi non viviamo in un universo determinato dalla fisica classica, ma lo percepiamo così perché è più semplice”, terminò Mannix con una tipica conclusione accademica, per produrre un effetto di
ammirata illuminazione. Non c’è bisogno di dirvi che conoscevo già questo tema. La percezione è più reale della realtà: noi guardiamo dei fotogrammi in sequenza e il nostro cervello ci presenta il film come spiegazione più semplice dell’accozzaglia che abbiamo davanti. Quando sediamo in treno alla stazione e quello accanto si muove, noi abbiamo l’impressione che sia il nostro treno a partire e possiamo addirittura sentire per un istante il movimento. La razionalità interviene dopo, se interviene, perché noi siamo animali in un mondo di animali e dobbiamo reagire istintivamente di fronte ai possibili pericoli. Era chiaro dove il Quanto Padre volesse andare a parare. Lo lasciai continuare annuendo, giusto per segnalargli che seguivo il suo ragionamento. “Così noi escludiamo automaticamente tutti i segnali che ci dicono che non viviamo in un universo isolato”, proseguì Mannix. “Eppure questi segnali ci sono: illusioni ottiche, voci dal nulla, pensieri che arrivano all’improvviso, déjà vu. Questo è il punto in cui mi sembra di scivolare nella paranoia.” “Quantanoia”, commentai con ironia. Fu un errore. Sua Quantità riacquistò l’espressione da topo in trappola. Cercai di rimediare: “Definisca meglio la questione, professore.” “Le realtà alternative, come qualcuno le chiama, non sono separate da un muro. Per niente! Pulsano, si spostano, vibrano, ondeggiano. C’è quello che si chiama entanglement: influenze quantistiche che portano a un intreccio di effetti. In un certo modo, i mondi si sovrappongono, si influenzano.” Trattenni un sospiro. A forza. “Sì, certo. E’ una cosa risaputa.” Mannix era agitato: si stava avvicinando all’origine delle sue ansie. “Alcuni pensano che si tratti soltanto di qualche effetto trascurabile, utile a misurare un capello con un laser spento. Ma il pensiero è biochimica ed elettromagnetismo.” “Quindi secondo lei c’è una sorta di psicoentanglement?” “E’ ovvio che c’è! Il cervello è un gigantesco apparato di comunicazione”, continuò concitato. Non è propriamente così, ma quello non era il momento di intavolare una discussione in merito. “Effetti di interferenza, risonanza, sintonia influenzano pensieri e percezione. Capita in continuazione. Entri in casa, posi le
chiavi sul tavolino e quando vai a riprenderle non ci sono. Sei sicuro si averle lasciate lì. Lo ricordi perfettamente. Le cerchi in tutta casa e le trovi nella tasca della giacca. Ma tu non ce l’hai messe! Eppure è lì che sono.” Cercai di farlo ragionare. “Per queste cose ci sono altre spiegazioni.” “Certo: ci sono sempre altre spiegazioni! Ma quella più ovvia è che tu hai messo le chiavi sul tavolo altrove, in un’altra realtà e il ricordo che hai memorizzato appartiene a un altro te stesso.” “Ed è questo che la mette in ansia, professor Mannix?” chiesi. “No, questa non è la conclusione, questo è il principio! Ho lavorato sulle interferenze elettromagnetiche, cercando di identificarle con una sorta di timbro quantico. Sono anni che ci lavoro. E’ un’ipotesi sconvolgente, per cui soltanto i miei più stretti collaboratori sono stati coinvolti nelle ricerche.” Annuii. “Ha paura di are per matto?” “No, ho la certezza matematica di are per matto”, mi confessò. “Il risultato è spaventoso, terrificante. Non posso andare avanti senza un aiuto professionale: l’ansia mi deconcentra, mi rende poco efficiente.” “Non mi sembra così spaventoso il pensiero di un’interferenza casuale da universi comunicanti. Anzi, se un’ipotesi del genere dovesse trovare conferma, si potrebbero affrontare con una nuova prospettiva patologie che oggi hanno un’origine poco chiara. Certe forme di schizofrenia…” Il Quanto Padre scosse la testa. “Casuale? Chi ha mai detto che sia casuale? Certo, il grosso delle interferenze lo è. Va e viene. Ma nella mappa che ho fatto ci sono interferenze che non hanno nulla a che vedere con il caso. Sono interferenze continuative, concentrate in determinate aree e con un timbro quantico caratteristico.” “Ha fatto addirittura una mappa?” “Certo che ho fatto una mappa! Era la prima cosa da fare, valutare l’estensione del fenomeno, quindi correlarlo statisticamente con ogni possibile fonte locale: alta tensione, ripetitori, wi-fi cittadino, stazioni radio, inquinamento radioattivo…”
Cominciavo ad avvertire la stanchezza. “Ho capito il concetto.” “Ebbene, in alcune zone c’è un entanglement permanente che proviene da un’unica realtà, o almeno da un unico sottogruppo di realtà. Non può essere altro che un fenomeno provocato e controllato. Dato che si concentra nelle capitali e nelle città più importanti, dal punto di vista politico e strategico, è chiaro che si tratta di un’invasione, di un attacco.” Cercai di non lasciar trapelare nulla dall’espressione del viso. “Un’invasione di pensieri provenienti da un mondo alternativo?” La mano di Mannix tremava. “Alcuni di noi sono controllati da lì. Vengono da noi e ci indossano come un cappotto di seconda mano. Non so ancora come, ma lo scoprirò.” “Ma perché mai dovrebbero farlo, professore?” “Ci ho pensato a lungo”, gli occhi di Sua Quantità brillavano di una luce folle. “Vengono da noi per fare esperimenti. Disastri nucleari, guerre, grandi crisi finanziarie, inquinamento chimico: tutto quello che potrebbe mandare al diavolo il loro mondo lo provano da noi.” Tentai un’ultima carta. “Dovrebbero avere una ragione per odiarci in questo modo!” “Ma perché mai dovrebbero odiarci? Noi chi siamo per loro? Siamo ombre, possibilità scartate dalla storia. Dobbiamo identificarli e reagire, prima che la situazione peggiori ulteriormente.” Posai la pistola con il silenziatore e fissai per qualche istante il cadavere del professore. Presi il telefono cellulare e chiamai il primo numero rapido. “Avevate ragione, aveva capito tutto”, comunicai con voce piena di rimorso. Peccato che non mi avesse dato altra scelta. Magari in un’altra realtà era andata diversamente. Chissà!
Quel maledetto pomeriggio di svolta di Rossana Roxie Lozzio
Ricordo quel pomeriggio come se i miei occhi di allora undicenne lo avessero fotografato e quando sfoglio quell’immaginario album dei ricordi con la mente, rivedo quell’uomo che si allontana con una valigia in una mano, percorrendo la strada con i fermi ma appesantiti dalla decisione presa – quella di lasciare sua moglie, le loro due figlie e la casa che avevano condiviso per una vita quasi intera – e la bambina che ero alla finestra, che lo accompagna con lo sguardo, con sua madre alle spalle e gli occhi gonfi di un pianto inascoltato. Ricordo quel momento come uno dei più brutti della mia intera esistenza e sento che, se i miei genitori non si fossero separati e mio padre non ci avesse lasciate, niente sarebbe stato ciò che è diventata la mia esistenza di adolescente e poi, ragazza, intimorita da ciò che rappresentavano gli uomini, a causa del cattivo esempio datole dalla figura maschile più importante e infine, di donna infelice. La donna che sono diventata, guadagnando il poco che possiedo con fatica, continui sacrifici e tante lacrime versate. La donna innamorata dell’uomo che rimane il protagonista di tutti i suoi sogni, compresi quelli ad occhi aperti e soprattutto, la donna fortemente logorata dai dispiaceri che hanno fatto seguito a quel maledetto pomeriggio di tanti anni fa. Se mio padre non ci avesse mollate al nostro destino, preferendo gettarsi in quel futuro doloroso in cui si è trasformata la sua esistenza con la donna che se l’è portato via… se solo avesse respirato profondamente e si fosse detto che era meglio gettare l’orgoglio alle ortiche e fosse tornato sui suoi i. Se solo, quei i che lo allontanavano per sempre da noi e da me, che ne ero innamorata dal giorno in cui sono venuta al mondo, fossero stati ripercorsi all’indietro… come in un film, alla moviola! Forse, sarei diventata una persona migliore o forse, sarei semplicemente stata più felice.
Roaming di Andrea Marinucci Foa
Infiniti universi comunicanti. Sì, ma immagina che tariffe!
Sono un leader mondiale di Allie Walker
Sogno spesso e sogno tanto. I sogni a occhi aperti sono la mia realtà parallela, ho una fantasia che non conosce limiti. Ho sognato spesso di essere a capo di un mondo “diverso”, un mondo fatto su misura per me. Ma sono così contenta di non essere un leader mondiale che quasi quasi gongolo nel mio piccolo spazio dove conto poco o niente. La mia voce e una e nella folla si disperde. Immagino che, con il mio temperamento, sarei il tipo di donna che potrebbe impazzire con il potere e mi trasformerei in una sorta di despota tirannico. Servitori nudi che mi portano in giro per un palazzo super-mega-galattico, top model sexy in tacchi alti addestrate come sicari per il mio Stato, uomini dal corpo perfetto ai miei piedi, affiliata a superpotenze straniere. Milioni di euro infognati in un’ampia ricerca scientifica su come trasformare il Principe Ranocchio in un personaggio al mio pari, così che possa scopare dolcemente il mio cervello sempre vivo, ma del tutto fuori. Vorrei partecipare a vertici di pace rivestita di pelle nera e una tigre bianca al guinzaglio come animale domestico, ammansito dal mio karmico potere e non dalle frustate. Denis Diderot sarebbe il mio consulente di fiducia: tutti i maggiori leader hanno i loro segreti e di solito si nascondono sotto le mutande. E per finire, vorrei geneticamente-ingegnerizzare un gigantesco mostro preistorico che si nutra esclusivamente della carne dei bigotti. Quindi per favore, per l’amore di tutto ciò che è buono e santo, nessuno mi dia il potere. Di qualsiasi cazzo di tipo si tratti.
Uno e due. Una, due e più… di sca La Froscia
Notte smaniosa per Ester, il caldo eccessivo, forse. Si gira e rigira nel letto. Stanca di aspettare un sonno che non arriva si alza e va verso l’armadio. Con un sorriso malizioso prende il vestito nero, scollato, con l’ampio spacco laterale. Mai indossato. Drappeggia con la mano la stoffa lucida e leggera e pensa al marito che latita da due giorni. “È giunto il tempo per il mio tango, quell’inetto del mio consorte ha perso l’orientamento, finalmente!” Fantastica sulla serata magica. Fasciata dall’abito grazioso vede la sua figura snella avvinghiata alla presenza tonica di Ugo. Ugo è l’artista cabalistico, ma rassicurante, conosciuto in chat. Pronta per l’esordio del vagheggiato ballo viene distolta da un rumore in strada. Lascia cadere il vestito sul letto e va alla finestra. Si sporge un po’ per controllare. Di fronte, appoggiate al muretto ricoperto di graffiti, due figure insolite. Sgrana gli occhi per mettere a fuoco, poi si ritrae di scatto. Sente le gambe cedere e si aggrappa al cassettone per non finire a terra. Cerca di ricostruire in fretta gli ultimi istanti per trovare una spiegazione a ciò che ha visto. Non è possibile. Due uomini con lo stesso volto, quello di Ugo. Ma non ha un fratello gemello, ne è sicura. Agitata, si avvicina alla bottiglia sul comodino. Prende in mano il bicchiere e versa una quantità generosa di liquido ambrato. Già ne sente il sapore
avvertendo, come una dolce promessa, il senso d’intorpidimento che l’avrebbe avvolta. E se fosse stato proprio il whisky bevuto a provocarle quella visione assurda? Deve essere così, può essere solo quello. Caldo, insonnia, scena irragionevole. Il whiskey non rende l’effetto catalettico agognato. Ester cerca di acquietarsi con un periodico preso a caso dal portariviste. Lo sfoglia distrattamente, ma poi viene incuriosita da un articolo sulla dissociazione della personalità. Lo legge con attenzione: “…disturbo caratterizzato da due o più identità che alternativamente prendono il sopravvento nel comportamento del soggetto…” Ai suoi occhi appare il volto duplicato del marito. La scena notturna, a un tratto, si schiarisce: i comportamenti multipli del marito, debitamente rimossi, vengono proiettati sull’artista. È quasi convinta della spiegazione che si dà, ma l’angoscia pare non voglia lasciarla… Mentre sta per mettere via il giornale, la vista si posa su un altro articolo. “Il fisico Greene a Roma: esistono molti universi e realtà parallele. - La realtà è molto più ricca di quel che noi conosciamo. Nel prossimo futuro, potremmo avere la prova che il nostro sia soltanto uno di molti universi – parola di Brian Greene, uno dei più celebri fisici viventi e tra i più famosi sostenitori della teoria delle stringhe. La teoria si fonda sul principio secondo cui materia, energia, spazio e tempo siano in realtà la manifestazione di entità fisiche primordiali che si sviluppano in un numero di dimensioni diverse chiamate…” Senza finire l’articolo scatta come una molla e va di nuovo alla finestra, ma non scruta subito. Intanto, nella sua mente si insinua il dubbio che sia lei a muoversi in una moltitudine di sfere.
E se ogni giorno relazionasse con un marito diverso? E anche con un quasiamante diverso? Prende coraggio e punta lo sguardo, ancora, verso il muretto: c’è suo marito che fuma una sigaretta. È un’abitudine consolidata quella di fermarsi a fumare prima di rientrare in casa, Ester detesta l’odore del fumo. La situazione torna normale, non ha niente di cui preoccuparsi o forse sì… La ricomparsa dell’insulso fa scemare la possibilità di incontrare Ugo… “Ma perché non si è perso in quei luoghi squallidi, i club privé, che frequenta?” Nel formulare questo pensiero la faccia del marito si sfuoca e progressivamente si dissolve per lasciare posto al viso di Ugo. L’artista se ne sta serafico a pigiare i tasti del cellulare. L’espressione confortante dell’uomo e l’azione che pensa stia compiendo le regalano un po’ di calma e un sorriso. “E se stesse telefonando a un’altra donna invece di chiamare me?” Si turba di nuovo. Ma ecco che sente squillare il telefono. Si fionda sull’apparecchio: è il marito, che le dice che erà nuovamente la notte fuori. Quando sta per gridargli di non farsi vedere mai più, dall’altro lato la voce calda di Ugo le sussurra “Sei pronta?” “Sì” risponde come un automa e riattacca. Si sta perdendo tra le mille dimensioni del possibile… Sfaccettata, si avvicina al letto. Riprende il vestito. Lo indossa in un baleno e con le note dei Gotan Project inizia a ballare. “In fondo, Ugo balla bene il tango!”
Villa Boccaccini di Irma Panova Maino
I ricordi, soprattutto quelli legati a fatti violenti, restano impressi nello spazio e nel tempo, come fotografie che per sempre rimarranno a gravitare in un dato luogo. Realtà paradossali che fluttuano solitarie nell’etere, a stretto contatto con la nostra realtà, ma che rimangono nascoste fino a quando qualcuno non trova il varco per are da una dimensione all’altra. Questi personaggi vengono definiti medium, sensitivi, persone in grado di percepire quella soglia che divide i mondi e che sono, talvolta, in grado di trovare la chiave giusta per aprire una porta che, spesso, andrebbe invece lasciata chiusa. Ed è di Villa Boccaccini che vi voglio parlare, di una notte del 1980 in cui un gruppetto di adolescenti decise di prodursi in una classica bravata di fine estate: dimostrare di avere coraggio, a dispetto delle leggende e delle dicerie locali. Villa Boccaccini sorge in quel di Comacchio, in prossimità di Lido degli Scacchi ed è raggiungibile attraverso la via Romea. Oggi è un vecchio rudere tenuto insieme dalle radici degli alberi e sostenuto da rami che penetrano in ogni crepa. Allora non versava in condizioni ottimali, era già stata oggetto di vandali e saccheggiatori, diventando meta di tossicodipendenti e rifugiati clandestini di ogni genere. Tuttavia, nel 1980 conservava un fascino non solo dettato dal fatto che fosse indicata come la location in cui era stato girato il famoso film di Pupi Avati, “La casa dalle finestre che ridono”, ma per quelle voci che la bollavano come una casa maledetta e infestata dai fantasmi. Dunque, il gruppetto di ragazzi che si accingeva a arvi qualche ora in piena notte, non si poteva considerare coraggioso, ma solo incosciente. Furono molti gli strani accadimenti che si manifestarono quella notte, ma il più simbolico di tutti fu quella soglia che venne aperta nello spazio e nel tempo e che rivelò l’orrido contenuto della casa e la maledizione celata. Un anatema che dal 1800 colpiva la famiglia Boccaccini e che ancora oggi non ha del tutto esaurito i suoi strascichi nefasti. Furono diversi i componenti giovani della famiglia a decedere in giovane età e in circostanze alquanto dubbie, ma la capostipite di tale orrore vagava ancora fra quelle rovine, gridando giustizia. E fu questo, quello che scoprirono i ragazzi in quella notte del 1980. Questa la presenza che infestò la vita di un paio di loro per alcuni mesi, tormentandoli
anche quando furono tornati nelle proprie città, una volta terminate le vacanze. La storia narrava come il vecchio Conte divenne un folle a causa della fuga della figlia, la quale, non potendosi separare dal giovane amante plebeo, il giardiniere in questo caso, scappò in una notte di luna piena, abbandonando il padre e la casa natia. Il Conte venne emarginato dalla buona società Ferrarese e morì solo e dimenticato in quella villa silenziosa. Tuttavia, ciò che invece i ragazzi videro quella notte fu una tragedia del tutto diversa. Fotogrammi di un duplice omicidio sfilarono davanti ai loro occhi, riversandosi fuori da quella soglia che una seduta spiritica, eseguita per burla, aveva invece spalancato sulla loro realtà. Il giovane amante della contessina venne massacrato senza pietà e a colpi di mannaia dal padre di lei e il cadavere venne murato, insieme alla fanciulla, ancora viva e paralizzata dall’orrore, all’interno di una rientranza del muro perimetrale. Solo nel gennaio del 1981, quando un’improvvisa nevicata fece crollare una parte del muro e gli scheletri vennero finalmente alla luce, il fantasma della contessina smise di tormentare i giovani che avevano osato varcare la soglia fra i due mondi.
Vivo di riflesso di Allie Walker
Vedo solo le mie ossa. E tra i fianchi il ventre, pregno di un’altra vita che sta prendendo forma. Sto sprofondando in un abisso e non riconosco più questa terra dove ci sono più oceani che cielo. Il mio cervello è andato a male, i miei pensieri sembrano non trovare pace. La bolla in cui vivevo è esplosa e i miei piedi ballano su un soffitto che sta collassando. Un ricordo a nei miei occhi: quelle iene che mi hanno lasciato senza luce chiusa in quell’armadio e il respiro di un estraneo addosso. E poi giorni e giorni seduta su freddo acciaio a fissare le luci stroboscopiche di una discoteca affollata ma senza musica. Donne come me, lamenti, pianti e ventri di donne ossute. Sono riuscita a fuggire da quel posto putrido e colmo di morte. Oggi vivo di nuovo in un luogo oscuro, vivo rovesciata e mi nascondo. Il più piccolo rumore mi fa male, fa male perché so che qualcuno arriverà da me a portarti via. Il domani, se esiste un domani dove i soli non sorgono ma rimangono immersi nel buio infinito dell’universo, è invisibile agli occhi e il mio respiro riempie i polmoni di aria ma non di ossigeno. Nonostante l’aria sia rarefatta non soffoco ma vorrei finire questa vita, solo che ho paura di fargli male… lui non ha colpe. Cerco di trovare un lieto fine a tutto questo e penso che aprirmi le vene non sia la strada migliore, vedrei pisciare il mio sangue per poi rimanere sospeso attorno a me… no, non mi piace. Osservo i pittogrammi disegnati sulle mie unghie e ci leggo un codice che non comprendo, cerchi e linee intrappolate su quel poco che resta di me. Forse un marchio. Scorgo del fumo e l’incendio del bosco di betulle non lontano da dove vivevo. Mi avvio per una strada deserta, calpesto cenere e nei miei occhi ancora un flash: cadaveri bruciacchiati. Scavo per trovare vita. Scavo per cercare cibo. Ho fame. L’odore acre sbiadisce piano nel vento e i colori che un tempo amavo ora sono solo pastelli sbiaditi e polverosi. I lampioni sono tutti spenti. I polmoni sono pieni di polvere e fanno a pugni con il respiro. Sulla strada carrelli della spesa, vuoti, sinistri oggetti di un ecosistema spazzato via dalla
guerra dell’Impero. Specchi rotti e vetri infranti senza riflesso scricchiolano sotto i miei piedi e un’ombra mi sfiora. Un uomo mi punta una pistola alla tempia e imprigiona svelto i miei polsi con una catena. Urlo, un urlo che non ha voce, un urlo che non sento. Dove è andata a finire la mia voce? In qualche modo strappo la pelle di quell’uomo, le unghie affondano e il sangue rimane sospeso attorno a noi, bolle carminio che galleggiano nel vento mentre lui mi dice che va tutto bene, che mi conosce, che ha vissuto per tanto tempo nel mio armadio. “Ora hai bisogno di me” mi dice. Non lo riconosco, non so chi sia, non riesco a trovare il suo volto tra i miei ricordi. Tirata per la catena non posso far altro che seguirlo. E sento lui muoversi nel ventre. Può una pianta in vaso, quello che sento di essere, crescere un bambino? Può una società sporca veder nascere una vita? Io la sento dentro di me, respira nel mio ventre e occupa tutto lo spazio, assaggio i suoi lamenti, non può questa vita essere una gioia. Respiro, non riesco a trovare un senso a tutto questo, una vita senza colori e questi presidenti che hanno rubato il potere, queste persone che si sono elette rubando voti, a capo di quel mondo nuovo, ci trascinano lentamente verso luoghi di rinascita. E’ quello che dicono loro, è quello che vogliono farci credere. Tireranno fuori questa vita, che palpita nel mio ventre, e la porteranno in un paese diverso. Una realtà parallela, la terra come era un tempo con alberi e fiori e animali e persone normali. Per me non ci sarà scampo, non sarà la mia realtà. Quella realtà a me è preclusa. Il mio verbo e la vita, per la verità, le tengo nel mio ventre: un atomo instabile in una brocca di creta che galleggia in un liquido che lo nutre, un atomo che è vita, il mio piccolo elfo magico. Una vita, la sua. Non la mia. E il suo tocco, dentro di me, non è di questo mondo. Lo vedo nel mare, non in un abisso, saltellare tra le acque pulite e tra l’increspatura delle onde. Sorrido, lui andrà da qualche parte che io non potrò toccare, ma lì c’è vita, così mi hanno detto, così ci hanno promesso quelle voci nella discoteca.
Camminiamo tra i corsi consumati dal tempo e dalle guerre e poi nel deserto, un abisso di sabbia scura e sporca. Ci inghiotte. Nessuna stella a guidare il nostro cammino, nessun sapore e calore di un sole scomparso nel nulla infinito. Le mie mani sono sporche, su di esse ancora i segni della mia ricerca di vita e di cibo tra la corteccia bruciata come una crosta di sale. E le sue mani sulle catene ancora a bloccare i miei polsi. Quando potrò assaggiare una terra diversa? Io già so che non potrò mai, ma lui troverà il modo per portarmi indietro nel tempo, lui troverà il modo per farmi sentire ancora il calore di un vino rosso corposo che si spande nelle vene, lui troverà la vita, la troverà per me. Ora posso solo vedere il buio e urlare il suo nome. E so che mi sente, perché io sono lì, con lui. Grido “mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace”, ma rimane tutto nella bocca, nel nulla, nel mio cuore che pulsa impazzito, nei polmoni che respirano fumo e non so come posizionare la mia lingua per farmi sentire anche dagli altri. E continuo a trovare vetri sotto i piedi, continuo a trovare zirconi, anziché diamanti… nessun riflesso caldo a guidare il mio destino. Siamo arrivati, è giunta la nostra ora, ci separeranno e lui andrà in un posto migliore, lo so. Io non sarò con lui, porteranno via questa vita che ha gonfiato il mio ventre… per una vita migliore, un mondo nuovo che io non vedrò. Chiudo gli occhi e quando li riapro lui mi ha già lasciato. Adesso dipingo piume su me stessa per non dimenticare che posso volare verso il mio sole, mio figlio, che non è affondato ma sorto in un luogo migliore. Lui è la mia realtà parallela. (tratto dalla serie: Piango per un mondo vuoto)
Nascosto nei sogni
Cari Portatori di Penna, siamo anche stavolta giunti alla conclusione del sondaggio mensile per la scelta del tema per 7 giorni di follie di aprile. Ha vinto su tutti gli altri temi, con un distacco notevole, il tema “Nascosto nei sogni”. I sogni rispecchiano la parte più intima del nostro essere, riportano a galla le speranze e cercano di trasmetterci ciò che il nostro inconscio ha ben compreso, molto meglio di quanto il nostro lato razionale è in grado di fare. Non vi chiediamo incubi ma, al contrario, vi chiediamo di svelare ciò che realmente si nasconde dietro il nostro sguardo, dietro il nostro apparente stato di coscienza. Per chi non lo avesse compreso, Dietro lo sguardo è un omaggio voluto nei confronti di una splendida poetessa: Elisabetta Bagli. Per cui, con queste premesse, sentitevi sognatori, viaggiate nella vostra interiorità e svelate cosa si nasconde nel vostro inconscio, liberate la vostra creatività e sognate, realizzandoli su carta, i vostri desideri e le vostre speranze. Signori e signori, alziamo il sipario su cosa c’è “Nascosto nei sogni”…
Nascosto nei sogni di Annarita Petrino
Pit rigirò tra le mani il cristallo nero, guardandolo da diverse angolazioni e sotto le diverse fasi dello spettrografo. Infine lo ributtò in mezzo agli altri e riportò la luce alla sua normale intensità. Afferrò la ramazza e continuò il suo lavoro, ammassando tutti i cristalli nell’area C. Quindi avviò il processo di eliminazione ed una pesante parete di acciaio scese dal soffitto, separandolo dal resto dell’area. Una piccola finestra chiusa da un vetro di plastica gli permise di osservare per l’ennesima volta lo spettacolo del gas acido che inondava l’area C e scioglieva tutti i cristalli. Quando il sistema di sicurezza avvertì con un bip che la zona era sicura, il divisorio in ferro sparì di nuovo nel soffitto. Pit si avanzò e si inginocchiò sul pavimento dell’area C, una spessa grata attraverso la quale avano i resti dei cristalli neri. Posò il dito guantato su uno degli spazi aperti e raccolse un po’ di sostanza appiccicosa. Abbandonò l’area per recarsi un piano sotto. Sul tastierino numerico della porta blindata digitò la combinazione che conosceva a memoria. Pit venne investito da una corrente d’aria fredda che lo rincuorò. La temperatura doveva essere ottimale. Entrò, muovendosi nella semioscurità. I fari all’ultravioletto erano appena sufficienti per vedere dove metteva i piedi. Nel silenzio che regnava incontrastato si udiva solo il cadere ritmico di qualche residuo di cristallo sciolto. Pit si arrestò dopo alcuni i. La grata sopra di lui iniziava poco più in là e non voleva sporcarsi. Accese qualche altro faro all’ultravioletto e rimase alcuni minuti ad osservare le strutture davanti a lui. Montagnole di materiale accumulatosi col tempo e che diventavano ogni giorno più alte. Presto sarebbe dovuto are all’area di smaltimento D, anche se il soffitto era ancora piuttosto lontano. Sorrise e lasciò l’area per raggiungere la superficie posta 5 piani sopra. Il sole stava sorgendo proprio al di là delle montagne e presto la sua luce sarebbe
arrivata a riflettersi sui contenitori di vetro trasparente. Pit prese a camminare lungo il sentiero cementato controllando il pulsare ritmico delle luci, che indicava il corretto funzionamento dei contenitori e lanciando continui sguardi ai tubi collegati ai contenitori; la produzione di cristalli sarebbe ripresa di lì a poco. C’erano solo delle brevi pause che la interrompevano ed erano quelle che lui utilizzava per uscire in superficie. Grande era stata la sua sorpresa, quando aveva visto apparire per la prima volta quei cristalli vicino ai contenitori, ma non gli ci era voluto molto per capire che cosa rappresentavano: erano tutto ciò che restava dei grandi sogni degli uomini, dei loro traguardi, dei loro deliri di onnipotenza. Pit fece una smorfia, pensando a tutti quei contenitori in cui riposavano buona parte di quegli uomini e quelle donne che con i loro sogni avevano trasformato il mondo in una landa desolata. Quella struttura era stato il loro ultimo grande sogno realizzato. L’avevano costruita con l’intento di trovare Dio. Avevano fatti esperimenti e ricerche di ogni genere, infine avevano deciso di cercarlo nei loro sogni e si erano lasciati sprofondare in un sonno senza risveglio. Lui e gli altri erano rimasti per prendersi cura di loro, lui e gli altri che avevano sempre saputo dov’era Dio. Respirò a pieni polmoni l’aria pungente del mattino, mentre gli arrivava il suono delle campane che annunciavano l’inizio della celebrazione del mattino.
Genere “fantascienza cristiana” Autrice di una raccolta di racconti dal titolo “You God” edita dalle Edizioni Il Papavero – Marketing d’Autore (novembre 2013)
J. di Sabrina Guaragno
Nell’ovattato e nuvoloso regno dell’incoscienza, ti aspetto senza emettere suono, per non turbare il tuo sonno. Appena ci sei, mi sembra che l’atmosfera vibri sotto la spinta del residuo dei tuoi pensieri, ed è allora che inizia il sogno. E’ dura per me, rimanere in disparte. Spettatore di cotanta magnificenza, rimango a guardare nascosto, all’ombra degli alberi dai colori vivaci e innaturali che evochi con le tue fantasie. Ti guardo volare lontano, sopra monti e deserti, tuffarti negli oceani e nuotare con le sirene. Poi entri in una casa qualunque, che pian piano si trasforma e assume fattezze nuove. Diventa una scuola, tu ti siedi ad un banco e c’è una donna che fa lezione e tanti bambini ad ascoltarla. Tu ti guardi i piedi e non hai più le scarpe. Questo è un tuo sogno ricorrente, e non appena vedo sbucare dai bordi della mia visuale quel fumo grigio che è la tua angoscia, esco dal mio nascondiglio e, veloce come una gazzella o forse di più, cancello via quel fumo. Lo acchiappo con le mani, si dissolve sotto le mie dita. Tu ti volti e stai per scoprirmi, ma io sono più veloce. Ed eccomi nascosto nel prossimo sogno che stai creando. L’angoscia non ti ha toccato, al tuo risveglio non ricorderai nemmeno quel particolare di disagio. Ora la tua mente sta partorendo una fantasia mista a un ricordo lontano, stringi la mano della tua mamma e eggi per un bosco pieno di fiori colorati. Sembri piccolissima, adesso. Corri nel prato e raccogli dei fiori. La tua mamma è scomparsa, e il cielo, poco fa di un blu intensissimo, adesso è carico di nuvoloni simili a grosse pecore nere. Tu stai per piangere. Dal folto della foresta nera che adesso ti circonda compaiono dei lupi famelici, e le loro bocche traboccano di sangue. Impreco tra me e me, ed è allora che intervengo nuovamente. La piccola bambina che sei diventata, si volta a guardarmi e così mi plasma. Non sono più J. adesso, non ho più i capelli celeste chiaro e la pelle bronzea. Sono un orso, grandissimo e marrone. Ma che stai facendo? Mi avvicino circospetto, ma non appena vedo le lacrime nei tuoi occhi e uno dei
lupi che sta per attaccarti, mi butto nello scontro. I lupi scappano via, e quando mi giro sei di nuovo tu, una ragazza sulla ventina, ed io non sono più un lupo, ma ho il volto del tuo ragazzo e mi tieni per mano. Camminiamo sulla superficie bianca e polverosa di un pianeta un po’ buio. E’ questa la luna? eggiamo un po’, i tuoi capelli cambiano colore ad ogni o, ma non so cosa questo possa significare. Vorrei soltanto sgattaiolare via da questo tuo sogno, di solito sono sempre ad un margine, ma adesso mi ritrovo ad interpretare un ruolo fondamentale. Tu ti volti e mi abbracci, mentre tutto attorno a noi si fa confuso, pieno di colori che si mescolano come tanti acquerelli che vengono gettati a caso su un foglio bianco. “Mi hai salvato” sussurri, e per un attimo sono felice, anche se quelle parole non sono rivolte davvero a me. Ma è vero, io ti ho salvato. Ti salvo ogni notte. Una musica roboante e fastidiosa irrompe nel silenzio, mi guardi mentre sono ancora nelle sembianze del tuo ragazzo. Tendi una mano verso di me, ma tutto attorno a noi sta svanendo. I tuoi capelli tornano del loro colore naturale, il mio volto pian piano assume nuovamente le mie sembianze e tutto attorno a noi è di un bianco abbacinante impossibile da sopportare. Per un attimo, un battito di ciglia, forse vedi il mio vero viso. Quello che non vedi mai a causa delle tue distorsioni oniriche. Forse. O forse no. Ti sei svegliata, ed io ritorno al mio posto. Mentre ti svegli, ti alzi dal letto con i capelli tutti scompigliati ripensando all’immagine del tuo ragazzo sorridendo al pensiero che anche nei sogni ti protegga, spegni la sveglia e accarezzi distrattamente un oggetto rotondo appeso a un pomello del tuo letto. Dondolo un po’, appena rinfrancato. Io ti salvo, ogni notte, nascosto nei tuoi sogni. Sono J., lo spirito del tuo acchiappasogni.
Come d’ovatta di Anita Rudcliff
La guancia faceva ancora male. Sentivo il calore che irradiava la mia pelle, il segno ancora impresso dalla mano che mi aveva colpita. Ripetutamente. Su tutto il corpo. E lui accanto a me, nel letto, che dormiva, ebbro di quella violenza che mi aveva donato con gratuito slancio proprio un’ora prima. Io giacevo al suo fianco, il freddo che mi consumava le membra nonostante le coperte che avevo addosso, e il cuore che andava a intermittenza, a seconda che il respiro di lui fosse silenzioso, o agitato. Tra le mani stringevo la mia salvezza, un flacone blu col tappo bianco, me l’aveva dato il dottore per curare quelle strane anse che ultimamente non mi davano tregua. Non è colpa sua, diceva, pretendi troppo da lui, gli stai troppo addosso, è normale che reagisca così, se tu lo istighi. Nell’oscurità cupa della camera pensavo. E la mia mente vagava. Ovatta. Ecco quello che sentivo intorno a me. Morbida ovatta che mi richiudeva come un bozzolo in una dimensione protetta, lontana da quelle mani, al riparo da quella voce che ancora mi urlava nelle orecchie. Puttana. Chiusi gli occhi, e quando li riaprì lui era andato via. Dove? Avevo imparato a non chiedere, a non pretendere, a non contraddire. Mi alzai senza fare rumore, andai verso il bagno e nuda mi infilai dentro il box doccia. L’acqua cominciò a scorrere e a bagnare il mio corpo, a lavare via i miei peccati, le mie colpe. A dar sollievo ai miei lividi. Quali colpe di preciso non saprei dirlo, il mio sentirmi perennemente in difetto ormai fa parte di me, pensavo, e forse questo mio stato mentale è il più grande peccato che commetto contro me stessa. Mi avvolsi nell’asciugamano, lentamente, e mi avviai verso la cucina. Lì lo vidi. Non era andato via. Stava di spalle di fronte a me, avvolto in un fascio di luce lunare che penetrava di nascosto dalla finestra, e faceva apparire la sua ombra più possente di quello che già fosse. Lui però non mi notò minimamente, e rimase a contemplare la notte, fumando una sigaretta. Ampie volute di fumo impregnavano la stanza di un odore acre e nauseabondo. L’odore della morte, che mi fece desiderare di trovarmi lontano da quella prigione che avevo scelto consenziente quando avevo detto sì sull’altare. Quel sì per il quale avevo dato
via tutta la mia vita, nella vana speranza di inseguire un sogno che infine si era rivelato un incubo. Un incubo segreto, che non si può rivelare, da celare tra quattro mura e sotto spessi strati di correttore. Fu in quel preciso istante, quando presi realmente coscienza di quello che era il mio destino, che sentì il mio corpo farsi etereo, e fluttuare nell’aria. La guancia era ancora tumefatta, ma non faceva più male, mi sentivo avvolta da un caldo umido, un tepore che mi scendeva tra le gambe e risaliva e si insinuava all’interno del mio corpo fino a scaldare gli anfratti più reconditi della mia carne. Mi allontanai in fretta da quella presenza e da quell’olezzo di morte, e più mi allontanavo da lui, più la paura spariva e faceva posto allo sgomento, dettato da quella libertà che avevo appena conquistato. Dall’alto, dal punto dove mi trovavo, potevo scorgere tutta la vallata. Un paese piccolo, poche anime racchiuse tra case, cortili e pettegolezzi. Potevo volare fino a raggiungerle a una a dei quei corpi sfatti che dormivano nei loro letti, in attesa che si levasse un nuovo giorno per sputare ancora veleno. Quelle anime frustrate, bisognose di far del male agli altri per non sentire l’angoscia che premeva loro in petto. Una sensazione strana mi avvolse, un sentimento che mi stupì e mi fece barcollare. Mi sentivo forte, immensa di fronte a quella gente così volubile, in quel preciso istante. Nel sonno siamo tutti così fragili, così indifesi. Pensai a quello che avrei potuto far loro, mi spinsi oltre fino a immaginare i particolari più truculenti. Riscoprì in me una vena sadica che fino allora non avevo mai contemplato, occupata com‘ero a fare la vittima e piangermi addosso. Questa nuova sensazione mi colmava e spaventava allo stesso tempo. Mi destabilizzava. Vacillai ancora, fino a perdere l’equilibrio, e precipitai in mare. Ma non avevo paura né di affogare, né di morire assiderata. Quel fluido denso mi aveva accolta, preservata. Nuotavo in un’acqua scura, ma non avevo timore perché sapevo che lì nessuno avrebbe potuto trovarmi. Credetti di essere felice. Non potevo essere più felice. Nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi in fondo al mare. Ero salva. Uno strattone, poi un altro, e un altro ancora. Mi sento il respiro mancare. Affogo. Mi inabisso, sotto un peso che mi trascina vorticosamente verso il basso. Affanno. Apro gli occhi. Lui mi ha trovata. Sono stesa sul letto, raggomitolata in posizione fetale. Vedo la
sua bocca che si storce in smorfie e sbraita, ma non sento quello che mi sta urlando. Non sento che mi insulta, brutta cagna, ti sei pisciata addosso, non capisco quella sensazione umida che adesso mi fa sentire bagnata, fredda e appiccicosa. Mi fanno male gli occhi, la luce mi ferisce. Voglio tornare a immergermi in quel mare denso. Come ha fatto lui a trovarmi? Mi chiedo. Mi sento mancare le forze, tutto ridiventa buio, la oblio torna ad avvolgermi. Dalla mia mano cade un flacone. Vuoto. Lui lo raccoglie, si rende conto. Il terrore lo assale, ecco, vedi cosa si prova ad avere paura? Vorrei dirgli. Ma sono già precipitata nuovamente nell‘oblio. Lui ricomincia a scuotermi, si strappa i capelli, urla cosa ho fatto, cosa ho fatto, ma ormai non posso più vedere né sentire. Sono tornata nel limbo, gravito in un liquido uterino, protetta, libera. Una lacrima mi scorre giù, per quella guancia che non proverà più dolore. Finalmente felice, muoio di gioia.
Ho perso l’anima di Anna Ciraci
Percorro il profondo di ruvida roccia il sole s’infiltra di rado percosso dall’arida crosta di rovi pungenti irti al mondo e al suo attrito funesto. Affondo in baratri di dura corteccia nella vana ricerca di un’anima persa, spezzata e consunta dai tanti are s’è arresa ai detriti come la costa col mare. Discendo convinta di estirparla all’oscuro di tutto il suo travagliato vissuto. Cammino e cammino tra scosse violente come mi stesse dicendo: “ Lasciami stare, non c’è più niente da cercare!” eppur più mi scuote più io scendo a guardare. Alla fine del viaggio trovo una luce sottile calda, accogliente, mi avvolge la pelle mi toglie lo sciame scontroso dalle gambe tremanti. Accovacciata e sognante v’era l’anima persa,
integra e forte senza neppure una grinza, era solo distesa sopra un manto di rose a coglierne il profumo che nel rovo non c’era, s’era solo nascosta dentro sogni a colori. L’ho lasciata dormire senza fiatare e son tornata di sopra, alle mie spine.
La signorina Zenobia di Claudia Lo Blundo
Con gli occhi chiusi assaporavo il gusto della mia libertà: dopo averla vagheggiata, per anni, come irrealizzabile l’avevo conquistata con un energico colpo di ala, quello della mia volontà! Decisi di riare a memoria il contenuto della mia valigia mentre rivedevo quel che mi aveva condotta sin li dove ora mi trovavo; da tempo avevo preparato e nascosto in vari cassetti il necessario per il viaggio o, sarebbe più esatto dire, per la permanenza nel luogo dove avevo deciso di andare a vivere per sempre e… da sola, da so…la! Sorrisi: forse sarebbe stato più giusto parlare di fuga. L’aereo ebbe un sobbalzo, “Un vuoto d’aria”, decretai: anche se non ero mai stata su un aereo sapevo che era stato un vuoto d’aria e mi venne da pensare che si trattava di una sensazione simile a quella provata, talvolta, durante il sonno quando mi svegliavo per la frazione di un attimo con la strana sensazione di cadere. Riportai i miei pensieri sul contenuto della valigia e null’altro mi tornò alla mente se non l’ampia gonna rossa, con le balze multicolori; l’avevo scelta perché il vederla mi aveva fatto riaffiorare per un attimo un qualcosa legato alla mia giovinezza, o forse significava il mio desiderio di evasione o il sogno ricorrente di balli prolungati sino all’alba su morbide sabbie ancora calde del sole del giorno precedente. Avevo preparato con cura il viaggio-mia fuga, una decisione presa sei mesi prima, in maniera del tutto improvvisa mentre mi trovavo in fila all’Ufficio Postale per riscuotere, come facevo da più di due anni, la mia pensione di ex insegnante di scuola elementare. Per anni avevo invidiato le casalinghe e, andata in pensione, mi era piaciuto poterlo essere, finalmente, a trecentosessanta gradi: moglie, madre, giardiniera, la spesa, il bucato, le vicine di casa che apprezzavano l’ordine del mio giardino. Poi tutto era cominciato ad apparirmi banale, noioso e la tristezza, che da questo derivava, si trasformava in un brivido che mi serpeggiava lungo la schiena e mi
riportava alle orecchie una canzone di tanti anni prima: “e andaree lontanoo, lontaaaaaaaanoo”; quelle parole, o la voce calda del cantautore, non so, mi erano sempre apparsi come un seducente invito a prendere parte a qualcosa di infinito, quasi che in quel “lontano” fosse racchiusa la possibilità di una gioia che il ‘vicino’ non aveva e non avrebbe mai potuto darmi. Sei mesi prima, però, mentre in fila attendevo il mio turno per riscuotere la pensione mi era tornata alla memoria la sequenza di un qualcosa già vissuto: io li, giovane, tanti anni prima. Forse avevo ventinove o trenta anni, non ricordo, ero entrata all’ufficio postale con o affrettato per superare la signorina Zenobia che, immaginavo, andava a riscuotere la sua pensione. Volevo trovarmi dinanzi a lei, nella fila che c’era allo sportello, per potermi poi girare indietro e guardarla in volto, fiduciosa di potervi leggere quel che il suo sguardo tentava di nascondere, ma avevo deciso che subito dopo mi sarei mostrata cortese e l’avrei invitata a are al mio posto. La signorina Zenobia faceva pena ai suoi vicini di casa e a quanti la conoscevano nel popoloso quartiere di Cinque Querce, uno di quei quartieri cresciuti alla periferia di Roma dove un palazzo si aggiunge a un altro e, in men che non si dica, si riempie di famiglie numerose che sembrano venute dal nulla ma che in realtà nascondono ciascuno una propria storia. La signorina Zenobia faceva pena perché aveva i capelli tutti bianchi, era minuta, di statura media, camminava curva e sembrava fosse rimpicciolita per il are degli anni. Vestiva di nero e portava strani cappellini: d’inverno uno di feltro, lo si sarebbe potuto paragonare ad uno di quei copricapo portati dagli avieri durante la guerra del 15-18, ma con i copriorecchie legati sulla sommità del capo, quasi un residuo di giovane civetteria; in estate calcava sulla testa una paglietta nera, dal taglio mascolino, che talvolta ingentiliva con fiocchi variopinti. Quei due cappellini le davano un segno di distinzione e inducevano gli abitanti di Cinque Querce ad una sorta di rispetto nei suoi confronti. “Deve essere stata una maestra” sussurrava con discrezione, a Cinque Querce, chi la vedeva all’ufficio postale per riscuotere la pensione. “Poverina…una maestra e, ormai, così sola…!” la compiangevano quanti la conoscevano. Di quanto in quanto il Parroco le mandava qualche pia donna per una breve
visita e questa riferiva al Parroco che non capiva se la signorina Zenobia fosse contenta, annoiata o disturbata da quella visita; la pia donna di turno diceva, immancabilmente, di sentirsi intrusa in quella casa sempre al buio, perché alla signorina Zenobia dava fastidio la polvere. “Povera signorina Zenobia” rispondeva il parroco anche lui non più giovane “bisogna capirla, è sola, chissà come si sentirà triste!”. Personalmente avevo altre idee sulla “povera” signorina Zenobia; un giorno avevo cercato di fare delle congetture sulla sua età e sulla sua vita ed ero giunta alla conclusione che dovesse avere poco meno di settanta anni , ma portati molto male; il fatto che vivesse sola, spuntata da chissà dove e senza un ato raccontabile, mi aveva indotto a pensare che nel suo ato ci fosse una liberazione, non molto chiara, da un campo di concentramento dove forse era stata una Kapo, una di quelle che approfittando dei favori degli ufficiali avevano il potere di aiutare o dannare i loro simili: immaginavo che avesse tradito qualcuno ma essendo stata l’amante di un qualche ufficiale era riuscita a fuggire e a ricostruirsi una vita che, comunque, le conveniva trascorrere in modo discreto per evitare che venissero alla luce i tanti scheletri nascosti nell’armadio del suo animo cattivo. Pensare così mi piaceva, solleticava la mia fantasia stimolata da certi film sull’ultima guerra. “Altro che povera signorina Zenobia” pensavo, chissà che donna terribile deve essere stata e ora adotta questo modo di fare, da povera vecchia indifesa, probabilmente per non creare sospetti su di sé; questi pensieri mi rendevano insopportabile il fatto che godesse di una pensione dignitosa. Quel giorno di circa trent’anni prima, dunque, all’ufficio postale mi ero posizionata dinanzi alla signorina Zenobia, poi, girandomi lentamente, mi ero preparata a scrutarla per farle capire quanto fosse inutile fingere con me perché avevo capito chi era stata; nel guardarla, però, qualcosa mi aveva bloccato per cui l’avevo subito invitata a are al mio posto, lei aveva accettato e, cosa strana, aveva sorriso; la mia attenzione era stata poi attratta dal fatto che oltre la pensione ritirava tutto quello che aveva sul suo libretto postale, una cifra considerevole. Mentre la sorpresa di quanto accadeva mi impediva di pensare, la signorina Zenobia, avuti i soldi in mano, si era girata su se stessa, aveva salutato tutto con un ‘adieu’ e, fatta una sorta di piroetta, era uscita a o svelto
dall’ufficio postale ed era entrata in un taxi che l’attendeva lì di fronte, qualcuno, in seguito, affermò di averle sentito dire: svelto all’aeroporto! Non solo io ma anche gli altri presenti eravamo allibiti, e allora avevo compreso cosa mi avesse colpito della signorina Zenobia: era abbigliata in modo bizzarro per lei, con i colori dell’estate, altro che vestiti neri e tristi cappellini: indossava un vistoso abito rosso e sul capo aveva un cappellino rosso con l’ampia falda adornato da un nastro di velo multicolore. Il ricordo della sua immagine aveva trasmesso in tutti noi una sorta di allegria e quasi la consapevolezza che non avremmo potuto dire che la signorina Zenobia fosse stata assalita da un raptus di esaltazione o di demenza perché capimmo che quella era la vera Zenobia e non colei che per anni si era celata in un vivere che, di certo, non le apparteneva. Circa un mese dopo si era sparsa la voce che la signorina Zenobia si era trasferita in un’isola dei Caraibi, allora si trattava di mete sconosciute al grosso pubblico, e tali voci furono avvalorate da una serie di cartoline giunte, per qualche tempo, all’ufficio postale. In seguito qualcosa cambiò in me nei confronti della signorina Zenobia che, nel ricordo, mi divenne persino simpatica anche perché pensavo che, poverina, aveva vissuto anni di privazioni, aveva di certo subito l’intromissione delle buone donne della parrocchia, aveva dovuto mascherare la propria indole che, a quanto pare, era quella di amante della vita, il tutto per poter un giorno andare all’aeroporto e salire su uno di quei grandi uccelli in grado di portarti in terra sconosciuta dove iniziare una nuova vita anche se hai più di sessanta anni. A distanza di tanti anni, e in quell’identico posto, il ricordo della signorina Zenobia era stato chiaro e il suo messaggio lancinante: sarebbe stato bello tagliare ogni legame, lasciare il marito spigoloso, i figli insoddisfatti, madre e suocera petulanti, padre e suocero…no, loro forse avrei dovuto condurli con me per far loro sapere che si può vivere in maniera diversa dal solito pidocchioso tran-tran. In quel momento calcolai che avevo già dato il mio contributo alla famiglia, alla società e così, poiché la mia pensione avrebbe potuto seguirmi ovunque fossi andata, decisi di… andare! Iniziai a preparare con cura il mio viaggio, pardon la mia fuga! All’agenzia di viaggi un’impiegata mi procurò il biglietto di andata e ritorno ma
sapevo che non sarei più tornata: andaree lontanoo, lontaaaaaaaanoo…! Drinnn… drinn… Eccomi ora sull’aereo, anche io come la signorina Zenobia più di trent’anni fa, diretta su un’isola incantata dei Caraibi. Cosa farò? Non so, la pensionata o qualcos’altro, non importa, ma immagino lo stupore dei miei familiari: avranno già letto la lettera, avranno deciso che sono pazza, avranno fatto una corsa all’aeroporto, ma ormai è tardi. Non possono più fermarmi! Driiinnn… driiinnn… Cosa succede? Non voglio aprire gli occhi, non voglio perdere questo momento di raggiunta felicità, libera, indipendente… anche se….spero…di non sentirmi… sola! Driinnn… driinnn! E’… è la sveglia! Mi vien da ridere, era solo un sogno! Un sogno o il vago desiderio del mio sub conscio? Mah! Di qualunque cosa si sia trattata, una mia fuga dal presente sarebbe ben misera cosa rispetto quella che a suo tempo fece la signorina Zenobia e poi, la signorina Zenobia forse era di più larghe idee io invece mi sono incasinata per anni con tutte le storie sull’unità familiare etc… etc… Saranno storie? Chissà! Ma è pur vero che, come dicono: “i figli so piezze e core!”
La luna sensibile di Anna Avallone
La luna si è bagnata questa notte. Non è colpa mia se sono dimentica. Ieri sera l’avevo sistemata al gancio di una stella. Giusto il tempo necessario per un bucato di concetti. Penzolava lì, sulle teste, come scarpe di danza appese al chiodo. Sembrava fosse tranquilla. Intanto un sogno rapiva il mio tempo, così la percezione dello stesso è andata in fumo. Una nebbia attorcigliava i margini delle lancette, sembrava fosse pianto quella pioggia.
Stordita da un sonno infreddolito con gli occhi un po’ appannati l’ho ricordata, lassù in alto. La luna era bagnata di un pianto che apparteneva a creature terrestri. Non ha retto alle brutture umane né all’ennesimo figlio morto ucciso. Preferirebbe nascondersi tra i sogni: spesso, quelli, sono migliori.
Indigestione di Andrea Marinucci Foa
Lei era lì. Il mantello rosso svolazzava al vento e il colore brunito dell’ak47 era appena visibile nella luce del crepuscolo. Mi gettai tra i cespugli, inseguito da una raffica. Pop-pop-pop. Dannate armi da fuoco. Mi riparai dietro un abete e vidi la granata piovere accanto a me. Presi a correre come un indemoniato. Di nuovo quel dannato mitra. Mi gettai tra i rami, incurante degli aghi che mi graffiavano dappertutto e incontrai la parete, fetida e impossibile da scalare. Mi feci piccolo piccolo, ma lei mi raggiunse. Il cappuccio che le nascondeva il volto e l’arma mortale puntata su di me. Mi svegliai madido di sudore nel letto dalle lenzuola profumate. Fuori albeggiava. Mi alzai dal letto. Dovevo bere qualcosa di forte. Dannata indigestione. Mi grattai la pelliccia. Mannaggia a me! Troppe nonne.
Il sogno di Nina di Manuela Leoni
Il bosco odorava di resina, funghi e pacciame sotto la pioggia sottile. Il sentiero si snodava tra i faggi e gli abeti rossi, che avevano creato sul terreno un tappeto soffice e umido, dove era piacevole camminare. Nina avanzava a o lento, il K-way rosso come una fragolina di bosco, sullo sfondo degli alberi lucidati a nuovo dall’acqua. Conosceva bene quel sentiero, lo aveva percorso molte volte quell’estate, nel suo girovagare in quello che era l’angolo più verde e più piovoso del paese. Tutto sommato una buona estate: molto trekking, molti libri, molte foto, molti krapfen. Molta tranquillità. Troppa. Forse era per quello che aveva ricominciato a sognare. La sua mente era troppo riposata, troppo poco impegnata e aveva preso a divagare quando si rannicchiava sotto il piumino leggero, la finestra aperta all’aria fresca e odorosa della notte. Di solito non dava troppo peso ai sogni, frammenti spezzettati di un film diverso ogni notte. Di solito. Ma quel sogno era diverso. Si ripeteva ogni notte, tutte le notti, da giorni. Il sentiero nel bosco, lo chalet sul lago e Quel ragazzo. Gli occhi che ridono e si incontrano. Il mondo che cambia verso. Le mani che si allacciano. All’inizio non ci aveva fatto troppo caso. Insomma, piacevole, ma di certo frutto delle troppe letture romantiche o dell’aria sottile che la faceva sentire leggera. Ma il sogno si era ripetuto, puntuale come un orologio svizzero, quasi un’ossessione. Aveva riconosciuto il luogo, un piccolo, perfetto, lago alpino circondato dalla quinta delle montagne e lo chalet che vendeva cibo e birre ai turisti a prezzi non troppo esosi. Quella mattina si era svegliata in preda ad un senso di urgenza, mai provato prima. Sentiva che quello era un giorno particolare. Doveva andare. Ora. La giornata non aiutava: l’estate volgeva al termine e le giornate piovose erano più frequenti di quelle assolate e lustre, con l’aria tersa e brillante che la facevano
cantare da sola – what a glorious day! – come se fosse in un vecchio film americano. No, quella mattina una sottile tenda argentata di pioggia disegnava perline sottili sul vetro della finestra e le nuvole basse avvolgevano il mondo, nascondendo i monti e i boschi circostanti. Si era detta che era una pazzia, che il tempo faceva schifo e che per arrivare al lago si sarebbe inzuppata dalla cima dei capelli alla punta dei calzini. Aveva preparato il caffè, aperto il libro sul tablet e si era infilata di nuovo sotto il piumino. Niente da fare. Non riusciva a stare ferma. Non poteva ignorare il richiamo del sogno. Così adesso avanzava lenta sul sentiero, i capelli arcobaleno ammassati per l’umidità sotto il cappuccio rosso, le calze e le scarpe zuppe, un unico pensiero in testa: “Devo essere pazza!” Il lago spuntò alla fine del bosco, le acque solitamente trasparenti scure come il vetro verde delle bottiglie. Lo chalet era appena più avanti, vicino alla riva. Nina allungò il o, era fradicia e cominciava a sentire freddo. Sotto la tettoia di legno non c’era nessuno e Nina si sedette lentamente ad un tavolo. ”Portami una birra” disse al ragazzo dietro al bancone, occupato con qualcosa sulla griglia. Guardò a lungo verso l’acqua, assorta nei suoi pensieri. “Almeno ha smesso di piovere!” La voce accanto a lei la strappò al suo fantasticare. Lui era lì. I capelli scuri che si arricciavano sotto al collo, gli occhi azzurri e dorati che sembravano rischiarare la giornata. Il ragazzo si sedette di fronte a lei, senza aspettare un invito. ”Cosa ci fai qui con questo tempo?” “Ho seguito un sogno. E tu?”
Gli occhi azzurri risero mentre la scrutavano “Ho seguito l’odore delle salsicce alla brace!”
Il sogno di Max di Fabrizio Castellani
… Tre ore dopo la camera di Massimiliano Casciola sembrava un campo di battaglia. Vestiti sparsi a terra assieme ai frantumi della bottiglia di vino svuotata tra un orgasmo e un altro. Quando Manuela usci dalla doccia e cominciò a rivestirsi lui stava disteso, nudo e stanco, su un letto altrettanto stanco. Un lenzuolo azzurro gli avvolgeva una gamba e risaliva come un serpente attorcigliandosi prima alla vita e poi ando sotto la schiena fin su alle spalle. Non aveva più nemmeno la forza di liberarsi da quel legame. Tre orgasmi consecutivi per lui, e Dio solo sapeva quanti ne avesse gridati lei. Manuela si era dimostrata un’amante perfetta. “Sicura che non vuoi restare?” le chiese con un filo di voce. Sentiva la testa leggera e avrebbe voluto dormire. Un filo di nausea, senza dubbio dato dal troppo vino, gli saliva verso la gola e bussava alle tempie. La voglia di lei stava scemando. Per quella notte, anche volendo, non avrebbe potuto dare di più. “Non preoccuparti. Ho l’auto qui sotto. E poi domani dovrò alzarmi presto. I miei piccoli ragnetti mi aspettano” la voce di Manuela, mentre rientrava dentro il vestito viola e saliva sui tacchi, era ancora fatta di miele “É stata una magnifica serata. Resta a letto, e attento ai vetri quando ti alzi. Abbiamo esagerato un poco stanotte.” Lo baciò sulle labbra, dolcemente, e usci dalla stanza. Senza muoversi dal letto Max udì la porta aprire e chiudersi, e poi il frettoloso tip tap dei tacchi di Manuela allontanarsi. Faceva fatica a muoversi. Le braccia erano di pietra e le mani intorpidite. La testa gli pulsava tanto da sembrare che qualcuno con un piccone dall’interno del cranio scavasse una via per uscire. Anche respirare lo affaticava. Quella notte di sesso lo aveva distrutto. A fatica riuscì a slegarsi dall’abbraccio del lenzuolo e a coprirsi. Aveva i brividi di freddo. Le palpebre calarono come ghigliottine sui suoi occhi e sprofondò in un sonno buio e silenzioso.
Del tempo trascorse quando, da molto lontano Max udì suonare un camlo. Si trovava nel buio più profondo, la notte più scura che avesse mai visto. Non c’era alcuna stella in cielo, né luci distanti all’orizzonte. Neanche un riflesso pallido della luna. Solo oscurità in ogni direzione. Non riusciva a trovare la fonte di quel suono. Strizzò le palpebre per cercare un barlume di luce e finalmente intravide qualcosa. Sembrava un riflesso azzurro pulsante a tempo con le campane. Max decise di andare verso quel riflesso. Come mosse un o si levò contrario un vento gelido. Il suo corpo nudo fu percorso da fremiti. Il vento lo frustava e rendeva ogni o un supplizio. Ma doveva uscire da li. Aveva un compito, anche se non ricordava che vagamente quale fosse. Un altro o e vide chiara la luce azzurra scintillare. Accesa, spenta, accesa, spenta. I camli adesso erano sempre più striduli, sempre più insistenti e fastidiosi. Avrebbe voluto sedersi, riposare. Ma ricordava una cosa da fare. Una valigia. Una piccola valigia. Il vento era sempre più freddo, più forte. Ma non poteva fermarlo. Aveva una vendetta da compiere. Apri gli occhi e la luce del giorno entrò di colpo in lui. La sveglia del telefonino mostrava le sette e trentacinque. Era ora di far saltare una banca.
La Luna dei Sogni di Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni
Tra le leggende che si raccontano a Vadhe, la perla nera della Costa, ce ne sono di davvero improbabili, di sconce, di fantasiose e di esagerate. Tra tutte, quella della Luna dei Sogni è certamente la più misteriosa: nessuno è mai riuscito a comprendere il senso di quello che accadde durante quelle quattro settimane oniriche, quali divinità vi fossero coinvolte e se gli eventi fossero in qualche modo legati all’assenza di Llana Barcarossa, Bran il Nero e Morlon l’Aquila, i tre eroi più famosi e i tre furfanti più famigerati della Costa – in quei tempi spesso le due qualifiche andavano a braccetto – che si erano dati alla pirateria qualche mese prima. All’inizio nessuno ci fece caso. Gli abitanti della città, dagli onesti artigiani ai peggiori tagliagole, dai bambini coi calzoni corti fino agli stregoni centenari, che vivevano reclusi nelle variopinte botteghe attorno al Campo dell’Oscuro, di notte Sognavano. I sogni, come si scoprì solo qualche giorno dopo che il fenomeno ebbe inizio, erano tutti simili e vennero prontamente chiamati Sogni, con la maiuscola e con tutta l’enfasi dell’incredulo stupore che si riserva al soprannaturale. Ogni singolo abitante di Vadhe scendeva dal letto con l’animo colmo di gioia e poesia, un invidiabile senso di completezza e soddisfazione. Anche se nessuno ricordava i dettagli, il senso di pace interiore era tanto forte che molti approfittavano di una scusa qualsiasi per tornare a letto e sonnecchiare tutto il giorno. Quando non riuscivano a imboscarsi, affrontavano il lavoro quotidiano con il sorriso sulle labbra, rinvigoriti e insolitamente gentili. Dopo una sola settimana di Sogni, il governatore graziò i trentasette pirati che avrebbe dovuto far impiccare al porto quel mese, i mercanti e i bottegai pagarono tutte le tasse, facendo straripare i forzieri; gli osti smisero di annacquare il vino, i panettieri e i macellai rimisero a posto le loro bilance truccate, gli armigeri abbandonarono la pratica del pizzo, gli assassini si misero in aspettativa. I ladri chiedevano gentilmente un obolo ai anti e lo ricevevano due volte su tre, mentre le prostitute intrattenevano i clienti leggendo gli splendidi versi della poesia erotica orientale e ricevendo in dono bracciali e collane di gusto raffinato, comprate su Via del Moro e pagate il giusto prezzo. I maghi e gli stregoni cominciarono a fare previsioni oneste e veritiere, perché ormai nessun cliente chiedeva di sottoporre qualche nemico a terribili fatture o pericolosi incantamenti.
A metà della seconda settimana, l’ippodromo del Parco del Cavallo organizzava concerti e spettacoli teatrali al posto delle corse; gli alcolisti e i drogati abbandonavano i loro vizi, perché ogni loro senso era appagato dai Sogni. I mercanti che avano in città per affari ed erano abbastanza accorti da ripartire prima del tramonto, facevano fortuna perché nessuno aveva voglia d’imbrogliarli. Poeti e filosofi discutevano spesso su come definire i Sogni: chi sottolineava il senso di armonica sintonia con l’universo, chi la leggera sensazione di volare libero nel cielo, chi ancora l’impressione di avere tutte le risposte a portata di mano. Nella terza settimana il popolo di Vadhe si dedicò a ripulire l’intera città, rimettendo a nuovo le catapecchie di Covo e riparando le mura, là dove la malta si era sgretolata. Nobili, mercanti, puttane, assassini, contadini, mendicanti, santoni giravano per le strade armati di ramazza. I malati guarivano da soli, i carcerati si pentivano in massa e venivano prontamente liberati e riabilitati. All’inizio della quarta settimana, Vadhe era irriconoscibile. Fu allora che gli stregoni lanciarono l’allarme: un grande pericolo minacciava la città. Una potente flotta sarebbe giunta al porto e avrebbe distrutto la perla nera della Costa. In quegli ultimi giorni di Sogni tutti i cittadini si impegnarono al massimo, lavorando alle navi della flotta in rada, fabbricando cannoni e polvere da sparo, forgiando spade e lance. Quando la flotta nemica arrivò in vista della città, i vadhiani avevano alle spalle quattro settimane di Sogni ed erano pieni di vigore e determinazione. Le navi dalla vela nera che raggiunsero Vadhe provenivano da uno dei tanti regni del meridione e straripavano di fanatici urlanti, devoti a qualche oscura divinità del terrore. La flotta del ducato li spazzò via senza grande sforzo, subendo pochissime perdite. I festeggiamenti per la vittoria furono oscurati soltanto dalla consapevolezza che i Sogni erano ormai finiti. Qualche nume benevolo e ignoto aveva salvato la città con quel dono inaspettato e gli venne dedicato il nuovo tempio del Dio Ignoto, dove ancora oggi ogni anno si accendono candele profumate per ventotto giorni e ventotto notti. Naturalmente, dopo poco tempo Vadhe tornò ad essere la città fosca e corrotta che tutti conoscevano ed amavano. Nel mondo degli Dei si seguì l’edificazione del tempio con una certa meraviglia. Il fatto che nessuno dei numi avesse previsto la Luna dei Sogni poteva dipendere
soltanto da un qualche intervento divino. I numi possono vedere nel tempo e nelle possibilità, ma sono ciechi agli eventi che li riguardano, come spiega la Terza legge del Destino, secondo cui gli Dei sono onniscienti quando non sono onnipotenti e viceversa. Orlo, dio delle taverne, stava bevendo un boccale di birra d’ambrosia con l’amico Osservatore, misteriosa divinità dalla testa di gufo, quando il nero signore Khdavsia, il nuovo dio della Morte del popolo meridionale dei Manvasi, si unì tristemente a loro. Che i numerosi numi dell’aldilà fossero cupi non era certo insolito: gli Dei assumono l’aspetto e i modi di fare che i loro adoratori e i loro bestemmiatori gli attribuiscono. Tuttavia, Khdavsia più che cupo sembrava un gattino mezzo affogato. Orlo gli diede una pacca sulla spalla e gli porse un bicchiere di whiskey dorato. “Cosa ti rende tanto triste?” gli chiese, con il tono comprensivo dell’oste. “Non capisco. Proprio non capisco. Ho invaso il sonno gli abitanti di Vadhe con i peggiori incubi che un mortale possa sopportare per quattro settimane, affinché la città, stanca e sfiduciata, capitolasse sotto l’assalto dei miei adoratori. Dove ho sbagliato?” “Non so quali incubi tu gli abbia mandato, ma hai ottenuto l’effetto opposto”, replicò allegramente Osservatore. “Non capisco, proprio non capisco”, ripeté Khdavsia. “Ho dato loro la sensazione più terrificante di tutte.” “Quale?” chiese Orlo. “Quella che si prova in punto di morte”, spiegò l’altro. Orlo non ebbe il coraggio di spiegargli l’errore; invece materializzò un secondo bicchiere di whiskey e lo porse al nume novellino.
Oltre l’orizzonte di Anna Maria Palazzi
E’ una bellissima sensazione lasciarsi cullare, trasportare, mi sento rigenerata. Il mare è calmo, il sole sta pian piano sfiorando la linea dell’orizzonte, ed io mi sento un tutt’uno con ciò che mi circonda, chiudo gli occhi, quasi in uno stato di estasi. Ad un tratto sento sghignazzare, sempre più forte, che fastidio, mi agito, cerco di rimanere a galla, accidenti, un pedalò si sta avvicinando, mi raggiunge e se ne va, manco mi ha visto. Silvana e Luca, la loro luna di miele, ma dietro che ci fa Simona a farsi stuzzicare vogliosamente da… mi è sembrato Marco, un mio ex compagno di Liceo. Infastidita raggiungo la riva, un brivido di freddo mi percorre lungo la schiena e saltello, come una pazza, sulla sabbia ancora calda. I capelli bagnati, il tepore dell’asciugamano a contatto con la pelle, cerco di recuperare il mio stato di grazia raggiungendo velocemente gli scogli e, seduta, osservo la palla di fuoco che, ormai, sta scomparendo dietro al mare. Chissà cosa ci sarà laggiù, oltre l’orizzonte? E’ il crepuscolo, intercalato da bagliori di luce, incuriosita mi volto e, in lontananza, vicino alla pineta, una figura sta ravvivando un falò che si sta spegnendo, allora corro, i capelli ancora inumiditi, attratta da questo calore. Mi avvicino, le fiamme gli illuminano il volto, è mio padre, sembra invecchiato, mi indica di stare lontano e, con una verga, cerca di alimentare questo grande falò, riunendo i vari ceppi di legno che si stanno sfaldando. Sono sempre in spiaggia, c’è molta gente, forse c’è una festa, un ritrovo. Si beve, si ride, si scherza. Si avvicina Diego, il più viscido della classe, ha lo sguardo perso, continua ad urlare, a recitare frasi sconclusionate, è ubriaco, mi dà noia, mi ritraggo. In lontananza lo osservo intimorita, ha una maglietta lisa e sporca, dei pantaloncini di tela sgualciti e consumati, tiene una bottiglia di vino in mano, protagonista del teatrino dell’illusione si agita, fa proclami, la gente crea spazio attorno a lui.
Mi allontano, che ribrezzo, e lui sembra aver capito, non vuole rimanere solo, barcollando mi si avvicina, le sue urla come tentacoli mi inglobano nella sua realtà ormai per me così lontana. Mi dimeno, tentativi inutili per recuperare ciò che sto perdendo o che ho già perso. Dio mio, cosa ho fatto di male? Vorrei prenderlo a sberle, a pugni, lo vorrei ammazzare, mi sento impotente. Lui è sempre lì, colpito nel suo onore, annullato dalla mia indifferenza, i suoi occhi, il suo volto esprimono una tale carica di odio e io ho paura. Un violento ceffone mi stramazza a terra, sento un dolore lancinante alla testa, il viso che mi brucia, tento di rialzarmi, gli occhi offuscati dalla sabbia, la testa è pesante, una spalla mi duole. “Bastardo!” gli urlo con tutta me stessa. La sua ferocia si scaglia violentemente su di me, un odore nauseabondo di fumo, di alcol, di stantio. E’ in ginocchio sopra la sua preda, le gambe allargate e, come un gladiatore in segno di trionfo, con un braccio sventola il drappo che fino allora mi ricopriva, e con l’altro mi scosta brutalmente la mano con la quale cercavo di difendermi coprendomi il volto. Poi le forze mi vengono a mancare, ho dei ricordi vaghi, la mente si offusca. C’è una lotta, una violenta colluttazione, sento dei colpi, delle urla, intravedo del sangue. Il silenzio. Riapro a fatica gli occhi, cerco di recuperare ciò che è rimasto della mia veste, mi copro, mi rialzo. La festa è finita, il teatrino è terminato, la platea è scomparsa. Diego è stramazzato a terra, privo di sensi. Ho una nausea pazzesca. Intravedo un’altra persona poco lontano da lui, è Andrea, lo sguardo abbassato, la sua ciocca castana nasconde un’espressione sofferente.
E’ seduto sulla sabbia, la camicia sbottonata, le maniche risvoltate, si toglie dal taschino una cartina e, lentamente, si rolla una sigaretta. “Dove sei stata?” mi dice senza guardarmi. “Io?” sono sola con lui. “Perché ti sei fatta così a lungo aspettare?” “Ma… io…” e mi guardo attorno, confusa, ho dentro una tale angoscia. “Tutto questo non sarebbe successo”. Si accende la sigaretta, inspira una lunga boccata d’aria buttando a terra il fiammifero, espirando alza lo sguardo e, scostandosi i capelli, mi guarda. Per la prima volta anch’io lo guardo, è bellissimo, ma, dietro l’azzurro dei suoi occhi, leggo una tale amarezza, allora inizio a singhiozzare, un pianto liberatorio, solo ora capisco ciò che lui rappresenta per me. Abbassa nuovamente lo sguardo, è teso. “Perdonami Andrea, io…” Si avvicina, mi prende la mano, io sento tutta la sua forza, un calore che mi avvolge. Allora abbandono tutto ciò che sono stata fino a quel momento e mi lascio condurre. Di soprassalto mi desto madida di sudore, ho un respiro affannoso, gli occhi ancora bagnati, non voglio svegliarmi. Lui è li in parte a me e russa, come un maiale. Mi trascino verso il bagno, raggiungo il lavandino e vomito. Non vorrei ma mi specchio, chi sono, dove sono? Una convivenza trascinata nell’inganno, nella violenza, nel silenzio, ma da chi volevo scappare e perché? Troppi pensieri mai affrontati e una lunga strada da percorrere.
Il borsone è ancora sotto il letto, poche cose, quelle essenziali, sbattute dentro, e lui che continua a ronfare. Figlio di puttana, ha spazzato via tutti i miei sogni. Mi sento sporca, vorrei farmi una doccia ma non c’è più tempo. “Dove sei? Portami il caffè, ho la testa che mi scoppia”. “Si, un attimo Diego ed è pronto!” Lascio la moka sul gas, me ne vado sbattendo la porta, mi metto a correre e, stavolta, senza voltarmi indietro. Si ora l’ho visto e forse farò ancora a tempo anch’io a raggiungere quell’orizzonte.
Il sogno di Andrea Masotti
Notti respirano sibili increduli donne truffate dal giorno sognanti bluastre rondini smarrite Gorgoglio acqueo vino azzurro reggae d’onde e poi lavarsi asportare una patina dal volto implacabile dimenticare svegliare maschera dopo maschera ritornare ritornare sognanti bluastre rondini smarrite.
Vivo tra le mura di una casa, tra le crepe di un esistere insistente di Allie Walker
Cartoline rinascimentali e lettere d’amore senza timbro, dal retrogusto amaro, giacciono sul fondo di un cassetto. Mangio cioccolato, troppo. Una droga che fa gioir gola e palato e al pari di un oppiaceo mi da il sapore e il sentore di un mondo surreale: a volte dolce… il più delle volte amaro. E prende il via questo mio viaggio fantastico, mentre la serpe della vendetta – viscida - s’insinua tra i miei capelli e buca il cervello. Butto lo sguardo in un angolo, un alone di muffa – magnetico - inchioda i miei occhi e nella mente si staglia l’immagine del tuo volto: ha lo stesso colore di una tomba di pietra. Sento il sale in bocca, come ne avessi ingurgitato un cucchiaio. Ho ucciso tre saggi: la prudenza, l’equilibrio e la ragione; li ho uccisi sulla strada, investiti due volte per esser sicura d’averli ammazzati. Li ho uccisi per conformarmi agli altri, li ho uccisi per non apparire diversa, li ho uccisi per cercare amore e affetto e carnalità e diletto. Nello specchio il riflesso di uno sguardo amaro e la lama di un coltello che mi traa il petto. Braccia magre in un vestito troppo grande, la pelle incisa di un vecchio tatuaggio: sbiadisce lento il tuo nome. Aghi infetti e spilli arrugginiti disegnano il contorno delle labbra e quel mio sorriso, una volta semplice, adesso è un ghigno distorto. E’ una favola tagliente questa mia vita, recitata con la voce nitida e penetrante di un attore eccelso, e risuona nelle orecchie, nella mente, nei sogni che faccio a occhi aperti immaginando un futuro distorto e rincorrendo un ato che mi ha segnato. Nove incubi e un sogno, in compagnia di ninne nanne stantie. Dieci anni nulli e una croce scheggiata che pende sul mio collo come una mannaia guidata da uno spettro infido. Domande segnate nelle rughe del mio volto, risposte che scendono dalle palpebre abbassate in rivoli carminio che disegnano d’orrore le mie guance apite.
Nessun piano futuro, nessuna lista della spesa scarabocchiata sui fogli sparsi, accendo un fuoco con quella carta bianca, il bianco non mi piace, il bianco è peggio del destino. Bruciano quei fogli e spero di riscaldarmi, invece diventano cenere in un lampo. Quaranta cadaveri effervescenti e dieci putridi, gli anni ati e la mia esistenza, giacciono tra i segni indelebili del tempo e di mani sbagliate. Martoriata. Momenti fatiscenti ormai e una sensazione di malessere che affogo nell’alcool. Il mio spettacolo preferito a ripetizione su quello specchio che riflette un’immagine distorta – la mia – che non è realtà. E’ solo l’ennesimo fantasticare di questa mia mente contorta, di pensieri malati e di un solitario respirare l’aria attorno. Perle infilate pendono dal soffitto, annodate come un cappio. Forse la salvezza? O solo il milionesimo pensiero assurdo in questo mio vivere perverso? E poi specchi chiari e luminosi, lampeggi tra la notte. Segnali luminescenti di una via d’uscita mentre i capezzoli induriscono, eccitata dal pensiero di una lingua che mi attraversa e dalla nostra immagine: due corpi aggrovigliati, brillanti di sudore e umori. Macchie di rabbia scompaiono e i mostri, vecchi acrobati sempre aggrappati al mio soffitto, sparati da siluri diventano proiettili in cerca di salvezza. E tutto di nuovo cambia. I bambini mi sorridono, i colori di un dipinto prendono vita, i finti assassini ridono sguaiatamente e quell’unico cadavere che credevo la mia vita si riempie di dolcezza: un confetto rosa vestito a festa… il dono di queste nozze gioiose mi uniscono al nuovo giorno che vede il sole come il mio sposo gentile, fiero di riscaldarmi. E sono io… io… io. Incastrata in questa vita e in questo spazio, colmo di crepe e di lamenti, ma sono io… io… io.
(tratto da “Piango per un mondo vuoto” poesia e prosa di Allie Walker)
Alter Ego di Sofia Skleida
Se vive il sogno nella realtà La profondità nella sostanza La gloria nella storia Il miracolo nella rinascita artistica Tu sei l’eco della mia voce lo splendore dei miei occhi la luna piena d’Agosto I’ ambra ricca La rinascita della gioventù Il vecchio, prezioso vino La rara vena d’oro che scorre profumo…
La luna. Me. La primavera di Allie Walker
Non riesco a dormire sotto questa luna quando inizia il misterioso viaggio attraverso il cielo della notte. Guardo boschi e prati e fiori alla finestra. Il profumo delle colline in fiore mescolati all’intenso odore dei pini, è un aroma intenso, inebriante. Le ombre vagano su di me e con me. Vengono a negare la realtà delle cose e cado nel sonno, nelle raffiche del vento che porta a me il gelo di un cuore lontano. Sono ovunque, sei ovunque, siamo ovunque. Sono fuori nel buio di questa fredda primavera. Inseguo la perfezione degli animi puri. e i tuoi occhi inondano la mente. Uno sguardo gelido – il tuo – che non è perfezione. Scaccio il freddo, le ombre si disperdono, nel silenzio, sola, raccolgo fiori e frutta
per addobbare un vaso al sapor di primavera.
Amo un poeta sciocco di Allie Walker
Perché fingi di dormire a mezzanotte, quando i miei versi cominciano a cantare? Riesci a sentire i miei i in giardino alla ricerca dei tuoi sospiri? O la mia voce quando parlo con le rose visto che tu mi ignori? Sei un selvaggio che respira fuoco e dipinge montagne. E non mi vedi. Non vuoi vedermi. Così mi sdraio tranquillamente, guardo il cielo punteggiato di stelle e sospesa tra la veglia e il sonno, sperando di trovarti in un sogno, ti cerco. Ti cerco nella mente prima di cadere nell’oblio sospesa nel tempo. Cerco un tuo sorriso, un tuo bacio, un tuo sospiro.
Tutto quello che vedo sono pezzi di me che galleggiano nella risacca. E tu, mio amato poeta, sei una sciocca musa che gioca a nascondino nel mio sogno.
Armonici equilibri di Allie Walker
Ho questa energia che mi scorre dentro, respira in questo flusso di parole che mi trovo a sussurrare nell’incantesimo di un sogno. Scenari magici che in un mondo reale non avrebbero senso, dove tutto non ha peso e ogni oggetto inanimato prende vita. Ho timore di rivelare agli altri quello che vedo, i miei desideri, questa anima che vorrebbe fuggire verso luoghi utopistici d’amore dove ogni essere mostra tenerezza. E sono penetrate così tanto, le parole, sono così vivi questi sogni che io non posso fuggir da loro
e loro non vivrebbero senza di me. Un equilibrio quasi perfetto che si inserisce nella mia esistenza e il mio subconscio gelosamente custodisce. Vivo senza dolore, gioisco di ogni momento tra armonia e grazia. No, non posso fuggire, non voglio. Venero questa dimensione dove io sono la schiava dei miei sogni.
Sogno ad occhi aperti di Rossana Roxie Lozzio
Sogno e realtà si confondono, quando si tratta di te. Racchiudi in te pregi e difetti, mi attrai e mi respingi ma mai abbastanza per il tempo che potrebbe occorrermi per archiviarti. Sogno ad occhi aperti che si traduce nella speranza di ritrovarti quando decido di abbandonarmi ad un sonno che non riesce ad essere sereno e non mi concede lo spazio per lasciarmi andare e viverti… Perché non ci sei, in questa strana esistenza che mi conduce in tua direzione ma sei in tutto ciò che occorre a rendermi felice. Potessi trasportarti dai miei sogni ad occhi aperti e godere della tua luce, almeno durante le mie notti di tormento… E poi, potessi trattenerti, al mio risveglio! Alla vita, non chiederei nient’altro che dormire.
Resta sempre qualcosa da sognare di Fabrizio Castellani
“Credo sia Sara. Non riesco a vederla chiaramente. Penso sia lei ma non ne sono certo.” Al nome della vecchia amica Paola non batté ciglio. Rimase in piedi ad ascoltarlo, appoggiata alla porta della cucina, come per lasciare a Simone tutto lo spazio, tutta l’aria. L’orologio appeso alla parete segnava quasi le cinque. A quell’ora del mattino la villetta era immersa nel silenzio e per fortuna, considerò lei, quella notte i suoi bambini erano rimasti a dormire dall’ex marito. Sarebbe stato un problema se l’urlo improvviso di Simone li avesse svegliati. Nonostante il caldo della serata estiva adesso Paola sentiva freddo e si strinse ancora di più nella vestaglia di seta bianca, aspettando che l’uomo riprendesse il suo racconto. Pochi minuti prima si era svegliato con un grido disumano che aveva strappato la quiete della notte. Lo guardò. Doveva esser stato un sogno orribile, di quelli che ti restano appiccicati anche da sveglio. Adesso stava seduto al tavolo della cucina, curvo e raccolto come un bambino spaventato, rigirando tra le mani una tazza dalla quale usciva un filo di fumo e un forte odore di bosco. Lei riconobbe l’aroma. Cercava inutilmente di contenere un leggero tremito e aveva lo sguardo vuoto, di chi ancora tiene un piede dentro a un incubo. Quando parlò lo fece come rivolto a se stesso, senza mai voltare lo sguardo. “Lo stesso incubo. Di nuovo. Sono nel bosco, su allo chalet, al lago. Da solo. É inverno e c’è la neve. Trascino una slitta con tanti pacchi sopra, incartati come se fossero regali. Forse è Natale… non so. Mi sento bene, felice. Poi mi volto, e sulla slitta mancano alcuni pacchi. Riprendo a camminare ma ora sono meno felice. Mi volto di nuovo. La slitta è mezza vuota e inizio ad essere spaventato. Faccio pochi i, mi fermo e di nuovo guardo, e i pacchi sono scomparsi. La paura mi prende. Mollo tutto e inizio a correre, ma la neve è alta. Sono lento, troppo lento. Mi volto di nuovo. C’è una donna che mi guarda da lontano, tra gli alberi. Indossa un mantello nero e mi sembra Sara, ma non ne sono certo. Non riesco a vederla bene. Spaventato riprendo a correre. Ma adesso lei è a un o da me. E di fianco, e poi è di fronte. È ovunque e non posso più muovermi. Parla e mi dice Sei qui! Il culo sulla neve! e mi sbatte a terra. Sta sopra di me. Allora grido. E mi sveglio”
Di nuovo il silenzio avvolse la cucina. Come personaggi di una tela di Rembrandt i due restarono immobili, ognuno in compagnia dei propri pensieri. Fu la donna a parlare per prima - credo che dovresti andare da lei. Andare a trovarla. “Davvero lo credi? Non ci vado da due anni. Da quell’inverno. Da quando… stiamo assieme.” Paola comprese perfettamente che “stiamo assieme” non erano le parole che lui avrebbe voluto usare. Simone era un gentiluomo, anche nei momenti in cui esserlo non serviva a niente. Lui fingeva di aver dimenticato. Forse credeva che parlarne l’avrebbe ferita. Un modo di dimostrarle una volta di più il suo rispetto. Non tornavano mai a parlare di quella settimana d’inverno di due anni prima, ma lei ricordava benissimo ogni singolo istante. Ricordava Gabriele Grevi, il “Gingerino”, come lo chiamavano tutti in paese. Ricordava come dopo una serata di bevute “tra amici”, si fosse allontanata in sua compagnia e come lui, ubriaco, l’avesse violentata. Quello che ne era seguito era stato difficile. Si era chiusa in se stessa, allontanata da tutto e da tutti. Aveva perfino allontanato i suoi figli. Poi era arrivato Simone. Era stato vicino a lei, l’aveva aiutata a risollevarsi. Aveva trovato il modo giusto per far scomparire il dolore. Una notte, dopo essere rientrato da una serata di bevute, Gabriele era scomparso. Al mattino avevano ritrovato la sua auto, ma non lui. Non avrebbero ritrovato più lui. Non c’era più alcun corpo da ritrovare. Lo avevano fatto sparire. Assieme. La polizia aveva interrogato tutti quelli che lo conoscevano. Erano andati anche da loro. Grevi era un nome importante in città, avrebbero fatto il massimo. Il massimo fu un buco nell’acqua. Poche settimane e tutto era svanito. Per qualche mese in paese si era continuato a parlarne, a fare ipotesi e congetture sul mistero di Gingerino. Poi l’argomento ò di moda. “Dammi retta, Simone. Vai da lei. Credo che ti farebbe stare bene. Manchi da troppo tempo.” “Non sono sicuro. Non credo di essere pronto…” “Io invece si. Se andrai domani dormirai meglio. Senza dubbio. E per farti rilassare ancora di più ho in mente una certa cosa.” Simone sollevò la tazza fingendo un brindisi, e voltandosi verso di lei accennò
un sorriso -Meglio della tisana rilassante che mi fai bere la sera?- Paola notò che le mani gli tremavano ancora leggermente -Questo intruglio che prepari con le tue delicate manine avrà anche un buon sapore ma, detto tra noi, non sembra funzionare moltissimo come rilassante. “La tisana funziona se la lasci lavorare. Però ho un metodo molto, molto, molto più efficace” rispose lei lasciando cadere a terra la vestaglia. Nonostante fosse quasi mezzogiorno e le cicale cantassero l’estate il cimitero non appariva un posto particolarmente afoso. Simone pose i fiori freschi sulla lapide e con un fazzoletto di carta ripulì la foto impolverata. Si vedeva che nessuno le faceva visita da molto. Il volto sorridente di Sara e i suoi occhi colore del cielo gli trasmisero un senso di benessere. “Ciao. Scusa se sono mancato per troppo tempo. L’ultima volta che venni qui c’era un metro di neve. Ma la temperatura era uguale a quella di oggi. In questo posto sembra sempre così tutto fermo. Il tempo, lo spazio, anche il clima. Mi manchi sai? Non lo dico a Paola ma credo che lei se ne renda conto. Anzi. Di sicuro se ne rende conto. Ma tu la conosci bene, eravate amiche. Lei mi ha detto di venire qui. Non è gelosa. Credevo che una nuova relazione mi avrebbe fatto fare i avanti. E sarebbe ingiusto dire che non ci sono stati. Ma dimenticarti no, non è possibile. Stai sempre li, in mezzo ai miei pensieri. Non sto benissimo in questo periodo. Mi sento sempre stanco, debole. Ho spesso dolori alle gambe, e allo stomaco. Prima o poi dovrò decidermi a fare qualche controllo. E poi dormo male. Incubi. Troppi pensieri mi si attorcigliano nella testa e credo che tu sia lì. Nascosta dentro al mio sonno. Prima stavi nei miei sogni, adesso fai visita ai miei incubi. Me lo diresti se fossi tu vero?” Simone fece una pausa e si guardò attorno. La pace del cimitero lo invitava alla quiete. Si sentì rilassato e sereno. Forse Paola, in fondo, aveva avuto ragione. Sarebbe dovuto venire prima. “In realtà credo che sia un senso di colpa. Tu sai cosa ho fatto. Tu sai la storia con Gingerino. Un po’ è anche colpa tua. Non avresti dovuto lasciare me per lui. Forse se fossi rimasta con me io, tu, anche Paola, adesso saremmo tutte persone più felici. A volte vorrei dirlo a tutti. Gridare che razza di mostro fosse, e come li abbiamo salvati. Ma non posso. E forse tenere tutto dentro mi sta logorando, consumando. Non so. Comunque mi manchi. Stare con Paola è bello. Ma non è come con te. Tu mi prendevi in quel modo, con quella forza che nessun’altra al
mondo potrà mai eguagliare. La verità è che sei andata via troppo presto, e ora sento un buco nella mia vita. Era amore. Era vero amore tra me e te.” Rimase in piedi di fronte alla lapide ancora qualche istante, respirando profondamente, cercando così di assorbire con l’ossigeno anche la serenità del luogo. Mandò un immaginario bacio alla piccola fotografia e si allontanò. Non avvertiva il freddo attorno, né il peso della slitta carica. Si sentiva leggero, sollevato. Il silenzio era rotto solo dal suono del suo respiro affannato. Davanti a lui, in lontananza, intravide una sagoma. Non avrebbe saputo riconoscerla, ma sentiva che si trattava di una donna. Non voleva incontrala e allora prese la discesa alla sua sinistra. La slitta improvvisamente divenne pesante. Si voltò e vide che era mezza vuota. Molti pacchi erano scomparsi. Alle sue spalle la donna si era avvicinata. Stava immobile, in piedi, tra gli alberi. E lo guardava. Simone tirò la slitta con più forza ma questa sembrava aver piantato le radici nel terreno. Era vuota, i pacchi scomparsi. Aveva paura. “Voglio fare l’amore ADESSO, il culo sulla neve!” La donna era a pochi centimetri da lui, e gli parlava. Due mani rattrappite e grinzose, con unghie smaltate d’azzurro, lo afferrarono e gettarono a terra. Il mantello che indossava si aprì davanti ai suoi occhi, mostrando il corpo nudo e orribile. Cicatrici ovunque cucivano arti di dimensione e colore diversi. Più pezzi di corpo componevano quell’orribile essere. Sotto il cappuccio brillavano due topazi. Riconobbe gli occhi di Sara. Simone gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Paola accese la luce “Ancora?” la sentì sussurrare mentre si alzava. Gli mancava il respiro. Corse in bagno. Sotto l’acqua corrente cercò di lavar via anche i resti di quell’incubo. La sua faccia nello specchio faceva paura. Era bianco come se la pelle fosse stata messa nella farina. Gli occhi una ragnatela di capillari. Sentiva lo stomaco chiuso in una morsa. Ripensò al suo incubo. Le immagini erano ancora vivide e chiare in memoria. Era Sara, adesso ne era certo. In un certo senso si sentì sollevato. Quando tornò in camera Paola era ancora a letto. Leggeva. Cercò di sorriderle, di non far vedere quanto fosse sconvolto “Cosa leggi di carino? Di cosa parla?” Lei sorrise a sua volta “è uno dei thriller di quella serie che sta andando forte. In
questo c’è un professore che uccide tutti gli studenti della sua classe, avvelenandoli uno a uno. Fa sembrare tutto un incidente, ma viene scoperto da uno dei genitori. Non una grande trama, ma è scritto bene.” Fece una pausa “Come ti senti tu?” “Bene” finse lui rimettendosi a letto “Adesso che Sara ha fatto la sua visita notturna potrò riprendere il mio riposo e far dormire anche te. Mi spiace per queste cose. Non capisco davvero cosa mi succeda. Forse sono solo stressato dal lavoro e mi sento sempre così stanco. Ho svegliato i bambini? Paola fece spallucce “Tutto a posto. Non li svegli nemmeno con un terremoto… allora era ancora Sara?” Simone ebbe l’impressione che la temperatura nella camera si fosse improvvisamente abbassata di almeno un paio di gradi. Sara era morta già da tempo ormai, ma restava una presenza importante e viva nella sua mente. Si prese un paio di secondi prima di rispondere “Già… proprio lei. Almeno credo. Stesso sogno. I dettagli poi sfuggono. Un bosco, la neve, la slitta. E lei. Si. É proprio Sara.” “E cosa fa? Dice qualcosa?” “Niente. Guarda e basta” mentì “La verità è che sono sotto stress. Lavoro troppo, mangio male e sempre di corsa. Ho bisogno di una vacanza.” Paola non commentò ancora. Nei due anni di convivenza aveva oramai capito che quando Simone non voleva affrontare argomenti delicati si rifugiava nello stress da troppo lavoro. Si limitò ad un bacio sulla guancia e spense la luce “Potresti provare ad andare in palestra domani” sussurrò nel buio “Magari un poco di attività ti farà bene.” “Vediamo. È molto che non mi alleno. Solo che ho questa continua debolezza. E lo stomaco mi uccide. Credo che mi stia venendo l’ulcera. Magari un minimo di movimento… Male non può fare di certo.” Nella settimana che seguì Simone non riferì di sogni, né di incubi. Se ci furono, li tenne nascosti. Le sue condizioni di salute si aggravarono velocemente. Quando si decise ad andare in ospedale era già troppo tardi. Un’infiammazione rapidissima gli aveva perforato lo stomaco. I dottori dissero che a volte succede
nelle persone che hanno fatto abuso di alcool nel tempo. E Simone, prima della convivenza con Paola, era stato iscritto alla categoria. Spirò poche ore dopo il ricovero. Al funerale gli amici di sempre lo ricordarono come un uomo per bene. Di quelli su cui puoi contare. Tutti abbracciarono Paola. Tutti si dissero devastati da questa perdita. Alcuni, i più vecchi, ricordarono anche gli altri amici andati del gruppo. Prima l’incidente di Sara, poi la scomparsa di Gingerino. Adesso era toccato a Simone. “Troppo piccolo questo paese per perdere tutti questi amici” disse qualcuno. I genitori di lui la ringraziarono per la serenità che era riuscita a trasmettere al figlio dopo la perdita di Sara. Quando lo seppellirono Paola lo fece collocare accanto alla tomba della vecchia amica. “Ne sarebbe stato felice” disse a tutti. Al rientro a casa, alla sera, il primo pensiero fu quello di far sparire definitivamente le erbe e i veleni che aveva usato. Terminato quel compito si concesse una doccia. Sotto il getto si lasciò andare, mischiando lacrime e acqua bollente. Più tardi, a letto, contro ogni previsione scivolò facilmente nei sogni. Era primavera, e stava seduta su una panchina in riva al lago, in nervosa attesa. Indossava lo stesso vestito del funerale, corto e nero come i suoi capelli corvini. Quando Sara si sedette accanto a lei Paola le sorrise, e si rilassò leggermente. L’amica indossava un bellissimo vestito giallo, con stampe giapponesi raffiguranti fiori verdi e rossi. I capelli biondi erano acconciati con i ricci, e la pelle rosa del viso esaltava gli occhi azzurri. Era bellissima, formosa e solare esattamente come Paola la ricordava. Si scambiarono un lungo abbraccio poi fu Sara a parlare, con il suo tono leggero e acuto. “Bello vederti amica mia. Sei riuscita a mandarlo qui.” “Si. Sorprendente quello che puoi fare con le erbe. É ancora più sorprendente che basta leggere i libri. Trovi tutte le istruzioni. Sono pazzi questi scrittori. Fanno ricerche sui veleni davvero accurate.”
Spero che trovi la pace che cercava. Era stanco di questa esistenza. Si stava consumando. “Non è mai stato molto stabile. Tu sai la storia, vero?” “Si. Qualche tempo fa mi raccontò di quella sera. Lui voleva uccidere Gingerino, invece guidavi tu la sua auto. Mi disse che per un istante credette di impazzire. Io penso che fosse già pazzo, e che quella sia stata la classica goccia. Gingerino lo ammazzammo assieme qualche tempo dopo. Detto tra noi, quello era uno stronzo e se lo meritava. Ma Simone ultimamente stava cedendo. Lo vedevo. Avevo paura che fe qualcosa di grave. Io ho due bambini…” “Capisco. Hai fatto quello che dovevi.” “E adesso?” “Adesso tu avrai cura dei tuoi bambini con la tranquillità che serve. Nascosto nei sogni c’è il nostro destino. Simone sognava me e l’inverno, e adesso ci ha incontrato entrambi. Tu” e fece un gesto con il braccio ad abbracciare l’intero lago “Oggi hai la primavera e la quiete. Usale. Fanne tesoro.” Detto questo si alzò. Prima che sparisse Paola domandò: Posso chiederti una cosa? Perché il culo sulla neve? Sara rise, e alcuni uccellini si levarono in volo. “L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore. Era inverno. Faceva freddo.” “Ci rivedremo?” “Nessuno sparisce per sempre, resta sempre qualcosa da sognare.” Paola rimase sola, seduta alla panchina mentre il paesaggio lentamente svaniva attorno a lei. Sull’altra sponda del lago vide la sagoma di un uomo, alto e magro. Simone alzò un braccio in segno di saluto. Lei ricambiò il saluto con un piccolo gesto della mano, poi lo seguì inoltrarsi nel bosco fino quando non scomparve alla vista. Una lacrima le scese lungo la guancia e cadde a terra, mescolandosi ai primi fiocchi di neve che scendevano dal cielo.
Al risveglio non ricordò i dettagli del sogno della notte, ma si sorprese a scoprirsi serena.
Il sogno più bello di Antonella Mattei Keiko
Credo che un sogno così non ritorni mai più! Perché , Perché dico io, i sogni sono sempre più belli della realtà! E’ stato incredibile, un trip da sballo, come una cena a base di funghi allucinogeni. Ho già detto altre volte che io faccio sogni vigili, sogno sapendo di sognare, viaggio nel sogno e percepisco tutte le sensazioni: profumi, sapori, rumori, sensazioni tattili… è stato strabiliante! Mi trovavo in mezzo all’oceano, non so come ma sapevo con certezza che era l’oceano Atlantico; la luce era quella crepuscolare del tramonto inoltrato che si srotola lentamente nella notte, il mare era scuro, agitato, fortissimo l’odore della salsedine. Ero terrorizzata dalle onde: nella realtà io ho paura dell’acqua; cercavo di tenermi a galla in qualche modo, poi d’improvviso delle forme scure cominciano a muoversi intorno a me e il terrore sale: squali? No, non sono squali ma si avvicinavano sempre di più! Col cuore in gola mi assale il pensiero che siano orche: dalla padella alla brace! Mi sveglio ma non del tutto, nel senso che capisco che sono in un sogno Perché in realtà io non so nuotare e quindi se mi tengo a galla nell’oceano posso solo sognare! Mi immergo nuovamente nel sogno, il mare è diventato più buio, le onde sono cresciute d’intensità, la paura quasi non mi permette di respirare… Poi accade qualcosa di magico. Un girotondo di forme indefinite scure e massicce mi circonda, le onde all’interno del cerchio non arrivano più, l’acqua è ora solo leggermente increspata; le montagne animali mi fanno da scudo, mi sento protetta, sicura. Poi cominciano a girare su loro stesse e iniziano a cantare! Sono balene! Immense balene mi circondano in un girotondo onirico e cantano proteggendomi dalle onde e da tutti i predatori! Ho spalancato gli occhi e ho pensato: “Sono salva!” Poi ho capito che ero salva solo nel sogno… Mi siedo nel letto scomposto, ricordo tutte le incombenze del giorno dopo, le ansie, le paure, la vita che mi sta inesorabilmente inghiottendo come un vortice scuro.
Rivoglio le balene intorno a me, voglio il loro girotondo rassicurante, le voglio sentire cantare. Voglio sentirmi sicura. In salvo. Mi sa che è meglio che mi rimetto a dormire…
(tratto da una pagina del mio blog)
Il sogno di Massimo Licari
Superata la collina, un dolce declivio porta fino alla radura, in mezzo alla quale la casa si delinea chiaramente sullo sfondo della valle che, in questa stagione, è impreziosita da mille colori dei fiori. Un pennacchio di fumo s’innalza dal comignolo e, serenamente, si spande per l’aria come una nuvola leggera. Finalmente sono tornato a casa. Come sempre, il primo ad accorgersi del mio ritorno è Bluff, uno splendido Golden Retriever che ci ha adottato qualche mese fa. Vagava apparentemente senza meta nella valle, ma non dava l’idea di aver smarrito la via. Piuttosto, sembrava un viandante che aveva deciso di far sosta nella nostra casa per condividere con noi quell’angolo di paradiso. Senza chiedere nulla, aveva deciso di restare, con gran felicità di Dario e Simona, i miei due bambini. Sia io che Marina, mia moglie, eravamo giunti alla stessa conclusione: non noi, ma lui ci aveva adottato, scegliendoci in base a chissà quale criterio. E ora, come sempre, Bluff mi corre incontro, felice di rivedermi, anche se la mia assenza è stata breve: lo spazio di una sola notte. Mi salta addosso e mi fa le feste, leccando dove può. Poi corre felice verso casa, annunciando a tutti il mio arrivo con un abbaio foriero di buone notizie. Sulla soglia di casa appare Marina sorridente, che si asciuga le mani con uno strofinaccio. A quest’ora ha già preparato la colazione per me e per i nostri bambini. Affretto il o nell’ultimo tratto che mi separa da lei, e come sempre accade, la abbraccio con tutto l’amore di cui sono capace, cercando le sue labbra con le
mie. “Finalmente sei tornato” mi dice non appena gliene lascio la possibilità. “Si, sono tornato, come sempre, e come farò sempre, amore mio” le sussurro con dolcezza sfiorandole il lobo dell’orecchio. “Vorrei che restassi sempre qui” mi dice con un velo di tristezza che improvviso appare nei suoi occhi color del mare. “Lo vorrei anche io, davvero” le dico. “Ma non posso restare qui la notte. Vorrei con tutte le mie forze, ma sono costretto ad andare via”. Il momento triste a in un istante e lei, tenendomi per mano, mi guida verso la stanza dei bambini. Eccoli i miei tesori, che ancora dormono, con quell’aria innocente e serena che solo un bambino può esprimere appieno. Con dolcezza li accarezzo e li bacio, finché aprono gli occhi. “Papà” mormorano mentre il sonno fatica ad abbandonarli. E mi regalano la cosa più preziosa che hanno: un bel sorriso. Indugiamo per un po’ a coccolarci, e poi, insieme, ci sediamo intorno alla tavola imbandita. Dario mi racconta di come ieri sera ha fatto fatica a prendere sonno, mentre Simona vuole raccontare il sogno che ha fatto. Abbiamo un altro giorno tutto per noi. Esploriamo insieme la prateria, preceduti da Bluff che scodinzola felice. Contiamo le nuvole e cerchiamo di dare un nome alle forme che prendono rincorrendosi nel cielo. Osserviamo le api che si posano sui fiori e inseguiamo con lo sguardo le rondini che garriscono. E ancora giochi, abbracci, piccoli gesti di un amore che non ha mai fine. Dio come corre il tempo!
Senza quasi rendermene conto, le luci cominciano ad affievolirsi, mentre il sole si prepara a lasciare la valle, tuffandosi dietro il monte lì, ad ovest. È tempo di andare via. Con la morte nel cuore abbraccio i miei amori, uno a uno. “Domani torno” prometto mentre trattengo a stento le lacrime. Ogni sera è sempre più difficile separarmi da loro, mia unica ragione di vita. Ancora uno sguardo verso la mia casa. Sono tutti lì, ad osservarmi mentre lentamente risalgo la collina. Con un gesto della mano lancio un ultimo saluto e poi comincio a scendere dall’altra parte. La valle pian piano scompare dalla vista, coperta da questa stupida collina. Davanti a me il buio non mi permette di scorgere nulla, ma avanzo, consapevole di non poter fare diversamente. Finché il buio non mi circonda, avvolgendomi al punto da non riuscire ad udire più nulla. Solo buio e silenzio. Buio e silenzio. Un suono elettronico rompe il bozzolo nel quale sono avvolto. Meccanicamente allungo una mano e lo faccio tacere. E poi, gesti meccanici, ripetuti infinite volte. Esco da quel piccolo loculo che qualcuno si ostina a definire stanza e mi avvio verso l’uscita. Un ascensore affollato si ferma e a fatica trovo il mio posto tra tutta quella gente silenziosa. Centrotre piani in pochi secondi, e siamo al pian terreno.
Ci avviamo come automi verso l’uscita del blocco VI, diretti alla grande fabbrica, la Turbostar, ove trascorreremo le prossime dodici ore. Il cielo è plumbeo, come ogni giorno del resto. L’aria è cattiva, ma è l’unica che abbiamo. Sarebbe bello poter avere una maschera con un depuratore, ma sono solo un operaio di terza classe e non posso permettermela. Quello che guadagno basta appena per l’affitto del loculo e per mangiare. La tuta ce la a la Turbostar, per fortuna, ed è l’unico vestito che possiedo. Abbiamo perso tutto. Ma una cosa non potranno mai togliermela. Alla fine di questa giornata potrò riabbracciare i miei. Sorrido mentre penso che regalerò ai miei bambini un pony. E insegnerò loro a cavalcare.
Amore disinvolto di sca La Froscia
L’amore in sogno non arroga compensi non consacra vincoli non cova vendette non sfodera spade. È scrigno di nobiltà è ornato di riguardo ha orpelli di grazia. Plasma note ammalianti irradia angoli brumosi veste d’arcobaleno. Si libra slegato dai dettami visita luoghi eterni fluttua nell’infinito. Balocca piroetta
perpetua il tempo. Muta diabolico nella veglia.
Ballata in minore di Jill Parker
Una cascata di note malinconiche si riversò fuori dalla cassa armonica, aleggiando nella stanza solo per un breve istante. No, non era adatta al trionfo che doveva celebrare… non possedeva il ritmo incalzante della marcia, l’ansia che andava crescendo, la paura di trovarsi schierati su un campo di battaglia. Guardò la sua arpa con disappunto, allontanandola dalla spalla “Non mi aiuti in questo modo, mia cara” la rimproverò, come se la colpa del persistente silenzio fosse causa del delicato strumento. Lei rimase muta, aspettando pazientemente che le mani ben addestrate del Bardo si posassero ancora sulle corde. “Hai deciso di fare la difficile, allora.” L’uomo si alzò, percorrendo la stanza a grandi i, borbottando frammenti di melodie già composte, battendo lente pulsazioni in crescendo sul tavolo di legno, accennando arpeggi senza sapere che cosa avrebbero accompagnato. Come riuscire a catturare ogni singola sensazione? Come musicare la gloriosa carica dei soldati, il fragore dei loro i che avevano fatto tremare la terra, il clangore delle spade, il sibilare delle frecce nel vento di quella splendida mattina? Come cantare i lamenti strazianti dei feriti, la presenza costante e vigile della morte che aleggiava sui campi come un rapace, pronta a scegliere la sua vittima per pura casualità, per un capriccio, per un errore? Ah, la musica! Era un padrone più crudele di un tiranno, e c’erano dei giorni in cui sembrava una pesante catena legata attorno al suo spirito. Eppure, nell’osservare il suo unico vero amore attenderlo al centro della stanza, con le curve aggraziate accarezzate da un morbido raggio di sole, non poté fare a meno di sorridere; prese un respiro profondo e la raggiunse. Sfiorò il legno con le dita: conosceva ogni venatura, ogni graffio, ogni piccola imperfezione. Era con lui da così tanti anni che aveva da tempo smesso di contarli e non poteva neanche pensare di poterne suonare un’altra. “Vinci sempre tu” sospirò infine. “E va bene, dolcezza, che cosa ne facciamo di questa composizione?” La brezza invernale gonfiò le tende, insinuandosi tra le corde: la cassa vibrò di una nota spettrale. “No, mia cara, non credo che sia questa la strada.” rispose lui, sistemando la nuvola di capelli candidi in una treccia arruffata. “Manca anche a me girovagare per i regni, ma queste vecchie ossa non hanno più la forza di dormire sotto le stelle o di camminare tutto il giorno in balia di pioggia, neve o
sole cocente.” Un trillo triste, una pausa, una carezza. Di nuovo il vento? Il bardo chiuse le imposte e scosse il capo con decisione per snebbiare la mente: dovevano essere ate già diverse ore, se la sua immaginazione gli giocava questi scherzi. Arpe incantate che suonavano da sole meravigliose, ultraterrene canzoni: materiale da leggenda e null’altro. Un arpeggio rubato, lento, malinconico… il vecchio bardo poggiò le mani sul tavolo, osservandone il tremito con uno strano distacco. Erano sue quelle dita sottili, quasi scheletriche? Era un miracolo che riuscisse ancora a suonare. Concentrati! Lo avvertì la sua mente Concentrati sulle note, sulla melodia, non ne troverai mai più una simile! Si volse lentamente: le corde vibravano dolcemente, esprimendo quella musica sepolta nel suo cuore che la sua voce non riusciva più a cantare. In quel momento, quando l’arpa ricominciò a suonare, il bardo poté vedere di nuovo lo schieramento dell’esercito, le armature brillare nel sole del mattino, gli stendardi fieri che garrivano contro il cielo limpido. Con un cambio magistrale di ritmo, il nemico caricò. Una pausa gli tolse il respiro, concentrò la paura e la forza, la volontà di resistere contro la marea di uomini vestiti di scuro che giungeva, sempre più in fretta, inarrestabile, decisa, imbattuta fino a quel giorno. La melodia riprese, più bassa e più cupa, scandita da accordi svelti quanto i colpi delle spade, spezzata dal suono acuto delle corde più alte: le frecce spiccarono il volo sulle ali vento. Un arpeggio volutamente fuori tempo ruppe la perfezione di quella composizione: il dubbio stringeva il cuore di Re e comandanti. Avrebbero vinto? Sarebbero stati abbastanza forti da resistere, abbastanza coraggiosi per combattere ancora, un giorno dopo l’altro, o il gemito dei feriti ed il peso dei morti li avrebbero trascinati nell’abisso della sconfitta e nel vuoto dei ricordi? La domanda silenziosa con cui ogni donna e ogni uomo presenti sul campo si interrogava era intrecciata alla seconda successione di note: sarebbero stati ricordati, li rassicurò il ritmo incalzante, riprendendo il canto principale, in ogni regno avrebbero risuonato le gesta che si consumavano quel mattino, ogni nome sarebbe stato scandito dalle corde dell’arpa, ogni morto avrebbe avuto il suo sussurro, il suo lamento, accompagnati fino alla fine da quella splendida canzone. Ed infine, un tema più sottile per la morte, colei che vinceva sempre e comunque, saziata dall’istinto umano di volere sempre più di quanto avesse già, una risata trillante e lugubre la cui eco si spense in meno di un istante. L’ultima serie di accordi lo lasciò senza fiato; se non avesse ascoltato quella musica non avrebbe mai potuto provare di nuovo il brivido dell’ultima carica: la terra aveva tremato, scossa al grido del capitano della Guardia Reale, ed i suoi uomini si erano lanciati all’attacco. Pausa.
Il silenzio lo avvolse, lasciandolo solo come un vecchio qualunque, muto, cieco e tremante. Cosa era accaduto dopo quell’istante perfetto? “Maestro?” Era una voce sottile, dolce e preoccupata, una voce ben addestrata che racchiudeva un’ansia pressante: chiuse gli occhi e li riaprì. Il buio non accennava a diradarsi, eppure il sole non poteva essere già tramontato. L’arpa rimase dolorosamente muta, come se il vuoto che il Bardo avvertiva dentro di se avesse stretto anche lei. “Suona ancora” la pregò “Devo finire questa canzone.” “Sta delirando.” sospirò di nuovo la voce. Era un tono familiare, quel misto tra un caldo accento del sud e l’inflessione più dura dei regni dell’ovest. “Maestro, per favore, apri gli occhi.” Il vecchio aggrottò la fronte, confuso dalle frasi che si sovrapponevano nella sua mente; il tocco tremante di una mano calda sul suo braccio gli strappò un brivido, ed il buio scomparve del tutto. La luce entrava a fiotti dalla finestra aperta sul giardino fiorito, il vento che entrava profumava d’estate e portava l’eco dei canti del mare; fu sorpreso di trovarsi disteso su un morbido giaciglio, in una stanza che faticò a riconoscere come la sua. “Cosa…” mormorò, tossendo quando si accorse di quanto gracchiasse la sua voce. Qualcuno lo sostenne, permettendogli di respirare più agevolmente; istintivamente lottò per alzarsi: dov’era la sua arpa? “Paìdin, dove credi di andare?” la voce esasperata lo spronò a sedersi più comodamente, ed il Bardo scrutò la giovane donna al suo fianco con disapprovazione. “Tu che cosa ci fai qui?” la rimproverò con un grido, osservando le ciocche corvine ricadere sul viso pallido e tirato; doveva averlo vegliato a lungo, si disse con una stretta al cuore, a giudicare dalla profonda stanchezza che offuscava gli occhi dorati. “Ti avevo ordinato di restare lontano da questa città, è pericoloso stare così vicini al fronte.” Lei scosse il capo, frenando le sue parole con un sospiro. “Sei stato ferito durante lo scontro” gli spiegò con voce piatta, alzandosi dallo sgabello e sistemando con cura la veste da apprendista. “I guaritori del Re sono stati così gentili da riportarti a casa dopo che il capitano Gurwal ha liberato questa città dalle mani dei nemici.” Sistemò con cura il medaglione dorato che rappresentava la sua appartenenza all’Accademia. “Riportare i fatti e non farsi
coinvolgere, era questa la lezione numero sette, se non ricordo male.” aggiunse, lanciandogli uno sguardo gelido. “E’ questo che fanno i Bardi, bambina… osservare e raccontare.” provò a protestare lui, ma i suoi occhi dorati gli intimarono di tacere. Forse aveva ragione lei, e nel notare quanto profondamente la preoccupazione segnava il volto dolce di lei, Paìdin accantonò la questione. Si volse, lasciandole il tempo di nascondere quel sentimento così palese, e notò l’arpa posata in un angolo, più piccola e meno decorata della sua: era l’arpa della sua apprendista, le cui corde vibravano ancora per la canzone che aveva smesso di suonare. La guardò, sorridendo appena. Erano state le sue mani a creare quella meravigliosa melodia o era stato soltanto il frutto delle erbe curative, della sua mente e del suo desiderio di poter comporre ancora? Fece per parlare ma le parole morirono sulle sue labbra; c’erano cose che era meglio non sapere, cose che era meglio lasciare sulla soglia dei sogni, a metà tra la nebbia e le ultime luci del tramonto. D’altronde, sospirò adagiandosi sui cuscini, questo era parte del suo dovere: far nascere e morire storie e leggende.
Spin off da “Il canto del Bardo”
L’incubo di Piero di Anna Cibotti
… i sogni e gli incubi sono fratelli e figli della stessa notte. La tela, ancora fresca di pittura, stava lì appoggiata al cavalletto, in posa. Piero la guardava compiaciuto, e intimamente convinto di essere un grande artista, sorrideva a se stesso. Di rimando, il viso di una giovane donna incorniciato da folti capelli biondi, lo guardava con occhi appena socchiusi e ammiccanti. Quella testa di dimensioni normali, poggiava sopra un corpo estremamente piccolo e nudo. Una trovata, pensava Piero, originale e innovativa. Ebbro della sua consapevole bravura e stanco del suo peso, reclinò pian piano la testa e si addormentò. La tela si colorò di nuova vita. Il viso si accartocciò come una maschera lacerata e gli occhi rimasero buchi neri che piangevano sangue. Tutte le tele appoggiate alla parete furono infettate da un virus che ne cancellò l’identità primaria. Ormai erano solo un caos di colori e segnacci neri deturpanti. Piero si agitava nel sonno, alternando apnee a versi gutturali e nel suo incubo assisteva a quello scempio atterrito, incredulo e incapace di fermarlo. Era tardi, ormai. Le sue opere erano state contaminate dalla sua presunzione. Si svegliò di soprassalto e quasi cadde dalla poltrona. “E’ stato solo un brutto sogno” penso immediatamente e guardò… Fu più orribile quel momento dell’incubo appena vissuto. Nessuna mano aveva imbrattato la sua tela, e nemmeno tutte le altre.
Le guardò lentamente, una per una, e vide quanto fossero brutte e mediocri. Rivalutò il suo ego e ne pianse la nullità. Non dipinse più, ma tenne tutte le sue tele… gli avrebbero ricordato che doveva ancora crescere.
L’ospite inatteso di Andrea Masotti
All’interno di un bar demodé una bella signora siede distratta guardando il eggio che sfila oltre la vetrata. Dietro il bancone un barista allampanato, un po’ sciupato, racchiuso in un camicione bianco, conta i soldi. Poi nell’attesa dei clienti che latitano, si gira a lucidare lo specchio con uno strofinaccio. “Quanto?” Il barista rimane un po’ perplesso. “Sessantotto euro, e domani c’è da pagare il pasticciere” risponde allo specchio. “Anche quando venivi a are il pomeriggio con i tuoi amici, consumavate poco. Ma c’era Nino che offriva da bere.” Nino stava seduto lì, sulla sedia in angolo, tra il tavolino e il bancone. Inforcava gli occhiali e aspettava Dory. È stato lui a soprannominarla così. “Il vecchio porco. Tutti i giorni tornava e sperava di metterle le mani addosso. Settant’anni, il cappello grigio, un ometto alto così. Lei ne aveva diciassette, il viso da bambola, la pelle di madreperla.” “Settanta, sei sicuro?” “Certo, e tu, specchio, allora ne hai visti are, per un cappuccino, una brioche. Una minerale. In piedi c’era la mia compagnia. Qui, con gli occhiali da miope, il vecchio lattaio.” Là il ragioniere, giacca e cravatta a fiori. Parlava solo di calcio. “Domenica facciamo due pappine. Se no vado là e li prendo tutti a calci nel sedere” Ma era Nino al tavolo che teneva banco, quando arrivava Dory le chiedeva conto dei corteggiatori, rivaleggiava con loro. “Sembri Ava Gardner” o “Hai gli occhi
di Liz Taylor” le diceva. Alle otto il bar chiudeva e Nino traccheggiava con il bastone. “Tutti spariti. Siamo rimasti noi due, Dory. In vent’anni non hai mai detto che mi ami. Sei bella come allora, uguale spiaccicata. Io sto a rodermi qui, a contare l’affitto per fine mese e a fare i conti con una vita che non è quella che ti aspettavi”. Lentamente, con gli occhi appannati e malinconici, il barista si gira verso la moglie che si è alzata dalla sedia e si appresta a uscire. “A che ora torni?” “A mezzanotte, quando arrivi, mi trovi a letto.” “Ciao” La moglie esce. “Te ne vai, poco di buono, non so dove, mentre io lavoro. Io non ti ho detto a chi assomigli, che hai begli occhi. Non sono capace, so fare i cappuccini. E qualche cocktail. Non ti ho offerto niente che vale davvero.” Sbadigliando va a sedere dove c’era prima la moglie. Si stira e socchiude gli occhi. Poco dopo entra un anziano signore, elegante, con il bastone da eggio. “Mi fa un cappuccino, posso sedermi qui?” “Certo, sieda pure, arrivo subito.” “Giovanotto, non ho tempo da perdere, cosa fa sempre allo specchio?” “Eccomi. Non ci posso credere… Nino! Sei sempre uguale! Che sorpresa!” “Faccio un giro a trovare i vecchi amici.” “Ma… veramente non ti ho trattato da amico.”
“E io ti ho trovato una bella ragazza. Tutto bene con Dory?” “Mah. Non la conosco ancora.” “Biblicamente? Non ti bastano vent’anni? Puoi confidarti, il mio è un silenzio di tomba. Che classe! L’avrei vista a Hollywood con il Grande Valentino.” “Non so cosa vuole, dove va… Perché dici che mi hai trovato Dory? Cosa intendi?” “Gliel’ho consigliato io di fidanzarsi con te: eri il più in gamba. Sei alto e hai la faccia buona. Gli altri non valevano niente. Quando c’ero io ridevano - Guarda che brutto vecchio! – glielo leggevo sulle labbra. Lei invece stravedeva per me.” “All’inizio credevo di piacerle.” “Le ho raccontato quello che avresti dovuto dire tu.” “Cioè?” “Che la trovavi meravigliosa ma non riuscivi a confessarglielo. Che il suo profumo ti faceva impazzire.” “Adesso è finita.” “Quante volte le offri rose rosse? E un anello all’anno o una collana?” “Nino, tu ci sapevi fare.” “Non fuggire dal ring, fai come Primo Carnera!” “Grazie Nino, devo riflettere.” “Io invece devo già andare. Il cappuccino è buono. Non mi ero sbagliato su di te.” “A Dory cosa dico?” “Accarezzale le mani. Saprà che sono ato. Io vi ricordo sempre, lo sai che per me siete stati come dei figli.”
“Dory tua figlia, eh… Vabbè. Ciao Nino. E scusa per allora.” Il barista si alza trasognato. La luce giallognola di un’applique si spande nel locale deserto. Si alza e appende il camice alla parete. Poi indossa il giaccone appeso nello sgabuzzino, esce di fretta e abbassa la saracinesca. Poco dopo Dory apre la porta di casa. Lui è là ad attenderla con un mazzo di rose. “Dory, sei già qui?” le porge il mazzo di rose “Hai gli occhi di Margherita Buy!” “Dove credevi che andassi?” gli sbatte le rose sul muso. ”Che bella che sei, Dory. Lo sai che ti amo.” Sorride e le stringe le mani. Dory lo abbraccia.
Sogno (da “Penombre”) di Andrea Leonelli
Sogno che ci sei, con me. Allungare la mano, trovarti, sentire il tuo corpo sul mio. Aprire gli occhi e vedere che apri i tuoi, restare allacciati dallo sguardo, senza parlare. Ascoltando le anime parlare senza suono. Sentire i tuoi i in casa, l’acqua della doccia, la macchina del caffè. Sogno una quotidianità fatta di piccole cose, bicchieri e tazzine verdi,
sigarette accese e ate, piatti riempiti, vuotati e da lavare, panni da stendere, letti da disfare e rifare in continuazione. Sogno squilli di telefono, sms e parole quando sei lontana e quanto siamo lo stesso vicini. Sogno futuri, comuni, di piccole cose, piccoli gesti normali resi speciali da NOI. Sogno poi apro gli occhi, sento il tuo respiro, le tue labbra, la tua voce nell’orecchio.
Sei qua e non è più un sogno. Ora con te io Vivo.
Imploso in assenze interiori di Andrea Leonelli
Infrango il muro dell’immaginazione e rinvengo i sogni della notte. Mi libro come fumo nelle correnti di case non mie, di atmosfere barocche e bizantine, gotiche e cupe come guglie, formazioni artificiali di cataboliti cosmici, di fantasmi di cadaveri caduti in massacri epici Rarefatto, mi disperdo in atmosfere libere da tracce di vita.
Solo, nel nulla ignoto, dentro me stesso. Imploso in assenze interiori.
Il nulla di Irma Panova Maino
Nasceva dal buio marasma del nulla. Un niente infinito che non sarebbe mai esistito se non vi fosse stato quel pensiero costante che, ogni notte, andava prendendo consistenza all’interno dei sogni. Un sottile filamento che, attorcigliandosi su sé stesso, filo dopo filo, diventava ogni giorno più spesso e consistente. Una sorta di fune onirica che legava i pensieri a quell’unico nucleo, nutrendolo con la stessa sostanza incorporea di cui erano fatti i sogni. Un concetto che, da misero barlume iniziale, stava diventando sempre più solido e tangibile a causa delle frustrazioni e delle privazioni che venivano rinfocolate a ogni sogno infranto. Il tutto era partito da un desiderio, da una necessità irrefrenabile che colmava l’inconscio d’insoddisfazioni, restando comunque ben celata nell’ancora avverso mondo reale. Un bisogno che veniva costantemente negato, dal momento che sarebbe stato inopportuno e controproducente, ma che non avrebbe potuto restare ignorato ancora per molto, non con quel legame che s’inspessiva, strattonando la coscienza ogni qual volta una frase, un gesto, una ricorrenza venivano dimenticati o elusi. Persino le singole parole iniziarono ad alimentare quel “niente”, ogni più piccola sfumatura venne vagliata, soppesata e alla fine data in pasto alla sempre più famelica esigenza che il “nulla” aveva di palesarsi. Alla fine, anche i silenzi divennero un nutrimento sufficiente. Silenzi pesanti e solidi come macigni, talmente tanto corporei da affaticare il respiro. Il “niente” valicò i confini del mondo onirico risvegliando istinti assopiti da tempo, stirò le rattrappite membra verso quella presa di coscienza luminosa che gli offriva nuovo sostentamento e mosse i primi i verso l’orgoglio affranto. Ed ecco che, ciò che si era a lungo celato nei meandri inconsistenti delle fasi REM, prese il sopravvento scuotendo la mente con vigore, fino a che i frutti non cominciarono a piombare verso il terreno con tonfi destinati a riverberare lungo tutto l’essere, espandendosi oltre i confini materiali dell’IO. Il refolo d’aria, che a lungo aveva cullato la coscienza nelle notti caliginose e insonni, divenne prima vento e poi tempesta, arrivando a spazzare via ogni convinzione e ogni convenzione fino a quel momento riconosciuta.
Il mondo onirico era diventato un luogo troppo ristretto per quella necessità impellente, una prigione soffocante che non poteva più contenere quel bisogno di libertà che la vita stessa imponeva, rifiutando con orrore l’inedia e la rassegnazione. Il “nulla” divenne finalmente ciò che era destinato a essere fin dal principio, assunse la propria identità con orgoglio e impose al mondo reale la propria ingombrante presenza, radendo al suolo le barricate poste dalle consuetudini radicate di un’esistenza spesa nel torpore e costruite da chi non poteva reggere al cambiamento. E quando i testimoni, attoniti, gli chiesero il suo nome, cercando di ritrovare un equilibrio in quell’anarchia improvvisa, il nulla rispose con un sussurro gelido: “Chiamami… Consapevolezza”.
I sognatori di Sebastiano Impalà
Io e te sopra di noi arsi, stravolti sconfitti e malmenati, noncuranti e irrilevanti sconcertati e lucidi di mondo, pregni d’aria e secchi come paglia.
Io e te sudati nell’amore spediti verso vizi proibitivi, ansanti sopra rocce immacolate, caduti dentro fosse di miseria.
Io e te, cavalli di una notte sola. Occhi cavi
sbarrano le porte allo sguardo oltraggioso della morte, macabre follie imperversano le strade.
Percorreremo stretti incunaboli selvaggi, gole d’acque ramazzanti, nature di popoli crescenti.
Io e te nudi nella notte sogniamo ad occhi aperti convinti di vivere cent’anni a maledire chi non ha mai amato.
Ansia di Sauro Nieddu
Greve cupezza che opprimente preme sul petto stanco limitando il fiato il cuore affanna e par perdere colpi madido il letto di sudor gelato Ecco un risveglio mattutino standard eppure all’apparenza la mia vita non mostra segno di problema alcuno essendo ogni ambizione mia esaudita La macchina è modello ultrasportivo e sarà a breve del tutto pagata. Il mutuo vale bene la fatica: la casa è in una splendida borgata Le tette nuove della mia compagna l’ultima folle spesa sono state ma niente figli, quindi che ci frega: vacanze non ci mancano d’estate Il conto in banca certo un poco langue rimedierò impegnando maggiormente
Il tempo vuoto a svago dedicato in fondo la palestra non è urgente Mi chiedo allora perché questi risvegli che mi lasciano in bocca tanto amaro. Che mai si celerà dentro al mio sonno che di soddisfazione è tanto avaro?
Ade
Ed ecco. Dopo un duro testa a testa, che Ade abbandona il regno degli inferi per venire a voi splendide Penne. Il dio, non fa strettamente parte del panteon olimpico. Infatti, dopo che con i fratelli Zeus e Poseidone detronizzò Crono, a lui venne assegnato il governo del mondo sotterraneo e degli Inferi, mentre agli altri due toccarono rispettivamente lo scettro dell’Olimpo e quello del mare. Ade dio degli Inferi, regna quindi sui morti, e non è considerato un tipo particolarmente simpatico, anche se pur scorbutico e solitario, gode però la fama di essere giusto. Di lui non si parla spesso, rappresenta infatti, per eccellenza, il lato oscuro, quello di cui a nessuno fa piacere parlare. Del resto, egli stesso è un signore piuttosto schivo, essendo documentati, in tutta la storia, appena due viaggi al di fuori del suo regno. Una curiosità… da lui, seppur indirettamente, dipendono le stagioni. Se infatti egli non avesse rapito Persefone, infatti, trattenendola con sé per ben sei mesi l’anno, il dispiacere della madre di lei, Demetra, non caebbe più le grigie piogge autunnali e i rigori dell’inverno. Ade: dio che governa l’oltretomba e le viscere terrestri. Il dio si lega all’oscurità, alle tenebre e alla morte. Dunque il lato più oscuro dell’uomo e dei segreti inconfessabili che cela nel proprio animo. Ma anche il regno dei morti, con tutte le sue sottili sfumature.
Minosse di Annarita Petrino
Nero Nero e lucido Nero, lucido e immobile Nero, lucido, immobile e spietato Nero, lucido, immobile, spietato… come la morte. Non ha pietà Minosse, perché non ha sentimenti, non sa cosa siano, non li prova, non li sente, non li conosce. Non ha cuore Minosse, perché nessuno glielo ha donato, non ne conosce il battito. Non ha bocca Minosse, perché non gliel’hanno costruita. Muove solo un dito Minosse e in base a come lo mette decide di quale morte devono perire gli sfortunati che gli conducono. Essi, per raggiunti limiti di età e secondo la legge di Kairon City, devono essere terminati in nome dello scongiurato sovrappopolamento. Il dito di Minosse è immobile, da troppo tempo ormai. Non ci mette mai molto per decidere, ma i suoi occhi rossi puntano a quella piccola croce d’oro che pende dal collo dello sventurato. Lui ha già visto quel simbolo. Lo ricorda come prima immagine da quando ha avuto coscienza di sé. Qualcuno lo indossava… Alla fine chiude a pugno la mano. Non può parlare, ma il suo gesto è chiaro. Non vuole giudicare, lui non può giudicare quella croce.
Genere “fantascienza cristiana” Autrice di una raccolta di racconti dal titolo “You God” edita dalle Edizioni Il
Papavero – Marketing d’Autore (novembre 2013)
New gods di Fabrizio Castellani
“Vorrei saperlo da te Paola. Con parole tue. Perché lo hai fatto?” Aveva volutamente tenuto un tono conciliante, amichevole, per non farla sentire sotto pressione. Sapeva per esperienza quanto la ragazza che aveva davanti fosse già comprensibilmente nervosa, e un ulteriore stress certamente non avrebbe aiutato. Anche con le mani tremanti, e il disagio di trovarsi in quel luogo buio e sconosciuto, la voce di lei usci però limpida. “Non avrebbe dovuto provarci, non avrebbe dovuto toccarla. Lo avevo avvisato. Ma non mi ha ascoltato. Non mi credeva capace.” Ade sospirò e aprì il fascicolo che teneva di fronte. Dette una veloce lettura alle poche pagine. Resoconti, fotografie e appunti raccontavano la storia di Paola. In quel fascicolo, davvero troppo leggero, c’era tutta la vita della giovane. Una storia come tante, come troppe. La storia di una ragazza nata forse nel momento sbagliato, forse nel posto sbagliato. Una madre debole e remissiva, un padre violento. Paola era solamente l’ennesima anima fuori posto, messa là da quel dio superiore che risponde al nome di Fato, e sul quale nessuno ha potere. Nei secoli lui, il signore degli inferi, quante di quelle anime aveva giudicato? Quante aveva salvato e quante invece condannato? Troppe storie drammatiche, troppi dolori erano ati sotto i suoi occhi, e di colpo sentì addosso il peso di tutti i suoi anni. Era una sensazione che lo assaliva spesso ultimamente. Forse suo fratello aveva ragione: “Forse è tempo” pensò. Richiuse le carte e guardò la ragazza, che vestiva con un vecchio giubbotto di pelle nera, forse di finta pelle. Era sporco, e liso all’altezza dei polsini. Il nero scolorito in contrasto con la carnagione lattea del viso. Ma affine agli occhi, due pozzi, scuri e tristi, con riflessi color del rame. Si prese ancora qualche secondo, mentre lei sembrò farsi più piccola sulla sedia
della sala interrogatori, poi parlò con voce autoritaria: -allora Paola. Ha picchiato tua madre, e questo lo so. Leggo qui che avevi assistito alla stessa scena decine di volte. Picchiava anche te, spesso. Cos’era diverso questa volta? La ragazza si guardò la punta delle dita magre, con le unghie smaltate anch’esse di nero. Ade sapeva che non le stava effettivamente guardando, ma cercava dentro di sé le parole per raccontare, per spiegare. Quando lei alzò gli occhi lui seppe che era pronta, e si preparò ad ascoltarla con attenzione. -non riuscivo più a sopportare. Tornare a casa ogni giorno e aspettare un pugno, o un calcio. E il giorno dopo nascondere i lividi con il fondo tinta. O anche peggio. Trovare mia madre a terra, una maschera di sangue, mezza morta. Costretta in casa per non far vedere ai vicini l’inferno dove abitavamo. Lo avevo avvisato. “Ti ammazzerò. Alla prima occasione ti ammazzerò” gli avevo detto. Aveva riso. E poi mi aveva colpita più forte. E ancora, e ancora… Tu sai cosa vuol dire avere un mostro come padre? Ade trattenne a stento un sorriso, non sarebbe stato appropriato. Pensò per un minuscolo istante a una sera di tanti secoli prima. Crono non era certo stato un padre modello, e ucciderlo era stata una liberazione. Ma tra un Dio e l’Uomo ci sono morali diverse, e anche l’assassinio di un padre a volte può essere cosa giusta. Il suo silenzio la incoraggiò a continuare. “Sono rientrata tardi. Speravo non ci fosse, o che fosse già a dormire. Invece era li, in cucina, ubriaco come sempre. Mia madre era a terra, in ginocchio. La teneva per i capelli mentre lei piangeva, implorava. Gli ho gridato di lasciarla, di smetterla. Ho preso il coltello e lui mi si è avventato contro. Mi ha messo le mani attorno al collo e ha stretto. Poi… poi non so. Non so cos’è successo dopo.” Ade aprì di nuovo il fascicolo. Estrasse una foto e la spostò di fronte alla ragazza, in modo che potesse guardarla. La foto ritraeva Paola in cucina, stesa a terra, ferma in una posa innaturale. “E successo che sei morta, Paola. Tuo padre ti ha strangolato” le disse indifferente.
“Morta? Allora…allora è stato tutto inutile” rispose lei più stupita che spaventata. “Inutile? No. Non direi. Sei quasi riuscita. Il coltello è penetrato in profondità, causando un’emorragia. Tuo padre sta morendo lentamente giusto in questi minuti. Presto sarà qui. Quindi un risultato l’hai ottenuto. Un’ultima domanda: lo odiavi? Odiavi tuo padre?” “Odiarlo? No. Non credo. Fa differenza?” “No. O forse si. Lo odiavi?” “No. Non lo odiavo. Era mio padre. Non potevo odiarlo.” “Ma lo hai ucciso. Perché?” “Perché… perché non era giusto. Un padre protegge i figli. Non li offende, non lo distrugge. Li deve proteggere. Educare. Mio padre non era un padre giusto.” Il silenzio scese nella stanza buia. Ade raccolse i fogli sparsi sul tavolo e richiuse il fascicolo. Aveva avuto la risposta che voleva. “Ti farò sapere” disse rivolgendosi alla ragazza. Un istante prima di uscire dalla sala parlò un’ultima volta: “Se ti aiuta saperlo, credo che tu sia stata giusta. Una vita, la tua, per una vita, la sua. Si, sei stata giusta.” Qualche ora più tardi Ade stava seduto nel suo studio, letteralmente sprofondato nella vecchia poltrona. La giornata era stata lunga e sorseggiare un buon cognac di fronte al caminetto per lui era da sempre un buon modo di trovare pace. A metà del secondo bicchiere finalmente si decise e prese il cellulare. Attese pochi istanti prima che una voce assonnata dall’altro capo rispondesse. “Ciao. Si sono io. Scusa l’ora, ma mi confondo sempre con il fuso orario” disse con un ghigno “Va bene, vengo anche io. Si ho trovato una sostituta temporanea… una ragazzina, una giusta. È morta ammazzata dal padre, ma è tosta. Ha anche il look adatto a fare la regina degli inferi. Sì, sì, una femmina… serviva un cambiamento qui sotto… ma che danni vuoi che faccia? Una vacanza mi ci vuole proprio, l’hai detto anche tu. Il tempo di istruirla Zeù, una settimana, dieci giorni al massimo… sì sì, avvisi tu Done? Lo sai com’è… se non ha tutto organizzato al minuto quello scatena un maremoto. Si fratello, sarà un piacere
abbracciarti di nuovo. A presto. Salutami i ragazzi su all’Olimpo” Mise giù il telefono e finalmente si concesse un sorriso. Solo all’idea di andare in vacanza si sentiva più rilassato. “Allora Cerbero, vieni a Tahiti con me o resti con la ragazzina?” disse rivolto al cane accucciato di fronte al caminetto. A sentire il suo nome il vecchio beagle scosse tutte e tre le sue teste, agitò un po’ la coda, poi tornò a ronfare beatamente.
Come il padre vostro di Giuliana Guzzon
…attendo nell’altro regno…
Imprevedibile, magico, affascinante strumento del bene o del male con forza vitale o letale sono in attesa oltre la vita. Vi dono ciò a cui aspirate! Sono Dio o son Demonio non lo saprete mai ma le mie fauci sono la porta che la vostra anima cerca. Velluto nero coprirà le vostre spoglie mentre la vostra speranza ultima a morire giace sepolta al mio fianco e non tornerà. Io mi prendo cura
delle vostre lacrime asciugandole per sempre. “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte”. (Dante Alighieri) Divina Commedia, Inferno, Canto I
La Foresta Nera é a un o! Misteri, pericoli, animali selvatici e furtivi. “Muti dolori implorano un lamento in lande di silenzio, sconfinate; le colpe antiche invocano un tormento a lenire condanne inespiate”. Spiriti silvestri, orchi e predatori, vigilano appostati tra il fitto degli alberi… Nei sentieri segreti le presenze alate di Angeli e Demoni sono i guardiani che
attendono l’arrivo del trao delle anime. “Vincitori sconfitti, crocifissi in bolge d’impossibile, tramonti in abissi infiniti e tumultuanti”. La notte eterna, trasformata dall’oscurità del bosco, é a un o da Caronte. L’aria si fa densa… “Bufere di visioni, apocalissi, file confuse, in labili orizzonti di spettri in saio nero, allelujanti…”
Tra le creature di Ade di sca La Froscia
Si avvicendano stagioni albe tramonti ma io non ravviso i cicli né la loro bellezza.
Mi sembra di sbarcare il tempo in un ghetto sotterraneo dove scorgo solo orrori e perenne sconforto.
Tu non ci sei… Ti sei calata negli inferi tra le creature di Ade.
E mi chiedo come sarà il nuovo meridiano quali amici trovati se quel luogo da indivisi temuto dannazione possa contemplare.
Ma dannato sono io su questa terra d’affettata luce ché il regno di Ade da buio lucente forse sarà pervaso.
I sogni di gloria di Caronte di Anita Rudcliff
Ade è nel suo ufficio, e come ogni giorno è intento a esaminare i dati delle nuove anime che quella stessa mattina hanno varcato l’Acheronte. Così assorto, non si rende conto che qualcuno bussa alla porta. “Mi scusi eccellenza, è permesso?” Davanti alla scrivania si para Caronte, cappello in mano. Ade appoggia i documenti, si raddrizza sul suo trono, poggia i gomiti sul ripiano della scrivania e comincia a squadrare il traghettatore, che ha un sussulto e per poco non se la fa addosso dalla paura. “Dimmi Carò… posso fare qualcosa per te? qualche problema? Chi si è buttato nel fiume stavolta? Ah non dirmelo, è stato quel briccone di Cerbero? Spero sia qualcosa di molto grave, perché sai quanto odio essere disturbato quando sto facendo i conti delle anime…” Caronte abbassa la testa, poi senza mai guardare il padrone negli occhi, e prendendo il coraggio a quattro mani, comincia a formulare la sua richiesta. “Ehm… Sua Eccellenza illustrissima…” “Procedi Carò, che c’ho premura!” lo interrompe Ade, mentre si guarda distrattamente gli artigli della mano destra limati di fresco. “Mi scusi… sono qui per chiedere… u-un au-mento d-di sti-stipendio…” E mentre lo dice, sicuro che la reazione del padrone sarà violenta, Caronte si porta le mani davanti alla faccia e si rannicchia in posizione fetale. Ma non arriva niente. Non una scarica elettrica, e neppure una fiammata, e nemmeno un inizio di terremoto. Niente di niente. Quindi il traghettatore alza gli occhi e cerca di visualizzare il padrone davanti a lui, dallo spazio tra le braccia ossute che ha messo in posizione di difesa, aspettando un colpo che non arriva. Con sua grande sorpresa Ade sta sorridendo. Se lo poteste vedere, cari lettori, converreste con me che quello che il dio della Morte ha stampato in faccia
assomiglia più a un ghigno malefico che a un sorriso, ma al povero Caronte, non essendo abituato ai sorrisi , non resta che interpretare quella smorfia diabolica in un gesto amichevole. Si decide quindi ad abbassare le braccia, si rialza in piedi e anche lui prova a contrarre il volto in un sorriso, anche se non gli riesce benissimo e assomiglia più alla faccia dipinta da quel tale Munch, di cui gli ha tanto parlato un tizio che ha traghettato proprio l’altro giorno. “Caronte caro, com’è che vieni a chiedermi un aumento di stipendio?” chiede Ade con voce sorprendentemente suadente. “Forse ti senti trascurato, non ti basta quello che ti do?” e continua “Ti senti così insoddisfatto? Ti ho sempre trattato come un figlio (e qui la voce si fa quasi pietosa, e gli occhi infidi gli si riempiono di lacrime) e tu così mi ripaghi… chiedendomi un AUMENTO? Sono proprio deluso.” “Ma Karl…” interviene Caronte che, avendo scorto un minimo di debolezza nel padrone, cerca di approfittare di quel momento per sviolinare le ragioni della sua richiesta. “Quel Marx!” tuona allora Ade, e la terra comincia a tremare mentre il Dio si alza sul trono e si gonfia fino a riempire con la sua altezza tutto l’androne e Caronte cerca di rifugiarsi in una nicchia. “Lo sapevo che quello là ci avrebbe creato solo problemi, con le sue teorie strampalate sull’emancipazione del proletariato, lo sapevo! E tu (e indica con l’indice uncinato il traghettatore che ormai è sicuro che la sua sorte sia segnata, e maledice il giorno in cui ha parlato con quel tale sulla barca), Tu, razza di bastardo, mangiapane a tradimento, scansafatiche! Mi tradisci così, per un umano!” Poi si ridimensiona, tira un sospiro e, mentre il fumo delle sue narici invade la stanza, riacquista un tono pacato. “Mio caro Caronte, credo che il nostro rapporto di lavoro finisca qui. C’è Cerbero che, sono sicuro, muore dalla voglia di prendere il tuo posto sull’Acheronte, e mi costa molto meno di te, dato che si accontenta di un osso per ogni testa. Se decidi di licenziarti sei libero, ritieniti esentato dai tuoi doveri fin da ora.” Caronte esce fuori dalla nicchia dove si era nascosto, con uno sguardo tra l’allucinato e lo stupito e cerca di parlare ma non riesce ad articolare le parole. “Gra-grazie su-ua E-minenza” e fa per uscire dall’antro, quando Ade lo blocca:
“E dimmi, ora che farai, hai già un posto dove andare, nel mondo dei vivi?” Caronte si gira e risponde, con fare sottomesso: “Ehm, so che cercano personale su un nuovissimo transatlantico che partirà fra qualche mese per l’America… se Sua Eccellenza potesse… ehm… farmi una lettera di referenze…” Ade, di nuovo, con un ghigno malefico scolpito in faccia esclama: “Ma certamente amico mio, certamente!”. Mentre Caronte risale l’Acheronte per l’ultima volta, stringendo il foglio firmato dallo stesso Ade, ha un moto d’orgoglio e quando arriva sull’altra sponda aspetta che Cerbero, che ha preso il suo posto sulla barca, si allontani giusto il tanto perché possa sentire i suoi insulti, ma non possa più provare ad azzannarlo: “Cagnaccio dei miei stivali, babbeo, stupido idiota, vai vai dal padroncino che ti aspetta con l’osso!” Cerbero comincia a ringhiare, ma ormai è troppo lontano e non gli resta che terminare il suo lavoro. Intanto Caronte risale la ripida scala che lo divide dal regno dei vivi e pregusta già la nuova vita che l’attende al di là della porta dell’Inferno. Qualche tempo dopo, Cerbero sta traghettando millecinquecento anime vittime di naufragio, quando nota un viso conosciuto, un vecchietto che cerca di mimetizzarsi fra la folla. E’ proprio lui , Caronte! Il cagnaccio aspetta che tutte le anime siano scese dalla barca, poi acchiappa per i capelli l’ex traghettatore che intanto urla e si dimena e lo trascina fino al trono di Ade. Costui non sembra affatto stupito di rivedere il suo “amico”, e anzi gli riserva un’accoglienza a dir poco calorosa: “Carissimo, qual buon vento ti porta? Ah già, ho sentito del Titanic... immane tragedia... per loro, certo, non per noi che abbiamo quadruplicato gli introiti nel giro di due giorni.” E si frega le mani soddisfatto. “Sua Eccellenza Illustrissima” risponde Caronte buttandosi piangendo ai piedi del Dio “Perdonate la mia avventatezza!” “Su su, non fare così” risponde Ade “C’è sempre un posto qui all‘Inferno per lavoratori come te… Cerbero mi ha appena fatto sapere che non ha più voglia di traghettare anime, quindi riavrai il tuo vecchio lavoro, sei contento?”
Caronte si illumina e sta per baciare le mani a quel dio così magnanimo, quando Ade aggiunge: “Naturalmente quel che è giusto è giusto e verrai retribuito con la stessa paga che ha percepito Cerbero durante la tua assenza.” Caronte rimane di ghiaccio, e scappa via disperato, rincorso da Cerbero che non ha dimenticato gli insulti del giorno in cui il traghettatore aveva lasciato l’Inferno per andare nel mondo dei vivi, mentre le risate diaboliche di Ade rimbombano per tutto l’antro.
La morale di questa storia, cari lettori, è presto detta: mai pretendere più di quel che hai, potresti ritrovarti con un mucchio d’ossa tra le mani (soprattutto quando hai a che fare con Ade!)
Io Persefone Tu Ade di Claudia Lo Blundo
Lei lo aveva abbandonato senza un vero addio, con un semplice bacio fugace sulla guancia, timorosa che le mani di lui avrebbero potuto ghermirla ineluttabilmente, per portarla sulla cima di quell’alto monte dove lui l’avrebbe chiamata Amore: laddove tutto il mondo cambia aspetto, tutto si impregna di musica, di fiori, di cieli azzurri e nuvole sognanti e lui, come un guerriero che abbia vinto una battaglia, si sarebbe riposato sul suo grembo. Lei sarebbe stata la sua Venere e lui Marte vittorioso. Lei, però, non voleva cedere. Aveva paura di affrontare quel viaggio con lui. Voleva aspettare: chi? Il dio dell’amore? Aspettava chi le avrebbe sussurrato qualcosa di diverso da quello che le sussurrava lui? Non lo sapeva e l’aveva lasciato senza un addio, con quel bacio, quasi fosse un gioco. O forse era sicura che, come in un gioco ad acchiappare, lui, più forte, più svelto, l’avrebbe agguantata alla vita e l’avrebbe baciata: non più solo sulla guancia. E lei lo avrebbe accolto come il suo vero amore! Lui non l’aveva inseguita! Il bacio, che per lei era stato un gioco, per lui aveva segnato la fine della propria vita. Se ne era andato via in un dolce giorno in cui le messi brillavano al sole, mentre i pampini delle viti verdeggiavano carichi di promesse. Se ne era andato, sospinto dal male oscuro: aveva lasciato la propria mente libera di vagare, mentre la sua macchina precipitava per porre fine ad una vita che non aveva saputo controllare. Lei lo aveva saputo molto tempo dopo: dopo che nel suo animo, rancore e sfiducia avevano preso il posto del creduto amore. Lo aveva saputo in un triste giorno carico di mestizia: anche la natura era afflitta e tutti piangevano con lei. Lo aveva saputo mentre vagava tra le tombe di un malinconico cimitero, dove
fiori e luci accese non bastano a dare pace all’animo, addolorato per la dipartita di chi si è amato. Lo aveva riconosciuto nel freddo di una foto posta nell’incavo di un bianco marmo e aveva colto le impercettibili parole di chi raccontava: la disperazione per un amore non corrisposto può portare a gesti disperati! Si allontanò furtiva, sotto la pioggia che, dal cielo grigio, iniziava a scendere prima piano poi con scrosci sempre più forti, sempre più violenti, mentre il suo cuore partoriva lacrime cocenti che, uscite dagli occhi, si mescolavano alla pioggia che, crudele, le picchiava le guance. Iniziò a vagare senza una meta, mentre nel suo animo risuonava il ricordo delle parole che lui le aveva detto tante volte: “Vivremo insieme e ti chiamerò Amore: e insieme poi lasceremo questo mondo per continuare a vivere nell’altro, nell’Aldilà profondo, dove tu sarai per sempre la mia amata Persefone e io il tuo devoto Ade.” Qualcuno ebbe pietà di lei, la raccolse infreddolita, zuppa di pioggia, le scarpe finite chissà dove; nessuna borsa, nessun documento, nulla che potesse identificarla: era diventata una persona anonima! Una donna sconosciuta non solo agli altri ma anche a se stessa, che ripeteva soltanto “Io Persefone, tu Ade”. Fu inserita in un gruppo di altre donne, come lei perdute in un vuoto destinato a diventare ogni giorno una voragine sempre più profonda. Nella sua mente il nulla, mentre tutti la chiamavano ridendo sguaiate: Persefone! Io Persefone, tu Ade! Unico ritornello, unica cantilena ossessiva ripetuta all’infinito sin quando la bocca le si prosciugava e le sembrava che la gola le ardesse di un fuoco inspiegabile, che la costringeva ad andare a bere dalla fontanella posta nel corridoio: unico luogo dove le era permesso eggiare, sotto lo sguardo comionevole del personale addetto. Io Persefone, tu Ade. Accadde tutto all’improvviso: si ritrovò con in mano una ciocca di capelli strappati a forza dalla testa di quell’altra che aveva ripetuto, per scimmiottarla:
Io Persefone e tu Ade. “No, io Persefone, io Persefone. Adeee! Dov’è Ade?” Una voce calma, quasi rassicurante, parlava a qualcuno: “Non ha nulla, non ha proprio nulla; si è semplicemente autoesclusa dal mondo. Se ne è allontanata da sola. Chissà, forse uno choc, un dolore! A volte un dolore può fare sprofondare in questo stato, paragonabile all’inferno, nel quale si precipita per punirsi e dal quale si, è possibile riemergere, come accadde a Persefone. Ma bisogna accettare di voler ritornare tra i viventi.” Qualcosa si mosse nel suo animo. Aveva toccato il fondo della propria disperazione mentre le tornava alla mente la favola che lui le aveva narrato tante volte: Persefone che segue Ade negli inferi e gli rimane legata per sempre perché aveva mangiato i grani dell’amore. Allora desiderò risalire la voragine. Qualcosa la induceva a pensare che ci fosse un’altra vita diversa da quella che stava vivendo: ma quale? Quando e dove l’aveva vissuta, fuori da quelle camerate, lontane da quei volti anonimi, spenti? E quando le tornò alla mente la favoletta, ricordò di non avere assaggiato i frutti dell’amore che Ade aveva tentato di offrirle. Allora capì che poteva ancora vivere. Se lui era stato debole, lei non doveva per forza imitarlo. Doveva tornare alla vita e il mondo avrebbe avuto i profumi della primavera e i frutti dorati dell’estate. Non voleva essere più Persefone innamorata di Ade, ma voleva appropriarsi di un nome che si era sempre rifiutata di ricevere. Iniziò a piangere! Le sue lacrime cominciarono a riempire la voragine del dolore nel quale era sprofondata e iniziò a galleggiare e a risalire, e più piangeva, quasi che le lacrime sgorgassero da un pezzo di ghiaccio che le si scioglieva nel cuore, più il pozzo nel quale era scivolata si riempiva d’acqua: e lei fu salva! Non seppe come e quando, ma si accorse che due braccia amorevoli l’accoglievano, le dicevano che adesso era il tempo di vivere.
E lei comprese che, dopo aver toccato il fondo del baratro e dopo essere risalita, avrebbe dovuto finalmente vivere per dare amore e ricevere amore e il suo nome sarebbe stato: Amore!
Euridice di Andrea Tavernati
Al di qua, al di qua di svagato farfuglio tra i pantani del Fato lo scorrere dei morti e del possibile urta la Sua lingua estrema inumana incomprensibile. Sarà mai tempo di scoprirti un canto inatteso, scovare il lieve Orfeo in te perduto per le grotte d’Ade. Romanzi millenari dice ogni sasso d’Inferi rotolandomi tra i piedi. L’occhio stagnante evoca l’album di famiglia: collettive fabulazioni
frusciano le carte. Corrono violente le cose i prodigi, i ricordi… Non ti voltare, mio caro, non ti voltare…
Il tristo dio di Barbara Risoli
Capitai per caso in quel luogo magnifico dai riflessi preziosi delle sabbie auree e dei fiumi d’argento, pietre preziose erano i sassi che calpestavo e miriadi di diamanti fungevano da stelle in quel cielo nascosto e abbagliante. Avanzai di qualche o, consapevole di trovarmi laddove a nessun mortale era permesso penetrare, ma Hypnos il sonno che allevia la fatica mi aveva concesso di varcare una delle sue porte, quella veritiera di corno che mi avrebbe fatto conoscere lo sconosciuto. Ammirai allora le miniere di Ades il ricco, dio del sottosuolo ma anche dell’Oltretomba. Solo sovrano di quel luogo mesto egli era, io lo sapevo, altri suoi inviati erano più funesti di lui, fratello di Zeus tonante e di Poseidone del ponto signore. Dunque il mio era un sogno, seppur reale, ma un sogno dal quale avrei attinto conoscenza, stupore e forse timore. Sollevando polvere d’oro camminai lentamente suggendo beltà in ogni angolo, respirando la ricchezza assoluta che qualsiasi uomo avrebbe anelato, se solo ne avesse conosciuto l’esistenza. Udii un fragor di zoccoli spezzare rubini e smeraldi come fossero ciottoli senza valore; poi un chiacchiericcio allegro mi interessò e lo scorsi. Vidi colui che tutti temono ancora nel mio tempo, mutando nome e volto. Lo vidi sontuoso come il dio che era, Ades l’invisibile che in quel momento si mostrava sul carro d’argento trainato dai destrieri infernali segnati dal marchio di Dite e tra i quali spiccava per eccellenza e forza il cavallo suo diletto, Alastore occhi di fiamma, senza respiro, statua movente di un regno silente. Accanto al padrone indissoluto di quel luogo vi era chi davvero noi tutti temiamo, chi che neppure i secoli e la memoria hanno cancellato, bello quanto inquietante con cuore di ferro in petto e senza anima che possa indurre alla pietà. Thanatos, seduto sul carro percorreva le vie della meraviglia in attesa di nuovo mesto incarico e sorrideva senza sentimento, discorreva senza interesse, scrutava ogni angolo senza provare alcun senso di cupidigia o repulsione. Ebbi un tremito scorgendo la morte e pregai il mio dio perché mi fosse salvo il respiro. La mia preghiera echeggiò in quel luogo pagano. E lui mi vide, fermando con un gesto del polso il cavalcare dei destrieri infernali che nitrirono assordanti. Indietreggiai quando mi vide e caddi in ginocchio nel momento in cui lo ebbi davanti e gli fui al cospetto. Silenzioso mi chiese
spiegazioni che fossero accettabili. “Una figlia dell’Unico nel mio regno inviolabile?” asserì minaccioso. Accanto a lui Thanatos guardò oltre la mia spalla mettendomi a disagio. «Sempre insolente il mio fratello che mi somiglia» disse con la voce distante di chi non appartiene a questo mondo e neppure al mondo che lo aveva generato. Thanatos si dimostrò irritato, ma non reagì più di tanto, la sua freddezza era assoluta. “Hypnos dunque si è divertito a far invadere il mio regno da chi tanti secoli fa mi ha assassinato?” continuava a fare domande il dio dell’Oltretomba pretendendo da me risposte che non avevo. “In onirica visione sono al tuo cospetto, Agesilao tenebroso” mi limitai a salutarlo evitando accuratamente di pronunciare il suo nome, considerato bestemmia nel tempo che gli apparteneva. Questo sembrò ammansirlo e lieve, nonostante l’imponente stazza, discese dal carro divino, lasciando Thanatos da solo. Si apprestò a me e mi indusse a rimettermi in piedi dopo che mi ero affrettata a regalargli il mio estremo rispetto appoggiandomi su un ginocchio. “Una visita inattesa eppure curiosa, mortale figlia dell’Unico che mi ha annientato. Eppure conosci il rispetto e mi concedi ciò che nessun uomo adesso mi concederebbe” asserì mesto, una cupa luce di rimpianto screziava dei lineamenti rigidi eppure perfetti, figli della bellezza che gli ellenici sapevano costruire per i loro dei. «Tristezza colgo nel tono della tua voce profonda, Agesilao il ricco» gli feci notare sentendolo assurdamente amico. Egli sorrise senza entusiasmo e si sedette pesantemente su un masso che doveva essere d’argento. Pensò o forse rammentò, poi sospirò sotto lo sguardo ferreo di Thanatos. “Quanto tempo è ato dall’ultimo mortale che ha chinato il capo al mio cospetto, dal giorno in cui l’ultimo degli uomini mi ha pregato e temuto, da quando il dio forte ha sancito la mia fine dichiarandosi unico e piegando i popoli. Quando tempo è ato dal giorno in cui il dio del perdono ha sacrificato la sua vita per salvare l’umanità da me che adesso sono un dio solo, senza popolo e senza futuro, senza presente. Appaio come una statua di cristallo e un giorno, quando neppure saper della mia esistenza varrà qualcosa mi infrangerò perdendomi nel mondo come polvere, illuminando per l’ultima volta
il cielo e morendo definitivamente” parlò in un fiato, si lamentò in cerca di una salvezza ormai perduta. Il dio unico governava gli uomini adesso ed era forte, Ades lo sapeva e con lui tutti coloro che avevano abitato il soprannaturale per tanti secoli. Un dio decaduto incontrai, in dio che nel paradosso di un incontro che forse avrei dimenticato mi stava parlando di Dio, del mio dio. Mi stava dicendo che esisteva, mi stava illuminando di una fede che non avevo mai avuto. Mi chiamava assassina perché ero figlia di chi lo aveva ucciso smettendo di credere in lui. Era adirato e rassegnato, mesto eppure gioviale nell’accogliermi, contrario a ciò che tutti noi studiamo su libri noiosi triti e ritriti. Ebbi l’impulso di apprestarmi a lui che non mi fermò. “Io che ti son carnefice non posso darti l’aiuto che tu invece mi regali, Agesilao tenebroso, dandomi imprevista conferma dell’esistenza invisibile del mio Dio distante. Non mi è permesso poterti ringraziare come sarebbe giusto, mi limito ad apprendere ciò che i miei simili si chiedono da sempre, la certezza del divino sopra il mio cuore” gli dissi provando un inspiegabile sconforto. L’impotenza che sentivo di avere e la pietà che la tristezza del dio mi infondeva, abbatté la mia baldanza figlia del tempo in cui sono nata e chinai il capo lasciando che lui lo sfiorasse con la mano ossuta. Aprii gli occhi. Scrutai tutto intorno e non vidi più la luce della ricchezza, solo la penombra della mia stanza. Il petto in fiamme di una nuova sensazione. Sentivo la presenza suprema di qualcuno, grande, potente, divino, giusto. Percepii la vita ed era stato Ades a indurmi a tanto; colsi il respiro di Dio attorno a me ed era stato Ades a rendermi attenta. Lo ricordai, lo avrei sempre ricordato e forse così, ma non lo avrei mai saputo, lo salvai da ciò che più temeva: l’oblio.
Desco fatale di Anna Cibotti
… che gli dei perdonino i miscredenti! Quella cena fu memorabile. In paese se ne parlò per parecchio tempo, creando un gran scompiglio. Riporto i fatti così come mi sono stati raccontati durante una visita a una zia malata che non vedevo da anni. Fu un gesto di pietà imprevisto e improvviso, quello che mi spinse a rivederla per darle l’ultimo saluto. La bellissima Afrodite, modella di giorno e spogliarellista di notte, tornò dalla città per are il Natale con i suoi. Quella mattina la videro tutti camminare per il centro del paese e dirigersi da Demetra, l’erborista. Una tisana e alcune creme naturali, avrebbero contribuito a mantenere la sua seducente bellezza, e qualche altro intruglio non ben definito, a rendere afrodisiaci i cibi offerti agli… amici. L’erboristeria profumava di spezie e di fiori orientali e Afrodite ne aspirò le essenze con voluttà. Ma Demetra non era sola. Accanto a lei, pallida come la luna, c’era Artemide, la veggente. Parlava a bassa voce, misteriosa e grave nei gesti, della visione di una scena di caccia dove un giovane bellissimo, dopo aver sparato a quello che credeva fosse un cervo, si ritrovò stesa nella macchia una fanciulla ferita in cui lei vedeva se stessa. Prendendola tra le braccia le promise che l’avrebbe curata e tenuta con sé per sempre.
A rompere l’incantesimo di quella atmosfera rarefatta e soave arrivò Atena, l’insegnante di filosofia. Con la sua faccia seria di saggia e sapiente e i modi comati, riportò tutte ad una dimensione reale. Era ata a portare un libro di medicina omeopatica richiestole da Demetra, interessata ad approfondire le sue conoscenze in quel campo e necessarie per la sua professione. Afrodite, un po’ annoiata, propose di andare a bere un aperitivo. “Si, iamo da Dionisio per un buon bicchiere di vino frizzante” ribadì Artemide. Nell’osteria di Dionisio gli avventori non mancavano mai. Ridanciano e un po’ alticcio, Dionisio le accolse con piacere, e in occasione della visita di Afrodite, dalla quale non staccava gli occhi di dosso, non solo offrì loro il vino, ma le invitò a cena per la sera stessa. Entusiaste per la proposta, accettarono. Dioniso non disse loro, però, che avrebbe invitato anche Ermes il giornalista, e quel rivoluzionario di Ares, impegnato politicamente e fomentatore di scioperi e rivolte operaie tutt’altro che pacifiche. Afrodite, succinta e maliziosa, gradì la presenza dei due nuovi commensali, e in particolare quella di Ermes, a cui lanciò invitanti e allusivi segnali per tutta la serata Demetra e Artemide, più spirituali, sedevano compunte e silenziose. Ares cominciò a discutere con Ermes sui diritti negati delle masse, paventando un’insurrezione dolorosa e criticando la negata visibilità della stampa verso quella problematica. Atena, pacata e moderatrice, provò a intromettersi nella discussione fra i due e dopo qualche tentativo fallito, ci riuscì. Afrodite continuava a muoversi languidamente e a guardare Ermes, irritata per la scarsa attenzione.
Dionisio intanto beveva e versava vino a iosa. Demetra li guardava come se non li vedesse. Mangiava e pensava a un campo di grano e papaveri ondeggianti al sole. Dionisio fu un ospite perfetto ma… dimenticò di invitare Poseidone. Costui era una forza della natura, un peso massimo col naso rincagnato e la ione della pesca. Il mare era la sua casa, e d’inverno conteneva a fatica un’irrefrenabile voglia di spaccare tutto. Capitò per caso da Dionisio e quando vide la comitiva allegramente riunita, li guardò uno per uno e scoppiò a ridere. La sua risata fu fragorosa come un tuono e contagiò tutti. “L’ha presa bene… meno male!” pensò sollevato l’oste. Poseidone non rimase però. Finì un bicchiere di vino e se ne andò. All’improvviso un boato precedette una forte scossa di terremoto. Divampò un incendio e la casa dell’oste crollò. Poseidone si allontanò senza voltarsi indietro a guardare. Prese il cellulare e chiamò il becchino. “Ade, vieni, ci sono sette morti che ti aspettano” Ma Ade non trovò nessun corpo. Quando i vigili spensero il fuoco, sotto le macerie non trovarono nessun cadavere. “Immagina lo sconcerto dei paesani e quante dicerie e superstizioni serpeggiano
da quel giorno”, mi dice la zia. “Si dice in giro che ogni anno, proprio nel giorno della disgrazia, ci sia il aggio in volo di un piccolo e strano tipo di uccelli. La gente pensa siano le anime di quei poveretti spariti nel nulla, ma Ade il becchino, continua a dire che non è possibile. Ripete ogni volta che chi va all’inferno rimane lì sotto per sempre. Sembra sicuro di quello che dice, ma sai… da quella volta, non è più lo stesso.” Dove c’era la casa dell’oste, ora c’è un distributore e l’erboristeria ha una nuova gestione. Mi incuriosisco ed entro per vedere. Mi accoglie un ragazzo biondo e gentile nei modi, ma dagli occhi tristi. E’ sicuramente un uomo ma… ha un’aggraziata sembianza femminile.
Interpretazioni altalenanti di Anna Ciraci
C’era uno strano sole a brillare nel cielo arruffato da nubi increspate, intenso nel mezzo e ombrato a dintorni, eppur colpiva di caldo la mia figura. Camminavo da sola tra strade affrettate senza esser vista, e caddi sopra l’asfalto sudato d’un’estate mai vissuta. Attraverso così la linea del niente tra dove tutto finisce a dove tutto si perde. Dentro la nebbia si avvicina una voce a chieder coscienza. “Se tocchi tu credi! E’ così che hai sempre detto, allora scegli, apri le porte e guarda cosa t’aspetta” Nel fondo dell’ombra m’appaino tre porte e mentre le guardo mi vien da pensare: La Nina, La Pinta e La Santa Maria, mi chiedo perché quando la voce m’incalza ad entrare. S’apre la Nina, una brezza avvolgente col profumo di riva e un silenzio cullato dalle onde del mare. S’apre la Pinta ed il buio pervade il sapore è di niente e il rumore è assente Dalla Santa Maria nulla traspare fino a quando la porta non è ben spalancata, il frastuono è assordante, piove a tempesta ed il traffico è denso, reso ancor più frustrante dai clacson sparati, una ruspa che scava ha bloccato ad imbuto ed un vigile fischia per smaltire l’occluso; lo guardo negli occhi son neri e profondi e dentro al pensiero risuona a gran voce: “Son qui, son Ade, è questo l’inferno per te!” Richiudo veloce ansimante e sconvolta, ritornando alla linea il mio corpo è supino sotto il sole che scalda, il cielo è schiarito con le nuvole bianche mi soffermo un secondo ma nessuno mi chiama così riprendo il mio tutto senza neanche fiatare.
Ade-lirio di Andrea Marinucci Foa
“Hey, baby”, le dissi. “Sei un dolce peso, ma non stringermi così il collo.” Portarla oltre la soglia era molto tradizionale. Molto stupido. Molto intrigante, viste le sue curve. Non che fossero un mistero per me, ma sotto certi aspetti sono un tipo vulcanico e mi scaldo ogni volta che mi avvicino a lei. “Ma cosa…” La posai delicatamente a terra. “Checosadiavoloè?” “Tappeti, adone mio.” Liquidò la questione alzando le spalle. “Tappeti? Ma…” “Biscottino mio, ho fatto qualche piccolo aggiustamento mentre eri impegnato in quella barbosa festa di addio al celibato”, rise argentina. Mi si accapponò la pelle. “Nonmichiamarebiscottino!” I tappeti mi avevano turbato, ma la questione dei piccoli aggiustamenti mi stava spaventando a morte. Mi diressi verso la stanza da letto respirando a malapena. “Ahhhhhhhhhhhhhh!” Urlai, appena posai lo sguardo sul letto nuziale a forma di cigno. Corsi all’armadio e aprii le ante. “Noooo! Dov’è la mia collezione di teschi persiani?” Mi misi a cercare lì intorno, chiamandoli uno ad uno con le lacrime agli occhi. “Dario? Artaserse?” “Li ho buttati via. Non erano buoni neppure per fare il brodo!” “Lamiastratocaster?” “L’ho messa in garage, mio caro”. Persefone sollevo il sopracciglio, seccata. “Dovresti essere interessato ad altre cose in questo momento. O no?” “Sì, certo. Un momento… Quali altri aggiustamenti hai…?” Lei sorrise. Il suo sorriso radioso mi avrebbe sedotto in un lampo, se non fossi
stato terrorizzato. “Adesso abbiamo un ascensore. Non sei contento?” “Che ci facciamo con un ascensore?” “Oh, non fare l’orso, vieni a vedere!” Mi trascinò in salotto. Il caminetto era andato. Sostituito da un divano napoleonico. Le mie adorate librerie erano ancora lì, ma adesso i libri erano oscurati da un mare di cianfrusaglie d’argento e di cristallo. Al posto del tavolo da pingpong c’era un ascensore! Persefone batté le mani e la porta si aprì. Dietro c’era Caronte. Portava una divisa da portiere d’albergo, piena di lustrini e con un cappello sulle ventitré. La mia sposa mi trascinò entusiasta nell’odioso trabiccolo. “Che piano signora?” Chiese Caronte, strascicando servilmente la voce. “Al primo girone” ordinò lei. “Non avrai mica…?” “Oh, sì. Sono bravissima ad arredare”, mi rassicurò. “Potrai ringraziarmi più avanti, in camera da letto.” I miei timori erano giustificati. Il primo girone era diventato un prato fiorito. Le farfalle variopinte svolazzavano dappertutto e leggiadre ninfe suonavano cetre e flauti. Achille, Ettore, Diomede, Ulisse e gli altri eroi stavano giocando a pallavolo, invece di continuare le eterne battaglie nel profondo Averno. Mi veniva da piangere. “Cerbero!” Gridai, sperando irrazionalmente che il mio mostro guardiano potesse sistemare le cose. Mi venne incontro un barboncino candido come la neve. “Cerbero! Che brutto nome, sei proprio un disastro. Adesso si chiama Dudù.” “No! No! No! Dudù noooooooooooooo!” Mi svegliai tremante. Accesi la luce. Persefone dormiva accanto a me, con il lenzuolo che copriva appena il seno perfetto. Guardai estasiato il mio letto di
legno di pino. Scesi ed aprii l’armadio. Accarezzai i miei teschi persiani uno ad uno, con lacrime di sollievo. Stavo per imbracciare la chitarra, quando Persy si svegliò. “Torna a letto!” “Adesso vengo, cara.” “Ah, a proposito, ha telefonato mammina. Domani saremo a cena da lei. Sai com’è, la festa di primavera… Tanto ce la sbrighiamo presto: una o due stagioni…” “No… no…” Deglutii, guardando l’angelica strega che avevo sposato. “Non me la perderei per niente al mondo, la festa.”
Ade-lizioso di Manuela Leoni
Era ancora estate e Sofi si annoiava a morte nella sua casa di campagna, con l’unica compagnia di sua madre Demi dedita al giardinaggio compulsivo. Ok, Demi aveva il pollice verde e le sue rose erano da esposizione, il suo giardino meritava di finire sulle pagine patinate delle riviste di architettura paesaggistica, e di fatto spesso ci finiva, ma non era assolutamente capace di rimanere sola con se stessa e la sua ione. Aveva bisogno di compagnia e un morboso attaccamento a Sefi, sua unica figlia, che era ormai cresciuta e trovava l’atteggiamento della madre piuttosto soffocante. L’sms di Dean era stato la sua salvezza: “Posso rapirti? C’è qualcosa che vorrei mostrarti.” “Qualsiasi cosa sia, sarà sempre meglio del giardinaggio” “OK. A che ora?” “Stasera alle 9 e mezza. Vediamoci al fiume, sotto il salice.” “Complottista!” “No. Madre rompiballe “ “OK” Dean era un misterioso studente di architettura, non sembrava avere molti amici, ma Sefi lo trovava simpatico e terribilmente affascinante. avano lunghi pomeriggi insieme a chiacchierare di tutto e di niente, spesso parlando di alta cucina, la ione segreta di Dean. Al calare della sera Dean arrivò con la sua moto: il giubbotto di pelle nera e il casco gli conferivano un’aria lievemente inquietante ma che Sefi trovava irresistibile. “Allora, cosa dovevi mostrarmi?” “Lo vedrai!”
“Tornerò a casa per domani mattina?” “Spero proprio di no!” “Interessante. Andiamo!” Sefi si infilò il casco e salì dietro di lui, abbracciandolo da dietro e trovando tutta la situazione sottilmente intrigante. Dean guidò per un po’ sulla strada quasi deserta che si dirigeva verso i boschi, finché non incapparono in un banco di nebbia. “Accidenti” sibilò la ragazza attraverso il microfono posizionato nel casco. ”Non è niente di preoccupante, succede spesso da queste parti” fu la risposta rassicurante di lui. Sefi perse il senso del tempo, mentre la moto procedeva nell’aria ovattata, consapevole solo del calore sprigionato dal corpo del suo compagno, finché dopo ore, chissà quante, la nebbia si diradò e loro uscirono nella luce in una radura sulle sponde di un piccolo lago circolare. Dean si fermò accanto ad un’incongrua costruzione, con il portico simile nella struttura alla facciata di un tempio greco; una targa sulla sinistra era seminascosta dai rami dei rovi carichi di more che si arrampicavano su una delle colonne. “Allora siamo arrivati? Cos’è questo posto?” Dean si sfilò il casco. “E’ una proprietà di famiglia che mio fratello Theo ha ristrutturato per me, pensando che avrei potuto gestirlo dopo l’università. Per il momento è chiuso, il personale dovrebbe arrivare tra pochi giorni.” “E lo farai?” “Davvero non lo so. E’ un po’ troppo isolato per i miei gusti. Il mio sogno è di diventare un grande chef e conquistare il mondo con le mie creazioni: Parigi, Londra, New York…” “Ehi grande chef, lo sai che non hai mai cucinato per me in tutto questo tempo?
E sì che ne abbiamo parlato di cucina…” “E’ anche per questo che siamo qui” “E non potevi mostrarmi le tue abilità da qualche altra parte? Dovevamo are tutta la notte su una moto per questo?” Lui la fissò intensamente, così a lungo che lei cominciò a sentirsi invadere da un calore profondo che nasceva da un punto all’altezza del suo stomaco e che si irradiava, potente, in ogni centimetro del suo corpo. “No. Deve essere qui. Lo capirai” Le tese la mano e lei la prese confusa, e varcarono la soglia insieme. Le mani di Dean si muovevano rapide, trasformando i semplici ingredienti in meraviglie cromatiche, tanto belle per la vista quanto celestiali al gusto. Sefi scoprì che amava guardarlo cucinare, anzi amava guardarlo e basta: le dita affusolate dai movimenti rapidi e precisi, i capelli bruni raccolti in una coda scomposta sulla nuca, gli occhi scuri e lucenti come l’ossidiana che la seguivano ovunque si spostasse, i muscoli torniti che si intravedevano sotto la maglietta bianca immacolata. “Ecco, assaggia questo” Dean venne verso di lei reggendo un piatto di porcellana blu notte, dentro quadratini di carne pallida, grandi quanto un boccone, perle rosso rubino tutto intorno come una collana preziosa, un profumo irresistibile. Si sedette accanto a lei. Dalla sua pelle esalava un profumo intenso e caldo di rosmarino e spezie esotiche sconosciute al suo naso. La sua vicinanza la confondeva. “Cosa hai creato oggi? E’ bellissimo, ho quasi paura di rovinare l’opera assaggiandolo!” C’era qualcosa in fondo alla sua mente, qualcosa che non riusciva a ricordare e che riguardava in qualche modo il cibo. Si strinse leggermente nelle spalle, in fondo non doveva essere così importante.
“Guarda, devi mangiarlo così.” Lui prese con la forchetta un piccolo quadratino insieme a qualcuna delle lacrime rosso brillante avvicinandoglielo, un sorriso sulle labbra perfette, mentre la guardava aprire la bocca e provare, per la prima volta, una delle sue creazioni. “Mmmh, mai assaggiato niente di simile!” “Ed è solo l’inizio, ora che ti ho conquistato non ti lascerò più andare” le sussurrò Dean nell’orecchio, il fiato bollente che le faceva correre i brividi lungo la spina dorsale. “E chi si muove…” rispose Sefi, girando piano il viso per incontrare quella bocca che la incantava, facendo scivolare le mani sul corpo da statua greca di Dean. Più tardi, molto più tardi, erano distesi fianco a fianco sul letto sfatto, la luce del fuoco che brillava sui loro corpi lucidi e soddisfatti, mentre si accarezzavano lentamente. ”C’è una cosa che voglio chiederti” mormorò Sefi volgendo il viso verso di lui. “Tutto quello che vuoi dolcezza.” “Qual è l’ingrediente segreto che hai usato ieri sera?” “Melograno.” E ricominciò a baciarla con le sue labbra bollenti. Fuori i colori brillanti della fine dell’estate venivano pian piano coperti dall’insolita neve che scendeva a larghe falde. Intorno alla solitaria locanda Laverno l’inverno era giunto prima del tempo. Dall’altra parte del velo di nebbia, nel suo giardino improvvisamente spoglio, Demi si accorse con orrore che Sefi era scomparsa.
Ho traghettato alla vita le anime dei morti di Angela Intruglio Lina
Avevano lasciato la vita e inerti aspettavano il soffio del risveglio. Giacevano nell’Ade assoggettati al buio e alla nebbia di quell’antro. Guardavano ancora alla vita, ma non camminavano più sulla strada dei vivi. Guardavano da dietro la membrana secca di una parete opaca impauriti, affamati, invidiosi e con gli occhi pieni di rabbia e sangue! Fato delle anime di luce è quello di traghettare le anime morte dall’Ade alla vita attraverso la barca dell’amore, il loro amore! In cambio, lacrime, dolori e lacrime!
Spetta sempre alle anime di luce dare il soffio di vita alle anime morte cattive, putrefatte, sorde, cieche e mute, imbevute solo di livore! Spesso in cambio della loro stessa vita. Questa è la missione dell’Amore! Togliere dal buio gli inetti, i bugiardi, i vigliacchi, gli insicuri, i tronfi, i cinici e gli arroganti. Il dono della dolcezza e dell’Amore Esiste solamente perché esistono loro le anime seppellite nel buio della superbia. E’ di quell’Amore unico e speciale che si nutriranno fino a dissanguare il donatore che malgrado tutto, continuerà a splendere e brillare così tanto da rendere invidioso il sole. Ho traghettato alla vita Le anime dei morti!
Ade-pressione di Andrea Marinucci Foa
“No, non mi disturbi. Cioè sì, ma non fa nulla. Sono le tre del mattino, non hai più il senso del tempo? Cosa? Villano? Papà, tu mi hai mangiato ed io sarei villano? No, non mi tirare in ballo il partito adesso: sono cose che non si fanno e basta! Sì, è acqua ata. Papà, ho da fare! No, non vengo a trovarti domani. Domani tornerà mia moglie; verrò la prossima settimana. Hai finito il dentifricio? Sì, te lo faccio avere io. Cosa? D’accordo: antitartaro. Va bene, papà. Adesso devo andare. Ciao. Sì, ciao.” Ade chiuse la comunicazione e gettò il wireless sul divano. “Padri!” rise Loki. “Lasciamo perdere l’argomento. Almeno il tuo ha un occhio di riguardo.” “Giusto quello” sbuffò Loki. “Che facciamo? Questa festa sta diventando un po’ moscia”, intervenne Kalì. “Forse è ora di andare a dormire un po’” convenne la Morrigan, stiracchiandosi. “E’ tardi.” “Non vorrete che metta tutto a posto da solo! Devo anche portare Cerbero a fare i suoi bisognini.” “Buon per te che ha solo tre teste”, disse Loki con un sorriso beffardo. “Pensa tu se avesse tre culi!” “Begli amici! Impiegherò minuti interi a sistemare questo casino” si lagnò il dio dell’oltretomba. “Sono proprio stufo di vivere in questo postaccio! Oh, quanto sono stufo!” Kalì gli posò una delle mani sulla spalla. “Chi te lo fa fare di vivere in questo seminterrato? E poi i dintorni sono un vero mortorio.” “Dovrei proprio andar via, mi sento come una mosca imprigionata in una
ragnatela”, si lamentò Ade. “E dove andresti?” gli fece Morrigan, alzando le spalle. “Siamo tutti sulla stessa barca. Io devo mietere, Loki deve tradire, Kalì deve distruggere. Due palle!” “Ci sono mondi in cui l’uomo è una razza giovane e non ci sono Dei, non ancora”, gli occhi del Dio guardavano verso l’infinito. “Io potrei fare il benevolo Nume della poesia.” “Io sarei la Dea dell’Amore”, si pavoneggiò Morrigan. “Io mi occuperei della musica. E magari del vino”, Loki sorrise. “Heavy Metal forever. Yeah!” “Mi farei chiamare Kalì mano-gentile e sarei la Dea dell’alba, del tramonto, dell’arcobaleno…” “E allora molliamo tutto e andiamo!” propose Ade. Kalì sospirò. “Ho un uragano e un terremoto in programma per la prossima settimana.” “Anche per me è un brutto momento. Magari il mese prossimo”, si scusò la Morrigan. Loki gli diede una pacca sulla spalla. “Ma non preoccuparti, ne riparliamo presto.” I tre numi svanirono in un lampo di luce accecante. “Sì, certo!” Borbottò Ade. “Presto, come no! Diventa Dio, dicevano. Onniscienza, dicevano. Onnipotenza, dicevano. Onnifregatura!” Prese il triplice guinzaglio. “Andiamo, Cerbero?”
Prima che… Ade di Anna Cibotti
Portami via o vento, le mie ceneri spandi dove il seme crea la spiga che dorata accarezzi. Fai volare l’anima inquieta finché il verde bacio dell’erba le regali dimora. Bruciate ho le carni prima che il fuoco ardesse lo spirito infelice in terra nell’eterna pira dell’Inferno. Prima che il dio tenebroso mi fe sua. Sono rimasta polvere sul mondo per non marcire nella putrida zolla, per non raggiungerlo nel suo pozzo nero.
Portami via o vento, non voglio vedere né tombe né fuochi fatui a rischiararle. Lasciamo quel regno di morte al suo dio.
Ade 15 di Andrea Marinucci Foa
Credo che tu possa capirmi, adesso. Era difficile sintonizzarci, perché questa comunicazione avviene solo a livello di modulazione elettromagnetica. Sottile come un sogno. Sì, “dove mi trovo” è una bella domanda ma l’unica risposta che posso darti è che non ti trovi affatto. Non nel senso classico del termine. Dal tuo livello cognitivo, sarai sicuramente in grado di capire che il complesso degli schemi mentali che tu definisci “me stesso” costituisce una mostruosità energetica che, per la quarta legge della termodinamica, non può estinguersi con la morte dell’individuo ma che ha una sua esistenza a se stante. Di fatto esiste in più tempi e in più luoghi. “Sono morto?” non significa nulla, quindi puoi anche smettere di chiederlo e se è così importante dove sei, ti basterà sapere che sei sull’Ade. Sull’Ade, sì, non nell’Ade. Di preciso sull’Ade 15, una delle navi più possenti della nostra flotta, che orbita attorno all’Olimpo. No, non è un pianeta, è un sistema binario con ben tre pianeti abitabili, uno per ognuna delle nostre flotte: Zeus, Poseidone e Ade. Nomi che conosci, perché pescando nel mare delle consapevolezze entriamo inevitabilmente in risonanza con persone troppo curiose e percettive. Ma non importa: tanto le cose non stanno come pensano. Siamo sul punto di vincere l’ultima battaglia per l’espansione nel cosmo e seminare la vita e la società umana in intere galassie! I Titani cedono terreno e si avvicina il momento in cui le nostre flotte colpiranno il cuore di Crono. Come sarebbe a dire cosa ne facciamo di te? Servono uomini e donne per espandere la vita nella galassia, servono guerrieri per combattere, contadini per coltivare, scienziati e tecnici per progredire, poeti e musicisti per allietare. Non ci vuole nulla a governare la materia, è lo schema… sì, d’accordo, chiamiamola pure anima. E’ l’anima che non possiamo generare, per cui peschiamo nel ato, nel presente e nel futuro. Che tu sia contento o scontento non è poi così importante. Imparerai ad essere soddisfatto, o vivrai infelice. L’importante è andare avanti.
Underground station di Andrea Masotti
Lampade accese giù nella scala mobile ci trascinano come pesci di fiume all’estuario che nutre la città Sarà il mio viaggio indecifrabile, un bla bla incerto nel tramestio dei vagoni, aspiro dolci gas inebrianti particelle scure. L’antro del Metrò brulica di t-shirt, banchi di occhiaie inquiete flirtano nell’oscurità. Il vento dei tunnel mi scompiglia un gruppo jazz immerge nel suo assenzio, cuore che batte ammaliante gonfio di ori e di tamburi. Chi sono? La vita è una semplice scossa
un tremito di ciglia, una speranza. Anima perduta aspirata nella bocca del sassofono mi trasformo finalmente in una nota.
Non ancora di Antonella Mattei Keiko
Mi sdraio sulla sabbia bollente, chiudo gli occhi e mi arriva nelle orecchie la voce profonda di un interprete che amo; sta cantando per una donna parole dolcissime. È una registrazione live, la musica della Duke Orchestra è potente, l’intensità della voce arriva dritta al cuore; se qualcuno mi fosse stato vicino come alla protagonista della canzone forse la mia strada sarebbe stata meno aspra, meno faticosa da percorrere. Assaporo un lento dolore dentro lo stomaco, godo assurdamente di quella malinconia, sfioro il tasto repeat e la musica ricomincia. Ascolto ancora più attentamente le parole. Inizia dicendo: “Questo è per te”. So benissimo che è per gli spettatori paganti di un teatro, ma se fossero davvero per me? Cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse detto che le stelle cadono giù dal cielo ogni volta che cammino e c’è sempre qualcuno vicino a me? Non lo saprò mai, non è più tempo per porsi domande, non si può mai tornare indietro. Che peso ha l’assenza? Specialmente quando quell’uomo è fisicamente presente davanti a te? Inizia un’altra melodia, come ci godo a farmi del male. La colonna sonora del film “Lezioni di piano” mi riempie le orecchie e il cuore. Michael Nyman è riuscito a tradurre in musica stati d’animo che conosco alla perfezione, la disperata richiesta d’aiuto di una donna muta è identica alla mia sofferenza di fronte all’assoluta immobilità emotiva che devo affrontare. La musica mi trascina lontano, le scene del film mi scorrono sotto le palpebre chiuse, due grosse lacrime rotolano lungo le guance, lascio che scivolino via, vicino alla bocca e poi giù sotto al mento, per sparire inghiottite dalla sabbia. Il brano che mi provoca quel forte turbamento è finito; non spengo nemmeno l’ipod, mi tolgo gli auricolari e li butto sulla sabbia insieme agli occhiali da sole, prendo la maschera e mi dirigo verso il mare. L’acqua è fresca, quasi fredda, limpida più del solito, mi sistemo la maschera ben stretta dietro la nuca e m’immergo. Il fondale è della stessa sabbia scura, la forte presenza di ferro la rende quasi nera; banchi di piccoli pesci mi scivolano intorno e furtivi granchi sgattaiolano veloci in cerca di un riparo. Riemergo per prendere aria e vedo sulla superficie alcuni gabbiani occupati a pescare; voglio guardarli da sotto e m’immergo di nuovo cercando le sagome degli uccelli. Li osservo, distorti dal vetro della maschera; sono stupendi mentre affondano il
becco e la testa per catturare le prede, inalo ancora aria e procedo a rana per diverse bracciate, forse troppe perché mi accorgo che il fondale sembra distante anni luce dalle mie gambe. Il mare, poco mosso, forma delle piccole onde rapide che, per chi non è esperto nel nuoto, creano difficoltà per riprendere aria. Riemergo, mi sono spinta più lontano di quanto potessi; ho perso anche il mio punto di riferimento. Non ho tenuto conto delle forti correnti e mi ritrovo spostata di alcune decine di metri. Stranamente non ho paura, in un’altra vita il panico mi avrebbe vinta, mentre ora resto lì, in balia della corrente come i gabbiani. Sembra un mondo perfetto: il cielo turchese velato da nubi di zucchero filato, il vento leggero che porta con sé suoni e odori straordinari, l’acqua che mi racchiude e mi attira promettendomi una pace che quel coltello nelle viscere mi toglie. Un’idea malsana m’assale, ma in fondo so che è sempre esistita dentro di me; ricordo perfettamente quante notti sono rimasta con gli occhi spalancati pensando quale fosse il male minore, ricordo le mie albe solitarie e gelide a interrogare una stella lontana e silente, unica confidente di dubbi e domande senza risposte. Sarebbe davvero tremendo finire così? Adesso, senza dolore, lasciarsi finalmente trasportare, non opporre più resistenza; mettere a tacere tutto, non porsi più dilemmi, non elemosinare attenzioni. Far finta che davvero sia una naturale evoluzione la fine di un amore. Forse ne vale la pena. Forse, alla fine, una piccola parte di me potrà stare vicino a quella stella, lassù nel cielo. Mi tolgo la maschera, la guardo galleggiare e allontanarsi mentre il mare decide la sua sorte; prendo aria e torno sotto, l’acqua salata brucia forte gli occhi ma non li chiudo, devo vedere tutto finché posso. Non sono abituata a immergermi senza maschera, l’acqua s’insinua impertinente nel naso; non oppongo alcun tipo di resistenza, solo qualche colpo di gambe per andare sempre più giù in quell’imbuto oscuro che si apre invitante e ammaliante sotto di me. Mi sto lasciando andare: è come un viaggio all’indietro nel tempo, il destino decide per me. Sto affogando. Tutt’intorno solo acqua, conchiglie, qualche pesce e null’altro. La pressione sul torace è diventata insopportabile, tanto vale aprire la bocca e finire in fretta; anche la vista comincia ad annebbiarsi, immagini evanescenti mi appaiono davanti, sirene conturbanti e sinuose che svelano un ghigno ferino.
Improvvisamente il panico mi travolge: annaspo, cercando inutilmente un po’ di aria, scalcio con tutta la forza che mi rimane e mi spingo verso l’alto producendo un piccolo vortice di bollicine e sabbia che cela una sagoma sconosciuta e ancora irreale. Spingo ancora più forte con le gambe verso quella forma, mentre gli occhi sono ormai quasi ciechi; allungo un braccio e una mano forte afferra il mio polso trascinandomi in alto, verso la superficie. Il primo respiro sembra quello di un neonato, tutta l’aria del mondo è mia, poi riprendo il mio ritmo regolare e mi accorgo che, lentamente, sto guadagnando la riva abbracciata a mio figlio che tiene infilata al polso la mia maschera. Ci sediamo sulla sabbia, lui inganna la paura con un sorriso, senza farmi domande, persino sotto la selvaggia abbronzatura trapela un pallore inconsueto; gli appoggio la testa sulla spalla e riposo scaldandomi al calore feroce del sole.
Brano tratto dal mio racconto “Immobile”
Aspettando Persefone di Sauro Nieddu
Ho fatto l’abitudine a una vita nell’abisso sprofondato tra le anime sofferenti dei morti.
Quasi non mi pesa il dolore che mi attornia le grida strazianti di chi vorrebbe al mondo e alla vita ritornare non mi pesa il buio eterno: è la mia vita, a essa mi ha destinato il fato.
Ma quando viene tempo di gioia tra le genti e la natura fiorisce ed eos rinvigorisce
i cuori degli uomini, proprio allora tu mi lasci solo e le tenebre che prima oscuravano gli occhi le urla che prima sfioravano appena i timpani s’impadroniscono adesso della psiche e del cuore.
Con lo sguardo perso nel buio freddo attorno attendo torni la stagione della felicità, l’inverno e con esso il tuo ritorno.
All’apparenza solo un bacio di Allie Walker
La sua pelle è pallida e bella, le sue labbra morbide e piene, dipinte con il vivido cremisi di amanti conquistati nel suo ato. Le mie ginocchia tremano e le gambe cedono, sotto il peso della sua sola presenza. Quando mi tira dolcemente verso di lei. Un sorriso che si apre appena, mentre mi guarda, e posso vedere dentro la sua bocca: i denti bianchi che brillano in un abisso di nero, che scende nelle viscere del suo corpo. “Baciami, Amore” lei mi chiama con un malinconico lamento e un basso, sospirante, sibilo serpentino: “Baciami come se la tua stessa vita dipendesse da questo.” Il suo sorriso comincia ad allargarsi, ma non come il sorriso di un bambino o di un amante familiare. No, questo è il sorriso di un predatore mentre scende sulla sua preda ferita, questo è l’aspetto di una tigre bianca, che giocosamente scalpita per la sua cena. Impotente. Mi sento impotente! E no! Io… io non sono pazzo: il profumo è di pericolo; lei allunga il suo collo come una nuvola profumata di fumo che ti inghiotte e i miei polmoni cominciano a riempirsi di terrore come i suoi occhi appoggiano lo sguardo su di me. Le sue dita, morbide come fredde lenzuola di raso, sono giunte sulle mie guance in un forte, vivace e gelido tocco. Rimasi in uno stato di paralisi completa e assoluta; intrappolato non solo dalla paura, ma dalla mia curiosità di sapere: ” Chi sei?” “Sei sicuro di voler sentire il mio nome?” chiese lei, il movimento delle sue labbra ipnotizzante ad ogni parola che le ava attraverso, “Non preferiresti… assaggiarlo?” Improvvisamente, si lanciò verso di me, come un cobra pronto a colpire. Le nostre labbra si scontrarono con sconsiderato abbandono. Il sapore di menta
piperita indugiava fresco. E fui sulla sua pelle con un gemito sognante, ma sentii l’ossigeno fuggire, letteralmente, dalla mia gola. Lei premette ancora, sentii la sua lingua stuzzicarmi pesantemente, con il retrogusto di sesso violento. Scivolò senza sforzo nella mia bocca. La testa si riempì di saliva bollente. Tuttavia, la gola era secca e riarsa, come se avesse iniziato a versarmi sabbia umida in gola. Mentre i miei occhi cominciarono a rotolare indietro nelle orbite, udii una risatina infantile tra i suoi baci velenosi. “Presto, Amore,” il suo sussurro una ione primitiva, primordiale. Un lampo di luce bianca lampeggiò davanti ai miei occhi, mentre lei sibilava ancora: “Appena ti avrò, saprai chi sono.” E poi solo il buio. Ingoiai le sue parole agrodolci, ospitate tra quelle labbra rubino, e la sentii parlare di me in una lingua che non conoscevo, eppure in qualche modo familiare. “Benvenuto a casa, mio Re. Chi sono io?’ chiese. “Io sono un ragno con la sua tela e tu sei la mia bella preda. Sono il fantasma, l’ombra nel buio che ti avvolge e ti schiaccia con noncuranza sotto il suo tacco autoritario. Sono la Donna che hai aspettato tutta la vita. Senti il tuo corpo contro il mio guadare ora un mare di infinita armonia, di equilibrio, di perfezione. Non temere, perché io sarò la tua amante paziente e la tua serva fedele, ti guiderò con il mio affetto imperituro attraverso questo pozzo senza fine di disperazione. Il mio nome, mio signore, è la Morte. Con un bacio abbiamo iniziato un abbraccio senza fine che durerà ben oltre la fine di tutte le cose. Considerando la brevità della vita non è che un assaggio fugace. Io adorerò ogni tua essenza, ogni fibra del tuo essere senza vita per innumerevoli eternità”
Il vecchio di Massimo Licari
Le ore scorrono lentamente mentre i giorni consumano il tempo che ormai mi resta prima di percorrere l’ultimo sentiero di questa avventura. Inevitabilmente ripenso al tempo che fu, alle mille e più storie che mi hanno portato fin qui. Del resto, questo ci si aspetta da un vecchio: che ripensi al tempo ato. Non ci credevo. Pensavo di essere immune alla vecchiezza e alle sue conseguenze. Vedevo vecchi seduti davanti a casa, mentre ancora nel pieno della mia gioventù avo tra i paesini della mia fanciullezza. Abbandonati su quelle sedie impagliate fissavano il vuoto, persi nei ricordi di quelli che per loro erano stati bei tempi. E dicevo orgogliosamente tra me e me: “Io non finirò così. Mi spegnerò dopo aver vissuto intensamente l’ultimo istante che questa vita vorrà concedermi. Sono a mio modo un guerriero e da guerriero voglio vivere fino in fondo”. E poi, il fiume impetuoso della vita ti fa svoltare a destra e poi a sinistra. E ancora svolte imprevedibili, repentine, finché quel fiume calma la sua corsa e ti permette finalmente di guardarti intorno. Non sono più costretto a lottare per non lasciarmi travolgere. Il paesaggio intorno a me non scorre più così velocemente, e posso concedermi il lusso di osservare il mondo che mi circonda. La corsa è finita e la quiete ha preso il posto della corsa furiosa. Mi sono specchiato nelle acque calme che circondano la mia imbarcazione, e ho scoperto il volto di un vecchio. E a questo punto mi sono reso conto di quanta strada ho fatto, senza rendermene conto.
Ho dovuto cambiare strada così tante volte, così velocemente che non saprei come tornare indietro, anche se me ne fosse data l’opportunità. Se potessi ricominciare, non riuscirei a ripercorrere le stesse vie, e, se potessi farlo, ora parlerei un linguaggio diverso. La mia corsa mi ha lasciato una compagna di viaggio, e tre figli, per i quali ho ringraziato il cielo. Loro sono cresciuti e stanno percorrendo il fiume della loro vita, pieni di entusiasmo e di certezze, che ormai io non ho più. Che cosa mi aspetta davvero non so. Ho visto troppe ingiustizie e brutture per credere ancora in un Dio che dall’alto giudica gli uomini. E mi son chiesto spesso se l’inferno non sia in realtà qui, sulla terra. Forse siamo stati tutti condannati a causa di ciò che abbiamo fatto in un luogo e in un tempo che la condanna ha voluto celare nell’oblio. E il futuro ci riserva il reiterare della condanna in questo luogo alienato da Dio. O forse, anziché l’Ade, ciò che ci attende è una nuova opportunità di redenzione. Nessuno risponderà alle domande di questo vecchio, che osserva il mondo disincantato mentre lascia che lo scorrere del tempo consumi la sabbia che ancora c’è nella clessidra della sua vita.
Profumi nella notte di Allie Walker
E’ con te che vorrei svegliarmi di notte. Con la forza del desiderio e la mia volontà di offrire a te questo mio mortale corpo, fatto di peccati e di lussuria. E’ il tuo nome che trova regno tra le mie labbra e come frammenti spettrali di una vita ata colma il silenzio e tutto prende forma. Al di là di tutto ciò che abbiamo sepolto - lei e le sue mortali spire penso ora pallida e fredda e ricoperta di terra umida, è nella mia notte che risiede la verità di tutto quello che ho fatto per noi.
E il diavolo mi schernisce. Un qualche Dio conterà le mie trasgressioni, un qualche Dio condannerà i miei peccati, un qualche Dio punirà la mia mano che ha affondato la lama in quel costato. Ma non avrei pace senza di te e navigare la mia anima verso il tuo completarmi è una strada - ora non più lastricata di impervi sentieri e di viottoli nascosti. Sarebbe facile amarmi. E semplice amarti. Lecca via quel carminio che vedo ancora sulle mie mani trasformandolo in rosa confetto. Ingurgita il peccato, fino a miscelarlo al contenuto delle tue viscere e con me condividi il mio sentire.
Mi sono macchiata di sangue, ho toccato la morte, per te, per noi. Per il nostro amarci. Dimmi allora perché! Perché non riconosco il paradiso? Perché questo amore non ha più il profumo della vita ma un insistente sapore metallico di morte?
Un viaggio sulla Terra di Sauro Nieddu e sca La Froscia
Il Dio era alto. Il suo corpo, pur senza un filo di grasso, risultava estremamente massiccio. Portava una barba imponente e aveva un aspetto fiero. Ah, dimenticavo, era anche completamente nudo. In quel momento, si trovava alle prese con una valigia piuttosto ingombrante, una valigia che rifiutava di chiudersi, per la precisione. Il Dio ebbe un moto di stizza, la guardò con odio, poi decise di tentare il tutto per tutto: caricando tutto il suo peso sul divino posteriore, sedette sulla valigia fiducioso di risolvere la questione una volta per tutte. “Dannazione degli Inferi!” Per pochi millimetri… eppure più di quello non poteva fare, a meno che… “Cara! Potresti darmi una mano! Se mi aiuti col tuo peso dovremmo riuscire a…” Persefone si affacciò alla porta con un’espressione che si divideva tra rassegnazione, divertimento, disgusto e ansia. Elegantissima nel suo tubino nero di Chanel e le scarpe tacco dodici con serpente, con un gesto distratto si tirò gli occhiali scuri sulla testa e si avviò decisa verso il marito. Con uno spintone ben assestato fece rotolare Ade giù dalla valigia: il coperchio, liberato improvvisamente del peso, scattò come un saltamartino. Persefone fissò con disgusto il contenuto eterogeneo e poi fulminò Ade con uno sguardo di quelli che non si possono ignorare. “Vai a vestirti. Qui ci penso io.” “Ma tesoro… mi sono sempre presentato al mondo come mamma mi ha fatto, e nessuno ha mai avuto niente da ridire.” “Certo, ma è ato qualche anno da quando sei uscito dagl’inferi l’ultima volta… quando è stato esattamente…” la dea fece un sorriso cattivo “Ah, sì, circa quattromila anni fa, quando avesti quella divertente discussione con Eracle e…”
“Ho capito, ho capito!” la interruppe Ade, irritato “Vado a vestirmi…” Ade tornò dopo una mezz’ora buona, indossava in maniera assai poco elegante, un elegantissimo completo gessato di Versace. Mentre attraversava la stanza, palesemente a disagio, notò che la valigia era finalmente chiusa. “Ma come hai fatto a…” Poi notò il cumulo di oggetti che Persefone aveva tolto dalla valigia ammucchiandoli sul pavimento. “Il mio scettro!” urlò con voce cavernosa e un po’ disperata. Persefone non batté ciglio, si limitò a fissarlo con disprezzo. “Senza i simboli del potere il signore si sente perso? Ricordati che da ora in poi non sei più il signore degli inferi. Sei IN-VA-CAN-ZA. E muoviamoci che siamo già in ritardo e Demetra aspetta solo me per scatenare la primavera.” Ade borbottò qualcosa, probabilmente un “andiamo”, e i due si avviarono all’uscita del mondo sotterraneo. Al underground sette Persefone prese una storta e uno dei suoi tacchi 12 con serpente si staccò… “Boia d’un Giove! E ora come faccio? Ho il look rovinato!” inveì “E non riesco neppure a camminare bene, porca d’una ninfa!” “Be’, togli pure l’altra!” disse Ade con aria soddisfatta, pensando di aver trovato la soluzione. “Ti sei bevuto il cervello?! No, io a piedi nudi non vengo! Mi rovino lo smalto… e poi sembro una tappa!” “Persefone, basta con questa mania dei vestiti, delle scarpe e della moda! Non fare storie e cammina!” “Stupido maschilista, taci! Fammi pensare… da queste parti alloggia Euridice, vero? Dai, iamoci che me le faccio prestare da lei un paio, abbiamo lo stesso numero… spero, però, non abbia già fatto i bagagli…”
“I bagagli? E perché mai?” chiese sorpreso Ade. “Come? Non lo sai? Orfeo vuole riportarla alla vita upground.” “Ah, quello che incanterebbe le ninfe col suo strumento? Mah, per me, è solo leggenda metropolitana… se avesse pollastre per le mani col piffero che scenderebbe negli inferi a prendere Euridice!” “Ti sei perso qualche millennio, tesoro? Orfeo si è trasferito qui da noi da un pezzo…” “Be’… Allora se cerca di tornare su, avrà una bella delusione” tagliò corto il dio, facendo l’occhiolino e contemporaneamente stiracchiando il cavallo dei pantaloni. “Da quanto ne so, almeno Cerbero fa sempre il suo lavoro… non potevi trovarmi qualcosa di più comodo? Il chitone non è più di moda lassù?” Intanto la coppia aveva raggiunto l’antro oscuro dove Orfeo ed Euridice avevano preso dimora. Poco lontano, Cerbero giocava a rincorrersi con una splendida cagnetta tricefala. Entrambi sembravano molto presi… e Cerbero tutt’altro che preso dai suoi compiti. Ade diventò paonazzo e con una nota stridula nella voce stentorea intimò: “Vai a fare la guardia, bestia ingrata!” Una delle tre teste di Cerbero sollevò le orecchie, poi il mastino infernale e la compagna corsero via nella direzione opposta a quella dove si trovava il suo padrone. Dall’antro venne la voce di Orfeo. “Ade? Persefone? Quale buon vento?” La dea spiegò brevemente l’inconveniente a Euridice. Orfeo con un occhiolino spiegò al dio di avere adottato quella cagnetta qualche anno prima (a quanto pare proveniva da una città ucraina…) intravvedendone subito le potenzialità. Ade si rifece tutto rosso preparandosi a esplodere, tanto che Persefone dovette ricordargli “gentilmente” che erano in vacanza e alle questioni amministrative ci avrebbe pensato al ritorno. Fatto sta che i quattro s’incamminarono assieme verso l’uscita degli inferi, attraversarono lo Stige con il nuovo motoscafo di Caronte e si separarono solo una volta giunti alla luce del sole. Arrivati all’aeroporto di Atene, Orfeo ed Euridice presero la via delle Seychelles, mentre Ade e Persefone presero il primo volo per gli USA (Demetra da qualche anno svolgeva un ruolo di rilievo all’interno del reparto d’ingegneria genetica nella Monsanto).
Ade, fin dall’uscita dagli inferi, si guardava attorno spaesato: com’era possibile che il mondo fosse tanto cambiato? E avreste dovuto vedere la sua faccia quando Persefone gli spiegò che perfino Zeus aveva abbandonato la sua dimora olimpica e ora si occupava di governare il mondo non più con i fulmini, ma a capo di un’incomprensibile entità chiamata Bilderberg meetings. La cosa che lo lasciò maggiormente perplesso fu la scoperta che Dioniso aveva abbandonato il vino per dedicarsi alla produzione di un analcolico capace di dare la felicità al primo sorso. Il dio degli inferi non fece che scuotere la testa borbottando “ma che razza di mondo…” per tutto il viaggio nel ventre di quella sorta di pesce volante… nientemeno che un pesce volante che emetteva fiamme dai suoi plurimi orifizi anali; “ma che razza di mondo…” Non appena quella diavoleria di pesce atterrò, Ade (più confuso che persuaso) e consorte si catapultarono verso l’uscita. Demetra era già lì a sventolare le braccia e appena i due furono più vicini disse esagitata “Tesorini, eccovi! Su, andiamo che ci aspetta il party di decanto alla primavera!” “Demetra, tesoro, non vedo l’ora!” rispose Persefone tutta elettrizzata. Ade, invece, si limitò a un semi-sorriso sofferto. Era frastornato. “Ragazzi, ho la corvette parcheggiata qui fuori, vi porto al Central Park e poi scateniamo il fiorile!” “Il fiorile? Demetra, ma come parli?” mugugnò Ade. “Persefone, ma il tuo dio con i libri non va d’accordo? Non sa che il fiorile è uno dei tre mesi di primavera del calendario rivoluzionario se?” “Cara, non tocchiamo questi argomenti… è uno zotico! Solo per fargli mettere il vestito ho sudato sette camicette!” “Ok, lasciamo perdere” disse la dea mettendosi alla guida. Abbassò la cappotta e pigiò l’acceleratore al massimo. La corvette sfrecciava come un fulmine per i viali. In un baleno arrivarono al parco. Demetra già strada facendo aveva invocato la primavera, Central Park era un’esplosione di fiori e di colori: da mozzare il fiato… E al dio gli si mozzò davvero! Starnuti a raffica, lacrimazione profusa, respiro sibilante, febbre da cavallo, testa martellante: un’allergia perniciosa aveva colpito Ade.
“Per l’amor di Crono! Demetra, ferma questo bailamme che sto per morire!” biascicò il dio supplicando. Le due donne fissarono stupite le stalattiti imponenti che colavano dal naso del dio. “Sembrerebbe quasi uno shock anafilattico” commentò Demetra osservando Ade con occhio clinico “è da tanto tempo che te ne stai là sotto… evidentemente non hai gli anticorpi per gli allergeni moderni dovuti all’inquinamento.” Persefone annuì affermativamente e la madre continuò a chiosare. Intanto Ade iniziava a tossire e il suo volto prendeva un preoccupante tono vermiglio. “Ma a tutto si può rimediare, vecchio brontolone! Essendo i pollini una questione principalmente primaverile… basterà chiamare direttamente l’estate e tutto andrà a posto!” “E muoviti… dannazione…” fece Ade, con voce sempre più flebile, mentre si portava le mani alla gola. E improvvisamente il sole si fece più forte, l’aria, da frizzantina, tiepida, poi calda. La gente per la strada si affrettava, stupita, a levarsi di dosso tutto l’abbigliamento superfluo: non si era mai visto che si asse dall’inverno al pieno dell’estate nell’arco di una mezz’ora. Ma almeno il dio degli inferi aveva ripreso una respirazione regolare… ripiegò con cura la giacca del completo sotto lo sguardo severo di Persefone e si rilassò contro lo schienale. Le due dee non fecero in tempo a riprendere la conversazione che un urlo proveniente dal sedile posteriore le interruppe. “Che c’è ancora!” Demetra si voltò, seccata: suo fratello stava letteralmente fumando da sotto i vestiti: le porzioni di pelle che gli abiti non coprivano, si riempivano di bolle a una velocità impressionante. “Mamma…” intervenne Persefone preoccupata “Credo sia il caso che lo riportiamo sottoterra al più presto… non avevamo pensato al buco nell’ozono…” “Ma che è? Un dio o un vampiro da b-movie?” disse Demetra con un certo disgusto, ma si affrettò a invertire la marcia e puntare all’aeroporto.
Appena la decapottabile fu davanti all’ingresso, Persefone tirò delicatamente la manica della camicia di Ade, che boccheggiava stravolto e steso sul sedile. “Su caro, ci siamo, ce la fai o vuoi aiuto?” “Su, scaricalo in fretta che dobbiamo goderci la nostra vacanza” disse Demetra senza badare alle terribili condizioni in cui giaceva il dio degli inferi. Persefone esitò… conosceva il caratteraccio della madre. “Be’, ma’… il fatto è che non posso farlo viaggiare da solo in queste condizioni… e… a dire il vero mi sento un po’ in colpa: sono stata io a insistere perché si prendesse una vacanza.” Diede un bacio fugace sulla guancia della madre e, sorreggendo il consorte, si allontanò dalla macchina il più in fretta possibile. Non erano ancora arrivati alle porte che il sole si era già oscurato e la temperatura era scesa di almeno cinquanta gradi. Mentre si rifugiavano nella Hall dell’aeroporto sentirono le gomme della decapottabile stridere sull’asfalto. Ade e Persefone ripresero mestamente la via di casa. Ade aveva davvero una brutta cera, sembrava un sopravvissuto (a malapena) di guerra, ma il solo pensiero di ritornare a casa gli diede sollievo. Prima di salire le scalette dell’aereo guardò ancora quel mondo intorno cercando di afferrarne la parte amena, ma subito ci rinunciò e, prendendo la mano di Persefone, esternò “E poi chiamano inferno il nostro regno…” Qualche ora più tardi, mentre il re e la regina dell’oltretomba si riprendevano nelle tenebre confortanti del mondo sotterraneo, gli uomini, nel mondo di sopra, inveivano contro l’effetto serra e i cambiamenti climatici: inspiegabilmente la primavera e l’estate si erano succedute nell’arco di un’ora per lasciare nuovamente spazio al clima invernale.
Ade-scamento (dedicata ad Andrea e a Seenia) di Sauro Nieddu
“Vieni qui bella bambina, vieni dolce fanciullina, accostati e cogli questo fiorellino, è un narciso sai? Il dio tra tutti fiori, il fiore degli dei” La fanciulla si guardò attorno, la si sarebbe detta spaesata, chissà poi se lo era davvero… il suo sguardo tornò ad abbassarsi. Lo splendido narciso era di fronte a lei, le sarebbe bastato fare un o, chinarsi e allungare la mano, e quel fiore stupendo sarebbe stato suo. “Cogli lo splendido fiore bambina, nessuno te lo impedirà, pensa che meraviglia sarà tra i tuoi capelli” La fanciulla fece un o avanti, si chino e allungò la mano a cogliere il narciso. La sua mano non fece a tempo a sfiorare il gambo del fiore che una mano virile le attanagliò il polso con una presa rude, la mano veniva dalle profondità della terra e ivi cominciò a trarla. La voce, sempre suadente riprese a parlare. “Non temere mia piccola, ti sei solo persa, e io ti riaccompagnerò al tuo posto, abbi fede e seguimi” La fanciulla, presa in quella morsa ferrea, incantata dalla voce suadente, non poté che seguire Ade nel suo regno di tenebra. Il viaggio fu lungo e faticoso e Persefone appariva stremata quando il dio del mondo sotterraneo finalmente si fermò. “Sei stanca allora piccola mia? Purtroppo non ho molto da offrirti, se non questo dolce frutto, è tutto ciò che ho, e te lo offro come pegno del mio amore…” La fanciulla allungò timidamente la mano, e presa la melagrana dalle mani possenti di Ade cominciò a sgranarne i chicchi con le dita sottili. Ne mangiò appena sei, poi rese il frutto al Dio degli inferi. “Ti ringrazio Ade, ma questo frutto era tanto nutriente che già sono sazia.” Ade fece spallucce e divorò a grandi morsi il resto del frutto. Solo allora la
fanciulla alzò lo sguardo e guardò dritto in faccia il dio dei morti. Nei suoi occhi brillava una luce maliziosa. “Dimmi divino Ade, è vero che qui negli Inferi non esistono oracoli?” Ade rise… “A che vuoi che serva un oracolo nel mondo sotterraneo? Qui mai nulla muta e di certo le anime dei defunti non abbisognano conoscere il loro futuro. Gli oracoli sono un affare del regno di mio fratello, affidati alla sua protezione, o a quella di suo figlio Apollo, sono legati al sole, non alle ombre…” “È un peccato Ade, che prima del nostro incontro non abbia consultato un oracolo” spiegò la fanciulla improvvisamente sfrontata “Perché se lo avessi fatto avresti saputo a cosa andavi incontro…” “Che vuoi dire?” La interruppe Ade allarmato. Ma avreste dovuto vedere come mutava la sua espressione mentre Persefone cercava di fargli entrare in testa che aveva appena ceduto la metà del suo regno in cambio di una moglie part-time.
La mia eternità di Irma Panova Maino
Vedo il tempo scorrere lento, fra le spire agognanti della mia solitudine. A nulla valgono le anime che mi circondano, tetri spettri di una vita che fu. A nulla serve quel lamento infernale che riecheggia nelle tenebre. Sono solo. Solo come l’alba che ogni giorno illumina la vita e solo come il tramonto che precede la notte. Solo nel silenzio irriverente in questo luogo infame. A nulla è servito l’amore, il desiderio, la speranza… Lei mi sfugge ancora. Lei ama a metà e nessuna delle due parti sono io. Sono solo un’icona, il simbolo di ciò che non è vita, che non è calore, che non è la follia indecente racchiusa in quel sentimento conturbante che porta gli uomini sull’orlo del baratro. Attimo dopo attimo resto immune al are del tempo, immobile nello scorrere delle ere, inamovibile come il monte che mi grava addosso, facendomi sentire il peso della sua ombra. E tu, lassù… fratello ingrato, quante volte hai rivolto il tuo sguardo verso il basso, cercando il mio fra questi gironi immondi. Sono il solo a comprendere queste anime perse, il solo a sapere cosa voglia dire portare il marchio eterno, le catene che legano e strangolano e ti scagliano in quel desiderio terribile che non verrà mai soddisfatto. Prigioniero e carnefice allo stesso tempo, schiavo e padrone del medesimo fato. Raccolto nel mio intimo per non cedere e non credere che vi sia esistenza migliore. Ma io so… so che esiste altro. E il fatto di sapere non consola, non lenisce, non guarisce, porta solo ad altra follia. Inchiodatemi qui, alla mia croce pagana, al mio ceppo sacrilego! Datemi la dignità nella morte! Ma non lasciatemi ancora agonizzare in queste spire senza fondo, in questo marasma senza fine. Il mio dolore è il dolore degli uomini. Le mie lacrime sono le lacrime degli esseri che vivono e respirano e gioiscono e soffrono, prima di approdare qui. Perché dunque il mio destino è uguale al loro? Se Dio sono, dove sono i miei privilegi, la mia divinità? Dove la mia magnificenza, la mia eternità? Che cosa mi rende un Dio? Cosa mi eleva al di sopra del comune mortale?
Non sono niente. Sono solo ombra e polvere, tenebra e disperazione. Sono solo sospiro e morte, afflizione e pena. Sono solo illusione e sconforto, inganno e dannazione. Sono solo, eternamente solo.
L’Ade in me di Andrea Leonelli
Covo e coltivo dentro me quel tetro Ade in cui cresco i dolori e conservo le pene Quelle da cui traggo la frusta a sferzare, il pugnale a trafiggere. Quel posto in cui ripongo i volti dimenticati, le parole sprecate Provviste di pena, macerate e stagionate nell’inverno ricorsivo che incontro ciclico e da cui rinasco per tornare a guardar nell’Ade nascosto negli sguardi altrui.
Summer Dreams
Care raffinatissime Penne, hanno vinto i Summer Dreams. I sogni estivi. Cosa si sogna d’estate? Il fresco, l’aria condizionata, la montagna, la pioggia, un bagno tonificante e, soprattutto, di non trovarsi circondati da orde di vicini di spiaggia rumorosi, da bambini urlanti e lasciati allo sbando sulle spiagge come selvaggi. A fronte di tutto ciò potrebbe anche esserci chi sogna di tornare in ufficio a lottare con stress quotidiani e ben noti e non con i disguidi dei viaggi organizzati, delle valige perse (magari contenenti chissà quali segreti) e gli sciami di zanzare assetate di sangue come e più di Dracula. Poi ci sono i sogni che d’estate possono realizzarsi, come amori fugaci, incontri con vecchie fiamme dell’infanzia e serate ate in tranquillità sorseggiando una birra ghiacciata in un locale con musica blues a vedere are le ragazze coi vestitini leggeri. Stavolta saranno in gara anche gli amministratori (per cui votate anche noi) e non ci saranno pezzi "fuori concorso". Tutti i pezzi postati con la dicitura "pubblicabile" saranno in gara. Ricordatevelo! Detto questo, nostre care e ineffabili Penne, mettetevi sotto a sognare e raccontateci i vostri Summer Dreams.
Pirati di Nicoletta Berliri
Anch'io ho giocato ai pirati guerre di polvere e sangue in un caldo sentiero estivo. Si combatteva ad oltranza fino all'ultima goccia di sole quando la mano del potere ci trascinava indomiti a casa ed era bagno, poi subito a letto dove ci si girava a lungo prima di crollare sfiniti per le sbucciature e i lividi. Anch'io ho giocato ai pirati ma posso solo dirlo a me stessa cullarmi in un dolce ricordo. Son cresciuta donna ormai e tutto ciò non sta bene.
Il sogno in una conchiglia di Daniela Cavone
Ho trovato in fondo al cassetto una grossa conchiglia, dono prezioso che le onde del mare a me distesa sulla sabbia in dormiveglia, m'hanno voluto lasciare. D'istinto l’avevo raccolta E forte in pugno stretta, poi conservata e custodita, talismano d’amore e coraggio fra le dita, scrigno di sogni e pensieri leggeri come impalpabili veli. Un giorno m’ero svegliata E di quella conchiglia mi ero ricordata, così in fondo al cassetto avevo cercato, fra tutto ciò che lì dentro v'era stipato. Tra desideri, abbagli e miraggi, aspirazioni, nostalgia e ricordi, la conchiglia aveva diffuso tutt'intorno magia,
io la sentivo per davvero quella sinfonia. Del ato il rifluire, del futuro l'attesa, la conchiglia giaceva tra le mie mani come per incanto mentre il cielo imperava, amaranto. Rigirandola un pochino, mi parlava il mare e mille storie cominciava a raccontare. E in ogni storia un messaggio in bottiglia, di quelle che le onde impetuose trasportano lontano, di quelle dal sol significato “T'amo”. Anche io ne avevo affidato una al mare ed esso m'aveva risposto con quella conchiglia, ragion per cui non mi stancavo di ascoltare il suono che al canto assomiglia di una sirena dalla coda ondeggiante, come il mio sogno segreto latente. Quello in cui sei racchiuso tu, che per me sei il sole ma anche di più. E quale miglior momento per ricordarmi di te,
del nostro sentimento, affidato alle correnti del mare, non per nasconderlo, ma perché il più lontano potesse arrivare, infettando e contagiando anche la terra più lontana, perché l'amore veleno non è, perché l'amore è tutto quel che c'è. E vedere il tuo viso in quella conchiglia, sentir la tua voce provenire dal suo interno, risveglia in me ioni assopite, rismuove quel forte turbamento, di quando quella sera sulla spiaggia m'hai lasciata, dicendo: “Devo andare, t'amo, ma non posso restare”. Così tra lacrime salate e granelli di sabbia, mi ero distesa sulla riva fresca di stelle, con una coperta d'acqua che mi accarezzava il corpo. andava e veniva, m'abbracciava e poi svaniva, ed io mi lamentavo, una tua carezza ancor sognavo. Il cielo ed il mare,
poi l'infinito. Di te nessuna traccia, nel nulla ormai inghiottito. M'addormentai sfinita, con la ninna nanna silenziosa della luna, senza più voglia alcuna di vivere e sorridere, perché tu non c'eri più. Dal mare una conchiglia, a fare da scrigno, per i tesori dei quell'ultima sera, da raccogliere e custodire, affinché nulla del nostro amore potesse morire. Come a dire il mare: “Riponi tutto qui dentro, potrai ritirarlo fuori ogni volta in cui vorrai, il vostro amore non tramonterà mai.” Ed eccomi qui, con questo guscio, a respirarti forte, a sentirti vivo e chiaro. L'ho tirato fuori dal cassetto, con un gran sospiro di sollievo. Mi giro, ti vedo, tu sei di nuovo e ancora mio, quella sera sulla spiaggia non fu un addio.
L'avevo sognato di perderti nel mare, ma un tuo bacio mi fece sussultare. Mi stringevi forte e mi dicevi: “T'amo”. Ci prendemmo per mano e non ci lasciammo più andare.
Un bel sogno d’estate da raccontare di Anna Ciraci
Avevo la testa svuotata dal tempo occupato a fare e disfare un anno pesante da sopportare. Camminavo per strada senza trovare un nuovo sogno da poter disegnare, quando d’un tratto ancora assorbita dal travaglio invernale un’intera vetrina mi sembra chiamare… Vi son luci abbaglianti, spiagge piene assolate e palme ad ombrare. Mi decido ad entrare nella remota speranza che il commesso m’ispiri a sognare. “Lei vende sogni a quelli che han smesso di desiderare?” Gli chiesi senza neppure perder tempo a salutare. “Non vendo sogni, ma posso aiutarti, se li vuoi scovare!” “Devo trovare un sogno in particolare, un sogno d’estate da poter raccontare, ma son troppo stanca per poter realizzare un nuovo viaggio di cui parlare” “Vieni domani, quando il sole è a calare, tra l’ombra del cielo che ancor tende a rischiarare e l’ombra notturna che vuol foderare, è solo allora che i sogni si fanno stanare.” Il nuovo giorno fu come il vecchio la mente vuota e il sogno indetto, eppur fiduciosa andai al negozio convinta che per l’illusione ci voglia proprio questo: una bella vetrina che richiami i distratti, un bel impiegato che faccia da lampo, il resto è fantasia ed il gioco è fatto! La vetrina era spenta, le luci erano soffuse e la spiaggia era deserta non v’era più la palma ma una luna all’erta. Aprii comunque la porta, anche se incerta… Si respirava un’aria strana, era aspra e salata come quella di mare e appiccicata come sabbia bagnata. Rimasi sulla porta a respirare e allora la mia mente poté di nuovo viaggiare.
S’inventò feste nelle quali ballare, tuffi sotto la luna alla quale schizzare, fuochi sulla spiaggia dove cantare, e tanta gente con cui giocare. Persino un amore da far sbocciare. Quando poi il sole s’approcciò a spuntare quello fu il tempo di rincasare. Mi svegliai il mattino seguente con la pretesa di ringraziare al mio arrivo la bella vetrina era svanita v’era solo una casa pronta a crollare… Era solo un bel sogno, un bel sogno d’estate da raccontare.
Brindisi di mezzanotte di Sofia Skleida
L’estate odora d’amore, ione, misticismo L’inverno annaffia di lacrime Il fogliame indifeso dei tronchi tribolati La notte accarezza il buio Con il mantello bianco della castità Sento, Vivo, Amo, rimpiango...
Il sussurro dei sogni di Anna Ciraci
Scende lo scuro a coprir l’afa è un’ombra fresca sopra la terra sudata spegne il fuoco d’un giorno terso e accende il cielo in una vita diversa. Raccoglie i respiri di languidi sguardi come preghiera alla luna che nasce per poi disperderli sopra al suo manto come se di lei ne fosse il pianto… Singhiozzi intonati fatti di stelle grezzi riverberi fatti di niente cantano al buio ché nessuno li sente.
Sogno di una notte di mezz'estate di Allie Walker
Mi piacerebbe are l’eternità qui a lasciarti leccare il mio prezioso miele, a farmi massaggiare il piccolo pulsante del piacere e rabbrividire a quel tocco circolare che imprimi come se volessi risucchiare il mio diletto in un vortice senza fine.
Alzo le braccia e ti lascio fare, mentre con le mani nei capelli tasto la consistenza del mio calore, che si è sparso dal ventre fino a salire su al cervello. Sembra fuoco ed è bello affinare l'umido sotto le dita.
Mi piego di lato e sposto il viso, cerco di avvicinarmi al tuo cuore, voglio sentire se hai il mio stesso tumulto
mentre mi tocchi e t’imploro: ancora, di più, ancora.
Poi mi blocco, gocce di sudore scivolano sul mio viso, ma nessun suono dal tuo cuore, nessun tocco di mani conosciute, nessun respiro di amore, nessun calore di corpi e di amanti.
Spalanco gli occhi nel buio e, solitaria come sempre, inspiro il mio odore di donna, sorrido alla solita voglia di averti a fianco, che si affaccia indiscreta nei miei sogni, in questa notte calda di mezz'estate.
Voce - alla ricerca dell'anello perduto di Elisabetta Bagli
“Voce” è il titolo del mio primo libro. Questa raccolta di poesie nasce un po’ per una sfida con me stessa e un po’ perché spinta da una Voce particolare che è riuscita a mitigare le mie insicurezze e a darmi il coraggio di mostrarmi senza veli. Amo le sfide e, dopo aver affrontato e superato quella lanciata da un mio amico che mi ha fatto comprendere che potevo e dovevo dar sfogo ai miei pensieri per iscritto, sentivo che ne dovevo affrontare un’altra. Faticosamente la mia Voce stava uscendo materializzandosi nero su bianco sotto forma di poesie, ma non riusciva ad abbandonare il limbo in cui la lasciavo insieme alle mie poesie e ai miei pensieri una volta scritti. Avevo in mente di farne una raccolta, naturalmente. Ma per pigrizia, anzi, forse direi di chiamarla con il suo nome, per paura del giudizio altrui, rimandavo. Scrivere poesie è mettersi a nudo, ma farle leggere ad altri è esporsi a 360º. Non mi sentivo ancora pronta per fare questo o. A nulla valse l’appello dello stesso amico che mi mandò il link de ilmiolibro.it nel quale si indiceva un concorso di poesie. I miei scritti continuavano a stagnare nei meandri del mio computer. Ma il 15 agosto del 2011 ci fu un evento che lessi come un segno del destino. Ero a Sabaudia con tutta la mia famiglia, con i miei cugini e alcuni amici. In quella zona l’acqua non è molto profonda. Ci si può addentrare nel mare camminando per quasi quaranta metri senza che l’acqua superi il metro e cinquanta di profondità. E, all’improvviso, ci si può imbattere in uno scalino sul quale salire per ritrovarsi su una lingua di sabbia alta e nella quale, di conseguenza, l’acqua diventa molto più bassa, arrivando fino alle cosce. Questa zona, che è presente su molte spiagge del litorale laziale, noi romani la chiamiamo “la secca”. Avendo scoperto “la secca”, tutto il gruppo decise di andare fin lì per giocare una sorta di beach volley. In genere, vado in spiaggia spoglia di ogni avere per paura di perdermi monili e gingilli vari. In genere, ho detto. Quella volta, no!
Avevo ben quattro anelli! La fede del mio matrimonio all’anulare sinistro, nello stesso dito avevo anche l’anello con due brillanti che mi ha fatto incastonare mio marito in ricordo della nascita dei miei due figli, poi all’anulare destro avevo il brillante di fidanzamento e al medio destro un anello d’argento, di meno valore economico degli altri ma di enorme valore affettivo perché era stato un regalo della mia cara amica brasiliana Isabel con la quale, anni addietro, avevo condiviso tante avventure Erasmus in Spagna. Inoltre, rappresenta una farfalla, uno dei miei animali preferiti. Così, mentre giocavamo su “la secca”, si consumò il fatto. Il mio bimbo, infastidito dagli schizzi d’acqua salata iniziò a urlare perché gli facevano male gli occhi e voleva ritornare a riva per asciugarsi. Ma una volta giunta a riva, mi accorsi che l’anello di brillanti, quello ideato per me da mio marito, era sparito dal mio anulare sinistro. Su quel dito era rimasta sola soletta la fede. Disperata ritornai a “la secca” raccontando a tutti l’accaduto. Ma come era possibile ritrovare un anello in mezzo al mare a quaranta metri dalla riva? Con tutti loro che, ignari, avevano continuato a giocare e, quindi, a muovere sabbia e acqua? Era impossibile. Mi sentivo un’agitazione interna indescrivibile. So solo che tanta era la voglia di ritrovarlo che mi misi immediatamente a cercarlo insieme a tutte le persone presenti. All’improvviso mia cugina insieme a un mio amico ebbero un lampo di genio. Vedendo un “tellinaro” (raccoglitore di telline) sulla spiaggia intento a cercar telline decisero di avvicinarsi a lui per chiedergli di aiutarci, in quella assurda ricerca, con la sua retina. Premetto che non è usuale trovare il 15 agosto alle sei e mezza del pomeriggio un “tellinaro”. In genere, si mettono a operare quell’ufficio proprio di mattina. Sembrava lì apposta per me. Così, dopo qualche minuto in cui si mise a rastrellare il punto incriminato con la sua retina, abbiamo recuperato l’anello di brillanti. Dopo un’ora e dopo aver perso ogni speranza di ritrovarlo ero di nuovo in possesso del mio anello! Incredibile! Volendo dare una visione poetica al fatto potremmo dire che il mio anello, stanco di essere sempre infilato al mio dito, munito di vita propria aveva deciso di scivolarmi nell’acqua per farsi un bel bagno e provare il brivido di essere solo nell’immensità del mare. Voleva qualche minuto di indipendenza? E l’ha avuto! Ma non aveva fatto i conti col “tellinaro” delle sei e mezza! Appena nelle mie mani sono scattata come un fulmine a riva per conservare tutti e quattro gli anelli nel mio borsellino. Non volevo essere recidiva!
Quell’esperienza mi era bastata e avanzata! Pensate che la mia sia stata fortuna? Sicuramente! Anzi, chiamatela come volete. Perché la storia non è finita. Per ringraziare il “tellinaro” per il suo aiuto decisivo decidemmo di offrirgli qualcosa. Ma lui, scuotendo la testa mentre si allontanava da noi, diceva di non volere assolutamente nulla. Da lì l’idea geniale di regalargli un gratta e vinci, per sfidare ancora la sorte. Andai al chioschetto a comprare qualche gratta e vinci da distribuire a tutti i partecipanti della “caccia all’anello”. La spiaggia si trasformò immediatamente in una bisca a cielo aperto, bisca nella quale erano coinvolti tutti, grandi e piccini, ognuno intento a grattare il proprio biglietto. Eravamo veramente una bella comitiva. Ma chi riuscii a grattare il biglietto vincente? Io, naturalmente. Era la mia giornata. Non c’era spazio per nessuno. Vinsi poco, giusto i soldi per comprare altri cinque gratta e vinci che, però, si rivelarono perdenti. La magia era finita. Ma non era finita quella magia che aleggiava tra noi. Ci sentivamo contornati da una sorte di aura della felicità. Eravamo tutti insieme e io ero stata, senza volere, la protagonista di quei momenti “tragicomici”, da ricordare! Così, dopo una schitarrante “Ostia Beach” cantata dai miei figli con un menestrello d’eccezione e le bombe alla crema e nutella prodotte dalle sapienti mani di mia cugina e di sua cognata si concluse quell’intensa giornata, lasciandomi la meravigliosa consapevolezza di essere sempre accompagnata dalle persone che più contano per me. Eppure, nonostante mi sentissi inebriata dall’affetto e dalla complicità con il mio intorno, c’era qualcosa che continuava ancora a tormentarmi. Non ero soddisfatta della mia vita. Dopo un rapido excursus sulla mia esistenza fatto insieme a mio marito, mentre eravamo seduti in terrazza a osservare il cielo e il mare di quella calda notte estiva, mi sentii dire da lui: “Devi cavalcare l’onda della fortuna... magari riesci a realizzare il tuo sogno di pubblicare il libro”. Mio marito aveva ragione. Quella frase iniziò a girarmi in testa come la manovella di un proiettore che rifletteva la mia vita sullo schermo della mia memoria. Osservavo la maestosità del Monte Circeo, luogo evocato dal sommo poeta Omero nella sua Odissea. Vedevo quella macchia nera che si confondeva col mare e col cielo e pensavo a tutte le volte che ero stata lì insieme ai miei cugini.
All’improvviso sentii la Voce del mare sussurrare alla mia anima. Iniziai a ricordare che quel mare mi aveva visto bambina, mi aveva visto crescere, diventare un’adolescente impaziente di vivere i suoi primi amori, mi aveva visto donna e ora mamma. Quel mare mi stava chiamando alla mia nuova realtà abbandonata in un file del computer. Con la sua Voce suadente sembrava dirmi di continuare a credere nei sogni. Ne avevo già realizzati tanti nella mia vita, sicuramente potevo provare a raggiungere anche questo. Appena tornata a Roma, accesi il computer, recuperai la mail con il link del miolibro.it, inserii il pendrive con alcune poesie e iniziai seriamente a pensare a “Voce”. Questo libro nacque il 10 settembre del 2011 con un semplice “click” dato sul mio computer di Madrid. Partecipai al concorso del miolibro.it, superando la prima fase tra i 1000 componimenti poetici arrivati al sito. Poi, però il sogno si infranse. Anzi, continuò a vivere nella realtà. Perché proprio questo libro, piano piano, si è fatto strada tra la gente che lo ha apprezzato, apprezzando indirettamente me come persona. “Voce” è la mia storia, il mio presente e il mio futuro. Nulla di più vero, visto che la mia Voce, a distanza di anni, continua ancora a farsi sentire, anche se in veste nuova, visto le altre pubblicazioni che sono seguite e sento che lo farà per sempre. Ho ascoltato la Voce del mare e lei mi ha preso, per questo sono qui e scrivo, per questo sono qui a sfidare me stessa e il tempo, per questo sono qui pronta a rinnovare me stessa e la vita in ogni mio scritto…
Effimera estate di Sebastiano Impalà
Vivo solo in questa foresta d'immagini e riflessioni, adagiato con noncuranza su sabbie torride e piccole conchiglie.
Il suono delle stelle m'induce a un dolce sonno, mentre viaggio su barche di giunchi intrecciati e canne di bambù.
Ho avvertito il suono di un corno antico, la banda musicale
che scorrazza per le vie del centro, le facce stralunate dei turisti intenti a degustare prelibatezze effimere e vortici di assoluta vacuità.
Mi sveglio in un mattino assolato, felice d'esser nato, a rimirare il sorgere del sole nell'alveo caldo del mio cuore.
Quasi di Oliviero Angelo Fuina
Era quasi oggi, quattro anni fa, la finestra sul lago di ponente si affacciava nel sogno quasi estivo dal profumo di pelle e magnolia avevamo dell'infinito i nomi e, quasi, lo stringevamo al risveglio per non farlo evaporare nell'alba di un giorno che aveva il giglio nel cuore Quando poi nacque l'estate per gli astri intrecciavamo le nostre mani al cielo e tutto era perfetto nel disegno mentre il fiume portava le preghiere Bastava poco e, quasi, ci riusciva e quel sogno ormai al tramonto restava per viverlo davvero dentro il mondo senza un quasi a singhiozzare un rimpianto.
La poesia nascosta di Oliviero Angelo Fuina
É poesia da scrivere dietro un foglio per non farla trovare da nessuno perché è un giorno che festeggio tacendo senza più la tua risata in risposta Mi manchi, se ci penso per davvero, nel giorno che ti diedi un minerale azzurro, come volta per un sogno, e intrecciavamo in veglia le caviglie Ma tutto scorre adesso nel silenzio e ho perso della rosa il suo profumo che è sempre stato odore di speranza e a capo chino intacco il calendario Da tanto non scrivevo il tuo rimpianto o meglio, il mio stupore alla tua assenza che manchi l'ho già detto, ma oggi vale perché è davvero oggi che son solo Ti guardo nei tuoi voli sempre accesi in rotte che nemmeno più comprendo
e non ti accorgi più del mio annaspare intento a ritrovare le mie ali Ma lascio alla tua luna il mio sorriso provato troppe volte a rotti specchi tu mai saprai del mio pensarti adesso e forse è solo un sogno da scordare.
E' estate tutto l'anno di Rossana Lozzio
Sabbia che scotta, quasi quanto questo amore di cui mi nutro da sola e che, come le onde del mare che mi stanno blandendo, sopravvive… senza che possa comprendere se ha senso e se ne ha, perché debba essere destinata ad osservarti da lontano. Chiudo gli occhi, il sole li ferisce e vorrei che si trattasse di un sogno… perché così, potrei riaprirli e offrirmi a tanta luce, dipingendo sulle mie labbra il sorriso che ti dedico ogni volta che ti penso. E accade spesso… perché la fame non si esaurisce, è in continuo aumento. Non è l’estate che sto attraversando a colmarmi di desiderio, non c’è stagione, non c’è mese, non c’è giorno… mio incredibile, straordinario, amabile tormento.
Note di sogno di Manuela Leoni
Le note si spargevano nell’aria fresca della notte, creando spirali fantastiche che si intrecciavano alla brezza e al profumo intenso del gelsomino. In piedi, sotto la luce della luna, l’uomo era di nuovo alto e dritto, pieno di fascino come doveva apparire tanti anni prima sotto le luci potenti che lo illuminavano sui palcoscenici dei più importanti teatri del mondo. Le dita correvano ancora sorprendentemente agili sul manico del violino, l’arco creava incanti sulle corde tese, un’aura magica sembrava circondarlo illuminando i capelli candidi, il viso segnato, gli occhi stanchi di chi ha vissuto troppo a lungo da solo. La musica era stata la sua vita, la sua amante gelosa che non aveva lasciato spazio a nessun’altra. Ora suonava da solo, su una terrazza affacciata sul mare con il lento sciabordio delle onde a fargli da contrappunto. L’aria della notte era fresca dopo la calura del giorno, fresca come le mani morbide che lo avevano accarezzato in una notte sorprendentemente uguale a quella, così lontana nel tempo; delle tante donne che aveva incontrato, delle tante donne che aveva avuto, soltanto di lei serbava un ricordo così vivido, l’unica donna che avesse mai pensato di seguire. L’unica donna che non aveva voluto seguirlo. La musica creata dalla perfetta armonia tra lui e il suo strumento lo avvolse, trasportandolo lontano nel tempo. La leggenda che avvolgeva il pezzo gli sembrò quasi vera: per quale altro motivo la sua immaginazione gli faceva rivedere gli occhi brillanti di Helena, i suoi capelli scuri come la notte, le curve sinuose del suo corpo, persino il suo profumo persistente di gelsomino e legno di sandalo? Suonava, e l’arco correva veloce sulle corde, i movimenti precisi e ritmici, come i loro corpi avvinghiati che si muovevano davanti ai suoi occhi. In un angolo poco illuminato dalle lanterne disseminate sul terrazzo il ragazzo sedeva silenzioso, ascoltando la musica e osservando l’uomo che aveva cercato per gli ultimi sei mesi. Tutto quello che aveva di lui era la sua firma sul programma di un concerto di 25 anni prima, una foto sbiadita che lo ritraeva al fianco della splendida donna che era stata sua madre e una lettera in cui pregava Helena di ritornare, che avrebbe
smesso di girare il mondo, che avrebbe persino smesso di suonare. E c’era quel brano di Tartini che sua madre ascoltava sempre, nell’incisione della Royal Philharmonic Orchestra, violino solista Daniel Huges, che era lo stesso nome che compariva sul programma autografato. Lei non ne aveva mai parlato, ma dopo la sua morte Albert aveva cercato di ricomporre i frammenti che costituivano la sua vita prima che lui nascesse. Non era stato facile. Per qualche oscuro motivo non ne aveva mai voluto discutere, e alle domande insistenti di Albert, su chi fosse suo padre e che fine avesse fatto, lei gli rispondeva che era figlio del sogno. Ma ora era lì, e lo osservava. Ora era lì e lo ascoltava suonare e quasi riusciva a capire perché sua madre fosse fuggita da quella forza: ma lui la beveva, assetato. Lo ristorava, lo nutriva, come niente altro aveva potuto fare prima. L’uomo che aveva cercato per tutta la vita. L’uomo sulla foto di sua madre. L’uomo che, smesso di calcare le scene di mezzo mondo, si era ritirato in un esilio dorato e quasi irraggiungibile. Aveva pagato, pregato, cercato e persino scalato la scogliera sotto la terrazza per arrivare fino a lui. Perché Albert lo sentiva: quello era suo padre. I frammenti avevano composto un quadro, ed aveva il suo volto. Daniel finì di suonare e tolse delicatamente il violino dalla spalla. C’era qualcosa di Helena nella notte, poteva sentirlo nelle note che ancora riverberavano dentro di lui. Albert si alzò in piedi lentamente, avanzando verso il violinista. Camminava cauto, timoroso di essere scacciato, timoroso di essere riconosciuto, timoroso di spaventare l’uomo che aveva tanto sognato di incontrare. La luna gli illuminava il viso, gli occhi brillanti come stelle, i capelli scuri come la notte. Fu allora che Daniel lo vide, ma preso dal suo sogno gli parve di scorgere Helena venire verso di lui, così la chiamò. Albert avanzò nella luce, sentendo il nome di sua madre. Più si avvicinava, più Daniel poteva vederlo e di certo si accorse che non era Helena, ma un ragazzo che le assomigliava in modo sorprendente. Tranne le mani. Le mani erano le sue. Lunghe dita nervose, adatte a danzare sulle corde, le unghie squadrate tagliate cortissime, persino la piccola voglia a forma di foglia sul dorso della mano destra. Sentì il mondo
capovolgersi, mentre si rendeva conto che stava guardando le mani di suo figlio. Non sapeva cosa fare. L’unica cosa che conosceva era la musica, l’unico linguaggio che sapeva parlare; l’unica donna che avesse mai voluto lo aveva lasciato perché il mondo non perdesse la sua musica, ma ora il fato stava pareggiando i conti. Parlò dell’unica cosa di cui sapeva parlare. ”Sai suonare ragazzo?” ”Sì” Daniel tese il violino al figlio. Albert lo prese, mentre le loro mani, identiche, si sfioravano. Posizionò il prezioso strumento sulla spalla, guardò suo padre negli occhi e cominciò a suonare. La magia della musica li avvolse entrambi, legandoli insieme, in un groviglio stretto al profumo di mare e gelsomino. Le parole sarebbero venute dopo. A volte tutto quello che serve ad un sogno per prendere vita è la musica giusta.
Il pezzo suonato dai due violinisti è la “Sonata per violino in Sol minore” di Giuseppe Tartini, nota come “Il trillo del diavolo”. L’ispirazione per il racconto mi è venuta da “Caruso” di Lucio Dalla.
Fall-Out di Fabrizio Castellani
Dalla sedia a dondolo guardò verso il mare azzurro. Il primo pensiero fu quello di essersi addormentato dopo un pranzo davvero buono e davvero abbondante. Non riusciva a ricordare il cibo, né il vino, ma ricordava di aver davvero esagerato. In un gesto d'abitudine si guardò la fascia addominale, i muscoli scolpiti, e la pelle abbronzata e tesa. “Devo fare attenzione” pensò “tra poco potrei somigliare ad un balenottero”. Soddisfatto si alzò e con due i attraversò il portico ombreggiato. Il legno sotto i piedi nudi era caldo e liscio. Non si avventurò sulla spiaggia. La sabbia bianca dava l'impressione di essere incandescente, e così restò al sicuro, all'ombra. Neanche un alito di vento turbava la quiete. Nell'aria solo il lento brontolio delle onde stanche che carezzavano la riva. Concentrò lo sguardo verso il mare fino ad incontrare l'oggetto della sua ricerca. La donna, in piedi sulla linea della battigia, lo guardava. Le gocce salate dell'acqua brillavano sulla sua pelle abbronzata, e un minuscolo costume verde a malapena ne copriva le forme aggraziate. Theo sentì forte la voglia di baciarla, di mischiare il calore del suo corpo con quello di lei. Ne immaginò l'odore, la consistenza della pelle di seta. Quasi sentì il sapore del sale sulle sue labbra. Ma non si mosse per raggiungerla. Lei alzò una mano, con quel gesto consueto con cui lo salutava, e gli sorrise. Era troppo tardi. Theo aprì gli occhi, e la luce si accese. Qualcuno da fuori aprì il portello e lo aiutò ad uscire. Era una ragazza, giovane, dai lineamenti orientali. I capelli neri raccolti in una lunga coda. Avrà avuto si e no dodici anni. Per quella innata forma di cortesia, scritta forse nel DNA di chi nasce ad oriente, la ragazzina mantenne lo sguardo basso, lontano dal suo corpo nudo e malato oramai ridotto ad un mucchio d'ossa. Non disse una parola.
L'asciugamano che gli porse era ruvido, ma pulito, e lui ne fu compiaciuto. In quei tempi era un lusso non da poco, specie per una sala dei sogni da quattro soldi come quella. “Chissà se questa bambina saprà mai cos'è l'estate” pensò con infinita tristezza. Davanti alla camera dei sogni, una vecchia vasca di privazione sensoriale probabilmente in uso già da prima della Catastrofe, Theo cominciò svogliatamente a rivestirsi. Chiuse accuratamente la tuta isolante, e poi infilò gli stivali rivestiti in piombo e kevlar. Dopo un ultimo, profondo respiro, indossò il casco e lo collegò al respiratore. Incurante del forte odore d'aria stantia che gli mordeva la gola camminò goffamente lungo il corridoio di uscita. Di fuori, come ogni giorno degli ultimi vent'anni, la neve radioattiva continuava a cadere.
Proprio io ho sparato di Andrea Leonelli
Era una calda estate. Soffocavo tra le spire dei ricordi di un sogno reale come un taglio s’è scheggiato ai bordi poi è esploso in frantumi e lo vedo crollare al suolo come colpito da un proiettile. Ricordi un futuro mai realizzato. Un futuro sbagliato a cui proprio io ho sparato e guardando il cadavere da cui uscivano illusioni ho riposto la mia arma
e ho guardato oltre
L'artigiano dei Sogni di Jill Parker
Le mani segnate dal tempo incastrarono con pazienza l'ultimo pezzo, le dita batterono sul legno scuro, intagliato con molta attenzione, per ascoltare l'eco che ne uscì. Soddisfatto del proprio lavoro, l'uomo sollevò la scatola tra le mani; amava l'estate, la luce calda, avvolgente, il modo sottile in cui voce del mare e delle montagne si faceva sempre più vicina, intessendo un invito a cui non si poteva resistere a lungo. Ma erano altri dettagli a spingerlo a creare le sue piccole scatole, i forzieri con cui custodiva i sogni e i desideri imprimendoli per sempre nel legno scelto con cura: ognuna aveva un profumo diverso, promesse bisbigliate da quella stagione ingannevole in cui ogni cosa sembrava poter durare per sempre, un desiderio, un sogno difficile da realizzare. Alcuni erano più sbiaditi, soffusi ed effimeri come se la trama dell'arazzo si fosse improvvisamente allentata e ne avesse lasciato soltanto il ricordo; altri erano forti, gridavano con le tempeste e con il vento, svettavano tra le nubi pigre nel cielo dell'estate come torri fantastiche. A lui non importava, non faceva distinzioni tra i suoi lavori... tutti i sogni meritavano una possibilità, e lui lavorava per crearla, plasmandola con le sue mani nodose e sagge. Soddisfatto, l'artigiano ripose la scatola - era piccola e leggera - su uno scaffale: la stanza ne era ricolma; grandi, tonde, quadrate, piramidi e forme che ancora non avevano un nome ingombravano ogni angolino, anfratto o ripiano. Alcune le aveva donate al vento, altre alla notte, perché li portassero in luoghi e tempi dove si sarebbero potuti avverare, dove lo spirito di un bambino poteva comprenderne l'essenza, ma la maggior parte erano ancora li, pulite e ordinate con precisione. Aprì la finestra ed il canto del mare riempì il silenzio lasciato dalla fine del lavoro: le onde si infrangevano sulla scogliera, la spuma giocava tra gli scogli rincorrendosi con l'acqua salmastra e innalzandosi verso la terra quando la brezza si alzava pigramente a carezzarla. Il vecchio artigiano sorrise con un misto di divertimento e apprensione, lo sguardo era quello di un padre che osserva i bambini correre nel giardino. “E che ne è della tua scatola?” Un gabbiano, uno di quelli piccoli e scaltri, si posò accanto a lui - abbastanza lontano da fuggire nel caso l'avesse irritato - e lo fissò con curiosità. Il vecchio tossicchiò, a disagio. “Nessuno ha fabbricato la mia scatola, amico mio. La Tua,
ad esempio, è una delle più piccole... una di quelle che è facile regalare.” Il gabbiano saltellò più vicino alla sua mano quando la protese per accarezzare il piumaggio grigio come il fumo. Era giovane e avrebbe volato lontano, così come era impresso sul legno chiaro e sbiancato dalle onde con cui aveva fabbricato il suo sogno. “Secondo me dovresti farla.” Il gabbiano parlò con voce salda, ma la sua attenzione fu attirata presto dallo stormo che lasciava la terra per andare a cacciare in mare aperto. Il piccolo corpo fremette ed il vecchio lo lasciò andare. Mentre il suo amico volava con grazia, scivolando tra le dita del vento, l'artigiano storse le labbra: non era sicuro di ricordare come si fe a sognare, ma il gabbiano aveva ragione... aveva costruito i sogni di quel mondo per più tempo di quanto riuscisse a ricordare, incastrando e tagliando, sussurrando con voce sottile le parole che sarebbero rimaste chiuse per sempre nelle sue creazioni. E l'estate portava sempre quella sensazione un po’ triste, intrisa dalla consapevolezza che quella stagione sarebbe presto scivolata nel fresco dell'autunno e che i sogni avevano il diritto di essere vivi come qualunque altra cosa; il vecchio decise che anche lui ne aveva diritto, e ringraziò mentalmente il suo piccolo amico. Chiuse fuori l'estate, abbassando le tende di raso scuro e facendo piombare la stanza nella penombra placida in cui amava tanto lavorare. Il tempo divenne soltanto il rumore flebile delle onde all'esterno, notte e giorno si fo assieme in un crepuscolo senza fine, accompagnato dai suoni familiari che scandivano la costruzione della scatola di legno, dal profumo delle tavole e dalla leggerezza degli strumenti precisi. Non seppe dire quanto a lungo lavorò sul suo sogno. Le prime tre scatole finirono nel camino prima ancora di essere completate, troppo piccole, troppo grandi, troppo fragili. La quarta lo distrasse e prima ancora di rammentare per chi stesse intagliando sussurrò con amore “Non piangere più, bambina... l'estate tornerà presto ed i tuoi occhi la guarderanno con la saggezza di una donna.” La guardò con tristezza prima di posarla assieme alle altre, e sedette a lungo, solo e silenzioso, prima di allungare una mano per prendere un nuovo ceppo. I ricordi fuggivano lontani dalla sua mente, come sempre quando era immerso nelle sue creazioni, e cercò di costringerli in una sola direzione: ripensare alla
musica dolce, al fumo dei bracieri e alle risate di un tempo era difficile, dare forme ai colori privi di senso lo lasciò più frustrato di quando aveva dovuto bruciare le tre scatole. A rispondere era solo un ostinato silenzio, uno di quelli che stringono e che si rifiutano di lasciare andare la sua vittima: la scatola era pronta ormai, un contenitore vuoto e privo di vita, immobile tra le sue mani segnate dal lavoro e dall'inverno. Lo scagliò lontano con un grido irritato ed uscì senza voltarsi indietro: era notte, una notte estiva placida e calda. Le stelle brillavano orgogliose nel cielo e si specchiavano vanesie nel mare calmo; la risacca non era che un sibilo costante, ritmico come un cuore e implacabile come il tempo. Sedette su uno scoglio e lasciò che l'acqua tiepida lambisse i piedi nudi, stemperando il calore del fallimento che gli imporporava il volto. “Non pensavo davvero che avresti potuto dimenticare.” La voce di una donna parlò oltre la notte, sussurrando assieme al vento. Il vecchio sollevò il volto e fu sorpreso per la prima volta da molti anni: lei era lì, semplice e perfetta come avrebbe dovuto ricordarla, esattamente come la ricordò in quell'istante, avvolta da una veste azzurra che aderiva alle curve morbide, il volto, rischiarato da un sorriso di chi sa esattamente su quali strade i suoi sogni, l'avrebbero condotta era circondato da una nuvola di capelli castani come l'autunno. “E' stata solo un'estate." ribatté il vecchio, alzandosi per fronteggiarla sulla sabbia umida. Gli occhi azzurri e limpidi di lei fremettero per il gelo di quella risposta e lui si maledì. "La nostra estate.” lo corresse, indietreggiando di un o. Il mare l'accolse come una vecchia amica, alzando un'ondina a bagnarle le gambe. “E' stato molto tempo fa.” l'artigiano era immobile, e non riusciva a muoversi ancora. Lei sorrise come aveva sempre fatto, con disarmante dolcezza, e allungò una mano per invitarlo a raggiungerla. “E il tempo che hai speso dietro ai sogni degli altri non tornerà più... ma puoi decidere di vivere quello che ti resta assaporando quello che sarebbe potuto essere.” Era estate, un'estate meravigliosa come non ne capitavano da un'era, e lei era perfetta. Non c'era nulla, in quella figura, che avrebbe potuto scacciarlo, niente in quell'animo che avrebbe voluto sognare qualcosa di diverso: l'intensità del suo sguardo che era più profondo del mare e del cielo lo rapì ancora una volta, spingendolo a prendere la sua mano sottile. Era fresca tra le sue, accaldate dal
lavoro di giorni interi, e il suo tocco lenì la malinconia e la tristezza dell'estate. Decise prima ancora di rendersi conto di ciò che avrebbe significato, perché non c'era altro che potesse significare: avrebbe seguito il suo sogno, così come tanti avevano fatto grazie al suo duro, solitario lavoro. “Sapevo che saresti tornato. Sei stato lontano troppo a lungo, e finalmente mi hai richiamata.” Sorrise, e il mondo apparve come un paradiso perduto e ritrovato. Si lasciò condurre tra i flutti, salutando con un gesto il mare che l'aveva cullato e ispirato per tutta la vita. Il fabbricante di sogni seguì la donna dei suoi ricordi e sparì tra gli abissi, lasciando la casa e il lavoro che aveva amato ma non quanto aveva amato lei. Ci sarebbero stati altri in grado di finire ciò che lui aveva iniziato... ma era estate, e l'estate era fatta per sognare.
Dietro alle palpebre chiuse di Irma Panova Maino
Sono con te, fra le spighe dorate di quei campi soleggiati in cui anche l’aria ha l’odore del sole. Corriamo insieme, fianco a fianco e io ti sento ridere, spensierato. Ed è felicità, quella sensazione che mi giunge sulla pelle, che mi fa dilatare le narici per cogliere ogni possibile sentore, ogni sfumatura di quella natura che generosamente spande il proprio dono odoroso nell’etere. L’odore fruttato dei meli e dei noccioli, quello fresco dell’erba, le fragranze colme di miele delle fresie e quello speziato dei gladioli... e, infine, quello tipico della lavanda, che mi ricorda tanto casa. La nostra tana, il nostro angolo vissuto sul divano alla sera, guardando insulsi programmi in quella scatola che tu chiami televisione e di cui a me non importa niente. Ciò che realmente conta è stare con te. Accoccolato vicino al tuo corpo caldo e rassicurante, protetto dalla tua ombra. Ciò che conta è il suono della tua voce, la pressione delle tue mani, la dolcezza del tuo alito. Ciò che conta è sentire le tue sensazioni, capire che mi vuoi vicino, che ti rendo quella gioia che mi doni tutti i giorni. Ciò che conta è aprire gli occhi e saperti in giro per casa, alzarmi e trovarti in cucina mentre prepari la colazione per entrambi e ritrovarti ogni sera quando, tornando a casa, mi chiami da dietro la porta per essere certo che sono pronto ad accoglierti… Non desidero null’altro che questo. Non voglio quell’improvvisa presenza fra noi, invadente e avversa. Adesso ho paura, ho freddo, mi sento perso e inutile. Solo, come se non potessi più fare conto su di te, come se non fossero mai esisti i giorni ati insieme. Sai cosa vorrei ora? Vorrei poter continuare a vivere e morire con te accanto, con il sentore della tua presenza nell’aria che mi circonda. Vorrei quel divano logoro e quelle quattro mura rassicuranti in cui è esisto il mio tempo. Vorrei una carezza ancora, anche solo un tocco leggero per confortarmi. Ed è questo il sogno che continuo a scorgere in questa notte d’estate, dietro alle palpebre chiuse mentre, con il muso fra le zampe, mi chiedo perché mi hai legato qui, in questo posto estraneo, colmo di quel rumore che ti ha portato via.
Louis Gitanes e il Signore dei Sogni di Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni
Xavier Morales, PRESENTA: Le straordinarie avventure del detective Louis Gitanes.
L’agente Xavier Morales, dell’Interpol HID, per far colpo sulla bella Sarah Kelvin contesa con il collega Mike Barnes e onestamente disinteressata alle avances di entrambi, si improvvisa giallista e crea le avventure di un detective se degli anni Trenta. Il tentativo di seduzione letteraria fallisce miseramente, nonostante la giovane agente adori le belle storie, ma ormai il detective Louis Gitanes ha preso vita e, come tutti i personaggi che si rispettino, non accetta l’oblio e costringe il suo autore a continuare a scrivere.
* * * Louis Gitanes e il Signore dei Sogni Parigi, la città più straordinaria del mondo, era anche straordinariamente calda in quei giorni. Un’ondata straordinaria di caldo, quell’anno straordinario degli straordinari anni Trenta, metteva in seria difficoltà anche persone straordinarie come il detective Louis Gitanes. Michel de Barnée, il meno straordinario degli assistenti, era a letto con l’influenza. Il suo mentore, datore di lavoro e unico amico al mondo avrebbe potuto concludere che non ne combinava mai una giusta, ma Gitanes era preoccupato. Non molto, ad essere sinceri, ma un pochino sì. Il buon detective ne stava giustappunto parlando con la sua fidanzata, Danielle, mentre eggiavano mano nella mano nell’ombroso giardino della villa di famiglia dei du Bois. Il parco attorno all’antico maniero du Bois era un luogo
incantato: ordinato, elegante e allo stesso tempo naturale e delicato. In questo rifletteva la natura della splendida Danielle. La ragazza dai lunghi capelli biondi raccolti in un elegante chignon parlava con Gitanes di fronte a una fontana di marmo coperta di muschio. “Sei troppo sensibile, Louis” osservò la giovane, carezzandogli dolcemente il viso. “Il tuo assistente è un tipo un po’… originale. Sono convinta che abbia trovato un qualche sistema, ingegnoso e strampalato come al solito, per prendersi un’infreddatura estiva e che il caso degli invasori ultradimensionali, durante il quale è rimasto accidentalmente esposto ai macchinari di quello scozzese pazzo, non c’entri nulla con la sua recente indisposizione.” Gitanes era un tipo straordinario, ma questo era risaputo. Alto, muscoloso e dotato di un paio di virili mustacchi neri, univa la bellezza alla rude prestanza. I suoi occhi scuri potevano terrorizzare il più malvagio dei criminali parigini ma si addolcivano sempre quando era in compagnia della sua fidanzata. L’uomo si strinse nelle spalle. “Non vorrei che intervenissero i sindacati. In effetti non so neppure se esista un sindacato degli assistenti degli eroici detective.” “Ti senti in colpa perché sei una persona onesta e buona, Louis” gli disse la ragazza, guardandolo con i suoi occhioni blu colmi di amore. Lui le sorrise. Non che si sentisse particolarmente buono né del tutto onesto: per sopravvivere in quei tempi caotici, gli investigatori privati dovevano possedere quel pizzico di malizia che li escludeva dal novero degli aspiranti boy scout. Comunque, per sollevare il suo piccolo senso di colpa, avrebbe chiesto alla dottoressa Larsen di dare un’occhiata a de Barnée. “Non mi convince” ammise la dottoressa Larsen. “No, detective. Non va bene, non va bene per niente.” Gitanes alzò un sopracciglio. “Esattamente che cosa è che non va, dottoressa?” La dottoressa Larsen era uno dei migliori cervelli della Sorbonne; se non avesse perso tanto tempo a litigare con il dottor Seamus McKormick, probabilmente sarebbe stata ricca e famosa. Era una bella donna scandinava di quarant’anni, alta quasi quanto Gitanes, con un caschetto di capelli biondi e un bel sorriso ironico dipinto sul viso luminoso. La donna aveva esaminato con attenzione Michel de Barnée con i costosi
macchinari della Sorbonne, quindi aveva chiamato il detective fuori dalla stanza. “Le sue condizioni non sono dovute a un’infreddatura. L’organismo sembra indebolito perché il suo sonno non è abbastanza profondo.” Il detective era perplesso. “Si spieghi meglio, per cortesia.” “Lei sa che esistono diversi stati e che il sonno profondo è quello che…” Gitanes la fermò. “No, non lo so, dottoressa. Mi fido ciecamente di lei, per cui mi dica cosa implica questa specie di anomalia del sonno.” ”Purtroppo non sono buone notizie: soffrirà di allucinazioni e alla fine perderà il senno…” ”E dove lo troverebbe il senno?” La dottoressa lo ignorò. “E infine morirà.” “Morirà?” Gitanes spalancò gli occhi. “Questo potrebbe essere un problema, in effetti. Sicuramente esistono pochi assistenti così…” ”Fidati?” “Stavo per dire a buon mercato, comunque anche fidati va bene. Non si può evitare in qualche modo?” “Bisognerebbe prima capire che cosa gli impedisce di arrivare al sonno profondo. In assenza di una spiegazione, posso fare qualche tentativo, ma non posso garantire nulla.” “Una martellata in testa lo aiuterebbe a dormire?” chiese Gitanes. “No, dalla sua espressione vedo che non è il caso di insistere. Il problema non potrebbe dipendere dai recenti avvenimenti con gli invasori ultradimenati?” “Ultradimensionali? Senta, ho ascoltato quella storia pazzesca di McKormick, ma onestamente…” Lui la fermò. “Qualsiasi cosa possa pensare della sanità mentale del buon dottore scozzese, il nostro de Barnée è rimasto coinvolto in uno dei suoi esperimenti
armorici per ristabilire la fase qualica.” “Esperimenti armonici per la fase quantica, vorrà dire.” “E’ quel che ho detto, dottoressa. Ammetterà che de Barnée, qualsiasi siano le cause, sembra fuori fase. Più del solito, voglio dire.” “Esperimenti armonici, eh?” La dottoressa sembrava concentrata. Gitanes ne approfittò per accendersi una sigaretta. “Le farà male” gli disse lei in automatico, senza perdere il filo dei propri pensieri. “Diavolo! Siamo negli anni Trenta: fumano tutti!” protestò il detective. “Insomma, dottoressa, un enorme magnete a forma di forchetta da barbecue che vibra come un frullatore può disturbare il sonno profondo?” “Non mi metta sotto pressione, giovanotto!” lo avvertì, severa. “Vuol dire che lo chiederò a McKormick” sbuffò Gitanes. “Vuole affidare la vita del suo assistente a quello scimunito?” si stupì lei, spostandosi per lasciar are due uomini in camice bianco che trasportavano una barella con un paziente coperto da un lenzuolo di lino. “Dottoressa, non voglio metterla in competizione con McKormick, voglio salvare la vita del mio assistente. Se il cervello di de Barnée è sfasato e non riesce a riposare, allora bisogna rimetterlo in fase. Lei sa come fare?” “Francamente non sono neppure convinta della teoria del multiverso” ammise. “Bene, allora per il bene del mio assistente e della Francia, dovrete collaborare!” La dottoressa sgranò gli occhi. “Della Francia?” “Certamente. La morte di de Barnée getterebbe scompiglio nella vita del miglior detective che la Repubblica abbia mai avuto.” “In questo caso, e solo per la Francia, collaborerò con lo scimmione scozzese.” “Bene, il piano A c’è.” Gitanes si affacciò nella stanza di de Barnée. “Peccato
dover are subito al piano B.” “Perché mai?” si stupì lei. “Elementare, mia cara” le disse lui con un certo imbarazzo. “Perché mentre discutevamo qualcuno ha rapito Michel de Barnée!” “Mi dispiace, mio caro Louis” stava dicendo il professor Cimierre. Il vecchio capo di Gitanes alla polizia era un uomo anziano dagli occhi leggermente a mandorla e una corta barba grigia. Aveva in bocca la pipa spenta e un’espressione di sofferta empatia nello sguardo. “I miei uomini stanno perquisendo tutta la Sorbonne, ma finora non hanno trovato nulla di significativo. Secondo me i rapitori saranno ormai lontani. Ho avvertito la centrale operativa e presto allargheremo la zona delle ricerche a tutta la città. C’è qualcos’altro che posso fare per te?” Gitanes strinse i denti furibondo. “Mi metterò a caccia dei rapitori di persona, professore! Me l’hanno portato via da sotto al naso, è diventata una questione personale. Lei istituisca dei posti di blocco: eviti ad ogni costo che lascino Parigi.” Quindi si rivolse alla scienziata. “Dottoressa, posso aver fiducia in lei? Porterà avanti il piano per curare il mio assistente mentre io sarò impegnato nel suo salvataggio?” La dottoressa Larsen annuì. “Lasci pure la questione nelle mie mani, detective. Farò del mio meglio, glielo prometto.” Gitanes si accommiatò con un cenno e si allontanò rapidamente. Due uomini con un malato in barella avrebbero avuto bisogno di un’autoambulanza per non dare nell’occhio: il detective poteva seguire quella pista. Senza rallentare il o Gitanes raggiunse la sua auto, una Citroën Rosalie del ’32, e pochi istanti dopo sfrecciava per le strade di Parigi diretto verso il garage di madame Venimeux. La migliore ricettatrice di auto di Parigi era una donna bionda sulla cinquantina, il viso sfregiato da una vecchia cicatrice. I suoi clienti e i suoi scagnozzi la chiamavano madame Venimeux, ma Gitanes era abbastanza certo che quello non fosse il suo vero nome. Il suo garage era un edificio spoglio e sporco nella periferia nord della città, un
ritrovo per criminali di basso calibro e uomini d’affari con la coscienza poco pulita. Gitanes entrò con una certa cautela: aveva ritirato i pantaloni in lavanderia la sera prima e non era il caso di ungerli con il grasso che ricopriva ogni cosa lì dentro. Posò la mano sul revolver alla cintura e avanzò tra pezzi di auto, gomme e pile di rottami sparsi, fino ad arrivare alla stanza adibita ad ufficio. “Madama, i miei saluti” esordì allegramente, accendendosi una sigaretta. La donna portò una mano al cassetto della scrivania, ma si fermò quando riconobbe il nuovo arrivato. “Ma guarda chi si rivede!” “Non preoccuparti, non sono qui per arrestarti o qualcosa del genere” la rassicurò.“Ti serve un’auto nuova? Hai deciso di disfarti di quella ridicola Citroën bordeaux?” Lui digrignò i denti. “La mia auto è perfetta, grazie tante.” “Se non altro con quel colore ti vedranno arrivare da chilometri di distanza” rise lei. ”A proposito di auto… Un uccellino mi ha detto che hai fatto un affare con un’autoambulanza, proprio stamattina.” “Detesto gli uccellini, quando cantano fanno più danni di quando cag…” “Voglio fartela breve” l’interruppe Gitanes. “Tu non ci interessi, madame Venimeux. Se ci dai le informazioni che cerchiamo, non avrai guai di nessun tipo.” “Vuoi il nome del compratore?” “So già chi è” le disse Gitanes. “Il nostro vecchio amico Smirnov, il rinnegato dei servizi segreti russi.” “Sono abbastanza saggia da non intromettermi nella vostra piccola guerra privata” obiettò la donna. “Anche io ho avuto la mia parte di grattacapi con quel lurido verme, e ho un conto aperto lungo da qui a Lione con lui. Ma che vuoi che ti dica? Gli affari sono affari, dopotutto, e lui paga bene quando non ti tira un bidone. Cosa vuoi da me, esattamente?”
“Voglio trovarlo. Ha preso qualcosa che mi appartiene.” Gitanes buttò a terra la sigaretta e la schiacciò con lo stivale. “Cosa ti ha rubato con un’ambulanza?” chiese lei con un’espressione beffarda. “Una nonna malata?” “Te lo chiedo una volta sola: dove si è nascosto Smirnov?” Non ne ho la più pallida idea.” “Andiamo! Sei una donna piena di risorse: vuoi farmi credere di aver fatto affari con lui senza premunirti? Avrai preso qualche informazione per tirarti fuori dai guai con la polizia, nel caso il piano di Smirnov fosse andato all’aria!” “No, certo che no” ammise lei. “Ho sempre un piano di riserva. Ma il piano di Smirnov è andato all’aria?” “Visto che sono qui…” “Ma lui l’aveva previsto, Gitanes. Ha detto che saresti arrivato e che la cosa faceva parte del suo piano geniale. Ti ha lasciato un messaggio.” E gli ò una busta da lettere sigillata. “Dannazione!” “Mi dispiace quasi dirtelo, Gitanes, ma questa volta è stato più furbo di te!” Nella piccola sala della Sorbonne che utilizzavano come centrale di gestione della crisi, il professor Cimierre sprofondò nella poltrona, aggrottando le sopracciglia. “Leggilo un’altra volta, Louis.” “Ebbene si. Questa volta ti o fregato x bene. Scordati il tuo kolega e preppara sedici lingoti doro senò libero il potere che tu sai sula cita” lesse il detective. “Mi faro sentire. Bacibaci. S.” “Terribile” si lagnò l’anziano poliziotto. “Sì, capo, ma d’altra parte è un russo.” Gitanes alzò le spalle. “Può migliorare facilmente la grammatica: basta un corso base di se. Per esempio all’ambasciata…”
“Credo che si riferisse al contenuto” intervenne la dottoressa Larsen. McKormick annuì. Era un ometto di mezza età, con corti capelli color topo e spessi occhiali dalla montatura di tartaruga. Per quanto fosse professore di fisica e avesse una mente geniale, la sua materia preferita era la parafisica: fantasmi, dimensioni parallele, alieni, mostri e folletti. Gitanes lo aveva ripetutamente tolto dai guai e in cambio lo scozzese gli forniva qualsiasi aiuto potesse approntare con i suoi marchingegni luccicanti e improbabili. Soltanto poche settimane prima, McKormick aveva fabbricato una macchina per varcare le membrane del multiverso e aveva provocato un vero disastro: Gitanes era stato costretto a una lunga caccia all’uomo per Parigi, lottando contemporaneamente contro Smirnov che cercava di impadronirsi dell’apparecchio. La vicenda si era conclusa bene, anche se il russo era scappato e l’assistente del detective aveva messo le mani dove non doveva. “Non ho la più pallida idea di quale sia il potere a cui si riferisce” ammise Gitanes. Quindi puntò il dito su McKormick, guardandolo con severità. “Seamus, c’è qualcosa che vuoi condividere con noi, circa l’effetto dell’incidente occorso a de Barnée?” L’ometto esitò. Strinse gli occhi porcini e si schiarì la voce. “Come voi tutti sapete, tranne la dottoressa Larsen che non ne vuole proprio sapere, de Barnée spinse bottoni a caso sul sintonizzatore multiversale che avevo costruito, ed evocò un certo numero di copie di se stesso da universi paralleli.” “Impiegammo due settimane a rimandarli tutti a casa” confermò Cimierre. “Ce n’era una stanza piena: è stata un’esperienza raccapricciante!” “E’ possibile che nel tempo in cui sono rimasti insieme abbiano avuto un processo di armonizzazione neurale, simile a quello in cui le donne che vivono insieme sintonizzano il ciclo mestruale.” “Traduci, Seamus!” intimò Gitanes. “In pratica potrebbe esserci un legame nell’inconscio che si manifesta nelle prime fasi del sonno” sintetizzò l’ometto. “Ora non capisco come questo possa nuocere alla città, però si dice che il confine tra sogno e veglia nasconda in sé il potere di realizzare le fantasie. Moltiplicando l’effetto per il numero di de Barnée implicati nella rete multiversale e tenendo conto che nel solstizio d’estate
le barriere tra gli universi sono più sottili…” “E’ semplicemente un’idiozia” protestò la dottoressa Larsen. “No, dottoressa. Se c’è un modo di far danni, sia de Barnée che il dottor McKormick lo troveranno. Se quei due si mettono a pasticciare con la stessa apparecchiatura sperimentale, può star certa che i danni saranno inimmaginabili.” “Questo è ingiusto” si lagnò McKormick. “Non è stata colpa mia!” “Prima di distribuire le colpe, cerchiamo di risolvere il problema” intervenne Cimierre, con attempata saggezza. “In definitiva, quale potere e quale rischio derivano da questa sintonizzazione?” “Il rischio è che, estendendo in un loop la fase del dormiveglia, Michel de Barnée impazzisca e muoia per mancanza di sonno” disse tristemente la dottoressa Larsen. “E il potere, ammesso che la mia teoria sia fondata, dovrebbe essere quello di infrangere le barriere probabilistiche e apportare modifiche rilevanti nella realtà.” Il detective alzò gli occhi al cielo. “Perché voi geni pazzi dovete sempre parlare in questo modo?” McKormick tradusse: “de Barnée potrebbe avere il potere di materializzare le proprie fantasie, non quelle razionali, ma quelle pazzesche che popolano i sogni.” “Molto bene” fece Gitanes, accendendosi una sigaretta. “Anzi, molto male. E come lo fermiamo?” La dottoressa Larsen prese in mano un oggetto di metallo scintillante. “Con questo. E’ un percussore armonico. Ammettendo per assurdo che le cose stiano come dice l’orango con gli occhiali, colpendo il cranio del suo assistente in un punto specifico e con forza sufficiente, riporteremo il suo cervello allo stato precedente.” “Ma è un martello!” esclamò Gitanes. “E io l’avevo detto fin dall’inizio che
serviva una martellata in testa!” Un agente si affacciò nella stanza. “Capo, sta piovendo!” annunciò. “E allora?” chiese Cimierre. “Un po’ d’acqua non ha mai fatto male a nessuno.” “Già, ma sta piovendo tè freddo.” “Come diavolo faceva Sherlock Holmes a chiarirsi le idee quando Watson era in vacanza?” si chiese ad alta voce Gitanes, mentre sfrecciava con la sua magnifica auto per Boulevard Saint Michel. “D’accordo Gitanes: pensa, pensa, pensa! La cura è stata predisposta, Cimierre si occupa del riscatto, tu devi soltanto trovare dove si nasconde l’agente Smirnov. Se fossi un disertore dei servizi segreti russi dove ti nasconderesti con un malato catatonico in grado di materializzare le fantasie dei sogni, un’autoambulanza e uno o due complici?” C’erano pochi posti dove un’ambulanza non avrebbe attirato un’indebita attenzione: erano macchine moderne e non ne giravano poi tante per Parigi. Un ospedale abbandonato? Una caserma dei pompieri? Un edificio industriale in disarmo? I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da uno sciame di farfalle variopinte che sorvolavano il boulevard. La più piccola aveva le dimensioni di un biplano. “Dannazione alla tua fantasia malata, de Barnée! Cimierre dovrà chiamare l’aviazione per liberarsi di quei cosi.” Gitanes svoltò a sinistra verso il Panthéon e accelerò. Avrebbe seguito a ritroso il percorso delle superfarfalle. Probabilmente de Barnée materializzava i suoi sogni vicino al posto dove era tenuto prigioniero e questi poi andavano a zonzo per Parigi. Un centinaio di metri più in là, intravide con la coda dell’occhio l’ambulanza parcheggiata in una strada laterale e frenò bruscamente. Si mise il cappello in testa e uscì rapidamente dall’auto, impugnando il revolver. “A noi due Smirnov!” Fece il giro dell’isolato, avvicinandosi con cautela da dietro. Balzò nel veicolo con la pistola spianata, ma era deserto. Gitanes imprecò. Ispezionò l’interno con una certa irritazione, finché non vide la sveglia in un angolo.
Che diavolo ci faceva una sveglia in un’ambulanza? A meno che… Gitanes si catapultò fuori e cominciò a correre come se ne andasse della sua vita, probabilmente perché ne andava davvero della sua vita. L’esplosione lo buttò a terra e lo assordò. Pezzi di ambulanza cadevano tutt’intorno; dove era parcheggiata restava soltanto un rottame infuocato. Il detective si alzò, stordito ma fortunatamente illeso. “Davvero divertente. Pagherai anche questa Smirnov!” urlò Gitanes al cielo indifferente, pieno di colossali farfalle. Quel caso stava mettendo a dura prova i suoi nervi: per quanto si sforzasse il suo avversario era sempre un o avanti a lui. Era ora di uscire dagli schemi e portarsi in vantaggio. “Avete raccolto i lingotti?” strillò Gitanes. Il detective aveva i vestiti sporchi e laceri, le mani e le ginocchia sbucciate ed era di pessimo umore. La task force improvvisata si era riunita ad ascoltare con stupore il racconto dell’attentato dinamitardo. Probabilmente non sarebbe stato necessario riunirsi, visto che la potente voce del detective raggiungeva tranquillamente ogni angolo dell’università. “Cimierre, non gli può spiegare che lui è mezzo sordo ma noi ci sentiamo benissimo?” si lagnò McKormick. “Glielo scrivo” si offrì la dottoressa Larsen, dando prova della famosa efficienza del nord Europa. Scrisse un biglietto e lo ò al detective, che annuì. “Ci vorrà del tempo per raccoglierli” disse Cimierre, un po’ strillando un po’ accompagnando le parole con la mimica. ”La città è nel panico più assoluto. Un’orda di mammuth accaldati sta pascolando nel Jardin des Plantes, l’aviazione si sta occupando dei lepidotteri giganti, sulla Senna hanno avvistato una tazza di caffè delle dimensioni di un transatlantico.” “Eh, sì. Smirnov non può controllare i sogni di de Barnée, può solo impedirci di porvi fine” osservò il detective. “Non abbiamo abbastanza uomini per rimediare ai guai, figuriamoci per dargli la caccia!”
“Cosa facciamo, allora?” chiese McKormick preoccupato. “E’ ora di usare le maniere forti.” Il detective batté il pugno sul tavolo. “So esattamente come fare: anche se sarà un piano estremamente rischioso e totalmente idiota, funzionerà splendidamente.” Cimierre sospirò. “Che cosa devo fare io, Louis?” “I lingotti sono il nostro piano B, qualcuno deve continuare a raccoglierli per il riscatto.” “Non siamo già alla lettera C?” s’informò la dottoressa Larsen. “Quel che è.” Gitanes alzò le spalle. Poi si rivolse a Larsen e McKormick. “Voi due cervelloni venite con me: è ora di lanciare la controffensiva!” Il malandato furgone del latte correva sul Pont d’Austerlitz, seminando un fumo denso e acre nell’aria afosa del pomeriggio. Due auto lo inseguivano furiosamente e implacabilmente. Alla fine del ponte l’autocarro svoltò a destra, quindi di nuovo a sinistra per seminare gli inseguitori. Dopo qualche istante fu su Rue Buffon, dove accelerò ancora, approfittando del lungo rettilineo che fiancheggiava il Jardin des Plantes. Un paio di giovanotti che attraversavano la strada evitarono a malapena di essere travolti e finirono contro un cassonetto della spazzatura, rovesciandoselo addosso. “Tutto bene dottor Bohmers?” chiese uno dei due, cercando di ripulire come poteva la camicia dell’altro, che doveva essere tedesco o olandese. “Pazzi parigini delinquenti!” disse questi alzando il pugno con fare minaccioso. Due auto in rapida successione lo costrinsero a tuffarsi ancora nel mucchio di spazzatura. Il furgone del latte sbandava furiosamente e le due automobili guadagnavano terreno, quando all’improvviso altri veicoli chio la strada davanti al fuggitivo. L’aria si riempì dell’odore disgustoso di gomme bruciate; il camioncino si fermò in mezzo alla strada. Dopo un istante, Gitanes scese dall’auto e avanzò verso il furgone con il revolver in mano. “Arrenditi Smirnov! Sei circondato.”
Il russo scese dal furgone. Era un uomo ancora giovane, né alto né basso, né magro né robusto, né bello né brutto. Anonimo al punto che nessuno lo avrebbe mai guardato due volte. Vestiva in modo assolutamente comune e indossava un grembiule da lattaio. L’unica cosa che si sarebbe notata in quel momento era il mitra che impugnava minacciosamente, un Thompson 45, di quelli che sfoggiavano i gangster americani nel decennio ato. “Come diavolo hai fatto, dannato se dei miei stivali?” “Il tuo piano era molto ingegnoso: girare per il centro di Parigi in un furgone qualsiasi. Con il pandemonio suscitato da de Barnée non ci sarebbero mai stati abbastanza uomini per trovarti e, non restando mai fermo, sarebbe stato impossibile localizzarti. Alla fine avremmo pagato il riscatto per la disperazione.” “Infatti, ma tu hai trovato un modo di individuarmi lo stesso. Quale?” “Non ha nessuna importanza, Smirnov. Posa l’artiglieria a terra e alza le mani.” Dal furgone scesero due uomini armati di fucile che si accostarono al russo. “Forse faresti meglio a posare il revolver e alzare tu le mani” disse il russo. “Sei in minoranza.” Uno dei suoi scagnozzi alzò il fucile, ma una voce alle sue spalle lo fermò. “Io non ci proverei se fossi in te.” Il russo si girò immediatamente. Louis Gitanes avanzava con il revolver spianato. Dietro di lui venivano altri tre Louis Gitanes, tutti armati e pronti ad aprire il fuoco. “Per fortuna il buon McKormick aveva ancora il coso multicosale!” disse il primo Gitanes, mentre da tutte le direzioni altri Gitanes convergevano verso il furgone. Smirnov ne contò quindici, quindi buttò a terra l’arma, subito imitato dai suoi uomini, e un istante più tardi venne ammanettato da uno dei tanti detective. “Ci sono mie versioni alternative che girano per tutto il centro, mio caro Smirnov.” Gitanes sogghignò. “Ride bene chi ride ultimo!”
“Visto che non vuoi neppure sentir parlare di tè freddo, ti verso una birra?” propose la dolce Danielle. Gitanes annuì. “Una birra è sempre gradita. Vittorie come queste richiedono adeguati festeggiamenti.” I due erano seduti sul prato, sotto l’ombra di un ciliegio. Un grande cesto da picnic era posato accanto al tronco. Danielle rise. “I festeggiamenti stasera, in privato.” Versò un bicchiere di birra gelata e lo porse amorevolmente al fidanzato. “E così hai curato de Barnée in tempo?” “Certamente. L’ho martellato di persona.” “E i Gitanes alternativi? Devo ammettere che è inquietante l’idea di avere tanti fidanzati in giro per la città.” Lui le sorrise rassicurante. “Sono stati tutti accuratamente martellati e rispediti a casa loro. Per fortuna li avevamo forniti di bigliettini con i loro timbri nonsocosa: questo ci ha permesso di sbrigarcela in un paio d’ore invece di impazzire per giorni e giorni come era accaduto la volta scorsa.” “Non capisco una cosa” aggiunse lei. “Quando è successo a McKormick, la sua copia è impazzita ed è fuggita per Parigi combinando disastri a ripetizione, mentre de Barnée e i suoi cloni erano come rincretiniti. Invece le tue versioni alternative erano efficienti e disciplinate. Come mai?” “Ma, tesoro mio, perché io sono un tipo straordinario. In tutti gli universi.”
* * *
© 2014, Andrea Marinucci Foa e Manuela Leoni NOTE DEGLI AUTORI
Le avventure di Louis Gitanes nascono come soggetto per una graphic novel (in parole povere un fumetto non specificamente indirizzato ai ragazzi), uno spin-off della nostra serie di Jacques Korrigan. Ispirate ai fumetti del secolo scorso (Nick Carter, Dick Tracy, persino l’Uomo Mascherato e gli universi Disney e Marvel), sono raccontate come lo spagnolo Xavier Morales, agente dell’Interpol-HID, narrerebbe una storia. Mentre il buon Morales inventa il detective Gitanes per far colpo sulla bella Sarah Kelvin, mettendo scherzosamente in difficoltà il suo rivale irlandese Mike Barnes, noi ne approfittiamo per un esercizio stilistico e per far sorridere voi lettori. Chi non avesse mai letto Jacques Korrigan (per quanto possa apparire strano, è rimasto ancora qualcuno da assimilare) può leggere tranquillamente queste storie, che sono autoconclusive. Magari non capirà perché l’ispettore Gitanes abbia una Citroën bordeaux, o perché il narratore tratti così male il povero Michel de Barnée, ma sono particolari poco rilevanti. I personaggi che Morales mette nei suoi gialli sono caricature di personaggi che i lettori di Korrigan conoscono bene, per cui alla fine questa è metaletteratura; una cosa un po’ cervellotica, ce ne rendiamo conto. Speriamo che vi diverta lo stesso. Morales utilizza nei suoi gialli molte delle tematiche che saltano fuori nei casi di Jacques Korrigan. Il nostro detective è un buon detective: per quanto possa apparire disinteressato alle teorie cosmologiche, all’evoluzione e all’etnologia e invece apionato di birra, ragazze, spiagge assolate, belle auto, sport e amenità del genere, apprende facilmente da quello che sente dire e rielabora le informazioni per farne un quadro utile alle indagini. O ai suoi gialli.
Ricorrente sogno estivo di Annarita Petrino
Una serie di bollicine partì dal fondo del bicchiere verso la fetta di limone che galleggiava nella cola, facendola muovere. Questo attirò l'attenzione di Brenda, che strinse le dita intorno al vetro, assaporandone la freschezza e l'umidità. Quini tornò ad osservare la spiaggia che giaceva pigramente sotto il sole. Qui e là comparivano le persone, a volte di più, a volte di meno come miraggi... La mano ebbe un tremito e i cubetti di ghiaccio tintinnarono nel bicchiere. Tornò a osservare le persone sulla spiaggia, alcune erano coppie che si tenevano per mano e si scambiavano dei baci. Avvertì un calore sulle labbra, ricordi lontani nel tempo... poco più che sogni. Poco più che un sogno anche l'amore, che come un miraggio veniva fuori ogni volta che si ritrovava su quella spiaggia. Un tremolio scosse le figure in movimento e lei si innervosì. I cubetti tintinnarono ancora. Non si erano ancora sciolti... non si scioglievano mai. Le persone continuavano a eggiare sopra e sotto, sempre le stesse, a volte di più a volte di meno. Con un gesto rabbioso Brenda chiuse il contatto e con un guizzo l'intero ologramma scomparve. Con esso anche quel suo ricorrente sogno estivo... Girò lo sguardo al vecchissimo calendario a muro e... sì! Era estate, ma l'inverno radioattivo regnava impietoso appena oltre quelle vetrate su cui lei si ostinava a proiettare il suo ologramma. Nostalgia di un tempo in cui le persone potevano ancora toccarsi, baciarsi e i bambini non nascevano malformati dalle radiazioni. Per questo apriva e chiudeva quel contatto... Era estate sì, ma gli unici sogni rimasti erano quelli senza Dio dell'uomo.
Genere “fantascienza cristiana” Autrice di una raccolta di racconti dal titolo “You God” edita dalle Edizioni Il Papavero – Marketing d’Autore (novembre 2013)
Scherzi d’una mente arroventata di Anna Ciraci
Quattro del pomeriggio. Il termometro segnava 39,1 gradi centigradi, il condizionatore d’aria era rotto ed il sole, quel giorno, sembrava volersi spalmare direttamente sulle tapparelle abbassate, quasi come voler farci l’amore sotto i miei occhi e senza alcun pudore. Ero sdraiata sul pavimento in mutande e reggiseno, il divano era bollente, nella vana speranza di riuscire a trarne un po’ di giovamento, ormai mi ci ero appiccicata dal sudore che grondava da tutte le parti. Mi addormentai, infondo era l’unica cosa che in quello stato si poteva fare… Un tonfo immenso mi destò violentemente dal mio sonno, sembrava che uno sparo fosse esploso direttamente nelle mie orecchie, mi rizzai in piedi ansimante nel buio, il cuore mi pulsava a un punto tale dentro le vene che sembrava volesse uscire dalla cassa toracica. Pareva di vederlo, come nei cartoni animati entrare ed uscire da sotto lo sterno. Deglutii saliva inesistente, date le fauci assetate per la disidratazione e, prendendo coraggio, alzai lentamente la tapparella che ormai aveva smesso di sarsela col sole per vedere cosa fosse successo. Lo scenario che mi si mostrava era a dir poco apocalittico. Non c’era più nulla davanti al mio balcone, tutto sparito! Là dove prima esisteva il giardinetto comune della mia palazzina ora sprofondavo il mio sguardo in una voragine infinita. Della villetta a due piani dei dirimpettai non compariva più neppure il tetto spiovente ricoperto di tegole. Non c’era più la strada, il muro che la costeggiava, la villonza al di là di quel muro che tanto m’era impossibile vedere anche prima grazie alla folta vegetazione da giungla che la contornava, era svanita pure quella. Ero circondata dal vuoto assoluto. A perdita d’occhio non esisteva nulla, neppure sotto il mio balcone, svanita anche la vecchiaccia brontolona del piano di sotto, zero.
Sembrava che il mio piano fosse sospeso in un nulla assoluto. Feci il giro delle finestre per verificare non fosse un’allucinazione, pensavo tra me, in panico, tra un metro e l’altro della casa di poter rinsavire e ritrovarmi nel mondo di sempre, ma il nulla si ripeteva. Svanita la casetta di fianco col bel moro muscoloso che faceva stretching tutte le mattine davanti alla mia cucina, l’ammiravo ogni giorno fumando la prima sigaretta dopo colazione, una vera scarica di adrenalina mattina che prometteva un bel inizio di giornata. Nulla. Anche il pino che prendeva forme strane di notte col vento sotto l’unico lampione della via, una sera sembrava parlare sotto le raffiche violente, ero rimasta impietrita a guardar occhi naso e bocca che si muovevamo. Nulla, solo il nero profondo ad annebbiarmi il cervello dalla paura… Anche dietro dalla parte del bagno era sparito tutto, il mio monte dal color dello smeraldo non c’era più. Sudavo ma il sudore era freddo, i brividi erano diventati movimenti inconsulti fin sotto, alle gambe, tanto che ormai non mi reggevano più. A fatica raggiunsi la porta d’ingresso e con la mano alla toppa cercavo di aprila ma non riuscivo dal tremore. Respirai a fondo, tornai in cucina per bere ma non arrivavo a tenere in mano il bicchiere, presi la bottiglia della birra e la bevvi tutta in un colpo solo. Respirai ancora, e rifeci il giro finestre ma nulla, rimase tutto immutato. Aprii la porta e tutto sembrava come prima, le scale, il pianerottolo, la porta di fronte era tutto com’era sempre stato. Bussai… La porta si sradicò da sola e la vidi precipitare in un buco nero infinito, fu allora che svenni. Mi svegliai sotto i colpi al viso di mio marito che urlava il mio nome, tutto agitato e convulso a scuotermi. Bagnata fradicia mi alzai dal pavimento rischiando di scivolare dentro il mio stesso sudore. Lentamente ripresi possesso di me stessa e rifeci il giro di tutte le finestre, era tutto come era sempre stato. Il bel vicino era lì a farsi le addominali ignaro, la villonza era sempre sepolta dalla sua giungla. Il pino era al suo posto.
Ogni cosa era tornata, ed io ho chiamato il tecnico del condizionatore!
Cala dei pirati di Claudia Lo Blundo Giarletta
Ridendo e pregustando la festa di quella notte particolare, la comitiva si avventurò verso la Cala dei Pirati; nessuno osava andarvi di notte da quando, ottocento anni prima, alcuni pirati, sbarcati silenziosamente in quella cala, avevano rapito tutte le donne che con i loro uomini vi festeggiavano la notte del solstizio d’estate. Quando uno di loro aveva fatto cenno a quella lontana notte, era stato subito zittito: ”I tempi sono cambiati e non esistono più pirati di donne.“ Un altro aveva aggiunto che, al contrario, avrebbero dovuto preoccuparsi, loro uomini, di essere rapiti dalle donne moderne. La legna da ardere era stata accatasta, viveri e bibite poggiate su stuoie aspettavano di essere consumati. Il fuoco non era ancora ben ma già le ragazze, al suono delle nacchere e dei tamburelli, avevano iniziato a ballare: le loro gonne variopinte, abbinate a bianche camicie generosamente scollate, ondeggiavano al movimento dei loro fianchi, mentre le nacchere cadenzavano il o dei loro piedi nudi che, alle caviglie, reggevano piccolissime ciancianedde legate con nastri multicolori. La luna sorrideva rassicurante alta nel cielo. “Notte di luna piena!” aveva detto Totò “Nessun pirata oserebbe venire qui!” “Scemo!” gli avevano gridato in coro le giovani e avevano continuato a ballare. Le musiche, la frenesia del ballo, un bicchiere di vino e il buon profumo di pesce arrostito tutto questo fu troppo per Licia che, sfinita dal ballare e dal mangiare, decise di concedersi un momento di riposo. “Amici, mi dispiace, ma io mi ritiro… in meditazione!” Si levò un coro di protesta: “Ma no, dove vai, stai qui!”
“Ragà, nun ci a fazzu cchiù! Ho bisogno di riposarmi, anzi, vado a rinfrescarmi un po’” Rivolse a tutti uno sguardo tra il comico e l’imperioso mentre, con l’indice del braccio destro disteso, intimava loro di continuare a ballare e… mangiare, mentre lei si sarebbe riposata. “Ha parlato la professoressa! Sai che ti dico? Diccelo in latino invece che in siculo” intervenne Pino. “Sarai un futuro ottimo chirurgo, ma siamo stati compagni di liceo e ti conosco bene: se fossi mio alunno…ti boccerei. Non hai mai capito il latino!” Tutti risero mentre lei, seguendo il suono delle sue ciancianedde, si dirigeva verso una di quelle rocce che cingevano la cala quasi in un abbraccio. Ne vide una, scavata a mo’ di sedile: sembrava aspettarla. Vi si sedette mentre i piedi giocherellavano con l’acqua marina. La pace del luogo l’avvolse come l’incavo nel quale era seduta. La musica dei tamburelli e le voci degli amici erano lontani, e ancora più lontani gli alunni che aveva lasciato a Milano. “Rosa, rosae, rosa!” “Nooo ti boccio! Che stupidi a non amare il latino!” “Che splendida notte! Ma da trascorrere in compagnia e non da sola, come me!” Un senso di malinconia le prese il cuore, pensò che fosse colpa del ballo, del vino! Nella notte serena rischiarata dalla luna che rendeva pallido e invisibile il luccichio delle stelle, notò che, all’orizzonte, due stelle riuscivano a forare il candore della luna. Non tremolavano, sembravano luci fisse. Sorrise: forse erano alieni in avvicinamento, venuti per rapire loro giovani, come era accaduto alle compaesane di secoli prima! Una notte come quella, pensava, era fatta per fantasticare su storie di amori affascinanti e… improbabili: storie senza senso, anche se ci si illude sempre che in certe notti il sogno possa diventare realtà. Continuava a pensare, a
fantasticare, cullata dallo sciabordio delle acque. Il suono delle voci amiche era lontano, distante: si sentì avvolgere da un intenso profumo di gelsomino e, mentre stava chiedendosi da dove provenisse quel profumo, provò un improvviso bisogno di chiudere gli occhi. Un battito di mani la indusse a svegliarsi; prima di aprire le palpebre, al pensiero che i suoi amici non potevano proprio stare senza di lei, sorrise! Aprì gli occhi, ma il sorrise le morì sulle labbra. Su di lei era chinato un uomo, un giovane: un bel giovane, che la baciò con tale intensità da indurla a dover rispondere al bacio. Riprese subito il controllo su se stessa, deglutì spaventata, gridò nel tentativo di alzarsi ma l’uomo la bloccò e, con un sorriso rassicurante, la invitò a stare calma a non aver paura. Licia si guardò attorno, non era più sulla roccia con i piedi a bagno, ma su una veranda ricoperta da veli bianchi, sdraiata su un canapè di tartan rivestito di raso color crema, lì, vicino, un tavolino con della frutta, un secchiello per il ghiaccio, dolcetti. Smarrita, spaventata, chiese: “Dove sono, dove mi avete portato, voglio andare via!” Tentò di alzarsi, ma il giovane la bloccò ancora. “Non avere paura, nessuno ti farà nulla, stai tranquilla.” “Chi sei? Cosa vuoi?” “Sono Samuel Abdul etc. Sono un principe arabo e questa è la mia casa galleggiante o, come lo chiamate voi, il mio yacht. Lui parlava. Licia aveva acquistato il suo self control e proprio questo la stava inducendo a imbufalirsi, come le dicevano le amiche. “Cosa vuoi da me, come hai fatto a portarmi qui, riportami a riva. Sei… un pirata?” La voce di lui continuava ad essere tranquilla. “Un pirata? Ma no, sono un principe! Ecco, ti ho vista mentre ballavi là, sulla spiaggia, ti ho ammirata e…ti ho desiderata. Sii mia, anche solo per questa notte: ti prometto che saprò renderti felice!”
Licia reagì senza voler considerare la commozione che c’era nella voce di Samuel. “Tua? Ma dove vivi? Io sono solo mia. Lasciami andare!” Si era alzata e, mentre parlava, dava occhiate rapide al parapetto dello yacht, e cercava di calcolare: se si fosse buttata sarebbe riuscita a giungere a riva? La risata ironica e fredda di Samuel la fermò: ”Non te lo consiglio.” le disse quasi avesse letto i suoi pensieri. Poi tentò di abbracciarla: “Non ti chiedo molto, stai con me questa notte e poi sarai libera di andare, se vorrai.” “Ma sei pazzo! Io vado via adesso.” Samuel non era abituato ad essere trattato così, per lui era una situazione del tutto nuova, abituato ad avere sempre le donne che voleva. Tentò di baciarla, ma lei gli diede uno schiaffo, lui rispose con uno schiaffò che lei contraccambiò. A quel punto, la risata di Samuel lasciò Licia spiazzata. “Sei indomita come un cavallo arabo!” le disse pensando di farle un complimento, ma lei ribatté: “O come un guerriero normanno? Scegli tu!” Samuel le propose una tregua, le parlava per dirle quanto si sentisse preso da lei, e lei continuava a rifiutarlo: nonostante si vergognasse di doverlo riconoscere, sentiva che doveva rispettare il suo desiderio. Ormai del tutto padrona di se stessa Licia, ad un tratto, non ebbe più paura di lui: principe o non principe era un uomo piacevole, dovette ammetterlo. Accettò un dolce aromatico, e mentre cercava di mantenere il controllo su se stessa, capiva che in una situazione più normale per lei, avrebbe anche potuto accettare la corte di un giovane come Samuel. Ma come aveva fatto lui a vederla ballare? E Samuel, mentre la cingeva come in un abbraccio delicato, le mostrò un cannocchiale in grado di far distinguere i volti delle persone anche a kilometri di distanza. Guardò e vide i suoi amici:
nessuno più ballava, ma si riposavano seduti attorno al falò, ignari che lei fosse tanto distante da loro, in una situazione fantastica, lontana dal suo mondo: ma non doveva arrendersi, non poteva affidarsi all’ignoto Samuel che si era comportato come i suoi antenati pirati. Allora gli fece una domanda logica e strana: “Non c’era nessuno yacht in lontananza!” E mentre le veniva in mente l’improvviso profumo di gelsomino chiese ”Come hai fatto a portarmi qui?” anche se immaginò la risposta. Era stata drogata! “Nessuno può vedere questa imbarcazione perché è ricoperta da un gioco di trompe l’oeuil, che forma un tutt’uno con il mare e il cielo. Se avessi guardato in lontananza avresti visto solo due luci.” Licia ricordò le luci fisse. “Le ho viste, eri tu? Ho ragione: sei un pirata, abituato a rubare anche le donne. Ti prego” lo blandì “lasciami tornare a riva.” “Accetta la mia proposta, solo per questa notte!” “I miei amici si spaventeranno non vedendomi! “Accetta di rimanere con me, i tuoi amici dormiranno sereni sino al tuo ritorno. Te lo prometto! “Già! Anche per loro un sonno al profumo di gelsomino? Lasciami, non posso accettare! “Perché? Io sono un principe e posso avere tutto!” Al tono divenuto imperioso Licia rispose birichina; “E io…sono una commessa e sono contenta così!” mentì! “Una bella commessa.” Tentò di abbracciarla, lei lo graffiò, lui la baciò e lei stava cedendo al fascino di quell’uomo. Ma qualcosa le si ribellò dentro. Stava subendo. Ecco la parola: subiva il fascino di quell’uomo, in una situazione di imparità perché non poteva muoversi: era come essere stuprata mentalmente.
L’allontanò decisa: “Se sei un principe devi essere anche un gentiluomo, lasciami libera!” Temeva le sue insistenze fascinose, sapeva che si trattava di una battaglia persa, e invece riuscì a sopravvivere alle preghiere e alle offerte di Samuel. Infine lui prese una collana da uno scatolino d’argento posato sul tavolino: alla collana era appeso un ciondolo, sembrava un grosso rubino circondato da diamanti. “Te lo avrei dato domani, ma accettalo adesso e poi... ti manderò a riva.” Lei lo rifiutò energicamente, accettare un regalo l'avrebbe messa in condizione di imparità e invece, lei, voleva essere libera da lui, ma, siccome lui le apparve sincero, non seppe rifiutargli un bacio, in ricordo di qualcosa di bello che avrebbero potuto vivere e che forse entrambi avrebbero rimpianto per tutta la vita. Samuel era di nuovo chino su di lei, e mentre lei aspettava il contatto delle sue labbra avvertì di nuovo un inconfondibile profumo di gelsomino, che la costrinse a chiudere gli occhi. Lo sciabordare del mare le lambiva i piedi, aprì gli occhi preoccupata, ma sorrise quando si trovò accoccolata nell’incavo della roccia. Sorrise tra sé e sé al pensiero del bel sogno appena fatto: era stato solo il bel sogno di una notte d’estate. Le amiche le si avvicinarono. “Ci siamo riposate abbastanza, allora, ti decidi a venire?” Se ne accorse Sara. “Cos’hai al collo?” Si toccò: le sue mani strinsero il ciondolo. Restò perplessa, non sapeva cosa rispondere, anche se capiva di dover dare una risposta convincente. Con un tuffo al cuore comprese che non si era trattato di un sogno. “Ah, questo?” perdeva tempo, mentre con lo sguardo cercava di fissare il punto lontano dove forse Samuel la stava ancora guardando, ma, con una improvvisa stretta al cuore, vide che, all’orizzonte, le due stelle fisse non c’erano più.
“Questo? L’ho trovato qui, tra la sabbia, quando mi sono seduta, chissà chi lo ha perduto!.” “Sempre fortunata! Se lo vendi ne ricaverai i soldi per la tua gita in Marocco!” “Già! E vero! Devo andare in Marocco!” Era sorpresa per la coincidenza. Ma…, in effetti…, non so!” Carezzava il ciondolo e si sentiva molto triste. Per un attimo si rimproverò perché sullo yacht si era comportata come una sciocca ingenua fanciullina: ma ormai era tardi! Col pensiero rivolto altrove tentava di dare risposte che avessero senso. “No…! Penso che non lo venderò. Non si possono vendere i ricordi!” Gli amici si domandavano perché fosse così pensierosa. Lei se ne rese conto e, con il sorriso di sempre aggiunse: “Sapete? Lo conserverò come ricordo nostalgico di questa magnifica notte d’estate.”
Il colore dell'oro di Andrea Masotti
“Quanto sei idiota!” disse Cirò strattonando l'altro con quelle mani grosse e dure come una zappa “proprio con te mi dovevo mettere.” “Vai all'inferno” gli rispose Petito “devo stare attento che non mi mordi all'orecchio come Tyson.” Petito era su di giri, sudato fradicio sotto il sole di metà agosto, su quella collinetta tonda che, nella spianata campana, pareva innalzata con un secchiello da un bambino troppo cresciuto. Su di giri tanto da non tener conto che lui a scavare era un soldo di cacio e Cirò con una sola mano poteva stringergli il collo come a un galletto. E tirarlo. Ma erano a un metro da una cavità che aveva un origine molto ambita: una tomba etrusca o forse greca. Erano anni che sognavano di trovare l’oro. Petito si arrabattava e Cirò lo pressava con il suo torace bovino, grugnendo. “Lascia fare a me, sono due ore che non vai avanti di un centimetro. Ho una sete che non ne posso più.” “A chi lo dici” rispose Petito con voce in falsetto “ma è meglio se faccio io piano piano. Tu l'anno scorso hai spaccato un'anfora che poteva valere cento euro. Qui c'è dell'oro, ti assicuro ! E' roba etrusca, gioielli capisci, anfore, statuette. Sento che qualcosa si sposta!” “Ho sete, fammi are” riprese il compare, strattonandolo di lato con le sue zappe ruvide che chissà quanti calcestruzzi avevano spostato “Ci vorrebbe del vinello o dell'acqua fresca” e iniziò a estrarre velocemente le pietre. “Acqua fresca, mai ti ho visto berla. Il sole ti deve aver picchiato bene sulla testa!” rise Petito. “Se vuoi che vengano bene i tuoi lavori, acqua ai mattoni e vino ai muratori” rispose Cirò, e agguantò con le braccia un masso che emergeva da sotto il terriccio per farlo ruzzolare a valle. La tomba era ormai accessibile.
“Se ci vedono andiamo in gattabuia” spifferò Petito, girando nervosamente il collo sui due lati. Era anche lui fradicio per le gocce di sudore che gli scurivano la maglietta azzurra e ungevano i riccioli neri come fossero brillantina. “Oggi è il giorno della fortuna. Non ci ferma nessuno!” Sotto si intravedevano due forme ovalari coperte di polvere, Petito sporgendosi dalla cintola in giù cercò di dipanare la coltre di terriccio che nascondeva gli oggetti. “Tienimi per le ginocchia Cirò” disse “e dai!” “Ti lascio andare a far compagnia agli scheletri” rise grossolanamente il muratore. “Guarda qui, ci sono anfore!” “Solo anfore rotte. Spazza ai lati!” “Ce ne sono anche intere.” Petito spazzava con le mani e tossiva. “Due o tre monete, eccole.” “Fammi vedere” annuì Cirò e ne prese una incrostata e illeggibile. “Sembra romana, vale zero” aggiunse. “Non c'è l’oro.” “Dammi le anfore. Almeno quelle intere.” Ruggì Cirò - Tanta fatica inutile. “E dai, prendila su!” sbuffò l'altro che temeva il peggio quando Cirò si innervosiva. Cirò afferrò il reperto e poi tirò su il compare, non faceva troppa fatica perché Petito era magrissimo e sotto i vestiti si intravedeva il bacino scheletrico. Ai cantieri e al mercato non lo assumevano e per sopravvivere aveva iniziato a fare il tombarolo. Petito si rialzò con l'altro recipiente in mano e scosse la testa bianca di polvere.
“Ma che anfore, sono bottiglie!” Rise forte. Cirò lo guardava di sbieco. “Che ridi? Pezzi di vetro da raccolta differenziata.” “Bottiglie di vino, Cirò, questo è oro! Sono ancora piene, chissà a quanti archeologi o enologi interessano, vorranno scoprire la gradazione, i vitigni dell'epoca, è vino bianco, sembra Fiano…” “Tu hai studiato tanto che non capisci più niente” sentenziò Cirò “e come facciamo a venderle a questi illustri scienziati? Ora ti faccio vedere io…” Petito tremava, e non era certo per il freddo, il muratore prese la bottiglia dalle mani del complice e con gesto deciso sbatté il collo chiuso da un tappo di legno nero, forse sughero carbonizzato, contro una grossa pietra: il collo si spezzò di netto. “Ho sete, meglio ancora se è vino.” Dall'alto se lo versò a garganella nella gola spalancata. “Altro che se è buono, è fresco come la notte. Meglio dell’oro. Chiamali fessi quelli! Assaggia… tanto questa spettava a me” e allungò la bottiglia a Petito che, perplesso e timoroso di potersi ferire, a sua volta la avvicinò alle labbra.
La cucciolata di Caretta... e Paso di Sauro Nieddu e sca La Froscia
Mare, mare, mare: questa entità è diventata una smania per Rachele. Non fa altro che pensare al mare. Lei spasima per il mare... buffo, proprio lei, che temeva pure una vasca da bagno riempita a metà... Non poteva tollerare quell'acqua che sommergeva quasi tutto il suo corpo. Solo sentirla alle gambe le veniva il senso di soffocamento. Era stato, forse, il tanto vagare (fino a quando, in extremis, non l'avevano tirata fuori) nel liquido amniotico (con volume più alto del normale) della mamma, a lasciarle quella repulsione per l'acqua. L'idiosincrasia era per l'acqua accumulata, però, perché la pioggia, invece, le piaceva. La pioggia fluiva, non poteva essere una minaccia. Adesso, adora pure il mare... Strano come la vita di una persona possa cambiare così, in conseguenza di un sogno, però era accaduto proprio questo: Rachele ricordava alla perfezione il momento in cui era iniziato. Avvenne quella volta che fu inviata, in modo tassativo, dal suo capo, per seguire l'eccezionale nascita di alcune tartarughe marine, su una spiaggia di Roseto degli Abruzzi. Rachele è una biologa nutrizionista animali, ma si era sempre occupata di fauna terrestre, al massimo (con uno sforzo non da poco) di trote in allevamento. Fino a quel momento per lei le acque profonde erano sinonimo di incubo, invece quella volta, nonostante sentisse su di sé il peso dell'enorme massa d'acqua in cui era immersa, non aveva provato alcun timore. Nel sogno scivolava veloce fendendo le correnti col suo muso idrodinamico. C'era voluto un po' a capire che il corpo in cui si trovava non era il suo solito corpo. In quel sogno era un delfino, ecco perché il mare non le faceva nessuna paura. Era una sensazione bellissima, che a ogni risveglio le lasciava un senso di amarezza perché lei, con il panico delle acque profonde, quelle sensazioni non le
avrebbe mai provate. Invece notte dopo notte, sogno dopo sogno, risveglio dopo risveglio, il suo terrore del mare era svanito spontaneamente, senza che lei se ne rendesse quasi conto. Rimaneva solo quella smania di tuffarsi e scivolare libera nell'acqua: nei suoi sogni era quasi come volare. E finalmente è arrivato il gran momento. Rachele ricontrolla le valigie per l'ultima volta, per essere sicura di non aver dimenticato nulla, e s'incammina verso la stazione dei pullman. Essendo la parte anteriore tutta occupata, preferisce sedere negli ultimi posti, dove può ammirare meglio il panorama. Neanche fa in tempo a sedersi, che già sta controllando l'orologio… la smania si è trasformata in ansia. Ma manca poco, tra lei e il bungalow che ha prenotato, ci sono appena due ore. L'addetto alla reception del campeggio con cui ha parlato al telefono le ha assicurato che l'avrebbe sistemata a non più di cento metri dal mare. Giusto il tempo di ritirare le chiavi, prendere il costume nuovo fiammante dalla valigia, disfare i bagagli, fare un po' d'ordine e correre verso quel placido blu che attende solo lei. Stavolta, ne era quasi certa, a Monterosso, avrebbe potuto compiere anche quella fase che l'era mancata a Roseto: accompagnare la cucciolata di Caretta... Aveva seguito le testuggini solo a riva, a guidarle verso il mare profondo ci aveva pensato il collega… Quel quadro sembra toglierle il respiro, ma non come quando aveva paura; è la meraviglia ad accorciarle il fiato: l'acqua, di una limpidezza e di un colore così suggestivi, prende la forma di un adone marino con le braccia in posa per attirarla a sé e coccolarla. Il corpo vibra, molteplici sensazioni la inglobano: è come se stesse per fare l'amore con l'uomo che più le inebria i sensi. Si toglie i sandali e rapita va verso la folle ione. Rachele con le gambe danzanti si allunga in acqua. S'immerge fino alla vita e resta ferma per un po' a godere del massaggio suadente delle onde leggere. Intorno c'è uno stuolo di pesciolini, che guizzano giocosi. A un certo punto, sente
come se le gambe fossero diventate una coda di pesce, con i piedi mutati in pinne, e qui si dà incondizionatamente al mare. Sommersa completamente dall'acqua, inizia a muoversi proprio come un delfino e in un battito d'ali si trova con la testa tra la flora dei fondali. Inebriata da questa sensazione tanto simile a quella dei suoi sogni, si lascia trasportare a occhi aperti dalle correnti sottomarine, sente il suo corpo percorso da sottili rivoli d'acqua, ognuno di temperatura sottilmente diversa, così che li sente fluire quasi singolarmente, come se fosse accarezzata dappertutto da mille mani. Rachele avverte di essere nata per l'ambiente sottomarino. Con pochi gesti fluidi ed essenziali si inoltra in quel mondo ignoto e affascinante. E all'improvviso ecco le sue tartarughe… un'intera torma di piccole, tenere Caretta, che nuotano apparentemente senza scopo. La ragazza fa loro cenno di seguirla e si dirige verso il mare aperto, decisa ad accompagnare le tartarughe neonate fino al loro ambiente naturale. Le sue protette la seguono senza esitazione. Ma ecco che all'improvviso un pensiero le attraversa la mente… si è dimenticata di respirare. Il pensiero si fa velocemente necessità. Rachele si guarda attorno, le tartarughine non la seguono più: è sola nella penombra degli abissi. Cerca di risalire verso la superficie, ma ormai sente i polmoni in fiamme, i suoi movimenti si fanno meno fluidi e infinitamente più faticosi. Non riuscirà mai a raggiungere la luce, che scende dall'alto. Sente le membra farsi sempre più pesanti e il petto scosso dai singulti, alla ricerca disperata d’aria. Rachele si sveglia, ha gli occhi sbarrati dal terrore e si sente umida dal sudore. È semisdraiata sul letto, la testa poggiata sulla valigia ancora chiusa, il bungalow… ora, realizza. Viene colta da un ossimoro d'emozione: è confortata e tormentata allo stesso tempo. Non è in pericolo di vita perché stava solo sognando, ma non ha neppure vinto il timore di affrontare le acque profonde, in quanto l'avventura scandagliata prima non era realtà... ma questa percezione non dura molto. Poco dopo, con la lucidità dalla sua parte, snocciola bene il sogno e ne afferra il senso. No, la visione onirica avuta non è il prolungamento della sua fobia: lei e il mare sono diventati più che amici e la brama di possederlo non è affatto svanita. La solerzia di esplorarne tutte le forme, anche quelle arcane, è accesa più che mai, ma non può affrontare da sola una simile avventura, non deve!
Rachele afferra che ha bisogno di addestramento alla subacquea... Si alza fulminea dal letto, indossa il costume ed esce dal bungalow decisa a cercare un centro che dia lezioni d'immersioni. Qualcosa, in realtà, circa un corso da sub, le era stato accennato dal receptionist... ora, ricorda. Soddisfatta si dirige verso il chiosco d'accoglienza, con i i e la postura frizzanti, pervasa dal sentore che presto diventerà il Delfino delle Cinque Terre. A quanto pare la fortuna si è messa in testa di darle una mano. Quasi non fa in tempo a venire fuori dal bungalow che si ritrova davanti un cartello con tutte le indicazioni: Reception… Spaccio… Discoteca… Diving Center! Senza neppure buttare un occhio intorno si dirige dritta dove indica la freccia. Dopo qualche centinaio di metri, finalmente, lo vede. Una casupola in legno di fronte a un piccolo molo, anch'esso in legno. Rachele si avvicina alla base del pontile e avvista un signore sui sessant'anni, calvo e paffuto, che se non fosse stato tanto peloso avrebbe avuto lui stesso l'aspetto di una tartaruga, intento a rilassarsi con una piccola canna da pesca in mano e i piedi a mollo. La costruzione, che è chiusa solo su tre lati, lascia intravedere il suo interno vuoto. La ragazza si guarda attorno, non c'è traccia di istruttori da nessuna parte. S'accosta al pescatore sul molo. “Mi scusi! Sa dirmi a chi devo rivolgermi per un corso d'immersioni?” L'ometto salta in piedi con un'energia inaspettata. Rachele si ritrova con la mano stretta in quella del buffo individuo. “Lasci che mi presenti signorina. Sono Gualtiero Pasotti, Istruttore subacqueo e unico responsabile, finché il capo non si decide ad assumere qualcuno che mi dia una mano, di questo Diving Center! Se le va, può chiamarmi Paso. El Paso, mi chiamano tutti così…” Rachele continuò a fissarlo cercando di non far trapelare la delusione nel sorriso di circostanza che gli rivolgeva. Non che avesse le idee particolarmente chiare sull'aspetto tipico di un istruttore subacqueo, eppure, qualunque fosse la sua idea preconcetta, non assomigliava in nessun modo a quel “Paso”.
Comunque, Paso o non Paso, non ha altre alternative. Deve fidarsi. Se pure il suo fisico non fa pensare a un trivellatore d'acqua almeno ricorda una boa: sempre utile per un appiglio! Dopo qualche chiacchiera preliminare i due entrano nella casupola, dove Paso ha pronti i moduli per l'iscrizione al corso. Con tutta quella roba da leggere e firmare, Rachele, per un momento, si chiede se non ci sia il rischio di annegare nella burocrazia anziché in mare. Poi si rassegna, siede una vecchia seggiola telata, e inizia a valutare e firmare. E finalmente l'ometto le consegna una muta da sub, più o meno della sua taglia, una maschera e delle enormi pinne. “Per il momento niente bombole” dice “voglio prima vedere come te la cavi in acqua.” Rachele si sente avvampare, in preda al disagio. Com'è possibile che quel tipo non si renda conto della situazione? È ovvio che lei non abbia alcuna dimestichezza con l'acqua. Si è rivolta a un istruttore proprio per quel motivo. “Io…” cominciò esitante “a essere sincera ho sempre avuto il terrore dell’acqua, non ho mai fatto un bagno in vita mia.” Paso la guarda un po' in tralice, come a chiedersi se la ragazza lo stia prendendo in giro, poi alza le spalle e lascia andare uno sbuffo di rassegnazione. “Intanto metti su l'attrezzatura e raggiungimi sulla banchina, vediamo cosa si può fare.” Così, le volta le spalle e si dirige verso il molo con un o ondeggiante. Rachele indossa la muta, la maschera, le pinne e raggiunge, con movenza goffa, l'istruttore. Costui la guarda con disapprovazione. “Rachele… le pinne andrebbero indossate quando sei già in acqua. Non sono il massimo per eggiare.” La ragazza si sente arrossire di nuovo. Toglie le pinne e, stavolta con una camminata più accettabile, si pone accanto a Paso. Attorno a loro, e sotto la erella del pontile, solo acque profonde. Rachele prende un bel respiro
intenso cercando di non farsi prendere dal panico e senza attendere il via di Paso, con gli occhi chiusi, si lancia a testa in giù. “Ehi, ma che ca...” la boa non finisce l'improperio, si butta a razzo, pure lui, in acqua. Nella foga di tuffarsi prima di subito, non vaglia il punto agevole in cui farlo, per cui atterra, con tutta la sua mole, sopra di lei, la quale, come un siluro sparato da un sommergibile, arriva celere al bersaglio: al fondale del molo. Il bailamme avviene in così pochi secondi che nessuno dei due realizza, soprattutto la paura. Fatto sta che Rachele si trova a nuotare sott’acqua senza l'ausilio di Paso... Scruta un po' il paesaggio sottomarino e poi, avvertendo la necessità di respirare, si dà una forte spinta verso l'alto. La cosa sorprendente è che tutte queste mosse le fluiscono in modo naturale, che ci senza ragioni. All'improvviso allunga le gambe in un guizzo, consapevole che quel che l'attende, come nel sogno, è aria fresca. Lei è fatta per il mare. E superato il primo momento di sgomento il suo corpo glielo ha urlato con tutta la sua forza. Emerge dall'acqua fino a metà del busto. Ma cos'era la massa molliccia sulla quale si è data lo slancio? Rachele non tarda molto a immaginarlo. Dai flutti emerge una faccia tumefatta. Paso la fissa con rassegnazione, ma anche con un po' di disapprovazione. Sana ammirazione, forse? Rachele non distoglie lo sguardo ironico e, timidamente, con tono di scusa, esterna: “Perdonami, Caretta, era il mio primo giorno, la prossima volta ti porterò in mare aperto!” Paso la guarda per un attimo, incredulo. Poi le volta le spalle e riporta, con inaspettata agilità, la sua massa sul molo mentre la ragazza, dall'acqua, lo guarda...
Una macchia di colore Anna Cibotti
L'altalena ondeggiava cigolando. L'aria che creava quell'andare avanti e indietro, alzava leggermente il vestito a quadretti bianchi e rossi scoprendo due gambe di bambina. Era in piedi con le braccia attaccate alle corde e piegava le ginocchia per darsi la spinta che la faceva oscillare sempre più in alto. Era estate. La mia estate di tanti anni fa. Ero affascinata dal movimento aggraziato di quell'orlo ondulato della gonna che aveva la leggerezza di un papavero accarezzato dal vento. Mi piaceva quel vestito! Avrei voluto averne uno uguale per poterlo mettere e farlo svolazzare dondolandomi sull'altalena. Ma è rimasto un sogno. Piccolo, ma importante tra gli altri che avevo, se ancora lo ricordo. Molti anni dopo, ho rivisto quella bambina, ormai nonna. “Tu sei Manuela?”, le ho chiesto. “Anna?” mi ha risposto. Gli anni di collegio che abbiamo condivisi da bambine ci hanno lasciato ricordi diversi. Quel piccolo sogno di un vestito a quadretti bianchi e rossi che le ho rivelato dopo tanto tempo, le ha fatto tenerezza. Aveva avuto un sogno anche lei, quell'estate! Me lo ha confidato. Ma non lo rivelerò a nessuno. I sogni, a volte, devono rimanere segreti... potrebbero perdere la loro magia.
D’Estate nasce il Sogno di Maruska Creanza
D’Estate nascono i Sogni. Quelli belli e divertenti, che aspetti tutto l’inverno. Li senti appena vedi quella bella distesa blu, appena ne percepisci l’odore di salsedine. E poi il sogno lo tocchi con mani, ma soprattutto, con piedi timorosi. Prima sabbia bollente, poi acqua ghiacciata. I sogni d’Estate sono magici. Come cascate fresche, nelle giornate afose. Come il ghiaccio che tintinna e rallegra il bicchiere che lo ospita. D’Estate nasce la voglia di colorare la mia pelle, insieme a rumorosi amici o accanto ad una persona speciale. Alcuni ricordi te li porti appresso per sempre. Sono sensazioni che impari sin da piccolo. Come l’odore della crema solare, come il rumore delle onde e lo schiamazzo dei bambini e della gente che si tuffa felice. Sembra che al mare, mentre la gente vive il suo sogno di vacanza, tutti i problemi dell’inverno spariscano. Puoi lamentarti ovunque, ma non al mare. Non nel tuo sogno d’Estate. D’Estate il sogno è anche stare distesi l’uno di fianco all'altro, a non fare nulla. Tutto il lavoro è del Sole. Ma lui è eterno e immutabile, non si stanca e non si annoia mai. Il Sogno d’Estate lo senti sotto la lingua, quando gusti la prima granita o il primo gelato alla frutta della stagione… e come mio nonno, ti fai il segno della croce,
perché ancora hai potuto godere di quella bella e dolce esperienza, ringraziando Dio per averti regalato un’altra estate. E poi ti guardi attorno, e vedi che l’Estate regala un sogno a qualsiasi persona lo voglia davvero, a qualsiasi età, senza distinzioni. Il Sogno d’Estate lo senti magicamente quando la spiaggia si svuota e la sabbia diventa finalmente fresca. Quando le onde si ripuliscono, nel loro eterno avanzare ed indietreggiare. Quando ti viene la voglia matta di giocare o di eggiare lungo il bagnasciuga come se quella giornata tra sabbia e acqua salata, non bastasse mai. Come se volessi imprimere nella tua mente, ogni ultimo raggio di sole. Come se non volessi dimenticare il rumore della risacca, che di sera senza il vocio della gente, arriva forte alle orecchie. E tutto diventa romantico, se hai la fortuna di vivere il tuo sogno in due. La luna riflessa sull'acqua, l’aria finalmente rinfrescante. Le stelle nel cielo terso, senza nemmeno una nuvola. Le mani intrecciate, i i lenti, i sospiri rilassati. E pensi che non vorresti essere da nessuna altra parte al mondo. Il sogno d’Estate entra nella tua mente già dalla Primavera. Il tuo sogno d’Estate resta nella mente e sulla pelle, sino alla fine quando si giunge alle porte dell’autunno. Hai fatto il pieno di sole e di sensazioni e sei felice. E quando ti accorgi che è già tutto finito, ridi malinconicamente, mentre metti via tutto l’armamentario estivo. Mentre guardi le decine di foto e i mille selfie. Ma, se ti guardi allo specchio, sai già che stai sognando un’altra magica Estate.
La voce delle stelle di Andrea Masotti
“A chi tocca? Non c’ero io?” Quasi me ne torno a casa. Dicevano che è un’occasione unica per scrutare il cielo d’estate. Sono due ore che aspetto in piedi! Quando si arriva in comitiva c’è troppo cicaleccio, gli astri si dovrebbero ammirare nel silenzio. Un’altra serata persa con il circolo culturale, era meglio seguire la partita a casa, stasera iniziano i mondiali. Credo che… non so. Ho parcheggiato a mezzo chilometro, forse è meglio insistere e non farmi prendere dall’impazienza. “Allora? Vengo, arrivo… tanto sono l’ultimo.” Difficile avvicinarsi all’oculare del telescopio. Gli occhiali vanno a urtare contro il bordo dell’obiettivo. La prossima visita guidata è in settembre, potrei provare con delle lenti a contatto. “Aspetti, mi faccia guardare!” Bellissima: Vega, nella costellazione della Lira, bianca e luminosa. Posso rimanere un po’ da solo, dopo di me non c’è nessuno in fila. Cosa significa Vega? Non lo so. Ah: l’aquila che attacca! Preferisce stare con me? Non scalfisco nulla, ero un pittore. E vicino allora quel gigante rosso è Arturo che le fa da guardia. Mi piace il suono del nome arabo, me lo ripeta: al-Simàk al-ràmih che significa: il torace del lanciere. Stasera c’è una guida speciale. Vega e Arturo, la stella bianca che mi cercava e il lanciere gigantesco. Mi torna in mente un’altra coppia: lei era Giulia, la prima che ho conosciuto. Pensi: aveva dodici anni, ava da casa mia tornando da scuola e scamlava per salutarmi al citofono. Una ragazzina con i capelli lunghi, biondi. Poi quando le ho chiesto di uscire insieme è scesa fuori dal portone accompagnata da suo padre. Un omaccione, anche se rideva. Due o tre volte siamo andati a mangiare il gelato e c’era sempre lui, prendeva il gelato con noi. Imbarazzante. Così l’ho persa di vista. Giriamo il telescopio, me lo mette a fuoco meglio che gli occhiali non sono più sufficienti per il mio difetto di vista? Quella vivida e penetrante… rimanga fermo: Adhara che vuol dire Le vergini, a
volte appare, stella dagli occhi celesti. Come sca, stesso liceo, ma non era in classe con me, usciva con la compagnia dei miei amici… era la ragazza con gli occhi più belli della scuola, lucevano come zaffiri. Come si dice in arabo? Safìr, assomiglia all’italiano. Le devo confessare che quando mi siedo in autobus vicino a uno straniero ho una sorta di timore. O forse sono io che li guardo male, non saprei. Ma lei mi sembra diverso, da dove viene? Dall’Algeria. Fa molto caldo immagino. E’ singolare trovare un astronomo del suo paese qui all’osservatorio, e una fortuna per me approfondire il significato dei nomi. Si vede che ha studiato, così garbato. sca, la ragazzina del liceo, si è innamorata di un mio compagno di classe e dopo tanti anni sarà già nonna, almeno credo. Vuole farmi vedere qualcosa? Due stelle in coppia? Minqār alDajāja, il becco della gallina, che sarebbe Albireo, e vicino a lei Cygni. Una giallo oro, l’altra verde azzurro, resa quasi invisibile dal prevalere della prima. Proprio così, anche se mi ci è voluto qualche secondo per individuarle. Adesso lei vuol sapere chi sono: Tiziana e Arianna, li conosce questi nomi in italiano? Sono un po’ rari oggi. Sempre vestite con colori sgargianti, Tiziana più appariscente, si pavoneggiava, gli abiti da sera, non stava mai zitta, appena parlavo con Arianna si faceva avanti lei, così quella che mi interessava, fine ed aggraziata come un cigno, è sempre sfuggita. Non so che fine abbiano fatto dopo l’università, spero che Arianna sia riuscita a liberarsi della sua amica invadente. Continuiamo Abdel Fattah, che fortuna conoscerti, ecco Antares, maestosa stella scarlatta: la prima volta che ho offerto le rose, si usava così, forse lo fate anche voi in Algeria, il nome era Anna, e Betalgeuse, sempre rossa, nella costellazione di Orione: direi Carmen, qualche anno ato insieme, io non volevo sposarmi e lei non mi ha atteso. E poi Mira, variabile, alone a volte bianco e a volte rosso, rivedo Claudia di umore volubile... quella volta ho aspettato io, ma lei si barcamenava tra me e un altro. Gena che sarebbe: Janah-al-ghurab, com’è difficile da pronunciare, "l'ala del corvo", fa pensare a Jenny, anche per assonanza, capelli scuri, peperina, non sapevo mai come trattarla, mi ha mollato con due schiaffi. Alnilàm, supergigante blu, ancora in Orione: an-niżām, il filo di perle. Non può essere che Stefania, alta ed elegante. Con Stefania ho ato troppo tempo. D’improvviso è finita. Ero in carriera, mi avevano proposto un assessorato in comune, mi cercavano tutte le sere e poi… Ma non ho voglia Abdel di rivangare questa storia, purtroppo non siamo sempre artefici del nostro destino, non so come la pensi tu. Stefania forse ha vissuto meglio senza di me. E’ tardi, fammi vedere l’ultima che brilla in quell’angolo remoto di cielo: Spica, per noi la spiga
del grano, nuova, azzurra, ventimila volte più luminosa del sole, al Simak al A’zal che significa l’inerme… Allora ho capito chi è. Adesso ha vent’anni. Non l’ho voluta, è rimasta con la mamma. Non posso neanche dirti come si chiama, mi addolora pronunciare il nome vero, ora che sono solo posso venire a guardarla qui, immaginarla, come la immagini tu, nel fiore dell’età. Abdel, ti ringrazio per avermi istruito, per avermi fatto capire che nel vostro paese amate la bellezza, io ti ho raccontato quello che so. Torno a casa. Ho pure saltato la cena, c’erano gnocchi di semolino. E poi, anche se non la conosco, anche se vorrei almeno vederla, so che l’ultima stella sta bene, è una bella ragazza e dicono che assomigli un po’ a me. Stefania, la madre, tu hai fatto capire traducendo, è una fila di perle, e sicuramente in questa collana c’è lei, Spica, che ha trovato una donna capace di sostituire anche il padre assente. Una spiga di grano darà altre vite, mentre gli astri mi guardano indifferenti. Ciao Abdel Fattah, stanotte ho sognato più che in tutti i miei ultimi anni. “Non hai sognato, amico Giuseppe, vedi: non c’è un filo di nuvole nel cielo. Così hanno voluto le stelle per essere più brillanti. Sanno che tu le ammiri e ti aspettavano. E’ diversa dalle altre, questa notte.”
Come un'estate fa di Rossella Gallucci
Ti ho sognato stanotte. Avevi carni scure e braccia allegre Mentre dal volto asciugavi perle di sudore. Era lei al tuo fianco A redimerti come si fa coi cavalli imbizzarriti. E ho visto arrenderti alla sua forza E alla sua bellezza. Struggente. Come struggenti erano le tue parole di fumo, Pronte a salire e salire Per nascondersi nell'aria. Ti ho sognato stanotte. Ed era come un'estate fa. Ma forse non eri neanche tu. Fumo che sale e poi scompare.
L’isola Misteriosa di Rossella Gallucci
S’imbarcò per non soffrire più alla volta di un nuovo mondo da scoprire. S’imbarcò su una piccola – forse troppo – piccola nave, negli occhi lucidi solo voglia di morire per il suo amore perduto, perché lui nulla aveva oltre al suo amore. E per lei, che amava se stessa più di ogni altra cosa, non era abbastanza. La nave affondò, ma lui, trasportato dalle onde, si risvegliò dinanzi a un paesaggio senza eguali. Dall’alto di una rupe una cascata di diamanti, tintinnando sulla roccia, tuffava il suo splendore in uno specchio di acqua dorata. Si disse: “Son pazzo, oibò! Il dolore mi ha fuso il motore della ragione!” E, voltandosi verso il mare, richiamato da uno strano suono, vide che l’onda che lo aveva trasportato altro non era che oro fuso. A riprova di ciò, sul suo corpo, una patina dorata brillava al sole. “Sto sognando, perbacco! Qualcuno mi svegli!” Cominciò ad urlare e si ritrovò a chiamare il suo amore: “Elena, Elena!” Ma Elena non poteva rispondere perché era troppo lontana. Si sdraiò su quella sabbia dorata e sprofondò in un sonno ristoratore. All’improvviso aprì gli occhi e vide davanti a sé una donna bellissima. “Chi sei?” Le chiese “Sono colei che ti salverà!” “Come ti permetti? Io amo un’altra donna e, adesso che sono ricco, posso tornare a riprendermela!” “Tu sei libero di andare, tanto so che tornerai!” “Ma si può sapere chi sei?” “Sono la custode dell’isola e vivo qui da oltre due secoli.”
“Allora tu sei ricchissima!” A questa osservazione così ingenua la donna rise di gusto. “Certo che lo sono!” “Tu puoi avere diamanti e oro e tante cose ancora e…” “No!” lo interruppe “non è per questo che sono ricca.” “Ma come? Tu…” “Tutto ciò che vedi è solo apparenza.” “Ma oro, diamanti… Potrei regalare un anello alla mia fidanzata e lei, oh sì, lei mi amerebbe per tutta la vita!” La giovane donna sorrise: “Oh no, non le basterebbe. Dopo vorrebbe un diamante più grosso e poi ancora una collana d’oro e ancora e ancora…” “Ma allora perché tu sorridi sempre? Cosa vuol dire che sei ricca?” “Sono ricca perché ho il mare dentro. Sono ricca perché ho il cielo negli occhi. Sono ricca perché ho i tramonti nel cuore.” “E i diamanti? L’oro?” “Te l’ho già detto, perché non vuoi capire? Sono tutte cose al di fuori di noi e, come tali, destinate a finire. Invece, la tua ricchezza interiore non finirà mai, ricordatelo e sii felice!” E mentre spariva dalla sua visuale, lui le gridò: “Aspetta, non ti ho neanche chiesto il nome!” “Saggezza, mi chiamo Saggezza.” E sparì nel nulla. Al suo risveglio l’uomo si sentì stranamente felice. Per la prima volta si accorse che non pensava più a Elena e che non gliene importava nulla dei diamanti e dell’oro per far felice lei.
Chiese ad un pescatore se poteva uscire in mare con lui e aiutarlo a pescare. Il pescatore lo accolse nella sua modesta casa, dove viveva con la moglie e una bellissima figlia di nome Angelica, della quale s’invaghì all’istante. Lei non aveva niente, ma nulla voleva se non stare con lui a guardare i tramonti sul mare.
Schede autore
Biografia di Allie Walker
Allie Walker nasce 50 anni fa in un piccolo paesino in provincia di Ancona. Da un paio di anni si dedica alla scrittura, si affaccia al mondo dei naviganti del web, viene a conoscenza di personaggi fantastici. Il suo interesse volge verso demoni e personaggi oscuri, principi, regine e quant’altro di fantastico la mente umana possa creare; poi scopre lussuriose figure, tra padroni, master, schiave. Si apiona alla parte di schiava, fa ricerche, assiste ad alcune “sessioni”, comprende che il sesso ha altre figure ed emozioni, molto più profonde dei “normali” rapporti vanilla. Scrive qualche racconto e apre un blog, riuscendo a catturare l’attenzione di numerosi naviganti del web. Le sue poesie, senza metrica, spaziano in ogni dove; dall’amore più tenero a quello più perverso, per volgere un pensiero ai figli o ai silenzi con cui parla. Istinto & ione, romanzo pubblicato in ebook in gennaio 2013, è la sua opera prima, un ensamble di realtà e fantasia, di possesso e ioni perverse. Partecipa alla raccolta 101 racconti con uno dei suoi numerosi racconti. Pubblica, in giugno 2013, diverse poesie per il poeta Elio Pecora in una raccolta con altri autori: Viaggi Di Versi. In Luglio pubblica il suo secondo romanzo “Le confessioni di Eva” e la raccolta di poesie “Stringhe & Corsetti”. Tiene le fila di un gruppo di scrittori non professionisti su facebook e con loro pubblica una raccolta di racconti e poesie “L’arte che si scrive”.
Pagina Facebook Blog Personale Elenco Opere Istinto & ione – Frammenti di un’Anima Le confessioni di Eva Stringhe & Corsetti L’arte che si scrive
Viaggi di Versi Respiro di Donna
Biografia di Andrea Leonelli
Andrea Leonelli nasce il 14 luglio 1970 a Firenze. In tenera età viene condotto nel Mugello dove la sua famiglia si trasferisce e in questa località toscana cresce e risiede fino ai 30 anni. Qua compie i suoi studi fino a diventare infermiere con il “vecchio ordinamento”. Inizia a lavorare a 21 anni in settori eterogenei dell’assistenza: dalla medicina alla psichiatria al pronto soccorso per poi approdare, nel 2000, in rianimazione, per la quale nutre oggi una specie di “tenera affezione”. Nel 2001 si trasferisce a Faenza. Al momento ha esperienze di lavoro nelle rianimazioni di tre diversi ospedali, oltre a svolgere anche attività d’insegnamento e prodursi come relatore in alcuni corsi d’aggiornamento. Nel 2010 ha un infarto che lo lascia senza effetti residui a livello fisico, ma che ne cambia profondamente la visione della vita. Da quel momento inizia a scrivere le sue composizioni poetiche e di prosa. Partecipa a diversi concorsi ottenendo alcuni riconoscimenti, l’ultimo dei quali è il Premio “FataMorgana” attribuito alla silloge La selezione colpevole. Viene incluso in molte antologie sia di poesia che di racconti e nel 2011 autopubblica con la sua prima raccolta, La selezione colpevole. Nel 2012 esce, con la seconda edizione de La selezione colpevole per edizioni esordienti ebook con cui pubblica, in formato digitale, anche la seconda raccolta: Consumando i giorni con sguardi diversi. È giudice nel concorso di poesia “Bagliori Cosmici”, nel “Concorso Internazionale di poesia Liber@rte 2013”, nonché della “Prima Ragunanza del 28 aprile 2013 di letture poetiche”. Nel 2013 pubblica la sua terza silloge poetica Penombre (attualmente non disponibile).
Pubblicazioni Autore di “La selezione colpevole” auto pubblicato con Lulu.com Autore di “Consumando i giorni con occhi sguardi diversi” Edito da EEE edizioni in ebook Autore di “La selezione colpevole” Seconda edizione Edito da EEE edizioni in
formato ebook e cartaceo Autore di “Penombre” Autore della prefazione del libro “L’eloquente mistero dell’India” di Federico Negro Autore della prefazione del libro “Dietro lo sguardo” di Elisabetta Bagli Autore della prefazione del libro “La guerra degli amori distanti” di Gino Centofante Incluso in varie antologie di racconti e di poesie Blog Personale Profilo Facebook Pagina Autore Facebook Gruppo Facebook Google+ Twitter Elenco Opere La selezione colpevole Consumando i giorni con occhi sguardi diversi La selezione colpevole II edizione Penombre (attualmente non più disponibile)
Biografia di Andrea Marinucci Foa
Ha una formazione scientifica e umanistica con interessi abbondantemente sparpagliati in molti campi; lavora nel campo dalla formazione, dell’innovazione, della comunicazione e della progettazione informatica. Scrive prevalentemente narrativa fantastica: fantasy, sword & sorcery, fantascienza. E’ autore insieme a Manuela Leoni di due cicli: quello di Jacques Korrigan e quello della Canzone della Costa.
Profilo Facebook Blog Pagina ufficiale su Facebook Il sito di Jacques Korrigan Jacques Korrigan su Facebook Il sito della Canzone della Costa La Canzone della Costa su Facebook Elenco Opere Jacques Korrigan a Brocéliande
Biografia di Andrea Masotti
Andrea Masotti, nato nel 1953, medico, a 19 anni ha visto pubblicato il primo racconto, di genere fantastico, su rivista. Dopo anni dedicati prevalentemente alla professione e alla famiglia, è sposato e padre di tre adolescenti, ha ripreso l’attività letteraria, partecipando a iniziative e concorsi: inizialmente si è espresso prevalentemente con la poesia in seguito ha intrapreso la strada della narrativa fino alla pubblicazione del primo romanzo nel 2010. Come autore di poesia è tra i premiati al Premio Città di Campi 2003, al Premio Turoldo 2007, al premio Città di Castrovillari-Pollino nel 2007 per silloge inedita, al Premio Città di Monza 2008. Con racconti inediti ha ricevuto il 1° Premio Silarus nel 2000 e il 2° nel 2005, il Leggimontagna 2007 come 2°, è presente tra gli autori vincitori di Racconti nella Rete 2008. Nel 2009, in cui è stato nominato Autore dell’anno del Manuale di Mari, ha conseguito il 1° Premio per la narrativa inedita al Premio Il Molinello, il 3° premio per poesie Haiku al Surrentinum, il 4° Premio per sillogi di poesia al premio Città di Pomezia, finalista per la narrativa al Premio Città di Pontinia e al premio di narrativa ” I Brevissimi ” di Energheia pubblicato su “Le reti di Dedalus”, 1° premio per la narrativa inedita al concorso Lilly Brogi la Pergola Arte di Firenze, segnalato al Premio Nazionale delle Arti Letterarie – Arte Città Amica di Torino. A fine aprile del 2010 è uscito “Intrigo sulla Moskova” giallo a sfondo storico ambientato ai nostri giorni. Rientra tra gli autori di Twitteratura pubblicati dalla rubrica culturale del Sole 24ore. Il racconto “Galantuomini” è stato segnalato al Premio Il Litorale di Massa e la poesia "Monte Bianco" è risultata 1° al concorso Città di Pomezia 2011. Nel 2012 è tra gli autori selezionati da Fara Editore su Narrabilando, e nel concorso internazionale Vozes e Voci 2012 concluso a Milano, durante la settimana culturale dedicata al Brasile. Nel maggio 2013 il romanzo "Intrigo sulla Moskova" ha ricevuto il 1° premio per la narrativa edita a Viareggio nell'ambito del concorso letterario nazionale Viareggio Carnevale. In novembre lo stesso romanzo è risultato finalista al premio Internazionale Città di Arona "Gian Vincenzo Omodei Zorini". Nel giugno 2014 il racconto "La giacca a quadretti" ha ricevuto il secondo
premio al concorso nazionale VOCI 2014 per la sezione narrativa racconto.
Elenco Opere Cinque anni dopo il 2000, Ed Giraldi 2006, partecipazione Tra un fiore colto e l’altro donato, Ed Aletti 2008, partecipazione Racconti nella Rete 2008, Nottetempo Ed. tra i vincitori del Premio Anthology PerroneLab tra il 2009 e il 2010 partecipazione con racconti e poesie Sotto un cielo troppo azzurro, silloge di poesia Quaderni letterari “Il Croco” 2010 con prefazione di Domenico Defelice e successive recensioni di Leonardo Selvaggi e Tito Cauchi. Intrigo sulla Moskova, romanzo, Ed Ibiskos Ulivieri 2010, in ebook Youcanprint 2014, recensioni su Libriconsigliati e Mangiaparole “Il gioco dei quindici” Ed Perrone 2010, partecipazione con racconto “Quando avevo undici anni” Ed Perrone 2010, partecipazione con racconto “Capace di intendere e di volare” Ed. Perrone 2010, partecipazione con racconto. ”A forza di essere vento” Racconti liberamente ispirati alle canzoni di Fabrizio De Andrè’ con illustrazioni di Tiziana D’Este, Ed. Perrone 2010, partecipazione. “Mahmadou” e “Carissimo padre”, racconti Liberarte Ed. 2011 Nun si cuntunu i ciri nta l'artari Ed CFR 2011, partecipazione con poesia Uno dei ladroni, Risvegli di Parole 2013,racconto "Cronache da Rapa Nui", scritti e immagini su temi ecologici, Ed CFR. 2014, partecipazione con poesie.
Biografia di Andrea Tavernati
Sono nato a Pavia nel 1960 e vivo in provincia di Como. Lavoro a Milano, dove faccio il pubblicitario da troppo tempo. Di fatto scrivere è sempre stata una delle poche cose che mi riconosco di saper fare e che (tra l’altro) mi ha dato da vivere. Così ho accumulato nel cassetto un progetto di romanzo, poesie e racconti che solo recentemente ho provato a portare alla luce del sole. Sono risultato finalista al concorso internazionale di poesia indetto dallo Stabile di Poesia di Bergamo; nel 2012 e nel 2013 sono stato fra i vincitori di due edizioni del concorso di narrativa “Il cerchio capovolto” indetto dalla casa editrice I Sognatori. Nel 2013 ho pubblicato con la casa editrice Edizioni Esordienti Ebook il libro di poesia L’Intima Essenza, la via degli haiku. Per ora è il mio unico libro, con il quale ho ottenuto il secondo premio alla VII edizione del concorso internazionale Pennacalamaio. Con altre poesie sono finalista all’XI edizione del concorso Appiano degli usignoli e fra i vincitori del Premio nazionale di Letteratura Italiana di Laura Capone Editore. Sono laureato in lettere, sposato e ho due figlie.
Pagina Facebook Twitter Elenco Opere L’Intima Essenza – la via degli haiku
Biografia di Angela Lina Intruglio
Angela Maria (Lina) Intruglio è nata a Mascali (Prov. Ct.) Vive attualmente nella sua amatissima Sicilia. Ha svolto da insegnante tutta la sua attività lavorativa. Per le sue molteplici innate qualità artistico-creative, Lina, si definisce con autoironia, “diamante sfaccettato dai mille bagliori”. Il forte senso dell’ironia, teso all’autoironia, è stato il suo “salvagente” nel doloroso mare della vita. Scopre per averlo sentito dire da chi l’ha conosciuta, di possedere una piacevole eleganza, nell’ambito delle relazioni interpersonali. Lina, scrive Poesie da sempre… Ma non tutti i suoi lavori vengono salvati, durante i “marosi” della sua travagliata vita. Deve a Facebook ed a tutte le amicizie più care incontrate sul Web, il coraggio di condividere le sue Poesie che lei stessa definisce: Gocce di Anima. Oggi, più propensa alla condivisione, è riuscita a trasmettere anche ai più’ stretti familiari, le sue emozioni scritte. Infatti come lei stessa afferma, mettere a nudo la propria anima, costa parecchio dolore e sofferenza, è come prendere in mano il cuore e spremerne tutte le gocce di vita… vissuta, sognata, sperata o semplicemente desiderata per farne versi.
Elenco Opere Sassi di Mare Siciliano – Pubblicato nel 2012- Edit. Santoro – Lecce Rinascerò Fiaba – Pubblicata nel 2013 – Edit. Santoro – Lecce Addio Giada…ladra per amore – Pubblicata nel 2014 – Edit. Santoro – Lecce Vive la Montagna - Pubblicata nel 2014.-Edit. Santoro – Lecce
Biografia di Anita Rudcliff
Maena Delrio nasce il 24 novembre di 32 anni fa in un paesino dell'Ogliastra in Sardegna e fin da piccola manifesta un amore incondizionato per i libri. Crescendo le sue ioni si moltiplicano e si rafforzano, e scrivere diventa quasi un bisogno primario, affiancato dall’amore viscerale per la pittura. Oggi Maena è una donna entusiasta della vita con tanta voglia di mettersi in gioco. Da circa due anni ha ripreso seriamente in mano il filo dei suoi pensieri per metterli nero su bianco, con l intento di trasmettere e condividere con i lettori, attraverso i suoi scritti, le stesse emozioni che lei prova quando crea. 7 giorni di follie è la bella vetrina che ha permesso a questa scrittrice esordiente di farsi conoscere da un pubblico più vasto ed eterogeneo. Nel 2013 ha vinto il primo premio nella categoria racconti con ricette di cucina al concorso IoRacconto 2013 con il racconto breve: Ginepri. Attualmente sta lavorando al suo primo romanzo, Il male minore, ambientato nella sua terra d’origine, per la quale nutre un amore incondizionato.
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Biografia di Anna Avallone
Anna Avallone nasce a Napoli nel febbraio di quarant’anni fa. È attualmente impiegata in uno studio legale nonché mamma a tempo pieno e, almeno questo, indeterminato. Coltiva da sempre la ione per la scrittura e ha partecipato, con le sue poesie, a numerose antologie (“Aletti Editori”, “Il Ginepro Edizioni” e “Ursini Edizioni). Si è classificata I° all’Edizione 2012 del concorso “TALENTO LETTERARIO”, sezione poesie, con “Il nuovo domicilio”. “Il calderone del caos” è la sua prima pubblicazione.
Blog Personale Elenco Opere Il Calderone del Caos
Biografia di Anna Cibotti
Anna Cibotti è nata a Ravenna il 4 agosto 1946, provincia nella quale ha vissuto parte della sua esistenza, frequentando le scuole di avviamento professionale e come contabile aziendale. Ha lavorato poi come impiegata a Bologna e come commerciante in proprio fino ai suoi cinquant’anni, attualmente vive a Punta Marina Terme (RA) dove si gode il tempo libero che le garantisce il fatto di essere casalinga e pensionata, potendosi finalmente dedicare alla pittura e alla scrittura, arti che ama indistintamente.
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Biografia di Anna Ciraci
Anna Ciraci è nata a Brescia il 25 settembre 1974. Invischiata a sua insaputa in una pagina di Facebook, nell’ottobre del 2009 si trova costretta a scrivere per far si che questa non resti vuota. Così scrive. Scrive perché non sopporta il cursore che lampeggia sopra quel bianco spento fatto apposta per esser riempito. Scrive perché troppo spesso ha dovuto tacere su cose che dovevano esser dette. Scrive semplicemente perché fisicamente non riesce a volare, al contrario, sopra al foglio di carta riesce persino a cavalcar il vento, sfiorando le stelle salutando la luna che l’osserva sorpresa… Pubblica un mini racconto in un libro di autori vari cui i proventi sono destinati alla beneficenza nel 2011. Partecipa alla pubblicazione di una raccolta di poesie dal titolo: "Le strade della vita attendono... “Cogli l'attimo” insieme al gruppo La Bottega Dei Viandanti. Pubblica un altro breve racconto nella raccolta “1000 Parole” nel 2012 per la casa editrice Montecovello. Scrive un breve racconto per la casa editrice Liant giudicato come una vera opera letteraria, sempre nel 2012.
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Biografia di Anna Maria Palazzi
Anna Maria nasce 47 anni fa in un piccolo paese di montagna della Val Brembana, in provincia di Bergamo. Frequenta il Liceo Artistico e si dedica inizialmente alla pittura ad acquarello astratto e, solo più tardi, alla pittura ad olio, prediligendo la rappresentazione di animali. Lavora come Infermiera nell'Ospedale della provincia di Bergamo. Da circa tre anni, la sua ione si sposta verso la lettura, una ione che aveva tra l'altro anche nell'età scolare. Successivamente inizia a scrivere racconti. Partecipa, in "7 giorni di follie" al contest dal tema "Nascosto nei sogni", con il racconto "Oltre l'orizzonte". Partecipa al Concorso poetico "E'-vViva la Mamma" 11 ^ edizione - Anno 2014, con la poesia inedita: "Senza radici". Il suo sogno nel cassetto? Pubblicare qualche suo scritto.
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Biografia di Annarita Petrino
Sono nata il 18/08/1977 a Giulianova (TE) e sono laureata in Lingue e Letterature Straniere all’Università “G. D’Annunzio” di Pescara. Attualmente sono insegnante di scuola dell’infanzia e scrittrice per ione. Vivo a Montorio al Vomano (TE). Scrivo fantascienza da quando avevo 13 anni, cioè da quando ho incontrato Isaac Asimov e i suoi libri, meglio dire i suoi robot! Da allora non ho mai smesso e ho pubblicato diversi racconti su riviste di fantascienza, webzine e siti. Nel 2004 esce il mio primo romanzo di fantascienza “Ragnatela Dimensionale” nella collana “I Delfini” della Delos Books di Milano. Ho ottenuto alcune distinzioni di merito in concorsi di letteratura fantascientifica. Ho ato diversi anni a cercare di coniugare la mia ione per la fantascienza con la mia fede, giungendo infine a una sintesi: una fantascienza in grado di rispondere alle provocazioni lanciate dalla fantascienza tradizionale, dove troviamo spesso scenari in cui Dio risulta assente o viene incarnato da nuove forme di religione, di solito collegate a nuove culture, a nuove razze (aliene) o a nuovi assetti sociali e governativi. Si tratta di un accostamento alquanto ardito, poiché nel comune pensare la fantascienza è considerata una genere di evasione ed è quindi sottostimata. Questo è un vero peccato perché nessun altro genere letterario getta una luce così chiara sul futuro e sugli attuali scenari che lo rendono tanto vicino. In qualche modo la fantascienza ci costringe a pensare alle conseguenze di ogni nostra scelta scientifica, tecnologica o morale, quindi più che un genere di evasione io lo considererei piuttosto un genere molto radicato nell’umanità e nei suoi sogni di onnipotenza. Così nasce “You God”, pubblicato dalle Edizioni Il Papavero, la mia prima raccolta di racconti di fantascienza cristiana: “Imperfezioni”, “Judy Bow”, “Hic et Nunc” e naturalmente… “You God”!
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Biografia di Antonella Mattei
Inizio a pubblicare racconti brevi per il sito online ZEUGMAPAD da circa due anni. Ho avuto subito un buonissimo successo sia per il numero di visualizzazioni che per la valutazione di merito: due racconti sono stati scelto per essere inseriti in due diverse raccolte ed un altro si è aggiudicato un premio speciale della giuria vincendo la versione audio; ho partecipato ad un concorso per la David and Matthaus edizioni con un racconto breve da poter inserire nell’agenda per l’ anno 2014 che è stato selezionato. Ho pubblicato il mio primo romanzo in formato ebook dal titolo Per mia colpa, presente su Smashword, Kobo, iTunes, Mondadori che su tutte le piattaforme italiane. Tutti i miei racconti precedentemente pubblicati online non hanno ISBN, non sono stati soggetti a pagamento e si scaricano gratis attraverso Il sito Zeugmapad.
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Biografia di Barbara Risoli
Barbara Risoli Nasce nel 1969 a Monfalcone (GO). Dopo varie esperienze editoriali minori, nel 2012 sceglie l'auto pubblicazione in e-book con la ripubblicazione di tutti i suoi romanzi, nonché di alcuni inediti, su piattaforma Amazon. Suoi i seguenti titoli:
L'ERRORE DI CRONOS (gen. mitologico fantastico) LA GRAZIA DEL FATO (gen. mitologico fantastico) IL VELENO DEL CUORE (gen. storico sentimentale) LA GIUSTIZIA DEL SANGUE (gen. storico sentimentale) L'ONDA SCARLATTA (gen. romance) LA STELLA D'ORO - ZOLOTAJA ZVJEZDA (gen. storico) Tutti i libri di Barbara Risoli sono acquistabili in Formato Kindle e riscontrabili su Amazon
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Biografia di Claudia Lo Blundo
Claudia Lo Blundo Giarletta, nata a Roma il 17.03.1942, da genitori siciliani, cresciuta a Palermo dove dopo la maturità magistrale consegue il titolo di Assistente Sociale. Mutate le leggi, anche se già in pensione, consegue la Laurea in Servizio Sociale. Ha svolto l’attività di Servizio Sociale in Sicilia, Liguria e in Campania. La professionalità e lo spirito di abnegazione che l’ha contraddistinta durante i suoi anni di attività le è valso la pubblicazione di un lavoro di ricerca sull’adozione, già primo premio ad un concorso internazionale; il volume dal titolo La Culla Vuota, è stata pubblicata a cura degli Enti locali Provincia di Salerno, Comune di Mercato S. Severino e Distretto 97-ASL SA2. Provvista da madre natura di timbro di voce soprano lirico, ha cantato in cori polifonici esibendosi anche come voce solista. Nei primi anni ’90, quale esperta Assistente Sociale ha collaborato ai settimanali femminili Tempo Donna e Donna Moderna. Sposata, madre di due figli insegnanti di lettere e musicisti, é nonna; abita a Montoro in provincia di Avellino, dove, nel tempo libero si dedica al giardinaggio. Per oltre quindici anni ha scritto (in maniera del tutto gratuita) sul mensile locale indipendente l’idea pubblicato in Montoro (Av). Ha collaborato alle attività parrocchiali quale catechista e per 12 anni come Presidente di un’Associazione cattolica femminile, da lei fondata nella sua attuale Parrocchia di residenza. Ha partecipato a Concorsi letterari per i quali oltre a riconoscimenti vari e pubblicazione dei propri racconti, ha conseguiti n. 2 primi premi., n. 2 secondi premi, 6 terzi premi, 4 quarti premi, 2 quinti premi. La partecipazione al suo primo concorso letterario risale al 1994 quando conseguì il secondo premio con la partecipazione al Gran premio poesia e narrativa città di Pompei. Spero vengano pubblicati i seguenti libri: Michele Pironti: biografia su questo eroe irpino del risorgimento italiano
Per lei per lui concerto a quattro mani: romanzo Al tempo delle fate: favole.
Pagina Facebook Elenco Opere - Lei incomprensibile o incompresa. Una raccolta di racconti al femminile, edita da La memoria e i Giorni 1995 - La Culla Vuota ricerca sull’adozione, a cura dell’ASL SA2. 2001 - Radici, romanzo: edizioni Il Grappolo. 2003 - Cardinale Ruffini Pastore e Padre. Una biografia intitolata al Cardinale Ruffini: a cura della Società di Servizio Sociale Missionario – Palermo. 2008 - Un giorno forse ritornerò edito da Kernel, 2012 - La Tredicesima Tribù di Israele, edito da Kernel, 2013 - Auguri Mamma, libretto che regalo alle neo mamme, in selfpublishing. - La gallina Coccodè e altri racconti. che regalo in selfpublishing.
Biografia di Cristiana Verazzo
Cristiana Verazzo, classe 1972, pubblica il suo primo romanzo fantasy Il Sigillo di Ametista edito da Albatros nel gennaio 2012. Nel maggio 2012 partecipa all’antologia Donne Speciali edito Società Editrice Montecovello col racconto Fantasiosa. Nel giugno 2012 esce il sequel del Sigillo L’Enigma dell’Opale edito da Edizioni R.E.I che firma con lo pseudonimo di Christiana V e che à da allora in poi. In febbraio 2013 partecipa all’antologia 365 giorni d’Amore edito da Atlantide Delos book col racconto La mia luce e a 365 giorni sotto l'ombrellone con il racconto Viaggio di una conchiglia. Numerose le presenze in gruppi, forum e blog con racconti quali: “Frammenti di me”, “La carne”, “Il dolore”, “L’ambiguo dallo sguardo vuoto”, “Alla conquista di te”, “Quando torna l'onda”, “Amami ancora”, “L’ultimo regalo”, La scelta migliore col quale si è aggiudicata il secondo posto nel concorso I colori dell’anima, antologia disponibile gratuitamente in ebook per la Lulu.com. Collaboratrice del forum letterario Insaziabili letture e amministratrice del blog Simbiosi. Ha partecipato all’antologia fantasy Elements Tales con le Helas Maur col racconto Soffio Vitale e sta elaborando la terza parte della saga. È appena uscito un paranormal erotico che sta avendo molto successo, Blood Catcher, autopubblicato su Amazon e Youcanprint per la versione cartacea. Nella vita di ognuno capitano dei momenti in cui tutto sembra andare nel verso storto, o meglio, succede che non capita proprio nulla. Giorni dopo giorni, sempre gli stessi, uguali a niente. È esattamente quello che è successo a me tre anni fa. Non mi ero mai cimentata in un’impresa ardua quanto questa, ma stavolta, complice l’insonnia che stava distruggendo le mie giornate, ho deciso di osare. Inizialmente era soltanto una valvola di sfogo per la mia fantasia che per tanto, troppo tempo avevo tenuto imbrigliata senza che potesse librarsi in volo, successivamente è divenuto qualcosa di concreto, un amico a cui raccontare del nostro mondo così come mi sarebbe piaciuto che fosse. Lavoravo a queste pagine e giorno dopo giorno mi riscoprivo sempre più leggera, come se buttare su di un foglio quelle immagini che vedevo così vivide e colorate, mi aiutasse a
sciogliere lentamente quelle catene a cui avevo arpionato tutti i miei sogni da adolescente, sogni che avrei continuato ad avere a scapito dei miei trentanove anni se non fosse stato per le dure prove a cui mi ha sottoposto la vita. Ma come si dice? Meglio tardi che mai, ed eccomi qui, in attesa di un giudizio, positivo o negativo che sia, l’importante è aver tentato. E adesso che il sogno sta per diventare realtà, quasi mi pare impossibile che proprio io che non avevo mai scritto nulla se non lettere a qualche amico, sia riuscita in un lavoro epico quanto questo! Un libro addirittura! Quindi, se sono riuscita io, perché non anche voi? Il mio pensiero nell’augurarvi una piacevole lettura è solo questo: credere… sempre! Cristiana Verazzo
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Biografia di Daniela Cavone
Daniela Cavone nasce nell’aprile del 1981 a Bari, dove vive fino all’età di ventinove anni. Nel capoluogo pugliese si laurea presso la facoltà di Lettere e Filosofia, cominciando a coltivare la ione per tutto ciò che è carta pregna d’inchiostro. Approfondisce lo studio della grammatica italiana e della linguistica, incuriosita com’è dalle parole. A queste ultime si avvicina con tatto e discrezione: le guarda, le osserva, le scruta, le ascolta, le accarezza. Poi comincia a mescolarle ed intrecciarle, incantata dalla magia del vederle danzare tutte assieme nel ritmo armonico e melodico della narrazione. Si dedica dunque alla scrittura di poesie, racconti, lettere, romanzi. Si trasferisce a Siena, dove corona il sogno di diventare mamma ed è proprio l’intimo percorso di crescita e maturazione a fornirle nuovi impulsi per la scrittura. Per diletto partecipa ad una serie di concorsi letterari. Nel 2013 vince la pubblicazione di un racconto di stampo autobiografico all’interno del volume “Detto con il cuore”, Ed. Mondadori, in collaborazione con la famosa tata della tv sca Valla. Con il suo scritto collabora al progetto a favore della Fondazione Ariel, organizzazione no profit che assiste le famiglie con bimbi affetti da Paralisi Cerebrale Infantile. Nello stesso anno vince ulteriori due pubblicazioni, in seguito ad iniziative promosse dalla casa editrice Galassia Arte, all’interno delle raccolte “Le più belle frasi di Facebook” e “Un libro è ione”. Si dedica alla scrittura giornalistica e collabora con “Il maniaco. Blog di ordinaria follia”. Quando non scrive legge e da poco è stata nominata giurata del Gran Premio delle Lettrici di Elle, quindicesima edizione. La sua serata ideale? Seduta su una panchina, sotto una cupola di stelle, con la
penna biro in una mano ed un block notes nell’altra, ad aspettare il nuovo giorno che verrà.
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Biografia di Elisabetta Bagli
Elisabetta Bagli è nata a Roma nel 1970 e vive a Madrid dal 2002. E’ sposata e ha due figli. È laureata in Economia e Commercio presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Dopo aver lavorato come insegnante di italiano per stranieri presso l’Accademia di lingue Booklane di Madrid, ora impartisce lezioni private di italiano ed è anche traduttrice freelance. Ha collaborato con la casa editrice David and Matthaus come Direttrice delle collane editoriali Castalide e LiberArte. Ha fatto da interprete a Paolo Giordano nel 2012, in occasione della presentazione del suo libro “El Cuerpo Humano” e nel 2014 alle scrittrici Elisabetta Flumeri e Gabriella Giacometti, in occasione della presentazione del loro libro “El amor es un bocado de nata”, per le case editrici Salamandra e Suma de Letras e per le testate giornalistiche nazionali spagnole, L’ABC, el Mundo, El País e per la Revista catalana El dominical. Ha iniziato a scrivere poesie e racconti brevi nel 2009 e a Settembre del 2011 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “Voce” con www.ilmiolibro.it. Ha partecipato a numerosi altri concorsi. Ad Aprile 2013 ha ricevuto una targa con attestato di merito al Premio Alda Merini di Poesia per la lirica L’addio presente nella silloge “Dietro lo sguardo”, la sua seconda silloge. A Giugno 2013 ha conseguito un Attestato di merito per la sua attività letteraria al Primo Concorso estemporaneo di Poesia e Fotografia organizzato dall’Associazione culturale I rumori dell’anima in collaborazione con L’Associazione culturale VerbumlandiArt. A Luglio 2013 ha conseguito il premio speciale “Fatamorgana – per libro edito” per la sua prima silloge “Voce”, conferito dall’Accademia Internazionale “G. Leopardi”. A ottobre 2013 la silloge “Dietro lo sguardo” ottiene un riconoscimento al Premio Leandro Polverini. A marzo 2014 riceve un riconoscimento per essere entrata tra i finalisti con il suo libro “Mina, la fatina del lago di Cristallo” dall’Associazione culturale GueCi al
concorso “Un libro amico per l’inverno”. A maggio 2014 riceve un attestato di merito per aver partecipato al “Florilegio solidale”, indetto dall’Associazione GueCi con la poesia “Tu”. Le sue liriche sono presenti in sedici antologie. Ha fatto parte del Gruppo LiberArte, dedito alla promozione di autori e a concorsi di poesia, del progetto “Poesia Viva, la tua poesia su YouTube”, e della “Prima Ragunanza di letture poetiche”. Collabora attivamente scrivendo recensioni e interviste per diversi blog, tra cui il network Il mondo dello scrittore. Collabora con la Rivista Anima Magazine, la Rivista New Espressioni Libri e con la Rivista digitale spagnola di Cultura e Arte “Letras de Parnaso”, scrivendo in lingua castigliana e con il portale del Com.It.Es, della rete consolare italiana in Spagna. Collabora con Radio Sputnyk Network con il suo programma “Direzione Spagna”. A Dicembre 2012 è entrata a far parte dello staff di David and Matthaus Edizioni per il quale ha pubblicato, nella divisione Edizioni Il Villaggio Ribelle, “Mina, la fatina del Lago di Cristallo” e, nell’Aprile 2013, ha pubblicato con ArteMuse Editrice per la collana Castalide la silloge poetica “Dietro lo sguardo”. Organizza presentazioni in Spagna, a Madrid e a Barcellona, per Alberto Bonomo, fotografo e scrittore, il cantante VIVA LION!, per Elisabetta Flumeri e Gabriella Giacometti, per l’Associazione EWWA della quale è socia e per Diego Galdino. I suoi libri “Dietro lo sguardo” e “Mina, la fatina del lago di cristallo” sono stati presenti al Salone del libro di Torino 2014 e alla Feria del libro de Madrid 2014.
Autrice delle prefazioni dei libri: -“Graffi” di Gino Centofante -“I canti di Erin” di Maurizio Donte -“Penombre” di Andrea Leonelli -“Ossigeno e pensieri”di Sebastiano Impalà
-“Orme sull’acqua” di Oliviero Angelo Fuina
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Biografia di Fabrizio Castellani
Castellani Fabrizio, Livornese del '69. Ho lavorato dodici anni in Marina Mercantile, girando il mondo da Ufficiale a bordo di navi petroliere. Dal 2001 sono specializzato nella manovra e ho assunto il ruolo di Pilota di Porto. Dopo un iniziale periodo di due anni a Chioggia (VE), ho fatto definitivamente ritorno nella mia città natale. Da qualche tempo divido la mia vita tra la Toscana, dove lavoro, e Roma, dove mi piace stare nel tempo libero. Cresciuto a robuste dosi di fumetti dell'Uomo Ragno, romanzi SF e Star Trek, sono da sempre un buon lettore, con interessi davvero variegati. Da un paio d'anni, seguendo un'idea che sembrava matta, ho iniziato alcuni tentativi di scrittura, imparando che scrivere le storie che vorrei leggere è difficilissimo, ma davvero gratificante. Seguendo l'onda mi sono imbarcato clandestinamente tra le penne di questo “Seven Dream”. Un mio racconto, “Marina e AB”, è stato scelto dalla “David&Matthaus” per la loro Agenda Letteraria 2014.
Biografia di sca La Froscia
sca La Froscia nasce in Basilicata, in un borgo ai piedi del Parco Nazionale del Pollino. Dopo il diploma di maturità tecnico-commerciale si sposta a Napoli per gli studi universitari. Ci rimane per sette anni circa e poi si trasferisce a Bologna dove vive e lavora attualmente. È una dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione: impiegata presso il Liceo Scientifico Fermi di Bologna. Nel tempo libero si sperimenta nelle sue ioni: principalmente scrittura e teatro e poi fotografia e pittura. Ha curiosità verso tutte le forme artisticoespressive. Scrive racconti brevi, poesie e haiku. Segue l’elenco di alcuni dei suoi lavori selezionati in concorsi letterari e pubblicati.
Haiku: Inverno - Hanami Collana antologica - Edizioni della Sera Autunno - Hanami Collana antologica - Edizioni della Sera La Scatola Haiku - Premio Tsuki - Gli Occhi di Argo editore
Poesie: L'amore in sogno - concorso Tra un fiore colto e l'altro donato - Rivista Orizzonti e Aletti editori Fuochi deboli - concorso Poeta anch'io 2012 - Associazione Valori Bomarzo Stacchiamoci dal suolo - Il mio clandestino cammino - Sagoma calpestata concorso Guido Zucchi 2012 - Associazione culturale Succede Solo a Bologna V edizioni
Gli occhi nella tasca - concorso Premio Città di Tolentino - Edizioni Montag Pasto di strada - concorso Versi in volo - Sensoinverso edizioni Storia ineffabile - concorso L'arte in versi - Blog Letteratura e Cultura - Rivista Euterpe e TraccePerLaMeta edizioni
Racconti: Stupore a Natale - concorso 365 storie d'amore - Writers Magazine Italia Delos Books Tormenta alle porte - concorso 365 racconti di Natale - Writers Magazine Italia - Delos Books Bologna come Sakya - concorso 365 racconti d'estate - Writers Magazine Italia Delos Books Perché nessuno me lo chiede? - 3° premio concorso letterario nazionale Donne, parole che lasciano il segno - Associazione Voci di Donne - Leone & Griffa edizioni L'ardesia - concorso Oceano di Carta - Sensoinverso edizioni Incontri ravvicinati - concorso Ops! Che figura! - Butterfly edizioni Cose da finire - Una storia a spirale - Il ritorno - concorso 100 parole per raccontare - Associazione culturale Carta e Penna - Il Salotto degli Autori editore
Biografia di Giancarlo Ibba
Giancarlo Ibba nasce a Cagliari nel 1972, nello stesso giorno delle famose “Idi di Marzo”. Scrive racconti brevi da quando ha imparato a leggere e scrivere, a quattro o cinque anni, prima dell’asilo. Questa precoce iniziazione alla letteratura ha una spiegazione semplice: un carattere un po’ solitario e introverso, ha reso quasi fatidica la scoperta della letteratura e della scrittura. E’ divertente, forse, evidenziare che il suo primo approccio con la lettura è avvenuto attraverso i fumetti (che a quei tempi i genitori acquistavano con una certa regolarità) allora molto in voga: Tex, Zagor, Comandante Mark, Diabolik, oltre alle collane di Lancio Story e Skorpio. Alcune di queste storie non erano proprio per bambini, in ogni caso gli piacevano molto. Su quelle pagine stropicciate ha imparato a scandire le lettere, copiarle e a colorare le figure stando dentro i contorni. I suoi esordi come scrittore, andati persi tra un trasloco e l’altro, consistevano soprattutto in brevi racconti che parodiavano le favole dei fratelli Grimm. Ricorda ancora di aver scritto, fino alla quinta elementare, una storia ad episodi su tre astute scimmiette (una cieca, una muta e una sorda... come da tradizione) e un leone pasticcione che cercava invano di mangiarsele. Negli anni seguenti, parallelamente all’evolversi delle sue letture (ha saccheggiato la Biblioteca Comunale, leggendo tutto quello che gli capitava sotto gli occhi, tant’è che i suoi compaesani lo ricordano sempre con un libro sottobraccio), ha composto alcuni racconti di ogni genere: dal fantasy allo psicodramma. Durante l’ultimo anno del Liceo Scientifico ha scritto una storia di fantasmi con cui ha partecipato ad un Concorso Letterario Comunale. Per quell’opera gli è stata consegnata una targa e finora è l’unico riconoscimento che ricevuto per le sue fatiche letterarie. Molti anni dopo, mentre cercava di laurearsi in Scienze Naturali, ha incorporato quella novella in un romanzo: Frammenti di Terrore. Subito dopo la laurea, nel tempo libero post-lavorativo, ha iniziato a scrivere la prima bozza di un romanzo breve: La vendetta è un gusto. La cosa più autobiografica che abbia mai scritto.
Nel 2013 Frammenti di terrore è diventato L’alba del sacrificio. “Ho scritto il libro che avrei sempre voluto leggere” afferma Giancarlo, con giusta soddisfazione, perché dietro questa scrittura c’è un grande lavoro, molto studio e soprattutto ione. Attualmente vive, lavora e scrive in Valle d’Aosta.
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Biografia di Giuliana Guzzon
Mi chiamo Giuliana Guzzon, sono nata a Vercelli il 05 ottobre 1958. Sono madre di quattro figli e vivo in Francia. Mi sono trasferita per lavoro in Costa Azzurra e vivo a Menton, dove svolgo la mia attività come agente di viaggio. Sono cresciuta in campagna con i miei nonni e ho coltivato fin da piccola la ione per la letteratura e l’arte, condividendo l’entusiasmo del mio nonno materno. Ho frequentato la scuola superiore di commercio in Svizzera se, nella città di Lausanne; il se è la mia seconda lingua. Una scuola d'arte, frequentata in età adulta, per progettare e costruire vetrate del ‘400, mi ha permesso di realizzare le mie aspirazioni artistiche; mi affascina il vetro e creare mi gratifica moltissimo. Amo gli autori classici, il mio preferito è il grande Ugo Foscolo (1778-1827), ma sono apionata anche di romanzi Noir e Thriller. Quando ho iniziato a scrivere, tutta presa com'ero dalla voglia di lasciare un'impronta della mia vita, non ho realizzato come potesse essere faticoso questo viaggio e quante occasioni di distrazione avrei incontrato. Ci sono ancora svolte importanti da seguire prima di poter arrivare in cima, momenti difficili da affrontare, pagine felici da scrivere. Di natura romantica e sensibile, come la donna per i poeti d'ogni tempo, ho sempre conservato ogni pensiero, testo, racconti e liriche che ho scritto nel mio percorso letterario. Mi sono avvicinata al pubblico nel 2003 iscrivendomi al sito “liberodiscrivere” con lo pseudonimo di Irisfairy e successivamente al sito “scritturafresca” dove si possono trovare ancora diverse mie opere, nonostante mi sia allontanata da tempo. Sacrarmonia è il secondo pseudonimo che mi identifica. Benché il mio nominativo anagrafico sia Giuliana, mi conoscono e chiamano tutti Giulia, nome con cui mi firmo su tutti i testi che scrivo. Ci sono parole che ho molto amato, molte di loro sono andate perdute nel vento, fra traslochi, dimenticanze e cancellazioni; involontariamente. Altre di proposito spazzate via, ingombranti e scomode o imbarazzanti, ci sono parole che mi hanno lasciato segni più indelebili, parole che non hanno bisogno di essere dette per esistere. Parole che non vedi, non ascolti e non immagini mai. Che ti entrano dentro e mettono radici. In tutto il mio percorso mi sono sempre sentita libera di dire i miei
pensieri a voce alta, seppure con quell’educazione cui mio nonno teneva tanto e che, è riuscito ad infilarmi sotto la pelle. 1992 - 1° assoluto con menzione al Premio “Aberto Gatti” con la poesia “Alla luna” pubblicata nell’antologia del premio (1988-1994) “Strani fiori neri” e letta al Teatro Regio di Torino. Nel 1997 tre poesie vengono pubblicate in un’antologia collettiva intitolata “Parole d’autunno” del premio Guido Gozzano. 2007 – 7° al concorso e selezionata per la pubblicazione nell’antologia del premio da Edizioni Eldorado di Lugano al Concorso Nazionale “Angeli nel cielo del Cilento” Ceraso (SA) con la poesia “Fresco di suoni si apre il cuore”. 2007 - Medaglia d’argento al XII Premio Nazionale Poesia Città di Mortara con la poesia “La luna di giorno” e pubblicazione nell’antologia del premio. 2007 - 5° assoluto - Sezione poesia libera - Premio Internazionale “Giovanni Gronchi” XVII edizione, con la poesia “La luna di giorno” città di Pontedera. .2007 - Premio 5° assoluto al Concorso Nazionale “Un Monte di Poesia” con il testo “Il fiore del niente” pubblicazione nell’antologia del premio – Abbadia San Salvatore (Siena). 2007 - 8° classificato - Premio Letterario Nazionale “Cordici” V Edizione Poesia mistica e religiosa – Poliart Associazione Internazionale d'Arte, Cultura, Editoria, Educazione – Torraca (SA). 2007 - Selezionata con Nota di merito al Premio Nazionale AlberoAndronico con la silloge “Una rosa nera e la seta d’un verso per mantello” Comune di Roma, Regione Lazio. Nel 2013 ho auto pubblicato la silloge “Una rosa nera e la seta d’un verso per mantello” in vendita su Amazon. In pubblicazione con David and Matthaus sezione ArteMuse la silloge “Sussulta Delirante il mio Intimo di Donna”. Ho terminato il mio primo romanzo dal titolo “Il cacciatore di libellule” genere thriller e sto valutando la forma migliore di pubblicazione.
Nel frattempo continuo a scrivere e a credere.
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Biografia di Irma Panova Maino
Irma Panova Maino nasce nel 1964 a Praga, in una qualunque mattina di inizio primavera. Tuttavia il retaggio di una simile città, ricca di magia ed esoterismo, mescola nel suo sangue l’amore per tutto ciò che vi è di antico e sovrannaturale, con l’interesse verso la tecnologia e quanto vi è di più moderno e concreto. Da questo connubio piuttosto contraddittorio, emerge la scrittrice, colei che pur amando vampiri, licantropi, elfi, demoni e quant’altro, desidera far vivere i propri personaggi in un ambiente quotidiano, quasi reale, lasciandoli alle prese con un’umanità che, in un modo o nell’altro, ne influenza le scelte e la vita. In ogni suo romanzo sono riscontrabili tematiche piuttosto sentite nella nostra società e le trame si snodano fra le vicissitudini dei protagonisti che, umani o meno, hanno in comune il desiderio di “provare” un qualunque tipo di sentimento, purché sia vero e intenso. Il suo primo libro, Scintilla Vitale, edito nel 2011 dalla Edizioni Esordienti Ebook in versione ebook, propone, in modo piuttosto bizzarro, un triangolo amoroso scaturito dal connubio fra un’umana, un vampiro e un licantropo, miscelando sentimenti ed emozioni piuttosto complessi e articolati. Il romanzo appartiene al genere Paranormal Romance per adulti ed è scaricabile seguendo il link presente in questa pagina. Il secondo libro, Il Peccato di Rennahel, edito dalla casa editrice Montecovello, nei formati cartaceo ed ebook, presenta un altro spaccato di una tematica sociale, quale potrebbe essere il razzismo e l’intolleranza fra esseri appartenenti a razze diverse. Ancora una volta sarà il sentimento il protagonista finale della trama. Il terzo libro, Il gioco del demone, pubblicato nel 2012 sempre da Edizioni Esordienti Ebook, arricchisce di un altro capitolo la serie Cronache dal Mondo Parallelo, iniziato con Scintilla Vitale. In questo secondo capitolo ritroveremo uno dei protagonisti del precedente libro, Devlin il licantropo, alle prese con un particolare partner: un demone incantatore femmina che, per quanto si presenti in una forma umana decisamente bizzarra, riserva delle sorprese notevoli. Angmar, questo è il nome del demone, porrà Devlin di fronte a se stesso, ai suoi dubbi e alle sue convinzioni, costringendolo a rivedere completamente la propria visione della vita. Il terzo libro della serie, Le Risonanze della Folgore, si snoderà fra tradimenti e complotti di ogni genere, che porteranno i protagonisti della storia verso scontri continui, fino all’esplosiva conclusione finale. Nel febbraio 2012 Irma fonda e crea la rete che oggi è diventata Il Mondo dello
Scrittore, un circuito virtuale consolidato e ideato appositamente per sostenere autori esordienti ed emergenti. Una comunità in continua espansione che è diventata un punto di riferimento per autori ed Editori.
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Biografia di Jill Parker
Musicista trapiantata nel mondo della narrativa, sta collaborando con un blog di scrittura creativa con altri autori emergenti (Sean Foster - Morgan Darcy) con racconti di vario tipo mentre cura il progetto del suo romanzo fantasy.
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Biografia di Lila Marinelli
Lila Marinelli nasce sotto il segno del Sagittario. Studia giurisprudenza. La sua prima fatica letteraria si intitola “Un racconto leggero” …ma solo apparentemente.
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Biografia di Manuela Leoni
Scrive prevalentemente fantasy. E' pittrice e musicista. Lavora nel campo dell'organizzazione, del content management e delle redazioni online. Ha esplorato la naturopatia, le arti marziali, l'arredamento, la letteratura, l'alta cucina ma ama definirsi "la casalinga di Trastevere". Ha tre figlie, musiciste e disperse in varie forme di arte e letteratura.
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Biografia di Maruska Creanza
Maruska Creanza nasce a Caltanissetta, piccola e tranquilla città del centro Sicilia, nell’Ottobre del 1975. Consegue il diploma Magistrale nel 1993 e poi acquisisce diversi titoli professionali, per lo più nel campo sociale. Nel settembre del 2003 si sposa con un commerciante della sua città. Poco dopo arrivano Vincenzo e successivamente Angelica Maria. Madre attenta, il più possibile presente, moglie e lavoratrice, è da sempre apionata alla scrittura. La Figlia Perfetta è il suo primo romanzo edito; una storia di fantascienza avventura, condita anche di un pizzico di romanticismo. Una storia che spinge il lettore a farsi delle domande di carattere etico e morale. Ma nel romanzo non mancano azione e suspense. Nel famoso cassetto ha altri romanzi, di vario genere, che aspettano solo di essere rivisti e successivamente pubblicati. Oltre ad essere una scrittrice, Maruska Creanza è anche un’accanita lettrice di ogni genere letterario. Il suo motto è: “Non esistono buone o cattive letture, tutto è sempre rapportato al proprio gusto, alle proprie preferenze. Le critiche, sia positive che negative, vanno accolte e usate come motivo di “crescita.” Mai abbattersi, ma nemmeno adagiarsi. Migliorarsi sempre. Far conoscere i miei romanzi alla gente, è il mio sogno; ma comunque vada, per me è e sarà, sempre, un successo… perché sarò riuscita a realizzare il mio più grande Sogno, quello di diventare una brava scrittrice.” Scrivere è sognare, scrivere è creare mille mondi e mille avventure. Scrivere è Vita, scrivere è ione, inestinguibile.
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La Figlia Perfetta
Biografia di Massimo Licari
Massimo Licari, classe 1962, vive vicino Milano e da anni si occupa di informatica. Scrivere è una ione che parte da lontano e che l’ha accompagnato in tutti questi anni. Affascinato dalla scienza e dalla cultura orientale, buddhista non ortodosso e libero pensatore.
Elenco Opere Paralleli Quando gli dei torneranno
Biografia di Nicoletta Berliri
Raccontare la Nicoletta Berliri scrittrice è difficile, parlare poi delle origini di una mia esigenza fisiologica è, a dir poco, imbarazzante. In ogni caso, lo scopo che persegue ogni autore, è di farsi conoscere quindi sono qui a narrare la mia esperienza e le origini di questa ione. Caratterialmente sono una persona molto timida ed incontro notevoli difficoltà a chiacchierare con gli altri esseri umani, così iniziai precocemente a fissare le idee sulla carta per padroneggiare meglio le emozioni e favorire il dialogo con il prossimo. Lo scrivere ha anche costituito una valvola di sfogo esistenziale, lo facevo per me stessa e i miei scritti sono rimasti a lungo confinati nel privato. Nel 2004, a seguito di gravi vicende personali e sollecitata da amici, compresi come le mie esperienze non fossero uniche e il renderle pubbliche avrebbe potuto essere utile a più d’uno. Da qui è nata la lunga corsa tra rifiuti e fallimenti editoriali che mi ha proiettato verso internet: il nuovo e potente mezzo di comunicazione che non conosce intermediari. Con tenacia e caparbietà ho costruito Budur, la forza dell’amore, facendolo diventare il mio salotto e laboratorio virtuale (http://www.budur.it). A questo periodo risalgono anche le mie prime partecipazioni ai concorsi letterari dove ho ottenuto segnalazioni di merito e l’ammissione a numerose antologie, risultando vincitrice del premio Un monte di poesia 2011, sez. a tema La montagna. I pilastri su cui si fonda la mia scrittura sono: la curiosità innata, la capacità di ascoltare gli altri e la fantasia sfrenata che mi porta, non solo, a fare voli pindarici ma mi fa apprezzare il grottesco nelle situazioni apparentemente più banali. La mia produzione letteraria è incentrata sul racconto perché, dovendo lavorare per vivere, questo mezzo espressivo mi consente di redigere prodotti completi. Il mio stile è caratterizzato da un’apparente semplicità per fornire al lettore libertà interpretativa: nei miei testi sono stratificati diversi piani di lettura che dovrebbero garantire la piena comprensibilità sia ad un bambino di dieci anni,
sia al professore universitario. Ovviamente ciascuno percepirà quello che è in grado di recepire. D’altra parte, ciò costituisce anche un limite perché talvolta il lettore, non essendo coinvolto emotivamente, non viene catturato da quanto scrivo e non riesce a fidelizzarsi. Da poco ho terminato il mio primo romanzo, destinato a restare a lungo nel cassetto per mancanza di editori.
Sito: Budur – La forza dell’amore Sito: Castelli d’Italia – Il magico mondo delle pietre Elenco Opere Il rumore del mondo Vademecum Metropolitano I racconti del Calamaio Pitture parietali per una stanza tristemente vuota
Biografia di Oliviero Angelo Fuina
Oliviero Angelo Fuina nasce a Neuchâtel (Svizzera) da italianissima famiglia il 28 Agosto 1962. Lettore compulsivo fin da bambino, trova quasi subito naturale sfogo emotivo nella scrittura personale, nonostante il frequentare – imposto – di corsi professionali alberghieri e Istituti Tecnici Commerciali. Con ottimi esiti finali. Solo nel 2007 pubblica una prima silloge poetica intitolata "Poesie in cuffia", sulla suggestione di brani "immortali" che spaziano dai Pink Floyd, Deep Purple, Dire Straits, fino ai Rolling Stones, Annie Lennox, Chopin, Giovanni Allevi e compagnia variegata. Nel 2007 presenta alla tredicesima edizione del Concorso Letterario Internazionale "Jacques Prévèrt 2007" - sezione narrativa - il romanzo "Il bacio di vetro" (scritto a quattro mani e due teste con l'amica e scrittrice Maria Capone) classificandosi tra i finalisti e quindi ritenuti meritevoli di pubblicazione. Pubblicazione che avviene un paio di anni più tardi. Nel 2011 pubblica in proprio, catarticamente, le numerose raccolte poetiche accumulate negli anni nel cassetto. Vedono così la luce: "Scampoli e Assenze" (Poesie 2005/2006); "Cieli di carta" (Poesie 2007/2008); "Vocali in apnea" (Poesie erotiche); "Lido Venere - Conchiglie all'anima"; "Blocco Note"; "Titoli di coda"; Sempre nel 2011 pubblica una raccolta di racconti brevi: "Corti-Circuito" e un "Improbabile Romanzo" che ha per protagonista la parola stessa che si fa storia e
personaggi in modo autonomo, dal titolo "C'è Tempo e tempo" (scritto però venti anni prima). Pubblica anche una serie di microcosmi paralleli di pensiero a rincorrersi nei tanti significati che hanno avuto in dote, aventi titolo: "Mah!". É inoltre presente in diverse antologie poetiche. Tra queste: "Briciole di senso", Montedit Editore, 2006 e “Briciole di senso 2”, 2007; "Poeti dell'Adda" 2006, antologia dell'omonimo Premio; I° Ragunanza di poesia del III Millennio, 2013, David and Matthaus Editore; "L'anima delle parole", Antologia del Premio Internazionale Liberarte 2013, David and Matthaus Editore; "Qui dove camminano gli angeli", David and Matthaus Editore, 2013. È stato giudice nel Concorso Internazionale di poesia Liber@rte 2013 e della I° Ragunanza di poesia del 28 Aprile 2013. In quello stesso periodo del 2013 firma un contratto quinquennale come Autore presso David and Matthaus Edizioni, pubblicando la sua ottava silloge poetica: “Orme sull’acqua” Sempre nel 2013 collabora come redattore della rivista “Espressione Libri” pubblicando alcune recensioni e agli inizi del 2014 è referente della rubrica “Eventi” nella rivista “Anima Magazine”. Attualmente collabora con la rivista “New Espressione Libri” curando la rubrica d’interviste “La parola ai poeti”. Nel 2014 ha partecipato al Concorso poetico “Una perla sull’oceano” arrivando quarto con menzione speciale “per la musicalità”, e al Concorso “Nuovi occhi sul Mugello” arrivando terzo con la poesia “Lago di Bilancino”. Finalista al Concorso Nazionale Poetico “Il lago e la rupe”; Apprezzato dalla Giuria e inserito con merito nell’Antologia del Concorso
Letterario “Tracce per la meta”; Secondo posto (su 160 Poesie in concorso) alla Rassegna Poetica a tema "I miei silenzi" a cura de "L'Oceano nell'Anima", con la poesia " La scelta del silenzio". 4 Maggio 2014 Secondo posto alla "Gara di Lettere d'amore" su SCRITTURATI con la lettera "Caro amore di un amore fortemente voluto". Maggio 2014. Sposato e padre di un figlio di 14 anni, vive a Oggiono, in provincia di Lecco, ai bordi di un lago che caratterialmente ben lo rappresenta.
Blog Personale Profilo Facebook Pagina Autore Elenco Opere Suggestioni d’ascolto. Poesie in cuffia Scampoli e Assenze Corti-Circuito (Racconti brevi a filo scoperto) Vocali in apnea (Poesie erotiche) C’è tempo e tempo (Romanzo improbabile) Mah! (Microcosmi paralleli) Lido Venere (Conchiglie all’anima) Cieli di carta Blocco Note Titoli di coda
Il bacio di vetro (Romanzo) Orme sull’acqua
Biografia di Pablo Cazzulani
Milanese, legato a questa città sempre più cosmopolita e sempre meno a portata d’uomo, ha deciso di raccontare, attraverso gli occhi disincantati di chi ha ato i quarant’anni (1970), le crepe che quotidianamente si aprono nel muro dell’animo umano e di creare il personaggio di Carlo Fedeli, un commissario della omicidi, diviso tra il tradimento della ormai ex-moglie, l’amore per una giovane collega. Un milanese disilluso, che vede la sua città invasa dai suv e dai sushi bar, una città sempre più bevuta e meno da bere…
Blog Pagina Facebook Elenco Opere Dasvidanija commissario Fedeli
Biografia di Paola Marchi
Sono Paola Marchi nata a Faenza il 27 ottobre 1962 . Diplomata all'Istituto Tecnico A. Oriani di Faenza sono Ragioniera e come tale ho sempre lavorato in vari studi commerciali nella mia città. Tuttora svolgo tale professione che assorbe gran parte della mia vita. Mi piace il mondo della scrittura e della poesia, che ho scoperto solo da pochi mesi e così tramite Facebook mi diletto a gettare sul foglio ciò che d'istinto mi detta il cuore e le sue emozioni. Ho scoperto qualcosa che mi fa' evadere da una vita reale colma di numeri, obblighi fiscali, e doveri morali, immergendomi in un'oasi di serenità e tranquillità in cui posso esprimere quella Paola che Nessuno conosce e neppure immagina che possa essere Lei, veramente tale. Scrivo rubando tempo al tempo su alcune pagine Facebook e sul mio profilo. Non mi ritengo poetessa o scrittrice, solamente una piccola sognatrice che pennella sensazioni, sentimenti ed emozioni su quel foglio in cui ha spazzato via numeri e ragione. E poi chi lo sa, vivo il presente, l' istante e assaporo il minuto, al domani penserò quando sarà il Presente e non più futuro. Romanzate e offuscate le mie scritture, sono la realtà della mia vita vissuta, con le Persone che mi hanno distrutto l'anima, accarezzato il cuore, ma pur sempre uniche e speciali da mai dimenticare e conservare in uno scrigno speciale serrato da quel lucchetto mio personale. E come sempre scrivo al termine... col cuore... Paola Marchi.
Biografia di Ramona Dandy di Ventura
Ramona Di Ventura nasce ad Ascoli Piceno nel 1992. Cresce in un minuscolo paesino di collina in Abruzzo, Controguerra, e, fin da piccola, coltiva la ione per la lettura. Le piace leggere ogni cosa, dai romanzi d'avventura, ai grandi classici, ai fantasy moderni. Mentre frequenta la scuola media, il suo professore di Italiano assegna come compito per casa la stesura di un racconto dell'orrore. Ramona si impegna con tutta se stessa, nonostante il genere horror non sia di suo gradimento. Il risultato, però, non è poi così male, tanto che il professore le chiede di scrivere altri racconti, di altri generi e, alla fine dell'anno scolastico, li pubblica in un volumetto, stampato in una tipografia del posto. Da quel momento, Ramona scopre una ione insospettata: la scrittura. a pomeriggi interi a riempire quaderni con le sue storie e sogna di poter diventare una scrittrice di successo, in grado di emozionare centinaia di lettori di ogni età. Nel frattempo, frequenta il Liceo Linguistico e consegue il diploma a pieni voti. Trascinata dalla ione per le lingue e per la letteratura, si iscrive alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'università di Pescara. Nel luglio del 2013 apre un sito web in cui pubblica periodicamente i suoi racconti. Inoltre si iscrive al gruppo Facebook "Il Mondo dello Scrittore", grazie al quale si cimenta nella scrittura di racconti di vario genere, partecipando all'iniziativa "7 giorni di follie". Partecipa a piccoli contest letterari promossi da forum e pagine web arrivando in due casi sul podio. Progetta di realizzare il suo primo romanzo, non appena gli impegni universitari glielo permetteranno.
Profilo Facebook Pagina Facebook Twitter Blog Elenco opere Un chiaro caso di suicidio
Vite di porcellana Il falso e il vero Attesa Occhi di Luna Loro, che poi siamo noi
Biografia di Roberta Gelsomino
Nasce a Milano nel dicembre 1979. Fin da bambina coltiva la sua inclinazione per il disegno che sa in diversi modi sostenerla e distanziarla positivamente dai conflitti anche nei momenti più critici. Parallelamente studia grafica pubblicitaria con esiti brillanti specie nelle materie letterarie, scientifiche e matematiche. Nel 2003 subito dopo il diploma inizia un facoltoso corso di fumetto giapponese, ripreso poi cinque anni dopo dunque indirizzandosi nel 2008 nel settore illustrazione. Esperienze che la stimolano nel bene e nel male a 360° e insegnandole tanto. Dopo il 2003 praticamente è ormai esplosa questa ione che credeva persa, e nel tempo i disegni sparsi e frammentati sapranno convogliare in sensati e interessanti fumetti, graphic novel e altro più o meno autobiografico. Intanto dopo aver scritto al computer la sua prima lunga autobiografia Roberta avverte di poter essere più. Così che, nell’estate 2005 poco dopo sperimentali giochi di parole e filastrocche, con “Il mio Tempo” nasce ufficialmente la sua poesia. Nell’autunno 2012 conclude dopo un anno e mezzo il suo lungo primo romanzo di fantascienza sotto pseudonimo, e lo propone con apprensione alla bottega d’arte. Questo romanzo ha una valenza particolarmente salvifica ed espressivamente terapeutica per Roberta, nonché possiede ottimi spunti da poter sviluppare in seguito; Ma in quel momento i protagonisti della storia se da un lato le danno compagnia e concreto sostegno dall’altro Roberta si ossessiona su un successo mondiale del libro che avvenga quanto prima. Contatta dunque con determinazione Maurizio Asquini e il suo Rifugio degli esordienti nell’inverno 2012-2013. Non ci sarà alcun premio Pulitzer in quel 2013 e nemmeno la pubblicazione del racconto fantasy, ma forse con maggiore serenità e anche grazie a valutazioni competenti come quella di Mara Fontana, Roberta troverà dopo l’estate 2013 una più adeguata distanza dal suo primo romanzo riconoscendolo anche incredibilmente confuso e disorientante, o al minimo da riscrivere bene. Prima di ciò, la Gelsomino sull’onda di questa impellenza a pubblicare finalmente qualcosa, raccoglie intanto un po’ di poesie dal 2006 alle
più recenti e contatta dal database del Rifugio una nuova casa editrice di Comiso, la Eventualmente. Nel giugno 2013 perciò ancora in fase visionariofantascientifica le pubblicano la sua breve raccolta poetica “Pietre” con la copertina illustrata da lei. Nell’agosto 2013 approda alla pagina Facebook Il Mondo dello scrittore per iniziare a promuovere Pietre, e si limita a tenerla da conto fino al novembre 2013. Realizzarsi nel tempo, come autrice e artista, è uno tra i suoi sogni più importanti e piacevolmente raggiunti ogni giorno. Una sua felicità raggiunta che si integra ai progetti con alcuni amici conosciuti sul gruppo Il Mondo dello scrittore e che definisce la sua famiglia scelta. Attualmente oltre a collaborare al gruppo Lirico Caravan, Club degli amici di Escluso Mortimer e a gestire un numero di spazi web da perderci i capelli, coltivando questi preziosi nuovi legami, Roberta Gelsomino ha in progetto un primo evento di presentazione per Pietre dopo le vicissitudini e i notevoli contrattempi (per quanto importanti) di questi mesi. Ovviamente avverrà se tutto va bene anche la presentazione sempre a Milano entro la prossima primavera di Fiammelle, la sua seconda raccolta poetica uscita lo scorso febbraio 2014 e che contiene poesie più specificamente romantiche e d’amore. Da Roberta non mancheranno di certo le sorprese e altri progetti.
Intervista per Pietre del settembre 2013 a cura di Alessandra Galdiero di recensionelibro.it Pagina Facebook Gruppo facebook Pietre I disegni di Roby (pagina facebook con disegni e fumetti di Roberta) Sito delle Edizioni Eventualmente Sito di Roberta con le sue poesie Blog di Roby Elenco Opere
Pietre Fiammelle
Biografia di Rossana Lozzio
Rossana Lozzio è nata a Verbania il 05 ottobre 1965. Inizia a scrivere per gioco e continua a farlo per ione… sviluppa storie che raccontano di sentimenti, quali l’amicizia, in cui crede da sempre fortemente e ovviamente, l’amore. Nel 2005, pubblica il suo primo libro, “Fino alla fine” e con esso, ha partecipato a VCO TALENTI EMERGENTI, progetto itinerante che ha sostenuto gli artisti del Verbano Cusio Ossola, proponendo le loro opere con l’augurio che potessero farsi conoscere e soprattutto amare da un pubblico più numeroso. Nell’estate del 2008 pubblica un romanzo con la Casa Editrice “BOOPEN”, “Hollywood e dintorni” e successivamente, sempre con BOOPEN, il racconto “Le ali di un angelo”. Insieme a Maurizio Parietti ha collaborato alla stesura della biografia del cantautore Alberto Fortis, pubblicata nel dicembre del 2009 da ALIBERTI EDITORE, dal titolo “AL Che fine ha fatto Yude?”. Nel febbraio 2010 ha pubblicato il suo nuovo romanzo, seguito de “Le ali di un angelo” – “L’angolo delle fragole” – e ha collaborato con il Quotidiano online VERBANIA NEWS, gestendo una rubrica settimanale dal titolo “La posta delle fragole”. Nel maggio 2011, pubblica “Una farfalla sul cuore”, con Edizioni Il Ciliegio, romanzo nato da una sua idea che si tramuta in un esperimento su Facebook e che debutta, nello stesso mese, al Salone Internazionale del Libro di Torino. Nel luglio del 2012, vince la 5a edizione del Concorso Letterario “Da donna a donna”, con il romanzo inedito “Una favola per Asia”. Nel novembre del 2012, pubblica “Un pubblico di stelle… sorride”, con Runa Editrice e viene selezionata, con il racconto “Non so dirti di no” per l’antologia “Impronte d’amore” che sarà pubblicata nel 2013 da Butterfly Edizioni. Nel dicembre del 2012, infine, un suo aforisma sul tema della gelosia viene scelto ed inserito nell’Agenda 2013 de L’Erudita Editore. Nel gennaio del 2013, pubblica il romanzo vincitore del Concorso “Da donna a donna”, “Una favola per Asia”, con la prefazione di Max Venegoni. Nel maggio del 2013 il suo racconto “Attratta dal sole” partecipa al Concorso “Incipit d’Autore” e viene selezionato per l’antologia “Il primo pensiero”, edita da Giulio Perrone Editore. Nel luglio del 2013, pubblica il romanzo “L’emozione ha la tua voce” con Edizioni Il Ciliegio. Nell’agosto del 2013, un suo aforisma è fra i 200 selezionati per l’antologia “ione Mediterranea”. Nell’agosto del 2013, un suo aforisma viene selezionato fra i 200 che saranno pubblicati nell’antologia “ione Mediterranea”, nell’ottobre dello stesso anno, con Edizioni Galassia Arte. Nel gennaio 2014 è finalista al
Concorso "Casa Sanremo Writers" con il romanzo "L'emozione ha la tua voce". Nel marzo 2014 è fra i giudici per la seconda edizione del Concorso Letterario "Emozioni di donna", organizzato dal Comune di Gravellona Toce (VB) e il suo racconto "Danza con me" viene inserito nell'antologia "Stralci di sogno" edita da David and Matthaus. Nel maggio 2014 ottiene la menzione di merito all'interno della gara di lettere di "Scritturati", una sua poesia viene selezionata per l'antologia "Qui dove camminano gli angeli" e pubblica il romanzo "Interno 16", entrambe le opere con Edizioni David and Matthaus. Gestisce il blog "Rossana Lozzio - Scrittrice", sul quale intervista anche i colleghi e gli artisti emergenti. Collabora con la rivista online bimestrale "Espressione Libri", sulla quale cura la rubrica "L'arte che gira intorno", intervistando artisti emergenti e non dello spettacolo.
Pagina Facebook Elenco Opere Fino alla fine Hollywood e dintorni Le ali di un angelo L’angolo delle fragole Una farfalla sul cuore Un pubblico di stelle… sorride Una favola per Asia L’emozione ha la tua voce Interno 16
Biografia di Rossella Gallucci
Rossella Gallucci nasce a Roma nel 1957, dove vive tuttora. Si è laureata in lingue e letterature straniere presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Fin da piccola coltiva la ione per la scrittura, in particolare per la poesia, raccogliendo i suoi stati d’animo attraverso racconti, poesie e riflessioni raccolti in vecchi quaderni, su foglietti volanti, post-it, per poi ritrovarli anni dopo, rielaborarli e iniziare a pubblicarli su alcuni portali internet a partire dal 2009.
Elenco Opere Silloge poetica: “ E se fosse il cielo a raccontarci il giorno”, Ilmiolibro.it, Nov. 2010. - Pubblicazione di 6 poesie nelle Antologie “Tu che mi ascolti” e “Se tu mi dimentichi”, Associazione culturale “Club Scrivere” rispettivamente, Sett. 2010 e Sett. 2011. - Il respiro di un poeta, Raccolta antologica “Poeti e Poesia” Rivista Internazionale diretta da Elio Pecora, Apr. 2010. - Cuori d’inverno, Antologia “Verrà il mattino e avrà un tuo verso”, Poesie d’amore, ed. Aletti, Ott. 2010. - Stringimi le mani, Padre, Premio Speciale con attestato di merito e mini targa d’argento per il Concorso Letterario “Vivarium” II Edizione. Associazione culturale “Accademia dei Bronzi” di Catanzaro per il Concorso dedicato a Giovanni Paolo II “Non abbiate paura” e pubblicazione nell’omonima Antologia, ed. Ursini Editore, Lug. 2010. - Sogni ubriachi, Antologia “Una Pagina di poesia”, ed. Kimerik, Ott. 2010. - Colori Scuri.
- Outsider, Antologia “Poesia sotto le stelle”, ed. I Narrativa & Poesia, Sett.2011. - Fuori Piove. - Di noi, Antologia “Poesia sotto le stelle”, ed. II Narrativa & Poesia, lug. 2012. - Ed è del mare il sogno di un’estate, Antologia Collana L’inedito, “Senza trucchi… né ritocchi”, ed. La Cassandra, Ott. 2012. - Il lutto di Isidora, Antologia “L’anima delle parole”, ed. David and Matthaus, collana Artemuse, Lug. 2103. - Di quel che resta. - Bacerei la pioggia nell’autunno di te, Antologia “Poesia sotto le stelle”, ed. III Rupe Mutevole, Lug. 2013. - Parlerò di luna alla mia voce, Antologia “Giorni da scrivere”, ed. David and Matthaus, Nov. 2013. - Sbarchi: Prima classificata al concorso “Il Lago e la Rupe”, I Edizione, Feb. 2014 - 10 poesie pubblicate nell’antologia “Amore d’Autore”, ed. Rupe Mutevole, Feb. 2014 - Subway, romanzo inedito di Rossella Gallucci e Ciro Pinto, Ott 2013, terzo classificato al IX Premio Letterario Internazionale “Gaetano Cingari” 2014, sez. inediti. Finalista tra i primi cinque al II Concorso Nazionale di Narrativa Camuni Graffiti 2014, sezione inediti (il risultato finale è previsto ad Agosto 2014): - Di Fossato in Fossato, silloge inedita di Rossella Gallucci e Ciro Pinto, Gen 2014, segnalazione della giuria al IX Premio Letterario Internazionale “Gaetano Cingari” 2014, sezione inediti.
Biografia di Sabrina Grementieri
Sono nata a Imola 40 anni fa. Mi sono diplomata in lingue e laureata in scienze politiche ind. internazionale. Ho studiato un anno in Germania con una borsa di studio, e lì sono tornata per preparare la tesi sui campi di concentramento. Non ho mai avuto le idee chiare su cosa fare da grande: quando mi sono iscritta a lingue volevo entrare in diplomazia, poi ho scoperto che sono caratterialmente tutto fuorché diplomatica, ed ho lasciato perdere. Ho fatto mille lavori, dalla campagna al commerciale estero, dall’operaia alla negoziante (ho avuto per otto anni un negozio di articoli di artigianato estero e complementi d’arredo, ed è il lavoro che mi è durato di più!). Nel frattempo sono diventata moglie e madre e ancora, come direbbe mia madre, non ho messo la testa a posto. Tre però sono le costanti che mi hanno accompagnato in tutti questi anni: la mia ione per i viaggi, per la lettura e per la scrittura. Ho un armadio pieno di agende scritte a matita con racconti iniziati e spesso non finiti, che ora riguardo col timore che la matita pian piano si scolorisca. Durante l’ultimo mese della mia seconda gravidanza, costretta al riposo dalle mie dimensioni, ho cercato l’evasione nella scrittura, ed è nato questo libro.
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Biografia di Sabrina Guaragno
Sabrina è nata nel 1993 a Bari. Frequenta tutt’ora l’Università degli studi di Bari nella speranza, un giorno, di diventare una psicologa. La ione per la psicologia è nata assieme a quella per la scrittura, quando lei aveva 14 anni. Varie letture, specie di genere fantasy, l’hanno indirizzata verso la scrittura, apionandola alle parole quasi quanto alla psiche umana. Nonostante le sue preferenze in generi quali il fantastico, il fantascientifico e l’horror, si è sempre sperimentata in temi e generi diversi.
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Biografia di Sauro Nieddu
Sono nato nel marzo del ’74, a Marrubiu, dove tutt’ora risiedo. Di me si può tranquillamente dire; “braccia rubate all’agricoltura” dato che prima di dedicarmi alla scrittura è stata la mia occupazione principale. Attualmente sono impegnato in diverse collaborazioni online; con il blog di letteratura fantastica Pegasus; col network Il Mondo dello Scrittore, che si occupa di promozione e funge da “palestra creativa” per autori emergenti; come responsabile del reparto di fantascienza, al servizio “lettura incrociata” all’interno del sito Il Rifugio degli Esordienti. Oltre a questo, ho recentemente aperto un blog personale, in cui pubblico, assieme ai miei racconti e fiabe, micro-recensioni di romanzi che considero poco noti rispetto alle loro qualità. Come autore di racconti per bambini, sono stato finalista, del premio letterario “EMOZIONI IN BIANCO E NERO 2013” con la fiaba “Polùp e il Mago-drago”, pubblicata nell’antologia di Edizioni del Poggio.
Blog Personale Pagina Facebook Elenco Opere Gwendoline
Biografia di Sebastiano Impalà
Sebastiano Impalà è nato a Torregrotta, in provincia di Messina, 52 anni fa. Della Sicilia porta dentro gli odori, i sapori, l’intensità del pensiero e tutti quei valori culturali che permeano la sua poesia. Ha iniziato a scrivere da bambino e, ancora adolescente, vide pubblicate le sue prime poesie in alcuni quaderni culturali locali. Ha vissuto per tanti anni a Milano dove ha avuto la fortuna di incontrare la grande Alda Merini, della quale ha un ricordo indelebile. Si considera un fotografo di immagini che, con i suoi personalissimi obiettivi, riesce a tradurre in poesie, racconti e aforismi. Ha partecipato a pochi concorsi poetici in quanto riteneva, in precedenza, che i suoi scritti riguardassero solo la sua sfera privata. Ha ottenuto diversi riconoscimenti letterari, tra cui la segnalazione di merito con targa al premio Rhegium Julii 1994 con la lirica “Musica di menestrelli”, finalista nel 2010 e secondo assoluto nel 2012 nel concorso poetico online “La gara di poesia”, quarto assoluto nel concorso online “Premio Laurentum di Poesia 2012” e vincitore del miniconcorso online “Toccare il cielo” su Oubliette Magazine. Le sue poesie sono state pubblicate nell’antologia Libera Espressione edizione 2012, in Mille voci per Alda nell’aprile 2013, con relativa targa e attestato di merito, e in Sulle orme di Christina di Svezia, I Ragunanza di Poesia edita da ArteMuse Editrice con la poesia “Maddalena terra mia”, Roma 28 aprile 2013. Su Facebook ha creato nel 2012 un gruppo di poesia dal nome “Ossigeno e pensieri” e cura la pagina “Fotogrammi di pensieri di Sebastiano Impalà”. Collabora con numerosi gruppi e blog di rilevanza internazionale. Ossigeno e Pensieri è la sua prima silloge pubblicata, edita da ArteMuse Editrice sotto la collana Castalide.
Elenco Opere Ossigeno e pensieri
Biografia di Sofia Skleida
Sofia Skleida è nata ad Atene, in Grecia. Ha studiato Filologia presso l'Università di Atene e ha conseguito Master in Pedagogia e Dottorato in Educazione Comparata presso l'Università di Atene. Le sue ricerche e i suoi interessi riguardano l'insegnamento in generale, la Psicologia dell'educazione, l΄Educazione speciale, il Greco antico e moderno. Ha lavorato all'estero (ItaliaRoma), all'Ambasciata greca come traduttrice, oltre che nella comunità greca di Roma e in altri istituti, dove ha insegnato, per molti anni, il greco come lingua straniera per adulti. Negli ultimi anni ha lavorato in diverse scuole private come insegnante di lingua italiana e alla Scuola Italiana di Atene, come professoressa di lingua greca. Inoltre, ha insegnato presso la Scuola degli Ufficiali di Polizia, la materia Psicologia Giuridica. Pubblica articoli in formato elettronico, riviste e testi scientifici e internazionali con referenze in atti di convegni e capitoli di libri. Ha ricevuto premi in Grecia e all'estero per la sua partecipazione a diversi concorsi poetici e letterari. Nel concorso internazionale di poesia dell’organizzazione L@ Nuov @ Mus@ ha vinto il primo premio alla poesia straniera con la poesia avente come titolo "Incoronamento d΄Oro", a Roma, nel dicembre del 2013. Le è stato anche assegnato un premio al Concorso di Poesia Albero Andronico. Nel frattempo, al 4° Concorso Mondiale di Poesia che si è fatto a Salonicco il 3 Maggio del 2014, ha vinto il premio importante di Antifane. Tante sue poesie sono Incluse nell’Enciclopedia Filologica della grande casa editrice Xari Patsi. Ha curato diverse antologie poetiche. Le sue poesie sono state pubblicate anche in diverse riviste letterarie, greche e internazionali, come "Deucalione", "Nuova Ariadne", "Antologia poetica Parole di Vita", "Agenda Letteraria: Giorni Da Scrivere" ecc. Infine, è in corso di stampa la sua raccolta poetica Oasi dei sogni.
Biografia di Stella JoLì
Stella JoLì è nata il 27 maggio del 1972 a Terracina, dove vive e lavora come impiegata presso una società di consulenza contabile. Ha esordito come scrittrice pubblicando, in formato e-book, una trilogia di storie ad alto tasso erotico, raccolte in una collana intitolata “Outing”, nelle quali racconta il sesso visto attraverso gli occhi di personaggi “diversi”. Nei suoi racconti cerca di trasmettere al lettore la “regolarità” dell’amplesso tra individui non necessariamente appartenenti alla categoria degli eterosessuali, che in troppi ancora si ostinano a chiamare i “normali”. Grande apionata di calcio e cattolica praticante, Stella si augura, famiglia permettendo, che questa collana rappresenti solamente l’inizio di una lunga serie di pubblicazioni. Elenco Opere Avventure di un gay perbene Avventure di una puttana perbene Avventure di una transessuale perbene Stolti avvocati & giovani traveste