Sica lk6b

© Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it [email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA) ISBN 9788867931347 1° edizione – Ottobre 2014 Immagine di copertina | Antonello Fine © 2014 - Copyright | Tutti i diritti riservati Sensoinverso - P.I. 02360700393 Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com

Enrico Tirotto

Sica

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

Il collimatore quella mattina sembrava immerso in una nebbia londinese e la difficoltà nel sostenere lo Steyr impegnativa. Era da tempo che si sentiva stanco e debilitato, ma aveva addebitato il tutto ai suoi sessant’anni mal portati. Riportò la canna del fucile di fabbricazione austriaca in posizione orizzontale inquadrando nuovamente il bersaglio. In linea retta con l’apertura della camera di scoppio riapparve l’attico: un ampio terrazzo con piscina, situato all’ultimo piano della Bloomberg Tower a Manhathan, arredato in modo raffinato ma con linee pulite, alternava ampi spazi finemente pavimentati a piante e arbusti ornamentali. Gli arredi di un candido avorio erano rivestiti in pelle di bufalo e quel rosso porpora era come un pugno su quell’occhio addossato al collimatore. Posò nuovamente il fucile e agguantò il fazzoletto, asciugandosi la fronte e il resto del viso. Il fianco destro aveva ripreso a tormentarlo, come un riccio stretto sul palmo di una mano. Era necessario fare in fretta e portare a termine il lavoro, o Ray non glielo avrebbe perdonato. Riprese lo Steyr colpendo col palmo della mano il caricatore posto all’estremità e assicurandosi che il colpo in canna fosse già inserito. Di recente, pensò, anche la memoria lo stava abbandonando, visto che non ricordava proprio se quel gesto abituale lo avesse già compiuto. Impugnò l’arma con un cenno di stizza e riprese il puntamento dal palazzo di fronte. Vi era arrivato stremato, al settantaseiesimo piano, dopo aver percorso i tremiladuecento pioli della scala d’emergenza evitando di proposito i diciannove agili e confortevoli ascensori a disposizione. Imprecò per quel lavoro che il destino gli aveva assegnato e per il pensiero diffuso che fosse un mestiere se non altro ben retribuito: pregna anche la malavita di caste e privilegi, si sentiva emarginato e stanco come un qualsiasi dipendente vicino alla pensione. L’aria afosa e carica di umidità innalzava quella soglia di nervosismo, già di per sé colma, possibile foriera di errori. Il vaso di Ray era pieno e sarebbe bastato poco per traboccare. Quel lavoro doveva andare liscio o i suoi servigi li poteva richiedere al creatore.

“È tutto facile per lui…”, sentenziò con stizza torcendo la bocca. Qualcosa si mosse nell’attico: la porta scorrevole che immetteva nell’ampio terrazzo si aprì lasciando che la tenda svolazzasse al di fuori. La canna dello Steyr automatico seguì i movimenti dell’uomo. Il bersaglio lasciò andare la vestaglia di seta senza degnarsi di raccoglierla, prontamente agguantata dal maggiordomo, che lo seguiva. Zacary cercò di inquadrare il petto dell’uomo ma riuscì a vedere solo gli spruzzi dell’acqua sollevarsi per il tuffo in piscina. Il dolore al fianco arrivò come un pugno e il fucile si inpennò come una belva ferita. Spalancò la bocca respirando a pieni polmoni come un pugile dopo il gong al dodicesimo round. Mise la mano sul fianco attendendo che lo spasmo si attenuasse, ma questo sembrava aver preso dimora in lui, deciso a non concedere tregua. Riprese il fucile tirando su l’anca per non distendere il fianco e goffamente avvicinò l’occhio al collimatore con tale enfasi che impattò sulla lente. Serrò le palpebre con forza mentre quella fitta si aggiunse all’opprimente dolore al fianco. Maledisse quella giornata assieme a tutte le altre della sua vita, mentre sfregava l’occhio dolorante. Socchiuse le palpebre ma fu peggio che guardare da un fondo di bottiglia. L’occhio buono era andato e il sinistro, con cui non aveva mai mirato e dal quale avrebbe avuto una mediocre visione, era l’unica flebile risorsa.

L’aroma dolce e pungente della cipolla fritta li avvolse mentre attraversavano le cucine dell’Oklahoma. Posto all’angolo fra la quattordicesima e la Main, il ristorante proponeva piatti tipici della cucina texana. Era stato rivisto e riammodernato negli arredi ma permaneva uno stile Old America, in linea con il menu, in cui prevalevano spesse bistecche affogate in pinte di birra gelate con una variegata quantità di salse e insalate. L’aiuto chef ripose lo sguardo sulla piastra intinta di olio, dopo aver intravisto il gruppetto di uomini che attraversavano l’angusto aggio che portava alla sala

interna. I tre gli arono davanti senza curarsi di lui e proseguirono come se quel suolo fosse di pubblico dominio. Al precedeva facendo strada, mentre Ray e Nero si separarono inoltrandosi in una sala appartata. Danny, il propietario, si accorse per caso della loro presenza mentre sistemava una pila di menu sul tavolino del metrè. Al lo raggiunse con la sua tipica andatura ondeggiante e vacua: dava l’impressione di un’evidente instabilità di equilibrio, accentuata certo dai suoi centonovantcinque centimetri di altezza. Danny fece per parlare ma Al lo anticipò: “Ray non vuole essere disturbato, portaci il solito e due bottiglie di Chardonay”. Quindi si scagliò contro Danny colpendolo al volto con una testata, spezzandogli il naso e lasciandolo esanime in un lago di sangue… Fu destato dalla voce baritonale di Al: “Hai capito cosa ho detto!?”. “… Certo, certo che ho capito…”. Al lo guardò torvo una seconda volta prima di allontanarsi e aggiungere: “Oggi sei più rincoglionito del solito, non farmelo ripetere e sbrigati!”. Danny maledisse, come spesso gli accadeva, il giorno che aveva accettato il denaro di Ray per ristrutturare il locale. Quel prestito, ormai non più estinguibile, aveva raggiunto quote vertiginose, assieme alla pressione sanguigna di Danny. Ray vi si era arroccato in pianta stabile e dirigeva spesso da lì i suoi loschi traffici. Danny cercava disperatamente una soluzione per liberarsi di quel gangster di quart’ordine, ma fino a quel momento era piovuto sul bagnato. Al raggiunse Ray a discorso inoltrato: “… Non mi aspetto niente di buono da quel cialtrone di Zacary. Se potessi tornare indietro, incaricherei un altro”. Nero, il braccio destro e factotum di Ray, non eccepì a quella considerazione: “Per me è cotto, ultimamente non ne ha imbroccata una; se porta a termine questo lavoro, dovrai comunque prendere una decisione”. Ray inarcò la testa all’indietro inspirando profondamente, mentre lentamente

estraeva le dita dai guanti in pelle nera dove erano immerse: “Quell’ebreo è maldestro e penso anch’io sia giunto al capolinea… Ma non avevo scelta”. “Avresti dovuto mandarci Al”, aggiunse Nero in tono saccente. Al non gradì queste parole, così accomodandosi rispose: “Non spetta a te suggerire cosa devo o non devo fare!”. Ray sradicò quel principio di polemica: “Hai detto bene, spetta a me… In fin dei conti mandare al creatore quel commercialista è cosa semplice: perfino Danny sarebbe capace di strangolarlo col grembiule! A proposito, hai ordinato?”. Al, data la sua corporatura, dava l’impressione che fosse appollaiato su un trespolo, mentre quella sedia spariva completamente sotto quel corpo smisurato: “Come al solito capo”. Nero riprese il discorso andosi la mano sul capo lucido e completamente calvo: “Io l’avrei fatto con le mie mani. Derubarci così impunemente…”. Ray lo fermò, lievemente infastidito: “Non ci ha derubato!... Mi ha derubato. Ha fatto la cresta al mio denaro, non al tuo!”. Nero rettificò istantaneamente, con grande soddisfazione di Al: “Certo, Ray, è del tuo denaro che stiamo parlando, non intendevo…”. Il gangster allisciò il lussuoso soprabito che ancora portava sulle spalle: quelle maniche non erano mai state attraversate, un vezzo che aveva sempre contraddistinto la sua maniera di indossarlo. “Non è soltanto per il denaro, quella mezza tacca mi ha mancato di rispetto!”. Ray era un malavitoso di quart’ordine, ma amava atteggiarsi a piccolo padrino. Cultore della triade di Francis Ford Coppola, emulava certi comportamenti tipici della malavita italo-americana, tanto da essersi guadagnato l’appellativo di “italianino”, anche se lui mal sopportava quel nomignolo che a volte lo faceva proprio imbestialire.

Quel punteruolo infilato idealmente nel fianco lo stava martoriando senza sosta. Zacary riprese lo Steyr invitando l’occhio sinistro a farsi strada nel collimatore.

La visione era pulita ma quella posizione atipica insinuava in lui una sensazione d’incertezza. Trovò il bersaglio, già accomodato sulla sdraio con i capelli ancora umidi, crogiolarsi al sole con nelle mani una copia dell’Herald Tribune. Era la rappresentazione dell’uomo realizzato, e lo ostentava sfacciatamente. Provò invidia ma non così tanto da volerlo uccidere: questo doveva farlo per restare in vita. La posizione era ottimale, così puntò dritto al centro del petto, ancora visivamente pulsante per l’impetuosa nuotata. Esibiva un fisico atletico e ben curato, dimostrando un’età non ben definita ma sicuramente non oltre i quaranta. Rimase un attimo a riflettere sulla sua di età e sul disastroso fisico che la natura gli aveva donato. Ripensò ai capelli persi appena dopo i sedici anni, poco prima di uscire dall’orfanotrofio dove aveva vissuto la sua infanzia. Le donne lo avevano sempre evitato e lui, per non essere da meno, era stato in disparte senza disturbarle. Un’altra fitta nell’addome ricacciò via quei pensieri. Mise il dito sul grilletto pronto a porre fine a quella vita e a recarsi da un dottore per accertarsi su cosa poteva attendersi dalla sua. Zacary non vide arrivare il maggiordomo, né riuscì a udire il cigolio delle ruote del porta-vivande che questi spingeva innanzi a sé. Lo Steyr ruttò dal silenziatore, come se avesse bevuto due coppe di champagne: il proiettile attraversò entrambe le natiche del maggiordomo, bucò l’Herald Tribune e finì per spegnersi nella piscina con uno sbuffo d’acqua. Vide il domestico saltellare come un canguro, prima di abbandonare il fucile a se stesso e accasciarsi al suolo. Si rialzò a fatica e si avviò verso le scale d’emergenza con il fiato corto e un opprimente senso di nausea. Si rese conto che non sarebbe stato in grado di compiere neppure le prime due rampe. Si voltò verso uno degli ascensori, lo raggiunse rapido e spinse il pulsante di richiamo come fosse quello d’emergenza. Cadde in ginocchio e, in quella posizione, un conato di vomito lo raggiunse. Non si era mai sentito così e quell’attesa divenne insopportabilmente lunga. Il cicalino lo avvertì che l’ascensore era arrivato, mostrando l’assenza di persone

al suo interno. Stremato si trascinò carponi nel piccolo vano e si distese all’interno. Allungò la mano alla ricerca di quel tasto H che appariva sbiadito anche all’occhio sinistro. La mano tastava la parete dell’ascensore, totalmente rivestita in morbido sky, alla ricerca dello spiraglio di un’improbabile fuga, quando i sensi lo abbandonarono. Inaspettatamente le porte si chio senza che Zacary avesse premuto niente. La rapida discesa gli diede la sensazione di sprofondare nel buio più assoluto e la luce sopra di lui si affievolì gradualmente prima di scomparire del tutto.

“Lanny, la colazione è pronta! Mi hai sentito?”. Rigirò ancora una volta le uova nel tegame, incamiciandole a dovere prima di trasferirle nei piatti. La voce roca e assonnata del figlio permeò la stanza assieme al profumo di bacon. “Sono già le sette?”. “Già da un pezzo, fa’ colazione e poi va’ a lavarti!”. Lanny guardò la madre già in divisa da lavoro e col viso ancora stanco per le ore di straordinario della sera precedente. “Le tue rughe sono più profonde oggi, lo sai, mamma?”. Rosemary guardò in volto il figlio con dolcezza: un ragazzo di sedici anni che la natura o la sfortuna aveva fermato a otto, ma a cui lei voleva un bene infinito, e che era un sinergico sostegno in quella sua difficile esistenza. “Le rughe sono come le acque del mare: più sono distanti più sono profonde”, replicò la donna agghindandosi i capelli dietro la nuca. Non si era mai considerata bella, ma per il marito che il Signore aveva scelto per lei lo era più che a sufficienza. Rosemary terminò la colazione che il figlio aveva lasciato, non potendo permettersi sprechi nelle sue già ristrette condizioni.

Lanny uscì dal bagno con la camicia che penzolava sui pantaloni e i bottoni disallineati. La madre rimise tutto a posto e gli donò un bacio sulla fronte. Lo accompagnò alla porta di quell’angusto bilocale, dove la povertà aveva lasciato le redini all’indigenza assoluta. La scuola era situata a meno di un isolato di distanza. Rosemary lo seguì avviarsi con lo sguardo, appoggiando la spalla allo stipite della porta. Lo trovava più indifeso e vulnerabile di sempre, una percezione che cresceva in proporzione all’amore che provava per lui. “Signora Wash, finalmente la trovo!”. Rosemary, colta alla sprovvista, si voltò di scatto per rientrare in casa, ma il corpo sudaticcio e l’alito sgradevole del padrone di casa, il signor Paul Richardson, la fecero desistere. “È da una settimana che la cerco, non posso più aspettare!”. La donna fece qualche o indietro prima di rispondere: “Deve avere pazienza ancora per qualche giorno”. “Se dovessi campare con queste scuse, finirei sul lastrico! Sono due mesi di arretrato, non posso!”. “Ho avuto delle difficoltà… Le chiedo solo di attendere finché non mi pagano. Lavoro all’ospedale, adesso”. Paul accennò un timido sorrisetto sul suo faccione da pesce lesso: “Ho saputo, un misero contratto di tre mesi. No, signora, ci vuole ben altro per farmi dormire tranquillo”. Lentamente fece due ì in avanti lasciando che la sua prominente ipa sfiorasse un lembo del grembiule della donna: “Se lei fosse più gentile, potrei concederle una dilazione… Una comoda dilazione…”. Rosemary sfilò con destrezza alla destra dell’uomo e rientrò veloce in casa serrando l’uscio alle sue spalle, inorridita da quell’ennesima proposta indecente. Il signor Richardson si appoggiò alla porta fregando la mano sull’uscio e con voce alterata disse: “Domani verrò a prendere i miei soldi e, quant’è vero Iddio,

se non li avrò la caccerò!”. Emise un sospiro di sollievo e si strinse fra le proprie braccia rivolgendo al cielo uno sguardo disperato. Era iniziata male quella mattinata e per di più decisamente presto, indicava l’orologio. Lasciò il sostegno della porta d’ingresso e, agguantata la borsetta, riaprì l’uscio preparandosi a chiuderlo dietro di sé. Un altro volto conosciuto e che avrebbe voluto evitare la stava osservando da vicino: “Ho saputo che hai trovato lavoro”. “Che ci fai tu qui… Cosa vuoi?”, rispose sgarbatamente Rosemary. L’uomo si avvicinò con un mezzo sorriso e una buona dose di sarcasmo: “Solo un po’ di rispetto, in fondo sono ancora tuo marito”. La donna si ritrasse leggermente verso l’interno dell’abitazione: “Tu per me non sei niente, non abbiamo più nulla da dirci”. “Oh sì, invece”, replicò lui salendo sul gradino che immetteva dentro casa. Lei conosceva bene quello sguardo, che non prometteva niente di buono. Tentò di barricarsi chiudendo la porta, ma il piede di Malcom fu più lesto. L’intensa ma inutile resistenza della donna fu vinta con uno spintone che fece ricadere Rosemary riversa sul pavimento. Lui chiuse la porta e le si avvicinò, quindi le impose un piede sul collo. “Da quando fai l’infermiera ti dai un sacco di arie e trascuri i tuoi doveri di moglie”. Lei si oppose stringendo con le mani lo stivale che le impediva di respirare e con voce strozzata ribatté: “Brutto bastardo, toglimi…”. Malcom si chinò e raccolse la borsetta, la aprì e svuotò del contenuto, per poi agguantare al volo il portamonete e lasciar cadere il resto. Avidamente frugò al suo interno ed estrasse una sola banconota: “Solo venti dollari, miseria ladra”, poi rivolse lo sguardo verso la donna: “Per oggi basteranno”. “Non puoi! Sono per tuo figlio, schifoso di un alcolizzato!”. Il sorriso si spense sul viso dell’uomo, al che lo stivale la schiacciò ancora più

forte. “Pensi che io non ci tenga a Lanny? È tutta colpa tua se sono in questo stato, e così mi terrai, che tu voglia o no”. Malcom cacciò la banconota in tasca allentando la presa. Lei guardò con disprezzo quel viso tondo e quella barba incolta, e colse nei suoi occhi il desiderio irrefrenabile di bere. Malcom se ne andò infatti alla ricerca di alcol da consumare sbattendo la porta, con la promessa che sarebbe ritornato per prendersi ciò che, a suo dire, gli spettava. Rosemary avrebbe voluto piangere e sfogarsi, ma non ne aveva il tempo. Guardò allo specchio il livido lasciatole sul collo dalla suola del marito, neppure paragonabile a quello impressole a fuoco nell’animo.

Il sapore amaro del palato fu il presagio di un risveglio dal medesimo gusto. Le pareti vuote e l’arredamento minimalista non lasciavano dubbi su dove fosse. Lasciò che la mente risvegliasse i suoi ricordi, che non tardarono ad affiorare e trascinare con sé angoscia e livore: lo stesso che sentiva sul suo corpo dolorante e stanco, ma che a suo avviso era tale e quale agli ultimi giorni. Vide alla sua destra l’ampolla di vetro da cui percolavano candide gocce. La soluzione permeava dall’ago infilato nel braccio e penetrava all’interno del suo corpo. Volse lo sguardo verso la finestra situata alla parte opposta della stanza e riconobbe il Bridge Tower dai vetri scuri e bombati: non poteva che essere il General Hospital e quella una delle stanze esposte nel lato sud dell’edificio. Tastò il fianco e questo rispose sgarbatamente con una fitta pungente, come se fosse stato destato da un profondo letargo. Attese che il tutto si attenuasse prima che, dopo aver riguardato la flebo, la mente ripercorse gli ultimi eventi. I brividi accarezzarono il suo corpo nel rammentare il disastro del giorno precedente, che Ray non gli avrebbe certo perdonato. Non sapeva da quanto tempo stava in quel letto ma il suo capo ne era sicuramente a conoscenza e probabilmente anche la polizia. Scoprì i polsi accertandosi che non vi fossero già state applicate le manette: liberi, ma il pallore delle mani lo costrinse a considerare prioritario il suo stato di

salute. Un fatto era certo: a meno di non essere al purgatorio, era ancora vivo. La domanda successiva fu per quanto tempo ancora lo sarebbe stato. Ray avrebbe provveduto a sistemare le cose prima di qualsiasi cura o dell’epilogo di una qualche infausta malattia. Provò a mettersi seduto sul letto, ma non appena si mosse, qualcosa alle sue spalle iniziò a emettere un fastidioso e ripetitivo bip. Qualche istante dopo la porta si aprì e spuntò il volto grassoccio di un’infermiera, seguito dall’abbondante resto del corpo. Senza guardarlo in volto spense il cicalino e gli rivolse la parola: “Bentornato, signor…”, e fece tre i indietro per cercare un suggerimento dalla cartella appesa sulla sponda del letto. “… Belimbau, come si sente?”. Zacary fece una smorfia, poi rispose: “Come se fossi stato all’interno delle Twin Towers l’undici settembre…”. L’infermiera non parve gradire il leggero sarcasmo e continuò con asettica professionalità: “Non bene, quindi”. Zacary questa volta si limitò a un laconico: “Già!”. La donna soffermò il suo sguardo sulla flebo e, sollevata la mano sul regolatore, aumentò leggermente il flusso della soluzione. Zacary seguì con distacco quei movimenti, mentre il prominente corpo dell’infermiera ondeggiava al suo fianco. La porta si spalancò nuovamente e un altro camice bianco fluttuò davanti al letto: “Ci lasci soli, per cortesia”. La donna si allontanò senza proferir parola chiudendo la porta alle sue spalle e lasciò i due a guardarsi in volto. Era giovane ed esercitava con eccessiva sicurezza la sua professione; sosteneva una cartella in mano, sulla quale stava concentrando la sua attenzione in ugual misura al paziente. Zacary pendeva da quelle labbra che a breve avrebbero sancito un verdetto che avrebbe voluto evitare. Il medico si tolse gli occhiali dalla sottile montatura prima di rivolgergli la

parola: “Signor Belimbau, dai referti ci risulta che lei è affetto da un epatocarcinoma; era già a conoscenza di questa condizione?”. Quella frase gli arrivò come una fiondata al petto, ma il suo cervello stentava ancora a recepirla in maniera chiara. Vedeva il medico muovere le labbra mentre il distacco da quella stanza era al momento per lui totale. “Mi sente, signor Belimbau?”. Zacary si destò da quello stato: “Sì… Ora la sento”. “Ha capito ciò che le ho detto?”. “Sì... Credo di sì”. “Bene, allora le mando un’infermiera che le spiegherà nel dettaglio la terapia”. Il dottore si mosse per uscire dalla stanza ma Zacary lo fermò: “Un momento, dottore… Avrei una domanda”. Il medico si voltò verso Zacary senza tornare sui suoi i: “Mi dica”. “Quanto mi resta da vivere?”. A quella domanda erano appese tutte le sue speranze, anche se era quasi certo che il medico sarebbe stato evasivo o perfino rassicurante. “Non più di tre mesi”. Non aggiunse altro e lasciò la stanza impregnando l’aria di profumo se. Si chiese se fosse umanamente etico e morale comunicare una simile notizia in un modo così insesibilmente distaccato e perfino brutale; se non altro le sue vittime erano ignare di cio che li attendeva e la morte si sarebbe presentata senza bussare alla porta. Tre mesi gli apparivano un lasso di tempo così limitato da non percepire alcuna possibilità di uscire dal General Hospital. Ray non gli avrebbe concesso quel lasso di tempo. Questa considerazione ridimensionò di molto il terrore del male che lo aveva aggredito. Il quadro era ormai chiaro e delineato in tutti i suoi contorni: se il killer si fosse presentato in quel momento alla sua porta, Belimbau

lo avrebbe accolto con cortesia e forse anche ringraziato.

Central Park quel pomeriggio non aveva elargito quel refrigerio che di norma donava ai suoi visitatori. Il lago era così immobile da apparire ghiacciato e l’intenzione di avventurarsi con un barchino noleggiato alla ricerca di frescura fra le due sponde si era spenta, soffocata da quella cappa di calore. “A chi è venuta la geniale idea di incontrarci qui?”. Al rispose osservando le gocce di sudore che contornavano i baffetti del suo capo: “Mi era sembrato un posto sicuro”. Ray sistemò il soprabito sulle spalle, incapace di rinunciare a quel capo d’abbigliamento neppure con 38 gradi di temperatura: “Non era questo che intendevo, stupido di un irlandese!”. Nero ne approfittò per aggiungere un tocco di ironia: “Se fossimo stati in pieno inverno, ci avrebbe portato al palazzo del ghiaccio!”. Al lanciò un occhiata torva all’italiano, notando con disgusto che ai lati della sua maglietta troneggiavano due evidenti macchie di sudore. Nero aveva il volto paffuto e una fossetta sul mento che lo rendevano singolatmente irritante: non era alto come Al ma sufficientemente robusto, cattivo e spietato da intimorire uno come lui. Ray si guardò attorno spazientito, prima di incrociare il mento di Nero, che gli stava indicando qualcosa: un signore apparentemente distinto con fare guardingo e o felpato stava convergendo nella loro direzione. Ray lo inquadrò da capo a piedi e non riuscì a trattenere un commento: “Ma dove lo hai raccattato, sembra la brutta copia di Liberaci”. “Volevi uno che non fosse nel solito giro”, rispose Al, “e poi io non ci trovo niente di particolare”. Man mano che il tizio si avvicinava, si delineavano i contorni di un abito decisamente pacchiano. I bordi neri della giacca, sfumata di un grigio fosforescente, risaltavano marcatamente e i capelli imbrillantinati gli conferivano nell’insieme un alone disgustoso.

L’uomo si fermò davanti a loro continuando a voltarsi a destra e a sinistra, come se da un momento all’altro dovesse scattare una retata della polizia. Accertatosi che nessun altro li stesse osservando con occhi indiscreti, allungò la mano e disse: “Mi chiamo Slim, siete voi che dovevo incontrare?”. Ray si guardò bene dallo stringerla e, ancora annichilito dal quello strano abbigliamento, cercò di concentrarsi sull’istrionico personaggio: “Se non ti abbiamo ancora mandato affanculo, significa qualcosa, no?”. Slim rimase perplesso per qualche istante, poi sfoderò un sorriso ebete: “Già, non ci avevo pensato; ora ditemi chi devo sistemare!”. Al intervenne prima che Ray potesse sbottare nuovamente: “Si tratta di un lavoretto all’ospedale!”. “All’ospedale? Un caso pietoso, quindi”. Nero e il suo capo si guardarono per un attimo esterrefatti, al che Ray disse: “Slim, o come ti chiami, non vorrai farci perdere del tempo?”. “Nient’affatto, sono un professionista, io… E nessuno si è mai lamentato”. “Sì, l’ho sentito anche io”, aggiunse Al. “Sta’ zitto, corteccia senza polpa”, intervenne Ray, “ché si presenta bene già senza che tu aggiunga altro”. Slim percepì che l’affare stava sfumando, così tagliò corto: “Ditemi solo in quale stanza si trova!”. Ray lo squadrò per bene, poi schioccò le dita davanti al naso del suo braccio destro. Nero tirò fuori dalla tasca posteriore una busta, prestandosi con voce sommessa a elencarne il contenuto: “Una foto con autografo, il numero di stanza e duemila dollari in contanti… Il resto a lavoro compiuto”. Slim fulmineo prese la busta dalle mani dell’uomo e assunse un’aria molto professionale: “Mi serve anche il nome o non se ne fa niente”.

Perfino Al avrebbe voluto riprendere quella busta e annullare il tutto, ma Nero non volle perdere l’occasione: “A tuo avviso, l’autografo a che serve?”. Slim incurvò le ciglia e dopo qualche istante sorrise beceramente: “Questo è vero!”. “Già, grande intuito, Slim!”. Il killer si allontanò sotto gli sguardi ancora increduli dei tre malavitosi. “Ma dove lo hai pescato?!”, esordì Ray, ancora frastornato per la cocente delusione. Al non tentò neppure di nascondere un certo rammarico: “Evidentemente mi hanno informato male… Ma che abbiamo da perdere, forse lo ammazzerà sul serio”. “Certo, dalle risate!”, concluse Nero.

Il sole spuntò nuovamente quella mattina dal medesimo angolo della finestra. Puntò i raggi sul suo viso costringendolo ad aprire gli occhi. L’amara realtà si ripresentò con la chiara intenzione di non fare sconti o addirittura di rincarare la dose. Zacary prese il telecomando sollevando lo schienale del letto. Dal giorno in cui era stato sistemato in quel giaciglio non si era mosso neppure per andare in bagno, ma aveva usufruito del sempre efficace pappagallo. Decise che non poteva attendere gli eventi da quel letto e che in fondo tre mesi non erano un lasso di tempo così breve. Sollevò le coperte e mise i piedi per terra. La stanza iniziò a girare per alcuni istanti attorno alla sua testa poi rallentò fino a fermarsi. Si rese conto che era meno debole di quanto pensava e che il dolore al fianco era quasi scomparso. Si trascinò dietro la flebo, che lo seguì come un cane fedele nel tratto verso il bagno, dove rimase fortemente impressionato da un’immagine riflessa sullo specchio: la sua.

Gli parve di essere invecchiato di ventanni. La pelle aveva assunto una colorazione giallastra, stirata come quella di un tamburo, gli scarni zigomi e l’adunco naso esaltati dalla nuova condizione. Gli occhi erano più incavati del solito e la barba a chiazze precocemente invasa dalla canizie. Mise la mano sulla guancia e aprì la bocca: le gengive erano pallide e rattrappite, come se i denti, abbandonati a loro stessi, si sostenessero gli uni sugli altri. La richiuse per distogliere lo sguardo da quella penosa visione. Sentì la porta della sua camera aprirsi e annunciare la presenza di un estraneo. Si irrigidì di scatto e pensò che qualcuno era inevitabilmente giunto a porre termine alle sue sofferenze. Trattenne il respiro e afferrò il portaflebo, che usò come sostegno contro la forte sensazione di instabilità che lo colpì improvvisamente. Tese l’udito ma non percepì nessun altro suono, tranne il vocio proveniente al di fuori della sua stanza. Pensò che era comunque inutile attendere in quell’angusto bagno gli eventi, così, accantonata ogni altra considerazione, impugnò la maniglia della porta e fece per ruotarla. Era pronto a ricevere quel proiettile, come giusto castigo per una vita scellerata e strumento per accorciare drasticamente quel poco che gli sarebbe rimasto. Socchiusa la porta, vi accostò il viso a sufficienza per vedervi oltre. Sgranò gli occhi con stupore accompagnato da un certo sollievo quando si accorse che in quella stanza non vi era un assassino con la pistola spianata, ma una semplice donna di mezza età in tenuta da paramedica; attendeva pazientemente seduta sulla sedia posta al fianco del letto, con l’aspetto serio e avvilito di chi non ha avuto certo un risveglio dei migliori. Conscia di essere osservata si aprì a un leggero sorriso, mostrando una candida e ben modellata dentatura: “Il signor Belimbau?”. Zacary, abbandonato ogni timore, uscì definitivamente dal quel misero riparo, trascinandosi dietro il resto dell’attrezzatura: “Lo ha trovato!”. “Sarò la sua assistente per questi due giorni, prima che lei venga dimesso”. Il sicario si sentì subito a suo agio a quella voce dolce, confidenziale e del tutto diversa da quella di chi l’aveva preceduta. “Non pensavo che mi avrebbero dimesso”.

“Lei ha una patologia molto grave, ma non necessariamente la deve affrontare lontano dall’affetto suoi cari”. La donna si alzò, lo raggiunse e con delicatezza lo aiutò a sdraiarsi sul letto. Avrebbe potuto farlo autonomamente, ma il sentirsi accudito era una piacevole sensazione mai provata prima, per questo finse di averne necessità. “Potrà seguire la terapia comodamente a casa sua… Io sono qui per istruirla su come fare”. “Affetto dei suoi cari…”. Quella frase risuonò come una campana a morto nella mente di Zacary. Non vi era mai stato nessuno nella sua vita, né affetti né persona alcuna che lo avesse mai degnato di qualcosa che non andasse al di là di un semplice saluto. Le rivolse lo sguardo, trovando in lei qualcosa che raramente aveva colto nel suo vissuto. Mentre la donna gli rimboccava le coperte, lo sguardo di Zacary cadde sul lato destro del collo di lei, dove una fresca escoriazione era ben visibile al di sopra del colletto. Sentendosi a disagio distolse subito da lì i suoi occhi. “Ha già fatto colazione?”. “No, non ancora”. “Ci penso io”. Uscì dalla stanza e vi tornò poco dopo con un vassoio addobbato con tutto il necessario: “Il servizio è sicuramente migliore del contenuto, ma bisogna accontentarsi”. Zacary riprovò per la prima volta dopo tanto la necessità di ricambiare con un complimento: “È sicuramente il migliore di questi ultimi anni”. Lei sistemò il vassoio davanti al paziente e si sedette sul bordo del letto, porgendogli un bicchiere di succo d’arancia: “Questo è un omaggio delle infermiere di turno, ma non glielo dica”. Il sicario questa volta rise leggermente e con spontaneità. Lasciò che lei sistemasse il tovagliolo e imburrasse il pane, accompagnato da un delicato sorriso.

Zacary fece la prima colazione della sua vita e per di più non in solitudine come di consueto. Masticava guardando negli occhi della donna, da cui riuscì a cogliere, malgrado i sorrisi, una malcelata e profonda tristezza. “Posso chiederle il suo nome?”. Lei con delicatezza tolse il tovagliolo dal petto dell’uomo: “Rosemary, ma puo chiamarmi Rose, se preferisce”. “Rosemary è un bel nome, perché spezzarlo?”. Lei uscì portandosi dietro il vassoio per poi ritornare con un’ampolla di soluzione endovenosa. Con delicatezza tolse l’adesivo dell’ago ipodermico per sostituirlo con uno nuovo nel braccio destro. Non lo faceva solo con collaudata manualità ma sosteneva quei gesti con l’impegno di chi si fa carico della sofferenza altrui. Zacary vide nuovamente quella lesione sul collo, al che gli venne spontaneo informarsi: “Ha una brutta abrasione…”, anche se si pentì subito di averlo fatto, intuendo di aver riaperto una ferita ampia e profonda. Lei non era infatti riuscita trattenere la tristezza che aveva dentro di sé, ma non voleva essere scortese: “È una lunga storia…”. “Mi spiace, Rosemary, non volevo”. “Non importa”, rispose cambiando subito argomento, “piuttosto deve dedicarmi un po’ di attenzione, poiché le devo spiegare cosa e come fare quando sarà a casa”. Lui annuì lasciando che Rosemary fe il suo resoconto senza interromperla: dopo la seconda frase si limitò ad annuire senza più riuscire ad afferrare il contesto del discorso. La guardava inebetito seguendo il movimento del viso e delle labbra, finché una frase ben precisa lo riportò alla realtà. “… Sua moglie o sua figlia sono in grado di fare ciò che le ho detto?”. “Come?... Mia figlia?! No! Non ho figli… Non ho nessuno io!”.

Rosemary lo guardò incrociando le braccia: “Lei non è sposato, signor Belimbau?”. “No, spero non sia un problema”. “Non lo è… Cioè, sì che lo è…”, replicò lei inciampando sulle parole. “… Volevo dire, lei vive da solo?”. Zacary inspiro prima di rispondere: “Da sempre”. Lei assunse un’aria comprensiva, quasi materna: “Avrà bisogno di qualcuno che la assista, non può… O almeno, non potrà farlo da solo; dovrà richiedere l’intervento dei servizi sociali, loro le manderanno sicuramente qualcuno”. “Non mi serve la pietà di nessuno, mi arrangerò”, rispose in tono seccato. “Non si tratta di questo: è personale retribuito che fa il suo mestiere”. Lui sviscerò il vero problema: “Non voglio estranei in casa mia”. Lei sorrise per stemperare il clima: “Affronteremo questo problema al momento opportuno”. Rosamary strinse la mano dell’uomo prima di congedarsi e lasciare la stanza. Zacary, rimasto solo, ripiombò nello sconforto più totale, afflitto da mille preoccupazioni. Ma di una cosa era certo: non voleva più morire o perlomeno non vi era più urgenza.

Il tenente Stanich del dodicesimo distretto dimenava le folte sopracciglia mentre osservava il fucile automatico di fabbricazione austriaca posto sopra la sua scrivania. Sollevò il viso stanco stropicciandosi gli occhi. “Ricapitoliamo, signor Offenbach, lei si ritiene dunque del tutto estraneo a questa faccenda?”. “Non so neppure che ci faccio in questo distretto, lei sta perdendo il suo tempo e io trascurando i miei clienti”, rispose Gregory Offenbach in modo spazientito e insofferente.

Il tenente della sezione omicidi della polizia di New York la pensava diversamente, ma abbattere il muro di omertà del suo ostico interlocutore era cosa non facile. “Io non credo alle casualità, come non credo che questo Stayer ritrovato nel palazzo di fronte al suo sia stato usato per il tiro al piccione; come non credo che le natiche del suo maggiordomo siano state infilzate per errore in uno spiedo”. “Le ripeto che io non ne so niente: per quel che mi riguarda le chiappe di Jordan non sono affar mio”. Stanich non credette a una sola parola dell’uomo, anzi si era convinto nel medesimo istante in cui quell’uomo era entrato nell’ufficio che le sode natiche del maggiordomo erano di sua competenza a tempo pieno. “Sappiamo entrambi che qualcuno ha tentato di farle la pelle e…”, ma la frase gli morì in gola nel veder comparire in quell’ufficio Martin Loach, un luminare del ramo forense da cinquemila dollari l’ora. A quel punto si rese conto che quell’interrogatorio poteva considerarsi concluso. “Tenente, mi chiamo...”. “So chi è lei, mi risparmi il resto; può portarsi via il suo cliente… Per adesso…”, lo anticipò il tenente. Offenbach si alzò stirando i jeans attillati e firmati che avvolgevano le sua gambe. Senza proferir parola si allontanò seguito dal suo avvocato, che con un cenno di soddisfazione richiuse la porta alle loro spalle. Stanich prese il fucile e lo rigirò fra le mani commentando: “Contabile delle mie ciabatte...”. Il sergente Vernon fece capolino nella stanza facendo oscillare la pistola infilata nella fondina ascellare: “Jeremy, il capitano è impaziente. Novità?”. “La novità è che non ci sono novità, digli che arrivo”. Ripose lo Steyr all’interno di un armadio posto accanto a una pianta rinsecchita di ficus da lungo tempo bisognosa di cure. Prese la giacca dall’appendiabiti e se la infilò con lentezza mentre rimuginava su quell’infruttuoso interrogatorio.

Jeremy sembrava contrariato dal fatto che gli fosse stato affibbiato quel caso: consapevole che un omicidio ha un suo iter e una dinamica ben delineata, era altrettanto certo che un tentato omicidio poteva rivelarsi frustante, sia per chi l’ha subito sia per chi svolge le indagini. Aveva accettato malvolentieri quel caso che il suo fiuto riprometteva irto di ostacoli e incognite. La sensazione che dietro vi fosse più che un semplice attentato organizzato da una moglie fedifraga o dal suo compagno era forte. Si ritrovò inconsciamente davanti alla porta del capitano Fleetwood. Non bussò, ma si limitò a spingere la porta perennemente aperta accertandosi che la sedia davanti alla scrivania non fosse occupata. “Entra, Jeremy, accomodati”, lo accolse il capitano. Era ormai avvezzo a quell’occasionale eccesso di gentilezza, al quale corrispondeva un prezzo sempre troppo alto da pagare. Si sedette, in attesa di un perentorio resoconto sull’interrogatorio. “Novità?”. Non metabolizzava più quella parola, la trovava più indicata all’uscita di un nuovo cd di Sting o di un’auto, mentre decisamente fuoriluogo per un’indagine di polizia. “Offenbach ha ribadito la sua estraneità ai fatti e prima ancora che potessi strizzarlo è arrivato quel pescecane di Loach che se l’è portato via”. “Ho visto... Le tue impressioni?”, incalzò Fleetwood allentando il nodo alla cravatta. “C’è dentro fino al collo, ma ignoriamo chi possa avere interesse per la sua pelle… A questo proposito, capitano, le suggerirei di affidare a qualcun altro questo incarico, visto che io sto seguendo altri due casi e...”. Non riuscì a terminare la frase che la mano del capitano, sollevata come la paletta segnaletica della polizia stradale, cadde come una mannaia sulla sua voce: “Non se ne parla proprio, ho qui un fascicolo da farti vedere che getta benzina sul fuoco”. Distese il braccio agguantando da una pila di scartoffie alla sua destra una cartella che lasciò cadere davanti a lui. “Questo Offenbach pare non sia un semplice consulente fiscale, ma il faccendiere di una certa malavita organizzata del New Jersey; se in cambio di

protezione vuotasse il sacco, daremmo respiro a questa città”. Quel termine lo usava spesso quando sentiva odore di promozione, tanto che Stanich riuscì a fiutare l’interesse smisurato del capitano per quel caso. “Non mi è parso che fosse spaventato né che avesse intenzione di collaborare… E poi Randall ci ha lavorato per mesi e i risultati sono evidenti”. “Randall è un buon agente ma non ha le tue doti. Lavoraci e divideremo i meriti, se arriveranno. Datti da fare, ora ho il sindaco in linea, è meglio non farlo attendere”. Il capitano lo liquidò impedendo qualsiasi obiezione, così Stanich prese a malincuore la cartella dalla scrivania e uscì. Vernon lo attendeva impaziente con le mani sui fianchi e le gambe incrociate, sostenuto unicamente dal bordo della sua scrivania: “Novità?”. “Se nomini un’altra volta quella parola chiederò che mi venga affidato un altro partner!”, replicò gettando la cartella sul tavolo e fiondandosi sulla sedia. “Non credo ci sia qualcun altro che ti sopporti… Risolto?”, insistette il sergente sbirciando nel fascicolo. “Per niente, ci hanno gentilmente sbattuto in un caso cieco e pretenderanno ugualmente dei risultati”. “E l’omicidio della sesta Avenue?”. “Lo eranno a qualcun altro!”. “Cosa abbiamo?”. “Uno Steyr automatico con silenziatore, un consulente reticente e un maggiordomo con le natiche forate”.

Rosemary era andata via da un paio d’ore e già ne avvertiva la mancanza. Non era la solitudine a tormentarlo, a quella si era abituato; ma quel senso di inquietudine che si era instaurato dopo aver preso coscienza del tempo che gli

restava da vivere, assieme al rammarico per quello sprecato nell’oblio più totale, che ne rappresentava la maggioranza. A parte alcune partecipazioni casuali a sfilate e manifestazioni, la sua vita era sempre stata improntata a percorrere cira sei metri, la distanza che divideva la cucina dalla poltrona davanti al suo televisore. Non coltivava hobby, né praticava alcuna attività sociale: se fosse morto all’improvviso, nessuno avrebbe percepito la sua assenza, eccetto Ray. Zacary considerò che come qualsiasi altro cittadino nelle sue condizioni avrebbe dovuto necessariamente sistemare alcune cose prima che Ray sistemasse lui. Sconsolato si rese conto che non aveva nessun asse ereditario né qualcosa di appetibile da lasciare a eredi: a parte una collezione di armi e munizioni conservata dentro una Samsonite rigida, il suo appartamento era di una mediocrità impressionante e il suo conto in banca rispecchiava tale immagine. Avrebbe dovuto saldare preventivamente il conto per le sue esequie, altrimenti neppure il pastore avrebbe assistito alla sua sepoltura. Cinicamente pensò che gli unici vantaggi della sua condizione consistevano nel poter scegliere preventivamente la bara e il luogo dove essere tumulato. Guardò la luna che spuntava con lentezza dal bordo della finestra e spense la luce per godersi quel momento.

La sua ombra si spalmò nella parete nord del General Hospital. Indossava quella tenuta da infermiere in modo così goffo da apparire inverosimile per quella professione. Oltre a quel camice tre misure più grande della sua, Slim si era addobbato con una strumentazione medica a dir poco appariscente: uno stetoscopio appeso al collo, un paio di siringoni ancora confezionati nella tasca destra e una flebo nella sinistra; cinque penne nel taschino e per ultimo una cartella rigida dietro cui nascondere lo sguardo nel caso si ritrovasse osservato da qualcuno. Tintinnava come una giostra dato che, malgrado gli sforzi, la larghezza di quel camice gli impediva di tenere il tutto sotto controllo. Dopo essersi guardato attorno spinse la porta di sicurezza numero diciassette: irrimediabilmente chiusa.

Ripercorse il perimetro del centro medico per accertarsi che anche le altre sedici non gli concedessero un epilogo diverso. Col fiato decisamente corto, decise di tentare l’entrata sud benché fosse custodita: un agente vigilava svogliatamente l’area guardando ripetutamente l’orologio. Un’ambulanza a sirene spiegate accostò in quel momento presso le barriere del viale, così Slim decise che quello era il momento opportuno. Assunse un’aria compunta e professionale mettendosi a scartabellare gli appunti della sua cartella, mentre la flebo gli penzolava a lato pericolosamente a ogni suo o. L’agente lo guardò sgranando gli occhi mentre Slim gli ò di fianco totalmente assorto dal foglio bianco che aveva davanti. Finse di essere in pauroso ritardo e accelerò il o, sul punto di varcare la soglia dell’entrata. La guardia sollevò la mano, ma prima che potesse obiettare qualcosa, fu richiamata dagli operatori dell’ambulanza che chiesero la sua assistenza; dunque non poté fare altro che seguire con lo sguardo lo strano dottore allontanarsi nei meandri del pronto soccorso per poi scomparire del tutto. Slim inspirò profondamente e spinse il tasto di richiamo del primo ascensore che si era trovato davanti. Quella mattina si era accertato telefonicamente sulla locazione della stanza all’interno della struttura ospedaliera, per questo si concentrò nel ripetere mnemonicamente il percorso stabilito. Spinse il tasto diciassette, sopreso che quel numero si fosse ripresentato puntualmente e con disarmante fatalità in quella serata estiva. Le porte si spalancarono e rivelarono una paziente pesantemente obesa di oltre settantanni stravaccata su una sedia a rotelle. La fissò sconcertato così a lungo che alla fine la donna sbottò: “Hai intenzione di guardarmi ancora per molto o pensi che sia giunto il momento di dichiarami il tuo amore?”. Il sicario rimase un attimo disorientato, poi fece sbocciare un sorriso così sintetico da non essere più riciclabile e strisciando da un lato cedette il o alla donna. Le paratie si chio alle sue spalle e si ritrovò nella hall del reparto oncologico. ò davanti alla reception sotto lo sguardo dei presenti, attirando l’attenzione anche di altri che stavano sopraggiungendo in quel momento. Realizzò che la sua copertura non doveva essere molto efficace, perciò affrettò il

o e si infilò in uno dei due corridoi laterali; dopo averlo percorso per metà si rese conto che la stanza che cercava era dalla parte opposta. Riò davanti alla reception così in fretta che lo stetoscopio gli si sfilò dal collo e cadde con un tonfo sul pavimento. Si chinò a raccoglierlo e con la coda dell’occhio osservò se avesse destato l’attenzione di qualcuno: tutti i presenti, nessuno escluso, avevano lo sguardo fisso sulle sue mosse. Raccolse lo strumento e lo sistemò come ogni buon medico sa fare, anche se percepì una fastidiosa quanto critica attenzione nei suoi confronti, quindi si inoltrò nell’unico corridoio non ancora percorso. Scrollati di dosso gli sguardi incuriositi e alquanto ironici, cominciò a leggere la numerazione delle stanze: 20… 21… 22… Eccola, finalmente. Il corridoio era sgombro e silenzioso, perciò tirò fuori la foto dalla tasca e rivolse un ultimo e concentrato sguardo al volto che avrebbe dovuto incontrare al di là della porta. La rimise a posto e tastò il camice alla ricerca dell’arnese da lavoro. Il panico lo colse non appena si rese conto di aver dimenticato la Desert Eagle munita di silenziatore nell’auto. Cercò disperatamente una soluzione sul luogo, perché tornare in auto avrebbe significato non poter più rientrare senza destare ulteriori sospetti. Setacciò nuovamente le tasche di quella tenuta da medico e ne cavò fuori un bisturi ancora imballato: Bill il rigattiere lo aveva rifornito piuttosto bene, pensò fra sé. Tolse l’involucro protettivo come se stesse sbucciando una banana e la lama del bisturi spuntò emanando riflessi argentei, colpita dalla luce bianca dei neon. Rigirò nelle mani l’arnese mormorando: “Gli aprirò la gola… Non se ne accorgerà nemmeno!”.

Meditabondo, Zacary osservava malinconicamente la luna piena, ma prima di consegnare la sua mente a Morfeo decise di liberarsi di quel fastidioso stimolo che lo invitava ad andare in bagno. Scansò le coperte e si mise seduto nella completa oscurità, infilò le ciabatte

deciso a non accendere la luce e a farsi guidare dal flebile riflesso lunare: non intendeva perdere quel principio di sonnolenza che lo aveva intorpidito e che il bagliore delle lampade avrebbero potuto vanificare. Si alzò deciso a raggiungere il bagno, trascinandosi dietro, distanziato a un paio di metri, il porta-flebo, che continuava imperterrito a percolare il fluido trasparente attraverso l’ampolla appesa sopra. Aveva appena oltreato la porta della stanza, quando questa venne improvvisamente spalancata: percepì la presenza di qualcuno e il tubicino fissato con l’adesivo al polso tendersi di colpo; l’ago nella vena venir strappato con violenza, seguito da un frastuono assordante di vetri rotti e l’urlo soffocato di qualcuno schiantarsi sul pavimento. Seguì un silenzio inquietante. Zacary a tentoni raggiunse l’interruttore e senza esitazione lo premette. Ciò che vide lo lasciò letteralmente senza parole: un uomo giaceva riverso per terra col volto adagiato sul pavimento. Zacary notò l’abbigliamento da medico e lo stetoscopio lordo di sangue ancora appeso al collo. Lentamente gli si avvicinò per guardarlo con più attenzione e avvertì una larga chiazza di sangue al di sotto della gola. Si chinò leggermente e comprese che qualcosa aveva reciso di netto la giugulare dell’uomo con esito apparentemente fatale. Portò lo sguardo indietro e vide che un piede dell’intruso era ancora impigliato nel tubo della flebo, la responsabile di quell’infausto incidente. Allora si rese conto che anche lui era lordo di sangue e che il polso in cui era infilata la cannula gocciolava copiosamente. Infine la porta si spalancò di colpo, mostrando quel crudo spettacolo alla caposala, al medico di turno e alla vigilanza.

Stava percorrendo quella strada con crescente inquietudine da troppi giorni ormai, costretta a guardarsi le spalle ogni volta che si immetteva nella via che portava alla sua abitazione. Avrebbe voluto essere sola in quei momenti, invece paure, dubbi, incertezze e tanta amarezza la accompagnavano puntualmente in

quel tragitto. Si ritrovò davanti al gradino che lambiva la porta di casa e lo oltreò infilando contemporaneamente la chiave nella serratura: compì quel gesto con velocità sorprendente e con altrettanta lestezza richiuse la porta dietro di sé. Guardò il pavimento rievocando la scena di quella mattina e di riflesso accarezzò con la mano la parte del collo ancora dolente. La luce della cucina era accesa e il tintinnio dei bicchieri attirò la sua attenzione. Percorse il breve spazio che conduceva a quella stanza e abbandonò borsa e blusa sulla poltrona. Lanny aveva quasi terminato di apparecchiare: era il suo modo di contribuire al manage familiare e strappare qualche sorriso alla madre. Rosemary si mise ai fornelli sotto lo sguardo compiaciuto del figlio: “Come è andata oggi?”. Lanny rispose distrattamente: “Bene mamma… Oggi mi ha chiamato anche il preside!”. La madre si voltò di scatto accogliendo quella novità come un certo timore: “Il preside?”. “Sì, mi ha dato qualcosa da consegnarti!”. Rosemary smise di rigirare le uova nel tegame e le versò nel piatto del figlio accompagnandole con un bicchiere di Pepsi. “Tu nel frattempo inizia, io arrivo subito”. Lasciò la cucina speditamente ed entrò nella stanza del figlio, quindi prese la cartella del ragazzo e vi frugò dentro. Prese il diario e, ancor prima di averlo aperto, la comunicazione del preside si presentò da sola, in netto rilievo rispetto alle altre. Il foglio ripiegato perfettamente in quattro emanava, al solo tatto, una sensazione spiacevole ancor prima di mostrarsi. Sospirò, dispiegandolo con atavica frenesia. Lesse quella laconica quanto asettica richiesta di colloquio fissata per la mattina seguente presso la direzione didattica; non era specificato il motivo di quella convocazione, fatto che stava a significare che doveva necessariamente trattarsi di qualcosa di importante.

Ritornò in cucina col foglio in mano e guardò negli occhi il figlio: “Lanny, è successo qualcosa a scuola che non mi hai detto?”. “No, mamma, perché?”. L’evidente sincerità del figlio lasciava aperti diversi scenari, al punto da alimentare nella donna un’inquietudine latente. Richiuse quel foglio e si sedette accanto a lui, versando nel suo piatto ciò che era rimasto nel tegame. Aveva appena addentato la prima fetta di pane, quando il cellulare iniziò a squillare. “Questa giornata non finirà più”, disse lasciando la tavola per agguantare il cellulare. La scritta nel display tolse qualsiasi dubbio sul mittente: “Il General Hospital…”, mormorò. “Che possono volere a quest’ora?”. Il suo sguardo si incrociò con quello del figlio prima di premere il tasto di accettazione della chiamata. “Pronto?”. “Parlo con la signora Rosemary Wash?”. “Sì, sono io”. “Mi spiace disturbarla a quest’ora, ma ho ritenuto opportuno metterla al corrente dei termini del suo contratto”. “Il mio contratto? Ho ancora più di un mese...”. “No, signora, soltanto due… Le rimangono, anzi, solo tre giorni di lavoro”. Rosemary spalancò gli occhi in preda al panico: “Non può essere, io ho necessità di lavorare!”. La voce dall’altra parte del telefono rimase fredda davanti a quelle giustificate rimostranze: “Mi spiace, non dipende da me. Le auguro comunque una buona

serata…”. Rosemary si lasciò andare, accarezzando con la spalla la parete, mentre la mano che sosteneva il cellulare ricadde sul fianco: “Sì, sarà proprio una bella serata...”.

Quella mattina a Manhattan si respirava un’aria più fresca, che sembrava concedere una tregua rispetto alla calura dei giorni appena trascorsi. Ray stava gustando la brezza mattutina a bordo della sua Bentley GT decappottabile, comodamente seduto alle spalle di Al che, impegnato alla guida della vettura, lo stava accompagnando al Norge Cafè per una tradizionale colazione all’italiana: caffè ristretto e alta pasticceria napoletana. “Al, ehi! Al! Fermati al chiosco e prendi una copia dell’Herald”. Al accostò senza replicare, scese lasciando la portiera aperta e, afferrata una copia al volo, la consegnò al suo datore di lavoro prima di riprendere la guida. Ray aprì il quotidiano saltando le prime pagine per andare direttamente ai bollettini azionari. “Oggi a Wall Street se la sono presa comoda, è peggio di un bollettino di guerra!”. Per Al la borsa non era altro che un indumento ornamentale in pelle, tutto il resto gli era pigramente sconosciuto. “C’è da preoccuparsi, capo?”. “Non do il denaro a strozzo alle persone per poi vedere i miei guadagni sfumare con le azioni”. “Che azioni, capo? Se c’è da scaldarsi le mani, non hai che da chiedere”. Ray abbandonò il discorso con un laconico: “Ne prendo atto, Al, ora pensa a guidare”. Posò il giornale al suo fianco e sospinse gli occhiali da sole fino a toccare le

sopracciglia mentre imboccavano l’entrata sul ponte ovest. La brezza spalancò le pagine del giornale sulla morbida pelle connolly della Bentley e l’occhio di Ray cadde su un particolare della cronaca locale. Afferrò il quotidiano togliendosi gli occhiali di scatto, vi avvicinò il viso socchiudendo gli occhi per leggere per la seconda volta con attenzione l’articolo. Lo strinse nervosamente fra le mani e urlò: “Accosta, pezzo d’imbecille!”. Al si voltò non sapendo cosa fosse successo. Per tutta risposta Ray gli fiondò il giornale accartocciato sulla fronte: “Ti ho detto di fermare questa macchina!”. Al accusò il colpo e, intravista una banchina di emergenza, si fermò. Aprì lo sportello e spalancando le braccia chiese: “Ma che sta succedendo?”. Ray scese dall’auto e, piazzatosigli di fronte, gli lanciò il giornale sul petto aggiungendo: “Leggi un po’ qua!”. Al, dopo aver evitato lo sguardo infuriato del capo, rivolse l’attenzione alla pagina: “Ma come...”. “Già! Già! Esatto. Come cazzo può essere successo, me lo vuoi spiegare?”. Il suo tirapiedi riuscì a biascicare solo due parole: “Non saprei...”. “Provo ad azzardare un’ipotesi? Il tuo sicario del tubo è riuscito a tagliarsi la gola nella stanza di Zacary e, per quanto mi riguarda, ha anticipato ciò che gli avrei fatto io”. Poi innalzò la voce e perse definitivamente le staffe: “Ma che l’inferno se l’inghiotta! Ha messo sull’avviso Zacary e se quello parla ci sbatteranno tutti dentro!”. Al abbassò giornale e sguardo in attesa che le acque si calmassero. Ray prese a camminare su e giù davanti all’auto discutendo con se stesso. “Dobbiamo ragionare con calma e trovare una soluzione…”. “Sì, Ray, lo penso anch’io”. “Tu non pensare! Stai solo zitto! E non ti sparo subito solo perché non ho nessun

altro che mi riporti a casa!”. Il malavitoso mise le mani sui fianchi. “Ora tu andrai da Zacary e lo convincerai che noi con questa storia non abbiamo niente a che fare”. “Ma non credi...”, provò a suggerire Al. “So io a cosa devo credere! Portagli un pacco di cioccolatini, un mazzo di fiori, quello che accidente ti pare assieme ai miei saluti di pronta guarigione. Se fa domande digli che la colpa è di quell’impiastro di Offenbach”. Ray si risistemò sul sedile posteriore e concluse: “E prega che non abbia già spifferato tutto alla polizia”.

Il sergente Vernon spalancò la porta del reparto chirurgia, lasciando che Stanich lo precedesse: “In che stanza si trova...”. “Virgil”, aggiunse prontamente, “Virgil Mendez: due stanze più avanti”. “Latino?”. “Portoricano per l’esattezza, ma naturalizzato dalla nascita”. “Adesso i gay si chiamano così?”. Vernon usava quel termine per indicare la nazionalità: “Americano come me e te, Jeremy, niente di più”. Il tenente storse la bocca, diretti com’erano nella stanza del paziente, dove entrarono senza bussare né accertarsi se l’uomo fosse occupato. Lo trovarono disteso col viso poggiato sopra il materasso in uno stato di veglia apparente. Il ventre, adagiato sopra un cuscino, rendeva più evidente la parte dolente. Stanich si fermò davanti al volto del paziente ed, estratto il distintivo, lo piazzò davanti agli occhi di lui: “Questo lo riconosci?”. Lo osservò senza spostare il viso per qualche attimo per poi indirizzare la sua

attenzione sul tenente. “Già visto”. “Bene, Mendez, io sono il tenente Stanich… Siamo qui per quei fori supplementari”. Il portoricano parlava correttamente l’inglese, ma la sue origini avevano lasciato un’impronta indelebile: “Cosa posso fare per voi?”. “Chiarire questa faccenda!”. “Ho già rilasciato un’ampia dichiarazione, non so nient’altro”. Stanich si rivolse a Vernon, il quale tirò fuori dalla tasca un foglio ripiegato e glielo diede. Il tenente lo prese e lo mise nella posizione dove poco prima aveva esibito il distintivo: “Sarebbe questa la tua ampia dichiarazione?”. Virgil guardo le due righe con la sua firma apposta sotto: “Esattamente!”. Il detective si abbassò guardandolo negli occhi: “Che fai, mi prendi per il culo? Vuoi farmi credere che qualcuno ti ha perforato entrambi i lobi scambiandoli per due pernici?”. “Io so soltanto che qualcosa mi ha colpito, il resto è compito vostro”. “Hai visto o sentito qualcosa di strano nei giorni precedenti?”. “Niente di niente!”. Vernon scosse la testa in segno di resa, mentre Stanich concluse: “Spera solo che ciò che hai detto sia vero, altrimenti ti sbatto in cella con chi so io… E quelli i fori te li allargano”. Virgil ingurgitò la saliva seguendo con lo sguardo i due agenti che si allontanavano. “Come da copione”, commentò il sergente. “Non ho ancora finito con lui, lo spremeremo non appena lo avranno dimesso”. Il cellulare di Vernon squillò interrompendo il discorso, ma i due continuarono a camminare mentre il sergente ascoltava una comunicazione di servizio.

“Pare che due piani qua sotto ci sia stato un tentato omicidio!”. Stanich rispose senza voltarsi: “Ne ho le tasche piene di mogli che strangolano i mariti, ci mandino qualcun altro”. “No, Jeremy, pare che sia stato un attentato in piena regola e che il killer sia rimasto vittima di un assurdo incidente”. Il tenente si fermò di colpo voltandosi di scatto: “Cosa?”. “Questo è ciò che mi hanno detto; ci sono gli agenti Hunt e Grossman che piantonano il corpo, se vuoi...”. Stanich ci pensò un attimo: “Solo per curiosità, ma se è la solita bufala, abbandoniamo il campo”.

La stanza era stata ripulita a dovere e il corpo del sicario gli era ato davanti disteso su una barella. Il poliziotto che gli aveva rivolto i primi quesiti era solo il primo di una lunga serie che aveva propinato la medesima filastrocca a tutti. Zacary guardò l’orologio posto in rilievo nella superficie piana del comodino e storse la bocca per quel lieve ritardo. Attendeva quel momento col desiderio di riprovare quelle intense emozionie accantonare per un momento lo scampato pericolo. La porta si mosse e i suoi occhi seguirono famelicamente la maniglia che ruotava: entrò il primario seguito da tutta la sua corte. Con pieno distacco rispose alle sue domande non ascoltandone bene le parole. Seguiva il profilo di quei volti nel tentativo di scorgere quello di Rosemary. Il luminare, fedele a Ippocrate, terminata la lezione sgomberò l’aula per recarsi in quella attigua. Lentamente tutti lo seguirono come in una processione senza incenso ma ricca di profumi femminili e permeata di dopobarba. Solo in quel momento riconobbe le sue scarpe, poi tutto il resto. Era stata in disparte, in attesa del termine della lezione, con le braccia incrociate e lo sguardo perso in chissà quali pensieri.

Zacary sorrise spontaneamente, ricambiato dalla donna in maniera gradevole ma non appagante. “Buongiorno, signor Belimbau, come sta stamattina?”. Era gentile, ma la voce forzatamente allegra mascherava una profonda tristezza. “Io come ieri, ma tu… Lei, devo dirle, è peggiorata”. Rosemary inspirò profondamente mentre cambiava la cannula e il bendaggio: “I soliti problemi, come tutti, del resto”. La voce si era fatta incerta e le mani tremavano leggermente. “Le sembrerò un impiccione ma… Se posso in qualche modo aiutarla...”. Quella frase gli era scappata spontaneamente e per un instante pensò di essere stato inopportuno. Lei lo guardò per un attimo poi il viso cambiò leggermente espressione, diventando quasi rassicurante. “Oh! Lei è gentile, ma la conosco appena e...”. Il sicario non permise a quello spiraglio di chiudersi: “A volte uno sconosciuto può rivelarsi utile più di quanto si pensi”. La donna prese le pastiglie dal comodino e riempì mezzo bicchiere d’acqua: “Lei ha già abbastanza del suo per stare a sentire i guai degli altri”. Zacary prese il bicchiere e ingurgitò le capsule assieme a quel diniego, che gli parve più amaro di qualsiasi farmaco. Non riuscì a replicare, ma lo sguardo della donna era segnato da una richiesta di aiuto. Cercava un modo per far breccia in quel muro e rasserenare le spesse nubi che aleggiavano nei pensieri della donna, quando bussarono alla porta. Rosemary andò ad aprire e, quando lei sollevò lo sguardo verso l’alto, il sicario intuì chi avesse davanti. “Signor Belimbau, c’è un signore che vuole vederla!”. Avrebbe voluto sparargli in mezzo agli occhi soltanto per aver infranto quei pochi ma intensi attimi con Rosemary. “Grazie, Rose, lo faccia entrare”.

Il viso dell’uomo cancellò i pochi dubbi e quel pacco di cioccolatini sotto il suo braccio ne riscrisse di nuovi. “Tornerò non appena avrete terminato”, disse Rosemary guadagnando la porta. “Non si allontani, non ne avrò per molto!”, aggiunse Zacary seguendo la sagoma della donna sparire dietro la porta. L’uomo si avvicinò al letto lentamente, quasi avesse timore che il paziente nascondesse una pistola sotto le coperte. “Ray ti porta i suoi saluti… E un piccolo pensiero di pronta guarigione”, esordì Al posando la scatola sul comodino. Il sicario lo guardò con diffidenza trattenendo le mani sotto le coperte: “Riferiscigli che sono ancora vivo e che intendo continuare a esserlo”. La sicurezza con cui pronunciò queste parole lasciò perplesso Al: un’inaspettata novità quella sensazione di superiorità e di sfida esibita da Zacary, da sempre considerato da tutti poco più di un galoppino. “Ray vuole che tu sappia che non ha niente a che fare con ciò che ti è successo e che ti rivuole con sé non appena ti avranno dimesso”. Zacary sorrise sarcasticamente: “Commovente, davvero commovente… Mi meraviglio del fatto che non sia qui a raccogliere il mio sudore con una pezza umida sulla mia fronte!”. Al rimase di stucco e continuò ad ascoltare. “Di’ al tuo padrone che il suo culo per adesso è salvo, ma al solo sentore di qualche suo nuovo ambasciatore, chi di dovere saprà persino di che colore sono le sue mutande”. Rimasero a guardarsi per un altro istante, poi Al si girò di spalle per guadagnare la porta. “Ehi, dove vai?”. L’uomo di Ray si voltò sorpreso e attese ulteriori spiegazioni. “Non mangerei quei cioccolatini neppure se fossero stati confezionati dal Dalai Lama in persona”. Al tornò sui suoi i e, rimessa la confezione sotto il braccio, lasciò la stanza.

Ora non aveva più paura di Ray, non aveva più paura di dire ciò che pensava, non aveva più paura di morire. Zacary si sentì vivo per la prima volta.

L’ascensore non gli diede il tempo di riflettere su quella mattinata cominciata in modo strano e su quella disarmante piega che sembrava non volersi riaprire. Il cicalino dell’ascensore anticipò l’apertura delle porte scorrevoli e il tenente uscì seguito dal suo partner. Furono subito avvolti dall’odore pungente di formaldeide, sempre presente nei reparti di medicina autoptica. Stanich non aveva mai digerito quella parte del suo lavoro e il suo stomaco glielo ricordava sovente. Riconobbe Hunt dalla prominente ipa che spuntava dalla porta, così lo prese alle spalle cingendogli il collo. “Diavolo tenente, mi ha fatto prendere un colpo!”. “Un buon poliziotto sa coprirsi le spalle…Che diavolo è successo?”. Il sergente Hunt si riassettò la giacca e fece strada ai due: “Un balordo travestito da medico ha fatto irruzione in una camera al diciassettesimo piano, armato di bisturi e… Ma venga, le faccio vedere”. Il poliziotto li condusse all’interno di un ampio ambulatorio, dove i feretri giacevano ordinatamente uno di fianco all’altro con la loro targhetta identificativa appesa al pollice. Si fermò davanti a uno di essi e dopo aver contato e letto la targhetta identificativa tolse il drappo che lo ricopriva. “Non aveva documenti con sé”, riprese Hunt, “ma lo abbiamo già identificato… Seliam Catdrige, meglio conosciuto come Slim”. Il tenente guardò il viso di Slim, che pareva avesse ancora ritratto sul volto lo stupore dei suoi ultimi istanti. Ben visibile anche lo squarcio sul collo, causa del decesso. “Ha l’aria di un pagliaccio da circo e invece...”. Hunt riprese con le informazioni: “Era un balordo che viveva ai margini della

malavita: qualche furto, un paio di tentate rapine ai supermercati terminate in farsa e piccole storie di riciclaggio”. Stanich sfregò la mano sul viso con fare dubbioso: “Mi chiedo perché sia venuto qui a tagliarsi la gola travestito da medico… A chi si presume avesse rivolto le sue attenzioni?”. Il sergente prontamente rispose: “Un certo Zacary Belimbau, paziente terminale su al diciassettesimo piano”. “Questa storia apparentemente non ha senso”, intervenne Verner. “Chi assolderebbe qualcuno per far fuori un paziente in fin di vita?”. “Qualcuno che ha molta paura o troppa fretta, ma che non può permettersi un professionista”, rispose a Stanich facendo cenno di ricoprire la salma. Il lenzuolo ricoprì Slim lasciando che quel pietoso gesto fosse l’ultimo prima della sepoltura. Uscirono dalla sala ripercorrendo a ritroso il corridoio. “Che faccio, tenente, porto il fascicolo alla centrale?”. “Sì, Hunt, ma riponilo sulla mia scrivania e avvisa il capitano che me ne occuperò io”. Verner rimase sorpreso da quell’inaspettata circostanza e non appena Hunt si fu allontanato volle chiarire i suoi dubbi. “Jeremy, mi era parso un caso da trascurare”. “Non so”, rispose il tenente, “sarà il mio intuito che sta andando a puttane ma c’è qualche analogia che me lo impedisce”. “Analogia con cosa?”. “Offenbach!”. “Questa volta non ti seguo”. Stanich si fermò e prese fra le dita l’indice della mano destra: “Allora, qualcuno

ha tentato di uccidere quel contabile. Se avessi detto a mio figlio di farlo con quel fucile e da quella distanza, lui ci sarebbe riuscito; al contrario hanno sbagliato la mira di un paio di metri e beccato il maggiordomo. E se questo non bastasse, hanno lasciato l’arma dell’agguato sul posto: un’ingenuità a dir poco dilettantesca”. Prese un attimo di pausa poi, afferrando il dito medio, proseguì: “In quest’altro caso rasentiamo il ridicolo: per ipotesi qualcuno assolda questo balordo per asse Belimbau, ma il tale è talmente maldestro che si taglia la gola nell’attuare il piano. Non so, ma ho la sensazione che siano due facce della medesima medaglia”. Il sergente mise le mani sui fianchi e con un sorriso malizioso disse: “Che dici, interroghiamo gamba di legno?”.

La metro stava imboccando una stazione dopo l’altra in un ricambio continuo e frenetico di persone a ogni fermata. Rosemary vi era salita dopo aver velocemente mandato giù un boccone, saltando così il pasto alla mensa ospedaliera, solo per poter chiarire quella lettera col preside della scuola. La notizia dell’imminente perdita del lavoro l’aveva ulteriormente scossa e demoralizzata. Cercava nella sua mente altre risorse per continuare a combattere, consapevole di essere ormai in riserva. Se non fosse stato per quel figlio, avrebbe già mollato da tempo e fuggito quella misera esistenza per cercare fortuna altrove. Le era rimasta la speranza e un corpo ancora in salute e vigoroso su cui riporre gli ultimi stralci di volontà. Era disincantata dall’eccessiva premura di quel paziente. Gli uomini nella sua vita avevano soltanto preso e mai concesso. Aveva iniziato suo padre, proseguito suo marito e continuato una lunga serie di beceri datori di lavoro. Poteva sentire ancora le loro mani sopra di lei, ora per toccare ora per colpire. Non vi erano mai state vie di mezzo né dilazioni, solo un respiro alla volta. Era avvilita e il suo cuore segnato da profonde cicatrici. La fiducia nel prossimo era un sentimento che non poteva più permettersi. La fermata della metro era quella giusta: si alzò e scese sospinta dalla folla. Il percorso che portava alla scuola pubblica lo fece col cuore stretto nel palmo della mano. Guardò il cielo alla ricerca di ciò di cui dubitava da sempre e che

non aveva mai trovato. Più avanti vide la croce sopra il campanile, ci ò davanti e rallentò il o. Vi ava davanti quattro volte al giorno ma era la prima volta che la osservava veramente. L’oscurità dietro quella porta sempre aperta non le aveva mai suscitato interesse e il soffermarvisi la considerava una perdita di tempo. Proseguì con la sensazione che forse quel momento era giunto e che una buona parola o un consiglio non avrebbero di certo peggiorato le cose. Quella strada offriva sempre uno spettacolo degno del miglior campionario di volgarità: i barboni non bivaccavano più agli angoli delle strade, ma occupavano il centro del marciapiede. Rosemary era costretta a scavalcare le loro gambe come in una corsa a ostacoli, inseguita dai loro assonnati sguardi e dal pungente odore di trascurata umanità. Anche il meretricio, offerto palesemente e smerciato con spudoratezza, inondava quel quartiere, ricoperto da voci sguaiate e trattative terminate coi più beceri degli insulti. Il condimento a tutto ciò non mancava certo: piccoli borseggiatori, magnaccia e spacciatori di mezza tacca animavano la vita notturna e diurna di quel luogo. Poco più avanti, la scuola, costruita con mattoni rossi e riaffrescata da artisti di strada, si adattava perfettamente allo stile del luogo. Per Rosemary era l’unico riparo dove suo figlio avrebbe potuto imparare qualcosa e fino a quel momento il solo che poteva permettersi. La cancellata esterna era costantemente piantonata dallo sguardo attento e vigile di ragazzi pronti a servire qualsiasi alternativa allo studio e alla noiosa vita quotidiana: un variegato campionario di stupefacenti era sempre disponibile e un’arma col colpo in canna sempre presente nelle loro cinture. Vi ò davanti, ignorando i loro sguardi e attraversando il piazzale adiacente l’atrio principale. Salì al primo piano, dove era collocata la direzione, e lì presentò la lettera ricevuta a una delle segretarie. Senza pronunciarsi, l’impiegata indicò la sala d’aspetto dove avrebbe dovuto attendere. Non dovette rimanerci a lungo, perché con un altro sgradito gesto la stessa persona le suggerì la porta dove sarebbe stata ricevuta. Rosemary bussò leggermente affacciandosi al suo interno.

“Venga, signora Wash, si accomodi”. Quella voce tediosa e priva di accenti le incuteva timore, più della comunicazione in sé. “Sono qui perché...”. “Sì, signora… La prego, si sieda”. Per esperienza sapeva che un eccesso di gentilezza stava a presagire l’esatto opposto, ma accettò il consiglio di accomodarsi in una delle due poltrone antistanti la scrivania. Scrutò gli occhi del preside Johnson alla ricerca di un barlume di umanità, ma quel burocrate sull’orlo della pensione e dagli spessi occhiali non era mai stato una persona comprensiva né elastica. Fissò il suo sguardo sfuggente mentre apriva un cassetto della scrivania e tirava fuori uno scarno fascicolo. “Sappia che ho valutato personalmente e con profonda attenzione questa situazione, per questo è con sincero rammarico che l’ho convocata...”. Rosemary non lo ascoltava più, attendeva solamente il triste epilogo di quella settimana. Lasciò che Johnson sciorinasse la sequela di menzogne, per risvegliare la sua attenzione unicamente quando sentì pronunciare il nome del figlio. “… Lanny annovera delle carenze in tutte le materie e la sua capacità di apprendimento è molto al di sotto della media...”. “Sì, è vero”, disse interrompendo il preside, “ma sono certa che è una fase momentanea, ha sempre recuperato”. Il preside si tolse gli occhiali mostrando il suo vero volto: “Suo figlio ha necessità di un sostegno didattico che, ahimè, in questa scuola non possiamo permetterci e d’altronde, se lasciassi correre, l’intera classe ne rimarrebbe svantaggiata”. Rosemary trattenne le lacrime ma la rabbia in corpo era tanta: “Non posso permettermi un insegnante a pagamento ma mio figlio ha diritto allo studio!”.

“Su questo sono d’accordo con lei, ma non in questo istituto! Il nostro bilancio ci permette appena di sostenere l’organico attuale”. “Ma ci dovrà pur essere una soluzione!”. Johnson, spazientito, terminò laconicamente: “Si rivolga ai servizi sociali; ora, se vuole scusarmi...”. Avrebbe voluto stampargli sulla fronte quel timbro con la scritta “pubblica istruzione” rovesciato come un re sotto scacco sulla scrivania accanto alla mano destra dell’uomo. Uscì sbattendo la porta e rovesciando tutta la sua ira sulle scale. L’angoscia prese il sopravvento sulla rabbia, sensazione che le tolse ogni speranza e fiducia in quella comunità. Ripercorrendo la medesima strada, si ritrovò a guardare quella chiesa e, presa da uno strano desiderio, varcò quella porta per la prima volta. Era deserta e scarsamente illuminata dalle candele di cera negli offertori. Era una chiesa povera come la gente che la frequentava, ma fu per questo che Rosemary la sentì più vicina al suo stato d’animo. Fece il segno della croce, fermandosi un attimo a chiedersi se lo stesse compiendo nel verso giusto. Il piccolo altare al centro di due file di consunti banchi era posto su una piccola cupola in legno priva di affreschi. L’attenzione della donna fu attratta da una piccola nicchia alla sua destra dove una rosa di candele illuminava una statuetta in legno. Vi si avvicinò con un certo disagio misto a timore, come se non desiderasse essere vista, ma la sensazione fu nettamente quella. Il volto della Vergine la penetrava fin nell’animo: non riuscì a sostenerne lo sguardo né a fare altro, tanto che lasciò quel luogo come il peggiore dei peccatori.

“Che significa che il mio culo è salvo?!”, ripeté con un certo disgusto mentre osservava la scatola di cioccolatini posta sul bancone del locale accanto a una coppa di pregiato cognac.

Al stava rannicchiato, come un pappagallo sul trespolo, sul tondo sgabello girevole: “Ho riferito quello che ha detto… Non ha aggiunto granché”. “Lo so, testardo di un mulo!”, replicò Ray spazientito. “Maledizione, chiedevo solo che impressione ti avesse fatto, se è stato sincero o ti ha preso semplicemente per il di dietro!”. La frase arrivò a una coppia di nerboruti uomini dalla pelle scura che, mostrando le loro candide dentature, sghignazzarono apertamente a quel colorito frasario. Al li guardò dritto negli occhi e, come da copione, i fessi replicarono con una grassa risata. Il guardaspalle di Ray lasciò lo sgabello e si avvicinò ai due con apparente distacco; non appena fu loro davanti afferrò il capo irsuto del primo e lo sbatté con violenza sul bicchiere posto sul bancone. Il cristallo andò in pezzi con fragore mentre i cocci si conficcavano nel viso dell’uomo. Il compagno allora afferrò una bottiglia, pronto a scagliarla sul capo di Al, ma si fermò a mezzaria: lui gli aveva afferrato il polso e con l’altra mano gli cingeva il collo. Lo sollevò come un pupazzo e lo scagliò sul pavimento come un sacco di carbone, tanto che si sentì lo scricchiolio delle costole lussate e il cranio sbattere con violenza. Mentre Al osservava la scena, una pistola spuntò nelle mani dell’uomo alle sue spalle, seguita dal fragore di una bottiglia che si frantumò sul suo cranio. Al si voltò a guardare: Ray impugnava ciò che rimaneva di una bottiglia di cognac. “Era invecchiata di ventiquattro anni, che spreco…”, commentò rivolto al liquore sparso davanti a lui. “Butta fuori questo ciarpame e non essere così suscettibile… Come vedi, senza di me saresti già morto!”. Al trascinò i due per il corridoio e li scaraventò come immondizia sul marciapiede. I due rotolarono ai piedi di Nero che, sopraggiunto in quel momento, allungò il braccio per bloccare l’uomo in sua compagnia: “Ma che diav...”. Si guardarono un attimo con Al, quindi aggiunse: “Chi sono questi?”. Al si riassettò la giacca lanciando un ultimo sguardo ai due uomini riversi sul marciapiede: “Spazzatura, niente di più”. Nero si rivolse all’uomo al suo fianco, che sembrava seguire in maniera

distaccata gli eventi: “Vieni, ti presento il capo!”. Entrarono all’interno dell’Oklahoma risvegliando in Danny quel sapore disgustoso di feccia dopo che il mosto è stato travasato. Gli arono davanti come se fossero a casa propria, e in effetti per loro lo era, poi proseguirono nella sala attigua, dove si accostarono al bancone del sommelier. Ray uscì dalla toilette lisciandosi il lussuoso soprabito: “Negri della malora, guarda come si sono ridotti mille dollari di pregiata stoffa… E tu!”, disse rivolto ad Al, “vedi di avvertirmi la prossima volta”. Nero prese la parola dopo un’occhiata sarcastica nei confronti di Al: “Questa è la persona di cui ti parlavo”. Ray gli rivolse lo sguardo con la diffidenza di chi ha un ato torbido: “Sediamoci. Al, portaci qualcosa da bere”. Continuò a osservare il nuovo venuto concentrandosi sulle stranezze del suo abbigliamento. Qualsiasi cosa portasse addosso, era scura, compresa una curiosa kefiah turca che a stento gli calzava sulla testa. I tratti mediorientali e i larghi baffi pendenti all’ingiù ponevano una pietra tombale sulla questione delle sue origini. Era alto, imponente e quel pastrano scuro lo rendeva più simile a un armadio a quattro ante; di sicuro con Al avrebbe formato una bella coppia. “Lui è il Turco”, lo apostrofò Nero sistemandosi su una sedia. “Non so per quale motivo, ma ne avevo un certo presentimento”, sentenziò Ray. “E dimmi, Turco, ti hanno spiegato cosa devi fare?”. L’uomo annuì senza proferire parola. “Se fossi un po’ più prolisso e ci degnassi anche sintenticamente di illustrarci il tuo piano…”. Il sicario aprì le mani e le ricongiunse incrociando le dita: “Lo prenderò alle spalle e gli spezzerò il collo!”. Nero si rese conto che il suo capo era rimasto letteralmente allibito; non tanto per ciò che aveva detto il Turco, ma per quella voce sottile e dal tono puramente

femminile e androgino che era scaturita dal suo corpo. Ray si era voltato attorno non riuscendo a capire la provenienza di quella voce, scartando a priori che fosse effettivamente stato il Turco a parlare: “Potresti ripetere? Non credo di aver capito bene”. Non era la prima volta che si sentiva ridicolizzato per quella sua peculiarità vocale, ma il sicario fece buon viso a cattivo gioco: “Ho detto che gli spezzerò il collo...”. Questa volta Ray ebbe la conferma ai suoi dubbi e, alzandosi dalla sedia, indicò a Nero di seguirlo in disparte. “E questo finocchio da dove è sbucato?”. Nero dopo un attimo di difficoltà rispose: “Non devi preoccuparti, capo, voce a parte è un killer che sa il fatto suo!”. “Tu dici?”, replicò sarcasticamente. “Più che di un ammazzasette ha l’aria di un beduino vestito a festa, e non voglio dilungarmi sulla voce perché diventerei volgare…”. “No, capo, ti sbagli, il Turco me lo hanno garantito, è uno che ci sa fare!”. Ray inspirò un paio di volte: “La garanzia te la danno se comperi un frigorifero… Se anche questo commette un errore, io finisco al fresco e voi sotto terra”. Nero deglutì e l’insicurezza si fece strada in lui: “Se non ti va possiamo aspettare...”. “No, mi basta sapere a chi dovrò indirizzare una pallottola in mezzo agli occhi prima di vedere il sole a scacchi”. Detto questo, si riavvicinò al tavolo, che nel frattempo Al aveva adornato con liquori e pasticcini freschi. “Allora, Turco, sistema questa faccenda in modo pulito e riceverai un extra rispetto a ciò che ti ha promesso Nero… Deludimi e, per quanto tu sia grosso, ti rispedirò a Marrakech come mangime per cammelli!”.

La visita di Al non era giunta inaspettata, ma la sua reazione lo aveva colto di sorpresa. Fino a quel momento lui era stato al centro delle attenzioni di Al, che gli aveva sempre scaricato addosso con male parole e qualche sberla le sue frustrazioni. Si chiedeva come avesse potuto subire ivamente per tutti quegli anni le vessazioni di Ray e dei suoi accoliti. In quale angolo era stato relegato il suo orgoglio in quel lasso di tempo? Una sorta di umiliante e frustrante condizione, dove la sua esistenza era stata costretta a soggiacere. Un’irrefrenabile rabbia lo colse tanto che, se Al fosse stato ancora lì, lo avrebbe strangolato con il tubo della flebo. Già, la flebo. Riportò lo sguardo sull’ampolla ormai vuota, assieme al pensiero di quella donna di cui Al lo aveva privato con la sua presenza. Giurò a se stesso che sarebbe stato il solo e unico gestore di ciò che rimaneva della sua esistenza e che dedicarla interamente a Rosemary sarebbe stato il suo unico obiettivo. Già, quella donna conosciuta troppo tardi suscitava in lui emozioni contrastanti e nuove; che opportunità se solo avesse avuto vent’anni di meno. Si toccò il volto cercando giovani sembianze ormai svanite, trovando solo della carne pendente alternata a solchi bui e profondi. “E se anche fossi stato più giovane?”, pensò. “Cosa avrei potuto offrirle? La misera esistenza di un faccendiere al soldo di un mediocre malavitoso…. No. Questa è la condizione giusta, morente ma libero”. E poi si sentiva ancora in forze: quelle bocce di liquido lo avevano rinvigorito, con l’unica pecca di non essere accudito esclusivamente da Rosemary. Le ultime gocce penetrarono nelle vene, poi il travaso si fermò. Nel medesimo istante la porta si aprì e quel volto tanto atteso si ripresentò con timidezza. “Posso, signor Belimbau?”. Il volto di Zacary si illuminò come l’albero di Natale posto al centro della Grande Mela, anche se subito sopito dal viso ancor più serio rispetto alla mattina e segnato da un oscuro malessere della donna. “Oggi non sono di grande compagnia”.

“Per me è più che sufficiente la sua presenza”, rispose con gentilezza Zacary. Rosemary sostituì la flebo, quindi si prese cura anche del braccio. Lui le avrebbe permesso tutto, persino di staccarglielo e portarselo via. “Ho l’impressione che oggi non sia stata una bella giornata”. Lei si fermò e per un attimo Zac sentì sgorgare le lacrime dal volto della donna. Le contrastò con forza, ma la sua voce la tradì: “Tremenda è il termine più appropriato! Mi scusi, ma preferirei non parlarne”. “Certo, non intendevo...”. Cadde il silenzio per un attimo, con Zacary che si sarebbe spellato la lingua con pignola dedizione per averla trascinata sull’orlo del pianto. Fu lei a parlare nuovamente: “Dimenticavo… La dimetteranno domattina, perciò credo che questo sia l’ultimo giorno che ci vedremo”. “Mi dimettono? Ma non è possibile, ho ancora necessità delle sue… Cioè di cure appropriate”. Fece sbocciare un mezzo sorriso nella donna, che a sua volta replicò: “Lei ha solo necessità di tornare a casa, potrà continuare le cure seduto comodamente nella sua poltrona”. “Un accidente!”, urlò dentro di sé. “Verrò tutti i giorni qua a fare la flebo e i medicamenti, non potranno impedirmelo”. “Sarebbe tempo perso, perché il mio contratto scade domani… Mi hanno licenziato”, sentenziò lei malinconicamente. “Cosa?!”, esclamò Zacary sollevandosi a sedere per poi riadagiare lentamente la schiena sul cuscino. “Cioè, per quale motivo l’hanno licenziata?”. “Personale in esubero… Questo è quel che mi hanno detto”. “Ma è inaudito!”, si inalberò il sicario. “Parlerò personalmente col responsabile e dovrà cambierà idea; oooh, se la cambierà!”.

Rosemary lo guardò stupita mentre infilava la cannula nuova nella vena: “Perché se la prende tanto? In fondo io sono soltanto una sconosciuta”. “Tu… Cioè, lei non è una… O per meglio dire… Insomma, io desidero che sia lei a cambiarmi la flebo, anzi lo esigo!”. Lei non trattenne un sorriso e un principio di ilarità: “Lei è un gran burlone, mi è veramente simpatico! Ma la realtà è diversa”. Estrasse un foglio dalla tasca. “Questo lo dovrà dare all’assistente che le verrà assegnata a domicilio, sarà lei a prendersi cura... D’ora in avanti”. Zacary divenne funereo al solo pensiero di non rivederla più, quindi prese quel foglio come fosse una missiva portatrice di sciagure. “Non saprei che farmene… Lei sa prendersi cura della mia persona come nessun altro saprebbe fare”. Rosamary, malgrado il suo stato d’animo, riuscì a far fiorire un sorriso: “Lo farei volentieri ma non dipende da me...”. Abbassò lo sguardo per terminare la medicazione e quando ebbe finito lo baciò sulla fronte. “Le auguro un mondo di bene, signor Belimbau, ma non è detto che non ci si incontri ancora”. Zacary rimase fulminato da quel gesto d’affetto seppur dettato dalle circostanze e non seppe aggiungere altro. La donna uscì dalla stanza lanciando un ultimo sguardo come ricordo, poi il silenzio. Ebbe giusto il tempo di gustare l’amarezza di quel momento che la porta si mosse nuovamente. Il sicario spalancò gli occhi nella speranza che si trattasse… Fecero il loro ingresso due uomini vestiti in modo distinto, il portamento sicuro e quasi tracotante dei quali li rese immediatamente riconoscibili agli occhi del sicario: agenti investigativi. Sicuramente più scaltri e pericolosi di chi li aveva preceduti quella mattina, uomini da prendere con le pinze e che difficilmente avrebbero bevuto menzogne o quant’altro. Chi si fece avanti per primo aveva l’aspetto di un poliziotto di lungo corso, navigato e di grande esperienza; chi lo seguiva non era da meno, ma consuetudine voleva che fosse un rincalzo, pensò Zacary. I due erano divisi esclusivamente dal rispetto dovuto ai gradi appuntati sul distintivo, che fece puntualmente capolino non appena fu estratto dalla tasca interna della giacca.

“Il signor Belimbau?”. Il sicario annuì con la testa, convinto che meno avesse aperto la bocca, più sarebbero cresciute le possibilità di liberarsi di quei due senza conseguenze. “Mi chiamo Jeremy Stanich, lui è il detective Vernon”. “Come da copione”, commentò fra sé; “ora mi chiederanno della mia dichiarazione”. “Ho dato un’occhiata a ciò che ha dichiarato stamattina e volevo approfondire con lei alcuni aspetti”. Non ottenendo alcun commento né mutamento espressivo del paziente, il tenente continuò: “Lei ha dichiarato di non conoscere il signor...”. Attese pazientemente qualche attimo prima di continuare, ma Zacary rimase muto come un pesce. “… Seliam Catdrige, meglio conosciuto come Slim?”. “Esatto”, rispose con sicurezza il sicario. “E secondo la sua opinione, costui la poteva conoscere?”. “Lo escludo, mai incontrato neppure per caso!”. “Sa cosa potesse volere da lei ieri notte?”. “Non credo volesse niente da me!”, affermò Zacary. “Per quale motivo allora è entrato nella sua stanza?”. “Solo un errore, nient’altro”. Il tenente guardò il suo vice prima di riprendere: “Signor Belimbau, ha dei debiti con qualcuno o le devono del denaro?”. “Faccio una vita riservata e mi accontento di poco, il giusto che serve per vivere...”. “Slim le ha detto o fatto qualcosa prima dell’incidente?”. “La luce era spenta, ho solo sentito un gran fracasso e nulla più”. “Certo, capisco… D’accordo, credo che sia tutto per ora”.

Stanich si voltò per raggiungere la porta e agguantò la maniglia per ruotarla, ma di scatto lanciò un’ultima domanda: “Signor Belimbau, dove si trovava la mattina di due giorni fa?”. Colto alla sprovvista, Zacary rispose con una menzogna: “Nella mia abitazione”. Il tenente lo guardò in volto, poi sorrise lasciando trapelare qualcosa: “Buona giornata, sig. Belimbau…”. Vernon, appena uscito dalla stanza, gli fu alle calcagna e volle sentire il parere del suo superiore. “Che ne pensi?”. “Seguiva un copione, ma non so per quale motivo… In apparenza non sembra aver niente a che fare con i fatti”. “Anche a me ha dato la stessa impressione”, commentò il sergente, “esibiva infatti un’eccessiva sicurezza”. “E quando tutto è troppo pulito…”, disse Stanich. “... Il luogo del delitto è sempre pulito alla perfezione!”, terminò Verner. “Già, vedo che impari in fretta”. “Bah, è vecchio più di me… E quella domanda posta sulla porta?”. Stanich si fermò davanti all’ascensore che portava ai parcheggi e pigiò il tasto di richiamo: “È lì che è crollato il suo castello di carta”. “In che senso, Jeremy, non ti seguo…”. “Fino a quel momento era stato fin troppo sicuro e la sua recita aveva tenuto alla perfezione… Ma se uno ti sta mentendo, anche se gli poni un quesito semplicissimo, per esempio dove era qualche giorno prima, per inerzia continuerà a farlo!”. “Su cosa ci ha mentito?”. Il tenente aprì il fascicolo soffermandosi sul documento di ricovero: “Belimbau non poteva essere a casa sua due giorni fa… Visto che era ricoverato in questa

clinica”. “Per quale motivo si sarebbe esposto?”, domandò Vernon. “Questo spetta a noi scoprirlo”.

Stava spalmando con cura meticolosa l’unguento sul viso, soffermandosi sulle prime rughe che cominciavano a essere visibili lungo il contorno degli occhi. Avvicinò il volto alla spesso vetro posto davanti a lui e posò le mani sul lavabo in marmo di Carrara. “Non male per una checca di mezza età!”. Gregory Offenbach lasciò l’opulenta toilette per entrare nella sontuosa camera da letto. Scagliò l’accappatoio sulla poltrona e aprì un’anta dei suoi quattro armadi a muro ricoperti da altrettanti specchi. Stava scandagliando la scelta di camicie con l’indice puntato sopra di esse, quando il carillon della porta centrale trillò avvertendo che vi erano visite. Lasciò a malincuore quel vezzo mattutino per rinfilare l’accappatoio esprimendo il suo disappunto: “Quella scimmietta di Virgil… Per un foro in quelle sue natiche sode ha preteso due settimane di riposo!”. Lasciò la camera da letto per entrare nella sala, dove un monitor collegato a una telecamera esterna mostrava l’identità del visitatore. Pigiò il bottone dell’entrata per recarsi al fornitissimo bancone bar, in attesa di essere raggiunto. Non dovette attendere molto, infatti costui conosceva già il luogo, tanto che approdò poco dopo con disinvoltura nella sala. “Buongiorno, Gregor!”. “Martin...”, rispose riempiendo il bicchiere con succo di pompelmo appena spremuto. “Un po’ di frutta?”. “Non riuscirei a berlo a quest’ora del mattino, e se devo essere sincero neppure nel resto della giornata”.

“Si vede...”, commentò laconico Offenbach. “Prendo una tazza di caffè, se non ti dispiace”. Il contabile appoggiò i gomiti sul piano del bancone sorseggiando dal bicchiere: “Fai pure, sono pronto ad ascoltarti”. L’avvocato tenne in mano la tazza, non convinto del suo contenuto, e iniziò a parlare: “Un mio cliente ha riferito che un tal, un certo Al, ha ingaggiato quel tizio che è morto… Slim, per fare la pelle a un’altra persona della quale ignoro il nome”. “Non ti offendi, vero, se ti dico che non ci ho capito niente?”. “Abbi pazienza… Sembra che Al e questo tizio dal nome ignoto lavorino per un tuo cliente”. Gregor si mise ritto posando il bicchiere: “Lasciami indovinare, è Jimmy d’Antona?”. “No! Ray Malansky!”. “Chi? Ray?! L’italianino da quattro soldi?!”. Martin Loach annuì assaporando il caffè per poi riporre la tazza sul banco: “Si sente la mancanza di Virgil… Pare che sia stato lui a commissionare la tua dipartita”. “Quel gangster da quattro soldi con la ione per il padrino… Dovevo aspettarmelo!”. L’avvocato volle approfondire: “C’è un motivo di fondo?”. “Presumo…”, e Offenbach si fermò. “… Non sono affari tuoi!”. “D’accordo, io ho terminato, mi aspetta un’udienza…”. “Aspetteranno… Parlami di questo tenente Stanich”. Martin abbandonò definitivamente l’idea di bere il caffè e posò la tazza. “È uno tosto, che carica a testa bassa e soprattutto è incorruttibile; ma tu sei la

parte lesa, di che ti preoccupi?”. “Io mi preoccupo di tutto, tengo i conti di persone che neanche immagini: se percepissero soltanto il sentore di un’indagine nei miei confronti!”. “Per il momento tutto sembra tacere, non scarterei neanche l’ipotesi di un’archiviazione”, lo tranquillizzò l’avvocato. “Questo non mi basta, devi fare una cosa per me!”. L’avvocato lo guardò seriamente in attesa del peggio: “Fa’ in fretta, devo scappare!”. “Mi serve qualcuno che sistemi Ray!”. Martin rimase di sasso e fece per andarsene: “Io faccio l’avvocato, non il killer”. “Tu difendi la peggior feccia dello Stato: conoscerai sicuramente qualcuno che potrà farlo!”, rispose il contabile alzando la voce. Martin si guardò attorno come se ci fosse qualcuno in ascolto: “Non provare a trascinarmi in questa storia o…”. “Cosa?! Proverai a uccidermi anche tu?! Ti chiedo solo di mettermi in contatto con qualcuno, al resto ci penserò io… Ti pagherò bene per il disturbo!”. “Lascia stare, stai perdendo il tuo tempo”, concluse l’avvocato voltando le spalle. “Potrei fare qualcosa per le tue cambiali: il tuo vizietto ultimamente ti ha esposto non poco…”, insinuò Offenbach rigirando ciò che di mezzo vuoto gli era rimasto nel bicchiere. Loach si voltò sorpreso da quella notizia e, colto da un’espressione di disgusto, replicò: “E tu che ne sai?”. “Dimentichi che faccio il contabile e tutto a per le mie mani: profitti, ricavi e… Debiti, compresi quelli al tavolo verde”. Il gioco d’azzardo era stata l’unica pecca di Martin che, malgrado i suoi lauti guadagni, erano stato sempre sommerso dalle perdite al gioco.

“Non provare a ricattarmi!”. “Lo faccio senza mezzi termini, Martin: se non mi aiuti, quelle cambiali finiranno in mano a chi so io e la tua abilitazione… Puff!”, e lo fece soffiando sopra le dita della mano destra. L’avvocato era tetro in volto, quindi con lo sguardo bieco disse: “Fammi avere quelle cambiali… Farò quel che posso”. Offenbach sorrise sollevando il bicchiere: “Ne sono sicuro”. “Fanculo, Gregor!”.

Rosemary si era recata in amministrazione per ritirare le sue spettanze, al che si era resa conto che con quella cifra avrebbe saldato a malapena i debiti. Si ritrovò a rifare quella fila ancora una volta assieme a quella massa di disperati in cerca di un sussidio o di un nuova occupazione al dipartimento per il sociale. Il completo disinteresse e la freddezza della burocratica addetta contribuì a peggiorare il suo stato d’animo. Lasciò quel luogo con l’impegno di una futura visita a domicilio degli assistenti e fu liquidata con una ricevuta in una mano e un pugno di mosche nell’altra. Fece un salto al supermercato, dove si limitò allo stretto necessario, unica eccezione quella bibita gasata che suscitava il buon umore di Lanny. Arrivò all’uscio di casa con la sensazione che quella giornata avrebbe riservato ancora delle sgradite sorprese. Si guardò attorno prima di infilare la chiave nella serratura, quando sentì lo sportello di un’auto aprirsi. Si voltò di scatto e scorse la figura di Malcom sfilarsi barcollante dal lato guida. Il mazzo di chiavi le cadde di mano mentre il marito, saturo di alcool, le puntava il dito contro sbandando di lato. “Ehi, donna! È così che si saluta il legittimo marito?”. Lei si chinò, raccolse le chiavi e infilò quella giusta girandola con lestezza; rigirata di nuovo la chiave, sarebbe stata in salvo.

La puzza nauseante di alcool la raggiunse ancor prima del braccio avverso, che le sfiorò il viso piantandosi sulla porta. Si voltò a guardare ancora quel volto con disgusto, poi puntò le mani sul petto dell’uomo. “Lasciami andare, Malcom, o giuro che stavolta vado dalla polizia!”. Lui le si avvicinò: “Polizia?! E per quale motivo? Io sono qua per fare pace e per riprendermi il posto che mi spetta...”. “La tua sola compagna è la bottiglia che hai lasciato in auto. È finita tra noi, lo vuoi capire?”. Lui le prese il viso con la mano sinistra e lo strinse: “Lo dico io quando è finita; e ora apri questa porta!”. Rosemary strinse la borsetta portandola dietro di sé: “No! Vattene o mi metto a urlare!”. Lui rise sboccatamente col viso sollevato: “Pensi davvero che qualcuno verrà a soccorrerti? Avanti, provaci...”. Lei non si fece pregare e urlò con quanto fiato aveva in gola: “Aiutatemi, vi prego! Aiutatemi!”. Malcom si guardò attorno accertandosi che nessuno avesse accolto quella richiesta: “Questo è il New Jersey, che ti aspettavi?”. La ginocchiata al basso ventre arrivò a segno e i riflessi ammorbiditi dal gin gli fecero piegare le ginocchia e inarcare la schiena all’indietro. Rosemary girò l’ultima volta la chiave e la porta si aprì, così poté correre come una saetta all’interno. Lui si rialzò dolorante e con le forze rimaste sfogò tutta la sua ira su quel legno che li separava, inondandolo di calci e pugni: “Questa me la paghi, sgualdrina! Non potrai ripararti a lungo dietro questa porta, lurida cagna!”. Rosemary corse in camera da letto, decisa a non ascoltare più quella voce disgustosa, con le mani premute sulle orecchie in attesa che tutto finisse.

La cosa peggiore fu infilare gli abiti pregni ancora di sudore, momento che acuì

quel senso di solitudine che lo accompagnava sin da quando si era risvegliato in ospedale. Il cupo abbandono lo circondò per qualche istante, poi quella cartella con terapie, medicinali e quant’altro lo fecero sentire ancora vivo; alla fine mise tutto in una busta concessa in comodato gratuito e con vuoto a perdere dall’infermiera di turno, la quale lo salutò augurandogli una pronta guarigione, anche se visibilmente conscia dell’infausta malattia del paziente. Zacary non se la prese, ma attribuì la colpa di quell’atteggiamento alla società, che versava in uno stato più patologico del suo. Si sentiva come quei pantaloni lisi che, dopo essere stati rattoppati, si usano in rare occasioni, per poi essere riciclati per un breve periodo come strofinacci e infine essere destinati al macero. Si sentiva con le toppe addosso e pronto per la fase successiva, ma con quel senso di autostima che in quei due giorni era riemerso come un porcino alle prime piogge estive. Respirare l’aria sporca e inquinata del centro di New York lo fece sentire meglio mentre lo strombazzare delle auto lo riportò in quel clima a lui tanto familiare; ma fu solo per alcuni istanti, perché il senso di inquietudine lo pervase tanto che, come mosso da un desiderio inconscio e irrefrenabile, tornò sui suoi i e rientrò al General Hospital, dove piantò i gomiti sul bancone all’accettazione del diciassettesimo piano. “Signor Belimbau, che ci fa qui, l’abbiamo appena dimessa?”. “Questo lo so… Ma mi serve un’informazione”. L’infermiera continuò imperterrita sulla sua strada: “Troverà tutte le risposte alle sue domande nel promemoria che...”. “Non è questo che volevo chiederle!”. La donna smise per un attimo di frugare nelle sue carte per concedergli la sua attenzione: “Mi dica allora”. “Le spiego: in questi giorni sono stato accudito da una terapista che, a quanto pare, ha terminato il suo lavoro per motivi contrattuali… Vorrei contattarla per chiederle se fosse disposta a farlo a domicilio dietro compenso, naturalmente”.

“Naturalmente… Ma purtroppo non sono autorizzata, senza espressa concessione dell’interessata, a fornire i dati in nostro possesso”. “Mi serve solo l’indirizzo o un recapito telefonico...”, insistette il sicario. “Sono proprio questi, signor Belimbau, i dati che non possiamo divulgare!”. “Ci sarà pure un modo per contattare questa persona!”. “Se esiste, lo dovrà cercare da un’altra parte, io non posso aiutarla…”. Zacary si guardò attorno e, vista l’assenza di persone, allungò il braccio e agguantò la caposala per il collo. “Ora è meglio che tu mi scriva l’indirizzo di Rosemary o quello che stai per emettere sarà il tuo ultimo respiro”. La donna si aggrappò alla mano dell’uomo ma, constatata la sua determinazione, acchiappò un foglietto adesivo e vi scarabocchiò sopra. Con gli occhi vitrei e la bocca spalancata sventolò il foglietto davanti al viso di Zacary; lui lo prese e vi lesse dentro, poi lo cacciò in tasca rivolgendosi alla donna: “Ora la lascerò ma… Questa storia deve terminare qua!”. La donna annuì accettando senza riserve le condizioni del rilascio. Zacary allentò lentamente la presa sul collo dell’infermiera, pronto a riacciuffarla al minimo tentativo di reazione. La caposala tossì un paio di volte respirando a pieni polmoni e, una volta libera, indietreggiò fino a toccare lo scaffale alle sue spalle. Il killer sollevò il dito indice toccandosi il naso, la guardò fissa negli occhi e senza proferire parola si allontanò. Durante il tragitto in metropolitana, non fece altro che rileggere quel foglietto con scritto quel nome e l’indirizzo. Lo tenne in mano perfino nel breve tratto di strada percorso piedi che portava alla sua abitazione, costretto a riporlo solo per agguantare le chiavi di casa. Aprì la porta accompagnato da una spiacevole sensazione di vuoto. Lasciò cadere la busta e il resto sul piccolo divano limitandosi a osservare quelle mura afflitto da una deprimente considerazione: come aveva potuto vivere in quel

modo per così tanto tempo? Qualcosa però era cambiato e, malgrado la piena consapevolezza, il suo inconscio non lo aveva ancora metabolizzato. Vagò in quelle tre stanze come un’anima in pena cercando un angolo familiare dove poter ripescare se stesso e rifugiarvisi, ma fu inutile. Era a casa da dieci minuti, ma li percepiva come un’eternità. Riprese quel foglietto con l’indirizzo di Rosemary e richiuse con risolutezza la porta alle sue spalle. Al solo pensiero di rivederla sentì l’emozione crescergli dentro, associata a uno strano disagio che reputava imputabile al suo stato di salute. A parte quella nausea che a volte lo assaliva, non si sentiva malaccio, ché le capsule e tutte quelle flebo avevano sortito un certo beneficio. Non si sentiva in forze come qualche anno prima, ma questa falla era arginata da una determinazione che non aveva mai posseduto né immaginato di possedere. Quel cancro che lo stava divorando gli aveva concesso e aperto un mondo finora sconosciuto, prodigo di forti emozioni e nuovi interessi. La vita era sempre la stessa, ma la prospettiva con cui la osservava era molto più ampia: ne era così consapevole che, se da un lato aveva riscoperto un nuovo mondo, dall’altro aveva abbandonato quella becera tranquillità con cui aveva da sempre sopito il suo vissuto.

Le mani erano tenute a pugno sotto il mento, quasi a sostenere l’immane preoccupazione che occupava la sua testa. Stava così a osservare il viso sornione di Lanny che, dall’altra parte del tavolo, stava finendo di consumare il pranzo. Ignaro del colloquio che quella mattina sua madre aveva sostenuto con il preside, il ragazzo ripresentò la sua domanda: “Perché non posso più andare a scuola?”. A quelle parole Rosemary sentiva una fitta al cuore a stento arginata da un fiume di lacrime e ogni volta ingoiava quel boccone sempre più amaro con crescente difficoltà: “È solo un periodo di vacanza, poi andrai in una scuola più bella”. “E Tony? Verrà anche lui?”.

“No, Lanny, il tuo amico non potrà venire… Però potrete vedervi nel doposcuola”. Il ragazzo scattò inaspettatamente, lasciando cadere la forchetta sul piatto: “Allora rimarrò anch’io, non voglio cambiare scuola!”. Lei inspirò pazientemente alla ricerca di una risposta plausibile: qualsiasi bambino avrebbe accettato l’idea di rimanere a casa, ma non Lanny, per cui quella casa era troppo buia e solitaria. La scuola, benché noiosa e a volte crudele, aveva un grande su quel ragazzo. Lei non volle insistere sull’argomento, convinta che solo il tempo e una situazione economica migliore potessero riservare la possibilità di un cambiamento. “Per adesso rimarrai qualche giorno a casa, poi si vedrà”. Il viso serio e cupo di Lanny fu sufficiente come risposta, ma il chiarimento era solo rimandato e Rosemary doveva necessariamente trovare argomenti più convincenti a quelle proteste. Rimasero a guardarsi in silenzio, fino al momento in cui qualcuno bussò alla porta. “Lanny, vai in camera tua e chiuditi dentro”. Il ragazzo obbedì senza discutere, mentre lei si chiese chi potesse essere. Malcom era una seria possibilità, dato che il modo in cui si era concluso il loro ultimo incontro non la tranquillizzava affatto. Aprì il cassetto della cucina ed estrasse un coltellaccio con una lama larga quanto il palmo della mano. “Se prova a toccarmi, glielo pianto fra le costole!”. Si avviò con la determinazione di chi è pronta a tutto e, tolto il chiavistello, aprì la porta occultando la lama dietro lo stipite. Il viso flaccido e disgustoso del padrone di casa era già servito davanti a lei, gustoso come un piatto di cavallette. “Le avevo detto di darmi un po’ di tempo”. “E io gliel’ho concesso! Poche storie, adesso, fuori il denaro!”. “Signor Richardson, è un brutto momento, mi dia un po’ di respiro...”. L’uomo fece un o avanti e si avvicinò a lei: “Potrei darle tutto il respiro che

vuole...”. Rosemary strinse il manico del coltello con l’intenzione, se solo l’uomo avesse fatto un altro o verso di lei, di essere più esplicita verso quella proposta. “Non si avvicini, o non rispondo di me!”. Richardson, incurante dell’avvertimento, fece un altro o in avanti: “È proprio quello che voglio, puttanella...”. Era determinata a infilzarlo come il tacchino nel giorno del ringraziamento, quando una voce non nuova intervenne. “Questo non è il modo di rivolgersi a una signora!” Si voltarono entrambi a osservare chi fosse. “Di che si impiccia, lei! Si levi dalle scatole!”, intimò in modo sbrigativo il padrone di casa. “Non prima che lei abbia chiesto scusa!”. Rosemary esclamò, dopo un attimo di sorpresa: “Oh, ma lei… Che ci fa qui?!”. “Di questo parleremo dopo, ora questo maiale dalle sembianze umane deve chiederle scusa”. “Io non devo dire un bel niente...”. Non terminò la frase che il nuovo arrivato gli prese un braccio e glielo torse con abilità dietro la schiena, mentre con l’altra mano gli afferrò l’orecchio destro come fosse la manopola di una motocicletta. “È meglio che riconsideri ciò che ti ho detto, altrimenti ti servirà una protesi per sentire!”. Richardson digrignò i denti dal dolore: “Ok… Ok… Chiedo scusa”. “Non abbiamo sentito...”, ribadì l’uomo dando un altro mezzo giro al già sofferente organo uditivo.

“… Le chiedo umilmente scusa, signora Wash”. “Ora sparisci!”, concluse liberando il padrone di casa che, ondeggiando e imprecando, si allontanò con esplicite minacce. Seguirono Richardson con lo sguardo finché non scomparve dietro la via. Poi lei rivolse la sua attenzione sull’uomo che l’aveva aiutata: Zacary si era appoggiato al muro della casa apparentemente sfinito per quello sforzo. Rosemary discese i gradini e lo prese sotto braccio: “Venga dentro, dovrà spiegarmi alcune cose!”. Lui si accorse del coltello che la donna teneva impugnato: “Beh, detto in questi termini, non credo di avere scelta!”. “Oh, non ci badi, stavo preparando l’insalata quando hanno bussato alla porta!”. Quella porta si chiuse lentamente per la prima volta in quella tormentata giornata. Lo accompagnò in cucina e lo adagiò sulla sedia. “Signor Belimbau, che ci fa da queste parti? E poi…”, si fermò a guardare l’orologio. “Dovrebbe essere sotto flebo!”. Zacary le sorrise mentre riprendeva fiato: “Non sono qua per caso. Sono venuto a parlarle, la flebo aspetterà”. “Come ha fatto a trovarmi?”. “Una lunga storia… Comunque l’importante è che ci sia riuscito”. Rosemary si incuriosì e nel frattempo accese il bollitore elettrico: “Posso offrirle una tazza di caffè?”. “Sì, Rose, volentieri”. Quel tono confidenziale non sfuggì, alla donna che lo osservò perplessa. Gli servì una tazza di caffè caldo e si sedette di fronte a lui. “Volevo innanzitutto ringraziarla per poco fa...”. “Lo avrebbe fatto chiunque al mio posto”.

“Non da queste parti; è stato gentile da parte sua”. “Oh, non ci pensi, piuttosto chi era?”. “Il padrone di casa, un personaggio viscido e repellente”. Zacary vide il viso della donna mutare aspetto al solo nominarlo. “È acqua ata. Fino alla prossima volta, comunque, non voglio annoiarla con i miei problemi, lei piuttosto...”. “Ah, già, che stupido! L’ho cercata perché ho una proposta da farle”. Rosemary incurvò lo sguardo, nella percezione di dove volesse arrivare: “Continui”. “Mi è parso di capire che in questo momento non ha un lavoro stabile, mentre io ho molto apprezzato il modo con cui mi ha trattato… Curato all’ospedale. Insomma, non voglio che l’assistenza mi mandi un’altra infermiera. “Capisco”, intervenne lei, “e io lo farei volentieri, ma non dipende da me”. “Questo lo so, ma io non intendo avvalermi del servizio sanitario; ho qualcosa da parte e se troviamo un accordo sul suo compenso...”. Rimase titubante a quella proposta: “Non so, dovrei pensarci...”. “Sono disposto ad aggiungerci anche le spese della metro e un extra al termine del lavoro”. Rosemary guardava quell’uomo come l’unica alternativa ai suoi problemi e un’ancora di salvezza in attesa di tempi migliori. Ma ancora non si fidava di Zacary, per lei era sempre uno sconosciuto. “È bene che lei sappia che io sono una persona seria e che se dovessi accettare, lo farò solo in prova; se non dovesse andarmi bene, me ne andrò senza preavviso”. “Certamente”, annuì Zacary, “libera di andarsene quando e come vorrà. Allora, siamo d’accordo?”, disse l’uomo sollevando la tazza di caffè. “D’accordo!”, replicò la donna con un largo sorriso.

“Mamma, posso entrare?”. Rosemary si voltò nel sentire la voce del figlio: “Oh, che sbadata, vieni pure!”. Zacary rimase di sasso nell’osservare chi stava sbucando dalla porta accanto. Il ragazzo li raggiunse guardando con curiosità l’uomo seduto di fronte alla madre. “Questo è mio figlio Lanny”. “Tuo… Suo figlio?!”, ripeté lui. Rosemary sorrise: “Non è un problema, vero, se porterò anche lui durante la medicazione?”. Il sicario stava per aprire bocca e chiedere se vi fosse anche un marito, ma si trattenne: “Oh, ma certo, porti anche Lanny, nessun problema...”. “Bene, allora potremmo cominciare anche questa sera...”. Il sorriso di Zacary si spense di colpo nel ripensare alle condizioni della sua abitazione e delle sue finanze. “Stasera, dice?... Proporrei di iniziare domani, avrei degli affari da sbrigare, ehm…”. “Allora a domani!”, lo assecondò la donna. “È meglio, decisamente meglio!”.

Dover puntualmente relazionarsi con il capitano era una fra le cose più sgradevoli di quel mestiere, peggio di dover assistere alla riesumazione di cadaveri. Stanich la pensava in quel modo perché disapprovava i metodi puramente arrivistici di Fleetwood, che giudicava alla stregua di un politico e non di un poliziotto. Scaraventò il suo corpo sulla sua poltrona e si mise a scorrere il fascicolo con disappunto. Quella faccenda sconclusionata e noiosa per adesso era colma soltanto di fatui indizi. Istintivamente era in cerca di un qualsiasi appiglio per sbarazzarsi di quel caso ma era certo che il capitano glielo avrebbe impedito.

Ripensò a quei due tentati omicidi accomunati soltanto da una tale eccentricità dei fatti da renderli quasi inverosimili. “Due killer da baraccone per due persone apparentemente estranee l’una all’altra...”, commentò il detective percorrendo la cartella con disinteresse. Poi la richiuse quasi con rabbia. “Sto solo perdendo il mio tempo e…”. Vernon spuntò dalla porta a vetri lasciando che solo la sua testa vi entrasse, ma Stanich lo anticipò: “Non dire niente: il capitano vuole vedermi”. Vernon annuì facendo spuntare un sorriso malizioso quindi il tenente continuò: “Aspetta, nel frattempo che pettino il capitano, fai una ricerca su questo… Belimbau! Vedi mai che salti fuori qualcosa”. “Non vorrei essere al tuo posto per niente al mondo”, commentò Vernon. “È bello essere sorretti e incoraggiati dai colleghi”, replicò sarcasticamente il tenente mentre gli ava davanti per dirigersi verso l’ufficio di Fleetwood. Bussò prima che il desiderio di tornare indietro prevalesse. “Entra pure, Jeremy...”. Sfoderò un’espressione di circostanza nel sedersi davanti al suo superiore. “Aggiornami sul caso Offenbach: ci sono novita?”. Al sentire nominare “novità”, perse la già scarsa voglia di comunicare: “Siamo ancora al buio e non abbiamo ancora spiragli su cui lavorare”. Fleetwood inarcò le ciglia oscurando il volto: “Ero stato chiaro sul fatto di dare priorità a questo caso”. “È ciò che stiamo facendo io e Vernon da quando ce lo ha affidato”. “Allora moltiplicate i vostri sforzi, ché il sindaco vuole risultati e anche io; al termine di questa settimana dovrai portarmi qualcosa o…”. Stanich attese che finisse la frase ma, visto che era rimasta in sospeso, intervenne: “Altrimenti?”.

“Non farmi dire ciò che non voglio, Jeremy”. “Allora mi chiami quando ha il coraggio di farlo”, sentenziò il tenente abbandonando l’ufficio del capitano. Tornò sulla sua poltrona dopo aver sbattuto la porta con livore. Vernon lo raggiunse: “È andata peggio di quel che pensavo?”. “Quel politicante col distintivo da capitano vuole subito dei risultati!”. “Gli hai detto che non abbiamo bacchette magiche in dotazione?”. “L’ho mandato a quel paese!”. “Appoggio in pieno la tua iniziativa”, commentò il sergente, “ma ci sono novità interessanti su quel Belimbau”. Come un segugio Stanich aizzò la sua attenzione sulla preda.

Al aprì lo sportello della Bentley lasciando che Ray scendesse dall’auto per ammantare le sue spalle col soprabito nuovo di pacca appena consegnato. “Che ne pensi, Al, non trovi che mi stia un po’ stretto?”. Il guardaspalle ondeggiò squadrandolo da entrambi i lati per poi esprimersi in merito: “Per me è perfetto!”. “E tu, Nero, qual è la tua opinione, mi cade bene?”. Nero prese più tempo e, dopo aver tolto gli occhiali da, sole disse: “Per me hai ragione, Ray, andrebbe ritoccato in vita”. Al gli lanciò una gelida occhiata ma non replicò. Ray entrò nel grattacielo seguito dai suoi due uomini e fermatosi davanti all’ascensore attese che Nero pigiasse il pulsante di richiamo. Altre tre persone si accalcarono dietro di loro, ma una volta aperte le ante dell’ascensore Al impedì loro di salire con prepotenza: “Questa corsa è riservata”.

Nessuno osò contraddirlo e le ante si chio davanti agli sguardi increduli dei presenti. “Volete la mia opinione sul vostro consiglio?”, disse Ray mentre Nero pigiava il tasto dell’ultimo piano. “Ok, capo”, lo assecondò Al, con la certezza che l’avrebbe espressa comunque anche senza il suo permesso. “Al, tu sei un leccaculo, e Nero non capisce un cazzo! Questo soprabito è perfetto”, e con questa pietra tombale la discussione non fu più riaperta, né vi furono richieste ulteriori di opinioni sull’abbigliamento da parte del gangster. Si ritrovarono sul portone del superattico da quattrocento metri quadri a osservare il lussuoso zerbino posto sulla soglia. “Quel finocchio ha gusto!”, commentò Ray mentre pigiava il pulsante del richiamo. Un distinto ragazzo sui venticinque anni e dai modi impeccabili venne ad aprire la porta. Li osservò per qualche istante da capo a piedi per poi parlare con voce squillante e la “r” cadente: “Posso sapere chi siete?”. “Di’ al tuo amichetto che dobbiamo parlargli”. Il ragazzo fece un o indietro e replicò: “Avete un appuntamento?”. Ray indico ad Al che la sua pazienza era giunta al termine. Il suo uomo spinse via il ragazzo come fosse un fuscello e aggiunse: “Togliti dai piedi, altrimenti l’appuntamento dovrai fissarlo con l’ortopedico”. Il ragazzo venne messo all’angolo di un ipotetico ring mentre protestava invano ad alta voce. “Oh, ma che modi… Gregory?”. Ray raggiunse la sala dove Offenbach li accolse stupefatto: “Ma che diavolo...”. “... Succede?”, terminò la frase Ray. “Niente che non dovessi aspettarti”. Il contabile guardò esterrefatto i tre che avevano preso possesso della sua casa, limitandosi ad appoggiarsi a un enorme vaso dipinto a mano in stile orientale.

“Che succede, Gregory, non gradisci la mia presenza e quella dei miei uomini?... In fondo sono uno dei tuoi migliori clienti”. Offenbach distese i lineamenti e riprese la padronanza della situazione: “È solo che non amo le improvvisate, avrei preferito infatti che tu mi avvertissi”. Il gangster mise la mano sul petto assumendo un’aria contrita: “Ti porgo personalmente le mie scuse, ma per una questione di onestà anche tu dovresti fare un mea culpa!”. “Non capisco, Ray, a cosa ti riferisci?”, rispose allargando le braccia. “Nero, versaci qualcosa da bere mentre io e il mio contabile discutiamo”. “Fa come fossi a casa tua!”, aggiunse sarcasticamente Offenbach. “Non vogliamo accomodarci?”, disse Ray mentre invitava il padrone di casa indicando con la mano due sfarzosi divani in pelle di bufalo indiano posti l’uno di fronte all’altro. Gregory lasciò malvolentieri il vaso e si accomodò dove gli era stato indicato. Nero li raggiunse per servire loro un long drink. Ray lo accettò volentieri ma il contabile, dopo averlo afferrato, lo depose immediatamente sul tavolo davanti a lui. “Cosa vuoi, Ray?”. “Quello che mi hai preso, niente di più!”. Offenbach lo guardò torvo: “Di che parli?”. “Del denaro che hai sottratto dai miei proventi: seicentododicimilaquattrocentoquarantaduedollari e sei cent, per l’esattezza”. Offenbach rimase di stucco nel sentire quella cifra scandita con oculata precisione. “Ma è assurdo, io non ti devo un bel niente!”. “Oh, sì invece, so contare anch’io, e quando si tratta di soldi divento imbattibile!”.

“Dimostralo!”. Ray allungò la mano dietro di sé e lasciò che Nero gliela riempisse con un foglio piegato in due che posò sul tavolo al fianco del drink all’attenzione del contabile. Offenbach, dopo un’attimo di esitazione, prese il foglio e lo lesse con disinteresse per poi lasciarlo cadere sul tavolo. “Queste cifre non dimostrano niente, potrebbe esserci uno sbaglio!”. Il gangster rise sboccatamente: “Non vorrai trascinarmi in tribunale, vero?”. Poi ridivenne serio: “Io non ho bisogno di testimoni, rivoglio quel denaro”. Gregory giocò le sue carte: “Altrimenti? Che fai, tenterai di uccidermi come hai già fatto?”. “Quello era solo un avvertimento: se ti volessi morto lo saresti già”, rispose incrociando le dita. Offenbach tentò di carpire, osservando gli occhi di Malansky, se quello era un bluff o la realtà dei fatti; ma inutilmente, perché il volto del malavitoso era imperscrutabile. “Ci devo pensare”. “Non perdere tempo su quelle meningi o le farò attraversare da un proiettile”.

Si sentiva sollevato da un peso e tutto sommato di buon umore. Non aveva molto tempo, in tutti i sensi, ma quel domani gli premeva particolarmente. Era necessario rendere quell’abitazione presentabile e far in modo che Rosemary non scape subito una volta aperto l’uscio di casa. Era un’impresa ardua ma non impossibile così, senza perdere tempo, si recò nella sua banca per un resoconto globale dei suoi averi. “Novemilatrecentotrenta dollari, signor Belimbau”, disse l’impiegata della National Security Bank, schiaffando la quietanza sul banco. Zacary volle approfondire: “E gli interessi maturati?”.

“Sono già compresi nell’importo finale… Procedo?”. “Proceda!”, acconsentì il sicario con una certa delusione. Mentre l’impiegata gli contava il denaro davanti al naso, lui pensava che con quei soldi avrebbe potuto pagare una discreta funzione funebre e nulla più. Ma per chi? In fondo nessuno sarebbe venuto ad assistere alla sua sepoltura; quindi decise che, se per il pontefice una modesta cassa di pino sulla nuda terra era sufficiente, per un ammazzacristiani come lui sarebbe andata benissimo. Lasciò la banca senza voltarsi indietro, con la convinzione che le suole delle sue scarpe non avrebbero più calpestato quel suolo. Si recò in un centro servizi dove ad accoglierlo si presentò il proprietario, dalla fronte sudata e con un connettore telefonico all’orecchio. “Buongiorno, cosa posso fare per lei?… Un attimo… Sì, mandaci Claire e dille di non perderci l’intera mattinata… Dove eravamo… Sì, mi dica?”. Infastidito per quel modo di conversare contemporaneamente con più persone, Zacary tentò un primo approccio: “Ho necessità di ripulire...”. Non riuscì a terminare, ché l’addetto aveva ripreso a parlare al telefono con un altro interlocutore: “No, quei fusti avevo detto di non toccarli, usate solo quelli della Detex… Sì, della Detex, esatto… Mi scusi, diceva?”. Il sicario si armò di pazienza: “… Dicevo che la mia abitazione ha necessità...”. L’imprenditore mise una mano avanti come a indicare di fermarsi, perché doveva rispondere nuovamente a una chiamata: “… Sì, signora Savage, ho già predisposto per...”. Questa volta fu il venditore a essere interrotto: Zacary gli aveva afferrato la mano e lo aveva tirato verso di sé mentre con l’altra gli strappava il connettore dall’orecchio posandolo sul bancone. Prese un grosso posacenere di cristallo e lo sollevò sopra il connettore telefonico: “Non ho tempo da perdere: o lei mi ascolta o questo attrezzo va in frantumi”. L’imprenditore sollevò le mani in segno di resa: “No, la prego, non lo faccia…

La ascolto”. “Bene”, rispose Zacary, “ho necessità di una pulizia completa del mio appartamento!”. L’uomo prese carta e penna, annotando l’indirizzo: “La settimana prossima va bene?”. “No, domani mattina!”. “Impossibile, non...”. Il sicario sollevò il portacenere, pronto a calarlo, come la Durlindana del prode Orlando su un moro, sull’apparecchio elettronico: “Non ho sentito”. “Vedrò cosa posso fare, ma le costerà qualcosa in più”. “Non importa, entro domani la mia casa deve brillare come una palla natalizia”. “D’accordo, ma posi quell’arnese, siamo fra persone civili”. “Civili un corno!”, ribadì il sicario. “Se non manterrà gli impegni, questo posacenere lo fracasserò sul suo cranio!”. La minaccia fece deglutire l’uomo, che annuì senza aggiungere altro. Zacary lo guardò un’ultima volta associando quel volto al suo e trovandovi persino alcune similitudini. Non perse altro tempo e si recò a casa per sistemare alcune cose urgenti e altamente compromettenti. Chiuse la porta a chiave ed entrò nella camera da letto. Aprì l’armadio estraendo una valigia in plastica nera dalle linee moderne, nettamente contrastanti con il misero e antiquato arredamento della stanza. La poggiò sopra il letto facendo scattare le serrature. La valigia si aprì mostrando i meccanismi di morte. Zacary fece un rapido inventario del suo contenuto e tirò fuori gli arnesi da lavoro, per poi deporli sul materasso uno di fianco all’altro: “… Barrett M82 a ricircolo di gas… Il piccolo Walter 2000… L’M14…”. Nominava il suo armamentario quasi lo salutasse dopo tanto tempo. “… La Glock 17 8 millimetri con soppressore per lavori ravvicinati”. Rigirò quella pistola munita di silenziatore, rievocando ricordi apparentemente piacevoli. Poi con indifferenza la lanciò sul letto assieme al resto del

campionario. Si guardò le mani chiedendosi cosa gli fosse successo: la settimana precedente ci avrebbe ato mezza giornata a oliare e lucidare quell’armamentario, mentre ora non provava nessun interesse; senza perder altro tempo rimise tutto dentro la valigia e la infilò in un pertugio della soffitta, deciso a sbarazzarsi di quella roba lanciandola nel fiume Hudson la prima notte senza luna.

Sistemò il risvolto del lenzuolo e rimboccò la coperta con la cura e la delicatezza di una madre. Gli dette un’ultima carezza sgombrando la fronte da un ciuffo di capelli. Spense la luce e dette un ultimo sguardo a quel figlio tanto amato e che avrebbe meritato una sorte migliore. Rosemary non si sentiva una madre appagata e ciò che desiderava donare a quel figlio sembrava una meta sempre più difficile da raggiungere. Non possedeva una casa né un’auto per poterlo andare a prendere nei giorni di pioggia, né un compagno con cui donargli affetto e condividere quel compito arduo e difficile di genitore. Frugò nella borsa cercando quel pacchetto di sigarette vecchio ormai di una settimana: era l’unico vizio che si concedeva, quella sigaretta giornaliera consumata all’imbrunire dall’unica finestra di quella abitazione. Aspirò avidamente, trattenendo il respiro il più a lungo possibile e socchiudendo le palpebre per assaporare la prima distensiva boccata. Ripercorse mentalmente quel dì, catalogandolo fra i più variegati di tutto l’anno. Orrende notizie alternate a inaspettati incontri mitigati da un grosso punto di domanda: Zacary Belimbau. Si chiese per quale motivo avesse ostinatamente cercato proprio lei e se oltre la simpatia nei suoi confronti celasse altre intenzioni. In fondo le aveva fatto un’ottima impressione e il suo comportamento finora era stato irreprensibile. Diede fondo all’ultimo spunto di tabacco prima che arrivasse al filtro, traendo l’ultima preziosa quantità di nicotina; quindi spinse il mozzicone fra le altre quattro che già giacevano in un vasetto di fiori ormai estinto da tempo. Non capì il perché, ma il pensiero della fuga da quella chiesetta ritornò prepotentemente e con esso il desiderio di ritornarvi. Non si pose altre domande, indossò una giacca ormai sformata dal tempo e uscì di casa. Guardò l’orologio

con la convinzione che difficilmente l’avrebbe trovata aperta, ma non vi rinunciò, accontentandosi di osservarla soltanto dal di fuori. Vi giunse al calare delle prime ombre della notte, ma con sorpresa la porticina era ancora aperta. La oltreò ritrovandosi davanti a una chiesa sgombra e deserta. Questa volta intinse le dita nell’acqua benedetta trovandola fresca e pulita e, dopo aver compiuto il segno della croce, si recò nella medesima nicchia vista quella mattina. Il viso della vergine, illuminato unicamente dalle candele, le apparve leggermente diverso dalla volta precedente, quasi sorridente. Mentalmente cercò quella preghiera sprofondata in chissà quale abisso della sua mente sospingendola con forza verso la sua bocca, e dopo qualche secondo: “Ave Maria...”. Anche se lievi, sentì quei i alle sue spalle e istintivamente si voltò, trovandovi il volto di un giovane con la tunica da sacerdote: “La prego, porti a termine la sua preghiera...”. “No… Era solo… Avevo terminato”, rispose impacciata. Il giovane prete sorrise: “Lei aveva appena iniziato la preghiera alla vergine santissima; se non le dispiace, la potremmo terminare assieme?”. Spontaneamente Rosemary replicò: “Mi perdoni, non la rammento...”. “Non importa, ripeta con me”. Pregarono assieme e, una volta terminato, il sacerdote le rivolse nuovamente la parola: “Non credo di conoscerla, io sono padre Luigi”. “Infatti è la prima, cioè la seconda volta che… Io mi chiamo Rosemary”. Si strinsero la mano, poi il sacerdote continuò rivolgendo il suo sguardo alla statua della madonna. “Si è rivolta alla persona giusta; se ha fede, sono certo che la aiuterà”. Lei rimase stupita e la domanda nacque spontanea: “Come fa a...”. “Come faccio a sapere che lei sta cercando aiuto? Basta guardarsi attorno: questo

è un quartiere dove l’indigenza e la povertà regnano sovrane e a volte una parola di conforto o una preghiera possono alleviare le pene della vita”. Rosemary abbassò lo sguardo per poi risollevarlo: “Ora devo andare, la saluto, padre...”. “Torna a trovarci, magari per la funzione domenicale”. “Vedrò… Non le prometto niente”. Lui assentì col capo accennando un sorriso e Rosemary uscì senza voltarsi indietro.

Si era alzato presto quella mattina e osservava quella fotocopia cercando di imprimerne i connotati nella mente. Ripiegò quel foglio in quattro per l’ennesima volta, afferrando la tazza di the dal tavolino che teneva occupato da una buona mezzora. Ne trangugiò un’abbondante sorsata strascicando sui baffi la manica sinistra della giacca color ebano. Prese l’ultima tartina alle aringhe salate rimasta sul vassoio divorandola in un sol boccone. Dispiegò nuovamente il foglio osservando in dettaglio quella figura e rileggendo l’indirizzo scritto in basso. Si rammaricò di non aver preteso una foto a colori più definita al posto di quella fotocopia sbiadita in bianco e nero. La supervisione fu interrotta dal cameriere che confidenzialmente lo canzonò: “Ehi, Turco, non ti sarai mica innamorato?”. “Fatti i cazzi tuoi!”, rispose posando sul tavolino una banconota da cinque dollari e infilando il foglio in tasca. Lasciò il locale dando un’occhiata all’orologio e palpando la tasca destra dove aveva riposto un sottile cavo d’acciaio munito di due cappi laterali. Cinquemila dollari erano una discreta cifra per un balordo come lui, conosciuto più per i suoi furti falliti e una ridicola rapina a un chiosco di frutta. Se avesse portato a termine quel lavoro, avrebbe potuto riabilitare la sua fama e ambire a un ruolo diverso in quella malfamata società. Prese la metro e poi un taxi senza nessun sollievo per le sue gambe indolenzite:

quei centoquaranta chili di peso e la flebite che gli era stata diagnosticata non gli concedevano tregua. Si fece lasciare a qualche isolato di distanza e proseguì a piedi controllando se la via fosse quella giusta. Seguì la numerazione e quando fu nei pressi si fermò a osservare la palazzina. Vide parcheggiato davanti alla scalinata un furgoncino bianco con la portiera posteriore spalancata. Si avvicinò lentamente al mezzo da lavoro, sentendovi qualcuno rovistare dentro. Sbirciò dal vetro laterale e scorse un uomo sulla sessantina che sistemava del materiale all’interno. Il Turco riconobbe nel volto dell’uomo dei tratti molto simili a quelli impressi nella fotocopia, quindi estrasse dalla tasca il foglio posandolo vicino al finestrino. Il confronto non fu decisivo, ma il Turco risolse la questione addebitandone la colpa a quella sbiadita fotocopia e all’invecchiamento naturale delle persone; l’indirizzo poi confermava la sua ipotesi. Il Turco si guardò attorno e attese che un paio di persone dall’altro lato della via si allontanassero. ò nel retro del furgone e spalancò le portiere trovandosi la vittima di spalle, in posizione ideale. Tirò fuori il laccio dalla tasca e lo tese fra le mani, pronto a ghermire la sua preda. Mise un piede sul pianale del furgone per salirvi sopra con l’unico risultato di far inclinare il piano e far ruzzolare l’uomo su di lui. Caddero insieme uno sopra l’altro sul marciapiede, ritrovandosi l’uno di fronte all’altro. “Ma chi diavolo è lei?”. Il Turco, completamente disorientato, prese il laccio e lo ò dietro il collo dell’uomo con l’intenzione di strangolarlo. La maldestra azione non fece altro che avvicinare il viso dell’uomo al suo facendoli scontrare come due noci di cocco. Il Turco perse la presa e, frastornati, caddero uno di fianco all’altro. Il proprietario del furgone si rialzò per primo adoperandosi in una maldestra fuga, ma il Turco lo afferrò per un polpaccio con entrambe le mani. Lottarono per qualche istante strattonandosi reciprocamente, finché una voce non li fece smettere: “Basta così!”. Il Turco si voltò mollando la presa e rimase vivamente colpito dalla rassomiglianza con l’uomo che aveva aggredito, ma non volle replicare, soprattutto quando questi brandì una pistola.

Il proprietario del furgone, affannato e con gli occhi dilatati, esclamò: “Grazie a Dio, signor Belimbau! Quest’uomo… Ma perché è armato?”. “Silenzio!”, ordinò Zacary. “Salite sul furgone!”. Il Turco non se lo fece ripetere due volte e, senza perdere d’occhio la Glock munita di silenziatore, salì all’interno facendo oscillare la vettura. “Ma io che c’entro, è lui che...”. Il timido tentativo di resistenza del proprietario del mezzo fu vanificato. “Non discutere! Sali o ti faccio secco sul marciapiede!”, sentenziò Zacary. Non fece altre obiezioni e si accucciò nel lato opposto al Turco. Il sicario li raggiunse chiudendo le portiere del furgone. Per alcuni secondi si sentirono solo respiri affannosi e sguardi carichi di incognite, poi Zacary chiese al Turco: “Chi ti ha mandato, viscido grassone?”. “Nessuno, quest’uomo mi ha insultato e ho reagito”. “È una menzogna!... È stato lui...”. “Tu sta’ zitto”, rispose Zacary verso l’aggredito, quindi puntò la pistola verso il ginocchio del Turco. “Un’altra cazzata e ti faccio saltare questo cotechino che ti ritrovi al posto del ginocchio! Chi ti ha mandato?”. Vista la prospettiva, il Turco vuotò il sacco: “Mi ha contattato un certo Nero, per conto di un altro… Ma ti giuro che non volevo farti del male...”. Zacary mise la testa di fianco: “Oh, ma guarda… Scommetto che con quel laccio d’acciaio volevi farmi un codino ai capelli”. La canna della calibro 8 cambiò obiettivo e lentamente percorse il tragitto che portava alla fronte, poi improvvisamente un colpo secco seguito da una piccola fiammata e il Turco si accasciò senza vita. “Oh, miseria ladra, ma che cazzo ha combinato, signor Belimbau?!”, urlò l’uomo distanziandosi dal corpo inerte del Turco, non avendo ancora realizzato cosa fosse successo; e non ebbe modo di chiederselo, perché un colpo

apoplettico lo colse spedendo anche lui all’altro mondo. Zacary scese dal furgone, richiuse le portiere e raccolse da terra il laccio lasciato per terra dal Turco, infilandoselo in tasca. Con fredda determinazione si sedette al posto di guida, mise in moto e partì.

Ray quel sabato si era alzato tardi e come di consueto si era riservato una manicure a domicilio, mentre attendeva che Al venisse a prenderlo. La ragazza adoperava la lima con cura e lestezza, come con altrettanta abilità evitava gli sguardi maliziosi e invadenti dei suoi clienti. Ray era adagiato su una poltrona del salotto in stile puramente veneziano, con legni arricciati e laccati di bianco su panno trapuntato color porpora. Ogni parete e angolo di quella casa era la rappresentazione del suo proprietario: tappezzerie, specchi dalle cornici barocche, orologi a pendolo che sembravano tratti da un romanzo di Agatha Christie. Ma ciò che lasciava letteralmente allibito il visitatore era una cristalliera a vetri adibita a mausoleo della rinomata serie de Il Padrino. All’interno vi erano autentiche repliche dei rinomati film di Coppola e relativi cimeli, come l’abito gessato usato nella prima serie dall’interprete e una copia della rivoltella che uccise il padrino. Il resto dell’arredamento era in puro old-style inglese che con ostentata opulenza sfoggiava quanto di più pacchiano e nauseante si potesse esibire in un’abitazione. La ragazza terminò ungendo le dita del gangster con una crema detergente e un sorriso. Ray si alzò e tolse dalla giacca da camera un biglietto da venti dollari consegnandolo nelle mani della ragazza. “Sei stata brava anche stavolta, tieni e fanne buon uso!”. La ragazza prese i soldi senza nessun accenno di insofferenza, ma non disdegnò, dentro di sé, di mandarlo a quel paese additandolo come il più becero degli spilorci.

La ragazza uscì e Nero entrò avendo cura di pulire le suole delle scarpe sullo zerbino posto all’entrata. “Sei tu, Nero?”, chiese sfilandosi la giacca di seta verde per indossarne una gessata marrone su pantaloni candidamente color panna. “Sì, capo, Al ci raggiungerà al Dakota”. Ray lasciò la camera da letto per presentarsi in salotto davanti al suo uomo. “Novità sul nostro lavoro in sospeso?”. Nero rispose dopo un istante di riflessione: “Ah, già… Ho saputo soltanto che Zacary ha lasciato l’ospedale e il Turco non si è fatto ancora vivo”. Il gangster lo guardò mentre afferrava il soprabito dal divano, adagiandolo sulle sue spalle. “Speriamo ponga fine a questa farsa; prima ci liberiamo di quell’ebreo, prima eviterò di prendere il Prozac per dormire”. “Sul serio, capo, prendi quella roba?”. Ray si avviò verso l’uscita seguito dal suo uomo e prese le scale che portavano ai parcheggi. Poi rispose: “Secondo te, dopo un fallito tentato omicidio, un sicario che mi ricatta con la prospettiva di mandarmi in galera e un pacco di denaro estortomi dal mio contabile, potrei dormire tranquillo?”. Nero rispose imibile: “Ci sono delle alternative valide, come delle tisane...”. “Imbecilli!”, urlò Ray. “Il problema è che sono contornato da imbecilli, altro che tisane!”. Nero evitò di replicare per non aggravare la situazione e fecero l’ultima rampa di scale in silenzio. La Bentley era amabilmente parcheggiata nel posto auto riservato, ma odiosamente impedita ad uscire da un furgone piazzato davanti in doppia fila. “Ecco un altro deficiente che pensa di essere a casa propria!”, sbottò Ray nel constatare il suo giocattolo da viaggio tarpato da un rozzo mezzo di trasporto.

“Ci penso io!”. Nero circumnavigò il furgone notando che era vuoto all’interno e proseguì con la zona circostante, ma senza risultati. Ray, impaziente, eggiava nervosamente in attesa che il suo attendente risolvesse il problema. “Questo stronzo avrà di che pentirsi quando si farà vivo!”. Dopo queste parole Nero allungò una pedata a una delle due ante posteriori del furgone e questa si spalancò come se non fosse stata serrata bene. Ci fu un attimo di stupore seguito da uno stato di sgomento assoluto da parte di Nero. “Che hai da guardare? Non stare lì impalato come...”. Anche a Ray le parole morirono in gola, seguite da uno stato catatonico pari a quello di Nero. All’interno due corpi erano riversi sul pianale del furgone, ricoperti del loro stesso sangue. “Mi venga… Se quello non è il Turco!”, balbettò Nero. “Quello è il Turco!”, precisò Ray. “L’altro sembra Zac”. “No, l’altro non è Zac”. “A me sembra Zac”, continuò il suo braccio destro. “Ti dico che... Ma che cazzo, non è lui e basta! E non contraddirmi, idiota di un italiano!”, si infuriò Ray serrando le portiere e guardandosi attorno. “Fai sparire il tuo fantastico sicario e quest’altro seduta stante... Poi raduna tutti all’Oklahoma!”.

“Pronto, Gregory?... Sono Martin”. “Ti ascolto...”.

“Hai un appuntamento fra un’ora alla Liberty Island, con una persona…”. “È quello che penso io, Martin?”. “Hai pensato giusto, Gregory, e non dimenticarti le cambiali…”. “Avrai tutto a tempo debito”. “Mi darai tutto domani, io con questa storia non voglio entrarci...”. “Ti saluto, Martin”. Offenbach chiuse di scatto la chiamata e premette un pulsante della sua scrivania. “Sì! Mi ha chiamato, signore?”. “Sì, Lorinne, disdici l’appuntamento delle undici; rientrerò all’ora di pranzo”. Indossò la giacca dando un ultimo sguardo dalla vetrata del quarantunesimo piano del Bloomberg Tower. Quella vista sulla baia di Manhattan toglieva il fiato, ma per chi la osservava quotidianamente era solo un vezzo da esibire. Raggiunse i parcheggi azionando col telecomando i fari posteriori della Carrera 911 cabrio, fino a quel momento sornionamente addormentata. Risvegliò i sei cilindri boxer con una brusca sgasata e con uno stridio di gomme uscì dal parcheggio. Si immise nel caotico traffico della Lexington Avenue diretto alla cinquantunesima, dopo aver premuto il tasto di apertura della capotte: questa scomparve in pochi secondi, lasciando che i raggi cocenti del sole lambissero il suo viso. Offenbach desiderava liberarsi di quel gangster da quattro soldi, mentre si domandava come avesse potuto scoprire quell’ammanco sottratto in dieci anni di contabilità. Ormai poco importava e non intendeva comunque restituire un solo dollaro, ma ricambiare il desiderio di Ray di accorciare la sua permanenza in questo mondo in un modo altrettanto sbrigativo. Lasciò l’auto a Battery Park, pagando un biglietto del battello che porta alla

Liberty Island. Il breve tragitto lo fece seduto sulla torretta di poppa, alleviando la calura con la fresca brezza marina. Sbarcò assieme a centinaia di turisti, chiedendosi in quale modo avrebbe incontrato questa persona. Mise mano al cellulare per richiamare Martin Loach, ma l’apparecchio iniziò a trillare prima di premere qualunque tasto. Il mittente della chiamata era sconosciuto così Gregory pigiò il tasto di risposta con un’incipiente inquietudine. Una voce fredda e dall’accento dell’est europeo lo anticipò: “Prendi la strada che porta in fondo al parco”. Non ebbe modo di replicare, ché la chiamata terminò appena dopo l’ultima sillaba. Lasciò alle sue spalle il basamento a stella della Statua della Libertà, inoltrandosi nel viale che porta all’estremità sud dell’isola. ò di fianco a un gruppo di turisti guidati da un interprete che in un ostico tedesco ragguagliava il suo gregge con notizie e curiosità del luogo. Continuò a camminare al centro della via osservando le due sponde, finché il cellulare non squillò nuovamente. “… Più avanti troverai una panchina sulle tua destra, siediti e aspetta…”. Gregory obbedì agli ordini e prese posto guardandosi attorno con sospetto. Poco dopo un uomo biondo sulla trentina e dagli occhi chiari come il cielo vi si sedette accanto con un giornale aperto in mano. “Signor Offenbach, un amico comune mi ha detto che le serve il mio aiuto”. Il contabile tentò di guardarlo in volto ma l’uomo si schermì con le pagine del giornale. “L’hanno informata bene”. “Il lavoro le costerà ventimila dollari… Se lei è d’accordo mi indicherà a chi dovrò rivolgere le mie attenzioni, altrimenti puo riprendere subito il battello”. Gregory ci pensò un attimo, poi rispose: “D’accordo… Si chiama Ray Malansky e in questa busta troverà tutte le informazioni che le servono”. Il killer prese la busta cacciandosela in tasca. “La contatterò a lavoro ultimato per il mio compenso, dasvidania”.

Non ebbe il tempo di replicare a quel saluto in russo che improvvisamente quello sparì, così come era arrivato.

L’appartamento aveva cambiato aspetto, ordinato e pulito come il giorno in cui l’aveva acquistato. Aveva aggiunto un nuovo divano e alcune suppellettili per dare un tono di modernità al tutto. In realtà non era cambiato di molto, ma dopo averlo vissuto per oltre trenta anni e averlo impresso nella sua mente come una foto, quei cambiamenti ai suoi occhi portavano un qualcosa di rivoluzionario. Rimuginava sul fatto di aver saldato il conto con quell’imprenditore in modo così brutale, ma al momento gli era sembrata la soluzione migliore per salvaguardare le sue misere finanze e foraggiare il resto della sua vita. Prese la Glock dal tavolo svitandone il silenziatore e la ripose assieme al resto dell’armamentario. In altri tempi si sarebbe sbarazzato immediatamente dell’arma di un delitto, ma nella sua situazione il timore che potesse finire dietro le sbarre era l’ultima delle sue preoccupazioni. Si sedette sulla poltrona nuova di pacca che aveva acquistato di recente per riflettere su come il suo ex datore di lavoro intendesse anticipare se pur di poco la sua dipartita. Non voleva privarsi di quelle ultime ore di ritrovata giovinezza né mettere in pericolo Rosemary e suo figlio. Prese carta e penna e cominciò a lavorare a uno sparuto stratagemma per liberarsi di quel suo mortale nemico. Dopo mezzora guardò l’orologio, rendendosi conto che a breve avrebbe ricevuto la tanto sospirata visita assistenziale. Si fece un’abbondante doccia non lesinando essenze e odori, una volta terminata la quale si inondò letteralmente di un’acqua di colonia dalla fragranza di lavanda. Si rese conto di aver esagerato con le quantità e si sentì così nauseato da ripetere la procedura con una nuova doccia, centellinando questa volta con attenzione la dose di profumo. Indossò i nuovi abiti che aveva acquistato, non lesinando una certa ostentazione allo specchio e realizzando quanto gli abiti potessero trasformare un uomo in un monaco.

Aprì il frigorifero accertandosi che il rifornimento effettuato potesse essere di loro gusto. Lo richiuse considerando che forse stava esagerando e che il desiderio di incontrare quella donna lo stava trascinando in un luogo che nulla aveva a che fare con la realtà. Rosemary era una donna felicemente sposata con prole e nulla di ciò che lui possedeva poteva interessarle, né poteva offrirgliela. A questa considerazione contrappose il desiderio di poterla se non altro vedere una volta al giorno ed essere gratificato dalla sua presenza quotidiana. Bussarono alla porta e dopo aver dato un ultimo sguardo allo specchio andò ad aprire. “Buongiorno, signor Belimbau”. “Buongiorno a te, Lanny”, rispose Zacary sfoderando un ammiccante sorriso. “Siamo in anticipo?”, chiese Rosemary sbirciando all’interno con curiosità. Le vecchie abitudini erano dure a morire: Belimbau era avvezzo a tenere un solo spiraglio della porta aperto per essere pronto a serrarla con decisione con la mano in caso di agguato. Resosi conto di quella stranezza spalancò la porta riprendendo il dialogo: “Assolutamente no, benvenuti nella mia casa”. Zacary non aveva mai avuto modo di fare gli onori di casa e quella nuova situazione lo rendeva impacciato ed avventato sul da farsi. “Lì c’è il frigorifero con le bibite, quello è il bagno e di lato c’è la cucina… Per cucinare…”. Rosemary lo fermò: “È sufficiente un appendiabiti e l’occorrente per la medicazione”. “Ah, sì, in effetti...”, rispose lui guardandosi attorno spaesato. Aveva pensato a tutto tranne che all’unico vero motivo di quella visita. In tutto quel trambusto non ricordava dove aveva riposto le ampolle e i medicinali. Vagò per la casa come un disperato sotto gli occhi della donna e del ragazzo, senza trovare ciò che gli serviva.

Dopo averli fatti accomodare continuò ad aprire cassetti e a spalancare ante, armadi e pensili ma senza risultato: il kit di medicazione sembrava essere stato inghiottito in un’altra dimensione. “Se vuole, torniamo più tardi...”, suggerì lei constatando l’affanno dell’uomo. “Non se ne parla nemmeno… Sono certo che sono in questa casa, anche se ignoro la loro ubicazione”. Lanny era già spazientito e, dopo aver seguito gli spostamenti ormai disperati del sicario, cominciò a perlustrare la casa per conto suo. Si fermò davanti al frigorifero, accettando l’invito del padrone di casa di servirsi a suo piacimento. Rosemary gli intimò con lo sguardo di non azzardarsi ad aprirlo, ma quella raccomandazione cadde nel vuoto. Zacary rovistava sotto il letto e nella biancheria intima quando una voce dalla cucina lo invitò a raggiungerli. “Signor Belimbau...”. L’uomo si recò in cucina, trovando la donna e suo figlio che osservavano l’interno del frigorifero. “Servitevi pure, non fate complimenti...”. Rosemary si trattenne, ma non riuscì a velare la sua ilarità: “Credo che Lanny abbia trovato ciò che stava cercando”. Rimase di sasso quando, posato lo sguardo all’interno dell’elettrodomestico, vide lo scompartimento delle bibite comprendere un ricco assortimento di flebo e anticoagulanti. “Che mi venga… Devi… Deve… Scusarmi...”. “Venga, si sieda, per oggi lei ha corso abbastanza”. Rosemary lo fece accomodare su una poltrona, approntando il tutto per eseguire il suo lavoro. Slacciò con cura la manica della camicia ripiegandola sopra il bicipite e mise in opera le procedure per instillare un flacone di soluzione endovenosa.

Lanny nel frattempo si era servito di una bibita fresca per are il tempo e guardava la madre terminare l’operazione. Zacary covava quella domanda da molto tempo e, ritenuto ormai giunto quel momento, non si trattenne: “E… Tuo… Suo marito di cosa si occupa?”. Lei sollevò il viso lasciandovi un’impronta di sofferenza: “Il mio ex marito non si occupa”. Il sicario tentò cinicamente di approfondire: “Nel senso che è morto?”. “Purtroppo no”, disse lei sedendosi su una poltrona, “mio marito è una persona violenta dedita al vizio dell’alcool”. Il cuore di Zacary ebbe un sussulto di approvazione: “Mi spiace…”, disse mentendo spudoratamente. “Ma perché non lo lascia, allora?”. Rosemary, dopo un lungo respiro, rispose. “Non è così semplice”. “Non penso ci voglia molto, basta cambiare la serratura della porta e lasciargli la valigia sulla porta”, replicò il sicario. Lei esitò un attimo poi decise che sfogarsi con qualcuno non avrebbe di certo peggiorato la situazione: “Malcom… Mio marito non l’ha presa tanto bene quando l’ho fatto e non manca di rammentarmelo ogni volta che lo incontro”. “Cosa intende… Vuole dire che?”. “Le ho detto che è un tipo violento”. Zacary esibì un’espressione di disgusto e indignazione: “Ma quale scellerato… Come può tollerarlo?”. “Signor Belimbau, io non lo tollero… Lo subisco”. “Ci parlerò io e vedrà che...”. “Non se ne parla nemmeno!”, reagì bruscamente la donna. “Malcom non è tipo con cui si può discutere e poi una persona perbene come lei non dovrebbe immischiarsi in certe cose… Cosa fa nella vita, signor Belimbau?”.

“Chi… Io?”, rispose, preso in contropiede. “Siamo solo io e lei, e considerando che lui è mio figlio...”. “Ah, beh… Certo, io… Io sono… Ero un cuoco”. La donna rimase sorpresa da quell’affermazione: “Davvero?! Non l’avrei mai pensato… Quali sono le sue specialità?”. Il sicario maledisse se stesso per aver scelto fra migliaia di professioni sconosciute e difficili da determinare quella che rischiava di infilarlo in un imbuto cosparso di scivolosissimo olio. “Oh, sì... Ne ho diverse, ma sicuramente i bolliti sono fra quelle che mi vengono meglio”. “I bolliti?!”, appuntò Rosemary posando un dito sulle labbra. “Sì, insomma, le minestre… O come voi donne siete abituate a chiamarle”. “Ah, certo, e un giorno ci farà assaggiare una di queste minestre?”. Zacary si sarebbe strappato volentieri la lingua per bollirla assieme a quella minestra. Non aveva la più pallida idea di cosa fosse l’arte culinaria né adoperato un tegame senza sbagliarne il verso. “Ti… Le… Preparerò un piatto indimenticabile”.

Sosteneva il pennarello a mezz’aria, indeciso se riporvi il tappo o continuare a scrivere sulla sua personale bacheca. Vi aveva appuntato quanto finora aveva raccattato da quella strampalata istruttoria, disegnandovi un quadro piuttosto confuso della situazione. Il sergente Vernon lo raggiunse chiudendo la porta, sistemandosi accanto al suo compagno di squadra. “Peschi alla cieca?”. “Seguimi…”, disse in senso lato Stanich puntando il pennarello sul primo nome

scritto in alto. “Offenbach è la potenziale vittima di un omicidio di cui ignoriamo sia il mandante che l’esecutore ma sappiamo che è anche il contabile di una certa malavita locale…”, e si fermò attendendo un assenso del sergente, che arrivò puntuale. “Qualche giorno dopo un killer da barzelletta, al soldo di un gangster da quattro soldi, si trafigge la gola mentre tenta di uccidere un certo Zacary Belimbau… Che, udite, udite, secondo le tue ultime notizie lavora o lavorava per Malansky”. Terminò la frase collegando con una freccia il nome di Ray con Zacary. “Fin qua niente da dire”, affermò con sottile ironia Vernon. “Ora, se vogliamo essere lungimiranti, Offenbach è il contabile di Malansky e di altri cinquanta papponi e grassatori”, concluse sconsolato il tenente lanciando il pennarello sulla scrivania. “Il bello di questa storia è che in realtà abbiamo un tentato omicidio e un balordo che si taglia la gola in una stanza d’ospedale; il resto è solo una filastrocca senza uno straccio di prova”. Vernon fece un appunto: “Se trovassimo un collegamento fra Malansky e Offenbach, la storia avrebbe un senso”. “Lo penso anch’io, e non sbatto questa indagine nel cestino perché il mio intuito mi dice che la storia non finisce qui”. “Cosa intendi?”, chiese Vernon. “Chi ha tentato di uccidere Offenbach ci riproverà e, se ci riuscirà, subito dopo il capitano farà un bel barbecue sulle mie chiappe… A proposito di chiappe, andiamo a cucinarci Virgil, chissà che venga fuori qualcosa di buono”. L’auto di servizio lasciò la centrale, con il display posto sotto il cruscotto che illuminava l’aggiornamento in tempo reale sui crimini commessi nella metropoli. Stanich lo seguiva distrattamente lasciando a Vernon il dispiacere di guidare nel caotico traffico. “Un accoltellamento nella centoventunesima… Tentativo di strangolamento fra coniugi all’angolo fra la nona e la settantunesima… Ripescato il corpo di un probabile suicida al molo dieci…”. Il tenente aguzzò lo sguardo mentre scorrevano i caratteri cubitali. “… Ritrovato furgone sulle rive dell’Hudson con

due corpi di cui uno freddato da arma da fuoco…”. Stanich si mise in contatto con la centrale con il trasmettitore ad alta frequenza in dotazione. “… Detective Stanich… Chiamo per quel centoundici sulle rive dell’Hudson… Ragguagli?”. Vernon si voltò a guardare l’espressione del collega mentre lo informavano sui fatti. “Inverti, sergente, andiamo a dare un’occhiata al contenuto di questo furgone”. “E Virgil?”. “Non scappa… Metti il lampeggiante ché questo traffico comincia a darmi sui nervi”. Il sergente fece un’inversione posando il lampeggiante calamitato sul montante della berlina e scatenando la sirena. La zona era già stata transennata e due volanti presidiavano il luogo assieme a un nutrito gruppo di curiosi. Stanich oltreò la striscia invalicabile andovi sotto. Per lui erano finiti gli anni dei balzi e dell’agilità, cosa invece permessa a Vernon che, dotato ancora di un fisico snello e asciutto, non ebbe difficoltà a scavalcare con un balzo. Il furgone era stato parcheggiato in un terrapieno usato in genere come transito da uno sfasciacarrozze ubicato poco più avanti. Un ufficiale in divisa riconobbe il tenente e gli andò incontro. “A dire il vero non mi aspettavo di vedere lei, che ci fa in questo settore?”. “Pura curiosità, seguo un caso analogo e desideravo dare un’occhiata”. “Venga, le faccio vedere”. Lo fece are lungo uno spazio tratteggiato per non rovinare le impronte sul terreno e una volta davanti al furgone infilò i guanti e aprì gli sportelli.

“Lo abbiamo ritrovato venti minuti fa e la scientifica ci deve ancora lavorare. Due corpi, di cui uno freddato a distanza ravvicinata. Dal foro sembra un piccolo calibro… Quello con i baffi è una vecchia conoscenza nell’ambiente: lo chiamavano il Turco”. “E l’altro?”, chiese Stanich. “Dai documenti sembra incensurato… Era il titolare di una società di servizi e questo furgone è di sua propietà”. Il tenente, dopo aver esaminato i due corpi, gironzolò attorno al veicolo e, arrivato al posto guida, fece cenno a Vernon di intrattenere il poliziotto. La loro complicità comprendeva anche il dover eludere a volte la burocratica macchina investigativa e sovente il sergente ne era il tramite. “Avete preso i dati dei presenti?”, chiese Vernon con la massima serietà. Il sottufficiale lo guardò con meraviglia: “A che scopo?”. “Datevi da fare, voglio i nomi e gli indirizzi di tutti i presenti”. L’impegnativo lavoro dei poliziotti lasciò ampio margine di manovra a Stanich, che si intrufolò nella cabina di guida. All’interno regnava l’ordinario disordine di un mezzo da lavoro, con fogli e appunti sparsi dappertutto. Aprì il vano sotto il cruscotto, senza notare niente di interessante. Sul vetro, sostenuto da una ventosa, un bloc-notes con appunti e numeri di telefono: con la punta della penna scartabellò i fogli leggendovi nomi e indirizzi ma senza che il suo istinto rilevasse qualcosa di attinente. Si voltò indietro a osservare i due corpi distesi e inerti, quando vide spuntare un foglio di carta dalla tasca dello scuro paltò del Turco. Si protese in avanti allungando il braccio fino a lambire il foglio con la punta delle dita, ma dal vetro laterale la sagoma del detective Norman, appartenente al distretto di zona, fece capire che il tempo a sua disposizione era terminato. Con un ultimo sforzo il dito indice e medio del tenente strinsero il foglio di carta, che venne fuori dalla tasca tutto stropicciato.

La portiera si aprì di colpo e il viso gonfio e scocciato di Norman si protese in avanti. “Che ci fai da queste parti, Stanich, non avete più casi da risolvere dalle vostre parti?”. Il detective scese dal furgone con l’aria di chi è stato pescato con le dita nella marmellata. “Ero da queste parti quando è stato diramato il comunicato e...”. “Questa non la bevo e ti pregherei di non riprovarci”, replicò piuttosto seccato il pari-grado. Jeremy mise le mani sui fianchi: “Sto lavorando a un caso con un mare di grattacapi e mi era parso che ci fosse… Ma mi sbagliavo”. “Tanto per chiarirci, Jeremy, di per sé questo lavoro non è gratificante… Ma mi irrita alquanto che un collega mi fotta il lavoro!”, precisò Norman in tono . “Ti sarei grato se la prossima volta seguissi le vie gerarchiche”. “D’accordo, Norman, ti devo un favore, ok?”, rispose allungando il palmo della mano. Il tenente lo guardò, poi gliela strinse: “Puoi dirlo forte, e non voglio considerare quel foglio che hai sottratto alle indagini”. Stanich non arrossì solo perché era da tempo che il sangue non gli irrorava superficialmente il viso. “Ti ringrazio anche per questo”, concluse allontanandosi dal luogo del delitto. Vernon mise in moto l’auto, conscio che il suo superiore stavolta aveva rischiato un vero incidente diplomatico. “Che ti ha preso, Jeremy!? Uno sguardo è permesso, ma tu hai rivoltato quell’auto come fosse il letto di casa tua!”. Stanich prese il foglio mentre rispondeva: “Pensavo di avere le spalle coperte”. “Ho fatto ciò che potevo, ma Norman ci è piombato addosso come uno squalo quando ha visto la nostra auto…”, replicò senza essere seguito. “Trovato

qualcosa?”. “Questa sì che è una novita!”, affermò il tenente ando il foglio al suo collega. Vernon lo guardò corrugando la fronte: “Ma questo è...”. “Già, proprio lui…”.

La tensione era palpabile e si respirava aria di tempesta. L’Oklahoma rispettava il giorno di chiusura ma per Ray i suoi battenti restavano sempre aperti. Era l’unico inchiodato su una sedia, mentre il resto della compagine era disposta in piedi ad anfiteatro e mantenuta a debita distanza. “Sapete cosa rende insopportabile questa storia?”. Ray lasciò are qualche secondo prima di continuare. “… Che un ebreo leccapiedi, con un piede nella fossa e con l’altro prossimo a raggiungerlo, abbia rifiutato i miei cioccolatini…”. Nero e Al si guardarono negli occhi, in attesa del peggio. “… E sono pienamente convinto che, se avessi incaricato un vecchietto dell’ospizio con la bava alla bocca e rintronato dall’Alzheimer per spedirlo a quel paese, questo non avrebbe avuto nessuna difficoltà”. Silenzio, volti seri e preoccupati dallo svolgersi di quella riunione. “… E non solo il malato terminale è ancora vivo e vegeto, ma si prende la briga di consegnarmi a domicilio un pacco regalo contenente un paio di cadaveri pronti per l’imbalsamazione...”. Ray inspirò un paio di volte nel tentativo di reprimere l’ira che stava montando. “… Ora, c’è qualcuno in questa stanza da me stipendiato che riesca a liberarmi di QUESTA FISTOLA PUTRESCENTE?!”. Nero sollevò il dito timidamente con l’intenzione di suggerire, ma Ray lo fulminò: “Tu devi stare zitto… Quel cazzo di Turco che mi hai portato si è fatto impallinare come il più saccente dei dilettanti…”. Poi rivolse il suo livore su Al:

“E non voglio rammentare quel pagliaccio di Slim dal quale Belimbau non ha neppure dovuto difendersi… Probabilmente se quell’ebreo tirerà le cuoia lo farà sganasciandosi dalle risate alle mie spalle!”. Ray abbassò il volto asciugandosi la saliva che a rivoli si era depositata sulle labbra. “Ormai sono diventato un ridicolo gangster da teatrino rionale e voi le mie damigelle d’onore… Ma prima che vi metta le scarpette e il tutù per il debutto della prima, voglio vedervi in azione!”. Estrasse la 356 Magnum Desert Eagle dalla fondina portando indietro il carrello e caricando il colpo. I dieci uomini presenti si guardarono in volto chiedendosi a quale stadio fosse arrivata l’ira del loro capo. Ray cominciò a sparare sui piedi degli uomini e questi iniziarono a saltellare uno dopo l’altro finché tutti i proiettili non furono esauriti. “CHI VI HA DETTO Di FERMARVI!!”, urlò Ray infilando un secondo caricatore e riprendendo a sparare come un forsennato. Nella foga il gangster colpì il tallone di un certo Fogarty, che perse l’equilibrio, tanto che il secondo colpo gli arrivò dritto in mezzo agli occhi. La testa gli esplose ridipingendo di rosso l’ambiente circostante. Tutti si fermarono in un silenzio tombale e Ray si alzò in piedi raggiungendo il morto. “Lo avete visto tutti… Eppure lo avevo avvertito di sollevare le gambe, no?”. Un coro di acclamazione seguì quella affermazione. “Sì, certo, capo, lo abbiamo sentito chiaramente”, confermò Al senza staccare gli occhi dall’ondeggiante pistola di Ray. “È stata solo colpa di Fogarty; non ha mai saputo ballare, vero, Macoy?”, aggiunse Nero. Gli altri si accodarono con una serie di acclamanti affermazioni di estraneità del loro capo a quell’increscioso incidente.

“Bene, trasferiamoci nell’altra stanza… Non mi piacciono le tinte troppo forti”, sentenziò Ray. Il gruppo lasciò la stanza col cadavere di Fogarty grondante di sangue e con un’acre puzza di polvere da sparo. Il gangster ripose la pistola nella fondina sistemandosi in una poltrona della sala principale. I suoi uomini lo seguirono timidamente con la speranza che la furia omicida si fosse placata. “Ora desidero soltanto un killer degno di questo nome che metta la parola fine a questa parodia e che dia risalto al nome di Ray Malansky! Secondo voi, è pretendere troppo?”.

Le sue priorità quella mattina erano cambiate: dopo la serata ata con Rosemary aveva ben inciso sulla sua mente cosa fare, e in un preciso e categorico ordine. Sistemare il suo ex datore di lavoro, seguire un corso accelerato di gastronomia e arte culinaria e non ultimo aiutare Rosemary a sbarazzarsi in modo definitivo del suo violento marito. Riassaporò per qualche istante gli intensi momenti con quella donna, capovolgendo l’ordine di esecuzione e portando la dipartita di Malcom al primo posto della sua personalissima hit parade. Si fece la barba con cura e infilò la Glock fra la cinta e la camicia, il silenziatore nella tasca, e uscì. I medicinali assunti la sera precedente gli avevano ridonato smalto e un certo vigore. Si sentiva concentrato e pronto come mai lo era stato finora. Le informazioni avute dalla donna erano state vaghe e quella più attendibile era la frequentazione da parte dell’uomo di un malfamato locale ubicato nel Queens dal nome altisonante di “The River”. Vi arrivò soffermandosi a osservare l’insegna luminosa con la netta sensazione che le due donnine raffigurate simboleggiassero più di ogni altro aggettivo cosa avrebbe trovato all’interno. Il resto era solo un cubo senza finestre da dove risuonava cupamente della musica house.

Zacary non era mai entrato in un locale, né di quella tipologia né di nessun’altra che non fosse più grande di una stanza e dove la cosa più piccante fosse un hotdog con la senape. Varcò con curiosità la porta d’entrata dove un buttafuori di centocinquantachili lo squadrò da capo a piedi. “Non mi importa se potresti essere mio nonno, prova a mettere le mani nel posto sbagliato e ti ritroverai su una carrozzella per paraplegici, d’accordo?”. Il sicario annuì senza aggiungere altro e il body-guard scostò la tenda che immetteva nel parco giochi. Nel bancone circolare sopraelevato tre ragazze ondeggiavano sinuosamente ricoperte solo da un paio di anelli al dito e qualche tatuaggio, mentre uno stuolo di uomini appollaiati sotto di loro sorreggeva in una mano un alcolico di infima qualità e nell’altra una manciata di dollari da barattare con una carezza. Zacary si guardò intorno cercando una collocazione da dove poter osservare senza dare nell’occhio. Non sapeva che faccia avesse Malcom, ma se un alcolizzato cercava un luogo dove azzerare la propria dignità quello era il più azzeccato. Fra quella trentina di persone si celava anche il marito di Rosemary, così cercò di ricavare informazioni nel modo più classico. Un uomo di un metro e mezzo di altezza, sufficientemente alticcio da non reggersi neppure se appuntellato, gli ò di fianco diretto verso il bancone bar. Zacary gli mise una mano sulla spalla arrestando la sua andatura. “Salve, posso chiederti un favore?”. Il tizio sollevò lo sguardo barcollando con il capo e assumendo un’aria sorpresa: “Tutto quello che vuoi, tranne il mio denaro!”. “Sto cercando Malcom, lo conosci?”. “… Malcom...”, biascicò l’uomo rilasciando dalla bocca una vampata vomitevole di alcool. “Sì, proprio lui...”, rispose in tono amichevole.

“Malcom… E basta?”. “Per adesso sì, non posso svelarti altro”. L’ubriaco lo guardò perplesso: “Ehi, amico, sei tu che mi hai chiesto se lo conosco!”. L’ebreo tentò di concludere: “Insomma, lo conosci o no questo Malcom?”. “Mai sentito...”, e con uno strattone si liberò dall’abbraccio di Zacary allontanandosi senza meta. Un altro addetto alla sicurezza si avvicinò e in tono minaccioso gli disse: “Sei astemio, per caso?”. Il sicario lo era per davvero, ma prima che potesse rispondere l’energumeno lo anticipò: “Allora quando rio ti voglio vedere con un bicchiere in mano”. Si allontanò con uno sguardo che non prometteva niente di buono e Zacary decise di accondiscendere a quel gentile invito. Il banco della mescita era gestito da due rozzi sommelier, perfettamente in linea con l’ambiente. Uno di questi aveva preso per il colletto un cliente e lo strattonava intimandogli di allontanarsi. “… Prima il colore dei tuoi soldi o dovrai accontentarti di leccare le gocce sul bancone...”. “Jeff, te li rendo la prossima volta, solo un goccio...”. “Niente da fare, sparisci!”. “Servilo e versane uno anche a me!”, intervenne Zacary prendendo la palla al balzo e sollevando una banconota da dieci dollari. Entrambi lo guardarono stupiti, sicuramente colpiti da quel gesto magnanimo. Il sommelier allentò la presa sul bavero dell’uomo arraffando il denaro con altrettanta rapidità. “Oggi ti è andata bene, Duncan”, concluse versando due bicchieri di un dozzinale gin. Duncan lo prese e lo tracannò senza complimenti, poi abbozzò un approccio al

suo samaritano. “Non so quando potrò ricambiare, ma grazie lo stesso”. Il sicario notò l’interesse dell’uomo per il suo bicchiere ancora intatto sul bancone: “Un modo ci sarebbe”, disse spostando il bicchiere nella sua direzione. Duncan si riassettò il colletto senza scostare lo sguardo dal gin: “Ti ascolto”. “Sto cercando un amico… Un certo Malcom”. L’alcolista, senza farsi pregare, afferrò il bicchiere e lo svuotò con la rapidità di un cobra. “Lasciami pensare… Malcom, hai detto...”. Zacary estrasse altri dieci dollari dalla tasca e li pose sul bancone: “Sì, esatto...”. Duncan fece un gesto col viso indicando una persona dall’altra parte del locale: “… È quello che sta per andare al cesso...”. Il sicario si voltò giusto in tempo per vedere una sagoma che spariva dentro i servizi. Non perse tempo e dimenticò l’ubriacone per fiondarsi nella direzione indicata. La puzza di orina e di sporcizia lo assalì ancora prima di varcare l’entrata. Una serie di lavabi dimenticati a se stessi da tempo immemorabile si specchiava su una serie di orinatoi di color ocra. Intenti a svolgere le proprie funzioni fisiologiche, due uomini che in quel momento gli volgevano le spalle. Il sicario li osservava entrambi nel tentativo di scorgere qualche dettaglio su chi dei due fosse il marito di Rosemary. Con rapidità estrasse la Glock 17 dalla cinta avvitandovi con destrezza il soppressore. I due uomini si voltarono nel medesimo istante trovandosi di fronte una pistola spianata contro. “Chi di voi due si chiama Malcom?”. Si rese conto di aver posto il quesito sbagliato, in quanto entrambi spergiurarono di non aver mai sentito quel nome. “Tu come ti chiami!”, chiese con fermezza a uno dei due.

“Ehi, amico, io mi chiamo Randall, Malcom è lui!”, rispose indicando la persona al suo fianco. Zacary gli rivolse l’arma ma questi replicò: “È una menzogna… Mi chiamo Greg, lo puoi chiedere a chiunque qua dentro”. Era al punto di partenza, ma mentre rifletteva, alle sue spalle la porta si aprì aggiungendo ai tre un barcollante e barbuto signore, che senza rendersi conto della situazione si precipitò in uno degli orinatoi. “Ehi, tu!”, gli urlò contro Zacary, impedendogli di sbottonare completamente i pantaloni. L’uomo si voltò e nel vedere la pistola sollevò le mani lasciando che i pantaloni franassero sui piedi. “Dimmi chi è Malcom fra questi due!”. Il poveretto li guardò negli occhi cercando una via d’uscita: “Ma veramente io...”. Prima che potesse parlare, le potenziali vittime ribadirono le loro generalità con veemenza. “Tu mi conosci, non ho niente a che fare con questo Malcom”. “Taci, bastardo”, intervenne l’altro, “venderesti tua madre per salvarti la pelle...”. Zacary mise pressione all’uomo: “Silenzio, voi due!... Allora, se non vuoi che ti spari tra le gambe, dimmi chi è Malcom!”. Il poveretto in realtà ignorava chi fosse Malcom e per salvarsi la vita allungò il dito indice tappandosi gli occhi e lasciando al fato la scelta di chi doveva vivere o morire. Prima che il dito decretasse la sua scelta, un’altra persona entrò all’interno. Una delle avvenenti ragazze era giunta per richiamare il suo cliente ma, inquadrata la pistola, tentò subito la fuga. “Ferma o ti sforacchio il reggiseno”, gli intimò Zacary. La ragazza richiuse la porta lasciando andare una sordida imprecazione: “Ma

porca puttana, tutte a me devono capitare!”. “Poche chiacchere e raggiungi gli altri”. Si sistemò al fianco dell’uomo dalle braghe calate guardandolo con ribrezzo mentre il sicario cercò, prima che l’intero parco clienti gli fe visita, di stringere i tempi: “Allora, dove eravamo rimasti… Ah, già, dimmi chi è!”. L’uomo risollevò la mano nella più pura delle casualità, puntandolo su uno dei due: “È lui Malcom!”. “Non dire idiozie”, intervenne la ragazza, “Malcom è quell’altro”. Preso dal panico l’uomo insistette rivolgendosi direttamente al sicario: “No, deve credermi Malcom, è lui”. “Ehi, bello, nessuno mi dà della bugiarda...”, rispose lei stizzita. A loro si aggiunsero le rimostranze dei condannati, con il sollevarsi di un alterco da mercato rionale. La discussione degenerò e le voci diventarono delle urla che si propagandarono all’esterno. Zacary tentò di mettere ordine sparando un paio di colpi sul soffitto, ma il botto attutito dal silenziatore non sortì alcun effetto e la bagarre continuò, seguita dalle vie di fatto. La ragazza si aggrappò alla barba del signore e cominciò a strattonarla da più parti mentre gli altri due si contendevano le generalità a suon di cazzotti. La porta si spalancò nuovamente e la figura imponente del buttafuori fece irruzione: “Ma che cazzo succede!”. Immediatamente l’energumeno mise mano alla sua pistola puntandola sul sicario. Spararono contemporaneamente con due fiammate distinte ma in perfetta sincronia. Il buttafuori cadde con un tonfo sul pavimento, raggiunto al petto dal calibro 9 mentre Zacary si tastò per accertarsi di non essere stato colpito. Un foro sulla manica della giacca era l’unico danno procuratogli.

Il silenzio che ne seguì lo fece voltare dietro di sé constatando che il proiettile diretto alla sua persona aveva freddato uno dei due indiziati, mentre gli altri come fulmini avevano sgombrato il luogo. Solo l’uomo con la barba si era attardato, impedito dai pantaloni calati, ma una volta sollevati, dimostrò di essere veloce come una lepre. Zacary svitò lentamente il soppressore dalla Glock, commentando: “Onestamente, come si può lavorare in queste condizioni?”.

“Che ne pensi del signor Belimbau?”. Il ragazzo ci pensò decisamente poco: “È strano… Ma sembra una brava persona, ed è anche generoso”. Rosemary non riusciva a trovare una spiegazione logica: il suo paziente non sembrava una persona ambigua e trovava quasi piacevole sentire le attenzioni di quell’uomo maturo su di lei. Malgrado costui fosse in fin di vita, riteneva che avesse compiuto un gesto degno di attenzione nel cercarla e offrirle quel lavoro. Percepiva, se pur in maniera latente, che quell’uomo non aveva secondi fini e che la sua generosità era sincera, e se anche avesse una qualche attrattiva nei suoi confronti non lo trovava poi così sconveniente. La disastrosa esperienza matrimoniale aveva posto in secondo piano la sua femminilità e cancellato la possibilità che gli occhi di un uomo si posassero nuovamente su di lei. Realisticamente quell’uomo era lontano dal suo ideale di compagno ma era intenzionata a non spegnere gli ultimi sogni di una persona in fin di vita. Il camlo sospese le sue riflessioni comunicando che qualcuno aveva bussato alla sua porta. In quegli ultimi giorni aprirla non era stato gratificante e immaginare un muro al suo posto la trovava una soluzione suggestiva ma efficace. Guardò lateralmente dalla finestra, scorgendo la presenza di un’auto senza insegne e accanto alla porta un uomo e una donna in abiti civili, dall’aria compunta e distinta. Non sembravano venditori né comunque avevano l’aria di portare buone notizie. La tentazione di non aprire fu forte ma prevalsero il

buonsenso e la curiosità. I due presentarono le loro generalità con un distintivo della polizia, con il conseguente sobbalzo del cuore della donna. “Sono il detective Niels e lui è il tenente Anderson, dobbiamo parlarle… Possiamo entrare?”. Le labbra sottili ricoperte da un rossetto porpora cupo sparirono completamente una volta terminata la frase. Rosemary intuì le loro intenzioni dal semplice fatto che le chiesero il permesso per entrare invece di ammanettarla e sbatterla dentro l’auto; con l’assoluta certezza che quella donna col distintivo non aveva il cuore tenero, ma uno sguardo che avrebbe fatto rabbrividire il più navigato dei malviventi. “Di cosa si tratta?”, chiese Rosemary prima di permettere il loro ingresso. Fu sempre il detective Niels a risponderle: “È una questione delicata e preferirei parlarne in privato”. Parlava in prima persona adducendo una forte personalità e mettendo in secondo piano la figura che l’accompagnava. Li precedette in cucina, unico luogo dove tre persone potevano parlare attorno a un tavolo e con una sedia per ciascuno, mentre Lanny come da ordini impartiti si era barricato nella sua stanza. Rosemary era sulle spine e fissava gli occhi dei due poliziotti nel tentativo di carpire il motivo della loro visita. “Purtroppo devo comunicarle una brutta notizia...”, le anticipò il tenente Niels senza nessuna flessione vocale. Rosemary, se messa alle strette, era pronta a tutto, perfino ad afferrare suo figlio al volo e scappare dalla finestra. Il poliziotto a quel punto disse: “Suo marito purtroppo è morto questa mattina”. “Chi… Mio… Malcom?”. “Sì, signora, è stato ucciso nel corso di un conflitto a fuoco in un locale pubblico”. Quella notizia la lasciò senza parole, fortemente combattuta fra l’esultare per l’avvenuta liberazione da un catastrofico legame coniugale o rammaricarsi per la perdita di un marito e del padre di suo figlio. Evitò qualsiasi commento che potesse mettere in evidenza il suo stato d’animo. “Come è potuto accadere...”.

“Le indagini sono appena iniziate; appurati i fatti le faremo sapere… Piuttosto, ci sarebbe da effettuare il riconoscimento...”. “Volete che io...”. “È una spiacevole incombenza in questo triste momento, ma conosce qualcuno che potrebbe farlo al suo posto?”. Rosemary cinicamente pensò che vederlo di persona gli avrebbe sollevato il morale più dell’aver ricevuto la notizia, e se non altro si sarebbe accertata che il morto in questione era effettivamente Malcom. “Nessuno meglio di me può accertarlo… Portatemi da lui”.

Non era neppure rientrato a casa che cercò metodicamente di abbinare le necessità impellenti del suo corpo con quelle del suo programma. Quel nome se fece cadere la sua scelta su quel ristorante, le cui premesse degustative stuzzicavano il suo palato. Vi entrò per essere subito accolto da un solerte commis, che armato di un sorriso di plastica gli diede il saluto. “Benvenuto al Petit Royal, signore, ha una prenotazione?”. Zacary, colto alla sprovvista, non seppe cosa dire, soprattutto dopo aver dato un’occhiata alla sala semivuota del ristorante. “Veramente no...”. “Capisco…”, rispose con un accento di insofferenza. “Le serve un tavolo per quante persone?”. Il sicario si guardò attorno e resosi conto che si riferiva a lui rispose prontamente: “Io… Me stesso… Sono da solo, ecco”. “Comprendo”, commentò nel medesimo modo. “Prego, mi segua”. Non era mai stato in un ristorante di classe e l’arredamento in stile neoclassico,

traboccante di legni intarsiati e lampadari teatrali, lo colpì positivamente. Rimase impressionato in modo analogo dalla carta del menu ricamato a mano e rigorosamente in madrelingua, dove l’unica nota stonata era il prezzo espresso in volgarissimi dollari. Belimbau fece scorrere il dito fra la vasta scelta di piatti, alla disperata ricerca di qualcosa che costasse meno di 150 dollari, in quanto i nomi delle pietanze gli erano conosciute quanto gli interni della Cappella Sistina. Il commis di sala si ripresentò poco dopo, con l’intento di ricevere l’ordinazione: “Il menù è di suo gradimento?”. Il sicario non disse niente e si limitò a puntare il dito su un piatto dal costo di 30 dollari. “Il coperto lo addebiteremo sul conto dopo il pranzo, signore”, rispose velenosamente. Non era infastidito dall’atteggiamento, ma quel continuo e persistente “signore” posto dietro ogni frase, per Zacary aveva esattamente il significato opposto. “Allora mi porti questo”, sentenziò pienamente convinto di aver concluso la snervante trattativa. “E come lo desidera innaffiare il clafoutis?”. Zacary non recepì l’invito a servirsi delle carte dei vini e rispose: “Lo serva bello croccante, niente pappe molli”. Il ristoratore non si diede per vinto, deciso a spremere quel cliente in tutti i sensi: “Intendevo dire… Quale fossero i suoi gusti nella scelta dei vini”. “Niente alcool, mi porti dell’acqua frizzante”. Per nulla sorpreso da quella risposta e incassando la cocente sconfitta, il commis si allontanò lasciando al suo posto una ventata di Chanel. Finalmente Zacary si rilassò guardandosi attorno, notando come una coppia di mezza età si stesse rifocillando con coppe di una stranissima bevanda aurea: i loro sorrisi e le circostanziate effusioni dimostravano il profondo legame della

coppia. Distolse lo sguardo convinto di essere di troppo, anche solo per aver rubato un istante della loro felicità Una triste malinconia lo colse, conscio di aver gettato al vento ogni occasione negli anni per provare simili emozioni. Se mai la vita gli avesse offerto la possibilità di poter avere una famiglia, una moglie, dei figli, forse per poter vivere non avrebbe dovuto uccidere. Due mesi era tutto ciò che rimaneva della sua esistenza e recuperare il tempo perduto era una sfida improponibile, ma per assaporarne la dolcezza anche quel breve lasso di tempo poteva essere sufficiente. Il fumante piatto servito sul tavolo fece accantonare quei pensieri e la bottiglia d’acqua, servita come se fosse un Moët & Chandon d’annata, lo lasciò piacevolmente sorpreso. Prese a caso una delle cinque forchette poste intorno al piatto e la infilò in quello che a tutti gli effetti appariva come uno sformato tinto di verde. Il sapore gradevole e delicato, con un retrogusto di asparagi freschi, trovò la sua approvazione. Terminò il tutto abbastanza in fretta, appuntando come unica nota stonata la quantità decisamente modica. Decise che quel piatto meritava un approfondimento e che avrebbe potuto proporlo a Rosemary come una sua specialità. Attese che l’ultimo cliente lasciasse il locale, poi alzò il braccio facendo accorrere il commis. “Voilà, eccomi qua”. “Vorrei fare personalmente i complimenti al cuoco per l’ottima riuscita di questo piatto”. Il ristoratore perse tutta la sua baldanza a quella richiesta e cercò di vanificarla: “Ne peut pas, ma sarò lieto di riferire che tutto è stato di suo gradimento”. “Insisto e non accetto la sua mediazione”. Pur di liberarsi di Zacary, il cameriere sollevò il braccio indicando un’entrata nascosta da un séparé. “Se proprio deve, lo trova là dentro, si chiama Gustav”. Zacary lasciò il tavolo, diretto alle cucine con l’intento di scoprire i segreti di quel piatto.

Il cuoco era intento a lustrare le pentole in totale solitudine e il suo aspetto colpì non poco il sicario. Costui era se quanto lui e l’aspetto più da cowboy texano che da esperto di nouvelle cuisine fu disarmante. Gustav, dopo averlo inquadrato, gli disse con un tipico accento newyorchese: “Guardi che ha sbagliato, la toilette è più avanti”. “Sono giunto di proposito, volevo farle i miei complimenti”. “Questi sono sempre ben accetti se sono sinceri”, rispose il cuoco asciugandosi la mano nel grembiule e porgendola al sicario. Zacary gliela strinse: “Mi chiedevo… Un piatto così elaborato quali segreti celasse”. “In particolare a quale si riferisce?”. “Ah, beh, credo fosse agli asparagi”. Il cuoco ci rifletté un attimo poi rispose: “Oggi ho preparato un solo piatto agli asparagi, un clafoutis...”. “Sì, proprio quello, ora rammento”, precisò Zacary. “È un piatto abbastanza semplice, con uova farina, latte e naturalmente asparagi freschi… E tanta maestria”. “Tutto qui?”, commentò con una certa delusione. “La bontà non sta unicamente negli ingredienti, ma anche nella loro perfetta unione, e qui mi fermo”. “Perché si ferma? Continui, la ascolto”, insistette Belimbau, togliendo da tasca carta e penna pronto a mettere nero su bianco la preziosa ricetta. Gustav mise le mani sui fianchi corrugando la fronte: “Sta scherzando, spero, non svelerei i miei segreti neppure in punto di morte!”.

Il sicario volle metterlo alla prova ed, estratta la pistola, gliela puntò alla fronte: “È da dieci giorni che ho perso il senso dello humour; lei piuttosto è pronto a rendere la sua decisione irreversibile?”. Il cuoco rimase basito, arretrando di un o: “Se proprio insiste, sarei disposto a darle qualche consiglio”. “Insisto!”, sentenziò ando l’occorrente per la trascrizione della ricetta. Gustav iniziò a scrivere di buona lena non disdegnando ogni tanto un vivido sguardo alla canna brunita della Glock. “Mi raccomando le quantità”, precisò Zacary, “devono essere sufficienti per tre persone… Anzi, quattro, non si sa mai”. Terminò restituendo carta e penna: “Non ho tralasciato niente, mi sono permesso di aggiungere in abbinamento un vino rosso della Borgogna”. Il sicario dette uno sguardo veloce alla ricetta riconoscendo che era stata scritta con dovizia di particolari. “Molto bene, Gustav”, gli disse posando sul banco cento dollari, “questi sono per cancellare il nostro incontro, e questa…”, proseguì sollevando la pistola, “… Per ricordarti che posso sempre venire a riprendermeli”. Gustav annuì senza aggiungere altro, afferrando il denaro in segno di assenso. Lasciò il Petit Royal appesantito e, malgrado avesse appena pranzato, sentiva le forze abbandonarlo lentamente e il fiato divenire affannoso. Sollevò la mano richiamando un taxi di aggio, ma la vettura tirò dritta ignorando la sua richiesta. La vista divenne vacua, perciò si aggrappò a un palo segnaletico con l’intento di sorreggere quel corpo che lo stava tradendo. Tastò il polso destro, constatando che il battito era accelerato e la mano fredda. Gli parve di intravedere il colore giallo ginestra di un altro taxi e istintivamente sollevò il braccio. L’auto si fermò a pochi i, ma abbandonare quel palo e raggiungere la meta non era un’impresa facile. Si diede una spinta nella direzione giusta ma tutto ciò che vedeva roteava come una giostra. Sbandò un paio di volte aggrappandosi al taxi per non cadere sul marciapiede.

Il conducente scese e lo aiutò a sorreggersi: “Si sente male… L’accompagno in ospedale?”. Zacary crollò sul sedile posteriore indicando col dito il suo diniego: “No, mi porti a casa...”. L’autista obbedì, ma lo tenne d’occhio per tutto il viaggio e una volta a destinazione lo aiutò a sorreggersi fino alla porta di casa. Si lasciò cadere sul divano privo di forze, chiedendosi se fosse giunta la sua ora e se quella prognosi di novanta giorni non fosse stata una previsione ottimistica. Mancavano ancora un paio di ore all’arrivo di Rosemary e mai come in quel momento avrebbe voluto che lei fosse presente. Tirare le cuoia è un’esperienza angosciante, ma farlo in completa solitudine lo recepì come una caustica aggravante. Si sentì comunque in dovere di trasmettere ai posteri un lascito testamentario e mise la mano in tasca tirando fuori quella ricetta estorta con la forza e una penna. La mise davanti ai suoi occhi avendo una visione vaga e sfuocata. Fra tutte le parole scritte in sequenza vide i quasi duecento grammi di burro e i centocinquanta di panna per la preparazione del piatto. “… Burro, panna… Che imbecille...”, bisbigliò rammentando la raccomandazione del medico sul divieto assoluto di ingerire grassi difficilmente metabolizzabili da un fegato moribondo come il suo. Quella scoperta ebbe un effetto placebo, rimandando a data da destinare l’estremo saluto e chiamando a raccolta le ultime forze per mettersi seduto e attendere l’arrivo di Rosemary. Quel lasso di tempo divenne interminabile. Si sentiva prigioniero e in balia di quel corpo, ormai vuoto e secco come un pozzo senz’acqua. Non sentiva dolore fisico, ma l’esser lucidi e vigili acuiva quello stato di stress psichico rendendo quell’attesa insopportabile. Era combattuto tra l’infilare la mano in tasca e piantarsi un proiettile in testa o l’attendere l’arrivo di quella donna.

A far pendere l’ago verso la seconda ipotesi si aggiunse l’incontenibile desiderio di portare con sé nell’altro mondo Ray Malansky, il che avrebbe se non altro addolcito la sua dipartita. Il camlo alla porta lo destò da quello stato di torpore, riportando l’attenzione sulla realtà. Trasse un profondo respiro dando fondo alle energie rimaste per alzarsi e aprire la porta. Il viso di Rosemary, pur mantenendo un salutare colorito, era triste e provato quanto il suo e anche Lanny apparve malinconico e stanco. “Salve, signor… Oh, mio Dio, lasci che l’aiuti!”, esclamò la donna lasciando la mano del figlio per sorreggere con determinazione Zacary. “Non è nulla di grave… Ho solo abusato della dieta”, rispose riadagiandosi sul divano aiutato dalla donna. Rosemary lo guardò negli occhi constatando un pallore anomalo contornato dal colorito giallastro della pelle. “Sarebbe meglio accompagnarla all’ospedale per un controllo dei valori...”. “No, non se ne parla… Con una flebo e la sua presenza sono sicuro che andrà meglio”. Rosemary gli adagiò la testa sotto un cuscino aiutandolo a sdraiarsi. “Per adesso faremo a modo suo ma se non vedo miglioramenti ci dovremo andare comunque”, specificò la donna, allontanandosi per prendere tutto l’occorrente per l’endovena. Lanny si avvicinò e spontaneamente gli disse: “Signor Belimbau, non lo dica a mia madre, ma io sarei molto contento se lei non morisse”. “Oh… Sappi, ragazzo, che farò di tutto per accontentarti...”, rispose trattenendo un mezzo sorriso. “Lo sa che mia madre non ha altro lavoro… E i suoi soldi ci servono?”. Belimbau apprese con imbarazzo la franchezza del ragazzo, ma si sentì comunque ferito nell’orgoglio per essere stato paragonato a un bel salvadanaio.

“Lanny, non devi preoccuparti, tu devi pensare solo ad andare a scuola e portare buoni voti”. Il ragazzo abbassò il viso per tirarlo su dopo qualche secondo: “Io non vado più a scuola, non mi ci vogliono”. Pronunciate quelle parole riabbassò lo sguardo pentendosi di averle dette senza rifletterci. “Che ne pensi di berci sopra? Ormai sai dove sono le bibite!”. Zacary seguì con lo sguardo la sagoma di Lanny aprire il frigorifero e servirsi. Rosemary arrivò giusto in tempo per riprendere suo figlio: “Lanny, come ti sei permesso...”. “No, Rosm… Signora, l’ho mandato io”, intervenne il sicario. Lei lasciò correre, apprestandosi a slacciare il bottone del polso destro dell’uomo, ripiegando la manica. “Signor Belimbau, se lei preferisce può chiamarmi Rosemary...”. Lui osservava il volto della donna segnato da una sofferenza a stento repressa: “Ne sono onorato… E se posso essere franco, il tuo volto oggi non ha smalto”. La donna fece un ampio respiro continuando a lavorare sull’arteria con la cannula: “Non so se faccio bene a parlarne… Sto abusando della sua pazienza”. “Sfogarsi non risolve i problemi, ma se posso darle un consiglio la ascolto volentieri”. Dopo aver tentennato un attimo, Rosemary si lasciò andare: “Non ne parli in presenza di Lanny, lui non sa ancora nulla… Oggi è morto mio marito”. Il sicario si trattenne dall’esultare e, sopprimendo le sue emozioni, manifestò una teatrale sorpresa. “Chi, Malcom?”. La donna riferì con dovizia di particolari gli avvenimenti di quella giornata, soffermandosi sul riconoscimento del marito all’obitorio e le tristi formalità legali. Zacary la ascoltava senza interromperla, assecondando le affermazioni della donna con lenti e controllati tentennamenti del capo.

Il liquido prese a fluire all’interno del corpo dell’uomo, rilasciando i suoi effetti salutari. Il pallore divenne meno evidente e l’astenia lasciò il posto a un modesto benessere fisico. Rosemary terminò di raccontare quella pesante giornata, incrociando le braccia, e Belimbau capì che ora attendeva un suo parere. “Mi spiace per questa terribile notizia e posso solo immaginare il dolore che provi… Ma in fondo, come tu mi riferivi, Malcom era un uomo violento e forse per il tuo bene e quello di Lanny questa storia puo avere dei risvolti positivi”. La donna inclinò il viso: “Non sa quante volte ho desiderato la sua morte… Eppure adesso che l’ho visto sdraiato su quel tavolo… Freddo e inerme… Non so se questo sia stato il modo giusto”. “Non ci devi pensare, tu non ne hai colpa e ora potrai dedicarti con serenità a tuo figlio”. Rosemary sospirò come se quel dialogo avesse alleggerito il peso che gravava sulla coscienza da quella mattina e volse lo sguardo su Lanny, unico e solo motivo della sua caparbia volontà di resistere. Anche Zacary guardò il volto del ragazzo e la domanda nacque spontanea: “C’è un valido motivo perché il tuo ragazzo non frequenta più la scuola?”. “Come lo ha saputo?”, esclamò repentinamente lei portando i capelli indietro. Il sicario si rese conto di essersi inoltrato in un campo minato e in punta di piedi cercò di fare la strada a ritroso. “È stata sicuramente una sciocchezza, non farci caso”. Lei guardò suo figlio con aria severa ma di ciò poteva rimproverare solo se stessa e non senza patemi d’animo si infilò in quel discorso. “Lanny non ha mentito… È una settimana ormai che non frequenta più le lezioni”. Lui abbozzò un’espressione di severa meraviglia: “Non che la cosa mi riguardi, ma vi è un motivo valido?”.

Dopo essersi armata di pazienza, Rosemary lo mise al corrente dei fatti non tralasciando colorite esternazioni sulla solerzia del preside. “Questa storia mi fa vergognare di essere americano!”, commentò lui assumendo un’espressione indignata… “Quel ragazzo ha tutto il diritto di studiare e, quant’è vero che sono ebreo, questa storia non finirà qui”. La donna rimase stupita da quell’affermazione e volle approfondire: “Cosa intende dire?”. L’ebreo si trattenne dall’esternare che avrebbe sistemato la cosa con metodi poco ortodossi e dandosi un contegno rispose: “Ho delle conoscenze che posso sfruttare a tutto vantaggio di Lanny… Non vorrei sbilanciarmi ma sono ottimista sul ritorno a scuola di questo giovanotto”. “Sul serio?”, chiese Rosemary sfoggiando un aperto sorriso. “Parola di Zacary Belimbau!”.

Il largo gancio andato a segno sul mento aveva decretato la fine di quell’incontro, mandando al tappeto l’avversario e sbriciolando i trecento dollari della sua scommessa. Ray aveva gettato la ricevuta sul pavimento del Madison Square Garden con rabbia e lanciato due imprecazioni al pugile su cui aveva puntato. Fece spuntare l’orologio dal polsino della giacca, controllando le lancette poste a quarantacinque gradi una dall’altra. Mancava un quarto d’ora all’incontro e come al primo appuntamento con la fidanzata si guardava attorno con crescente nervosismo. Stavolta si era interessato in prima persona e, dopo aver contattato vari esperti del settore, era spuntato fuori il nome di un serio professionista del ramo omicidi: il Gatto. Gli avevano assicurato che costui avrebbe risolto il suo problema alla radice e in modo indolore. Unico neo di questa storia la tariffa che, a dire di chi lo aveva assoldato, era piuttosto salata. Ray a questo proposito era fermamente deciso a trattare il prezzo, che non doveva superare i diecimila dollari.

Fece rientrare l’orologio, riassettando il soprabito sopra le spalle e adagiandosi sulla poltroncina di prima classe in attesa che trascorresse quella manciata di minuti. Mandò al diavolo telefonicamente il broker che gli voleva proporre una scommessa sul successivo incontro e richiuse il telefono ricacciandolo nella tasca interna. Non si accorse di avere una persona seduta al suo fianco finché questi non aprì la bocca e quell’odore di cipolla fritta lo fece voltare con un certo disgusto. Dalla sua espressione completamente distaccata dal contesto atletico, Ray intuì che la persona che stava aspettando lo aveva raggiunto. L’aspetto di un pacifico e distinto uomo di città lo estraniava completamente dal contesto di uomo dedito al vicariato, mentre l’aria apparentemente serafica e pacifica avrebbe ingannato chiunque sulla sua reale e oscura indole. Giacca con cravattino, bombetta inglese e ombrello sostenuto con entrambe le mani completavano un quadro dipinto in una giornata piovosa a Piccadilly. Rimasero a guardarsi quel tanto che bastò al sicario per interrompere il silenzio: “Potremmo impiegare meglio il nostro tempo”, proruppe con un lieve accento inglese e distogliendo lo sguardo. Avuta la certezza su chi avesse al suo fianco, Malansky rispose: “Non chiedo di meglio...”. “Il mio tariffario prevede un anticipo di 10.00 euro e un saldo di 5.000 a lavoro ultimato”. Ray, nel sentire pronunciare quella cifra, trasalì, visto che sforava largamente il suo budget. “Pensavo di porre termine alle sofferenze di un uomo vecchio e malato, non di attentare alla vita del nostro presidente”. “Le mie referenze parlano chiaro…”, replicò il sicario con superiorità, strusciando i guanti in pelle sul manico dell’ombrello. “… E i miei servigi non hanno mai scontentato la mia facoltosa clientela”. “E ci mancherebbe, con quello che mi ha chiesto potrei comprare il silenzio di quell’uomo e di tutta la sua progenie”. “Le auguro buona giornata!”, disse il sicario alzandosi in piedi.

Ray lo placcò trattenendolo per il braccio: “Non sia precipitoso, certe cose si dicono tanto per dire… Otto subito e quattro al suo funerale”. “Per meno di dodici avrei fatto il gelataio”, trattò il killer riappropriandosi del sedile. Malansky ci pensò sopra, poi accondiscese: “D’accordo, ma a una condizione...”. “La ascolto”. “Deve soffrire, quel bastardo merita una morte lenta e dolorosa”. Il sicario si alzò in piedi, tolse un biglietto dal taschino della giacca e lo consegnò a Malansky. “Consegni l’anticipo e i dati del prossimo congiunto a quest’indirizzo… Le farò avere una dettagliata quanto realistica registrazione di alcuni momenti di autentica sofferenza”.

La puntina da disegno si conficcò sulla bacheca di legno, fissando il foglio accanto al nome di Malansky. Lasciò che questo pendesse da una parte come a indicare la dipendenza da quel nome. Incrociò le braccia con l’imperturbabilità di chi non desidera o non può esprimere nessuna opinione in merito. Stanich attendeva, con lo stesso spirito di chi deve compiere gli ultimi i verso il patibolo, di essere convocato dal suo superiore. Cercava disperatamente un filo conduttore che desse un senso a quella lunga sfilza di nomi, foto e indirizzi posti dinanzi a lui. Il nome di Offenbach in cima pareva librarsi in volo allontanandosi indisturbato da quella intricata storia. Vernon aprì la porta dell’ufficio ma il dito del tenente puntato nella sua direzione gli impedì di parlare. “Se vuoi che sia ancora il tuo partner, non pronunciare quella parola”. “Allora servitela da solo, io e Ponzio Pilato condividiamo il medesimo sapone”, rispose il sergente occupando la poltrona dietro la scrivania.

Il tenente continuò a fissare la parete così addobbata: “Mi sfugge… Sento che mi sfugge”. “Cosa?”. “Il senso logico”, proseguì il detective. “Questa vicenda o è talmente banale da essere inverosimile oppure così complessa da risultare indecifrabile”. “Mi chiedo ancora per quale motivo non siamo andati a chiederglielo”, replicò Vernon sottolineando quell’esigenza. “Non abbiamo la necessità di chiedere a Belimbau ciò che sappiamo, ci serve invece quello che nasconde”. “Allora mettiamolo sotto torchio, qualcosa ci dirà”. Jeremy si voltò distendendo le braccia: “Interrogare un malato terminale? Il suo medico ce lo impedirebbe e dieci minuti dopo dovremo fargli anche le nostre scuse… Ma se soltanto mette un piede fuori dalle strisce pedonali…”. “Per me c’è dentro fino al collo e quella foto nella tasca del Turco ne è la prova”, disse il sergente. “Ammesso e non concesso che il Turco dovesse accoppare Belimbau, per quale motivo lo troviamo impallinato assieme a un onesto imprenditore e, soprattutto, cosa lo lega a Malansky e Offenbach?”. “Se lo sapessimo, avremmo già risolto il caso, Jeremy!”. “Appunto! Proverò a richiedere al capitano un paio di agenti per una sorveglianza”, spiegò Stanich laconicamente. “Ora, quanto tempo mi rimane prima che Fleetwood mi munisca di fischietto e blocco contravvenzioni?”. “Per come la vedo io, ti consiglio di acquistare delle scarpe comode!”, rispose sarcasticamente Vernon. “Se tu avessi avuto intuito quanto senso ironico, questo caso sarebbe già chiuso…”.

Si aggirava per la casa, notando per la prima volta nella sua vita che la polvere e la sporcizia dopo una settimana stavano riacquistando molto velocemente lo spazio perduto. Il bagno stava lentamente assumendo una tonalità ocra che gli procurava fastidio alla vista. La biancheria sporca si accumulava con preoccupante velocità e quella da stirare languiva in una cesta sempre più compressa. Zacary pensò di aver commesso un grossolano errore a non soccorrere il responsabile della società di servizi: ora come non mai sentiva l’impellente necessità di avvalersene. Rivolse la sua attenzione a quello specchio che non mentiva mai sul suo stato di salute, che evidenziava con cinismo il colore della pelle, le borse sotto gli occhi, la lingua patinata e altre decine di particolari che puntavano il dito sulle sue condizioni. Pensò che fra tutte le cose che il genio umano aveva inventato mancava proprio uno specchio delle proprie brame. Dopo essersi lavato i denti e aver letto sulle sue gengive, come avrebbe potuto fare su una copia del Times, che la sua condizione anemica andava peggiorando, guardò quello specchio con aria di sfida prima di allontanarsi con le mutande svolazzanti. Si recò in cucina, armeggiò sotto il lavabo tirando fuori un martello per poi ritornare davanti allo specchio. Lo afferrò posandolo per terra, quindi staccò il chiodo che lo sorreggeva e lo posizionò trenta centimetri più in alto. Non senza difficoltà riuscì ad appendervi l’utensile e, piantatosi lì davanti, osservò il risultato. Sorrise con soddisfazione nel constatare che ora poteva vedere soltanto i radi e canuti capelli, occultando definitivamente il resto del viso. Si accorse di barare quando provò a tirarsi su con le punte dei piedi, aggiungendo al resto dell’immagine una fronte rugosa e due candide sopracciglia. Guardò l’orologio, che confermò che erano da poco ate le sei: per gli impegni presi quella mattina era necessario muoversi, in funzione anche del suo stato di salute. Si era reso conto che le forze iniziavano ad affievolirsi a partire dal primo pomeriggio e che al mattino riusciva a gestire discretamente una certa autonomia. Come mai prima d’ora, curò i minimi dettagli per il lavoro da compiere e per

prima cosa scelse un abbigliamento semplice e informale. Fece scendere la botola dalla soffitta e trasportò giù la valigia con gli arnesi da lavoro. Dopo un attimo di indecisione prese il Walter 2000, che preferì per il piccolo ingombro e la leggerezza: sostenere un’arma più pesante anche per breve tempo era diventato impossibile per le sue braccia. Prese il fucile di precisione e un paio di caricatori infilandoli in una sacca nera, richiudendo la lampo con uno strappo deciso. Uscì di casa con l’intenzione di camminare il meno possibile e con l’intento di procurarsi un’auto. Zacary sapeva guidare, ma non aveva mai posseduto una propria auto; si serviva di un autonoleggio quando Ray lo obbligava a trasportare qualcosa di pesante o al di fuori del perimetro metropolitano della Grande Mela. Nel caso doveva sistemare qualcuno o trasportare un corpo senza vita con una certa abilità, rubava un’auto. Appropriarsi di un veicolo altrui era quella mattina nelle intenzioni del sicario così, senza perdere tempo, si recò in un parcheggio sotterraneo sulla novantaduesima. L’ultima volta che era stato in quel luogo la rimessa non era dotata di telecamere di sorveglianza né di custodia armata. Vi giunse poco dopo e, con amara sorpresa, vide il tanto temuto strumento di sorveglianza applicato all’entrata della rimessa. Aggirò l’ostacolo forzando un’uscita di emergenza e, addentratosi in uno dei tre piani gremiti di auto, valutò su quale far ricadere la sua scelta. Nel corso degli anni si era limitato a rubare auto comuni o insignificanti, perciò decise che era giunto il momento di fare un salto di qualità Le due strisce bianche che solcavano di parte in parte la rossa Dodge Viper lo attizzarono parecchio. Vi si avvicinò apprezzando le larghe gommature e la linea bombata e aggressiva della carrozzeria. “Sicuramente un’auto dalle prestazioni esaltanti”, commentò girandogli attorno, “sarà più complicato, ma ne varrà la pena”. Non perse tempo e si sdraiò per terra infilandosi sotto l’auto alla ricerca della sirena, localizzandola dietro la bandella sul parafango anteriore. Infilò la mano nella giacca tirando fuori una bomboletta di schiumogeno plastico, con cui inondò di candida spuma il congegno acustico. Neutralizzato l’audio, spezzò l’antenna per la trasmissione di segnali satellitari e

aprì con una lunga e sottile leva la portiera. L’allarme si attivò e la sirena emise per qualche secondo un soffocato mugugno per poi spegnersi definitivamente. Zacary aprì il lungo cofano mettendo a nudo il 10 cilindri da oltre 500 cavalli della Viper. Dalla sacca estrasse un bocchettone con vari adattatori per l’autodiagnosi: trovato quello giusto ve lo infilò accendendo lo scanner, con un beep e due led rossi. L’auto si mise in moto subito, senza che si fosse neppure accomodato nel posto di guida. Il possente motore iniziò a far sentire il rauco rombo di cui era dotato, con pacifica soddisfazione del sicario. Staccò il connettore e, chiuso il cofano, si sedette sulla morbida pelle del sedile anteriore. Ora gli restava soltanto da rimuovere il bloccasterzo, ultimo ostacolo prima della bandiera a scacchi. Non fu semplice adattare una delle chiavi partout a quel blocchetto d’accensione ma dopo aver lavorato di lima riuscì a farla girare all’interno, liberando così il volante. Ray gli aveva detto a suo tempo che quella sofisticata attrezzatura era il frutto di uno scambio di informazioni con i servizi segreti, raccomandandogli di averne una cura maniacale. In effetti fino a quel momento poche auto avevano resistito all’attacco di quell’aggeggio elettronico e Belimbau lo ripose dentro la sacca con la soddisfazione di chi aveva fatto, sottraendolo a Malansky, un ottimo acquisto. Si concentrò sulla strumentazione, con tachimetro a duecento miglia orarie e contagiri con zona rossa a ottomila giri. Pigiò un paio di volte sul pedale facendo risuonare quel rombo in tutta la rimessa. Infilò la retro lasciando che le gomme si scaldassero con un acuto fruscio e un acre odore di gomma. Si ritrovò a dover premere il freno con decisione prima che l’auto si schiantasse su un pilastro. Mise il cambio automatico su drive e affondò con decisione sul pedale dell’acceleratore. L’auto si fiondò in avanti, spiaccicandolo sul sedile come la marmellata su di un toast. La barra di sicurezza prese letteralmente il volo, spezzata dall’urto contro il muso della Dodge, e l’auto proseguì la sua corsa avvolta dal gracchiante stridore delle gomme.

Quella mattina uscì di casa con un approccio diverso. L’angoscia di un incontro indesiderato ogni qualvolta varcasse l’uscio di casa si era notevolmente attenuato dopo la scomparsa di Malcom. Quella perdita non aveva di certo risolto i suoi problemi ma se non altro una grossa fetta era stata tolta dalle sue spalle. Strinse la mano di suo figlio camminando, senza perdere l’abitudine di voltarsi indietro ogni tanto, come se il suo istinto le impedisse di confrontarsi con una realtà diversa. Neppure il padrone di casa si era più ripresentato dal giorno in cui il signor Belimbau l’aveva strizzato; ma la cosa non la tranquillizzava affatto, tanto da portarsi appresso i soldi dell’affitto per consegnarli non appena lo avesse incontrato. Non credeva alle coincidenze, ma dal giorno che era entrata in quella chiesa le cose avevano preso una piega diversa: aveva, seppur in modo precario, trovato un mezzo con cui sostenere sé e suo figlio, inoltre Malcom non era più un problema e quel nero pessimismo si era tramutato in una moderata fiducia nel futuro. Non sapeva chi né cosa ringraziare, ma il desiderio di recarsi nella casa di un dio fino a quel momento sconosciuto confermava una svolta; probabilmente una forma di solidarietà per quella madre che aveva visto morire suo figlio sulla croce, o più semplicemente quel luogo le donava quella pace interiore a lungo ricercata. Vi arrivò con Lanny che sbuffava per aver evitato la metropolitana e camminato a un o sostenuto. Si fermarono davanti a quella insolita porta sempre aperta tra un mare di portoni sempre ben serrati. “Perché ci siamo fermati qui?”. Si attendeva quella domanda da Lanny, visto che era la prima volta che vi entrava. “Questa è la casa del Signore... Bisogna averne rispetto e parlare a bassa voce”. Il ragazzo si guardò attorno, facendo seguito a un’altra serie di domande: “Chi, quel Signore del quale tutti parlano e che tu dici che non esiste?”. Rosemary si pentì di non aver preparato Lanny per quell’appuntamento e ora rintuzzava come poteva la curiosità del ragazzo: “Non ho mai detto che non esiste… Ho detto che non ci credevo...”.

“E lui dov’è adesso?”. La donna lo prese per mano e raggiunse la nicchia dove la statua di Maria risplendeva della luce riflessa delle candele. “Ci sta accanto, anche se non lo vedi”. Il ragazzo si guardò attorno alla ricerca di quello sconosciuto Signore al che Rosemary si rese conto che sarebbe stato più complesso del previsto spiegargli il significato di quel mistero. “Mamma, quanto è bella quella donna… Chi è?”. “Lei è… La madre del Signore”. Lanny la guardò avvicinandosi alla statua, che in modo altrettanto penetrante ricambiava: “Questa è la donna che Malcom chiamava...”. La madre tempestivamente gli impedì di continuare ponendo la mano sopra la sua bocca: “Quella è una bestemmia e non devi mai più pronunciarla”. Il ragazzo volse altrove la sua attenzione mentre la madre, presa una candela dall’offertorio, e la accese affiancandola alle altre. Es,presse un desiderio e vi aggiunse una preghiera, con la promessa che se fosse stata esaudita i suoi dubbi sarebbero svaniti e la sua fede consolidata. Lanny le toccò il braccio distogliendola da quei pensieri: “È quello il Signore di cui parlavi poco fa?”. L’abito talare di padre Luigi si intravide prima ancora del suo volto, che lentamente prese forma mentre si avvicinava. “No, lui è solo un suo umile servitore...”. Il sacerdote le si avvicinò sorridendo con le mani protese a stringere le sue. “Rosemary, se non ricordo male…”. Poi abbassò lo sguardo verso il ragazzo. “E questo giovane accompagnatore chi sarebbe?”. “Lui è mio figlio, Lanny”. Il ragazzo osservava quel lungo abito sacerdotale con un certo timore, subito dissipato dalla carezza sui capelli di don Luigi.

“La casa del signore accoglie con gioia i ragazzi come te”. Rivolse quindi l’attenzione alla statua della Madonna: “La Vergine santissima ha ascoltato le tue preghiere?”. Rosemary ebbe l’impressione che il sacerdote conoscesse già la risposta. “Perché avrebbe dovuto ascoltarmi? E poi chi le dice che io abbia chiesto il suo aiuto?”. Don Luigi percepì il timore della donna di mostrare apertamente le sue intenzioni: “A volte abbiamo bisogno di un aiuto e la Vergine Santissima è sicuramente la persona più adatta… La prima volta sei giunta per chiedere, ora per ringraziare”. La donna si sentì colpita e sollevò lo sguardo verso il suadente viso della statua. “Anche se lei, padre, è di parte… Pensa veramente che fra tutti i fedeli abbia ascoltato la supplica di un’atea come me?”. “Apparteniamo tutti al suo gregge, e quando ritorna una pecora smarrita non può che gioirne”. “Don Luigi… Io non credo di aver mai frequentato quest’ovile”. “Questo non ha importanza, c’è sempre tempo per ritrovare la via maestra… Avete ricevuto i sacramenti?”. Rosemary non sapeva cosa fossero: “Di cosa parlate?”. “Siete stata battezzata?”. La donna a quelle parole ebbe un attimo di smarrimento e, afferrata la mano di Lanny, lasciò la parrocchia: “Mi scusi, padre, ma ora devo andare”.

Il doppio scarico borbottava raucamente mentre la Viper percorreva il seminterrato fra le doppie file di auto parcheggiate ai lati. Con circospezione, percorse un paio di volte l’intera rimessa sfiorando la candida Bentley sornionamente parcheggiata in prossimità dell’ascensore.

Accertatosi della tranquillità del luogo, infilò l’auto dieci metri più indietro e col muso in avanti, assicurandosi in tal modo una buona visibilità e la possibilità di allontanarsi rapidamente in caso di emergenza. Zacary portò la leva del cambio in posizione di parcheggio e spense il motore non degnandosi neppure di pigiare il freno di stazionamento. L’orologio dell’auto segnava le sette precise e, conoscendo le abitudini di Ray Malansky, questi avrebbe dovuto spuntare dalle porte dell’ascensore non prima di un’ora. Dal quel punto d’osservazione poteva ben inquadrare la Bentley in sosta a pochi metri dall’ascensore e godere di un’ampia visuale sulla rampa d’accesso che immetteva al piano. I vetri oscurati della Viper permettevano un discreto mimetismo dall’esterno e questo avrebbe agevolato l’operazione. Il sicario prese la sacca adagiata nel sedile al suo fianco, facendo scorrere lentamente la lampo in tutta la sua lunghezza. Tirò fuori il fucile di precisione e il collimatore: lo inserì sopra la canna avvitandovelo con esperta manualità. Fece scorrere il finestrino e, puntata l’arma, prese visione della distanza e della luminosità. Regolò il fuoco prendendo come riferimento la pacchiana e opulenta auto del suo ex datore di lavoro. Infilò la mano nella sacca senza distogliere lo sguardo e, soppesando il caricatore a dodici colpi, lo infilò nell’apertura del Walter con un colpo secco, notando quanto le sue forze si stessero lentamente e inesorabilmente affievolendo. Per quei pochi minuti di impegno la leggerissima arma gli era parsa un’incudine da fabbro e per dare respiro a quelle deboli braccia la mise sul sedile del eggero. Tutto era calmo e silenzioso come se quella mattina gli abitanti di quel palazzo avessero preferito l’aria asciutta e condizionata del proprio appartamento a quella afosa e umida della strada. Accese la radio sintonizzandosi sul canale 16 con le ultime notizie da Wall Steet. Non era mai stato un azionista né aveva mai investito un dollaro su qualcosa che non fosse commestibile o strettamente necessario per non cadere nell’indecenza; ma quando poteva, ascoltava con attenzione le quotazioni e l’indice Dow Jones, che a suo parere erano meglio di un bollettino zodiacale.

Il riverbero dei fari di un’auto riflessi all’interno della Viper risvegliò i sensi e come da rituale spense la radio, scivolando nel pellame del sedile finché gli occhi non raggiunsero lo stesso livello del cruscotto. L’auto sfilò davanti a o d’uomo, per poi proseguire senza fermarsi. Zacary la seguì con lo sguardo finché non scomparve. Sentì lo stridio delle gomme che ruotando si immettevano nella corsia opposta. Pensò che si fosse allontanata definitivamente finché non la vide rispuntare, pronta per un secondo aggio. La cosa lo insospettì, in quanto la rimessa era sufficientemente fornita di aree vuote dove poter parcheggiare, senza per questo dover percorrere due volte lo stesso tragitto. Stranamente l’auto sostò per qualche istante davanti alla Bentley di Malansky, per riprendere a volteggiare ancora una volta. Quindi la nera Mercury sfiorò il paraurti della Dodge Viper, lasciando perplesso il sicario. La prima cosa che gli balenò in mente fu la presenza in quell’auto di un ladro visto che la Bentley rappresentava un obiettivo appetibile; ma stranamente il conducente arrestò il mezzo qualche metro prima della Bentlay di Ray e, dopo aver ingranato la retro con una lesta manovra, sistemò l’auto in modo molto simile a quello di Zacary, ma dalla parte opposta. Belimbau attese che un uomo scendesse dall’auto e si allontanasse, ma stranamente questo non avvenne. Sbirciò dal finestrino scrutando il parabrezza dell’auto e con disappunto si accorse che la sua visuale sulla Bentley era occultata. Riconobbe una figura maschile ma l’ombrosità dell’interno della vettura non gli permise di distinguere altro; a quel punto, più che un sospetto, ebbe la netta sensazione che quell’auto e il suo proprietario non avessero scelto quel parcheggio per semplice casualità. Le lancette dell’orologio sul cruscotto indicavano che il tempo stringeva e, se quell’incomodo testimone non fosse andato via, tutto si sarebbe complicato. Lasciò che la morbida pelle avvolgesse nuovamente il suo corpo, senza perdere d’occhio la porta dell’ascensore, lasciando che i pensieri scivolassero indietro. Non odiava Ray, ma ucciderlo era l’unico mezzo per trascorrere ciò che gli restava da vivere in piena tranquillità. Desiderava disfarsi di quelle armi come del suo ato ma il destino glielo ripresentava come piatto unico e lui lo consumava con l’illusione che il giorno successivo il menu sarebbe cambiato. Il

suo ato non doveva assolutamente emergere o tutti i suoi sforzi sarebbero stati vanificati in un lampo. Rosemary era l’unica cosa pulita della sua vita e tale doveva restare fino al giorno del suo ultimo respiro. L’iride fu colpita dalla luce dell’ascensore che, spalancando le paratie, si sparse in piena libertà. Zacary impugnò il fucile inquadrando l’obiettivo. Il soprabito sulle spalle, lo sguardo bieco e la camminata stanca di chi non ha mai fretta: la sagoma di Ray apparve nitida dall’oculare del collimatore. Uscì dall’ascensore senza nessuno al seguito e si fermò davanti all’auto frugando nelle tasche alla ricerca delle chiavi. Era in posizione ottimale e avrebbe potuto colpirlo senza sbagliare, ma non volle. Attese che si voltasse per poterlo guardare dritto negli occhi e cogliere i suoi ultimi istanti di vita. Improvvisamente si udì una portiera spalancarsi e Zacary aprì la palpebra dell’occhio destro per ampliare la visuale. Rimase di sasso nel notare che l’uomo all’interno dell’auto parcheggiata era sceso imbracciando un kalashNickov AK47 di produzione cinese; così poté realizzare che quella mattina più di una persona desiderava occuparsi di Ray Malansky. I tratti somatici del killer erano di chiara origine europea e, per essere precisi, dell’Europa dell’est, con un volto talmente spigoloso da sembrare scolpito con l’ascia. Doveva prendere una decisione e in fretta, cosa peraltro molto lontana dai suoi canoni abituali. Ray nel frattempo non si era accorto di nulla e il killer aveva già spianato l’arma prima di richiudere la portiera della Bentley. Il killer aprì la camera di scoppio caricando il fucile automatico in completa simbiosi con Zacary, che fece lo stesso col suo Walter 2000. Il kalashNickov cominciò a sputare il suo mortale veleno, sforacchiando l’auto con un martellante crepitio metallico. I bossoli cadevano ai piedi del sicario come copiose lacrime di ottone, tintinnando sul liscio cemento. Belimbau scese dalla Viper e, appoggiando i gomiti sul basso tetto dell’auto, prese la mira e premette il grilletto in sequenza per due volte. Seguì l’eco dell’ultima raffica di mitra, poi tutto tacque. Il killer, colpito alla schiena, cadde in avanti lasciando cadere il fumante AK-47,

seguito dal tonfo del suo corpo sul selciato. Zacary percorse il breve tratto che lo separava dall’uomo e con un calcio spinse lontano il mitra. Il killer era ancora vivo e annaspava cercando disperatamente con le mani di agguantare qualcosa o qualcuno. Esplose un altro colpo alla base della nuca ponendo fine a quell’estremo gesto di sopravvivenza dell’uomo. Belimbau fece altri sei i e si ritrovò davanti alla Bentley crivellata di colpi: ma era solo apparenza, dato che i proiettili avevano solo scalfito la carrozzeria blindata con acciaio rinforzato e non erano affatto penetrati al suo interno. Il triplo cristallo aveva retto l’urto sbriciolandosi al suo interno ma restando integro al di fuori. Il sicario era presente quando assieme ad Al era andato al porto a ritirarla. Ray l’aveva acquistata dopo aver saputo che era stata di proprietà del sultano del Brunei e che era in grado di resistere persino a un attacco con gli RPG, ma il killer al tempo ignorava tutto ciò. Mise la mano alla portiera e la aprì agevolmente come se non fosse stata neppure scalfita. Malansky stava sdraiato di fianco, terrorizzato e inerme. Sollevò il Walter puntandoglielo a pochi centimetri dalla tempia. Ray chiuse gli occhi e strinse i denti, pensando che avrebbe finalmente scoperto se era vero il detto “il proiettile che ti uccide non lo senti”. Il ceffone in pieno volto lo sentì molto bene e quando riaprì gli occhi si rese conto che ne avrebbe condiviso il dolore con Zacary. Il sicario, dopo una smorfia per la mano dolente, lo aizzò a male parole: “Vieni fuori, cialtrone!”. Riservare quel trattamento a quel gangster era una sensazione impagabile e averne il completo controllo gli donava una grande sicurezza e una gratificante soddisfazione morale. Ray si tirò su confuso, chiedendosi cosa fosse successo: “Zacary… Parliamone con calma”. “Mai stato così calmo in vita mia, gangster delle mie ciabatte!”. Poterlo insultare dava un valore aggiunto alla situazione, ancor più che spedirlo con una pallottola

all’altro mondo. Malansky uscì dalla vettura guardandosi attorno e, quando vide il cadavere del killer per terra, capì che non era stato Zacary ad attentare alla sua vita. “Chi diamine è questo?... Non so come, ma devo ringraziarti”. “Non farti illusioni e getta la Desert Eagle che tieni sotto l’ascella!”, commentò il sicario, puntandogli l’arma al petto. Il malavitoso obbedì infilando la mano sotto la giacca e lasciando cadere l’arma accanto al mitra del killer. Si chiese quale strano meccanismo avesse potuto mutare un galoppino di quart’ordine quale era stato Belimbau nel sicuro e freddo uomo che si trovava davanti. Provò comunque un approccio, per tastare le sue intenzioni: “Zacary, ti conosco da tanto tempo e giuro che mi dispiace per...”. “Quanto sei patetico”, rispose impedendogli di continuare, “quel che mi chiedo è come posso essere stato così cieco come Stevie Wonder e sordo come Beethoven per essere stato al servizio di una mezza tacca da antiquariato come te... E ora chiudi la ciabatta, c’è da lavorare”. Zacary gli indicò il cadavere per terra e, dopo aver aperto il baule della Viper, lo fece issare dentro assieme alle armi. Ray terminò il lavoro con il fiatone e la giacca imbrattata di sangue. Rimasero a guardare all’interno del cofano posteriore ciò che rimaneva della faccia del killer, nel tentativo di riconoscerne l’identità. “Vedo con piacere che sei ben voluto anche da qualcun altro… Sai chi è?”, chiese il sicario. “Mai visto prima d’ora… Mi chiedo piuttosto chi può averlo incaricato”. Belimbau chiuse il cofano puntandogli l’arma: “Non pensarci, hai altri problemi, adesso… Facciamo un salto nel tuo chalet”. arono davanti all’auto prima di prendere l’ascensore e Ray fece un segno di apprezzamento sulle qualità della vettura per poi rivolgersi al suo ex sottoposto:

“Ho saputo che la tua salute sta peggiorando!”. “Ne ho quanto basta per spedirti al creatore; ora pigia il tasto, caprone!”. L’ascensore fece la sua corsa verso il piano superiore con Ray a chiedersi quali intenzioni avesse l’uomo che aveva davanti e che a stento identificava nel suo scagnozzo. Il gangster lo fece entrare e il sicario chiuse la porta indicandogli con l’arma la stanza da letto. Una volta dentro Zacary si fermò davanti a un quadro sulla parete. “Datti da fare, apri la cassaforte”. Se gli avesse sparato probabilmente avrebbe sofferto in maniera minore. Zacary era perfettamente a conoscenza della viscerale avarizia di Ray, ma niente gli avrebbe impedito di sottrargli ciò a cui teneva di più al mondo. Malgrado il Walter puntato contro, non riuscì a trattenere l’ira che aveva in corpo: “Sei diventato peggio di quanto pensassi… Un volgare ladro!”. “Senti da quale pulpito viene la predica, tu hai preso i migliori anni della mia vita e non basterebbero tutti i tuoi averi per ripagarmi della tua spregevole compagnia… E ora apri!”. A malincuore, ruotò la manopola determinandone l’esatta combinazione e la cassaforte si aprì mostrando il suo contenuto. “Soltanto quindicimila dollari?”, obiettò Belimbau. “Che ti aspettavi, Forth Noks? Io sudo sette camicie per campare e la vita al giorno d’oggi...”. “Ma sta’ zitto!”, intervenne il sicario. “Chi sei, la massaia dopo aver fatto la spesa? Caccia fuori i soldi o comincio a farti saltare le rotule!”. Malansky fece due i indietro alzando le mani: “Dai, abbassa quell’arma, quello che vedi è tutto ciò che ho!”. Zacary si avvicinò puntandogli la canna del fucile sul mento: “Non prendermi

per la fessura posteriore, quel denaro è sufficiente per la tua colazione e per fare il pieno alla Bentley”. “Ti giuro che non ho altro, lo sai che investo tutto in azioni e poi uso sempre la carta di credito!”, confessò il gangster in tono supplichevole. In effetti, pensò Zacary riflettendoci sopra, raramente usava contanti, dato che preferiva usare la carta o ancor meglio non pagare. Afferrò il denaro cacciandoselo in tasca, poi si rivolse a Ray: “Ora voltati!”.

Lasciò andare nel bicchiere le due pasticche effervescenti e con impazienza attese che queste si disciogliessero completamente. Quel mal di testa lo aveva attanagliato sin dall’inizio della mattinata e nel primo pomeriggio decise che attendere oltre sarebbe stato eccessivo anche per un salutista come lui. Stanich paragonò la sua indagine al contenuto effervescente di quella tazza, aleatoria e inconsistente. L’ultimo scontro con il capitano Fleetwood aveva complicato le cose e la richiesta di personale aggiuntivo per un pedinamento era stata rigettata. Era frustrante lavorare in quelle condizioni e la pressione politica del sindaco rendeva quel caso sfiancante. Prese il bicchiere, vuotandolo tutto d’un fiato e lasciandosi andare sullo schienale del divano. La solitudine non gli era mai pesata e l’arredamento essenziale e minimalista dell’appartamento lo stava a dimostrare. Le donne erano entrate e uscite dalla sua vita con la stessa velocità dei suoi mal di testa e non si era mai posto il problema se questo fosse un bene o no. Il lavoro aveva impegnato gran parte della sua vita e vi aveva profuso tutte le sue energie. Con gli anni l’entusiasmo si era raffreddato e così anche l’interesse per

la carriera, ma gli restava il fiuto per la caccia e lo spirito corporativo. Con quell’ultima indagine, però, sentiva sgretolare gli ultimi mattoni di un castello medioevale esposto ai venti. Si chiese se con una moglie e dei figli sarebbe stato diverso, non migliore o peggiore, ma diverso. Probabilmente era quello lo scopo del possedere una famiglia, dedicare a essa anima e corpo in modo da impedirti di pensare ad altro. Il cellulare squillò, acuendo l’emicrania che apparentemente sembrava in fase discendente. “Stanich...”. “Ho una dritta che potrebbe interessare il nostro caso...”. “Avanti, Vernon, a questo punto accetto qualsiasi cosa...”. “Una nostra vecchia conoscenza è stata ritrovata nel baule di una Dodge, sforacchiato da parte in parte...”. “Ti ascolto!”. “Rammenti Misha Alenickov?”. “Chi, il russo che abbiamo pizzicato tre mesi fa nel caso Yankovic?”. “Esatto, Yankovic è stato condannato come mandante ma AleNickov l’ha spuntata per mancanza di prove e la giuria l’ha assolto”. “E a noi che ce ne cale?”. “Nicka il travestito mi ha informato che Misha, dopo aver scolato un mare di alcool, ha ato la notte con lui e gli ha rivelato una storia interessante”. “Dove si trova Misha?”. “È ancora dentro il baule della Viper assieme alla scientifica...”. “Ok, a a prendermi, mi racconterai il resto strada facendo!”. Vernon fermò l’auto di servizio davanti al palazzo, afferrò il cellulare per

effettuare la chiamata ma la portiera si aprì e Stanich si catapultò dentro senza salutare. “Come cazzo hai fatto a parlare con Nicka senza chiedermelo?”. “Non prendertela, dovevo un favore al sergente Mayer… Su una certa faccenda...”. Stanich si voltò a osservare il sergente: “Chi? La sventola del quinto distr… Non dirmi che...”. Vernon non rispose, limitandosi a un sorriso malizioso che irritò non poco il tenente. “Questa non me la bevo, ci ha provato l’intero distretto compreso il comandante e senza risultati!”. “Sì, ma io conoscevo Nicka”. “Tu conoscevi Nicka? Io conosco quel travestito e tu ne hai approfittato!”. Vernon represse a stento il desiderio di ridere: “È stato solo uno scambio di informazioni che ci potrà essere utile in seguito”. “Vuoi dirmi che sapere il colore della biancheria intima di Mayer potrà esserci utile? Quella ti ha solo usato”, commentò Stanich voltandosi dall’altra parte. “Mi farei usare volentieri più spesso, avresti dovuto...”. “Risparmiami i dettagli, latin-lover di un sergente e dimmi ciò che sai”. “Dunque, AleNickov, dopo aver fatto il pieno di vodka, si trasferisce nell’appartamento di Nicka e lì, dopo aver tentato un paio di volte un approccio senza peraltro combinare alcunché, si dà alla parlantina e confida di aver avuto un incarico”. “E allora?”, lo strigliò il tenente. “Pare che il suo avvocato gli abbia dato il numero di un suo facoltoso cliente per un lavoro e… Indovina un po’?”.

“Il mio distintivo contro un caffè che l’avvocato è quel borioso di Martin Loach!”. “Ti sei guadagnato un caffè, ora prova a indovinare chi è il cliente”. “È quel beccamorto di Offenbach!”. “Giusto, Jeremy, ma questo era facile. Ti manca l’obiettivo e al caffè ci aggiungo un aperitivo!”. Stanich, si ò la mano sul viso: “Belimbau!”. “Stavolta ti è andata male… Ray Malansky!”. “Ray Malansky?!”, ripeté il tenente. “Giusto, sì, ma perché Offenbach avrebbe dovuto togliere di mezzo quel gangster? E soprattutto, chi ha fatto fuori Misha?”. Vernon sollevò le mani dal volante aprendo le braccia: “Questo è un guazzabuglio dal quale sarà difficile uscire”. “Già, AleNickov è morto e Nicka non è attendibile come testimone”, sentenziò il tenente. L’auto penetrò nella periferia del Queens, all’interno di un area dismessa. Al centro regnava ciò che restava di una fabbrica di tessuti, recintata dalla polizia. Il poliziotto di servizio li fece are e Vernon arrestò l’auto in prossimità della Dodge Viper. L’auto era circondata dagli agenti della scientifica che con cura stavano prendendo le impronte, scattando foto e setacciando il circondario. “Salve, Jeremy, che ci fai da queste parti?”, lo apostrofò il tenente Ashim del terzo distretto di area. “C’è la possibilità che questo delitto abbia a che fare con l’indagine a cui sto lavorando, posso dare un’occhiata?”, rispose Stanich. “Accomodati, e se mi farai una richiesta formale te lo cedrò molto volentieri”. In quel momento gli agenti stavano estraendo il corpo dal baule dell’auto, adagiandolo su una lettiga. I tre si avvicinarono fermandovisi attorno.

“Due colpi alla schiena in prossimità della scapola destra e un colpo a distanza ravvicinata alla nuca”, specificò Ashim. “Trovato nient’altro?”. “No, niente armi né bossoli, ma al guanto di paraffina è risultato positivo”. “Ha sparato, quindi!”, approfondì Stanich. “Sì! E dalla quantità di polvere trovata, doveva essere di grosso calibro, probabilmente ciclica”. “M16, UZI, Browning...”. “Ti farò sapere con certezza quando avrò il referto della scientifica… A patto che il russo lo porti al tuo distretto”. “Consideralo già fatto”, concluse Jeremy.

Il mare era liscio come l’olio e la giornata calda e solare, l’ideale per un bagno rinfrescante. In lontananza sentiva qualcuno che sbraitava al di là della spiaggia. Non vi badò alzandosi dalla sdraio e, raggiunta la riva, tastò con il piede l’acqua constatandone il gradevole tepore. Non percepì nessuna sensazione sgradevole e senza ulteriori indugi si tuffò lasciando che il suo corpo penetrasse nell’azzurro profondo. Improvvisamente il gelo lo colse come se stesse attraversando una corrente polare. A larghe bracciate percorse un breve tratto, poi nuotò verso l’alto alla ricerca di quel calore perduto. Improvvisamente sentì il fiato venirgli meno come se all’interno dei polmoni non vi fosse più aria ma acqua. Annaspava freneticamente alla ricerca disperata d’una via d’uscita da quel mare che lo stava inghiottendo. Il panico lo colse e aprì la bocca alla ricerca spasmodica di quell’elemento vitale per il suo corpo, mentre le membra si protesero verso l’alto in un disperato tentativo di raggiungere la salvezza. Si risvegliò tossendo e annaspando sul suo letto. La prima cosa che sentì fu il suo corpo completamente fradicio e la prima cosa che vide fu Al che sosteneva

un secchio mezzo pieno d’acqua. Statuario, poco lontano, stava Nero con le mani distese sui fianchi. “... Sembra che abbia funzionato”. Istintivamente Ray mise la mano sui capelli ancora zuppi e gocciolanti, cercando il punto dove sentiva pulsare il suo cranio, mentre con un altro paio di conati espulse l’acqua che aveva incamerato in gola. “Come stai capo?”, chiese Nero sorreggendolo per un braccio. Malansky si guardò attorno cercando di riordinare le idee e ricordare le circostanze che lo avevano portato a quella incomprensibile situazione. “Ma che diavolo succede!”. Al, col secchio ancora in mano, borbottò: “Che dici, gli lancio anche questo?”. “No!”, rispose Nero, “credo che ne abbia avuto a sufficienza”. Il gangster ebbe un lampo di memoria voltandosi verso la cassaforte che stazionava ancora là con la bocca famelicamente aperta. Tutto si ricompose nella sua mente e l’ira cominciò a ridestarsi. “Cosa vi è saltato in mente!”. Nel vedere gli occhi iniettati di sangue di Ray, Al lasciò cadere il secchio sul pavimento prendendo le distanze. “Stavi sdraiato sul letto privo di sensi e allora...”. Nero riprese da dove il suo compare si era fermato: “… Abbiamo provato a svegliarti in tutti i modi ma non reagivi”. “È vero, Nero ti ha dato anche un paio di sberle per…”, aggiunse Al fermandosi dopo il suggerimento di tacere da parte del compagno. Malansky portò la mano sul viso notando un gonfiore sulla guancia destra e un generale indolenzimento del viso. “Mai sentito parlare di cautela, pronto intervento, dottore o altro? Razza di idioti

da campionato mondiale, vi sembra questo il modo di risvegliare una persona senza sensi?”. “Ma, capo, non volevamo crearti noie”, replicò Al. “Ah, sì?! E mentre io giacevo in uno stato di morte apparente e in preda a un incubo, voi vi siete ingegnati a renderlo orribile!”. I due guardaspalle tacevano mentre osservavano l’abbigliamento lacero e intriso di sangue del loro capo che, in preda a un attacco isterico, agitava i capelli gocciolanti d’acqua sul viso spiritato. “A chi è venuta la brillante idea di affogarmi nel sonno?”. Al puntò il dito verso Nero: “Sua, soltanto sua”. L’italiano approntò la sua difesa: “Sì, è vero, ma è stato lui a sbattertela sul viso con violenza, lo sai anche tu che non sa dosare la forza!”. “Basta così!”, urlò il gangster, “datemi una pistola”. I due si guardarono in volto e per la prima volta presero una decisione unanime. “No, capo, è meglio di no”, rispose Al con un filo di voce. “Ho bisogno di un’arma, adesso!”. “Magari più tardi, capo, non appena ti sarai calmato, eh?”, provò a convincerlo Nero con un sorriso falso come i discorsi di Nixon sul Water Gate. “Ne ho necessità in questo momento!”, ribadì Malansky con uno sguardo da folle omicida. “E se ti portassi un doppio cognac con ghiaccio, nel frattempo che Nero ti procura una Desert Eagle?”, rispose Al immemore della recente e tragica fine del povero Fogarty. “DAMMI QUELLA CAZZO DI PISTOLA CHE PORTI NELLA FONDINA!!”, urlò a squarciagola Ray. Al e Nero indietreggiarono fino alla porta, poi Al, estratta la Smith & Wesson

dalla fondina, la lanciò nel letto accanto a Ray per poi precipitarsi assieme all’italiano fuori dalla camera. Attesero in silenzio con le spalle al muro guardandosi negli occhi. Dopo pochi istanti la colt iniziò a sbraitare senza interruzioni, mentre Nero prendeva nota con le dita del numero dei colpi. “… Cinque… Sei.. Era la 6 colpi, no?”, chiese con la mano ancora sollevata. “Sì, la Wesson da 6!”, confermò Al. “Sei sicuro che non abbia altri proiettili da qualche parte?”. Al sollevò le braccia: “No, che io sappia...”. Ray vide sbocciare come fiori in primavera gli occhi dei due guardaspalle dalla porta. “Entrate, deficienti… Al, preparami un caffè con un paio di cachet; tu, Nero, chiama il mio arredatore e digli di portarmi un materasso nuovo… Io vado a lavarmi e cambiarmi d’abito”. Gettò l’arma fumante nel letto, dove Al prontamente la riprese prima che cambiasse idea e si trascinò verso il bagno da dove sbucò poco dopo con un umore decisamente diverso. Si sedette nel salotto con in mano una fumante tazza di caffè bollente e iniziò a raccontare gli eventi di quella traumatica mattinata. “Sei proprio sicuro, capo, che fosse Belimbau?”, chiese Nero per conferma. “Certo che era lui… O per meglio dire, il corpo era quello, ma non il contenuto. Non è l’ebreo pisciasotto e imbranato che conoscevo...”. “Proprio così, capo, è la stessa impressione che ha dato a me quando sono andato a trovarlo all’ospedale”. Nero sollevò il dito, pronto per un’altra domanda: “E per quale motivo ti avrebbe salvato?”.

Dopo alcuni istanti di riflessione, con lo sguardo perso dentro la tazza di caffè, rispose: “Lo ignoro totalmente, resta il fatto che poteva spararmi in testa e vi ha rinunciato”. “Che faccio”, intervenne Al, “chiamo l’inglese e annullo il contratto?”. “No! Quel busto impomatato non aspetta altro per intascarsi i soldi senza muovere un dito… Piuttosto informatevi su chi possa aver assunto quel killer per farmi la festa”. “Ce lo puoi descrivere?”, chiese Nero incrociando le braccia. “Era alto e ben piazzato, capelli e occhi chiari, connotati europei...”. “Europa dell’est o dell’ovest?”, precisò Nero. Ray, senza pensarci sopra, rispose: “Beh, dell’est...”. “Ma est come Russia o come Mongolia?”. “Credo russo...”. Al, che non voleva esser da meno, pose il suo quesito: “Ma russo ucraino o russo bielorusso?”. Malansky increspò le sopraciglia per un attimo, poi come ridestandosi da un profondo pensiero sbottò: “Che fate, mi prendete per il culo? Non vi è sembrata sufficientemente pesante questa mattinata? Che cazzo volete che ne sappia se era moldavo o armeno… Non ce l’aveva mica scritto in fronte?!”, e preso un ampio respiro concluse: “E ora toglietevi dalle palle, ché se per colpa vostra mi esplode la testa dovranno ricostruire questo palazzo dalle fondamenta”.

Moderò l’andatura per richiudere la capotte. Mentre il meccanismo della capotte terminava di sigillare l’interno della Porsche, i piloni del ponte di Brooklyn scorrevano veloci al suo fianco. Pigiò un tasto sul cruscotto mettendo in comunicazione il cellulare col viva-voce. “Ti ascolto, Martin…”.

“Compra il Daily News e leggi la cronaca odierna...”. “Non puoi anticiparmi niente?”, chiese Offenbach a causa di quella strana chiamata. “Non ti avrei chiesto di leggerlo, altrimenti… Ora ti lascio”. Non ebbe il tempo di aggiungere altro che Martin Loach chiuse la comunicazione lasciando un punto interrogativo su ciò che intendesse dire. Era comunque sicuro che la notizia avrebbe confermato le sue attese su Malansky e rese più allegra l’andatura per confermare il tutto. Superato il ponte uscì sulla Hicks Street, arrestando l’auto in prossimità di un distributore automatico. Inserì i due dollari e prese una copia del Daily. Riprese il posto di guida posando il quotidiano sul volante e con rapidità fece scorrere le pagine fermandosi sulla cronaca locale. Cercò famelicamente fra i titoli qualcosa che suscitasse il suo interesse, certo che il procuratore Loach gli avesse dato quell’imbeccata con giustificato motivo. Dopo aver scrutato minuziosamente la prima pagina ò alla seguente, subito attirato da un piccolo ritaglio all’angolo destro. La foto segnaletica a cui faceva riferimento l’articolo gli fece scandire una serie di improperi: “Miseria ladra… Sono nella merda!”. Gettò il quotidiano di lato e riprese la strada con celerità diretto verso la sua abitazione. Mise di traverso l’auto nella rimessa del grattacielo, non preoccupandosi di aver occupato anche il parcheggio attiguo. L’ascensore lo portò troppo velocemente al piano, lasciandogli poco tempo per riflettere. Bussò e dopo qualche istante il maggiordomo aprì la porta. Lo scavalcò mentre questi tentava di comunicargli qualcosa. “Signore, c’è...”. “Non adesso, più...”. La frase morì sul nascere, uccisa dalla presenza di un uomo comodamente

adagiato su una poltrona del suo salotto con i piedi accavallati sul tavolo in pregiato ebano; e il tentativo di urlare la sua disapprovazione fu soffocato dalla Glock sostenuta nella mano destra dell’uomo. “Venga a sedersi vicino a me, signor Offenbach… E tu, chiudi la porta”. Il contabile accettò l’invito, anche se lo avrebbe volentieri rifiutato. Si sedette come se la morbida pelle del divano posto di fronte all’uomo fosse cosparsa di chiodi appuntiti. “Con chi ho il piacere di parlare?”, chiese garbatamente Offenbach. L’uomo prese il giornale che aveva al suo fianco porgendolo al contabile: “Quell’articolo dovrebbe chiarirle le idee”. Gregory raggelò nel constatare che era lo stesso articolo che aveva letto poc’anzi: “Perché dovrebbe?”. “Poiché con questa storia lei è in un mare di guai, signor Offenbach”. “Cosa glielo fa credere?”, rispose osservando l’uomo, che appariva stanco ed emaciato. “Per il semplice fatto che il killer della foto, che hai ingaggiato per sistemare Malansky, è incappato nella traiettoria del mio fucile”. Il contabile deglutì puntando lo sguardo sulla nera pistola e cercando una via d’uscita a quella che si prospettava una situazione oscura. “Se è Ray che la manda, riferisca che io non c’entro niente e che può venire a prendersi il suo denaro quando vuole”. Zacary prese la palla al balzo e si raddrizzò sullo schienale: “Li hai già qui pronti?”. “Quasi… Centomila adesso, il resto in settimana”. Belimbau non si aspettava una così fortuita coincidenza e, simulando una certa indifferenza, disse: “Non so… Mi ha espressamente ordinato, se non avessi avuto tutto il denaro, di piantarti una pallottola in fronte”.

Il sicario prese il cellulare e con teatrale finzione mise in scena un colloquio con Ray. Offenbach cercò di carpire il discorso ma la Glock che si agitava davanti a lui lo indusse a non sfidare gli eventi già fatalmente compromessi. “Sì, d’accordo Ray, procedo”. Zacary chiuse il cellulare e lo scatto fece sobbalzare il contabile che attendeva trepidante la sentenza. “Se fosse per me, saresti già nei verdi pascoli assieme a toro seduto… Ma lui la vede diversamente”. Offenbach pendeva dalle labbra del sicario come una goccia di rugiada dal petalo di una rosa. “Oltre i cento già citati cosa poni sul piatto?”. “Avrei dei gioielli e qualche quadro d’autore!”, rispose prontamente. “Non so che farmene”, replicò Zacary, “anzi, non sa che farsene… Ray vuole contanti”. Il contabile allargò le braccia: “Le giuro che entro domani le farò avere gli altri cinquecentomila… Non ho altro adesso”. Al sentire quella cifra Zacary ebbe un movimento inconsulto e dalla Glock partì accidentalmente un colpo che sfiorò la testa di Gregory. Il contabile cadde letteralmente in ginocchio supplicando di essere risparmiato. “La prego, non lo faccia… Ho detto la verità! Glielo assicuro, avrà tutto ciò che gli devo e con gli interessi”. “Basta così, alzati e vediamo quello che hai”. Offenbach, sollevato dalla minaccia imminente ma non rassicurato, si alzò prontamente precedendo il killer nella stanza attigua assieme al maggiordomo. Si fermò davanti a un mobile di pregiata fattura che all’apparenza sembrava un appendiabiti. Gregory ruotò uno dei quattro ganci che fungevano da appigli, scoprendo uno scompartimento segreto. Zacary gli puntò la pistola.

“Niente scherzi o ti squarcio come la chiglia del Titanic”. “Non ne ho la minima intenzione...”, rispose confermando i suoi buoni propositi. Il contabile mise a nudo l’interno contenente una pila di banconote distinte a fasce, alcune scatole con luccicanti parure e una tela avvolta con un semplice elastico. “Tu!”, disse Belimbau al maggiordomo. “Svelto, porta una sacca!”. Il ragazzo scattò come un ghepardo per tornare poco dopo con una fiammante borsa di pelle firmata. “Metti tutto dentro”, gli disse per poi domandare a Gregory: “Cosa è quella pergamena?”. “È il dipinto a cui accennavo”. “Fammi dare un’occhiata”. Il contabile lo prese e dopo averlo srotolato lo espose orgogliosamente: “È un Pollock”. La pittura per Zacary era concepita solo come il rinfrescare una parete usando della tinta lavabile. “Chi!?”. “Jackson Pollock, il famoso artista dell’espressionismo astratto...”. Belimbau gli puntò la pistola alla tempia: “Non provare a chiamarla arte, questo schifo riuscirebbe a dipingerlo perfino l’ultimo schizofrenico del nosocomio criminale”. Atterrito, Offenbach lo riarrotolò deponendolo nell’armadio. “Che fai?”, gli chiese il sicario con aria indignata. “Mi era parso di capire che non fosse di suo gradimento”. “Infatti! Ma non per questo qualche imbecille del tuo pari mi scucirà… Darà a

Ray un sacco di soldi per averlo; mettilo nella sacca!”. Gregory obbedì senza discutere e Belimbau afferrò la borsa dalle mani del maggiordomo. “Raccogli il denaro che devi o prepara un lascito testamentario… A te la scelta”. Offenbach annuì con la testa senza obiettare e il sicario, voltate le spalle, svanì come uno spettro alle prime luci dell’alba.

Affrettò il o malgrado il broncio del ragazzo per quella mano che lo usava come un rimorchio. “Vuoi muoverti? Siamo in ritardo”. Era cosciente che il signor Belimbau non gliel’avrebbe fatto pesare, ma non voleva approfittare di quella situazione, né che il loro rapporto potesse incrinarsi. Era stato fin troppo gentile e l’ottima retribuzione le fece pesare quel ritardo, anche in funzione della necessità di cure a un’ora ben precisa della giornata La puntualità era stata un suo cavallo di battaglia ma quel giorno la sveglia l’aveva tradita e quei venti minuti sembravano un’eternità. Varcò il portone d’ingresso infilando Lanny come un pacco dentro l’ascensore. Arrivò davanti alla porta con la chiave in mano. Zacary gli aveva fornito una copia della stessa pregandola di accettarla e servirsene per potervi entrare anche in sua assenza, ma la sensazione di varcare l’intimità altrui le impediva di compiere un’azione così semplice. Bussò preventivamente: “Signor Belimbau, sono Rose, sto entrando”. Non udendo alcuna risposta infilò la chiave e la girò per due volte, finché non sentì lo scatto dell’ultimo tratto del ante. Spinse la porta con il timore di trovare quell’uomo disteso e morente sul divano. Si guardò attorno con circospezione ripetendo con voce sommessa il nome del sicario. Dopo aver guardato nelle stanze si rese conto che non era morto, almeno non in quella casa. Decise di attendere il suo arrivo e nel frattempo ordinò a Lanny di sistemarsi sul tavolo e riare la lezione di matematica che lei stessa gli aveva impartito.

Si guardò attorno notando che la polvere e un lieve, ma insopportabile per una donna, grado di sporcizia si stava accumulando sul pavimento e gli arredi. Non perse tempo, si armò di secchio, prodotti, strofinacci e cominciò a darsi da fare. Rosemary rivoltò l’appartamento da cima a fondo e in un’oretta il luogo cambiò aspetto. Sorrise soddisfatta e ritornò in cucina per riporre il secchio sotto il lavello. Sbadatamente aprì quello attiguo notandovi una sacca infilata di traverso. Stava per richiudere, quando gli parve che il modo con cui era stata infilata non soddisfaceva le sue prerogative di donna ordinata. Posò il secchio e agguantò la sacca estraendola dall’interno: era pesante e tintinnava, come se all’interno vi fossero dei tubi di metallo. La curiosità è prettamente femminile, ma per Rosemary il rispetto altrui richiedeva la sua discrezione. Stava per riporla quando dalla chiusura lampo svettò la punta di un mirino. Premette con le dita in modo che un altro pezzo fuoriuscisse dalla sacca. Non aveva più dubbi: quello era un fucile. A quel punto fece scorrere la lampo mettendo a nudo tutto il contenuto. Non rammentava come si chiamava, ma quel mitra lo aveva visto diverse volte alla tv nelle mani del cattivo di turno. La voce di Lanny la mise in allarme: “Mamma, il signor Zacary è arrivato!”. Non si sa bene per quale motivo le lampo si inceppano e Rosemary, avendone il tempo, avrebbe aperto volentieri un dibattito sulla questione: tentava disperatamente di richiudere quella sacca, ma quella lampo era inchiodata come un ministro alla propria poltrona. Udì chiaramente la voce di Belimbau salutare Lanny e chiedere di lei. Ricacciò la sacca dentro il pensile e agguantò il secchio mentre ascoltava i i dell’uomo avvicinarsi. “Rosemary, che ci fai con quel secchio in mano?”. “Bentornato, signor Belimbau… Ho approfittato della sua assenza per dare una sistematina”.

Soltanto in quel momento si rese conto che l’appartamento aveva cambiato aspetto. “Ecco cos’era quel buon odore… Se non ci fossi tu”, rispose accompagnando la frase con un largo sorriso. La donna si rese conto, dal viso tirato e gli occhi infossati, che quella giornata doveva essere stata intensa per lui. “Come si sente oggi?”. “Bah, posa quel secchio e lascia perdere la mia salute; vieni nell’altra stanza, ho qualcosa da farvi vedere!”. Lasciarono la cucina e raggiunsero Lanny che osservava alcuni pacchi che Belimbau aveva posato sul tavolo. “Avevo del denaro che marciva sotto il mattone e ho pensato di fargli prendere aria”. Rosemary guardò gli aquisti sul tavolo e prima che potesse esprimere un’opinione, Zacary ne afferrò uno. “Lanny, questo è per te!”. Gli occhi del ragazzo si illuminarono, ma la madre mise il freno: “Un momento... Signor Belimbau, io non…”. Zacary intervenne frapponendosi fra madre e figlio: “Rose, io non ho nessuno al mondo, lascia che io e questo ragazzo beneficiamo di questi momenti”. La donna sospirò nel rispondere: “Desidero che lei sappia che io non posso ricambiare”. “Quello che le offro è sempre troppo poco per ciò che ricevo, credimi”, replicò il sicario. La donna dette il suo benestare e lasciò che il figlio scartasse il regalo. “Oh, mamma… È… È… Un computer!”.

“Non chiedetemi come si usa, ma è opinione di chi me lo ha venduto che ogni ragazzo ne dovrebbe avere uno”, commentò Zacary. Posseduto da tutti i suoi amici, per Lanny era l’oggetto dei desideri che si era tramutato in realtà. “Posso accenderlo?”. “È tuo, Lanny, fanne ciò che vuoi”, rispose l’uomo. “Non so come...”, tentò di ringraziare lei, ma fu subito interrotta. “Sono contento che non lo sappia, anche perché non è necessario”, riprese Zacary afferrando un secondo presente e ponendolo nelle mai della donna. “Questo invece è per te”. “Per me?!”, rispose lei con stentata meraviglia. “Signor Belimbau, io non...”. “Insisto...”. La donna prese il piccolo pacchetto rettangolare, che rispetto a quello del figlio sembrava confezionato con carta dozzinale e in modo scomposto. Lo scartò scoprendo una confezione in velluto blu di alta manifattura; la scritta Bulgari in sovrimpressione fece intuire il contenuto così, presa da una curiosità ipnotica, aprì il cofanetto. Ciò che vide le fece assumere un tono confidenziale fino ad allora mai usato. “Zacary, ma che hai combinato!”. La donna prese la parure di diamanti sollevando ancora incredula il prezioso gioiello che aveva fra le dita. “Questi sono diamanti! Ma quanto ha speso?! Deve valere una fortuna”. “Bah”, commentò lui con sufficienza, “è tutta apparenza: l’ho strappato per quattro soldi, quasi regalato”. “La donna lo guardò fisso negli occhi: “Mi prendi per il… Ehm, mi sta prendendo in giro, Belimbau? Per quanto poco ne sappia, questo è un pezzo di alta gioielleria e… Vale una fortuna...”, e riposta la parure nella custodia la rimise nelle mani del sicario. “Non posso… Non posso assolutamente

accettarla”. “Perché?”, chiese lui stupefatto. “Perché?! Perché… Perché vale quanto un appartamento e io… Io… Non se ne parla nemmeno”. Zacary aprì la custodia guardando il gioiello: “Vale veramente così tanto?”. “Non sono un’esperta, ma non meno di tre-quattrocentomila dollari!”, rispose lei ancora presa da quella visione. Zacary richiuse la custodia con uno scatto fulmineo: “Così tanto?!”. La donna rimase perplessa per quella risposta: “Zacary… Cioè, signor Belimbau, glielo avranno detto il prezzo quando l’ha acquistata, no? O ha lasciato un assegno in bianco?”. Il sicario si rese conto di aver commesso un errore madornale nel consegnare nelle mani della donna il gioiello trafugato a Offenbach, senza preventivamente conoscere il suo reale valore. Cercò una giustificazione plausibile a quella montagna di dollari che in forma diamantifera sosteneva nelle sue mani. “E se ti confessassi che è usato?”. “Ti… Le farei uno sconto di centomila, ma ne restano sempre trecento!”, replicò la donna mettendo le mani sui fianchi. “Avevo un fondo pensione e l’ho svuotato”, rilanciò lui con convinzione. “Ah, sì!? E a chi preparava le minestre, al sultano dell’Oman?”, rispose lei sempre più convinta che ci fosse qualcosa sotto. Il sicario deglutì nel vedere l’espressione interrogativa della donna e cercò di arginare quella che si prospettava come una valanga di domande senza alcuna barriera. “Ti posso confermare che un cuoco può guadagnare cifre insospettabili”. La donna gonfiò il seno come se stesse per scoppiare: “Mi stia… Al diavolo,

stammi a sentire Zacary, non so in quale pasticcio ti sia ficcato, ma prima rendi quel… Quel… Bellissimo gioiello e…”. “Ok, d’accordo”, disse lui abbassando i toni e notando con soddisfazione il tono più confidenziale della donna, “è un falso”. Quella rivelazione prese in contropiede la donna, che rimase perplessa: “Un falso?”. “Non era mia intenzione regalarti dei cocci di vetro, ma non potevo permettermi altro”, continuò lui, resosi conto di aver fatto breccia nell’animo di lei in modo evidente. Rosemary, con le sue rimostranze, aveva messo in dubbio la sincerità dell’uomo e soprattutto messo in secondo piano un gesto di sincero affetto. “Non so come scusarmi, Zacary… Se per te va bene, lo accetto volentieri!”. “Oh, non importa”, rispose il sicario riponendo nelle mani della donna il prezioso monile. Lei lo mise nella borsetta alzandosi in piedi: “Bene, è ora che io faccia quello per cui sono pagata”. Lasciò Belimbau seduto e, preso l’armamentario medico, iniziò a infilare aghi e somministrare pozioni e pasticche. Lanny nel frattempo, preso dal suo nuovo strumento informatico, si era completamente estraniato dalla discussione. Zacary strinse un paio di volte il pugno per far irrorare meglio la soluzione che fluiva nell’arteria e guardò in volto la donna che fissava in modo laconico suo figlio. “Ho anche un’altra buona notizia”. A quella frase Rosemary si voltò: “Sì? Ti ascolto”. “Ho parlato con quella persona che può aiutarci con Lanny”. Il viso della donna si illuminò: “Sul serio?”.

“Per davvero. Mi ha detto che a breve risolverà il problema e che Lanny potrà tornare alla sua scuola”. “Oh, mio Dio, ti ringrazio!”, esclamò la donna in modo liberatorio. “Non so come… Sappi che se farai questo per me avrai la mia eterna gratitudine!”. Belimbau sorrise benché non avesse alcuna idea di come risolvere il problema, ma decise che su questo nuovo fardello avrebbe rimuginato più tardi.

Il colpo al plesso solare lo fece piegare su se stesso, accompagnato da un colpo di tosse. “Allora, se mi dici cosa ti devo spezzare, risparmiamo del tempo!”, intimò Al rimettendolo in piedi. “Non lo conosco… Non l’ho mai visto”, rispose con un filo di voce Ring, un mediocre mantenuto chiamato così per il suo misero ato da sparring partner come lottatore. Al gli rimise il giornale davanti al viso, sulla pagina del necrologio: “Dagli un’altra occhiata, magari lo hai visto assieme a una delle tue donnine e ti è sfuggito”. Ring si ritrovò la foto del giornale davanti al naso e dal suo respiro scappò fuori un grumo di sangue. Al portò indietro la copia del Daily News notando la foto imbrattata. Gettò il giornale per terra e, facendo leva sul braccio dell’uomo, lo mise spalle al muro schiacciandogli il viso alla parete. “Quella era la copia del capo ed è meglio che tu mi dia qualche risposta o su quel muro ci lascerai l’impronta dei tuoi denti”. Ring farfugliò qualcosa, impedito dallo strisciare della sua bocca sulla parete. “Non ho capito!”, specificò Al sollevandogli il capo con una presa sui capelli. “… Nick… Chiedi a Nick...”.

“Perché dovrei parlare con quel travestito di merda?”. “L’hanno vista con un russo… Un cliente”, pronunciò sforzandosi di non tossire. “E chi mi dice che è il russo che sto cercando?”, chiese Al torcendo con più forza il braccio. “Nessuno, ma… Era molto simile...”. Al lo scaraventò sul selciato puntandogli il dito: “Se quella puttana di Nick non sa un cazzo, torno e ti cavo il resto dei denti”. Lo lasciò dolorante sul marciapiede nel vicolo antistante il piccolo bordello da lui gestito, dirigendosi verso una candida Lincoln limousine a nove posti parcheggiata dall’altro lato della strada. Aprì la portiera dal lato guida catapultandovisi dentro. “Ci hai messo del tempo, spero sia stato fruttuoso”, gli chiese il eggero comodamente afflosciato sui sedili posteriori. “Ho dovuto strizzarlo un po’, ma l’imbeccata sembra buona”, rispose Al mettendo in moto l’auto da nove metri e immettendosi nella corsia principale. “Risparmiami il contesto e arriva al dunque”, strinse Ray mentre sorseggiava da una coppa di cristallo un liquore secco e ambrato. “Chi ti ha trapanato la Bentley prima è andato a divertirsi con Nick...”. “Chi!? La era dal pisello lungo?”. “Sì, proprio lei, capo!”. “Uhm… Aveva gusti particolari il sovietico… Andiamo a parlarci, sono curioso”. La Lincoln lasciò Long Island incanalandosi nel Queens Boulevard diretta ad Hempstead. Essendo dell’ambiente erano a conoscenza che a quell’ora del mattino chi espleta quel tipo di servizio riposa. Al arrestò l’auto in prossimità di una graziosa abitazione a tre piani, dove Nick e altre sventurate dimoravano e sovente fornivano le loro personalissime prestazioni.

Quella zona era sotto il controllo di una gang locale per cui Ray dovette preventivamente chiedere il loro benestare per quel tipo di operazione. “Mille dollari! Razza di spilorci… Rammenta, Al, se Dominique o qualcuno di loro sfiora appena il Queens, dovranno pagare anche l’aria che respirano”. “Sì, capo”, rispose laconicamente il suo guardaspalle aprendo lo sportello e allontanandosi dall’auto. “Dove vai, testa di legno?”, gli urlò dall’interno dell’auto Ray. Al ritornò sui suoi i avvicinandosi al finestrino: “Che c’è, capo?”. “Secondo te, a che scopo avrei attraversato mezza città fiondandomi in questo luogo, invece di starmene tranquillamente a crogiolarmi in qualche ristorante?”. “Non ne ho idea!”. “Apri questo dannato sportello, non sei degno neppure di una risposta!”, concluse Ray scendendo dall’auto e porgendo il soprabito al suo aiutante in modo che lo posasse perfettamente sulle sue spalle. Al lo precedette entrando nella piccola hall del palazzo. Un energumeno di colore e di pari peso rispetto ad Al gli andò incontro con fare deciso. “Che ci fate da queste parti?”. Ray intervenne: “Tranquillo, ho già parlato con Dominique”. Senza spostarsi di un o il colosso estrasse il cellulare dalla tasca, che scomparve nell’immnensa mano dell’uomo. Premette un tasto ed ebbe un breve ma decisivo colloquio, formato da singoli monosillabi, che terminò con lo scatto di chiusura dell’apparecchio. “Andate pure, terzo piano, quarta stanza a destra”. L’ascensore li portò su velocemente in un silenzio asettico, interrotto solo dalla voce di Ray.

“Rammenta, Dominique la sua merce la rivuole intera, per cui vacci piano”. Il suo uomo assentì, ritrovandosi subito dopo davanti alla quarta porta a destra. Dopo aver bussato attesero per qualche secondo prima che qualcuno, dal o felpato e leggero, venisse ad aprire. Apparve davanti a loro decisamente sexy e conturbante: indossava una vestaglia di seta che velava leggermente il reggiseno di pizzo e mutandine con guepiere. Capelli come l’ebano leggermente spettinati e viso decisamente assonnato era ciò che rimaneva di lei assieme a un tocco di rossetto sulle labbra dopo una notte di lussurie. “Ciao, micioni, non vi sembra un po’ prestino per fare i giochini? Se tornate questa sera mi troverete sicuramente più calda”, disse con una voce decisamente baritonale e androgina. “Scansati, ché con te non giocherei neppure a scacchi”, le rispose Ray accertandosi che Al chiudesse la porta della stanza. “Oh, ma… Ma… cche… Modi!”, balbettò Nick arretrando fino a ricadere sul letto. “Che gli è preso? Non l’ho neppure sfiorata!”, chiese Malansky rivolgendosi al suo guardaspalle. “Quando si eccita, balbuzia”, rispose con convinzione Al. Ray lo guardò perplesso: “Quando si spaventa, balbetta… Volevi dire”. “E io cosa ho detto?”. La discussione fu interrotta dall’intervento del travestito: “Cccooo… Ssssssa vooolete e ccchi?!”. Malansky gli venne in aiuto accomodandosi in una poltrona posta di fianco al letto. “Lui è Al e per quanto ti riguarda è meglio non tirarlo in ballo… Mentre a me devi dare alcune risposte alle mie domande”.

Nick spalancò la bocca mostrando una dentatura candida e perfettamente allineata: “Aaaal… Aaaaal… Altrimenti?”. “Altrimenti si prospetta una prognosi di dieci giorni con ecchimosi facciali, traumi e contusioni varie, qualche osso spezzato, una protesi dentaria e una dose non trascurabile di lancinante sofferenza”. Nick si sedette sul bordo del letto posando le mani sull copriletto di lucida seta rosa. “Coo… Coos...”. Malansky si mise le mani nei capelli: “In questo modo non la vedo né facile né breve… Limitati a un cenno di assenso o di negazione alle mie domande”. Dopo che il travestito fece un segno con il capo Ray continuò: “Ti sei portata a letto un russo di recente e costui ti ha parlato di un lavoro che doveva svolgere… Ci serve il nome di chi lo ha mandato”. La ragazza fece un cenno col capo, ammettendo di conoscere quel nome. “Bene, ho spalancato le orecchie, ti ascolto”. Il travestito roteò gli occhi cercando di trovare le parole: “Mmm… Mmm… Ma...”. Ray gli si avvicinò ripetendo le sillabe: “Maaa...”. Nick riprovò: “Maaaaa...”. “Mario?”, chiese Ray. “No!”, rispose la ragazza. “Mathieu?”. “No”. “Marvin?”. “Nnn… O!”. “Mason?”.

“Michael?”. “No!”. “Ma come cazzo si chiama!”, esplose Ray estraendo la pistola e puntandola sul viso. “Martin Loach!”, rispose prontamente il transessuale in una pronuncia perfetta. “Visto?”, commentò pacatamente Ray rivolgendosi ad Al, “in tutte le cose ci vuole la spinta giusta”.

Si era tormentato per quasi tutto il giorno, cercando una soluzione a quella promessa. Far rientrare a scuola Lanny era diventata una vera e propria ossessione, nella speranza che questa non si tramutasse in una cocente delusione per la madre. Sorreggeva a stento la spesa appena fatta, infilata in due buste di plastica, ma la trovava meno pesante di quel problema che reputava irrisolvibile. Non poteva certo presentarsi nella scuola con le armi spianate e intimare il rientro del ragazzo a colpi di revolver; né poteva inviare una supplica al presidente degli Stati uniti, né d’altronde vi era tempo per presentarsi come candidato al governatorato dello Stato. “Eppure una soluzione meno burocratica e senz’altro meno cruenta deve esistere”, pensò Belimbau. Ma al momento, oltre che arrovellarsi il sistema nervoso centrale, niente altro era emerso alla luce dalla oscura mente del sicario. Aprì l’uscio dell’appartamento posando le compere sul tavolo e sbirciando le lancette dell’orologio: si rese conto che aveva circa mezzora prima che Rosemary e suo figlio bussassero alla porta. Premessa che fu subito smentita dal suono prolungato del camlo. Zacary riguardò l’orologio constatando che non si era sbagliato e, pienamente convinto che solamente Rosemary poteva esserci dietro quella porta, andò ad aprire. Non si era mai trovato di fronte a quella situazione e quell’immagine gli fece

capire a quale punto di impotenza e di disagio lo stato d’animo umano potesse arrivare. Era frustrante vedersi un’arma puntata contro, al che ebbe per un attimo la sensazione che questa stesse per emettere il suo mortale respiro. Chi reggeva il gioco la pensava diversamente e sospinse Belimbau all’interno serrando la porta. “Si chiama Zacary Belimbau?”, disse l’uomo con un marcato accento inglese. “Non so chi sia costui”, rispose prontamente Zacary. “Allora lei è la sua copia perfetta”, rispose l’ospite brandendo in avanti la pistola. Belimbau rimase assorto di fronte all’abbigliamento dell’uomo, di taglio decisamente british, e dalla mimica tipica dell’etichetta Windsor. “Si volti, la prego”, disse il killer posando sul pavimento una sacca ed estraendo dalla tasca del suo nero tre-quarti una fascetta autobloccante in materiale plastico. Obbedì senza discutere, sapendo che l’uomo non avrebbe esitato a forargli il petto al minimo cenno di resistenza. Dopo avergli legato le mani dietro la schiena e i piedi, lo immobilizzò su una sedia. “Sappia che in questo mio intervento non c’è niente di personale, è solo un lavoro come un altro”. “Perché mi dice questo e non la facciamo finita?”, rispose Zacary percependo dai polsi l’impossibilità di liberarsi da quel legaccio. Il killer aprì la sacca tirando fuori un cavalletto: “Non staremmo qui a discutere se il mandante non mi avesse dato degli ordini precisi”. Non era curioso di sapere cosa quello stesse architettando, ma il presentimento che l’attore principale di quella farsa sarebbe stato lui lo spronò a chiedere: “Sarebbe a dire?”. Avvitò i piedi del treppiedi sistemandolo a un paio di metri da Zacary con millimetrica precisione.

“In genere non faccio questi lavori, ma gli affari sono affari, dunque sono costretto a comunicarle con rammarico che la sua agonia subirà un certo ritardo”. Belimbau percepì in quelle parole una nota sarcastica e irritante, tanto che da una posizione di piena rassegnazione si slanciò in una di incipiente rabbia. “Io sono un sicario!”. L’uomo posò la pistola sospendendo per un attimo il lavoro. “Allora sarà un doppio dispiacere, visto che siamo colleghi”. “Colleghi?!”, rispose in tono dispregiativo. “Ma ti sei visto?”. Il volto del killer cambiò espressione mentre Belimbau continuava: “Più che un temibile killer sembri la brutta copia di Sherlock Holmes!”. Lui sollevò il dito in avanti con le guance leggermente arrossate: “Non le permetto...”. “Non mi permetti?! Che fai, altrimenti, mi uccidi?”, commentò con una risata beffarda. “Mi chiedo in quale armadio zeppo di naftalina eri rinchiuso, visto che puzzi come un bidone di gasolio!”. Il killer arrossì e con enfasi rispose: “Sa cosa le dico? Sarà un vero piacere infliggerle un supplizio indimenticabile”. “Ah, sì? Io mi chiedo invece se ti hanno inamidato anche il viso assieme a quel ridicolo abito”, rispose Zacary con un’altra risata piena. Il killer non replicò ma, estratta una videocamera, la piazzò sopra il treppiedi controllando l’inquadratura e la messa a fuoco. Tolse dalla sacca un rotolo di carta adesiva e una flebo colma di una soluzione giallastra. Srotolò la carta tappando la bocca a Zacary e, certo che non potesse replicare, gli si avvicinò a un orecchio. “Deve sapere che mi sono informato… Per il disturbo che ha, lei assume sicuramente dei betabloccanti, così mi sono premunito cercando una soluzione antagonista”. Zacary ascoltava senza poter rispondere, ma la sua espressione fu più lampante

di qualsiasi frase. Il killer sistemò l’ampolla nel portaflebo: “È l’estratto di un fungo che possiede una tossina particolarmente aggressiva verso i tessuti come fegato, reni e altri organi depurativi...”. Tastò il collo di Zacary alla ricerca della giugulare e, dopo averla raggiunta, la appuntò con il dito. Vi infilò un grosso ago collegato a un sottile tubo raccordato all’ampolla di veleno. “Mi hanno assicurato che i suoi risultati sono assolutamente spettacolari”, commentò distendendo le maniche del cappotto con un tocco da lord inglese. Avviò la registrazione della videocamera e, avvicinatosi a Belimbau, schiuse il rubinetto lasciando che dall’ampolla gocciolasse l’ambrata e letale soluzione. “Se ora permetti, andrò a prendermi un the… Sono sensibile a certe scene”, e con un’espressione sadica uscì, chiudendo la porta dopo aver preso la chiave dal tavolo. Zacary rimase a fissare quelle gocce cadenti sulla sua vita, alla ricerca di un modo per evitare quella fine atroce. Percepì l’ago sul collo e gli venne istintivo piegarsi di lato, ma sentì l’ago premere con forza sulla sua carne quasi dovesse spezzarsi. Rivolse lo sguardo verso l’ampolla per vedere se avesse ottenuto qualche risultato: il flusso, seppur di poco, era rallentato, ma la soluzione continuava a penetrare nelle sue vene. Premette con più forza finché il dolore non divenne opprimente ma con la coda dell’occhio si accorse che il flusso si era arrestato. Rimase in quella posizione contraendo i muscoli per il dolore, percependo un calo della sua attenzione e un crescente torpore fisico. Era conscio di non poter sopportare quella situazione a lungo e solo la rabbia accumulata in precedenza gli serviva da stimolo e o a quell’ostinata resistenza. L’ago sembrava ormai penetrato fin nella gola tanto era lo sforzo per trattenere quella posizione; non per se stesso, ma solo per mantenere fede a quei propositi ancora da ultimare nel breve lasso di tempo che gli rimaneva stava resistendo ostinatamente e strenuamente lottando.

Quella scena la lasciò letteralmente sgomenta, ma prontamente mise una mano davanti agli occhi di Lanny per impedirgli di guardare. Prima cautamente e poi con rapidità si avvicinò a Belimbau che, con la coda dell’occhio, le indicava l’ampolla sopra di lui. Gli rizzò il capo estraendo l’ago dall’arteria con uno strappo netto e deciso: un piccolo zampillo di sangue accompagnò quel gesto, subito tamponato dal pollice della donna e seguito da un più efficace arresto dell’emorragia. Lo slegò togliendogli la carta adesiva dalla bocca prorompendo in tutta una caterva di domande. “Oh, Signore! Ma cosa è successo… Chi l’ha ridotta in questo stato… Come...”. Zacary la fermò sollevando la mano e controllando l’orologio: “Una cosa per volta… In quella soluzione vi è un antagonista del betabloccato o come accidenti si chiama… Per quanto poco ne abbia presa, mi sto sentendo molto strano”. Rosemary non perse tempo e, aperto il cassetto dei medicinali, estrasse da una confezione alcune pastiglie che ficcò di corsa in bocca al sicario. “Ma che cosa è successo… E a cosa serviva quella telecamera?”. Belimbau cercò frettolosamente una giustificazione a quella messa in scena: “Ho cercato di togliermi la vita… Ma adesso non ho tempo per le spiegazioni: ti prego di uscire e tornare più tardi”. Lei rimase di sasso ma, dopo aver messo le mani sui fianchi, esclamò: “Cosa?! Dopo una confessione di questa portata, dovrei uscire da quella porta senza una giustificazione per questa… Questa sceneggiatura da film? Non mi vedrà mai più, allora!”. Zacary fremeva perché lasciassero l’appartamento, pressato dall’imminente ritorno del killer. “Devi scusarmi, ma ho perso la testa in un momento di sconforto… Ho chiesto a un amico di aiutarmi a morire, ma nel mentre mi sono pentito, tutto qua!”. “Tutto qua?! Non mi sembri così affranto per averti salvato, e poi il tuo amico ti

avrebbe addolcito la morte con uno shock anafilattico?”. “Beh, il mio amico effettivamente è un po’ sadico… Ma è stato uno scambio di favori, ecco!”. “Tu rimani dietro la porta!”, intimò Rosemary a suo figlio prima di riprendere. “Questa storia puzza come il pesce stantio!... E questa telecamera a cosa serviva, per un filmato da proiettare durante le esequie?”. “Ma no, era soltanto un modo per non farlo da solo… È stata una mia richiesta”. “Una sua richiesta?! Lei mi lascia senza parole...”. Belimbau mise mano al portafoglio porgendole cento dollari: “Fai conto di aver fatto uno straordinario...”. Lei guardò con disprezzo quel denaro: “Io accetto del denaro solamente per il mio lavoro! E finché questa storia non verrà chiarita, io non mettero più piede in questa… Casa degli orrori!”, e dopo un ultimo sguardo carico di incognite oltreò la porla scomparendo assieme al figlio. Era stanco e infuriato, per di più quegli ultimi tragici momenti rischiavano di compromettere il rapporto con Rosemary in modo irreparabile. “Un problema alla volta”, pensò e tastò il polso controllando i battiti. In apparenza il ritmo era tornato alla normalità e, trascurando il collo ancora dolente, le capsule fattegli ingoiare da Rose avevano neutralizzato le poche gocce di veleno e sortito un benefico effetto. Non perse altro tempo, percorse le stanze dell’appartamento in lungo e in largo procurandosi un’arma e l’occorrente per i suoi propositi.

Incrociò lo sguardo della donna mentre saliva l’ultima rampa di scale, ricambiando il saluto frettoloso del bambino tenuto per mano. Diede un’occhiata al Breitling che indossava al polso sinistro, presumendo che ormai tutto doveva essere andato a buon fine. Infilò la chiave nella porta e attese che quel silenzio non fosse solo una pausa fra un gemito e l’altro.

Spinse la porta in avanti, trovando la fredda canna di una pistola puntata alla tempia. “Il the era con o senza latte?”. Belimbau lo spinse dentro e richiuse la porta, infilandogli la mano nell’elegante giacca, privandolo in quel modo del suo mezzo di morte. L’effetto dell’amara sorpresa era chiaramente visibile sul suo viso, tutto intento a chiedersi come avesse fatto a liberarsi. “Ribadisco la mia totale e incondizionata estraneità a questo malinteso”. Zacary lo spinse nella medesima sedia dove pochi minuti prima vi stava lui. “Oh, mi rincresce, milord, doverla contraddire… Ma io sono un tipo suscettibile e permaloso, per cui caschi male”. Tentò un’estrema difesa mentre Belimbau lo assicurava con del fil di ferro alla sedia legandogli mani e piedi. “Lei capisce che per noi è soltanto un lavoro, in fondo lo facciamo per vivere...”. “Non vorrai propinarmi un trattato di filosofia!”, rispose Zacary infilandogli in bocca uno strofinaccio. “E poi, perché parlare, quando abbiamo un film da girare?”. Sistemò nuovamente il flacone col veleno e con le dita raddrizzò il grosso ago. “Non ti offendi mica se non lo disinfetto, vero? E non te la prendi se ti confesso che non so esattamente dove te lo devo infilare?”. Il terrore si lesse con chiarezza negli occhi dell’uomo e i prolugati gemiti provenienti dalla gola e soffocati dalla pezza di stoffa lo confermavano in tutta la sua drammaticità. Zacary, dopo averlo preso per i capelli, gli infilò col medesimo medesimo garbo usato per forzare la scorza di un rinoceronte la grossa cannula nell’arteria giugulare del malcapitato. Questi si dimenò come un forsennato nel tentativo di sfuggire a quel supplizio, ma senza risultati concreti. “E fin qui siamo pari…”, proseguì fissando il grosso ago con del nastro adesivo e rigirandolo un paio di volte attorno al collo. “Com’è che avevi detto? I risultati saranno spettacolari… Beh, eccoti un bel posto in prima fila”.

Dopo aver imbragato il killer, si avvicinò alla telecamera, rimasta in registrazione. Mise in pausa e riavvolse il nastro. “Pronto per il primo e ultimo ciak?... Sai, a guardarti bene non hai l’aspetto di un nobile, quindi intitolerò questo film… Morte di un cialtrone!”. Gli occhi vitrei e lo sguardo fisso su quella lucetta rossa della telecamera seguirono l’ apertura del piccolo rubinetto, che presagiva una fine imminente e terribile. “Quando arrivi all’inferno tieni un posto anche per me, in quanto non tarderò a raggiungerti, perché devi sapere che, se mi hai mandato all’aria la storia con Rosemary, ne dovrai prendere ancora”.

Fissava con aria interrogativa il tabellone da lui stesso completato dopo avervi aggiunto con una freccia il nome di Misha Alenickov. Era talmente assorto che non si accorse del brusio di voci che stavano commentando alle sue spalle, con malcelata ironia, il suo lavoro. Stanich si voltò rendendosi conto che metà del distretto era penetrato nel suo ufficio nel bel mezzo di quella mattina per prendere visione diretta di quel quadretto astratto. “A mio parere potrebbero esporlo al museo permanente di Arte contemporanea”, affermò ironicamente un agente della buoncostume. “E perché non al Louvre?”, aggiunse con una soffocata risata un collega della narcotici. “Perché non andate a prendervela tutti nel...”, ribatté lui non riuscendo a terminare la frase, a causa dell’entrata a effetto di Vernon che, sostenendo due fascicoli in mano, gli notificava l’arrivo di notizie fresche. “Fuori dalle scatole… Circolare! La pausa-caffè è terminata!”, disse ad alta voce il tenente sgombrando il suo ufficio. “Ti faccio presente che oggi non si accettano cattive notizie, sono già stato pelato dal capitano, per cui...”.

Vernon sollevò il braccio con l’aria di chi ha qualcosa di grosso: “Ci sono novità, grosse novità!”. “Non risparmiarti e dacci dentro”, lo incitò Stanich. “Allora, mentre il capitano ti salassava, sono andato a recuperare i fascicoli di Alenickov e del Turco pervenuti stamani dagli altri distretti”. Fece una pausa sorseggiando il caffè che aveva lasciato sulla scrivania il suo collega. “Devo ammettere che è un vero schifo”. “Ti sta bene, va’ avanti”. “Nel furgone e nell’auto sono saltate fuori una marea di impronte. Le ho messe a confronto, nella remota ipotesi che vi fossero delle congruità”. “Non dilungarti, sergente!”, lo pungolò Jeremy. “Sono saltate fuori una serie di impronte sul volante e sulle portiere, sia del furgone che della Viper, appartenenti alla stessa persona”. “Sì! Sì!”, si eccitò il tenente, “continua così!”. “Mi sono precipitato alla scientifica per un ulteriore confronto: combaciano perfettamente… Quindi, ultima visita nel nostro database, e indovina un po’ a chi appartengono?”. “Niente quiz e niente scommesse, non è giornata, ma ti pago una cena se mi dai il nome giusto”. “Zacary Belimbau!”. “Diavolo, quel malato terminale ha freddato…”, e si fermò per guardare il tabellone. “Ma certo, è lui l’anello di congiunzione fra Ray e Offenbach”. “Ci ho pensato anch’io, deve essere al soldo di qualcuno in quel mucchio”, aggiunse Vernon. Stanich afferrò la giacca: “Glielo chiederemo di persona: chiama una pattuglia e fai presidiare l’abitazione e digli di non muoversi finché non arriviamo; io avverto il capitano e mi faccio dare un mandato… Andiamo a prenderlo!”.

Lasciarono il distretto con una certa eccitazione e con la concreta probabilità di far luce su quel caso così ostico. Il lampeggiante magnetico posto sulla capotte, associato alla penetrante sirena, eccheggiava anche all’interno dell’auto. “È meglio che ora la togli”, suggerì Stanich mentre infilava il proiettile nella rivoltella a tamburo. “Non capisco perché ti ostini a usare quel ferro”, lo criticò Vernon staccando la sirena. “Se potessi non ei neanche questo…!”. “Da quanto non la usi, Jeremy?”. “Non lo ricordo, ma non credo mi sia mai servita… Fortunatamente”. “Allora stammi alle spalle!”, disse Vernon in tono serio. “Perché il tuo salario è più alto del mio?”. “Non scherzare, tenente, io ho dimestichezza con quegli arnesi e un’abilitazione da tiratore scelto”. Stanich si voltò a guardarlo mentre riponeva la colt nella fondina. “C’è qualcosa che devo sapere, sergente?”. “Prima di are all’investigativa, ho lavorato per due anni ai servizi...”. “Ma guarda un po’, avevo al fianco un agente della SWAT e lo ignoravo… Quanti?”. Vernon appariva restio su quell’argomento, ma poi cedette: “Quattro… Tutti al primo colpo”. “È stata dura?”, chiese con voce bassa Stanich. “Il primo, poi ci si abitua”. “Facciamo in modo che rimangano tali, Belimbau ci serve vivo”. In fondo alla via una pattuglia stazionava di fronte alla palazzina e Vernon vi si

incollò dietro. Stanich scese dall’auto in sincronia con i quattro agenti della volante, che gli andarono incontro per un rendez-vous con il più alto in grado. Vernon, estratta la Beretta e appeso il distintivo al taschino della giacca, si unì al gruppo. Il tenente, piazzate le mani sui fianchi, imbastì un piano d’azione: “Statemi a sentire: soggetto maschile 1.75, 60 anni circa mal portati, armato e pericoloso… Compatibilmente con la vostra sicurezza ci sarebbe utile prenderlo vivo… Io e il sergente guideremo l’azione, due di voi alla scala antincendio e gli altri con me!”. Non fu necessario aggiungere altro, che Vernon fece scorrere il carrello della pistola semiautomatica infilando il colpo in canna e con circospezione salì le scale seguito dal tenente e gli altri. Jeremy indicò la porta con un gesto della mano e, presa coscienza della situazione, decise che Belimbau non avrebbe avuto il vantaggio di essere avvertito dal camlo. Una spallata fu sufficiente per scardinare il vecchio portone tanto che il sergente fu il primo a entrare all’interno. Nelle rispettive carriere strani eventi avevano costellato le loro giornate, ma una scena così inusuale e macabra fece breccia anche su quelle menti incallite. “Ma che accidenti...!”, fu l’unica frase che Stanich riuscì a pronunciare. Vernon continuò a setacciare l’appartamento con l’arma spianata assieme agli altri agenti, lasciando il tenente a osservare la scena del delitto. Lo raggiunsero dopo aver constatato che l’appartamento era vuoto. Stanich tastò il collo dell’uomo confermandone il decesso e serrandogli le palpebre ancora aperte in un ultimo disperato sguardo verso quell’ampolla ormai vuota posta sopra di lui. Uno degli agenti mormorò davanti a quella scena: “Per tutti i santi, ma che diavolo è successo?”. Il tenente gli rispose con un ordine: “Avverti la scientifica e avvisa gli altri che l’uccello è volato via”. Gli agenti si allontanarono lasciandoli soli.

“È rigido come un pezzo di legno… Dodici ore al massimo”. “Cosa gli avrà iniettato per ridurlo in quello stato?”, chiese il sergente. “Dalle echimosi attorno agli occhi e dalle labbra cianotiche sembra morto soffocato… Una soluzione paralizzante… Una neurotossina o qualcosa di simile: deve aver sofferto parecchio”. Vernon ripose la Beretta nella fondina e, infilati un paio di guanti, scostò la giacca della vittima, prese il portafoglio e lesse i documenti: “Bernard Miller… Professione coiffeur”. “Io questo l’ho già visto, e ci scommetto il distintivo che non ha mai fatto uno shampoo”, aggiunse il tenente riponendo anche lui la sua arma. “Scena da film horror… Ma tu pensi che questo sia un altro pregiudicato della tua lista?”, rilanciò Vernon riponendo i documenti nella tasca. “Se dovessi azzardare un’ipotesi, questo è un altro ammazzasette come gli altri”. “Un’altra vittima di quell’ebreo, a quanto pare”, commentò il sergente. “Questo è un mistero che riempirà le mie future notti insonni: non riesco a trovare un maledetto movente per questi omicidi!”. “Perché poi questa messa in scena con la videocamera, il veleno e tutto il resto?”. “Non credo che sia farina del suo sacco”, rispose Jeremy indicando la borsa ancora aperta accanto al treppiedi. “Per intuito penso che questa se la sia portata appresso Miller”. “Vittima della sua stessa idea?”. “Sottovalutano Belimbau, ed è questa la fine che fanno”, sentenziò Stanich. “Perché non una pallottola in corpo come agli altri?”. “Tu che faresti se uno tentasse di avvelenarti con una flebo con chissà quale intruglio per farti morire sopra le tue stesse feci, come il qui presente?”.

“Lo ripagherei con la stessa moneta”, rispose laconicamente il sergente. “Appunto!”. “Faccio sorvegliare il palazzo?”. “Denaro dei contribuenti al vento”, sospirò il detective. “Zacary Belimbau è ormai uccel di bosco”. “Cosa te lo fa credere?”. “Non ha toccato niente da quando questo baccalà è morto, neppure la videocamera… Qui non ci metterà più piede”, sentenziò con un certo rammarico. L’ululato della sirena li avvertì dell’arrivo dei rinforzi: quel luogo avrebbe presto pullulato di agenti in guanti di lattice. Stanich guardò il sergente un’ultima volta prima di allontanarsi: “Fai spiccare un mandato di cattura, bisogna trovarlo e in fretta, o questo ci riempirà l’obitorio”.

La mattinata era fitta di appuntamenti, infatti quel sabato si era alzato prestissimo, malgrado non si sentisse affatto bene. L’aver saltato la metodica terapia con Rosemary presentava un conto che si configurava potenzialmente molto salato. Non poteva assolutamente mancare all’appuntamento delle dieci, altrimenti vi sarebbe stata la seria possibilità di pernottare al Central Park; ma erano solo le sei, per cui aveva un notevole vantaggio da amministrare. Scavalcò agevolmente la portineria con destrezza e salì fino all’ultimo piano, in quel silenzio che solo un attico possiede. Un lieve tocco al camlo e un’attesa scontata per quell’ora del mattino. Mise la canna della pistola nel foro della piccola lente di osservazione interna, percependo dalla parte opposta una netta esclamazione.

“Misericordia...”. “Apri!”, gli intimò Zacary, “o ti servirà una benda da pirata!”. Lo scatto della serratura arrivò scontato, un po’ meno l’abbigliamento di Offenbach, che lasciò letteralmente disgustato il sicario: uno scendiletto in seta rosa e un paio di calze autoreggenti facevano da contraltare alle labbra cosparse di un rosso porpora. “… A dire il vero aspettavo un’altra persona...”, esordì il contabile. “Lo credo bene… Ma come ti sei conciato…”, commentò Belimbau mettendo fra lui e l’uomo una certa distanza. “Sei vomitevole!”. Il contabile si avvolse la vestaglia con stizza: “Se sapevo che era lei, non mi agghindavo così”. “Se avessi saputo del tuo abbigliamento ti avrei telefonato… Non so proprio come farò a riprendermi”. “Va beh,va beh… La manda Ray, giusto?”, tagliò corto Gregory cambiando discorso. “No, sono stato a Casa Blanca e ora cerco un fidanzato… Certo che mi manda lui: i soldi?”. Offenbach gli fece cenno di seguirlo e, arrivato nel salotto, sollevò il coperchio di una cassapanca, estraendone una ventiquattrore in pelle di coccodrill: “Sono 300.000, per gli altri 100 Ray dovrà avere pazienza”. “Questo non piacerà al capo”, rispose aprendo la valigetta contenente il denaro. I dollari erano ordinatamente disposti in fila come soldati sull’attenti e ogni mazzo stretto con una fascetta rosa “Potevi almeno scegliere un colore meno sgargiante”. “Prendi la valigetta e sparisci, io le fascette le compro come mi pare”, rispose con ripicca il contabile. Zacary richiuse la valigetta e si avviò verso la porta, ma prima di uscire gli puntò la pistola contro.

“Non fare scherzi o torno e ti arieggio la vestaglia con qualche foro in più”. Offenbach sollevò le mani in segno di resa: “Mi accontento se lasci questo appartamento e riferisci a Malansky che ora siamo pari”. “Pagherei per vedere la sua faccia quando lo verrà a sapere”, disse Belimbau prima di sparire come inghiottito dal nulla. Quell’ultima frase lasciò Offenbach perplesso, tanto che chiuse la porta con la sensazione di aver trascurato un particolare importante. Zacary raggiunse il furgone che aveva trafugato la notte precedente, posando la valigetta col denaro nel sedile al suo fianco. Guardò l’interno della vettura chiedendosi ancora una volta se avesse tralasciato qualcosa di importante in quella che era stata la sua casa. Tutto ciò che gli serviva era lì dietro in quella stiva: indumenti, medicinali, documenti, denaro e naturalmente armi. Era l’unica soluzione per non mettere più in pericolo Rosemary e suo figlio. Da un po’ di tempo compensava il fatto di avere una quantità elevata di metastasi con un’arguzia e un senso della realtà che mai aveva pensato di possedere. Se poste sulla bilancia, avrebbe avuto una seria difficolta a scegliere tra le due possibilità di una vita più lunga e banalmente apatica e quella attuale di un’esistenza corta ma incredibilmente eccitante. L’ago pendeva obiettivamente su quest’ultima, ma proprio ora che assaporava la sua nuova identità terrena con entusiastico trasporto, stava malinconicamente per giungere il momento in cui avrebbe dovuto forzatamente abbandonarla senza possibilità di replica. Forse, pensò, era una sorta di punizione divina per la scelta sconsiderata e immorale di associare il suo sostentamento alla violazione della vita altrui; un modo per fargli assaggiare ciò che avrebbe potuto avere, se avesse intrapreso una strada diversa. Belimbau non aveva mai pianto sul latte versato, ma i meccanismi del suo animo erano cambiati e ultimamente riflettere era diventata una consuetudine a volte piacevole, a volte dolorosa e tormentata. Scacciò con riluttanza quelle considerazioni ripromettendosi di riconsiderarle al

più presto. Riportò lo sguardo sulla strada, mettendo in moto e avviandosi in un quartiere in cui mai avrebbe sognato di approdare in quel breve ma intenso aggio della sua vita. Aveva letto l’annuncio sul giornale e il nome altisonante di TriBeCa a Manhattan gli aveva risvegliato voglie in ato mai neppure sognate. Arrivò in Church Street fermandosi davanti al numero 302, una zona della Grande Mela riservata solo a chi poteva acquistare senza la necessità di chiedere preventivamente il prezzo. Il denaro ora l’aveva e questo per Zacary era sufficiente per non avanzare più remore di sorta. L’appuntamento con l’agente immobiliare era stato fissato per le 10 in punto davanti alla porta dell’appartamento. L’addetto alla portineria gli venne incontro, agghindato come l’assistente del governatore e con la classe di chi è abituato a ricevere mance di un certo livello. Malgrado Belimbau avesse cambiato il suo guardaroba, si rese conto che quell’uomo stava scrutando con sufficienza il suo abbigliamento, evidentemente poco consono allo stile del luogo. “Scusi, lei, chi sta cercando?”. Zacary rimase infastidito dal modo in cui si era avventato su di lui, ma decise di soprassedere in funzione del futuro rapporto che avrebbe dovuto instaurare come nuovo inquilino. “Avrei un appuntamento col signor Henry Hoghan”. L’uomo lo squadrò da capo a piedi prima di rispondere: “È certo che sia proprio qui che lo deve incontrare?”. Il desiderio di puntargli la Glock e fargli implorare pietà lo colse per un attimo, ma decise di umiliarlo in un altro modo: così, estratta dalla tasca una mazzetta di banconote, gli infilò nella mano un pezzo da cento dollari. “Mi accompagni, così facciamo prima”. Si rese conto di aver comprato la sua attenzione, ma per il rispetto ci sarebbero volute altre credenziali.

“Venga con me, l’appartamento deve essere quello al secondo piano… Lei è interessato a un eventuale trasloco?”. Zacary trovò quella domanda inopportuna e subdola, come se volesse carpire le sue intenzioni ancor prima di qualsiasi colloquio. “Intendo incontrare il signor Hogan in privato”. La risposta pose un macigno sul prosieguo del discorso e il resto del tragitto avvenne in un silenzio tombale fatto di sfuggenti sguardi e ampi sospiri. L’ascensore li portò al piano di destinazione, dove il suo accompagnatore gli indicò una porta al termine di un breve ma lucido corridoio in pregiato marmo. Zacary non si degnò di rispondere al saluto e arrivò alla porta premendo il camlo. Il suono delicato e per niente fastidioso del cicalino gli piacque, anticipando ciò che avrebbe visto all’interno. L’agente immobiliare non lo fece attendere e aprì il portone in mogano massiccio con disinvoltura. Il sorriso e la calda accoglienza lo misero subito a suo agio. Era conscio di osservare un’esibizione di alta teatralità, ma finché il denaro era nella sua valigetta era certo che la rappresentazione sarebbe durata finché avesse voluto. La giovane età e un fisico snello e asciutto lo rendevano attraente persino a un disinteressato uomo dai giorni contati. Era certo che sarebbe stato di sicuro effetto persino per uno come Offenbach, pensò, trascurando subito dopo questo aspetto e concentrandosi sul dialogo appena intrapreso. “Il signor Belimbau, immagino”, esordì distendendo il braccio e porgendo una mano curata e dai caratteri quasi femminili. “In persona”, rispose dando un’occhiata al raffinato salotto che fungeva anche da ingresso. Hoghan sciorinò un’oculata miscela di comodità di cui era dotato l’appartamento, non trascurando i nomi di una sequela di personalità dello spettacolo che ne erano entrate in precedenza in possesso. Zacary rimase impressionato dalla quantità di accessori e finezze elettroniche di cui era dotato: connessioni wi-fi, schermi ultrapiatti in tutte le stanze, illuminazione regolabili, vetrature oscurabili e filtrabili. Rimase affascinato da

una delle tre camere da letto, con il materasso di forma ovale e lo scendiletto a illuminazione tattile. Ma il clue della rappresentazione raggiunse l’apoteosi con il bagno, rifinito in marmo di Carrara, con Jacuzzi, minibar e attrezzature ginniche a scomparsa. Tutti i 150 metri quadri dell’appartamento erano arredati con gusto e raffinatezza e con arredi di pregio, ma senza cadere nella volgarità. “… E questa è la cucina, con piano in marmo nero indiano, piano cottura a induzione magnetica di ultima generazione e cappa aspirante con solo 2 decibel di emissione acustica...”. “Ok, basta così”, lo fermò il sicario che, con tutte quelle informazioni, iniziava ad avere qualche difficoltà di assimilazione, “lo prendo”. Henry saltò il discorso sulla presentazione dell’immobile per calarsi immediatamente in quello più interessante della trattativa economica. Anche su questa parte era pronto a propinare una filippica comprendente un elenco di personalità pronte a spendere una cifra importante per prenderne possesso, ma Zacary gli intimò di arrivare al dunque. “Non ho molto tempo, limitiamoci a quanto...”. “Beh, in considerazione di quanto esposto, non meno di 7.000 dollari al mese...”, pronunciò attendendo una lenta riflessione e un pronto rilancio. “D’accordo!”, tagliò corto Belimbau porgendogli la mano. Hogan gliela strinse aggiungendo: “Naturalmente più le spese di registrazione, condominiali e due mesi anticipati come cauzione”. “Naturalmente”, rispose Belimbau allungando la mano per ricevere le chiavi. “Non vorrà concludere adesso?!”. “Sono una persona pragmatica...”, rispose aprendo la valigetta e posando sul tavolo 15.000 dollari. “D’accordo, ma non ho qui i documenti e...”.

Belimbau pose sul tavolo altri 1.000 dollari: “Questi possono essere di stimolo per accelerare l’iter burocratico?”. “Beh, devo dire che lei è uno che gli affari li sa trattare”, cedette Hogan posando sul tavolo le chiavi e infilando il denaro nella tasca interna della giacca. “È facile quando per arma si usa della carta verde con filigrana”, aggiunse il sicario. “Le auguro una gradevole permanenza, signor Belimbau; mi farò sentire fra qualche giorno per il contratto e una copia del regolamento… In questo stabile sono piuttosto ferree”. “Può stare tranquillo, sono una persona che ama la tranquillità e la distensione con il prossimo”. Henry Hoghan fece riapparire il suo accattivante sorriso, prima di sparire a lunghe falcate dalla porta.

Quella tazza di caffè bollente era meno scottante di ciò che aveva visto la sera precedente. Lo sorseggiava a piccole dosi davanti alla finestra dell’angusta cucina, senza trovarvi nessun sollievo apparente. Sostituì il caffè con una sigaretta accendendola con frenetico desiderio. La prima boccata la fece lunga e sostenuta, lasciando che il fumo fuoriuscisse senza spinta. L’aver visto quella scena aveva spento il leggero entusiasmo per quel lavoro, che reputava vitale per la sua situazione economica. Era pronta a tutto, ma non a quel tentativo di suicidio, convinta che la sua presenza avesse lenito l’angoscia di quell’uomo; l’aver cercato in quella maniera così scenica e plateale di togliersi la vita fece sorgere in lei il dubbio sulla salute mentale di Belimbau. Eppure aveva la sensazione che non fosse depresso, né in preda a un raptus di follia, ma al contario razionale e persino felice di essere stato salvato dal suo tempestivo intervento. Terminò la sigaretta senza aver dissolto nessun dubbio e accusando una forte incertezza sul da farsi.

Quel lavoro era semplice e ben retribuito, ma non intendeva portarlo avanti senza aver preventivamente chiarito la situazione con quell’uomo. Portò lo sguardo sul cofanetto che gentilmente le aveva regalato, ora posto sopra il suo tavolino. Lo prese in mano scoprendo per l’ennesima volta il gioiello per ammirarlo. Lo rimise al collo commentandolo davanti allo specchio: “Per essere composto da cocci di vetro… È stupendo! Ma quand’è che lo potrei mettere?!”. Lo sguardo cadde su quei pantaloni e camicia così dozzinali che cozzavano apertamente col monile indossato. Rimise il girocollo nel cofanetto chiudendo il coperchio con stizza e riagguantando la tazza di caffè ormai intiepidita. Il bussare insistente alla porta fece riaffiorare nella sua mente la sagoma del padrone di casa e il debito non pagato. Prese la borsa col portamonete, in modo da pagarlo sulla porta e liquidarlo nel più breve tempo possibile. Raggiunse l’uscio con ribrezzo, preparandosi a incontrare quel viscido uomo con freddo distacco. “Buongiorno, Rosemary, noi dobbiamo chiarire...”. Le scappò un accenno di sorriso, subito soffocato dal ricordo degli ultimi eventi. “Venga dentro…”. Non riuscì a mostrargli rancore, ma si limitò a togliergli quel tono confidenziale che in quelle settimane si era conquistato a fatica. Lo fece accomodare in cucina e lasciò che fosse lui a parlare per primo. “… Sono cosciente di aver sbagliato, e ti chiedo scusa per il mio stupido comportamento”, disse Belimbau abbassando lo sguardo con aria contrita. Non aveva mai visto un uomo chiedere scusa, né tantomeno a lei; Malcom a suo tempo l’aveva riempita di botte, quando si era azzardata a non essere comprensiva. “Apprezzo molto il suo gesto, ma lei deve capire che ciò che ha fatto è insensato”.

“È stato un attimo di follia che non si ripeterà… Ho bisogno del tuo aiuto e delle tue cure: sono disposto a raddoppiarti la paga per il disagio che ti ho procurato”. “Non è una questione di denaro… In queste settimane la mia vita è stata oggetto di forti cambiamenti e non credo che il mio sistema nervoso possa sopportarne altri… L’avevo avvertita che io lavoro solo a certe condizioni”. “Non posso che darti ragione, ma anche io ho subito forti pressioni e la mia esistenza si è incuneata in grandi cambiamenti che possono in parte giustificare ciò che hai visto… Ti chiedo soltanto di are sopra a questi ultimi dieci minuti...”. La decisione era già stata presa, ma intendeva fargliela pesare un altro po’. “Perché insiste nel volere il mio aiuto? Col denaro che possiede potrebbe avere chiunque”. “Se volessi un’altra persona non sarei qui, né ti avrei chiesto scusa… Per me tu e Lanny siete una famiglia, la mia famiglia”. Rosemary si rese conto che tornare a lavorare per lui era ciò che voleva di più e quel gesto d’affetto lo reputò decisivo. “Devo dire che lei sa essere convincente… Sai essere convincente.. Posso offrirti una tazza di pessimo caffè?”. Zacary sorrise: “È un prezzo che pago volentieri”. Poi aggiunse: “Dimenticavo, c’è una grossa novità!”. Lei si voltò porgendogli il caffè: “Di che si tratta?”. “Ho cambiato… Mi sono trasferito”. Rimase perplessa per quella frase e, dopo aver riempito anche il suo bicchiere, riprese il suo posto di fronte all’uomo. “Trasferito?! Intende un altro alloggio?”. “Sì, esatto”, affermò lui sorseggiando la bevanda. “Per quale motivo? Non era male il suo appartamento”.

“Beh, si vive una volta sola e anche per poco… Molto poco, per quanto mi riguarda”. “Questo non puoi dirlo, solo Dio lo sa con certezza”. Non volle contraddirla, ma confrontare la fede di lei con il suo incrollabile e consumato ateismo… “Dio!? Credi esista veramente?”. “Se mi avessi fatto questa domanda qualche tempo fa non avrei avuto dubbi… Ma ora non so, ho l’impressione che qualcuno o qualcosa... Oh, non importa…”. Belimbau ascoltava incuriosito e le diede corda: “Sì che importa… A me importa”. Lei si lasciò andare alla confessione: “È successo qualche settimana fa, quando casualmente sono capitata davanti a una chiesa, poco distante da qui”. “So a quale ti riferisci… Piccola, a qualche isolato da qui, con il portone scartato dal vento e dalle intemperie?”, precisò il sicario. “Sì, esatto!”, rispose lei, sorpresa dal fatto che lui l’avesse notata. “Tu la…”. “No, io non vi sono mai entrato”. Lei continuò senza perdersi d’animo, quasi volesse sviscerare ciò che provava dentro di sé: “Io l’ho fatto per caso ma, una volta all’interno, sono stata attratta da una statua raffigurante la Vergine santissima”. “Continua, non fermarti”. “Attraversavo un momento difficile e ho sentito il bisogno di confidarmi”, disse lei abbassando lo sguardo. “E… Ho avuto la sensazione che mi stesse ascoltando”. “Cosa te lo fa pensare?”, approfondì lui con interesse. “Le cose da quel giorno sono cambiate… In meglio”. Zacary mosse un’obiezione senza forzare la mano: “Un caso o una coincidenza?”.

“L’ho pensato anche io… La prima volta”. “Vuoi dire che si è ripetuto?”, chiese sorpreso. Lei, con un po’ di imbarazzo, ammise con un cenno della testa: “Sì, più volte”. “Hai qualcuno che ti vuol bene, lassù”. “O qualcuno quaggiù!”, rispose lei guardando in volto Zacary.

“Si può sapere cosa diavolo vuole da me questo lurido ratto?”, sbraitò con rabbia colpendo con un pugno la morbida pelle del sedile accanto a lui. Al sapeva che in quei momenti era meglio tacere e far finta di seguire le indicazioni dei cartelli stradali, lasciando sbollire la sua incontenibile ira a debita distanza. “… E quale torto posso aver commesso perché questa brutta copia di Perry Mason ingaggi addirittura un killer per spedirmi un paio di metri sotto terra?”. Nero, che stava stravaccato sul lungo divano laterale della mastodontica limousine, azzardò un’ipotesi: “Io penso che…”. Ray non lo fece neppure iniziare: “Ah, sì? E da quando tu e il gigante di latta che fa finta di guidarevavete preso l’abitudine di pensare? Dove eravate mentre un russo, ucraino o moldavo che sia, mi crivellava di colpi riducendo la mia Bentley al pari di una scultura surrealista?”. Poi aggiunse, portando lo sguardo al soffitto dell’auto: “E se al peggio non c’è limite, sono pure stato salvato e poi derubato da quel… Quel lazzarone in piena metamorfosi di un ebreo!”. Malansky prese un attimo di pausa per poi riprendere con toni meno accesi: “Devo trovare un’alternativa per rifarmi la giornata… O c’è il serio rischio che mi salti qualche ventricolo…”. Nero tentò un suggerimento: “Potremmo andare da Offenbach e farci restituire il denaro”.

“Tu hai la pessima abitudine di fare un po’ di confusione… Questo non è un convento e io non sono il padre superiore: il denaro è soltanto e unicamente mio, rammentalo”. Per qualche istante cadde il silenzio, poi il gangster riprese: “A pensarci bene, però, non hai avuto una cattiva idea e quel fottuto mezzemaniche dovrebbe aver già messo da parte la somma… Al, portaci da lui!”. Raggiunsero la Bloomberg Tower, lasciando la voluminosa auto nel parcheggio privato di qualcuno che sicuramente contava. Uno dei cinque addetti alla portineria gli corse incontro, argomentando il suo gesto. “Non potete lasciarla lì, quel posto auto è riservato alla direzione della Favel Electronics”. Ray sollevò una mano impedendo che Al lo sollevasse di peso e lo accartocciasse dentro il baule dell’auto. “E seconto te io chi sarei?”. L’uomo si aggiustò la visiera del cappello e, spiazzato da quella risposta, ripeté: “Chi sarebbe lei?”. “Il nuovo amministratore delegato che, per la tua arrogante solerzia, sta per entrare in ritardo al consiglio di ben cinque minuti!”. L’uomo si tolse il cappello facendosi da parte: “Deve perdonarmi, ma non sono stato avvertito...”. “Lascia perdere”, commentò Ray ando oltre, “e che non si ripeta”. Dopo che Ray era avanzato di qualche o, anche Al volle aggiungerci del suo: “Hai spalancato le orecchie? Quello è l’amministratore del gatto e farai bene a portargli rispetto, o la prossima volta ti gonfierò come un dirigibile”. L’uomo indietreggiò terrorizzato, ma con il forte dubbio che quelle persone fossero degli impostori. Al, dopo aver raggiunto Nero e il suo datore di lavoro, prese l’ascensore che portava al quarantunesimo piano.

“Mi sono perso qualcosa?”, domandò Malansky rivolto al suo guardaspalle. “Niente, capo, ho solo messo in chiaro cosa fai nel… Coso della società”. Ray rimase assorto: “Sono certo che sei stato esaustivo, ma la prossima volta limitati a seguirmi in silenzio”. Raggiunsero il piano e Nero lesse per un attimo la targa sulla porta a vetri che immetteva nell’ufficio di Offenbach. La spalancò lasciando che il suo capo entrasse per primo, ma con altrettanta lestezza lo seguì lasciando che la porta si chiudesse davanti ad Al. Nell’ufficio si respirava un’aria di competenza e professionalità, con gli operatori che erano chini sui loro monitor e che sommessamente parlavano fra di loro. “Se solo sapessero da dove proviene quel denaro”, commentò Ray attraversando gli uffici, “non avrebbero quell’aria casta e integerrima da servitori dello Stato”. “Il rosso sarebbe un colore più appropriato”, aggiunse Nero riferendosi alla moquette color beige calpestata in quel momento. “Sicuramente darebbe l’idea del sangue che trasuda da quei proventi”, commentò Ray. La segretaria scattò in piedi e lasciò il suo posto dietro la scrivania per andare loro incontro. “Signor Malansky, non la attendevamo; se avessimo saputo...”. “Se aveste saputo”, disse il gangster con aria sorniona, “Gregory si sarebbe misteriosamente dileguato per un’urgentissima consulenza fiscale che lo avrebbe trattenuto fino a tarda notte! Invece, eccoci qua”. “Se ha la compiacenza di attendere qualche istante, la vado ad annunciare al signor Offenbach”, provò a insistere Lorinne con un ammiccante sorriso. “Faccio da solo, queste formalità fanno perdere solo del tempo e io ne ho perso già abbastanza”, rispose Ray ando oltre.

“Aspetti! Non può, è impegnato con un altro cliente”. “Certo che può”, aggiunse Nero rivolgendo il suo sguardo alla generosa scollatura della ragazza. Lorinne si gettò sull’interfono rinunciando a ulteriori tentativi di desistenza: “… Signor Offenbach, Malansky e i suoi uomini la stanno...”. Sia Gregory che il suo cliente si voltarono verso la porta riponendo la cornetta del telefono senza staccare lo sguardo dagli sgraditi ospiti. “Malansky, che ci fai qui… Abbia pazienza, signor Tallen...”, abbozzò Gregory per scusarsi di quell’irruzione. “Sì, accetta il consiglio, Tallen”, intervenne Ray depositando con attenzione sul divano il soprabito. Armati di pazienza e aspetta fuori, io e il qui presente consulente dobbiamo far quadrare alcuni conti”. Lo sguardo che si scambiarono Offenbach e il cliente fu più chiaro di qualsiasi discorso e il signor Tallen lasciò lo studio senza obiettare, scivolando a qualche metro da Al per non dover incrociare il suo sguardo. La porta venne chiusa da Nero, che vi poggiò le spalle sopra, mentre Gregory ricadde nella sua poltrona afferrando il pacchetto di sigarette e infilandosene una in bocca. “Cosa sei venuto a fare, pensavo di essermi definitivamente liberato di te!”. Ray si voltò con un’espressione perplessa: “Devo ammettere che hai del fegato e anche una bella faccia tosta”. “Non farti illusioni: puoi rivoltarmi da capo a piedi, ma io ti ho dato tutto ciò che avevo e non avrai altro”. Lo disse con tale enfasi e sicurezza che il gangster pensò che stesse parlando di tutt’altro. “Non credo che tu abbia considerato seriamente la mia presenza e le conseguenze che questa comporta”. “Ma di che parli!?”, rispose alterando la voce e aspirando con avidità. “La faccenda è chiusa: se sono solo i documenti quel che vuoi, non è necessaria

questa sceneggiata”. Malansky si rivolse ai suoi uomini: “Sapete dirmi di che accidenti sta parlando?”. Nero sollevò le braccia e Al non seppe fare di meglio. “Stammi a sentire”, proruppe il gangster alzandosi in piedi, “è stata una giornata di merda e il mio umore è talmente nero che anche Charlize Theron in guepiere avrebbe scarse probabilità di schiarirlo… Per cui, prima che trasformi questo ordinato e lindo ufficio nel più squallido e orripilante mattatoio, ti consiglio di addobbare il piano di quella lussuosa scrivania con dei biglietti verdi chiamati volgarmente dollari!”. Offenbach spense nervosamente la sigaretta nel portacenere di cristallo, alzandosi anch’egli in piedi. “Se non riconosci il valore di ciò che mi hai estorto, non è colpa mia... Soltanto il Pollock ha un valore inestimabile, per non parlare della parure di Bulgari; e ora uscite, questa buffonata è durata anche troppo”. Il gangster divenne paonazzo e, rivolgendosi a Nero, esclamò: “Mostra a questo pagliaccio come termina la rappresentazione!”. Nero non si fece pregare e si avvicinò a Gregory, lo prese per i capelli e lo sdraiò sulla scrivania infilandogli una pistola in bocca. “Dove cazzo hai messo i soldi!”. Offenbach, con la canna della colt infilata in gola, farfugliava frasi incomprensibili: “Mhhh… llhh… Thh...”. “Non farmi predere la pazienza o ti buco la nuca”, insistette Nero spingendo con forza l’arma dentro la bocca. “N… Ll… Haaa...”. “Non ti capisco, puoi essere più chiaro?”, chiese Nero, incurante delle condizioni dell’uomo.

Ray si avvicinò al suo uomo con un suggerimento: “Se togliessi quella canna dalla sua gola forse capiremmo qualcosa”. “Tu dici, capo?”. Il gangster allargò le braccia non degnandolo di una risposta e Nero sfilò l’arma lasciando che il contabile potesse esprimersi. “... Accidenti a voi, ho consegnato tutto al tuo uomo tre giorni fa… Che altro vuoi da me!?”. Malansky corrugò la fronte incitando Nero a proseguire: “Devi avere una pessima opinione di me per continuare a prendermi per il culo”. Il suo uomo gli rinfilò la colt nella bocca rovistandovi dentro: “Allora, lo hai sentito il capo? O cacci i verdoni o spargo il tuo cervello sulla scrivania!”. Gregory riprese a mugugnare con gli occhi roteanti di un camaleonte: “Noohh… Ahhh...”. “Non abbiamo capito, sii più chiaro!”, gli urlò Nero in faccia sparandogli la sua saliva sul viso. Il malcapitato rivolse il suo sguardo supplichevole a Malansky, che intervenne: “Avanti, liberagli l’orifizio”. L’uomo sputò un paio di volte sulla moquette, prendendo fiato: “... Ti ripeto che gli ho dato più di 400.000 dollari in contanti! Io non ho altro...”. Nero stava per riprendere il lavoro, quando Ray lo fermò: “Aspetta… I miei uomini ce li hai qui davanti: a chi li avresti dati?”. Offenbach riprese la posizione eretta asciugandosi la bocca e inspirando con forza: “L’ho visto qualche volta da te, ma non ricordo come si chiama…”. “Questo ci sta prendendo per il culo, capo”, intervenne Al facendosi avanti. “Lascialo a me, vedrai come lo faccio cantare”. Malansky sollevò la mano: “No!”, disse per poi rivolgersi a Gregory col viso perturbato. “Descrivimelo…”.

“… Smilzo, brizzolato, intorno ai 60 mal portati...”, rispose sforzandosi di ricordare. Ray pronunciò, mostrando un’espressione di rivoltante scoperta: “Zacary… Zacary Belimbau!”. “Sì, esatto, ora che mi ricordo lo chiamavi così quell’ebreo”, aggiunse Gregory. Malansky si voltò indietro sferrando un pugno su una delle due poltrone davanti alla scrivania: “Che il cielo lo strafulmini! Ecco perché non mi ha impallinato quella mattina… Non gli è bastato alleggerirmi la cassaforte…”. Nero ripose la pistola nella fondina: “L’ebreo te l’ha fat… Si è rifatto vivo?”. “E chi altri, se non quella piaga degna della più pestilenziale e faraonica maledizione!”. La sua attenzione si focalizzò nuovamente sul contabile: “Come ti è saltato in mente di consegnargli i miei soldi?”. “Si è presentato con una lucida pistola sulla mano destra e il tuo nome sulla bocca, chi altri poteva sapere?”, rispose Offenbach rinfilando la camicia dentro i pantaloni. “Io non lo sapevo, per esempio”, disse Nero conciso. “È vero, e neppue io lo sapevo!”, si aggiunse Al per non essere da meno “Silenzio! Voi due è già troppo se conoscete il vostro nome… In quanto a te, le cose non sono cambiate, rivoglio il mio denaro e lo voglio su questo tavolo, uno sull’altro”. “Mi ha prosciugato… Non ho più un dollaro”, rispose Gregory massaggiandosi la nuca. Ray gli puntò il dito contraendo le mascelle contenendosi per non urlare: “Me ne impippo! Vendi la casa, l’ufficio, l’auto, la segretaria e pure le tue mutande di pizzo, se è necessario! O ti faccio scuoiare vivo e con la tua pelle mi faccio rivestire il sedile dell’auto”.

Rivedeva se stessa negli sguardi dei presenti. Due ore ate all’interno di quella sala d’attesa avvilivano e frustravano anche il più temerario ottimista degli statunitensi: ed era ciò che di riflesso leggeva sui volti di altri poveri cristi senza occupazione come lei. Diede uno sguardo a quel numero a tre cifre che prolungava l’attesa di un’altra mezzora e un altro paio di sigarette. Si accese la prima scandagliando a fondo la sua incerta e precaria situazione. Zacary era generoso e gli offriva più di quanto si meritasse per il suo lavoro, ma il tempo era tiranno e la vita di quell’uomo era segnata come il residuo della sua sigaretta, ormai in prossimità del filtro. Il dopo era un’incognita probabilmente non risolvibile con quel biglietto numero 302 e la speranza era un fiore troppo tenero perché il suo gambo potesse reggere il peso che lei intendeva affidarle. Inevitabilmente la fede fece capolino, ripresentandosi sotto forma di analgesico per quell’ansia, ormai fedele compagna di un’esistenza caratterizzata dall’incertezza. Decise che la domenica successiva si sarebbe recata con Lanny ad ascoltare un messa per intero, in quella chiesa esteriormente così povera e misera da sentirla assai simile a lei. Il cicalino la fece ripiombare nella dimensione terrena e la fece scattare in avanti al fine di presentarsi davanti all’ufficio assegnato. La gentilezza dell’uomo seduto di fronte a lei fece risalire la sua opinione sul personale di quell’ufficio. “Signora Wash”, iniziò inserendo i suoi dati nel terminale e analizzando la sua posizione. “Vedova… Da qualche settimana”, replicò lei attendendo la reazione dell’interlocutore. L’impiegato spense il sorriso che aveva nel momento che si era accomodata nel suo ufficio. “Mi spiace, non ne ero a conoscenza”. Quella risposta gli era embrata sincera e quell’uomo dal viso pulito e dai lineamenti delicati aveva dissepellito ciò che era rimasto della sua femminilità. “Non è necessario, non era nessuno per me già da molto tempo”. “Capisco... Le faccio una domanda di rito e lungi da me avere altri fini… Qua mi

risulta che non ha alcun impiego... Corrisponde al vero?”. Era risaputo che gli assistenti sociali erano obbligati a comunicare eventuali stati di indigenza e che questi potevano sfociare nel ritiro dei minori a carico. Rosemary ne era al corrente e quella linea sottile che separa la povertà dalla miseria non doveva mai essere oltreata, o almeno all’apparenza. Chiedere un lavoro ma dimostrare di non averne la necessità era l’atteggiamento richiesto per non vedersi portare via la famiglia. La donna non poteva neppure dichiarare quel lavoro con Belimbau, per tutta una serie di motivi che andavano dall’aver ricevuto compensi in nero all’esercizio di attività senza regolare licenza. “Posso dirle che non sono in difficoltà economiche... Usufruisco di un lascito da parte di mio marito, ma vorrei riprendere il mio lavoro in ospedale, signor...”. “Guardi, è scritto sulla targhetta”, disse indicando la tessera applicata sulla camicia. “Tomas Ness, ma mio figlio preferisce chiamarmi Tom”. Fu come spegnere un sogno a occhi aperti l’aver rivelato di essere coniugato, e la delusione le si lesse sul viso. “Qualcosa non va, si sente bene?”. Si riprese subito, contraendo le labbra in un accenno di sorriso: “Sì, sto bene… Ero solo sovrappensiero”. Eppure non riuscì pienamente a scacciare quel pensiero. Quell’uomo impersonava la serenità e infondeva in lei un senso di fiducia e tranquillità. Un uomo così, pensò, non poteva essere libero ed era altrettanto certa che la moglie era una donna felice. Avrebbe preferito non conoscere la sua situazione sentimentale e continuare a immaginarlo libero e disponibie. “Attualmente, non vi è la disponibiltà di una sua collocazione”, disse consultando con lo sguardo il terminale come un oracolo al quale ci si rivolge per conoscere il futuro. “O almeno non subito...”. Rosemary non si fece illusioni e attese il solito rinvio, come in tutte le precedenti visite a quell’ufficio.

Lui staccò lo sguardo dal monitor per rivolgerlo alla donna: “Non è mia abitudine illudere le persone, ma ho una richiesta per un assistente nella casa di riposo Villa Serena a Brooklyn”. Lei ridestò l’attenzione, come se avesse visto cadere un asteroide dal cielo: “Mi sta dicendo che avrò un lavoro?”. “Mi piacerebbe tanto dirle di sì, ma c’è un’altra persona prima di lei: se questa dovesse rifiurare...”. Quel piccolo lume non le fu sufficiente per rinfrancarle lo spirito, quindi si alzò in piedi per lasciare l’ufficio: “Capisco, questo posto non mi porta fortuna”. Tom sollevò il viso un po’ sorpreso e con voce sicura e rassicurante rispose: “Non sarei così pessimista, tutto può accadere, non credi?”. Quel tono confidenziale la fece voltare: “Non a me Tom, non a me...”.

La sala delle conferenze era gremita come poche volte prima di allora: era una novità il suo ruolo di relatore con la stampa, accompagnato dal capitano e dal sindaco a far da comprimari. Il tentativo di resistere a quel ruolo da publicrelations era miseramente fallito: nessuno avrebbe accettato di sacrificare la propria faccia e carriera consegnandola in pasto all’opinione pubblica se non avesse avuto la certezza di risolvere il caso brillantemente. Si sentiva in trappola, schiacciato da quella siepe di giornalisti assetati di notizie e dalla politica alle sue spalle, tutti pronti a strappargli gli onori o a seppellirlo con la medesima indifferente ipocrisia. Si era preparato a quell’evento memorizzando una storia molto simile alla realtà ma che non desse adito a quesiti che avrebbero potuto metterlo in imbarazzo. Vernon lo aveva aiutato a stendere il memoriale e in disparte si gustava la scena, mentre Stanich appariva come un condannato prima dell’esecuzione. Allentò leggermente la cravatta e iniziò la sua disquisizione in un silenzio che rendeva la sua performance ancora più inquietante. La fronte increspata dei giornalisti gli diede l’impressione che le sue parole

stessero suscitando interesse e il cenno di assenso del sergente lo incoraggiò a proseguire, mentre questi si allontanava per rispondere a una chiamata. Terminò con una fitta distesa di mani sollevate e la sensazione che il peggio dovesse ancora arrivare. “… Ci faccia capire, tenente: siamo di fronte a una serie di omicidi ma non a un serial killer?”, chiese un panciuto cronista del Daily. “Dalle informazioni in nostro possesso ricaviamo che questi omicidi sono collegati non da un fattore emotivo, ma conoscitivo...”. Fu subito interrotto da un’altra domanda: “Una sorta di giustiziere della notte?”. “No, niente giustizieri: l’assassino, presumo, ha dovuto difendersi da questi uomini”, rispose con sicurezza. “Vorremmo sapere la sua opinione, signor sindaco...”. A quella domanda il capitano sospese la conferenza, sgomberando la sala e trascinando Stanich e il sindaco nella sala attigua. Chiuse la porta lasciando al sindaco quell’onere che, con tempismo, gli aveva tolto poco prima. “Tenente, come vede li abbiamo tutti addosso”. “Ci stiamo lavorando, signor sindaco, ma con i mezzi che abbiamo”, rispose, non trascurando di affondare una stilettata al suo capitano. Il politico mise le mani sui fianchi rivolgendosi al capitano: “Dia priorità assoluta a questo caso e fornisca tutto il o che può servirgli”. Fleetwood accusò il colpo lanciando uno sguardo poco rassicurante al tenente: “Può stare tranquillo, fornirò tutto l’appoggio necessario”. “Bene, io conto su di lei per risolvere questo caso! Catturi questo latitante e arrivi soprattutto ai suoi contatti”. Il riferimento a Offenbach era chiaro e anche alla messa in disparte del capitano Fleetwood, e questo non faceva che innalzare la già insostenibile pressione. Il capitano seguì le orme del sindaco nel tentativo di riuscire ad allisciare i suoi peli e ricucire lo strappo.

Gli rimase giusto il tempo di riaccendere il cellulare rima di essere raggiunto da Vernon. Stanich intuì che non era lì unicamente per complimentarsi con lui, ma che aveva stampato sul viso notizie importanti che lo avrebbero fatto soffrire, anche prima di comprenderne appieno il significato. “Fermo, non dire niente”, lo anticipò. “Non si accettano scherzi, cattive notizie e perdite di tempo, ne va della mia salute mentale”. Vernon sorrise e non disse niente, incrociando le braccia. “Beh, e allora?”, chiese Stanich pentito della sua richiesta. “Ci sono due pattuglie che ci aspettano, per adesso non ti dico altro!”.

Riguardava quell’indirizzo ancora incredula, con il serio dubbio che fosse un errore. Vi aveva ripensato dopo aver ricevuto la telefonata e trascritto la via e il numero in quel pezzo di carta. Se Zacary le aveva fatto uno scherzo, gli avrebbe addebitato il costo del biglietto del taxi e presentato le sue rimostranze. L’essersi trasferito in quella zona incrementava nella donna gli interrogativi finora emersi sui comportamenti di quell’uomo. Quel fucile scovato casualmente in cucina e il tentato suicidio avevano suscitato tutta una serie di quesiti e ipotesi dentro di lei. Eppure quell’uomo era così gentile, disponibile e affabile da renderlo quasi invulnerabile a qualsiasi tentativo di scissione da quel lavoro. La promessa di aiutare Lanny a rientrare a scuola poneva tutto il resto in secondo piano, compreso quell’indirizzo nella zona più facoltosa e agiata della Grande Mela. Raggiunse la zona di TriBeCa, chiamata così per la triangolazione perimetrale del quartiere, e si fermò davanti a quel 302 stampato su una targa dorata. Dette uno sguardo ai suoi vestiti, reputandoli non all’altezza di quel luogo e quasi intimidita dallo sfarzo di quello stabile. Spinse senza troppa convinzione una delle due ante di cristallo che fungevano da entrata, cogliendo un gradevole profumo e la sgradevole sensazione di essere inappropriata lì, come suggerito dallo sguardo interrogativo e pungente del portiere.

“Cerca qualcuno in particolare?”. “Sì, ma… Non sono sicura che sia questo il luogo”, disse lei percependo il fastidio nell’uomo. “È molto probabile”, rispose lui con sufficienza. Fece per tornare sui suoi i ma la presunzione di quell’usciere la fece desistere: “Cerco un signore che dovrebbe essersi trasferito di recente”. “Sa dove si trova in questo momento, signora?”. Era decisamente insopportabbile e quel trattamento supponente le fece cadere qualsiasi remora: “Anche se non vi abito, penso di riuscire ancora a leggere un indirizzo, non crede?”. “Sa almeno dirmi come si chiama?”. Spazientita, era in procinto di mandarlo a quel paese quando: “Zacary Belimbau, dico bene, Rose?”. “Dici bene, Zac!”, rispose lei inquadrando il sicario nella porta dell’ascensore. Fece i pochi i che li separavano dai due e, dopo aver sorriso alla donna, si rivolse al solerte addetto: “Come si chiama lei?”. “Angel Cops...”, rispose con titubanza. “È meglio chiarire i rapporti che avrà con me e con la presente signora”. Cops rimase impietrito sotto lo sguardo di ghiaccio dell’uomo. “Non so per cosa vieni pagato, Angel, ma se provi a ficcare il naso nei miei affari o su chi viene a trovarmi, scoprirai un lato di me che non auguro a nessuno”. “Svolgevo solo...”. Zacary gli puntò il dito facendolo retrocedere: “Non provarci!”, e presa sottobraccio Rosemary, la condusse all’ascensore scomparendo con lei all’interno.

Dopo essersi ripreso, Angel ritornò dietro il suo banco cosparso di monitor: da quella postazione poteva tenere d’occhio i movimenti di chiunque uscisse o entrasse nel palazzo e perfino il perimetro esterno. Negli anni aveva acquisito una pratica alquanto invasiva e la sua naturale propensione a curiosare nei fatti degli altri lo aveva spinto a districarsi persino nella lettura labiale. Carpiva il sunto di un discorso dal movimento delle labbra e ne discerneva con particolare abilità perfino le sfumature caratteriali. Osservò pazientemente i due all’interno dell’ascensore, metabolizzando il loro discorso e senza perdere di vista il monitor prese la cornetta del telefono per comporre un numero. “Pronto… Signor Hoghan?”. “Sì, che c’è, Angel, qualche problema?”. “Non proprio, è quel nuovo inquilino...”. “Qualcosa che riguarda il palazzo? Disturba, è chiassoso, fuma in corridoio?”. “No, non proprio”, rispose l’usciere, “ma c’è qualcosa che non mi quadra in quell’uomo!”. L’agente immobiliare, dalla parte opposta: “… Ha pagato in contanti, non fuma, non disturba gli altri inquilini, per cosa mi hai chiamato?”. “… È venuta una donna a trovarlo e non mi è sembrata sua moglie...”. “Minorenne?”, precisò Hoghan in tono serio. “No, non era minorenne, ma…”. “Ti è sembrata una puttana?.” “Dal viso non sembrava, ma era agghindata da raccoglitrice di cotone…”. “Per quale motivo mi hai chiamato, allora?”. “Beh… Diciamo che non fa parte della solita clientela...”. “Angel, a me interessano i soldi che portano in tasca, se poi non frequenta il jet-

set non è importante… Sono finiti i tempi in cui il denaro era solo nelle mani dei nobili… Ora, scusami, ma sono impegnato”. Il bip della linea libera impose ad Angel di riattaccare la cornetta dopo aver visto l’ultima immagine dei due che sparivano dentro l’appartamento. Rimase impietrita sulla porta senza riuscire a mettere il piede sul parquet sotto di lei: ci volle l’aiuto di Zacary per convincerla che quell’appartamento era il suo. “Posso chiederti come… Non lo dire, non ti crederei!”, proruppe lei guardandosi attorno e sprofondando nella pelle del divano in salotto, dopo aver girovagato per la casa. Zacary la seguì portando un paio di aperitivi: “Ti ha dato fastidio?”. “Se ti riferisci al portiere… Ero un po’ seccata dal suo atteggiamento leggermente snob”. “Non ti seccherà più, ma se dovesse ripetersi...”. “Non credo”, e sorseggiando chiese nuovamente: “Ma quanto ti costa questo? È stupendo!”. Belimbau si guardò attorno prima di rispondere: “Ho deciso che questi ultimi giorni li vivrò a modo mio”. Belimbau aveva predisposto già tutto per la razione quotidiana di medicinali e Rosemary iniziò il suo lavoro. “Come stai oggi?”. “Stazionario, forse un po’ più stanco!”, rispose mentre lei gli controllava la pressione infilandogli il collare al polso. “Centotrenta-ottantacinque… La pressione è nella norma”, disse posando un dito sulla palpebra dell’uomo, controllandone l’opacità. Infilò l’ago nella vena e regolò il flusso per poi sedersi nuovamente e continuare ad ammirare i preziosi arredi, poi alla fine sbottò: “So che non sono affari miei, ma questo non è un appartamento, è una reggia: costerà una fortuna!”.

“Ti crea qualche problema?”, rispose Belimbau con scioltezza. “A me no… Ma ho paura che… Insomma, Zacary, cosa c’è sotto?”. Il sicario ironicamente fece finta di guardare sotto la poltrona: “A me sembra che sia tutto a posto”. “Non fare l’ingenuo, sai a cosa mi riferisco…”. Lui prese un profondo respiro prima di rispondere: “Ho solo dato fondo ai miei risparmi, pagando due mesi anticipati per l’affitto... Il resto si vedrà”. Lei lo guardò fisso negli occhi traendo da quello sguardo un fondo di verità: “E sia… Ma un giorno mi racconterai il resto”. Belimbau sorrise: “Allora un po’ ci tieni a questo vecchietto!”. Lei ricambiò ammorbidendo i tratti del viso: “Certo, l’hai detto tu che siamo la tua famiglia”. La soluzione terminò e dopo che lei gli ebbe sfilato la cannula, disse: “Mi son fatto un altro regalo e volevo un tuo parere… Seguimi”. Dopo aver riposto via l’arsenale medico, Rosemary lo raggiunse incuriosita nella sala centrale che dava, con una spettacolare visuale, sulla via principale. Belimbau era rivolto verso una parete dove un dipinto senza cornice svettava sul resto dei quadri che abbellivano la stanza. Prima di raggiungerlo si fermò ad ammirare il rosso turchese del tappeto persiano in pura seta di venti metri quadri che decorava il pavimento. Poi si avvicinò all’opera e la visionò insieme a lui. “Che ne pensi?”. Lei lo osservò trovando strano che non avesse la cornice, quindi focalizzò il dipinto: “Beh, da profana devo dire che è surreale… Con tutti quei colori stratificati ha un impatto molto forte. Però devo dire che ha un suo fascino…”. Il sicario lo avrebbe volentieri fatto ridipingere da un artista di strada, ma dopo quel complimento iniziò a trovarlo gradevole e simpatico.

“Secondo te, li vale duecento dollari?”. “Anche di più…”, rispose lei allontandosi un po’ per inquadrarlo meglio; poi si avvicinò torcendo il viso per leggervi la firma: “… Pol… Pollock… Pollock?!”. Lui guardò il volto perplesso della donna: “Lo conosci?”. “L’ho già sentito nominare… Mi sembra un artista famoso”, rispose lei tentando di collegare quel nome a qualcosa di celebre e rinomato. Belimbau iniziò a dubitare del reale valore di quell’opera sospettando di aver effettivamente sottratto a Offenbach un pezzo pregiato: un errore imperdonabile, se fosse stata un’autentica opera famosa. “Torniamo in salotto, ci sono altre cose di questa casa che non ti ho mostrato… Per esempio il bagno!”. A malincuore lei staccò gli occhi da quel dipinto, ancora attratta da quella firma sulla tela.

La valigetta in pelle di coccodrillo stonava con la sobrietà di quella giacca sportiva indossata sopra un paio di jeans. La giornata si era conclusa con modesti risultai in quell’aula del procuratore distrettuale e, dopo una trattativa estenuante, ciò che aveva ottenuto era stato ancor meno appagante. Decise di gettare tutto alle sue spalle e, preso l’ascensore si ritrovò, davanti alla sua Mustang, che lo salutò con i quattro fari lampeggianti. Aprì la portiera lanciando la borsa nel sedile del eggero, deciso a seguirla nell’immediato. Per un attimo sentì dei i alle sue spalle, poi un tonfo seguito dal buio più profondo. In principio sentì affacciarsi il dolore alla nuca seguito da un sapore amaro sulla bocca, e il buio; quindi un’altra sensazione mai provata prima, quando gli parve di galleggiare nel vuoto libero da vincoli e forze di gravità. I pensieri riaffiorarono e così il desiderio di aprire gli occhi e guardarsi intorno. La luce era calda e intensa sopra il suo viso, tale da sentire la pelle scottare come in una giornata ata a Long Beach.

Lentamente aprì le palpebre portando le mani al viso per ripararsi dalla luce e un’altra sensazione si aggiunse alle altre: le braccia roteavano senza apparente sforzo e la difficoltà di trovare il viso lo mise in evidenza, mentre le gambe erano bloccate e impossibilitate a muoversi. Non si capacitava di quella strana situazione e quel dolore pulsante alla testa rendeva il tutto reale e non paragonabile a un sogno. La visione opaca si schiarì e una strana forma apparve davanti a lui, associata a una voce mai sentita prima. “Parry Mason si è svegliato, capo”. Si sforzò di riconoscere quella figura reinterpretando il tutto da un altro punto di vista e la conclusione fu che uno dei due era a testa in giù. Tutto ora gli apparve più chiaro e quella corda legata ai suoi piedi sciolse definitivamente i suoi dubbi. “Porca… Ma che ci faccio a testa in giù?”. Un altro volto si alternò al primo rispondendo al suo quesito: “Questo non è il trespolo da dove fai le tue arringhe, qui le domande le facciamo noi”. Quella voce l’aveva già sentita ma quei connotati posti a rovescio gli impedivano di realizzare il tutto. “Che accidenti volete da me… Sapete chi sono e in che guaio vi state cacciando?”. “Questa è bella!”, disse Ray allontanandosi e rivolgendosi a Nero. “Solo perché hanno preso una laurea a Brighton pensano di essere intoccabili…”. Poi, puntando il dito verso l’uomo: “Beh, anche io sono laureato in scienze oscure e delittuose!”. Martin Loach ascoltava cercando di capire dove fosse e quali intenzioni avessero: “Avete preso una cantonata, io sono un noto penalista e non la aerete liscia!”. Ray si allontanò un po’ prima di rispondere: “A me i noti penalisti al massimo mi stimolano l’uretra”, e abbassata la chiusura lampo inondò il viso dell’uomo sotto lo sguardo divertito di Al, mentre reggeva con una mano l’altro lembo della corda ante su un argano.

Martin annaspava e sputava proteggendosi il volto con le mani, finché l’operazione non fu conclusa. “Cosa accidenti volete da me...”. Malanski si riabbottonò i pantaloni prima di rispondere: “Ma guarda, è la stessa domanda che mi pongo da quando mi hai mandato quel russo… Come accidenti si chiamava…”. Nero corse in suo aiuto: “Dici il russo ucraino o il russo...”. Lo sguardo fermo e increspato di Ray lo fece desistere dal continuare. “Vedi, Martin, in che condizioni un onesto gangster è costretto a lavorare?”. L’espressione stupefatta del penalista fu ridimensionata dalla nuova certezza sull’identità di chi aveva di fronte. “Ray… Ray Malansky?!”. “Bravo! Ma niente premi e cotillon per la risposta esatta… Solo un bel tonfo con spiaccicata finale!”, esclamò il gangster invitandolo con il dito a guardare verso il basso. Il panorama era spettacolare visto da lassù e quella scogliera a trecento metri sotto di lui lo lasciò letteralmente senza fiato. “Ohhh… Cazzo! Ma siete impazziti?”. “Non sono un medico ma in effetti trovarsi di fronte a un AK-47 che scaglia circa milleduecento colpi al minuto potrebbe portare a qualche patologia psicotica!”. L’avvocato roteò su se stesso tentando di portarsi davanti a Ray: “Qualsiasi cosa ti abbiano riferito, è una notizia falsa, tendenziosa e priva di qualsiasi fondamento!”. “Incredibile!”, arringò Ray rivolgendosi ai suoi. “Qualcuno può fargli notare che questo non è un tribunale e che lui non ha indosso la toga?”. Al allentò la cima facendolo precipitare per qualche metro, per poi ritirarlo su

lentamente. “Oddio… Non lo fate, per carità… Vi dirò tutto...”, confessò Martin in preda al panico per la breve scivolata. “Pendiamo dalle tue labbra, signor procuratore delle mie scatole!”, lo incitò Malansky avvicinandosi al precipizio. “È stata una richiesta di un mio cliente, ma ti giuro che non sapevo che fosse per te; io ho fatto solo da tramite fra lui e quel… Quel Misha Alenickov”. “Lui?... Sì, ma lui chi!? Chi è questo vile codardo che ha ridotto la mia Bentley come uno scolapasta?”, replicò il gangster con grande gestualità. Martin Loach non si fece pregare: “Offenbach, il tuo consulente, è stato lui a chiedermi di trovargli una persona per un lavoro. Io mi sono limitato a fissare un incontro, non sapevo neppure quale fossero le loro intenzioni, né che fossi tu il loro obiettivo”. Ray Malansky annuì con il capo: “Ottima confessione…”, e voltandosi verso i suoi aggiunse battendo le mani: “È meritevole di un applauso, non credete?!”. Nero si aggiunse al suo capo schioccando le mani una sull’altra. Al non desiderava di essere lasciato in disparte e, mollata la corda, iniziò a battere con violenza le mani in un vero e propio scroscio. Martin Loach precipitò nel vuoto accompagnato da un urlo disperato che si perse lungo la scogliera. Al tentò di riprendere la fune, ma inutilmente, ché l’ultimo lembo lo vide sfuggire dalla carrucola come una lepre per poi sparire con un guizzo. Ray e gli altri due si accostarono sul ciglio a osservare: “Ma che cazzo hai combinato…?!”. Al, continuando a guardare di sotto, rispose: “Ho fatto quello che mi hai detto… ho applaudito”. Il gangster si voltò a guardarlo sollevando le mani in alto: “In senso lato, imbecille!... In senso lato!”.

Coney Island quella mattina era avvolta da una fosca cappa di umidità che infradiciava gli abiti ed esasperava gli animi. Erano arrivati a sirene spiegate prima che il corpo fosse portato via e dopo che il mare lo aveva sospinto sulla spiaggia. Camminavano sulla sabbia con gli aloni di sudore sulla camicia e lo sguardo dritto verso quel tratto delimitato dal nastro giallo e nero. “Siamo sicuri che sia lui?”. “I documenti sulla giacca lo confermano, ma il volto pare sia in condizioni disastrose”. “Qualche notizia su Belimbau?”. Il sergente sputò per terra: “Setacciamo la periferia, dormitori pubblici e cose simili, ma niente... Forse qualcuno lo sta aiutando”. “Nei bassifondi ti aiutano se vali qualcosa o se hai del denaro... E quell’ebreo ha i giorni contati e un conto più pelato di un pomodoro”. Stanich evitò di fare altre domande al sergente, percorrendo in silenzio l’ultimo tratto di sabbia che li separava dal luogo. Sul corpo si stava eseguendo un primo esame autoptico, ma alla vista del tenente si scostarono per permettere un breve contatto visivo. Una corda legata ai piedi era stata arrotolata accanto al corpo adagiato su un fianco con le mani distese e rivolte verso il basso. Stanich si abbassò per vedergli il viso, ma lo ritrasse immediatamente per la cruda visione. “È conciato male, per la miseria!”. “È stato lanciato da qualche parte sulla scogliera”, rispose un operatore della scientifica; “ci sono ossa che spuntano dappertutto!”. Stanich prese i documenti che erano stati tolti dalla giacca: “Si direbbe che sia

proprio il procuratore Loach… A che ora il decesso?”. “Fra le dodici e le quindici ore… Sarò più preciso dopo che l’avrò aperto”, rispose l’agente. “Più aperto di così!”, commentò Vernon mettendo le mani sui fianchi. “Non fate avvicinare nessuno, questo caso è nostro!”, ordinò Stanich. “Anche questo?!”, commentò un agente spontaneamente, ma subito ripreso. “Derek, ti piace ancora fare le foto o preferisci stazionare vicino alle strisce pedonali?”. “Mi scusi, tenente, ma è stato un riflesso incondizionato”. “Allora vedi di restare al tuo posto!”, lo rimproverò in tono . Vernon lo invitò ad allontanarsi e, raggiunta la spiaggia, gli parlò: “Che ti è preso, non ti ho mai visto così!”. “Diciamo che oggi ho fatto il pieno: fra il capitano, il sindaco e i giornalisti ho i nervi a fior di pelle… E con questa facile ironia sto diventando lo zimbello del distretto”. Il sergente gli mise una mano sulla spalla: “Tieni duro, questo è il caso più bislacco che tu abbia mai affrontato… Prendertela con quel povero agente non migliora le cose”. “Il mio sistema nervoso comincia a risentirne… Ma non posso darti torto; vieni, riprendiamo il lavoro”. Si riavvicinarono al corpo riprendendo la consultazione: “Sai dirmi qualcosa su quella corda?”. Il sergente dell’investigativa si tolse i guanti prima di rispondere: “I segni sulle caviglie indicano che è stato appeso a testa in giù… E questo esclude il suicidio”. “Un’esecuzione, quindi!”, azzardò Vernon.

“Un’esecuzione dopo un interrogatorio… Volevano qualcosa da lui, altrimenti non lo avrebbero appeso”, aggiunse Stanich sorreggendosi il mento con la mano. “Lo penso anch’io”, disse l’agente. “Se vi può interessare, tra i suoi effetti abbiamo un mazzo di chiavi, un portafoglio con carte di credito e duecento dollari in contanti”. “Queste le prendiamo noi”, disse il tenente afferrando il mazzo di chiavi. “Il resto mettilo nel fascicolo, ti farò avere una ricevuta dall’ufficio”. Lasciarono il luogo riprendendo la statale che portava al centro di New York senza lampeggiante né sirena. “Sappiamo dove ha parcheggiato l’auto?”. Vernon rispose mantenendo la concentrazione sulla guida: “Ho chiamato Stephanie, il cancelliere del tribunale del distretto ovest”. “Chi, la mora con il seno rifatto?”. “Quella!... Ma ti assicuro che è tutta roba sua”. “E tu che ne…”, e il tenente si voltò stupito. “Non ci credo neppure se lo deponi davanti al giudice!”. Il sergente sorrise velatamente: “Vuoi sapere ciò che mi ha detto o preferisci sapere che misura porta di reggiseno?”. “Vai avanti, caymano di un sergente”, replicò il superiore con una punta d’invidia. “Pare che il fu avvocato fosse un abitudinario, a parte un vizietto che in questi anni gli è costato parecchio denaro”. “Donne?”, chiese il detective. “Tavolo verde… E comunque le sue parcelle gli permettevano di non accumulare troppi debiti”. “Non mi è sembrata una condanna per un conto non saldato: quelli pestano, ti

scassano l’auto, ma uccidono di rado e non un personaggio così facoltoso”. “Lo penso anch’io: lo avrebbero munto per benino, ma farlo fuori lo trovo eccessivo”, confermò Vernon. “Dove stiamo andando adesso?”. “Stephanie mi ha detto che parcheggiava sempre nello stesso luogo e l’ultima volta che ha lasciato il palazzo di giustizia era diretto all’autorimessa!”. “Te lo ha detto Stephanie, eh... E ti ha detto per caso se ha una sorella?”, chiese con marcato sarcasmo Stanich. “No! Ma ha un fratello maggiore; mi faccio dare il suo numero?”.

Quel pensiero l’aveva tormentata tutta la notte senza che Morfeo fosse riuscito a prevalere. Si era alzata diverse volte durante per fumare una sigaretta, lasciando solo di aggio una carezza a Lanny. Controllava l’orologio sperando che quelle ore assero in fretta. La sera precedente, una volta lasciato il lussuoso appartamento di Zacary, si era informata sugli orari della Public Library e si era riproposta di andarci la mattina successiva. Ci arrivò dopo aver lasciato a Lanny una buona dose di compiti da svolgere: il fatto di dover essere mamma e insegnante allo stesso tempo cominciava a pesarle. Prese la quinta Ave fino alla quarantesima Street, inquandrando da lontano l’imponente struttura della più fornita biblioteca cittadina. Vi era entrata una sola volta e le occasioni per visitarla nuovamente erano sempre mancate. Oltreò le misure di sicurezza di quello che sembrava un tempio classico valicando le due statue di marmo raffiguranti due leoni. Prese la direzione della Salomon Room, entrandovi a o svelto. Scelse la sezione contemporanea con artisti di alto livello. ò davanti a loro controllando lo stile e il nome apposto sulle locandine riguardanti l’opera e

l’autore. Vagò in quell’ala ancora orfana di ciò che cercava finché i tratti di alcuni dipinti non le fecero mormorare: “Eccolo...”. Si appiccicò a uno di essi, divorandolo con lo sguardo e scacciando i pochi dubbi che gli erano rimasti. Tolse una lente d’ingrandimento dalla borsetta esaminando quella firma nei minimi particolari. “È lui…”. Ripose la lente nella borsetta guardandosi intorno alla ricerca di un testo da cui attingere informazioni: si rivolse a uno dei collaboratori della biblioteca, che la invitò a servirsi di una delle innumerevoli postazioni multimediali. Il personal computer lo aveva sempre masticato con difficoltà, ma tempo addietro era stata costretta a frequentare un corso di aggiornamento sulle tecniche infermieristiche comprendenti l’uso di tale strumento. Si sedette nella postazione prendendo confidenza con il ratto di plastica. Frugò per qualche minuto e dopo aver inserito quel nome in un motore di ricerca, apparve l’intera collezione dell’artista. Fece scorrere la rotella del mouse finché convulsamente la mano non si fermò di colpo. “Eccolo!...”. Frugò nuovamente nella borsetta avvicinando la lente allo schermo per notare i particolari. Poi scese sulle didascalie leggendole a bassa voce: “Compositions with vertical stripes… Jackson Pollock… Stimato intorno ai… Settecent... E il milione e centomila dollari?!!”. Ricadde indietro sulla sedia a braccia incrociate come una statua di sale, non riuscendo ancora a valutare le proporzioni di quella scoperta. Rimase assorta per alcuni minuti, poi si alzò come se quella sedia avesse preso fuoco, in preda a una frenesia ossessiva. Non vide niente e nessuno mentre camminava a o svelto per le vie della Grande Mela, rendendosi conto che aveva percorso tutto quel tragitto senza una meta ben precisa. Si fermò e prese un largo respiro, realizzando che inconsciamente aveva raggiunto il luogo prefissato.

La spessa e lucida vetrina mostrava articoli raffinati e decisamente costosi. All’interno, il personale altamente qualificato era impegnato a mostrare a un cliente la preziosa merce, mentre una limousine con autista attendeva pazientemente davanti alla sfarzoso ingresso che il facoltoso acquirente terminasse l’acquisto. Rosemary si sentì a disagio per quel suo abbigliamento, ma considerando che si trovava nella metropoli più cosmopolita e aperta del pianeta non esitò: il dubbio che la opprimeva doveva avere la precedenza su tutto. Spinse la porta a vetro, che inaspettatamente si dimostrò leggera e silenziosa. Gli sguardi si posarono su di lei come falchi su una lepre e la sensazione di sentirsi indesiderata crebbe alquanto in lei. L’ambiente ovattato e i toni delle voci volutamente bassi contribuivano a farla sentire fuoriluogo, così attese in disparte di venire convocata. Il trio di commessi, composto da due donne e un uomo di mezza età, si guardò negli occhi finché una ragazza alta e snella non le venne incontro. Il profumo della donna arrivò alle sue narici qualche attimo prima della figura: “Signora, le serve qualcosa?”. Lo disse posando l’accento su un qualcosa che in quel luogo non avrebbe potuto assolutamente acquistare. Rosemary non reagì e tirò dritto: “Vorrei una valutazione su un oggetto”. “Intende un gioiello?”. Glielo avrebbe molto volentieri fatto ingoiare: “Certo, che altro! A meno che questa non sia una panetteria…”. Un’increspatura sulla bocca della ragazza fu l’unico segno di disapprovazione per quella frase; allora, indicando con la mano una vetrina in cristallo trasparente, la invitò ad avvicinarsi e attendere. La commessa ebbe un breve colloquio con il suo collega, che si avvicinò immediatamente alla donna. “Mi spiace, signora, ma in questo atelier ci occupiamo esclusivamente di preziosi di un certo taglio…”. La certezza che quella scena si sarebbe ripetuta in qualsiasi altra gioielleria della metropoli la fece pendere per una mossa a sorpresa. Senza sprecare altre parole

aprì la borsetta tirando fuori il cofanetto in velluto blu con la rinomata firma in evidenza. L’oggetto tirato fuori dalla donna suscitò un’impennata fulminea di interesse nel personale: l’uomo prese il cofanetto dalle mani di lei ricambiandola con un candido sorriso e lo aprì lentamente. Malgrado fosse un gioielliere navigato e avvezzo alla visione di qualsiasi monile, rimase visibilmente colpito da quell’inaspettato prezioso. Il suo sguardo divenne acuto quando sollevò la cascata di diamanti che pendevano da un’esile treccia in platino: “Non c’è che dire, è di alta manifattura… Ora controlleremo i dettagli”. Rosemary seguì attentamente i movimenti dell’uomo mentre posava il prezioso su un microscopio e ne prendeva visione su un piccolo schermo posto al suo fianco. La certezza che non fosse un falso si era già fatta strada nella sua mente, ma vista l’attenzione che l’esperto vi stava dedicando, questa certezza divenne un’autostrada a otto corsie. L’uomo terminò l’esame con un conteggio rapido delle pietre e su un taccuino riportò degli appunti, alternati a momenti di riflessione. Quindi prese il gioiello riponendolo nella sua custodia e, scrutando le sue note, si rivolse alla donna. “Questa parure è un pezzo di gran valore, signora, composto da dodici diamanti di grado F da 50 carati, ciascuno a taglio asimmetrico, e sei diamanti da 84 carati con grado di purezza internally flawless; la livrea in platino è trascurabile rispetto alle pietre...”. Se avesse parlato in aramaico, per la donna sarebbe stato più comprensibile; quindi l’esperto chiuse quel discorso concretizzandolo in volgare moneta. “… Se lei desiderasse liberarsene o permutarlo con un altro della nostra collezione, potremmo intavolare delle trattative”. Rosemary era sulle spine, ma tutto ciò che voleva sapere era il suo controvalore in denaro: “Potrei avere anche solo un’idea del valore di mercato?”. “Signora, se consideriamo solo il materiale, potremmo essere intorno ai 300,

380.000…”. La salivazione della donna venne meno, ma riuscì comunque a mormorare: “Dollari…?”. “Certo, ma se lei decidesse di servirsi della nostra intermediazione potremmo rivederla e considerarla in oro, oppure in un’altra valuta di sua preferenza”. Nel frattempo anche le altre due commesse si erano avvicinate per ammirare il ventaglio di diamanti all’interno del cofanetto aperto. Rosemary lo richiuse e lo ripose nella borsetta: “Mi lasci il tempo di rifletterci, avrà sicuramente mie notizie”. Gli ossequi si sprecarono mentre usciva dalla gioielleria, quando improvvisamente si rese conto che aveva girato in lungo e in largo per la città con un immenso patrimonio nella borsetta. La strinse a sé riprendendo con molta cautela la via di casa: “Cocci di vetro, eh?!”.

I primi giorni di ottobre erano ancora tiepidi ma si percepiva un cambiamento imminente di quelle condizioni, con ingombranti nuvoloni che a tratti oscuravano il sole. Si sentiva fiacco e con un leggero affanno. Decise comunque di portare avanti i suoi propositi secondo un calendario ben preciso. Chiamò un taxi, che lo venne a prelevare davanti alla hall del palazzo. Un lieve cenno e uno sguardo in cagnesco furono il modo di augurarsi una buona giornata con Angel il portiere. Il presentimento che quell’uomo gli avrebbe ancora pestato i calli lo portò fin dentro il taxi: non aveva un’idea ben precisa sul da farsi, ma ormai pensava che le migliori soluzioni scaturivano all’occorrenza. Le ombre della notte lo avvolsero mentre l’auto gialla ripartiva per una nuova corsa, quindi rimase a guardarsi intorno orientandosi con la segnaletica stradale. Quel che aveva in mano era un indirizzo e qualche notizia approssimativa, rispetto a cui un risultato positivo era un’incongnita grande come l’Empire State

Building. Si fermò un paio di volte a riprendere fiato, accompagnato da una nausea ormai perenne. Sentiva il suo corpo deperire giorno dopo giorno, ma il desiderio di non arretrare di un o e continuare a combattere riusciva ad arginare quello stato, nonostante la consapevolezza che comunque la guerra sarebbe stata persa. Riprese il cammino controllando la numerazione dei palazzi affissa sopra i portali, finché non vide quella che stava cercando. Fece il giro dell’isolato alla ricerca della scala antincendio. Non sarebbe stato semplice salire fino al quarto piano, ma nella sua vita nulla lo era stato. Riuscì a far scendere la scala di sicurezza issandosi sopra un cassonetto dell’immondizia: l’operazione non riuscì alla perfezione e cadde un paio di volte nei rifiuti prima di riuscire nel suo intento. Lentamente, uno dopo l’altro, scalò quei pioli di ferro fino al quarto piano, arrivandovi stremato. Si lasciò andare bocconi davanti alla finestra, prostrato dalla fatica, e sostenendo la fronte con il braccio attese di aver recuperato le forze. Rimase al buio, senza che la luna quella notte presentasse neppure un angolo del suo volto, quindi si rialzò a fatica sorreggendosi sullo stipite di una finestra, dentro cui finì per sbirciare: il quadro di una famiglia che cenava davanti al televisore si presentò in tutta la sua armonia. Madre, padre e due figli raccolti attorno a un tavolo ordinatamente apparecchiato con gli sguardi rapiti da uno schermo che non lasciava spazio a nessun dialogo. L’abbigliamento del padrone di casa, uomo dalle mani grosse e callose, lo persuase che quello non era il suo obiettivo. Proseguì verso la finestra successiva, dove gli bastò uno rapido sguardo per capire che neppure lì avrebbe trovato il suo uomo: la dimensione era la stessa e perfino gli arredi coincidevano per molti aspetti, ma il colore scuro della pelle degli occupanti lo fece proseguire oltre. La finestra successiva aprì un nuovo scenario, che fece fermare Belimbau: un uomo in uno stato di ebrezza sostenuta stava minacciando con un dito la compagna e la figlia. La donna proteggeva la ragazza facendosi scudo con il suo corpo mentre l’uomo le apostrofava con parole offensive. Il timore che la discussione stesse degenerando fece indugiare il sicario che, pur

trovandosi in una condizione anomala, sarebbe voluto intervenire se la situazione fosse degenerata. Il viso in lacrime della bambina era per Belimbau un qualcosa che avrebbe rivoltato come un guanto il suo già sconquassato stomaco. I giorni dell’orfanotrofio tornarono a galla nella sua memoria, sospintivi da quella visione: quante lacrime versate e momenti angoscianti, insopportabilmente ati a pugni chiusi. La sua non era stata un’infanzia da ricordare, ma cancellarla non era stato possibile, anche se ci aveva provato più e più volte. La mano scese lentamente verso quell’arma, unica compagna fedele e silenziosa che non lo avesse mai tradito. Con veemenza l’uomo scagliò altre minacce sulla povera donna ma poi, barcollando, lasciò la stanza mettendo fine a quella squallida rappresentazione. La donna trasse sollievo per lo scampato pericolo e il sicario alla finestra abbandonò i suoi propositi di giustizia. La visione di quegli scorci di vita rese ancora più determinato Zacary, che varcò la soglia di un altro balcone per scrutarne l’interno. La stanza era arredata con gusto e una libreria, posta su una parete, colma di testi e libri indicava la propensione dell’occupante per la lettura: un variopinto divano con una grossa lampada posta di fronte era evidentemente il comodo luogo preposto a quell’attività. Quell’indizio era confortante, perciò si sedette di fianco alla finestra in attesa di eventi che comprovassero le sue aspettative. La nottata si presentava tiepida e questo mise a suo agio Belimbau, visto il suo precario stato di salute. Si preparò a una lunga attesa, convinto che recedere dai suoi intenti sarebbe equivalso a una bruciante sconfitta. Nella sua vita le uniche promesse mantenute erano quelle scagliate dalla canna dei suoi fucili; per il resto non aveva preso impegni neppure con se stesso, lasciando che fossero gli eventi o gli altri a trascinarlo in quel percorso oscuro che era stata la sua esistenza. Riguardò le stelle fra una nuvola e l’altra, evitando quell’autocommiserazione che negli ultimi tempi tendeva frequentemente a presentarsi. La voce squillante e giovanile di una fanciulla oltreò il vetro della finestra,

subito coperta da quella matura e profonda di un uomo. La luce della lampada illuminò a giorno le pareti e la stanza finalmente mostrò al sicario i dettagli nascosti dalla penombra. L’uomo era maturo e dotato di un’incipiente canizie, ma l’aspetto era curato, con tanto di abiti firmati. La ragazza era poco più che adolescente, dai lunghi capelli castani legati indietro da un fermacapelli a elastico, con jeans e maglietta che completavano il suo abbigliamento. A Belimbau non sfuggì lo zainetto scolastico che portava con sé, che lasciò cadere per terra sdraiandosi sul divano in modo confidenziale. Che fosse la figlia, Belimbau lo dette per un fatto scontato, ma quando questa si tolse la maglietta mostrando un seno piccolo e rotondo sotto lo sguardo divertito dell’uomo, il sicario cambiò subito parere. L’uomo si tolse la giacca e le si sedette accanto, dando inizio a delle effusioni che fecero disgustare il sicario. Decise di sacrificare quella ragazzina per un’idea che gli sorse spontaneamente in quel momento. Prese il suo cellulare con videocamera integrata e lo puntò sul bordo del vetro inquandrando l’interno della camera. La visione non era ottimale, ma il contenuto della registrazione sarebbe stato comprensibile persino a un orbo. Spinse il tasto rec nel momento preciso in cui l’uomo, togliendosi i pantaloni, mise in mostra i suoi attributi per permettere alla ragazza di fare il resto. I modi spicci e confidenziali con cui procedevano spediti sembravano confermare l’assiduità della loro frequentazione. Zacary lasciò il cellulare a fare il suo lavoro e si sedette a osservare il cielo, accompagnato da sospiri e gemiti.

Ciò che temeva si era avverato con la precisione di una predizione nostradamica: trovarselo appiccicato alle sue carte come una ventosa sul vetro generava la stessa insopportabilità di una camicia sudata e appicicaticcia sulla pelle. Il sovrintendente incaricato dal sindaco di scandagliare il suo operato era un tarlo che veniva consegnato assieme a un countdown, terminato il quale o il caso era risolto o il funzionario sarebbe stato strangolato da Stanich con l’assistenza di Vernon. Aveva preso possesso dell’ufficio del tenente, forte di un’autorità che non

necessitava di permessi, e si era tuffato nel caso, come lanciandosi dal centoquarantunesimo piano su una piscina da un metro di profondità. Per Stanich era come violare la sua intimità frugando dentro le sue mutande con un rastrello da giardino. Più di una volta Vernon aveva fatto da freno, per impedire che il suo superiore si scagliasse sul funzionario. “Usciamo o rischio di commettere un omicidio premeditato”, sbottò Jeremy verso il sergente afferrando la giacca e lanciandosela sulle spalle. Vernon lo imitò raggiungendo il tenente sulle scale di servizio, che portavano all’ingresso principale. “È più forte di me, non so ancora per quanto riuscirò a sopportarlo; ma ti assicuro che è un lasso di tempo misurabile con le dita!”. Il sergente aggiustò i calzoni dando un altro punto alla cintura: “Abbi fede, se sfora di un solo millimetro dalle sue competenze si troverà l’impronta della mia scarpa sul fondoschiena e arriverà nell’ufficio del sindaco senza prendere l’ascensore”. “Ci manca tanto così…”, disse Stanich avvicinando l’indice e il pollice. “Se solo riuscissimo a scovare Belimbau, arriveremmo a Malansky e probabilmente anche a Offenbach”. “Questi omicidi hanno un evidente filo conduttore: se ne incastriamo uno, li prendiamo tutti”, commentò Vernon. “Lo penso anch’io”, aggiunse Stanich attraversando la strada per dirigersi verso un chiosco di hot-dog. “In quale buco può essersi rintanato un malato terminale senza appoggi e denaro?”. Vernon si avvicinò al chiosco rivolgendosi al suo collega: “Sei sicuro di voler mangiare quella roba? Potresti morire prima di averla digerita”. “Morirò comunque in giornata, per cui meglio togliermi il pensiero assaporando qualcosa di gustoso”, rispose ordinando un doppio hot-dog con patatine e salsa. “Per me una tazza di caffè!”, ordinò il sergente per poi cambiare discorso: “La banca ha confermato che Belimbau ha svuotato il conto”.

Il tenente, dopo aver pagato per entrambi, addentò il panino: “Come fai a saperlo? Il giudice ha appena inoltrato la richiesta”. Vernon sorseggiò il caffè gustandolo assieme alla risposta: “Oh, un favore di un’amica...”. Stanich lasciò il morso a metà voltandosi a guardarlo: “Dentro la filiale della National Security sulla nona?!”. “Sì… Nadine...”. Il tenente abbassò il panino lasciandolo penzolare su un fianco: “La bionda addetta alle public relations del primo piano?!”. “La conosci anche tu?”. “E chi non la conosce… Ma è sposata!”. “Separata!”, precisò Vernon. “E tu l’hai consolata!”, disse Jeremy riprendendo ad addentare l’hot-dog. “Mi sono sacrificato per il dipartimento!”, disse il sergente ironicamente. “Ricordami di proporti per una medaglia al valore”. Lo squillo del cellulare mise termine al dibattito e Jeremy smise ancora una volta di masticare per rispondere al telefono. “Stanich… Ok, arriviamo”. “Hanno trovato l’auto di Loach!”, proseguì gettando via ciò che restava del suo hot-dog. Arrivarono a sirene spiegate lasciando l’auto di servizio all’entrata e proseguendo a piedi lungo gli interminabili androni della rimessa. Jeremy camminava svelto osservando le pareti e gli angoli dei pilastri, suscitando la curiosità del sergente. “Cos’hai in mente?”.

“Se la fortuna ci assiste, siamo a cavallo”. Proseguirono fino a raggiungere la pattuglia stazionante in prossimità di una fiammante Mustang; dopo il saluto di rito, il capo pattuglia gli mostrò l’auto aprendogli la portiera, ma inaspettatamente il tenente si guardò attorno puntando il dito verso un particolare: “Bingo!”. L’agente, visto il suo disinteresse, chiese: “Tenente, non vuole dare un’occhiata all’auto?”. “Più tardi, magari”, rispose continuando a osservare la rimessa. “Piuttosto, quando siete arrivati l’auto era già aperta?”. “Affermativo!”. “Sapete indicarmi la stazione di controllo?”. L’agente puntò il dito in alto: “Gli uffici si trovano all’ultimo piano!”. Stanich scattò seguito dal sergente verso l’ascensore: “Hai notato anche tu?”. Vernon annuì: “Sì, ho visto… Se sono stati così stupidi da prelevarlo qua e di sopra altrettanto solerti… Incrociamo le dita”. Raggiunsero gli uffici, dove un’abbondante signora stava trafficando davanti a un monitor. Il distintivo mostratole davanti al viso riportò la donna a una vigile attenzione. “Abbiamo necessità della sua collaborazione, signora…”, disse in maniera sbrigativa Jeremy. “Molly Parson… Signorina, prego”. Vernon intervenne uscendo con un gesto significativo dal suo ruolo di comprimario. Stanich non esitò a cedergli il posto, conscio che il sergente aveva un certo ascendente sul gentil sesso. “Lascia che mi presenti, Molly, sono il sergente Vernon… Ma puoi chiamarmi Ver, se preferisci”, esordì il detective spancando le porte a un sorriso accattivante.

La donna tolse gli occhiali rettangolari dal paffuto e tondeggiante viso, squadrando da capo a piedi il longilineo poliziotto. “Oh… Certo, Ver, se posso esserti utile, disponi pure di me”. Stanich mise una mano sulla fronte dando fondo alle sue riserve di pazienza. Il sergente, incurante del suo superiore, continuò: “So bene quanto sei impegnata, ma se sarai gentile con noi potrai contare su di me per una rilassante serata”. Le guance di Molly mutarono colore e lo sguardo divenne suadente e disponibile: “Cosa posso fare per te, Ver?”. “Il sistema di sorveglianza è collegato a un sistema di back-up magnetico o su nastro?”, chiese subito il sergente. “Oh sì, certo, tutto viene catalogato e conservato su un hard drive e formattato una volta ogni quindici giorni...”. Vernon a questo punto le si avvicinò sfiorandole con una mano la spalla: “E… Potremmo averne una copia in visione?”. La donna ebbe un attimo di indecisione: “Veramente dovrei chiedere l’autorizzazione...”. Vernon abbassò il viso posando lo sguardo su di lei: “Te ne sarò eternamente grato”. Senza staccare lo sguardo da lui la donna indicò con la mano un hard drive posato all’estremità del bancone. Stanich non perse tempo, staccò le connessioni e uscì dall’ufficio lasciando a Vernon il compito di terminare l’opera di seduzione. Introdusse la cassetta nel lettore e riavvolse il mini-DVD preparandosi alla visione.

Ray si era accomodato su una poltrona con al fianco un paio di tartine e un flûte di effervescente spumante. Nero stava dritto con le braccia incrociate attendendo

che Al avviasse il lettore. “Spicciati, quanto ci vuole!”. Al si voltò con sguardo minaccioso: “Pensi di essere più svelto?”. “Basta, voi due!”, intervenne il gangster infilando in bocca un altra tartina. “Piuttosto, hai letto il mittente sulla busta?”. “Nessun mittente, capo, solo il tuo indirizzo a grandi lettere”, rispose Nero, che aveva ritirato di persona il pacco alla New York Central Mail. “Chi diavolo potrà essere... L’ultima volta che ho partecipato a un filmato era al matrimonio di Joe Partanna”. “Può essere la figlia di tua cugina, capo… Ricordo che c’era qualcuno che filmava, al battesimo del figlio”, argomentò Al ancora in attesa. Ray agguantò la bevanda dorata: “Quella non era mia cugina, ma la scaldaletto del capo mandamento del Bronx… E non era un battesimo, ma una circoncisione”. “Circoche?”, domandò Al completamente all’oscuro sull’argomento. “È un rituale ebraico, zucca ripiena di ceci, che si conclude con il taglio del prepuzio”, specificò Malansky, alzatosi con un certo buon umore quella mattina. “Questi ebrei sono degli animali!”, intervenne Nero. “Tagliare il naso a un neonato è un’indecenza”. Ray rivolse lo sguardo verso il suo aiutante italo-americano: “A voi la meningite non vi fa un baffo… Il prepuzio è la parte morbida del vostro uccello!”. Entrambi gli uomini portarono istintivamente la mano al basso ventre, con Al che esclamò: “Del mio uccello?!”. “Basta, ci rinuncio! Avvia quel filmato e tacete”. La cassetta si avviò con un sussulto dopo che Al spinse il tasto play: lo schermo del 50 pollici rimase oscuro per pochi secondi, poi apparve un’immagine così sottotitolata: Morte di un cialtrone! Sullo sfondo un uomo legato a una sedia e imbavagliato, con un pezzo di stoffa infilato in bocca. Al suo fianco un

portaflaconi da cui pendeva una soluzione collegata tramite un sottile tubicino al collo dell’uomo. Ray, a quella vista, sputò lo spumante che aveva appena sorseggiato fissando lo schermo con stupore. “Ma che accidenti…”, pronunciò riconoscendo la vittima del video: “È lui!”. “Lui chi?”, chiese Nero senza staccare lo sguardo dal televisore. “Come chi... Il tizio che ho assoldato per sistemare Zac!”, rispose Ray posando il bicchiere. L’uomo nel filmato, nel frattempo, iniziò a tremare convulsamente con lo sguardo terrorizzato da quello che gli sarebbe accaduto. Nella stanza calò il silenzio, tutti rapiti da uno spettacolo che si preannunciava assai cruento. La soluzione continuava a penetrare nelle vene dell’uomo mentre il viso iniziava a mutare colore, variando dal rosa pallido al ciclamino per are a dei contorni bluastri. La sofferenza dell’uomo era violentemente evidente, rimarcata dal suo agitarsi alla ricerca di una disperata fuga dalla morte. Gli occhi mostravano in modo inequivocabile il suo delirio, spalancati all’inverosimile e contornati di lacrime. Il suo tremore si placò, sostituito da un evidente affanno cadenzato da un respiro irregolare. I tre malviventi seguivano con espressione disgustata il procedere del filmato, senza peraltro riuscire a interromperlo. Una schiuma biancastra fuoriusciva dai contorni della bocca del prigioniero, accompagnata da quello che probabilmente era un urlo di sofferenza. Dopo vari minuti di palpitante agonia il killer concludeva quel raccapricciante spettacolo con un paio di sussulti, per poi reclinare definitivamente il viso e rimanere inerte. Prima che il video si oscurasse apparve un secondo titolo in sovraimpressione: “REGIA E SCENEGGIATURA BY ZACARY BELIMBAU”.

Seguirono alcuni istanti di apparente calma, poi un colpo di arma da fuoco fece esplodere lo schermo. Nero e Al ebbero un sussulto a quel frastuono e, riportati subito alla realtà, impugnarono le pistole guardandosi attorno. “Sono stato io, imbecilli!”, echeggiò Ray riponendo l’arma fumante nella fondina. “Al, prendi l’artiglieria, questo è un affronto che voglio vendicare personalmente”.

Mosse lentamente gli arti inferiori cercando di scacciare quel torpore che il freddo del mattino gli aveva procurato. Tirò su il braccio inquadrando le lancette dell’orologio per poi riabbassarlo lentamente. Si rese conto di aver dormito di filato per quasi dieci ore, come mai nella sua vita. Si sollevò in piedi sentendo scricchiolare la quasi totalità del suo patrimonio osseo. Era in procinto di avviarsi per ridiscendere quelle scale di sicurezza, quando si rammentò del cellulare poggiato sul balcone. Era ancora lì come una silenziosa vedetta puntata sul suo obbiettivo. Lo prese per controllare lo stato di carica e il filmato registrato la notte appena ata. Gli bastarono alcuni fotogrammi per essere pienamente soddisfatto del lavoro svolto. Chiamò un taxi, che per arrivare impiegò il medesimo tempo che Zacary ci mise per scendere le scale d’emergenza. Si sentiva arrugginito, inoltre l’umidità permeata durante la notte nel suo corpo gli rallentava tanto i movimenti che riuscì con difficoltà a percorrere quei pochi i che lo separavano dal taxi. Il suo corpo aveva necessità di riscaldarsi e idratarsi, ma il tempo era tiranno e ogni minuto era troppo prezioso. Si sdraiò sul sedile posteriore del taxi. “Per cortesia… Alzi la temperatura, sento freddo”. “Si sente male? L’accompagno dal medico?”, chiese l’autista voltandosi indietro. “No, vada all’indirizzo che le ho detto”, concluse Zacary ritemprandosi un po’.

L’auto si tuffò nel traffico cittadino ridonando una sufficiente mobilità alle membra del sicario e una discreta prensilità alle sue mani. Il display sul cruscotto dell’auto indicava le nove ate, quando il taxi si accostò al ciglio della strada. Zacary si ritrovò in piedi davanti all’edificio, fiducioso che il lavoro di quella notte avrebbe portato i risultati sperati. La guardia armata all’entrata lo lasciò are dopo un’occhiata superficiale: in fondo in quel luogo non era degli adulti che doveva guardarsi. Zoppicante attraversò il lungo corridoio che portava agli uffici. Il vociare degli alunni si alternava con quello più autorevole degli insegnanti, oltreando le pareti che parevano di carta. All’orfanotrofio non si sentivano voci, rammentò Zacary, ma solo urla interrotte da lunghi e solitari silenzi. Non vi era nulla di gioioso che un fanciullo potesse desiderare a quella età, soltanto una mano pronta sempre a colpire per una parola di troppo o un gesto male interpretato. Le uniche attenzioni ricevute da un adulto avrebbe tanto voluto evitarle, ma un bambino ha solo il suo sorriso come arma e lui era stato troppo triste per farlo. Strinse a pugno la sue deboli dita per il dolore di quei momenti che avevano cambiato la sua vita, inaridendo il suo cuore e armando la sua mano. L’assistente del preside lo guardò di sbieco mentre pinzava una pila di fogli: “L’avverto che, se deve parlare con il preside, l’attesa sarà lunga”. “Sono una persona paziente”, rispose il sicario rilasciando il suo fiacco corpo su una panca addossata a una parete e lasciando che il proprio sguardo vagasse senza meta. Raramente recriminava contro il suo ato, ma ora che i giorni erano diventati minuti e i minuti attimi, questo riemergeva in tutta la sua crudeltà. La fuga da quell’orrido posto dove gli era stata strappata l’infanzia lo aveva liberato da quelle mura solo per farlo finire ammanettato da quella feccia chiamata società. Gli era sempre mancato il carattere per emergere e così, dopo essere stato sfruttato e calpestato, era stato venduto come carne da macello alla malavita organizzata. Uccidere era stato facile e nessuno lo aveva avvertito che togliere la vita era il peggiore dei crimini, anzi si era sentito finalmente vivo solo quando gli avevano

offerto una ricompensa e la loro iniqua approvazione. Ma non era bravo neppure in quello, per questo lo avevano rifilato a un malavitoso di quart’ordine e senza scrupoli: Ray Malansky. Zacary si ò le mani nervosamente sul capo sotto lo sguardo interrogativo della segretaria. “Si sente bene?”. Non rispose: troppe volte aveva sentito quella frase di rito e sempre ne era rimasto deluso. Ray era stato il suo mentore, il suo padrone, la sua fede e la sua guida, le quattro facce di una piramide oscura e malefica. Era stato sedotto e addestrato come un cane fedele a cui gettare sempre un osso spolpato di tutta la sua morbida carne. E lui lo aveva rosicchiato e leccato fino a consumarsi denti e gengive, senza mai obiettare o lamentarsi. Quante vite aveva spezzato e quei volti immortalati nell’ultimo attimo di vita rivelavano in tutta il loro dramma il disperato e accorato desiderio di vivere. Era cosciente che quelle considerazioni scaturivano da un remoto angolo del suo animo, risvegliato da quelle metastasi che inesorabilmente si insinuavano in ogni anfratto del suo corpo, inevitabilmente associate a una catarsi della sua invulnerabilità cosmica. “Chi devo annunciare?”. Sollevò il viso incrociando quello della segretaria: “Gli dica che sono lo zio di Lanny”. “Un po’ generico… Ha anche un cognome?”, suggerì la donna. “È un nome che non potrà dimenticare, glielo garantisco”. La donna non scavò oltre e sparì dietro la porta della presidenza per risbucare dopo qualche istante: senza degnarlo di una parola indicò che poteva entrare. Lasciò cadere i pesanti occhiali sulla scrivania nell’intravedere Zacary, il quale attese qualche secondo appoggiato allo stipite della porta con un’espressione soddisfatta. Sotto lo sguardo infastidito del funzionario e senza che fosse stato invitato, si adagiò su una delle due poltrone dirimpetto alla scrivania.

“È lei il preside Johnson?”. “Lo ha trovato, lei invece è lo zio di un certo Lanny...”, disse in attesa di un cognome. “È un dolcissimo ragazzo a cui è stato negato il sacrosanto diritto di un’istruzione”. Il preside inarcò le sopracciglia cercando di ricordare: “… Sì, il figlio della signora Wash… La questione è stata già ampiamente discussa e chiusa”. Belimbau sorrise leggermente di fronte alla granitica posizione del burocrate: “Non c’è niente che non si possa riaprire, è solo un file sul tuo computer”. Johnson cambiò atteggiamento: “Mantenga le distanze, signor… Il colloquio è terminato”. Lo disse infilandosi gli occhiali e rivolgendo la sua attenzione alle carte sopra la scrivania. Il sicario picchiò con violenza la mano sul piano in legno: “Questa non è più una tua prerogativa!”. Il preside agguantò il telefono con evidente apprensione e imbarazzo: “… Mi i la sicurezza...”. Poi sollevò lo sguardo focalizzandolo su qualcosa che di primo acchito lo incuriosì, tanto da suscitare in lui uno smodato interesse. Zacary sosteneva un cellulare a mezz’aria che riproduceva un filmato con una giovanissima studentessa e un attempato preside in atteggiamenti inequivocabili come protagonisti. “… Sono l’agente Norton, signor Johnson, qualche problema?”. “Sì, cioè no, intendevo dire… Un falso allarme”, rispose il preside riagganciando la cornetta e deglutendo con difficoltà di fronte a quello spettacolo. Belimbau mise in pausa riponendo il cellulare nella tasca interna della giacca: “Il resto te lo risparmio, Johnson... Ora rivediamo la pratica di questo ragazzo…”. Il preside orientò il monitor del PC verso di sé e convulsamente iniziò a battere sulla tastiera, premendo il tasto enter per ultimo.

“… Ehm, suo nipote è stato reintegrato a pieno titolo in questa scuola… Domani stesso potrà riprendere a frequentare le lezioni regolarmente”. Il sicario si mise un dito sul mento: “Ottima iniziativa, ma posso suggerirti di fornire un insegnante di sostegno per le lezioni che gli hai fatto saltare?”. Johnson non ebbe nulla da eccepire e, con un’altra piccola modifica al suo database, accolse la richiesta. “Molto bene, Johnson, ora mettiamo tutto nero su bianco e potrai ancora sederti su quella poltrona invece che finire a raccogliere saponette nei bagni delle patrie galere”. La stampante rilasciò un foglio, subito firmato e timbrato dal solerte funzionario. Il sicario lo lesse con soddisfazione prima di ripiegarlo e alzarsi in piedi con l’intenzione di andare via, ma Johnson timidamente obiettò: “Ha ottenuto ciò che voleva... Il filmato, però...”. Zacary gli si avvicinò, piantando entrambe le mani sulla scrivania: “Sai cosa fanno a quelli come te, se vanno in galera? Beh, se solo ti avvicinerai ancora, se solo oserai posare il tuo sguardo o soltanto pensare a persone al di sotto dei diciotto anni… Ne prenderai così tanti che quando uscirai porterai i capelli biondi, il rossetto e ti saranno cresciute le tette!”.

Riprendere Lanny dalla casa del suo compagno di scuola era stato come strappare il biglietto del cinema alla prima del 3-D. Per Rosemary era ormai divenuto difficile e tormentato gestire quei rapporti: biasimava se stessa e il mondo intero per non essere riuscita a rendere normale, come per i coetanei, l’adolescenza del figlio. Come un palloncino trattenuto dalle mani di un bambino, l’appiglio che Zacary le aveva promesso era l’unica flebile speranza a cui era aggrappata. Il dialogo con suo figlio era migliorato, ma coglieva nel ragazzo tutta la sofferenza per quella situazione, che si stava manifestando in un lento ma costante mutamento del suo umore. Gli sorrise diverse volte con la mano stretta nella sua, entrambi diretti verso la loro piccola casa. Era quasi l’ora di pranzo e già pregustava la morbida teglia di lasagne all’italiana che aveva messo in forno.

Imboccarono la via che portava alla loro abitazione, scacciando via i pensieri e le preoccupazioni. In lontananza il centro della via era movimentato da una schiera di curiosi: aguzzando la vista Rosemary notò la presenza di un’auto della polizia e di alcuni agenti. Affrettò il o decisa a non fermarsi a osservare le disgrazie altrui per barricarsi dentro le proprie mura domestiche, ma dimezzando la distanza si stava rendendo conto che, qualunque cosa fosse successa, questa era avvenuta in prossimità del suo appartamento. “Cosa succede, mamma?”, chiese Lanny incuriosito dal singolare assembramento. “Non so, qualcuno si sarà sentito male...”. Lo disse senza convinzione, tanto più che mancava un’ambulanza nei paraggi. Quando fu a circa un centinaio di metri, le fu chiaro che le persone stavano tutte attorno a degli oggetti sistemati alla rinfusa sul marciapiedi. La vista di Lanny era nettamente migliore della sua: “Mamma, quella poltrona assomiglia alla nostra”. Il cuore della donna ebbe un sussulto e freneticamente cercò con lo sguardo quell’oggetto per smentire un timore angosciante. Lasciò la mano del figlio e iniziò a correre disperatamente. Si fermò ansimante davanti alla sua casa, trovandosi di fronte al viso compiaciuto e odioso del padrone di casa, poi osservò i suoi pochi averi accantonati frettolosamente sul marciapiede e un fabbro cambiare la serratura della porta. Richardson sollevò la mano attirando l’attenzione degli agenti, un uomo e una donna che subito si avvicinarono a Rosemary. “È lei la signora Wash?”, disse la poliziotta sventolando un foglio di carta tra le mani. Dovette ripeterlo una seconda volta prima che la donna le rispondesse. “Sì, sono io, ma cosa...”. “Mi ascolti, sono l’agente Sherman e le sto notificando l’ordinanza di sfratto!”. Prese il foglio con noncuranza, ma nel vedere il volto del proprietario su cui era impresso un sarcastico ghigno, esplose dalla rabbia: “Maledetto bastardo, ti avrei

pagato!”. Fece il gesto di lanciarsi sull’uomo, subito trattenuta dal poliziotto. “Non peggiori la situazione, ha già abbastanza guai!”. La mano del figlio si sovrappose a quella del poliziotto: “Mamma, mamma, che succede!”. “Questo è suo figlio?”, chiese l’agente facendo voltare la donna. Rosemary lo prese per mano divincolandosi dalla presa: “Sì, lui è mio figlio! Volete portarmi via anche questo?”. Improvvisamente cadde il silenzio e gli occhi delle persone assiepate intorno si posarono sulla donna, che arretrò assieme al ragazzo, mentre il suo grido disperato si levò alto: “Vi siete presi mio marito, il mio lavoro e adesso la mia casa... Ma dovrete uccidermi per avere Lanny!”. Un nerboruto e alto uomo di colore si avvicinò alla donna, rivolgendosi ai poliziotti: “Ha ragione, non vi basta quello che le avete portato via?”. Una breve pausa seguì a quella dichiarazione di solidarietà, poi un gruppo di ragazzi lentamente si accostò alla donna e a Lanny mormorando: “Cos’altro volete da lei, lasciatela stare…”. Altre persone si frapposero e quasi tutto il quartiere si schierò dalla sua parte, mentre i poliziotti indietreggiarono cautamente. “La colpa è sua!”, esclamò una voce dal gruppo indicando il signor Richardson, rimasto solo dall’altra parte della strada. “Quel farabutto una volta ha tentato di mettermi le mani addosso!”, aggiunse una tarchiata signora lanciando un pomodoro che si spiaccicò a pochi centimetri dal viso dell’uomo. Altre imprecazioni si aggiunsero in un coro di concitate aggressioni verbali. Richardson indietreggiò mentre la folla minacciosa avanzava verso di lui armandosi di pietre e di tutto quel che poteva raccattare sulla strada. Rosemary, dato un ultimo disperato sguardo a quella via e alla sua casa, si allontanò seguita dal rumoreggiare della folla.

Il tecnico infilò il connettore USB nella presa e il led rosso si illuminò, comunicando che i due drive erano collegati e stavano dialogando. Le cartelle apparvero sul monitor come quadri in una mostra monotematica. “Da dove vuole cominciare, tenente?”. “Procedi in ordine cronologico: inizia dal giorno della sua scomparsa”, precisò Stanich incrociando le braccia. Il cursore del mouse si spostò sopra la cartella virtuale indicata e il tecnico vi cliccò sopra due volte. La schermata successiva mise in evidenza una lunga serie di file riferiti a ogni singola telecamera. “Sembra che il lavoro sarà più lungo del previsto!”, commentò Vernon infilando le mani nelle tasche. Il tecnico informatico del dipartimento di giustizia lanciò il primo filmato aprendo l’immagine su un quarto di piano. “Questa è l’altra ala, l’auto si trova nella parte opposta”, suggerì Jeremy. Visionarono una decina di file finché la videata non inquadrò l’auto dell’avvocato Martin Loach, in sosta fra altre cinquanta. “È la Mustang nera accanto alla Chevrolet giallo ocra!”, indicò con il dito Stanich. “Che colore disgustoso, non oso immaginare il suo abbigliamento”, intervenne il sergente. Il tecnico, senza staccare il viso dal monitor, disse: “Il display indica le sette e a grandi linee, dalla grandezza del file, ci vorranno più o meno dieci ore”. Stanich storse la bocca: “Non c’è un modo per fare più in fretta?”. “Si potrebbe procedere per fotogrammi da dieci minuti ciascuno, ma in questo modo correremmo il rischio di saltare la parte che vi interessa”, spiegò l’informatico. “Sappiamo che Loach ha lasciato l’aula attorno alle undici e dai dati in nostro

possesso la morte risale attorno alle quindici… Ci rimangono quattro ore”, specificò Vernon con sicurezza. “Sentito il detective?”, disse il tenente proseguendo il discorso. “E se quei galantuomini lo stavano aspettando, lo avranno prelevato al suo arrivo... Taglia fra le undici e le undici e trenta!”. Il tecnico agì sui comandi del software e in una manciata di secondi apprestò il nuovo spezzone, lanciando un altro video. Sembrava che poco fosse cambiato dalla scena precedente, a parte la disposizione delle auto. Vernon però puntò l’indice. “Osservate quella Lincoln limousine sulla destra, in sosta poco più avanti della Mustang”. “E allora?”, lo spronò Jeremy. “Mi è parso di vedere dei movimenti all’interno”. “Si può zumare su quell’auto?”, chiese il tenente. “Posso ingrandire un fotogramma alla volta, ma non durante la sequenza”. “Procedi!”. Il fotogramma venne ingrandito, mostrando alcune figure all’interno della lunga limousine. “Pare che tu abbia ragione!”, disse il tenente. “Vai avanti col filmato”. Per altri venti minuti seguirono le monotone immagini di auto che parcheggiavano e di altre che ripartivano, finché non si intravide la figura dell’avvocato Martin Loach appropinquarsi alla propria con la valigetta da lavoro. Aveva tolto dalla tasca le chiavi dell’auto e aperto la portiera lanciando all’interno la borsa. Dalla limousine nel frattempo erano scesi due uomini che, armi in pugno, avevano colpito alla nuca il procuratore. “Ferma qua”, disse Stanich avvicinando il viso al monitor, “e ingrandisci!”.

Il fotogramma si sgranò allargando l’immagine ma rese i connotati dei due riconoscibili. “Sapete chi sono?”, chiese il tecnico voltandosi verso i due detective. Vernon rispose alla domanda mentre il tenente aveva già composto il numero del distretto. “Eccome, sono i tirapiedi di una nostra vecchia conoscenza: Ray Malansky”. “Capitano?... Stanati, si tratta della gang di Malansky... Sì, andiamo a prenderli, lei prepari il mandato...”.

Guardare quello schermo così grande gli aveva accentuato la nausea, ma il notiziario del primo pomeriggio aveva dato quella notizia così singolare da stuzzicare la sua curiosità. In un primo momento l’aveva ascoltata come un fatto marginale di cronaca, ma le immagini del luogo avevano risvegliato la sua memoria. Gli erano bastati pochi ritagli per essere certo che quel posto fosse lo stesso; e scandagliava col telecomando le varie stazioni per avere conferma di quella che gli era parsa una notizia incredibile. Fermò lo zapping sulla CNN, dove ne stavano parlando proprio in quel momento: “… E dalle ultime testimonianze pare che l’uomo fosse presente allo sfratto e che la folla imbestialita lo abbia letteralmente linciato...”. Zacary si alzò in piedi confermando ciò che aveva visto: quella era l’abitazione di Rosemary e la foto nel ritaglio in alto sullo schermo il suo padrone di casa. “Ellery Richardson, soccorso, è stato trasportato d’urgenza al nosocomio cittadino dove versa in condizioni critiche: sentiamo ora la testimonianza...”. Il tocco delicato e quasi soave del sistema audio dell’appartamento avvertiva che qualcuno era alla porta. Non attendeva nessuno e anche nella sua vita precedente poche volte avevano bussato alla sua porta. Col telecomando attivò la telecamera posta all’ingresso osservando nel televisore chi stazionava davanti al suo appartamento.

Spense la tv e con lestezza si recò ad aprire. Loro erano là, entrambi con le lacrime agli occhi e un’espressione inequivocabile di terrore e angoscia, con nelle mani le poche cose loro rimaste. “Non sappiamo dove andare, ci hanno...”. “So già tutto, entrate”, disse l’uomo accompagnandoli in una delle camere per gli ospiti. “Sistematevi come credete, nel mentre vi preparo qualcosa di caldo”. Si ritrovarono davanti a una tazza di the e biscotti, con Lanny che rientrò nella sua camera per vedere la tv via cavo e i suoi innumerevoli canali. “Quel… Quel bastardo mi ha sfrattata, e pensare che avevo messo tutti i soldi da parte...”, disse la donna asciugandosi il naso con il fazzoletto. “Se ti può consolare, in questo momento sta avendo qualche problemino”. “In che senso?”, chiese la donna. “Io ho lasciato il luogo che tutto era...”. “La folla lo ha conciato per le feste: è in rianimazione, lo ha detto la CNN adesso”, anticipò lui. “Oh, mio Dio, non pensavo…”, rispose la donna portando le mani alla bocca. “Ecco, non ci pensare, questa adesso sarà casa tua e anche dopo…”. “Questa non è la mia casa… La mia ha una nuova serratura e fra un po’ un nuovo propietario”, replicò lei. “Cosa c’è che non va in questa casa!? C’è spazio per tutti e io avrò finalmente un po’ di compagnia…”. Rosemary abbassò il viso: “Non so… Non è questo… Tu chi sei, Zacary, perché mi aiuti… Io non potrò mai ricambiare tutto questo”. Il sicario si avvicinò prendendole la mano: “Non hai già sofferto abbastanza? Lascia che ti aiuti… Per me è importante”. Lei sollevò il viso con le guance ancora rigate dalle lacrime: “Io non posso darti

quello che tu vuoi, Zacary”. “Tu mi hai già dato ciò che volevo: il tuo sorriso, la tua gentilezza e ti sei presa cura di questo avanzo d’uomo”. La donna prese la borsetta e la aprì mostrando il prezioso gioiello che le aveva donato: “Prima di accettarlo, devo sapere chi sei veramente”. Belimbau divenne serio, lasciandosi andare sullo schienale prima di parlare: “Il mio ato è oscuro e buio... Ma non avevo alternative… La mia è stata una vita di solitidine e morte, il cui unico scopo era sopravvivere”. Rosemary era concentrata sull’intensità e la sofferenza con cui l’uomo raccontava la sua vita. “… Nessuno mi ha costretto a fare ciò che ho fatto, ma non avrei esitato un attimo, se mi fosse stata offerta una mano per cambiare vita… Forse avrei una famiglia, adesso, dei figli… Una moglie”. Il sicario abbassò lo sguardo prima di continuare: “Non esiste il perdono per ciò che ho commesso, e non ci sarà comprensione per il mio ravvedimento... Ma se tu andrai via, anche quel poco che ho fatto di buono andrà perso”. La donna gli strinse la mano: “Dovrò temere per la vita di mio figlio e la mia?”. “Non ti avrei chiesto di rimanere, se non ne fossi stato convinto”. Lei prese il gioiello mostrandoglielo: “Questo è il frutto di quale crimine?”. Belimbau lo respinse riponendoglielo nelle mani: “Se vuoi, puoi restituirlo, assieme ai 600.000 dollari che ho da parte e a quel quadro… Ma sappi che i soldi puliti non esistono… Quello è solo un misero compenso per quel che hanno fatto di me”. “È terribile, io non so...”. “Il mondo non si è fatto scrupoli di te e tuo figlio...”. “Lo faccio per lui, ma la notte porterà consiglio...”, disse la donna riponendo il monile dentro la borsetta.

Zacary, visibilmente provato, si alzò barcollando e raggiunse il tavolo attiguo, tornando indietro con un foglio in mano; senza aggiungere altro lo diede alla donna, riprendendo il suo posto. Rosemary lo lesse attentamente. La sua espressione triste mutò leggermente e nuove lacrime si aggiunsero a quelle già versate. Si alzò, raggiunse Zacary e lo baciò sulla guancia: “Qualunque cosa tu abbia commesso in ato, se te ne sei pentito, per quanto possa valere io non ti giudicherò”.

Sosteneva i tre sacchetti di cibo guardandosi attorno furtivamente e, raggiunto il furgone, colpì con le nocche lo sportello scorrevole. Dall’interno sbloccarono la sicura e aprirono velocemente, giusto il tempo necessario perché l’uomo vi entrasse. “Pollo e patate!”, disse l’agente consegnando il primo sacchetto. “A te i sandwich e a me un doppio hamburger!”. I tre agenti controllarono il contenuto commentando ad alta voce: “E la Coca che fine ha fatto?”. “Ho due mani e una pistola; se pensi di fare meglio accomodati!”. Il terzo agente riprese il posto di guida controllando la strada: “Quest’appostamento non ha senso, quell’ebreo non ci metterà più piede nel suo appartamento”. “Prova a convincere Stanich e ti pagherò un pasto decente, invece di questa sbobba”. “Il tenente è sotto pressione”, rispose l’agente alla guida mentre addentava il sandwich, “finirà per farci saltare i nervi a tutti quanti, se non risolve questo caso”. Dall’altro lato della strada una limousine accostò accanto al marciapiede, attirando l’attenzione dei poliziotti. Poco dopo due uomini scesero dall’auto per armeggiare nel baule posteriore della Lincoln e, dopo avervi rovistato, lo

chio impugnando armi di grosso calibro. “Cristo!”, esclamò il poliziotto gettando il sandwich, “chiama il tenente e digli che ci sono due energumeni armati di un 12 a pompa e un UZI automatico!”.

Nero si fermò nell’andito tirando il carrello della mitraglietta di fabbricazione israeliana. “Far fuori un ebreo con un’arma sionista è il massimo dello sballo… È come strangolare un frate con i suoi stessi cordoni”. Al infilò le cartucce da caccia grossa nella parte inferiore del fucile armandolo con un colpo secco. “Se lo incontro prima io, gli chiedo cosa ne pensa dei pallettoni americani”. Nero con una smorfia spinse il pulsante di richiamo dell’ascensore: “A che piano sta, te lo ricordi?”. “Se non sbaglio, al secondo”. Le porte si spalancarono ed entrarono assieme con le armi abbassate. Ad Al, prima di premere il tasto del piano, sorse un dubbio: “Ray ha detto che lo voleva vivo o morto?”. L’italiano lo guardò in volto perplesso, riflettendo sul quesito: “Non lo rammento, ma da come Zac ha sistemato il Turco e gli altri… Io gli do una sventagliata di mitra, poi quel che rimane lo porto a Ray”. Al rimase assorto poi rispose: “La tua idea mi piace, faremo propio così: lo prendiamo vivo e poi gli scarico il fucile davanti a Ray”. Nero non replicò ma il suo sguardo perplesso fu più che eloquente.

Stanich incollò l’auto dietro il furgone e scese assieme al sergente, estraendo la pistola. Raggiunsero i tre agenti che stazionavano davanti all’entrata, anche loro

armi in pugno. “Quando sono entrati?”, chiese Vernon scarrellando l’arma semiautomatica. “Pochi minuti fa… Sono ancora dentro”, rispose l’agente più alto in grado. Stanich si guardò attorno: “Confermate le due unità?”. “Sì, sono in due e armati fino ai denti… Tenente, non sarebbe il caso di far subentrare la SWAT?”, propose il poliziotto, nella prospettiva di un imminente conflitto a fuoco. “Non se ne parla!”, chiarì Stanich. “Se questo ti può consolare, il sergente Vernon ne ha fatto parte… Piuttosto, i malviventi come sono arrivati fin qua?”. I tre agenti si voltarono a indicare la grossa limousine parcheggiata sull’altro lato della strada. “Con quella Linc...”. La frase morì in gola all’agente nel rendersi conto che l’auto si era volatilizzata. “Beh, e allora?”, sollecitò Jeremy mettendo le mani sui fianchi. I tre agenti erano costernati, così uno dei tre disse: “Era lì fino a un minuto fa...”. “Non ci posso credere”, esternò il tenente, “vi siete lasciati sfuggire Ray Malansky… Seguitemi e se vi beccherete una pallottola, non verserò una sola lacrima”. Vernon prese l’ascensore, mentre gli altri salirono per le scale in totale silenzio, raggiungendo il secondo piano, dove si ritrovarono tutti e cinque sulla soglia dell’appartamento di Zacary. Il portone era stato forzato e giaceva semispalancato, lasciando uno spiraglio di visuale dell’interno. Vernon mise una mano sul petto di Stanich, impedendo al suo collega di spalancare la porta e procedere. Un attimo dopo il centro del portone andò in frantumi, fracassato da una rosa con palle di piombo. Seguì il gracchiare di un mitra che lasciò le sue mortali impronte sui muri di fronte. Il tenente fissò Vernon nel tentativo di capire come

intendeva procedere. Il collega sollevò una mano avvertendoli di farsi da parte e, nello stupore dei colleghi, infilata la mano nella giacca tirò fuori una granata. “Cazzo!”, disse il tenente. “Sai quello che stai facendo? Questo è un palazzo, non il Vietnam!”. “E quello era piombo da caccia grossa… Lasciami fare…”. Gli agenti si affiancarono alla parete portando le dita alle orecchie mentre Vernon, infilata fra i denti la sicura della bomba a mano, la tolse con uno strappo. Contò fino a cinque, poi la lanciò nella breccia aperta dal fuoco nemico. Il botto non si fece attendere e la deflagrazione fu così violenta da scardinare la porta e scaraventarla per le scale. Il sergente si lanciò per primo all’interno fra la polvere cercando di inquadrare i malviventi. Nero spuntò da dietro il divano, frastornato e col volto ricoperto di detriti. Agitava la mitraglietta cercando qualcosa o qualcuno da colpire, rimestando l’aria con una raffica. Vernon esplose due colpi in sequenza che attraversarono il petto dell`uomo e lo rigettarono sul divano con un ruggito di dolore. Stanich raggiunse il collega con l’arma spianata: “L’altro dov’è finito?”. “Non so, stai in campana”, rispose rimettendosi in piedi. Un’imprecazione seguita da un tonfo fece voltare tutti in direzione della cucina. Fra la nube di polvere che aleggiava nella stanza, Al aveva spinto di lato il voluminoso frigorifero che gli era franato sopra a seguito dell’esplosione. Si rimise in piedi agguantando il fucile a pompa con l’intento di farsi strada. “Getta quel fucile!”, gli intimò Jeremy inquadrando il bersaglio. Al si fermò per un attimo osservando gli agenti, poi lo sguardo cadde sul corpo di Nero riverso a terra e inerte. Sollevò la canna del fucile puntandola contro gli agenti, con le mani grondanti del sangue di numerosi tagli e ferite. I detective non attesero oltre e scaricarono l’intero arsenale di munizioni sull’energumeno in un frastuono infernale. Al

oscillò e si dimenò, ma rimase miracolosamente eretto mentre Stanich e il suo collega ricaricavano le armi. “Ma questo Frankenstein quando va giu?”, commento Vernon puntando nuovamente la pistola. “Mai vista una cosa simile!”, aggiunse il tenente riprendendo la mira. Al impugnava ancora il fucile, disteso lungo il fianco destro, mentre dal possente torace crivellato di colpi il sangue colava copiosamente. Ai due detective si aggiunsero gli altri tre agenti, che puntarono ugualmente l’arma d’ordinanza. Al respirava a fatica e con la bocca spalancata, al che Jeremy gli rinnovò l’invito: “Se puoi sentirmi… Non pensarci nemmeno!”. Gli occhi del gangster erano lo specchio delle sue intenzioni e fu chiaro che non avrebbe accettato nessun compromesso. Al, con le ultime forze rimaste, serrò le mascelle e urlando si lanciò sul gruppo. Fu come rimbalzare su un muro di proiettili che arrestò la sua corsa facendolo retrocedere finché non stramazzò al suolo sollevando un nugolo di polvere. “Chi l’ha detto che Terminator non esiste?”, commentò Vernon con la pistola ancora fumante. Abbassarono le armi avvicinandosi al corpo, formando un cerchio attorno all’uomo. “Avverti la centrale… Due ambulanze a sirene spente...”.

Il frullatore girava vorticosamente mescolando e sminuzzando la sua colazione mattutina. Versò il succo di carote e arancia nel bicchiere con metodica precisione e senza versarne fuori una goccia. Con l’altra mano distese la prima pagina del Daily gettando un primo sguardo. La notizia gli provocò un conato, tanto che raggiunse di corsa il bagno lasciando

cadere la copia del quotidiano. Dopo essersi inumidito il viso tornò in cucina con l’aria sconvolta dall’ansia. Rilesse la notizia ancora incredulo, con la certezza che la medesima sorte sarebbe toccata a lui. “Martin… Per tutti i santi, io sarò il prossimo”, mormorò con un filo di voce. Percorse la casa freneticamente in lungo e in largo, setacciando ogni angolo per ritrovare quel biglietto: “Dannazione… Dove l’avrò cacciato…”. Si precipitò nello studio svuotando cassetti e spalancando ripostigli. Fece una pausa mordendosi l’unghia del dito indice, riflettendo su dove poteva essere. “Quel giorno indossavo… L’abito grigio!”. Riattraversò la casa penetrando nell’ampio armadio della camera da letto. Seguì con lo sguardo l’imponente varietà di abiti e posò la mano su un Versace grigio fumo. Frugò nelle tasche senza risultato poi infilò le dita nel taschino anteriore: “Eccolo!”. Il capo firmato cadde per terra, quindi infilò la mano nella tasca dell’accappatoio alla ricerca del telefono. Compose diverse volte il numero contrassegnato nel biglietto finché il segnale non indicò la chiamata in corso. Camminava nervosamente finché una voce dall’altro capo non lo ridestò: “Stanich!”. “Pronto… Sono Offenbach… Devo parlarle assolutamente… Anche adesso!”.

Il tenente volse lo sguardo dietro di sé verso quello specchio falso quanto i dollari del Monopoli. Ritenne opportuno condurre quel dialogo in modo formale e senza la minima sbavatura. Si sentiva fra l’incudine e il martello, scrutato com’era dietro quel vetro da FBI, funzionari comunali, capitano Fleetwood e non ultimo un incaricato dei servizi segreti spacciatosi per tecnico del suono. Davanti a lui Gregory Offenbach seduto dietro un tavolo con un foglio dattiloscritto sotto il naso, pronto a lasciare un’ampia e dettagliata testimonianza

sulla malavita newyorchese. Stanich fece schioccare le dita, dando il via alla registrazione: “È pronto per firmare la sua dichiarazione?”. Il consulente chiarì la sua posizione: “Voglio che mi siano ripetuti i termini della mia posizione”. “Se accetta di testimoniare davanti a un gran giurì, verrà messo sotto protezione e trasferito in una località segreta dagli agenti dell’FBI, le verrà data una nuova identità e potrà usufruire del sostegno previsto dal protocollo ‘protezione testimoni’; consapevole che i benefici decadranno in caso di reticenza o rifiuto a testimoniare”. Offenbach incrociò lo sguardo del tenente che, immobile come una statua, attendeva imibile e distaccato ricercando in quel rappresentante del governo una fiducia che stentava ad affiorare. Alla fine prese la penna e, memore di quel delitto ancora fresco e vivo nella sua mente, rilasciò la sua firma su quel foglio. Jeremy non sentì gli applausi, ma dalla parte opposta di quello specchio vi fu un boato di approvazione. Gli agenti federali fecero il loro ingresso prelevando Gregory ma, prima che lo portassero via, il detective gli disse: “Coraggio… Su di loro può contare”.

Il fine e sensibile udito della donna percepì un lamento provenire dalla stanza attigua. Scese dal letto dando uno sguardo all’orologio, prima di infilare la vestaglia che Zacary le aveva donato assieme a un intero corredo. Uscì dalla sua camera per bussare in quella dell’uomo: “Zacary, va tutto bene?”. Non sentendo alcuna risposta, la donna aprì la porta infilando il capo per sbirciarvi dentro. La lampada sul comodino era accesa e rifletteva la luce su una parte della stanza in uno strano gioco di ombre. Belimbau era immobile, ma nuovamente quel roco lamento si ripeté con la medesima cadenza. Rosemary si avvicinò al letto sporgendo il viso per farsi

intravedere: “Sono io, Zac, mi senti?”. L’uomo aprì gli occhi lentamente con evidente difficoltà, mostrando il suo stato. “Oh Signore, hai bisogno urgente di...”. La donna fu interrotta dalla mano di Belimbau che le strinse il braccio con notevole sforzo. “… La tua… Mano… È tutto ciò che mi serve...”. Lei si chinò sedendosi su un lembo del letto: “Dimmi cosa devo fare...”. Zacary, malgrado la sofferenza, abbozzò un sorriso: “Hai già fatto molto… Tanto… Per me...”. Le lacrime sgorgarono copiose ricadendo come rivoli di rugiada sulla foglie. “Ci sarà qualcosa che desideri o che io possa fare”. L’uomo le fece cenno di avvicinarsi e tendere l’udito. Lanny si era svegliato e, incuriosito da quel vocio, aveva lasciato la sua stanza non prima di aver calpestato la consolle abbandonata ai piedi del letto. Spinse la porta lasciata socchiusa e sbirciò all’interno di quella stanza. Riconobbe la madre seduta di spalle, tesa ad ascoltare le flebili parole dell’uomo mormorate con voce stanca. Rosemary si voltò di scatto: “Ritorna in camera tua...”. Seppur debole, Zacary sovrappose la sua voce a quella della donna: “No, vieni avanti, ragazzo...”. Lanny raggiunse la madre ponendosi al suo fianco. Il viso sofferente dell’uomo era segnato da un evidente tentativo di sorridere. “Come va la scuola...”. Spontaneamente il ragazzo rispose al sorriso: “Ho ritrovato i miei compagni... Mi hanno ridato il mio banco e il mio amico Rusty non ha voluto nessuno vicino a lui… Aspettava che tornassi io”. “Bravo, ragazzo… Sii sempre ubbidiente… Ed ora dai retta alla mamma e torna

a dormire...”. Distese il braccio per un’ultima carezza sui capelli di Lanny, che lasciò l’uomo e la madre soli. Si distese nel letto rivolgendosi alla donna: “Questo è il mio unico desiderio…”. “Non so, è difficile...”, rispose lei abbassando lo sguardo. Zacary trasse un profondo respiro: “Non importa, è solo una stupida...”. Gli occhi fissarono i suoi senza alcun lamento, ma la luce al loro interno si era già spenta.

La conferenza stampa era appena iniziata e, con suo grande sollievo, gli era stata riservata una parte da comparsa. Si era messo in disparte lasciando che il sindaco e il capitano esponessero la soluzione del caso con metodica faziosità. Il viso disgustato del sergente Vernon era la più chiara esemplificazione di quel che pensava di quel discorso, ma a lui poco importava. Essere uscito indenne da quell’intricato caso era l’unico riconoscimento a cui ambiva, mentre il resto era solo una medaglia senza alcun valore da appuntare sul petto. Non si sentiva neppure meritevole di menzione: i fatti avevano seguito il loro corso e la caduta di Offenbach fra le sue braccia era stato un caso fortuito. Vernon portò il telefono di servizio all’orecchio e poco dopo fu sufficiente uno sguardo al suo collega perché questi lo seguisse fuori dalla stanza. “Ho appena ottenuto quindici giorni di ferie per ristabilire il mio stato psicofisico, dunque non si accettano cattive notizie”. Il sergente rimise il telefono in tasca: “Belimbau… Lo hanno trovato... Presidio medico TriBeCa: è morto!”. Senza fretta arrivarono nel centro sanitario, dove un solo agente piantonava la salma. Alla vista dei detective andò loro incontro, portando la mano al cappello: “Tenente!”.

“Riposo, agente… È quella la salma?”. “Sì, esatto, il medico ha già esaminato il defunto rilasciando una certificazione di decesso per cause naturali”. Stanich osservò la bara dove era stato deposto il sicario e la donna che vi stava accanto. “Chi ha autorizzato l’inumazione… E la signora chi sarebbe?”. L’agente si rese conto della gaffe e, consultando un taccuino estratto dal taschino, rispose: “La signora si chiama Rosemary Walsh… È l’infermiera che si occupava delle cure a domicilio del defunto: è stata lei a chiedermi se poteva… Così ho pensato...”. “Non sei pagato per pensare! Quell’uomo era un pluriomicida e doveva restare a disposizione delle autorità inquirenti!”, lo riprese Stanich in modo autorevole ma garbato. “Mi spiace, tenente, se vuole...”. “Lascia stare, ormai la frittata è fatta”, rispose, rivolgendosi di seguito a Vernon: “Vedi se il medico ha rilevato qualcosa, io parlo con la donna”. I pochi i che li separavano li fece lentamente, trovando i contorni di quella donna sinuosi e sensuali. “La signora Wash?”. Il volto grazioso e delicato di lei era provato da una notte insonne. Gli occhi gonfi e arrossati delineavano una sofferenza in atto, che non sfuggì all’occhio attento del detective. “Sì… Chi è lei?”. Lui scostò la giacca mostrando il distintivo applicato sul bordo destro della cinghia accanto al revolver. “Sono il detective Stanich della omicidi; potrà sembrarle inopportuno ma ho necessità di farle qualche domanda”.

La donna assunse un’aria preoccupata: “Se posso aiutarla...”. “Sono solo formalità, ma è meglio chiarirle subito… Era a conoscenza che il signor Belimbau era ricercato?”. “L’ho saputo questa mattina quando ho accompagnato l’ambulanza… Dopo il decesso!”, rispose prontamente portando il fazzoletto agli occhi. “In che rapporti eravate?”. Rosemary percepì la sottile linea che il detective voleva attraversare e il modo subdolo di scandagliare con lo sguardo le sue emozioni. “Mi occupavo solamente della sua salute fisica e fornivo l’assistenza medica necessaria, niente altro”. “Certo… Mi chiedo perché non l’ha accompagnato in ospedale, se le sue condizioni erano così critiche”. L’impulso di rispondere d’istinto fu represso da una più attenta riflessione: “Beh… Nel mio lavoro assisto spesso pazienti terminali e rispetto la loro volontà di concludere la loro vita lontano da questo ambiente”. “Capisco”, commentò il tenente. “Durante il suo lavoro il suo paziente ha incontrato persone o assistito a fatti di rilevanza?”. La donna abbassò lo sguardo con il falso intento di rammentare qualcosa, poi lo riportò sul viso del tenente atteggiandolo in tutta la sua teatralità. “Sono sempre stata sola con lui; a parte mio figlio non ha incontrato né visto nessuno, in mia presenza”. Stanich ebbe l’impressione che stesse seguendo un copione ben preciso, senza esitazioni né incertezze e come d’abitudine lanciò il suo amo. “Per adesso non c’è altro, ma non si allontani dalla città!”. Fece per voltarsi e allontanarsi, quando improvvisamente si rivolse alla donna: “Mi chiedo se lei versa lacrime per tutti indistintamente, come per Zacary!”.

Lei mantenne la calma, ma una lieve flessione delle labbra, come se avesse trattenuto una risposta, non sfuggì al poliziotto. “È una condizione a cui non mi sono mai abituata… È più forte di me!”. “Le auguro giornate migliori, signora Wash!”, concluse Jeremy con un lieve sorriso. Lasciò definitivamente la donna per raggiungere Vernon, che intuì il pensiero del collega. “L’indagine si può ritenere conclusa o c’è altro?”. Il tenente si voltò a guardare un’altra volta la donna commentando: “In un altro momento, forse… Niente d’importante”. “Bene! Allora goditi il viaggio e qualche volta pensa a me fra le fauci del capitano!”, disse il sergente avviandosi verso l’auto. “Fammi sapere se acciuffate Malansky...”, poi si fermò guardando in volto il suo collega: “Ora che mi ricordo… Ma da dove è spuntata quella granata?”. Vernon inarcò le labbra per reprimere un sorriso: “Oh, niente, un favore di qualcuno presso l’armeria del distretto”. “Non dirmi… La rossa da uno e ottanta dai tacchi vertiginosi!?”, replicò puntando i pugni sui fianchi. Lo lasciò sulle spine per qualche istante. “Questa volta no… È stato il biondo sottotenente coi baffi dell’altro turno”. Stanich sorrise apertamente: “Ti confesso che il mio quoziente d’invidia era arrivato al limite!”. Vernon riprese da dove era rimasto il tenente: “Non mi hai lasciato terminare, però… La bomba me l’ha data il biondo, ma la rossa la incontro questa stasera!”.

Nel volto di Belimbau non traspariva alcuna emozione e nel guardarlo la donna rievocò le sue ultime parole. La sua richiesta era apparsa in un primo momento

così tragicamente irreale da sembrare irrealizzabile. Ma quel timore confidato in punto di morte si era fatto strada nella sua mente trovandovi un certo raziocinio e giustificazione morale. In fondo, pensò la donna, non vi era nulla di male né di pericoloso ad accondiscendere a quella richiesta. Lui aveva fatto tanto per lei quando era in vita e per una serie di motivi meritava di essere accontentato. Non l’aveva costretta né era ricorso a quegli ultimi istanti di vita per strapparle una promessa, ma si sentiva comunque legata e doverosamente cosciente di essere in debito con lui. La stanza era sgombra ma il poliziotto e alcuni addetti non mancavano di entrarvi e uscire. Si avvicinò quindi all’agente di guardia: “Posso chiederle un favore?”. Il poliziotto diede uno sguardo al feretro prima di risponderle: “Se è lecito, volentieri”. “Potrei rimanere qualche minuto sola con lui?”. Non rispose subito a quella richiesta, meditando sulle possibili conseguenze: “Non credo si possa fare, signora… Ho ordini precisi”. “Soltanto una preghiera… Non credo che possa scappare né caricarmelo sulle spalle. L’uscita è unica e lei ci sta davanti… La prego”. L’agente esitò ancora un istante, poi cedette: “Soltanto cinque minuti, daccordo?”. “Intesi”, rispose soddisfatta. Il poliziotto chiuse la porta della stanza lasciando la donna sola con il corpo di Belimbau giacente nella scura bara in noce. La parte inferiore del suo corpo era occultata da una delle due chiusure non ancora sigillata. La donna, senza perdere tempo, la sollevò scoprendo le braccia e le gambe. Tutto

sommato Belimbau possedeva buon gusto nel vestirsi e quell’abito firmato ne era la conferma, considerò la donna. Infilò la mano nella borsetta sfilando la pistola di Zacary e caricando il colpo in canna come le era stato descritto la sera precedente. Prese la mano del defunto e la spalancò poggiando l’arma sul palmo e richiudendo le dita attorno all’impugnatura. Terminò il lavoro infilando il dito indice nel grilletto della Glock. Ripose in basso il braccio e richiuse la parte inferiore della bara, lasciando visibile solo il volto. Si allontanò prima che il poliziotto spalancasse la porta seguito dal personale di servizio. Due agenti del servizio funebre, dopo aver consultato il poliziotto, si rivolsero a Rosemary: “Se per lei va bene, possiamo procedere”. La donna annuì senza pronunciare una sillaba, così fu dato inizio alla piombatura della bara. Il suo ultimo desiderio era stato esaudito e di questo era contenta: l’unico pegno a cui aveva posto la sua attenzione per ricambiare i riguardi di Belimbau nei confronti suoi e di suo figlio. Pronunciò mentalmente le ultime parole di quell’uomo, apparentemente così pronto ad affrontare l’estremo istante, ma con quell’unica strana fobia che lo tormentava: il potersi risvegliare dentro quel sarcofago. La richiesta di un’arma per potersi difendere nella remota eventualità di un ritorno in vita le era sembrata a un primo impatto così assurda e irrazionale, ma l’esperienza maturata nel suo lavoro e il senso di comprensione nei confronti di quell’uomo avevano inciso parecchio sulla sua decisione. Il rischio di essere scoperta non le aveva fatto cambiare opinione, anche perché Zacary per lei aveva rischiato molto di più, dunque lo meritava. Il feretro fu posto dentro l’auto funebre e il corteo composto soltanto da un taxi giallo con all’interno Rosemary si avviò verso il luogo della sepoltura.

Fu il primo giorno di pioggia dell’intera estate e arrivò in punta di piedi, ma fu

sufficiente a ripulire l’aria e rinfrescarla. Don Luigi attendeva il loro arrivo con il breviario in una mano e un ombrello spalancato nell’altra. Rimasero soltanto loro due a rendere l’ultimo saluto al sicario, posto in cima alla fossa sotto una pioggia che inumidiva anche l’animo. La presenza del sacerdote era stata una sua decisione, dettata più da un’esigenza sua che di Zacary: non voleva essere sola in quel momento, né per il resto della sua vita. La paura era ata e ora poteva permettersi una vita agiata per lei e per suo figlio. La cassetta di sicurezza a lei intestata, dove aveva riposto la tela dipinta di Pollock, il gioiello e un’ingente somma in denaro, era stata un’idea di Zacary. E ancora una volta aveva avuto ragione, perché la perquisizione minuziosa e dettagliata dell’appartamento da parte della polizia avrebbe potuto produrre conseguenze spiacevoli. Erano ate solo ventiquattrore ma quell’uomo già le mancava, e con lui quel modo apparentemente impacciato e il suo sorriso sempre spontaneo. Era certa che non fosse un cuoco, ma la verità sul suo ato ormai ricadeva dentro quella fossa. A lei non importava più, era la parte di Zacary che aveva conosciuto quella che avrebbe ricordato. Don Luigi terminò di benedire il feretro e si avvicinò alla donna porgendo le sue condoglianze, poi lasciarono assieme il luogo sotto lo stesso ombrello. La pioggia continuò a inumidire l’arido terreno mentre altre impronte lo marcavano.

Si fermò davanti alla bara stringendo a sé il giubbotto poggiato sopra le spalle, riparando le mani al suo interno. I capelli spettinati e unti a causa dei giorni ati ai bordi della strada erano solo un lontano ricordo della cura con cui erano stati trattati in precedenza. La barba era incolta e arida e la pioggia l’aveva intrisa percorrendola con rivoli d’acqua cadenti sul mento.

Era stanco e derelitto, lo smalto di una volta cancellato con un colpo di spugna. Abbandonato a se stesso ed evitato come un appestato dalla sua stessa gente, vagava per la città come un disperato chiedendosi come poteva essere accaduto tutto così in fretta. “Ce l’hai fatta alla fine... Bastardo di un ebreo, guarda come mi hai ridotto”, si sfogò Ray con un incontenibile furore interiore. “Senza un soldo, né un tetto e braccato dalla polizia… Ma scommetto che la tua crocerossina sa dove hai nascosto il mio denaro”. Un colpo di tosse lo fece interrompere, seguito da uno sguardo verso il cielo piovoso. “Sai che farò, Zac? Questa sera andrò a trovarla… Faremo conoscenza e nascerà un’amicizia”. Dentro la bara un movimento incondizionato della mano, un tendine che si contraeva puntando l’arma verso l’alto. Ray concluse il suo discorso: “… Ora ti devo lasciare, questa notte torcerò il collo a quella donna e lo farò lentamente, assaporando gli ultimi istanti della sua vita...”. La contrazione ebbe un sussulto e quel dito spinse il grilletto, lasciando partire il colpo. Ray sentì la cupa detonazione provenire dall’interno della cassa e il proiettile attraversarla producendo come una vampata di lapilli legnosi. Portò la mano al petto istintivamente: una fitta acuta scaturì improvvisamente, tanto da sentirla grondante di acqua e sangue. Lo stupore si tramutò in angoscia e subito in agghiacciante terrore, segnato dal tremore del suo corpo. Le gambe, ultime sue complici, lo abbandonarono cedendo di schianto e il gangster cadde sopra la bara con un sordo tonfo. Solo il tempo di un ultimo respiro, poi solo la pioggia.

Ringraziamenti

È la parte piu sentita con l'illusione di sdebitarmi almeno in parte. AL mio talentuoso amico Antonello che con dedizione, cura ormai stabilmente le copertine dei miei romanzi, con il carattere e il buongusto che lo contraddistingue e sotto il segno dell'amicizia. A Gianmario, cui ho sempre consigliato di scrivere e che si accontenta di leggere moltissimo. scoprendo con mio compiacimento che fra i classici e i padri della moderna letteratuta nel suo comodino sono ospitati anche i miei. A lui devo la quarta di copertina e innumerevoli e graditi consigli. Pietro, avrei potuto raccogliere molto di più, ma devo accontentarmi di una eccellente prima pagina e di avergli istillato una sorta di dipendenza da presentazione a cui sembra ormai essersi abbondantemente assuefatto. A Gian Franco P. e Gian Franco F.e i loro preziosi suggerimenti. E naturalmente sco e la redazione di Sensoinverso, per il loro mirabile lavoro.

Thank You very Much...

© Edizioni SENSOINVERSO Collana AcquaFragile www.edizionisensoinverso.it [email protected] Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)

Il committente esonera espressamente l’Editore da ogni e qualsiasi responsabilità discendente dagli scritti contenuti nel libro garantendo di tenerlo indenne da qualsiasi azione e danno che potrebbe a lui derivare per la pubblicazione del libro